The Project Gutenberg EBook of Il Comento alla Divina Commedia, e gli
altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio

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Title: Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante (vol. 2 of 3)

Author: Giovanni Boccaccio

Editor: Domenico Guerri

Release Date: December 7, 2014 [EBook #47565]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

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NOTE DEL TRASCRITTORE:

—Corretti gli ovvii errori tipografici e di punteggiatura.

—Sono state estrapolate dallʼindice generale dei nomi le voci riguardanti il presente volume; lʼindice completo (senza link) è stato mantenuto nel terzo volume.

—La copertina è stata creata dal trascrittore usando il frontespizio dellʼopera originale; lʼimmagine è posta in pubblico dominio.

[i]
[ii]
[iii]

SCRITTORI DʼITALIA


G. BOCCACCIO

OPERE VOLGARI

XIII


[iv]

GIOVANNI BOCCACCIO

IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA

E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE

A CURA DI

DOMENICO GUERRI

VOLUME SECONDO

BARI

GIUS. LATERZA & FIGLI

TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI

1918

[v]


PROPRIETÁ LETTERARIA


GIUGNO MCMXVIII—49327

[1]

III

CONTINUAZIONE

DEL

COMENTO ALLA “DIVINA COMMEDIA”


[2]
[3]

CANTO QUARTO

I

Senso Letterale

[Lez. XI]

«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. Nel principio del presente canto, sí come usato è lʼautore, alle cose dette nella fine del precedente si continua. Dissesi nella fine del precedente canto come un vento balenò una luce vermiglia, la quale, toltogli ogni sentimento, il fece cadere, come lʼuomo il quale è preso dal sonno; per che, nel principio di questo, dimostra come questo suo sonno gli fosse rotto. E dividesi questo canto in due parti: nella prima dimostra come rotto gli fosse il sonno e come nello ʼnferno si ritrovasse; nella seconda, procedendo dietro a Virgilio, racconta sé avere molti spiriti veduti, pieni di gravi e cocenti sospiri, senza alcuna altra visibile pena. E questa seconda comincia quivi: «Or discendiam quaggiú nel cieco mondo».

Dice adunque nella prima parte cosí: «Ruppemi». Questo vocabolo suona violenza, volendo in ciò dimostrare che ogni atto, che in inferno si fa, sia violento e non naturale. La qual cosa non è senza cagione, la quale è questa: giusta cosa è che chi, peccando, fece violenza aʼ comandamenti e aʼ piaceri di Dio in questa vita, violentemente sia daʼ ministri della giustizia punito nellʼaltra.

[4]

«Lʼalto sonno». Il sonno, secondo che ad alcuno pare, è un costrignimento del caldo interiore e una quiete diffusa per li membri indeboliti dalla fatica; altri dicono il sonno essere un riposo delle virtú animali, con una intensione delle virtú naturali. Del qual, volendo i suoi effetti mostrare, scrive Ovidio cosí:

Somne, quies rerum, placidissime somne deorum,
pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
fessa ministeriis mulces, reparasque labori, ecc.

E, appresso costui, assai piú pienamente ne scrive Seneca tragedo, in tragedia Herculis furentis, dove dice:

.....tuque o domitor,

somne, malorum, requies animi,
pars humanae melior vitae,
volucer, matris genus Astreae,
frater durae languidae Mortis,
veris miscens falsa, futuri
certus et idem pessimus auctor:
pater o rerum, portus vitae,
lucis requies noctisque comes,
qui par regi famuloque venis,
placidus, fessum lenisque fovens:
pavidum Leti genus humanum
cogis longam discere mortem, ecc.

Di costui ancora Ovidio nel suo maggior volume discrive la casa, la camera e il letto e la sua famiglia, se quella per avventura alcun disiderasse.

«Nella testa». La testa è alcuna volta posta per quella parte del viso, la qual noi chiamiamo «fronte», e alcuna volta per tutto il capo; e cosí in questo luogo intende lʼautore, percioché nel capo dimora il sonno causato daʼ vapori surgenti dallo stomaco e saglienti per lʼarterie al cerebro.

«Un greve tuono». È il tuono quel suono il quale nasce daʼ nuvoli, quando sono per violenza rotti; e causasi il tuono da esalazioni della terra fredde e umide e da esalazioni calde[5] e secche, sí come Aristotile mostra nel terzo libro della sua Meteora; percioché, essendo lʼesalazioni calde e secche dalle fredde e umide circundate, sforzandosi quelle dʼuscir fuori e queste di ritenerle, avviene che, per lo violento moto delle calde e secche, elle sʼaccendono, e, per quella virtú aumentata, assottiglian tanto la spessezza della umiditá, chʼella si rompe, ed in quel rompere fa il suono, il qual noi udiamo. Il quale è tanto maggiore e piú ponderoso, quanto la materia della esalazione umida si truova esser piú spessa quando si rompe. La qual cosa intervenir non può in quello luogo dove lʼautore disegna che era, percioché in quello non possono esalazioni surgere che possano tuono causare: per che assai chiaro puote apparere lʼautore per questo «tuono» intendere altro che quello che la lettera suona, sí come giá è stato mostrato nellʼallegoria del precedente canto.

«Sí, chʼio mi riscossi, Come persona chʼè per forza desta». E in queste parole mostra ancor lʼautore gli atti infernali tutti essere violenti. «E lʼocchio riposato». Dice «riposato» percioché prima invano si faticherebbe di guardare chi è desto per forza, se prima alquanto non fosse lo stupore dello essere stato desto, cessato; conciosiacosaché non solamente lʼocchio, ma ciascun altro senso nʼè incerto di sé divenuto. «Intorno mossi, Dritto levato»: in questo dimostra lʼautore il suo reducere i sensi nelli loro debiti ufici; «e fiso riguardai», le parti circustanti: ed a questo segue la cagione perché ciò fece, cioè «Per conoscer lo loco, dovʼio fossi», percioché quello non gli pareva dove il sonno lʼavea preso.

«Vero è»: qui dimostra dʼaver conosciuto il luogo nel quale era, e dimostra qual fosse, dicendo «che in sulla proda io mi trovai», cosí desto, «Della valle dʼabisso dolorosa», sopra la quale come esso pervenisse è nella fine del senso allegorico del precedente canto mostrato: «Che tuono accoglie dʼinfiniti guai», cioè un romore tumultuoso ed orribile simile a un tuono. «Oscura», allʼapparenza, «profonda era», allʼesistenza, «e nebulosa», per la qual cosa, oltre allʼoscuritá, era noiosa agli occhi; «Tanto che per ficcare», cioè agutamente mandare, «il[6] viso», cioè il senso visivo, «a fondo», cioè verso il fondo, «Io non vi discerneva alcuna cosa». Pur dunque alcuna cosa vi vedea, ma quello che fosse non discerneva, per la grossezza delle tenebre e della nebbia.

—«Or discendiam quaggiú nel cieco mondo». In questa seconda parte del presente canto dimostra lʼautore per una medesima colpa, cioè per non avere avuto battesimo, tre maniere di genti essere dannate; e questa si divide in due parti: nella prima dichiara delle due maniere deʼ predetti; nella seconda scrive della terza. E comincia la seconda quivi: «Non lasciavam lʼandar», ecc. Nella prima parte lʼautore fa due cose: primieramente discrive la pena delle tre maniere di genti di sopra dette, e pone delle due, delle quali lʼuna dice essere stati infanti, cioè piccioli fanciulli, lʼaltra dice essere stati uomini e femmine. Nella seconda muove un dubbio a Virgilio, il quale Virgilio gli solve. E comincia questa seconda quivi:—«Dimmi maestro mio», ecc.

Dice adunque cosí:—«Or discendiam», percioché in quel luogo sempre infino al centro si diclina; «quaggiú nel cieco mondo»,—cioè in inferno, il qual pertanto dice esser «cieco», percioché alcuna natural luce non vʼè: «Cominciò il maestro», cioè Virgilio, «tutto smorto», cioè pallido oltre lʼusato. È il vero che lʼuomo impallidisce per lʼuna delle tre cagioni, o per infermitá di corpo (nella quale intervengono le diminuzioni del sangue, le diete e lʼaltre evacuazioni, le quali vanno a tôrre il vivido colore), o per paura, o per compassione. E qui, come appresso si dirá, Virgilio, discendendo giú, impallidí per compassione.—«Io sarò primo», cioè andrò avanti, «e tu sarai secondo»,—cioè mi seguirai; volendo, per questo ordine dellʼandare, renderlo piú sicuro, in quanto colui, che va davanti, trova prima ogni ostacolo, il quale lʼandare impedisce, e quello rimuove, se egli è buono e valoroso duca.

«Ed io, che del color», pallido di Virgilio, «mi fui accorto», riguardandolo nel viso, «Dissi:—Come verrò», io appresso, «se tu», che vai avanti ed haʼ mi fatto vedere di menarmi salvamente, «paventi», cioè hai paura, «Che suogli al mio[7] dubbiare esser conforto»? sí come nel primo canto appare, dove tu mi levasti dinanzi a quella lupa, e nel secondo canto, dove tu dellʼanimo cacciasti la viltá sopravvenutavi.—

«Ed egli», cioè Virgilio, «a me», disse:—«Lʼangoscia delle genti», onorevoli e dʼalta fama, «Che son quaggiú», in questo primo cerchio dello ʼnferno, «nel viso mi dipigne», cioè colora, «Quella pietá», cioè compassione, «che tu per téma», cioè per paura, «senti», cioè estimi che sia per paura. Altri vogliono che il senso di questa lettera sia questo: percioché tu senti te pauroso, tu estimi da questo mio colore che io similmente abbia paura; ma non è cosí: io son pallido per compassione, ecc. La prima esposizione mi piace piú.

«Andiam», confortalo ad andare, e dimostragli la cagione dicendo: «ché la via lunga ne sospigne»—a dover andare. «Cosí si mise», procedendo, «e cosí mi feʼ entrare», seguendolo io, «Nel primo cerchio», cioè nel limbo, «che lʼAbisso», cioè inferno, «cigne», cioè attornia.

«Quivi», in quel primo cerchio, «secondo che per ascoltare», potea comprendere, «Non avea pianto mai», cioè dʼaltro, «che di sospiri». È il sospiro una esalazione che muove dal cuore, da alcuna noia faticato, il quale il detto cuore, per agevolamento di sé, manda fuori; e, se cosí non facesse, potrebbe lʼangoscia, ritenuta dentro, tanto ampliarsi e tanto gonfiare dʼintorno a lui, che ella potrebbe interchiuder sí lo spirito vitale, che il cuore perirebbe; e, percioché la quantitá dellʼangoscia di quelle anime, che eran laggiú, era molta, pare i sospiri dovere essere molti, e con impeto mandati fuori. Per la qual cosa convien che segua quello che appresso dice, cioè: «Che lʼaura eterna», in quanto non si muta la qualitá di quella aura (ed è «aura» un soave movimento dʼaere: per questa cagione non credo voglia dire il testo «aura», percioché alcuna soavitá non ha in inferno, anzi vʼè ogni moto impetuoso e noioso; e quinci credo voglia dire «aere eterno»), «facevan», glʼimpeti deʼ sospiri, «tremare», cioè avere un movimento non maggiore che il tremare.

«E ciò avvenía», cioè questo sospirare, «da duol senza martiri». Non eran dunque quelle anime, che quivi erano, da[8] alcuna pena estrinseca stimolate, ma solamente da affanno intrinseco, il quale si causava dal conoscimento della lor miseria, vedendosi private della presenza di Dio, non per loro colpa o peccato commesso, ma per lo non avere avuto battesimo, come appresso si dice. «Che avean le turbe», cioè moltitudini, «chʼeran grandi, Dʼinfanti», cioè di pargoli, li quali «infanti» si chiamano, percioché ancora non eran venuti ad etá che perfettamente potesson parlare (e questa è lʼuna delle due maniere di genti, delle quali dissi che lʼautor trattava in questa parte), «e di femmine e di viri», cioè dʼuomini (e questa è lʼaltra maniera, in tanto dalla prima differenti, in quanto i primi morirono infanti, come detto è, e questi secondi morirono non battezzati in etá perfetta). [Li quali una medesima cosa direi loro essere e glʼinfanti, se quella copula, la quale vi pone quando dice: «Dʼinfanti e di femmine e di viri», non mi togliesse da questa opinione. E la ragion che mi moverebbe sarebbe questa; percioché io non estimo che da creder sia, quantunque nella presente vita glʼinfanti in tenerissima etá morissono, che essi sieno, al supplicio, in quella etá, cioè in quello poco o nullo conoscimento; anzi credo sia da credere loro essere in quello intero conoscimento che è qualunque degli altri, che piú attempati morirono: la qual perfezione del conoscimento credo sia lor data in tormento e in noia, e non in alcuna consolazione, come a noi mortali, quando bene usare il vogliamo, è conceduto.]

«Lo buon maestro», cioè Virgilio (il quale in questa parte, per ammaestrarlo che domandar dovesse quando alcuna cosa vedesse nuova e da doverne meritamente addomandare, o forse per assicurarlo al domandare; percioché nel precedente canto, perché non gli parve che Virgilio tanto pienamente al suo domando gli rispondesse, vergognandosi sospicò non grave fosse a Virgilio lʼessere domandato, per che poi dʼalcuna cosa domandato non lʼavea) «a me» disse:—«Tu non dimandi, Che spiriti son questi, che tu vedi»? qui che sospirando si dolgono. Ed appresso fa come il buon maestro dee fare, il quale, vedendo quello di che meritamente può dubitare il suo auditore, gli si[9] fa incontro, col farlo chiaro di ciò che lʼuditore addomandar dovea, e dice: «Or voʼ che sappi, avanti che piú andi, Chʼeʼ non peccâro», questi spiriti che tu vedi qui; «e sʼegli hanno mercedi», cioè se essi adoperarono alcun bene il quale meritasse guiderdone, «Non basta», cioè non è questo bene avere adoperato sufficiente alla loro salvazione: e la cagione è, «perchʼeʼ non ebber battesmo». E questo nʼè assai manifesto per lo Evangelio, dove Cristo parlando a Nicodemo dice: «Amen, amen, dico tibi, nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non potest intrare in regnum Dei». È adunque il battesimo una regenerazion nuova, per la quale si toglie via il peccato originale, del quale tutti, nascendo, siamo maculati, e divegnamo per quello figliuoli di Dio, dove davanti eravamo figliuoli delle tenebre; e fa questo sacramento valevoli le nostre buone operazioni alla nostra salute, dove senza esso son tutte perdute, sí come qui afferma lʼautore. «Chʼè parte della fede, che tu credi», cioè della fede cattolica; e però dice che è «parte» di quella, percioché gli articoli della fede son dodici, deʼ quali dodici è il battesimo uno.

Appresso questo risponde Virgilio ad una questione, la quale esso medesimo muove, dicendo: «E se pur fûr», costoro deʼ quali noi parliamo, «dinanzi al cristianesmo», cioè avanti che Cristo per le sue opere e per li suoi ammaestramenti introducesse questa fede, e mostrasse il battesimo essere necessario a volere aver vita eterna; perciò son perduti, perché «Non adorar debitamente Iddio». E in tanto non lʼadoraron debitamente, in quanto non dirittamente sentivano di Dio, cioè lui essere una deitá in tre persone, lui dover venire a prendere carne per la nostra redenzione; non sentirono deʼ comandamenti dati da lui al popol suo, neʼ quali, ben intesi, stava la salute di coloro, li quali avanti alla sua incarnazione furono suoi buoni e fedeli servidori; ma adoravano Iddio secondo loro riti, del tutto deformi al modo nel quale Iddio voleva essere adorato e onorato. «E di questi cotai», cioè che dinanzi al cristianesimo furono, «son io medesmo»: percioché Virgilio, si come in libro Temporum dʼEusebio si comprende, avanti la predicazion di[10] Cristo e il battesimo da lui introdotto morí, nel torno di quarantacinque anni; [né della venuta di Cristo nella Vergine, per quello che comprender si possa, sentí alcuna cosa: come che santo Augustino, in un sermone Della nativitá di Cristo, scriva lui avere la venuta di Cristo profetata neʼ versi scritti nella quarta egloga della sua Buccolica, dove dice:

Ultima Cumaei venit iam carminis aetas:
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo.
Iam redit et virgo, redeunt Saturnia regna:
iam nova progenies caelo delabitur alto.

Deʼ quali versi alcun santo non sente quello che forse vuole pretendere santo Augustino; e, se pure son di quegli che ʼl sentono (e per avventura santo Augustino medesimo), non credono lui avere inteso quello che esso medesimo disse, se non come fece Caifas, quando al popolo giudaico disse, per Cristo giá preso da loro, che «bisognava che uno morisse per lo popolo, accioché tutta la gente non perisse». Non adunque sentí Virgilio di Dio, come sentir si volea a chi volea avanti al cristianesmo salvarsi.]

«Per tai difetti», cioè per cose omesse, non per cose commesse, o vogliam dire per non avere avuto battesimo e per non aver debitamente adorato Iddio; «e non per altro rio», cioè per avere contro alle morali o naturali leggi commesso; «Semo perduti», cioè dannati a non dovere in perpetuo vedere Iddio; «e sol di tanto offesi, Che senza speme vivemo in disio»:—il quale disio non è altro che di vedere Iddio, nel quale consiste la gloria deʼ beati. E come che molto faticosa cosa sia il ferventemente disiderare, è, oltre a ciò, quasi fatica e noia importabile lʼardentemente disiderare e non conoscere né avere speranza alcuna di dover potere quello, che si disidera, ottenere: e perciò, quantunque prima facie paia non molto gravosa pena essere il disiderare senza sperare, io credo chʼella sia gravissima; e ancora piú se le aggiugne di pena, in quanto questo disiderio è senza alcuna intermissione.[11] «Gran duol mi prese al cuor quando lʼintesi», sí per Virgilio, e sí ancora «Peroché gente di molto valore», stati intorno agli esercizi temporali, «Conobbi», non qui, ma nel processo, quando coʼ cinque savi entrò nel castello sette volte cerchiato dʼalte mura, «che in quel limbo», cioè in quello cerchio superiore, vicino alla superficie della terra (chiamano gli astrologi un cerchio dello astrolabio, contiguo alla circunferenza di quello, e nel quale sono segnati i segni del zodiaco e i gradi di quegli, «limbo»; dal quale per avventura gli antichi dinominarono questo cerchio, percioché quasi immediatamente è posto sotto la circunferenza della terra), «eran sospesi», dallʼardore del lor desiderio.

—«Dimmi, maestro mio». Qui, dissi, cominciava la seconda particella della prima parte della seconda division principale, nella quale lʼautore muove una questione a Virgilio, ed esso gliele solve. Dice adunque: «Dimmi, maestro mio, dimmi, signore».—Assai lʼonora lʼautore per farselo benivolo, accioché egli piú pienamente gli risponda, che fatto non avea alla dimanda fattagli nel precedente canto: dopo la quale alcuna altra, che questa, infino a qui fatta non gli avea. [Ed intende, in questa domanda, non di voler sapere deʼ santi padri che da Cristo ne furon tratti, che dobbiam credere il sapea, ma per ciò fa la domanda, per sapere se in altra guisa che in questa, cioè che fatta fu per la venuta di Cristo, alcun altro nʼuscí mai: quasi per questo voglia farsi benivolo Virgilio, dandogli intenzione occultamente che, se alcuna altra via che quella che da Cristo tenuta fu, vi fosse, egli sʼingegnerebbe dʼadoperare di farne uscir lui e di farlo pervenire a salute.] «Cominciaʼ io, per volere esser certo Di quella fede, che vince ogni errore», cioè per sapere se quello era stato che per la nostra fede nʼè porto, cioè che Cristo scendesse nel limbo e traessene i santi padri. [Il che, quantunque creder si debba senza testimonio ciò che nella divina Scrittura nʼè scritto, son nondimeno di quegli che stimano potersi delle cose preterite domandare. Ma io per me non credo che senza colpa far si possa, percioché pare un derogare alla fede debita alle Scritture; e però cosí le cose[12] passate, come quelle che venir debbono, senza cercarne testimonianza dʼalcuno, si vogliono fermamente credere e semplicemente confessare].—«Uscicci mai», di questo luogo, «alcuno, o per suo merto», cioè per lʼavere con intera pazienza lungamente sostenuta questa pena, o per lʼavere sí nella mortal vita adoperato, che egli dopo alcuno spazio di tempo meritasse salute: «O per lʼaltrui», opera, [o fatta o che far si possa per lʼavvenire,] «che poi fosse beato?»—uscendo di qui e sagliendo in vita eterna.

«Ed eʼ», cioè Virgilio, «che ʼntese il mio parlar coverto», cioè intorno a quella parte, per la quale io, tacitamente intendendo, faceva la domanda generale, «Rispose:—Io era nuovo in questo stato». Dice «nuovo» per rispetto a quegli che forse migliaia dʼanni vʼerano stati, dovʼegli stato non vʼera oltre a quarantotto anni; percioché tanti anni erano passati dopo la morte di Virgilio, infino alla passion di Cristo, nel qual tempo quello avvenne che esso dee dire, cioè «Quando ei vidi venire», in questo luogo, «un possente», cioè Cristo, il quale Virgilio non nomina percioché nol conobbe. E meritamente dice «possente», percioché egli per propria potenza aveva quel potuto fare, che alcun altro non poté mai, cioè vincere la morte e risuscitare; avea vinta la potenza del diavolo, oppostasi alla sua entrata in quel luogo. Ed era, questo possente, «Con segno di vittoria incoronato». Non mi ricorda dʼavere né udito né letto che segno di vittoria Cristo si portasse al limbo, altro che lo splendore della sua divinitá; il quale fu tanto, che il luogo di sua natura oscurissimo egli riempiè tutto di luce: donde si scrive che «habitantibus in umbra mortis lux orta est eis».

«Trasseci lʼombra del primo parente», cioè dʼAdamo. [Adamo fu, sí come noi leggiamo nel principio quasi del Genesi, il primiero uomo il sesto di creato da Dio, e fu creato del limo della terra in quella parte del mondo, secondo che tengono i santi, che poi chiamata fu il «campo damasceno». Ed essendo da Dio la statura sua fatta di terra, gli soffiò nel viso, e in quel soffiare mise nel petto suo lʼanima dotata di libero arbitrio e di ragione, per la quale egli, il quale ancora era[13] immobile ed insensibile, divenne sensibile e mobile per se medesimo; e secondo che i santi credono, egli fu creato in etá perfetta, la quale tengono esser quella nella quale Cristo morí, cioè di trentatré anni. E lui cosí creato e fatto alla immagine di Dio, in quanto avea in sé intelletto, volontá e memoria, il trasportò nel paradiso terrestro, dove essendosi addormentato, nostro Signore non del capo né deʼ piedi, ma del costato gli trasse Eva, nostra prima madre, similemente di perfetta etá. La quale come Adamo desto vide, disse:—Questa è osso dellʼossa mie, e per costei lascerá lʼuomo il padre e la madre, ed accosterassi alla moglie.—La qualʼè tratta dal suo costato, per darne ad intendere che per compagna, non per donna né per serva dellʼuomo, lʼavea prodotta Iddio; e ad Adamo non per sollecitudine perpetua e guerra senza pace e senza triegua, come lʼodierne mogli odo che sono, ma per sollazzo e consolazione a lui la diede. E comandò loro che tutte le cose, le quali nel paradiso erano, usassero, si come produtte al lor piacere, ma del frutto dʼuno albero solo, il qual vʼera, cioè di quello «della scienza del bene e del male», sʼastenessero, percioché, se di quello gustassero, morrebbero: e quindi in cosí bello e cosí dilettevale luogo gli lasciò nelle lor mani. Ma lʼantico nostro nimico, invidioso che costoro prodotti fossero a dover riempiere quelle sedie, le quali per la ruina sua e deʼ suoi compagni evacuate erano, presa forma di serpente, disse ad Eva che, sʼella mangiasse del frutto proibito, ella non morrebbe, ma sʼaprirebbero gli occhi suoi e saprebbe il bene e il male e sarebbe simile a Dio. Per la qual cosa Eva, mangiato del frutto proibito, e datone ad Adamo, incontanente sʼapersero gli occhi loro, e cognobbero che essi erano ignudi: e fattesi alcune coperture di foglie di fico davanti, si nascosero per vergogna; e quindi, ripresi da Dio, furono cacciati di paradiso, e, nelle fatiche del lavorio della terra divenuti, ebbero piú figliuoli e figliuole. Ultimamente Adamo, divenuto vecchio, dʼetá di novecentotrenta anni si morí.]

[Ma qui son certo si moverá un dubbio, e dirá alcuno:—Tu hai detto davanti che ciò, che Iddio crea senza alcun mezzo,[14] è perpetuo; Adam fu creato da Dio senza alcun mezzo; come dunque non fu immortale?—A questo si può in questa forma rispondere: egli è vero che ciò, che Iddio senza mezzo crea, è perpetuo; ma è questo da intendere delle creature semplici, sí come furono e sono gli angioli, li quali sono semplicemente spiriti, come sono i cieli, le stelle, gli elementi, li quali tutti sono di semplice materia creati: ma lʼuomo non fu cosí; anzi fu creato di materia composta, sí come è dʼanima e di corpo, e perciò non è perpetuo come sono le predette creature.—Ma quinci può sorgere unʼaltra obiezione, e dirsi: egli è vero che lʼuomo è composto dʼanima e di corpo, e queste due cose amendue furon create da Dio; perchʼè dunque lʼanima perpetua, e ʼl corpo mortale? Dirò allora lʼanima essere stata da Dio composta di materia semplice, come furon gli angioli, ma il corpo non cosí; percioché non fu composto del semplice elemento della terra, senza alcuna mistura dʼaltro elemento, sí come dʼacqua: percioché della terra semplice non si sarebbe potuta fare la statura dellʼuomo, fu adunque fatta del limo della terra, avente alcuna mistura dʼacqua. Non che io non creda che a Dio fosse stato possibile averlo fatto di terra semplice, il quale di nulla cosa fece tutte le cose, ma la commistione deʼ corpi ne mostra quegli essere stati fatti di materia composta: e perciò, quantunque in perpetuo viva lʼanima, non séguita il corpo dovere essere perpetuo. Sarebbon di quegli che alla obiezione prima risponderebbono: Adamo aversi questa corruzione e morte deʼ corpi con la inobbedienza acquistata, avendolo Domeneddio, avanti il peccato, fatto accorto. Ma potrebbe qui dire alcuno: Adam peccò, e di perpetuo divenne mortale; gli angioli che peccarono, perché non divenner mortali? Alla quale obiezione è assai risposto di sopra: percioché, di semplice materia creati, non posson morire, se non come lʼanima nostra, la quale, quantunque peccasse col corpo dʼAdamo, non però la sua perpetuitá perdé, ma perdella il corpo, al quale, sí come a cosa atta a ricevere la morte, ella era stata minacciata da Dio. Ma questa è materia da molto piú sublime ingegno che il mio non è, e perciò, per la vera soluzione di tanto dubbio, si vuole[15] ricorrere, aʼ teologi ed aʼ sufficientissimi litterati, la scienza deʼ quali propriamente dintorno a cosí fatte quistioni si distende.]

«DʼAbél, suo figlio», cioè dʼAdam. Questi si crede che fosse il primiero uomo che morí, ucciso da Cain suo fratello per invidia. Leggesi nel Genesi Caino, il quale fu il primo figliuolo dʼAdam, essersi dato allʼagricoltura, e Abél, similmente figliuol dʼAdam e che appresso a Cain nacque, essere divenuto pastore: ed avendo questi due cominciato a far, prima che alcuni altri, deʼ frutti delle loro fatiche sacrificio a Dio, era costume di Cain, per avarizia, quando eran per far sacrificio, dʼeleggere le piú cattive biade, o che avessero le spighe vòte, o che fossero per altro accidente guaste, e di quelle sacrificare. Per la qual cosa non essendo il suo sacrificio accetto a Dio, come in quelle il fuoco acceso avea, incontanente il fummo di quel fuoco non andava diritto verso il cielo, ma si piegava e andavagli nel viso. Abél in contrario, quando a fare il sacrificio veniva, sempre eleggeva il migliore e il piú grasso agnello delle greggi sue, e quello sacrificava: di che seguiva che, essendo il sacrificio dʼAbél accetto a Dio, il fummo dello olocausto saliva dirittamente verso il ciclo. La qual cosa vedendo Caino, c avendone invidia, cominciò a portare odio al fratello; e un dí, con lui insieme discendendo in un loro campo, non prendendosene Abél guardia, Caino il ferí in su la testa dʼun bastone ed ucciselo.

«E quella di Noé». Dispiacendo a Domeneddio lʼopere degli uomini sopra la terra, e per questo essendo disposto a mandare il diluvio, conoscendo Noé essere buono uomo, diliberò di riservar lui, e tre suoi figliuoli e le lor mogli, e ordinògli in che maniera facesse unʼarca e come dentro vʼentrasse, e similemente quanti e quali animali vi mettesse; e, ciò fatto, mandò il diluvio, il quale fu universale sopra ogni altezza di monte, e tra ʼl crescere e scemare perseverò nel torno di dieci mesi. Ed essendo pervenuta lʼarca, la qual notava sopra lʼacque, sopra le montagne dʼErmenia, e non movendosi piú per lʼacque che scemavano, aperta una finestra, la quale era sopra lʼarca, mandò fuori il corvo: il qual non tornando,[16] mandò la colomba, e quella tornò con un ramo dʼulivo in becco: per la qual cosa Noé conobbe che il diluvio era cessato, e, uscito fuori dellʼarca, fece sacrificio a Dio. E appresso piantò la vigna, della qual poi nel tempo debito ricolto del vino, inebriò, e, addormentato nel tabernacolo suo, fu da Cam suo figliuolo trovato scoperto. Il quale, di lui beffatosi, il disse aʼ fratelli, a Sem e a Iafet, li quali, portato un mantello, ricopersero il padre; ed egli poscia, desto e risaputo questo, maladisse Cam. Ed essendo vivuto novecentocinquanta anni nella grazia di Dio, passò di questa vita.

«Di Moisé, legista ed ubbidiente». Moisé nacque in Egitto; ed essendo stato per lo re dʼEgitto comandato che tutti i figliuoli degli ebrei maschi fossero uccisi, e le femmine servate, avvenne che, percioché bello figliuolo era paruto alla madre, non lʼuccise, ma servollo tre mesi occultamente; ma poi, non potendolo piú occultare, fatto un picciolo vasello di giunchi e quello imbiutato di bitume, sí che passarvi lʼacqua dentro non poteva, il mise nel fiume; e lʼacqua menandolo giú, la sorella di lui seguitava il vasello per vedere che divenisse. Ed essendo per ventura la figliuola di Faraone con le sue femmine discesa al fiume per bagnarsi, vide questo vasello, e, fattolo prendere ad una delle sue femmine, lʼaperse, e, trovatovi dentro il picciol fanciullo che piangea, disse:—Questi dee essere deʼ figliuoli delle ebree.—Allora la fanciulla, che il vasello seguiva, disse:—Madonna, vuogli che io vada e truovi una ebrea che il balisca?—A cui la donna disse:—Vaʼ.—Ed ella andò e menò la madre medesima, la quale, come cresciuto lʼebbe, il rendé alla donna, la quale il nominò Moisé, quasi «tratto dallʼacqua», e a modo che figliuolo se lʼadottò. Moisé crebbe, ed avendo un egizio, perciochʼegli batteva un ebreo, ucciso, temendo del re, se nʼandò in Madian, e quivi coʼ sacerdoti di Madian si mise a stare, e prese per moglie una fanciulla chiamata Sefora: e dopo alcun tempo, secondo il piacer di Dio, venne davanti a Faraone, e comandògli che liberasse il popolo dʼIsrael della servitudine, nella quale il tenea. La qual cosa non volendo far Faraone, piú segni, secondo il comandamento di Dio, gli mostrò: ed[17] ultimamente, comandato agli ebrei che quelle cose, che accattar potessero dagli egizi, eʼ prendessero e seguitasserlo, ché egli gli menerebbe nella terra di promissione: il che fatto, e con loro messosi in via, e pervenuti al mare Rosso, quello percosse con la sua verga in dodici parti, sí come gli ebrei erano dodici tribi, ed in tante sʼaperse subitamente il mare, per le quali gli ebrei passarono salvamente, e gli egizi, che dietro a loro seguitandogli per quelle vie medesime si misero, rinchiuso, come passati furono gli ebrei, il mare, tutti annegarono. Guidò adunque Moisé costoro per lo diserto, e, per le sue orazioni, di manna furono nutricati in esso, e piovvero loro dal cielo coturnici; e percossa da Moisé con la verga una pietra, subitamente nʼuscí per divino miracolo un fiume dʼacqua di soavissimo sapore, del quale gli ebrei saziaron la sete loro; e, oltre a questo, esso ordinò loro il tabernacolo, nel quale dovessero sacrificare a Dio; ordinò i sacerdoti e li loro vestimenti, e similemente le vittime e gli olocausti; e diede loro i giudici, a udire e determinare le loro quistioni; e, oltre a ciò, salito in sul monte Sinai, e quivi dimorato in digiuni e penitenza quaranta dí, ebbe da Dio due tavole, nelle quali erano scritti i comandamenti della legge, la quale esso, disceso del monte, diede al popolo: e però il soprannomina lʼautore «legista». Alfine, dopo molte fatiche, morí nella terra di Moab, essendo dʼetá di centoventi anni, e fu seppellito nella valle della terra di Moab di contra a Segor: né fu alcuno che conoscesse il luogo della sua sepoltura.

«Abraam patriarca». Abraam fu figliuolo di Tara, e nacque in Ur cittá deʼ caldei, lʼanno quarantatré del regno di Nino, re dʼAssiria. Questi, per comandamento di Dio, insieme con Sara, sua moglie, venne in Canaan, e qui, essendo giá dʼetá di novantanove anni, avendo prima dʼAgar, serva egizia, avuto Ismael, generò in Sara giá vecchia, come annunziato gli fu dai tre li quali gli apparvero nella valle di Mambre, un figliuolo, il quale chiamò Isaac. E, avendogli comandato Iddio che gli facesse sacrificio del detto Isaac, con lui insieme, portando esso un fascio di legne in collo, e Abraam il fuoco e ʼl coltello in mano, nʼandò sopra una montagna, e quivi, essendo per uccidere il[18] figliuolo, per immolarlo secondo il comandamento dʼIddio, gli fu preso il braccio, e mostratogli un montone, il quale in una macchia di pruni era, ritenuto da quegli per le corna: come Iddio volle, veduto la sua obbedienza, lasciato il figliuolo, sacrificò il montone. Costui fu quegli che, vinti i re di Sogdoma, e riscosso Lot suo nipote, primieramente offerse per sacrificio pane e vino a Melchisedech, re e sacerdote di Salem; a costui fece Iddio la promessione di dare aʼ suoi discendenti la terra abbondante di latte e di miele. Il quale, essendo giá dʼetá di centosettantacinque anni, morí, e fu daʼ figliuoli seppellito nel campo dʼEfron deʼ figliuoli di Soar Itteo della regione di Mambre, il quale avea comperato in quello uso, quando morí Sara, sua moglie, daʼ figliuoli di Het. È costui chiamato «patriarca», da «pater», che in latino viene a dir «padre», e «arcos», che viene a dire «principe»: e cosí resulta «principe deʼ padri».

«E David re». Questi fu figliuolo di Iesse della tribú di Giuda; e levato giovane da guardare le pecore del padre, percioché ammaestrato era di sonare la cetera, venne al servigio di Saul re, il quale esso col suo suono alquanto mitigava dalla noia che il dimonio alcuna volta gli dava; ed essendo giovanetto andò a combattere con Golia filisteo, il quale aveva statura di gigante, e lui con la fionda, la quale ottimamente sapea adoperare, e con alquante pietre uccise: ondʼegli meritò la grazia del popolo, ed ebbe Micol, figliuola di Saul, per moglie. Racquistò lʼarca foederis, la quale al popolo dʼIsrael era stata per forza di guerra tolta; e fu valoroso uomo in guerra, e lunga persecuzione patí da Saul, al quale per invidia era venuto in odio; ultimamente, essendo daʼ filistei stato sconfitto Saul eʼ figliuoli in Gelboè, e quivi se medesimo avendo ucciso, fu in suo luogo coronato re. E nelle sue opere fu grato a Dio; e, avuti di piú femmine figliuoli, e invecchiato molto, si morí e lasciò in suo luogo re Salomone, suo figliuolo.

«E Israel», cioè Iacob, il quale fu figliuolo di Isaac: ed essendo prima del ventre della madre uscito Esaú, e per quello appartenendosi a lui le primogeniture, quelle acquistò con una scodella di lenti, la quale gli donò, tornando esso affamato da[19] cacciare. E tornandosi esso di Mesopotamia, dove, dopo la morte dʼIsaac, per paura dʼEsaú fuggito sʼera, sí come nel Genesi si legge, tutta una notte fece con un uomo da lui non conosciuto alle braccia; e, non potendo da quellʼuomo esser vinto, venendo lʼaurora, disse quellʼuomo:—Lasciami.—Al qual Giacob rispose di non lasciarlo, se da lui benedetto non fosse; il quale colui domandò come era il nome suo, a cui esso rispose:—Io son chiamato Iacob.—E quellʼuomo disse:—Non fia cosí: il tuo nome sará Israel, percioché, se tu seʼ forte contro Dio, pensa quello che tu potrai contro agli altri uomini.—E, toccatogli il nervo dellʼanca, gliele indebolí in sí fatta maniera, che sempre poi andò sciancato: per questa cagione i giudei non mangiano di nervo.

«Col padre», cioè Isaac, il quale fu figliuolo dʼAbraam, «e coʼ suoi nati», cioè di Iacob, li quali furono dodici, acquistati di quattro femmine: e daʼ quali li dodici tribi dʼIsrael ebbero origine, e ciascuna fu dinominata da uno di questi dodici, cioè da quello dal quale aveva origine tratta.

«E con Rachele, per cui tanto feʼ». Iacob, il quale avendo per li consigli di Rebecca, sua madre, ricevute tutte le benedizioni da Isaac, suo padre, le quali Esaú, quantunque per una minestra di lenti vendute gli avesse, come di sopra è detto, diceva che a lui appartenevano, sí come a primogenito, per paura di lui se nʼandò in Mesopotamia a Laban, fratello di Rebecca, sua madre. Il quale Laban avea due figliuole, Lia e Rachel: e piacendogli Rachel, si convenne con Laban di servirlo sette anni, ed esso, in luogo di guiderdone, fatto il servigio, gli dovesse dare per moglie Rachel: e, avendo sette anni servito, ed essendo celebrate le nozze, nelle quali credeva Rachel essergli data, la mattina seguente trovò che gli era stata da Laban, messa la notte preterita nel letto, in luogo di Rachel, Lia, la quale era cispa. Di che dolendosi al suocero, gli fu risposto che lʼusanza della contrada non pativa che la piú giovane si maritasse prima che colei che di piú etá fosse; ma, se servire il volesse, gli darebbe, in capo del tempo, similemente Rachel. Di che convenutisi insieme che esso servisse altri sette anni,[20] come serviti gli ebbe, gli fu da Laban conceduta Rachel. E questo è quello che lʼautore intende, quando dice: «Rachele, per cui tanto feʼ», cioè tanto tempo serví.

Fu questo Iacob buono uomo nel cospetto di Dio. E per fame fu costretto egli eʼ figliuoli eʼ nipoti di partirsi del paese di Cananea e dʼandarne in Egitto; lá dove Iosef, suo figliuolo, il quale esso per inganno degli altri figliuoli lungo tempo davanti credeva morto, era prefetto deʼ granai di Faraone; e quivi onoratamente ricevuto, giá vecchio dʼetá di cento dieci anni, morí. E fu il corpo suo con odorifere spezie seppellito in Egitto, avendo egli avanti la morte scongiurati i figliuoli che, quando da Dio vicitati fossero e nella terra di promissione tornassero, seco di quindi lʼossa sue ne portassero.

«E altri molti», sí come Eva, Set, Sara, Rebecca, Isaia, Ieremia, Ezechiel, Daniel, e gli altri profeti e Giovanni Batista, e simili a questi; «e fecegli beati», menandonegli in vita eterna, nella quale è vera e perpetua beatitudine. «E voʼ che sappi che dinanzi ad essi», cioè innanzi che costoro beatificati fossero, «Spiriti umani non eran salvati;»—e ciò era per lo peccato del primo parente, il quale ancora non era purgato: ma, tolta via quella colpa per la passione di Cristo, furon quegli, che bene aveano adoperato, liberati dalla prigione del diavolo, e aperta loro, e a coloro che appresso doveano venire e bene adoperare, la porta del paradiso.

[Lez. XII]

«Non lasciavam lʼandar». Questa è la seconda parte principale della seconda di questo canto, nella quale lʼautore dimostra come, procedendo avanti, pervenisse a vedere la terza spezie degli spiriti che in quel cerchio dimoravano. Ed in questa parte fa lʼautore quattro cose: nella prima dice sé aver veduto in quel luogo un lume; nella seconda dice come Virgilio da quattro poeti fu, tornando, ricevuto; nella terza dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel qual vide i magnifichi spiriti; nella quarta dice come egli e Virgilio dagli quattro poeti si partissero. La seconda comincia quivi: «Intanto voce»; la terza quivi: «Cosí andammo infino»; la quarta quivi: «La sesta compagnia».

[21]

Dice adunque: «Non lasciavam», Virgilio ed io, «lʼandar, perchʼei dicessi», cioè ragionasse; «Ma passavam», andando, «la selva tuttavia»; e, appresso questo, dichiara se medesimo qual selva voglia dire, dicendo: «La selva, dico, di spiriti spessi»; volendo in questo dare ad intendere quello luogo essere cosí spesso di spiriti come le selve sono dʼalberi.

«Non era lunga ancor la nostra via», cioè non cʼeravam molto dilungati, «Di qua dal sonno», il quale nel principio di questo canto mostra gli fosse rotto. Alcuna lettera ha: «Di qua dal suono»; ed allora si dee intendere questo «suono», per quello che fece il tuono il quale il destò. Ed alcuna lettera ha: «Di qua dal tuono», il quale di sopra dice che il destò. E ciascuna di queste lettere è buona, percioché per alcuna di esse non si muta né vizia la sentenza dellʼautore. «Quando io vidi un fuoco», un lume, «Che emisperio» (emisperio è la mezza parte dʼuna spera, cioè dʼun corpo ritondo come è una palla, del quale alcun lume, quantunque grande sia, non può piú vedere) «di tenebre vincía». Qui non vuole altro dir lʼautore, se non che quel fuoco, ovver lume, vinceva le tenebre, alluminandole della mezza parte di quello luogo ritondo, a dimostrare che questo lume non toccava quelle altre due maniere di genti, delle quali di sopra ha detto, percioché non furon tali, che per gran cose conosciuti fossero.

«Di lungi nʼeravamo», da questo lume, «ancora un poco; Ma non sí», nʼeravamo lontani, «che io non discernessi», per lo splendore di quel lume, «in parte», quasi dica non perciò appieno, «Che orrevol», cioè onorevole, «gente possedea», cioè dimorando occupava, «quel loco», nel quale eravamo.

—«O tu», Virgilio; e domanda qui lʼautore chi coloro sieno, li quali hanno luce, dove quegli, che passati sono, non lʼhanno: «che onori», col ben sapere lʼuna e col bene esercitar lʼaltra, «ogni scienza ed arte». [Capta qui lʼautore la benivolenza del suo maestro, commendandolo, e dicendo lui essere onoratore di scienza e dʼarte. Dove è da sapere che, secondo che scrive Alberto sopra il sesto dellʼEtica dʼAristotile, sapienza, scienza, arte, prudenza ed intelletto sono in cotal maniera[22] differenti, che la sapienza è delle cose divine, le quali trascendono la natura delle cose inferiori; scienza è delle cose inferiori, cioè della lor natura; arte è delle cose operate da noi, e questa propriamente appartiene alle cose meccaniche, e, se per avventura questa si prende per la scienza speculativa, impropriamente è detta «arte», in quanto con le sue regole e dimostrazioni ne costringe infra certi termini; prudenza è delle cose che deono essere considerate da noi, onde noi diciamo colui esser prudente, il quale è buono consigliatore; ma lʼintelletto si dee propriamente alle proposizioni che si fanno, sí come «ogni tutto è maggiore che la sua parte». Estolle adunque qui lʼautore Virgilio nelle due di queste cinque, dicendo che egli onora «scienza ed arte», bene e maestrevolmente operandole, sí come appare neʼ suoi libri, neʼ quali esso aglʼintelligenti si dimostra ottimamente aver sentito in filosofia morale e in naturale, il che aspetta alla scienza; ed oltre a ciò si dimostra mirabilmente avere adoperato in ciò che alla composizione deʼ suoi poemi o alle parti di quegli si richiede, usando in essi lʼartificio di qualunque liberale arte, secondo che le opportunitá hanno richiesto; e questo appartiene allʼarte non meccanica, ma speculativa. E perciò meritamente queste lode dallʼautore attribuite gli sono.]

«Questi chi sono, cʼhanno tanta orranza», cioè onoranza: il qual vocabolo per cagion del verso gli conviene assincopare, e dire, per «onoranza», «orranza»; «Che dal modo degli altri», li quali per infino a qui abbiam veduti, «gli diparte?»—in quanto hanno alcuna luce, dove quegli, che passati sono, non hanno.

«E quegli», cioè Virgilio, disse «a me:—Lʼonrata», cioè lʼonorata, «nominanza»; puossi qui «nominanza» intender per «fama»; «Che di lor suona su nella tua vita», nella quale questi cotali, sí nelle scritture degli antichi, e sí ancora neʼ ragionamenti deʼ moderni, raccordati sono; «Grazia», singulare, «acquista nel ciel», da Dio, «che sí gli avanza», oltre a quegli che senza luce lasciati abbiamo.—[Intorno alla qual risposta dobbiamo sapere aver luogo quello che della divina giustizia si dice, cioè che ella non lascia alcun male impunito, né alcun bene inremunerato: percioché questi, deʼ quali lʼautor domanda, sono[23] genti, le quali tutte, virtuosamente ed in bene della republica umana, quanto al moral vivere, adoperarono; ma, percioché non conobbero Iddio, non fecero le loro buone operazioni per Dio, e per questo non meritarono lʼeterna gloria, la quale Iddio concede per merito a coloro che, avendo rispetto a lui, adoperan bene; ma nondimeno, percioché bene adoperarono e dispiacquero loro i vizi e le mal fatte cose, quantunque il rispetto per ignoranza non fosse buono, pur pare che essi di ciò alcun premio meritino. Il qual è, secondo la ʼntenzion di Virgilio, che la giustizia di Dio renda loro in sofferire che essi per fama vivano nella presente vita; per che bene dice esso Virgilio, che la loro onorata nominanza, delle operazioni ben fatte da loro, acquista grazia nel cielo, la quale concede loro lume, dove agli altri nol concede.]

«Intanto voce fu». Dissi qui cominciare la seconda parte della seconda principale, nella qual mostra Virgilio essere stato da quattro poeti onoratamente ricevuto; e dice: «Intanto», cioè mentre Virgilio mi rispondeva alla domanda fatta, come di sopra appare, «voce». A differenza del suono, è la voce propriamente dellʼuomo, in quanto esprime il concetto della mente, quando è prolata; ogni altra cosa per la bocca dellʼuomo, o dʼalcun altro animale, o di qualunque altra cosa, è [o] suono [o sufolo]: e questi suoni hanno diversi nomi, secondo la diversitá delle cose dalle quali nascono. «Fu per me», cioè da me, «udita», cosí fatta:—«Onorate lʼaltissimo poeta»; e questa, per quello che poi segue, mostra che detta fosse, da chi che se la dicesse, a quegli quattro poeti che poi incontro gli si fecero. Ed assai onora qui Dante Virgilio in quanto dice «altissimo», il quale adiettivo degnamente si confá a Virgilio, percioché egli di gran lunga trapassò in iscienza ed in arte ogni latin poeta, stato davanti da lui, o che poi per infino a questo tempo stato sia. «Lʼombra sua», cioè di Virgilio, «torna, chʼera dipartita»,—quando andò al soccorso dellʼautore, come di sopra è dimostrato.

«Poi che la voce», giá detta, «fu ristata e queta, Vidi quattro grandʼombre», non di statura, ma grandi per dignitá,[24] «a noi venire», come lʼuno amico va a ricoglier lʼaltro, quando dʼalcuna parte torna: «Sembianza avevan né trista né lieta». In questa discrizione della sembianza di questi poeti, dimostra lʼautore la gravitá e la costanza di questi solenni uomini; percioché costume laudevole è deʼ maturi e savi uomini non mutar sembiante per cosa che avvegna o prospera o avversa, ma con eguale e viso e animo le felicitá e le avversitá sopravvegnenti ricevere; percioché chi altrimenti fa, mostra sé esser di leggiere animo e di volubile.

«Lo buon maestro», Virgilio, «cominciò a dire:—Mira colui con quella spada in mano». È la spada un istrumento bellico, e però per quella vuol dare lʼautore ad intendere di che materia colui, che la portava, cantasse: e però a lui, e non ad alcun degli altri, la discrive in mano, percioché il primo fu che si creda in istilo metrico scrivesse di guerre e di battaglie, e per conseguente pare che, chi dopo lui scritto nʼha, lʼabbia avuto da lui. «Che vien dinanzi aʼ tre», poeti che ʼl seguono, «sí come sire», cioè signore e maggiore.

«Egli è Omero poeta sovrano». Dellʼorigine, della vita e degli studi dʼOmero, secondo che diceva Leon tessalo, scrisse un valente uomo greco, chiamato Callimaco, piú pienamente che alcun altro: nelle scritture del quale si legge che Omero fu dʼumile nazione; percioché in Ismirna, in queʼ tempi nobile cittá dʼAsia, il padre di lui in publica taverna fu venditore di vino a minuto, e la madre fu venditrice dʼerbe nella piazza, come qui fra noi son le trecche; nondimeno, come che in Ismirna i suoi parenti facessero i predetti esercizi, non si sa certamente di qual cittá esso natio fosse. È il vero che, per la sua singular sufficienza in poesi, sette nobili cittá di Grecia insieme lungamente ebber quistione della sua origine, affermando ciascuna dʼesse, e con alcune ragioni dimostrando, lui essere stato suo cittadino; e le cittá furon queste: Samos, Smirne, Chios, Colofon, Pilos, Argos, Atene. E alcune di queste furono, le quali gli feciono onorevole e magnifica sepoltura, quantunque fittizia fosse; e ciò fecero per rendere con quella a coloro, li quali non sapevano dove stato si fosse seppellito, testimonianza[25] lui essere stato suo cittadino; e quegli di Smirne, non solamente sepoltura, ma gli fecero un notabile tempio, nel quale non altrimenti che se del numero deʼ loro iddii stato fosse, secondo il loro errore, onorarono la sua memoria per molte centinaia dʼanni. Fu nondimeno dai piú reputato che egli fosse ismirneo; o peroché, come detto è, in Smirne fu allevato, dimorandovi il padre e la madre di lui, o che di ciò gli smirnei mostrassero piú chiara testimonianza che gli altri dellʼaltre cittá; e cosí mostra di credere Lucano dove dice:

Quantum Smirnaei durabunt vatis honores,

dicendo dʼOmero.

Fu questo valente uomo, secondo Callimaco, nominato Omero per lo vaticinio di lui detto da un matematico, il quale per avventura intervenne, nascendo egli, il quale disse:—Colui che al presente nasce morrá cieco;—e per questo fu dal padre nominato Omero. Il quale nome è composto ab «o», che in latino viene a dire «io», e «mi», che in latino viene a dire «non», ed «ero», che in latino viene a dire «veggio»: e cosí tuttʼinsieme viene a dire «io non veggio»; e, come nel processo apparirá, secondo il vaticinio morí cieco. Questi dalla sua fanciullezza, aiutandolo come poteva la madre, si diede agli studi; e, udite sotto diversi dottori le liberali arti, lungo tempo udí sotto un poeta chiamato Pronapide, chiarissimo in quei tempi in quella facultá; e appresso questo, partitosi di Grecia, seguendo i famosi studi, se nʼandò in Egitto, dove sotto molti valenti uomini udí poesia e filosofia e altre scienze, e massimamente sotto un filosofo chiamato Falacro, in quegli tempi sopra ogni altro famoso; ed in Egitto perseverò nel torno di venti anni, con maravigliosa sollecitudine; e quindi poi se ne tornò in Arcadia, dove per infermitá perdé il vedere. E cieco e povero si crede che componesse nel torno di tredici volumi variamente titolati, e tutti in istilo eroico, deʼ quali si trovano ancora alquanti, e massimamente la Iliade, distinta in ventiquattro libri, nella quale tratta delle battaglie deʼ greci e deʼ troiani infino alla morte[26] dʼEttore, mirabilmente commendando Achille. Compose similmente lʼOdissea, in ventiquattro libri partita, nella quale tratta gli errori dʼUlisse, li quali dieci anni perseverarono dopo il disfacimento di Troia. Scrisse similmente un libro delle laude deglʼiddii, il cui titolo non mi ricorda dʼaver udito. Scrisse ancora un libro, distinto in due, nel quale scrisse una battaglia, ovvero guerra, stata tra le rane eʼ topi, la qual non finse senza maravigliosa e laudevole intenzione. Compose, oltre a ciò, un libro della generazion deglʼiddii, e composene uno chiamato Egam, la materia del quale non trovai mai qual fosse; e similmente piú altri infino in tredici, deʼ quali il tempo ogni cosa divorante, e massimamente dove la negligenza degli uomini il permetta, ha non solamente tolta la notizia delle materie, ma ancora li loro nomi nascosi, e spezialmente a noi latini. E, accioché questo non sia pretermesso, in tanto pregio fu la sua Iliade appo gli scienziati e valenti uomini, che, avendo Alessandro macedonio vinto Dario re di Persia, e presa Persida reale cittá, trovò in essa tanto tesoro che, vedendolo, obstupefece; ed essendo in quello molti e carissimi gioielli, trovò tra essi una cassetta preziosissima per maestero e carissima per ornamento di pietre e di perle; e coʼ suoi baroni, sí come scrive Quinto Curzio, il quale in leggiadro e laudevole stilo scrisse lʼopere del detto Alessandro, come cosa mirabile riguardandola, domandò qual cosa di quelle, che essi sapessero, paresse loro piú tosto che alcuna altra da servare in cosí caro vasello. Non vʼebbe alcuno che la real corona o lo scettro o altro reale ornamento dicesse; ma tutti con Alessandro insieme in una sentenza concorsono, cioè che sí preziosa cassa cosa alcuna piú degnamente serbar non potea che la Iliada dʼOmero: e cosí a servar questo libro fu deputata.

[Fu Omero nel mangiare e nel bere moderatissimo, e non solamente fu di breve e poco sonno, ma quello prese con gran disagio; percioché, o povertá o astinenza che ne fosse cagione, il suo dormire era in su un pezzo di rete di funi, alquanto sospeso da terra, senza alcuni altri panni. Fu, oltre a ciò, poverissimo tanto, che, essendo cieco, non aveva di che potesse[27] dare le spese ad un fanticello che il guidasse per la via, quando in parte alcuna andar volesse: e la sua povertá era volontaria, percioché delle temporali sustanze niente si curava. Fu di piccola statura, con poca barba e con pochi capelli; di mansueto animo e dʼonesta vita e di poche parole. Fu, oltre a ciò, alcuna volta fieramente infestato dalla fortuna, e, tra lʼaltre, essendo in Atene ed avendo parte della sua Iliade recitata, il vollero gli ateniesi lapidare, percioché in essa, poeticamente parlando, aveva scritto glʼiddii lʼun contro allʼaltro aver combattuto, non sentendo gli ateniesi ancora quali fossero i velamenti poetici, né quello che per quelle battaglie deglʼiddii Omero sʼintendesse: e per questo, credendosi lui esser pazzo, il vollero uccidere; e, se stato non fosse un valente uomo e potente nella cittá, chiamato Leontonio, il quale dal furioso émpito degli ateniesi il liberò, senza dubbio lʼavrebbono ucciso. La quale bestiale ingiuria il povero poeta non lasciò senza vendetta passare, percioché, appresso questo, egli scrisse un libro il cui titolo fu De verbositate Atheniensium, nel quale egli morse fieramente i vizi degli ateniesi, mostrando nel vulgo di quegli nulla altra cosa essere che parole. E altra fiata, essendo chiamato da Ermolao, re ovvero tiranno dʼAtene, quasi sprezzandolo, disse che, per lui né per tutto il suo regno, non vorrebbe perdere una menoma sillaba dʼun suo verso, e che esso coʼ suoi versi possedeva maggior regno che Ermolao non faceva con la sua gente dʼarme. Per la qual cosa, turbato, Ermolao il fece prendere e crudelmente battere e poi metterlo in pregione; nella quale avendolo otto mesi tenuto, né per questo vedendolo piegarsi in parte alcuna dalla libertá dellʼanimo suo, il fece lasciare; né poté fare che con lui volesse rimanere.]

[Della morte sua, secondo che scrive Callimaco, fu uno strano accidente cagione; percioché, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito del mare, sentí pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano, forse tendendo o racconciando lor reti: li quali esso domandò se preso avessero, intendendo seco medesimo deʼ pesci. Costoro risposero che quegli, che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non aveano, se ne portavano.[28] Era stata fortuna in mare, e però, non avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è, sʼerano stati al sole, e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di queʼ vermini che in essi nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi, e quegli, che presi non aveano, essendosi neʼ vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la risposta deʼ pescatori, ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde, e fieramente nel cader percosse, e di quella percossa il terzo dí appresso si morí. Alcuni voglion dire che, non potendo intender la risposta fattagli daʼ pescatori, entrò in tanta maninconia, che una febbre il prese, della quale in pochi dí si morí, e poveramente in Arcadia fu seppellito; onde poi, portando gli ateniesi le sue ossa in Atene, in quella onorevolmente il seppellirono].

Fu adunque costui estimato il piú solenne poeta che avesse Grecia, né fu pure appo i greci in sommo pregio, ma ancora appo i latini in tanta grazia, che per molti eccellenti uomini si trova essere stato maravigliosamente commendato: e intra gli altri nel quinto delle sue Quistioni tusculane scrive Tullio cosí di lui: «Traditum est etiam Homerum caecum fuisse: at eius picturam, non poësin videmus. Quae regio, quae ora, qui locus Graeciae, quae species formae, quae pugna quaeque artes, quod remigium, qui motus hominum, qui ferarum non ita expictus est, ut quae ipse non viderit, nos ut videremus effecerit?», ecc. Né si sono vergognati i nostri poeti di seguire in molte cose le sue vestigie, e massimamente Virgilio; per la qual cosa meritamente qui il nostro autore il chiama «poeta sovrano».

[Fiorí adunque questo mirabile uomo, chiamato da Giustiniano cesare padre dʼogni virtú, secondo lʼopinione dʼalcuni, neʼ tempi che Melanto regnava in Atene, ed Enea Silvio regnava in Alba. Eratostene dice che egli fu cento anni poi che Troia fu presa. Aristarco dice lui essere stato dopo lʼemigrazion ionica cento anni, regnante Echestrato re di Lacedemonia e Latino Silvio re dʼAlba. Altri voglion che fosse dopo questo tempo detto, essendo Labot re di Lacedemonia ed Alba Silvio[29] re dʼAlba. Filocoro dice che egli fu aʼ tempi di Archippo, il quale era appo gli ateniesi nel supremo maestrato, cioè centonovanta anni dopo la presura di Troia. Archiloco dice che egli fu corrente la ventitreesima olimpiade, cioè cinquecento anni dopo il disfacimento di Troia. Apollodoro grammatico ed Euforbo istoriografo testimoniano Omero essere stato avanti che Roma fosse fatta, centoventiquattro anni: e, come dice Cornelio Nepote, avanti la prima olimpiade cento anni, regnante appo i latini Agrippa Silvio ed in Lacedemonia Archelao. Del quale per ciò cosí particulare investigazion del suo tempo ho fatta, perché comprender si possa, poi tanti valenti uomini di lui scrissero, quantunque concordi non fossero, ciò avvenuto non poter essere se non per la sua preeminenza singulare].

[Lez. XIII]

«Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia, e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre, il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio libri Temporum dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò Orazio in un[30] suo libro, il quale è nominato Ode. Compose, oltre a ciò, un libro chiamato Poetria, nel quale egli ammaestra coloro, li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle Pistole e nei Sermoni, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette anni, secondo Eusebio dice in libro Temporum, lʼanno trentasei dello ʼmperio dʼOttaviano Augusto.

«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama De tristibus, testimonia, dicendo:

Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui decies distat ab Urbe novem.

E, secondo che Eusebio in libro Temporum dice, egli nacque nella patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice nel detto libro:

Quidquid conabar scribere, versus erat.

Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:

Saepe pater dixit:—Studium quid inutile temptas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes.—

Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata[31] la patria, se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e, oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.

Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello che chiamiamo lʼEpistole. Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama Liber amorum, altri il chiamano Sine titulo: e può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis, cioè deʼ dí neʼ quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi De arte amandi, dove egli insegna e aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un altro, il quale intitolò De remedio, dove egli sʼingegna dʼinsegnare disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro De tristibus, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio dʼemendarlo.

Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar[32] maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello De tristibus, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibin. Composevi quello che egli intitola De Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.

La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come egli scrive nel libro De tristibus, mostra fosse lʼuna delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:

Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error.

La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:

Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?

Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi:

Alterius facti culpa silenda mihi est.

La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro De arte amandi, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.

[33]

Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far motto e festa, che nel mezzo di sé inconsideratamente stringendolo, il costrinse a morire.

«E lʼultimo è Lucano». Il nome di costui, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, fu Marco Anneo Lucano. Dove nascesse, o in Corduba, donde i suoi furono, o in Roma, non è assai chiaro. Fu figliuolo di Lucio Anneo Mela e dʼAtilla sua moglie; il quale Anneo Mela fu fratel carnale di Seneca morale, maestro di Nerone. Giovane uomo fu e di laudevole ingegno molto, sí come nel libro Delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, da lui composto, appare. Fu alquanto presuntuoso in estimare della sua sufficienza, oltre al convenevole; percioché si legge che, avendo egli alcuna volta con gli amici suoi conferito, leggendo, del suo libro, dovette una volta dire:—Che dite? mancaci cosa alcuna ad essere equale al Culice?—Culice fu un libretto metrico, il quale compose Virgilio, essendo ancora giovanetto: e posto che sia laudevole e bello, non è però da comparare allʼEneida: e quantunque Lucano il Culice nominasse, fu assai bene dagli amici compreso (in sí fatta maniera il disse) che egli voleva che sʼintendesse se alcuna cosa pareva loro che al suo lavoro mancasse ad essere equale allʼEneida; della qual cosa esso maravigliosamente se medesimo ingannò. Appresso fu costui, che cagion se ne fosse, assai male della grazia di Nerone, in tanto che per Nerone fu proibito che i suoi versi non fossono da alcun letti. Sono, oltre a ciò, e furono assai, li quali estimarono e stimano costui non essere da mettere nel numero deʼ poeti, affermando essergli stata negata la laurea dal senato, la quale come poeta addomandava: e la cagione dicono essere stata, percioché nel collegio dei poeti fu determinato costui non avere nella sua opera tenuto stilo poetico, ma piú tosto di storiografo metrico: e questo assai leggermente si conosce esser vero a chi riguarda lo stilo eroico dʼOmero o di Virgilio, o il tragedo di Seneca poeta, o il[34] comico di Plauto o di Terenzio, o il satiro dʼOrazio o di Persio o di Giovenale, con quello deʼ quali quello di Lucano non è in alcuna cosa conforme: ma come chʼeʼ si trattasse, maravigliosa eccellenza dʼingegno dimostra. Esso, ancora assai giovane uomo, fu da Nerone Cesare trovato essere in una congiurazione fatta contro a lui da un nobile giovane romano chiamato Pisone, con molti altri consenziente: e ritenuto per quella, avendo veduto, secondo che Cornelio Tacito scrive, una femmina volgare chiamata Epicari, avere tutti i tormenti vinti, e ultimamente uccisasi, avanti che alcun deʼ congiurati nominar volesse; non solamente alcuno nʼaspettò per non accusare se medesimo, ma eziandio non sofferse di vedere né i tormenti né i tormentatori, ma, come domandato fu se in questa congiurazione era colpevole, prestamente il confessò, e non solamente gli bastò dʼavere accusato sè, ma con seco insieme accusò Atilla sua madre. Per la qual cosa morto giá Lucio Anneo Seneca, suo zio, essendo a Marco Annenio commesso da Nerone che morire il facesse, si fece in un bagno aprir le vene; e, sentendo giá per lo diminuimento del sangue le parti inferiori divenir fredde, secondo che scrive il predetto Cornelio, ricordatosi di certi versi giá composti da lui dʼuno uom dʼarme, il quale per perdimento di sangue morire si vedeva, quegli aʼ circustanti raccontò, ed in quegli lʼultime sue parole e la vita finirono.

«Peroché ciascun», di questi quattro nominati, «meco si conviene», cioè si confá o è conforme, «nel nome che sonò la voce sola», cioè quella che dice che udí: «Onorate lʼaltissimo poeta». Nella qual voce «sola» non è alcun altro nome sustantivo se non «poeta»: nel qual nome dice questi quattro convenirsi con lui, in quanto ciascun di questi quattro è cosí chiamato poeta come Virgilio: ma in altro con lui non si convengono; percioché le materie, delle quali ciascun di loro parlò, non furono uniformi con quella di che scrisse Virgilio: in quanto Omero scrisse delle battaglie fatte a Troia e degli errori dʼUlisse, Orazio scrisse ode e satire, Ovidio epistole e trasformazioni, Lucano le guerre cittadine di Cesare e di Pompeo, e Virgilio scrisse la venuta dʼEnea in Italia e le guerre quivi[35] fatte da lui con Turno re deʼ rutoli. «Fannomi onore, e di ciò fanno bene». Convenevole cosa è onorare ogni uomo, ma spezialmente quegli li quali sono dʼuna medesima professione, come costoro erano con Virgilio.

«Cosí», come scritto è, «vidi adunar», cioè congregare, essendosi Virgilio congiunto con loro, «la bella scuola». «Scuola» in greco viene a dire «convocazione» in latino, percioché per essa son convocati coloro li quali disiderano sotto lʼaudienza deʼ piú savi apprendere; il qual vocabolo, conciosiacosaché sia alquanto discrepante da quello che lʼautore mostra di voler sentire, cioè non adunarsi la convocazione, ma i convocati, nondimeno tollerar si può per licenza poetica, ed intender per la «convocazione» i «convocati». «Di queʼ signor», cioè maestri e maggiori, «dellʼaltissimo canto», cioè del parlar poetico, il quale senza alcun dubbio ogni altro stilo trapassa, sí come nelle parole seguenti lʼautor medesimo dice. «Che sopra ogni altro come aquila vola». Cioè, come lʼaquila vola sopra ogni altro uccello, cosí il canto poetico, e massimamente quello di questi poeti, vola sopra ogni altro canto, e ancora sopra quello che alcun altro poeta da costoro in fuori avesse fatto: il che, posto che dʼalcuni, non credo di tutti si verificasse.

«E poi chʼegli ebber ragionato alquanto». Puossi qui comprendere per lʼatto seguitone, che dice si volson verso lui «con salutevol cenno», che essi ragionassero dellʼautore, domandando gli altri Virgilio chi fosse colui il quale seco menava: ed esso dicendolo loro, e commendando lʼautore molto (come i valenti uomini fanno, che sempre commendano coloro deʼ quali parlano, se giá non fossono evidentemente uomini infami); ne seguí ciò che appresso dice, cioè: «Volsonsi a me con salutevol cenno, E ʼl mio maestro sorrise di tanto», cioè rallegrossi, come colui al quale dilettava uomini di tanta autoritá aver prestata fede alle sue parole, e per quelle onorar colui, il quale esso commendato avea. È nondimeno qui da considerare la parola che dice, «sorrise», la qual molti prenderebbono non per essersi rallegrato, ma quasi schernendo quello aver fatto: la qual cosa del tutto non è da credere, percioché lʼautore[36] non lʼavrebbe scritto, né è verisimile il dottore farsi beffe deʼ suoi uditori; conciosiacosaché nellʼingegno deʼ buoni uditori consista gran parte dellʼonor del dottore; ma senza alcun dubbio puose lʼautore quella parola «sorrise» avvedutamente, e la ragione può esser questa. È il riso solamente allʼumana spezie conceduto: alcun altro animale non è che rida. E questo mostra avere la natura voluto, accioché lʼuomo, non solamente parlando, ma ancora per quello mostri lʼintrinsica qualitá del cuore, la letizia del quale prestamente, molto piú che per le parole, si dimostra per lo riso. È il vero che questo riso non in una medesima maniera lʼusano gli stolti che fanno i savi; percioché i poco avveduti uomini fanno le piú delle volte un riso grasso e sonoro, il quale rende la faccia deforme e fa lagrimar gli occhi e ampliar la gola e doler gli emuntori del cerebro e le parti interiori del corpo vicine al polmone; e questo non è laudevole. Ma i savi non ridono a questo modo, anzi, quando odono o veggono cosa che piaccia loro, sorridono, e di questo scintilla per gli occhi una letizia piacevole, la quale rende la faccia piú bella assai che non è senza quello. Per che assai ben comprender si puote, lʼautore aver detto Virgilio, come savio, aver sorriso di quello che a grado gli fu. Sono nondimeno alcuni che par talvolta che sorridano quando alcuna cosa scherniscono, o talvolta, sdegnando, si turbano. Questo non è da dir «sorridere», anzi è «ghignare»; e procede non da letizia, ma da malizia dʼanimo, per la qual ci sforziamo di volere frodolentemente mostrare che ci piaccia quello che ci dispiace.

«E piú dʼonore ancora assai mi fenno», cioè feciono, non essendo contenti solamente ad averlo salutato. E lʼonor che gli fecero fu questo: «Che eʼ mi fecer della loro schiera», cioè mi dichiariron fra loro esser poeta; e questo propriamente aspetta a coloro, li quali conoscono e sanno che cosa sia poesia, sí come uomini che in quella sono ammaestrati: e questo fu per certo solenne onore. «Sí chʼio fui sesto tra cotanto senno», cioè traʼ cinque altri cosí notabili poeti, io mi trovai essere stato sesto in numero; in sofficienza non dice, percioché[37] sarebbe paruto troppo superbo parlare. Molti nondimeno redarguiscono per questa parola lʼautor di iattanza, dicendo ad alcuno non star bene né esser dicevole il commendar se medesimo; la qual cosa è vera: nondimeno il tacer di se medesimo la veritá alcuna volta sarebbe dannoso; e perciò par di necessitá il commendarsi dʼalcun suo laudevole merito alcuna fiata. E questo nʼè assai dichiarato per Virgilio pel primo dellʼEneida, laddove esso discrive Enea essere stato sospinto da tempestoso mare nel lito affricano, dove non sapendo in che parte si fosse, e trovando la madre in forma di cacciatrice in un bosco, e da lei domandato chi egli fosse, il fa rispondere:

Sum pius Aeneas, fama super aethera notus.

Direm noi qui Virgilio, uomo pieno di tanto avvedimento e intento a dimostrare Enea essere stato in ciascuna sua operazione prudentissimo uomo, aver fatto rispondere Enea contro al buon costume? Certo no: Né è da credere lui senza gran cagione aver ciò fatto. Che dunque diremo? Che, considerato il luogo nel quale Enea era, gli fu di necessitá, rispondendo, di commendar se medesimo; percioché, se di sé quivi avesse taciuta la veritá, ne gli potea assai sconcio seguire, in quanto non sarebbe stato a cui caler di lui, che aveva bisogno, sí come naufrago, della sovvenzione deʼ paesani: il quale non è dubbio niuno, che, avendo di se medesimo detto il vero, cioè che egli non rubatore, non di vil condizione, ma che pietoso uomo era, e ancora molto per fama conosciuto, avrebbe molto piú tosto trovato che se questo avesse taciuto. E, accioché a provare questa veritá aiutino i divini esempli, mi piace di producere in mezzo quello che noi nello Evangelio leggiamo, cioè che Cristo figliuol di Dio, avendo il dí della sua ultima cena in terra lavati i piedi aʼ suoi discepoli, tra lʼaltre cose da lui dette loro in ammaestramento, disse queste parole:—«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene, percioché io sono».—Direm noi in questo Cristo aver peccato? o contro ad alcun buon costume avere adoperato? Certo no, percioché né in[38] questo né in altra cosa peccò giammai colui che era toglitore deʼ peccati, e che col suo preziosissimo sangue lavò le colpe nostre: anzi cosí questo come gli altri suoi atti tutti ottimamente fece; percioché, se cosí fatto non avesse, non avrebbe dato lʼesempio dellʼumiltá aʼ suoi discepoli, il quale lavando loro i piedi aveva inteso di dare, se confessato non avesse, anzi detto, esser loro maestro e signore, come il chiamavano. Il che assai si vede per le parole seguenti dove dice:—«E se io, il quale voi chiamate Maestro e Signore, e cosí sono, ho fatto questo di lavarvi i piedi: cosí dovrete voi lʼuno allʼaltro lavare i piedi. Io vʼho dato lʼesempio. Come io ho fatto a voi, e cosí similmente fate voi»,—ecc. Adunque è talvolta di necessitá di parlar bene di se medesimo, senza incorrere nel disonesto peccato della iattanza: e cosí si può dire che qui facesse lʼautore.

[Dissesi di sopra, nella esposizione del titolo generale della presente opera, però convenirsi cognoscere e sapere chi stato fosse lʼautore dʼalcun libro, per discernere se da prestar fosse fede alle cose dette da lui, la qual molto pende dallʼautoritá dʼesso. E perciò qui lʼautore, dovendo in questo suo trattato poeticamente scrivere dello stato dellʼanime dopo la morte temporale, accioché prestata gli sia fede, di necessitá confessa qui esser daʼ poeti dichiarato poeta.]

«Cosí andammo infino alla lumera». Questa è la terza parte della seconda principale, nella quale esso dice come con quegli cinque poeti entrasse in un castello, nel quale vide i magnifichi spiriti, e di quegli alquanti nomina. Dice adunque: «Cosí andammo», questi cinque poeti ed io, «infino alla lumera», cioè insino al luogo dimostrato di sopra, dove disse sé aver veduto un fuoco, il quale vinceva emisperio di tenebre; «Parlando», insieme, «cose, che il tacere è bello», cioè onesto, «Cosí come», era bello, «il parlar», di quelle cose, «colá dovʼera». Intorno a queste parole sono alcuni che si sforzano dʼindovinare quello che debbano poter aver ragionato questi savi: il che mi par fatica superflua. Che abbiam noi a cercar che ciò si fosse, poi che lʼautore il volle tacere? «Venimmo a piè dʼun nobile castello», cioè nobilmente edificato, «Sette volte[39] cerchiato dʼalte mura, Difeso intorno», cioè circundato, «dʼun bel fiumicello». «Questo», fiumicello, «passammo come terra dura», cioè non altrimenti che se terra dura stato fosse; «Per sette porti», le quali il castello avea, come sette cerchi di mura, «entrai con questi savi», predetti; «Venimmo», passate le sette porti, «in prato di fresca verdura». Allegoricamente è da intendere il castello e la verdura, percioché né edificio alcun vʼè, né alcunʼerba può nascere nel ventre della terra, dove né sole né aere puote intrare.

«Genti vʼavea». Venuti al luogo dove i famosi sono, discrive lʼautor primieramente alcuno deʼ lor costumi e modi, per li quali comprender si puote loro esser persone di grande autoritá, e appresso ne nomina una parte. Dice adunque: «Genti vʼavea», in quel luogo, «con occhi tardi e gravi». Dimostrasi molto nel muover degli occhi della qualitá dellʼanimo, percioché coloro, li quali muovono la luce dellʼocchio soavemente o con tarditá, o con le palpebre quasi gravi in parte gli cuoprono, dimostrano lʼanimo loro esser pesato neʼ consigli, e non corrente nelle diliberazioni. «Di grande autoritá neʼ lor sembianti», in quanto sono nel viso modesti, guardandosi dal superchio e grasso riso e dagli altri atti che abbiano a dimostrare levitá. «Parlavan rado», percioché nel molto parlare, se necessitá non richiede, e ancora nel troppo tosto e veloce parlare, non può esser gravitá; «con voci soavi», percioché il gridare e lʼelevar la voce soperchio si manifesta piú tosto abbondanza di cdldezza di cuore che modestia dʼanimo. «Traemmoci cosí dallʼun deʼ canti», cioè dallʼuna delle parti di quel luogo. E son prese queste parole dellʼautore da Virgilio nel sesto dellʼEneida, ove dice:

Conventus trahit in medios, turbamque sonantem:
et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
adversos legere, et venientum discere vultus, ecc.

«In luogo aperto», cioè senza alcun ostacolo, «luminoso e alto»; percioché, del pari, non si può vedere ogni cosa, «Sí che veder si potean tutti quanti», quegli li quali quivi erano.

[40]

«Colá diritto, sopra ʼl verde smalto», cioè sopra il verde pavimento. Il qual dice «verde», percioché di sopra ha detto: «Venimmo in prato di fresca verdura», per che appare che il luogo era erboso; la qual cosa, come poco avanti dissi, è contro a natura del luogo, e perciò si può comprendere lui intendere altro sotto il velamento di questa verdura; il che nella esposizione allegorica si dichiarerá. «Mi fûr mostrati», da quegli cinque poeti, «gli spiriti magni», cioè gli spiriti di coloro li quali nella presente vita furono di grande animo, e furono nelle loro operazioni magnifichi; «Che del vedere», cosí eccellenti spiriti, «in me stesso nʼesalto», cioè me ne reputo in me medesimo esser maggiore.

[Lez. XIV]

«Iʼ vidi Elettra». Elettra, questa della quale qui si dee credere che lʼautore intenda, fu figliuola di Atalante e di Pleione; ma di quale Atalante non so, percioché di due si legge che furono. Deʼ quali lʼuno è questi, e piú famoso: fu re di Mauritania in ponente di contro alla Spagna, ed il cui nome ancora tiene una gran montagna, la quale, dal mare oceano Atalantiaco andando verso levante, persevera molte giornate. Lʼaltro fu greco, e questi nondimeno fu famoso uomo. Ragionasi, oltre a questi, esserne stato un terzo, e quello essere stato toscano ed edificatore della cittá di Fiesole, del quale in autentico libro non lessi giammai. Sono nondimeno di quegli che credono lui essere stato il padre dʼElettra, né altro ne sanno mostrare, se non la vicinanza del luogo dove maritata fu, cioè in Corito, cittá, ovvero castello, non guari lontano a Roma. [Ebbe costei sei sirocchie, chiamate con lei insieme Pliade, dal nome della madre, chiamata, come detto è, Pleione: le quali sette sirocchie, secondo le favole deʼ poeti, percioché nutricaron Bacco, meritarono essere trasportate in cielo, ed in forma di stelle poste nel ginocchio del segno chiamato Tauro. Delle quali scrive Ovidio nel suo De fastis cosí:

Pliades incipiunt humeros relevare paternos:
quae septem dici, sex tamen esse solent,

Seu quod in amplexum sex hinc venere Deorum:
nam Steropen Marti concubuisse ferunt,

[41]Neptuno Halcyonen, et te, formosea Celaeno:
Maian et Electron Taygetenque lovi:

septima mortali Merope tibi, Sisyphe, nupsit.
Poenitet: et facti sola pudore latet.

Sive quod Electra Troiae spectare ruinas
non tulit, ante oculos opposuitque manum.

Secondo gli astrologi, lʼuna di queste sette stelle è nebulosa, e però come lʼaltre non apparisce. Chiamanle quelle stelle i latini «virgiliane». Anselmo, in libro De imagine mundi, dice che queste stelle non si chiamano Pliade dal nome della madre loro, ma dalla quantitá, percioché «plion» in greco viene a dire «moltitudine» in latino. «Virgilie» son chiamate, percioché in quelli tempi, che i virgulti cominciano a nascere, si cominciano a levare, cioè allʼentrata di marzo. Il numero loro, che son sette, puote aver data cagione alla favola, percioché, essendo simili in numero alle predette sette stelle, furon cominciate a chiamare dalla gente per lo nome di quelle stelle; e, perseverando eziandio dopo la morte loro questo nome, furon dal vulgo stolto credute essere state trasportate in cielo. Lʼavere nutricato Bacco può essere preso da questo: quando il sole è in Vergine, queste stelle dopo alquanto di notte si levano, e con la loro umiditá riconfortano le vigne, le quali per lo calor del dí sono faticate, avendo patito mancamento dʼumido. Che esse abbiano nutrito Giove si dice per questa cagione: Giove alcuna volta sʼintende per lo elemento del fuoco e dellʼaere, e se nellʼaere umiditá non fosse, per la quale il calor del fuoco a lei vicino si temperasse, lʼaere non potrebbe i suoi effetti adoperare, sí sarebbe affocata: adunque lʼumiditá di queste stelle, che è molta, è cagione di questa sustentazione, e per conseguente di nutrimento.] E fu costei moglie di Corito, re della sopra detta cittá di Corito, la quale estimo da lui denominata fosse. E sono di quegli che vogliono questo Corito essere quella terra la qual noi oggi chiamiamo Corneto; e a questa intenzione forse agevolmente sʼadatterebbe il nome, percioché, aggiunta una «n» al nome di Corito, fará Cornito: e queste addizioni, diminuizioni e permutazioni di lettere essere neʼ nomi antichi fatte sovente si truovano.

[42]

Essendo adunqe costei, come detto è, moglie di Corito re, gli partorí tre figliuoli, Dardano e Iasio e Italo: né altro di lei mi ricorda aver letto giammai che memorabile sia. Credo adunque per questo saranno di quegli che si maraviglieranno perché tra gli spiriti magni non solamente dallʼautor posta sia, ma ancora perché la prima nominata: della qual cosa può essere la cagion questa. Volle, per quello che io estimo, lʼautore porre qui il fondamento primo della troiana progenie (e per conseguente deʼ discendenti dʼEnea) e della famiglia deʼ Iulii, le quali, o vogliam dir la quale, piú che alcunʼaltra è stata reputata splendida per nobiltá di sangue, e, oltre a questo, quella che in piú secoli è perseverata neʼ suoi successori: percioché, come assai manifestamente per autentichi libri si comprende, per quattro o per cinque mezzi discendendo, per diritta linea si pervenne da Dardano, figliuolo dʼElettra, ad Anchise, e da Anchise, per diciasette o forse diciotto, si pervenne in Numitore, padre dʼIlia, madre di Romolo, edificatore di Roma; e per Giulio Proculo, figliuolo dʼAgrippa Silvio, che deʼ discendenti dʼEnea fu, si fondò in Roma la famiglia Iulia, parte della quale furono i Cesari, li quali perseverarono infino in Neron Cesare. E dʼaltra parte, secondo che alcuni si fanno a credere, essendo per piú mezzi Ettor disceso di Dardano, dicono che, dopo il disfacimento dʼIlione, certi figliuoli dʼEttore essersene andati in Trazia, e quivi aver fatta una cittá chiamata Sicambria; e deʼ lor discendenti, dopo lungo tempo, esserne andati su per lo Danubio e pervenuti infino sopra il Reno, il quale Germania divide daʼ Galli; e appresso, dopo piú centinaia dʼanni, dietro a due giovani reali di quella schiatta discesi, deʼ quali lʼun dicono essere stato chiamato Francone e lʼaltro Marcomanno, essere passati in Gallia, e quivi aver data origine e principio alla progenie deʼ reali di Francia: e cosí infino aʼ nostri di voglion dire che pervenuta sia.

Ma potrebbe nondimeno dire alcuno: se lʼautore voleva il principio di cosí nobile e cosí antica schiatta porre, perché non poneva egli Corito il marito di questa Elettra? A che si può cosí rispondere: perché, conciosiacosaché di questa origine[43] fosse Dardano, figliuolo dʼElettra, cominciamento, per gli errori degli antichi si dubitò di cui Dardano fosse stato figliuolo, o di Corito o di Giove: e però, non avendo questo certo, volle porre lʼautore inizio di questa progenie colei di cui era certo Dardano essere stato figliuolo. E il credere che Dardano fosse stato figliuol di Giove nacque da questo: che, essendo morto Corito, e per la successione del regno nata quistione tra Dardano e Iasio, avvenne che Dardano uccise Iasio; di che vedendo egli i sudditi turbati, prese navi e parte del popolo suo, e, da Corito partitosi, dopo alcune altre stanzie, pervenne in Frigia, provincia della minore Asia, dove un re chiamato Tantalo regnava: dal quale in parte del reggimento ricevuto, fece una cittá la quale nominò Dardania; aʼ suoi cittadini diede ottime e laudevoli leggi: ed essendo umano e benigno uomo e giustissimo, estimarono quegli cotali lui non essere stato figliuolo dʼuomo, ma di Giove: e questo, percioché le sue operazioni erano molto conformi agli effetti di quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. [E regnò questo Dardano, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, aʼ tempi di Moisé, regnando in Argo Steleno: e in Frigia pervenne lʼanno del mondo tremila settecentotrentasette]. Cosí adunque quello che prima era certo, cioè lui essere stato figliuolo di Corito, si convertí in dubbio, e però non il padre, ma la madre, come detto è, puose in questo luogo primiera.

«Con molti compagni.» Questi estimo erano deʼ discesi di lei, traʼ quali ne furono alquanti, piú che gli altri famosi e laudevoli uomini. Deʼ quali compagni ne nomina lʼautore alcuno, dicendo:

«Traʼ quai conobbi», per fama, «Ettore», figliuol di Priamo, re di Troia, e dʼEcuba. Costui si crede che fosse in fatti dʼarme e forza corporale tra tutti i mortali maravigliosissimo uomo, e cosí appare nella Iliada dʼOmero per tutto. Ultimamente, avendo molte vittorie avute deʼ greci, avvenne che, avendo Achille, ad istanzia deʼ prieghi di Nestore, non volendo combattere egli, conceduto a Patrocolo, suo singulare amico, che egli per un dí si vestisse lʼarmi sue, e Patrocolo con esse in dosso essendo[44] disceso nella battaglia, come da Ettor fu veduto, fu da lui estimato esso essere Achille: per la qual cosa dirizzatosi verso lui, senza troppo affanno vintolo, lʼuccise, e spogliògli quelle armi, e, quasi dʼAchille tronfando, se ne tornò con esse nella cittá. La qual cosa avendo Achille sentita, pianta amaramente la morte del suo amico, e altre armi trovate, discese fieramente animoso contro ad Ettore nella battaglia. Avvenutosi ad Ettore, con lui combatté e, ultimamente vintolo, lʼuccise. E tanto poté in lui lʼodio, il quale gli portava per la morte di Patrocolo, che, spogliatogli lʼarmi, e legato il morto corpo dietro al carro suo, tre volte intorno intorno alla cittá dʼIlione lo strascinò: e quindi alla tenda sua ritornato, il guardò dodici dí senza sepoltura, infino a tanto che Priamo, di notte e nascostamente venuto alla sua tenda, quello con grandissimo tesoro e molte care gioie ricomperò, e, portatonelo nella cittá, con molte sue lacrime e degli altri suoi e di tutti i troiani, onorevolmente il seppellí.

«Ed Enea». Questi fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, dʼAnchise troiano e di Venere, e nacque sopra il fiume chiamato Simoente, non guari lontano ad Ilione, al quale poi Priamo, re di Troia, splendidissimo signore, diede Creusa, sua figliuola, per moglie, e di lei ebbe un figliuolo chiamato Ascanio. Fu in arme valoroso uomo, e tra gli altri nobili troiani andò in Grecia con Paris quando egli rapí Elena: la qual cosa mostrò sempre che gli spiacesse. Non pertanto valorosamente contro aʼ greci combatté molte volte per la salute della patria, e tra lʼaltre si mise una volta a combattere con Achille, non senza suo gran pericolo. In Troia fu sempre ricevitore degli ambasciatori greci: per le quali cose, essendo Ilion preso dai greci, in luogo di guiderdone gli fu conceduto di potersi, con quella quantitá dʼuomini che gli piacesse, del paese di Troia partirsi e andare dove piú gli piacesse. Per la qual concessione prese le venti navi, con le quali Paris era primieramente andato in Grecia, e in quelle messi quegli troiani alli quali piacque di venir con lui, e similemente il padre di lui ed il figliuolo, e, secondo che ad alcuni piace, uccisa Creusa, lasciato il troiano lito, primieramente trapassò in Trazia, e quivi fece una cittá, la[45] quale del suo nome nominò Enea, nella qual poi esso lungamente fu adorato e onorato di sacrifici come Iddio, sí come Tito Livio nel quarantesimo libro scrive. E quindi poi, sospettando di Polinestore re, il quale dislealmente per avarizia aveva ucciso Polidoro, figliuol di Priamo, si partí, e andonne con la sua compagnia in Creti, donde, costretto da pestilenza del cielo, si partí e vennene in Cicilia, dove Anchise morí appo la cittá di Trapani. Ed esso poi per passare in Italia rimontato coʼ suoi amici sopra le navi, e lasciata ad Aceste, nato del sangue troiano, una cittá da lui fatta, chiamata Acesta, in servigio di coloro li quali seguir nol poteano, secondo che Virgilio dice, da tempestoso tempo trasportato in Affrica, e quivi da Didone, reina di Cartagine, ricevuto ed onorato, per alcuno spazio di tempo dimorò. Poi da essa partendosi, essendo giá sette anni errato, pervenne in Italia, e nel seno Baiano, non guari lontano a Napoli, smontato, quivi per arte nigromantica, appo il lago dʼAverno, ebbe con gli spiriti immondi, di quello che per innanzi far dovesse, consiglio; e quindi partitosi, lá dove è oggi la cittá di Gaeta perdé la nutrice sua, il cui nome era Gaeta, e sopra le sue ossa fondò quella cittá, e dal nome di lei la dinominò; e quindi venuto nella foce del Tevero, ed essendogli, secondo che dice Servio, venuto meno il lume dʼuna stella, la quale dice essere stata Venere, estimò dovere esser quivi il fine del suo cammino. Ed entrato nella foce, e su per lo fiume salito con le sue navi, lá dove è oggi Roma, fu da Evandro re ricevuto e onorato; e in compagnia di lui essendo, da Latino re deʼ laurenti gli fu data per moglie la figliuola, chiamata Lavina, la quale primieramente aveva promessa a Turno, figliuolo di Dauno, re deʼ rutoli. Per la qual cosa nacque guerra tra Turno e lui, e molte battaglie vi furono, e, secondo che scrive Virgilio, egli uccise Turno. Ma alcuni altri sentono altrimenti.

Della morte sua non è una medesima opinione in tutti. Scrive Servio che Caton dice che, andando i compagni dʼEnea predando appo Lauro Lavinio, sʼincominciò a combattere, ed in quella battaglia fu ucciso Latino re da Enea, il quale Enea poi non fu riveduto. Altri dicono che, avendo Enea avuta vittoria[46] deʼ rutoli, e sacrificando sopra il fiume chiamato Numico, che esso cadde nel detto fiume e in quello annegò, né mai si poté il suo corpo ritrovare: e questo assai elegantemente tocca Virgilio nel quarto dellʼEneida, dove pone le bestemmie mandategli da Didone, dicendo:

At bello audacis populi vexatus, et armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli,
auxilium imploret, videatque indigna suorum
funera: nec, cum se sub lege pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur:
sed cadat ante diem, mediaque inhumatus arena.
Hoc precor,
ecc.

E Virgilio medesimo mostra lui essere stato ucciso da Turno, dove nel libro decimo dellʼEneida finge che Giunone, sollecita di Turno, nel mezzo ardore della battaglia prende la forma dʼEnea, e, seguitata da Turno, fugge alle navi dʼEnea, e infino in su le navi essere stata seguitata da Turno, e quindi sparitagli dinanzi: la qual fuga si tiene che non fosse fittizia, ma vera fuga dʼEnea, e che, quivi morto, esso cadesse nel fiume. Ma, come che egli morisse, fu da quegli della contrada deificato e chiamato Giove indigete.

«Cesare armato». Gaio Giulio Cesare fu figliuol di Lucio Giulio Cesare, disceso dʼEnea, come di sopra è dimostrato, e dʼAurelia, discesa della schiatta dʼAnco Marcio, re deʼ romani. Né fu, come si dice, denominato Cesare, percioché del ventre della madre tagliato, fosse tratto avanti il tempo del suo nascimento, percioché, sí come Svetonio in libro Duodecim Caesarum dice, quando egli uscí candidato di casa sua, egli lasciò la madre, e dissele:—Io non tornerò a te se non pontefice massimo;—e cosí fu che egli tornò a lei disegnato pontefice massimo; ma perciò fu cognominato Cesare, percioché ad un deʼ suoi passati quello addivenne, che molti credono che a lui addivenisse: e da quel cotale cognominato Cesare ab caesura, cioè dalla tagliatura stata fatta della madre, quello lato deʼ Giuli, che di lui discesero, tutti furon cognominati Cesari. Fu adunque e per padre e[47] per madre nobilissimo uomo, e variamente fu dalla fortuna impulso: e parte della sua adolescenzia fece in Bittinia appresso al re Nicomede con poco laudevole fama. Militò sotto diversi imperadori, e divenne nella disciplina militare ammaestratissimo: e gli onorevoli uffici di Roma tutti ebbe ed esercitò, e, tra gli altri, due consolati, li quali esso quivi governò. Ma, essendo egli questore, ed essendogli in provincia venuta la Spagna ulteriore, ed essendo pervenuto in Gades, e quivi nel tempio dʼErcole avendo veduta la statua dʼAlessandro macedonio, seco si dolse, dicendo: Alessandro giá in quella etá nella quale esso era, avere gran parte del mondo sottomessasi, ed esso, da cattivitá e da pigrizia occupato, non avere alcuna cosa memorabile fatta; e quinci si crede lui aver preso animo alle gran cose, le quali poi molte adoperò: e con astuzia e con sollecitudine sempre sʼingegnò dʼesser preposto ad alcuna provincia e ad eserciti, e a farsi grande dʼamici in Roma. Ed essendogli, dopo molte altre cose fatte, venuta in provincia Gallia, ed in quella andato, per dieci anni fu in continue guerre con queʼ popoli; e fatto un ponte sopra il Reno, trapassò in Germania, e con loro combatté e vinsegli; e similemente trapassato in Inghilterra, dopo piú battaglie gli soggiogò. E quindi, tornando in Italia, e domandando il trionfo ed il consolato, per una legge fatta da Pompeo, gli fu negato lʼun deʼ due. Per la qual cosa esso, partitosi da Ravenna, ne venne in Italia e seguitò Pompeo, il quale col senato di Roma partito sʼera, infino a Brandizio, e di quindi in Epiro; e, rotte le forze sue in Tessaglia, il seguitò in Egitto, dove da Tolomeo, re dʼEgitto, gli fu presentata la testa; e quivi fatte con gli egiziaci certe battaglie, e vintigli, a Cleopatra, nella cui amicizia congiunto sʼera, concedette il reame, quasi in guiderdone dellʼadulterio commesso. Quindi nʼandò in Ponto, e sconfitto Farnace, re di Ponto, si volse in Affrica, dove Giuba, re di Numidia, e Scipione, suocero di Pompeo, vinti, trapassò in Ispagna contro a Gneo Pompeo, figliuolo di Pompeo magno. Quivi alquanto stette in pendulo la sua fortuna. Combattendo esso eʼ suoi contro aʼ pompeiani, eʼ fu in pericolo tanto, che esso, di voler morire disposto, di quale spezie di morte si volesse[48] uccidere pensava. Respirò la sua fortuna e rimase vincitore: e quindi si tornò in Roma, dove trionfò deʼ galli e degli egiziaci e di Farnace in tre diversi dí. Scrisse Plinio, in libro De naturali historia, che egli personalmente fu in cinquanta battaglie ordinate, che ad alcun altro romano non avvenne dʼessere in tante: solo Marco Marcello, secondo che Plinio predetto dice, fu in quaranta. E di queste cinquanta, le piú fece in Gallia e in Brettagna ed in Germania, né, fuorché in una, si trovò esser perdente: e di questo poté esser cagione la sua mirabile industria, e la fidanza che di lui aveano coloro li quali il seguivano, li quali non potevano credere, sotto la sua condotta, in alcuno quantunque gran pericolo poter perire. E dice il predetto Plinio, sotto la sua capitaneria, in diverse parti combattendo, essere stati uccisi deʼ nemici dalla sua gente un milione e cento novanta due [centinaia di] migliaia dʼuomini: né si pongono in questo numero quegli che uccisi furono nelle guerre né nelle battaglie cittadine, le quali tra lui e Pompeo eʼ suoi seguaci furono. Per la qual cosa meritamente dice lʼautore: «Cesare armato».

Fu, oltre a ciò, costui grandissimo oratore, sí come Tullio, quantunque suo amico non fosse, in alcuna parte testimonia. Fu solenne poeta, e leggesi lui nel maggior fervore della guerra cittadina aver due libri metrici composti, li quali da lui furono intitolati Anticatoni. Fu grandissimo perdonatore delle ingiurie, intanto che non solamente a chi di quelle gli chiese perdono le rimise, ma a molti, senza addomandarlo, di sua spontanea volontá perdonò. Pazientissimo fu delle ingiurie in opere od in parole fattegli. Fu lussurioso molto; percioché, secondo che scrive Svetonio, egli nella sua concupiscenzia trasse piú nobili femmine romane, sí come Postumia di Servio Sulpizio, Lollia dʼAulo Gabinio, Tertullia di Marco Crasso, Muzia di Gneo Pompeo; ma, oltre a tutte lʼaltre, amò Servilia, madre di Marco Bruto, la figliuola della quale, chiamata Terzia, si crede che egli avesse. Usò ancora lʼamicizie dʼalcune altre forestiere, sí come quella della figliuola di Nicomede, re di Bitinia, e Eunoe Maura, moglie di Bogade re deʼ mauri, e Cleopatra, reina dʼEgitto, e altre. Né furon questi suoi adultèri taciuti in parte[49] daʼ suoi militi, triunfando egli, percioché nel triunfo gallico fu da molti cantato:—Cesare si sottomise Gallia, e Nicomede Cesare;—ed altri dicevano:—Ecco Cesare, che al presente triunfa di Gallia, e Nicomede non triunfa, che si sottomise Cesare.—Ed, oltre a questo, in questo medesimo triunfo fu detto da molti:—Romani, guardate le vostre donne, noi vi rimeniamo il calvo adultero.—E nella persona di lui proprio furon gittate queste parole:—Tu comperasti per oro lo stupro in Gallia, e qui lʼhai preso in prestanza.—

Costui adunque, tornato in Roma, ed avendo triunfato, occupò la republica, e fecesi fare, contro alle leggi romane, dittatore perpetuo, dove, secondo le leggi, non si poteva piú oltre che sei mesi stendere lʼuficio del dettatore. Ed appartenendo allʼautoritá del senato il conceder lʼuso della laurea, da esso ottenne di poterla portare continuo, accioché con quella ricoprisse la testa sua calva; la quale lungamente a suo potere avea ricoperta col tirarsi i capelli didietro dinanzi. Ed in questa dignitá perseverando, ed essendo a molti deʼ senatori gravissimo, intanto che gran parte del senato avea contro a lui congiurato, si riscaldò nel disiderio, lungamente portato, dʼesser re; per la qual cosa, essendosi a vendicare la morte di Crasso, stato con piú legioni romane ucciso daʼ parti, ferocissimi popoli, subornò Lucio Cotta, al quale con quattordici altri uomini apparteneva il procurare i libri sibillini, di quello che voleva rapportasse; e Cotta poi in senato disse neʼ libri sibillini trovarsi: «li parti non poter esser vinti né soggiogati, se non da re»; e però convenirsi che Cesare si facesse re. La qual cosa parve gravissima aʼ senatori ad udire. E, come che essi servassero occulta la loro intenzione, fu nondimeno questo un avacciare a dare opera a quello che parte di loro aveano fra sé ragionato: e perciò glʼidi di marzo, cioè dí quindici di marzo, Giulio Cesare, sollecitato molto da Bruto, non potendolo Calfurnia, sua moglie, per un sogno da lei veduto la notte precedente, ritenere, né ancora alcuni altri segni da lui veduti, pretendenti quello che poi seguí, in su la quinta ora del dí, uscito di casa, ne venne nella corte di Pompeo, dove quel dí era ragunato il[50] senato: dove, non dopo lunga dimora, fu da Gaio Cassio e da Marco Bruto e da Decio Bruto, principi della congiurazione, e da piú altri senatori, assalito e fedito di ventitré punte di stili. La qual cosa vedendo esso, e conoscendo la morte sua, recatisi e compostisi, come meglio poté, i panni dinanzi, accioché disonestamente non cadesse, senza far alcun romore di voce o di pianto cadde. Ed essendone stato portato da alquanti suoi servi a casa, e vedute da Antistio medico le piaghe di lui ancora spirante, disse di tutte quelle una sola esservene mortale: e quella si crede fosse quella che da Marco Bruto ricevette. Appresso, fuggitisi i congiurati, ed egli essendo morto, disfatte le sedie giudiciali della corte, le quali si chiamavano «rostri», gliene fu fatto, secondo lʼantico costume, un rogo, e con grandissimo onore fu il corpo suo arso; e le ceneri, raccolte diligentemente, furon messe in quel vaso ritondo di bronzo, il quale ancora si vede sopra quella pietra quadrangula acuta ed alta, che è oggi dietro alla chiesa di San Piero in Roma, la quale il vulgo chiama «Aguglia», come che il suo vero nome sia «Giulia».

[Lez. XV]

«Con gli occhi grifagni». Non mi ricorda aver letta la qualitá degli occhi di Giulio Cesare; ma, percioché gli occhi grifagni, se da «grifone» vien questo nome, sono riposti nella fronte sotto ciglia aguzzate, e piccoli per rispetto agli altri, e per questo hanno a significare astuzia e fierezza dʼanimo dovere essere in colui che gli ha; e queste cose furono in Cesare: e però credere dobbiamo lʼautore, o colui da cui lʼebbe, dovere o dire il vero, o estimare dagli effetti veri Cesare dovergli cosí avere avuti fatti ragionevolmente.

«Vidi Cammilla». Chi costei fosse distesamente è scritto sopra il primo canto del presente libro; e però qui non bisogna di replicare. Ponla nondimeno qui lʼautore per la sua virginitá e per la sua costante perseveranza in quella, e, oltre a ciò, per lo suo virile animo, per lo quale non femminilmente, ma virilmente adoperò e morí.

«E la Pantasilea». La Pantasilea fu reina dellʼamazzone, cioè di quelle donne, le quali, senza volere o compagnia o[51] signoria dʼuomini, per se medesime in Asia, allato al Mar maggiore, sotto piú reine lungo tempo signoreggiarono parte dʼAsia e talora dʼEuropa. La origine delle quali fu questa, secondo che Giustino, abbreviatore di Trogo Pompeo, scrive nel libro terzo della sua Storia. Essendo cacciati di Scizia, quasi neʼ tempi di Nino, re dʼAssiria, Silisio e Scolopico, giovani di reale schiatta, per divisione la quale era traʼ nobili uomini di Scizia, grandissima quantitá di giovani scizi avendone seco menata insieme con le lor mogli eʼ figliuoli, nelle contrade di Cappadocia, allato ad un fiume chiamato Termodonte si posero; e quivi occupati i campi chiamati Cirii, usati per molti anni di vivere di ratto, e per questo rubare e spogliare ed infestare i vicini popoli da torno: avvenne che, per occulto trattato deʼ popoli, noiati da loro, essi furon quasi tutti uccisi. Le mogli deʼ quali, veggendo essere aggiunto al loro esilio lʼesser private deʼ mariti, preson lʼarmi, e con fiero animo andarono incontro a coloro che li loro mariti uccisi aveano, e quegli cacciarono fuori del loro terreno: e, oltre a ciò, continuando la guerra animosamente per alcun tempo, da ogni nemico il difesero. Poi, congiugnendosi per matrimonio coʼ popoli circustanti, posero giú alquanto la ferocitá dellʼanimo: ma poi ripresala, e intra sé ragionando, estimarono il maritarsi a coloro, aʼ quali si maritavano, non esser matrimonio, ma piú tosto un sottomettersi a servitudine. Per la qual cosa deliberarono di fare, e fecero, cosa mai piú non udita: e questa fu, che tutti quegli uomini, li quali con loro erano a casa rimasi, uccisono, e, quasi risurgendo vendicatrici delle morti degli uccisi loro mariti, nella morte degli altri da torno tutte dʼuno animo cospirarono. E per forza dʼarme, con quegli che rimasi erano, avuta pace, accioché per non aver figliuoli non perisse la lor gente, presero questo modo, che a parte a parte andavano a giacere coʼ vicini uomini, e come gravide si sentivano, si tornavano a casa; e quegli figliuoli maschi che elle facevano, tutti gli uccidevano, e le femmine guardavano e con diligenza allevavano. Le quali non a stare oziose, o a filare o a cucire, né ad alcuno altro femminile uficio adusavano, ma in domare cavalli, in cacce, in saettare ed in fatica continua[52] lʼesercitavano. E, accioché esse potessero nutricare quelle figliuole che di loro nascessero, essendo loro le poppe agli esercizi delle armi noiose, lasciavano loro la destra, e della sinistra le privavano: ed il modo era, che quando eran piccole, tirata alquanto la carne in alto, quella con alcun filo strettissimamente legavano: di che seguiva che la parte legata, non potendo avere lo scorso del sangue, si secava, e cosí poi, venendo in piú matura etá, non vʼingrossava la poppa. E da questa privazione dellʼuna delle poppe nacque loro il nome, per lo quale poi chiamate furono, cioè «Amazzone», il qual tanto vuol dire, quanto «senza poppa». E, cosí perseverando piú tempo, quando sotto una reina e quando sotto due si governavano, continuamente ampliando il loro imperio. E, essendo in processo di tempo morta una loro reina, la quale fu chiamata Orizia, fu fatta reina la Pantasilea. Costei fu valorosa donna e governò bene il suo regno. Ed avendo udito il valor di Ettore, figliuolo del re Priamo, disiderò dʼaver alcuna figliuola di lui, e, per accattare lʼamore e la benivolenza sua, con gran moltitudine delle sue femmine, contro aʼ greci venne in aiuto deʼ troiani. Ma non poté quello, che desiderava, adempiere, percioché trovò, quando giunse, Ettore essere giá morto; ma nondimeno mirabilmente piú volte per la salute di Troia combatté; alfine combattendo fu uccisa. E, secondo che alcuni scrivono, costei fu che prima trovò la scure: vero è che quella, che da lei fu trovata, aveva due tagli, dove le nostre nʼhanno un solo.

«Dallʼaltra parte», forse a rincontro aʼ nominati, «vidi il re Latino». Latino fu re deʼ laurenti e figliuolo di Fauno re, deʼ discendenti di Saturno, e dʼuna ninfa laurente, chiamata Marica, sí come Virgilio nellʼEneida dice:

...Rex arva Latinus et urbes
iam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et nympha genitum laurente Marica
accepimus.

Ma Giustino non dice cosí, anzi dice che egli fu nepote di Fauno, cioè figliuolo della figliuola, in questa forma: che, tornando[53] Ercule di Spagna, avendo vinto Gerione, e pervenendo nella contrada di Fauno, egli giacque con la figliuola, e di quello congiugnimento nacque Latino. E cosí non di Fauno, ma dʼErcule sarebbe Latino stato figliuolo. Ma Servio Sopra Virgilio dice che, secondo Esiodo, in quello libro il quale egli compose chiamato Aspidopia, che Latino fu figliuolo dʼUlisse e di Circe, la quale alcuni chiamaron Marica; e però dice il detto Servio, Virgilio aver detto di lui, cioè di Latino, «Solis avi specimen», percioché Circe fu figliuola del Sole. Ma dice il detto Servio (percioché la ragione deʼ tempi non procede, percioché Latino era giá vecchio, quando Ulisse ebbe la dimestichezza di Circe) essere da prendere quello che Iginio dice, cioè essere stati piú Latini. Oltre a questo, cosí come del padre di Latino sono opinioni varie, cosí similmente sono gli antichi scrittori discordanti della madre: percioché Servio dice Marica essere dea del lito deʼ minturnesi, allato al fiume chiamato Liri: laonde Orazio dice:

...et innantem Maricae

littoribus tenuisse Lirim;

e però, se noi vorrem dire Marica essere stata moglie di Fauno, non procederá; percioché glʼiddii locali, secondo lʼerronea opinion degli antichi, non trapassano ad altre regioni. Alcuni dicono Marica esser Venere, percioché ella ebbe un tempio allato alla Marica, nel quale era scritto «Pontina Venere»; ma di costei anche si può dire quello che di sopra dicemmo di Latino, potere essere state piú Mariche. Ma di cui che egli si fosse figliuolo, egli fu re deʼ laurenti, neʼ tempi che Troia fu disfatta, ed ebbe per moglie Amata, sirocchia di Dauno, re dʼArdea e zia di Turno, sí come per Virgilio appare. Ma Varrone, in quel libro il quale egli scrive De origine linguae latinae, dice che Pallanzia, figliuola dʼEvandro re, fu sua moglie. Costui, secondo che vogliono alcuni, ricevette Enea fuggito da Troia, ed avendo avuto un responso da quegli loro iddii, che egli ad un forestiere, del quale dovea mirabile succession nascere, désse Lavina sua figliuola per moglie; avendola giá promessa a Turno, la diede[54] ad Enea: di che gran guerra nacque, nella quale, secondo che dice Servio, questo Latino morí quasi nella prima battaglia.

«Che con Lavina, sua figlia, sedea». Lavina, come detto è, fu figliuola di Latino e dʼAmata e moglie dʼEnea, del quale ella rimase gravida; e temendo la superbia di Ascanio figliuolo di Enea, il quale era rimaso vincitore della guerra di Turno, si fuggí in una selva; e appo un pastore, secondo che dice Servio, chiamato Tiro, dimorò nascosamente: e partorí al tempo debito un figliuolo, il quale nominò Giulio Silvio Postumo, percioché nato era, dopo la morte del padre, nella selva. Ma poi fu costei da Ascanio rivocata nel suo regno, avendo egli giá fatta la cittá di Alba ed in quella andatosene. La quale non essendo dalle cose avverse rotta, tanto reale animo servò nel petto femminile, che senza alcuna diminuzione guardò il regno al figliuolo, tanto che egli fu in etá da sapere e da potere regnare. Ma Eusebio in libro Temporum dice che costei dopo la morte dʼEnea si rimaritò ad uno il quale ebbe nome Melampo, e di lui concepette un figliuolo, il quale fu chiamato Latino Silvio: né piú di lei mi ricorda aver trovato.

«Vidi quel Bruto, che cacciò Tarquino». Bruto fu per legnaggio nobile uomo di Roma, percioché egli fu dʼuna famiglia chiamata i Giuni, ed il suo nome fu Caio Giunio Bruto, e la madre di lui fu sorella di Tarquino Superbo, re deʼ romani. E percioché egli vedeva Tarquino incrudelire contro aʼ congiunti, temendo di sé, avendo sana mente, si mostrò pazzo: e cosí visse buona pezza, portando vilissimi vestimenti, e ingegnandosi di fare alcune cose piacevoli, come talvolta fanno i matti, accioché facesse ridere altrui, ed ancora per acquistare la benivolenza di chi il vedesse, e con questo fuggisse la crudeltá del zio. E percioché poco nettamente vivea, fu cognominato Bruto: il quale, per aver festa di lui, tenevano volentieri appresso di sé i figliuoli di Tarquino. Ora avvenne che, essendo Tarquino Superbo intorno ad Ardea ad assedio, e i figliuoli del re con altri lor compagni avendo cenato, entrarono in ragionamento delle lor mogli, e ciascuno, come far si suole, in virtú e in costumi preponeva la sua a tutte lʼaltre femmine; e,[55] non finendosi la quistione per parole, presero per partito dʼandarne alle lor case con questi patti: che quale delle lor donne trovassero in piú laudevole esercizio, quella fosse meritamente da commendar piú che alcunʼaltra; e cosí, montati a cavallo, subitamente fecero. E pervenuti a Roma, trovarono le nuore del re ballare e far festa con le lor vicine, non ostante che i lor mariti fossero in fatti dʼarme e a campo; e di quindi nʼandarono a un castello chiamato Collazio, dove un giovane chiamato Collatino, loro zio, teneva la donna sua, chiamata Lucrezia, e trovarono costei in mezzo delle sue femmine vegghiare, e con loro insieme filare e far quello che a buona donna e valente sʼapparteneva di fare: per che fu reputato che costei fosse piú da lodare che alcuna dellʼaltre e che Collatino avesse miglior moglie che alcun degli altri. Era tra questi giovani Sesto Tarquino, giovane scellerato e lascivo, il quale, veduta Lucrezia e seco medesimo commendatala molto, entratagli nellʼanima la bellezza e lʼonestá di lei, seco medesimo dispuose di voler del tutto giacer con lei: e dopo alquanti dí, senza farne sentire alcuna cosa ad alcuno, preso tempo, solo ritornò a Collazio, dove da lei parentevolmente ricevuto ed onorato, considerato la condizione della casa, la notte, come silenzio sentí per tutto, estimando che tutti dormissero, levatosi, col coltello ignudo in mano, tacitamente nʼandò lá dove Lucrezia dormiva, e postale la mano in sul petto, disse:—Io sono Sesto, e tengo in mano il coltello ignudo; se tu farai motto alcuno, pensa chʼio tʼucciderò di presente.—Ma per questo non tacendo Lucrezia, la quale in guisa alcuna al suo desiderio acconsentir non voleva, le disse:—Se tu non farai il piacer mio, io tʼucciderò, e appresso di te ucciderò uno deʼ tuoi servi, e a tutti dirò che io tʼabbia uccisa, percioché col tuo servo in adulterio tʼabbia trovata.—Queste parole spaventarono la donna, seco pensando che, se in tal guisa uccisa fosse trovata, leggermente creduto sarebbe lei essere stata adultera, né sarebbe chi la sua innocenza difendesse: e però, quantunque malvolentieri si consentisse a Sesto, nondimeno, avendo pensato come cotal peccato purgherebbe, gli si consentí.

[56]

Sesto, quando tempo gli parve, se ne tornò ad Ardea; ed essa piena di dolore e dʼamaritudine, come il giorno apparí, si fece chiamare Lucrezio Tricipitino, suo padre, e Collatino, suo marito, e Bruto: li quali essendo venuti, e trovandola cosí dolorosa nellʼaspetto, la domandò Collatino:—Che è questo, Lucrezia? non sono assai salve le cose nostre?—A cui Lucrezia rispose:—Che salvezza può esser nella donna, la cui pudicizia è violata? nel tuo letto è orma dʼaltro uomo che di te.—E quinci aperse distesamente ciò che per Sesto Tarquino era stato la passata notte adoperato. Il che udendo Collatino e gli altri, quantunque dellʼaccidente forte turbati fossero, nondimeno la cominciarono a confortare, dicendo la pudicizia non potere esser contaminata, dove la mente a ciò non avesse consentito. Ma Lucrezia, ferma nel suo proposito, trattosi di sotto aʼ vestimenti un coltello, disse:—Questa colpa, in quanto a me appartiene, non trapasserá impunita; né alcuna mai sará, che per esempio di Lucrezia diventi impudica.—E detto questo, e posto il petto sopra la punta del coltello, su vi si lasciò cadere, e cosí senza poter essere atata, entratole il coltello nel petto, si morí. Tricipitino e Bruto e Collatino, vedendo questo, non potendo piú nascondere lʼindegnitá del fatto, ne portarono il corpo morto nella piazza, predicando lʼiniquitá di Sesto Tarquino, e di molte ingiurie accusando il re eʼ figliuoli. Il pianto fu grande, e il rammarichio per tutto: ma Bruto, estimando che tempo fosse a por giuso la simulata pazzia, tratto il coltello del petto alla morta Lucrezia, con una gran brigata deʼ collazi nʼandò a Roma, lasciando che lʼun deʼ due rimasi andassero nel campo a nunziare questa iniquitá: e in Roma pervenuto, per dovunque egli andava, piangendo e dolendosi, convocava la moltitudine a compassione dellʼinnocente donna e ad odio deʼ Tarquini. Per la qual cosa furono incontanente le porte di Roma serrate, e per tutto gridata la morte e il disfacimento del re e deʼ figliuoli: e il simile era avvenuto nel campo ad Ardea. E come fu sentita la scellerata operazione di Sesto Tarquino, e tutti, lasciato il re eʼ figliuoli, a Roma venutisene, e ricevuti dentro, in una medesima volontá con gli altri[57] divenuti, al re Tarquino, che minacciando tornava da Ardea, del tutto negarono il ritornare in Roma: e subitamente in luogo del re fecero due consoli, appo i quali fosse la dignitá e la signoria del re, sí veramente che piú dʼuno anno durar non dovesse: e di questi due primi consoli fu lʼuno Bruto e lʼaltro Collatino. E, sentendo, in processo di tempo, Bruto due suoi figliuoli tenere alcun trattato di dovere rimettere il re eʼ figliuoli suoi a Roma, fattigli spogliare e legare ad un palo, prima agramente batter gli fece con verghe di ferro, e poi in sua presenza ferire con la scure e cosí morire. Cotanto adunque mostrò essergli cara la libertá racquistata. Ma poi, avendo Tarquino invano tentato di ritornare per trattato in Roma, ragunata da una parte e dʼaltra gente dʼarme, ad assediare Roma venne. Incontro al quale uscirono col popolo di Roma armati i consoli; ed essendosi traʼ due eserciti cominciata la battaglia, avvenne che Arruns, lʼuno deʼ figliuoli di Tarquino, combattendo, vide Bruto; per che, lasciata la battaglia degli altri, gridò:—Questi è colui che mʼha del regno cacciato;—e drizzato il cavallo e la lancia verso lui, e punto degli sproni il cavallo, quanto correr potea piú forte nʼandò verso lui. Il quale veggendo Bruto venire, e conosciutolo, non schifò punto il colpo, ma verso lui dirizzatosi con la lancia e col cavallo, avvenne che con tanto odio delle punte delle lance si ferirono, che amenduni morti caddero del cavallo. E poi, avendo i romani avuta vittoria deʼ nemici, con grandissimo pianto ne recarono in Roma il corpo di Bruto, lá dove egli da tutte le donne di Roma, sí come padre e ricuperatore della loro libertá e vendicatore e guidatore della loro pudicizia, fu amarissimamente pianto, e poi, secondo lʼuso di queʼ tempi, onorevolmente fu seppellito.

«Lucrezia». Di questa donna è narrata la storia.

«Marzia». Marzia non so di che famiglia romana si fosse, né alcune storie sono, le quali io abbia vedute, che guari menzione faccian di lei. Par nondimeno, per antica fama, tenersi lei essere stata onesta e venerabile donna; e per tutti si tiene, e Lucano ancora il testimonia, lei essere stata moglie, non una sola volta, ma due, di Catone uticense. Il quale avendola la prima volta[58] menata a casa, generò in lei tre figliuoli; poi, dispostosi del tutto di volere nel futuro servar vita celibe e fuggire ogni congiugnimento di femmina, secondo che alcuni dicono, glielo disse; ed, oltre a ciò, immaginando non dovere per lʼetá essere a lei questa astinenza possibile, la licenziò di potersi maritare, se a grado le fosse, ad un altro uomo. Per la qual cosa essa si rimaritò ad Ortensio (a quale non so, percioché piú ne furono), e di lui concepette alcuni figliuoli. Poi, essendosi morto Ortensio, e sopravvenuto il tempo delle guerre cittadine tra Cesare e Pompeo, una mattina in su lʼaurora picchiò allʼuscio di Catone, e, entrata da lui, il pregò che gli piacesse di doverla ritôrre per moglie; che di questo matrimonio essa non intendeva di volerne altro che solamente il nome dʼesser moglie di Catone, e sotto lʼombra di questo titolo vivere, e, quando alla morte venisse, morire moglie di Catone. Alli cui prieghi Catone condiscese; e, con quella condizione ritoltala, senza alcuna altra solennitá osservare, e mentre visse servando il suo proponimento, per sua moglie la tenne, ed ella lui per suo marito.

«Giulia». Giulia fu figliuola di Giulio Cesare, acquistata in Cornelia figliuola di Cinna, giá quattro volte stato consolo; la quale, lasciata Consuzia che davanti sposata avea, prese per moglie. E fu costei moglie di Pompeo Magno, il quale ella amò mirabilmente, intanto che, essendo delle comizie edilizie riportati a casa i vestimenti di Pompeo, suo marito, rispersi di sangue (il che, secondo che alcuni scrivono, era avvenuto, che sacrificando egli, ed essendogli lʼanimale, che sacrificar dovea, giá ferito, delle mani scappato, e cosí del suo sangue macchiatolo); come prima Giulia gli vide, temendo non alcuna violenza fosse a Pompeo stata fatta, subitamente cadde, e da grave dolore fu costretta, essendo gravida, di gittar fuori il figliuolo che nel ventre avea, e quindi morirsi.

«E Corniglia». Il vero nome di costei fu Cornelia: ma, sforzato lʼautore dalla consonanza dei futuri versi, alcune lettere permutate, la nomina «Corniglia». Cornelia fu nobile donna di Roma della famiglia deʼ Corneli, del lato degli Scipioni: e fu figliuola di quello Scipione, il quale con Giuba, re deʼ numidi,[59] seguendo le parti di Pompeo, fu da Cesare sconfitto in Numidia. E fu costei primieramente moglie di Lucio Crasso, il quale fu ucciso daʼ parti e a cui fu lʼoro fondato messo giú per la gola; e poi, come Lucio morí, divenne moglie di Pompeo magno: il quale ella, come valente donna dee fare, non solamente amò nella sua felicitá, ma, veggendo che la fortuna con le guerre cittadine forte il suo stato dicrollava, non dubitò di volere essergli, come nella grandezza sua era stata, neʼ pericoli e negli affanni delle guerre compagna: e ultimamente, secondo che Lucano manifesta, con lui dellʼisola di Lesbo partitasi, nʼandò in Egitto, dove miserabilmente agli assassini di Tolomeo, discendendo in terra, il vide uccidere. Quello che poi di lei si fosse, non so; ma dʼintera fede e di laudabile amore puote debitamente essere pregiata.

«E solo in parte vidi ʼl Saladino». Il Saladino fu soldano di Babillonia, uomo di nazione assai umile per quello mi paia avere piú addietro sentito, ma di grande e altissimo animo e ammaestratissimo in fatti di guerra, sí come in piú sue operazioni dimostrò. Fu vago di vedere e di cognoscere li gran principi del mondo e di sapere i lor costumi: né in ciò fu contento solamente alle relazioni degli uomini, ma credesi che, trasformatosi, gran parte del mondo personalmente cercasse, e massimamente intraʼ cristiani, li quali, per la Terra santa da lui occupata, gli erano capitali nemici. E fu per setta deʼ seguaci di Macometto, quantunque, per quello che alcuni voglion dire, poco le sue leggi e i suoi comandamenti prezzasse. Fu in donare magnifico, e delle sue magnificenze se ne raccontano assai. Fu pietoso signore e maravigliosamente amò e onorò i valenti uomini. E, percioché egli non fu gentile, come quegli li quali nominati sono e che appresso si nomineranno, estimo che «in parte» starsi «solo» il discriva lʼautore.

«Poi chʼio alzai un poco piú le ciglia», cioè gli occhi per vedere piú avanti, «Vidi il maestro», cioè Aristotile, «di color che sanno, Seder», cioè usare e stare, e quegli atti fare che a filosofo appartengono, ammaestrare, operare e disputare, «tra filosofica famiglia».

[60]

Aristotile fu di Macedonia, figliuolo di Nicomaco, medico dʼAminta, re di Macedonia, e poi di Filippo, suo figliuolo e padre dʼAlessandro; la madre del quale fu chiamata Efestide: li quali Nicomaco ed Efestide vogliono alcuni esser discesi di Macaone e dʼAsclepiade, discendenti dʼEsculapio, il quale gli antichi, percioché grandissimo medico fu, dicono essere stato figliuolo dʼApollo, iddio della medicina. E dicono alcuni lui essere stato dʼuna cittá chiamata Stagira, la quale, se io ho bene a memoria, ho giá letto o udito che è non in Macedonia, ma in Trazia: le quali due province è vero che insieme confinano, per che, essendo in su i confini la cittá, forse agevolmente sʼè potuto errare a dinominarla piú dellʼuna provincia che dellʼaltra. Fu costui primieramente, dopo lʼavere apprese le liberali arti, ammaestrato neʼ libri poetici. E credesi che il primo libro, che da lui fu composto, fosse uno scritto, ovvero comento, sopra li due maggior libri dʼOmero, e che, per questo, ancora giovanetto fosse dato da Filippo per maestro ad Alessandro. Poi vogliono lui essere andato ad Atene ad udire filosofia, dove udí tre anni sotto Socrate, in queʼ tempi famosissimo filosofo; e, lui morto, sʼaccostò a Platone, il quale le scuole di Socrate ritenne, e sotto lui udí nel torno di venti anni. Per che, sí per lʼeccellenza del dottore, e sí ancora per lo perseverato studio con vigilanza, divenne maraviglioso filosofo; intanto che, andando alcuna volta Platone alla sua casa e non trovando lui, con alta voce alcuna volta disse:—Lʼintelletto non cʼè, sordo è lʼauditorio.—Visse appresso la morte di Platone, suo maestro, anni ventitré, deʼ quali parte ammaestrò Alessandro, e parte con lui circuí Asia, e parte di quegli scrisse e compose molti libri. Egli la dialettica, ancora non conosciuta pienamente prima, in altissimo colmo recò, e ad istruzione di quella scrisse piú volumi. Scrisse similmente in rettorica, né meno in quella apparve facondo, che fosse alcun altro rettorico, quantunque famoso stato davanti a lui. Similmente intorno agli atti morali, ciò che veder se ne puote per uomo, scrisse in tre volumi: Etica, Politica ed Iconomica; né delle cose naturali alcuna ne lasciò indiscussa, sí come in molti suoi libri appare; ed, oltre a ciò, trapassò a quelle che[61] sono sopra natura, con profondissimo intendimento, sí come nella sua Metafisica appare. E, brevemente, egli fu il principio e ʼl fondamento di quella setta di filosofi, i quali si chiamano peripatetici. E non è vero quello che alcuni si sforzano dʼapporgli, cioè che egli facesse ardere i libri di Platone: la qual cosa credo, volendo, non avrebbe potuta fare, in tanto pregio e grazia degli ateniesi fu Platone e la sua memoria e li suoi libri. Li quali non ha molto tempo che io vidi, o tutti o la maggior parte, o almeno i piú notabili, scritti in lettera e grammatica greca in un grandissimo volume, appresso il mio venerabile maestro messer Francesco Petrarca. È il vero che la scienza di questo famosissimo poeta filosofo lungo tempo sotto il velamento dʼuna nuvola dʼinvidia di fortuna stette nascosa, in maraviglioso prezzo continuandosi appo i valenti uomini la scienza di Platone; né è assai certo, se a venire ancora fosse Averrois, se ella sotto quella medesima si dimorasse. Costui adunque, se vero è quello che io ho talvolta udito, fu colui che prima, rotta la nuvola, fece apparir la sua luce e venirla in pregio; intanto che, oggi, quasi altra filosofia che la sua non è daglʼintendenti seguita. Ma ultimamente pervenuto questo singulare uomo allʼetá di sessantatré anni, finío la vita sua; e, secondo che alcuni dicono, per infermitá di stomaco. «Tutti lo miran», per singular maraviglia, quegli che in quel luogo erano; e similmente credo facciano tutti quegli che aʼ nostri dí in filosofia studiano: «tutti onor gli fanno», sí come a maestro e maggior di tutti.

«Quivi vidʼio», appresso dʼAristotile, «Socrate».

Socrate originalmente si crede fosse ateniese, ma di bassissima condizione di parenti disceso, percioché, sí come scrive Valerio Massimo nel terzo suo libro sotto la rubrica De patientia, il padre suo fu chiamato Sofronisco intagliator di marmi, e la sua madre ebbe nome Fenarete, il cui uficio era aiutare le donne neʼ parti loro, e quelle per prezzo servire; ed esso medesimo, secondo che dice Papia, alquanto tempo sʼesercitò nellʼarte del padre. Poi, lasciata lʼarte paterna, divenne discepolo dʼuna femmina chiamata Diutima, secondo che si legge nel libro De vitis philosophorum; ma santo Agostino, nel libro ottavo De civitate[62] Dei, scrive che egli fu uditore dʼArchelao, il quale era stato auditore di Anassagora. E, poiché alquanto tempo ebbe udito sotto Archelao, per divenire pienamente esperto deglʼintrinseci effetti della natura, in piú parti del mondo gli ammaestramenti deʼ piú savi andò cercando, secondo che scrive Tullio nel libro secondo delle Quistioni tusculane: e in tanta sublimitá di scienza pervenne, che egli, secondo che scrive Valerio, fu reputato quasi un terrestre oracolo dellʼumana sapienza. E secondo che mostra di tenere Apulegio, e similmente Calcidio Sopra il primo libro del Timeo di Platone, e come Agostino nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli ebbe seco infino dalla sua puerizia un dimonio, il quale Apulegio predetto chiama «iddio di Socrate» in un libro che di ciò compose: il quale molte cose glʼinsegnò e in ciò che egli aveva a fare lʼammaestrò. Ma chi che di ciò gli fosse il dimostratore, egli fu non solamente dagli uomini, ma eziandio da Apolline, il quale gli antichi neʼ loro errori credettero essere iddio della sapienza, giudicato sapientissimo. Della qual cosa non è molto da maravigliarsi, conciosiacosaché egli fosse nelli studi della filosofia assiduo; e tanto nelle meditazioni perseverante, che Aulo Gellio scrive, nel libro secondo Noctium Atticarum, lui essere usato di stare dal cominciamento dʼun dí infino al principio del seguente, in piede, senza mutarsi poco o molto col corpo, e senza volgere gli occhi o ʼl viso dal luogo al quale nel principio della meditazione gli poneva.

Fu costui di maravigliosa e laudevole umiltá, percioché, quantunque in iscienza continuamente divenisse maggiore, tanto minore nel suo parlare si faceva; e da lui, secondo che Girolamo scrive nella sua trentacinquesima pistola, e, oltre a ciò, nel proemio della Bibbia, nacque quel proverbio, il quale poi per molti sʼè detto, cioè «hoc scio, quod nescio». E, oltre a questo, essendo tanto e sí venerabile filosofo, non solamente in parole, ma in opera la sua umiltá dimostrò. Esso, tra lʼaltre volte, secondo che negli studi è usanza, facendo la colletta dagli uditori suoi, ed essi tutti dandogli volentieri non solamente il debito, secondo lʼuso, ma ancora piú; Eschilo, poverissimo giovane ma dʼalto ingegno, lasciò andar ognʼuomo a pagar questo debito, e non[63] andandone piú alcuno, esso, levatosi, andò alla cattedra di Socrate e disse:—Maestro, io non ho al mondo cosa alcuna che ti dare per questo debito, se non me medesimo, e io me ti do; e ricordoti che io ti do piú che dato non tʼha alcun altro che qui sia; percioché non ce nʼè alcuno che tanto donato tʼabbia, che alcuna cosa rimasa non gli sia, ma a me, che me tʼho dato, cosa alcuna non è rimasa.—Al quale Socrate umilmente rispose:—Eschilo, il tuo dono mʼè molto piú caro che alcuno altro che da costoro mi sia stato dato, e la ragione è questa: io non ho alcuna cosa la quale io possa assai degna donare a costoro che a me hanno donato, ma io ho da potere rendere a te guiderdone del dono che fatto mʼhai, e quello sono io medesimo; e cosí io me ti do; e perciò quanto tu vuogli che io abbia te per mio, tanto faʼ che tu abbi me per tuo.—Fu di sua natura pazientissimo, e con egual animo portò le cose liete e le avverse, intanto che molti voglion dire non essergli stato mai veduto piú che un viso. Il che maravigliosamente mostrò vivendo, e sostenendo i fieri costumi dellʼuna delle due mogli che avea, chiamata Santippe: la quale, senza interporre, il dí e la notte egualmente, con perturbazioni e con romori era da lei stimolato; la qual tanto piú nella sua ira sʼaccendeva, quanto lui piú paziente vedeva. Ed essendo alcuna volta stato addomandato da Alcibiade, nobilissimo giovane dʼAtene, secondo che scrive Aula Gellio in libro undecimo Noctium Atticarum, perché egli non la mandava via, conciofossecosaché per la legge lecito gli fosse, rispose che per la continuazione dellʼingiurie dimestiche fattegli da Santippe egli aveva apparato a sofferire con non turbato animo le disoneste cose, le quali egli vedeva e udiva di fuori. Oltre a questo, tenendosi Santippe ingiuriata da lui, un dí, preso luogo e tempo, dalla finestra della casa gli versò sopra la testa un vaso dʼacqua putrida e brutta; il quale sapendo donde venuto era, rasciuttasi la testa, nullʼaltra cosa disse:—Io sapeva bene che dopo tanti tuoni doveva piovere.—

Furono le sue risposte di mirabile sentimento. Era in Atene un giovane uomo dipintore, assai conosciuto, il quale subitamente divenne medico; il che detto a Socrate, disse:—Questi[64] può esser savio uomo dʼaver lasciata lʼarte, i difetti della quale sempre stanno dinanzi agli occhi degli uomini, e presa quella li cui errori la terra ricuopre.—Era, oltre a ciò, usato di prender piacere di vedere le due sue mogli per lui talvolta non solamente gridare, ma azzuffarsi insieme, e massimamente sé considerando, il quale era del corpo piccolo, e avea il naso camuso, le spalle pelose e le gambe storte, e appresso la viltá dellʼanimo loro; e il farle venire a zuffa insieme era qualora egli volea, sol che un poco dʼamore piú allʼuna che allʼaltra mostrasse; di che esse una volta accortesi, e rivoltesi sopra lui, fieramente il batterono, e lui fuggente seguirono, tanto che la loro indegnazione sfogarono. Fu in costumi sopra ogni altro venerabile uomo, in tanto che solamente nel riguardarlo prendevano maraviglioso frutto gli uditori suoi, sí come Seneca nella sesta pistola a Lucillo, dicendo: «Platone e Aristotile, e lʼaltra turba tutta deʼ savi uomini, piú daʼ costumi di Socrate trassero di sapienza che dalle sue parole». Fu nel cibo e nel bere temperatissimo, intanto che di lui si legge che, essendo una mortale e universale pestilenza in Atene, né mai si partí, né mai infermò, né parte dʼalcuna infermitá sentí. Sostenne con grandissimo animo la povertá, intanto che, non che egli mai alcun richiedesse per bisogno il quale avesse, ma ancora i doni daʼ grandi uomini offertigli ricusò. Ed essendo giá vecchio, volle apprendere a sonare gli stromenti musici di corda: di che alcuno maravigliandosi gli disse:—Maestro, che è questo? aver veduti gli alti effetti della natura, e ora discendere alle menome cose musicali?—Al quale egli dimostrò sé estimare esser meglio dʼavere tardi apparata quella arte che morire senza averla saputa. Né in alcuna etá poté sofferire dʼessere ozioso; percioché, secondo scrive Tullio nel libro De senectute, egli era giá dʼetá di novantaquattro anni, quando egli scrisse il libro, il quale egli appellò Panaletico.

Una cosa ebbe questo singulare uomo, la quale a certi ateniesi fu grave, ed ultimamente cagione della morte sua: egli non poté mai essere indotto ad avere in alcuna reverenza glʼiddii li quali gli ateniesi adoravano, affermando un cane,[65] un asino o qualunque altro piú vile animale esser degno di molta maggior venerazione che glʼiddii degli ateniesi. E la ragione, che di ciò assegnava, era che gli animali erano opera della natura, glʼiddii degli ateniesi erano opera delle mani degli uomini. Per la qual cosa essendo stati fatti, ovvero eletti trenta uomini in Atene a dover riformare lo stato della cittá e servarlo, ve ne furono alcuni, li quali, forse da alcuna altra occulta cagion mossi, sotto spezie di religione, vollero che esso confessasse li loro iddii essere da onorare e che Atene dalla lor deitá e custodia servata fosse. La qual cosa non volendo esso fare, essendo giá dʼetá di novantanove anni, fu fatto mettere in prigione, e in quella tenuto da un mese. Alla fine, vedendo coloro, che tener vel facevano, non potersi a ciò lʼanimo suo inducere, gli mandarono in un nappo un beveraggio avvelenato, il quale egli, sprezzati gli umili rimedi mostratigli da Lisia alla sua salute, amando piú di finire la vita che di diminuire la sua gravitá, con grandissimo animo, e con quel viso il quale sempre in ogni cosa occorrente fermo servava, il prese. E piangendo Santippe, e dolendosi chʼegli era fatto morire a torto, fieramente la riprese dicendo:—Dunque vorresti tu, stolta femmina, che io fossi morto a ragione? Tolgalo Iddio via che egli possa essere avvenuto o avvenga che io giustamente condannato sia.—E, bevuto la venenata composizione, molte cose aʼ suoi amici, che dʼintorno gli erano, parlò dellʼeternitá dellʼanima. Ma, appressandosi giá lʼora della morte, per la forza del veleno che al cuore sʼavvicinava, il dimandò uno deʼ suoi discepoli, chiamato Trifone, quello che esso voleva che del suo corpo si facesse, poiché morto fosse. Per che Socrate, rivolto agli altri, disse:—Lungamente mʼha invano ascoltato Trifone.—E poi disse:—Se, poi che lʼanima mia sará dal corpo partita, voi alcuna cosa che mia sia ci trovate, fatene quello che da fare estimerete; ma cosí vi dico, che, partendomi io, alcun di voi non mi potrá seguire.—Né guari stette che egli morí. In onor del quale, secondo che scrive Tertullio, fecero poi gli ateniesi in memoria e in sembianza di lui fare una statua dʼoro, e quella fecero porre ad un tempio. Nacque Socrate, secondo che nelle Istorie[66] scolastiche si legge, al tempo di Serse, re di Persia, e morí regnante il re Assuero.

[Lez. XVI]

«E Platone». Platone fu per origine nobilissimo ateniese. Egli fu figliuolo dʼAristone, uomo di chiara fama, e di Perissione sua moglie; e, secondo che alcuni affermano, esso fu deʼ discendenti del chiaro legnaggio di Solone, il quale ornò di santissime leggi la cittá di Atene. E volendo Speusippo, figliuolo della sorella, e che dopo la sua morte le scuole sue ritenne insieme con Clearco e con Anassalide, stati suoi uditori, nobilitare la sua origine, sí come essi nel secondo libro della Filosofia scrivono, finsero Perissione, madre di lui, essere stata oppressa da una sembianza dʼ Apolline; volendo che per questo sʼintendesse, lui per opera del padre, il quale gli antichi estimarono essere iddio della sapienza, avere avuta la divina scienza, la quale in lui uomo mortale fu conosciuta. Fu costui, oltre ad ogni altro suo contemporaneo, eloquentissimo; e fu tanta dolcezza e tanta soavitá nella sua prolazione, che quasi pareva piú celestial cosa che umana, parlando. La qual cosa per due assai evidenti segni, avanti che a quella perfezion divenisse, fu dimostrata. Primieramente, essendo egli ancora picciolissimo fanciullo e nella culla dormendo, furono trovate api, le quali sollecitamente studiandosi, non altrimenti che in uno loro fiaro, gli portavano mèle, senza dʼalcuna cosa offenderlo. Secondariamente, quella notte che precedente fu al dí che Aristone lui giovanetto menò a Socrate, accioché della sua dottrina lʼammaestrasse, parve nel sonno a Socrate vedere di cielo discendere un cigno, e porglisi sopra le ginocchia, e pascersi di quello che da esso Socrate gli era dato. Per che, come Socrate vide Platone il dí seguente, cosí estimò lui esser quel cigno che nel sonno veduto avea. E il cigno, secondo che questi fisiologi scrivono, è uccello, il quale soavissimamente canta: per la qual dolcezza di canto assai bene si può comprendere essere stata dimostrata la dolcezza della sua futura eloquenza.

Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di[67] Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi, visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ suoi uditori solennissimi filosofi.

«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli stanno».

«Democrito» (supple) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito, che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso, secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta della cagione, rispose:—Io rido della sciocchezza di tutti quegli li quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo[68] e col corpo tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora.—Costui, percioché estimò il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl guidava: benché Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico, si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo, costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel quinto libro delle Quistioni tusculane dice: «Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona, mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione rerum[69] non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret».

«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.

Di costui si raccontano cose assai, e non men piacevoli che laudevoli; per che non sará altro che utile lʼaverne alcuna raccontata. Dice Seneca, nel libro quinto deʼ Benefici, che Alessandro, re di Macedonia, sʼingegnò molto di poterlo avere appresso di sé, e con grandissimi doni e profferte molte volte il fece sollicitare: le quali tutte ricusò, alcuna volta dicendo che egli era molto maggior signore che Alessandro, in quanto egli era troppo piú quello che egli poteva rifiutare, che quello che Alessandro gli avesse potuto donare. E dice Valerio Massimo che, essendo un dí Alessandro venuto alla casa di Diogene, e per avventura[70] postosegli davanti al sole, e offerendosi a lui se alcuna cosa volesse, gli rispose che quello, che egli voleva da lui, era che egli si levasse dal sole e non gli togliesse quello che dare non gli potea. Similmente aveva Dionisio, tiranno di Siragusa, molto cercato dʼaverlo, né mai venir fatto gli era potuto; per che, essendo Diogene andato in Cecilia a considerare lʼincendio di Mongibello, avvenne che, lavando lattughe salvatiche ad una fonte presso a Siragusa per mangiarlesi, passò un filosofo chiamato Aristippo, al quale Dionisio facea molto onore, e, veggendo Diogene gli disse:—Se tu volessi, Diogene, credere a Dionisio, non ti bisognerebbe al presente lavare coteste lattughe;—quasi volesse dire:—Tu averesti deʼ fanti e deʼ servidori, che te le laverebbono.—A cui Diogene subitamente rispose:—Aristippo, se tu volessi lavar delle lattughe come fo io, non ti bisognerebbe di lusingar Dionisio.—Altra volta, essendo per avventura menato da un ricchissimo uomo, il quale aveva il viso turpissimo, a vedere una sua bella casa, la quale era ornatissima di dipinture e dʼoro e dʼaltre care cose, e non che le mura eʼ palchi, ma eziandio il pavimento di quella; volendo Diogene sputare, sʼaccostò a colui che menato lʼaveva e sputògli nel viso. Per che quegli, che presenti erano, dissero:—Perché hai tu fatto cosí, Diogene?—Aʼ quali Diogene prestamente rispose:—Percioché io non vedeva in questa casa parte alcuna cosí vile, come quella nella quale sputato ho.—Oltre a ciò, secondo che Seneca racconta nel terzo libro dellʼIra, avvenne che, leggendo Diogene del vizio dellʼira, un giovane gli sputò nel viso. Di che Diogene prudentemente e con pazienza portando lʼingiuria, niunʼaltra cosa disse, se non:—Io non mʼadiro, ma io dubito se sará bisogno o no dʼadirarsi.—Di che questo medesimo, tiratosi in bocca uno sputo ben grasso, nel mezzo della fronte da capo gliele sputò. Il quale sputo poi che Diogene ebbe forbito, disse: —Per certo coloro, che dicono che tu non hai bocca, sono fieramente ingannati.—Fu, secondo che Aulo Gellio scrive in primo libro Noctium Atticarum, Diogene una volta preso: e, volendolo colui, che preso lʼaveva, vendere, venne un per comperarlo e dimandollo di che cosa sapeva servire. Al quale[71] Diogene rispose:—Io so comandare agli uomini liberi.—E, accioché noi trapassiamo da queste laudevoli sue opere al fine della vita sua, secondo che scrive Tullio nel primo libro delle Quistioni tusculane, essendo Diogene infermo di quella infermitá della quale si morí, fu domandato da alcuno deʼ discepoli suoi, quello che voleva si facesse, poi che egli fosse morto, del corpo suo. Subitamente rispose:—Gittatelo al fosso.—Alla qual risposta colui, che domandato avea, seguí:—Come, Diogene? vuoi tu che i cani e le fiere salvatiche e gli uccelli ti manuchino?—Al quale Diogene rispose:—Pommi allato il baston mio, sí che io abbia con che cacciargli.—A cui questo addimandante disse:—O come gli caccerai, che non gli sentirai?—Disse allora Diogene:—Se io non gli debbo sentire, che fa quello a me perché eʼ mi mangino?—E cosí si morí: il dove non so.

«Anassagora». Anassagora fu nobile uomo ateniese, e fu uditore di Anassimene e famoso filosofo. Percioché sostener non poteva i costumi e le maniere deʼ trenta tiranni, li quali in Atene erano, si fuggí dʼAtene e seguí gli studi pellegrini tanto tempo, quanto la signoria deʼ predetti durò. Poi, tornando ad Atene, e vedendo le sue possessioni, che erano assai, tutte guaste e occupate daʼ pruni e da malvage piante, disse:—Se io avessi voluto guardar queste, io avrei perduto me.—Questi nella morte dʼun suo figliuolo, assai della sua fortezza dʼanimo e della sua scienza mostrò; percioché essendogli nunziata, niuna altra cosa disse a colui che gliele palesò:—Niuna cosa nuova o da me non aspettata mi racconti, percioché io sapeva che colui, che di me era nato, era mortale.—Ed essendo infermo di quella infermitá della quale egli morí, e giacendo lontano alla cittá, fu domandato se gli piacesse dʼessere portato a morire nella cittá. Rispose che di ciò egli non curava, percioché egli sapeva che altrettanta via era dal luogo dove giaceva in inferno, quanta dalla cittá in inferno.

«E Tale». Tale fu asiano, figliuolo dʼuno che si chiamò Essamite, sí come Eusebio scrive in libro Temporum; e, secondo che Pomponio Mela dice nel primo libro della Cosmografia, egli fu dʼuna cittá chiamata Mileto, la quale fu in una provincia[72] dʼAsia, chiamata Ionia: e, sí come santo Agostino dice nel libro ottavo della Cittá di Dio, egli fu prencipe deʼ filosofi ioni, e fu massimamente ammirabile in quanto, essendo da lui compresi i numeri delle regole astrologiche, non solamente conobbe i diffetti del sole e della luna, ma ancora gli predisse. E, secondo che alcuni vogliono, essa fu il primo che conobbe la immobilitá, o brevissimo circúito di moto della stella la qual noi chiamiamo «tramontana», e che da essa preso dimostrò lʼordine, il quale ancora servano i marinari nel navicare, quel segno seguendo. Fu sua opinione che lʼacqua fosse principio di tutte le cose, e da essa tutti gli elementi ed esso mondo tutto e quelle cose che in esso si generano procedessono, sí come santo Agostino nel preallegato libro dimostra. E, percioché esso fu deʼ primi filosofi di Grecia e, avanti che il nome del filosofo si divulgasse, fosse chiamato «savio», come sei altri suoi contemporanei e valenti uomini furono; avvenne che, essendo daʼ pescatori presa pescando, e tratta di mare, una tavola dʼoro, ed essendo diliberato che al piú savio mandata fosse, e per conseguente mandata a lui; fu di tanta e sì discreta umiltá, che ricevere non la volle, ma la mandò ad uno degli altri sei. Recusò, secondo che alcuni scrivono, dʼaver moglie, e ciò dice che faceva per non avere ad amare i figliuoli. Credomi che questo fuggiva, percioché troppo intenso e forse non molto ordinato amor gli parea. Ultimamente assai utili libri lasciando, essendo giá dʼetá di settantotto anni, morí. Ma, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, pare che egli vivesse anni novantadue. Fiorí neʼ tempi che Ciro re per forza trasportò in Persia lʼimperio deʼ medi.

«Empedocles». Empedocles fu ateniese, secondo Boezio, del quale, credo piú per difetto del tempo, che ogni cosa consuma, e della trascutaggine degli uomini, che negligentemente servano le scritture, che perché egli solenne filosofo degno di laude non fosse, alcuna cosa non si truova che istorialmente di lui raccontar si possa; quantunque alcuni dicano lui essere stato ottimo cantatore, ed il suo canto avere avuta tanta di melodia che, correndo impetuosamente un giovane appresso ad un suo nemico[73] per ucciderlo, udendo la dolcezza del canto di costui, il quale per avventura allora in quella parte cantava, per la quale il giovane seguiva il suo nemico, dimenticato lʼodio, si ritenne ad ascoltarlo. Costui, secondo che scrive Papia, investigando il luogo della montagna di Mongibello in Cicilia, disavvedutamente cadde in una fossa di fuoco, e in quella, non potendosi aiutare, fu ucciso dal fuoco. Fiorí regnante Artaserse.

«Eraclito». Eraclito è assai appo gli antichi filosofi famoso; ma di lui altro nella mente non ho, se non che quegli libri, li quali egli compose, furono con tanta oscuritá di parole e di sentenze scritti da lui, che pochi eran coloro li quali potessero deʼ suoi testi trar frutto; per la qual cosa fu cognominato «tenebroso». Dove vivesse, o quello che egli adoperasse, o di che etá morisse, o dove, non trovai mai; quantunque alcuni dicono lui essere stato contemporaneo di Democrito.

E «Zenone». Furono due eccellenti filosofi, deʼ quali ciascuno fu nominato Zenone; ma, percioché qui non si può comprendere di quale lʼautor si voglia dire, brievemente diremo dʼamenduni. Fu adunque lʼuno di questi chiamato Zenone eracleate. Costui, potendosi in pace e in quiete riposare in Eraclea, sua cittá, e in sicura libertá vivere, avendo allʼaltrui miseria compassione, se ne andò a Girgenti in Cicilia, in queʼ tempi da miserabile servitudine oppressa, soprastantele la crudel tirannia di Falaris, volendo quivi esperienza prendere del frutto che dar potesse la sua scienza. Ed essendosi accorto il tiranno piú per consuetudine di signoreggiare che per salutevol consiglio, tenere il dominio, con maravigliose esortazioni i nobili giovani della citta infiammò in disiderio di libertá. La qual cosa pervenuta agli orecchi di Falaris, fece di presente prender Zenone, e lui nel mezzo della corte posto al martorio, il domandò quali fossero coloro che del suo consiglio eran partefici. Deʼ quali Zenone alcuno non ne nominò; ma in luogo di essi nominò tutti quegli che piú col tiranno eran congiunti, e neʼ quali esso piú si fidava: e in tal guisa renduti gli amici suoi sospetti a Falaris, fieramente cominciò a mordere e a riprendere la tristizia e la timiditá deʼ giovani circustanti: e quantunque dʼetá vecchio[74] fosse, riscaldò sí con le sue parole i cuori deʼ giovani di Gergenti, che, mosso il popolo a romore, uccisero con le pietre il tiranno e la perduta libertá racquistâro. E questo ho, senza piú, che poter dire del primo Zenone.

Lʼaltro Zenone chi si fosse altrimenti né donde non so; ma quasi una medesima costanza di animo alla precedente nʼ ho che raccontare. Essendo adunque questo Zenone, secondo che Valerio Massimo scrive nel terzo libro, fieramente tormentato da un tiranno chiamato Clearco, il quale, per forza di tormenti, sʼingegnava di sapere chi fossero quegli che con lui congiurati fossero nella sua morte, della quale Zenone tenuto avea consiglio; dopo alquanto, senza averne alcuni nominati, disse sé essere disposto a manifestargli quello che esso addomandava, ma essere di necessitá che alquanto in disparte si traessero. Per che, cosí da parte tiratisi, Zenone prese Clearco per lʼorecchio coʼ denti, né mai il lasciò, prima che tronca gliele avesse, come che egli daʼ circustanti amici del tiranno ucciso fosse.

«E vidi ʼl buon accoglitor del quale», cioè della qualitá dellʼerbe; e che esso intenda dellʼerbe, si manifesta per lo filosofo nominato, il quale intorno a quelle fu maravigliosamente ammaestrato: «Dioscoride dico». Dioscoride né di che parenti né di qual cittá natio fosse, non lessi giammai; e di lui niunʼaltra cosa ho che dire, se non che esso compuose un libro, nel quale ordinatamente discrisse la forma di ciascuna erba, cioè come fossero fatte le frondi di quelle, come fosser fatte le loro radici, come fosse fatto il gambo e come i fiori e come i frutti di ciascuna e come il nome, e similmente la virtú di quelle.

«E vidi Orfeo». Orfeo, secondo che Lattanzio, in libro Divinarum institutionum in gentiles scrive, fu figliuolo dʼApolline e di Calliope musa, e a costui scrive Rabano, in libro Originum, che Mercurio donò la cetera, la quale poco avanti per suo ingegno avea composta: la quale esso Orfeo si dolcemente sonò, secondo che i poeti scrivono, che egli faceva muovere le selve deʼ luoghi loro, e faceva fermare il corso deʼ fiumi, faceva le fiere salvatiche e crudeli diventar mansuete. Di costui, nel quarto[75] della Georgica, racconta Virgilio questa favola, cioè lui avere amata una ninfa, chiamata Euridice, ed avendola con la dolcezza del canto suo nel suo amore tirata, la prese per moglie. La quale un pastore, chiamato Aristeo, cominciò ad amare: e un giorno, andandosi ella diportando insieme con certe fanciulle su per la riva dʼun fiume chiamato Ebro, Aristeo la volle pigliare; per la qual cosa essa cominciò a fuggire, e, fuggendo, pose il piè sopra un serpente, il quale era nascoso nellʼerba; per che, sentendosi il serpente priemere, rivoltosi, lei con un velenoso morso trafisse, di che ella si morí. Per la qual cosa Orfeo piangendo discese in inferno, e con la cetera sua cominciò dolcissimamente a cantare, pregando nel canto suo che Euridice gli fosse renduta. E conciofossecosaché esso non solamente i ministri infernali traesse in compassione di sé, ma ancora facesse allʼanime deʼ dannati dimenticare la pena deʼ lor tormenti, Proserpina, reina dʼinferno, mossasi, gli rendé Euridice, ma con questa legge: che egli non si dovesse indietro rivolgere a riguardarla, infino a tanto che egli non fosse pervenuto sopra la terra; percioché, se egli si rivolgesse, egli la perderebbe, senza mai poterla piú riavere. Ma esso, con essa venendone, da tanto disiderio di vederla fu tratto, che, essendo giá vicino al pervenire sopra la terra, non si poté tenere che non si volgesse a vederla. Per la qual cosa, senza speranza di riaverla, subitamente la perdé; laonde egli lungamente pianse, e del tutto si dispose, poiché lei perduta avea, di mai piú non volerne alcunʼaltra, ma di menar vita celibe, mentre vivesse. Per la qual cosa, si come dice Ovidio, avendo il matrimonio di moltʼaltre, che il domandavano, ricusato, cominciò a confortare gli altri uomini che casta vita menassero. Il che sapendo le femmine, il cominciarono fieramente ad avere in odio; e multiplicò in tanto questo odio, che, celebrando le femmine quel sacrificio a Bacco, che si chiama «orgia», allato al fiume chiamato Ebro, coʼ marroni e coʼ rastri e con altri stromenti da lavorar la terra lʼuccisono e isbranaron tutto, e il capo suo e la cetera gittate nellʼEbro, infino nellʼisola di Lesbo furono dallʼacque menate: e, volendo un serpente divorare la testa, da Apolline fu convertito[76] in pietra: e la sua cetra, secondo che dice Rabano, fu assunta in cielo e posta tra lʼaltre imagini celestiali.

Ma, lasciando le fizioni poetiche da parte, certa cosa è costui essere stato di Tracia, e nato dʼuna gente chiamata «cicona»: e secondo che Solino, De mirabilibus mundi, afferma, questi cotali ciconi infino nel tempo suo in sublime gloria si reputavano Orfeo esser nato di loro. E fu costui, secondo che molti stimano, di queʼ primi sacerdoti che furono ordinati in queʼ tempi, che prima si cominciò in Grecia a conoscere Iddio, a dovere quelle parole esquisite comporre, dalle quali nacque il nome del poeta. E furono le forze della sua eloquenza grandissime in tanto, che in qual parte esso voleva, aveva forza di volgere le menti degli uomini. E, secondo che scrive Stazio nel suo Tebaida, egli fu di queʼ nobili uomini, li quali furono chiamati argonauti, che passarono con Giasone al Colco: e fu trovatore di certi sacrifici, infino al suo tempo non usati, e massimamente di quei di Bacco, secondo che Lattanzio scrive nel preallegato libro, dicendo Orfeo fu il primo, il quale introdusse in Grecia i sacrifici di Libero padre, cioè di Bacco; e fu il primo che quegli celebrò sopra un monte di Beozia, vicino a Tebe dove Bacco nacque: il qual monte è chiamato Citerone, per la frequenza del canto della cetera, il quale in quello faceva Orfeo. E sono quegli sacrifici ancora chiamati «orfichi», neʼ quali esso Orfeo fu poi morto ed isbranato. Della cui morte dice Teodonzio che, avendo Orfeo primieramente trovati i sacrifici di Bacco, e appo quegli di Tracia avendo comandato questi sacrifici farsi daʼ cori delle Menade, cioè delle femmine, le quali quel natural difetto patissono, del quale esse ogni mese sono, almeno una volta, impedite: e questo aveva fatto a fine di torle in quel tempo dalle commistioni degli uomini, conciosiacosaché non solamente sia abominabile, ma ancora dannoso agli uomini; ed esse, di ciò essendosi accorte: estimando questo essere stato trovato per far palese agli uomini la turpitudine loro, turbate, congiurarono contro ad Orfeo, e lui, che di ciò non si prendeva guardia, coʼ marroni uccisono e gittaronlo nel fiume Ebro. Fiorì costui in maravigliosa fama, regnando appo i troiani[77] Laomedonte, e appo i latini Fauno, padre di Latino. Nondimeno Leone tessalo diceva esserne stato un altro molto più antico di costui, il quale, essendo grandissimo musico, aveva trovato insieme con Museo quel modo esquisito di parlare, il quale di sopra dicemmo; avvegnaché Eusebio in libro Temporum scriva questo Museo, figliuolo di Eumolpo, essere stato discepolo dʼOrfeo.

«Tullio». Tullio, quantunque roman fosse, nondimeno la sua origine fu dʼArpino, città non lontana da Aquino, anticamente stata di queʼ popoli che si chiamarono volsci; e discese di nobili parenti, percioché si legge li suoi passati essere stati re della lor città. Questi, giovanetto, venne a Roma; e già in eloquenza valendo molto, avendo lʼanimo gentile, sempre sʼaccostò aʼ più nobili uomini di Roma. I suoi studi furon grandi e in ogni spezie di filosofia: e quantunque in quegli fosse ammaestratissimo, nondimeno in eloquenza trapassò ogni altro preterito, e, per quello che insino a questo di veder si possa, si può dire e futuro. Costui compose molti e laudevoli libri. Egli ancora giovinetto compose in rettorica lʼArte vecchia e la Nuova. Poi, più maturo, compose in questa medesima facultà un libro chiamato De oratore, nel quale con artificioso stilo racchiuse ciò che in retorica dir si puote. Scrisse, oltra a ciò, molti filosofici libri, sì come quello De officiis, Delle quistion tusculane, De natura deorum, De divinatione, De laudibus philosophiae, De legibus, De re publica, De re frumentaria, De re militari, De re agraria, De amicitia, De senectute, De paradoxis, De topicis ed altri più: e lasciò infinite orazioni fatte in senato ed altrove, degne di eterna memoria: e, oltre a ciò, scrisse un gran volume di pistole familiari e altre. Divenne per la sua industria in Roma splendido cittadino, in tanto che non solamente fu assunto tra la gente patrizia, ma esso fu fatto dellʼordine del senato, e insino al sommo grado del consolato pervenne: nel quale avendo da Fulvia, amica di Quinto Curio, e da certi ambasciatori degli allobrogi cautamente sentita la congiurazione ordinata da Catellina, presi certi nobili giovani romani che a quella tenevano, essendosi giá Catellina partito di Roma, di grandissimo pericolo liberò la cittá.[78] Fu, oltre a ciò, mandato in esilio daʼ romani, e poi, finito lʼanno, rivocato e con mirabile onore ricevuto. E, sopravvenute le guerre cittadine, seguí le parti di Pompeo; ed essendo in ogni parte i pompeiani vinti da Giulio Cesare, fu rivocato in Roma, né però fu privato dellʼordine senatorio. Ultimamente fu di quegli li quali congiurarono contro a Cesare, e quivi si trovò dove Cesare fu ucciso; per la qual cosa, come gli altri congiurati fuggitosi di Roma, essendo il nome suo posto nella tavola deʼ proscritti da Antonio triumviro, il quale fieramente lʼodiava, se nʼandò a Gaeta. Dove pianamente dimorando, Gaio Popilio Lenate, il quale Tullio con la sua eloquenza avea di capitale pericolo liberato, pregò Marco Antonio che gli concedesse di perseguirlo e dʼucciderlo: ed ottenutolo, lui nel campo Formiano, non lontano da Gaeta, uccise; e tagliatagli la testa e la destra mano, con esse se ne tornò a Roma, quasi trionfasse di quella testa che la sua avea liberata da morte.

«Lino» (supple) vidi. Lino fu tebano, uomo dʼaltissimo ingegno e in musica ammaestrato molto; e insieme con Anfione e con Zeto, tebani e nobilissimi musici, concorse. Credesi fosse uno di quegli primi poeti teologi; e, secondo che scrive Eusebio, egli fu maestro dʼErcole; e fu aʼ tempi di Bacco, chiamato Libero padre, regnante Pandione in Atena e Steleno appo gli argivi; e perseverò insino al tempo che Atreo e Tieste regnarono in Micena ed Egeo in Atene.

«E Seneca morale». È cognominato questo Seneca «morale», a differenza dʼun altro Seneca, il quale, della sua famiglia medesima, fu poco tempo appresso di lui, il quale (essendo il nome di questo «morale» Lucio Anneo Seneca) fu chiamato Marco Anneo Seneca, e fu poeta tragedo; percioché egli scrisse quelle tragedie, le quali molti credono che Seneca morale scrivesse. Fu adunque, questo Seneca, spagnuolo, della cittá di Corduba: ed egli con due suoi fratelli carnali (dei quali lʼuno fu chiamato Iunio Anneo Gallio e lʼaltro Lucio Anneo Mela, padre di Lucano) da Gneo Domizio, avolo di Neron Cesare, secondo che alcuni dicono, furono menati a Roma, e quivi furono in onorevole stato; e massimamente questo Seneca, il quale, qual[79] che la cagione si fosse, venuto in disgrazia di Claudio Cesare, il rilegò nellʼisola di Corsica, nella quale egli stette parecchi anni. Poi, avendo Claudio fatta uccidere Messalina, sua moglie, per gli manifesti suoi adultèri, e presa in luogo di lei Agrippina, figliuola di Germanico e sorella di Gaio Caligula imperadore e moglie di Domizio Nerone, padre di Nerone Cesare; aʼ prieghi di lei fu da Claudio rivocato in Roma e restituito neʼ suoi onori, e, oltre a ciò, dato per maestro a Nerone, ancora assai giovanetto, col quale in grandissimo colmo divenne e massimamente di ricchezze. Egli fu uditore dʼun famoso filosofo in queʼ tempi, chiamato Focione, della setta degli stoici; e, quantunque in molte facultá solennissimo divenisse, pure in filosofia morale, secondo la setta stoica, divenne mirabile uomo, e in tanto piú commendabile, in quanto i suoi costumi, quanto piú esser potessono, furon conformi alla sua dottrina. E, perseverando in continuo esercizio, compose molti e laudevoli libri, sí come il libro De beneficiis, quello De ira, quello De clementia a Nerone, quello De tranquillitate animi, quello De remediis fortuitorum, quello De quæstionibus naturalibus, quello De quatuor virtutibus, quello De consolatione ad Elviam e altri piú. Ma sopra tutti fu quello Delle pistole a Lucillo, nel quale, senza alcun dubbio, ciò che scriver si può a persuadere di virtuosamente vivere, in quel si contiene: e quello ancora che si chiama Le declamazioni. Compose, oltre a questi, un altro, secondo che alcuni vogliono, il quale è molto piú poetico che morale, ed è in prosa e in versi, in forma di tragedia: e in quello discrive come Claudio Cesare fosse cacciato di paradiso e menatone da Mercurio in inferno. E che esso questo componesse, quantunque a me non paia suo stilo, nondimeno alquanta fede vi presto, percioché egli ebbe fieramente in odio Claudio, per la ingiuria dello esilio ricevuta da lui; e quello libretto per tutto non è altro che far beffe di Claudio e della sua poca laudevol vita.

Ma, poi che Claudio, per lo ʼnganno dʼAgrippina, sua moglie, fu morto dal veleno, datogli mangiare neʼ boleti, e per lʼastuzia di lei posposto Britannico, figliuolo legittimo e natural di Claudio; Nerone, figliuolo adottivo del detto Claudio e dʼAgrippina[80] e discepolo di questo Seneca, fu fatto imperadore ancora assai giovane; e senza alcun dubbio multiplicò molto la grandezza e la ricchezza di Seneca, la quale men che felice uscita ebbe; percioché, avendo Nerone fatto morire Britannico di veleno, e, oltre a ciò, avendo fatta uccidere Agrippina, sua madre, e Ottavia, sirocchia carnale di Britannico e sua moglie, rifiutata e mandata in esilio in una isola, molte cose falsamente apponendole, e ultimamente fattala uccidere, e fattasi moglie una gentildonna di Roma, chiamata Poppeia Sabina, la qual più anni aveva per amica tenuta, e fatto morire uno Burrone, il quale era prefetto dello esercito pretoriano e suo maestro insieme con Seneca, e in luogo di Burrone, ad istanza di Poppeia, posto uno chiamato Tigillino; ed avendo Poppeia e Tigillino sospetto Seneca non, coʼ suoi consigli, lʼanimo di Nerone volgesse e loro gli facesse odiosi, cominciarono sagacemente ad incitare Nerone contro di lui. La qual cosa sentendo Seneca, per menomare la ʼnvidia portatagli, pregò Nerone che tutte le sue ricchezze e gli onori prendesse, e lui lasciasse in povero e in privato stato. Le quali Nerone non volle ricevere, ma, postogli il braccio in collo, e lusingandolo, e quello nelle parole mostrando che nellʼanimo non avea, ciò, che egli rifiutava, ritenere gli fece. Nondimeno Seneca, suspicando sempre della poca fede di Nerone, cominciò del tutto a rifiutare le visitazioni e le salutazioni degli amici, ed a fuggire la lunga compagnia deʼ clientoli, e a dimorare il più del tempo ad alcune sue possessioni, le quali fuora di Roma avea.

Ultimamente, essendosi scoperta una congiurazione fatta contro a Nerone da molti deʼ senatori e da più altri dellʼordine equestre, e daʼ centurioni e da altri cittadini, essendo di quella prencipe un nobile giovane di Roma chiamato Pisone; venne in animo a Nerone di farlo morire, non perché in quella colpevole il trovasse, ma per propria malvagità e come uomo che era disideroso dʼadoperare crudelmente la sua potenza coʼ ferri. Ed essendo per ventura di queʼ dí, secondo che scrive Cornelio Tacito nel quindicesimo libro delle sue Storie, tornato Seneca di campagna, sʼera rimaso in una sua villa, quattro miglia vicino[81] a Roma, alla quale Sillano, tribuno dʼuna coorte pretoria, approssimandosi giá lʼora tarda, andò e quella intorniò dʼuomini dʼarme, ed entrato in casa, trovò lui con Pompeia Paulina sua moglie, e con due deʼ suoi amici mangiare. E mangiando egli, gli manifestò il comandamento fattogli dallʼimperadore, cioè: uno, chiamato Natale, essere stato mandato a lui per parte di Pisone, ed esso essersi in nome di Pisone rammaricato perché da poterlo visitare fosse proibito. Al quale Seneca rispuose: sé essersi da ciò scusato, che fatto lʼavea per cagione della sua infermitá e per disiderio di riposo; e che esso non avea avuta alcuna cagione per la quale la salute del privato uomo avesse preposta alla sua sanitá; e che il suo ingegno non era pronto né inchinevole a dover lusingare alcuno; e che di questo non era alcuno piú consapevole che Nerone, il quale spessissimamente avea provata piú la libertá di Seneca che il servigio. Le quali parole, presente Poppeia e Tigillino, il tribuno rapportò a Nerone; il quale Nerone domandò se Seneca sʼapprestava a volontaria morte. Rispose: niuno segno di paura aver veduto in lui e niuna tristizia conosciuta nelle parole e nel viso. Per la qual cosa Nerone gli comandò che tornasse a Seneca, e gli comandasse che egli sʼeleggesse la morte. Il quale tornatovi, non volle andare nella sua presenza, ma mandovvi uno deʼ centurioni, che gli dicesse lʼultima necessitá: la quale Seneca senza alcuna paura ascoltò, e domandò che portate gli fossero le tavole del suo testamento. La qual cosa il centurione non sostenne. E perciò Seneca, voltosi aʼ suoi amici, molte cose disse, e, poiché negato gli era di poter render loro grazia secondo i lor meriti, testò sé lasciar loro una di quelle cose le quali egli aveva piú bella, e ciò era la immagine della vita sua, della quale se essi si ricordassono, essi sempre seco porterebbono la fama delle buone e laudevoli arti e della costante loro amistá. E, oltre a questo, ora con parole e ora con piú intenta dimostrazione, cominciò le lor lacrime a rivocare in fermezza dʼanimo: domandògli dove i comandamenti della sapienza, dove per molti anni avesser lasciata andare la premeditata ragione intorno alle cose sopravvegnenti, e da cui non esser saputa la crudeltá di Nerone;[82] e che niunʼaltra cosa gli restava a fare, avendo la madre e ʼl fratello uccisi, se non dʼuccidere il suo maestro e colui che allevato lʼavea. E quinci, abbracciata la moglie, la confortò e pregò che con forte animo portasse questa ingiuria. E, avendo giá il centesimo anno passato, si fece aprir le vene delle braccia, e appresso, percioché il sangue lentamente usciva del corpo, similmente si fece aprir le vene delle gambe e delle ginocchia; e, mentre lentamente mancava la vita sua, infino che gli bastaron le forze di poter parlare, fatti venire scrittori, piú cose degne di laude in sua fama e in bene di coloro che dopo la sua morte le dovevan vedere, fece scrivere. Ma, prolungandosi troppo la morte, pregò Stazio Anneo medico, lungamente stato suo fido amico, che gli desse veleno, il quale egli lungamente davanti sʼaveva apparecchiato. Il quale preso, né dʼalcuna cosa offendendolo, per li membri, che erano giá freddi e niuna via davano donde il veleno potesse al cuore trapassare; si fece alla fine mettere in un bagno dʼacqua molto calda, nel quale entrando, con le mani, queʼ servi che piú prossimani gli erano, presa dellʼacqua, risperse. Daʼ quali fu udita questa voce: che esso quello liquore sacrificava a Giove liberatore. E poco appresso dal vapore caldo dellʼacqua fu ucciso, e senza alcuna pompa o solennitá di funebre ufficio fu, secondo il costume antico, arso il corpo suo.

Fu nondimeno fama, secondo che il predetto Cornelio scrive, che Subrio Flavio aveva coʼ centurioni avuto secreto consiglio, il quale Seneca aveva saputo, che, poiché Nerone fosse stato per opera di Pisone ucciso, che esso Pisone similmente ucciso fosse, e che lʼimperio fosse dato a Seneca, quasi, come non colpevole, per ragione delle sue virtú fosse stato eletto allʼaltezza del principato.

Ma, come che lʼautore in questo luogo il ponga come dannato, io non sono perciò assai certo, se questa opinione sia da seguire o no: conciosiacosaché si leggano piú epistole mandate da Seneca a san Paolo e da san Paolo a Seneca, nelle quali appare tra loro essere stata singulare amistá, quantunque occulta fosse; ed in quelle, o almeno nellʼultima di[83] quelle, essere parole scritte da san Paolo, le quali, bene intese, assai chiaro mi pare dimostrino san Paolo lui aver per cristiano. E se esso fu cristiano e di continentissima e santa vita, perché traʼ dannati annoverar si debba non veggio: senza che, a confermazion di questa mia pietosa opinione, vengono le parole scritte di lui da san Girolamo in libro Virorum illustrium, nel quale scrive cosí: «Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Focionis stoici discipulus, et patruus Lucani poëtae, continentissimae vitae fuit, quem non ponerem in chatalogo sanctorum, nisi me illae epistolae provocarent, quae leguntur a plurimis Pauli ad Senecam et Senecae ad Paulum, in quibus, cum esset Neronis magister, et illius temporis potentissimus, optare se dicit eius esse loci apud suos, cuius sit Paulus apud Christianos. Hic ante biennium, quam Petrus et Paulus coronarentur martyrio, a Nerone interfectus est».

[E, oltre a questo, mi sospigne alquanto a sperar bene della sua salute, quasi lʼultimo atto della vita sua, quando, entrando nel piú caldo bagno, disse sé sacrificare quella acqua a Giove liberatore; parendomi queste parole potersi con questo sentimento intendere: che esso, il quale, quantunque il battesimo della fede avesse, il quale i nostri santi chiamano «flaminis», non essendo rigenerato secondo il comune uso deʼ cristiani nel battesimo dellʼacqua e dello Spirito santo, quellʼacqua in fonte battesimale consegrasse a Giove liberatore, cioè a Iesu Cristo, il quale veramente fu liberatore dellʼumana generazione nella sua morte e nella resurrezione. Né osta il nome di Giove, il quale altra volta è stato mostrato ottimamente convenirsi a Dio: anzi a lui e non ad alcuna creatura. E cosí consecratala, in questa essersi bagnato, e divenuto cristiano col sacramento visibile, come con la mente era. Ora di questo è a ciascuno licito quello crederne che gli pare.]

[Lez. XVII]

«Euclide geometra» (supple) vidi. Euclide geometra, onde si fosse, né di che parenti disceso, non so; ma assai appare per Valerio Massimo, nel suo ottavo libro, capitolo dodici, lui essere stato contemporaneo di Platone, e, percioché insino neʼ nostri dí è perseverata la fama sua, puote assai esser manifesto lui avere in geometria ogni altro filosofo trapassato. Esso adunque[84] compose il libro delle Teoremate in geometria, il quale ancora consiste: sopra le quali fu da Boezio ottimamente scritto.

«E Tolomeo». Tolomeo, cognominato da alcuno peludense, secondo che opinione è di molti, fu egiziaco; ed alcuni estimano lui essere stato di queʼ re dʼEgitto, percioché molti ve nʼebbe con questo nome; e altri credono che esso non fosse re, ma nobile uomo del paese. E, percioché alcuno scrive lui essere stato nel torno di centoventotto anni dopo la incarnazione di nostro Signore, cioè aʼ tempi dʼAdriano imperadore, sono io di quegli che credo lui non essere stato re; percioché in queʼ tempi non si legge Egitto avere avuti re, conciofossecosaché esso in forma di provincia romana si reggesse. Ma chi che egli si fosse, o re o altro, certissimo appare lui essere stato eccellentissimo astrolago. Nella quale arte, a dottrina e ammaestramento di coloro che venir doveano, esso piú libri compose, traʼ quali fu lʼAlmagesto, il Quadripartito, e ʼl Centiloquio, e molte tavole a dovere con le lor dimostrazioni poter trovare i veri luoghi deʼ pianeti e i lor movimenti. Fu allevato in Alessandria, e quivi abitò, e in Rodi; e, poi che vivuto fu ottantotto anni, finío la vita sua.

«Ipocras». Ipocras, secondo che Rabano in libro XVIII Originum scrive, fu figliuolo dʼAsclepio, e regnante Artaserse, re di Persia, nacque nellʼisola di Coo; e per assiduo studio divenne gran filosofo e solennissimo medico. E dicono di lui alcuni che, essendo egli da un fisonomo veduto, dové il fisonomo dire a lui dovere essere di natura lussurioso uomo, e, oltre a ciò, di grossissimo ingegno: la qual cosa egli confessò esser vera, ma che lʼastinenza lʼavea fatto casto, e lʼassiduitá dello studio lʼavea fatto ingegnoso. E veramente fu egli ingegnoso, percioché esso fu colui il quale per forza dʼingegno ritrovò la medicina, la qual del tutto era perduta. È adunque da sapere che Apollo appo i greci fu il primiero uomo che trovò medicina, e costui, investigate le virtú dellʼerbe, quelle sole nelle sue medicine adoperò; appresso il quale fu Esculapio suo figliuolo, il quale, ammaestrato dal padre, e poi per lo suo studio divenuto scienziatissimo, quella ampliò molto; ed essendo[85] avvenuto il caso dʼIppolito, figliuolo di Teseo, re dʼAtene, che, fuggendo la sua ira, daʼ cavalli che il suo carro tiravano, spaventati daʼ pesci chiamati «vecchi marini», li quali di terra rifuggivano in mare, lui, rotte le ruote, peʼ luoghi petrosi trascinando, aveano tutto lacerato, e in sí fatta maniera concio che ciascuno giudicava lui morto: per lʼarte e sollecitudine di questo Esculapio fu a sanitá ritornato. Ed avvenendo non guari poi che Esculapio, percosso da una folgore, morisse, diceva ognʼuomo perciò lui essere stato fulminato da Giove, percioché Giove sʼera turbato che alcuno uomo avesse potuto un altro uomo morto rivocare in vita. Per la quale universal fama degli sciocchi, fu del tutto interdetta lʼarte della medicina; e, secondo che Plinio, nel libro ventinovesimo De historia naturali, scrive, essendo la medicina sotto oscurissima notte stata nascosa insino al tempo della guerra peloponensiaca, fu da questo Ippocrate rivocata in luce e consecrata ad Esculapio. E dice Rabano, nel libro preallegato, che ella stette nascosa nel torno di cinquecento anni; e cosí costui, dʼarte cosí opportuna allʼumana generazione si può dire essere stato prencipe ed autore. Scrive di costui san Geronimo nelle Questioni del Genesi che, avendo una femmina partorito un bel figliuolo, il quale né lei né il padre somigliava, era per esser punita sí come adultera; il che udendo Ippocrate, disse che era da riguardare, non per avventura nella camera sua fosse alcuna dipintura simile; la qual trovatavisi, liberò la innocente femmina dalla sospezione avuta di lei. Egli fu piccolo di corpo e di forma fu bello: ebbe gran capo, fu di movimento ed eziandio di parlar tardo e fu di molta meditazione e di piccol cibo; e, quando si riposava, guardava la terra. Visse novantacinque anni, e poi si morí.

[«Avicenna». Avicenna, secondo che io ho inteso, fu per nazione nobilissimo uomo; anzi dicono alcuni lui essere stato chiarissimo prencipe e dʼalta letteratura famoso, e massimamente in medicina. Altro non ne so.]

«E Galieno». Galieno fu per origine di Pergamo in Asia, lá dove primieramente fu trovato il fare delle pelli degli animali carte da scrivere, le quali ancora servano il nome del luogo[86] dove primieramente fatte furono, e chiamansi «pergamene»; ed in medicina fu scienziatissimo uomo, secondo che appare. Costui primieramente fiorí ad Atene e poi in Alessandria fu di grandissimo nome; e quindi venutosene a Roma, quivi fu di grandissima fama, per quello che alcuni dicano, al tempo di Antonino pio imperadore. Altri il fanno piú antico, e dicono che egli visse al tempo di Nerone e degli altri imperadori, che appresso lui furono, infino a Domiziano. Esso, poi che finiti ebbe anni ottantasette, finío la vita sua.

«Averrois». Averrois dicono alcuni che fu arabo ed abitò in Ispagna; altri dicono che egli fu spagnuolo. Uomo dʼeccellente ingegno, intanto che egli comentò ciò che Aristotile in filosofia naturale e metafisica composto avea; e tanto chiara rendé la scienza sua, che quasi apparve insino al suo tempo non essere stata intesa, e però non seguita, dove dopo lui è stata in mirabile pregio, anzi a quella dʼogni altro filosofo preposta. «Che ʼl gran comento feo»: sopra i libri dʼ Aristotile. Ed è intra lo «scritto» e ʼl «comento», che sopra lʼopera dʼalcuni autori si fanno, questa differenza: che lo scritto procede per divisione, e particularmente ogni cosa del testo dichiara; il comento prende solo le conclusioni, e, senza alcuna divisione, quelle apre e dilucida: e cosi è fatto quello dʼAverrois.

Ma, poiché finite sono le storie, avanti che fine si faccia a questa quarta particula, è da rimuovere un dubbio, il quale per cose in essa raccontate si può muovere: e dico che in questo canto pare che lʼautore a se medesimo contradica, in quanto di sopra, ragionandogli Virgilio quali sieno quegli che in questo cerchio puniti sono, dice esser tali che non peccâro: «e sʼegli hanno mercedi, Non basta», ecc. E poi ne nomina lʼautore alquanti, che di questi cotali sono, sí come nelle raccontate istorie è assai manifesto, li quali assai apertamente appare loro essere stati peccatori, sí come Ovidio, il quale, quantunque assai cose buone e utili componesse, nondimeno a chi legge il suo libro, il quale è intitolato Sine titulo, assai chiaro può vedere lui essere stato quasi piú che alcun altro effeminato e lascivo uomo. E, oltre a questo, nel libro il quale egli compuose De arte[87] amandi, dá egli pessima e disonesta dottrina aʼ lettori. Appresso, è ancora di questi Lucano, il quale, come mostrato è, fu nella congiurazione pisoniana incontro a Nerone, il quale era suo signore: e, quantunque iniquo uom fosse, e niuna, secondo che Seneca tragedo scrive in alcuna delle sue tragedie, è piú accetta ostia a Dio che il sangue del tiranno, nondimeno non aspettava a Lucano di volere esser punitore degli eccessi del signor suo. E dentro al castello pone Enea, il quale, secondo che Virgilio testimonia, con Didone alcun tempo poco laudevolmente visse, e, oltre a ciò, credono i piú che egli sentisse con Antenore insieme il tradimento dʼIlione sua cittá; il che, oltre alla turpe operazione, è gravissimo peccato. Ponvi similmente Cesare, il quale, come mostrato è, fu incestuoso uomo, e di piú donne vituperevolmente contaminò lʼonestá; rubò e votò lʼerario publico deʼ romani, e, oltre a ciò, tirannicamente occupò la libertá publica e quella, mentre visse, tenne occupata. Appresso vi descrive Lucrezia, la quale, quantunque onestissima donna fosse, nondimeno se medesima uccise, il che senza grandissimo peccato non è licito di fare ad alcuno. Scrivevi ancora il Saladino, il quale, come noi sappiamo, in quanto poté fu nemico del nome di Cristo, adoperando e procacciando con ogni istanzia il disfacimento di quello. E questi peccati, li quali io dico che neʼ predetti furono, mostra lʼautore sotto intollerabili supplici e in dannazion perpetua essere appresso puniti. Per la qual cosa appare, come davanti dissi, lʼautore a se medesimo contradire.

Ma a questo dubbio mi pare si possa in cosí fatta maniera rispondere: essere di necessitá i meriti e le colpe per gli autori di quelle convenirsi discrivere, accioché piú pienamente si possan comprendere: e queste non per ogni autore, percioché assai ne sono di sí piccola fama che, non essendo conosciuti, non sarebbono intese; ma per eccellenti e famosi uomini intorno a quelle cose le quali alcun vuole che intese sieno; e perciò, e qui e per tutto il suo libro, lʼautore quasi altra gente non pone, se non quegli cotali, per li quali crede piú essere conosciuto e inteso quello che dir vuole. Quantunque egli per questo non intenda che alcuno creda che egli alcun deʼ nominati vedesse,[88] né in inferno né altrove, ma vuole che, per gli nominati, sʼintenda essere in quello luogo qualunque è stato colui in cui quelle medesime virtú o vizi stati sono. E, oltre a ciò, quantunque Enea, Giulio e Lucrezia e gli altri detti, stati peccatori, qui descritti dallʼautore, intende esso autore questi cotali in questo luogo si prendan solamente per virtuosi in quelle virtú che loro qui attribuite sono, e le colpe, quasi non sute, si lascino stare. E cosí prenderemo qui essere chiunque fu in opera simile a Giulio, in quanto virtuoso e non battezzato, e cosí di Lucrezia e degli altri, e non in quanto in alcune cose peccarono: e in questa maniera si convien sostener questo testo.

«Io non posso ritrar», cioè raccontare, «di tutti», quegli valenti uomini che io vidi in quel luogo, «appieno», cioè pienamente; percioché molti erano. E soggiugne la ragione perché di tutti ritrarre non può, dicendo: «Percioché sí mi caccia», cioè sospigne a procedere avanti, «il lungo tema», di voler discrivere lʼuniversale stato degli spiriti dannati, di queʼ che si purgano e deʼ beati: «Che molte volte», non solamente pur qui, ma ancora altrove, «al fatto», cioè alle cose che vedute ho, le quali sono in fatto, «il dir», cioè il raccontare, «vien meno». E ciò non è maraviglia, percioché, volendo appieno raccontare le particularitá di qualunque nostra operazione, quantunque piccola sia, si converrebbon dir tante parole, che quasi mai non verrebbon meno.

«La sesta compagnia». In questa quinta e ultima particella della seconda parte principale della suddivisione del presente canto, dimostra lʼautore come, partiti daʼ quattro poeti, procedettero avanti, e dice: «La sesta compagnia», cioè deʼ sei poeti, dʼOmero e di Orazio e degli altri, «in due», cioè poeti, in Virgilio e nellʼautore, «si scema», cioè rimane scema. «Per altra via», che per quella per la quale venuti eravamo, «mi mena ʼl savio duca», Virgilio, «Fuor della cheta», aura; percioché, come assai è nelle precedenti cose apparito, niun tumulto, niun romore era in quel cerchio; «nellʼaura che trema», sí come ripercossa da impetuoso spirito di vento e da pianti e da dolori. «E vengo in luogo, ove non è», né sole, né stella, né lumiera «che luca», cioè faccia lume.


[89]

II

Senso Allegorico

[«Ruppemi lʼalto sonno nella testa», ecc. La continuazione del senso allegorico del precedente canto con quella di questo nella fine del precedente, è dimostrata in quanto, avendo di sopra mostrato come talvolta lʼuomo, ingannato dagli splendori mondani, mortalmente pecchi e per conseguente diventi servo del peccato, nel principio di questo dimostra come, per quello, nella prigione del diavolo si ritruovi; e di questo essersi accorto per la visitazion di Dio, il quale ha in lui mandata la grazia operante, per la quale egli è stato desto dal mortal sonno, e fatto ravvedere lá dove per lo peccato è pervenuto, cioè in luogo tenebroso, oscuro e pien di dolore e di pene. Delle quali accioché egli abbia piena esperienza, e ammaestrato pervenga con disiderio alla penitenza, seguendo la ragione, procede e vede, dimostrandogliele ella, la prima colpa, che per la giustizia di Dio è punita nel primo cerchio dello ʼnferno. E questa, come assai è manifestato nel testo, dico che è il peccato originale, il quale, per lo lavacro del battesimo, da quegli cotali, che in questo cerchio pena ne sostengono, non fu levato via. Per questo peccato entrò la morte nel mondo; per questo peccato fu lʼumana spezie cacciata di paradiso; per questo peccato son sempre poi gli uomini stati e saranno, mentre durerá il mondo, in angoscia e in tribulazione e in mala ventura; per questo peccato Cristo figliuol di Dio ricevette passione e morte, e risurgendo nʼaperse la porta del paradiso, lungamente stata serrata.]

[Dico adunque che, per lo non avere ricevuto il battesimo, al quale sʼaspetta di tôr via il peccato originale, quelli, che in questo cerchio si dolgono, sono dannati, quantunque per altro innocenti sieno, e ancora, per le buone opere, di molti paiano degni di merito. Ed è qui da sapere il battesimo essere di[90] quattro maniere. La prima delle quali è il battesimo della prefigurazione, nel quale insieme con Moisé furon battezzati tutti i giudei passando il mar Rosso. E di questo dice san Paolo: «Patres nostri omnes sub nube fuerunt, et omnes mare transierunt: et omnes in Moyse baptizati sunt, in nube et mare». La seconda è il battesimo del fiume, cioè quello il quale attualmente neʼ suoi catecumeni usa la Chiesa di Dio, del quale Cristo dice nellʼEvangelio aʼ suoi discepoli: «Euntes ergo, docete omnes gentes, et baptizate eos», ecc. La terza maniera si chiama «flaminis», cioè di spirito: e di questa parla lʼEvangelio dove dice: «Super quem videris Spiritum descendentem et manentem: hic est qui baptizat». E di questa spezie di battesimo credo esser battezzati quegli, se alcuni ne sono, li quali battezzati non sono del battesimo della Chiesa usitato, e non pertanto si credono essere, ed in ogni atto vivono come cristiani veramente battezzati, né per alcuna cosa posson presumere che battezzati non sieno. La quarta maniera si chiama «sanguinis», e di questa dice lʼEvangelio: «Baptismo habeo baptizari, et quomodo coarcor, usque dum perficiatur?» E in questo credo esser battezzati coloro li quali, disposti a ricevere il battesimo, sʼavacciano di pervenire a colui che secondo il rito ecclesiastico li può battezzare, e in questo avacciarsi, sopraprenderli alcuni nemici uomini che gli uccidono, o altro caso, avanti che al luogo destinato possan venire. Nel primo, come detto è, furon battezzati i giudei: Esodo: «Divisa est aqua, et ingressi sunt filii Israël per medium sicci maris». Nel secondo son battezzati quegli li quali noi chiamiamo rinati, deʼ quali dice lʼEvangelio: «Qui crediderit et baptizatus fuerit, salvus erit». Nel terzo son battezzati quegli li quali delle lor colpe pentuti sono, e di questi dice lʼ Evangelio: «Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu sancto, non intrabit in regnum caelorum». Nel quarto sono battezzati i martiri, deʼ quali similmente dice lʼEvangelio: «Calicem quidem meum bibetis», ecc. E se in quegli, che in questo cerchio dannati sono, ben si riguarda, alcuno non ve nʼè, se non fosse giá Seneca, del quale è assai detto nella lettera, che dʼalcuno di questi battesimi battezzato fosse.]

[91]

Sono adunque questi cotali solamente per continui sospiri e per difetto di speranza puniti; la qual pena assai pare che si confaccia al peccato. Fu il peccato originale con soavitá e dolcezza di gusto commesso, e però qui per amaritudine di sospiri mandati dal cuor fuori si punisce; cioè per dolorosa compunzione, in perpetuo, quegli, che con esso in questo mondo muoiono, menano amara vita nellʼaltro: e come i primi parenti per quello sperarono dovere simili a Dio divenire, cosí qui sono i lor successori, che con esso peccato muoiono, privati dʼogni speranza di mai doverlo vedere; e come la disonesta speranza gli sospinse al peccato, dico i primi nostri parenti, cosí qui lʼonesta nega loro il suo aiuto a dover con minor noia sofferire lʼafflizione recata in loro dal martíre. E, oltre a ciò, come quello per noi non fu commesso, ma, come spesse volte è detto, per li primi nostri parenti; punito non è, in quegli neʼ quali la sua infezione persevera, per alcuna pena impressa in loro per alcuno esteriore ministro della giustizia di Dio. Né creda alcuno questa pena essere di piccola gravezza o poco cocente, cioè il dolersi coʼ sospiri, senza speranza dʼalcuno futuro o disiderato riposo; anzi, se ben riguarderemo, è gravissima; e, se gli spiriti fossero mortali, essi la dimostrerebbono intollerabile, sí come i mortali hanno spesse volte mostrato. Assai ci puote essere manifesto alcuni essere stati che, ferventemente disiderando alcuna cosa (come creder dobbiamo che questi spiriti, deʼ quali parliamo, disiderano di veder Iddio), come conosciuto hanno esser lor tolta ogni speranza di doverla ottenere, essere in tanto dolor divenuti, che essi, stoltamente eleggendo per molto minor pena la morte che la vita senza speranza, ad uccidersi, e crudelmente, trascorsi sono. Per la qual cosa mi pare essere assai certo che, se morir potessono gli spiriti, come non possono, assai in quella estrema miseria incorrerebbono. [E questi cotali dico esser tutti quegli che alcuno deʼ sopra detti battesimi avuto non hanno, li quali qui in tre maniere distingue, cioè in pargoli e in uomini e femmine non famose, e come son tutti coloro li quali esso nominatamente discrive.][92] [Intorno alla qual discrizione, son certi eccellenti uomini aʼ quali non pare che in questa parte lʼautore senta tanto bene, cioè in quanto mostra opinare una medesima pena convenirsi per lo peccato originale a quegli li quali ad etá perfetta pervennero, e a quegli, i quali avanti che a quella pervenissero, morirono. E la ragione, che a questo gli muove, par che sia questa: che i primi, cioè gli uomini, pare che, dalla ragione naturale mossi, dovessero cercare della notizia del vero Iddio, e cosí lavarsi della macchia del peccato originale; e peroché nol fecero, non pare che la ignoranza gli scusi, come fa coloro li quali anzi lʼetá perfetta morirono: e per conseguente, per la negligenza in ciò avuta, meritano maggior pena. E perciò in ciò non pare che lʼautore abbia tanto bene opinato.]

[Egli è assai manifesta cosa che la ignoranza, in coloro massimamente neʼ quali dee essere intera cognizione, e per etá e per ingegno, non scusa il peccato: conciosiacosaché noi leggiamo quella essere stata redarguita da Dio in nostro ammaestramento, lá dove dice per Ieremia: «Milvus in caelo et hirundo et ciconia cognoverunt tempus suum; Israël autem me non cognovit». Per che meritamente segue aglʼignoranti quello che san Paolo dice: «Ignorans, ignorabitur», e massimamente a quegli deʼ quali pare che senta il salmista, dove dice: «Noluit intelligere, ut bonum ageret». Per che senza alcun dubbio si dee credere che a questi cotali, li quali di conoscere Iddio non si son curati, né lʼhanno amato ed onorato secondo i suoi medesimi comandamenti, sará nellʼestremo giudizio detto da Cristo: «Non novi vos, discedite a me, operarii iniquitatis». La qual cosa accioché avvenir non possa, con ogni studio, con ogni vigilanza si dee cercare di conoscere Iddio, e credere che chi questo non fa, non potrá per ignoranza in alcuna maniera scusarsi.]

[Ma nondimeno io non credo che ogni ignoranza igualmente sia riprensibile: e dico «ogni ignoranza», percioché questi signori giuristi e canonisti distinguono, e ottimamente al mio parere, tra ignoranza e ignoranza, chiamandone alcuna «ignoranza facti» ed alcunʼaltra «ignoranza iuris». E vogliono che[93] ignoranza facti sia quella dʼalcuna cosa, la quale verisimilmente non debbia esser pervenuta alla notizia degli uomini: verbi gratia, il papa col collegio deʼ suoi fratelli cardinali segretamente avranno per legge fermato che, sotto pena di scomunicazione, alcun cristiano per alcuna cagione non vada né mandi in alcuna terra dʼalcuno infedele; e, stante questa legge ancor secreta, questo o quel mercatante vʼandranno o vi manderanno: direm noi che per questa ignoranza, che è ignoranza facti, questo cotal sia escomunicato? Certo no; ché ciò sarebbe manifestamente fuor dʼogni ragione, percioché gli uomini non sanno indovinare.]

[Adunque è questa ignoranza escusabile; percioché noi non possiam sapere quello che il papa sʼabbia fatto, né prima dobbiamo il suo secreto voler sapere, che esso medesimo nel voglia manifestare. Ma, poi che esso avrá diliberato che questa legge si palesi, e promulgatala, e per li suoi messaggieri mandatala per tutto, e fattala nunziare e predicare; senza dubbio non può alcun dire che il non saperlo il debbia rendere scusato: sí come talvolta fanno alcuni che, sospicando non si dica cosa che essi non voglian sapere, si partono deʼ luoghi dove ciò si pronunzia; ché fuggono, e poi credono essere scusati per dire e per giurare:—Io non fui mai in parte dove questa proibizion si facesse;—percioché a ciascun sʼappartiene di stare attento dʼinvestigare e di sapere i comandamenti deʼ suoi maggiori, e quegli con ogni reverenza ricevere e ubbidire. E perciò alla obbiezion fatta, cioè che aʼ nominati dallʼautore, conciosiacosaché per ignoranza iscusati non sieno, si convenga piú grieve pena che a quegli che per la piccola etá cercar non poterono dʼavere la notizia di Dio, e di seguire i suoi comandamenti; mi pare che, come poco avanti è detto, si possa rispondere e mostrare in loro essere stata ignoranza facti, e per conseguente dover da essa e potersi con ragione scusare. E che neʼ nominati dallʼautore e neʼ simili fosse ignoranza facti, si può in questa maniera comprendere.]

[Fu il mondo, sí come noi possiamo per lo testo della santa Scrittura cognoscere, molte centinaia dʼanni prima lavato dal diluvio universale, che Dio alcuna legge desse ad alcuno uomo.[94] E la moltitudine della gente da Noé procreata e daʼ figliuoli, era ampliata molto, e in diversi popoli sʼera sparta sopra la faccia della terra: e non solamente la terra continua, ma ancora molte isole aveva ripiene, e ciascheduno secondo il suo arbitrio, o secondo il beneplacito di colui il quale in prencipe avea sublimato, vivea: e cotal vita estimava ottima e laudevole, quantunque molti pessimamente estimassono. Nondimeno i piú lungamente seguitarono le leggi naturali: e alcuni, che piú di sentimento cominciarono a prendere «a naturali», una brieve legge aggiunsero, cioè:—Non far quello ad altrui, che tu non volessi che fosse fatto a te.—E da questa nacque un modo di vivere piú universale, il quale essi chiamarono «ius gentium»: per lo quale assai oneste cose si servavano diligentemente tra lʼuniversitá deʼ popoli. Poi cominciarono le genti a fare le leggi municipali, e secondo quelle vivere e governarsi. E nondimeno sopra le leggi umane avevano alcune divine leggi, per lʼammaestramento delle quali essi onoravano e adoravano Iddio; e cosí perseverarono e ancora perseverano molte nazioni.]

[Ma, poi che a nostro signore Iddio piacque volere le sue leggi ad alcun popolo dare, dalle quali non solamente il popolo, al quale dare le intendea, ma eziandio qualunque altro, volendo, potesse prender regola e norma da piacere a Dio; primieramente fece Abraam degno della sua amicizia, e a lui aperse parte del suo secreto, cioè di quello che fare intendeva nel seme suo: né a lui perciò alcune singulari leggi diede, se non in tanto che, a distinzione deʼ suoi discendenti dagli altri popoli, gli comandò la circuncisione, la qual sempre perseverò e persevera in quegli che deʼ suoi discendenti si dicono. E questa medesima amicizia ritenne con Isaac e con Iacob, discendenti dʼAbraam. Ma poi Iacob, con quegli che di lui eran nati, andatone in Egitto, e in grandissima moltitudine cresciuti, per piú centinaia dʼanni servato il rito della circuncisione, sotto le leggi e sotto la servitudine delli re dʼEgitto furono; della quale Moisé per comandamento di Dio, carichi delle piú care cose degli egiziaci, per lo mar Rosso gli trasse, e menògli neʼ diserti dʼArabia: e quivi dimorando ancora senza legge, se non quella che[95] arbitrariamente in bene e in riposo di loro sʼusava; Moisé, sí come loro duca e giudice, salito sopra il monte Senai, in due tavole gli diede Iddio scritta la legge, la qual voleva servasse il popol suo: e cosí cominciâro gli ebrei ad essere sotto propria legge, che mai infino a quel tempo stato non vʼera. E questo fu, secondo Eusebio in libro Temporum, regnante appo gli assiri Ascadis, lʼanno del regno suo ottavo, e regnante Cecrope appo gli ateniesi, lʼanno quarantacinquesimo del regno suo: il quale anno fu lʼanno del mondo tremilaseicentottantadue, neʼ quali tempi nacque dʼIside Epafo in Egitto, e il tempio dʼApollo Delio fu edificato da Cristone. Quindi, morto Moisé, sotto il ducato di Giosué piú fattisi avanti, per forza cacciaron delle lor sedie i cananei e il loro paese occuparon tutto, e intra sé il divisono, e poi per certo tempo possederono: e secondo la legge ricevuta, e sotto giudici e poi sotto re vivendo, in continue guerre coʼ vicini da torno, or vincendo e or perdendo, e in grandissime avversitá e tribulazioni divisi dimorando, quantunque alcun nome acquistassero, non fu perciò di tanta fama, che guari per lo mondo si dilatasse: e quanto essi erano daʼ riti degli altri uomini separati, tanto dallʼaltre nazioni erano reputati da meno.]

[Se adunque, avanti che la giudaica legge fosse, vissero i mortali sotto lʼarbitrio loro, o sotto quelle leggi che essi medesimi si dettavano; a cui direm noi che essi dovessero andar cercando per le leggi divine, e di conoscere Iddio? E, oltre a ciò, pur dopo la legge data a Moisé, qual maraviglia è se, abituati in quella maniera di vivere che detta è, non sentirono, né si misono a sentire quello che Iddio sʼavesse detto o fatto con Abraam, o coʼ suoi successori, o con Moisé nelle solitudini del mondo, né poi ancora col popolo suo? Conciofossecosaché quegli, aʼ quali deʼ fatti deʼ giudei pervenne alcuna notizia, gli avessero per servi fuggitivi e per ladri, e Moisé per uomo magico e seduttore. E se per cosí gli aveano, a che ora si dee credere che a loro fossero andate le nazioni strane a consigliarsi della divinitá e deʼ beneplaciti di quella? Se forse si dicesse sotto queʼ furti e sotto i lor costumi Iddio sentiva altissimi misteri della futura incarnazion del Figliuolo e della resurrezione:[96] questo credo io ottimamente, ma ciò non sapeano le nazioni gentili, e, come dice Isaia: «Quis enim cognoscit sensum Domini, aut quis consiliarius eius fuit?» E se quelle leggi e quelle operazioni di Dio, che noi tutto il dí leggiamo, si piacque a Domeneddio con questi suoi singulari amici dʼadoperare; come il dee aver saputo lʼindiano, come lo spagnuolo, come lʼetiopo o il sauromata, aʼ quali per alcuno mai significato non fu? E se essi nol deono aver potuto sapere, qual giustizia dannerá la loro ignoranza in questo? Chi non vedrá questa essere stata ignoranza facti, la qual davanti dicemmo doversi potere scusare? Appresso, presupposto che alcuna altra nazione avesse voluto dagli ebrei sapere questo secreto, il quale a loro solo Iddio avea dimostrato, lʼavrebbe ella potuto credere, essendoci per le loro medesime lettere manifesto che essi ebrei, essendo lungamente stati pasciuti di manna, e udendo gli ammaestramenti di Moisé (il quale per la loro liberazione avean veduto percuotere Faraone di dieci crudelissime piaghe, e veduto da lui essere stato nel deserto elevato un serpente di rame, al quale mostrate le lor piaghe, daʼ serpenti del luogo dove erano, ricevute, tutti guerivano; avevangli veduto con la verga percuotere una pietra viva, e di quella a saziar la sete loro uscire un fiume): non gli prestavan però interamente fede, ma, or con una ritrosia, or con unʼaltra, non facevano altro che mormorare e chiedere che nella servitudine, della quale tratti gli avea, gli ritornasse? E ultimamente, elevato un toro dʼariento, contro al comandamento suo quello adorarono, onorarono e magnificarono per loro Iddio?]

[Non fu mai alcun messo di Dio mandato, che il suo piacere loro annunziasse e chiamassegli ad obbidienza della sua legge. E chi dubita che Domeneddio non conoscesse alcun da sé a ciò non dover venire non chiamato, quando i chiamati con ostinata pertinacia recusavan dʼudire i suoi comandamenti e dʼubbidirlo? Se forse volesse alcun dire:—Iona fu mandato da Dio a Ninive;—ma esso non andò ad ammaestrargli della legge di Dio, ma a nunziare che Ninive infra quaranta dí si disfarebbe. E se gli ebrei furono in Babilonia lungamente in prigione, e[97] vi furono reputati bestie; estimando i caldei che se savi fossero stati, o fosser sante le lor leggi, che Iddio non gli avrebbe lasciati venire in quella miseria; e perciò creduti non erano: eʼ non pare che dubitar si debba che non fossero i gentili molto piú prestamente venuti, che non fecero gli ebrei. E questo pare si possa comprendere da ciò che seguí, quando chiamati furono, poi che Cristo incarnato recò in terra quella celeste luce della dottrina evangelica, la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo, che illuminato voglia essere: la quale avendo esso primieramente predicata, e poco dagli ebrei ascoltata, mandò per lʼuniverso i suoi messaggieri a chiamare alle nozze reali di vita eterna ogni nazione. Né furon chiamati neʼ diserti o nelle solitudini arabiche, né da uomini paurosi o fiochi, ma, come dice di loro il salmista; «Non sunt linguae neque sermones, quorum non audiantur voces eorum. In omnem terram exivit sonus eorum et in fines orbis terrae verba eorum». E queste nel cospetto deʼ re, deʼ prencipi, deʼ tiranni, e nelle cittá grandissime, nelle piazze, neʼ templi, nelle convenzioni e adunanze deʼ popoli: e a questa chiamata prestamente concorsono le nazion gentili e con intera mente senza alcune ritrosie prestaron fede alla dottrina deʼ chiamatori: e non solamente vi prestaron fede, ma per quella se medesimi fecero incontro a tormenti senza la divina grazia intollerabili, e alla morte temporale, senza alcuna paura e con ferma speranza della futura gloria. E cosí si può credere avrebber fatto, se alcuna altra volta fossero stati chiamati. E se essi chiamati non furono, come altra volta è detto, essi non si dovevano né potevano indovinare.]

[Seguirono adunque quello iddio o quegli iddii, quegli riti dʼadorargli e dʼonorargli, che i lor padri, li loro amici, i loro vicini eʼ loro sacerdoti mostravan loro, e a questo, credendosi bene adoperare, eran contenti: conciosiacosaché alcun non sia che cerchi di quello che egli non conosce. E, seguendo il predetto rito dʼadorare Iddio, furono di quegli assai che il seguirono, virtuosamente e moralmente vivendo; avendo in odio e dannando i disonesti guadagni, le violenze, lʼozio, la concupiscenza carnale, le falsitá, i tradimenti e ogni altra operazione[98] meritamente biasimevole; esercitandosi ciascuno di prevalere agli altri in iscienza, in disciplina militare, in ben fare alla republica e in divenire glorioso tra gli uomini: e questo con lunghe fatiche e con gran pericoli della propria vita. E cosí si dee credere e ancora molto piú avrebbon fatto in onore del nome di Cristo, per la vita celestiale e per lʼeterna gloria. Ma a doversi di ciò informare non potevan salire in cielo: né in terra era chi lor ne dicesse parole, né che a lor giudicio fosse degno di tanta fede.]

[Se forse volessero alcuni dire:—Cosí come per forza dʼingegno essi adoperarono di conoscere i segreti riposti nel seno della natura e la cagion delle cose, e per saper queste seguivan gli studi caldei, gli egizi, glʼitalici e gli altri quantunque lontani; e cosí per conoscere il vero Iddio si dovean faticare, e andar cercando quegli che maestri e dottori erano della ebraica legge, accioché di ciò gli ammaestrassero—potrebbesi consentire, i gentili dovere aver creduto gli ebrei dover esser maestri di questa veritá. Ma essi non si vedevan tra le nazioni del mondo dʼalcuna preeminenza, né onorato il popolo ebreo, e massimamente a rispetto degli assiri, deʼ greci, degli affricani e ultimamente deʼ romani; anzi si vedea un piccol popolo pieno di vitupèri, di peccati e di scellerate operazioni, e ogni dí essere daʼ caldei e dagli egiziaci presi e straziati e menati in cattivitá e in servitudine, e essi e le lor femmine, e le loro cittá rubate, e ad esse esser disfatte le mura e talvolta tutte abbattute e desolate; per le quali cose assai di fede appo le nazioni strane alla loro religion si toglieva, e per questo essendo avuti in derisione, non era alcuno che mai a loro andato fosse. Erano, oltre a questo, gli ebrei intra se medesimi divisi, ché altra maniera servavano i giudei e altra maniera i sammaritani: e chi meglio di costor si facesse, non potevano le nazioni lontane discernere. Né è da dubitare che molto di fede non togliesse loro appo gli strani la divisione.]

[Che dunque si può dire della ignoranza di coloro che, avanti che Cristo per li suoi messaggeri la legge, da lui data, essere stata data manifestasse, se non quello che davanti è stato detto, cioè che la loro ignoranza, sí come ignoranza facti, si debba[99] potere scusare? E perciò, se per altro ben vissero, non aver altra pena meritata, che quella che semplicemente per lo peccato originale è data a coloro, li quali morirono avanti che essi potesson peccare, e quello sentirne, che par che san Paolo voglia, quando scrive: «Servus nesciens vel ignorans voluntatem Domini sui et non faciens, vapulabit paucis»; e in altra parte: «Facilius consequutus sum veniam, quoniam ignorans feci».]

[De ignorantia iuris non dico cosí; percioché, come di sopra dissi, come la legge, la quale a ciascuno appartiene, è promulgata e manifestata, non puote alcuno con accettevole scusa allegar la ignoranza: percioché tale ignoranza si può meritamente dire crassa e supina, e apparire aperto, colui che ciò non sa, nol sa, perché non lʼha voluto sapere. E però se, dopo la dottrina evangelica predicata per tutto, è alcuno che quella seguita non abbia, quantunque per altro virtuosamente vivuto sia, sí come degno di maggior supplicio per la sua ignoranza, non dee a simil pena esser punito con glʼinnocenti, ma a molto piú agra. E di questi cotali pone lʼautore alquanti, come è Ovidio, Lucano, Seneca, Tolomeo, Avicenna, Galieno e Averrois; li quali io confesso, tra gli altri dallʼautor nominati, non doversi debitamente nominare, percioché di loro si può dir quello che scrive san Paolo: «A veritate auditum avertent, ad fabulas autem convertentur», ecc. E il salmista: «Sicut aspides surdae et obturantes aures suas, ut non exaudirent voces», ecc. E di questi meritamente si dice quella parola, che di sopra contro aglʼignoranti è allegata da san Paolo: «ignorans ignorabitur», e similmente lʼaltre autoritá quivi poste. Nondimeno, che che qui per me detto sia, io non intendo di derogare in alcuno atto alla cattolica veritá, né alla sentenza deʼ piú savi.]

[Lez. XVIII]

Resta a vedere quello che lʼautore abbia voluto per lo castello difeso da sette alte mura e da un bel fiumicello, e per lo prato della verdura che dentro vi truova, poi che con quegli cinque poeti entrato vʼè. E, secondo il mio giudicio, egli intende questo castello il real trono della maestá della filosofia morale e naturale, fermato in su il limbo, cioè in su la circunferenza della terra: conciosiacosaché queste due spezie di filosofia,[100] morale e naturale, non trascendano alle sedie deʼ beati, ma solamente di terra speculino, conoscano e dimostrino i naturali effetti deʼ cieli nella terra e gli atti degli uomini: per la cognizion delle quali cose sta sempre verde la fama di quegli uomini e di quelle donne le quali seguíti gli hanno. E, a volere a cosí eccelsa e cosí nobile stanza divenire, si conviene tenere il cammino il quale lʼautore ne divisa, cioè passar quel fiumicello, il quale circunda questo luogo, dove la filosofia, maestra di tutte le cose, dimora; e passarlo come terra dura, accioché nellʼacqua di quello non si bagnino i piè nostri. E sono, avanti ad ogni altra cosa, per questo bel fiumicello da intendere le sustanze temporali, cioè le ricchezze, i mondani onori e le mondane preeminenze, le quali sono nella prima apparenza splendide e belle, quantunque in esistenza oscure e tenebrose si truovino: in quanto sono privatrici, e massimamente in coloro che non debitamente lʼamano o guardano o spendono o esercitano. E come lʼacqua spesse volte è aʼ nostri sensi dilettevole, cosí queste sono aglʼingegni e aglʼintelletti nocevoli; e cosí sono flusse e labili come è lʼacqua, la quale è in corso continuo; niun fermo stato hanno; oggi sono, e doman non sono; oggi sono in questo luogo e doman in quellʼaltro; oggi piacciono e domane spiacciono. E chiama lʼautor questʼacqua «fiumicello», che è diminutivo di «fiume», per dare ad intendere queste cose temporali e la lor luce e il lor comodo, a rispetto delle cose eterne, esser piccole o niuna cosa. E perciò, chi vuole pervenire allʼaltezza della fama filosofica, gli convien passar questo fiumicello non con delicatezze, non con morbidezze, non con conviti e artificiati cibi e esquisiti vini e con lunghi sonni e dannosi ozi; ma tutte queste cose, e simiglianti, non solamente scacciate e rimosse da sé, ma senza bagnarsi i piedi in questʼacqua, cioè in alcun atto lasciarsi toccare, o muover lʼaffezione a quella, e come terra dura passarlo, come il passaron per la temporal gloria Cammillo, Cincinnato, Curzio, Fabbrizio e Scipione e simiglianti, e per la filosofica eminenza Diogene, Democrito, Anassagora e i lor simili: li quali, scalpitate coʼ piedi le ricchezze, ed avutele a vile e disprezzatele, passarono[101] con lieto e libero animo alle lunghe fatiche degli studi, delle virtú e delle scienze: e, passato il fiumicello, cioè le temporali delizie scalpitate, con cinque solenni poeti, cioè con quegli dottori li quali sieno per sofficienza degni a dimostrar quella via, [per la quale] alle filosofiche operazioni e perfezion si perviene. E intendo per le sette porti, per le quali dice che entrò con queʼ savi, le sette arti liberali: e non per quelle sette arti le quali molti intendono esser quelle con le quali i demòni ingannano gli sciocchi. E chiamansi «liberali», percioché in esse non osava, al tempo che i romani signoreggiavano il mondo, studiare altri cheʼ liberi uomini: o vogliam dire che liberali si chiamano, percioché elle rendono liberi molti uomini da molti e vari dubbi, neʼ quali senza esse intrigati sarebbono. E di queste arti ottimi dimostratori furono i predetti poeti, se con intera mente si riguarderanno i libri loro, neʼ quali, quantunque esplicitamente le regole, spettanti a dover dare la dottrina di quelle, per avventura non vi si truovino, eʼ vi si truovano le conclusioni vere e gli effetti certi delle regole, per le quali si solvono i dubbi li quali intorno alle regole posson cadere. È nondimeno da sapere non esser di necessitá, a colui che odierno filosofo vuol divenire, sapere perfettamente ciascuna delle liberali arti. Saperne alcuna perfettamente è del tutto opportuno, sí come al filosofo la grammatica e la dialettica, al poeta e allʼoratore la grammatica e la rettorica: poi sapere dellʼaltre i principi, e sapergli bene, è assai a ciascuno.

Entrò adunque lʼautore, per gli effetti delle liberali arti, con questi cinque dottori (coʼ quali si dee intendere ciascun altro entrare, il qual degno si fa per suo studio, imitando i valenti uomini), nel prato della verzicante fama della filosofia, dove da questi medesimi, cioè daʼ valenti uomini, e massimamente daʼ poeti, gli son dimostrati coloro che per le filosofiche operazioni meritarono la fama, la quale ancora è verde. E dissi «massimamente daʼ poeti», percioché di queste cosí fatte dimostrazioni niun altro par dover essere miglior maestro, che colui il quale col suo artificio sa perpetuare i nomi deʼ valenti uomini, e le glorie deglʼimperadori e deʼ popoli: e questi sono i poeti, deʼ quali è[102] oficio il producere in lunghissimi tempi i nomi e lʼopere deʼ valenti uomini e delle valorose donne. La qual cosa quantunque facciano ancora gli storiografi, percioché nol fanno con cosí fiorito, con cosí rilevato, né con cosí ornato stilo, sono in ciò loro preposti i poeti; li quali in questa parte lʼautore intende per la perseverante dimostrazione, la qual sempre davanti da sé porta i nomi e lʼopere di coloro che son degni di laude.

Ma puossi qui muovere un dubbio e dire: che hanno a fare gli uomini dʼarme e le donne con coloro li quali per filosofia son famosi? Al quale si può cosí rispondere: non essere alcun nostro atto laudevole, che senza filosofica dimostrazione si possa adoperare. Stolta cosa è a credere che alcuno imperadore possa il suo esercito guidare ogni dí salvamente, senza prendere i luoghi da accamparsi, trovare le vie per le quali aver con salvocondotto si possano le cose opportune allʼeserciti, guardarsi dalle insidie, prender lʼordine o dare al combattere una cittá, ad assalire i nemici, al venire alla battaglia, se la disciplina militare, nella quale gli conviene essere ammaestratissimo, non gliela dimostra; e questa disciplina militare è fondata e stabilita sopra i discreti consigli della filosofia, li quali, quantunque non paia a molti sillogizzando prestarsi, nondimeno, se i ragionamenti, se i divisi, se i consigli si guarderanno tritamente, tutti dal discreto filosofo in sillogistica forma si riduceranno. E perciò se quegli, che ottimi maestri nella disciplina militar furono, coʼ filosafi si ponghino e nominino; come filosafi in quella spezie deʼ loro esercizi vi si pongono. Cosí ancora le donne, le quali castamente e onestamente vivono, e i loro ofici domestici discretamente e con ordine fanno, senza filosofica dimostrazione non gli fanno. E dobbiamo credere non sempre nelle cattedre, non sempre nelle scuole, non sempre nelle disputazioni leggersi e intendersi filosofia. Ella si legge spessissimamente neʼ petti degli uomini e delle donne. Sará la savia donna nella sua camera, e penserá al suo stato, alla sua qualitá: e di questo pensiero trarrá lʼonor suo, oltre ad ogni altra cosa, consistere nella pudicizia, nellʼamor del marito, nella gravitá donnesca, nella parsimonia, nella cura famigliare; trarrá ancora di questo pensiero[103] appartenersi a lei di guardare e di servare con ogni vigilanza quello che il marito, faticando di fuori, acquisterá e recherá in casa; dʼallevare con diligenza i figliuoli, dʼammaestrargli, costumargli; e similmente intorno alle cose opportune dar ordine aʼ servi e allʼaltre cose simili. Che leggerá piú a costei nella scuola, che nella sua etica, che nella politica, che nella iconomica le dimostrerá niuna cosa? Dunque quelle, che cosí hanno adoperato e adoperano, non indegnamente, secondo il grado loro, coʼ filosafi sederanno di laude e di fama perpetua degne. Non dunque fece lʼautor men che bene a discrivere i famosi uomini in arme e le valorose donne in compagnia deʼ solenni filosafi.


[104]
[105]

CANTO QUINTO

I

Senso Letterale

«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Nel presente canto, sí come negli altri superiori, si continua lʼautore alle precedenti cose: e, avendo nella fine del precedente mostrato come Virgilio ed egli, partitisi dagli altri quattro poeti, erano per altra via venuti fuori di quel luogo luminoso, in parte dove alcuna luce non era; e quinci nel principio di questo, continuandosi alle cose predette, ne mostra come nel secondo cerchio dello ʼnferno discendesse. E fa lʼautore in questo canto sei cose: esso primieramente, come detto è, si continua alle precedenti cose, mostrando dove divenuto sia; nella seconda parte dimostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori; nella terza dice qual peccato in quel cerchio si punisca e in che supplicio; nella quarta nomina alquanti deʼ peccatori in quella pena puniti; nella quinta parla con alcuni di quegli spiriti che quivi puniti sono; nella sesta ed ultima descrive quello che di quel ragionar gli seguisse. La seconda comincia quivi: «Stavvi Minos»; la terza quivi: «Ora incomincian»; la quarta quivi: «La prima di color»; la quinta quivi: «Poscia chʼio ebbi»; la sesta e ultima quivi: «Mentre che lʼuno spirto».

Comincia adunque in cotal guisa: «Cosí discesi», cioè partito da queʼ quattro savi, seguitando per altra via Virgilio, «del[106] cerchio primaio», cioè del limbo, il quale è il primiero cerchio dello ʼnferno; e mostra appresso dove discendesse, cioè «Giú nel secondo» cerchio, «che men luoco cinghia», cioè gira. E davanti è mostrata la cagion perché: la quale è percioché la forma dello ʼnferno è ritonda, e, quanto piú in esso si discende, tanto viene piú ristrignendo, tanto che ella diviene aguta in sul centro della terra. «E tanto ha piú dolor», in questo cerchio che nel precedente, «che pugne», cioè tormenta in sí fatta maniera, che egli costrigne i tormentati «a guaio», cioè a trar guai: quello che nel superior cerchio, come mostrato è, non avvenia; per che, sʼegli è questo luogo minore di circunferenza che il superiore, egli è molto maggior di pena.

«Stavvi Minos». Qui comincia la seconda parte, nella quale lʼautor mostra aver trovato un demonio esaminatore delle colpe deʼ peccatori; e in questo séguita lʼautore lo stilo incominciato di sopra, cioè di trovare ad ogni entrata di cerchio alcun demonio. Di sopra allʼentrare del primo cerchio trovò «Carón dimonio con occhi di bragia»; qui trova Minos. E ciascuno con alcun atto o parola terribile spaventa i peccatori che in quel luogo vengono, percioché Carón, di sopra, forte quegli che alla sua nave vennero spaventò con parole, gridando:—«Guai a voi, anime prave», ecc.;—nellʼentrata di questo cerchio, Minos gli spaventa ringhiando, in quanto dice: «Stavvi Minos orribilmente, e ringhia»; e cosí ancora neʼ cerchi seguenti troveremo. Dice adunque: «Stavvi Minos», cioè in su lʼentrata di quel cerchio secondo. Questo Minos dicono i poeti chʼegli fu figliuolo di Giove e dʼEuropa, e ciò essere in tal maniera avvenuto che, essendo Europa, figliuola dʼAgenore, re deʼ fenici, i quali abitarono il lito della Soría e fu la loro cittá principale Tiro, piaciuta a Giove cretense; e con operazion di Mercurio, secondo che da Giove gli era stato imposto, fosse fatto che questa vergine, avendo egli gli armenti reali dalle pasture della montagna vòlti e condotti alla marina, seguíti gli avesse: quivi essendosi Giove trasformato in un tauro bianchissimo e bello, e mescolatosi tra gli armenti reali, tanto benigno e mansueto si mostrò a questa vergine, che essa, prendendo della sua[107] mansuetudine piacere, primieramente prese ardire di toccarlo con la mano e pigliarlo per le corna e menarselo appresso; poi, cresciuto lʼardire in lei, dal disiderio tratta, vi montò su. La qual cosa sentendo Giove, soavemente portandola, a poco a poco si cominciò a recare in su il lito del mare, e, quando tempo gli parve, si gittò in alto mare. Di che la vergine, paurosa di non cader nellʼacqua, attenendosi forte alle corna, quanto piú poteva lo strigneva con le ginocchia, e, in questa guisa notando, il toro da quello lito di Soría ne la portò infino in Creti; e quivi, ripresa la sua vera forma dʼuomo, giacque con lei, e in processo di tempo nʼebbe tre figliuoli, Minos e Radamanto e Sarpedone. Minos, divenuto a virile etá, prese per moglie una bellissima giovane chiamata Pasife, figliuola del Sole, e di lei gerrerò figliuoli e figliuole, intraʼ quali fu Androgeo, giovane di mirabile stificanza: il quale, neʼ giuochi palestrici essendo artificioso molto, e di corporal forza oltre ad ogni altro valoroso, percioché ogni uomo vincea, fu per invidia dagli ateniesi e daʼ megaresi ucciso. Per la qual cosa Minos, avendo fatto grande apparecchiamento di navilio e dʼuomini dʼarme per andare a vendicarlo, e volendo, avanti che andasse, sagrificare al padre, cioè a Giove, il quale il bestiale error degli antichi crede a essere iddio del cielo, il pregò che alcuna ostia gli mandasse, la qual fosse degna deʼ suoi altari. Per la qual cosa Giove gli mandò un toro bianchissimo, e tanto bello quanto piú essere potesse. Il quale come Minos vide, dilettatosi della sua bellezza, uscitogli di mente quello per che ricevuto lʼavea, il volle piú tosto preporre aʼ suoi armenti, per averne allievi, che ucciderlo per ostia; e, fatto il sacrificio dʼun altro, andò a dare opera alla sua guerra. E, assaliti prima i megaresi, e quegli per malvagitá di Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megaresi, avendosi sottomessi; fatta poi grandissima guerra agli ateniesi, quegli similmente vinse, e alla sua signoria gli sottomise e a detestabile servitudine gli si fece obbligati; tra lʼaltre cose imponendo loro che ogni anno gli dovesson mandare in Creti sette liberi e nobili garzoni, li quali esso donasse in guiderdone a colui che vincitor fosse neʼ giuochi palestrici, li quali[108] in anniversario dʼAndrogeo avea constituiti. Ma, in questo mezzo tempo che esso gli ateniesi guerreggiava, avvenne, e per lʼira conceputa da Giove contro a Minos, e per lʼodio il quale Venere portava a tutta la schiatta del Sole, il quale il suo adulterio e di Marte aveva fatto palese, che Pasife sʼinnamorò del bel toro, il qual Minos sʼavea riservato, senza averlo sacrificato al padre che mandato glielʼavea; e per opera ed ingegno di Dedalo giacque con lui, in una vacca di legno contraffatta ad una della quale il toro mostrava tra lʼaltre di dilettarsi molto; e di lui concepette e poi partorí una creatura, la quale era mezzo uomo e mezzo toro. Della quale ignominia fu fieramente contaminata la gloria della vittoria acquistata da Minos. Nondimeno esso fece prendere Dedalo ed Icaro, suo figliuolo, e fecegli rinchiudere nella prigione del laberinto, la quale Dedalo medesimo aveva fatta. E questo laberinto non fu fatto come disegnato lʼabbiamo, cioè di cerchi e di ravvolgimenti di mura, per li quali andando senza volgersi, infallibilmente si perveniva nel mezzo, e cosí, tornando senza volgersi, se ne sarebbe lʼuom senza dubbio uscito fuori: ma egli fu, e ancora è, un monte tutto dentro cavato, e tutto fatto ad abituri quadri a modo che camere, e ciascuna di queste camere ha quattro usci, in ciascuna faccia uno, i quali vanno ciascuno in camere simiglianti a queste, e cosí poco si puote avanti andare, che lʼuomo vi si smarrisce entro senza saperne fuori uscire, se per avventura non è. Poi ivi a certo tempo essendo ad Atene venuto per sorte che Teseo, figliuolo del re Egeo, dovesse, con gli altri che per tributo eran mandati, venire in Creti; e quivi venuto, secondo che Ovidio scrive, con certe arti mostrategli da Adriana, figliuola di Minos, vinse il Minotauro ed ucciselo, e da cosí vituperevol servigio liberò gli ateniesi: e occultamente di Creti partendosi, seco ne menò Adriana e Fedra, figliuole di Minos. E Dedalo dʼaltra parte, fatte alie a sé e al figliuolo, di prigione uscendo se ne volò in Cicilia, e di quindi a Baia: la qual cosa sentita da Minos, con armata mano incontanente il seguitò: ma esso appo Camerino in Cicilia, secondo che Aristotile scrive nella Politica, fu dalle figliuole[109] di Crocalo ucciso. Dopo la morte del quale, percioché esso avea leggi date aʼ cretensi, e con giustizia ottimamente gli avea governati, i poeti, fingendo, dissero lui essere giudice in inferno. E di lui scrive cosí Virgilio:

Quaesitor Minos urnam movet: ille silentum
conciliumque vocat, vitasque et crimina discit,
ecc.

Ma, percioché non pare per le fizion sopra dette sʼabbia la veritá dellʼistoria di Minos, par di necessitá di rimuover la corteccia di quella, e lasciare nudo il senso allegorico, nel quale apparirá piú della veritá della storia: dico piú, percioché tra le fizion medesime nʼè parte mescolata.

Vogliono adunque i poeti sentir per Mercurio, mandato a far venire gli armenti dʼAgenore dalla montagna alla marina, alcuna eloquente persona mandata come mezzana da Giove ad Europa; e, per la forza della eloquenza di questa cotal persona, essere Europa condotta alla marina, dove Giove ciò occultamente aspettando, la prese e portonnela in su una sua nave a ciò menata, la quale o era chiamata «tauro», o avea per segno un tauro bianco, come noi veggiamo fare a questi navicanti, li quali a ciascun lor legno pongono alcun nome, e similmente alcun segno; e cosí ne fu trasportata in Creti, dove essa partorí i detti figliuoli di Giove. Sono nondimeno alcuni che dicono che, essendo ella in Creti divenuta, e alcun tempo con Giove dimorata, che Giove senza avere avuto alcun figliuolo di lei, la lasciò: e Asterio, in queʼ tempi re di Creti, secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, la prese per moglie, ed ébbene quegli figliuoli, deʼ quali di sopra è detto. E, se cosí fu, possiam comprendere aver gli antichi ficto Minos esser figliuolo di Giove, o per ampliar la gloria della sua progenie, o perché nelle sue operazioni si mostrò simile a quel pianeto, il quale noi chiamiamo Giove. Ed esso, tra lʼaltre sue condizioni, ebbe questa, che esso fu aʼ sudditi equale e diritto uomo, e servò severissimamente giustizia in tutti, e diede leggi aʼ cretensi, le quali mai piú avute non aveano. E, accioché a rozzo popolo[110] fossero piú accette, solo se nʼandava in una spelunca, e in quella, poi che composto avea ciò che immaginava esser bene e utilitá deʼ sudditi suoi, uscendo fuori, mostrava al popolo sé, quello che scritto o composto avea, avere avuto da Giove suo padre: donde per avventura seguí, per questa astuzia, che esso fu reputato figliuolo di Giove e le leggi da lui composte furono avute in grandissimo pregio. Ma lui essere stato figliuolo dʼAsterio non pare che in alcun modo il conceda il tempo, conciosiacosaché egli apparisca Asterio aver regnato in Creti neʼ tempi che Danao regnò in Argo, che fu intorno degli anni del mondo tremilasettecentotré, e la guerra, la quale ebbe Minos contro agli ateniesi, fu regnante Egeo in Atene, che fu intorno agli anni del mondo tremilanovecentosessanta. Ed è Minos per ciò stato detto daʼ poeti esser giudice in inferno, percioché noi mortali, avendo rispetto aʼ corpi superiori, ci possiam dire essere in inferno: ed esso, come detto è, appo i mortali compose le leggi, e rendé ragione aʼ domandanti; nelle quali cose esso esercitò uficio di giudice.

Le vestigie deʼ quali imitando lʼautore, qui per giudice ed esaminatore delle colpe il pone appo quegli dʼinferno, dicendo che egli sta quivi «orribilmente»; e, a dimostrare il suo orrore dice: «e ringhia». Ringhiare suole essere atto dei cani, minaccianti alcuno che al suo albergo sʼappressi. «Esamina le colpe» dellʼanime di coloro che laggiú caggiono. E qui comincia lʼautore a discrivere lʼuficio di questo Minos, in quanto dice che «esamina»: e cosí appare lui in questo luogo esser posto per giudice, percioché aʼ giudici appartiene lʼesaminare delle cose commesse. E séguita: «nellʼentrata». E qui discrive il luogo conveniente a quellʼufizio, accioché alcuna non possa passare, senza esser sottentrata alla sua esaminazione. «Giudica». Séguita qui lʼautore lʼordine giudiciario; percioché primieramente conviene che il discreto giudice esamini i meriti della quistione, e dopo la esaminazione giudichi quello che la legge o talora lʼequitá vuole; e, dopo il giudicio dato, quello mandi ad esecuzione che avrá giudicato. E però segue: «e manda» ad esecuzione, o comanda che ad esecuzion sia mandato. E qui[111] discrive, a questo demonio posto per giudice, essere una dimostrazione assai strana in dichiarare quello che vuole che ad esecuzion si mandi, in quanto dice: «secondo chʼavvinghia», cioè secondo il numero delle volte chʼegli dá dintorno alla persona la coda sua.

Ora, percioché allʼautore pare aver molto succintamente discritto lʼuficio di questo Minos, per farlo piú chiaro, reassume e dice: «Dico», reassumendo, «che, quando lʼanima mal nata», cioè del peccator dannato («quia melius fuisset illi, si natus non fuisset homo ille»), «Gli vien dinanzi», a questo giudice, «tutta si confessa», cioè tutta sʼapre, senza alcuna riservazion fare delle sue colpe. La qual cosa, cioè riservarsi e nascondere delle sue colpe, eziandio volendo, non potrebbe fare, percioché non veggiono i giudici spirituali con quegli occhi che veggiam noi, ma prestamente e senza alcun velame veggion ciò che al loro uficio appartiene. «E quel cognoscitor delle peccata», cioè Minos; dimostrando in lui essere, tra lʼaltre, una delle condizioni opportune a coloro che preposti sono al giudicio delle colpe dʼalcuno, cioè che essi sieno discreti e cognoscano gli effetti e le qualitá di quelle cose, le quali possono occorrere al suo giudicio; «Vede qual luogo dʼinferno è da essa», cioè quale supplicio infernale sia conveniente alla sua colpa.

«Cingesi con la coda tante volte, Quantunque gradi vuol che giú sia messa». È qui da sapere lo ʼnferno, secondo che al nostro autor piace, esser distinto in nove cerchi, e quanto piú si discende verso il centro, cioè verso il profondo dellʼinferno, piú sono i cerchi stretti e i tormenti maggiori. E, percioché la faccenda di costui è grande intorno allʼesaminare e al giudicar che fa singularmente di ciascuna anima; per dar piú spaccio alle sue sentenze, ha quel modo trovato di doversi cingere con la coda tante volte, quanti gradi, cioè cerchi, esso vuole che lʼanima da lui esaminata sia infra lʼinferno messa: e, mentre fa con la coda questa dimostrazione, nondimeno con le parole attende alla esaminazione.

«Sempre dinanzi a lui ne stanno molte»; peroché, come giá dimostrato è, la quantitá di quegli che muoiono nellʼira di[112] Dio è molta: e queste cotali «Vanno a vicenda», cioè ordinatamente lʼuna appresso allʼaltra, come venute sono, «ciascuna al giudizio», che di loro dee esser dato; e quivi, «Dicono», le lor colpe, «e odono», la sentenza data di loro, «e poi son giú vòlte», in inferno neʼ luoghi diterminati daʼ ministri di questo giudice.

—«O tu che vieni». Qui dimostra lʼautore questo Minos, sotto spezie di parole amichevoli, averlo voluto spaventare, dicendo: «O tu, che vieni al doloroso ospizio» dello ʼnferno,—«Disse Minos a me, quando mi vide», esser vivo, «Lasciando lʼatto», cioè lʼesercizio, «di cotanto offizio», quanto è lʼavere ad esaminare e a giudicare tutte lʼanime deʼ dannati:—«Guarda comʼentri», quasi voglia dire che chi entra in questo luogo non ne può mai poi uscire, «e di cui tu ti fide»: volendo che lʼautore per queste parole intenda non esser discrezione il mettersi per sua salute dietro ad alcuno che se medesimo non abbia saputo salvare. Quasi voglia dire:—Virgilio non ha saputo salvar sé, dunque come credi tu che egli salvi te?—Sentiva giá questo dimonio per la natura sua, la quale, come che per lo peccato da lui commesso fosse di grazia privata, non fu però privata di scienza, che lʼautor non doveva quel cammin far vivo se non per sua salute, dal quale esso dimonio lʼavrebbe volentieri frastornato. «Non tʼinganni lʼampiezza dellʼentrare»,—la quale è libera ed espedita a tutti quegli che dentro entrar ci vogliono, ma lʼuscire non è cosí. E par qui che questo dimonio amichevolmente e con fede consigli lʼautore; il che non suole esser di lor natura, e nel vero non è. Non dico perciò che essi alcuna volta non deano deʼ consigli che paiono buoni e utili; ma essi non sono, né furon mai, né buoni né utili, percioché da loro non son dati a salutevol fine, ma, per farsi piú ampio luogo, nella mente di chi crede loro, a potere ingannare, gli dánno talvolta. E perciò è con somma cautela da guardarsi daʼ consigli deʼ malvagi uomini, percioché, quanto miglior paiono, piú è da suspicare non vi sia sotto nascosa fraude ed inganno.

Poi séguita: «E ʼl duca mio a lui:—Perché pur gride?» Non poté sostener Virgilio di lasciargli compiere lʼorazione,[113] conoscendo che egli non consigliava lʼautore a buon fine; ma sentendo lʼautore, forse per ostupefazione, non aver pronto che rispondere, disse egli con parole alquanto austere: O Minos, «perché pur gride», ingegnandoti di spaventarlo? «Non impedire», con questo tuo sgridare, «il suo fatale andare», cioè il suo andare da divina disposizion procedente.

E questo vocabolo «fatale» e come si debba intendere «fato», si dichiarerá appresso nel nono canto sopra quelle parole: «Che giova nelle fata dar di cozzo?» Ma nondimeno, brievemente alcuna cosa dicendone, dico che è da sapere, secondo che Boezio in libro De consolatione ditermina, fato non è altro che disposizione della divina mente intorno alle cose presenti e future. E questo medesimo par sentire santo Agostino nel quinto De civitate Dei; il quale, poi che in questa conclusione è venuto, dice queste parole: «Sententiam tene, linguam comprime»; volendo che noi tegnamo la sentenza, ma schifiamo il vocabolo, cioè di chiamar «fato» la divina disposizione. E questo non fu neʼ suoi tempi senza cagione: la qual fu, percioché allora venendo moltitudine di gentili alla fede cattolica, e però ancor tenera surgendo la cristiana religione, accioché ogni cosa in quanto si potesse si togliesse via (dico di quelle che alcuna forza paressero avere in rivocare negli errori lasciati i gentili, ancora non molto fermati nella cattolica veritá), e questo e molti altri vocaboli, li quali i gentili usavano, si guardavano di usare nelle loro predicazioni e nelle loro scritture. Ma oggi, per la grazia di Dio, è sí radicata e sí ferma neʼ petti nostri la dottrina evangelica, che senza sospetto si può traʼ savi ogni vocabolo usare.

«Vuolsi cosí», cioè che questi entri qua entro vivo, e vegga la miseria di te e degli altri dannati. E dove si vuole? Vuolsi «colá dove si puote Ciò che si vuole», cioè nella mente divina, la qual sola puote ciò che ella vuole; «e piú non dimandare»;—quasi dica:—A te non sʼappartiene di sapere che si muova la divinitá a voler questo.—

«Ora incomincian». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella qual dissi si conteneva qual peccato in questo[114] secondo cerchio si punisca e in qual supplicio; alla quale mostra lʼautore, avendo Virgilio posto silenzio a Minos, dʼesser pervenuto. E, percioché infino a questo luogo era venuto per tutto quasi il primo cerchio, senza udire alcun rumore di pianti o di lamenti, dice: «Ora incomincian le dolenti note A farmisi sentire», cioè le varietá deʼ pianti, le quali si facevano al suo audito sentire; «or son venuto Lá dove molto pianto mi percuote», gli orecchi. E dice «percuote», percioché, essendo lʼaere percosso dalle voci dolenti deʼ tormentati, è di necessitá che egli si muova, e col suo moto percuota quelle cose le quali movendosi truova, delle quali era la sensualitá dellʼautore che quivi vivendo si trovava.

«Io venni in luogo dʼogni luce muto», cioè privato, «Che mugghia», cioè risuona, questo luogo, per lo ravvolgimento delle strida e deʼ pianti, il suono deʼ quali raccolto insieme, fa un rumore simile a quello che noi diciamo che mugghia il mare neʼ tempi tempestosi, e però dice: «come fa ʼl mar per tempesta, Se da contrari venti è combattuto», cioè infestato. Il che assai volte addiviene, che la contrarietá deʼ venti, che alcuna volta spirano, son cagione delle tempeste del mare. E chiamasi questo romore del mare impropriamente «mugghiare»: e, percioché da sé non ha proprio vocabolo, è preso un vocabolo a discriver quel romore che piú verisimilmente gli si confaccia, e questo è «mugghiare», il quale è proprio deʼ buoi; ma percioché è un suono confuso e orribile, par che assai convenientemente sʼadatti al romor del mare.

«La bufera infernal». Bufera, se io ho ben compreso, nellʼusitato parlar delle genti è un vento impetuoso, forte, il qual percuote e rompe e abbatte ciò che dinanzi gli si para; e questo, se io comprendo bene, chiama Aristotile nella Meteora «enephias», il quale è causato da esalazioni calde e secche levantesi dalla terra e saglienti in alto; le quali, come tutte insieme pervengono in aere ad alcuna nuvola, cacciate indietro dalla frigiditá della detta nuvola con impeto, divengon vento, non solamente impetuoso, ma eziandio valido e potente di tanta forza, che, per quella parte dove discorre, egli abbatte case, egli divelle e[115] schianta alberi, egli percuote e uccide uomini e animali. È il vero che questo non è universale, né dura molto; anzi vicino al luogo dove è creato, a guisa dʼuna striscia discorre, e quanto piú dal suo principio si dilunga, piú divien debole, infino a tanto che infra poco tempo si risolve tutto. Questo adunque mi pare che lʼautor voglia sentire per questa «bufera»: e benché nella concavitá della terra questo vento causar non si possa, deʼsi intendere in questo luogo non causato, ma per divina giustizia essere posto e ordinato perpetuo. Dice adunque: «che mai non resta», di soffiare, come fa quello che quassú si genera, «Mena gli spiriti», dannati, «con la sua rapina», cioè col suo rapinoso movimento; «Voltando e percotendo»: per questi effetti si può comprendere, questa bufera esser quel vento che detto è, cioè enephias; «gli molesta», cioè gli tormenta. E in questo, che qui è dimostrato, si può comprendere qual sia il supplicio dato allʼanime, le quali in questo cerchio per li lor meriti ricevon pena.

Le quali anime, cosí menate e percosse insieme da questo cosí impetuoso e forte vento, «Quando giungon», mandate da Minos, «davanti alla ruina», che dallʼimpeto di questo vento procede, «Quivi le strida», comincian grandissime, «il compianto e ʼl lamento», deʼ miseri; «Bestemmian quivi la virtú divina». In questo bestemmiare si dimostra la quantitá grandissima e acerba dellʼafflizione deʼ dolenti che questo tormento ricevono, la quale a tanta ira gli commuove che essi bestemmiano Iddio.

«Intesi chʼa cosí fatto tormento». Qui, poi che lʼautore ha posta la qualitá del tormento, dichiara quali sieno i peccatori aʼ quali questo tormento è dato, e dice che intese, da Virgilio si dee credere, «che a cosí fatto tormento», come disegnato è, «Eran dannati i peccator carnali, Che la ragion sommettono al talento», cioè alla volontá. E, come che questo si possa dʼogni peccatore intendere, percioché alcun peccatore non è che non sottometta peccando la ragione alla volontá; vuol nondimeno lʼautore che, per quel vocabolo «carnali», sʼintenda singularmente per li lussuriosi.

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Séguita dunque: «E come gli stornei». Qui intende lʼautore per una comparazione discrivere in che maniera in questo luogo. sieno i peccator carnali menati e percossi dalla sopradetta infernal bufera, e dice che, come «lʼali», volando, «ne portan» gli stornelli, «Nel freddo tempo», cioè nel mezzo dellʼautunno, nel qual tempo usano gli stornelli e molti altri uccelli, secondo lor natura, di convenirsi insieme e di passare dalle regioni fredde nelle piú calde per loro scampo, e in quelle ne vanno, «a schiera larga e piena», cioè molti adunati insieme: «Cosí quel fiato», cioè quella bufera, ne porta «gli spiriti mali», cioè dannati, li quali a grandi schiere per quel cerchio, «Di qua, di lá, di giú, di su gli mena», senza servare alcun modo o ordine, lʼuno contro allʼaltro nello scontrarsi crudelmente percotendo. E oltre a questo cosí faticoso tormento, dice: «Nulla speranza gli conforta mai», questi cotali miseri e percossi, «Non che di posa», cioè dʼavere alcuna volta riposo, «ma» ancora non gli conforta «di» dovere aver mai «minor pena», che quella la quale hanno percotendosi insieme.

«E come i grú». Qui per unʼaltra comparazione ne discrive una brigata di quegli spiriti dannati aver veduti venire verso quella parte, dove esso e Virgilio erano; e dice quegli esser da quel vento menati in quella forma che volano per aere i grú. «Van cantando lor lai», cioè lor versi. Ed è questo vocabolo preso, cioè «lai», per parlar francesco, nel quale si chiamano «lai» certi versi in forma di lamentazione nel lor volgare composti. «Facendo in aer di sé», medesimi volando, «lunga riga», percioché stendono il collo, il quale essi hanno lungo, innanzi, e le gambe, le quali similmente hanno lunghe, e cosí fanno di sé lunga riga. «Cosí vidʼio venir» spirti, li quali facevan lunga riga di sé, cioè di tutta la persona, «traendo guai, Ombre portate dalla detta briga», cioè dalla detta bufera. «Per chʼio dissi:—Maestro, chi son quelle Genti, che lʼaura nera sí gastiga?»-cioè tormenta, impetuosamente portandole.

—«La prima di color». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella qual dissi che lʼautore nominava alquanti degli spiriti dannati a questa pena. Dice adunque:—«La prima[117] di color», che cosí son portati, e «di cui novelle Tu vuoʼ saper»—, cioè la condizione e la cagione perché a questo supplicio dannata sia, «mi disse quegli allotta—Fu imperadrice di molte favelle», cioè fu donna di molte nazioni, nelle quali erano molti e diversi modi di parlare. «A vizio di lussuria fu sí rotta», sí inchinevole «Che il libito», cioè il beneplacito, intorno a ciò che a quel vizio apparteneva, «feʼ licito», cioè concedette che lecito fosse in tutte le nazioni che ella signoreggiava; e questo fece «in sua legge», cioè per sua legge. E appresso dice la cagione perché questa legge cosí abominevole fece, cioè, «Per tôrre», per levar via «il biasmo», la infamia «in che era condotta», per le sue disoneste operazioni in quel peccato. «Ella è Semiramis» (poi che detto ha il vizio nel quale condotta fu, la nomina: Semiramis), «di cui si legge», appo molti antichi istoriografi, «Che succedette a Nino», suo marito, dopo la morte di lui nel regno, «e fu sua sposa», mentre esso Nino visse.

Ma, accioché piú pienamente si comprenda chi costei fosse, e quali fossero le sue operazioni, è da dire alquanto piú pienamente la sua istoria. Dico adunque che, chi che Semiramis si fosse per nazione, non si sa, quantunque alcuni poeti antichissimi fingano lei essere stata figliuola di Nettuno; ma che essa fosse moglie di Nino, re degli assiri, per lo testimonio di molti istoriografi appare. Concepette costei di Nino, suo marito, un figliuolo, il quale nato nominaron Ninia; ed avendosi giá Nino per forza dʼarme soggiogata quasi tutta Asia, ed ultimamente ucciso Zoroastre eʼ battri, suoi sudditi, avvenne che, fedito nella coscia dʼuna saetta, si morí. Per la qual cosa la donna, temendo di sottomettere alla tenera etá del figliuolo cosí grande imperio, e di tanta e cosí strana gente e nuovamente acquistato, pensò una mirabile malizia, estimando con quella dover potere reggere i popoli, li quali Nino, ferocissimo uomo, sʼaveva con armi sottomessi e alla sua obbedienza costretti. E, avendo riguardo che essa in alcune cose era simile al figliuolo, e massimamente in ciò che esso ancora non avea barba, e che nella voce puerile era simile a lei, e similmente nella lineatura del viso; estimò potere sé, in persona del figliuolo, presentare agli[118] eserciti del padre. E, per poter meglio celare lʼeffigie giovanile, si coperse la testa con una mitra, la quale essi chiamavan «tiara», e le braccia e le gambe si nascose con certi velamenti. E, accioché la novitá dellʼabito non avesse a generare alcuna ammirazione di lei in coloro che da torno le fossero, comandò a tutti che quello medesimo abito usassero. E in questa forma, dicendo sé esser Ninia, se medesima presentò agli eserciti; e cosí, avendo acquistata real maestá, severissimamente servò la disciplina militare, e con virile animo ardí non solamente di servare lo ʼmperio acquistato da Nino, ma ancora dʼaccrescerlo; e a niuna fatica, che robusto uomo debba poter sofferire, perdonando, si sottomise Etiopia, e assalí India, nella quale alcun altro mortale, fuor che il marito, non era stato insino a quel tempo ardito dʼentrar con arme. Ed essendole in molte cose ben succeduto del suo ardire, non dubitò di manifestarsi esser Semiramis, e non Ninia, aʼ suoi eserciti. Essa, oltre alle predette cose, pervenuta in Babillonia, antichissima cittá da Nembrot edificata, e veggendola in grandissima diminuzione divenuta, a quella tutte le mura riedificò di mattoni, e quelle rifece di mirabile grossezza, dʼaltezza e di circúito. E, parendole aver molto fatto, e posto tutto il suo imperio in riposo, tutta si diede alla lascivia carnale, ogni arte usando che usar possono le femmine per piacere. E, tra lʼaltre volte, facendosi ella con grandissima diligenza le trecce, avvenne che, avendo ella giá composta lʼuna, le fu raccontato che Babillonia le sʼera ribellata e venuta nella signoria dʼun suo figliastro. La qual cosa ella sí impazientemente ascoltò, che, lasciato stare il componimento delle sue trecce, e i pettini e gli specchi gittati via, prese subitamente lʼarmi, e, convocati i suoi eserciti, con velocissimo corso nʼandò a Babillonia, e quella assediò; né mai dallʼassedio si mosse, infino a tanto che presa lʼebbe e rivocata sotto la sua signoria: ed allora si fece la treccia, la quale ancora fatta non avea, quando la ribellione della cittá le fu detta. E questa cosí animosa operazione, per molte centinaia dʼanni testimoniò una statua grandissima fatta di bronzo, dʼuna femmina la quale dallʼun deʼ lati avea i capelli sciolti, e dallʼaltro composti in una treccia,[119] la quale nella piazza di Babillonia fu elevata. E, oltre a questa cosí laudabile operazione, molte altre ne fece degne di loda, le quali tutte bruttò e disonestò con la sua libidine. La quale ancora, secondo che lʼantichitá testimonia, crudelmente usò; percioché, come alquanti dicono, quegli giovani, li quali essa eleggeva al suo disonesto servigio, poi che quello aveva usato, accioché occulto fosse, quegli faceva uccidere. Ma nondimeno, quantunque ella crudelmente occultasse gli adultèri, i parti conceputi di loro non poté occultare. E sono di quegli che affermano, lei in questo scellerato servigio aver tirato il figliuolo: e, accioché alcuna delle sue femmine non gli potesse lui col suo servigio sottrarre, dicono sua invenzione essere stata quel vestimento, il quale gli uomini fra noi usano a ricoprire le parti inferiori, e di quello aver le sue femmine vestite, e ancora con chiave fermatolo. Dicono ultimamente alcuni che, avendo ella a questa disonestá richiesto il figliuolo, che il figliuolo, avendo ella giá regnato trentadue anni, lʼuccise. Alcuni altri dicono esser vero che il figliuolo lʼuccidesse, ma non per questa cagione: anzi o perché esso se ne vergognasse, o perché egli temesse non forse ella partorisse figliuolo, che con opera di lei il privasse del regno.

Appresso, pur di lei seguendo, dice lʼautore: «Tenne la terra, che ʼl soldan corregge», la quale è Egitto; e chiamasi soldano di Babillonia, non da Babillonia di Caldea, la qual Semiramis fece restaurare, ma da una Babillonia la quale è quasi nella estremitá meridionale dʼEgitto, la quale edificò Cambise, re di Persia. Leggesi nondimeno che ella assalí Egitto. Se ella lʼoccupò o no, non so.

«Lʼaltra», che segue nella predetta schiera Semiramis, «è colei che sʼancise amorosa», cioè amando, «E ruppe fede», congiugnendosi con altro uomo, «al cener di Sicheo», suo marito stato.

Vuole lʼautore per questa circunscrizione che noi sentiamo costei essere Didone, figliuola che fu del re Belo di Tiro, la istoria della quale si racconta in due maniere. Dido, il cui nome fu primieramente Elisa, fu, secondo che Virgilio scrive,[120] figliuola di Belo, re deʼ fenici. Il quale Belo, venendo a morte, Pigmaleone suo fratello e lei, ancora fanciulli, lasciò nelle mani deʼ suoi sudditi, li quali in loro re sublimarono Pigmaleone; ed Elisa, cosí fanciulla come era, diêro per moglie ad Acerba o Sicheo che si chiamasse, o vero Sicarba, il quale era sacerdote dʼErcule, il quale sacerdozio era, dopo il reale, il primo onore appo i tiri: li quali insieme santissimamente sʼamarono. Era oltre ad ogni uomo avaro Pigmaleone; per la qual cosa Sicheo, il quale era ricchissimo, temendo lʼavarizia del cognato, ogni suo tesoro avea nascoso. Nondimeno, essendo ciò pervenuto allʼorecchie di Pigmaleone, cominciò quelle ricchezze ferventemente a disiderare, e, per averle, fraudolentemente uccise Sicheo. La qual cosa avendo Elisa sentito, e dolorosamente pianta la morte del marito, temendo di sé, tacitamente prese consiglio di fuggirsi; e, posta giú ogni feminea tiepidezza e preso virile animo, di che ella fu poi chiamata Didone, avendo tratti nella sua sentenza certi nobili uomini deʼ fenici, li quali ella conoscea che odiavano Pigmaleone, presi certi navili del fratello, e quegli senza alcuna dimora armati, come se del luogo dove era andar se ne volesse al fratello, nascosamente in quegli fece caricar tutti i tesori stati del suo marito, e, oltre ad essi, quegli che aver poté del fratello; e palesamente fece mettere nelle navi sacchi pieni di rena e guardarli bene. Ed essendo con coloro, li quali sentivano il suo consiglio, salita sopra le navi, come in alto mare si vide, comandò che questi sacchi pieni di rena tutti fossero gittati in mare. E, come questo fu fatto, convenuti tutti insieme i marinai e gli altri, lagrimando disse:—Io, facendo gittare in mare tutti i tesori di mio marito, ho trovato modo alla mia morte, la quale io ho lungamente disiderata. Ma io ho compassione a voi, carissimi amici e compagni della mia colpa; percioché io non dubito punto, che, come noi perverremo a Pigmaleone, il quale sapete è avarissimo, egli fará crudelmente me e voi morire. Nondimeno, se vi piacesse con meco insieme fuggirvi e lontanarvi dalla sua potenza, io vi prometto di non venirvi mai meno ad alcun vostro bisogno.—La qual cosa udendo i miseri[121] marinai, quantunque loro paresse grave cosa lasciar la patria, nondimeno, temendo forte la crudeltá di Pigmaleone, agevolmente sʼaccordarono a doverla seguire in qualunque parte ella diliberasse di fuggire. Dopo il quale diliberamento, piegate le prode delle navi a ponente, pervennero in Cipri, dove quelle vergini che alla marina trovarono, persolventi secondo il costume loro li primi gustamenti di Venere, a sollazzo ed eziandio a procrear figliuoli deʼ giovani che con lei erano, fece prendere e porre in su le navi; e, similmente, ammonito nel sonno un sacerdote di Giove, che in quella contrada era, con tutta la sua famiglia ne venne a lei, annunziando grandissime cose dover seguire, in onore della loro successione, di questa fuga. Poi quindi partitasi, e pervenuta nel lito affricano, costeggiando la marina deʼ massuli, in quel seno del mare entrò con le sue navi, dove ella poco appresso edificò la cittá di Cartagine. E quivi, estimando il luogo esser sicuro alle navi, per dare alcun riposo aʼ marinai faticati, prese terra: dove venendo quegli della contrada, quale per disiderio di vedere i forestieri, e quale per guadagnare recando delle sue derrate, cominciarono a contrarre insieme amistá. E, apparendo la dimora loro essere a grado aʼ paesani, ed essendone ancora confortati da quegli dʼUtica, li quali similmente quivi di Fenicia eran venuti, quantunque Didone udisse per alcuni, che seguita lʼavevano, Pigmaleone fieramente minacciarla; di niuna cosa spaventata, quivi diliberò di fermarsi. E, accioché alcuno non sospicasse lei alcuna gran cosa voler fare, non piú terreno che quanto potesse circundare una pelle di bue mercatò da quegli della contrada, la quale in molte parti minutissimamente fatta dividere, assai piú che alcuno estimato non avrebbe, occupò di terreno. E, quivi fatti eʼ fondamenti, fece edificare la cittá, la quale chiamò Cartagine. E, accioché piú animosamente e con maggior speranza i compagni adoperassono, a tutti fece mostrare i tesori, li quali essi credeano aver gittati in mare. Per la qual cosa subitamente le mura della cittá, le torri eʼ templi, il porto e gli edifici cittadini saliron su, e apparve non solamente la cittá esser bella, ma ancora potente e a difendersi e a far guerra.[122] Ed essa, date le leggi e il modo del vivere al popol suo, onestamente vivendo, da tutti fu chiamata reina. Ed essendo per Affrica sparta la fama della sua bellezza e della sua onestá, e della prudenza e del valore, avvenne che il re deʼ mussitani, non guari lontano da Cartagine, venne in disiderio dʼaverla per moglie; e, fatti alcuno deʼ principi di Cartagine chiamare, la dimandò loro per moglie, affermando, se data non gli fosse, esso disfarebbe la cittá fatta e caccerebbe loro e lei. Li quali conoscendo il fermo proposito di lei di sempre servar castitá, temetton forte le minacce del re, e non ardiron di dire a Didone, domandantene, ciò che dal re avevano avuto, ma dissero che il re disiderava di lasciare la vita e i costumi barbari e dʼapprendere quegli deʼ fenici. Perciò voleva alquanti di loro che in ciò lʼammaestrassero; e, dove questi non avesse, minacciava di muover guerra loro e disfare la cittá. E però, conciofossecosaché essi non sapessono chi di loro ad esser con lui andar si volesse, temevan forte non quello avvenisse che il re minacciava. Non sʼaccorse la reina dellʼastuzia, la quale usavano coloro che le parlavano, e però, rivolta a loro, disse:—O nobili cittadini, che miseria di cuore è la vostra? Non sapete voi che noi nasciamo al padre e alla patria? né si può direttamente dire cittadino colui, il quale non che altro pericolo, ma ancora, se il bisogno il richiede, non si dispone con grande animo alla morte per la salute della patria? Andate adunque, e lietamente con piccolo pericolo di voi rimovete il minacciato incendio dalla vostra cittá.—Come i nobili uomini udirono questa riprensione fatta loro dalla reina, cosí parve loro avere da lei ottenuto quello che essi disideravano, e iscoperserle la veritá di ciò che il re domandato avea. La qual cosa come la reina ebbe udita, cosí sʼaccorse se medesima avere contro a sé data la sentenzia e approvato il maritaggio; e seco medesima si dolse, né ardí dʼopporsi allo ʼnganno che i suoi uomini aveano usato. Ma subitamente seco prese quel consiglio che allʼonestá della sua pudicizia le parve di bisogno, e rispose che, se termine le fosse dato, che ella andrebbe volentieri al marito. Ed essendole certo termine conceduto a dovere andare al marito, e quello[123] appressandosi, nella piú alta parte della cittá fece comporre un rogo, il quale estimarono i cittadini ella facesse per dovere con alcun sacrificio rendersi benivola lʼanimo di Sicheo, alla quale le parea romper fede. E compiuto il rogo, vestita di vestimento bruno, e servate certe cerimonie e uccise, secondo la loro consuetudine, certe ostie, montò sopra il rogo, e, aspettante tutta la moltitudine deʼ cittadini quello che essa dovesse fare, si trasse di sotto aʼ vestimenti un coltello, sel pose al petto, e, chiamato Sicheo, disse:—O ottimi cittadini, cosí come voi volete, io vado al mio marito.—E, appena finite le parole, vi si lasciò cader suso, con grandissimo dolore di tutti coloro che la viddero: e invano aiutata, versando il castissimo sangue, passò di questa vita.

Virgilio non dice cosí, ma scrive nello Eneida che, avendo Pigmaleone occultamente ucciso Sicheo, e tenendo la sua morte nascosa a Didone, Sicheo lʼapparve una notte in sogno, e revelolle ciò che Pigmaleone avea fatto; ed insegnatole dove i suoi tesori erano ascosi, la confortò che ella si partisse di quel paese. Per la qual cosa ella prese i tesori, e, fuggitasi, avvenne che, facendo ella far Cartagine, Enea, dopo il disfacimento di Troia partitosi, per tempesta arrivò a Cartagine, dove egli fu ricevuto e onorato da lei; e, con lei avuta dimestichezza per alcun tempo, lasciatala malcontenta, si partí per venire in Italia: di che ella per dolore sʼuccise. La quale opinione per reverenza di Virgilio io approverei, se il tempo nol contrariasse. Assai manifesta cosa è, Enea, il settimo anno dopo il disfacimento di Troia, esser venuto, secondo Virgilio, a Didone: e Troia fu distrutta lʼanno del mondo, secondo Eusebio, quattromilaventi. E il detto Eusebio scrive essere opinione dʼalcuni, Cartagine essere stata fatta da Carcedone tirio: e altri dicono, Tidadidone sua figliuola, dopo Troia disfatta, centoquarantatrè anni, che fu lʼanno del mondo quattromilacentosessantatré. E in altra parte scrive essere stata fatta da Didone lʼanno del mondo quattromilacentoottantasei. E ancora appresso, senza nominare alcun facitore, scrive alcun tenere Cartagine essere stata fatta lʼanno del mondo quattromilatrecentoquarantasette. Deʼ quali tempi, alcuno non è conveniente coʼ tempi dʼEnea:[124] e perciò non credo che mai Enea la vedesse. E Macrobio in libro Saturnaliorum del tutto il contradice, mostrando la forza dellʼeloquenza esser tanta, che ella aveva potuto far sospettar coloro che sapevano la storia certa di Dido, e credere che ella fosse secondo che scrive Virgilio. Fu adunque Dido onesta donna, e, per non romper fede al cener di Sicheo, sʼuccise. Ma lʼautore séguita qui, come in assai cose fa, lʼopinion di Virgilio, e per questo si convien sostenere.

«Poi è Cleopatras lussuriosa». Credo lʼautore aver posto questo aggettivo a costei, a differenza di piú altre Cleopatre che furono, delle quali alcuna non ne fu, per quel che si legge, cosí viziata di questo vizio, come costei, della qual qui intende.

Cleopatras fu reina dʼEgitto e, per molti re medianti, trasse origine da Tolomeo, figliuolo di Lagio di Macedonia: e piace ad alcuni lei essere stata figliuola di Tolomeo Dionisio, re dʼEgitto. Altri dicono il padre di lei essere stato Tolomeo Mineo, similmente re dʼEgitto, il quale, essendo amicissimo del popolo di Roma, e avendo quattro figliuoli, due maschi e due femmine, venendo a morte, lasciò, al tempo del primo consolato di Giulio Cesare, per testamento che il maggior deʼ figliuoli, il quale fu nominato Lisania, presa per moglie Cleopatra, sua sirocchia, e di piú di che lʼaltra, insieme dopo la morte regnassero: la qual cosa per li romani fu mandata ad esecuzione. Ma, ardendo Cleopatra di disiderio di regnar sola, il suo marito e fratello fece morir di veleno, e sola tenne il reame. Ma, avendo giá Pompeo magno quasi tutta lʼAsia costretta ad ubbidire aʼ romani, venendo in Egitto, privò Cleopatra del reame, e fecene re il minor fratello, ancora assai giovinetto. Della qual cosa indegnata Cleopatra, come piú tosto poté, gli mosse guerra; e, perseverando in essa, avvenne che Pompeo, vinto da Cesare in Tessaglia, e dal giovane Tolomeo fatto uccidere in Egitto, e seguitandolo Cesare, pervenuto in Alessandria, e trovando Cleopatra in guerra contro al fratello, amenduni gli fece davanti da sé chiamare per udir le ragioni di ciascuna parte. Davanti al quale dovendo venir Cleopatra, avendo della sua formositá gran fidanza, percioché bella femmina fu, ornata di reali[125] vestimenti comparí: e assai leggiermente le venne fatto di prender con gli occhi e con gli atti suoi il libidinoso prencipe. Di che seguí che, avendo Cesare piú notti comuni avute con lei, ed essendo giá il giovane Tolomeo annegato a Delta, dove contro a Mitridate pergameno, che in aiuto di Cesare veniva, andato era; Cesare le concedette il reame dʼEgitto, menatane Arsinoe, sirocchia di Cleopatra, accioché per lei alcuna novitá non fosse suscitata nel regno. Essendo dunque Cleopatra reina, e in istato tranquillo, in tutte quelle lascivie si diede che dar si possa disonesta femmina: e, disiderosa di ragunar tesori e gioie, quasi di tutti i re orientali disonestamente divenne amica. Né le fu questo assai, ma tutti i templi dʼEgitto e le sagre case spogliò di vasellamenti, di statue e di tesori. Apresso questo, essendo giá stato ucciso Cesare, e Bruto e Cassio vinti da Ottaviano e da Antonio, al detto Antonio, vegnente in Siria, si fece incontro in forma dʼonorario: e lui, non altrimenti che Cesare aveva fatto, prese e inretí del suo amore, e lui indusse innanzi ad ogni altra cosa, accioché senza alcuna suspizione del regno rimanesse, a fare uccidere Arsinoe, sua sirocchia, non ostante che essa per sua salute rifuggita fosse nel tempio di Diana efesia. E, avendo giá invescato nella sua dilezione Antonio, ardí di chiedergli il reame di Siria e dʼArabia, li quali col suo terminavano. La qual domanda parendo troppo grande ad Antonio, non gliele diede, ma, per soddisfarla alquanto, le diede di ciascuno alcuna particella. Poi, avendo ella accompagnato Antonio, il quale andava in Partia, infino al fiume dʼEufrate, e tornandosene, ne venne per Siria, dove magnificamente fu ricevuta da Erode, re poco davanti per opera dʼAntonio stato coronato di quel reame: lá dove ella non dubitò di fare per interposita persona tentare Erode della sua dimestichezza, sperando, se a quella il potesse inducere, di dovergli sottrarre il reame di Siria. Di che accorgendosi Erode, per levare da dosso ad Antonio lʼignominia di costei, diliberò dʼucciderla; ma, dagli amici da ciò ritratto, donatole grandissimi doni, la lasciò tornare in Egitto. Dove dopo alquanto ricevuto Antonio, il quale in fuga daʼ parti sʼera tornato, essendo in lei lʼardor cresciuto del[126] signoreggiare, fu di tanta presunzione, che ella gli chiese lo imperio di Roma, e Antonio fu tanto bestiale che egli gliele promise. Ed essendo giá alcuna cagione nata di guerra tra Antonio e Ottaviano, per lʼavere egli repudiata Ottavia, sua moglie e sirocchia dʼOttaviano, e presa per moglie Cleopatra, prepararono una grande armata navale, ornata con vele di porpore e con altri assai arredi preziosissimi, e, sú montátivi, nʼandarono in Epiro: dove venuto giá Ottaviano, e avendo combattuto in terra e vinta la gente di Antonio, si recarono a volere provare la fortuna del mare. Nel quale parendo giá Ottaviano dover vincere, prima a tutti gli altri fuggí Cleopatra, la cui nave aveva la vela dʼoro, e lei seguitarono sessanta delle sue navi. La quale incontanente Antonio, gittati via della sua nave tutti gli ornamenti pretoriani, seguitò: e, pervenuti in Alessandria, e ogni sforzo fatto a dover resistere ad Ottaviano, lui vegnente aspettarono. Il quale avendo molto le lor forze diminuite, domandò Antonio le condizioni della pace, le quali non potendo avere, disperatosi entrò nel luogo dove erano usati di seppellirsi i re, e quivi se medesimo uccise. Ed essendo poi presa Alessandria, estimando Cleopatra con quelle medesime arti poter pigliare Ottaviano, con che primieramente Cesare e Antonio presi avea, e trovandosi del suo pensiero ingannata; udendo che servata era da Ottaviano al triunfo, turbata e con difficultá dʼanimo sofferendo di dover divenire spettaculo deʼ romani, vestendosi i reali ornamenti, lá se nʼentrò dove il suo Antonio giaceva morto, e, postasi a giacere allato a lui, e fattesi aprire le vene delle braccia, a quelle si pose una spezie di serpenti, chiamati «ypnali», il veleno deʼ quali ha ad inducer sonno, e a far dormendo morire il trafitto: e cosí addormentata si morí, quantunque, avendo ciò udito Ottaviano, si sforzasse di ritenerla in vita, fatti venir alcuni di queʼ popoli che si chiamano «psilli», e fatto lor porre la bocca alle pugniture del braccio, e tirar fuori lʼavvelenato sangue daʼ serpenti; ma ciò fu fatica perduta, percioché la forza del veleno aveva giá ucciso il cuor di lei.

Sono nondimeno alcuni che dicono lei davanti a questo tempo morta, e dʼaltra spezie di morte; dicendo che, avendo Antonio[127] temuto non, nellʼapparecchiamento della guerra contro ad Ottaviano, Cleopatra con la morte di lui si facesse benivolo Ottaviano, niuna cosa era usato di bere né di mangiare, che primieramente non facesse assaggiare ad altrui: di che essendosi Cleopatra avveduta, a farlo chiaro della sua fede verso di lui, avvelenò i fiori delle ghirlande le quali il dí davanti portate aveano: e postesi quelle in capo, mise in festa e in trastullo Antonio, e tanto procedette col trastullo della festa, che ella lo ʼnvitò a dover bere le loro ghirlande, e messe i fiori di quelle in un nappo, dove era quello, o vino o altro, che ber si dovea: e, volendolo Antonio bere, ella il ritenne, e vietò che nol bevesse, e disse:—Antonio amantissimo a me, io son quella Cleopatra, la quale con queste tue disusate pregustazioni tu mostri dʼaver sospetta: e però, se io potessi sofferire che tu bevessi quello di che tu hai paura, e tempo nʼho, e tu me nʼhai data cagione;—e quindi mostratogli lo ʼnganno, il quale adoperato avea neʼ fiori, dicono che Antonio la fece prendere e guardare, e costrinsela a bere quel beveraggio, il quale ella aveva a lui vietato che non bevesse; e cosí lei vogliono esser morta. La prima opinione è piú vulgata: senza che, a quella sʼaggiugne che, avendo Antonio ed ella cominciata una magnifica sepoltura per loro. Ottaviano comandò che compiuta fosse e che amenduni in essa fossero seppelliti.

«Elena vidi», in questa schiera, «per cui», cioè per la quale, «tanto reo Tempo si volse», cioè tanta lunga dimension di tempo, la quale per le circunvoluzioni del cielo misurata passò: la quale lunga dimension di tempo fu per ispazio di venti anni, cioè dal dí che Elena fu rapita al dí che a Menelao fu restituita; percioché tanto stette Elena in Troia, e alquanto piú, sí come Omero nellʼultimo libro della sua Iliade dimostra, là dove, lei piagnendo sopra il morto corpo di Ettore, fa dire quasi queste parole, che, essendo ella stata venti anni appo Priamo eʼ figliuoli, mai Ettore non le avea detta una ingiuriosa parola. È il vero che di questi venti anni non fu lʼassedio continuato intorno ad Ilione, se non i dieci ultimi anni: e però si può intendere li dieci primi essersi consumati e nel[128] raddomandare Elena, il che piú volte per ambasceria fecero, e nel sommuovere tutta Grecia alla impresa contro aʼ troiani, e nel dar ordine e nel fare lʼapparecchio delle cose opportune a tanta guerra. E il vero che gli ultimi dieci furono molto peggiori che i primi, percioché in essi furono dintorno ad Ilione fatte molte battaglie, e in esse furono uccisi molti valenti uomini e popolo assai.

Elena fingono i poeti essere stata figliuola di Giove e di Leda, moglie di Tindaro, re dʼOebalia, e lui dicono in forma di cigno, con lei bellissima donna e madre dʼElena, esser giaciuto, narrando in questa forma la favola di Giove, ecc. Ma le istorie vogliono lei essere stata figliuola di Tindaro, re dʼOebalia, e di Leda, e sirocchia di Castore e di Polluce. Fu la bellezza di costei tanto oltre ad ogni altra maravigliosa, che ella non solamente a discriversi con la penna faticò il divino ingegno dʼOmero, ma ella ancora molti solenni dipintori e piú intagliatori per maestero famosissimi stancò: e intra gli altri, sí come Tullio nel secondo dellʼArte vecchia scrive, fu Zeusis eracleate, il quale per ingegno e per arte tutti i suoi contemporanei e molti deʼ predecessori trapassò. Questi, condotto con grandissimo prezzo daʼ croteniesi a dover la sua effigie col pennello dimostrare, ogni vigilanza pose, premendo con gran fatica dʼanimo tutte le forze dello ʼngegno suo; e, non avendo alcun altro esemplo, a tanta operazione, che i versi dʼOmero e la fama universale che della bellezza di costei correa, aggiunse a questi due un esempio assai discreto: percioché primieramente si fece mostrare tutti i beʼ fanciulli di Crotone, e poi le belle fanciulle, e di tutti questi elesse cinque, e delle bellezze deʼ visi loro e della statura e abitudine deʼ corpi, aiutato daʼ versi dʼOmero, formò nella mente sua una vergine di perfetta bellezza, e quella, quanto lʼarte potè seguire lʼingegno, dipinse, lasciandola, sí come celestiale simulacro, alla posteritá per vera effigie dʼElena. Nel quale artificio, forse si poté abbattere lʼindustrioso maestro alle lineature del viso, al colore e alla statura del corpo: ma come possiam noi credere che il pennello e lo scarpello possano effigiare la letizia degli occhi, la piacevolezza di tutto il[129] viso, e lʼaffabilitá, e il celeste riso, e i movimenti vari della faccia, e la decenza delle parole, e la qualitá degli atti? Il che adoperare è solamente oficio della natura. E, percioché queste cose erano in lei esquisite, né vedeano i poeti a ciò poter bastare la penna loro, la finsero figliuola di Giove, accioché per questa divinitá ne desser cagione di meditare qual dovesse essere il fulgore degli occhi suoi, quale il candore del mirabile viso, quanta e quale la volantile e aurea chioma, da questa parte e da quella con vezzosi cincinnuli sopra gli candidi ómeri ricadente; quanta fosse la soavitá della dolce e sonora voce, e ancora certi atti della bocca vermiglia e della splendida fronte e della gola dʼavorio, e le delizie del virginal petto, con le altre parti nascose daʼ vestimenti. Da questa tanto ragguardevole bellezza fu Teseo, figliuolo dʼEgeo, re dʼAtene, tirato in Oebalia a doverla rapire: la quale esso trovata giucare, secondo il lor costume, nella palestra con gli altri fanciulli di sua etá, conosciutala la rapí, e portonnela ad Atene: e quantunque per la troppo tenera etá altro che alcun bascio tôrre non le potesse, pure alquanto maculò la virginale onestá. Qui si può muovere un dubbio, conciosiacosaché tutti gli antichi scrittori a questo sʼaccordino, che Teseo prima, e poi Paris, la rapissono. Come questo debba poter esser stato, ecc. Fu nondimeno poi costei da Elettra, madre di Teseo, non essendo Teseo in Atene, renduta a Castore e a Polluce, suoi fratelli, raddomandantila. Altri dicono che Teseo lʼavea raccomandata a Proteo, re dʼEgitto, e che esso in assenza di Teseo lʼaveva renduta aʼ fratelli. Poi appresso, essendo pervenuta ad etá matura, fu maritata a Menelao, re di Lacedemonia, e dopo alquanto tempo, essendo esso andato in Creti, fu da Paris troiano rapita di Lacedemonia e portatane in Troia, e, secondo che alcuni dicono, di consentimento di lei. Altri dicono che ella fu dal detto Paris rapita dʼunʼisola chiamata Citerea, dove ella ad un certo sacrificio che si faceva, secondo il costume antico, vegghiava la notte nel tempio dello dio, al quale il sacrificio faceano, con altre donne della contrada. E son di quegli che affermano senza sua saputa o volontá questo essere stato fatto. [Qui del modo del vegghiare, e come di qua il recarono[130] i marsiliesi, e donde vennero le vigilie.] In Troia dimorò venti anni, come di sopra dicemmo: ed essendo stato ucciso Paris da Pirro, si rimaritò a Deifobo, suo fratello: e, per quel che paia voler Virgilio, essendosi secondo lʼordine del trattato i greci ritrattisi indietro da Ilione e fatto sembiante dʼandarsene, ed ella sapendolo, ed essendo a ciò consenziente, quando vide il tempo atto al disiderio deʼ greci, con un torchio acceso diede lor segno al venire; di che essi tornati, e preso Ilione e disfatto, e ricevuta lei, la restituirono a Menelao: il quale dicono che volentieri la ricevette. E altri vogliono essere la cagione percioché non di sua volontá fu rapita; altri percioché tenne al trattato, e diede il cenno aʼ greci di ritornare. E, tornandosi costei con Menelao in Grecia, da noiosa tempesta di mare ne furono portati in Egitto, e quivi da Polibo re onorevolmente ricevuti; e, oltre a questo, essendo da diversi casi ritenuti, lʼottavo anno dopo la distruzione dʼIlione, tornarono in Lacedemonia. Dove scrive Omero, nella sua Odissea, che Telemaco, figliuolo di Ulisse, essendo venuto per domandar Menelao se alcuna cosa dir gli sapesse dʼUlisse, gli trovò far festa e nozze grandissime, avendo Menelao dato moglie ad un suo figliuolo non legittimo, chiamato Megapénti. E da questo tempo innanzi, mai che di lei si fosse non mi ricorda aver trovato.

«E vidi ʼl grande Achille, Che con amore», cioè per amore, «al fine», della sua vita, «combatteo», contro a Paris e agli altri che nel tempio dʼApollo timbreo lʼassalirono e uccisono; nel quale Ecuba lʼaveva occultamente e falsamente fatto venire, avendogli promesso di dargli per moglie Polissena.

[Lez. XIX]

Achille fu figliuolo di Peleo e di Tetide minore, nelle cui nozze, ecc. non fu invitata la dea della discordia, ecc.; e fu dʼuna cittá di Tessaglia, secondo che Omero scrive nella Iliada, chiamata Ptia: il quale, secondo che i poeti scrivono, come nato fu, dalla madre fu portato in inferno, e, accioché egli divenisse forte e paziente delle fatiche, presolo per lo calcagno, tutto il tuffò nel fiume, ovvero nellʼonde di Stige, palude infernale, fuori che il calcagno di lui, il quale teneva con mano; e questo fatto, il diede a Chirón centauro, che lo allevasse. Il quale il nutricò,[131] non in quella forma che gli altri tutti si sogliono nutricare, ma gli faceva apparecchiare il cibo suo solamente di medolla dʼossa di bestie prese da lui; e questo faceva, accioché egli, per continuo esercizio, si facesse forte e destro a sostenere le fatiche. E per questo solea dir Leon Pilato lui essere stato nominato Achille, ab «a», che tanto vuol dire quanto «senza», e «chilos», che tanto vuol dire quanto «cibo», quasi «uomo nutricato senza cibo». Insegnò Chirón a costui astrologia e medicina e sonare certi istrumenti di corda. Ma, come la madre di lui sentí essere stata rapita da Paride Elena, conoscendo per sue arti che gran guerra ne seguirebbe, e che in quella sarebbe il figliuolo ucciso, sʼingegnò di schifargli con consiglio questo male, se ella potesse: e lui dormente, e ancora fanciullo senza barba, nascosamente della spelonca di Chirone il trasse, e portonnelo in una isola chiamata Sciro, dove regnava un re chiamato Licomede: e con vestimenti femminili, avendolo ammaestrato che a niuna persona manifestasse sé esser maschio, quasi come fosse una vergine, gliele diede che il guardasse tra le figliuole. Ma questo non potè lungamente essere occulto a Deidamia, figliuola di Licomede, cioè che egli fosse maschio: col quale essa, preso tempo atto a ciò, si giacque; e per la comoditá, la quale avea di questo suo piacere, ad alcuna persona non manifestava quello essere che essa avea conosciuto. E tanto continovò la lor dimestichezza, che essa di lui concepette un figliuolo, il quale poi chiamaron Pirro. Ma, poi che i greci ebbero tutti fatta congiurazione contro aʼ troiani, avendo per risponso avuto non potersi Troia prendere senza Achille, messisi ad investigare di lui, con la sagacitá dʼUlisse fu trovato e menato a Troia: dove andando, prese piú cittá di nemici e grandissima preda, e una figliuola del sacerdote dʼApolline, la qual donò ad Agamennone, e unʼaltra, che presa nʼavea, chiamata Briseida, guardò per sé. Ed essendo convenuto, per risponsi deglʼiddii, che Agamennone avesse la sua restituita al padre, tolse Briseida ad Achille: della qual cosa turbato Achille, non si poteva fare, né per prieghi né per consiglio, che egli volesse combattere contro aʼ troiani. Per che, essendo i greci un dí fieramente malmenati daʼ troiani,[132] avendo egli concedute le sue armi e il carro a Patrocolo, e Patrocolo essendo stato ucciso da Ettore, turbato sʼarmò: e, vinto e ucciso Ettore, e strascinatolo, e poi tenutolo senza sepoltura dodici dí, e ultimamente rendutolo a Priamo, e poi perseverando nel combattere, avendo ucciso Troilo, fratello di Ettore, suspicò Ecuba costui non doverle alcuno deʼ figliuoli lasciare, per che con lui tenne segreto trattato di dovergli dare Polissena, sua figliuola, per moglie, dove egli le promettesse piú non prendere arme contro aʼ troiani. Amava Achille Polissena meravigliosamente, percioché neʼ tempi delle tregue veduta lʼavea, ed eragli oltre ad ogni altra femmina paruta bella. Ed essendo dunque esso in convenzione con Ecuba, secondo che ella gli mandò dicendo, solo e disarmato andò una notte nel tempio dʼApollo timbreo, il quale era quasi allato alle mura dʼIlione, credendosi quivi trovare Ecuba e Polissena; ma come egli fu in esso, gli uscí sopra Paris con certi compagni; ed essendo Paris mirabilmente ammaestrato nellʼarte del saettare, aperto lʼarco, il ferí dʼuna saetta nel calcagno, percioché sapeva lui in altra parte non potere esser ferito: per che Achille, fatta alcuna ma piccola difesa, cadde e fu ucciso, e poi seppellito sopra lʼuno deʼ promontori di Troia, chiamato Sigeo.

«Vidi Paris». Paris, il quale per altro nome fu chiamato Alessandro, fu figliuolo di Priamo e di Ecuba, del quale Tullio in libro De divinatione scrive che, essendo Ecuba pregna di quella pregnezza della quale ella partorí Paris, le parve una notte nel sonno partorire una facellina, la quale ardeva tutta Troia. Il qual sonno essa raccontò a Priamo: del significato del qual sogno Priamo fece domandare Apollo, il quale rispose che per opera del figliuolo, il quale nascer dovea di questa grossezza, perirebbe tutta Troia. Per la qual cosa Priamo comandò che il figliuolo che nascesse, ella il facesse gittar via. Ma, essendo venuto il tempo del parto, e avendo Ecuba partorito un bel fanciullo, ebbe pietá di lui, e nol fece, secondo il comandamento di Priamo, gittar via, ma il fece occultamente dare a certi pastori del re, che lʼallevassero: e cosí da questi pastori fu allevato nella selva chiamata Ida, non guari dilungi da[133] Troia. Ed essendo divenuto grande, quivi primieramente usò la dimestichezza dʼuna ninfa del luogo chiamata Oenone, e di lei ebbe due figliuoli, deʼ quali chiamò lʼuno Dafne e lʼaltro Ideo. E, dimorando in abito pastorale in quella selva, addivenne un grande e famoso giudice, e ogni quistione tra qualunque persona con maravigliosa equitá decideva. Per la qual cosa perduto quasi il vero nome, cioè Alessandro, era da tutti chiamato Paris, quasi «eguale». E in questo tempo che esso cosí dimorava, avvenne che Peleo menò per moglie Teti, e alle sue nozze invitò Giunone, Pallade e Venere. Di che gravandosi la dea della discordia, che essa non vʼera stata chiamata, preso un pomo dʼoro, vi scrisse sú che fosse dato alla piú degna, e gittollo sopra la mensa, alla quale esse sedevano. Di che, lette le lettere, ciascuna delle tre dèe diceva a lei, sí come a piú degna, doversi il detto pomo. Ed essendo tra loro la quistione grande, andarono per lo giudicio a Giove, il quale Giove non volle dare, ma disse loro:—Andate in Ida, e quivi è un giustissimo uomo chiamato Paris; quegli giudicherá qual di voi ne sia piú degna.—Per la qual cosa le tre dèe andarono nella selva, e trovarono Paris in una parte di quella chiamata Mesaulon, e quivi proposero davanti a lui la lor quistione, dicendo Giunone:—Io sono dea deʼ regni: se tu dirai me piú degna di queste altre di questo pomo, io ti farò signore di molti.—Dʼaltra parte diceva Pallade:—Io sono dea della sapienza: se tu il dái a me, io ti farò tutte le cose cognoscere e sapere.—Venere similemente diceva:—Io sono dea dʼamore: se tu dai, come a piú degna, il pomo a me, io ti farò avere lʼamore e la grazia della piú bella donna del mondo.—Le quali udite da Paris, dopo alcuna diliberazione, egli diede il pomo a Venere, sí come a piú degna. Per la qual cosa, come appresso si dirá, egli ebbe Elena. Fu costui, secondo che Servio dice essere stato da Nerone raccontato nella sua Troica, fortissimo, intanto che esso nelle contenzioni agonali, le quali si facevano a Troia, esso vinceva ogni uomo, ed Ettore medesimo. Il quale, turbatosi dʼessere da lui stato vinto, credendo lui essere un pastore, messo mano ad un coltello, il volle uccidere, e arebbel fatto;[134] se non che Paris, che giá daʼ suoi nutritori saputo lʼavea, gridò forte:—Io son tuo fratello;—che ciò fosse vero provò, mostrate le sue crepundie, le quali Ecuba vedute riconobbe; e cosí fu riconosciuto e ricevuto nella casa reale di Priamo, suo padre. Nella quale non guari di tempo dimorò, che, essendo per mandato di Priamo composte [e fatte] venti navi, sotto spezie dʼambasciadore a raddomandare Esiona fu mandato in Grecia; dove alcuni vogliono, e tra questi è Ovidio nelle sue Pistole, che esso fosse ricevuto e onorato da Menelao. Ma altri dicono lui essere in Lacedemonia venuto, non essendovi Menelao, e di quindi alla fama della bellezza dʼElena essere andato in Isparten, e quella avere combattuta il primo anno del regno dʼAgamennone, non essendovi Castore né Polluce, fratelli di Elena, li quali ad Agamennone erano andati, e seco aveano menata Ermione, figliuola di Menelao e dʼElena. E cosí, avendo presa la cittá, presene Elena, resistente quanto potea, e, oltre a ciò, tutti i tesori di Menelao, e, ogni cosa posta sopra le navi, andò via: la qual cosa assai elegantemente tôcca Virgilio, quando dice:

Me duce, Dardanius Spartam expugnavit adulter? ecc.

E per questo vogliono molti, preso daʼ greci Ilione, Elena aver meritato dʼessere stata ricevuta da Menelao. E cosí Paris ebbe la piú bella donna di Grecia, secondo la promessa di Venere: la quale in Troia menatane, vi portò quella facellina, la quale Ecuba, essendo gravida in lui, avea nel sonno veduta che tutta Troia ardea. Adunque per questa rapina congiurati i greci insieme, vennero ad assediare Ilione: nel quale essendo prima stato ucciso Ettore, e poi Troilo, esso medesimo Paris fu ucciso da Pirro, figliuolo dʼAchille.

Séguita poi: «Tristano».

Tristano, secondo i romanzi deʼ franceschi, fu figliuolo del re Meliadus e nepote del re Marco di Cornovaglia, e fu, secondo i detti romanzi, prode uomo della persona e valoroso cavaliere: e dʼamore men che onesto amò la reina Isotta, moglie[135] del re Marco, suo zio, per la qual cosa fu fedito dal re Marco dʼun dardo avvelenato. Laonde vedendosi morire, ed essendo la reina andata a visitarlo, lʼabbracciò, e con tanta forza se la strinse al petto, che a lei e a lui scoppiò il cuore, e cosí insieme morirono, e poi furono similmente seppelliti insieme. Fu costui al tempo del re Artú e della Tavola ritonda, ed egli ancora fu deʼ cavalieri di quella Tavola.

«E piú di mille Ombre mostrommi, e nominolle a dito», dice «mille», quasi molte, usando quella figura la qual noi chiamiamo «iperbole»; «Chʼamor», cioè quella libidinosa passione, la qual noi volgarmente chiamiamo «amore», «di nostra vita dipartille», con disonesta morte; percioché, per quello morendo, onestamente morir non si puote.

«Poscia chʼio ebbi». Qui comincia la quinta parte del presente canto, nella qual dissi che lʼautore con alcuni spiriti dannati a questa pena parlava, e dice: «Poscia chʼio ebbi il mio dottore udito Nomar le donne antiche e i cavalieri», che di sopra ha nominati; «Pietá mi vinse e fui quasi smarrito». In queste parole intende lʼautore dʼammaestrarci che noi non dobbiamo con la meditazione semplicemente visitar le pene deʼ dannati; ma, visitandole e conoscendole, e conoscendo noi di quelle medesime per le nostre colpe esser degni, non di loro, che dalla giustizia son puniti, ma di noi medesimi dobbiamo aver pietá, e dover temere di non dovere in quella dannazione pervenire, e compugnerci ed affliggerci, accioché tal meditazione ci sospinga a quelle cose adoperare, le quali di tal pericolo ne tragghino e dirizzinci in via di salute. E usa lʼautore di mostrare di sentire alcuna passione, quando maggiore e quando minore, in ciascun luogo: e quasi dove alcun peccato si punisce, del quale esso conosca se medesimo peccatore. E, avuta questa passione al suo difetto, sèguita: «Io cominciai:—Poeta, volentieri Parlerei a queʼ due che ʼnsieme vanno», essendo da quella bufera portati, «E» che «paiono sí al vento esser leggeri»,—cioè con minor fatica volanti. «Ed egli a me:—Vedrai quando saranno», menati dal vento, «Piú presso a noi, e tu allor gli prega, Per quellʼamor, che i mena», qual che quello amor si[136] sia, «ed eʼ verranno», qui, da quellʼamor, per lo qual pregati fieno, costretti. «Sí tosto, come ʼl vento a noi gli piega, Muovi la voce»—cioè priega come detto tʼho.

Per la qual cosa lʼautore, che verso di sé venir gli vide, cominciò a dire in questa guisa:—«O anime affannate», dal tormento e dalla noia di questo vento, «Venite a noi parlar, sʼaltri nol niega»,—cioè se voi potete.

«Quali colombe». Qui lʼautore, per una comparazione, ne dichiara con quanta affezione quelle due anime chiamate venissero a lui. «Quali colombe dal desio», di rivedere i figliuoli, «chiamate», cioè incitate, «Con lʼali alzate», volando, «e ferme», con lʼaffezione, «al dolce nido», nel quale i figliuoli hanno lasciati, per dover cercar pastura per li figliuoli e per loro; «Vengon per lʼaer», verso il nido, «dal voler portate»; percioché gli animali non razionali non hanno altra guida nelle loro affezioni che la volontá; «Cotali uscir», questi due, «della schiera ovʼè Dido», la qual di sopra disse che andavano per quello aere a guisa che volano i grú; «A noi venendo per lʼaer maligno», quanto è a loro che quivi tormentati erano: «Sí forte», cioè sí potente, «fu lʼaffettuoso grido», cioè priego (non si dee credere che lʼautor gridasse). E venuti disson cosí:—«O animal grazioso e benigno», chiamanlo per ciò «grazioso e benigno», perché benignamente pregò; il che laggiú non suole avvenire, anzi vi si usa per li ministri della divina giustizia rigidamente comandare: «Che visitando vai per lʼaer perso», cioè oscuro, «Noi, che tignemmo ʼl mondo di sanguigno», quando uccisi fummo; percioché, versandosi il lor sangue, dovunque toccò tinse di color sanguigno; «Se fosse amico», di noi, come egli è nemico, «il Re dellʼuniverso», cioè Iddio, «Noi pregheremmo lui per la tua pace», cioè che pace ti concedesse, «Poi cʼhai pietá del nostro mal perverso», cioè al nostro tormento. «Di quel chʼudire» da noi, «e che parlar ti piace» a noi, «Noi udiremo», parlando tu, «e parleremo a vui», rispondendo a quelle cose delle quali domanderai, «Mentre che ʼl vento», cioè quella bufera, «come fa», al presente, «ne tace», cioè non cʼinfesta.

[137]

[Lez. XX]

«Siede la terra». Qui comincia costei a manifestare se medesima, senza essere addomandata; e ciò fa per mostrarsi piú pronta aʼ suoi piaceri. Ma, prima che piú avanti si proceda, è da raccontare chi costei fosse, e perché morta, accioché piú agevolmente si comprenda quello che essa nelle sue seguenti parole dimostrerá. È adunque da sapere che costei fu figliuola di messer Guido vecchio da Polenta, signor di Ravenna e di Cervia; ed essendo stata lunga guerra e dannosa tra lui e i signori Malatesti da Rimino, addivenne che per certi mezzani fu trattata e composta la pace tra loro. La quale accioché piú fermezza avesse, piacque a ciascuna delle parti di volerla fortificare per parentado; e ʼl parentado trattato fu che il detto messer Guido dovesse dare per moglie una sua giovane e bella figliuola, chiamata madonna Francesca, a Gianciotto, figliuolo di messer Malatesta. Ed essendo questo ad alcuno degli amici di messer Guido giá manifesto, disse un di loro a messer Guido:—Guardate come voi fate, percioché, se voi non prendete modo ad alcuna parte, che in questo parentado egli ve ne potrá seguire scandolo. Voi dovete sapere chi è vostra figliuola, e quanto ellʼè dʼaltiero animo: e, se ella vede Gianciotto, avanti che il matrimonio sia perfetto, né voi né altri potrá mai fare che ella il voglia per marito. E perciò, quando vi paia, a me parrebbe di doverne tener questo modo: che qui non venisse Gianciotto ad isposarla, ma venisseci un deʼ frategli, il quale come suo procuratore la sposasse in nome di Gianciotto.—Era Gianciotto uomo di gran sentimento, e speravasi dover lui dopo la morte del padre rimanere signore; per la qual cosa, quantunque sozzo della persona e sciancato fosse, il disiderava messer Guido per genero piú tosto che alcuno deʼ suoi frategli. E, conoscendo quello, che il suo amico gli ragionava, dover poter avvenire, ordinò segretamente che cosí si facesse, come lʼamico suo lʼavea consigliato. Per che, al tempo dato, venne in Ravenna Polo, fratello di Gianciotto, con pieno mandato ad isposare madonna Francesca. Era Polo bello e piacevole uomo e costumato molto; e, andando con altri gentiliuomini per la corte dellʼabitazione di messer Guido, fu da una damigella di lá entro, che il conoscea, dimostrato da[138] un pertugio dʼuna finestra a madonna Francesca, dicendole:—Madonna, quegli è colui che dee esser vostro marito;—e cosí si credea la buona femmina; di che madonna Francesca incontanente in lui pose lʼanimo e lʼamor suo. E fatto poi artificiosamente il contratto delle sponsalizie, e andatane la donna a Rimino, non sʼavvide prima dellʼinganno, che essa vide la mattina seguente al dí delle nozze levare da lato a sé Gianciotto: di che si dee credere che ella, vedendosi ingannata, sdegnasse, né perciò rimovesse dellʼanimo suo lʼamore giá postovi verso Polo. Col quale come ella poi si giugnesse, mai non udii dire, se non quello che lʼautore ne scrive; il che possibile è che cosí fosse. Ma io credo quello essere piú tosto fizione formata sopra quello che era possibile ad essere avvenuto, ché io non credo che lʼautore sapesse che cosí fosse. E perseverando Polo e madonna Francesca in questa dimestichezza, ed essendo Gianciotto andato in alcuna terra vicina per podestá, quasi senza alcun sospetto insieme cominciarono ad usare. Della qual cosa avvedutosi un singulare servidore di Gianciotto, andò a lui, e raccontògli ciò che della bisogna sapea, promettendogli, quando volesse, di fargliele toccare e vedere. Di che Gianciotto fieramente turbato, occultamente tornò a Rimino, e da questo cotale, avendo veduto Polo entrare nella camera da madonna Francesca, fu in quel punto menato allʼuscio della camera, nella quale non potendo entrare, ché serrata era dentro, chiamò di fuora la donna, e dieʼ di petto nellʼuscio. Per che da madonna Francesca e da Polo conosciuto, credendo Polo, per fuggire subitamente per una cateratta, per la quale di quella camera si scendea in unʼaltra, o in tutto o in parte potere ricoprire il fallo suo; si gittò per quella cateratta, dicendo alla donna che gli andasse ad aprire. Ma non avvenne come avvisato avea, percioché, gittandosi giú, sʼappiccò una falda dʼun coretto, il quale egli avea indosso, ad un ferro, il quale ad un legno di quella cateratta era; per che, avendo giá la donna aperto a Gianciotto, credendosi ella, per lo non esservi trovato Polo, scusare, ed entrato Gianciotto dentro, incontanente sʼaccorse Polo esser ritenuto per la falda del coretto, e con uno stacco in mano correndo lá per ucciderlo, e[139] la donna accorgendosene, accioché quello non avvenisse, corse oltre presta, e misesi in mezzo tra Polo e Gianciotto, il quale avea giá alzato il braccio con lo stocco in mano, e tutto si gravava sopra il colpo: avvenne quello che egli non avrebbe voluto, cioè che prima passò lo stocco il petto della donna, che egli aggiugnesse a Polo. Per lo quale accidente turbato Gianciotto, sí come colui che piú che se medesimo amava la donna, ritirato lo stocco da capo, ferí Polo e ucciselo: e cosí amenduni lasciatigli morti, subitamente si partí e tornossi allʼuficio suo. Furono poi li due amanti con molte lacrime, la mattina seguente, seppelliti e in una medesima sepoltura.

Dice adunque la donna, dal luogo della sua origine cominciando:—«Siede», cioè dimora, «la terra», cioè la cittá di Ravenna, antichissima per quello che si crede, e fu colonia deʼ sabini, quantunque i ravignani dicano che essa fosse posta ed edificata daʼ nipoti di Noé; «dove nata fui, Su la marina», del mare Adriano, al quale ella è vicina due miglia, e per alcune dimostrazioni appare che essa giá fosse in sul mare; «dove ʼl Po discende». Nasce il Po nelle montagne che dividono Italia dalla Provenza, e, discendendo giú verso il mare Adriano, per trenta grossi fiumi, che da Appennino e dallʼAlpi discendono, diventa grossissimo fiume, e tra Mantova e Ferrara si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ferrara, e lʼaltra ad una villa di Ferrara chiamata Francolino: e pervenuto a Ferrara, similemente si divide in due parti, delle quali lʼuna ne va verso Ravenna, e diciotto miglia lontano ad essa, in luogo chiamato Primaro, mette in mare. «Per aver pace coʼ seguaci sui», cioè coʼ fiumi che, mettendo in esso, seguitano il corso suo, e, come esso con essi mette in mare, hanno pace, in quanto piú non corrono.

«Amor, chʼal cor gentil»: dimostrato per le predette discrizioni il luogo donde fu, comincia a mostrare la cagione della sua morte; e primieramente dice Polo essersi innamorato di lei; poi sé dice essersi innamorata di lui. E, quantunque questa materia dʼamore venga pienamente a dovere essere trattata nel secondo libro di questo volume, nel canto diciassettesimo; nondimeno,[140] per alcuna piccola dichiarazione alle parole che costei dice, alcuna cosa qui ne scriverò. Piace ad Aristotile esser tre spezie dʼamore, cioè amore onesto, amore dilettevole e amore utile: e quellʼamore, del quale qui si fa menzione, è amor dilettevole. E perciò, lasciando star degli altri due, dico che questo amor per diletto chiamano i poeti Cupido, e dicono che egli fu figliuolo di Marte e di Venere, sí come Tullio nel libro De natura deorum testimonia: e a costui attribuiscono i poeti grandissime forze, sí come per Seneca appare nella tragedia dʼIpolito, nella quale dice:

Et iubet caelo superos relicto
vultibus falsis habitare terras.
Thessali Phoebus pecoris magister
egit armentum, positoque plectro
impari tauros calamo vocavit.
Induit formas quotiens minores,
ipse, qui caelum nebulasque ducit?
Candidas ales modo movit alas,
ecc.

E, oltre a ciò, gli discrivono varie forme, alle quali voler recitare sarebbe troppo lunga la storia. Ma, vegnendo a quello che alla nostra materia appartiene, dico che questo Cupidine, o Amor che noi vogliam dire, è una passion di mente delle cose esteriori, e, per li sensi corporei portata in essa, è poi approvata dalle virtú intrinseche, prestando i corpi superiori attitudine a doverla ricevere. Percioché, secondo che gli astrologi vogliono (e cosí affermava il mio venerabile precettore Andalò), quando egli avviene che, nella nativitá dʼalcuno, Marte si trovi esser nella casa di Venere in Tauro o in Libra, e trovisi esser significatore della nativitá di quel cotale che allora nasce, ha a dimostrare questo cotale, che allora nasce, dovere essere in ogni cosa venereo. E di questo dice Alí nel comento del Quadripartito che, qualunque ora nella nativitá dʼalcuno Venere insieme con Marte participa, avere questa cotale participazione a concedere a colui che nasce una disposizione atta aglʼinnamoramenti e alle fornicazioni. La quale attitudine ha ad adoperare che, cosí tosto come questo cotal vede alcuna femmina,[141] la quale daʼ sensi esteriori sia commendata, incontanente quello, che di questa femmina piace, è portato alle virtú sensitive interiori, e questo primieramente diviene alla fantasia, e da questa è mandato alla virtú cogitativa, e da quella alla memorativa; e poi da queste virtú sensitive è trasportato a quella spezie di virtú, la quale è piú nobile intra le virtú apprensive, cioè allʼintelletto possibile; percioché questo è il ricettacolo delle spezie, sí come Aristotile scrive in libro De anima. Quivi, cioè in questo intelletto possibile, cognosciuto e inteso quello che, come di sopra è detto, portato vʼè, se egli avviene che per volontá di colui, nel quale è questa passione (conciosiaché in essa volontá sia libertá di ritenere dentro questa cosa piaciuta e di mandarla fuori), questa cotal cosa piaciuta sia ritenuta dentro, allora è fermata nella memoria la passione di questa cosa piaciuta, la quale noi chiamiamo Amore ovvero Cupido. E pone questa passione la sedia sua e la sua stanza ferma nellʼappetito sensitivo, e quivi in varie cose adoperanti divien sí grande, e fassi sí potente, che egli fatica gravemente il paziente e a far cose, che laudevoli non sono, spesse volte il costrigne: e alcuna volta, essendo meno approvata questa cotal cosa piaciuta, leggiermente si risolve e torna in niente. E cosí non è da Marte e da Venere generata questa passione come alcuni stimano; ma, secondo che di sopra è detto, sono alcuni uomini prodotti atti a ricevere questa passione secondo le disposizioni del corpo: la quale attitudine se non fosse, questa passione non si genererebbe.

Appare adunque che questo Polo era atto nato ad amare; e però, come vide colei, la quale esso, secondo lʼordine detto di sopra, approvò, e dentro ritenne lʼapprobazione, subitamente fu da amor passionato e preso. E deʼsi qui intendere quel che dice «al cor gentil», cioè flessibile, sí come quello che era nato atto a ricevere quella passione: «ratto sʼapprende», cioè prestamente vʼè dentro ricevuta e ritenuta: «Prese costui», cioè Polo, il quale quivi mostra essere in compagnia di lei; e dice che il prese «Della bella persona», la quale io ebbi vivendo «Che mi fu tolta», quando uccisa fui: «e ʼl modo», nel quale mi fu tolta, «ancor mʼoffende», cioè mi tormenta.

[142]

[Lez. XXI]

«Amor, chʼa nullʼamato amar perdona». Questo, salva sempre la reverenza dellʼautore, non avviene di questa spezie dʼamore, ma avvien bene dellʼamore onesto, come lʼautore medesimo mostra nel seguente libro nel canto ventiduesimo, dicendo:

amore

acceso da virtú, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fuore.

Ma puossi qui dire, questo talvolta avvenire, [conciosiacosaché rade volte soglia lʼuomo molto strettamente legarsi dellʼamore di cosa, chʼè a lui in tutto o in piú cose di natura conforme; il che quando avviene, può quel seguitare che lʼautore dice,] conciosiacosaché naturalmente ogni simile appetisca suo simile: e però, come la cosa amata sentirá i costumi e le maniere dellʼamante conformi alle sue, incontanente si dichinerá a doverlo cosí amare, come ella è amata da lui; cosí non perdonerá lʼamore allʼamato, cioè chʼegli non faccia che questo amato ami chi ama lui. «Mi prese del costui piacer», cioè del piacere di costui, o del piacere a costui: in che generalmente si sforza ciascun che ama di piacere alla cosa amata: «sí forte», cioè con tanta forza, «Che, come vedi, ancor non mʼabbandona». Vuol dire: vedendomi, come tu fai, andar continovo con lui, puoi comprendere che io lʼamo, come io lʼamai mentre vivevamo. [Ma] in questo lʼautor séguita lʼopinion di Virgilio, il qual mostra nel sesto dellʼEneida, Sicheo perseverare nellʼamor di Didone, dove dice:

Tandem corripuit sese, atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniux ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sichaeus amorem
, ecc.

[Secondo la cattolica veritá, questo non si dee credere, percioché la divina giustizia non permette che in alcuna guisa alcun dannato abbia o possa avere cosa che al suo desiderio si conformi, o gli porga consolazione o piacere alcuno: alla quale assai manifestamente sarebbe contro, se questa donna, come vuol mostrare nelle sue parole, a se medesima compiacesse[143] dello stare in compagnia del suo amante.] «Amor condusse noi ad una morte»: cioè ad essere uccisi insieme e in un punto. «Caina attende»: Caina è una parte del nono cerchio del presente libro, cosí chiamata da Caino figliuolo dʼAdamo, il quale peroché uccise il fratello carnale, mostra di sentire lʼautore che egli sia in quel cerchio dannato: e, percioché egli fu il primo che cotal peccato commise, dinomina lʼautore quel cerchio da lui; e in quel si puniscono tutti coloro che i fratelli o congiunti uccidono. E perciò dice questa donna che quel cerchio aspetta Gianciotto, il quale uccise lei, sua moglie, e Polo, suo fratello: «chi», cioè colui, «in vita ci spense»,—cioè uccise; percioché morte non è altro che un privare, il qual si può dire «spegner di vita».

«Queste parole», di sopra dette, «da lor ci fûr pòrte», cioè da madonna Francesca, parlante per sé e per Polo.

«Da chʼio intesi questʼanime offense», sí dalla morte ricevuta e sí dal presente tormento, «Chinai ʼl viso», come colui fa, il quale ha udita cosa che gli grava, «e tanto il tenni basso, Fin che ʼl poeta mi disse:—Che pense?»—quasi volesse dire: Eʼ si vuole attendere ad altro.—

«Quando risposi», alla domanda di Virgilio, «cominciai», a dire:—«O lasso! Quanti dolci sospir»: dolci sospiri paiono esser quegli che da speranza certa muovono di dovere ottenere la cosa che sʼama: «quanto disio», quasi dica molto, «Menò costoro», Francesca e Polo, «al doloroso passo!»—della morte.

«Poi mi rivolsi a loro, e parlaʼ io, E cominciai:—Francesca, i tuoi martíri», neʼ quali io ti veggio, «A lacrimar mi fanno tristo e pio», cioè dolente e pietoso. «Ma dimmi: al tempo deʼ dolci sospiri», cioè quando tu ancora sospiravi, amando e sperando, «A che» segno, «e come», cioè in qual guisa, «concedette Amore», il quale suol rendere gli amanti temorosi e non lasciar loro, per téma di non dispiacere, aprire il disiderio loro, «Che conosceste», cioè tu di Polo, e Polo di te, «i dubbiosi disiri?»—Chiámagli «dubbiosi» i disidèri degli amanti, percioché, quantunque per molti atti appaia che lʼuno[144] ami lʼaltro e lʼaltro lʼuno, tuttavia suspicano non sia cosí come a lor pare, insino a tanto che del tutto discoperti e conosciuti sono.

«Ed ella a me:—Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice»: chiama «felice» il tempo il quale aveva nella presente vita, per rispetto a quello che ha nella dannazione perpetua, la qual chiama «miseria», dicendo: «Nella miseria»; e veramente grandissimo dolore è: e questo assai chiaro testimonia Boezio, in libro De consolatione, dicendo: «Summum infortunii genus est, fuisse felicem»; «e ciò sa ʼl tuo dottore», cioè Virgilio, il quale, e nel principio della narrazion fatta da Enea deʼ casi troiani a Didone e ancora nel dolore di Didone nella partita dʼEnea, assai chiaramente il dimostra. «Ma, se a conoscer la prima radice», la qual prima radice del costoro amore ha lʼautore mostrata di sopra quando dice: «Amar, chʼal cor gentil», ecc., dove qui, secondo la sua domanda, cioè dellʼautore, madonna Francesca gli dimostra come al frutto, il quale di quella radice si disidera e sʼaspetta, essi pervenissero; e cosí vorrá qui lʼautore che il principio sʼintenda per la fine: «Del nostro amor tu hai cotanto affetto», cioè tanto disiderio, «Farò come colei che piange e dice. Noi», cioè Polo ed io, «leggevamo un giorno per diletto Di Lancellotto», del quale molte belle e laudevoli cose raccontano i romanzi franceschi; cose, per quel chʼio creda, piú composte a beneplacito che secondo la veritá: e leggevamo «come amor lo strinse»; percioché neʼ detti romanzi si scrive Lancellotto essere stato ferventissimamente innamorato della reina Ginevra, moglie del re Artú. «Soli eravamo e senza alcun sospetto». Scrive lʼautore tre cose, ciascuna per se medesima potente ad inducere a disonestamente adoperare un uomo e una femmina che insieme sieno: cioè leggere gli amori dʼalcuni, lʼesser soli e lʼesser senza sospetto dʼalcuno impedimento. «Per piú fiate gli occhi ci sospinse», a riguardar lʼun lʼaltro, «Quella lettura e scolorocci ʼl viso»: cioè fececi tal volta venir palidi e tal rossi, come a quegli suole avvenire, che, da alcuna cagion mossi, disiderano di dire alcuna cosa, e poi temono e cosí impalidiscono, o si[145] vergognano e cosí arrossiscono. «Ma solo un punto fu quel che mi vinse», a dover pur mandar fuori il disiderio mio; e questo fu «Quando leggemmo il disiato riso», cioè la disiderata letizia, la qual fu alla reina Ginevra, «Esser baciata da cotanto amante», quanto era Lancellotto, reputato in queʼ tempi il miglior cavalier del mondo. «Questi», cioè Polo, «che mai da me non fia diviso, La bocca mi baciò tutto tremante». Ottimamente discrive lʼatto di quegli, li quali con alcun sentimento ferventemente amano, che, quantunque offerito sia loro quello che essi appetiscono (come qui si comprende che madonna Francesca offeresse a Polo), non senza tremore la prima volta il prendono.

«Galeotto fu il libro, e chi lo scrisse». Scrivesi neʼ predetti romanzi che un prencipe Galeotto, il quale dicono che fu di spezie di gigante, sí era grande e grosso, sentí primo che alcuno altro lʼocculto amore di Lancellotto e della reina Ginevra: il quale non essendo piú avanti proceduto che per soli riguardi, ad istanza di Lancellotto, il quale egli amava maravigliosamente, tratta un dí in una sala a ragionamento seco la reina Ginevra, e a quello chiamato Lancellotto, ad aprire questo amore con alcuno effetto fu il mezzano: e, quasi occupando con la persona il poter questi due esser veduti da alcuno altro della sala che da lui, fece che essi si baciarono insieme. E cosí vuol questa donna dire che quello libro, il quale leggevano Polo ed ella, quello uficio adoperasse tra lor due, che adoperò Galeotto tra Lancellotto e la reina Ginevra: e quel medesimo dice essere stato colui che lo scrisse; percioché, se scritto non lʼavesse, non ne potrebbe esser seguito quello che ne seguí. «Quel giorno piú non vi leggemmo avante»:—assai acconciamente mostra di volere che, senza dirlo essa, i lettor comprendano quello che dellʼessere stata basciata da Polo seguitasse.

«Mentre che lʼuno». Qui comincia la sesta e ultima particula del presente canto, nella quale lʼautore discrive quello che di quel ragionare gli seguisse, e dice: «Mentre che lʼuno spirto», cioè madonna Francesca, «questo disse», che di sopra è detto, «Lʼaltro piangeva», cioè Polo, «sí», cioè in tal maniera, «che[146] di pietade», per compassione, «Io venni meno», cioè mancaronmi le forze, «sí comʼio morisse, E caddi come corpo morto cade». Suole alcuna volta avere tanta forza la compassione, che pare chʼella faccia cosí altrui struggere il cuore, come si strugge la neve al fuoco; di che avviene che le forze sensibili si dileguano, e lʼanimali rifuggono nelle piú intrinseche parti del cuore, quasi abbandonato: e cosí il corpo, destituto dal suo sostegno, impalidito cade. E questa compassione, come altra volta di sopra è detto, non ha tanto lʼautore per gli spiriti uditi, quanto per se medesimo, il quale, dalla coscienza rimorso, conosce sé in quella dannazion dovere cadere, se di quello, che giá in tal colpa ha commesso, non sodisfa con contrizione e penitenza a Colui, il quale egli ha, peccando, offeso, cioè a Dio.


[147]

II

Senso allegorico

«Cosí discesi del cerchio primaio», ecc. Mostrato che la ragione ha il supplicio, il quale sostengono coloro, li quali senza essere stati per lo lavacro del battesimo mondati dal peccato originale; procedendo piú avanti con la meditazione, discende a dimostrargli la qualitá delle colpe piú gravi, e quali sieno i tormenti, alli quali per la divina giustizia dannati sieno coloro li quali in esse colpe morirono. E fa due cose nel presente canto: primieramente in persona di Minos gli dimostra la rigida e severa giustizia di Dio; appresso gli mostra in questo cerchio secondo esser dannati queʼ peccatori, li quali, oltre alla ragione, oltre ad ogni legge o buon costume, seguirono il concupiscibile appetito nel vizio della lussuria, nominando di questi cotali alquanti, accioché piú pienamente si comprenda la sua intenzione.

Dico adunque che primieramente la ragione ne dimostra qui, in persona di Minos, la severitá della divina giustizia. Intorno alla qual dimostrazione son da considerare due cose: la prima, perché piú in questa parte, che piú su o piú giú, questa divina giustizia ne sia dimostrata; la seconda, perché piú in persona di Minos che dʼun altro.

Dico che, perché la divina giustizia ne sia piú qui che in alcuna altra parte dimostrata, può essere la ragion questa: è la giustizia virtú, la quale, secondo i meriti, retribuisce a ciascheduno; e, quantunque questa virtú strettamente usi il suo uficio intorno agli atti degli uomini, nondimeno sono alcune cose operate per gli uomini, delle quali ella del tutto è schifa dʼintramettersi, estimando ottimamente fare il suo uficio quando quelle cotali cose pospone; in quanto non le pare quelle cotali cose,[148] o meritorie o non meritorie che sieno, essere state causate da alcuna ordinata volontá, o da iniquitá di malizia, o ancora da alcuna incontenenza, se non come sono le opere degli animali, neʼ quali non è alcuna ragione. E queste cotali operazioni son quelle deʼ furiosi e deʼ mentacatti e deʼ fanciulli e deglʼignoranti; percioché in quelle cose, le quali questi cotali fanno, non è potuta cadere alcuna debita elezione, come detto è: e, dove elezione e volontá esser non può intorno allʼadoperare, non pare che caggia né esaminazione né giudicio della giustizia. E di sopra a questo luogo, se ben si riguarda, non sono puniti alcuni altri, se non questi cotali, cioè mentacatti o furiosi o fanciulli o ignoranti, come è dimostrato; intorno aʼ quali se la giustizia non sʼinterpone, era di soperchio e mal conveniente averla tra loro, o di sopra a loro, dimostrata, percioché, quanto a quegli, ella sarebbe stata oziosa; il che la virtú non patisce. Ad averla piú giú che questo luogo dimostrata, eʼ ne seguivano altri inconvenienti. Primieramente pare che avessero potuto deʼ peccatori, che alle piú profonde parti dello ʼnferno doveano discendere, sí come incerti di sé, rimanersi nelle parti dellʼinferno che state fossero superiori al luogo dove stata fosse posta la giustizia, e cosí non sarebbono stati secondo le colpe commesse puniti; e, oltre a ciò, se vogliam dire essa medesima giustizia, la quale gli fa pronti a trapassare la riviera dʼAcheronte, similmente gli farebbe pronti a discendere infino lá dove ella fosse, ne seguirebbe che quegli, che non son degni di scendere tanto giú quanto ella fosse, vi scenderebbero alla esaminazione e al giudicio, e cosí sentirebbono di quelle pene che essi non hanno meritate: il che è contro agli effetti della giustizia. E però ottimamente in questa parte la discrive lʼautore, nella quale niuna cosa deʼ superiori sʼimpaccia; né hanno, quelli che neʼ cerchi piú alti esser debbono, a discender giuso; né può alcuno stare in forse di sé; né ancora, sedendo ella in su questa entrata, può trapassare alcuno o fuggirle degli occhi, che non gli convenga venire alla sua esaminazione.

È nondimeno da intendere la giustizia di Dio essere in ogni parte, e per tutto distribuire secondo che ciascuno ha meritato, né bisognarle fare alcuna esaminazione o inquisizione deʼ nostri[149] meriti o delle nostre colpe, come alla giustizia deʼ mortali bisogna; percioché, nel cospetto della giustizia di Dio, non solamente tutte le nostre opere sono presenti e conosciute da lei, ma ella ancora vede e conosce e discerne tutti i pensieri nostri, e da che cagion nascono, né gli si possono per alcuna industria o sagacitá occultare: ma conviensi aʼ nostri ingegni per alcuna sensata forma dimostrare gli spirituali effetti della divinitá e di qualunque altra spiritual cosa.

Resta a vedere perché piú in persona di Minos che dʼalcun altro ministro infernale ne sia dimostrata questa giustizia; [e con questo è da vedere quello che lʼautore abbia voluto sentire in ciò che egli fa a questo Minos, col ravvolgimento della coda dimostrare i suoi giudíci. E avanti allʼaltre cose, pare,] richeggionsi neʼ ministri della giustizia, e massimamente in questo luogo, cose assai, ma singularmente tre, cioè prudenza, costanza e severitá. Conviene essere prudente al ministro della giustizia, accioché egli per la prudenza cognosca le qualitá delle persone, nelle quali ha a vedere quello che di ragion si convenga; percioché altrimenti è da punire un uomo di minore condizione che abbia offeso un principe, che un principe che abbia offeso un uomo di minor condizione. Conviensi che egli conosca la qualitá deʼ tempi; percioché altrimenti è da punire un uomo che muova o susciti un romore neʼ tempi della guerra, quando gli stati delle cittá stanno sospesi, che uno che quel medesimo commetta quando le cittá sono in pace e in tranquillitá. Conviensi che egli conosca la qualitá deʼ luoghi; percioché altrimenti pecca chi fa un eccesso in un tempio o in una piazza comune, che chi fa quel medesimo in alcuna parte rimota e non molto frequentata dallʼusanza degli uomini. Conviensi, per la prudenza, che egli sappia discernere i movimenti di quegli che peccano, di quegli che testificano, di quegli che accusano, e tutte simili cose; e, dove queste cose non sapesse distinguere quel cotale che a ciò posto fosse, non potrebbe essere idoneo esecutore della giustizia. Conviengli, oltre a questo, esser costante, accioché da quello, che conosciuto avrá convenirsi fare, nol rimuova alcuna affezione, non priego, non amore, non odio,[150] non prezzo, non lusinga o cose simili a queste; percioché, dove da alcuna o da piú di queste mosso fosse, mai giudicare non poría giustamente, e per conseguente non sarebbe atto ministro della giustizia. Conviengli, oltre alle dette cose, esser severo, e massimamente lá dove è tolto luogo alla gratificazione. Puossi infraʼ processi, che usano nelle cose giudiciali i ministri della giustizia, per diversi ma onesti accidenti, piú allʼuna parte che allʼaltra esser grazioso; la qual cosa nelle cose e neʼ tempi debiti non è vizio, ma è segno dʼequitá dʼanimo nel giudicante; fuori deʼ tempi debiti, conviene nelle esecuzioni al giudice esser severo in servare strettamente lʼordine della ragione, e di quello per cagione alcuna non uscire; e massimamente neʼ giudici di Dio, il quale insino allo estremo punto della nostra vita con le braccia aperte della sua misericordia nʼaspetta, tempo prestandoci alla gratificazione, se prender la vogliamo: ma, poi che a quella non ci siamo voluti volgere, e, quasi a vile avendo la sua benignitá, ci siamo lasciati morire, essendo la sua sentenza passata «in rem iudicatam», con ogni severitá dee qui il ministro della sua giustizia quella mandare ad esecuzione. Le quali tre cose essere pienamente state in Minos si possono conoscere neʼ processi delle sue operazioni, e ancora nella oppenione avuta di lui da coloro li quali qual fosse la sua vita conobbero. Che egli fosse prudente, si può comprendere in ciò, che egli compose le leggi aʼ popoli suoi, e quegli, che usi erano di vivere scapestratamente, ridusse per sua industria a vivere sotto il giogo della giustizia. Che egli fosse constante in non muoversi per alcuna affezione da quello che la giustizia volesse, appare nella vittoria di Teseo, avuta del Minotauro, al quale, quantunque nemico fosse, pienamente servò ciò che giusto uomo dovesse servare, cioè di liberar lui e la sua cittá della servitudine, sí come promesso avea. Oltre a ciò, apparve la sua severitá in Scilla, figliuola di Niso, re deʼ megarensi, la quale, da disonesta concupiscenza mossa, per venire nelle braccia sue, tradí il padre, e fecel signor di Megara e a lui se nʼandò; per la qual cosa, quantunque ella fosse nobile femmina e giovane e bella, e avesselo fatto signore di Megara, da niuna di queste[151] cose mosso, lei, sí come ucciditrice del padre, fece gittare in mare, in quella forma che si gettano i patricidi. E cosí li suoi comandamenti, come detto è, avendo in leggi ridotti, quegli con tanta costanza e con tanta severitá servò, che non solamente i suoi sudditi tenea contenti e in pace, ma egli riempiè tutta Grecia della fama della sua giustizia; per la qual cosa, dopo la sua morte, estimarono gli uomini, neʼ loro errori, lui essere appo lʼanime dʼinferno eletto a quel medesimo ufficio esercitare tra loro che in questa vita traʼ suoi esercitava, sí come nella esposizione letterale si dimostrò.

Adunque assai convenientemente pare essere per la persona di Minos in questo luogo figurata la divina giustizia. [Ma che questa divina giustizia dimostri per lo ravvolgimento della coda di Minos, intorno allʼesecuzione deʼ suoi giudíci, è da vedere. Certa cosa è la coda essere lʼultimo membro e lʼultima parte del corpo di qualunque animale, al quale la natura lʼha conceduta; e, quantunque ella serva a piú cose gli animali che lʼhanno, alla presente materia non intende lʼautore altro, secondo il mio giudicio, se non la strema e ultima parte della vita nostra, secondo la qualitá della quale si forma il giudicio della divina giustizia: percioché, quantunque lʼuomo sia scelleratamente vivuto, se egli nello estremo della sua vita, pentendosi delle malfatte cose, e con buona compunzione e con puro cuore, si rivolge alla misericordia di Dio, senza alcun dubbio è ricevuto da essa e giudicato degno di salvazione. Il che in molti esempli nʼè dimostrato per la divina Scrittura, e massimamente in quello ladrone, il quale col nostro signore Iesu Cristo fu crocifisso; il quale avendo tutti i dí suoi menati male, e come peccatore riconosciuto poco avanti allʼora della sua morte, con contrito cuore, non dicendo altro che:—«Miserere mei, Domine, cum veneris in regnum tuum»,—il fece la misericordia di Dio degno dʼudire dalla bocca di Cristo:—«Amen dico tibi, hodie mecum eris in Paradiso»:—né è dubbio alcuno che a queste parole non seguisse lʼeffetto; e cosí solamente allʼultima parte della vita, cioè alla sua qualitá, fu dalla giustizia divina guardato. E cosí in contrario, essendo Giuda Scariotto stato deʼ discepoli[152] di Cristo, e usato con lui, e avendo la sua dottrina udita, quantunque male poi adoperato avesse vendendolo, nondimeno disperatosi della misericordia di Dio, e col capestro messosi a finir la vita, col fine suo di se medesimo dettò la sentenza alla divina giustizia, per la quale fu al profondo dello ʼnferno a perpetue pene dannato. Ciascheduno adunque con le colpe piú gravi, con le quali eʼ muore, del luogo il quale eʼ dee in inferno avere, è dimostratore.]

[Lez. XXII]

Appresso le cose giá dette, resta a vedere la qualitá deʼ dannati in questo secondo cerchio, e come alla qualitá della lor colpa sia conforme il supplicio, il quale lʼautore ne dimostra essere lor dato dalla divina giustizia.

Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi. Intorno al vizio deʼ quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale, il quale di maschio e femmina sí procrea; e ciò fa la natura avvedutamente, accioché, per lʼatto del coito, ciascuno animale generi simile a sé, e cosí si continui la spezie di quello; e, se questa sollecitudine non fosse nella natura [delle cose], assai tosto verrebber meno i generanti, e cosí rimarrebber vacui il cielo, la terra e ʼl mare di possessori. È vero che ellʼha in ciascun altro animale, che nellʼuomo, posto certo modo, accioché per lo soperchio coito non perissono i maschi, li quali da alcun freno di ragione temperati né raffrenati sono: e questo è non patire le femmine i congiugnimenti deʼ maschi loro se non alcuna volta lʼanno, e questa non si prolunga in molti dí, infraʼ quali le femmine si rendono benivole e amorevoli alli loro maschi e loro si concedono; e, questo cotal tempo finito, o come conoscono sé aver conceputo, piú lor dimestichezza non vogliono. Ma negli uomini non pose la natura questa legge, percioché gli conobbe animali razionali, e, per quello, dover conoscere quello e quando e quanto sʼappartenesse di fare a dover ben vivere. Ma mai non mi ricorda dʼaver letto che appo coloro, li quali mondanamente vivono, alcuno, quello che la ragione vuole in questo atto, osservasse, che una femmina: e questa fu una donna dʼArabia, reina de[153]ʼ palmireni, chiamata Zenobia, della qual si legge mai ad Odenato, suo marito, essersi voluta consentire per altro che per ingenerar figliuoli; servando in ciò questo stile, che, essendo il marito giaciuto carnalmente con lei, piú accostare nol si lasciava infino a tanto che ella non conosceva se conceputo aveva o no: se conosceva non aver conceputo, gli si concedeva unʼaltra volta; se conceputo aveva, mai infino alla purificazione dopo ʼl parto, piú non gli si concedea. Ma come la laudevol contenenza di questa reina, o come gli uomini in questo usino il giudicio della ragione, gli occhi nostri medesimi ce ne son testimoni: percioché dove essi, la ragion seguitando, dovrebber quel modo a se medesimi porre, il quale essi veggiono la natura aver posto agli animali bruti, in ciò che possono o sanno in contrario si sforzano.

Noi leggiamo che in Roma fu un giovane chiamato Spurima, il quale, quantunque avesse tutta la persona bella, avea oltre ad ogni altro mortale il viso bellissimo, in tanto che poche donne erano, che di tanta costanza fossero, che, vedendolo, non si commovessono a disiderare i suoi abbracciamenti: della qual cosa accorgendosi egli, per non esser cagione che alcuna casta mente la sua onestá contaminasse con appetito men che onesto, preso un coltello, tutto il bel viso si guastò, rendendolo non meno con le fedite diforme che formoso fatto lʼavessono le mani graziose della natura. In veritá laudevole cosa fu questa e da doverla con perpetua commendazione gloriare. Ma i moderni giovani fanno tutto il contrario: i costumi deʼ quali avere alquanto morsi, non fia loro per avventura disutile, e potrá esser piacevole ad altrui. E, accioché io non mi stenda troppo, mi piace di lasciare stare la sollecitudine, la qual pongono gran parte del tempo perdendo appo il barbiere in farsi pettinare la barba, in farla a forfecchina, in levar questo peluzzo di quindi, in rivolger quellʼaltro altrove, in far che alcuno del tutto non occupi la bocca, e in ispecchiarsi e azzimarsi, allecchinarsi, scrinarsi i capelli, ora in forma barbarica lasciandogli crescere, attrecciandogli, avvolgendosegli alla testa, e talora soluti su per gli ómeri lasciandogli svolazzare, e ora in atto chericile[154] raccorciandogli. E similmente ristrignersi la persona, fare epa del petto, non in suʼ lombi, ma in su le natiche cignendosi; [come gatti mammoni], allacciarsi anzi legarsi, e aʼ calzamenti portare le punte lunghissime, non altrimenti che se con quelle uncinar dovessono le donne, e trarle neʼ lor piaceri; farsi le trombe alle maniche, e di quelle non mani, ma branche piú tosto dʼorso cacciare. Né voʼ dire deʼ cappuccini, coʼ quali o a babbuini o a scottobrinzi simiglianti si fanno, né similmente della lascivia degli occhi, coʼ quali quasi sempre quel vanno tentando, che essi poi non vorrebbero aver trovato. E lascerò stare gli atti, gli andamenti, eʼ portamenti, il cantare, il carolare, e cosí le promesse eʼ doni, deʼ quali si può però piú tacere che dire, sí sono in cintola divenuti stretti; e a un solo lor costume verrò, il quale, quantunque a loro prestantissimo paia, percioché con gli occhi offuscati di caligine infernal si riguardano, mi par tanto detestabile, tanto abominevole, tanto vituperevole, che non che ad altrui, ma io credo che egli dispiaccia a colui, il quale è di tutti i mali confortatore, e che a ciò gli sospigne: e questo è, che portano i panni sí corti, e spezialmente nel cospetto delle donne, che qualunque fosse quella che alla barba non se ne avvedesse, guardandogli alle parti inferiori può assai agevolmente cognoscere che egli è maschio; e, se la cosa procede come cominciato ha, non mi par da dover dubitare che, infra poco tempo, non si tolga ancor via quel poco di panno lino, il qual solamente vela il color della carne, e cosí non sará da queʼ cotali differenza alcuna daʼ bruti animali. Ingegnossi la natura, la quale è sommamente discreta, di nascondere in quelle parti del corpo, le quali a lei piú occulte parvero, queʼ membri dei quali mostrandogli ciascun si dee vergognare; e, oltre a ciò, lʼuso, della vergogna nato, ci ha dimostrato (quantunque dalla natura, secondo che ella puote, nascosti sieno) di velargli e ricoprirgli coʼ vestimenti, e quantunque o necessitá o usanza lʼaltre parti del corpo scoperte patisca, quelle in alcun modo è alcuno, fuor che i presenti giovani, che scoperte le sofferí. Glʼindiani, gli etiopi, i garamanti e gli altri popoli, i quali sotto caldissimo cielo abitano,[155] quantunque da soperchio caldo sforzati sieno dʼandare ignudi, quelle parti in alcuna guisa non sostengono che scoperte si veggano. Ma che dichʼio glʼindiani e gli etiopi, li quali hanno in sé alcuna umanitá e costume? Quegli popoli, li quali abitano lʼisole ritrovate (gente, si può dire, [fuori] del circúito della terra, e nella quale né loquela, né arte, né costume alcuno è conforme a quegli di coloro li quali civilmente vivono), di palme, delle quali abbondanti sono, non so se io dica tessute o annodate piu tosto, fanno ostaculi, coʼ quali quelle parti nascondono. I naufraghi ancora, ignudi da tempestoso mare gittati neʼ liti, quantunque faticati e percossi dallʼonde sieno, nondimeno, non curandosi di tutto lʼaltro corpo perché ignudo sia, quella parte, se con altro non hanno, sʼingegnano di ricoprire con le mani. I poveri uomini, aʼ quali mancano i vestimenti, quella parte non patiscono che rimanga scoperta. I mentacatti eʼ furiosi e gli ebbri, mentre che alquanto di sentimento hanno, si vergognano che queʼ membri in aperto veduti sieno. Questi soli hanno posta giú ogni erubescenza, ogni fronte, ogni onestá, e tanto si lasciano al bestiale appetito e aʼ conforti del nemico dellʼumana generazione sospignere, che non altramenti col viso levato procedono che se alcuna laudevole operazione avesser fatta o facessono.

Allegano questi cotali, in difesa del lor vituperevole costume, ragioni vie piú vituperevoli che non è il costume medesimo, dicendo primieramente:—Noi seguiamo lʼusanze dellʼaltre nazioni: cosí fanno glʼinghilesi, cosí i tedeschi, cosí i franceschi eʼ provenzali.—Non sʼavveggono i miseri quello che essi in questa loro trascutata ragion confessino. Solevano glʼitaliani, mentre che le troppe delicatezze non gli effeminarono, dare le leggi, le fogge eʼ costumi eʼ modi del vivere a tutto il mondo; nella qual cosa appariva la nostra nobilitá, la nostra preeminenza, il dominio e la potenza; dovʼeʼ segue, se dalle nazioni strane, da quelle che furon vinte e soggiogate da noi, da quegli che furon nostri tributari, nostri vassalli, nostri servi, dalle nazioni barbare, dalle quali alcuna umana vita non si servava, né sapeva, né saprebbe, se non quanto daglʼitaliani fu lor[156] dimostrata (il che è assai chiaro), da loro riprendendo quel che dar solevamo, confessiamo dʼesser noi i servi, dʼesser coloro che viver non sappiamo se da loro non apprendiamo; e cosí dʼaver loro per maggiori e per piú nobili e per piú costumati. O miseri! non sʼaccorgono questi cotali da quanta gran viltá dʼanimo proceda che un italiano séguiti i costumi di cosí fatte genti.

E in veritá, se alcuna altra onestá non dovesse da questo disonesto costume tôrre i giovani, neʼ quali è il fervor del sangue e le forze, eʼ dovrebbe esser la grandezza dellʼanimo, se non un giusto sdegno; non solamente rimanere se ne dovrebbono, ma vergognarsi dʼaver mai seguitato o seguire alcun costume di cosí fatte genti, e ogni cosa adoperare, per la quale le nazion barbare gloriar non si potessono dʼesser nelle lor brutte invenzioni deglʼitaliani imitate.

Seguitano, oltre a questo (nelli loro errori multiplicando), e dicono che i vestimenti lunghi glʼimpedivano e non gli lasciavano nelle cose opportune esser destri. O stoltissimo argomento vano e dʼogni ragionevole sentimento vòto! Cosí parlan questi cotali, come se coloro, li quali piú lunghi portano i vestimenti, non sapessono quali e quante sieno le faccende di questi tarpati. E, se non che troppo sarebbe lungo il sermone, io le racconterei in parte. Ma presupognamo che pure alquante e opportune sieno, come hanno i passati nostri fatto coʼ panni lunghi? come i romani, li quali in continue guerre, con lʼarme in dosso ogni dí combattendo, tutto il mondo occuparono? Non mostra che a costor facesser noia i panni lunghi, neʼ quali erano in continovi e grandi esercizi. Ma forse diranno questi cotali non esser di necessitá agli uomini, gli quali sono in fatti dʼarme, lʼavere i panni corti, come a coloro che vanno vagheggiando, o, a voler dir piú proprio, a color che vanno facendo la mostra alle femmine che son maschi e chʼegli hanno le natiche tonde e grosse le cosce. O dissensati! Solevansi i giovani vergognare seco medesimi degli occulti e disonesti lor pensieri, e oggi, per somma gloria, vanno mostrando quel che le bestie, se esse avessono con che, volentieri nasconderieno. Ma che? Dirá forse alcun altro che i romani similmente gli portavano corti come[157] essi fanno. E nel vero di questo non mi darebbe il cuore di fare assai certa pruova per scrittura che io abbia veduta: ma, in luogo di quella, le statue di marmo e di bronzo a quegli tempi fatte, nelli quali essi discorrevano il mondo, e delle quali si truovano ancora assai, ne mostrano quali fossero i loro abiti, e come corti portassono i vestimenti; e di queste io credo assai aver vedute, né mai alcuna né armata né disarmata ne vidi, che, o daʼ vestimenti o dallʼarmadure, non fosse almeno infino al ginocchio coperta. Per la qual cosa essendo a costor risposto assai manifestamente, si vede che assai mal procede lʼargomento che i panni lunghi impediscano.

E, accioché io non discorra per tutti, non ometterò però che io unʼaltra delle lor savie ragioni non discriva, percioché estimano quella, che dir debbono, essere efficacissima e dovergli dʼogni loro disonestá render pienamente scusati. Dicono adunque che le donne mostran loro con le poppe il petto, accioché piú nella concupiscenza di loro gli accendano; e perciò, quasi in vendetta di ciò, essi vogliono mostrar loro quelle parti, che debbano loro a quello appetito medesimo incitare. Sarebbe questa ragione tra le bestie assai colorata, dove ella è abominevole traʼ sensati. Ma non pensano i miseri quanto scelleratamente essi adoperino? Essi, questo adoperando, caccian da sé ogni reverenza materna, mostrando di credere che le madri tengan gli occhi chiusi, o che esse non possano dalle oscene parti deʼ figliuoli esser mosse, come lʼaltre femmine si muovono; conciosiacosaché la natura, movitrice degli appetiti, non abbia alcun riguardo allʼonestá della parentela. Nel vero io non lʼardirei affermare, quantunque giá molte volte avvenuto sia, ma ardirò ben di dire che, se ciò non avviene, esserne la lor costanza cagione, dove del contrario è cagione il vituperevole costume deʼ figliuoli; né discrederò che, quel che posson muovere i disonesti figliuoli, non si convenga talvolta terminare con gli strani uomini. Appresso questo, non sʼaccorgono i dissipiti, dove incitar credono le femmine, le quali alla lor libidine disiderano di tirare, quello che essi nelle sorelle, nelle cognate e nellʼaltre congiunte adoperino; le quali, quantunque spesse volte caggiano neʼ lacciuoli[158] scioccamente tesi da loro, rade volte avviene che, da questo sospinte, non saltino negli abbracciamenti dʼuomini non pensati da coloro, che a ciò con li loro disonesti portamenti le sospingono. Né ancora considerano quanto di mal fabbrichino nelle tenere menti delle figliuole, le quali la giovanetta etá continuamente sospigne a dover prendere sperienza di ciò, che loro ancora non saria di necessitá di conoscere: di che non una volta è avvenuto che, lasciamo stare il porre dinanzi agli occhi loro quelle parti del corpo, le quali con ogni ingegno si dovrien tôrre deʼ pensieri, ma le parole men che oneste deʼ non cauti padri aver loro prima strupatore che marito trovato.

Ma, ritornando alla folle ragion di costoro, dico che, quantunque biasimevole sia molto alle donne mostrare con le poppe il petto, non sono perciò le poppe deʼ membri osceni e che nascondere del tutto si deano; percioché, se di quegli fossono, non lʼavrebbe la natura poste in cosí aperta e patente parte del corpo come è il petto, anzi si sarebbe ingegnata dʼoccultarle, come gli altri fece. Oltre a questo, le poppe sono aʼ sani intelletti venerabili, conciossiacosaché elle sieno quelle, onde noi prendiamo i primi nudrimenti. Appresso, quando i nostri primi parenti peccarono e cognobbero la ignominia loro, non nascose la nostra prima madre questa parte del corpo, anzi, sí come Adam, fattesi copriture di frondi di fico, nascosero e occultarono quelle parti del corpo, le quali costoro non si vergognano di mostrare. Né avevano i nostri parenti di cui vergognarsi se non di Dio, che creati gli avea, e di se medesimi; dove costoro né di Dio si vergognano, né degli uomini. [Similmente, quando i predetti di paradiso cacciati furono, i vestimenti, che da Domeneddio furon lor fatti, non ricopersono le parti superiori, né per nasconder quelle fatti furon da lui, ma per ricoprire le parti inferiori, delle quali, partita da loro per lo peccato la luce della innocenza, essi di se medesimi si vergognavano. E però potrebbono in contrario di questa loro scostumaggine dir le donne:—Quello, che noi vi mostriamo, non fu nella nostra prima madre ricoperto dal vestimento che Iddio ne fece; dove quel, che voi mostrate a noi, fu ricoperto al primo nostro padre.—]

[159]

È vero che, quantunque il costume deʼ giovani nella parte mostrata biasimevole sia e villano, non si scusa perciò la vanitá delle donne, le quali dʼaltra parte, non potendo nascondere il fervore inestinguibile della lor concupiscenza, con industria e arte sʼingegnano, in ciò chʼelle possono, di quello adoperare che possa provocar gli uomini con appetito piú caldo a disiderare i loro congiugnimenti. Elle si dipingono, elle sʼadornano, elle si azzimano, e con cento varietá di fogge sé ogni giorno trasformano; ballano, cantano, lasciviscon con gli occhi, con atti e con le parole; dove dovrebbono con onestá la lor bellezza in parte nascondere, e rifrenare i costumi.

Di che assai manifestamente si può raccogliere che, dove questo vizio solo si vince fuggendolo, per esser vinti da lui i giovani e le donne il destano, il chiamano, e, se egli non volesse venire, il tirano; non contenti solamente aʼ portamenti, ma con gli odori arabici, con le cortecce, con le polveri, con le radici e con liquori orientali, con vini e con le vivande e con le morbidezze e con gli ozi e con altre cose assai lo sforzano; mostrandosi in lor danno e in lor vergogna assai mal grati della liberalitá dalla natura usata verso di loro. [E cosí miseramente nella lussuria, abominevole vizio, pervegnamo, la quale scelleratamente seguita, ne trae della mente la notizia di Dio, e contro allʼamor del prossimo ne sospigne ad operare; togliendoci ancora di noi medesimi e delle nostre cose la debita sollecitudine, sí come colei il cui esercizio diminuisce il cerebro, evacua lʼossa, guasta lo stomaco, caccia la memoria, ingrossa lʼingegno, debilita il vedere e ogni corporal forza quasi a niente riduce. Ella è morte deʼ giovani e amica delle femmine, madre di bugie, nemica dʼonestá, guastamento di fede, conforto deʼ vizi, ostello di lordura, lusinghevole male e abominazione e vituperio deʼ vecchi. Alla cui troppa licenza reprimere Nostro Signore primieramente istituí il matrimonio, nel quale non dando piú che una moglie ad Adam, né ad Eva piú che un marito, mostrò di volere che uno fosse contento dʼuna e una dʼuno; il che poi nella legge data a Moisé espressamente comandò, ogni altro umano congiugnimento vietando. E, non bastando[160] questo, per onestare il matrimonio e ristrignere la presunzion nostra nel vizio, avendo giá da sé lʼonestá publica separate da cosí fatti congiugnimenti le madri e le figliuole, e similemente i padri eʼ figliuoli, e gli adultèri essendo stati proibiti; da questi congiugnimenti medesimi tolsero le leggi i fratelli e le sorelle, e poi, piú avanti stendendosi, ancora ne tolsero assai, cioè quegli li quali o per consanguinitá o per affinitá parevano assai propinqui, i gradi con diligente dimostrazion distinguendo; e con queste segregando ancora le giovani vergini, e gli uomini ancora e le femmine le quali aʼ divini servigi avessero sagrate le nostre leggi. Dalle quali cose assai manifestamente si può comprendere, quantunque in questa colpa caggendo per incontenenza molto sʼoffenda Iddio, secondo la varietá delle persone divenire il peccato piú e men grave. E perciò è da sapere esser molte le spezie di questo peccato, ma, tra le molte, di cinque almeno farsi nelle leggi singular menzione, delle quali accioché per ignoranza non si trasvada, credo esser utile quelle distintamente mostrare.]

[Commettesi adunque questo vizio carnale tra soluto e soluta, e questa spezie ha meno di colpa che alcuna altra, e chiamasi «fornicazione»; il qual nome ella trasse dal luogo dove il piú si solea anticamente commettere, cioè nelle fornici. «Fornice» è ogni volta murata, quantunque, a differenza di queste, si chiamin «testudini» quelle deʼ templi e deʼ reali palagi, e «fornici» eran chiamate propriamente quelle le quali eran fatte a sostentamento deʼ gradi deʼ teatri; i quali teatri, percioché la moltitudine degli uomini anticamente si ragunava i dí solenni a vedere i giuochi, li quali in essi si faceano, prendevano in queste fornici le femmine volgari loro stanza a dare opera al loro disonesto servigio con quegli aʼ quali piaceva: e cosí da quello luogo questa spezie di colpa trasse questo nome, cioè «fornicazione».]

[Commettesi ancora questo vizio tra soluto e soluta vergine, e questa spezie si chiama «stupro»: ed ebbe questo vocabolo origine da «stupore», in quanto, quando prese lʼuso, non solamente in vergine si commetteva, ma in vergine vestale: le quali vergini vestali furono sacratissime appo i gentili, e di[161] precipua venerazione, e massimamente appo i romani; e però pareva uno stupore che alcun fosse di tanta presunzione, che egli ardisse a violare una vergine vestale. Oggi è questo nome declinato a qualunque vergine, e ancora quando questo medesimo vizio tra persone per consanguinitá o per affinitá congiunte si commette, percioché non meno stupore genera negli uditori aver con questa turpitudine maculata lʼonestá del parentado che lʼavere viziata la verginitá dʼalcuna; quantunque viziare alcuna vergine sia gravissimo peccato, percioché le si toglie quello che mai rendere non le si può, di che ella riceve grandissimo danno; e quanto il danno è maggiore, tanto è maggiore la colpa, per la quale segue il danno.]

[Commettesi ancora questo peccato tra obbligato e soluta, o tra obbligato e obbligata, o tra soluto e obbligata, e chiamasi questa spezie «adulterio»: e venne questo nome dallʼeffetto del vizio, cioè «adulterium, alterius ventrem terens»: cioè lʼadulterio è il priemere lʼaltrui ventre; percioché in esso si prieme la possessione, la quale non è di colui che la prieme, né similmente di colei alla quale è premuto, ma del marito di lei.]

[Commettesi ancor questo vizio tra uomo non sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina sacra, o tra uomo sacro e femmina non sacra: e deesi questo «sacro» intendere quella persona essere la quale ha sopra sé ordine sacro, sí come sono i cherici e le monache; e chiamasi questa spezie «incesto»: il qual nome nacque anticamente dalla cintura di Venere, la quale è daʼ poeti chiamata «cesto». Alla qual cosa con piú evidenza dimostrare, è da sapere che tra gli altri piú ornamenti, che i poeti aggiungono a Venere, è una singular cintura, chiamata «ceston», della quale scrive cosí Omero nella sua Iliada: «Et a pectoribus solvit ceston cingulum varium, ubi sibi voluptaria onmia ordinata erant, ubi inerat amicitia atque cupido atque facundia, blanditiae, quae furant intellectum, studiose licet scientium», ecc. E vogliono i poeti, conciosiacosaché a Venere paia dovere appartenere ogni congiunzione generativa, che, quando alcuni legittime e oneste nozze celebrano, Venere vada a questa congiunzione cinta di questa sua cintura detta «ceston», a[162] dimostrazione che quegli, li quali per santa legge si congiungono, sieno costretti e obbligati lʼuno allʼaltro di certe cose convenientisi al matrimonio, e massimamente alla perpetuitá dʼesso. E, percioché Venere similmente va aʼ non legittimi matrimoni, ovvero congiugnimenti, dicono che quando ella va a quegli cosí fatti, ella va scinta senza portare questa sua cintura, chiamata «ceston»: e quinci ogni congiunzion non legittima chiamarono «incesto», cioè fatta senza questo ceston: ma questa generalitá è stata poi ristretta a questa sola spezie, per mostrare che, quantunque lʼaltre sieno gravi, questa sia gravissima, e che in essa fieramente sʼoffenda Iddio, conciosiacosaché le persone a lui sacrate di cosí vituperevole vizio maculate sieno. Alcuni a questa spezie aggiungono il commettere questo peccato tra congiunti, il quale di sopra fu nominato «stupro»; e per avventura non senza sentimento sʼaggiugne, percioché questo pare male da non potere in alcun tempo con futuro matrimonio risarcire; percioché, come la monaca sacrata mai maritar piú non si puote, cosí traʼ congiunti può mai intervenire matrimonio, dove nellʼaltre spezie potrebbe intervenire.]

[Commettesi ancora questo vizio, e nellʼun sesso e nellʼaltro, contro alla natural legge esercitando, e questo è chiamato «sogdomia», da una cittá antica chiamata Sogdoma, li cittadini della quale in ciò dissolutissimamente viziati furono; ma, percioché questa spezie ha molto piú di gravezza e di offesa che alcuna delle predette, non dimostra lʼautore che in questo cerchio si punisca, anzi si punisce troppo piú giú, come si vedrá nel canto decimoquinto del presente libro.]

[È il vero che, quantunque in queste spezie si distingua questo vizio, e che lʼuna meriti molto maggior pena che lʼaltra, non appare però nel supplicio attribuito al lussurioso lʼautore punirne una piú gravemente che unʼaltra; ma noi dobbiam credere, quantunque distinte non sieno le pene, quella, che egli attribuisce a tutte, dovere piú amaramente priemere coloro che piú gravemente hanno commesso.]

Ma, deducendoci, da queste piú generali dimostrazioni, a quelle che piú particulari sono, dico che, percioché il peccato della[163] carne è naturale, quantunque abbominevole e dannevole sia, e cagione di molti mali, nondimeno, per la opportunitá di quello e perché pur talvolta se nʼaumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Iddio; e per questo nel secondo cerchio dello ʼnferno, il quale è piú dal centro della terra che alcun altro rimoto, e piú vicino a Dio, vuole lʼautore questo peccato esser punito.

Lʼorigine del quale, secondo che di sopra è mostrato, par che sia nellʼattitudine a questa colpa datane daʼ cieli; la quale parrebbe ne dovesse da questo scusare, se data non ci fosse stata la ragione, la quale ne dimostra quel che far dobbiamo e quel che fuggire, e, oltre a ciò, il libero arbitrio, nel quale è podestá di seguire qual piú gli piace. E, quantunque questa attitudine nʼabbia a rendere inchinevoli a ricever le forme piaciute, e quelle disiderare e amare, nondimeno, se ʼl calor naturale ed eziandio lʼaccidentale non accendessero, e, accendendo, confortassero lʼappetito concupiscibile desto dalle cose piaciute e inchinato dallʼattitudine, non è da dubitare che la concupiscenza indebolirebbe e leggermente si risolverebbe, secondo che la sentenza di Terenzio par che voglia, lá dove dice: «Sine Cerere et Baccho friget Venus».

Pare adunque questo caldo, aumentativo dello scellerato appetito, dalla divina giustizia esser punito e represso dalla frigiditá del vento di sopra detto, dalla giustizia mandato in pena di coloro che in questa colpa trasvanno, sí come cosa che è per la sua frigiditá contraria al caldo, il quale conforta questo abbominevole appetito. E che ogni vento sia freddo, assai bene si può comprendere da ciò che generalmente ogni cosa causata suole esser simile a quella cosa la quale la causa: e il vento è causato da nuvola frigidissima, e perciò di sua natura sará il vento frigidissimo. Oltre a questo, e le cose inducenti allʼatto libidinoso e la libidine, considerata la qualitá di questo vento, oltre alla freddezza, sono ottimamente da lui punite. Viensi a questo miserabile esercizio, avendone il fervore impetuoso sospinti a dover dare opera al disonesto desiderio, per molte vigilie, per molto perdimento di tempo, per molto dispendio[164] e per molte fatiche tutte dannose e da vituperare; le quali se alcuna volta il disiderante conducono al pestifero effetto, non si contenta né finisce il suo disiderio dʼaver copia di veder la cosa amata, dʼaver copia di parlarle, dʼaver copia dʼabbracciarla e di baciarla, se, tutti i vestimenti rimoti, con quella ignudo non si congiugne, accioché possa ogni parte del corpo toccare, con ogni parte [essere tócco e] strignersi, e della morbidezza di quello miseramente consolarsi; mostrando, per questo, lʼultimo e il maggiore diletto di cosí miserabile appetito stare nelle congiunzioni corporali, ogni mezzo rimosso. Le quali due detestabili operazioni punisce la divina giustizia similmente per congiunzione, ma non uniforme lʼuna allʼaltra punisce; percioché, dove la predetta fu molto disiderata e molto dilettevole aʼ corpi, cosí questa è odiata, e, sʼelle potesser, fuggita dalle dannate anime. È adunque la bufera nel testo dimostrata impetuosissima; e quanto, per venire al peccato, i pensieri del cuore e i movimenti del corpo con fatica sʼesercitarono, cotanto nello eterno supplicio loro gira e avvolge e trasporta; e, oltre a ciò, in quella cosa che fu piú disiderata da loro, che maggior piacere prestò aʼ disonesti congiugnimenti, in quella medesima dolorosamente gli affligge, intanto che essi molto piú disiderano di mai non toccarsi, che di toccarsi non disideraron peccando. E la cagione è manifesta, percioché lʼimpeto di questa bufera, il quale in qua e in lá, e di giú e di su gli [mena e] trasporta, con tanta forza lʼun nellʼaltro riscontrandosi percuote, che il diletto da loro avuto nel congiugnersi insieme fu niente, a comparazione della pena la quale in inferno hanno nel riscontrarsi; e però come giá molti, vivendo, di congiugnersi disiderarono, cosí morti e dannati disiderano senza pro di mai non iscontrarsi. Le quali cose se bene si considereranno, assai bene si vedrá lʼautore far corrispondersi col peccato la pena.


[165]

CANTO SESTO

I

Senso Letterale

[Lez. XXIII]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Come neʼ precedenti canti ha fatto, cosí in questo si continua lʼautore alle cose dette. Egli, nella fine del precedente canto, mostra come, per compassione avuta di madonna Francesca e di Polo da Rimino, cadesse, e da quel cadimento, nel principio di questo, essere tornato in sé, e ritrovarsi nel terzo cerchio dello ʼnferno. E fa in questo canto lʼautore cinque cose: nella prima discrive la qualitá del luogo; nella seconda dice quello che Cerbero demonio facesse, vedendogli, e come da Virgilio chetato fosse; nella terza pone come trovasse un fiorentino, e che da lui sapesse qual peccato quivi si puniva, e altre cose piú, domandandone esso autore; nella quarta, passando piú avanti, muove lʼautore un dubbio a Virgilio, e Virgilio gliele solve; nella quinta dimostra lʼautore dove pervenissero. La seconda comincia quivi: «Quando ci scorse»; la terza quivi: «Noi passavam»; la quarta quivi: «Sí trapassammo»; la quinta quivi: «Noi aggirammo».

Discrive adunque lʼautore nella prima parte di questo canto la qualitá del luogo, dicendo: «Al tornar della mente», mia, la quale per compassione «si chiuse», come nella fine del[166] precedente canto è mostrato, «Dinanzi alla pietá deʼ due cognati», di madonna Francesca e di Polo, «Che di tristizia tutto mi confuse»: la compassione avuta della loro misera fortuna; «Nuovi tormenti», non quegli li quali nel secondo cerchio aveva veduti, ma altri, li quali dice «nuovi», quanto a sé, che mai piú veduti non gli avea; «e nuovi tormentati», altri che quegli che di sopra avea veduti; «Mi veggio intorno come chʼio mi muova», a destra o a sinistra, «E chʼio mi volga», in questa parte o in quella, «e come che io mi guati».

«Io sono al terzo cerchio della piova», la qual piova è «Eterna», non vien mai meno; «maladetta», in quanto è mandata dalla divina giustizia per perpetuo supplicio di coloro aʼ quali addosso cade; «fredda», e per tanto è piú noiosa; «e greve», cioè ponderosa, per piú affliggere coloro aʼ quali addosso cade: «Regola e qualitá mai non lʼè nuova», sempre cade dʼun modo. E poi discrive qual sia la qualitá di questa piova, dicendo: «Grandine grossa, ed acqua tinta e neve». Come che queste tre cose, causate daʼ vapori caldi e umidi e da aere freddo, nellʼaere si generino, nondimeno per effetto della divina giustizia in quello luogo caggiono, in tormento e in pena di quegli che in questo terzo cerchio puniti sono; e però dice: «Per lʼaer tenebroso si riversa»; e, oltre a ciò, «Pute la terra che questo riceve», cioè queste tre cose.

«Cerbero, fiera crudele e diversa». Fingono i poeti questo Cerbero essere stato un cane ferocissimo, il quale essendo di Plutone, Iddio dello ʼnferno, dicevano Plutone lui aver posto alla porta dello ʼnferno, accioché quindi alcuno uscir non lasciasse, come che lʼautore qui il ponga a tormentare i peccatori che in questo terzo cerchio sono, discrivendo la qualitá della forma sua dicendo: «Con tre gole», percioché tre capi avea, «caninamente latra»; e in questo atto dimostra lui essere cane, come i poeti il discrivono; «Sopra la gente, che quivi è sommersa» sotto la grandine e lʼacqua e la neve. «Gli occhi ha vermigli», questo Cerbero, «e la barba unta ed atra», cioè nera. «E ʼl ventre largo», da poter, mangiando, assai cose riporre, «e unghiate le mani», per poter prendere e[167] arrappare: «Graffia gli spiriti», con quelle unghie, «e ingoia», divorandogli, «ed isquatra», graffiandogli.

«Urlar»; questo è proprio deʼ lupi, comeché eʼ cani ancora urlino spesso; «gli fa la pioggia», la qual continuamente cade loro addosso, «come cani. Dellʼun deʼ lati fanno allʼaltro schermo», questi spiriti dannati: «Volgonsi spesso», mostrando in questo che gravemente gli offenda la pioggia; e perciò, come alquanto hanno dallʼun lato ricevutala, cosí si volgon dallʼaltro, infino a tanto che alcun mitigamento prendano in quella parte che offesa è stata dalla pioggia, «i miseri profani».

«Profano» propriamente si chiama quello luogo il quale alcuna volta fu sacro, poi è ridotto allʼuso comune dʼogni uomo, sí come alcun luogo, nel quale giá è stata alcuna chiesa o tempio, la qual mentre vi fu, fu sacro luogo, poi per alcuno acconcio [comune], trasmutata la chiesa in altra parte, e il luogo rimaso comune, chiamasi «profano»; cosí si può dire, degli spiriti dannati, essere stati alcuna volta sacri, mentre seguirono la via della veritá, percioché, mentre questo fecero, era con loro la grazia dello Spirito santo; ma, poi che, abbandonata la via della veritá, seguirono le malvagitá e le nequizie, per le quali dannati sono, partita da loro la grazia dello Spirito santo, sono rimasi profani.

«Quando ci scòrse». Comincia qui la seconda parte del presente canto, nella quale, sí come neʼ superiori cerchi è addivenuto allʼautore dʼessere stato con alcuna parola spaventato daʼ diavoli presidenti aʼ cerchi, neʼ quali disceso è, cosí qui similmente mostra Cerbero averlo voluto spaventare. E questo, con quello atto generalmente soglion fare i cani, quando uomo o altro animale vogliono spaventare: innanzi ad ogni altra cosa gli mostrano i denti. Il che aver fatto Cerbero verso Virgilio e verso lui dimostra qui lʼautore, dicendo: «Quando ci scòrse», cioè ci vide venire, «Cerbero, il gran vermo» (pone lʼautore questo nome a Cerbero di «vermo» dal luogo ove il trova, cioè sotterra, percioché i piú di quegli animali, li quali sotterra stanno, sono chiamati «vermini»), «Le bocche», per ciò dice le bocche, perché tre bocche avea questo Cerbero, come di sopra[168] è dimostrato; «aperse, e mostrocci le sanne», cioè i denti: «Non avea membro che tenesse fermo». Il che può avvenire da impetuoso desiderio di nuocere e da altro.

«E ʼl duca mio», veduto quello che Cerbero faceva, «distese le sue spanne», cioè aperse le sue mani, a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura, «Prese la terra, e con piene le pugna»; come la mano aperta si chiama «spanna», cosí chiusa, «pugno»; «La gittò dentro alle bramose canne»; dice «canne», percioché eran tre, come di sopra è mostrato.

E appresso questo, per una comparazione ottimamente convenientesi al comparato, dimostra quel dimonio essersi acquetato, e dice: «Qual è quel cane chʼabbaiando», cioè latrando, «agogna». «Agognare» è propriamente quel disiderare il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa; quantunque sʼusi in qualunque cosa lʼuom vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia. «E si racqueta», sanza piú abbaiare, «poi che ʼl pasto morde», cioè quello che gittato gli è da mangiare, «Che solo a divorarlo intende e pugna; Cotai si fecer», cioè cosí quiete, «quelle facce lorde», brutte di Cerbero, che eran tre, «Dello demonio Cerbero, che introna», latrando, «Lʼanime», in quel cerchio dannate, «sí, chʼesser vorrebber sorde», accioché udire nol potessero. Questo luogo è tutto preso da Virgilio, di lá dove egli nel sesto dellʼEneida scrive:

Cerberus haec ingens la tratu regna trifauci
personat, adverso recubans immanis in antro.
Cui vates, horrere videns iam colla colubris,
melle soporatam et medicalis frugibus offam
obiicit: ille fame rabida tria guttura pandens,
corripit obiectam, atque immania terga resolvit
fusus humi, totoque ingens extenditur antro,
ecc.

«Noi passavam». Qui comincia la terza parte di questo canto, nella quale lʼautore truova un fiorentino, il quale gli[169] dice qual peccato in questo terzo cerchio si punisca: e, oltre a ciò, dʼalcune cose addomandato da lui, il dichiara. Dice adunque: «Noi passavam», Virgilio ed io, «su per lʼombre chʼadona», cioè prieme e macera, «La grave pioggia», la quale in quel luogo era, come di sopra è mostrato, «e ponevam le piante», deʼ piedi, «Sopra lor vanitá, che par persona».

Altra volta è detto gli spiriti non avere corpo, ed essere agli occhi nostri invisibili, ma in questa opera tutti li mostra lʼautore essere corporei, imitando Virgilio, il quale nel sesto dellʼEneida fa il simigliante; e questo fa, accioché piú leggiermente inteso sia, figurando essere corporee le cose che incorporee sono e i loro supplici: la qual cosa non si potrebbe far tanto che bastevole fosse, se questa maniera non tenesse. Nondimeno mostra che, quantunque in apparenza corpi paiano, non essere in esistenza, dicendo lor «vanitá, che par persona» e non è: il che come addivenga, pienamente si mostrerá nel canto venticinquesimo del Purgatorio, dove questa materia si tratta.

«Elle», cioè quellʼanime, «giacean per terra tutte quante, Fuor dʼuna, chʼa seder si levò», sí che appare che anche questa una giaceva come lʼaltre, «ratto», cioè tosto, «Chʼella ci vide passarsi davante».

E disse cosí:—«O tu, che seʼ per questo inferno tratto»,—cioè menato, «Mi disse,—riconoscimi, se sai»; quasi volesse dire:—Guatami, e vedi se tu mi riconosci, percioché tu mi dovresti riconoscere;—e la ragione è questa, che—«Tu fosti prima fatto», cioè creato e nato, «chʼio disfatto»,—cioè che io morissi, percioché, nella morte, questa composizione, che noi chiamiamo «uomo», si disfá per lo partimento dellʼanima; e cosí né ella che se ne va, né ʼl corpo che rimane, è piú uomo. E veramente nacque lʼautore molti anni avanti che costui morisse, e fu suo dimestico, quantunque di costumi fossono strani.

«Ed io a lei», cioè a quella anima:—«Lʼangoscia, che tu hai», dal tormento nel quale tu seʼ, «Forse» è la cagione la quale «ti tira fuor della mia mente», cioè del mio ricordo; e tiratane fuor «Sí, che non par chʼio ti vedessi mai. Ma», poiché[170] io non me ne ricordo, «dimmi chi tu seʼ, che ʼn sí dolente Luogo seʼ messo», come questo è, «e a sí fatta pena», come è questa, la quale è tale, «Che sʼaltra è maggia», cioè maggiore, «nulla è sí spiacente».—

«Ed egli a me», rispuose cosí:—«La tua cittá», cioè Firenze, della qual tu seʼ, «chʼè piena Dʼinvidia», ed énne piena «sí, che giá trabocca il sacco»; quasi voglia dire: ella nʼè sí piena, che ella non la può dentro a sé tenere, per la gran quantitá conviene che si versi di fuori, cioè si pervenga agli effetti, li quali dalla invidia procedono. E questo dice costui, percioché, tra lʼaltre invidie che in Firenze erano, ve nʼera una, la quale gittò molto danno alla cittá, e massimamente a quella parte alla quale era portata; e questa era la ʼnvidia, la quale portava la famiglia deʼ Donati alla famiglia deʼ Cerchi; percioché dove i Donati erano delle sustanze temporali anzi disagiati gentiliuomini che no, vedendosi tutto dí davanti, sí come vicini in cittá e in contado, la famiglia deʼ Cerchi, li quali in quei tempi erano mercatanti grandissimi, e tutti ricchi e morbidi e vezzosi, e, oltre a ciò, nel reggimento della cittá e nello stato potentissimi, avevano e alle ricchezze e allo stato loro invidia; e aveanne tanta che, comʼè detto, non potendola dentro piú tenere, non molto poi con dolorosi effetti la versaron fuori. «Seco mi tenne», sí come cittadino, «in la vita serena», cioè in questa vita mortale, la quale chiama «serena», cioè chiara, per rispetto a quella nella quale dannato dimorava.

[Lez. XXIV]

«Voi cittadini», di Firenze, «mi chiamaste Ciacco». Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, percioché poco avea da spendere, ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, [era morditore di parole, e] le sue usanze erano sempre coʼ gentiliuomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e beveano, daʼ quali se chiamato era a mangiare, vʼandava, e similmente se invitato non era, esso medesimo sʼinvitava. Ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i fiorentini; senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose[171] era assai volentieri da qualunque gentileuomo ricevuto. «Per la dannosa colpa della gola, Come tu vedi, alla pioggia mi fiacco»; cioè in questo tormento mi rompo. Pioveva quivi, come di sopra è detto, grandine grossa, la quale, agramente percotendogli, tutti gli rompea; e dice che ciò gli avvenia «per la dannosa colpa della gola», nelle quali parole manifesta qual vizio in questo terzo cerchio dellʼinferno sia punito, che ancora per infino a qui apparito non era, chiamando il vizio della gola «dannosa colpa»: e questo non senza cagione, percioché dannosissimo vizio è, sí come piú distesamente si mostrerá appresso nella esposizione allegorica.

«Ed io anima trista»; e veramente è trista lʼanima di chi a sí fatta perdizion viene, «non son sola»; quasi voglia dire, non vorreʼ che tu credessi che io solo fossi nel mondo stato ghiotto, perciò «Che tutte queste», le quali tu vedi in questo luogo dintorno a me, «a simil pena stanno», che fo io, e «Per simil colpa»—cioè per lo vizio della gola: «e», detto questo, «piú non feʼ parola».

«Io gli risposi», cioè gli dissi:—«Ciacco, il tuo affanno», il quale tu sostieni per la dannosa colpa della gola, «Mi pesa sí», cioè tanto, «chʼa lagrimar mʼinvita»: e mostra qui lʼautore dʼaver compassione di lui, accioché egli sel faccia benivolo a dovergli rispondere di ciò che intende di domandare. E nondimeno, quantunque dica «a lacrimar mʼinvita», non dice perciò che lacrimasse; volendo, per questo, mostrarne lui non essere stato di questo vizio maculato, ma pure alcuna volta essere stato da lui per appetito incitato, e perciò non pena, ma alcuna compassione in rimorsione del suo non pieno peccato ne dimostra. E però segue: «Ma dimmi, se tu sai, a che», fine, «verranno i cittadin», cioè i fiorentini, «della cittá partita»; peroché in queʼ tempi Firenze era tutta divisa in due sètte, delle quali lʼuna si chiamavano Bianchi e lʼaltra Neri; ed era caporale della setta deʼ Bianchi messer Vieri deʼ Cerchi, e di quella deʼ Neri messer Corso Donati; ed era questa maladizione venuta da Pistoia, dove nata era in una medesima famiglia chiamata Cancellieri: e dimmi «Sʼalcun vʼè giusto»,[172] nella cittá partita, il quale riguardi al ben comune e non alla singularitá dʼalcuna setta; «e dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia assalita».—Domandalo adunque lʼautore di tre cose, alle quali Ciacco secondo lʼordine della domanda successivamente risponde.

«Ed egli a me» (supple) rispose alla prima:—«Dopo lunga tencione», cioè dopo lunga riotta di parole, «Verranno al sangue», cioè fedirannosi e ucciderannosi insieme.

Il che poco appresso addivenne: percioché, andando per la terra alcuni delle dette sètte, tutti andavano bene accompagnati e a riguardo, e cosí avvenne che, la sera di calendimaggio milletrecento, faccendosi in su la piazza di Santa Trinitá un gran ballo di donne, che giovani dellʼuna setta e dellʼaltra a cavallo e bene in concio sopravvennero a questo ballo; e quivi primieramente cominciarono lʼuna parte a sospignere lʼaltra, e da questo vennero a sconce parole, e ultimamente, cominciatavisi una gran zuffa tra loro e lor seguaci e, dalle mani venuti aʼ ferri, molti vi furono fediti, e tra gli altri fu fedito Ricovero di messer Ricovero dei Cerchi, e fugli tagliato il naso, di che tutta la cittá fu sommossa ad arme. E non finí in questo il malvagio cominciamento, percioché in questo medesimo anno in simili riscontri pervenuti, sanguinosamente si combatterono le dette sètte.

«E la parte selvaggia», cioè la Bianca, la quale chiama «selvaggia», percioché messer Vieri deʼ Cerchi, il quale era, come detto è, capo della parte Bianca, eʼ suoi consorti, erano tutti ricchi e agiati uomini, e per questo erano non solamente superbi e alti eri, ma egli erano salvatichetti intorno aʼ costumi cittadineschi, percioché non erano accostanti allʼusanze degli uomini, né gli careggiavano, come per avventura faceva la parte avversa, la quale era piú povera: «Caccerá lʼaltra» parte. Né si vuole intendere qui che di Firenze cacciasse la parte Bianca la Nera, come che alcuni ne fosser mandati dal Comune in esilio, perché non avean di che pagare le condannagioni dagli uficiali del Comune fatte per li loro eccessi; ma intende lʼautor qui che la parte selvaggia, cioè Bianca, caccerá la parte Nera del[173] reggimento dello stato del Comune, come essi fecero; e ciò avvenne, «con molta offensione», in quanto, oltre agli altri mali e oppressioni ricevute daʼ Neri, furono le condannagioni pecuniarie grandissime, tanto piú gravi aʼ Neri che aʼ Bianchi, quanto aveano meno da pagare, perché poveri erano per rispetto deʼ Bianchi.

«Poi appresso», cioè dopo tutto questo, «convien che questa», parte selvaggia, «caggia», dello stato e della maggioranza: e questo avverrá, «Infra tre soli», cioè infra lo spazio di tre anni; percioché il sole circuisce tutto il zodiaco in trecentosessantacinque dí e un quarto, li quali noi chiamiamo «uno anno»: e questo medesimo spazio di tempo alcuna volta si chiama «un sole», cioè il circuito intero dʼun sole. E dice «infra tre soli», percioché non si compiè il terzo circuito del sole, che quello addivenne che egli qui vuol mostrare di profetezzare, il che appare esser vero; percioché, vedendosi i Neri opprimer dalla parte Bianca, nʼandò messer Corso Donati in corte di Roma a papa Bonifazio ottavo, e con piú altri suoi aderenti pregarono il papa gli piacesse di muovere alcuno deʼ reali di Francia, il quale venisse a Firenze a doverla racconciare, poiché per messer Matteo dʼAcquasparta cardinale e legato di papa non sʼera potuta racconciare, non volendo i Bianchi ubbidire al detto legato. Per li prieghi deʼ quali, non avendo il papa potuto pacificare messer Vieri con messer Corso, per la superbia di messer Vieri; il papa mandò in Francia al re Filippo, il quale ad istanza del detto papa mandò di qua messer Carlo di Valois, suo fratello, il quale sotto nome di paciaro il papa mandò a Firenze: e furono tali lʼopere sue, che, aʼ dí 4 dʼaprile 1302, tutti i caporali di parte Bianca richiesti da messer Carlo per un trattato il quale dovean tenere, contro al detto messer Carlo non comparirono, anzi si partiron di Firenze: di che poi come ribelli condennati furono da messer Carlo; e cosí il reggimento della cittá rimase tutto nella parte Nera. Appare dunque, come Ciacco pronostica, la parte selvaggia infra tre soli esser caduta e lʼaltra sormontata. [Nondimeno chi questa istoria vuole pienamente sapere, legga la Cronica di Giovanni Villani, percioché in essa distesamente si pone.]

[174]

Séguita poi: «e che lʼaltra sormonti», cioè la parte Nera, la quale sormontò, come mostrato è di sopra, «Per la forza di tal, che testé piaggia». Dicesi appo i fiorentini colui «piaggiare», il quale mostra di voler quello che egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga: la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia deʼ Bianchi e deʼ Neri di Firenze aver fatta papa Bonifazio, cioè dʼaver mostrata igual tenerezza di ciascuna delle parti e, per dovergli porre in pace, avervi mandato il cardinal dʼAcquasparta, e poi messer Carlo di Valois: ma ciò non essere stato vero, percioché lʼanimo tutto gli pendeva alla parte Nera; e questo era per la obbedienza mostrata in queste cose da messer Corso, dove messer Vieri era stato salvatico e duro: e per questo, sí come egli volle e occultamente adoperò, furono da messer Carlo tenuti i modi, li quali egli in queste cose tenne, come di sopra appare: e perciò lʼautore dice essere stata depressa la parte Bianca ed elevata la Nera, con la forza di tale, il quale in quel tempo, cioè nel 1300, piaggiava.

«Alte terrá», nel reggimento e nello stato, «lungo tempo le fronti», il quale «lungo tempo» non è ancora venuto meno, «Tenendo lʼaltra», parte cacciata, «sotto gravi pesi», sí come lo stare fuori di casa sua in esilio, «Come che di ciò» che io predico, «pianga, e che nʼadonti», cioè tu Dante. Il quale, sí come altra volta è stato detto, fu della parte Bianca, e con quella fu cacciato di Firenze, né mai poi vi ritornò, e perciò ne piagnea, cioè se ne dolea, e adontavane, come coloro fanno alli quali pare ricever torto.

«Giusti son due». Qui risponde Ciacco alla seconda domanda fatta dallʼautore dove di sopra disse «sʼalcun vʼè giusto»: e dice che, intra tanta moltitudine, vʼha due che son giusti. Quali questi due si sieno, sarebbe grave lo ʼndovinare; nondimeno sono alcuni li quali, donde che egli sel traggano, che voglion dire essere stato lʼuno lʼautor medesimo, e lʼaltro Guido Cavalcanti, il quale era dʼuna medesima setta con lui. «Ma non vi sono intesi», cioè non è alcun lor consiglio creduto.

«Superbia, invidia ed avarizia sono Le tre faville cʼhanno i cuori accesi».—Qui risponde Ciacco alla terza domanda fatta[175] dallʼautore di sopra, dove dice: «dimmi la cagione, Perché lʼha tanta discordia assalita». E dice che tre vizi sono cagione della discordia: cioè superbia, la quale era grande in messer Vieri e neʼ consorti suoi, per le ricchezze e per lo stato il quale avevano; e per questo essendo male accostevoli aʼ cittadini, e dispiacendone molto, in parte si generò la discordia. Il secondo vizio e cagione della discordia dice essere stata invidia, la quale sente lʼautore essere stata nella parte di messer Corso, il quale a rispetto di messer Vieri era povero cavaliere, ed era grande spenditore; per che veggendo sé povero e messer Vieri ricco, gli portava invidia, come suole avvenire; ché sempre alle cose, le quali piú felici sono stimate, è portata invidia. [E, oltre a ciò, vʼera la preeminenza dello stato, al quale generalmente tutti coloro, che in istato non si vedevano, portavano invidia: dalla quale invidia, stimolante coloro li quali ella ardeva, furono aguzzati glʼingegni e sospinti a trovar delle vie e deʼ modi, per li quali la discordia sʼavanzò, e poi ne seguí quello chʼè mostrato.] Il terzo vizio dice essere lʼavarizia, la quale consiste in tenere piú stretto che non si conviene quello che lʼuom possiede, e in disiderare piú che non bisogna altrui dʼavere; e cosí può essere stata, e nellʼuna parte e nellʼaltra, cagione di discordia: nellʼuna, cioè nella Bianca, della quale erano caporali i Cerchi, li quali erano tutti ricchi, e se per avventura corteseggiato avessero coʼ lor vicini, come non faceano, non sarebbon nate delle riotte che nacquero; e cosí nella parte Nera, se stati fossero contenti a quello che loro era di bisogno, non avrebbon portata invidia aʼ piú ricchi di loro, né disiderata la discordia, per potere per quella pervenire ad occupare quello che loro non era di necessitá; il che poi, rubando e scacciando, mostrarono nella partita deʼ loro avversari. E cosí questi tre vizi sono le tre faville che hanno accesi i cuori a discordia e a male adoperare.

«Qui pose fine», Ciacco, «al lacrimabil suono», cioè ragionamento; e chiamalo «lacrimabile», percioché a molti fu dolorosissimo, e cagione di povertá e di miseria e di pianto, e tra gli altri allʼautor medesimo, il quale cadde dallo stato, nel quale era, in perpetuo esilio.[176] [Muovono alcuni in questa parte un dubbio, e dicon cosí, che, conciosiacosaché singular grazia di Dio sia il prevedere le cose future, e i dannati del tutto la divina grazia aver perduta, non pare che convenientemente qui lʼautore induca lʼanima di Ciacco dannata a dover predire le cose, le quali scrive gli predisse. Alla soluzione del qual dubbio par che si possa cosí rispondere: esser vero alcuna cosa non potersi fare che buona sia, senza la grazia di Dio, la qual veramente i dannati hanno perduta; ma nondimeno concede Domeneddio ad alcune delle sue creature nella loro creazione certe grazie, le quali esso non toglie loro, quantunque queste creature, create da lui buone, poi diventino perverse. Percioché noi possiam manifestamente conoscere che, quantunque gli angeli, li quali per la loro superbia furon cacciati di paradiso, quantunque da lui della beatitudine privati fossero, non furon però privati della scienza, la quale nella loro creazione avea loro conceduta; o vero che questa non fu lor lasciata in alcuno lor bene, anzi in pena e in supplicio, percioché quanto piú sanno, tanto piú conoscono la gloria la quale per loro difetto perduta hanno, e per conseguente maggiore. supplicio sentono. E cosí similemente crea Nostro Signore lʼanime nostre perfette e simiglianti a sé; e, quantunque esse per le loro malvage operazioni perdano il poter salire aʼ beni di vita eterna, non perdono perciò quelle dote che nella lor creazione furono lor concedute da Dio, quantunque in danno di loro siano lor lasciate da Dio. E le dote, le quali noi riceviamo da Dio, sono molte, percioché esso ne dona la ragione, la volontá, il libero arbitrio, e dánne la memoria, lʼeternitá e lo ʼntelletto, e in queste cose ne fa simili a sé: le quali cose, quantunque nella sua ira moiamo, in parte ne rimangono; tra le quali è quella parte della sua divinitá, la quale conceduta nʼha. E se questa rimane aʼ dannati, meritamente delle cose future si possono addomandare, ed essi ne posson rispondere: per che non pare che lʼautore inconvenientemente abbia del futuro addomandata lʼanima dannata. Ma che le predette dote ne sien concedute, pare che si provi per la divina Scrittura, nella quale si legge quasi nel principio del Genesi: «Dixit Deus:—Faciamus[177] hominem ad imaginem et similitudinem nostram».—E se fece egli questo, che il fece, dunque abbiam noi le cose predette.]

[È il vero che queste cose furon concedute allʼanima e non al corpo, percioché il corpo nostro non ha similitudine alcuna con Domeneddio: percioché Domeneddio, come altra volta è detto, non ha né mani né piedi né alcuna altra cosa corporea, quantunque la divina Scrittura questi membri gli attribuisca, accioché i nostri ingegni da dimostrata forma possan comprendere i misteri, che sotto questa forma la Scrittura intende. Furono adunque concedute allʼanima, la quale esso per ciò chiamò «uomo», perché ella è quella cosa per la quale è lʼuomo, mentre ella sta congiunta col corpo. E di questi cosí magnifichi doni, come che tutti gli eserciti lʼanima mentre viviamo, nondimeno alcuni nʼesercita dopo la morte del corpo, come detto è: ma che la divinitá ne sia conceduta, e che ella nelle nostre anime sia, in certe cose appare vivendo noi, quantunque, essendo oppressa da questa gravitá del corpo, rade volte e con difficultá le intervenga il potere sé esser divina mostrare; nondimeno il dimostra talvolta dormendo, il corpo sobrio e ben disposto e soluto dalle cure corporali, sí come Tullio ne dimostra in libro De divinatione, in quanto, quasi alleviata neʼ sogni, ne dimostra le cose future. Qual piú certa dimostrazione avrebbe alcuna viva voce fatta a Simonide poeta, volente dʼuna parte in unʼaltra navicare, che in sua salute gli fece la divinitá della sua anima nel sonno vedere? Aveva il dí davanti Simonide seppellito un corpo, il quale gittato dal mare in su il lito aveva trovato, la cui effigie gli parve, dormendo, vedere, e udire da lui:—Simonide, non salire sopra la nave, su la quale tu ti disponi dʼandare, percioché ella perirá con quegli che su vi fieno in questo viaggio.—Per la qual cosa Simonide sʼastenne; né molti dí passarono, che con certezza gli fu recitato quella nave esser perita. Non fu similemente non una volta, ma due, dimostrato nel sonno ad Astiage che ʼl figliuolo, il quale di Mandane, sua unica figliuola, nascerebbe, il priverebbe dello imperio dʼAsia? parendogli la prima volta che lʼorina della figliuola allagasse tutta Asia, e la seconda che dalla parte[178] genitale della figliuola usciva una vite, i palmiti e le frondi della quale adombravan tutta Asia. E di queste dimostrazioni si potrebbon narrare infinite, le quali per certo, senza divino lume, né potrebbe conoscer lʼanima, né le potrebbe mostrare. Similmente ancora, secondo che dice Tullio nel preallegato libro, mostra lʼanima molto della sua divinitá, quando gravissimamente infermi e debilitati siamo; percioché, quanto piú è il corpo debole, piú pare che sia il vigor dellʼanima, e massimamente in quanto, per lʼessere le forze corporali diminuite, non pare che possano gravar lʼanima, come quando intere sono. E che lʼanima mostri la sua divinitá vicina alla fine della vita del corpo, sʼè assai volte, non dormendo, ma vegghiando veduto: e sí come esso Tullio recita sé da Possidonio, famoso filosofo, avere avuto, che uno chiamato Modio, morendo, aver nominato sei suoi equali amici, li quali disse dovere appresso di sé morire, esprimendo qual primo e qual secondo e qual terzo, e cosí degli altri; e ciò poi essere ordinatamente avvenuto. E un altro chiamato Calano dʼIndia, essendo salito, nella presenza dʼAlessandro, re di Macedonia, per morir volontariamente sopra il rogo, il quale prima avea fatto, e domandandolo Alessandro se egli volesse che esso alcuna cosa facesse, gli rispose:—Io ti vedrò di qui a pochi dí;—e quindi, fatto accendere il rogo, si mori. Non istette guari che Alessandro morí in Babillonia. E, se io ho il vero inteso, percioché in queʼ tempi io non era, io odo che in questa cittá avvenne a molti nellʼanno pestifero del milletrecentoquarantotto che, essendo soprapresi gli uomini dalla peste e vicini alla morte, ne furon piú e piú, li quali deʼ loro amici, chi uno e chi due e chi piú ne chiamò, dicendo:—vienne, tale e tale,—deʼ quali chiamati e nominati, assai, secondo lʼordine tenuto dal chiamatore, sʼeran morti e andatine appresso al chiamatore. Per la qual cosa assai appare nellʼanime nostre essere alcuna divinitá, e quella essere molto noiata da glʼimpedimenti corporali, e nondimeno, come detto è, pur talvolta in alcuno atto mostrarla; e però, se questo avviene essendo esse neʼ corpi legate, che dobbiam noi estimare che esse debbano intorno a questa lor divinitá dover potere adoperare, quando[179] del tutto daʼ corpi libere sono? Eʼ non è dubbio che molto piú la debban poter dimostrare. E perciò non pare inconveniente lʼautore aver domandata lʼanima dannata, come altra volta è stato detto, delle cose future, né essa averne risposto; come coloro, che il dubbio moveano, volevan mostrare.]

[È il vero che il credere che alcuna anima dannata usasse questa sua divinitá in alcuna sua consolazione, credo sarebbe contro alla veritá; ma dobbiam credere che, se per virtú di questa divinitá essa prevede alcuna felicitá dʼalcuno, questo essere ad accrescimento della sua miseria, e cosí il prevedere glʼinfortuni, li quali afflizione e noia gli debbono aggiugnere.]

«Ed io a lui», cioè a Ciacco, dissi:—«Ancor», oltre a ciò che detto mʼhai, «voʼ che mʼinsegni», cioè dimostri, «E che di piú parlar mi facci dono», dicendomi: «Farinata» degli Uberti «e ʼl Tegghiaio», Aldobrandi, «che fûr sí degni» dʼonore, quanto è al giudicio deʼ volgari, li quali sempre secondo lʼapparenza delle cose esteriori giudicano, senza guardare quello onde si muovono o che importino; «Iacopo Rusticucci, Arrigo», Giandonati, «il Mosca», deʼ Lamberti.

Furono, questi, cinque onorevoli e famosi cavalieri e cittadini di Firenze; e, perché i loro nomi paion degni di fama, di loro in singularitá domanda lʼautore, dimostrando poi in generalitá degli altri.

«E gli altri», nostri cittadini, «che ʼn ben far», corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, «poser glʼingegni», cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine, «Dimmi», se tu il sai, «ove sono», se son qui con teco o se sono in altra parte, «e faʼ chʼio gli conosca»; quasi voglia dire: io non gli riconoscerei veggendogli, se non come io non riconosceva te, tanto il brutto tormento, nel quale seʼ, gli dee aver trasformati; «Ché gran disio mi strigne di sapere Se ʼl ciel gli addolcia», cioè con dolcezza consola, «o lʼinferno gli attosca»,—cioè riempie dʼamaritudine e di tormento.

«E quegli» (supple) rispose:—«Ei son», coloro deʼ quali tu domandi, «tra lʼanime piú nere».

Creò Domeneddio Lucifero, splendido, chiaro e bello piú che altra creatura, ma egli, per superbia peccando, divenne[180] oscuro e tenebroso; e cosí, producendo noi puri e perfetti, infino a tanto che noi non pecchiamo, nella chiaritá della puritá dimoriamo; ma, tantosto che noi pecchiamo, incomincia, partitasi la puritá, quella chiaritá, che avevamo, a divenire oscura, e quanto piú pecchiamo, in maggiore oscuritá divegnamo. E quinci dice Ciacco, coloro, deʼ quali lʼautore domanda, essere tra «lʼanime piú nere», cioè piú oscure, e soggiugne la cagione dicendo: «Diverse colpe giú gli grava al fondo». E dice «diverse colpe», percioché per lo disonesto peccato della sogdomia Tegghiaio Aldobrandi e lacopo Rusticucci son puniti dentro alla cittá di Dite nel canto decimosesto di questo libro; Farinata per eresia nel decimo canto; e ʼl Mosca, perché fu scismatico, nel canto ventottesimo. I quali peccati, perché sono piú gravi assai, come si dimostrerá, che non è la gola, gli aggrava e fa andare piú giuso verso il fondo dellʼinferno. «Se tanto scendi», quanto essi son giuso, «gli potrai vedere».

«Ma, quando tu sarai nel dolce mondo». Possiam da queste parole comprendere quanta sia lʼamaritudine delle pene infernali, quando questa anima chiama questo mondo «dolce», nel quale non è cosa alcuna, altro che piena dʼangoscia, di tristizia e di miseria. «Pregoti chʼalla mente altrui mi rechi», cioè mi ricordi. E qui ancora, per queste parole, possiam comprendere quanta sia la dolcezza della fama, la quale, quantunque alcun bene non potesse adoperare in costui, nondimeno non lʼha potuta, per tormento che egli abbia, dimenticare, né eziandio lasciare, che egli non addomandasse che lʼautore di lui, tornato di qua, ragionasse e rivocasselo nella memoria alle genti. «Piú non ti dico», cioè dʼaltro non ti priego, «e piú non ti rispondo»,—alle cose delle quali domandato mʼhai.

«Li diritti occhi», coʼ quali infino a quel punto guardato avea lʼautore, «torse allora in biechi», come dette ebbe queste parole; e dice «in biechi», quasi «in guerci». «Guardommi un poco»: atto è di coloro li quali, costretti da alcuna necessitá, piú non aspettan di vedere coloro che davanti gli sono; «e poi chinò la testa. Cadde con essa a par degli altri ciechi», cioè deʼ dannati a quella medesima pena, che era dannato esso. E[181] cognominagli «ciechi», percioché perduto hanno il vedere intellettuale, col quale i beati veggono la presenza di Dio.

«E ʼl duca disse a me», poi che Ciacco fu ricaduto:—«Piú non si desta», cioè non si rileva piú; e cosí pare che, tra lʼaltre pene che i golosi hanno, abbiano ancora che qual si leva o parla, per alcuna cagione, come ricaduto è, piú di qui al dí del Giudicio non si possa levare né parlare; «Di qua dal suon dellʼangelica tromba», cioè di qua dal dí del Giudicio, quando un agnolo mandato da Dio verrá, e con altissima voce, quasi sia una tromba, eʼ dirá:—«Surgite, mortui, et venite ad iudicium»;—«Quando vedrá», ed egli e gli altri dannati, «la nimica podestá», cioè Cristo, in cui il Padre ha commessa ogni podestá. E non vedranno i dannati Cristo nella maestá divina, ma il vedranno nella sua umanitá, e parrá loro lui essere turbato verso di loro, come contra nemici: [ma ciò non fia vero, percioché il giusto giudice, come sará ed è Cristo, non si commuove contro a colui il quale ha offeso; percioché, se egli facesse questo, parrebbe che egli animosamente venisse alla sentenza. Ma questo è il costume di coloro che hanno offeso, che, come sentono dire cosa che gli trafigga, cosí si turbano; e come sono turbati essi, cosí par loro che sia turbato colui che meritamente gli riprende.]

E seguisce, al suono dellʼangelica tromba, che «Ciascuno rivedrá la trista tomba». Dice «rivedrá», risurgendo, e chiamala «trista tomba», cioè sventurata sepoltura, in quanto ella è stata guardatrice di ceneri, le quali deono risurgere a perpetuo tormento. «Ripiglierá sua carne e sua figura», e questo non per lor forza, ma per divina potenza, [sará loro in questo cortese, non per lor bene o consolazione, ma accioché il corpo, il quale fu strumento dellʼanima a commettere le colpe per le quali è dannata, sostenga insieme con quella tormento;] e, ripreso il corpo, ciascuno «Udirá quel che in eterno rimbomba», cioè risuona (e pone il presente per lo futuro), e questo sará la sentenza di Dio, nella quale Cristo dirá aʼ dannati:—«Ite maledicti in ignem aeternum»,—ecc., le quali parole in eterno non caderanno della mente loro.

[182]

«Sí trapassammo». Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale lʼautore muove un dubbio a Virgilio, e scrive la soluzion di quello. Dice adunque: «Sí», cioè cosí ragionando, «trapassammo», lasciato Ciacco, «per sozza mistura Dellʼombre e della pioggia», la quale, essendo, come di sopra è detto, da se medesima sozza, piú sozza ancora diveniva per la terra, la qual putiva, ricevendo la pioggia; «a passi lenti», forse per lo ragionare, o per lo luogo che non pativa che molto prestamente vi si potesse andare per uom vivo; «Toccando un poco la vita futura», cioè ragionando della futura vita. E questo mostra fosse intorno alla resurrezione deʼ corpi, sí per le parole passate, e sí ancora per quello che appare nel dubbio mosso dallʼautore.

«Perchʼio dissi:—Maestro», continuandomi a quello che della futura vita ragionavamo, «esti tormenti», li quali io veggio in queste anime dannate, «Cresceranno ei dopo la gran sentenza», data da Dio nellʼultimo e universal giudicio, «O fien minori», che al presente sieno, «o saran sí cocenti»,—come sono al presente?

«Ed egli a me» (supple) rispose:—«Ritorna a tua scienza», alla filosofia, «Che vuol, quanto la cosa è piú perfetta, Piú senta il bene, e cosí la doglienza». E questoʼ ci è tutto il dí manifesto, percioché noi veggiamo in un giovane sano e ben disposto parergli le buone cose piacevoli e saporite, dove ad uno infermo, nel quale è molta meno perfezion che nel sano, parranno amare e spiacevoli; vedrem similmente un giovane sano con gravissima doglia sentire ogni piccola puntura, dove un gravemente malato, appena sente le tagliature e glʼincendi molte volte fattigli nella persona: e cosí adunque, sí come séguita, dobbiam credere dovere avvenire aʼ dannati, quando i corpi avranno riavuti, in quanto avrá il tormento in che farsi piú sentire.

«Tutto», cioè avvegna, «che questa gente maladetta», cioè i dannati, «In vera perfezion». «Perfezione» è un nome il quale sempre suona in bene e in aumento della cosa, la quale di non perfetta divien perfetta: e, percioché neʼ dannati non può perfezione essere alcuna, e per questo per riavere i corpi non saranno piú perfetti, ma piú tosto diminuiti, dice lʼautore: «In[183] vera perfezion giammai non vada». Andrá adunque non in perfezione, ma in alcuna similitudine di perfezione, in quanto riavranno i corpi cosí come gli riavranno i beati; ma i beati gli riavranno in aumento di gloria, dove i dannati gli riavranno in aumento di tormento e di pena, la quale è diminuzione di perfezione. «Di lá», cioè dalla sentenzia di Dio, «piú che di qua», dalla detta sentenzia, «essere aspetta»,—in maggior pena; cioè aspetta, dopo i corpi riavuti, molta maggior pena che essi non hanno o avranno infino al dí che i corpi riprenderanno.

«Noi aggirammo». Qui comincia la quinta e ultima parte nella quale lʼautor mostra dove pervenissero. E dice: «Noi aggirammo a tondo quella strada», e dice «a tondo», percioché ritondo è quello luogo, come molte volte è stato detto; «Parlando piú assai chʼio non ridico», pure intorno alla vita futura; «Venimmo al punto», cioè al luogo, «dove si disgrada», per discendere nel quarto cerchio dello ʼnferno. «Quivi trovammo Pluto il gran nemico», cioè il gran dimonio.

Il qual Pluto, chi egli sia, racconteremo nel canto seguente. Nondimeno il chiama qui lʼautore avvedutamente «il gran nimico», in quanto, come si dirá appresso, esso significa le ricchezze terrene, le quali in tanto sono aʼ mortali grandissime nimiche, in quanto impediscono il possessor di quelle a dover potere intrare in paradiso; dicendo Cristo nellʼEvangelio: essere piú malagevol cosa ad un ricco entrare in paradiso che ad un cammello entrare per la cruna dellʼago. [Le quali parole piú chiaramente che il testo non suona esponendo, secondo che ad alcun dottor piace, si deono intendere cosí: cioè essere in Ierusalem stata una porta chiamata Cruna dʼago, sí piccola, che senza scaricare della sua soma il cammello, entrar non vi potea, ma scaricato vʼentrava. E cosí, moralmente esponendo, è di necessitá al ricco, cioè allʼabbondante di qualunque sustanza, ma in singularitá delle ricchezze male acquistate, di porre la soma di quelle giuso, se entrare vogliono in paradiso, lʼentrata del quale è strettissima. Se adunque esse impediscono il nostro entrare in tanta beatitudine, meritamente dir si possono grandissime nostre nemiche, ecc.]


[184]

II

Senso Allegorico

[Lez. XXV]

«Al tornar della mente che si chiuse», ecc. Nel principio di questo canto lʼautore, sí come di sopra ha fatto negli altri, cosí si continua alle cose seguenti. Mostrògli nel precedente canto la ragione, come i lussuriosi, li quali nellʼira di Dio muoiono, sieno dalla divina giustizia puniti; e percioché la colpa della gola è piú grave che il peccato della lussuria, in quanto la gola è cagione della lussuria, e non e converso, gli dimostra in questo terzo cerchio la ragione, come il giudicio di Dio con eterno supplicio punisca i golosi.

A detestazion deʼ quali, e accioché piú agevolmente si comprenda quello che sotto la corteccia litterale è nascoso, alquanto piú di lontano cominceremo.

Creò il Nostro Signore il mondo e ogni creatura che in quello è; e, separate lʼacque, e quelle, oltre allʼuniversal fonte, per molti fiumi su per la terra divise, e prodotti gli alberi fruttiferi, lʼerbe e gli animali, e di quegli riempiute lʼacque, lʼaere e le selve, tanto fu cortese aʼ nostri primi parenti, che, non ostante che contro al suo comandamento avessero adoperato, ed esso per quello gli avesse di paradiso cacciati, tutte le sopradette cose da lui prodotte sottomise alli lor piedi, sí come dice il salmista: «Omnia subiecisti sub pedibus eius, oves et boves et universa pecora campi, et volucres caeli, et pisces maris, qui perambulant semilas maris»; e, come queste, cosí molto maggiormente i frutti prodotti dalla terra, di sua spontanea volontá germinante. Per la qual cosa con assai leggier fatica, sí come per molti si crede, per molti secoli si nutricò e visse innocua lʼumana generazione dopo ʼl diluvio universale. I cibi della quale furono le ghiande, il sapor delle quali era aʼ rozzi[185] popoli non men soave al gusto, che oggi sia aʼ golosi di qualunque piú morbido pane; le mele salvatiche, le castagne, i fichi, le noci e mille spezie di frutti, deʼ quali cosí come spontanei producitori erano gli alberi, cosí similemente liberalissimi donatori. Erano, oltre a ciò, le radici dellʼerbe, lʼerbe medesime piene dʼinfiniti, salutevoli non men che dilettevoli, sapori; e le domestiche gregge delle pecore, delle capre, deʼ buoi prestavan loro abbondevolmente latte, carne, vestimenti e calzamenti, senza alcun servigio di beccaro, di sarto o di calzolaio; oltre a ciò, lʼapi, sollecito animale, senza alcuna ingiuria riceverne, amministravano a quegli i fiari pieni di mèle; e la loro naturale piú tosto che provocata sete saziavano le chiare fonti, i ruscelletti argentei e gli abbondantissimi fiumi. E a queste prime genti le recenti ombre deʼ pini, delle querce, degli olmi e degli altri arbori temperavano i calori estivi, e i grandissimi fuochi toglievan via la noia deʼ ghiacci, delle brine, delle nevi e dei freddi tempi; le spelunche deʼ monti, dalle mani della natura fabbricate, daʼ venti impetuosi e dalle piove gli difendeano, e sola la serenitá del cielo, e i fioriti e verdeggianti prati dilettavan gli occhi loro. Niun pensiero di guerra, di navicazione, di mercatanzia o dʼarte gli stimolava; ciascuno era contento in quel luogo finir la vita, dove cominciata lʼavea. Niuno ornamento appetivano, niuna quistione aveano, né era tra loro bomere, né falce, né coltello, né lancia. I loro esercizi erano intorno aʼ giuochi pastorali o in conservar le greggi, delle quali alcun comodo si vedeano. Era in queʼ tempi la pudicizia delle femmine salva e onorata; la vita in ciascuna sua parte sobria e temperata e, senza alcuno aiuto di medico o di medicina, sana; lʼetá deʼ giovani robusta e solida, e la vecchiezza deʼ lor maggiori venerabile e riposata. Non si sapeva che invidia si fosse, non avarizia, non malizia o falsitá alcuna, ma santa e immaculata semplicitá neʼ petti di tutti abitava; per che meritamente, secondo che i poeti questa etá discrivono, «aurea» si potea chiamare.

Ma, poi che, per suggestion diabolica, sí come io credo, cominciò tacitamente neʼ cuori dʼalcuni ad entrare lʼambizione, e[186] quinci il disiderio di trascendere a piú esquisita vita, venne Cerere, la quale appo Eleusia e in Sicilia prima mostrò il lavorío della terra, il ricogliere il grano e fare il pane: Bacco recò dʼIndia il mescolare il vino col mèle, e fare i beveraggi piú dilicati che lʼusato; e con appetito non sobrio, come il passato, furon cominciate a gustare le cortecce degli alberi indiani, le radici eʼ sughi di certe piante, e quelle a mescolare insieme, e a confondere nel mèle i sapori naturali, e a trovare gli accidentali con industria: furono incontanente avute in dispregio le ghiande. Similmente, avendo alcuni, in lor danno divenuti ingegnosi, trovato modo di tirare in terra con reti i gran pesci del mare, e di ritenere neʼ boschi le fiere, e ancora dʼingannare gli uccegli del cielo; furon da parte lasciati i lacciuoli e gli ami, e la terra riposatasi lungamente, cominciata a fendere, e ʼl mare a solcar daʼ navili, e portare dʼun luogo in un altro, e recare, i viziosi princípi: si mutaron con esercizi gli animi. E giá in gran parte, sí come piú atta a ciò, Asia sí per gli artifici di Sardanapalo, re degli assiri, e sí per gli altrui, da questa dannosa colpa della gola, come lo ʼncendio suol comprender le parti circostanti, cosí lʼEgitto, cosí la Grecia tutta comprese, in tanto che giá non solamente neʼ maggiori, ma eziandio nel vulgo erano venuti i dilicati cibi e ʼl vino, e in ogni cosa lasciata lʼantica simplicitá. Ultimamente, sparto giá per tutto questo veleno, aglʼ italiani similmente pervenne; e credesi che di quello i primi ricevitori fossero i capovani, percioché né Quinzi né Curzi né Fabrizi né Papirii né gli altri questa ignominia sentivano; e giá era perfetta la terza guerra macedonica, e vinto Antioco magno, re dʼAsia e di Siria, da Scipione asiatico, quando primieramente il cuocere divenne, di mestiere, arte.

È intra ʼl mestiere e lʼarte questa differenza, che il mestiere è uno esercizio, nel quale niuna opera manuale, che dallo ʼngegno proceda, sʼadopera, sí come è il cambiatore, il quale nel suo esercizio non fa altro che dare danari per danari; o come era in Roma il cuocere aʼ tempi che io dico, neʼ quali si metteva la carne nella caldaia, e quel servo della casa, il quale era meno utile agli altri servigi, faceva tanto fuoco sotto la caldaia,[187] che la carne diveniva tenera a poterla rompere e tritar coʼ denti. Arte è quella intorno alla quale non solamente lʼopera manuale, ma ancora lo ʼngegno e la ʼndustria dellʼartefice sʼadopera, sí come è il comporre una statua, dove, a doverla proporzionare debitamente, si fatica molto lo ʼngegno; e sí come è il cuocere oggi, al quale non basta far bollir la caldaia, ma vi si richiede lʼartificio del cuoco, in fare che quel, che si cuoce, sia saporito, sia odorifero, sia bello allʼocchio, non abbia alcun sapore noioso al gusto, come sarebbe o troppo salato o troppo acetoso o troppo forte di spezie, o del contrario a queste; o sapesse di fumo o di fritto o di sapor simile, del quale il gusto è schifo.

Era dunque, al tempo di sopra detto, mestiere ancora il cuocere in Roma, in che appare la modestia e la sobrietá loro; ma, poi che le ricchezze eʼ costumi asiatichi vʼentrarono, con grandissimo danno del romano imperio, di mestiere, arte divenne; essendone, secondo che alcuni credono, inventore uno il quale fu appellato Apicio: e quindi si sparse per tutto, accioché i membri dal capo non fosser diversi; e non che le ghiande eʼ salvatichi pomi e lʼerbe o le fontane eʼ rivi fossero in dispregio avute, ma eʼ furono ancora poco prezzati i familiari irritamenti della gola: e per tutto si mandava per gli uccelli, per le cacciagioni, per li pesci strani, e quanto piú venien di lontano, tanto di quegli pareva piú prezzato il sapore. Né fu assai aʼ golosi miseri lʼavere i lacciuoli, le reti e gli ami tesi per tutto il mondo, alle cose le quali dovevano poter dilettare la gola ed empiere il ventre misero, ma diedero e dánno opera che nelle cose, le quali sé eʼ loro deono corrompere, fossero gli odori arabici, accioché, confortato il naso, e per lo naso il cerebro, lui rendessero piú forte allʼingiurie deʼ vapori surgenti dallo stomaco, e lʼappetito piú fervente al disiderio del consumare. Né furono ancora contenti aʼ cibi soli, ma dove lʼacqua solea salutiferamente spegner la sete, trovati infiniti modi dʼaccenderla, a dileticarla non a consumarla, varie e molte spezie di vini hanno trovate; e, non bastando i sapori vari che la varietá deʼ terreni e delle regioni danno loro, ancora con misture varie gli trasformano in varie spezie di sapore e di colore. E, accioché[188] piú lungo spazio prender possano ad empiere il tristo sacco, hanno introdotto che neʼ triclini, nelle sale, alle mense sieno intromessi i cantatori, i sonatori, i trastullatori e i buffoni, e, oltre a ciò, mille maniere di confabulazioni neʼ lor conviti, accioché la sete non cessi. Se i familiari ragionamenti venisser meno, si ragiona, come Iddio vuole, in che guisa il cielo si gira, delle macchie del corpo della luna, della varietá degli elementi; e da questi subitamente si trasvá alle spezie deʼ beveraggi che usano glʼindiani, alle qualita deʼ vini che nascono nel Mar maggiore, al sapore degli spagnuoli, al colore deʼ galli, alla soavitá deʼ cretici: né passa intera alcuna novelletta di queste, che rinfrescare i vini eʼ vasi non si comandi. Ed è tanto questa maladizione di secolo in secolo, dʼetá in etá perseverata e discesa, che infino aʼ nostri tempi, con molte maggior forze che neʼ passati, è pervenuta; e, secondo il mio giudicio, dove che abbia ella molto potuto, o molto possa, alcuno luogo non credo che sia, dove ella con piú fervore eserciti, stimoli e vinca gli appetiti, che ella fa appo i toscani; e forse non men che altrove appo i nostri cittadini nel tempo presente. Con dolore il dico: e, se lʼautore non avesse solamente Ciacco, nostro cittadino, essere dannato per questo vituperevol vizio, nominato, forse senza alcuna cosa dire del nostro esecrabile costume mi passerei. Questo, adunque, mi trae a dimostrare la nostra dannosa colpa, accioché coloro, li quali credono che dentro aʼ luoghi riposti delle lor case non passino gli occhi della divina vendetta, con meco insieme, e con gli altri, sʼavveggano e arrossino della disonestá la quale usano. Intorno a questo peccato, non quanto si converrebbe, ma pure alcuna cosa ne dirò.

È adunque in tanto moltiplicato e cresciuto appo noi, per quel che a me paia, lʼeccesso della gola, che quasi alcuno atto non ci si fa, né nelle cose publiche né nelle private, che a mangiare o a bere non riesca. [In questo i denari publici sono dagli uficiali publici trangugiati, lʼestorsioni dellʼarti e neʼ sindacati, il mobile deʼ debitori dovuto alle vedove e aʼ pupilli, le limosine lasciate aʼ poveri e alle fraternite, lʼesecuzioni testamentarie, le quistioni arbitrarie, e a qualunque altra pietosa[189] cosa, non solamente i laici, ma ancora li religiosi divorano.] E questo miserabile atto non ci si fa come tra cittadino e cittadino far si solea, anzi è tanto dʼogni convenevolezza trapassato il segno, che gli apparati reali, le mense pontificali, gli splendori imperiali sono da noi stati lasciati a dietro; né ad alcuna, quantunque grande spesa, quantunque disutile, quantunque superba sia, si riguarda; ogni modo, ogni misura, ogni convenevolezza è pretermessa. Vegnono oggi neʼ nostri conviti le confezioni oltremarine, le cacciagioni transalpine, i pesci marini non dʼuna ma di molte maniere; e son di quegli, che, senza vergogna, dʼoro velano i colori delle carni, con vigilante cura e con industrioso artificio cotte. Lascio stare glʼintramessi, il numero delle vivande, [i savori] di sapori e di color diversissimi, e le importabili some deʼ taglieri carichi di vivande tra poche persone messi, le quali son tante e tali, che non dico i servidori, che le portano, ma le mense, sopra le quali poste sono, sotto di fatica vi sudano. Né è penna che stanca non fosse, volendo i trebbiani, i grechi, le ribole, le malvagíe, le vernacce e mille altre maniere di vini preziosi discrivere. E or volesse Iddio che solo aʼ principi della cittá questo inconveniente avvenisse; ma tanto è in tutti la caligine della ignoranza sparta, che coloro ancora, li quali e la nazione e lo stato ha fatti minori, queste medesime magnificenze, anzi pazzie, trovandosi il luogo da ciò, appetiscono e vogliono come i maggiori. In queste cosí oneste e sobrie commessazioni, o conviti che vogliam dire, come i ventri sʼempiano, come tumultuino gli stomachi, come fummino i cerebri, come i cuori infiammino, assai leggier cosa è da comprendere a chi vi vuole riguardare. In queste insuperbiscono i poveri, i ricchi divengono intollerabili, i savi bestiali; per le quali cose vi si tumultua, millantavisi, dicevisi male dʼogni uomo e di Dio; e talvolta, non potendo lo stomaco sostenere il soperchio, non altramente che faccia il cane, sozzamente si vòta quello che ingordamente sʼè insaccato; e in queste medesime cosí laudevoli cene sʼordina e solida lo stato della republica, diffinisconsi le quistioni, compongonsi lʼopportunitá cittadine e i fatti delle singular persone; ma il come,[190] nel giudicio deʼ savi rimanga. In queste si condanna e assolve cui il vino conforta, o cui lʼampiezza delle vivande aiuta o disaiuta: e coloro, aʼ quali i prieghi unti e spumanti di vino sono intercessori, procuratori o avvocati, le piú delle volte ottengono nelle lor bisogne.

Che fine questo costume si debba avere, Iddio il sa; credo io che egli da esso molto offeso sia.

Ma, che che esso alle misere anime sʼapparecchi nellʼaltra vita, è assai manifesto lui aʼ corpi essere assai nocivo nella presente. Percioché, se noi vorrem riguardare, noi vedremo coloro, che lʼusano, essere per lo troppo cibo e per lo soperchio bere perduti del corpo, e innanzi tempo divenir vecchi; perdoché il molto cibo vince le forze dello stomaco, intanto che, non potendo cuocere ciò che dentro cacciato vʼè per conforto del non ordinato appetito e dal diletto del gusto, convien che rimanga crudo, e questa crudezza manda fuori rutti fiatosi, tiene afflitti i miseri che la intrinseca passion sentono, raffredda e contrae i nervi, corrompe lo stomaco, genera umori putridi; i quali, per ogni parte del corpo col sangue corrotto trasportati, debilitan le giunture, creano le podagre, fanno lʼuom paralitico, fanno gli occhi rossi, marcidi e lagrimosi, il viso malsano e di cattivo colore, le mani tremanti, la lingua balbuziente, i passi disordinati, il fiato odibile e fetido; senza che essi, e meritamente e senza modo, tormentano il fianco di questi miseri che nel divorare si dilettano. Per le quali passioni i dolenti spesse volte gridano, bestemmiano, urlano e abbaiano come cani. Cosí adunque la rozza sobrietá, la rustica simplicitá, la santa onestá degli antichi, le ghiande, le fontane, gli esercizi e la libera vita è permutata in cosí dissoluta ingluvie, ebrietá e tumultuosa miseria, come dimostrato è. Per che possiam comprendere lʼautore sentitamente aver detto: «la dannosa colpa della gola»; la quale ancora piú dannosa cognosceremo, se guarderemo e aʼ publici danni e aʼ privati, deʼ quali ella è per lo passato stata cagione.

I primi nostri padri, sí come noi leggiamo nel principio del Genesi, gustarono del legno proibito loro da Dio, e per questo[191] da lui medesimo furon cacciati del paradiso, e noi con loro insieme; e, oltre a ciò, per questo a sé e a noi procurarono la temporal morte e lʼeterna, se Cristo stato non fosse. Esaú per la ghiottornia delle lenti, le quali, tornando da cacciare, vide a Iacob suo fratello, perdé la sua primogenitura. Ionatas, figliuolo di Saul re, per lʼavere con la sommitá dʼuna verga, la quale aveva in mano, gustato dʼun fiaro di mèle, meritò che in lui fosse la sentenza della morte dettata. Certi sacerdoti, per aver gustati i sacrifici della mensa di Bel, furono il dí seguente tutti uccisi. E quel ricco del quale noi leggiamo nello Evangelio, il qual continuo splendidamente mangiava, fu seppellito in inferno. Come i troiani si diedono in sul mangiare e in sul bere e in far festa, cosí furon daʼ greci presi; e quel, che lʼarme e lʼassedio sostenuto dieci anni non avean potuto fare, feciono i cibi e ʼl vino dʼuna cena. I figliuoli di Iob, mangiando e bevendo con le lor sorelle, furon dalla ruina delle lor medesime case oppressi e morti. La robusta gente dʼAnnibale, la quale né il lungo cammino, né i freddi dellʼAlpi, né lʼarmi deʼ romani non avean mai potuto vincere, daʼ cibi e dal vino deʼ capovani furono effeminati, e poi molte volte vinti e uccisi. Noé, avendo gustato il vino e inebriatosi, fu nel suo tabernacolo da Cam, suo figliuolo, veduto disonestamente dormire e ischernito. Lot, per avere men che debitamente bevuto, ebbro fu dalle figliuole recato a giacer con loro. Sisara, bevuto il latte di mano di Iabel e addormentatosi, fu da lei, con uno aguto fittogli per le tempie, ucciso. Leonida spartano ebbe, tutta una notte e parte del seguente dí, spazio di uccidere e di tagliare insieme coʼ suoi compagni lʼesercito di Serse, seppellito nel vino e nel sonno. Oloferne, avendo molto bevuto, diede ampissimo spazio dʼuccidersi a Iudit. E le figliuole di Prito, re degli argivi, per lo soperchio bere vennero in tanta bestialitá, che esse estimavano dʼessere vacche.

Ma, perché mi fatico io tanto in discrivere i mali per la gola stati, conciosiacosaché io conosca quegli essere infiniti? E perciò riducendosi verso la finale intenzione, come assai comprender si puote per le cose predette, tre maniere son di golosi.[192] Delli quali lʼuna pecca nel disordinato diletto di mangiare i dilicati cibi senza saziarsi; e questi son simili alle bestie, le quali senza intermissione, sol che essi trovin che, il dí e la notte rodono. E di questi cotali, quasi come di disutili animali, si dice che essi vivono per manicare, non manucan per vivere; e puossi dire questa spezie di gulositá, madre di oziositá e di pigrizia, sí come quella che ad altro che al ventre non serve. La seccnda pecca nel disordinato diletto del bere, intorno al quale non solamente con ogni sollecitudine cercano i dilicati e saporosi vini, ma quegli, ogni misura passando, ingurgitano, non avendo riguardo a quello che contro a questo nel Libro della Sapienza ammaestrati siamo, nel quale si legge: «Ne intuearis vinum, cum flavescit in vitro color eius: ingreditur blande, et in novissimo mordebit, ut coluber». Per la qual cosa, di questa cosí fatta spezie di gulosi maravigliandosi, Iob dice: «Numquid potest quis gustare, quod gustatum affert mortem?» Né è dubbio alcuno la ebrietá essere stata a molti cagione di vituperevole morte, come davanti è dimostrato. È questa gulositá madre della lussuria, come assai chiaramente testifica Ieremia, dicendo: «Venter mero aestuans, facile despumat in libidinem»; e Salomon dice: «Luxuriosa res est vinum, et tumultuosa ebrietas; quicumque in his delectabitur, non erit sapiens»; e san Paolo, volendoci far cauti contro alla forza del vino, similmente ammaestrandoci, dice: «Nolite inebriari vino, in quo est luxuria». È ancora questa spezie di gulositá pericolosissima, in quanto ella, poi che ha il bevitore privato dʼogni razional sentimento, apre e manifesta e manda fuori del petto suo ogni secreto, ogni cosa riposta e arcana: di che grandissimi e innumerabili mali giá son seguiti e seguiscono tutto il dí. Ella è prodiga gittatrice deʼ suoi beni e degli altrui, sorda alle riprensioni, e dʼogni laudabile costume guastatrice. La terza maniera è deʼ golosi, li quali, in ciascheduna delle predette cose, fuori dʼogni misura bevendo e mangiando e agognando, trapassano il segno della ragione; deʼ quali si può dire quella parola di Iob: «Bibunt indignationem, quasi aquam». Ma, secondo che si legge nel salmo: «Amara erit potio bibentibus illam»; e come Seneca a Lucillo scrive nella[193] ventiquattresima epistola: «Ipsae voluptates in tormentum vertuntur; epulae cruditatem afferunt; ebrietates, nervorum torporem, tremoremque; libidines, pedum et manuum, et articulorum omnium depravationes» ecc. Questi adunque tutti ingluviatori, ingurgitatori, ingoiatori, agognatori, arrappatori, biasciatori, abbaiatori, cinguettatori, gridatori, ruttatori, scostumati, unti, brutti, lordi, porcinosi, rantolosi, bavosi, stomacosi, fastidiosi e noiosi a vedere e a udire, uomini, anzi bestie, pieni di vane speranze sono; vòti di pensieri laudevoli e strabocchevoli neʼ pericoli, gran vantatori, maldicenti e bugiardi, consumatori delle sustanzie temporali, inchinevoli ad ogni dissoluta libidine e trastullo deʼ sobri. E, percioché ad alcuna cosa virtuosa non vacano, ma se medesimi guastano, non solamente aʼ sensati uomini, ma ancora a Dio sono tanto odiosi, che, morendo come vivuti sono, ad eterna dannazione son giustamente dannati; e, secondo che lʼautor ne dimostra, nel terzo cerchio dello ʼnferno della loro scellerata vita sono sotto debito supplicio puniti. Il quale, accioché possiamo discernere piú chiaro come sia con la colpa conforme, nʼè di necessitá di dimostrare brievemente.

Dice adunque lʼautore che essi giacciono sopra il suolo della terra marcio, putrido, fetido e fastidioso, non altrimenti che ʼl porco giaccia nel loto, e quivi per divina arte piove loro sempre addosso «grandine grossa e acqua tinta e neve», la quale, essendo loro cagione di gravissima doglia, gli fa urlare non altrimenti che facciano i cani: e, oltre a ciò, se alcuno da giacer si lieva o parla, giace poi senza parlare o urlare infino al dí del giudicio; e, oltre a ciò, sta loro in perpetuo sopra capo un demonio chiamato Cerbero, il quale ha tre teste e altrettante gole, né mai ristá dʼabbaiare. E ha questo dimonio gli occhi rossi e la barba nera ed unta, e il ventre largo, e le mani unghiate, e, oltre allʼabbaiare, graffia e squarcia e morde i miseri dannati, li quali, udendo il suo continuo abbaiare, disiderano dʼessere sordi. La qual pena spiacevole e gravosa, in cotal guisa pare che la divina giustizia abbia conformata alla colpa: e primieramente come essi, oziosi e gravi del cibo e del vino, col ventre pieno giacquero in riposo del cibo ingluviosamente preso; cosí pare[194] convenirsi che, contro alla lor voglia, in male e in pena di loro, senza levarsi giacciano in eterno distesi, col loro spesso volgersi testificando i dolorosi movimenti, li quali per lo soperchio cibo giá di diverse torsioni lor furon cagione. E, come essi di diversi liquori e di vari vini il misero gusto appagarono; cosí qui sieno da varie qualitá di piova percossi ed afflitti: intendendo per la grandine grossa, che gli percuote, la cruditá deglʼindigesti cibi, la quale, per non potere essi, per lo soperchio, dallo stomaco esser cotti, generò neʼ miseri lʼaggroppamento deʼ nervi nelle giunture; e per lʼacqua tinta, non solamente rivocare nella memoria i vini esquisiti, il soperchio deʼ quali similmente generò in loro umori dannosi, i quali per le gambe, per gli occhi e per altre parti del corpo sozzi e fastidiosi vivendo versarono; e per la neve, il male condensato nutrimento, per lo quale non lucidi ma invetriati, e spesso di vituperosa forfore divennero per lo viso macchiati. E, cosí come essi non furono contenti solamente alle dilicate vivande, né aʼ savorosi vini, né eziandio aʼ salsamenti spesso escitanti il pigro e addormentato appetito, ma gli vollero dallʼindiane spezie e dalle sabee odoriferi; vuole la divina giustizia che essi sieno dal corrotto e fetido puzzo della terra offesi, e abbiano, in luogo delle mense splendide, il fastidioso letto che lʼautore discrive. E appresso, come essi furono detrattori, millantatori e maldicenti, cosí siano a perpetua taciturnitá costretti, fuor solamente di tanto che, come essi, con gli stomachi traboccanti e con le teste fummanti, non altramenti che cani abbaiar soleano, cosí urlando come cani la loro angoscia dimostrino, e abbian sempre davanti Cerbero, il quale ha qui a disegnare il peccato della gola, accioché la memoria e il rimprovero di quella nelle lor coscienze gli stracci, ingoi e affligga; e, in luogo della dolcezza deʼ canti, li quali neʼ lor conviti usavano, abbiano il terribile suono delle sue gole, il quale glʼintuoni, e senza pro gli faccia disiderare dʼesser sordi.

Ma resta a vedere quello che lʼautor voglia intendere per Cerbero, la qual cosa sotto assai sottil velo è nascosa. Cerbero, come altra volta è stato detto, fu cane di Plutone, re dʼinferno,[195] e guardiano della porta di quello; in questa guisa, che esso lasciava dentro entrar chi voleva, ma uscirne alcun non lasciava. Ma qui, come detto è, lʼautore discrive per lui questo dannoso vizio della gola, al quale intendimento assai bene si conforma lʼetimologia del nome. Vuole, secondo che piace ad alcuni, tanto dir «Cerbero», quanto «creon vorans», cioè «divorator di carne»; intorno alla qual cosa, come piú volte è detto di sopra, in gran parte consiste il vizio della gola; e per ciò in questo dimonio piú che in alcun altro il figura, perché egli è detto «cane», percioché ogni cane naturalmente è guloso, né nʼè alcuno che se troverá da mangiare cosa che gli piaccia, che non mangi tanto che gli convien venire al vomito, come di sopra è detto spesse volte fare i gulosi.

Per le tre gole canine di questo cane intende lʼautore le tre spezie deʼ ghiotti poco davanti disegnate; e in quanto dice questo demonio caninamente latrare, vuole esprimere lʼuno deʼ due costumi, o amenduni deʼ gulosi. Sono i gulosi generalmente tutti gran favellatori, e ʼl piú in male, e massimamente quando sono ripieni: il quale atto veramente si può dire «latrar canino», in quanto non espediscon bene le parole, per la lingua ingrossata per lo cibo, e ancora perché alquanto rochi sono per lo meato della voce, il piú delle volte impedito da troppa umiditá; e, oltre a ciò, percioché i cani, se non è o per esser battuti, o perché veggion cosa che non par loro amica, non latran mai; il che avviene spesse volte deʼ gulosi, li quali come sentono o che impedimento sopravvegna, o che veggano per caso diminuire quello che essi aspettavano di mangiare, incontanente mormorano e latrano. E, oltre a questo, sono i gulosi grandi agognatori: e, come il cane guarda sempre piú allʼosso che rode il compagno che a quello che esso medesimo divora, cosí i gulosi tengono non meno gli occhi aʼ ghiotti bocconi che mangia il compagno, o a quegli che sopra i taglieri rimangono, che a quello il quale ha in bocca: e cosí sono addomandatori e ordinatori di mangee e divisatori di quelle.

E in quanto dice questo dimonio aver gli occhi vermigli, vuol sʼintenda un degli effetti della gola neʼ golosi, aʼ quali,[196] per soperchio bere, i vapor caldi surgenti dallo stomaco generano omóri nella testa, li quali poi per gli occhi distillandosi, quegli fa divenir rossi e lagrimosi.

Appresso dice lui aver la barba unta, a dimostrare che il molto mangiare non si possa fare senza difficultá nettamente, e cosí, non potendosi, è di necessita ugnersi la barba o ʼl mento o ʼl petto; e per questa medesima cagione vuole che la barba di questo dimonio sia nera, percioché ʼl piú ogni unzione annerisce i peli, fuorché i canuti. Potrebbesi ancora qui piú sottilmente intendere e dire che, conciosiacosaché per la barba sʼintenda la nostra virilitá, la quale, quantunque per la barba sʼintenda, non perciò consiste in essa, ma nel vigore della nostra mente, il quale è tanto quanto lʼuomo virtuosamente adopera, e allora rende gli operatori chiari e splendidi e degni di onore; dove qui, per la virilitá divenuta nera, vuole lʼautore sʼintenda nella colpa della gola quella essere depravata e divenuta malvagia.

Dice, oltre a ciò, Cerbero avere il ventre largo, per dimostrare il molto divorar deʼ gulosi, li quali, con la quantitá grande del cibo, per forza distendono e ampliano il ventre, che ciò riceve oltre alla natura sua; e, che è ancora molto piú biasimevole, tanto talvolta dentro vi cacciano, che, non sostenendolo la grandezza del tristo sacco, sono, come altra volta di sopra è detto, come i cani costretti a gittar fuori.

E, in quanto dice questo demonio avere le mani unghiate, vuoi che sʼintenda il distinguere e il partire che fa il ghiotto delle vivande; e, oltre a questo, il pronto arrappare, quando alcuna cosa vede che piú che alcuna altra gli piaccia.

Appresso, dove lʼautor dice questo demonio non tener fermo alcun membro, vuol che sʼintenda la infermitá paralitica, la quale neʼ gulosi si genera per li non bene digesti cibi nello stomaco; o, secondo che alcuni altri vogliono, neʼ bevitori per lo molto bere, e massimamente senzʼacqua, ed essendo lo stomaco digiuno; e puote ancora significare glʼincomposti movimenti dellʼebbro.

Oltre a ciò, lá dove lʼautore scrive che questo demonio, come gli vide, aperse le bocche e mostrò loro le sanne, vuol[197] discrivere un altro costume deʼ gulosi, li quali sempre vogliosi e bramosi si mostrano; o intendendo per la dimostrazion delle sanne, nelle quali consiste la forza del cane, dimostrarsi subitamente la forza deʼ golosi, la qual consiste in offendere i paurosi con mordaci parole, alle quali fine por non si puote se non con empiergli la gola, cioè col dargli mangiare o bere. La qual cosa il discreto uomo, consigliato dalla ragione, per non avere a litigar della veritá con cosí fatta gente, fa prestamente, volendo piú tosto gittar via quello che al ghiotto concede che, come è detto, porsi in novelle con lui: percioché, come questo è dal savio uomo fatto, cosí è al ghiotto serrata la gola e posto silenzio. E in questo pare che si termini in questo canto lʼallegoria.


[198]
[199]

CANTO SETTIMO

I

Senso Letterale

[Lez. XXVI]

—«Papé Satan, papé Satan aleppe»,—ecc. Nel presente canto lʼautore, sí come è usato neʼ passati, continuandosi alle cose precedenti, dimostra primieramente come nel quarto cerchio dello ʼnferno discendesse; e poi, vicino alla fine del canto, dimostra come discendesse nel quinto, discrivendo quali colpe e nellʼun cerchio e nellʼaltro si puniscano. E dividesi questo canto in due parti principali: nella prima mostra lʼautore esser puniti gli avari eʼ prodighi; nella seconda mostra esser puniti glʼiracondi e gli accidiosi. E comincia la seconda quivi: «Or discendiamo ornai a maggior pièta». La prima parte si divide in tre: nella prima, continuandosi alle cose precedenti, mostra come trovò Plutone, e come da Virgilio fosse la sua rabbia posta in pace; nella seconda discrive qual pena avessero i peccatori nel quarto cerchio, e chi eʼ fossero; nella terza dimostra che cosa sia questa che noi chiamiamo «fortuna». La seconda comincia quivi: «Cosí scendemmo»; la terza quivi:—«Maestro,—dissʼio lui».

Dice adunque che avendo, come nella fine del precedente canto dimostra, trovato Plutone, «il gran nemico», che esso Plutone, come gli vide, admirative cominciò a gridare, ed a invocare il prencipe deʼ dimòni, dicendo:—«Papé».

[200]

Questo vocabolo è adverbium admirandi, e perciò, quando dʼalcuna cosa ci maravigliamo, usiamo questo vocabolo dicendo: «papé!». E da questo vocabolo si forma il nome del sommo pontefice, cioè «papa», lʼautoritá del quale è tanta, che neʼ nostri intelletti genera ammirazione; e non senza cagione, veggendo in uno uomo mortale lʼautoritá divina, e di tanto signore, quanto è Iddio, il vicariato. E i greci ancora chiamavano i lor preti «papas», quasi «ammirabili»: e ammirabili sono, in quanto possono del pane e del vino consecrare il corpo e ʼl sangue del nostro signor Gesú Cristo; e, oltre a ciò, hanno autorità di sciogliere e di legare i peccatori che da loro si confessano delle lor colpe, sí come piú pienamente si dirá nel Purgatorio, alla porta del quale siede il vicario di san Pietro.

«Satán». Sátan e Sátanas sono una medesima cosa, ed è nome del prencipe deʼ demòni, e suona tanto in latino, quanto «avversario» o «contrario» o «trasgressore», percioché egli è avversario della veritá, e nemico delle virtú deʼ santi uomini; e similmente si può vedere lui essere stato trasgressore, in quanto non istette fermo nella veritá nella quale fu creato, ma per superbia trapassò il segno del dover suo.

«Papé Satán». Questa iterazione delle medesime parole ha a dimostrare lʼammirazione esser maggiore.

E seguita: «aleppe». «Alep» è la prima lettera dellʼalfabeto deʼ giudei, la quale egli usano a quello che noi usiamo la prima nostra lettera, cioè «a»; ed è «alep» appo gli ebrei adverbium dolentis; e questo significato dicono avere questa lettera, percioché è la prima voce la quale esprime il fanciullo come è nato, a dimostrazione che egli sia venuto in questa vita, la quale è piena di dolore e di miseria.

Maravigliasi adunque Plutone, sí come di cosa ancora piú non veduta, cioè che alcun vivo uomo vada per lo ʼnferno; e, temendo questo non sia in suo danno, invoca quasi come suo aiutatore il suo maggiore; e, accioché egli il renda piú pronto al suo aiuto, si duole. O vogliam dire, seguendo le poetiche dimostrazioni, Plutone, ricordandosi che Teseo con Piritoo vivi discesero in inferno a rapire Proserpina, reina di quello, e poi,[201] dopo loro, Ercule; e questo essere stato in danno e del luogo e degli uficiali di quello: veggendo lʼautor vivo, né temer deʼ dimòni, ad unʼora si maraviglia e teme, e però admirative, e dolendosi, chiama il prencipe suo.

«Cominciò Pluto», (supple) a dire o a gridare, «con la voce chioccia», cioè non chiara né espedita, come il piú fanno coloro i quali da sùbita maraviglia sono soprappresi. E, oltre a ciò, cominciò Pluto a gridare per ispaventar lʼautore, sí come neʼ cerchi superiori si son sforzati Minos e Cerbero nellʼentrata deʼ detti cerchi, accioché per quel gridare il ritraesse di procedere avanti e dal dare effetto alla sua buona intenzione.

[Ma, innanzi che piú oltre si proceda, è da sapere che, secondo che i poeti dicono, Plutone, il quale i latini chiamano Dispiter, fu figliuolo di Saturno e di Opis, e nacque ad un medesimo parto con Glauco. E, secondo che Lattanzio dice, egli ebbe nome Agelasto; e, secondo dice Eusebio in libro Temporum, il nome suo fu Aidoneo. Fu costui dagli antichi chiamato re dʼinferno, e la sua real cittá dissero essere chiamata Dite, e la sua moglie dissero essere Proserpina. Leon Pilato diceva essere stato un altro Pluto, figliuolo di Iasonio e di Cerere: deʼ quali quantunque qui siano assai succintamente le fizioni descritte, se elle non si dilucidano, non apparirá perché lʼautore qui questo Pluto introduca: ma, percioché piú convenientemente pare che si debbano lá dove lʼaltre allegorie si parranno, quivi le riserberemo, e diffusamente con la grazia di Dio lʼapriremo.]

«E quel savio gentil, che tutto seppe», cioè Virgilio, [il qual veramente quanto allʼarti e scienze mondane appartiene, tutto seppe: percioché, oltre allʼarti liberali, egli seppe filosofia morale e naturale, e seppe medicina; e, oltre a ciò, piú compiutamente che altro uomo aʼ suoi tempi seppe la scienza sacerdotale, la quale allora era in grandissimo prezzo;] «Disse, per confortarmi:—Non ti noccia La sua paura», la quale egli o mostra dʼavere in sé, o vuol mettere in te di sé; e dove della paura di Plutone dica, vuol mostrare lʼautore per ciò esser da Virgilio confortato, peroché generalmente ogni fiero animale si suol[202] muovere a nuocere piú per paura di sé che per odio che abbia della cosa contro alla qual si muove; e deesi qui intender la paura di Plutone esser quella della quale poco avanti è detto: «ché poter chʼegli abbia, Non riterrá lo scender questa roccia»,—cioè questo balzo.

«Poi si rivolse a quella enfiata», superba, «labbia», cioè aspetto, «E disse:—Taci, maledetto lupo»; per ciò il chiama «lupo», accioché sʼintenda per lui il vizio dellʼavarizia, al quale è preposto: il qual vizio meritamente si cognomina «lupo», sí come di sopra nel primo canto fu assai pienamente dimostrato; «Consuma dentro te con la tua rabbia», la quale continuamente, con inestinguibile ardore di piú avere, ti sollecita e infesta. «Non è senza cagion lʼandare», di costui, «al cupo», cioè al profondo inferno, vedendo: «Vuolsi», da Dio chʼegli vada, «nellʼalto», cioè in cielo, «lá dove Michele», arcangelo, «Feʼ la vendetta del superbo strupo»,—cioè del Lucifero, il quale, come nellʼApocalissi si legge, fu da questo angelo cacciato di paradiso, insieme coʼ suoi seguaci. E chiamalo «strupo», quasi violatore col suo superbo pensiero della divina potenza, alla quale mai piú non era stato chi violenza avesse voluto fare: per che pare lui con la sua superbia quello nella deitá aver tentato, che nelle vergini tentano gli strupatori.

«Quali». Qui per una comparazione dimostra lʼautore come la rabbia di Plutone vinta cadesse, dicendo che «Quali dal vento», soperchio, «le gonfiate vele», cioè che come le vele gonfiate dal vento soperchio, «Caggiono avvolte» e avviluppate, «poi che lʼalber fiacca», cioè lʼalbero della nave fiacca per la forza del vento impetuoso, «Tal cadde a terra la fiera crudele», cioè Plutone.

«Cosí scendemmo». Qui comincia la seconda parte della prima di questo canto, nella quale lʼautore dimostra qual pena abbiano i peccatori, li quali in questo quarto cerchio si puniscono, e chi essi sieno; e dice: «Cosí», vinta e abbattuta la rabbia di Plutone, «scendemmo nella quarta lacca», cioè parte dʼinferno, cosí dinominandola per consonare alla precedente e alla seguente rima: «Pigliando piú della dolente ripa», cioè[203] mettendoci piú infra essa che ancora messi ci fossimo; e, accioché di qual ripa dica sʼintenda, segue: «Che ʼl mal», cioè le colpe e i peccati, «dellʼuniverso», di tutto il mondo, «tutto insacca», cioè in sé insaccato riceve.

Ed esclamando segue: «Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa Nuove travaglie?». Vuolsi questa lettera intendere interrogative e con questo ordine: «Ahi giustizia di Dio, Chi stipa», cioè ripone, «tante nuove travaglie e pene», cioè diversi tormenti e noie, «quante io viddi» in questo luogo? «E per che», cioè per le quali, «nostra colpa», cioè il nostro male adoperare peccando, «se ne scipa»? cioè se ne confonde e guasta e attrita, o in noi vivi temendo di quella pena, o neʼ morti dannati che quella sostengono. E vuole in queste parole mostrar lʼautore di maravigliarsi per la moltitudine.

Poi per una comparazion ne dimostra che maniera tengono in quel luogo i peccatori nel tormento lor dato dalla giustizia, e dice: «Come fa lʼonda», del mare, «lá sovra Cariddi», cioè nel fare di Messina. Intorno alla qual cosa è da sapere che tra Messina in Cicilia e una punta di Calavria, chʼè di rincontro ad essa, chiamata Capo di Volpe, non guari lontana ad una terra chiamata Catona e a Reggio, è uno stretto di mare pericolosissimo, il quale non ha di largo oltre a tre miglia, chiamato il fare di Messina. E dicesi «fare» da «pharos», che tanto suona in latino quanto «divisione»; e per ciò è detto «divisione», perché molti antichi credono giá che lʼisola di Cicilia fosse congiunta con Italia, e poi per tremuoti si separasse il monte chiamato Peloro di Cicilia dal monte Appennino, il quale è in Italia, e cosí quella che era terraferma, si facesse isola. E sono deʼ moderni alcuni li quali affermano ciò dovere essere stato vero: e la ragione, che a ciò inducono, è che dicono vedersi manifestamente, in quella parte di questi due monti che si spartí, grandissime pietre nelle rotture loro essere corrispondenti, cioè quelle dʼAppennino a quelle che sono in Peloro, ed e converso. E, come di sopra è detto, questo mare cosí stretto è impetuosissimo e pericolosissimo molto: e la ragione è, percioché, quando avviene che venti marini traggano [come è libeccio e[204] ponente, e ancora maestro, che non è marino], essi sospingono il mare impetuosamente verso questo fare, e per questo fare verso il mare di Grecia. E, se allora avviene che il mare di verso Grecia, per lo flottare del mare Oceano, il quale due volte si fa ogni dí naturale, [che sospignendo la forza deʼ venti marini il mare verso la Grecia, ed il mare per lo flotto] si ritragga in verso il mare Mediterraneo, scontrandosi questi due movimenti contrari, con tanta forza si percuotono e rompono, che quasi infino al cielo pare che le rotte onde ne vadino: e qual legno in quel punto vi sʼabbattesse ad essere, niuna speranza si può aver della sua salute: [e cosí ancora sospignendo i venti orientali, cioè il greco, levante e scilocco, il mare di Grecia verso il fare, e per quello verso il mare Tirreno e il flotto mettendosi, avvien quel medesimo che dinanzi è detto]. E questo è quello che lʼautore vuol dire: «Come fa lʼonda..., Che si frange con quella in cui sʼintoppa». [E sono in questo mare due cose mostruose, delle quali lʼuna ciò che davanti le si para trangugia, e questo si chiama Silla, ed è dalla parte dʼItalia; lʼaltra si chiama Cariddi, e questa gitta fuori ciò che Silla ha trangugiato; ma, secondo il vero, questa Cariddi, la quale è di verso Cicilia, è il luogo dove di sopra dissi lʼonde scontrarsi insieme, le quali, levandosi in alto per lo percuotersi, par che sieno del profondo gittate fuori da coloro che non veggiono la cagione della elevazione.]

Dice adunque lʼautore che, in quella guisa, che di sopra è mostrato, le due onde di due diversi mari si scontrano, cosí quivi due maniere di diverse genti o peccatori convenirsi scontrare. E questo intende in quanto dice: «Cosí conviene che qui», cioè in questo quarto cerchio, «la gente riddi», cioè balli, e, volgendo, come i ballatori, in cerchio, vengano impetuosamente a percuotersi, come fanno lʼonde predette.

«Lí», nel quarto cerchio, «vidʼio gente, piú chʼaltrove, troppa»; e di questo non si dee alcun maravigliare, percioché pochi son quelli che in questo vizio, che quivi si punisce, non pecchino. E poi dice a qual tormento questa gente cotanta è dannata, dicendo: «E dʼuna parte e dʼaltra con grandʼurli»,[205] cioè a destra e a sinistra, miseramente per la fatica e per lo dolore urlando, sí come appresso piú chiaro si dimostrerá, «Voltando pesi» gravissimi «per forza di poppa», cioè del petto (ponendo qui la parte per lo tutto), «Percotevansi incontro», cioè lʼun contro allʼaltro con questi pesi, li quali per forza voltavano, «e poscia», che percossi sʼerano, «pur lí», cioè in quello medesimo luogo, «Si rivolgea ciascun, voltando a retro», cioè per quel medesimo sentiero che venuti erano: in questo voltare, «Gridando», quegli dellʼuna parte incontro allʼaltra:—«Perché tieni?»;—e incontro a questa gridava lʼaltra:—«E perché burli?»—cioè getti via. «Cosi tornavan», come percossi sʼerano e avean gridato, «per lo cerchio tetro».

Appare per queste parole che ʼl viaggio di costoro era circulare, e che, venuta lʼuna parte dal mezzo del cerchio nella parte opposita, scontrava lʼaltra parte, la quale, partitasi dal medesimo termine che essi, era giá giunta, e quivi percossisi, e dette lʼun contro allʼaltro le parole di sopra dette, ciascuna parte si rivolgeva indietro, e veniva al punto del cerchio donde prima partita sʼera; e quivi ancora con lʼaltra, che in una medesima ora vi pervenía, si percotevano, e quelle medesime parole lʼun contro allʼaltro diceano; e cosí senza riposo continovavano questa loro angoscia, volgendosi «per lo cerchio tetro», cioè logoro per lo continuo scalpitio.

«Da ogni mano», da destra e da sinistra, nella guisa detta, andavano «allʼopposito punto» del cerchio, a quello onde partiti sʼerano, «Gridandosi anco», come usati erano, «in loro ontoso», vituperevole, «metro», cioè:—«Perché tieni?—E perché burli?».—Il quale lʼautore chiama «metro», non perché metro sia, ma largamente parlando, come il piú volgarmente si fa, ogni orazione [o brieve o lunga] misurata o non misurata, è chiamata metro: e dicesi metro da «metros», graece, che in latino suona «misura»; e quinci, propriamente parlando, i versi poetici sono chiamati «metri», percioché misurati sono da alcuna misura, secondo la qualitá del verso.

«Poi si volgea ciascun», di questi che voltavano i pesi, «quandʼera giunto», al punto del mezzo cerchio, come di[206] sopra è detto, «Per lo suo mezzo cerchio», cioè per quel mezzo cerchio il quale a lui era dalla divina giustizia stabilito, «allʼaltra giostra», cioè percossa: e chiamala «giostra», percioché a similitudine deʼ giostratori sʼandavano a ferire e a percuotere insieme.

«Ed io, chʼavea lo cor quasi compunto», di compassione, la quale portava a tanta fatica e a tanto tormento, quanto quello era il quale nel percuotersi sofferivano. E, oltre a ciò, aveva la compunzione per lo vermine della coscienza, il quale il rodeva, cognoscendosi di questa colpa esser peccatore; il che esso assai chiaramente dimostra nel primo canto, dove dice il suo viaggio essere stato impedito dalla lupa, cioè dallʼavarizia. E in questo è da comprendere invano esser da noi conosciuti i vizi eʼ peccati, se, sentendoci inviluppati in quelli o poco o molto, noi non abbiam dolore e compunzione. Né osta il dire: come avea lʼautore compunzione dellʼessere avaro, che ancora, come nelle seguenti parole appare, non sapea chi essi si fossero? percioché qui usa lʼautore una figura chiamata «preoccupazione». «Dissi:—Maestro mio». Qui domanda lʼautore Virgilio che gente questa sia, e per qual colpa dannati, dicendo: «or mi dimostra, Che gente è questa», la quale è qui cosí dolorosamente afflitta; e dopo questo gli muove un altro dubbio, dicendo: e, oltre a quel che domandato tʼho, mi diʼ «e se tutti fûr cherci, Questi chercuti alla sinistra nostra».—«Chercuti» gli chiama, percioché avevano la cherica in capo, e da questo ancora comprendeva loro per quello dovere esser cherici.

«Ed egli a me». Qui Virgilio primieramente generalmente di quegli, che erano cosí a man destra come a man sinistra, ditermina; e poi, distinguendo, risponde alla domanda fattagli dallʼautore, e dicegli, oltre a ciò, per qual colpa dannati sieno, primieramente dicendo:—«Tutti quanti», cioè quanti tu ne vedi a destra e a sinistra, «fûr guerci», cioè con non diritto vedere, come color ci paiono, li quali non hanno le luci degli occhi dirittamente come gli altri uomini poste negli occhi. [Il qual difetto talora avviene per natura, e talora per accidente: per accidente avviene per difetto le piú delle volte delle balie, le[207] quali questi cotali, essendo piccioli fanciulli, hanno avuti a nodrire, ponendo loro la notte un lume di traverso o di sopra a quella parte ove tengon la testa; o esse medesime, come spesse volte fanno, stando loro sopra capo, glʼinducono a guatarsi indietro, e i fanciulli, vaghi della luce, torcono gli occhi, e sí in quella parte dove il lume veggono, e, non potendosi muovere, si sforzano e torcono le luci al lume; ed essendo tenerissimi, agevolmente rimuovono la luce, o le luci, dal lor natural movimento in questo accidentale, e divengon guerci. Questa spezie dʼuomini, quantunque non sia del tutto reputata giusta, non ha pertanto tanta di malizia quanta hanno coloro li quali guerci nascono, li quali, per quegli che fisonomia sanno, sono reputati uomini astuti, maliziosi e viziati, e il piú si credono non altrimenti avere il giudicio della mente lor fatto che essi abbiano gli occhi.]

E però dice:—«Tutti fûr guerci Sí della mente», cioè sí perverso e malvagio giudicio ebbero nella mente loro intorno alle cose temporali, «in la vita primaia», cioè in questa, «Che con misura nullo spendio fêrci», in questa vita: e ciò fu che o essi strinsero troppo le mani, lá dove esse eran da allargare, o essi lʼallargaron troppo, lá dove eran da strignere; e cosí né nellʼuna parte né nellʼaltra servarono alcuna misura, [liberalmente spendendo, dove e come e quanto e in cui si convenia]. «Assai la voce lor chiaro lʼabbaia», cioè il manifesta quando dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»,—usando questo vocabolo «abbaia» nellʼanime deʼ miseri in detestazion di loro, il quale è proprio deʼ cani; «Quando vengono aʼ due punti del cerchio» (mostrati di sopra, dove si dicono:—«Perché tieni?—E perché burli?»—), «Ove colpa contraria gli dispaia», cioè gli divide, facendogli tenere contrario cammino, sí come nelle colpe furon contrari. Le quali colpe vuole lʼautore che sien queste, avarizia e prodigalitá, delle quali lʼuna appresso egli apre, e lʼaltra per lʼaver detto «contraria» vuol che sʼintenda, e dice:

«Questi son cherci, che non han coperchio Peloso al capo», percioché la cherica, la quale è rasa, è nella superior parte del[208] capo. [E vogliono alcuni i cherici portare la cherica in dimostrazione e reverenza di san Piero, al quale dicono questi cotali quella essergli stata fatta da alcuni scellerati uomini in segno di pazzia: percioché, non intendendo, e non volendo intendere la sua santa dottrina, e vedendolo ferventemente predicare dinanzi aʼ prencipi e aʼ popoli, li quali quella in odio aveano, estimavano che egli questo facesse come uomo che fuor del senno fosse. Altri vogliono che la cherica si porti in segno di degnitá, in dimostrazione che coloro, li quali la portano, sieno piú degni che gli altri che non la portano; e chiamanla «corona», percioché, rasa tutta lʼaltra parte del capo, un sol cerchio di capelli vi dee rimanere, il quale in forma di corona tutta la testa circunda, come fa la corona. E chiamansi questi cotali, che questo cerchio portano, «clerici» da «cleros», graece, che in latino suona quanto «uomini la sorte deʼ quali sia Iddio».]

«E papi e cardinali». [È il papa in terra vicario di Gesú Cristo, dal quale, mediante san Piero, hanno lʼautoritá grandissima, la quale santa Chiesa ne predica; della quale autoritá, e in Purgatorio e in Paradiso, sí come in luoghi, dove piú convenientemente il richiede la materia che qui, si dirá, e perciò qui piú non mi stenderò. Onde questo nome papa venga, è poco avanti stato mostrato. «Cardinali» è sublime nome di degnitá; e, come che, oltre alla chiesa di Roma, abbiano la chiesa di Ravenna, quella di Napoli e alcune altre cherici, li quali si chiamano «cardinali», non sono però in preeminenza né in oficio né in abito da comparare a quegli della chiesa di Roma, percioché questi per eccellenza portano il cappello rosso, e hanno a rappresentare nella chiesa di Dio il sacro collegio deʼ settantadue discepoli, li quali per coaiutori degli apostoli furono primieramente instituiti. E il cardinalato di Roma è il piú alto e il piú sublime grado, appresso al papa, che sia nella Chiesa. E, percioché a loro sʼappartiene, insieme col papa, a diliberare le cose spettanti alla salute universale deʼ cristiani, e ogni altra contingente alla chiesa di Dio, e pare che sopra la loro diliberazione si volga il sí e il no delle cose predette, son chiamati[209] cardinali da questo nome «cardo, cardinis», il quale ne significa quella parte del cielo sopra la quale tutto il cielo si volge, per altro nome chiamata «polo» (o «poli», percioché son due) e cosí da «cardo» vien «cardinale»; o, secondo che alcuni altri dicono, da quella parte della porta, sopra la quale si volge tutto lʼuscio.]

«In cui», cioè neʼ quali, «usò avarizia il suo soperchio». È avarizia, secondo Aristotile nel quarto della sua Etica, la inferiore estremitá di liberalitá, per la quale, oltre ad ogni dovere, ingiuriosamente si disidera lʼaltrui, o si tiene quello che lʼuom possiede: della quale piú distesamente diremo, dove discriveremo lʼallegorico senso della parte presente di questo canto. Questo vizio dice lʼautore usare «il suo soperchio», cioè il disiderare piú che non bisogna e tenere dove non si dee tenere, neʼ cherici, neʼ quali tutti intende per queste due maggiori qualitá nominate: la qual cosa se vera è o no, è tutto il dí negli occhi di ciascuno, e perciò non bisogna che io qui ne faccia molte parole.

E, avendo qui lʼautore dichiarato qual sia in parte quel vizio che in questo quarto cerchio si punisce, cioè avarizia, vuol che sʼintenda per le parole dette di sopra («Ove colpa contraria gli dispaia»), con questo vizio insieme punircisi lʼopposito dellʼavarizia, cioè la prodigalitá, la quale è il superiore estremo di liberalitá: e come lʼavarizia consiste in tenere stretto quello che spendere bene e dar si dovrebbe, cosí la prodigalitá è in coloro, li quali dánno dove e quando e come non si conviene; benché poco appresso lʼautore alquanto piú apertamente dimostri sé intender qui punirsi questi due vizi.

«Ed io:—Maestro, tra questi cotali», che tu mi diʼ che furon cherici, e ancora tra gli altri, «Dovreʼio ben riconoscere alcuni», percioché furono uomini di grande autoritá, e molto conosciuti, come noi sappiamo che sono i papi e i cardinali e i signori e gli altri che in questi due peccati peccano (o vogliam dire: percioché lʼautor peccò in avarizia, e lʼun vizioso conosce lʼaltro); «Che fûro», vivendo «immondi», cioè brutti e macolati, «di cotesti mali»,—cioè dʼavarizia e di prodigalitá.

[210]

«Ed egli a me:—Vano», cioè superfluo, «pensiero aduni», cioè con gli altri tuoi raccogli. E incontanente gli dice la cagione, seguendo: «La sconoscente vita», cioè sanza discrezione menata, «che i feʼ sozzi», di questi due vizi, e per conseguente indegni di fama, «Ad ogni conoscenza», ragionevole, «or gli fa bruni», cioè oscuri e non degni dʼalcun nome. «In eterno verranno alli due cozzi», cioè aʼ due punti del cerchio, li quali di sopra son dimostrati, dove insieme si percuotono. «Questi», cioè gli avari, li quali appare essere dallʼun dei lati, «risurgeranno dal sepolcro», il dí del giudicio universale, «Col pugno chiuso», testificando per questo atto la colpa loro, cioè la tenacitá, la quale per lo pugno chiuso sʼintende; «e questi», cioè i prodighi, «coʼ crin mozzi», [per li quali crini mozzi similmente testificheranno la loro prodigalitá.]

[E la ragione perché questo per gli crin mozzi si testifichi è questa: intendono i dottori, moralmente, per li capelli le sustanze mondane, e meritamente, percioché i capelli in sé non hanno alcuno omore, né altra cosa la quale alla nostra corporal salute sia utile; sono solamente alcuno ornamento al capo, e per questo ne son dati dalla natura; e cosí dirittamente sono le sustanze temporali, le quali per sé medesime alcuna cosa prestar non possono alla salute dellʼanime nostre, ma prestano alcuno ornamento aʼ corpi; e perciò dirittamente sentono coloro, li quali intendono per li capelli le predette sustanze. Risurgeranno adunque i prodighi coʼ crin mozzi,] a dimostrare come essi, stoltamente e con dispiacere a Dio, diminuissono le loro temporali ricchezze.

«Mal dare», la qual cosa fanno i prodighi, «e mal tener», il che fanno gli avari, «lo mondo pulcro», cioè il cielo, nel quale è ogni bellezza, «Ha tolto loro», sí come appare, poiché in inferno dannati sono, «e» hannogli gli due detti vizi «posti a questa zuffa», cioè di percuotersi insieme coʼ pesi i quali volgono, e col rimproverarsi lʼuna parte allʼaltra le colpe loro: «Quale ella sia», la zuffa di costoro, «parole non ci appulcro» cioè non ci ordino e non ci abbellisco dicendo; quasi voglia dire che assai di sopra sia stato dimostrato.

[211]

«Or puoi, figliuol, veder». In questa parte continovando Virgilio le parole sue, gli mostra quanto sia vana la fatica di coloro, li quali tutti si dánno a congregare o adunare di questi beni temporali, e apregli la cagione. E dice adunque: «Or puoi, figliuol, veder», in costoro, «la corta buffa», cioè la breve vanitá, «Deʼ ben», cioè delle ricchezze e degli stati, «che son commessi alla fortuna», secondo il volgar parlare delle genti, e ancora secondo lʼopinion di molti; «Per che», cioè per i quali beni, «lʼumana gente si rabbuffa». Il significato di questo vocabolo «rabbuffa» par chʼimporti sempre alcuna cosa intervenuta per riotta o per quistione, sí come è lʼessersi lʼuno uomo accapigliato con lʼaltro, per la qual capiglia, i capelli son rabbuffati, cioè disordinati, e ancora i vestimenti talvolta: e però ne vuole lʼautore in queste parole dimostrare le quistioni, i piati, le guerre e molte altre male venture, le quali tutto il dí gli uomini hanno insieme per li crediti, per lʼereditá, per le occupazioni e per li mal regolati disidèri, venendo quinci a dimostrare quanto sieno le fatiche vane, che intorno allʼacquisto delle ricchezze si mettono. E dice: «Ché tutto lʼoro, chʼè sotto la luna», cioè nel mondo, «O che fu giá, di queste anime stanche», in queste fatiche del circuire, che di sopra è dimostrato, «Non poterebbe farne posar una»,—non che trarla di questa perdizione. Appare adunque in questo quanto sia utile e laudabile la fatica di questi cotali, che in ragunar tesoro hanno posta tutta la loro sollecitudine, quando, per tutto quello che per la loro sollecitudine sʼè acquistato, non se ne puote avere, non che salute, ma solamente un poco di riposo in tanto affanno, in quanto posti sono. Le quali parole udite da Virgilio muovono lʼautore a fargli una domanda, dicendo:—«Maestro—dissi lui,—or mi diʼ anche».

[Lez. XXVII]

Qui comincia la terza parte della prima principale di questo canto, nella quale lʼautore scrive come Virgilio gli dimostrasse che cosa sia fortuna, e però dice:—«Maestro, or mi diʼ anche»; quasi dica: tu mʼhai detto che tutto lʼoro del mondo non potrebbe fare riposare una di queste anime, e per questo mʼhai mostrato quanto sia vana la fatica di coloro li quali, posta la[212] speranza loro in questi beni commessi alla fortuna, intorno allʼacquistarne e allʼadunarne si faticano; ma dimmi ancora: «Questa fortuna, di che tu mi tocche», dicendo deʼ beni che le son commessi, «Che è?» cioè che cosa è? «che i ben del mondo ha sí tra branche?»,—cioè tra le mani e in sua podestá.

«E quegli a me», rispose dicendo:—«O creature sciocche. Quanta ignoranza è quella che vʼoffende!», credendo come voi non dovete credere, cioè che i beni temporali sieno in podestá della fortuna come suoi; conciosiacosaché essa sia ministra in distribuirgli, e non donna in donargli, sí come appare nelle parole seguenti. «Or voʼ che tu mia sentenza ne ʼmbocche», cioè che tu ne senta quello che ne sento io: e dice «ne ʼmbocche», cioè riceva, non con la bocca corporale, la quale quello che riceve manda allo stomaco, ma con la bocca dello ʼntelletto, il quale, rugumando ed esaminando seco quello che per li sensi esteriori e poi per glʼinteriori concepe, quel sugo fruttuoso ne trae spesse volte, che per umano ingegno si puote.

E quinci séguita Virgilio a dichiarare quello che egli senta della fortuna, dicendo: «Colui, lo cui saver tutto trascende», cioè Iddio, il quale è somma sapienza, e appo il quale ogni altra sapienza è stoltizia, «Fece li cieli», nella creazion del mondo, «e dieʼ lor chi conduce». E in questo sente lʼautore con Aristotile, il quale tiene che ogni cielo abbia una intelligenza, la quale il muove con ordine certo e perpetuo: e che lʼautore questo senta, non solamente qui, ma in una delle sue canzone distese dimostra, dicendo: «Voi, che, ʼntendendo, il terzo ciel movete» ecc. E queste cotali intelligenzie muovono i cieli loro commessi da Dio, «Sí chʼogni parte», della lor potenzia, «ad ogni parte», mondana e atta a ricevere, «splende», cioè splendendo infonde, «Distribuendo igualmente la luce». Dice «igualmente» non in quantitá, ma secondo la indigenza della cosa che quella luce o influenzia riceve; [«igualmente», cioè con equale affezione e operazione distribuiscono nelle creature la potenzia loro.]

E poi segue che Domeneddio ha queste intelligenzie preposte a conducere i cieli e a distribuire i loro effetti neʼ corpi[213] inferiori, cosí: «Similmente agli splendor mondani», cioè alle ricchezze e agli stati e alle preeminenzie del mondo, «Ordinò general ministra e duce, Che permutasse a tempo», cioè di tempo in tempo, «li ben vani», cioè le ricchezze e gli onori temporali, li quali chiama «beni vani», percioché in essi alcun salutifero frutto non si truova né stabilitá; e volle che questa cotal duce, cioè ministra, tramutasse questi beni vani «Di gente in gente», cioè dʼuna nazione in unʼaltra, sí come noi leggiamo essere infinite volte avvenuto neʼ tempi passati nelle gran cose, non che nelle minori. Noi leggiamo il reame e lʼimperio degli assiri esser trapassato neʼ medi, e deʼ medi neʼ persi, e deʼ persi neʼ greci, e deʼ greci neʼ romani; e, lasciando stare gli antichi, deʼ quali di molti altri regni e signorie si potrebbe dire il simigliante, noi abbiamo veduto neʼ nostri dí la gloria e lʼonore dellʼarmi e della magnificenza, e della Magna e deʼ franceschi, esser trapassata neglʼinghilesi; e quivi non è da credere che ella debba star ferma, ma, come in coloro è stata trasportata, cosí ancora in brieve tempo si trasmuterá in altrui.

E segue: «e dʼuno in altro sangue». La sentenza delle quali parole, quantunque una medesima possa essere con la superiore, nondimeno, volendola a piú brieve permutazione e di minor fatto deducere, possiam dire «dʼuna famiglia in unʼaltra», in quanto dʼun medesimo sangue si tengono quegli che dʼuna medesima famiglia sono; sí come, accioché le cose antiche pospognamo, abbiam potuto vedere e veggiamo nella cittá nostra piena di queste trasmutazioni. Furon deʼ nostri dí i Cerchi, i Donati, i Tosinghi e altri in tanto stato nella nostra cittá, che essi come volevano guidavano le piccole cose e le grandi secondo il piacer loro, ove oggi appena è ricordo di loro; ed è questa grandigia trapassata in famiglie, delle quali allora non era alcun ricordo. E cosí da quegli, che ora son presidenti, si dee credere che trapasserá in altri. E questo senza alcun fallo addiviene «Oltre la difension deʼ senni umani». Alla dimostrazione della qual veritá si potrebbono inducere infinite istorie e mille dimostrazioni; ma, percioché assai può a ciascuno esser manifesto i senni degli uomini non valere a[214] potere gli stati temporali fermare, si può far senza piú stendersene in parole..

E per queste permutazioni avviene «Che una gente impera», signoreggiando, «e lʼaltra langue», servendo; e ciò avviene, «Seguendo», i mondani beni, «il giudicio di costei», cioè di questa ministra; il qual giudicio, «Che sta occulto», aʼ sensi umani, «come in erba lʼangue». Anguis è una spezie di serpenti, la quale ha la pelle verde, e volentieri e massimamente la state, abita neʼ prati fra lʼerbe; e percioché egli è con lʼerbe dʼun medesimo colore, rade volte fra quelle è prima veduto che toccato e sentito. E cosí, dice lʼautore, il giudicio o il consiglio di questa ministra è sí occulto aʼ sensi umani, chʼegli non può prima esser conosciuto che sentito. Ed oltre a questo, roborando ancora lʼautore la predetta cagione, séguita:

«Vostro saver non ha contasto a lei». Quasi voglia in queste parole pretendere che, ancora che noi, o per industria o ancora per chiara dimostrazione, conoscessimo o vedessimo quello a che il giudicio di questa ministra sʼinchina, non pare che, per nostro sapere o ingegno, possiamo a quello contastare o opporci in guisa che valevole sia: e questo essere vero, sʼè giá per molte manifeste cose veduto. [Creso, re di Lidia, vide in sogno essergli tolto Atis, suo figliuolo, da Ferrea, ecc. Mostrò Iddio ad Astiage re deʼ medi, in due sogni, che il figliuolo, il quale ancora non era generato di Mandane, sua figliuola, il dovea privare dello ʼmperio dʼAsia: né gli giovò il maritarla ad uomo non degno di moglie nata di real sangue, né il far poi gittare il figliuol natone alle fiere, che quello non avvenisse giá nel consiglio di questa ministra fermato. Non poterono lʼavere cacciato del regno dʼAlba in villa Numitore, dʼavere ucciso Lauso, suo figliuolo, dʼaver fatta vergine vestale Ilia, sua figliuola, adoperare che Amulio non fosse del regno gittato, né restituitovi Numitore. Infiniti sarebbono gli esempli che ad approvar questo si potrebbon mostrare, lasciandoci tirare allʼattitudine dataci daʼ cieli: ma, se noi vorremo esser prudenti, e seguire il consiglio della ragione, con la forza del libero arbitrio che noi[215] abbiamo, noi contrasteremo a lei, sí come dice Giovenale: «Nullum numen», ecc., percioché il seguir noi il desiderio concupiscibile, ne fa rimaner vinti daʼ movimenti di questa ministra, ecc.]

E perciò segue: «Ella», cioè questa ministra e duce, «provvede, giudica e persegue Suo regno». E dice «provvede», in quanto provvedute paiono quelle cose le quali da ordinato e discreto fattore prodotte sono, sí come son queste terrene da ordinato movimento deʼ cieli produtte, secondo la potenzia deʼ quali esse si permutano, non altramente che se da giudicio dato si movessero; e cosí par questa ministra da singolare ed occulta diliberazion perseguire quello che giudicato pare, cioè le cose commesse a lei; «come il loro» regno «gli altri dèi», cioè lʼintelligenze, delle quali di sopra è detto.

[E, in questa parte, lʼautore, quanto piú può, secondo il costume poetico parla, li quali spesse volte fanno le cose insensate, non altramenti che le sensate, parlare e adoperare, ed alle cose spirituali dánno forma corporale, e, che è ancora piú, alle passion nostre approprian deitá, e dánno forma come se veramente cosa umana e corporea fossero; il che qui lʼautore usa, mostrando la fortuna aver sentimento e deitá; conciosiacosaché, come appresso apparirá, questi accidenti non possano avvenire in quella cosa la quale qui lʼautore nomina «fortuna», se poeticamente fingendo non sʼattribuiscono. Dalle quali fizioni è venuto che alcuni in forma dʼuna donna dipingono questo nome di fortuna, e fascianle gli occhi, e fannole volgere una ruota, sí come per Boezio, De consolatione, appare. Ma chi le fascia gli occhi, non intende bene ciò che fa, percioché, come appresso apparirá, ogni permutazion dì costei va a diterminato e veduto fine; e, se lʼeffetto di quella non segue, non è per ignoranza dei causatori della permutazione, ma per lo libero arbitrio di colui in cui si dirizza, il quale avvedutamente quella ischifa.]

«Le sue permutazion», che questa ministra fa nei beni temporali, «non hanno triegue», cioè intermessione alcuna, sí come coloro che guerreggiano hanno neʼ tempi delle triegue; e, percioché nelle sue permutazioni non è alcun riposo, può apparire che «Necessitá la fa esser veloce». E in queste parole[216] vuole intendere lʼautore i movimenti di questa ministra continui essere di necessitá: [le quali parole, non bene intese, potrebbon generare errore, il quale con la grazia di Dio si torrá via qui appresso, dove, esplicato il testo a questa ministra pertenente, dimostrerò quello che intendo essere questa fortuna.] «Sí spesso vien», il suo permutare, nel quale ella appare esser veloce, «che vicenda consegue», cioè che egli pare questo suo permutare vicendevolmente seguire: in quanto alcuna volta veggiamo uno medesimo uomo, di quale che stato si sia, essere e felice e misero piú volte nella vita sua.

«Questa», cioè fortuna, «è colei, che tanto è posta in croce», dalle bestemmie e daʼ rammarichii, «Pur da color che le dovrian dar lode», sí come uomini ben trattati da lei, «Dandole biasmo a torto e mala voce», cioè neʼ loro rammarichii dicendo sé esser mal trattati da lei, dove sono trattati bene e molto meglio che essi non son degni. «Ma ella sʼè beata», cioè eterna, «e ciò non ode», cioè le bestemmie eʼ rammarichii: «Con lʼaltre prime creature», cioè coʼ cieli e con le intelligenzie separate, «lieta, Volge sua spera», cioè la ruota, per la quale si discrivono le sue veloci circunvoluzioni delle sustanze temporali; «e beata si gode», non curando di queste cose.

[Ora, avanti che piú oltre si proceda, è da vedere che cosa sia questa fortuna, della qual qui lʼautore domanda Virgilio; quantunque molte cose in dimostrarlo nʼabbia dette lʼautore, e, conchiudendo, mostri di volere lei essere una ministra di Dio, posta sopra il governo delle cose temporali; dalla qual conclusione non è mia intenzion di partirmi, ma di dilucidarla alquanto piú, secondo che Iddio mi presterá. E, come che molti per avventura abbian creduto o credano, io estimo questa ministra dei beni temporali non essere altro se non lʼuniversale effetto deʼ vari movimenti deʼ cieli, li quali movimenti si credono esser causati dal nono cielo, e il movimento uniforme di quello esser causato dalla divina mente, e cosí per questi mezzi sará lʼuniversale effetto deʼ movimenti deʼ cieli causato dalla divina mente e per conseguente dato da essa amministratore e ordinatore deʼ beni temporali, deʼ quali essi movimenti deʼ cieli sono[217] causatori. E dicesi dato ministro, piú tosto a dimostrazione che cosa possa essere questo nome fortuna attribuito a questi mutamenti delle cose, che perché alcun ministerio vi bisogni, se non essa medesima operazion deʼ cieli. E percioché di questo effetto sono propinquissima causa i cieli, e sia opinion deʼ filosofi il causato, almeno in certe parti, esser simile al causante, sí come le piú volte suole esser simigliante il figliuolo al padre; pare che, se i cieli sono in continuo moto, che lʼuniversale loro effetto, il quale è intorno alle cose inferiori e temporali, similmente debba essere in continuo movimento: e se lʼuniversale effetto è in movimento continuo, le sue particularitá similmente in continuo movimento saranno; e cosí seguirá le cose governate essere convenienti e conformi alla cosa che le governa, causa e dispone; e per conseguente quelle ottimamente dover seguire la disposizion data dal governante. E percioché egli non par possibile cosa che glʼingegni umani comprendano le particularitá infinite di questo universale effetto deʼ cieli: sí come noi possiam comprendere nelle continue fatiche, e le piú delle volte vane degli strologi, li quali, quantunque lʼarte sia da sé vera e da certi fondamenti fermata, nondimeno non paiono glʼingegni umani essere di tanta capacitá che essi possan comprendere ogni particularitá di cosí gran corpo, come è il cielo, né ancora pienamente le rivoluzioni, congiunzioni, mutazioni e aspetti deʼ corpi deʼ pianeti; e per conseguente cognoscere né quello che il cielo dimostra dover producere, né quello che a dò seguire o fuggire, per avere o per fuggire quello che sʼapparecchia, sia sofficiente né bastevole: e però ottimamente dice lʼautore i consigli umani non poter comprendere né contastare alle occulte, quanto è a noi, operazioni di questo effetto. Ed esso effetto non è altro che permutazioni delle cose prodotte daʼ cieli, le quali, non avendo stabilitá coloro dai quali causate sono, né esse similmente possono avere stabilita; e se i movimenti deʼ cieli son veloci, e le cose causate da loro seguono la similitudine del causante, sará di necessitá questo loro effetto universale esser movibile e di veloce moto, come essi sono; e seguiranne quello che noi continuamente nelle cose temporali[218] veggiamo, cioè le rivoluzioni continue e le permutazioni e delle gran cose e delle minori.]

[Né osta quello che per avventura alcuni potrebbon dire, cioè di vedere alcune cose non muoversi mai, o muoversi di rado e con difficultá, sí come sono le cittá e simili cose, le quali lungo tempo consistono: intorno alla qual cosa è da intendere le rivoluzioni deʼ cieli adoperare secondo la disposizione delle cose, le quali esse operazioni deʼ cieli ricevono. Domeneddio creò la terra stabile e perpetua, e però non atta ad alcun moto per sé medesima; ma, se dalle mani degli uomini ella è messa in alcuna opera, e tratta della sua stabilitá, adoperano i cieli sopra questa materia tarda e grave tardamente. Ma nondimeno, quantunque tardo e rado sia il movimento, pur la muovono; e però le cittá, che di materia terrea paion composte, non senza gran cagione si muovono tardamente. E nondimeno questo tardo movimento, considerata la natura della cosa che si muove, si può dire veloce, ecc.]

[Ora hanno gli uomini a questo effetto posto nome «fortuna» a beneplacito, come quasi a tutte lʼaltre è stato posto; e, secondo che le cose secondo i nostri piaceri o contrarie nʼavvengono, le chiamiamo «buona fortuna» e «mala fortuna». E furono in tanta semplicitá, anzi sciocchezza, i gentili, che, non avendo riguardo alla sua origine, la stimarono una singular deitá, in cui fosse potenza di dar bene e male, secondo il beneplacito suo; e per averla benivola, le feciono templi e ordinarono sacerdoti c sacrifici, seguendo per avventura, piú che la veritá, la sentenza di questi versi:

Si Fortuna volet, fies de rhetore consul;
si volet haec eadem, fies de consule rhetor,
ecc.

E se alcune genti furono che intorno a questa bestalitá peccassero, i romani piú che gli altri vi peccarono. Nondimeno, quantunque di necessitá paia, come detto è, questa fortuna nelle sue amministrazioni esser veloce, non è questa necessitá imposta se non sopra i movimenti delle cose causate daʼ cieli, delle quali lʼanime nostre non sono, percioché sopra i cieli son create da[219] Dio e infuse neʼ corpi nostri, dotate di ragione, di volontá e di libero arbitrio; e perciò niuna necessitá in noi può causare in farci ricchi o poveri, potenti o non potenti contro a nostro piacere. Il che in assai sʼè potuto vedere, in Senocrate e in Diogene, in Fabbrizio e in Curzio e in altri assai; il che chiaramente Giovenale il dimostra nel verso preallegato, dicendo:

Nullum numen abest, si sit prudentia; nos te,
nos facimus, Fortuna, deam, coeloque locamus.

E questo avviene per la nostra sciocchezza, seguendo piú tosto con lʼappetito la sua volubilitá che la forza del nostro libero arbitrio, per lo quale nʼè conceduto di potere scalpitare e aver per nulla ogni sua potenza.]

[Adunque questo effetto universale deʼ movimenti deʼ cieli e delle loro operazioni, secondo il mio piccolo conoscimento, credo si possa dire essere quella cosa la quale noi chiamiamo «fortuna», e la qual noi vogliamo esser ministra e duce deʼ beni temporali. E in questa opinione, se io intendo tanto, mi par che fossero queʼ poeti, li quali sentirono che lʼuna delle tre sorelle chiamate «parche», o fate che vogliam dire, cioè Cloto, Lachesis e Atropos, alle quali la concezione e il nascimento di ciascun mortale, e similmente la vita e la morte attribuiscono, fosse questa Fortuna; e quella, di queste tre, vogliono che sia Lachesis, cioè quella la qual dicono che, nascendo noi, ne riceve e nutrica in vari e molti mutamenti, infino al dí della morte. E questa, secondo la qualitá della vita di ciascuno, il parer degli uomini seguitando, dicono esser buona e malvagia fortuna. E percioché, come detto è, in essa vita consistono le revoluzioni eʼ mutamenti di ciascuno, assai appare ciò non essere altro che lʼuniversale effetto di tutti i cieli, daʼ quali questi movimenti, quanto al corpo, son causati in noi.]

[E questa fortuna chiama lʼautore «dea», poeticamente parlando, e secondo lʼantico costume deʼ gentili, li quali ogni cosa, la qual vedeano che lungamente durar dovesse o esser perpetua, deificavano, sí come i cieli, le stelle, i pianeti, gli elementi, i fiumi e le fonti, li quali tutti chiamavano «dèi»: e però vuol lʼautore[220] sentire per questa deitá la perpetuitá di questo effetto, il quale tanto dobbiam credere che debba durare quanto i cieli dureranno e produceranno gli effetti li quali producer veggiamo. Ora che che io mʼabbia detto intorno a questa fortuna, intendo che, in questo e in ognʼaltra cosa, sempre sia alla veritá riservato il luogo suo.]

[Lez. XXVIII]

«Or discendiamo ornai a maggior pièta», ecc. Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale lʼautore fa tre cose: prima dimostra come discendesse nel quinto cerchio dello ʼnferno, dove dice trovò la padule chiamata Stige; nella seconda dimostra in questo quinto cerchio esser tormentati due spezie di peccatori: iracondi e accidiosi; nella terza scrive come per lo cerchio medesimo procedesse avanti. La seconda comincia quivi: «Ed io, che di mirar»; la terza quivi: «Cosí girammo».

Dice adunque: «Or discendiamo omai»; quasi dica: assai abbiamo ragionato della fortuna, e però discendiamo «a maggior pièta», cioè a maggior dolore. E mostra la cagione, per la quale il sollecita allo scendere, dicendo: «Giá ogni stella scende, che saliva Quando mi mossi». Nelle quali parole lʼautore discrive che ora era della notte, e mostra che egli era passata mezza notte; percioché ogni stella, la quale sovra lʼorizzonte orientale della regione cominciava a salire in su il farsi sera (come era quando si mossono, ed egli stesso il dimostra, dicendo: «Lo giorno se nʼandava»), era salita infino al cerchio della mezza notte, donde, poiché pervenute vi sono, cominciano, secondando il cielo il suo girare, a discendere verso lʼorizzonte occidentale. E, fatta questa discrizion dellʼora della notte, quasi per quella voglia dire aver mostrato loro essere stati molto, subgiugne la seconda cagione per la quale il sollecita a discendere, dicendo: «e ʼl troppo star si vieta», cioè mʼè proibito da Dio, per lo mandato del quale io vengo teco.

«Noi ricidemmo il cerchio», cioè pel mezzo passammo, e andammone «allʼaltra riva», cioè alla parte opposita: e quivi pervennero «Sovrʼuna fonte che bolle», per divina arte, «e riversa», lʼacqua cosí bogliente, «Per un fossato che da lei[221] deriva», cioè si fa dellʼacqua che essa fonte riversa. «Lʼacqua», la qual questa fonte riversa, «era buia», cioè oscura, «assai», vie, «piú che persa». È il perso un colore assai propinquo al nero, e perciò, se questa acqua era piú oscura che il color perso, séguita che ella doveva esser nerissima. [Pigliano lʼacque i colori, i sapori, i calori e lʼaltre qualitá nel ventre della terra: ut «pontica», quasi nera per lo luogo che ha a dar quel colore; «altheana», quasi lattea, perché passa per luoghi piombosi; lʼolio petroio dʼAllacone, lʼacque di Volterra, lʼacque dʼAmbra, lʼacqua da Santa Lucia di Napoli.] «E noi», Virgilio e io, «in compagnia dellʼonde bige», cioè lunghesso lʼacque bigie, come i compagni vanno lʼuno lunghesso lʼaltro per un cammino (e chiama questʼacqua oscura e nera «bigia», non volendo però per questo vocabolo mostrarla men nera, ma, largamente parlando, lo ʼntende per nero); e cosí, andando con queste onde bigie, «Entrammo giú», discendendo, «per una via diversa», cioè malvagia.

Poi segue: «Una palude fa, cʼha nome Stige, Questo tristo ruscel»; e vuolsi questa lettera cosí ordinare: «Questo tristo ruscel», cioè rivicello, «fa una palude», ragunandosi in alcuna parte concava del luogo, donde lʼacqua non aveva cosí tosto lʼuscita, «cʼha nome Stige». E quinci dice: quando questo ruscello fa la palude, cioè «quando è disceso», correndo, «Al piè delle malvage piagge grige», le quali in quel cerchio sono.

[Di questa padule chiamata Stige molte cose si scrivono daʼ poeti, la quale essi dicono essere una padule infernale, ed essere stata figliuola del fiume chiamato Acheronte e della Terra. E, secondo che dice Alberigo nella sua Poetria, questa Stige fu nutrice e albergatrice degli iddii del cielo, e per essa giurano essi iddii, e non ardiscono, quando per lei giurano, spergiurarsi, sí come dice Virgilio:

...Stigiamque paludem,

dii cuius iurare timent et fallere numen, ecc.

E la cagione per la quale essi temono, giurando per Stige, di spergiurarsi, è per paura della pena, la quale è che quale iddio,[222] avendo giurato per Istige, si spergiura, sia privato infino a certo tempo del divino beveraggio; il quale i poeti chiamano «néttare» cioè dolcissimo e soave. E questa onorificenzia vogliono esserle stata conceduta, percioché la Vittoria, la quale fu sua figliuola, fu favorevole aglʼiddii quando combatterono coʼ figliuoli di Titano, e vollesi piú tosto concedere a loro che aʼ detti figliuoli di Titano.]

[Lʼallegoria di questa favola, quantunque non paia del tutto opportuna al proposito, pure, perché in parte e qui e altrove potrá esser utile, la scriverò. Questo nome Stige è interpetrato «tristizia», e perciò è detta figliuola dʼAcheronte, il qual, come davanti è detto, viene a dire «senza allegrezza». Pare ad Alberigo che colui, il quale è senza allegrezza, agevolmente divenga in tristizia, anzi quasi par di necessitá che egli in tristizia divenga; e cosí dallʼessere senza allegrezza nasce la tristizia. Che ella sia figliuola della Terra, par che proceda da ragion naturale, peroché, conciosiacosaché tutte lʼacque procedano da quello unico fonte mare Oceano, e di quindi venire per le parti intrinseche della terra, infino al luogo dove esse fuori della terra si versano; pare assai conveniente dovere esser detto figliuolo della Terra ciò che esce del ventre suo, come lʼacqua fa che è in questa palude.]

[Che ella sia nutrice e albergatrice deglʼiddii, non vollero i poeti senza cagione. Intorno al qual senso è da sapere che sono due maniere di tristizia: o lʼuomo sʼattrista percioché egli non può aʼ suoi dannosi desidèri pervenire; o lʼuomo sʼattrista cognoscendo che egli ha alcuna o molte cose meno giustamente commesse. La prima spezie di tristizia non fu mai nutrice né albergatrice deglʼiddii, anzi è loro nimica e odiosa, intendendo glʼ«iddii» per lʼanime deʼ beati; ma la seconda fu ed è nutrice deglʼiddii, cioè di coloro li quali divengono iddii, cioè beati: percioché il dolersi e lʼattristarsi delle cose men che ben fatte, niuna altra cosa è che prestare alimenti alla virtú, per la quale i gentili andarono nelle lor deitá, secondo che le loro storie ne mostrano; e noi cristiani, per lʼattristarci deʼ nostri peccati, nʼandiamo in vita eterna, nella quale noi[223] siamo veri iddii e non vani. Queste due spezie di tristizia, mostra Virgilio dʼavere ottimamente sentito nel sesto del suo Eneida, lá dove egli manda i perfidi e ostinati uomini in quella parte dello ʼnferno, la quale esso chiama Tartaro, nella quale non è alcuna redenzione; e gli altri, li quali hanno sofferto tristizia e pena per le lor colpe, mena neʼ campi Elisi, cioè in quello luogo ove egli intende che sieno le sedie deʼ beati. O vogliam dire quello che per avventura piú tosto i poeti sentirono, glʼiddii, i quali costei nutrica e alberga, essere il sole e le stelle, le quali alcuna volta ne vanno in Egitto: e questo è nel tempo di verno, quando il sole, essendo rimoto da noi, è in quella parte del zodiaco, la quale gli astrologhi chiamano «solestizio antartico». Percioché, oltre agli egizi meridionali in quelle parti abitanti, esso fa quello che gli astrologhi chiamano «zenit capitis»; e in questo tempo sono nutriti il sole e le stelle dalla palude di Stige, secondo lʼopinione di coloro li quali stimavano che i fuochi dei corpi superiori della umiditá deʼ vapori surgenti dallʼacqua si pascessero; e appo questa palude di Stige, mentre nel mezzo dí dimorano, stanno e albergano. Che questa padule di Stige, secondo la veritá, sia sotto la plaga meridionale, il dimostra Seneca in quel libro il quale egli scrisse Delle cose sacre dʼEgitto, dicendo che la palude di Stige è appo coloro che nel superiore emisperio sono; mostrando appresso che non guari lontano da Siene, estrema parte dʼEgitto verso il mezzodí, essere un luogo il quale è chiamato daʼ greci «phile», il quale è tanto a dire quanto «amiche»: e appo quel luogo essere una grandissima padule, la quale, conciosiacosaché a trapassarla sia molto malagevole e faticoso, percioché è molto limosa e impedita daʼ giunchi, li quali essi chiamano «papiri», è appellata Stige, percioché è cagion di tristizia, per la troppa fatica aʼ trapassanti.]

[Che glʼiddii giurino per questa palude di Stige, può esser la ragion questa: noi siamo usati di giurare per quelle cose le quali noi temiamo, o per quelle le quali noi desideriamo; ma chi è in somma allegrezza, non pare che abbia che desiderare, quantunque abbia che temere; e questi cotali sono glʼiddii, i[224] quali i gentili dicevano esser felici: e perciò, non avendo costoro che desiderare, resta che giurino per alcuna cosa la quale sia loro contraria; e questa è la tristizia. E che chi si spergiura sia privato del divin beveraggio, credo per ciò essere detto, percioché coloro, li quali di felice stato son divenuti in miseria, solevan dire essersi spergiurati, cioè men che bene avere adoperato, e cosí essere divenuti dalla dolcezza del divin beveraggio, cioè dalla felicitá, nellʼamaritudine della miseria.]

[Costei esser madre della Vittoria si dice per tanto, che delle guerre non sʼha vittoria per far festa, mangiare e bere, ballare o cantare, né ancora per fortemente combattere, ma per lo meditare assiduo e faticarsi intorno alle cose opportune, in far buona guardia, in ispiare i mutamenti e gli andamenti deʼ nemici, in por gli aguati, in prendere i vantaggi e simili cose, le quali sanza alcun dubbio hanno ad affligger lʼuomo e a tenerlo, almeno nel sembiante, tristo.]

«Ed io, che di mirar mi stava atteso». Qui comincia la seconda parte della seconda principale di questo canto, nella quale dimostra esser tormentati in questa padule bogliente glʼiracundi e gli accidiosi. Dice adunque: «Ed io, che di mirar», in questa padule, «mi stava atteso», cioè sollecito, «Vidi genti fangose in quel pantano», cioè in quella padule; e dice «fangose», percioché le padule sono generalmente tutte nelli lor fondi piene di loto e di fango, per lʼacqua che sta oziosa e non mena via quel cotal fango, come quelle fanno che corrono, e perciò chi in esse si mescola di necessitá è fangoso: «Ignude tutte, e con sembiante offeso», per lo tormento sí del bollor dellʼacqua, e sí ancora delle percosse che si davano. «Questi», fangosi, «si percotean, non pur con mano», battendo e offendendo lʼun lʼaltro e se medesimi, «Ma con la testa», cozzando lʼuno contro lʼaltro, «e col petto», lʼun contro allʼaltro impetuosamente scontrandosi, «e coʼ piedi», dandosi deʼ calci, e «Troncandosi coʼ denti», le membra e la persona, «a brano a brano», cioè a pezzo a pezzo.

«Lo buon maestro disse». Qui gli dichiara Virgilio chi costor sieno che cosí si troncano, e dice:—«Figlio, or vedi[225] Lʼanime di color cui vinse lʼira», mentre vissero in questa vita; «Ed anco voʼ che tu per certo credi Che sotto lʼacqua», di questa padule, «ha gente che sospira», cioè che si duole, «E», sospirando, «fanno pullular questʼacqua al summo». Noi diciamo nellʼacqua «pullulare» quelle gallozzole o bollori, li quali noi veggiamo fare allʼacqua, o per aere che vi sia sotto racchiusa e esca fuori, o per acqua che di sotterra vi surga. «Come lʼocchio», cioè il viso, «ti dice uʼ che sʼaggira»; e cosí mostra in queste parole la padule esser piena di questi bollori, e per conseguente dovere esser molta la gente, la quale sotto lʼacqua sospirava o si doleva.

«Fitti nel limo». «Limo» è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive deʼ fiumi lʼacqua torbida, quando il fiume viene scemando, la qual noi volgarmente chiamiamo «belletta»; e di questa maniera sono quasi tutti i fondi deʼ paduli. Dice adunque che in questa belletta nel fondo del padule sono fitti i peccatori, li quali «dicon:—Tristi fummo, Nellʼaer dolce, che del sol sʼallegra», cioè si fa bella e chiara, «Portando dentro», nel petto nostro, «accidioso fummo», cioè il vizio dellʼaccidia, il qual tiene gli uomini cosí intenebrati e oscuri come il fummo tiene quelle parti nelle quali egli si ravvolge. Poi segue: e percioché noi fummo tristi nellʼaer dolce, qui «Or ci attristiam», cioè piagnamo e dogliamci «nella belletta negra»,—in quel fango di quella padule, lʼacqua della quale ha di sopra mostrata esser nera; e perciò conviene che la belletta sia nera altresí, in quanto ella suole sempre avere il color dellʼacqua sotto la quale ella sta e che la mena.

«Questʼinno». Glʼ«inni» son parole composte di certe spezie di versi, e contengono in sé le laude divine, sí come appare nello Innario, il quale compose san Gregorio, e che la Chiesa di Dio canta neʼ suoi uffici; ma in questa parte scrive lʼautore il vocabolo, ma non lʼeffetto di quello, percioché dove lʼinno contiene la divina laude propriamente, quello che questi peccatori, piangendo e dolendosi, dicono in modo dʼinno, contiene la lor miseria e la lor pena. «Si gorgoglian nella strozza». La «strozza» chiamiam noi quella canna la qual muove dal[226] polmone e vien sú insino al palato, e quindi spiriamo e abbiamo la voce, nella quale se alcuna soperchia umiditá è intrachiusa, non può la voce nostra venir fuori netta ed espedita; e sono allora le nostre parole piú simili al gorgogliare, che fa talvolta uno uccello, che ad umana favella. E percioché questi peccatori hanno la gola piena del fango e dellʼacqua del padule, è di necessitá che essi si gorgoglino questo lor doloroso inno nella strozza, perciò «Che dir noi posson con parola intègra», perché è intrarotta dalla superchia umiditá.

«Cosí girammo». Qui comincia la terza parte di questa seconda parte principale, nella quale lʼautore dimostra il processo del loro andare, e dove pervenissero, dicendo: «Cosí», riguardando i miseri peccatori che nella padule si offendevano, e ragionando, «girammo della lorda pozza Grandʼarco», cioè gran quantitá vòlta in cerchio, a guisa dʼun arco. E chiamala «pozza», il quale è proprio nome di piccole ragunanze dʼacqua; e questo, come altra volta è detto, è conceduto aʼ poeti (cioè dʼusare un vocabolo per un altro), per la stretta legge deʼ versi, della quale uscir non osano. E quinci dice che egli girarono, «tra la ripa secca», alla quale non aggiugneva lʼacqua del padule, «e ʼl mezzo», del padule, «Con gli occhi vòlti a chi del fango ingozza», cioè aʼ peccatori, li quali erano in quel padule: «Venimmo al piè dʼuna torre al dassezzo», cioè poi che noi avemmo lungamente aggirato.


[227]

II

Senso allegorico

[Lez. XXIX]

Papé Satan, papé Satan aleppe», ecc. Dimostrò lʼautore nel precedente canto come la ragione gli dimostrò qual fosse la colpa della gola, e che supplicio fosse dalla divina giustizia posto aʼ gulosi, li quali in quel peccato morivano; e, continuandosi alle cose precedenti, discrive come, seguendo la ragione, gli fosse da lei dimostrato che cosa fosse il peccato dellʼavarizia e similmente quello della prodigalitá, e similmente qual pena ne fosse data a coloro che in esse erano vivuti e morti peccatori, e sotto il cui imperio puniti fossero: procedendo appresso in questo medesimo canto, come, veduti questi, seguendo la ragione, gli fossero dalla detta ragione mostrate altre due spezie di peccatori, cioè glʼiracundi e gli accidiosi, e il loro tormento. E però primieramente vedremo, come di sopra si promise, quello che lʼautore intenda per Plutone prencipe di questo cerchio; e appresso che cosa sia avarizia, e in che pecchi lʼavaro; e poi che cosa sia prodigalitá, e in che pecchi il prodigo; e quinci qual sia la pena lor data per lo peccato commesso, e come la pena si confaccia al peccato. E, questo veduto, procederemo a vedere che peccato sia quello dellʼira, e poi quello dellʼaccidia, e qual pena agli accidiosi e agli iracundi data sia, e come essa si conformi alla colpa.]

[Truovansi adunque, secondo che esponendo la lettera è detto, essere stati due Plutoni, deʼ quali per avventura ciascuno potrebbe assai attamente servire a questo luogo, quantunque lʼuno molto meglio che lʼaltro, sí come apparirá appresso. Diceva adunque Leon Pilato che uno, il quale fu chiamato Iasonio, aveva amata Cerere, dea delle biade, e con lei sʼera congiunto, e di lei avea ricevuto un figliuolo, il quale avea nominato Pluto. Sotto il qual fabuloso parlare è questa istoria nascosa, cioè[228] che, al tempo del diluvio il quale fu in Tessaglia aʼ tempi del re Ogigio, si trovò in Creti un mercatante, il quale ebbe nome Iasonio; e questi essendo molto ricco, e avendo, per la fertilitá stata il precedente anno, trovata grandissima copia di grano, e quella comperata a quel pregio che esso medesimo aveva voluto; udendo il diluvio stato in Tessaglia, e come egli aveva non solamente guasti i campi e le semente del paese, ma ancora corrotta ogni biada, la quale per i tempi passati ricolta vi si trovò, e i circustanti popoli esserne mal forniti a dover potere sovvenirne quegli delle contrade dove stato era il diluvio; caricati piú legni di questo suo grano, lá navicò, e di quello ebbe daʼ paesani ciò che egli addomandò; e in questa guisa, ispacciatol tutto, fece tanti denari, che a lui medesimo pareva uno stupore: e in questa maniera di Cerere, cioè del suo grano, generò Plutone, cioè una smisurata ricchezza. E in questo luogo si pone Plutone, per lo quale sʼintendono le ricchezze mondane, a tormentare coloro che quelle seppero male usare, sí come appresso apparirá; e perciò assai convenientemente qui si potrebbe di questo Plutone intendere.]

[Ma, come di sopra dissi, molto meglio si conformerá al bisogno questo altro, del quale si legge che Plutone, il quale in latino è chiamato Dispiter, fu figliuolo di Saturno e della moglie, il cui nome fu Opis, e come altra volta giá è detto, nacque ad un medesimo parto con Glauca, sua sorella, e occultamente, senza saperlo Saturno, fu nutricato e allevato. Costui finsero gli antichi essere re dello ʼnferno, e dissero la sua real cittá esser chiamata Dite, della quale assai cose scrive Virgilio nel sesto dellʼEneida quivi:

Respicit Aeneas subito et sub rupe sinistra
moenia lata videt, ecc.

E appresso a Virgilio, discrive la sua corte e la sua maestá Stazio nel suo Thebaidos, dicendo:

Forte sedens media regni infelicis in arce
dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
[229]nil hominum miserans iratus et omnibus umbris:
stant furiae circum variaeque ex ordine mortes,
saevaque multisonas exercet poena catenas:
fata ferunt animas,
ecc.

E, oltre a questo, gli attribuirono un carro, sí come al sole; ma, dove quello del sole ha quattro ruote, disson questo averne pur tre, e chiamarsi «triga»; e quello dissero esser tirato da tre cavalli, i nomi deʼ quali dissono esser questi: Meteo, Abastro e Novio. E, oltre a ciò, accioché senza moglie non fosse, dice Ovidio esso aversela trovata in cosí fatta maniera, che, essendosi un dí Tifeo con maravigliose forze ingegnato di gittarsi da dosso Trinacria, alla quale egli è sottoposto, parve a Plutone che, se questo avvenisse, esser possibile a dover poter trapassare infino in inferno la luce del giorno; e perciò, venuto a procurare come fondata e ferma fosse Trinacria e a quella andando dʼintorno, ed essendo pervenuto non lontano a Siragusa, gli venne veduta in un prato una vergine chiamata Proserpina, la quale con altre vergini andava cogliendo fiori; e percioché essa sprezzava le fiamme di Venere e recusava i suoi amori, avvenne che, come Plutone veduta lʼebbe, subitamente sʼinnamorò della sua bellezza: e perciò, piegato il carro suo, nʼandò in quella parte, e, presa Proserpina, la quale di ciò non suspicava, seco ne la portò in inferno, e quivi la prese per moglie. E, oltre a questo, dicono lui avere avuto un cane, il quale aveva tre teste ed era ferocissimo, e quello avere posto a guardia del suo regno. Del quale cane dice cosí Seneca tragedo nella tragedia dʼErcole furente:

Post haec avari Ditis apparet domus.
Hic saevus umbras territat Stygius canis,
qui terna vasto capita concutiens sono
regnum tuetur: sordidum tabo caput
lambunt colubrae: viperis horrent iubae
longusque torta sibilat cauda draco.
Par ira formae,
ecc.]

[Le quali molte fizioni al nostro proposito io intendo cosí: Plutone voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto[230] a dire quanto «terra»: come che, secondo Fulgenzio, «Plutone» in latino suona tanto quanto «ricchezza»; e perciò è chiamato daʼ latini «Dispiter», quasi «padre delle ricchezze»: e che le periture ricchezze consistano in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo; ed «Opis» è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non solamente «terra», ma ancora «figliuolo della terra». Ma, percioché le prime ricchezze, non essendo ancora trovato lʼoro, apparvero in parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente chiamato padre di Plutone.]

[Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data una cittá, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tesifone; accioché per questo noi intendiamo le menti degli avari, aʼ quali le ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltá loro intorno alla guardia e tenacitá di quelle; e in questa cittá dice Virgilio non esser licito ad alcun giusto dʼentrare:

Nulli fas casto sceleratum insistere limen;

accioché egli appaia che il cercare o il servare le ricchezze senza ingiustizia non potersi fare.]

[Per la real corte e per li circustanti a questo Plutone si deono intendere lʼangosce e lʼansietá delle sollicitudini infinite, e ancora le fatiche dannevoli, le quali hanno gli avari nel ragunar le ricchezze, e ancora le paure di perderle, dalle quali sono infestati coloro li quali con aperta gola intendono sempre a ragunarle; e per lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro li quali e tirati e sospinti sono dal disiderio di divenir ricchi; e lʼessere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo significhi se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose future, nelle quali coloro, che vanno dattorno, continuamente sono; e cosí i cavalli tiranti questo carro dicono esser tre, a dimostrarne[231] di tre accidenti, li quali in questi cotali attornianti il mondo per arricchire par che sieno.]

[Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato «oscuro», per lo quale sʼintende lʼoscura, cioè stolta, diliberazione dʼacquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido, senza riguardare il fine, si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato Abaster, il quale tanto viene a dire quanto «nero», accioché per questo si conosca il dolore e la tristizia deʼ discorrenti, li quali spessissime volte si truovano in cose ambigue e in evidenti pericoli e in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il qual tanto vuol dire quanto «cosa tiepida», accioché per lui cognosciamo che per la paura deʼ pericoli, e ancora peʼ casi sopravvegnenti, cade la speranza di coloro che ferventissimamente disiderano dʼacquistare, e cosí intiepidisce lʼardore il quale a ciò stoltamente gli confortava.]

[Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa «abbondanza», e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio che con altrui che coʼ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; percioché esso quasi sempre crede che lá dove vede i granai pieni, come appo i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in contrario, essendo le menti vòte, sí come lʼavarizia procura, vʼè fame e gran penuria dʼogni bene, e però di questo maritaggio niuna cosa si genera che laudevole o degna di memoria sia.]

[Cerbero, cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietá, le quali erano in lui: egli era nel latrato dʼalta voce e di sonora, ed era mordacissimo, e, oltre a ciò, era, in tenere quello che egli prendeva, fortissimo. Nondimeno, sotto la veritá di questo cane, sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto «guardiano di Dite»; e però, conciosiacosaché per Dite si debbano intender le ricchezze, sí come davanti è mostrato, non potremo piú dirittamente dire alcuno esser guardiano di quelle se non lʼavaro; e cosí per Cerbero sará da intendere lʼavaro, al quale perciò sono tre teste discritte, a[232] dinotare tre spezie dʼavari. Percioché alcuni sono li quali sí ardentemente disiderano lʼoro, che essi cupidamente in ogni disonesto guadagno, per averne, si lascian correre, accioché quello, che acquistato avranno, pazzamente spendano, donino e gittin via; i quali, avvegnaché guardiani delle ricchezze dir non si possano, nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di coloro li quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano dʼogni parte e in qualunque maniera, accioché tengano e servino e guardino, e né a sé né ad altri dellʼacquistato fanno pro o utile alcuno. La terza spezie è quella di coloro li quali non per alcuna sua opera, o ingegno o fatica, ma per opera deʼ suoi passati, ricchi divengono, e di queste ricchezze sono sí vigilanti e studiosi guardiani, che essi, non altramenti che se da altrui loro fossero state diposte, le servano, né alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire tristissimi e miseri guardiani di Dite.]

[I serpenti, i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali intorno allʼacquistare e al guardare lʼacquistato.]

[Oltre a questo, gli antichi chiamarono questo Plutone «Orco», sí come appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: «Ut alter Orcus venisse Aetnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur», ecc. Il qual dice Rabano cosí essere chiamato, percioché egli è ricettatore delle morti; conciosiacosaché egli riceva ogni uomo di che che morte si muoia, e cosí lʼavaro ogni guadagno riceve di che che qualitá egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che per Plutone si debba intendere in questo luogo. Il che raccogliendo, sono le ricchezze e i malvagi guardatori e spenditori di quelle: e cosí significherá questo dimonio il peccato e la cagion del peccato, il quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce.]

[Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, percioché lʼallegoria, la quale io ho al presente dato a questo cane infernale, cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella esposizione allegorica del precedente canto; dove mostrai lui significare il vizio della gola, e qui dimostro io[233] per lui significare tre spezie dʼavarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda ammirazione, percioché la divina Scrittura è tutta piena di simili cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e quattro sentimenti, secondo che la varietá del luogo, dove si truova, richiede: la qual cosa accioché voi per manifesto esempio veggiate, mi piace per alcuna figura, e per la varietá deʼ sensi di quella mostrarvelo.]

[Leggesi nel Genesi che il serpente venne ad Eva, e confortolla che assaggiasse del cibo il quale lʼera stato comandato che ella non assaggiasse: perciò questo serpente doversi intendere il nemico della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della Chiesa sʼaccordano. Similmente scrive san Giovanni nellʼApocalissi che fu fatta una battaglia in cielo, come nellʼesposizione litterale fu detto, nella quale san Michele arcangiolo uccise il serpente: e per questo serpente similmente sʼintende, per tutti, il nemico nostro antico. Per che potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente intendersi il diavolo. Ma in altra parte si legge nella Scrittura che, essendo il popolo dʼIsrael venuto, dietro alla guida di Moisé, in parte del diserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendevano dʼinfermitá, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual cosa come Moisé sentí, per comandamento di Dio fece un serpente di rame, e, dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, vel pose suso, e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli sarebbe guerito; e cosí avveniva. Intendesi in questa parte questo serpente elevato esser Cristo, il quale, nel mezzo del popolo ebraico elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni deʼ serpenti, cioè deʼ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione e per la satisfazione, incontanente siamo per la[234] sua passion liberati e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano, E fu questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietá del rame, il quale è di colore rosso ed è sonoro: percioché Cristo nella sua passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e neʼ piedi daʼ chiovi coʼ quali fu confitto in su la croce, e per lo costato, quando gli fu aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la sua dottrina inflno agli estremi del mondo fu predicata e udita, e ancora si predica e predicherá mentre il mondo durerá. E cosí in una medesima figura avete il serpente significar Cristo e ʼl dimonio: Cristo in quanto libera, il dimonio in quanto offende.]

[Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere significato Cristo, c talora lʼostinazion del dimonio. Dice il salmista: «Lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli»: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi Cristo. Fu nella edificazion del tempio di Salomone piú volte daʼ maestri che ʼl muravano provato di mettere, tra lʼaltre molte pietre che vʼerano, una pietra in lavorio, né mai si poterono abbattere a porla in parte dove paresse loro che ella ben risedesse; ultimamente, provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e nella congiunzion deʼ due pareti. Vogliono adunque i dottori questi due pareti avere a significare due popoli deʼ quali Cristo compuose il tempio suo, deʼ quali lʼuno fu di parte deʼ giudei e lʼaltro fu deʼ gentili, deʼ quali Cristo, come che due pareti fossero, fece una chiesa. Significano ancora le due pareti i due Testamenti, il Nuovo e ʼl Vecchio, alla congiunzion deʼ quali solo Cristo fu sofficiente, in quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione furon quelle che apersero i segreti misteri del Vecchio Testamento, velati da dura corteccia sotto la lettera, e cosí quegli per opera congiunse con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel Nuovo Testamento; e cosí potete veder[235] qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a questo, si legge nellʼApocalissi: «Substulit angelus lapidem quasi molarem et misit in mare», per la qual pietra vogliono i dottori, sʼintendano i pessimi e malvagi uomini. Ed Ezechiel dice: «Auferam eis cor lapideum», per la quale intendono i dottori la durezza della infedelitá. E il salmista dice: «Descenderunt in profundum, quasi lapides», intendendo per questa pietra il peso e la gravezza del peccato.]

[E però, senza por piú esempli, potete vedere, comʼè detto, una medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni: il che, come delle figure del Vecchio Testamento addiviene, cosí similmente addiviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa e quando unʼaltra.]

[Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per li laici la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i dottori, secondo che lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in altra. La qual cosa non è vera: percioché la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi lʼha di diamante, del quale non si può levare, né vi si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzzare, sí come quella la quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo: ma puossi piú tosto dire questi cotali avere il cuore, lo ʼntelletto e lo ʼngegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati, e come son fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosí par loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietá deʼ sensi è quella che nʼapre la veritá nascosa sotto il velo delle cose sacre, la quale noi aver non possiamo, né potremmo, se sempre volessimo ad una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola, e in questa gli sʼattribuisce la guardia delle ricchezze.]

[Lez. XXX]

Ma, accioché noi alle spezie deʼ due peccati ci deduciamo, dico che, secondo che i poeti scrivono, neʼ tempi che Saturno regnò, fu una etá tanto laudevole, tanto piacevole e tanto, a coloro che allora vivevano, graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto, lʼ«etá dellʼoro». E, quantunque[236] essi vogliano quella in ciascuno atto umano essere stata virtuosa, intorno allʼappetito delle ricchezze del tutto la discrivono innocua. Percioché essi dicono, regnante Saturno predetto, tutti i beni temporali, avvegnaché pochi e rozzi fossero, essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato alcuno che servo fosse, o che in ispezialitá alcun mercennaio servigio facesse; ciascuno era e signore e servo di sé parimente, né era campo alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse; alcuno armento non era, che dʼesser piú dʼuno che dʼun altro si conoscesse; di niuna pecunia era notizia, sí come di quella che ancora non era stata da alcuna stampa segnata; né mercatante, né navilio o alcuna altra cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularitá avere appetito di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conoscea. E per questo vogliono, e meritamente, in queʼ secoli il mondo avere avuta lieta pace e consolata, né alcun vizio ancora esser potuto entrare nelle menti deʼ mortali. La quale benignitá e di Dio e della natura delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu neʼ primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno [che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i vizi ne trasviano allo ʼnferno] che noi, dopo riposata vita mortale, non fossimo similmente saliti allʼeterna. Ma, poi che, tra tanta simplicitá, tra tanta innocenzia nella vita piena di tranquillitá, [essendone operatore il nemico dellʼumana generazione,] furon questi due pronomi, «mio» e «tuo», seminati, tanto il santo ordine si turbò, che grandissima parte di quegli, li quali a dovere riempiere in paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano ad accrescere il loro numero in inferno.

Entrato adunque coʼ due pronomi il veleno pestifero, del voler ciascuno piú che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini, si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare lʼabitazioni e a prezzolar le fatiche; e, cacciata la pace e la tranquillitá dellʼanimo, entrarono in lor luogo le sollecitudini,[237] gli affanni superflui, le servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e, quantunque con onesta povertá alcuni vincessero e scalpitassero un tempo lʼardente desiderio dʼavere oltre al natural bisogno, non poté però lungamente la vertú deʼ pochi adoperare, che il vizio deʼ molti non lʼavanzasse. E, non bastando allʼinsaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò lo ʼngegno umano nuove ed esquisite vie a recare in publico i nascosi pericoli: e, pertugiati i monti e viscerata la terra, del ventre suo lʼoro, lʼariento e gli altri metalli recarono suso in alto; e similmente, pescando, delle profonditá deʼ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati, col sangue di pesci e coi sughi dellʼerbe trasformarono il color della lana e della seta; e, brevemente, ogni altra cosa mostrarono, la qual potesse non saziare, ma crescere il misero appetito deʼ mortali. Di che Boezio nel secondo libro Della consolazione, fortemente dolendosi, dice:

Heu! primus qui fuit ille
auri qui pondera tecti
gemmasque latere volentes
pretiosa pericula fodit?

Ma, poiché lo splendor dellʼoro, la chiaritá delle pietre orientali e la bellezza delle porpore fu veduta, in tanto sʼacceser gli animi ad averne, che, con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque sentiero a quel crediam pervenire, tutti corriamo; e in questo inconveniente, non solamente neʼ nostri giorni, ma giá sono migliaia di secoli, si trascorse; e cosí la prima semplicitá e lʼonesta povertá e i temperati disidèri scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito acquisto siam divenuti. Per la qual cosa lʼumana caritá, la comune fede e gli esercizi laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasi del tutto esinaniti sono; e, che è ancora molto piú dannevole, con ogni astuzia e con ogni sottigliezza sʼè cercato e cerca continovo lʼodio di Dio: pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare, onorare e reverire, noi lʼoro e lʼariento, i[238] campi e lʼumane sustanze in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che, per lo non saper por modo allʼappetito, e non sapere o non volere con ragione spendere lʼacquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare; e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla divina giustizia a voltare i faticosi pesi, come lʼautore ne dimostra, mandati siamo.

E, accioché meglio si comprenda la gravitá di questa colpa, e quello che lʼautore intende in questa parte di dimostrare; e che lʼuomo ancora si sappia con piú avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare: piú distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che, brievemente, consista questo vizio.

È adunque lʼavarizia, secondo che alcuni dicono, «auri cupiditas», cioè disiderio dʼoro. San Paolo dice (Ad Ephæsios, v): «Avaritia est idolorum servitus». E, secondo la sentenza dʼAristotile, nel quarto dellʼEtica, lʼavarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene. Che lʼavarizia sia cupiditá dʼoro, in parte è giá dimostrato, e piú ancora si dimostrerá appresso; che ella sia un servire aglʼidoli, seguendo la sentenza dellʼapostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a Rustico monaco, dove dice: «Æstimato malo pondere peccatorum, levius alicui videtur peccare avarus quam idolatra; sed non mediocriter errat. Non enim gravius peccat qui duo grana thuris proiicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide et inutiliter congregat: ridiculum videtur quod aliquis iudicetur idolatra, qui duo grana thuris offert creaturæ, quæ Deo debuit offerre, et ille non iudicetur idolatra, qui totum servitium vitæ suæ, quod Deo debuit offerre, offert creaturæ». Che ella sia difetto di non dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerá il seguente trattato.

Sono adunque alcuni, li quali, non essendo loro necessitá, in tanto disiderio sʼaccendono di divenir ricchi, che il trapassar lʼAlpi e le montagne eʼ fiumi, e navigando divenire alle nazioni strane, tirati dalla speranza e sospinti dal disiderio, par loro[239] leggerissima cosa; avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche scrive a Lucillo, dove dice: «Magnae divitiae sunt, lege naturae, composita paupertas. Lex autem illa naturae scis quos terminos nobis statuat: non exurire, non sitire, non algere; ut famem sitimque depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium grave et contumeliosam etiam humilitatem pati; non est necesse maria tentare, nec sequi castra; parabile est quod natura desiderat et appositam. Ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt. Ad manum est, quod sal est: qui cum paupertate bene convenit, dives est». E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale appetito, il quale abbiamo infisso, dʼavere, gli troverebbe; ma, percioché, a questo, modo non si sa porre, tutti nel miserabile vizio trapassiamo, cioè in soperchio volere piú che non si conviene. È il vero che il trapassar per questa via il convenevole par tollerabile, quando a quelle che molti altri tengono si riguarda.

Sono i piú sí offuscati dallʼappetito concupiscibile, che ogni onestá, ogni ragione, ogni dovere cacciano da sé, in dover per qualunque via ragunare, non solamente piú che non bisogna ad uno, ma ancora piú che non bisognerebbe a molti: e, per pervenire a questo, altri si dánno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e occupare con violenza lʼaltrui, altri ad ingannare e fraudolentemente acquistare, e con altri esercizi simili, non piú dʼinfamia che di fama curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali dice Tullio nel libro terzo Degli offici: «Detrahere igitur alteri aliquid, et hominem hominis incommodo suum commodum augere, magis est contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera, quae possunt aut corpori accidere, aut rebus aeternis», ecc.

Sono nondimeno alcuni altri, li quali pare che prima facie vogliano e ingegninsi dʼavere piú che il bisogno non richiede,[240] li quali sono a distinguere da questi, percioché, dove i predetti sono pessima spezie dʼavari, quelli, dei quali intendo di dire, non si posson con ragione dire avari, né sono. Son di quegli li quali, in nulla parte passato il dovere, con diligenzia sʼingegneranno di fare che i lor campi loro abbondevolmente rispondano: questo è giusto disiderio e giusta operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, percioché quel piú in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare. Alcuni altri, per non stare oziosi, con ogni lealtá faranno una loro arte, alcuna mercatanzia, li quali, quantunque piú che lor non bisogna avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri sʼingegnano di riscuotere e di racquistare quello o che hanno creduto o che hanno prestato del loro ad altrui: né questo è da dire avarizia, quantunque sia piú che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono alcuni altri, li quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo o per provvisione si fien messi al servigio dʼalcun altro e con fede lʼavranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole che sia reputata avarizia.

È, oltre alla predetta, la seconda spezie dʼavarizia, la quale consiste in difetto di dare dove e quanto si conviene; e in questa quasi tutta lʼuniversitá degli uomini pecca. Sonne alcuni, che, poi che per loro opera o per lʼaltrui sono divenuti ricchi, sono sí fieramente tenaci, che, non che pietá o misericordia gli muova a sovvenire eziandio dʼuna piccola quantitá un bisognoso, ma aʼ figliuoli, alle mogli e a se medesimi son sí scarsi, che, non che in altro si ristringano, ma essi né beono né mangiano quanto il naturale uso disidera; e dellʼaltrui prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, li quali né onore né dono voglion ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad onorare.

Alcuni altri ne sono, li quali non solamente alle loro vigilie o aʼ cassoni ferrati li loro tesori fidano, ma, fatte profondissime fosse neʼ luoghi men sospetti, gli sotterrano: di che segue assai sovente, come essi vivendo non ne hanno avuto bene, cosí dopo la morte loro non ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria col dire: noi siamo solenni guardatori del[241] nostro, accioché alcuno bisogno non ne costringa a dimandar lʼaltrui, o a fare altra cosa che piú disonesta fosse che lʼavere ben guardato il suo. E di questi cotali sono alcuni piú da riprendere che alcuni altri; sí come noi veggiamo spesse volte avvenire che alcuno per ereditá diverrá abbondante, senza avere in ciò alcuna fatica durata, e nondimeno sará piú tenace che se per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse: il che, oltre al vizio, pare una cosa mirabile, percioché in loro non dovrebbe avvenir quello che in coloro avviene, li quali con suo grandissimo affanno hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e ciascuno naturalmente, secondo che dice Aristotile, ama le sue opere piú che lʼaltrui, come i padri i figliuoli e i poeti i versi loro. E di questi medesimi si posson dire essere i cherici, neʼ quali è questo peccato tanto piú vituperevole, quanto con men difficultá lʼampissime entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto pervenute loro; e, oltre a ciò, con men ragione le ritengono, percioché i loro esercizi deono essere intorno alle cose divine, allʼopere della misericordia e di ciascuna altra pietosa cosa: deono stare in orazione, digiunare, sobriamente vivere, e dar di sé buono esemplo agli altri in disprezzare le cose temporali e ʼl mondo, e seguire con povertá le vestigie di Cristo, accioché, bene adoperando, appaiano le loro opere esser conformi alla dottrina. Le quali cose come essi le fanno, Iddio il vede.

È, appresso, questo vizio meno abbominevole in una etá che in unʼaltra, percioché lʼessere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa alcuna, percioché lʼetá del giovane è di sua natura liberale, sí come quella che si vede forte e atante neʼ bisogni sopravvegnenti, ed è piena di mille speranze e dʼaltrettanti aiuti, e molte vie o vede o le par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o dʼacquistar di nuovo; il che neʼ vecchi non puote avvenire, percioché essi, li quali il piú sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel tempo, rimanere alcuno aiuto né amico, se non le sustanze temporali; e in contrario si veggono ogni dí pieni di bisogni nuovi e inopinati, e similmente sʼaccorgono che, essendo essi[242] delle dette sustanze abbondevoli, non mancar loro lʼessere serviti e aiutati e avuti cari, da coloro spezialmente li quali sperano, secondo il loro adoperare verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso, se essi senza denari, senza derrate sono, non che daʼ piú lontani, ma dalle mogli, daʼ figliuoli, daʼ fratelli sono scacciati, ributtati e avviliti e avuti in dispregio. La qual paura se considerata fia, non sará alcuno che si maravigli se essi son tenaci e ancora cupidi dʼavanzare, se il come vedessero.

Contro a costoro gridano la dottrina evangelica, i santi, i filosofi eʼ poeti. Leggesi nellʼEvangelio di Luca, capitolo quinto: «Vae vobis, divitibus!»; e nella Canonica di san Iacopo, capitolo quinto: «Agite nunc, divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient vobis»; e nello Evangelio: «Mortuus est dives, et sepultus est in inferno». Ed Abacuc, capitolo secondo, dice: «Vae qui congregat non sua!»; ed esso medesimo, capitolo decimo: «Vae qui congregat avaritiam malam domui suae!»; e lʼEcclesiastico, decimo: «Avaro nihil est scelestius». E santo Agostino dice: «Vae illis, qui vivunt ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt!»; ed esso medesimo: «Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus». E Seneca a Lucillo, epistola diciassettesima, scrive: «Multis parasse divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio». E Tullio in primo Officiorum: «Nihil est tam angusti animi parvique, quam amare divitias; nihil honestius magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non habeas; si habeas, ad beneficentiam liberalitatemque conferre». E Virgilio, nel terzo dellʼEneida:

...quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames?

E Persio scrive:

Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet?
ecc.

[243]

E Giovenale ancora dice:

Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
ut locuples moriaris, egenti vivere fato,
ecc.

Mostrato che cosa sia avarizia e in che pecchi lʼavaro, percioché in quel medesimo luogo e tormento sono i prodighi tormentati, è sotto brevitá da vedere che cosa sia prodigalitá e in che il prodigo pecchi. È prodigalitá, secondo che Aristotile vuole nel quarto dellʼEtica, lʼuno degli estremi della liberalitá, opposito allʼavarizia; e, cosí come lʼavarizia consiste in tenere dove e come e quando non si conviene, e disiderare e adoperare dʼavere piú che non si conviene, e donde e da cui non si conviene; cosí la prodigalitá consiste in donare e spendere quanto e come e dove non si conviene, e sta questo nel trapassare ogni termine di debita spesa intorno a quella cosa, la quale alcun far vuole o che si conviene: come neʼ vestimenti e negli ornamenti veggiamo spesse volte alcuni trasandare, senza considerare la qualitá, la nazione o lo stato suo, e lʼentrate eʼ frutti delle sue possessioni; come ancora veggiamo nel convitare, nel quale senza considerare a cui, o quando o dove il convito sʼapparecchi, quella spesa si fa per privati uomini, e di bassa condizione o di vile, che se per alcun prencipe o venerabile uomo si facesse (come si legge faceva il figliuolo dʼIsopo filosafo, il quale, rimaso del padre ricchissimo, per dar mangiare aʼ suoi pari, comperava gli usignuoli, i montanelli, i calderugi, i pappagalli, li quali gli uomini hanno carissimi per lo lor ben cantare, e, quando grassi gli trovava, non gli lasciava per danaio, e quegli arrostiti poi poneva innanzi aʼ suoi convitati: per che talvolta avveniva essere per avventura costato il boccone dieci fiorini dʼoro), o come ancora si può fare in cose assai. Il come consiste negli apparati: coroneranno alcuni le sale, ornerannole di drappi ad oro, metteranno le mense splendide, faranno venire i trombatori, i saltatori, i cantatori, i trastullatori, i servidori pettinati, azzimati e leggiadri, non come se scellerati e scostumati uomini vi dovesser mangiare, come le piú volte fanno, ma re o imperadori;[244] useranno ancora maravigliosa sollecitudine, non dico nelle sale o nelle camere, ma nelle stalle e neʼ cellieri, in far le mangiatoie intarsiate, i sedili iscorniciati, e gli altri vasi a questi luoghi opportuni cosí esquisiti, come se negli occhi sempre aver gli dovessero e al lor proprio uso adoperargli. Peccasi ancora nel dove i doni e le spese smisuratamente si fanno, cioè in cui e in quanto: le piú delle volte a ghiottoni, a lusinghieri, a ruffiani, a buffoni, a femminette di disonesta vita e di vilissima condizione si faranno doni magnifichi, li quali sarebbono ad eccellentissimi uomini accettevoli; apparecchierannosi loro cavalcature, farannosi letti e scalderannosi i bagni non altramenti che se nobili e segnalati uomini dovessero pervenirvi: e, se per avventura un valente uomo capitasse alle case di questi cotali gittatori, con tristo viso, con leggieri spese malvolentieri ricevuto vi fia. Ora in queste e in simili cose consiste il vizio della prodigalitá e il prodigo gitta via il suo.

[Lez. XXXI]

È, oltre a questo, il prodigo in parte simile allʼavaro, in quanto esso disidera, e con ardente sollecitudine, dʼacquistare; e in ciò posta giuso ogni coscienza, ogni onestá e dovere, non cura come né donde si venga lʼacquisto: per che talvolta commette baratterie, frodi e inganni e violenze; ma nol fa al fine che lʼavaro, cioè per adunare, ma per aver piú che gittar via. E se alcuni sono in questo vizio oltre ad ogni misura peccatori, sono i cherici, cioè i gran prelati, percioché essi il piú, senza avere alcun riguardo a Dio, né al popolo loro commesso, o alla qualitá di colui in cui conferiscono, concedono, anzi gittano gli arcivescovadi, i vescovadi, le badie e lʼaltre prelature e benefici di santa Chiesa ad idioti, ebriachi, manicatori, furiosi, dʼogni scelleratezza viziosi e cattivi uomini: di che il popolo cristiano non solamente non è allʼopportunitá sovvenuto, ma dalle miserie e cattivitá di cosí fatti pastori son trasviati allo ʼnferno, dietro al malo esempio.

Piace, oltre alle dette cose, ad Aristotile, questo vizio della prodigalitá essere assai men dannevole che quello dellʼavarizia, percioché, non ostante che dellʼavarizia né lʼavaro né alcun altro abbia alcun bene, dove della prodigalitá pur nʼhanno bene[245] alcuni, quantunque mal degni, pare la prodigalitá non debba potersi accrescere né divenir maggiore, percioché il prodigo continuamente diminuisce le sustanze sue, senza le quali la prodigalitá non si può mandare ad esecuzione, e, diminuendosi, pare di necessitá si debba diminuire il vizio: il che dellʼavarizia non avviene, percioché lʼavaro continuamente accresce il suo, e, accrescendolo, accresce la cupidigia dellʼaver piú. Appresso, il vizio il quale si può in alcuna maniera curare pare essere minore che quello che curar non si può; e la prodigalitá si può curare, il che non si può lʼavarizia: e però pare la prodigalitá esser minor vizio che lʼavarizia. Il che, quantunque per una ragione di sopra mostrato sia, si può ancora mostrar con due altre, cioè che la prodigalitá si possa curare. Delle quali ragioni è lʼuna questa: curasi la prodigalitá dal tempo, percioché, quanto lʼuomo piú sʼavvicina alla vecchiezza, tanto diventa piú inchinevole a ritenere, per la ragione di sopra mostrata, dove si disse perché i vecchi eran piú avari che i giovani: e non è alcun dubbio le ricchezze naturalmente disiderarsi, accioché lʼuom possa per quelle sovvenire aʼ difetti umani; e perciò convenevole pare, quanto alcuno sente i difetti maggiori, tanto piú inchinevole sia a quelle cose, per le quali si puote o rimediare o sovvenire a quegli. La seconda ragione è, percioché la povertá è ottima medica a cotale infermitá, e in essa si perviene assai agevolmente da chi gitta e scialacqua senza modo e senza misura il suo, sí come i prodighi fanno; e chi in essa diviene, non può donar né spendere, e cosí si truova guerito di questo vizio; il che dellʼavarizia non avviene, come mostrato è.

Pare adunque, per le ragioni dette, la prodigalitá essere minor vizio che lʼavarizia. E se cosí è, sará chi moverá qui una question cosí fatta: se la prodigalitá è minor vizio che lʼavarizia, perché dimostra qui lʼautore essere in igual tormento puniti i prodighi e gli avari, conciosiacosaché il minor vizio meriti minor pena? Puossi a questa cosí rispondere: che il vizio della prodigalitá non è in sé minore che lʼavarizia, percioché, dove lʼavarizia procede da naturale appetito, pare che[246] la prodigalitá abbia origine da stoltizia, chʼè spezie di bestialitá. Laonde, se alcuna cosa di questo vizio pare che diminuisca lʼessere curabile, questa bestialitá della stoltizia pare che il supplisca; e, oltre a ciò, quantunque curabile paia questo vizio, egli non si cura né per volontá né per opera laudevole del vizioso, e cosí per questo il vizioso non merita; e similmente, quantunque cessata sia la cagione, e per conseguente lʼeffetto, per le sopradette ragioni, nel prodigo, dove il disiderio non cessi di quel medesimo adoperare, avendo di che, non pare, non che curato sia, ma diminuito il vizio. E nelle nostre colpe riguarda la divina giustizia non solamente lʼopere, ma ancora la volontá: e non pecca in assai cose meno chi vuole e non puote che chi vuole e puote; e perciò, non diminuendosi lʼabito preso del vizio, non diminuisce il vizio nello abituato. Laonde convenientemente segue in igual supplicio punirsi il prodigo e lʼavaro. E percioché questi due peccati sono radice e principio di molti mali, agramente insieme puniti sono, accioché in eterno si pianga lʼavere per loro non solamente dimenticato Iddio, e in luogo di lui avere adorati e onorati i denari, ma ancora vendutolo come fece Giuda, e come molti altri fanno, che, giurando e spergiurando, simoneggiando e ingannando, tutto il giorno il vendono; e lʼaver venduta la giustizia, corrotto le leggi, falsificati i testamenti, i metalli e le monete, assediate le strade, commessi i tradimenti, i furti, gli omicidii; lʼesser lusinghiere divenuto e ad ogni malvagio guadagno inchinevole; lʼaver la loro verginitá, la pudicizia, lʼonestá e ogni vergogna posta giú, e lʼesser divenute menandare, maliose, venefiche e indovine.

La pena adunque attribuita a questi peccatori è da vedere come sia conforme al peccato. Come detto è, tutta la sollecitudine dellʼavaro è in ragunare e in tenere il ragunato e in guardarlo piú che si conviene; e quella del prodigo è in procurare con ogni studio dʼavere e di male spender quello che aver puote: e però assai convenevolmente pare che dalla divina giustizia puniti sieno nel continuo volgere gravissimi pesi col petto, e con quegli lʼavaro e ʼl prodigo amaramente urtarsi e percuotersi insieme. Per lo quale atto è da intendere che, come[247] in questa vita, senza darsi alcun riposo, a diversi e contrari fini faticarono, satisfacendo allʼappetito loro e in quello sentendo dannosa dilettazione; cosí in inferno perduti, per grande afflizion di loro, son posti in continuo esercizio di volger col petto pesi che sien loro faticosi e noiosi: e con quegli, come a diversi fini, vivendo, affannarono, diverse opinioni seguitando, cosí, lʼuno incontro allʼaltro facendosi, si percuotano e molestino, in lor maggior dolore la loro viziosa vita con ontoso verso si rimproverino. E accioché nel tormento loro si dimostri essi mai nella presente vita alcuna quiete non avere avuta, né doverla in quella sperare, vuole la giustizia che il loro discorrimento a tanta noia sia circulare.

Appresso, lʼesser queste due spezie di vizio poste sotto la giurisdizione di Plutone si dee credere non esser fatto senza ragione. [Io vi mostrai di sopra questo Plutone essere disegnato per lo padre delle ricchezze, e quello che la sua cittá, la corte, i circustanti, il carro, lo sterile matrimonio e il can tricerbero era da intendere: le quali son tutte cose spettanti ed allʼun vizio ed allʼaltro, se sanamente si riguarderá.] E perciò, comeché lʼautor non scriva questo dimonio alcuna cosa adoperare in costoro, che sotto la sua giurisdizion son dannati, nondimeno si può comprendere lui, cioè il suo significato (oltre allʼontoso verso che lʼuna parte contro allʼaltra dice), sempre con la sua presenzia raccendere nella memoria degli avari i tesori, tanto amati da loro e per molte vie acquistati e con vigilante cura guardati, essere stati da loro lasciati e, in un punto, tutti i lor pensieri, tutte le loro speranze, tutte le lor fatiche non solamente essere evacuate e vane, ma essi ancora esserne venuti a perdizione. Per che creder si dee loro con vana compunzione piangere e dolersi che, poiché pur da loro partir si doveano, non li aveano con liberale animo aʼ bisognosi participati: della qual cosa loro sarebbe seguita eterna salute, dove essi, per lo non farlo, ne san caduti in perpetua perdizione. E cosí similmente i prodighi, per lʼaspetto di Plutone si ricordano, se per caso alcuno loro uscisse di mente, deʼ loro tesori e delle loro ricchezze disutilmente, anzi dannosamente spese,[248] donate e gittate; e dove, bene e debitamente spendendole, potevano acquistar quella gloria che mai fine aver non dee, dove per lo contrario si veggiono in tormento e in miseria sempiterna: la quale assidua ricordazione si dee credere esser loro afflizion continua e incomparabile dolore, il quale con inestinguibile fiamma sempre di nuovo accende le coscienze loro.

«Or discendiamo omai a maggior pièta», ecc. Questa è la seconda parte principale di questo settimo canto, nella quale, sí come nella esposizion testuale appare, lʼautore del cerchio quarto discende nel quinto. E avendogli la ragion dimostrato che colpa sia quella del vizio dellʼavarizia e della prodigalitá, e che tormento per quella ricevano i dannati; in questo quinto cerchio gli dimostra punirsi la colpa dellʼira e quella dellʼaccidia. Le quali accioché alquanto meglio si comprendano, e piú piena notizia sʼabbia della intenzion dellʼautore, è alquanto da dichiarare in che questi due vizi consistano, e quindi verremo a dimostrare come con la pena si confaccia la colpa.

Se noi adunque vogliam sanamente guardare, assai leggermente potrem vedere che alcuno deʼ quattro elementi non è, il quale sia tanto stimolato, tanto infestato, né tanto percosso e rivolto dal cielo, dallʼacqua e dagli uomini, quanto è la terra. Questa nelle sue parti intrinseche è con vari strumenti cavata e ricercata, accioché di quelle i metalli nascosi si traggano, evellansi i candidi marmi, i durissimi porfidi e lʼaltre pietre di qualunque ragione, facciansi cadere le fortezze sopra gli alti monti fermate, e facciansi pervie quelle parti, le quali da sé non prestavano leggermente lʼandare; questa nella sua superficie ora daʼ marroni, ora daʼ bómeri e ora dalle vanghe è rivolta, cavata e rotta e dʼuna parte in unʼaltra gittata; questa daʼ templi mirabili, dagli edifici eccelsi delle cittá grandissime è oppressa, caricata e premuta; questa dagli animali, daʼ carri, e da ponderosissimi strascinii è attrita e scalpitata; questa dal mare, daʼ fiumi e daʼ torrenti è rosa, estenuata e trasportata; questa dalle selve, dallʼerbe e dalle semente continue è poppata, sugata e munta; questa è dagli incendi evaporanti arsa, dalle folgori celestiali percossa e daʼ tremuoti sotterranei dicrollata;[249] questa è dai diluvi dilavata, daʼ raggi solari esusta e daʼ ghiacci ristretta. Chi potrebbe assai pienamente raccontare le molestie, dalle quali ella è senza alcuna intermissione offesa e malmenata? Né per tutte le raccontate ingiurie, né per molte altre, leggiamo o veggiamo che essa alcuna volta rammaricata si sia, o si rammarichi; tanta è la sua umiltá costante e paziente. Per la qual cosa forse creder si potrebbe esser piú tosto piaciuto al nostro Creatore dʼaver di quella il corpo dellʼuom composto che dʼaltro elemento o dʼaltra materia, accioché la natura di questa, della qual fu composto, seguitando, fosse paziente, e con tolleranzia fermissima sostenesse i casi per qualunque cagione emergenti.

Le quali cose mal considerate da noi, non come térrei, ma quasi come se di fuoco fossimo stati formati, chi per nobiltá di sangue, chi per eccellenzia di dignitá, chi per altezza di stato, chi per sublimitá di scienza, chi per abbondanza di ricchezze, chi per corporal forza, chi per bellezza, chi per destrezza di membri, tanto fastidiosi divenuti siamo, teneri e déscoli e impazienti, che per ogni leggerissima cosa ci accendiamo; e, non potendo lʼun dellʼaltro sofferire i costumi, non solamente per ogni piccola ingiuria ci adiriamo, ma come fiere salvatiche daʼ cacciatori e daʼ cani irritate, in pazzo e bestial furore trascorriamo, tumultando, gridando e arrabbiando. E cosí nelle tenebre dellʼignoranza offuscati, spesse volte e noi e altrui in miseria quasi incomportabile sospignamo. Di che, provocata sopra noi la divina ira, avviene che la sua giustizia ne manda in parte, dove gli splendor mondani e le ricchezze e le dignitá avute son per niente, e noi non altramenti che porci siamo avviluppati, convolti e trascinati in puzzolente e fastidioso loto, dove con misera ricordazione e continua, senza pro, cognosciamo che noi eravam térrei, quando, adirati, di percuotere il cielo non che altro ci sforzavamo. Alla dimostrazione della qual cosa accioché deducendoci pervegnamo, prima mi par di dimostrare in che questo vizio consista, che di procedere ad altro; accioché per questa dichiarazione sia meglio conosciuto, e, per conseguente, dal meglio conosciuto meglio guardar ci possiamo, e, oltre a[250] ciò, con men difficultá veggiamo come attamente lʼautor disegni dalla giustizia di Dio essere alla colpa dato conveniente supplicio.

Dico adunque che, secondo che ad Aristotile pare nel quarto dellʼEtica, che lʼira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa esser causata da tristizia nata nellʼadirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sé o in altrui di cui gli caglia o nelle sue cose, o falsa o vera che quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso li quali non è di bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e quando turbar non si deono, e ancora piú velocemente che non deono, e piú tempo perseverano in stare adirati che essi non deono.

E di questi cotali adirati o iracundi, secondo che Aristotile medesimo dimostra, son tre maniere. La prima delle quali è quella dʼalcuni, che, per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori, solamente che loro non sodisfaccia, subitamente sʼadirano e gridano e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi lor sia bastevole dʼaversi mostrati adirati, o perché subitamente vien lor fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si sono; e cosí esalata lʼira, ritornano nella quiete prima. La qual cosa in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la colpa dellʼadirarsi minore. Eʼ pare che in questa spezie dʼira sieno fieramente inchinevoli coloro, li quali sono di complession collerica, dalla velocitá o sottigliezza della quale par che venga questa subitezza.

La seconda maniera è quella di coloro li quali non troppo correntemente per ogni piccola cagion sʼadirano, ma pure in quella, dopo alquanto aver sofferto, pervengono: lʼira deʼ quali è sí pertinace e ferma, che non senza difficultá si dissolve. E questi stanno lungamente adirati, servando dentro a se medesimi lʼira loro, né quasi mai quella risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna vendetta non prendono. Né questa tengono ascosa senza lor gravissima noia, percioché,[251] quanto il fuoco piú si ristrigne in poco luogo, piú cuoce; e perciò, mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato appetito, tanto servano lʼira e se medesimi affliggono e molestano. Ed è questa ira men curabile in quanto è nascosa, percioché né amico né altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa ira nascosa si diminuisca o si lasci; per che segue esser di necessitá o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son questi cotali non solamente a se medesimi molesti, ma ancora alle lor famiglie, aʼ compagni e agli amici, coʼ quali essi, stimolati dalla turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. [E da questa spezie dʼira sono infestati maravigliosamente quegli che son di complessione malinconica, percioché in essi, per la grossezza dellʼumor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente.]

La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, li quali, adirati, in alcuna maniera non lasciano lʼira, né per consiglio dʼalcuno, né per lusinga, né ancora per lunghezza di tempo, senza aver prima presa vendetta dellʼoffesa, la quale par loro avere ricevuta: e questi sono pessimi adirati, percioché, come assai chiaramente veder si può, essi hanno lʼira convertita in odio. [Della qual maladizione fieramente son maculati i toscani, e tra loro in singularitá i fiorentini, li quali per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare; e, che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo, rinnegandolo e chiamandolo ingiusto; non volendoci per alcuna maniera ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli, per farci al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il quale volle rivedere la ragione dellʼamministrazione che un deʼ suoi servi aveva fatta deʼ fatti suoi. Trovò che ʼl servo gli doveva dare cento talenti, e però comandò che esso, ogni sua cosa venduta, fosse messo in prigione, infino a tanto che egli avesse[252] interamente pagato: ma, pregandolo con umiltá il servo gli perdonasse, impetrò rimessione del debito; e poi liberato, fece, senza voler perdonare, prendere un suo conservo, per dieci talenti che dar gli dovea, e metterlo in prigione. Il che udendo il signore, che cento nʼavea perdonati a lui, il fece prendere e dʼogni suo bene spogliare e gittare nelle tenebre esteriori, percioché verso il prossimo suo era stato ingrato, non volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle quali cose se noi riguardassimo, cognosceremmo questo signore essere Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti esser ciascheduno uomo: e perché possibile non ci era pagare il debito, mandò di cielo in terra il Figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò da cosí ponderoso debito. E noi poi, mal grati di tanta grazia, non ci possiamo, né ci lasciamo recare aʼ conforti di coloro che saviamente ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, lʼuno allʼaltro: di che, privati dʼogni nostro bene, siamo per giudicio di Dio gittati in casa il diavolo.]

Ma, quantunque lʼuno pecchi meno che lʼaltro di queste tre maniere dʼiracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sí nel non aver saputo porre il freno della temperanza agli émpiti loro, e sí per la ragione detta di sopra, e sí ancora per avere avuto in dispregio il comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: «Mihi vindictam et ego retribuam». E per questo nellʼira sua divenuti e in quella morti, quello ne segue, che poco davanti si disse, cioè che, dannati, siam mandati al supplicio, il quale lʼautore ne discrive.

È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro supplicio dannoso molto allʼiracundo, ma ancora nella vita presente. Ercule, adirato e in furor divenuto, uccise Megara, sua moglie, e due suoi figliuoli; e Medea, adirata, similmente due suoi figliuoli, di Giasone acquistati, uccise. Eteocle, re di Tebe, in singular battaglia contro a Polinice, suo fratello, discese; Atreo diede tre suoi nepoti mangiare a Tieste, suo fratello; Aiace telamonio, il quale non avevan potuto vincere lʼarmi troiane, vinto dallʼira, se medesimo uccise; Amata, moglie[253] del re Latino, veduta Lavina, sua figliuola, divenuta moglie dʼEnea troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne misero peso delle travi del real suo palagio. Annibale cartaginese, chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani deʼ romani raddomandantilo al re Prusia, incontro a sé adiratosi, preso volontariamente veleno, sí morí. Che bisogna raccontarne molti? conciosiacosaché manifesto sia, lʼira, poi che il consiglio della ragione ha tolto dellʼuomo, col furor suo molti nʼabbia giá in miseria e detestabile ruina condotti; li quali come che in questa vita e seco medesimi e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra lʼautor nellʼaltra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile per lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente esala, tuffati e pieni dʼabominevole fastidio; e in quella non solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno altro membro fieramente percuotersi, e coʼ denti mordersi e troncarsi le persone e stracciarsi tutti.

Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso, spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale aʼ dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi in questa vita, e la gravosa pena deʼ dannati nellʼaltra. Il percuotersi con la testa, col petto e coʼ piedi niuna altra cosa è che un disegnare glʼimpeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso accendimento dellʼira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per la testa dellʼiracundo i pensieri, glʼintendimenti, le diliberazioni dellʼiracundo, tutti posti e dirizzati dietro al disiderio della vendetta: e questo, percioché nella testa consistono tutte le virtú sensitive interiori e ancora le ʼntellettive, dalle quali sono formate le predette cose. E percioché nel petto consistono le virtú vitali e le nutritive, dobbiam sentire coʼ petti offendersi glʼiracundi, non lʼun lʼaltro, ma se medesimi; in quanto, quando molto si pon lʼanimo intorno allʼeffetto dʼalcun disiderio, non si prende da colui, che cosí è occupato, né la quantitá del cibo usata, né ancora con lʼordine consueto, per che conviene che la virtú nutritiva sia intorno[254] al suo uficio talvolta molto impedita; dal quale impedimento séguita la debolezza e il diminuimento delle virtú vitali: e cosí, mentre che lʼiracundo con tutto il suo disiderio sta inteso a doversi dellʼingiuria ricevuta vendicare, offende piú se medesimo che ʼl nemico. E cosí ancora per li piedi dobbiamo intender le affezioni di qualunque persona; percioché, sí come i piedi portano il corpo, cosí lʼaffezioni menano lʼanimo e son guida di quello: e percioché tutte le affezioni dellʼiracundo sono pronte e inchinevoli a dover nuocere a colui o a coloro contro aʼ quali è adirato, dice qui lʼautore glʼiracundi coʼ piedi offendersi.

Il troncarsi coi denti le carni e levarsele con essi a pezzo a pezzo è efficacissima dimostrazione di quanta potenzia sia lʼimpeto di questo vizio, poiché non solamente offusca lʼintelletto e la ragione nellʼadirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non fosse, basterebbe allʼadirato lʼaversi morso una sol volta; percioché il dolore ricevuto di quella il farebbe rimanere di piú volte mordersi; dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta e sí furiosa ira accesi, che in se medesimi, non potendo quel che disiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, coʼ denti troncarsi le proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle. E questo medesimo ancora sono stati di quegli che, avendone il destro, hanno adoperato nelle persone state odiate da loro: sí come ne scrive Stazio, nel suo Thebaidos, di Tideo, amico di Polinice, il quale, sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con furia domandò dʼaverlo, e ultimamente, non senza gran zuffa e morte di molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso e menato dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente coʼ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, piú che umano, morí egli e uccise il nemico.

Lʼessere in quella padule fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser causativa dellʼira; percioché, se quelle cose che avvengono, delle quali lʼuomo sʼadira, se esse non ci[255] contristassono, senza dubbio noi non ci adireremmo, e cosí per lʼesser contristati ci adiriamo: e perciò, accioché i miseri iracundi sieno nel vizio loro medesimo puniti e afflitti, e per quello senza pro riconoscano sé dovere avere con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in questa padule di Stige, la quale è interpretata «tristizia», demersi bollono, e in continua ira, in danno di se medesimi, come dimostrato è, sʼaccendono.

Lʼessere la padule calda e nera e nebulosa ne può assai ben dimostrare le tre qualitá deglʼiracundi, delle quali di sopra è detto: intendendo per la caldezza del pantano la qualitá deglʼiracundi, la qual dissi subitamente accendersi, e ciò procedere dallʼomor collerico, il quale è caldo e secco. Per la nebula del padule possiamo intendere lʼaltra qualitá deglʼiracundi, la qual dissi lungamente servare lʼira accolta, ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, sí come veggiamo che le nebule deʼ pantani, state quasi salde e intere per buona parte del dí, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La terza qualitá deglʼiracundi, li quali dissi non solamente non lasciar mai lʼira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza aver presa vendetta dellʼoffesa, la quale gli parve aver ricevuto, e ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera, e la interpetrazion del nome della malinconia si dice da «melan», graece, il quale in latino suona «nero». E questi cotali malinconici son sempre nellʼaspetto chiusi, bulbi e oscuri, per che assai paion conformarsi al colore del padule. O vogliam dire queste tre proprietá, le quali lʼautor discrive esser di questa padule, dover significare tre proprietá deglʼiracundi, cioè: per la nerezza, la tristizia; per la nebula, la caligine dellʼignoranza, la quale lʼira para dinanzi agli occhi dello ʼntelletto, e cosí non può, offuscato, vedere quello che sia da fare; e per lo caldo, il furor dellʼiracundo nel qual sʼaccende.

Per lo loto, nel qual sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo intendere la sozza e fetida macula, la quale lʼira mette nelle[256] menti di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di quella, li quali macolano e bruttano ogni onesta fama.

[Lez. XXXII]

Resta a vedere del vizio opposito allʼiracundia, il quale in questa medesima padule di Stige si punisce con glʼiracundi, cioè lʼaccidia. Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e dagli uomini virtuosi: ma, se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del nostro intelletto e deʼ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe avere, al sospignerci ad esser neʼ tempi debiti in continuo esercizio, il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolissimi animali, nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza aver né astrolago o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito, senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son le biade neʼ campi, o altra qualitá di tempo, come talvolta fanno i naviganti; dentro dalla sua cava standosi, cognoscono quando la state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade si ricolgano; e allora, purgata la via e aperta lʼuscita della sua cava, la qual per ventura le piove del verno e i piedi degli animali aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida alcuna, tutte si dirizzano allʼaie, dove i lavoratori le biade segate ragunano e battono e mondano, e aʼ granai neʼ quali quelle ripongono, e a qualunque altro luogo per li campi fosser per ventura ristrette. E quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla paglia le granella, quello che possono prendono; e, vòlti i passi loro, sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che se medesime, con quel che preso hanno, ritornano alla lor tana; e quello salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta sopra la terra, ritornano al cominciato uficio. Né son contente dʼun sol dí essersi faticate, ma, mentre il caldo dura, ciascuna mattina col sole levandosi, ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene, in quello, essere a loro manifesto quello nel verno non potere operarsi, sí per le piove continue, e sí perché quello che la state truovano in molte parti e presto è aperto loro, quello il verno troverebbono in poche[257] e serrato; avvedendosi ancora che, se cosí nellʼabbondanza della state fatto non avessono o non facessono, convenirle di verno perir di fame.

La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non prestasse utile dimostrazione contro allʼoziositá, e contro al porre indugio alle cose opportune e a dovere, quanto è per lo corpo, sí adoperare nella nostra fervida etá, cioè nella giovinezza, che poi, vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna e senza stento aspettar lʼultimo giorno, quando a Dio piacesse mandarlo: e, oltre a ciò, per la futura vita, mentre prestato nʼè nella presente vita, adoperare che, vegnendo il freddo della morte, noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intraʼ beati, e non esser gittati nella morte perpetua dello ʼnferno, dove sará pianto e stridor di denti. Ma, percioché lʼaddormentato intelletto di molti, né per disciplina, né per sollecitudine, né per utili esempli non si può destare né inducere da alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia, il discreto esempio del piccolo animale, non che imitare ma pur riguardare; avviene spesso che questi cotali in questa vita vengono in estrema miseria, e nellʼaltra tuffati bollono nella palude di Stige, come nel presente canto ne discrive lʼautore.

E accioché piú chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, ed, oltre a ciò, piú leggermente vedere quello che voglia lʼautor sentire per la pena loro attribuita dalla divina giustizia; dico [che lʼaccidia], secondo che nel quarto dellʼEtica mostra ad Aristotile di piacere, colui essere accidioso, il quale dove bisogna non sʼadira, dicendo essere atto di stolto il non adirarsi, dove e quanto e in quel che bisogna; percioché pare che questo cotale non abbia sentimento dʼuomo, e però di nulla cosa sʼattristi, e cosí non essere vendicativo: e aggiugne che sostenere lo ʼngiuriante e il non aver gli amici in prezzo sia atto servile. Della qual sentenza considerata bene la cagione, credo nʼapparirá ogni altra cosa che allʼaccidioso sʼattribuisce dover nascere e venire. Che dobbiam noi credere altro di questa rimession dʼanimo dellʼaccidioso, se non quella procedere da un torpore,[258] da una viltá, da una oziositá di mente, per le quali esso senza turbarsi sostiene le ʼngiurie? Se ciò avvenisse per umiltá, o per essere obbediente aʼ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno giá fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion dʼanimo essere avvenuto; percioché non può vittoria seguire, dove il nemico non è comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini essere stati vittoriosi nelle passioni. Turbasi adunque il santo e savio uomo, quante volte vede o ode in sé o in altrui dire o operare quello, che né dire né operare si convenga; ma prima chʼegli lasci tanto avanti la perturbazion procedere, che ad atto di peccato potesse pervenire, con umiltá e con buona pazienza vince la turbazione, e di questa vittoria merita. Ma lʼaccidioso non è cosí; percioché non per virtú, ma per cattivitá è paziente, e tutto dimessosi per la viltá dellʼanimo suo allʼozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue meditazioni sʼattrista, ognora divenendo piú vile, intanto che la sua vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa alcuna, quantunque menoma, la quale esso sʼattenti di cominciare; e, se pur tanto lo ʼnfesta la necessitá che egli alcuna ne cominci, nel cominciamento medesimo invilisce, sí che, le piú volte intralasciatala, non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il dissolve, il giorno gli è noioso e la notte grave; ciascheduna ora, e in qualunque stagione, ha in sé, al giudicio del pigro, alcuno impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosí il tempo nuvolo e ʼl sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani; non visita, non sollecita le possession sue, non i lavorator di quelle, non i servi, e lʼessergli di quelle i frutti diminuiti non se ne cura per tracutanza. Alle publiche cose non ardirebbe di salire, alle quali se pur sospinto fosse per li meriti dʼalcun suo, come uno addormentato si starebbe in quelle; il letto, le notti lunghissime e i sonni, non piú corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene; la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole compagnia.

[Ma, posponendo gli atti morali e alquanto parlando degli spirituali, non visita glʼinfermi, non visita glʼincarcerati, non[259] sovviene di consiglio aʼ bisognosi, non visita la chiesa, non onora il corpo di Cristo per non trarsi il cappuccio, allʼusanza di Fiandra, non si confessa aʼ tempi, non prende i sacramenti, non dispone né i fatti dellʼanima né quegli del corpo.]

Ma a che molte parole? Lʼuomo si potrebbe stendere assai, volendo pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma, percioché disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico che la vita dellʼaccidioso è, quanto piú può, simigliante alla morte.

È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui nasce non solamente povertá, ma indigenzia e miseria, nella quale rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene; nasce ancor da costui afflizion dʼanimo, odio di se medesimo e rincrescimento di vita; nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtú, perdimento di fama e moltitudine di pensier vani; tiepidezza di spirito, prolungazion dʼopere e fastidio general dʼogni bene; e ultimamente, dopo la trista vita, eterna perdizion dellʼanima.

E percioché tutti gli atti di coloro, li quali sono da questo vizio occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e, in quanto possono, nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente lʼautore stare nascosi e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera palude bogliente, nera e nebolosa; e in quella gorgogliare con la gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro dolersi della vita trista e nigligente, la qual menarono. Volendo per questo sʼintenda primieramente, per lo calor della padule, il calor della divina ira, il quale, sí come contrario alla freddezza del lor peccato, gli tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore. E per lʼessere la palude nera, vuol sʼintenda la tenebrosa lor vita, e la oscuritá delle loro opere, delle quali mai luce alcuna non apparve. E per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto lʼonde, accioché si comprenda loro nella presente vita non essere per alcuna loro operazione stati conosciuti. Lʼessere la padule nebulosa, o fumosa che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza, della quale furono offuscati gli occhi[260] dello ʼntelletto loro, li quali mai riguardar non vollono sé essere uomini nati ad esercizio laudevole e non a detestabile ozio. Lʼavere la strozza piena di fango, e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri e in meditazion malinconiche, le quali son di natura terree, e, sí come grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.


[261]

CANTO OTTAVO

I

Senso letterale

[Lez. XXXIII]

«Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Continuasi lʼautore in questo canto alle cose precedenti in questa forma che, avendo nella fine del precedente canto mostrato come, alquanto aggirata della padule di Stige, pervenissero a piè dʼuna torre; nel principio di questo dimostra quello che, avanti al piè della torre pervenissero, vedessero, discrivendo poi quello che di ciò che videro seguisse: e intende lʼautore dimostrare in questo come, trasportati da Flegias dimonio per nave, pervenissero alla porta della cittá di Dite. E dividesi il presente canto in quattro parti: nella prima dimostra lʼautore come, vedute certe fiamme sopra due torri, distanti lʼuna allʼaltra, un demonio chiamato Flegias venisse in una barchetta, e come in quella Virgilio ed esso discendessero; nella seconda discrive lʼautore ciò che, navicando per la palude, udisse e vedesse dʼuno spirito chiamato Filippo Argenti; nella terza mostra come, giunti nel fosso della cittá di Dite, e quindi alla porta di quella pervenissero; nella quarta pone la raccolta fatta loro daʼ demòni, che sopra la porta o allʼentrata della porta erano, e come, avendo Virgilio parlato con loro, gli fosse da loro chiusa la porta nel petto, e turbato a lui se ne tornasse, e quel che dicesse. La[262] seconda comincia quivi: «Mentre noi correvam»; la terza quivi: «Quivi il lasciammo»; la quarta quivi: «Non senza prima far».

Dice adunque nella prima: [«Io dico, seguitando». Nelle quali parole si può alcuna ammirazion prendere in quanto, senza dirlo, puote ogni uom comprendere esso aver potuto seguire la materia incominciata; e sí ancora che, per insino a qui, non ha alcunʼaltra volta usato questo modo di continuarsi alle cose predette. E perciò, accioché questa ammirazion si tolga via, è da sapere che Dante ebbe una sua sorella, la quale fu maritata ad un nostro cittadino chiamato Leon Poggi, il quale di lei ebbe piú figliuoli, traʼ quali ne fu uno di piú tempo che alcun degli altri, chiamato Andrea, il quale maravigliosamente nelle lineature del viso somigliò Dante, e ancora nella statura della persona, e cosí andava un poco gobbo, come Dante si dice che facea, e fu uomo idioto, ma dʼassai buon sentimento naturale e neʼ suoi ragionamenti e costumi ordinato e laudevole; del quale, essendo io suo dimestico divenuto, io udiʼ piú volte deʼ costumi e deʼ modi di Dante, ma, tra lʼaltre cose che piú mi piacque di riservare nella memoria, fu ciò che esso ragionava intorno a quello di che noi siamo al presente in parole.]

[Diceva adunque che, essendo Dante della setta di messer Vieri deʼ Cerchi, e in quella quasi uno deʼ maggiori caporali, avvenne che, partendosi messer Vieri di Firenze con molti degli altri suoi seguaci, esso medesimo si partí e andossene a Verona. Appresso la qual partita, per sollecitudine della setta contraria, messer Vieri e ciascun altro che partito sʼera, e massimamente deʼ principali della setta, furono condennati, sí come ribelli, nellʼavere e nella persona, e tra questi fu Dante: per la qual cosa seguí che alle case di tutti fu corso a romor di popolo, e fu rubato ciò che dentro vi si trovò. È vero che, temendosi questo, la donna di Dante, la qual fu chiamata madonna Gemma, per consiglio dʼalcuni amici e parenti, aveva fatti trarre dalla casa alcuni forzieri con certe cose piú care, e con iscritture di Dante, e fattigli porre in salvo luogo. E, oltre a questo, non essendo bastato lʼaver le case rubate, similmente i parziali piú possenti occuparono chi una possesione chi unʼaltra[263] di questi condennati: e cosí furono occupate quelle di Dante. Ma poi, passati ben cinque anni o piú, essendo la cittá venuta a piú convenevole reggimento che quello non era quando Dante fu condennato, dice le persone cominciarono a domandar loro ragioni, chi con un titolo chi con un altro, sopra i beni stati deʼ ribelli, ed erano uditi: per che fu consigliata la donna che ella, almeno con le ragioni della dote sua, dovesse deʼ beni di Dante raddomandare. Alla qual cosa disponendosi ella, le furon di bisogno certi stromenti e scritture, le quali erano in alcuno deʼ forzieri, li quali ella in su la furia del mutamento delle cose aveva fatti fuggire, né poi mai gli aveva fatti rimuovere del luogo dove diposti gli aveva. Per la qual cosa diceva questo Andrea che essa aveva fatto chiamar lui, sí come nepote di Dante, e, fidategli le chiavi deʼ forzieri, lʼaveva mandato con un procuratore a dover recare delle scritture opportune. Delle quali mentre il procuratore cercava, dice che, avendovi altre piú scritture di Dante, tra esse trovò piú sonetti e canzoni e simili cose; ma, tra lʼaltre che piú gli piacquero, dice fu un quadernetto, nel quale di mano di Dante erano scritti i precedenti sette canti; e però presolo e recatosenelo, e una volta ed altra rilettolo, quantunque poco ne ʼntendesse, pur diceva gli parevan bellissima cosa. E però diliberò di dovergli portare, per saper quel che fossero, ad un valente uomo della nostra cittá, il quale in queʼ tempi era famosissimo dicitore in rima, il cui nome fu Dino di messer Lambertuccio Frescobaldi; il qual Dino, essendogli maravigliosamente piaciuti, e avendone a piú suoi amici fatta copia, conoscendo lʼopera piú tosto iniziata che compiuta, pensò che fossero da dover rimandare a Dante, e di pregarlo che, seguitando il suo proponimento, vi desse fine. E, avendo investigato e trovato che Dante era in quei tempi in Lunigiana con un nobile uomo deʼ Malispini, chiamato il marchese Morruello, il quale era uomo intendente e in singularitá suo amico, pensò di non mandargli a Dante, ma al marchese, che gliele mostrasse, e cosí fece; pregandolo che, in quanto potesse, désse opera che Dante continuasse la ʼmpresa, e, se potesse, la finisse.]

[264]

[Pervenuti adunque i sette canti predetti alle mani del marchese, ed essendogli maravigliosamente piaciuti, gli mostrò a Dante; e, avendo avuto da lui che sua opera erano, il pregò gli piacesse di continuare la ʼmpresa. Al qual dicono che Dante rispuose:—Io estimava veramente che questi, con altre mie cose e scritture assai, fossero, nel tempo che rubata mi fu la casa, perduti, e però del tutto nʼavea lʼanimo e ʼl pensiero levato: ma, poiché a Dio è piaciuto che perduti non sien, ed hammegli rimandati innanzi, io adopererò ciò che io potrò di seguitare la bisogna, secondo la mia disposizion prima.—E quinci rientrato nel pensiero antico, e reassumendo la intralasciata opera, disse in questo principio del canto ottavo: «Io dico, seguitando» alle cose lungamente intralasciate.]

[Ora questa istoria medesima puntualmente, quasi senza alcuna cosa mutarne, mi raccontò giá un ser Dino Perini, nostro cittadino e intendente uomo, e, secondo che esso diceva, stato quanto piú esser si potesse familiare e amico di Dante; ma in tanto muta il fatto, che esso diceva non Andrea Leoni, ma esso medesimo essere stato colui, il quale la donna avea mandato aʼ forzieri per le scritture, e che avea trovati questi sette canti, e portatigli a Dino di messer Lambertuccio. Non so a quale io mi debba piú fede prestare; ma qual che di questi due si dica il vero o no, mʼoccorre nelle parole loro un dubbio, il quale io non posso in maniera alcuna solvere che mi soddisfaccia. E il dubbio è questo. Introduce nel sesto canto lʼautore Ciacco, e fagli predire come, avanti che il terzo anno, dal dí che egli dice, finisca, convien che caggia dello stato suo la setta, della quale era Dante. Il che cosí avvenne, percioché, come eletto è, il perdere lo stato la setta Bianca e il partirsi di Firenze fu tutto uno: e però, se lʼautore si partí allʼora premostrata, come poteva egli avere scritto questo? e non solamente questo, ma un canto piú? Certa cosa è che Dante non avea spirito profetico, per lo quale egli potesse prevedere e scrivere, e a me pare esser molto certo che egli scrisse ciò che Ciacco dice poi che fu avvenuto; e però mal si confanno le parole di costoro con quello che mostra essere stato. Se forse[265] alcun volesse dire lʼautore, dopo la partita deʼ Bianchi, esser potuto occultamente rimanere in Firenze, e poi avere scritto anzi la sua partita il sesto e il settimo canto, non si confá bene con la risposta fatta dallʼautore al marchese, nella qual dice sé avere creduto questi canti con lʼaltre sue cose essere stati perduti, quando rubata gli fu la casa. E il dire lʼautore aver potuto aggiungere al sesto canto, poi che gli riebbe, le parole le quali fa dire a Ciacco, non si può sostenere, se quello è vero che per i due superiori si racconta, che Dino di messer Lambertuccio nʼavesse data copia a piú suoi amici; percioché pur nʼapparirebbe alcuna delle copie senza quelle parole, o pur per alcuno antico, o in fatti o in parole, alcuna memoria ne sarebbe. Ora, come che questa cosa si sia avvenuta o potuta avvenire lascerò nel giudicio deʼ lettori; ciascun ne creda quello che piú vero o piú verisimile gli pare.]

[Tornando adunque al testo, dice:] «Io dico, seguitando» alle cose predette, «chʼassai prima Che noi», cioè Virgilio ed io, «fossimo al piè de lʼalta torre», alla quale nella fine del precedente canto scrive che pervennero, «Gli occhi nostri nʼandâr», riguardando, «suso alla cima», cioè alla sommitá della torre predetta. E appresso dimostra la cagione perché gli occhi verso la cima levarono, dicendo: «Per due fiammette», cioè piccole fiamme, «che vedemmo porre», in su quella sommitá della torre, «E unʼaltra», fiamma, «di lungi» da questa torre, «render cenno», sí come far si suole per le contrade nelle quali è guerra, che, avvenendo di notte alcuna novitá, il castello o il luogo, vicino al quale la novitá avviene, incontanente per un fuoco o per due, secondo che insieme posti si sono, il fa manifesto a tutte le terre e ville del paese. E dice che questo cenno dʼuna fiamma fu renduto di lontano, «Tanto, chʼappena il potea lʼocchio tôrre», cioè discernere [altro]. Ma pure, poi che tolto lʼebbe, dice:

«Ed io mi volsi al mar», cioè allʼabbondanza, «di tutto il senno», cioè a Virgilio (del quale nel principio del canto precedente dice: «E quel savio gentil, che tutto seppe»); e séguita: «Dissi:—Questo che dice?», cioè che significa il fuoco,[266] il quale è qui sopra di noi fatto in questa torre? «e che risponde Quellʼaltro fuoco?», il quale io veggio fare sopra la torre, la quale nʼè lontana; «e chi son queʼ che ʼl fenno»?—questo chʼè sopra noi, e quello ancora che nʼè piú rimoto.

«Ed egli a me:—Su per le sucide onde», di Stige, le quali chiama «sucide», perché nere e brutte erano, «Giá puoi scorger», cioè di lontan vedere, «quello che sʼaspetta» di dovere avvenire per questo fuoco e per quello, «Se ʼl fummo», cioè la nebbia, «del pantan nol ti nasconde»,—percioché la nebbia, dove non si diradi, ha a tôr la vista delle cose, alle quali ella è davanti e mèzza tra esse e lʼocchio del riguardante.

E, questo avendo Virgilio risposto, séguita lʼautore, e dimostra quello che seguí deʼ fuochi sopra le due torri veduti, dicendo: «Corda», dʼalcuno arco, «non pinse mai da sé saetta, Che si corresse», cioè volasse, «via per lʼaere snella», cioè leggiere, «Comʼio vidi una nave piccioletta Venir per lʼacqua», della padule, «verso noi in quella» che Virgilio diceva:—«Giá puoi scorgere», ecc.—«Sotto il governo dʼun sol galeoto». «Galeotti» son chiamati queʼ marinari li quali servono alle galee; ma qui, licentia poëtica, nomina «galeotto» il governatore dʼuna piccola barchetta; e dice «che», questo galeotto, «gridava:—Or seʼ giunta, anima, fella!»,—cioè malvagia.

E, come assai appare, lʼautore in questo quinto cerchio non ha ancor mostrato essere alcun demonio, il quale preposto sia al tormento deʼ dannati in esso, né che con alcun atto lo spaventi, come suol fare neʼ cerchi di sopra; e perciò il pone in questo luogo. E questo è artificiosamente fatto, percioché non sempre dʼuna medesima cosa si dee in un medesimo modo parlare. Ponlo adunque, per variare alquanto il modo del dimostrare, qui infra ʼl cerchio, percioché tutto è del quinto cerchio ciò che si contiene infino allʼentrata della cittá di Dite. E in quanto le parole di questo galeotto sono in numero singulare, par che sieno dirizzate dal dimonio pure allʼun di lor due, cioè a Virgilio, il quale era anima e non uomo; e però si può comprendere questo demonio avere da occulta virtú sentito lʼautore non venir come dannato, e però lui non avere[267] in esso alcuna potestá; ma esso gridar contro a Virgilio, accioché lʼautore spaventasse, e, spaventandolo, il rimovesse dal suo buon proponimento, cioè dal voler conoscere le colpe deʼ peccatori e i tormenti dati a quelle, accioché per lo conoscer delle colpe apparasse quello che era da fuggire, e per la pena prendesse timore e quindi compunzione, se per avventura in quella colpa caduto fosse.

Al qual dimonio cosí gridante disse Virgilio:—«Flegias, Flegias»; era questo il propio nome del dimonio che la nave menava, il qual Virgilio quasi dirisivamente due volte nomina; seguitando: «tu gridi a vòto», cioè per niente,—«Disse lo mio signore». E poi soggiugne la cagione per la quale Flegias grida a voto, dicendo:—«A questa volta», che qui seʼ venuto, «Piú non ci avrai», che tu ci avessi, «se non passando il loto»,—cioè il padule pieno di loto.

E, questo detto, dimostra quello che a Flegias paresse, queste parole udendo e credendole, e dice: «Quale è colui che grande inganno ascolta, Che gli sia fatto», che prima si turba, «e poi se ne rammarca», con gli amici e con altrui; «Tal si feʼ Flegias nellʼira accolta», parendogli essere ingannato in ciò che alcun di lor due non dovesse rimanere, e che esso invano passasse il loto: che forse mai piú avvenuto non gli era.

[E, avanti che piú si proceda, è da sapere che, secondo che scrive Lattanzio in libro Divinarum institutionum, questo Flegias fu figliuolo di Marte, uomo malvagio e arrogante e fastidioso contro aglʼiddii. Ebbe questo Flegias, secondo che Servio dice, due figliuoli, Issione e una ninfa chiamata Coronide, la quale, essendo bellissima, piacque ad Apolline, iddio della medicina; di che seguí che Apolline giacque con lei e ingravidolla, ed essa poi partorí un figliuolo, il quale fu chiamato Esculapio. La qual cosa sentendo Flegias, e adiratosi forte, senza prendere altro consiglio, impetuosamente corse in Delfos, e quivi mise fuoco nel tempio dʼApolline, il quale a queʼ tempi dallʼerror deʼ gentili era in somma reverenzia e divozione quasi di tutto il mondo; percioché quivi ogni uomo per risponsi delle bisogne sue concorreva. E fu questo tempio arso da Flegias,[268] secondo che scrive Eusebio in libro Temporum, lʼanno 23 di Danao, re degli argivi, il quale fu lʼanno della creazion del mondo 3752. E, oltre a questo, scrivono alcuni che esso uccise la figliuola, la quale, percioché vicina era al tempo del parto, fu da alcuni aperta, e trattale la creatura, giá perfetta, del ventre, e allevata. E questi che cosí eran tratti deʼ ventri delle madri erano consegrati ad Apolline, in quanto per beneficio della sua deitá, cioè dellʼarte della medicina, erano in vita tratti. Scrivono, oltre a ciò, i poeti che Apolline, essendo turbato di ciò che Flegias avea arso il tempio suo, il fulminò e mandonne lʼanima sua in inferno, e condannolla a questa pena: che egli stesse sempre sotto un grandissimo sasso, il qual parea che ogni ora gli dovesse cadere addosso; di che egli sempre stava in paura. E di lui scrive Virgilio nel sesto dellʼEneida:

Phlegyasque miserrimus omnes

admonet, et magna testatur voce per umbras:
discite iustitiam moniti, et non contemnere divos
, ecc.]

«Lo duca mio». Poi che lʼautore ha dimostrato Flegias essersi turbato del non dovere acquistar piú che sol passando il loto, ed egli scrive come con Virgilio scendesse nella nave di Flegias: per che comprender si può che altra via non vʼera da poter piú avanti procedere, senza valicar per nave il padule. E dice: «discese nella barca, E poi mi fece entrare», nella barca, «appresso lui; E sol quando fuʼ dentro parve carca»: in che assai ben si comprende che lo spirito non è dʼalcun peso, ma che il corpo è quello che è grave. È questa parte presa da Virgilio, dove dice, nel sesto dellʼEneida, come Enea trapassò per nave Acheronte, dicendo cosí:

simul accipit alveo

ingentem Aeneam. Gemuit sub pondere cymba
subtilis, et multam accepit rimosa paludem,
ecc.

Poi segue lʼautore: «Tosto che ʼl duca ed io nel legno fui», cioè nella barca; e usa qui lʼautore il general nome delle navi per lo speziale, percioché generalmente ogni vasello da navicare[269] è chiamato «legno», quantunque non sʼusi se non nelle gran navi. «Segando se ne va»: dice «segando», in quanto, come la sega divide il legname in due parti, cosí la nave, andando per lʼacqua sospinta daʼ remi o dal vento, pare che seghi, cioè divida, lʼacqua. «Lʼantica prora»: «antica» la chiama, percioché per molti secoli ha fatto quello uficio; «prora» la chiama, ponendo la parte per lo tutto, percioché ogni nave ha tre parti principali, delle quali lʼuna si chiama «prora», quantunque per volgare sia chiamata «proda» daʼ navicanti; e questa è stretta e aguta, percioché è quella parte che va davanti e che ha a fender lʼacqua: lʼaltra parte si chiama «poppa», e questa è quella parte che viene di dietro, e sopra la quale sta il nocchier della nave al governo deʼ timoni, li quali in quella parte, lʼuno dal lato destro e lʼaltro dal sinistro son posti; per li quali, secondo che mossi sono, la nave va verso quella parte dove il nocchier vuole: la terza parte si chiama «carena», e questa è il fondo della nave, il quale consiste tra la poppa e la proda. Séguita che questa antica prora, per lo disusato carico, sega «Dellʼacqua» del padule, «piú che non suol con altrui», cioè con gli spiriti, li quali in essa sogliono esser portati da Flegias.

«Mentre noi correvam». Qui comincia la seconda parte di questo canto, nella quale lʼautor fa quattro cose: primieramente dimostra come un pien di fango fuori dellʼacqua del padule gli si dimostra; appresso scrive come Virgilio gli facesse festa per lo avere egli avuto in dispregio il fangoso che gli si dimostrò; oltre a ciò, pone come quel fangoso fosse lacerato dallʼaltre anime deʼ dannati che quivi erano; ultimamente discrive come nei fossi venissono della cittá di Dite. La seconda cosa comincia quivi: «Lo collo poi»; la terza quivi: «Ed io:—Maestro»; la quarta quivi: «Lo buon maestro».

Dice adunque nella prima parte: «Mentre noi correvam», cioè velocemente navicavamo, «la morta gora». «Gora» è una parte dʼacqua tratta per forza del vero corso dʼalcun fiume, e menata ad alcuno mulino o altro servigio, il qual fornito, si ritorna nel fiume onde era stata tratta: per lo qual nome lʼautore nomina qui, licentia poëtica, il padule per lo quale navicava;[270] e, per dar piú certo intendimento che di quello dica, cognomina questa gora «morta», cioè non moventesi con alcuno corso, sí come i paduli fanno. «Dinanzi mi si fece», uscendo dallʼacqua del padule, «un pien di fango», unʼanima dʼun peccatore, «E disse:—Chi seʼ tu, che vieni anzi ora?»,—cioè anzi che tu sia morto.

«Ed io a lui» risposi:—«Sʼio vengo, non rimango», percioché io non son dannato, e uscirò di qui per altra via; «Ma tu», che domandi, «chi seʼ, che sí seʼ fatto brutto?»—dal fango il quale hai addosso.

«Rispose», quellʼanima:—«Vedi che son un che piango».—Risposta veramente dʼuomo stizzoso e iracundo, del quale è costume mai non rispondere se non per rintronico.

«Ed io a lui:—Con piangere e con lutto». Pongono i gramatici essere diversi significati a diversi vocaboli li quali significan pianto: dicon primieramente che «flere», il quale per volgare noi diciam «piagnere», fa lʼuomo quando piagne versando abbondantissimamente lagrime; «plorare», il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è piagnere con mandar fuori alcuna boce; «lugere», il quale similmente per volgare viene a dir «piagnere», è quello che con miserabili parole e detti si fa. E dicono etimologizzando: «lugere, quasi luce egere», cioè aver bisogno di luce. E questo pare che sia quella spezie di piagnere la quale facciamo essendo morto alcuno amico, percioché, chiuse le finestre della casa, dove è il corpo morto, quasi allʼoscuro piagnamo; ma meglio credo sia detto quegli, che per cotale cagion piangono, avviluppati per lo dolore nella oscuritá della ignoranza, avere bisogno in lor consolazione della luce della veritá, per la qual noi cognosciamo noi nati tutti per morire; e però, quando questo avviene che alcuno ne muoia, non essere altramenti da piagnere che noi facciamo per gli altri effetti naturali. E da questo «lugere» viene «lutto», il vocabolo che qui usa lʼautore. «Eiulare», che per volgare viene a dir «piagnere», e, secondo piace aʼ gramatici, «piagnere con alte boci»: e dicesi ab «hei», quod est interiectio dolentis; «gemere», ancora in volgare viene a dir «piagnere», e[271] quel pianto che si fa singhiozzando; «ululare» in volgare vuol dir «piagnere»: e vogliono alcuni questa spezie di piagnere esser quella che fanno le femmine quando gridando piangono. E però. dicendo lʼautore a questa anima che con piagnere e con lutto si rimanga, non fa alcuna inculcazione di parole, come alcuni stimano, apparendo che le spezie del pianto e di lutto sieno intra sé diverse.

Segue adunque: «Spirito maladetto, ti rimani», in questo tormento, «Chʼio ti conosco, ancor sii lordo tutto».—Questo gli dice lʼautore, percioché esso, da lui domandato chi el fosse, non lʼavea voluto dire.

«Allora tese al legno», quella anima, «ambo le mani»; e questo si dee credere quella anima aver fatto sí come iracundo, il quale per vaghezza di vendetta avrebbe voluto offendere e noiare, se potuto avesse, lʼautore, percioché ingiurioso si reputava lʼautore aver detto di conoscerlo, quantunque egli fosse tutto fangoso. «Per che ʼl maestro accorto», della intenzione di questʼanima adirata, «lo sospinse», cioè il rimosse della barca, «Dicendo:—Via costá con gli altri cani!»,—deʼ quali, adirati e commossi, è usanza di stracciarsi le pelli coʼ denti, come quivi dice si stracciavano glʼiracundi.

[Lez. XXXIV]

«Lo collo poi». Qui comincia la seconda particella della seconda parte principale, nella quale Virgilio fa festa allʼautore, percioché ha avuto in dispregio lo spirito fangoso. [E mostra in questa particella lʼautore una spezie dʼira, la quale non solamente non è peccato ad averla, ma è meritorio a saperla usare: la quale vertú, cioè sapere usare questa spezie dʼira, Aristotile nel quarto dellʼEtica chiama «mansuetudine», e quegli cotali, che questa virtú hanno, dice che sʼadirano per quelle cose e contro a quelle persone, contro alle quali è convenevole dʼadirarsi, e ancora come si conviene, e quando, e quanto tempo; e questi, che questo fanno, dice che sono commendabili. E séguita che i mansueti vogliono essere senza alcuna perturbazione, e non vogliono esser tirati da alcuna passione, ma quello solamente fare che la ragione ordinerá: cioè in quelle cose nelle quali sʼadira, tanto tempo essere adirato, quanto la[272] ragione richiederá. Questa cotale spezie dʼira nʼè conceduta daʼ santi. Dice il salmista: «Irascimini, et nolite peccare»; volendo per queste parole che ne sia licito il commuoversi per le cose non debitamente fatte, sí come fa il padre quando vede alcuna cosa men che ben fare al figliuolo, o il maestro al discepolo, o lʼuno amico allʼaltro, accioché per quella commozione egli lʼammonisca e corregga con viso significante la sua indegnazione, non come uomo che, della ingiuria la quale gli pare per lo non ben fare dʼalcuno, disideri vendetta; e, fatta la debita ammonizione, ponga giú lʼira. E in questa maniera adirandosi, e per cosí fatta cagione, non si pecca. In questa maniera si dee intendere Dio verso noi adirarsi, come spesso nella Scrittura si legge: e il salmista spesse volte priega che da questa ira il guardi, cioè da adoperare sí, che esso contra di lui si debba adirare. E da questa ira dobbiam credere essere stato commosso Cristo, nel quale mai non fu peccato alcuno, quando, preso un mazzo di funi, cacciò dal tempio i venditori eʼ compratori, dicendo: «Domus mea, domus orationis», ecc. Questa spezie dʼira chiamano molti «sdegno» (e cosí mostra di voler qui intendere lʼautore): il qual non voglion cadere se non in animi gentili, cioè ordinati e ben disposti e savi. E tanto voglion che sia maggiore, quanto colui è piú savio in cui egli cade; percioché quanto piú è savio lʼuomo, tanto piú cognosce le qualitá eʼ motivi deʼ difetti che si commettono, e per conseguente piú si commuove. E però dice Salomone: «Ubi multum sapientiae, ibi multum indignationis». E vuole lʼautore in questa particella mostrare questa virtú essere stata in lui, in quanto in parte alcuna non si mostra per lo supplicio deʼ dannati in questo cerchio esser commosso, come neʼ superiori è stato: ma avergli Virgilio, cioè la ragione, fatta festa abbracciandolo, e chiamandolo «alma sdegnosa», e benedicendo, in segno di congratulazione, la madre di lui; e questa festa, questa congratulazione non gli avrebbe mai fatta Virgilio, se non in dimostrazione che nobilissima cosa e virtuosa sia lʼessere isdegnoso. È il vero che, come di molte altre cose avviene, questo adiettivo, cioè «sdegnoso», spessissimamente in[273] mala parte si pone: il che, quantunque non vizi la veritá del subietto, nondimeno è daʼ discreti da distinguere e da riguardare, dove debitamente si pone; e, dove non debitamente si pone, averlo per alcuna di quelle spezie dʼira, le quali di sopra son mostrate esser dannose.]

Dice adunque il testo cosí: «Lo collo poi» che dal legno ebbe cacciata quella anima iracunda, «con le braccia mi cinse», abbracciandomi; «Baciommi il volto», in segno di singulare benivolenzia; percioché noi abbracciamo e baciamo coloro li quali noi amiamo molto. E dice «il volto», non dice la bocca, accioché per questo noi sentiamo primieramente lʼonestá del costume, percioché il baciar nel volto è segno caritativo, ove il baciare in bocca, quantunque quel medesimo sia alcuna volta, le piú delle volte è segno lascivo. E, oltre a ciò, il volto nostro è detto «volto» da «volo vis», percioché per quello neʼ non viziati uomini si dimostra il voler del cuore: e percioché il voler del cuore dellʼautore era buono e onesto, Virgilio, approvando quel buon volere, mostrò la sua approvazione, baciando quella parte del corpo dellʼautore, nella quale quella buona disposizione si dimostrava.

«E disse:—Alma sdegnosa». Non disse iracunda, ma «sdegnosa», in quanto, giustamente adirandosi e quanto si conviene servando lʼira, mostrò lo sdegno della sua nobile anima. «Benedetta colei che in te», cioè sopra te, «si cinse!». Cingonsi sopra noi le madri nostre nel mentre nel ventre ci portano; e dice qui lʼautor «benedetta», a dimostrazion che, come lʼalbero, il qual porta buon frutto, si dice «benedetto», cosí ancora si dice «benedetta» la madre che porta buon figliuolo. E in questa parte non si commenda poco lʼautore; ma egli è in ciò da avere per iscusato, in quanto non fa questo per commendar sé, ma per commendar la virtú della mansuetudine, della quale era di necessitá di trattare in questa parte, accioché noi non credessimo ogni ira esser peccato.

«Questi», che ti si mostrò, «fu al mondo», cioè in questa vita, «persona orgogliosa», cioè arrogante: «Bontá», cioè virtú, «non è che sua memoria fregi», cioè adorni; percioché[274] le virtú adornano cosí il nome e la memoria dellʼuomo, nel quale state sono, come il fregio adorna il vestimento; «Cosí», cioè come fu arrogante nel mondo, «sʼè lʼombra sua qui furiosa», per rabbia e per dolore del tormento.

«Quanti si tengono or lassú». Poi che egli ha biasimata la furiosa e sconvenevole vita di quello spirito, meritamente si volge Virgilio a biasimare, sotto i nomi deʼ piú eminenti prencipi, i fastidi e le stomacaggini, non dico solamente degli uomini di maggiore stato, ma eziandio di molti plebei, li quali, per apparere dʼesser quel che non sono, si sforzano dʼesser ponderosi neʼ passi, gravi nel parlare, e nellʼadoperare di sentimento sublime, dove nellʼeffetto di niuno valore sono; dicendo: «Quanti si tengono or lassú», cioè nel mondo, il quale è di sopra da noi, «gran regi», cioè gran maestri. Nondimeno il «re» è dinominato da «rego regis», il quale sta per «reggere» e per «governare». Di questi cotali, quantunque di molti sieno le lor teste ornate di corona, non son però tutti da dovere essere reputati re; e però dice lʼautore bene «si tengono»; ma, perché essi si tengano, essi non sono.

A dimostrazione della qual veritá ottimamente favella Seneca tragedo in quella tragedia la quale è nominata Tieste, dove dice: «Non fanno le ricchezze li re, non il colore del vestimento tirio, non la corona della quale essi adornano la fronte loro, non le travi dorate deʼ lor palagi: re è colui il quale ha posta giú la paura e ciascun altro male del crudel petto; re è colui il quale non è mosso dalla impotente ambizione e dal favore non stabile del precipitante popolo; sola la buona mente è quella che possiede il regno: questa non ha bisogno di cavalli né dʼarmi; re è colui il quale alcuna cosa non teme da non temere». Dalle quali parole possiam comprendere quanti sieno oggi quegli li quali degnamente si possano tenere re. Non sono adunque re questi cotali che re si tengono, anzi son tiranni.

E però meritamente séguita che questi cotali, che re si tengono perché posson far male quando vogliono, «Che qui staranno, come porci, in brago»; e meritamente, accioché nel brago e nella bruttura riconoscano i mali usati splendori nella[275] vita presente; e, che ancora piú vituperevole fia, morranno «Di sé lasciando», in questa vita, «orribili dispregi», cioè memoria di cose orribili e meritamente da dispregiare, state operate per loro.

«Ed io:—Maestro». Qui comincia la quarta particola della seconda parte principale di questo canto, nella quale lʼautor discrive come, secondo il suo desiderio, vide straziare allʼanime dannate quello pien di fango che davanti gli sʼera parato. E primieramente apre il suo desiderio a Virgilio, dicendo: «Ed io:—Maestro, molto sarei vago Di vederlo attuffare», costui, il qual tu mi diʼ che fu persona orgogliosa (e questa vaghezza par che sia generale in ciascuno virtuoso uomo, di vedere glʼincorreggibili punire), «in questa broda». Il proprio significato di «broda», secondo il nostro parlare, è quel superfluo della minestra, il qual davanti si leva a coloro che mangiato hanno: ma qui lʼusa lʼautore largamente, prendendolo per lʼacqua di quella padule mescolata con loto, il quale le paduli fanno nel fondo, e percioché cosí son grasse e unte come la broda.

«Anzi che noi uscissimo del lago»,—cioè di questa padule. È il «lago» una ragunanza dʼacque, la quale in luoghi concavi tra montagne si fa, per lo non avere uscita; ed è in tanto differente dal padule, in quanto il lago ha grandissimo fondo ed hal buono, ed è in continuo movimento; per le quai cose lʼacqua senza corrompersi vi si conserva buona; dove la padule ha poco fondo e cattivo, ed è oziosa. Pone adunque qui lʼautore il vocabolo del «lago» per lo vocabolo della «padule», usando la licenza poetica, e largamente parlando.

«Ed egli a me:—Avanti che la proda», cioè la estremitá di questa padule. La quale lʼuomo, come deʼ fiumi, chiama «riva»; ma pone lʼautore questo vocabolo «proda», percioché egli è proprio nome di quelle rive dove i navili pongono; e ciò è, perché sempre i navili, accostandosi alla riva, dove scaricar debbono il carico il qual portano, o caricar quello che prendono, pongono la lor proda alla riva. «Ti si lasci veder, tu saráʼ sazio», di quel che disideri. E poi ancora gliele rafferma dicendo: «Di tal disio», chente tu diʼ che hai, «converrá che tu goda»,—cioè ti rallegri.

[276]

«Dopo ciò poco», cioè poco dopo queste parole di Virgilio, «vidi quello strazio Far di costui», del quale io disiderava, «alle fangose genti», cioè aglʼiracundi, li quali erano in quel padule, «Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio».

«Tutti gridavano», queʼ dannati, animando lʼun lʼaltro ad offender questʼanima. E che gridavano?—«A Filippo Argenti!»—quasi voglian dire: corriam tutti addosso a Filippo Argenti.

Fu questo Filippo Argenti (secondo che ragionar solea Coppo di Borghese Domenichi) deʼ Cavicciuli, cavaliere ricchissimo, tanto che esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare dʼariento, e da questo trasse il sopranome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di maravigliosa forza e, piú che alcuno altro, iracundo, eziandio per qualunque menoma cagione. Né di sue opere piú si sanno che queste due, assai ciascuna per se medesima biasimevole. E per lo suo molto essere iracundo scrive lʼautore lui essere a questa pena dannato.

«E ʼl fiorentino spirito bizzarro», cioè iracundo. E credo questo vocabolo «bizzarro» sia solo deʼ fiorentini, e suona sempre in mala parte: percioché noi tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcuna dimostrazione rimuover si possono. «In se medesmo», vedendosi schernire o assalire dagli altri, «si volvea coʼ denti», per ira mordendosi. «Quivi il lasciammo», procedendo avanti, «che piú non ne narro», che di lui dopo questo si seguisse.

«Ma negli orecchi mi percosse un duolo». Qui si può comprendere quello, che poco avanti dissi, venire a ciascun senso quello che da essi si percepe: in quanto dice che un «duolo», cioè una voce dolorosa, gli percosse gli orecchi, di lá venendo dove quella dolorosa voce era nata. E segue: «Per che io», avendolo udito, per conoscere onde venisse, «avanti», cioè innanzi a me, «intento», a riguardare, «gli occhi sbarro», cioè, quanto posso apro.

«Lo buon maestro». Qui comincia la quarta particella della seconda parte principale del presente canto, nella quale lʼautore dimostra come venissero neʼ fossi della cittá di Dite. Dice[277] adunque: «Lo buon maestro disse:—Omai, figliuolo, Sʼappressa la cittá che ha nome Dite, Coʼ gravi cittadin», non gravi per costumi o per virtú, ma per peccati, «col grande stuolo»,—cioè con la gran quantitá.

«Ed io:—Maestro, giá le sue meschite». «Meschite» chiamano i saracini i luoghi dove vanno ad adorare, fatti ad onore di Maometto, come noi chiamiamo «chiese» quelle che ad onore di Dio facciamo; e percioché questi cosí fatti luoghi si soglion fare piú alti e piú eminenti che gli edifici cittadini, è usanza di vederle piú tosto, uno che di fuori della cittá venga, che lʼaltre case; e perciò non fa lʼautor menzione dellʼaltre parti della cittá dolente, ma di questa sola, chiamandole «meschite», sí come edifici composti ad onor del dimonio, e non di Dio.

«Lá entro certo nella valle cerno»; dice «nella valle», percioché la cittá era molto piú bassa che esso non era; e dice le discernea «Vermiglie, come se di foco uscite Fossero».—E questo dice a rimuovere una obiezione che gli potrebbe esser fatta, in quanto di sopra ha alcuna volta detto sé non potere guari vedere avanti per lo fummo del padule; e cosí vuol dire che né ancora qui vedrebbe quelle meschite, se non fosse che esse medesime si facevan vedere per lʼessere affocate, cioè rosse.

«E quei mi disse:—Il fuoco eterno, Chʼentro lʼaffuoca, le dimostra rosse», cioè roventi, «Come tu vedi in questo basso inferno».—

Udita la cagione per la quale erano rosse quelle meschite (la qual fu necessaria dʼaprire, accioché egli non estimasse quelle essere dipinte), ed egli soggiugne: «Noi pur giugnemmo dentro allʼalte fosse, Che vallan quella terra sconsolata». «Vallo», secondo il suo proprio significato, è quello palancato, il quale aʼ tempi di guerre si fa dintorno alle terre, accioché siano piú forti, e che noi volgarmente chiamiamo «steccato»; e da questo pare venga nominata ogni cosa la qual fuor delle mura si fa per afforzamento della terra.

«Le mura», di quella terra, «mi parea che ferro fosse». Dice quelle essergli parute esser di ferro, a dimostrazione della[278] fortezza di questa terra, della quale dice Virgilio nel sesto dellʼEneida cosí:

Porta adversa, ingens, solidoque adamante columnae,
vis ut nulla virum, non ipsi excindere ferro
caelicolae valeant. Stat ferrea turris ad auras,
Tesiphoneque sedens, palla succinta cruenta,
vestibulum exsomnis servat noctesque diesque.
Hinc exaudiri gemitus et saeva sonare
verbera; tum stridor ferri tractaeque catenae,
ecc.

«Non senza prima far», ecc. Qui comincia la quarta parte principale del presente canto, nella quale lʼautor discrive la raccolta fatta loro daʼ demòni, li quali erano in su la porta di Dite, e come a Virgilio serrarono la porta nel petto. E in questa parte fa due cose: primieramente discrive cui trovassero allʼentrare della porta di Dite, e come Virgilio domandasse di parlar con loro; appresso dimostra come si sconfortasse per lʼandar Virgilio a loro. E comincia questa particella quivi: «Pensa, lettor».

Dice adunque primieramente: «Non senza prima far grande aggirata»; nelle quali parole dimostra che lungamente andassero per li fossi di quella cittá, avanti che essi giugnessono lá dove era la porta di quella; e però segue: «Venimmo in parte dove ʼl nocchier», cioè Flegias. Ed è questo nome «nocchiere» il proprio nome di colui, al quale aspetta il governo generale di tutto il legno, e a lui aspetta di comandare a tutti gli altri marinari, secondo che gli pare di bisogpo; e chiamasi «nocchiere» quasi «navichiere». «Forte—Uscite!—ci gridò». Qui si può comprendere, dal gridar forte di questo nocchiere, il costume deglʼiracundi intorno al parlare, li quali non pare il possan fare se non impetuosamente e con romore.—«Qui è lʼentrata»,—della cittá di Dite.

«Io vidi piú di mille», cioè molti, «in su le porte», di questa cittá di Dite, «Dal ciel piovuti», cioè demòni, li quali, cacciati di paradiso, in guisa di piova caddero nello ʼnferno, «che stizzosamente», cioè iracundamente, «Dicean», con seco[279] medesimi:—«Chi è costui, che senza morte», cioè essendo ancor vivo, «Va per lo regno della morta gente?»,—cioè per lo ʼnferno, il qual veramente si può dir «regno della morta gente», in quanto quegli, che vi sono, son morti della morte temporale, e morti nella morte eternale.

«E ʼl savio mio maestro fece segno», a questi demòni, «Di voler lor parlar segretamente». Per lo qual segno essi «Allor chiusero un poco il gran disdegno». Non dice che il ponesser giuso, ma alquanto, col non parlare cosí stizzosamente, il ricopersono. E qui «disdegno» si prende in mala parte, percioché negli spiriti maladetti non può essere, né è, alcuna cosa che a virtú aspetti. «E disser:—Vienʼ tu solo», qua a noi, «e quei sen vada», cioè Dante, «Che sí ardito», dietro a te, «entrò per questo regno. Sol si ritorni per la folle strada», per la quale è venuto dietro a te. E chiamala «folle», non perché la strada sia folle, percioché non è in potenza la strada da potere essere o folle o savia, ma a dimostrare esser folli coloro li quali si adoperano, che per essa convenga loro scendere alla dannazione eterna. «Pruovi, se sa», tornarsene indietro solo; «ché tu qui», con noi, «rimarrai. Che gli hai scorta», insino a questo luogo, «sí buia contrada»,—cioè sí oscura.

E vuole in queste parole lʼautore quello dimostrare, che negli altri cerchi di sopra ha dimostrato, cioè che per alcun deʼ ministri infernali sempre allʼentrar del cerchio sia spaventato: e cosí qui, dovendo del quinto cerchio passar nel sesto, il quale è dentro della cittá di Dite, introduce questi demòni a doverlo spaventare, accioché del suo buon proponimento il rimovessero, e impedisserlo a dover conoscere quello che si dee fuggire, per non dovere, perduto, in inferno discendere.

«Pensa, lettor». Qui comincia la seconda particella di questa parte principale, nella quale lʼautore mostra come si sconfortasse. «Pensa, lettor», che queste cose leggerai, «se io mi sconfortai, Nel suon delle parole maladette», cioè dette da quegli spiriti maladetti. E soggiugne la cagione per la quale esso si sconfortò, dicendo: «Chʼio non credetti ritornarci mai», cioè in questa vita, vedendomi tôrre colui che infin quivi[280] guidato mʼavea, e senza il quale io non avrei saputo muovere un passo.

E però, da questa paura sbigottito, dice:-«O caro duca mio, che piú di sette», cioè molte, ponendo il finito per lo ʼnfinito, «Volte mʼhai sicurtá renduta, e tratto Dʼaltro periglio che incontro mi stette»; cioè quando tu mi levasti dinanzi alle tre bestie, le quali impedivano il mio cammino, quando tu acchetasti lʼira di Carone, di Minos, di Cerbero e degli altri che opposti mi si sono; «Non mi lasciar—dissʼio—cosí disfatto», come io sarei qui, ritrovandomi senza te; «E, se lʼandar piú oltre», cioè piú giuso, «ci è negato, Ritroviam lʼorme nostre insieme ratto»,—per la via tornandoci, per la quale venuti siamo.

«E quel signor», Virgilio, «che lí mʼavea menato, Mi disse:—Non temer, ché ʼl nostro passo», cioè lʼentrare nella cittá di Dite, «Non ci può tôrre alcun»; quasi dica: quantunque costoro faccian le viste grandi e dican parole assai, essi non posson però impedire lʼandar nostro; e pone la cagion perché non possono, dicendo: «da Tal nʼè dato», cioè da Dio, al voler del quale non è alcuna creatura che contrastar possa. «Ma qui mʼattendi, e lo spirito lasso», faticato per la paura, «Conforta, e ciba di speranza buona»; e poi pone di che egli debba prender la speranza buona, dicendo: «Chʼio non ti lascerò nel mondo basso»,—cioè nello ʼnferno, il quale piú che alcuna altra cosa è basso.

«Cosí sen va», verso queʼ demòni, «e quivi mʼabbandona Lo dolce padre», cioè lascia solo di sé, «ed io rimango in forse; E ʼl sí e ʼl no», che egli debba a me ritornare come promesso mʼha, o rimaner con coloro (sí come essi il minacciavano, dicendo:—Tu qui rimarrai—), «nel capo mi tenzona», cioè nella virtú estimativa, la quale è nella testa.

E poi segue: «Udir non potei quel che a lor», cioè a queʼ demòni, «si porse», cioè si disse; «Ma el non stette lá con essi guari, Che ciascun dentro a pruova si ricorse. Chiuser le porti», della cittá, «quei nostri avversari Nel petto», cioè contro al petto, «al mio signor, che fuor rimase».

[281]

Puossi per questo atto, fatto daʼ demòni, comprendere che Virgilio dicesse loro esser piacere di Dio che esso mostrasse lo ʼnferno a colui il quale con seco avea, e che essi, avendo questo in dispetto, accioché egli non avvenisse, si ritiraron dentro e serraron le porti.

«E rivolsesi a me», tornando, «con passi rari». Disegna in queste parole lʼautore lʼatto di coloro li quali per giusta cagione sdegnano e si turbano, in quanto non furiosamente, non con impeto, come glʼiracundi, corrono alla vendetta, ma mansuetamente si dolgono di ciò che alcuno ha men che bene adoperato.

Poi segue: «Gli occhi alla terra», bassi; nel quale atto si manifesta la turbazione del mansueto, dove in contrario lʼiracundo leva la testa e fa romore; «e le ciglia avea rase Dʼogni baldanza»; in quanto il mansueto ristrigne dentro con la forza della virtú lʼimpeto, il quale vorrebbe correre alla vendetta, e però pare sbaldanzito, cioè senza alcuno ardire, dove glʼiracundi col capo levato paiono baldanzosi e arditi; «e dicea neʼ sospiri», cioè sospirando dicea (nel qual sospirare appaiono alcuni segni della perturbazione del mansueto):—«Chi mʼha negate le dolenti case?»—quasi dica: questi demòni, li quali sono in ira di Dio e niente contro a Dio possono, hanno negato a me, che sono mandato da Dio, le case dolenti. La qual cosa, percioché era oltre ad ogni convenienza, gli era materia di sospirare e di rammaricarsi.

«E a me disse», non ostante la sua perturbazione:—«Tu, perchʼio mʼadiri», di quella ira la quale è meritoria, «Non sbigottir», cioè non te nʼentri alcuna paura, per ciò «chʼio vincerò la pruova», dellʼentrar dentro alla cittá, «Qual, chʼalla difension», che io non vʼentri, «dentro sʼaggiri», cioè si dea da fare perché io non vʼentri. «Questa lor tracotanza», del fare contro a quello che debbono, «non mʼè nuova, Ché giá lʼusâro in men segreta porta», che questa non è, [e contro al signor del cielo e della terra, cioè di Gesú Cristo]. E dice «men segreta», in quanto quella è allʼentrata dellʼinferno, e questa è quasi al mezzo; perché assai appare questa esser piú segreta[282] e piú riposta che non è quella. E questo fu, secondo che si racconta, quando Cristo giá risuscitato scese allo ʼnferno a trarne lʼanime deʼ santi padri, li quali per molte migliaia dʼanni lʼavevano aspettato; intorno al quale il prencipe deʼ demòni coʼ suoi seguaci fu di tanta presunzione, che egli ardí ad opporsi, in ciò che esso poté, perché Cristo non liberasse coloro li quali lungamente avea tenuto in prigione: e per questo metaphorice si dice Cristo avere spezzata la porta dello ʼnferno, e rotti i catenacci del ferro. La qual porta convenne esser quella della quale fa qui menzione lʼautore, cioè la men segreta, alla qual poi non fu mai fatto alcun serrame, sí come esso medesimo dice: «La qual senza serrame ancor si truova». Né si dee intendere dʼalcuna altra, percioché, secondo la discrizione dellʼautore, nello ʼnferno non ha che due porte: delle quali è lʼuna quella di che di sopra è detto, e della quale esso dice qui: «Sovrʼessa vedestú la scritta morta» (cioè, «Per me si va nella cittá dolente», ecc., la qual chiama «scritta morta», percioché ha a significare, a quegli che per essa entrano, eterna morte); ed evvi, oltre a questa, la porta di Dite, infino alla quale Cristo non discese, percioché si crede che nel primo cerchio dello ʼnferno, cioè nel limbo, erano quegli li quali Cristo ne trasse.

E poi séguita: «E giá di qua da lei», cioè da quella prima porta, la qual senza serrame ancor si trova, «discende lʼerta». «Erta» è a chi volesse tornare in suso, ma, discendendo, come far conviene a chi dalla prima porta vuol venire a quella di Dite, si dee dir «china»; ma, come spesse volte fa lʼautore, usa un vocabolo per un altro. «Passando per li cerchi», dello ʼnferno, «senza scorta», cioè senza guida, sí come colui che bisogno alcuno non ha, avendo seco la divina sapienza, alla quale ogni cosa è manifesta; «Tal, che per lui ne fia la terra aperta»;—di tanta potenza sará; sí come appresso appare, dove dice lʼautore che, toccata la porta di quella solamente con una verga, lʼaperse.


[283]

II

Senso allegorico

«Io dico, seguitando, chʼassai prima», ecc. Nel presente canto non è alcuna ordinaria allegoria come neʼ passati, percioché non ci si discrive alcuna cosa che quasi nel precedente non sia stata allegorizzata; e però alcuna breve cosetta, che ci è, in poche parole si spedirá.

Dicono adunque alcuni le due torri, le quali lʼautore scrive essere in questo quinto cerchio, e le fiamme su fattevi, avere a dimostrare il trascendimento della furia deglʼiracundi, il quale trasvá sopra ogni debito di ragione; e vogliono le tre fiamme fatte soprʼesse avere a dimostrare le tre spezie deglʼiracundi discritte nel canto precedente. Ma questo senso non mi sodisfa, anzi credo e le torri e le fiamme semplicemente essere state discritte dallʼautore a continuazione del suo poema; peroché qui parevʼessere di necessitá porre alcuna cosa, per la quale segno si désse a Flegias che, dove che si fosse, venisse a dovere li due venuti a riva passare allʼaltra riva, si come subitamente venne; e perciò intorno ad esse piú non mi pare da por parole.

Per Flegias, li cui costumi discritti sono poco avanti, assai ben si può comprendere lʼautore intendere il vizio dellʼiracundia, li cui effetti, quanto piú possono, son conformi aʼ costumi del detto Flegias. E bene che la pena datagli da Apolline, secondo Virgilio, non sia corrispondente a questo vizio, non perciò toglie che qui per lo detto vizio attamente porre non si possa; conciosiacosaché Virgilio, dove discrive la pena postagli da Apolline, abbia ad alcuna altra sua operazion rispetto, e non a quella per la quale lʼautore vuol qui che egli significhi lʼiracundia; e, se contro a Virgilio sʼosasse dire, io direi che in questa parte lʼautore avesse avuta assai piú conveniente considerazione di lui.

[284]

Il navicar lʼautore con Virgilio nella padule di Stige puote a questo senso adattarsi: essere di necessitá a ciascuno, il quale non vuole nel peccato dellʼira divenire, quanto piú leggiermente può, passare superficialmente le tristizie di questa vita, le quali sono infinite, sempre accompagnato dalla ragione, accioché, non essendosi in quelle oltre al dovere lasciato tirare, possa, senza pervenire nel peccato della ostinazione, del quale nel seguente canto si tratterá, trapassare a conoscer con dolcezza di cuore le colpe che ci posson tirare a perdizione.

Della cittá di Dite, la qual dice lʼautore che avea le mura di ferro, e deʼ demòni, che sopra la porta di quella incontro a Virgilio uscirono, e, oltre a ciò, lʼavergli serrata la porta della detta cittá nel petto: tutto appartiene a dover dire con quelle cose, le quali nel seguente canto della detta cittá dimostra. E però quivi, quanto da Dio conceduto mi fia, ne scriverò.

FINE DEL SECONDO VOLUME.


[285]

INDICE


Canto quarto:
I. Senso letterale p. 3
II. Senso allegorico » 89
Canto quinto:
I. Senso letterale » 105
II. Senso allegorico » 147
Canto sesto:
I. Senso letterale » 165
II. Senso allegorico » 184
Canto settimo:
I. Senso letterale » 199
II. Senso allegorico » 227
Canto ottavo:
I. Senso letterale » 261
II. Senso allegorico » 283

INDICE DEI NOMI VOLUME II

Abacuc, profeta, 262 (Hab., II. 6,  9).

Abele, 15.

Abramo, 17.

Achille, 130 sg.

Acquasparta (d’) Matteo, cardinale, 173 sg.

Adamo, 12;

Adimari, vedi Aldobrandi.

Agostino (sant’),

10  (Sermone della nativitá di Cristo),

61 (Civ. Dei, VIII 14),

66 (Civ. Dei, IV),

72 (Civ. Dei, VIII 2),

113 (Civ. Dei, V 8 9),

242; III, 19 (Civ. Dei, V 8 9),

23 (De haeresibus).

Alberigo (Poètria), 221.

Alberto magno, 21.

Aldobrandi Tegghiaio degli Adimari, 179 sg.;

Alí, commentatore di Tolomeo (Comento del Quadripartito), 140.

Alighieri, padre di Dante, 69, 72.

—Dante, 262.

—Gemma, moglie di Dante, 262.

Anassagora, 71.

Anassalide, uditore di Platone, 66.

Anselmo, arcivescovo di Canterbury (De imagine mundi), 41.

Apocalissi, 202, 233, 235 (XVIII, 21);

Apollodoro, grammatico, 29.

Apuleio di Madaura, 62 (De Deo Socratis liber);

Archiloco di Paro, 29.

Argenti Filippo de’ Cavicciuli, 276;

Aristarco di Samotracia, grammatico, 28.

Aristotile, 59 sg. (vita e opere), 66, 86, 186, 212, 241, 244;

Ethica, 21, 209, 243, 250, 257, 271;

Meteora, 4, 114;

Politica, 108;

De anima, 141;

Asclepiade, filosofo, 68.

Aspidopia, vedi Esiodo.

Astiage, 177, 214.

Atalante, edificatore di Fiesole, 40·

—re di Mauritania, 40.

Aulo Gellio, 62 (Noctes Atticae, II. 1), 63 (N. A., I. 17), 70 (N. A., II. 18).

Averrois, 61, 86.

Avicenna, 85.

Bianchi (setta dei), 171.

Boezio, 148 (Cons., I, pr. 1);

72 (De musica),

84 (De geometria),

113 (Cons., IV, pr. 6),

144, 215 (Cons., pr. 1),

237 (Cons., met. 5).

Bruto Caio Giunio, 54.

Bruto Marco Giunio, 7.

Caina, 143.

Caino, 15.

Calano d’India, 178.

Ca1cidio, 62 (Sopra il primo libro del «Timeo» di Platone).

Callimaco, biografo d’Omero, 24, 25, 27.

Cancellieri di Pistoia, 171.

Cariddi, 203 sg.

Carlo di Valois, 173 sg.

Cassio, 7.

Cavalcanti Guido, 174.

Cerbero, 166 sg., 193 sg., 231 sg., 260.

Cerchi (dei) famiglia, 170, 213.

—Vieri, 171 sg., 262.

—Ricovero, 172.

Cesare, 46 sg., 87.

Ciacco, 170, 264 sg.

Cicerone, vedi Tullio.

Clearco, uditore di Platone, 66.

Cleopatra, 124 sg.

Coppo di Borghese Domenichi, 276.

Corito, re di Corito (Corneto), marito di Elettra, 41.

Cornelio Nepote, vedi Nepote Cornelio.

Corniglia (Cornelia), 58.

Creso, 214.

Curzio Quinto, 26.

David, 18 e vedi Salmista.

Democrito, 67.

Diogene, 69 sg.

Dioscoride, 74.

Donati, famiglia de’, 170, 213.

—Corso, 171.

Eaco, 242 (Ecclesiasticus, X 9).

Elena, 127 sg.

Elettra, 40.

Empedocles, 72.

Enea, 44, 87.

Eraclito, 73.

Eratostene, 28.

Ercole, 97.

Ermolao, tiranno di Atene, 27.

Ettore, 43.

Euclide, 83.

Eusebio (Liber temporum), 9, 29, 30, 32, 33, 43, 54, 71, 72, 77, 95, 109, 123, 201, 268.

Falacro, filosofo, 25.

Faro di Messina, 203.

Federico II, imperatore, I, 7, 8,

Fiandra, 259.

Filocoro, 29.

Filosofia (Della), opera di Clearco e Anassalide, 66.

Firenze, 172 e passim.

Flegias, 267 sg., 283.

Francesca da Rimini, 137 sg.;

Galeotto, 145.

Genesi, 12 (I. 27), 15 (IV. 2-8), 19 (XXXII. 1-32), 176 (I. 26), 190 (III), 233 (III. 1,  14).

Geremia, profeta, 92 (VIII. 7), 192.

Giandonati Arrigo, 179.

Giovenale, 34, 67 (Sat., X. 33-35), 215 (Sat., X. 365-6), 219 (Sat., X. 365-6), 243 (Sat., XIV. 135-7).

Giulia, figliuola di Giulio Cesare, 58.

Giustiniano, 28.

Giustino (Historia), 51 (II. 4), 52 (XLIII. 1), 63 (II. 10).

Iacopo (san), 242 (Epist., V. 1); III, 254 (barone di Galizia).

Iob, 192 (VI. 6; XV. 16).

Isaac, 19, 172, 175 (XI. 2-3); II, 96 (XL. 13), 192 (XXIV. 9).

Isopo, 243.

Israel (Iacob), 18.

Lamberti (de’) Mosca, 179.

Lancellotto, 144.

Latino, re dei laurenti, 52.

Lattanzio, 74, 76 (Divinarum institutionum, I. 23), 201 (Div. inst., I. 11), 267.

Leon tessalo, vedi Pilato.

Lavina, figlia di Latino, 54.

Leontonio, ateniese, protettore di Omero, 27.

Lino, 78.

Livio Tito, 45 (Hist., XL. 4).

Lucano, 25, 33, 57 (Pharsalia, II. 326 sg.),

Lucrezia, 55, 87.

Macrobio, 124 (Saturn., V. 17).

Malatesti Gianciotto, 137 sg.

Malespina Morruello, 263.

Maometto, 277.

Marzia, moglie di Catone, 57.

Mela Pomponio, 71 (I, 17, § 86.

Moisé, 16.

Museo, 77.

Nepote Cornelio, 29.

Neri (setta dei), 171.

Nerone (Troica), 133.

Nino, 117 sg.

Noé, 15.

Numeri, 233 (XXI. 6-9).

Oderisi da Gobbio, 29 sg., 34, 53 (Carm., III. 17, vv. 7-8).

Orfeo, 74 sg.

Ovidio, 4 (Metam., XI. 623-5),

30 (Tristia, X. 3-4,  26,  21-22),

31 (opere),

32 (Tristia, II. 207,  103,  108),

40 (Fasti, IV. 169-78),

75 (Metam., X. 78-85),

86, 108 (Metam.,VIII. 166-75),

134, 229 (Metam., V. 346 sg.).

Pantasilea, 50.

Paolo (san), II Tim., IV. 4; I Cor. , XIV. 38),

192 (Ephes., V. 18),

238 (Ephes., V. 5).

Paradiso (cantica), 208.

Parche, 219.

Pasife, 107.

Perini Dino, 264.

Persio, 34, 242 (Sat., III. 66,  69-70).

Petrarca Francesco, 61.

Pilato Leone (Leonzio Pilato), 24, 77, 232, 201, 227.

Plauto, 34.

Pleiadi, 40 sg.

Plinio, 48 (Hist. nat., VII. 25),

85 (Hist. nat., XXIX. 2).

Po, 139.

Poggi Leone, 262.

—Andrea, 262 sg.

Polenta (da) Francesca, vedi Francesca da Rimini.

Proverbi, vedi Salomone.

Purgatorio (cantica), 169, 200, 208;

Rabano Mauro, 74 (Liber originum, XVIII. 4),

76 (Orig., XVIII. 4),

84 (Orig., XVIII. 5),

85 (Orig., XVIII. 5),

232.

Rachele, 19.

Rusticucci Iacopo, 179.

Saladino, 59.

Salmista, 92 (Ps. XXXV. 4),

97 (Ps., XVIII. 4-5),

99 (Ps., LVII. 5-6),

184 (Ps., VIII. 8-9),

234 (Ps.. CXVII, 22),

272 (Ps., IV. 5).

Santa Lucia di Napoli, 221.

Sapienza (Liber sapientiae), 192.

Semiramis, 117 sg. (III. 813-14),

4 (Herc. fur., IV. 1065-77),

33-34, 64 (Epist. ad Lucilium, VI),

67 (Epist. ad Luc., LXI),

69 (De beneficiis, I1 4),

70 (De ira, III. 38),

78 sg., 87, 140 (Hippolytus, I. 294-301),

192, (Epist. ad Luc., XXIV),

223 (De sacris Aegyptiorum),

229 (Herc. fur., III. 782-8),

239 (Epist. ad Luc., IV),

242 (Epist. ad Luc., XVII),

274 (Thyestes, II. 344 sg.).

Simonide poeta, 177.

Solino, 76 (De mirabilibus mundi, X. 8)

126-27 (De mir. mundi, XXVII. 31,  41, non citato nel testo).

Speusippo, nipote di Platone, 66.

Spurima, giovane romano, 153.

Stazio, 76 (Theb., V. 344,  435),

228 (Theb., VIII. 21-6),

254 (Theb., VIII. 739 sg.).

Stige, 211,

207 (Vit., §§ 1-4),

46 (Vit., I, § 13),

48-9 (Vit., I, §§ 56,  51,  49,  51, non citato nel testo).

Tacito, Cornelio, 34 (Annales, XV. 56,  57; XV. 69,  70),

80 sg. (Ann., XII, I. 8; XIII. 2; XII. 67,  68; XIII. 16; XIV. 8,  63,  64,  60,  51; XIII. 2; XIV. 53-56,  65; XV. 60-65).

Tale (Talete), 71.

Teodonzio, 76, 31, 35, 37, 98.

Terenzio, 34, 163;

Tertullio, 65.

Tolomeo astronomo, 84.

Tosinghi, 213.

Tristano, 134 sg.

Trogo Pompeo, 51.

Tullio Cicerone, 28 (Tusculanae quaestiones, I. 39),

48 (Brutus, § 72),

62, (Tusc., II),

64 (De senectute, § 5),

68 (Tusc., V. 39),

71 (Tusc., I. 43),

77 sg., 128 (De inventione, II. 1),

132 (De divinatione, I. 21),

140 (De natura deorum, III. 23), 177 sg. (Div., I. 27,  30),

232 (In Verrem, IV. 50),

239 (De officiis, III. 5),

242 (Off., I. 20).

Valerio Massimo, 58 (IV, 6. § 4, non citato nel testo),

61 (III. 4 ext. 1),

62 (VII. 2 ext. 1),

69 (IV. 3 ext. 4),

73 (III. 3 ext. 2, non cit.),

74 (III. 3 ext. 3),

83 (VIII. 12 ext. 1),

117 (IX. 3 ext. 4, non cit.),

153 (IV. 5 ext. 1, non cit.),

177 (I. 7 ext. 3; I. 5, non cit.).

Verona, 262.

Villani Giovanni, 173 (Cron., VIII. 39 sg.).

Virgilio, 37 (I, 378),

39 (VI. 753-5),

46 (IV. 615-21; X. 606 sg.),

52 (VII. 45-8),

53 (XII. 164), 109 (VI. 422-3),

134 (X. 92),

142 (VI. 472-4),

168 (VI. 417-23),

169,

221 (VI. 323-4),

223,

228 (V. 548-9),

230 (VI. 563),

242 (III. 56-7),

268 (VI. 218-20,  412-14),

278 (VI. 552-8).

Vitis (de) philosophorum (Libellus de vita et moribus philosophorum), 61.

Zenobia, regina di Palmira, 153.

Zenone, 73 sg.

Zoroaste, re dei batriani, inventore dell’arte magica, 68.






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altri scritti intorno a Dante (vol. 2 , by Giovanni Boccaccio

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