Project Gutenberg's Carlo Porta e la sua Milano, by Raffaello Barbiera

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Title: Carlo Porta e la sua Milano

Author: Raffaello Barbiera

Release Date: March 27, 2018 [EBook #56857]

Language: Italian

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CARLO PORTA
E LA SUA MILANO.


(Da un pastello del Bruni: 1821.)


RAFFAELLO BARBIERA.

CARLO PORTA
E
LA SUA MILANO.

FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.
1921.


FIRENZE, 33-1921-22. — Tipografia Barbèra
Alfani e Venturi proprietari.

Compiute le formalità prescritte dalla Legge, tutti i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.


[v]

INDICE DEI CAPITOLI.

I. — Fervore di nuova vita a Milano al tempo di Carlo Porta. — Due grandi satirici: Giuseppe Parini e Carlo Porta. — La fortuna di Carlo Porta. — Maria Teresa. Pag. 1

II. — Clamoroso supplizio a Milano quando nacque Carlo Porta. — Masnadieri in campagna e fermieri in città. — Pietro Verri combatte le ribalderie dei fermieri. — Nuovi nobili. — Come si comperavano i titoli nobiliari. — Qual era Milano quando nacque Carlo Porta. — Le vie, le tenebre, le torcie dei lacchè. — L'atto autentico di nascita di Carlo Porta. — I genitori e gli antenati del Porta in case di nobili. — Presso i Gesuiti di Monza. — Usi barbari nelle scuole. — Prime prove poetiche del Porta. — È mandato ad Augusta. — Diventa giuocatore. — Sue lettere alla madre. — Il padre lo richiama a Milano. 6

III. — Morte di Maria Teresa. — Le violente tumultuarie innovazioni del figlio Giuseppe II. — Il caso pietoso del poeta Passeroni. — Colloqui del poeta affamato col suo gallo. — Curiose guardie di polizia. — Minacciosi malumori contro Giuseppe II. — La morte e il successore di Giuseppe II. — La vita nelle famiglie borghesi. — Religiosità singolari. — Il nobile Andreani e il suo pallone aereostatico. — Libri, idee, mode francesi. — Discorsi in case aristocratiche. — L'ode del Parini sul vestire alla ghigliottina. — In che cosa consisteva quella moda infame. — Strano difetto di quell'ode. — Sua popolarità. — Carlo Porta la traduce in milanese. — Fine della parrucca. 19

IV. — La Gazzetta del Veladini. — Manifesti incendiari. — Abbaglio del Bonaparte. — In casa di Carlo Porta. — Il Porta contro la democrazia francese. — Napoleone nella guerra d'Italia. — La battaglia di Lodi. — Un pranzo vescovile. — Chiese spogliate. — L'avanguardia dell'esercito francese entra in Milano. — Le coccarde d'un frate e il grido del general Massena. — Solenne ingresso di Napoleone in Milano. — Il comandante austriaco Lamy nel castello. — Cede. — Istituzione della Repubblica cisalpina. — Ruberie [vi] e ruberie. — Estorsioni, imposte, generale malcontento. — Tentativo d'insurrezione. — È soffocato nel sangue. — Clamorose feste repubblicane. — Eccitamento delle donne. — Gli «alberi della Libertà». — Folli sfrenatezze. — La gentil mano di sposa della figlia d'un chimico. — Gli energumeni di Via Rugabella. — Racconti di Alessandro Manzoni: la demagoga Sopransi. — Ire contro la guglia del Duomo. — Il buon senso d'un meneghino. — Ancora un racconto del Manzoni: Vincenzo Monti tremante alla tribuna. — Versi italiani di Carlo Porta sui cisalpini. 32

V. — Sconce pubblicazioni volanti. — Carlo Salvador e il suo Termometro. — Vien bastonato e messo in prigione. — Sua tragica fine. — L'eteroclita figura del «terrorista» Ranza. — Sue gesta, suoi opuscoli, suoi giornali, e il suo perfezionamento della ghigliottina. — E anche lui va in prigione. — L'economista Pietro Custodi: da demagogo a barone. — Melchiorre Gioja qual era. — Il giornale Senza titolo e i suoi carnevaleschi collaboratori. — Il giornale di Ugo Foscolo. — I due giornali di Napoleone. 49

VI. — Carlo Porta a Venezia. — Suo impiego, sua miseria, sue spensieratezze. — Venezia dopo la caduta della Repubblica. — Società gioconde. — Quella di Carlo Porta con l'intervento della polizia. — Carlo Porta e i grandi poeti dialettali veneziani. — Le voluttà di Antonio Lamberti. — Una coraggiosa satira civile del Buratti. — Degenerati e degenerate. — Carlo Porta è muto agl'incanti di Venezia. — Poesie veneziane del Porta? — Amori d'una patrizia veneziana col poeta. — Rivali. — L'abbandono. — Come amava Carlo Porta. — Sue drammatiche gelosie. — Sua vita di pubblico impiegato. — Un aneddoto. 60

VII. — Celebrazione repubblicana in piazza del Duomo. — Ciò che portò via e ciò che lasciò Napoleone nel tornare in Francia. — La «fiera» dei pubblici saccheggiatori. — Il bozzetto storico del Porta: Desgrazi de Giovannin Bongee. — Documenti che ne provano la verità. — Giudizi francesi sulle soperchierie francesi. — Stendhal. — L'irruzione degli Austro-Russi. — Suvaroff. — Suoi costumi. — La feroce reazione controllata dal Porta. — Il racconto della contessa Cicognara. — La battaglia di Marengo. — Napoleone di nuovo padrone della Lombardia. — Rialza la Repubblica cisalpina. 90

VIII. — Le società filodrammatiche. — Origine e miracoli del Teatro Patriottico. — Le nudità di moda e le più avvenenti [vii] signore di Milano. — Il viaggio d'andata-ritorno d'uno scialle. — La profonda filosofia d'un marito. — Paolina Bonaparte. — Le scatole da tabacco e il giuoco del tarocco. — La moglie di Vincenzo Monti e le sue recitazioni. — Onori ai reduci prigionieri dell'Austria. — Una lettera patriottica che fa ridere. — Alfieri e Alfieri. — La fabbrica d'un teatro repubblicano. — Il sipario d'Andrea Appiani. — Atteggiamenti osceni.... — Le tragedie del Monti. — Carlo Porta attore drammatico. — Malumori di quinte. — Epigramma del Porta. — L'accademia «di sè maggiore»!... 103

IX. — Il teatro ufficiale di Milano: la Scala. — I bollettini delle vittorie napoleoniche. — Ancora Alfieri! — E ancora il Ballo del Papa. — Nefanda celebrazione del supplizio di Luigi XVI. — Le fortune dei cantanti evirati. — Napoleone ne decora uno! — Motto maligno della cantante Grassini. — I fàscini, gli amori e le vicende di costei. — Il suo primo protettore difeso dalla storia. — La più grande rivale della Grassini. — Il mantello fiammeggiante. — La carrozza dei trionfi nelle barricate della libertà. — Ricordo di Lord Byron. — Carlo Porta alla Scala. — Dove si formava l'opinione pubblica? — Gli amanti delle signore alla Scala. 125

X. — La morte del Parini, i suoi manoscritti all'asta, la sua finta tomba. — La nuova borghesia e la vecchia aristocrazia. — La preghiera e La nomina del cappellan di Carlo Porta. — Un'antenata di donna Fabia e della marchesa Travasa. — Le commedie del Maggi. — Lady Morgan a Milano. — Sue impressioni. — Che cosa diceva del Porta. — Un comico ricevimento in casa Litta. — Eleganze in casa Visconti. — Un nobile furibondo contro i nobili. — L'amante del generale Massena. — I «patiti» delle signore milanesi. — Artefici di grido: Canonica e Appiani. — La casa dei Franco-Muratori. 138

XI. — Preti indegni. — El Miserere di Carlo Porta e l'arcivescovo Gaisruck. — Mercato pretino in piazza del Duomo. — Vescovi servili e oppressi. — Il folle eroismo d'un oscuro parroco ribelle a Napoleone. — Monache. — Preti d'altri tempi. — Il Viatico occulto. — Don Alessandro Bolis, modello di don Abbondio del Manzoni. — Un pensiero del Tommaseo. — Predicatori buffi. 155

XII. — Attraverso le gaie novelle monacali e pretesche di Carlo Porta. — Leggende medievali diventate meneghine. — Carlo Porta e il poeta americano Longfellow. — Descrizione della natura. — La salace avventura di un chierichetto. — Le [viii] veglie mascherate. — Nascita di Meneghino nell'arte. — Il Meneghino del Maggi e il Meneghino del Porta. — Interno d'un ricovero di monache soppresse. — Storia scandalosa d'un governatore pontificio. — Chi era? — Ce lo dice una nota del Porta nella Biblioteca nazionale di Parigi. — Le sfuriate morali di Meneghino. — Meneghino in una tragicommedia. — Sacrificarsi è per lui un bisogno del cuore. — Lo Sganzerlone del Balestrieri. 165

XIII. — Il capolavoro di Carlo Porta. — Dove la plebe andava a ballare. — Un povero storpio innamorato. — Esame del Marchionn di gamb avert. — Le donne del Goldoni e la Tetton di Carlo Porta. — L'umorismo portiano. — Umoristi. — Carlo Porta grande stilista. — La Ninetta del Verzee. — Carlo Porta ed Emilio Zola. — Come nacque la Ninetta. — Giuseppe Bossi e il suo Pepp perucchee. — Giudizio del Porta su questa novella. — Olter desgrazi de Giovannin Bongee. — Postille del poeta. 183

XIV. — Moderati, accorti ripieghi di Napoleone. — Nuove nomine napoleoniche. — Un ladrone: Sommariva. — I cittadini Visconti e Ruga e le loro mogli. — Il generale Massena lascia Milano con la borsa ricca. — I Comizi di Lione. — Solenne proclamazione della Repubblica italiana: Napoleone presidente, Francesco Melzi d'Eril vice-presidente. — Morte dell'arcivescovo Visconti e del deputato Raffaele Arauco primo marito della moglie di Carlo Porta. — Napoleone disarma Leopoldo Cicognara. — Torna in ballo la moglie del Cicognara. — Murat contro il Melzi. — Una Fossati intrigante politica. — Finte collere di Napoleone. — L'ordine è ristabilito. — Grandi innovazioni. — Il vaiuolo, l'innesto e una poesia di Carlo Porta. — Il Melzi rende onore alla memoria dell'Arauco. — Le poesie dell'Arauco. 195

XV. — Nozze di Carlo Porta. — La moglie. — I figli. — Lettere del poeta alla moglie. — Le feste degli amici Casiraghi e Vincenzo Monti. — La versione della Pulcella d'Orléans del Voltaire compiuta dal Monti. — Il ministro delle finanze Prina affida incarichi di fiducia a Carlo Porta. — Il Poeta e sua suocera. — Nella pace domestica. — Carattere famigliare del Porta descritto da Tommaso Grossi. — I due grandi amici. — Espansioni. — Commovente scena in una famiglia. — Lettere fra il Grossi e Carlo Porta. — Il Porta è proclamato poeta morale. — Giansenisti. — Giovanni Torti. 208

XVI. — Napoleone. — È imperatore in Francia e re in Italia. — Il figliastro vicerè. — Apatia politica del Porta e d'altri [ix] lombardi. — Un sonetto amaro del Porta. — Amenità di medici. — Cerimonia dell'auto-incoronazione di Napoleone a Milano. — Dietroscena in famiglia. — Il Regno italico e le sue feste. — Consigli di Napoleone a Eugenio. — Gli dà moglie. — Nozze d'Eugenio con Augusta Amalia di Baviera. — Vecchia e nuova aristocrazia. — Il terribile caso del conte Archinto. — Folla di Grandi a Milano. — Nuove istituzioni civili. — E la libertà politica? 226

XVII. — La satira politica nel Porta. — Il popolo milanese all'epoca della massima potenza di Napoleone. — Una ecclissi di sole. — Ironico sonetto del Porta. — Nuove vittorie napoleoniche e nuove baldorie. — Il brindisi del Porta alla Cascina dei pomi. — Il blocco continentale e i falò di merci inglesi a Milano. — Spie e confische. — La guerra di Russia. — Entusiasmo bellicoso dei nostri. — Eugenio Beauharnais a capo dell'esercito italiano. — Primi bollettini della guerra. — Buone notizie. — I Te Deum e una satira del Porta. 248

XVIII. — La guerra di Russia e gl'Italiani. — I nostri generali e i nostri soldati. — Partenza dei nostri da Milano. — I primi eroismi. — Ciò che racconta il barone Zanòli. — Il vicerè Eugenio insulta i nostri soldati. — Vivo alterco fra il generale Pino e il vicerè. — Il piano di guerra russo. — Lombardi feriti. — Gl'Italiani alla Moscowa. — Scene orrende. — Napoleone biasimato dai nostri sul campo. — All'incendio e al saccheggio di Mosca. — Altre scene d'orrore. — Una bottega di confetti. — Abbigliamenti grotteschi. — Cinico motto di Napoleone sulla sua salute. — Le perdite italiane accertate. — Il ritorno delle «aquile» napoleoniche a Milano. — Il generale Lechi. 256

XIX. — Milano al domani del disastro di Russia. — Le madri desolate. — Ritorno d'Eugenio a Milano. — Nella Corte della viceregina. — Una odiosa dama di Corte. — Le figlie di Amalia Augusta. — Una mascherata, un funesto presagio. — Nuove guerre e nuove sconfitte napoleoniche. — Oltraggi a Napoleone. — Richiamo delle truppe francesi dall'Italia. — Carlo Porta sferra un fiero sonetto contro quelle truppe. — Pranzi costosi. — Aggressioni, invasioni nelle case e altre ribalderie. — Ultimi giorni di Francesco Melzi. — Come Napoleone lo favorisse. — La «Società del Giardino». — Ville e viaggi. 273

XX. — Ingrossa la bufera d'odio contro Napoleone. — Il suo misero capro espiatorio. — Complotti in favore d'un ritorno degli Austriaci. — I partiti. — Le ultime ore del [x] Regno italico. — Tumulti. — La plebe armata. — L'atroce giornata del 20 aprile 1814 e il giovane conte Federico Confalonieri. — L'orrendo martirio del ministro Prina. — Un frate, Ugo Foscolo e un servo del Romagnosi. — Neppure il sepolcro!... — Il generale austriaco Bellegarde e l'arciduca Giovanni a Milano. — Fiera risposta di quest'ultimo. — Un sonetto del Porta a questo proposito. — Ingresso di Francesco I d'Austria a Milano. — Il brindisi del Porta. — Giudizio statario contro i malandrini. — La carestia. 282

XXI. — Uno strano giudizio di Alessandro Manzoni. — La Prineide di Tommaso Grossi. — È attribuita al Porta. — Ire furibonde di questo e pubbliche dichiarazioni. — Nobile tratto del Grossi. — La tragi-commedia Giovanni Maria Visconti scritta insieme dal Porta e dal Grossi. — Esame del manoscritto. — Giudizio di Carlo Tenca. — Giuseppe Verdi s'ispirò a un effetto scenico di quel dramma. 299

XXII. — Ugo Foscolo in casa Porta. — Sue relazioni con la famiglia del poeta. — Lettere sue dagli autografi. — Il suo buon umore dall'esilio. — Le avversità di Luigi Bossi. — Tratti generosi del Porta e di sua moglie per lui. — Il pittore e poeta Giuseppe Bossi in fine di vita. — Grande amicizia del Porta anche per lui. — Morte di Giuseppe Bossi: suo monumento scolpito dal Marchesi. — Lo Sposalizio di Raffaello e il museo del gaudente conte Sannazzaro. — Carlo Porta sul Lago di Como. — Memorie lariane: a Blevio. — Sonetti del Porta contro il favorito della Principessa di Galles. 309

XXIII. — Nella casa del conte Luigi Porro. — Silvio Pellico e il Conciliatore. — Carlo Porta in mezzo ai Carbonari. — Si accorse egli del suo pericolo? — La lotta fra romantici e classicisti. — Perchè Carlo Porta la combattesse. — Il suo verismo. — Giovanni Berchet portabandiera dei romantici. — Il Manzoni difeso con buon umore dal Porta. — Sua lettera da Parigi. — Un giudizio del Manzoni riportato da Ruggero Bonghi. — Un giudice in tribunale strapazza i romantici: risate del Porta. — Giornali in zuffa letteraria. — Le solite soavi polemiche letterarie. — Vincenzo Monti contro l'Acerbi. — Francesco Cherubini. — Abbattimenti del Porta e sgridata del Grossi. 328

XXIV. — Ultimi giorni del Porta. — Il suo amore per Milano. — Strali contro il Cicognara. — Un consolatore: Gaetano Cattaneo. — Servilismo grottesco di costui. — Ancora [xi] scherzi ameni del Porta. — Suo testamento morale al figlio. — Suoi pensieri religiosi e sue celie morendo. — Monsignor Tosi. — Morte. — Un tentato assassinio. — Persecuzione contro i Carbonari. — Vincenzo Monti vigilato dalla polizia austriaca. — Milano contristata. — Elogio del Porta scritto dal Manzoni al Fauriel. — L'addio del Grossi sulla tomba del Porta. 343

XXV. — Lavori del Porta lasciati incompiuti. — La guerra di pret. — Vena patetica del grande ironista. — L'apparizion del Tass. — La versione della Divina Commedia in meneghino. — Un'iscrizione vessata. — Scoperte funebri che fanno ridere. — Monumento a Carlo Porta. 357

XXVI. — Il carattere della poesia milanese. — Poeti milanesi anteriori e posteriori a Carlo Porta. — Il Belli, il Giusti e il Porta. — Il dialetto del Porta e il dialetto milanese odierno. — Modo di composizione del Porta. — Valore del Grossi quale poeta dialettale. — Atroce visione risparmiata a Carlo Porta. 367

Fonti di questo libro. — Spunti inediti. — Postille. 377

Indice alfabetico 395


[1]

I.

Fervore di nuova vita a Milano al tempo di Carlo Porta. — Due grandi satirici: Giuseppe Parini e Carlo Porta. — La fortuna di Carlo Porta. — Maria Teresa.

Carlo Porta, il grande ironista meneghino, nasceva quando nella sua Milano, pur nella semi-barbarie di tante cose, agitavansi forti spiriti innovatori. Il Beccaria scriveva ardito contro la tortura e il patibolo; il Verri suggeriva le case di correzione in luogo delle prigioni pervertitrici; il Parini scherniva l'aristocrazia fatua e viziosa; a dispetto di sfringuellanti accademie arcadiche, sorgevano due associazioni possenti: la Patriottica e la Palatina; la prima per infondere aliti nuovi alle industrie, la seconda per rifare la storia italiana cui un dottore dell'Ambrosiana, Antonio Muratori, consacrò energie più che umane. Le sale del palazzo principesco di Antonio Tolomeo Trivulzio echeggiavano ancora di scipite pastorellerie d'Arcadia; ma, per volontà riparatrice dello stesso principe, quelle sale si aprirono [2] ai vecchi che per le vie fangose trascinavano la canizie limosinando o venivano gettati a languire in un carcere. Alessandro Volta medita e prova: fioriscono gli studii matematici alle cui cime salgono persino menti muliebri, come l'Agnesi la buona e Clelia Borromeo la bella. La terra si solca di nuove strade e di nuovi canali: il cielo svela nuovi misteri alle acute pupille degli astronomi di Brera.

Il Porta, questo sincero poeta, formidabile nemico delle albagie aristocratiche, del mercimonio pretino, degli ozi frateschi; questo schernitore della letteratura arcadica, delle decrepite convenzioni poetiche, implacabile nel perseguitare l'ipocrisia e l'affettazione, nasce, adunque, quando già intorno a lui fervono idee liberali, principii fecondi, speranze ardite; arriva a tempo per vibrare il suo colpo di martello al vecchio edificio che si sfascia e a rallegrare di celie immortali il popolo suo, che da' rapidi avvenimenti è qua e là sbattuto, come nave in tempesta.

Nel breve periodo che corre dagli ultimi anni del Settecento, durante la dominazione austriaca e il ritorno, nel 1814, di quello stesso dominio, infesto ai liberali, la Lombardia vantò due forti poeti satirici: Giuseppe Parini e Carlo Porta. La loro poesia, acre fiore delle rovine, nacque dalle rovine d'una società destinata [3] a scomparire. Ma il Parini è anche legislatore morale, addita nuove vie di progresso umano, di civiltà. La sua parola non si arresta nella cerchia della sua Milano; passa a tutta Italia, a tutto il suo secolo, con le odi, nelle quali, come in quella terribile del Bisogno, vedi la mente illuminata, senti lo spirito libero talora accorato e intimatore del filantropo, dell'uomo nuovo. Democratico nel sentimento, il Parini è aristocratico al sommo nella forma poetica. Egli, cristiano nel sentire, più di certi scrittori cattolici, è pagano nelle supreme eleganze oraziane. Nutrito fino al midollo dei classici più eletti, rimane classicista sovrano. Il Porta, partecipando, con la sua avversione alle truccature, a quello spirito moderno che vibrava anche in letteratura al suo tempo, partecipò all'ardente lotta dei Romantici contro i vecchiumi convenzionali dei classicisti, egli verista persino spietato, persino scurrile, antecessore d'Emilio Zola e della scuola zoliana, sommersa poi da altre scuole di moda, ma forte di un fondo razionale, come quello che rampollò dall'opera sterminata, titanica, rivelatrice di verità psicologiche umane d'un Balzac.

Al Parini, la lingua aulica; al Porta, il dialetto pittoresco, ch'egli, pur milanese, anzi meneghino, andava a imparare alla scœura [4] de lengua del Verzee, com'egli stesso dice nel memorando suo Miserere, là, fra le pescivendole, gli ortolani, i carrettieri, penetrando nell'anima del popolo, e rendendola in guisa che Milano non ha altro poeta suo, tutto suo, al pari di Carlo Porta.

Milano fu sempre gelosa del suo poeta e, sino a pochi anni addietro, quasi si doleva se qualche volenteroso, non nato e cresciuto all'ombra del Domm (che, come scriveva nell'Italy lady Morgan, è il suo Campidoglio), mostrasse d'ammirarlo, d'amarlo, e cercasse d'interpretarne il pensiero con omaggio fervente. Così certe madri, gelose dei loro figliuoli adorati, patiscono se altri li bacia.

Oggi, Milano è diversa. La vasta, tumultuosa metropoli apre le braccia a tutt'i forestee che tanto irritavano il Porta; e i forestee, anch'essi, onorano il Porta nel centenario della sua morte, ch'è centenario di vita.

Milano eresse al Porta due monumenti, l'uno fra i dotti di Brera, l'altro in mezzo agli alberi e alle anatre dei giardini pubblici; gli dedicò una via e, più tardi, un teatro, persino un caffè; ma, in una biografia compiuta del suo poeta, deve rivederlo figlio ed amante, sposo affettuosissimo, amico a tutta prova, benefattore e uomo di società, attore comico e poeta, e, nello stesso tempo, fiero contro i nemici, [5] inquieto e ammalato, malinconico e piangente per pentimenti profondi, per amarezze ineffabili.

Fa d'uopo soprattutto interrogare le sue opere, le sue Memorie, gli eredi suoi: fa d'uopo frugare nelle sue lettere, violarne persino i segreti, perchè egli si palesi intiero. Non ne sarà offesa la sua memoria, poichè egli fu sempre amante della verità. Non ne uscirà una figura di Plutarco, un eroe: non una figura da altare; ma un uomo comune, con debolezze e virtù; soprattutto, un meneghino di genio, e il più grande poeta, dopo il Manzoni, nato a Milano.

Quando nacque il Porta, l'imperatrice d'Austria Maria Teresa regnava sulla Lombardia, di cui formò alla fine una specie di vice-regno, ponendovi a capo il proprio figlio arciduca Ferdinando; e, prima, al governatore conte di Firmian conferì il titolo di ministro plenipotenziario. Tutte cose che mostrano come ella volesse rialzare il livello politico del suo dominio lombardo.

[6]

II.

Clamoroso supplizio a Milano quando nacque Carlo Porta. — Masnadieri in campagna e fermieri in città. — Pietro Verri combatte le ribalderie dei fermieri. — Nuovi nobili. — Come si comperavano i titoli nobiliari. — Qual era Milano quando nacque Carlo Porta. — Le vie, le tenebre, le torcie dei lacchè. — L'atto autentico di nascita di Carlo Porta. — I genitori e gli antenati del Porta in case di nobili. — Presso i Gesuiti di Monza. — Usi barbari nelle scuole. — Prime prove poetiche del Porta. — È mandato ad Augusta. — Diventa giuocatore. — Sue lettere alla madre. — Il padre lo richiama a Milano.

Nell'anno stesso, 1775, in cui Carlo Porta nacque a Milano, venne soppressa, per volontà assoluta dell'imperatrice Maria Teresa, la Inquisizione, già cara a san Carlo Borromeo, e seguì un supplizio che commosse a lungo Milano. Fu giustiziato un frate sfratato e suddiacono, Carlo Sala di Casletto, già scrivano del Voltaire, reo di furti in sette chiese campestri. Fu condannato alla tortura, a tre colpi di tanaglia arroventata, al taglio della mano destra, perchè ladro sacrilego: quindi fu impiccato e sepolto in terra sconsacrata, sul bastione. Non aveva voluto confessarsi, nè comunicarsi, nè pentirsi. Non è possibile dir [7] quanto e preti e frati e prelati e la sacra compagnia che assisteva i condannati a morte, e autorità e cittadini fecero e tentarono per costringerlo a pentirsi alla fine! Tutto fiato sprecato, tutti passi perduti.

Quando nacque Carlo Porta, tutta la campagna era infestata da masnadieri. Si trattava di disertori delle guerre.... non amnistiati. Ma altri masnadieri, e tollerati e legali, imperversavano entro Milano: i così detti fermieri, appaltatori del sale, tabacchi, poste, polveri, dazii, persino dei giuochi che si facevano nelle sere di spettacoli entro i camerini dei teatri. I fermieri esercitavano sopraffazioni, truffe. Essi facevano gettare dalla strada, nelle case private di galantuomini, merci di contrabbando, e poi ordinavano ai loro cagnotti d'invadere le case, in nome della legge, ed esigevano multe ingenti. Il popolo imprecava. Ma il Governo proteggeva quei masnadieri delle ferme, per amor del grosso denaro, che ne ritraeva negli appalti, e di cui aveva bisogno, con quel po' po' di guerre, nelle quali Maria Teresa era ingolfata. Pietro Verri, a viso aperto, li combattè.

Carichi dei milioni ammassati con quei metodi, i fermieri domandavano a Maria Teresa un blasone per essere più potenti in una terra in cui la nobiltà era la terza dominatrice. [8] Così continuavano l'uso antico; per il quale, i Silva, panattieri, gli Andreoli, cavallanti, e altri di simili origini, diventarono marchesi. Gl'Imbonati (cognome immortalato dal carme del Manzoni), Piantanida, Lattuada, acquistarono il blasone salendo dal volgo. Un Perini, oste alli tre scagni, diventò conte di Bresso. Gli Omodei ebbero per antenato un pastaro di grosso nel plebeissimo Carrobbio, a Porta Ticinese. L'elenco sarebbe lungo e potrebbe recare inutili dispiaceri.[1]

Con duemilacinquecento fiorini, si otteneva il blasone di marchese; con duemila, quello di conte; con mille e seicento, quello di barone; con mille e trecento quello di cavaliere; con mille quello di nobile; con cinquecento si otteneva il semplice don.

Quando nacque Carlo Porta, Milano non assomigliava nemmeno a uno de' suoi inferiori sobborghi d'oggi. La numerazione delle vie non era ancora cominciata; non erano ancora battezzate con precisione le strade, le piazze. Le vie assumevano nell'uso il nome da un oratorio, da una chiesa, da un pantano, da un colatoio d'acque piovane, da un albero: onde Via Pantano, Poslaghetto, Via Olmetto; oppure prendevano [9] il nome dalle numerose botteghe di questi e quegli artefici e mercanti: Via Orefici, Via Spadari, Via Armorari, o da insegne di osterie: Croce Rossa, Tre Re....

Qualche strada prese il nome da qualcuno dei piccoli villaggi scomparsi, come Via Quadronno; dove vedremo svolgersi il dramma amoroso dello sventurato Marchionn di gamb avert, il capolavoro del Porta.[2]

Le strade non selciate, o mal selciate, con ciottoli di torrente. Se ne vedono ancora fra le vecchie vie di Milano, tortuose, semibuie, malinconiche.

Non avevano fanali, cominciati, a olio, nel novembre del 1788, e che facilmente si spegnevano; le tenebre più fitte avvolgevano allora case e mortali, con piacere dei ladri e delle coppie amorose. Chi voleva camminare con qualche sicurezza, quando dal mezzo del cielo non risplendeva la compiacente luna, doveva munirsi d'un fanaletto a mano. Le carrozze dei nobili andavano di volo, accompagnate da lacchè con torcie fumose; lacchè che erano obbligati a perdere il fiato nella corsa affannosa a piedi, seguendo la carrozza sino al palazzo, al cui scalone capovolgevano e spegnevano le torcie entro buchi praticati in dadi di [10] marmo, come se ne trovano anche oggi in qualche casa di via Borgonuovo e altrove.

Il Parini, nel Giorno, descrive le carrozze patrizie correnti di notte, nel buio. Al suo «giovin signor» egli rammenta ironico la scena notturna:

Tu, tra le veglie e le canore scene

E il patetico gioco, oltre più assai

Producesti la notte; e, stanco, alfine,

In aureo cocchio, col fragor di calde

Precipitose rote e il calpestio

Di volanti corsier, lunge agitasti

Il queto aere notturno; e le tenèbre

Con fiaccole superbe intorno apristi;

Siccome allor che il siculo paese

Dall'uno all'altro mar rimbombar feo

Pluto col carro, a cui splendeano innanzi

Le tede de le Furie anguicrinite.

Gli alberghi obbligavano il forestiere che vi prendeva alloggio a pazienze supreme, per tollerare la sporcizia e gli insetti. L'Albergo del Pozzo (soppresso solo in questi mesi) accoglieva ospiti cospicui. Appena una banda di filarmonici erranti lo sapeva, dedicava ai nuovi arrivati, sotto le finestre dell'albergo privilegiato, un concerto: chi sa che musica! Carlo Goldoni vi alloggiò, quando venne a Milano: ne tocca nelle sue Memorie. Più antico era forse l'Albergo del Falcone, e sussiste tuttora. [11] Quali fetori nelle vie, certo non sparse di rose di Gerico! Nell'ode La salubrità dell'aria, il Parini deplora il fimo che fermentava «fra le alte case». Era il fimo delle stalle che si usava tener accumulato, con quanta delizia delle nari e dell'igiene si immagini. Il Parini parla anche di «vaganti latrine». Tiriamo un velo.

Carlo Porta nacque a Milano il 15 giugno 1775. Oltre il nome di Carlo, gli furono imposti quelli di Antonio, Melchiorre, Filippo.

In un sonetto incompiuto (del quale non mi riuscì di vedere l'autografo) Carlo Porta si dichiara nato nella parrocchia di San Bartolommeo il 15 agosto del 1776. Dice precisamente così:

Sont nassuu sott a Sant Bartolamee,

In del mila sett cent settanta ses,

A mezz dì, del dì quindes de quell mes,

Ch'el sô (sole) el riva a quel pont ch'el volta indree (indietro).

Ebbene: il registro delle nascite di quella parrocchia di San Bartolommeo (registro passato a San Francesco da Paola, perchè quella antica parrocchia fu soppressa) reca invece ben chiaramente quello che abbiamo riferito.

Come combinare date così differenti? A chi credere? È vero che non pochi svarioni si trovano nei libri delle nascite, dei matrimoni e delle morti, tenuti dai parroci che godevano [12] funzione e autorità di ufficiali dello stato civile; ma è possibile che l'attestato ufficiale di nascita di Carlo Porta fosse sbagliato così? Non è da escludersi l'abbaglio, l'amnesia nel poeta, che soffriva di nevrosi: non diremo la lieve vanità di togliersi un anno.

Il padre si chiamava Giuseppe. Gl'inferiori, salutando per via quell'integro cittadino, e i preti, ne' libri delle loro parrocchie, gli regalavano tanto di don, spagnolesco indizio di nobiltà; ma la famiglia di Carlo Porta non era nobile.

In uno sferzante sonetto contro un marchese villano che non lo salutava per via, Carlo Porta si dichiara «senza nanch on strasc (straccio) d'on don»:

Sissignur, sur marches, lù l'è marches,

Marchesazz, marcheson, marchesonon

E mì sont Carlo Porta milanes,

E bott lì, senza nanch on strasc d'on don.

Come abbiamo visto, il don (che fra i poeti di Milano andava di diritto al solo Manzoni), era l'ultimo grado di nobiltà. Il don sottentrò nel secolo XVII all'antico dominus. Ma ai soli nobili (e don) d'antica data era permesso d'adornare di fiocchi la testa dei propri cavalli.[3]

[13]

Riguardo poi al saluto dei nobili ai non nobili, avveniva questo bel casetto: che nobili, i quali avessero trattato, pur famigliarmente in campagna e in villa coi non nobili, non li salutavano quando li incontravano in città. La villa, adunque, faceva diventare educati, e la città villani.

Un ritratto dipinto a olio di Giuseppe Porta lo mostra con l'aspetto d'un pacifico galantuomo, d'uno di quei felici che vivono a lungo fra il lavoro ordinato e la quiete domestica. Visse la vita de' patriarchi, morendo nonagenario il 17 febbraio 1822 in mezzo ai fratelli, figli, nuore, nipoti intorno al suo letto. Fu pubblico impiegato, ragioniere e amministratore di aziende private. Ai frati della storica chiesa di San Simpliciano, teneva in ordine i conti. Avea mano nell'amministrazione della chiesa di San Pietro in Gessate, prima uffiziata già dagli operosi Umiliati, poi dai Somaschi. Amministrava il collegio di Brera, dove era stato docile e diligente scolaro. La tesoreria dello Stato di Milano (si chiamava così) lo ebbe sottocassiere e poi cassiere generale.

Chi più di Carlo Porta disprezzò i nobili e li derise? Non è senza curiosità lo scoprire nell'archivio civico di Milano che i suoi avi, milanesi tutti, servirono in casa di nobili. Suo nonno, Defendente, fu maestro di casa [14] d'un principe Rasini, che lasciò il proprio nome al vicolo dove dimorava in sontuoso palazzo: passò al servizio di certi marchesi Bussetti; quindi si ritrasse in Romagnano, nel Novarese, a vivere, con le proprie rendite, gli ultimi anni. Il bisnonno Carlo Francesco, morto il 1737, cassiere dei così detti perticati (tassa sui valori fondiari), fu anch'esso maggiordomo in una casa piena di stemmi e di parrucche.

Il domenicano Porta, orientalista, che si occupò d'una Bibbia poliglotta, non apparteneva alla famiglia del poeta.

C'era bensì a Milano una nobile famiglia Porta. Possedeva il palazzo, che fu poi degli arricchiti appaltatori, diventati nobili, si sa, Pezzòli, sulla Corsia del Giardino, ora via Alessandro Manzoni. Un viaggiatore straniero, Carlo De Brosses, che nulla capì del San Marco di Venezia, nelle sue Lettres historiques et critiques sur l'Italie, pubblicate a Parigi nel 1799, magnificava il giardino di quel palazzo, ora pubblico museo, perchè quel piccolo giardino aveva una muraglia dipinta a uso scenario.... Nè quella famiglia Porta ha fila gentilizie con quella di Carlo Porta, salita dal popolo.

Il cognome Porta è antico. Secondo lo storico Giulini, si diè ad alcune famiglie che, nel periodo effimero della Repubblica ambrosiana, abitavano presso qualche porta della [15] città e vi avevano qualche giurisdizione. Così Pusterla, porta minore della città. Tutte indagini che, scommetterei, Carlo Porta, spregiudicato, non si è mai sognato di fare.

La madre di Carlo Porta si chiamava Violante Guttieri. Da lettere giovanili del poeta si rileva quante cure ella prodigasse ai figliuoli, non ostante che, al pari del marito, fosse travagliata dalla gotta, malattia passata in eredità a Carlo. Ella ci appare il buon genio, la consigliera, il conforto di lui.

Carlo fu mandato dal padre al collegio dei Gesuiti di Monza; poi, al seminario di Milano. Pochi sanno oggi come si educassero i giovani da quei maestri tabaccosi, pronti a gonfiare con le nerbate le mani degli alunni, attanagliarli con pizzicotti e obbligarli a pane e acqua, quando non comandavano loro di tracciare con la lingua ripetute croci sul pavimento. I maestri dormivano spesso come ghiri, sulla cattedra, lasciando la scolaresca all'arbitrio di alcuni prediletti discepoli servili, che non mancavano di denunciare per le inevitabili punizioni i compagni più vivaci e più odiati. Le aule scolastiche risonavano di voci irose, di colpi, di strilli; certe camerette anguste, basse, che il Porta descrive in un sonetto italiano inedito, si aprivano ai delinquenti come carceri. «Le cose andavano alla pecoresca (narra [16] Francesco Cherubini). Vorrei pur dire di certi biglietti fattimi portare talora da chi non doveva a chi non si doveva, profittando della mia innocenza.»

Alessandro Manzoni, mentre serbava venerazione per il mite padre Francesco Soave, inorridisce al ricordo d'essere stato discepolo di tale

Cui mi saria vergogna esser maestro,

confessava egli nel carme In morte di Carlo Imbonati.

Eppure, non ostante i sonni pomeridiani sulle cattedre e il resto, non s'insegnava male il latino, se devesi giudicare dagli esametri che Carlo Porta, fra una prigionia e l'altra, confortate dalla madre, scriveva nella lingua di Virgilio. In un fascicolo di versi latini composti da lui quand'era scolaro, trovo carmi su città d'Italia, ch'egli non avea mai visitate e che pur doveva descrivere; sono elegie al sonno, ad Andromaca, epigrammi sulla madre di Nerone, su Narciso alla fonte; temi rettorici, alcuni sciocchi addirittura. Fra i temi imposti dal padre maestro e svolti con ampiezza, trovo persino una descrizione del pudore, composta appunto dal Carlin, che scriverà un giorno la Ninetta del Verzee. Una delle primissime poesie italiane del Porta è La penna in mano delle [17] donne, canzonetta in quartine. L'alunno dovette recitarla in una pubblica accademia, in cospetto degli accigliati maestri, de' genitori giubilanti e d'altri invitati in gala. Non c'erano scrittrici.

A studii severi, il Porta non si sentiva nato, e nemmeno, pare, alla poesia che trattava alla peggio, di quando in quando, per passatempo.

Il padre, uomo pratico, voleva fare di lui un negoziante. A sedici anni lo mandò ad Augusta, affidandolo a certo Weith, col desiderio che v'imparasse la mercatura e il tedesco. Ma le sue previsioni errarono. Se vi fu soggiorno fuori di patria increscioso per Carlo, fu quello. Si accese in lui la passione del giuoco; bazzicava, di nascosto, in qualche caffè di giocatori. Soprattutto, detestava le pratiche religiose alle quali il Weith voleva condannarlo. Se il mentore lo vedeva uscire solo di casa, erano sgridate.

Il ragazzo si sfoga con la madre lontana in lettere calde di tenerezza. «Ho ricevuta la tua carissima (le scrive), dalla quale, con sommo mio rammarico, ho dovuto rilevare che, per causa mia, la tua gotta ha notabilmente peggiorato in modo che tu non hai nemmeno di proprio pugno potuto scrivermi; ma quando sarà che tu mi scriverai d'essere perfettamente guarita?» E si lagna con lei [18] di malattia che patisce a un occhio, di tremito ai denti, ed esclama desolato, piccolo Leopardi: «Pazienza! la natura mi ha destinato ad essere infelice!»

Sono queste le lettere nelle quali vedi come quel cuore materno fosse buono. Ella gli raccomandava di scrivere con più garbo l'italiano e d'imparare bene il tedesco. Ed egli: «Non posso impararlo bene, perchè non ho ancora maestro. Figùrati qual negligenza hanno questi signori! Sono già più di tre mesi che sono qui, e non ho imparato niente; anzi no, disimparato.» E finisce: «Addio. Amami, se lo merito.»

Quando il padre venne a conoscere che il figlio giovinetto non voleva saperne di pratiche religiose e giocava d'azzardo in un caffè d'Augusta, invece di imparare il commercio del cotone e della lana e il tedesco, gli tolse l'assegno mensile. E allora il figliuolo ricorre al grembo materno: «La deve scrivere a mio padre che mi sono adattato con buona volontà alle cose di Chiesa, che ho abbandonato intieramente quel caffè che loro non volevano che io ivi andassi, che ho abbandonato decisamente il giuoco, che io faccio il mio dovere nello scrittorio».

Ma Carlo perdeva il tempo lo stesso, e il padre lo richiamò a Milano.

[19]

III.

Morte di Maria Teresa. — Le violente tumultuarie innovazioni del figlio Giuseppe II. — Il caso pietoso del poeta Passeroni. — Colloqui del poeta affamato col suo gallo. — Curiose guardie di polizia. — Minacciosi malumori contro Giuseppe II. — La morte e il successore di Giuseppe II. — La vita nelle famiglie borghesi. — Religiosità singolari. — Il nobile Andreani e il suo pallone aereostatico. — Libri, idee, mode francesi. — Discorsi in case aristocratiche. — L'ode del Parini sul vestire alla ghigliottina. — In che cosa consisteva quella moda infame. — Strano difetto di quell'ode. — Sua popolarità. — Carlo Porta la traduce in milanese. — Fine della parrucca.

I tempi ingrossavano. Era tramontato il sogno di Pietro Verri e degli amici di lui che, un bel dì, volevano chiedere a Vienna una costituzione, non prevedendo, però, nè una rivoluzione, nè un possibile intervento di nuovi vincitori.

Nel 1780, l'imperatrice Maria Teresa, la guerriera, ricca di figli e d'amori, moriva quasi sessantatreenne, lasciando al figlio Giuseppe II lo scettro, e chiudendo una vita di lotte acerbe e di riforme civili e militari memorabili, che la collocarono in un posto eminente nella storia.

[20]

Giuseppe II può essere chiamato, per certi riflessi, il battistrada di Napoleone. Pareva che presentisse di non aver lunga vita: per questo affrettò, condensò innovazioni su innovazioni; e accumulò, anche, rovine su rovine. Colpi micidiali mena sulle abbazie, sui conventi, come farà ben presto Napoleone. La Società segreta dei Franco Muratori è proibita per decreto di Maria Teresa con bando e scomunica, ma Giuseppe II la riconosce, e vuole che sia ricostruita, perchè fautrice della filosofia (la gran parola d'allora) e benemerita delle scienze. Il decreto porta la data del 21 gennaio 1786. Ben presto, sotto la Repubblica cisalpina, Francesco Palfi, filosofo, giurista, letterato, uscito da un convento della Calabria, diffonderà i principii della massoneria e ne spiegherà i riti nel poema Ivan, oggi lettura dei topi.

Giuseppe II soppresse tutte le corporazioni religiose, non utili alla società. Abolì persino la Congregazione dei Bianchi, il cui ufficio pietoso era quello di assistere, confortare i giustiziati e seppellirne le salme. Pubblicò un nuovo sistema giudiziario, solennemente inaugurato il 1º maggio 1786; ma il codice non corrispondeva ai principii liberali vantati.

Il barbogio Senato fu soppresso. E quella fu soppressione santissima. Il Senato, s'era [21] opposto all'abolizione della tortura, come Maria Teresa comandava da Vienna, per non offendere le vetuste tradizioni. Durante gli strazii della tortura, inflitti spesso a poveri innocenti, per istrappare ciò che si voleva, gl'illustri signori giudici bevevano le loro brave tazze di cioccolata, la quale faceva parte anch'essa delle auguste tradizioni. Il Senato di Milano a cui appartenne qual segretario il poeta Carlo Maria Maggi, un antecessore (e lo vedremo) di Carlo Porta, finiva dopo quasi tre secoli.... non di gloria.

Un ordine dell'imperatore vieta i giuochi d'azzardo. Si giuoca, infatti, dappertutto a Milano: nei teatri, nelle case, nelle botteghe, nelle sacristie..... Ma il governatore di Milano, arciduca Ferdinando, è preso anch'egli dalla fregola dei subiti guadagni: specula in granaglie come suo padre. Malattia di famiglia.

Giuseppe II abolisce tutte le pensioni. Immaginarsi in quali miserie piombano poveri vecchi, che non hanno più la forza di lavorare per vivere.... alla vigilia di morire! Persino all'abate Gian Carlo Passeroni sono tolte le cinquecento misere lire milanesi annue, che il conte di Firmian, governatore illuminato e liberale, gli aveva assegnate sulle sostanze dei marchesi Lucini, antichi mecenati del povero nizzardo, autore del moralista ma buffoneggiante [22] poema Il Cicerone, lungo centuno canti, nei quali il famoso arpinate è, per dire la verità,

Come l'araba fenice:

Che ci sia ciascun lo dice,

Dove sia nessun lo sa.

Il Parini, intimo amico del Passeroni, confessa d'avergli «grande obbligo», perchè lo ha «smagato dal vezzo d'ingemmare di frasi viete e dimesse i suoi versi».[4]

Il povero nizzardo, costretto a rifugiarsi affamato in una buia, angusta stamberga di legno, ha per unico compagno un gallo, al quale tiene lunghi discorsi filosofici sull'avversità dei tempi. E il consueto andamento di Milano viene sempre più turbato da riforme violente. V'ha chi pensa persino a una sommossa contro Giuseppe II, imitando i Paesi Bassi.

L'irritazione è acuita dal brutale contegno d'una nuova istituzione: della Police, squadra di soldati invalidi, che per mostrare autorità bastonano i cittadini. Qualche cosa di simile, anzi di peggio, vedremo fra poco, al tempo dell'occupazione demagogica francese, quando Carlo Porta scriverà uno de' suoi capolavori: Giovannin Bongee.

[23]

Ma, a placare il malcontento, ecco giunge a Milano la notizia della morte dell'imperatore. I Paesi Bassi, insorti, avevano già proclamato la propria indipendenza: l'Ungheria avea respinto minacciosa le riforme, e Giuseppe II dovette ritirarle, riportando un urto terribile alla propria autorità. I disagi, sofferti nella guerra contro i Turchi, contribuirono ad affievolire la fibra già scossa del sovrano. Tutto ciò affrettò la fine d'una fervida vita, che, assoggettata a maggior freno e riflessione, poteva essere tutta illustre. Giuseppe II spirò col nome di Dio sulle labbra, e rassegnato.

Era il 20 febbraio 1790. In quello stesso giorno, il fratello Leopoldo II saliva al trono.

Il nuovo principe ascoltò i reclami; chiamò a Vienna due deputati d'ogni città lombarda; ripristinò le istituzioni paesane abolite e rese gratuite a tutti le scuole pubbliche, dove i ricchi prima pagavano. Le famiglie patriarcali non temettero più morali rovine.

Nelle famiglie borghesi (si chiamavano cittadine) salite dal popolo, come quella di Carlo Porta, l'ordine e la quiete, il raccoglimento patriarcale dominavano. Il padre non era solo il semplice capo della famiglia; era, anche, un'autorità in tutto e per tutto, che i figli dovevano riconoscere e riverire in soggezione perenne. Ai genitori, i figliuoli davano del lei, [24] mai del tu; nemmeno allora che diventavano genitori alla loro volta. Non potevano uscire di casa, senza spiegazioni e regolare permesso. A tavola, tutti dovevano essere radunati puntualmente all'ora prefissa, e aspettare, in raccolti silenzi, che il padre dividesse lui le pietanze numerate; ma tutto questo avveniva pure in altre contrade d'Italia. La madre, nella gerarchia familiare, occupava invariabilmente il secondo posto. Qualche volta (il cuore della mamma!) temperava i rigori di prammatica del genitore, e asciugava col bacio la lagrima del figlio, ma di nascosto. Alla sera, dopo il parco desinare, si doveva, secondo l'uso antico, recitare almeno una parte del rosario a suffragio delle anime dei defunti di famiglia. Talvolta, lo si recitava per liberare dalle fiamme del Purgatorio qualche anima ignota. Questa specie di suffragi anonimi era radicata a Milano. Il Purgatorio offriva (avrebbe detto un moderno), un bel margine per esercitare la pietà religiosa. Alle porte delle chiese (ce n'erano un dì a ogni passo come i conventi), si leggeva: «Oggi si libera un'anima dal Purgatorio». Un'anima sola fra tanti milioni e milioni d'anime purganti, non era gran cosa; ma ciò che doveva più impressionare i non devoti era l'assoluta certezza e precisione cronometrica di quelle promesse liberazioni dagli espiatorii [25] tormenti, dei quali si parlava tanto, nei quaresimali e nelle omelie. D'inverno, durante i lunghi, tetri inverni di Milano, nelle famiglie borghesi, padri, madri, figliuoli si raccoglievano davanti ai focolari. I bambini ballavano a tondo, cantando in coro:

Ara bell'ara,

Discesa Cornara,

Dell'or e del fin — del Cont Marin....

che pareva una filastrocca senza senso; tanto che Carlo Porta l'adoperò nelle sue frammentarie versioni o, meglio, parodie meneghine, dell'Inferno di Dante; e precisamente per rendere l'oscuro verso famoso:

Pape Satan, pape Satan, Aleppe.

Quella cantilena era eco d'una storia deformata dal volgo; il quale credeva che Ara, figlia d'un Cornaro, veneziano, fosse stata uccisa da un conte Marino. L'uccisa era, invece, una spagnuola.

Un avvenimento faceva discorrere Milano per mesi. Chi sa quanto discorrere si sarà fatto nella famiglia di Carlo Porta, quando il teatro di Corte, fatto già rinascere dalle ceneri d'un altro incendio, andò distrutto dalle fiamme verso l'alba del 25 febbraio 1774!

E si pensi quale stupore nella famiglia di Carlo Porta, come dappertutto, destò l'avvenimento [26] del primo pallone aerostatico che s'innalzò al cielo portandosi un uomo! Il nobile Paolo Andreani, lo stesso che aveva introdotto a Milano i parafulmini, si fece costruire, nella sua principesca villa di Moncucco, un pallone alla Montgolfier, e vi salì imperterrito: il primo a Milano, il primo in tutta Italia.

I nuovi sbalorditivi trovati di quella Francia, che s'era levata contro il suo re, e della quale cominciavano a diffondersi nelle famiglie atterrite le raccapriccianti notizie; quei nuovi trovati non potevano esser altro che opera del demonio, come i preti predicavano nelle chiese e a domicilio.

Libri, idee, mode francesi erano già penetrate. Il Parini, in un mirabile sonetto milanese, che ha la parlata evidenza di quelli del Porta (e qual poeta vernacolo sarebbe anche divenuto!), coglie argutamente il discorso che una dama tiene a una signora tenera, a quanto pare, dei Francesi rivoluzionarii:

Madàm, gh'hala quaj nœuva de Lion?

Massacren anc'adess i pret e i fraa

Quij sœu birboni de' Franzes, ch'an traa

La lesg, la fed e tutt coss a monton?

Cossa n'è de colù, de quel Petton,

Ch'el pretènd cont sta bella libertaa

De mett insemma de nun nobiltaa

E de nun Damm, tutt quant i mascalzon?

[27]

A propòsit: che la lassa vedè

Quel capell là, che gh'a d'intorna on vell!

Èl staa inventaa dopo ch'han mazzaa el Re?

L'è el primm ch'è rivaa? Oh bell! oh bell!

Oh! i gran Franzès! Besogna dill: no gh'è

Popol, che sappia fa i coss mej de quell![5]

I bosin rozzi, poeti popolari in vernacolo, le cui canzonette si vendevano a un centesimo per le strade, inveivano intanto contro l'eccidio dello sventurato Luigi XVI, forse, e senza forse, eccitati dalle autorità imperanti; e contro la nuova moda che le signore più imprudenti adottarono nel crudo inverno del 1795, mentre intorno erano nevi continue e ghiacci. Si trattava

[28] di mostrare nudi il collo, le spalle, il petto, com'erano costrette ad avere le gentildonne vittime della Rivoluzione francese, mentre venivano trascinate a soccombere sotto la lama della ghigliottina. Un nastro rosso, per raffigurare il sangue, girava intorno al collo ed era condotto sotto le braccia e incrociato sulla schiena, e poi ricondotto sul petto per formare un nodo. Questa moda, in Francia, si chiamava à la victime, e da noi «vestire alla ghigliottina».

On vestii che tutt l'han ditt

Brutt de sangu e de delitt,

Infamaa per man del boja;

cantava una bosinada:

Sur la moda malandrina

Del vestir alla ghigliottina.[6]

Ma la tapina musa bosina non bastava. Giuseppe Parini, lo stesso autore del sonetto vernacolo citato e intitolato ironicamente da lui El magon dij damm de Milan per i baronad de Franza («magon» vuol dire dolore che fa nodo alla gola: e si è visto quale angoscia pativano, poverine!); il grande Parini levò quell'ode meravigliosa [29] A Silvia contro il vestire alla ghigliottina, che si diffuse subito manoscritta per Milano e fu tradotta da diversi poeti in dialetto milanese. «Carlo Porta (narrò il Bernardoni, amico del poeta), Carlo Porta, che aveva cominciato a preludere alla poetica carriera che percorse in seguito tanto luminosamente.... colpito dalla inarrivabile bellezza di quell'ode, la stava traducendo egli pure in ottonarii, e già delle strofe, ch'egli mi aveva mostrate e che la facevano giungere poco meno che alla metà, poteva giudicarsi bellissimo lavoro; quando si vide comparire stampata e distribuirsi in gran copia di esemplari e leggersi pubblicamente quella di Francesco Bellati col titolo: Ode a Silvia molto bella d'un autor di conclusion, ecc., ch'era stata ordinata dall'arciduca Ferdinando d'Austria, allora governatore di questa provincia, con l'idea di rendere intelligibili anche alle basse classi della popolazione i sublimi concetti pariniani. E il Porta lacerò tutto quello ch'egli aveva fatto e non ne rimase più alcuna traccia.»[7]

Codesto Bellati non era un poeta volgare. Possedeva un particolare talento nelle traduzioni, o meglio, parodie dei classici latini e [30] italiani in vernacolo milanese, con spirito schiettamente ambrosiano. Il Cherubini lo accolse nella sua Raccolta dei poeti milanesi. Il Porta lo ammirava, e lo seguì nella parodia dell'Inferno di Dante.

Giuseppe Parini si levò fiero e morale anche in quell'ode; ma doveva mostrarsi ancor più severo su quella moda che rappresentava una cinica infamia: la moda più scellerata che siasi mai vista.

A «Silvia ingenua» il poeta poteva toccare il cuore, ricordandole tante giovani vite fiorenti al pari della sua, che erano trascinate a piegare il collo sotto la lama assassina. Manca la commozione, l'elemento più vivo, che meglio dei citati Tereo, Atreo e della signora maga Colchica, doveva vincere la giusta causa. Ma mettiamo pegno che nè i versi del Parini, nè la versione del Bellati, nè le divulgazioni dei due componimenti e le bosinade distolsero le belle vanitose dalla moda-carnefice.

Intanto si cominciava a muover guerra alle parrucche, e i parrucchieri si schieravano, naturalmente, fra i nemici più acerrimi della rivoluzione. Quanti prevedevano di rimanere sul lastrico! La parrucca era un'istituzione che richiedeva molte cure, molto tempo, ogni giorno. Gli uomini portavano coda, ricci, tupè: i più ricchi e i più eleganti sfoggiavano capelli finti, [31] che scendevano in «artificiose anella». Le teste rappresentavano un lavorio architettonico rispettabile, nel quale apparivano la perizia e il vanto del parrucchiere. Nè minor bravura d'artefice richiedeva la diffusione della cipria sulle parrucche. La candidissima polvere di Cipro vi era sparsa con una «volandola». Ma si faceva scendere anche, come una nevicata, dall'alto d'un gabinetto, dove la dama o il gentiluomo sedevano ravvolti in un accappatoio protettore. La morte della parrucca fu la morte di tutto un mondo.

Era nata nel 1629 sulla testa di Luigi XIII, re di Francia.

[32]

IV.

La Gazzetta del Veladini. — Manifesti incendiarii. — Abbaglio del Bonaparte. — In casa di Carlo Porta. — Il Porta contro la democrazia francese. — Napoleone nella guerra d'Italia. — La battaglia di Lodi. — Un pranzo vescovile. — Chiese spogliate. — L'avanguardia dell'esercito francese entra in Milano. — Le coccarde d'un frate e il grido del general Massena. — Solenne ingresso di Napoleone in Milano. — Il comandante austriaco Lamy nel Castello. — Cede. — Istituzione della Repubblica cisalpina. — Ruberie e ruberie. — Estorsioni, imposte, generale malcontento. — Tentativo d'insurrezione. — È soffocato nel sangue. — Clamorose feste repubblicane. — Eccitamento delle donne. — Gli «alberi della Libertà». — Folli sfrenatezze. — La gentil mano di sposa della figlia d'un chimico. — Gli energumeni di via Rugabella. — Racconti di Alessandro Manzoni: la demagoga Sopransi. — Ire contro la guglia del Duomo. — Il buon senso d'un meneghino. — Ancora un racconto del Manzoni: Vincenzo Monti tremante alla tribuna. — Versi italiani di Carlo Porta sui cisalpini.

Il tipografo Veladini pubblicava a Lugano due volte la settimana La Gazzetta di Lugano, ch'era la portabandiera del liberalismo; e i contrabbandieri, numerosi anche allora, la introducevano a Milano, dov'era letta avidamente nei circoli impazienti di novità; mentre [33] sulle cantonate s'incollavano dai rivoluzionari penetrati a Milano stupidi manifesti incendiari, come questo: «Milanesi, massacrate il Governo, il ministro, la nobiltà, se volete liberarvi dal dispotismo, dalla prepotenza, dalle crudeltà, e così godrete la libertà».

La ghigliottina francese aveva fatto dunque proseliti; ma gli ambrosiani non si sarebbero nemmeno mai sognati di servirsene. Napoleone credeva di trovare la Lombardia nelle condizioni della Francia? Ma qui i nobili non erano odiati dal popolo, se anche, come avveniva talora, in teatro sputavano dalle loggie in platea sulle teste; nè qui i contadini mangiavano l'erbe dei fossati e dei boschi per non morire di fame. Innovazioni civili erano cominciate da un pezzo, come abbiamo visto; il tentativo d'avvicinare le classi non era mancato da parte dei patrizi più liberali; e non si aveva bisogno dei Ranza, dei Salvador e degli altri fuorusciti e cialtroni per rialzare un popolo che aveva veduto un Cesare Beccaria, un Pietro Verri, un Parini!

Quel Carlo Salvador, amico del Marat e già, a quanto dicevano, falso testimonio di delitti addossati a innocenti durante le persecuzioni di Robespierre, e predestinati alla ghigliottina, fu uno dei sobillatori più perfidi. Lo ritroveremo più innanzi.

[34]

Intanto, a Milano, si tremava al minacciato irrompere dell'esercito rivoluzionario francese.

L'esercito del Bonaparte, passato il Po, s'avanzava. Per ordine del vicario di provvisione, conte Francesco Nava, è celebrato un triduo a San Celso per implorare la Divina assistenza. Solenne processione alla basilica di Sant'Ambrogio, con le più preziose reliquie e al canto dei salmi penitenziali: le monache cantano le litanie sfilando nei chiostri: loro terrori, loro pianti disperati, e risa dei giacobini introdottisi in Milano.

Nella casa di Giuseppe Porta, il disordine non poteva penetrare. Quell'uomo, circondato dal rispetto e dalla riverenza de' figli, serbava nel santuario domestico la calma, l'ordine. Il figlio Gaspare si dava alle operazioni bancarie; e avea quindi d'uopo di testa fredda. L'altro figlio, Baldassare, era anch'esso savio e serio. Carlo sentiva bene la necessità di bandire principii liberali, di fondare istituzioni novelle rovesciando le vecchie, ma odiava le pagliacciate e gli eccessi demagogici. In una poesia inedita, rimasta incompiuta, Paricc penser bislacch d'on Meneghin repubblican, domanda:

Santa Democrazia tant decantada

In stoo secol sapient filosofista,

Comprada, promettuda e regalada,

Dove set? Cosse fet? Non t'hoo mai vista.

[35]

Carlo Porta aveva ventun anno, quando entrò in Milano l'esercito francese rivoluzionario. Teniamone nota.

Il Direttorio di Francia scagliava i suoi eserciti contro le vecchie, irritate monarchie d'Europa, che avean giurato di distruggere l'improvvisata repubblica sanguinaria di cui temevano il furore di propaganda e l'esempio sulle masse. Reno ed Alpi dovevano essere varcati dalle truppe repubblicane, che, lacere, affamate, avevano bisogno d'allori e di ristoro in terre di conquista, in cui avrebbero diffuso i proclamati diritti dell'uomo, e, tornando in patria, non dovevano essere apportatrici di malcontento per patite privazioni e delusioni. Tre eserciti si videro irrompere dalla Francia: due verso la Germania, il terzo verso l'Italia, assalendo, in tal modo, l'Austria da due lati; l'Austria, speciale nemica, una cui figlia regale, Maria Antonietta, aveva lasciata la vita altera e spensierata sotto la ghigliottina.

Il Bonaparte, capo dell'esercito francese, scese in Italia, da quella folgore di guerra ch'egli era. Le sue vittorie contro gli Austriaci a Montenotte, a Millesimo, a Diego, furono voli, quali Ugo Foscolo le enumerò nella dedica ardente dell'ode a Napoleone. Le truppe imperiali erano comandate dal settuagenario barone Beaulieu, supremo comandante austriaco [36] in Italia, nato nel Brabante, che, dinanzi all'avanzata del ventisettenne Bonaparte, pensò di trincerarsi a Fombio, villaggio sulla strada maestra fra Piacenza e Lodi. I Francesi non perdono tempo: s'impadroniscono de' suoi cannoni e li rivoltano contro di lui, mentre altre divisioni francesi accorrono e compiono in un baleno la vittoria. In tal modo, la battaglia di Lodi si risolse in un non arduo, per quanto eroico, assalto. Napoleone disse: Non fu gran cosa. Era l'11 maggio dell'anno 1796.

Le porte di Milano erano così spalancate al pallido chiomato Côrso. Il vescovo di Lodi, monsignor Della Beretta, s'affrettò ad ossequiare fervidamente, coi maggiorenti del suo clero, il duce della Rivoluzione regicida, e lo invitò a pranzo; ma Napoleone non si accontentò d'andarvi egli solo con qualche suo aiutante: accompagnò con sè diciotto affamati ufficiali del suo Stato maggiore che non erano attesi; perciò fu necessario al cuoco vescovile, autentico eroe delle batterie di cucina, escogitare gastronomici espedienti per soddisfare tante bocche improvvise. Per ringraziamento, Napoleone mandò il giorno dopo il commissario generale di guerra Saliceti a spogliare la cattedrale degli oggetti preziosi, dopo d'aver ricevuto dal vescovo mille zecchini e tutta la sua argenteria in regalo grazioso.

[37]

A che valsero, o monsignore, i tuoi sorrisi e l'elegante tua conversazione francese? Ma non sapevi che il Bonaparte era stato inviato in Italia dalla Repubblica della Senna, col mandato supremo di diffondere i santi principii: la fraternità, la libertà, l'eguaglianza?

Mentre gli avidi saccheggiatori spogliavano la cattedrale di Lodi (le altre chiese della diocesi ebbero pure lo stesso fraterno trattamento), comparvero dignitosi davanti al Côrso i decurioni di Milano, Francesco Melzi e Giuseppe Resta, a rendere omaggio al giovane vincitore.

E il 14 maggio di quel fortunoso anno 1796 il nizzardo generale Massena, con l'avanguardia dell'esercito francese, entrò da Porta Romana in Milano, fra due ali di militi della Guardia civica appena istituita; dopo d'avere ricevute, alla cascina Colombara, le chiavi della città, dorate per l'occasione, e presentate su un cuscino di velluto rosso, dal vicario di provvisione, il nominato conte Francesco Nava. Il governatore austriaco di Milano, il venditore di granaglie arciduca Ferdinando, invece di battersi, se l'era battuta, riparando nel territorio veneto, a Bergamo, e di là, a Vienna.

Il Massena, nel prendere le chiavi dorate della città, disse: «Le prendo da buon repubblicano e desidero restituirle ad un popolo [38] che abbia aperti gli occhi sopra i suoi veri interessi».

Un frate zoccolante si sbracciava a gettare qua e là, per le vie, coccarde francesi, gridando: «Viva la libertà!». Qualcuno gridò: «Morte agli aristocratici!». E il general Massena pronto: «Viva Bonaparte e il popolo di Milano!».

Il popolo scarsamente rispose.

Il giorno dopo (era una radiosa domenica, di Pentecoste) entrò in Milano Napoleone. Il sole risplendeva, l'aria era carezzevole, le campane suonavano a festa. I demagoghi gli andarono incontro gridando evviva. Il Côrso andò ad alloggiare al palazzo Serbelloni, poi passò col suo stato maggiore al palazzo di Corte, dove la banda (dice uno dei narratori del tempo, il Beccatini) suonava la Marsigliese e le altre arie patriottiche affatto nuove agli orecchi ambrosiani, in mezzo agli ufficiali superiori dalle divise turchine, dalle fascie rosse alla cintura, dagli elmi rilucenti, dalle lunghe criniere ondeggianti e dai cappelli con altissimi pennacchi, fra lo sventolio delle vivaci bandiere tricolori.

I francesi non erano in gran numero, secondo il Verri nella sua Storia dell'invasione. «Accampavano senza tende, marciavano senza alcuna compassata forma, erano vestiti di colori [39] diversi e stracciati; alcuni non avevano armi; pochissima artiglieria; cavalli smunti e cattivi. Stavano in sentinella sedendo. Avevano, anzichè l'aspetto di un'armata, quello d'una popolazione arditamente uscita dal suo paese, per invadere le vicine contrade.»

Nel Castello, il comandante austriaco Lamy s'era asserragliato con tremila soldati. Aveva inoltre centocinquanta cannoni, seimila fucili, molto bestiame, gli approvvigionamenti, tutto il materiale da guerra. Se avesse osato la sortita, avrebbe potuto forse prendere tutti? Non osò. Cedette ogni cosa ai francesi. E la Lombardia, ricca di floridissimi pascoli, bella di laghi incantevoli, di verdi colli, di monti, di fiori, superba di monumenti, splendida per opere di pittura e scultura, illustre per ingegni altissimi, eccola, in seguito a uno scontro su un ponte, preda e provincia della Repubblica francese; trattata come terra di conquista. Napoleone volle battezzarla col nome di Repubblica cisalpina il 29 giugno là, nella villa di Mombello sulla pianura milanese, proprio dove errano ora raccolti i pazzi della provincia. E in quella villa lo stesso Bonaparte ordì l'infame trattato di Campoformio, che gettò la Venezia, l'Istria, la Dalmazia tra le braccia dell'Austria; quel trattato cagion di tante guerre nostre, di tanti lutti; lutti anche di ieri, anche d'oggi.

[40]

Pure a Milano, alla quale il generale Despinoy, comandante della città, ordina d'illuminarsi la sera del 18 maggio per la «festa della Vittoria» celebrata in quello stesso giorno in tutta la Repubblica francese; pure a Milano si richiedono aggravii di guerra. L'agenzia militare francese spoglia il Monte di Pietà di tutti i pegni preziosi al disopra delle cento lire. Ed ecco requisizione di cavalli; imposta straordinaria a titolo di prestito di 14 denari per ogni scudo d'estimo; imposta di venti milioni di Francia, da ripartirsi fra la provincia di Lombardia, da levarsi principalmente dai ricchi e dai Corpi ecclesiastici. Una sùbita, nera ondata di malcontento sorge, si diffonde. Il 23 maggio, si tenta di suonar campana a martello a due limiti opposti della città per farla insorgere: a Sant'Eustorgio e a San Gottardo; ma il parroco di quest'ultima chiesa presso il Duomo e altri cittadini lo impediscono, per evitare l'immancabile sanguinosa reazione militare. A porta Ticinese, in quel giorno stesso avviene una sommossa, ma effimera. Un giovane popolano, Domenico Pomi, accusato di avervi avuto parte e d'«aver voluto assassinare» un sergente francese, è condannato e fucilato il 26 maggio sulla piazza del Mercato fuori di porta Ticinese.

Ad alcuni cittadini si strappano le coccarde francesi dal petto, dal cappello; ma i soci del [41] club repubblicano detto «Società popolare», che ha sede in via Rugabella, vogliono vendetta e irrompono, si spargono minacciosi per la città; fanno gridare da cenciosi prezzolati morte ai nobili, ai frati, ai re! Insultano tutti quelli che non sembrano dei loro. In piazza del Duomo è un pandemonio. Si viene alle percosse, alle ferite. La notizia del tafferuglio cruento si sparge rapidamente per la città ed eccita altrove gli animi e le voci. Il comandante Despinoy corre in piazza a cavallo, scortato da una squadra di dragoni; scorre al galoppo le strade, ne scaccia i passanti, fa arrestare e percuotere a piattonate di sciabola i renitenti. Il tafferuglio alla fine è sedato, ma i soldati francesi hanno bisogno di pipe!... Requisizione, adunque, di tutte le pipe. E sentono pure il bisogno di misure vendicative per salvare l'onore della bandiera.

Un pover'uomo, certo Giuseppe Pacciarini, l'anzian (addetto ai funerali) del Duomo, viene condannato, perchè reo convinto e confesso (così la sentenza) d'essere capo della rivoluzione che ha avuto luogo il 4 pratile (23 maggio).

Al disgraziato, avvezzo a guidare autorevolmente pomposi funerali della Metropolitana, toccano ben tristi funerali!... Vien fucilato, insieme con un assassino, assassino da molti anni!.... «Non pare (dice un cronista) che il [42] Pacciarini fosse tanto colpevole; e non si sa con certezza chi abbia tramata e condotta quella rivolta.»[8]

Le feste intanto seguivano alle feste. Il 22 settembre, gran festa commemorativa per l'anniversario della «Repubblica madre», leggi Repubblica francese. La prima legione lombarda di truppe cisalpine poco dopo è passata in rassegna sulla piazza del Duomo; riceve la bandiera tricolore e muove al campo; cominciando quell'epopea militare italica, che ci temprò i polsi, è vero, ma seminò i campi di battaglia delle salme di giovani valorosi, che potevano spezzare le catene della madre, l'Italia!

E altra festa (il 9 luglio 1797) nel vecchio lazzaretto degli appestati, convertito in campo di Marte. S'inaugura con fastosa e clamorosa solennità la Repubblica cisalpina. Quattrocento mila persone vi si affollano. Nello stesso giorno Napoleone istituisce il Direttorio esecutivo; tutte cose copiate dalla «Repubblica madre».

La popolazione, sulle prime sbalordita del subitaneo fragoroso cambiamento, e diffidente, finì con l'accettare il mutamento. Parecchi ne erano, anzi, beati, esaltati; fra essi il duca Galeazzo Serbelloni, che diventò presidente della municipalità. Quel duca imbandiva [43] lauti banchetti a ogni momento. Lo chiamavano il «duca-cuoco». Specialmente le donne, come avviene nei sùbiti mutamenti politici, si esaltarono. Si accendevano a quella fantasmagoria di colori, al chiasso dei soldati francesi, di quei

Quatter strascion senza camisa,

Senza sciopp, senza divisa,

Senza scarp, senza calzett,

ma pieni di vita, di brio indiavolato. Un'altra satira cantava con verità:

Esopo dì che, in sto pajes,

In staa prima i donn

A portà l'eguaglianza di Franzes.[9]

Le vie, prima tranquille, erano messe a rumore. In piazza del Duomo, e in altre piazze, al suono delle bande s'inaugurarono gli «alberi della Libertà», sormontati da un berretto frigio rosso. E allora si videro le scene più sfrenate, più sconce, che si potessero ideare. Fratacci e pretacci appesero all'albero le loro lunghe barbe tagliate e le loro tonache, e, intorno, uomini e donne discinte, in catena, si [44] trascinavano ballando e urlando: Viva l'eguaglianza! Si videro signore di liberi costumi, mezzo denudate, ballare trascinate da demagoghi furibondi: sì, signore, anche belle, formose, che apparivano pure, mezzo nude, secondo l'ultimo figurino di moda, nelle loro loggie al teatro della Scala, dove la Marsigliese si suonava e cantava in coro. In piazza della Rosa si tenevano riunioni demagogiche clamorosissime, con urli di morte al papa, ai cardinali, ai vescovi e arcivescovi, preti, frati.... Una ragazza, Sangiorgio, figlia d'un chimico, offerse la propria mano a chi le avesse portato la testa del papa. «In quel club (narrava nei suoi tardi anni il Manzoni, nel crocchio della sera fra intimi amici, alludendo alla Società popolare di via Rugabella), in quel club se ne dicevano e proponevano delle belle! C'era, tra gli altri, la demagoga Sopransi, che era brutta e gobba, ma rivoluzionaria ardente e anzi pazza: e un giorno, in odio al re, propose che nel mazzo da tarocco la figura della regina non si chiamasse più la regina, ma.... «La gobba!» gridò, interrompendo, una maschia voce, in buon milanese e con molto buon senso. E la cosa finì in una risata universale.»[10]

[45]

«In uno di quei circoli (racconta alla sua volta Cesare Cantù) un gran patriotta, gran livellatore, che più tardi fu scudiere di Napoleone, poi delegato sotto gli Austriaci, poi intendente sotto i Piemontesi, propose si demolisse la guglia del Duomo. «L'eguaglianza è il primo diritto; non deve dunque soffrirsi che un edificio si elevi sopra gli altri della città». Così diceva in tono di puritano e colle dita tese; e gli ascoltanti ad applaudirlo e gridare: «Abbasso la guglia del Duomo!»

«Era presente un buon meneghino, che aveva imparato da sua madre a voler bene, e da suo padre a non opporsi al male: e, chiesta la parola, lodò il civismo, il patriottismo del preopinante, ma chiese perdono se osava far un'altra mozione: ed era «di metter a quella guglia il berretto rosso, e così sarà visibile per estesissimo tratto quale simbolo della libertà che acquistammo dopo secoli di orribile tirannia»

«Sì, sì! bravo, bravo!» urlarono gli ascoltatori, e la guglia restò salva, aspettando livellatori più radicali.»[11]

Ma si voleva abbattere addirittura il Duomo! I più miti fra gli arruffoni, venuti dal di fuori, e che nulla sapevano del sacro [46] amore degli ambrosiani per il loro tempio, sublime monumento di fede avìta e di storia, volevano trasformarlo in uffici pubblici; ma compresero che si andava contro sentimenti, dei quali era imprudente, per lo meno, non tener conto cauto e rispettoso. Si pensi che, nel Duomo, si affollavano attoniti ogni giorno densi gruppi di contadini; i quali scendevano dalla campagna per vedere anch'essi, almeno una volta nella loro misera vita, el Domm meraviglioso, del quale avevano udito parlare sin dall'infanzia come d'un portento più che umano. Lady Morgan, nella sua Italy, parla di quei contadini raggruppati in famiglie, seduti in estasi prolungate.

In piazza del Duomo era stata eretta, accanto all'albero della libertà, una tribuna con un enorme stendardo nero (roba allegra), nel quale leggevasi in lettere bianche l'annuncio sintetico di tutti i discorsi che si dovevano tenere alle turbe: Diritti dell'uomo. Ma nel club in via Rugabella c'era un'altra tribuna; e in quella salì tremando un grande poeta: Vincenzo Monti. Ma lasciamo narrare ad Alessandro Manzoni, le cui parole furono religiosamente raccolte anch'esse da uno dei suoi adoratori devoti:

«Il barone Ferdinando Porro, che fu prefetto sotto Napoleone, e del quale, non ostante [47] la differenza dell'età, io fui amico (diceva il Manzoni), mi raccontava che, quando nel 1798 il Monti venne a Milano, dove prima per mano del boia era stata abbruciata in piazza del Duomo la sua Bassvilliana, si presentò a lui, che era allora uno dei capi del club repubblicano, pregandolo d'introdurlo in quel club per leggervi un suo sonetto: e il Porro acconsentì. Io salii sulla tribuna, egli mi raccontava, e dissi: Cittadini, al piede di questa tribuna vi è il più gran poeta d'Italia che chiede di recitarvi un suo sonetto: volete sentirlo? — Sì, sì, si gridò da ogni parte. Allora io scesi dalla tribuna, e andai a prendere il Monti: la sua mano tremava come una foglia. Lo trascinai su per la tribuna, ed egli recitò il famoso sonetto, in cui dice che la Repubblica cisalpina aveva

Di Sparta il senno col valor di Roma.

Applausi frenetici; e da quel giorno il Monti divenne il poeta della Rivoluzione.»[12]

Pochi anni dopo, Carlo Porta mandava alla suocera, Camilla Prevosti, alcune sue sestine italiane non eleganti, — tutt'altro, — ma riflessi di quella baraonda demagogica:

E chi lo sa che un giorno non diventi

Qualche signore anch'io d'importanza?

[48]

A buon conto sto bene assai di denti,

Ho bastante presenza ed arroganza;

Malcreato, mendace, sprezzatore

Mi farò poi col diventar signore.

Ah! con doti sì belle, egli è un peccato

Che quel tempo prezioso sia trascorso,

In cui bastava ad essere ammirato

Crin mozzo, gran berretto e voce d'orso;

In cui quanto più eri manigoldo

Ne ritraevi onor, rispetto e soldo.

Ah se fosse quel tempo! per Milano

Mi vederebbe correre severo

Con tanto d'occhi e la sciabola in mano,

Gran flagello dei nobili e del clero;

Ma quel tempo felice oggi è passato,

E sol oggi il mio spirto è sviluppato.

Nè oggi mancherebbonmi i talenti

Di volger per rovescio la medaglia,

Massime cogli esempi ognor presenti

D'una quantità simil di canaglia,

Ch'oggi Gracchi corcârsi, e all'indomani

Tigellini si alzâr, Planzj, Sejani.

Specchio fedele di quei figuri e di quel tempo rimangono i giornali; funghi velenosi spuntati da un terreno fracido. Parliamone.

[49]

V.

Sconce pubblicazioni volanti. — Carlo Salvador e il suo Termometro. — Vien bastonato e messo in prigione. — Sua tragica fine. — L'eteroclita figura del «terrorista» Ranza. — Sue geste, suoi opuscoli, suoi giornali, e il suo perfezionamento della ghigliottina. — E anche lui va in prigione. — L'economista Pietro Custodi: da demagogo a barone. — Melchiorre Gioja qual era. — Il giornale Senza titolo e i suoi carnevaleschi collaboratori. — Il giornale di Ugo Foscolo. — I due giornali di Napoleone.

Una delle prime libertà portate da Napoleone fu quella di stampa, senza alcun freno contro gli abusi. Tutti potevano scrivere e pubblicare tutto, infamie comprese. Si arrivò al punto che, per tre mesi continui, si vendettero per le strade di sant'Ambrogio e di san Carlo, da cenciosi strilloni, gl'indirizzi delle pubbliche meretrici «ad uso della gioventù cisalpina».

Gli amici della libertà fu il primo giornaletto apparso sull'Olona; e Il termometro di Carlo Salvador fu il secondo.

Costui l'abbiamo già incontrato; ma è necessario tornare ancora su codesta figura di rivoluzionario nefando e ridicolo.

[50]

Era nato a Milano. Per evitare i castighi meritati dalle sue ribalderie, fuggì a Parigi, dove si cacciò fra i terroristi della Senna al tempo delle esecuzioni furibonde e sommarie degli aristocratici. Quali atroci accuse pesassero sopra di lui abbiamo detto più addietro. Appena Napoleone ebbe l'ordine di conquistare la Lombardia si mosse da Parigi e, qualche giorno prima dell'ingresso dell'esercito francese, percorse le strade della sua città eccitando frenetico il popolo a rendersi libero da nobili, preti, frati, sovrani, e gettando a destra e a sinistra coccarde tricolori. La conoscenza del dialetto di Carlo Porta gli agevolava l'ufficio. Si vendette anima e corpo ai comandanti francesi, e per giustificarne le violente ruberie e iniquità d'ogni genere fondò Il termometro, che faceva spavento ai passeri. Ma era tale l'eccesso delle parole di quell'eroe della mannaia che, più di qualche volta, fu battuto come la lana. Gli stessi suoi protettori, che lo pagavano, furono costretti a strappargli di mano la penna maledetta e lo cacciarono in prigione.

Ridotto alla miseria più squallida, Carlo Salvador fu visto, più tardi, errare, come un mendicante reietto, per le vie di Parigi. Disperato, alla fine, si annegò nella Senna.

Peggiore persino del Salvador, parve un buffo omiciattolo dalla lunga zazzera rossigna [51] svolazzante, scialbo e magro, mezzo sepolto sotto un enorme cappellone decorato d'una maiuscola coccarda sfacciata. Strascinava uno sciabolone più lungo di lui, e, declamando contro i principi d'Italia, ai quali minacciava coltellate in abbondanza, agitava le braccia come due fruste da carrettiere irritato. I buoni ambrosiani, vedendolo sulle piazze dove irruiva contro i «tiranni», lo stavano a osservare come un «fenomeno» da baracca.

Chi era? Donde veniva? Era il «cittadino» Antonio Ranza, professore e tipografo. Si chiamava modestamente da sè «capo dei rivoluzionari piemontesi».

Nato a Vercelli, nella cui agitazione popolare del 1790-91 era sorto quale «amico del popolo» e nemico dei nobili, avversava con altri rivoluzionari la Casa Savoia: voleva strapparle il Piemonte per gettarlo fra le braccia della Francia. Evitò il carcere con la fuga. A Lugano, in Corsica, a Nizza, continuò l'apostolato; finchè Napoleone gli aprì con le sue vittorie il varco alla massima scena delle sue geste clamorose: la Lombardia.

Negli orrendi giorni, quando Binasco e Pavia osarono ribellarsi all'invasione francese e furono perciò il primo, per cenno del Bonaparte, orribilmente incendiato, e Pavia abbandonata al saccheggio e alla strage, il Ranza, [52] che a Pavia aveva piantato l'albero della libertà, eccitava alle vendette, alle carneficine, vantandosi d'aver trovato un perfezionamento alla ghigliottina che, secondo lui, doveva essere il tocca-e-sana dei ribelli lombardi.[13]

Il Ranza stampò giornali sterminatori e opuscoli analoghi; alcuni de' quali si possono leggere nella raccolta Custodi, nella Biblioteca Nazionale di Parigi.[14]

Col giornale Il rivoluzionario, che il Ranza pubblicò per isfamarsi, trascese a tali eccessi contro i nuovi magistrati, che non potè arrivare al terzo numero. E anche il Ranza fu cacciato nel Castello, in prigione. Morì nell'aprile del 1801.

Ben altro cervello vantava Pietro Custodi, nato nel 1771 a Galliate Novarese, caro a Pietro Verri per l'amore che portava agli studii severi. Nella tormenta della Repubblica cisalpina, il Custodi si esaltò, e unitosi a un chirurgo Buzzi, demagogo da dozzina, fondò la settimanale Tribuna del popolo, dove non esitò a investire lo stesso Bonaparte. Immaginarsi se il vittorioso permetteva d'essere vilipeso [53] dalla libera stampa, ch'egli stesso aveva elargita al popolo redento!... Ordinò che anche il Custodi fosse arrestato e gettato in un carcere, ma il giovane eroe sfuggì ai gendarmi nascondendosi in un solaio.

Chi mai gli avrebbe detto allora che, solo pochi anni dopo, sarebbe stato creato cavaliere della Corona ferrea e barone del Regno italico? Che sarebbe assunto qual segretario a lato del ministro delle finanze Prina? E avrebbe lasciato nome chiarissimo per la classica sua raccolta degli Economisti italiani?... Morì nel 1842.

Un altro dotto, celebre economista, Melchiorre Gioja, seguiva la manìa del giornalismo polemico e del pubblico oltraggio, egli che doveva comporre più tardi un Galateo delle belle creanze! I suoi giornali Il censore, La gazzetta nazionale e Le effemeridi politiche morivano anch'essi, strangolati dalle mani delle autorità offese. Il Gioja subì il carcere a Parma e a Milano, poi l'esilio. La sua opera Del merito e delle ricompense è una miniera di erudizione. Ma egli era un'anima ignobile. La rivela nella rivoltante scritturaccia contro Bianca Milesi, che, illusa e pietosa, lo aveva assistito in carcere.[15]

[54]

Sbocciò anche Il giornale rivoluzionario e Il conciliatore; il primo fu soppresso, il secondo morì d'inedia.

Ma anche un giornale a tratti briosi ebbe l'allegra repubblica: Il senza titolo; anch'esso ampio al pari degli altri.... come un fazzoletto da naso d'educande.

Un furbo libraio francese, Barelle, lo fondò, rimanendo prudentemente fra le quinte, nell'ombra, e cacciando, invece, innanzi quale direttore (estensore dicevasi allora) un suo commesso di negozio, certo Nova, che andava alla messa ogni mattina e che finì in prigione anche lui, per le ingiuriose escandescenze dei suoi anonimi collaboratori, fra i quali (una vera carnevalata!) frati sfratati, preti spretati e un Calderini di Gallarate, soprannominato il «granatiere teologo». Molta prosa v'inserì il Bernardoni, il grande amico di Carlo Porta, propugnandovi persino l'unità d'una Italia repubblicana.

Un avversario detto l'«ulano legislatore» scriveva amabilmente così: «Sapete in che modo discuto io le mie questioni personali? A cazzotti!». E lo chiamavano legislatore!

In un certo numero si legge che un tale comasco (e qui è spiattellato nome e cognome) fa l'incettatore di grano ed è l'amante della moglie del signor tal'altro pure di Como (e qui [55] ancora nome e cognome: mancava soltanto il numero della porta). Come mai la faccia dell'ignoto rivelatore non veniva illustrata da un corteo di pugni? E i pugni fioccavano fra quei gentiluomini. Niente duelli: fior di cazzotti, come insegnava l'«ulano legislatore»!

Benchè svillaneggiato e messo in ridicolo dal Senza titolo, il Ranza vi fa allegramente i conti addosso al piacentino Poggi, estensore dell'Estensore cisalpino, sussidiato dal Direttorio; ma è tutta invidia di quei sussidii!...

Un arguto «associato» domanda al «caro Nova» perchè certo comandante di certa piazza, mentre qualche giorno fa si lamentava d'avere in tasca sole cinquanta miserabili lirette, ora esce con tanto di vestito nuovo e su un cavallo nuovo?

Questa l'alba radiosa della libera stampa sull'Olona, promulgata da Napoleone Bonaparte!

Ma pochi anni passeranno, e nella stessa Milano sorgerà Il conciliatore di Silvio Pellico, di Luigi Porro, di Federico Confalonieri, di Giovanni Berchet, a far dimenticare con le gloriose sue audacie liberali quella effimera, fracida, velenosa fungaia, spuntata sotto gli scrosci di pioggia delle innovazioni rivoluzionarie frettolose; e, più tardi ancora, sorgeranno la. Rivista europea del Battaglia, Il politecnico di Carlo Cattaneo, Il crepuscolo di Carlo Tenca.

[56]

Eppure, dalla baraonda dei gazzettieri cisalpini, spuntava qualche cosa di lodevole. Il Monitore italiano va, infatti, citato, a titolo d'onore, a parte. Il manifesto steso da Ugo Foscolo, e la collaborazione del grande poeta, gl'imprimeva un carattere d'altera indipendenza. Il Foscolo vi pubblicava i processi verbali dell'Assemblea legislativa della Repubblica cisalpina; e vi aggiungeva con tono tribunizio (il tono allora comune) severi commenti.[16] Il cittadino Somaglia, nel Consiglio dei Seniori perora a favore dei poveri, dicendo che gli aggravi maggiori dovevano pesare sui ricchi. E Ugo Foscolo a tal proposito prorompe:

«Legislatori! badate che le tacite orme degli opulenti non vi sbalzino da quel seggio, ove rappresentate una nazione costretta a comperare colle proprie sostanze una libertà, che calò dalle Alpi accompagnata dalle desolazioni e dal terror della guerra e seguìta dall'orgogliosa avidità della conquista; una nazione, la quale, colpa forse de' tempi, non peranco ha partecipato dei beni della libertà. Legislatori! mentre voi ritardate il rimedio, il male va crescendo in ragione progressiva: [57] l'onnipotenza dei sacerdoti, l'ambizione dei grandi, l'avarizia del ministero, l'attaccamento alle antiche abitudini, la miseria del popolo, tutto congiura al soqquadro d'una troppo nuova Costituzione.»

Immaginarsi se tali parole potevano piacere ai dominatori! Ma esse, meglio di tutte, compendiavano uno stato di cose infermo e malfermo.

Una sera, per le vie di Milano, un vecchio e un figlio giovinetto cadono travolti sotto una carrozza a due cavalli. Il Foscolo li trae dalle ruote in istato miserando, arresta il cocchiere che vuol fuggire coi cavalli spaventati, e pubblica sul Monitore italiano una fiera lettera al ministro della polizia, Sopransi, invocando provvedimenti e pene.

Ancora più bello è l'atto (oggi si dice gesto) del Foscolo, quando sul Monitore si offre spontaneo al Capitano di Giustizia, in luogo del cittadino Breganza, collaboratore del giornale, assente e inquisito, autore d'un articolo che feriva il Governo.

Il Monitore italiano fu fondato da giovani patriotti; vi convenivano verso un'unica meta e settentrionali e meridionali d'Italia; quasi preludio dell'unità della patria. Vi appartenevano scrittori del Veneto, di Napoli, del Piemonte, del Piacentino. Tre soli, alla [58] fine, rimasero redattori: Foscolo, Gioja, Custodi. Al 42mo numero il giornale, costante censore del Governo, fu soppresso; e sulla sua tomba precoce, sorse il Monitore cisalpino, composto da rifugiati politici, a capo dei quali stava il romagnolo Giovanni Compagnoni, politico, giornalista, romanziere, poeta, scienziato, autobiografo, autore delle Veglie del Tasso, stese in italiano e in francese, che ottennero voga; negazione della verità e del buon gusto. Nel Monitore cisalpino, lavorò un conte, avventuroso giramondo: Bartolomeo Benincasa di Sassuolo, che servì da spione agli inquisitori di Stato negli ultimi anni della Repubblica di Venezia. Insieme con l'amica Giustina Winne, contessa di Rosenberg, il conte Benincasa compose, fra altro, un romanzo Les Morlaques; suonata a quattro mani, che deve aver divertito solamente i due innamorati suonatori.

Napoleone volle esser tutto; fu anche giornalista. Fondò e ispirò due giornali: Le Courrier de l'armée d'Italie e La France vue de l'armée d'Italie. Quest'ultimo per preparare l'opinione pubblica all'assassinio di Campoformio. Lo dirigeva un Jullien; laddove figurava quale direttore un ignoto presta-nome: Iacopo Rossi; e così il Courrier.

Il Jullien non potè tacere neppur lui davanti all'infamia perpetrata dal suo padrone [59] col mercato di Campoformio; cagione di tante guerre, compresa l'ultima nostra. Non con l'asprezza spiegata dal Monitore italiano del Foscolo, ma non senza coraggio, il Jullien si mostrò contrario nel Courrier a quell'iniquità; e fu licenziato. Il giornale passò allora nelle mani dello stato maggiore francese. Si stampava a Milano, nella così detta patriottica tipografia di Via San Zeno «dietro al palazzo di giustizia» dove, più tardi, l'Austria alloggiò il boia.[17]

[60]

VI.

Carlo Porta a Venezia. — Suo impiego, sua miseria, sue spensieratezze. — Venezia dopo la caduta della Repubblica. — Società gioconde. — Quella di Carlo Porta con l'intervento della Polizia. — Carlo Porta e i grandi poeti dialettali veneziani. — Le voluttà di Antonio Lamberti. — Una coraggiosa satira civile del Buratti. — Degenerati e degenerate. — Carlo Porta è muto agl'incanti di Venezia. — Poesie veneziane del Porta? — Amori d'una patrizia veneziana col poeta. — Rivali. — L'abbandono. — Come amava Carlo Porta. — Sue drammatiche gelosie. — Sua vita di pubblico impiegato. — Un aneddoto.

Al padre di Carlo Porta doleva che questi consumasse i giorni nell'ozio, e lo consigliò d'andare a Venezia, a quell'archivio delle finanze, come impiegato.

Era il 1798 quando Carlo lasciava un'altra volta la famiglia per la città delle lagune dove, giovane e brioso com'era, liete accoglienze non gli potevano mancare, nè brigate allegre, nè passatempi. Eppure vi andò di malavoglia, e vi trasse giorni angustiati. Le lettere che manda da Venezia alla famiglia sono quasi tutte lamentevoli. Uno Zuccoli assumeva colla Repubblica cisalpina, a nome di certo Gaetano Borella, un contratto, impiantando [61] a Milano una vasta amministrazione; e Carlo Porta desidera ottenervi un posto migliore di quello in cui il padre lo ha collocato a Venezia. È sempre corto a quattrini; e arriva a scrivere al fratello Gaspare: «Mando al Monte di Pietà il mio tabarro e mi lusingo che avrò da vivere così un'altra settimana».

La Serenissima Repubblica era caduta: al folle lusso di tante spensierate famiglie era successa la miseria: eppure il brio, el morbin, degli abitanti non era scomparso. Da una lettera, conservata alla Quiriniana,[18] veggo la triste pittura che della decaduta Venezia il poeta della Tunisiade e delle Perle dell'Antico Testamento, il patriarca Pyrker invia all'imperatore Francesco I. In quell'arsenale glorioso, che ferì un giorno la fantasia di Dante, l'anno stesso dell'ignominiosa caduta della Repubblica (1797), erano tremila e trecento gli operai: e in breve ne restarono soli settecento. I gondolieri presso le famiglie patrizie, in quello stesso anno, erano millesettecentonovantasette, e in breve ne rimasero dugento e novanta. La poveraglia tendeva le palme ai passanti. Eppure le sagre erano ancora numerose, allegre, colle bandiere svolazzanti dai mille [62] colori, co' fieri ritratti di barcaiuoli vincitori nelle regate, con cembali e trombe squillanti, e scampanìo festoso. Si proibivano i giuochi d'azzardo, ma si apriva il teatro La Fenice alle voluttuose veglie carnevalesche. Le belle figliuole di Canaregio non portavano più attorno al collo roseo le fini collane d'oro, i manini, ma, sbattendo sdrucite pianelle, salivano i ponti di pietra con lo stesso sorriso, col medesimo regale incesso di ieri. Nei luminosi vesperi estivi, sulla laguna smagliante, si banchettava, si cantava nelle barche adorne di frasche e di pendule lanterne colorate.

Carlo Porta, in quel carnevale, si trovava nella necessità di partecipare alle baraonde giulive e sciupava in una sola sera lo stipendio d'un mese. Voleva mostrarsi generoso con amici e anche con gente sconosciuta cui pagava all'osteria pranzi e cene: voleva darsi l'aria d'un signore: confessava al fratello Gaspare che delle tante lettere raccomandatizie delle quali era fornito non volea servirsi, per non sembrare pitocco. Divenne persino capo d'una società di capi ameni, detta della Ganassa, perchè avea lo scopo di mettere in moto continuo le ganasce, a mense lautamente imbandite.

La polizia, sospettosa, come tutte le polizie che si rispettano, s'era fitta in capo che [63] quei buontemponi si raccogliessero a congiurare contro lo Stato. E un giorno entrò d'improvviso nella sala del cenacolo della ganassa, e la perquisì per ogni buco. Restava da esaminare l'interno d'un antico armadio; ma era chiuso con doppia chiave. Ciò accrebbe i sospetti.

— Aprite! — intimò al domestico il capo della pattuglia.

No gavemo le ciave, sior! — gli rispose il servo.

— Non avete le chiavi? Cercatele! —

Alcuni momenti dopo, ecco si presenta Carlo Porta. Cammina lento, con aria misteriosa. Adagio adagio apre l'armadio entro cui si sospettavano celati armi ed armati come nel cavallo di Troia; ed: — Esamini pure l'eccelsa polizia — dice con voce ferma — esamini pure ogni pezzo, diligentemente. —

Era una collezione di gusci d'ostrica, e un ammasso di ossa di pollo, tutti avanzi delle mense, ivi raccolti, come in museo. Scoppiò una risata; la Società della Ganassa festeggiò l'evento con un altro simposio; e, forse il giorno dopo, Carlo Porta scriveva al fratello quel biglietto rattristante: «Vessato intanto dalla fame e dalla paura di fare una trista comparsa col padrone della mia casa per l'impossibilità di corrispondergli l'altra pigione di fitto....»

[64]

Tommaso Grossi, il più intimo e caro amico di Carlo Porta, ci dice in alcuni cenni biografici che il Porta a Venezia, avendo conosciuto alcuni poeti dialettali veneziani, «per la prima volta sentissi bollire fortemente in seno il desiderio di far versi». E noi dobbiamo credergli. Ma dobbiamo anche ricordare che, prima ancora di ricevere quelle impressioni determinatrici del suo genio, Carlo Porta aveva verseggiato a Monza e a Milano; sappiamo che, a vent'anni, aveva cominciato a tradurre in milanese l'ode del Parini A Silvia.

Il Porta aveva conosciuti a Venezia gli almanacchi che Antonio Lamberti andava pubblicando, ingemmandoli delle sue vernacole Stagioni campestri e cittadinesche, pitture vivide e fedeli dei costumi veneziani, nelle quali si sente (chi lo crederebbe?) un anticipato lamento socialista. E, tornato a Milano, Carlo Porta volle pubblicarne qualcuno anche lui, in milanese.

Allora spirava vento propizio agli almanacchi. Ne uscivano a stormi, in vernacolo e in lingua, coi titoli più stravaganti, e il pubblico li comperava perchè conditi di satira. Un almanacco censura le mode di allora, le vesti muliebri così aderenti alle cosce che un professore d'anatomia potrebbe rilevare ogni muscolo, quasi ogni fibra; biasima le nudità [65] dei seni: ride delle scarpe «piccole come un sospiro». Al teatro alla Scala, le dame calano le cortine misteriose de' loro palchetti colla scusa di ripararsi dal freddo?... È un almanacco a ricamarvi su storie maligne. L'Almanacco degli almanacchi li passa tutti in rassegna. Nella Biblioteca Ambrosiana n'è raccolto un cumulo; ma vi si trovano forse i due almanacchi che il Porta scrisse in milanese? Non esistono nemmeno nella libreria lasciata dal poeta; e nelle numerose sue carte, non ve n'è traccia. Tutte le ricerche mosse per averli nelle mani riuscirono vane. O rondinelle smarrite, come vi chiamavano almeno? Forse: Il Meneghino critico? Era, è vero, un almanacco in versi milanesi, ma lo scarabocchiava un Sommaruga, scempiato e stentato verseggiatore, che volea farla da moralista. El Lavapiatt de Meneghin ch'è mort era anch'esso del bel numero uno; ma reca la data del 1792, e il Porta non scriveva così male in milanese. La Gran Torr de Babilonia? Oppure El Verzee de Milan? Nemmeno. O Il borgo degli Ortolani? Quest'è del '94; e non è del Porta. L'ombra del Balestrieri in cerca de la veritaa, ch'è del 1800? El servitor de la bon'anema del pover poeta Balestrieri, del 1804? El Caffè de la Reson, del 1805? Oppure Meneghin Peccenna?

[66]

Rimane assodato che i primi tentativi del Porta nel patrio dialetto furono due almanacchi. «Ma (narra il Grossi) essendo stato fieramente e scurrilmente satirizzato in un altro almanacco scritto pure in dialetto, e credo da un parrucchiere — almanacco il quale, quantunque privo affatto d'ogni merito, godeva però a quei tempi qualche favore a motivo dello sfacciato e plateale ardimento con cui era scritto — il Porta s'indispettì talmente che depose il pensiero d'esser poeta, e stette molti anni fermo nel proponimento che aveva fatto di non prender mai più la penna per scrivere un verso; ed ecco come le goffe e petulanti contumelie d'un ciarlatano pervengano qualche volta a soffocare il genio e a stornarlo dalla sua via.»

Più tardi nell'ardore della battaglia a favore del Romanticismo, un almanacco d'un classicista dottor Paganini, lo attaccava, ma di ciò a suo luogo.

Nei brillanti bagordi di Venezia d'allora, al Caffè Florian, covo d'implacabili eleganti maldicenti, o alla trattoria del Salvàdego, a San Marco (vi pendeva per insegna un pelosissimo selvaggio dipinto), Carlo Porta avrà incontrato il maggiore dei poeti veneti dialettali, il terribile satirico Pietro Buratti, anch'egli giovane allora, elegante nella veste, [67] mordace nella parola; tanto mordace che pose in satira persino il proprio padre, commerciante ricchissimo, il quale, irritato, lo diseredò, privandolo d'una rendita annua di tremila e più ducati e d'un palazzo a Bologna.

Carlo Porta deve avere conosciuto a Venezia un altro poeta, Camillo Nalin, ch'era impiegato computista in un ufficio governativo. E vi conobbe, forse, il patrizio democratico Iacopo Vincenzo Foscarini, che si firmava el barcariol. Il Nalin sereno, scherzoso; il Foscarini ardente d'affetto per la sua Venezia. E il Porta si sarà incontrato nell'autore della famosissima Biondina in gondoleta che, musicata dal maestro Mayr, si cantava al chiaro di luna sotto il ponte di Rialto, lungo il Canal grande e nelle sale più aristocratiche delle capitali d'Europa, tanto piacque quella maliziosa, voluttuosa cantilena, scritta per la briosa corrottissima Marina Querini-Benzon; laddove Antonio Lamberti compose poesie, se non più graziose, ben più rilevanti di quella barcarola, che lo rese celebre.

Pietro Buratti, come poi Carlo Porta, compose poesie oscene; ma egli si servì dell'oscenità per frustare vizi ridicoli, brutture morali. Egli le recitava in una allegra società detta Corte busonica, nella quale sedette, per [68] qualche tempo acclamatissimo, Gioachino Rossini, vero re dei buontemponi giocondi. La Corte busonica era sorella maggiore della portiana Società della ganassa; banchetti, e celie sboccate, e risa, e scherzi pepati la rallegravano. Le studiate, raffinate corruzioni, i sapienti e complicati piaceri, le aberrazioni, proprie di questo nostro tempo avido di sensazioni artificiali e perverse, non solo non erano compiute da quei gaudenti del giorno per giorno e dell'occasione grossolana e chiassosa; ma il Buratti, che non avea peli sulla lingua, lanciava le sue impetuose satire atroci contro coloro che imbestialivansi in immonde aberrazioni. Le sue strofe contro una ebrea pervertita, contro una cantante degna di lei, contro rammolliti patrizi degenerati, giravano pei caffè, suscitavano risate, scandali; e intanto i rei erano inchiodati alla gogna.[19]

Quelle poesie devono essere piaciute, per affinità di gusti, a Carlo Porta, come piacevano al Rossini, come andavano a sangue allo Stendhal che loda il Buratti nel volume Rome, Naples et Florence.

Ma Pietro Buratti ebbe momenti grandiosi. Spiegò un civile e non immune coraggio, [69] come poeta satirico, che Carlo Porta, prudente, non ebbe mai; e in un'ode per la morte d'un suo bambino, tentò nell'angoscia paterna di scrutare il perchè degli strazi inflitti da un destino crudele a poveri bambini infermi e morenti: ardita filosofia, alla quale non arrivò mai Carlo Porta; che tuttavia superava il Buratti nella vivezza dei profili comici, nell'espressione del linguaggio pittoresco, nell'arte, soprattutto: arte, che nel poeta milanese sembra la stessa natura che parla, che agisce.

Il 3 novembre 1813, le lagune erano bloccate dagli Austriaci e dagl'Inglesi alleati, che prendevano la rivincita su Napoleone, contro il quale ormai tutta la Germania allora si sollevava. Il principe Eugenio Beauharnais era respinto dagli Austriaci vittoriosi sino alle rive dell'Adige. E, intanto, a Venezia, il generale Serras, successogli al governo, imponeva, con un tratto di penna, ai cittadini un prestito di due milioni, da pagarsi entro ventiquattro ore. I commerci, già consunti, precipitavano a rovina, famiglie già agiate erano ridotte a elemosinare all'ombra, sui ponti; miseria, fame, sete; mancava l'acqua nei pozzi; il tifo mieteva le vittime a centinaia. Discordie tra il prefetto di Venezia, barone Francesco Galvagna, col Serras, baruffe da piazza; per cui le condizioni della città diventavano, se pur era possibile, [70] più penose. E Pietro Buratti, buon veneziano, ne fremeva. A un pranzo, dato dal prefetto Galvagna, egli lesse e recitò una sua ode fulminea contro gli stranieri invasori e ladri, contro la feccia democratica francese e contro gl'inganni di Napoleone. Il Buratti si buscò tre mesi d'arresto per quella satira, che rimane la più possente, la più alta nella letteratura civile dei dialetti d'Italia.

E quel poeta civile e filosofico, e satirico implacabile, componeva anche canzonette veneziane, piccoli capolavori di malizia sorridente e di grazia; e riempiva quaderni e quaderni di versi fluenti, sgorgati da un estro ridanciano inesauribile, saettando contro questo e contro quello. Il suo crudo poemetto L'omo ha parti mirabili.

Tale il poeta maggiore che il Porta deve avere conosciuto a Venezia e che, a quanto pare, gli servì d'esempio, come vedremo nei confronti parziali; eppure nè di lui, nè d'altri poeti veneti nessuna traccia, nessun ricordo resta nelle carte del poeta milanese.

Nel carteggio colla famiglia, nemmeno una parola sulle singolarità, sulla magìa di Venezia. Neppur una! E nessun cenno altrove. Come mai un giovane poeta poteva rimanere insensibile a tanta bellezza? Egli si abbandonava alla gastronomica società della «ganassa» [71] e mostra di non accorgersi degl'incanti dell'arte e della natura che lo avvolgeva? Sono eclissi estetiche, che, nei temperamenti portati alla satira, possono avvenire. Ma il peggio è che il giovanotto mostra di non accorgersi delle splendide formosità e delle caratteristiche grazie femminili di Venezia!

Carlo Porta, giovane, libero, non ebbe per amante a Venezia una giovane bella; ma una donna matura.

Il Grossi dopo aver detto che l'amico suo fece a Venezia «la conoscenza di alcuni coltivatori di quel dialetto, ed ebbe occasione frequente di ascoltare poesie vernacole», soggiunge: «Ivi fu che per la prima volta sentissi bollire fortemente in seno il desiderio di far versi: ne scrisse di fatto alcuni in veneziano sopra argomenti festevoli, ma non furono da lui conservati; egli solea dire che non valevano la pena di esserlo».

Nei manoscritti di lui non trovo, infatti, traccia di poesie veneziane. Nemmeno nella raccolta del Cicogna, conservata al Museo Correr di Venezia, dove quel diligentissimo radunava tutto ciò che di notevole gli cadeva sotto gli occhi, ho trovato ombra di ricordi portiani. Venezia non conserva memoria del soggiorno ivi tenuto dal Porta. Le ricerche, per sapere dove abitasse il poeta lombardo [72] riuscirono vane. Il registro d'anagrafe non poteva, in quel tempo, che essere irregolarissimo per i continui mutamenti di governo, per il tumultuario irrompere e scomparire di gente nuova. D'altra parte, il poeta milanese, allora giovane oscuro, non attirava la speciale attenzione de' concittadini del Goldoni.

O povera Andriana Diedo-Corner! Che amore fu il tuo per il bel giovanotto milanese fiorente nella freschezza de' suoi giovani anni! Egli aveva aspetto simpatico: i capelli nerissimi, ricciuti, e gli occhi neri, vivi, sormontati da sopracciglia lunghe e vellutate, e denti come perle. Al modo dell'Alfieri, del Foscolo e del Manzoni (il quale, a diciotto anni, per dirla di volo, s'innamorava egli pure d'una signora veneziana), il Porta cominciò in un sonetto a ritrarre sè stesso: è un frammento nel quale egli si dipinge qual era, nè troppo breve di statura, nè tanto sottile, di tinta pallida e delicata:

Sont on omm nè tropp nan, nè tropp gugella,[20]

Sto per dì più ben faa, che nò malfaa,

Sont magher, senza vess ona sardella,[21]

Sont palid de color, e delicaa.

[73]

Ghoo la faccia bislonga e gho i zij negher,[22]

E ghoo negher i cavij, la barba negra,

Negher i œugg anca lor....[23]

La Diedo, vedova d'un patrizio Corner, apparteneva ad una delle undici nobili famiglie Corner che, al cadere della Repubblica, erano disseminate in diverse parrocchie di Venezia. Abitava a San Paterniano, presso la casa che fu poi del glorioso dittatore Daniele Manin nel 1848. Non ricchissima, viveva peraltro con agiatezza. Non era più giovane, ma si lasciava corteggiare, e i cavalieri non le mancavano. Dell'insigne cultura della sua contemporanea Cecilia Corner non possedeva briciolo: aveva in compenso cuore capace di buoni e durevoli sentimenti. Ella amava il bel Porta con quella tenace e pur troppo spesso funesta passione con cui le donne mature, appassionate, s'avvincono come edere ai giovani.

Ignorasi quale soprannome gli oziosi maldicenti del Caffè Florian le appioppassero. Un codice della Marciana[24] reca i soprannomi inflitti a parecchie dame d'allora. Una Romilde Bon era chiamata addirittura «la fiera di Sinigaglia». Una Fontana Vendramin era [74] detta «lo scheletro di santa Maria Maddalena». E una Teresa Corner-Duodo «le affumicate immagini de' suoi maggiori», e via via. La Diedo-Corner è risparmiata.

Questa buona dama veneziana incontrò il Porta in casa dell'amico conte G. Pozzi, marito d'una contessa Secchi. Al Pozzi cui si doveva, a Venezia, l'impianto degli uffici delle finanze, fu raccomandato Carlo Porta, e non invano, poichè questi non tardò a ottenere impiego in quegli uffici e a frequentare la casa del protettore.

Fu il Pozzi stesso che si affrettò a presentare il simpatico giovane milanese alla Corner; la quale lo invitò a visitarla, e lo avvolse ben presto nella sua fiamma amorosa.

Ma questa passione, mentre deliziava i due amanti, irritò al sommo il povero conte, il quale accampava diritti nel cuore della Corner, e non soffriva rivali. Ecco ciò che Carlo Porta confidava al fratello Gaspare in una lettera:

«Pozzi si è avveduto della mia amicizia colla nota dama, ad onta di tutti i riguardi usati per celargliela; ed è diventato una vera bestia. Buono per me ch'egli non fu lusingato d'altro dalla medesima che d'una pura amicizia, e che siamo perciò in grado di riderci delle di lui insolentissime stravaganze. Egli mi ha scritto una lettera impertinente con cui, [75] rinfacciandomi le obbligazioni che avevo verso di lui, mi tacciava d'ineducato sovvertitore della di lui amicizia e m'imponeva di guardarmi d'ora innanzi dal porre più piede nella di lui casa. L'eguale intimazione l'ebbe pure la mia compagna; e noi siamo entrambi decaduti dalla sua grazia per il delitto d'averlo tollerato con mille riguardi e sacrifizi durante il tempo ch'egli si studiava d'inspirare amore all'una, col tentare di scacciarne l'altro, che godeva sopra di lui una simpatica preminenza ed una anteriore amicizia. Martedì vi compiegherò un plico di lettere dal medesimo dirette alla dama, e viceversa; dal quale rileverete a chiare note quale animo cattivo egli copra col velo d'una insinuante bonomia. Io gli ho risposto per le rime.»

Il Pozzi, pover'uomo, avrà capito che compariva ridicolo colle sue furie da Otello arrivato in ritardo. Deluso, non gli restava che mostrare indifferenza. Ma andò più in là: si mostrò pentito delle feroci gelosie, e continuò a invitare a pranzo la Corner e il proprio rivale, a farli padroni della sua casa e della sua tavola. Non poteva mostrarsi più celestiale.

Per il Porta, ogni nube non era dissipata. Egli ebbe la debolezza di confidare i propri amori a un falso amico, a certo F. Busto, il quale lo rese ridicolo nelle brigate: peggio [76] ancora, arrivò al punto di calunniarlo, forse per invidia. Sentiamo lo stesso poeta in un'altra lettera espansiva a Gaspare; lettera che rivela quanto era ingenuo e poco corretto allora.... anche nello scrivere l'italiano:

«Carissimo fratello,

Tutti li guai col C. P. (conte Pozzi) sono ottimamente terminati. La sua condotta presente è quella dell'uomo ravveduto, e per conseguenza la più consolante tanto per me quanto per la nota dama. Noi siamo entrambi padroni della sua casa, della sua tavola: ci visita spesso con la più grande cordialità ed amicizia, ed io vi scriverei forse da casa sua, se un preventivo impegno non mi avesse fatte rifiutare oggi le di lui grazie. Credevo insomma il tutto a buon porto, quando invece mi trovo in faccia a tutto il paese un nemico più feroce nel F. B. (Busto). Una sincera confessione dell'avvenuto fra me e la dama, che la mia soverchia delicatezza ha voluto fargli, e che era stata da lui accolta con una superiorità ed indifferenza estrema, m'aveva lusingato che non avrei incontrato più alcun ostacolo ne' miei amori, ma mi sono ingannato: invece che all'uomo di mondo io ho fatte le mie confidenze al primo minchione, ed alla prima bestia che si possa conoscere. Sono tre giorni ch'egli [77] parla di me, e della dama in una maniera che non si parlerebbe di una prostituta a prezzo, e del più vile ruffiano di questo mondo, ed ha l'impudenza di fare con chiunque li capita un trionfo del di lui ineducato e mal onesto procedere. Tutte le accuse che mi fa sono un impasto di menzogne, di contraddizioni e frivolezze. Fortuna mia che quanto è superiore ad ogni eccezione in paese la dama, altrettanto è desso conosciuto e distinto in stravaganza di cervello e di operato; per il resto, guardimi il Cielo, io sarei l'uomo più infame del mondo, se si badasse alle sue dicerìe. Che volete dippiù? Protesta e giura che mai più mi vedrà di buon occhio, e che mai mi sarà amico se campassi cent'anni: diffatti, mi fugge da per tutto, mi guarda con occhio fiero, e mi fa accorgere che al finire dell'attuale locazione di questa nostra casa, si determinerà a viver solo. Che il Cielo lo faccia! Io vi giuro che non mi sento reo di nessun delitto verso il medesimo, fuorchè di aver avvicinata una dama che merita tutti i riguardi per tutti i rapporti, e da esso vilmente e fuor di ragione maltrattata. Se questo è il titolo della nostra dissensione, io ne sono tranquillissimo, perchè assai vantaggiosamente compensato dalla amicizia della medesima. Io allora farò più a lungo con essa la mia vita, e più da [78] vicino, postochè nella di lei casa ho aperta da un momento all'altro la mia. Questa è tutta la dolorosa istoria mia, e della dama: esaminatela a fondo; datemi voi quei pareri di cui non è capace in questo momento la mia testa riscaldata; e vi assicuro che ne approfitterò con l'istesso trasporto col quale bramo ognora giustificarmi presso di voi nelle mie vicende.»


La passione, come si vede, accecava il giovanotto; lo traviava, senza ch'egli in quella calda febbre se n'accorgesse neppure. La Corner lo invita nella vicina Padova in un'altra sua casa; ed egli vi accorre, mentre pensa a rompere ogni laccio e a tornarsene a Milano. A Gaspare, il quale era già entrato in corrispondenza colla Corner avendola conosciuta in una gita fatta a Venezia, scrive premuroso:

«Favorito dalla dama Corner, mi trovo con essa in Padova da due giorni.... La dama vi contraccambia i più cordiali saluti. Se le scrivete, non ditele per carità ch'io bramo di ripatriare!»

A Venezia non celebravasi festa alla quale egli non accompagnasse l'amica sua. Nella sera dell'8 febbraio 1799, le sale della Società degli Orfei risonavano di musiche e di canti: qualche giorno dopo, baldorie a Santa Maria Mater Domini per festeggiare la nomina del vecchio [79] cavalier Pesaro, commissario straordinario dell'imperatore austriaco; il re dei coreografi e ballerini, Salvatore Viganò, deliziava al teatro della Fenice tutti quanti.... Per codesti spassi, occorrevano quattrini, e il Porta, al verde, si trovava costretto a ripetere la solita malinconica cantilena:

«Caro Gasparino, nello scorso mese io ho provato la miseria più grande, e se non avessi fatta la faccia franca coll'approfittare degli amici, io sarei stato al duro caso di mangiare pane e acqua. Oggi ho scosso il mio salario, ridotto già alla metà dai debiti pagati e da qualche effetto disimpegnato. Insomma, credetemi che, anche colla più esatta economia non mi è assolutamente possibile di vivere col solo mio soldo.»

E più tardi, collo slancio esclamativo d'un futuro bohème del Murger: «Oh beati dodici zecchini! con quanta impazienza gli aspetto».

Ma i denari non venivano, la guerra degli Austro-Russi contro i Francesi (ne parleremo presto) impediva le comunicazioni fra Milano e Venezia. Le lettere erano violate, i corrieri saccheggiati.

Nel 31 luglio, dopo un lugubre cannoneggiamento che sentivasi in più parti della vicina terraferma, il giulivo suono delle campane di tutte le chiese di Venezia annunciava che [80] Mantova «il baluardo d'Italia (così esprimevasi il servile Nuovo Postiglione, giornale di allora) aveva ormai ceduto all'immortale Kray». E, in quella sera, illuminazione del teatro a S. Luca; dappertutto luminarie, dappertutto musiche e cene. Al canto del Te Deum, sotto le cupole d'oro di San Marco, assistevano per ringraziare il Dio degli eserciti austriaci gli ufficiali dell'ex-esercito veneto! E a tali feste Carlo Porta partecipava colla Corner a braccetto. «Sabato (scriveva al fratello) vi scriverò per rapporto a B. Oggi, la festa pubblica per la resa di Mantova non mi permette estendermi di più, dovendo accompagnare la nota dama a godere della comune esultanza.»

Avvicinavasi il giorno che Carlo avea fissato di abbandonare Venezia per Milano, dove lo richiamavano il desiderio di vita più agiata e gli affetti domestici, e nel cuore della gentildonna tempestano vere angosce, deliri. Fa pietà.

Ella non può distaccarsi dall'amico, il quale le porta affetto, ma non così serio che a lei debba sacrificare tutta la propria gioventù e il proprio avvenire. Nel 10 settembre di quell'anno egli lo confessa candidamente, a Gaspare, con questa lettera punto sentimentale:

«La Corner, che vi scrive, vi farà abbastanza capire, senza che io parli, le novità del giorno. [81] Essa ha saputo ch'io devo partire, ed è nella massima desolazione. Io, per verità, le voglio bene; ma l'amore anche per questa volta cede al mio interesse. Vorrei tranquillizzarla, e non posso, e forse voi ne avrete sentita la di lei disperazione.... Io ho finito col prometterle, giurarle e stragiurarle che al morire di mio padre ritornerò a Venezia per convivere con lei, e che lo farò poi anche prima.... Voi, nel risponderle, potreste lusingarla sull'effettuazione del progetto. Così essa non perderebbe la premura per noi, che ci può essere utile, e non mi darebbe di quei disturbi che cavano l'anima. Basta, tocca a voi, e mi raccomando. Vi abbraccio. Addio.»

Ma, al momento del distacco, l'affetto in lui si ravviva; e lo fa gemere.

«Vi confesso, caro Gasparino, che non mi sarei mai immaginato che il distacco da Venezia mi dovesse costar tanto. Ogni dì che passo, mi accorgo sempre più dell'attaccamento non equivoco della dama, per cui non posso essere indifferente. Essa mi esibisce mantenermi a di lei spese; vuol fare un testamento a mio favore se mi trattengo; promette trovarmi impiego, piange, strilla, si dispera, ed io qualche volta, per dirvi la verità, la imito perfettamente. Nullameno, sono duro nella mia risoluzione come un marmo, e pretesto doveri imprescindibili [82] per partire. Infine, per acquietarla, ho dovuto giurarle e prometterle quello che il tempo le farà dimenticare, ch'io le ho giurato e promesso. Le ho detto che col diventare io padrone di me ritornerò senza alcun dubbio da lei; che farò delle scappate di tanto in tanto a Venezia, e che, in somma non vivrò che per lei. Succederà poi quello che dovrà succedere.»

Egli illudevasi che «come donna e come veneziana» essa lo pregasse presto di non mantenerle la promessa. Come si ingannava! Carlo lasciava sul finire di quell'anno 1799 Venezia, e la infelice nel 17 maggio scriveva irritata a Gaspare Porta:

«Signor Gasparo stim.mo,

Padova, 17 maggio 1800.

Rispondo all'istante alla stimatissima sua: s'intende della politica di lei riposta, come il signor Carlo non vuol farmi tenere il mio ritratto, e che ricerca le sue lettere. Ella, come organo esatto e fedele, accetti di risponderle: che le sue lettere sono e saranno sempre nelle mie mani: che non capisco come si voglia violentarmi di tal maniera circa il mio ritratto, quando io esattamente le mandai ogni cosa: che lo suppongo in pezzi, e per questo piglia il mezzo termine di voler le sue lettere. Io [83] però me ne burlo. Lo tenga, lo fracassi, ma le sue lettere stanno nelle mani di me, unica vendetta e difesa al caso di nuove sopraffazioni e vituperi. Mi ha tradito sulla fede in onore, amicizia e amore. Io sono l'offesa, l'abbandonata, e quella che à saputo amarlo e che l'amo, benchè meriti il mio odio. Le sue penultime lettere lo confermano. S'immagini!... troppe cose contengono queste, perch'io debba privarmene. Piccata di amore, di delicatezza, d'amor proprio, non ho che il suffragio di queste. E sono certe volte così romanzesca che non curo nulla che le mie soddisfazioni; e, se ne farò cattivo uso, sarà sempre minor male di quello che lui fece a me. Venga lui, parli con me, e le avrà.... Per ora, intanto, mi do il piacere di rassegnarmi. Di lei sin.

Andriana Diedo-Corner».

Più tardi, scrivendo allo stesso, si mostra rappacificata. Gli parla di alcuni indumenti, e nel chiudere la lettera — proprio come sogliono certe povere donne innamorate, le quali si struggono d'impazienza per conoscere ciò che loro preme e si sforzano, nello stesso tempo di non lasciarlo scorgere, chiedendolo, talchè lo celano quasi, lo soffocano fra parole di pura convenzione, magari in un poscritto, alla sfuggita — la povera abbandonata chiede [84] notizie del suo «Carlino». Non poteva dimenticarlo!

Carlo Porta non frenava, nelle questioni d'amore, certi impeti. S'indispettiva alle finzioni; non sapeva fingere, benchè talora, come abbiamo visto, se lo proponesse ingenuamente.

Piuttosto di sottomettersi al capriccio femminile, frangeva con violenza i legami e per sempre. Volea regnare solo e padrone assoluto ne' cuori; non tollerava amori in partita doppia. Nella Biblioteca Ambrosiana, in un volume manoscritto, sta un suo sonetto italiano, inedito, a una donna, cui dice: «O amate me solo, signora; o addio». E un'altra delle sue aperte confessioni è diretta a Giuseppina N..., la stessa del sonetto a una Sura Peppina:

Amo chi m'ama, e chi non m'ama io sprezzo;

Nè pretendo che alcun m'ami per forza.

.......................................

La fedeltade nell'amore apprezzo,

Anzi con questa più il mio amor s'afforza;

Non tollero rivali, e i lacci io spezzo

Con chi più amanti di tener si sforza.

Ecco come esprimevasi quest'uomo, che la rompe risoluto colle amanti e si studia di mostrarsene indifferente. Eppure si lascia dominare da strane gelosie. Paolo Mantegazza, in un articolo sul nervosismo degli uomini grandi, pubblicato in un numero del Fanfulla [85] della domenica del 1880, dopo aver toccato del temperamento del Porta, uomo «appassionato, convulsivo, pieno di nervosismi», racconta questo curioso aneddoto: «So dalle labbra della mia mamma un aneddoto del poeta, che per via femminile è anche un po' mio parente. Una notte egli si sveglia ad un tratto tormentato dalla gelosia per una donna adorata, e che villeggiava in Brianza. Di certo egli è tradito, di certo in quella notte istessa la donna del suo cuore dorme con un rivale. Balza dal letto, corre alla porta; domanda con lauta promessa di danaro i due migliori cavalli delle scuderie pubbliche e via di volo per Brianza. Era d'autunno inoltrato.... I cavalli volano e il postiglione interpreta fedelmente la furia del Porta. Si arriva alla villa fra le tenebre, e il poeta, lasciata la vettura a piccola distanza, a piedi, come ladro notturno, prende d'assalto muri e cancelli, appoggia una scala al balcone del primo piano; risveglia i dormienti mette a rumore cani, servi e ogni cosa. Poi si nasconde non so dove, spaventato egli stesso per lo spavento di tutti e forse vergognoso della sua pazza impresa. Riesce però a trovarsi colla donna amata che dorme il sonno dell'innocenza.... Il resto della scena mi è ignoto, ma sarà tutto finito, come se non si fosse trattato di uomini di genio o di nevrosici.»

[86]

Dopo l'avventura amorosa con la patrizia veneziana, nulla sappiamo di quella poveretta, che trovava nel suo cuore ferito accenti di dignità e di sdegno. Carlo Porta era ancora un ragazzo, non ostante il suo ingegno naturale e certa penetrazione; era ancora un inesperto, un egoista, soprattutto. Non comprendeva il male che aveva fatto con l'accondiscendere a una passione, che sin dalle prime si capiva doveva finire presto e male. Mai le donne amino uomini più giovani di loro: non ne ricaveranno che lagrime. Paolo Heyse, il novelliere tedesco che amò tanto l'Italia, ha una novella su questo soggetto. La sua protagonista, una signora matura innamorata, scopre il tradimento del proprio adorato: lo sorprende mentre egli contempla amoroso, estatico, una giovane bella, di casa, che giace seminuda, addormentata. Ella, nel vedere la scena, ne riceve tal colpo, che cade ammalata; e poi, guarita alla meglio, esclama: Come fui sciocca!

Qui dobbiamo un po' considerare la vita di Carlo Porta quale pubblico impiegato: vita un po' agitata a motivo dei rapidi mutamenti politici: vera fantasmagoria, lanterna magica tumultuosa.

In una domanda autografa indirizzata, negli anni maturi, a' superiori d'ufficio e che si conserva nell'Archivio di Milano, il Porta compila [87] il proprio «stato di servizio» come impiegato pubblico. Trasferito da Venezia a Milano nel 1799, egli venne conservato nel medesimo impiego presso la «Intendenza generale delle finanze della Lombardia». Il suo stipendio limitavasi ad annue milleseicentotrentasette lire milanesi, e bastavano alla sua vita, considerato come allora, non ostante i balzelli, tutto costava poco in confronto di adesso, dal vino squisito col quale si brindava a' nuovi padroni, alle camere dove si dormivano sonni interrotti da risse di nottambuli e da canzonacce straniere. Ma, ben presto, impiego e stipendio gli sono tolti. Difatto, non era egli impiegato per decreto del Governo austriaco? L'arruffata Repubblica cisalpina crollò al ritorno vittorioso dell'esercito austriaco fiancheggiato dai russi condotti dal feroce Suvaroff; una reazione austro-russa imperversante per tredici mesi desolò la Lombardia fino al 14 giugno 1800, giorno della battaglia di Marengo, vinta gloriosamente da Napoleone che ritornò padrone di Milano e rialzò la Repubblica cisalpina; e Carlo Porta non avea egli forse continuato nell'impiego di nomina austriaca durante quella reazione? Ciò formava un'imperdonabile colpa agli occhi di que' signori della ripristinata Repubblica, ignari che il Porta avesse maledetto i ladroni che, guidati dal Suvaroff, [88] s'erano rovesciati sull'infelice Lombardia. L'arcivescovo Filippo Visconti, patrizio milanese, deturpando la propria canizie venerabile, incensava il Suvaroff: e il Porta ne scattava di sdegno:

Con la mitria e 'l puvïaa

L'è andaa in Domm, el l'ha incensaa;

Dandegh finna la soa dritta

A on eretegh moscovitta!...

Ciò non valse a salvarlo. Un decreto di reciso licenziamento dall'impiego, firmato Soldini, diceva: «il cittadino Carlo Porta è ringraziato».

Ma il Porta non s'abbandona all'ozio. Diviene per tredici mesi «capo di corrispondenze» presso quel Gaetano Borella fornitore generale delle «sussistenze militari» nella Repubblica cisalpina, impiego cui già aveva aspirato. Più tardi, nel 1804, è riammesso nell'impiego primitivo, quale sottocassiere presso l'ufficio di liquidazione del Debito pubblico.

Egli fu impiegato diligentissimo; nè mai s'accapigliò co' superiori. Una volta, uno di costoro gli negò un favore; egli scagliò contro di lui un paio di sonetti, ma ne tenne il nome segreto.

Durante l'orario d'ufficio, quale cassiere (come poi divenne al Monte Napoleone), non [89] conversava coi colleghi: se ne stava taciturno; ma la facezia usciva talvolta brillante dal suo labbro. Un aneddoto: chi riscoteva le pensioni doveva presentare, come adesso, l'attestato di vita. Un pensionato non si poteva capacitare di tale formalità:

— Ma lei non mi vede che son vivo? — dice al Porta.

— Sì, — risponde il poeta, aprendo un cassetto; — ma non basta: venga qui dentro, che la presenterò ai miei superiori. —

Salì poi al posto di cassiere; e, come succede ai burocratici nati, ci teneva quasi al pari d'un regno.

[90]

VII.

Celebrazione repubblicana in piazza del Duomo. — Ciò che portò via e ciò che lasciò Napoleone nel tornare in Francia. — La «fiera» dei pubblici saccheggiatori. — Il bozzetto storico del Porta: Desgrazi de Giovannin Bongee. — Documenti che ne provano la verità. — Giudizi francesi sulle soperchierie francesi. — Stendhal. — L'irruzione degli Austro-Russi. — Suvaroff. — Suoi costumi. — La feroce reazione controllata dal Porta. — Il racconto della contessa Cicognara. — La battaglia di Marengo. — Napoleone di nuovo padrone della Lombardia. — Rialza la Repubblica cisalpina.

Carlo Porta era, dunque, tornato da Venezia nella sua Milano, e intanto gli avvenimenti politici incalzavano. Qui bisogna chiarirli.

Dopo che, nel 5 luglio 1797, il ministro della polizia, generale Porro, ordinava che a tutte le bandiere sparse nel dipartimento dell'Olona fosse «tolto il color bleu e sostituito il verde» (la bandiera, che doveva diventare più tardi quella di tutta Italia); dopo la celebrazione dell'anniversario del quinto anno della Repubblica francese, celebrazione svoltasi nella piazza del Duomo, con infernale tuonare d'artiglierie, che infransero molti vetri degli artistici finestroni colorati del tempio, e con la mostra [91] spettacolosa delle immagini dei due Bruti (il primo non bastava più!) e di Publicola e di Catone, buonanime (ritratti, s'intende, tutti dal vero.... e che il popolo ambrosiano conosceva di vista benissimo); dopo, infine, aver firmato il trattato di pace di Campoformio, per il quale l'Austria riconosceva la Repubblica cisalpina, Napoleone tornò rapido in Francia.

E, in Francia, lo avevano preceduto i nostri cimelii più preziosi: il famoso papiro della Storia giudaica di Giuseppe Flavio, una Divina Commedia, manoscritti figurati di Leonardo da Vinci, e insigni capolavori d'arte, fra cui il cartone della scuola d'Atene di Raffaello; ma questo fu il destino di tutte le terre italiane, per le quali il liberatore passò. L'orgoglio francese veniva accarezzato da quelle ruberie, gabellate per trofei di vittoria.

Napoleone ci lasciò un Direttorio e due Corpi legislativi, ben lontano dal riflettere che non erano adatti al carattere, allo spirito, ai bisogni dei Lombardi.

Il Direttorio cominciò a sopprimere, per volontà di Napoleone, una folla di monasteri, di monache, di frati. I beni delle mense vescovili vennero avocati alla nazione. La chiesa votiva di San Sebastiano, eretta per la cessata peste del 1577, fu trasformata in circolo politico, assordante.

[92]

Ma la Repubblica cisalpina era destinata a non lunga vita, come tutte le improvvisazioni senza logica base. Invano, fetidi giornali, che già conosciamo, vomitavano velenose ingiurie e diffamazioni per intimidire e imperare. Invano, nel detto gran giorno della festa del quinto anno della Repubblica francese, un carro tirato da sei cavalli inghirlandati e con piume tricolori in testa, aveva condotto in clamoroso trionfo una giovane seminuda col berretto frigio in capo, appoggiata a un'asta, che simboleggiava la Francia; mentre, a' suoi piedi, sei Genii spargevano rami d'alloro. E ciò per abbagliare il popolo. Ma il popolo milanese ne aveva abbastanza di quei buffoni e di quelle buffonate. Già Napoleone aveva frenato più volte gli eccessi dei demagoghi, facendo, ad esempio, strappare dalle cantonate un proclama del giornalista Lattanzi, che bestemmiava Cristo e la religione; di quel Lattanzi nato nella Campagna romana, e che il Monti chiamò nella Mascheroniana «del rubar maestro....».

Ma non sempre arrivava, o voleva arrivare, per sopprimere gli oltraggi alla religione e al pontefice, come quando nella sera del 25 febbraio 1797 al teatro della Scala si rappresentò il turpe Ballo del Papa, ove si vide Pio VI gettar via il triregno, mettersi in testa il berretto frigio, e ballare sconciamente con cardinali, [93] preti, monache, frati, fra le urla di Viva! e di Morte! dei demagoghi.[25]

Così il Bonaparte sapeva benissimo delle innumerevoli trufferie che si commettevano nelle pubbliche amministrazioni. Un giorno scrisse al Direttorio: «Tali orrori fanno arrossire d'essere francese». Ma faceva capire ch'era inutile sottoporli al Consiglio di guerra, aggiungendo: «Corrompono i giudici. È una fiera, e tutto si mercanteggia.» Si poteva continuare così? Il generale Despinoy venne chiamato «il generale delle ventiquattr'ore», perchè a ogni momento mandava alla Municipalità l'ordine di consegnargli, «entro ventiquattr'ore», cavalli, buoi, letti, coperte di lana, tela, stivali, sciabole. Pietro Verri lasciò scritto ch'era un «saccheggio prolungato». E intanto, i «bosini» beffardi delle vie cantavano:

Liberté, Fraternité, Egalité.

I Franzes in carroccia e nun a pè.

E qui dobbiamo mettere nella sua luce, che è luce storica pur troppo, uno dei capolavori di Carlo Porta: le sestine Desgrazi de Giovannin Bongee.

[94]

È un vivo episodio delle brutali violenze che, durante la Repubblica cisalpina, si commettevano a Milano, a danno de' cittadini pacifici e troppo inoffensivi. In Giovannin Bongee è rappresentato il popolano scemo, debole, che mentre ostenta coraggio da leone, per emulare forse nelle vanterie i demagoghi trionfanti, le piglia sode da quei «prepotentoni de frances», i quali vanno a godere la moglie di lui dopo d'averlo ben bene bastonato. E ancor lui fortunato, che è preso a scappellotti soltanto! I soldati francesi erano avvezzi a ben altro! Le cronache milanesi del tempo riboccano di furti e d'aggressioni a mano armata da parte di malviventi fuorusciti, a' quali si mescolavano quasi sempre soldati cisalpini. Nè i soli furti, ma e le risse che i soldati accendavano coi cittadini, e gli omicidii. Il Porta scriveva al fratello Gaspare a Galbiate: «Ieri notte (la lettera è senza data, ma è di quel tempo) fu compromessa la sicurezza de' cittadini da una numerosa ciurma di ubbriachi che scorreva armata per le contrade, e tagliava a fette, bastonava e maltrattava quanti loro succedeva d'incontrare. Entrarono anche in qualche casa a frastornarvi le conversazioni ed a commettere degli eguali delitti. Ora tutto è tranquillo mediante l'arresto che fu fatto di venti e più di questi scellerati.» Tali le condizioni della pubblica [95] sicurezza d'allora; e questo il rispetto ai cittadini. Il Bongee, da buon meneghino, servo fedele de' vecchi padroni, versa le proprie querimonie nel seno di qualcuno di que' parrucconi illustrissimi, i quali odiavano i rivoluzionari francesi e formavano ardenti voti per il ritorno degli ordini aristocratici.

Bongee, in milanese, significava una volta «buzzone, uomo di gran pancia», e il Porta ne fa un cognome.

«Questo è il primo lavoro (rammentava Tommaso Grossi) che abbia acquistato al poeta celebrità durevole. Levò rumore grandissimo in Milano e in ogni luogo ove il dialetto milanese è inteso. Fu copiato a mano, più volte, anche dallo stesso Porta, e distribuito agli amici, e stampato e ristampato.» Quel linguaggio meneghino, misto d'italiano e di francese storpiati, che il Bongee adopera narrando le proprie disgrazie; linguaggio che il popolino allora, e in circostanze come quelle, avrebbe usato, suscitava alte risa. Il Manzoni ammirava la perfezione artistica del carattere di Giovannin Bongee. E Ugo Foscolo, in una briosa lettera al Porta, che leggeremo più avanti, lo chiamava scherzosamente «Omero dell'Achille Bongee». Ma nessuno avrebbe pensato che il popolano milanese, bistrattato così vilmente dallo straniero invasore, sarebbe divenuto, mezzo secolo più tardi, [96] uno degli eroi delle barricate nelle «Cinque giornate» contro un altro straniero. Alte risa, sì, suscitava al suo tempo Giovannin Bongee, miserabile, ignorante, cornuto, bastonato: non oggi, dotati come siamo d'una coscienza più sensibile, con un sentimento più educato della giustizia, quell'infelice ci fa ridere. Desta, anzi, sdegno e pietà; sdegno per le violenze; pietà, per la vittima. Oggi, nel Porta, vediamo balenare quasi un vendicatore, celato sotto il lepido verso, che mostra di quali armi gli stranieri si servivano per conculcare ancor più gli oppressi deboli e inermi. La stessa oppressione e lo strazio quanto ridestarono il sentimento della dignità! Lo stesso infame bastone austriaco quanto servì al sacro odio patriottico!

Famosi storici francesi (il Thiers ed altri) confessano le soperchierie, le ribalderie dei soldati e degli ufficiali francesi, commesse sugli abitanti di Lombardia, per il solo loro gusto, per il loro divertimento. Lo Stendhal, nel libro Rome, Naples et Florence, dove parla tanto di Milano, arriva a dire: «Quant à l'insolence du soldat français, elle était superlative: faites-vous réciter un des chefs-d'œuvre de notre poésie nationale». E alludeva al Giovannin Bongee del Porta.[26]

[97]

Ma un moscovita, Suvaroff, doveva rovesciare ogni baracca.

L'Austria e la Russia, di concerto con l'Inghilterra e con la Turchia, nel maggio del 1799, erano pronte a dar guerra alla Francia, che la prevenne e la intimò. I due eserciti si posero di fronte. Gli Austriaci erano capitanati dal generale Melas; i Russi dal maresciallo Suvaroff, che assunse poi il comando di tutti; i Francesi dal generale Schérer, vecchio e debole.

Suvaroff! Quale tipo di capitano bizzarro, buffo e terribile! Piccolo, magro, tutto nervi, occhi accesi, bocca enorme, grossi denti, faccia piena di rughe con certi tic spasmodici. Odia gli specchi, non vuole carrozze, non letti. Dorme per terra, e, all'alba, emette un acutissimo chicchirichì, come un gallo, per isvegliare i soldati. Comanda e combatte in camicia, brandendo uno sciabolone enorme, su un cavallo indemoniato come lui. Mangia carne cruda. Al campo porta una cappella ambulante piena di reliquie e prega più volte il giorno, baciando la terra; e, inginocchiato, bacia la bandiera russa; ma al solo nome di «francese» balza in piedi tremendo, con gli occhi iniettati di sangue.

— Bajonetta! bajonetta! Carica alla bajonetta! — egli grida. — La palla? È una vecchia pazza, che non sa quello che si fa. La [98] bajonetta è giovane, vigorosa, e non sbaglia. — «En avant et frappe!» è il suo motto.

I Francesi non aspettano di essere attaccati. S'impadroniscono dei forti di Rivoli. Ma lo Schérer viene battuto, e si ritira sbigottito prima al Mincio, poi all'Oglio, poi all'Adda. Suvaroff passa l'Adda, piomba sul generale Serurier, fa prigione lui e tutta la sua divisione. A Cassano, il Melas irrompe contro i Francesi, e ne abbatte l'ala sinistra. Ormai la via di Milano è aperta ai nuovi barbari.

I notabili austriacanti milanesi sono giubilanti. Muovono incontro agli Austro-Russi nel villaggio di Crescenzago. L'arcivescovo Filippo Visconti li guida, s'incontra nel Melas, e, quasi piangendo di commozione, gli presenta le chiavi della città, quelle famose chiavi dorate.... E usseri austriaci si schierano in piazza del Duomo, dove, fra vituperii, si abbatte l'albero della libertà. Alcune dame inghirlandano le bandiere austro-russe; si grida «evviva i liberatori! evviva la religione!» Suvaroff è ricevuto in Duomo dall'arcivescovo in mitria; bacia tre volte il pavimento, quindi l'altare. Il primate lo incensa, lo benedice. Ed è allora che Carlo Porta vibra il suo verso contro l'arcivescovo; il quale fa tutto l'opposto di sant'Ambrogio. Il fiero santo proibì all'imperatore Teodosio di entrare nel tempio, [99] perchè aveva le mani grondanti di sangue; invece, egli, suo successore sul soglio ecclesiastico, lo accoglie in festa, dà la diritta a lui, eretico, e lo incensa. I versi del Porta li abbiamo letti.

I cosacchi, a cavallo, galoppano intanto per le vie di Milano, lanciando una corda a nodo scorsoio al collo dei supposti repubblicani, e se li trascinano dietro. Carlo Porta li ricorda in una strofa del Brindes per un disnà alla Cassina di pomm. Egli sogna:

Me pariva che on ulan

El me trass la corda al coll,

Strascinandem per Milan

A tœu su di brutt paroll.[27]

La contessa Massimiliana Cicognara, nata Cislago, veronese, coltissima, graziosa, coraggiosa e un po' intrigante, benchè avesse visto i soldati francesi spogliarle d'ogni ben di Dio il palazzo de' suoi avi, partecipava alle idee repubblicane del marito, allora tanto famoso quanto oggi dimenticato, Leopoldo Cicognara, morso dal Porta in un sonetto.

La contessa Cicognara narrava in lettere confidenziali al marito le avversioni al passato, [100] da molti ostentate all'estremo, dopo le vittorie degli Austro-Russi. «Tu non puoi immaginarti sino a che punto si spinga la ostentazione di sentimenti avversi alle cose passate. I riguardi o le paure di molti sono spinti all'eccesso, e si manifestano con vili adulazioni e bassezze più vili. Che sperare da un paese e da una gente di questa fatta?»

E il 1º febbraio 1800 gli scriveva ancora: «In questo momento, un terzo di Milano è convulso d'entusiasmo per l'apertura d'un «Casino nobile», che fu istituito per espiare tante colpe democratiche; questa sera dev'essere aperto con una festa di ballo di cui si dicono meraviglie. Immaginati che sensazione fa codesta risurrezione delle gerarchie, in questi momenti, a chi s'era abituato a non considerarle più come il compendio di tutti i meriti! Io non posso proprio simpatizzare con questi butirrosi semidei.»

E il 22, accennando a quella festa, scrive di bel nuovo al Cicognara:

«M'hanno raccontato cose meravigliose dello sfarzo, della ricchezza di molte di quelle donne: una aveva intorno per più d'un milione e mezzo di brillanti; e appena osavano intervenirvi quelle che non possono tappezzarsene: la magnificenza tien luogo dell'eleganza. Sul corso poi dei bastioni, non havvi meno [101] di trecento superbe carrozze con bellissimi cavalli e ricchissime livree: insomma, se il lusso è indizio di abbondanza, qui v'è di certo più che il superfluo. Vedi che cosa vuol dire l'essersi conciliati con la Chiesa e con l'Imperio! Gli eroi repubblicani languiscono nella indigenza, e i «buoni cristiani» godono di tutte le delizie della vita, a onore e gloria di Dio!»[28]

Qui abbiamo il quadro delle ricchezze che, non ostante i saccheggi francesi, formavano di Milano, anche allora, una delle città più ricche d'Italia. Giuseppina Bonaparte soleva dire che le gemme sfoggiate dalle signore milanesi erano «male legate» e, forse, non aveva torto; ma erano tante!

La feroce reazione austro-russa durò tredici mesi, nei quali furono richiamate alcune corporazioni religiose (gli oblati), quand'ecco mutò d'improvviso ancora la scena.

Napoleone, reduce dalle vittorie d'Egitto, vola verso gli Austriaci; valica il Gran San Bernardo, fra le nevi, fra difficoltà indicibili; con 60,000 uomini scende ai piani, piomba il 14 giugno 1800 sugli Austriaci a Marengo, in una battaglia che lo rende una seconda volta padrone della Lombardia. La salma dell'eroico [102] generale Desaix, a cui Napoleone deve quella vittoria, viene imbalsamata a Milano e spedita in Francia. Le acclamazioni al vincitore vanno al cielo. Milano torna in festa. Nel teatro «alla Scala», luminarie, inni, evviva. Napoleone rialzerà la Repubblica cisalpina, ma per poco, volgendo in mente una più razionale costituzione repubblicana. I poeti dal «servo encomio» lo chiamano «Giove terreno»: il Cesarotti ed il Monti fra tanti altri affascinati.

[103]

VIII.

Le società filodrammatiche. — Origine e miracoli del Teatro Patriottico. — Le nudità di moda e le più avvenenti signore di Milano. — Il viaggio d'andata-ritorno d'uno scialle. — La profonda filosofia d'un marito. — Paolina Bonaparte. — Le scatole da tabacco e il giuoco del tarocco. — La moglie di Vincenzo Monti e le sue recitazioni. — Onori ai reduci prigionieri dell'Austria. — Una lettera patriottica che fa ridere. — Alfieri e Alfieri. — La fabbrica d'un teatro repubblicano. — Il sipario d'Andrea Appiani. — Atteggiamenti osceni.... — Le tragedie del Monti. — Carlo Porta attore drammatico. — Malumori di quinte. — Epigramma del Porta. — L'accademia «di sè maggiore»!...

Carlo Porta aveva la passione dei teatri. Volle essere annoverato fra i fondatori del Teatro Patriottico di Milano, che cambiò poi il nome in quello di Teatro de' Filodrammatici, tuttora esistente.

Quel teatro ebbe curiose vicende; uomini famosi lo protessero; donne e madonne famose lo decorarono.

Sulla fine del Settecento, non erano rare a Milano le private società filodrammatiche. La vita d'allora scorreva semplice; lo sappiamo; e uno dei prelibati divertimenti era [104] il recitare nelle commedie del Goldoni; magari nei rustici Conti d'Agliate, commedia scritta parte in milanese e parte in italiano, come Carlo Porta e Tommaso Grossi composero insieme la loro comitragedia Giovanni Maria Visconti, cavallo di battaglia dell'attore Preda. Il giovanotto milanese voleva farsi vedere dalla sua bella sul piccolo palcoscenico, vestito da «lustrissimo» o da «guerriero», presso a poco come adesso vuol farsi vedere alle corse vestito all'inglese. Le ragazze da marito, le popòle, erano accompagnate dove la «pivelleria», come si chiamano ancora a Milano gli sbarbatelli, accorreva a inaugurare, prima della scoperta della pila, un corso completo di telegrafia con le occhiate e coi gesti più cauti. Le società filodrammatiche si radunavano, stipate come sardine di Nantes, in afose, anguste sale, al chiarore di lumi a olio col riverbero di latta che accecava o di candele di sego che dal soffitto gocciolavano lagrime attaccaticcie sulle teste.

Una di codeste società filodrammatiche ricercate era quella del «Gambero». Carlo Porta ne lasciò memoria ne' suoi manoscritti inediti: «Fu nominato «del Gambero» (egli scrive) il teatro di San Pietro all'Orto, perchè era accessibile dal cortile della trattoria così detta «del Gambero», che ne mostrava al di [105] fuori una immensissima insegna coll'effigie in rosso del protagonista». Più tardi, i componenti dell'artistica società si chiamarono «Filogamberi».

Nell'anno 1796, in cui sulla scena politica milanese comparvero le pazze mascherate demagogiche che abbiamo incontrate, si pensò da alcuni cittadini a formare una società più numerosa di quelle che chiamavano ad ogni recitazione tutt'al più un centinaio di spettatori. Il libraio Bernardoni ed un Giusti ingegnere, insieme con un computista, con qualche studente di medicina e qualche dottorino in diritto, chiesero alla Municipalità l'uso del teatrino del Collegio Longone, detto «dei Nobili», dal quale i Barnabiti avevano dovuto far fagotto. «L'amour de la démocratie dont nous brûlons, nous a fait sentir l'utilité d'un théâtre, où des pièces démocratiques seraient uniquement et continuellement déclamées.» Così essi enfaticamente scrivevano a quei messeri della Municipalità, fra i quali sedeva, austero, Giuseppe Parini, ormai vecchio, vicino alla tomba, pronto sprezzatore di coloro che il Foscolo chiamò ben presto «incliti ladri». La Municipalità accordava il teatro col consiglio che vi si dessero rappresentazioni a pagamento, a favore dei poveri; ma i soci a rispondere: «Il pubblico, quando paga, è [106] inesorabile, nè bada ai motivi per cui paga; a lui basta di poter dire: Ho speso li miei dinari. Stabilendo un prezzo alto, il teatro sarà sempre vuoto, e, stabilendolo tenue, potremmo avere gran folla di spettatori tumultuanti che pretenderebbero tutto da noi.»

Non vollero, in conclusione, recitare a pagamento, per non essere fischiati dalla folla che, in quei giorni, pareva invasa dal delirium tremens. E cominciarono con un Guglielmo Tell, tragico pasticcio manipolato per la circostanza dal direttore Bernardoni; poi ruggirono nella Virginia dell'Alfieri. A questa assistette il generale Napoleone in persona, attorniato da' suoi ufficiali dello stato maggiore colle scarpe rotte e pieni di boria allegra. Girava intorno al teatro gli occhi fulminei («i rai fulminei» del Cinque Maggio del Manzoni); era pallido come lo dipinse l'Appiani, ch'egli s'affrettò a ringraziare in una lettera, tuttora inedita, e a me mostrata dalla nipote del famoso pittore. La Società dei filodrammatici, il cui teatro chiamavasi «Teatro Patriottico» pei dichiarati intenti democratici ond'era animato, ripetè la Virginia al teatro della Canobbiana, nella cui platea, dopo la rappresentazione, si ballò la Carmagnola, mentre in piazza del Duomo donne discinte ed ubriache e giovinastri ballarono fra urli frenetici e [107] suoni di trombe e di clarinetti attorno all'albero della libertà, guidati dal furibondo demagogo Ranza, nostra conoscenza.

Le donne milanesi della così detta buona società assistevano con passione alle serate della Società Patriottica, alle quali portavano le loro nudità ammiratissime. Segnalavasi fra le più invidiate Annetta Vadori, vantata, dice il Cantù, come l'Aspasia di quel tempo, moglie prima del medico Butorini, poi del famoso medico Rasori, il quale, rivoluzionario democratico sfegatato, era tanto fautore del nuovo teatro filodrammatico, che i soci si credettero in dovere di iscriverlo nell'album dei «benemeriti» insieme col conte Carlo Imbonati, che venne poi cantato dal Manzoni; insieme con Giuseppe Parini, col generale Theulié, con Giovanni Torti, collaboratore del giornale Senza titolo, e con Francesco Salfi di Cosenza, ex-frate, intimo di Ugo Bassville, antipapista, che a Pavia, sollevata contro i giacobini, si salvò per miracolo facendosi credere un Doria di Genova.

Fra le belle, sorgeva la stella di Maddalena Marliani, che nel 1805 sposò il banchiere Paolo Bignami; colei che in una festa patriottica al teatro della Canobbiana, nella sera del 17 dicembre 1807, Napoleone ammirò chiamandola «la plus belle parmi tant de belles», colei che Ugo Foscolo, anche di lei innamoratissimo, [108] immortalò nei divini frammenti delle Grazie in versi delicatissimi, incantevoli, ricordando «i grandi occhi fatali» dell'insubre dea.

Un medico decrepito della Brianza, dove la bellissima Lenin (come la chiamavano) villeggiava nella villa del padre avvocato Rocco Marliani, mi scriveva un dì con superstite entusiamo di quella donna stupenda, alla quale una bruna lieve lanugine sopra il labbro aggiungeva acute attrattive. Ella, coraggiosa, audace, si lanciò nella «Giovane Italia»: la Sand le fu amica, e ne parla nell'Histoire de ma vie. Maria Castelbarco, «l'inclita Nice» dell'autore del Giorno, che palpitò per lei, tramontava assestando in silenzio e nell'ombra, con oculato accorgimento, l'avito patrimonio sconnesso.

Imperava, più per le arti seduttrici che per l'autentica beltà, la contessa Antonietta Arese Fagnani, alla quale Ugo Foscolo stesso scrisse poi fasci di lettere d'amore rovente sullo stampo di quelle del suo Jacopo Ortis. A lei consacrò l'ode All'amica risanata, una delle più celebri della letteratura moderna.

Antonietta, figlia del marchese Fagnani e moglie al conte Arese, di schiatta antichissima, insigne, era solita uscire dai teatri con la carrozza piena come un uovo d'ufficiali d'ogni arme. Nell'alta società di Milano rimasero ricordi incredibili di quell'amatrice, che aveva [109] l'utile capriccio di farsi regalare sempre qualche cosa da' suoi adoratori. Si parlò per molto tempo a Milano d'un ricco scialle che un amante le aveva regalato, e ch'ella portò subito alla propria connivente modista, madama Ribier, eccitando poi abilmente un altro adoratore a fargliene offerta graziosa.

— Amico mio! Oh, che bello scialle ho visto questa mattina da madama Ribier! Me lo sono provato! Mi sta d'incanto! Non vi piacerebbe vedermelo sulle spalle quando venite?

E il cavalleresco adoratore correva a comperare lo scialle e lo deponeva a' piedi della bruna dea, che lo indossava, lietamente intascandosi il prezzo. I due amanti, che nulla, si capisce, sapevano del doppio giuoco, ammiravano sulle rotonde salde spalle dell'idolo lo stesso omaggio; e chi sa quanto, nel loro segreto, se ne compiacessero come d'un proprio esclusivo trofeo!

Ne' suoi tardi anni (donne simili vivono molto vecchie: si conservano nel ghiaccio del cuore), la impenitente Antonietta non faceva mistero delle sue gherminelle: se ne vantava, anzi, come di briose trovate.

E suo marito? Rappresentava la imperturbabile filosofia coniugale. Egli andava dicendo: «Nessuno vuole comperare la mia casa, che vorrei cedere a tutti; e tutti vorrebbero mia [110] moglie, che non avrei coraggio di cedere a nessuno». Un ritratto di lei, a olio, la rappresenta con un turbante. I lineamenti sono grossolani, l'espressione volgare; un insieme di massiccio, di procace e d'ignobile. Ugo Foscolo esagerò nel decantarne le bellezze; ma ne era sensualmente acceso, ed era lirico, quel grande lirico, che adoriamo.

Una rivale ammiratissima dell'Arese-Fagnani si additava in Margherita Ruga, che la vinceva di molto nella bellezza (era magnifica), e la emulava nello sfoggio delle floride nudità e nelle rapide avventure civili e militari.

Rimase memoranda la sera del Ballo del Papa alla Scala, di cui abbiamo toccato; memoranda, anche, per le nudità della Ruga e della Traversi. Quest'ultima aveva ballato frenetica, insieme con altre consorelle baccanti, intorno all'albero della Libertà. Donna perfida, nata al livore, all'intrigo politico e al crimine, lasciò nome vituperevole. Suo marito era un avvocato famigerato, degnissimo di lei. La Ruga, collo, braccia, seno avea nudi: si presentò alla Scala, in quella sera clamorosa, con una semplice veste alla romana, formata di quattro liste di seta bianca, che a ogni movimento, rivelavano le forme statuarie appena coperte da una maglia color della carne. Sul capo aveva tanto di berretto frigio; così la [111] Traversi. Costei, di avvenenza sensuale, carnosa, e che chiamavano «l'avvocatessa» perchè voleva entrare in tutte le questioni, di tutto disputare, arbitra, recisa, meritava meglio il titolo d'«infernal dea» che le appioppò il Rovani ne' suoi Cent'anni, velandola sotto il falso nome di «Falchi». Nata sul Lago Maggiore da bassa stirpe, sposò l'avvocato Traversi, vedovo d'una povera gobba, angelica di bontà, ricca, morta presto. Pur troppo incontreremo ancora quella dea.

Ma con le mode francesi d'allora le nudità formavano parte del programma rivoluzionario. La bellissima Paolina dagli occhi stellanti, sorella di Napoleone, ritratta dal Canova nella ben nota scultura che si ammira a Roma, è un nudo immortale e un documento del tempo. Il pittore Bossi, amico di Carlo Porta, la ritrasse col pennello, e senza veli anch'egli, com'ella volle; e il pover'uomo vestito com'era in una stanza caldissima dove dipingeva dal vero la dolcissima Venere côrsa, mollemente sdraiata, si buscò un'infermità. Dove è andata a finire quella pittura? Un amico mi introdusse, anni or sono, in un gabinetto segreto della sua casa, e, tolto un panno verde, che la copriva, mi mostrò una giovane formosa signora tutta nuda, nell'atto d'entrare nel bagno. Era sua nonna.

[112]

Ma non tutte le signore si bagnavano. Molte ne avevano persino paura. S'impiastravano il viso di cosmetici e belletti, e consideravano l'acqua e il sapone nemici.

Tabaccare era moda anche nell'alta società. Pensiamo alle conseguenze della lurida polvere, bruna, fetente, nelle rosee nari delle belle e lungo i veli delle loro vesti.... e nel fazzoletto di batista ricamato, che stringevano fra le dita ingioiellate.

Ma le lucide tabacchiere, dipinte talora da finissimi pennelli, presentavano signore vezzose, quando non erano impudiche ed oscene. Quest'ultime venivano mostrate di nascosto nelle conversazioni e ai teatri, con sorrisi analoghi; i più audaci possessori di quelle pitturette le mettevano sotto gli occhi delle più timide e delle ritrose....

Fra le più giovani dee, graziosissima, brillava Bibin Catena, congiunta d'un illuminato, venerando sacerdote, degno della porpora ed epigrafista eletto, che a Milano molti ricordano ancora con venerazione e che mi riferì particolari curiosi della morte di Carlo Porta: li leggeremo a suo tempo.

Lo Stendhal parla con garbo di Bibin Catena nel Rome, Naples et Florence; racconta ch'ella gl'insegnò il tarocco. Guai a chi, nel bel mondo, non sapeva giuocare il tarocco! E il [113] giuoco imperversava: si giuocava anche in teatro, mentre, sul palcoscenico, le ballerine sgambettavano e i cantanti si sfiatavano sudati per farsi applaudire.

Le beltà femminili, le donne di spirito si contavano a diecine. Circondate da letterati, da poeti, da artisti, da ufficiali, si abbandonavano a gaiezze, a pompe, a eccitazioni piacevoli; e non potevano farne senza in quelle settimane di generale delirio. La donna nei rivolgimenti politici si eccita: figurarsi in quelli della Repubblica cisalpina!

Ma le signore più intellettuali, come si direbbe oggi, preferivano recitare.

Anche la bellissima Teresa Pikler, moglie a Vincenzo Monti e madre di Costanza Perticari, di colei che fu chiamata la «divina Costanza», era appassionata dell'arte filodrammatica. Al suo desiderio l'eccelso poeta non si opponeva, lasciandole libertà di vita. Esaminando l'archivio del Teatro Filodrammatico trovo che, nella sera d'un 10 brumajo, recitò la Monti.

Una delle più solenni rappresentazioni degli animosi filodrammatici fu data per onorare i patriotti reduci di Cattaro e di Sebenico. Abbandonando Milano per l'imminente ritorno dei Francesi vittoriosi e spavaldi, i governanti austriaci avevano mandati i patriotti accusati [114] di fellonìa a Verona. Di là, quaranta furono spediti a Venezia e imbarcati per la Dalmazia; altri vennero cacciati prigioni nelle isole della laguna veneta. Dopo la battaglia di Marengo, centotrentuno di loro, ammucchiati nella stiva d'un trabaccolo, furono da Venezia trasferiti a Cattaro e a Sebenico, e chiusi in sotterranei, cinti di catene. Li mandarono poi alla fortezza di Petervaradino, come un branco di pecore. Ma trovarono colà un po' di clemenza, mercè un generale sassone e un capitano ungherese che concessero loro locali salubri, pasti copiosi, liberi passeggi in ampii cortili; ogni ben di Dio. Appena furono liberati, Milano si commosse: li invitò a pranzi, li festeggiò in tutti i modi. I soci del Teatro Patriottico li vollero a una rappresentazione allestita in loro onore. Fra un atto e l'altro, si gridò a squarciagola: Viva Robespierre! Morte ai tiranni! con battimani infiniti. Le spettatrici guardavano curiose quei reduci dalle fortezze, quei martiri, come si diceva, e li trovavano «abbastanza bene conservati». Carlo Porta, in una lettera al fratello Gaspare, scriveva:

«L'altro ieri sono qui giunti i nostri concittadini deportati, per la maggior parte in buonissimo stato di salute, di modo che pare piuttosto siano stati legati con della salciccia di Monza, che con delle catene di sessanta [115] libbre di peso. Furono trattati ad un pranzo di trecento coperti, che fu dato dal Governo in casa Clerici, ed alla sera intervennero tutti al nostro Teatro Patriottico alla rappresentazione dell'Antigone, che fu data per loro espressamente dalla Società, con illuminazione esterna ed interna del teatro medesimo. Furono continue le grida di gioia, che empivano i vuoti fra un atto e l'altro della tragedia, fra le quali si udirono pure quelle solite di viva Robespierre e morte a Tizio, morte a Sempronio.»

Intanto, il Ministro degli affari esteri della Repubblica cisalpina, «unica ed indivisibile», mostrava la propria simpatia alla Società del Teatro Patriottico regalandole un ricco abito, che la Cicognara aveva indossato alla Corte di Torino; il dono era accompagnato da una lettera curiosa, conservata nell'Archivio di Stato di Milano. È tutta da godere.

«Cittadini,

»Il Direttorio governativo m'incarica di presentarvi un ricco abito, che potrà servire in molte occasioni alle decorazioni del vostro Teatro. Le circostanze lo hanno fatto servir prima ad una cerimonia diplomatica presso una Corte vana e corrotta, che sdegnava l'esterior semplice e franco della virtù e del merito.

[116]

»Nelle vostre mani esso avrà un uso ben più utile, e sotto questo rapporto io mi lusingo che vogliate gradire il pensiero di offrirvelo.

»Gradite pure in simile occasione l'espressione sincera della mia perfetta stima.

»Salute repubblicana!»


Gli attori del Teatro Patriottico ricevettero l'abito incriminato con molto giubilo. Intanto, recitavano a tutto spiano il Bruto e l'Antigone dell'Alfieri. Questo conte repubblicano non si sarebbe mai immaginato che le sue tragedie dovessero alimentare in Italia i furori de' suoi «cari» Francesi! Un bel giorno, la Società avvertiva il Prefetto dipartimentale d'Olona che essa si era «organizzata sotto il nome di Accademia dei Filodrammatici». Essa entrava, adunque, in una nuova fase; ed ecco come.

Una sera, in casa del medico rivoluzionario Giovanni Rasori, si tenne una seduta dei nostri filodrammatici fervorosi. Avevano dovuto lasciare in quei giorni la sala del Collegio Longone perchè riaperto ai giovani, e, non avendo più un teatro dove recitare, ne cercavano un altro, pronti anche a fabbricarselo: s'erano perciò raccolti in casa del Rasori che, tutto fuoco per l'arte e per la libertà, aveva promesso d'aiutarli, volendo che si continuassero [117] le interrotte rappresentazioni a pro delle idee repubblicane, del «civismo».

Il Gran Consiglio dei Seniori, trasferito altrove, aveva lasciata libera la propria aula nella soppressa antica chiesa dei Santi Cosma e Damiano alla Scala; una chiesa dalla soffitta di legno, che avea visti molti monaci, i Gerolimini; ed ecco i filodrammatici a chiederla, per erigervi un teatro più comodo del primo, e il Direttorio esecutivo a concederla.

Ma i denari per la fabbrica? Non c'erano. I giovani repubblicani le tiravano verdi; e non sapevano a qual santo.... repubblicano votarsi. Però niente paura! Sulla torre della vecchia chiesa abolita, erano rimaste, raccolte in silenzio, quattro piccole campane. Che cosa facevano là le derelitte? Bisognava assolutamente farsele regalare dal Direttorio, e venderle, e ricavarne quattrini. Così fecero quei bravi giovani, con orrore e scandalo dei vecchi. Intanto si raccoglievano quattromila ottocento lire milanesi in sottoscrizioni: il governo cedette, per pochi soldi, pietre e legnami, e il famoso folignate Piermarini, l'architetto che aveva innalzata la Villa Reale di Monza, i teatri della Scala e della Canobbiana, il palazzo Belgioioso, ed altri, fu chiamato a erigere il teatro, o a dir meglio, a compiere un miracolo, costruendo con pochi denari, sul [118] vecchio tempio di Dio, un nuovo tempio del diavolo, perchè l'arte teatrale era ancora dai torcicollo giudicata arte di perdizione.

Se non che, cambia la scena: cambia d'improvviso la fortuna francese, e si rovescia su Milano la valanga austro-russa col nuovo Attila, Suvaroff, che per tredici mesi si diverte a derubare, a offendere i cittadini spaventati, con le violenze più selvaggie. I lavori per il teatro rimangono interrotti: ma anche la reazione feroce, quando Dio vuole, cessa: e, come baleno, ritorna Napoleone, quell'«omett del cappellin», come lo chiama il Porta in un brindisi, e i lavori del teatro si compiono presto.

Se dobbiamo badare al Poligrafo, giornale letterario di quel tempo, si spesero più di centomila lire per la riduzione dell'edificio a teatro. Rimase, per altro, qual era, la rozza facciata dell'antica chiesa, molto brutta, e, in compenso, fu conservata una magnifica porta dello stile del periodo sforzesco, che in mezzo alla volgare manìa di cattivi restauri e di vendite ancor più volgari, fu lasciata anche oggi qual era. Il teatro fu costruito a quattr'ordini di loggie: nessuna divisione di palchi, nessuna distinzione pei posti. Fratellanza repubblicana anche in teatro, fratellanza perfetta, nei posti come nei soci. Andrea Appiani, il pittore principe [119] del tempo, classicista del pennello elegante, regalò il sipario, da lui dipinto, rappresentante la Virtù che saetta e pone in fuga i Vizi. Il Vaccani dipinse i parapetti delle loggie a finto bassorilievo; buoni scenografi approntarono gli scenari.

E seguì la prima solenne rappresentazione dell'Accademia, la quale contava la bellezza di sessanta accademici attori e di venticinque «iniziati» (si chiamavano proprio così!), mentre le piovevano continue protezioni dall'alto e incoraggiamenti d'ogni dove. Nella sera del 30 dicembre 1800, colla tragedia dell'Alfieri, Filippo, si ricominciarono le recite. Fu una sera memorabile; il successo fu lietissimo. La sempre corteggiata moglie del Monti, la sempre avvenente Teresa Pikler, che sosteneva la parte d'Isabella, fu incensata d'elogi. L'autorità aveva predisposto, per tempo, all'ordine con un manifesto affisso al teatro e che cominciava con questo profondo pensiero: «Senza istruzione non vi è libertà; senza buon ordine e tranquillità non vi è istruzione».

E il buon ordine venne indetto così:

«Nessuno degli spettatori potrà introdurre nel teatro, nè colà (sic) tenere cani, lucerne accese, scaldiglie, o vasi di fuoco di qualunque sorta, nè fumare tabacco, nè stare in piedi, nè tenere il cappello in testa durante la rappresentazione [120] per non impedire la vista ai posteriori (sic), nè fischiare, schiamazzare con battimani, o bastoni od altro. Nè far replicare alcun pezzo di suono, canto, recita, o pantomima; nè obbligare gli attori a sortire per ricevere applausi, nè fermarsi nell'andito in mezzo alla platea, nè offendere la decenza con pubblicità di atteggiamenti o clamori osceni, nè finalmente disturbare in altra simile guisa gli attori o l'uditorio.»

«Atteggiamenti osceni!» Si può dare di peggio? Le belle, vestite alla greca o alla romana, davano, è vero, agio alle satire sul gusto di quelle dell'almanacco intitolato: Le galanti scarselle della cortigiana Frine; ma speriamo che non avessero atteggiamenti osceni in teatro.

Le società filodrammatiche recitavano, in quel tempo, con ispaventevoli cantilene e latrati. Il carattere delle tragedie alfieriane spingeva anche gli attori più provetti all'enfasi declamatoria. Nell'articolo X d'un Regolamento, le cui prove di stampa leggo fra le curiosità bibliografiche della Biblioteca Ambrosiana, sta scritto che «oggetto primario dell'istruzione sarà d'animare il dialogo; d'ispirare agli attori il sentimento delle cose che recitano; di addestrarli al linguaggio muto degli occhi e della figura; e di togliere qualunque cantilena o vizio nel declamare». Notevolissime [121] parole che provano come la buona recitazione si volesse coltivare al Filodrammatico, dal quale uscirono infatti attori valorosi; basti citare Giuseppe Moncalvo che fu poi il famoso Meneghino così comicamente dipinto dal Brofferio ne' Miei tempi. Il Porta voleva scrivere un dramma per il Teatro Patriottico, come ne scrisse uno (e l'abbiamo accennato) per il teatro La Canobbiana. Certo, Ugo Foscolo promise a quegli attori una tragedia, Timocrate, come rilevo da una lettera autografa nell'archivio di quel teatro; ma non mantenne la promessa. Bensì mantenne la sua Vincenzo Monti, che concesse l'Aristodemo. Voleva il Monti stesso sostenere la parte di protagonista nella propria tragedia; ma, alle prove, s'ingarbugliò, si riconobbe impari al compito e cedette in fretta la parte a un altro dilettante cui, a rappresentazione finita, buttò le braccia al collo, ringraziandolo commosso.

Il Porta recitava con passione. Non sappiamo come quell'autentico ambrosiano pronunciasse la lingua di Dante. S'immaginano quali lutti per l'ortoepia! Il Porta preferiva le parti comiche alle tragiche, e vi riusciva con lieto successo, spargendo il buon umore in tutto il teatro. Ma non sempre poteva sbizzarrirsi in commedie di proprio gusto. Continuava in quel tempo l'andazzo del dramma piagnucoloso, [122] e anche il Porta dovea seguire la corrente. Egli recita nella commedia Teresa la Vedova accanto all'ammirata Teresa Monti Pikler. E recita nel Ciarlatano maldicente, nell'Abate de l'Epée del Bouilly, e nella parte di Mastro Burbero nel Ciabattino. Ed eccolo nelle vesti di Pietro in Misantropia e pentimento, dramma del Kotzebue allora in voga, e nella farsa Casa da vendere; poi si tramuta in don Ciccio nell'Amor platonico. E non basta: nella farsa I due prigionieri si fa applaudire senza fine. L'ultima volta che il pubblico dovette battergli le mani fu il 5 maggio 1804: egli sosteneva la parte di Ambrogio nel lugubre dramma Carlotta e Werther del Sografi. D'allora in poi non recitò più; ma rimase «attore accademico», elevato titolo per quella scena, dove essere ammessi era onore.

Nell'archivio di quel teatro si trovano le vestigia d'una battaglia di quinte. Carlo Porta voleva sostenere la parte dell'altero spiantato marchese di Forlimpopoli nella Locandiera del Goldoni; e gli era contesa da un altro attore. Ne nacquero disgusti, collere. Il poeta, infuriato, presenta le proprie dimissioni; e quei signori a scrivergli che non si accettano affatto, infiorandolo di elogi. E allora il Porta ad assicurare «ch'esso, sopprimendo volentieri quanto ha sofferto di disgustoso, si restituiva [123] di buon grado alla qualità prima di attore ed offriva interamente i di lui scarsi talenti alle provvide mire dell'Istituto».

Oltre l'Aristodemo con quel po' po' di scena allegra delle «fumanti viscere» della squarciata figlia innocente, Vincenzo Monti fece rappresentare al teatro repubblicano per eccellenza il Cajo Gracco, che, appena composto, volle leggere egli stesso agli amici entusiasti che l'attorniavano.

Intanto, avveniva in città un fatterello abbastanza comico. Nelle sue carte inedite Carlo Porta racconta che, avendo il Teatro Patriottico assunto il nome di Filodrammatico, il popolo, per derisione, chiamò filo anche le altre Società filodrammatiche. Così il teatrino del «Gambero» fu battezzato «Teatro dei Filogamberi»; e i poveri dilettanti a riderne di malavoglia, a promettere rappresentazioni, alla Scala, a pagamento, per comperare dei cavalli e fornirne l'esercito napoleonico; a farsi in cento, in mille pezzi pur di segnalarsi. Si trattava di una gara d'emulazione e di gelosia filodrammatica. E il Porta li bollava colla sua ironia così:

Bravi, sciur rezitant! Se Dio 'l v'ha daa

La deslippa de vess curt de danee,

A tuttamanca el v'ha pœu compensaa

Con fior de tolla che la var pussee!...[29]

[124]

Il figliastro di Napoleone, Eugenio Beauharnais, proteggeva l'Accademia, di cui era socio. Volle compensarne con tremilacinquecento lire l'istruttore artistico, certo Andolfati, e volle assistere all'Antigone: serata degna di storia.

Una cantata del Monti, posta in musica dal maestro Gnecco, esaltava in Eugenio «il valoroso figlio del maggior de' mortali». Sul palcoscenico troneggiava, inghirlandato di fiori, il busto dell'Alfieri; busto che, pochi giorni prima, veniva decorato nello stesso teatro di corone con recitazioni del Torti e del conte Giovanni Paradisi, armeggione, adulatore, che seppe salire a presidente del Senato del Regno italico, e segno all'ira del Foscolo nell'Ipercalissi.

Non si lasciava trascorrere occasione per onorare in quel teatro i dominatori: oggi Napoleone, domani Francesco I. Per l'onomastico di Napoleone si preparò una serata, con isfoggio di lumi e di epigrafi sbalorditoie. Sulla porta del teatro leggevasi: Al nome del grande — dei principi — dei popoli — delle arti — proteggitore — l'Accademia Filo-drammatica di sè maggiore (sic!) per Eugenio — primogenito al cuore di Napoleone — socio auspice presente.

[125]

IX.

Il teatro ufficiale di Milano: la Scala. — I bollettini delle vittorie napoleoniche. — Ancora Alfieri! — E ancora il Ballo del Papa. — Nefanda celebrazione del supplizio di Luigi XVI. — Le fortune dei cantanti evirati. — Napoleone ne decora uno! — Motto maligno della cantante Grassini. — I fàscini, gli amori e le vicende di costei. — Il suo primo protettore difeso dalla storia. — La più grande rivale della Grassini. — Il mantello fiammeggiante. — La carrozza dei trionfi nelle barricate della libertà. — Ricordo di Lord Byron. — Carlo Porta alla Scala. — Dove si formava l'opinione pubblica? — Gli amanti delle signore alla Scala.

Ma il teatro che assurgeva al grado di teatro ufficiale, per tutti gli avvenimenti politici, era il teatro «alla Scala», eretto dopo che il Regio Ducale Teatro andò distrutto da un incendio, divampato appena finito il veglione del sabato grasso del 1776, all'alba. Il teatro alla Scala fu rapidamente costruito, a spese dei ricchi proprietari dei palchi di quel teatro incendiato. Sul disegno dell'architetto Piermarini, sorse sull'area della chiesa soppressa di Santa Maria alla Scala, e venne inaugurato la sera del 3 agosto 1778 con l'opera seria in due atti L'Europa riconosciuta, musica di Antonio [126] Salieri, di Legnano, allora alla moda, autore d'una cinquantina di opere, oggi tutte dimenticate. Vi si aggiunse un balletto: Paffio e Mirra, ossia I prigionieri di Cipro; perchè allora cominciava nei cartelloni teatrali l'andazzo degli «ossia», durata sino ai nostri giorni.

Le «strepitose vittorie» (così i manifesti ufficiali) riportate da Napoleone venivano celebrate appunto là, alla Scala, aprendola a quanti volevano godersi gratis «illuminazioni a giorno», fremebonde tragedie repubblicane (l'Alfieri era sempre il preferito), opere, balli sul palcoscenico, e sbrigliatissime feste di balli popolari in platea. Si accennò in queste pagine al vituperoso Ballo del Papa. Fu rappresentato la sera del 25 febbraio 1797, in odio e disprezzo del vecchio pontefice Pio VI. Il vero titolo dell'azione coreografica era Il generale Colli a Roma; ma il popolo lo chiamò con quel nome, ch'è rimasto. Un ignobilissimo maestro di ballo, il Lefévre, per obbedire all'invito dei nuovi padroni, impasticciò un'azione d'intrighi politici e amorosi. Si videro in scena il cardinale segretario Busca, il senatore Rezzonico, generale delle truppe papali, il Generale dei padri domenicani, le principesse Santa Croce e Braschi, nipoti entrambe del papa, e il papa stesso, il canuto Pio VI, che ballò sconciamente col berretto frigio in capo, dopo aver buttato [127] in aria il triregno, fra gli applausi deliranti dei demagoghi. Sì, così si volle raffigurare quell'infelice pontefice, già malato, che doveva morire, prigioniero del Direttorio francese, a Valenza nel Delfinato. L'azione coreografica rappresentava il popolo sollevato contro il generale Colli; e cardinali, teologhi, preti, monache, frati, guardie, dame romane e meretrici ballavano, alla fine, tutti insieme col papa.

La principessa Braschi sveniva fra le braccia del Generale dei domenicani; il generale Colli, mandato dall'Austria, per essere il campione del papa, ne baciava la pantofola; il ballerino, in costume d'eunuco, saltava come il turacciolo d'una bottiglia di vino spiritoso; in platea un declamatore, mentre parlava di Costantino il Grande, vincitore del tiranno Massenzio, fu colpito in fronte da un nocciolo al grido: Abbasso Costantino! Il libretto del ballo fu immaginato e scritto dal «cittadino» Salfi dietro suggerimento del prevosto Lattuada, prete indegno. La musica era del maestro Pontelibero, giacobino rabbioso come la sua musica.

Il delicatissimo capolavoro si ammannì per undici sere di seguito. Sfarzosi i costumi; d'effetto gli scenari d'una sala del Concistoro, dell'appartamento della principessa Braschi, della piazza San Pietro, dipinti da un Landriani, [128] che non si vergognò di prostituire l'arte a quelle sconcezze. Analogo si mostrò il contegno dei demagoghi, ululanti di tripudio.

Quella fu la sera più turpemente memorabile. Altra nefanda serata segnò il 21 gennaio 1799, nella quale si volle celebrare l'anniversario del supplizio di Luigi XVI. Si eseguì una «cantata» scritta apposta da Vincenzo Monti, che oltraggiava la memoria di quello sventurato, chiamandolo «vile e spergiuro Capeto». E dire che lo stesso Monti, nella Bassvilliana, l'aveva glorificato come vittima sacra! La musica era d'un maestro Minoja, un altro miserabile di quel tempo, nel quale le deboli coscienze venivano rovesciate dai mutevoli avvenimenti come rachitici comignoli dai turbini. Di vivissimo entusiasmo fu accesa al teatro alla Scala la sera del 15 giugno 1800, quando un ufficiale francese annunciò agli spettatori la vittoria di Marengo, avvenuta il giorno prima. Un immenso applauso, un grido frenetico accolsero l'annuncio improvviso. E i maestri? Quelli le cui opere si rappresentavano in quel periodo formavano bella corona: il Cimarosa, il Paisiello, lo Zingarelli, il Fioravanti, il Mayr, il Salieri.... Opere quasi tutte buffe, allora, poichè, in teatro, bastavano le tragedie repubblicane a ricordare che a questo mondo ci furono anche dei mostri incoronati che fecero piangere.

[129]

S'era nel tempo dei cantanti evirati; e, fra i primissimi, Luigi Marchesi, detto anche Marchesini, del quale la satira disse:

Quel cappon colla vôs de canarin,

Che a ogni trill el ciappava en marenghin.

Un altro evirato ammiratissimo era Gerolamo Crescentini, nato a Urbania, villaggio presso Urbino, morto ottantenne nel 1846. Nell'aria Ombra adorata, nell'opera Romeo e Giulietta dello Zingarelli, metteva brividi di commozione. Ma le più vive simpatie dei milanesi andavano al Marchesi, perchè nato all'ombra del Duomo. Quand'egli morì, a Inzago, più che settuagenario, nel 1829, fu pianto da tutta Milano per la sua grande, generosa bontà. Egli fondò a Milano, con le sue elargizioni, il Pio Istituto filarmonico e soccorse quello tipografico. Non ostante che, fanciullo, fosse stato vittima, al pari d'altri infelici, del ferro barbarico, esecrato dal Parini nell'ode altamente umana e fremente La Musica, il Marchesi aveva sentimenti non solo pietosi verso i miseri, ma virili, coraggiosi, verso i prepotenti. Al burbanzoso generale francese Mioillis, che una sera pretendeva di costringerlo a cantare, il Marchesi rispose: «Ella può farmi piangere, ma non farmi cantare». Conobbe Ugo Foscolo questa risposta? Se l'avesse conosciuta [130] non avrebbe alluso a lui, col noto ma velato disprezzo e sdegno nei Sepolcri, là dove biasima la città di Milano «d'evirati cantori allettatrice».

Ma il Foscolo alludeva, forse, anche al Crescentini. Costui, veramente, più che da Milano fu «allettato» da Napoleone, il quale, caso unico allora, lo decorò della Croce di Ferro, attirandosi biasimi e ironie.

Un giorno, la cantante Grassini, maligna quanto avvenente e quanto celestiale nel canto, dopo d'aver ascoltata l'indignazione di chi non approvava quell'onorificenza messa sul petto d'un evirato, non avendo il Crescentini, infine (diceva colui), nessun merito, esclamò: Et sa blessure, donc?

La Grassini! Passò nella storia sopratutto perchè fu una delle amanti di Napoleone. Il pittore Bossi, in un suo diario erotico, lasciò scritto: «Esco adesso dalle stanze della Grassini divina. Chi me lo avesse detto! Ed ora sono cognato di Sua Maestà!»

Di recente, alcuni ricercatori si arrovellarono per istabilire la data precisa del primo incontro amoroso fra il celebre guerriero e la celebre cantante. Nella partita volle entrare persino un avvocato, a corto, sembra, di cause più nobili.

«Qui, su questo petto, Napoleone posò la sua testa!»

[131]

Così diceva la Grassini, per vanto. E aggiungeva volentieri che, nell'amplesso, il gran Côrso sveniva. Egli, infatti, pativa d'«aura epilettica» come Giulio Cesare. Conobbe la Grassini a Milano, nei giorni de' suoi trionfi militari, e ne ottenne le intime grazie, destando gelosie nella moglie Giuseppina Beauharnais, la quale si lagnava delle infedeltà del grande marito perchè non poteva soffocare la sua natura — ci racconta madamigella Avrillion, che le stava sempre vicina.[30]

Lineamenti decisi, sopracciglia imperiose nere, neri gli occhi balenanti, nero il volume della chioma opulenta avea la Grassini, e magnifica, statuaria, la figura, nata pei trionfi della scena e.... d'un talamo imperiale. La chiamavano «la decima Musa», ed ella credeva di esserla.

Giuseppina Grassini era nata a Varese l'8 aprile 1773, non da «poveri contadini» come si legge nelle biografie. Suo padre, che procreò la bellezza di diciotto figliuoli, era un ragioniere di conventi; fu anche impiegato governativo a Milano. La madre aveva passione per la musica, e suonava ad orecchio. E Giuseppina cantava come un usignolo innamorato. [132] Il vaiuolo, così diffuso a quel tempo, devastò il viso di tutta quanta la famiglia Grassini, ma risparmiò il volto di Giuseppina.

Il conte generale Alberico Barbiano di Belgioioso di Milano fu il suo primo protettore, che la fece perfezionare nell'arte canora. Si vuole ravvisare in quel patrizio l'eroe del Giorno del Parini; ma è un abbaglio. «La vita di quel sontuoso cavaliere non fu tanto disperatamente frivola, quanto la pretende una tradizione digiuna di sana critica.»[31] Il conte Alberico Barbiano di Belgioioso era generale degli eserciti imperiali, capo della Casa militare dell'arciduca Ferdinando d'Austria, uno dei decurioni della città, presidente dell'Accademia di belle arti. «Non fu vero che trascorresse la vita in ignobili passatempi.»[32]

Giuseppina Grassini si rivelò alla Scala.

Nel 1796, ella vi sostenne la dolce parte di Giulietta nell'opera del Zingarelli, Giulietta e Romeo; e tutti l'ammirarono. Il conte Carlo Leoni, il pittoresco epigrafista padovano, la dice, nel suo Teatro nuovo di Padova, soffusa di «voluttuoso e magnetico languore», e riferisce il particolare dello svenimento napoleonico.

[133]

Nel vedere nel Museo teatrale della Scala una miniatura della Grassini, opera del Quaglia (molto rara, ma pagata salatissima), si pensa alle vicende di quella vita fortunosa e fortunata, che ebbe per intermezzo un'avventura di briganti. Ella stessa raccontava che, in Francia, era stata presa dai masnadieri, i quali la condussero in un antro ch'ella fece echeggiare della sua voce deliziosa, immergendo i suoi tiranni nell'estasi.

L'aggressione dei briganti è storica. Avvenne sulla strada presso Rouvres (Dijon). La Grassini fu malmenata e derubata, ma poi fu trattata con riguardo. Perciò quando vecchia riandava i suoi ricordi, ella non diceva male di quei malandrini: tutt'altro! Li chiamava: Ces chères assassins!... È pure storico che certo Durandeau affrontò i briganti; ne uccise due e ne arrestò un terzo. Napoleone fregiò il bravo Durandeau della croce della Legion d'onore, ma la Grassini non si mostrò molto grata a Napoleone. Quando poteva tradirlo era felice. Ella non lo amò. Amò il violinista Rode, di Bordeaux, quel Rode per il quale il Beethoven creò una ben nota romanza.

Napoleone nominò la Grassini cantante di camera, con 51,000 lire di stipendio all'anno, e la coprì di alti favori, di doni, con quella munificenza liberale e spettacolosa ch'era uno [134] degli elementi della sua arte sovrana, insuperabile, d'imperare.

Furibondo di gelosia bestiale per lei si mostrò il principe Augusto duca di Sussex, figlio di re Giorgio d'Inghilterra, avendo fra i cospicui rivali il marchese di Caltanissetta, figlio del principe di Paternò. Il critico musicale della Revue des Deux Mondes, il veneziano Scudo, raccontò un bel giorno del 1852, nella sua celebre rivista, che il principe britannico, in un accesso di geloso furore, attentò persino alla vita di lei. Una sera d'estate, il principe e la sirena incantatrice si cullavano in una barca, sulle onde del golfo di Napoli, al chiaro di luna. Ella cantava.... D'un tratto, il principe Augusto la fece afferrare e prendere di peso da due barcaiuoli e gittar nel mare. «Quel demonio di donna (disse poi il principe al buffo napoletano Lablache) sapeva nuotare, e il giorno dopo mi fece pagare ben caro il bagno involontario!» Con qual prezzo? Non sappiamo. Quel «demonio» con la voce di angelo era capace di tutto.

Voce, veramente, di contralto e di soprano insieme. E vero «demonio» nella rivalità con la Billington, che partecipò, ella così pia, alla scellerata cantata del Monti nell'anniversario del supplizio di Luigi XVI alla Scala. La Billington rapiva per la bellezza e per la voce. [135] Lo Scudo narra che la Grassini, «scattando come un leone còlto di sorpresa», assalisse la rivale con certi colpi di voce da farla sgomentare. Era donna maschia, nonostante il «magnetico languore» del volto. E, nonostante i mille corteggiatori, la viragine inclinava ad acri amori speciali.... A Venezia, quand'ella vi cantò nelle opere Issipile del Farinelli, Giulietta e Romeo del Zingarelli e Telemaco del Mayr, volavano di bocca in bocca salaci aneddoti su quegli amori.

Giuseppina Grassini visse sino i settantasette anni. A Milano potè assistere alla lotta popolare delle Cinque giornate contro gli Austriaci. Guardando dalla finestra della sua dimora, a San Babila, vide una grossa barricata improvvisata laggiù sulla via; barricata costrutta con tutto ciò che gl'insorti potevano trovare a portata di mano in quei frangenti. E, fra tavole e botti e persino stie, la Grassini scorse una grande carrozza: era la sua, quella che l'aveva condotta di trionfo in trionfo attraverso l'Europa.

Morì la sera del 3 gennaio 1850, a Milano, in quella casa Arese dove teneva spesso conversazione parlando un linguaggio curiosissimo: un miscuglio d'italiano, di francese e di lombardo. Veniva corretta, di tanto in tanto, da Carlo, suo fratello. Costui, a soli sedici anni, [136] seguì, come semplice tamburino, Napoleone nella campagna di Russia, e fu dei pochissimi che ritornarono da quelle stragi. Si pose poi a comporre novelle e romanzi, che Dio glieli perdoni!, e una grammatica francese, sulla quale molti di noi abbiamo studiato ragazzi.

Il ritratto in miniatura della Grassini, che ora si ammira nel Museo teatrale della Scala a Milano, dipinto dal Quaglia, ella lo lasciò in legato ai «suoi distinti amici Pacchierotti». A suo marito Cesare Ragani (poichè, e pochi lo sapevano, aveva persino un marito!...) la Grassini lasciò il capitale corrispondente a 4000 franchi di rendita all'anno. Sì, a quel marito «residente (ella così dichiarava nel testamento) da tanti anni in Francia, a Vincennes».

Nel Museo potrebbero figurare le due liste superstiti d'un ampio mantello rosso fiammeggiante, ricamato d'oro, regalato da Napoleone alla sublime, che ne andava superba mostrandolo a' suoi visitatori, alle sue favorite come una bandiera di vittoria.

Quando la Grassini moriva, naufragava alla Scala Cellini a Parigi, opera semiseria di Lauro Rossi, un giovane ch'ella voleva proteggere.

Fu sepolta a Milano, nel cimitero di San Gregorio, oggi distrutto. E le sue ossa, che portarono in giro per il mondo una delle più affascinanti vite italiane, andarono disperse.

[137]

Carlo Porta, elegantemente abbigliato alla moda, frequentava anche il teatro alla Scala, dove s'incontrava con gli amici romantici dei quali doveva essere il caustico paladino vernacolo. Nel palco del marchese de Breme, gran signore, che appunto in quel palco accolse lord Byron quando, nel 1816, il bellissimo bardo, tutto bollore carbonaro, venne a Milano,[33] anche il Porta aveva accesso. Là il poeta del Bongee vedeva lo Stendhal, il suo più fervido ammiratore straniero.

Lo Stendhal ricorda che l'atrio della Scala era il quartier generale dei fatti del giorno: ivi si fabbricava l'opinione pubblica sulle signore, ivi si attribuiva per amico a ciascuno d'esse l'uomo che dava loro il braccio per salire nel loro palchetto:

«C'est surtout les jours de première représentation que cette démarche est décisive. Une femme est déshonorée quand on la soupçonne d'avoir un ami qu'elle ne peut pas engager à lui donner le bras à huit heures et demi, lorsqu'elle monte dans sa loge.»[34]

Ma degli amici delle signore d'allora, dei «patiti», come si diceva, parleremo più innanzi.

[138]

X.

La morte del Parini, i suoi manoscritti all'asta, la sua finta tomba. — La nuova borghesia e la vecchia aristocrazia. — La preghiera e La nomina del cappellan di Carlo Porta. — Un'antenata di donna Fabia e della marchesa Travasa. — Le commedie del Maggi. — Lady Morgan a Milano. — Sue impressioni. — Che cosa diceva del Porta. — Un comico ricevimento in casa Litta. — Eleganze in casa Visconti. — Un nobile furibondo contro i nobili. — L'amante del generale Massena. — I «patiti delle signore milanesi». — Artefici di grido: Canonica e Appiani. — La casa dei Franco-Muratori.

Nel frattempo il Parini, irato contro i demagoghi e contro i predatori, era morto a settant'anni, in una camera a pianterreno del palazzo di Brera. Il Parini non morì così povero, come si disse; ma certo non ricco. Alessandro Manzoni raccontava, nelle veglie, a' suoi intimi amici, che quando dopo la morte del Parini, furono venduti all'asta i suoi libri e i suoi manoscritti, fra i quali ancora inediti il Vespro e la Notte, i congiunti del poeta, che erano contadini di Bosisio, accorsi a Milano, per raccoglierne la eredità, vedendo salire ad alto prezzo semplici manoscritti, li presero in [139] mano e li scossero, credendo che vi fosse dentro denaro.[35]

Le ossa di Giuseppe Parini andarono disperse, al pari di quelle di Cesare Beccaria, sepolto nello stesso cimitero di Porta Comàsina; la lapide che, in memoria del Parini, vi pose l'amico Calimero Cattaneo, disparve anch'essa, e il cimitero fu trasformato, non ha guari, in un orto.

Più tardi, i demagoghi in una festa popolare all'aperto, eressero varie finte tombe d'illustri; fra esse, una col nome di Giuseppe Parini. Goffa profanazione.

Saliva una nuova borghesia; arricchita borghesia di signore milanesi, i cui allegri, liberi costumi, i cui gesti imitati sui modelli di Francia potevano offrir tema a satira saporita; ad esempio, le loro pose sentimentali adottate prima ancora del Romanticismo, ma derivazioni della Nuova Eloisa del Rousseau, e i nervosismi, e i languori e i fumi, come dicevano: poichè aver i fumi era un rendersi interessanti come più tardi (ahimè, chi potrebbe crederlo oggi) l'etisia, idealizzata nella Dame aux camélias da Alessandro Dumas figlio.

[140]

Carlo Porta, borghese, non toccò quella borghesia nuova. Rivolse il suo dardo contro la vecchia aristocrazia, gonfia dei propri titoli nobiliari, albagiosa, che il Parini aveva già deriso, con insuperabile finezza, nel Giorno.

Ne La preghiera e ne La nomina del cappellan, del Porta, siamo al cospetto di due vecchie dame della superstite aristocrazia spagnuolo-lombarda, superbissima del proprio inclito sangue, e la cui razza, nella tormenta giacobina, andò travolta, non distrutta; chè anzi, poi, ottenne dall'Austria l'imperiale riconoscimento de' suoi vantati diritti.

Ne La preghiera udiamo le sdegnose recriminazioni di donna Fabia Fabron de Fabrian contro i nuovi tempi diabolici. Un ex-francescano, uno dei tanti licenziati dal Bonaparte quando (come dice il Porta stesso in un sonetto caudato) diede ona sopressada ai fratarij, invitato a pranzo da donna Fabia, l'ascolta, mentre in cucina cuoce il riso. Ella gli parla concitata e irata in quel linguaggio italo-milanese, assai buffo, che si usava dalle dame dell'antico stampo; le quali volevano accrescere col linguaggio pretenzioso il sussiego di prammatica.

Il racconto di donna Fabia, piena di dignità nello sdegno, si svolge intorno a un capitombolo [141] fatto da lei, sulla strada, mentre, scendendo di carrozza, voleva evitare l'urto d'un prete sporco e bisunto, che le passava accanto in quel momento. I monelli, il popolino si mettono a ridere alla caduta spettacolosa, a motteggiare.... Ma ella è gran dama, non risponde; è devota, ed entra in chiesa, dove innalza al suo «caro e buon Gesù» una preghiera, per raccomandare alla divina clemenza gli «eccessi», le «colpe», i «delitti» di quei «delinquenti» rallegrati dalla sua disgrazia; pensando che

l'offendesser

Senza conoscer cosa si facesser,

e sperando che la propria rassegnazione possa «condurli al ben».

In quella preghiera, donna Fabia rappresenta e sostiene il diritto divino; crede che le nobili gerarchie terrestri, alle quali ella appartiene per nascita, siano simbolo delle gerarchie che «fan corona» a Gesù in cielo. Crede che il disgraziato, il quale non nasce nobile, sia fango....

Giuseppe Ferrari, nel suo studio sulla poesia popolare in Italia, pubblicato nella Revue des Deux Mondes del 1839-40 (e il Rovani gli fa eco nelle Tre arti, a proposito del Porta), nota che donna Fabia è la donna Quinzia [142] del Maggi, arguto, sereno commediografo milanese del Seicento, così superiore al suo secolo. È la dama italo-spagnuola tipica.

Ma se il tipo comico nell'essenza è lo stesso, ben più espressiva, più incisiva è l'arte con cui è rappresentato dal Porta: sopra tutto è diverso l'«ambiente». È questo che fa spiccare al vivo il tipo di donna Fabia. Dal contrasto, dall'urto fra l'albagia aristocratica rappresentata, affermata da donna Fabia, e le beffe irriverenti del popolino, che l'accolgono, sfavilla il comico. È la lotta fra il vecchiume e il nuovo. È l'irritazione di chi si vede strappato il terreno, creduto legittimo, sacrosanto, sotto i piedi. E a donna Fabia è tolto ormai quasi tutto, poichè le è tolto il rispetto degli inferiori. Non le resta che di sfogarsi, prima del pranzo, mentre cuoce il riso, con un ex-francescano, il quale considerando le tante rovine del giorno vede, al pari di lei, «prossima assai la fin del mondo». Non le resta che sapere di non essere, per grazia speciale del suo «caro e buon Gesù», nata plebea, «un verme vile, un mostro». E le resta il cielo.

A donna Quinzia del Maggi non vien meno il rispetto degl'inferiori; a donna Fabia i monelli della strada hanno il coraggio di fischiarle il beffardo va-via-veh! È la democrazia che irrompe e beffa l'aristocrazia che cade.

[143]

Ma donna Fabia Fabron de Fabrian (anche il cognome è spagnolescamente rimbombante) non è cristiana e non è gran dama per nulla. Vuol perdonare agli offensori; vuol essere generosa con essi. Uscita di chiesa, domanda ella stessa a loro medesimi quanti sono quegl'insolenti, in luogo di farli chiedere dal proprio domestico Anselmo:

Siamo vent'un, responden, Eccellenza!

E donna Fabia:

Caspita! molti, replicò.... Vent'un?

Non serve, Anselm, degh un quattrin per un!

Occorre dire che il quattrino era l'infima fra le piccole monete di rame? Anche qui un buffo contrasto: fra la boria e la spilorceria.

La nomina del cappellan non è meno significante della Preghiera nel senso sociale; è persino più comica, ha più elementi comici, è più mossa, più viva.

Ci porta nell'interno di quei palazzi nobileschi all'antica, la cui dispotica padrona, una vetusta dama, la marchesa Travasa,

Vuna di primm damazz de Lombardia,

concentra le sue tenerezze su una brutta bestia, una cagna inviziada. Ci par di vederla, la vecchia [144] marchesa Travasa, in gran cuffione alla Pompadour cont i fioritt, decorata di due baffi sporchi di tabacco. Ella s'avanza pomposa nella sala, dove stanno raccolti numerosi pretonzoli aspiranti alla cappellania della sua casa e siede con la cagna maltese accanto, la Lilla,

Tutta pel, tutta goss', e tutta lard;

la Lilla, che, dopo di lei, in cà Travasa, è «la bestia di maggior riguardo». Tutti devono rispettare la Lilla: guai a farla guaire, guai a beffeggiarla; e guai a darle del tu. La Lilla è parente della «vergine cuccia» del Parini. Ma, mentre questa toglie il pane a un servo, che si è permesso di tirarle un calcio, la «cagna maltesa» della marchesa Travasa procura pane, companatico e cappellania a un orribile don Ventura. E perchè? Costui, nel clamoroso ricevimento di preti, fatto in cà Travasa per la nomina appunto del cappellano in sostituzione del defunto don Glicerio, prè de cà, si è messo in dosso tre, quattro fette di salame gramo; e la Lilla, attirata dall'odore di quel salamm de basletta, comincia ad arrampicarsi sulle gambe istecchite di don Ventura e a raspargli i già logori calzetti; quindi è ben chiaro, agli occhi della padrona, che quelli sono segni infallibili di simpatia, di predilezione: sono una proposta di nomina in piena regola, che deve essere accolta. [145] E così don Ventura diventa cappellano di cà Travasa.

Si ride per la Nomina del cappellan, satira lanciata contro il vecchio nobilume grottesco; si ride per il comico di quel ricevimento pretino, in cà Travasa, di tutti quei famelici, luridi concorrenti alla vacante cappellania resi con pochi tocchi di grande caricaturista; con quel maggiordomo «dolz come on ôrs» che, accogliendo i reverendi e istruendoli sui loro doveri in cà Travasa, usa con loro gli stessi modi sprezzanti, lo stesso linguaggio altezzoso della padrona. Ma quel comico sarebbe stato ancor più vivo, se il Porta si fosse ricordato d'uno dei principali doveri che incombevano al cappellano nei palazzi dei nobili: quello di pettinare ogni mattina il cagnolino, la cagna, appunto le Lille.

Il Porta, per bocca dell'iracondo maggiordomo della marchesa, da lui chiamato l'ambassador del temporal, snocciola gli altri doveri del cappellano: portar biglietti, qualche fagotto e pacco; correre dal sarto, dalla modista, dal parrucchiere; condurre la Lilla a spasso; scrivere qualche conto, qualche lettera al fattore; sopra tutto, saper giocare al tarocco. E messa breve, si badi!...

On quardoretta, vint minut al pù.

[146]

Ma non una parola, neppur una di carità cristiana verso i poverelli, verso i vecchi mendicanti, che si trascinavano alle soglie dei palazzi, per implorare dalla pietà dei servi pasciuti qualche rilievo del loro desinare o della mensa dei padroni. Della religione non si parla. Nulla! Non occorre.... s'intende.

La Lilla regina è

Quattada giò (coperta) cont on sciall nœuv de Franza.

E qui notisi come la marchesa, tenacissima nelle antiche usanze per sè stessa, si piega alla novità di Francia solo per amore della Lilla.

La sorella di donna Fabia meglio si manifesta nella marchesa Travasa, quando costei s'inalbera e tempesta all'improvvido atto d'impazienza d'un malaccorto don Malachia, uno degli aspiranti al posto di cappellano, mentre la brutta bestia ringhiosa gli abbaia, strozzandogli in gola un bel complimento preparato per la illustrissima.... Don Malachia fa per misurare una pedata irreverente all'importuna. La marchesa si alza inviperita; ma, nel sedersi di bel nuovo sul sofà, schiaccia la Lilla che strilla; e allora i pretucoli a ridere e la marchesa a investirli nel linguaggio italo-milanese stesso di donna Fabia così:

Avria suppost ch'essendo sacerdott

Avesser on poo più d'educazion,

[147]

O che i modi, al pu pesg, le fosser nott

De trattar con i damm de condizion:

M'accorgo invece in questa circonstanza

Che non han garbo, modi, nè creanza.

Però, da che l'Altissim el ci ha post

In questo grado, e siamo ciò che siamm,

Certississimament l'è dover nost

Di farci rispettar come dobbiamm:

Saria mancar a noi, poi al Signor,

Passarci sopra, e specialment con lor.

Si veda come la boria feudale arrivi nella Travasa al punto da posporre Iddio a sè stessa. Questo è uno dei tratti più fini del Porta, che ne abbonda in tutta la sua produzione poetica, pur in mezzo a espressioni grossolane, che ne scemano il pregio squisito; espressioni portavoce del volgo. Da queste il grande poeta non seppe liberarsi; ma non erano forse allora adoperate pur nei discorsi della così detta buona società, la quale, anche nelle consuetudini della vita intima, era tutt'altro che raffinata?

Ma anche la Lilla vanta un confratello in un epigramma del Porta stesso: Epitaffi per on can d'ona sciora Marchesa:

Chì ghè on can, che l'è mort negaa in la grassa

A furia de paccià di bon boccon:

Poveritt, che passee, tegnivv de bon,

Che de stoo maa no vee mai pu su l'assa.

Versi terribili d'anticipato socialismo che vogliono dire: «Qui giace un cane, che morì [148] affogato nella pinguedine, a furia di papparsi saporiti bocconi. Poverelli, che passate, consolatevi: che di questa malattia non morirete» (Andà su l'assa era frase del popolino, per «morire», dall'uso di porre i cadaveri dei poveri, morti all'ospedale, sopra un tavolato, prima di portarli alla fossa).

La Nomina del cappellan circolò manoscritta pei crocchi che se ne deliziarono; e nelle copie si leggeva Marchesa Paola Cambiasa, in luogo di Paola Travasa. Il casato Cambiasi esisteva, e il mutamento in Travasa, quando si trattò di pubblicare per le stampe l'incomparabile lavoro, fu senza dubbio suggerito da convenienze, cui il poeta si piegava.

La Nomina del cappellan pare di un solo getto. Invece, fu composta a più riprese. Carlo Porta scriveva all'amico Grossi: «Mi domandi se tiro avanti la faccenda del Cappellano della marchesa Cambiasi. No, ti rispondo, non so più nulla. Sono ricaduto nel mio proposito di abbandonare affatto la poesia, dacchè ella, per esperienza, non mi ha mai fruttato mezza oncia di bene, e poi, e poi.... a dirtela in confidenza, mi vado sempre più accorgendo che quel poco calore di cervello che mi aiutava a' tempi passati, al giorno d'oggi è affatto, affatto svanito. Ogni cosa deve essere alla propria stagione....».

[149]

Lady Morgan, la celebre viaggiatrice e scrittrice, cara al nostro Risorgimento ch'ella ci augurò mentre detestava di gran cuore il dominio austriaco, quando venne a Milano al principio del secolo passato, toccò anche dei costumi milanesi nell'acclamatissimo suo libro Italy, così improntato a spiriti sereni e liberali; e in esso accenna alla popolarità che la Nomina del cappellan godeva a' suoi dì.

Con qualche inesattezza ne tocca pure lo Stendhal nel Rome, Naples et Florence; chiama quella caustica poesia sociale «un charmant poeme milanais de Carlin Porta» (e Carlin veniva infatti chiamato da tutti), e ne cita i primi versi.

Lo s'immagina il tripudio delle novelle dee borghesi nel veder tanto ridicolo gettato sulle dame dagli impolverati blasoni; le quali non si degnavano neppur di guardarle, e faceano deviare la propria carrozza, se si trovavano per caso vicine alle loro prive di uno stemma nobiliare?

Una casa patrizia si manteneva, sopra tutto, superbamente rigida alle formali tradizioni blasoniche, non ostante le urlanti raffiche giacobine che passavano sui suoi maestosi finestroni. Era la casa ducale dei Litta, grandi di Spagna.

Il popolo ne parlava come d'una reggia sfolgorante d'oro; e, infatti, le molte ricchezze [150] di casa Litta superavano tutte le altre allora.

Lady Morgan riferiva nell'Italy un aneddoto appunto di casa Litta, che dimostra fino a quale eccesso i fumi aristocratici oscuravano la ragione e la creanza. Un ricco negoziante milanese (regnava ancora Maria Teresa) aveva ottenuto un titolo nobiliare; e il primo suo desiderio fu quello d'essere ammesso in casa Litta, per ricevere la consacrazione della sua nobiltà; e, siccome era stato presentato alla Corte e all'imperatrice stessa a Vienna (Maria Teresa non fu mai a Milano) potè alla fine appagare il suo assillante desiderio. Fu ricevuto, ma quando entrò nelle superbe sale, tutti i patrizi in massa gli voltarono le spalle. Una persona della famiglia imperiale rimproverò la duchessa Litta della sua insolenza aristocratica verso un uomo, che aveva avuto l'onore di baciare la mano all'imperatrice, e la duchessa replicò: «Tutti possono andare a Corte; ma, per essere ricevuti in casa Litta, bisogna essere muniti dell'albero genealogico».

Quel pover'uomo aveva quattrini, aveva anche uno stemma, ma non aveva alberi, neppure un cespuglio: non gli restò che accontentarsi dell'onore d'aver salite, per una volta tanto, le scale di casa Litta e vedersi accolto da tutta una fila di nobili schiene.

[151]

Questo aneddoto fa capire donna Fabia e la marchesa Travasa del Porta, più del ricordo e del confronto di donna Quinzia del Maggi; la quale era tutta vanti: vantava le proprie grandigie, le proprie carrozze nere e quelle dorate, tutt'i vantaggi e privilegi, nella gustosa commedia I consigli di Meneghino.[36]

Il sangue nobile non doveva imbrattarsi col sangue plebeo, in matrimoni di convenienza; guai! Eppure, anche al tempo del Porta una donna Quinzia, costretta da forza maggiore, come dicono i giuristi, poteva sospirare in questi versi caratteristici che non hanno bisogno di traduzione pei non lombardi:

Don Lell! che la sorte

Sia tanto inviperida

Contro la nostra casa,

Ch'el noster sangu, tant limpid sin adess,

S'abbia da intorbidar con altra sfera,

L'è dura!... Ma, giacchè col fier destino

Contrastar non si può

Convien, stringend i occ, mandarla giò![37]

E questi versi del Maggi, nei quali donna Quinzia s'apre col figlio don Lelio, e che segnano la decadenza della stirpe patrizia, pur fra i collari inamidati e le borie, fanno ricordar bene donna Fabia e la marchesa Travasa.

[152]

Tuttavia, nel delirio demagogico, si vide un nobile, Gaetano Porro, bandire una crociata contro gli stemmi. Ministro di polizia, si tenne a fianco un Caccianini per distruggere i blasoni e gli stemmi patrizii sin nelle antiche tombe nelle chiese. Si vedevano scamiciati col martello in pugno penetrare nelle chiese, nei cimiteri, e distruggere a martellate tutte le insegne araldiche, e il Porro li eccitava: dissero persino che una volta li guidasse lui. Il cieco fanatismo del Porro restò in questo editto: «Gli antichi titoli e stemmi, di qualunque genere siano ed in qualunque modo esposti al pubblico, debbono essere distrutti senza risparmio, senza eccezione, senza misericordia. Purgate il territorio d'un veleno che merita i più pronti rimedii e la più efficace resistenza per sollevare il pubblico da sì crudeli e antiche scioperataggini.»[38]

Un altro Porro, l'illustre Pietro, disse invece: tolgo lo stemma, resta il nome.

Il Casino dei nobili dovette ribattezzarsi in «Società filarmonica» se volle vivere. In una festa di ballo sontuosa, il Massena v'intervenne con la propria amante a braccio, la cittadina Frapolli, ch'egli aveva conosciuta a Genova. [153] Con lei andava dappertutto. E nessuno ci trovava da ridire, nè da ridere.[39]

«A Milano i costumi sono più che facili: ogni signora ha il suo patito dichiarato. Costui è una specie di secondo marito, ma non ha alcuna responsabilità di paternità», registra madamigella d'Avrillon, nelle sue Mémoires.[40] E continua: «Les patito sont des complaisans, que les maris en titre souffrent sans s'en plaindre, et que souvent ils choisissent eux-mêmes».

Non si poteva andare più in là con la accondiscendenza e bontà dei mariti; i quali, alla loro volta, diventavano i patiti d'altre signore, forse strette congiunte della moglie.

Le signore uscivano poco di casa, e andavano sempre in carrozza; solo la povera gente andava a piedi. Più tardi, il fastosissimo conte Archinto si vantava di non aver mai toccato il suolo della sua Milano. E quali eleganze nei palazzi! L'esterno alquanto semplice dei palazzi eretti nel Settecento, non faceva indovinare il lusso e il buon gusto signorile dell'interno, delizia della vita. Lady Morgan trovava in casa Visconti le squisitezze di Parigi.

Nell'Ottocento, i palazzi e le ville assunsero anche all'esterno un decoro architettonico, che [154] s'accordava col grandioso impulso impresso da Napoleone in Milano, quando la volle capitale del Regno d'Italia, come vedremo seguendo le poesie di Carlo Porta. Il ticinese Luigi Canonica, al quale si deve il monumentale «Arco della pace» fu l'architetto di quell'epoca, che prese il nome dall'impero. Il pittore Andrea Appiani ne fu il decoratore. Se ne servì la Repubblica cisalpina, se ne servì il Regno d'Italia e una serie di ricchi proprietarii che vollero il cielo delle loro sale dipinto da colui che fu chiamato «il pittor delle Grazie».

Una casa era guardata con misteriosa paura dal popolino: quella, nel vicolo Pusterla, dove si raccoglievano i Franco-Muratori. Apparteneva all'evirato soprano Marchesi. Ma erano tanto franchi quei muratori, che non gli pagavano l'affitto. Nel 1800 una Commissione di polizia, durante la reazione, la invase; ma inutilmente. I capi erano fuggiti, e le carte scomparse.

[155]

XI.

Preti indegni. — El Miserere di Carlo Porta e l'arcivescovo Gaisruck. — Mercato pretino in piazza del Duomo. — Vescovi servili e oppressi. — Il folle eroismo d'un oscuro parroco ribelle a Napoleone. — Monache. — Preti d'altri tempi. — Il Viatico occulto. — Don Alessandro Bolis, modello di don Abbondio del Manzoni. — Un pensiero del Tommaseo. — Predicatori buffi.

Carlo Porta colse il ridicolo e l'immoralità di tutta una caterva di preti, che con la loro bassezza di sentimenti e venalità, disonoravano la religione di Cristo. Non già ch'egli volesse punire quegl'indegni servi dell'altare, con lo scopo di difenderne la religione. La fede de' suoi avi viveva solinga, e negletta, in un angolo della sua coscienza. In un sonetto, rimasto interrotto, che a me parve pietosa postuma opera di riabilitazione religiosa del premuroso delicatissimo amico Grossi, ma che viene tuttavia attribuito a Carlo Porta (non potei vederne l'autografo), l'autore di scandalose satire volterriane come On miracol, sospirava accorato così:

Religion santa di mee vicc de cà,

Che in mezz al tribuleri di passion

[156]

No te fet olter che tiratt in là,

In fond al cœur, scrusciada in d'on canton...[41]

Carlo Porta non era religioso, nel senso in cui s'intende questa parola; no. Nè ebbe scopo religioso nel deridere e flagellare in tutto un ciclo di poesie infuocate di satira implacabile il mercimonio, le viltà dei preti indegni. Ma, quello scopo, egli senza saperlo e senza volerlo, lo raggiunse. Egli fu spinto da un senso morale, di decoro offeso, d'umanità offesa. I suoi preti venderecci profanavano infatti persino la morte, come si vede nella satira El Miserere.

È la più fiera satira del Porta contro il mercimonio dei preti scagnozzi, i quali, con indecente contegno alle esequie, profanavano una religione che non può avere atei: la religione della morte. Quei preti, recitando la venal prece, cui Ugo Foscolo alludeva nei Sepolcri, fermavano il pensiero nelle idee più volgari: parlavano di osterie, di osti, del caro de' vini.... Il caustico satirico coglie un loro dialogo grottesco e beffardo, mentre cantano un Miserere in suffragio dell'anima di un ricco trapassato, nella chiesa di San Fedele, una delle [157] principali di Milano; lo coglie e lo riproduce con la solita sua arte tutta evidenza nei particolari e nell'insieme. Gli episodi della funebre funzione, fra' quali la comparsa d'un soldato francese, che suscita col solo suo aspetto i livori, la bile degli officianti, nemici naturali di coloro che li perseguitavano, dànno forte sapore di comicità al componimento, il cui fondo è serio e lugubre. Versi che furono ispirati al poeta da viva indignazione. È il caso di ripetere il motto di Giovenale e ridirlo con Victor Hugo: C'est la sainte indignation qui fait poète! Il cardinale conte Carlo Gaetano Gaisruck, arcivescovo di Milano dal 1818 al 1847, diceva a Tommaso Grossi, a proposito di quella satira: «Innalzerei un monumento a Carlo Porta».

Da Pontremoli, circondario della provincia di Massa e Carrara, e dalla Corsica piovevano a Milano, come cavallette, preti sporchi e affamati. Poichè la loro diocesi non offriva a loro da vivere, correvano a Milano e dintorni, dove le messe erano ben pagate, dove ai funerali si davano in dono grosse torce, dove alle frequenti funzioni sacre non mancavano le buone tazze di cioccolata e altri regali a' celebranti. Questi preti scagnozzi, come si chiamano in Toscana, stavano di giorno sulla piazza del Duomo ad aspettare le offerte di messe e di [158] funerali; e quivi ne facevano mercato. Si vendevano le messe come i polli. E i sagrestani erano i sensali. Preti vicciurinn, vicciuritt, vicciurinatt; così essi venivano battezzati per dispregio, sia perchè mescolati ai fiaccherai della piazza, sia perchè come quelli mercanteggiassero i noli. Sagrestani, sensali, si presentavano a loro, per venire a' contratti; quindi turpi gare, gelosie, baruffe. Per lo più codesti poco degni sacerdoti, senza loco nè foco, erano ricercati per i sacri uffici nei paesi circostanti, in occasioni di sagre od altro; e allora vi si recavano a piedi o su qualche umile cavalcatura. A Carlo Porta non isfuggirono i loro tipi grotteschi, nè il comico delle loro consuetudini venderecce; e in più satire li flagellò con lo scherno. Il ricordato arcivescovo Gaetano Gaisruck, della Carinzia, figlio illegittimo di sangue imperiale, bizzarro tipo di cardinale autoritario, nemico dei conventi, amico delle pipe e delle signorili feste di ballo, alle quali interveniva, gran consumatore di stivaloni alla scudiera, ebbe il merito di purgare Milano dai vicciuritt: li bandì.

Quale abiezione in molti sacerdoti del tempo sconvolto e inquinato del Porta! Cominciavano i vescovi a offrire il più basso esempio. Non solo cantavano il Te Deum, oggi per uno e domani per altro invasore, e padrone straniero: [159] si lasciavano trattare da Napoleone con disprezzo, come suoi impiegati. E dovevano chinarsi a' suoi cenni, spesso in aperto contrasto con la religione, se volevano mangiare il loro pane in pace. Chi mai osava levare una voce di energica protesta? Un solitario parroco di montagna osò elevarla ed eccitare montanari e valligiani a scagliarsi in frotta, armati di falce, di roncole, nientemeno che contro l'onnipotenza di Napoleone. Non si può immaginare niente di più folle; folle, considerando la gigantesca possa del dominatore e l'infima debolezza dell'oscurissimo eroe. Ma quanto, per coraggio e svegliata coscienza, quel povero Passerini, curato d'un misero villaggio sperduto nella valle d'Intelvi, Ramponio, si elevava d'un tratto sui mitrati che incensavano il carceriere del loro pontefice! Fra tanti preti, che inneggiavano al despota côrso, nessuno sacrò mai un verso al prete Passerini di Ramponio. Se fosse stato vivo Vittorio Alfieri, lo avrebbe forse, e senza forse, esaltato; egli, che nel Misogallo esaltò il musico Marchesi per il fiero contegno che sappiamo.[42] Il povero Passerini fu decapitato, insieme con un illuso seguace, il giovane agrimensore Molciani, a Como.

Fu quello del Porta un brutto periodo per [160] la Chiesa. Si udì persino, nella prima domenica di quaresima, un Besozzi, arciprete di San Lorenzo, eccitare dal pulpito i fedeli ad accorrere al teatro alla Scala, per ammirarvi il sacrilego, osceno Ballo del Papa, ch'egli aveva veduto e ammirato la sera avanti, e che gli era parso onesto e decente.[43] Peggio ancora: monsignor Dolfini, vescovo di Bergamo, incitava fra i plausi dei demagoghi, i sacerdoti a smettere la veste talare, quando non ufficiavano in chiesa, per avere agio a vita libera. L'autorità ecclesiastica non si era mostrata punto energica, ma vile, quando i Cisalpini distrussero furibondi tutte le immagini sacre, che da secoli si veneravano a ogni angolo di strada; mentre il Viatico veniva portato ai moribondi, paurosamente, di nascosto, quasi si volesse occultare un reato. Avverte il Tommaseo nel Secondo esilio: «Il prete è pianta anch'esso del suolo ove siamo cresciuti tutti. Siamo migliori e avremo preti migliori».[44] E quei preti erano spuntati da un terreno fracido.

Quando mai Milano aveva veduto qualche cosa di simile? Eppure, s'erano viste ben altre brutture. Nel Seicento, il clero lombardo alla [161] ignoranza più crassa, univa la viltà più abbietta. I preti delle classi nobili venivano dalle campagne, come mendichi in cerca d'un tozzo di pane per isfamarsi e fungevano anche da servitori, in quelle case, come il pret de cà della marchesa Travasa. Erano più gli umilissimi servi dei potenti e dei prepotenti, che i servi di Dio, ch'era cacciato all'ultimo posto. Si pensi a Don Abbondio del Manzoni, creazione che appartiene alla famiglia dei preti del gran Meneghino. Di recente un vecchio rigido parroco della campagna bergamasca, a chi gli magnificava i Promessi Sposi, dopo cupo silenzio si risolse a rispondere così: — Sarà un bel romanzo, non lo nego.... Anzi.... sì, è un bel romanzo; se vogliamo. Ma quel Manzoni fa fare a Don Abbondio una gran brutta figura!... Il ceto dei parroci non è contento. —

Il Manzoni, nel creare il suo Don Abbondio, non prese lo spunto dai tanti preti pusilli e indegni dell'amico suo Carlo Porta. Non ne aveva bisogno. Egli dipinse un ritratto dal vero. Ritrasse, passandolo nell'interpretazione creatrice del genio, un parroco vero e vivo: il parroco di Germanèdo, presso Lecco, don Alessandro Bolis, il quale abitava poco lontano dalla villa paterna del Manzoni, il Caleotto. Don Bolis morì nel 1832, quindi cinque anni dopo la pubblicazione dei Promessi Sposi. Poco amico dei libri qual era, non avrà forse conosciuto, [162] neanche di vista, il romanzo che lo rendeva immortale nei secoli.

Un'altra osservazione. Le monache del Porta non presentano nulla di peccaminoso sul genere della Monaca di Monza dei Promessi Sposi. Il Porta non parla mai, neppure in iscorcio, di passioni, di colpe d'amore che alcune di quelle religiose, spesso monacate a forza dagli avari parenti, dovevano pur, nell'ombra del chiostro, avere provato; e ch'egli, vivendo a frequente contatto con ecclesiastici, negli uffici pubblici, nella società, doveva conoscere. Nulla, neppure sul gusto dei peccati viziosi della Religieuse del Diderot.

Bensì il Maggi ci apre uno spiraglio nella occulta vita dei monasteri del suo corrottissimo Seicento. Una Tarlesca, servente delle monache, ingiustamente maltrattata da una giovane suora, arriva a questa estrema rivelazione, nel querelarsi con lei:

«Guardi un po', se sono cose da fare con una donna fedele di questa sorte; chè io so cose che, soltanto le bisbigliassi, farebbero oscurare il sole».[45]

Il Manzoni non ebbe bisogno d'andar lontano: trovò una specie di Monaca di Monza [163] in famiglia: nella zia Teresa, monaca fra quelle soppresse da Giuseppe II, e che si chiamavano monache giuseppine. Il sommo scrittore spesso confidava agl'intimi amici che qualche cosa egli aveva preso dalla vita di quella sua zia nel parlar di Gertrude, la monaca di Monza. Avrebbe fatto meglio a non dirlo. Ma quando mai il Manzoni non fu sincero?

Leggendo le poesie del Porta, che mostrano nell'autore perfetta conoscenza non solo degli ordinamenti e delle condizioni della diocesi, ma anche del frasario ecclesiastico, della nomenclatura minuziosa di oggetti appartenenti a chiese, vien voglia di domandare: Dove diavolo andò a pescare tutta questa roba?

Ma la meraviglia cessa apprendendo che l'autore di tante poesie anti-pretine era anche amministratore di chiese! Dal Milano Sacro del 1814 si rileva che Carlo Porta amministrava la chiesa di Santa Prassede; si legge il suo nome anche fra quelli degli amministratori di Santa Maria della Pietà, detta la Guastalla.

E assisteva alle prediche dei così detti sacri oratori.

Carlo Porta racconta, in una delle sue lettere al Grossi, come rimanesse stomacato della ciurmeria d'un frate predicatore che, in Duomo, [164] implorando la solita elemosina, disse ai devoti: «Ve la domando straordinariamente abbondante, trattandosi che la è destinata a beneficio d'una povera madre che per colmo di sua disgrazia ha veduto perire su di un patibolo l'unico suo figliuolo». E intendeva, il frate, parlare della Vergine.

Ma non era più goffo ancora il frate zoccolante che, all'ingresso di Massena a Milano, si sbracciava a gettare per ogni dove coccarde francesi?

[165]

XII.

Attraverso le gaie novelle monacali e pretesche di Carlo Porta. — Leggende medievali diventate meneghine. — Carlo Porta e il poeta americano Longfellow. — Descrizione della natura. — La salace avventura di un chierichetto. — Le veglie mascherate. — Nascita di Meneghino nell'arte. — Il Meneghino del Maggi e il Meneghino del Porta. — Interno d'un ricovero di monache soppresse. — Storia scandalosa d'un governatore pontificio. — Chi era? — Ce lo dice una nota del Porta nella Biblioteca nazionale di Parigi. — Le sfuriate morali di Meneghino. — Meneghino in una tragi-commedia. — Sacrificarsi è per lui un bisogno del cuore. — Lo Sganzerlone del Balestrieri.

Una novella del Porta, Ona Vision, ci conduce fra dame bigotte, nella loro vita intima, circondata da preti.

Un dopo pranzo, certo reverendo fra Pasquale, pieno di cibo, si addormenta al tepore del camino, e sogna; sogna mentre le dame, che si onorano di ospitarlo quale confidente del cielo, gli stanno d'intorno pregando a bassa voce, affine di non turbargli il santo chilo. Sono rigidissime dame, cattoliche, apostoliche, romane; socie della Pia Unione fondata nel 1802 dai padri De Vecchi.

[166]

La Pia Unione confortava con le buone parole, coi dolci, coi biscottini, i malati all'ospedale, e, più tardi, fondava scuole gratuite, pei due sessi, e serali e domenicali; oratorii per le ricreazioni festive, ricoveri per le pericolanti, le pericolate, le ravvedute, e soccorsi a domicilio. Era assai benemerita. Ma amava i liberali come il fumo negli occhi e si perdeva in puerilità, onde le baie degli sfaccendati burloni e miscredenti. Le dame di Ona Vision giuravano sulle parole dei padri De Vecchi; li nominavano ad ogni momento; seguivano i loro amori, le loro antipatie. Se badiamo al Porta, si scandalizzavano persino al solo nome del Metastasio, il galante abate, le cui strofette si canticchiavano volentieri ancora dalle belle mondane davanti agli specchi nelle ore degli abbigliamenti. È ameno il sogno che fra Pasquale racconta con gli occhi torbidi, imbambolati dal sonno, col cervello confuso dai fumi del pranzo; amene le loro inquietudini per le cose madornali, per le robaccie addirittura che quell'imbecille, ancora intontito, si lascia uscire di bocca; è amenissima la difesa che don Diego teologo, per ispirito di colleganza, sente il preciso dovere di prendere del momentaneo traviato. Le sottili distinzioni, che da sofista consumato don Diego mette fuori, salvano a fra Pasquale [167] il beneficio pericolante della mensa quotidiana presso le dame. Le quali, nonostante la loro posizione sociale, parlano spropositando, come donna Fabia, come la marchesa Travasa.

Ona Vision è notevole sopra tutto per questo: dimostra quanto i preti spadroneggiassero nelle case delle dame spigolistre, mentre presso una marchesa Paola Travasa erano trattati come servi. Quelle dame e questa appartengono alla medesima casta aristocratica; ma le loro tendenze sono diverse, diversi i loro umori. Le une lavorano ostinate per il trionfo assoluto della Chiesa e de' principii del passato; sentono quindi il bisogno d'essere aiutate e guidate dagli uomini della Chiesa; l'altra si appaga delle sue borie spagnolesche, della sua etichetta, della sua Lilla; ha solo bisogno d'essere ossequiata; sostiene l'altare, ma per tradizione di razza, non già per religione, chè ne ha ben poca se umilia al grado di lacchè il sacerdote, e se, pur invocandolo, pospone l'«Altissimo» a sè stessa. Le seguaci de' padri De Vecchi obbediscono; le marchese Travase comandano. Il prete, presso queste, è un uomo del seguito; presso quelle, è ciecamente considerato come un araldo celeste, ed egli allegramente ne abusa.

Ad Ona Vision, così pervasa da ironia, si collega un'altra satira, ancor più rilevante: [168] Meneghin birœu di ex monegh. Ma, prima di parlarne, tocchiamo di quattro altre saporite novelle: Fraa Zenever, Fraa Diodatt, El viagg de fraa Condutt, e I sett desgrazi.

Fraa Zenever: «Questa novella (lasciava scritto il Porta) è tratta dal libro intitolato: Le meraviglie di Dio ne' suoi Santi, opera del R. P. Gregorio Rossignoli, della Compagnia di Gesù. Vedine l'edizione milanese fattane dal Malatesta nell'anno 1708, parte II, meraviglia XXII, pag. 245». Il Porta derideva quel gesuita Carlo Gregorio Rossignoli, popolarissimo, le cui panzane si ripetevano dai padri «ai figli intenti».

Il Rossignoli predicava nella chiesa di San Fedele, attirando tanta folla quanta più tardi il bello ed eloquente bassanese Giuseppe Barbieri. Le sue prediche duravano appena venti minuti, e consistevano in novellette di miracoli a' quali nessuno credeva, tanto erano grottesche, ma alla cui esposizione tutti si divertivano. Emulo del Rossignoli era il padre Ambrogio Cattaneo; e superiore d'assai, a questi due, per eloquenza, fu il padre Quirico Rossi, gesuita, veneto di Lonigo.

Il Rossignoli è autore del libro Le meraviglie della natura, dove, col suo stile grossolano, narra, fra tante altre, della «antipatia dei cavoli, delle canne colle felci», di frutti che si [169] «convertono in uccelli e in pesci». Cose dell'altro mondo, insomma. Compose pei devoti le Meraviglie della Vergine, le Meraviglie del Purgatorio, e non so quante altre meraviglie. Non vedeva che meraviglie. Per lungo tempo, continuò a meditare sugli argomenti preferiti, come sugli adulatori «simili al polpo», sulle «aringhe che per un'offesa ricevuta abbandonano un tratto di mare», ecc. Ma pazienza le sue fiabe fossero originali: sono brutte copie. La storia di Fraa Zenever, il Porta poteva pigliarla addirittura dai Fioretti di San Francesco, dove si narra appunto «come frate Ginepro tagliò il piede ad un porco, solo per darlo a un infermo». È la stessa novelletta; e chi volesse confrontare la prosa ingenua del trecentista colla poesia del satirico ambrosiano penserebbe a due epoche d'illusioni e d'errori diverse. Fraa Zenever significa Fra Ginepro, un frate che sa benissimo uscire dai gineprai.

Fraa Diodatt è una nota leggenda. Carlo Porta cita il Pratofiorito, da cui disse aver preso il tema. Ma ben prima che frate Ugone de Prato Florido, come si legge ne' suoi Sermones dominicales (Parigi, 1541), narrasse l'estasi centenaria del frate rapito in Dio, ripetevasi, con alcune modificazioni, la stessa leggenda, che è una delle tante medievali. Nei Fioretti di San Francesco si racconta già [170] «d'uno rapimento che venne a frate Bernardo onde gli istette dalla mattina infino a nona ch'egli non si sentì». E si aggiunge: «A questo tesoro celestiale agli amadori di Dio, fu frate Bernardo predetto sì elevato colla mente che per quindici anni continui sempre andò colla mente e colla faccia elevata in cielo; e in quel tempo mai si tolse fame alla mensa», ecc.

Tra i moderni che s'impadronirono della leggenda del monaco, il quale partito dal convento vi ritorna dopo cento anni e non vi è riconosciuto, brillano Carlo Porta ed Enrico Longfellow. Nel Porta, la celia volteriana; nel Longfellow, la sentimentalità. Il Fraa Diodatt dell'uno e il Fra Felice dell'altro si rassomigliano come un'aria buffa del Rossini e una melodia del Bellini. Fraa Diodatt è fratello di Fraa Zenever, benchè questi rimanga in terra e quegli voli al cielo: lo stesso ambiente, lo stesso spirito demolitore, la stessa amenità.

La terza novella, El viagg de fraa Condutt, ci esilara di più. Si tratta d'uno di quei frati che, sfratati per decreto napoleonico, indossavano l'abito da prete, e venivano chiamati, al pari di tanti loro compagni fuori di Milano, per celebrare qualche messa o per figurare in qualche processione di qualche sagra di villaggio.

[171]

Anche Fraa Condutt, travestito da prete, come la Chiesa permetteva, esercita quel mestiere randagio. Il Porta lo dipinge orrido, sudicio, vestito al pari dell'ultimo pezzente, e preso da

quella gran golascia

Del dinar, che el le rod e el le sassina.

Sin dal tempo delle innovazioni anticlericali di Giuseppe II, si stampavano a Milano opuscoli virulenti contro i frati. Tra le pubblicazioni curiose del genere, v'ha: «Leggi la storia naturale novissima del fratismo.... del P. Ignazio Lojola frusta cocolle», ecc. «Nell'Austria; a spese degli sfratati l'anno del lume 1786». Vi si legge fra altro: «Il frate: una bestia in forma d'uomo provveduta d'un cappuccio, urlante di notte, sempre assetata».

Per oltraggio, Carlo Porta chiama Fraa Condutt il suo lurido eroe, perchè riceve tutto.... come una gola d'acquaio. Il Porta pone a Bovisa, villaggio presso Milano, la scena delle buffe contrarietà che deve subire. La breve descrizione d'una mattina fresca e limpida pareggia uno dei tocchi più magistrali dell'Ariosto:

L'eva on'ora o pocch pu de la mattina,

E 'l ciel luster e bell come on cristall:

Tirava on'aria sana remondina....[46]

[172]

Il Porta, da vero poeta, sentiva vivamente le bellezze della Natura e le rendeva con esattezza netta, evidente; ma soltanto di volo. Per descrivere la serenità del cielo lombardo, ch'è così bello quand'è bello, come dice il Manzoni, egli nella volteriana satira On miracol, mirabilmente dice:

L'aria l'è lustra che la par de râs.

La quarta novella è più breve; s'intitola I sett desgrazi, ci porta in carnevale, ed è salace. Si tratta d'un chierichetto miseruzzo del Seminario, il quale si traveste da tacchino e va a teatro, al veglione. Ma il demonio, nemico nato e giurato di tutti i cristiani, specialmente di quelli che hanno sulla testa quell'O pelaa, lo tenta. Passa una procace mascherina, e il chierichetto, vinto da forza irresistibile, la tocca: la tocca là ove non dovrebbe essere toccata. Le guardie lo scoprono, l'arrestano, lo conducono in gattabuia. E basta quella fuggevole audacia carnevalesca per vedersi bell'e rovinata la carriera, povero chierichetto! Ma chi non lo assolverebbe? Lo giustifica, non lo assolve la musa del poeta implacabile nel pubblicare ai quattro venti gli scappucci dei tonsurati. La scappatella del povero seminarista ci ricorda una serie d'ottave vernacole inedite, attribuite a Carlo [173] Porta, conservate, fra altre poesie oscene manoscritte, nell'Archivio di Stato di Milano, e s'intitolano: I donn de Milan ricorren al sur Maresciall Bellegard contra el decret miss fœura al Teatrin della Canobbiana che no se possa palpignà i c.... Questo scherzo basta col solo titolo a darci un'idea della serafica compostezza di quelle veglie. Le licenze di simili veglioni teatrali erano flagellate da un curioso almanacco, che porta per titolo: Le galanti scarselle della cortigiana Frine. È roba d'un anonimo, nemico giurato della moda: e fa parte della raccolta dell'Ambrosiana.

Ed ora largo, o monache e religiosi poco religiosi: largo a Meneghino che irrompe fra voi con la voce del popolo giudice.

Carlo Maria Maggi, già nostra conoscenza, è colui che il Redi chiamava

Lo splendor di Milano, il savio Maggi,

e al quale dobbiamo il saporito principio d'una vera letteratura popolare milanese, in pieno dominio spagnuolo tirannico, cupo, tutto gelido sussiego. Eppure il Maggi era segretario del solenne Senato e illustre professore di eloquenza greca e latina; il che contrastava con quel suo spirito famigliare, vivace, precursore dei nuovi tempi. Carlo Maria Maggi fu il creatore di Meneghino. Ne fece un figlio [174] sviscerato di Milano sua, come si può vederlo nel bell'addio a Milano nelle commedie Il barone di Birbanza che fa pensare al Mercadet del Balzac. Il Maggi eternò Meneghino in tutte le quattro commedie che gli dobbiamo: I consigli di Meneghin, Il barone di Birbanza, Il manco male e Il falso filosofo. E di Meneghino egli fa sempre un servitore.

Però Carlo Porta, nel Meneghin birœu di ex monegh (eccoci arrivati), lo rinnova: gli affida una parte ardita: quella di flagellatore dei costumi del suo tempo, nientemeno!

Anche in quella poesia, il Porta fa indossare, è vero, a Meneghino l'antica livrea del servitore. Egli non serve più i potenti in soglio: serve quattro monacone soppresse dall'inesorabile decreto napoleonico; monache, che vivono insieme, in una famiglia, raccolte da un baciapile in una sua casa; e là convengono ex frati, preti, teologhi, confessori. Esse pagano il fitto sì, ma.... a furia di rosari.

Potrebbero vivere contente, quelle quattro monacone; poichè due converse le servono senza salario; poichè, fra altri vantaggi, e comodi, riscuotono le brave rendite dei loro possessi; poichè infine ricevono (quando la ricevono) la pensione governativa. In seguito alla soppressione dei conventi fatta da Napoleone, ai religiosi di ambo i sessi era fissata [175] infatti una pensione di cinquanta lire milanesi circa: ma la si lasciava sempre arretrata di mesi e mesi, non ostante i reclami; lamenti al deserto. Non pochi monaci e monache, vecchi e acciaccosi, senza sostegni languivano in miseria. Ma le quattro monacone, ricche del proprio, potevano vivere mille volte meglio ch'el Papa a Romma; invece, ecco, esse si crucciano, si macerano per questo, per quello. Ora, s'inquietano perchè nel sabato grasso, si balla oltre la mezzanotte, quand'è cominciata la quaresima; ora si stizziscono per le donne che vanno a passeggio, col collo e le braccia e il seno nudo (se vedessero un po' oggi!...), o con le vesti, secondo la moda, aderenti alle anche e ad altre curve; ora s'inquietano perchè a monsignor Cerina (costui era un frate francescano fatto vescovo da Napoleone) fu tolto l'ufficio d'amministrare la cresima; e si arrabbiano perchè si permettono spettacoli teatrali in Quaresima, e perchè a Monza (questa è graziosa) vogliono nominare arciprete un nano, per il quale bisognerà accorciare tutte le pianete (si trattava d'un prete Bussola piccolissimo) e via via.[47]

La vita pettegola, astiosa del convento rivive in quel ricovero sussidiario. Ma la scena piega verso la satira, allorchè da una [176] lettera strabiliante venuta da Roma, si apprende la storia scandalosa d'un Governatore pontificio, del quale la satira del Porta non fa il nome. Chi era?

Fra i manoscritti del Porta, che nella vasta collezione delle carte italiane, trovai alla Biblioteca Nazionale di Parigi, lessi questa risposta autografa del poeta stesso:

«Il nipote del cardinale Pacca, giovane prelato, che rappresentava il governo papale nella commissione diplomatica di Milano; poi governatore di Roma; fuggito in America per debiti, con manomissione del denaro pontificio». Nella sua satira, Carlo Porta lo fa fuggire fra i Turchi; lo fa diventar turco.

Gli ex frati e preti, tutti quanti raccolti presso le quattro ex monache, vogliono cercare l'arcana ragione del criminoso procedere dell'illustre prelato governatore. Ed ecco un ex domenicano, don Samuele, vi vede la mano di Dio che punisce la stessa sua Chiesa, perchè ha abolita la Santa Inquisizione (con relativa tortura, s'intende):

El giurava che l'eva per reson

D'avè abolii la Santa Inquisizion!

Chi fra que' preti ed ex frati afferma che simili scandali sono conseguenza dei peccati che [177] si commettono; altri pensano che la vera causa risieda nelle candele magre, sottili sottili, offerte ai sacerdoti nei battesimi e nei funerali. Ma un pretaccione si alza e, guardando di tanto in tanto fisso Meneghino, spiffera tutta una filippica sulla cagion vera degli scandali; e la cagione (egli dice, o meglio tuona) sono gli operai, col loro biasimevole contegno: i beoni, gli oziosi, i mariti imbecilli che lasciano ogni libertà e licenza alle mogli, e via via.... Una requisitoria in piena regola sui mancamenti, sui vizi del popolo. E il terribile censore finisce col vibrare un'occhiataccia a Meneghino, che pare voglia avvelenarlo. Ma Meneghino gli risponde fierissimo per le rime, enumerando tutti i vili mercimoni dei preti; fra altri i prezzi pei rintocchi delle campane che suonano l'agonia dei morenti.

I rintocchi di campane per accompagnare un agonizzante all'altro mondo valevano, infatti, tanti soldi per ciascuno. Non tutte le chiese potevano però sonare le agonie. Nello almanacco Milano sacro erano segnate quelle che godevano del lugubre e lucroso privilegio.

Peccato che Meneghino, in un'altra poesia del Porta, faccia sì deplorevole figura! Nel Brindes de Meneghin a l'ostaria egli inneggia, col bicchiere in mano, all'imperatore d'Austria, [178] Francesco I, il nuovo padrone dispotico di Milano, gridando a squarciagola:

Viva semper Franzesch nost patron!

E arriva a chiamarlo:

Quel patron caregh râs de vertù (colmo di virtù).

Ma egli è all'osteria, si badi. Dev'essere brillo per lo meno, con tutti quei vini che ingolla. Manco male che egli, sopra tutti i vini stranieri, esalta, con patriotico slancio, i vini nostrani; nel suo indiavolato ditirambo, che per vivezza pittoresca di frasi e impeto e furor bacchico e loquacità allegra, propria dei beoni di buon cuore, si lascia indietro lo stesso modello classico, Bacco in Toscana del Redi, e, più ancora, El vin friularo, ditirambo del poeta veneto Pastò, probabilmente letto dal Porta durante il suo soggiorno a Venezia; quel Lodovico Pastò, al quale si deve una piccante satira di depravati costumi femminili: Le smanie de Ninetta in morte de Lesbin; la quale, per il soggetto canino (Lesbin è un cagnetto....) si può mettere accosto alle tenerezze della marchesa Travasa per la famosa Lilla. Ma il Porta non discende sino alla malizia del Pastò.[48]

[179]

Meneghino, che Cesare Cantù riconosce sotto le vesti del povero operaio, goffo, spavaldo, ben bastonato Bongee, comparisce nel birœu di ex monegh, ardito, vivacissimo polemista. Non le piglia più, le dà. Sono botte morali, poichè sono ancora lontane le Cinque Giornate. Egli è ancora servitore, semplice servitore, come una volta; ma in mezzo alle monache cui serve, in mezzo ai preti, alza la testa, la fa da padrone; di più, è quasi rivoluzionario. In un conciliabolo di religiosi che rappresentano il passato, egli rappresenta i nuovi tempi.

Birœu non significa altro che servitore; peggio, servitoraccio. E birœu de la festa era il nome che si appioppava a que' servitori che certe signore di poco conto o dame gonfie di fumo prendevano a pagamento solo la domenica (onde Domenichino, Meneghino, Meneghin) per condurselo dietro e comparire da qualche cosa.

La voce birœu in significato di domenichino viene da ciò, che siccome il pirolo (birœu) tira su le corde del violino od altro strumento a corda, così quel servitore tirava su e sosteneva lo strascico della veste della padrona, quando questa scendeva pomposamente lo scalone del palazzo o passeggiava riverita, inchinata dai parrucconi suoi pari. Ed era comico il vederlo con tanto di livrea e di spadino e di tricorno succedere al goffo campagnuolo Baltramm [180] de Gaggian: comico il sentirlo cicaleggiare coll'alta dama sua padrona, riportando a lei i pettegolezzi del popolo e al popolo quelli della società titolata, egli, come i trovatori del medioevo, intermediario e anello di congiunzione fra chi splende in alto e chi fatica oscuro al basso.

Ma un'altra volta ancora Carlo Porta fa parlare Meneghino: nella «comi-tragedia» Giovanni Maria Visconti, composta insieme con Tommaso Grossi. Gli muta il nome: lo chiama Biagio da Viggiuto.

Meneghino, cioè Biagio da Viggiuto, è «uomeno d'arme» di Lucchino del Maino, e gli è fedel servitore. Il suo massimo piacere è quello di giovare, sia pur menando le mani, al suo padrone. È pronto a tutto lui, oggi, come nel passato. Il suo padrone può confidargli ogni segreto, e non permette che egli ne dubiti.

E Lucchino del Maino (congiurato con due Trivulzi contro il crudele Giovanni Maria Visconti duca di Milano), dopo di avergli domandato perdono del dubbio, lo rassicura così: «Non sarà mai ch'io ti manchi di gratitudine; ma appunto perchè sono grandi i sacrifici ch'io ho finora da te ottenuti, non sapeva chiedertene uno nuovo, senza tentare in prima le presenti disposizioni dell'animo tuo».

[181]

E Biagio, nel suo rustico linguaggio, pronto (si confronti il modo di pensare dei domestici d'oggi):

«Sacrifizi el ghe dis? Scior no. Quist hin paroll de lor sciori, e nun poveritt noj capissem. Nun femm i coss a la materiala, e no femm tante reson.»[49]

E ricorda ch'egli e i suoi nacquero in casa del Maino; ch'egli fu tiraa su grand e gross, mantegnu, soccorruu, e prorompe con impeto generoso:

«E mi aveva di far nagott per lor? Sta vitta, sto sangu, sto fiaa che respiri, hin robba sova, e ne hoo de spendi per lu, de dovraj a on besogn?»[50]

Così parla Meneghino al suo padrone. È una perfetta dedizione la sua. Sacrificarsi è un bisogno del suo cuore.

Ma della comi-tragedia, che si toglieva dal convenzionale, e degli altri personaggi, c'intratterremo meglio nel momento più opportuno.

[182]

Il carattere di Meneghino, attraverso le commedie e le poesie milanesi, non rimase sempre lo stesso: ogni autore volle aggiungergli qualche cosa di suo.

Domenico Balestrieri, del Settecento, inventò un personaggio, Sganzerlone, un sopracciò dal toscano spropositato, in contrasto con Meneghino, del quale affetta di non sopportare le trivialità. Ma Sganzerlone è un'ombra passata; Meneghino vive e vivrà, mercè il Maggi e il Porta.

[183]

XIII.

Il capolavoro di Carlo Porta. — Dove la plebe andava a ballare. — Un povero storpio innamorato. — Esame del Marchionn di gamb avert. — Le donne del Goldoni e la Tetton di Carlo Porta. — L'umorismo portiano. — Umoristi. — Carlo Porta grande stilista. — La Ninetta del Verzee. — Carlo Porta ed Emilio Zola. — Come nacque la Ninetta. — Giuseppe Bossi e il suo Pepp perucchee. — Giudizio del Porta su questa novella. — Olter desgrazi de Giovannin Bongee. — Postille del poeta.

Ma eccoci al massimo capolavoro del Porta: Lament del Marchionn di gamb avert (Lamento di Melchiorre dalle gambe arcuate).

Nelle sere di carnevale, ne' primi anni del secolo passato, in una via remota e deserta, detta Via Quadronno, infimi operai e sfaccendati volgari si radunavano presso un certo Battista, che apriva una sala, a ballare, a ridere. Il signor Battista era il deus loci, il conduttore, direbbero oggi, di quei festin de rœuda (dal nome rœuda, capriola), dove, per una misera moneta, ognuno aveva diritto di entrare e ballare anche in maniche di camicia, col berretto in testa e magari con tanto di zoccoli infangati. Niente di più plebeo di quelle [184] riunioni. Certe femmine da strapazzo v'erano collocate fin dalle prime ore della sera per attirare gli allocchi e farli saltare come dannati. Le chiamavano stellônn, per somiglianza ai zimbelli (in milanese stellônn) che chiamano gli uccelli al paretaio. I suoni d'una misera orchestrina accompagnavano quei balli confondendosi alle risate, agli strilli di gioia e, spesso, agli alterchi iracondi, vivacissimi, per gelosie, pretese mancanze di riguardi (caspita! in quella Corte dei Valois!) che finivano con le botte, con le coltellate e con gli arresti.

Povero Marchionn di gamb avert! Nato forse in una di quelle tane, buie, umide, senz'aria, dove la rachitide e la scrofola deformavano la creatura umana, quando non la spegnevano; costretto a vivere nel bugigattolo d'un ciabattino dove rattoppa scarpacce, va la sera, dopo il lavoro, barcollando sulle gambe arcuate, nella sala di quel Battista, là, in quel luogo di delizie, a sonare il mandolino nella piccola orchestra; poichè, nei ritagli di tempo, il disgraziato coltiva con passione, unico suo conforto, la musica. Per la sua breve statura, lo chiamano il nano; è brutto, ha il viso bucherellato dal vaiuolo, che a quel tempo imperversava diffuso, specialmente fra il popolo ribelle all'innesto di Jenner, che, d'altra parte, le autorità non si curavano d'imporgli, trattandolo da armento [185] o quasi. Marchionn è un povero scemo; e, fra le altre disgrazie, lo coglie la peggiore: d'innamorarsi di una di quelle gemme di bellezza e di virtù, certa Tetton, così chiamata dal seno colmo ch'ella ad arte sporge in mezzo agli adoratori del lubrico festino. Egli stesso racconta le proprie sventure, non dissimile in questo da Giovannin Bongee; le racconta per isfogare la piena del dolore: dolore per gli inganni e il tradimento infame del quale cade vittima in una trappola tesagli dalla Tetton, dalla madre di lei e complici. Anche qui c'incontriamo ne' soldatacci francesi, lesti nell'impossessarsi tutti quanti di quella facilissima Tetton; più lesti di quell'infelice Melchiorre dalle gambe ad arco, che arriva sempre in ritardo, in mal punto, e che, pien de lœuj (svogliataggine) de fastidi e pien de corna, finisce in rovina e in pianto.

Nelle commedie del Goldoni è la donna, sempre la donna, colei che impera sull'uomo, sia con le grazie ritrose e pudiche di Mirandolina, sia con l'astuta padronanza delle serve, delle donne inferiori. Il raggiro, l'intrigo femminile è uno degli elementi delle commedie del Goldoni, che il Manzoni metteva al di sopra del Molière.[51]

[186]

Ma gl'intrighi delle donne del Goldoni non sono mai scellerati: quelli della Tetton del Porta rivelano un cuore cattivo e fanno meglio risplendere l'ingenuità sempliciona del Marchionn, ch'ella avvince a sè e inganna nel modo più vituperevole. Si sorride quando Marchionn, il nano, si vanta d'essere stato un giorno lui il capo delle gaie brigate, il beniamino di tutta Milano; non si sorride più pensando ai grossi guai che ingoia, vittima d'una passione e per una donnaccia che, bella e seducente in vista, adopera il filtro della stria (strega), come Marchionn la chiama nella sua disperata confessione, nel suo lament, che desta pietà.

L'Italia vanta capolavori imperituri dell'arte buffa: bastino il Matrimonio segreto del Cimarosa, il Barbiere di Siviglia del Rossini, il Don Pasquale del Donizetti; ma difetta di romanzi comici. Il Lament del Marchionn di gamb avert è un piccolo romanzo comico irrorato di lagrime. È il primo modello d'umorismo in Italia, nel senso vero della parola, che include riso e dolori, qual'è la vita. Nella prosa fiorisce mestamente, più tardi, il Manoscritto d'un prigioniero del livornese Carlo Bini; emette pruni e spine l'Asino del Guerrazzi; ma, sopra tutti, giganteggiano i Promessi sposi, che, sotto l'irradiazione religiosa trionfale, nascondono [187] un sentimento così amaro della vita, che si rimane talora sbigottiti quanto, quasi, il verso funereo del Leopardi. Anche in Carlo Porta il senso della vita è amaro. Così doveva avvenire in una società di mutamenti rapidi e profondi che, come le guerre, mandavano a galla il peggio. La passione di Marchionn è descritta in tutto il suo svolgimento fatale. La psicologia che il disgraziato fa di sè stesso ci mostra che la sventura gli ha dato, come talora succede, una chiaroveggenza tarda sì, ma precisa e inesorabile. La Tetton, sua madre, i suoi ganzi, i luoghi dove si svolgono le svariate vicende, persino le figurine secondarie, tutto appare vivo. Quando Marchionn, attanagliato dalla gelosia, corre al veglione del teatro La Cannobbiana, vestito da turco, per iscoprire la temuta infedeltà della Tetton, e sfoga la sua ira su gente mascherata che balla allegra per proprio conto, e che non è, no, quella ch'egli suppone (non è, infatti, la Tetton, nè il sarto, nè il sargente suoi rivali, bensì persone a lui sconosciute); quando poi s'incontra davvero nella Tetton e compagni, il comico, sorto dall'equivoco cresce, scintilla.

Quale ritrattista il Porta!

Basterebbe la pittura delle bellezze della Tetton, di codesta Alcina di Via Quadronno, per riconoscere un artista finissimo. Si pensa [188] al ritratto d'Alcina nel settimo canto dell'Orlando furioso. Il Porta gareggia con l'Ariosto.

Il veneziano Pietro Buratti fu de' primi a trattare con artistico vigore la novella in versi vernacoli; ma Carlo Porta lo vince nella sobrietà dell'arte narrativa, nella finezza dei particolari psicologici, nella profondità dell'ironia.

Grande stilista è il Porta. Il dialetto nativo non ha segreti per lui; egli ne possiede le espressioni caratteristiche, gli scorci pittoreschi, le maliziose acutezze, nella varietà dei metri; laddove il romanesco Gioachino Belli non tratta che la forma del sonetto, il solo sonetto, arma corta, nella quale il Porta resta, a dir vero, inferiore al Belli.

Il verso del Porta parla. Tutto il suo è un discorso parlato. Marchionn chiama in cerchio tutti, ad ascoltare il suo dolente discorso: ha irresistibile bisogno d'un libero sfogo nella sua desolazione, pover'uomo!, e quel discorso è espresso con tal naturalezza e verità che nulla più.

La Ninetta del Verzee, in ottave fluenti al pari delle strofe in endecasillabi e settenarii del Lament del Marchionn di gamb avert, s'accoppia a questo capolavoro per l'argomento e per l'effetto sentimentale.

È anch'essa una storia di tradimento amoroso. Ma la vittima, questa volta, non è l'uomo; [189] è la donna, una pescivendola del Verzee (mercato); il traditore è un parrucchiere. Costui abusa della passione che accese nella Ninetta, la sfrutta, la spoglia di tutto, la spinge a una vita di miseria, d'abbiezione, e la infama per giunta.

La passione della sventurata per quel farabutto arriva al tragico. Ninetta si sa ingannata, si vede spogliata d'ogni suo avere, e non può rompere la catena fatale che la serra, la stringe, la strugge.

Ci fa pensare all'arricchita mercantessa di Monsieur Alphonse, commedia di Alessandro Dumas figlio. Colei, quando si scopre tradita da Alfonso (che ha pure sedotto una signorina di buona famiglia rendendola madre), ha un lampo rivelatore. S'accorge, benchè troppo tardi, che il suo viso volgare e brutto non poteva piacere al figuro elegante, che l'ha sfruttata e ingannata, ed esclama: «Ma il cuore non sa com'è fatto il viso!»

Ninetta racconta la propria storia a un cliente, che va a trovarla.... Il suo linguaggio è osceno. Ma ella, la pescivendola, doveva forse adoperare il linguaggio della romantica Margherita Gauthier, vissuta fra amanti signorili?

Anche dalla Ninetta del Verzee sgorga la pietà.

[190]

Carlo Porta, nel Giovannin Bongee, nel Marchionn, nella Ninetta, ci rappresenta tre creature del popolo oppresso e calpestato. La semplice e sola narrazione delle loro sciagure è una fiera condanna degli scellerati; è più eloquente d'ogni espressa morale. Ivi risplende più che un poeta: balena un vendicatore.

Prima che apparissero l'Assommoir e Nanà, Milano aveva adunque il suo Zola nel Porta. Anche allora che soggetti osceni lo trascinano al basso, il Porta, somigliante all'Anteo della favola, attinge forza dalla terra e solidifica la strofa col contesto ben equilibrato delle frasi, dei versi pittoreschi, nei quali parla la stessa Natura.

Ma come nacque la Ninetta del Verzee?... Nacque da un'altra novella in ottave milanesi: da El Pepp perucchee del pittore-poeta Giuseppe Bossi, grande amico del Porta; ma è il rovescio della medaglia. Nel Pepp è lui, Giuseppe, l'ingannato; Ninetta è l'ingannatrice.

Il Bossi fa del Pepp una specie di funebre Jacopo Ortis del pettine, cospargendo di patetica rugiada le ottave, come quando accenna alle campane dell'Avemmaria all'alba:

Quand i campann fan tucc on cert lament

Che streng al cœur de la malinconia.

[191]

Fra le carte lasciate inedite dal Porta, trovo queste parole di prefazione alla Ninetta del Verzee, parole che ne spiegano l'origine, e che mostrano in qual modo l'occasione possa suscitare un'opera d'arte; e poi si disprezza la poesia d'occasione come l'infima moneta della poesia!

«Le seguenti stanze furono da me scritte in disinganno di chi aveva attribuito a me la composizione di alcune ottave che furono da ignota mano spedite al mio cugino Baldassare Maderni col mezzo della posta. Con questo componimento l'autore incognito imita il famoso e notissimo lamento di Cecco di Varlugo, e pone a posto di Cecco il Pepp parrucchiere che si duole della infedeltà della Ninetta del Verzaro sua bella. — Se non vi fossero state nominate con disprezzo delle persone viventi e dei corpi troppo rispettabili per episodio di questa composizione, non avrei avuto a male di esserne io creduto l'autore, nè mi sarei trovato nella necessità, replicando, di trattare un argomento che per natura sua non poteva contenersi nei limiti della riservatezza.»

Vi è, infatti, nominato un marchese Villani, giocato da una baldracca. Ma i «corpi troppo rispettabili» dove sono?... Sono evaporati?... Il Porta non sapeva che il Pepp perucchee fosse del Bossi.

[192]

Il bellissimo successo suscitato da Desgrazi de Giovannin Bongee eccitò il Porta a continuare il racconto di quelle disgrazie, che si tirano l'una coll'altra, come le famose ciliegie di cui discorre in una letterina il padre Cesari; e intitolò il suo componimento in rapide ottave Olter desgrazi de Giovannin Bongee. A rovescio di quegli scrittori che non riescono troppo felicemente nel dare continuazioni a' propri capolavori acclamati, come F. A. Bon al suo Ludro, o Vittorio Bersezio alle Miserie d'Monsù Travet, il poeta milanese riuscì felicissimo nell'iliade del malcapitato panciuto che, stavolta, è protagonista d'un'azione più vasta, e non è solo, chè la sua florida metà, Barborin, esce in luce. Anche stavolta, il Bongee si sfoga con il lustrissem scior, che noi non vediamo e che non gli risponde. È un'altra pagina della brutta cronaca milanese e de' costumi del 1813, anno in cui il poeta la ideò questa poesia. Nessun altro scritto del Porta fu da lui annotato più di questo: le sue postille illustrano la cronaca minima di quel tempo, che qui riassumiamo.

Nella primavera e nell'autunno del 1813 si rappresentò al teatro della Scala, con clamoroso successo, un nuovo ballo spettacoloso intitolato Prometeo, del famoso coreografo Salvatore Viganò; e nelle Olter desgrazi esso è descritto nel linguaggio del Bongee, che ci esilara [193] scambiando egli cose e persone. Nel ballo, un mimo vestito da avvoltoio — e il Bongee lo scambia per un tacchino (pollin)! — compariva sul Caucaso e andava a rodere regolarmente il cuore dell'incatenato Giapetide, ch'era rappresentato dal primo ballerino Chouhous. E Carlo Porta nota: «In questo ballo vedevansi rappresentati i segni dello Zodiaco e lo stesso Carro del Sole con figure vive e naturali». E quante altre cose mirabolanti! Nell'opera cantava una Correa, tarchiata, tozza e smorfiosa, che Giovannin Bongee chiama l'«occa». E Carlo Porta annota: «La signora Correa, espertissima cantante, ma quanto abile nella sua professione altrettanto soggetta alle malattie dell'arte. In quell'anno (1813) stancò veramente la sofferenza del pubblico, al quale alcuna sera pareva cantare per far grazia ed alcun'altra per far dispetto.»

Ma alla povera moglie del Bongee, alla Barborin, che osservava col marito dal loggione lo spettacolo, toccò una bene spiacente avventura! Uno de' lumai, che stavano là di servizio, si permise un pizzicotto sulle curve più procaci di lei. E intorno a questa audace vicenda è tessuta tutta una farsa da ridere. Giovannin, il marito offeso, finisce alla polizia e messo sotto chiave, peggio che non fosse Giacomo Legorin. E il Porta spiega: «Legorin, famoso [194] assassino, che, in compagnia di parecchi malviventi, infestava i contorni del Milanese nel secolo XVII».

Comiche scenette, figure buffe; un'altra pagina della Milano d'allora; un'altra scena della vita popolare.

Se il Porta avesse frequentato la così detta alta società, chi sa quali vive scene avrebbe copiate! Non fa motto nemmen di quelle che, senza dubbio, deve aver conosciute per sentite dire.

Il cicisbeismo, putrefazione della cavalleria, non era spento del tutto quando Carlo Porta satireggiava, e l'abbiam visto. Ma egli non lo toccò. Ne resta, adunque, la gloria ad un altro Carlo, a Carlo Goldoni, e al Parini. Il Goldoni, senza la satira che esagera, rappresenta i cicisbei nella coraggiosa commedia Il Cavaliere e la Dama, quattordici anni prima del Mattino e sedici anni prima del Mezzogiorno del Parini.

[195]

XIV.

Moderati, accorti ripieghi di Napoleone. — Nuove nomine napoleoniche. — Un ladrone: Sommariva. — I cittadini Visconti e Ruga e le loro mogli. — Il generale Massena lascia Milano con la borsa ricca. — I Comizi di Lione. — Solenne proclamazione della Repubblica italiana: Napoleone presidente, Francesco Melzi d'Eril vice-presidente. — Morte dell'arcivescovo Visconti e del deputato Raffaele Arauco primo marito della moglie di Carlo Porta. — Napoleone disarma Leopoldo Cicognara. — Torna in ballo la moglie del Cicognara. — Murat contro il Melzi. — Una Fossati intrigante politica. — Finte collere di Napoleone. — L'ordine è ristabilito. — Grandi innovazioni. — Il vaiuolo, l'innesto e una poesia di Carlo Porta. — Il Melzi rende onore alla memoria dell'Arauco. — Le poesie dell'Arauco.

Per illustrare l'opera poetica di Carlo Porta, che respira dell'aura del suo tempo, dobbiamo ripigliare il filo degli avvenimenti che trasformarono di nuovo Milano.

Napoleone, che, alla vigilia d'invadere Venezia e di rovesciarne la secolare gloriosa Repubblica, aveva brutalmente minacciato d'essere un Attila pei Veneziani, che allora non potevano difendersi perchè inermi, non eseguì alla lettera gli ordini infami del Direttorio francese, [196] il quale lo eccitava a infliggere al territorio milanese il maggior male possibile, col «guastare anche i canali e le altre opere pubbliche».

Ritornato padrone del Milanese mercè la portentosa vittoria di Marengo, Napoleone, trovando necessario restaurare la Repubblica cisalpina, sorresse la parte onesta e moderata contro gli esaltati e i facinorosi, che avevano oppressa, oltraggiata la Repubblica, con lo spogliarla da quei ladroni che erano: gatt in grand li chiamò il Porta; incliti ladri li chiamò il Foscolo. Giovanni Battista Sommariva, prima segretario, poi membro, quindi presidente del Direttorio, fu escluso con suo pubblico disdoro dal secondo Direttorio; ma egli, da umile stato, s'era ormai formato, con le ruberie, enormi ricchezze; parte delle quali spese (manco male) nell'acquisto d'opere d'arte per adornarne la sontuosa villa dei Clerici, da lui comperata nell'incantevole Cadenabbia sul lago di Como, e caduta più tardi in mani tedesche. I soli accademici bassorilievi del Trionfo d'Alessandro del Thorvaldsen, che fasciano le pareti d'una sala della villa, il Sommariva li pagò mezzo milione, cifra maiuscola allora!

Napoleone, non ostante la ben nota mediocre intelligenza del leguleio Sommariva, lo aveva nominato, non si sa perchè, insieme [197] col marchese Visconti e con l'avvocato Ruga, marito della stupenda, procace dea che abbiamo trovato alla Scala, a membro del Comitato che concentrava le attribuzioni d'una disciolta Commissione di nove membri, fra i quali Raffaele Arauco, primo consorte della moglie di Carlo Porta; ma non tardò a conoscere quella buona lana del Sommariva e lo colmò di sommo disprezzo. A dir vero, le male lingue si esercitarono anche sul conto del Visconti e del Ruga: dicevano che i due «cittadini» avevano ottenuto quei posti in grazia delle loro mogli troppo sorridenti ai primari generali francesi.... Notissimo che la Visconti era l'amante del generale Berthier; ma era uomo di probità specchiata; e l'avvocato Ruga aveva spiegata virile, oculata fermezza nella questione della vendita dei beni nazionali. Intanto, il generale Massena se n'era andato da Milano, non senza aver prima costretto la Municipalità a sborsargli 300,000 lire; e fu sostituito da un Brune, che lasciò bastonare dai profughi cisalpini, rientrati, preti e frati sugli scalini del Duomo.

Ma la seconda Repubblica cisalpina non finiva di piacere allo stesso Napoleone, che rivolgeva nella mente vastissima innovazioni più ampie.

[198]

Da questo momento, il Grande spiega meglio la sua prodigiosa potenza di statista e di legislatore.

Per formare una seria repubblica, Napoleone, che intanto, per le strepitose vittorie riportate, da generale era salito a primo console in Francia, convocò a Lione una Consulta straordinaria di 452 notabili (notabili moderati, si noti) dei ventiquattro dipartimenti onde la Cisalpina era composta: Milano capitale.

La scelta stessa di Lione a sede della Consulta rassicurava. Lione, nel 1793, non era insorta contro la Convenzione nazionale, ligia qual era alla monarchia?

Ma la stagione volgeva rigidissima. Nevi e nevi. Pure tutti mossero al convegno solenne; tanta era la sete di uno stabile riordinamento. L'arcivescovo di Milano, Filippo Visconti, colui che aveva incensato l'eretico Suvaroff nel Duomo, rispose, benchè ottuagenario, anch'egli alla chiamata. Giunse a metà dicembre a Lione; ma il povero vecchio soccombette ai disagi del viaggio, al rigore dei geli, alla grave età, alle vive emozioni. E, a Lione, morì un altro deputato, e dei migliori, l'accennato Raffaele Arauco, poeta ed ex-ministro della Cisalpina.

I Comizi di Lione (così li chiamarono), furono preseduti dallo stesso altero Napoleone; e non fecero che approvare, quasi senza discussione, [199] lo statuto che il Bonaparte aveva bell'e preparato e portato con sè.

Un presidente elettivo, decennale, a cui spetta la nomina dei ministri; tre Collegi elettorali, composti uno di possidenti, il secondo di dotti, il terzo di commercianti; una Consulta di Stato di otto cittadini, che eleggono il presidente, vigilano all'ordine interno e curano le relazioni diplomatiche; una Commissione di Censura composta di 21 cittadini, nominati in egual proporzione dai Collegi elettorali, la quale deve eleggere i membri della Consulta, del Corpo legislativo e dei Tribunali supremi; un Corpo legislativo formato di 75 cittadini, cui spetta di fissare le proposte di legge; un Consiglio legislativo, composto almeno di dieci cittadini, il cui compito è quello di compilare le proposte di legge e sostenerne la difesa di fronte al Corpo legislativo; ecco qual era la nuova Costituzione. A presidente fu eletto dai Comizi, quasi unanimi, Napoleone. E, per volontà di questo, a vicepresidente Francesco Melzi «il Giusto».

Così la Repubblica si spogliò del nome screditato e restrittivo di Cisalpina, e assunse quello di Repubblica Italiana.

Era il 26 gennaio 1802.[52]

[200]

E ora un aneddoto, che dimostra l'abilità astuta e pieghevole, in certi casi, dell'uomo più dispotico e indomabile autoidolatra insieme, che sia comparso nella storia moderna.

Leopoldo Cicognara, già membro del Gran Consiglio della Cisalpina, ambasciatore della stessa a Torino, e deputato ai Comizi di Lione per Ferrara, aveva negato il proprio voto a Napoleone quale presidente della Repubblica. Napoleone lo seppe e, nell'uscire dal Consesso, gli disse sorridendo: «Ah! Cicognara!... Vi ho nominato consigliere di Stato».

Più tardi, Napoleone gli dirà:

«Cicognara! Non badate ai consigli di vostra moglie, altrimenti cadrete nella mia disgrazia per sempre».

Noi conosciamo, e abbiamo già sentita la contessa Cicognara.

Dieci nazioni (come Napoleone chiamava le regioni italiane....) formavano la Repubblica italiana: milanesi, mantovani, bolognesi, novaresi, valtellinesi, romagnoli, bergamaschi, cremaschi, bresciani e veneziani; ma anche i suoi giorni erano contati; giorni, peraltro, pieni di febbrile lavoro civile.

Il Melzi, dopo quattro anni d'esilio, rivide il 7 febbraio la sua Milano, che lo accolse con onore. Alla sera, quando al teatro alla Scala s'affacciò a un palco fra i generali Pino e [201] Murat (che, geloso di lui, gli minava sotto il terreno), una salva d'applausi lo accolse. Una clamorosa festa di ballo, gratuita (figurarsi quali coppie squisite!), seguì allo spettacolo.

Solenne l'inaugurazione della Repubblica italiana. Si svolse il 14 febbraio, con altosonanti versi del Monti, che si leggevano sotto improvvisati e simbolici bassorilievi. Napoleone vi era chiamato «gallico eroe».

Furono nominati i ministri. Giuseppe Prina, novarese, forte finanziere, venne chiamato alle finanze per volontà dello stesso Napoleone, che lo aveva udito parlare saggiamente nei Comizi di Lione. Chi mai avrebbe profetato all'infelice che, dodici anni dopo, sulle vie di Milano....!?

Il Melzi si circondò d'uomini valenti e retti. Sfollò gli uffici pubblici da orde d'impiegati accolti per favori, non per merito, e premiò il merito. Il ladro Sommariva, rovesciato, tentava, sorretto dal Murat e da una signora Fossati, con arti subdole, di rovesciare il Melzi, che nel Moniteur svelò alla fine le sue ribalderie nella pubblica amministrazione, e lo bollò per sempre con marchio di fuoco.

Quella signora Fossati, una intrigante sullo stampo della famigerata moglie del famigerato avvocato Traversi, teneva conciliaboli contro [202] il «sistema francese». Napoleone lo seppe, e accusò i ministri di trascurare il loro dovere, perchè non sopprimevano quei convegni, e trascese in oltraggiosi dubbi sulle sorti della Repubblica. Ma era facile capire che quelle sfuriate non si risolvevano che in un astuto pretesto, per preparare la distruzione della Repubblica, pur fresca creatura sua, e aprirsi la via al trono, come fu.

Intanto, l'ordine a poco a poco fu ristabilito. La religione, il culto e i suoi ministri riebbero il pubblico rispetto. Rialzàti in onore gli studi e gli studiosi; fondate nuove istituzioni civili; abolito il calendario repubblicano francese, che imbrogliava cominciando col 22 settembre, e faceva ridere i buoni ambrosiani con quel brumaio, nevoso, piovoso.... anche quando risplendeva il più bel sole d'Italia.

Un atto politico-religioso rilevantissimo non va pretermesso: il concordato col papa. Lo volle Napoleone, che alla fine dichiarò la religione cattolica religione dello Stato, e liberi gli ecclesiastici di possedere. Ma, nel promulgare il concordato, Napoleone, obbedendo alla voce imperiosa dell'innato dispotismo, ne fece una delle sue: v'aggiunse alcuni capitoli che menomavano le prerogative ecclesiastiche. Il papa, ch'era Pio VII (Chiaramonti), successo allo straziato Pio VI, del quale doveva seguire [203] la sorte con la violenta deposizione dal potere temporale, non volle, per quel motivo, pubblicarlo; e in quel momento (non poi) fu degno del suo soglio.

La Repubblica italiana pensò alla salute pubblica. Il vaiuolo faceva strage ogni anno. Fu quindi emanato l'ordine sull'innesto obbligatorio, con pene ai medici che si fossero rifiutati a praticarlo, gratuitamente, a tutti coloro che lo richiedevano.

Milano non fu tra le prime città che accogliessero l'innesto del vaiuolo. Non ostante l'apostolato del dottor Sacco, le pubblicazioni di Emanuele Timone (1713), di Giovanni Calvi (1762), di Giammaria Bicetti de' Buttinoni (1765), dei versi del Parini sull'innesto indirizzati appunto al dottor Bicetti e a' quali il Manzoni, da giovane, voleva far seguire un poema rimato, L'innesto del vaiuolo, di cui si conoscono solo due mirabili versi; non ostante gli sforzi di altri che cercavano di vincere i pregiudizi contro l'invenzione benefica, questi duravano. Anche più tardi, e per un bel pezzo, le madri si mostravano restie a concedere i propri bambini ai vaccinatori. Carlo Porta trovò il punto comico di codeste titubanze delle madri, e, come spirito liberale, cercò di dissipare i pregiudizi ridicoli col ridicolo. Un suo sonetto si finge diretto a un pezzo grosso, [204] al solito illustrissimo. È malizioso, salace, arguto:

A proposet, lustrissem, de vaccinna,[53]

Ch'el senta, s'el vœur rid, questa ch'è chì,

Ch'el sarà on mês che la m'è occorsa a mì

In del fà vaccinnà la Barborinna.

Gh'era in cà del dottor ona mamminna

Che l'eva in d'on fastidi de no dì

Per scernì fœura el sit de fà insedì

I varœul a ona sova piscininna.

Minga chì, perchè chì el dà tropp in l'œucc,

Minga là, perchè là se vedarà,

Chì nanch, perchè ghe resta el segn di bœucc.

Tira, bestira on mondo de reson;

Fin ch'el medegh, per falla quïettà,

Femmegh l'inest, el dis, in sui garon?

Oh, che tocc de mincion!

(La sclama sta sciorinna a l'improvvista),

Sui garon? giust inscì: pussee anmò in vista!

[205]

E Milano si divertiva. Nella sera del 3 marzo il Melzi diede un ballo ufficiale, con tremila invitati. Quale sfoggio di sfolgoranti, affollate uniformi militari, e abbigliamenti femminili, bianchi, rosei, procaci; quali bellezze e brio!

Si proclamavano le benemerenze acquistate verso la patria. Si assegnavano pensioni ad artisti, a figli di militari, a vedove di cittadini benemeriti. E altre feste allora!

Fra le benemerenze proclamate dal vicepresidente Melzi, vi fu quella in nome di Raffaele Arauco, morto a Lione. Il Melzi lo dichiarò benemerito della patria, e assegnò una pensione, non piccola per quel tempo, con decreto del 30 novembre 1802, alla graziosa vedovella Vincenza Prevosti:

«Alla cittadina Vincenza Prevosti vedova di Raffaele Arauco, membro della Commissione di Governo, deputato ai Comizi di Lione, ed ivi mancato di vita, lasciando di sè alla patria, dopo lunghi servigi, nella sua povertà, onorata memoria, il Governo italiano accorda la pensione annua di lire tremilacinquecento.

Melzi».[54]

[206]

Raffaele Arauco era verseggiatore applaudito, e improvvisava volenteri nelle brigate eleganti. Una sera, Napoleone volle che improvvisasse davanti a lui un sonetto e gli fissò le rime tutte bizzarre e tutte tronche.

Da' versi inediti dell'Arauco, che trovo fra vecchie carte, rilevo come cantasse facilmente a Clori, a Mirtillo, a Cloe, a tutti quelli idoletti arcadici, insomma, che Carlo Porta derise con la satira contro un poetino bergamasco, il conte Suardi:

Puresin (pulcino) che in Parnassin

Pien d'estrin fa frin frin col ghittarin.

In una sola poesia l'Arauco tocca il cuore, quando deplora la morte del Parini.

Ma l'Arauco, meglio che nei versi, si segnalò nel governo della cosa pubblica. Questo arcade era uomo politico non volgare. Sedette ministro della Cisalpina, poi fu de' nove componenti della accennata Commissione di governo, e deputato ai Comizi di Lione. Il Melzi nutriva di lui alta stima per il suo carattere e per lo zelo nel compiere il proprio mandato. Mentre altri rubava a man salva, l'Arauco seguiva rigido i dettami dell'onestà.

Nel 1802, appena giunto a Lione per assistere ai Comizi, il povero deputato moriva, [207] nella casa d'un negoziante, a soli quarantacinque anni, lasciando la terza parte de' propri beni al padre e il resto alla moglie Vincenza; il che prova che egli non era in «povertà», come diceva il decreto del Melzi.

[208]

XV.

Nozze di Carlo Porta. — La moglie. — I figli. — Lettere del poeta alla moglie. — Le feste degli amici Casiraghi e Vincenzo Monti. — La versione della Pulcella d'Orléans del Voltaire compiuta dal Monti. — Il ministro delle finanze Prina affida incarichi di fiducia a Carlo Porta. — Il poeta e sua suocera. — Nella pace domestica. — Carattere famigliare del Porta descritto da Tommaso Grossi. — I due grandi amici. — Espansioni. — Commovente scena in una famiglia. — Lettere fra il Grossi e Carlo Porta. — Il Porta è proclamato poeta morale. — Giansenisti. — Giovanni Torti.

Nel 29 agosto 1806 rispuntava il sorriso sulle labbra della vedova Arauco.

In una silenziosa cappelletta a Torricella presso Carpèsino, paesello della Brianza, si celebravano le seconde nozze di lei, che contava ventinove anni, con Carlo Porta di trentuno. Una colta vecchietta, madre del venerato Adalberto Catena, prete ricco di Dio, la quale abitava in quei luoghi, si ricordava di quegli sponsali modesti, quasi romiti, e ne riferiva, ne' suoi ultimi anni, i particolari: la villa di Torricella era di proprietà del poeta.

La Prevosti-Arauco-Porta poteva vantare illustri amicizie per parte del primo marito [209] conosceva gli usi della buona società; eppure non amava il fasto, non imitava altre milanesi smaniose di emozioni sino al punto di giocare la propria onestà. Vera madre di famiglia, attese, umile e buona, alla casa, al marito e ai figliuoli. Ne ebbe tre dal Porta: due femmine, Anna Alessandrina, e Maria Carolina Violante, e un maschio, Giuseppe, avvocato, banchiere e paesista, morto nel carnevale del 1872, proprio nell'ora in cui si trascinava per i corsi di Milano, in mezzo al generale baccano, un carro addobbato a festa che rappresentava l'apoteosi del padre suo!

Scrivendo alla moglie, che nei mesi caldi villeggiava a Borgomanero, ovvero a Monza o a Senago, o nella memore villa di Torricella, il Porta usava il frasario allegro. Si firmava: «Carolus magnus».

Le scriveva da Genova: «Oh, che popolata città che è questa Genova! Ella è piena di gente, colma come un uovo fresco. Credo che per ogni uomo vi siano dieci donne, tre frati e un mulo». Le conduceva comitive briose, perchè non si annoiasse. Anche dopo parecchi anni di matrimonio, la trattava con ogni riguardo. «Fa' ciò che meglio ti conviene, le diceva, poichè io dichiaro a lettere di scatola che ho gusto di tutto quello che ti fa gusto».

[210]

Egli si lasciava vincere qualche volta da svogliatezza: la penna gli pesava fra le dita, e la lasciava volentieri da parte. «Oh, io non iscrivo a nessuno (mandava a dire alla moglie impensierita del suo silenzio) perchè mi è caro il far nulla, e procuro di coltivarmi più ch'è possibile questa nobile passione». Ma guai se Vincenzina tardava a scrivergli! Si adirava.... e scherzava così:

«Carissima moglie,

Finalmente ho ricevuto tue lettere; ed ho avuto il conforto di sapere da te che ti trovavi ancora a questo mondo. Per la mia parte ero certamente scusabile se mi esibivo per marito a qualche bella ragazza. Basta: lasciamola lì. Certo è che mi consola non poco il conoscere che tu stia meglio, e che la mamma si vada anch'essa ricuperando. Quanto alla mamma poi provo un altro gusto dippiù, dacchè non ho saputo che era ammalata, se non quando fu giudicata fuori di pericolo di far l'ultima corbelleria. Insomma me ne rallegro, ma proprio proprio davvero. Salutamela, e dille che la raccomanderò ancor io al Signore, e che ho fiducia che Dio mi conceda la grazia che gli domando per ragione anche ch'io sono uno che lo incomoda assai rare volte.

[211]

Speravo che fosti in grado di restituirti a Milano per queste feste, e di venire a Torricella con me e coi signori Casiraghi, ma vedo ora che ciò è impossibile, e per conseguenza il tuo posto sarà occupato da qualcun altro. Sappi intanto che per la prima volta avremo là il Gaspare. Oh che miracolo!

Qui le cose di famiglia vanno benone. Io col gennaio passerò al Monte Napoleone, con qualche sacrificio di borsa sì, ma con minori dolori di stomaco. Oh sta bene! Addio: salutami tutti, ma in particolare, come ti dissi, la mamma. Sono tuo aff.mo marito

Carlo».

I Casiraghi, cui allude, formavano una famiglia, il capo della quale soleva bandire splendidi festini, rallegrati da bellissime donne onde andava superba Milano. Una volta, il Porta fu pregato da lui di schiccherare un gaio sonettino, perchè Vincenzo Monti onorasse della sua illustre presenza quelle veglie; e il poeta milanese a infilzare quattordici versetti ottonari, ne' quali al celebre collega di Parnaso dice con grazia: «Per oggi riponi pur le tue rime, i tuoi concetti, e vieni qui a godere in mia casa una delle solite festicciuole. Ti offro volti che mettono allegria, e tali floride beltà [212] femminili da imbrogliare chiunque dovesse gettare il fazzoletto. Sono sicuro tu dirai che sono le Grazie e le Muse che ballano sui bei prati di Pegaso. Ma forse lo dirò meglio io nel vedere che non manca neppure il loro Apollo, che sei tu»:

Per incœu guarna pur via

I tœu rimm, i tò conzett,

E ven chì a godè in cà mia

Vun du solett festinett.

Te doo facc che mett legria....

e parla di floridezze audaci immancabili.

A un poeta pagano, come il Monti, le curve giunoniche non dispiacevano; a lui, che, al domani della battaglia di Marengo, aveva portata a Milano la versione del poema La Pulcella d'Orléans del Voltaire; versione da lui compiuta in veloci, smaglianti, meravigliose ottave eroicomiche, quasi superiori a quelle stesse dell'Ariosto; scritte a Parigi nei tedii malaugurati dell'esilio, che lo salvò dalla reazione austro-russa; e nelle quali nulla, proprio nulla, velò delle continue audacie libertine, oscene del cinico iconoclasta francese.

Riguardo al nuovo impiego cui il Porta allude nella lettera alla moglie, ecco ciò che apparisce da mie ricerche negli Archivi di Stato di Milano e da memorie autografe del poeta:

[213]

Nel 1804 egli fu riammesso, come fu detto, negli uffici governativi, col titolo di sottocassiere presso l'ufficio di liquidazione del Debito pubblico. Nel 1808 gli piovve la manna d'un aumento di stipendio e un elogio per la sua attività e perizia. Nel dicembre 1810 il ministro delle finanze, Prina, lo volle ispettore aggiunto del pubblico tesoro e, nel 1812, lo inviò a Mantova per rivedere i conti arruffati d'un certo Malacarne ricevitore del dipartimento del Mincio. Ma, l'anno dopo, l'impiegato poeta s'accorge che le mansioni di aggiunto al tesoro pubblico gli pesano come catene, benchè dorate da quattromila lire all'anno; chiede di ritornare all'ufficio primitivo di sottocassiere e l'ottiene senza contrasto. Cassiere generale era Carlo Casiraghi, quello stesso così amante delle gaie veglie. Al suo posto, nel 1814, salì quindi il Porta, che, come cassiere, rimase al Monte Napoleone sino agli ultimi giorni di vita.

Risiedeva quell'ufficio del Monte in un palazzo ornato di resti d'architettura bramantesca. Ogni mattina, il Porta, che abitava colla famiglia in quella stessa via, detta appunto anche oggidì del Monte Napoleone, si recava all'ufficio lento lento, per la podagra che lo tormentava.

Da una miniatura della famiglia Porta, la moglie del poeta si mostra simpatica per [214] quella sua aria d'onestà e ingenuità che doveva renderla cara a tutti. La carnagione è lattea, la bocca vermiglia e piccola. Gli occhi «color della buccia di castagna alpina», direbbe lo Aleardi, e tagliati a mandorla, ti guardano con espressione affabile. Lunghe le brune sopracciglia, la punta del naso leggermente rivolta all'in su. I capelli bruni le disegnano due curve graziose sulla fronte e le scendono folti sulle spalle arricciandosi all'estremità. Attorno al collo, sotto il mento morbido, le gira un velo bianco, alto. L'abito è azzurro, semplice, con una fascia bianca che la stringe sotto il seno ricolmo. Un piccolo medaglione le pende dal collo: è il ritratto del primo marito, Arauco? Sì, e con tanto di parrucca incipriata.

Una rarità: la buona armonia tra suocera e genero. A lei, signora Camilla, il poeta dedicò versi più che cordiali e pare li meritasse davvero:

.... E le dica (il cuore) che l'amo di maniera

Da correr per giovarle se abbisogna

A vendermi al lavor della galera,

A chiedere e accettar posto in Bologna,

Od anche a rimanermene in eterno,

Come adesso, impiegato subalterno.

E via via.

«Quanta fosse la bontà non solo, ma la candidezza mirabile e la semplicità dell'animo del Porta, e quanto egli fosse lontano dall'avere [215] quel carattere d'alterigia e di scherno, che i suoi scritti ponno far sospettare, tutti quelli che l'hanno conosciuto nelle sociali relazioni, e più di tutti gli amici intimi del suo cuore lo ponno testificare», affermava il Grossi nei cenni biografici premessi all'edizione delle poesie del grande amico suo dopo la morte. Ma ch'egli fosse turbato e triste, specialmente per la podagra, malattia di famiglia, che lo tormentava, è vero.

Eppure, c'è una poesiola che ci fa vedere il poeta nella calma della sua casa. Una breve poesia. Ce lo mostra tranquillo, alla fiamma del caminetto, con un bicchere di buon vino che assapora; apprendiamo i suoi gusti e troviamo in lui quel sentimento d'amicizia che lo nobilita anche agli occhi di chi non sa perdonargli i difetti. Il poeta odia il cattivo caffè e adora il buon vino.

Egli li scrisse, quei versi, sopra uno de' suoi tanti fogli volanti, che, nei ritagli di tempo, riempiva di poesie frammentarie appena cominciate:

Andee pur, la mia gent,[55]

Ai dò Colonn, o ai Serv,[56]

A tœù on cafè che ve sassina i nerv.[57]

[216]

Mì, inscambi, son content

De stà chì al me camin[58]

A fà l'amor cont on bicer de vin,[59]

E savorill e usmall;[60]

E se se pò toccall cont quai amis,[61]

Rides adree guardandes i barbis.[62]

E pœu d'estaa? voo al Gall,[63]

Voo alla Scala, voo al Gamber, voo ai Tri Re.[64]

Voo in l'Oronna putost che no a on cafè![65]

L'amico più caro, col quale il Porta avrebbe voluto toccare il bicchere, sarebbe stato Tommaso Grossi, il suo buon Grossi, ch'egli aveva conosciuto poco più che giovanetto, avendo l'autore del Marco Visconti sedici anni meno di lui, essendo nato nel 1791 a Bellano, là, in quel grazioso paesello del lago di Como che gl'ispirò belle pagine, e sopra tutto quella commovente della morte del barcaiolo Arrigozzo annegato durante una notturna bufera nel lago: pagina eterna.

[217]

Non avevano segreti quei due amici: si dicevano tutto; si consigliavano fraternamente di tutto.

Tommaso Grossi dimorava a Treviglio, città tranquilla, nel Bergamasco, in casa d'uno zio canonico liberale. Quando veniva a Milano assisteva alle riunioni letterarie che alla domenica si tenevano in casa del Porta; riunioni che si chiamavano «la Cameretta». Con questo nome designavasi, una volta, una riunione di sessanta decurioni scelti dalle famiglie patrizie milanesi, i quali nelle loro assemblee trattavano i pubblici affari: e la frase fà cameretta esprimeva far crocchio, tenere seduta, per lo più ristretta e segreta. In quelle domenicali riunioni gli amici leggevano i propri lavori in piena intimità, senza pubblico, senza pompa.

Appena Tommaso Grossi lasciava gli amici e ripartiva per Treviglio, sentivasi svogliato e triste; provava «un vuoto infernale nel cervello e in tutto il corpo fuorchè nel cuore che, non essendo posseduto da nessuna femminina contagione, è tutto vostro, tutto quanto», scrive al Porta, cui ben presto confesserà le proprie pene amorose. Quando non può partecipare alle riunioni presedute dal Porta, si consola coll'assistervi in ispirito: «Tutte le volte che arriva la domenica, io volo col pensiero in casa tua, là, in quella sala, a mano dritta entrando [218] per l'anticamera, e sto seduto in mezzo a tanto senno, gonfio e pettoruto del titolo, scroccato immeritamente, di membro della «Cameretta», e veggo te che sei il presidente, e mi par di sentirti leggere qualche tua poesia, e gongolo».

Il Porta recitava mirabilmente i propri scherzi, rimanendo serio, il che dava maggior risalto al comico delle sue poetiche creazioni. Nessun sorriso su quel volto, che assumeva l'aspetto d'un grand'inquisitore; e gli ascoltanti a prorompere allora in fragorosa ilarità.

Non usciva verso dalla penna dell'autore del Bongee che il Grossi non lo vedesse fra' primi. La Nomina del cappellan accrebbe più che altra poesia gli entusiasmi dell'amico che gli scriveva rapito della «squisita, amenissima cosa». E ancora: «Non ti so dire quanto sia piaciuta a tutti quelli cui l'ho fatta sentire: se ne fecero tre copie, ed anche attualmente l'originale non l'ho io, e gira attorno a delizia degli orecchi trevigliesi».

Una delle dolci espansioni del Grossi è: «Ti prego, in nome di quella tenera amicizia che mi accordi e di cui vado superbo, di scrivermi tosto e di scriver molto».

La gentilezza fiorisce nel Grossi, anche quando non parla dell'amico all'amico. Gli narra le vicende d'una buona famiglia così:

[219]

«Caro Porta, che delizioso spettacolo quello d'una madre che rivede suo figlio dopo una lontananza di tanto tempo!... Io ho partecipato alla gioia di quella buona famiglia ed ho passato una giornata delle più belle di mia vita: che contento! che effusione di cuore! Le parole non vi arrivavano; bisogna piangere del piacere; e, difatti, ho pianto anch'io con loro, ma d'un pianto deliziosissimo!...»

Nel Politecnico, periodico di scienze ed arti (annata 1866), si legge una amena lettera di Carlo Porta a Tommaso Grossi; lettera autobiografica. La vita di pubblico impiegato del poeta v'è dipinta, e vi batte il suo cuore d'amico fedele:

«Amico carissimo,

Barbaro traditore,

Mandar lettere chiuse?

Non ti allattâr le muse,

Non ti fu padre Appol.

»C'è mancato proprio proprio un cece che la vincesse sopra di me la tentazione di alzare adagio adagio quel tantino di ostia, e mi mettessi a leggere quelle due letterine che mi hai compiegate. La tua crudeltà meritava questa soperchieria, ma la religione mia ha trionfato, e mi ha fatto rispettare, come rispetto, quell'invido [220] azimo che mi nasconde tanto tesoro. Dio me ne rimuneri! A quest'ora avrai avuto una lunghissima mia, scritta un po' di notte alle spese del sonno, ed un po' di giorno tra lo strepito del denaro, e le querimonie dei creditori di S. M. che mal soffrono la mia vacanza del mercoledì e del sabato. Nè questa circostanza io l'accenno perchè dalla bontà tua mi si conceda un passaporto a tutti i maccheroni che avrò stampati in essa lettera, ma perchè ti piaccia incolpare tutt'altri che me, e la volontà mia se lascio sfuggire qualcuna delle ordinarie occasioni che mi offre san Paolo (sic) per codesto paese. Anche oggi scrivo nel mio modo solito, nel tiretto cioè del mio bancone di ufficio, e tratto tratto conviene che lasci la penna per servire i bravi e buoni reverendoni della campagna che vengono a truppe a riscuotere le loro congrue ed i redditi de' loro benefizi. Stamattina alle ore cinque e mezzo è partito il nostro amatissimo Tacchini, che speriamo di ritorno fra tre mesi. Io l'ho posto in carrozza, e siccome mi ha caldamente raccomandato di salutare per lui tutti gli amici comuni, così saluto te per primo, che occupi uno de' posti più distinti nel suo cuore. Partito Tacchini, corsi per isbalordirmi al Duomo e salii in fretta in fretta fino alla loggia ultima, quella che gira in cerchio sotto i piedi della [221] Madonna, e lassù mi gustai un eccellente caffè che il pietosissimo don Camillo, altro degli ostiari, ebbe la degnazione di recarmi sotto la veste talare pel solo magro compenso di goderne gli avanzi. Di là spinsi un paio d'occhioni anche verso codesto Treviglio, ma non potei fissarne che il meridiano, ossia il luogo ove dovrebbe essere verosimilmente piantato, e sarà miracolo se vi sarà giunto qualche pezzo di quella benedizione papale, che ho tagliata giù senza economia e diretta con tutto l'animo a codesto paese. Mi fa gratissima sensazione quanto mi dici di tuo zio, così pel cangiamento a riguardo tuo, come per la soddisfazione che egli ha della nostra amicizia. Io pure desidero di conoscerlo personalmente e l'avrò per un regalo squisito di conoscerlo presto. Quanto a' miei strambotti, tu mi conti cosa da farmi .... sotto dal gusto, poichè finora ho sempre tremato per la mia gloria poetica, tuttevolte che passarono per le orecchie dei preti. Io non mi sono mai accorto d'essere poeta morale, e ciò sarà forse uno di quei doni di Iddio che ci entrano in corpo per afflato e di cui ci si trova al possesso senza avvedersene. Per di meglio, io sono il bue che non conosce la propria forza. Rossari non l'ho più visto da sabato a questa parte, e credo che non lo potrò vedere prima di domattina, dunque le commissioni tue per lui rimangono per forza aggiornate. [222] Mi spiace che l'appetito ti giovi meno costà che in Milano. Credo anch'io che il caldo ne avrà in parte la colpa, ma guàrdati che l'applicar troppo colla mente non faccia il resto. Caro amico, poni mente ai precetti dello zio che sono santissimi e godi in santa pace quel buontempone che ti prepara, il quale goduto colla mia ricetta è il ristoro specifico del corpo e dell'anima. Oh caro quel far nulla! non vorrei essere il duca Litta per altra cosa, che per dormire un mese di seguito e farmi fare intorno ogni faccenda dalle altrui mani. Anche delle tempeste mi sono tolto la mia parte di cruccio e mi spiacquero le notizie che mi sono venute da te, quelle che mi arrivarono da altri amici ma più di tutto quelle che mi pervennero da Torricella, ove in quelle mie poche badilate di terra la Provvidenza ha lavorato di gragnuola una mezz'ora dippiù del bisogno per dissetarle. Non farò per questo la buggera del nostro celebre Ceriani, che si accorò tanto della stessa disgrazia che sta ora per riconsegnarsi al seno di Abramo.

»Non dirai che non t'abbia seccato quanto che basti. Addio; ricòrdati del Ceriani, e tollera in pace questa tempesta che ti porto io.

»Milano, 15 luglio 1817.

»Sono tutto tuo affez.

»Carlo Porta.

» Al signor Tommaso Grossi
» Treviglio».

[223]

Il Porta si congratula per il cambiamento dello zio del Grossi. Quale cambiamento?

Ecco: il Grossi era protetto dallo zio canonico, che gli faceva da padre e voleva guidargli l'ingegno. Allo zio non garbava che il nipote si consacrasse alla poesia: non voleva che fosse uno del cenacolo della «Cameretta». Carlo Porta inviava allo stesso Grossi undici quartine italiane, colle quali si congratulava con lui perchè lo zio canonico gli permetteva alla fine d'occuparsi di poesia. Le quartine del Porta cominciano burlescamente:

Ha fatto bene il zïo a ravvedersi

Di quel suo odio contro le Camene,

Ch'era un peccato il non piacergli i versi.

E però a ravvedersi ha fatto bene.

Egli stesso li chiama «orribilissimi e tristi versacci», buttati giù per ridere. E soggiunge:

«So bene che a me Carlo Porta la virtù di far versi toscani che valgano a foderare li tuoi Non homines, non Dii, non concessere columnæ. D'altronde poi, in queste quartine leggivi un sentimento del cuore, il piacere cioè che tuo zio s'accontenti che tu rimanga dei nostri e che ti prometta di beatificarci co' tuoi mirabili versi.»

Un altro passo della lettera del Porta vuole una spiegazione: «Io non mi sono mai accorto d'essere poeta morale....»

[224]

«Tutte le sere (scrive il Grossi all'amico) leggo a questi nostri preti, che si riuniscono in casa di mio zio, qualcuna delle tue poesie: a quest'ora ho letto I disgrazi de Giovannin Bongee, El viagg de Fraa Condutt, Fraa Zenever, tutti i sonetti: mi mancano propriamente le parole per descriverti le smanie che fanno tutti questi miei uditori: chi si sdraia colla pancia contro il tavolo, chi si rovescia sur una sedia, chi si tiene stretti i fianchi colle mani. Bisogna che tu sappi che mio zio, come mi par d'avertelo detto, è giansenista, e quelli che frequentano la sua casa, se nol sono nel modo risoluto e deciso con cui lo dichiara egli, vi pizzicano però tutti un poco, e così accolgono collo zelo cristiano d'un fedele che cerca di riformare gli abusi della Chiesa tutte le tue satire contro i preti ed i frati; e v'ha chi ti paragona al grande Erasmo di Rotterdam, il quale non con tutto il tuo vigore, perchè trattenuto dai tempi, ma però con molta libertà, dà la berta come fai tu ai preti e ai frati, che strapazzano la religione facendola ridicola agli occhi degl'increduli....»

Ecco lo spirito morale che si scopriva nelle satire del Porta dai preti liberali della campagna. Nella città non ne mancavano.

«Addio il mio caro Porta, onore e gloria della lingua nostra!» Così lo salutava il Grossi.

[225]

Il Torti, che formò poi a Milano, col Manzoni e col Grossi, la «trinità» che al giovane Giovanni Prati «novo catecumeno — covò le prime rose» — quando venne a Milano con la sua «Edmenegarda in seno» — il Torti, ch'era d'un solo anno più anziano del Porta, gli fu amico; e anche con lui il poeta del Bongee si trovava nelle fide riunioni poetiche. Al Torti il Porta indirizzò un sonetto durante l'ardore della lotta fra classicisti e romantici; un sonetto maccheronico. Giovanni Torti era bellissimo, d'alta statura, tipo del poeta che una volta piaceva alle ragazze. Nato a Milano, fu il più diletto discepolo del Parini. Vestito l'abito del chierico, lo lasciò al sopravvenire de' Francesi, e salutò in un inno l'albero della Libertà, che vide cadere. Il Comitato della pubblica istruzione l'ebbe suo segretario; posto che mantenne a lungo: attraverso varie fortunose vicende milanesi, si salvò in quella navicella. Chi non conosce la sua epistola Sui Sepolcri d'Ugo Foscolo e d'Ippolito Pindemonte, che fu ritoccata dallo stesso Foscolo? I suoi sciolti In morte della moglie sono un grido angoscioso del cuore. È la sua «pagina eterna».

[226]

XVI.

Napoleone. — È imperatore in Francia e re in Italia. — Il figliastro vicerè. — Apatia politica del Porta e d'altri lombardi. — Un sonetto amaro del Porta. — Amenità di medici. — Cerimonia dell'autoincoronazione di Napoleone a Milano. — Dietroscena in famiglia. — Il Regno italico e le sue feste. — Consigli di Napoleone a Eugenio. — Gli dà moglie. — Nozze d'Eugenio con Augusta Amalia di Baviera. — Vecchia e nuova aristocrazia. — Il terribile caso del conte Archinto. — Folla di Grandi a Milano. — Nuove istituzioni civili. — E la libertà politica?

La sterminata ambizione di Napoleone Bonaparte, che si sentiva mandato sulla terra a compiervi grandi cose, di questo Nabucco di genio dal satanico orgoglio, arbitro di popoli, di sovrani, di papi tremanti dinanzi alle sue brutali minaccie, non poteva appagarsi d'un Consolato a vita fattosi conferire in Francia e d'una parziale repubblica fattasi conferire in Italia. In Francia egli voleva esser imperatore e in Italia re. Ma le due corone sarebbero bastate alla sua inestinguibile sete d'impero?.... Arrivato alla sommità, si lasciò cogliere dalle vertigini, passò d'errore in errore, [227] di delitto in delitto verso la creatura umana calpestata per il proprio trionfo, e precipitò nell'abisso, morendo, meteora di sangue, in un'isola, fra le malinconie dell'oceano.

Uno storiografo di questa Lombardia, che pure ottenne da Napoleone beneficii non dimenticabili, lo giudica con severa, ma serena equità:

«Era nel giugno 1813, prima della battaglia di Lipsia, dopo le vittorie di Lutzen e di Bautzen; e la pace, che avrebbe potuto allora concludere, gli avrebbe lasciata una Francia circoscritta dal Reno, dalle Alpi, dai Pirenei, vale a dire la maggior Francia che sia lecito di immaginare duratura. Non gli bastava ancora; e, dopo aver lasciato quattrocentomila uomini nelle steppe gelate della Moscovia, dopo avere strappato dai focolari di mezza Europa due generazioni di fanciulli, — dichiarati adulti per necessità di guerra, — al principe di Metternich, che gliene faceva l'osservazione, rispose, scagliando irosamente a terra il cappello: «J'ai grandi sur les champs de bataille, et un homme comme moi se soucie peu de la vie d'un million d'hommes!» L'uomo che ha osato pronunciare queste due frasi è, nei rispetti della morale politica, un uomo giudicato. Sulla sua tomba possono assidersi, vindici generose, la pietà e il perdono; ma egli non ha [228] diritto di usurpare ai posteri quel sentimento di leale ammirazione che le coscienze oneste debbono riservare agli eroismi del sacrificio, ai benefattori dell'umana famiglia».[66]

Nel maggio del 1804, un decreto del Senato francese conferì a Napoleone l'impero. Egli costrinse allora il vecchio titubante Pio VII a varcare le Alpi, a portarsi a Parigi e a consacrarlo imperatore. La consacrazione del novello Carlo Magno avvenne nella gotica chiesa di Nôtre Dame, che Victor Hugo doveva magnificare, e fu Napoleone I. E fu imperatrice di Francia Giuseppina Tascher de la Pagerie, sua moglie, vedova del generale Beauharnais, morto nel 1794 sulla ghigliottina. Così la rivoluzione francese, divampata sotto lo scettro d'un povero imbelle re per diritto divino, fabbricatore dilettante di serrature, dopo d'avere annientati per sempre iniqui privilegi feudali, e dopo d'avere attraversato un mare di sangue e di scelleraggini, in dodici anni di repubblica, finiva in un impero militare assoluto.

La Repubblica italiana aveva spianato a Napoleone la via del trono fra noi. Napoleone mandò a Milano due suoi fidi emissari, Cambacérés e Marescalchi, a preparare gli animi al regno: il primo, già membro del Comitato di [229] Salute pubblica a Parigi, fu creato poi duca di Parma; il Marescalchi, bolognese, già membro del Direttorio della Repubblica cisalpina, era allora ministro della Repubblica italiana a Parigi, e doveva diventarlo, per volere di Napoleone, anche del Regno italico.

Il primo effetto della missione fu l'atterramento dell'albero della Libertà in piazza del Duomo e in altre piazze, fra gli sdegni veementi dei repubblicani puri, alcuni dei quali vennero incarcerati. O poco illustre, disgraziato albero! Eri stato eretto e adorato dai fanatici come l'albero eccelso del bene universale. Guai all'infelice che non si chinava al tuo sacro legno taumaturgo! E così presto cadevi, a colpi di vili scuri, come l'albero del male. Il berretto frigio, che ti sormontava, cambiò forma e colore: si trasmutò in corona, aborrita ieri, imposta oggi.

Il Melzi, d'un tratto scomparve. Dov'era andato? Napoleone lo aveva chiamato a Parigi, tenendolo in segreto colloquio per più di quattro ore. La Consulta si recò a offrire pomposamente la corona d'Italia a Napoleone e a votargli un monumento; ma quando il Melzi uscì dal gabinetto dell'imperatore, il Regno d'Italia era bell'e decretato.[67]

[230]

Il 16 marzo 1805 arrivò a Milano Eugenio Beauharnais, figlio venticinquenne di Giuseppina, valoroso soldato in Egitto e a Marengo, gran cacciatore, gran ballerino, dedito ai bassi amori, di modi burberi, smanioso di pompe e d'omaggi; destinato a essere il vicerè del nuovo regno; egli, che, all'epoca del Terrore, al domani del supplizio del padre, era stato inscritto fra i più umili operai.

Giunse a Milano; ma non raccolse alcun segno di simpatia. Silenzio glaciale.

E, il 31 marzo, la voce del cannone (trecento colpi) annunzia a Milano l'istituzione del Regno. Ma le finestre del palazzo di Luciano Bonaparte restano chiuse. A tutti è nota l'avversione di lui per il tremendo fratello, ch'egli aveva pur validamente aiutato nel colpo di Stato del 18 brumaio a Parigi.

Un'altra voce ora, quella dell'ufficiale banditore, s'intende: legge, nei vari quartieri di Milano, l'atto d'inaugurazione di quello che Ugo Foscolo chiamerà, ironico, nei Sepolcri «il bell'italo regno». Il popolo s'affolla, ascolta, ma non applaude.

Passa di mano in mano un fierissimo sonetto contro Napoleone, mentitore di libertà. Di chi è? Si sussurra un nome: il nome del veronese Giuseppe Giulio Ceroni, soldato e poeta alfieriano.

[231]

Carlo Porta non si unisce a chi discute sul nuovo mutamento, dopo tante trasformazioni subìte. Battagliero per indole, caustico, pungente contro la vecchia aristocrazia dal ridicolo sussiego spagnolo; contro i nobili villani e proni agl'idoli coronati; contro gli stessi arcivescovi privi di dignità; contro i preti venali e i monaci parassiti; contro la letteratura fatua, convenzionale, ammuffita; contro francesi e italiani che osano sparlare della sua diletta Milano, ora si rassegna al giogo politico, pur di godere la pace. Nessun grido di vero italiano vibra dal suo verso, dal suo cuore. Quanto differente, anche in questo, il Maggi, che in pieno dominio spagnolo, con un sonetto invocava nientemeno che l'unità italiana, rivolgendosi alla Repubblica di Venezia, la sola libera allora e guerriera impavida sul mare d'Oriente contro i Turchi barbari! Il Maggi domandava:

Unita or che saria l'inclita gente

Per la difesa almen della sua pace?

Carlo Porta è persino corrucciato contro chi parla d'indipendenza, e prorompe:

«Al diavolo i politicanti seccatori! A che tanti discorsi e tanti ragionamenti? Già, un basto, alla fin dei conti, bisogna portarlo; ed è inutile pensare di farla da padroni. E quando [232] questo basto dobbiamo averlo sulle spalle, eternamente e senza remissione, che importa a noi che sia d'un gallo, d'un'aquila, d'un'oca o d'un cappone? (Qui il Porta col ‘gallo’ allude, si capisce subito, alla dominazione francese, e con la parola ‘aquila’ all'Austria). Per conto mio, credo che il meglio possa essere il partito di far finta di nulla, e pregare di non cambiare tanto spesso di basto. Se no, col portar da un posto all'altro le durezze delle traverse del basto, avremo uno spelamento maledetto e nient'altro». Ma ecco il sonetto:

Marcanagg i politegh seccaball!

Cossa serv tant descors e tant reson?

Già on bast infin di fatt bœugna portall

E l'è inutil pensà de fà el patron.

E quand sto bast ghe l'emm d'avè sui spall

Eternament e senza remission,

Cossa ne importa a nun ch'el sia d'on gall,

D'on'aquila, d'on'oca, o d'on cappon?

Per mì credi ch'el mej el possa vess

El partii de fà el quoniam, e pregà

De no barattà tant el bast de spess.

Se de nò, col portà d'on sit a l'olter

I durezz di travers, rëussirà

On spelament puttasca e nagott d'olter.

Ben altro linguaggio tennero sempre due illustri amici di Carlo Porta: Ugo Foscolo e Giovanni Berchet! E quanti altri mai, per fortuna nostra!

[233]

Ma l'apatia del Porta si notava allora in molti. La stessa Consulta dovette umilmente confessarlo in un suo rapporto ufficiale.[68]

Ma ecco si annuncia, fra la grande emozione, che Napoleone sta per arrivare ed essere incoronato re nel Duomo. La notte sopra il 9 maggio 1805, infuria un turbine, che rovescia l'arco di trionfo eretto davanti al palazzo reale. Il novello sovrano ha voluto sostare a Pavia, dove all'avvocato Camillo Campari, con la perfida sua impudenza, ricordava: «Siamo vecchi conoscenti». E alludeva a un giorno orribile, il 25 maggio 1796, quand'egli, sfondata col cannone la porta della città decisa a non riceverlo, l'aveva abbandonata al saccheggio. Entrando nell'aula dell'Università, inchinato dai professori, Napoleone chiese al medico Carminati qual differenza trovasse «fra la morte e il someglio». Il professore, che non conosceva il francese, non capì che Napoleone aveva tradotto in quel bel modo il vocabolo sommeil, e improvvisò una dissertazione fra la morte e il suo meglio.[69]

Più ameno un altro medico demagogo, poi diventato preclaro, e conte e senatore del Regno [234] italico, Pietro Moscati, che sosteneva essere l'uomo creato per camminare con le mani e coi piedi insieme.

«Da che porta entrerà Napoleone?» domandavano i Milanesi.

Neppure le autorità lo sapevano. Quando si seppe ch'egli giungeva da Pavia, si eresse a Porta Ticinese, ribattezzata poi Porta Marengo, un arco trionfale. Tutto il 9 maggio gran folla sulle vie, le case addobbate. Alle sei della sera, Napoleone entra alla fine in Milano, in un corteggio fantasmagorico interminabile.[70] Precedono i consultori, in mantello di seta verde e cappello con piume bianche; i consiglieri di Stato e i membri del Corpo legislativo vestiti pure in verde e oro; i membri dei Collegi elettorali con tanto di ciarpa dalle frangie d'oro; i funzionari pubblici in vesti dorate; i possidenti con ciarpa bianca, turchina i dotti, rossa i commercianti; e seicento corazzieri; e Napoleone Bonaparte in sontuoso cocchio, con Giuseppina, tirato da otto cavalli, seguito da quindici altri cocchi a sei. Davanti alla scalinata del Duomo, il regale cocchio si ferma. Sugli scalini sta ad attenderlo, in alta pompa, il nuovo arcivescovo [235] Caprara con sedici vescovi in mitria e dieci vicari, e tutti discendono. Il Caprara pronuncia augurii devoti, ardenti, incensa il «Giove terreno» e l'imperatrice beata.

Ma la moltitudine non accoglie Giove con manifestazioni di giubilo verace. Mademoiselle d'Avrillion lo confessa nei suoi Mémoires:

Tous les services étaient réunis et formaient un magnifique cortège; la population garnissait les fenêtres des maisons et affluait dans les rues. Néanmoins, nous remarquâmes je ne sais quoi de contraint dans les acclamations qui saluèrent leurs majestés; les cris furent plus populaciers que populaires; enfin, il n'y eut point de joie réelle; je ne sus à quoi l'attribuer: je sais seulement que l'empereur en parla à l'impératrice, mais je n'en appris pas davantage, sa majesté ayant gardé avec moi le plus profond secret à cet égard.[71]

Ma arriva il 26 maggio, il gran giorno dell'incoronazione a re d'Italia.

L'aurora spunta radiosa. Milano è tutta in curiosità, in aspettazione, e in festa almeno apparente.

Nel Duomo, sfarzosamente parato di diffusa seta vermiglia, irradiato da mille lumi, risonante di musiche e di canti, alla presenza degli ambasciatori inviati dalle potenze straniere, il piccolo, esile, livido eroe, nell'ampio [236] mantello di velluto verde dal lungo strascico, sostenuto dai grandi scudieri di Francia e d'Italia, in uniforme di gala; seguìto dai ministri, dai consiglieri, da ufficiali, decoratissimi, da araldi, dalle dame che portano doni, e da paggi all'uso medievale, incede rigido, altero, girando qua e là «i rai fulminei», stringendo, nella destra, lo scettro e, nella sinistra, la mano della Giustizia. Dal Castello tuonano le artiglierie; suonano, conclamanti, le campane di tutte le chiese.

L'imperatrice, giunta a mezzogiorno nel tempio, è ritta, già nella tribuna a lei destinata, con la cognata Elisa. Napoleone a passo sicuro, superbamente, attraversa la cattedrale, sotto un ricco baldacchino dorato, sorretto dai canonici, e sale sul trono rialzato nel coro. Squilla ora una marcia trionfale; echeggiano applausi; e l'arcivescovo Caprara intuona il Veni, Creator....

Sull'altar maggiore, posa la «Corona ferrea», venerata da dodici secoli nella basilica di Monza. Si dice formata da un chiodo della Croce; ma è leggenda non antica.[72] Il pontefice san Gregorio Magno la diè, secondo una non immutata tradizione, alla pia regina longobarda Teodolinda, perchè servisse a incoronare [237] i re d'Italia. La prima certa incoronazione fatta con quel cimelio, è del 1081, sulla testa d'Enrico IV. Napoleone l'aveva predata nel 1796 (cosa che nessun conquistatore aveva osato) e portata a Parigi; poi la restituì.... per incoronarsi di propria mano.

Infatti, l'arcivescovo Caprara la prende, e fa atto di porla sul capo di Bonaparte, ma questi l'afferra con ambe le mani, se la calca sulla testa, e, nel silenzio profondo del solenne momento, con la sua voce stridula ma terribile, grida: «Dio me l'ha data, guai a chi la tocca!» Poi la colloca un istante sulla testa di Giuseppina e la rimette sull'altare. Consegna al figliastro Eugenio la spada, e, durante la messa cantata, al Credo, pronuncia ad alta voce il giuramento «di mantenere l'integrità del regno, di rispettare e far rispettare la religione dello Stato, l'eguaglianza dei diritti, la libertà politica e civile, l'inviolabilità delle vendite dei beni nazionali, di non levare alcuna imposta, di non stabilire veruna tassa che in virtù della legge, di governare con la sola mira dell'interesse, della felicità e della gloria del popolo italiano».

Si fa profondo silenzio. Il capo degli araldi d'arme s'avanza e proclama a voce sonora: «Il gloriosissimo e augustissimo imperatore Napoleone è incoronato e intronizzato. Viva [238] l'imperatore e re!» E mille voci ripetono: «Viva l'imperatore e re!»

Il giorno dopo, Napoleone nomina il principe Eugenio vicerè del Regno italico, serbando a sè le sovrane attribuzioni in tutto e per tutto.

Quando Napoleone si calcò con tutt'e due le mani sulla testa la Corona di ferro era raggiante di gioia, narra nei Mémoires mademoiselle Avrillion, la quale assisteva alla cerimonia, e soggiunge queste veridiche parole:

Lorsque l'on fut de retour au palais, j'étais occupée dans la chambre de l'impératrice, quand l'empereur y vint: il était d'un gaîté folle; il riait, il se frottait les mains, et dans sa bonne humeur il m'adressa la parole: «Eh bien! mademoiselle, me dit-il, avez-vous bien vu la cérémonie? Avez-vous bien entendu ce que j'ai dit, en posant la couronne sur ma tête?» Il répéta alors, presque du même ton qu'il l'avait prononcé dans la cathédrale: Dieu me l'a donnée, gare à qui y touche!

Napoleone, assistito dalla sua stella, si avviava felicemente verso il culmine della potenza, e poteva ridere.

Fu dato un gran ballo, in onore delle loro maestà. Molte signore; ma i loro vestiti erano meschini e non freschi, dice mademoiselle d'Avrillion parlando delle milanesi. Molti diamanti antichi di famiglia, ma male legati, soggiunge; e dello stesso parere era Giuseppina, [239] che ne possedeva soltanto di moderni, acquistati di fresco....

.... Ce qui nous divertit beaucoup, habituées que nous étians a préférer l'élégance et le bon goût à la richesse....

Il ballo si protrasse a lungo nella notte. Si ballarono le contraddanze francesi, valzer e la monferrina, danza nazionale in tutta l'Italia settentrionale. Il principe Eugenio ballò molto ammirato dalle dame della Corte. La duchessa di Rovigo brillò su tutte le dame per la grazia della svelta persona e della sua danza.

Il grande imperatore e re sfoggiava, anche nella reggia di Milano, le sue abitudini domestiche detestabili. Menava scapaccioni e tirava le orecchie alle cameriere per sollazzo: andava di frequente nel gabinetto di Giuseppina, e si divertiva a darle delle botte con le palme delle mani sulle spalle nude. Ella aveva un bel dire: Finis donc! finis donc! Bonaparte continuava, tanto prendeva gusto a quel giuoco villano. Giuseppina si sforzava a ridere, «ma io più d'una volta le sorpresi le lagrime», ricorda pure nei Mémoires la sua fida d'Avrillion.

A dir vero, Giuseppina piangeva con facilità. Quando lasciava Milano per gl'incanti del [240] lago di Como e del lago Maggiore, l'Aldini, già presidente del Consiglio di Stato della Repubblica italiana, le disse cosuccie graziose, che la commossero sino al pianto. Povera donna! L'imperiale marito doveva farle spremere, più tardi, ben altre lagrime!

In memoria della sua solenne incoronazione a re d'Italia, Napoleone istituì l'ordine cavalleresco della Corona ferrea, oggi sparito con l'annientamento dell'Austria compiuto dalle nostre armi gloriose, e ordinò che fosse ultimata la facciata del Duomo, dove la memoranda cerimonia si svolse. Volle ricevere i ricchi della città; volle informarsi di tutto e sapere di tutti; voleva conoscerli per isfruttarli a lor tempo; ma degli italiani non professava molta stima, e lo diceva a Eugenio mettendolo in guardia.

Gli ammonimenti e le istruzioni che il grande patrigno lasciò per iscritto al figliastro, inesperto e ignorante, rivelano la mente poderosa e acuta dell'astuto e formidabile reggitore. Bastino queste:

— All'età vostra non si conosce la perversità del cuore umano; per lo che non sapremmo abbastanza raccomandarvi circospezione e prudenza.

— Non accordate piena fiducia ad alcuno: non esternate la vostra opinione sui ministri e sui grandi ufficiali che vi circondano.

[241]

— Parlate il meno possibile, perchè non abbastanza istrutto per sostenere una conversazione. Ascoltate e persuadetevi che sovente il silenzio vale la scienza.

— Presiedete di rado il Consiglio di Stato; il non conoscere la lingua e la legislazione del paese vi forniranno una scusa plausibile.

— Non fidatevi delle spie: l'averne è più dannoso che utile.

— Studiate la storia di ciascuna città del mio regno d'Italia, e visitate le fortezze e i luoghi più celebri per combattimenti. È probabile che, prima di trent'anni, dobbiate guerreggiarvi; e la conoscenza del territorio è prezioso acquisto.

— Supremo interesse per voi è di ben trattare gli Italiani, conoscerne i nomi e le famiglie.

— Siate grandioso coi rappresentanti delle potenze estere, i quali, a rigor di termine, sono spioni titolati.

— Siate inflessibile coi furfanti: la scoperta d'un truffatore è una vittoria per l'amministrazione pubblica.

Non per il solo Eugenio, ma per ogni principe tali precetti potevano tornare preziosi, e ancor oggi conservano il loro forte aroma. Ma la mente del vicerè non era da tanto: il patrigno lo sapeva; tuttavia lo adottò come figlio.

Più amata di Eugenio sul vicetrono d'Italia si mostrò la consorte che l'imperatore gli scelse: la principessa Augusta Amalia, figlia del re Massimiliano di Baviera; soave bellezza, d'illibati costumi, degna del canto immortale che Ugo Foscolo le consacrò nelle Grazie [242] quando nessun favore poteva il grande poeta attendersi dal suo liberale omaggio. Carlo Porta non poteva consacrare ad Amelia festive ottave come quelle dettate per l'arciduchessa Beatrice Ricciarda d'Este protettrice del poeta milanese Domenico Balestrieri? Le meritava.

Quando Eugenio condusse la bellissima sposa a Milano si rinnovarono le feste dell'incoronazione. Il teatro alla Scala, illuminato a giorno, accolse la coppia vicereale fra le mille ghirlande di fiori ond'erano rivestite le pareti della sala; e si era in febbraio! Le serre furono spogliate.

Vestito da semplice cacciatore della guardia, in mezzo a generali sfolgoranti di decorazioni e d'oro, Napoleone assisteva attento alle rassegne militari, imponendo una coscrizione di seimila uomini per l'esercito, chè voleva ritemprare, e lo disse, nella gioventù italiana l'amor delle armi. Già avendo inviato nostre truppe lungo la spiaggia di Calais aveva fatto osservare che la bandiera italica sventolava per la prima volta, dall'epoca dei Romani, sulle rive dell'Oceano. E a noi, nel suo infrancesato italiano, aveva detto: «Voi non sarete ni francesi, ni tedeschi, ma italiani».

Intanto, ordinava che le nostre scuole fossero modellate sulle francesi; e imponeva il [243] Codice francese. Deputava peraltro un'eletta di giuristi nostri a compilare un Codice di procedura criminale e un Codice penale. Inoltre riordinava il debito pubblico sotto il nome di «Monte Napoleone»; fissava le spese in 88,660,000 lire all'anno; voleva che si compisse il Naviglio di Pavia (arduo lavoro); e accordava la libertà di stampa. Ma volle che si scemasse il numero dei birri; e ne avvenne che i furti e le aggressioni sulle strade imperversarono ancor più. Si era ritornati ai tempi peggiori di Maria Teresa.

Ben presto, un ordine ristabilì una commissione militare condannante senza revisione. I condannati erano puniti con la morte entro ventiquattro ore. E bisognava ben pulire Milano, perchè ella era chiamata a essere la capitale d'un regno; focolare e centro di una vita nuova, di cultura, di legislazione. A un grande compito la città di Milano era chiamata da Napoleone: a mettersi a capo della civiltà italiana; e Milano, allora, arricchita d'uomini sommi, in essa chiamati o convenuti, rispose magnificamente all'appello inusitato.

Milano, co' suoi nuovi istituti, con le nuove riforme, divenne una metropoli animatissima, florida, invidiata. Il denaro correva. «Essa è la sola città, scriveva Napoleone, che abbia [244] tutto guadagnato in sì breve tempo e con sì scarsi sacrifici».[73]

Sì; ma il donatore rinfacciava il dono. E ad Eugenio scriveva da Saint Cloud: «Non lasciate dimenticare agl'Italiani che io sono padrone di fare quello ch'io voglio.... La vostra divisa è semplicissima: l'imperatore vuole così!, ed essi sanno ch'io non muto voleri».

E ciò poco tempo dopo il solenne giuramento in Duomo, che conosciamo!...

Ma l'inflessibile dispotismo napoleonico, larvato di crescenti fulgori, imprimeva la sua grandiosità in tutta la vita di Milano. Ricevimenti fastosi a Corte, feste e feste dappertutto, e continue; spettacoli, musiche, canti, balli, intrecci d'amori: una vertigine gioconda. Nella immensa Arena, costruita su disegno dell'architetto Luigi Cagnòla per cenno di Napoleone, s'imbandì, nel 1809, un banchetto a tremila soldati, presieduti dal generale Pino. Immaginarsi quale frastuono assordante di voci, d'evviva, quale cozzo di bicchieri, quale acciottolìo di piatti e di scodelle! Tutti mangiavano con le mani, s'intende, come usava Napoleone.

La vecchia aristocrazia aveva rimessi alla luce tutti i suoi titoli; e la nuova aristocrazia, creata dal Bonaparte in barba alla Rivoluzione [245] francese dalla quale era sorto, gareggiava con la vecchia nello sfoggio delle novelle corone. Le decorazioni imperiali piovevano abbondanti. Non se n'erano mai viste in sì gran numero, e si ambivano, si sfoggiavano spesso in occasioni di visite principesche, di ricevimenti a Corte, di spettacoli eccezionali alla Scala.

Alcuni dell'antica arcigna aristocrazia affettavano di rimanere sdegnosi in disparte dal fastoso, allegro bailamme. Recentissima era la tomba del conte Carlo Archinto, grande di Spagna, tenace ai propri ricchissimi forzieri, ma più ai titoli avìti. Un giorno, per un malaugurato accidente, rimase rinchiuso entro la cripta nella quale nascondeva mucchi di monete d'oro. Solo dopo parecchie ore di mortali angoscie fu scoperto dal fido cameriere. Per lo spavento di rimanere sepolto colà si ebbe, vecchio qual era, una scossa sì forte che in breve uscì di vita. Lasciò larghe dovizie all'Ospedale.

Milano, divenuta capitale del Regno italico, comprendeva 24 dipartimenti, che si estendevano sino a Fermo e Macerata, con 2155 comuni e 6,700,000 abitanti. Milano contava 146,780 abitanti, compresi i sobborghi (Corpi Santi).

Eccelsi, forti ingegni illustrarono, come si è detto, il Regno italico: Ugo Foscolo, il fulvo indemoniato Ugo, che diè di «liberal carme l'esempio», appassionato, stupendo poeta di [246] sepolcri, di eroi, di grazie e femminili bellezze; Vincenzo Monti, che parve esprimere nella sua sonante magniloquenza la grandiosità del frastuono e bagliore napoleonico; in luogo dell'invano desiderato Antonio Canova, statuario innovatore divino della classica purezza, splende il Pacetti statuario del Duomo; e Andrea Appiani, nobilissimo classicista del pennello, di gentil volo. L'astronomo abate Oriani, figlio di poveri contadini, che aveva negato il giuramento alla Repubblica; l'astronomo Piazzi, che scoprì Cerere; Alessandro Volta, il cui nome resta congiunto per sempre a quello di Galileo e del Newton, sommo e nuovo in ogni ramo di scienza trattato dal suo genio, grandeggiano. E Angelo Mai («italo ardito» lo saluta il Leopardi in una famosa canzone), scopritore di classici antichi; e gli anatomici Paletta e Scarpa; il Moscati medico, fisico; il Monteggia chirurgo; e il Cicognara storico della scultura; e Giuseppe Bossi pittore e poeta; e Lorenzo Mascheroni, matematico, ellenista e poeta; e lo Zanoia architetto e poeta pariniano; e gli altri architetti Canonica, Cagnòla, Antolini, che rinnovano quasi mezza Milano nel vertiginoso periodo di nuovi palazzi e nuove ville; e l'ingiustamente dimenticato Augusto Bellani, di Monza, chimico e fisico; e il Paradisi geometra; e quali giuristi! e quali ingegneri stradali e idraulici portentosi! [247] Ecco: Domenico Romagnosi manda alla luce, a soli ventisette anni, l'imperitura Genesi del diritto penale. E quanti altri mai ingegni più o meno preclari, come Melchiorre Gioja statistico, Giuseppe Prina e Giuseppe Pecchio finanzieri, Pietro Custodi economista, il Landriani scenografo di magico effetto, il Viganò coreografo. Giuseppe Longhi, maestro del bulino, fonda una scuola. Non «organo della vulgarità», come lo chiamerà il Cantù, ma voce aperta del suo tempo, fiorisce Carlo Porta. E sorge il Manzoni.

Qui s'apre l'Istituto italiano di scienze e lettere, celebre per le ammissioni, più celebre per le volute esclusioni (Ugo Foscolo viene escluso e accolto invece il padre Francesco Soave!...); qui si forma l'Accademia di belle arti e una pinacoteca; qui si istituisce la Società d'incoraggiamento alle scienze ed arti; e il Conservatorio di musica, e la Scuola di ballo, nido di ammirate, bramate popolane bellezze e di danze leggiadre, aeree....

Ma in tanto centro di vita italiana, la mano straniera, francese, non rimane sempre nascosta; e l'enorme ombra del Despota titano si proietta dappertutto: manca ciò ch'è vita della vita civile; manca la libertà politica, nientemeno! Dov'è la libertà?

[248]

XVII.

La satira politica nel Porta. — Il popolo milanese all'epoca della massima potenza di Napoleone. — Una eclissi di sole. — Ironico sonetto del Porta. — Nuove vittorie napoleoniche e nuove baldorie. — Il brindisi del Porta alla Cascina dei pomi. — Il blocco continentale e i falò di merci inglesi a Milano. — Spie e confische. — La guerra di Russia. — Entusiasmo bellicoso dei nostri. — Eugenio Beauharnais a capo dell'esercito italiano. — Primi bollettini della guerra. — Buone notizie. — I Te Deum e una satira del Porta.

Carlo Porta, come il veneziano Pietro Buratti e il romanesco Gioachino Belli, riunì in sè due generi di satira, che in altri satirici, Orazio, Persio, Giovenale, Giusti, Barbier, Zorutti, vanno dissociate: la satira dei costumi e la satira politica.

La satira dei costumi precede solitamente quella politica. Nel Porta, nel Buratti, nel Belli, procedono insieme.

Carlo Porta visse in un'epoca così feconda di satira politica, che la sua opera rimane molto al di sotto di quella. La sua prudenza, la sua paura di perdere il posto d'impiegato governativo, al quale teneva assai, gli fa seguire meno che gli è possibile con la Musa [249] gli avvenimenti storici: meno che gli è possibile ne coglie il lato satirico.

Napoleone grandeggiava: la sua epopea meravigliava tutti. Quelle vittorie strepitose, quei rapidi cambiamenti, quelle pompe sbalordivano il popolo. Si diceva da' poeti cortigiani che Napoleone era un dio, e da lui si attendevano, ogni giorno, nuovi miracoli. Qualunque avvenimento soprannaturale sarebbe stato attribuito a chi tutto osava e tutto poteva. Si annunciava per isbaglio una eclissi? e tutti a guardare inutilmente il cielo. Si pensava, quasi, che lui, Napoleone, l'avesse sospesa. È questo appunto il soggetto d'un sonetto del Porta che esprime al vivo la superstizione onde la gente minuta era invasa, e quello sbalordimento. Una vera eclissi di sole, l'11 febbraio 1804, aveva spaventato il popolino: le chiese si riempirono di donne atterrite e preganti, e, qualche giorno dopo, le vie di canzonette. Il Porta usò in quel sonetto versi italiani e milanesi alternati, come un sonetto di Giuseppe Parini in morte del benefico curato Ciocca. Ma il poeta meneghino se ne serve per meglio colorire il ridicolo della scena:

Stavan le genti stupide ed intente

Con tant de bocca averta in su a vardà[74]

[250]

Onde veder quel nume onnipotente

Ch'el fa la luna innanz al sô passa.[75]

Chi i lumi armati avea di fosca lente,

Chi on véder rott de fumm fava sporcà;[76]

Chi salìa l'alte torri impazïente.

Chi faseva i segg d'acqua in cort portà.[77]

L'opra ammiranda incominciar dovea,

Quand a vegnì on trombetta s'è veduu[78]

Che sì gridando al popolo dicea:

— El governo l'ecliss l'ha sospenduu! —

Mesto il popolo allor ritorno fea

Disend: — L'è Bonapart che inscì ha voluu.[79]

L'Austria, nel 1809, pretese di sorprendere Napoleone, movendogli d'improvviso duplice guerra: sul Danubio e sull'Isonzo. E il Bonaparte, che aveva preveduto l'assalto della nemica, volò al Danubio in persona contro l'arciduca austriaco Carlo, e spedì il vicerè del Regno italico, Eugenio Beauharnais, sull'Isonzo contro l'arciduca Giovanni. Impaziente di segnalarsi, Eugenio attaccò il nemico sulla pianura di Sacile, ed ebbe la peggio. Già i fautori dell'Austria a Milano ne gioivano; quand'ecco, per le rapide vittorie di Napoleone, l'arciduca Giovanni ha ordine di ritirarsi; ed Eugenio [251] allora a inseguirlo, mercè il Macdonald che Napoleone, per riparare al mal fatto di lui, gli pose a' fianchi. L'abbattimento che aveva invaso i Milanesi, e specialmente gl'impiegati napoleonici, all'annuncio delle batoste d'Eugenio, si mutò in gioia, che crebbe quando si seppe che a Wagram le forze unite di Napoleone menarono strage e operarono miracoli. S'improvvisarono banchetti, feste. A un pranzo alla Cascina dei pomi, nel sobborgo di Milano, allora famosa per le gite amorose ed epicuree, Carlo Porta lesse un brindisi che ritrae quelle paure, quegli sbigottimenti all'idea di ritornare alle sevizie già patite sotto gli Austro-Russi vittoriosi dei Francesi, ed è ebbro di giubilo, per la vittoria. Il brindisi finisce con un evviva a Napoleone.

La rotta degli Austriaci ispirò anche un felice sonetto, in cui è riprodotto il duro caratteristico linguaggio italo-teutonico che gli Austriaci balbettavano fra noi. Comincia: Ti, povera Franzisch, granta balocch: ma, benchè esso vada sotto il nome del Porta, di cui è degno, non è certo del Porta. Fra gli autografi del poeta da me esaminati non lo trovo: lo trovo invece nell'Archivio di Stato di Milano (busta: Poesie vernacole), ma è scritto da mano altrui. Francesco Cusani crede che sia di Giuseppe Bernardoni, e non erra.

[252]

Napoleone alla fine del 1806 giunse al vertice più raggiante della sua potenza in Europa. Domata l'Austria, annichilita la Prussia, vinta la Russia ad Austerlitz; e Germania, Spagna, Italia, Olanda soggette a lui; chi più lo affrontava?... Ma se Napoleone dominava la terra, gl'Inglesi dominavano il mare. Gli avevano distrutta la flotta a Trafalgar; perciò dovette abbandonare l'idea d'uno sbarco in Inghilterra.

L'odio che Napoleone aveva giurato agl'Inglesi, gl'inspirò quel blocco continentale che gli economisti deplorarono come follia. Nessuna manifattura inglese, nessuno de' generi coloniali che dall'Inghilterra si diffondevano in tutta Europa, poteva entrare ne' mercati europei. Così rovinava il commercio che rendeva potente quell'isola, e, nello stesso tempo, rovinava gl'interessi de' propri sudditi. Le merci inglesi, che per contrabbando audacissimo scendevano a Milano per la via della Svizzera, venivano, se scoperte, rumorosamente sequestrate e bruciate in falò spettacolosi davanti alla popolazione sulle piazze. Il sacerdote Luigi Mantovani, autore d'un minuzioso diario di que' tempi conservato nella Biblioteca ambrosiana, narra: «Il 19 novembre 1810, in Piazza dei Mercanti, verso mezzogiorno, furono bruciate varie manifatture inglesi, gilè, fazzoletti, percalli, che giacevano da anni nei magazzini [253] dei negozianti Perlasca e Milius. Il popolo parte rideva e parte cospettava (sic)....» Carlo Porta, in un sonetto, dipinge appunto quei falò della Piazza dei Mercanti di Milano, e allude anche al caffè che pure si bruciava sulle piazze e a quello che, non ostante i fulmini napoleonici, si assaporava nelle case degli agiati col gusto de' frutti proibiti. Fra i numerosi frammenti inediti di poesie del Porta trovo allusioni al caso del caffè e dello zucchero ben più fiere di quel sonetto di carattere politico. Il poeta, nell'autografo, pose questa postilla: «All'epoca ch'io scriveva questo sonetto, Napoleone era in furore cogli Inglesi, e non voleva alcuna cosa da loro, tampoco zuccaro, tampoco caffè. Quindi il prezzo di questi due generi era salito a lire 6 il primo e a lire 5 e 5,10 il secondo, per ogni piccola libbra».

Napoleone, come abbiam visto, aveva consigliato al figliastro Eugenio, quando lo nominò suo vicerè, di non servirsi delle spie. Ma, a soffocare il contrabbando delle manifatture e dei coloniali inglesi, si sguinzagliarono dappertutto guardie daziarie e spioni. Lo spionaggio era incoraggiato dal governo col premio d'un terzo delle multe e delle confische.

Ma il fulmine di guerra non posa. È ancora verso la Russia ch'egli librerà a volo la sua aquila.

[254]

Napoleone ordina d'allestire nel Regno italico trentamila soldati con cento pezzi d'artiglieria per la spedizione nel 1812, che vuole sferrare contro la Russia; e molti giovani milanesi, accesi dal desiderio di gloria, affascinati dal genio del duce sempre vittorioso, corrono al Castello a farsi soldati napoleonici. I racconti esagerati de' veterani sui sicuri trionfi accrescono il loro entusiasmo. Quanti giovani, trattati finora dagli stessi loro parenti come bietoloni, corrono, pieni d'ardore marziale, a vestire l'assisa del soldato!

Siamo giunti ormai al memorando 1812. I soldati del Regno italico, comandati dal vicerè Eugenio Beauharnais, già si battono da eroi negli scontri coi Russi. Già l'annuncio delle vittorie napoleoniche a Ostrowno, a Polotzk, a Mohilow, a Smolensck, alla Moscowa, giungono a Milano; e nell'aria è uno scampanìo festoso, e nelle chiese un echeggiare di Te Deum, mentre le madri palpitano pei figli lontani, non ostante che al conte Paradisi, presidente del Senato, e ai ministri arrivino, sull'ottimo stato delle truppe, lettere che si leggono ne' crocchi e il cui contenuto consolante si diffonde per la città....

I preti, che tacitamente odiano Napoleone, cantano adesso il Te Deum per ringraziare il cielo di quelle vittorie e d'aver salvato Napoleone.

[255]

Carlo Porta staffila quei preti mendaci, e fa parlare Gesù, in una breve satira, dalla chiusa beffarda, che ha riscontro nella conclusione con qualche satira romanesca del Belli. Appena Gesù in cielo s'accorge che i preti cantano a tutto spiano per ringraziarlo d'aver salvato Napoleone nella guerra, mentre poc'anzi lo pregavano in segreto di fargli mandar l'ultimo fiato, si sdegna ed esclama:

E adess canten per lù! birbi impostor!

E me serven inscì?[80] Pocch pocch me call[81]

A brusaj tucc[82] con la livreja in spalla.

Infin, pensandeg sù,

El repìa:[83] — Convien che ghe perdonna.

Se sa che, dal più al men, la servitù

Già l'è tutta canaja bozzaronna.

Ma le rosee notizie diffuse dai primi bollettini a Milano diventarono orrende quando arrivò il terribile 29mo bollettino, che annunciò la disfatta. Noi dobbiamo ricordarla, per dar giusto risalto agli avvenimenti posteriori, che ne furono conseguenza anche in Italia e specialmente a Milano.

[256]

XVIII.

La guerra di Russia e gl'Italiani. — I nostri generali e i nostri soldati. — Partenza dei nostri da Milano. — I primi eroismi. — Ciò che racconta il barone Zanòli. — Il vicerè Eugenio insulta i nostri soldati. — Vivo alterco fra il generale Pino e il vicerè. — Il piano di guerra russo. — Lombardi feriti. — Gl'Italiani alla Moscowa. — Scene orrende. — Napoleone biasimato dai nostri sul campo. — All'incendio e al saccheggio di Mosca. — Altre scene d'orrore. — Una bottega di confetti. — Abbigliamenti grotteschi. — Cinico motto di Napoleone sulla sua salute. — Le perdite italiane accertate. — Il ritorno delle «aquile» napoleoniche a Milano. — Il generale Lechi.

Di notte, le fessure delle capanne russe, dove i soldati francesi assiderati riparavano confusi alla peggio, come belve, venivano otturate con pezzi di cadaveri gelati.... Questo ricordo d'un cieco ammiratore di Napoleone I, Stendhal, è appena un languido tocco degli orrori nei quali l'egoismo del condottiero côrso gettò l'esercito suo in Russia: il più vasto esercito che fino allora il sole avesse visto.

Napoleone aveva svelato al conte di Narbonne il disegno non solo di abbattere lo czar Alessandro e di conquistare un nuovo trono, ma [257] di rovesciarsi sull'India e impadronirsi anche di quella. Sogno titanico, ingoiato da un abisso spaventevole di vittime umane, non compiante dal Despota.

Ah, il giovane czar Alessandro di Russia, il suo amico di ieri, da lui abbagliato di lusinghe nei congressi di Tilsitt e di Erfurt, non gli era più amico? Sì, è vero: lo czar, per piacere a Napoleone, aveva chiuso i porti russi all'Inghilterra; e poi li riaperse. Ma Napoleone non occupava forse, contro i patti, la città di Danzica, prossima alle frontiere russe? Non aveva egli ristabilito il ducato di Varsavia, volendo quasi ricostituire il regno della misera Polonia?... Non si era appropriati gli Stati del duca d'Oldemburgo?.... Begli alleati davvero! E poi.... se Alessandro s'era innamorato per un giorno di Napoleone, lo detestavano i Boiari, coi quali lo czar doveva pur fare i conti: e i Boiari obbligarono lo czar a gravare di nuova tariffa le merci francesi!...

Oltre mezzo milione di soldati Napoleone radunò intorno al fulgore delle sue aquile dorate, copiate da quella d'Aquileia. Ma i Francesi, quasi presaghi del disastro, balbettavano, atterriti, parole amare contro la nuova coscrizione. I soldati francesi erano 250,000 e 60,000 i polacchi col principe Poniatowski, il Baiardo polacco, a capo, anelanti di meritare l'indipendenza [258] nazionale, ahimè! fatta sperare e non concessa. Gli altri soldati erano sassoni, bavaresi, austriaci, prussiani (l'Austria e la Prussia si erano confederate con Napoleone) e spagnoli, portoghesi, svizzeri, westfalici, wirtemburghesi; e poi soldati di Baden, di Darmstadt, di Gotha e Weimar, di Würtzburg, della Franconia, del Meklemburg e d'altri minuscoli principati, soggiogati dal prepotere del Despota; e italiani, sì, italiani, che al rullo del tamburo, sfilavano al comando di Eugenio, vicerè del Regno d'Italia, che pretendeva rifare i gesti e le collere del padrone, come succede spesso ai servi; e al comando dei generali Teodoro Lechi, bresciano, e Domenico Pino, milanese. La cavalleria, 60,000 cavalli, galoppava dietro il bianco cavallo impennacchiato del formoso Murat, re di Napoli, figlio d'un oste, che la comandava. Austriaci e Prussiani odiavano nel fondo del cuore Napoleone e lo combatteranno domani, e come!, ma intanto, per necessità, erano stati gettati ai piedi del dominatore da Federigo Guglielmo e da Francesco I, coi cavalli e coi buoi. E donne, molte donne, seguivano insieme con le salmerie i guerrieri napoleonici: vivandiere, mogli, serve e amanti. Dalle sponde dell'Oceano e dell'Adriatico, dalle sponde del Mediterraneo e del Baltico, i corpi della Grande Armata conversero, [259] svariate falangi votate alla morte, nel suolo tedesco per raccogliersi lungo l'Elba, l'Oder, la Vistola.

E l'oro?... Un enorme tesoro il Bonaparte si tirava dietro; ma anche (come narra lo stesso Thiers) un'enorme quantità di biglietti falsi, di dieci, cento, cinquecento rubli.... Un Napoleone alla pari dei falsari smascherati della Rivoluzione?... Ma il buffo, nell'epopea napoleonica, si mescola al tragico.

Sì. Quali buffe mascherate carnevalesche volle offrire ai milanesi Eugenio, alla vigilia di partire con 27,000 uomini, 7700 cavalli, 58 cannoni, 702 carriaggi per trasporti militari voluti da Napoleone! Il giovedì grasso, 13 febbraio 1812, sul corso di Porta Riconoscenza (già Porta Orientale), lanciò sedici fragorosi e spettacolosi carri rappresentanti, non sappiamo perchè, le Stagioni; li lanciò pure il sabato grasso con una mascherata di Corte raffigurante in due barche la conquista del vello d'oro; e il popolino guardava a bocca aperta; non sapeva nulla del vello.

Le truppe napoletane, che, avvezze al mite clima nativo, tanto soffersero nei geli della Russia, vedevano nello stato maggiore i loro Florestano Pepe e Giuseppe Rossaroll, nomi poi cari dell'indipendenza italiana. Il 111º fanteria, l'eroico reggimento piemontese, era comandato [260] dal Davoût, il vittorioso d'Abukir. Appartenevano a quel reggimento Pietro Arnisano, che, a Mosca, ebbe quattordici ferite di sciabola, e Michele Chiabotto, crivellato anch'esso di ferite spietate. E forse era di quello stesso reggimento l'italiano di cui parla Alberto Sorel nelle Notes sur la campagne de Russie, Arnisano, lui, il più allegro dei soldati. Questi ebbe, come tanti e tanti, i pollici dei piedi gelati, in Russia; preso dalla cancrena, non poteva sopportare calzature, e ogni sera si tagliava con un coltello la carne incancrenita, poi avvolgeva di stracci ciò che rimaneva de' suoi piedi, e andava! A Wilna, non gli rimasero più che i talloni.... E scherzava, rideva.... Morì ridendo.

Tutte le lingue, tutti i dialetti s'incrociavano. Il prode colonnello Gaspare di Bellegarde, piemontese, capo di stato maggiore della divisione Compans, incitava i compatriotti col dialetto natìo. Egli scoprì che, al suo fianco, combatteva un suo fratello di latte, certo Pralavario di Almese, semplice fantaccino del 111º.

Infinite le scene di affetto, di eroismo e di atroce barbarie in quella spaventevole e stolta campagna, nella quale il freddo giunse a 27 gradi; freddo cominciato fin dagli ultimi di giugno e cresciuto il 1º luglio, quando gli Italiani avevano già passato il Niemen, e il [261] vicerè Eugenio (narra il barone Alessandro Zanòli nell'opera Sulla milizia cisalpino-italiana, vol. II, pag. 193) provò «grande soddisfazione vedendo questa schiera da lui creata entrare nel territorio nemico a 600 leghe dal proprio paese, osservando il medesimo ordine e la medesima disciplina come se operasse evoluzioni sulla piazza davanti al regio palazzo della capitale, Milano».

Varcando il Niemen le truppe italiane gittavano alte grida di gioia. Gli Italiani, riscossi dalle mollezze, dal torpore secolare, rinascevano adunque al valore delle armi, invocate un dì da Nicolò Machiavelli per la forza e per il decoro d'Italia! Ma non combattevano per l'Italia.

Eugenio, il vicerè, istigato dal generale Anthourd, suo aiutante, il quale disprezzava tutti coloro che non erano francesi, si mostrò talvolta ben ingiusto e mascalzone verso i nostri!... Il 19 luglio 1812, a Dokchsizy, per una questione di biscotti (la fame infieriva), osò dire agli Italiani: «Se non siete contenti, ritornate pure in Italia, chè nulla m'importa di voi; nè temo le vostre spade più dei vostri stili!»

A Malo-Jaroslawetz le truppe italiane combatterono con valore, con gloria. «È una giornata che l'esercito d'Italia deve inscrivere nei [262] suoi fasti», scrisse un prode: il generale francese Rapp, aiutante di campo di Napoleone, i cui Mémoires (1832) meriterebbero d'essere meglio conosciuti. Lo stesso Napoleone, nel suo 27º bollettino, lodò gl'italiani in quella giornata.

Accanto al castello dove stava il principe Eugenio scoppiò un incendio. Alcuni maligni lo attribuirono a vendetta degli Italiani.

Fra Eugenio e il general Pino sorse fierissimo alterco. Il Pino disse: «Poichè Vostra Altezza non vuol rendere agli Italiani la giustizia che meritano, corro ad ottenerla dall'imperatore». E depose la spada. Eugenio tentò di addolcirlo; gli rese la spada. S'accorse poi che gli Italiani, lungi dal serbargli rancore per gli stupidi oltraggi, lo seguirono con fedeltà e con eroismo continuo.

Era placidamente terribile il piano di battaglia seguìto dai russi. Lo czar si trovava a una festa di ballo, nel castello di Zakret presso Wilna, quando apprese che le truppe napoleoniche avevano varcato il Niemen. E subito ordinò di sgombrare la Lituania. I combattenti russi erano meno numerosi dei francesi e volevano stancare il nemico con lo sfuggire, più che era possibile, gli scontri, col lasciare abbandonati villaggi e città. Il conte di Maistre attribuisce a un ufficiale prussiano, certo Pruhl, il piano di stancare e affamare i francesi senza [263] dare loro battaglia. La cavalleria dei selvaggi cosacchi, che Napoleone disprezzava (cette méprisable cavalerie, come la definì nel suo famoso 29º bollettino della Grande Armata), appariva, come una torma di mostri, e scompariva. Ma aspre battaglie s'ingaggiarono, battaglie macelli.

I russi si appiattavano nelle foreste e di là sparavano i loro cannoni. Un italiano, il comandante Scipione Della Torre, compì allora atti di audacia, a capo de' suoi cavalleggeri; così il colonnello Peraldi. Si era a Ostrowno, e qui fu combattuta aspra battaglia. I russi avevano 20,000 fanti e 6000 cavalli e sembrava avessero il sopravvento. Eugenio si rivolse ai nostri ed esclamò: «Ora confido nella mia brava Guardia!» Risposero i nostri con grida generose di plauso al loro offensore di ieri, con grida di gioia. I due battaglioni dei coscritti della Guardia reale, comandati dal colonnello Peraldi, scacciarono dalla foresta quei russi, che li cannoneggiavano nella loro direzione. Giunse sul campo, ammirato come un dio, Napoleone, e ordinò di respingere l'attacco. I nostri cannonieri si illuminarono allora di esultanza, di valore e di gloria: così la brigata di cavalleria leggera italiana comandata dal Viilata. Il colonnello Antonio Banco, comandante il secondo reggimento di cacciatori, da [264] Sourai inseguì un convoglio russo ben scortato; e, dopo accanito conflitto, fece cinquecento prigionieri e sequestrò i bagagli. A Viliz i nostri vinsero ancora i cosacchi. Benedetto Giovio di Como fu ferito da tre colpi di baionetta ed ebbe il cavallo ucciso. Quell'eroe, atteso dal vecchio padre, superbo di lui, morì poi di stenti; non così sfortunato fu il fratello Paolo, che meritò la croce della Legione d'onore.

A Luzos i cosacchi sbucarono ancora sui loro cavalli e con le loro lunghe picche urlando urrà! urrà! Ma i cacciatori italiani, calmi, li rigettarono. Il capo squadrone Giulini spiegò valore ammirabile.

Durò tre giorni, dal 4 al 7 settembre, la sanguinosa battaglia alla Moscowa. Ma gli Italiani non vi presero tutta la parte che si dice. Tennero in freno il nemico e facilitarono la vittoria fra indicibili fatiche, sofferenze, privazioni, marciando per venti giorni in terreni paludosi, in paesi deserti, saccheggiati dai corpi che li avevano preceduti.

A Borodino, villaggio occupato da un reggimento di cacciatori della Guardia russa, Eugenio dà l'attacco. Gl'Italiani del glorioso 111º e del 66º lo seguono. In pochi momenti, il capitano Arnaudi e il tenente Morelli cadono uccisi, mortalmente feriti i luogotenenti Tuerti e [265] Campana. È colpito a una spalla il generale Compans. Molti i feriti, molti i morti. Presso Borodino, una formidabile ridotta russa deve essere presa dai cannonieri italiani, comandati dal colonnello Millo, che il toscano De Laugier, testimonio oculare, nella sua storia Gli Italiani in Russia (1826), giustamente loda. Essi fanno fuoco sulla fronte; nello stesso tempo, si difendono alle spalle. Il De Laugier e Gerolamo Cappello, nel volume documentato uscito per cura dell'Ufficio storico presso il Comando del nostro Stato maggiore, descrivono al vivo quei fatti grandiosamente epici, di veri giganti delle battaglie, fra i quali brillò di gran luce l'eroismo del livornese Cosimo Del Fante, ufficiale d'ordinanza del vicerè Eugenio, eternato dalle stupende pagine del Guerrazzi. Il Del Fante salì per il primo, di corsa, l'erta della ridotta, l'arduo punto tattico, ne scalò i parapetti e vi entrò, disarmando un vecchio generale, il Likatcheff. Cosimo Del Fante morì poi, da eroe, a Krasuoi.

A Semenoffskoie, il 111º fu assalito, ma il superbo reggimento nostro non indietreggiò; la lotta arse a corpo a corpo. Eroiche pure le masse russe, accese dalla santità della loro causa patriottica e dalle parole animatrici dello Czar.

La neve cadeva a falde immense sulle pianure funeree. Il numero dei morti di gelo cresceva, [266] cresceva. D'un tratto, si vede una vettura chiusa, nera, aprirsi a stento la via fra la neve alta. Attraverso ai cristalli, alcuni soldati, tremanti di freddo, credono di scorgere il profilo tagliente di Napoleone. «È lui! — Non è lui! — Sì, è lui!» gridano, e lo vedono mezzo sepolto in una folta pelliccia. Altre volte sarebbe stato un urlo d'entusiasmo nel vedere il glorioso. Ora è un urlo di sdegno. Napoleone non si turba; ma discende dalla vettura e va a piedi.

Il gelo segna 28 gradi. Una notte, trentadue granatieri d'una schiera stramazzarono morti gelati, mentre aspettavano l'ordine di marciare, narra il capitano dei veliti De Laugier, nella citata sua storia Gli Italiani in Russia. I cadaveri lasciavano la traccia del cammino degl'inutili eroi: la neve li seppelliva. E fame, fame....

Il medico capo degli ospedali militari prussiani, De Kirckhoff, che seguì la Grande Armata, in un libro ormai raro diffusamente descrive, con osservazioni originali, le mortali malattie che miseramente decimavano le schiere napoleoniche: ha parole affannose, insolitamente affannose in un medico (ma egli era anche un filantropo vero), sullo stato miserando dei feriti. «Quanti infelici feriti vagavano pei campi devastati, egli scrive, e invano cercavano un asilo o un aiuto! Una folla di feriti giacevano [267] abbandonati sul campo, privi d'ogni soccorso, esposti al rigore della stagione, estenuati dalla fame, dai tormenti e dalla perdita del sangue, che sgorgava dalle loro lacere membra, mancanti pur d'acqua per estinguere la sete, mandando spaventevoli urli, le più strazianti grida e implorando la morte, sola consolazione che mai potessero sperare. La chiesa di Borodino e il vasto convento di Kolotsköe e gli edifici sorgenti in giro al campo di battaglia erano pieni zeppi di feriti; ivi gli infelici giacevano ammonticchiati sul suolo e la maggior parte senza paglia, in preda alle privazioni d'ogni genere e senza il menomo modo di attenuare i loro mali; e dappertutto dov'erano relegati non si vedeva che terrore e disperazione. Parecchi di essi, trattenuti negli edifici invasi dal fuoco, perivano fra le fiamme».

E, intanto, Napoleone si adirava perchè, per un raffreddore, aveva perduta la voce ed era costretto a scrivere lui stesso, anzi che dettare, gli ordini di nuove inutili stragi!

Una data particolare nella storia è il 15 settembre 1812. Giorno dell'incendio e del saccheggio di Mosca, l'antica venerata capitale: incendio appiccato dai russi, per comando del governatore Rastopcin, alle case di legno, di cui era quasi tutta formata la vasta città; e saccheggio, al quale le truppe napoleoniche [268] s'abbandonarono affamate. Napoleone lasciò in fretta il Kremlino e ordinò al maresciallo Mortier, duca di Treviso (ucciso poi nel 1835 dalla macchina infernale del côrso Fieschi contro re Luigi Filippo), di farlo saltar in aria nel timore di essere accerchiato dalle fiamme, che già distruggevano con stridii e tuoni i depositi di combustibile e gli edifici vicini. Le case divennero fornaci.

«Qual mai aspetto d'orrori! — esclama il De Kirckoff. — Il fuoco è ai quattro angoli di quell'antica città, culla dell'impero russo. L'incendio, aiutato da impetuoso vento, estende il furore suo con una spaventevole rapidità ai quartieri, che presto son cenere.»

Gli abitanti erano fuggiti; non rimanevano che alcuni moscoviti spaventati, nascosti nelle case che ardevano. Al sepolcrale silenzio nel quale era immersa la città all'entrare baldanzoso dei francesi, seguirono lunghi lamenti, urli di terrore. E i soldati napoleonici, affamati, entravano nelle case per saccheggiarle, e si trovavano di fronte ad altri saccheggiatori, ceffi da galera: i condannati, i malfattori, ai quali Rastopcin aveva aperte le carceri col patto che abbruciassero tutte le case di Mosca; a tal fine aveva fatto distribuire a loro miccie impeciate. Avvenivano conflitti da belve. Gli ospedali in fiamme, i malati carbonizzati. [269] Quadri e mobili preziosi in cenere. Fra le vampe, i soldati scendono nelle cantine dei ricchi, le spogliano dei vini, s'ubriacano. Così gli ufficiali. La grandezza epica di prima diventa abbiettezza.

Il colonnello Pion des Loges, in certe sue Memorie, racconta particolari che farebbero ridere se non avessero per isfondo il quadro più tragico. Artiglieri, avvezzi all'inferno delle scariche, saccheggiarono allegramente una bottega.... di confetti; e ne uscirono con ceste colme di dolciumi....

«I reggimenti (racconta quel francese) erano totalmente sbandati; si vedevano da tutte le parti ufficiali e soldati ubriachi, carichi di provviste rubate dalle case in fiamme. Le strade erano ingombre di libri, carte, stoviglie rotte, mobili e abiti di tutte le foggie. Le numerose donne che avevano seguito la Grande Armata facevano bottino con avidità incredibile, per prepararsi una scorta che ci avrebbero fatta pagar cara nella ritirata. Le si vedevano cariche di recipienti colmi di vino, liquori, zucchero, caffè; altre ammassavano ricche pelliccie, sulle quali dovevano poi fare così lauti guadagni durante il tragico ritorno».

E la ritirata, che il 30 ottobre fu generale, si risolse nella più disordinata e lagrimevole [270] tragedia che la storia ricordi: orribile e grottesca. La contessa di Choiseul-Gouffier, che si trovava a Wilna quando ai primi del dicembre 1812 entravano gli avanzi del distrutto esercito imperiale, e altri scrittori del tempo raccontano le mostruose carnevalesche foggie con cui si erano camuffati i fuggiaschi, avvolgendosi delle vesti rubate a Mosca dalle case e dalle chiese. Alcuni erano avviluppati in piviali, altri in vesti da camera imbottite, con cappelli da signora sul capo; alcuni brancolavano o cavalcavano come gli spettri della nordica leggenda, avvolti in lunghi neri mantelli funebri. Napoleone era tutto infagottato in una ricchissima pelliccia e celava la fronte con un colossale, teatrale berretto di pelo. Egli fuggì, quasi di nascosto, sotto il nome di «Duca di Vicenza», in slitta, verso Parigi, mentre avveniva il micidialissimo passaggio de' suoi sulla Beresina, nella quale annegarono 136,000 infelici.

Il 3 dicembre Napoleone lanciava il 29º bollettino della Grande Armata, spietato bollettino che narrava lo sterminio, e che a Milano e in tutti i punti d'Europa strappò le più atroci maledizioni!... Dopo di avere accusati come deboli e inetti gli sventurati caduti per lui e che pur l'adoravano, terminava con le parole: «La salute di Sua Maestà non è mai stata migliore», [271] — e ciò per ismentire la voce corsa della sua morte in battaglia.

Fu ben diverso il principe Poniatowski. L'anno dopo, al domani della battaglia di Lipsia, incaricato di proteggere l'esercito, si slanciò nell'Elster e scomparve nelle onde, piuttosto che arrendersi.

I Russi, secondo i loro scrittori, perdettero centomila uomini durante la loro ritirata da Mosca.

Dell'enorme intero esercito, formato con 613,600 uomini, se ne contavano 94,000 superstiti, dei quali soli 30,000 validi; gli altri rimasti senza piedi per il gelo, per la cancrena, o infermi; vite spezzate. I reduci narravano ancora esterrefatti particolari abbominevoli o macabri. Di notte dormivano spesso abbracciati l'un l'altro per riscaldarsi, e, svegliandosi, più d'uno trovava avvinto a sè un cadavere. I cavalli caduti (di 176,850 cavalli solo un migliaio salvi) venivano sbranati, e s'immergevano piedi e mani nelle viscere sanguinose per riscaldarsi alla peggio. I mille cannoni rimasero sulle nevi della Russia, tutti; e i 15,000 carri tutti perduti. E intorno alle schiere italiane, che in ogni combattimento spiegarono sì magnanimo valore, il barone Zanòli, segretario generale del ministro della guerra del regno d'Italia, accuratissimo, segna nella sua storia [272] questi funebri dati: «Uomini partiti, 27,397; ritornati, 1000. Tutti gli altri, morti e prigionieri in Russia.»

Ma i pochi italiani compirono un gesto bellissimo. Ritornati, riportarono a Milano incolumi le aquile dorate, che Napoleone aveva affidate nel 1805, con giuramento, al generale Lechi, allora comandante dei granatieri della Guardia reale. E il Lechi, nel 1848, offerse con eloquente discorso le aquile a re Carlo Alberto, perchè le custodisse nell'Armeria reale di Torino, a perenne testimonianza della fede italica, del cuore dei soldati degni di combattere per la patria.

[273]

XIX.

Milano al domani del disastro di Russia. — Le madri desolate. — Ritorno d'Eugenio a Milano. — Nella Corte della viceregina. — Una odiosa dama di Corte. — Le figlie di Amalia Augusta. — Una mascherata, un funesto presagio. — Nuove guerre e nuove sconfitte napoleoniche. — Oltraggi a Napoleone. — Richiamo delle truppe francesi dall'Italia. — Carlo Porta sferra un fiero sonetto contro quelle truppe. — Pranzi costosi. — Aggressioni, invasioni nelle case e altre ribalderie. — Ultimi giorni di Francesco Melzi. — Come Napoleone lo favorisse. — La «Società del Giardino». — Ville e viaggi.

Milano, appreso lo spaventoso disastro di Russia, piombò nel lutto. Per le vie s'incontravano volti pallidi di dolore e d'ira. Nelle case, donde, ebbri di ardore guerriero e di balde speranze eran partiti giovani fiorenti, rimasti, pur troppo, vittime oscure della catastrofe immane, piangevano madri desolate, padri, famiglie intere. Lampi di false lusinghe, speranze di prossimi, o pur remoti ritorni dei loro cari, creduti prigionieri o dispersi nelle solitudini russe desolate, avvivavano ad ora ad ora i cuori angosciati; poi ritornavano le angoscie, le tenebre.

[274]

Gran numero di famiglie del popolo operoso, di famiglie borghesi e nobili sentivano ormai avversione profonda, odio verso Napoleone. I commerci erano interrotti, le tariffe onerose, le imposte esacerbate, le sopraffazioni innumerevoli.

Eugenio, non ostante il suo iniquo contegno verso gl'Italiani che eroicamente avevano combattuto al suo comando e serenamente erano morti gridando (testimonianze lo affermano) «Viva l'Italia!», ritornava con nuova aureola di gloria, specie per aver guidato la più ardua delle ritirate con le picche dei diabolici cosacchi inseguitori alle reni. Era ammirato dai competenti nell'arte del combattere; ma, nemmeno per lui, simpatia; simpatia rimasta quasi incolume, invece, per la consorte Amalia Augusta, figlia del re di Baviera, benchè adesso biasimata perchè a Corte si lascia guidare sempre più dai cenni della propria dama di compagnia, donna senza cultura, rozza, tedescamente pedante, nobilitata col titolo di baronessa di Wurbms e arricchitasi fuor di misura, non si sa come. I ritrovi vicereali si svolgevano sempre compassati, freddi, in causa dell'inevitabile presenza di lei;[84] poi [275] divennero cupi; quindi furono sospesi del tutto.

Amalia Augusta era madre di tre leggiadre fanciulle, suo conforto nella caduta che l'attendeva.

Alla maggiore, Giuseppina Massimiliana, Napoleone conferì il titolo di principessa di Bologna, e le regalò in più il ducato di Galliera con la mira palese di premiare il padre suo della costante, piena devozione.

Ma come mutano le sorti! Chi ricorda più ora le acclamazioni al «successore di Carlo Magno», come Napoleone si vantava di essere? E chi, a Milano, ricorda più il sabato grasso del 1812, quando gli ufficiali della Guardia reale apparvero in una mascherata di vari carri, sull'ultimo dei quali sorgeva un'altissima torre, in cui un soldato, camuffato da chinese, sventolava una bandiera tricolore? Presso la piazza de' Mercanti, quel disgraziato precipitò e rimase cadavere. Parve un presagio. Il popolo lo diceva allora: lo rammentò poi.

Napoleone, dinanzi ai rovesci, non posava: al contrario, raddoppiava di energie. Dopo tanta ecatombe d'uomini, indisse nuove leve ed ebbe nuovi soldati quanti ne volle; e raccolse a forza laute oblazioni, segnatamente nel dipartimento dell'Olona, dove i nomi dei ricchi che potevano offrirle sarebbero stati pubblicati, e li pubblicò [276] il ministro della guerra e della marina, generale Fontanelli.

Ma le infedeltà micidiali eran previste, e non tardarono a scatenarsi.

La Prussia piantò Napoleone alleandosi con gl'Inglesi, che occuparono l'Olanda, e con la Russia. La Svezia la seguì. La Baviera si unì all'Austria. Nella sanguinosa battaglia di Lipsia, detta la «battaglia delle Nazioni», durata tre giorni 16, 18, 19 ottobre 1813 contro il giogo napoleonico, i Sassoni e i Würtemburghesi passarono dal campo francese al nemico. Napoleone rimase sconfitto e, intanto, in Italia, il principe Eugenio veniva respinto dagli Austriaci sull'Adige. Tutta, tutta la Germania sorse, allora, in nome dell'indipendenza contro il Despota invasore; e fu allora che vibrò il Canto della spada di Teodoro Körner, il Tirteo tedesco, la cui eroica memoria fu onorata poi dal Manzoni con la dedica dell'insuperata ode storica Marzo 1821.

I collegati si divisero in tre vasti eserciti. Napoleone, volando or qua or là, battè ora questo, ora quello; e non fu mai così grande soldato. Ma dove non piombava quel fulmine di guerra, i nemici avanzavano. Gl'Inglesi entrarono a Bordeaux, gli Austriaci in Lione, e tutti marciavano contro Parigi, che aperse le porte. Il Senato di Francia, scossa alfine la [277] servile livrea, proclamò Napoleone tiranno e gli strappò il trono di Francia; proclamò re Luigi XVIII, fratello dello sventurato Luigi XVI. Cose ben note; ed è ben nota la tragica scena shakesperiana di Fontainebleu dove Napoleone rinunciò alle corone di Francia e d'Italia, serbando pel proprio esilio un'isola italiana: l'isola d'Elba. Nel viaggio dovette subìre volgari oltraggi dal popolo. Ad Orgon la popolazione aveva preparato un fantoccio imbrattato di sangue fornito da un macellaio con al collo un cartello su cui era scritto: «Bonaparte». E, quando la vettura dell'ex-imperatore giunse, lo si issò ad un ramo d'un albero della piazza. Napoleone fu costretto dalla folla a scendere dalla vettura e assistere alla propria impiccagione in effigie, mentre la turba attorno a lui gridava, fischiava, batteva le mani.

Un contadino tarchiato, osò prendere Napoleone pel bavero, scrollarlo e gridargli in faccia: «Viva il Re». La cronaca del tempo raccolse il nome di colui: si chiamava Durel.

Le truppe francesi, che si trovavano nel Regno italico, vennero richiamate in Francia; e fu allora che un veemente sonetto di Carlo Porta parve il compendio di tutti gli odii suscitati in tanti anni di dominazione dai Francesi, specialmente per il loro superbo disprezzo [278] verso Milano; disprezzo rintuzzato, in altro sonetto, dallo stesso poeta.

Quel sonetto sulla partenza dei Francesi è il più fiero che il Porta abbia mai scritto fra i sonetti politici.

I soldati francesi se n'andavano; quei soldati, che dal popolo venivano chiamati paracar perchè somigliavano ai paracarri, quando, in occasione di feste pubbliche, venivano allineati sulle strade.

Paracar, che scappee de Lombardia,

Se ve dan quaj moment de vardà indree,

Dee on'oggiada e fee a ment con che legria

Se festeggia sto voster san Michee.

E sì che tutt el mond sa che vee via

Per lassà el post a di olter forestee,

Che per quant fussen pien de cortesia

Vorraran anca lor robba e danee.

Ma n'havii faa mo tant violter balloss,

Col ladrann e copann gent sora gent,

Col pelann, tribolann, c..... adoss,

Che infin n'havii redutt al pònt p.......

De podè nanca vess indiferent

Sulla scerna del boja che ne scanna.

(«O paracarri, che scappate dalla Lombardia, se potete rivolgervi un momento, date un'occhiata, e notate con quanta allegria si festeggia questo vostro trasloco di casa!

»Eppure tutti sanno che voi ve n'andate per far posto ad altri stranieri; i quali, per [279] quanto cortesi, vorranno anch'essi roba e denari.

«Ma voi, birbe, ce n'avete fatte tante, col derubarci e ammazzarci a migliaia; col pelarci, tribolarci e vituperarci a vostro piacere;

«da averci persino ridotti a questo punto: di non poter neanche essere indifferenti sulla scelta del boia che deve scannarci!»).

Larga eco destò questo sonetto, che girò manoscritto per Milano. Si narravano fatti incredibili sulle ultime ruberie francesi; e si mescolavano con le prime. Basti il dire che il generale Varrin si faceva sborsare quattrocentoquaranta lire al giorno per il suo pranzo. E si assicurava che il direttore delle poste, Antonio Darnay, apriva allegramente le lettere dei cittadini. La pubblica sicurezza era.... un sogno. Fin dal 1811, più di dugentocinquanta aggressioni a mano armata sulle vie pubbliche; più di cento invasioni nelle case private; assassinii, ferimenti, oltraggi a donne. Eppure in Milano viveva onorato da tutti un savio, capace di purificare l'atmosfera; capace, se ne avesse avuta la forza, di dirigere con buon successo gli avvenimenti.

Era vecchio, infermo di gotta (tanto che non poteva nemmeno firmare una lettera), ma lucido di mente: copriva nel Regno italico la [280] carica di Gran Cancelliere Guardasigilli. Francesco Melzi, in una parola. Era quel savio. Napoleone lo aveva elevato all'alto posto donandogli uno dei grandi feudi della Corona e un appannaggio di dugentomila lire annue col titolo di Duca di Lodi. Aveva nel Melzi scoperto un uomo sinceramente devoto, fido, un uomo di Stato, e un uomo singolarmente onesto in mezzo a tanti ladri. Gli aveva persino proposto in moglie la sorella Paolina, vedova del generale Leclerc, bellissima, cara, adorabile creatura, ma un po' troppo corriva ai capricci.... Il duca Melzi ringraziò per la nuziale proposta; ma, considerata la propria gotta e le poco assicuranti inclinazioni di Paolina, la rifiutò.

Carlo Porta, stanco dei monotoni doveri quotidiani del suo ufficio, delle cure che consacrava all'agenzia bancaria del fratello e ad altre, come sappiamo da sue stesse parole, trovava alla sera geniale distrazione in una società di commercianti, di cui faceva parte, e che si radunava, per amichevoli ritrovi e divertimenti, prima in via Clerici, poi nel palazzo Spinola in via San Paolo, dove nel 1818 trasferiva la sua sede, e dove fiorisce tutt'ora col nome di «Società del Giardino». Le feste della simpatica società ammaliavano per la bellezza delle signore che v'intervenivano. [281] Lo Stendhal, nel libro più volte citato, parla a più riprese di quelle riunioni festose. Egli, che a Milano trovava tutto bello, tutto bellissimo (perchè vi viveva la dolce Matilde Dembowsky, della quale era follemente e ahimè! inutilmente invaghito), arriva a scrivere così: «Je sors du casin de San Paolo. De ma vie, je n'ai vu la réunion d'aussi belles femmes: leur beauté fait baisser les yeux». Effetto che Ugo Foscolo certo non provava.

A sollievo dei trambusti cittadini, i Milanesi si spargevano per le ville. I nobili vi andavano, nel giorno di san Martino, facesse bel tempo o no; e vi soggiornavano per regolare i conti degli affittaiuoli. Nelle ville si davano feste campestri, con inviti. La vendemmia era essa sola una festa, e le laute imbandigioni non mancavano. E a Parigi? Almeno un viaggio a Parigi era d'obbligo per il patrizio. Da Milano partiva per il Sempione, e di là per Parigi, una «diligenza», due volte la settimana, il martedì e il sabato, e ne ritornava negli stessi giorni. Ma gli assalti alle «diligenze» talora interrompevano il viaggio. Mai come allora l'augurio «buon viaggio!» era sentito.

[282]

XX.

Ingrossa la bufera d'odio contro Napoleone. — Il suo misero capro espiatorio. — Complotti in favore d'un ritorno degli Austriaci. — I partiti. — Le ultime ore del Regno italico. — Tumulti. — La plebe armata. — L'atroce giornata del 20 aprile 1814 e il giovane conte Federico Confalonieri. — L'orrendo martirio del ministro Prina. — Un frate, Ugo Foscolo e un servo del Romagnosi. — Neppure il sepolcro!... — Il generale austriaco Bellegarde e l'arciduca Giovanni a Milano. — Fiera risposta di quest'ultimo. — Un sonetto del Porta a questo proposito. — Ingresso di Francesco I d'Austria a Milano. — Il brindisi del Porta. — Giudizio statario contro i malandrini. — La carestia.

Eugenio ambiva la corona d'Italia. L'esercito, dimenticando le offese di Russia, lo invitava a prenderla. Così egli si sarebbe promosso da sè stesso.... Ma non lo volevano i più. Non era egli forse il figlio adottivo dell'uomo fatale?... Non era egli di quella Francia che ormai troppo, troppo pesava sull'Italia? E non proteggeva gl'impiegati francesi sopra gl'italiani? E que' suoi modacci, quel suo sfacciato corteggiare le dame che, invitate, andavano a Corte, e le sue borie?...

[283]

Ma lo volevano re alcuni senatori. Non i nobili e clero partitanti dell'Austria: lo odiavano. Ma oggetto di maggior astio, d'odio, anzi, generale, era il ministro delle finanze conte Giuseppe Prina, il quale, per comando di Napoleone, sempre bisognoso di denaro per le sue guerre, aveva imposto tasse gravi.

Il Prina sapeva dell'odio di cui era circondato e delle minaccie di morte scritte sulle muraglie della sua casa; ma sarebbe stata una fortuna per lui se, in tempo, lo avesse saputo anche il duca Melzi. Questo vecchio infermo non usciva mai, non udiva tutte le voci minacciose, non conosceva bene le fila della congiura, anzi delle congiure, perchè erano due, contro Eugenio Beauharnais e contro il Regno italico, il cui capro espiatorio doveva essere il misero Prina.

V'erano, infatti, i partigiani dell'Austria, la quale spiava tutte le vie per ritornare dominatrice nella Lombardia, e v'erano quelli che si chiamavano da sè «italici puri». Costoro volevano cacciare via il vicerè Eugenio Beauharnais e i suoi, salvando, peraltro, il Regno italico, sul cui trono volevano mettere.... chi?... non lo sapevano nemmeno essi!...

Fin dagli ultimi mesi del 1813, i partigiani dell'Austria a Milano avevano segrete corrispondenze col maresciallo Bellegarde, un [284] savoiardo al soldo degli Absburgo, e supremo comandante dell'esercito austriaco. Intermediario degli occulti maneggi era un bolognese, il conte Filippo Ghislieri. Questi era il vero caporione dei cospiratori austriacanti. A Milano passava per il più velenoso nemico di Napoleone, del quale voleva vendicarsi per una prigionia sofferta e per alcuni suoi beni confiscati. Egli s'introdusse in molte case patrizie milanesi per ispiarne le opinioni e per seminare odio. Più volte, con un coraggio che poteva costargli la vita, si recò travestito al quartier generale austriaco per intendersi col Bellegarde, accampato sull'Adige e pronto ad entrare in Milano. Il suo più fervido adepto era il milanese conte Alfonso Castiglioni (che per quarant'anni non volle vedere suo fratello), e il braccio più saldo del Ghislieri era il conte Giuseppe Gambarana, che aveva la passione dei foschi raggiri. Il Rosales, il Mellerio, il consigliere Freganeschi ed altri ancora formavano il nucleo principale dei congiurati, i quali dovevano cacciare dal cielo lombardo l'aquila napoleonica per chiamarvi l'aquila austriaca.

L'altro partito, quello degl'«italici puri», era anch'esso composto di nobili, fra i quali primeggiava il conte Federico Confalonieri, l'orgogliosissimo, che fu poi condannato a [285] morte dall'Austria, e, graziato,.... alle catene dello Spielberg, sopportate con fierezza sublime. Vi partecipava lo stesso podestà di Milano, il conte Antonio Durini, della famiglia del cardinale cantato da Giuseppe Parini in un'ode famosa. Ma vi facevano parte anche banchieri, mercanti, impiegati, professionisti, fra i quali l'avvocato Traversa e sua moglie. La scaltra Traversa seppe attirare nella propria casa parecchi degli «italici puri» e anche gli austriaci; ma l'accordo generale per disfarsi del vicerè, del Prina, degli altri ministri del servile Senato, l'accordo per suscitare una sommossa popolare, fu stretto in casa del consigliere Freganeschi, che sturava molte bottiglie per accendere forse meglio i sangui.

E il vicerè Eugenio si trovava, intanto, a Mantova, dove aspettava un parto della viceregina, e gli eventi.

Gli austriacanti furono lieti di cominciare l'agitazione.... con le loro firme. Accordarono le loro firme ad una protesta degli «italici» contro il Senato, al quale portarono un primo colpo violento, domandandogli la immediata convocazione dei collegi elettorali, dimostrando così di non fidarsi di esso. La protesta portava per primo il nome del generale napoleonico Domenico Pino, cui si attribuiva la smania di essere eletto lui a re del nuovo Regno italico.

[286]

Il Senato era stato convocato il 17 aprile, perchè il suo presidente, il retto Antonio Veneri di Reggio Emilia, doveva leggere un «messaggio» del duca Melzi. Messaggio recante una proposta che tornava improvvisa, nuova per tutti. Il Melzi proponeva al Senato la nomina d'una deputazione senatoriale presso l'imperatore d'Austria, Francesco I. Sua Maestà fosse supplicata di riconoscere da' propri alleati l'indipendenza del Regno italico con un re libero, e che questo re legittimo fosse riconosciuto in Eugenio. Ben strana proposta! L'imperatore austriaco, infatti, mai avrebbe rinunziato al riacquisto della Lombardia; mai avrebbe protetto il figlio adottivo del suo più odiato nemico. Il principe di Metternich, che gli era a lato, non pensava altrimenti.

I senatori rimasero stupefatti: si guardarono l'un l'altro. Chiesero più volte la lettura del messaggio.... Il senatore Diego Guicciardi, che non aveva buon sangue col Melzi, contestò la facoltà del duca di convocare in seduta straordinaria il Senato; gli contestò il diritto di presentare quella proposta e di parlare in nome dello Stato. E invece quei diritti il Melzi li aveva. Napoleone, con decreto di vecchia data, gli conferiva autorità di radunare il Senato, e ampi poteri in assenza del vicerè.

[287]

Il ministro conte Prina si alzò. Il morituro propose un nuovo articolo sul «diritto eventuale acquistato dal vicerè alla Corona d'Italia in forza della costituzione». Ma il Guicciardi dimostrò non essere lecito mettere in campo un diritto eventuale, finchè non fosse escluso il diritto positivo. E alludeva al figlio di Napoleone, nato a Roma il 20 marzo 1811 e perciò chiamato il «re di Roma» (infelice re!); Napoleone lo ebbe dall'arciduchessa d'Austria Maria Luisa, sposata dopo aver ripudiata la povera infeconda Giuseppina, già amata tanto e abbandonata all'avvilimento e alle lagrime.

Il senatore Massari redarguì con forza il Prina: «Perchè parlate voi in nome della nazione? Il Senato non può esprimere che il proprio voto»!

Era tardi. I senatori si dichiaravano stanchi. Si venne a una votazione notturna, tumultuosa. Si mandasse pure la Deputazione.

Gli «italici» non ne erano contenti, e dovettero unirsi agli «austriaci» anco nell'agitazione torbida della plebe, che i caporioni avevano già bell'e preparata facendo venire dal Pavese e dal Novarese uomini pronti ad ogni eccesso: sicari assoldati.

Spuntò la mattina del tragico 20 aprile 1814.

Il presidente del Senato, Veneri, visto il minaccioso fermento, lo aveva convocato per [288] leggere un indirizzo chiedente il richiamo dei deputati, ch'erano due: l'austriacante valtellinese Diego Guicciardi, rotto nei maneggi e intrighi politici ed esuberante in tutto (aveva quattordici figli), cancelliere del Senato, e il senatore Luigi Castiglioni dotto botanico.

Il cielo era fosco. Pioveva. Davanti al palazzo del Senato vi erano giovani nobili fermi sotto gli ombrelli, e uomini plebei dall'aria truce, e ceffi da galera, e popolani, e persino alcune dame di Corte avide d'assistere a qualche scena nuova pei loro occhi sazi di feste comuni. A mano a mano che arrivavano le carrozze dei senatori, questi erano applauditi o fischiati, secondo le loro tendenze. Un giovane, distinto fra tutti, dava alla plebaglia il segnale dei fischi o degli applausi: era il conte Federico Confalonieri. Nella sala del Senato, il presidente Veneri lesse l'indirizzo. Mentre egli legge, entra un araldo. «Gli ufficiali della guardia civica (egli dice) chiedono ad alta voce di voler difendere il Senato». Il conte Carlo Verri (fratello del grande Pietro e d'Alessandro, autore delle declamatorie Notti romane) scende le scale e fa un discorso pacificatore. Silenzio.

Ma la scena, d'un tratto, cambia. La turba è ingrossata, urla, invade il portico del palazzo. Il conte Verri agita un fazzoletto bianco, [289] perchè, in quel frastuono, parlare è impossibile. Scorge il conte Confalonieri e lo chiama ad alta voce. Il Confalonieri ottiene un po' di silenzio, ma il tumulto aumenta, e si grida: «Non vogliamo il vicerè e il Senato suo adulatore! Vogliamo che si richiami la Deputazione del Senato! Vogliamo l'immediata convocazione dei Collegi elettorali!»

I senatori sono spaventati. Scrivono subito su numerosi pezzi di carta: «Il Senato richiama la Deputazione, riunisce i Collegi elettorali», e la seduta è tolta. E i pezzi di carta sono gettati alla folla, che ingrossa ancor più e urla ancor più. Non è un subbuglio; è una rivoluzione. I senatori scendono sfilando pallidi, più morti che vivi. Al conte Verri un uomo alto dice: «Ora vogliamo il Prina». — «Non c'è!» risponde il Verri. — «Ma io l'ho visto entrare». — «No, non c'è» (aveva scambiato il Veneri per il Prina). Partiti i senatori tra fischi assordanti e urli, la plebaglia salì a saccheggiare il palazzo. Il ritratto di Napoleone, dipinto da Andrea Appiani con le insegne sovrane, fu lanciato dal balcone sulla strada. Tavole, poltrone, usci, specchi, stufe, persiane, libri, carte, calamai, tutto fu strappato, rovesciato e buttato dal balcone, dalle finestre.

Gl'«italici» potevano per tanto chiamarsi contenti; ma gli «austriaci» volevano un tumulto [290] maggiore, una scena di violenza più terribile, per chiamare il maresciallo Bellegarde a ristabilire l'ordine.... e il resto.

Ora l'atroce folla si muove e va, va, va. Si comprende che corre a cercare una vittima umana. Si volge per andare verso la dimora del Melzi. Una voce lancia un nome: Prina!

È un muggito; e la masnada nera, compatta allora cambia strada e s'avvia all'angusta piazza di San Fedele, dove, massiccia, austera, con un giardino pensile sul tetto, sorge la casa del Prina; quella casa, nella quale le esaltate fantasie popolari hanno creduto che fossero celati immensi tesori, accumulati dalla insaziabile rapacità del ministro delle finanze per suo uso e piacere. Quella casa, per cancellare una vergognosa memoria, verrà poi demolita.

Il ministro Prina non è fuggito. È in casa. L'abate Prina, suo cugino, lo prega, lo scongiura di mettersi in salvo: da Pavia, nella cui Università insegna Diritto, egli è venuto apposta per condurlo via con sè; ha una carrozza pronta a porta Ticinese: «Faccia presto, per carità». Il parroco dell'attigua chiesa di San Fedele gli offre il «sotterraneo» della chiesa qual sicuro rifugio.... «Bisogna fuggire, presto!» La moltitudine s'avanza tumultuando; ed è già sera. Ma il ministro Prina non si muove: non [291] vuol fuggire, ed esclama (a quanto si racconta): I saria nen Piemonteis!

In questo momento, le belve sono arrivate in piazza San Fedele; ruggono, imprecano, gridano: morte! morte!, e incessanti colpi rintronano: si sta abbattendo il portone chiuso del palazzo. L'abate Prina, aiutato da servi, spinge il ministro in una stanzuccia dell'ultimo piano e discende, sparisce. Qualcuno porge in fretta gli abiti d'un prete, perchè il ministro si travesta. Ma il parroco di San Fedele non potrebbe ora uscire col Santissimo Sacramento, come alcuni pietosi lo scongiurano?... E non potrebbe ammansare, innalzando l'ostia sacra, con le croci, questa folla di contadini, di manigoldi?... Glielo dicono, sì; ma egli, don Del Maino, ha paura, e non lo fa. E Sua Eccellenza il generale Pino non potrebbe mandare la truppa a disperdere gli assassini?... Glielo dicono, sì; ma non lo fa. E il portone, ai colpi tremendi dei muratori, dei fabbri, accenna a cedere....

L'aria intanto si è fatta scura.... E le furie ululanti hanno ora accese torcie di bitume; e alla luce sinistra luccicano coltelli, tridenti, falci; si scorgono corde e sacchi per rubare. E la pioggia scende, scende.... Il portone, strappato dai gangheri, precipita alfine, e la folla entra furibonda, sale, saccheggia, rompe, [292] frantuma, e cerca.... Un uomo, che all'abito appare di civile condizione, si è cacciato fra la ciurmaglia, penetra con sicurezza nello studio abbandonato dal ministro; qualcuno lo vede rompere la serratura dello scrittoio, afferrare un fascio di carte, e scomparire.... È egli forse l'avvocato Traversa?... Quelle carte sono titoli di credito?... Lo dicono, lo ripetono, lo diranno; e lo diranno meglio quando si vedrà quell'uomo vivere con la moglie fra stragrandi ricchezze improvvise.

I cavalli della scuderia, quelli sui quali il ministro cavalcava impavido per le vie di Milano, vengono strappati e rubati. Le argenterie scompaiono. Si rubano persino i vasi del giardino pensile.... perchè i saccheggiatori sono arrivati fin là, al tetto; e il ministro Prina, dal suo nascondiglio in alto, li deve ben sentire: deve sentire le voci orrende di chi lo cerca, di chi lo vuole.... «Ma dov'è? Dov'è?...» Un tristo, unitosi ai sicari, alfine lo scopre, e grida trionfante: «È qui! è qui!...» Egli lo ha scoperto mentre il ministro sta travestendosi da prete e ha infilata una calza nera.... I sicari salgono, afferrano lo sventurato, lo trascinano giù per le scale facendogli sbattere la testa sui gradini, e lo calano da una finestra del piano terreno sulla strada; e allora quel misero corpo, già pesto, è accerchiato fra oltraggi, [293] è colpito con mazze, con ombrelli; è coperto di sputi. Alcuni generosi, per salvarlo, fingono d'essere i più accaniti di tutti, e lo tirano nell'interno della casa Imbonati; ma i sicari lo vogliono loro, nelle loro unghie, e lo trascinano fra altri colpi più spietati sulla via, sul fango. Col puntale d'un ombrello gli è strappato un occhio. Un frate Orioli, che diventerà cardinale, il cantante Galli dal suo balcone, il poeta Ugo Foscolo pregano, gridano, impongono che si abbandoni la vittima. Invano! I generosi, fra i quali un servo di Gian Domenico Romagnosi, con un supremo sforzo, riescono a nascondere il Prina sotto un mucchio di assi d'un falegname, in un cortile.... Ma gli assassini irrompono nella casa e, non trovando il Prina, ammucchiano in fretta fascine su fascine per incendiarla. Agli urli di «fuoco! e morte!» il Prina esce sanguinolento dal suo nascondiglio; con un colpo di martello sulla faccia lo atterrano; lo legano pei piedi sopra un asse, e lo trascinano per le vie della città: la testa dell'infelice rimbalza sul selciato sconnesso delle strade; ed è già notte nera; piove ora a dirotto; e il generale Pino ha terminato appena d'arringare, con certe chiacchiere sue, certi mucchi di stupido volgo attirato dal suo alto grado militare; e il fiacco podestà Antonio Durini ha appena finito di far incollare sulle cantonate [294] un pacifico manifesto. Ma più si lacera quel misero corpo di martire, e più i malvagi raddoppiano le torture. Ora lo trascinano davanti all'ufficio del Demanio, l'ufficio della carta bollata istituita dal ministro; un mascalzone gliene sbatte sul viso un foglio, glielo caccia in gola, gridandogli: «Eccoti la tua carta bollata!» Altri, al lume delle torcie lo denudano, e vogliono bruciarlo con l'acqua ragia; e, per questo, minacciano di sfondare la porta d'una drogheria se non s'apre al loro comando. Alla fine, un drappello di guardie civiche, con la baionetta si scaglia sui carnefici, che fuggono. Il Prina è tratto nel cortile del palazzo del Broletto; ma è deposto al buio, sotto una grondaia, la cui acqua inonda quegli avanzi miserandi. E, nella notte, il cadavere viene sepolto nel cimitero suburbano di Porta Comàsina, in un luogo segreto, senza segno alcuno, perchè non si debba mai sapere dov'è stata nascosta la vittima della scelleraggine, non si debba mai dargli onorata sepoltura! Mai! Suo cugino, l'abate Prina, ha potuto salvarsi. Non basta?

Il Regno italico, dopo nove anni di vita, cadde così: su un assassinio infame. Quel Regno, illustrato da tanti alti ingegni civili, finì con un delitto selvaggio. Gli successe una «reggenza» provvisoria, che volle coprire di oblio i promotori, gli autori, i complici del [295] delitto, e lasciò impunemente, al domani del 20 aprile, diffondersi sozze stampe e poesie in odio del Prina. Il maresciallo Bellegarde, il 28 aprile, entrava in Milano a capo delle truppe austriache, per mettere la catena ai polsi degli stolti illusi che lo avevano chiamato, sopra una via insanguinata dal delitto.

Dopo l'eccidio miserando del ministro Prina, consumato da ribaldaglia forese e da fautori dell'Austria, questi s'affrettarono, sì, a supplicare il generale austriaco accampato sul Mincio di venire a Milano a difenderli da quella stessa bordaglia sanguinaria che avevano accozzata e aizzata al delitto. E il generale austriaco Bellegarde non si fece supplicare due volte.

E venne poscia a Milano (nel maggio 1815), inviato dall'imperatore Francesco I, il fratello di questo, l'arciduca Giovanni, per ricevere il giuramento di fedeltà dei nuovi sudditi all'impero. Una guardia d'onore d'ottanta giovani, a piedi e a cavallo, lo accolse. Te Deum nel Duomo, luminarie, spettacolo al teatro alla Scala, con una inevitabile cantata di Vincenzo Monti, rivolto ora verso i nuovi padroni; solenni ricevimenti, pranzo e ballo di gala a corte.

Alcuni fanatici reazionari eccitano l'Arciduca a far cancellare nel salone delle Cariatidi, a corte, gli affreschi di Andrea Appiani, rappresentanti le geste militari di Napoleone; [296] ma egli sa severamente redarguirli. È questi l'arciduca del quale Carlo Porta tocca in un sonetto caudato, che non si può riferire per la terribile volgarità della chiusa. Il poeta finge che un nobile reazionario parli al Principe, raccomandandogli i monumenti religiosi di Milano; e il Principe gli risponde durissime parole, e lo fa tacere.

Bisogna notarlo: il ritorno del regno dei bacchettoni e degli Austriaci bastonatori fu salutato dal Porta con versi ironici e dolorosi. Il Porta vedeva rifiorire la reazione; vedeva ormai imporre alla sua città il bigottismo, il silenzio. Gli Austriaci, che ritornavano chiamati dai loro fautori nell'aprile del 1814, gli rammentavano le violenze feroci dell'irruzione austro-russa che atterrì Milano nel 1799-1800 per tredici mesi, quando gli ufficiali austriaci facevano bastonare i sindaci che non potevano eseguire i loro ordini. Egli prevedeva nuovi avvilimenti dello spirito, nuove bastonature. Si ascolti:

Catolegh, apostolegh e roman,[85]

Gent che cred in del papa e in di convent,

Slarghev el cœur che l'è rivaa el moment,[86]

Hin chì i Todisch,[87] hin chì qui car Pattan.[88]

[297]

Adess sì che Milan l'è ben Milan:

Predegh, mess,[89] indulgenz, perdon a brent:[90]

Emm de andà in Paradis anca indorment,

Anca a no veghen vœuja meneman.[91]

E senza meneman ch'el var nagott,[92]

Vœuja o no vœuja, tucc, no gh'è rason,[93]

Devem andà su tucc, o crud o cott;[94]

Chè n'han miss tucc[95] in stat de perfezion

Col digiun, col silenzi, col trann biott,[96]

E col beato asperges del baston.

Terribile verso, quest'ultimo, rimasto proverbiale nella Lombardia per le bastonature austriache, comandate nel 1848 dal Radetzky!

Eppure lo stesso Porta sciolse l'effervescente, sbrigliato Brindes de Meneghin all'ostaria per la venuta dei sovrani austriaci, chiamando [298] l'imperatore Francesco I: Quel patron càregh ras de vertù. Ma Meneghino, come abbiam già detto, era brillo.

Il Béranger, nella canzone Le violon brisè, fa cantare un povero suonatore di villaggio, il quale rifiuta di accompagnare col suono del suo violino il ballo degl'invasori stranieri, e uno d'essi gli spezza il violino.

Carlo Porta, in quel brindisi, non rassomigliava a quell'eroico violinista.

L'imperatore d'Austria Francesco I entrò, di nuovo padrone assoluto, in Milano l'ultimo del 1814. Nello stesso giorno, l'arco a Porta Ticinese, eretto, su disegno del Cagnola, per rammentare la battaglia di Marengo, venne dedicato Alla pace dei popoli.

Milano e la campagna viveano intanto nello sgomento. Molti i furti, molte le aggressioni dei masnadieri moltiplicatisi: solito residuo delle guerre. Il tribunale d'appello emanò nell'estate un editto, nel quale, contro gli aggressori a mano armata, era attivato il giudizio statario.

L'anno dopo cominciò un altro flagello: la carestia.

[299]

XXI.

Uno strano giudizio di Alessandro Manzoni. — La Prineide di Tommaso Grossi. — È attribuita al Porta. — Ire furibonde di questo e pubbliche dichiarazioni. — Nobile tratto del Grossi. — La tragicommedia Giovanni Maria Visconti scritta insieme dal Porta e dal Grossi. — Esame del manoscritto. — Giudizio di Carlo Tenca. — Giuseppe Verdi s'ispirò a un effetto scenico di quel dramma.

È strano che il Manzoni, così cauto e sereno giudice di fatti storici, abbia potuto chiamare «saggia e pura» la rivoluzione dell'aprile 1814. Al suo amico Carlo Fauriel, a Parigi, quattro giorni dopo l'eccidio scellerato del Prina, osava scrivere queste testuali parole dalla città dove il delitto era stato consumato:

Mon cousin vous racontera la révolution qui s'est opérée chez nous. Elle a été unanime, et j'ose l'appeler sage et pure, quoiqu'elle ait été malheureusement souillée par un meurtre, car il est sûr que ceux qui ont fait la révolution (et c'est la plus grande et la meilleure partie de la ville) n'y ont point trempé: rien n'est plus éloigné de leur caractère. Ce sont des gens qui ont profité du mouvement populaire, pour le tourner contre un homme chargé de la haine publique, le Ministre des finances, qu'ils ont massacré, malgré les efforts que beaucoup de personnes ont fait pour le leur arracher.

Vous savez d'ailleurs que le peuple est partout un bon jury et un mauvais tribunal; malgré cela, vous [300] pouvez croire que tous les honnêtes gens ont été navrés de cette circonstance.[97]

Lette queste parole, abbiamo diritto di domandare: in quale mondo viveva allora Alessandro Manzoni? Forse, chi sa?, egli volle presentare a ogni costo, per affetto al natìo loco, sotto una luce benigna la propria città nativa; forse voleva difendere gli antinapoleonici.

Si narrò che il Manzoni, dalle finestre della casa Imbonati, dove si trovava (ora là s'erge il teatro Manzoni), aveva assistito all'esecrabile assalto della folla omicida, e ne raccontava più tardi, a' suoi intimi, pietosi particolari: è certo che l'urlo della folla s'udiva nella casa materna del Manzoni in via Morone.[98]

Il Manzoni aveva partecipato alla levata di scudi contro il regime napoleonico firmando, insieme con numerosi nobili milanesi, la petizione per ottenere la convocazione dei Collegi elettorali. Egli non aveva mai amato Napoleone!

Un giovane solo, inerme, povero, d'umile origine, senza protettori, quasi senza eco, e ancora oscuro, osò rimproverare apertamente i congiurati del delitto consumato sull'infelicissimo Prina; al quale Milano doveva una riparazione allorchè, libera, poteva compierle tutte, [301] e la deve ancora. Quel giovane era ignoto, ma doveva divenire il poeta delle tenere commozioni, degli affetti purissimi e gentili, delle lacrime pie, del dolore.

Quel giovane era il più diletto amico di Carlo Porta, Tommaso Grossi; e la sua arma, audace e solitaria, era una satira, la sola satira politica ch'egli scrisse: La Prineide.

È in dialetto milanese e in sestine. Vi manca il nerbo, l'ironia tagliente, percotitrice del Porta; eppure fu creduta opera del Porta appena si diffuse per Milano. Non nerbo, no, ma sdegno, figlio di alta pietà per lo strazio del misero martire dell'avidità napoleonica e della scelleraggine d'un volgo bestiale; volgo bestiale anche quello che, in quell'esecrabile 20 aprile, spiegava sotto la pioggia gli ombrelli di seta e ne volgeva le punte contro la vittima designata della più cieca delle passioni, quale è la passione politica. La pittura dello stato miserando, nel quale fu ridotto dalla lunga tortura per le vie di Milano, nel fango, il corpo del Prina, è commovente nelle sestine milanesi del Grossi: si rabbrividisce.

Quel poemetto, dice il Cantù, «ebbe tutto il successo della proibizione e del mistero». Si mossero indagini per iscoprire il colpevole: il nuovo governatore austriaco, il manesco Saurau, infuriato, voleva conoscerlo a ogni [302] costo. E intanto Carlo Porta a stampare in propria difesa un sonetto:

Gh'hoo miee, gh'hoo fiœu, sont impiegaa

Et quidem anch a caregh del sovran,

«O che volete che io, impiegato, padre di famiglia, possidente, e malaticcio per giunta, col padre pensionato dal Governo, vada a pigliarla contro Sua Maestà, padrone del mio pane? Bell'onore fate al mio ingegno credendolo capace di trascendere a simili bricconate! Non mi aspettavo questo compenso: non mi credevo degno d'andare in galera!» Così egli si querelava in quell'infelice sonetto.

Ah no! egli ignorava che la Prineide fosse dell'amico Grossi. Altrimenti non avrebbe offeso lui per difendere sè. Appena pubblicata la suddetta difesa, gli capitarono, per la posta, tre sonetti milanesi anonimi in cui, confermandolo autore della Prineide, era bistrattato quale vigliacco. Furono diffusi; ma, dice il Porta in una sua nota manoscritta, «non ebbero fortunatamente assai spaccio». Non reputando bastante la prima difesa, ne bandì un'altra. Pare veramente un bando il sonetto:

Carlo Porta, poetta ambrosïan.

No vorend vess credun per on baloss,[99]

[303]

Prima perchè a sto mond el gh'ha quaj coss

E pœù perchè el gh'ha minga el coo balzan,

El protesta e el dichiara a tutt Milan

Che tucc quij vers che gira e che dà adoss

A re, governa, prenzep e pess gross

No hin farina fada col sò gran.

«O cari anonimi amici», pregava; «non attribuitemi tutto ciò che in versi milanesi va girando per la città». Ma inutilmente, chè, dall'ombra, qualche malevolo gli lancia altre accuse, altri insulti. «Ebbi lo sconforto», egli lasciò scritto in un libro autografo, «di suscitarmi contro un malevolo, che, di mano in mano ch'io tentava d'emergere dal naufragio, mi sommergeva di nuovo». E crede che sia uno della combriccola anti-italica. «Chiunque sia», egli soggiunge, «è uno sciocco sempre, in quanto a lettere».

Aveva cominciato un altro sonetto più energico (il frammento è alla Biblioteca Ambrosiana) ove prorompe stizzito: «Vogliono capirla o no questi dottoracci che blaterano su tutto e non sanno niente, che io non sono un imbecille il quale venga alle prese coi re?»

Il Grossi non si tenne paurosamente nascosto. Non attese che l'innocente fosse colpito; spontaneo si presentò al Saurau confessandosi autore della Prineide. Eravamo ancora lontani dalle sevizie del Ventuno. La dominazione [304] austriaca era nella luna di miele; facile quindi la clemenza. Il Saurau tenne due giorni prigioniero il poeta esordiente; quindi lo licenziò ammonendolo di adoperare in migliori usi l'ingegno.

Il Grossi fu costretto a distruggere parecchie carte, fra cui versi del Porta, ch'egli giudicava compromettenti. Di ciò diceva all'amico in una lettera: «.... Mi scrivesti tante e sì belle cose, che serbava come reliquie nel cuore del mio scrittoio, e che il diavolo mi fece abbruciare in occasione delle mie note vicende (e ti assicuro che vorrei piuttosto aver perduto un dente); basta.... riparerò per l'avvenire a questa disgrazia!...»

Anche dopo il baccano della Prineide, quell'amicizia rimase inalterata. Il Porta scriveva al Grossi: «Oh i begl'ingegni che siete voialtri! Non v'è nulla che non vi riesca meraviglioso in verso e in prosa, ancorchè fatta così su due piedi; e io scrivo a voialtri di questa prosaccia. Addio, addio. Guardami il cuore. Questo viscere te lo prometto migliore assai del cervello». E un'altra volta allo stesso Grossi: «Ti voglio tutto il bene che vorrei alla più bella e brava ragazza del mondo». E ancora: «Ti ammiro, ti guardo come si guarda il sole».

I due amici lasciarono la prova più bella della loro concordia nella collaborazione della [305] comi-tragedia Giovanni Maria Visconti duca di Milano, notevolissima nel Teatro italiano perchè si eleva da ogni convenzione.

Al Porta era stato commesso «di scrivere un'azione drammatica da rappresentarsi al teatro della Canobbiana, e, trovandosi stretto dal tempo, chè la si doveva porre in iscena non più tardi di quindici giorni dopo la sua promessa, propose a Tommaso Grossi di far questo lavoro insieme».

Così nel proemio della comi-tragedia stampata. E si aggiunge che i due collaboratori si unirono «a scegliere l'argomento, a stabilire la disposizione degli atti e delle scene: si divisero fra loro l'esecuzione, rivedendo poi insieme il complesso del lavoro, e stendendo anche alcune scene in compagnia».

In pochi giorni l'opera fu compiuta; ma per «imprevedute circostanze», non fu rappresentata.

È il primo esempio in Italia di collaborazione teatrale a due. Sono cinque atti. Il dialogo procede parte in italiano ampolloso, che mirava «a far colpo», e parte in un pittoresco milanese campagnuolo, sull'esempio della commedia I conti d'Agliate (rappresentata nel 1785) del monaco olivetano Francesco Molina, autore d'un'altra commedia di argomento patrio La caccia de Barnabò Visconti.

[306]

Silvio Pellico, nel Conciliatore (pag. 470), eccitava con coraggiose parole a trattare sul teatro drammi d'argomento patrio; e già sin dal Settecento un monaco ne componeva.

Col Giovanni Maria Visconti, i due geniali autori rispondevano ai concetti del Pellico.

L'azione si volge al tempo di Giovanni Maria Visconti, il crudelissimo figlio di quello splendido Gian Galeazzo, che innalzò Milano e la rese una città doviziosa, culta, illustre, potente. Giovanni Maria Visconti ebbe la bravura di perdere, in un decennio (1402-1412) a una a una, quasi tutte le città comprese nel vasto dominio visconteo, lasciatogli dal padre.

I due autori rappresentano, a tinte cupe, un tiranno efferato. Come mai certe frasi potevano piacere ai dominatori austriaci?... Si parla subito di congiurati, fra i quali due fratelli Trivulzio, «caldi tutti di patrio amor», e uno di loro esclama: «Povera patria nostra, in quali mani caduta!» Un altro dice perfino: «Abbiamo deciso di strappare la corona dal capo d'un usurpatore, d'un mostro, per riporla su quello dei legittimi nostri sovrani».

La comi-tragedia fu vietata per molto tempo dai proconsoli d'Austria, e si comprende perchè. «Questo dramma, che scostavasi dalle solite norme convenzionali della scena, e che univa l'elemento tragico coll'elemento popolare [307] e grottesco, prima assai che Victor Hugo pensasse ad erigerlo in teoria letteraria, non è forse che uno sbozzo, e risente della precipitazione con cui fu scritto. Ma v'hanno in esso alcune scene bellissime per vigoria d'affetto e per comica vena; e se nella mirabile creazione di Biagio di Viggiuto, il buon pastricciano milanese, tutto cuore e bontà, manesco e furbo alla sua maniera, si scorge la mano maestra del Porta, coloritore insuperabile di caratteri; nei personaggi dei due Trivulzio, di Luchino Del Maino e sopratutto in quella casta e amorosa figura della Violante Pusterla, si ravvisa la fantasia mesta e soave del Grossi che anche di mezzo alle tristizie di un'epoca corrotta, sapeva trarre imagini belle e nobili».

Così un fine critico, Carlo Tenca, in quell'animoso Crepuscolo, che fu il legittimo erede del Conciliatore.[100]

Il Tenca non potè vedere il manoscritto; ma se lo avesse veduto, avrebbe trovato che il Grossi trattò anche qualche parte comi-tragica, ad esempio tutto il principio del terzo atto, quando Biagio è atterrito per aver visto divorare dai cani del Visconti un infelice, condannato [308] a quell'orribile fine. Ma appartiene al Porta il soliloquio di Biagio nella sesta scena del primo atto. Par di sentir parlare Giovannin Bongee in quel dialogo che Biagio finge di sostenere con Squarcia-Giovanni, confidente del duca.

La seconda scena del quarto atto si presenta a due piani. Il piano superiore è una stanza da letto; l'inferiore è una prigione, dove Violante Pusterla, amante e cugina di Luchino Del Maino, incatenata, prega in ginocchio.

Ebbene: questa scena a due piani suggerì a Giuseppe Verdi l'ultima tragica scena a due piani dell'Aida.

[309]

XXII.

Ugo Foscolo in casa Porta. — Sue relazioni con la famiglia del poeta. — Lettere sue dagli autografi. — Il suo buon umore dall'esilio. — Le avversità di Luigi Bossi. — Tratti generosi del Porta e di sua moglie per lui. — Il pittore e poeta Giuseppe Bossi in fine di vita. — Grande amicizia del Porta anche per lui. — Morte di Giuseppe Bossi: suo monumento scolpito dal Marchesi. — Lo Sposalizio di Raffaello e il museo del gaudente conte Sannazzaro. — Carlo Porta sul Lago di Como. — Memorie lariane: a Blevio. — Sonetti del Porta contro il favorito della Principessa di Galles.

E Ugo Foscolo?

Ugo Foscolo conosceva la famiglia Porta. Vi era accolto con benevolenza e con espansione d'affetto, laddove in altre famiglie trovava rivali e ostilità. A Milano si burlavano di lui per le sue spacconate, e i più lo detestavano calunniandolo: i Porta gli elargivano consolazioni e amorevolezze.

Da lettere di lui, conservate oggi nel Museo Portiano a Milano, si rileva come, oltre l'affetto, certi interessi di denaro lo legassero a quella famiglia. Difatto, egli si serviva della banca di Gaspare Porta, fratello di Carlo, per [310] ritirarne gli zecchini necessari ad esulare in Inghilterra, non volendo, come ne era richiesto, giurare fedeltà al Governo austriaco. Il fratello di Ugo, Giulio Foscolo (lo stesso che lo difese poi nella Biblioteca italiana dalle malignità biografiche del Pecchio), con un tratto generoso, gli cedette un capitaletto fruttifero, formato da' propri risparmi; e il banchiere, scelto da Ugo Foscolo per compiere le necessarie operazioni, fu appunto Gaspare Porta.

Lasciata l'Italia, il Foscolo, fra tante tumultuose vicende, manda a Gaspare proprie informazioni da Zurigo. Il 6 luglio 1816, dopo avergli confidato l'itinerario che avrebbe seguito per passare a Londra, lo prega di baciare Carlo:

«Date un bacio a quel poeta gaudente di vostro fratello; ditegli, a quattr'occhi, che nell'albergo ove in questi giorni, per non pagare un lungo affitto di casa in campagna, sono disceso ad alloggiare in Zurigo, ho veduto a tavola rotonda il povero Bossi, che fece le viste di non conoscermi, ed io ho rispettato la sua riservatezza. Seppi poi che cadde malato, e, ristabilitosi alquanto, pigliò casa in città: non ne ho più udito parlare: vive sotto il nome di Bellinzaghi; vorrei andare a offerirgli cordialmente, da italiano a italiano, da povero a povero, da esule a esule, e anche da malato a malato, [311] i miei servigi, ma non ardisco presentarmi a chi crede d'avere ragioni di star meco così celato. Se Carlino lo desidera, anderò e farò tutto quello che potrò».

La lettera è di pugno del Foscolo. Il Bossi di cui parla con affetto era Luigi, fratello del pittore e poeta Giuseppe. Per dolorose circostanze, ad alleviare le quali vedremo quanto cuore ponesse Carlo Porta, Luigi Bossi riparava col pseudonimo di Paoliniano Bellinzaghi a Zurigo, gran rifugio di perseguitati, di peccatori e d'infelici. Anche Ugo Foscolo si faceva chiamare colà col falso nome di Lorenzo Alderani. E il Bossi lo confidava a Carlo, informandolo del fuggiasco cantor dei Sepolcri e d'una acerbissima satira scritta da lui.

Il Porta gli rispondeva da Milano: «Del costì misterioso soggiorno del noto letterato ne avevo da lungo tempo qualche sentore, per voci vaghe ed incidenti di piazza, quantunque la mia ditta sia quella di cui egli si servì per il passaggio de' suoi fondi. Mi è pur nota la satira di cui mi parli, che riguarda tutta una adunanza nostra letteraria, che negli anni decorsi praticava in casa di certa signora Vadori. Questa satira, modellata quanto al ritmo ed alle tracce sull'Apocalisse di san Giovanni, è da lui intitolata: Visione di Didimo Chierico. Io la lessi due anni sono, datami da lui medesimo, [312] e colla chiave necessaria per interpretarla. Non la stamperà, ne son certo. Primo, perchè la natural vendetta delle persone offese avrebbe un campo più lauto nelle avventure sue per rifarsi con di lui maggior danno e vergogna. Secondo, perchè da questa mercanzia non potrebbe ritrarre quanto sarebbe obbligato di spendere per la stampa e la carta....»

In quale rete d'imbrogli economici Ugo Foscolo si dibattesse, a Londra, lo mostra un'altra lettera di lui, datata 20 settembre 1816 da quella città, e diretta: Al signor Giuseppe Porta per Gaspero Porta; Milano. È d'affari. Egli parla del viaggio costoso, del caro de' viveri a Londra, di lire sterline, di cambialette, d'impegni, di rimborsi; ma d'un tratto esce dalle aridità finanziarie: «Malgrado la carezza del vivere, io benedico l'ora che sono venuto in Londra. Mi veggo accolto quasi fossi Catone in esilio volontario, e veggo che agl'Italiani basta l'essere onesti e l'avere un po' d'ingegno per essere ben veduti.... Ho ancora, e gli avrò finchè vivo, i pensieri in Italia». E infine: «Che fa il poeta cassiere?»

Una lettera bellissima, e rara per umorismo, insolito nel Foscolo, che ama piuttosto colorire di tinte tragiche, alla Ortis, il proprio epistolario, fu inviata direttamente a [313] Carlo Porta. Essa ci introduce nell'interno della ospitale famiglia del poeta milanese; parla della moglie e de' figli di lui, e persino delle donne di servizio. Ah! col poeta del Bongee non ci vogliono fremiti (pare abbia detto fra sè quel Grande), non lugubri parole, ma piacevolezze: asciughiamo le lagrime, procuriamo di mostrarci allegri. Ecco la bellissima lettera tutta intera come l'ho ricavata dall'originale; è scritta di pugno dell'autore e non ha data:


«Carlo Porta fratello, e voi Vincenzina sorella, e voi Violantina, ed Annetta e Peppino figliuoli miei; e voi esemplarissime serve matronali di casa Porta, madri mie dilettissime in Cristo; io Meneghino Fenestra, girovago, stando oggi in Bologna, nè sapendo domani dove sarò, vi saluto con tenerezza e desiderio di cuore, e v'abbraccio tutti e tutte con castissima ed apostolica carità. Sappiate ch'io sono partito senza volervi dire addio, perchè a quella parola le lagrime mi gocciavano giù per le guance mentr'io tentava di proferirla dal secreto dell'anima mia: però non vogliate stimarmi villano, nè freddo e ingrato di cuore verso voi tutti ch'io amo, invece, e bramo di rivedere, poichè la vostra casa fu asilo cordialissimo a me in tutte quelle mie [314] tristissime sere, e le vostre seggiole basse m'erano quieto riposo, e il vostro focolare mi riscaldava senz'abbruciarmi, e le vostre mele cotte mi risanarono gli occhi, e le vostre mele crude mi davano tutte le sere una cena salubre e squisita, la quale non mi costava se non un cordiale ringraziamento: — per queste gentilezze, e perchè tutti voi padroni e servi, giovani e vecchi e bambini, uomini e donne — specialmente le donne — siete ottime persone, ed aliene dalle fazioni Francescane, Austriache, Napolitane, Napoleoniche, Eugeniche, municipali, etc. etc.: — Io, dilettissimi, vi amo, e spero di rivedervi, ed abbracciarvi tutti — fuorchè la Vincenzina e la Violantina — all'una delle quali, invece d'abbracciarla, bacio in ispirito e bacierò in persona la mano destra; ed all'altra un guanto, purchè non abbia mozze inelegantemente le dita — che è la più brutta di tutte le mode di portar guanti. — Or addio; ed un saluto al signor Nava, al quale direte che ho scritto e che attendo impazientemente risposta, e i miei rispetti a don Giuseppe, al filosofo Gaspare e a don Alessandro. Cristo vi guardi, fratelli e sorelle e padri, e madri mie matronali, e figli e figliuole mie dilettissime. Tu, Carlino, rinfrescati gli occhi con l'acqua di rosa, perchè questi miei scarabocchi arabeschi [315] t'accecheranno leggendoli. Addio, Omero dell'Achille Bongee. Addio.

«U. F....enestra.

»Al signor Carlo Porta,
presso il signor Porta, banchiere.
Milano.
»

Non isfuggirà la freddura di quel Fenestra, trattandosi d'una lettera a Porta. Ugo Foscolo freddurista!... Ma alle freddure inclinavano allora altri grandi. Alessandro Volta non teneva tanto della sua pila, quanto delle sue freddure.

Un altro ameno ricordo foscoliano sta in un esemplare del Misogallo, posseduto già dal Porta. Vi è una nota con queste gaie parole, le quali mostrano il Foscolo scherzoso con una bambina: «Nota scritta il dì 10 ottobre 1814 a Milano in casa Porta, nel gabinetto di Carlo Porta, presente la bella Annetta detta Strofei, d'anni due, mesi dieci, giorni cinque, castissima, innamorata di me scrittore Didimo Chierico discepolo del Reverendo Jacopo Annoni, curato, di buona memoria....»

Questa graziosa Annetta, prima delle due amate figliuole di Carlo Porta, non ebbe lunga vita: morì a trentun anno, il 1842. Ma non doveva essere detta Strofei, bensì Strafùi, nome scherzoso che vorrebbe dire coso, cosuccia. Le mamme milanesi dicono affettuosamente al loro bambino: Car el mè strafùi!

[316]

A motivo, forse, delle fisiche sofferenze, Carlo Porta si mostrava burbero. Ma era burbero benefico. Nessuno più di lui avea pietà per il povero. Soccorreva con liberalità delicata. Fra' suoi manoscritti v'ha questo pensiero: «Pur troppo, è vero, gli uomini in generale non si meritano la fiducia dei disgraziati; ma le disgrazie servono almeno alla decomposizione di questa massa, e servono mirabilmente a farci ravvedere de' nostri errori». E ancora: «Il cuor mio corre spontaneamente in soccorso di chi soffre, e con facilità sa investirsi della situazione di un disgraziato, e trasportarsi in esso, e desiderare per lui ciò che vorrebbe per sè medesimo». Ecco come quest'uomo, volteriano in religione, parla da perfetto cristiano. E come cristianamente operasse lo seppe Luigi Bossi, piombato d'un tratto nella sventura. A lui, che, come fu detto, s'era rifugiato a Zurigo, Carlo scrive con islancio magnanimo:

«Io mi sarei creduto la più infame persona del mondo se non fossi con tutte le mie forze, comunque esse siano, concorso al sollievo della tua famiglia in tanta penosa circostanza, nè miglior compenso io potrei ottenere di quello che tu mi dài, trovandomi degno della tua amicizia. Ora, giacchè ti può servire al tuo spirito, sappi che la tua famiglia tutta è divenuta [317] mia, ch'io le ho di già procurato casa e comodità, ch'io mi sono già posto alla testa della sua piccola amministrazione, e che sorveglierò da padre l'educazione de' tuoi figli, che non faranno un passo senza di me. Io penso, inoltre, fin d'oggi, a procurar loro un collocamento, e spero trovarlo per uno d'essi nel mio studio, e per l'altro forse, a suo tempo, nel mio stesso Ufficio del Monte.»

Il fratello di Luigi Bossi, Giuseppe, non mancava d'aiutarlo: ma, travagliatissimo com'era per la malattia che lo struggeva, e ridottosi già a vendere persino qualche oggetto prezioso per condurre innanzi l'opera magistrale sul Cenacolo di Leonardo da Vinci, che gli stava tanto a cuore, non poteva prestare a lui e a' nipoti soccorsi adeguati al bisogno. Carlo Porta prese, adunque, il posto di fratello verso Luigi Bossi. La moglie sua, l'ottima Vincenzina, univasi a lui nell'opera pietosa e gentile. Ella prendeva cura, sopratutto, di confortare la moglie del Bossi lontano, l'Annettina, che coi figli abitava presso di lei. Leggiamo quest'altra lettera affettuosissima del Porta all'amico infelice:

«Mio carissimo Luigi,

Dalla Annettina mi fu comunicato il paragrafo della tua lettera, ad essa diretta, che [318] riguarda la mia persona e la mia famiglia. Egli ha prodotto nel mio cuore la più viva e la più tenera sensazione, perchè io amo te, l'Annetta e i tuoi figli non altrimenti che se ti fossi fratello. Non credere a me, Luigi; ma domanda a tanti che mi hanno veduto piangere sulla tua disgrazia s'io non ho anticipatamente giustificata la confidenza che mi dimostri. Mia moglie, mio fratello, mio padre, hanno fatto a gara per offerire alla tua buona Annettina quel qualunque conforto che per lor si poteva nella di lei spinosa vicenda. Io vorrei che non si frapponessero tante circostanze, e così delicate in faccia al mondo ed alla parentela tua, per aver coraggio ad offerirle dippiù; ma ciò che non mi è permesso di fare con lei, mi fo ardito di farlo con te, e ti esibisco tutto me stesso e quanto tengo di mio.

«Luigi, non sono parole: ti scongiuro in nome della amicizia a pormi alle prove. Se per la tua somma onoratezza ti trovassi mai in qualche angustia; se la fortuna che per l'ordinario è la persecutrice de' buoni ti abbandonasse, ricòrdati che le mie esibizioni sono sincere, ricòrdati che mi farai beato dandomi una testimonianza dell'amicizia tua col confidar nella mia, nè ti spaventi lo stato mio di figlio di famiglia, perchè ciò nondimeno io sono sufficientemente provvisto e per me e [319] per l'amico. Mille volte ti avrei scritto se non avessi temuto di riuscirti importuno, ma io ho finora rispettato la tua situazione, parendomi che, nel tuo ritiro, fosse maggior pietà mia il risparmiare al tuo cuore una sì vicina rimembranza di tante e commoventi affezioni. Ora però che me lo permetti, io sarò ben contento di poterti qualche volta confermare che sono e sarò sempre finchè avrò vita

«il tuo vero
ed affezionatissimo amico

«C. Porta.

PS. — Mia moglie, che vede che ti scrivo, mi incombenza di salutarti e di dirti che la tua Annetta avrà sempre in lei una svisceratissima amica».


La frase «figlio di famiglia» ci ricorda che il padre del Porta, Giuseppe, era vivo ancora, vegeto, e vegliava sempre sull'andamento della famiglia.

E ora Giuseppe Bossi versa in grave pericolo di vita. Carlo Porta invia pronto, allora, una lettera a Zurigo, perchè Luigi vigili su certi parenti, i quali parevano trarre profitto «della sua natural debolezza». Armato di quello scetticismo che l'amara esperienza degli [320] uomini gli aveva radicato nell'animo, si affretta a soggiungergli:

«Compatiscimi s'io azzardo de' sospetti su persone che ti appartengono; ma io temo di tutti gli uomini indistintamente; e se non calcolo talvolta sugli effetti della consanguineità, ossia sull'amore che da questo titolo ne dovrebbe risultare, non è che per quella fatale esperienza che io ne ho avuta sul particolar mio, e che potrebbe però essere tutta affatto disgrazia mia».

Nato il 1777 nella grossa borgata di Busto Arsizio presso Milano, Giuseppe Bossi, che a soli venticinque anni era levato a capo dell'Accademia di belle arti in Brera, morì giovane il 9 dicembre 1815 dopo lunga malattia nella quale sputava sangue di continuo: eppure, come lasciò scritto egli stesso nelle sue note autobiografiche che si conservano autografe alla Braidense, subì in pochi giorni nientemeno che ventuna cavata di sangue! Ma era il tempo dei feroci salassatori, il tempo del sangue, si spargesse da Napoleone o dai medici della nuova scuola medica capitanata dal Rasori! Come ricorda un sonetto del Porta, l'ultima ora gli fu affrettata dal lavoro. Il Bossi era operosissimo; non poteva stare un momento in ozio. Viaggiò molto, insegnò pittura; la vastissima tela in cui copiò il [321] Cenacolo di Leonardo e il sontuoso libro in folio dove illustrò quel capolavoro con varie tavole tratte dai disegni di quel sommo, gli costarono fatiche indicibili. E alle fatiche si aggiunsero le spese. Lavorando intorno a quell'illustrazione di critica e d'arte, scriveva a un amico: «Esausto per infinite spese d'ogni genere, sto alla vigilia di fallire, la qual parola per me vuol dire vendere qualche preziosa cosa, e ciò per cavarne un cattivo libro». Aveva molti invidiosi e nemici, anche perchè avvenente e le donne lo amavano; si potrebbe dire lo adoravano. Era il più bell'uomo di Milano. Ugo Foscolo lo maltrattò nell'Ipercalisse e gli scagliò questo epigramma:

Se fredde come son le tue pitture

Fosser le tue censure,

O calde come son le tue censure

Fosser le tue pitture,

Saresti buon censore

E forse buon pittore.

Si racconta che la stupenda Paolina, sorella di Napoleone, volle farsi ritrarre in pittura dal Bossi, tutta nuda, come aveva fatto in scultura dal Canova; e che quel povero artista, in una stanza molto riscaldata e infagottato negli abiti di panno, che per l'etichetta non potè levarsi, mentre ritraeva la dea, [322] si buscò un bel malanno, trasformatosi in polmonite, causa prima della sua morte precoce.

Antonio Canova, reduce dai memorandi colloqui con Napoleone a Parigi sull'arte italica e sui capolavori artistici rubati dal Despota, e che il Canova voleva fossero restituiti all'Italia, fu ospite più giorni dell'amico suo Bossi. Si sedeva nel giardino, sotto un antico tiglio, che spandeva larga ombra e profumi soavissimi coi mille suoi fiori; tiglio che vigoreggiava ancora, quand'io dimoravo in quella stessa casa di via Santa Maria Valle, che vide il Porta e altri grandi.

Le pitture, del Bossi, fredde come malignava il Foscolo, meschinamente accademiche, non seducono i più. Graziosissime, invece, le sue poesie erotiche dall'aroma oraziano; e ragguardevole la sua ode Adrezz de Meneghin al prenzep Eugenio. Il Bossi non si curva, come il Monti, davanti al principe potente, davanti al sole che splende, ma sta diritto e parla da uomo libero: sembra un artista indipendente del Cinquecento. Carlo Porta, che, come abbiamo visto, sentiva fortemente l'amicizia, questo etereo soffio della vita, lo difese dopo morto dalle censure.

È indicibile com'egli soffrisse alla morte del caro Bossi. Soffriva alle arti dei maligni che tentavano di sminuire il merito e la fama [323] di quell'artista appassionato, di spiscinigh el nomm, ed esclamava amaramente: «Mondo imbecille!» — In quella dolorosa circostanza si sfogava col fratello Luigi così: «Il Peppo ha fatto male a morire. Egli si sarebbe fatto largo in mezzo alla nebbia dei tempi, ed avrebbe almeno colla sua presenza fatto tacere i maligni». E li smaschera; sono tutti professori di Brera, colleghi del defunto: «Zanoia, Longhi e l'ingratissimo Albertolli sono i principali nemici di tuo fratello e si dibattono come energumeni per nuocere alla di lui riputazione ed agli interessi di chi gli succede» (lettera 24 aprile 1816).

All'eredità di Giuseppe Bossi volle attendere egli stesso, occupandosi per appianarne tutte le difficoltà presso i tribunali. «Gli affari Bossi mi occupano non rare volte intiera la festa», scrive al Grossi.

In una sala della Biblioteca ambrosiana fu eretto, in onore di Giuseppe Bossi, un grandioso monumento, dovuto allo scalpello di Pompeo Marchesi; ma il busto fu scolpito amorosamente dall'amico Antonio Canova. Al Bossi fu fatto merito d'aver decorata l'Accademia di Brera dello Sposalizio di Raffaello; ma bisogna ricordare un altro nome: quello d'un avvenente, gaudente, epicureo, innamorato del bello, e ricchissimo, il conte Giacomo Sannazzari, il cui palazzo a San Fedele (scrive [324] Francesco Cusani) fu da lui trasformato in un meraviglioso museo di quadri, marmi, antichità, convegno d'artisti, di gentiluomini. Le pingui dovizie del conte derivavano dall'eredità lasciatagli da un Pezzòli; uno dei pubblici appaltatori (fermieri) flagellati da Pietro Verri. Quel Pezzòli era amico della famiglia Sannazzari.

Ebbene, lo Sposalizio di Raffaello, che si ammira a Brera, fu comperato dal munifico Sannazzari assicurandolo a Milano. Era stato rapito dai Francesi all'Italia nel 1797.

Intanto la salute di Carlo Porta vacillava per nuovi malanni.

Pareva che i dolori della podagra lo lasciassero un po' in pace; ma ecco a infastidirlo il mal d'occhi che lo aveva afflitto da ragazzo.

«Quanto a me, non me la passo male, e non mi resterebbe altro a desiderare fuorchè d'essere lasciato in pace da una flussione d'occhi, che ogni due o tre dì ricompare, e non si lascia vincere dalla cura.... Deus providebit. In casa mia vi è scuola piantata, e quasi centenaria, dell'arte di condurre a spasso e conversar cogli orbi, e quindi non dispero di trovarmi bene anche nello stato di fringuello da moda». Così a Luigi Bossi.

Ciò nonostante, lavora di continuo: e, quando giunge il dì del riposo, ne informa [325] subito l'amico: «Oggi leggo, e sto tutto il giorno godendomela colla pancia all'aria, sdraiato come le lucertole al sole. Questo è il vero gusto».

Ma sollievo più dolce Carlo Porta trovava a Blevio, paesello sul lago di Como; lago che il Balestrieri aveva cantato, e che Ugo Foscolo prediligeva per le emozioni de' suoi procellosi amori con la Cecchina Giovio, a Como, e con la Lenin Bignami nella villa rossa di Cernobbio.

A Blevio, la villa Belvedere era posseduta dalla marchesa Imbonati, sorella di Carlo immortalato dal Manzoni nel noto carme; la quale pietosamente aiutò negli studi un povero ragazzo di Perlasca, frazione di Blevio: quel Tommaso Bianchi, che, prete, e poeta romantico, alto, dalle bionde chiome inanellate alla nazzarena, entrò ardente nella Giovine Italia, e, arrestato, fu trovato una mattina morto nelle carceri di Milano. Sembra che nella notte, in delirio, lo sventurato siasi ucciso.[101]

E a Blevio ebbero le loro ville la celebre cantante Giuditta Pasta, l'angelica interprete del Bellini, nemica dell'acqua e del sapone; [326] l'adorata ballerina Maria Taglioni, che acquistò la villa della crestaia Ribier (già nostra conoscenza) arricchitasi assai a spese delle dame milanesi. E a Blevio s'era eretta con architettura russa una villa graziosa il principe Schuwaloff, che la abbandonò per convertirsi al cattolicismo e farsi frate barnabita; a Parigi raccontò poi in un libro la sua conversione. A Blevio, la portentosa principessa Cristina Belgioioso, vi trovò l'ultimo suo rifugio di pace, dopo una vita tempestosamente patriottica e avventurosa.

Alessandro Manzoni scrisse a Blevio la faceta Ira d'Apollo, che fece parte dell'arsenale guerresco contro i classicisti, contro i quali Carlo Porta si lanciò, come vedremo fra poco.

E da Blevio Carlo Porta scorgeva di fronte, sul lago, la grandiosa villa che Carolina Amelia Elisabetta di Brunswich, principessa di Galles, tramutò nel teatro de' suoi turpi amori. Quando l'erculeo favorito della sciagurata, Bartolommeo Pergami, già corriere del generale Pino e al servizio di lei, venne nominato cavaliere della Croce di Malta, Carlo Porta gli scaraventò contro quattro roventi sonetti. Li compose sul lago di Como, forse a Blevio o a Moltrasio, nella villa dei conti Lucini-Passalacqua, dei quali era amicissimo, e dove [327] pure soggiornò.[102] Molto si scrisse di quella principessa: non tutto. Gli atti segreti di Stato a Milano recano ignoti particolari che non solo lumeggiano episodi occulti di depravate passioni, ma personaggi aulici, e il tempo.[103]

[328]

XXIII.

Nella casa del conte Luigi Porro. — Silvio Pellico e il Conciliatore. — Carlo Porta in mezzo ai Carbonari. — Si accorse egli del suo pericolo? — La lotta fra romantici e classicisti. — Perchè Carlo Porta la combattesse. — Il suo verismo. — Giovanni Berchet portabandiera dei romantici. — Il Manzoni difeso con buon umore dal Porta. — Sua lettera da Parigi. — Un giudizio del Manzoni riportato da Ruggero Bonghi. — Un giudice in tribunale strapazza i romantici: risate del Porta. — Giornali in zuffa letteraria. — Le solite soavi polemiche letterarie. — Vincenzo Monti contro l'Acerbi. — Francesco Cherubini. — Abbattimenti del Porta e sgridata del Grossi.

La bella casa del conte Luigi Porro in Via dei tre monasteri, detta poi Via di Pietà, ricca di oggetti d'arte rarissimi, talchè i forestieri di buon gusto si facevano premura di visitarla, non si apriva soltanto ad ospiti stranieri celeberrimi di passaggio per Milano come Lord Byron, il grande poeta della passione dolorosa e ardente carbonaro; accoglieva anche altri carbonari e romantici d'azione, sì lombardi che d'altre terre.

La polizia austriaca, onnipotente, e il governatore austriaco (che talvolta doveva obbedirle) [329] vigilavano attentissimi quel focolaio di idee sovversive.

Il conte Porro teneva seco in casa, com'è notissimo, Silvio Pellico, istitutore de' suoi figliuoli e compilatore indefesso d'un periodico che, nella storia del giornalismo italiano, rifulge di splendore imperituro: Il Conciliatore, fondato e mantenuto specialmente coi denari del ricchissimo conte. La lotta del Conciliatore e del cenacolo che vi scriveva (Berchet, Pellico, Federico Confalonieri, Porro....) non mirava soltanto a combattere i classicisti convenzionali, freddi, verbosi; mirava a ben altro: a combattere il Governo austriaco e a sostituirsi ad esso con tutto un programma di governo liberale e innovatore; programma pubblicato, quale prima sinfonia orchestrale, nel periodico animoso. L'ufficio austriaco di censura fu allora raddoppiato di forze e di forbici. Tagliava, mutilava implacabile gli articoli. Alla fine, il Conciliatore, che veramente non poteva conciliare l'irriducibile, venne soppresso.

Ora, come possiamo figurarci il prudente Carlo Porta nel ribelle cenacolo dei carbonari e dei romantici del Conciliatore?

Bisogna dire che egli non ebbe sentore di ciò che fremeva sotto la lotta anti-classicista, alla quale prese sì fervida parte con la sua irridente musa meneghina. Quel giorno in cui [330] egli si fosse accorto d'essere cascato fra quei nemici giurati dell'impero d'Austria, che lo compensava puntuale ogni mese del suo lavoro d'impiegato, avrebbe certo abbandonati quei contatti pericolosi.

Fortuna per lui che i romantici d'azione subodorarono facilmente l'amico del quieto vivere, e non tentarono (ci sembra) d'avvolgerlo nelle spire della loro cospirazione carbonara, che, scoperta, finì con le atroci condanne e con gli orrori dello Spielberg.

Un bel giorno, a Carlo Porta e a Tommaso Grossi arriva questo biglietto:

«Luigi Porro celebra domani romanticamente la festa del suo santo pranzando cogli estensori del Conciliatore. Sarebbe gratissimo ai dottori Porta e Grossi, autori della bella poesia per le nozze Verri e Borromeo, se volessero fargli il favore di venire a pranzo coi romantici».

Il Porta, come sappiamo, non era dottore: il Grossi sì, laureato in legge. Quella poesia nuziale era una canzonatura del vecchio dio Apollo, del rancido convenzionalismo dei classicisti di mestiere; pungeva gli anti-romantici rabbiosi, li derideva. Sestine, delle quali quelle auspicate nozze servivano di comodo pretesto, sestine polemiche, oggi foglie inaridite.

[331]

Lo s'immagina Carlo Porta là, nel vivo, ribelle cenacolo dei carbonari-romantici, col calice in mano per brindare a uno de' suoi capi più possenti?

Egli non fu carbonaro, sicuramente; abbracciò la causa dei romantici per uno spirito di gusto innovatore, per un sentimento d'estetica. Notiamo, peraltro, che egli fu, in realtà, con l'esempio, un verista, come quasi tutt'i poeti vernacoli d'Italia; sovranamente verista.

Il Porta, il Grossi, il Manzoni combatterono il Classicismo a puro scopo d'arte, e lo combatterono col ridicolo: il Porta con tutta una corona di sonetti contro l'anti-romantico arrabbiato Francesco Pezzi (direttore dell'ufficiale Gazzetta di Milano e portavoce ubbidientissimo del Governo), con le sestine El Romanticismo e ben altre satire frizzanti; il Grossi col poemetto milanese La pioggia d'oro, dove gli eroi mitologici sono derisi; il Manzoni con L'ira d'Apollo.

I classicisti si radunavano in casa delle corteggiatissime sorelle Londonio; là dominava il maestoso Vincenzo Monti, turbato dalla nuova scuola, contro la quale sciolse l'immaginoso eloquente sermone Audace scuola boreal, in difesa dei classicisti, egli, che talvolta attingeva ai romantici con la facilità del suo magnifico estro assimilatore.

[332]

Il Porta si rivolse a una di quelle sorelle per sostenere i diritti del Romanticismo sopra il Classicismo. La poesia El Romanticismo è un discorso a madamm Bibin, ch'era l'ammirata Angelina Londonio, avversa ai romantici. Quella poesia si può chiamarla il programma dei romantici, in meneghino. Le scurrilità l'offendono; e dànno più fastidio pensando che il poeta parla a una signora «bella, graziosa, delicada». Aveva ragione di dire che la poesia doveva abbandonare, alla fine, le finzioni mitologiche, e che

.... st'arte la stà tutta in la magìa

De mœuv, de messedà come se vœur[104]

Tutt i passion, che gh'emm sconduu[105] in del cœur;

ma aveva torto d'affermare

Che la forma no fà el bon del pastizz;[106]

egli squisito maestro della forma, da nessuno superato.

Eppure, prima di lanciare il razzo incendiario nel campo dei classicisti, il Porta ebbe un momento di perplessità. Il senso che si dava alla parola di romantico era (come scrive [333] il Grossi al Porta) di «stravagante, di matto, di bestiale, di sciocco», e a lui, regio impiegato e quindi uomo serio e partigiano dell'ordine, garbavano poco, s'immagina, tali titoli! «Coi fatti eri già romantico, arciromantico», gli dice il Berchet in una lettera del luglio 1817. E chi meglio del Porta rispondeva a uno dei principii del Berchet e dei romantici? Coll'esempio più splendido non dimostrava egli forse ciò che il Berchet, seguendo la scuola germanica, predicava: che la sola vera poesia è la popolare? Ma il Porta fu più conseguente de' suoi amici. «Come! — sembra egli dica — voi disprezzate l'antico perchè non vi commuove; affermate anzi (vedi Conciliatore del 4 aprile 1819) che vi commuovono assai più le ricordanze moderne e vi gettate nel medio evo? Io sono moderno: nelle satire, nelle novelle ritraggo la vita moderna. E sono un verista!»

Un altro suo carattere lo segnala fra i romantici lombardi. Questi, con le loro vergini invano innamorate, moribonde, coi loro gementi trovatori cacciati in bando, coi loro mendichi, volevano strappare i sospiri. Si cominciava già il culto patologico del dolore e la cascaggine patetica; ma nella poesia del Porta nulla di ammalato: tutto è sano e vigoroso come in un umanista.

[334]

Pensando forse che la vita è già troppo amara perchè l'arte con le dolorose sue rappresentazioni l'amareggi di più, egli preferiva l'arte lieta all'arte malinconica; e lo confessa in uno de' sonetti contro il Giordani, l'Abaa Giavan, che disprezzava tanto i dialetti e le poesie dialettali, in un articolo della Biblioteca Italiana, a proposito della Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese, curata dal Cherubini. Carlo Porta gli rispose pronto con una corona di sonetti, vera corona di spine, chiamandolo ironicamente:

.... el Papa del gran tempio della Gloria,

L'Imperator di articol letterari,

.... el gran Kan de l'onor, del disonor:

Per donna de servizi el gh'ha l'Istoria,

E i poster tucc dedree per servitor.

Eppure il Porta si commoveva facilmente sino alle lagrime quando leggeva libri patetici. Narra il Grossi ch'e' toglievasi «spesso cogli occhi bagnati di lagrime dalla lettura dell'Eloisa di Rousseau o dalla Delfina di madama di Staël». E il Porta confida candidamente all'amico: «A proposito di Schiller, ieri l'altro mi hanno portato il Don Carlo. L'ho letto subito, e gli ho pagato il tributo d'un otre di lagrime».

[335]

Le teorie bandite dal Berchet (che fu il primo, com'è noto, a levare lo stendardo romantico in Italia) erano a ogni modo sostenute con vigoria dal Porta. Egli s'infervorava nella mischia; e contro l'anti-romantico giornale L'Accattabrighe, contro la Biblioteca Italiana, ma più contro Carlo Gherardini fratello del dotto Giovanni, e contro il gazzettiere Pezzi, combatteva coll'arme che gli era naturale, il ridicolo, a pro del Manzoni, Berchet, Ermes Visconti, Torti. Il ciclo letterario delle poesie portiane risuona tutto de' suoi colpi.

Il Manzoni, pago della serena canzonatura argutissima L'ira d'Apollo, non si mescolò nella scompigliata zuffa letteraria; egli che, in tutta la lunga sua vita, mai rispose a' suoi critici; segno anche questo d'una superiorità che non si può non ammirare. Inoltre, egli stava lontano: dimorava allora a Parigi. Ma non era malcontento che un Porta e un Grossi lo difendessero dai colpi dei gazzettieri al soldo del Governo e dei seguaci inviperiti del vecchio credo mitologico.

I buffi sonetti che il Porta compose, spropositando nei vocaboli, nel numero delle sillabe, nelle rime, al modo d'un esilarante poetastro avvocato Pietro Stoppani, che allora faceva ridere tutta Milano, cominciano con quello, amenissimo, dedicato al Manzoni, a [336] proposito della tragedia Il Carmagnola, pubblicata allora di fresco:

Noi tutti letterati di Milano,

Che siamo quelli che dan legge al mondo,

Abbiam letto con sdegno inumano

La tua tragedia senza il giusto pondo.

E per fermare il torrente malsano

Che vuol mandare il buon gusto in profondo,

Gli andiamo incontro con armata mano

Coll'articolo primo e col secondo,

E col terzo della vera e gran Gazzetta

Che fa il Pezzi, quell'uom così famoso,

Di cui la fama il gran nome trombetta.

Leggili tutti e due, e trema e sappia

Che ci vuol altro che un bue romanticoso

Per sconvolger la nostra poetica prosapia.

Il bue era, naturalmente, il Manzoni. Il quale, da Parigi, scrive al Grossi amabilmente così:

«Un poetucolo fa una tragedia: è criticato: tutto questo è in regola: degli amici prendono le sue difese, anzi si mettono molto bene sull'offensiva; e il poetucolo farà il dottore a questi amici per ringraziamento? E chi sono questi amici? On trattin[107]: Porta e Grossi. Qual è l'uomo in Milano che, vedendosi attaccato e malconcio, se gli si annunziasse che [337] Porta e Grossi prendono le sue parti, non si sentirebbe proprio a risuscitare?»[108]

E il Manzoni diceva ancora: «Quell'uomo dai sonetti (il Porta) ha tanto ingegno, che non ha luogo per la superbia, e tanta malizia (nel senso francese di malice), che non vi resta spazio per la malignità».[109]

I bracchi dell'imperatore austriaco fiutavano già nel Romanticismo, nelle imboscate del Conciliatore, la selvaggina, il liberalismo, e tentavano tutto per soffocarlo. Carlo Porta (come quello che non seguiva i romantici nella lotta che movevano contro lo straniero) non ebbe a subire fastidi da parte delle autorità, tranne una volta, e in pieno tribunale. L'aneddoto è da lui medesimo narrato al Grossi in una lettera del 17 luglio 1819: «Sabato scorso fui alla Corte di giustizia criminale, per subirvi un esame intorno alle faccende dell'eredità Bossi. Il processo fu dimezzato dal giudice, e di' mo' perchè?... Per incastrarvi, così per transenna,[110] una strapazzata a' romantici ed al Romanticismo. Per fortuna che il giudice si è lasciato fuggire di bocca tante e sì ridicole bestialità [338] e castronerie, che, ben lungi dall'adirarmi e compromettermi, finii la questione col ridere a crepapancia.»

Il Poligrafo, dell'ex-chierico Lampredi; l'Antipoligrafo che lo contraffaceva; lo sguaiatissimo Accattabrighe, fondato dal governo austriaco per combattere il Conciliatore; e quindi le appendici della Gazzetta di Milano, dove il citato Pezzi loda un almanacco per le ballerine della Scala e manda l'autore del Carmagnola a imparare l'abbiccì; la Biblioteca Italiana, classicista sfegatata; e persino il Corriere delle dame; e opuscoli, opuscoletti, volumi, fogli volanti a stampa e manoscritti mettevano il campo letterario a rumore: rumore da trivio, frastuono d'improperi, di basse ingiurie. Gli epigrammi infuriavano; si distribuivano titoli di prezzolato e di ladro.

Fra i compilatori d'uno stesso giornale scoppiavano talvolta discordie rabbiose. Nella Biblioteca Italiana, il Monti accapigliavasi coll'Acerbi che la dirigeva. Nell'esaminare un volume di scritti inediti, della Biblioteca Quiriniana di Venezia, trovo una nota autografa del Monti tutta stillante veleno contro quel direttore odiato: «Biblioteca Italiana. Questo giornale costa al governo il sussidio di seimila franchi l'anno e non gli frutta che malcontenti e nemici. Il suo direttore, uomo nullo nelle [339] arti della penna, per alimentarlo e tenerlo in vita è costretto a pagare danaro contante tutti gli articoli, e, incapace per sè di giudicare della bontà o reità degli scritti, insacca nel giornale tutto quello che compra senza la minima distinzione, e parzialmente gli estratti che mordono e calpestano la riputazione degli scrittori. Per questa via anche gli uomini di maggior fama e i più stimati, onorati ed amati dalla nazione sono giuoco e trastullo alle basse passioni del direttore. Il suo giornale insomma è tutto mercenario, e non avendo chi lo dirigge (sic) alcuna riputazione da perdere, impunemente attenta l'altrui, e rende mal servizio al governo inimicandogli gli scrittori di maggior nome, de' quali torna più conto il guadagnar l'opinione.»

Carlo Porta non si dava arie di letterato, come l'Acerbi, conoscendosi privo di vasta e seria cultura per usurparne il nome. Tuttavia, come indignavasi nel vedere che scurrili opuscoli letterari si ricercavano con avidità!

Vedevasi per le vie camminare un po' barcollante, e talora discorrere con fuoco un uomo macilento, dallo sguardo vibratissimo: era Francesco Cherubini, amico di Giovanni Gherardini, che soleva chiamarlo il Magliabechi milanese. Al Porta premeva ch'egli pure entrasse nella compagnia romantica, ma quel [340] dotto, nutrito di classici fino al midollo, non voleva saperne. Il 10 luglio 1819 il Porta ne informava, deluso, il Grossi: «Credevo che il nostro Cherubini fosse romantico marcio, nè mi aspettava mai di sentire ch'egli avesse bisogno della grazia efficace per ridursi alla verità della fede».

Il Grossi, da Treviglio, desiderava essere informato dall'amico dell'andamento della guerra romantico-classicista, di cui più tardi, col poema I Lombardi alla prima crociata, doveva ravvivare le fiamme. E il Porta a rispondergli il 9 aprile 1819: «La guerra fra i romantici e i classicisti s'è ristretta tutta a delle piccole scaramucce fra gli avamposti, nè pare per ora che i due eserciti minaccino di venire a giornata. A buon conto, l'eroe del quartiere color di rosa[111] ha piegato bandiera e si è solennemente congedato dal campo, in cui protestava non rimanere per lui a far altro dacchè nessun romantico ardiva più di alzar la testa».

I classicisti opponevano alla Eleonora del Bürger, lanciato nel campo come campione romantico da Giovanni Berchet, la Feroniade del Monti. Non opportuna scelta la prima, gelida funerea fantasia tutta nordica, un'intrusa [341] nella nostra terra della luce e dei fiori; inopportuna scelta la seconda, ch'è un'insulsa favola degli amori di Giove con la ninfa Feronia, in tre canti: anfora artisticamente niellata, ma vuota: giustifica la beffa del Testament d'Apoll del Porta.

Carlo Gherardini stava per morire, consunto. E il Porta: «Non so nulla del Gherardini, toltone ch'egli è ai conti con Domenedio, e non pel comune dovere di cristiani in questa stagione,[112] ma perchè è affetto da un'etisia che lo incalza ad occhio veggente. Dio gli perdoni, com'io gli perdono di cuore le molte ingiurie che mi ha stampato, e la gloria del cielo lo accompagni per tutti i secoli». Carlo Gherardini, in risposta al vivace El Romanticismo portiano, aveva pubblicato, pure in versi milanesi, un opuscolo Risposta di madama Bibin alle sestine del signor Carlo Porta, molto insolente. Si congedava dal Porta, esortandolo così:

Scriv di cialad, come t'è semper faa,

E sta cert de no vess mai superaa.

«Scrivi delle sciocchezze come hai sempre fatto e sta' certo di non essere mai superato».

Non è a dirsi quanto queste parole amareggiassero il Porta. Nonostante gli applausi [342] universali, sentiva umilmente del proprio merito; ma se altri lo disprezzava in modo così aperto, non c'era verso di persuaderlo dell'altrui stolta malignità e rimaneva abbattuto, lasciavasi vincere dall'avvilimento. Dopo d'essersi detto che non valeva più nulla, che quel «poco calore di cervello» che lo aiutava ai tempi passati era «affatto svanito», sospira: «Io che poteva forse essere qualche cosa al tempo mio, ora non conto più un cavolo; ed in questo il Gherardini non parla già da par suo, ma parla da filosofo, e come potrebbe parlare suo fratello Giovanni». E il Grossi a dargli sulla voce: «Cessa un po' una volta dall'essere sconoscente verso Dio, che ti ha data una delle prime teste (lettera 8 aprile 1819). E se ti sento un'altra volta a dire che hai perduto il vigor giovanile, che ormai non hai più lena di scrivere, e somiglianti bestemmie, ti voglio denunciare all'Inquisizione di Spagna come eretico, bugiardo, ingrato ai doni che Domeneiddio ti ha compartiti».

[343]

XXIV.

Ultimi giorni del Porta. — Il suo amore per Milano. — Strali contro il Cicognara. — Un consolatore: Gaetano Cattaneo. — Servilismo grottesco di costui. — Ancora scherzi ameni del Porta. — Suo testamento morale al figlio. — Suoi pensieri religiosi e sue celie morendo. — Monsignor Tosi. — Morte. — Un tentato assassinio. — Persecuzione contro i Carbonari. — Vincenzo Monti vigilato dalla polizia austriaca. — Milano contristata. — Elogio del Porta scritto dal Manzoni al Fauriel. — L'addio del Grossi sulla tomba del Porta.

Ma Carlo Porta volgeva alla fossa.

Un primo insulto della gotta ereditaria lo assaliva, quando contava diciassette anni: e continuò, almeno una volta l'anno, a tormentarlo. Al mal d'occhi aggiungevansi emicranie dolorose: «Io non sono per anco guarito dal mio mal di capo.... A certe ore del giorno io darei il capo nei muri» (lettera al Grossi). E, come ciò non bastasse, tetre ipocondrie lo rendevano inaccessibile persino alle consolazioni della sua buona moglie. I medici gli raccomandavano di distrarsi; ma l'impiego lo teneva incatenato a consuetudini uniformi, [344] dalle quali ben difficilmente si toglieva. Era attaccatissimo alla sua Milano, che nessuno poteva toccargli. Non solo in un caustico sonetto inveì contro i Francesi, che la disprezzavano vantando sempre la superiorità della Francia; ma rosolò il Cicognara, ch'ebbe il cattivo gusto di esporre a Venezia un suo brutto quadro satirico, rappresentante il Duomo di Milano con un asino davanti. Il Porta, vindice della sua Milano, gli scaraventò addosso un sonetto.[113]

Fra gli amici intimi che andavano a confortare con buone parole il Porta, si notava lo spropositante numismatico Gaetano Cattaneo, ch'era tanto ossequioso, intimo del Manzoni. Il Cattaneo studiò pittura a Roma (fu anche pittore infelice), e rammentava che, nella scuola, gli facevano copiare fette circolari di zucche. Aveva immaginato di erigere, in mezzo alla piazza del Duomo, una torre colossale figurante l'erma di Napoleone, sulla cui testa enorme la Corona ferrea formasse un terrazzo accessibile per una scala interna. Quando mai l'adulazione ai potenti suggerì un'idea più sciocca e grottesca?

[345]

Esaminando gli atti d'ufficio che riguardano nell'Archivio di Stato Carlo Porta, trovo che nel maggio 1818 gli erano accordate quattro settimane di permesso perchè malandato in salute, e, più tardi, nuovi permessi per guarire della ipocondria. Passando alla propria villa che possedeva presso Torricella, sotto il cielo ridente della Brianza, o a quella d'un Siro De Petri, ricco epicureo amantissimo delle matte brigate, l'animo suo rasserenavasi, poi si rinchiudeva ancora nella più buia tristezza.

Pure fra i dolori della gotta ritrovava, di tanto in tanto, il suo brio istintivo. In un'epistola a Luigi Rossari, infarcita burlescamente di latino, lo ringraziava dei voti che formava per la sua salute:

Grazie ti rendo, o figlio, della devota prece

Che per me innalzi al cielo benchè non valga un cece,

Chè della gotta il male al suon de' preghi vani

Senza lasciare i piedi m'offese ambo le mani,

Sicchè non ti potendo io stesso benedire

Ti mando invece a farti.... per tutti i dì a venire.

La matta epistola, improvvisata, finisce colla bizzarra firma: «Carolus janua cœli». È inedita.

A motivo de' suoi dolori fisici ed altro.... mancò un giorno a una promessa fatta alla suocera Camilla Prevosti; ed ecco, per ripararvi, [346] le manda quattordici sestine italiane bernesche, che trovo pure fra le sue carte inedite:

Orsù via, dunque, i miei clamori ascolta,

Meas omnesque iniquitates dele;

E s'io torno a mancarti un'altra volta

S'estingua per me il sole e le candele:

O se il ciel mi concede di guardare,

Mi mostri sol dei conti da pagare.

Ma negli ultimi anni un cruccio più forte delle malattie lo angustiava: d'aver lasciate troppo libere le briglie al collo della musa vernacola, che lo aveva trascinato nel laidume. Volle giustificarsi davanti al figlio Giuseppe della sua Ninetta del Verzee e di altri lubrici componimenti. In un volume manoscritto di suoi versi inediti (celati oggi scrupolosamente nell'Ambrosiana) inseriva, all'indirizzo del figlio, una lettera finora sconosciuta, colla quale invoca le attenuanti dai giudici che lo gridavano corruttore. Potei vedere quel volume proibito, e a me pare ben fatto pubblicare il brano più importante della notevolissima lettera, tanto più che tuttora si appuntano contro di lui le armi de' più severi.

«Alcuni di questi componimenti di genere erotico griderebbero altamente contro di me se io avessi permesso che venissero colle stampe [347] divulgati, o se fossi stato meno circospetto nell'esporgli alla lettura di chi bramava conoscere le cose mie. Questa prudente circospezione io la raccomando a te pure, figliuol mio, e sappi che non mi spinse a tentar questo genere amor di lascivia o turpitudine di mente e di cuore, ma curiosità e brama soltanto di provare se il dialetto nostro poteva esso pure far mostra di alcune di quelle Veneri che furono finora credute intangibile patrimonio di linguaggi più generali ed accetti. Ho io così fabbricato quell'appuntato coltello, che sarebbe male affidato nelle mani dell'inesperto fanciullo e tu custodirai, figlio mio, con gelosia. Se tuttavia qualche accigliato ipocrita alzasse la voce contro tuo padre e gridasse all'empio! al libertino! al lascivo!, di' francamente a costui che a favor di tuo padre stava a' suoi giorni la pubblica opinione, ch'esso fu intemerato amministratore del denaro del Principe, che nessun operaio ha mai frustraneamente reclamata da lui la meritata mercede: ch'egli non fu mai contaminatore degli altrui talami, ch'egli non ha mai turbato la pace santa delle famiglie, mai blandito con adulazioni le ribalderie e l'ambizion de' potenti, mai chiuse le orecchie ai clamori dell'indigenza, e che infine egli è vissuto cittadino, figlio, marito, padre e fratello senza che l'infuggibil rimorso o la [348] legge abbia mai un istante percossa la tranquillità de' suoi sonni».

Il pentimento d'avere scritti versi erotici senza il candidissimo velo petrarchesco si fece sempre più acuto, amarissimo in lui. Prorompeva in lagrime, si gettava in un angolo della propria stanza o colla faccia riversa sul letto, singhiozzando. Aveva cominciato uno de' suoi caustici componimenti sulla confessione (il Grossi nelle lettere ne lo richiede di frequente), ma fra le sue carte non ne scorgo traccia. Sembra che negli ultimi istanti, sopraffatto da pensieri religiosi, egli abbia pregato il Grossi di distruggerlo.

Sulla fine del 1820, quale trepidazione in casa Porta! Il poeta languiva più che mai. Sentiva d'essere prossimo alla fine. Pensieri religiosi sorgevano nel suo cervello turbato, il suo sguardo volgevasi al cielo; senonchè l'innato spirito satirico rompeva sovente la preghiera, e il motto volteriano, irrefrenabile, sibilava sulle sue labbra morenti. Monsignor Tosi, giansenista, cui devesi, secondo alcuni biografi, la conversione del Manzoni, avvicinandosi al letto, gli disse con voce amorevole:

— Don Carlino, coraggio! Si prepari a un gran passo. Pensi ch'ella sta per entrare trionfante come Gesù in Gerusalemme....

[349]

— Me ne accorgo dalla cavalcatura! — esclamò il Porta, alludendo a un povero prete che lo aveva allora confessato.

Tutti sanno che Gesù entrò in Gerusalemme a cavallo d'un asino....

Gli posero in mano un crocifisso: egli lo baciò. Qualche ora dopo riceveva l'Eucarestia. Gli amici più intimi lo confortavano con parole affettuose, e un d'essi gli chiese:

— Come stai, caro Porta? —

Ed egli, mostrandogli il crocifisso che teneva sempre in mano:

— Come si può stare con questi belee! (balocchi).

Intorno al letto di Carlo Porta fu intonato, a bassa voce, un Miserere. E allora, chissà!, egli avrà pensato alla traduzione del funebre salmo fatta da lui un giorno in milanese, tuttora inedita:

Mi, Signor, buttaa in genœucc,

Me magòni, me disperi.[114]

Il passo dell'amplius lava me fu da lui così parodiato:

No stracchév de lavamm giò

Con lessiva e savonada,

Ingegnév come se pò

[350]

A famm proppi la bugada;

Giacchè hii fà tanti mestee,

Fée anca quel del lavandee.

Cioè: «Non istancatevi (o Signore) di lavarmi con liscivia e saponata. Ingegnatevi, come si può, a farmi proprio il bucato. Giacchè avete fatto tanti mestieri, fate anche quello del lavandaio».

Così Enrico Heine morente bisbigliava: «Iddio mi perdonerà. È il suo mestiere».

Il 4 gennaio 1821, dopo settimane nebbiose, il cielo si rasserenò. Si sperava che il bel tempo protraesse almeno di qualche giorno ancora la vita all'infermo; ma il dì 5 (era un venerdì) ritornarono le piogge e le nebbie, e il gran poeta milanese, travagliatissimo, spirava fra il pianto de' suoi. Intanto, accadevano gravi fatti.

La sera del 6, quando il cadavere non era ancora sepolto, accanto alla casa dell'estinto in via Monte Napoleone, avvenne (narra il diarista Mantovani) un tentato assassinio su personaggio ragguardevole: il colonnello inglese Brown, venuto a Milano per levare testimoni contro la scandalosa condotta di Carolina di Brunswick, principessa di Galles, a Cernobbio sul lago di Como: fra que' testimoni, un Maiocchi, già servo del generale Pino, doveva sostenere a Londra la parte principale dell'accusa.

[351]

Il colonnello fu assalito, nell'oscurità e fra la nebbia fittissima, dal coltello di due ignoti, che fuggirono: uno d'essi lasciò sulla strada una scarpa. La vittima tentò di difendersi con le mani. Riportò quattro ferite, una sola pericolosa. Raccontò che un biglietto anonimo, ricevuto qualche giorno prima, l'avvertiva di quanto doveva succedere.[115]

La polizia si pose subito tutta in moto per cercare i malfattori. Ma aveva ben altri malfattori da scovare! Da molto tempo, spargeva il terrore nella campagna un assassino chiamato Anima lunga, invano ricercato nonostante la taglia che lo colpiva. E un ladro Fatutto, saccheggiava case e chiese. Di notte, nella cattedrale di Pavia, con l'olio acceso delle lampade, i ladri incendiarono gli sportelli degli armadi della sagristia e ne rubarono tutti i sacri arredi d'argento. In soli cinque giorni, a Milano, si perpetrarono quarantadue reati d'aggressioni pubbliche e furti. I ladri rubavano a tutto andare gli orologi dei devoti nelle chiese. Violenti giovani figuri della così detta Compagnia della Teppa, banda di malviventi, assaltavano di sera pacifici ambrosiani, [352] li schiaffeggiavano, li buttavano a terra, e li inondavano d'un liquido che non era acqua di Colonia; tutto ciò per malvagità: non rubavano. Tredici di quei giovinastri, quando morì Carlo Porta, furono acciuffati, incorporati in una compagnia di disciplina per sei anni, e mandati in Ungheria. Per diffamare i patriotti Carbonari, la polizia austriaca spargeva la calunnia che quei teppisti facevano parte della setta temuta.

Il 31 ottobre 1820 fu pubblicato un editto che condannava a morte chi facesse parte della setta dei Carbonari; ma sin dal 15 settembre di quell'anno fu diramato ai parroci l'obbligo di leggere dal pulpito una «notificazione» sul dovere di denunciare i Carbonari sotto le pene comminate ai delinquenti. E col Codice penale austriaco d'allora non si scherzava. Nel 1819 un giovane conte Trivulzio, per essersi battuto in duello con un colonnello austriaco, fu condannato a cinque anni di carcere duro. Così il Mantovani.

Silvio Pellico era stato arrestato come carbonaro, in casa del conte Luigi Porro, il 13 ottobre 1820. Carlo Porta certo lo sapeva. Che ne avrà pensato? Avrà avuto un brivido, riflettendo che avrebbe potuto essere anch'egli sospettato di Carboneria, egli che aveva messo [353] piede nella Massoneria? I Frammassoni di Milano avevano fatto parlare molto di sè.[116]

Vincenzo Monti stesso, che pur aveva inneggiato al nuovo padrone Francesco I col Ritorno d'Astrea, e aveva tentato di conciliare la pubblica opinione col reduce dominatore straniero, componendo nel 1815 Il mistico omaggio, quando l'arciduca Giovanni d'Austria venne a ricevere il giuramento dai sudditi — giuramento che Ugo Foscolo non volle prestare, preferendo l'esilio volontario, — Vincenzo Monti, che bazzicava col Pellico, con Luigi Porro, ed era suocero di Giulio Perticari, segnato anch'esso come liberale e carbonaro, veniva (chi lo avrebbe detto?) pedinato dalla polizia.

La città era contristata per la leva di novemila coscritti, obbligati al servizio militare per otto anni, in regioni, forse e senza forse, lontane da Milano. In molte case si piangeva.

La morte di Carlo Porta addolorò sopratutti gli amici di lui. Il Manzoni scriveva a Claudio Fauriel:

«Son talent admirable, et qui se perfectionnait de jour en jour, et à qui il n'a [354] manqué que de l'exercer dans une langue cultivée pour placer celui qui le possédait absolument dans les premiers rangs, le fait regretter par tous ses concitoyens; le souvenir de ses qualités est pour ses amis une cause de regrets encore plus douloureux».[117]

Nei registri ufficiali di morte della parrocchia di San Babila, nella quale abitava il poeta, sta scritto che «don Carlo Porta» (ancora quel strasc d'on don!) moriva d'anni quarantacinque «per febbre gastrica». La lunga malattia parve prodotta dall'umore gottoso ch'erasi gettato negl'intestini: la morte ne fu la conseguenza.

Nella domenica 7 gennaio la secolare artistica chiesa di San Babila, parata a lutto, risonava d'esequie che si cantavano a quel Carlo Porta, il quale le aveva messe potentemente in burla nel Miserere. Un corteo d'amici poeti e d'impiegati del Monte di Stato accompagnò la salma sino al cimitero di San Gregorio fuori Porta Venezia, e là venne sepolta. Il Grossi, piangendo, pronunciò queste parole:

«Uno spontaneo senso di cordoglio ci ha raccolti intorno a questo feretro, su cui posano le spoglie mortali di Carlo Porta, a cercare un qualche conforto al dolore coll'unirci alla [355] Chiesa, che prega pace all'anima dell'amico nostro, e col partecipare ai riti santi con che questa pietosa Madre consacra la via del sepolcro.

»In questo solenne momento della separazione, a tutti parla in cuore la voce che ci avverte di quanta perdita siamo stati afflitti.

»Da chiunque intende il dialetto della nostra città fu ammirato il trascendente genio poetico di Porta: nessuno ardisce di contendergli il primato fra quanti hanno scritto nel vernacolo milanese; nè sarebbe forse troppo ardita lode l'affermare che, nei generi da lui trattati, alcun poeta, anche di lingua, sia mai giunto all'altezza a cui egli pervenne.

»Ma noi non compiangiamo nell'estinto amico nostro la sola perdita d'un raro ingegno: il genere di poesia da lui scelto a trattare non gli diede campo di manifestare in essa il lato più bello, più distinto dell'anima sua. Tutti quelli però che hanno conosciuto Carlo Porta nelle intime relazioni dell'amicizia possono attestare com'egli fosse modesto, candido, semplice nelle maniere, pronto ai più delicati sentimenti della compassione, ai moti più liberali della misericordia. Un fondo abituale di malinconia lo dominava; ed in mezzo ai lepori ingenui di che il suo discorso era brillante, si scopriva in lui un facile ritorno sopra [356] sè medesimo, che lo portava a riflettere su quanto v'ha di più serio e di più importante nella vita. Negli ultimi tempi specialmente, quasi sempre travagliato dalla podagra, egli si era andato sempre più familiarizzando con tal sorta d'idee, ed avremmo veduto in una parte d'un lavoro poetico che egli stava preparando questa tinta patetica che ebbe pur sempre nell'anima, e di cui i suoi scritti anteriori non avevano reso mai testimonianza.

»Ma i giorni che gli erano numerati correvano al loro termine: dopo le angosce d'una lunga insuperabile malattia, rassegnato, Carlo Porta chiuse gli occhi all'eterno riposo la mattina del 5 gennaio.

»La religione, che addita una speranza al di là del sepolcro, lo sostenne nel tremendo passaggio; questa sola può confortarci nel nostro dolore».

[357]

XXV.

Lavori del Porta lasciati incompiuti. — La guerra di pret. — Vena patetica del grande ironista. — L'apparizion del Tass. — La versione della Divina Commedia in meneghino. — Un'iscrizione vessata. — Scoperte funebri che fanno ridere. — Monumento a Carlo Porta.

Il lavoro poetico cui il Grossi alludeva è La guerra di pret, che rimase incompiuta.

È una storia di persecuzione contro un povero prete onesto; storia dove il poeta rivela una nuova maestria: quella di trattare il genere patetico. L'episodio del buono e calunniato prete Ovina può mettersi a paro, per affetto, per verità di descrizione e spontaneità d'accento, a parecchie ottave del Grossi nella Fuggitiva vernacola. Il Porta voleva scrivere un lungo lavoro, in quattro parti: la morte gli gelò la mano. Il frammento che ci rimane è una sfilata di tipi di preti l'uno diverso dall'altro. Nessun altro lavoro del Porta è così fitto di vivaci macchiette; nessuno presenta un contrasto così vivo, e passaggio naturale dal burlesco al patetico. Questa volta ci consoliamo alla vista di un prete caritatevole [358] e galantuomo, e all'omaggio che gli rende il poeta. Prima del Porta, il Parini, in un sonetto milanese, aveva dipinto il prete benefattore che dona fardelli di robe ai poverelli salendo premuroso su per i scal de legn fina al quart pian.

Buone ragioni fanno ritenere che la mesta istoria del perseguitato e innocente prete Ovina sia ispirata dalla verità. Nel 1821, quando, appena morto il poeta, se ne raccolsero le poesie in due volumetti, si inserì La guerra di pret, ma si soppresse quell'episodio che rivelava le infamie d'un seduttore e gli strazi di due vittime.

Carlo Porta descrive così quel buon prete:

Sostegn di fiacc, confort di disgraziaa,

Franch, tolerant, discrett, giojal, sincer,

Caritatevol senza vanità,

Prodigh pù de danee che de parer;

insomma, un degno sacerdote, che fa pensare alle parole del Manzoni: «Se un prete, in funzione di prete, non ha un po' di carità, un po' d'amore e di buona grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo».[118]

L'ultima sestina descrive il

.... tremendo viacc de l'alter mondo,

e fu l'ultima che il poeta scrisse.

[359]

Lasciò incompiuta anche L'apparizion del Tass. In questo frammento, che non manca pur esso d'una vena patetica, finge che gli apparisca Torquato senza corona d'alloro sulla fronte. «Dov'è, signor Tasso, gli chiede il Porta genuflesso, dov'è quella corona che le stava così bene sulla fronte?» — «Ah! Carlo, egli risponde,

Cavand sù dai polmon

On sospiron patetegh e profond,

Ah! Carlo, la coronna desgraziada

No la ghè pù per mi.... che on tal Manzon

On tal Ermes Viscont

Me l'han tolta del coo, me l'han strasciada».

Nessuno ignora che Alessandro Manzoni, anima candidamente cristiana al pari di quella del poeta della Gerusalemme liberata, disprezzava ingiustamente questo sublime poema cristiano e appassionato, che anche lord Byron ammirava tanto. Sembra che il Porta volesse far pronunziare dal Tasso una specie di difesa, ma, dopo i versi citati, il poeta milanese non scrisse altro. Solo, in un foglio a parte, leggonsi alcuni pensieri di continuazione a quel frammento. Al Grossi, che lo sollecitava di finire il componimento, scriveva con manifesto malumore: «I versi sul Tasso non hanno voluto venire. Mi sono posto sul serio: ho [360] voluto tentare un patetico da idillio; e la lingua mi ha abbandonato. Ho però imbrattato della molta carta, e quanta non ne ho usato mai per veruna stramberia che ho fin oggi scritta, e quel ch'è più bello ho fatto un gran nulla. Mi sono sta volta convinto in pratica che il dialetto nostro manca assai assai per questo genere di descrizione, e strabilio pensando come tu abbia cavato tante belle cose e sì vive da una povertà immensurabile».

A un vasto lavoro attendeva amoroso anche ne' suoi ultimi dì: la versione in milanese della Divina Commedia. Domenico Balestrieri (nato il 1714, morto il 1780) aveva tradotto in ottave milanesi la Gerusalemme liberata; Francesco Bollati aveva lasciato, manoscritti, a Carlo Porta il canto II e canto III de l'Orland furios de l'Ariost travestii: il padre Alessandro Garioni avea parafrasato in milanese la Batracomiomachia; ed ecco il Porta cimentarsi, alla sua volta, colla terribilità di Dante! Scelse l'ottava, e giunse a scrivere tutto il primo canto dell'Inferno e vari frammenti degli altri primi sette. Dante non è più Dante: è Carlo Porta. L'austera serietà del sacro poema si tramuta in facezia: ma non è profanazione, badiamo. Alcuni passi gli riescono meravigliosi per trovate felicissime. [361] Nel canto di Francesca, quel verso della lettura sospesa:

Quel giorno più non vi leggemmo avante,

egli lo traduce così:

Per tutt quel dì gh'emm miss el segn'e s'ciavo!

Nel secondo canto, i versi scultòri:

Lo giorno se n'andava e l'aer bruno,

Toglieva gli animai, che sono in terra.

Dalle fatiche loro....

egli li tramuta comicamente in questi altri:

Tucc dormiven; no gh'era in tutt Milan

Fors nanch cent lengu de donn che se movess.

Dopo quante prove e riprove gli riuscivano questi versi! Lasciò fasci di frammenti di Dante sepolti sotto cancellature infinite. Raro gli scaturiva dalla penna una bella strofa di getto. Non si accontentava mai del proprio lavoro, e consumava ore ed ore sopra una quartina, talvolta sopra un verso. Si tormentava per la rima, e lo si capisce dalla litania di rime che scrive negli angoli de' fogli. I primi manoscritti del Bongee, del Marchionn, sono una selva inestricabile di pentimenti; gli ultimi, invece, [362] nitidissimi. La sua scrittura è per solito regolare; par quella d'un frate.

Un giorno, in cui credevasi quasi guarito, Carlo Porta promise agli amici rallegrati che, appena alzatosi dal letto, avrebbe composto uno scherzo sulla propria malattia....

Dopo morto si trovò che a un volume autografo di versi di lui mancavano molte pagine: alcune strofe erano raschiate e qualche nome di persona colpita da satira soppresso. Aveva fatto egli stesso tutto questo? O aveva (come sembra) pregato il Grossi di cancellare quelle strofe e lacerare quelle pagine? Nell'esaminare quel volume, trovo tracce palesi della mano del Grossi. Sul principio dell'amena novella Fraa Zenever si legge, scritto di sua mano: «Novella stampata, ma certamente meritevole di molte correzioni». È fama che monsignor Tosi stesso, che confortò il Porta in punto di morte, abbia presieduto alla distruzione di parecchie poesie di lui, che gli parevano contrarie alla religione e al buon costume: egli medesimo, forse, avrà suggerita quella postilla.

La famiglia volle che un'iscrizione, nel cimitero di San Gregorio, ricordasse il principe de' poeti milanesi. Il De Cristoforis, un mite romantico, la compose; ma quando si trattò di chiedere all'autorità municipale d'inciderla, [363] questa la trasmise all'abate Robustiano Gironi, censore, per la sua approvazione; ma il Gironi, direttore della Biblioteca di Brera, uno de' compilatori della Biblioteca Italiana, consigliere reale e dichiarato nemico de' romantici, de' loro sostenitori, e quindi del Porta, non volle accordarla. Vi trovò cento difetti; vi sofisticò in tutti i modi per non farla passare. Il De Cristoforis perdette la pazienza, se ne lagnò coll'autorità municipale, e il Gironi dovette piegare la testa. L'iscrizione fu scolpita:

CARLO PORTA MILANESE
CONDUSSE LA POESIA DEL PATRIO DIALETTO
AD UNA PERFEZIONE NON PRIMA CONOSCIUTA
CUSTODÌ IL PUBBLICO DENARO CON CHIARA ILLIBATEZZA
DEL PROPRIO FU LIBERALE AGLI INDIGENTI
NEL XLV DELL'ETÀ SUA
LA MATTINA DEL V GENNAIO MDCCCXXI
PLACIDO CONFIDENTE IN DIO
LASCIÒ IL PADRE, LA MOGLIE, I FIGLIUOLI, I FRATELLI
I CONCITTADINI DOLENTISSIMI.

PREGHIAMOGLI L'ETERNO RIPOSO!

Quest'epigrafe si leggeva nel camposanto, ora soppresso, di San Gregorio; le ossa del poeta non si trovarono più. Lo stato deplorevole de' cimiteri, lamentato dal Foscolo, giungeva a tal segno che nel muro de' pii recinti si [364] collocava la lapide ricordante il defunto, e a venti, cento, dugento passi di distanza si seppelliva la salma di lui.... Solo un lurido custode sapeva dove, press'a poco, il tal cadavere stava sepolto: un chiodo spesso lo indicava, null'altro che un chiodo confitto.

In occasione del centenario della nascita del Porta, si cercò di raccoglierne le ossa; ma ogni indagine riuscì inutile. Nella primavera del 1884, da parte della Giunta municipale di Milano, fui pregato di ricercare, insieme con la famiglia Porta, dove mai le reliquie del poeta potevano essere andate a finire, per collocarle, possibilmente, accanto all'urna granitica del Manzoni, nel Pantheon de' Milanesi illustri. Ma nemmeno le nuove ricerche approdarono a qualcosa. L'antico cimitero subì in tanti anni molte manomissioni. Anche le ossa di Vincenzo Monti non furono più ritrovate. La vedova, Teresa Pickler, e la sventurata figlia Costanza Perticari avevano eretta una lapide all'illustre estinto col verso di Dante: Onorate l'altissimo poeta! Ma quando le autorità milanesi, in grave corteo, si recarono nel cimitero della Mojazza per esumare le reliquie del cantore di Bassville, sotto la lapide ch'era confitta nel muro, invece del grande scheletro del vate, scopersero tre scheletrini di bambini e un uomo ignoto, quasi intatto, con tanto [365] di parrucca. Anche quel cimitero di Porta Garibaldi fu distrutto. Ora vi sorgono case e osterie.

Non pago delle infruttuose ricerche, per rinvenire le reliquie del Porta, un assessore municipale, professore di belle lettere, volle risollevare le zolle del cimitero di San Gregorio. E s'affisò in uno scheletro, ch'egli dichiarò doveva essere assolutamente quello del poeta del Marchionn. Nella dentatura, un dente della quale era legato in oro (e il Porta ne' suoi versi parla d'un atroce cavadenti che gli aveva strappato mezza mascella), e anche nella mascella, larga e forte, l'egregio professore, infiammato da funebre entusiasmo, scorse persino il «ghigno» dell'implacabile satirico. Ma un insigne ginecologo, il senatore Edoardo Porro, s'accorse subito, con una semplice occhiata, dal bacino, che si trattava dello scheletro d'una donna. Fu una risata per tutta Milano.

Appena morto Carlo Porta, si raccolsero offerte per un ricordo marmoreo di lui, e nel 1822, nel palazzo di Brera, gli si elevò un severo monumento: lo scultore Pompeo Marchesi, allora in fama, ne scolpì il busto; ma non è rassomigliante. Nemmeno la statua, erettagli nel 1862, in un ombroso laghetto nei giardini pubblici fra i cigni veleggianti, ricorda il cigno [366] del Bongee. Egli è rappresentato con una convenzionalissima posa accademica, egli che non posò mai. Scultore ne fu Alessandro Puttinati, ch'emergeva nelle statuine da caminetti, veramente graziose, amico del Balzac. Un terzo monumento fu decretato al Porta, ma non venne ancora eretto. E non bastano gli altri?... Non basta il monumento, che Carlo Porta lasciò a sè stesso, nelle poesie?

[367]

XXVI.

Il carattere della poesia milanese. — Poeti milanesi anteriori e posteriori a Carlo Porta. — Il Belli, il Giusti e il Porta. — Il dialetto del Porta e il dialetto milanese odierno. — Modo di composizione del Porta. — Valore del Grossi quale poeta dialettale. — Atroce visione risparmiata a Carlo Porta.

Il carattere predominante della poesia milanese è l'osservazione delle cose esteriori, e una simpatica, lucida bonarietà nel considerarle. Il carattere ambrosiano retto, onesto, senza finzioni, che non esclude la finezza dei particolari nelle sintetiche, geniali, pronte impressioni, si riflette nella sua poesia come i colli ammantati di verzura sui laghi lombardi. Ma a mano a mano che la coscienza umana si sviluppa e si affina sino a torturarsi, anche la poesia milanese si affina, s'impietosisce. Il dialetto, che par creato allo sdegnoso comando, emana un profumo di gentilezza che avvolge il dolore. E qual divario dai diffusi incensi a' piedi dei potenti fortunati, alle carezze pietose sugl'infelici percossi dalla sorte avversa, dalle ingiustizie umane! Noi veniamo a trovarci, nei tempi più prossimi a noi, anzi ai tempi nostri, alle effusioni del sentimento, [368] e ne salutiamo maestri Tommaso Grossi, Emilio De Marchi, Piero Preda. Il formidabile realismo di Carlo Porta fa sembrare foglie di rose volanti una quantità di poesie graziose perchè, ispirate dal vero, dalla realtà della vita, come ne scrissero, per citare altri nomi, Antonio Picozzi, Giovanni Ventura, Ferdinando Fontana, Angelo Trezzini e il Tenca.

Anche i versi milanesi, come quelli di tutte le letterature dialettali che sgorgano dal vero, lontane dalle tradizioni auliche, non cantano, parlano. Amabili discorsi, care favelle che ci fanno sentire la poesia sacra, rimasta incolume fra tanti tumulti spesso odiosi, dei nostri focolari, delle nostre famiglie adorate.

I quattro maggiori poeti milanesi si chiamano Carlo Maria Maggi, Carlo Porta, Tommaso Grossi, Giovanni Raiberti; ma a tutti sovrasta l'autore del Marchionn, per la creazione e vivezza dei caratteri, per la ricchezza pittoresca del linguaggio, pei riflessi storici; ma, fuori d'Italia, il Belli lo supera nell'assalto politico. Il romanesco satirico menò in Roma, sotto gli occhi del papa, tali colpi al poter temporale, da innalzarsi a poeta civile, al pari, in questo, con l'autore dell'Arnaldo da Brescia, Giambattista Niccolini.

E poeta civile fu il Giusti, che nella satira adoperò, anch'egli, il linguaggio còlto dalla [369] bocca del popolo. Fu messo il Porta di fronte al Giusti. E certo la Vestizione, che non ismarrì col tempo il colore dell'attualità, bensì, al contrario, oggi lo ravviva con lo spettacolo di certi arricchiti-decorati, è animata d'una tal vita ed evidenza, che gareggia con quella dei bozzetti più mossi e più vivaci del grande poeta milanese.

Il Manzoni chiamava il Giusti «il Porta toscano». E il Giusti, al Grossi che ne lo ragguagliava: «Tutt'altro che avermi a male d'essere messo accanto al Porta; anzi, beato se gli legassi le scarpe».

Dal Lomazzo, che scrisse particolarmente nel dialetto della valle di Bregno (Lago Maggiore); dai sonetti di Fabio Varese, che sulla fine del Cinquecento flagella sdegnato gli sciocchi insuperbiti, come più tardi farà il Porta; dallo stesso innovatore Carlo Maria Maggi, creatore di Meneghino, il quale, nelle proprie ingegnose commedie, proclama principii democratici che meravigliano in un segretario del retrivo Senato di Milano, anticipando la vindice democrazia del Parini e del Porta; da Girolamo Corio, che con la Istoriella d'on fraa Cercott preludia il portiano Fraa Condutt; dal Tanzi; dal verboso Balestrieri, creatore o rifacitore, che sia, dello spropositato Sganzerlone; dal Pertusati; da tutti questi [370] al nostro poeta, quale progresso fa lo stile poetico milanese!

Il vernacolo, questo oggetto di vivacissime lotte nel 1760 fra il padre Branda che lo disprezzava e cento altri, fra cui il Parini, che lo difendevano a spada tratta, diventa, nelle mani del Porta, ricchissimo come qualsiasi lingua illustre. Egli lo attinge, sull'esempio del Maggi, dalla classe più umile, fra la quale serbasi genuino assai più che fra le persone civili. Nel Miserere avverte egli stesso (non bisogna dimenticarlo) che la sua scuola è il mercato.

È inestimabile la dovizia di vocaboli efficaci, di frasi immaginose nel Porta. Giuseppe Ferrari, in un esteso studio sulla letteratura dialettale (Revue des Deux Mondes, 1839 e 40), nota che sotto la penna del Porta il dialetto, già pesante e stentato, si fa vivo, mordente, incisivo. Giuseppe Rovani, in uno studio somigliante, inserito nelle Tre Arti (vol. I, pagine 227-244), ricalca il giudizio del filosofo concittadino, e ne traduce (facendola passare per propria) questa giusta osservazione: «Nessuno meglio di lui ha saputo trar partito da certi vocaboli in cui sono consegnate, come a dire, le tradizioni di paese e certe intraducibili gradazioni, che pur sono una così gran parte del nostro dialetto, e in generale di tutti i dialetti del mondo».

[371]

Non pochi vocaboli, usati dal Porta, oggi non si usano più. Alcuni sono tuttora rilegati nel volgo, il quale non se li lascia rapire dall'uso dominatore, che a poco a poco italianizza tutto il dialetto e, col pretesto d'incivilirlo, lo snatura. Nel Porta troviamo modi che vivono nella Brianza, e ignoti in città. Nemmeno al suo tempo tutti i modi usati da lui s'intendevano dalla società civile, appunto perchè propri del ceto inferiore. Chi più del Cherubini appassionato studioso del dialetto milanese? Ed era contemporaneo al poeta, e editore delle sue poesie. Eppure, registrando nel proprio vocabolario milanese qualche modo portiano, per lui nuovo, si esprime così: «Credo che Carlo Porta abbia voluto dire con questo....». Crede; non n'è ben sicuro. Ma v'ha di più: il poeta stesso sapeva che tutta la lingua da lui usata non poteva essere compresa dagli stessi Milanesi, giacchè, ricopiando i propri versi, cominciò con ordine a spiegare le voci proprie dell'oscuro volgo che aveva adoperate, e che col succedersi degli avvenimenti cittadini, col mutarsi de' costumi avevano perduto significato. Lo stesso aveva fatto il Balestrieri postillando la sua versione del poema del Tasso. In una novella il Porta adopera, ad esempio, la voce ratton: in linguaggio scherzevole significava laico converso, e anche, secondo il Cherubini, [372] fratacchione. Ed egli nota: «Voce caduta con la soppressione degli ordini religiosi».

In uno de' tanti frammenti inediti, intitolato Ugo ed Opizia, dice

Che la lengua busecconna

No l'è minga ona giambella

De biasass inscì alla bonna

Spasseggiand coi man sott sella.

No: la lingua milanese non è un panetto dolce (giambella) da mangiucchiarsi così, alla buona, passeggiando, con le mani sotto le ascelle. Egli stesso lottava colle difficoltà del suo idioma; e lo provano i pentimenti, le correzioni, che riguardano rare volte il concetto, quasi sempre l'espressione, ch'egli cerca esatta e viva, come il Manzoni, come il Giusti.

Oggi il dialetto milanese subisce la sorte d'altri dialetti della penisola; si va mescolando di parole italiane; tanto più che oggi Milano non è più la caratteristica e singolare città di quarant'anni fa, raccolta nelle sue antiche tradizioni, nelle sue costumanze casalinghe, ne' suoi discernimenti di buon gusto, nella sua espansiva serenità.

Il Porta, nell'ultimo tempo della sua vita, raccolse e copiò di propria mano in due volumi le poesie che aveva scritte e sparse qua e là. Desiderava egli stesso approntare un'edizione [373] di suo gusto; desiderio che la malattia gli spense colla vita. Ma la censura austriaca poteva lasciar passare certe audacie portiane? Menò le forbici in alcuni componimenti; altri lasciò passare, tollerando. Francesco Cherubini stesso recò alcuni mutamenti nella prima edizione del 1817. È curioso un foglio volante del filologo milanese, che trovo fra le carte del Porta, dove gli nota una litania di parole da cambiare. Il poeta gli diè carta bianca con una graziosa letterina pubblicata da un De Capitani, uno dei mille pedanti balordi, di questa valle di lacrime e d'inchiostro, che il Porta bollò in un verso non pulito ma rovente e giusto, nel Romanticismo.

Giovanni Raiberti, di Monza, aveva sedici anni quando moriva il Porta. Cominciò a farsi notare non già con un'opera originale, come sogliono i giovani ingegni, ma con una traduzione da Orazio. Fu medico; ma i suoi versi valevano più delle sue ricette. Usò la satira personale e la impersonale. Ritrasse i costumi del suo tempo (I fest de Natal, ecc.), ma è prolisso. Vive una patriottica vibrata sua sestina sull'Italia al tempo del Rossini; vive un suo verso su Maria Stuarda,

«Piena de religion e de moros»;

vivono quattro suoi versi sul cane, nei quali [374] dice che l'amore d'un povero cane è un argomento così serio da pensarci su con la testa fra le mani; il che ci fa rammentare la tragica ultima strofa della Ballade du désespéré di Enrico Murger. Il Raiberti, in una prosa più bolsa che arguta, pubblicò Il viaggio d'un ignorante, che al suo tempo divertì i lettori, e L'arte di convitare. E trattò la fisiologia d'una bestia cara a Teofilo Gautier: Il gatto. È il suo miglior libro in prosa.

Flebile, tenero il Ventura, che seguiva il Grossi; ma questi, nel sentimento pietoso e grave, vince tutti. Che sono mai le centotrentadue poesie del poeta laureato Alfredo Tennyson, In memoriam, per la morte d'un amico, in confronto delle sedici sestine di Tommaso Grossi in morte di Carlo Porta? Qui, il sentimento non degenera in sentimentalismo: è religione. V'è un passo d'una commozione profonda. Dopo d'essere stato in punto di morte, Carlo Porta migliorava un po'. Con un cenno del capo chiamò a sè il Grossi e, dopo d'aver sospirato, gli disse:

«Ho grandi cose, caro il mio Grossi; ho grandi notizie, che ti voglio raccontare!» E più non disse. E il Grossi esclama:

«Oh che consolazion, se avess poduu

Vedé el cœur d'on amis de quella sort,

Che l'eva tornaa indree del pont de mort!...»

[375]

Il Grossi non la udì, non lo vide più. Sbalordito, domanda all'eterno enigma:

«L'è mort? L'è propri mort? Cossa vœur dì

Sta gran parolla, che fa tant spavent?...

».... Se non c'è più nulla di lui, com'è che gli voglio ancora bene?» Ma la speranza di rivederlo, un giorno o l'altro, lo conforta.

Alessandro Manzoni, che voleva scrivere in dialetto milanese I promessi sposi, perchè la lingua non gli sembrava che potesse rendere tutte le precise proprietà e sfumature ch'egli sentiva di dover esprimere; il Manzoni, che accoglieva festoso il Porta nella sua fida conversazione, chiamata dagli amici l'Isola di Giava, per i gran giavanadd (balordaggini) ch'essi stessi dicevano di sballare chiacchierando; il Manzoni ricordò per tutta la vita l'autore del Marchionn: ne parlava spesso con gl'intimi amici che lo visitavano nella sua biblioteca a pianterreno della sua casa in Via Morone.

Carlo Porta moriva quando cominciavano i processi contro i Carbonari; quei processi che rivelarono al mondo quali magnanini sogni per l'indipendenza d'Italia infiammavano spiriti alti e puri in un tempo d'animosi, infausti fermenti.

[376]

A Carlo Porta fu risparmiato un gran dolore: l'annuncio delle nefande condanne; poichè, onesto e sensibile qual'era, specialmente pei romantici, coi quali aveva combattuto una battaglia vivace di vita artistica, avrebbe pianto sulla loro sventura.

[377]

FONTI DI QUESTO LIBRO.
SPUNTI INEDITI. — POSTILLE.

[379]

Riguardo a Carlo Porta, l'autore ebbe la fortuna d'ottenere dal nipote del grande poeta, dottor Carlo Porta, di Milano, tutte le carte autografe, le antiche bozze di stampa, poesie, lettere, documenti diversi: un insieme vitale. L'ingegnere Giuseppe Grossi gli affidò le lettere del Porta a suo padre Tommaso. L'autore, inoltre, consultò i manoscritti portiani della Biblioteca Ambrosiana, della Biblioteca Trivulziana e della Biblioteca Nazionale di Parigi, nonchè le carte dell'Archivio di Stato di Milano, per le poesie del Porta che conserva, e pei dati ufficiali che porge, negli atti, sulla carriera d'impiegato governativo di lui. Intorno alla vita del Porta gli tornarono preziosi i ragguagli forniti dal dottor Porta e dalla matrigna, che sposò Giuseppe, figlio di Carlo Porta; le notizie favoritegli dal comm. Guglielmo Berchet, segretario perpetuo del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, nipote del celebre poeta nazionale (amico del Porta) e marito d'una signora Londonio, nella cui famiglia Carlo Porta praticava. Altre notizie, ancora, gli furono comunicate dal venerato abate Adalberto Catena, di Milano, che dalla madre, amica del Porta e della famiglia di lui, e dalle tradizioni orali della Diocesi milanese apprese caratteristici particolari, fedelmente riferiti in questo volume. A ciò si aggiunga l'esame di archivi ecclesiastici e delle lettere del [380] dottor Aquanio, morto vecchissimo, che lucidamente ricordava assai cose del tempo e delle vicende del Porta. Furono esplorati, ma invano, gli archivi di Venezia, dove il Porta passò parte della sua giovinezza.

La prima edizione del Porta è quella che comprende il volume VII della Collezione delle migliori opere scelte in dialetto milanese, curata da Francesco Cherubini (Milano, G. Pirola, 1817). La prima edizione critica del Porta, illustrata su carteggi inediti, storicamente, ecc., è quella curata dall'autore del presente volume (Firenze, G. Barbèra editore) nel 1884, e della quale si è qui ora in parte servito.


Carlo Porta scolaro e nobili ballerini (pag. 15). — Non sappiamo se il Porta avesse, nel collegio di Monza, un soprannome ufficiale come era uso d'altri collegi. I convittori del Collegio dei nobili lo avevano tutti, e talora abbastanza comico. Alessandro Verri era chiamato l'industrioso; Carlo Verri, il voglioso; Giovanni Borromeo, il composto; Alessandro Rovida, l'avventuroso; Giambattista Lampugnani, l'indifferente. Altri si chiamavano il sollecito, l'agile, il riflettente.... perchè forse era il solo che rifletteva (Miscellanea: Ex laboribus del padre Benvenuto milanese, del convento di Sant'Ambrogio ad Nemus, Biblioteca di Brera). Le accademie del Collegio dei nobili comprendevano giuochi, partite d'armi, recitazioni, danze. Il ballare era una passione. Il cavaliere Carlo Castiglioni, figlio della marchesa Paola Litta-Castiglioni, la nobile amica del Parini, vestì l'abito d'un mimo grottesco in un balletto del Ferlotti e danzò alla Scala (Memorie del tempo).


Un sonetto inedito o raro del Porta. — Si legge alla Trivulziana. Ma è del Porta? Tutto fa credere di sì. [381] Ê inedito? Non appare in nessuna edizione portiana o foglio stampato volante.

Hoo faa un sogn curios. S'eva in d'on praa.

Dove tresent somar, de cent color,

Staven, segond i regol, radunaa,

Per daa alla società un Superior.

Gh'eva un creusch[119] de trenta separaa:

El rest, intorna all'asen direttor,

Faseva, in quel degnissim convocaa,

Un bordell maladett, un gran sussor.[120]

L'eva colù un bellissim somaron,

Intendevel al pari d'un pattan[121]

Avend con poch'ingegn gran presunzion:

Tornée a caa vostra, el dis, o tannanan![122]

Che nomina d'Egitt; sont mi el padron, —

E tutti respondevan: Ih han, ih han![123]

Fu attribuita al Porta una boccaccesca novella, pubblicata circa mezzo secolo fa col titolo: I bragh del confessor salven la monega, in ottave; ma, invece, è del Grossi. Infatti, all'Ambrosiana, c'è l'autografo. Nella Trivulziana si legge una copia manoscritta.

In dieci sestine italiane Carlo Porta compose un vivacissimo scherzo osceno e volteriano, sulla creazione degli organi vitali dell'uomo. Impossibile riferirlo. L'originale si conserva o, meglio, si nasconde nel Museo Portiano nel Castello, a Milano.

[382]


La religione del Porta. — I versi citati alla pag. 155 sul negletto sentimento religioso del poeta, sono completati così in un aggrovigliato autografo del Porta stesso, e che il compianto prof. Carlo Salvioni potè trovare e decifrare:

Religion santa di mee vicc de cà,

Che, in mez al cattabuj di mee passion.

No t'ee faa olter che tiratt in là.

In fond in fond, scrusciada in d'on canton:

A speccià i temp mior col to bell trà

De tornà voltra a repià reson.

No te offend, no, se in sui vintiquattr'or,

Ghoo faccia anmò de fa di vers d'amor.

Ma codesti versi d'amore non si trovano (ved. Lettere di Tommaso Grossi e d'altri amici a Carlo Porta e del Porta a vari amici, raccolte e illustrate da Carlo Salvioni, in Giornale storico della Letteratura, vol. XXXVII, pag. 273).


L'ode «A Silvia» del Parini, fu tradotta, come abbiamo detto, pag. 29, dal Bellati, quando il Porta ne aveva già cominciata la versione. Veramente, quella del Bellati è piuttosto una parafrasi; parafrasi pittoresca. Il dialetto milanese presta al soggetto alcune espressioni vivissime, che la lingua aulica contegnosa del grande poeta non offre. L'ode del Parini ha trenta quartine settenarie; quella del Bellati ha trenta sestine ottonarie. Fu stampata in un opuscoletto (conservato all'Ambrosiana) con questo titolo, a uso bosinada:

Ode a Silvia molto bella

D'on Autor de conclusion,

[383]

Staa tradotta in manch de quella

In lenguagg de buseccon (milanese)

Par amor de quella gent,

Che 'l Toscan ghe liga i dent.

E comincia:

Cosse l'è sta novitaa,

La mia Sura Regolizia?

Gh'è pù vell inamedaa,

Coss'ett fa, brutta sporchizia?

T'ee scovert i spall, e 'l sen

Mostrand quell che no stà ben?

. . . . . . . . . . . . . .

Con sta moda i tò bei grazi

Paren propri in man di strij (streghe):

No minaccien che disgrazi

Baronad, e porcarij;

E la toa figura bella

La deventa ona porscella.

La fine ha un tocco religioso, anzi cristiano, che l'abate poeta non ha:

Sia modesta, e pensa a viv

Del guadagn di to fadigh:

Cerca d'ess graziosa e umana,

E ona bonna cristiana.

Ma, contro il Parini, un poeta anonimo milanese lanciò una satira in 28 ottave, che si legge manoscritta all'Ambrosiana, unita a una delle prime edizioni del Parini: La Donzella (cameriera) della Sura Silvia che porta la resposta all'Autor della Canzon sora el vestij alla Ghillottina, 1795, Milan, Con so permess.

[384]

Le ottave hanno mosse portiane tali da crederle quasi del Porta.... Parla una giovane signora, infuriata, offesa, contro il Parini. Ella manda all'abate la propria cameriera per insolentirlo e dirgli che quella moda non è, no, alla ghigliottina com'egli, ignorante di moda, suppone e crede; ma bensì alla greca:

Cominciarij peu a dì, ch'el me vestij

L'è a la Grèch, a la Grèch, e poeu a la Grèch.

Gh'è che fina i fieu cont i dandinn (i bambini con le dande)

Sann ch'hijn i Grecci, i Grecci, i primm autor

De quel vestij, che al dì d'incoeu se porta;

E se peu nol le creed, no me ne importa!

E l'inviperita signora spiega perchè sia una moda alla «greca antica» chiamando in ballo persino l'incisore Raffaele Morghen.

Pare che sia stato il generale austriaco, conte Stein, colui che una sera, a un pranzo, chiamò per primo quella moda alla ghigliottina. A Parigi, come abbiamo detto, si chiamava à la victime. Se non è zuppa, è pan bagnato!

La suddetta Furia si scaglia contro il Parini anche per insegnargli che le atrocità ch'egli teme, quali conseguenze di quella moda deplorata, non possono nascere, no, da una moda femminile:

Mussolina, nè vell no forma esempi

Per tajà el coo, per fà rovina e scempi.

A Milano, nel 1786, uscita Il giornale delle Dame e delle mode di Francia. Era quindicinale, con figurini di mode. Il Corriere delle Dame, uscì più tardi. Lo dirigeva, con la moglie Carolina, il versipelle Giuseppe [385] Lattanzi, nato a Nemi, condannato dal governo pontificio a sette anni di galera (Archivio di Stato; protocolli di governo del 1817, n. 3007; citati dal Cantù nel Monti e l'età che fu sua). Il Corriere delle Dame visse oltre la metà del secolo XIX; in gioventù, lo diresse Carlo Tenca. Al famoso comizio di Lione un Ugo Foscolo non potè andarvi! Vi andò il Lattanzi. L'Orazione del Foscolo fu quindi non al ma per il Comizio di Lione.


Una pagina inedita di Vincenzo Monti. — Per illustrare i ricordi del Manzoni sulle mutevolezze politiche del Monti (pag. 46), giova quanto si legge fra i manoscritti della Braidense. Sotto la Repubblica Cisalpina, il cantore di Bassville fu segretario di Giuseppe Luosi di Mirandola, presidente del Direttorio della Repubblica Cisalpina, poi Gran Giudice e Ministro di grazia e giustizia del Regno italico, fatto conte da Napoleone che gli pagava i debiti contratti per l'amor dei piaceri e del lusso che lo dominava. Il Luosi compilò un regolamento organico della giustizia civile e punitiva, diresse i lavori pel Codice penale del Regno italico e un progetto di Codice di commercio. Morì a Milano nel 1830. Il Monti lo serviva, scrivendo per lui indirizzi e relazioni. Ne compose una sui padri di famiglia, che abbandonavano spose e figli per lanciarsi nelle avventure delle guerre. Una «relazione» letta dal Luosi ai colleghi del Direttorio, il 29 piovoso, anno V, e scritta appunto dal Monti, è questa:

«Eccovi, cittadini legislatori, un nuovo tratto di sublime eroismo repubblicano, che noi presentiamo alla vostra tenerezza ed ammirazione.

»Avete gli scorsi giorni veduto nel cittadino Tiraboschi l'amor della patria trionfare dell'amor paterno, [386] e staccarsi dal seno tre figli per sacrificarli tutti alla salute della Repubblica. Vedrete ora questo amor medesimo della patria strappare un intrepido cittadino dalle braccia d'una dolce sposa e d'una tenera figlia, e trionfare tutti ad un tempo dei due più sacri e irresistibili sentimenti che la natura abbia posti nel cuor dell'uomo. Ciò non è tutto. Questo sforzo magnanimo di virtù è stato coronato dall'imitazione di altri sei generosi repubblicani.

»Ma voi sospendete, cittadini legislatori, la vostra esultanza sino all'intiera lettura dell'annesso rapporto del quale si è da noi fatta nei nostri atti la dovuta menzione onorevole. Noi non faremmo che scemarvene l'effetto coll'anticiparvene il contenuto».

È firmata dal Luosi «presidente» e dal Monti «segretario». L'«annesso rapporto» non c'è.


I diritti dell'uomo e i giornali (pag. 35). — Non era certo una novità il bandire e il proclamare tutti eguali i diritti degli uomini! Nella parte letteraria del n. 23 del dicembre 1786 del giornale Il Corriere di gabinetto, Gazzetta di Milano, che usciva dai torchi dei fratelli Pirola, erano già state bandite quelle stesse novità contraddicendo a un marchese di Chastellux, il quale in quell'anno a Parigi pretendeva di sostenere che «la dignità dell'uomo era una cosa comparativa» e quasi approvava la schiavitù dei negri. L'anonimo contraddittore conchiudeva: «Gli uomini son tutti eguali. Son le virtù quelle che li distinguono». E continuava:

«La dignità dell'uomo è riposta nella sua uguaglianza di diritto, nella sua indipendenza, nel potere sviluppare le sue facoltà morali e intellettuali, negli sforzi ch'egli fa per iscoprire la verità, nelle sue grandi idee, in un [387] voler fermo, costante, indeclinabile. Se vuolsi con energia tutto ciò ch'è buono, tutto quello ch'è sublime, ecco la dignità dell'uomo in teoria. Volete vederla nei fatti?» (E qui si citano fatti e personaggi della storia, come il cancelliere d'Inghilterra, Tommaso Moro).


L'albero della Libertà in piazza del Duomo (pag. 43). — La piazza del Duomo fu campo, in epoca antecedente, a ben altre costruzioni di giubilo. Va notato.... un monte! Nel 1618, per festeggiare la nascita del «Serenissimo Principe di Spagna Filippo Prospero», secondogenito del re Filippo IV, si eresse un mostruoso monte ed impasti di figure allegoriche, aquile, chimere, cinto da una balaustrata circolare, dalla quale si ergevano contorte figure pure simboliche e urne dalle quali s'innalzavano nuvole di fumo (Miscellanea ex laboribus del padre Benvenuto del convento di Sant'Ambrogio ad Nemus, nella Biblioteca nazionale di Brera).

Il primo che piantò un albero della libertà in piazza del Duomo s'ignora chi fosse: il secondo fu un prete côrso: lo piantò vicino al caffè detto del Veronese «a vista del palazzo ove abitava il tiranno» (giornale Il termometro politico di Carlo Salvador, n. 1, giugno 1796)


I tre colori nazionali (pag. 90). — In una lettera del 1796 al Direttorio della Cisalpina, Bonaparte scrive: «Les couleurs nationales, que les patriotes ont adoptées, sont le vert, le blanc et le rouge». Quest'è il primo cenno ufficiale della bandiera italiana. Poi, Napoleone, nel gennaio del 1797, ordinò che la guardia nazionale milanese portasse i colori nazionali verde, bianco, rosso (Cantù, Monti e l'età che fu sua, Milano, 1879, pag. 8).

[388]


Capolavori rubati e mai restituiti (pag. 91). — I demagoghi francesi di Napoleone rubarono dalla chiesa delle Grazie l'Incoronazione di spine, stupenda opera di Tiziano, e il San Paolo di Gaudenzio; da San Celso il San Sebastiano del Procaccini, ecc. Non furono mai restituiti. Non fu reso un vaso etrusco antichissimo e dipinto, e via via.


Cantori evirati. — Oltre quelli, famosi, citati alle pagine 129 e 130, a Milano cantavano altri evirati soprani. Nelle funzioni religiose, si ammiravano le voci dei disgraziati Francesco Bonagazzi, Giovanni Berardi, Antonio Pirona, Luigi Del Moro (da Memorie del tempo e dal Milano Sacro del 1792).


La Repubblica Italiana (pag. 201). — L'Archivio lombardo di Stato conserva l'atto della Costituzione della Repubblica Italiana, con le correzioni e la firma del Bonaparte.

È curiosa l'enfatica circolare con la quale il «cittadino» Pelagatti, commissario del governo presso i tribunali e giudici del dipartimento dell'Olona, comunicava il grande avvenimento della Repubblica Italiana. Dice fra l'altro: «Era riservato ad un Italiano (Napoleone allora era considerato italiano), ad un Uom straordinario e nato per fissare il Destino delle Nazioni e l'ammirazione dell'Europa, il sorprendere la comune aspettazione coll'estrarre dalla Cisalpina la Repubblica Italiana, proclamandola tale sotto il giorno 6 corrente piovoso, nella Dieta di Lione» (Biblioteca Ambrosiana).

Vedi anche: F. Melzi, «Proclama ai concittadini in occasione dell'installamento del Governo della Repubblica Italiana» (16 febbraio 1802).

[389]


Il Direttore del teatro alla Scala, durante il periodo rivoluzionario repubblicano era il filosofo Francesco Salfi, calabrese, al quale abbiamo accennato. Suo merito maggiore è d'avere continuata la Storia della letteratura italiana del Ginguené. Nacque a Cosenza, nel 1759; nel 1814 esulò a Parigi; morì nel 1832. Egli ritrasse assai bene Napoleone in un sonetto. Fu egli, il Salfi, l'ispiratore e l'autore del soggetto della sconcia pantomima Il ballo del papa, del quale si è parlato a più riprese in questo libro. Dal palcoscenico salì a una cattedra pubblica: insegnò diritto pubblico e commerciale.


Il demagogo conte Porro (pag. 152). — Nel teatro alla Scala, la sera del 23 maggio 1796, il furibondo Porro (ch'era detto il Porrino) al vedere sull'imposta d'un palco chiuso, nella prima fila, lo stemma del proprietario, balzò per abbatterlo, chiamando con quanta voce aveva in corpo i repubblicani in aiuto della distruzione. Un ufficiale francese, ch'era seduto nel palco attiguo a quello incriminato, si fece incontro all'esaltato «cittadino» e, non giovando le parole, snudò la sciabola, lo fermò. Nella platea si levò tumulto: il disordine continuò e si sfogò nel Caffè Cambiagio, ch'era di fronte al teatro alla Scala (da Memorie del tempo).


Eugenio Beauharnais. — Su questo principe, vicerè del Regno d'Italia, che aspirava alla corona, tanto protetto quanto strapazzato dal potente padrigno, v. A. du Casset, Mémoires et correspondance politique et militaire du Prince Eugène (Paris, 1860).


Leopoldo Cicognara. — Si difese dall'accusa d'avere dileggiati i Milanesi esponendo all'Accademia di Belle [390] Arti a Venezia un quadretto rappresentante un asino davanti al Duomo; quadretto per il quale Carlo Porta gli lanciò contro un sonetto acerbo. Questo fu pubblicato dal Cantù insieme con l'auto-difesa del Cicognara al Ministro dell'interno del Regno italico, conte di Brême, nel 2º fascicolo (pag. 65), delle Corrispondenze di diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia (Milano, 1884), collezione preziosa e interessantissima, rimasta incompiuta, perchè il pubblico leggente non ne volle sapere.


Il conte Federico Confalonieri (pag. 288). — Il capo della cospirazione contro il governo d'Austria nel '21, come già in quella contro il governo di Napoleone nel 1814, è additato nel conte Federico Confalonieri. Ma la mente più equilibrata, più vasta, più ricca di cultura, più atta al governo non era quella del Confalonieri. No. Bisogna affermarlo una buona volta! Era il conte Luigi Porro, che fu poi l'anima del Conciliatore e delle innovazioni civili escogitate per dimostrare come l'Austria fosse alla coda della civiltà e non sapesse governare; come fu provato dall'autore di questo volume, coi documenti alla mano, nel suo libro Voci e volti del passato (Milano, 1920, Treves, ed.). Il Confalonieri, col suo orgoglio di Lucifero, col suo temperamento impulsivo, eccessivo in tutto, avrebbe guastato ogni cosa. Lo immaginiamo, per esempio, ministro degli affari esteri? Eppure, come tale, appariva in quell'abbozzo di governo provvisorio, che i magnanimi ribelli del '21 avevano ideato. La gloria verace del Confalonieri è il suo martirio, fieramente sopportato; figura di Plutarco in questo! Il suo monumento è lo Spielberg.


Per Stendhal (Henry Beyle), troppo oggi esaltato, come ieri troppo negletto, oltre il libro aneddotico [391] citato, vedi: Revue de Paris dell'11 marzo 1832, dove egli tratta della Prineide del Grossi; poichè l'articolo è indubbiamente suo; come ben nota C. Stryienski, nelle Soirées du Stendhal, la più lodevole di tutte le pubblicazioni stendhaliane uscite sinora. A C. Stryienski e a R. Colomb dobbiamo le opere postume di colui che voleva chiamarsi «milanese». Quelle opere lo rivelano meglio, benchè non si deva trascurare ciò che delle volgari beffe irreligiose e anti-italiane dello Stendhal scrive la Sand nell'Histoire de ma vie (vol. IX, cap. III, Lipsia, 1855): «Il se moqua de mes illusions sur l'Italie.... Il railla, d'une manière très amusant, le type italien, qu'il ne pouvait souffrir et envers lequel il était fort injuste». Così la Sand. Eppure, a Milano, gli abbiamo dedicata una via!


Guerra di Russia. — Il citato libro del medico descrittore delle stragi e delle malattie nella campagna di Russia nel 1812 e di Germania nel 1813 s'intitola: Storia delle malattie osservate alla Grande Armata francese, del dott. G. R. L. de Kerckhove (detto Kirkhoff). Ne uscì una versione italiana, con note, di O. B. Fontanetti (Milano, 1834), presso la Società degli Annali di medicina. Il Kirkhoff, che studiò sopratutto il tifo diffuso in quella orribile spedizione, godeva di gran fama. Superfluo ripetere le altre fonti autorevoli: Laugier, Zanòli, ecc.


Eccidio del ministro Prina (pag. 298). — Fra le molte pubblicazioni su codesto nefando delitto, che il general Pino, per le torve sue mire, scelleratamente lasciò compiere, mentre avrebbe potuto con un solo suo ordine impedirlo, veggansi le più recenti: Lemmi, La restaurazione austriaca a Milano nel 1816 (Bologna, [392] 1902); Pellini, Il general Pino e l'eccidio del ministro Prina (Novara, 1906). Fra le memorie contemporanee non vanno dimenticate le pagine del Maroncelli nelle Addizioni alle Mie prigioni di Silvio Pellico.


Carteggio di Alessandro Manzoni, a cura di G. Sforza e G. Gallavresi (Milano). — Il sommo scrittore, che, com'è notissimo, prima di pubblicare una riga ci pensava su cento volte, e poi novantanove su cento non ne faceva nulla, che dirà mai nella «Città superna» di questa raccolta che raduna tutto ciò che scrisse per l'intimità e pel silenzio? La riluttanza, persino morbosa, nell'espandersi, propria del Manzoni, ci rende questo carteggio (con ogni rispetto verso il sommo) spesso poco interessante: è talora esangue. Il raccoglitore, G. Gallavresi, badi a non accusare altri di ciò che non si è mai sognato di scrivere (vol. I, pag. 74), e, prima di sentenziare su qualche libro, lo apra, almeno! (passim) Egli pone la lariana Torno sul Lago Maggiore (Carteggio Confalonieri, vol. II, pag. 36); fa morire il Manzoni verso il 1870 (Ricerche intorno alla rivoluzione milanese del 1814, pag. 1); codeste, e altre ancora, sono sviste che facilmente si correggono. Non così si sorvola facilmente sulla omissione di qualche lettera del Manzoni, rilevantissima, ben nota, pubblicata per la prima volta dall'autografo nelle Passioni del Risorgimento di Raffaello Barbiera (Milano, Treves, pag. 41).


Almanacchi milanesi (pag. 65). — Ricco e amante del lieto vivere era il nobile Giuseppe Brentano Grianta, che, ogni anno, stampava un almanacco in quartine settenarie, passando in rassegna casi bizzarri. Morì a 65 anni, il 4 ottobre 1819, lasciando erede l'Ospedale [393] Maggiore di Milano (Cusani, Benefattori dell'Ospedale di Milano).


Nobili stravaganti suscitavano anche nel Settecento viva ilarità nella Lombardia. Il più buffo era forse il marchese Francesco Origoni. Costui faceva venire i tacchini carichi di lumache e, sempre a piedi, niente meno che dalla sua villa di Valmadrera (Lecco) fino a Milano, per gustarne poi la carne frollata dalla stanchezza e perciò più prelibata. Il peggio è che si stancavano, sino a caderne spossati e infermi, i poveri pazienti conduttori. Quel bel matto era nonno della eroica contessa Teresa Casati, moglie di Federico Confalonieri.


Ara bell'Ara, discesa Cornara, ecc. (pag. 25). — Su questa antica nenia infantile, tuttora popolarissima a Milano, parla Tullo Massarani nei Ricordi cittadini e patriottici, raccolti e postillati da Raffaello Barbiera (Firenze, Succ. Le Monnier, 1908, pag. 320 a 325). Ne parla su quanto reca un manoscritto genovese di Giacomo Giscardi: Dell'origine e fasti delle nobili famiglie di Genova. Il conte Tommaso Marino, genovese, venuto a Milano nel 1525 e arricchitosi rapidamente con le ferme (pubblici appalti) del sale, e divenuto potentissimo, aveva un figlio, Niccolosio, e costui uccise per gelosia la propria moglie ch'era d'alto lignaggio spagnuolo. Questo appartiene alla storia; il resto appartiene alla leggenda. Il palazzo Marino a Milano, dove ha sede il Municipio, fu eretto per ordine del conte Marino predetto.


Meneghino. — Dopo due secoli di sua vita (pag. 173), manca d'una compiuta monografia. Dopo i disastri del '48, Meneghino, per bocca del suo popolo, cantava [394] di notte per le vie ben altre parole che quelle messegli in bocca dal Maggi:

E nun semm semper nun;

E s'emm ciappaa la ciocca (ubriacatura)

Se l'emm pagada nun!

Siamo, dunque, lontani dal tempo nel quale il contadino lombardo, quando incontrava il cane del padrone, si levava il berretto curvandosi, e gli diceva premuroso: Reverissi, sur can!


La tragedia «Aristodemo», del Monti (pag. 121), fu rappresentata per la prima volta a Roma (teatro Valle), nel gennaio del 1786: fu ispirata da quelle omonime di Carlo Dottori e dell'Arnaud.


Motto superbo (pag. 152). — Invece di: «Un altro Porro, l'illustre Pietro, disse....», leggi: «Un altro patrizio, l'illustre Pietro Verri, disse....».


Abitanti di Milano (pag. 245). — La cifra è così indicata nel Milano Sacro del 1810, e comprende la popolazione di tutte le parrocchie, porte e sobborghi. Porta Orientale (ora Venezia) comprendeva da sola 35,950 abitanti. Le altre porte si chiamavano Romana, Marengo (ora Ticinese), Vercellina, Comàsina e Nuova.


Lapide della tomba di V. Monti (pag. 364). — Fu trasportata e collocata, in segno di onore, nella cripta della nuova chiesa di San Gregorio.


Ortografia milanese. — È la più arbitraria e incerta. Non solo varia da secolo a secolo, da autore ad autore, ma anche nello stesso poeta, come nel Porta. Quando sarà autorevolmente fissata? Sarebbe ora.

[395]

INDICE ALFABETICO.

Accattabrighe (L'). Giornale contro il Romanticismo, 335. — Contro Il Conciliatore, 338.

Acerbi Giuseppe. Si accapiglia col Monti nella Biblioteca Italiana, 338.

Agnesi Maria Gaetana. Fa rifiorire gli studi matematici, 2.

Albergo del Falcone. Il più antico di Milano, 10.

Albergo del Pozzo. Vi alloggia Carlo Goldoni, 10.

Albero della Libertà. È piantato sulla piazza del Duomo e in altre piazze di Milano, 43. — Chi furono i primi a piantarlo, 387.

Albertolli Giocondo. Detrattore della fama di Giuseppe Bossi, 323.

Alderani Lorenzo. Falso nome assunto da Ugo Foscolo a Zurigo, dove si era rifugiato, 311.

Aldini Antonio. Consola l'imperatrice Giuseppina, 240.

Alessandro I, Czar di Russia, 257. — Suo piano di battaglia contro l'esercito francese, 262.

Almanacco degli Almanacchi. Ricama storie maligne al teatro della Scala, 65.

Almanacchi milanesi. Pubblicati sulla fine del 1700 e ai primi del 1800, 65. — Almanacco di Brentano Grianta, 392.

Amici (Gli) della Libertà. Primo giornale repubblicano in Milano, 49.

Andreani Paolo. È il primo ad introdurre i parafulmini in Milano, 26. — Il primo a salire in pallone alla Montgofier in Milano e in Italia, 26.

Andreoli (Famiglia). Da cavallanti divengono marchesi, 8.

Antipoligrafo. Giornale letterario di Milano, 338.

Antolini Giovanni. Edifica ville e palazzi in Milano, 246.

Appiani Andrea. Sue pitture in Milano, 154. — Sua arte, 246. — Ritratto di Napoleone I, 289. — Gli affreschi del salone delle Cariatidi, 295.

Aquanio (Dottor) Giuseppe. Lettere e ricordi sul Porta, 380.

Aquile Napoleoniche. Copiate da quelle di Aquileia, 257. — Gli Italiani reduci dall'infausta campagna di Russia le riportano a Milano, 272. — Sono mandate a Torino nel 1848, 272.

Arauco Raffaele. Membro del Comitato della Repubblica Cisalpina, 197. — Marito di Vincenza Prevosti, poi moglie di Carlo Porta, 205. — Proclamato benemerito della patria, 205. — Sua attività poetica e politica, 206. — Muore a Lione, 207.

[396]

Archinto Carlo. Suo fasto, 153. — Sue ricchezze e aneddoto relativo, 245.

Arco di Porta Ticinese. Eretto dal Cagnola per rammentare la battaglia di Marengo, è dagli Austriaci dedicato Alla pace dei popoli, 298.

Arnaud Francesco. Il suo Aristodemo e quello del Monti, 394.

Arnisano Pietro. Suo eroico contegno nella campagna di Russia, 260.

Augusta. Città della Baviera. Vi soggiorna Carlo Porta, 17.

Augusta Amalia, Principessa di Baviera. Sposa il Principe Eugenio vicerè d'Italia, 241. — Sua bellezza; suo dolce carattere, 241. — Ugo Foscolo la eterna nelle Grazie, 241. — È amata dai Milanesi, 274. — Le sue figlie, 275.

Augusto, Duca di Sussex. Sue gelosie per la cantante Giuseppina Grassini, 134.

Avrillon (Mademoiselle d'). I «patiti» delle signore milanesi, 153. — Sull'ingresso di Napoleone in Milano, 235. — Descrizione dell'incoronazione di Napoleone a Re d'Italia, 238.

Balestrieri Domenico. Almanacchi in dialetto milanese, che prendono da lui il nome, 65. — Crea il personaggio detto «Sganzerlone», 182. — Ottave per l'Arciduchessa Beatrice Ricciarda d'Este, 242. — Traduzione in ottave milanesi della Gerusalemme liberata, 360. — Vocaboli milanesi da lui usati, 371.

Ballo (Il) del Papa. Rappresentato al teatro della Scala, 92. — Lodato e esaltato da un arciprete di S. Lorenzo, 160. — È autore del soggetto di esso Francesco Salfi, 389.

Balzac Onorato. Sue opere, 3.

Banco Antonio. Suo eroismo nella campagna di Russia, 263.

Bandiera tricolore. — Il generale Porro ordina che a tutte le bandiere francesi del dipartimento dell'Olona sia tolto il color bleu e sostituito col verde: il tricolore, bandiera della Repubblica Cisalpina, 90. — La bandiera tricolore italica sventola per la prima volta sulle rive dell'Oceano, 242. — Sventola gloriosa sugli infausti campi russi con le truppe italiane, 254. — Lettera di Napoleone al Direttorio della Repubblica Cisalpina, 387.

Barbiano di Belgioioso Alberico. Protegge la cantante Giuseppina Grassini, 132.

Barbiera Raffaello. Pubblica la prima edizione critica delle poesie del Porta, 380. — Il suo libro Voci e volti del passato, 390. — Lettera del Manzoni, da lui per la prima volta pubblicata, nelle sue Passioni del Risorgimento, 392. — La sua opera Ricordi cittadini e patriottici, 393.

Barbieri Giuseppe, abate, oratore, poeta. Predica nella Chiesa di S. Fedele, 168.

Barodino (Russia). Valoroso combattimento sostenuto dagli Italiani contro i Russi, 264.

Battaglia Gaetano, direttore della Rivista Europea, 55.

Beauharnais Eugenio. È respinto con le sue truppe fino alle rive dell'Adige, 69. — Suo soggiorno a Milano, 124. — Protegge l'Accademia del Teatro Filodrammatico, e ne è socio, 124. — Assiste all'Antigone, 124. — Torna a Milano nel 1805, 230. — Vicerè del Regno italico, 238. [397] — Sposa la principessa Augusta Amalia di Baviera, 241. — Battaglia di Sacile, 250. — Comanda i soldati del Regno italico nella campagna di Russia, 254. — Insulta i soldati italiani, 261. — Attacca con truppe italiane il villaggio di Barodino, 264. — Ritorna a Milano, 274. — Sconfitta presso l'Adige, 276. — Ambisce la corona di re d'Italia, 282. — Soggiorna a Mantova, 285. — Fine del Regno italico, 294. — Le sue memorie pubblicate dal Du Casset, 389.

Beauharnais Giuseppina, moglie di Napoleone. È incoronata Imperatrice dei Francesi in Parigi, 228. — Sua incoronazione, come Regina d'Italia, in Milano, 236. — Le sue lacrime, 239.

Beauharnais Giuseppina, Massimiliana, Napoleone. — Figlia del Principe Eugenio, 273. — Principessa di Bologna e Duchessa di Galliera, 273.

Beaulieu Gio. Pietro, comandante supremo delle truppe austriache in Italia; è sconfitto da Bonaparte a Lodi, 36.

Beccaria Cesare. Suoi scritti contro la pena di morte, 1. — È sepolto nel Cimitero di Porta Comàsina, 139.

Belgioioso Trivulzio Cristina. A Blevio, sul lago di Como, 326.

Bellacci Angelo. Chimico e fisico, 247.

Bellano. Paesetto del lago di Como. Vi vede la luce Tommaso Grossi, 216.

Bellati Francesco. Traduce in milanese l'Ode a Silvia del Parini, 29, 382.

Bellegarde Enrico (Conte di). Sue segrete corrispondenze coi partigiani dell'Austria in Milano, 283. — Entra in Milano alla testa delle truppe austriache (28 aprile 1814), 295.

Belli Giovacchino. Confrontato col Porta, 188. — Si innalza a poeta civile, 368.

Bellington Elisabetta, di Londra (nata Weichsell). Canta alla Scala, 134. — Sua rivalità colla Grassini, 134. Benincasa Bartolomeo di Sassuolo. Collabora nel Monitore Cisalpino, 58. — Suo romanzo Les Morlaques, 58.

Benvenuto (Padre). La sua miscellanea ex laboribus della Nazionale di Brera, 380 e 387. Béranger Pietro Giovanni. La canzone Le violon brisè, 298.

Berchet Giovanni. Fonda il Conciliatore, 55. — Sua amicizia col Porta, 232. — Il Romanticismo, 335. — La Eleonora del Bürger, 340.

Berchet Guglielmo. Fornisce notizie sul Porta, 379.

Berardi Giovanni. Soprano evirato, 388.

Beresina (Russia). Tragico passaggio del fiume da parte dei Francesi e degli Italiani in ritirata, 270.

Bernardoni Giuseppe. Dà varie notizie sulla traduzione in milanese della Ode a Silvia del Parini fatta dal Porta, 29. — Collabora nel giornale Il Senza Titolo, 54. — Il suo sonetto Ti povera Franzisch...., 251.

Bersezio Vittorio. Le Miserie d'Monsù Travet, 192.

Bianchi Tommaso. Poeta, cospiratore e martire della Giovine Italia, 325.

Biblioteca Italiana, periodico antiromantico, 335. — Articolo sulla Collezione delle migliori opere scritte in dialetto milanese, 334. — Baruffe letterarie, 338.

[398]

Bicetti de' Buttinoni Giammaria. Sull'innesto del vaiuolo e versi indirizzatigli dal Parini, 203.

Bignami Paolo. Banchiere e marito di Maddalena Marliani detta Lenin, 307.

Bini Carlo. Suo umorismo; Il manoscritto d'un prigioniero, 186.

Bolis Alessandro, prete. Serve di modello al Don Abbondio del Manzoni, 161.

Blevio (Como). Soggiorno del Porta, 325.

Bon F. A. Il suo Ludro 192.

Bonfadini Romualdo. Suo giudizio storico su Napoleone, 227.

Bollati Francesco. L'Orland Furioso de l'Ariost travestii, 360.

Bon Romilde, veneziana, soprannominata «la Fiera di Sinigaglia», 73.

Bonagazzi Francesco. Cantore evirato, 388.

Bonaparte Luciano. Sua avversione per il fratello Napoleone, 230.

Bonaparte Paolina, sorella di Napoleone. Suoi ritratti al nudo, 111. — Napoleone vuol darla in moglie al Duca Melzi, 280.

Borella Gaetano. Prende il Porta come suo impiegato, 88.

Borgo (Il) degli Ortolani. Almanacco del 1794, falsamente attribuito al Porta, 65.

Borromeo Clelia. Avversaria di Maria Teresa: coltiva gli studi matematici, 2.

Borromeo (San Carlo). Protegge la Santa Inquisizione, 6.

Borromeo Giovanni. Suo soprannome nel Collegio dei Nobili, 380.

Bosin(I) e le bosinade, 27.

Bossi Annetta. Moglie di Luigi Bossi soccorsa amorosamente dalla famiglia Porta, 317.

Bossi Giuseppe, pittore e poeta. Eseguisce il ritratto di Paolina Bonaparte, 111. — La sua novella oscena El Bepp perucchee, 190. — Sua opera sul Cenacolo di Leonardo da Vinci, 317. — Sua morte, 320. — Suoi nemici e suoi amori, 321. — Le sue pitture e le sue poesie, 246, 322. — Accademici detrattori di lui, 323. — Lo Sposalizio di Raffaello nell'Accademia di Brera, 323.

Bossi Luigi. Dà ospitalità al Foscolo in Zurigo, 311. — È soccorso generosamente dal Porta, 316.

Bourget Paul. Soggiorna a Cernobbio sul lago di Como, 327.

Bovisa (presso Milano). Scena delle geste di Fraa Condutt del Porta, 171.

Brême (De) Lodovico Giuseppe. Circa l'auto-difesa inviatagli dal Cicognara, 390.

Brentano Grianta Giuseppe. Il suo almanacco in quartine settenarie, 392. — Lascia i suoi averi all'Ospedale Maggiore, 393. Brera (Accademia di). Astronomi, 2. — Monumento a Carlo Porta, 8. — Lo Sposalizio di Raffaello, 323.

Brown (Colonnello inglese). Compie una inchiesta in Milano sulla scandalosa condotta di Carolina di Brunswich, 350. — È aggredito e ferito, 351.

Brune Goffredo Augusto. Sostituisce il generale Massena nel comando delle truppe francesi in Milano, 197.

Bürger Guglielmo. La sua Eleonora, campione del Romanticismo, 340.

Buratti Pietro. Sue poesie dialettali veneziane 66, 68, 188. — La Corte busonica e le sue adunanze, 67. — Suo arresto, 70. — Suo confronto col Porta, 248.

[399]

Busto Arsizio. Vi nasce il pittore e poeta Giuseppe Bossi nel 1777, 320.

Busto F. Falso amico del Porta in Venezia, 75.

Byron Giorgio. Suo soggiorno in Milano, 137. — Frequenta la casa Porro, 328.

Cadenabbia (Lago di Como). Villa dei Clerici acquistata dal Sommariva, 196. — Bassorilievi del Thorvaldsen, 196.

Caffè Cambiagio. Situato una volta di fronte al Teatro alla Scala, 389.

Caffè (El) de la Reson. Almanacco milanese dell'anno 1805, 65.

Caffè del Veronese a Milano. Vi è piantato vicino il primo albero della Libertà, 387.

Cagnola Luigi. Costruisce l'Arena per ordine di Napoleone, 244. — Costruisce l'arco di Porta Ticinese, 298. — Abbellisce Milano di altri edifici e costruisce suntuose ville, 246.

Calvi Giovanni. Sue pubblicazioni sul vaiuolo (1762), 203.

Cambacérés Gian Giacomo. È inviato a Milano da Napoleone, 228.

Cameretta. Riunione dei Decurioni milanesi, 217. — Così pure fu denominata la riunione letteraria del Porta, 217-18.

Campari Camillo. Sua risposta a Napoleone I, 233.

Campoformio. Napoleone cede all'Austria il Veneto, l'Istria e la Dalmazia, 39.

Canonica Luigi (architetto). Suo arco, 154. — Altri suoi notevoli edifici in Milano, 246.

Canova Antonio. Eseguisce la celebre statua riproducente Paolina Bonaparte nuda, 111. — Suo genio nella scultura, 246. — Amicizia col poeta e pittore Giuseppe Bossi, 322. — Ne scolpisce il busto, 323.

Cantù Cesare. Narra la proposta, fatta da un patriotta fanatico, di demolire la guglia del Duomo, 45. — Suo giudizio su Meneghino e Giovannin Bongee, 179. — Suo errato giudizio sul Porta, 247. — Della Prineide del Grossi, 301. — Pubblica un sonetto del Porta contro il Cicognara, 390.

Capolavori e cimeli rubati da Napoleone e mai restituiti. Quadri, statue, manoscritti, ecc., inviati in Francia, 91. — Altri capolavori rubati, 388.

Cappello Girolamo. Suo libro sulla campagna di Russia, 265.

Caprara Gio. Batta, Cardinale e Arcivescovo di Milano. Accoglie ed incensa Napoleone Imperatore nel Duomo, 235; lo incorona Re d'Italia, 236.

Carbonari. Si adunano in casa del conte Luigi Porro, 328. — Vigilanza della polizia austriaca, 329. — Carlo Porta nel cenacolo dei carbonari-romantici, 330. — Editto contro di loro del governo austriaco, 352. — Sospetti della polizia 353. — Processi contro i Carbonari, 375.

Carlo, Arciduca d'Austria. È sconfitto da Napoleone I al Danubio, 250.

Carminati Bassiano (medico). Sua dissertazione sulla morte e il suo meglio avanti a Napoleone, 233.

Carpèsino (Brianza). Vi segue il matrimonio del Porta con Vincenza Prevosti vedova di Raffaele Arauco, nella villa di Torricella, 208.

Cascina (La) dei Pomi (Sobborgo di Milano). Carlo Porta vi legge un brindisi inneggiante a Napoleone, 251.

[400]

Casiraghi (Famiglia). Amica del Porta, 211. — Festini ai quali intervengono il Porta e il Monti, 211. — Sonetto del Porta al Monti, 212.

Casiraghi Carlo. Cassiere generale al Monte Napoleone; gli succede il Porta, 213.

Castelbarco Maria (nata Litta). «L'inclita Nice» del Parini, 108.

Castiglioni Adolfo. Cospira per il ritorno degli Austriaci in Milano, 284. — È eletto deputato per presentare un indirizzo all'Imperatore d'Austria, 288.

Castiglioni Carlo, e il Collegio dei Nobili, 380.

Castiglioni Luigi. Membro della deputazione da inviarsi all'Imperatore d'Austria, 288.

Catena (Ab.) Adalberto. Sue notizie sulla Diocesi milanese ai tempi del Porta, 379.

Catena Bibin. Vedi «Stendhal», 112.

Cattaneo (P.) Ambrogio. Sue prediche, 168.

Cattaneo Calimero. Pone una lapide alla memoria del Parini, 139.

Cattaneo Carlo. Fonda il Politecnico, 55.

Cattaneo Gaetano (Numismatico). Amico intimo del Porta, 344. — Suo progetto di una torre monumentale in onore di Napoleone, 344.

Censore (Il). Giornale fondato da Melchiorre Gioia, 53.

Ceriani Giuseppe Cesare. Sua amicizia col Porta e col Grossi, 222.

Ceroni Giuseppe Giulio. Suo sonetto contro Napoleone, 230.

Cherubini Francesco. Narra come si educava ai tempi del Porta, 15. — Ricusa di far parte dei Romantici, 339. — Sui vocaboli usati dal Porta, 371. — Pubblica la prima edizione delle poesie del Porta nel 1817, 373. — Cura la prima edizione delle opere del Porta, 380.

Chiabotto Michele, valoroso soldato nella campagna di Russia, 260.

Choiseul-Gouffier (Contessa di). Sue memorie sulla ritirata di Russia, 270.

Cicognara Leopoldo. Nega il voto a Napoleone, 200. — Quadro satirico esposto da lui a Venezia, 99, 344. — Si difende dall'aver dileggiato i Milanesi, 389.

Cicognara Massimiliana nata Cislago. Partecipa alle idee repubblicane del marito Leopoldo, 99.

Classicisti. Lotta fra Romantici e Classicisti, 3. — Combattuti dal Conciliatore, 329. — Si adunano in casa Londonio, 331. — L'Accattabrighe e la Biblioteca italiana, 335. — Giornali pro e contro il classicismo, 338. — La Biblioteca Italiana, 338. — La Feroniade del Monti, 340.

Collegio Longone, detto dei Nobili. Ne sono espulsi i Barnabiti, 105. — Uso del suo teatrino, 105. — Soprannomi dei convittori, 380.

Colomb R. Pubblicazioni su Stendhal, 391.

Compagnia della Teppa. Oltraggia e commette violenze contro i pacifici ambrosiani, 351.

Compagnoni Giovanni. Scrive nel Monitore Cisalpino, 58.

Compans Gian Domenico (Generale). È ferito alla battaglia di Barodino, 264.

Conciliatore (Il). Giornale fondato da Silvio Pellico, da Luigi Porro, da Federico Confalonieri [401] e da Giovanni Berchet, 55. — Combatte i classicisti e il governo austriaco, 329. — È soppresso, 329.

Confalonieri Federico. Fonda con altri il Conciliatore, 55. — Si pone a capo del partito degli italici puri, 284. — Sua ostilità contro il Senato napoleonico 288. — Arringa il popolo, 289. — Sue cospirazioni e suo martirio, 390.

Confalonieri Teresa. Moglie di Federico Confalonieri, 393.

Congregazione dei Bianchi. Abolita da Giuseppe II, 20.

Conservatorio di musica. Istituito da Napoleone I, 247.

Convento di Sant'Ambrogio ad Nemus. Miscellanea del P. Benvenuto, 380 e 387.

Corio Girolamo, poeta dialettale milanese. La sua Istoriella d'on fraa Cercott, 369.

Cornara Ara. Eco popolare di un delitto del Cinquecento, 25.

Corner Cecilia. Sua vasta coltura, 73.

Corner-Diedo Andriana. Suo amore per C. Porta, 72 e seg. — È abbandonata dal Porta, 80. — Sua lettera al fratello del Porta, 82.

Corner-Duodo Teresa. Le viene attribuito il soprannome «le affumicate immagini de' suoi maggiori», 74.

Corona Ferrea. Venerata nella basilica di Monza, 236. — Serve per l'incoronazione di Napoleone a Re d'Italia, 237. — Ordine cavalleresco fondato da Napoleone I, 240.

Corriere (Il) delle Dame. Le sue baruffe letterarie, 338. — È diretto da Giuseppe Lattanzi, 384.

Corriere (Il) di Gabinetto. Gazzetta di Milano. Bandisce nel 1786, prima della rivoluzione francese, i diritti dell'uomo, 386.

Corsia del Giardino: ora Via Alessandro Manzoni, 14.

Corte Busonica. Allegra società di Venezia, alla quale appartenne G. Rossini, 67.

Courrier (Le) de l'armée d'Italie. È fondato da Napoleone Bonaparte, 58.

Crepuscolo (Il), giornale. È fondato da Carlo Tenca, 55, 307.

Crescentini Gerolamo. Celebre soprano, 129.

Cusani Francesco. Suo opuscolo sui Benefattori dell'Ospedale di Milano, 393.

Custodi Pietro. Fonda il giornale la Tribuna del popolo, 52. — Inizia pure la classica raccolta degli Economisti italiani, 55. — Acclamato economista, 247.

Darnay Antonio. Direttore delle poste milanesi, viola il segreto epistolare dei cittadini, 279.

Davoût. Comanda il 111º regg. fanteria, piemontese, nella campagna di Russia, 259.

De Brosses Carlo. Sua dimora in Milano, 14.

De Castro Giovanni. Suo libro su Milano durante la dominazione napoleonica citato, 244.

De Cristoforis Gio. Battista. Compone l'epigrafe per la tomba di C. Porta, 362. — Sua disputa coll'ab. Robustino Gironi, 363.

De Laugier Cesare. Il suo libro Gli Italiani in Russia, 265 e 291.

Del Fante Cosimo. Suo eroismo nella campagna di Russia eternato dal Guerrazzi, 265.

Della Berretta, Vescovo di Lodi. Ossequia Napoleone e lo invita a pranzo, 36.

[402]

Della Torre Scipione. Comanda i cavalleggeri alla battaglia di Ostrowno, 263.

Del Moro Luigi. Cantore ecclesiastico evirato, 388.

De Marchi Emilio. Poeta milanese, 368.

Dembowsky Matilde. È corteggiata dallo Stendhal, 281.

De Petri Siro. Ospita il Porta nella sua villa in Brianza. 345.

Desaix Luigi, l'eroe di Marengo. La sua salma viene da Milano inviata in Francia, 102.

Despinoy Giacinto, generale. Assume il comando della città di Milano, 40. — Reprime la sommossa del 23 maggio 1786, 41.

Di Bellegarde Gaspare. Suo eroico contegno nella campagna di Russia, 260.

Di Brunswick Carolina, Amelia, Elisabetta, Principessa di Galles. Suoi scandalosi amori a Cernobbio(lago di Como), 326. — Processo contro di lei a Londra, 350.

Diocesi milanese. Sue tradizioni orali e caratteristici particolari, 379.

Dipartimento dell'Olona. Le bandiere sostituiscono, al color bleu, il verde, 90. — Comunicato del commissario Pelagatti, 388.

Diritti (I) dell'uomo. Sono diffusi in Italia dalle truppe repubblicane francesi, 35. — Erano stati banditi prima, nel 1786, da un giornale di Milano, 386.

Dolfini, Vescovo di Bergamo. Incitamenti ai suoi sacerdoti, 160.

Dottori Carlo. Il suo Aristodemo e quello del Monti, 394.

Du Casset A. I Mémoires du prince Eugène, 389.

Dumas Alessandro (figlio). La mercantessa nel suo Monsieur Alphonse, 189.

Durini Antonio. Fa parte del partito degli Italici puri, 285. — Podestà di Milano all'epoca dell'eccidio del ministro Prina, 293.

Economisti (Gli) italiani. Classica raccolta iniziata da Pietro Custodi, 53.

Effemeridi (Le) politiche. Periodico fondato da Melchiorre Gioia, 53.

Enrico IV. È il primo, per certezza storica, ad essere incoronato colla Corona Ferrea (1081), 237.

Estensore (L') Cisalpino. Fondato dal piacentino Poggi e sussidiato dal Direttorio, 55.

Fagnani Arese Antonietta. È amata dal Foscolo, 108. — Gherminelle di lei, 109.

Fauriel Carlo. Lettera direttagli dal Manzoni sui tragici fatti del 20 aprile 1814, 299. — Il Manzoni gli comunica la morte dell'amico Porta, 353.

Federigo Guglielmo, Re di Prussia. Si allea a Napoleone nella campagna di Russia, 258.

Fenice (Teatro di Venezia). Le rappresentazioni del coreografo e ballerino Salvatore Viganò, 79.

Ferdinando, Arciduca d'Austria. Fa tradurre in milanese dal Bellati l'Ode a Silvia del Parini, 29. — Governatore di Milano e provincia, 29. — Fugge a Bergamo e di là a Vienna, 37.

Fermieri. Così erano chiamati gli appaltatori del sale, dei tabacchi, delle poste, ecc.; loro malefatte, 11.

Ferrari Giuseppe. La Donna Fabia del Porta, 141. Studio [403] sulla letteratura dialettale e sul Porta, 370.

Filippo Prospero, Principe di Spagna. Come fu festeggiata nel 1618 in Milano la nascita di lui, 387.

Firmian Carlo Giuseppe, Governatore di Milano. È da Maria Teresa nominato ministro plenipotenziario, 5. — Suo assegno all'abate Passeroni, 21.

Fombio. Villaggio presso Lodi, dove si trincera il Bonaparte, 36.

Fontainebleau. Napoleone rinuncia alle corone di Francia e d'Italia e parte per l'isola d'Elba, 277.

Fontana Ferdinando. Poesie in dialetto milanese, 368.

Foscarini Iacopo Vincenzo. Sue poesie dialettali veneziane, 67. — È conosciuto dal Porta, 67.

Foscolo Giulio. Cede al fratello Ugo un capitaletto, 310. — Lo difende dalle malignità biografiche del Pecchio, 310.

Foscolo Ugo. Ode a Napoleone 35. — Collabora nel Monitore italiano, 56. — Loda il Giovannin Bongee, 95. — Suoi amori colla Bignami, 107. — Suoi amori colla Fagnani, 108. — Promette una tragedia per il Teatro Patriottico, 121. — Il bell'italo regno, 230, 245. — La viceregina d'Italia e il carme delle Grazie, 241. — È escluso dall'Istituto di scienze e lettere, 247. — Tenta di salvare il ministro Prina, 293. — Suo affetto alla famiglia Porta, 309. — Lettere a Gaspare Porta, 310. — Sua corrispondenza con Carlo Porta, 311. — L'Ipercalisse, 311. — Suo soggiorno a Londra, 312. — La sua più allegra lettera, 313. — Epigramma contro Giuseppe Bossi, 321. — Suo soggiorno a Blevio, 325. — L'orazione per il Comizio di Lione, 385.

France (La) vue de l'armée d'Italie. Giornale fondato da Napoleone per preparare l'opinione pubblica all'assassinio di Campoformio 58. — Dove si stampava in Milano, 59.

Francesco I, Imperatore d'Austria. Brindisi di Meneghino all'imperatore, 178. — Alleato di Napoleone contro la Russia, 258. — Vuole riacquistare la Lombardia, 286. — Invia l'arciduca Giovanni a prendere possesso della Lombardia in Milano, 295. — Suo solenne ingresso in Milano, 298. — Il Monti inneggia al nuovo padrone col Ritorno di Astrea, 353.

Franco-Muratori. Associazione sciolta da Maria Teresa, 20. — Riconosciuta da Giuseppe II, 20. — Sua sede nel vicolo Pusterla, 154.

Freganeschi (consigliere). Congiura contro Napoleone I, 284. — In sua casa si prepara una sommossa popolare, 285.

Gaisruck Carlo Gaetano, Cardinale e Arcivescovo di Milano. Suo giudizio sul Miserere del Porta, 157. — Bandisce i preti scagnozzi da Milano, 158.

Galvagna Francesco, Prefetto di Venezia. Sue discordie col generale francese Serras, 69.

Gambarana Giuseppe. Cospira per il ritorno degli Austriaci in Milano, 284.

Garioni P. Alessandro. Parafrasa in milanese la Batracomiomachia, 360.

Gazzetta (La) di Lugano. Pubblicata dal Veladini, 32.

[404]

Gazzetta (La) di Milano. Organo ufficiale del governo austriaco, 331. — Baruffe letterarie, 338.

Gazzetta (La) Nazionale. Fondata da Melchiorre Gioja, 53.

Genova. Soggiorno del Porta e suo giudizio sulla città, 209.

Gherardini Carlo. Combatte il Romanticismo, 335. — Suo insolente opuscolo in versi contro il Porta, 341.

Ghislieri Domenico. Suoi oscuri maneggi per il ritorno degli Austriaci in Milano, 284.

Giansenismo. Preti giansenisti nelle campagne milanesi, 224.

Gioja Melchiorre. Dirige in Milano vari giornali, 56. — Sue opere statistiche, 247.

Giordani Pietro. Sul sonetto del Porta L'abbaa Giovan, 334. — Disprezza i poeti dialettali e i dialetti, 334.

Giornale delle Dame e delle mode di Francia, del 1786, in Milano, 384.

Giornale (Il) rivoluzionario. Sorge ed è subito soppresso, 54.

Giornali della Repubblica Cisalpina, 49 e seg.

Giornali (I) di Milano all'epoca della invasione francese, 49 e seg.

Giovanni, Arciduca d'Austria. Sconfigge il principe Eugenio nel 1809 sull'Isonzo, 250. — Viene a Milano a ricevere il giuramento di fedeltà (maggio 1815) per incarico di Francesco I, 295. — Il Monti scrive per lui Il mistico omaggio, 353.

Giovio Benedetto. Suo contegno eroico nella campagna di Russia, 264.

Giovio Cecchina. Suo procelloso amore col Foscolo, 325.

Giovio Paolo. È decorato della croce della Legione d'onore nella campagna di Russia, 264.

Gironi Robustino, anti-romantico. Non approva, come censore, l'epigrafe del De Cristoforis per la tomba del Porta, 363.

Giscardi Giacomo. Suo manoscritto sull'Origine e fasti delle nobili famiglie di Genova, 393.

Giuseppe II, Imperatore d'Austria. Succede alla madre Maria Teresa, 19. — Sue innovazioni nello Stato di Milano, 20. — Abolisce le pensioni, 21. — Sua morte, 23.

Giusti Giuseppe. Gareggia col Porta nella Vestizione, 369. — Dal Manzoni è chiamato «il Porta toscano», e il Giusti se ne dice indegno, 369.

Goldoni Carlo. Alloggia in Milano all'albergo del Pozzo, 10. — La donna nelle sue commedie, 185. — I cicisbei nella commedia Il Cavaliere e la Dama, 194.

Grande (La) Armata. Campagna di Russia, 258.

Gran (La) Torr de Babilonia. Almanacco in dialetto milanese, 65.

Grassini Giuseppina, celebre cantante. Nasce a Varese, 131. — È protetta dal conte Alberico Barbiano di Belgioioso, 132. — Si rivela alla Scala nell'opera Giulietta e Romeo, 132. — Suo motto contro un evirato fatto cavaliere da Napoleone, 130. — Sue vicende drammatiche: è presa dai briganti ch'ella chiama ces chères assassins, 133. — Suo amorazzo con Napoleone I, 133. — Altri ancora, 134. — Rivale della Bellington, 134. — Canta a Venezia, dove si narrano suoi amori lesbici 135. — Assiste da vecchia alle epiche Cinque giornate di Milano, 135. — Sua [405] madre, 131. — Suo ritratto in miniatura, 133. — Dono fattole da Napoleone I, 133. — È sepolta nel cimitero di S. Gregorio, 136.

Gregorio (San) Magno. Dona la Corona Ferrea, che si venera a Monza, alla Regina Teodolinda, 236.

Grossi Giuseppe. Concede le lettere del Porta dirette al padre suo Tommaso, 379.

Grossi Tommaso. Loda il Giovannin Bongee, 95. — Sonetto del Porta a lui attribuito, 155. — Ritrae il carattere del Porta, 215. — Amicizia col Porta, 216. — Riunioni letterarie alla Cameretta, 217. — Lettera al Porta, 219. — Lettera amena indirizzatagli dal Porta, 219. — Suo zio nemico dei versi, 223. — Giansenismo in campagna, 224. — Leva la voce contro l'eccidio del Prina, 300. — La Prineide, 301. — Si confessa autore della Prineide, 303. — È posto in prigione, 304. — Nuove testimonianze di affetto al Porta, 304. — La comi-tragedia Giovanni Maria Visconti in collaborazione col Porta, 104, 305. — Pranzo dei romantici, 330. — Combatte il classicismo, 331. — Il poemetto la Pioggia d'oro, 331. — Corrispondenza col Porta sulla guerra romantico-classicista, 340. — Affettuoso incoraggiamento al Porta, 342. — Suo dolore per la morte dell'amico Porta e parole pronunziate sul feretro di lui, 354. — I manoscritti del Porta raschiati, 362. — Posto del Grossi fra i poeti milanesi, 368. — Le sestine in morte del Porta, 374. — Novella boccaccesca I bragh del confessor, 381.

Guardia civica. Domanda di difendere il Senato, 288. — Interviene tardi nell'eccidio del Prina, 294.

Guerrazzi Domenico. Suo elogio di Cosimo del Fante, 265. — L'Asino, 186.

Guicciardi Diego. Fa parte della deputazione senatoriale inviata all'imperatore d'Austria, 286. — Sua contestazione in Senato, 286. — Deputato all'imperatore d'Austria è richiamato, 288.

Guttieri Violante. La buona madre del Porta travagliata dalla gotta, 15.

Heyse Paolo. Sua novella sugli amori delle donne mature con amanti giovani, 86.

Heine Enrico. Sue parole in punto di morte, 350.

Hugo Victor. A proposito del dramma Giovanni Maria Visconti, 307.

Il Senza titolo. Giornale repubblicano, fondato dal libraio Barelle, 54.

Imbonati Carlo. Si fa socio della Patriottica, 107. — Immortalato dal Manzoni nel noto carme, 20, 325. — Bassa origine degl'Imbonati, 12.

Imbonati Sannazzari Maddalena. Aiuta negli studi Tommaso Bianchi, patriotta della Giovane Italia, 325.

Inzago. Vi muore settuagenario il cantante evirato Luigi Marchesi, il fondatore del Pio Istituto Filarmonico, 129 (V. anche a pag. 154).

Istituto di scienze e lettere, fondato da Napoleone I, 247.

Istituto (Pio) Filarmonico, fondato e dotato dal cantante Luigi Marchesi, 129.

[406]

Italiani (Gli) nella guerra di Russia. Sono comandati da Eugenio Beauharnais, 254. — Loro eroiche geste, 259 — Loro sofferenze, 260. — Il 111º reggimento composto di Piemontesi, 260. — La battaglia di Malo-Jaroslawetz, 261. — Nuovi eroismi italiani, 263. — La battaglia della Moscowa, 264. — La disastrosa ritirata, 269. — I nostri riportano a Milano incolumi le aquile imperiali loro affidate nel 1805, 272.

Jullien Gio. Francesco. Dirige il giornale La France vue de l'armée d'Italie, 58. — Il trattato di Campoformio, 59.

Kirkhoff (De) G. R. L. Orrori della campagna di Russia, 266. — L'incendio di Mosca, 268. — La sua storia delle malattie osservate alla Grande Armata francese, 391.

Körner Teodoro. Il «Canto della Spada», 276.

Lamberti Antonio, poeta vernacolo veneziano. Le «Stagioni campestri e cittadinesche» negli almanacchi veneti, 64. — La sua celebre Biondina in gondoleta, musicata da S. Mayr, 67.

Lampugnani Giambattista. Suo soprannome nel Collegio dei nobili, 380.

Lamy, generale austriaco. Abbandona con le sue truppe Milano, 39.

Landriani Paolo. Sue opere scenografiche, 247.

Lattanzi Giuseppe e Carolina. Dirigono il giornale milanese Il Corriere delle Dame, 384.

Lattuada (Famiglia). Acquista il blasone salendo dal volgo, 8

Lavapiatt (El) de Meneghin ch'è mort. Almanacco del 1792, in dialetto milanese, 65.

Lechi Teodoro. Comanda parte dell'esercito italiano in Russia, 258.

Legorin Giacomo, brigante. Citato nelle Olter disgrazi de Giovannin Bongee, 193.

Lemmi Francesco. L'eccidio del Prina nel suo libro La restaurazione austriaca a Milano nel 1816, 391.

Lenin. Vezzeggiativo dato alla bellissima Maddalena Bignami Marliani, 108.

Leoni Carlo, letterato di Padova, Suo giudizio sulla cantante Grassini, 132.

Leopoldo II, Imperatore d'Austria. Sale al trono, 23. — Ripristina le istituzioni paesane, abolite da Giuseppe II, 23.

Likatcheff, generale russo. È disarmato dal livornese Cosimo Del Fante a Barodino, 265.

Lione. Sede della Consulta straordinaria di 452 notabili italiani convocati da Napoleone, 198.

Lipsia. Teatro della sanguinosa battaglia, detta la battaglia delle nazioni (16-19 ottobre 1813), 276.

Litta (Famiglia). Aneddoto di casa Litta, 150.

Litta-Castiglioni Paola. Nobile amica del Parini, 380.

Lodi. Battaglia vinta da Napoleone al ponte di Lodi, 36.

Lomazzo Giovanni Paolo. Sue poesie in dialetto della Val di Bregno, 369.

Londonio (Sorelle). Nella loro casa si radunano i classicisti e vi domina Vincenzo Monti, 331. — Vi si reca in conversazione anche il [407] Porta, 379. — Ad Angiolina Londonio, il Porta dirige la poesia El Romanticismo, 332.

Londra. Vi dimora il Foscolo: suoi imbarazzi economici, 312.

Longfellow Enrico. La leggenda di Fra Felice, 170.

Longhi Giuseppe, celebre incisore. Sue ostilità contro il pittore Giuseppe Bossi, 323.

Luigi XIII, Re di Francia, Introduce l'uso delle parrucche, 31.

Luigi XVI, Re di Francia. Suo supplizio, 27. — Nel teatro alla Scala si festeggia l'anniversario del supplizio del Re, 128.

Luigi XVIII. È proclamato re di Francia dal Senato, 277.

Luosi Giuseppe. Eletto presidente del Direttorio della Repubblica Cisalpina, 385.

Macdonal Giacomo. Napoleone lo mette al fianco del principe Eugenio dopo la sconfitta di Sacile, 251.

Maggi Carlo Maria. Uno dei maggiori poeti milanesi, 368. — È eletto segretario del Senato 21. — La donna Quinzia, 141. — La commedia I consigli di Meneghino, 151. — La vita nei monasteri, 162. — Crea la maschera di Meneghino, 173. — Italianità dei Maggi, 231. — Le sue commedie e i suoi principii democratici, 174, 369.

Mai Angelo, Cardinale. Scopre cimelii di classici antichi, 214.

Malo-Jaroslawetz (Russia). Gloriosa giornata campale dell'esercito d'Italia, 261.

Mantegazza Paolo. Sul carattere e sulla gelosia del Porta, 85.

Mantova. Vi soggiorna il Porta per una ispezione al dipartimento del Mincio, 213.

Mantovani Luigi, canonico, diarista. Suo diario manoscritto nell'Ambrosiana, 351. — Notizie sul Blocco continentale, 252. — Ferimento del colonnello inglese Brown, 351. — Le condanne contro i Carbonari, 352.

Manzoni Alessandro. Suo titolo nobiliare, 12. — Narra la demagogia di Vincenzo Monti, 64. — Sue lodi del Giovannin Bongee del Porta, 95. — Ricordi sulla società demagogica di Via Rugabella, 44. — La morte del Parini e la vendita dei manoscritti e dei libri di lui, 138. — I «preti di casa» e Don Abbondio, 161. — La Monaca di Monza, 162. — Senso amaro dei Promessi Sposi, 186. — Il poema rimato L'innesto del vaiuolo, 203. — Dedica a Tommaso Körner l'ode storica Marzo 1821, 276. — Suo strano giudizio sulla rivoluzione dell'aprile 1814, 299. — Suo ricordo sull'assalto del palazzo Prina, 300. — Soggiorna a Blevio e vi scrive l'Ira di Apollo, 326. — Combatte il classicismo, 331. — È difeso dal Porta e dal Grossi contro gli anti-romantici, 335. — Sua dimora a Parigi e sua amicizia con Carlo Fauriel, 336. — Suo giudizio sul Porta. 337. — Suo dolore per la morte del poeta, 353. — Suo disprezzo per la Gerusalemme liberata del Tasso, 359. — Sua urna nel Pantheon dei milanesi illustri, 364. — Ricorda per tutta la vita il suo Carlo Porta, 375. — Il suo carteggio pubblicato a cura di G. Sforza e G. Gallavresi, 392. — Lettera pubblicata da R. Barbiera, 392.

[408]

Marchesi Luigi, celebre cantante soprano. Sua generosità e sua fiera risposta al generale Mioillis, 129. — La sua casa nel vicolo Pusterla, 154.

Marchesi Pompeo, scultore. Suo monumento a Giuseppe Bossi nella Biblioteca Ambrosiana, 323. — Scolpisce il busto di Carlo Porta, 365.

Marengo. Il Bonaparte vi sconfigge gli Austriaci il 14 giugno 1800, 101.

Marescalchi Ferdinando. È inviato a Milano da Napoleone I, come suo emissario, 228.

Maria Luisa, Arciduchessa d'Austria, Imperatrice di Francia. Moglie di Napoleone I e madre del re di Roma, 287.

Maria Teresa, Imperatrice d'Austria. Regna sulla Lombardia, 5. — Sopprime l'Inquisizione, 6. — Blasone domandatole dai fermieri, 7. — Sua morte, 19. — Un borghese creato nobile da lei e accoglienza in casa Litta a costui, 150.

Marino Niccolosio. Uccide la moglie per gelosia, 25.

Marino Tommaso. Viene a Milano da Genova, 393. — Fa costruire il palazzo attualmente sede del Comune di Milano, 393.

Marliani Maddalena, chiamata Lenin. Sposa il ricco banchiere Paolo Bignami, 107. — È ammirata da Napoleone al Teatro della Canobbiana, 107. — Suo amore col Foscolo, 325.

Marliani Rocco, padre della predetta, 108.

Maroncelli Pietro. Pagine sull'eccidio del Prina, nelle Addizioni alle Mie prigioni del Pellico, 392.

Mascheroni Lorenzo, matematico, ellenista e poeta, 246.

Masnadieri. Infestano le campagne milanesi e Milano, 7, 351.

Massarani Tullo. Sulla antica nenia popolare «Ara bell'Ara», 393.

Massena Andrea. Entra in Milano con l'avanguardia dell'esercito francese e fa un discorso, 41. — Interviene alla festa di ballo data dalla Società filarmonica insieme con la propria amante, 152. — Parte da Milano, arricchito, 197.

Massoneria. I frammassoni a Milano, 353. Vedi anche: Carbonari; Franco-Muratori.

Mellerio Giacomo. Arrabbiato partigiano dell'Austria contro Napoleone I, 284.

Melzi (Duca) Francesco. Va incontro al Bonaparte vincitore, 37. — È eletto vice-presidente della Repubblica italiana, 199. — Torna dall'esilio a Milano festosamente accolto, 200. — Dà un ballo ufficiale, 205. — Suo decreto sull'Arauco, 207. — Va a Parigi invitato da Napoleone, 229. — Gran cancelliere, guardasigilli del Regno italico, 280. — Napoleone vorrebbe dargli in moglie la sorella Paolina, 280. — Ignora tutto l'odio dei milanesi per il Prina, 283 — Sua grave malattia, 283. — Messaggio al Senato, 286. — Sua notizia sulla proclamazione della Repubblica italiana, 388.

Meneghin Peccenna. Almanacco in dialetto milanese, 65.

Meneghino. Maschera creata dal poeta Carlo Maria Maggi, 173. — Donde ne viene il nome, 179. — Come parlava ai suoi padroni, 181. — Mancanza di una compiuta monografia su di lui, 393.

Meneghino (Il) critico. Almanacco [409] in versi milanesi del Sommaruga, 65.

Metastasio Pietro. Le dame milanesi cantano le sue poesie, 166.

Metternich Clemente (Principe di). Suo memorando colloquio con Napoleone, 227.

Milano. Fervore di nuova vita al tempo di Carlo Porta, 1. — È gelosa del suo poeta, 4. — Monumenti al Porta, 4. — Clamoroso supplizio, 6. — I fermieri, 7. — I masnadieri, 7, 351. — Vie e piazze, 8. — Illuminazione, 8. — Alberghi, 10. — Parrocchia di San Bartolommeo, 11. — Morte di Maria Teresa, 19. — I giuochi d'azzardo, 21. — Lo riforme di Giuseppe II e malcontento che suscitano in Milano, 22. — Morte di Giuseppe II, 23. — Leopoldo II accoglie i reclami dei Milanesi, 24. — Interno delle famiglie milanesi, 24. — Incendio del teatro di Corte, 25. — Prima ascensione aerostatica, 26. — I cantastorie, 27. — Libri e mode francesi, 28. — Abolizione delle parrucche, 30. — La Gazzetta di Lugano, 32. — Manifesti incendiari contro i nobili, 33. — Terrori per l'annunciata invasione francese, 34. — Ingresso dei Francesi, 36. — Napoleone entra trionfalmente in Milano, 38. — La Repubblica Cisalpina, 39. — Spogliazioni, 40. — Tentativo di sommossa, 40. — Supplizi di cittadini, 40 — Feste repubblicane, 42. — Alberi della libertà, 43. — Il club di piazza della Rosa, 44. — La guglia del Duomo, 45. — Giornali e sconce pubblicazioni volanti, 49. — Almanacchi milanesi, 65. — Celebrazione repubblicana in piazza del Duomo, 90. — La bandiera tricolore, 5 luglio 1797, 90. — Saccheggi di cimelii ed opere d'arte, 91. — Soprusi militari sui cittadini, 94. — L'invasione austro-russa e il generale Suvaroff, 97. — I cosacchi per le vie, 99. — Quadro delle ricchezze milanesi, 101. — Glorioso ritorno di Napoleone, 101. — Il teatro Patriottico, poi dei Filodrammatici, 103. — Le società filodrammatiche, 104. — Il teatro Repubblicano, 105. — I reduci dalla prigionia austriaca accolti festosamente, 114. — La chiesa dei Santi Cosma e Damiano diventa un teatro, 117. — Il teatrino del Gambero, 123. — Il teatro ufficiale: alla Scala, 125. — La nefanda serata alla Scala del 21 gennaio 1799, 128. — I cantanti evirati, 129. — Il Pio Istituto Filarmonico, 129. — Lady Morgan a Milano, 149. — Le case patrizie, 150. — Le signore milanesi e i patiti, 153. — I preti scagnozzi, 157. — La chiesa di Santa Prassede, 163. — Santa Maria della Pietà, detta la Guastalla, 163. — Via Quadronno, 183. — Milano nell'anno 1813, 192. — Trasformazione della città, 195. — Stragi del vaiuolo e la vaccinazione, 203. — Milano si diverte, 205. — Il Monte Napoleone, 213. — Abbattimento degli alberi della libertà, 229. — Istituzione del Regno d'Italia, 230. — Ingresso solenne di Napoleone I, 234. — Contegno poco espansivo dei milanesi, 235. — Solenne incoronazione nel Duomo, 236. — Ballo in onore del re e della [410] regina d'Italia, 238. — Feste per la coppia vicereale, 242. — Milano è a capo della civiltà italiana, e capitale del Regno italico, 243, 244. — Costruzione dell'Arena e banchetto a 3000 soldati, 244. — Uomini illustri del periodo del Regno italico, 245. — Nuovi istituti ed accademie, 247. — Il popolo milanese all'epoca della massima potenza di Napoleone, 249. — Eclisse di sole dell'11 febbraio 1804, 249. — La Cascina dei pomi, 251. — Il blocco continentale contro l'Inghilterra, 252. — Milanesi nell'esercito napoleonico per la campagna di Russia, 254. — Feste in Milano per le vittorie napoleoniche in Russia, 254. — Nostri eroi nella guerra di Russia, 259. — Gli italiani riportano incolumi le aquile dorate loro affidate da Napoleone I, 272. — Al domani del disastro di Russia, 273. — Ritorno di Eugenio a Milano, 274. — Condizioni della sicurezza pubblica ed estorsioni francesi, 279. — Villeggiature dei nobili e dei cittadini, 281. — La casa del Prina in Piazza S. Fedele, 290. — Tragica giornata del 20 aprile 1814, 288. — Ritorno degli Austriaci a Milano, 295. — Ingresso dell'arciduca Giovanni, 295. — Francesco I a Milano, 298. — Soggiorno di Antonio Canova, 322. — La casa del conte Porro in Via dei tre Monasteri, 328. — Giornali pro e contro il Romanticismo e il Classicismo, 338. — Progetto di torre monumentale a Napoleone, 344. — Gravi fatti del 6 gennaio 1821, 350. — La Compagnia della Teppa, 382. — Leva militare, 353. — Stato deplorevole dei cimiteri, 363. — Pantheon dei Milanesi illustri, 364. — Statua del Porta ai giardini pubblici, 366. — Poeti milanesi antichi e moderni, 367. — Il dialetto milanese odierno, 370. — Trasformazione del dialetto milanese, 372. — Abitanti di Milano al tempo del Regno italico, 394. — Ortografia milanese, 394.

Milano, Archivio di Stato: Documenti riguardanti gl'impieghi del Porta, 345. — Atto originale della costituzione della Repubblica italiana, 388. — Biblioteca Ambrosiana: Raccolta degli almanacchi milanesi, 65. — Curiosità bibliografiche, 120. — Il diario del Canon. Mantovani, 252, 351. — Monumento di Giuseppe Bossi, 323. — Manoscritto di versi inediti del Porta, 346. — I manoscritti Portiani, 379. — Satira manoscritta contro il Parini, di anonimo, 383. — Biblioteca Braidense: Le note autobiografiche di Giuseppe Bossi, 320. — La sala manzoniana, 337. — Manoscritti del Porta, 379. — La miscellanea, ex laboribus, di Padre Benvenuto, 380. — Biblioteca Trivulziana: Manoscritti Portiani, 379. — Sonetto inedito o raro del Porta, 380. — Chiesa delle Grazie: Quadri di Tiziano e di Gaudenzio Ferrari spediti dai Francesi a Parigi, 388. — Chiesa di San Babila: Parrocchia nella quale morì il Porta, e funerale celebratovi in suffragio di lui, 354. — Chiesa di San Bartolommeo: Parrocchia nella quale nacque il Porta, 11. — Chiesa di S. Celso: Quadro del [411] Procaccini rubatovi dai Francesi, 388. — Museo Portiano: Lettere del Foscolo ivi conservate, 309. — Sua sede, 381. — Porta Comàsina: Cimitero dove furono sepolti G. Parini e C. Beccaria, 139. — Vi fu sepolto anche lo sventurato ministro Prina, 294. — Abitanti di Milano, 394. — Porta Garibaldi: Cimitero della Moiazza dove fu sepolto V. Monti, 364. — Porta Marengo (ora Ticinese): Fu così denominata per l'ingresso di Napoleone I, 234. — Porta Nuova: I suoi abitanti nel 1810, 394. — Porta Riconoscenza (già Porta Orientale), 259. — Porta Romana: Ingresso dell'avanguardia dell'esercito francese comandato dal Massena, 37. — Porta Ticinese (già Marengo): Vi fu fucilato Domenico Pomi, 40. — Ingresso in Milano di Napoleone, 394. — Porta Venezia (già Orientale): Il cimitero di San Gregorio dove furono sepolte e invano cercate le ossa di Carlo Porta, 384. — Porta Vercellina: Sua popolazione nel 1810, 394. — Teatro alla Scala: Festa per il ritorno di Napoleone, 102. — Il Ballo del Papa, 110, 126. — È il teatro ufficiale di Milano, 125. — Costruito sul disegno dell'architetto Piermarini, 125. — La nefanda serata del 21 gennaio 1799, 128. — La vittoria di Marengo alla Scala il 15 giugno 1800, 128. — Giuseppina Grassini canta nella Giulietta e Romeo, 132. — Il Museo teatrale, 133 e 136. — La Scala e Carlo Porta, 137. — Quartiere generale dei fatti del giorno, 137. — Festa di ballo in onore del Melzi, 201. — Rappresentazione in onore della coppia vicereale, 242. — È diretto durante il periodo repubblicano da Franceso Salfi, 389. — Uno stemma e il conte Porro, 389. — Teatro Patriottico (poi dei Filodrammatici): Carlo Porta è accettato e annoverato fra i fondatori, 103. — Sue vicende, 103. — Rappresentazione della Virginia dell'Alfieri, 106. — Album dei benemeriti, 107. — Vi recita Teresa Pikler moglie del Monti, 113. — Rappresentazione in onore dei patriotti reduci dalla prigionia di Sebenico e di Cattaro, 113. — Abito della Cicognara donato dal Direttorio, 115. — Prende il nome di Accademia dei Filodrammatici, 116. — Teatro dei Filodrammatici, o Filodrammatico: Sorge sull'area occupata dalla soppressa chiesa dei Santi Cosma e Damiano, 117. — Ne è architetto il folignate Piermarini, 117. — Sospensione della costruzione, 118. — Ripresa dei lavori, 118. — Sipario dell'Appiani, 119. — Parapetti delle loggie del Vaccani, 119. — Prima recita col Filippo dell'Alfieri la sera del 30 dicembre 1800, 119. — Vi recita la Pikler, 119. — Un curioso manifesto, 120. — Eugenio Beauharnais si fa socio dell'Accademia, 124. — La storica serata dell'Antigone, 124. — Teatro della Canobbiana: Recita della Virginia dell'Alfieri, 106. — I veglioni, 173. — Scena di gelosia di Marchionn di Carlo Porta, 187. — La comi-tragedia Giovanni Maria Visconti, 305. — Teatro di S. Pietro all'Orto: Vi ha sede [412] la Società Filodrammatica «Il Gambero», 104. — Teatro Manzoni: È costruito sul luogo dove esisteva la casa Imbonati, 300. — Teatro Repubblicano: Sua sede nel Teatrino del Collegio Longone, 105. — Napoleone assiste alla rappresentazione della Virginia dell'Alfieri, 106.

Milano Sacro. Il Porta amministratore di chiese, 163. — La tariffa sui rintocchi dell'agonia, 177. — La popolazione di Milano nel 1810, 394.

Mode: à la victime. Moda infame introdotta a Milano, 28. — Ode del Parini contro quella moda, 29.

Molina Francesco. La sua commedia I conti d'Agliate, 305.

Moltrasio. La villa dei conti Lucini-Passalacqua, dove soggiornò il Porta, 326.

Mombello (Villa di). Napoleone vi fonda la Repubblica Cisalpina, 39. — Vi ordisce il trattato di Campoformio, 39.

Monache. Interno di una casa di monache soppresse, 174. — Vita da loro condotta, 175. — Lo scandalo di un governatore pontificio, 176.

Monache Giuseppine. La zia Teresa del Manzoni e la monaca di Monza, 163.

Moncalvo Giuseppe. Sostiene al Filodrammatico la Maschera di Meneghino, 121.

Monitore (Il) Cisalpino. Vi collaborano i rifugiati politici di Milano, 58.

Monitore (Il) italiano. Vi collabora Ugo Foscolo, 56. — Aneddoto sul Foscolo, 57. — Nomi di scrittori del giornale, 58. — È soppresso, 59.

Monteggia Giambattista. Sua celebrità nella chirurgia, 246.

Monte Napoleone (Debito pubblico). Ufficio nel quale era impiegato il Porta, 213. — È riordinato da Napoleone I, 243.

Monti Vincenzo. Recita un sonetto al Club demagogico di via Rugabella, 46. — La Bassvilliana, 47. — L'Aristodemo concesso al teatro Patriottico, 121. — Il «gallico eroe», 201. — La versione della Pulcella d'Orléans, 212. — Illustra il Regno italico, 246. — Inneggia agli austriaci, 295. — Contro i romantici scrive il sermone Audace scuola boreal, 331. — Polemica coll'Acerbi, 338. — La Feroniade, 340. — È sospettato di carboneria, 353. — Vane ricerche delle sue ossa, 364. — Suoi vari uffici e sue mutevolezze politiche, 385. — Prima rappresentazione dell'Aristodemo a Roma, 394.

Monza. Collegio dei Gesuiti dove fu educato il Porta, 15. — La Corona Ferrea, 236.

Morgan (Lady) Sidney Owenson. Del duomo di Milano, 4. — Dei contadini estatici nel visitarlo, 46. — Costumi milanesi, 149. — Aneddotto di casa Litta, 150. — La casa Visconti, 153.

Moro Tommaso. Cancelliere d'Inghilterra, citato nei Diritti dell'uomo, 387.

Mortier Edoardo. Fa saltare in aria il Kremlino a Mosca, 268.

Moscati Pietro. Sua curiosa definizione dell'uomo, 233. — Grandeggia durante il periodo del Regno italico, 246.

Mosca. È incendiata dai Russi, 267. — Saccheggiata dalle truppe francesi, 268.

Moscowa. Tre giorni di battaglia degli Italo-Francesi contro l'esercito russo, 264.

Murat Giovacchino. Interviene ad una rappresentazione alla [413] Scala, 201. — Suoi intrighi, 201. — Comanda la cavalleria francese nella campagna di Russia, 258.

Muratori Lodovico Antonio. Si accinge a rifare la Storia italiana, 1.

Murger Enrico. Ballade du désespéré, 79, 374.

Nalin Camillo. Poeta dialettale veneziano, 67.

Napoleone I. Passa il Po, 34. — Sue vittorie a Montenotte, a Millesimo, a Diego, 35. — Battaglia di Lodi, 36. — Suo ingresso in Milano, 38. — Costituisce la Repubblica Cisalpina, 39. — Alloggia nel palazzo Serbelloni, poi in quello di Corte, 39. — Promulga la libertà della stampa, 49. — Fonda in Milano due giornali, 58. — Battaglia di Marengo, 87 e 101. — Saccheggi di opere d'arte e di cimeli, 91. — Frena la demagogia milanese, 92. — Il Direttorio milanese, 93. — Napoleone ritorna dall'Egitto e gl'invasori austro-russi fuggono, 101. — Rialza la Repubblica Cisalpina, 102. — Assiste ad una tragedia dell'Alfieri, 106. — Sua sorella Paolina, 111. — Festa al Teatro Patriottico per il suo onomastico, 124. — Altre vittorie napoleoniche, 126. — La vittoria di Marengo, 128. — Suoi amori colla Grassini, 130. — Vorrebbe essere l'Attila dei Veneziani, 195. — Ritorna padrone del Milanese, 196. — Convoca i Comizi di Lione, 198. — Fonda la Repubblica Italiana, 199. — Abile suo tratto, 200. — Rimette in onore la religione, 202. — Sua ambizione, 226. — Risposta al Metternich, 227. — È dal Senato francese eletto Imperatore, 228. — Sua incoronazione, 228. — Viene in Italia e sosta a Pavia, 233. — Suo solenne ingresso a Milano, 234. — Incoronasi Re d'Italia nel Duomo, 236. — Suo giubilo, 238. — Fonda l'ordine cavalleresco della Corona ferrea, 240. — Ordina che sia ultimata la facciata del Duomo, 240. — Suoi consigli ad Eugenio Beauharnais, 240. — Riforme e nuovi ordinamenti in Milano, 242. — Ordina la compilazione di nuovi Codici, 243. — Fonda in Milano Accademie, Istituti scientifici, il Conservatorio, la Scuola di ballo, 247. — Sua potenza, 249. — Nuova guerra e vittorie, 250. — Blocco continentale contro l'Inghilterra, 253. — Guerra di Russia, 254. — Prime vittorie, 255. — Suo disegno di abbattere lo Czar Alessandro, 256. — Come era formato l'esercito contro la Russia, 257. — La disastrosa campagna di Russia, 258 e seg. — La terribile ritirata, 269. — Napoleone raddoppia le sue energie dopo il disastro, 275. — Sconfitta di Lipsia, 276. — Nuove vittorie, 276. — Il primo esilio, 277. — Oltraggi durante il viaggio per l'Elba, 277.

Nava Francesco. Vicario di provvisione, ordina un triduo in S. Celso, 34. — Presenta al General Massena le chiavi di Milano, 37.

Niccolini Giambattista. L'Arnaldo da Brescia, 368.

Nobiltà. A quanto si comperava, 8. — Nobili-plebei, 8.

Ombra (L') del Balestrieri in cerca de la verità. Almanacco del 1800 in dialetto milanese, 65.

[414]

Omodei (Famiglia). Trae la sua origine da un pastaro di grosso, 8.

Oriani Barnaba, astronomo. Sua umile origine, 246. — Rifiuta il giuramento alla Repubblica, 246.

Origoni Francesco. Sua originalità, 393.

Ortografia milanese. Varia nei diversi poeti dialettali, 394.

Ovina, buono e calunniato prete, nel lavoro poetico del Porta La guerra di pret, 357.

Pacciarini Giuseppe, l'anzian del Duomo. È fucilato dai Francesi, 41.

Pacetti Camillo. Sue statue nel Duomo, 246.

Padova. Vi soggiorna Carlo Porta colla Corner, 78.

Palatina (La). Possente associazione sorta per rifare la storia d'Italia, 1.

Paletta Giov. Battista. Suoi studi anatomici, 246.

Paradisi Giovanni. Sua recitazione al Teatro Filodrammatico in onore di Eugenio Beauharnais, 124.

Parigi (Biblioteca Nazionale di). Manoscritti del Porta, 176 e 379.

Parini Giuseppe. Schernisce l'aristocrazia decadente, 1. — Sue poesie, 2. — Legislatore morale, 3. — L'ode del Bisogno, 3. — Descrizione delle carrozze nel Giorno, 10. — La salubrità dell'aria, ode, 11. — Amicizia col Passeroni, 22. — Suo sonetto milanese El magon dii damm de Milan, 26 e 28. — Ode a Silvia, 29-30. — Socio della Patriottica, 107. — L'inclita Nice, 108. — Sua morte, 138. — Dispersione delle sue ossa, 139. — Il Mezzogiorno, 194. — Versi al dott. Bicetti sull'innesto del vaiuolo, 203. — Sonetto in morte del curato Ciocca, 249. — Di nuovo dell'Ode a Silvia, 382. — Satira contro di lui, 384.

Parrucche (Abolizione delle), 31.

Passerini, curato di Ramponio. Si ribella a Napoleone ed è decapitato, 159.

Passeroni Gian Carlo, poeta. Giuseppe II gli toglie la pensione, 21. — Il suo poema Il Cicerone, 22. — Sua amicizia col Parini, 22. — Il suo gallo, 22.

Pasta Giuditta. Possiede una villa a Blevio sul lago di Como, 325.

Pastò Lodovico, poeta veneziano. Sua satira sui costumi femminili, 178.

Patriottica (La). Forte associazione sorta per infondere aliti nuovi alle industrie, 1.

Pecchio Giuseppe. Finanziere del periodo del Regno italico, 247.

Pelagatti Cesare. Comunica la costituzione della Repubblica italiana, 388.

Pellico Silvio. Fonda il Conciliatore, 55. — Consiglia drammi di argomento patrio, 305. — In casa Porro, 329. — È arrestato come carbonaro, 352.

Pellini Silvio. La sua opera Il general Pino e l'eccidio del ministro Prina, 392.

Pepe Florestano. Prende parte alla campagna di Russia, 259.

Peraldi, Colonnello. Suo valore nella campagna di Russia, 263.

Perini, Conti di Bresso. Derivano dall'oste alli tre Scagni, 8.

Pergami Bartolommeo. Amorazzi colla Principessa di Galles a Cernobbio, sul lago di Como, 326.

[415]

Perticari Costanza. Lapide alla memoria del padre suo Vincenzo Monti, 364.

Perticari Giulio. Suocero del Monti, 353.

Pertusati Francesco. Poeta dialettale milanese, 370.

Pezzi Francesco. Direttore della Gazzetta di Milano, 331. — Difende i classicisti contro i romantici che ingiuria, 335.

Pezzoli (Famiglia). Suo palazzo in Milano, 14. — Suo erede il conte Sannazzari, 323.

Piantanida (Famiglia). Acquista il blasone salendo dal volgo, 8.

Piazza dei Mercanti. Vi ha luogo un falò di merci inglesi all'epoca del blocco continentale, 253.

Piazza S. Fedele. Vi sorgeva la casa del Ministro Prina, 290. — Assalto della plebe, 291.

Picozzi Antonio. Poeta in dialetto milanese, 368.

Piermarini Francesco, architetto. Costruisce il teatro della Canobbiana, la Villa reale di Monza, il Palazzo Belgioioso e il teatro alla Scala, 117 e 125.

Pikler Teresa, moglie a Vincenzo Monti. Recita al Filodrammatico, 113. — Sostiene la parte di Isabella nel Filippo dell'Alfieri la sera del 30 dicembre 1800, 119. — Recita nella Teresa la Vedova, 122. — Lapide alla memoria del marito Vincenzo Monti, 364.

Pino Domenico, Generale. Comanda una parte dell'esercito italiano in Russia, 258. — Suo alterco col vicerè Eugenio, 262. — Protesta contro il Senato, 285. — Sua scellerata inerzia durante l'eccidio del Prina, 291.

Pio VI (Braschi). Turpitudini contro di lui, 127.

Pio VII (Chiaramonti). Accetta il concordato con Napoleone, 202. — Incorona Napoleone Imperatore dei Francesi, 228.

Pion des Loges. Narrazione del saccheggio di Mosca, 269.

Pirola (Fratelli). Stampano il giornale Il Corriere di gabinetto, 386.

Pirona Antonio. Cantore evirato, 388.

Pivelleria. Etimologia della parola, 104. — Accorre alle rappresentazioni delle società filodrammatiche, 104.

Poligrafo (Il). Giornale fondato dall'ex-chierico Lampredi, 338.

Politecnico, periodico di scienze. Fondato da Carlo Cattaneo, 51. — Lettera amena del Porta a Tommaso Grossi, 219.

Pomi Domenico. È fucilato dai Francesi il 26 maggio 1796, 10.

Poniatowski (Principe) Giuseppe. Alleato di Napoleone nella campagna di Russia, 257.

Pontremoli. I suoi preti scagnozzi, 157.

Porro Edoardo, illustre ginecologo. Esamina il presunto scheletro di Carlo Porta, 365.

Porro Ferdinando, Prefetto sotto Napoleone I. Narra al Manzoni la venuta del Monti a Milano, 50.

Porro Gaetano, Ministro di Polizia. Istituisce la bandiera tricolore, 90. — Crociata contro gli stemmi, 152. — Uno stemma in un palco al teatro della Scala e analogo tafferuglio, 389.

Porro Luigi. È uno dei fondatori del Conciliatore, 55. — La sua casa in Via dei tre Monasteri, 328. — Un banchetto romantico, 330. — Arresto di Silvio Pellico in sua casa, 352. — Per mente equilibrata e coltura [416] supera Federico Confalonieri, 390.

Porta, Padre Domenicano. Dotto orientalista, non apparteneva alla famiglia di Carlo Porta, 14.

Porta Anna Alessandrina. Figlia di Carlo Porta, 209. — È prediletta dal Foscolo, 315.

Porta Baldassarre. Fratello di Carlo e suo compagno in famiglia, 34.

Porta Carlo. Carattere della sua poesia, 2. — Confronto col Parini, 3. — Culto di Milano per il Porta, 4. — Memorie, 5. — Atto autentico di nascita, 11. — Non era nobile, 12. — Sua famiglia, 13. — Suoi studi, 15. — Prime poesie, 16. — Va ad Augusta, 17. — Suo ritorno a Milano, 18. — Comincia la traduzione in dialetto milanese dell'Ode a Silvia del Parini, 29. — Versi sui demagoghi, 47. — Va a Venezia, 60. — Suo impiego e sue sofferenze, 61. — Influenza dei poeti veneziani, 64. — Amici del poeta, 66. — Nessuna memoria di lui a Venezia, 71. — Amore con Adriana Diedo-Corner, 72. — Auto-ritratto del poeta, 72. — Un rivale, 74. — Imprudenti confidenze, 76. — Traviamenti, 78. — Stato finanziario del Porta, 79. — Abbandona la Diedo-Corner, 81. — Come amava il Porta, 84. — Un'avventura di gelosia, 85. — Impieghi pubblici tenuti dal Porta, 87. — Sue vicende burocratiche, 88. — Aneddoto, 89. — Torna da Venezia a Milano, 90. — Giovannin Bongee, 93. — È uno dei fondatori del Teatro Patriottico e di quello dei Filodrammatici, 103. — Lettera del poeta sui reduci dall'Austria, 115. — Il Porta attore, 121. — Carlo Porta alla Scala, 137. — La sua Donna Fabia, 140. — La «Lilla», 144. — Come fu composta la Nomina del Cappellan, 143. — Satire contro i preti, 155. — El Miserere, 156. — Le sue monache, 162. — Amministratore di chiese, 163. — Ciurmería di un frate, 164. — La novella Ona vision, 165. — Altre quattro saporite novelle, 168. — Fraa Zenever, 168. — Fraa Diodat, 169. — El viagg de Fraa Condutt, 170. — I sett desgrazi, 172. — Meneghin biroeu di ex monegh, 174. — Brindes de Meneghin a l'ostaria, 177. — La comi-tragedia Giovanni Maria Visconti e Meneghino. 180. — Il capolavoro del Porta: Lament del Marchionn di gamb avert, 183. — La Ninetta del Verzee, 188. — Le Olter desgrazi de Giovannin Bongee, 192. — Salace sonetto sull'innesto del vaiuolo, 203. — Suo matrimonio, 208. — I figli del Porta, 209. — Sua moglie e vita familiare, 209. — Villeggiature, 209. — Viaggio a Genova, 209. — Lettere alla moglie, 210. — Sonetto al Monti, 211. — Suo nuovo impiego, 212. — Altri uffici, 213. — Cassiere al Monte Napoleone, 213. — Sua suocera, 214. — Carattere del poeta, 215. — Amicizia col Grossi, 216. — Riunioni letterarie dette «la Cameretta» 217. — Come recitava i propri versi, 218. — Sulla cima del Duomo, 221. — Poeta morale, 223. — Il sonetto della remissione, 232. — Sua apatia, 233. — Giudizio del Cantù sul Porta, 247. — La satira politica, 248. — Sonetto [417] sull'eclisse del sole, 249. — Inneggia a Napoleone, 251. — Sonetto sul blocco continentale, 253. — Satira contro i facili Te Deum, 255. — Fiero sonetto contro i Francesi, 278. — Membro della «Società del Giardino», 280. — Sonetto caudato contro l'arciduca Giovanni, 296. — Brindisi de Meneghin all'ostaria, 297. — È creduto autore della Prineide del Grossi, 302. — Scrive un sonetto in sua difesa, 302. — Testimonianza di affetto al Grossi, 304. — La comi-tragedia Giovanni Maria Visconti, 305. — Lettera al Foscolo, 311. — L'Ipercalisse del Foscolo, 311. — Lettera da Londra del Foscolo, 313. — Generosità del nostro poeta, 316. — Dolore per la morte di Giuseppe Bossi, 322. — Lettera a Luigi Bossi, 323. — Malanni del Porta, 324. — Sul lago di Como, 325. — Sonetti contro Bartolommeo Pergami, ex corriere, drudo della principessa di Galles, 326. — Nel cenacolo del Conciliatore, 329. — Pranzo dei romantici in casa Porro, 330. — Combatte il classicismo, 331. — El romanticismo, sestine, 331. — Le sorelle Londonio e i classicisti, 332. — Carattere realista della poesia del Porta, 333. — Sua semplicità, 334. — Sonetto contro il Giordani, 334. — Battaglie letterarie contro gli anti-romantici, 335. — Buffi sonetti spropositati contro i classicisti, 336. — In tribunale, 337. — Amicizia con Francesco Cherubini, 339. — Informa il Grossi delle fasi della guerra romantico-classicista, 340. — Il Testament d'Apoll, 341. — Opuscolo insolente in versi contro di lui del Gherardini, 341. — Scoramento del Porta, 342. — È di nuovo assalito dalla gotta ereditaria, 343. — Sonetto contro il Cicognara in difesa della sua Milano, 344. — Va alla sua villa in Brianza, 345. — Epistola in versi a Luigi Rossari, 345. — Sestine alla suocera, 346. — Il Confiteor del poeta al figlio, 346. — Ultimi giorni del poeta, 348. — Sue ultime celie volteriane, 349. — Muore il 5 gennaio 1821, 350. — Esequie in San Babila, 354. — Sua sepoltura nel camposanto di San Gregorio fuori Porta Venezia, 354. — Lavori poetici lasciati incompiuti, 355. — La Guerra di pret e l'episodio del prete Ovina, 357. — L'Apparizion del Tass, 359. — La versione in milanese della Divina Commedia, 360. — Manoscritti del poeta raschiati, 362. — Epigrafe del De Cristoforis sulla tomba del Porta, 363. — Ricerche infruttuose delle ossa del poeta, 364. — Macabra scoperta che fa ridere, 365. — Monumento a lui eretto in Brera, 365. — Statua del poeta nei Giardini Pubblici, 366. — Poeti milanesi anteriori al Porta, 367. — Confronto del Porta col Giusti, 369. — Il dialetto milanese e il Porta, 370. — Vocaboli usati dal Porta, 371. — Frammento di Ugo ed Opizia, 372. — Due volumi manoscritti delle sue poesie, 373. — Prima edizione delle poesie nel 1817, 373. — Le sestine del Grossi in morte del Porta, 374. — Il Manzoni ricorda il Porta per tutta la sua vita, 374. — Lacrime [418] risparmiate al nostro poeta, 376. — Manoscritti e ricordi portiani, 379. — Carlo Porta scolaro e nobili ballerini, 380. — Un sonetto inedito o raro del Porta, 380. — Suo scherzo osceno in versi, 381. — Il Museo Portiano, 381. — La religione del Porta, 382.

Porta Carlo, nipote del poeta. Concede tutte le carte autografe del suo grande congiunto per la compilazione del presente lavoro, 379.

Porta Carlo Francesco. Bisnonno del nostro poeta, 14. — Maggiordomo e cassiere, 14.

Porta Defendente. Nonno del poeta, 13. — Muore a Romagnano nel Novarese, 14.

Porta Gaspare, fratello del poeta Carlo. Si occupa di affari bancari, 34. — È il banchiere di Ugo Foscolo, 310. — Lettere del Foscolo a lui, 310. — Imbarazzi finanziari del Foscolo a Londra, 312.

Porta Giuseppe. Padre del nostro poeta, 12. — Suo ritratto ad olio, 13. — Suoi uffici, 13. — Sua famiglia, 14.

Porta Giuseppe. Figlio del poeta. Avvocato, banchiere e paesista; muore nel 1872 a Milano, 209.

Porta Maria, Carolina, Violante. Figlia del nostro Carlo Porta, 209.

Pozzi (Conte) G. Amico in Venezia del Porta, 74.

Prati Giovanni. Quando giunse a Milano con la sua Edmenegarda, 225.

Pratofiorito Ugone. Ispira al Porta la novella Fraa Diodatt, 169.

Pralavario, di Almese. Combatte in Russia valorosamente a fianco di Gaspare di Bellegarde, 260.

Preda Piero. Uno dei più delicati poeti milanesi, 368.

Preti vicciurinn, vicciuritt, vicciurinatt. Emigrano da Pontremoli a Milano, 157. — Mercimonio delle messe, 158. — Sono flagellati dal Porta nelle sue satire, 158. — Sono banditi da Milano, 158.

Prevosti Camilla. Suocera del Porta, 47. — Sestine italiane bernesche composte per lei dal Porta, 346.

Prevosti Vincenza. Pensione accordatale come vedova di Raffaele Arauco, 205. — Sposa Carlo Porta, 208. — Ha tre figli da questo, 209. — Suo ritratto, 213. — Conforta ed aiuta generosamente la infelice moglie di Luigi Bossi, 317.

Prina Giuseppe. Ministro delle Finanze della Repubblica Italiana, 201. — Conferisce un impiego al Porta, 213. — Eccelle nelle scienze finanziarie, 247. — Odio dei Milanesi contro di lui, 283. — Sua proposta al Senato, 287. — Assalto della plebaglia alla sua casa in Piazza S. Fedele, 290. — Saccheggio della sua casa, 292. — Strazio del misero Ministro, 293. — L'assassinio è consumato, 294. — È sepolto nel cimitero di Porta Comàsina, 294. — Pubblicazioni sul suo eccidio, 392.

Prina Giuseppe, Abate, cugino del Ministro Prina. Viene da Pavia per salvare il cugino Ministro, 290. — Fugge e si salva, 294.

Puttinati Alessandro. Scolpisce la statua del Porta per i Giardini Pubblici, 366.

Pyrker Giovanni Ladislao, Patriarca di Venezia. Autore della Tunisiade e delle Perle dell'Antico Testamento, 61.

[419]

Ragani Cesare. Marito della cantante Giuseppina Grassini, 136.

Rajberti Giovanni. Uno dei maggiori poeti milanesi, 368. — I fest de Natal ed altre sue poesie, 373. — Suoi libri in prosa: Il viaggio d'un ignorante, Il gatto, 374.

Ranza Antonio. Chi era e donde veniva, 51. — Stampa giornali ed opuscoli incendiari, 52. — Il suo Rivoluzionario, 52. — È imprigionato nel Castello e vi muore, 52.

Rapp Giovanni. I suoi Mémoires sulla campagna di Russia, 262.

Rasori Giovanni, medico, demagogo. È socio del Teatro Patriottico, 107. — Seduta in sua casa, 116. — Capo di un'assurda scuola medica, 320.

Rastopcin, Generale. Ordina di incendiare Mosca, 267.

Reggimento (Il 111º) Fanteria piemontese. Suo comandante 259. — Sue eroche geste, 260. Battaglia di Barodino, 264. — A Semenoffskoie, 265.

Regno d'Italia. Proclamato da Napoleone I, il 31 marzo 1805, in Milano, 230. — Uomini grandi che lo illustrarono, 246. — L'esercito italiano in Russia, 254. — Tempestose sedute del Senato, 286, 288. — Il Regno cade dopo nove anni di vita (20 aprile 1814), 294.

Repubblica Cisalpina. Sua costituzione, 39. — Solennità della sua proclamazione, 42. — Sua effimera vita, 92. — Simpatia per la società del Teatro Patriottico, 115. — Sua restaurazione, 196. — È trasformata da Napoleone in Repubblica Italiana, 199.

Repubblica Italiana. Succede per ordine di Napoleone alla Cisalpina, il 26 gennaio 1802, 199. — Come era formata, 200. — Sua solenne inaugurazione il 14 febbraio 1802, 201. — Ordine sull'innesto del vaiuolo, 203. — Le succede il Regno Italico, 230. — Documenti sull'atto di costituzione, 388.

Resta Giuseppe. Rende omaggio al giovane Bonaparte, 37.

Rivista Europea. Periodico fondato dal Battaglia, 55.

Rivoluzionario (Il). Giornale fondato da Antonio Ranza, 52.

Rode Pierre, di Bordeaux. Amante della cantante Giuseppina Grassini, 133.

Roma (Teatro Valle). Prima rappresentazione dell'Aristodemo del Monti, 394.

Romagnosi Domenico. La sua opera Genesi del diritto penale, 247.

Romantici. Lotta coi Classicisti, 3. — Si adunano in casa Porro, 329. — Un banchetto romantico, 330. — Scritti contro il classicismo, 331. — Sono difesi dal Porta, 332. — L'Accattabrighe e la Biblioteca Italiana contro il romanticismo, 335. — In tribunale, 337. — Polemiche fra Romantici e Classicisti, 338.

Rossari Luigi. Epistola in versi direttagli dal Porta infermo, 345.

Rossaroll Giuseppe. Prende parte alla campagna di Russia, 259.

Rossi P. Quirico, gesuita. Sua predicazione, 168.

Rossignoli P. Gregorio, gesuita. Autore dell'opera Le meraviglie di Dio ne' suoi Santi, 168. — Da detta opera il Porta trae la sua novella Fraa Zenever, 168.

Rossini Gioacchino. Caporione della allegra società veneziana la «Corte busonica», 68.

[420]

Rovani Giuseppe. A proposito del Porta, 141. — La letteratura dialettale e il Porta, 370.

Rovida Alessandro. Suo soprannome nel Collegio dei Nobili, 380.

Ruga, Avvocato. Nominato da Napoleone membro del Comitato della Repubblica, 197. — Amori di sua moglie, 110. — È notata alla rappresentazione del turpe Ballo del Papa, 110.

Sala Carlo, frate sfratato, già scrivano del Voltaire. Suo supplizio, 10.

Salfi Francesco. Intimo di Ugo Bassville, e socio della Patriottica, 107. — Ha la direzione del Teatro alla Scala, 389.

Saliceti Cristoforo. È inviato da Napoleone a spogliare la cattedrale e il vescovado di Lodi, 36.

Salvador Carlo. Amico di Marat, 33. — Il suo giornale Il Termometro, 49. — Vien bastonato e messo in prigione; sua misera fine, 50.

Salvioni Carlo. Studioso del Porta, 382.

Sand George. Sua amicizia con Maddalena Bignami, 108. — Suo giudizio sullo Stendhal, 391.

Sannazzari Giacomo. Il museo nel suo palazzo a S. Fedele, 324. — Compra il quadro Lo Sposalizio di Raffaello, 324.

Saurau Francesco. Governatore austriaco a Milano, 301. — Vuol conoscere l'autore della Prineide, 302. — Tiene prigioniero il Grossi due giorni, 304.

Scarpa Antonio. Suoi studi anatomici, 246.

Scherer Bartolomeo. È a capo delle truppe francesi contro gli Austro-Russi, 97. — Vien battuto e si ritira all'Adda, 98.

Schuwaloff, principe russo. Si converte al cattolicismo e si fa barnabita, 326.

Scuola di ballo. È fondata da Napoleone I, 247.

Senato di Milano soppresso da Giuseppe II, 20. — Napoleone costituisce il Senato del Regno Italico, 226. — È preseduto da Antonio Veneri, 286. — Gli austriacanti ne vogliono l'abolizione, 285. — Adunanza del 17 aprile 1814 e proposta del Melzi, 286. — Votazione tumultuosa, 287. — Tragica seduta del 20 aprile 1814, 288. — Atti ostili della folla ai senatori, 288. — Il palazzo del Senato è invaso dal popolo tumultuante, devastato e saccheggiato, 289.

Serbelloni Galeazzo, Duca, viene eletto presidente della municipalità, 42.

Serras, Generale. Sue discordie col Prefetto di Venezia barone Galvagna, 69.

Servitor (El) de la bon'ànema del pover poeta Balestrieri. Almanacco milanese del 1804, 65.

Silva (Famiglia). Sua umile origine, 8.

Soave Francesco. Maestro di Alessandro Manzoni, 20. — Fa parte dell'Istituto di Scienze e lettere, 247.

Società del biscottino. Confortatrice degli ammalati, 166.

Società della ganassa. Gaia società gastronomica veneziana: Carlo Porta la frequenta, 68.

Società (Le) filodrammatiche di Milano al tempo di C. Porta, 103.

Società Filodrammatica del Gambero, 104.

Società (La) popolare di Via Rugabella, 44.

[421]

Società degli Orfei in Venezia. Festa dell'8 febbraio 1799, alla quale interviene il Porta con l'amante, 78.

Società d'incoraggiamento alle scienze ed alle arti. Sua costituzione, 247.

Società del Giardino. Ha sede prima in Via Clerici, poi in Via S. Paolo nel Palazzo Spinola, 280. — Annovera il Porta fra i suoi soci, 281. — Feste alle quali intervengono il Porta e lo Stendhal, 201.

Sorel Alberto. Il suo libro Notes sur la campagne de Russie, 260.

Somaglia Giovanni Luca. Perora nel Consiglio dei Seniori a favore dei poveri contro gli aggravi, 56.

Sommariva Giovanni Battista. È escluso dal secondo Direttorio, 196. — Sue ruberie svelate, 201.

Stein, Generale austriaco. Dà il nome al vestito à la victime, 384.

Stendhal (Henry Beyle). Loda le poesie del Buratti, 68. — Confessa i soprusi delle truppe francesi, 96. — Bibin Catena gli insegna il giuoco dei tarocchi, 112. — Fervido ammiratore del Porta, 137. — La Nomina del cappellan, da lui citata, 149. — Orrori della guerra di Russia, 256. — Interviene alle feste della Società del Giardino, 281. — Suo amore per Matilde Dembowsky, 281. — Pubblicazioni sulla vita e i tempi di lui, 391. — La Prineide, 391.

Stoppani Pietro. Sue ridicole poesie, 335.

Stryienski C. Le sue Soirées du Stendhal, 391.

Suwaroff Alessandro, Generale russo. Invade la Lombardia coll'esercito austro-russo, 87. — Suo bizzarrissimo carattere, 97. — Entra in Milano ed è ricevuto in Duomo dall'Arcivescovo Visconti, 98.

Taglioni Maria, ballerina. La sua villa di Blevio, 326.

Tanzi Carlo Antonio, poeta dialettale milanese, 369.

Tenca Carlo. Direttore del Crepuscolo, 55. — Suo giudizio sulla comi-tragedia Giovanni Maria Visconti, 307. — Sue poesie dialettali, 368. — Direttore del Corriere delle Dame, 385.

Tennyson Alfredo. Confronto delle sue poesie In Memoriam d'un amico, con le sedici sestine del Grossi in morte del Porta, 374.

Teodolinda, Regina dei Longobardi. La Corona Ferrea donatale da san Gregorio Magno, 236.

Termometro (Il). Giornale fondato da Carlo Salvador, 49.

Thiers Adolfo. La campagna di Russia, 259.

Thorvaldsen Alberto. Bassorilievi del Trionfo d'Alessandro, 196.

Timone Emanuele. Pubblicazioni sul vaiuolo (1713), 203.

Tipografia patriottica. Stampa il giornale La France vue de l'Armée d'Italie, 59.

Tommaseo Niccolò. Sua sentenza sui preti, 160.

Torino (Armeria Reale). Vi sono conservate le «aquile» dell'esercito italiano della campagna di Russia, 272.

Torti Giovanni. Collabora nel giornale Il senza titolo, 107. — Socio della Patriottica, 107. — Sua amicizia col Porta, 225.

Tosi (Monsignore). Conforta il Porta in punto di morte, 348. — Fa lo spoglio delle poesie di lui contrarie alla religione e al buon costume, 362.

[422]

Treviglio. Dimora di Tommaso Grossi, 217.

Trezzini Angelo. Suoi versi in dialetto milanese, 368.

Tribuna del Popolo. Giornale settimanale, 52.

Trivulzio Antonio Tolomeo. Apre le sale del suo palazzo per accogliervi i poveri vecchi indigenti, 1-2.

Unione (Pia) De Vecchi. Società di dame bigotte, 165.

Vadori Annetta, soprannominata l'Aspasietta. Assiste alle serate della Società Patriottica, 107.

Varese Fabio, poeta dialettale milanese. Suoi sonetti contro gli sciocchi insuperbiti, 369.

Varrin, Generale francese. Sue estorsioni in Milano, 279.

Veladini, tipografo. Pubblica a Lugano la Gazzetta di Lugano, organo del liberalismo, 32.

Vendramin Fontana, denominata «lo scheletro di Santa Maria Maddalena», 74.

Veneri Antonio. Presidente del Senato del Regno Italico, 286. — Aduna il Senato nel tragico giorno 20 aprile 1814, 287, 288.

Venezia. Vi soggiorna il Porta, 60. — Suo impiego, sue ristrettezze economiche e sue spensieratezze, 60. — Società gioconde, 62. — Decadimento di Venezia, 61. — L'arsenale, 61. — I gondolieri, 61. — Carnevale del 1798, 62. — La Società della «Ganassa», 62. — Influenza dei poeti dialettali veneziani sul Porta, 63. — Almanacchi veneziani, 64. — Il Caffè Florian e la trattoria del Salvàdego, 66. — La «Corte busonica», 67. — Blocco degli Austriaci, 69. — Feste veneziane nel 1799, 78. — Il teatro della Fenice, 79. — Mancanza di documenti e notizie negli Archivi veneziani sul soggiorno del Porta, 380. — Il Cicognara vi espone un suo quadro, che si crede dileggi i Milanesi, 389.

Venezia (Biblioteca Quirini-Stampalia). Nota autografa del Monti sul giornale La Biblioteca Italiana, 338.

Ventura Giovanni. Sue poesie in dialetto milanese, 368. — Segue le orme di Tommaso Grossi, 374.

Verdi Giuseppe. Trae una scena della sua Aida dalla tragicommedia del Porta Giovanni Maria Visconti, 308.

Verri Alessandro. Suo soprannome nel Collegio dei Nobili, 380.

Verri Carlo. Parla al popolo il 30 aprile 1814, 288. — Cerca di salvare il Ministro Prina, 289. — Suo soprannome nel Collegio dei Nobili, 380.

Verri Pietro. Suoi suggerimenti, 1. — Combatte le ribalderie dei fermieri, 6. — Suo sogno politico, 19. — Suo motto superbo, 152 e 394.

Verzee (El) de Milan. Almanacco in dialetto milanese, 65.

Vestire alla ghigliottina. Moda introdotta in Milano sulla fine del 1795 e bosinada relativa, 27. — Il Parini leva la sua musa contro l'infame moda, 29.

Via Monte Napoleone. Vi stava di casa e vi aveva il suo ufficio il Porta, 213.

Via S. Zeno. Vi era la tipografia Patriottica, 59.

Vie di Milano nel 1775. Nomi che assumevano da oratorii, chiese, botteghe, ecc., 8-9.

[423]

Viganò Salvatore, coreografo. Balla alla Fenice di Venezia, 79. — Compone per la Scala il ballo Prometeo, rappresentato nel 1813, 192. — Sua eccellenza nella coreografia, 247.

Viliz (Russia). Gli Italiani vi vincono i Cosacchi, 264.

Visconti Ermes, uno dei capi romantici. Difeso da Carlo Porta contro i classicisti, 336.

Visconti Filippo, Arcivescovo di Milano. Incensa il generale eretico Suwaroff, 88. — Lo riceve e benedice in Duomo, 98. — Va a Lione pei Comizi e vi muore, 198.

Visconti Giovanni Maria. Dà il titolo ad una comi-tragedia del Porta in collaborazione col Grossi, 305. — Rende Milano prospera e grande, 306. — Perde varie città del suo vasto dominio, 306.

Volta Alessandro. I suoi studi, 2. — Grandeggia ai tempi del Porta, 246. — Le sue freddure, 315.

Wagram. Feste e banchetti in Milano per la vittoria di Napoleone (6 luglio 1809), 251.

Weith, commerciante. Riceve dal padre il giovane Porta per indirizzarlo alla mercatura, 17.

Winne Giustina, contessa di Rosenberg. Scrive insieme con B. Benincasa il romanzo Les Morlaques, 58.

Wurbms (Baronessa di). Sua influenza alla Corte vicereale, 274.

Zanoja Giuseppe, Abate. Architetto, poeta pariniano e segretario all'Accademia di Brera, 246. — Detrattore della fama di Giuseppe Bossi, 323.

Zanòli Alessandro. Il suo libro Sulla milizia cisalpino-italiana, 261. — Cita le perdite dell'esercito italiano in Russia, 271. — Le sue memorie sulla campagna di Russia, 391.

Zola Emilio. La sua scuola, 3. — L'Assommoir e Nanà, 190.

Zurigo. Rifugio dei patriotti italiani vessati dall'Austria, 311.

NOTE:

1.  La nobiltà smascherata, presso il Calvi (Il patriziato milanese), pag. 70-71.

2.  Archivio storico lombardo (quaderno di giugno 1920).

3.  Calvi, Il patriziato milanese, pag. 77 e 81.

4.  Scotti, Elogio dell'abate Passeroni.

5.  Madama, ha qualche novità da Lione? Massacrano anche adesso i preti e i frati que' suoi birboni di Francesi che hanno buttato la legge, la religione e ogni cosa giù in un fascio?

Che cosa n'è di colui, di Pétion, che pretende, con questa bella libertà, di mettere insieme con noi nobiltà e con noi dame tutti quanti i mascalzoni? (Péthion era presidente della Convenzione, massacratore di nobili, idolo del popolo. Perseguitato poi dai rivoluzionari, fu trovato mezzo divorato dai lupi nelle lande di Bordeaux.)

A proposito: mi lasci veder quel cappello là, che ha d'intorno un velo. È stato inventato dopo che hanno ammazzato il re?

È il primo ch'è arrivato? Oh bello! oh, bello! Oh, i gran Francesi! Bisogna dirlo: non c'è popolo che sappia fare le cose meglio di quello!

6.  Biblioteca ambrosiana, Raccolta, 227. (Milano, tip. Bolzani, 1795).

7.  Ved. l'edizione pariniana curata da M. Scherillo (Milano, 1906, a pag. 197).

8.  Gargantini, Cronologia di Milano, pag. 284.

9.  Esopo dice che, in questo paese, sono state prime le donne a portare l'eguaglianza dei Francesi. — Almanacco La piazza de Mercand (Milano, 1797).

10.  Memorie Manzoniane del prof. Cristoforo Fabris, Milano, 1901, pag. 82.

11.  C. Cantù, Milano. Storia del popolo per il popolo (1871), pag. 285.

12.  Memorie Manzoniane citate, pag. 81.

13.  Giuseppe Roberti, Il cittadino Ranza (Torino, 1890).

14.  Fra i manoscritti e stampe della raccolta Custodi, nella Biblioteca Nazionale di Parigi (dal numero 1545 al 1566).

15.  Si può leggere il copioso manoscritto nel riparto «Risorgimento» della Biblioteca Nazionale di Roma.

16.  Foscolo, Prose politiche (Firenze, Le Monnier, 1856), pag. 1-15.

17.  Giornali della Cisalpina nella Biblioteca Ambrosiana: Luigi Rava, Il giornale di Bonaparte in Italia «Le Courrier de l'armée d'Italie» (Roma, 1919); Soriga, Giornali e spirito pubblico in Milano sulla fine del secolo XVII (articolo nella Rivista d'Italia, 1916); A. Périvier, Napoléon journaliste, ecc.; F. Cusani, Due appendici sulla Perseveranza, ecc.

18.  Codice DCXI, classe V.

19.  Poesie satiriche di Pietro Buratti, viniziano, con note dell'autore ad «usum delphini», Amsterdam, presso S. Locke e figlio.

20.  Lungo (gugella è l'ago lungo per infilar fettuccie nelle guaine).

21.  Sono magro senza essere una sardina.

22.  Ho le ciglia nere.

23.  Neri gli occhi anch'essi. Ved.: Raffaello Barbiera, Il libro delle curiosità (Bergamo, 1893), pag. 23.

24.  Il codice CCCLXXXII.

25.  Becattini, Storia degli anni dal 1796 al 1800 (Amsterdam), tomo I, pag. 194; Cusani, Storia di Milano, vol. V, pag. 52.

26.  Pagina 67 della edizione 1888.

27.  Mi pareva che un ulano mi gettasse la corda al collo, strascinandomi per Milano a ricevere brutte parole.

28.  Malamani, Memorie del conte Leopoldo Cicognara (Venezia, 1888), vol. I, pag. 165.

29.  Bravi signori recitanti! Se Iddio vi ha data la disgrazia d'essere corti a quattrini, vi ha compensato per altro con una bellissima sfacciataggine, che vale di più.

30.  Mémoires de mademoiselle Avrillion, sur la vie privée de Joséphine (Paris, 1833), vol. I, pag. 205.

31.  Calvi, Il patriziato milanese, pag. 218.

32.  Id., pag. 219.

33.  Lettera di Lord Byron al Murray, del novembre 1816.

34.  Stendhal, Rome, Naples et Florence (Parigi, 1888), pagina 60.

35.  C. Fabris, Memorie Manzoniane (Milano, 1901), pagina 87.

36.  Atto I, scena IV.

37.  Maggi, I consigli di Meneghino, atto I, scena I.

38.  Atti ufficiali: 21 vendemmiale, anno VI (12 ottobre 1797).

39.  Giornale storico, vol. XXI.

40.  Tomo I, pag. 222.

41.  Religione santa de' miei vecchi di famiglia — che in mezzo ai triboli delle passioni — non fai altro che tirarti indietro — in fondo al cuore, rannicchiata in un angolo....

42.  Epigramma XXIII.

43.  Mantovani, Diario manoscritto, vol. I, pag. 29.

44.  Vol. I, pag. 54.

45.  Che la guarda s'hin coss — De fa cont ona donna — Fedele de sta sort, che soo di coss — Che domà che zittis — Fareven scurì el sò.

46.  Aria purissima, sottile, frizzante.

47.  Cusani, Storia di Milano, cap. XIX.

48.  Vedi: Raffaello Barbiera, Poesie Veneziane illustrate (Firenze, Barbèra, 1888), pag. 86.

49.  Sacrifici li chiama? Signor no. Queste sono parole di lor signori, e noi poverelli non le comprendiamo. Noi facciamo le cose alla buona, senza ragionarci su tanto.

50.  E io non dovevo far nulla per loro? Questa vita, questo sangue, questo fiato che respiro sono cose sue; e io non devo spenderle per lei, e adoperarle a un bisogno? (atto I, scena V).

51.  C. Fabris, Memorie Manzoniane (Milano, 1901), pagina 92.

52.  Raccolta di Costituzioni italiane, volume II (Torino, 1852).

53.  

A proposito, illustrissimo, di vaccinazione,

Senta un po', se vuol ridere, questa che le racconto adesso;

Sarà un mese che mi è capitata,

Nel far vaccinare la Barberina.

C'era in casa del medico una mammina,

Che si trovava in un impaccio da non dirsi

Per scegliere il posto dove far inoculare

L'innesto del vaiuolo a una sua piccina.

Non qui, perchè qui dà troppo nell'occhio,

Non qui, perchè si vedrà,

Qui nemmeno, perchè le rimarrebbe la cicatrice.

Tira qua e tira là, un mondo di ragionamenti;

Finchè il medico, per calmarla:

— Facciamole l'innesto, dice egli, sulle cosce?

Oh, che pezzo di minchione!

Esclama questa signoretta all'improvviso:

Sulle cosce? Proprio!... più ancora in vista!

54.  Foglio ufficiale della Repubblica italiana, anno I.

55.  Andate pure, gente mia.

56.  Alle due Colonne o ai Servi (nomi di due botteghe da caffè di Milano, oggi sparite).

57.  A prendere un caffè che vi assassina i nervi.

58.  Io, invece, sono contento di starmene qui seduto al mio caminetto.

59.  Ad amoreggiare con un bicchiere di vino.

60.  Ad assaporarlo e a odorarlo.

61.  E se si può toccarlo con qualche amico.

62.  Burlarsi guardandosi i baffi.

63.  E poi d'estate? vo al Gallo (osteria, presso la Piazza del Duomo, ora sparita; già famosa).

64.  Vo alla Scala, vo al Gambero, vado ai Tre Re (altre osterie scomparse).

65.  Vado nel fiume Olona piuttosto che a un caffè.

66.  R. Bonfadini, nella Perseveranza, 7 marzo 1880.

67.  Calvi, Francesco Melzi (nelle Famiglie notabili milanesi), disp. VII.

68.  Rapporto del 15 aprile 1805 (in Cantù, Cronistoria, vol. I, pag. 278).

69.  Cusani, Storia di Milano, vol. VI, pag. 151.

70.  Bollettino delle leggi, 1805, vol. I, pag. 49; Giornale storico, 2ª serie, vol. I, maggio 1805.

71.  Mémoires, vol. I, pag. 189.

72.  Cantù, Storia di Milano, pag. 292.

73.  De Castro, Milano durante la dominazione napoleonica (Milano, 1880), pag. 230.

74.  A guardare.

75.  Che fa passare la luna davanti al sole.

76.  Chi faceva affumicare un pezzo di vetro.

77.  Chi faceva portare nel cortile della casa i secchi d'acqua per vedervi riflessa l'eclissi.

78.  Quando si è visto venire un trombettiere.

79.  Ha voluto così.

80.  Mi servono così.

81.  Assai poco mi manca.

82.  A bruciarli tutti.

83.  Ripiglia.

84.  Biografia degl'Italiani viventi (Lugano, 1819), volume I, pag. 163.

85.  Cattolici, apostolici e romani.

86.  Slargatevi il cuore, ch'è arrivato il sospirato momento.

87.  Sono qui i Tedeschi.

88.  Pattan, per ischerno, venivano chiamati gli Austriaci; li dicevano anche Pattatucch (vedi Grossi, Prineide), e non solo a Milano, ma in tutto il regno Lombardo-Veneto.

89.  Prediche, messe.

90.  Perdon a brent, indulgenze a botti (ricorda il «Chi manna fôra l'indurgenze à bbòtte?» di Gioachino Belli, nel sonetto L'uccupazione der Papa).

91.  C'è da andare in Paradiso anche addormentati, anche a non averne voglia.

92.  E senza il quasi che non val niente.

93.  Voglia o non voglia, tutti, non c'è caso.

94.  Dobbiamo andare tutti su, in cielo, o crudi o cotti.

95.  Chè ci hanno messi tutti.

96.  Con lo spogliarci nudi.

97.  Carteggio di A. Manzoni (Milano, 1912), vol. I, pagina 342.

98.  Lettera, a pag. 345, ivi.

99.  Briccone.

100.  Prose e poesie scelte di Carlo Tenca, edizione postuma per cura di Tullo Massarani (Milano, 1888), vol. I, pag. 125.

101.  Atti segreti, nell'Archivio di Stato di Milano (Busta CXX). Vedi tutto il cap. XIII delle Passioni del Risorgimento, di Raffaello Barbiera (Milano, Treves).

102.  Due sonetti sono tuttora inediti, perchè troppo osceni. Due altri furono pubblicati nel 1903 (ved. Raffaello Barbiera, Passioni del Risorgimento; Milano, Treves, 4ª edizione, pagg. 434-35).

103.  La villa della principessa di Galles fu trasformata in Grand Hôtel Villa d'Este, dove il Bourget pose la scena d'un suo romanzo, non peraltro intorno alla famigerata e infelice principessa, il cui processo riempì il mondo di scandalo.

104.  Di muovere, di mescolare come si vuole.

105.  Nascoste.

106.  Il gusto del pasticcio.

107.  Nientemeno.

108.  Carteggio, vol. I, pag. 478.

109.  Dal discorso di Ruggero Bonghi sul Manzoni, in occasione dell'inaugurazione della Sala manzoniana nella Biblioteca nazionale di Milano (6 novembre 1886).

110.  Di passaggio.

111.  L'Accattabrighe, che si stampava su carta color di rosa.

112.  Ricorrevano i giorni della Settimana santa.

113.  Lo pubblicò il Cantù nelle Corrispondenze di diplomatici della Repubblica e del Regno d'Italia (Milano, 1886). — Ved. le «postille» in fondo di questo libro.

114.  Io, Signore, gettato in ginocchio, mi angoscio, mi dispero.

115.  Mantovani, Diario manoscritto nella Biblioteca Ambrosiana (vol. VI, anno 1821).

116.  Sui Frammassoni a Milano, ved. Archivio storico lombardo, vol. XV, pag. 625, e vol. XVIII, pag. 703.

117.  Carteggio, vol. I, pag. 516.

118.  I Promessi Sposi, capitolo XXXIV.

119.  Mucchio.

120.  Susurrio.

121.  Il popolo milanese designava col nome di pattan il soldato austriaco.

122.  Genterella (tananan è lo scricciolo, uccelletto piccolissimo detto anche forasiepi, e si applica a cose piccole: Pover tananan d'ón fieu!).

123.  Strana coincidenza! Simigliante è la chiusa del sonetto del Belli Er dispotismo: «È arisposero tutti: è vvero! è vvero!

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.






End of Project Gutenberg's Carlo Porta e la sua Milano, by Raffaello Barbiera

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http://pglaf.org/fundraising.  Contributions to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent
permitted by U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is located at 4557 Melan Dr. S.
Fairbanks, AK, 99712., but its volunteers and employees are scattered
throughout numerous locations.  Its business office is located at
809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887, email
business@pglaf.org.  Email contact links and up to date contact
information can be found at the Foundation's web site and official
page at http://pglaf.org

For additional contact information:
     Dr. Gregory B. Newby
     Chief Executive and Director
     gbnewby@pglaf.org


Section 4.  Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment.  Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States.  Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements.  We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance.  To
SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any
particular state visit http://pglaf.org

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States.  U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses.  Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations.
To donate, please visit: http://pglaf.org/donate


Section 5.  General Information About Project Gutenberg-tm electronic
works.

Professor Michael S. Hart is the originator of the Project Gutenberg-tm
concept of a library of electronic works that could be freely shared
with anyone.  For thirty years, he produced and distributed Project
Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of volunteer support.


Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as Public Domain in the U.S.
unless a copyright notice is included.  Thus, we do not necessarily
keep eBooks in compliance with any particular paper edition.


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