The Project Gutenberg EBook of Il "Damo viennese", by Lucio D'Ambra

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Title: Il "Damo viennese"

Author: Lucio D'Ambra

Release Date: November 7, 2016 [EBook #53471]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL "DAMO VIENNESE" ***




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Il “Damo viennese„


LUCIO D'AMBRA

Il “Damo
viennese„

ROMANZO

ROCCA S. CASCIANO
LICINIO CAPPELLI, Editore
Libraio di S. M. la Regina Madre


Riserva dei diritti d'autore


[vii]

Al Commendatore GIUSEPPE ARDIZZONE

Direttore del Giornale di Sicilia.

Mio caro amico,

Questo romanzo è Suo, di diritto. Scritto per Sua richiesta cortese per il Giornale di Sicilia, fu da Lei accolto con straordinaria ospitalità, quell'ospitalità larga e cordiale ch'è solo segreto delle grandi case e dei grandi signori. Oggi che dalle pagine del Giornale di Sicilia è raccolto in volume, Il “Damo Viennese„ viene a Lei, stampato, come già venne manoscritto: cioè con tutta la mia affettuosa solidarietà e con tutta la mia più viva riconoscenza. Ma questo romanzo che muove le sue figurine su lo sfondo della guerra venne a Lei la prima volta in ore liete quando le nostre Armate, eroicamente sacrificandosi, avanzavano in terra nemica. Oggi il libro ritorna a Lei, caro amico, in ore angosciose quando, mutata in una ora di follia la fortuna, distrutto in un'ora ciò che con anni eroici s'era costruito, le nostre Armate fan fronte in Patria, sul nostro suolo, all'assalto dell'invasore. Non ho creduto, correggendo le bozze di queste pagine, mutare nulla alla prima versione, nè togliere quei particolari, così diversi dalla situazione d'oggi, che io non ho potuto riveder su la carta senza sentirmi inumidire il ciglio. Ma [viii] se dell'ora vittoriosa ed eroica non ci rimane più la terra conquistata palmo a palmo, ci resta tuttavia, di quelli eroi e di quelle vittorie, incancellabile e confortevole il ricordo. Perchè dunque cambiare? Perchè cancellare quei nomi di città liberate su cui la bandiera italiana ha sventolato? Tanto che quella non sia più la verità, che quelle città siano riperdute, Pierino Balla non sa. Noi lo sappiamo. Ma sappiamo anche che, quando le nostre regioni invase saran liberate, il nostro còmpito non sarà finito. Dovremo riprendere, oltre confine, ciò che il sacrificio degli eroi ha già pagato. Sacra è, per la Patria, così la terra ove operano i vivi come quella sotto cui riposano i morti. E quelle terre rifioriranno di libertà in una primavera ardente di cui il sangue italiano sarà stato ardentissimo seme. Su questo sogno già si chiudeva questo romanzo che muove, cronaca fedele, dalla commedia politica della primavera del 1915 per giungere all'epopea magnifica con cui l'Italia potè stupire il mondo. Su questo sogno, più che mai vivo nel nostro cuore, chiudo anche oggi questa lettera a Lei, caro amico, ripetendole ancora una volta, coi più cordiali spiriti, la mia amicizia devota e riconoscente.

Roma, 25 Maggio 1918.

L. d'A.

[1]

I. LA VITA NON È CHE UN VALZER

[3]

Noi prestiamo a tutti gli uomini quella profondità d'ideali e quella gravità di preoccupazioni morali che sono in realtà, e per fortuna, solamente l'appannaggio di alcuni rari e privilegiati esemplari d'umanità sedicente superiore. Noi crediamo che la maggior parte degli uomini d'una certa levatura intellettuale che incontriamo per via, al caffè, al teatro, non vadano a dormire senza essersi proposta, ogni sera, una lunga fila di punti interrogativi d'ordine sociale, religioso, morale, politico o sentimentale. Non possiamo ammettere che un uomo abbia l'orizzonte della sua vita chiuso in una collezione di francobolli o fra le pianticelle d'un erbario e ci sembra inverosimile che i grandi principii dell'ottantanove lascino perfettamente [4] indifferente un uomo che s'appassiona invece a raccogliere monete fuori corso o autografi di uomini celebri ancora in corso. Amar la patria, la società, l'umanità ci sembra dovere e necessità d'ogni cuore portato a una funzione più nobile di quella di segnare il passo alla vita animale che cammina. C'è gente, invece, che ha limitato i suoi amori e li ha limitati intensificandoli. Ed è gente non sempre peggiore di quella che invece li moltiplica diminuendoli.

Aveva amato due cose al mondo, per esempio, Pierino Balla: sua madre e il valzer. Sua madre, la sua vecchia mamma vedova e sola, se ne rimaneva ormai laggiù raccomandata alla premura di qualche amico, nella sua casettina di Sorrento fra cielo e mare. Ma il valzer era sempre con lui, in lui, nel suo orecchio, su le sue labbra, nel suo cuore, nel suo cervello, nel suo passo che anche per via salterellava un poco come quello d'un tenore su un palcoscenico. Li amava tutti, li sapeva tutti: vecchi valzer spagnuoli suonanti di nàcchere e procaci d'anche formose sotto gli scialli ondeggianti, vecchi valzer francesi incipriati di leggiadria, [5] valzer italiani bonarii e cordiali, giovani valzer viennesi tra melanconici e voluttuosi, tra spensierati e sentimentali, fatti di giravolte e di capriole ma pieni di chiaro di luna e tutti azzurri di riflessi danubiani. Li sapeva tutti a memoria; gli bastava sentirli una volta sola per ficcarseli, lì, inamovibili, nel cervello; e, senza saper di musica, suonando a orecchio, dovunque scovava un pianoforte, li ritrovava, li rispolverava uno per uno, tutt'i giorni. Non badava, per questo, dove fosse e in che momento fosse. Alla vista d'un pianoforte smarriva ogni senso di opportunità e di luogo, di convenienza e d'educazione; a tal segno che un giorno, recatosi in casa d'un suo amico morto improvvisamente e tragicamente per prendere d'accordo con la famiglia le disposizioni pei funerali, aveva accolto l'entrata in salotto della vedova desolata col più indiavolato refrain d'un valzer di Walteufel. In casa, per via, al lavoro, a letto, fischiettava valzer su valzer. Agli esami di laurea, svolgendo una tesi di diritto canonico, tra una domanda e l'altra dei professori, intercalava a bassa voce un ritornello della Casta [6] Susanna o della Vedova allegra. E, apolitico per eccellenza, la politica estera italiana gli era diventata improvvisamente simpatica da quando un grande diplomatico tedesco l'aveva definita la «politica dei giri di valzer». Politica per me, aveva detto, e per la prima volta in vita sua, cittadino elettore, fischiettandosi il valzer di Franzi nel Sogno di un valzer, era andato a votare. «Pierino Balla e canta», lo chiamavano gli amici. E cantava, infatti, con grazia, con una vocina da tenorino di operette che gli avrebbe fatto far fortuna se egli avesse osato, figlio d'un magistrato napoletano, nipote di un colonnello borbonico, salire in palcoscenico dalla platea dove ogni sera sentiva e risentiva, ostinato e paziente, la centesima rappresentazione di un'operetta di Parigi o di Vienna.

Aveva ventotto anni e non faceva ancora null'altro che cantare o fischiettare valzer. Aveva trascinato avanti gli studii all'Università di Napoli, lentamente, faticosamente, sino a ventisei anni, poichè ancora nessun ministro della Pubblica Istruzione s'era deciso a stabilire nei regolamenti che i professori di scienze delle [7] finanze o di diritto romano interrogassero i candidati sul repertorio di Offembach e su la dinastia degli Strauss. Poi, presa la laurea, era venuto a Roma a cercare un'occupazione, un lavoro, una posizione. Aveva cercato tutto ciò il giorno nei caffè, la sera nei restaurants eleganti e nei teatri d'operette. E non aveva trovato altra occupazione che quella di sentir valzer e valzer, altro lavoro che quello di mandarli a memoria e di ritrovarli al pianoforte il giorno dopo, altra posizione che quella di starsene sdraiato in una poltrona a sentire cantare Emma Vecla o Gea della Garisenda, a veder piroettare le deliziose soubrettes ungheresi tipo Csillag e tipo Tonci. Passavano i mesi e passavano gli anni. Dei suoi autori prediletti cresceva, ad ogni stagione, il repertorio. Passavano anche dalle sue tasche in quelle altrui — poco alla volta in verità, perchè non era prodigo che di canzoni — le poche migliaia di lire che una paterna assicurazione su la vita gli aveva lasciate per aiutarlo a finire i suoi studii e a trovare anche lui, come tutti gli altri, qualche cosa da fare a questo mondo. Per la carriera d'avvocato non si sentiva inclinazione. [8] Per quella di magistrato paventava la relegazione in una piccola città di provincia dove il teatro non funzionasse tutto l'anno. Rimaneva l'amministrazione, e l'amministrazione centrale naturalmente, con la certezza di rimanere a Roma dove per tutt'i dodici mesi dell'anno tre o quattro compagnie offrivano sempre almeno un paio di Conti di Lussemburgo per sera. Ma aspettava. C'era ancora qualche biglietto da mille — cinque o sei — da ritirare alla banca; e aspettava. C'era oggi un concorso al Ministero della Guerra? Ma ci sarebbe stato un mese dopo un concorso a quello della Marina. Tanto Pierino Balla non aveva preferenze. Aveva solo preferenze musicali. Nel suo amore universale per tutt'i valzer presenti passati e futuri del nostro mondo ballerino, a poco a poco era giunto a scegliere, a prediligere. Amava Offembach, amava Lecocq, ma adorava Leo Fall e Lehar. L'operetta viennese, coi suoi valzer a ripetizione, coi suoi quartetti, terzetti e duetti che finiscon tutti a balletti, era la sua passione. Conosceva tutto il repertorio dell'An der Wien e del Volkstheater, nota per nota, cadenza per cadenza. Il valzerino a [9] bocca chiusa della Principessa dei Dollari, come l'aveva sentito cantare una sera con bell'aria dongiovannesca e sprezzante dal tenore Walter Grant, non l'aveva fatto dormire tre giorni. Appena una bella donna fermava per via il suo sguardo doveva lottare contro la tentazione di andarle davanti e di mettersi a girare intorno a lei, lì, sul marciapiede, con la mano sinistra sul fianco, la mano destra distesa a un gesto balancè che non dice nè si nè no, l'aria arrogante, il labbro sdegnoso, lo sguardo spavaldo, cantandole il delizioso valzeretto a bocca chiusa del giovane aristocratico francese e rovinato insensibile ai fascini della miliardaria americana. Tutta la vita per lui era questo: situazioni di operette viennesi che dal palcoscenico avrebbe voluto riportare nella sua piccola vita d'ogni giorno. E quando usciva da un salotto quasi gli accadeva di meravigliarsi che non dovesse uscirne su un passo di can-can con la padrona di casa, come nell'operetta della sera prima dopo il gran duetto sentimentale del second'atto. Una sera, in un'operetta nuova, scoprì un meraviglioso verso caduto, in un felice stato di grazia e di geniale incoscienza, [10] dal lirismo d'un Victor Hugo librettista d'operette e sentì il brivido di una rivelazione:

La vita non è che un valzer.....

Lo sapeva da un pezzo. Ma non aveva saputo mai trovare una forma così sintetica, così espressiva e così profonda per il suo pensiero. Per queste profonde divinazioni dell'anima umana e del nostro umano destino, già non ci sono che i poeti, i grandi poeti. «Che verso, che bellezza!... La vita non è che un valzer...».

E «Pierino Balla e canta» ne fece il suo motto e lo fece stampare di traverso, con inchiostro viola del pensiero, su la sua carta da lettere. Da quel giorno il valzer diventò per lui uno scopo, un fine, una missione. Andava ad ascoltarli con la gravità mistica con cui si assiste ad un rito. Faceva propaganda fra i suoi amici in favore dell'operetta viennese. Parlava d'arte e di politica a proposito di Eva e di Franz Lehar. Dal coro dei parigini:

Nell'aria di Parigi

c'è molta seduzion...

[11]

giungeva al coro della politica europea e della Triplice Alleanza per dimostrare che:

Nell'aria di Vienna

c'è molta protezion....

per gli Italiani finalmente veramente amici d'un popolo con cui è facile, diamine, intendersi, visto che gli uni e gli altri amiamo la musica leggera e che un valzer viennese ed una canzonetta di Piedigrotta non possono ispirare ai ministri degli esteri di due Stati così soavi che i sentimenti della più cordiale tenerezza reciproca.

Quando i manifesti teatrali preannunziavano una nuova operetta viennese — o ungherese — «Pierino Balla e canta» mobilizzava otto giorni prima tutt'i suoi amici. S'incaricava lui di comperare i posti, di distribuire i libretti e, pei più poveri o i più restii, faceva lui addirittura le spese: «Creare fra i due popoli questi cordiali rapporti artistici, è servire il mio paese...» diceva. E gli amici gli rispondevano: «Sì, Pierino, e ti faranno cavaliere.» Uno aggiungeva: «Della Corona d'Italia...» Pierino non sdegnava, da buon italiano, l'offerta. [12] Ma all'offerta aggiungeva con un sorriso e una luce negli occhi: «E dell'Aquila Nera!»

E quando usciva dal teatro e non era ancòra sazio di valzer e di Vienna, correva col tram da Faraglia o al Moderno poichè faceva ancora in tempo a sentir l'ultimo valzer delle orchestrine di quel caffè. Le «dame viennesi» lo mandavano in visibilio anche se erano di Frascati e se le parrucche bionde erano posticcie. Sentiva suonare Sulle rive del Danubio con beatitudine, con voluttà, gli occhi fissi al soffitto, fischiettando attorno al pomo del bastone appoggiato su le labbra. E all'amico che lo accompagnava sospirava di tanto in tanto con l'anima sognante: «Senti... senti... C'è tutta Vienna!» E, finalmente, andava a casa. Saliva le scale a tempo di valzer, si svestiva cantarellando e ballonzolando Laggiù nel silente giardino, spegneva il lume fischiettando — Amorin, tesorin — e allungandosi solo nel suo letto di scapolo si addormentava sognando il Prater.

Ma, poichè non è concesso agli uomini che d'esser felici provvisoriamente, i più bei sogni hanno un risveglio. Addormentatosi una [13] sera sognando il Prater, s'era svegliato una mattina con una lettera della mamma e il giornale che la padrona di casa gli portava col caffè ed egli apriva sùbito, indifferente alle notizie europee ma impaziente di correre in quinta pagina alla colonna dei teatri. Tanto la lettera della mamma quanto la lettura del giornale gli diedero quella mattina il consiglio di ricordarsi che il peculio paterno era agli sgoccioli e che per un paio di settimane era forse il caso di pensare che la vita, sì, non è che un valzer, ma che tuttavia questo valzer bisogna avere il modo di suonarlo. Fulmineo nelle sue decisioni, con quello stesso coraggio della disperazione che spinge un uomo a buttarsi a fiume tutto d'un colpo anzichè scendervi poco alla volta per affogare gradatamente, Pierino Balla, letto sul giornale che un concorso per vice-segretario di terza classe a duemila lire era bandito dal Ministero delle Poste si vestì in fretta, raccolse i suoi documenti e i suoi titoli di studio, redasse una domanda in regola e corse a depositare il plico in via del Seminario. Pochi giorni dopo si presentava agli esami. E poichè aveva imparato lentamente [14] ma aveva imparato, poichè non era uno sciocco per quanto gli piacesse — la vita non è che un valzer! — di sembrarlo, gli esami li diede bene e riuscì tra i primi. S'era a maggio e a luglio doveva prendere servizio, riscuotere le prime centocinquantadue lire del suo stipendio mensile. Pochine, in verità. Ma potevan bastare. L'allegria arrotonda i bilanci più magri. E la vita non è che un valzer.

La vita però è anche una tessitrice che annoda e intesse misteriosamente e capricciosamente i suoi fili. Quando una mattina Pierino Balla uscì di casa e si fermò, come era sempre suo primo pensiero, all'angolo della strada di casa sua per vedere uno ad uno, meticolosamente, i manifesti teatrali, non un'ombra di presentimento sfiorò la sua anima ballerina e leggera dinanzi a quel gran manifesto d'un teatro che chi sa mai perchè in bianco rosso e verde, preannunziava la prima rappresentazione di una nuova operetta viennese di Franz Lehar. Sentì, Pierino, un gran tuffo al cuore e vide tutto rosso, ma non perchè una voce segreta l'avesse avvertito che quel manifesto decideva della sua vita. Il tuffo al cuore gli era stato [15] dato dal solo fatto di aver letto sott'il titolo della nuova operetta che l'autore venuto espressamente a Roma, che Franz Lehar in persona ne avrebbe diretto l'esecuzione. Quando si riebbe, il primo pensiero di Pierino Balla fu di correre al teatro e di prenotare, e di pagare, e di portarsi via lo scontrino — non si sa mai: una sbadataggine del botteghino — che gli dava il diritto d'occupare quattro sere dopo la prima poltrona di prima fila, lì, a destra del direttore d'orchestra, del Kappelmeister, a un metro da Franz Lehar, così vicino a lui che avrebbe potuto buscarsi un raffreddore all'aria sollevata dalle falde della marsina agitata dal celebre maestro nei momenti a scatti del direttore d'orchestra. Non prese un raffreddore quella sera, Pierino Balla, perchè il maestro, da buon tedesco composto ed equilibrato, non si sbracciava a dirigere come Mascagni ed anche perchè invece che in marsina dirigeva in smoking e lo smoking non ha falde che possano far vento. Ma se non prese un'infreddatura prese per Franz Lehar una cotta che gli fece traversare tutte le ansie e ricorrere a tutte le astuzie d'un innamorato che vuol trovare il modo [16] di giungere a toccare il cuore della sua bella che non lo conosce e che ancora non si è accorta di lui.

Le idee più luminose sboccian talvolta nei cervelli più oscurati dalla passione, per legge di contrasto e perchè al buio anche un fiammifero acceso può far l'effetto di un lampo di genio. Così Pierino Balla scambiò senza modestia per un lampo di genio il fiammiferino di un'ideuccia che gli spuntò nel cervello quando, la mattina dopo il trionfo della nuova operetta, si sentì eccitato dall'irresistibile desiderio di conoscere personalmente il grand'uomo della sua piccola musica e fu convinto che sarebbe stato veramente perdere una occasione più unica che rara lasciare che Franz Lehar fosse venuto a Roma, perchè lui, Pierino Balla, studiasse accuratamente alle spalle il panno e il taglio del suo smoking viennese senza per altro riuscire a stringere la mano che aveva scritto i valzer più affascinanti di questo mondo. Non c'era tra i suoi amici un cane — neppure un cantante — che avesse potuto aprirgli la via ad una presentazione regolare. D'altra parte a presentarsi così, senza una qualsiasi introduzione, [17] all'albergo dov'era disceso il famoso musicista c'era il rischio d'essere preso per un postulante importuno e d'esser messo garbatamente alla porta. E fu allora che Pierino Balla ebbe l'idea. Entrò all'albergo, studiò su la lista dei viaggiatori la posizione topografica della stanza occupata dal musicista. Compiuta questa ricognizione strategica chiese una camera per sè; e, quindi, accompagnato dal segretario, trovò tanto a ridire su ogni stanza che gli proponevano che, girato mezzo albergo, finì col capitare proprio nella camera attigua a quella del musicista. Immediatamente si disse musicista anche lui, spiegò di doversi trattenere a Roma per un soggiorno non breve e chiese che un pianoforte fosse messo nella sua camera. E il pianoforte cinque minuti dopo raggiungeva il viaggiatore. Era proprio lì, a portata di mano: era quello che il direttore dell'albergo aveva creduto di dover far mettere nella camera preparata per l'autore della Vedova allegra e che l'autore della Vedova allegra aveva fatto immediatamente riportar via.

Avuto il pianoforte Pierino Balla incominciò a farne quello che faceva di ogni pianoforte [18] che gli capitava a tiro: lo pestò e lo ripestò senza riposo. Un pezzo dopo l'altro, un valzer dietro l'altro, ripassò a memoria tutto il repertorio del musicista viennese, dal Conte alla Vedova, da Eva alla Figlia del Brigante. Scese a far colazione e poi, risalito in fretta, ricominciò, a pestare: Conte e Vedova, Eva e Brigante. Ridiscese per il pranzo, risalì e ricominciò, infaticabile: Vedova e Conte, Brigante ed Eva. Quando le dita non ressero più tanto i polpastrelli erano gonfii a furia di pestare, uscì a prendere una boccata d'aria. Ma a mezzanotte era già di nuovo in camera sua e giù di nuovo a pestare, fresco e tranquillo come se non avesse già pestato tutto il giorno: e via da capo Brigante ed Eva, Vedova e Conte. Il maestro era lì, a due passi. L'aveva sentito entrare nella camera accanto, chiudere le finestre, sbadigliare, sternutire, soffiarsi il naso, uscire un momento di camera e poi rientrare per una necessità che era facile immaginare. Aveva poi sentito due scarpe cadere una dopo l'altra sul pavimento di legno, un letto scricchiolare sotto il peso di un corpo che vi si distendeva, la chiavetta della luce elettrica [19] scattare con un piccolo colpo secco. Ora il maestro era tra le lenzuola. E Pierino Balla ricominciò con più foga di prima il settimino della Vedova, il gran valzer dei Conte, il coro dei parigini in Eva e il delizioso piccolo valzer della Figlia modulato lento lento come una ninna-nanna: «Bimba, sii buonina...» Doveva il maestro sentirsi lusingato di quell'omaggio d'un ignoto ammiratore e non poteva il giorno dopo, così lusingato nel suo amor proprio, non chiedere di conoscere quell'ignoto che conosceva il suo repertorio anche meglio di lui. Da quell'omaggio d'ammirazione non poteva nascere tra il maestro e l'ammiratore che un'affettuosa amicizia. E già Pierino la pregustava, e tanto ne era sicuro che, per quanto le tre fossero già suonate all'orologio d'una chiesa vicina, ricominciava per l'ennesima volta a strimpellare con tanto di pedale:

È scabroso la donna studiar...

Ma una voce suonò nella stanza vicina, d'improvviso:

Zum Teufel diese schrekliche Musik!

Pierino diede un balzo su la sedia e, con [20] le mani staccate di botto dalla tastiera, spezzò a metà le note di disperazion. Ebbe allora l'incertezza che sola conoscono i grandi capitani. Dar battaglia o rifiutarsi di continuare a suonare e smettere? Pierino e Franz Lehar hanno parlato in tedesco. Che cosa hanno detto? Quelle parole volevano dire: «Mio ignoto ammiratore, voi siete molto gentile» o volevano dire: «Mio signor vicino, mi avete rotto le scatole?» Pierino non sapeva il tedesco ma inclinava piuttosto verso la seconda traduzione, poichè se le parole gli erano sfuggite il tono gli era sembrato quale neppure in tedesco, per quanto la lingua sia dura ed aspra, si adopera per dire a qualcuno: «Grazie, caro, vi sono molto grato!» Nell'incertezza Pierino credette miglior consiglio astenersi dall'insistere; talchè richiuse cautamente il pianoforte, in punta di piedi girò per la camera spogliandosi e si coricò leggermente, come una piuma, perchè il letto non scricchiolasse. Quando fu anche lui fra le lenzuola ricordò che il gran Condè alla vigilia di una battaglia soleva dormire saporitamente. Fece quindi come il gran Condè e, voltosi su un fianco, sospirandosi ancora a [21] mezza voce il Ninfa del bosco della Vedova, sentì che dalla stanza vicina un musicista che russava poco musicalmente gli offriva un impreveduto accompagnamento di contrabbasso.

La mattina dopo, quando il cameriere gli portò il caffè e il segretario dell'albergo chiese di essere ricevuto, il gran Condè non tardò a persuadersi che aveva perduto la battaglia. Il segretario avvertiva il cliente del numero 139 che doveva astenersi dal suonare il pianoforte dopo la mezzanotte poichè il cliente del numero 140 s'era vivamente lamentato di non aver potuto chiudere occhio fino alle quattro del mattino ed aveva persino minacciato di cambiare albergo. Timido e riguardoso, arrossendo e balbettando, Pierino Balla promise di non toccare più un tasto dopo suonata l'ora del coprifuoco, ma, con ardita decisione, colse l'occasione che gli si offriva e chiese al segretario di poter presentare di persona le sue scuse all'illustre autore della Vedova allegra. Ma quando il segretario fu per uscire e per andare a chiedere al numero 140 se era disposto a ricevere la visita e le scuse del numero 139, Pierino Balla fu preso da un'angosciosa preoccupazione [22] e, trattenendo il segretario per la falda del soprabito, sospirò con un filo di voce:

— Ma parla solo tedesco?

— Parla anche un po' francese.

Pierino Balla chiamò a raccolta il suo piccolo vocabolario francese con pronunzia napoletana, contò su le dita i vocaboli che in quel momento gli occorrevano e quando fu al numero 140, in presenza del celebre maestro, ebbe la sgradita sorpresa di osservare che nel breve tratto di corridoio dalla sua stanza alla stanza del maestro, per quanto fossero così pochi, li aveva perduti tutti dal primo all'ultimo. Mormorò quindi le sue scuse in italiano e vide con giubilo che, su venti parole italiane, due o tre non erano per il maestro un impenetrabile mistero. Così, ritrovando un po' di calma, ritrovò anche una dozzina di parole francesi e con queste, improvvisando un'alleanza verbale franco-italiana in cui l'Italia aveva la parte del leone, potè dire al maestro la sua ammirazione, la sua idolatria, la gioia che provava a conoscerlo e a stringergli la mano. Da parte sua il maestro, allargando l'alleanza verbale sino a far entrare a fianco dell'Italia e della Francia [23] anche l'Austria e l'Ungheria, si disse lusingato di vedere che quel giovane signore conosceva così bene tutta la sua produzione e gli strinse ripetutamente la mano, pronunziando in tedesco certe parolacce in ung e in zum che sembravano scapaccioni ma che dovevano essere complimenti a giudicare dal sorriso che le accompagnava.

Vous êtes musicien?..., domandò poi Franz Lehar.

Non, je suis..., rispose Pierino Balla toccandosi ripetutamente gli orecchi davanti al maestro che spalancava, sbalordito, tanto d'occhi.

E poichè, non ostante i gesti, il maestro non capiva, Pierino Balla spiegò:

Je suis orecchiante... Je joue avec les oreilles...

La conversazione diventò cordiale. L'autore della Vedova Allegra disse a Pierino Balla la sua simpatia per l'Italia e, per spiegarla, spiegò che era ungherese e che naturalmente gli ungheresi... che sul vecchio ceppo latino... che la razza magiara... e tante altre cose cui Pierino rispondeva ripetendo a sazietà la sua ammirazione [24] per Vienna e per le operette viennesi. In una pausa il maestro gli domandò:

D'où venez-vous?

Di dove veniva? Pierino Balla fu sul punto di dire che non veniva da nessun posto, che veniva cioè da Roma. Ma ricordò a tempo che erano in albergo e che gli alberghi non sono abituale domicilio che per i viaggiatori. Ebbe tuttavia vergogna di confessare la sua infantile trovata, il sotterfugio cui era ricorso per avvicinare il maestro del suo cuore. E, dopo averci pensato un poco, rispose:

Je viens de Naples...

— Ah, bella Napoli..., rispose il musicista con un sospiro cui Pierino credette dover rispondere con una riverenza.

Ma le sue pene non erano ancora finite. E poichè ad un viaggiatore non si chiede solamente donde venga ma anche dove vada, sùbito dopo si sentì chiedere dove era diretto. Còlto così alla sprovveduta, Pierino Balla non ebbe la prontezza di spirito di dire che andava semplicemente a Frascati, ma balbettando ebbe l'imprudenza di rispondere:

— Vado... vado a Vienna!

[25]

— A Vienna?

Già il maestro gli stendeva le mani, gli offriva la prova della sua simpatia:

— Sono molto dolente di non trovarmi a Vienna quando ci sarete voi... Sarei stato felice di farvi da cicerone... Ma voi vi tratterrete certamente... Almeno quindici giorni... un mese...

— Ecco... un mesetto...

— Benissimo... Tra quindici giorni vi sarò anch'io... Vi dò appuntamento a Vienna, mio giovane amico... Ma intanto vi darò una raccomandazione per il mio caro amico Kramer, il celebre maestro Kramer... Conoscete Kramer, l'autore di tante celebri operette, l'autore del Soldato in gonnella?

Pierino Balla non conosceva altri e sùbito l'irresistibile istinto lo spinse a cantare il più recente valzer di Kramer, mentre il suo interlocutore redigeva in tedesco il più misterioso biglietto di presentazione che mai potesse a Pierino capitare.

— Andate da Kramer, Ringstrasse 41... Vi aprirà tutte le porte... E' come se trovaste me stesso.

[26]

Il maestro era in piedi, gli consegnava la lettera, gli dava congedo.

Aufwieder sehen!... Oggi è il venti. Sarò a Vienna il 5 giugno. Vi aspetto a colazione il giorno dopo.

E Pierino Balla, per mostrare che anche la sua ignoranza del tedesco aveva qualche lacuna, si ritirava mormorando:

Danke... Danke... Grazie... Merci... Danke schön...

Quando fu fuori, scendendo le scale, ricapitolò gli avvenimenti. Aveva accettato una colazione a Vienna: doveva dunque andare a Vienna, alla città del suo sogno, alla sua patria d'elezione. Avrebbe consacrato a questo pellegrinaggio sentimentale uno degli ultimi biglietti da mille del suo piccolo peculio... Tanto, dal primo luglio, c'eran le centocinquantadue lire... E poi, prima di chiudersi al Ministero delle Poste, bisognava ancòra una volta ricordare che la vita non è che un valzer...

Per istrada urtò un amico che lo prese per il braccio e lo fermò:

— Dove vai?

— A Vienna.

[27]

— Quando?

— Stasera.

— E perchè mai vai a Vienna?

— Non lo so.

L'amico gli lasciò il braccio, lo guardò sbalordito e gli disse:

— Bada, figliuolo, tu diventi matto...

Ma già Pierino Balla riprendeva la sua strada con la testa in aria, ancòra coi piedi a Roma, già col cuore a Vienna, canticchiando a mezza voce:

Nell'aria di Vienna

c'è molta seduzion...

[29]

II. SEI TU, FELICITÀ....

[31]

Le cronache profane delle più galanti alcove e dei più ardenti amanti raccontano le disavventure di eserciti che rinunziano alla vittoria proprio davanti alla fortezza che si arrende e rinunziano quanto più fu lungo l'assedio e più desiderata e pregustata la vittoria. La sera in cui dalla sua vettura di seconda classe sbarcò sotto le massicce tettoie e tra gli ascensorini della Sudbanhoff, Pierino Balla, viaggiatore improvvisato, si trovò su per giù nella situazione poco brillante di quelli eserciti esausti proprio al momento di cogliere la palma del tanto sospirato trionfo. Un autotaxi lo trascinava rapidamente per le prime vie della metropoli e già Pierino sentiva andarsene tutta la sua forza d'amore. Quella, Vienna? Una grande [32] città come un'altra. Quei grossi palazzi nuovi gli ricordavano i grossi palazzi nuovi del Tritone di Roma e del Rettifilo di Napoli e quei tigli — eran poi tigli? — che fiancheggiavano la strada non erano in nulla diversi dai piccoli alberelli magrolini e cittadini — eran platani, ontani? non ci aveva mai badato — che fiancheggiavano a Roma via Nazionale e sotto i quali, disegnanti a terra nel riflesso della luce elettrica un merletto d'ombre e di luci, se n'era tornato tante sere a casa, uscendo dal Costanzi e fischiettandosi i suoi cari, i suoi dolci valzer viennesi. Donne bionde, se si guardava attorno, non ne vedeva per quella strasse più di quanto ne incontrasse a Roma, pel Corso, all'ora del ritorno dal Pincio, nel tepore delle belle giornate. Nè c'era musica attorno a lui oltre lo strombettìo delle automobili e lo scampanìo dei tram. Era questa, Vienna? Ed era questa la sua musica? E dov'erano i suoi valzer? Ebbe la tentazione di interrogare lo chauffeur e di domandargli se per caso non avesse sbagliato, se non fosse sceso dal treno, prima di toccare Vienna, a Klangenfurt o a Gratz, per esempio. Ma si contenne. Che diamine! Era [33] Vienna, ma una Vienna che non rassomigliava affatto all'idea canterina e ballerina ch'egli se n'era fatta a Roma, da lontano. Guardava attorno, disperatamente, oltre le vetrine dei caffè, per vedere se scorgesse nell'interno i palchetti bianchi delle orchestre e i dòlmanì rossi e le chiome bionde delle «dame viennesi». Ma che le «dame viennesi» fossero per Vienna solo un genere d'esportazione come le «ciociare», le pittoresche ed irreperibili «ciociare», per Roma? Pure riuscì a trovarle, poco più tardi, finalmente, le «dame viennesi». Disceso all'albergo, mutato d'abito rapidamente, non sapendo ancora orizzontarsi, aveva deciso di prendere in hôtel il suo primo pranzo viennese, di mangiare lì, religiosamente, il suo primo autentico panino di Vienna. Entrato nella sala da pranzo il cuore gli diede un balzo. In fondo alla sala, su un palchetto bianco stile Secessione, le «dame viennesi» — dòlmanì rossi, capelli d'oro — accordavano in una serie confusa di brevi pizzicati e di lunghe arcate, i loro violini e i loro violoncelli. Per quanto il maître d'hôtel già gli avesse scelto il tavolino e indicato con un inchino il posto assegnatogli, [34] Pierino Balla traversò difilato l'ampia sala e andò a sedersi a un tavolino proprio lì, sotto l'orchestra, posto in modo che le spalle di Pierino seduto s'appoggiavano proprio al palchetto Secessione delle «dame.» Il maître d'hôtel era accorso ad inseguirlo e garbato avvertiva:

Peut-être ici la musique dérangera trop monsieur...

Disturbarlo, la musica? E la musica viennese? Ma se non era venuto che per questa... Quando ebbe ordinato il pranzo a prezzo fisso per non andare incontro a troppe sorprese, Pierino Balla si preparò ad ascoltare con mistico raccoglimento i valzer viennesi, i valzer viennesi suonati sul luogo dalle più autentiche dame viennesi che un innamorato del color locale potesse mai desiderare. Ma alle prime note dell'orchestrina ebbe una prima delusione e rimase con in aria il cucchiaio pieno di quel potage printanier dove c'era di tutto a tal segno che non sapeva assolutamente più di niente. L'orchestrina non aveva attaccato un valzer di Fall o di Lehar, ma una canzonetta napoletana: O sole mio. Tuttavia Pierino se ne sentì in fondo lusingato nel suo amor proprio [35] nazionale e sperò, per il valzer, nel secondo pezzo. Senonchè, a canzone finita, lo aspettava la seconda delusione e più forte assai della prima. Questa lo colse mentre gustava con prudenza di cittadino di città di mare diffidente pel pesce delle città di terra, un loup de mer sauce tartare e fu sul punto di mandargli una lisca per traverso. Una «dama viennese» aveva infatti detto alla sua vicina nel più puro italiano di questo mondo:

— Dàmmi un ventaglio... Che caldo stasera!

E l'altra le aveva risposto col più gentile accento di Santa Lucia facendosi vento con un foglio di musica:

Mamma mia... E ccà se more!...

Le guardò esterrefatto. Italiane? Napoletane? Non credeva ai suoi occhi ed ai suoi orecchi. Si sturò questi, si stropicciò quelli. Era viaggiatore fresco ed inesperto, Pierino, e non sapeva ancora che, se come afferma il proverbio l'abito non basta a fare il monaco, il dòlmano rosso per lo più basta a fare la «dama viennese».

Fu così mortificato Pierino che quella sera, [36] non uscì nemmeno dall'albergo e si chiuse in camera. Si coricò nel letto alla tedesca dopo aver manifestato alla femme de chambre una meraviglia, che la faceva ridere, di non trovare lenzuola come nei letti all'italiana. Guardò la bonne, diffidente: era bionda, parlava tedesco. Ma c'era da fidarsi? Non era anche lei almeno di Trieste? Interrogò: era ungherese.

Era napoletano anche in questo, Pierino Balla: che quando finalmente, per disgraziato accidente, aveva qualche cosa da fare, vi si gettava dentro a capofitto per uscirne fuori al più presto possibile. Lo stesso giorno in cui Franz Lehar l'aveva senza volerlo spedito d'ufficio a Vienna, Pierino aveva comperato due manualetti di conversazione in francese ed in tedesco. Durante due giorni e più di viaggio non aveva avuto altra lettura e, rincantucciato nel suo scompartimento, aveva masticato senza interruzione parolacce tedesche e paroline francesi con pazienza da benedettino. E fra le vocali mute delle paroline francesi e i battaglioni di consonanti senza vocali delle parolacce tedesche dimenticava l'italiano senza riuscire ad imparare nè il francese nè il tedesco. Continuò [37] a letto, quella sera, la lettura dei suoi manualetti e la mattina dopo, al bureau dell'albergo, col manualetto aperto in mano su cui gettava di tanto in tanto occhiatine senza parere, volle esperimentare i progressi che aveva fatti. Chiese l'indirizzo del maestro Kramer e si fece spiegare l'ubicazione della strasse in cui il maestro Kramer abitava. La fraülein che gli rispondeva si sentì autorizzata da quelle sue quattro o cinque parole di tedesco a scaricargliene addosso quattro o cinquecento, a massima velocità; e Pierino, con un sorriso ebete e rassegnato, aspettava che il diluvio gutturale passasse senza ch'ei fosse riuscito a sapere in che via abitava il grande maestro nè dove fosse la via in cui il grande maestro abitava. La signorina del bureau era bionda e parlava tedesco come solo uno studio condotto fin dall'infanzia per la precisa esecuzione dei suoni più sgradevoli può permettere a gola di parlarlo. Finito il diluvio e data un'occhiatina al manualetto, Pierino s'arrischiò a chiedere alla signorina se almeno lei era di Vienna: e si sentì rispondere con aria fiera e con cipiglio [38] irritato che no, che era di Praga, che era boema.

La ricerca del maestro Kramer gli costò trenta corone d'automobile e un fiero mal di capo tanto s'era scervellato a compulsare avanti e indietro le pagine del manualetto di conversazione per riuscire a spiegarsi con chauffeurs e passanti, portinai e cameriere. Quando e come Dio volle riuscì a scovare il domicilio del maestro Kramer e in questo una piccola governante, bionda anche lei, carina, dagli zigomi assai pronunziati, dai grandi occhi azzurri; e la piccola governante, quando sentì che Pierino Balla parlava tedesco assai male, si mise a parlare assai bene francese per spiegargli che quel giorno il maestro Kramer era assolutamente irreperibile poichè proprio quella sera, al teatro An der Wien, doveva aver luogo la prima rappresentazione della sua nuovissimo operetta: Il valzer dei valzer. La piccola governante, vedendo Pierino desolato, gli consigliò di cercare il maestro a teatro all'ora della rappresentazione e, con bei modi e un francese parlato così chiaramente che anche lui lo capiva, gli fornì tutte le indicazioni necessarie [39] con una cortesia di cui Pierino non potè non ringraziarla manifestandole anche la sua meraviglia di trovare una viennese che parlava il francese comme une vraie parisienne. Ma la piccola governante ebbe un ultimo sorriso e, richiudendo la porta dell'appartamento del maestro Kramer con un bell'inchino della sua testolina bionda, spiegò:

— Non sono viennese, signore. Je suis polonaise.

I tedeschi non ammettono che il piacere del teatro li debba mandare a letto ad ore troppo avanzate nè che li possa costringere a pranzare alla svelta come dobbiamo invece far noi quando una prémière ci raduna in un teatro. I tedeschi dànno la precedenza ai piaceri del teatro su quelli della digestione. Noi distruggiamo invece questi per quelli. Ed è così che si spiega come tante produzioni teatrali ci riescano assolutamente indigeste e come il pubblico italiano dia prova sovente a teatro d'una deplorevole intolleranza. Il teatro viennese è aperitivo e quello italiano dovrebbe essere digestivo. Tra la fortuna costante degli autori tedeschi e l'ostinata avversità che accompagna [40] di solito gli autori italiani non c'è che l'ostacolo di un pranzo non digerito. Così, alle sei di sera, Pierino Balla prendeva posto all'Ander Wien in un'ultima poltroncina aggiunta che miracolosamente aveva potuto procurarsi ed ascoltò in estasi i valzer nuovissimi del maestro Kramer e associò i suoi applausi italiani disordinati ed impetuosi a quelli militarizzati, disciplinati, che dalle mani degli spettatori viennesi suonavano ad ogni fin d'atto, come il passo cadenzato d'un reggimento in marcia.

Trovò il maestro Kramer in palcoscenico tra il primo ed il secondo atto del Valzer dei valzer, circondato da una folla di ammiratori e di ammiratrici tra i quali Pierino riuscì a fatica, a furia di bitte e di pardon, ad aprirsi un varco per consegnare al maestro Kramer la letterina di presentazione che Franz Lehar gli aveva consegnata a Roma. Non appena ebbe letto, il maestro gli stese le mani e, colossale, attirò a sè il piccolo giovane italiano con tanta violenza di subitanei affetti che Pierino ebbe paura di andare a sbattere il naso contro quella montagna d'adipe e di vestiti.

[41]

— Oh, meine liebe — esclamava il maestro Kramer scuotendogli e riscuotendogli le mani fino a spezzargli le braccia — oh, meine liebe freund Lehar, il mio caro Franz... E la bella Italia... il benvenuto, mein herr...

E, senza transizione, come se Pierino non fosse venuto a Vienna che per questo, aggiunse:

— Vi voglio presentare a mia figlia... a mia figlia Eva...

Poi, dopo una pausa, stringendogli un braccio da stritolarglielo e avviandosi verso la porticina del palcoscenico:

— A mia figlia Eva che ama molto gli Italiani...

Era carina, Eva; e s'ella amava gli Italiani, tutti gli Italiani non avrebbero fatto per amar lei la minima difficoltà. Non tardò a persuadersene, Pierino, quando in un palchetto di proscenio si trovò seduto accanto a lei e alla graziosa governante galiziana che l'aveva ricevuto al mattino. Kramer, appena presentato il giovane italiano alla figlia italianofila, era ritornato a raccogliere in palcoscenico gli allori del suo trionfo. Cortese, deferente e niente affatto [42] invadente, Pierino lasciò del tutto alla signorina Eva la cura di sostenere la conversazione e si limitò ad inserire tra i suoi denti bianchissimi e i suoi baffetti d'ebano un sorrisetto cerimonioso che a qualunque parola di Eva diceva sempre, docilmente, di sì. Alcune amiche di Eva vennero, nell'entr'acte, a interrompere il discorso di lei e il sorriso di lui. Eran tutte carine, tutte bionde e parlavan tutte tedesco, talchè Pierino non capiva nulla e non sorrideva più temendo di dire con quel sorriso di sì quand'era forse invece il caso di dir di no. Quando la prima se ne riandò Pierino chiese ad Eva: «E' viennese, è vero?» Ed Eva: «No. E' morava. Provincie tedesche». Quando se ne riandò la seconda Pierino richiese ad Eva: «Ma questa è proprio viennese, non è vero?» Ed Eva: «No. E' rumena. Di Czernowitz». E quando fu la volta della terza, più bionda che mai, vestita di rosso, più che mai «dama viennese», Pierino trionfò: «Ma questa sì, è di Vienna. L'ha scritto in viso». Ed Eva «C'è scritto una bugia. E' czeca. Di Troppau». Con un fil di voce Pierino osò domandare: «Ma lei sì, lei almeno è viennese, [43] signorina...» Ed Eva con una bella risata squillante: «L'ho scritto in faccia anch'io? Come legge male lei... Io son rutena, come mio padre...»

Perchè Pierino non fosse minacciato da una improvvisa meningite sotto tanto sforzo etnografico e geografico cominciò opportunamente il secondo atto ed Eva invitò il giovane italiano a restare a sentirlo, lì, in palco, accanto a lei. Vide Pierino la giovane signorina rutena e la giovane accompagnatrice polacca comporsi a severa e contrita attenzione come si trattasse d'ascoltar Wagner a Bayreuth. Egli stesso, che pure adorava i valzer, li ascoltava di solito con più italiana leggerezza. Per la prima volta in vita sua un valzer, il valzer dei valzer, tant'era suonato e danzato con gravità sacerdotale, chiamò uno sbadiglio su le sue labbra. Lo nascose garbatamente in quell'ombra da cui guardava estatico la bella signorina Eva, la signorina Eva, cioè, che a prima vista sembrava bella ma che a guardarla meglio era solo piacente perchè nel suo viso c'erano tutti gli stili come nella carta geografica del suo paese ci son tutte le razze: fronte [44] greca, naso napoleonico, labbra ebraiche, occhi chiari cristianissimi, zigomi slavi, capelli biondi slavati più svizzeri che viennesi. Era elegante, aggraziata, con una piccola grinta un po' ringhiosa che contrastava con l'urbanità più che affabile delle sue parole. Nè grande nè piccina, era una piacente mediocrità femminile che poteva passare anche inosservata se si fosse chiamata semplicemente Mayer o Muller ma che, chiamandosi Kramer, essendo la figlia del celebre maestro Kramer, avendo certo per dote un bel milioncino di corone e una villa in Carinzia di cui ella aveva già parlato al giovane visitatore, non poteva certamente lasciare nessun cuore maschile indifferente. Durante l'intero atto ella e la giovane polacca non interruppero che tre volte il silenzio per guardare verso un gruppo d'ufficiali ch'era in un palco e per brontolare in tedesco parole nervose e precipitose nelle quali Pierino non raccolse che queste, chiare ed oscure insieme: herr major Hampfel. E lo vide, Pierino, il major Hampfel quando, alla fine dell'atto, tornata la luce, scoppiati gli applausi, il bell'ufficiale si levò in piedi e dalla sua barcaccia s'inchinò [45] alla signorina Eva la quale credette opportuno di spiegare a Pierino:

— Il maggiore Hampfel, degli usseri... marito della mia più cara amica... prossimo ad essere destinato come attachè militare alla nostra ambasciata di Roma.

E, con un sospiro, Eva aggiunse:

— Beato lui che vivrà a Roma... Adoro Roma. Il Foro... L'Excelsior... Bellezze uniche al mondo!

E, squadrando Pierino come per misurarne l'altezza morale e materiale:

— Siatene fiero, signore.

Era fiero, sì, Pierino, di sentirsi dire da Eva tante cose carine su l'Italia così piacevole pei turisti, su gli italiani così garbati e così gentili con tutti, che cantano tutti così bene, che amano tanto la musica viennese.

— So che la musica di mio padre, disse Eva, è popolarissima in Italia... E vedete come amo l'Italia io... Mastico anche un po' d'italiano quasi passabilmente... Ho avuto una istitutrice triestina.

— Ah sì? Di Trieste?, esclamò Pierino con nobile slancio patriottico.

[46]

— Di Triest! corresse con prudenza politica Eva.

Durante il terzo atto Pierino sentì ancora le due signorine brontolare in tedesco e ancora non riuscì che ad afferrare due o tre volte le parole chiare ed oscure insieme: herr major Hampfel. Poi, quando la rappresentazione fu finita, Kramer tornò nel palco con un gruppo di attrici e di amici e mentre Eva indossava il mantello disse:

— Andiamo tutti a cena al Prater.

Poi, voltosi a Pierino, gli disse in un italiano a modo suo:

— Voi ci farà il piacere di soupare con noialtri.

Senza farselo dire due volte Pierino corse al guardaroba a ritirare il suo soprabito. Anche là una bella ragazza bionda, in una specie di divisa fra il portinaio e l'ammiraglio, serviva il pubblico con grazia tutta viennese. Distratto, ed anche perchè in tedesco non trovava la parola, quando fu per pagare Pierino le domandò:

— Quanto?

[47]

Sentì la bella ragazza viennese rispondergli in italiano:

— Una corona, signore, e la sua buona grazia.

E mentre cercava nel suo portamonete la corona e la buona grazia, Pierino non potè non esclamare:

— Come? Lei non è viennese?

E la guardarobiera con un bel sorriso chiaro di casa nostra:

Mi no, sior... Mi son de Trento!


Li sentì e li risentì finalmente, Pierino, i suoi cari valzer di Vienna, durante quella cena al Prater, suonati e risuonati da decine di orchestrine di «dame» autentiche o no e di zigani artificiali o naturali poste al centro di tutti i restaurants che punteggiavano di architetture elettriche le dolci ombre del bel parco viennese. Uscendo alle dieci precise, a diese uhr, dai cinquanta teatri della metropoli, Vienna elegante e mondana affluiva al Prater, a piedi, in vettura, in cento automobili rombanti e scintillanti, discendendo lungo i quattro chilometri dell'Hauptallee tra i tigli odoranti, le aiuole fiorite e i [48] pali della luce elettrica tutti adorni di fiori come nel fasto capriccioso d'una primavera artificiale. Luci rosse, azzurre, gialle, bianche, balenavan qua e là disegnando nel verde notturno le sagome dei restaurants e delle birrerie, dei caroselli e dei circhi equestri del Wurstelprater. Seduto con belle signore fiorenti e giovani signori eleganti ad un tavolino en plein air del restaurant più accorsato, tra il maestro Kramer che gli parlava di musica e la signorina Eva che con gli occhi languidi e lo sguardo lontano aveva l'aria di sospirare d'amore, Pierino viveva la sua dolce sera viennese come nel dormiveglia d'un mezzo Sonno. Sentì ancora due o tre volte tornare nella conversazione metà tedesca e metà francese il nome dell'herr major Hampfel. Chi poco parla — e Pierino era muto assolutamente — ha luogo più degli altri di osservare; e due o tre volte infatti notò che, quando la gente nominava l'herr major Hampfel il maestro Kramer si oscurava in volto, come se quella sera non gli avessero metodicamente applaudito alla tedesca il suo Valzer dei valzer, ma come se gliel'avessero invece genialmente ed estemporaneamente fischiato [49] all'italiana. E poichè la natura gli aveva dato due occhi e, benigna, glieli aveva accordati eccellenti tutt'e due, mentre col sinistro osservava il malumore del maestro, col destro Pierino seguiva il linguaggio muto di Eva la quale, non appena l'herr major era nominato, cercava gli occhi della signorina galiziana ed intavolava così un linguaggio cifrato impossibile a comprendersi. Intanto i valzer seguivano ai valzer, nuovi e nuovissimi, vecchi e vecchissimi e, in estasi, Pierino si lasciava cullare da loro, guardando le stelle e i lampioncini, i dòlmanì delle dame viennesi e gli alamari d'oro degli zigani e lasciando squagliare nel suo piattino la fetta di spumone all'italiana che un cameriere gentleman più dei gentlemen che serviva vi aveva delicatamente deposto. Sentì in quell'estasi un'altra musica italo-austriaca, poichè la vocina della signorina Eva gli susurrava all'orecchio con pronunzia prettamente austriaca parole approssimativamente italiane:

— Vedete, qui, davanti a noi, questi viali oscuri che si perdono nell'ombra? E' il centro, il cuore del Prater, non ridotto a giardino [50] ma tenuto a bosco. E', di notte, l'angolo caro agli innamorati.

Ci andò pochi minuti dopo a passeggiare anche lui nel cuore del Prater, con la signorina Eva mollemente appoggiata al suo braccio. S'era levata da tavola, gli aveva chiesto una sigaretta, una sigaretta italiana — che gli Italiani chiamano chi sa perchè Macedonia mentre su la Macedonia, avvertì la signorina Eva, l'Austria ha gli occhi ben spalancati — e, accesa la sigaretta, gli aveva detto con un sorriso che, volapück universale, gli aveva fatto capire più di un intero vocabolario:

— Voglio far vedere anche a voi il cantuccio degli innamorati.

Pei viali sempre più oscuri, sempre più remoti, Pierino sentiva il dolce peso del braccio della signorina Eva farsi sempre più grave sul suo braccio destro. Ella taceva e fumava. Ai riflessi multicolori che penetravan fra gli alberi i capelli d'oro di lei s'accendevano di scintille. E ad un tratto ella disse fermandosi di colpo e guardandolo bene in viso:

— Voi dovete amare l'amore. Siete Italiano.

E senza aspettare la risposta, che del resto [51] Pierino cercava disperatamente senza trovarla, aggiunse riprendendo la via:

— Voi Italiani siete i primi innamorati del mondo.

Pierino credette doveroso d'inchinarsi leggermente ringraziando a nome di tutt'i suoi connazionali e sentì che Eva proseguiva:

— Avete tutti il Vesuvio nel cuore e negli occhi e una canzone su le labbra.

Trovò Pierino la risposta che gli parve straordinaria:

— Come voi viennesi avete tutte nel cuore e su le labbra il più dolce dei valzer!

La signorina Eva rideva:

— Che cosa credete che Dio abbia inventato prima: il valzer o l'amore?

Pierino ebbe un lampo di genio:

— Dal valzer, rispose, nacque l'amore e dall'amore nacque il valzer, signorina.

Eva rise ancora. Poi, quando un'orchestra vicina ma nascosta tra gli alberi sospirò dai violini il più appassionato valzer del repertorio, il Sei tu, felicità... di Lehar, ella disse con un sospiro:

— Ah, il mio valzer...

[52]

— Ed anche il mio, sospirò a sua volta Pierino.

Lo ascoltarono rallentando il passo, lo canterellarono a fior di labbra stralunando gli occhi in su, verso le stelle. E il dolce peso del braccio di Eva si faceva sempre più dolce ma sempre più grave. Sospiravano i violini la dolce melodia:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

— Quante cose..., mormorò ancora Eva. Quante cose dice questo valzer... Non sentiamo tutti, in certi momenti, che forse la felicità ci passa vicino e che non sappiamo arrestarla e dirle come il nostro Goethe all'attimo fuggente: «Fermati, sei bella...»

— E' vero... E' vero..., mormorò Pierino che di Goethe conosceva appena il Mefistofele di Boito.

— La vita è così, continuava Eva. Si va, si viene, si arriva, si parte, ci si incontra... E poi... E poi un giorno, forse, ci si sospira:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

[53]

E canticchiava, coi violini delle «dame viennesi».

— E' il mio valzer, il mio valzer! ridisse poi quando la sua vocina non potè raggiungere l'acuto. Ricordo la prima sera che Lehar lo suonò a casa nostra... Se ci ripenso, mi sento ancora gli occhi umidi di lacrime... Ah, la vita...

Poi, senza transizione:

— Siete ricco, voi?

— No, signorina, rispose Pierino; e, temendo di far fare brutta figura agli Italiani: — Era ricco mio padre. Ma poi, la vita...

— Lavorate? Siete avvocato?

— Sì, signorina.

— Avete molte cause?

— Comincio adesso.

La signorina Eva lo incoraggiò:

— Si capisce. Ma farete fortuna. Tutti si deve cominciare... Anche mio padre era suonatore di contrabasso in un teatro di provincia... Quando si è giovani... E poi voi Italiani siete tutti oratori!

Ma la signorina Eva non aveva esaurito ancora le sue domande:

[54]

— Siete fidanzato?

— No, signorina.

— Avete allora un'amante?

— No, signorina.

E Pierino, cortese, si credette in dovere di diventar rosso per lei. E più diventò rosso, anche per sè, quando sentì il peso del braccio di lei sul suo braccio farsi più grave e sempre più lungo, sempre più lungo. E, poichè temeva di far sfigurare gli Italiani, Pierino si credette in obbligo di rispondere a quel peso con una piccola stretta, leggera, che poteva anche sembrare involontaria, ma che volontariamente invece gli fu sùbito restituita.

— Rimarrete a Vienna qualche tempo? chiese a voce bassa la signorina Eva...

— Oh sì, signorina... E come potrei ripartire?

Non chiese la signorina Eva ulteriori spiegazioni. Mormorò solamente:

— Potremo rivederci spesso, così...

E poichè il valzer di Lehar riprendeva, tornando indietro verso le illuminazioni dei restaurants e appoggiandosi al braccio di Pierino come se fosse tanto stanca, tanto stanca, ella [55] ricominciò a cantarellare con gli occhi fissi lassù alle stelle del carro di Boote:

Sei tu, felicità,

passata a me vicino...

Poi, scoppiando a ridere, esclamò:

— Il mio valzer... Il «nostro» valzer...

E, lasciato il braccio di Pierino, giunta al confine tra il bosco d'amore e il Prater mondano, corse via verso la tavola di suo padre e dei suoi amici...


L'oscurità concilia, dicono, i più profondi pensieri e Pierino non pensava infatti profondamente che al buio. Così quella sera, quando fu a letto ed ebbe spenta la luce elettrica, questo pensiero gli apparve come una rivelazione: «Ma se in tre ore ho fatto già tanta strada, io in trenta giorni me la sposo...» Non poteva veramente aspettare un mese perchè il suo tavolino di vice-segretario di terza classe alle Poste lo attendeva. Ma se ne rideva di quelle centocinquantadue lire se il valzer di Lehar, se quel delizioso Sei tu, felicità... doveva regalargli [56] il milioncino della signorina Kramer e la villa in Carinzia.

Ma Pierino era prudente e, nella prudenza, diffidente. Gli sembrò che gli Dei gli fossero troppo clementi nel fargli trovare tre ore prima il maestro Kramer e tre ore dopo una mogliettina d'oro bell'e pronta. Lì, a occhi chiusi, si rivedeva davanti l'herr major Hampfel ne sentiva ripetere il nome, riudiva le parole di Eva: «Il marito della mia migliore amica... Beato lui!... Verrà a Roma, attachè militare della nostra Ambasciata...» Rivide anche il malumore del maestro Kramer all'udire quel nome ed il sorriso di complicità con cui la signorina galiziana rispondeva agli sguardi interrogativi di Eva. Tutti questi ricordi oculari ed auriculari turbavano un poco la gioia che gli inondava il cuore... Se quel major Hampfel... Se la signorina Eva... Il marito della sua migliore amica... Ed il major Hampfel veniva a Roma... E Pierino era italiano e risiedeva proprio a Roma... Era, intuito, intravveduto, accennato appena, il romanzo, l'intrigo, il dramma, l'occasione propizia offerta dal caso per riparare a Roma ciò che a Vienna s'era imprudentemente [57] guastato... Ma Pierino, che era ottimista, scosse quei pensieri neri e si disse: «Come siamo curiosi, noi Italiani... Romantici tutti!.... Vediamo sùbito il dramma e il romanzo anche dove c'è semplicemente l'idillio... Che vuol dire se quest'idillio è stato troppo rapido?... L'ho forse inventato io stasera il coup de foudre

E, per tornare a pensieri leggeri, aveva riacceso la luce elettrica e, a piedi nudi, in camicia, era andato a porsi davanti all'armadio a specchio. Che c'era poi di tanto strano in quel coup de foudre? Non poteva egli sprigionar d'improvviso l'elettricità di un cuore femminile? Era lì, nello specchio... Si guardava spassionatamente, come si trattasse di un altro... Era, dopo tutto, un bel ragazzo... E non c'era nulla, proprio nulla di strano...

— Avanti!

Sopra pensiero aveva risposto avanti... non riflettendo che così, in camicia, non era in condizioni da ricever visite a quell'ora. Ma già una graziosa cameriera bionda, che non era più l'ungherese della sera prima, era entrata portando una bottiglia d'acqua che Pierino non [58] ricordava affatto d'aver richiesta. Anzi, poteva giurarlo...

Voilà l'eau, monsieur...

E, premurosa, la camerierina si avvicinava a Pierino che aveva in fretta reintegrato il suo letto, e versava l'acqua nel bicchiere, e offriva il bicchiere e un sorriso quanto mai incoraggiante. E Pierino ch'era italiano, Pierino che, come diceva Eva, aveva il Vesuvio nel cuore accettò l'acqua, il sorriso e l'incoraggiamento. E la luce si spense senza che Pierino si fosse accorto di spegnerla...

Quando la riaccese per permettere alla camerierina di rispondere a un ostinato squillo di campanello nel corridoio, Pierino si sentì completamente rassicurato nei suoi timori di poco prima per Eva Kramer e per la sua troppo subitanea fortuna.

— Lo dicevo io? si disse sorridendo. Prima di tutto, è merito mio... E poi... l'ho visto anche adesso... Son tutte così, queste viennesi: ardenti, appassionate, di primo impeto...

E poichè la camerierina bionda tornava a riprendere la cuffietta dimenticata scappando via:

[59]

— Tu sei viennese, è vero, carina?

E lei, augurandogli con un sorriso la buona notte, rispose:

— Io no. Son croata!

Croata?

«E dire» — pensò Pierino — «che i professori di Storia ci insegnavano a scuola che i croati son gente tanto cattiva... Per le croate, perdio, posso garantir io del contrario!...»

[61]

III. QUATTRO STRACCIONI

[63]

L'irredentismo italiano, poichè non era un valzer, aveva sempre lasciato Pierino Balla perfettamente indifferente. Aveva una vaga idea della questione. Cadore, Carnia, Alpi Giulie, eran per lui indicazioni incerte, che non si collegavano nel suo spirito geografico e patriottico a nulla di molto preciso. Sapeva, sì, che erano lassù, a destra per chi guardava una carta d'Italia; ma se gli avessero dato l'incarico di segnarne l'ubicazione sopra una carta muta avrebbe dovuto dire: indovinala grillo e affidarsi alla benignità del caso.

Del Trentino aveva un'idea un po' più chiara perchè nel periodo di una lunga indisposizione, durante la quale non aveva potuto andare a teatro, gli era capitato di leggere una [64] serie d'articoli dell'onorevole Federzoni sul lago di Garda e annessi e connessi. Immaginava così il Trentino come un'immensa scalinata di montagne sempre più alte che dal «Gardesee» si spingeva su su a quel Brennero che per lui era l'estremo limite delle sue conoscenze geografiche come l'estrema Thule era per gli antichi Romani del grande Impero. Dell'irredentismo in generale e in particolare poco sapeva. Non credeva che il problema avrebbe mai potuto turbare i rapporti fra la sua cara Austria e la sua diletta Italia, poichè durante decine e decine d'anni tutt'i ministri degli Esteri della Consulta e della Ballplatz avevano potuto, non ostante quella questione, incontrarsi periodicamente ad Abbazia per diramare di comune accordo i più rassicuranti comunicati ufficiali. Tutto l'irredentismo non aveva per lui che due manifestazioni ugualmente periodiche ed egualmente inoffensive: un discorso del D'Annunzio ogni tanto in cui il poeta chiamava l'Adriatico «l'amarissimo Adriatico» e la rielezione di legislatura in legislatura dell'on. Barzilai, triestino, a deputato del quinto collegio di Roma. C'era anche, a dire il vero, il [65] nome di Guglielmo Oberdan che tornava periodicamente su i giornali. Ma anche quel nome, come Cadore o Carnia, non evocava nel suo spirito nulla di preciso oltre una vaga idea di dimostrazioni proibite e di questurini in movimento. E c'era infine un singolare fenomeno d'agorafobia — paura delle piazze — per cui gli studenti romani non potevano mai passare in piazza Colonna, sotto il palazzo Chigi dove aveva sede l'ambasciata d'Austria, senza essere vittime di una nuova crisi nevrastenica che si manifestava con grida di «Viva Trento e Trieste» e si calmava sùbito con tre squilli di tromba.

In queste condizioni di spirito gli sarebbe stato assolutamente impossibile prevedere ciò che il destino gli preparava facendolo incontrare a Vienna, nella più dolce sera del Prater, con gli occhi azzurri — azzurri come il Danubio è azzurro non già sotto i ponti di Vienna o di Budapest ma nel valzer famoso — con gli occhi azzurri della signorina Eva Kramer. Di nulla sospettando Pierino Balla s'affidò alle apparenze benigne della sorte. Non erano trascorsi quindici giorni che già, per lettera, [66] sotto dettatura della signorina Kramer, egli chiedeva al maestro Kramer che gli venisse concesso l'onore di avere nella sua mano di sposo la mano di sposa della sua cara figliuola. E non era trascorso un mese e mezzo che la signorina Kramer e Pierino Balla, una mattina, alla Sudbanhoff, salivano in uno sleeping-car diretto a Pontafel e da Pontafel in Italia. C'erano alla stazione molti amici a salutarli, tutti gentili, tutti carichi di fiori. Ma il più gentile di tutti, di tutti il più affettuoso, fra tutti il più infiorato, era l'herr major Hampfel, accompagnato da una frau la cui età l'avrebbe designata più per esser la moglie d'un generale a riposo che quella d'un maggiore in piena attività di servizio. Ad Eva ed a lui l'herr major Hampfel aveva ripetutamente stretto la mano ed aveva più volte confermato che si sarebbero presto ritrovati a Roma poichè entro un mese, o due tutt'al più, avrebbe dovuto raggiungere il suo posto d'attachè militare all'Ambasciata d'Italia. Ed il major Hampfel, che era stato a Roma in viaggio di nozze ed anche per compiere, approfittando della buona occasione, alcuni suoi specialissimi studii di [67] carattere militare, si affannava a dare ad Eva tutte le indicazioni che potevano esserle utili. Sentiva, Pierino, la tentazione di dire ad Hampfel che risparmiasse il fiato poichè Eva poteva contare, per gli orientamenti necessarii, su la sua discreta competenza di italiano e più che di italiano addirittura di napoletano romanizzato. Ma il galateo avverte che le persone bene educate devono avere sempre una parola di meno e Pierino, anche per ingenita timidità, era molto bene educato. Non capiva però come l'herr major Hampfel non s'accorgesse che tutte quelle prolisse spiegazioni erano superflue nè perchè mettesse nel darle una così grande insistenza. Non osservò, Pierino, che le spiegazioni romane dell'herr major Hampfel cominciavano sempre con poche parole di francese o d'italiano e finivano poi in un diluvio di parole tedesche. E anche se l'avesse osservato, Pierino, che non sapeva il tedesco, non avrebbe potuto rendersi conto che quelle indicazioni su Roma, che parlavan di Roma finchè erano in francese o in italiano, quando diventavano conversazione in tedesco non parlavano più che di Vienna. E quando finalmente [68] il treno si mosse, di tra le voci di saluto di Kramer e degli amici, si levava ancora la bella voce baritonale dell'herr major Hampfel:

Aufwiedersehen!... Aufwiedersehen!...

Ed Eva spenzolata dal finestrino, agitando il fazzoletto, con gli occhi lacrimosi, gridava ad Hampfel:

— A Roma! A Roma!

E l'herr major a sua volta:

— A Roma! A Roma!

E Pierino era commosso e lusingato. Con che accento parlavan di Roma quelli austriaci! E come poteva non esser sicura per l'Italia l'amicizia di un grande popolo che amava Roma a quel modo?...


Perchè Pierino non era precisamente nazionalista ma era indubbiamente patriota. Entrato in Italia, trascorsa la prima notte di matrimonio in un alberghetto di confine metà austriaco e metà italiano e che però sembrava fatto apposta per il caso loro, Pierino condusse la sua sposa a Milano e a Venezia, a Genova e a Pisa, prima di prendere la via di Roma. E, con [69] lo stesso ardore con cui un garibaldino può mostrare ai nipoti su la camicia rossa le vecchie medaglie delle guerre dell'indipendenza, Pierino mostrava ad Eva i piccioni di piazza San Marco e il caffè Cova a Milano, il traffico del porto di Genova e la torre pendente di Pisa. Eva dimostrava per quelle diverse bellezze italiane — cieli azzurri e caffè eleganti, vecchie chiese ed alberghi moderni, torri illustri e cartoline illustrate di paesaggi napoletani e siciliani — lo stesso irrefrenabile entusiasmo che Pierino aveva per i valzer del repertorio viennese. E, se Eva era fiera dei suoi valzer, Pierino era fiero delle sue cartoline illustrate. Nel giovanissimo ménage italo-austriaco ognuno portava l'orgoglio più che legittimo delle rispettive glorie nazionali.

La dichiarazione di guerra tra Germania e Austria da una parte e Francia e Russia dall'altra li sorprese una sera, a Napoli, nell'hall di un grande albergo, in estasi dinanzi ad una tarantella sorrentina riesumata tre volte alla settimana, dalle vecchie tradizioni locali, ad uso e consumo dei touristes amanti di color locale. Nel giornale che leggevano insieme febbrilmente [70] Pierino corse sùbito a vedere che cosa faceva l'Italia ed ebbe la consolazione — poichè il suo spirito era pacifico ed umanitario ed al suo cuore di buon figliuolo la carneficina della guerra faceva spavento — ebbe la consolazione di veder che l'Italia rimaneva neutrale. Da parte sua Eva non fu molto commossa dal terribile annunzio: apparteneva ella ad una schiatta guerriera ed ella aveva sùbito trovato, come un giornalista viennese o berlinese, prima ancora di leggere i giornali di Berlino o di Vienna, l'alibi della innocenza tedesca: terribile flagello la guerra, ma l'Austria non l'aveva voluta: l'avevan voluta la Serbia e la Russia. Del resto la guerra avrebbe avuto breve durata.

Eva pontificò sùbito fra i clienti neutrali dell'hôtel: la Serbia sarà sùbito rimessa al suo posto con uno scappellotto e l'occupazione di Belgrado al primo colpo di cannone. Sùbito dopo, sgominato il piccolo nemico del sud, l'intero esercito austro-ungarico — sette od otto milioni di uomini, signori e signore! — avrebbe saldato la partita, in un sol giro di carte, col nemico del Nord, con la Russia che ha [71] molti uomini ma non può armarli, che ha smisurati territorii ma limitatissime ferrovie e quindi l'assoluta impossibilità di una rapida e intera mobilitazione. Dall'altra parte intanto la Germania avrebbe pensato a dare alla tracotanza francese la lezione che si meritava e se Guglielmo I aveva nel '70 impiegato qualche mese per arrivare a Parigi, nel 1914 l'Imperatore Guglielmo II se la sarebbe sbrigata in due settimane. E lì, davanti a un gruppo di italiani attoniti, di neutrali soggiogati dalla visione guerriera della strapotenza austro-tedesca, Eva Kramer risolveva la guerra in quattro e quattr'otto, come se manovrasse su un tavolino due eserciti di soldatini di piombo. Poi cadde dal tono eroico al tono elegiaco: aveva due fratelli, uno avvocato di grido, l'altro gran medico, tutt'e due militari, ufficiali, degli usseri il primo, d'artiglieria il secondo. Poveri ragazzi! Avevano l'uno e l'altro moglie e figliuoli. Ma, con spartana fermezza, Eva concluse che queste erano le necessarie abnegazioni della guerra e che occorreva nell'ora della prova aver coraggio e speranza. Tanta meravigliosa energia rapì d'entusiasmo il suo piccolo [72] pubblico ed Eva approfittò di quel momento propizio per levarsi e ritirarsi, scortata da Pierino, nel suo appartamento, allontanandosi con dietro una scìa d'ammirazioni e d'approvazioni. «Che donne, sentiva dire, queste tedesche.... Tutte d'un pezzo!». Sentiva anche Pierino e rialzava fiero la fronte, nell'orgoglio d'avere una moglie solida e ferma a quel modo, una moglie infrangibile, come le più belle bambole tedesche dei bazars di Norimberga.

In ascensore Eva domandò: «E Hampfel?». Pierino, che non aveva chiaramente compreso la domanda, non seppe che cosa rispondere e per prendere tempo e capire meglio rinnovò a sua volta il punto interrogativo: «Già, e Hampfel?». Ma sua moglie chiarì la domanda: «Andrà alla guerra anche lui?». Pierino si strinse nelle spalle strette e attillate dello smoking e timidamente, senza prendere posizione, mormorò: «È soldato....». Ma Eva rispose: «No, non è soldato, Hampfel.... Ora è diplomatico e per i diplomatici c'è l'esenzione. Io dico che raggiungerà egualmente la sua destinazione a Roma....» Parve [73] a Pierino di vedere negli occhi della moglie il desiderio, l'ordine quasi di un consenso e, docile, approvò: «Dico anch'io così....».

Pel corridoio, raggiungendo le loro camere, Eva ebbe bisogno ancora di rafforzare il suo rassicurante convincimento: «Io dico che, specialmente adesso, non possono lasciare l'Ambasciata di Roma senza attachè militare.... È vero che l'Italia è neutrale, ma anche i neutri van sorvegliati....». E il major Hampfel fu così la transizione per passare dalla questione europea alla questione italiana. Su questa Eva non aveva ancòra fermato il suo pensiero. Ma ce lo fermò appena giunta in camera e, piantatasi di fronte al marito, gli aprì gli occhi negli occhi e gli sparò a bruciapelo la prima revolverata polemica:

— Ma, a proposito, perchè l'Italia è neutrale?

Pierino, che si stava già sfilando lo smoking, rimase con mezzo braccio nella manica e mezzo fuori. Pin, pan.... Seguì la seconda revolverata:

— Non c'è la Triplice Alleanza?

Pierino stimò opportuno rinfilare la manica [74] e riprendere un atteggiamento corretto. Venivano sul tappeto gravi questioni diplomatiche e conveniva accoglierle in abito da cerimonia. Pin, pan, pan.... Terzo colpo di revolver:

— Non mi rispondi?... Come? Eravamo in tre e a far la guerra non siamo più che in due?

Pierino si strinse nelle spalle:

— Ma....

L'enigmatica risposta non persuase Eva Kramer.

— Ma un corno, mio caro....

E poi, senza pausa:

— Chi è questo di San Giuliano?

Pierino fu lieto di potersi precipitare a fornire una risposta precisa:

— È il ministro degli Esteri, disse.

— Grazie tante, questo lo so, ribattè Eva. Io ti domando che uomo è.

— Abbastanza giovane, molto distinto.

— Politicamente.

— Sai, è senatore e al Senato i partiti politici non son chiaramente segnati come alla Camera.

— Ti domando di dove è.

[75]

— Ah, siciliano!

— Ma di dove politicamente, ti ripeto... Di che gruppo, di che tendenza.... Triplicista, antitriplicista?

— Triplicista, diamine... In Italia siamo tutti triplicisti.

— Ma come la pensa?

— Su questo non posso risponderti.... Sai, è ministro. E i ministri i loro pensieri non li comunicano a me.

Eva scosse le spalle e s'allontanò per la camera, con una smorfietta sprezzante, sino alla finestra a guardare il mare e Posillipo sotto la luna d'estate.

— Non sei un gran politico, tu?... Pure sei del paese di Machiavelli, di Cavour....

E aggiunse, senza misurar le distanze:

— E di Giolitti!

Tizio richiamò Caio. Il nome di Giolitti suggerì un'altra domanda:

— E Salandra?

Pierino assunse un'aria profonda:

Homo novus!

— Che vuol dire?

— Lo chiaman così nei giornali.

[76]

Si persuase Eva che in fatto di informazioni precise non c'era modo di cavar proprio nulla da Pierino. Tornò quindi alla questione generale.

— Ma, insomma, come potete non far la guerra, voi italiani?

Pierino fu ebete e perentorio:

— Non la facciamo.

— È certo?

— Lo dice la Stefani.

— Chi è la Stefani?

— Il Governo, spiegò Pierino nel suo solito stato d'idee poco chiare. L'agenzia ufficiale.

— Ho capito: la Reuter.

L'ignoranza politica di Pierino si rivelò intera:

— Non la Reuter, la Stefani....

Reuter o Stefani è la stessa cosa, ribattè Eva.

E Pierino, non persuaso ma docile, stringendosi ancora nelle spalle:

— Sarà....

[77]

Così al telefono come al restaurant, così nelle tornate parlamentari come nelle discussioni private, chi meno ottiene risposta dalla signorina o dal cameriere, dal ministro o dall'interlocutore, più si ostina a domandare. L'insistenza è una delle più naturali abitudini dello spirito dell'uomo e solo così si spiegano la popolarità e la fortuna che accompagnano il giuoco del lotto e l'estrazione di qualsiasi lotteria. In una testa tedesca questa virtù dell'uomo civilizzato diventa ancora più accentuata e l'insistenza cambia nome, e prende quello di caparbietà. In una testa come quella dell'ex-signorina Kramer questo difetto tedesco diventava ancor più accentuato, e la caparbietà cambiava nome, e prendeva quello di testardaggine. Così, per quanto Pierino eludesse le domande precise, svicolasse nei mezzi termini, battesse la campagna fra il sì ed il no, sua moglie non si dava per vinta. Prima a Napoli, poi a Roma quando furono installati al Grand Hôtel in attesa di cercare un villino nei quartieri eleganti, Eva Kramer, mattina e sera, sera e mattina, assediava suo marito con innumerevoli batterie di punti interrogativi. Perchè [78] l'Italia s'era dichiarata neutrale? Che paese era mai questo che al momento del pericolo abbandonava gli amici e dimenticava la parola data? E che cosa erano dunque questi italiani, cantastorie e menestrelli, che gridavano per le vie di volere Trento e Trieste — a Eva Kramer era capitato un giorno di dover sentire anche questo! — e gridavano di voler l'una e l'altra dopo aver cercato per trenta anni, in un'alleanza, il più comodo alibi per eliminare il pericolo ed eludere il dovere di andarsele a pigliare? A furia di stringersi nelle spalle Pierino s'assottigliava in modo da far pietà. I suoi valzer erano muti al riguardo delle curiosità di sua moglie. Le dava ragione perchè non trovava argomenti per darle torto. Nè i giornali potevano illuminarlo. Non usciva che con sua moglie e in albergo non erano ammessi che i giornali graditi al barone Macchio e al principe di Bulow. In questi Pierino cercava invano: non vi trovava che gli stessi punti interrogativi di sua moglie. Diventava per lui un'ossessione. Avrebbe voluto fermare per via il primo passante e domandargli: «Scusi, perchè l'Italia è rimasta neutrale?», [79] così come si può domandare, se avvenga di aver dimenticato l'orologio a casa: «Scusi, sa dirmi che ora è?». Tentò, un giorno che era rimasto solo nell'hall dell'albergo ad aspettar sua moglie che era salita a mutar vestito. Chiese dei sigari ad un cameriere rasato, pelato, levigato, roseo e tondo come una pallina di bigliardo, che era assai cerimonioso e sembrava molto affabile. Per propiziarselo, non prese il resto delle cinque lire con cui aveva pagato cinque sigari trabucos.... E, mentre il cameriere gli tendeva l'accenditoio, Pierino sospirò, tanto per cominciare: «Ah, questa benedetta guerra....» E il cameriere, spegnendo con lo stesso soffio la fiamma della candela e l'entusiasmo di Pierino: «Ah, oui, monsieur. Parto domani, richiamato alle armi.... Je suis allemand....»

Fu ancora peggio più tardi, quando Giolitti cominciò a parlar di «parecchio» e Salandra di «sacro egoismo», quando i giornali, anche quelli cari alla politica tedesca e più triplicisti della Triplice, tanto da nascere proprio quando la Triplice moriva, cominciarono a parlare di negoziati e di trattative a Londra e a [80] Vienna, di concessioni da una parte e dall'altra. Ad ogni nuova notizia in proposito Eva gli si piantava davanti col giornale in mano, impugnato come se fosse una bandiera austriaca sotto forma di giornale italiano, e cominciava la filippica:

— Ma come? Dopo aver stracciato un trattato scientemente firmato (queste cacofonie provavano che Eva, per quanto figliuola d'un delizioso musicista, non aveva il minimo senso dell'armonia nella prosa italiana) questi italiani avrebbero anche osato d'impugnare le armi, fedifraghi non solo ma briganti addirittura, contro gli amici di ieri impegnati a tener fronte per mare e per terra a mezzo orbe terracqueo? E c'erano dimostrazioni per le vie? Naturalissimo. L'oro francese.... La Massoneria.... Ma contro la corruzione della piazza che diceva la Camera, che faceva il Governo, che pensava il Re? E se tutti fossero stati così sconsigliati da volere la guerra contro gli austro-tedeschi, che sarebbe accaduto? Avrebbe Pierino preso un fucile e sparato contro il major Hampfel, contro i suoi cognati, magari in caso di leva in massa contro suo [81] suocero, per chiudere ai soldati austriaci la via di Milano o, peggio ancora e orribile a dirsi, per aprire ai soldati italiani la via di Vienna?

A questi ultimi punti interrogativi Pierino esultava. Traeva di tasca il suo foglio di congedo assoluto. Non solo era soldato di terza categoria, ma anche nella terza categoria era riformato per deficienza toracica. «Ma ti possono rivedere. Il torace è cresciuto» obbiettava Eva. Ma Pierino era rassicurato e rassicurante: «Non c'è pericolo. Non rivedrebbero i riformati.... Abbiamo tanti uomini, noi.... Non siamo mica la Francia.... Noi facciamo figliuoli...» E si guardava attorno con fierezza, come se avesse lì, sul tappeto, un paio di dozzine di rampolli.... Ma rispondere agli altri punti interrogativi era più difficile. E poichè non sapeva come giustificar quella corrente che si formava nel paese si mise a negare addirittura che la corrente ci fosse. E una sera diceva ad Eva:

— Mia cara Eva, puoi dormire i tuoi sonni tranquilli. Siamo neutrali, è vero, purtroppo è vero, ma non per questo non rimaniamo, se [82] non proprio alleati, certo vostri sinceri amici. Ad allearci di nuovo penseremo poi, dopo la guerra, quando voi avrete vinto, poichè voi non potete che vincere — e l'Italia lo sa. Che vuoi, mia cara? Noi italiani siamo fatti così. Alleati in pace, ma in guerra no. Non potevamo fare altrimenti. Siamo piccini, noi, Giolitti ci ha traditi, i cannoni non li abbiamo, i soldati sono nudi come Dio li ha fatti, le finanze sono esauste e la guerra, la nostra guerricciola di Libia, che voi tanto buoni ci avete permesso di fare, ci ha addirittura sfiancati. Ah, lo dicono tutti! Se fossimo stati forti, se avessimo avuto un esercito, se l'Inghilterra avesse potuto non bombardarci le nostre città marittime, saremmo stati con voi e San Giuliano allora o adesso Sonnino avrebbero già mandato i nostri bei bersaglieri — carini, è vero, con quelle piume?... — a coprirsi di gloria, di gloria prussiana al posto che i vostri Stati Maggiori, bontà loro, avevano già assegnato ai nostri due milioncini di uomini.... Ma non è stato possibile e dobbiamo rimanere così, a guardare.... Non credere a quelli che strepitano per far la guerra. Son gli scamiciati dei [83] giornali democratici cui nessuno dà retta, son gli sbarbatelli delle scuole che cantano l'Inno di Mameli tanto per esercitare i polmoni nell'età dello sviluppo!...

E un'altra sera diceva ad Eva:

— Noi siamo gente seria, cara, che sappiamo fare i nostri calcoli e i nostri affari, che sappiamo che cosa valga la Germania e quanto l'amicizia dell'Austria serva a garentire il nostro avvenire.... Ma tu sul serio ci credi alla storiella di Trieste e di Trento? Si vede proprio che sei austriaca.... In Italia, non ci crede nessuno.... Ma se i trentini e i triestini devono a voi la loro prosperità, il loro benessere presente, passato e futuro.... Con noi — l'ho letto ieri in un giornale che ti ho messo da parte — Trieste non diventerebbe che un'anticamera di Venezia. E ti par mai possibile che chi sta comodamente in salotto preferisca d'andare in anticamera solo perchè il salotto è tapezzato di giallo e di nero, mentre l'anticamera è tapezzata di bianco rosso e verde?... Io dico sì.... Ma un po' di senso comune....

— Lo dico anch'io...., rispondeva Eva riconciliata. Ma con questi esaltati!

[84]

— Son pochi, ribatteva Pierino.

— Lo so. E aggiungerò: fortunatamente per voi!

I francesi dicono: qui se rassemble s'assemble. La stessa cosa dicono gli italiani, con veste più plebea: «Chi s'assomiglia, si piglia!» Son verità di sapienza latina, ma controllabili anche su nature tedesche, poichè nell'hall del Grand Hôtel tre o quattro coppie di mogli austriache o tedesche e di mariti italiani s'erano annusate, riconosciute, avvicinate, alleate in una lega offensiva e difensiva. Una sera un amico disse a Pierino, dopo averlo invitato ad attraversar la strada e ad andare a prendere un tè da Latour e dopo essersi sentito rispondere che non poteva assolutamente allontanarsi dall'albergo:

— Ah, già, è vero.... Tu sei della compagnia dei mariti col von...

Capiva poco, Pierino, ma quella la capì. Tentò di essere impertinente e di ribattere, ma non trovò che questo:

— E tu?

— Ah, io sono, fece l'amico, di una compagnia [85] molto più divertente: quella di «Moglie e buoi dei paesi tuoi!».


«Paesi tuoi.... Paesi tuoi...», brontolava Pierino. O perchè se nel matrimonio la moglie prendeva il nome del marito, questo, per rendere l'attenzione, non poteva prendere il paese della moglie? L'essere umano non è legato a vita al proprio nome, quando nasce donna. Perchè dovrebbe essere legato a vita al proprio paese, quando nasce uomo? In fondo, a poco a poco si sentiva diventare viennese sul serio, per virtù anche di quei fenomeni di mimetismo che nella vita coniugale modificano a poco a poco il coniuge più malleabile sullo stampo di quello più resistente. Perdeva lentamente i suoi connotati nazionali e questa perdita progressiva non gli toglieva nè un'oncia d'appetito nè un minuto di sonno. Perdeva a poco a poco il suo nome senza che la sua posta andasse per questo smarrita. Aveva osservato questa seconda perdita a poco alla volta su i biglietti da visita di sua moglie, i quali all'indomani del matrimonio dicevano: [86] «Madame Balla»; due mesi dopo: «Madame Balla-Kramer» e quattro mesi dopo: «Madame Kramer-Balla». Dinanzi alla meraviglia che Pierino, tuttavia senza fiatare, aveva manifestato per quest'ultima redazione, la signora Eva aveva creduto opportuno rendere responsabile la sbadataggine del litografo. Aveva cambiato biglietti; ma l'errore era accaduto lo stesso. Aveva cambiato litografo; peggio che mai. Era un'invincibile idiosincrasia dei litografi, di tutti i litografi romani, i quali se potevano ammettere che Kramer balla non potevano assolutamente riconoscere che balla Kramer. E che fosse veramente la signora Kramer a far ballare il marito come voleva, si persuase Pierino, un giorno, quando il suo sguardo cadde su un biglietto da visita che Eva aveva estratto dal suo portafoglio e passato al marito perchè lo rimettesse allo chauffeur. C'era scritto su non più solo: «Madame Kramer-Balla» ma addirittura: «Monsieur et Madame Kramer-Balla». E si sentì, Pierino, più viennese, più irreparabilmente e docilmente viennese che mai, nel ritrovarsi così molto più Kramer e molto meno Balla di quanto fosse [87] stato fino allora agli effetti, del resto puramente convenzionali, dello Stato Civile.

Ma si sentiva anche, di tanto in tanto, ancòra un po' italiano. Vecchia abitudine difficile a sradicarsi, piccola aspirazione segreta del prigioniero che adora la sua prigione e il suo carceriere ma che tuttavia, nei giorni di bel tempo, anela un po' di azzurro non ritagliato a quadratini dalle inferriate.... Coincidevano, questi aneliti, con certe giornate di tempesta che scuotevano Roma d'un singolare vento d'entusiasmo. L'Austria concedeva tanto poco che anche tra quel poco del «nulla» di Burian e il poco del «parecchio» di Giolitti, c'era un abisso. D'Annunzio parlava dai quattro punti cardinali della città, dovunque c'era una finestra o un balcone. Giolitti rimaneva in casa per forza maggiore. Salandra si dimetteva e due giorni dopo ritornava al potere. Non era ancòra la guerra, ma era già, lo dicevano anche i giornali triplicisti, il popolo che voleva la guerra. E proprio quel giorno, mentre, verso sera, nella loro automobile, monsieur et madame Kramer-Balla tornavano all'albergo, una dimostrazione saliva al Quirinale [88] cantando inni patriottici, agitando bandiere, acclamando al Re, all'Esercito, alla guerra. Venendo su da Magnanapoli, l'automobile di Eva e di Pierino aveva infilato via Venti Settembre; ma poco dopo aveva dovuto arrestarsi poichè era venuta proprio a dar di cozzo nella dimostrazione che saliva al Quirinale. Non ostante i ripetuti e nervosi ordini telefonici di Eva, lo chauffeur aveva dovuto farsi da un lato della via ad aspettar che la folla passasse. Senza fiatare, con la piccola grinta chiusa come una serratura di sicurezza, Eva s'era rincantucciata nel suo angolo, volgendo le spalle al corteo e con gli occhi fissi sul panorama poco suggestivo dell'intonaco giallo d'un palazzo. Pierino guardava dall'altra parte fuori dai cristalli. Passava gente e gente, gente seria e gente allegra, gente vecchia e gente giovane, gente ricca e gente povera. Passavano bandiere italiane, francesi, inglesi, russe, belghe. Echeggiavano inni su inni: l'inno Nazionale, quello di Garibaldi, quello di Mameli. Monsieur Kramer-Balla ritrovava, sott'il marito, un po' di Pierino Balla senza moglie. Non osava mostrarlo, ma si sentiva intenerire. Per la [89] prima volta Roma gli sembrava, se non più bella di Vienna, almeno quasi bella come Vienna. Per la prima volta, all'udire quei canti, ammetteva che ci potesse essere un po' di musica bella anche al di fuori dei valzer viennesi. Per la prima volta, confusamente, in fondo a sè stesso, sentiva un po' di solidarietà con tutta quella gente che passava, che urlava, che acclamava, che s'esaltava. Guardò l'orologio posto nella vettura dinanzi a lui: eran lì da venti minuti. Eva continuava a studiar l'intonaco, a sinistra; a destra, il corteo continuava a sfilare. Ce ne fu ancora per mezz'ora. E ancora bandiere, e ancora canti, e ancora gente, gente seria e gente allegra, gente vecchia e gente giovane, gente povera e gente ricca. E finalmente, quando la folla cominciò un po' a diradare, lo chauffeur rimise la mano su le leve, diede due o tre segnali di tromba per farsi largo. Solo allora, mentre la limousine si muoveva strombettando tra la folla più rada, Eva degnò volgere su questa uno sguardo commiserevole e, con un tono di profondo disprezzo, lasciò cadere dalle labbra sottili e chiuse due sole parole:

[90]

— Quattro straccioni!

Pierino riguardò l'orologio. Erano stati fermi cinquanta minuti a veder passare gente e calcolando un paio di migliaia di persone al minuto.... Non osò tuttavia contraddire sua moglie, e, conciliativo come sempre, mentre l'automobile riprendeva la corsa per la via libera verso il Grand Hôtel, osò riflettere, esclusivamente per suo uso e consumo, ancora mezzo austriaco:

— Saran straccioni.... Non dico di no....

E aggiungere, già mezzo italiano:

— Ma eran però più di quattro!

[91]

IV. IL «VALZER DELLA MORTE»

[93]

C'è gente che non riesce a sopprimere ma riesce almeno a ritardare i dispiaceri e per cui una situazione finanziaria non è allarmante se non quando il fallimento è già dichiarato, per cui un malato non è grave se non quando è già bell'e morto. Appartenevano a questa felice categoria di persone anche il ménage Kramer — Balla o Balla — Kramer che dir si voglia e gli altri cinque o sei ménages italo-austriaci o italo-tedeschi che facevan loro corona ogni giorno al Grand Hôtel, all'ora del tè, all'ora di pranzo e la sera dopo pranzo. Le mogli austriache fidavano, per aver ragione di ritardare il grosso dispiacere che si preparava, in quattro cose: nell'abilità del barone Macchio, nella bacchetta magica del principe di Bulow, nell'onnipotenza [94] dittatoriale dell'onorevole Giolitti e sopratutto nel profondo, irremovibile amor della pace che caratterizzava questa bella e cara Italia così ricca di canzoni e così povera di cannoni. I mariti italiani delle mogli austriache avevano, per il loro ottimismo, due soli punti d'appoggio invece di quattro, poichè sapevano che Giolitti cadeva purtroppo ogni giorno più in disgrazia e che ogni giorno più l'Italia pensava, almeno per il momento, con marcata preferenza, ai cannoni che non alle canzoni. Rimanevano tuttavia, a sostenerli, i due puntelli diplomatici: l'abilità del barone Macchio, incommensurabile nel senso che non si può misurare ciò che non si conosce, e la bacchetta magica del principe di Bulow che aveva operati ben altri miracoli di quello di far rimanere ancora l'Italia neutrale. Pierino parlava per tutti: «Sentite.... Sarà.... Ma finchè Bulow sarà a Roma, io alla guerra non ci credo...» E un'altra sera: «Ma vi par possibile che un uomo come Bulow veniva a giuocare qui la partita finale della sua gloriosa carriera senza aver prima partita vinta in mano?...» Poi c'erano le piccole speranze supplementari [95] degli altri mariti: «Ho notizie certe, sapete. Il Re la guerra non la vuole assolutamente....» E un'altra volta: «E i socialisti ufficiali? Vi pare che un governo possa affrontare l'incognita della mobilitazione sotto la minaccia dei socialisti ufficiali e del Worwaerths?...» Una moglie tedesca interrompeva il marito: «Il Worwaerths?...» E il marito che s'era sbagliato, tant'era oramai l'abitudine di pensar tedesco: «Oh, scusa, cara, volevo dire l'Avanti

Tutt'i fisiologi hanno osservato il fenomeno per cui nelle malattie mortali un miglioramento sensibilissimo si pronuncia poche ore prima della morte. E' l'ultima reazione della vita, è la suprema resistenza del temperamento contro il male, l'ultima breve vittoria dei bacterii tutori della vita contro l'orda crescente dei bacterii preparatori della morte. Questa miglioria sensibilissima si produsse anche nell'animo del ménage Kramer-Balla e degli altri ménages italo-austriaci o italo-tedeschi. Il Re non aveva presenziato la cerimonia allo Scoglio di Quarta: buon segno. La maggioranza giolittiana s'agitava burrascosamente in una crisi di neutralismo [96] aperto dopo un lungo travaglio di neutralismo larvato: ottimo sintomo. Le visite di Bulow e di Macchio alla Consulta si facevano sempre più fitte: presagio eccellente. Una sera Pierino, all'ora di pranzo, scendendo tutto lucido e incravattato e impomatato e incaramellato e profumato e levigato nel suo smoking irreprensibile tagliato e cucito dal primo sarto di Vienna, corse incontro a sua moglie e ai suoi amici, col viso giubilante, annunziando da lontano con le mani nell'aria ch'era messaggero — messaggero, cioè, no, chè questo era il nome d'un troppo odiato giornale interventista — ch'era foriero di una grande notizia e che aveva su le labbra sorridenti, se è possibile esprimersi così, la chiave della situazione. «Grandi notizie!» disse quando fu vicino alla moglie, alle altre mogli e agli altri mariti: «Grandi notizie: la guerra non si fa... Sono stato al garage....» Gli altri lo guardarono diffidenti, chè è lecito anche a persone intelligenti non vedere a prima vista quale stretto nesso sia possibile tra una guerra che si fa o non si fa e la visita d'un giovane signore al garage dov'è custodita la sua automobile [97] per pagare un conto d'olio extradenso e di benzina 710-720. Ma Pierino spiegava: «Sono stato al garage. Accanto alla nostra vettura era una nuova limousine, bellissima, di marca tedesca, una Mercedes. Ho chiesto di chi fosse, perchè sugli sportelli avevo veduto la corona principesca. E figuratevi la mia meraviglia quando mi son sentito rispondere ch'era del principe di Bulow. L'ha mandata per far ridipingere la carrozzeria. Che volete? Mi s'è gonfiato il cuore come un mantice... La guerra, è certo, non si fa più. Vi pare possibile che l'ambasciatore farebbe ridipingere la sua automobile se sapesse di doversene andare?...» Qualcuno, timido, per essere rassicurato, obbiettò: «Può darsi che sia costretto ad andarsene senza che ora sappia di doversene andare. Sempre così, nella vita: quand'uno meno se lo aspetta...» Ma Pierino scosse le spalle e, con un sorriso superiore d'uomo bene informato e che non teme smentite, esclamò: «E il colore?» Gli altri lo guardarono un'altra volta sbalorditi: «Che c'entra il colore? Quale colore?» E Pierino, trionfante: «Il colore della carrozzeria, cari miei! Era nera con ruote gialle: [98] colori austriaci, colori insomma tedeschi. E ora sapete come Bulow ha dato ordine di ridipingerla? Verdone e ruote bianche.... E su gli sportelli, cari miei, su gli sportelli anche una leggera filettatura rossa. Colori italiani, cari amici, colori italiani: il rosso è poco, appena un filo, su lo sportello, ma anche quel poco basta a far la bandiera.... Volete prove più prove di queste?» E, dopo una pausa, preparando l'effetto: «Cari miei, si vede che Bulow già prevede il giorno in cui, concluso l'accordo, uscirà trionfante per le vie di Roma, con quell'automobile. Quell'automobile, per me, è più rassicurante ancora di tutte le argomentazioni di Cirmeni: dice chiaro e tondo che la Triplice sarà rinnovata». E abbassando la voce, perchè le sue parole diventavano sempre più gravi pei destini d'Europa, Pierino aggiunse ancora: «Io ho voluto anche sapere chi avesse scelto quei colori per l'automobile. Pensavo potesse essere la principessa, che è italiana. Ma mi hanno assicurato che il verde, il bianco e anche il rosso erano stati scelti, a Villa Malta, proprio stamattina, dal principe in persona, [99] sul campionario dove ci son le vernici di tutt'i colori...».

Pranzarono di buonumore, quella sera. Anzi i cinque o sei ménages lasciarono i tavolinetti a due posti e s'adunarono a una grande tavola centrale ch'era stata preparata per un pranzo, rimandato all'ultima ora, d'ufficiali inglesi e francesi in missione in Italia e invitati dai loro commilitoni italiani.

La decorazione della tavola, con una serie d'innumerevoli vasettini allineati tutt'in fila, incrociava una serie di bandierine italiane con garofanetti bianchi e rossi e foglie di verdura e una serie di bandierine francesi con bluets, piccoli geranii e roselline bianche; e, in mezzo alla tavola, un vaso più grande conteneva garofani rossi e piccole azzurre azalee e su queste certe striscioline di margheritine italiane in modo che, volendo, si poteva anche avere una vaga reminiscenza della bandiera inglese. Nemmeno se quella fosse stata la sera della pace universale una decorazione floreale come quella sarebbe apparsa tollerabile alle esuberanze patriottiche delle signore austriache e tedesche e alle cautele coniugali e nazionali dei [100] loro mariti italiani. D'altra parte non c'erano altre tavole libere, nè senza provocare un piccolo scandalo di cattivo gusto era possibile far smontare quella decorazione preparata per il pranzo degli ufficiali francesi, inglesi e italiani. Per fortuna Eva Kramer adocchiò in un angolo della sala un bel girasole e ordinò sùbito a un commis di portarlo nel bel mezzo della loro tavola perchè fra tanti colori d'alleati o di presunti alleati ci fosse anche, su la loro tavola, un po' di giallo austro-tedesco.

Conobbe, quella sera, Pierino, la gloria dei grandi profeti e di madame de Thèbes. Un amico, verso le undici, raggiungendoli nel foyer del Grand Hôtel mentre tutti a una voce riesaminavano per l'ennesima volta gl'inestimabili beni d'una rinnovata amicizia italo-austro-tedesca, portò la notizia, l'inaspettata notizia: «Il Gabinetto Salandra era dimissionario». La scena, anzi, era stata drammaticissima: Salandra era stato sempre incerto fra la guerra e la pace, più incline forse, per pacifico temperamento di meridionale, verso questa che verso quella. Il mezzo sangue inglese di Sonnino [101] era invece causa di tutto: voleva la guerra a qualunque costo e per quanto Bulow e Macchio s'affannassero a portare alla Consulta ogni mattina nuovi doni territoriali, economici e politici, Sonnino, col suo mutismo scontroso, riduceva quei poveri ambasciatori a domandarsi che cosa altro potevano ancora offrirgli se non addirittura Vienna e la nomina di Francesco Giuseppe, bell'anima, a prefetto della centesima provincia del Regno d'Italia. Ma il Re messo in guardia da Bulow, il quale era andato a Palazzo senza tanti complimenti e aveva aperto la porta di Sua Maestà senza neppure farsi annunziare per dirgli che Sonnino, venduto o almeno affittato allo straniero, non gli aveva detto che cosa realmente lui e Macchio offrivano con tenerissimo cuore alla bella e cara Italia, il Re, aveva posto a Salandra il dilemma: «O via Sonnino, o via io!» Tra Sonnino e Salandra, in un Consiglio di Ministri ch'era stato terrificante, erano corse parole gravi e vie di fatto fortunatamente leggere. Dopo di che Salandra era tornato dal Sovrano e gli aveva detto: «Poichè Sonnino non vuole a nessun costo andarsene, Maestà, ce ne andiamo tutti...» Fin qui le notizie [102] certe, sicure, di fonte indiscutibile! «E ora?» domandavano, raggianti, le signore austriache e tedesche. «E ora, rispondevano i mariti con l'aria di chi si è tolto finalmente un grave peso di sopra lo stomaco, ora, diamine, torna Giolitti e l'accordo è firmato in quarantott'ore!» Volle, per tanta gioia, Eva Kramer-Balla, che si stappassero alcune bottiglie di sciampagna, di marca francese, purtroppo poichè i gas tedeschi sono più utilmente adoperati per la guerra che non per il vino. E con un brindisi alla vittoria austro-tedesca e alla neutralità italiana, la pace coniugale dei sei ménages italo-austriaci fu patriotticamente sugellata dalla ceralacca di belle labbra femminili che col loro carminio naturale o artificiale invitavano a imprimervi sopra, in un bacio, il dolce bollo dell'autorità maritale. Eva Kramer fece di più: non solo offrì la ceralacca ma volle che vi fosse impresso, lì, d'innanzi a tutti, il sigillo addirittura. E quando fu bene impresso disse a Pierino in tedesco: «Ich liebe!» che val quanto dire in italiano: «Ti amo!» E l'amato giovane andava in giro per il gruppo dei ménages italo-austriaci: «Ve l'avevo detto io?... [103] La verniciatura... Ve lo avevo detto io? Il colore dell'automobile...» Che se non ci avesse pensato lui a ricordare le sua profezia nessuno se ne sarebbe dato premura. La gloria dei profondi profeti, dei grandi scrittori e dei più famosi tenori è purtroppo fatta così: devono annaffiarsela personalmente tutt'i giorni. Guai al profeta, guai allo scrittore, guai al tenore che dieci o venti volte al giorno non ferma gli amici per istrada esclamando con un sorriso: «Eh? Come son grande?»

Le grandi gioie ripugnano all'immobilità. L'uomo veramente felice s'agita, si dimena, muove le braccia e le gambe, non può rimanere nel luogo ove la felicità fu incontrata ed ha bisogno di portare questa felicità in giro per il mondo, per la città, o almeno per la casa, almeno per le stanze, cerca di farla vedere a tutti, di farla invidiare, poichè, diceva un filosofo pessimista, non v'ha felicità senza infelicità altrui, come non v'ha luce senza contrasto di ombre. I cinque o sei ménages italo-austriaci uscirono così dal Grand Hôtel verso mezzanotte e saliti nelle loro automobili portarono la loro felicità in giro per le vie di [104] Roma deserte a quell'ora. Suonavano, nel gran silenzio della città notturna, le grida dei rivenditori di giornali che annunziavano le quinte edizioni con le dimissioni di Salandra. Gli chauffeurs avevano avuto ordine di discendere al Corso e al Caffè Aragno, cuore e polmoni della vita romana, per le vie Boncompagni e Ludovisi. Ma, giunti all'altezza di Villa Malta, dovettero sostare dinanzi ai cordoni di soldati che sbarravano Capo le Case per proteggere i sonni dell'ambasciatore tedesco. Un caporaletto vietò il passaggio delle tre limousines attraverso i soldati. Ma un ufficiale, un bell'ufficiale dei bersaglieri, accorse alle leggere proteste delle belle signore e diede ordine ai soldati di lasciar libero il passaggio. Così il cordone s'aprì e i bersaglieri che non dovevano fare la guerra fecero ala al corteo dei cinque o sei ménages italo-austriaci tripudianti d'amor patrio. E la gioia rende così indulgenti che Eva Kramer-Balla, guardando il bell'ufficiale dei bersaglieri, disse al marito suo e agli altri mariti italiani delle sue connazionali: «Avete, in verità, dei gran bei soldati!».

[105]

Più giù, al Corso, trovarono un po' di gente: giornalisti, deputati, nottambuli d'ogni qualità. Leggevano i giornali, discutevano ad alta voce. Il caffè Aragno era chiuso poichè anche quella sera le contese cortesi tra neutralisti e interventisti avevano mandato in frantumi una grossa specchiera, lieta del resto di quella fine, tanto era da dieci mesi stanca di riflettere il commovente spettacolo della concordia dei popoli. Non discesero dalle automobili. Rimasero lì, a guardare, ad ascoltare. Laggiù, in fondo, verso piazza Colonna, altri cordoni di soldati, granatieri questi — gran bei soldati, gran bei soldati, in verità! — proteggevano, inquadrando di baionette palazzo Chigi, i sonni del barone Macchio. Sul marciapiede buio d'Aragno un deputato siciliano, principe e socialista, tuonava focose invettive: «Faremo i conti con tutti... Oramai siamo all'aut aut: o la guerra o la rivoluzione!» Altri intorno a lui gridavano: — «Sì, sì, la rivoluzione, la rivoluzione.....» — Altri ancora gridavano un po' più in là: «Salandra non deve andarsene.... Giolitti non deve tornare...» E il ritornello, [106] basso, alto, vicino, lontano, insisteva: «La rivoluzione! La rivoluzione!».

Alle Termopili eran solamente trecento ma bastarono a fare una bronzea pagina della storia del mondo. Quei cinquanta nottambuli potevano bastare a fare una rivoluzione da Aragno? Avevan l'aria di crederlo. Eva, a guardarli, ne dubitava.... E Pierino, che nella sua gloria di profeta e nella sua gioia di marito sentiva anche di diventar spiritoso, disse: «E perchè no? Hanno anche questi Leonida con loro...» Ma poichè i nomi di battesimo dei deputati italiani non sono ancora materia obbligatoria di studio nelle scuole austro-tedesche le signore guardarono interrogativamente Pierino il quale aggiunse, cortesemente, per riparare le lacune della Kultur germanica: «Già, Leonida Bissolati....».

Tornò a casa, Eva Kramer, persuasa che la rivoluzione preannunziata dal deputato siciliano sul marciapiede d'Aragno non prometteva di essere, almeno fin dal primo momento, terribile quanto la rivoluzione francese. E così dormì pacificamente la sua prima notte di neutralità finalmente e dopo tante pene assicurata. [107] Poichè v'ha un singolare piacere a ricordarsi dei pericoli quando sono passati, Eva Kramer dovette, nel tepore delle lenzuola, sognare i soldati d'Italia e il bel tenente dei bersaglieri. Infatti Pierino che, senza badarci, nella gioia di quella serata aveva bevuto una tazza di caffè la quale bastava a togliergli il sonno almeno per due o tre ore, sentiva Eva nel sonno, con languidi sospiri e voce commossa, ripetere dì tanto in tanto: «Bei soldati, in verità, bei soldati!»

Le grandi felicità sono anche brevi. Il destino non assegna a ogni cuore che una precisa razione di gioia e il cuore che la consuma in grande quantità si condanna a subire un'implacabile legge: quella che proporziona la durata al consumo. Dopo un solo giorno di bene infatti, un pomeriggio, mentre prendevano il tè nel salotto di Eva Kramer, i ménages triplicisti furono chiamati alla finestra da uno scalpiccìo di passi e da un basso coro di voci cavernose. Scendeva da via Venti Settembre e si dirigeva verso Via Nazionale una forte colonna d'uomini in prevalenza borghesi che marciavano a passo cadenzato brontolando a [108] coro e scandendo le sillabe: «Mor-te-a-Gio-lit-ti! Mor-te-a-Gio-lit-ti!» E la stessa sera, mentre giuocavano a poker, ricevettero altre notizie allarmanti: al Costanzi, dove si doveva onestamente rappresentare un'inoffensiva Figlia del Tamburo Maggiore, Gabriele d'Annunzio aveva denunziato da un palco all'ira popolare i traditori della patria e aveva letto, applaudito anche dai carabinieri di guardia, una sua ode contro Francesco Giuseppe. Fuori del teatro intanto la folla gridava come ossessionata: «Guerra! Guerra!» e voleva raggiungere la casa di Giolitti, levar dal suo letto e trascinare per le vie il corpo dell'odiato Dittatore di ieri. Nelle vie attorno alla casa dell'ex-presidente i dimostranti si battevano di su le barricate dopo avere spento a sassate le lampade elettriche. E, ahimè, orribile a dirsi, anche l'esercito passava alla rivoluzione. «In via Nazionale, raccontava uno dei mariti esterrefatto, in via Nazionale, figuratevi, un capitano di cavalleria è stato invitato da un commissario di polizia a caricare i dimostranti... Ma il capitano ha sfacciatamente rifiutato affermando che i suoi uomini erano, sì, pronti a [109] marciare contro il nemico, ma non a caricare i fratelli...»

Quando ebbero commentato gli avvenimenti, quando ebbero veduto le vie sfollarsi e gli squadroni di cavalleria tornare in caserma — oh, dopo tutto, dopo tutto soldati come tutti gli altri e niente, proprio niente d'eccezionale... — Pierino Balla italiano malgrè lui, ritrovatosi solo in camera da letto con sua moglie dovette fare i conti con Eva Kramer austriaca malgrè tout. «Ma insomma che succede? Che cosa fate? Che fa il Re? Che fa la Camera? Dove si va?» Pierino tentò di essere ancora rassicurante: «Non t'allarmare. Vedrai...» E la moglie: «Vedrò?... Che cosa altro devo vedere?... Ah sì? Ti pare ancora che non basti?... Entrano nella Camera, assalgono per via e su i tramvai gli ex-ministri, assediano la casa di Giolitti, fanno le barricate... Che altro devo vedere? In Austria, a quest'ora, quanti avrebbero già pagate care queste buffonate!...» Pierino tentò di spiegare: «Sai, in Austria, voi avete la forca...» Ed Eva saltò su inviperita: «Vorresti forse farcene rimprovero?» E Pierino, impaurito e docile: «Ma no, cara, lodarvene...» [110] Ma Eva Kramer, nell'impeto, commise una gaffe: «L'avete avuta anche voi, in Italia...» E Pierino, senza volerlo, ebbe una risposta felice: «Sì, cara, ma era la vostra.» Eva, intanto, s'era svestita e avvolta in una rosea camicia da notte di seta s'introduceva fra le lenzuola. Con cinque parole concluse le sue impressioni di quella sera: «È la rivoluzione sul serio!...». Non seppe, Pierino, se era il caso di illuderla ancora o di prepararla pian piano agli eventi. Nel dubbio accese una sigaretta e infilò il pigiama. Poi, quando fu a letto, credette doveroso allungare verso la camicia di seta di sua moglie — qui si parla del contenente per il contenuto — un tentativo d'abbraccio. Ma fu violentemente respinto da un piede ribelle che rimise debitamente le cose al loro posto: l'Austria da una parte, imbronciata, e l'Italia, mortificata, dall'altra.

Poichè i popoli dormono da più di un anno, ogni notte, le loro otto o nove ore filate su lo spettacolo della più tremenda guerra della storia, Eva Kramer non poteva non dormire dieci ore su lo spettacolo — semplice prova generale, del resto — d'una rivoluzioncella [111] da nulla, d'una rivoluzioncella da ridere, d'una rivoluzioncella insomma italiana, ed era detto tutto. Del resto, col coraggio della disperazione, a mano a mano che gli eventi precipitavano, Eva Kramer se ne infischiava sempre più. Tanto che l'indomani, nel pomeriggio, la notizia del nuovo incarico a Salandra la lasciò perfettamente tranquilla a discuter di vestiti dalla sua sarta dove la notizia, col sopraggiungere di Pierino trafelato e commosso, gli era stata cautamente somministrata. Nè meno tranquilla la lasciarono gli avvenimenti successivi: la convocazione della Camera, l'annunzio che il barone e il principe preparavano i bauli, le voci di mobilitazione generale che correvano di ora in ora. Era la guerra? Proprio la guerra? Questo non era ancora assolutamente sicuro. «Del resto, diceva Eva al marito ridendo d'un sorriso sforzato e nervoso, del resto hai voluto la guerra contro di noi? E goditela, la guerra! Contro di noi, vedrai, ti romperai le corna...» Pierino osò obiettare che la guerra, lui, proprio lui non l'aveva affatto voluta, e che aveva la coscienza tranquilla. «E in quanto alle corna, aggiunse poi [112] scherzando, non so se posso rompermele, poichè so, adorata, di non averle...» Eva corresse: «Che sciocco! Si capisce che non parlo di te. Parlo a te per un artificio rettorico...» Pierino sorrise riconoscente; ma, tanto sono bizzarre ed inesplicabili le associazioni di idee, l'artificio rettorico richiamò al suo pensiero l'imagine dell'herr major Hampfel, con le braccia tutte piene di fiori, sul marciapiede della Sudbanhoff.

Ma una sera Eva Kramer tornò all'albergo in uno straordinario stato di sovreccitazione lieta, che si manifestava in sorrisi e in sgambetti, in strizzatine d'occhi e in buffetti ch'ella somministrava copiosamente al naso di Pierino che raccoglieva, docile, senza capire. Era in camera, Pierino, a infilarsi lo smoking. Ora con un po' di smalto di fabbrica tedesca — made in Germany — si lustrava meticolosamente le unghie e le faceva lucide da potercisi specchiare dentro comodamente per radersi la barba. Eva si svestiva e si rivestiva in fretta, gettando di qua e di là bluse e sottovesti, lanciando ora uno scarpino su l'immacolato sparato di Pierino, girandogli ora [113] una calza di seta intorno al collo. E ogni tanto, passandogli accanto, mentre egli rimaneva impalato in mezzo alla stanza a lustrare a lustrare e a lustrare, via una piroetta e giù un buffetto. «Sei allegra, cara....» mormorò finalmente Pierino senza osar domandare perchè, dato che fra i coniugi, nei riguardi di Eva, vigevano il protocollo e l'etichetta delle Corti per cui un suddito non può interrogare un sovrano ma può solo, se dal sovrano interrogato, rispondere. Senonchè i sovrani sono alle volte condiscendenti per soddisfare le mute curiosità dei sudditi rispettosi e ligi al cerimoniale. Così anche Eva volse uno sguardo affettuoso al suo suddito marito e, piantandoglisi davanti tutt'inguantata in una combination carnicina, elargì la spiegazione del suo straordinario buonumore: «Senti, disse al marito, me ne dispiace tanto per te che sei italiano, ma Bulow vi ha dato una buona lezione. E voi avete un proverbio adatto e al caso dovreste ricordarvene: a buon intenditor...» Pierino era, nella vita coniugale, uomo di poche parole. Se sua moglie non parlava, egli, per rispetto, non osava interrogare. Se sua moglie [114] parlava egli, per prudenza, evitava d'interloquire. Era, così, diviso fra due timori: quello di mancar di rispetto e quello di mancare di spirito. Sua moglie amava parlare, come suol dirsi in musica, per «sincopati». Le idee non le uscivano dalle labbra, solitamente, una dopo l'altra, una nell'altra. Uscivano a spizzichi, ad intervalli, con larghe pause. Talchè Pierino non sapeva mai quando un'idea era finita e quando era il caso di far vedere che aveva capito. Gli era accaduto una volta di esclamare: «Giustissimo!» quando ancora Eva, nel sincopato, era all'a e bi del suo ragionamento e doveva giungere sino alla zeta. A quell'esclamazione Eva era saltata su inviperita: «Giustissimo? Giustissimo che cosa? Se non ho ancora parlato? Se non sai ancora che cosa volevo dire? Perchè mi approvi senza ascoltarmi? Se vuoi far vedere che sei molto intelligente, fai invece la figura di un imbecille... Se vuoi invece prendermi in giro, son donna io, sappilo, da prendere in giro non uno ma dieci bamboccetti come te...». In silenzio Pierino aveva firmato la ricevuta di quell'invettiva con un sorriso ebete. L'aveva capita [115] tutta in una volta perchè era venuta fuori tutta d'un fiato. Eva Kramer, infatti, non aveva la concatenazione immediata delle idee che quando si trattava di dire impertinenze. Prova ne sia che se parlava dell'Italia e degli Italiani argomentava sempre speditissimamente.

Così fu anche quella sera, dopo una prima ed unica pausa che aveva avuto l'unico scopo di far posto ad un'omerica risata: risata che avvolgeva Pierino, e dietro Pierino la stanza, e dietro la stanza tutta Roma, e dietro tutta Roma l'Italia intera. «Ah sì, aggiunse poi, volete farci la guerra? Già Bulow ve lo disse per Algesiras: l'Italia fa la politica dei giri di valzer... E adesso siete al valzer dei valzer, non a quello dell'operetta di mio padre, che è molto grazioso, ma a quello della vostra guerra, che è tanto pericoloso quanto è stupido... Volete fare la guerra, ballare, ballare il valzer con l'Intesa?... Accomodatevi, cari. Ma ve lo ha detto ancora Bulow, che se ne intende: Divisi e senza testa, è il valzer della morte... Non so dove e quando l'abbia detto, ma è grande, è grande, è immenso! E ve l'hanno scritto anche, oggi, su tutte le cantonate, a carbone, a lettere cubitali: [116] Divisi e senza testa, è il valzer della morte. E sotto c'è il nome e cognome di Bulow... Non credevo ai miei occhi... Che cosa grande, che cosa grande!... E che uomo, quel Bulow... Metternich e lui, non ha avuto altri diplomatici, la Storia!...»

Ma era tardi e conveniva vestirsi. In due colpi, continuando a ridere, canterellando quelle parole attribuite a Bulow su un'arietta famosa di papà Kramer, Eva fu pronta. Si vide allora davanti, sempre impalato in mezzo alla stanza, quel suo povero Pierino che non sapeva che dire. Ne ebbe pietà. E poichè in fondo gli voleva bene, e poichè in fondo Pierino era un buon figliuolo, e poichè in fondo e a modo suo Eva era piena di cuore, gli mise le braccia al collo e argomentando con eccezionale speditezza gli disse:

— Ma io ho torto di parlarti così, ho proprio torto di prendermela con te se l'Italia ci fa la guerra... Tu che c'entri, povero amor mio?... Tu sei, per fortuna, così poco italiano... E tu, tanto, dell'Italia te ne infischi...

E, presolo per un braccio, lo trascinò fuori, per il corridoio, nell'ascensore, verso la sala [117] da pranzo. E per la prima volta, poichè sua moglie gli aveva categoricamente affermato che dell'Italia lui se ne infischiava, gli parve che no, no, non se ne infischiava completamente, che anzi quella sera, in fondo in fondo a sè stesso... Ma nell'ascensore sua moglie, in piedi dietro il piccolo liftier impalato contro gli sportelli, accennava un passo di valzer, il valzer di papà, e canterellava fra i denti con un sorriso prettamente austriaco:

Divisi e senza testa

è il valzer della morte....

E poichè il lift toccava il suolo e Pierino era lì, nel suo cantuccio, piccolo e mortificato, Eva gli diede un ultimo buffetto sul naso e gli mormorò sul viso, due volte:

Ich liebe! Ich liebe!

[119]

V. IL VALZER DEI «FRATELLI D'ITALIA»

[121]

Qualcuno ha detto che lo spensierato sovrano e i piacevoli ministri, le amabili biches e i galanti fétards del Secondo Impero ballarono senz'avvedersene tutt'i valzer delle operette di Offembach su un vulcano prossimo all'eruzione: l'eruzione della débacle e della Comune. Così gli allegri ménages italo-austriaci e italo-germanici ballarono tutt'i valzer delle operette di Lehar e di Leo Fall sul vulcano d'una settimana di guerra civile che preludeva in Italia, come una prova generale a porte chiuse, all'altra guerra che una settimana dopo doveva cominciare ai confini. Era colpa, in fondo, di Pierino Balla e di quel suo irresistibile bisogno di aprire e di pestare un pianoforte non appena un pianoforte e lui avevano la disavventura [122] di incontrarsi. Nel salotto dell'appartamento che monsieur et madame Kramer-Balla occupavano al Grand Hôtel e in cui i cinque o sei ménages si riunivano tutt'i pomeriggi, un pianoforte c'era. Naturalmente Pierino l'aveva aperto e vi aveva suonato tutt'il suo repertorio. E poichè è impossibile alle amabili dame che hanno nelle vene sangue viennese udire un valzer senza ballarlo, le belle signore avevano ballato. Come accade per le ciliege un valzer tira l'altro e un valzer oggi, due domani, avevan finito per ballare tutto il giorno da quando era appena finita la colazione a quando giungeva l'ora di andarsi a vestire per il pranzo. Inchiodato al pianoforte, Pierino suonava e suonava sentendosi formicolare le gambe poichè, nato ballerino come si nasce poeti, aveva una gran voglia di ballare anche lui, si dondolava sul seggiolino e, se non con le gambe e coi piedi, seguiva il ritmo, ballava come poteva con le braccia, coi fianchi, con la testa che andava in qua e in là come il pendolo d'un orologio, con gli occhi stralunati che giravano in modo tale che se qualcuno avesse guardato Pierino ne avrebbe avuto il mal di mare. Ma [123] gli Dei sono clementi con i bravi figliuoli che non chiedono loro che di ballare in un tempo in cui gli uomini sono avvezzi a domandare ben altro agli Dei: dallo specifico celeste e miracoloso per un mal di denti al pagamento d'una cambiale giunta a scadenza. Così la benignità degli Dei fece capitare tra le mani di Pierino una vecchia signora americana, neutrale non solo politicamente, ma anche neutra, poichè nel seno adiposo e nel labbro baffuto aveva una contraddizione così stridente per la quale era assai difficile stabilire immediatamente, a prima vista, il suo sesso. La signora americana amava anche lei il ballo ed i valzer e poichè non poteva ballarli amava almeno di suonarli. Così prese al pianoforte il posto di Pierino, e l'America, fedele al programma svolto durante la guerra, fornì anche la musica ai belligeranti.

E' piacere raffinato unire e mescolare il sacro al profano; e infatti l'amabile compagnia mescolava ogni giorno al profano dei valzer il sacro della politica o — questione di punti di vista — il profano della politica al sacro dei valzer. Tra un giro di one step e una figura [124] di tango i nomi di Salandra e di Giolitti, di Bulow e di Burian giravano fra le coppie ballerine. Le danze erano addirittura interrotte quando un cameriere, verso le cinque, portava le prime edizioni dei giornali. Pierino dava lettura delle notizie più importanti. La crisi ministeriale riapriva il cuore dei ménages a tutte le speranze. Era ormai certo che Salandra cedeva il posto a Giolitti. L'Italia dunque era salva. E poichè l'americana era talmente neutrale che continuava a suonare anche quando i piedi dei ménages non erano più occupati a ballare ma si davano invece a discuter di politica, le coppie ripartivano per un nuovo valzer. Per via, intanto, passava ancora una volta una fitta colonna di popolo. Ancora saliva dai balconi aperti ai dolci aliti della primavera romana la tenebrosa monodia scandita da voci di bassi profondi: «Mor-te-a-Gio-lit-ti! Mor-te-a-Gio-lit-ti!» Poichè non è assolutamente da escludersi che anche un ménage italo-austriaco in crisi acuta di politica possa ancora capir qualche cosa, le coppie avevano, nell'udire quella monodia, qualche leggero dubbio nello spirito pacificato. Il ritorno di Giolitti al potere non [125] sembrava preannunziato in forma molto cortese da quei bassi profondi peripatetici. Ma se è vero che la speranza è l'ultima dea, c'era ancora da sperare che quelle voci non fossero la libera manifestazione dell'anima popolare ma bensì la freccia del Parto, l'ultimo tentativo del ministro costretto ad andarsene per svalutare il rivale che stava per ritornare.

Quand'erano «finalmente soli», non come nell'operetta di Lehar su le cime bianche dell'Alpe nel roseo riflesso della più tenera aurora ma nel gabinetto da bagno a cambiar vestito al riflesso delle lampadine elettriche che davano alle belle spalle nude di Eva un color d'ambra che innamorava, marito e moglie riparlavano di politica. Chè Pierino sbadatamente non aveva pensato che, quando un italiano sposa un'austriaca, non sposa una donna ma sposa una nazione intera. Quando s'ergeva con severo cipiglio dinanzi a lui, quando incrociando napoleonicamente le braccia sul bel petto ambrato Eva gli domandava che cosa insomma si stava preparando in Italia, Pierino perdeva letteralmente la parola: non aveva più dinanzi a sè, a interrogarlo, sua moglie, ma aveva [126] Francesco Giuseppe e tutto il Consiglio della Corona, Metternich e Berchtold, d'Aerenthal e Burian, tutti gli Arciduchi d'Austria e tutti i Magnati d'Ungheria, l'intera dinastia degli Absburgo e cinquanta milioni e più d'austro-ungarici di generi diversi. Caratteri più del suo ardimentosi si sarebbero sentiti intimidire. E Pierino, pavido, col pantalone già infilato, con la camicia inamidata ancora fuori del pantalone, con le mani incerte sul nastrino di seta della cravatta da smoking che non riusciva ad annodare, guardava sua moglie, guardava la Duplice Monarchia senza saper che rispondere. E sentiva che, se come sua moglie era l'Austria intera egli avesse dovuto rappresentare l'Italia, questa non ci avrebbe fatto che una meschina figura: quella d'un ragazzetto spaurito cui il meno che possa capitare è una buona dose di sculacciate. E mentre davanti aveva il fiero cipiglio di sua moglie — una testa dell'Aquila bicipite — dietro di sè sentiva il freddo e sprezzante sguardo della cameriera — seconda testa dell'Aquila bicipite — che era, come sua moglie, sdegnata dal modo di comportarsi di questi «mandolinisti» di Italiani. Aveva, la [127] cameriera, una qualità dovuta non al suo temperamento, che era invece quanto mai loquace ma alla sua posizione di cameriera la quale esige anzitutto l'arte di non dir mai nulla e d'ascoltar sempre tutto. Ma lo sguardo diceva tutto quello che non dicevano le piccole labbra chiuse, tagliate a fil di coltello. Tra quei due sguardi, tra le parole roventi di sua moglie e lo sguardo freddo della cameriera di sua moglie, Pierino trovava per la prima volta in vita sua che, in certe ore e circostanze, la vita non è o non pare veramente più un valzer, ma piuttosto una marcia funebre, la marcia funebre della sua pace e della sua felicità domestica. Non aveva su la guerra e su la carneficina europea nessuna idea molto precisa, poichè le idee non sono l'appannaggio delle persone felici e Pierino Balla era nato invece sotto la più felice stella o, come suol dirsi volgarmente, era nato con la camicia: camicia su la quale più tardi aveva potuto mettere anche la giacca e il soprabito di un matrimonio che era economicamente una quaterna al lotto. Tanto che quando, ogni settimana, saldava con un biglietto da mille, lasciando i rotti per le mancie, [128] il conto dell'albergo e gli avveniva di ricordare gli anni stentati e oscuri dell'adolescenza e della prima giovinezza, Pierino Balla tendeva a credere di non essere nato solamente con la camicia ma addirittura con un guardaroba al completo. Per la guerra egli era dunque diviso tra due concezioni puramente elementari, le sole compatibili con le sue meningi fin dalla nascita fuori di ogni esercizio: la guerra era un orrore, ma la guerra era anche una necessità; e se era pensoso veder tante belle giovinezze spezzate e falciate su i campi di battaglia era evidente che non capriccio di uomini ma supreme leggi di storia rendevano necessario quell'olocausto, cui egli si rassegnava tanto più facilmente in quanto aveva assai poche probabilità — riformato com'era e per di più di terza categoria — d'essere chiamato a parteciparvi. Chè di fronte alla guerra gli uomini si dividono in due gruppi: quelli che dovendola fare l'accettano senza discuterla e quelli che non dovendola fare la discutono a lungo e poi l'accettano come se ad accettarla, nelle loro condizioni, avessero ragione di fare la minima difficoltà.

[129]

Ma se la lettura dei giornali lo aveva persuaso della necessità storica della guerra per le altre nazioni, le parole di sua moglie lo avevano ugualmente persuaso che solo l'Italia, o perchè superiore o perchè inferiore alla Storia, poteva, fra tutte le altre nazioni particolarmente benedetta da Dio, non partecipare al flagello. Svolse questa piccola idea, quest'embrione d'idea, anche quel ventitrè maggio in cui, uscito a far alcune spese per sua moglie ed entrato da Faraglia per bere un brandy and soda, andò a capitare in una tavolata di vecchi amici suoi che non aveva più riveduti da quando era andato a Vienna per accettare l'invito a pranzo del maestro Lehar e ne aveva fatto ritorno dopo avere accettato l'invito a nozze della figlia del maestro Kramer. In quel gruppo d'amici si parlava naturalmente di guerra e, invitato a sedere con loro per rivivere un'ora dell'antico cameratismo, dovette parlarne anche Pierino. Ne parlò come egli parlava di tutte le cose: lasciando, cioè, parlare gli altri. E tanto li lasciò parlare, e tanto gli altri parlarono, che Pierino ne rimase mortificato nel suo cantuccio con l'amor proprio triturato e le speranze [130] pacifiche ridotte in frantumi. Non riconosceva più i suoi amici, i suoi cari amici di una volta, capiscarichi, buontemponi, girelloni, senza pensieri, che, come lui, amavano i valzer lenti e le donnine rapide. Li aveva frequentati per anni e poteva giurare di non averli sentiti mai una volta parlar dell'Italia. Ora invece non avevan su le labbra che l'Italia: gl'interessi dell'Italia, l'avvenire dell'Italia, l'onore dell'Italia... Parevano tanti ragazzi infatuati al loro primo amore che non sapevano far altro che parlare della donna amata. Erano lì, come prima, a un tavolino di caffè, a bere bibite fresche, a fumar sigarette, a guardar le donne che passavano. Vestivano ancora, come allora, con ricercata eleganza, giacchette tagliate alla moda più recente e cravatte scelte con gusto e con parsimonia di colori, annodate con negligente sapienza. Parevano ancora tutti presi dai loro capricci, dalle loro vanità. Questo, a guardarli. Ma, a sentirli, non parlavano che di fucili e di cannoni, di battaglia e di morte e sospiravano l'ora di partire per la guerra come un innamorato può sospirar quella di partire con la donna del suo cuore. Chiese se tutti andavano, [131] se dovevano essere tutti soldati. Ebbe risposta affermativa, meno che per due, riformati. E potè allora osservare, sapendolo, che tra tutti quelli esaltati che smaniavano per andare alla guerra i due più accaniti a mandarceli erano i due riformati, che non ci sarebbero andati.

Se certi uomini di qualità superiore formano certi ambienti, certi ambienti formano invece certi uomini di qualità più corrente. Pierino, nell'ambiente di sua moglie, pensava e parlava per bocca di sua moglie. Lontano da lei, restituito a una provvisoria libertà, Pierino non osava certo parlare diversamente, ma tuttavia riusciva a sentire in fondo a sè qualche cosa di più personale e di più suo. Sentiva ancora che desiderare la guerra era una follia collettiva, ma sentiva anche che nell'ardore di quei giovani c'era qualche cosa di bello, di generoso, di giovane veramente, in una parola qualche cosa d'italiano. D'italiano? Come gli era venuta in mente questa idea? Che forse gli italiani avevano qualche cosa di diverso dai francesi, dagli inglesi, dai belgi, dagli spagnuoli, dagli austriaci?.... Dagli austriaci, sì: gli parve che [132] veramente gli italiani avessero qualche cosa di diverso dagli austriaci e si risentì addosso, commiserevoli, beffardi, sprezzanti, gli sguardi delle due teste dell'Aquila bicipite, gli sguardi di sua moglie e della cameriera di sua moglie.

Ma come Roma non si fece in un giorno non si disfà in un giorno Vienna. Anni ed anni d'operette viennesi, mesi e mesi di moglie austriaca, avevano fatto di Pierino una cosa che un po' di buon sangue italiano non poteva ripulire e risanare in un'ora. Pierino aveva preso da sua moglie, con rapida assimilazione, due dei caratteri più rappresentativi della razza cui ella apparteneva: la testardaggine e l'assoluta impermeabilità alle idee altrui e alle altrui ragioni. Così, messo dagli amici con le spalle al muro affinchè dicesse anche lui come la pensava, rimise fuori, uno ad uno, tutt'i bei ragionamenti tipo viennese che da settimane e settimane sentiva ripetere dai suoi amici del Grand Hôtel. Non credeva ancora alla guerra, non era possibile che un intero paese si facesse trascinare alla guerra dalle intimidazioni di una minoranza. L'Italia aveva [133] ancora, per fortuna, la testa su le spalle e Bulow era ancora a Villa Malta. E Cirmeni, pur essendo oramai un po' pessimista, non consentiva ancora, nella Stampa, a dichiarare definitivamente falliti i negoziati austro-ungarici. Che Giolitti fosse partito, che Salandra fosse tornato al potere, che la Camera avesse votato con patriottica unanimità la fiducia nel governo, Pierino sapeva benissimo e non nascondeva che a sua moglie la gravità sintomatica di questi avvenimenti. Ma c'era ancora speranza. Tutto ciò poteva ancora essere un'abile manovra, una messa in scena, una prova generale della guerra per forzar la mano dell'alleata a concedere qualche cosa di più. Ma i giorni erano tristi per i profeti della «concordia» e a parlare così, e a dire che l'Italia non era preparata alla guerra, e che il Lombardo-Veneto sarebbe stato invaso in una settimana, e che si voleva sfasciare in cinque mesi ciò che si era messo insieme in più di cinquant'anni, c'era pericolo, specialmente quando si aveva una moglie di Vienna o di Berlino, di sentirsi dire quello che si sentì dire Pierino da un amico che perdeva la pazienza, e con la pazienza [134] anche le staffe, e con le staffe anche il fiato, nel volerlo persuadere, sino al punto di perdere con molto fiato anche un po' d'educazione per gridargli: «Già tu hai per moglie un'austriaca... Tu ragioni alla croata!» Ci sono spiriti meticolosi, pedanteschi, non solo nelle ingiurie che possono caso mai arrecare ma anche, e specialmente, in quelle che ricevono. Nell'insieme di una grande invettiva che li offende a sangue non avvertono che la piccola inesattezza da rilevare. Così Pierino, là dove un altro avrebbe risposto con uno schiaffo, rispose con una correzione geografica per avvertire che sua moglie non era precisamente croata. E quando l'amico ebbe risposto esclamando: «Non è croata... Sta bene.. Ma è austriaca. E i mariti italiani delle austriache debbono, in ore come queste, star zitti», Pierino non trovò altro da dire. Rilevato che l'amico aveva dato atto dell'inesattezza in cui era incorso, Pierino esaminò la seconda parte della risposta: e poichè riconobbe di essere il marito italiano di un'austriaca, e poichè il consiglio dell'amico si rivolgeva appunto a codesti mariti, e poichè, docile e deferente, ai consigli degli amici Pierino aveva sempre saputo dare [135] ascolto, non aprì più bocca nè su quell'argomento nè su altri argomenti.

Dopo la tempesta, tornata la calma, l'uomo riordina nel cervello i ricordi dell'ora difficile. Così nel suo nuovo quieto silenzio, Pierino risentì l'asprezza ch'era nel tòno dell'amico e gli parve che, più che sul tòno d'un consiglio, quelle parole fossero state dette sul tòno d'un ordine. Aveva infatti Pierino, identificato il tòno con cui l'amico aveva detto al cameriere: «Portatemi una bottiglia d'acqua» col tòno in cui aveva detto a lui: «Tu, marito di un'austriaca, sta zitto!» Come c'è l'esprit, c'è anche la sensibilità dell'escalier: è propria di coloro che, poco suscettibili per dolcezza di natura o per prudenza di ragionamento, non avvertono alla prima impressione ciò che una parola od un atto possono avere d'offensivo; ma se pensano dopo che altri possono aver udito quella parola o aver veduto quell'atto, immaginano allora negli altri un giudizio sfavorevole, arrossiscono, si turbano e forse forse, se non fosse proprio oramai troppo tardi, si deciderebbero anche a reagire. Certo Pierino adesso era seccato: seccato d'essere rimasto solo contro dieci energumeni, [136] seccato d'esser capitato avendo sete proprio da Faraglia quando c'è ogni venti metri un bar o un caffè, seccato di sentirsi dire di aver per moglie un'austriaca con la stessa amabilità con cui a un altro si direbbe: «Hai la scabbia. Allontànati!», seccato sopratutto che le speranze di neutralità svanissero ad ogni minuto di più e che la guerra sembrasse sempre più inevitabile, e sempre più a tal segno che un signore, proprio in quel punto, aprendo violentemente la porta del caffè, levò in alto il cappello e gridò: «Signori, è la guerra! La mobilitazione generale è proclamata!»

E' una vecchia pretesa del teatro romantico e del romanzo d'appendice che le emozioni troppo forti possano uccidere un cuore insufficente a contenerle. Se così fosse non ci dovrebbe essere, in una sera di prima rappresentazione, un solo autore drammatico ancora vivo dopo il trionfo o il fiasco della commedia d'un collega. Nè, se il caso si desse altrove che nei quinti atti tanto per chiudere decorosamente il dramma, la morte repentina per eccesso di angoscia avrebbe potuto non prodursi ai danni di Pierino Balla quel giorno. Levatosi in piedi [137] per andarsene a raggiungere sua moglie all'albergo, Pierino era stato dall'annunzio della guerra colpito in pieno petto, in modo da esser rigettato di piombo, stecchito, sul divano: di piombo, sì, stecchito sì, ma vivo. Tanto vivo che, nella sua angoscia, nel suo batticuore, vedeva la gente levarsi, correr fuori dal caffè, cercare i manifesti di mobilitazione affissi alle cantonate, prender d'assalto i giornalai che correvano gridando a squarciagola: «La guerra dell'Italia con l'Austria», mentre l'altra gente rimasta nel caffè si levava in piedi, agitava i cappelli e i fazzoletti, gridava evviva all'Italia, al Re, all'Esercito e l'orchestrina delle «dame viennesi» — son cose che càpitano alle «dame viennesi» all'estero in tempo di guerra — doveva intonare la marcia reale. In tutto il caffè solo Pierino era rimasto a sedere, a sedere non già per protesta ma per smarrimento. E l'amico che prima gli aveva ordinato di star zitto, ora gli consigliava di mettersi in piedi: «Bada se ti vedono seduto ti pigliano per un austriaco e ti linciano quanto è vero Iddio».

La prospettiva spaurì Pierino a tal segno che non solo fu sùbito in piedi, non solo si levò [138] il cappello, ma si mise a batter le mani come gli altri e a gridare evviva come gli altri. In fondo, a poco a poco ci si riscaldava anche lui e più l'applauso durava più Pierino applaudiva forte, più le grida salivano e più saliva anche il suo evviva. Pierino Balla cittadino italiano era oramai anche lui fuori di sè, ma era rimasto ancora dentro monsieur Kramer-Balla, per dovere coniugale cittadino austriaco, che si ripeteva fra un applauso e un evviva: «Se mi vedesse mia moglie!».

Quando risalì verso l'albergo, Pierino aveva l'animo d'un uomo che torni a casa con la paura di trovar tutto distrutto da un incendio o da un terremoto. Ebbe invece la sorpresa di vedere che il concierge lo accoglieva col solito sorriso, che il liftier lo accompagnava su, in ascensore, con la solita impassibilità meccanica, che la cameriera di Eva, aprendogli la porta del salotto, lo guardava coi soliti occhi sprezzanti e lo salutava col solito Bonsoir, monsieur, cerimonioso e servile. Nel salotto tutto era come al solito: l'americana al piano, le coppie in giro. Sua moglie ballava, e passandogli vicino, gli disse buona sera con un sorriso di cui [139] Pierino aveva mai veduto l'uguale per cordialità e serenità. Tutto era così tranquillo ch'ei cominciò a dubitare che lassù già si sapesse che la bomba era scoppiata. L'idea di dover dare lui l'orribile notizia fu sul punto di fargli riprendere il largo sino all'ora di pranzo o, almeno, sino all'ora dell'arrivo dei giornali. Ma un'amica di sua moglie, passandogli accanto a sua volta, gli mormorò, anche lei col suo più bel sorriso: «Ça y est... La guerre!...» E un'altra ancora, passandogli anch'essa vicino nei giri del valzer, aggiunse a sua volta: «Guerre de macaronis... Pas terrible!...» La quarta signora si fermò proprio accanto a lui sciogliendosi dall'abbraccio del suo cavaliere e, poichè parlava italiano, gli disse in italiano: «Fra dieci giorni, siamo a Milano!» E giù anche lei un sorriso beato.

Se avesse saputo qualche cosa di psicologia Pierino avrebbe dovuto non ignorare che nel campo delle crisi morali le grandi calme fanno più paura delle furiose tempeste. Quei sorrisi provvisorii delle belle signore austriache erano d'una spavalderia momentanea che avrebbe dato luogo al terribile scoppio della procella [140] coniugale non appena l'intimità delle singole case avrebbe permesso di passare senza grottesco dalla commedia alla tragedia. Ma Pierino, che di psicologia ignorava anche l'abicì, si fidava, incauto, di quella serenità. L'arcobaleno della contentezza universale sorrideva in quel salotto, al suono dei suoi cari valzer. Sì, anche con la guerra, la vita era bella, la vita era buona, la vita insomma non era che un valzer: un valzer che avrebbe potuto aver per titolo Contenti tutti. Contenti giù gli italiani che facevano finalmente la guerra sicuri di andar dritti filati a Vienna in un mese, contente su le signore austriache sicure di vedere in una settimana i soldati di Conrad arrivare a Milano, contenti tra le une e gli altri anche i mariti italiani delle signore austriache che, dopo tante paure, si levavano finalmente a buon mercato da una posizione coniugale e politica maledettamente difficile.

Le belle signore, eccitate com'erano, sembravano prese dalla tarantola e non smettevano più di ballare. Ma, ad un dato momento, un gran clamore salì dalla via: un enorme scalpiccìo, un vocìo formidabile, il gigantesco coro [141] di migliaia e migliaia di voci. Un corteo interminabile, con innumerevoli bandiere delle nazioni alleate, torce accese sfavillanti nel grigio crepuscolare e bengala di tutt'i colori, passava acclamando la guerra, cantando l'inno di Mameli. Chiare, baldanzose, le grandi parole dell'inno salivano dalla via italiana al salotto italo-austriaco:

Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta...

Al pianoforte l'Americana aveva interrotto il suo valzer e ora accompagnava il canto del corteo che passava. Eva s'era fatta al balcone con gli altri:

— Vedi, diceva al marito, vedi che gioia, che tripudio... Vanno alla guerra come ad una festa da ballo. Ah, sì, adorabile la Carnaval-Nation!

E, rientrata nella sala, con una grossa risata, si gettò fra le braccia di Pierino:

— Balliamo! Voglio ballare con te. Io austriaca e te italiano!

Pierino s'era voltato verso la vecchia signora americana per chiederle di suonare un valzer...

[142]

— Ma no... Su questa musica: si balla benissimo, esclamò Eva ridendo con più veemenza. Voi siete gente allegra, gente di buon umore e avete anche gl'inni che sembran ballabili...

E via, nel ballo, col marito, cantando anche lei, tra scoppio di risa e scoppio di risa, l'inno di Mameli. E gridava agli altri:

— Anche voi... Anche voi... Ballate... Si balla benissimo il loro inno...

E girava, girava col marito, mentre da giù saliva, ardente, immenso, il coro del popolo:

Dov'è la Vittoria?

Le porga la chioma...

Ed Eva, ballando:

Chè schiava di Roma...

Iddio la creò!

E attorno a loro, adesso, anche le altre coppie giravano: gli uomini un po' pallidi, le donne molto accese. Ferma l'Americana, sempre più neutrale. Ancora dalla via saliva il canto:

Chè schiava di Roma....

Ed Eva, con un'ultima giravolta:

Iddio la creò!

[143]

Poi, respingendo brutalmente il marito, con una pazza risata, andandogli davanti coi pugni chiusi e con un grido:

— Dio? Quale Dio? Avete ancora un Dio voialtri?... Spergiuri!

Ma anche nella via il canto s'era spezzato. Adesso erano grida che salivano a ondate:

— Morte a Francesco Giuseppe!... A Vienna! A Vienna! Abbasso l'Austria!

D'un tratto dal balcone della stanza vicina una voce chiara, metallica, squillò:

— A Milano, andremo a Milano!... Abbasso l'Italia! Abbasso l'Italia!

Pierino, che una volta s'era trovato in uno scontro ferroviario dove non c'erano stati che tre feriti e due contusi su duecento viaggiatori, credeva di aver conosciuto uno degli spettacoli più terribili cui sguardo d'uomo possa resistere toccando il culmine del raccapriccio. Dovette convenire quella sera, vedendo quello che accadde, a quel grido, che centomila scontri ferroviarii simultanei e simili a quello in cui s'era trovato lui non avrebbero potuto dare che una pallida idea dell'orribile spettacolo che ora si svolgeva sott'i loro occhi.

[144]

Orribili imagini, episodii della Comune, scene del Terrore, passavano, color sangue, nel suo spirito. Da giù la folla minacciava:

— E' un'austriaca! E' una spia! A morte! A morte!

Da su la voce continuava, disperata, esaltata, delirante:

— Viva l'Austria! Abbasso l'Italia! A Milano! A Milano!

Volavano i primi sassi. Nessuno osava uscire sul balcone. Non per eroica volontà, ma spintovi violentemente dalla moglie, uscì sul balcone Pierino. Rientrò esterrefatto, con le mani nei capelli:

— E' Carlotta... E' la nostra cameriera!

Sùbito Eva, Pierino, le altre signore e i mariti sfondarono, più che aprirla, la porta di comunicazione con la stanza da letto dei coniugi Balla, fecero ressa al balcone e venti braccia si stendevano per afferrare Carlotta e tirarla indietro, mentre Carlotta, aggrappata al davanzale, continuava a gridare inferocita alla folla inferocita:

— Abbasso l'Italia! Viva l'Austria!

Pierino finalmente riuscì a sradicarla, a [145] rigettarla dentro la stanza, mentre la cameriera ancora gridava, con gli occhi fuori dell'orbita, il volto di brace:

— Viva l'Au....

— Viva l'Austria un corno! — gridò Pierino che, toccando il fondo della paura, riusciva a trovarsi finalmente un po' di coraggio. — Volete farci massacrare quanti siamo?

Ed Eva, amabile:

— Il signore ha ragione... Questi sono briganti, ragazza mia!

[147]

VI. “VA FUORI, O STRANIER!„

[149]

L'Italia, come avviene di tutte le personalità molto pronunziate, è paese quanto mai ricco di antitesi. Ebbe a rilevarlo, Eva, una volta ancora quando vide entrare nella sua camera da letto i rappresentanti dell'ordine pubblico: poichè l'antitesi italiana ammette di avere i briganti ma vuole avere anche i carabinieri. I quali carabinieri, con urbane maniere, chiesero a tutti i signori e a tutte le belle signore presenti quale fosse la gola responsabile d'avere emesso grida sediziose al passaggio della dimostrazione. Le persone presenti, interrogate ad una ad una, negarono recisamente. Giunta la volta della cameriera di Eva, questa sentì che poichè tutti avevano negato a lei non restava che affermare. E poichè non c'era nulla di meglio [150] da fare si fece avanti e, visto che non c'era più nessuno da interrogare, con fiero cipiglio e ferma voce esclamò: «E' inutile interrogare tutti gli altri. Mi accuso spontaneamente. Le grida dal balcone furono lanciate da me.» Tutti guardarono la cameriera di Eva con un'ammirazione più che meritata da quella sua fermezza d'animo che sarebbe forse esagerato chiamare spartana, ma che piuttosto, nel comodo vocabolario delle frasi fatte, ha nome coraggio della disperazione.

La gioia dei bei gesti è gioia breve. Al nostro bel gesto rispondono immediantemente i gesti belli o brutti dei nostri interlocutori. Accadde così anche per la cameriera di Eva la quale si vide offrire simultaneamente la mano dai due carabinieri e non precisamente per condurla a nozze. Quand'ebbe compreso di che si trattava la cameriera di Eva cominciò nuovamente a lavorare di muscoli, a dibattersi fra le braccia dei carabinieri e ad invocare aiuto da tutti i presenti. Ma i presenti non sono veramente presenti che quando esser presenti non è in alcun modo pericoloso. Difatti se il pericolo appare potete essere con venti amici in [151] una camera e il vostro appello ai presenti non troverà presente nessuno. La camera da letto del ménage Kramer-Balla si sfollò così rapidamente e in balìa dei carabinieri rimase la sola cameriera che, quando non ebbe più pubblico cui far vedere che resisteva, non stimò più oltre necessario di resistere e seguì docilmente i tutori dell'ordine per traversare l'albergo, uscire da una porticina di servizio e raggiungere in fiacre gli ufficii d'un commissariato dove un amabile funzionario, più che rimproverarla cercò di persuaderla dell'assoluta inutilità, per un'austriaca, di sprecare il fiato a gridare da sola: «Viva l'Austria!» proprio quando trentacinque milioni di italiani, neutralisti e germanofili compresi, gridano come un sol uomo: «Viva l'Italia!»

Ma è nelle ore difficili che il sentimento della solidarietà nazionale lega strettamente il destino di una bella e ricca signora a quello della sua cameriera. Non ebbe pace, Eva, infatti, finchè non ebbe persuaso Pierino della necessità di prendere il bastone e il cappello e di andare anche lui al commissariato per vedere quale sorte, in questo terribile ed inospitale [152] paese, era riservata a quella brava figliuola che aveva il solo torto di amar profondamente la sua cara patria. La missione imperiosamente affidatagli da sua moglie sembrò facile a Pierino finchè si trattò di percorrere i vasti corridoi dell'albergo, di discendere su i soffici tappeti le ampie scale, d'attraversare il grande vestibolo in cui regnava una pace di paradiso mentre fuori, sotto il gran portico dell'albergo, infuriava, terribile, l'inferno. Ignorando che l'albergo avesse altre uscite Pierino si decise a gettarsi in quella folla che, stipata, ondeggiava sotto il portico e fuori nella strada, urlando, ridendo, cantando, motteggiando, chiedendo la testa della donna straniera, della miserabile spia che da un balcone d'una stanza, dove poco prima s'eran vedute alcune coppie ballare, aveva ingiuriato l'Italia e gli Italiani. L'immensa folla, che prima marciava al grido di: «A Vienna! A Vienna!» come fosse fermamente decisa a raggiungere il Danubio il più rapidamente possibile, nella stessa serata, ora stazionava e gridava come se non le importasse più nulla di andare sino a Vienna ma le bastasse anche una sola testa di viennese. [153] Pierino, che era cerimonioso, credeva che anche la folla fosse cerimoniosa e s'era quindi gettato fra i suoi mille gomiti senza pensare che quei mille gomiti glieli avrebbero dati tutti nello stomaco, ma anzi persuaso che, con un amabile serie di pardon, avrebbe avuto dalla folla il più garbato dei lascia-passare. Non tardò ad accorgersi del suo errore quando ebbe fatti non come voleva lui ma come volevano gli altri, pochi passi e quando si vide immobilizzato, in un mare di teste, senza poter andare più avanti e senza poter neppure, ahimè, ritornare indietro. Gracilino com'era, si sentiva soffocare e avrebbe chiesto pietà se mai avesse potuto credere che qualcuno ne avrebbe avuta. Sentì allora veramente che la vita non è proprio un valzer ma che talvolta può anche essere una posizione pericolosa sospesa per un filo al pericolo dell'asfissia. Ma a poco a poco — poichè ci si abitua a tutto e anche all'idea di sentirsi soffocare — Pierino cominciò a distrarsi dalla sua pena ascoltando le parole che suonavano da ogni parte attorno a lui. I più fieri propositi animavano quei fieri cittadini che sarebbero stati i soldati [154] di domani. Tutte le esclamazioni convergevano a questa conclusione: che non bisognava muoversi finchè non fosse fatta giustizia. E Pierino, ch'era figlio di magistrato e sapeva quanto fosse lenta la giustizia, cominciò seriamente a disperare di potersi mai sciogliere, vivo ancora, da quell'abbraccio tentacolare.

A coro, attorno a lui, suonavano voci cavernose: «Mor-te-al-la-spia! — Mor-te-al-la-spia!» Più in là un gruppetto di patrioti licenziosi gridava ridendo: «La vogliamo nuda! Nuda la vogliamo!» Poi altre voci commentarono: «E' una cameriera. — No, è una signora. — Austriaca! — Tedesca! — A' la lanterne, tutt'e due, la cameriera e la padrona!» Pierino si sentì venir meno all'idea che l'ira popolare eccitata da quei discorsi potesse rivolgersi anche contro la sua dolce metà. Ebbe sùbito occasione di rilevare che non era quello il maggior pericolo che gli sovrastava. Altre voci infatti commentavano: «Che sta a fare questa gente in Italia? — Sono spie! — No, è la moglie austriaca d'un italiano! — A' la lanterne, allora, anche il marito!» E, tra risa e lazzi, sentì altre voci gridare: «Svergognato! [155] — Buffone!... Senza patria!» Gridavano a squarciagola come se la voce dovesse raggiungere lassù, oltre le pesanti mura, il marito italiano della signora austriaca e Pierino sarebbe stato tentato di dire a quelli che gridavano più forte: «Non si sfiatino inutilmente. Tanto sento lo stesso!» Ma gli altri gridavano ancora più forte: «Rinnegato! — Carne venduta! — Marito da operetta!» Pierino ebbe un sobbalzo: lo conoscevano dunque, lo avevano dunque identificato? Si sentì perduto. E, maestosa, apoplettica, cannoneggiando, la ingiuria suprema suonò sott'il portico e lo raggiunse: «Becco!» Nell'udir quella parola, le associazioni d'idee, quelle associazioni che giuocano i tiri più impreveduti, gli fecero passare davanti agli occhi, in quel momento d'agonia, il profilo tagliente e le basette bionde dell'herr major Hampfel, che egli da qualche tempo, da tutt'altri pensieri impensierito, aveva del tutto dimenticato.


Gli inferni terrestri, a differenza di quell'altro, hanno un termine. Viveva Pierino il suo [156] supplizio da più di un'ora quando su la soglia dell'albergo vide sollevare un grande foglio di cartone sul quale ad inchiostro, con un manico di scopa, era stato scritto che giustizia era fatta e che i buoni italiani potevano sciogliersi, poichè la spia era arrestata! Un formidabile applauso suonò nella folla la quale finalmente cominciò, lentamente, lentissimamente, a muoversi e a diradarsi, quel tanto almeno da permettere a Pierino non di raggiungere la via dove la folla invece di scemare aumentava ma l'atrio dell'albergo e l'ascensore che doveva ricondurlo, con gli abiti gualciti e il corpo coperto di lividure, al dolce asilo delle sue quiete stanze. In queste stanze trovò Eva, oramai sola, intenta a gettare alla rinfusa dentro i bauli le sue toilettes e la biancheria. Appena vide entrare il marito Eva corse al campanello elettrico e suonò a distesa; e alla cameriera dell'hôtel, timida e spaurita, col tono di un generale che ordina la ritirata del suo esercito, ordinò: «Non c'è tempo da perdere. Aiutatemi. Il treno è alle nove.» A queste parole Pierino osò chiedere: «Che si fa?» Ed Eva, scaraventando in un baule anche una montagna [157] di vestiti di Pierino, rispose energica: «Che si fa? Si parte!»


E' un'energia anche quella, di fronte ad una moglie dispotica e autoritaria, d'opporsi energicamente ad ogni tentazione di curiosità di marito che vuol discutere prima d'obbedire. La disciplina coniugale è fatta, come quella militare, d'un forte che non dubita nemmeno lontanamente di poter essere il più debole e d'un più debole che non pensa neppure incidentalmente di poter essere il più forte. Nel matrimonio c'è sempre un coniuge che ha tutt'i diritti e un altro coniuge che ha solo tutt'i doveri. A rovesciare i termini del problema non c'è neppure da pensare. Bisogna accettare la disciplina coniugale come quella militare: senza discuterla e senza cercare di spiegarla. Così si regolava Pierino Balla il quale, di fronte alla moglie, stava sempre su l'attenti, su un attenti fatto un po' di rassegnazione e un po' di paura, un po' di docilità e un po' di impersonalità.

Si decise quindi anche quella sera ad accettare [158] la brusca decisione di sua moglie come un ordine che non si discute. Saputo che il treno partiva alle nove ed osservato al suo orologio che già le sette erano vicine vide sùbito, invece del suo diritto di sapere perchè la moglie lo faceva partire, il suo dovere d'aiutar la moglie a fare in tempo a partire. In maniche di camicia, già pronto a infilare un abito da viaggio, andava su e giù per le stanze con le braccia cariche di biancheria e di vestiario, secondo gli ordini di sua moglie che preparava quei carichi e intanto contava e metteva da parte certe carte, ravviava alla svelta le belle chiome bionde, scampanellava e riscampanellava, una, due, tre volte, per il cameriere, per la cameriera, per il facchino. Docile, mogio mogio, Pierino continuava a fare i bauli, mentre Eva, a mano a mano, si svestiva e si rivestiva.

Quando, di fronte a Pierino seduto sul coperchio del baule chiuso e in attesa dei facchini che dovevan venire a portarlo via, Eva fu tutta vestita, in abito da viaggio, cappello avvolto da gran velo bianco, spolverina su un braccio, borsetta infilata nell'altro, la moglie che non dava spiegazioni sentì di poterne dare [159] finalmente qualcuna. «Tu già hai capito perchè si parte...» cominciò Eva piantandosi dinanzi a Pierino. Il quale Pierino non aveva in verità capito niente, ma non osò dichiararlo temendo che una dichiarazione simile avesse potuto aver l'aria di pretendere spiegazioni da Eva, che invece non soleva darne se non quando non erano affatto richieste. Ma, sia che pensasse che avendo già capito era meglio metter Pierino in condizioni di capire meglio, sia che stimasse impossibile che suo marito capisse mai qualche cosa senza spiegargliela il più chiaramente possibile, Eva continuò a spiegare senza attendere da Pierino nessuna risposta: «La vita qui comincia a diventare impossibile... Hai veduto? Per poco massacravano la mia cameriera, per poco linciavano anche noi... In Austria non conviene rientrare... Ripareremo, per ora, in Svizzera... L'estate si avvicina e noi anticiperemo la villeggiatura. Certo è che restare tra questi forsennati non è più possibile... Capirai: per noi stranieri...»

Stranieri. Cercò Pierino, nella stanza, l'altro straniero e poichè non lo trovò capì che quel plurale non poteva comprendere che lui. Ebbe [160] la tentazione di dire a sua moglie: «Due stranieri? Ma, bada, io sono italiano...» Ma capì subito che, di fronte a sua moglie austriaca, nella stessa sera della dichiarazione di guerra dell'Italia all'Austria, era per lo meno inopportuno rivendicare così la propria italianità. Prese, tuttavia, per ristabilire un poco le cose nella loro esattezza, una via indiretta. «Partire, esclamò, è giusto, ma, ora che ci penso, come posso partire, io? Se c'è la guerra, c'è la mobilitazione generale e io sono soldato. E se sono soldato, non mi lasceranno certamente partire». Con questa lunga serie di deduzioni più che logiche credeva d'avere senza darsene l'aria, inchiodato sua moglie su la croce di una vera impossibilità. Senonchè sua moglie sorrise e, aperta la borsetta, ne trasse fuori un grande foglio bianco e un piccolo cartoncino ed esclamò: «Soldato tu?... Tu sei di terza categoria e riformato... Ecco il tuo foglio di congedo illimitato che, ad ogni buon fine, avevo fatto ritirare. Ed ecco qui il tuo passaporto che, durante questi ultimi giorni, prevedendo la possibilità della guerra, avevo già fatto preparare...» Poi, con un sorriso, chiedendo il complimento [161] che Pierino distratto, attonito, aveva dimenticato di fare, aggiunse: «Come vedi, io penso sempre a tutto...» Il complimento venne in due parole: «Sei meravigliosa...» Poi Pierino guardò il foglio del congedo illimitato e disse, quasi ancora incredulo: «Veramente con questo posso partire?... Non sono soldato?... Posso lasciare l'Italia?...» E poichè Eva con aria giubilante rispondeva: «Sì, si, si...» Pierino credette doveroso manifestare lo stesso giubilo in queste quattro brevissime parole: «Oh, che bella cosa!»


Ma, mentre scendevano le scale, mentre pranzavano in fretta, mentre saldavano il conto e in automobile partivano per raggiungere la stazione, Pierino pensò a più riprese che quella cosa di partire proprio la prima sera della guerra non era poi tanto bella quanto aveva detto. Trovarono la stazione invasa di soldati. Già nuovi reggimenti partivano per la frontiera. Già da ogni parte giovani viaggiatori in borghese affluivano a tutt'i treni in partenza per raggiungere i loro reggimenti o i loro [162] distretti. Nel corridoio del vagone-letto, appoggiati al finestrino, Pierino ed Eva non parlavano. Pierino ed Eva, del resto, non parlavano che quando Eva aveva qualche cosa da dire o da far dire. E, poichè quella sera in italiano non aveva nulla da dire e in tedesco era assolutamente imprudente domandare anche semplicemente a che ora partisse il treno, Eva non parlava e Pierino, disciplinato come sempre, taceva. Ma parlavano attorno a loro gli altri, quelli che parlavano chiaramente e tranquillamente in italiano perchè in italiano liberamente pensavano. Ed erano tutte parole ardite ed ardenti, parole d'entusiasmo e di fede, parole chiare e precise con le quali tutti quelli che si lasciavano a Roma si davano appuntamento a Trieste od a Trento e quelli che non badavano a spese addirittura a Vienna. Di tanto in tanto drappelli di soldati passavan correndo per raggiungere fuori stazione i treni militari. Avevano, quei soldati, infiorati i berretti e i fucili. La gente dal treno e dai marciapiedi li applaudiva e a quegli applausi i soldati rispondevano agitando in aria i berretti e lanciando certi evviva che facevano tremare gli enormi lucernarii [163] della stazione. Non sapeva perchè, Pierino: ma a veder agitare quei berretti, a sentir gridare quelle parole, sentiva pesare sul suo cuore, nella tasca interna della giacchetta, il suo congedo illimitato, come se quelle due pagine di carta fossero di bronzo. Non capiva perchè, Pierino: ma, se chiudeva gli occhi, si vedeva davanti la stazione di Vienna, la famosa Sudbanhoff del primo viaggio e la vedeva in quel momento piena di un'eguale folla, di altri soldati, di analoghi saluti e di analoghe grida. Se i suoi connazionali partivano per la guerra, per la guerra partivano, in quell'ora, anche i connazionali di Eva. Lui solo non partiva per nessuna guerra e si avviava comodamente in Isvizzera. E gli parve che, nè italiano nè austriaco, non era in fondo il connazionale di nessuno. Era, come diceva il foglio del suo congedo, un militare riformato e di terza categoria ed era, sopratutto, senza possibilità di congedo, nè illimitato nè limitato, il marito di sua moglie. Vedeva passare quei soldati, sentiva suonar le fanfare, rombar qua e là, in coro, le note degli inni patriottici e gli veniva una voglia matta — matta [164] veramente — di gridare evviva anche lui e di battere anche lui le mani. Ma c'era lì sua moglie a tenerlo d'occhio e, sebbene il cuore gli battesse, Pierino le mani continuava a tenersele in tasca e a fiatare anche un solo monosillabo non pensava neppure.

Passò in quel punto, correndo, una compagnia di bersaglieri. Correndo, cantavano un inno e, proprio passandogli davanti e fissandolo in volto, un bersagliere gridò più forte degli altri: «Va fuori d'Italia, va fuori, o stranier...» E aveva un bel dirsi, Pierino, che quel bersagliere non poteva conoscerlo, che non poteva averla con lui... A lui mortificato sembrava che quel: «Va fuori, o stranier!» gli fosse, indiscutibilmente e più che meritatamente, dedicato.

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VII. LA SINFONIA DEL «GUGLIELMO TELL»

[167]

Poichè il consiglio — Va fuori, o stranier... — datogli con tanto entusiasmo dal soldato che partiva per la guerra collimava perfettamente con le intenzioni della signora Eva, Pierino Balla fu l'indomani mattina, mettendo giù il piede dal montatoio dello sleeping-car, fuori d'Italia. Si trovò tra gente tranquilla, tra gente svizzera non provvisoriamente ma definitivamente neutrale e che accudiva ai proprii affari con moltiplicata energia; non perchè la forza del carattere nazionale riuscisse a superare lo sconvolgimento dell'ora terribile sino a permettere ai cittadini d'accudire serenamente ai proprii negozii, ma perchè lo sconvolgimento aveva meravigliosamente moltiplicato la possibilità di far degli affari così come li fanno i neutrali: [168] ossia con l'uno e con l'altro belligerante, dal momento che essere veramente neutrale non vuol dire affatto, come i lessici vorrebbero, non parteggiare nè per l'uno nè per l'altro, ma vuol dire invece, come vuole ogni politica estera saggiamente intesa, parteggiare simultaneamente per tutt'e due, con questa sola restrizione mentale di evangelica opportunità: che la mano destra non deve sapere quello che fa, ossia quello che dà e prende, la sinistra — e viceversa.

Nelle grandi tempeste domina solo l'istinto della conservazione. Le riflessioni su gli eventi attraversati e su le azioni compiute per superare quelli eventi non vengono che più tardi, a calma ristabilita. Così Pierino che nel primo momento, uscendo dalla furia della gente accalcantesi quasi a stritolarlo nell'atrio dell'albergo, aveva accolto l'annunzio della partenza datogli imperiosamente da sua moglie come la scelta dell'unica via possibile di uscita da una situazione sempre più minacciosamente difficile, adesso, nel raccoglimento del grande albergo svizzero dove tutto appariva inverosimilmente lontano, sentiva che quella partenza [169] era stata tanto precipitosa da rassomigliare più che ad una partenza ad una fuga. Se qualcuno gli domandava da dove venivano, Pierino rispondeva che venivano da Roma, che erano partiti per più quieti orizzonti allo scoppiare della guerra. Sapeva di adoperare, col verbo partire, un verbo generosamente eufemistico, ma agli eufemismi era oramai abituato. E sapeva, in certi suoi momenti di lucidità, che il peggiore eufemismo di tutti era quello che, così per chiamare lui senza un soldo come per chiamare Eva ricca a milioni, usava due parole che tendevano a creare una certa parità di valori morali e materiali: marito e moglie.

La gente, come osserva anche una canzonetta del dolce paese natìo di Pierino Balla, vuol sapere troppe cose. Ed è proprio quando ogni discrezione sarebbe consigliabile che la gente formula, con inconsapevole malizia, le più indiscrete domande. Così molti, nel vederlo tanto giovane, nel saperlo italiano, nel ricordare che da pochi giorni anche l'Italia era in guerra, gli domandavano come mai egli non fosse soldato. Pierino rispondeva con un rossore che diceva il perchè vero e con due parole che dicevano [170] il perchè falso. Le due parole erano: «Terza categoria». E sùbito Pierino aggiungeva che le terze categorie non erano state ancora chiamate, che il governo si era limitato a chiamar sotto le armi, per istruirle, solo le classi più giovani e che il momento dei più anziani — ed egli era, con un sospiro, purtroppo, dei più anziani — non sarebbe venuto che più tardi, molto più tardi. Aggiungeva però, solo entro sè stesso, che, riformato com'era per deficienza toracica, poteva sperare che pur venendo il momento della sua classe e della sua terza categoria il momento suo non sarebbe venuto mai. Era di terza categoria, era riformato, era in Isvizzera: non poteva essere più al sicuro di così. Sua moglie non si stancava di ripeterlo e Pierino non si stancava di sentirselo ripetere. Non gli pareva possibile che, quando milioni e milioni di suoi connazionali correvano il rischio di pagar con la vita il diritto della loro patria a farsi un po' più grande, egli potesse cavarsela, beniamino degli dei di guerra, a così buon mercato. Aveva vagamente paura che il diavolo, raffigurato nelle precise circostanze del ministro della Guerra, potesse [171] da un momento all'altro giuocargli un brutto tiro. Già alcuni giornali arrabbiatamente interventisti cominciavano a strillare per convincere il governo dell'assoluta necessità morale e materiale di procedere il più sollecitamente possibile a una rivisita dei riformati.

Il giorno in cui lesse per la prima volta una notizia in proposito nei giornali italiani era con sua moglie che lavorava a misurar metri di flanella destinati a decine e decine di gilè per i bravi soldati del fronte austriaco nel Trentino, «dove c'è sempre la neve e dove, poveretti, dovevano aver tanto freddo». Appena letta la notizia Pierino si levò giacca e gilè di fronte ad Eva che lo guardava sbalordita. Le tolse anche di mano il metro, un metro di fettuccia, che Pierino si passò attorno al torace per misurar di questo lo sviluppo attuale. A veder se il torace fosse cresciuto non aveva, a dire il vero, pensato mai. Ma, adesso, era il caso di preoccuparsene seriamente. Stringeva, stringeva, Pierino, stringeva quel povero metro a fettuccia perchè potesse segnare quanti meno centimetri era possibile. Ma, desolato, senza fiato, guardava e riguardava: [172] erano, implacabilmente, ottantasette. A calcolare il volume della camicia e della maglia si potevano a rigore togliere cinque, sei o sette centimetri. Ma anche togliendo ne rimanevano sempre ottanta: proprio quel che occorreva per essere soldato. Poichè infatti quel benedetto diavolo, quel benedett'uomo, cioè, del ministro della Guerra, per mettere insieme quanti più soldati era possibile, aveva ribassato da ottanta a settantanove i centimetri di petto richiesti per il fantaccino. E lì, lì rimaneva Pierino, guardandosi e riguardandosi quell'ottantasette sul quale l'unghia del suo pollice s'era fermata. «Sono ottanta, sai, disse alla moglie quando potè riprender fiato, sono ottanta, capisci?» Eva non sapeva e non capiva gran che. E poichè Pierino s'affannava a ripetere che erano ottanta, che erano almeno ottanta Eva lo guardava esterrefatta interrogando: «Ottanta?» E Pierino, con un fil di voce: «Ottanta: proprio così. Erano settantasei prima, quando ti ho sposata. Ora ne occorrono settantanove ed io ne ho uno di più».

Eva in fondo era fiera che suo marito le dovesse quei tre centimetri di maggiore sviluppo [173] toracico, ma, Pierino non la pensava così e, pur di risparmiarsi quei tre centimetri di torace in più avrebbe rinunziato anche volentieri a tre chilometri di quella felicità coniugale che Eva aveva saputo dargli. «Ma tu sei riformato!...» diceva Eva per rassicurarlo. E Pierino rispondeva: «Sì, ma pare che rivisitino anche i riformati...» Eva lo rassicurava... Non c'era questo pericolo: l'Italia non era la Francia, l'Italia aveva molti uomini, l'Italia era largamente prolifica. L'Austria aveva, è vero, dovuto ricorrere ai riformati, ma l'Austria, santo Dio, combatteva una guerra enorme, contro tre nemici, su tre fronti. In Italia, invece, la cosa era molto diversa: un fronte solo e non un nemico, ma neppure una metà di nemico, addirittura un terzo di nemico... Poichè Eva, anche rassicurando Pierino, non perdeva l'occasione di dir qualche cosa di molto amabile per l'Italia, per dimostrarle una volta di più che le alleanze, le quali tanto più sono doppie quanto più sono triplici, servono a tener desti da una parte e dall'altra delle frontiere i più cordiali sentimenti di simpatia. Ma poi, vedendosi Pierino mortificato davanti, invece di continuare a dir [174] cose amabili all'Italia, ricominciava a dirne a lui... «E sta allegro, gli diceva, non c'è pericolo...». Poi un'idea, evidentemente molto buffa, le attraversava il cervello: «Tu alla guerra! esclamava. Oh, che ridere!» E giù a ridere, infatti, per un quarto d'ora.


Se è vero che non s'ama la patria che da lontano, Pierino doveva cominciare a persuadersi che, andandosene al Capo Nord, avrebbe finito per amar l'Italia di sviscerato amore. Gli era bastato di varcare appena la frontiera e di rifugiarsi in quella cittadina svizzera per sentire che la mattina appena desto, la lettura dei giornali italiani gli era indispensabile. E non leggeva la cronaca dei teatri — dove, del resto, non si rappresentavano più operette austriache poichè queste erano state sostituite, non già da operette italiane, ma, con cortesia pei nuovi alleati, da operette tutte francesi — non leggeva la cronaca dei teatri, ma il comunicato di Cadorna. Ogni giorno quei comunicati annunziavano che la prima avanzata si svolgeva felicissimamente e che le bandiere austriache su le cittadine di confine cadevano una dopo [175] l'altra al soffio d'un po' d'aria smossa dai pennacchi dei bersaglieri. Quando leggeva nelle grosse lettere dei titoli su sei colonne che la bandiera italiana sventolava un po' più in là del confine, che gli alpini scalavano vittoriosamente montagne inaccessibili, che i bersaglieri sfondavano i reticolati come fossero di carta velina, che dovunque la bella ondata grigioverde passava, prorompeva, incalzava, travolgeva, Pierino si sentiva un po' di batticuore. Poi, quando dal gabinetto da bagno entrava sua moglie, Pierino atteggiava a compunzione il volto troppo sorridente. Se questa gli domandava che notizie ci fossero su i giornali Pierino le rispondeva che c'era poco di nuovo: qualche paesello di frontiera occupato, qualche sfondamento di truppe di copertura, incertezze del primo momento, episodii fortunati certo, ma episodii solamente. Si vestiva in fretta e scendeva a prendere il caffè e latte nella sala del restaurant. Gli ritornavano allora gli spiriti e, con questi, anche lo spirito patriottico. Lo serviva infatti un cameriere francese che, a sua volta, gli chiedeva notizie. Di fronte all'alleato il volto di Pierino ritrovava il sorriso, i successi ridiventavano successi, [176] le bandiere italiane risventolavano. E quando il cameriere francese esclamava compiaciuto: «Ils vont bien, les Italiens!...» Pierino, raddrizzandosi, impettito e fiero come se fosse il Generalissimo, rispondeva:

— Sì, andiamo benissimo!...

Lui non andava in nessun posto, ma gli altri andavano per lui e, in fondo, era la stessa cosa... E se il cameriere francese, brandendo minacciosamente la caffettiera contro la Germania intera, aggiungeva con supremo disgusto: «Ah, ces Boches!» Pierino si guardava attorno per vedere se Eva non veniva ancora a raggiungerlo e, approfittando del libero lucido intervallo, brandendo anche lui in atto di sfida il coltellino con cui spalmava il burro su le fette di pane abbrustolito, si sentiva per un momento più alleato che impero centrale e ripeteva a sua volta:

Ces sales Boches!

Ma un bel giorno Eva apparve costernata. Costernata dapprima, poi sùbito risoluta. Era apparsa davanti a Pierino che, sdraiato su un divano, serviva l'Italia in pace e in letizia leggendo una lettera di Barzini dal fronte, era [177] apparsa davanti a lui con un giornale italiano stretto nervosamente in una mano. E aveva vibrato il colpo, senza pietà:

— Si chiaman sul serio i riformati anche da voi... Già ne rivedon tre classi...

Pierino non si mosse. Le anime timide hanno, di fronte al pericolo inevitabile, di queste fermezze, poichè quando le gambe si piegano chi stava seduto o sdraiato non riesce a mettersi in piedi e rimane quindi come stava: molti stoicismi non sono fatti che di questa impossibilità di non essere stoici.

— Te l'avevo detto? mormorò solamente Pierino con un filo di voce, quel filo di voce che gli rimaneva.

Ora, di fronte a lui, Eva era già risoluta:

— Qui non c'è, caro, che una sola cosa da fare, disse. Ci tieni molto tu ad essere italiano?

Nella paura d'offenderla Pierino non seppe che cosa rispondere. Eva prese quel silenzio per un silenzio negativo e aggiunse:

— E allora c'è una cosa molto semplice da fare: cambia nazionalità.

Questa volta Pierino si mosse. Trovò almeno [178] la forza di mettersi a sedere e di spalancare tanto d'occhi.

— Non ti dico di farti austriaco: sarebbe pretender troppo. E poi, c'è la guerra anche lì... E che guerra abbiamo noi!... Altro che la vostra... Ma...

Sospeso, con gli occhi intenti, Pierino aspettava.

— Ma, riprendeva Eva, c'è la Svizzera... Bel paese, tranquillo, neutrale, senza pericoli... Tu ti fai svizzero e ti riformi definitivamente da te...

Pierino ascoltava allibito. Ma Eva gli mise al collo le belle braccia nude e gli cadde a sedere su le ginocchia, gota contro gota, fiato contro fiato, poi bocca contro bocca:

— Tanto, italiano o svizzero, io non ti amo forse lo stesso?

Poi, dopo un bacio, Eva aggiunse:

— Io so che non voglio darti alla patria. So che voglio tenerti per me...

Più gentile della patria che gli chiedeva di morire, Eva, in fondo, non voleva che farlo vivere. Solo Pierino balbettò:

— Ma non ti pare ripugnante...

[179]

Eva scrollò le spalle:

— Che sciocchezza!

E le parve che bastasse, le parve d'aver risposto a tutto. Ma Pierino ancora esitava:

— Svizzero tu dici, farmi svizzero... Ma, vedi, quando si è italiani...

— Quando si è italiani?

Pierino osò la gran risposta:

— Sai, ecco, in fondo, ci si tiene... Sai, abbiamo nel nostro passato tante glorie, tanti grandi uomini...

Eva non si trovò perduta ed esclamò:

— E qui non hanno, scusa, Guglielmo Tell?

Guglielmo Tell! Pierino non riusciva precisamente a identificarlo e non sapeva se fosse un grande guerriero, un grande poeta o un grande albergatore. Sapeva solo che era l'eroe di un'opera di Rossini, della quale aveva sentito unicamente la sinfonia, a Roma, ai concerti del Pincio e di piazza Colonna.

— Ah, già, è vero, rispose, Guglielmo Tell!

E tacque. E fece, in quel silenzio, il primo passo per diventarne compatriotta.

Ma per sua fortuna non bastava un sol [180] passo, chè se è possibile cambiar di casa in un giorno non è possibile cambiar di patria in una settimana. Eva lavorava, ordiva nelle penombre degli halls, dei dining-rooms e degli smokings-rooms del grande albergo svizzero la piccola trama politica che doveva condurre un figlio di Dante ad essere concittadino di Guglielmo Tell. Se Eva lavorava in silenzio Pierino in silenzio la lasciava lavorare. L'idea della grandezza di Guglielmo Tell gli era, a dire il vero, entrata nel cervello assai più sollecitamente che non quella dell'opportunità di adottarne la patria. Leggeva sempre i giornali dell'antica patria lontana: portavano tutti l'eco del valore di un esercito e della fermezza d'un popolo. Questo popolo che egli aveva conosciuto indifferente, beffardo, diviso, ora era tutt'uno, una sola gigantesca persona con un solo cuore e milioni milioni e milioni di braccia. Leggeva nei giornali certe letterine di riformati delle classi più anziane della sua che invocavano dal governo una revisione, che imploravano dal governo, come una benedizione, di potersi andare a far ammazzare anche loro. Lui invece se ne stava lì, quieto quieto, in Isvizzera, a [181] legger la guerra su i giornali, a giuocare a tennis e a poker, ad aspettare al sicuro che la tempesta passasse. Quando alla sera rientrava in camera sua, tutto attillato nello smoking di taglio perfetto, il monocolo all'occhio, il garofano rosso all'occhiello, un garbato sbadiglio sul labbro dietro il paraventino beneducato d'una mano curata e inanellata, quando nella bella camera luminosa dell'hôtel più confortable si stendeva beatamente per otto ore di sonno, per dieci ore di riposo, sul più morbido letto di piume che mai albergatore svizzero avesse fatto confezionare per la delizia della sua ricca clientela, Pierino, se chiudeva gli occhi, se spegneva la luce, se allungava le gambe su la fresca carezza d'una biancheria da letto di prima qualità, vedeva una trincea sotto il vento e sotto la pioggia, dove, dopo una giornata di combattimento, avendo sfidata oggi dieci volte la morte, pronti a sfidarla dieci volte ancora domani, giovani come lui, italiani come lui, avvezzi come lui ad ogni quiete e ad ogni benessere, passavano la notte seduti su un sasso, col fucile tra le ginocchia, il berretto su gli occhi, le gambe affondate fino a [182] metà nel fango. Che faceva quella gente lassù, su quei monti dove lo sverno liquefaceva i ghiacciai, su le rive di quel fiume che gonfio d'acque primaverili si tingeva di sangue, e di sangue italiano, per poi continuar la sua corsa e portare quell'acqua e quel sangue sino al mare, sino al mare italiano? Serviva un ideale, quella gente, ubbidiva a una legge irresistibile e istintiva pari a quella che c'impone di difender la madre, d'onorarla, di servirla. Eran milioni, quei soldatini grigio-verde, arco di ferro e di fuoco dallo Stelvio al mare. Ma da quella massa alcune figure, figure cognite di amici, di compagni, di parenti, si staccavano, si precisavano. C'erano tutti; nessuno mancava. Pierino li ravvisava ad uno ad uno, questo di sentinella lassù tra le nevi, quello alla testa di una compagnia all'assalto, questo accanto al suo cannone rombante, quell'altro inerpicantesi coi suoi alpini di roccia in roccia, di balza in balza, mira di mille fucili, miracolosamente incolume sotto il fuoco di mille fucili. Erano gli amici antichi, quelli dei vecchi teatri, delle premières delle operette viennesi, quelli delle lunghe discussioni al caffè. Adesso eran tutti [183] lì, al fuoco. Egli solo non c'era. E di tanto in tanto — egli lo vedeva, lo sentiva... — gli amici, gli antichi amici, si accorgevano che lui non c'era. Uno mormorava il suo nome, altri lo ripetevano. Gli sguardi si cercavano, s'incontravano, poi parlavano e rispondevano i sorrisi: «Pierino?» E sorridevano. «Dove sarà?» E sorridevano. «Fra le braccia della sua moglietta bicipite...» E sorridevano. Uno concludeva per tutti, con un po' di bontà, con un po' di disprezzo: «Povero Pierino!...» E, ancora, tutti sorridevano.

Dov'era Pierino? Ora seguiva docilmente di casa in casa, di salotto in salotto, di ufficio in ufficio, sua moglie sempre più fermamente decisa a salvargli vita natural durante la pelle facendogli prendere la concittadinanza di Guglielmo Tell. Le anime temperate come quella di Pierino, se possono esser capaci di una lenta evoluzione, hanno l'orrore e il terrore del nuovo e non escono da un'abitudine se non prendendone inavvertitamente un'altra. Così Pierino, non ostante i suoi dubbii, non ostante le sue meditazioni e le sue visioni notturne, non ostante i sorrisi — un po' di bontà, un [184] po' di disprezzo — dei suoi compagni in trincea, non osava ribellarsi alla volontà di sua moglie la quale, come si sa, non gli consentiva mai di avere un'opinione. Fabio il Temporeggiatore è il grande patrono dei timidi e degli indecisi. Temporeggiava come il grande capitano anche Pierino. Rimandava di giorno in giorno la necessità d'aver coraggio o il coraggio della necessità. Ogni sera si riprometteva di dire a sua moglie che, tutto sommato, voleva rimaner quello che era e che di diventare svizzero non voleva saperne. Ma ogni mattina rimandava al giorno dopo il supremo eroismo d'avere per la prima volta nella sua vita coniugale un'opinione. Andando avanti così, sapeva benissimo a che cosa era legato il suo destino: a una gara di rapidità tra la vecchia patria che doveva decidersi a rivedere anche i riformati della sua classe e la presunta patria nuova che doveva affrettarsi a significargli in carta bollata il più patriottico e ospitale benvenuto in terra elvetica. Se faceva prima l'Italia l'onore era salvo, sua moglie aveva perduto la partita e gli amici della trincea avrebbero un giorno o l'altro veduto capitar lassù, su le [185] Alpi, in uniforme grigio-verde, anche lui. Ma se faceva prima la Svizzera l'onore era perduto pur essendo salva la pelle, sua moglie trionfava definitivamente e gli amici della trincea avrebbero potuto continuare a sorridere — un po' di bontà, un po' di disprezzo — chè tanto non l'avrebbero riveduto mai più. Così, con due diverse ansie, egli vedeva ogni mattina entrare in camera sua prima il cameriere coi giornali d'Italia e poi sua moglie con le lettere della prima posta mattutina. Ma le mattine passavano, una dopo l'altra, una come l'altra. E se Roma non si decideva a richiamare altre classi di riformati oltre le tre leve più recenti, Berna aveva l'aria di non aver proprio nessuna fretta di dare a Guglielmo Tell un connazionale di più.


Certi fatti, certe coincidenze, si ripetono nella vita umana sino ad assumere un aspetto d'irresistibile destino, sino a poter rappresentare il fato sospeso ad ogni passo sul capo degli eroi dell'antica tragedia greca. Il fato di Pierino Balla si chiamava musica. Se la musica [186] gli aveva fatto trovare e prender moglie, la musica gli fece conservare all'ultimo momento una patria che un momento prima stava per perdere. Era domenica e dall'albergo eran discesi, all'ora della passeggiata, in città. La signora Kramer-Balla aveva lasciato suo marito su la porta di un cinematografo dandogli appuntamento per due ore più tardi dinanzi ai tavolini del più elegante caffè. Doveva andare, aveva detto, a sbrigar due o tre faccende, sempre per quell'interminabile affare del cambiamento di nazionalità sollecitato da Pierino. «Vedi, aveva detto stringendogli la mano, vedi: lavoro per te, per il tuo bene. Tra pochi giorni sarai svizzero e saremo tutti tranquilli». Poi allontanandosi aveva aggiunto: «Oramai ci siamo. Il consigliere Faber mi ha assicurato che adesso è questione di ore...» E Pierino, tanto per dir qualche cosa: «Sai, cara, non ti dar troppa pena per me... Ora più, ora meno...»

Evidentemente Pierino, per quanto non volesse saperne, cominciava ad essere un po' svizzero dal momento che di quello che doveva diventare il suo paese vedeva già più i difetti [187] che le buone qualità: il che è proprio del più istintivo e più logico nazionalismo. Così Pierino trascurava di riconoscere alla Svizzera il merito di essere un paese dove chi ha paura della guerra può andare a vivere in pace, ma osservava già a denti stretti o a mascelle larghe, a seconda che dovesse reprimere uno sbadiglio o che vi si abbandonasse, osservava già che tanta pace era evidentemente pace, ma una pace di un'insopportabile e mortificante monotonia. Già, in quel paese sotto le nuvole, chiuso tra le montagne, lui, Pierino, napoletano, uomo dei liberi orizzonti, dei mari di smeraldo e dei cieli di zaffiro, non ci si poteva vedere. Quando poteva, scappava al cinematografo. Vedeva altre genti, altri paesi. Rivedeva anche, di tanto in tanto, l'Italia: la rivedeva, ma senza, a prima vista, riconoscerla. Non gli pareva quella, tranquilla, elegante, piena di folla, di affari, di piaceri, la capitale che aveva lasciata una sera, la capitale convulsa, febbrile, teatro d'una minacciosa guerra civile nel nome d'una libertà che non permetteva nè ad una parte nè all'altra di avere una libera opinione. Rivedeva sul bianco schermo i soldati, i soldati italiani. E, [188] nel vederlo, anche i connazionali del leggendario arciere svizzero applaudivano il piccolo fantaccino grigio-verde che si copriva, con semplicità, di gloria. E vedeva scene di partenze di reggimenti dalle città italiane per la frontiera minacciata. Vedeva i bei reggimenti sfilare dietro le vecchie bandiere, stretti in una duplice fascia di teste bianche di mamme, di testoline bionde di bambini. E anche i bambini, anche le spose, anche le mamme applaudivano i bei soldati che partivano per la guerra con un bel sorriso su le labbra, con una rosa di maggio infilata nella canna del fucile. E c'era un nome su tutti quei visi sorridenti, su tutte quelle mani che applaudivano, su tutte quelle rose, su tutti quei fucili. C'era un nome: Italia! Italia! Non così era partito lui, una sera; di nascosto, come fuggendo, per raggiungere una frontiera pacifica che nessun pericolo minacciava, per ubbidire alla volontà imperiosa di una piccola donna straniera che voleva non solamente mettere in salvo un marito dopo tutto anche amato a modo suo, ma anche risparmiare al suo paese in guerra un nemico di più. Italia! Italia! Italia! Non questa parola [189] aveva egli udita quella sera fuggendo, ma il grido d'un soldato, d'un soldato italiano che partiva per la guerra a lui italiano che dalla guerra fuggiva: «Va fuori d'Italia, va fuori, o stranier!» E fuori non solo era andato, ma fuori sarebbe forse rimasto per sempre se il destino fosse per voler permettere a sua moglie di cambiargli, dopo avergli cambiato già tante altre cose, anche la patria.

Ma la musica doveva ancora una volta segnar la strada del suo destino. Escì dal cinematografo che ancora quaranta minuti lo separavano dall'ora fissata per l'appuntamento con sua moglie. Nel bel pomeriggio domenicale c'era lì, sul piazzale, una banda che suonava tra i bei palazzi in riva al lago e allo sbarcadero. Il vecchio melomane ch'egli era si fermò ad ascoltare tra la folla. A un tratto gli strumenti d'ottone brillarono al sole. Poi da un breve silenzio uscì un primo clamore di tromba. E, meravigliosamente, una melodia gigantesca nel suo immenso respiro salì dalla piazza, la riempì, salì nel cielo, riempì il cielo. Pareva a Pierino estatico di conoscere già quella musica, ma non riusciva a identificarla. La sua coltura [190] musicale in fatto di operette viennesi non aveva lacune, ma quella musica formidabile che gli sconvolgeva il cuore non aveva in verità l'aria di esser viennese e molto meno quella di essere operettistica. Nella fedeltà ch'è propria dei grandi amori, Pierino, ch'era in procinto d'abiurare la patria, sentiva che nulla al mondo, neppure la più potente forza del mondo, neppure cioè la volontà di sua moglie, gli avrebbe potuto far rinnegare il fascino delle operette viennesi. Ma doveva convenire tuttavia che c'era in quella musica qualche cosa di più irresistibile ancora del valzer del Conte di Lussemburgo e del settimino della Vedova Allegra. Tanto era vero che la gente su la piazza ascoltava in silenzio, raccolta ed estatica come se fosse stata in una chiesa. E, quando la meravigliosa onda di musica si spezzò, si chiuse e si spense in un ultimo fragore, un applauso lungo, interminabile, partì dalla folla. Anche Pierino si trovò ad applaudire, ad applaudire con un impeto tale che mai aveva conosciuto l'eguale — è tutto dire — neppure per applaudire Franz Lehar o Leo Fall.

Quando proviamo fortemente un'impressione [191] il nostro primo bisogno è quello di sentirla condivisa. Così Pierino si guardò attorno e ad un vecchietto attillato e profumato che applaudiva come lui disse in italiano: «Che musica! Che musica!» Il vecchietto sorrise, continuò a batter le mani e rispose in francese al suo vicino: «Ah, oui, quelle musique...» Poi, quand'ebbe finito di applaudire, il vecchietto si volse ancora a Pierino e gli chiese: «Vous êtes italien?» Al che Pierino non osò rispondere senza una breve meditazione. Ma la breve meditazione lo portò a concludere che sì, che in fondo era ancora italiano e che però poteva e doveva rispondere al vecchio signore attillato e profumato: «Oui, monsieur». Vide allora il vecchio signore stendergli con un largo gesto la mano esclamando: «Je vous en fais, monsieur, mes compliments. Vous avez des grands musiciens et des grands soldats...»

Pierino rimase interdetto. In quanto ai soldati sapeva benissimo che cosa pensare: il vecchietto non alludeva certamente a lui. Ma quanto ai maestri di musica non sapeva precisare in un nome e cognome l'elogio generico del suo amabile ed affabile interlocutore. Per [192] fortuna affabilità ed amabilità sono loquaci e il vecchietto aggiunse ancora, stringendo nuovamente la mano di Pierino: «Ah, oui, quels musiciens... Cette symphonie du «Guillaume Tell»... Che meraviglia questa sinfonia del «Guglielmo Tell»... L'ho riudita con sbalordimento... E sono felice, signore, di stringer la mano d'un compatriotta dell'immenso Rossini».

E se ne andò lasciando muto e stralunato dietro di sè il compatriotta di Rossini. Il quale compatriotta di Rossini ricominciò a pensare che fra breve — questione di ore, avevan detto sua moglie e il consigliere Faber — sarebbe diventato compatriotta di Guglielmo Tell. Gli sembrò, dopo quella musica, che fosse veramente imperdonabile barattare con Guglielmo Tell unico e solo, Rossini e tutti gli altri. Gli sembrò di sentire che ad essere compatriotta di Rossini e di tutti gli altri egli tenesse ed avesse sempre tenuto più di quello che avrebbe potuto immaginare. Gli sembrò anche non esser poi tanto facile diventare svizzeri quando si è italiani. Gli sembrò sopratutto che sua moglie cominciasse veramente a pretendere un [193] po' troppo da lui e che qualche cosa, un po' di dignità, un po' di fierezza, si ridestasse finalmente in fondo in fondo all'acqua stagnante della sua docilità coniugale. E gli sembrò infine che fosse il caso di vagliare esattamente la grandezza di Guglielmo Tell. Aveva, nei giorni passati, avuto la curiosità di assumere informazioni sul glorioso personaggio e gli sembrò che l'avere mirato giusto su una mela, anche se questa era posta dalla ferocia d'un governatore di Alberto I sul capo innocente del giovane figlio dell'arciere, non fosse poi gesta da non poter essere emulata da un qualsiasi campione del Tiro a segno nazionale.

E poichè proprio in quel punto sua moglie lo raggiungeva e, con aria scontenta, gli annunziava che era necessario aver pazienza ancora qualche altro giorno per ottenere quella benedetta cittadinanza svizzera, Pierino cominciò a pensare che fosse buona politica mettere Guglielmo Tell in cattiva luce verso sua moglie. E poichè Eva, vedendolo assorto, gli domandava a che cosa pensasse, Pierino rispose:

— Penso a Guglielmo Tell.

[194]

— A Guglielmo Tell? domandò Eva sorpresa.

— Sì, a Guglielmo Tell, rispose Pierino gravemente. E mi propongo un caso di coscienza. Poichè tu sei austriaca conviene a me tuo marito, di prendere la stessa cittadinanza d'un eroe che, all'alba del secolo decimoquarto, contribuì a liberare la Svizzera proprio dal giogo dell'Austria?...

E, volgendosi col più docile sorriso ad Eva che lo guardava sbalordita, Pierino aggiunse:

— A questo, cara, ci scommetto, tu non avevi pensato!

[195]

VIII. A MOSCA CIECA SUI QUATTRO CANTONI

[197]

Il coraggio d'un buon soldato è quello di resistere alla prima fucilata come quello d'un autore drammatico è nel superare il primo fiasco e quello d'un marito troppo docile è nel dire la prima parola di ribellione. Così, dalla sera in cui Pierino, forte dell'erudizione fattasi sul vecchio Larousse dell'albergo, osò discutere la personalità di Guglielmo Tell, Eva ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte un altro uomo. Questo uomo cominciò a farle intendere, prima velatamente, poi apertamente, ch'egli non condivideva affatto, per l'affare del cambiamento di nazionalità, le impazienze di sua moglie e del consigliere Faber. Da quest'affermazione derivò, a fil di logica e come naturale spiegazione, che se non condivideva la loro impazienza di fargli [198] cambiar di patria non condivideva, evidentemente, neppure la loro persuasione dell'assoluta necessità di cambiarla. Da questa spiegazione derivò, sempre a filo di strettissima logica, ch'era forse il caso di sospendere tra Berna e Roma negoziati che l'oggetto del negozio aveva sempre meno l'intenzione di far condurre a termine. E, una sera, poichè Eva apriva con un gesto di malumore una nuova lettera inconcludente del consigliere Faber, Pierino si piantò dinanzi a sua moglie, incastrò nell'occhio la caramella e, tutto d'un fiato, così come si getta in acqua chi ha paura dell'acqua, tenne, velocissimamente, il seguente discorso:

— Mia cara Eva, io ti prego di non darti più pensiero per me e di dire al consigliere Faber di non darsene neppure lui. Tutto sommato mi sono persuaso che val meglio lasciar correre le cose per la loro china naturale. Io vorrei compiacerti in tutto, e tu lo sai. Sono il più docile, il più ubbidiente, il più remissivo fra i mariti di questa terra. Non ti ho mai dato un solo dispiacere. Non ti ho mai detto di no. Ho vissuto sotto una legge, savia certo come la tua, ma indiscussa e indiscutibile. Ho accettato [199] ogni tua idea così come si accetta il dogma: ad occhi chiusi. Mi son fatto condurre per mano come si fa condurre un bambino incapace di far due passi da solo. Credevo che anche questa volta di camminare da solo non fosse il caso, ma sento invece che oramai il mio passo è sicuro, è sostenuto, è fiancheggiato da quello di altri trentacinque milioni d'italiani. Marcio adesso anch'io nelle file e il passo di tutti è il passo mio. Non mi sento più solo. T'ho già detto la mia opinione su Guglielmo Tell. T'ho già detto come io mi senta per la prima volta legato a tanta brava e grande gente del mio paese, di cui mi trovo ad essere un po' orgoglioso, di cui mi pare d'essere un po' figlio. Questa rinunzia che tu proponi mi sembra, del resto, inutile. Per ora di richiamare i riformati non si parla già più. L'Italia, l'hai detto tu stessa, è piena d'uomini. Il nemico che abbiamo davanti, anche questo l'hai detto tu, non richiede da parte nostra un grande sforzo poichè noi non abbiamo da combattere un nemico, ma una metà di nemico e nemmeno una metà ma appena un terzo di nemico. Quindi, non mi richiameranno. Ed io resterò accanto [200] a te, Eva mia, docile, felice e riconoscente, fino alle nostre nozze d'argento, fino alle nostre nozze d'oro. Del resto — leggi stasera il Berner Tageblatt — la pace è forse più vicina di quanto si crede. Siamo alla fine di questo triste periodo. Potremo finalmente vivere tranquilli, come vorremo, dove potremo. Abbi dunque la cortesia di dire al consigliere Faber di lasciare in pace me e Guglielmo Tell, poichè se Guglielmo Tell non vuole ancora saperne di me io oramai non voglio più saperne di lui.

Così dicendo Pierino, si sentiva guardato da Eva con gli stessi occhi coi quali il barone Burian doveva aver letto la dichiarazione di guerra italiana dopo aver passato sette mesi a credere che della guerra il barone Sonnino non volesse affatto sapere. Ma di fronte all'incontrastabile evidenza dei fatti si persuadono così i ministri increduli come le mogli dispotiche, anche se austriaci o austriache. Ma, se un primo colpo di cannone stabilisce per un ministro degli Esteri un argomento perentorio sul quale è per lo meno inutile continuare a discutere, una prima levata di scudi d'un marito troppo docile verso una moglie troppo [201] autoritaria non disarma quest'ultima dell'illusione di poter nuovamente ridurre a più miti consigli il marito ribelle. Così Eva si levò e, piantatasi a sua volta dinanzi a Pierino ch'era piantato quasi spavaldo dinanzi a lei, cominciò un discorso, più che parlato sibilato fra i denti, e che suonava press'a poco così:

— Pierino mio, l'aria della Svizzera non giova evidentemente ai tuoi nervi e quando i tuoi nervi non sono a posto, ragazzo mio, il tuo equilibrio mentale dà seriamente da pensare. Tu dici, figliuolo caro, certe cose che non stanno nè in cielo nè in terra e che possono suonare solamente su le labbra d'un italiano, poichè voi soli siete avvezzi a pensare che si possa impunemente venir meno, quando ciò possa farvi comodo, così ad un trattato d'alleanza in vigore da trent'anni come ad un regime matrimoniale accettato oramai quasi da un anno. Ma tu dimentichi, piccino mio, che io non sono donna da ricevere da te lezioni di opportunità e il fatto che tu possa credere il contrario mi prova che, quanto più tu pensi d'aver imparato a camminare da solo, più tu hai bisogno d'essere sorretto nel cèrcine della [202] mia volontà. Io ti ho detto e ti ripeto che ti ho sposato in tempo di pace, che ti ho sposato quand'eravamo alleati e che non posso tollerare, nè per il mio sentimento di donna, nè per la mia dignità d'austriaca, di vederti far causa comune coi nostri nemici. E se da una parte non voglio che un marito che amo esponga la sua vita in una guerra assurda e mostruosa per una causa ingiusta e per un paese che non è il mio, dall'altra non potrei tollerare che anche tu, mio marito, armato d'un fucile, sparassi su soldati austriaci tra i quali possono essere i miei fratelli, i miei cugini, i miei amici e, alla prossima leva in massa, probabilmente anche mio padre. Io nutro, ragazzo mio, — e tu lo sai — profondi sentimenti patriottici. Per sapere come si debba amare il proprio paese e come alla sua causa si debba fare ogni sacrificio non ho bisogno, in verità, delle lezioni di nessuno. Ho due fratelli ufficiali e appartengo ad una famiglia di soldati....

Pierino cercò, a quest'uscita, di raccapezzarsi. Cercò invano, nella storia della famiglia Kramer, un generale, un ufficiale subalterno e magari un semplice soldato che fosse stato ad [203] Austerlitz o, per lo meno, a Sadowa. Ma tuttavia, poichè Eva parlava energicamente dell'onore d'appartenere a una famiglia eccellente per le sue virtù militari, Pierino, ch'era un po' tardo, trovò la spiegazione ricordando che il maestro Kramer, prima d'essere stato operettista di grido, era stato capo musica d'una banda militare. Se di militare in tutto questo non c'era che l'uniforme del capo musica anche questo poco bastava, quando non si voglia pretender troppo, alla gloria militare d'una famiglia come quella di sua moglie.

— Ma se io sarei pronta a sacrificare con gioia mio marito, riprendeva intanto la signora Eva, alla grandezza e alla gloria del mio augusto Imperatore e Re, non intendo affatto di sacrificarlo, io austriaca, a un ministro italiano, alla politica di rivalità personale d'un signor Salandra qualunque. D'altra parte non intendo neppure di rendermi ridicola agli occhi del consigliere Faber, rinunziando a quello che avevamo sollecitato, proprio quando quello che avevamo sollecitato sta per esserci accordato. Se mancar di parola, ragazzo mio, è machiavellica sapienza della politica italiana, la donna [204] austriaca, come l'imperial regio governo del mio amato paese, quando ha detto non si disdice. Le pratiche iniziate con tanta amabilità dal consigliere Faber seguiranno dunque il loro corso normale. E nel frattempo, ragazzo mio, tu mi farai il piacere di non parlarmi più di queste cose. Tu sei, Pierino, un fanciullo, un bravo, buono, ubbidiente fanciullo. Io, che pur senza avere più anni di te ho di te più senno, sento l'assoluto dovere di guidarti come meglio so e posso. Tra il tuo governo ed il mio, tra il mio esercito ed il tuo, tra il tuo Re ed il mio Imperatore, fra gli Alleati e gli Imperi Centrali tu, marito mio, hai il preciso, indeclinabile dovere di rimanere neutrale. Ed il miglior mezzo d'essere neutrale è quello di cessare d'essere italiano senza per altro diventare austriaco. La Svizzera libera e neutrale concilia gli inconciliabili e smussa con un mezzo termine gli angoli dolorosi della nostra situazione coniugale. Detto questo non ho altro da aggiungere. Ti auguro per ora la buona notte e miglior consiglio, piccino mio, per domani.

E si allontanò, fiera, arcigna e solenne, come un monarca dispotico che ha parlato al suo [205] popolo. Ma poichè i popoli a lungo dominati conservano a lungo l'abito della schiavitù e, dopo una rivoluzione abortita ritornano in ceppi docilmente per riprender fiato e coraggio, Pierino, ribellatosi una sera, non osò ribellarsi l'indomani. Come i cristiani perseguitati si rifugiò nelle misteriose catacombe della sua più profonda coscienza, e, rassegnato in apparenza, continuava in sostanza il suo movimento sedizioso. Quanto più Eva, a vederlo, poteva crederlo rassegnato a farsi svizzero, più Pierino, a sentirsi, si riconosceva fermamente deciso a rimanere italiano. Alle parti belligeranti l'indugio delle pratiche fra Berna e Roma forniva l'opportunità di un armistizio silenzioso. E Pierino sperava che durante quell'armistizio la provvidenza divina, mossa a pietà dal suo tormento, avrebbe trovato il modo di districare l'indiavolata matassa della sua vita politica e coniugale.


Ma la divina provvidenza sceglie talvolta le vie più inverosimili per giungere ai più benefici effetti. Mentre poi doveva alla fine, come [206] si vedrà, risolvere l'angosciosa situazione in cui Pierino si dibatteva nel modo più impreveduto, sembrava dapprima che si divertisse, invece, a complicarla ancor più di quanto era già complicata. Tre giorni dopo, infatti, l'infelice tentativo d'evasione dalla sua prigione coniugale, Pierino riceveva da Eva l'annunzio che verso sera sarebbe giunto all'albergo il suo fratello minore, il luogotenente Federico Kramer, giovane ed aitante ufficiale d'artiglieria che, presso Gorizia, era stato due volte ferito alla gamba sinistra e al braccio destro e che, definitivamente riformato dopo due mesi d'ospedale a Lubiana, raggiungeva in Svizzera, per una settimana, la sua buona e molto amata sorella. Bel ragazzo, il luogotenente Federico! Pierino doveva convenirne. Non l'aveva visto che una volta in carne ed ossa il giorno del suo matrimonio, e più volte al giorno in fotografia sul tavolino da notte di sua moglie. Chiuso nell'azzurra divisa, coi bei capelli biondi pettinati alla foggia dell'Imperatore di Germania cui rassomigliava anche per la forma del viso, la sagoma dei mustacchi e il colore e l'espressione degli occhi, il giovane luogotenente era considerato [207] uno dei più bravi e brillanti ufficiali dell'esercito austro-ungarico. Un avvenire splendido — così almeno assicurava Eva — s'apriva dinanzi a lui. Quest'avvenire era oramai spezzato per sempre. Le schegge delle granate italiane cadute su Gorizia avevano paralizzato per sempre il movimento della gamba sinistra e, per minaccia di cancrena, avevano reso necessaria l'amputazione del braccio destro al giovane, bello, felice e brillante ufficiale. Pierino, che aveva buon cuore, sentiva questo cuore stretto stretto, piccolo piccolo, mentre in fondo alla scalinata dell'albergo vedeva, la stessa sera, scendere dall'automobile nelle braccia dell'amata sorella l'ufficiale mutilato. Quando lo vide salire a stento le scale, appoggiandosi col solo braccio che gli rimaneva al braccio della sorella e trascinando di scalino in scalino la sua povera gamba quasi morta, Pierino ebbe una profonda pietà. Ma il cognato gli sorrideva e gli stendeva, aperta, leale, di sopra il braccio della sorella, una mano affettuosa. Aveva il sorriso d'un buon ragazzo cordiale e tenero su le labbra e negli occhi. E Pierino si mise a sorridere a sua volta, ma d'un sorriso che la [208] commozione faceva ebete. Sorrise ancora così per tutt'il pranzo vedendo l'ufficiale servirsi e mangiare a stento, dover sempre ricorrere per versarsi del vino, per spezzare il pane, alla cortese pietà degli altri. Più che di sè il giovane ufficiale mutilato parlava di Pierino. Domandava la situazione militare di lui, s'informava della possibilità che anche lui fosse chiamato a servire. Pierino, con la gola secca, la voce velata, aveva risposto a monosillabi. Ma adesso Eva aveva preso a spiegare: e spiegava l'affare dei riformati, e spiegava lo sviluppo post-matrimoniale del torace di Pierino, e spiegava la decisione presa di comune accordo — e della resistenza di Pierino non parlava neppure, o perchè non credeva opportuno tenerne conto o perchè non le sembrava neppure che di così poca cosa valesse la pena di occuparsi — spiegava la decisione presa di cambiare nazionalità. E spiegava ancora gl'inconvenienti che Pierino avrebbe rappresentati per lei rimanendo italiano e i vantaggi che il farsi svizzero era per rappresentare per Pierino. Mentre Eva parlava, mentre Pierino intimidito taceva, il giovane ufficiale mutilato guardava fisso il [209] cognato. Lo guardava — così almeno a Pierino sembrava — con un po' di disprezzo e un po' di pietà, con un po' anche di umiliante simpatia. Sembrava che, mentre lo approvava di essere così docile e remissivo per far felice sua sorella, gli rimproverasse contemporaneamente d'essere così remissivo e così docile a totale profitto della incolumità della sua attillata personcina. E quando, più tardi, evocando ricordi della guerra, il luogotenente Federico ebbe ad esclamare: «Ci son bravi soldati fra gl'italiani...» Pierino credette di leggere nel muto sorriso che seguì a quella esclamazione: «Ma non sei di quelli tu, poltroncino mio bello, che mentre gli altri fanno la guerra giuochi a mosca cieca tra la tua patria vera e la tua patria posticcia sul lago dei Quattro Cantoni!»

Gli uomini posti di fronte allo spettacolo della loro miseria morale fanno come gli spettatori che a teatro si vedono riprodotti troppo fedelmente nella commedia: si mettono a fischiare per darsi a credere l'uno con l'altro di non essere affatto così. Ma poi, a casa, ci ripensano e, spento il lume, nel proprio letto, con a fianco la loro moglie o il sogno e il ricordo della [210] moglie di un altro, convengono fra loro che piuttosto che fischiare sarebbe stato più leale e più ragionevole, onestamente — per modo di dire — riconoscersi. E Pierino che, da principio, sotto lo sguardo un po' pietoso e un po' sprezzante del luogotenente Federico aveva cominciato a fischiare mettendosi a dire che era ora di finirla con la guerra, — con quella guerra, che, stupida negli altri paesi, era addirittura pazzesca in Italia dove nulla e nessuno l'aveva imposta se non una masnada di giornalisti che mettevan su automobile con la pelle degli altri, un pugno di giovincelli chiacchieroni che avevan mandato gli altri a far la guerra dopo averla a gran voce reclamata per poi nascondersi nelle retrovie e nella Croce Rossa, e un gruzzulo di framassoni che dall'alto delle loro logge avevano agitato le bandiere del libero pensiero impedendo a chiunque di liberamente pensare, — Pierino s'era poi persuaso che tra quelli che la guerra l'avevano voluta anche troppo e quelli che la guerra non l'avrebbero voluta niente affatto i primi erano ancora, a rigor di logica, da preferirsi, imperocchè se i primi avevano [211] fatto qualche cosa per avere quello che volevano i secondi non avevano saputo far proprio nulla per non avere quello che non avrebbero voluto. Gl'interessi degli interventisti erano stati singolarmente favoriti dal disinteressamento dei neutralisti, i quali avevano preso la loro neutralità tanto alla lettera che erano stati neutrali non solo in quanto riguardava ciò che si doveva andare a fare fuori di casa ma, anche in quanto riguardava ciò che accadeva dentro casa. Egli stesso, Pierino, che cosa aveva fatto per impedire che la guerra si facesse se non leggere, trepidando di speranze conciliative, un gran giornale dell'Alta Italia, un nuovo giornale dell'Italia centrale e un giornale anche grande e sempre nuovo dell'Italia meridionale? L'aveva detto e ripetuto anche lui, sorridendo di compassione dall'alto del suo neutralismo deluso: la beatissima trinità che aveva trascinato l'Italia alla guerra aveva tre nomi: Ricciotti Garibaldi, Gabriele D'Annunzio e F. T. Marinetti: il passato remoto garibaldino, l'onnipresente d'annunziano e il futuro del futurismo. Ma dov'era la trinità neutralista? Quali nomi essa aveva, invisibile e irreperibile come [212] l'araba fenice, la quale, come dice il poeta in versi peregrini, «che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa»?

Dopo pranzo, nell'hall dell'albergo, mentre Eva scriveva cartoline illustrate — nevi neutralissime e alpenstoks inoffensivi — alle amiche di Vienna e di Roma, Pierino, ora silenzioso, a mano a mano più mortificato, ascoltava parlare il luogotenente Federico. E se lo vedeva davanti, tutto ardente d'entusiasmo, tutto raggiante di fede, come se la guerra, l'assurda e mostruosa guerra, non gli fosse già costata un braccio e una gamba. Non una parola di dolore per il sacrificio compiuto era uscita dalle labbra del giovane ufficiale, il quale non parlava nè con umiltà da vinto nè con burbanza da vincitore: parlava da buon cittadino, da bel soldato e da bravo figliuolo. Che la patria gli avesse chiesto di sacrificarle un braccio e una gamba non sembrava a lui, per la vita mutilato, invalido per la vita, mostruoso e assurdo come sembrava a Pierino, per la vita incolume e garantito contro ogni morte più bellicosa di quella derivata da un brutto raffreddore o da una cattiva indigestione. Tuttavia quell'uomo [213] aveva trent'anni: la vita intera gli era ancora davanti. Tuttavia quell'uomo era costretto per la vita all'immobilità, all'inerzia, all'inutilità. Tuttavia quell'uomo che s'era sacrificato alla sua patria così lietamente e che del sacrificio era lieto non era che un austriaco, un austriaco che non aveva nulla da riprendere, nessun morto da vendicare, nessuna vergogna passata da cancellare come avrebbe invece avuto lui, Pierino, lui italiano, se d'essere italiano avesse mai avuto l'abitudine di ricordarsi. Sentiva, povero Pierino, che dieci, che cento, che mille soldati italiani, usciti dalla ridotta o dalla trincea, avrebbero volentieri stretto la mano di quel bravo soldato nemico e che non uno di quei dieci, cento o mille soldati italiani avrebbe invece stretto senza un po' di ribrezzo la sua bella manina accurata e inanellata di piccolo «imboscato» in terra neutrale.


Non sempre le interruzioni giungono a proposito, ma ce ne son di quelle, tuttavia, che sembrano mandate al punto giusto, con matematica precisione, dalla suprema clemenza degli [214] dei dell'opportunità. Così Pierino, ad interrompere il discorso del luogotenente Federico il quale a furia di parlare da uomo dinanzi a lui l'aveva costretto a ravvoltolarsi come un gomitolo in un cantuccio del canapè, vide con un sospiro di sollievo entrare nell'hall un domestico il quale portava ad Eva un telegramma. Vide sùbito dopo Eva levarsi giubilante e venire col telegramma aperto verso il marito e verso il fratello esclamando con una voce che a Pierino parve di non averla più udita dal giorno della loro partenza in viaggio di nozze dalla Sudbanhoff di Vienna:

— Arriva il major Hampfel, domani.... In permesso di convalescenza, in attesa d'essere riformato anche lui, definitivamente....

Pierino, che s'aspettava di vedersi arrivare il giorno dopo anche il major Hampfel riformato e riformato definitivamente con qualche arto di meno e qualche artrite di più, si vide invece venir davanti un major Hampfel più bello che mai, più prestante che mai, più marziale che mai. Ma quando, per farsi udire da lui nell'augurargli il benvenuto, dovette levare la voce fino al diapason di un boato da trecentocinque — che [215] Pierino non aveva mai sentito ma che gli era facile immaginare — ritornando alle antiche simpatie il giovane marito di Eva paragonò il maggiore austriaco al colonnello inglese della Donna Juanita. Solo con Eva la conversazione del major Hampfel riusciva ancora ad avere qualche vivacità, poichè l'uno e l'altra si parlavan tanto con gli occhi che adoperar la bocca e le orecchie non era che una pura e pleonastica formalità. Così, attraverso Eva, Pierino riuscì a sapere che una granata italiana aveva tolto al major Hampfel il piacere di poter sentire dopo quella arrivar tutte le altre. E, sempre per il giuoco capriccioso delle associazioni d'idee, Pierino si sentì tornare in mente le parole del vecchietto arzillo e attillato, dopo la sinfonia del Tell: «Voi avete, signore, in Italia, grandi musicisti e grandi soldati.»

Che cosa mai avessero da dirsi tanto sottovoce Eva ed il major Hampfel, e proprio con quel senso di meno che serve appunto a percepire il suono, Pierino non riusciva a capire. Se ad una conversazione di Eva loquace col major Hampfel sordo gli veniva fatto di avvicinarsi, Pierino vedeva che i due interlocutori [216] diventavano anche muti. Talchè Pierino, tanto per far sì che troppe disgrazie non infierissero tutte in un volta su gli organi del povero major Hampfel, si riallontanava e tornava dal luogotenente Federico, il quale continuava a parlargli delle sue prodezze militari come ne parlano gli eroi modesti veramente: con l'aria, cioè, di non accorgersi affatto del loro eroismo ma di tenere moltissimo a vedere che di tanto eroismo si accorgono gli altri. Poichè la modestia è la forma più raffinata dell'ambizione e il vero modesto aspetta sempre che gli altri dican di lui tutt'il bene ch'egli da solo non oserebbe mai manifestare.

Tra le conversazioni di Eva con il major Hampfel e i lunghi monologhi del luogotenente Federico scorrevano giorni e serate. Queste serate avevano una durata diversa per il major Hampfel ed Eva e per il luogotenente Federico e Pierino. Alle dieci, dopo un breve giro di poker o una rapida partita di bigliardo, il major Hampfel chiedeva il permesso di ritirarsi. Per giustificare questo suo precoce bisogno di riposo e scagionare da una malignità possibile i suoi quarantacinque anni, il major Hampfel [217] ripeteva ogni sera di dovere in quel periodo di sosta rimettersi in pari con tutto il sonno arretrato in tante notti di trincea continuamente interrotte dalle «mandolinate» a suon di cannoni di quei diavoli d'italiani. Quasi avesse deciso di collaborare con lui a ristabilire al più presto quell'equilibrio di bilancio tra le ore di sonno e le ore di lavoro che è particolarmente raccomandabile ai quadragenarii vicini ad essere quinquagenarii, cinque minuti dopo l'uscita del major Hampfel anche Eva piegava il casco o il farsetto in lavorazione, avvolgeva la lana attorno al panciuto gomitolo, trafiggeva il ventre lanoso con due uncinetti incrociati e, con un sorriso, stendeva al bacio di suo fratello e di suo marito la bella mano inanellata così fine, così esangue, così allungata che ogni sera, a tavola, il major Hampfel, vedendola maneggiare con grazia aristocratica forchette e coltelli, non poteva astenersi dal chiamarla una mano da arciduchessa. Il sonno del major Hampfel stava ad Eva tanto a cuore che ogni sera, raggiunto il terzo piano, percorsa la metà del gran corridoio centrale dell'albergo, la bella mano da arciduchessa picchiava con le nocche [218] di due dita alla porta del bel maggiore mentre due labbra sorridendo al legno bianco di ripolin d'una porta chiusa, mormoravano il più affettuoso: Gutte nacht che sia mai possibile desiderare per aver popolata di teneri sogni una notte di solitario riposo. Un Gutte nacht tenero e marziale insieme rispondeva da dietro la porta che sùbito si socchiudeva per mostrare nel breve rettangolo illuminato un major Hampfel in pijama roseo che si inchinava alla dolce amica e deponeva cerimoniosamente su la mano da arciduchessa il più rispettoso bacio.

La camera a mezzogiorno che occupava il major Hampfel era quella che Pierino aveva occupata durante il primo periodo del suo soggiorno neutralista nella Svizzera neutrale. Giunto il caro maggiore non era stato possibile trovargli una stanza a mezzogiorno nè a quello nè agli altri piani. Invitato da Eva ad essere cortese con un bravo soldato che aveva fatto il suo dovere e che doveva perciò essere sacro in ogni suo desiderio, Pierino aveva offerto al major Hampfel di cedergli la sua camera, poichè incontrastabilmente un soldato austriaco in permesso di [219] convalescenza ha maggior bisogno d'avere il sole fin sul suo capezzale che non un italiano di terza categoria e, per giunta, anche riformato. Così Pierino era disceso di un piano ed aveva continuato a dormire i più placidi sonni in una stanza a settentrione. Di tanto in tanto, a notte alta, saliva al piano di sopra prima di mettersi a letto e, passando in punta di piedi per non disturbarne i sonni dinanzi alla camera del major Hampfel, andava a bussare a quella di Eva, egualmente esposta a mezzogiorno, per chiederle timidamente se mai avesse bisogno di nulla e sempre nella speranza, di sera in sera delusa, che Eva fosse per rispondergli di sì, che quella sera aveva veramente bisogno di qualche cosa. Ma Eva, sia che avesse limitato i suoi bisogni, sia che avesse a questi provveduto altrimenti, aveva sempre una risposta negativa per il povero Pierino il quale, mortificato, se ne tornava ogni sera giù al piano di sotto, nella sua stanza a settentrione; e, di sera in sera, volgeva uno sguardo sempre meno indifferente alla piccola cameriera in cuffia bianca che veniva a portargli la bottiglia di [220] acqua fresca e a chiedergli — anche lei! — se mai avesse bisogno di qualche cosa.

Ma Pierino, che era docile con sua moglie anche in questo, rispondeva sempre alla cuffietta bianca e al sorriso che la illuminava:

Dancke schön... Non ho bisogno di nulla.

E, come se nulla fosse, s'addormentava.

[221]

IX. «LAGGIÙ NEL SILENTE GIARDINO....»

[223]

Si ama credere che esista tra il nostro temperamento e le forze misteriose del destino un sistema di telegrafia senza fili per il quale, alla vigilia di un avvenimento capitale della nostra vita, ci sentiremmo avvolti, con le antenne della nostra più squisita sensibilità, nelle onde herziane del presentimento. Senonchè questa telegrafia senza fili funziona in modo così intermittente che sarebbe assolutamente ingenuo affidarsi al servizio irregolarissimo dei presentimenti per conoscere, almeno cinque minuti prima, il nostro destino. Nessuna onda herziana avvolgeva lo spirito di Pierino Balla, quella sera, mentre egli invece avvolgeva con un nodo elegante la sua cravatta da smoking attorno al collo della camicia più incredibilmente porcellanata. [224] Dalla montagna entrava una tepida aria d'estate. Giù nel giardino dell'hôtel, rischiarato nel grigiore della sera imminente da lampadine colorate sparse qua e là tra gli alberi, circolavano, in attesa dell'ora del pranzo, alcune coppie eleganti: uomini in smoking e cappello di paglia, signore in abiti chiari di tulle o di chiffon, colli, spalle e braccia nude o seminude. Mentre dava un'ultima lustratina alle unghie tutte lucide di smalto, mentre da un'anforetta d'acqua d'odore spruzzava alcune gocce di profumo Chevalier d'Orsay sul suo fazzolettino di battista, mentre infilava questo fazzolettino — lasciandone fuori tanto e non più — nella tasca del suo abito da sera, mentre si dava un'ultima guardatina allo specchio per vedere se era tutto lucido, impomatato, stirato e attillato a dovere, un ritornello delle vecchie operette viennesi care al suo cuore, lo spunto di un vecchio caro valzer suggestivo, il valzer di Franzi, gli ritornava, fischiettato, su le labbra, nel guardare giù quel giardino silenzioso e illuminato:

Laggiù nel silente giardino

trattenni d'un tratto il respir,

udendo l'incanto divino,

d'un valzer il dolce respir...

[225]

E mentre scendeva le scale diretto a raggiungere Eva, il major Hampfel e il luogotenente Federico che già pronti lo aspettavano nel giardino, Pierino Balla continuava a canticchiare il suo caro valzer, sospirato sussurrato carezzato in tante lontane e dolci sere romane, in tante chiare e quiete notti della sua vita di scapolo:

Canta e poi trilla,

valzer d'amor,

tu sei scintilla

che infiamma il cuor...

Non rivedeva sua moglie, Pierino, dall'ora di colazione. In compagnia del major Hampfel e dell'eroico fratello mutilato, Eva era stata quel giorno a fare una lunga corsa in automobile. La quale automobile non avendo che quattro posti e il quarto posto essendo stato la sera prima cortesemente offerto da Eva al consigliere Faber, Pierino era stato escluso con molta semplicità dalla gita, alla fine della colazione, quando Eva levandosi per andarsi a preparare gli aveva detto: «Tu non vieni, lo so. [226] Tanto tu a veder paesaggi non ti diverti...» Che i paesaggi svizzeri non lo attraessero, Pierino non aveva mai, a dire il vero, affermato. Che egli non volesse partecipare a quella gita, Eva, a dire il vero, non poteva sapere. Ma sapeva però, Pierino, che obbiettar qualche cosa alle due erronee interpretazioni di sua moglie era assolutamente fiato sprecato, imperocchè se Eva aveva parlato così doveva avere le sue buone ragioni per farlo e, se l'aveva con tanta indifferenza lasciato a casa, era evidente che non aveva affatto nè il desiderio nè l'opportunità di portarselo dietro. Trovare una spiegazione all'atto di sua moglie non gli era stato difficile: bastava a fornirla la presenza in automobile del consigliere Faber. Si trattava certo ancora di preparargli in segreto la bella sorpresa di farlo addormentare una sera italiano e di farlo svegliare svizzero una bella mattina. Questa insistenza di sua moglie cominciava a urtargli un po' i nervi e gli sembrava che di farlo diventare svizzero non fosse più il caso di occuparsi dal momento che, in un singolare momento di energia, egli aveva chiaramente affermato di non volerne più affatto sapere. [227] Anche quel modo di disporre di lui liberamente, di trascinarlo fuori o di lasciarlo a casa secondo il capriccio della giornata e l'opportunità dell'ora, urtava adesso leggermente una sua nuovissima sensibilità e una specie di piccola personalità ancora in via di formazione, che erano ormai dentro di lui sotto una superficie ancora quanto mai docile e remissiva. Ma Pierino viveva adesso nel suo matrimonio come l'Italia aveva vissuto trent'anni nella Triplice Alleanza: chiudendo gli occhi per non vedere, tappandosi le orecchie per non sentire. I mariti ed i popoli docili devono a forza transigere. E poichè con la dignità matrimoniale, come con quella politica, le apparenze devono comunque essere salve, transigere bisogna senza aver l'aria di accorgersi di transigere.

Dopo ogni piccola mortificazione che doveva subire Pierino si sentiva sempre un po' più lontano da sua moglie come in trent'anni, ogni volta che aveva dovuto chinar la testa, l'Italia s'era sentita sempre più un po' meno alleata della sua alleata. La quale era, come l'aquila che la simboleggia, bicipite. Ma sembrava che, pur avendo due teste, conducesse la [228] sua politica senza adoperarne neppure una, tanto quella politica lavorava ogni giorno a far sì che si avvicinasse il momento in cui l'alleata del sud, già così poco alleata, non sarebbe più stata alleata niente affatto. Parimenti Eva lavorava, senza avvedersene, ad allontanar sempre più suo marito da sè e non si rendeva conto che, proprio a furia di voler soffocare la sua personalità, riusciva invece a dargliene una. Così a furia di dirgli che gli Italiani non si battevano bene, che non andavano avanti, che diretti a Vienna non avrebbero mai toccato neppure Gorizia ch'era lì a due passi sotto il tiro dei loro cannoni, Eva diede a Pierino la curiosità d'andare a vedere ogni giorno come gli Italiani facevano la guerra e quali risultati avevano ormai conseguiti o stavano per conseguire. Tutta quella giornata, infatti, mentre sua moglie correva in automobile di paesaggio in paesaggio col consigliere svizzero e con i due ufficiali austriaci, Pierino l'aveva trascorsa sdraiato su un divano a leggere nei giornali italiani le più recenti corrispondenze dal fronte. A quei racconti di sacrificii, di abnegazioni, d'eroismi, s'era vivamente interessato. [229] Qualche volta, leggendo qualche episodio più particolarmente eroico, vedendo staccarsi nell'immenso quadro della guerra qualche figura più liricamente esaltata ed esaltatrice, s'era raddrizzato sul divano, aveva sospeso il respiro, teso i nervi, stretto i pugni, come avesse anche lui il nemico davanti, come smaniasse anche lui di fare quello che facevano con tanta semplicità quelli eroi, come tardasse anche a lui di menar finalmente, a sua volta, le mani. E, finalmente, a leggere delle eroiche scalate notturne degli alpini, del vertiginoso slancio dei bersaglieri, delle meravigliose avanzate dei piccoli fantaccini grigioverdi sotto le tonanti e ardenti tempeste del fuoco nemico, s'era sentito correre un brivido nel sangue, e il cuore gli aveva battuto più forte nel petto, e un velo di lacrime s'era posto tra lui ed il giornale che raccontava quelli eroismi. Aveva esclamato con una voce che la commozione gli strozzava in gola: «Ah, gli italiani!». Poi aveva corretto «Noi, italiani...». E aveva riveduto l'arciere Guglielmo Tell e la mela sul capo del figliuolo giovinetto. Poi, deposti i giornali, guardata l'ora, rilevato che bisognava cominciare [230] a vestirsi per il pranzo, s'era tirato su, aveva allargato fieramente il petto, aveva stretto i pugni energicamente dinanzi a sè e lì, guardandosi nella specchiera che aveva davanti, squadrando con fiero cipiglio quell'altro sè stesso impettito e fiero che aveva lì di fronte nello specchio, aveva di tanto eroismo sentito un grande orgoglio; e, snodandosi la cravatta, aveva chiuso quell'orgoglio in poche parole pronunziate ad alta voce: «Ah, perdio, ma sono italiano anch'io!». Poi, la piccola vita della neutralità svizzera avendolo ripreso nel suo giro di piccole cure quotidiane, aveva mutato vestito, aveva cosparso i capelli di brillantina, aveva profumato il fazzoletto e infilato all'occhiello dello smoking il suo solito garofano rosso. E il ritornello del vecchio valzer che, vedendo il giardino silenzioso e illuminato, gli era tornato su le labbra:

Laggiù nel silente giardino...

era un piccolo segno di contentezza: contentezza d'essere rimasto dopo tutto un buon figliuolo, contentezza di sapere che c'erano al [231] fronte tre milioni di italiani che facevano così eroicamente il loro dovere, contentezza di sentire che in fondo alla sua anima riviveva, come un primo fiore di primavera, qualche cosa che da molto tempo egli poteva credere morta o addormentata. E, mentre scendeva le scale, mentre canticchiava ancora:

Canta e poi trilla,

valzer d'amor...

sentiva che doveva, che poteva quella sera affrontare a viso più alto lo sguardo dei due ufficiali austriaci, poichè non tutti gli italiani erano come lui in Svizzera, riformati di terza categoria, e il major Hampfel, nella sua sordità e il luogotenente Federico nel braccio amputato e nella gamba perduta ne avevano, dolorosamente per loro, le incontestabili prove.

Se si potesse prevedere le infinite conseguenze che una parola innocua un giorno può avere se è detta invece il giorno dopo o il giorno prima, neppure un deputato oserebbe più aprire bocca. Se quella sera il major Hampfel non avesse esclamato: «Le notizie della [232] guerra sono buone...» molto probabilmente le avventure di Pierino Balla avrebbero avuto tutt'altra soluzione. Quella piccola frase inoffensiva, tanto inoffensiva che ogni giorno è detta con uguale persuasione dall'una e dall'altra parte di un fronte di battaglia, non avrebbe, detta la sera prima o detta la sera dopo, avuto nessuna grave conseguenza. Sarebbe caduta, con uno sbadiglio, nel vuoto d'una conversazione senza interesse, com'era già caduta, inosservata, tante altre sere. Ma la lettura dei giornali italiani era per Pierino impressione troppo recente e la persuasione che dovesse guardar gli ufficiali austriaci, più che non avesse fatto per il passato, a fronte alta, era persuasione proprio di quella sera. Portava dunque Pierino, nella sua buona fede, l'ardore dei neofiti e l'intrattabilità dei catecùmeni. Per di più gli parve che pronunziando quella frase il major Hampfel guardasse lui. Se invece l'ufficiale austriaco avesse, pronunziandola, guardato la signora Eva o la propria forchetta, Pierino l'avrebbe lasciata passare. Ma quello sguardo gli fece credere, a torto o a ragione, che la frase gli fosse più particolarmente diretta. Così [233] credette necessario di raccoglierla e di domandare al major Hampfel con un cipiglio serio e una voce un po' rauca:

— Buone per voi o per noi?

Stabilire che attorno a quella tavola neutrale d'un albergo neutrale nella Svizzera neutrale ci fossero dei voi e dei noi era già segnare apertamente un inizio di ostilità. Se non proprio a un primo colpo di cannone quel punto interrogativo equivaleva almeno a uno sconfinamento premeditato oltre i limiti segnati da una cordiale urbanità e da una tacita intesa alle conversazioni tollerabili da qualunque orecchio. Erano alla fine del pranzo, trascorso tutto nel racconto delle varie impressioni raccolte durante la bella gita automobilistica di quel pomeriggio. Da quando la grande estate era venuta, da quando cioè le sere si erano fatte deliziosamente tiepide, il ménage Balla-Kramer e i due ufficiali austriaci solevano uscire a prendere il caffè allo scoperto su la grande terrazza aperta sul giardino dell'albergo. La domanda di Pierino era stata formulata proprio nel punto in cui i quattro si levavano da tavola. Il major Hampfel aveva [234] guardato, udendola, Pierino, come per leggergli sul volto le intenzioni che si nascondevano nel piccolo geroglifico di quel punto interrogativo. Ma, invece d'incontrare il sorriso un po' ebete che aveva eletto fissa dimora sul volto di Pierino, il major Hampfel si era trovato dinanzi un viso serio serio e due occhi che lo fissavano in attesa d'una risposta altrettanto pronta quanto precisa.

Così, appena fuori, appena seduti attorno al tavolino di vimini sul quale fra poco avrebbero portato il caffè, il major Hampfel, acceso il sigaro per dare una certa leggerezza indifferente alla sua risposta, fissò Pierino negli occhi e affermò categoricamente:

— Buone per noi, diamine! Dal principio della campagna le notizie della guerra sono sempre state e non potevano essere sempre buone che per noi...

Poichè non si diventa leoni in un giorno, Pierino, anche dinanzi ad un'aperta provocazione, aveva ancora nei suoi nervi quieti, nel suo cervello placido, nel suo carattere bonario e nel suo cuore senza fiamma le mansuetudini di un agnellino pasquale. Così, invece di raccogliere [235] sùbito il guanto che il major Hampfel con aria arrogante e sprezzante gli lanciava, Pierino cominciò a ragionare. Cominciò a citar dati, fatti, posizioni, comunicati. Continuò con l'osservare che gli Italiani erano entrati in Austria e che nessun austriaco, se non prigioniero, era, grazie a Dio, entrato in Italia. E tutto questo bonariamente, pacificamente, con l'aria di un buon figliuolo che non vuol dar noia a nessuno, ma che solamente, per spirito d'ordine, per senso di equità, vuole stabilire le cose nei loro veri termini e non accettarle così come fa comodo a Tizio o a Sempronio di prospettarle. Ma il major Hampfel era austriaco e la boria austriaca non lega — trent'anni d'esperimento l'hanno provato — col semplice e onesto buon senso italiano. Alle osservazioni meticolosamente precise di Pierino il major Hampfel rispose con qualche cosa di estremamente vago, di comodamente indeterminato:

— Siete per ora in casa nostra, è vero, ma sapremo non farvici rimanere.

Il buon senso italiano — e Pierino, da quella sera specialmente e in quel momento [236] specialissimamente, era italiano — il buon senso italiano è avvezzo a non preoccuparsi che delle minacce racchiuse nei fatti e a lasciar correre con un sorriso quelle che vorrebbero uscir fuori dalle parole. Si limitò a rispondere con un sorriso sereno all'oscura tempesta che il major Hampfel minacciava. Senonchè il sorriso è la più insopportabile provocazione per la gente che vuole ad ogni costo essere presa sul serio e però la conversazione che il sorriso di Pierino avrebbe con urbana opportunità garbatamente chiusa a quel punto ripartì per una seconda tappa con una brusca alzata di spalle, una torva occhiataccia e un impeto convulso di parole del major Hampfel:

— Sorridete voi, signor mio? Sorridete? Ricordatevi che ride bene chi ride per ultimo. E ricordatevi sopratutto che gli austriaci non hanno mai perso e che gli italiani non hanno mai vinto.

A questa uscita Pierino, meticoloso e dialettico, rispose:

— Non è accertato dalla storia, così almeno come si insegna in Italia (e quella che si insegna in Austria io la ignoro) non è accertato [237] che gli austriaci non abbiano mai perduto e che gli italiani non abbiano mai vinto. Comunque è forse questo il momento di invertire finalmente le parti e voi che in vincere siete, voglio ammetterlo, espertissimi, cominciate per completare gli studii a far pratica, in un corso accelerato, di come si perde.

— Non verremo neppure per questo, signore, a scuola da voi! gridò Hampfel. C'è anche modo e modo di perdere. E noi non invidiamo certamente il disonore di Novara e di Custoza.

Tanto può la prudenza su un carattere di clima oltremodo temperato che anche su quell'uscita del major Hampfel Pierino tentò, povero figliuolo, di troncare la conversazione. Ma la prudenza d'un interlocutore chiama sempre, irresistibilmente, l'imprudenza dell'altro interlocutore. Aveva Pierino un bel rimanere indietro affinchè il major Hampfel non andasse troppo avanti. Questi aveva oramai preso l'abbrivo e la storia insegna che, preso l'abbrivo, la millanteria e la burbanza di un ufficiale o d'un giornalista austriaco non sanno mai dove andranno a finire. Chi avrebbe mai detto, infatti, [238] che le sue ironie e le sue vanterie, il suo tono di scherno e di superiorità avrebbero portato quella sera il major Hampfel, di botta in botta, di risatina in risatina, di beffa in beffa, a trovarsi d'un tratto davanti un Pierino Balla uscito definitivamente dai gangheri e che, in piedi, rosso in volto, con le labbra convulse, con le mani che saltavano su e giù senza decidersi a tornare definitivamente in giù lungo le cuciture dei pantaloni o a levarsi definitivamente in su su le guancie dell'ufficiale austriaco, gridava ad un tratto, con una potenza di voce che Eva non avrebbe mai sospettata in quel maritino docile e remissivo che parlava sempre come bela un agnellino, in tono sommesso e con quel ritmo timido e affannoso che in musica si chiama «sincopato», gridava ad un tratto in modo che l'udissero anche i cuochi giù nel sotteraneo dell'hôtel:

— Caro signore, io non vi permetto di parlare più oltre così dell'Italia ad un italiano. Non siamo più ai tempi del maresciallo Radetzky. Non siete più a Milano, signor Hampfel e, in nome di Dio, per grazia di Dio, per volontà e per valore di tutta una nazione di trentacinque [239] milioni di uomini, siamo forse noi questa volta su la via di Vienna!

Ma come i novellini del coraggio militare non resistono bene che alle primissime fucilate, i novellini del coraggio civile non reggono a lungo il fuoco di una prima escandescenza. Così Pierino ad un tratto si sentì mancare il fiato in gola e le parole nel cervello. E, poichè aveva le mani in aria che chiedevano convulsamente di fare anche loro qualche cosa, picchiò due grandi pugni sul tavolino, mandò per aria chicchere e caffettiera, gridò tre volte: — «Ah, perdio, basta, basta, basta!» e, voltatosi bruscamente sui tacchi prima ancora che il major Hampfel avesse avuto il tempo di rispondere, si avviò verso il fondo della terrazza donde una grande scalea permetteva di scendere in giardino. Ma non s'allontanò così rapidamente da non avere il tempo di vedere fissi su la sua persona gli occhi di Eva, esterrefatti come gli occhi di un uomo che durante un terremoto si veda cader giù nel vuoto, una dopo l'altra, le quattro pareti che lo circondano. Il tiranno cui il vassallo manca improvvisamente di rispetto non ha, in primo [240] tempo, che un moto di sbalordimento. La forca che punirà il ribelle non verrà che più tardi, dopo ricuperati gli spiriti sbigottiti. Ma quella forca Pierino l'intravvide prima ancora ch'essa fosse eretta e, pensando anche a questa espiazione, e a tutta la sua viltà, e a tutta la sua schiavitù, gridò un'ultima volta verso sua moglie, contro sua moglie, proprio per sua moglie: «Basta!»


Così nella commedia come nel dramma di Pierino Balla melomane c'era sempre un po' di musica. Appena che fu disceso in giardino, infatti, per sbollire con l'aria aperta un po' di sangue caldo, l'orchestrina, lassù, nella veranda riattaccò un valzer, un valzer viennese, sospirato dai violini già oramai per la quarta o quinta volta nella serata:

Laggiù nel silente giardino

trattenni d'un tratto il respir...

A udir quel valzer, a ripensare a ciò che aveva fatto e a ciò che aveva detto, Pierino [241] si sentiva tremar le gambe. Le grandi tensioni nervose hanno sempre, passato l'impeto o superato il pericolo, di questi subitanei abbandoni per cui il temerario ha la misura esatta della sua imprudenza, l'eroe la giusta nozione del suo rischio, l'impulsivo il senso della sua collera e il leone provvisorio il tempo di ridiventar coniglio definitivo. Passò così una mezz'ora durante la quale Pierino se pensava all'Italia si sarebbe stretta la mano da sè solo, ma se pensava a sua moglie recitava il più desolato atto di contrizione che mai ribelle abbia potuto mettere ai piedi della giustizia punitiva d'una moglie dispotica e doppiamente offesa. Continuava intanto l'orchestrina a versar su le piaghe di quel pentimento il balsamo refrigerante dei valzer più cari al cuore di Pierino. Si dice — e gli impresarii di stagioni musicali si affannano ad accreditare quanto più possono queste voci — si dice che la musica ingentilisca i costumi. Ma è evidente che non tutte le musiche operano questa azione nello stesso modo e all'istesso grado e se la musica selvaggia irta di dissonanze straussiane al cui ritmo danzano il tango i negri antropofagi [242] della Papuasia ingentilisce di poco i costumi, del resto assai sommarii, di quelli abitanti del globo, la musica sentimentale di un'operetta viennese opera ben diversamente su l'anima quanto mai di già gentile di un giovane gentiluomo attillato nel suo abito da sera e col fine fazzolettino di battista tutto odoroso di chevalier d'Orsay. In questo caso ingentilire è sinonimo di intenerire; molto più quando, come nel caso di Pierino Balla, il soggetto è per sua natura già tenero ed incline per temperamento a sentire tutte le suggestioni che le sette note musicali diversamente combinate insieme possono determinare. Pierino, infatti, all'eco insistente di quella musica sentì venir meno tutte le sue brevi energie, capì — poichè se ingentilire è sinonimo di intenerire, intenerito è sinonimo di intimidito — capì che era il caso di farsi coraggio, di risalire su la terrazza, di andare a cercare sua moglie per fare ammenda onorevole di uno scatto che non poteva certamente non apparirle deplorevolissimo. Quando, come Dio volle, le gambe, riluttanti per troppa tensione nervosa, lo ebbero riportato su la terrazza, Pierino vide sùbito che [243] sua moglie e il major Hampfel se ne erano allontanati. Al tavolinetto ancora ingombro di tazze di caffè e di bottiglie di liquori era rimasto solo il luogotenente Federico. A questo Pierino si avvicinò titubante e, quando vide che il luogotenente levava su lui un lungo sguardo stupito credette necessario di mormorare una parola di scusa: poichè se egli aveva mancato di rispetto solamente a sua moglie e al major Hampfel, sua moglie era la sorella del luogotenente Federico e del luogotenente Federico il major Hampfel era connazionale. Ma mentre si aspettava dal doppio sentimento offeso del luogotenente Federico (sentimento di fratello e sentimento di austriaco) la prima delle tre ramanzine cui si sapeva inesorabilmente condannato dal suo scatto, Pierino sentì con somma meraviglia che il luogotenente Federico gli rispondeva con deferenza e quasi con dolcezza, con una dolcezza che rasentava la simpatia:

— Voi non mi dovete, mio caro Pierino, nessuna scusa. Il major Hampfel è stato oltremodo imprudente non solo, ma anche incontestabilmente ingiusto. Io, che mi son battuto [244] con gli Italiani e che di questo combattimento serberò per tutta la vita il ricordo in questo moncherino, so di essermi battuto con avversarii valorosi. E poichè voi siete Italiano, voi avete fatto benissimo a imporre che il vostro sentimento nazionale fosse rispettato. Anche se avete sposato una donna d'altra nazionalità non si deve dimenticare che voi non avete rinunziato alla vostra patria per prendere quella di vostra moglie. E se alcuno questo dimentica, voi avete non solo il diritto ma il dovere di ricordarglielo. Non dico questo solamente a voi. Ma l'ho già detto al major Hampfel e ad Eva non appena voi, per non accendere più violentemente il dibattito, vi siete con lodevole prudenza allontanato.

— E il major Hampfel? interrogò Pierino ancora titubante.

— Il major Hampfel, rispose il luogotenente Federico, non ha potuto che convenire nella mia tesi. Hampfel è fatto così: s'accende presto e fuori di luogo, ma è, dopo tutto, un uomo eccellente.

— Ed Eva?

— Anche Eva ha dovuto essere ragionevole [245] e capire ch'ella stessa avrebbe dovuto stimarvi di meno se vi foste comportato altrimenti. Eva è fatta così: vuol dominarvi e dirigervi, ma dopo tutto vi vuol bene.

Pierino non aveva che una sola preoccupazione:

— Eva dunque mi perdonerà il mio contegno?

— Ma sì, rispose il luogotenente Federico sorridendo di quella timidezza di marito che scambiò per una trepida tenerezza di sposo, ma sì, ve lo perdonerà. E, anche se non dovesse perdonarvelo, voi non dovreste pentirvi di averlo avuto. Più della nostra compagna, più dei nostri figliuoli, anche più di noi stessi, noi amiamo e dobbiamo amare la nostra patria. Ne abbiamo una diversa voi ed io che parliamo. Ma dobbiamo l'uno e l'altro obbedire ad un sentimento che non è diverso, che è uguale così per voi come per me. Italia od Austria, la patria è la patria, e, quando si combatte, la patria è onorata così da una parte come dall'altra di una frontiera. Io ho dato per la patria mia il mio sangue, con gioia. Voi, domani, darete il vostro per la vostra.

[246]

Poichè anche nelle coscienze in evoluzione le vecchie abitudini non si sradicano d'un tratto, a quelle parole Pierino guardò il moncherino del luogotenente Federico e la sua gamba paralizzata. E si vide a sua volta conciato in quel modo. Vi sono evidentemente spettacoli di sè stessi più incoraggianti di quello e però non v'è da meravigliarsi se, a quella visione prospettata dalle parole del luogotenente Federico, Pierino si sentì correre un brivido giù pel filo della schiena.

— Vedete, riprendeva il luogotenente Federico, vedete, l'amore della patria è così grande che nulla può diminuirlo. Io sono un invalido, ho un braccio di meno e una gamba perduta. A meno di trentacinque anni io sono un uomo inutile. Ma che m'importa? Quello che io ho fatto era per il mio paese più necessario di quanto non fossero necessarii a me questa gamba e questo braccio che non ho più, di quanto non fosse necessaria a me la mia stessa vita se questa avessi dovuto perdere.

Col braccio ancora valido, con la mano ancora viva, il luogotenente batteva sopra un ginocchio di Pierino.

[247]

— Ho sempre avuto per voi, riprendeva, l'affetto più sincero. Ma avervi in questi ultimi tempi veduto troppo docile ai capricci e alle imposizioni dell'ingenuo nazionalismo di mia sorella, avervi veduto in un'ora in cui per così ardenti e nobili passioni uomini d'ogni paese e d'ogni età dànno la vita, avervi veduto insomma così assente, così lontano da ogni passione, così immemore del vostro dovere, m'aveva, ve lo confesso, armato di diffidenza contro di voi. Stasera voi m'avete fatto ricredere. Siete un buon marito, e questo mi fa piacere per mia sorella. Ma siete anche, finalmente lo vedo, un buon italiano e questo mi fa anche molto piacere per voi.

Su l'anima di Pierino avevano effetto irresistibile non solo i bei valzer ma anche le buone e le belle parole. Chè era, insomma, un buon ragazzo e i buoni ragazzi si commuovono facilmente. Ascoltava il luogotenente Federico con una commozione profonda, la quale gli velava gli occhi di una leggera nebbiolina di pianto. Guardava attraverso quel velo l'ufficiale mutilato e il quadro che gli era d'intorno. Andavano e venivano per la terrazza [248] donne belle ed eleganti ch'eran tutto l'amore, uomini ch'eran tutta la giovinezza, tutta l'azione, tutta la ricchezza, tutta la potenza, tutta la vita. Illuminazioni e musiche mettevano attorno a quella gente che viveva la vibrazione e il colore della vita in movimento. Giù, oltre il giardino, la montagna tutta crivellata di luci d'oro, su, oltre il giardino, il cielo tutto tempestato di luci d'argento, mettevano intorno alla limitata vita degli uomini la illimitata vita della natura. Fra quelle vite il giovane ufficiale era lì, superstite, monco, invalido, impossibilitato ormai a muoversi da solo, scemato in tutte le sue forze, annullato in tutte le sue speranze, in tutte le sue ambizioni, in tutte le illusioni. Tuttavia così il superstite parlava. E non vi era nelle sue parole un'ombra di rimpianto o di rammarico. Il sacrificio fatto gli era lieve, gli era lieto. Di che qualità superiore eran dunque quegli uomini che italiani o austriaci avevano fatto o facevano il loro dovere? Di che qualità inferiore era dunque lui, Pierino, chè, nè italiano nè austriaco, non aveva compiuto nessun dovere, che al suo dovere, anzi, s'era sottratto? Tutto questo era nell'animo [249] di Pierino, vago, confuso, indeciso, in uno stato di nebulosa nella quale sia finalmente riconoscibile un pensiero in formazione. Non era, Pierino, uomo di profonda e tormentata psicologia e chi gli avesse parlato, con lo stile letterario in uso qualche anno addietro, d'introspezioni gli avrebbe fatto credere che parlava d'affari concernenti la pubblica sicurezza. Ma se non passava la sua giornata a spiegare o a definire quello che non sentiva, nella sua giornata, specialmente da qualche tempo, gli accadeva di sentire in modo che, anche se avesse voluto, non sarebbe riuscito nè a spiegare nè a definire. In altri termini, mentre parlava, il luogotenente Federico teneva bene aperti e ben fissi su di lui i suoi grandi occhi azzurri di fanciullo e di soldato. Ma, per quanti sforzi facesse, Pierino non riusciva a sollevare i suoi fino ad incontrare quelli del mutilato e, curvo su la persona, i gomiti su le ginocchia, le braccia penzoloni giù fra le gambe, non sapeva decidersi ad avere orizzonte più ampio e più alto di quello segnatogli dai due specchietti lucidi delle punte dei suoi scarpini.

Finalmente si levò. Era tardi e intorno a loro [250] la terrazza s'era sfollata poco dopo che l'orchestrina aveva sviolinato l'ultimo valzer. Offrì all'invalido di riaccompagnarlo fino alla sua stanza.

— Vi ringrazio, rispose il luogotenente Federico, ma io rimango ancora qui. La guerra mi ha lasciato un'insonnia invincibile. Verrà più tardi a prendermi il mio domestico. Son come un bimbo oramai che bisogna vestire e svestire...

Sorrideva con un po' di malinconia, ma senza amarezza. Poi sùbito il sorriso si fece più chiaro e più lieto:

— Andate voi a riposare, mio caro Pierino. E non vi date pensiero di quanto è accaduto. Avete fatto quello che dovevate fare e domani Eva sarà la prima a riconoscerlo...

Domani... Pierino salì nella sua camera pensando a quel domani che a lui non sembrava così libero di minacce come al luogotenente Federico. Poichè il saper attendere con fermo cuore il risolversi delle situazioni difficili è prerogativa dei forti, Pierino non poteva naturalmente adattarsi a passar tutta una notte senza sapere che cosa Eva pensava di lui. Così, dopo [251] essere rimasto appena dieci minuti nella sua stanza, uscì per salire al piano superiore, prendendo, come suol dirsi, il suo coraggio a due mani. E, poichè gli accadeva di fermarsi talvolta a meditare su le frasi fatte come se gli avvenisse d'incontrarle per la prima volta, osservò sorridendo che veramente due mani dovevano bastare a prendere il suo coraggio, che, a giudicare dal tremito che gli infiacchiva le gambe su per le scale dell'albergo, non era certamente gran che. Ma i timidi, incominciata un'azione, sono in questa più ostinati che gli audaci poichè sanno che se non avranno il coraggio di andare fino in fondo non avranno neppure mai quello di ricominciarla. Così giunse Pierino al corridoio del piano superiore dove era la stanza di sua moglie. Era certo di trovarla ancora desta poichè Eva era solita, prima di addormentarsi, di concedere le prime ore della notte alle sue interminabili letture. Quel passo remissivo e deferente ch'egli doveva fare verso di lei per ottenere un'indulgenza plenaria o parziale agli effetti della sua scandalosa ribellione di un'ora prima gli sembrava tuttavia sempre più doloroso per il suo amor proprio e sempre più [252] tormentoso per la sua timidezza. In fondo non andava egli da sua moglie per chiederle di perdonargli di essere stato italiano? Non andava, con quella ritrattazione, a distruggere la nobiltà di un impeto per il quale il luogotenente Federico lo aveva felicitato? Non andava ad offrire al major Hampfel, attraverso sua moglie, delle scuse che al posto suo il major Hampfel non avrebbe certamente mai fatte? Non si ridava, con quell'atto, mani e piedi legati alla tirannia morale e materiale di sua moglie? Non avrebbe fatto meglio ad ostinarsi nel suo atteggiamento e, a costo di qualsiasi rancore di sua moglie, ad aspettare che sua moglie fosse persuasa ch'egli era oramai trasformato affinchè in questa trasformazione ella trovasse le ragioni di stimarlo di più e di amarlo diversamente? Saggi punti interrogativi tutti questi... Ma Pierino amava sua moglie con cieca devozione e l'amore bendato, anche se è mal dato, rifugge istintivamente dalla saggezza. Sapeva solamente, Pierino, che rimanere in collera con Eva gli sarebbe stato insopportabile, che mai come quella notte desiderava di stringersela, a pace fatta, tra le braccia, di trovarsela accanto appassionata e tenera [253] come soleva essere quando, nelle effusioni dell'amore senza nazionalità precisa, il suo orgoglio austriaco di fronte a un marito italiano finalmente disarmava.

In queste indecisioni Pierino temporeggiava. Ma, se Fabio il Temporeggiatore temporeggiava all'ombra di un faggio discorrendo di guerra coi suoi legionarii, Pierino temporeggiava lì, in fondo a un corridoio d'hôtel illuminato solamente laggiù da una lampadina che indicava alle camere di ognuno dei clienti un camerino in comune per tutti i clienti. Dall'ombra dove era rimasto in attesa di decidersi Pierino aveva veduto una striscia di luce sotto la porta della sua antica stanza, ora occupata dal major Hampfel. Anche questo particolare lo aveva arrestato, per paura che il major Hampfel sentendo camminare nel corridoio avesse potuto aprire la porta e incontrarsi così con lui faccia a faccia. Non tardò, Pierino, ad accorgersi che la sua preoccupazione era giusta poichè ad un tratto la porta del major Hampfel s'aperse ed il maggiore mettendo fuori la testa guardò a destra e a sinistra nel lungo corridoio semioscuro. Poi chiuse. Ma, dopo altri [254] pochi secondi, riaprì e guardò ancora. Ancora richiuse e poi ancora riaprì. Comprese, Pierino, che il major Hampfel doveva attraversare il corridoio e che non gli piaceva, in quella traversata notturna di necessità troppo evidente, di incontrare qualcuno, poichè un eroe non consente a perdere il suo prestigio nella schiavitù alle più umili necessità. Difatti la porta del major Hampfel si aprì una quarta volta e questa volta il maggiore uscì dalla sua stanza, tutto attillato nel suo pigiama rosa e con un paio di pantofoline crema che calzavano un piedino assolutamente inverosimile per un così terribile uomo d'armi. Mentre Pierino si felicitava di avere così esattamente compreso tanto la veglia prolungata quanto le ripetute esplorazioni del major Hampfel, questi si avviava rapidamente verso la lampadina accesa nell'angolo di corridoio opposto a quello dove Pierino, sempre nell'ombra, aspettava che l'inaspettato incidente si fosse interamente svolto. Ma ad un tratto vide il major Hampfel sostare. E dove? Dinanzi alla porta della stanza occupata dalla signora Kramer-Balla. Lo vide con due dita picchiare leggermente alla porta. Cercò ancora di spiegare [255] l'inesplicabile.... Forse aveva dimenticato qualche cosa, forse si sentiva male e chiedeva l'aiuto di Eva... Ma la porta di Eva, intanto, s'era pianamente aperta. Il major Hampfel era entrato nella stanza. Poi, dalla porta socchiusa, aveva nuovamente sporto la testa ad osservare il corridoio in su e in giù. E, dall'ombra, Pierino sentì un giro di chiave, un giro di chiave che non lasciava più dubbii. Ma, come se questo non gli fosse ancora bastato, Pierino percorse di volo, in punta di piedi, il corridoio, raggiunse la porta di sua moglie, incollò l'orecchio all'esile legno ed ascoltò la voce di Eva, — la voce di Eva dire come non l'aveva detto mai a lui, povero Pierino:

Ich liebe! Ich liebe! Io ti amo, ti amo!

[257]

X. ULTIMI ECHI DI VECCHI VALZER

[259]

Come in molte altre faccende anche nella carriera di marito tradito il primo passo è quello che conta. Tra la rispettabilità coniugale d'Otello e la pessima riputazione di Menelao non c'è che un passo, un passo mancato. Se al primo momento in cui avviene la rivelazione dell'infortunio coniugale cade su gli occhi quella benda dell'impulso irresistibile su la quale i giurati di tutti i processi passionali sono oramai invitati a meditare, il marito uccide. Se la benda non cade, il marito invece riflette. E tutti sanno che la riflessione è stato d'animo essenzialmente inattivo, poichè è provato e riprovato che più agiscono quelli che meno riflettono. Così Pierino, non appena gli «Ich liebe» pronunciati teneramente da sua moglie non gli ebbero [260] lasciato nessun dubbio su la natura del colloquio che si svolgeva dietro quella porta fra Eva e il major Hampfel, sentì che il suo decoro di marito, che il suo onore di uomo, che il suo risentimento di innamorato offeso gli imponevano di levar la mano vendicatrice su la maniglia di quella porta, di farsi aprire quella stanza per amore o per forza e di giungere, terzo incomodo in quell'idillio, con fieri accenti e cipiglio di circostanza. Ma esiste, anche nell'infortunio coniugale, uno stato d'animo intermedio che non e nè l'ira d'Otello nè la rassegnazione di Menelao. Questo stato d'animo è lo sbalordimento. Giova anche osservare che Pierino era salito alla camera di sua moglie come un colpevole umiliato e pentito che aveva molto da farsi perdonare. Ora non è facile cambiare d'improvviso il tono della nostra coscienza trasformandosi inopinatamente ed istantaneamente da giudicabile in giudice, da giustiziabile in carnefice. Trascorsero così, in quello stato di stupimento, i primi cinque minuti durante i quali Eva e il major Hampfel continuarono a parlare, ma con parole tedesche il cui significato era meno esplicito di quello [261] delle precedenti per il limitato vocabolario di Pierino. Dopo cinque minuti Pierino si trovò di nuovo di fronte al caso di coscienza e tornò a domandarsi se doveva o no farsi aprire e se doveva o non far valere i proprii diritti di marito oltraggiato. Ma vi sono, nelle situazioni, particolari che le mutano radicalmente. Pierino ebbe la lucidità di vedere nei suoi particolari la situazione nella quale si sarebbe trovato, agendo, impegnato. La stanza di sua moglie aveva ai lati altre due stanze ch'erano occupate da due ménages coi quali, durante l'oramai lungo soggiorno in quell'hôtel, s'erano stabilite cordiali relazioni. S'egli fosse entrato nella camera di Eva, se, di fronte agli amanti, egli avesse tirato due colpi di revolver o avesse almeno tirato fuori dal suo animo esacerbato i giusti argomenti della sua collera coniugale, i ménages contigui si sarebbero certamente destati e sarebbero molto probabilmente accorsi. La colpa di Eva passava e avrebbe continuato a passare inosservata: un lieve ricamo di baci, di sospiri e di tenere parole sussurrate a fior di labbra non strappava i vicini dalla quiete del sonno notturno. Ma l'intervento di Pierino avrebbe [262] immediatamente trasformato quel duettino idilliaco in minore in un terzetto drammatico a piena orchestra. L'albergo intero si sarebbe destato all'eco delle voci irose, del probabile pianto disperato di Eva e delle prevedibili vie di fatto tra Pierino e il major Hampfel. Tanto più che dopo la guerra il major Hampfel era oramai mezzo sordo e non sarebbe stato possibile fargli capire che era un porco se non facendolo sentire in pari tempo all'albergo intero. La maggior coscienza che da qualche tempo egli aveva preso di sè aveva destato inoltre in Pierino il senso del ridicolo. Gli parve, così, intollerabile l'idea di dover passare sotto gli occhi di un albergo intero, ufficialmente segnato e bollato come marito sfortunato. Ma intanto altri cinque minuti erano trascorsi. Nella stanza di Eva non si udivano più parole: s'udiva solo, adesso, un complicato giuoco di baci e di sospiri sopratutto che mano mano diventavano sempre più sospirosi e quindi più eloquenti per Pierino che li riconosceva. Pensò ancora, Pierino, che dalla stanza vicina anche quei baci e quei sospiri potevano essere uditi. Fortunatamente i baci e i [263] sospiri non sono facilmente riconoscibili ed i vicini, posto che Eva aveva un marito nello stesso albergo, potevano credere che quelle effusioni della giovane signora austriaca fossero, nel cuor della notte, riservate al legittimo titolare delle sue tenere grazie.

Ma, poichè il faut qu'une porte soit ouverte ou fermée, è sempre probabile che debba da un momento all'altro aprirsi una porta che per il momento è ancora chiusa. Pierino si vide quindi nella difficile situazione che si sarebbe prodotta se d'improvviso, per una di quelle improvvise necessità che nel cuor della notte interrompono il placido riposo degli uomini, una delle porte delle stanze attigue a quella di Eva si fosse aperta. Se l'avessero trovato lì sarebbe stato evidente che il duettino di sospiri e di baci intessuto nella camera di Eva non apparteneva, almeno per metà, a lui marito. L'intervento di un tenore di grazia sarebbe così stato più che evidente ed egli, lì, dietro quella porta, sarebbe apparso grottesco come un tenore fischiato che da dietro una quinta sente il rivale ricamare con successo la cabaletta [264] che la prima donna non vuol più cantare con lui.

Ma i nostri pensieri saggi non basterebbero sempre a governare le nostre azioni se, ad un dato punto, non intervenissero a determinarci gli atti degli altri. Così Pierino sarebbe stato tutta la notte dietro quella porta a pensare che era il caso di andarsene senza per altro andarsene niente affatto se, ad un dato punto, nella camera a sinistra di quella di Eva, non avesse udito lo scatto secco di un commutatore di luce elettrica immediatamente seguito da un leggero scricchiolìo di letto e dal piccolo tonfo sordo di due piedi nudi che s'appoggiavano sul parquet di legno. L'evidenza che qualcuno si alzava, e che si alzava molto probabilmente per aprire la porta e per uscire nel corridoio, volse finalmente in fuga Pierino, il quale in punta di piedi rivolò via pel corridoio, scese a precipizio le scale con un gran batticuore e non ebbe pace finchè non si ritrovò in camera sua, seduto sul letto, con le braccia penzoloni e l'anima ancor più penzoloni che le braccia. Quando fu solo, restituito a una situazione almeno decente, Pierino cominciò finalmente [265] a pesare sul serio a quanto gli era accaduto. Guardava fisso davanti a sè la sua valigia sopra un portabagagli e non gli batteva palpebra. Rimaneva così a guardare, a guardare con gli occhi dilatati, coi suoi buoni occhi di fanciullo meravigliato che gli si riempivano di lacrime. Rivedeva, con quelli occhi, nel suo cuore, tutto il suo passato. Gli tornavano in mente, con un aspetto nuovo, tutti gli avvenimenti grandi e piccini della sua vita coniugale e specialmente i primi: l'incontro di Eva al teatro, la visita nel palco, i saluti scambiati col major Hampfel nella barcaccia dirimpetto, i commenti in tedesco fra Eva e la sua giovane amica polacca, la passeggiata al Prater, la cena, gli sguardi di complicità scambiati fra Eva e l'amica, gli abbondanti sorrisi con cui a Vienna la notizia del suo fidanzamento era stata accolta, gli affettuosi saluti di Eva e del major Hampfel allo sportello del treno in partenza per l'Italia dalla Sudbanhoff, la destinazione del major Hampfel all'Ambasciata di Roma pochi mesi dopo il loro matrimonio e pochi giorni prima della guerra. Era evidente oramai per lui che l'amore tra Eva e il major Hampfel [266] non era nato negli ardori della guerra ma molto più probabilmente nei dolci languori della pace. Avrebbe amato di poter credere che quell'amore non fosse cominciato prima di quella notte e che le sue intemperanze di italiano avessero gettato uno nelle braccia dell'altra i due austriaci, più che per un sentimento d'amore, per un senso di solidarietà nazionale offeso dalle parole di Pierino. Ma creder questo non gli era possibile ora che aveva aperto gli occhi. Chi ha tenuto gli occhi lungamente chiusi, quando li riapre vede con straordinaria intensità: nel riposo prolungato la vista sembra felicemente acuirsi. Quello che a Pierino era sempre sembrato un po' inesplicabile, la facilità cioè con la quale un povero italianino senz'arte nè parte aveva potuto al primo sospiro ottenere il cuore, la mano e la dote della figlia dell'illustre maestro Kramer, ora appariva a Pierino spiegabilissimo. Aveva sempre spiegato l'eccezionalità dell'evento con un fascino eccezionale che i suoi giovani anni avevano esercitato su l'animo di Eva e con le simpatie eccezionali che la sua perfetta conoscenza di tutto il repertorio operettistico viennese gli aveva [267] assicurate presso il famoso compositore d'operette. Ora vedeva, invece, che la buona stella della signorina Kramer aveva condotto lui a Vienna proprio nel momento opportuno, quando cioè si trattava di riparare a Roma con un matrimonio purchessia quello che a Vienna s'era guastato. Certi particolari di singolare importanza gli ritornavano in mente. E ricordava d'avere interrogato alcuni medici i quali gli avevano assicurato, rassicurandolo, che, per quanto eccezionale, il caso può darsi che un nuovo stato di cose si produca senza che per nessun segno si mostri mutato lo stato di cose precedente.

L'incompetenza di coloro che non sono mai morti assicura che, prima di morire, il morente rivede in un attimo tutta la sua vita. La competenza dei mariti e degli amanti ingannati afferma che la crisi della rivelazione permette di vedere in pochi secondi tutto ciò che per mesi e per anni non era stato veduto mai. Tutto quello che era la fodera della sua vita di marito apparentemente amato e felice si scopriva adesso a Pierino. Gli si rivelava adesso anche tutto ciò che d'un po' ostile e d'un po' [268] sprezzante aveva sempre confusamente sentito nei rapporti dei vecchi amici con lui, dal tempo del suo matrimonio in poi. Poichè difficilmente troviamo in noi stessi, ma più spontaneamente cerchiamo sùbito negli altri, la causa dei mutamenti di questi altri verso di noi, Pierino aveva imputato il mutamento di tono dei suoi amici all'invidia — leggera e benevola invidia, ma invidia — che la sua nuova posizione doveva destare in tutti loro rimasti mediocri nel loro mediocre destino. Capiva che, quando era in un negozio con loro e ordinava di mandargli i pacchi dei suoi acquisti al Grand Hôtel; o quando usciva con loro dal caffè, dagli antichi caffè dai quali erano usciti tante sere insieme stretti, a braccetto, per ripararsi in due sotto un solo ombrello, e li salutava adesso per salire in una limousine da venticinquemila lire; o quando passeggiava con loro e metteva ogni giorno la fresca eleganza di un vestito nuovo accanto alla mediocre decenza del loro vestito di tutt'i giorni, capiva di far cose che non potevano conciliargli molte simpatie. Sentiva una sorda ostilità — e ne soffriva. Si sentiva attorno un'irragionevole diffidenza — e ne soffriva. [269] Sentiva che, sebbene a malincuore, i suoi amici lo mettevano al disopra di loro — e ne soffriva, perchè, bravo figliuolo com'era, voleva esser considerato sempre lo stesso ed era, infatti, per loro, sempre lo stesso. Ora capiva invece che gli amici, col loro riserbo, con la loro freddezza, con quelle strette di mano impacciate e frettolose, con quella amicizia cauta che non cerca ma solo si limita a non evitare, non lo mettevano più su di loro, ma più giù, molto più giù di loro, in una zona intermedia tra lo sporcaccione e l'imbecille e che, come tutte le zone di frontiera, aveva in sè un po' dell'uno e un po' dell'altro. Evidentemente i suoi amici sapevano quello che lui non sapeva. Ed evidentemente essi non ammettevano che lui potesse non sapere quello che sapevano loro: il suo bel destino di marito comodo, di marito salvapparenze, di marito ad usum dell'herr major Hampfel. Di lui, di sua moglie e del bel maggiore, ora lo sentiva, si doveva esser parlato dappertutto durante un intero inverno, nei teatri, nei salotti, negli alberghi eleganti, nei tea-rooms delle cinque. Rammentava che, dovunque entravano, li seguiva sempre un [270] fruscìo leggero di conversazioni sommesse. Aveva sempre pensato che quelle conversazioni fossero oltremodo benevole per loro, che avessero per oggetto l'avvenenza valchiriana di Eva e la sua eleganza secessionista. Ora quelle conversazioni gli erano chiare, senza averle mai sentite, come se le sentisse ancora: «Chi sono? — Sono i Kramer-Balla.... — Graziosa lei... Fiera e forte come Brunilde... — E quel marito? Un povero diavolo che rattoppa le reputazioni in pericolo... — Ménage à trois? — Ma sì, fin da prima del matrimonio... Tra Eva con tanto di peccato su la coscienza e il major Hampfel con tanto di moglie su le spalle, ci voleva il signor Pierino con tanto di faccia da imbecille... Tutti d'accordo e tutti felici... — È la Triplice Alleanza coniugale: due che fanno i loro affari e un terzo, l'italiano, che fa da scemo....»

La Triplice Alleanza! Sì, questo lo ricordava, Pierino: una sera, all'albergo, si erano fatti dei giuochi e dopo si facevano le penitenze. Era in berlina lui. E gli riferivano, due amici di buona memoria, le impertinenze dette loro da amiche e da amici... Ricordava... Uno [271] gli disse: «Sei in berlina perchè sei la Triplice Alleanza!» Non ci aveva badato: credeva si trattasse d'uno scherzo politico. Ora si ricordava. E un altro ancora gli aveva detto: «Sei in berlina perchè l'aquila bicipite ha due teste e tu invece ne hai tre!» Non aveva capito neppure questa. Aveva veduto gli altri ridere e aveva sorriso anche lui, per aver l'aria intelligente. Ricordava, ricordava ancora... Un terzo aveva detto: «Sei in berlina perchè ti piace troppo il Conte di Lussemburgo.» In fatto d'opinioni musicali ognuno la pensa a modo suo. Ma ora capiva: il conte di Lussemburgo è un signore che sposa per conto di un altro. E ricordava, ricordava ancora... Molte sere, al bar, gli amici della nuova società lo accoglievano motteggiando e cantando un valzerino famoso:

Maritin,

tesorin....

Non se ne adontava. Burlavano le sue manie: scherzo innocente fra amici e che gli faceva piacere. E ancora, ancora ricordava, ricordava che tutti domandavano a lui quando il major Hampfel avrebbe raggiunto la sua destinazione [272] di Roma. E smaniavano, e aspettavano, e chiedevano, come se dall'arrivo del major Hampfel a palazzo Chigi dovesse cominciare per Roma l'èra felice.

Passato e avvenire sono così strettamente saldati dal breve anello dell'attimo presente che quando si comincia a riandare il passato si va avanti sempre a guardare un po' nell'avvenire. Così da ieri Pierino era inavvertitamente passato a domani e ora prevedeva la fine della notte, il sorgere del nuovo mattino, la necessità d'incontrare, all'ora solita, attorno alla tavola della solita colazione, sua moglie e il major Hampfel. Senza che nessun pensiero preciso si formasse nel suo cervello, Pierino s'era levato, aveva preso sul portabagagli la sua valigia di cuoio, l'aveva aperta su un tavolino e ora incominciava a metterci dentro un po' di roba. Eran vestiti eleganti dal taglio dei grandi sarti, biancheria dei grandi camiciai, cravatte di Charvet, oggetti da toilette in argento o in oro, scarpe da cento lire al paio, profumi da quaranta lire la bottiglia. Eva lo aveva voluto così, raffinatamente, irreprensibilmente elegante. E per l'eleganza di suo marito, infatti, non aveva [273] mai badato a spese. Ricordava. Andava, Pierino, nei magazzini, sceglieva, comprava, faceva mandare all'hôtel al nome del signor Balla e all'hôtel la signora Kramer-Balla, puntualmente, pagava. Povero Pierino! Era tutto mortificato adesso nell'osservare, come non gli era prima mai capitato, che tutta quella roba, tutta quella bella roba del suo equipaggiamento d'uomo elegante, era tutta roba di sua moglie, pagata da sua moglie... E, con la mano leggermente tremante, cominciava a ritogliere dalla valigia quello che ci aveva già messo.

Quando fu vuota cercò intorno qualche cosa da portar via, qualche cosa che fosse veramente sua. E, per quanto cercasse, non trovò che due vecchie camicie delle sue antiche eleganze di scapolo e il ritratto della sua mamma che laggiù, a Sorrento, s'era accomodata ben bene coi denari che il suo figliuolo le mandava di tanto in tanto, con quei denari ch'erano ancora, e sempre, uno chèque di Eva, niente altro mai che uno chèque di Eva. Lasciò da parte la valigia, acquistata anche quella da Eva, a Vienna, pochi giorni prima della partenza per il viaggio di nozze. Per impacchettare quelle [274] due vecchie camicie e il ritratto della mamma bastava solo un giornale, un giornale italiano. Poi, quando il minuscolo bagaglio fu pronto, Pierino si guardò addosso: era ancora in smoking, la caramella pendente giù su lo sparato immacolato, il fiore all'occhiello. Doveva aver però un vecchio abito suo, che teneva, così, per capriccio sentimentale, senza indossarlo tanto era oramai fuori di moda; ma lo teneva perchè con quel vestito aveva viaggiato verso Vienna, verso Eva e verso la felicità. Era suo, proprio suo, quel vestito. Aveva ancora, dietro il collo, il nome del piccolo sarto modesto che allora perdeva ore ed ore per accontentarlo e che poi Pierino aveva abbandonato pei Prandoni e pei Morziello. Sentì, a indossare di nuovo quel vestito, una gioia curiosa, quasi paragonabile a quella che deve provare un galeotto il quale svesta finalmente il suo camice per indossare di nuovo un vestito d'uomo libero. Poi, quando fu pronto, pensò al portafogli. Non poteva portare via il denaro di Eva che aveva con sè. Contò: erano circa duemila lire... Contò e ricontò il denaro. Fece un breve riassunto delle ultime [275] spese, mise denaro e riassunto in una busta, vi scrisse sopra con mano tremante il nome, e, fra parentesi: «da parte del signor Balla.» Poi mise bene in vista la lettera sul suo tavolinetto da notte. Nel portafogli cercò di nuovo. Aveva, in un cantuccio, in una vecchia busta, un biglietto da cento, suo, tutto suo, l'ultimo biglietto suo, ch'egli aveva gelosamente conservato, così, per trovare, rovesciando ciò che dice il poeta, il maggior piacere nel ricordarsi della miseria nel tempo felice. Quando fu su la porta, striminzito nel suo vestitino troppo attillato, con sott'il braccio l'involtino delle due camicie da notte e del ritratto della mamma, si volse indietro a guardare la camera che lasciava, la vita da cui fuggiva... E c'era lì, sul tavolino, in una piccola cornice ovale, un ritrattino di Eva.

Un disgusto profondo di sè, di Eva, di Hampfel prese Pierino nel vederlo. Corse infatti al tavolino, prese il ritrattino e sputò sul vetro con un impeto cieco d'ira e di vergogna. Ebbe la tentazione di gettarlo a terra, di schiacciarlo sott'i suoi piedi, ma non lo fece. Anzi, cercò un asciugamani, rasciugò il vetro con [276] cura, poi depose di nuovo il medaglioncino su la tavola e si avviò di nuovo alla porta. Ancora si volse a guardare. È vero: era la vergogna, l'inganno, la frode, era l'orrore d'un tacito e osceno mercato. Ma era stata anche, per un anno, per lui, la vita, il sogno... Sospirò, si passò le mani su gli occhi lustri di lacrime. Poi fece per uscire. Ma una forza, il ricordo, l'indomabile ricordo di Eva, lo ritrasse ancora indietro. Corse al tavolino, prese il ritratto, lo mise nella tasca della sua vecchia giacchetta, e, col fagottino sott'il braccio, col cuore fiero, con l'anima umile e umiliata, col pianto che gli stringeva la gola sino a soffocarlo, fuggì via verso le scale, scappò via come un ladro....


Come sono i timidi quelli che, una volta lanciati, si rivelano sovente i più audaci, così sono i caratteri deboli quelli che, messi una volta alla prova, si dimostrano i più forti. L'energia improvvisa è, come l'ingegno improvvisatore, inconsapevole. L'uomo si trova ad essere trasformato senza saperlo e, poichè non ha un'esatta visione della trasformazione avvenuta, [277] gli sembra, se gli avvenga di ricordare il passato, assolutamente inconcepibile che gli sia stato un giorno possibile di compiere azioni diverse da quelle che presentemente egli compie. Così Pierino, rivalicata la frontiera e tornato in patria, vedeva come un sogno, come un incubo, il ricordo di quel penultimo viaggio che, la sera stessa della dichiarazione di guerra, l'aveva portato a cercare quiete e scampo, in compagnia di sua moglie, in terra elvetica libera e neutrale. Aveva passato le prime ore del viaggio di ritorno in patria in quello stato d'abbattimento che segue lo sforzo nervoso delle grandi crisi risolutive. Ma si compiaceva nel pensare che l'improvvisa partenza e la mancanza di qualsiasi spiegazione tra lui e sua moglie lo mettevano in una situazione singolarmente felice. Infatti, poichè tutti ignoravano ch'egli avesse quella notte scoperto il segreto del suo benessere coniugale e l'infortunio subito dal suo amor proprio di marito, questo segreto poteva ancora esser creduto tale per lui e quell'infortunio non lo esponeva, svelato, a quel ridicolo che, per iniqua contraddizione tra cause ed effetti, accompagna sempre, [278] nelle crisi delle felicità domestiche e nelle contravvenzioni al patto matrimoniale, non il coniuge colpevole ma il coniuge innocente. Due o tre ore dopo la sua fuga, la notizia della sua scomparsa doveva essere giunta ad Eva, a suo fratello e al major Hampfel. Questa scomparsa non era stata evidentemente spiegata se non ricollegandola al violento incidente prodottosi la sera prima su la terrazza. Nessuno poteva dunque ricercare nella sua mortificazione di marito ingannato le ragioni d'una fuga in cui non si poteva discernere altra determinante se non l'improvviso ricupero d'una sua coscienza d'italiano perduta sino allora nell'egemonia austriaca che sua moglie esercitava.

Stabilito così che sua moglie non avrebbe potuto dare nell'albergo intero altra spiegazione alla partenza di suo marito che quella d'un improvviso ritorno in patria per compiere il suo dovere di soldato, Pierino si rallegrò. Usciva da una vita indegna, è vero, ma con un'uscita decorosa. E, se è esatto che un bel morir tutt'una vita onora, anche una dimissione dalle funzioni di marito data a tempo e data bene può riscattar la vergogna d'un lungo [279] servizio troppo docilmente prestato. In fondo, la sorte gli era benigna se salvava, sott'il prestigio dell'amore patriottico, la vergogna del suo povero amore coniugale così miseramente finito. Meno male! Ci sorrideva, ci scherzava sopra, Pierino. Ma si sentiva però il cuore piccolo piccolo, stretto stretto in un pugno, un pugno piccino, d'una mano che stringeva, stringeva e aveva le dita lunghe, affusolate, così sottili che sembravano artigli: la mano di Eva. E se l'ora terribile gli ritornava in mente, se riviveva il momento in cui aveva veduto entrare il bel maggiore in pigiama nella stanza di sua moglie, si sentiva salire il rossore al volto e gli sembrava che tutti i suoi compagni di vagone dovessero leggere in quel rossore la sua vergogna passata e la sua vergogna presente.

Li guardò, questi compagni di vagone. Eran saliti in quel carrozzone di terza classe dopo Genova e discendevano verso Roma come lui, Pierino, discendeva verso Napoli per andare ad abbracciare a Sorrento la sua povera mamma che lo credeva felice. Li ascoltò parlare. Erano sbarcati a Genova quella mattina. Parlavano della città con quell'ammirazione [280] indeterminata che è propria dei viaggiatori che non hanno avuto il tempo di vedere nulla. Ora, tra tunnel e tunnel, guardavano i meravigliosi cantucci tra monte e mare della Riviera di Levante. Guardavano il mare azzurrissimo, il cielo splendidissimo della mattina d'estate. Guardavano il colore italiano, con occhi meravigliati, come cosa nuova. E dicevano fra loro, con grandi scoppii di voce, la loro meraviglia. La dicevano male, con un italiano impacciato e duro, screziato ogni tanto di parole spagnuole. Ora parlavano dell'Italia, della guerra necessaria, della vittoria certa, della gioia e dell'onore di cooperare a conseguirla. D'un tratto uno di loro si volse a Pierino:

— E' richiamato anche lei? domandò.

— No, rispose Pierino arrossendo, la mia classe non è ancora sotto le armi ed io sono riformato. Ma vado a iscrivermi volontario anch'io, nella mia città natale, a Napoli.

Tutti si volsero a guardarlo e Pierino vide in quegli sguardi qualche cosa che somigliava a un sentimento di deferenza e d'ammirazione. Arrossì, Pierino, anche di questo, che gli parve di aver rubato. Gli altri intanto continuavano [281] a parlare con lui, e, dopo avere interrogato, adesso spiegavano.

— Veniamo tutti dalla Repubblica Argentina. Siamo figli d'italiani, ma siamo tutti nati laggiù. Lo sente? Parliamo italiano con qualche impaccio. Ma il cuore è tutto italiano. E appena l'Italia ha avuto bisogno anche di noi, eccoci, siamo venuti.

Un altro disse:

— L'amavamo l'Italia, da lontano, quando la sentivamo prospera e tranquilla. Più l'amiamo adesso, da vicino, che la sentiamo impegnata, dinanzi al mondo, con tutt'il suo onore e tutta la sua gloria. I nostri padri, laggiù, in Argentina, non la avevano mai dimenticata e non vollero che noi l'ignorassimo. Ce la fecero conoscere, ce la fecero amare, coi loro ricordi, nel loro rimpianto. E ora siamo felici di servirla, pronti, se il nostro sacrificio occorre, a morire per lei.

Tutti abbassarono gli occhi come raccogliendosi in quel pensiero. Poi un altro esclamò:

— Ma per quanto ci avessero detto che era bella non potevamo certo imaginarla così. [282] E' più bella, più bella del nostro sogno. E' bella tanto che non mi so spiegare.

Allora Pierino domandò:

— Ma non l'avevano mai veduta? Nessuno di loro? Non erano mai stati, prima di oggi, in Italia?

— Mai, fu la risposta di tutti.

Il silenzio si chiuse su quella risposta. Poichè il treno correva adesso lungo il litorale tutti fissarono gli sguardi, estatici, fuori degli sportelli. E Pierino pensava a quei suoi compagni di viaggio, nati laggiù, oltremare, fra altre genti, con altri costumi, in terre dove avevano i loro affetti, i loro interessi, le loro abitudini, il passato, il loro avvenire, la culla ov'erano nati, il po' di terra che doveva coprire il loro ultimo sonno. Ed erano venuti, al primo invito, in Italia, a servire, a morire se occorreva per questo paese che non conoscevano, dove non avevano un affetto, un ricordo, un desiderio, una speranza sola. Che cosa dunque li trascinava, così, da un continente all'altro, attraverso l'Oceano insidiato, verso la morte probabile, con l'occhio sfavillante di vita felice, se non un ideale, se non una forza segreta [283] che lega i figli ai padri, i padri agli avi, i vivi alla terra ove giacciono i loro morti? E come aveva potuto lui, per tanti mesi, essere sordo alla voce di quell'ideale che chiamava a battersi e a morire tutta la gioventù d'un paese cui egli pure apparteneva, cui egli pure era adesso felice, orgoglioso di appartenere? In quale oblio di sè stesso la volontà dispotica d'una donna straniera, d'una donna nemica, aveva potuto ridurlo? E come cancellare adesso dal pensiero di lei l'idea che un marito italiano può servire, abilmente sfruttato nel suo amore pei valzer viennesi, a coprire la merce avariata della galanteria austriaca, se non facendole vedere che, giunta l'ora, anche questo marito d'austriaca ricorda d'essere italiano, corre là dove tutti gli altri combattono, pronto a morire, se occorre, come tutti gli altri italiani, come anche questi nuovi italiani d'oltre Oceano sanno eroicamente morire?


L'aveva consegnata al postino della sua compagnia, mezz'ora dopo arrivato in trincea, la sua cartolina per il luogotenente Federico [284] Kramer, in Svizzera. Ci aveva scritto sopra, a grossi caratteri, Viva l'Italia! e aveva riempito il colonnino delle indicazioni di recapito: «Soldato Pierino Balla, reggimento fanteria... compagnia... divisione... Zona di Guerra». Poi aveva preso dal suo portafogli un ritrattino, il ritrattino di Eva. Ci aveva scritto dietro così: «Più adatto per stare sul cuore d'un soldato austriaco, del «major» Hampfel, per esempio». E aveva firmato: «Pierino Balla, soldato italiano». Poi, chiusa la fotografia in una busta, consegnata anche questa al postino, s'era sentito più leggero, più lieto, più pulito e, liquidato così il suo passato, pronto a volgersi verso il suo avvenire, di là dalla trincea.

Era in trincea, oramai, da due o tre ore. Mentre era in corso la sua domanda d'ufficiale aveva voluto intanto servire come soldato e, brigando assai più di quanto sua moglie aveva brigato per farlo diventare concittadino di Guglielmo Tell, aveva chiesto e ottenuto di essere mandato in prima linea, sùbito al fuoco, lassù, fra le nevi, in quelle trincee ch'erano chiamate del Lenzuolo Bianco. Era giunto lassù, poco dopo mezzogiorno, dopo una lunga [285] marcia a piedi che durava dall'alba. Aveva trovato, fra quei soldati, due amici: uno ufficiale, l'altro soldato. E l'uno e l'altro, lassù, gli avevano stretto la mano, forte, apertamente, cordialmente, come da quando era ammogliato non gliel'avevano mai stretta a Roma, da Latour o da Faraglia. E s'era sentito da quelle strette di mano rinnovare, riconsacrare, rifare quasi da cima a fondo.

I soldati gli avevano detto:

— Sei arrivato per goderti le ore tranquille. Di giorno quelli là non fiatano. Poi, quando è il tramonto, cominciano a sparare. Ci danno la buona notte così. E' stato così ieri sera, l'altra sera, prima ancora...

— E sarà così anche stasera? aveva domandato Pierino senza preoccupazione e senza spavalderia.

— E sarà così anche stasera, gli avevano risposto i compagni.

Poco dopo l'altro amico, l'ufficiale, l'aveva chiamato in disparte:

— Sei stato costretto a tornare in Italia?

— No, ero riformato e la mia classe non l'hanno riveduta.

[286]

— E allora?

— Sono volontario.

— Volontario? Bravo!...

E, dopo una pausa, con un lieve imbarazzo:

— E tua moglie?

— Mia moglie non poteva farmi dimenticare più a lungo il mio dovere.

— Ed ha consentito a lasciarti partire?

— Sono fuggito.

L'ufficiale lo guardò in viso, lo vide fiero e commosso.

— Sei un bravo figliuolo, disse. Gli altri non lo credevano. Io l'ho sempre pensato.

— Ero cieco: ora ci vedo, disse Pierino, semplicemente.

L'ufficiale gli strinse la mano. Poi s'accovacciò per terra e invitò anche lui ad accovacciarsi:

— Bada. Ci vuol prudenza. Anche quando non ci si batte corron nell'aria pallottole perdute che non si sa donde vengano, non si sa dove vadano e ti còlgono inutilmente. Coraggio, ricòrdatelo, non vuol dire imprudenza. Sacrificarsi, sì, ma quando sacrificarsi è necessario. Sono qui dal principio della guerra. Quanti [287] ne ho visti morire! Ma quelli che veramente ho pianti sono quelli che il caso, assurdamente, ha uccisi, quelli che sono morti senza fare un passo, senza saperlo, senza aspettarselo, quelli che un po' di prudenza avrebbe risparmiati. Darla la vita, sì, ma a caro prezzo. Se no, i conti non tornano. E i conti devono tornare.

Ancora gli prese la mano e gliela strinse più forte dell'altra volta:

— Oggi ci sono. Stasera forse non ci sarò più. Sono mesi, oramai, che viviamo ora per ora, minuto per minuto. Ma mi ha fatto piacere di rivederti, di avere il tempo di rivederti qui, con noi. Era impossibile che tu non fossi venuto. Il sonno della coscienza non è morte, è sonno da cui si ritorna. E ci si sveglia con un'anima nuova. Imboscato, marito di un'austriaca, ti credo adesso capace di fare prodigi.

— Sono un soldato come tutti gli altri, mormorò umilmente Pierino.

L'ufficiale aggiunse:

— La lotta, è dura, lenta, terribile. Ma vinceremo. Ne sono sicuro. Ne siamo tutti sicuri. [288] Tanto sangue non può essere versato invano. Tanto dolore non può essere inutile.

La voce del comandante della compagnia chiamò l'ufficiale dall'angolo opposto della trincea. Questi si levò e si levò Pierino.

— Arrivederci, Pierino, disse l'ufficiale allontanandosi e salutandolo con la mano.

E sorrise vedendo Pierino su l'attenti, immobile, impassibile, con la mano alla visiera del berretto e gli occhi buoni che lo fissavano riconoscenti per averlo accolto così, come un buon figliuolo, come un bravo soldato.

Chiamarono, i compagni, Pierino. Erano distesi per terra in gruppo, con le teste appoggiate su le gambe d'un compagno, su la terra della trincea, su lo zaino o su la coperta da campo. C'era fra loro l'altro amico di Pierino.

— Vieni qui, gli dissero. S'aspetta in pace l'ora del tè.

— E dei biscotti, aggiunse un altro, mostrando il fucile.

— Tè austriaco, strillò un terzo, e biscottini italiani!

E, sollevandosi sul braccio, guardando fuori dal muretto che li riparava, mettendo la mano [289] alla bocca come per aiutare la voce a giungere sino all'opposta trincea, gridò con quanto fiato aveva in gola:

— Attenti alle indigestioni, Kamarades!

Risero, cantarono. Uno attaccò il valzer della Vedova Allegra. Gli altri fecero coro. Poi fu la volta del Conte di Lussemburgo. Poi quella del Sogno d'un Valzer, il valzer di Franzi:

Laggiù nel silente giardino...

Tutto ritornò, a quel richiamo, nell'animo di Pierino, tutta l'ultima sera, tutta l'ultima notte della sua vita passata, abolita, della sua vita da dimenticare e da riscattare.

Canta e poi trilla,

valzer d'amor...

Il tenorino grigio-verde stonò. Lo coprì un coro d'invettive, una salva di fischi. Rispondeva ridendo:

— Fischiate pure. Fischi che non fan male. Non sono mica pallottole.

[290]

— Verranno anche quelle, tra poco, disse un altro ridendo e intonò il valzer di Lehar:

Sei tu, felicità...

Uno interruppe:

— Bella musica, però... Se non avessero che i valzer si potrebbe anche voler bene a quella gente...

Il vento portò dalla opposta trincea un canto: era musica italiana con parole tedesche. Un tenorino austriaco cantava Cavalleria.

— Cortesia con cortesia, disse l'amico di Pierino. Rispondiamo col valzer del Conte, ma cantato a dovere. Tu, Pierino, che hai una bella voce...

— Non so. Non ricordo..., mormorò Pierino assorto.

— Non sai? Non ricordi? Erano i tuoi cavalli di battaglia... Non cantavi che quelli...

— Ma ora non li canto più...

— Non ami più la musica?...

— Sì, ma un'altra...

— Quale?

— Una bella canzone, una bella canzone italiana...

[291]

— E faccela allora sentire...

— Fuori il fiato, recluta!

— Ordine degli anziani: sgòlati!

Pierino rispose pianamente, assorto, scansando le insistenze con un gesto della mano:

— Più tardi.

Gli altri insistettero:

— Quando?

E ancora Pierino, a bassa voce, gli occhi intenti, il cuore lontano:

— Più tardi.

Ma tutti eran tenori lassù e tre o quattro voci insieme ripresero il Sei tu, felicità... Pierino ascoltava, sempre immobile, disteso, poggiato il gomito a terra, la testa appoggiata su la palma. Rivedeva Vienna, il Prater, la passeggiata notturna con Eva, risentiva nella voce di lei, sospirato, carezzato, il dolce valzer sentimentale.

D'un tratto, il valzer si spezzò. Gli ufficiali accorsero, diedero ordini nervosi, secchi, precisi. Dall'altra parte non si cantava più. Il cielo, il grande cielo alpino, si era tutto coperto di veli rosei. Il sole era scomparso laggiù, dietro la montagna bianca di neve. E una voce [292] beffarda, accanto a Pierino, mentre i soldati si levavano, mentre occupavano il loro posto in trincea, commentò:

— L'ora del tè!

Un ufficiale parlò:

— Ragazzi, oggi si comincia noi. Vivi o morti bisogna uscire da qui, snidarli dalla loro tana...

La voce beffarda commentò ancora:

— Oggi prima i biscotti e dopo il tè....

Ordini, voci, movimenti, corsero, nervosi, sommessi, per la trincea. A un ordine le baionette furono su le canne dei fucili. Poi un ufficiale, l'amico di Pierino, gridò:

— Avanti, figliuoli. Savoia!

E, la rivoltella in pugno, fu primo su l'orlo della trincea, primo in campo aperto. Gli altri, come un sol uomo, seguirono, si lanciarono come un sol uomo contro la trincea nemica, sotto una grandine di pallottole, mentre le mitragliatrici nemiche cominciavano a crepitare.

Mentre correva con gli altri, Pierino si volse ai compagni:

— Adesso canto, amici!

E, con la sua bella voce che carezzava un [293] giorno le smorzature snervate e snervanti delle operette viennesi, cominciò a cantare correndo verso il nemico, correndo verso la morte e verso la vittoria:

Fratelli d'Italia,

l'Italia s'è desta....

E non potè cantare, povero Pierino, il terzo verso.

Roma, Dicembre 1915 — Marzo 1916.

Fine.


[294]

OPERE DI LUCIO D'AMBRA (Renato Manganella)

Romanzi e novelle.

Teatro.

I Vol. — L'Amore ricama, 1 atto — Acqua stagnante, 3 atti, — Castello di carte, 1 atto — Marionette, 1 atto — Fantasia, 1 atto — La destra e la sinistra, 1 atto.

II Vol. — La via di Damasco, 3 atti — Effetti di luce, 2 atti — Il Giardino d'Armida, 2 atti — Acqua acqua, fuoco fuoco, 1 atto.

III Vol.[1]Il Bernini, 4 atti, in versi — Goffredo Mameli, 5 atti, in versi — Il Matrimonio improvviso, 3 atti.

IV Vol. — Gli Angeli Custodi, 3 atti — I miei amici di Sans-Souci, 1 atto — Gli Esuli, 4 atti.

V Vol. — La Diva della Scala, 4 atti — La Frontiera, 3 atti.

Critica.

1.  In collaborazione con Giuseppe Lipparini.

Finito di stampare
il 24 Giugno 1918
nel
Premiato Stabilimento Tipografico
Licinio Cappelli
in Rocca San Casciano

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






End of the Project Gutenberg EBook of Il "Damo viennese", by Lucio D'Ambra

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL "DAMO VIENNESE" ***

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