The Project Gutenberg EBook of Gli eretici d'Italia, vol. I, by Cesare Cantù

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Title: Gli eretici d'Italia, vol. I

Author: Cesare Cantù

Release Date: November 3, 2014 [EBook #47276]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK GLI ERETICI D'ITALIA, VOL. I ***




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GLI
ERETICI D'ITALIA

DISCORSI STORICI

DI

CESARE CANTÙ

A Deo credita sunt illis eloquia Dei. Quid enim si quidam illorum non crediderunt? numquid incredulitas eorum fidem Dei evacuabit? Absit.

Ep. B. Pauli ad Romanos, cap. III, 2, 3.

Hæc omnia pertractantes, nihil aliud teneatis nisi quod vera fides per catholicam ecclesiam docet.

S. Gregorii L. VI, ep. 15.


VOLUME PRIMO


TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
Via Carlo Alberto, casa Pomba, Nº 33
1865


Diritti di riproduzione e di traduzione riservati alla Società Editrice.

Depositate le copie volute dalla Legge, il 4 novembre 1865.



INDICE


[5]

AI LETTORI SERJ.

Ne' lavori storici, che formarono l'occupazione, la compiacenza e lo strazio della lunga mia carriera letteraria, sempre una gran parte ho assegnato alle religioni, persuaso non possa acquistarsi intero concetto dei tempi e degli uomini quando non si conosca ciò che essi credeano, temeano, speravano intorno alle cose superne. Principalmente nella Storia degli Italiani accurai le vicende del cattolicesimo, che sempre nel nostro paese ebbe trono e capo; e particolarmente il momento in cui esso venne straziato dalla Riforma.

Gli storici nostri, preoccupati della politica, vi trasvolarono; e accennato ch'ebbero l'appalto delle indulgenze, le diatribe di Lutero, la scomunica di Leone X, il concilio di Trento, poc'altro si brigarono di un fatto, che pure agitava la società fin nelle viscere. La vulgare abitudine di dire una cosa perchè fu detta, fa ripetere tuttodì quel di Voltaire, che l'italiano, popolo ingegnoso, occupato d'intrighi e di piaceri, nessuna parte prese alle sovversioni di quel tempo.

All'opposto gli scrittori ecclesiastici, col tono querulo e desolato che sembra in essi rituale, esagerano l'estensione del danno; e intenti solo a difendere la Chiesa stabilita, negli eretici non riconoscono che anime perdute, da esecrare piuttosto che da esaminare; e col non supporvi nè buona fede, nè scusabile errore, giustificano i rigori usati contro di essi, come contro malvagi e ribelli.

Nobili caratteri, limpide intelligenze, passionate persuasioni che disputano per arrivare al possesso delle verità eterne; intere generazioni moventisi sotto l'impero d'una legge morale, qual è il bisogno di riformare le credenze e gli atti, parvero a me spettacolo solenne; nè forse infruttuoso a tempi affogati negli interessi materiali. [6] Anzi, più lo contemplavo, più vi trovava somiglianze alla situazione odierna.

Fattasi anche nel Cinquecento una subitanea effusione di cognizioni, gli uomini si videro aperti nuovi orizzonti, e demolirono il diritto antico senza riuscire a edificarne un nuovo. Anche allora le fazioni calunniarsi a vicenda ne' costumi, nella fede, nell'intelligenza; palleggiarsi que' titoli, che sono tanto più irreparabili quanto più generici e mal definiti; sotto frasi simpatiche mascherare calcoli egoistici; a parole inani arrogare l'autorità di fatti, e a formole il valor di ragioni; anche allora gridarsi libertà di coscienza, come oggi libertà politica, senza volerla lealmente, e fin senza intenderla; anche allora sostituire la smania di repentine innovazioni al progressivo emendamento delle consuetudini, le opinioni al diritto, la violenza alla persuasione.

Qualche cosa più che spettatori d'una crisi consimile, siamo in grado di meglio valutare quella d'allora, le accuse e i processi, le glorie e le infamie sparnazzate a capriccio o a capopiede; e così da un nuovo punto osservare la storia dell'Italia, e insieme la storia del pensiero indipendente. Che se in questi anni si pubblicarono tante ricerche sulla Riforma ne' diversi paesi, l'essere scritte da soli acattolici potrebbe lasciar indurre che questo tema giovi soltanto alle negazioni eterodosse[1].

Ben l'odierno orgoglio che ci fa negare tutto ciò che non comprendiamo, e crederci disobbligati dal faticare a comprenderlo; la repugnanza da ogni autorità e più dalla jeratica; il predestinato applauso ad ogni sovvertimento; l'applauso domandato dallo scandalo e dall'echeggiare la folla; il predominio dell'opinione sopra la coscienza; il disaccordo in tutto fuorchè nell'abbattere la fede che non s'ha, nell'impugnar dottrine che non si conoscono o male, fan presentire l'antipatia contro la parte che in Italia prevalse; antipatia che si propagherà sul narratore.

Poi una società che, idolatra di se stessa, si persuade che il suo progresso consiste nel rinnegare e vilipendere il suo passato, giudicherà non solo inopportuno, ma insensato il tornare alla teodicea de' padri nostri, anticaglia da museo; e in un passato compassionevole rivangar discussioni dimenticate.

[7] Dimenticate! ma non è questa una lotta delle idee, come tutte quelle grandiose che si mantellano sotto i nomi di Grecia e Persia, metropoli e colonie, re e repubblica, papato e impero? Dimenticate! ma come dirlo or che con tanta sollecitudine e spese si fomenta l'apostolato di dottrine avverse alla cattolica? come dirlo or che si odono tutt'i giorni agitare, ne' caffè come ne' parlamenti, punti supremi della fede e dell'organamento della Chiesa, e l'efficacia di questa sopra la convivenza sociale? Non è guari, un attacco contro il maggior ente che vestisse l'umanità risvegliò le timorate non men che le temerarie coscienze, e Gesù divenne quistione del giorno.

Vero è che di tutto ciò prendeasi ben maggiore pensiero quando gli intelletti si occupavano principalmente di Dio, dell'anima, della destinazione dell'uomo: riconosceano la santità non solo, ma la bellezza della redenzione, del pentimento, dell'amore; in tal senso dirigevansi e le azioni e le astinenze, sorgevano le sètte, incalorivansi i partiti; e tutti gli studj, come tutte le meditazioni s'aggiravano sulle massime eterne, misteriose quanto la coscienza.

Quell'età è tramontata, ma anche gli odierni, indifferenti alla analisi delle anime, non possono negare che nell'uomo il bisogno di credere sia forte quanto quello di ragionare. Poi, si può egli trattare nulla di grande senza chiarire e assodare i principj? Che cos'è il diritto? in qual connessione stanno gli individui fra loro e colla società? dove termina il campo della ragione e comincia quello della fede? qual parte deve farsi all'autonomia individuale, quale all'autorità? come venimmo e per qual fine al mondo? come dobbiamo condurci od essere condotti, se quest'ordine è voluto da un essere superiore?

Tali quistioni si tengono per mano; e il problema religioso siede al fondo di tutti i problemi contemporanei, dove men pare; e si realizza nell'ordine de' fatti in maniera, che la macchia originale è la legittimazione de' governi, e i supplizj e gli eserciti sono autorati dai reprobi istinti; la volontà libera, o la fatalità e la predestinazione sono i poli fra cui oscilla eternamente la filosofia non meno che la teologia.

Quando il sofista eloquente fantasticò uno stato di natura, diverso e opposto al sociale, e disse «L'uomo è nato buono, e la società lo [8] pervertisce», sovvertendo l'ordine teologico sovvertì l'ordine politico, e produsse la rivoluzione.

E più il fiotto di questa s'ingrossa, più flagella gli argini dell'autorità: ma il sentimento rivela confusamente, l'intelligenza chiarisce, l'esperienza intìma che occorrono o la fede o la forza; attenuare le credenze è attenuare l'uomo, e sostituire all'imperio delle coscienze il despotismo dei decreti, e con comminatorie, e carceri, e soldati, e prestiti, e impiegati costringere a subire bestemmiando quel che prima portavasi con spontaneità o rassegnazione.

Per verità, adesso, mentre la vita de' popoli si trasforma con tal fatica, da non lasciar tempo al pensiero, l'uomo si storna dalle idee elevate per strisciare fra le palpabili e giornaliere; e insaziabile di esaltazione e di godimenti, invanito dei progressi materiali, vilipende istituzioni che non si traducono in moneta o in piaceri. Per conseguenza all'eresia che dissente e nega, sottentrò quella che ignora e non distingue. Chi più oggi ha qualche esperienza della vita spirituale? chi disputa se sieno le opere o la fede che salva, e se Cristo nel sacramento si trova sostanzialmente o simbolicamente? Il dogma si considera non come essenza della religione, ma come spiegazione, chiesta dal raziocinio avido di essere chiarito su ciò che ognun sente, ponendo però sempre superiore alle credenze l'indipendenza dell'intelletto individuale. Sin pei buoni la fede è men tosto una qualità interna soprannaturale, che la regola esterna della vita; pur tacendo coloro che non solo eliminano dall'ordine naturale il soprasensibile, ma ne niegano la possibilità.

Quante, anche fra le persone colte, possedono appena nozioni generiche, mal accertate, oscure, irreverenti sopra le divergenze dottrinali fra Cattolici e Protestanti! In parte n'è causa l'appartener noi a nazione che, prima degli odierni sbrani, era tutta cattolica, e perciò scevra dalle controversie; ma neppur quelli che l'hanno per dovere, coltivano abbastanza questi studj, sia la scienza delle fonti letterali (filologia biblica, critica, ermeneutica), sia quella de' principj (apologetica, dogmatica, catechesi, pedagogia, liturgia, arte, diritto, morale), sia quella dei fatti (archeologia, storia) o de' simboli.

E perchè i frivoli ne ciarlano tuttodì con sfacciataggine pari all'ignoranza, i sapienti, non trovandosi a fronte antagonisti serj, sdegnano [9] venir con loro alle braccia, e con ciò lasciano a quelli, se non l'onore, il vanto del trionfo. Di tal passo arrivasi a reputar merito l'indifferenza, cioè non solo il diritto reciproco di pensare ciò che si vuole, ma il ripudio d'ogni indagine severa, la beffa d'ogni convinzione profonda. Eppure la sorgente dei sentimenti cristiani sono i dogmi.

Si vuol incolpare i controversisti di sollevare più dubbj che non ne dissipino.

Per verità, a chi non concepì mai, o mai non intese objezioni contro la religione di sua madre, qualunque libro che gliene affacci diviene pericoloso, qualunque confutazione lascia un'impressione pericolosa; laonde molti vorrebbero che il debito del Cristiano si limitasse a credere e venerare. Fortunato chi n'ha il dono! Ma dietro a Tertulliano il quale diceva, che «la verità non arrossisce che del non essere conosciuta», tutti i Padri tennero che la religione non ha a temere la leale investigazione, bensì l'ignoranza e l'errore, e i maggiori santi francamente rivelarono le opposizioni. Queste provocano spiegazioni e in conseguenza luce. Che se è buono che i più credano ingenuamente perchè bevvero coi primi insegnamenti la venerazione a ciò che la Chiesa ingiunge, a molti corre obbligo di mostrare che ne esplorarono i fondamenti con quell'ossequio ragionevole che l'Apostolo raccomandava, associando scienza e discussione, esame e obbedienza.

Noi non crediamo v'abbia reale consorzio civile là dove si opina solo, invece di credere; e il vilipendio delle idee religiose è sintomo spaventoso per l'avvenire morale d'un paese; giacchè, obliterato il senso dell'ideale, non restano che l'empirismo, e la cura di soddisfazioni inferiori, precarie, servili. Or dove l'idea religiosa illanguidì, il discuterla in pubblico al par degli affari comuni, la ravviva; dove poi si declama in contrario, mal si temerebbe che riescano di scandalo le verità dette da fedeli. Or dunque, che crescono i contatti coi dissidenti, importa di non trovarsi sprovveduti sulle differenze dogmatiche, nè credere che basti disprezzare l'attacco e maledire l'assalitore: vuolsi conoscere e propugnare le grandi verità quando l'insipienza le ingombra, la malizia le nega, la passione le stravolge.

[10] In tempi d'altre tirannie, quando non aveano valore sul mercato le voci di libertà, patria, nazionalità, noi ci ostinammo a ripeterle finchè divennero moda, e, com'è delle mode, se ne alterò, e fin capovolse il senso. Così ora ci ricorreranno le parole di coscienza, fede, avvenire, salute, giustificazione: che importa se le disappresero fin quelli che più dovrebbero conoscerle e insegnarle?

Ma anche la verità ha le sue sètte, ed esse portano a quell'esagerazione, dalla quale dovrebbero più rifuggire le cause che hanno coscienza della propria forza. Quindi ci si rinfaccia che agli ecclesiastici devono essere riservate disquisizioni, ov'è impossibile a laici mantenersi in quell'esattezza, alla quale falliscono fin i maestri in divinità, nè convenire ai figli d'Abinadab stendere la mano a sorreggere l'arca barcollante.

Quando tanti secolari si fanno lecito di berteggiare i dogmi e i riti, e dar consigli ai depositarj di essi, perchè sarebbe men conveniente a laici l'assumerne la difesa? Tanto più imparziali essi appajono quanto che niuna speranza terrena li lega al potere che sostengono, niuno speciale carattere nè prefissa educazione gli obbliga o li trae a professare sgradite verità e ad affrontare l'impopolarità; nè sono stretti da quello spirito di corpo che i corpi ruina, perchè, colla paura di screditarli, ne scusa o maschera le aberrazioni, e non ne scevera gli elementi corrotti.

Quando il senatore Flaminio Cornaro mandò a Benedetto XIV la sua Storia delle chiese venete, il papa ringraziandolo, non solo lo esortava a continuare le dotte ricerche, ma desiderava che altri laici vi s'applicassero, come in vecchi tempi ne han dato esempio san Giustino, Atenagora, Arnobio, Didimo, Latanzio, Prospero d'Aquitania, Severino Boezio, Cassiodoro, Evagrio, e ne' recenti il Fiorentini, il Buonarroti, il Sigonio, il Masini, lo Zani, il Cappello, il procuratore Giustinian, Diodo, Morosini, Loredano, Laura, Quirini, Secondini, Maffei ed altri molti[2].

Dicasi pure che questa è una scusa che noi predisponiamo agli sbagli e alle inesattezze nostre. E in quante incapperemo! Ma sempre cercammo esporre con precisione la verità, quale è definita dalla Chiesa, alle cui decisioni noi ci sommettiamo senza riserva, protestando che i nostri dubbj non sono che interrogazioni rispettose, [11] e pronti a ritrattare qualunque errore o temerità, autorevolmente avvisataci.

Di essere ascetici ne rinasceva l'occasione ogni tratto, ma non ci esporremmo alle risa d'una società che calcola e non sente? Nè tesseremo lavoro apologetico ed encomiastico, ma procederemo colla sincerità che ci è consueta. L'istituzione ecclesiastica è mescolata, e più era un tempo, alle cose terrene, in modo, chè ne contrasse l'inquinazione; di mezzi mondani dovette valersi per assicurare la propria indipendenza; fu diretta e preseduta da uomini, ai quali Cristo promise l'infallibilità nelle decisioni, non l'impeccabilità negli atti. E come, se impeccabili non furono gli angeli in cielo, il primo uomo in paradiso, Pietro al fianco di Gesù?

Poco disposti a dissimularne i traviamenti, quanto lontani dall'esagerarli, noi sappiamo che ai papi è dovuto l'omaggio dell'intera verità: e se molte volte leniremo colla spiegazione ciò che è moda esacerbare col sarcasmo, siamo primi a deplorare gli abusi che diedero occasione o vigore alle separazioni.

Credemmo obbligo nostro conoscere le capitali controversie odierne sull'origine del cristianesimo e la pretesa formazione dei libri canonici e dei dogmi; e oltre la Vita di Gesù di Strauss e di Renan, e gli Evangeli di Eichthal, non abbiamo trascurato la Storia dei tre primi secoli della Chiesa di E. de Pressensé; la Storia del Cristo di Ewald; gli Studj storici e critici sull'origine del cristianesimo di A. Stop; la Storia elementare e critica di Peyrat; abbiamo seguitato gli studj esegetici della scuola di Tubinga, i Saggi degli inglesi seguaci di Colenso, e le tante disquisizioni di Jowel sulle Epistole di san Paolo; di Milman sul Cristianesimo latino; di Witt sugli accordi fra la dottrina cristiana e la scuola di Alessandria; di Baur sul Cristianesimo e la Chiesa cristiana;..... ma ricondotto il cristianesimo in faccia alla storia, alla ragione, alla coscienza, interpretato con libertà di spirito, non trovammo ragioni per iscostarci dalla tradizione cattolica. Anzi lo studio ci convinse che l'attuazione ecclesiastica n'è eccellente, sia pel necessario contemperamento della sovranità de' pochi colla soggezione delle moltitudini, sia per procurare la maggior possibile felicità, quella cioè in cui le volontà non alla coazione, ma s'adagino alla morale persuasiva; [12] e che il principato sacerdotale, com'è il più antico, così è il più venerabile e generoso potere, la chiave della vòlta dell'edifizio sociale, la salvaguardia della libertà nelle nazioni civili, perocchè alle sovversioni oppone l'unica forza capace di resistervi, la coscienza.

La religione non tocca solo la parte sentimentale, ma abbraccia tutto l'uomo, anzi tutta la società, e ne sono riflesso i costumi e la legislazione, la vita domestica e la politica; insomma è l'espressione più profonda della coscienza dell'umanità in un dato periodo. Ecco perchè ogni religione è storia, e la nostra è delle più importanti alla umanità, nè può comprendersi bene in un secolo se non rimontando al precedente. Perciò dovemmo rifarci alla cuna del cristianesimo, non per riconoscervi il principio divino della civiltà moderna, la garantigia del diritto comune, la base delle nuove legislazioni, il legame sociale de' popoli, la norma delle coscienze, ma solo per vedervi assodarsi e svolgersi le verità tradizionali, e germogliare gli errori, che poi ingrandirono nel XII secolo e nel XVI, sul quale di preferenza vi indugeremo.

Dovendo parlare di persone e fatti già da noi esposti anche più d'una volta, non ci si farà colpa d'usare talvolta le stesse parole; il diverso scopo di questo lavoro n'ha però cambiata l'economia, e se altrove prediligemmo le vedute sintetiche e comprensive, qui saremo spesso biografi e aneddotici.

Rifuggendo dalla fraseologia di moda, che annichila la realità e confonde le immagini, e mette anche nel libro il tono superficiale ed evasivo del giornale, noi c'industrieremo di ritrarre gli uomini colle passioni, colle virtù, coi vizj loro, nè angeli nè demonj. All'urbanità che devonsi creature decadute e fallibili non mancheremo mai, sebbene non la speriamo da coloro che dall'infanzia abituaronsi a non vedere la verità che traverso ad occhiali comprati, e intitolare pregiudizio ciò che urta i pregiudizj loro.

E fra questi pregiudizj è l'apporre a chi tratta materie religiose, le taccie d'ignoranza, d'illiberalità, d'intolleranza. La prima ben ci sta, e fu appunto per minorarla che faticammo tanti anni a raccoglier fatti e notizie, parte nuovi, parte dispersi in libri di difficile accesso; e invocammo i consigli di quelli, pochissimi in Italia, che prestano sussidio e consigli a chi studia.

[13] Se amiamo la libertà, lo dicano i nostri libri e la nostra vita, e il non averla rinnegata neppure negli schifosi trionfi di coloro, che la trascinarono al postribolo e al palco da ciarlatano.

D'intolleranza non fummo imputati mai, neppure dai nemici, bensì del contrario; e l'affliggente spettacolo di ecclesiastici che portarono fino a classificare l'odio teologico, ci renderà attenti a serbar la dignità nostra rispettando quella degli avversarj, che la Chiesa c'insegna a considerare come fratelli in Cristo, e ci dà speranza di vederli qui in terra raccolti in un solo ovile, poi in cielo a contemplar con noi la luce nella luce, e conoscere tutte le verità nel centro loro, che è Colui che solo nè inganna, nè s'inganna.

Rovato, ottobre 1865.

[15]

DISCORSO I.
FONDAZIONE E STABILIMENTO DELLA CHIESA.

L'uomo era stato creato di retta intelligenza, e favorito di superne comunicazioni, ma libero e però capace di errare[3]. In fatto, mutando la coscienza del somigliar a Dio colla pretensione d'esser identico ad esso, peccò di superbia e disobbedienza; e il reato di quella colpa, trasmesso per generazione dal primo stipite a tutta la sua discendenza, quasi al modo che ne' rami e ne' frutti della pianta trapassa il guasto della radice, costituisce il più profondo mistero, non accettando il quale si moltiplicherebbero altri misteri. Ottenebrata allora la verità che l'uomo avea ricevuta coll'immediata intuizione di Dio e col linguaggio; venuti in disaccordo l'intelletto, la volontà e la potenza, la stirpe umana decadde dall'altezza in cui era stata costituita, e perdette la piena conoscenza del vero e la pratica del bene. Pure a queste non cessò d'esser destinato; ma, per ristabilire il rotto accordo, non basta la ragione, e richiedesi la coscienza, appoggiata sulla fede, la quale è data solo dalla rivelazione. Tale rivelazione era conservata da un popolo eletto, per tradizione orale e in libri santi. In questi promettevasi un redentore o mediatore, che ripristinerebbe la comunicazione tra l'eterna giustizia e la creatura peccatrice. Chi poteva far ciò altri che un Dio?

Giunta la pienezza de' tempi, vaticinata dai profeti, figurata in tanti fatti e tanti simboli, deposti in libri conservati da coloro che lo avrebbero più risolutamente osteggiato, Cristo figliuol di Dio nasceva da una vergine, in paese colto e ricco, a due ore dalla città più famosa d'Oriente[4], nell'età più splendida di Roma, l'età dell'oro della letteratura. Così dal Dio esistente in se medesimo e nascosto passavasi al Dio conoscibile, manifestato e conversante fra gli uomini; all'Emanuele, cioè Iddio fra noi. Il dogma dell'incarnazione costituendo l'unità personale della natura divina e dell'umana nell'uomo-dio, additava come fine dell'uomo l'unione divina; passo essenziale dell'umanità sulla strada che la riconduce a Dio.

Egli era luce nelle tenebre, e le tenebre non lo compresero; venne fra' suoi, e i suoi non l'accolsero; gl'ipocriti e gl'intriganti lo perseguitarono; [16] mossero l'ira consueta dei depravati contro chi vuol rigenerarli, e come riottoso e seduttore fattolo denunziare dalla pubblica opinione, cioè dagli schiamazzatori di piazza, trionfarono del vederlo messo legalmente a morte obbrobriosa, dalla quale resuscitò più vigoroso.

Venuto a riordinar la scienza e l'amore, l'intelligenza e l'opera, che il peccato avea sconnesse, recava la redenzione, e in conseguenza la legislazione religiosa. Tutto era insegnato a tutti, e il mistero non era una parte della credenza, arcana al volgo e riservata ai sapienti, ma imponevasi egualmente a ognuno, perchè trascende l'umana ragione, sia colta o ineducata[5].

Cristo conferì a' suoi ministri la facoltà di sciogliere e legare i peccati tra l'effusione della grazia, e lo stupendo privilegio d'immolar il Figlio al Padre, vittima incessante per le colpe, sotto le specie del pane e del vino, sotto le quali si acchiude l'incarnata divinità (se immagine umana può adombrare il mistero) come l'idea nella parola. Il qual sacramento, assunto da' fedeli in commemorazione di lui, esprimesse la debolezza degli uomini, e comunicasse la forza che viene da Dio.

Nulla scrisse egli, e il Cristo storico non ci è noto che per tradizione, avendone raccolto le parole e gli atti alcuni di coloro che l'udirono, e postane in iscritto parte, professando che molt'altro ne tacevano.

Acciocchè la verità non tornasse più ad offuscarsi, Cristo fissava una fiaccola viva e indefettibile, la Chiesa; la quale, avvivata dallo Spirito Santo che sempre la inabita, come l'anima il corpo vivo, e serbando intemerato il deposito delle verità rivelate, adempie perennemente nel mondo una doppia missione.

La prima, di trasmettere infallibilmente, in coloro che rigenera di mano in mano colle parole e co' sacramenti, la vital verità e quel medesimo spirito di cui ella vive, presso a poco siccome la madre nel figliuolo tramanda la sua stessa vita e natura umana, e l'allatta della sua sostanza, e l'istruisce col linguaggio comune della società[6]: e come niuno può darsi da se medesimo l'essere e la natura d'uomo, ma deve riceverla dalla natura, e riceverla tal quale gli è data, prima d'ogni suo giudizio, essendo assurdo che il bambino volesse giudicare il latte della madre, e più ancora il germe da cui lo genera, così l'essere e natura di cristiano fa duopo ricevere dalla Madre Chiesa senza previo giudizio. Che se, per mantenere inalterata la schiatta umana, Iddio ordinò leggi impreteribili alla natura, per tramandare inalterata la vita cristiana alle ultime generazioni deve aver fatta infallibile la Chiesa. Sotto questo primo aspetto si deve essa considerare qual madre di tutti i viventi, con autorità che non grava o lega le coscienze, bensì le forma e le genera, come la madre non è di aggravio al bambino, nè la radice esercita violenza sui rami. Uno è il capo, da cui prende vita tutto il corpo; una la radice che germina tutta la pianta; una la madre di prole sì numerosa: dal suo seno nasciamo, del suo [17] latte siamo nodriti, del suo spirito animati[7], per modo che tutti i Cristiani son germogli della radice apostolica e della Chiesa[8].

L'altra missione della Chiesa è di tenere nell'unità, coloro che dall'arbitrio individuale sarebbero indotti alla varietà e al fallo. In ciò la Chiesa fa sentire la sua potestà, costituita sopra le coscienze; potestà, alla quale spetta di risolvere ogni dubbio, determinare le credenze, non avendo altre arme se non la persuasione, la grazia invocata e la infallibilità promessa da Colui che prega in cielo affinchè la fede di Pietro non venga meno.

Così il vangelo, promulgato per testimonio divino, doveva esser conservato e tramandato per testimonio indefettibile. Senza una tale istituzione infallibile non si dà conservazione certa della verità rivelata, nè quindi dogma fisso, o alcun dovere determinato, o possibilità della vita cristiana. La Chiesa è la sintesi della incarnazione, e svolgesi nell'esercizio d'una religione, i cui elementi sono, per parte di Dio, la rivelazione; per parte dell'uomo, la fede.

Ascolta e guarda: ascolta la voce ch'è in te; guarda la bocca che ti risponde. Non è necessario che tutti conoscano le dimostrazioni e le confutazioni, cioè che abbiano ponderato la storia: basta guardino il presente, i caratteri della Chiesa attuale, per esser certi del suo passato e del suo avvenire, della sua storia e della sua destinazione. E perciò Cristo disse alla sua Chiesa: «Chi ascolta voi ascolta me[9] perchè io sono con voi[10], e chi resiste alla voce vostra resiste alla mia»[11]. Cristo è così chiaramente colla Chiesa, che ella dee considerarsi come una prova della rivelazione; e per lo splendore de' suoi caratteri è il primo de' motivi di credibilità.

Ad ogni uomo di buona fede si può domandare: «Voi conoscete che tutti han sete della felicità e della vita, orrore della morte: voi volete vivere, felice, sempre: in fondo al cuor vostro c'è l'invincibile inclinazione alla vita futura. Ma che cos'è questa vita futura? che possono dirvene gli altri uomini? Lo sguardo dell'anima non vi penetra, l'esperienza non ce ne dice nulla; intorno a Dio, alle cose invisibili l'uomo non vuol ascoltare che Dio. In fatto di religione, la ragione domanda la fede divina. E perciò la fede è un fatto generale quanto la ragione: l'umanità credette sempre che Dio non l'ha gettata sulla terra senza istruirla del suo fine e della legge con cui raggiungerlo. Questa testimonianza divina la ragione umana non la cerca in una voce morta, in un libro finito; non chiede un oggetto di studio, ma un maestro, un'autorità viva e parlante. Or dove sta quest'autorità divina insegnante? autorità distinta dalle umane, improntata del suggello divino? Non può variare, questa non può insegnare ora il sì ora il no. Deve dunque esser una, perpetua, universale, infallibile: tal la vuole la coscienza umana; a tali caratteri la riconosce, appena le si mostri. E la coscienza e la storia ci attestano che un'autorità divina è manifestamente necessaria all'uomo e al mondo.»

[18] Or la ricerca de' testi, il paragone de' sistemi non sono possibili alla generalità: eppure l'uomo ha bisogno di tal certezza. Fuori del cattolicismo, nessuna Chiesa pretende all'infallibilità nè all'universalità.

Quei che raccomandano la Bibbia, la sola Bibbia, suppongono l'infallibilità di tutti; il che è un evidente assurdo: i Protestanti stessi nol credono: tant'è vero, che predicano. Per la missione che il cristianesimo aveva di rintegrare l'unità religiosa e morale nel mondo, bisognava l'autorità, mentre la ragione individuale è fonte e materia eterna di scissura. Se al primo momento avesse potuto ognuno interpretare a sua voglia le Scritture, e applicare i precetti evangelici, ognuno avrebbe avuto un sistema proprio; non potea proferire «Questo è l'errore», nè come san Paolo dire «Un solo Cristo, un solo battesimo, una sola fede». Sin dall'origine sant'Ignazio raccomanda: «Siate soggetti all'autorità stabilita da Cristo. Rimanete uniti a Dio, a Gesù Cristo, ai vescovi, ai precetti degli apostoli».[12] E san Clemente ai Corintj: «Cristo è venuto a stabilir la comunione de' cuori come degli spiriti: in conseguenza bisogna l'unità. Ma l'unità, l'ordine, l'armonia richiedono una sommessione assoluta alle leggi divine: e senza umiltà non v'è sommessione. Il pontefice (vescovo) ha incarichi particolari, particolari il prete, il levita; il laico è tenuto solo ai precetti di laico».[13]

La Chiesa ha uno scopo soprannaturale, e però il potere di essa dovea provenire dall'alto; e la forma di reggimento meglio appropriata doveva essere la monarchica.[14] Da principio essa fu tale necessariamente nella persona di Cristo. Morto, non potendo più sensibilmente esercitarla, dovea sostituire chi ne facesse visibilmente le veci. Disse dunque a Pietro, «Sopra te edificherò la mia Chiesa»; e agli Apostoli, «Andate e predicate a tutto il mondo». Così Pietro pronunzierebbe la verità; gli altri la propagherebbero: e la Chiesa visibile, vivificata da invisibile virtù soprannaturale, otteneva l'unità di governo.[15]

Pietro stesso avea rinnegato Cristo: onde, nonchè esser superiore alle debolezze umane, rappresenta l'umanità peccabile. Pietro pone dapprima la sua cattedra in Antiochia, dove applica il nome di cristiani ai nuovi credenti. Passa poi a Roma, e quivi la stabilisce: fatto che gli eterodossi negherebbero volentieri, perchè così negherebbero l'apostolica istituzione della sede romana, divenuta la primaria del mondo cattolico; ma che è provato da abbondantissimi argomenti. I nostri videro un miracolo provvidenziale nell'esser cadute le chiese di Gerusalemme, d'Antiochia, d'Alessandria, fondate in origine, e di cui conosceasi quando cominciarono; solo Roma offre una serie di vescovi, non mai interrotta fra tanto avvicendare di accidenti.

Quando Pietro fu ucciso, potea credersi spento il cristianesimo, poichè trovavasi di fronte il politeismo signoreggiante colla forza e coll'ingegno, e il mosaismo coi miracoli e la legge; nessuna temporalità sorreggeva [19] il papato, e il mondo non vedeva in effetto che pochi visionarj, sparpagliati per l'orbe. Eppure i raggi dalla stalla di Betlem e dalle catacombe di Roma si diffondeano per tutta la terra, e cominciava quella concatenazione di atti stupendi, ove incontra il miracolo chi studia puramente la storia.

Paolo, da persecutore de' Cristiani divenutone l'apostolo, diffuse il vangelo tra le genti colla parola e con epistole, ove discute le idee degli Ebrei che pretendeano miracoli, e dei Gentili che pretendeano il legame logico delle idee. Uomo della ragione, argomenta ed estende ai varj membri le verità universali; mentre san Pietro, anche quando scrive, è l'uomo dell'autorità che proclama il dovere e la sommissione. Ma «non sia chi s'intitoli di Pietro o di Paolo, ma solo di Cristo»; intima Paolo: «Solleciti di conservare l'unità dello spirito mediante il vincolo della pace; un solo corpo, un solo spirito, una sola speranza, un solo signore, una sola fede, un solo Dio padre di tutti e per tutte le cose»[16].

Intanto san Matteo avea scritto pel primo la storia di Cristo, la più abbondante di fatti, come palestino ch'egli era e testimonio diretto. Marco, discepolo di Pietro, la espose in greco qual l'aveva udita, e così Luca antiocheno, più colto e dignitoso, che appare anche autore degli Atti degli Apostoli, narrazione sublime per semplicità.

Giovanni ebreo, che ebbe parte nelle scene della redenzione, e poi fu vescovo e martire, vedendo diffondersi molti errori sulla natura divina del Redentore, scrisse ultimo il suo vangelo, men curandosi di ripetere i fatti già prodotti dagli altri, che di combattere le dottrine gnostiche. Poi da narratore mutato in contemplatore, nell'Apocalissi manifestò le visioni soprannaturali, in cui gli furono predette le persecuzioni e i trionfi della Chiesa, la distruzione del mondo e i gaudj della superna Gerusalemme.

Altri vangeli, epistole, costituzioni, la Chiesa o riprovò o non riconobbe, ma per la loro antichità possono servir di testimonio; come la tradizione costante che risulta da monumenti storici, prova apostoliche alcune verità, sebbene non scritte[17].

Il simbolo detto apostolico, primo compendio della teologia cristiana, non consta sia stato composto dagli apostoli avanti dividersi; tale però lo vuole la tradizione costante: e forse vi furono fatte aggiunte posteriori, sebbene non sembri probabile che a quella formola battesimale si attaccasse qualche nuovo articolo man mano che una nuova eresia rendeva necessaria una protesta. Certo è concepito in modo tanto generale, che anche i maggiori dissidenti poterono conservarlo[18].

Ciò che distinse ben tosto il cristianesimo da tutte le altre religioni e filosofie, è il pretender subito all'universalità. Fin allora non si conoscevano che religioni nazionali o di Stato; ciascun popolo teneva le sue divinità, i suoi culti; la religione serviva a discernere popolo da popolo. Il [20] cristianesimo pel primo, rotte queste barriere particolari, dichiarò esser destinato a tutto il mondo, esser capace di abbracciare tutte le nazioni, qualunque ne fosse la civiltà, di soddisfarne tutti i bisogni religiosi, e fondare una chiesa dell'umanità, un regno di Dio indipendente da frontiere geografiche o governative. In conseguenza non presentasi come attuamento d'alcuna teorica particolare, non s'appoggia a veruna scuola, nè cerca alcuna alleanza: oppone francamente la follia della croce alle osservanze ebraiche come alla bellezza greca e alla legalità romana, talchè subito è considerato come una empietà, una ignoranza, una ribellione, la negazione di Dio, della scienza, della legge, il nemico del genere umano[19].

L'opera del Cristianesimo era di preparare un nuovo mondo, assodandone la base, cioè la fede: fede superiore a qualunque ostacolo. Pertanto il primo secolo dovette essere più pratico che speculativo, più d'azione che di parola: la dottrina era perpetuata da una tradizione orale e viva; era concentrata in alcune parole gravi e semplici. La fede provavasi colla testimonianza di quelli che aveano udito e veduto l'Uomo Dio: le disparità che nascessero restavano appianate dal detto d'un discepolo; la gran giustificazione consisteva nel rinovellarsi del mondo, e la dichiarazione di fede nell'escludere dalla comunione d'una Chiesa chi credesse altrimenti, cioè chi alla verità generale surrogasse una restrizione di particolar suo giudizio.

E poichè quaggiù il bene e il male sono in perpetua lotta, il cristianesimo dovè combattere, prima col martirio, dappoi colla ragione, l'erudizione, l'eloquenza. E qui s'apre lo spettacolo della controversia, dove gli apologisti che erano stati filosofi, cominciarono quel conflitto dell'errore colla verità, che finirà solo coi secoli; dove il cristianesimo, combattendo gli Ebrei e i Gentili, parla alla ragione e all'intelletto; l'esegesi biblica è creata; una scuola cristiana fondasi accanto alle altre dell'êra alessandrina.

San Giustino nell'Apologia descrive le usanze, le assemblee, i riti dei primi Cristiani. «Terminate le orazioni, al preside vien presentato del pane e una coppa di vino e acqua. Presili, egli glorifica il Padre nel nome del Figliuolo e dello Spirito Santo, e ringrazia dei doni, e i diaconi distribuiscono quel pane e quel vino e acqua. Questo cibo da noi chiamasi eucaristia, e non può assumerlo chi non creda la nostra dottrina, e non sia stato terso de' suoi peccati, e non si conduca giusta i precetti di Gesù Cristo. Imperciocchè questo non è da noi mangiato come pane e bevanda comune; ma come per la parola di Dio si è incarnato Gesù Cristo, così quel cibo, santificato per l'orazione del suo Verbo, diviene la carne e il sangue del medesimo Gesù Cristo incarnato, e diverrà carne e sangue nostro per la mutazione che accade nel cibo».

Tennero dietro que' grandi che chiamiam Santi Padri, la più splendida luce che sfolgori sul mondo, in tempo che vi si addensavano tutte le sciagure.

[21] Più attenti ad abbatter l'errore che a dichiarar sistematicamente la verità, i Padri non ci lasciarono veruna sistematica esposizione della fede, sino a san Gregorio taumaturgo e a Cirillo vescovo di Gerusalemme. Origene dà una spiegazione metodica della dottrina rivelata, e una teologia cristiana pone come corona della scienza enciclopedica; tutto ciò nel mentre l'antica società si sfasciava. Il loro studio sarà sempre la più solida confutazione di coloro che negano o l'esistenza o la divinità di Cristo, o che attribuiscono a moderne intrusioni i dogmi e i riti più sacri.

Ma non vi si cerchi l'espressione più precisa e sistematica de' dogmi; la dottrina al pari che l'organamento si vanno svolgendo e assodando via via che la disputa costringe alla definizione più esatta e al chiarimento. Dapprima i dogmi sono, direi, fatti; è la parola di Cristo che costituisce l'insegnamento degli apostoli, non allegando altra autorità che la rivelazione divina: in appresso divien necessario formolare le basi del cristianesimo, e imprimervi un carattere, che più non possa alterarsi. A tal uopo Gesù Cristo avea promesso alla Chiesa l'indefettibile assistenza dello Spirito Santo. Essa nel cenacolo ha la stessa fede come quando è diffusa in 200 milioni di credenti: sicchè bisogna ammettere o un miracolo permanente, o che Cristo non abbandonò al capriccio della ragione individuale l'interpretare il senso delle verità rivelate.

Se san Paolo avea fulminato la ragione umana[20], certamente intendeva gli abusi che ne faceva allora la filosofia, come alcuni cattolici ai dì nostri condannano la libertà, poichè di questo nome si ammanta l'abuso del potere. Ma i Padri, e Giustino avanti a tutti, concilia la fede colla ragione, il vangelo colla vera filosofia, mostrando che quanto essa ha di vero e di buono l'ha dedotto da noi: assegnano i limiti della ragione e della fede, senza confonderle.

De' quali insegnamenti una gran pruova si ha nel vedere come gli etnici allora, cambiando sistema, togliessero a dimostrare che i Cristiani aveano dedotto ogni cosa dalla filosofia gentile: fino artifizio di colpirli appunto colle armi, di cui essi eransi muniti.

Ed è notevole come, nel valutare il lavoro spontaneo della ragione e i soccorsi della tradizione, i Padri concordino con ciò che poco fa[21] proclamò la più venerata autorità, cioè che fra la ragione e la fede non può darsi antagonismo, perchè entrambi emanano dalla fonte stessa; che la ragione può provar l'esistenza di Dio, la spiritualità dell'anima, la libertà dell'uomo; che l'uso della ragione precede la fede e a questa conduce: che della ragione non sono colpa gli errori in cui cadde la scienza superba.

Cristo disse agli apostoli: «Io dispongo per voi del regno, come il Padre ne dispose per me, in modo che mangiate e beviate alla mia mensa nel regno mio e sediate in trono a giudicare delle dodici tribù d'Israele». E a Pietro: «Simone, Simone, ecco Satana vi cercò per vagliarvi come il grano. [22] Ma io pregai per te acciocchè la fede tua non venga meno; e tu rivolto conferma i fratelli tuoi[22]».

Qui evidentemente Cristo lasciava a' suoi apostoli il sacerdozio come privilegio particolare; e dava a Pietro lo special dovere di assodare i fratelli nella fede. Non è dunque il sacerdozio accomunato a tutti i fedeli. Negli Atti degli apostoli, per l'elezione de' primi diaconi è consultato il popolo, ma il ministero è conferito dagli apostoli. Sorge contestazione sulla necessità o no de' riti giudaici? si fa appello agli apostoli e agli anziani. Nel concilio di Gerusalemme gli apostoli e i seniori non consultano tutti i fedeli sull'astinenza dalle carni immolate e dalla fornicazione; san Paolo ingiungeva il da farsi, e scrive ai Tessalonici: «Vi supplichiamo di riconoscere le cure di quei che vegliano sopra di voi, e vi governano secondo il Signore».

Ecco la superiorità di diritto divino de' preti sopra i laici, ch'è negata dai Protestanti quasi non vi fosse altra distinzione fra la plebe credente e il governo della Chiesa, tranne quella di fatto e diritto meramente umano, che corre fra il popolo mandante e i suoi mandatarj. La superiorità della gerarchia sopra i fedeli somiglia alla superiorità de' padri sui figliuoli, che non dipende da delegazione di questi, ma si fonda s'un titolo anteriore, e da essi indipendente. I preti non sono costituiti dal popolo suoi mediatori appo Dio, ma sono costituiti da Dio suoi ministri sopra il popolo: l'autorità vien dall'alto al basso, non il contrario. È dunque fuor di ragione il sostenere che, chiunque conosce la verità, può annunziarla, senza bisogno di carattere o missione speciale.

Ma gli acattolici dicono che i pastori della Chiesa perdettero la missione dacchè insegnarono l'errore. E qual tribunale sentenziò tal decadenza? e qual legge avea prefisso che, insegnando il falso, perderebbero il carattere e la podestà, e i popoli avrebbero diritto di rivoltarsi? Quei che li condannarono furono gli stessi che gli accusarono; ammessa la colpa, li dichiararono decaduti; agli spossessati surrogarono se stessi. Tre atti di eguale illegalità.

Ed oggi stesso, ampliando que' precedenti, si sostiene che i sacerdoti sono semplici mandatarj del corpo de' fedeli; e che non ad essi, ma a tutto quel corpo fu demandato l'insegnare e governare; che il potere de' sacerdoti non essendo d'istituzione divina, non può obbligare i fedeli in coscienza; e quindi le loro decisioni non hanno vigore se non accettate dalla congregazione dei fedeli. Aggiungono che i sacerdoti non possono avere autorità indipendente da quella del principe: sta ad essi la decisione della fede, ma la pubblicità di questa e del ministero dee dipendere dai governi; nè i sudditi possono essere legati che per podestà dell'imperante.

Certo queste teoriche non le deducono dal vangelo, dove non appare mai che Cristo domandasse dal principe licenza di predicar la redenzione; [23] e i primi apostoli annunziarono la verità a dispetto dello Stato, tanto che legalmente furono uccisi.

Siffatto governo della Chiesa parrebbe dispotico, giacchè estendesi sulle coscienze, impone quel che s'ha a credere, e proscrive il dissenso. Sì: appunto come la stella polare inceppa l'azione del nocchiero, additandogli il nord, e impedendogli di errare. E la infallibilità deriva da un principio superiore all'uomo, di modo che la ragione vi si acqueta. Tutto poi fa in pubblico, per lettere, dibattimenti, assemblee diocesane, provinciali, nazionali, universali, nulla determinando se non dopo deliberazione comune. L'obbedienza dunque nasce dalla persuasione; e solo a Dio, vero e primo sovrano, ed al Cristo suo si sottomettono il pensiero e la coscienza; i principi cessano d'aver diritto su questa, e si limitano a tutelarla, e a provvedere che la giustizia sia rettamente distribuita.

V'è chi nega obbedire, persiste nel peccato, scandalizza i fratelli? la pena più severa sarà l'escluderlo dalla comunione della Chiesa, talchè non partecipi alle preghiere e al convito de' buoni.

Uomini di nessun credito, di mediocre scienza, sprovisti di ricchezze e di spade, fra un mondo ripieno di «opere della carne, dimenticanza di Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue e omicidj, furti e inganni, orgie, sacrificj tenebrosi, persone uccise per gelosia, o contaminate coll'adulterio, tutte le cose confuse, e una gran guerra d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»[23], deploravano la perversità del secolo, senza per questo staccarsene ed abborrirlo, come Cristo sedeva alla mensa de' banchieri; e vi opponevano la voce, l'esempio, il martirio, colle aspirazioni della vita interiore, colle virili gioje dell'astinenza e del sacrifizio, colla fratellanza della preghiera e delle opere, «coi frutti dello spirito, che sono carità, gioja, pace, pazienza, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia, temperanza, castità»[24]. Così la luce propagavasi con miracolosa rapidità, di mezzo alla sfrenata potenza di quell'idolo senza viscere, che si chiama lo Stato, alla febbre de' progressi materiali, all'orgoglio degli Stoici, alla grossolanità de' Cinici, alla depravazione degli Epicurei, allo scetticismo degli Accademici, alle raffinate voluttà, allo spietato egoismo, all'indifferenza d'una religione ove si appajano la superstizione e l'incredulità, all'inebriamento della forza e della scienza, ai savj ed ai gaudenti che, sdrajati in orgogliosa noncuranza, limitavansi a domandare «Che c'è di nuovo?», e all'annunzio della buona novella rispondevano «Abbiam altro da fare»; oppure «Vi ascolteremo domani». Quella dottrina, che all'opinione, all'esitanza, al timore opponeva virtù ignote, la fede, la speranza, la carità: al panteismo filosofico e al popolare la personale spiritualità di Dio e l'individualità dell'uomo; alla disperazione la providenza; all'amor proprio la carità: che rivelava l'inesplorabile profondità della natura divina: che al gran mistero della vita porgea spiegazione in ciò che la precedette o [24] che la seguirà: che rimettea la pietà del cuore nella religione dond'era partita: questa dottrina, esposta in omelie e catechismi, forme diverse d'una fede sola e d'una sola speranza, adattate alla capacità d'una plebe, bisognosa di ragione, d'industria, di benevolenza, rendea comune la cognizione delle attinenze dell'uomo con Dio per via del mediatore, i principj che importano all'ordine sociale, e la scienza che è essenziale, quella de' proprj doveri. Soddisfacendo ai bisogni intellettuali e morali, che la tirannide o le sventure reprimono non spengono, e sottraendo alla società la parte più eletta dell'uomo, asilo di Dio, responsale de' proprj atti, piantava la libertà vera, generata dalla cognizione della verità, dalla pratica della virtù, dalla fede in Colui pel quale regnano i re.

Date le convinzioni, grandeggiano i caratteri; veggonsi fanciulli e donne soffrire e morire per render testimonianza alla più sublime delle cause, la verità; e gli Atti de' martiri sono il libro d'oro dell'umanità rinobilitata; della coscienza che ripulsa gli attentati della forza. I martiri rigenerarono il mondo per via dell'amore, quando la persecuzione spingerebbe a sovvertirlo coll'ira; attestano la propria vita col ricever la morte senza darla, e procedere al supplizio colla croce in mano, e sul labbro la confessione del vero.

La Chiesa, non avendo regno in questo mondo, avvicinava più sempre gli uomini al regno di Dio, il quale consiste nell'unità di credenze e d'affetto. Quel governo spirituale, diritto di Dio introdotto fra gli uomini, non metteasi in urto col temporale, anzi avea precetto d'attribuire a Cesare quel ch'è di Cesare, serbando a Dio quel ch'è di Dio. Ma a fronte del Cesare, adorato e trucidato a vicenda, ergeva dottrine che innovavano la società, surrogando alla violenza il consiglio, al castigo affliggente la penitenza emendatrice, insomma allo Stato la Chiesa, al dominio d'uno o di pochi sopra moltitudini asservite, l'eguaglianza di tutti davanti alla legge morale, che trae forza unicamente dall'infallibilità di chi l'impone.

Da poco più d'un secolo era morto il discepolo prediletto, quando il suffragio unanime della Chiesa portava a capo della cristianità uno schiavo, che avea fatto girar la macina d'un molino, e che divenne uno de' papi più insigni col nome di san Calisto. Qual rivoluzione! Tutto il mondo era diviso, stando la potenza, la ricchezza, la libertà da un lato, dall'altro la schiavitù, l'oppressione, la miseria; sol nella famiglia cristiana tutte le classi e le posizioni s'avvicinano; essa possiede la più alta autorità morale che mai comparisse sulla terra, e la confida a uno schiavo. E questo schiavo divenuto pontefice, prosegue l'opera dell'emancipazione e dell'affratellamento dei popoli: e mentre le leggi Giulia e Papia dichiarano illegittimo il matrimonio d'un figlio di famiglia senatoria con persone di classi inferiori, Calisto predica che il patrizio e il servo ebbero da Dio gli stessi doveri, che Dio li giudicherà coll'egual rigore, nè permetterà mai che l'orgoglio rompa l'unione [25] da lui consacrata. Papando Calisto, s'istituì che, nella nomina dei vescovi convocassesi il popolo, non perchè eleggesse, ma perchè dichiarasse se l'eletto pareagli degno o no del sublime suo ministero: altra insigne modificazione della legge romana, ammirando la quale, Alessandro Severo decretò che nelle varie provincie si facesse altrettanto per l'elezione dei prefetti.

Gli estremi di fierezza e d'iniquità, che ad essi consentiva la legge, furono fatti dagli imperatori per reprimere la nuova fede; ma ormai il mondo divideasi in due gran parti, idolatri e cristiani. Costantino sentì la nuova forza innovatrice[25], e le concesse parità di diritti; e tanto bastò perchè presto divenisse prevalente. Alla nuova Chiesa egli profuse doni ricchissimi[26]; e sebbene sia falsa la carta con cui a papa Silvestro concedeva la sovranità di Roma e dell'Italia[27], parve adempiere un decreto della Providenza quando egli trasferì a Bisanzio la sede dell'impero, lasciando libera la metropoli del cristianesimo[28]. Alle chiese fu attribuito il diritto che già spettava alle congregazioni pagane, di possedere beni sodi, e subito gliene furono profusi a segno, che Valentiniano I vietò al clero d'accettare eredità: ove san Girolamo riflette non esser deplorevole il divieto, ma il meritarlo.

Uscita dai nascondigli, la Chiesa manifestò e compì quell'organamento esterno, che durò sempre colla stabilità che essa imprime alle opere sue. Entrato nella vita civile, il clero adottò la magnificenza che parea necessaria a colpire le immaginazioni e onorar le cose sacre. Della religione bisognava ordinar l'arte, cioè il culto, moderandolo in guisa che il sentimento non trascenda, determinandone l'oggetto e i confini, acciocchè l'anima soddisfi al bisogno d'elevarsi a Dio, e di svolgere la divina idea che crede. E pel culto aggiungendo alla fede e alla scienza il sentimento, più che per la costituzione clericale, la Chiesa esercita l'apostolato civile, e, pur mettendo Iddio come unico fine, come verità da conoscere e bene da conseguire, opera tanto sull'umana società.

Nella fanciullezza della vita morale, la Chiesa parlava men tosto col linguaggio della speculazione dogmatica, che col merito e il demerito, il premio e il castigo. Perciò bisognavano tipi, ed erano i santi, il cui culto crebbe quello di Cristo, estendendolo a coloro che meglio a lui si conformavano. Modelli di virtù parziali, variate, molteplici, erano più accessibili che non la perfezione divina, erano quasi decomposizioni dell'unico esemplare, altri tipi d'una bellezza inarrivabile. Quel culto derivava dunque necessariamente dall'amore e dalla devozione al Redentore; e ciascuno sceglievasi un protettore per virtù o meriti ed uffizj speciali; e tutti vi trovavano un ideale diverso, e lo atteggiavano artisticamente nella leggenda, nella poesia, nel disegno.

A una dottrina, che è per essenza universale, tornava indispensabile [26] l'unità del sacerdozio, ordinato in guisa da perpetuare la rigorosa conformità di credenza nell'infinita varietà di popoli, effettuando una civiltà cattolica, cioè universale. Con questo introdusse una distinzione, ignota a Greci e Romani, quella di ecclesiastici e laici. I primi, destinati a speciale servizio divino, riceveano la missione e la dignità dal vescovo. Ogni comunità aveva un vescovo eletto da essa, e che agli altri vescovi annunziava la propria elezione con lettere pastorali, in cui faceva la professione di sua fede; gli uni agli altri partecipavansi la lista degli scomunicati, rilasciavano lettere di raccomandazione demissorie pei fedeli che dalla propria passassero in un'altra diocesi.

E diocesi, con nome dedotto dalla nuova distribuzione dell'impero, chiamavasi il territorio su cui un vescovo avea giurisdizione.

Al clero fu di buon'ora imposto il celibato, tantochè Nicolao d'Antiochia, eletto dagli apostoli per sovvenire ai fedeli bisognosi, fu incolpato perchè, anche dopo diacono, s'accostasse alla moglie[29]. Con ciò formossi una milizia, pronta a lanciarsi ne' pericoli d'ogni guisa, senz'esser rattenuta dai legami domestici, vie più forti quanto che legittimi.

Ma il clero era poco numeroso: in ogni città per lo più un'unica chiesa e una messa o due, fino a considerare scismatica l'adunanza di fedeli dove non assistesse il vescovo: egli solo potea consacrare, sebbene nelle città maggiori, come Roma, il pane da lui consacrato fosse distribuito anche da qualch'altro prete, senza diritto però di assolvere o di scomunicare. Entrante il Vº secolo, Roma gloriavasi di possedere ventiquattro chiese e settantadue sacerdoti. Lo sconcio di mandare attorno le sacre specie indusse poi a permettere anche ai plebani di consacrare, e poi di amministrare pure gli altri sacramenti, eccetto l'ordine e la cresima, riservati ai vescovi, come l'assoluzione d'alcuni peccati.

I vescovi, depositarj dell'autorità, non doveano stare assenti più di tre settimane dalla loro diocesi; e applicandovi le norme del matrimonio, si proibì il divorzio, cioè d'abbandonar una chiesa per un'altra, se non l'esigesse il bene universale. Abitualmente il vescovo veniva scelto nella diocesi stessa, laico o sacerdote: ma poteva anche essere uno straniero, come tanti dei primi papi; come i Milanesi vollero vescovo il loro governatore Ambrogio da Treveri.

I vescovi sin dapprincipio furono subordinati al papa; ma alcuni si sottoponeano anche a quello della città più illustre, o la cui sede fosse fondata da qualche apostolo, formando così provincie, il capo delle quali intitolavasi metropolita, arcivescovo, patriarca: non aveva superiorità spirituale, ma convocava a concilio i vescovi della provincia, perciò chiamati suffraganei: li consacrava prima che entrassero in funzione; rivedeva le loro decisioni: vigilava sulla fede e la disciplina di tutta la provincia.

Quando morisse un vescovo, il metropolita destinava un sacerdote che, [27] sede vacante, amministrasse la diocesi; e in presenza di questo, il clero proponeva, e l'assemblea del popolo eleggeva il successore; ma la nomina doveva essere approvata dagli altri suffraganei, e confermata dal metropolita.

Una due volte l'anno accoglieansi i vescovi a concilio sotto il metropolita, di cui erano quasi i consiglieri. Le decisioni (canoni), invigorite dal consenso comune dei vescovi, sostenute dalla rappresentanza del popolo e dal diritto divino, acquistavano forza di leggi per tutta la provincia.

La Chiesa di Roma, oltrechè eretta nella maggior città d'allora, era stata fondata prima d'ogni altra d'Occidente e dal maggiore degli apostoli, e consacrata col sangue di esso e di san Paolo. Consideravasi dunque come supremo gerarca il vescovo di essa, benchè gli altri patriarchi talvolta competessero; e se questa supremazia non ebbe sulle prime occasione di mostrarsi quale apparve secoli dopo, se rifulgea più per dignità che per esercizio di potere, esisteva in genere; il papa in radice aveva ragione di giurisdizione sopra gli altri vescovi, che nei casi più gravi non mancò di manifestarsi, e più dacchè gl'imperatori cristiani ingiunsero che ogni vescovo potesse dalle sentenze del metropolita appellarsi al papa della città eterna.

Quando erano difficili le comunicazioni fra le varie chiese, frequenti concilj si teneano presso le singole; pure ricorreasi sempre a Roma, e sant'Ireneo diceva: ad hanc ecclesiam propter potiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam[30]; e già san Girolamo era tutt'occupato nell'assistere papa Damaso a rispondere ai consulti che gli venivano dall'Oriente e dall'Occidente[31]; il concilio di Calcedonia chiese da san Leone la conferma de' suoi decreti; i vescovi d'Oriente scrissero a papa Simmaco, riconoscendo che le pecore di Cristo furono confidate al successore di Pietro «in tutto il mondo abitato»; papa Ormisda nel 318 stese un formulario, che i vescovi doveano trasmettere firmato ai metropoliti, e questi al pontefice, come simbolo dell'unanimità colla sede apostolica «in cui risiede la verace e intera solidità della religione cristiana».

Quella superiorità divenne anche legale nell'ordine civile quando l'imperatore Giustiniano ordinò che tutte le Chiese fossero soggette alla romana[32], quum ea sit caput omnium sanctissimorum Dei sacerdotum, vel eo maxime quod, quoties hæretici pullularunt, et sententia et recto judicio illius venerabilis sedis coerciti sunt; e a papa Giovanni II scrivea: Nec patimur quidquam quod ad ecclesiarum statum pertinet, quamvis manifestum et indubitatum sit, ut non vestræ innotescat sanctitati, quia caput est omnium sanctarum ecclesiarum.

Pietro fu eletto da Cristo: i successori suoi da un senato ecclesiastico, poi quando a quella dignità si unirono ricchezze che non cercò, ma che non doveva ricusare, sicchè mescolò la sua vita alla convivenza civile, all'elezione concorsero il clero e il popolo; quando quel posto divenne ambito, [28] gl'imperatori s'intromisero, a titolo d'impedir le sedizioni; e anche di poi pretesero confermar l'elezione. Odoacre, che spossessò l'ultimo imperatore d'Occidente, vietò di eleggere il vescovo di Roma senza prima consultare il re o il prefetto della città, ma il decreto non tenne (482). Gelasio, papa in quel tempo, è notevole per avere, in concilio, distinti i libri canonici dagli apocrifi, determinato a quali scrittori competesse il titolo di Padri della Chiesa, e definiti ecumenici i quattro sinodi di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia. Egli scriveva all'imperatore Anastasio: «Il mondo è governato dall'autorità pontificia e dalla podestà regia: la sacerdotale è più grave perchè dee render ragione a Dio per l'anima dei re. Tu sovrasti a tutti per dignità, pure t'inchini devoto ai capi delle cose divine, o da loro impetri i mezzi di salute, e comprendi che, pei sacramenti e per l'ordine della religione, devi sottometterti a loro, anzichè sovrastare; e in tali materie pendere dal giudizio loro, anzichè ridurli alla tua volontà. Se nell'ordine della pubblica disciplina, anche i capi della religione obbediscono alle leggi tue perchè a te fu conferito l'imperio per disposizione suprema, con quale affetto non dovete voi obbedire a coloro, che hanno incarico di dispensare gli augusti misteri?»

I re barbari conquistatori s'ingerirono sempre più o meno nelle nomine dei papi fino ad Adriano II nel 867, quando l'elezione fu restituita al clero e al popolo; ma da Giovanni XII fin dopo l'antipapa Silvestro (dal 956 al 1102) i tirannelli e gli imperatori vi ebbero gran tresca; tornò poi l'elezione al clero e al popolo fino all'antipapa Vittore nel 1138. Allora il diritto elettorale fu ristretto ne' cardinali; poi nell'elezione d'Innocenzo V (1276) si regolarizzò il conclave nella forma prescritta poco prima dal suo predecessore Gregorio X, e che tuttavia conserva. Oggi il papa è sempre scelto fra i cardinali, sicchè uno di loro è predestinato ad avere l'infallibilità. Lo Spirito Santo illumina gli altri a riconoscere il predestinato, che essi non costituiscono propriamente, ma nominano, quasi come cosa che già esisteva. Per tal modo connettonsi vescovi e papa.

Damaso, poi Gregorio Magno presero il titolo di servo de' servi di Dio; Benedetto III quel di vicario di san Pietro; e dopo il secolo XIII si adottò quello di vicario di Gesù Cristo.

Questa monarchia elettiva e rappresentativa, accoppiava l'obbedienza perfetta dovuta al capo, benchè tolto dal popolo, colla libertà e l'eguaglianza; una gerarchia, indipendente da ogni eredità, poteva svilupparsi indefinitamente, eppure sottostava a una magistratura suprema infallibile, e tutti erano sottoposti, ma unicamente alla legge di Dio, promulgata e interpretata dalla Chiesa, alla quale Iddio disse, «Chi ascolta voi, ascolta me; pascete le mie pecore; ciò che voi sciorrete sarà sciolto, ciò che legherete sarà legato».

L'infallibilità del pontefice s'induce dalle espressioni con cui Cristo costituì [29] Pietro fondamento della Chiesa: benchè altri opini che dalle espressioni stesse non traggasi a rigore l'infallibilità dogmatica. Questa è interpretazione di passo scritturale, e perciò non dipende da criterio privato, bensì da decisione della Chiesa; e poichè la Chiesa non la proferì, nessuna delle due parti può sentenziare d'eretica l'altra; e viviamo tutti nello stesso vincolo della carità. Se mai potesse fallare il vescovo di Roma, come parrebbe avvenisse nel caso di Onorio e di Liberio, la sua definizione non resterebbe accettata dal corpo dell'episcopato, il quale è infallibile, come infallibile chi definisce qual capo di esso.

Infallibili, i papi non sono però impeccabili. E il severo Tertulliano dicea: «Che m'importa qual sia la condotta dei prelati, purchè insegnino la verità? La verità della fede non dipende dalle persone; bensì dalla fede noi argomentiamo l'autorità delle persone».

E sant'Agostino: «Giuda predicò il vangelo al par degli altri, e chi lo rigettò, rigettò Cristo medesimo, che disse, Chi sprezza voi sprezza me[33]. Quand'anche tutti i prelati e vescovi fossero uomini viziosi, tu non devi staccarti dalla cattedra di Pietro, colla quale tutti sono congiunti per l'unità della dottrina»[34].

Quasi compimento all'esterna attuazione della Chiesa vennero i monaci, vittoria del soprasensibile sul sensibile, perfezione del cristianesimo, del quale vogliono adempire non solo i precetti, ma anche i consigli. Già durante l'Impero, alcuni ritraevansi nella solitudine, stomacati del mondo e con eccessi di ascetiche penitenze colpivano l'immaginazione de' Barbari. Ma se in Oriente il monachismo parve solo un'avversione ai sensi, evangelizzatore di civiltà nuova mostrossi in Occidente, dove si preferì unirsi in comunità di preghiere, di studio, d'operosità. In questo senso dettò una regola di condotta permanente e uniforme san Benedetto. Da Norcia nella Sabina, dond'era nativo e signore, ritiratosi a Subiaco, poi a Monte Cassino, formò dodici conventi (529), ove sperimentò quella sua legislazione, la quale operò per più lungo tempo e su maggior numero d'individui che qualunque altra principesca; ammirata anche da grandi statisti, che aveano sperimentato quanto sia difficile sistemare una società. Tutto v'è democratico ed elettivo, senz'altro riguardo che alla dottrina, alla santità, all'abilità; ogni monaco abbandona i titoli e sino il nome di famiglia, e accomuna i possessi, come Cristo che, cum esset dives, egenus factus est: ma può esser eletto fino alla suprema dignità. Nulla di aspro e di grave[35]; ma uomini, cose, tempo, tutto v'è disciplinato; tutte le volontà sono sottomesse a quella dell'abbate, che una volta eletto, esercita potere assoluto, ma avvinto dalla regola e dalle consuetudini, le quali determinano le più minute particolarità della vita, come vestire, quando lavarsi o radersi; in che giorni alle fave e alle erbe aggiunger olio e grasso, o il frugal desco rallegrare di ova, pesci, frutta.

[30] Benedetto introdusse nella vita monastica la perpetuità di voti solenni. Provata la vocazione in lungo noviziato, tra mortificazioni e prove, che dirà vane e puerili sol chi non le conosca dirette a ottener la sommessione della carne allo spirito, e quella libertà che consiste nel padroneggiare le passioni, proferivano i voti di castità, obbedienza, povertà, e così nel vilipendio d'ogni godimento materiale, davansi alla ricerca esclusiva della vita superiore.

Associavansi in tal modo la prudenza e la semplicità, la libertà e la sommessione, il coraggio e l'umiltà. Nell'uffizio di sottrarre lo spirito alla materia concentrandolo, gli si dava un concetto elevatissimo della sua natura, dell'alto principio e del fine suo; con istraordinarj atti convinceasi che l'uomo, assistito dalla Grazia, può vincere le passioni brutali, e viver da angelo in terra. Ricordando il detto dell'Apostolo Qui non vult operari nec manducet, tutti industriavansi a qualche arte; copiar libri, predicare, comporre, ovvero domesticar selve all'agricoltura e alla civiltà, fondare conventi che divenivano come stazioni al progresso dell'incivilimento, o nucleo di villaggi e città che ancor ne serbano il nome; alimentavano anche il sentimento delle bellezze naturali e artistiche, educando fiori, ornando chiese e altari, avvivando le solitudini colla delizia del canto. In questi centri d'attività e di studj, ricovero d'anime afflitte o disingannate, di grandi decaduti, di violenti ammansiti, di innocenti oppressi, di spose tradite, di vedove che col marito aveano perduto il lustro di lor dignità, fondeansi i Romani coi Barbari, i vincitori coi vinti nella uniformità della disciplina.

Fra i tumulti d'un'età robusta e di transizione, molti agognavano la solitudine dello spirito, la pace della coscienza, le elevazioni del cuore, voleano interporre uno spazio fra le procelle della vita e la calma del sepolcro; e non entrava ne' chiostri soltanto chi fosse stanco dell'attività o disilluso delle passioni e delle speranze; ma anime infervorate, che accanto alla penitenza collocavano le virtù naturali e le civili.

E i monaci sottentravano ai martiri, i quali spesso imitavano anche nel coraggio e ne' tormenti; fra società mutevoli rappresentavano la sapienza della durata colla volontà liberamente sottomessa alla fede e coi mezzi che dà lo spirito di corpo, unito a severa disciplina; fra le cupidigie ambiziose, essi soli per istinto rimanevano contenti alla loro sorte, ma il torzone e il canepajo poteano diventar guardiani e priori, e ottenere il cappello rosso e il triregno; il mondo ammirava in essi una dottrina e una virtù, che considerava egualmente come sopranaturale.

Altri Ordini si fondarono poi[36], esercito volontario e attivo in favor della Chiesa, ma con armi e ordinamenti diversi dalla comune società. Alcuni erano contemplativi; e son quelli che, ne' momenti ove i popoli operano e non pensano, pensan per essi, e adocchiano l'istante in cui richiamare certe verità, che rimettano in equilibrio l'azione e la riflessione, e far giudicare i [31] fatti non dall'esito, ma da canoni morali. Altri portavano il lavoro, la fecondità, la forza, l'intelligenza umana nelle solitudini, dianzi invase dalle fiere, o dalle paludi, o dalle sabbie; là introducevano la vite, i pomi, le mandrie, le pecchie, l'irrigazione, la coltura del riso, la fabbrica de' formaggi, e risedeano sui beni proprj costantemente, il che quanto importi lo sanno i contadini del nostro secolo; il ricavo ne versavano tutto a miglioramenti, cioè a crescere il capitale di cui vantaggiano i poveri agricoltori; non esigeano da questi che tenui affitti o moderate retribuzioni, a differenza de' piccoli possidenti che vi succedettero. Il nostro secolo, glorioso d'averli distrutti, gl'incolpa che non ricavavano dai terreni tutto quel che si poteva; al qual biasimo non so quanto applauda la plebe, che vivendo giorno per giorno, non si trova più nulla nel passato, nulla nell'avvenire.

Il povero, del quale in oggi tanto si ciancia e per cui così poco si fa, trovavasi onorato e consolato quando vedeva la povertà eletta volontariamente e considerata come meritoria. Le loro sollicitudini agricole insegnavano il rispetto alla proprietà. Il grande avea sgomento di questi cucullati, che senza speranze, senza timori, venivano al suo castello o alla sua reggia a rimproverarne le prepotenze, a chieder la riparazione d'un'ingiustizia, a intimare castighi da cui non li salverebbero nè i torrioni nè i bravi.

Carlomagno dicea loro: Optamus vos, sicut decet ecclesiæ milites, interius devotos et exterius doctos esse, e in fatti è da loro soli che ci vennero conservati i libri e le cognizioni di tutta l'antichità. Uomini di preghiera e di penitenza, pure non si credeano estrani alla politica, anzi parlavano alto ai re, teneano i conti e le casse delle città, ripristinavano le paci, tesseano le leghe de' popoli, dettavano nelle Università, raccoglievano gli artisti.

Ma della missione civile li lodano anche i profani e gl'increduli; nè questa era la loro speciale, bensì il purificar il mondo colla carità, domarlo colla rassegnazione, edificarlo con quella sublime vocazione, che lungi dall'invidiosa povertà d'un amore esclusivo, fa che l'uomo si dia tutto a tutti, nei doveri consultando unicamente l'interesse spirituale: e nell'amor di Dio portato all'eroismo, cerca un rimedio supremo all'amor delle creature; sforzandosi a domare i bassi istinti, resistere alla natura corrotta, ed accostarsi alla perfezione cristiana. Mentre disputavano ne' concilj, dettavano nelle Università, maneggiavansi ne' congressi, tu li trovavi al focolare casalingo, senza rumore, senza apparato, in opere di misericordia, in oscuri sacrifizj, purificando i costumi, arrivando fino agli abissi della colpa o della virtù, rigenerando colla fede, colla carità, col dovere, coll'abnegazione. Questa suprema forma del sentimento cristiano tirava i Barbari a civiltà mediante il sentimento; l'umiliazione, la carità universale, l'eroismo di penitenza, divenivano esempj a gente calda d'ire e di concupiscenza; [32] la intera sommessione a un capo, a una regola infondea la coscienza del diritto.

La preghiera, che attestando la debolezza dell'uomo, è potente sino ad espugnare il cielo, e l'ardente confidenza negli effetti di essa, erano carattere del medioevo, quanto divengono incomprensibili all'età nostra, dacchè in tanti luoghi essa ammutolì. Tutti inoltre riconoscevano la solidarietà de' peccati e dell'espiazione, considerando la vita come un castigo, una prova, una preparazione; anche il peccatore domandava la preghiera, la domandava come un'elemosina, ed in ispecialità ai frati, potenza mediatrice presso Dio sdegnato.

Tali ce li dà la storia: e per quanto esecri la verità, il secolo dee rassegnarsi a sentirlo ripetere da chi n'ha il coraggio. L'esservene sempre stati attesta come s'annettano strettamente colla Chiesa, benchè non essenziali ad essa. In fatti, chiunque volle intaccarla cominciò sempre dallo screditare questa sua milizia, che rappresenta la guerra che l'ideale fa al reale.

Non sono essenziali alla religione, dicono. Verissimo; ma è uno de' sofismi più usitati e più speciosi il rispondere alle objezioni con una proposizione vera in sè, ma che non ha a fare con quella di cui si tratta; stornando così l'attenzione, e mettendo per conclusione quel che è soltanto un divagamento. Verissimo; non sono essenziali, ma neppur lo sono e la chiesa e la predica, e tant'altre cerimonie, introdotte in una religione di spirito e di verità: ma forse alla società civile sono indispensabili i re, gli eserciti, le monete, anzi nè tampoco il vestire? Non sono essenziali alla Chiesa, perchè nessuna cosa contingente è essenziale a ciò che è eterno; ma son necessarj a mantenere l'alito ecclesiastico.

Più accortamente si dice che poterono esser buoni un tempo, ma perdettero opportunità. I frati son pianta repubblicana, e per intendere san Francesco ci vuole il popolo, non società principesche e costumi cortigiani e pensare aristocratico quali oggidì, nè l'abdicazione dell'attività, della volontà, delle opinioni di ciascuno in man d'un governo o d'un giornalista: ci vorrebbe quell'Italia alla vecchia, tutta democrazia, e forze distinte, e fede, e municipj. Il materialismo d'oggi che ha mai a vedere in questi sacrifizj di spirito, fatti in vista di premj che non sono denari, nè godimenti? Eppure anche tra le beatitudini odierne, tra questo ammirato incremento dell'industria e degli interessi materiali, il cuore ha de' bisogni che non restano appagati dal teatro, dalla borsa, dal telegrafo; anela a qualcosa di più alto e più grande, che i padri nostri chiamavano Dio. Trascinati nel vertiginoso progresso, noi variamo ogni giorno pensamenti, convinzioni, bandiera, modo di pensare e d'operare, di nulla stabilmente convenendo; sino la beneficenza riducesi a un'istituzione civile, a soscrizioni, lotterie, amministrazione. Ma giacchè si vanta come conquista del tempo la tolleranza, vogliasi consentirla anche a chi pensa che, in tale sfasciamento, [33] non abbiano a riuscire superflui questi Ordini; che tra l'indifferenza eretta in teoria, e i pregiudizj malevoli, e il vitupero chiassoso, e l'avido urtare di tutti contro tutti, possano svolgere e applicare le istituzioni caritatevoli, educare la classe più numerosa, non foss'altro, a sopportare una disuguaglianza, della quale non vede la ragione, non conosce i compensi; a risparmiare i gendarmi, unica salvaguardia quando è tolta la difesa morale; a pregare per coloro che li maledicono.

Ecco per quali guise la Chiesa svolgeva il benefizio della redenzione nella società civile, adoprando continui strumenti l'autorità, la ragione, il sentimento; non usurpava, ma raccoglieva i poteri che cascavan di mano alle antiche autorità; alla violenza de' nuovi padroni opponeva la ragione, la santità, la scienza, e il diritto che avea di giovare alla plebe cristiana; ristabiliva i dogmi della responsalità personale e dell'autorità, scassinati dall'accentramento romano; mediante un potere ammesso e consentito dalle anime, costituiva una repubblica morale, dove la moltitudine non diveniva confusione perchè ridotta a unità, nè l'unità diveniva tirannide perchè era moltitudine, e la cieca sommessione era mutata in ragionevole obbedienza.

[37]

DISCORSO II.
PRIME ERESIE. CONSOLIDAMENTO DELLA PRIMAZIA PAPALE. GLI ICONOCLASTI.

Il sangue dei martiri non aveva ancora finito d'irrigare la pianta immortale del cristianesimo, e già in seno a questo alcuni, come l'antico serpente, valeansi della parola per diffondere l'errore, o restringere a concetti particolari le verità generalissime enunciate dalla Chiesa, creando scismi ed eresie[37]. Già al tempo degli apostoli, alcuni ebraizzanti, pur riconoscendo la divina missione di Cristo, voleano conservare il mosaismo, che, come troppo ristretto e nazionale, era ripudiato dai nostri, aspiranti ad una religione universale[38]. San Paolo si duole delle dissensioni nella nascente Chiesa; san Pietro venne a Roma per oppugnare Simon Mago, il quale aveagli esibito denaro per ottenerne la facoltà di conferire lo Spirito Santo: onde da lui è denominata la prima e quella che sarà ultima delle eresie, la vendita delle cose spirituali. E quel santo scriveva agli Ebrei: «Pascete il gregge a voi affidato, senza sforzare, ma spontaneamente secondo Dio; non per cupidigia di lucro, ma volontariamente». E ne' canoni apostolici è registrato: «Se alcun vescovo o prete a denaro abbia conseguito la dignità, venga deposto esso e chi l'ordinò; e dalla comunione affatto escluso, come Simon Mago da me Pietro». Ecco la colpa, ecco il castigo.

Più il cristianesimo cresceva e illustravasi, l'orgoglio s'ingegnava a trovarne qualche lato debole, e scalzarne le basi. Alcuni negavano ricisamente il Cristo, mentre, mediante il platonismo, appuravano le teoriche gentilesche. Altri ringiovanivano le ebraiche, massime colla cabala: i Gnostici dicevano che Cristo fosse un mero simulacro, e pretendevano a una scienza superiore ai culti pagani, alla religione mosaica, alla cristiana, eppure indipendente dalla rivelazione, togliendo alla Chiesa l'autorità infallibile per ridurla a un sistema, da perfezionare coi sistemi imperfetti della filosofia, agognando di raggiungere colle forze proprie un'altezza inaccessibile alla ragione; eresia che tratto tratto rinacque coi mistici, credenti alla intuizione immediata, e aspiranti ad una perfezione più che umana. Manete spiegava l'esistenza del mal morale e del fisico col supporre una divinità benefica ed una maligna. [38] Gli spiriti forti diceano fin d'allora che le differenti maniere d'intendere e adorar Dio fossero, non essenziali forme di dottrina, solo varianti vedute dell'intelligenza cristiana.

Giustino martire, autore dell'Apologia, avea composto un libro contro tutte le eresie e sètte, e lo esibiva all'imperatore Antonino[39]. Anche Ippolito scrisse la Confutazione delle eresie; un Catalogo delle eresie san Filastro vescovo di Brescia; e Tertulliano nelle Prescrizioni sostiene che le eresie non sono strade ad appurare il cristianesimo, perchè ciascuna è nuova in paragone della verità che esistea fin dal principio: perchè l'eretico non ha regola nè fine nel disputar contro la Chiesa, abbandonato com'è al proprio giudizio: perchè quelle opinioni contraddicono una all'altra, e ciascuna pretende essere la verità. Inoltre ciascuno si crede in diritto di cangiare e di modificare per proprio talento ciò che ha ricevuto, come per proprio talento l'autor della sètta lo ha composto. L'eresia ritiene sempre la propria indole col non cessar d'innovare, e il progresso è simile all'origine; ciò che fu permesso a Valentino, lo è pure ai Valentiniani; i Marcioniti hanno la stessa facoltà che Marcione, nè agli autori d'un'eresia compete maggiore diritto d'innovare che ai loro seguaci; tutto cangia in esse, e quando se ne cerca il fondo si trovano nel loro seguito differire in molti punti da quel ch'erano alla loro nascita[40].

Origene, volendo acconciare il platonismo col cristianesimo, indagava nelle storie evangeliche un triplice senso: mistico, storico, morale: in modo che una narrazione biblica poteva esser non vera letteralmente; teoria di alcuni recenti esegeti tedeschi. Combattè molte eresie, ma v'inciampò egli stesso o ne gettò i germi, forse solo perchè mancavagli quella precisione del linguaggio, che derivò da distinzioni raffinate nei dibattimenti.

Perocchè, nel silenzio e nell'isolamento cui li costringeva la persecuzione, molti aveano concepito e insegnato in buona fede idee, che poi si scopersero erronee allorchè la Chiesa parlò alto e d'accordo. Ma questa non aveva definito molti punti; sicchè v'ebbe erranti fra' più grandi maestri, quali Tertulliano, Eusebio da Cesarea e questo Origene; o fra austeri monaci, e fin tra martiri. Talvolta anche il proposito di sfuggir un errore traeva nell'opposto; perchè Origene sottilizzava i corpi fino a spiritualizzarli, Audio ed Epifane abbassavano la divinità sino alla figura umana; poi restavano le traccie del paganesimo nell'insegnamento e nei costumi: poi intromettevansi gl'imperatori, volendo coi decreti modificare la più libera delle facoltà, la coscienza.

I Pagani, incapaci di discernere la linea sottilissima che il vero disgiunge dal falso, voltavano in beffa quell'ostinarsi sopra inezie cavillose e in quistioni di parole, e dichiararono semenzajo di garruli litigi questa religione, che vantava d'essere una di fede, di spirito, di culto. Ma erano ben altro che di parole le quistioni che doveano assicurar le nozioni sull'essenza [39] di Dio, contro il misto di idee platoniche e cabalistiche colle evangeliche, insinuato da falsi dottori.

Adunque, dopo che i martiri ebbero mostrata la forza e la virtù, vennero i Padri a sostenere la purezza e l'unità della fede, combattendo l'orgoglio dell'intelletto e l'indocilità del cuore. San Girolamo scriveva: «Restate nella Chiesa fondata dagli apostoli e sempre sussistente. Se udite alcuni designati con altro nome che quel di Gesù Cristo, sappiate che non sono la Chiesa di Cristo: e l'essere istituiti posteriormente convince che son di quelli, di cui l'Apostolo predisse la venuta. Nè vi lusinghi il sembrare che s'appoggino alle Scritture: anche il demonio disse cose conformi alla Scrittura, nè basta leggere questa, ma vuolsi intenderla. Che se non ci atteniamo che alla lettera, possiam noi pure formare un dogma nuovo, e pretendere d'escluder dalla Chiesa coloro che vanno calzati e che hanno due tuniche»[41]. San Cipriano, che contribuì forse più che altri de' primitivi Padri a separare i due ordini di fede e di esame, di rivelazione e di concetto, la cui mescolanza produce o la schiavitù o il traviamento dell'intelletto, mentre la distinzione schiude le barriere dell'infinito, traendolo dal simbolo nella realtà; dopo avere nella Vanità dell'idolatria combattuto il vecchio culto, nella Unità della Chiesa dissipava gli scismi, stabilendo l'unità della fede nell'unità della cattedra romana. «Come non v'ha che un solo Cristo, così non v'ha che una Chiesa sola, una sola cattedra fondata sopra san Pietro per voce di Gesù Cristo; dunque un solo altare, un solo sacerdote: nè può esservene due, nè un altro differente, se non per rea demenza e sacrilega empietà. V'è un solo episcopato, una parte del quale è tenuta in solido da ciascun vescovo: in conseguenza una Chiesa sola, diffusa nella moltitudine de' membri componenti. Così dal sole partono molti raggi, ma un solo n'è il focolare; un albero ha molti rami, ma rampollano da un tronco solo, profondamente radicato; da una fonte molti rivi defluiscono, ma unica è la sorgente. Nè può un raggio separarsi dal sole, nè un ramo divelto più rampolla; e un ruscello deviato dalla sorgente inaridisce»[42].

In Italia avea trovato molti seguaci Ario. Questo prete d'Alessandria d'Egitto pretese spiegare chi fosse Cristo, e mentre la Chiesa lo tiene come la conoscibilità divina, il pensiero eterno di Dio, coesistente coll'eterna sua attività, e della sostanza medesima (ὁμούσιος), Ario riconosceva in esso la forza, la verità, l'avvenire, ma ne formava un essere distinto da Dio, benchè di sostanza analoga (ὁμοιούσιος), il tipo che Dio creò per servir di modello alle creature. Alle donne domandava: «Avete voi avuto figliuoli prima di partorire? Così Dio non potette averne uno prima che il generasse». Gli uomini, che, fatti cristiani per l'esempio o per comando della Corte, non aveano studiato abbastanza per discernere il Cristo da uno di que' profeti che di tempo in tempo recano qualche nuovo schiarimento all'insolubile [40] problema dell'umanità, gustavano le spiegazioni di Ario, che, pur mostrando conservare integro il valore dogmatico, levavano via la nube che la trinità delle persone recava all'unità di Dio. Non s'accorgeano che, se l'autor del cristianesimo non è dio, eguale e consustanziale coll'autor dell'universo, l'adorarlo è idolatria; più non esiste il mediatore divino che colmi l'abisso fra l'uom peccatore e Dio: e in conseguenza può ingannarsi quell'autorità suprema, sulla cui unità e infallibilità fondasi il cristianesimo.

Da questo intaccare la persona di Cristo, cioè i fondamenti della fede, il mondo fu commosso, e l'imperatore Costantino convocò un concilio universale, nel quale la Chiesa, rappresentante dell'umanità divinamente rintegrata nell'unità, si mostrasse una, riconoscesse qual era il comune consenso, e definisse che cosa credere sopra la natura del Verbo.

Era la prima volta che tutti i popoli conosciuti, diversi di leggi, d'usi, di civiltà, uniti in una fede, eppure indipendenti, inviassero deputati popolari a trattar del come credere, come adorare, come operare; e dove si proclamasse un simbolo d'unità universale. Trecendiciotto vescovi raccolti a Nicea (an. 325), dopo lungo contendere cogli avversarj, condannarono Ario, e compilarono il simbolo che precisasse la vera fede.

Ario non si diè vinto, e con sottigliezze argutissime e variate sedusse altri vescovi, e gl'imperatori. La tenue differenza tra ὁμούσιος e ὁμοιούσιος sfuggiva ai nostri, più positivi de' Greci, e meno eruditi e arguti nelle distinzioni; un simbolo in senso ariano fu sottoscritto da quattrocento vescovi (an. 358), e lo stesso papa Liberio, o ingannato o fiaccato dalla prigionia, parve aderirvi, ma appena fattone accorto si ritrattò. Bandi imperiali e carceri intervennero contro la parola consustanziale, e pretendeasi impor la fede co' soldati, «cattivi apostoli della verità, la quale non conosce altr'arme che la persuasione», come diceva sant'Atanasio, campione dei Cattolici in quel diuturno conflitto.

Teodosio, imperatore d'Oriente, decretò poi che tutti aderissero alla religione insegnata da san Pietro ai Romani, quale allora veniva professata da papa Damaso e da Pietro vescovo d'Alessandria; i seguaci di essa s'intitolassero Cristiani Cattolici; i dissidenti infamava col nome di eretici, e minacciava di castighi[43]. Invece l'imperatore d'Occidente Valentiniano II e sua madre favorivano l'arianismo, fino a pretendere che sant'Ambrogio vescovo di Milano cedesse a questi una delle due chiese, che eran allora in quella città. S'oppose egli con fermezza, e vinse, e finalmente nel concilio d'Aquileja potè asserirsi che più non esistevano Ariani fino all'Oceano.

Per sciagura i primi che apostolarono i Barbari settentrionali erano stati ariani, sicchè con essi quell'eresia tornò in Italia coi Goti di Teodorico e i Longobardi d'Alboino.

Vero è che il genio positivo degli Occidentali non sottilizzava tanto [41] come gli Orientali; e i Padri latini cercavano piuttosto la legalità, senza artifizio di retorica nè raffinamenti di logica esponendo il dogma, ed appellandosi alla lettera scritta e all'autorità. Le eresie concernenti la natura dell'ente primo e necessario (Gnostici), o il Verbo (Ariani), o lo Spirito Santo (Macedoniani), o la maniera ond'è unita la divinità coll'umanità in Cristo (Nestoriani, Eutichiani, Monofisiti, Monoteliti) agitaronsi di preferenza in Oriente; mentre da noi discuteasi piuttosto sulla natura dell'uomo, perchè soffra tanti mali sotto un Dio buono; quanto negli atti suoi sia ajutato dalla Grazia, senza che questa ne inceppi la libertà. Sant'Agostino, ch'era stato valorosissimo oppugnatore de' Manichei, rifletteva che le quistioni relative alla creazione, all'origine dell'anima, agitate fra san Girolamo e Rufino in proposito di Origene, riguardano solo il passato, nè importano tanto come quelle della Grazia e della Redenzione, che conducono alla salute. Ma il problema della Grazia implica quello del generale sistema dell'universo, e può sollevare dubbj fin sulla personalità del creatore e sulla suprema misericordia, qualora nel libero arbitrio delle creature non si trovi il motivo delle miserie umane. E fu sant'Agostino che più di tutti penetrò nell'incomunicabile perfezione di Dio, nella sovranità assoluta e onnipotenza di esso: posando una vera teologia, cioè la conoscenza della natura divina.

La Chiesa assisteva nella sua maestà a quei dibattimenti, attenta a non imporre limiti alle credenze se non dove necessarj, nè volendo reprimere la discussione finchè si attenesse ai dogmi sanzionati; frenando i proprj difensori, anzichè spingere sulla via pericolosa delle teoriche, persuasa che il suo sposo la condurrebbe alla meta. Per conservare e consolidare l'unità eransi raccolti altri concilj ecumenici, cioè universali; il II a Costantinopoli (381), il III a Efeso (431), il IV a Calcedonia (451), importantissimi per la dogmatica cristiana e la gravità dei punti ivi discussi e definiti: in quello di Costantinopoli la divinità e consostanzialità dello Spirito Santo contro i Macedoniani; in quello di Efeso l'unità di persona in Gesù Cristo, avente ad un tempo due nature l'umana e la divina, cioè vero Dio Uomo, Verbo incarnato, contro Nestorio che del figlio di Dio e del figlio di Maria faceva due persone, fra loro amiche ma distinte; in quello di Calcedonia la distinzione delle due nature in Gesù Cristo e la verità e interezza dell'umana natura in Lui, contro Eutiche, il quale, dando nell'eccesso opposto a quello di Nestorio che l'unica persona di Gesù Cristo scindeva in due, le due nature di Lui confondeva in una, volatilizzando l'umanità del Redentore, e facendola assorta e consunta dalla divinità. Quest'ultimo concilio essendo stato tenuto contro gli Eutichiani, lasciò correre come alieni dal suo proposito tre punti che pareano favorevoli ai Nestoriani: cioè non proferì sentenza contro la memoria e gli scritti di Teodoro di Mopsuesta, già maestro di Nestorio ed infetto della stessa eresia e di [42] pelagianismo; nè riprovò una lettera di Iba vescovo di Edessa, nella quale era lodato esso Teodoro, e vituperati san Cirillo e il concilio di Efeso tenuto contro l'errore di Nestorio; nè finalmente condannò gli scritti di Teodoreto, nei quali parimenti trovavansi cose contrarie a san Cirillo e al concilio di Efeso, e puzzanti di nestorianismo. Che anzi il suddetto concilio di Calcedonia assolse Iba e Teodoreto dacchè ebbero detto anatema contro Nestorio. Ora gli Eutichiani, per prendere una rivincita contro esso concilio che aveali condannati, misero in campo la causa di questi tre capitoli, e l'imperatore Giustiniano, lasciatosi persuadere che colla disapprovazione di que' tre punti avrebbe ridotto all'unità i nemici del concilio calcedonese, convocò un altro concilio ecumenico a Costantinopoli, e ve li fece condannare (542). I nostri non sapeano molto di greco, nè aveano letto Teodoro e Iba; sapevano solo che non erano stati condannati dal concilio di Calcedonia, del quale s'infirmerebbe l'autorità col riprovarli per secondare una prepotenza dell'imperatore. Incalzato dal quale, papa Vigilio li condannò, salva l'autorità del concilio di Calcedonia, e purchè non se ne discutesse in iscritto nè a voce. Questo partito era in se stesso ragionevole, perchè da un lato que' capitoli erano riprovevoli, dall'altro era rea l'intenzione di coloro che ne promoveano la condanna per iscreditare il concilio di Calcedonia; pure sulle prime disgustò tutti: i Cattolici per la condanna, i nemici dei capitoli per la riserva; e dal papa si segregarono (553) i vescovi dell'Istria, della Venezia, della Liguria, prendendosi a capo Paolino patriarca d'Aquileja, che in un sinodo provinciale (556) ripudiò il concilio di Costantinopoli come contrario a quello di Calcedonia, già ricevuto come ecumenico: onde comprometteasi l'infallibilità della Chiesa. Da principio i nostri sono scusabili: parendo s'intaccasse l'infallibilità de' primi concilj coll'aggiungervi o togliervi, personaggi di virtù e dottrina grandissima rifiutarono il quinto, e fra altri il celebre Cassiodoro, segretario di re Teodorico, e i vescovi santi Onorato da Milano, Massimiano di Ravenna; i papi stessi blandamente procedettero col patriarca e coi vescovi, discutendo con ardore le ragioni del loro operare. Ogni scusa cessa quando si separano dalla Chiesa universale, e condannano i propugnatori dell'opinione opposta[44]. Fatto è che questo sciagurato scisma durò fino al 698, quando un altro sinodo d'Aquileja accettò il concilio costantinopolitano, e ripristinò queste chiese nell'unità.

Però tutte le eresie, o concernessero Cristo, o la potenza divina, o la libertà umana, o la costituzione ecclesiastica, aveano faccie diverse, ma le code legate insieme[45], secondo una frase ripetuta dai papi, giacchè riduceansi a sottomettere la fede al raziocinio, la universale credenza a particolari opinioni. Gregorio Magno, che vide terminato lo scisma dei tre capitoli, e che vietava d'affliggere verun cattolico sotto pretesto d'eresia, nè di usar violenza a scismatici, diede forma definitiva alla Messa, all'Offizio e a tutta [43] la liturgia; e al canto impresse quel carattere solenne, al quale pur si ritorna dopo i traviamenti della moda e le frivolezze profane. Il popolo, che più volte egli avea nutrito col tesoro della Chiesa, dopo morto lo oltraggiò come prodigo, e volea distruggerne gli scritti: poi lo venerò come santo; consuete alternative; e fu messo quarto dottore della Chiesa con Ambrogio, Agostino, Girolamo.

Era egli riuscito a trarre al cattolicismo Teodolinda regina de' Longobardi, sul cui esempio tutta la nazione si convertì. Ciò non tolse che quei re, ambiziosi di formare un gran regno d'Italia, non minacciassero ed assalissero Roma. Questa città dipendeva sempre dagli imperatori d'Oriente, sicchè i papi non vi aveano sovranità principesca, bensì di dignità, sostenuta da immensi possessi non solo nella Sabina, ma in Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Campania, in Dalmazia, in Illiria, in Sardegna, fra le Alpi Cozie e nella Gallia; possessi, all'antica coltivati per mezzo di coloni, sui quali il pontefice esercitava anche giurisdizione.

Oltre il governo di Roma e de' paesi meridionali, gli imperatori d'Oriente dominavano la Pentapoli di Ravenna (Ancona, Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia) e l'esarcato, cioè il litorale della Venezia e il paese che poi si disse la Romagna e le Marche. Come gli altri alla violenza de' Barbari, così questi paesi erano esposti alla dotta oppressione di que' Cesari, che turbavano le coscienze ora col tipo, ora coll'ectesi, ora coll'enoticon, infine col proibire il culto delle immagini.

Questo culto era stato vietato dal legislatore degli Ebrei sia per la costoro proclività all'idolatria, sia per sceverarli viepiù dai Gentili, che confondendo la copia coll'originale, adoravano le effigie di Dio o dell'eroe. Ma i Cristiani, ricchi di spirito e aborrenti d'ogni idolatria, ben presto cercarono quelle del Redentore e dei cooperatori suoi, e se qualche Padre, per considerazioni particolari, ciò disapprovava, la Chiesa trovò inutile il divieto, ogniqualvolta non cadesse timore d'idolatria. Moltiplicaronsi dunque le figure de' santi e del Salvatore, le storie del nuovo e vecchio Testamento, opportune sì a dare alle arti belle il pascolo che aveano tratto fino allora dal gentilesimo, sì ad allettare gli occhi de' Barbari, che talvolta da una rappresentazione erano condotti a conoscere le morali verità del vangelo. Avendo un vescovo di Marsiglia spezzato alcune statue di santi perchè non fossero occasione d'idolatria, Gregorio Magno il rimproverò, mostrando come da tutta l'antichità le storie de' santi furono rappresentate in pittura, la quale all'ignorante serve come lo scritto a chi sa leggere[46].

Si sarà abusato di questo, come d'ogni cosa umana, e prestato adorazione alla figura, destinata ad elevare verso l'ente supremo; ma un tale errore non potè divenire comune nei Cristiani: laonde i Maomettani che lor rinfacciavano d'essere idolatri, non aveano maggior ragione che quando li tacciavano di politeisti a causa della Trinità. Leone Isaurico, da pastore divenuto [44] imperatore d'Oriente (717), pensò levar appiglio a quest'accusa col vietare le effigie devote, e mandò per tutto l'impero ad abbattere o bruciare quanto prima erasi venerato. Il popolo pronunziossi contro questo re teologo, l'intitolò spezza-immagini (Iconoclaste), repulsò la violenza colla violenza, onde l'imperatore fu costretto a moltiplicar ingiustizie e violenze, come chiunque tocca alla religione con potere profano.

Nello scompiglio cagionato dall'invasione dei Barbari, dove si schiantarono tutti i vincoli civili, unica la società cristiana era rimasta immobile, perchè fondata non su contingenze, ma su idee perpetue; alla forza opponeva freni di giustizia, d'amore, e consolidava l'unità e l'indipendenza propria, non coll'eccitare le antipatie, ma col connettere le nazioni tutte; e al governo de' Barbari, che, più o meno, era uno stato d'assedio imposto ai vinti da un esercito vincitore, affacciava esempj d'ordine, di pace, di personale dignità.

Le miserie del despotismo e la immoralità dei magistrati, regj o municipali, spingeano a ricoverarsi agli ecclesiastici, che seppero mantenersi indipendenti e onorati nelle relazioni civili e nella opinion pubblica. Già nella prammatica dell'imperatore Giustiniano è stabilito: «I giudici delle provincie vogliamo siano eletti dai vescovi e dai primati di ciascuna regione, idonei e sufficienti all'amministrazione locale, e tolti dalle provincie stesse che dovranno amministrare senza donativi: la conferma ne è data dai giudici competenti». Teodorico, benchè ariano, faceva scrivere a papa Giovanni II: «Voi siete guardiano del popolo cristiano: voi col nome di padre ogni cosa dirigete; a voi la sicurezza del popolo è dal cielo affidata; a noi spetta sorvegliare alcune cose, a voi tutto; spiritualmente pascete il gregge affidatovi, nè però potete trascurare ciò che riguarda il corpo, attesochè, doppia essendo la natura dell'uomo, un buon padre le deve entrambe favorire» (a. 534).

Pertanto gli ecclesiastici non usurpavano un potere, giacchè nol toglievano a nessuno; ma lo raccoglievano dal fango dove era caduto pe' suoi eccessi: acquistavano la superiorità naturale a chi è migliore.

Quando il regime sociale annetteva la giurisdizione ai possessi di terre, dovette la Chiesa studiar di accrescere i proprj, e così collocarsi colla più alta gerarchia anche umanamente. E infatto acquistò smisurate ricchezze, sì perchè sola ordinata fra il disordine universale, sì perchè coltivava i campi meglio che nol potessero i secolari, e li garantiva coll'immunità concessa ai possessi ecclesiastici: sia perchè la devozione, e l'idea allora dominante, dell'espiazione, induceva molti a lasciare i proprj beni alla Chiesa: altri ad essa li donavano per sottrarli alla rapina signorile, ricevendoli poi da essa come livelli, o feudi, o benefizj, protetti dall'immunità ecclesiastica.

I popoli nel pontefice non veneravano solo il vicario di Cristo, il depositario dell'eterna verità, ma il tutore universale, il freno de' prepotenti, [45] l'oracolo della giustizia; i nuovi convertiti piegavansi a questo, dal quale eran venuti ad essi i missionarj, e deferivangli le cause più controverse. E a lui ricorsero nella persecuzione iconoclasta.

Gregorio II, invocato anche dai vescovi greci[47], esponeva all'imperatore la dottrina della Chiesa cattolica su quel punto: e «se aveste interrogato persone intelligenti v'avrebbero chiarito che, se l'ignoranza può far credere che noi adoriamo pietre e muraglie o tavole, noi vogliam con esse unicamente commemorare coloro di cui esse portano il nome e le sembianze, ed innalzare il nostro spirito, torpido e grossolano. Tolga il cielo che le teniamo per Dei, nè poniamo in essi fiducia. Ma posti dinanzi a quella di Nostro Signore diciamo: Signor Gesù, soccorreteci e salvateci; a quella della sua Santa Madre: Santa Maria, pregate il figliuol vostro che salvi le anime nostre; ad un martire: Santo Stefano, che spargeste il sangue per Gesù Cristo, e presso lui tanta grazia avete, pregate per noi».

L'iconoclasta non usò altra risposta che quella usata da' prepotenti, obbedissero, o guai: e, «Manderò a Roma a sfrantumar le immagini di san Pietro, e il papa portar via carico di catene». Tutta Italia si mise in fuoco; Ravennati e Napoletani insorti uccisero l'esarca, i Romani trucidarono il duca Esilarato, venuto per arrestar il papa; e armati per difendersi, rifiutando il peccato e il tributo, gl'Italiani gridano non voler più il dominio di questi Greci, sprezzati come deboli, abborriti come eretici, ed eleggono magistrati proprj, invece di quelli venuti da Costantinopoli.

Qui sia lecito agli esageranti o vantare i papi d'aver voluto emancipar l'Italia dagli stranieri, o bestemmiarli d'aver voluto crearsi un dominio. Il vero è che Gregorio s'interpose fra il popolo e l'imperatore onde riconciliarli, e ne rintegrò l'autorità a Napoli e a Roma; ma nella sommossa gli ordini municipali aveano ricuperato i naturali poteri; popolo, consoli, nobili s'adunarono per condannar l'opinione che l'imperatore imponeva, e Gregorio si trovò naturalmente a capo d'una federazione di città, le quali non voleano nè sopportare il giogo bisantino, nè sottomettersi al longobardo, ma come simboli di libertà e nazionalità sostenevano Roma e il papa.

Gregorio III (731) ripudiò gli editti iconoclastici, e raccolti novantatre vescovi d'Italia, dichiarò anatema chi distruggesse, profanasse, bestemmiasse le immagini. Leone Isaurico s'accinse a ripristinar l'obbedienza colla forza, ma provò come feriscano le armi impugnate per la patria e per la religione.

Di questi dissensi pensarono trar profitto i Longobardi, che già, possedendo tanta parte d'Italia, miravano a ridurla tutta in loro servitù, acquistando anche Roma, Venezia e la Liguria: e violentemente invasero la Pentapoli e minacciarono Roma. I papi, vedendo pericolare l'indipendenza della Chiesa, e con essa i resti della civiltà latina, fecero quel che si è sempre usato da Narsete fino a Cavour; dapprima strinsero alleanza col re de' Franchi[48], da poi l'invitarono a venir a reprimere gli oppressori d'Italia.

[46] Gli Italiani dalla parte de' Greci vedevano decreti tirannici, avida burocrazia, teologastri armati; dalla parte de' Longobardi, barbari senza fede nè costumi, devastatori che spropriavano i possidenti, spopolavano le città a vantaggio di orde armate e di capitani sbuffanti; re che patteggiavano e mentivano, minacciavano e tremavano; a fronte a loro vecchi sacerdoti mansueti, venerandi pel carattere, per la pietà, per la scienza, che faceano processioni onde placar Dio e gli uomini, pregavano, esortavano, consigliavano, e rendevano ancora riverito al mondo quel nome di romano, che per altrui cagione sonava vilipendio.

Pertanto il pubblico voto si pronunziava pei papi, e pei Franchi, da essi invocati. In fatto Pipino, poi Carlomagno, sostenuti dalle simpatie nazionali, facilmente abbatterono i Longobardi, e ne distrussero il regno, e restituirono al pontefice quel che già era signoria de' Greci: sicchè i papi vi ebbero non soltanto il dominio utile, ma veramente la sovranità, e dissero, «La nostra città di Roma, o di Ravenna, o di Comacchio; il nostro popolo romano», e collocaronsi fra i principi della terra.

Questa tanto bersagliata sovranità temporale de' papi non è consacrata nè nella necessità, nè nel principio, nè dentro, nè fuori da verun dogma. La fede non dice che il poter temporale sia indispensabile all'esercizio dello spirituale: pure determina questo in modo che, date certe circostanze, non può venire esercitato se non da un capo che non sia suddito di altro re; laonde, senza che facciasi luogo ad eresia, la quistione implica la necessità di scegliere tra lo spirito della Chiesa e lo spirito della rivoluzione.

Volendo i papi rintegrare la grandezza romana, sicchè non restasse più l'Italia a dominazione di Barbari, ridestarono l'impero abbattuto, da questi, e Adriano papa incoronò Carlo Magno per imperatore d'Occidente.

Così originava quella sistemazione del mondo cristiano che durò tutto il medioevo. Secondo questa, ogni autorità deriva da Dio. E Dio l'affidò al suo vicario in terra, che virtualmente rimaneva capo dell'intera umanità, raccolta nella chiesa universale, e avea dal cielo la potenza spirituale e la temporale. La spirituale partecipa egli coi vescovi, che la esercitano sotto la sua supremazia; la temporale egli affida all'imperatore da lui consacrato, che, sotto la direzione del pontefice, dopo unto da lui, e giuratogli d'osservare la legge di Dio e le costituzioni de' popoli, diviene capo visibile della cristianità negli interessi terreni. Come tale, primeggia sopra tutti gli altri re: giusta il costume ecclesiastico, non è ereditario, ma scelto ogni volta, ogni volta coronato. Le due podestà s'appoggiano l'una l'altra, onde non possono separarsi; neppure possono distruggersi fra loro, diversa essendo la natura della loro giurisdizione. L'imperatore qualche volta pretenderà aver mano nell'elezione dei papi, ma questi zeleranno sempre l'indipendenza della Chiesa e de' suoi capi. Se l'imperatore viola la legge di Dio e i patti [47] col popolo che lo elesse, il papa lo pronunzia decaduto, e lo separa anche dalla congregazione dei fedeli mediante la scomunica. Nei litigi fra l'imperatore e il popolo o i re, il papa proferisce come arbitro supremo, e con una sanzione spirituale[49].

Un sacerdote, senz'armi, senza interessi domestici o dinastici, senza pregiudizj di nazionalità, che decide le contese fra' regnanti, intima l'onestà, la giustizia, la carità a quelli che non conoscono se non il capriccio e la forza; e gli obbliga a obbedire in nome di Dio; è un tipo sublime, che forse non fu mai attuato pienamente: ma esercitò ben maggiore efficacia che non i tanti altri sistemi, fantasticati per mantenere una libera alleanza fra i popoli civili.

Roma, dopo convertita, avea tenuta la Chiesa in dipendenza, come già soleva la religione nazionale: tal dipendenza ora cessava. Fra i popoli germanici antichi però i diritti e le funzioni ecclesiastiche erano mescolati col potere civile; sicchè, dopo fatti cristiani, ammettevano i vescovi ne' consigli del regno, come duchi e conti e re assistevano ai sinodi ecclesiastici, intrecciandosi lo Stato e la Chiesa, il cristianesimo e la nazionalità. I regni che formavansi di nuovo cercavano una sanzione col fare omaggio al pontefice e dichiararsene vassalli. Quando sol dalla scimitarra d'un soldato o dalla tracotanza d'un feudatario erano decise le controversie, la Chiesa conservava forme legali, esame di testimonj, scritture, contratti; sicchè fu un grande acquisto di libertà pei popoli e un gran ritegno ai principi l'estendersi del diritto canonico, complesso di ordinanze emanate dall'autorità più disinteressata.

I vescovi, in nome di questo diritto e pel carattere che rivestivano, come anche per la potenza cui erano saliti come grandi baroni ed elettori dei re, ammonivano i potenti qualora sviassero dalla giustizia; proteggeano la donna dagli arbitrj brutali; colla tregua di Dio e coll'asilo ne' luoghi sacri rimediavano alle guerre, incessanti ove vigeva il diritto del pugno, cioè della vendetta privata.

Qual meraviglia se il capo de' vescovi crebbe tanto di potenza? Questa non è nell'essenza della sua missione, ma non vi ripugna, e diveniva occasione di svolgere ed ampliare l'incivilimento. Roma provedeva anche ai più lontani popoli, ricevendo reclami, scrivendo, citando, mandando nunzj e istituendo tribunali di nunziatura ove nessun altro ve n'avea[50]; ponendosi arbitra nelle contese dei principi, o di questi coi popoli; dettando leggi comuni, fondate sulla giustizia eterna, e delle quali, anche in circostanze sì mutate, possono alcune trovarsi inopportune, nessuna ingiusta.

Se dunque l'autorità pontifizia giganteggiò, non fu un'ambizione, tramandata per mille anni da un all'altro de' papi, così diversi di origine, di patria, di regola, di costumi, di scienza, di partito, di umori, di passioni, eppure consenzienti infallibilmente nell'ordine delle cose superne; non un [48] palmo di terra s'aggiunsero essi per via di conquista, durante il medioevo; variarono di politica nelle vicende terrene, or cacciati, or prigionieri, ora schiaffeggiati da que' potenti, sui quali imperavano assolutamente nelle materie religiose, e ai quali impedivano di rendersi tiranni.

Da questa mescolanza di diritti e d'interessi nascevano frequenti cozzi, che costituiscono una gran parte della storia del medioevo, e diedero origine alle eresie politiche, delle quali dovremo occuparci. E per ciò giova chiarire la natura di questo sacro romano impero, che col titolo stesso mostrava aspirare ad un primato morale, a modellare il consorzio laico sulla gerarchia ecclesiastica, introdurre ordine legale fra i popoli scomunati; lo che era pure l'intento de' pontefici. Quel primato non vuolsi confondere colla monarchia universale; bensì unificava la podestà laica per disciplinarla sotto la podestà di Dio: rendendosi venerabile non per soldati e forza muscolare, ma pel diritto e per l'idea del dovere, costituiva una gran federazione, dove, sotto un capo elettivo, poteva sussistere qualunque forma di governo; superiorità, non dominio, che rispettava le individualità delle nazioni, pur mettendole d'accordo nello sviluppare ciascuna la propria, e tutte la generale civiltà.

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DISCORSO III.
ETÀ FERREA DEL PONTIFICATO. I CONCUBINARJ. LE INVESTITURE. GUERRA FRA IL PASTORALE E LA SPADA.

La nostra religione è inalterabile nella essenza; ma nella sua attuazione esterna toccando alle cose umane, trovasi esposta alla contaminazione degli interessi e delle passioni terrene. Nuove irruzioni di Saraceni ed Ungheri, e orrida sequela di sventure aveano colpito l'Italia; lo stesso rinnovamento che i papi aveano sperato ricostruendo l'impero d'Occidente riuscì a nuovi disastri, causati dal disordine feudale, che annetteva la giurisdizione al possesso, cioè tramutava ogni possidente in principe, con diritto di giustizia e di guerra. Ne seguiva uno stato di perpetui e personali conflitti, e la depravazione che accompagna la guerra permanente.

I principi e i baroni invidiando le vaste ricchezze e il conseguente potere acquistato dalla Chiesa, ne voleano almen qualche porzione. Ogni vacanza di vescovadi e del papato apriva l'arena a brogli, a corruzioni, a violenze; disputandosi la mitra e la tiara, siccome un tempo la corona imperiale. Gli imperatori, quali tutori della Chiesa, credettero rimediarvi col presedere alle elezioni e confermarle: ma ciò che prima era una protezione, un rimedio a deplorabili abusi, divenne un'arroganza e un peso quand'essi non tennero per legittima l'elezione d'un papa se non fosse approvata da loro. Secondo le norme feudali, ogni dovere veniva da un impegno personale; il possesso medesimo era una concessione, simboleggiata con atti materiali e solenni, e condizionata a patti espressi. Tale natura aveano anche i possessi, di cui gli imperanti o i baroni investivano le chiese e gli ecclesiastici, a titolo di regalie. In conseguenza essi pretendevano di godere di quei beni, duranti le vacanze (regalia utile), e conferire i benefizj mentre i vescovadi vacassero (regalia onoraria): pel qual modo l'imperatore e gli alti signori investivano i prelati non solo dei beni, ma della dignità, cioè non solo collo scettro e la spada che significavano il possesso temporale, ma anche coll'anello e il pastorale che esprimevano la podestà spirituale, e ne riceveano l'omaggio e la promessa di soggezione. Era un mettere in ceppi la Chiesa, e stornarne lo spirito; imperocchè, le fazioni portando imperatore ora un [53] Franco, ora un Italiano, ora un Tedesco, a capriccio di questi modellavasi la scelta de' papi; la tiara acquistavasi per intrighi di donne, cabale di politicanti, violenza di bravi; papa Formoso, forse perchè mostratosi avverso alla fazione italiana, era fatto disseppellire dal suo successore, e giudicare, e condannare ad avere mozzo il capo e le tre dita con cui benediceva, poi gittato nel Tevere, disacrando quelli che da lui aveano ricevuto l'ordinazione; Teodora e Marozia portavano al supremo seggio i loro favoriti e parenti; la fazione di Albano o quella di Tusculo, l'italiana o la tedesca ergeano, deponeano, richiamavano i papi, fino a crearne uno di 18 anni (Giovanni XII). Questi disordini[51] sono raccontati colle esagerazioni consuete ai partiti, fino a dire che sedesse papa una Giovanna, la quale poi, nella solennità d'una processione, fu côlta dal travaglio del parto[52].

Quasi non trovasse in se stessa gli elementi della propria rigenerazione, la Chiesa li domandava all'autorità secolare. Ottone Magno di Sassonia, ottenuta a Roma la corona imperiale, prestò omaggio ligio a papa Giovanni XII, confermandogli le donazioni di Pepino, di Carlomagno, e di Lodovico il Pio; poi informato de' turpi portamenti del pontefice, lo depose, e fece decretare dai prelati che spetta agli imperatori dar l'istituzione ai papi e l'investitura ai vescovi (964). Così il romano impero, rinnovellato ai tempi di Carlomagno come principio d'equilibrio politico e tutela della sociale giustizia, per le mal determinate attribuzioni veniva a collidersi coll'autorità pontifizia, e tra le violenze e la vigliaccheria, capitali nemici della libertà, l'uno perdea del carattere sacro, l'altra dell'indipendenza.

Badie e parrocchie commendavansi a qualche secolare, cioè se gliene attribuivano i frutti, i pesi negligendo o affidando a qualche frate. Gli uomini di retta coscienza rifuggivano dai turpi maneggi, sicchè le sedi rimanevano a persone o basse o perverse; che entrate nel gregge o colla violenza di lupi o collo strisciar di serpenti, come poteano esserne vigili custodi? I vescovi che aveano ricevuta la dignità ed altre ne speravano dal principe, favorivano gl'interessi di questo; cercavano oro in ogni modo per poter con questo comprarsele, poi se ne rifaceano col trafficare delle cose sacre; doveano andar in guerra o mandare i loro uomini, e sostenere viaggi, e alla Corte sfoggiare di fasto profano; non di rado le dignità venivano in premio di umili e vergognosi servigi e fin del peccato; canoniche e monasteri, più che di cantici e litanie, risonavano di trombe, latrati e nitriti; anteposta la spada alla virtù e alla scienza, alla religione la superstizione che n'è la peggiore avversaria, come i prelati poteano più riprendere e correggere vizj, ne' quali essi erano tuffati?

Ridotti usufrutto secolare anche i benefizj ecclesiastici, restava solo che il clero ai tanti vantaggi aggiungesse quello di trasmetterli ereditariamente. A ciò tendeva l'eresia de' Nicolaiti, che fondandosi su condiscendenze antiche, più o meno accertate, domandavano il matrimonio dei preti. Così [54] nella Chiesa introducendo le dignità ereditarie, assurdità ch'essa avea sempre rejetta, sarebbero divenuti retaggio domestico i beni ch'eranle attribuiti qual patrimonio universale de' poveretti.

Se mai fu momento in cui potesse dubitarsi della promessa di Cristo sull'eterna conservazione della sua Chiesa fu allora; tanto pareva spento lo spirito di santità e carità. Pure non mancarono i rimedj ad essa consueti; decreti di morale e di disciplina per parte de' concilj, riforma degli Ordini monastici antichi e introduzione di nuovi, come furono quelli de' Camaldolesi, de' Cluniacesi e de' Certosini, donde uscirono modelli di meravigliosa santità e carità, quali san Pier Damiani, san Giovan Gualberto, il beato Andrea da Vallombrosa, san Romoaldo, san Nilo, e ben presto Gregorio VII.

Questi era Ildebrando, di Soana nel Sanese, di profonda erudizione, di costume integerrimo, di cuor retto e ponderato giudizio nell'ideare, di ferma prudenza nell'eseguire. Per tali meriti salito ad alte dignità ecclesiastiche, e stomacato dell'universal corruttela, si propose di correggere il mondo, correggendo la Chiesa che n'è il capo. Sinchè vendevansi le sedi pastorali, sinchè le dignità vi si ottenevano per moneta e brighe, sinchè il libertinaggio facea propendere ai principi venditori più che ai pontefici emendatori, potea sperarsi che i vescovi recuperassero l'indipendenza d'autorità, della quale avean fatto gitto per acquistare indipendenza di costumi? Ildebrando deliberò di rompere il triplice vincolo che incatenava il clero alla società, cioè i terreni, la famiglia, la podestà. A tal fine bisognava cozzare coi re che ne scapitavano di potenza, coi preti che perdeano comodità alle passioni, colle perverse abitudini e la cupidigia de' godimenti. A imprese sì gravi richiedesi un uomo straordinario; e uomini tali non vanno misurati col metro comune.

Accostatosi ai papi eletti dagli imperatori, li persuadeva a rinunziare, e farsi legittimamente rieleggere dal clero e dal popolo; e perchè vi brigavano le fazioni, indusse ad affidare l'elezione ad un'accolta di cardinali vescovi e cardinali cherici[53], «salvo l'approvazione del clero e l'onore dovuto all'imperatore».

Spiacque ai grandi il perdere un privilegio da cui traevano e lucro e influenza, e ricorsero all'imperatore Enrico IV (1061) perchè desse egli un papa, scegliendolo a preferenza nel «paradiso d'Italia»; voleano dire nella dissoluta Lombardia, acciocchè avesse viscere da compatire la fragilità umana. Ed egli scelse Cadolao vescovo di Parma, che sostenuto dalle armi imperiali e dalla fazione di Tusculo, s'insediò; ma Ildebrando fece dai cardinali proclamare il rigoroso milanese Anselmo da Baggio, che s'intitolò Alessandro II. Ne derivò guerra civile, finchè Cadolao restò vinto, e Alessandro confermato dal concilio di Mantova.

Com'egli morì (1073), il popolo tumultuariamente gridò papa quel che da molto tempo faceva i papi, cioè Ildebrando, che assunse il nome di Gregorio VII. Munitosi anche dell'assenso dell'imperatore, affronta a viso aperto [55] la simonìa e l'incontinenza, cerca che alla forza prevalga il pensiero, che all'oltrepotenza dell'impero sovrasti l'efficacia del sacerdozio, come al corpo l'anima, come il talento alle braccia.

Non è del nostro quadro il divisare le cure che in tal senso diede a tutto il mondo. Fermandoci all'Italia e alle eresie di qua, diremo come in Lombardia sopratutto si fossero estesi fra gli ecclesiastici il concubinato e la simonìa[54]. A Milano principalmente pretendevasi che il vescovo sant'Ambrogio avesse concesso la moglie al clero[55]: il quale, della propria ricchezza insuperbito, asseriva che sant'Ambrogio non fosse inferiore a san Pietro, e rinegando i papi, appoggiavasi a re e imperatori, dai quali comprava per rivendere. Il clero minore e il popolo scandolezzavansi di que' disordini, viepiù pel confronto colle austerità de' monaci; e quando i prelati dicevano messa, la plebe li piantava soli sull'altare. Anselmo da Baggio stava a capo de' zelanti anche dopo che fu vescovo di Lucca, e s'intese con Landolfo Cotta e Arialdo d'Alzate, caporioni degli ortodossi, affine di opporsi all'arcivescovo Guido da Velate e alle sue creature. Videsi così partita la diocesi; da un lato i Nicolaiti, dall'altra i devoti, che chiamavano Patarini. Roma sostenne questi: i sinodi provinciali li favorirono; le armi gli oppressero invano; ma Anselmo e Pier Damiani riuscirono a ridurre la Chiesa milanese in obbedienza del papa; sicchè in un sinodo a Roma l'arcivescovo tenne il primo posto dopo il pontefice, e ricevette da questo l'anello, col quale prima lo investivano i re d'Italia: ai colpevoli s'imposero penitenze, cioè ai meno rei il digiuno in pane e acqua per cinque anni due giorni la settimana e tre nelle quaresime di Pasqua e di san Giovanni; ai più gravati, sette anni, oltre il digiuno d'ogni venerdì lor vita durante; all'arcivescovo per cento anni, con facoltà di redimersi a prezzo, e promessa di mandare tutti i cherici colpevoli in pellegrinaggio alle soglie degli apostoli e a Terrasanta.

In tale pellegrinaggio aveva attinto nuovo fervore il cavaliere Erlembaldo, che si pose alla testa de' Patarini, e sembrandogli che i Nicolaiti avessero fatto sommessione unicamente per ipocrisia, tolse a incalzarli (1066). Benedetto da Anselmo di Baggio, ch'era divenuto papa, strappava dagli altari i preti ammogliati, faceva popolo per respingere i nobili, che colle armi proteggevano i prelati loro parenti. Questi fanno trucidare Arialdo; e invocano l'imperatore, che intrude un altro arcivescovo; Erlembaldo repulsa gli attacchi fin col saccheggio e coll'incendio, ed eretto in Milano un altro governo, confisca i beni de' preti concubinarj, e domina, malgrado le armi e le beffe avversarie, sinchè dai nobili è ucciso, e dal popolo onorato come martire (1075); culto riconosciuto dalla Chiesa[56].

Il messo dell'imperatore lodò l'assassinio, proscrisse i Patarini, elesse nuovo arcivescovo; ma il popolo non sapea darsi pace che i beni della Chiesa e le limosine andassero a pro de' ricchi e delle famiglie de' preti, [56] e prevalse, e volle osservato il decreto del papa che imponeva il celibato. Così sciolti dai legami di famiglia, i sacerdoti restarono una milizia dedicata interamente al servizio della Chiesa e al vantaggio del popolo.

Torino apparteneva allora alla provincia ecclesiastica di Milano, e a Cuniberto vescovo di quella città, san Pier Damiani diresse una lettera in otto capitoli Contra clericos intemperantes, ove lo rimprovera d'aver mostrato troppa connivenza verso i preti che tenevansi donne a modo di mogli: del che tanto più si meraviglia, perchè sa che è austero ne' proprj costumi, mentre chiude gli occhi sugli altrui; e perchè i suoi preti sono del rimanente onesti e dati agli studj, e quando andarono a lui pareano un coro di angeli luminosi[57].

Anche il patriarca d'Aquileja, che dicemmo da un pezzo essersi sottratto a Roma, allora vi si sottomise (1079), e nel ricevere il pallio prestò un giuramento, che poi fu esteso a tutti i metropoliti e vescovi nominati direttamente da Roma. In esso si obbligavano, come i vassalli verso i loro signori, a serbare fedeltà al pontefice; non tramare contro di lui; difendere la primazia della Chiesa romana e le giustizie di san Pietro; assistere ai sinodi convocati dal papa, riceverne orrevolmente i legati; dappoi vi si aggiunse di visitare ogni tre anni le soglie degli apostoli, e mandare a render conto dell'amministrazione della diocesi; osservare le costituzioni apostoliche, non alienare verun possesso della mensa.

Quest'autorità della Chiesa, recuperata colle abnegazioni del clero e col suo sottomettersi a un capo, bisognava saldarla col togliere il diritto che i signori laici arrogavansi d'investire i prelati, e di esigerne soggezione e servigi. Se la Chiesa per sottrarsene avesse rinunziato alle temporalità, rimanea destituita d'ogni considerazione e d'ogni giurisdizione, quando questa era innestata al possesso delle terre. Se le conservasse senza formalità d'investitura, i beni, che erano forse un terzo di quelli della cristianità, si troverebbero sottratti all'autorità principesca, e sottomessi alla pontificia, la quale sarebbesi ingagliardita a segno, da predominare ai re. Gregorio non indietreggiava da quest'ultima conseguenza[58], come il potrebbe fare l'età nostra, annichilatasi in fatto davanti ai monarchi, mentre in parole ostenta di contradirli e avversarli. Allora la libertà intendevasi in un senso molto più pieno e positivo, e questa lotta del sacerdozio coll'impero, delle usurpazioni dei governi colle naturali libertà, generò l'idea moderna dello Stato. Se fonte del potere è Dio, e Dio è rappresentato in terra dal papa, questo è superiore ai re. Se la società corrotta non può rigenerarsi che dalla Chiesa, è necessario che questa sovrasti ai troni. E come superiore, già Gregorio VII provedeva agli interessi anche temporali dei popoli; agli uni vietava il trafficare di schiavi, ad altri rinfacciava i vizj, scomunicava re contumaci; obbligò altri a continuar alla Chiesa l'omaggio con cui i predecessori ne aveano compensata la tutela; volea ridurre uomini quei che i baroni teneano [57] schiavi; tanto più efficace perchè nulla faceva per vantaggio o ambizione sua personale, e sempre irremovibile come chi s'appoggia a dettati che non ammettono dubbio e non consentono paure.

Da ciò quel che i moderni, inneggiatori d'un imperatore che insultò ad un papa supplichevole, rinfacciano come la maggior tracotanza: il rappresentante dei diritti del popolo e della morale, che umilia un tiranno depravato. L'imperatore Enrico IV, oltre le turpitudini personali, avea violato la costituzione giurata ai Sassoni. Questi ne portarono reclamo al papa, e il papa ne ammonì ripetutamente Enrico. E perchè questi promise e mancò, citollo a Roma onde giustificarsi, altrimenti lo dichiarava decaduto, e scioglieva i popoli dall'obbedirlo (1076). Oggigiorno in simili emergenti si fan rivoluzioni, barricate, sangue; allora i re erano eletti colla sottintesa condizione che regnavano perchè meritevoli, cioè conforme a una moralità, che non era diversa per essi che per tutti. Questa era sottoposta al giudizio di un arbitro supremo; quand'egli proferisse ch'era violata, i popoli cessavano dall'obbedire, e il re indegno era colpito da una pena tutta morale, la scomunica, che mettea fuor delle comuni orazioni lui e le persone o le provincie che gli continuassero la devozione. Nel paese scomunicato cessavano quelle cerimonie religiose che consacrano tutti gli atti solenni della vita, e consolano e rinfrancano l'anima nelle battaglie della vita. Chiuso il tempio, immagine della città di Dio; non letizia d'organi, non richiamo di campane; non più l'assoluzione per tranquillar le coscienze; non la santa cena per refiziare lo spirito; non quelle feste ove il barone e il villano trovavansi uniti e pari nella medesima preghiera: spente le lampade, velati i crocifissi e le immagini edificanti; veruna solennità accompagnava l'entrare e l'uscir dalla vita: insomma pareva non esistesse più mediatore fra il peccatore e Dio. In secoli credenti questa pena era spaventosa, come sarebbe ai nostri gaudenti il chiuder i teatri od i caffè; e il re colpito, abbandonato da tutti, era costretto a sottomettersi.

Non è raro che la città di Roma imprechi a' suoi pontefici per favorire altri re. Anche allora Cencio, prefetto della città, in nome di Enrico IV contrariò Gregorio, lo aggredì tra le affettuose cerimonie della notte di Natale, e afferratolo pei capelli, lo trasse al proprio palazzo. Il popolo, levatosi a rumore, lo liberò, e a fatica il perdono di Gregorio salvò l'offensore.

Enrico imperatore, incapricciato in tali ostilità, v'era incalorito dal favore de' prelati lombardi, lieti di veder umiliato quel che li frenava; ma quando il papa lo scomunicò, Sassoni e Turingi ritiraronsi dall'ubbidirlo, e tutta Germania applause al papa, che rappresentava la volontà e i diritti del popolo; onde l'imperatore fu costretto venir a piedi di qua dell'Alpi, ed egli, re delle spade, umiliarsi al re della giustizia, che, nel castello di Canossa presso Reggio, lo fece aspettare tre giorni in abito di penitente (1077), poi gli perdonò e l'ammise alla comunione. Presa l'ostia consacrata, Gregorio [58] lo assolse, e appellando al giudizio di Dio se mai fosse reo d'alcuno dei misfatti che erangli imputati dagli imperiali, ne inghiottì una metà; l'altra porse ad Enrico perchè facesse altrettanto se si sentiva incolpevole. Potere della coscienza! Enrico non ardì un atto che avrebbe risolta ogni questione, e paventò il giudizio di Dio.

Indispettito, non compunto, tese insidie al papa, e reluttò, sicchè i suoi lo deposero, e Gregorio, riconoscendo il surrogatogli Rodolfo di Svevia, ideò di far un regno dell'Italia settentrionale e media, che fosse vassallo della sede romana, come già l'erano i Normanni dell'Italia meridionale, e a questo regno restasse subalterna la Germania, invece di sovraneggiarlo com'essa allora faceva. Ma Enrico venne con buone armi, elesse un antipapa, e Gregorio VII, profugo dalla sua città, come tante volte i suoi antecessori e successori, morì a Salerno esclamando: «Amai la giustizia e odiai l'iniquità; perciò finisco in esiglio» (1089).

Matilde, contessa di Toscana, il personaggio più potente allora in Italia, ed uno de' più insigni del medioevo, aveva sostenuto Gregorio, e così sostenne i suoi successori nella quistione sopravvissuta, e morendo lasciò alla santa sede l'eredità de' suoi possessi, che, oltre la Toscana, il ducato di Lucca e immensi territorj, comprendeano Parma, Modena, Reggio, Cremona, Spoleto, Mantova, Ferrara ed altre città. In questi trovandosi mal distinti i beni allodiali dai feudali, nuove quistioni ne originarono cogli imperatori, ai quali ricadeano i feudi vacanti, e che col diritto del forte occupavano anche la proprietà, e trovavano sempre fautori in Italia e nel clero[59].

Pasquale papa, volendo appianar ad ogni costo le differenze, si spinse sino all'estrema concessione; cioè che gli ecclesiastici rinunziassero a tutti i possessi temporali, coi castelli e i vassalli avuti dagli imperatori, purchè gl'imperatori rinunziassero all'immorale diritto delle investiture. Nel suo desiderio di pace non s'accorgeva ch'era impossibile spogliar i signori ecclesiastici, tanto potenti, nè togliere ai nobili laici l'aspettativa di tanti benefizj. In fatti sorse un'opposizione universale, e s'incalorì la guerra, dove la città di Roma per lo più osteggiava il papa sinchè non l'avesse cacciato; cacciatolo, tornava a volerlo.

A quel litigio, dove Voltaire non vide che una questione di cerimoniale, mentre invece implicava la libertà umana, quattro soluzioni poteano darsi. O annichilar il potere morale e l'elemento spirituale surrogandovi la forza sfrenata, come voleano gl'imperatori. O annichilare l'ordine politico, sublimando il papa come voleva Gregorio VII, ma vi repugnavano le costituzioni nazionali. O come propose Pasquale II, separare affatto i due ordini, isolandoli in modo che lo Stato non sorreggesse la Chiesa, nè questa illuminasse lo Stato; al che si opponevano e i costumi e gl'interessi. Non restava se non che il capo politico smettesse la nomina diretta dei vescovi [59] e degli abbati, vigilando però sulle elezioni; e investendoli delle temporalità, in modo che fossero preti insieme e vassalli, come il tempo portava. Tal fu la transazione Calistina (23 settembre 1122), ove l'imperatore rinunziava ad investire i prelati coll'anello e col pastorale, lasciando libera l'elezione alle chiese; mentre Calisto II assentiva all'imperatore che le elezioni de' vescovi e abbati del regno tedesco si facessero coll'assenso imperiale, purchè senza simonia o violenza; l'eletto, prima d'essere consacrato, bacierebbe lo scettro col quale eragli conferita dall'imperatore l'investitura per tutti i beni e le regalie. In Italia e nelle altre parti dell'impero, l'eletto, fra sei mesi dopo consacrato, riceverebbe l'investitura.

È la prima di quelle transazioni fra il potere spirituale e il temporale, che si chiamano Concordati; e il concilio lateranese (1123), ch'è il primo universale in Occidente, la confermò; poi il secondo lateranese (1139) rinnovò la scomunica contro chi ricevesse l'investitura laicale.

In tale accordo il vantaggio restava tutto al poter secolare, perocchè l'imperatore non recedeva da alcuna delle sue pretensioni, vedevasi confermato l'alto dominio, e dirigeva le scelte. Ma la Chiesa sacrificava le eventualità temporali al desiderio di far indipendente lo spirituale[60]. Dappoi l'imperatore Lotario II rinunziò al diritto di assistere alle elezioni; e fu rimesso al papa il decidere delle differenze che in tal fatto si suscitassero; come poco a poco fu tolto ai principi il goder de' frutti de' benefizj vacanti, e dello spoglio de' vescovi e abbati defunti.

Duranti questi fatti, l'autorità ecclesiastica dei papi erasi viepiù ingrandita col restringere quella de' metropoliti, revocare a Roma la collazione di molti benefizj; riservarsene le annate; sottrarre ai vescovi la giurisdizione sui conventi e sui beni parrocchiali. Queste prerogative furono convalidate dalle decretali del falso Isidoro. Così chiamossi una raccolta di leggi, che non erano state realmente pubblicate dai papi, ma dove l'autore, tutt'altro che ignorante e inetto, pare raccogliesse titoli antichi, trasformando in decreti alcune allusioni del pontificale romano, o relazioni storiche, o brani di lettere dei papi, dei codici di Teodosio e d'Alarico, della regola di san Benedetto, del Liber pontificalis e d'altre autorità. Qualche volta adottò titoli spurj; qualche volta alterò, pure quelle norme doveano esser conformi alle istituzioni vigenti nella Chiesa, perocchè furono accolte senza ostacolo, e sinodi e papi le citarono, e altri compilatori fondaronsi su di esse, finchè al rinascere della critica i Cattolici le posero in dubbio, ben prima dei Protestanti[61].

Un grave colpo al cristianesimo avea dato l'arabo Maometto, predicando una religione, desunta dalle credenze ebraiche e cristiane, e colla pretenzione di semplificarle; asserendo l'assoluta unità di Dio, cioè escludendo la trinità delle persone[62]; non vedendo perciò in Cristo che un profeta come Mosè, come Maometto; proibendo ogni rappresentazione della divinità; [60] indulgendo alla poligamia e alle inclinazioni della carne, e propagando la sua religione colla spada. Così conquistata gran parte dell'Asia e dell'Africa, la dinastia degli Aglabiti di Cairoan venne a invadere la Sicilia (827), e vi piantò lo stendardo del profeta, che ben presto passò anche sul continente d'Italia.

I Cristiani dovettero allora soffrire persecuzioni dall'intollerante apostolato musulmano, e probabilmente alcuni avranno abbracciata la religione de' vincitori. I pontefici ebbero dunque l'impresa e di salvare i dominj loro da questi nuovi invasori, che minacciavano fin Roma, e di impedire la diffusione delle loro dottrine e de' loro costumi. E poichè essi aveano occupato la Terrasanta, teatro della redenzione e meta di devoti pellegrinaggi da tutto il mondo, i papi eccitarono l'Europa a muoversi per liberarla, come fecesi nelle crociate. Queste imprese, ch'erano un indirizzo dato dalla Chiesa alla forza e al sentimento esuberanti, verso uno scopo religioso e civile, dovettero ingrandire il potere de' papi che le intimavano, le benedivano, le dirigevano, e che investivano i principi e i vescovi de' paesi recuperati.

Di rimpatto la potenza degli imperatori in Italia era stata attenuata dal costituirsi de' Comuni. Questi aveano poco a poco recuperato i diritti civili, sostenuti sempre dagli ecclesiastici, e massime dai vescovi, i quali, ottenendo che le città di loro residenza restassero immuni dalla giurisdizione dei conti, e sottoposte alla loro propria, aveano agevolato la costituzione de' municipj. Sempre più rinforzandosi, questi fondavano l'eguaglianza popolare, eleggevano magistrati proprj, rendevano giustizia secondo leggi fatte dai loro parlamenti, o ripristinavano le romane, e faceansi guerra dall'uno all'altro, deplorabile conseguenza ma pur sintomo di libertà. Gli imperatori o doveano combattere in Germania per le disputate elezioni, o campeggiavano in Terrasanta, o cozzavano coi papi per le investiture; laonde nè potevano sostenere colle loro armi i baroni, nè opprimer i Comuni, che assodavansi collo spossessare i dinasti vicini.

Quel movimento repubblicano, sebbene originato e favorito dal clero, riusciva però nulla meno che favorevole all'autorità temporale de' pontefici. In Francia Abelardo (1079-1142), noto ancor più pe' suoi malincontrati amori che per l'ardimento filosofico, accoppiando la dialettica colla teologia, avea voluto far precedere la scienza alla fede, anzichè considerar quella come uno sviluppo di questa, e la sottoponeva al giudizio individuale, quasi coll'esame e col dubbio si progredisse. Lo aveva udito un bresciano di nome Arnaldo, mutatosi dal mestier delle armi alla cocolla, e ne portò le idee in Italia. Bel parlatore, cominciò come tutti i novatori dal rimbrottare i costumi del clero; donde passò a battere la potenza ecclesiastica; repugnare al buon diritto e al vangelo che il clero possedesse beni, i vescovi regalie; ma dovrebbero restituire ai principi i possessi che ne aveano ricevuto, e ridursi [61] all'apostolica, a viver di decime e di spontanee oblazioni. Non intendendo la libertà nuova, vagheggiava quella che apparivagli ne' libri classici, blandendo idee che sempre diedero per lo genio al popol nostro. Piaceva a questo pel dolce suono di repubblica: piaceva ai signori laici, che teneano feudi dagli ecclesiastici, e speravano emanciparsene; e formò una fazione detta de' Politici, che dal dir ingiurie al pontefice passava a negargli obbedienza.

Roma era allora circondata da baroni e da Comuni, che aspiravano del pari all'indipendenza; dentro era straziata da due fazioni, guidate dai Frangipani e da Pier di Leone, che pretendeano usurpar i beni delle chiese, ed eleggere a voglia papi e antipapi. Con costoro ebbe capiglie Innocenzo II (1130), che costretto andar fuggiasco in Germania, in Francia, in Inghilterra, ebbe sostegno l'eloquenza di san Bernardo, fondatore dell'ordine de' Cistercensi. Dall'imperator Lotario ricondotto a Roma, il papa doveva tenersi munito in Laterano, mentre l'antipapa Anacleto fortificavasi in Vaticano (1133). Ma ben presto i Normanni che, colla solita facilità, aveano acquistato le due Sicilie, fecero di queste omaggio al papa, chiedendogliene l'investitura; poi radunato in Laterano l'XI concilio ecumenico, ai 2000 prelati raccolti il papa diceva: «Sapete che Roma è metropoli del mondo; che le dignità ecclesiastiche si ricevono per concessione del sommo pontefice siccome feudo; nè altrimenti possono legittimamente possedersi».

Malgrado l'opposizione di san Bernardo, Arnaldo riuscì a ribellare la città (1141), che gridò la repubblica, e pose un senato di 56 membri, decretando in nome di questo e del popolo. E un amico di Arnaldo fu scelto per nuovo papa col nome di Celestino II, ma questi cessò ben presto dal favorirlo; ed anche il popolo recosselo in sinistro, dimodochè dovette fuggire, e ricoverarsi a Zurigo. Quivi anticipate le declamazioni di Zuinglio contro la Chiesa, passò in Francia e in Germania, sempre inseguito dall'occhio e dalla voce di san Bernardo.

Coi sussidj, che mai non mancano a chi guerreggia la Chiesa, soldò 2000 Svizzeri, e con questa forza venale tornato a Roma, ripristinò la magistratura repubblicana; e invasato da reminiscenze di libri, rinnovò i consoli e i tribuni; ideava un ordine equestre, che fosse medio fra il popolare e il senatorio; al papa non lasciava che i giudizj ecclesiastici, mentre l'autorità imperiale supremava.

Bastano le più vicine memorie per ricordarci come il popolo romano s'inebbrii di siffatte idee; e come all'entusiasmo dell'applauso si accoppii l'entusiasmo dell'ira. Mentre osannavano quell'intempestiva restaurazione, i Romani gettavansi a furia sulle torri dei baroni, sui palazzi degli avversi e de' cardinali, e anche sulle loro persone; abolivano il prefetto della città; negavano obbedienza al nuovo papa Eugenio III (1145), il quale dovette coll'armi domar quella gente che san Bernardo qualificava proterva e fastosa, disavvezza dalla pace, avvezza solo al tumulto; immite, intrattabile, non [62] sottomessa se non quando le manchi forza di resistere. E questa prevalse, e cacciò il papa che andò esule in Francia, sicchè Bernardo scriveva: «Ecco l'erede di Pietro, per opera vostra espulso dalla sede e dalla città di san Pietro; ecco per le vostre mani spogliati de' beni e delle case loro i cardinali e i vescovi ministri del Signore. O popolo stolto e disennato! I padri vostri resero Roma donna del mondo; voi v'industriate di renderla favola delle genti. Or ch'è divenuta Roma? miratela; un corpo informe senza testa, una fronte incavata senz'occhi, un volto privo di luce. Apri, infelice popolo, apri una volta gli occhi, e guarda la desolazione che ti sovrasta. Come in brev'ora lo splendore di tua gloria s'è offuscato! fatta sei come vedova, tu ch'eri la signora delle nazioni, la regina dei regni. Eppur questi non sono che principj de' mali; più gravi calamità ti minacciano, se più ti ostini nella fellonia»[63].

Intanto i repubblicani invitavano l'imperatore Corrado III, vantando d'avere operato solo per restituire a Roma l'ecclissato splendore; e secondo la storia, le prediche d'Arnaldo e il voto de' giureconsulti classici, voleano riformare lo statuto, assicurando illimitata autorità al principe. Ma ai nobili premea di conservar le loro prerogative, a fronte dell'imperatore come del papa; e quando il popolo trucidò il cardinale di santa Prudenziana (1154), il nuovo papa Adriano IV diede l'insolito esempio di metter all'interdetto la capitale del cristianesimo, finchè non ne fosse espulso Arnaldo. Commosso dal vedersi negati i sacramenti all'avvicinar della Pasqua, il popolo cacciò Arnaldo, che rifuggì presso un conte di Campania.

Intanto era venuto imperatore di Germania Federico Barbarossa, risoluto di ripristinar l'autorità imperiale, scassinata in Italia dal costituirsi de' Comuni, riformare il sistema ecclesiastico, il feudale, il municipale. Son divulgatissime le costui imprese in Lombardia; nè noi dobbiamo ricordare se non che, mentre Milano gli resisteva, egli mosse a Roma per esser coronato.

Quivi trovò in piedi la repubblica istituita da Arnaldo, la quale, ristretto il papa nella città Leonina, gl'intimava rinunziasse ad ogni podestà temporale, e s'accontentasse del regno che non è di questo mondo. I repubblicani speravano prevarrebbe in Federico l'antica nimicizia contro i papi; ma egli, uom dell'ordine, astiava le rivoluzioni, e questo slancio della gran città verso la forma che fu sempre prediletta in Italia, ma che ridurrebbe al nulla la prerogativa imperiale. Pertanto (1153) avuto nelle mani Arnaldo, lo consegnò al prefetto imperiale della città. A questo l'esser presente l'imperatore conferiva pieni poteri, elidendo ogni contrasto de' preti; sicchè egli fece, come eretico e ribelle, strangolare Arnaldo, ardere in piazza del Popolo, e gettarne le ceneri nel Tevere. La turba accorse come ad ogni spettacolo; gli scrittori applaudirono; Goffredo di Viterbo canta:

Dogmata cujus erant quasi pervertentia mundum

Strangulat hunc laqueus, ignis et unda vehunt[64]:

[63] Gunter nel Ligurino dice s'era fatto reo contro ambedue le maestà:

sic læsus stultus utraque

Majestate reum geminæ se fecerat aulæ;

nè alcun contemporaneo lo compiange, o nega gli aberramenti suoi. Solo nel secolo passato si cominciò a presentarlo come una vittima della tirannide papale, come un precursore de' riformatori del cinquecento, o dei Giansenisti del seicento[65].

Nelle avventure di lui, come in tutto il conflitto che descriviamo, non fu abbastanza distinta la lotta dei laici coi cherici, da quella dell'autorità imperiale coll'autorità pontifizia: differenza troppo notevole. In fondo gl'imperatori, sebbene con maggior misura, sostenevano quel che oggi la rivoluzione: la Chiesa, congregazione spirituale, non aver bisogno di temporalità; queste metter ostacolo ai principi, e però dover cessare, necessaria essendo l'unità del comando, nè esser vero principe chi ha un superiore. Rispondeasi: la Chiesa sovrasta a tutti i diritti, perchè è la fonte di questi; nè si dà diritto quando essa nol voglia riconoscere; esistendo divinamente, e assolutamente essa non tien conto che di se medesima. La legge, l'ubbidienza derivano da Dio: dacchè il principe le rompe, perde, quant'è da lui, il diritto di comandare, e la coscienza il dover di obbedire. La giustizia è il bene armato, la legge morale armata, sicchè bisogna rimanga in mani morali e legittime. Più si restringe la Chiesa, più fa duopo estender la forza che la surroga.

I fautori della Chiesa nominavansi Guelfi; Ghibellini i sostenitori dell'impero, ma entrambi i partiti riconoscevano un principio superiore a tutte le rivoluzioni, la distinzione del potere temporale dall'ecclesiastico, dello spirito dalla legge, della fede dal diritto, della coscienza dell'individuo dal vigore della società, dell'unità umana dall'unità civile. Il prevalere d'una di queste tesi porta necessariamente l'antitesi dell'altra: se la Chiesa si fa democratica col popolo, l'impero si fa democratico colla plebe: se i Guelfi stabiliscono l'eguaglianza, i Ghibellini vogliono tutelarla colla legge; se prevale l'idea della libertà individuale, bisogna frenarla colla potenza sociale.

Questi partiti si spiegarono massimamente sotto i due Federichi di Svevia. Il primo credette potere nella gagliarda mano schiacciare le libertà comunali e la Chiesa: ma a Venezia dovette piegar il collo sotto al piede del papa, che esclamò, Super aspidem et basiliscum ambulabis[66], e per sua mediazione pacificato colle città lombarde, riconobbe l'indipendenza di queste, e andò a morire in Terrasanta.

La sua discendenza rinnovò il cozzo coi papi, anche per l'eredità della contessa Matilde, sicchè essi favorirono l'elezione di Ottone di Baviera. E questi, davanti a tre legati pontifizj prestò questo giuramento (1201):

«Io Ottone, per la grazia di Dio, prometto e giuro proteggere con ogni [64] mia forza e di buona fede il signor papa Innocenzo, i suoi successori e la Chiesa romana in tutti i dominj loro, feudi, diritti, quali sono definiti dagli atti di molti imperatori, da Lodovico Pio sino a noi; non turbarli in quel che già hanno acquistato; ajutarli in quel che lor resta ad acquistare, se il papa me lo ordini quando sarò chiamato alla sedia apostolica per la corona. Inoltre presterò il braccio alla Chiesa romana per difendere il regno di Sicilia, mostrando al signore papa Innocenzo obbedienza e onore, come costumarono i pii imperatori cattolici fino a quest'oggi. Quanto all'assicurare i diritti e le consuetudini del popolo romano, e delle leghe Lombarda e Toscana, m'atterrò ai consigli e alle intenzioni della santa Sede, e così in ciò che concerne la pace col re di Francia. Se la Chiesa romana venisse in guerra per cagion mia, le somministrerò denaro secondo i miei mezzi. Il presente giuramento sarà rinnovato a voce e in iscritto quando otterrò la corona imperiale».

Ai Tedeschi spiacque siffatta sommessione; altrettanto sarebbe dovuta gradire agli Italiani, de' quali assicurava l'indipendenza come della Chiesa; ma ben presto Ottone, venuto qua co' suoi Tedeschi, disgustò i nostri e il papa, che lo scomunicò, e gli eresse incontro Federico II, nipote del Barbarossa. Questo allievo e favorito dei papi, ben presto divenne il più dichiarato loro avversario, e ravvivò la lotta delle investiture, colle vicende che in altri lavori noi divisammo più che non occorra in questo speciale.

Innocenzo III, uno de' pontefici più insigni per scienza e virtù, convocò il XII concilio ecumenico lateranense (1215), dove assisteano quattrocendodici vescovi, ottocento abati, ambasciadori di tutta cristianità; vi fu letto un discorso sulle prerogative del papa, e acciocchè anche i laici lo comprendessero, venne ripetuto in spagnuolo, francese, tedesco; fu esposta la dottrina cattolica contro Albigesi e Valdesi ed altri eretici, scomunicando il signore che non purga il suo paese da questi: colla parola transustanziazione si espresse il cambiamento operato nell'eucaristia: fu imposto a tutti i fedeli di confessarsi e comunicarsi almeno alla Pasqua.

Innocenzo attese a riformar la costituzione interna della Chiesa mediante lo spirito mistico con cui i Francescani operavano sulle classi basse, e i mezzi legali con cui i Domenicani difendeano la società feudale e religiosa. Onde far che le istituzioni civili non si togliessero dall'ombra del trono papale, e impedire che la società laica invadesse la ecclesiastica, volle ridurre in atto i concetti di Gregorio VII intorno alla supremazia del papa. Era allora dottrina comune ai canonisti e ai politici che tutta la cristianità gravita attorno a due centri: il papa e l'imperatore, delegati da Dio a governar le cose spirituali e temporali. Nessun altro ideale conosceasi in fatto di governo, e se ne valeano i due poteri per impedir sia le usurpazioni dell'uno sull'altro, sia le pretensioni de' baroni o de' cittadini; l'eresia al par della ribellione: due mali (dice Pier dalle Vigne) cui la Provvidenza preparò non due [65] rimedj ma un solo sotto duplice forma: il balsamo della potenza sacerdotale e la forza della spada imperiale.

Tale era dottrinalmente la quistione: ma nel fatto ciascuno di questi due fanali della via sociale aspirava a splender unico; e si osteggiavano colle armi e colle scomuniche. Ma due podestà, diverse eppure non opposte, con idee e linguaggio differenti, non possono intendersi, sicchè nè la violenza riesce nè la discussione.

Federico II, ricco delle doti più belle e più ammirate, dotto, poeta, guerriero, legislatore, a guisa dei re moderni abborriva le libertà municipali, e la religione voleva ridurre a ramo dell'amministrazione. Pel primo scopo lungamente contese colle repubbliche dell'Italia superiore, e se non riuscì a spegnerle, impedì si estendessero anche al resto d'Italia, e costituissero l'intera penisola in un sistema, che potea divenir modello all'Europa e cambiarne i destini.

Uomo d'ordine, vide negli eretici dei disobbedienti e ribelli, e condannò senza esame le sêtte dualiste, ridestando le più severe leggi imperiali. Fece il solenne trasporto delle reliquie di san Carlomagno: onorò quelle della buona santa Elisabetta d'Ungheria, sul cui capo posò una corona d'oro, attestandone pubblicamente i miracoli. Pure dai papi è tacciato di eresie; ma quali fossero non è precisato.

Veneratore della civiltà pagana, usava e abusava dei titoli divini che l'adulazione del basso impero aveva attribuiti agli imperatori. A suo figlio Corrado diceva «stirpe divina del sangue de' Cesari», e diva mater nostra alla regina Costanza; i suoi cortigiani applicavano a lui frasi scritturali: Terra promessa, Betlem della marca d'Ancona la città di Jesi ove nacque: egli il giusto disceso dalle nubi, e su cui i cieli versano la rugiada; egli il Signore a cui avviarsi camminando sulle acque; egli antistite, cooperatore e vicario di Dio, immagine visibile dell'intelligenza celeste. Pier dalle Vigne suo segretario era denominato suo primo apostolo, nuovo Pietro, destinato a confermar la fede altrui, dacchè l'imperatore gli disse: «Pietro, poichè tu mi ami, pasci le mie pecorelle»; eretto a fronte al falso vicario di Cristo, per esser vicario vero governando secondo la giustizia, istruendo, riformando per mezzo della fede; su questa pietra angolare fondasi la nuova Chiesa imperiale (in cujus petra fundatur imperialis ecclesia); su lui riposò Augusto quando celebrò la cena co' suoi apostoli; ciò ch'egli chiude nessun altro apre; nessun chiude ciò ch'egli aperse: Pietro di Galilea rinegò tre volte il suo maestro, Pietro di Capua non v'è pericolo che neghi il suo, neppur una volta[67].

Così da un lato profanavansi le memorie sante, dall'altro tornavasi verso quell'antichità, a cui non repugnava la pretensione di governar le coscienze non meno che i corpi, e Federico fantasticava una supremazia religiosa, simile a quella degli imperatori greci e dei musulmani, che congiungevano i due [66] poteri; e invidiava Vatace imperator d'Oriente, che nulla aveva a temere dalla indipendenza de' preti, e lo persuadeva a non acconsentire alla riunione della Chiesa greca colla romana che era scismatica. E poichè sentiva di non bastare a lottar col papa, divisava spartire la cristianità in tante Chiese nazionali, dove il re fosse anche pontefice, e così il conflitto divenisse impossibile.

Tutto ciò sembra costituirlo quel che oggi diremmo un materialista incredulo, o se vogliasi, un politico indifferente; difetto ben raro in quei secoli. Raccontano che, traversando un campo spigato, dicesse ai suoi seguaci: «Badate a non far guasto, giacchè quei grani potrebbero divenire corpo di Cristo». E veduta la Palestina, esclamò: «Se Dio avesse conosciuto Napoli, certo non sceglieva questa per terra prediletta». E metteva in burla il parto della Vergine, il viatico ed altri dogmi, quasi repugnassero alla ragione e alla natura. Scandolezzava poi col tener a tavola ambasciadori musulmani insieme coi vescovi; guardie arabe custodivano il suo corpo e le sue fortezze; odalische allietavano i suoi riposi abbelliti da rarità orientali e dalle voluttà che avea vedute presso gli emiri di Sicilia e gli sceichi dell'Asia; i Musulmani stessi lo consideravano come un loro credente, perchè educato in Sicilia, e un d'essi avendo, in presenza di lui, proferito un versetto del Corano che nega la divinità di Cristo, egli vietò di infliggergli alcun castigo.

Si disse che egli avesse chiamato Mosè, Cristo e Maometto tre impostori, e l'asseriva Gregorio IX scomunicandolo. Nell'abitudine del medioevo di atteggiare ogni idea in un fatto, il motto trasformossi in un libro Dei tre impostori. Quest'opuscolo venne attribuito a chiunque voleasi denigrare: ad Averroé, a Federico II, a Pier dalle Vigne, ad Arnaldo di Villanuova, a Bonifazio VIII, al Boccaccio, al Poggio, all'Aretino, al Machiavello, al Pomponazio, al Cardano, all'Ochino, al Campanella, a Giordano Bruno, al Vanino, per non dir che dei nostri, ma da nessuno fu veduto. Veramente perirono anche i libri de' Gnostici, de' Manichei, degli Albigesi: distruzione non difficile quando mancava la stampa; anche dopo inventata questa perirono alcune opere, come quella del Sacrifizio di Cristo di cui appena testè si fece lo scoprimento: pure il libro Dei tre impostori noi crediamo non esistesse mai, ma simboleggiasse l'incredulità materiale, derivata dagli Arabi.

L'origine stessa della costoro religione era un'eresia; prendeano a edificare una terza Chiesa accanto alla giudaica e alla cristiana; molti filosofi di quella gente consideravano le tre siccome pari, e siccome sviluppo l'una dell'altra; di tutte con egual libertà discutevano, e con maggiore il gran commentatore Averroé, che tratta di ciarlieri i teologi, e di fantasie le dispute su qualsiasi religione.

Tormentato dalla febbre del sapere, Federico lo cercava interrogando anche i sapienti musulmani. Ad essi nel 1240 presentò varie quistioni, sull'eternità [67] del mondo, il valore e numero delle categorie, la natura dell'anima, il metodo che conviene alla metafisica e alla teologia. Non soddisfatto da alcuno, s'indirizzò al califo almoade Rascid per sapere ove dimorasse Ibn Sabin di Murcia, e saputolo, mandògli quelle dimande. Il dotto arabo rispose come un pedante che vuol mostrare più scienza che non abbia, e finge esser costretto a dissimulare il troppo più che sa; a tu per tu coll'imperatore, o con sapienti da lui mandati, direbbe altre cose secrete, perocchè, soggiunge, se i dottori fossero certi che io risposi a certi punti, mi guarderebbero con orrore, e non so se Dio colla sua bontà e sapienza mi camperebbe dalle loro mani[68].

L'eresia di Federico era più pratica, e consisteva nel voler sostituire se stesso al papa, usurpare le funzioni del sacerdozio, far moneta coi vasi sacri, deporre e istituir prelati, e da questi pretendere segni di sommessione e quasi d'adorazione; e mentre sprezzava la Chiesa perchè non fa più miracoli, voleva ricondurla alla semplicità primitiva.

Per ciò, e per aver giurato di andare alla crociata, poi mentito; andatovi poi, aver patteggiato co' Musulmani, anzichè sterminarli, Gregorio IX lo scomunicò. Federico s'appella a un concilio generale, e Gregorio lo convoca a Roma (1241), poi Innocenzo IV un altro a Lione (1245), ove la Chiesa riunita, e per essa il vicario di Cristo, dichiarano Federico convinto di sacrilegio ed eresia, scaduto dall'impero, dispensati i sudditi dall'obbedirgli. Pier dalle Vigne avea composto un trattato De consolatione, uno De potestate imperiali, e credesi il libello Paro figuralis, ove nel pavone raffigura Innocenzo IV al concilio di Lione, circondato di colombe, tortore, oche, anitre, passeri, rondini, figuranti i cardinali, i vescovi, gli abati d'ogni colore, i cittadini, i mendicanti; il gallo rappresenta il re di Francia, la pica i Guelfi, il corvo i Ghibellini; l'aquila l'imperatore; gli uccelli grifagni Tedeschi, Siciliani, Spagnuoli. Il libercolo non trae valore che dall'opportunità, ma mostra come le nazioni d'Europa non fossero così estranie fra loro, come darebbe a supporre la asserita barbarie; e che già la letteratura militante elaborava l'opinione pubblica. In fatti Federico le proprie discolpe diramò ai principi, mostrandosi eretico appunto nell'atto che voleva scolparsene, poichè gli incitava contro il papa: «Come mai soffrite d'obbedire a figli di vostri sudditi? La Chiesa è divenuta affatto mondana; i suoi ministri, inebriati delle delizie terrestri, non badano guari al Signore; uniamoci, e vigiliamo insieme, affinchè, privati d'ogni superfluo, costoro servano all'Altissimo, contenti di poco... Assisteteci contro la superbia di questi prelati, acciocchè possiamo rassodar la Chiesa dandole le guide più degne, e riformare pel suo bene e per la gloria di Dio, com'è nostro dovere. Ve' come essi impinguano di limosine! Gonfi d'ambizione, aspettano che tutto il Giordano coli nelle loro bocche. Quanto denaro risparmiereste sbrattandovi da codesti scribi e farisei! ai quali se tendete la [68] mano, essi pigliano tutto il braccio; e voi somigliate all'uccello preso nella ragna che, più cerca fuggire, più s'accalappia. Intenzion mia fu sempre ricondurre gli ecclesiastici, e principalmente i più grandi, a tale stato che perseverino sin al fine nelle vie che furono quelle della Chiesa primitiva, menando una vita apostolica, e mostrandosi umili come Gesù Cristo[69]. Noi crediamo far opera di carità togliendo a costoro i tesori di cui sono satolli per loro eterna dannazione».

Ipocrito! se tanto ti sta a cuore la loro salute, perchè non ne lasci a loro stessi la cura? perchè inviti a spogliarli, come poi farà Lutero? Questi pure griderà di tornar la Chiesa alla purità primitiva, e con ciò provocherà tre secoli di guerre e dissidj. E come lui, Federico seminava il concetto di nazionalizzar le Chiese in tutta Europa; e già in Germania, sia per favorire al loro tedesco, sia per l'antica avversione alle cose italiane, varj vescovi e capitoli più non badavano alle ordinanze pontifizie, e persone senza nome giravano liberamente dicendo: «Che scomuniche? che papa? Egli è così tristo, che neppur s'ha da parlarne; piuttosto predicate per Federico imperatore e suo figlio Corrado; essi perfetti; essi re galantuomini».

Di sottomettere la Chiesa allo Stato fece Federico il tentativo nel regno delle Sicilie, ove già la dominazione de' Greci e degli Arabi aveva abituato a una tal condizione di cose. I Normanni eransi provati a delimitare i mutui poteri mediante que' concordati, che il nostro secolo bestemmia senza pur conoscerli, e a cui vuol sostituire la formola assurda della assoluta indipendenza delle due potestà. I trattati conchiusi coi due Guglielmi, con Tancredi, con Costanza imperatrice emanciparono più o meno la società civile; ma Federico, infatuato della propria persona e della propria autorità, cercò sottrarnela affatto; negò al papa l'omaggio che doveagli come re di Sicilia; vi mutò leggi, crebbe tributi, levò soldati senza consenso del pontefice. Per ricolpo Innocenzo IV pubblicò più tardi la famosa bolla 8 dicembre 1248, che tendeva ad assorbir lo Stato nella Chiesa, escludendo ogni intervenzione laica dalla nomina de' prelati, dispensando questi dal giuramento al sovrano e dalla giurisdizione laica, civile o criminale; autorizzando i possessori di beni ecclesiastici a fortificar i castelli, rialzare le ville, ripopolare le distrutte, senza bisogno di regia placitazione.

L'imperatore rispose con supplizj, paragonando ad eretici i fautori del papa, e sè stesso al profeta Elia che purgò Israele dai sacerdoti di Baal; e così sotto pena di morte si dovette riconoscere che solo capo della Chiesa è il capo dello Stato.

Il popolo non aveva mezzo d'esprimere le sue proteste, e i cortigiani, che soli scrissero, ci dicono come fosse lietamente obbedito l'imperatore, rappresentante del Dio vivo; e dalle stesse loro adulazioni traspare come, senza innovar il dogma, Federico II tendesse a render il papa cappellano dell'imperatore. Se fosse riuscito, l'aquila tedesca avrebbe surrogata la croce italiana, e [69] tutta Europa avrebbe presentato il tristo spettacolo che scorgesi a Costantinopoli e a Mosca; la podestà spirituale serva alla temporale; il papa ridotto a registrare i decreti di Cesare; il quale, come il czar o come il sultano, avrebbe avuto impero assoluto sul clero e sui laici. Un papa che obbediva a un imperatore avrebbe cessato d'ispirare fiducia o d'imporre riverenza ai paesi estremi: Toledo e Reims, Cantorbery e Vienna avrebber preso per sè porzione dell'autorità di esso; tutti i patriarchi, tutti i principi ecclesiastici di Germania avrebbero voluto dirsi pari al pontefice; il quale si sarebbe trovato ridotto a null'altro che figurare in qualche cerimonia, e disputare sulla consustanzialità e sul filioque.

Roma lo vide: vide come quest'esempio sarebbe funesto in tutto l'Occidente, e sostenne la lotta dei Lombardi, di Venezia, di Genova contro Federico. Persuaso egli che bisognava colpir la testa, si diresse sopra Roma, ma il popolo la difese, e salvò il poter temporale e con esso l'indipendenza del papa, e respinse Federico anche quando due altre volte vi si accostò.

Vinto sul terreno politico, invase il religioso, cercando sottrarre al papa il governo delle anime; cercò tirar dalla sua i frati mendicanti, carezzando il loro generale frate Elia, ma non riuscì: fomentò gli eretici, sol perchè avversi a Roma, e così propagavasi anche in Italia la negazione. Pure il popolo ascoltava al papa, suo rappresentante; e ai frati e ai preti, immediati suoi consiglieri e amici, e a sant'Ambrogio Sansedone, a santa Rosa da Viterbo, a sant'Antonio da Padova, al beato Giordano Forzaté, ad altri che Federico perseguitava con armi, legulei e carceri. Poi Dio mandò al superbo il flagello dei re, il sospetto; e credendosi tradito da amici e parenti, mandò al supplizio molti e lo stesso Pier dalle Vigne: e benchè fosse un de' più insigni talenti del medioevo, e durasse trentadue anni d'impero, nulla compì di grande, perchè, com'ebbe a dire il contemporaneo san Luigi di Francia, «fe guerra a Dio coi doni suoi»: e al suo sepolcro il popolo guardava tra meraviglia e spavento, riflettendo che sarebbe stato senza pari sulla terra «se avesse amato l'anima sua».

Sulla sua discendenza parve pesare l'anatema, trovandosi a guerra coi popoli e tra loro. Manfredi, bastardo di Federico, usurpato il regno di Sicilia, periva nella battaglia di Benevento; Corradino, ultimo di quel sangue, moriva sul patibolo di Napoli. Il nome di Federico II restò fra gli antesignani della riforma: nel secolo seguente un cronista svizzero ne invocava e prediceva la resurrezione per riformar la Chiesa; i primi apostoli del protestantismo si giovarono degli argomenti di lui e di Pier dalle Vigne. Un riscontro moderno possiamo trovargli in Enrico VIII, che al luogo di Pier dalle Vigne ebbe Tommaso Cromwel, e che, al par di Federigo, proclamava lo scisma da una parte, dall'altra bruciava gli eretici: ma l'opinione al tempo di Federico era volta tutt'altrimenti, e ne vennero infiniti mali al suo secolo e lo sterminio della sua famiglia. Il patetico fine di questa dee compatirsi [70] da tutti, può deplorarsi dagli avvocati della monarchia assoluta e del diritto divino dei re, ma i liberali dovran riconoscere che essa fu osteggiata per la libertà del popolo, per l'indipendenza delle varie nazioni, la quale sarebbe dovuta soccombere a un impero che avesse assorbito anche la potestà spirituale. Che i papi trascendessero lo credette fin il pio re san Luigi, ma furono stromenti della Provvidenza a un grande scopo, il progresso civile, e la costituzione delle nazionalità[70].

Spenta la famiglia di Svevia, al concilio ecumenico IV di Lione (1274) comparve un messo di Rodolfo d'Habsburg, povero conte dell'Argovia che era stato eletto imperatore, e che non avendo puntigli ereditarj, sentiva l'opportunità di terminar questo litigio, ripullulante da 70 anni. Giurò dunque adempier le promesse d'Ottone IV e Federico II; confermava al papa le antiche donazioni del paese da Radicofani a Ceprano, oltre l'Emilia, la Marca d'Ancona, la Pentapoli, l'eredità della contessa Matilde e l'alto dominio sulla Sicilia, la Corsica, la Sardegna, rinunziando alle terre disputate fra l'impero e la Chiesa; non accetterebbe tenute ecclesiastiche nè cariche nello Stato Romano se non assenziente il papa.

La Chiesa assicuravasi dunque l'indipendenza, e sugli imperatori riportava una vittoria ben più vistosa che l'altra volta, ma non più profittevole. Attesochè cessava l'importanza che i papi traevano dall'opporsi al dominio tedesco, e i Guelfi divennero un partito, non propugnatore dell'indipendenza nazionale, ma di certe idee o certe persone, e facilmente stromento de' prepotenti e degli scaltriti. Aggiungi che, nella contesa, le reciproche ragioni si eran portate al tribunale del pubblico, che ormai pretenderebbe giudicarne.

[75]

DISCORSO IV.
I PATARINI. GLI ORDINI MENDICANTI. LA SCOLASTICA.

Sebbene i nostri non s'ingolfassero in tante sottigliezze e sofisterie intorno alla divinità, alla natura sua, a' suoi attributi, quanto gli Orientali, più vicini a quell'India dove pajono naturali l'ascetismo, la contemplazione e l'idealità, pure, dall'impero greco, ove sempre vivea, trasmetteasi anche in Italia l'eresia, proveniente dall'antica Gnosi, e a guisa d'un vulcano dava fumo di tratto in tratto, come sentimento però, anzichè come idea pura. Claudio, di nazione spagnuolo, in Francia diresse la scuola istituita poco prima da Carlomagno, e predicava, e commentava le divine scritture, onde Lodovico il Pio lo propose a vescovo di Torino verso l'820. Quivi cominciò dal solito titolo di correggere abusi e superstizioni; e dicendo non dover le immagini usurpare il culto che a Dio solo è dovuto, le toglieva; spezzava le croci; non più feste di santi; non più lampade nelle funzioni, non pellegrinaggi a Roma; dal che passò anche a sostenere errori intorno alla divinità del Verbo. Il popolo suo ed i vicini gliene vollero male; Pasquale I lo disapprovò; molti scrissero sin dalle Gallie e dall'Irlanda, per difendere l'antica consuetudine, distinguendo il culto reso ai santi e agli angeli da quello alla divinità; adunatosi un sinodo, Claudio ricusò intervenirvi, chiamandolo congregationem asinorum. Morì del 830, e quanto riprovata dai Cattolici, tanto la sua memoria fu poi esaltata dai Protestanti, che, per la smania di darsi antenati, pretesero vedervi il fondatore della Chiesa valdese. Dalle confutazioni fattene allora non appare ch'egli negasse la presenza reale, o la transustanziazione, nè alcuno de' sacramenti, nè la primazia de' pontefici, nè asserisse la privata interpretazione delle sacre scritture, che sono i fondamenti del protestantismo.

A mezzo il secolo IX, Pietro vescovo di Padova scoprì nella sua diocesi una setta che ghiribizzava sulla Redenzione, e che solo cinquant'anni dopo [76] fu dissipata dal vescovo Gozzelino. Nel mille, a Ravenna un Vilgardo sosteneva che la verità sta nei detti di Orazio, Virgilio, Giovenale, e si hanno a preferire ai dogmi cattolici[71].

Eriberto da Cantù, operosissimo arcivescovo di Milano dal 1018 al 1045, seppe che alcuni eretici tenevano convegni nel castello di Monforte presso Asti, e citatone uno di nome Gerardo, l'esaminò sulla loro fede. La risposta fu: «Crediamo nel Padre, nel Figliuolo e nello Spirito Santo, che soli hanno la facoltà di sciogliere e legare; e il Padre è l'eterno, in cui e per cui tutte le cose sono; il Figliuolo è lo spirito dell'uomo, cui Dio amò; lo Spirito Santo è l'intelletto delle scienze divine, dal quale tutte le cose sono regolate: non riconosciamo il vescovo di Roma o verun altro, fuori d'un solo che quotidianamente visita i nostri fratelli per tutto il mondo, e gli illumina; e quand'è mandato da Dio, presso lui si trova il perdono dei peccati. Osserviamo la castità, benchè ammogliati; non mangiamo carne; digiuniamo strettamente; leggiamo ogni giorno la Bibbia; molto preghiamo, e i nostri maggiori s'alternano dì e notte nella orazione. I beni teniamo comuni; e il morir ne' tormenti ci è dolce per isfuggire i castighi eterni».

Di quest'eresia conobbe i pericoli l'arcivescovo, tanto che menò contro Asti i suoi vassalli, e presi per forza i miscredenti, nè potendo tutti indurli a ritrattarsi, non potè impedire che la nobiltà milanese li mandasse al fuoco, ch'essi subirono come un martirio. Ciò è riferito da Landolfo Seniore[72], specie di spirito forte, al quale, come dicemmo, non possiamo concedere troppa fede; e certamente è fantasia di lui questo discorso.

Nella lotta fra gl'imperatori e i pontefici, l'opposizione a questi o risolvevasi in eresia, o almeno scassinava l'autorità pontificia. Tra quelle feconde contese ridestosi, il popolo veniva ad accampare gl'interessi e i diritti proprj là dove prima non discuteano che baroni, capitani e re. Allora, nel punto di smarrirsi, vie meglio si pronunzia il carattere di quel medioevo, cui i gran savj credono poter dispensarsi dallo studiare col dichiararnelo immeritevole. E davvero questa nostra età, tutta regia, tutta sistemazione legale, tutta decreti e volontà generale, dove l'inchinarsi agli impiegati disavvezza dall'inchinarsi a Dio, mal può comprendere quella ove dominava la più grande e la più libera varietà; un'aristocrazia affissa a titoli storici, e una democrazia con tutti i problemi e gli sperimenti moderni; insofferente di dipendenza, eppur venerabonda del valore; passioni energiche ad intraprendere con audacia e compire con mezzi violenti, poi tranquillantisi in un convento, fieramente espiando i fieri delitti, o frapponendo un intervallo fra le tempeste della vita e il riposo eterno; un'ignoranza alimentata da spettacoli strani, da credenze bizzarre, eppure avida di sapere, entusiasta per tutto ciò che avesse nome scienza; e che non conoscendo se stessa, e bramando di trovare un'armonia fra le istituzioni sociali, sentiva bisogno di lasciarsi guidare, se non potea farsi illuminare. [77] Quindi affollarsi alle università per udire i gran sapienti; quindi accettare il miracolo come un fenomeno ordinario; rigide pratiche e penitenze esagerate, insieme con licenza gigantesca; pratiche empie e sordide, insieme con affettuose devozioni; mania del nuovo, con attaccamento al vecchio; ingenuità selvaggia di popoli nuovi, con raffinata corruzione di rimbambiti.

Il cristianesimo, dettando precetti morali purissimi in contraddizione all'indole e allo stato di quella società, e con istituzioni robuste ingiungendone l'osservanza, produceva quelle posizioni tanto strane, e que' contrasti tanto drammatici; ordine ed anarchia, santità e scostumatezza, carità e ferocia, nobilissimi concetti attuati selvaggiamente, come nelle crociate; insomma la barbarie temperata dal cristianesimo, e il cristianesimo contaminato dalla barbarie.

La moltitudine vivacchiava senza riflettervi; i più si sgomentavano o sbalordivano, ma altri ragionavano: e troppo scostansi dal vero coloro, i quali figurano che nessun dubbio siasi elevato contro la fede, dal perire del razionalismo antico fin al mostrarsi del moderno. Già nel xiii secolo, parlando di Federico II, trovammo il pensiero incredulo, che ripudia il fondamento stesso dei dogmi, e crede tutte le religioni sieno invenzioni umane, e l'una valga l'altra; donde l'indifferenza e il naturalismo, derivanti dalla scienza araba, ed espressi nel libro dei Tre Impostori.

Pietro Valdo, mercante di Lione, verso il 1180, venduti gli averi suoi, predicò che la Chiesa aveva traviato, e bisognava richiamarla alla semplicità evangelica, sbandendo il lusso del culto, la ricchezza de' preti, la potenza temporale de' papi. I suoi seguaci si dissero Poveri di Lione o Catari, cioè puri, e tanto erano persuasi di tener tutto quanto tiene la Chiesa cattolica[73], e di non uscire dal vero, che chiesero al pontefice la permissione di predicare[74]: ma bentosto negarono l'autorità del papa, e dietro a ciò altri dogmi cardinali, e pretesero libera anche ai laici la predicazione.

Si vorrebbe da loro derivassero i Valdesi[75], sopravissuti fino ad oggi, e dei quali avremo a dir molto in appresso: ma non che i loro laudatori, anche Bossuet vuole distinguerli affatto dai Catari, che inclinavano alle dottrine manichee.

Il problema che tormentò i pensatori d'ogni generazione, cioè «Come mai, sotto un Dio buono, tanti mali?» ne' primi tempi della Chiesa dai Manichei veniva sciolto trivialmente, supponendo due divinità, l'una autrice del bene, l'altra del male[76]. Vinti sin dai tempi di sant'Agostino, sopravvissero in Oriente, donde si propagarono all'Europa. Mescolandosi ai dogmi le leggende, favoleggiavasi esser Dio e il demonio coeterni, ed eguali in potenza. A Dio toccarono il cielo e gli angeli: al demonio la terra e le femmine. Attorno al muro, di cui Dio avea cinta la sua creazione, ronzava invidioso il demonio, e dopo centinaja di secoli accortosi d'una screpolatura [78] in quello, mise per essa il capo, e lusingò gli angeli ad affacciarvisi, ed osservare le bellezze delle donne. Ottenne l'intento, e a frotte gli angeli ne sbucarono, e dai loro abbracciamenti vennero gli uomini, mescolanza di bene divino e di male diabolico. Iddio sdegnato sentenziò che nessuno più di quegli angeli penetrerebbe nella cerchia celeste, ma vagherebbero sulla terra, abitando corpi d'uomini e di bruti, fin al giorno del giudizio. Se non che anime elette scopersero certe formole di preghiere, certi atti, per cui le anime ottenevano di recuperare il paradiso: formole e atti custoditi appunto dalla setta de' Catari.

Queste credenze vissero sempre in segreto, e massime nella Tracia e nella Bulgaria. Di là, di tempo in tempo inviavansi missionarj di qua dell'Alpi, i quali vivamente ritraevano la purezza della Chiesa orientale, derivante (diceano) senza interruzione dagli apostoli; e recavano libri apocrifi e fantastici, profezie e vangeli, riferendosi a un pontefice supremo, successore di quello che san Paolo aveva istituito in queste contrade; santo come tutti i suoi, aborrente dalle sensualità, dalle ricchezze, dalle cure mondane.

E appunto dalla Bulgaria un tal Marco venne come vescovo a presedere alla Chiesa di Lombardia, della Marca e di Toscana. Ma un altro papa sopraggiunto, di nome Niceta, riprovò l'ordine della Bulgaria, e Marco ricevette quello della Drungaria, cioè di Traù in Croazia[77]. A Milano distingueano i Catari vecchi, venuti di Dalmazia, Croazia e Bulgaria, cresciuti singolarmente quando il Barbarossa li favoriva per far dispetto a papa Alessandro; e i nuovi, usciti circa il 1176 di Francia, che potrebbero essere gli Albigesi.

Perocchè nella Linguadoca, fra il Rodano, la Garonna e il Mediterraneo, ove le città aveano conservato gli avanzi delle istituzioni romane, opportune a nuovi incrementi della civiltà, s'erano svolti e grazia d'immaginazione e gusto delle arti e dei piaceri dilicati: ivi s'intesero i primi versi nelle lingue nuove, cantati sulla mandòla dell'elegante trobadore, che errava pei castelli celebrando l'amore e le prodezze, o satireggiando magnati e preti. Insieme eransi propagati alcuni errori, e perchè nella città di Alby, primamente furono tolti a condannare, quegli eretici vennero intitolati Albigesi. Pare tenessero alle opinioni manichee, ma impugnata l'autorità per appellarsi alla ragione individuale, doveano necessariamente variare in infinito: e frà Stefano di Bellavilla racconta, che sette vescovi si adunarono in una cattedrale di Lombardia, per accordarsi sugli articoli di loro fede; ma non che riuscire, si separarono scomunicandosi reciprocamente. Un libro depositario di loro credenze non ebbero: in coloro che li confutano e negli storici che raccolsero dal vulgo, li troviamo imputati di colpe le più contraddittorie; or proclamando creatore Iddio, ora il demonio; ora facendo Iddio materiale, ora riducendo Cristo stesso a null'altro che ombra; [79] chi fa ammettere alla salute tutti i mortali, chi escludere le donne dall'eterna felicità; chi semplificare il culto, chi ordinare cento genuflessioni il giorno; chi licenziare alle voluttà più grossolane, chi riprovare persino il matrimonio[78].

Quanto alla Lombardia, tre sètte primeggiavano: Catari, Concorezj, Bagnolesi. I Catari (si dicevano anche Albanesi, vulgare corruzione probabilmente di Albigesi) venivano suddivisi in due parzialità; alla prima era vescovo Balansinanza veronese, all'altra Giovanni di Lugio bergamasco. I primi dicevano eterno il mondo; i patriarchi ministri del demonio; un angelo aver portato il corpo di Gesù Cristo nell'utero di Maria, senza che ella v'avesse parte; solo in apparenza egli esser nato, vissuto, morto, risorto. Gli altri tenevano che le creature fossero state formate quali dal buono, quali dal tristo principio, ma ab eterno; la creazione, la redenzione, i miracoli erano accaduti in un mondo diverso dal nostro; Dio non essere onnipotente, perchè nelle opere sue può venir contrariato dal principio a sè opposto; Cristo aver potuto peccare.

I Concorezj ammetteano Iddio aver creato gli angeli e gli elementi; ma l'angelo ribellato e divenuto demonio, formò l'uomo e quest'universo visibile; Cristo fu di natura angelica.

I Bagnolesi facevano le anime create da Dio prima del mondo, e allora avessero peccato; la beata Vergine esser un angelo; e Cristo avere bensì assunto corpo umano per patire, ma non glorificatolo, anzi depostolo all'ascensione. A tutti costoro opponevasi la sètta de' Passaggini o Circoncisi, e poichè i Catari repudiavano il vecchio Testamento, essi pretendeano avessero validità fin le leggi penali di Mosè: poichè quelli supponeano che Cristo si fosse incarnato solo in apparenza (docetismo), essi lo riduceano ad uomo, siccome gli antichi Ario ed Ebione.

Frà Ranerio Saccone, che, dopo essere stato diciasette anni coi Catari, li confutò e perseguitò, sicchè poteva averne buona conoscenza[79] li distingue affatto dai Valdesi, padri degli Albigesi. Sedici loro chiese annovera, delle quali sei in Lombardia; degli Albanesi, che stanno principalmente a Verona, e sono cinquecento; de' Concorezj, che fra tutta Lombardia sommeranno a un migliajo e mezzo; de' Bagnolesi, non più di ducento, sparsi a Mantova, a Milano, nella Romagnola; cento nella chiesa della Marca; aggiungansi altrettanti in quelle di Toscana e di Spoleto; un cencinquanta della chiesa di Francia, dimorano a Verona e per la Lombardia; ducento delle chiese di Tolosa, di Alby, di Carcassona; cinquanta di quelle di Latini e Greci a Costantinopoli; e cinquecento delle altre di Schiavonia, Romania, Filadelfia, Bulgaria. Questi quattromila (avverte l'autore) sono da intendere per uomini perfetti; giacchè di credenti ve n'ha senza numero.

Patarini furono detti da pati, perchè ostentavano penitenza; o dal pater, che era la loro preghiera[80], ed infiniti nomi indicavano le varie sètte, [80] de' Gazari, Arnaldisti, Giuseppini, Insavattati, Leonisti, Bulgari[81], Circoncisi, Publicani, Comisti[82], Credenti di Milano, di Bagnolo, di Concorezzo, Vanni, Fursci, Romulari, Carantani, e non so che altri.

Fra tante varietà come orientarsi? Sembra avessero comune la credenza nei due principj[83], ed al malvagio essere dovuto il mondo e il vecchio Testamento. Appoggiati all'Obedire oportet magis Deo quam hominibus, si emancipavano d'ogni autorità terrena; non papa, non vescovi, non canoni o decretali, non dominio dei preti; i magistrati non possono imporre il giuramento nè alcuna punizione corporale; la Chiesa romana è una congrega di malignanti; non si dà risurrezione della carne; è ridevole la distinzione de' peccati in veniali e mortali; sono prestigi del diavolo i miracoli; non devesi adorare la croce, simbolo d'obbrobrio. Repudiavano l'estrema unzione, il purgatorio, e di conseguenza i suffragi pei morti, l'intercessione dei santi e l'Ave Maria: il battesimo conferito agli infanti non vale; i sacramenti non sono istituiti da Cristo, ma inventati dall'uomo; la loro validità dipende dal merito dell'operante, e possono essere amministrati anche da laici. Pel matrimonio basta il consenso de' contraenti, senza uopo di benedizione, e il Saccone dice condannavano chi ne usasse per altro fine che per aver figliuoli; il che è conforme alla superbia del mostrarsi superiori all'umana debolezza, alla quale risponde l'altro fine di calmare la concupiscenza.

Del sacramento dell'Ordine teneva luogo l'elezione dei loro gerarchi, che erano disposti in quattro gradi; il vescovo, il figliuolo maggiore, il figliuolo minore e il diacono. Al vescovo spettava l'imporre le mani, frangere il pane, dir l'orazione: mancando lui, suppliva il figliuolo maggiore, se no il minore o il diacono: e in difetto, un semplice credente e fin anche una catara. I due figliuoli coadjuvavano al vescovo, visitavano i fedeli. In ogni città aveasi un diacono per ascoltare i peccati leggeri una volta al mese; il che dai Lombardi (i quali appare da ciò ritenessero la distinzione dei peccati veniali) dicevasi caregare servitium. Il vescovo, avanti morire, inaugurava a succedergli il figliuolo maggiore, imponendogli le mani.

Quotidianamente, allorchè sedevano a mangiar di brigata, il maggiore fra i convitati sorgeva, e recatosi in mano il pane e il calice, proferiva: Gratia Domini nostri Jesu Christi sit semper cum omnibus vobis; spezzava quel pane, lo distribuiva, e quest'era la loro eucaristia. Il giorno della cena del Signore imbandivano più solennemente; e il ministro, postosi ad un tavoliere, su cui erano una coppa di vino ed una focaccia d'azimo, diceva: «Preghiamo Dio ci perdoni i peccati per sua misericordia, ed esaudisca le nostre petizioni; e recitiamo sette volte il Pater noster a onore di Dio e della santissima Trinità». Tutti s'inginocchiano; orato, sorgono; esso benedice il pane e il vino, frange quello, dà mangiare e bere, [81] e così è compiuto il sacrifizio. Di presenza reale o transustanziazione, non parola.

Al confessore non rendevano minuto conto della loro coscienza, ma uno recitava a nome di tutti la formola: «Confessiamo innanzi a Dio ed a voi, che molto peccammo in opere, in parole, colla vista, col pensiero, ecc.». In casi più solenni il peccatore, presentandosi al cospetto di molti col vangelo sul petto, proferiva: «Eccomi avanti a Dio ed a voi, per confessarmi e chiamarmi in colpa de' peccati che ho fin ora commessi, e ricevere da voi la perdonanza». Era assolto col posargli il vangelo sopra il capo. Se un credente ricadesse, doveva confessarsene, e ricevere di nuovo l'imposizione delle mani in privato. I peccati leggeri confessavansi ogni mese, e si espiavano con astinenze.

Quest'imposizione, o consolamento, o battesimo di Spirito Santo, vero punto cardinale delle credenze e del culto loro, era necessario per rimettere il peccato mortale, e comunicare lo spirito consolatore; e fu per opporsi al consolamento de' Patarini che il concilio Lateranese IV ingiunse ai Cattolici di confessarsi almeno una volta l'anno.

I semplici credenti poteano menar tutta la vita senza astinenze o mortificazioni, e in piena licenza di costumi, nessun altro dovere religioso tenendo fuorchè il contribuire al mantenimento de' Consolati, riservandosi poi a cancellare ogni colpa in punto di morte col ricevere il consolamento. Perocchè, se uno dei perfetti imponga le mani a un moribondo, e proferisca l'orazione dominicale, quello va sicuro a salvazione.

Frà Ranerio aggiunge che, data la consolazione al moribondo, gli chiedevano: «Vuoi in cielo andare tra i martiri o tra i confessori?» Eleggeva i primi? lo facevano strangolare da un sicario a ciò stipendiato; eleggeva i confessori? più non gli davano bere nè mangiare.

Questa endura riscontrasi già prima in altri settarj, fondata sull'idea che una morte volontaria e violenta fosse meritoria: e poichè i risanati che, dopo ricevuto il consolamento, si fossero buttati al vizio, avrebbero dimostrato la poca virtù de' ministri di quel sacramento, forse voleasi evitarne il pericolo col sacrificare il consolato.

Vero è che siffatte atrocità gratuite sogliono apporsi dall'ignoranza o dalla malignità a tutte le congreghe secrete. E non c'è misfatto di cui non siansi tacciati i Patarini; essi ladri, essi usuraj, essi sovratutto carnali, adulteri e incestuosi in qualsiasi grado; con connubj promiscui e contro natura; non poter l'uomo peccare dall'umbilico in giù, perchè il peccato origina dal cuore. Finita l'assemblea spegneansi i lumi: e ciascuno abbracciava la prima donna che gli capitasse[84]. Ma come credere questa bacchica santificazione del libertinaggio, quando altrove, e ne' libri de' loro stessi nemici, troviamo che con penose astinenze reprimeano la carne, ribelle alla volontà ed opera del principio maligno; tre quaresime [82] l'anno, perpetua astinenza da carni e latte, replicati digiuni, iterate preghiere?

Il Ranerio suddetto narra come, per l'iniziazione, adunati i credenti, il vescovo interrogasse il neofito: «Vuoi tu renderti alla fede nostra?» Questo afferma, s'inginocchia, e pronuncia il Benedicite; al che il ministro ripete tre volte «Dio ti benedica», ad ogni volta più discostandosi dall'iniziato. Il quale soggiunge: «Pregate Iddio mi faccia buon cristiano»; e il ministro replica: «Sia pregato Iddio a farti buon cristiano».

L'interroga poi: «Ti rendi a Dio ed al vangelo?» — .

«Prometti non mangiar carne, ova, formaggio, nè d'altra cosa se non d'acqua o di legno? (cioè pesci e frutte)» — .

«Non mentirai? non giurerai? non ammazzerai, neppure vitelli? non farai libidini nel tuo corpo? non andrai scompagnato quando puoi avere compagna? non mangerai da solo potendo aver commensali? non ti coricherai senza brache e camicia? non lascerai la fede per timore di fuoco, d'acqua o d'altro supplizio?»

Risposto che avesse il neofito secondo ciascuna domanda, l'universa assemblea mettevasi ginocchione; il sacerdote posava sopra il novizio il volume dei vangeli, e leggeva l'inizio di quello di san Giovanni, poi lo baciava tre volte: così facevano tutti gli altri, che egualmente si davano l'uno all'altro la pace: indi veniva messo al collo dell'iniziato un fil di lana e di lino, ch'egli non doveva levarsi giammai[85].

Qui non v'è ombra delle sistematiche ribalderie, che trovansi in alcune professioni di fede, esibiteci da' loro antagonisti, secondo le quali gl'iniziati rinunziavano, non solo a tutte le sane credenze della religione, ma ad ogni costume, pudore, virtù. San Bernardo, implacabile indagatore di loro colpe, dice: «Non v'era cosa in apparenza più cristiana che i loro discorsi, nè più lontana da ogni taccia che i costumi loro». Il domenicano Sandrini, che potè a sua posta indagare gli archivj del Sant'Uffizio in Toscana, scrive: «Per quanto io abbia cercato ne' processi eretti da' nostri frati, non ho trovato che gli eretici Consolati in Toscana passassero ad atti enormi, e che si commettesse mai da loro, massime tra uomini e donne, eccesso di senso; onde, se i frati non si tacquero per modestia, il che non mi par credibile in uomini che abbadavano a tutto, i loro errori erano, più che di sensualità, d'intelletto».

Eppure contro tale asserzione starebbero alcuni processi, e recentemente fu pubblicato il formulario delle interrogazioni da farsi loro[86], donde appajono quali ne fossero le opinioni più consuete. Dice:

Ai Lionesi può domandarsi: se sia povero di Lione, o lombardo, o oltramontano — se la romana sia la Chiesa di Cristo o meretrice — se il papa è nel luogo del beato Pietro, e se può perdonare più che altr'uomo — se alcuno è buono, e può salvarsi seguendo la fede della Chiesa romana — se avvi [83] altri in terra in luogo di san Pietro che possa sciogliere e legare, e chi sia — se ogni uomo buono può consacrare anche non ordinato e da chi — se il cattivo sacerdote possa consacrare, e conferire gli altri sacramenti della Chiesa — se i bambini si salvano senza il battesimo della Chiesa romana — se la Chiesa di Dio venne meno dal tempo di san Silvestro, e chi la riparò — se papa Silvestro fu l'anticristo — chi successe a san Pietro nella potestà di sciogliere e legare — se i Poveri Valdesi, lombardi od oltramontani sieno la Chiesa di Dio — se la congregazione de' Catari sia la Chiesa di Cristo — se nella Chiesa di Dio vi debbano essere gli ordini e l'unzione. — Delle indulgenze e dei pellegrinaggi che fa la Chiesa, delle pitture, della croce, del viaggio in Terrasanta. — Delle contribuzioni della Chiesa romana, e del mangiar carni in quaresima. — Se san Lorenzo è santo. — Chi diede a te l'autorità di predicare? — Se è peccato mortale sposar una parente — se giova dir mille messe e dar mille lire pei defunti che sono in purgatorio — se alcuno, fabbricando a spese sue mille chiese, meriterebbe presso Dio — se alcuno peccherebbe mortalmente distruggendo tutte le chiese materiali, e bruciando tutte le croci. — Della giustizia, e chi t'insegna a dire che la giustizia è male. — Del giuramento per salvar la vita d'un uomo. — Se imparasti la credenza dei Poveri di Lione — se vuoi rinunziare, e stare ai precetti della Chiesa.

Le risposte possiam raccorle da un processo, formato il 1387, e tratto dalla stessa fonte, nel quale uno de' molti inquisiti confessa, che nell'assemblea de' Valdesi, insegnavasi che la loro setta è ottima, cattiva quella de' Cristiani, e che niuno si salva se non nella setta loro; che il sommo pontefice della loro setta, dimora nella Puglia, e che la Chiesa romana è Chiesa de' malignanti e congregazione di peccatori, dal tempo di san Silvestro in poi, e in lui essa fallì, sin quando essi la riformarono; che ogni giuramento è peccato mortale; che due sole vie ci sono, cioè paradiso e inferno; e purgatorio non è che in questa vita; limosine e pellegrinaggi non giovano ai defunti: Cristo non fu vero Dio, perchè Dio non può morire; chiunque della loro setta può consacrare il corpo di Cristo; non devono celebrarsi feste di santi, perchè nessuno entrò in paradiso, ma aspettano fino al giorno del giudizio, ecc.

Come avviene in quasi tutti i processi, vi fu un di cotesti ciarleri, che rinvesciano quel che sanno e che non sanno, e che, se pajono rivelare molti fatti, lasciano troppi dubbj sulla veracità di essi o sulla fedeltà della loro memoria. Qui fu un frate Antonio Galosna del Monte San Rafaele diocesi torinese, che, davanti al vescovo di Torino e a frate Antonio di Setto di Savigliano inquisitore, seppe enumerar tutte le moltissime persone che in varj paesi intervennero a quelle ch'ivi sono chiamate sinagoghe dei Patarini o Valdesi. Troppe sarebbero le interrogazioni e le objezioni che una processura odierna gli vorrebbe fare, ma noi dobbiamo tenerci alle sue risposte.

[84] Da tredici anni dunque era terziario francescano, vestitone l'abito davanti l'altare di san Francesco in Chiari. Più d'una volta fu in casa di Martino del Prete di Vico (Ponte Vico?); il quale stando presso il fuoco, gli disse che in un libro avea trovato che la prima grazia ed il primo sacramento fatto da Dio fu ed è il pane; e questo è superiore ai sacramenti tutti. Allestita la cena, prese un pane, se lo pose sulle ginocchia, poi ne staccò tre bocconi, e ne diede uno ad esso rivelante, uno a un altro frate Antonio, uno alla moglie sua; ne staccò due altri, e un lo diede alla fante, uno lo prese egli stesso, facendovi prima il segno della santa Croce: essi lo riceveano a ginocchio, poi tutti bevvero. Tra il cenare, Martino cominciò a dire che gli ecclesiastici di fuori sono Dei, dentro son lupi rapaci: e narrò come egli e un frate Jacobo Bech di Chiari avessero concertato di far quivi una cappella per le preghiere e discipline loro: e in fatti questo Jacobo stette con Martino tutto l'inverno facendo penitenza, e camminando scalzo nella neve. Altra volta invitò questo frate Antonio a far vita seco, e che dovean adorare il demonio (draconem), ch'è più forte d'ogni cosa, combatte contro Dio e padroneggia il mondo. E cenando, Martino tenevasi accanto un gatto (murelegium) grosso come un agnello, e gli dava mangiare, e diceva che era il miglior suo amico in questo mondo. Esso Martino gli diede la facoltà di ascoltare le confessioni, quanto qualsiasi sacerdote, e gliela rinnovava d'anno in anno.

Lo condussero poi al luogo delle Macchie due uomini, che gli toccarono il dito auricolare come sogliono i Valdesi, (le donne invece toccano due dita) e il menarono in una casa ov'erano diverse persone, e una gli pose in mano un pane di frumento ch'esso benedisse e distribuì ai presenti, che lo baciarono, poi mangiarono; indi una vecchia mescè da bere a tutti.

In Avigliana molti conobbe, e vi predicò un lavoratore di pelli di pecora (pergamenos), dicendo che la grazia del pane è superiore a ogni grazia, al battesimo, alla fede cattolica: mangiarono il pane, bevettero, poi spensero i lumi dicendo: «Ognuno faccia quello per cui è qui: chi avrà tenga».

A Focardo assistette a una sinagoga, ove si disse che Dio non è nell'eucaristia, ma sta in cielo; che la Chiesa romana è casa di menzogna, riprovata da Dio; che nè papa, nè sacerdote può assolvere se non sia della loro setta; che due sole vie ci ha, paradiso e inferno, e non il purgatorio, e che non si devono fare esequie pei morti. Non essere peccato il dare a interesse dieci fiorini per undici o dodici; che nessun sacramento ha efficacia, salvo il battesimo; gli altri furono inventati per avidità de' preti. I santi non devono venerarsi nè accendervi candele, giacchè Dio solo può giovare. Frate Antonio promise a quel Martino del Prete di credere tuttociò, e d'adorare per Iddio il dragone che combatte con Dio e cogli angeli, ed è più forte.

A Susa fu due volte nella sinagoga, con osti, panattieri, calzolaj, sartori, fabbricanti di candele di sego, e donne merciaje, fruttivendole, ostiere.

[85] Ben venticinque volte in un anno assistette alle adunanze in Andezzeno, e vi facea da portinaio, e quando la gente del paese erano iti a dormire, si accoglievano a mangiare e bere, poi spegnevano i lumi e «chi abbia tenga», e vi stavano fino a giorno. Bilia la Castagna dava a tutti una bevanda di brutta apparenza, e chi n'avesse bevuta di molto gonfiava: e se ne prendeva un centellino al principio dell'adunanza, ed era di tale efficacia, che, chi una volta n'avesse gustato, non potea più lasciar quella congrega: e correa fama che ella tenesse un grosso rospo sotto il letto, cui nutriva di carne, pane e cacio, per far questa bibita collo sterco di esso, mescolandovi capelli bruciati: e la facea nella notte avanti l'epifania, e la comunicava il primo di marzo. Altre donne sapean fare quell'ampolla. Da trenta persone, oltre le donne, s'accoglievano, ch'egli nomina, e a capo loro Lorenzo di Ormea, nelle cui mani esso rinnegò specialmente l'incarnazione di Cristo, la passione, risurrezione, ascensione, non potendo darsi che Iddio si umiliasse a tal segno: i sacramenti non giovare nulla alla salute. Ed esso Lorenzo diceva che Dio padre era creatore del cielo, ma della terra fu il dragone, signore di questo mondo, ov'è più potente di Dio.

Frate Antonio avea data la consolazione a moribondi della loro setta, fra cui Alassona la Lauriana di Andezzeno. Vittore di Andezzeno prese un boccone di pane, e le disse: «Credi che questo sia il più gran sacramento, e che questo pane è superiore all'eucaristia e agli altri sacramenti amministrati dai preti?» Essa rispose di sì, poi giunte le mani, prese con devozione, baciò e si pose in bocca quel pane. Essi le tirarono sopra il capo le coltri, in cui giaceva, e il domani fu trovata morta.

Ad altre congreghe assistette in Chieri, in casa di Berardo Rascherio, il quale diceva le stesse cose, e che Dio non nacque, nè morì, nè fu sepolto; che Maria non restò vergine; che, morto il corpo, è morta l'anima; poi seguivano il pane, la bevanda, il giuramento del secreto, e lo spegner dei lumi, e il mescolarsi per un'ora o due.

Da venti volte egli fu in Moncalieri, in casa di Elena scarpolina, ed erano moltissimi i settarj, ch'esso enumera, e che andavano a pochi per volta. Così a Candiolo, a Podrovarino, a Trana, a Sangano, ove Giacomo Doo ripeteva il pane essere il maggior sacramento, e doversi adorare il dragone ch'è più potente di Dio; purgatorio non v'è che in questo mondo; poi s'estinguevano i lumi e «chi ha tenga». A Giaveno, Ciaberto predicava le solite cose, e Cristo non essere stato concetto di Spirito Santo; e i precetti della Chiesa non legano le anime nè obbligano di colpa o pena qualunque, nè è peccato lavorare la festa, mangiar carni in vigilia o in sabato; Dio non può essere nel sacramento dell'altare; tutte le cose visibili sono create dal demonio; e così via. Supponeva che tutti quelli del vicino Balangero sono Valdesi e di siffatta credenza, come udì più volte rinfacciarglielo quei di Giaveno.

[86] Il mirabile è l'esattezza con cui frate Antonio nomina non solo, ma descrive le varie persone de' varj luoghi, e così di Coazze, di Piossasco, di Pinerolo, ove l'adunanza teneasi in casa d'una beghina Coleta, e il pane era distribuito da Pietro di Belmonte di Pragelato. Tutto ciò diceva d'aver confessato appena gli fu minacciata la tortura, e d'averlo poi spontaneamente riconfermato, benchè i suoi settarj gli largheggiassero promesse onde negasse; e lo sostenne anche sotto nuova tortura, consistente nel metterlo supino, e sederglisi sul petto. Ma condotto davanti al principe del paese, cioè del Delfinato, professò che quanto avea detto era stato per le minaccie dell'inquisitore. Poi tornò a confessar tutto, dicendo lo avea negato per istigazione del carceriere e d'un foriero, che diceangli sarebbe stato condannato a morte se confessava.

Simili cose di eresia e valdesia depose di Feruzasco (?), di Castagnole, di Scalenghe, di Pianezza, di Alpignano: e in Germagnano della Val di Lanzo, in Avigliana, in Paglirino (Paglieres?), in Villar Almese, in Bubiana (Bobbio Pellice?), Porte, Caburro (Cavour), Campiglione[87].

Fu poi, davanti all'arcivescovo di Torino e all'inquisitore Antonio di Setto di Savigliano, esaminato Giacomo Bech di Chieri; il quale dice essere secolare e ammogliato, non tenere veruna eresia, benchè abbia praticato con Martin del Prete e altri che poi intese colpevoli; nega aver fatto intelligenze con esso Martino, e da dieci anni non averne saputo più nulla. Interrogato su altre particolarità, or afferma or nega. Interrogato se crede che papa Urbano V coi cardinali, vescovi e preti sia la vera Chiesa cattolica; esservi il purgatorio; poter il sacerdote anche in peccato assolvere il penitente, e consacrare; che sia peccato l'usura; che deva adorarsi la croce, e venerare i santi, risponde di sì. Se fu in alcuna congrega di Valdesi, dice di no. Ma un mese dopo, senza tortura, confessa avere spergiurato; e che un trenta anni prima avea preso l'abito di quei che diconsi apostoli, o della povera vita, a Pontolino (?) nel contado di Firenze, dalla mano di Giovanni di Pronassio della riviera di Genova: e visse un anno coi fratelli, e ogni mattina davansi il bacio di pace, e faceano la confessione generale al modo loro, e baciavansi ogni volta che uscissero o rientrassero. Bisticciatosi, andò a stare a Perugia con altri che faceano la stessa vita, poi fu a Roma, tornò a Chieri, rivide Roma e Assisi, ed a Perugia trovò Pietro Garigh con dieci compagni, il quale gli narrò d'essere figlio di Dio, e costoro gli apostoli suoi. Egli non volle aggregarvisi: e anche a Chieri sollecitato da altri, rispose il farebbe se la loro dottrina fosse migliore di quella della Chiesa romana. Avendo giurato il secreto, essi gli esposero non aver Dio creato le cose visibili, bensì il diavolo, che n'era padrone, e che facea penitenza in questo mondo, finchè ritornerebbe in cielo: che l'uomo non consta d'anima razionale e di corpo, ma uno dei demonj peccatori si unisce col corpo, e lo anima; e quei che si salveranno riempiranno il vuoto degli angeli caduti. Il papa non è [87] papa, nè la romana è la vera Chiesa; bensì la loro, e il loro maggiore; non s'ha a credere ai dodici articoli, nè ai sette sacramenti; non adorare la croce; non è peccato lavorare la festa; non vale l'assoluzione se non da chi è della loro setta; non v'è purgatorio o inferno se non in questo mondo; nè altri diavoli che gli uomini e le donne di qui. La donna gravida ha in corpo un diavolo, nè può salvarsi se non entri nella loro setta, il che fanno solo a ventiquattro anni; e prima restano a governo del diavolo; e il battesimo nulla giova se si muoja avanti. Chi della loro setta non riceve il consolamento in morte, il suo spirito rientra in un corpo dell'uomo o della bestia che prima ritrovi, finchè in morte non riceva la benedizione dal loro padre spirituale. Questo padre spirituale benedice il pane, di cui tutti i credenti mangiano ogni giorno almeno una bricciola. Non è peccato usare colla madre, la sorella, la figlia, nè il dare a usura, nè lo spergiurare avanti al vescovo o all'inquisitore, anzi è peccato irremissibile il discoprire sè o i suoi maestri. Pellegrinaggi, elemosine, indulgenze nulla approdano ai morti. Il diavolo fece Adamo ed Eva; profeti, patriarchi e fino san Giovanni Battista sono dannati; Mosè fu il maggior peccatore che fosse mai, e la legge ricevette dal diavolo. Non s'ha a credere la resurrezione della carne, nè il giudizio.

Ed egli, davanti a Giocerino dei Balbi di Chieri, a Pietro Patrizio, e ad uno Schiavone giurò credere tutto ciò sopra un grosso volume che chiamavano Libro della Città di Dio, nel quale registravano chiunque facesse tale professione. Poi da esso Patrizio fu mandato in Schiavonia onde perfezionarsi in questa dottrina in un luogo che dicesi Boxena (Bosnia?), sottoposto a un signore che chiamasi Albano di Boxena, dipendente dal re di Rascia: e colà andarono molt'altri Chieresi ch'e' nomina.

Oltre questa setta, nel Delfinato conobbe di quelli che chiamansi Poveri di Lione, e credette quel ch'essi.

Aggiungeva che, quando essi eretici di Chieri vedono alcuno de' loro maestri, e siano in luogo appartato, genuflettono dicendo: «Benedite, perdonate a noi bon christian», e il maestro risponde «Vi perdono»: ma se siano in pubblico, fan solo riverenza col capo. Anche costui declinò una lunga lista di eretici. In che consista il consolamento degl'infermi non sa, bensì che, prima di darlo, si fanno promettere dal malato, se campi, di non mentire mai, non mangiare che cibi quaresimali, non toccare mai persona d'altro sesso, morire piuttosto chè negare la fede, portare guanti per non toccare nessuno nè essere toccati. Dopo ricevuta la consolazione, il maestro gli domanda: «Vuoi essere martire o confessore?» Se dice martire mettongli l'origliere sopra la bocca, e vel tengono buona pezza mentre recitano certe preghiere, e se rimane soffocato lo dichiarano martire; se campa, chiamasi perfetto, ed ha autorità di dare ad altri la consolazione.

Se poi dica volere essere confessore, dura tre giorni dopo la consolazione [88] senza cibo o bevanda, e osserva le predette regole, ed ha la stessa autorità: e viva o muoja, lascia tutti i suoi beni a quel che gli diede il consolamento. Il maestro che chiamano perfetto non deve peccare mai, nè toccare cosa immonda, lo perchè portano sempre guanti, e usano vasi apposta per mangiare e bere, lavati nove volte.

E scaltriva l'inquisitore che, negli esami di quei che chiamansi Gazari, non interroghi direttamente «Se' tu bene de' Gazari?» Il perfetto gli risponderebbe sì, poi null'altro più. Onde bisogna prima esortarlo, pel Dio in cui crede, a narrare la sua vita distintamente, e allora egli racconterà tutto senza mentire.

Tutto ciò egli ratificava ripetutamente e ad intervalli, senza minaccia di tormenti, protestando volere tornare alla verità. E allora pare gli fosse perdonato, ma postille in margine accennano ch'egli fu bruciato, e così Giovanni Bergezio e Martino del Prete.

La provenienza di questo processo rimuove i dubbj che suggerirebbe la critica sulla sua autenticità, e può rivelarci la parte vulgare di quella setta.

A più risolute opinioni trascorreano taluni, denominati La sètta dello spirito di libertà, che negavano eterna la dannazione; le anime purgarsi in questa vita, poi nell'altra, se alcuna macchia vi restasse, fino alla totale soddisfazione: Dio non poter venire offeso dalle creature, ma i peccati essere una purgazione dell'anima, inflitta da Dio: e peccati e vizj essere necessarj alla salute dell'anima, come la grazia, le virtù e le opere buone: nulla serve il libero arbitrio: le penitenze non sono necessarie nè utili se non ai perfetti, e così i sacramenti, eccetto il corpo del Signore; demonj sono i vizj e le passioni che ci affliggono; l'anima purgata ha presente Iddio, ne' diletti spirituali o carnali come nelle virtù e nelle buone azioni; la passione di Cristo non fu necessaria per evitare la dannazione, ma per provocare al bene.

Ma la colpa, onde più concordemente sono rinfacciati i Patarini, è l'ostinazione. Fra strazj e tormenti, al cospetto di morte obbrobriosa, non che convertirsi, più s'induravano, protestavansi innocenti, spiravano cantando lodi al Signore, colla speranza di presto congiungersi nel suo abbraccio. In Lombardia serbarono memoria d'una fanciulla, di cui la bellezza e l'età mettevano in tutti compassione e desiderio di salvarla. Perciò vollero assistesse, mentre padre, madre, fratelli venivano consunti dalle fiamme, sperando si sarebbe pel terrore convertita: ma no; poi ch'ebbe durato alquanto lo spettacolo, si svincola dalle braccia de' suoi manigoldi, e corre a precipitarsi nelle fiamme, e confondere l'ultimo suo coll'anelito de' parenti.

Questo ci è raccontato dal cremonese Moneta, il quale era patarino, e sentendo predicare in Bologna Reginaldo d'Orleans, si ravvide, ed entrato nell'Ordine prima della morte di san Domenico e fatto inquisitore della fede a Milano il 1220, tamquam leo rugiens si scagliò contro le eresie, [89] e scrisse una Summa theologica[88] contro i Catari e Valdesi, che dice nati a' suoi giorni.

Oltre scassinare i dogmi inerenti all'unità del sacerdozio per costituire società religiose speciali, gli eretici facevano guerra accannita alla Chiesa esterna, e pur troppo trovavano appiglio nello scompigliato vivere del clero, di cui e amici e avversarj si accordano ad attestare la depravazione.

Agli errori la Chiesa oppose da principio i rimedj che a lei convengono; riformare i suoi, ammonire o scomunicare i dissenzienti, crescere devozione alle cose che da quelli erano conculcate. La compagnia de' Laudesi, che s'univano per cantar pie canzoni, dalla Toscana erasi propagata nella Lombardia. Giovanni da Schio, il famoso paciere, instituì il saluto del Sia lodato Gesù Cristo. La venerazione verso il Sacramento fu cresciuta da miracoli che allora si narrarono: Urbano IV estese a tutta la Chiesa la festa del Corpus Domini, e Tommaso d'Aquino ne compose la magnifica uffiziatura.

A Maria poi si tributò l'entusiasmo, col quale i cavalieri veneravano le donne loro, e il dogma dell'immacolata sua concezione fu sostenuto fervorosamente dai Francescani; ad onore di lei si formò un salterio, sulla foggia del davidico; di lei parlarono san Pier Damiani, san Bernardo, san Bonaventura, con un ardore che rimembra quel dello sposo de' cantici; e fu una gara di circondarla colla poesia del perdono e con fiori di tenerezza. L'Ave Maria si rese generale verso il 1240[89]. San Domenico introdusse, o piuttosto propagò il rosario; divozione cui fu poi connessa la ricordanza della vittoria di Lèpanto (1573), quella in cui fu decisa la superiorità dei Cristiani sopra i Turchi, nell'ora appunto che in tutto l'orbe cattolico recitavasi quella semplice formola di saluto, di congratulazione, di condoglianza, di preghiera. Maria ispira le opere d'arte d'allora: il suo scapolare, propagato dai monaci del Carmelo, orna il petto di tutti come una divisa di combattenti contro le passioni; ai tre ordini del Carmelo, dei Serviti, della Mercede sotto gli auspizj di lei, quello s'aggiunge dei Gaudenti, da Linguadoca passati in Italia, ove singolarmente si resero memorabili, e che continuavano a vivere nel mondo e nel matrimonio, «solo imposto (come scrive frà Guittone) odiare e fuggire il vizio, desiare e seguir la virtù, ed alcuna soave, soavissima regola, data in segno d'onestà, in remissione d'ogni peccato, ed in premio d'eterna vita».

Contro le eresie la Chiesa drizzò pure la santità e lo zelo dei frati. Questi, anche fra i disordini correnti, aveano sempre mantenuto fervore più operoso e rigidezza più esemplare. Di nuovi ne furono in quel tempo istituiti; gli austeri Certosini, i mistici Carmelitani, i pietosi Trinitarj del riscatto; gli operosi Cistercensi, opera di san Bernardo, introdussero o migliorarono la coltivazione in luoghi malsani; gli Umiliati arricchironsi coll'industria dei panni; aggiungansi i Servi di Maria in Toscana, i Silvestrini di Monte Fano nelle Marche, ed altre società, le quali eccitano [90] le lepidezze e la compassione di un secolo e di giornali, che ammirano Federico II, Manfredi, Salinguerra, gli Estensi, i Da Camino ed altri ammazza uomini.

E già in tanti rami erasi esteso il viver monastico secondo la varietà degli intenti e dei mezzi, che Innocenzo III decretò non se ne introducessero altri; eppure sotto di lui nacquero due Ordini efficacissimi. In visione parvegli la basilica di San Giovanni Laterano crollasse, e la sorreggessero due persone, allora a lui ignote, e in cui poi riconobbe Francesco e Domenico. Il figlio di un agiato negoziante d'Assisi, condotto in Francia da suo padre, s'addestrò sì bene in quella lingua, che ne trasse il sopranome di Francesco. Balioso, vivace, compagnone, poeta, a venticinque anni sentesi chiamato da Dio, e rinunziato a tutto, fin alla famiglia, fa adottarsi da un pitocco, e non serbando che una tunica col cappuccio e una corda a cintura, nel mondo inebriato di ricchezze e di piaceri, esce a predicare la povertà; la pace nel mondo dell'ira, delle superbie, delle guerre; e con undici compagni si sottomette a così rigorosa abnegazione, da non considerare suo nè l'abito tampoco e i libri. Così fonda l'ordine de' Frati Minori, e il suo statuto comincia: «La regola de' Frati Minori è d'osservare il vangelo, vivendo in obbedienza senza nulla di proprio, e in castità». Chi v'entrasse dovea vendere ogni aver suo a profitto de' poveri, e subire un anno di pruove rigorose, prima di proferire i voti. Tutti essendo frati minori, gareggiavano d'umiltà, e lavavansi i piedi uno all'altro; i superiori chiamavansi servi; chi sa un mestiere può esercitarlo per guadagnare il vitto; chi no, vada alla busca, ma non di denaro. Neppur l'Ordine può possedere di là dal puro necessario. Prendano in ispecial cura gli esuli, i mendicanti, i lebbrosi. Chi malato s'impazienta o sollecita medicine, è indegno del titolo di frate, perchè mostra maggior cura del corpo che dell'anima. Non vedano femmine, e a queste predichino sempre la penitenza: che se alcuno pecca in esse, venga tosto espulso. In viaggio, null'altro che l'abito, nè tampoco il bastone; e se diano ne' ladri, si lascino spogliare. Non predichi chi non vi sia autorizzato; e prometta insegnare la dottrina della Chiesa senza formole di scienza profana, senza ambire suffragi. Un generale eletto da tutti i membri risiede a Roma, assistito da un consiglio, e da esso dipendono i provinciali e i priori. Ai capitoli generali prendono parte i capi di ciascuna provincia, i priori e i deputati dei monaci di ciascun convento. Ogni comunità tiene capitolo una volta l'anno: i superiori d'Italia si congregano ogni anno, e ogni tre quelli di là dall'Alpe e dal mare.

Allorquando Francesco si presentò al papa chiedendo riconoscesse il suo Ordine, cioè gli concedesse di pregare e mendicare e non posseder nulla, Innocenzo III esitava, parendogli che questi propositi trascendessero le forze umane; infine approvò solennemente questi Mendicanti (1215). Membri d'una repubblica che avea per sede il mondo, per cittadino chiunque ne adottava [91] le rigide virtù: scalzi, col vestire dei poveri d'allora, coll'idioma dei vulghi, diffondeansi per tutto. Avendo per unica retorica una fede inconcussa e universale, e accettando tutto ciò che servisse all'edificazione, andavano a diffondere la pace, e spandere la rugiada della Grazia sovra le moltitudini, in prediche incolte, ma animatissime, e dirette a un uditorio che non vi portava la critica, ma la convinzione; al popolo parlando come esso vuol gli si parli, con forza, con drammatica, fino con vulgarità, destando al pianto e al riso col ridere e piangere essi medesimi; affrontando e provocando sia i tormenti sia le beffe. Egli stesso, il santo fondatore, se mai talvolta rompesse il digiuno, volea lo strascinassero per le vie, battendolo, e gridando al ghiottone. A Natale predicava in una vera stalla, e nel pronunziare Betlemme belava come un pecorino; e nel nominare Gesù leccavasi le labbra, quasi ne sentisse dolcezza. Poi alla sera di sua vita, portava le stigmate delle piaghe di Cristo, impresse sul proprio corpo.

Rinfrescatore mirabile del vangelo, a' suoi che inviava a predicare, diceva: «In nome del Signore camminate due a due con umiltà e modestia; in particolare con esattissimo silenzio dal mattino fino a terza, pregando Dio nel vostro cuore. Fra voi non parole oziose e inutili: ed anche per via comportatevi umili e modesti, come foste in un eremo o nella vostra cella; imperocchè in qualunque parte siamo, è sempre con noi la nostra cella, che è il corpo nostro fratello, essendo l'anima nostra l'eremita che dimora in questa cella per pregare e pensare a Dio. Perciò se l'anima non istà in riposo in questa cella, la cella esteriore nulla serve ai religiosi. Sia tale la vostra condotta in mezzo alla gente, che qualunque vi vedrà o ascolterà, lodi il celeste Padre. Annunziate la pace a tutti; ma abbiatela voi nel cuore non men che nella bocca, anzi più. Non porgete occasione di collera o di scandalo, ma colla vostra mansuetudine fate che ognuno inclini alla bontà, alla pace, alla concordia. Noi siamo chiamati per guarire i feriti e richiamare gli erranti; e molti vi sembreranno figli del diavolo, che saranno un giorno discepoli di Gesù».

E come i suoi frati, egli correva dovunque intendesse che v'era una bizza, una discordia, e cominciava: La pace sia con voi, e predicava l'amore, e intonava canzoni. All'amor suo non bastando l'abbracciare tutti gli uomini, lo estende ad ogni creatura, e vaga per le foreste cantando, e invitando gli uccelli, fratelli suoi, a celebrare il Creatore; prega le rondini, sue sorelle, a cessare il pigolio mentre predica; e sorelle son le mosche, e sorella la cenere. Una cicala canta? gli è stimolo a lodare Iddio; le formiche rimprovera di mostrarsi troppo sollecite dell'avvenire; storna dalla strada il verme che può esservi calpestato; porta miele alle api nell'inverno; campa le lepri e le tortore inseguite; vende il mantello per riscattare una pecora dal macellajo; il giorno di Natale voleva si porgesse miglior nutrimento all'asino e al bue; anche biade, vigne, sassi, selve, quanto hanno di [92] bello i campi e gli elementi songli stimoli, ad amar Dio[90]; nell'orticello d'ogni convento de' suoi doveva riservarsi un'ajuola a' più bei fiori, per lodarne il Signore.

L'esuberanza di quest'affetto espandea Francesco in poesie, originali come lui stesso, ove niuna reminiscenza d'antichità, ma viva effusione di cuore, impeti d'amore illimitato: fu de' primi ad usar nelle laudi la lingua vulgare; e frà Pacifico, suo allievo, meritò la laurea poetica da Federico II. Così il padre serafico seguitò, finchè a quarantaquattro anni morì nel 1226. Per la sua Porziuncola aveva invocata dal cielo e dal pontefice un'indulgenza, a lucrar la quale non fosse mestieri di veruna offerta; e quando, al secondo giorno d'agosto, essa è proclamata nell'ora solenne dell'apparizione di Maria, una folla innumerevole accorre tuttora da quei fortunati contorni ad implorare l'effusione della grazia gratuita.

Quattro anni dopo l'approvazione, Francesco radunò il primo capitolo, detto delle stuoje, perchè tenuto in campo aperto sotto trabacche, ove cinquemila frati della sola Italia, e cinquecento novizj si presentarono; poi crebbero tanto, che, malgrado mezz'Europa perduta per la Riforma, dicono alla rivoluzione francese sommassero a cenquindicimila, in settemila conventi, suddivisi fra molte riforme.

L'altro apparso in visione a Innocenzo III era Domenico Gusman, illustre castigliano, assetato di amore e di patimenti, che introdusse l'Ordine de' Predicatori (1216), obbligato esso pure alla povertà, con cariche tutte elettive, e destinato specialmente alla scienza divina e all'apostolato. Mentre i Frati Minori preferivano la campagna e situazioni meravigliosamente belle, i Domenicani, diffusi rapidamente, nelle primarie città d'Italia ebbero grandiosi monasteri e templi magnifici[91], prodigi dell'arte.

Onorio III diede poi ai Domenicani un'esistenza canonica, istituendo il maestro del sacro palazzo, gran dignitario della Corte, mentre è il ministro della giustizia papale per l'universo, da cui vengono a dipendere tutti quelli istituiti in ciascuna diocesi, in quanto non vi si oppongano gli anteriori diritti de' singoli vescovi. E la giustizia e l'istruzione erano gli attributi de' Domenicani che non doveano tanto tirar nella chiesa neofiti, come poi i Gesuiti, quanto conservare chi v'era. Essi diedero alla predicazione una forma più animata e dotta; tolsero al clero secolare il privilegio dell'alto insegnamento e la direzione delle coscienze; rappresentavano la regola stretta, il formalismo della lettera, la rigida repressione. I Francescani invece tendeano al misticismo, alla libera interpretazione del testo sacro, a dirigere gli spiriti verso l'ideale, fuor delle forme prestabilite.

Non sono dunque più i monaci ascetici, stiliti, anacoreti dell'Asia e dell'Africa; non gli studiosi e faticanti di san Benedetto o di san Bernardo; ma poveri mendicanti, viepiù potenti sul popolo, il quale venera un'indipendenza acquistata con sacrifizj volontarj: onde li consultava, divideva [93] con essi il pane, dalla Providenza compartito; e in quegli atti di astinenza e di abnegazione riconoscea l'amore, e nell'amore la virtù. Diffusi pel mondo, nella reggia come nella capanna, senza domicilio fisso, seminando dietro di sè la parola che salva, alle eresie oppongono la predica, l'associazione; inoltre l'esempio del massimo disinteresse e della maggior costumatezza. Deperisce il sentimento dell'autorità? e i frati rinnegano la propria per far la volontà d'un altro, ch'esso pure dipende da un superiore, e questo da un altro, finchè s'arriva al pontefice, da cui tutto e tutti rilevano. Quel rinunziare volontariamente al creato per amor del Creatore, esprimeva non solo lo spogliamento, ma l'amore dello spogliamento. Così ridotto, l'uomo non è più esposto a quella comune tentazione, per la quale, allorchè abbia detto «Ciò è mio», facilmente passa a dire «Ciò son io, è l'esser mio, ingrandito e nobilitato»; non trovasi grande per nascita, per eredità o posti, ma per la sola grandezza vera dell'uomo, quella dell'anima. Oggi che, in un'esistenza laboriosa, avvelenata dalle cure materiali, non possiam intendere quella guerra dichiarata ai sensi, si ripete che il denaro produce indipendenza. Ebbene, questi frati la godeano perchè, non avendo cosa da perdere, sfidavano i potenti o i rapaci a far loro paura.

Non incardinati a una chiesa come i preti, non appartenenti a una provincia ad un reame, assumevano tutti i pesi del clero senza i vantaggi; anzi, coll'umiltà e povertà correggevano di quello l'orgoglio, che era uno de' più forti appigli per gli eretici. Poveri, penitenti, assistendo al popolo nelle tribolazioni e benedicendone il tripudio, contrastando ai tiranni, specchi di bontà e di dottrina, ecco perchè gli Ordini dei Minori e de' Predicatori tanto poterono, e divennero il più valido sostegno della Santa Sede; e per ciò li troveremo i più osteggiati dagli avversarj della Chiesa.

A chi nella storia riconosce qualcosa di più nobile e liberale che non l'accidente o la fatalità, non isfuggirà come quest'istituzione, tanto favorevole al potere dei papi, e che forse ritardò di tre secoli il distacco luterano, al pari d'altre istituzioni a pro del pontificato, venne da persone estranie e private, non già dai papi, non da ambizione nè calcolo loro, siccome sogliono gli ordimenti che i re e i ministri fanno per ampliarsi in potenza.

E subito destarono meraviglia e simpatia nei migliori[92], e in folla attrassero pii ed illustri proseliti, professori, architetti, medici, filosofi, tra i quali il maggior mistico san Bonaventura, il maggior ragionatore san Tommaso, il ravvivator delle scienze sperimentali Ruggero Bacone, e cardinali, e principi, e re, e regine. Ciò chiuda la bocca al frivolo beffardo, provando ch'erano in armonia col tempo, soddisfaceano a bisogni veri delle anime, e profittavano alla società quale allora si trovava. E i chiostri erano allora l'asilo de' maggiori filosofi, i quali, ammiratori di Dio mentre il mondo dilagava di sangue, passavano la vita nella contemplazione del bello, nella ricerca del vero, nella pratica del bene; e dai chiostri uscirono [94] i più vigorosi campioni della verità, e ampliatori della civiltà, quali furono i teologi.

Nella teologia dogmatica bisogna distinguere l'elemento immutabile e sostanziale, cioè il vero rivelato e quel che ad esso s'attiene: e l'elemento mutabile, quasi accessorio, che è lo sviluppo scientifico d'esso vero rivelato, la forma di esso. Il primo nè scema nè progredisce; il secondo varia col tempo e cogli uomini. Quello è oggi qual fu al tempo di Cristo e degli apostoli, coi quali fu compito e suggellato; l'altro si modifica e si modificherà sotto l'azione permanente dello Spirito Santo, e per cagioni diverse. In quello il semplice credente e il più profondo teologo sono eguali; per l'altro differiscono grandemente. Questo sviluppo scientifico ebbe due periodi ben distinti eppur connessi: quello dei Santi Padri e quello degli scolastici.

Il medioevo avrebbe potuto produr teologi sì grandi come i primi secoli? era assai tener viva la face della civiltà e delle credenze fra il turbine della barbarie. I teologi studiavano nella Scrittura e ne' Padri, con poca invenzione e poca filosofia, contentandosi di compilare o copiare. Pur v'ebbe taluni che tentarono qualche sistema; poi nel XI secolo ricompajono i grandi teologi. Tal fu Lanfranco di Pavia (1005-89), divenuto abate di Bec in Normandia, poi arcivescovo di Cantorbery, che, dagli affari pubblici non distolto, risuscitò l'arte critica, applicandola ai testi che l'eretico Berengario aveva falsati per negare la presenza reale nell'eucaristia; riprovando la sottigliezza dei tropi e dei sillogismi e l'inane fallacia della dialettica di Aristotele, chiama sapiente chi conosce e glorifica Dio, e pienezza della dottrina l'intenderne il mistero e la sapienza.

Discepolo suo e successore, Anselmo d'Aosta (1033-1109), con dolce calma e fermezza, intelletto elevato, cuor puro, carattere amabile, per sagacia e pietà fu chiamato un secondo Agostino, e sulle traccie di questo diede dimostrazioni ancora venerate sopra l'essenza divina, la trinità, l'incarnazione, la creazione, l'accordo del libero arbitrio colla Grazia. Mettendo in iscena un ignorante che cerca la verità colla scorta dell'intelletto puro, vuol mostrare che la ragione non prova, ma comprova le verità rivelate; e protestando insieme che la fede non cerca comprendere, ma pur movendo dal credere, tende all'intelligenza, chiaramente determina i confini della filosofia e della teologia.

Lo stolto che dice Non v'è Dio, bisogna abbia l'idea d'un essere a tutti superiore, anche quando afferma che non esiste. Ma l'affermare che non esista quello che si chiarisce, è assurdo; è poi contradditorio ne' termini, atteso che quest'ente, presupposto superiore a tutti, resterebbe inferiore a un altro, che a tutte le perfezioni congiungesse l'esistenza. Voi riconoscete l'argomento svolto poi da Cartesio; sicchè un monaco del XI secolo trovava, e preciso esponeva la prova più compiuta e soddisfacente dell'esistenza di [95] Dio, cioè elevava la coscienza fino alla nozione dell'essere, e sopra un concetto della ragione edificava una teologia dottrinale.

Altri si volgeano ad enucleare credenze particolari di mezzo alla generale, seguendo lo spirito di controversia introdotto dalla scolastica.

Da Boezio, ultimo filosofo latino, era stata resuscitata la stretta dialettica, che l'italioto Zenone d'Elea aveva insegnata. Di essa erasi giovata assai la sapienza greca; ma se si restringe a pure forme e categorie, impaccia la ragione mentre intende soccorrerla. Entrata poi e divenuta dominante nelle scuole d'Occidente, ne prese il nome di scolastica, che esprime ad un tempo e l'uso il più poderoso, e il più inane abuso che siasi fatto mai dell'umano raziocinio.

Questa geometria della ragione mette innanzi, precisamente formolato, il suo teorema, da principj inconcussi deduce illazioni con raziocinio serrato, senza abbellimenti nè svaghi, valendosi solo di parole chiaramente definite, eliminando le idee vaghe e i termini equivoci, e procedendo sempre dal noto all'ignoto. Tali principj non potea darli che la rivelazione. Movendo da questi, la scolastica limitavasi a difendere e chiarire dogmi parziali, a vedere in che modo accettar la rivelazione e conoscere il sentimento comune; esercitandosi sulle due nozioni fondamentali del creatore e della creatura, per trovarne e chiarirne la relazione, ch'è la fonte d'ogni morale, e conciliare la fede rivelata colla ragion pura e coi fenomeni della vita esterna; sospendendo ogni disputa non appena la Chiesa avesse sentenziato.

Ma mentre sant'Anselmo sosteneva doversi credere ai misteri prima di analizzarli colla ragione, Roscelino prendeva le mosse da un ordine puramente logico, e distruggeva i misteri della fede col pretesto di spiegarli. Era Aristotele che prevaleva a sant'Agostino; e la scolastica più non si propose soltanto di rendersi conto dei dogmi riguardati come incontestabili, di elevarsi dalla fede all'intelligenza, come ne' migliori tempi; ma prendea le mosse dall'ordine logico e psicologico, dalla coscienza, da una specie d'esperienza, non impugnando i dogmi, anzi cercando metterli in armonia colle teoriche razionali, pure non prendendoli per base e termine delle sue speculazioni, e formando una filosofia umana.

La Chiesa non vi si era opposta; solo avvertì che v'ha dei limiti insuperabili, e vigilava che l'orgoglio non urtasse il dogma. Alcuni vollero trascenderli, e ne nacquero gli errori de' Nominalisti e de' Realisti, lo scetticismo d'Abelardo, il panteismo di Amalrico di Chartres. La Chiesa condannò questi abusi della dialettica, eppure lasciolla applicare alla teologia.

Allora rinacquero gli abusi della sofistica greca. Il minuzioso speculare, disgiunto dall'applicazione, dalla sperienza, dall'erudizione, da ogni bellezza; il sillogizzare non tanto per raggiungere la verità, quanto per uniformarsi a certe regole, o per avviluppare gli avversarj; il puntigliarsi in frivole distinzioni fin di sillabe, congiunzioni, preposizioni, e innestare [96] alla logica quanto di vano comprendevano la grammatica e la geometria, colla presunzione di dimostrare ogni cosa, perfino i contrarj; insomma l'assumere la disputa per iscopo, non per mezzo, e confondere il metodo colla sostanza, faceva invanire e delirare nella presunta onnipotenza della dialettica, e separava la teologia speculativa dalla pratica, l'argomentatrice dalla mistica. La Bibbia diveniva un arringo di disputazioni, secondo che gli uni vi rintracciavano il senso letterale, altri l'allegorico, altri il mistico. Che cosa faceva, e dove stava Iddio prima di creare? se nulla avesse creato, qual sarebbe la sua prescienza? v'ha tempo in cui egli conosca più cose che in un altro? potè egli fare le cose in altro modo da quel che le fece? e che non sia ciò che è? e, per esempio, che una meretrice sia vergine? Iddio, incarnandosi, si unì all'individuo od alla specie? il corpo di Cristo alla destra del Padre sta seduto o in piedi? e le vesti con cui comparve agli apostoli dopo risorto erano realtà od apparenza? e le assunse con sè in cielo? e ve le tiene ancora? e nell'eucaristia sta nudo o vestito? che divengono le specie eucaristiche dopo mangiate? in qual maniera s'operò l'incarnazione nel seno di Maria? san Paolo fu rapito al terzo cielo nel corpo o senza? il pontefice potrebbe cassare i decreti degli apostoli, e formare un articolo di fede? o abolire il purgatorio? è semplice mortale, o una specie di divinità?

Ricondurre le quistioni teologiche al punto ove i Padri le aveano lasciate fu l'assunto di Pietro Lombardo (1160), povero fanciullo novarese, divenuto vescovo di Parigi. Nei quattro libri Sententiarum raccolse in un ordine alquanto arbitrario le proposizioni de' santi Padri intorno ai dogmi, sicchè non rimanesse che d'applicarle nelle varie quistioni. Ma poichè delle difficoltà esposte non porgeva la soluzione, apriva campo a troppe sottigliezze, per quanto egli richiamasse continuo verso gli studj positivi e i monumenti della prisca filosofia cristiana. Inoltre dava egli stesso in certe speculazioni che noi possiamo dire curiose: «Iddio padre generando suo figlio, generò se medesimo o un altro Dio? generò di necessità o di volontà? è Dio spontaneamente o necessariamente? Gesù Cristo potea nascere d'una specie d'uomini differente dalla stirpe d'Adamo? potea prendere il sesso femminile?» Quando la logica gli paresse condurre a conclusioni diverse dalla fede, conchiudeva: «Su questo punto amo meglio udire altri, che non parlare io stesso». Fu intitolato il Maestro delle sentenze, divenne testo delle scuole, ebbe replicate edizioni ne' primi tempi della stampa, e forse quattrocento commentatori, e fin a mezzo il secolo passato l'università di Parigi ne celebrava l'anniversario con esequie assistite da tutti i bacellieri licenziati.

Censurare la scolastica per gli abusi che ne derivarono, è ingiustizia come di chi condannasse la letteratura odierna per la prostituzione de' giornali. È vero che tali ginnastiche sono pericolose, nè impunemente s'irritano i dilicati muscoli della credenza, e difficilmente si ha la debita riverenza per un [97] dogma che fu maneggiato con troppa famigliarità; ma è vero altresì che gli scolastici successero ai santi Padri nell'ufficio di conservare, trasmettere, propugnare la fede; ed è loro merito l'aver raccolte in un sol corpo di dottrina tutte le verità rivelate, sparse in tanti volumi quanti sono i monumenti della tradizione; ridottele in pochi, ordinate con sistema scientifico, espresse con preciso e chiaro linguaggio. Insomma la scolastica, nella parte sua viva, fu il trionfo della ragione applicata alla rivelazione.

In ciò il maggior merito va a quel che può asserirsi il maggior filosofo del medioevo, e fors'anche dell'evo moderno, san Tommaso (1227-74). Nato dai conti d'Aquino, pronipote di Federico Barbarossa, cugino di Enrico VI e di Federico II, discendente per madre dai principi normanni, abbandona delizie e speranze per vestirsi domenicano, e ben presto mostrò intelletto filosofico s'altri mai, erudizione estesissima, passione de' grandi risultamenti. A quarantun anno si propose, coi materiali sparsi della scienza, coordinare in sistema compiuto la teologia e la filosofia, compendiando in un volume i conflitti che da dodici secoli la Chiesa sosteneva intorno ai cardini della fede, e quanto aveano insegnato, approvato, riprovato i Padri, i dottori, i papi, i concilj, in maestosa sintesi tendendo a riprodurre l'ordine assoluto delle cose. Dio uno, la Trinità, la creazione, le leggi del mondo, l'uomo e l'angelo, la natura e la grazia; e opporre la verità agli errori moltiformi del Corano[93], del Talmud, del manicheismo. All'ispirazione ed elevazione dei primi Padri non assurge egli, ma fedele al sillogismo, porge formole dotte e profonde distinzioni. Vastissimo il concetto generale, finissime le particolarità; non c'è massima nella Scrittura e nella tradizione, non idea nella coscienza, non errore nelle menti ch'egli non abbia discusso, sopra ciascuno recando le opinioni antiche e moderne, vere e false, la tesi e l'antitesi; e con un buon senso calmo, imparziale, senza sistematiche esclusioni, adottando tutto ciò ch'è vero, approvando tutto ciò ch'è buono. Mentre d'Aristotele repudia la metafisica, ne adopra la dialettica e il potente argomentare sillogistico, tanto opportuno a dissipare il sofisma.

Ecco con qual metodo procede. Enuncia, per lo più in forma di quistione, il teorema che intende dimostrare; poi espone e sillogizza tutte le opposizioni filosofiche con tal franchezza e lealtà, che poterono da lui attingere eresie ed objezioni quanti ebbero la mala fede di sopprimere le risposte. Vi contrappone (sed contra) passi d'Aristotele, della Bibbia, dei Padri, principalmente di sant'Agostino: quindi (conclusio) pronunzia la sua decisione in termini concisi, enucleandoli poi dialetticamente, e non di rado con poche parole d'inarrivabile precisione snodando avviluppatissimi problemi; donde passa a sciogliere per ultimo con facilità le opposizioni che avea messe innanzi sul principio della quistione.

Ch'egli si occupasse di scienze al tempo suo non esistenti, o usasse un linguaggio che l'età sua non gli dava, chi lo pretenderebbe? mentre eccitano [98] meraviglia la chiarezza, la brevità nervosa, la schietta indagine della verità, che con bella e profonda definizione egli fa consistere in un'equazione tra l'asserto e il suo oggetto[94].

Scienza di Dio, dell'uomo, della natura, la teologia risale a Dio per contemplarlo, e col raggio che ne attinge discende la scala del creato, illuminando le sfere inferiori. Tra i corpi assolutamente materiali e il mondo delle pure intelligenze, riflesso della vita e delle perfezioni di Dio, sta l'umanità, partecipe degli uni e degli altri; tre mondi, connessi da legami infiniti, donde risultano l'ordine naturale e il soprannaturale, e in seno all'opera di Dio nasce l'opera dell'uomo, mediante la libertà creata. Di qui la mescolanza di bene e di male, di verità e d'errore, che costituisce la storia umana. Delle creature, alcune sono assolutamente immateriali, altre materiali, altre miste, e nel formarle Iddio si propose il bene, cioè d'assimilarle a sè. Del qual bene partecipano anche i corpi, in quanto possedono l'essere, e sono l'effetto della bontà divina; e concorrono alla perfezione dell'universo, che deve contenere una gradazione d'esseri, gli uni subordinati agli altri, secondo che sono più o meno perfetti. Chi li consideri uno ad uno, non vede che l'inanità: ben altrimenti da chi li guardi come istromenti degli spiriti: avvegnachè tutto ciò che si riferisce all'ordine spirituale, mostrasi più grande quanto più viene conosciuto.

Centro e compendio della creazione è l'uomo, il cui spirito vive di triplice vita, la sensiva, la vegetativa e la razionale, la qual ultima ancora si divide in intelligente e volitiva. Alla volitiva san Tommaso assegna norme rettissime, giacchè fondate sugli insegnamenti della Chiesa: e canoni della società, che i più sodi e i più liberali non furono forse mai dati da altri[95].

Ciò sia detto per coloro, che non vogliono considerar tampoco la scolastica come il maggior tentativo fatto di sostenere il dogma col raziocinio, costruendo sistemi di metafisica trascendente, che non provano ricchezza di scienza storica e filologica, ma suprema sottigliezza d'ingegno[96].

[103]

DISCORSO V.
ORIGINE DELL'INQUISIZIONE. SEGUE DE' PATARINI. LA GUGLIELMINA.

La verità non sarebbe verità se ciò che se ne scosta non fosse errore: nè l'errore sarebbe errore se non cagionasse disordine. In conseguenza l'autorità tutrice dell'ordine sociale deve reprimerlo. In tempo che tutto avea per meta il cielo, sicchè chi mettesse impacci all'arrivarvi era il gran nemico della società, bisognava collocare sotto la guardia delle leggi la fede, come la vita, la roba, l'onore.

Che la società pagana non tollerasse le religioni diverse dalla legale, è attestato non meno dal supplizio di Diagora e Socrate, che dalle migliaja di martiri. I Padri della Chiesa proclamarono la libertà delle credenze, finchè la loro fu perseguitata; ma come prevalse, e gli eretici sorsero a turbarla, argomentarono che il reprimere gli errori fosse diritto e difesa legittima contro della persecuzione e della seduzione. Se la Chiesa è unica depositaria e interprete della verità, e soltanto in essa vi è salute, non dovrà ella con ogni modo opporsi alla propagazione dell'errore? Gl'imperatori di Roma cristiani, memori di quando univano i due poteri di capi dello Stato e supremi pontefici, moltiplicarono decreti in tal proposito; due Costantino, uno Valentiniano I, due Graziano, quindici Teodosio I, tre Valentiniano II, dodici Arcadio, diciotto Onorio, dieci Teodosio II, tre Valentiniano III, tutti inseriti nel codice Giustinianeo. Diverse pene comminavano agli eretici, di rado la morte, perchè i vescovi professavansi avversissimi al sangue: a questi era affidato il decidere se un'opinione fosse ereticale; al magistrato secolare l'avverar il fatto, e dare la sentenza.

Così procedette la cosa nel declino dell'impero occidentale; così continuò in Oriente. Ma fra noi, dopo l'invasione, se accadeva di punire un violamento di leggi ecclesiastiche, i vescovi usavano quell'autorità mista di sacro e di secolare, che ad essi era stata attribuita, e talvolta ancora, considerando l'eresia come politica disobbedienza, la reprimevano colla forza, siccome dicemmo aver fatto Eriberto arcivescovo di Milano.

Ridesto il diritto romano, come alla tirannia, così vi si trovò appoggio alle persecuzioni contro i miscredenti, poco ricordando che la legge d'amore [104] aveva abolita quella fiera legalità. L'imperatore Ottone III poneva Gazari e Patarini al bando dell'impero e a gravi castighi. Federico Barbarossa, tenuto congresso a Verona con papa Lucio III nel 1184, ordinò ai vescovi[97] d'informarsi per sè o pei loro delegati delle persone accusate d'eresia, distinguendo i convinti, i pentiti, i ricaduti; quelli convinti sieno spogliati dei benefizj se religiosi, e abbandonati al braccio secolare; i sospetti si purghino, ma se ricadano, vengano puniti senz'altro. Federico II, al tempo della sua coronazione fulminò pene temporali contro gli eretici, e le ripetè da Padova con quattro editti, ove, «usando la spada che Dio gli ha concesso contro i nemici della fede», vuole che i molti eretici ond'è singolarmente infetta la Lombardia, sieno presi dai vescovi e dati alle fiamme ultrici, o privati dell'organo della lingua.

È questa la prima legge moderna di morte contro i miscredenti: e veniva da un re accusato di enormi eresie dai contemporanei, e dai moderni offerto modello di liberalismo antiecclesiastico. Egli stesso fece da papa Onorio III rimproverare le città lombarde per averlo impedito di procedere, come si era proposto, contro l'eresia[98]: all'arcivescovo di Magdeburgo, legato in Lombardia, impose di usar il massimo rigore[99]; e l'ordinò nelle Costituzioni del regno di Sicilia, dolendosi, che dalla Lombardia, ove n'era il semenzajo, i Patarini fossero largamente penetrati in Roma e perfino nella Sicilia[100] e a perseguitarli spedì l'arcivescovo di Reggio e il maresciallo Ricardo di Principato. Nè men severi editti fece Ottone IV[101]; da cui Giacomo vescovo di Torino, sgomentato dell'aumentarsi de' Valdesi fra le Alpi, ottenne ampia facoltà di espellerli dalla sua diocesi[102]. Sull'esempio e coll'autorità dei decreti imperiali, le varie città emanarono statuti contro gli eretici.

Questi aveano per centro Tolosa; e già potemmo vedere come impugnassero la giustizia, la proprietà, la famiglia, la facoltà di punire, insomma i fondamenti della società. Come nemici della società consideravansi dunque, e Federico II, nella succennata costituzione, che passò nel diritto comune per quasi tutta Italia, ordina a' suoi uffiziali d'investigare contro gli eretici, anche senza denunzia e sopra sospetti per quanto leggieri, ponendo l'eresia fra i delitti pubblici (inter cætera publica crimina); anzi lo giudica più orribile che la lesa maestà: e fin agli ecclesiastici comanda di esaminare se vi avesse offesa anche contro un solo articolo di fede: a viris ecclesiasticis et prælatis examinari jubemus.

Eresia era titolo che applicavasi a qualunque errore. Si sa che, nella dieta di Roncaglia, Martin Gosia definì che l'imperatore è non solo signore di tutto il mondo, ma anche di tutte le cose de' particolari. Or bene, il famoso Bartolo non solo adottò quella sentenza, ma dichiarò eretico chi credesse altrimenti.

L'eresia era dunque civilmente delitto: e Luca di Penna, per dirne uno [105] dei cento, dichiara «il misfatto d'eresia esser massimo e pubblico, per offendere la maestà divina, e conturbare l'unità della Chiesa: aversi in esso a procedere per inquisizione, e quelli che da' giudici ecclesiastici son dichiarati rei, se non s'accusano e ritornano in seno della Chiesa, siano dichiarati eretici, e consegnati al giudice secolare, che deve bruciarli e incamerarne i beni, come nel misfatto di maestà».

Da questi mali volendo Innocenzo III sbrattare la vigna di Cristo, spedì monaci a predicare, esortando i principi a secondarli; e quando Ranerio e Guido inquisitori avessero scomunicato uno, i signori doveano confiscargli i beni e sbandirlo, e far peggio a chi resistesse. Di qui cominciò la crociata contro gli Albigesi, che non è da questo luogo il raccontare, ma dove la religiosa serviva di mantello alla quistione di nazionalità. La Francia, smaniando ottenere quell'unità, che molti agognano oggi a qualsiasi costo anche per l'Italia, voleva sottomettere la Provenza e la Linguadoca, che avvezze alle romane, repugnavano dalle ordinanze germaniche del paese settentrionale, e quell'occasione sembrò opportuna. La spedizione fu segnalata dagli orrori delle guerre civili e dello stato d'assedio, ma solo gli adulatori dei re potrebbero riversarne ogni colpa sul papa e sulla religione. Oggimai la storia accertò che Innocenzo, mal informato delle iniquità commesse da ambe le parti, non avea mai cessato di predicar pace e moderazione, e dopo che i crociati ottennero vittoria, spedì legato a latere il cardinale Pietro di Benevento, affinchè riconciliasse colla Chiesa gli scomunicati, e riducesse Tolosa a repubblica indipendente, purchè convertita dagli errori anticristiani e antisociali; assolse i capi dell'insurrezione, e al figlio di quel Raimondo da Tolosa ch'era stato principale capo della guerra, prodigò consolazioni, assegnò il contado Venesino, Beaucaire e la Provenza, e ripeteva: «Abbi pazienza fin al nuovo concilio».

Sotto i papi succeduti, la guerra fu proseguita colla ferocia delle nazionali, finchè la Provenza restò sottoposta affatto al re di Francia. Questo re era san Luigi, e al nuovo acquisto volle accomunare i provedimenti che vegliavano in Francia, dove l'eresia, secondo il diritto comune, era considerata delitto contro lo Stato, e punita del fuoco. Romano, cardinale di Sant'Angelo, raccolse un concilio, dove si stabilì che i vescovi nominerebbero in ciascuna parrocchia un sacerdote con due o tre laici, per inquisire gli eretici, e farli noti ai magistrati; punito chi ne celasse alcuno; distrutta la casa dove uno fosse côlto.

Sono i fieri ordinamenti coi quali si svelle la ribellione, e pur troppo li vediamo e li deploriamo oggi stesso minacciati e applicati, nel meriggio dell'ostentata civiltà, e per cause assai meno certe, in questa povera Italia.

Il tribunale dell'inquisizione fu dunque una corte speciale in paese sovvertito da lunga guerra e da rinascenti sollevazioni. Invece delle precedenti stragi armata mano, e dei consigli di guerra senza diritto di grazia, l'Inquisizione [106] era esercitata da ecclesiastici, gente più addottrinata e meno fiera; ammoniva due volte prima di procedere; solo gli ostinati e recidivi arrestava; riceveva al pentimento chiunque abjurasse, e spesso contentavasi di castighi morali; col che salvò moltissimi, che i tribunali secolari avrebbero condannati. Gregorio IX poi, ad istanza del famoso teologo Rajmondo de Pegnaforte, la sistemò col togliere ai vescovi la processura, e riservarla ai frati, che così all'uffizio di combattere colla parola gli eretici unirono quello di farli ricredenti o castigarli. Al priore de' Domenicani in Lombardia il papa dirigeva la bolla Ille humani generis pervicax inimicus, costituendolo esecutore contro gli eretici[103]. Dappoi Innocenzo IV, con editto del 1251 da Brescia, ripartì le provincie fra Domenicani e Francescani, a questi la Toscana, a quelli la Lombardia, la Marca Trevisana, la Romagna, dando ai provinciali podestà d'istituire inquisitori apostolici dapertutto, fuor della Sicilia ove n'aveano privilegio i re: il vescovo dovea aver parte nel giudizio; le comunità pagare le spese: e in XXXI capitoli, dappoi modificati perchè trovarono reluttanza ne' magistrati, si diedero norme a tutti i rettori, i consigli, i comuni per consolidar esso tribunale.

I frati costituivano una specie di giurati, circolanti al modo delle assisie, e che aveano giurisdizione su tutti i laici, non esclusi i dominanti, ed anche sul basso clero. Arrivato in una città, l'inquisitore convocava i magistrati; e li facea giurare d'eseguire i decreti contro gli eretici, ed ajutare a scoprirli e coglierli; se alcuno renuisse, poteva sospenderlo e scomunicarlo, e mettere all'interdetto la città. Le denunzie, che non poteano essere anonime, aveano effetto soltanto quando il reo non si presentasse di voglia; scorso il termine, era citato; e i testimonj interrogavansi coll'assistenza dell'attuaro e di due ecclesiastici. L'istruzione preparatoria riusciva sfavorevole? gl'inquisitori ordinavano d'arrestar l'accusato, più non protetto da privilegi od asili. Cólto che fosse, nessuno più comunicava con esso, faceasi la visita della sua casa, e il sequestro de' beni.

Appoggiavasi l'inquisizione al diritto civile: e nella Maestruzza[104] è definito: «Secondo la legge, indovinatori e malefici dee essere a loro mozzo il capo, s'ei vi caggiono: e se eglino vanno a casa altrui; debbon essere arsi: e i loro beni debbono essere messi in comune. Ma secondo la Chiesa, gli è tolta la comunione, se egli è notorio; ma se egli è occulto, imponsegli penitenza di quaranta dì» (cap. 42). Degli indovinatori e sortilegi gl'inquisitori non possono e non debbono intromettersi, se già manifestamente non temessero alcuna resia. Coloro che ricaggiono nella resia di prima, la quale avevano negata, si debbono mettere nelle mani della signoria secolare (cap. 91).

La colpa dunque era civile, la Chiesa non facea che mitigar la pena, poichè i pentiti assolveva, anche i recidivi procurava riguadagnare. L'inquisitore dovea dichiarare che l'accusato fosse veramente eretico, e quindi non più [107] appartenente alla Chiesa: da quel punto diveniva reo di Stato: e lo Stato non eseguiva la sentenza dell'inquisizione, ma applicava la pena stabilita dalla legge.

Una costituzione di Celestino III e d'Innocenzo III, accolta nel Diritto Canonico[105], distingue le procedure per accusa secondo il codice romano, quelle per denunzia, quelle per inquisizione; ma in tutte sono pubblicate le testimonianze, ammesse le difese e il dibattimento. Gli eretici dunque, giudicati secondo la legge canonica, poteano conoscere i testimonj e l'accusatore, aver un consiglio, e pubblico dibattimento. Solo quando lo stabilirsi dei principati sminuiva la pubblicità, propria del medioevo, Bonifazio VIII dispensò gl'inquisitori da tante formalità qualunque volta ne derivasse pericolo ai testimonj[106]: Innocenzo VI, dichiarando che tal pericolo può presumersi sempre, generalizzò la riserva, e di qui venne la procedura secreta, per quanto vi ostassero i legisti e la nobiltà e gli uomini comuni, che si trovavano esposti all'arbitrio. Piantato un tribunale, potea sperarsi disforme dagli altri del suo tempo? onde vi si videro rinnovate tutte le sevizie de' processi di Roma pagana, e il cavillo, e la tortura, e supplizj esacerbati. San Tommaso trova legittima in tali casi fin la pena capitale[107]. Ma la Chiesa, sebbene siasene valsa come d'una legittima difesa e d'una prevenzione contro mali gravissimi, non approvò mai, almeno in concilio, un'istituzione siffatta.

Fin dal nascere non mancò da fare all'Inquisizione in Italia. La vicinanza del papa, e l'esservi egli anche principe temporale, incitava a resistergli; e ne' conflitti di Guelfi e Ghibellini vedemmo mettersi in discussione l'autorità di lui, passando, come troppo è facile, dalla mondana alla spirituale. I Comuni aveano acquistato la libertà strappandola ai vescovi, sicchè restava sminuita la riverenza a questi, e in molte lettere i pontefici ne muovono querela alle nostre repubbliche, le quali anche non di rado violarono e i possessi e le persone degli ecclesiastici.

Uscente il XII secolo, Orvieto formicolava di Manichei, introdotti dal fiorentino Diotisalvi, e da un Girardo di Marsano; e diceano che il sacramento dell'eucaristia nulla rappresenta, il battesimo non occorre alla salvezza; non giovasi ai morti con limosine ed orazioni. Espulsi costoro dal vescovo, comparvero Melita e Giulita, uomini e donne seducendo con aspetto di santità, finchè il vescovo, col consiglio di canonici, giudici ed altri, ne esigliò ed uccise molti. Un Pier Lombardo vi capitò poi da Viterbo, contro del quale Innocenzo III deputò Pietro da Parenzo, nobile romano, che ricevuto fra ulivi e palme, proibì i combattimenti carnevaleschi che finivano in sangue; ma poichè gli eretici stimolarono a disobbedire, il primo giorno di quaresima si mischiò fiera zuffa, e Pietro fece abbattere le torri, donde i grandi aveano tirato sul popolo, ed emanò buoni provvedimenti. A Pietro tornato, il papa domandò: — Come hai bene eseguiti gli ordini nostri?

[108] — Così bene, che gli eretici mi cercano a morte.

— Dunque va, persevera a combatterli, chè non possono uccidere se non il corpo; e se t'ammazzeranno, io ti assolvo d'ogni peccato.

E Pietro, fatto testamento e congedatosi dalla desolata famiglia, ritornò[108].

Contro i molti Manichei di Viterbo Innocenzo mosse in persona, rimbrottò i cittadini che tra quelli sceglievano i consoli, ed ordinò che, qualunque fosse trovato sul patrimonio di san Pietro, fosse consegnato al braccio secolare per castigarlo, e i beni divisi fra il delatore, il comune e il tribunale giudicante[109]. D'altri abbiamo ricordo in Volterra, dove gl'inquisitori, a malgrado del vescovo, atterrarono alcune case d'eretici in Montieri[110].

Bandi severissimi contro Catari e Patarini e d'altro nome novatori, pubblicò Gregorio IX, in qualità di sovrano di Roma e ad istanza di questa città, volendo fossero mandati al fuoco, o, se si convertivano, a carcere perpetuo; e guai a chi li raccogliesse o non li denunziasse. Molti in fatto furono arsi, molti chiusi a penitenza nei monasteri di Montecassino e della Cava[111]. Dei rimanenti si fece diligente inquisizione, per cura di Annibaldo, capo del senato[112]; in presenza del quale e del popolo, molti preti e cherici e laici, affetti di questa lebbra, furono condannati; sopra testimonj e confessione propria. L'editto di Gregorio IX fu poi ampliato da Innocenzo IV e Alessandro IV, infine da Nicola III contro tutti gli eretici, e inserito nel diritto canonico[113]. Il senato romano pubblicò varj capitoli, pei quali il senatore doveva ogni anno diffidare i Catari, Patarini, Poveri di Lione, Passagini, Giosefini, Arnaldisti, Speronisti e d'altro nome, e i loro ricettatori, e fautori, e difensori: gli eretici côlti si devano detenere, e otto giorni dopo condannati dalla Chiesa, punire: i loro beni pubblicare, dandone una parte a chi li prese o rivelò, una al senatore, una per restaurare le mura: dove teneano le congreghe facciasi un mondezzajo; siano distrutte in perpetuo le loro case e di coloro che da essi ricevettero l'imposizione delle mani; quegli che conoscendoli non li riveli, sia multato in venti libbre; quei che loro diano ricetto, perdano la terza parte dei beni, e la seconda volta siano espulsi di città, nè possano citar alcuno in giudizio, nè esser assunti ad impieghi, o ad atto legittimo qualsia.

In Milano fu posto che qualunque persona a sua libera volontà potesse prendere ciascun eretico; le case ove eran ritrovati si dovessero rovinare, e i beni che in esse si trovavano fossero pubblicati[114]. Enrico di Settala, arcivescovo di essa città, allora istituito inquisitore, jugulavit hæreses, come lo loda il suo epitaffio; ma i cittadini lo discacciarono. Vedesi ancora in Milano la statua equestre di Oldrado da Trezzeno podestà, encomiato nell'iscrizione perchè Catharos ut debuit uxit[115]. Nel 1303, al 1 novembre, i popolani di Sesto Calende si univano, e nominavano due sindaci o procuratori, i quali ricevessero le abjure di qualunque eresia o credenza, favore o asilo [109] o difesa prestata a eretici di qualunque sètta; e a giurar sull'anima loro e di tutti quei del paese d'osservare la fede cattolica, e perseguitare gli eretici credenti e i loro fautori[116].

Come ricettatore d'eretici fu assalito il conte Egidio di Cortenova nel Bergamasco, e smantellatone il castello per istanza d'Innocenzo IV.

A Brescia operavano così sfacciati, che dissacravano chiese, e dalle torri fortificate scagliando fiaccole ardenti, scomunicavano la Chiesa romana e chi ne seguisse le dottrine. Contro di loro, papa Onorio III inviò il vescovo di Rimini, il quale abbattè molte chiese da essi contaminate, e le torri dei Gàmbara, degli Ugoni, degli Oriani, dei Bottazzi, ch'erano stati i più violenti, con ordine che rimanessero sempre mucchi di rovine, a ricordanza del fatto: le torri di quelli che aveano infellonito in minor grado, fossero diroccate fino a metà o ad un terzo, nè più si elevassero se non col consenso della Chiesa apostolica: gli scomunicati per tali azioni, eretici fossero o loro fautori, non venissero assolti se non presentandosi alla sede apostolica, salvo che in articolo di morte[117].

Altri in Piacenza bruciò il podestà Raimondo Zoccola; sessanta a Verona frà Giovanni da Schio in tre giorni, subito dopo aver riconciliate le osteggianti città italiane nella famosa pace di Paquàra.

Nè il Napoletano mancava d'eretici, ed è probabilmente come protesta contro le costoro predicazioni che un eremita calabrese andava attorno gridando nel dialetto patrio: Benedittu, laudatu e santificatu lu Patre; benedittu, laudatu e santificatu lu Filiu; benedittu, laudatu e santificatu lu Spiritu Santu[118]. Dal registro angioino a Napoli si trassero dianzi due diplomi: coll'uno del 1269, dato da Orvieto il penultimo di maggio, Carlo d'Anjou scrive ai conti, marchesi, baroni, podestà, consoli, conti, e chiunque abbia potere e giurisdizione, esortandoli che, venendo i frati Predicatori di Francia come inquisitori in Lombardia e in altre parti d'Italia, per investigare gli eretici e quelli che per eresia dalle terre di Francia fuoruscirono, vogliano ajutarli in tal ricerca, e renderli sicuri.

Coll'altro ai giustizieri, balii, giudici, maestri giurati ed altri ufficiali e fedeli nel regno di Sicilia annunzia che frà Benvenuto dell'ordine de' Minori, inquisitore, mandava i familiari suoi Regebato e Jacobuccio a prendere alcuni eretici dimoranti nel suo regno: perciò a loro requisizione vogliano coglierli, coi beni stabili e mobili, e custodirli in luogo sicuro; i beni fedelmente conservino a utile della curia reale; e di quanto staggiranno facciano fare quattro istromenti simili, di cui uno terranno essi, uno daranno al depositario, un terzo alla camera reale, il quarto ai ragionieri della gran curia. Seguono i nomi degli eretici: Marco Pietro Neri, Regale de Monte, Gilia di Montesano, Giovanni Bictari, Bigoroso, Bonadio del Regno, Bencivenga di Vecchialana, Verde figlia di Guido Versati, Fiore di Colle Casale, Benvenuto Malyen d'Acquapendente, Migliorata sua [110] moglie, Sabbatina detta Bona, maestro Matteo tessitore e Alda sua moglie, Giovanni Orso, Angelo Orso di Guardia Lombarda, Vitale Maria sua moglie, Bernarda e Bernardo suo marito, Gualterio provinciale, Bernardo calzolajo, Bernarda sua moglie, Raimondo di Napoli, Pietro di Majo di San Germano, Benedetto calderario, Pietro Malanotte e Maria sua moglie, e Maria loro figlia, Salvia e Nicolao figlio di lei, Benedetto fratello di Salvia, Bona sua figlia, Salvia di Rocca magnifico, Giudice Rainaldo, Giudice Guarino, Bojano Capocia, Pietro Giannini e Guglielmo suo fratello, Giraldo Bonomo di Odoriso, Giacobo Gerardone, Giovanni Mundi, Tommaso di Giovanni Guarnaldi di Ferrara, Pietro Bictari nipote di Giovanni Bictari, Margarita moglie del fu Zoclofo, Domino di Ferrara, Sibilla sua cognata di Melfi, mastro Matteo tessitore, Alda sua moglie, mastro Mauro mercante di Casalvere, Matteo Giovanni Golie, Giovanni e Gemma suoi figli, Soriana, Matteo Maratono, Gemma sua donna, Binago di Alifia, maestro Manneto di Venafro, Nicola fratello di Jacobo, Maria madre sua di Bojano, Guglielmo d'Isernia, Sergio, Margarita sua moglie di San Massimo, Viatrice sua figlia, Roberto figlio di Ugone suddetto, Giacomo Ricco, mastro Rainaldo Scriba, Canapadula di Rieti figlio, Samuele di San Sibato, Corrado Tetinico che dicesi stia a Foggia, Benvenuto Jazeo e sua moglie che dimora presso San Martino, e stavano in Alifia.

Il decreto è dato nell'assedio di Lucera, il 12 agosto 1269.

Ivone da Narbona scriveva a Gerardo arcivescovo di Bordeaux, come, viaggiando in Italia, e' si finse Cataro, lo perchè in tutte le città ebbe lietissime accoglienze; e «a Clemona, città celebratissima del Friuli, ebbi squisiti vini da' Patarini, robiole, ceratia ed altri lachezzi»[119]. Costoro aveano per vescovo un tal Pietro Gallo, che scoperto di fornicazione, fu cacciato di seggio e dalla società.

Contraddisse vivamente all'errore Antonio da Lisbona, il taumaturgo di Padova, che a nome della religione e dell'umana libertà protestò contro Ezelino, il quale professava aver più paura de' frati Minori che di qualsiasi persona al mondo. Singolarmente in Rimini sant'Antonio combattè gli eretici, non solo colla parola, ma coi miracoli. Perocchè una volta, dice la legenda, non badandogli gli uomini, furono veduti i pesci venir su per la Marecchia, e a bocca aperta collocarsi ad ascoltarlo; un'altra, un giumento, da lungo tempo digiuno, si prostrò davanti all'ostia consacrata, benchè il padrone patarino gli porgesse il truogolo dell'avena.

Martello degli eretici fu detto san Tommaso d'Aquino, che nella Summa theologica espose tutti gli argomenti contro gli errori di essi, come dicemmo: nè men fervoroso apparve san Bonaventura. Contro gli eretici di Prato aveva proferito sentenza il vescovo di Worms, legato dell'imperatore Enrico VI nel 1194[120], confiscandone i beni, ordinando di disajutarli in ogni modo, e vietando di dar loro consiglio od ajuto, nè di mettere ostacolo a lui quando li [111] facesse carcerare. Nel resto della Toscana troviam pure nominati fra gli eretici Guido da Cacciaconte di Cascia in Valdarno; il prete del Ponte a Nieve, Migliore da Prato, uno di Poggibonzi, due donne di Poppi, Andrea di Fede, una Meliorata con suo padre Albese, un'altra fiorentina. Gherardo, dottore e cavaliere di Firenze, fu scoperto eretico solo allorchè, morendo, non volle attorno a sè che Patarini.

A Firenze, come negli altri Comuni, v'erano statuti de hæreticis diffidandis et baniendis; omnes hæreticos cujuscumque hæresis diffidare et exhaurire debeant rectores civitatis, etc. La prima e la seconda domenica dell'avvento, il vescovo, celebrando in Santa Reparata, solea richiedere i rettori della città che perseguitassero e sbandissero gli eretici. E vescovo dal 1205 al 1230 vi fu Giovanni da Velletri, il quale, vedendo propagarsi l'eresia, pensò ripararvi seriamente, e fece catturare alcuni che si tenevano celati. Costoro vescovo era Filippo Paternon, che avea fatto di molti proseliti. Gregorio IX papa, nel 1227, ordinò a frà Giovanni da Salerno, compagno di san Domenico e priore di Santa Maria Novella, che procurasse l'arresto del Paternon: il quale côlto, abjurò i suoi errori, ma ben presto tornò ai conciliaboli, e la potenza de' suoi settarj lo assicurava d'impunità. Quando la prudenza il consigliò a mutar paese, gli furono surrogati nel ministerio Torsello, indi Brunetto, infine Jacopo da Montefiascone, che, con un Marchisiano e con un Farnese, da prima gli servivano di ministri. Farnese predicava cogli occhi chiusi come chi dorme, ed asseriva che egli e i compagni suoi talvolta in abiti preziosissimi assistevano alla maestà divina. Contemporaneamente a frà Giovanni, il vescovo di Siena Bonfili ricercava gli eretici nella sua diocesi, ajutato da altri Domenicani.

Il nuovo vescovo di Firenze Ardingo Feraboschi fece contro i Patarini, varj decreti confermati da Gregorio IX, e vide stabilita regolarmente nella sua città l'Inquisizione, con tribunale nel convento di Santa Maria Novella, e pubblici notari. Frà Ruggero de' Calcagni, uscito da famiglia di mercanti in Vachereccia, ne fu primo inquisitore, ed eresse processo nel 1243, per trovare l'origine, il seguito e l'estensione di tanto male, e servendosi dei processi fatti già prima in convento, principiò cause terribilissime, e fin allora non più sentite nella città. Il tribunale per lo più si teneva in quel monastero, e alle volte nel luogo di Santa Reparata, assistendovi sempre l'inquisitore, il priore di Santa Maria Novella, e due o tre altri frati de' principali. Citavano i rei a comparire, sotto intimazione, prima di pena pecuniaria, poi di censure: ed un'infinità d'eretici sì uomini come donne bisognò venissero ad esibirsi, perchè i signori di palazzo da lettere papali erano stati obbligati a dare i rei nelle mani degli ecclesiastici, onde non v'era campo di poter esentarsene[121]. In fatto, Pietro e Andrea furono mandati a Roma, ove abjurarono.

Non per questo cessavano gli eretici, e Gherardo di Ranieri Cavriani, [112] figlio d'eretico, davasi attorno apostolando, e spesso tornava in Lombardia, e andava nelle case a dar la consolazione ai morenti. Altri caporioni erano Baron del Barone e Pulce di Pulce, famiglia calabrese, appoggiati dalla fazione imperiale, e secondati dai Cavriani, da Chiaro di Manetto, da Cante di Lingraccio, da Uguccione di Cavalcante, dalle famiglie Saracini e Malapresa, e da molte signore, fra cui Teodora moglie del Pulce, un'Aldobrandesca, una Contrelda, un'Ubaldina erano sempre le prime a dar impulso alle collette apertesi a favore de' poveri e de' predicanti.

I quali insegnavano che Maria non era donna, ma un angelo: che Cristo non prese carne da lei; che non si trovano il corpo e il sangue sacro nell'eucaristia. Teneano loro adunanze in Firenze nella casa del Manetto, del Lingraccio, e massime de' Baroni, che, come rilevanti dall'impero, rimanevano esenti dalla giurisdizione comunale, e che edificarono una torre a San Gaggio, fuor di città, apposta per ricettare gli eretici; oltrechè aveano conciliaboli in una villa sul Mugnone. Frà Ruggero, unito a frate Aldobrandino Cavalcanti, ne fe carcerare alquanti; ma i Baroni, gelosi delle loro immunità, per forza li rimessero in libertà. Con ciò venne la città a dividersi in due fazioni, una avversa, l'altra favorevole all'Inquisizione, e bande prezzolate insultavano per la via i fautori di questa e i Domenicani.

I Serviti, ordine allor allora istituito sul monte Senario, che prima per la straordinaria pietà erano sospettati eretici, vennero ad obbedienza dell'inquisitore, faticandosi a ribattere gli eretici; al che valse pure il miracolo che allora si divulgò, d'Uguccione prete di Sant'Ambrogio presso Firenze, il quale, detta messa, non asciugò bene il calice, e al domani vi si trovò sangue vivo.

De' processi allora eretti, alcuna cosa fu pubblicata dal Lami, e parte si conserva nell'archivio di Stato fra le carte di Santa Maria Novella, e di là traemmo le notizie che precedono[122]. Le deposizioni sono la maggior parte di donne, e principalmente di Lamandina Pulce, avversa agli eretici quanto v'erano propense le sue consanguinee. Non appare vi si usasse tortura, e quando l'esortazione uscisse inutile, i rei venivano abbandonati al braccio secolare.

Il papa, che aveva confortato la Signoria a conservar forza alle leggi, per appoggio inviò frà Pietro da Verona. Questi era nato da genitori patarini, e resosi domenicano, spiegò zelo straordinario contro gli eretici in Lombardia. Di là trasferitosi a Firenze nel 1244, predicava nella piazza di Santa Maria Novella, la quale trovandosi angusta alla folla accorrente per udirlo, ad istanza di lui fu fatta ampliare dalla Signoria. Istituì egli la società de' Laudesi, che cantava Maria e il Sacramento, quasi a sconto degli oltraggi dei Patarini.

Ma questi, non che rimanessero allibiti, opponevano la forza; lo perchè Pietro sistemò alquanti nobili, che volonterosi si esibivano per guardia al [113] convento dei Domenicani, ed altri che eseguissero i decreti di questi: donde originò la «sacra milizia dei capitani di Santa Maria».

Sulla facciata dell'uffizio del Bigallo, rimpetto a San Giovanni, due sbiaditi affreschi di Taddeo Gaddi figurano il miracolo di quando un cavallo infuriato si lanciò contro le turbe che ascoltavano la predica, ma passò sovra le loro teste senza nuocere ad alcuno; ed esso Pietro, quando a dodici nobili fiorentini consegna lo stendardo bianco colla croce rossa per tutela della fede: il quale stendardo conservasi in Santa Maria Novella, e si spiega nel giorno di quel santo.

Crebbero allora processi ed esecuzioni, e varie donne di Poppi furono messe a morte. Frà Ruggero citò al suo tribunale i Baroni, i quali, dichiarando quelle esecuzioni inumane ed illegali, s'appellarono all'impero: e il podestà Pace da Pesannola, bergamasco, li tolse in tutela, protestando contro le sentenze, e intimando si rilasciassero i detenuti. Perciò dagli inquisitori fu messo con solennità all'interdetto, onde ne nacque parte e tumulto: una domenica nel 1245, mentre i fedeli ascoltavano la predica nella cattedrale, gli eretici gli assalgono e feriscono: Pietro si pone alla testa de' suoi; sono di sangue contaminate piazza Santa Felicita e il Trebbio, finchè i Cattolici riescono superiori. La croce del Trebbio rammenta anche oggi quel macello; e vuolsi che allora cominciasse l'uso di porre croci e madonne sui crocicchi, onde tosto vedere chi le dileggiasse o riverisse.

Segnalato per tanto zelo, Pietro muove a farne prova sui Cremonesi e sui Milanesi, i quali, esacerbati dalle battaglie mal riuscite contro Federico II, bestemmiavano il Cielo, insultavano ai riti, e sospendevano capovolti i crocifissi. Cominciò egli le processure; e predicando a Milano sulla piazza di Sant'Eustorgio diceva: «So che gli eretici hanno tramato la mia morte; che è già depositata la somma onde retribuire il sicario. Sia quel che vogliono, s'accorgeranno ch'io farò contro loro dopo morte più che non facessi da vivo». In fatto Stefano de' Confalonieri di Agliate e Manfredi da Olirone congiurarono, e lo fecero uccidere mentre il sabato in albis passava da Milano a Como. Egli trafitto intrise il dito nel proprio sangue, scrisse per terra credo, e spirò[123]. Subito venerato col nome di Pietro Martire, ebbe un tempio sul luogo dove cadde, e in Sant'Eustorgio a Milano una magnifica arca, ch'è uno dei primi monumenti della scultura, con epitafio scritto da san Tommaso:

Præco, lucerna, pugil Christi, populi, fideique

Hic silet, hic tegitur, jacet hic mactatus inique

Vox ovibus dulcis, gratissima lux animorum,

Et verbi gladius, gladio cecidit Catharorum, etc.

D'egual moneta aveano i Patarini pagato frà Rolando da Cremona, mentre sulla piazza di Piacenza predicava: Pietro d'Arcagnago, frate Minore, scannato [114] in Milano presso Brera per opera di Manfredo da Sesto, caporione de' Patarini lombardi, con Roberto Patta da Giussano; frà Pagano da Lecco, trucidato coi compagni mentre andava a stabilire l'Inquisizione in Valtellina, e così altri. Nel 1279, avendo gl'inquisitori condannata al fuoco una tedesca in Parma, i cittadini insorsero, saccheggiando il convento de' Domenicani, alcuni anche ferendone, talchè essi a croce alzata partirono. Ma il podestà e gli anziani e i canonici li seguirono, e gl'indussero a tornare, promettendo rifarli dei danni e punire gli offensori[124].

A san Pietro Martire successe come inquisitore in Lombardia frà Ranerio Saccone, che più volte menzionammo, il quale spianò la Gatta, ritrovo degli eretici, e fece bruciare i cadaveri di due loro vescovi, Desiderio e Nazario, tenuti in venerazione; nè si rallentò finchè Martin Torriano, signore del popolo, nol fe cacciare.

A Milano poco dopo comparve una Guglielmina, che diceasi oriunda di Boemia e di stirpe regia, e che, a guisa de' Montanisti, non ammetteva Cristo come ultimo termine del progresso morale e religioso, ma come un progresso, che doveva essere sorpassato da una nuova missione: in lei lo Spirito Santo essersi incarnato per redimere Giudei, Saracini e mali Cristiani: averla Rafaele arcangelo annunziata a sua madre Costanza, moglie del re di Boemia, il dì della Pentecoste: nata un anno dopo quell'annunciazione: era vero Dio e vero uomo nel sesso femminile, come Cristo nel maschile, e dal sacrosanto suo sangue resterebbero salvati i miscredenti: come Cristo, secondo la natura umana, non secondo la divina, dovea morire, risorgere, e alla presenza de' discepoli e dei devoti salire al cielo per elevare l'umanità femminile. Quanto visse, il popolo la venerò; morta nel 1282, fu tumulata splendidamente a Chiaravalle, casa de' Cistercensi presso Milano, e tenuta in conto di santa, e il suo sepolcro frequentato da devoti, illuminato giorno e notte da ceri e lampade, e vi si celebravano tre feste annue, a san Bartolomeo, all'Ognisanti e a Pentecoste, distribuendosi da que' monaci pane e vino in commemorazione di lei, della quale si enumeravano la virtù e i miracoli: e ceri ardevano davanti alla effigie di essa, dipinta in Santa Maria Maggiore, in Santa Eufemia, alla Canonica e altrove.

Come Cristo lasciò in terra san Pietro per suo vicario, affidandogli da reggere la Chiesa, così la Guglielmina lasciò vicaria sua nel mondo Mainfreda, monaca dell'ordine delle Umiliate di Santa Caterina in Brera. Essa teneva adunanze de' fedeli, predicava, componeva litanie; e la Pasqua del 1299, vestitasi d'abiti pontificali come altre compagne, celebrò una messa in casa di Jacopo da Ferno, ove Albertone da Novate recitò l'epistola, e Andrea Saramita una lezione di vangelo da lui composto. Tempo verrebbe ch'essa Mainfreda più solennemente celebrerebbe sul sepolcro dello Spirito Santo incarnato; indi nel duomo di Milano, poi in Roma predicherebbe dalla sede apostolica; diverrebbe vera papessa, colle autorità del pontefice odierno, il quale sarebbe [115] abolito e surrogato dalla Mainfreda, che battezzerebbe le genti ancor sedute nelle tenebre. I quattro vangeli darebbero luogo a quattro altri, stesi per ordine della Guglielmina. Il visitar la tomba di questa era meritorio come il visitar quella di Cristo, onde da tutte le plaghe s'accorrerebbe a Chiaravalle, ma i seguaci di essa sarebbero esposti a tormenti e supplizj; non mancherebbe qualche Giuda che li tradisse, e li desse nelle mani de' nemici, cioè dell'Inquisizione.

Tali opinioni vulgari apparvero dai loro processi[125], dai quali non risultano però le turpitudini di che sono imputate queste deliranti; che la Guglielmina rompesse a vergognoso commercio con Andrea Saramita; che la Mainfreda, al termine delle congreghe, comandasse di spegnere i lumi, e abbandonarsi senza distinzione di persone o di sesso. Fatto è che, sparsesi tali voci, il vulgo, colla consueta versatilità, mutò il culto in esecrazione, gl'inni in bestemmia, e l'Inquisizione colse la Mainfreda, il Saramita, Jacopo da Ferno ed altri (20 luglio 1300), e ne cominciò il processo. Jacopo abjurò; la Mainfreda e il Saramita furono mandati al rogo sulla piazza della Vetra, il 6 d'agosto, insieme colle reliquie della Guglielmina.

In Milano si formò poi un Ordine che pretendeva esser equestre, intitolato della fede di Gesù Cristo, o della croce di san Pietro martire: portavano una croce inquartata di nero e bianco; obbligavansi ad esporre anche la vita per la diffusione della fede e la distruzione dell'eresia, e realmente non erano che familiari della santa Inquisizione. Forma eguale adopravasi da altri nelle diocesi d'Ivrea e di Vercelli; e v'aveva indulgenze e privilegi a quei che crociavansi tra costoro[126].

Inquisizione è una delle tante parole, attorno a cui suol levarsi tale rumore, da impedire s'oda la voce del tempo; ma anche spogliata delle esagerazioni, desta giusto raccapriccio o rammarico ad ogni buon cristiano. Quanto narrammo non ci lascia dire cogli scrittori dell'Enciclopedia francese, che l'Inquisizione di Spagna trascese «nell'esercizio d'una giurisdizione, in cui gl'Italiani suoi inventori usarono tanta dolcezza». Vero è che, oltre essere all'unisono co' tempi, ed assai meno orribile, che non si sparnazzi dai soliti organi passionati e di malafede, essa proponevasi un fine morale, a differenza della Polizia moderna che sottentrò nelle sue veci, dalla quale si procede e castiga spesso nell'interesse d'un principe, o per mantenere un dominio costituito sulla forza o sull'intrigo: se restringeva il pensiero, facealo, o credea farlo, per salvezza delle anime, non per mero vantaggio d'un potere, d'un ministero, d'una consorteria dominante: nè quegli spaventi tolsero che sorgessero grandi e robusti pensatori. Noi avremo a riparlarne quand'essa diventerà un organo importante delle società nuove: intanto avvertiamo come oggi di nuovo si risveglino quelle antiche dottrine a proclamare la comunanza de' possessi, l'abolizione della proprietà e dell'organamento civile: e la società costituita arma tre milioni d'uomini in Europa contro siffatte [116] teoriche, le quali allora denominavansi eresie. Domandiamo se ciò deva qualificarsi intolleranza; e se il secolo che così adopera possa maledire a quelli che fecero altrettanto: e non comprendere che l'odierna libertà della bestemmia non potè acquistarsi che coll'introdurre altre feroci repressioni, eserciti innumerevoli, tirannesche Polizie.

L'intolleranza è per avventura inseparabile dalle profonde credenze; e la fede suppone l'esclusione di ciò che da essa differisce. Quando poi la fede è considerata come il necessario legame fra i cittadini, chi la intacca lede la società. L'Inquisizione proferì la pena di morte: ma la proferiscono anche i nostri giurati. Le pene odierne sono destinate a far rispettare istituzioni stabilite: e così era per quelle dell'Inquisizione, verso istituzioni che la coscienza avea consacrate, e che difendeansi pel diritto che alla società non si negò giammai. Forse la repressione ci desta fremito perchè il delitto era religioso? Ma il diritto positivo è meramente convenzionale; la sua autorità dipende dalla confidenza che ispira. Oggi si puniscono colpe differenti; ma ciò prova solo che gl'interessi sociali non sono sempre identici: quelli d'oggi hanno il vantaggio d'esser attuali; quelli d'allora lo svantaggio d'esser passati. Benediciamo Iddio d'averci fatti vivere in tempi, quando ogni vero cattolico professa altamente la tolleranza, che non è la parificazione della verità coll'errore, bensì l'applicazione della carità nel mondo del pensiero, e che esclude l'intervenzione della forza nell'ordine spirituale, neppure a servizio della verità.

[121]

DISCORSO VI.
MISTICI. L'EVANGELIO ETERNO.

Mentre costoro traviavano per abuso della ragione, e alla rivelazione e all'autorità opponeano la negativa e l'indagine, altri erravano per abuso del sentimento, col che accenniamo alle sètte mistiche e comuniste. Il misticismo, cioè l'apprezzar la natura delle cose divine e dei loro rapporti colle umane piuttosto secondo il sentimento che secondo la ragione, fino a presumere di mettersi in diretta relazione col mondo soprasensibile, senza tener conto della materia e dei mezzi ordinarj di conoscere, deriva da uno degli elementi della natura umana, la fede; che non trovandosi soddisfatta da argomenti, maledice e tenta annichilare il corpo e il pensiero, per cercare riposo nella contemplazione delle cose superne; stornasi dalla terra, ch'è nostro asilo d'un giorno, per attendere la morte, svolgendo intanto le pagine del libro de' cieli.

Di siffatte aspirazioni è nido e sede l'Oriente, e massime l'India, ove Dio è il riposo, mentre per noi è l'attività (actus purissimus); è un principio, sovrastante agli esseri che governa con azione continua; idea conforme agli istinti d'una gente, ove la volontà dirige perfino l'intelligenza.

Il cristianesimo che diede il concetto del Dio personale, e nel culto sostituì le idee alle passioni e ai loro emblemi fisici, non restò però sempre immune dagli eccessi del misticismo, e la religione di Budda v'influì forse ne' suoi primordj, e viepiù nelle crociate, in tempo delle quali sorgono e i Templari e san Francesco[127], nel quale si riscontrano tante somiglianze coi pii solitarj dell'India, nobilitate è vero da un amore disinteressato e operoso.

E mistici ebbe in ogni tempo il cattolicismo, ma all'età appunto delle crociate si segnalò sopra tutti Gioachimo da Cosenza in Calabria. Educato alla corte di Ruggero duca di Puglia, pellegrinato in Terrasanta, ivi passò un'intera quaresima fra gli anacoreti del Monte Tabor, con fervorosissima pietà. Rimpatriato (1183), si vestì cistercense nel monastero di Corazzo, poi ottenne dispensa dall'uffizio per poter darsi tutto alla meditazione della [122] Bibbia, e ad istanza dei papi scrisse varie opere teologiche. Aspirando a maggior rigore di vita, a Flora, fra l'Albula e il Neto nei recessi della Sila, fondò una celebre badia, alla quale diede una regola più austera, approvata da Celestino IV, ed estesa a molti conventi. Udendo da lontano le vicende del mondo, intendendole e spiegandole a suo modo e coll'esaltazione causata dal digiuno e dalle discipline, esponeva concetti profetici nel tono dell'Apocalissi, i quali erano raccolti dal monaco Ranieri, unico suo compagno, e in forma di salmi erano mandati pel mondo, accolti coll'avidità, onde ne' momenti critici si aspira a prevedere una decisione[128]. Per queste profezie, che san Tommaso comprendea derivar piuttosto da acuto discernimento che da lume soprannaturale, fu venerato e creduto; Riccardo Cuor di leone, movendo per la crociata, andò a consultarlo; Costanza imperatrice volle confessarsi da lui; persin Federico II colmò di beni la sua badia, dove visse sino al 1201. Fu censurato dal concilio lateranese del 1215 per alcune opinioni sulla Trinità in opposizione a Pietro Lombardo[129], ma egli avea chiesto un esame di tutti i suoi scritti, e dichiarò ritrattare quanto se ne disapprovasse.

E molti sono questi scritti: la Concordia del nuovo coll'antico Testamento; sulla Sibilla Eritrea e sul profeta Merlino; il Salterio delle dieci corde, o commento a Geremia, Isaia ed altri profeti. Carattere di questi lavori era la giustificazione non solo, ma la glorificazione della vita monastica, alla quale dava il sembiante d'una rinnovazione sociale, preordinata dalla Providenza. E diceva: «Iddio divise il mondo in tre epoche successive; nella prima, il Padre opera per mezzo de' patriarchi e profeti; nella seconda, il Figlio opera per mezzo degli apostoli e discepoli; nella terza, lo Spirito Santo opererà per mezzo dei frati».

Era naturale che que' libri fossero accolti passionatamente dai Minoriti; ricopiati, interpretati, esagerati, discuteansi in pubblico; ebbero apostoli di grido, come Ugo di Montpellier, Rodolfo di Sassonia, e si giunse a dichiarare che il Nuovo Testamento non avea condotto alla perfezione; che Gesù Cristo non era imitabile quando fuggì o si nascose, quando bevve vino e mangiò carni, quando possedette denaro; primo dovere dell'uomo spirituale essere la povertà volontaria.

Ciò veniva a condannare i possessi ecclesiastici, dal che facilmente si passava ad abolire la gerarchia e le funzioni sacerdotali. Monaci non ascritti ad alcun ordine, vagavano per Italia predicando l'umiltà e la povertà, come fossero sufficienti a costituir l'uomo in una santità, quale basta per conferire i sacramenti, e sciogliere e legare.

Sebbene l'abate Gioachimo non avesse prefisso tempo all'adempimento delle sue profezie, da' suoi testi, stiracchiati ad applicazioni attuali, si dedusse che il 1260 sarebbe predestinato pel nuovo regno di Dio; Federico II morrebbe; l'anticristo comparirebbe, immediato predecessore della nuova epoca [123] religiosa. Federico anticipò di dieci anni la morte, ma l'inadempimento delle profezie non basta a disingannare; più tardi esse servirono ai necromanti, e alcune corrono finora, credute da coloro che ne aspettano l'adempimento. Gioachimo, chi lo fa santo, e «di spirito profetico dotato», chi impostore, chi mentecatto; ma dee figurare nella storia come capo del misticismo, sceso poi a Giovanni da Parma, a Gerardo da san Donnino, a Ubertino da Casale, a frà Dolcino, e ai mistici tedeschi.

A questa scuola molti Francescani furono tratti dal disprezzo delle cose terrene e dall'amor delle soprasensibili, ch'appariva tanto pronunziato nel loro fondatore. La regola del quale imponeva tali austerità, che alcuni la sentenziarono d'impossibile e micidiale. Guglielmo di Sant'Amore e Sigerio, dottissimi scolastici di Parigi, scrissero e sporsero a papa Clemente IV un libello contro la povertà dei Mendicanti; ed egli lo trasmise al maestro Giovanni da Vercelli perchè, ponderatolo, vi facesse rispondere da Tommaso d'Aquino. Dalla confutazione di questo appare che ai frati già s'imputavano le colpe che più tardi: colpe che costituivano il merito loro in faccia al popolo; come il vestir grossolano, le opere di carità, il predicar vulgare, lo stretto accordo dei membri fra loro, l'opporsi ai settarj e sostenere il proprio Ordine; oltre che all'intero Ordine s'attribuivano i difetti di qualcuno.

Dappoi papa Nicolò III, che personalmente aveva conosciuto san Francesco, e da cui eragli stata vaticinata la tiara, credette dovere spiegare che i frati Minori erano tenuti osservare il vangelo, vivendo in obbedienza, in castità, in povertà: lo spossessamento totale per Dio esser meritorio; averlo Cristo insegnato colla parola, confermato coll'esempio, e gli apostoli ridotto in pratica: ciò facendo, i Francescani non rendeansi suicidi, nè tentavano Dio, giacchè, pur confidando nella Providenza, non ripudiavano i mezzi suggeriti dalla prudenza umana[130].

Alla pontifizia decisione si chetarono gli avversarj, ma tra i Minoriti alcuni ne trassero motivo d'un misticismo fanatico, da una parte asserendo che la regola di san Francesco fosse il vero vangelo, dall'altra che la spropriazione doveva essere così totale, che fin delle cose necessarie alla vita non avessero che il mero uso.

Pier Giovanni d'Oliva, di Serignan in Linguadoca, fatto francescano a 12 anni, predicò siffatta dottrina, per disapprovare le condiscendenze di frà Matteo d'Aquasparta, generale de' Francescani, che aveali lasciati rilassare, e per raffaccio alla Chiesa, ricca e mondana, cui i Minoriti erano destinati a rigenerare[131]. Gli avversarj lo tacciarono d'esser, nel suo zelo, trascorso in eresie: di che il Wadding, annalista dei Minori, vuol purgarlo: ma Giovanni XXII condannò come pregne d'eresie le sue chiose all'Apocalisse, scritte verso il 1278. Pure ottenne venerazione come santo da molti proseliti, che professavano poter l'uomo giungere a tale perfezione da ridursi impeccabile, e conseguire la beatitudine in questa vita come nell'eterna.

[124] Federico II, sempre malvolto alla Santa Sede, accolse i costui seguaci perseguitati, che in Sicilia presero a capo Enrico di Ceva, professando sempre che la Chiesa era divenuta una sinagoga, lupo il suo pastore, e sovrastare una riforma.

Tra i dibattimenti avendo alcuno asserito che Gesù Cristo nè i suoi apostoli, via di perfezione seguitando, nulla aveano in proprietà, la proposizione fu rejetta dai Domenicani e da altri, e invece sostenuta dai Francescani, e nominatamente in un capitolo generale a Perugia. E poichè la costoro regola diceasi vera applicazione del vangelo, tornava sott'altra apparenza il medesimo concetto dell'assoluta spropriazione. Non era che un eccesso d'ascetismo, ma gli avversarj ne profittavano per impugnare i possessi della Chiesa; onde la proposizione fu condannata da papa Nicola IV. I Minori spedirono frà Bonagrazia di Bergamo per dimostrarla al papa, con lettera di frà Michelino da Cesena, maestro generale dell'Ordine, e si ostinarono nella loro opinione anche dopo che il papa proferì contro di essi. Michele, chiamato ad Avignone, ove allora il papa risedeva, esitò ad andarvi, poi subito ne fuggì, e apostatando ricovrossi all'imperatore. Questi era Lodovico il Bavaro, che era venuto in rotta con papa Giovanni XXII perchè negava riconoscerlo, e dichiarava l'Italia sottratta dall'imperiale giurisdizione, in modo che non potesse essere incorporata nè infeudata all'impero (1324). A vicenda l'imperatore proferiva scaduto il pontefice, chiamandolo con titoli ingiuriosissimi, e invitando giuristi e teologi a scatenarsi contro la Corte pontifizia. I frati Minori restarono dunque avversissimi alla facoltà teologica di Parigi e al papa, che in un capitolo tenuto a Perugia il 1322 dichiararono eretico. Frà Michelino contro il papa scrisse libercoli, e commentò beffardamente le bolle di esso in un libro, che poi, per divulgarlo, compendiò ad istanza di Lodovico il Bavaro, dove sosteneva potersi, anche senza decisione del Concilio, dichiarare il papa scaduto ed eretico. Fu egli scomunicato da' suoi frati e dal papa: ma colla protezione imperiale, alcuni suoi seguaci erano penetrati in Firenze, e vi teneano segrete adunanze notturne: onde si fece uno statuto contro quella «pessima generazione che volea condire la falsa dottrina col mele di nomi in apparenza favorevoli e religiosi, per ingannare meglio i semplici»[132].

Il famoso pittore Giotto scrisse contro di loro una canzone, che comincia,

Molti son già che lodan povertade;

Guido Cavalcanti, filosofo e poeta, amico di Dante, ne toccò in una canzone, dicendo:

O povertà, come tu sei un manto

D'ira, d'invidia e di cosa diversa!

[125] e Antonio Pucci, in due sonetti ne punse l'ipocrisia:

Vera cosa è che non toccan denari,

E 'nsaccherebber con le cinque dita.

Non mangian carne

Sopra il taglier, perchè non sia veduta,

Se fosse in torta o in tondo battuta,

Sicuramente allor posson mangiarne;

e il beato Giovanni da Catignano scriveva a Guido di Neri fiorentino: «Altro non dico ora se non che ti guardi da questi membri d'anticristo, cioè questi Fraticelli eretici, i quali già molta gente hanno ingannata e ingannano tuttodì».

A papa Celestino V, che inclinava al viver cenobitico, mandarono Liberato e Pietro da Macerata, chiedendogli licenza di vivere con tutto il rigore e dove volessero senza contraddizione, ed esso gli autorizzò a costituirsi in nuova congregazione, detta degli Eremiti Celestini. Poi riconosciuti per esagerati, presero abito e capi particolari, quali Pietro da Macerata e Pietro da Fossombrone, cui s'unì il rifiuto di tutti i conventi: e massime per la diocesi di Pisa e tra i monti del Vecchiano e di Calci, seguivano vita rigorosissima, alla Chiesa visibile, ricca, carnale, peccaminosa, contrapponendone una frugale, povera, virtuosa; e dicendo che neppure il papa potrebbe concedere ai Francescani di possedere granajo e cantina[133]. Seguirono quelle dottrine Corrado da Offida, Pietro da Monticolo, Tommaso da Treviso, Corrado da Spoleto.

Tali quistioni insinuarono ne' Minoriti uno spirito di sottigliezza, contrario all'intento tutto pratico del loro fondatore; e ne pullulavano altre quistioni, a dir poco, oziose: se la regola astringesse sotto pena di peccato mortale o soltanto veniale; se obbligasse ai consigli del vangelo quanto ai precetti; se alle ammonizioni quanto ai comandi: dal che facilmente si passò a sofisticare sul decalogo e sul vangelo; ed oltre la disputa sempre accesa sull'immacolata concezione di Maria, un'altra ne ebbero coi Domenicani, se il sangue di Cristo, uscito nella passione, restasse non per tanto ipostaticamente unito al Verbo.

Il papa aveva concesso ai Francescani conventuali di possedere; ed ecco i Fraticelli negano ch'esso abbia diritto di interpretare la regola di san Francesco, e che il vero sacerdozio essi soli possedevano; ad essi l'autorità di sciogliere e legare, e d'impor le mani per infondere lo Spirito Santo; Dio solo doversi venerare; la preghiera esser più efficace quando facciasi in assoluta nudità; condannavano il lavorar per vivere, prendendo per fondamento la libertà dello spirito, diceano, unito questo a Dio, non si può più peccare, come neppur crescere nelle virtù: le quali massime conduceano al quietismo.

[126] Tutti costoro e le Beghine, e i Beguardi o Bizzoccheri, e gli Zelanti, e i Fanciulli del vangelo van compresi nella sètta dei Fraticelli della povera vita, Frati spirituali, che ebbe per canone il Vangelo Eterno, e considerava per suo istitutore l'abate di Flora Gioachimo. Si elessero anche un papa, e non v'è scelleraggine che a costoro non trovisi imputata. In fatto intaccavano i cardini della fede e della giustizia, e sono una forma antica del comunismo, e il resistere e la superbia che facilmente nasce dall'austerità eccessiva, li portarono a farsi accanniti detrattori della Santa Sede. Sta nella Biblioteca Palatina di Firenze un manoscritto senza titolo, opera d'un seguace de' Fraticelli, certo posteriore a Giovanni XXII, dov'è esposta la costoro dottrina. «Quella di che nell'articolo della fede si dice: Io credo nella santa Chiesa Cattolica, nota bene che dice santa, a differenza di quella che non vive santamente, anzi viziosamente. Cattolica dice, a differenza di quella che erra nella fede e buoni costumi. Una dice, a differenza della Chiesa de' malignanti ed eretici..... La fede innanzi a tutte le altre cose si debbe cercare. Nella quale Chiesa, o Cristo ci è abitatore o no. Se Cristo ci abita, quella debb'essere eletta per abitazione: se non ci abita, o che il popolo fosse perfido ed iniquo, ovvero che lo comandatore, cioè il prelato, fosse eretico, o che deformasse o guastasse l'abitazione della Chiesa di Cristo, allora debb'essere schifata, e come partecipazione di eretici, come sinagoga di satanasso si debbe fuggire». E dopo rimproverato Giovanni XXII «falso papa che aprì il pozzo dell'abisso di molte eresie», conchiude di «cercare ed entrar nell'arca di Noè, cioè seguitare e cercare quelli pochi di san Francesco, e la sua dottrina evangelica, a ciò che possiate campare da siffatto diluvio di questi falsi religiosi, perseguitatori e distruttori della vita evangelica». Potrebbe farsi un bel libro notando gli errori sociali che, in ogni tempo e paese, si mescolarono agli errori religiosi: il che darebbe il motivo di molte persecuzioni, che realmente colpivano l'errore sociale, più che il dogmatico.

Papa Giovanni XXII condannò i Fraticelli, riflettendo che «Così va la cosa, che primamente gonfiasi l'infelice animo per superbia; quindi, nella disputa, dalla disputa nello scisma, dallo scisma nell'eresia, dall'eresia nella bestemmia con infelice progresso, anzi precipizio si cada». Per tal ragione egli attirossi le diatribe di molti scrittori, che vollero sin farlo passare per eretico; e saviamente egli rifletteva che «gran cosa è la povertà, più grande la castità, ma superiore l'obbedienza[134]». Bonifazio VIII li combattè vigorosamente, e perchè poco poi furono anche aboliti i Templari, giudicò taluno che ai papi dessero ombra gli Ordini monastici che aspiravano a dominazione spirituale o temporale. È però forza dire che Bonifazio favoriva i Francescani; li sottrasse alla giurisdizione dei vescovi, per sottoporli ai loro priori, i quali poteano giudicarne senza stare alle prescrizioni del diritto, ma secondo le costituzioni dell'Ordine: e confermò la Bolla Mare Magnum, in cui eransi [127] compendiati tutti i loro privilegi, e diede ad essi autorità di predicare dapertutto, anche senza permissione del vescovo. Ciò poco piaceva a vescovi e parroci.

Quanto ai Fraticelli, proferitili eretici nella famosa bolla Nuper ad audientiam, dichiarando che il papa ha autorità di sciogliere e legare, li fece processare e perseguitare da frà Matteo di Chieti, principalmente negli Abruzzi e nella Marca d'Ancona. Da ciò l'odio mortale ch'essi posero a quel papa, e se alcuni limitaronsi a dirne tutto quel male che poi la storia pedestre adottò e che fu immortalato da Dante, altri passarono fino ad eleggere un altro papa: e cinque Fraticelli sacerdoti e tredici Beghine elessero un Dedodicis, frate provenzale, aizzando il popolo contro Bonifazio come eletto illegalmente, attesochè l'abdicazione di papa Celestino non valeva. Essi ricovrarono in un'isola dell'Arcipelago e in Grecia e in Sicilia, cantando un inno che cominciava: Godi o Chiesa meretrice, aggregando a sè chiunque tra i Francescani voleva mettersi a regola più austera; cari al vulgo per l'aspetto di maggior perfezione, e avendo per generale il mistico Ubertino da Casale, sotto cui si tenne un capitolo generale a Genova nel 1310.

Gerardo Segarella, frate Minore di Parma, dedito alla contemplazione, e fissando un quadro ov'erano rappresentati gli apostoli avvolti in mantelli, cogli zoccoli e la barba, credette doverli imitare in quel vestimento, e fin nel circoncidersi; faceasi fasciare come un bambino, e adagiare in un presepio al modo di Cristo; dichiarava tutto dover essere comune, anche le mogli; l'uomo non poter possedere nulla in proprio, non far da magistrato; e che le anime salvate non godono la beatifica visione di Dio prima del giudizio universale. Formò seguaci che si dissero Apostolici; vendette quanto possedeva, e dalla ringhiera di Parma gittò il denaro a una ciurmaglia che giocava; ed iva predicando, da chi creduto santo, da chi sentina di vizj. Opisone vescovo il fe cogliere (1280) e tener in prigione cortese nel vescovado, dove impazzito o fintosi, divenne ludibrio del servidorame, poi sbandito, e al fine richiamato e processato da frà Manfredi, fu arso il 18 luglio 1300.

Ermanno Pungilupo ferrarese, condannato più volte dagli inquisitori, si ritrattò, e fu sepolto ecclesiasticamente, ma dopo trentun anno levato di terra sacra, e dispersene le ossa, per ordine di Bonifazio VIII.

Frà Jacobone, de' Benedettini di Todi, valente nel diritto e nella poesia, godea della fama e de' piaceri del mondo, quando in una festa cadendo un palco, vi restò morta la dilettissima e bellissima moglie di lui: e sul corpo le si trovò un aspro cilicio, ch'ella sotto alle pompose vesti celava per ripararsi dai pericoli, cui la volontà del mondano marito l'esponeva. Colpito da quella morte e da quella penitenza, diedesi tutto a Dio, rinunziando ad ogni avere ed anche alla gloria col fingersi imbecille e attirarsi gli scherni plebei, comparendo seminudo, carpone, or colla cavezza a guisa di giumento, ora unto di mele e voltolato tra piume a guisa d'uccello. Metteasi come servigiale [128] sulle piazze, ed uno avendogli dato de' polli da recar a casa sua, e' va, e li getta nel sepolcro di lui, come vera casa. Una volta compra interiora di capretto per farsene cibo, poi pentitosene, le appicca all'uscio della sua cella, e ne fiuta il fetore, e quando gli altri frati lo scoprono al puzzo, confessa la sua ghiottornia perchè lo riprovino[135].

Passava dunque per pazzo; ma per esser accolto nei Francescani dimostrò non esserlo con un bel trattato sul disprezzo del mondo; e scrisse prose e versi di stile squisitamente plebeo, che sono de' primi dell'italiana favella, sebbene lo zelo e il mistico vedere lo facessero talvolta oscuro, talvolta irriverente. Tra le rozzezze sue è a cernire molto oro, se qui ne fosse il luogo.

Chi Gesù vuol amare

Con noi venga a far festa,

Ed in quella foresta

Sì gli potrà parlare.

Chi vuol esser salvato

Da Gesù Salvadore,

Pianga con gran dolore

Ogni colpa e peccato,

Pianga con gran dolore

Ogni suo fallimento,

Il qual egli ha commesso:

E con contrito core

Chiegga perdonamento,

Pentuto e ben confesso.

E con lacrime spesso

Dica: Signore mio,

Mercè t'addimand'io

Ch'io t'ho molto fallato.

Deh peccator, moveratti tu mai

A seguir me che ti ricomperai?

Io ti ricomperai del sangue mio

In sulla croce con crudel tormento....

A lui è dovuto lo Stabat Mater, prosa senza pari per profondità di dolore, e che cantata popolarmente da tutte le plebi nostre per ormai cinque secoli, fu vestita di numeri musicali dai maggiori maestri moderni, Palestrina, Hayden, Gluck, Händel; Pergolesi lo puntò nell'ultima sua malattia, Rossini dopo i più magnifici trionfi[136].

Mal rassegnandosi alla sentenza di Bonifazio VIII, ne parlò con ira: compassionò i Colonnesi come perseguitati, e compose un cantico che comincia: Piange la Chiesa, piange e dolora, e un altro: O papa Bonifazio, quant'hai giocato al mondo.

[129] Allora dunque ch'ebbe presa Palestrina, Bonifazio lo fece metter in ferri a pane e acqua (1278), in fetido carcere, dove fe un cantico: O giubilo del core che fai cantar d'amore; e dicono che, avendogli esso papa domandato, «Quando uscirai di prigione?» rispondesse: «Quando c'entrerai tu». Liberatone infatti alla cattura di Bonifazio, visse sino al 1306. Venuto in fin di morte, i suoi fratelli, l'esortavano a ricevere i sacramenti, ed egli ripeteva non essere giunta l'ora: e poichè insistevano che non morisse come un Giudeo, egli raccoltosi, disse:

Io credo in Dio padre onnipotente,

E tre persone in un essere solo,

E che fe l'universo dal nïente,

E credo in Gesù Cristo suo figliuolo

E nato di Maria e crocifisso.

Morto e sepolto con tormento e duolo.

I frati gli soggiunsero non bastava il credere; doversi anche ricevere i sacramenti: ed egli replicava voler aspettare frà Giovanni d'Alvernia. Or questi era ben lontano da Collazzone, e nulla sapeva: ond'essi viepiù stimolavano frà Jacopone. Il quale allora disse un cantico, di cui produciamo qualche cosa:

Anima benedetta

Dall'alto Creatore,

Risguarda il tuo Signore

Che confitto ti aspetta.

Risguarda i piè forati

Confitti d'un chiavello,

Sì forte tormentati

Di così gran flagello!

Pensa ch'egli era bello

Sovr'ogni creatura,

E la sua carne pura

Era più che perfetta.

Vedil tutto piagoso

Per te in sul duro legno

Pagando il tuo peccato!

Morì il Signor benigno

Per menarti al suo regno

Volse esser crocifisso

Anima, guardal fisso

Ed in lui ti diletta.

[130] Allora pure compose un delizioso cantico alla Vergine:

Maria Vergine bella

Scala che ascendi e guidi all'alto cielo,

Da me leva quel velo

Che fa sì cieca l'alma tapinella.

Vergine sacra, del tuo Padre sposa,

Di Dio sei madre e figlia.

O casa piccolina, in cui si posa

Colui che il Ciel non piglia,

Or m'ajuta e consiglia

Contro i mondani ascosi e molti lacci.

Pregoti che ti spacci

Nanzi ch'io muoja, o verginetta bella.

Donami fede, speme e caritate,

Notizia di me stesso.

Fammi ch'io pianga ed abbia in Dio pietate

Del peccato commesso.

Stammi ognora da presso

Ch'io più non caschi nel profondo e basso.

Poi nell'estremo passo

Guidami sue a la superna cella.

Si perdoni se ci badiamo tra fiori poetici: non sarà l'ultima volta. Chè dove si vuol rinnegare una porzione dell'ente umano per ridurlo alla pura ragione, noi faremo rivalere i titoli del sentimento, e appelleremo al bello, non contro il vero, ma in sussidio al vero.

L'Ordine dei Minori veniva osteggiato principalmente (fenomeno ordinario) da altri Ordini e dal restante clero, e se vediamo le accuse lanciate contro l'uno o l'altro, ci pajono tornati allora que' tempi di universale delazione, che si videro al decader dell'impero romano, e che ripete il giornalismo odierno. Veramente san Francesco avea distolto i suoi frati dall'imparare: non curent, nescientes literas, literas discere; ma essi ben presto attesero agli studj, stabilirono scuole, gareggiarono in sapienza teologica co' Domenicani, ed ebbero cattedre nell'Università di Parigi. Se n'adombrarono i vecchi maestri, come suole, e per parte de' professori di quell'Università nacque un fiero litigio, al quale presero parte san Luigi, e i papi Innocenzo IV e Alessandro IV; e non passò senza tumulti di piazza e sangue. I Francescani proclamarono la libertà dell'insegnamento e ne conservarono il diritto, ma ne rimasero odiati dai vinti, che trovarono a sfogarsene quando apparve l'Evangelium æternum.

Quest'opera che, levò tanto rumore, non l'abbiamo noi, e poco si può far conto dell'estratto che ne dà il cronico di Ermanno Cornero, domenicano [131] e perciò nemico[137]. Vollero attribuirlo all'abate Gioachimo, perchè, come divisammo di lui, vi si asseriva la perfettibilità successiva anche delle dottrine rivelate, e l'Evangelio Eterno essere superiore al vecchio e al nuovo Testamento: questo finirebbe nel 1260, per surrogarvisi l'altro tutto spirito: al pontefice non è affidata la cognizione spirituale della Santa Scrittura, ma solo la letterale. Iddio colmerà di benefizj anche gli Ebrei perseveranti nell'errore: è scusabile lo scisma de' Greci, i quali camminano secondo lo spirito più che i Latini, e come il Figlio opera la salute di questi, così di quelli il Padre. Cristo e gli apostoli non raggiunsero la perfezione della vita contemplativa. La vita attiva giovò sino al tempo di Gioachimo, ma di poi fu resa inutile, fruttuosa restando solo la contemplativa. I predicatori del nuovo stato, perseguitati dal clero, passeranno agli infedeli, ed è a temere non eccitino questi a guerra contro la Chiesa romana. Gli Ordini mendicanti sono predestinati alla religiosa trasformazione del mondo, surrogandosi al clero secolare, e riformando la vita de' Cristiani.

Questa aspirazione alla supremazia, per mezzo degli argomenti che soli allora aveano valore, i teologici, adombrò i dottori dell'Università parigina: e Guglielmo di Santamore, già nemicissimo dei Mendicanti, scrisse De periculis novissimorum temporum, denigrando quegli Ordini, fino a negare che in essi potesse giungersi a salvazione.

Eccessi provocati da eccessi: sempre così; e l'Evangelio Eterno fu denunziato al pontefice come riboccante d'empietà e bestemmie.

Giovan da Parma, generale de' Minori, e che da molti ne fu creduto autore, e che mostrò sempre gran venerazione per l'abate Gioachimo, locchè tolse venisse beatificato, si portò a Parigi a difendere davanti all'Università i suoi frati; e facendo atto di sommessione, conchiudeva: «Voi siete signori e maestri nostri: noi vostri servi, figliuoli e scolari: e se qualche scienza abbiamo, la vogliamo riconoscere da voi. Io espongo me stesso, e i fratelli che dipendono da me, alla disciplina e correzione vostra; siamo nelle vostre mani; fate di noi quello che vi parrà meglio».

Alessandro IV condannò entrambi i libri; e Guglielmo di Santamore, quod in electis maculam imponere voluit, fu sbandito in perpetuo da Parigi.

Nessuno accerta l'autore dell'Evangelium Æternum, neppur il breve di censura; ma frà Salimbene di Parma l'attribuisce a frà Gherardino da Borgo San Donnino, minorita, lettore di teologia a Parigi, e appassionato dietro alle dottrine dell'abate Gioachimo calabrese; e dice ch'egli il conobbe pieno di capacità e di virtù, finchè con quegli errori non elise tutti i suoi meriti. Impedito di più insegnare nè predicare, fu posto dai Minoriti in carcere, sostentato dal pane della tribolazione e dall'acqua dell'angustia; ma per quanto ammonito da san Bonaventura, non volle recedere dall'errore, e morto in carcere, fu sepolto in un canto dell'orto[138].

Angelo, plebeo senza lettere, della vallata di Spoleto, avea radunati molti [132] Fraticelli. Frà Dolcino e Margherita da Trento sua donna predicavano attorno a Novara, inveendo contro ogni autorità ecclesiastica, togliendo ogni restrizione fra i sessi, e permettendo lo spergiuro in materie d'inquisizione, e il furto ogniqualvolta fosse negata la limosina; traevansi dietro migliaja di proseliti, sinchè per ordine di Clemente V, furono cerchiati e presi, ed egli fatto a pezzi, ella bruciata con sessanta discepoli[139].

Clemente V esortava Rainero vescovo di Cremona ad estirpare questo mal seme, e li fulminò nel concilio di Vienna. Ne seguirono persino sommosse a Narbona, in Sicilia, in Toscana; pure i Fraticelli durarono contumaci appellando al futuro concilio, onde ebbero definitiva condanna.

Lo statuto di Firenze, libro III, rubrica XXXXI, è contro i Fraticelli. Dei quali gran numero restava a Siena ai tempi di santa Caterina, che li vide sconfitti dai Domenicani, e dove moltissimi fecero abjura la pentecoste 26 maggio 1315[140]. Nell'archivio di Stato a Firenze, tra le pergamene di Santa Croce vedemmo un'epistola del 5 febbrajo 1322, diretta dal vicario generale di Lucca al pontefice, per assicurarlo che colà il terz'ordine visse sempre secondo la fede cattolica, lontano affatto dall'eretica pravità dei Beghini di Narbona.

Conosciamo maestro Francesco da Pistoja, arso a Venezia il 1337 come uno de' Fraticelli più insolenti: frà Lorenzo Gherardi, Bartolomeo Greco, Bartolomeo da Buggiano, Antonio d'Acquacanina ed altri mandati al supplizio. Frà Michele della Marca, che predicava a Firenze la quaresima del 1389 accusato e processato, fu ucciso, e n'abbiamo una vita scritta da un suo compagno, tutta ira contro i persecutori e ammirazione al santo[141]. «Mentre che stette in prigione, tutto il suo studio era o in confortare il compagno, o in leggere in un breviario d'un prete, ch'era in quella prigione, o in istarsi in orazione. E diceva: «Io ho udito dire a li poveri, che molto è grande rischio d'apostasia, quand'altri è in prigione, il troppo dormire, o vero dilettarsi in pigliare del cibo corporale, o veramente l'oziositade». E così non si curava di niuna sua fatica corporale, pensando pure ne l'onore di Dio spendere il suo tempo».

Consegnatone il processo ai Signori, il frate raffermò le deposizioni alla stanga: «che Cristo, in quanto uomo viatore e mortale, via di perfezione mostrando, non era stato re temporale per ragione civile e mondana: e che esso Cristo e gli apostoli suoi, stando nello stato di perfezione, non poterono avere niuna cosa per ragione civile e mondana: e delle cose avute non ebbero se non il semplice uso del fatto, senza niuna ragione civile e mondana: e che papa Giovanni XXII era eretico perchè diceva il contrario». Rimesso in carcere, gli si diede penna e calamajo, e fra tre giorni potesse scrivere quel che voleva, e se si ritrattasse sarebbegli perdonato, se no si consegnerebbe alla Signoria secolare. Continuaronsi e variaronsi un pezzo le pratiche per farlo ricredere; confessava essere peccatore sì, ma cattolico, eretico no: eretico [133] invece dichiarava il papa e l'arcivescovo, dal quale fu sconsacrato, poi consegnato al capitano, dov'ebbe molte ingiurie perchè non credeva al papa, ed egli dovea soffrire «le bestianze del popolo, il quale, sotto atto di grandissima compassione, tormentava l'anima del santo il dì e la notte». Fino agli ultimi istanti gli si continuarono esortazioni, ed egli persisteva a dire che Cristo non possedette nulla: che Giovanni XXII fu eretico perchè lo negava: eretici i suoi successori che nol riprovarono, e nulli i loro atti, non quanto a giurisdizione, ma quanto a sacramenti. Mentre era tratto al supplizio a tutti rincrescendone, «diceangli: Deh non voler morire. Ed esso rispondeva: Io voglio morire per Cristo. E dicendogli: O tu non muori per Cristo, esso diceva: Per la verità. E alcuno gli dicea, Tu non credi in Dio, ed esso rispondeva, Io credo in Dio e nella vergine Maria e nella santa Chiesa.... E ai fondamenti di santa Reparata dicendogli alcuno, Sciocco che tu sei! credi nel papa, que' disse alzando il capo: Questi vostri paperi v'hanno ben conci.... E giungendo in Mercato Nuovo, essendogli detto Pèntiti, pèntiti, e' rispondeva Pentitevi di peccati, pentitevi dell'usure, delle false mercatanzie».

«E alla piazza del Grano, uno cominciò a dire: Voce di popolo voce di Dio, ed e' disse: La voce del popolo fece crocifiggere Cristo, fe morire san Pietro. E qui gli fu data molta briga, e dicevano, Egli ha il diavolo addosso.... Ed essendovi alcuni de' fedeli che riprendeano coloro che diceano che negasse, alcun birro e altra gente si cominciò avvedere del fatto, dicendo: Questi sono de' suoi discepoli: onde un poco se ne scostò alcuno.»

Abbreviammo assai questa turpe scena di un popolo che insulta al suppliziato; pure la riferimmo qual anticipazione di quella del Savonarola. Già chiuso nel cappannuccio, si cercava svolgerlo col fingere di mettere fuoco, col mostrare un giovane de' priori, venuto per rimenarlo salvo se si convertisse; ed egli durò: e bruciò; e chi dicea Egli è martire, chi Egli è santo, chi il contrario: e n'è stato maggiore rumore in Firenze che fosse mai.

Gli inquisitori dovettero pure fare disepellire le ossa d'Ermanno da Ferrara, e abbattere un altare erettogli, e così d'una inglese, che spacciavasi lo spirito santo incarnato per redimere il sesso femminile.

Domenico Savi di Ascoli, uomo di gran pietà, in patria eresse un ospedale e un oratorio sul monte Pelesio, dove vivea modestissimo con alquanti begardi e beghine, ma inebbriatosi di confidenza in sè, asserì molti degli errori correnti; non esservi colpa nella lussuria; i bambini anche senza battesimo salvarsi per la fede de' parenti; la flagellazione in pubblico a corpo nudo valere meglio che la confessione. Condannato dapprima, si ravvide, poi ricaduto fu dato al supplizio in Ascoli nel 1344.

Il Garampi, nelle Memorie ecclesiastiche, dice trovarsi a Bologna un processo fatto dall'inquisizione di Napoli il 1362 contro Lodovico di Durazzo, frà Pietro da Novara, frà Bernardo di Sicilia, frà Tommaso vescovo [134] d'Aquino, Francesco Marchesino arcidiacono di Salerno poi vescovo di Trivento, donde appajono tre maniere di Fraticelli, cioè frati della povera vita, frati del ministro, frati di frate Angelo.

Nel 1421 altri ne comparvero, detti Fraticelli dell'Opinione perchè opinavano che Giovanni XXII fosse punito da Dio per le sue costituzioni sulla povertà di Cristo e degli apostoli, e Martino V deputò due cardinali a ricercarli e punirli, massime a Fabriano. Nel 1466 Paolo II li vedeva ripullulare nel Piceno e in Poli presso Tivoli nella Sabina, esecrando il papa romano, dichiarando non essere vero vicario di Cristo se non chi ne imita la povertà. Il pontefice, (adopriamo le insulse parole del Bernino) «convinseli maravigliosamente bene tutti, non a forza di dispute ma a forza di battiture, e fattine legare quattordici da' sbirri, li fece poi esporre sopra un alto palco nella sommità di quella parte di Ara Cœli che volge verso il Campidoglio, con una mitera di cartone in capo per uno, all'improperio delle genti e alle fischiate del popolo. Dopo le quali, confessato il loro inganno avanti il pontificio vicario di Roma, che colà comparve con cinque vescovi a riceverne l'abjura, furono essi assoluti, e per marco di professata penitenza vestiti con una lunga veste di lana con croce bianca al petto e alla schiena, dinotante il loro ravvedimento ed eresia[142]».

D'altri eretici troviamo menzione in quei tempi. Nicola V ordina all'arcivescovo di Milano, che vegli con maggiore attenzione sull'eretico Amedeo recidivo, che di false bolle si prevaleva onde accreditare alcune sue eresie[143]. Calisto VII udiva che nelle città e diocesi di Bergamo e Brescia laici ed ecclesiastici spacciavano errori intorno a Gesù Cristo, alla sua madre, alla Chiesa militante, molti traendo a perdizione: e raccomanda d'insistere per isvellerli di là come dal Veronese, Cremasco, Piacentino, Lodigiano, Cremonese[144].

Andrea Papadopulo Vretò pubblicò ad Atene nel 1864 un Catalogo de' libri stampati in greco moderno o in greco antico da Greci, dalla caduta dell'impero bisantino sino alla fondazione del regno ellenico. Ivi è nominato Barlaam da Seminara, cioè uno de' Greci della Calabria, che verso la metà del xiv secolo scrisse, fra altre cose, un libro contro il primato e il temporale del papa e il purgatorio; pel quale perseguitato, dovè fuggire a Costantinopoli. Il raccoglitore dice che questo libro fu stampato la prima volta in Olanda, e divenne quasi irreperibile: ma egli avutone un esemplare, l'applicò alla biblioteca d'Atene.

Questo libro non ci riuscì di vedere, onde nulla possiam dire nè della sua autenticità nè del suo contenuto.

[137]

DISCORSO VII.
CROLLO ALL'ONNIPOTENZA PONTIFICIA. BONIFAZIO VIII E DANTE. CECCO D'ASCOLI.

Quanto narrammo ci dà la ragione delle tante declamazioni che si fecero contro Bonifazio VIII, e che la posterità raccolse alla cieca, e ripete oggi ancora, malgrado un potente e sincero apologista[145]. Questo pontefice assistette al crollo che al potere papale diede la prevalenza dei re, non più solo per cessare la primazia che quello avea pretesa sopra tutti i dominanti della terra, ma per restringerlo ne' singoli paesi coll'astuzia, scassinando la base prima dell'autorità, il rispetto.

La Chiesa ebbe un essere assoluto ed immutabile, come la fede su cui era fondata; ma come unione visibile de' fedeli, era retta da un potere visibile, il quale, concernendo la formale esistenza di essa, non poteva essere che potenziale e progressivo. La predicazione e la fede furono sempre quali sempre saranno: la podestà ne variò insieme colla società dei fedeli, pur sempre attenendosi al cardine della fede, e mercè la visibilità della Chiesa. Il potere di chi governa una società si esercita a misura di ciò che tende a distruggerla: crescendo gli attacchi devono crescere le leggi e le pratiche riparatrici. Nessuno attentando al patrimonio della Chiesa primitiva, nessuna legge occorreva per proteggerlo: il che non vuol dire che in san Pietro non esistesse la facoltà di farla, nè che trascendessero i suoi successori col farne. Dicasi altrettanto delle leggi e altri mezzi temporali, coi quali via via la Santa Sede dovette tutelarsi, e che variò a misura de' bisogni, fino a restringersi nella monarchia.

Forse che questa era dell'essenza sua? No, nè mai i romanisti lo asserirono: ma lo svolgimento della società la portava; come l'ignoranza comune e la comune barbarie portarono i pontefici a capo del civile organamento, per la gran legge che attribuisce il governo ai migliori. Qual vantaggio non fu quello di erigere, in mezzo alle potenze armate, una che potesse obbligare senz'armi ad osservare la giustizia, rispettare il matrimonio, mantenere i patti conchiusi coi popoli! Ciò faceasi senz'armi, quasi senza possessi, perchè si credeva, e la coscienza reggeva il mondo; mentre nell'età moderna, ridotta ogni cosa alla materialità degli Stati forti, della coscrizione, dei tributi, [138] l'autorità pontifizia fu pur essa ridotta a ricoverare la sua indipendenza dietro a un trono materiale, ad un esercito, al riconoscimento degli altri Stati. Deporre i re perfidianti, sciogliere i popoli dalla fedeltà verso il principe infedele, erano la vera e solida costituzione d'allora; diritti che oggi si trasferirono alle società segrete e alla ribellione[146]. Se queste non ne abusarono, imputino la Corte pontificia d'averne abusato. Certo è bene che coll'eccesso spuntò ella medesima le sue armi. Gli avversarj ben s'avvidero che il mezzo di scassinare quell'autorità morale era lo scemarle il rispetto, e a ciò contribuirono grandemente i Fraticelli, persone popolarissime, diffuse tra la plebe, in grand'aspetto di moralità, di povertà, di mortificazioni, e che poteano ripetere: «Ecco come ci maledice una Corte ricca, disonesta, gaudente».

Bonifazio VIII comparve al tempo che la società del medioevo, la quale della fanciullezza serbava tuttavia le ingenuità, veniva tratta nella malizia, non ancora dalla dottrina e dal ragionamento, ma dai principi, che le insegnavano a ricalcitrare contro quella tutela. Vedemmo come i Federichi avessero tentato surrogare la loro alla primazia pontifizia: quel tentativo spiacque ai re, che non voleano cambiar padrone, e perciò fallì. Or ecco i re farsi innanzi a voler rendersi indipendenti dal papa non men che dall'imperatore. Gli ajutò il disordine del grande interregno, succeduto alla deplorata fine degli Hohenstauffen.

Per resistere a questi, i papi aveano dovuto appoggiarsi al perpetuo antagonismo della Francia colla Germania; ma la Francia ne divenne incomoda patrona, e i suoi re, dacchè sentironsi ingagliarditi, rinegarono l'antica devozione per cui erano stati intitolati cristianissimi, e massime dacchè quella corona venne a Filippo il Bello, arguto in tutti i cavilli, a cui sa ricorrere chi vuol riuscire senza esser rattenuto da moralità.

Lo ajutava la posizione del pontefice, piccolo principe in mezzo a baroni ed a Comuni, che o colle prepotenze o coi privilegi impacciavano l'esercizio della sua sovranità; e che trovavasi in contrasto con Carlo di Napoli, il quale chiamato a salvar Roma e l'Italia dalla tirannide degli Hohenstauffen, presto da vassallo era divenuto tiranno della Santa Sede; sicchè, fra le petulanze aristocratiche dei dinasti, e la democratica della plebe, era impacciato nella sua podestà, e i conclavi stessi riuscivano tumultuosi. La Chiesa, che, nel conferimento delle dignità, ripudiò sempre ogni riguardo a distinzione di natali, attenendosi unicamente ai meriti personali, gemeva di vedere il cardinalato e le nunziature affidarsi a taluni, cui unico titolo era l'essere degli Orsini o dei Colonna o dei Savelli; case prevalenti in Roma per armi e per clientele. Esse, con emulazioni prorompenti spesso in guerra civile e in criminosi attentati, s'insinuavano nel concistoro e nel conclave: trescavano a voglia anche nel santuario, e prepotevano nelle cose ecclesiastiche, con tirannide peggiore di quella degli imperatori [139] del secolo precedente, perchè più immediata, e toglievano al pontificato e al sacerdozio quella dignità che traggono dal rimanere superiori alle mondane rivolture.

Dopo un di questi tempestosi conclavi fu eletto pontefice uno, cui la rigida austerità rendea somigliante ai Fraticelli, Pietro Morone che, sulla Majella, alto monte presso Sulmona, erasi proposto d'imitare i solitarj della Tebaide; e che inventò un nuovo Ordine, detto de' Celestini quando, col nome di Celestino V, egli fu portato papa. Ignaro delle rinvolture di questa sciagurata prole d'Adamo, Celestino lasciava deperire il papato fra gl'intrugli de' suoi e le prepotenze degli avversarj, onde egli stesso abdicò, e gli fu surrogato Bonifazio VIII (1294). N'ebbero gran dispiacere quelli che della santa debolezza di Celestino traevano profitto, e non solo dichiararono illegittima l'abdicazione sua e quindi l'elezione di Bonifazio, ma procurarono indur Celestino a tornare sul soglio, e alzare tiara contro tiara. Fu dunque forza circondarlo di cautele e rigori; ed allora eccolo dichiarato martire, e persecutore questo Bonifazio VIII, già tiranno de' poveri Fraticelli.

Bonifazio, de' Cajetani d'Anagno, da' suoi studj e dalla sua devozione avea dedotto un elevato concetto dell'autorità pontifizia e della santità del ministero. A tacere tante istituzioni che non si rannodano al nostro tema, ordinò si celebrasse con rito più solenne la festa de' quattro massimi dottori della Chiesa, Gregorio, Ambrogio, Agostino, Gerolamo, «perocchè i lucidissimi salutari insegnamenti loro illustrarono la Chiesa, la decorarono di virtù, l'educarono ne' costumi; quai splendidi lumi sui candelabri nella Casa di Dio, dissiparono le tenebre degli errori; la loro faconda favella, ispirata dalla grazia celeste, schiude gli enimmi della Scrittura, scioglie i nodi, illumina le oscurità, chiarisce i dubbj; e dai profondi e belli loro sermoni il vasto edifizio della Chiesa sfavilla di gemme primaverili, e dell'eleganza delle parole più gloriosa risplende»[147].

Vedendo ormai i re sottrarsi alla supremazia papale, e costituire i regni indipendenti, e di rimpatto i popoli cercare contro la tirannide altre garanzie che la tutela pontifizia, Bonifazio procurò da una parte consolidare il diritto ecclesiastico, pubblicando un sesto libro di Decretali (1298), e dall'altra rinfervorare la fede e la devozione mediante l'istituzione del giubileo, che dovesse ogni cento anni rinnovare l'affratellamento della cristianità alle soglie de' santi apostoli. I cronisti non rifinano di stupire dell'immensa folla, accorrente a Roma per quell'indulgenza, tanto che nuove porte dovettero aprirsi nelle mura: parve miracolo che, fra genti così diverse, nessun disordine nascesse, e che si potesse provederle di vitto e di ricoveri. Se i calcolatori meravigliarono al vedere, nella basilica di san Paolo, cherici che notte e giorno co' rastelli raccoglievano i gittati denari, bisogna non tacere che ducentomila pellegrini ciascun giorno aveano cibo dalla providenza del pontefice, il quale pure sfoggiava tutta la pompa delle cattoliche feste, e invitava [140] Giotto, Oderisi di Gubio ed altri nuovi pittori ad abbellire la sua basilica di pitture, mentre vi s'ispiravano Dante e Giovan Villani.

Quanto più la supremazia papale era impugnata, Bonifazio più fortemente la asseriva, come si può vedere sia in quel vi delle Decretali, sia nella Bolla con cui riconobbe imperatore di Germania Alberto d'Austria, sia nell'altra tanto rinfacciatagli Clericis laicos (1296), dove, lagnandosi che i principi invadessero i beni ecclesiastici, scomunicò qualunque ecclesiastico pagasse, qualunque laico ne esigesse tributi, prestito, donativo senza licenza della Santa Sede: dottrina affatto conforme al diritto canonico, allora generalmente accettato, e più specialmente al canone 44 del concilio iv Lateranense[148].

Ora Filippo il Bello, volendo dal lato suo attestare la indipendenza regia, tassava gli ecclesiastici, gl'imprigionava, e dal suo clero fece dichiarare quelle che poi intitolaronsi libertà gallicane, cioè l'obbligo di quella chiesa di obbedire interamente al re, senza che il papa potesse mettervi impedimenti[149].

Bonifazio VIII si oppose, e come protesta pubblicò l'altra famosa Bolla Unam sanctam (1302), ove pronunzia che la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica, ha per capo Cristo e il suo vicario in terra; la potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure è divina, e chi ad essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore all'ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall'anima il corpo, e quando i re trascorrono gravemente, li può ammonire e ravviare; ogni creatura umana rimane sottoposta al pontefice, nè ottiene salute chi creda altrimenti. E decretava che imperatori e re dovessero comparire all'udienza apostolica ogni qualvolta fossero citati, «tale essendo la volontà di Noi che, Dio permettente, imperiamo a tutto l'universo».

Era il grido di sbigottimento di un'autorità che civilmente vacillava. E ne nacque lungo conflitto di cavilli, di villanie, infine di violenze. Quel re appoggiossi ai baroni romani, a malcontenti, a fuorusciti, e dicea loro: «Fate me senatore di Roma: io lascerò libera la Chiesa: terrò il patrimonio di San Pietro, incaricandomi d'esigerne le imposte e pagarne i pesi, e darò al papa un lauto assegno, qual basti al rappresentante di Cristo». Indi procedendo mandò un suo cavaliere, il quale a Bonifazio, ch'e' chiamava Malifazio, intimò un libello, dichiarandolo falso, intruso, ladrone, nemico di Dio e degli uomini; e, secondo lo spirito de' tempi, gli rinfacciava un cumulo di eresie, ricalcate sul materialismo incredulo di Federico II. Quando e' l'ebbe esposto al disprezzo, Sciarra Colonna concitò la turba a gridargli morte; lo ingiuriò nella persona, lo schiaffeggiò; — il re di Francia facea schiaffeggiare lui papa di ottantasei anni, e la plebe sedotta e gli avvocati seduttori applaudivangli del tenerlo prigione: finchè il popolo ravveduto lo liberò; e presto pianse sul venerato sepolcro di esso (1303).

[141] Nè però l'ira de' nemici si spense, e vituperò la memoria di lui, col quale in fatto cessò il montare della potenza pontifizia; lo schiaffo datogli segnò il discendere del papato civile; e perchè questo in lui apparve personeggiato, Bonifazio trovasi più percosso, come avviene all'ultimo ritegno d'ogni rivoluzione.

Il re di Francia comprese quanto vantaggerebbe di denaro e d'influenza se rimovesse la santa sede da Roma per trasferirla nel suo paese, come ai dì nostri divisava Napoleone. Nè ebbe troppa difficoltà a indurre il nuovo pontefice Clemente V a collocarsi in Francia (1309), e da quel punto cominciano quelli che gli Italiani qualificarono settantadue anni di cattività di Babilonia.

Re Filippo era lieto, ma non pago della sua vendetta; insultato in vita e spinto alla morte Bonifazio, anche dopo la tomba lo voleva disonorare, piuttosto disonorare la potestà pontifizia, che in lui avea voluta prostrare. A Clemente, sbigottito dai martirj del predecessore, mise attorno tale assedio, che l'indusse ad abolir l'Ordine dei Templari, e lasciargliene carpire le facoltà. Poi volle processasse Bonifazio di eresia: e fu veramente dato questo scandalo da un papa che non risedeva più in terra propria; e Clemente 13 settembre 1309 da Avignone notificava ai presenti e ai futuri, qualmente re Filippo, per zelo di fede e di pietà e per giovare alla Chiesa, avesselo pregato d'ascoltare alcuni signori, che asserivano Bonifazio esser morto eretico, e doversene condannare la memoria: per quanto gli pesasse il credere ciò, pure, essendo l'eresia il peggiore dei delitti, viepiù detestabile per la persona che n'era accagionata, nè dovendosi lasciarlo senza esame, assegnava il tempo a quei testimonj di comparire e deporre.

Se si fosse dichiarato eretico un papa, cioè interrotta la successione apostolica, Filippo avrebbe assicurato il trionfo della forza sul pensiero, dei governi sulla Chiesa, talchè ormai i re avrebbero potuto quel che voleano. Adunque la cristianità indipendente reclamò contro la scandalosa procedura: eppure in pieno concistoro disputarono accusatori e difensori, imputando Bonifazio d'essersi mostrato avverso a re Filippo in tutte le sue costituzioni, e inoltre ateo, e contaminato di tutte le conseguenze di tale dottrina; in occasione del giubileo avere detto agli ambasciadori di Lucca, di Firenze, di Bologna non doversi credere l'immortalità dell'anima, nè la futura distruzione del mondo, nè la divinità di Cristo. L'enormità stessa delle accuse le palesa false: e l'avere trovato chi le sosteneva attesta con quali arti le appoggiasse re Filippo. Il quale, se lasciò per allora mandare l'accusa agli archivj, ottenne una Bolla ove egli era dichiarato egregio difensore della Chiesa in quanto aveva operato contro Bonifazio; resigli tutti i privilegi tolti; ordinato che dai registri papali si cancellassero le lettere pontificie avverse a lui; a Bonifazio non restò neppure la pietà, che suole accompagnare le vittime della tirannide.

L'accenno che abbiamo fatto de' Templari, ci mena ad altra qualità di [142] eretici. Era quello un Ordine cavalleresco e religioso, istituito per proteggere i pellegrini che visitavano il tempio di Gerusalemme. Vi entravano i cadetti di grandi famiglie; ed arricchitisi d'eredità e di commende, si diffusero per tutta Europa. Perduta Terrasanta, mancò il principale esercizio di loro attività, e abbandonaronsi alle tentazioni della giovinezza ricca ed oziante. Allora fu detto si costituissero in società di eresia e di peccato; e poichè secretissime tenevansi le loro iniziazioni, il vulgo vi suppose qualcosa di straordinariamente scellerato. Fomentò l'opinione Filippo il Bello, e fingendosi zelatore del buon costume per mettere gli artigli sulle immense loro ricchezze, domandò al papa abolisse quell'Ordine. Arrestati a un tratto tutti i cavalieri, processati colla durezza allora consueta, furono la più parte messi a morte.

Le variissime accuse a loro apposte si possono ridurre a queste: che rinnegassero la fede, bestemmiassero Cristo, Maria e i Santi; calpestassero e deturpassero le croci; nel consacrare tacessero la formola sacramentale; il maestro assolvesse i peccati, sebbene laico; adorassero la testa di Bafomet, idolo sopra il quale assai si fantasticò; e portassero cingoli benedetti dal contatto di esso: usassero fra loro baci indecenti; peccassero contro natura; tutto facessero con gran segretezza. Quest'ultimo fatto almeno era vero. È abbastanza noto quel processo, condotto colla passione e in gran parte coi modi, che nel secolo scorso fecero abolire un altr'Ordine ancor più famoso e riviviscente; e duole che Clemente V e il XV concilio ecumenico, tenuto a Vienna delle Gallie il 1311, vi assentissero.

In Italia si operò con maggiore umanità. Molti tribunali, come a Bologna e Ravenna[150], li dichiararono incolpevoli. In Toscana aveano numerose case, ed è vero che il papa nel 1307 scriveva agli arcivescovi di Pisa, Ravenna ed altri che assumessero informazioni sui Templari, ma non che s'adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì il Tronci, dal 20 settembre al 23 ottobre 1308. Il processo contro i Templari di Lombardia e Toscana fu fatto in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di Pisa, Antonio vescovo di Firenze, Pietro de' Giudici di Roma canonico di Verona, i quali nel 1312 ne diedero al papa un ragguaglio, che conservasi nella Vaticana, legalizzato da nodaro e testimonj[151]. Il papa avea trasmesso cenventiquattro e più articoli, sui quali esaminarli: e gl'inquisiti erano cinque a Firenze, uno a Lucca. Furono esaminati senza le torture consuete in Francia, non perchè i tribunali ecclesiastici non le usassero, che anzi in quel processo parlasi delle deposizioni di sette altri fratelli di minor conto, le quali non pareano attendibili, licet, debito modo servato, eosdem exposuerimus coactionibus et tormentis. Inoltre gli accusati non doveano temere, confessando, di andare al rogo siccome in Francia, atteso che qui li giudicava un tribunale ecclesiastico, le cui pene erano il pentimento e la ritrattazione. Ciò cresce credito alla loro deposizione, [143] che giurano aver fatta non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed pro veritate tantum.

Delle accuse alcune ammettonsi generalmente; altre solo da alcuni, o per casi e persone speciali, o soltanto come d'udita, o come d'uso di là dal mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei capitoli e alla bestemmia miscredente.

Se dunque gli scellerati processi fatti loro in Francia invitano a crederli innocenti e vittime dell'avidità di Filippo il Bello, la calma con cui procedette la Chiesa, i processi istituiti regolarmente in Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni, senza violenze, lasciano supporre che molti de' Templari fossero rei, e che col re di Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale, col sopprimere l'ordine non de jure sed per viam provisionis, salvò individui innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità, applicandoli alla difesa di Terrasanta.

A ogni modo quest'era un sagrifizio ch'egli faceva alla paura di vedere la memoria di Bonifazio VIII chiamata a un processo capzioso di che Filippo era maestro: processo al quale predisponeva l'opinione Dante, esecrando quel pontefice ben nove volte nella Divina Commedia.

Questo nome del grande che ritrae l'austera fisionomia del medioevo, e irradia i crepuscoli della rinascenza, ci porta a indicare coloro che il poeta teologo, che il verseggiatore della scolastica vollero noverare fra gli eretici, fosse per denigrarlo, fosse per trovare precursori ai Protestanti del secolo xvi. Ed è vero che Dante rimprovera acremente i pontefici; più d'uno ne relega nel suo Inferno, e nominatamente Bonifazio VIII, non ancora morto. Quella collera che spesso invade i grand'uomini allorchè si trovano sconosciuti o perseguitati, ispirò l'esule ghibellino. E come tale, persuaso che la pace fra i piccoli potentati non possa assodarsi se non quando tutti obbediscano a un signore supremo, s'inviperiva contro coloro che reluttavano alla dominazione dell'imperatore, come Pisa, Pistoja, Genova, la Lombardia; Bruto e Cassio tormenta nel peggiore fondo dell'inferno con Giuda; in paradiso vede preparato un trono per l'imperatore Enrico VII; la serva Italia è ostello di dolore perchè non lascia che Alberto Tedesco inforchi gli arcioni di essa; e a questo impreca perchè non viene a vedere la sua Roma che piange.

Col sentimento stesso avventasi contro i papi, benchè allora fossero sconfitti e raminghi: e Bonifazio VIII che, favorendo Carlo di Valois (1301), avea cagionato la cacciata dei Bianchi da Firenze, è preso ogni tratto a bersaglio dall'iracondo fuoruscito.

In libri lodatissimi venne difesa la memoria di questo pontefice contro le declamazioni del poeta[152]. Il vero è che Dante non combatteva tanto la Corte romana quanto la democrazia; svelenivasi contro i nuovi tiranni che aveano abbattuto i vecchi baroni, contro la gente nuova e di guadagno ch'era prevalsa alla semenza santa delle stirpi conquistatrici; combatteva [144] insomma pel passato che crollava, sempre nell'intento di surrogare alla delirante plebe il dominio de' migliori, de' sapienti.

E le sue invettive contro i pontefici, quando non siano da spirito di partito e di vendetta, sono dettate dal desiderio di vedere la santa sede così pura e splendida come meritava il posto di Cristo e di san Pietro; doleasi che tuttodì si mercasse Cristo; che lupi rapaci, in veste di pastori, si facessero Dio dell'oro e dell'argento; che coll'abuso delle scomuniche si togliesse or quinci or quindi il pane che il pio padre non serra a nessuno: che Caorsini e Guaschi s'inebriassero del sangue di Cristo; benediva san Francesco d'avere ajutato a rimettere la barca di Pietro sulla retta via[153]; sempre professa «riverenza alle somme chiavi»: sa che al cielo non si va se non accogliendosi «dove l'acqua di Tevere s'insala»: crede che Troja ed Enea e Roma fossero preparazioni del «luogo santo ove siede il successore del maggior Piero»[154]: e all'insulto che il re di Francia reca a Bonifazio VIII freme perchè sia «Cristo catturato nel vicario suo, e rinnovellati l'aceto e il fiele»[155]. Morto Clemente V, dirige una lettera ai cardinali adunati in Carpentrasso, acciocchè eleggano un papa italiano che ritorni a quella Roma, di cui perfino i sassi pareangli venerabili[156].

Ed è comune agli Italiani d'allora questo sentimento d'indignazione contro i papi che, trasferendosi in Francia, aveano legato la Chiesa allo sgabello d'un re: note sono le invettive del Petrarca e i gemebondi viaggi di Caterina da Siena: pare v'alludesse anche il Boccaccio[157]: Cola di Rienzo non voleva abbattere il papato, anzi restaurarlo, e dal carcere di Boemia scriveva ad Ernesto di Parbubitz arcivescovo di Praga, com'egli non si tenesse che investito del potere legittimo dal pastore supremo; avere assunta la podestà tribunicia per odio alla senatoria oppressiva del popolo, e per cercare d'abbattere i baroni romani, e ridur la città santa, ch'è capo del mondo e fondamento della fede cristiana, in pacifica e sicura stanza dei papi. E Dante volea riforme, ma capiva sarebbero sterili senza l'unità, sia teocratica, sia imperiale; e l'uomo e il cittadino sottoponeva a un capo. Riprovava insomma i pontefici perchè erano o li supponeva traviati; mancando, se vogliasi, di rispetto, non di fede.

L'opinione di Dante poeta si accorda col suo concetto della monarchia, da noi altrove indicato, e ch'egli espose in un'opera apposita[158]. Impero e Chiesa pretendevano essere istituzioni divine e necessarie: le loro supreme funzioni sono accessibili a chiunque, purchè cristiano, nè il papato, nè l'impero essendo ereditarj; e tutt'e due debbono le loro cure all'intero mondo.

L'ordine religioso dunque e il politico costituivano due società, entrambe universali, distinte ma non separate; e Dante, che, nel vedere quegli incessanti cozzi dei piccoli Stati, era venuto nella persuasione non potessero aver pace se non ridotti all'unità, cerca accordare i due ordini per compiere l'opera sociale del cristianesimo: voleva ci fosse un padrone supremo delle [145] società umane, ma per dirigerle al progresso, per tirare le conseguenze pratiche dai principj cristiani. L'imperatore, nel concetto di Dante, doveva avere predominio sopra tutti i re, dunque anche sopra il re di Roma: mentre allora Bonifazio VIII, e più Giovanni XXII pretendeano a se medesimi l'autorità imperatoria, massime allorchè fosse disputata.

Oh come dunque immiseriscono la quistione que' controversisti d'oggi, che suppongono Dante contendesse al pontefice quel piccolo territorio ch'è patrimonio suo temporale! Esclama egli contro Costantino, non perchè lasciasse le Romagne al papa, ma perchè gli trasmettesse la dignità imperiale, secondo asserivano le favole giuridiche del suo tempo e le pretensioni guelfe; e più chiaramente nel libro III, capo 10 della Monarchia riprende esso Costantino d'aver lasciata ai papi la podestà imperiale, questa non potendosi dividere: col che confuta i Guelfi, i quali ne arguivano che le dignità non potessero riceversi se non dal papa. Del resto egli esalta Carlomagno che, quando il dente longobardo attentò alla Chiesa, la raccolse sotto le sue ale vincendo: e ognun sa che Carlomagno fu l'assertore della sovranità temporale dei papi: esalta la contessa Matilde, la più larga donatrice di beni ai papi. Non volea dunque privarneli esso, bensì che gli adoprassero per Terrasanta e per l'Italia, anzichè sciuparli con Caorsini e Guaschi, e intanto lasciare deserto dai papi il giardino dell'impero. Pure per quel suo libro della Monarchia, dove sostiene che l'imperatore non dipende dal papa se non nelle cose spettanti al Foro interiore, Dante venne tacciato d'eretico, non solo da qualche inquisitore, ma dal famoso giurista Bartolo[159]; da cui lo difese sant'Antonino. Altri dappoi vollero farlo credere non solo seguace, ma corifeo di opinioni ereticali. Duplessis Mornai, detto il papa de' Calvinisti, ne addusse molte opinioni[160] non conformi al cattolicismo, ma Coeffetau rispondendogli rifletteva che Dante riprovò alcuni papi, non la dignità stessa. Il cardinal Bellarmino confutava un libello, che nel secolo XVI erasi pubblicato da un Protestante col titolo d'Avviso piacevole dato alla bella Italia da un nobile giovane francese, ove Dante era dipinto come avverso alle istituzioni cattoliche, o almeno all'autorità dei papi. Il famoso paradossista padre Hardouin nel 1727 asserì che l'autore della Divina Commedia fosse un impostore, mascherato seguace di dogmi eterodossi. Il secolo nostro, destinato a resuscitare tutte le stravaganze dei passati, ripetè quella bizzarria, prima per bocca d'un erudito, poi di Ugo Foscolo[161] e di Gabriele Rossetti[162], i quali, rifuggiti in Inghilterra, vollero ingrazianirsi quegli ospiti, sostenendo che Dante volesse «riordinare per mezzo di celesti rivelazioni la religione di Cristo e l'Italia», e così additando un ascendente illustre alla gran negazione. Dietro loro con multiforme erudizione e logica serrata Eugenio Aroux assunse che tutte le opere di Dante sono un'esposizione ereticale, ed aspirazioni rivoluzionarie e socialiste[163].

Il costoro concetto sarebbe che le scuole patarine non fossero mai spente [146] in Italia, ma vivessero in congreghe secrete, in una specie di framassoneria, dove tramandavansi arcanamente certe dottrine, tendenti alla libertà del pensiero e degli atti, a scassinare l'autorità della Chiesa e de' governi. Il Rossetti gli aveva intitolati Misteri dell'amor platonico.

La Chiesa cristiana era (a dir loro) divisa in due, allora appunto che più integra ne pareva l'unità: il genio protestante passò di generazione in generazione fino a coloro che altamente lo proclamarono nel secolo xvi, quando non fu novità, ma manifestazione delle persuasioni de' secoli precedenti. Anzi il Veltro di Dante era una profezia, dove fin le lettere stravolte esprimono il nome di Lutero. Doversi pertanto in questo senso intendere tutta la poesia nostra, elevata così a significazione sociale. E poichè non v'ha bizzarria che coll'ingegno non possa sostenersi, il Rossetti fe un curioso pellegrinaggio traverso alla letteratura patria con questo intendimento, in cinque volumi d'improba fatica pretendendo mostrare che i poeti nostri non si perdevano dietro la vanità di amori, siccome pare dalle loro rime, ma sotto quell'apparenza celavano la ricerca di verità superne, e la donna che fingeano vagheggiare non era Beatrice o Laura, ma la libera Chiesa: e tutto ravvicinò ai riti massonici, che ormai non sono più un mistero neppure ai profani.

Senza scendere a particolarità, la minima nozione d'estetica fa repudiare un sistema, ove la poesia non sarebbe più ispirazione, ma allusione; ove si celebrerebbero persone e vezzi mancanti d'ogni verità. E ciò a qual fine? La moltitudine, cioè quella per cui si poeteggia, non poteva intenderne nulla; gli iniziati soli gustavano queste allegorie; ma a che pro, se già aveano ricevuta la rivelazione dell'arcano? E se così profondamente coprivano il loro odio contro Roma, perchè poi volta a volta lo rivelavano con aperte invettive? Sta bene che Dante chiami i sani intelletti a mirar la dottrina che asconde sotto il velame de' suoi versi; ma perchè dare fumo di queste allusioni se doveano restare arcane? E se non osava proclamare il vero, come vantavasi poi d'avere voce che «percoteva le più alte cime», e d'essere «non timido amico del vero», e di sperare per ciò di conservare fama presso coloro che il tempo suo chiamerebbero antico? Non meriterebbe invece di stare o coi pigri «a Dio spiacenti ed ai nemici sui»[164] o cogli ipocriti che stanno «nella Chiesa coi santi, ed in taverna coi ghiottoni?»[165].

Il signor Aroux ampliò il tema, supponendo di quell'eresia intaccata tutta la cavalleria d'allora, e specialmente coloro che sopravvissero dei Templari, i quali, attraverso ai secoli, giunsero ad istituire ai dì nostri una nuova categoria di franchimuratori. Dalle fonti più varie l'Aroux trae argomenti per sostenere che Dante volesse mostrare la supremazia papale essere il regno visibile di Satana, in quella che è commedia del cattolicismo. Per esempio, quando Dante dice che si dee, per salvarsi, seguire il pastore della Chiesa, intendeva il capo di quell'arcana religione, di cui era non solo adepto, ma [147] apostolo[166]. Era cioè dell'Ordine dei Templari, e volea vendicare sui papi la crociata contro gli Albigesi e la distruzione del Tempio. Ove si noti che i Templari aveano ricevuto la regola loro da san Bernardo[167], e Dante li nomina o accenna allora soltanto quando bestemmia Filippo il Bello d'avere cacciato le mani avide nel Tempio senza decreto[168].

La parola amore è la chiave di tutti que' misteri: Francesca non è più l'amante di Paolo, bensì la chiesa protestante di Rimini, uno de' focolaj dell'eresia. Il poeta, vinto da pietà per le dame antiche e i cavalieri, i quali eransi dipartiti dalla vita ghibellina per inclinare al cattolicismo, vede Paolo e Francesca, fedeli d'amore, leggeri al vento per la facilità nel cambiare al vento guelfo, che li spinse a seguire la Semiramide pontificia: il re dell'universo è Alberto tedesco, che, se fosse amico, darebbe pace a Dante; il qual Dante si fa tristo e pio, cioè ipocrita di papismo, per non esporsi ai martirj de' due amanti; il disiato riso di Francesca — intelligenza, baciata da Paolo — volontà, non significa che l'avidità con cui l'iniziato raccoglie la dottrina dalla bocca della filosofia razionale.....

Il sistema del signore Aroux non trovò assenso negli studiosi; in Italia poi egli si lagna che nessuno vi avesse fatto mente, eccettuato me, che gli diressi a stampa una lettera, dov'egli riconosce non solo un'amichevole cortesia nella contraddizione, ma qualche argomento cui non valeva a ribattere. E a chiunque abbia senso del bello domandiamo se sia possibile mai formare un poema, e così sublime, ove dovesse sempre intendersi diverso da quel che si legge. Dante scrive donare, e deve leggersi dona re; le verità più austere sulla Trinità, le confessioni più esplicite dell'autorità del papa, vere clariger regni cœlorum, che secundum revelata, humanum genus perducit ad vitam æternam; le lodi a san Bernardo, a san Domenico, sono finzioni e ironie: i commenti fatti nel Convivio alle canzoni vanno applicati alla Divina Commedia; la distinzione de' linguaggi nel Vulgare Eloquio esprime distinzione di partiti e credenze, e con queste chiavi Dante commentò se stesso in modo, che i Guelfi intendessero una cosa, i Ghibellini l'opposta. E tutto ciò nel poeta che vantavasi.

Io mi son un che, quando

Amore spira, noto, ed in quel modo

Ch'ei detta dentro, vo significando.

Certamente l'Alighieri serba quella scienza moderata che non presume spiegare tutto; non dubita della teologia, come neppure della filosofia; crede alla forza del sillogismo, agli artifizj della scolastica per raggiungere la verità; ammira la sapienza di Dio e la provvidenza, anzichè abbandonarsi alla scienza stanca e disillusa che, non credendo più nulla, a nulla conduce. Rimproverato ai Cristiani di non acquetarsi alle ragioni, giacchè, se avessero potuto sapere tutto, non era mestieri della rivelazione[169], fa la più esplicita professione di fede davanti a san Pietro prima d'entrare nell'empireo[170], [148] e sa che per giungere alla salute ci vuol di credere al vecchio e al nuovo Testamento, e all'interpretazione che ne dà la Chiesa[171].

V'è di più: egli riprova esplicitamente l'eresia: a «quei che presumono contro la nostra fede parlare», grida: «Maledetti siate voi, e la vostra presunzione e chi a voi crede»[172]: inneggia san Domenico «che negli sterpi eretici percosse»: nell'inferno vede le arche infocate piene di eretici. Forse erano gente che, in opposto della vita penitente e ascetica d'allora, cercavano i godimenti e l'oblio: ed erano intitolati Epicurei. La loro sètta era molto diffusa in Firenze nel 1115 e 1117, sotto i quali anni Ricordano Malaspini e Giovan Villani attribuiscono i ricorrenti incendj a giudizio di Dio contro la serpeggiante eresia: e il Villani dice altrove che i Patarini erano «epicurei per vizio di lussuria e di gola, che con armata mano difendevano l'eresia contro i buoni e cattolici cristiani».

Dante colloca Federico II nell'inferno tra gli eretici con più di mille, e tra essi Farinata sommo cittadino e Cavalcante Cavalcanti gran dotto, e padre del suo amicissimo[173]. Del primo, il commentatore Benvenuto da Imola riferisce che credeva il paradiso non doversi cercare se non in questo mondo; l'altro asseriva che uomini e bestie finiscono al modo eguale (unus est interitus hominis et jumentorum), e anche il Boccaccio ce lo dipinge che «alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva; e si diceva tra la gente vulgare, che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovarsi potesse che Iddio non fosse».

Al tempo di Dante erasi così lontani dal supporlo eretico, che l'intitolavano Theologus Dantes, nullius dogmatis expers: dopochè morì avvolto nel sajo di san Francesco, non che un legato pontifizio avesse intenzione di disperderne le ossa, queste riposarono benedette in chiesa, dove un legato pontifizio gli eresse un mausoleo, più benigno a lui che non la patria: subito si istituirono cattedre per ispiegarlo, e spesso in chiesa: ed era spiegato al concilio di Costanza, e frà Giovanni da Serravalle, minorita, a istanza de' prelati ivi raccolti, lo tradusse in prosa latina con commenti: nelle Logge Vaticane fu dipinto tra i padri della Chiesa; la sua effigie pendette a Firenze in Santa Maria del Fiore, come ai dì nostri vi fu messo sulla facciata di Santa Croce. Quando nel 1865 la radunata Italia volle celebrare il VI centenario della nascita di esso, l'iracondia da cui è ossessa la rivoluzione nostra volle palesarsi col celebrare l'inimicizia di Dante pei papi e per la religione. Ma mentre il vulgo ufficiale e scribacchiante diguazzava tra quel fango, i meglio pensatori e scrittori d'Italia s'elevarono a rivendicare il vero, e a presentare in Dante il poeta iracondo, accannito contro Bonifazio VIII personale nemico della sua fazione, indignato contro gli abusi della Corte pontifizia, allora oppressa dalla demagogia e dai re, ma pur sempre riverente alle somme chiavi, e attaccato a quella fede, che in Roma ha il centro e gl'interpreti legittimi.

[149] In relazione a quanto sponemmo nel capitolo precedente, noteremo come l'inclinazione al misticismo fosse comune a Dante e a' suoi amici, malgrado lo studio della filosofia e delle scienze naturali e della politica: Dante sta a meditare sul sasso rimpetto a Santa Riparata: Cavalcante fra gli avelli di Santa Maria Novella cerca se si trovasse modo di negare Dio. Per Dante la filosofia era una scienza che vede tutto in Dio, tutto da lui deriva e a lui riferisce; indaga il volere e la parola di Dio; nella natura egli vede simboli del soprannaturale: sotto tale aspetto guardò Beatrice «vestita di gentilezza, d'amore e di fede»[174], col che seguiva l'andazzo del suo tempo, l'educazione ricevuta, la complessiva tendenza della mente e dell'animo. Giovane, pensa farsi frate, e muore con la cocolla di frate: al par de' Fraticelli rimprovera i papi che si danno al lusso e alle cure mondane. E già nella Vita Nuova vedesi la trasformazione di Beatrice in simbolo, finchè nella Commedia quest'amor suo è convertito in desiderio beatifico della somma verità che lo conduce a Dio, attraverso la contemplazione de' tormenti e dell'espiazione.

Avversissimo a Dante si mostrò Cecco Stabili di Ascoli, che fu astrologo di Firenze, e compose un poema intitolato L'Acerba, volendo indicare un acervo o mucchio di cognizioni umane varie; poema filosofico nè bello di poesia, nè ricco di dottrina, ove in cinque rubriche o libri, parlato della scienza, nel sesto parla della rivelazione. La scienza ha secondo i tempi, ma ripetutamente batte Averroè e la sua scuola: nella rivelazione accetta affatto quel che la Chiesa, se non che qui pure mescola ciò che predomina nelle altre parti, la magia e l'astrologia; chiama «cieca gente e storpi intelletti» quelli che non conoscono il linguaggio de' corpi celesti, nè sanno indovinare il futuro, che sprezzavano l'astrologia, parlando «secondo il tempo antico»; credeva a un genio familiare, detto Florone, a' cui responsi sostenea doversi aver fede, sebbene talvolta inganni cogli oracoli suoi, come quando a re Manfredi rispose, Vincerai non morrai.

Le quali e ben più estese follie espone a lungo non solo, ma pretende persuaderle altrui; e lo fece a Bologna commentando la Sfera del Sacrobosco, e a Firenze mediante l'Acerba. Nel proemio all'esposizione del Sacrobosco dice che «molti si promettono giudicare della vita e della morte, e delle cose future mediante arti magiche, le quali sono da santa Madre Chiesa riprovate vituperevolmente (vituperabiliter improbata): e alle cinque scienze magiche, mantica, matematica, sortilegio, prestigio, maleficio prevale l'astronomia, cioè la rivelazione delle intelligenze mediante il cielo, al quale son note tutte le cose». Dalla magia anzi deduce pruove della divinità di Cristo, scrivendo: «Che Cristo fosse veramente figliuol di Dio ci è manifestato da molte cose, e primamente per i tre magi, i quali furono i maggiori astrologi che avesse il mondo, e seppero tutti i segni della natura». Ciò nel trattato della Sfera, dove pone ancora generarsi ne' cieli [150] alcuni spiriti maligni, i quali, sotto l'influenza di certe costellazioni, valevano ad operar cose meravigliose: sotto una di tali costellazioni esser nato Cristo, perciò rimasto povero; mentre sotto un'altra verrebbe l'anticristo, la quale lo farebbe ricco. E tutta l'esposizione, come tutta l'Acerba, è un esaltamento delle varie guise di magia.

Eppure Guglielmo Libri, grand'encomiatore di chiunque fu censurato dalla Chiesa e viceversa, osa vantar quel poema come una vera enciclopedia, e che «l'autore fu uomo dotto non solo, ma di elevati sensi, e sarebbe omai tempo che gl'Italiani cominciassero a venerar la sua memoria, vittima non della sola inquisizione»[175]. Eppure basta scorrer l'opera di Cecco per convincersi come a torto e' gli dia merito di molte verità, le quali esso o accenna confusamente o confuta. Tra quest'ultime è, che la terra sia sostenuta da due forze, una che la tira, una che la respinge, e che noi ora chiamiamo centripeta e centrifuga; ma Cecco riprova altamente alcuni ascolitani e fiorentini che ciò sostenevano, e che probabilmente erano Guido Cavalcanti e Dino del Garbo famoso medico, i quali esso bersaglia. E se veramente Cecco fu medico, il merito principale di quest'arte riponeva nel conoscere, per via delle stelle, quali infermità sieno mortali, e quali no: altro motivo per cui esso Dino gli si palesò avversissimo.

E contro Dante si svelenisce più volte Cecco, asserendo che andò all'inferno e più non risalì, anzi rimase nel basso centro, ove il condusse la sua fede poca; e confutandone le dottrine più rette intorno al libero arbitrio dell'uomo, e accusandolo d'aver amato con desio una donna, e lodato le virtù di un sesso, del quale egli non rifina di dir ogni male, non eccettuando nessuna. Di rimpatto, esso pretende innovar lo scibile, e per esso la vita umana nell'attuazione intellettuale, morale, religiosa, professando il materialismo e il comunismo; l'astrologia, le scienze occulte, con mille superstizioni e fanciullaggini; insegnando, anzi esortando agli incantesimi; inveendo contro chi non gli ammette[176].

Le magie e i sortilegi non erano spettanza dell'Inquisizione, siccome leggemmo nella Maestrazza, se già manifestamente non tenessero alcuna resia[177].

Tale appunto era il caso di Cecco. Giovanni Villani narra[178] che, nel trattato sopra la Sfera, avea messo che per incantamenti sotto certe costellazioni possono costringersi gli spiriti maligni a far cose meravigliose; che l'influenze delle stelle portano necessità, ed altre cose contro la fede. L'inquisitore lo riprovò, e gli fe giurare di non adoprar più questo libro, ma esso l'usò di nuovo a Firenze, onde fu preso dal cancelliere del duca d'Atene, allora dominante.

E un libretto contemporaneo, conservato in più biblioteche, particolareggia come frà Lamberto da Cingoli, inquisitore in Bologna, a' 16 dicembre 1324 lo condannò perchè avesse scompostamente parlato della fede, e [151] obbligatolo a una confessione generale e a certe penitenze, gli tolse tutti i suoi libri d'astrologia, e gli proibì di più leggere questa scienza, e privollo dell'onor del dottorato e di qualunque magistrato. Quel processo fu mandato a frate Acursio fiorentino de' Minori Osservanti, a 17 luglio 1327, il quale citatolo, lo pronunciò eretico, e lo rimise al braccio secolare, onde il dì medesimo fu fatto bruciare. Della sentenza ecco le parti principali:

Precedente la fama pubblica sparsa da molte persone degne di fede, ci venne all'orecchio che maestro Cecco, figliuolo dell'illustrissimo Simone Stabili da Ascoli, andava spargendo per la città di Firenze molte eresie; e quello ch'è cosa più brutta, dava a leggere per le scuole pubbliche un certo suo eretico libretto, fatto da lui sopra la sfera celeste, contro al giuramento altre volte da lui dato. Facemmo alla presenza nostra venire il detto Cecco: e nella esamina, ricevendo prima il giuramento di dire la verità, senz'altra strettezza o forza, ma di sua libera e spontanea volontà, disse e confessò:

1º Come, essendo già stato citato e richiesto da frate Lamberto di Cingula, inquisitore nella provincia della Lombardia, confessò com'egli aveva insegnato per le scuole, che l'uomo poteva nascere sotto tale costellazione, che necessariamente sarebbe o ricco o povero, e simile: se Dio già non mutasse l'ordine di natura. 2º Che aveva con giuramento promesso al detto frate Lamberto di lasciare ogni eresia e credenza, e ogni favore degli eretici, massime degli astrologi, e osservare la fede cattolica, e che ricevette la penitenza. E che, dopo dato il giuramento e fatto la penitenza, poi che venne a Firenze gli fu domandato se, per scienza astrologica, si potea sapere la fortuna o disgrazia di un esercito o di un principe, e rispose che sì: perchè una cosa che è possibile, disse, si può comprendere per mezzo di una scienza. E confessò aver consigliato i signori non esser bene per ora combattere coi nostri soldati contro il Bavaro; ma che se li concedesse il passo, infino a tanto che, con vera scienza di astrologia si potesse pigliare il tempo e il giorno atto alla guerra. E disse credere che le predette cose si possono sapere per scienza di astrologia, e che non crede esser questo contro la fede. 3º Asserì che aveva fatto più profitto nell'astrologia, che alcun altro, da Tolomeo in qua. 4º Confessò, che, domandato da un Fiorentino che gli dichiarasse il libro dell'Alcabizzo, che tratta de' segni e cognizione de' segni, della natività degli uomini, e dello eleggere i tempi del comprare, del vendere, e degli altri atti ed esercizj umani, gli disse che aveva fatto un comento sopra detto libro, e che perciò procurasse di averlo. 5º Disse aver composto un libro sopra la sfera. Ora, le cose che si contengono in detto libro, non viste per detto inquisitore, sono contrarie alla natura e nimiche alla verità cattolica. Che cosa più eretica, e più a Dio e agli uomini infesta che dire, per la necessità de' corpi superiori e virtù delle costellazioni, come dice un tal libro, Gesù Cristo nascesse povero? Che Anticristo abbia a nascere da una vergine, e che abbia a venire duemila anni dopo Gesù Cristo, in forma di soldato valente, accompagnato da nobili, e non come poltrone accompagnato da poltroni? Qual maggiore eretica falsità che il porre l'ora, il luogo, la qualità della morte, le quali cose sono al tutto incognite al genere umano? E nelle azioni umane, col giudicare secondo la disposizione e operazione de' corpi celesti si toglie al tutto il libero arbitrio, e per conseguenza il merito e il demerito. E benchè egli al presente preponesse la divina potenza e il libero arbitrio, nondimeno è stato convinto per testimonj che hanno deposto contro di lui. E quando si avesse a oprare con tale supposizione, che cosa si potrebbe fare col libero arbitrio? Nè vengono scusati tali errori dicendo, che queste cose non procedono di necessità, dicendo. La scienza dimostra quello che tu pensi, che porti [152] chiuso in mano. Perchè così in fatto suppone, e con le parole nega. Nè scusato debb'essere dicendo che crede non essere contro la fede pigliare il tempo, eleggere guerra, e simile; che sarebbe una ignoranza molto grossa, anzi un'opinione eretica. Il dire ancora i suoi scritti essere stati corretti per il detto inquisitore di Bologna, questo non è vero nè verosimile, anzi contrario, come apparisce per le proprie lettere dello stesso inquisitore. E posto che fussino corretti, egli se n'è servito ne' casi dove sono i maggiori errori. Nè debbe scusare che in fine delli detti scritti esprime che, se in quelli fossero alcune cose non ben dette, di rimettersi alla cognizione della santa Madre Chiesa; perchè in quella si sono trovate espresse eresie, scritte dopo aver giurato; e basta che una sola volta abbia ingannato la Chiesa; perchè questa protestazione è indirettamente contraria al fatto stesso, e l'aggrava maggiormente. E siccome non possiamo nè dobbiamo passare tali e tante cose fatte per lo detto maestro delli errori, in dispregio dell'Eterna Maestà e per lesione della fede cristiana, considerata la sentenza data per frate Lamberto contro di lui, e il giuramento ch'esso fece, e la penitenza che ricevè, della quale non si curando, dice non si ricordare; e viste le altre cose che dal medesimo inquisitore abbiamo ricevuto, e udito i testimonj e le sue confessioni, e datoli il termine per finirle, e scusarsi; e poichè nè fece alcuna scusa, nè fare procurò, e, nel giorno che seguiva detto termine, quelle raffermò di sua spontanea volontà, e disse di nuovo essere vere; conferita la cosa con prelati, e molte altre persone e dottori di legge, e consigliandoci doversi procedere alla sentenza, come cascato nella pena dell'inosservanza del giuramento dato di non attendere più all'eresia, e avuto sopra le predette cose nuovo parlamento con più e diverse persone, religiosi teologi, e con altri tanto chierici che laici, pronunziamo il detto maestro Cecco, eretico costituito in nostra presenza, essere cascato nell'eresia, nella quale con giuramento aveva già promesso di non cascare, e pertanto doversi dare e concedere al giudizio secolare. E così lo concediamo al nobile milite messer Jacopo di Brescia, con onore ducale vicario fiorentino, presente e accettante dell'ill.mo Cecco, per punirlo con la debita pena. E ancora il libro composto sopra la sfera, pieno di eresie e d'inganni; e un altro libro in volgare nominato l'Acerba (dal qual nome ne segue, che non contiene in sè maturità alcuna, presupponendovi che molte cose che appartengono alla virtù e ai costumi nascono dalle stelle, e a quelle ritornano come a loro cause) e riprovando tutti i suoi ammaestramenti, senza dottrina composti, e dannando diversi, ordiniamo di abbruciare con detto Cecco. E così ordiniamo e comandiamo.

La condanna di Cecco non fu dunque per magia e astrologia: del che troppe persone erano macchiate allora, eppur teneansi a servizio da Comuni, da principi, da prelati. Bensì per eresie, e per esservi ricaduto dopo la promessa. E per verità, studiando l'opera di Cecco, vedesi ch'egli mirava a un innovamento della scienza, e per mezzo di questa, a un innovamento della vita nell'intelletto, nella morale, nella religione, e a ciò adoprava l'insegnamento, la conversazione, i libri. La scienza sua nuova consisteva nella necessità universale e nell'antivedere; le intelligenze erano le cagioni; loro organi le stelle; ogni cosa sotto la luna aver effetti necessarj; tutto esser fatato. L'uomo però, mediante la scienza, può costringere le intelligenze a palesargli il futuro. Perchè questa nuova scienza prevalesse, bisognava aver distrutta la verità razionale e la rivelata; e Cecco lo faceva con una fermezza, che non si smentì neppur davanti al rogo.

[153] Insomma egli rappresenta la scienza naturale, contro la scienza cristiana di Dante: e potrebbe anch'essere che i Fiorentini, i quali vivo aveano cacciato Dante, morto il volessero vendicare perseguitando Cecco suo detrattore: il che viepiù ci si rende probabile vedendo principale avversario di lui Dino del Garbo. Anche l'Orgagna, nel Camposanto di Pisa, lo dipinse nell'inferno. Pure il suo poema nel principio del cinquecento fu ristampato ben diciannove volte; e il gesuita Appiani ne fece un'insulsa difesa, pretendendo fosse d'inappuntabile dottrina. Speriamo non si qualifichi egualmente quella che noi stendemmo del poeta teologo d'Italia, contro o uno zelo intemperante, o un'arguta miscredenza.

[156]

DISCORSO VIII.
L'ESIGLIO D'AVIGNONE. IL GRANDE SCISMA. CONCILJ DI COSTANZA, DI BASILEA, DI FIRENZE.

Intanto nell'esiglio avignonese i papi succedevansi, sempre col proposito di ritornare all'antica sede, ma sempre permanendone lontani. Avignone, città libera del contado di Provenza, che poi fu comperata dal papa, era preferita dai cardinali, perchè non si trovavano a fronte d'una plebe riottosa come la romana, nè di tracotanti baroni: adagiatisi colà come in domicilio stabile, ornarono di palazzi suntuosi la piccola città, e al papa persuadevano dover lui preferire la Francia, centro dell'Europa, meglio governata e quieta che l'Italia, più santa di Roma perchè religiosissima la chiamava già Cesare, e i Druidi vi esistevano prima del cristianesimo. Ma la prolungata assenza disgustava gl'Italiani, soliti a bersagliare i papi finchè li possedono, ribramarli appena perduti. E tanto più che, cessando i vantaggi, non cessavano gli sconci; e i papi continuavano guerre per sottomettere popoletti riottosi o signorotti ribellanti. Mentre le spese della Corte aumentavano, le rendite d'Italia andavano facilmente distratte: i regni stranieri ricusavano pagare i censi che sarebbero caduti a vantaggio della Francia; sicchè la curia per ripiegare si riservava benefizj e annate, moltiplicava commende e aspettative, e gli altri artifizj di fare denaro. La cattolicità poi non riguardava come abbastanza tutelata la necessaria indipendenza del suo Capo, dacchè esso viveva in una città, libera sì, ma chiusa fra dominj altrui.

Roma principalmente non sapea darsi pace di tale vedovanza; sossoprata a vicenda da una plebe irrequieta e da una faziosa feudalità, più non aveva amministrazione, non giustizia; i palagi cadeano in ruina; le chiese deserte si sfasciavano; il culto isquallidiva. I Romani volgean dunque la memoria e il desiderio alle antiche magnificenze, e Cola di Rienzo, fattosi tribuno del popolo, si propose di richiamare i papi a Roma, e ripor questa a capo del mondo civile. Sono note le scene sue, tra fiere e buffe; ripetute poi tante volte e in sì varj toni, che non si osa nè riderne, nè vituperarle. Fatto è che, elevato un momento dall'aura popolare, e con altrettanta prestezza [157] abbandonatone (1347), dopo repressi i nobili, citati i re e fino l'imperatore a venire a ricevere i decreti del popolo romano, a stento fuggì a cercare ricovero tra i Fraticelli di Monte Majella.

Il papa, rintegrata la sua autorità, mandò il cardinale Egidio Albornos spagnuolo (1353) per «ispegnere l'eresia, reprimere la licenza, procurare la salute delle anime, e rintegrare l'autorità della Chiesa colla pace e colla guerra». In fatti egli si sottopose i varj Comuni, in ciascuno de' quali avea fatto nido un tirannello; e raccolti a Roma i deputati di tutti essi Comuni (1357), d'accordo con loro dettò una costituzione.

Il dominio temporale non ha che vedere colla fede, e in conseguenza non è soggetto di eresia, e noi già indicammo come avesse un'origine più antica e più popolare di qualunque altro, e qual concetto se ne portasse allora. Qui però ci cade di osservare come i papi, conforme alle idee del medioevo, tanto diverse dall'assolutismo dello Stato, introdotto dai moderni, esercitassero il dominio in unione col popolo, cioè colla repubblica romana. Allorchè essi stettero lontani, questa prevalse a tal segno, che Cola citava l'imperatore e gli elettori di Germania a giustificare i loro titoli davanti al popolo romano.

Fu il cardinale Egidio Albornos che tolse a stabilirvi una vera sovranità, a quel modo che allora diveniva generale: distrusse i signorotti, recuperò le città, ben liete d'obbedire al pontefice piuttosto che a tirannelli; e colle Constitutiones Ægidianæ garantiva molti privilegi, pure procurando, massime nella Marca d'Ancona, assicurare il libero esercizio della sovranità mediante l'unità delle provincie. Quelle costituzioni rimasero il vero diritto pubblico della Romagna, furono stampate nel 1472, e dipoi con aggiunte varie: la Santa Sede, uniformandosi alle idee principesche le quali andavano prevalendo, s'ingegnava d'ampliare le sue prerogative, mentre le provincie attenevansi gelose ai proprj statuti: sicchè la sovranità pontifizia rimaneva piuttosto nominale al modo antico, anzichè dispotica.

Così s'andò fino alla rivoluzione del 1797, che spossessò i papi; poi la restaurazione del 1814 li ripristinò. Gli avversarj del dominio temporale si sforzano di provare che questo dominio esercitavano essi sempre in dipendenza della supremazia imperiale. Rinneghiamo tutta la storia, e concediamo ai realisti questo fatto. Ma il sacro romano impero nel 1804 era cessato, e tutte le dominazioni da quello dipendenti restavano dichiarate di piena autorità; ne' congressi del 1815 si convenne che ogni signoria mediata cessasse, e la sovranità fosse piena in ciascuno e indipendente. Anche i papi dunque rimanevano padroni assoluti del loro Stato, a fronte ai re. A fronte ai popoli avrebbero dovuto osservare i privilegi, che loro aveano conceduti e mantenuti da antico. Ma questi erano stati cancellati dalle illimitate signorie degli usurpatori, che avevano avvezzati all'incondizionato despotismo. I restauratori poi non voleano, e massime in Italia, che esistessero costituzioni e [158] diritti scritti di popoli: nemici alla storia, come chiunque vuole tiranneggiare. Imposero dunque al papa di farsi re assoluto, come essi erano, e fu allora che il cardinale Consalvi, non abborrente dalle idee nuove, fece dettare dal papa il motu proprio, che sistemava l'amministrazione pubblica con aspetto di legge generale, invece delle antiche molteplici e parziali; dal centro doveano partire le nomine de' magistrati, gli editti, le leggi finanziarie; solo delle moderne avanie non si volle imporre la coscrizione, che pure è indispensabile per sostenere le altre.

Novissimo dunque era l'assolutismo in terra di papa, e quando Pio IX iniziava e benediva il moto italiano, nella costituzione 14 marzo 1848 protestò di non fare che «riprodurre alcune istituzioni antiche, le quali furono lungamente lo specchio della sapienza degli augusti nostri predecessori»; e che «ebbero in antico i nostri Comuni il privilegio di governarsi ciascuno con leggi scelte da loro medesimi, sotto la sanzione sovrana».

Ecco una delle mille prove che la libertà è antica, e nuovo il despotismo; se non che, perduto ogni senso morale e politico, oggi si applica all'uno il nome dell'altra.

Quest'esiglio d'Avignone viene allegato, nelle odierne controversie, per indicare la possibilità di assidere il papa altrove che a Roma. Chi ciò desidera, non potrebbe scegliere nella storia esempio più sfavorevole, tutti essendo d'accordo nel deplorare quell'età, e mostrar che i papi non devono essere cittadini di paese altrui. Inoltre si avverta che il papa era sempre il vescovo di Roma, non mai il vescovo d'Avignone o di Peniscola, e teneasi fuori della sua sede per circostanze sciagurate. Già sant'Ireneo diceva che «la Chiesa di Roma ha un primato, pel quale tutte le altre devono accordarsi con essa nella fede». Talchè, anche data al problema l'unica soluzione possibile, l'espulsione forzata del papa da Roma, neppure d'un passo s'avanzerebbe la soluzione.

Ma tenendoci ai tempi di quell'esiglio, Roma altalenò sempre fra insania demagogica e oligarchica arroganza, or ribelle al pontefice per bizzarria, or sottomessagli per paura. Le baruffe invelenivano ancora più dacchè i papi, non risentendone gl'incomodi, poco curavano sopirle. I papi stessi sentivansi fuori di posto in una terra dove vestivano aspetto d'un esule ricoverato, piuttosto che di sovrano dei re; e dove prelati quasi tutti francesi davano alla Corte un'aria nazionale, ben diversa da quella cosmopolitica che soleva in Roma. Più volte dunque proposero di ritornare, ma o nol fecero, o per breve, e solo dopo settantun anno e tre mesi la santa sede fu restituita di Francia in Italia.

Queste miserie diedero nuova scossa alla maestosa unità cattolica, preponderante nel medioevo. Se gl'Italiani favorivano alla Santa Sede pel vantaggio che ne traeva il loro paese, eransene intepiditi dacchè quella esulava; e gli stranieri trovavano più oneroso questo migrare di tanto loro denaro [159] a paese che non era considerato seconda patria di tutti come Roma. I vescovi dall'assenza del papa pigliavano esempio per allontanarsi dalle loro diocesi. La contesa coi frati Minori aveva resa ostile alla Santa Sede la milizia sua più devota; e al vedere condannate persone pie, cui sola colpa dicevasi l'eccesso della povertà, si richiamavano le declamazioni d'Arnaldo di Brescia contro i possessi ecclesiastici e la corruttela derivatane. Le nazioni eransi formate attorno ai vescovi, donde l'assoluto potere ecclesiastico, come di padre sopra i figliuoli. Costituitesi, ingrandite, vollero svilupparsi dalle fasce della Chiesa per vivere di vita propria, compresero che il temporale potea sussistere disgiunto dallo spirituale: onde alla società senza limite di spazio surrogavano società parziali e distinte, all'andamento generale le particolari destinazioni.

I tentativi di Bonifazio VIII per rintegrare la supremazia richiamando in vigore le precedenti decisioni canoniche, destarono ne' principi quella gelosia, che proviene mentosto da usurpazioni reali che da temute. Alle immunità attribuite ai beni ed alle persone degli ecclesiastici, i Comuni più non aveano rispetto, e proferivano decreti sopra di essi, in onta agli anatemi del pontefice e de' vescovi. Quando l'edificio sociale era impiantato sulla fede, ogni opposizione si risolveva in eresia, e il pontefice per le sue prerogative, il clero per le immunità offese lanciavano scomuniche e interdizioni. Ma se queste aveano fiaccato l'orgoglio e la possa degli imperatori Sassoni e Svevi, perdeano efficacia dacchè venivano prodigate per intenti mondani; i Siciliani durarono ottant'anni in rotta colla Chiesa; i Visconti di Milano se ne vendicavano col pesare viepeggio sugli ecclesiastici; gli avvocati ergeano la fronte contro i papi, ai quali dianzi erasi incurvata quella dei re.

Non per questo si rinnegava la Chiesa: i Patarini erano scomparsi d'Italia o nascosti; il popolo amava le splendidezze del culto, se anche non ne venerava l'austerità, e compiaceasi del papa e della Corte pontifizia. Ma dacchè questa erasi trasportata in Avignone, i Guelfi non meno che i Ghibellini la bersagliavano, quasi cessasse d'essere cattolica cessando d'essere romana. Franco Sacchetti mercante fiorentino, il Petrarca canonico, il Pecorone frate, e persone di grande scienza e di celebrata santità avventavansi contro la Babilonia: i malcontenti del governo temporale vituperavano i papi spirituali: di Clemente V non è male che non si dicesse: Giovanni XXII fu tacciato d'eretico sì pel suo litigio che dicemmo coi Fraticelli, sì per sue dubitazioni sulla beatifica visione: cioè se le anime elette vedano Dio nella sua maestà subito staccate dal corpo, o solo dopo il giudizio finale.

Lodovico il Bavaro, eletto imperatore di Germania, era venuto in Italia per la corona (1324), e poichè Giovanni XXII gliela ricusava, egli ostentò non aver bisogno dell'autorità di esso. Il papa allora dichiarò l'Italia sottratta alla giurisdizione imperiale, in modo che non potesse mai più essere incorporata coll'impero nè infeudata. Di ripicchio il Bavaro s'appella al [160] Concilio, e prodiga le solite ingiurie al papa; il papa dichiara lui scomunicato, e interdetti i paesi che gli obbedissero; onde Lodovico, che, sostenuto dai Ghibellini, si era fatto coronare a Roma, e avea nominato un antipapa, presto si trova isolato e decaduto.

Per sostenersi aveva egli adoprato non solo le armi, ma le dottrine. Guglielmo Occam, scolastico nominatissimo, contendeva l'infallibilità non solo al papa, ma anche al concilio universale e al clero; ai laici in corpo competere il decidere definitivamente; contro il papa potersi all'uopo usare anche la forza, o stabilirne diversi, un dall'altro indipendenti. Marsilio di Mainardino da Padova, eloquente professore all'Università di Parigi, insinuò a Lodovico che a lui spettasse riformare gli abusi della Chiesa, giacchè questa è sottomessa all'impero; «Ho visto (egli diceva) prelati, abati, sacerdoti, così sprovvisti di dottrina, che non sapeano tampoco parlare secondo grammatica. Quei che hanno visitato la Corte di Roma, la conobbero casa di traffico, spelonca di ladroni; quei che non l'hanno veduta udirono ch'è fatta ricettacolo di quasi tutti i ribaldi, e trafficanti nello spirituale come nel temporale; non v'è che malvagità; nessuna premura di acquistare le anime»[179].

Col mistico Ubertino da Casale egli pubblicò il Defensor pacis, ove già s'incontrano le negazioni di Calvino rispetto all'autorità e costituzione della Chiesa; la potestà legislativa ed esecutiva di questa fondarsi sul popolo, che la trasmise al clero; i gradi della gerarchia essere invenzione posteriore; Gesù non lasciò alla sua Chiesa verun capo visibile, e Pietro avea preminenza tra gli apostoli soltanto per l'anzianità; il primato consistere unicamente nel convocare concilj ecumenici e dirigerli, purchè il papa vi sia autorizzato dal legislatore supremo, cioè da tutti i fedeli o dall'imperatore che li rappresenta; eguali essendo i vescovi, l'imperatore solo può elevarne uno sopra gli altri, e a grado suo abbassarlo: a lui solo spetta l'istituire i prelati, eleggere il papa, giudicare i vescovi, al modo che Pilato giudicò Cristo; convocare i concilj e regolarne le deliberazioni: nè la Chiesa può infliggere alcuna pena coattiva se l'imperatore non assente. Altrettanto sosteneva Giovanni Gianduno di Perugia; sì poco sono moderne le dottrine che subordinano la Chiesa ai governi[180].

Giovanni XXII in una Bolla riprova tali errori, e avendo citato invano i due autori, li condannò coi libri loro. Teoriche altrettanto assolute vi opponeano i curialisti; e col VI e VII libro delle Decretali e colle Estravaganti erasi estesa per modo la competenza del fôro ecclesiastico, che qualsivoglia lite poteva anche in prima istanza essere portata al pontefice.

Agostino Trionfo d'Ancona, agostiniano, che dettò a Parigi, poi a Napoli, dedicò a Giovanni XXII una Somma della podestà ecclesiastica, dove, elevando la potenza papale colla Bibbia, il vangelo, i miracoli, le leggende, da Dio immediatamente la deriva; superiore ad ogni altra perchè giudica tutti, [161] da nessuno è giudicata; come spirituale, così è temporale, perchè chi può il più può anche il meno: è assurdo appellarsi al concilio, giacchè questo non trae autorità che dal pontefice, il quale unico può proferire sui punti di fede, nè altri può investigare dell'eresia senz'ordine di esso. Come sposo della Chiesa universale, tiene immediata giurisdizione sopra le singole diocesi. Al papa devono obbedienza Cristiani, Ebrei e Gentili; egli, e non i vescovi, può scomunicare; egli punire i tiranni e gli eretici anche con pene temporali; di là della tomba estende il potere per via delle indulgenze. Potrebbe scegliere di qualsiasi paese l'imperatore, senza ministero degli elettori, o renderlo ereditario: l'eletto dev'essere da lui confermato e professarsegli ligio, e può da lui essere deposto: tutti i re sono tenuti obbedire al pontefice, dal quale traggono la potestà temporale: a lui può appellarsi chiunque si sente gravato dal principe: e i principi egli può correggere per peccati pubblici, deporli anche, istituire un re di qualsiasi regno: gli imperadori non donarono il dominio ai papi, ma lo restituirono: Gesù Cristo dicendo che il suo regno non è di questo mondo, intendeva del mondo vecchio, non del rigenerato: il potere temporale deve stare unito allo spirituale perchè l'uno serve di mezzo all'altro: rendere a Cesare ciò ch'è di Cesare vuol dire permettere che l'imperatore eserciti la giurisdizione, sempre in dipendenza dal papa: quanto alla povertà, Gesù Cristo possedea vesti, viveri, denaro, con cui pagava il tributo[181].

Così procedendo, non c'è atto, non c'è abuso che non giustifichi.

L'esagerazione è sintomo di autorità minacciata; ma realmente declinava ne' popoli lo spirito di soggezione. Di intromettersi nelle cose ecclesiastiche avea troppi pretesti l'autorità secolare, quando la santa sede, fatta ligia ai re, non valeva a frenare la corruzione fastosa de' prelati, i quali sotto la stola mantenevano le abitudini dell'educazione secolaresca e il lusso sfrenato delle famiglie signorili. Ned altro testimonio ne voglio che il concilio Lateranense III, il quale, avvisando i prelati quanto disdica il camminare con treno sì numeroso, e il consumare in un pranzo l'intera annata della Chiesa che visitano, impone ai cardinali s'accontentino di quaranta o cinquanta vetture, gli arcivescovi di trenta o quaranta, i vescovi di venticinque, gli arcidiaconi di cinque o sette, di due cavalli i decani; tutti poi vadano senza cani da caccia nè uccelli. Per mantenere questo fasto profano accumulavansi fin quaranta o cinquanta benefizj in una sola mano; e vuolsi che Benedetto XII proponesse ai cardinali, se rinunziassero all'averne più d'uno, assegnare loro centomila fiorini d'oro di rendita e metà delle entrate dello Stato pontifizio; e ad essi non parvero abbastanza.

La corruzione scendeva grossolana nel clero minore, dove ignoranza, venalità de' sacramenti, comune l'ubbriachezza, sfacciata la libidine: nelle chiese e ne' conventi si stabilivano bettole e giuochi; le monache uscivano a volontà dai monasteri: trafficavasi di grazie, dispense, perdoni. Degli [162] antichi Ordini religiosi rilassavasi la disciplina, e perfino in quel Monte Cassino, che già allora avea dato ventiquattro papi, ducento cardinali, milleseicento arcivescovi, ottomila vescovi, molti santi, i monaci vestivano sfoggiato, abitavano comodi, riservavansi peculj particolari, anzi riceveano dal convento una prebenda, colla quale vivere in case secolari.

Ai conforti del pio Marco, parroco in Padova, Luigi Barbo tolse a dare a quell'Ordine regole più severe, che presto si estesero a Pavia, Milano e più da lungi.

Il beato Giovanni Dominici fiorentino, oratore famosissimo, restaurò la vita regolare in Italia e in Sicilia fra i Domenicani, infervorato da Chiara de' Gambacurti, e ajutato da Raimondo da Capua, dal beato Marconino di Forlì e da altri. A Siena Bernardo Tolomei fondava gli Olivetani; Giovanni Colombino i Gesuati; Pietro Gambacurti di Pisa gli Eremiti di san Girolamo, gli Eremiti di Fiesole il beato Carlo dei conti Guidi.

Diedero odore di gran santità sant'Andrea Orsini, Bernardino da Siena, Vincenzo Ferreri. Giovanni da Capistrano napoletano, convertitosi in carcere, ispirava compunzione, scrisse dell'autorità del papa, e fu apostolo d'una crociata contro Maometto. In tutti questi e in altri si fanno sentire gemiti per la depravazione della Chiesa.

Urbano VI avventatosi a riformarla di colpo, vietò ai prelati d'usare a tavola più d'una pietanza, egli stesso dandone l'esempio; minacciò non solo i simoniaci, ma chiunque accettasse doni, e fe credere di volere fermamente rimettere a Roma la Corte. Di ciò indispettiti, la più parte de' cardinali separaronsi da lui e protestarono non era stato eletto liberamente, ma sotto la costrizione del popolo romano tumultuante, e gli sostituirono Clemente VII ginevrino. Parte della cristianità accettò l'uno, parte l'altro papa; donde comincia il grande scisma, con una doppia serie di pontefici paralleli.

Qual era il vero?

Personaggi di senno e santità grande parteggiarono per l'uno e per l'altro; pruove in favore addussero questi e quelli, per modo che può sostenersi la buona fede d'entrambe le parti. Ma per mezzo secolo fu scissa la cristianità fra due campi ostili, fra pontefici che rimbalzavansi accuse e taccia d'intruso e d'eretico. Ne restavano divise le nazioni; divisi i cittadini; divisi gli scolari d'ogni Università, i monaci d'ogni convento, i membri d'ogni famiglia; e da per tutto dispute e collisioni fino al sangue; due vescovi, eletti dall'uno o dall'altro pontefice, si contendevano la medesima sede; abborrivansi le messe degli uni o degli altri. I due papi per procacciarsi partigiani riconoscevano un re diverso, scialacquavano privilegi, connivevano a traviamenti e usurpazioni, spoverivano il basso clero col lasciare trascendere l'alto; questo riservavasi le migliori grazie e le commende e i benefizj, dandole in appalto a persone dappoco, mentre i curati [163] erano fino ridotti a mendicare. Ciascuno insomma era ricorso a mezzi dissonanti da quelli dell'apostolato: Bonifazio IX lasciò trafficare delle indulgenze e del suffragio ai morti, pretendeva le annate dei vescovi eletti, a denaro permetteva di accumular benefizj; Giovanni XXIII ebbe accusa di cavare oro dalle medesime miniere, e moltiplicarlo colle usure.

Le piaghe del papato, come il cadavere di Cesare, furono allora esposte agli occhi di tutti, invelenite dalla collera de' nemici non meno che dalle ingiurie palleggiatesi fra' cardinali e pontefici rivali, che, per non disgustare la loro fazione, erano costretti rassegnarsi a minacce, a importunità, dissimulare e simulare, intrigare, congiurare, promettere, concedere; infine guadagnare tempo fingendo di desiderare una riconciliazione, di cui aveano in mano il mezzo; e compromettendo un'autorità che si fonda interamente sulla virtù e sull'opinione.

Questo scapitare della santa sede nella venerazione, cresceva baldanza a' principi di sminuirne l'autorità, ai dotti di chiamarla a severo e passionato esame: le satire acquistavano peso quando uscivano dalla bocca de' pontefici stessi, e portavano ad immediata applicazione.

Pertanto il dubbio filtrava nei cuori più sinceri; l'indifferenza ne' più generosi, la disperazione ne' più robusti: e principi, Università, giureconsulti, teologi, disputavano sui mezzi di ripristinare l'unità. Il più ovvio sarebbe stato un concilio generale: ma poichè il convocarlo attribuivasi da secoli al papa, a qual dei due competeva? Si dovette ripiegare con sinodi particolari; ma che? oltre i due papi, v'ebbe fin tre concilj.

Intanto che nel mondo cristiano perdevasi l'unità che n'è l'essenza, Bajazet granturco stringeva Costantinopoli, aveva invaso l'Ungheria, e la Polonia; e i Tartari, sotto il terribile Tamerlano, minacciavano all'Europa le devastazioni che aveano recate all'Asia.

Gli animi, sgomentati fino alla disperazione, si volgeano a Dio, da lui solo aspettando il termine a tanti guai. Già nel 1260, in occasione di gravi sventure, s'eran diffusi per Italia i Flagellanti: compagnie devote che, dietro a un crocifisso, passavano di paese in paese, gridando misericordia e pace e penitenza, e traendo infinita gente, intere città e provincie. Pare fossero primi i Perugini: trentamila Bolognesi arrivarono così a Modena; alcuna volta crebbero fino a centomila; e cercavano por rimedio agli scandali, alle discordie, alle usure colla preghiera, la macerazione, la predica. Era una grande pietà come quella de' frati Minori; erano innamorati della penitenza, come questi della povertà, e come questi trascesero. Perocchè, oltre i disordini inseparabili da tanto aglomeramento di persone, convertironsi in setta ereticale, predicando che la remissione de' peccati non otteneasi se non coll'appartenere un mese almeno alla loro compagnia; confessavansi tra loro, sebbene laici; vantavansi d'operare miracoli e cacciare demonj. Mentre dunque al cominciamento i principi e i prelati li favorivano, dappoi li vietarono; [164] i Torriani non meno che gli Estensi, Manfredi di Sicilia al par dei Comuni, eressero forche se osassero avvicinarsi[182].

Non per questo cessarono: e nel 1334 frà Venturino da Bergamo menavasi dietro più di diecimila Lombardi, ricevuto a guisa d'uomo divino; e con grandi limosine. Cresciuto a forse trentamila seguaci, e vaticinando mali futuri, passò a Roma, poi anche alla Corte d'Avignone sperando ottenerne grandi indulgenze; ma al papa sembrò scorgervi ambizione o leggerezza, e frà Venturino fu messo al tormento e in carcere: donde poi mosse colla crociata, e morì a Smirne.

Quella divozione rinfervorò nel 1399, d'Irlanda varcando in Inghilterra, in Francia, poi in Piemonte; e i Flagellanti da una parte per Lombardia, dall'altra per Genova voltarono su Roma. Erano donne, fanciulli, vecchi, cenciosi, ricchi, dotti, imbecilli alla mescolata, con abiti strani come suole la folla; giunti in una terra, intonavano lo Stabat Mater, il Miserere, le Litanie, visitavano le chiese, riceveano alloggio e cibo dalla carità, poi lasciati gli stanchi, e assunta nuova turba, ripigliavano il pellegrinaggio[183].

Chi non vede quali disordini potesse addurre questa incondita pietà, mentre non riparava a quelli cagionati dalla scissura della Chiesa?

Mentre i pii gemevano e pregavano, i diversi dal disordine esterno passavano a criticare l'intima verità della Chiesa; si spargeano libri e sermoni critici, anche in lingua vulgare[184]; Bartolino da Piacenza verso il 1385 pubblicò alquante tesi legali sul modo di trattare il papa qualora apparisse negligente, inetto a governare, o capriccioso in modo da ricusare il consiglio dei cardinali (com'era il caso di Urbano VI); e conchiudeva potere quelli mettergli de' curatori, al cui parere foss'egli obbligato attenersi nello spacciare gli affari della Chiesa. I roghi non bastavano a reprimere gli eretici in Francia; i Valdesi pigliavano ardimento fra le Alpi, e Gregorio XI movea lamento perchè dalle valli subalpine si propagassero, e discesi in Piemonte, avessero trucidato un inquisitore a Bricherasio, uno a Susa[185].

Profittando di questa depressione, Carlo IV emancipò l'impero dalla dipendenza papale, e i Francesi, colla prammatica sanzione di Bourges, restrinsero i diritti pontifizj. In Inghilterra Giovanni Wicleff aveva impugnato le indulgenze, la transustanziazione, la confessione auricolare, domandato la secolarizzazione degli Ordini regolari e la povertà del clero. Girolamo da Praga portò i libri di esso in Boemia, dov'ebbero effetti più gravi, perocchè Giovanni Huss, che già aveva colà alzato la voce contro la depravazione del clero, vi attinse argomenti teologici e ardimento a proclamarli. Essendo poi venuti alcuni monaci a spacciarvi indulgenze, e avendo l'imperatore proibito il sacrilego traffico, si pigliò baldanza a declamare, in prima contro l'abuso, poi contro le indulgenze medesime. Il popolo ascoltava avidamente; gli studenti boemi se n'infervoravano; le quistioni religiose prendevano colore politico d'aborrimento ai Tedeschi e d'aspirazioni repubblicane; lo sparlare [165] dei papi pareva indizio di ragione più elevata e di carattere più franco, e se ne faceva argomento da piazza non meno che da scuola, dove i professori fra la gioventù inesperta seminavano un vago desiderio di sottrarsi ad ogni autorità.

Tante passioni, tanti errori, eppure fu ancora alla Chiesa una che la cristianità si ricoverò; e sotto al manto del pontificato. Di questo non erasi mai impugnata l'unità; benchè restasse incerto chi ne fosse l'investito; disputavasi del possesso e dell'esercizio dell'autorità; ma non dell'autorità stessa. E più erano ulcerate le piaghe, più speravasi ne' rimedj che v'apporrebbe un concilio, che inoltre rannoderebbe i principi cristiani per respingere la sempre crescente minaccia degli Ottomani.

L'imperatore Sigismondo, fisso in animo di ricondur la Chiesa all'unità, ottenne si convocasse il concilio a Costanza, città imperiale sulla riva occidentale del bel lago che divide la Svevia dalla Svizzera. Assai principi, signori e conti v'intervennero; si numerarono fino cencinquantamila forestieri, fra cui diciottomila ecclesiastici e ducento dottori dell'Università di Parigi: ma insieme trecenquarantasei commedianti e giullari, settecento cortigiane, trentamila cavalli; e fra lusso e tornei e sfide i gaudenti menavano baldorie, mentre i pii oravano, i dotti preparavansi a lizze dialettiche.

Ma un'assemblea di tanta importanza, fino dal principio reluttò ai modi sagaci, con cui gl'Italiani e il papa tentavano dominarla[186]. Mentre la Chiesa nella sua universalità non distingue popoli, ed estima ciascun uomo pel proprio valore, qui divisero il concilio in camera tedesca, italiana, francese, inglese, spagnuola, le quali deliberassero distintamente; mirando con ciò ad elidere la superiorità degli Italiani.

Tre papi sedeano allora; Giovanni XXIII, Benedetto XIII, Gregorio XII, e vennero indotti a rinunziare (1417) terminando così uno scisma, che fu la maggiore prova a cui la Chiesa andasse esposta[187].

Bisognava surrogare un pontefice degno. Sigismondo voleva che, prima d'eleggerlo, si riformasse la Chiesa, per timore che il nuovo non fallisse alla promessa; ma gl'Italiani incalzarono perchè prontamente si eleggesse: e la scelta cadde su Ottone Colonna, che nominossi Martino V. Sigismondo aveva preveduto giusto; poichè Martino trovò modo di rinviare d'oggi in domani le chieste riforme, logorando il tempo in divisamenti o in condiscendenze secondarie.

Il concilio, ancor prima della creazione di Martino V, avea condannato le seguenti proposizioni:

«È contro la sacra scrittura che persone ecclesiastiche abbiano possessi.

«I signori temporali possono ad arbitrio togliere i beni temporali alla Chiesa, quando i possessori pecchino abitualmente, non solo attualmente.

«È contro la regola di Cristo l'arricchire il clero.

«Silvestro papa e Costantino imperatore errarono coll'impinguare la Chiesa.

[166] «Il papa con tutti i cherici sono eretici perchè possedono, e così quei che glielo consentono.

«L'imperatore e i signori secolari furono sedotti dal diavolo perchè dotassero di temporalità la Chiesa».

Ma già il concilio stesso era uscito dalla suprema sua missione, e nel proposito di tôr via lo scisma, e considerando incerto il papa, si credette autorizzato a comandare anche a questo, fino a decretare nella V sezione che, qualunque siasi e di qualsivoglia condizione anche papale, il quale sprezzi di obbedire a questo sacro sinodo o a qualunque altro concilio generale, sia assoggettato a condegna penitenza.

A questo lo traeva l'essere la Chiesa scissa: anzi andò tant'oltre che nella XXIII sezione, dichiarò potersi dal papa appellare al concilio. Cessò allora d'essere tenuto per ecumenico; e papa Martino, proferitolo sciolto, andossene a Roma.

I Padri, vedendosi sprezzati dal popolo per le capiglie e i baccani a cui prorompeano, e divenuti sospetti nella fede dacchè eransi segregati dal papa, vollero ostentare zelo della fede col perseguitare l'eresia, e condannarono Giovanni Huss e Girolamo da Praga, i quali, malgrado il salvocondotto dell'imperatore[188], furono dati al braccio secolare e posti sul rogo. Tristo rimedio la violenza! La Boemia divampò d'un incendio, a spegnere il quale non bastarono torrenti di sangue[189].

Eugenio IV, pontefice d'animo elevato, ma senza misura in nessuna cosa, fece aprire un nuovo concilio a Basilea (1431), onde estirpare l'eresia, ridurre in pace le nazioni cristiane, togliere il lungo scisma de' Greci, e riformare la Chiesa. I Padri s'accinsero a quest'ultim'opera senza preciso concetto di quel che volessero operare, nè de' limiti dell'autorità propria e di quella che pensavano restringere; denunziarono un dopo l'altro gli abusi parziali, senza proporre un rimedio radicale. Da principio, non che attenuare la sovranità papale, sanzionossi il Decreto di Graziano che la sublimava, i cinque libri delle Decretali di Gregorio IX, forse anche il sesto di Bonifazio; solo si tolsero ai papi le riserve, il diritto di provvisione, e quello di mettere imposte sulle chiese. Ma poi guidato a passione, il concilio pensò non solo scemare la potenza papale come quel di Costanza, ma sostituirvi la propria.

Vedendolo condursi con quella precipitazione, che sgomenta ogni autorità dirigente, Eugenio sospende il concilio. I Padri, non gli badando, citano lui pontefice, incolpandolo di disobbedienza; poi calata la visiera, dichiaransi ad esso superiori, nè potere esso scioglierli, nè traslocarli[190].

Allora, accannitisi alla riforma della Chiesa, mozzano assai diritti curiali; determinano le forme dell'elezione del papa, e il giuramento che deve prestare; restringono le concessioni ch'e' può fare ai parenti; limitano i cardinali a ventiquattro, e ne escludono i nipoti.

[167] Quel che di buono vi si trovava indubbiamente, era guasto dall'incompetenza e dalla smoderatezza; del che rimproverandoli, Eugenio trasferiva il concilio a Ferrara (1438). Ma dei Padri solo due ed il legato si mossero, gli altri continuarono a cincischiare la giurisdizione di Roma; anzi dichiararono scismatica l'assemblea di Ferrara, Eugenio eretico e decaduto, surrogandogli Amedeo VIII duca di Savoja, il quale accettò l'uffizio d'antipapa col nome di Felice V (1439). Così rinnovavasi lo scisma.

Il concilio di Ferrara, trasferito a Firenze, restò memorabile per la riconciliazione della Chiesa greca, allora fatta sotto la paura dei Turchi[191]. Oltre i punti controversi con quella Chiesa, vi è riconosciuto il primato del pontefice romano, vero successore di san Pietro, vicario di Cristo, e padre e dittatore di tutte le chiese[192]. Ma appena i Padri greci rimpatriarono, le dimostrazioni di piazza proruppero contro la riconciliazione: fu duopo disdirla: e si gridò dapertutto «Piuttosto il turco che il papa». Furono esauditi; e nel 1453 il Turco impossessavasi di Costantinopoli e di tutta la Grecia, che finora non ha abbandonata.

Il nuovo papa Nicola V (1447) mostrossi tutto disposto ad accordi, talchè il sinodo di Basilea più non si resse; Felice V abdicò; la pace fu restituita alla Chiesa; e il giubileo, celebrato l'anno appresso, parve solennizzare il trionfo di Roma.

I due concilj di Costanza e Basilea sono di autorità disputata, e non figurano nella serie di quelli dipinti in Vaticano. Se avessero con prudenza e carità provveduto alla riforma della Chiesa, potevano prevenire i disastri del secolo seguente. Ma rottosi l'accordo, mancata la saviezza pratica degli affari e il cauto indugiare, una critica indiscreta rischiò di surrogare agli abusi altri peggiori: come accade nelle eccedenze, la podestà minacciata riuscì superiore senza neppure le concessioni a cui mostravasi disposta. Laonde ne' popoli rimase indebolita la certezza dell'assistenza divina; sottentrata al sentimento la ragione, e alla fede lo spirito privato, i teologi sottilizzavano sui diritti, e la cattolicità si trovò divisa in papali ed episcopali, gli uni e gli altri esagerando. Mancata ne' vescovi l'assoluta soggezione, essi divennero negligenti dei doveri non solo, ma anche dei diritti veri per rinforzare i contestati, blandirono il potere laicale per averlo in appoggio contro i papi, e fantasticavano chiese nazionali. Ne' papi vacillò la coscienza della propria supremazia, sicchè per consolidarla gettaronsi nella politica, cioè si fecero ligi agli interessi; e proni ad una morale d'opportunità; a fronte dei sistemi allora introdotti d'equilibrio locale e di convenienze meramente politiche, non diressero più gl'interessi comuni della cristianità; mentre, lusingati dall'apparente vittoria, svogliaronsi fino delle riforme sentite necessarie, e s'assopirono in una sicurezza che doveva riuscire funestissima.

[171]

DISCORSO IX.
ERESIA SCIENTIFICA E LETTERARIA. PAGANIZZAMENTO DELL'ARTE, DELLA VITA. ERESIA POLITICA.

Fra i tanti pregiudizj letterarj, con cui offuscano gl'intelletti le deplorabili scuole odierne, v'è questo, che il medioevo fosse un'età trista, melanconica, di penitenze e digiuni, di pellegrinaggi e flagellazioni, di demonj e fatucchiere; ove le minaccie dell'altra vita conturbavano questa, deserto arido, esiglio espiatore, tremebondo dinanzi a potenze arcane, avide del dolore e non esorabili che col dolore. Eppure, chi vi guarda, troverà che i sentimenti affettuosi vi aveano ricevuto sviluppo, fino a scapito della ragione; la cavalleria fondavasi tutta sulle simpatie, e di là vennero i racconti che più sorrisero alle fantasie moderne: in capo a tutte le devozioni stava la madre del Bell'Amore: il misticismo era un eccesso dell'amor di Dio, come molti Ordini monastici portavano all'eccesso l'amor del prossimo: lo spiritualismo era austeramente dolce, sino in que' frati, che non solo nelle novelle ma ben anco nelle storie ci sono esibiti come bontemponi, motteggiatori, burleschi, che le prediche stesse drammatizzavano, che ogni funzione cominciavano e finivano coi canti, che composero tutte le laude e molte delle rappresentazioni, colle quali edificavano insieme e ricreavano la plebe di Cristo. Il vulgo vivea contento, perchè non concepiva soddisfazioni maggiori, e perchè i sofferimenti, inseparabili dalla vita, considerava quale conseguenza inevitabile del peccato, ma espiatrice e meritoria. Le cronache parlano continuo delle feste che ripetevansi ad ogni occasione; devote, o popolesche, od aristocratiche, ma sempre accomunate a tutto il paese. La casa del contadino non era molestata dall'esattore; non la sua chiassosa allegria dal gendarme; non la sua figliolanza dalla coscrizione; e se fosse possibile spogliarci dell'intirizzente raziocinio e dell'egoismo odierno, ben altra ci si presenterebbe la vita d'allora.

Altrettanto dobbiamo abbandonar alle scuole e alla plebe degli scrittori l'asserire che il medioevo non sapesse nulla, e colpa ne fosse il clero. Il medioevo serbò tutte, dico tutte, le cognizioni dell'antichità, e n'aggiunse moltissime. Il clero, sol che l'avesse voluto, potea spegnere l'antica face della civiltà, giacchè egli solo l'aveva in mano; e in quella vece la tenne [172] viva ed alzata, e faticò a propagarla per quanto era fattibile tra le inenarrabili sventure di quell'età.

Dove conservaronsi tutti i manuscritti dell'antichità? chi li trascrisse? Dicono che il clero ne abbia lasciato perire alcuno per ignoranza o per usar quella carta a scrivervi lavori che ad esso più importavano. Foss'anche colpa l'usar mezzi proprj a proprio utile, è ampiamente riscattata dal merito de' tanti tramandatici, e ne loda il buon gusto il vedere che questi sono i capolavori del genio classico.

Nè è da trascurare che i paesi più istruiti d'allora erano l'Italia e la Spagna; e sono appunto quelli che respinsero il protestantismo. Qui da noi in generale, discutendo l'applicazione, non s'impugnava il principio; l'Inquisizione, nel secolo XV, ebbe poc'altro che a perseguitare maliardi e superstiziosi anzichè eretici, nè conosco quali fossero quelli che combattè il famoso Giovanni da Capistrano, nè quelli che dalla Francia e dalla Lombardia si erano ricoverati fra i monti della Valtellina, e alla cui conversione andò il beato Andrea Grego di Peschiera, domenicano di San Marco in Firenze, che morì il 1455, dopo dimorato quarantacinque anni fra que' pastori e carbonari alpini. Neppur potemmo accertare che cosa fosse la setta pitagorica, diffusa in tutta Italia, alla quale diceasi appartenere Arnaldo di Villanuova; oppure la società segreta che avea giurato la distruzione del cristianesimo, e della quale parla con sbigottimento la discesa di san Paolo all'inferno[193]. Il cronista Ser Cambi, al 1453, scrive che Giovanni Decani, medico, il quale non credeva la resurrezione de' morti, fu condannato alla forca a Firenze; e in quel anno morì Carlo d'Arezzo cancelliere della signoria, ed ebbe grandissime doti: «Dio l'abbia onorato in cielo, se l'ha meritato; non che si stimi, perchè morì senza confessione e comunione, e non come cristiano». Lodovico Cortusio giureconsulto, morendo a Padova il 17 luglio 1418 lasciò per testamento che amici nè parenti nol piangessero; se no, rimanessero diseredati, mentre suo legatario universale sarebbe quello che ridesse di miglior cuore: non parare a bruno la casa e la chiesa, ma fiori e fronde; musica invece delle campane funebri; e cinquanta sonatori e cantanti procedano insieme col clero, cantando alleluja tra viole, trombe, liuti, tamburi, ricevendo ciascuno un mezzo scudo. Il suo cadavere, entro una bara a panni di varj colori gai e sfoggiati, sia portato da dodici donzelle vestite di verde, che cantino arie allegre, e ricevano una dote. Non rechino candele, ma ulivi e palme e ghirlande di fiori; non lo seguano monaci che abbiano la tonaca nera. Così piuttosto in guisa di nozze che di funerale fu sepolto in Santa Sofia. Il nostro secolo, che tanto s'intende di libertà, lo chiamerebbe un libero pensatore.

Ma intanto il mondo si era trasformato, fissate le genti sul suolo che diverrebbe lor patria; e restauratasi l'antica coltura, si moltiplicavano le scoperte, si sentivano nuovi bisogni.

[173] Non limitandosi a dirozzare la società nuova, la letteratura pretendeva modificarne le credenze e gli atti, ritornando nelle teoriche e nella pratica verso il paganesimo. Le scienze, allattate nel santuario e disciplinate dagli scolastici come un esercito sotto al Verbo di Dio, or disertavano, e dilatandosi mediante la stampa, mordeano il seno che le avea nudrite. Passando dal periodo credente al pensante, l'uomo s'appropriava col raziocinio le verità, che fin là avea ricevute dalla fede, e mentre fin allora la religione era, quale Grozio la definì, unico principio dell'universale giustizia, or non più soltanto dalla Chiesa domandavasi in che modo servire meglio a Dio e al prossimo. Platone avea detto: «Filosofia è imparare a conoscer Dio: filosofare è amar Dio: filosofare è imitar Dio»[194], onde fu preferito dai primi Cristiani, ma condusse facilmente nell'idealismo. La filosofia scolastica, tutta armata di logica, avea preso per oracolo Aristotele, in verità maestro eccellente, poichè in esso trovasi anche la critica degli altri sistemi, mentre Platone non dà che il proprio dogma. Aristotele anch'esso proclama e dimostra il Dio supremo, la legge morale, l'anima immortale: ma al Cristiano che attende tutto da Dio, poteva essere fedel maestro questo, che esagera la potenza della natura e l'efficacia dell'umana volontà? Egli che erige in principio supremo la natura, poteva rimanere l'oracolo d'una scienza tutta religiosa? Poi esso giungeva in Europa nelle versioni e nei commenti de' Musulmani, che gli aveano prestato sentimenti assurdi e sofisterie; che traducendo teosofizzavano l'autore, e in modo fantastico osservando il mondo, applicavano l'astronomia all'astrologia, l'astrologia alla medicina. I nostri, nel tradurre quelle traduzioni, nuovi errori vi sovrapposero; nè la critica sapeva riconoscervi l'alterazione, mentre l'idolatria professata ad Aristotele impediva di supporlo in fallo; donde una miscela d'arabo, di scolastico, di cristiano, bastardume sterile, e indicifrabile a quei che voleano conciliarlo colla teologia dogmatica.

Al movimento razionale repugna assolutamente l'islam, avverso ad ogni cultura civile e profana; pure un istante la protezione de' califfi gli diè tale impulso, da sorgerne un'età dell'oro della coltura musulmana, sebbene esagerata da coloro che imputano ai Cristiani d'averla respinta. Quegli italiani che il fanno, e che deridono o riprovano le crociate pensino che l'islam stabiliva il despotismo teocratico, dove non famiglia, non ceti, non liberi possessi, non gerarchia; bensì un'eguaglianza assoluta, ove tutto può la volontà d'un solo. Un tale despotismo, più robustamente attuatosi nei Turchi, represse la coltura degli Arabi a tal segno, che più non ne serbano nè impronta nè ricordo i Musulmani. Nella cristianità invece si riverirono e usufruttarono i loro dotti e pensatori, e massime Averroè, vissuto verso il 1180, e che fece quel Gran Commento, pel quale si disse essere stata la natura pienamente interpretata da Aristotele; Aristotele pienamente da Averroè.

Gli Arabi, dopo ricevuta la rivelazione di Maometto, aveano cominciato [174] le dissensioni teologiche dall'eterna quistione del libero arbitrio e della predestinazione (Kadariti e Giabariti), donde passarono a quella sugli attributi di Dio. Ma anche fra loro v'avea degli scettici; v'avea degli increduli; vacillavasi tra l'entusiasmo religioso e il libero pensare: e quel che fra noi la Scolastica, fu fra essi il Kaläm, discussioni razionali sia per esaminare, sia per difendere colla dialettica i dogmi attaccati. In tali esercizj la filosofia araba ampliò i problemi de' Peripatetici, e accolse l'eternità della materia e la teorica dell'unicità dell'intelletto.

E appunto la filosofia di Averroè s'appoggia sul panteismo; una sola essere l'anima, e Dio essere il mondo. La generazione (secondo lui) non è che un movimento. Ogni movimento suppone un soggetto. Questo soggetto unico, questa possibilità universale è la materia prima. Essa è dotata di ricettività, ma di nessun'altra qualità positiva, cioè può ricevere le più opposte modificazioni; materia prima, senza nome nè definizione; semplice possibilità. Ogni sostanza è dunque eterna per la sua materia, cioè perchè può essere. Chi dicesse che una cosa passa dal non essere all'essere le attribuirebbe una disposizione che mai non ebbe. La materia non fu generata e non può corrompersi. La serie delle generazioni è infinita da entrambi gli estremi: tutto quanto è possibile passerà in atto, altrimenti v'avrebbe alcun che di ozioso nell'universo: e nell'eternità non v'è divario tra il possibile e l'esistente. L'ordine non precedette il disordine, nè questo quello: nè il movimento il riposo o viceversa. Il movimento è continuo; ogni movimento è causato da un moto precedente. Se il moto dell'universo si fermasse, cesseremmo di misurare il tempo, cioè perderemmo il sentimento della vita successiva e dell'essere[195].

Quest'unità degli spiriti fu trionfalmente confutata da san Tommaso[196], e, nel XIV secolo, da Egidio di Roma, le cui opere troviamo pubblicate ai primordj della stampa[197], dipoi da Gerardo di Siena e Raimondo Lullo. Essi non fanno che esecrare quest'empio, il quale identifica l'anima di Giuda e quella di san Pietro, nega la creazione, la rivelazione, la Trinità, l'efficacia della preghiera, della limosina, delle litanie, la risurrezione e l'immortalità, e colloca il supremo bene nei godimenti. Egidio di Roma nel trattato De erroribus philosophorum, lo taccia d'aver rinnovellato tutti gli errori d'Aristotele, vie meno scusabile perchè direttamente intacca la fede nostra; biasima tutte le religioni, non meno quella de' Musulmani che quella de' Cristiani, perchè ammettono la creazione dal nulla: chiama fantasie le opinioni de' teologi, e sostiene che nessuna legge è vera, benchè possa esser utile.

E appunto una delle accuse principali contro Averroè si è la comparazione delle leggi di Mosè, di Cristo, di Maometto. Aveano dovuto istituirla i Musulmani per sostener la loro religione, ma Averroè più di spesso e dogmaticamente accenna ai tres loquentes trium legum[198], donde il crederlo [175] autore del libro dei Tre Impostori, divenne arma per colpire chiunque si volea screditare.

E veramente gli scolastici del secolo XIII vanno d'accordo nel riprovare Averroè, ma ciò stesso mostra che v'avea dottori e scuole dov'era riverito e insegnato; nè forse mal s'apporrebbe chi ciò attribuisse principalmente a' Francescani, per opposizione ai Domenicani e ai Tomisti. Certo ne parla con rispetto Roggero Bacone.

E qui è luogo a ripudiar due altri pregiudizj da scuola contro il medioevo, opponendovi due meraviglie. La prima è la rapidità con cui, senza stampa nè poste, si difondeano i pochi libri. Le poesie de' Trovadori, appena prodotte, conosceansi in tutta Europa. Abelardo aveva appena pubblicato le sue scettiche teorie a Parigi, e subito le si possedeano in fondo all'Italia. I versi del Petrarca, lui vivo, gli davano una gloria estesa quanto a qualsiasi poeta de' giorni nostri; e meglio che a' giorni nostri s'aveva a Padova o a Bologna notizia di opere prodotte a Marocco o al Cairo. Più che all'attività degli Ebrei, io inclino ad ascrivere questo fatto alla grande e compatta società dei monaci.

L'altra meraviglia è che, in secoli vituperati per intolleranza, non s'avesse scrupolo di farsi scolari d'Ebrei e di Musulmani, tenendo le scienze come un campo neutro, e salvo a condannarne gli abusi. Coi Musulmani comunicavasi da un lato per la Spagna, dall'altro per la Sicilia, oltre i viaggi d'Oriente: onde ben presto venne dai nostri conosciuto Averroè. Ma il primo ad introdurne le opere nelle scuole fu Michele Scoto nel 1230, e per queste fu ben accolto nella Corte degli Hohenstaufen avversa ai papi; e Federico II, come re Manfredi, ebbe in corte Ermanno tedesco traduttore[199].

Non si tardò a conoscere il pericolo delle dottrine d'Averroè, e la Chiesa ne vietò la pubblica lettura, ma presto si sentì l'influenza del peripatismo arabo sui filosofi nostri, e principalmente su Alberto Magno, che nel 1255, per ordine di papa Alessandro IV compose a Roma un trattato contro l'unità dell'intelletto, nel quale già si trova la distinzione di verità filosofiche e verità teologiche[200]. Alberto adduce 30 argomenti che sostengono quell'asserto, 36 che lo ribattono, onde l'immoralità individuale gli sa numericamente più forte. Certamente nel secolo XIV Averroè era riverito come il migliore fra i commentatori d'Aristotele: Dante lo collocava coi più famosi antichi, e le sue opere spandeano dubbj sulla vita futura.

Il rinascimento che allora seguì fu piuttosto letterario che filosofico, e mentre stavasi ancora fedeli al sillogismo, il quale esclude le gradazioni e modificazioni, introduceasi quell'espressione colta sotto cui si palliano le divergenze d'opinioni. Di tale risorgimento letterario è rappresentante Francesco Petrarca, il quale vuolsi noverare fra' più efficaci sulla coltura europea pel tanto che adoprò a ravvivare la tradizione classica, non tanto nella forma esterna, quanto nello spirito intimo e libero, per cui considerava come [176] barbarie il medioevo, e come ignoranza tuttociò che derivasse da altro fonte che da' classici. Pertanto egli sprezza affatto gli Arabi, e specialmente la loro medicina, a cui s'innestavano l'astrologia e l'incredulità, ed esortava a schivar tutto quanto derivasse da quella nazione[201]. E poichè alcuni diceano che noi potremmo eguagliare, e forse sorpassare i Greci e tutte le nazioni, eccetto gli Arabi, esclamava: O infamis exceptio! o vertigo rerum admirabilis! o italica vel sopita ingenia, vel extincta!

Per questo sentimento e pel religioso egli professavasi ostilissimo ad Averroè, e si piangeva che non ottenesse nome di dotto e filosofo chi non aguzza la lingua e la penna contro la religione; chi non va per le strade e per le piazze disputando sugli animali, e così mostrandosi animale. Più uno accannisce contro la religione, più a' costoro occhi è ingegnoso e dotto: ignorante chi la difende. «Per me (soggiunge) più sento denigrare la fede di Cristo, più amo Cristo e mi confermo nella sua dottrina, come un figliuolo, di cui la tenerezza filiale si fosse raffreddata, la riscalda se ode attentarsi all'onor di sua madre». Soleano essi (dice altrove) porre in mezzo qualche problema aristotelico, o sulle anime; ed io tacere, o celiare, o avviar tutt'altro discorso, o sorridendo chiedere come mai Aristotele avesse potuto saper cose, dove non val la ragione, dov'è impossibile l'esperienza. Essi stupivano, e in silenzio indispettivansi, e guardavanmi come un bestemmiatore.

Uno di costoro, «i quali pensano esser da nulla se non abbajano contro di Cristo e della sovrumana sua dottrina», andò a trovare esso poeta a Venezia, e lo cuculiava perchè avesse citato quel detto dell'apostolo delle genti: Io ho il mio maestro, e so a chi credo; e, «Tienti il tuo cristianesimo, io non ne credo acca; il tuo Paolo, il tuo Agostino e cotest'altri ebber ciarle e nulla più; e deh! volessi tu legger Averroè, che vedresti quanto ei sorvola a cotesti tuoi buffoni». Il Petrarca se ne stomacò, e tutto dolce ch'egli era, prese pel mantello e mise fuor di casa il temerario[202].

Anche altri quattro[203] faticarono per trarlo al loro pensare, indispettendosi che prendesse sul serio la religione, e citasse Mosè e san Paolo, e conchiusero ch'egli era un uomo dabbene, ma senza cultura. E «se costoro (soggiunge) non temessero i supplizj degli uomini più che quelli di Dio, impugnerebbero non solo la creazione del mondo secondo Timeo, ma la genesi e il dogma di Cristo. Quando paura non li rattiene, combattono direttamente la verità; nelle loro conventicole ridonsi di Cristo, e adorano Aristotele senza capirlo. Disputando, in pubblico protestano di far astrazione dalla fede, cioè di indagare la verità ripudiando la verità, cercar la luce volgendo le spalle al sole. E come non tratterebbero d'illetterati noi, poichè chiamano idiota Gesù?»

Non sentendosi abile a confutarli, il Petrarca esortava Luigi Marsigli agostiniano a farlo, e «ribattere quel can rabbioso d'Averroè, che non cessa d'abbajare contro Cristo e la religione cattolica»[204].

[177] Pietro d'Abano (1250-1316) aveva introdotto Averroè nell'Università di Padova, e con esso l'incredulo materialismo, e il considerar tutte le religioni come eguali, supponendole nate sotto certi influssi di stelle[205]; la qual fantasia dell'oroscopo delle religioni, più tardi vedremo ripigliata da Pomponazio e da Pico della Mirandola. Pietro fu accusato anche d'eresia, ma così vagamente, che alcuni lo imputano di non credere ai demonj, altri di averne alcuni famigliari, che teneva in un'ampolla. Dall'Inquisizione si salvò una volta; presone un'altra, morì mentre gli si faceva il processo; il quale finì col dichiararlo eretico, e ordinare ne fosse dissepolto il cadavere.

Giovanni di Gianduno, che con Marsiglio di Padova sostenne Lodovico il Bavaro contro il papa, imparò o insegnò in quest'Università l'averroismo. Dove pure Paolo da Venezia e frate Urbano da Bologna, che nel 1334 ne stese un commento, ed altri, prima di Gaetano Tiene (1387-1465), reputatone fondatore dal Facciolati e dal Tommasino; mentre solo per l'alta sua nascita e per la scienza contribuì grandemente a diffondere tal dottrina con un corso che in numerosissime copie fu diffuso, ed ebbe credito nelle scuole italiche in tutto il secolo seguente. Paolo di Venezia ( — 1429) agostiniano, soprannomato excellentissimus philosophorum monarcha, ammettea francamente l'unicità dell'intelletto secondo Averroè, benchè non ne deducesse l'unicità delle anime. Anzi a Bologna ciò sostenne in pubblica disputa avanti al capitolo generale del suo Ordine contro Nicolò Fava. Ma per quanto si schermisse con tutta l'abilità dialettica, Ugo Benzi da Siena gli gridò: «Fava ha ragione, e tu hai torto». Il Benzi era nemico del Fava, onde Paolo esclamò: «In quel giorno divennero amici Erode e Pilato», e così risolse in riso l'adunanza.

Onofrio da Sulmona, Paolo della Pergola, Giovanni da Lendinara, Nicola da Foligno, Marsilio da Santa Sofia, Giacomo da Forlì, per nominar solo i nostri, parteggiavano in quel tempo pel peripatismo d'Averroè nella scuola di Padova. Nella quale, e all'abadia di San Giovanni in Verdara a Bologna, Averroè godette venerazione; Michele Savonarola nel 1440 lo chiama ingenio divinus homo, e affrettaronsi a commentarlo Claudio Betti, Tiberio Cancellieri di Bologna, il Zimara, lo Zaccaria, Lorenzo Molino di Rovigo, Apollinare Offredi, Bartolomeo Spina, Gerolamo Sabbioneta, Tommaso da Vio; la famosa Cassandra Fedele veneziana ottenne la laurea nel 1480, sostenendo tesi averroiste: Nicoletto Vernia, che professava a Padova sin al 1499, era imputato d'aver diffuso quel veleno per tutta Italia[206], e da lui imparò il Nifo: ma buoni amici l'indussero a ritrattarsi. E chi cercasse negli archivj di quelle Università, troverebbe ne' quinternetti le pruove de' molti studj fattisi colà intorno all'averroismo, che regnava nelle scuole venete, come il platonismo nelle toscane. Pertanto Francesco Patrizio illirico, che presunse fondare una [178] filosofia nuova, esortava il papa a sbandir Aristotele come ripugnante al cristianesimo, a cui in quarantatre punti aderiva Platone.

Ma se quello al materialismo, questo conduceva al misticismo; ed entrambi all'incredulità. Gemistio Pletone di Costantinopoli (1355-1452), venuto a Firenze per contrariare l'unione della Chiesa greca colla latina, diffuse fantasie neoplatoniche, ed asseriva fra poco la religione di Maometto e quella di Cristo perirebbero, per far luogo ad una più vera, non diversa dalla pagana. Nel Sunto dei dogmi di Zoroastro e Pitagora contrappone la teologia gentilesca alla ecclesiastica; e sebbene procedesse con cautela, il patriarca Gennadio gl'interruppe l'apostolato. Restò inedito il suo Trattato delle leggi[207], apologia del politeismo, i cui dogmi connette in un sistema filosofico regolare, con organamento e leggi e culto, feste, inni e preci per ciascun Dio. Insomma appare degno maestro di quel Pomponio Leto, che davanti ai papi professava di voler annichilare l'opera di Gesù Cristo.

Più erano coloro che bilanciavansi fra Aristotele e Platone, fra paganesimo e cristianesimo: e in religione l'eccletismo striscia all'eresia, se non è. Già nominammo Egidio da Roma, della nobilissima famiglia Colonna, scolaro di san Tommaso, generale degli Eremitani, poi arcivescovo di Bourges, eruditissimo nelle sacre scritture e nella filosofia aristotelica, e fra i dottori cognominato il Fondatissimo. Or egli dichiarava esserci cose che sono vere secondo il filosofo, non secondo la fede cattolica: quasi due verità contrarie possano sussistere. Tale proposizione venne condannata sotto Giovanni XXII, ed egli si ritrattò; ma questa eresia divenne comune nel secolo XV, e si sosteneano pretti errori, come la mortalità dell'anima, l'unicità dell'intelligenza, l'ispirazione individuale, salvandosi col dire che erano illazioni dalle premesse di Platone e d'Aristotele, ma non pregiudicavano ai dogmi di Cristo. Così le due opposte scuole s'accordavano contro la rivelazione, non combattendola, ma affettando di non tenerne conto, quasi la non fosse mai avvenuta; eliminando la fede e ogni forza o sussidio soprannaturale, per seguire solo le vedute proprie in problemi di spettanza religiosa, la cui soluzione importa alla morale come al benessere della società.

A Platone prestava culto Marsilio Ficino, sino ad accendergli una lampada; nol discompagnava da Mosè, vi trovava l'intuizione de' misteri più profondi; il Critone pareggiava ad un secondo vangelo, piovuto dal cielo; e servendo a due padroni, usava espressioni scritturali a spiegare il filosofo. Loda Giovanni de' Medici con queste parole: Est homo Florentiæ missus a Deo cui nomen est Johannes: hic venit ut de summa patris sui Laurentii apud omnes authoritate testimonium perhibeat. E da Plotino fa dire sopra Platone: Hic est filius meus dilectus in quo mihi undique placeo: ipsum audite[208]. Nel trattato De religione Christiana (1474) prova la divina missione di Cristo dall'esser egli stato predetto da Platone, dalle [179] Sibille, da Virgilio; e dall'avere dato gli Dei molto benigna testimonianza di esso: i preti sieno dotti, i dotti preti; e la vera scienza è il platonismo. Tutte le religioni son buone, e Dio le preferisce all'irreligione; la cristiana è più pura, ma v'è profeti e sacerdoti in ogni nazione, quali Orfeo, Virgilio, il Trismegisto, i Magi, ecc.: e il Ficino tradusse libri da ciascuno, senza investigarne l'autenticità: le Enneadi di Plotino, i libri d'Ermete, i misteri degli Egizj di Giamblico, le opere di Dionigi Areopagita, i Versi Dorati di Pitagora, opuscoli di Proclo, Senocrate, Sinesio, Teofrasto, Alcinoo, Zoroastro. Nel trattato De vita cœlitus comparanda, sull'astrologia erige un sistema della vita del mondo, ove tutte le forze solidariamente e le idee e i costumi si trovano messi in corrispondenza coi movimenti e le sistemazioni degli astri. Nella Theologia platonica de immortalitate animæ (1488) adduce moltissime pruove di questa, ma fa preponderare la dottrina dell'emanazione; e assimila l'intelligenza e il bene alla luce, la materia e il male alle tenebre. In questo sincretismo, ciò che gli manca sempre è lo spirito cristiano, la carità.

Michele Mercato, suo prediletto discepolo, non sapea cacciare di testa i dubbj sull'immortalità dell'anima. Ed ecco una mattina è svegliato dallo scalpitare d'un cavallo e da una voce che il chiama a nome. Si affaccia, e il cavaliere gli grida: «Mercato! è vero». Egli avea pattuito col Ficino che, qual dei due morisse primo, darebbe all'altro notizie d'oltre la tomba; e il Ficino era appunto spirato in quell'istante.

Nè già faceansi quistioni generali sopra Aristotele e Averroè ed Alessandro Afrodisio; ma tutto s'era ristretto in pochi punti capitali: l'immortalità è un bel trovato de' legislatori; il primo uomo provenne da cause naturali: i miracoli sono illusioni o imposture: le preghiere, l'invocazione de' santi non hanno efficacia alcuna, e la dottrina dei tre impostori rinasceva quando Pomponazio contro la Providenza lanciava questo dilemma: se le tre religioni son false, tutto il mondo è ingannato: se delle tre, una sola è vera, ecco ancora ingannata la maggioranza.

Questo Pietro Pomponazio mantovano (1473-1525), brutta figura, cattivo filologo e debole logico, ma arguto, sonoro e vivace parlatore, tormentato dall'incertezza del vero a segno da perderne il sonno, e soffrir la febbre e vertigini[209], accorgendosi d'altra parte che il ricercarlo provoca beffe dal vulgo, persecuzioni dagli inquisitori[210], pone ogni studio a conciliare la ragione colla fede. Gli resta qualche dubbio; e promovendo discussioni senza riguardo al dogma e alla disciplina cattolica, vi risponde facilmente: ma altri dubbj gli rampollano, e da ciascuna soluzione ritrae nuove incertezze, sempre allontanandosi d'un passo, finchè riesce fuor del cristianesimo, anzi d'ogni credenza positiva: dubita fin della Providenza e dell'individualità dell'anima[211], fa inventate dagli uomini le idee morali e le postume retribuzioni[212]; conchiude riferendosi interamente alla Chiesa, pur professando ch'ella non dà nessuna soddisfacente soluzione.

[180] Volete vedere com'egli o vacilli fra le autorità, o se ne rida? Trattando della destinazione delle anime, repudia il panteismo, monstrum ab Averrhoe excogitatum; ma (dice) se fosse vero, come molti Domenicani asseriscono, che san Tommaso avesse ricevuto, realmente e davanti testimonj, tutta la sua dottrina filosofica da Gesù Cristo, non oserei muover dubbio su veruna delle sue asserzioni, per quanto mi sappiano di false e assurde, e ch'io ci veda illusioni e decezioni piuttosto che soluzioni; perocchè, a detta di Platone, è empietà il non credere agli Dei o ai figli degli Dei, quando anche sembrino rivelar cose impossibili. Vero o no che sia il racconto, io citerò di lui su tal soggetto cose che ispirano gravi dubbj, de' quali attendo soluzione dagli infiniti uomini illustri della sua setta».

E qui, schierate le argomentazioni più speciose contro l'immortalità, conchiude che questo problema, come quello dell'eternità del mondo, da nessuna ragion naturale può essere risolto; onde s'ha da seguire Platone, ove de legibus dice: «Quando molti dubitano d'una cosa, è solo di Dio l'assicurarla». Vuolsi dunque esaminare quello che viene stabilito nella sacra scrittura; e poichè ivi è asserita l'immortalità, non è lecito dubitarne; repugna essa ai principj naturali, ma il voler adoprare questi sarebbe un oltraggiar la fede[213].

Può darsi più strano modo d'accettare la tradizione religiosa?

Il Bayle trova cento discolpe al Pomponazio, e ben si comprende, giacchè in lui difendea se stesso. Chi però volesse scusarlo dovrebbe allegare che incertissime dottrine correano sull'anima, quando i Platonici ne ammetteano tre, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; e de' Peripatetici alcuni sosteneano l'unicità delle intelligenze, altri la moltiplicità, pur facendole mortali. Il Pomponazio volle scostarsi da tutte le dottrine d'allora; dimostrò che nessuna, e tanto meno quella d'Aristotele, bastava a provare l'immortalità, ma che, neppur negando questa, ne soffrirebbe la morale privata o la pubblica, anzi ne vantaggerebbe.

Altrettanto egli usa intorno al libero arbitrio. «Se c'è una volontà superiore alla mia, una legge imposta al mondo, come dovrei io rispondere del mio pensiero, de' miei movimenti? Ora, una volontà, un ordine superiore esiste: dunque tutto ciò che si opera non può farsi che secondo una via già tracciata: operi bene o male, non ne ho merito nè colpa». Su questo motivo acconcia mille variazioni, poi conchiude col rifuggire alla fede, e sottomettersi alle decisioni della Chiesa.

Poich'ebbe così tolto a dimostrare che la teologia dovea lasciar libera la parola alla filosofia, procedette avanti, sino a pretendere che la Chiesa non dovesse impacciar più gli ardimenti della filosofia, giacchè il dominio di essa, per evidenti segni, volgeva al declino. Nel trattato delle Incantagioni professa tenersi alla natura qualvolta le argomentazioni bastano a dar ragione di fenomeni, per quanto straordinarj, ma nega assolutamente il [181] miracolo; non darsi alcun fatto nella storia sacra o nella profana che esca dal naturale; se eccettua i fatti scritturali è mera precauzione oratoria; secondo lui, ogni cosa è concatenata in natura; di guisa che i rivolgimenti degli imperi e delle religioni dipendono da quelli degli astri; i taumaturghi sono fisici squisiti, che prevedono i portenti naturali e le occulte rispondenze del cielo colla terra, e profittano della sospensione delle leggi fisiche ordinarie per fondare nuove credenze; cessata l'influenza, cessano i prodigi: le religioni decadono, e non lascerebbero che l'incredulità, se nuove costellazioni non conducessero prodigi e taumaturghi nuovi; le stelle, le costellazioni, le intelligenze celesti determinano l'applicazione anche straordinaria di leggi fisse: per essi nascono le religioni e muojono, via via che l'umanità si perfeziona, tutte avendo un'origine, una stasi, una decadenza, neppur eccettuandone la cristiana[214].

In tutto ciò mostrava ingegno robusto, superiore ai tempi, precursore di molte novità; ma era ateo o ipocrita? Le sue proteste di fede non salvano l'arguzia e la sofisteria de' suoi ragionamenti.

Per tali guise la filosofia era messa in contrasto assoluto colla religione, sotto pretesto d'accordarla. Anche Cartesio presunse aquetare l'eterno conflitto tra la fede e il raziocinio, col dire che la ragione ha un regno suo proprio, ove la tradizione non dee penetrare; e così la fede ha terre riservate, chiuse al libero pensiero; la religione è una cosa, la filosofia un'altra; esse devono trovar pace nel reciproco isolamento; non è necessario scegliere; basta far a ciascuna il suo spazio legittimo; e se ben si guardi, tutte le insigni opere dell'età di Cartesio s'impiantano su questa base. Di certo la filosofia ha alcune parti diverse dalla teologia, per esempio la logica e la psicologia sperimentale; ma su punti essenziali, quali il principio e il fine delle cose, Dio e la nostra destinazione, potrebbe mai un uomo aver due opinioni contrarie? come operare fra due scienze, l'una che dice sì, l'altra che dice no?[215]

L'opera del Pomponazio fu bruciata pubblicamente a Venezia; tolta a confutare da Alessandro Achillini averroista scolastico[216], dal Nifo, e da Ambrogio arcivescovo di Napoli, contro i quali la difese l'autore; poi dal Contarini che fu cardinale, da tre frati, Bartolomeo da Pisa, Girolamo Bacelliere, Silvestro Prieira.

Perocchè i frati vigilavano su questi aberramenti, e studiavano a combatterli; i filosofi si lagnano sempre dell'opposizione dei cucullati: il Pomponazio querelasi d'un eremita di sant'Agostino napoletano, che, predicando a Mantova, l'avea proferito eretico ed empio, mentre in vece il cardinal Bembo l'avea difeso alla Corte papale, e non trovato nel suo De immortalitate nulla di contrario alla verità, e che egual opinione tenne il maestro del sacro palazzo. In fatto, mediante le continue proteste di sommessione e la condotta intemerata, egli potè seguitar a professare [182] impunemente; dopo morte fu onorato d'una statua, e deposto nella sepoltura d'un cardinale; ma allora divulgossi un epitafio che diceva: «Qui giacio sepolto. — Perchè? — Nol so, nè mi curo sapere se tu il sappi o no. Se stai bene ne godo. Io vivendo stetti bene. Sto bene ora? se sì o no non posso dirlo».

Poichè da noi facilmente ogni sentimento diviene passione, non piccola efficacia ebbe egli sul suo tempo; e qualora un professore cominciasse le solite dissertazioni, i giovani interrompevano gridando: «Parlateci delle anime», per conoscer di primo achito come vedesse nelle quistioni fondamentali.

A que' pensamenti aderirono Simone Porta, Lazzaro Bonamico, Giulio Cesare Scaligero, Giacomo Zabarella, Daniele Barbaro che diceva: «Se non fossi cristiano seguirei in tutto Aristotele»[217]; Simone Porzio, la cui opera sull'anima è detta dal Gessner «più degna d'un porco che d'un uomo», eppure non gli partorì disturbi. Andrea Cesalpino, illustre naturalista, fa generar le cose spontaneamente dalla putredine, allorchè più intenso era il calore celeste. Galeotto Marzio di Narni, nelle dissertazioni De incognitis vulgo, avendo posto molti errori, e asserito che, chiunque vive secondo i lumi della ragione e della legge naturale, otterrà l'eterna salute, e posto in bilancia i dogmi nostri coi pagani nell'evidente intenzione di mostrarli del pari credibili, fu côlto dall'inquisizione a Venezia, e s'un palco, colla mitera di carta dipinta a diavoli, obbligato a ritrattarsi; da maggior castigo salvato da Sisto IV, ch'era suo allievo[218], tornato in Boemia e in Ungheria, dove già prima era vissuto come bibliotecario e educatore del figlio di Mattia Corvino, ne uscì per seguitare Carlo VIII in Italia; cascando di cavallo si ruppe la pingue persona. Matteo Palmieri di Pisa, noto autore della Vita civile (1483), cui Marsilio Ficino diresse una lettera come poetæ theologico, scrisse un poema in terzine a imitazione di Dante, intitolato Città di vita, nel quale sosteneva che le anime nostre sono quegli angeli che, nella ribellione, non furono per Dio nè contro Dio, ma rimasero neutri. L'Inquisizione disapprovò tal sentenza, onde il poema non fu mai pubblicato, nè il merita. I soliti parabolani dissero che l'autore fu bruciato col suo libro, mentre consta che ebbe funerali a Firenze per pubblico decreto; il Rinuccini ne recitò l'orazione funebre, e additava appunto posato sul suo cadavere, durante le esequie, quel libro, dove cantava che l'anima, sciolta dalla terrena soma, per varj luoghi s'aggira, finchè giunga alla superna patria.

Nicoletto Vernia da Padova propagò altrove l'unità dell'intelletto con tal calore, che diceasi l'avesse persuaso a tutta Italia[219]. Pietro Barozzi, vescovo di Padova, seppe indurlo a fare un libro (1499), ove disdicendo quel che avea sostenuto per trent'anni, dimostra tante essere le anime quanti i corpi, e conchiude col preferir il titolo di canonico a quello di soprafilosofo.

[183] Fu suo scolaro Agostino Nifo calabrese, che sosteneva (De intellectu et dæmonibus, 1492), non esservi altra sostanza separata dalla materia se non le intelligenze che muovono i cieli; un'anima sola ed un'intelligenza sparsa nell'universo, vivifica e modifica gli esseri a sua voglia. Lo confutarono i monaci, e mal gli sarebbe avvenuto se esso vescovo di Padova non lo avesse scampato e indotto a modificar l'opera sua, come modificò l'insegnamento. Pure Leone X il favorì, lo fece conte palatino, e pagollo affinchè, contro il Pomponazio (1518), mostrasse che Aristotele sostiene l'immortalità dell'anima.

E lungamente regnò il realismo nella scuola di Padova. Regiomontano vi dava lezioni sopra Al-Fargani, e ben avanti nel secolo XVII vi si insegnavano tali dottrine, che noi non giudicheremo un progresso dello spirito umano, bensì un regresso verso la scolastica del medioevo e il peripatismo arabo; ma che, staccando dalle tradizioni, avviavano al pensare indipendente e alla scienza laica e razionale.

Gismondo Malatesta, che, essendo feudatario della Chiesa le defraudava i dovuti soccorsi, fu da Pio II scomunicato nel 1461, fra gli altri delitti apponendogli di non credere alla risurrezione dei corpi e all'immortalità dell'anima, e fu arso in effigie[220]. Paolo Mattia Doria napoletano, avea preparato l'Idea d'una perfetta repubblica, ma ne fu sospesa la stampa, e fu arsa come fetida d'immoralità e di panteismo. Speron Speroni, a Pio IV che gli dicea: «Corre voce in Roma che voi crediate assai poco», rispose: «Ho dunque vantaggiato col venirci da Padova, ove dicono che non credo nulla»; e poco prima di morire esclamò: «Fra mezz'ora sarò chiarito se l'anima sia peribile o immortale»[221].

Di quel misto di cabala, gnosticismo, neoplatonismo, giudaismo, che univasi colla letteratura classica, coi filosofemi d'Aristotele, d'Epicuro, d'Averroè, per gettare gli spiriti nel dubbio e in quel che ora intitoleremmo razionalismo, erasi nella corte di Lorenzo de' Medici imbevuto Giovanni Pico della Mirandola, ricco signore e portentoso intelletto. Ebbe a maestro Elia del Medico, ebreo averroista che per lui compose varj trattati filosofici, fra cui uno sull'Intelletto e la Profezia (1492) e un commento sul libro Della scienza del mondo (1485): a Venezia stamparonsi più volte (1506, 1544, 1598) le sue annotazioni sopra Averroè, le quistioni sulla creazione, sul primo motore, l'ente, l'essenza e l'uno. Uscendo da tale scuola, Pico professavasi educato, a non giurar nella parola di nessuno, ma diffondersi su tutti i maestri di filosofia, vagliarne tutte le carte, conoscerne tutte le famiglie; anzi, l'indipendenza spingea fino a credere che l'oro puro, sebbene sotto forma tedesca, valesse meglio che il falso coll'eleganza romana[222].

A ventiquattro anni (1486) mandava per Europa una sfida, pronto a sostenere in Roma novecento tesi, dialettiche, morali, fisiche, ecc.; quattrocento [184] delle quali avea dedotte da filosofi egizj, caldaici, arabi, alessandrini, latini, le altre erano opinioni sue. Alla sfida nessuno comparve, benchè Pico si assumesse di rifondere le spese del viaggio: ma il suo ardimento irritò l'amor proprio dei dotti; e in quella farragine ripescarono tredici proposizioni, che deferirono al papa come ereticali. Tra esse erano: Gesù Cristo non esser disceso personalmente agl'inferni, ma sol quanto all'effetto: non poteva essere dovuta una pena infinita al peccato d'un essere finito; non esser certo se Dio potesse ipostaticamente unirsi anche a creatura non ragionevole; la scienza che più ci rende certi della dottrina di Cristo è la magia e la cabala; come non dipende dalla volontà l'aver un sentimento, così neppure il credere; i miracoli di Gesù Cristo non sono prova evidente della sua divinità per l'operazione, ma per la maniera con cui gli ha operati; l'anima non conosce veruna cosa distintamente come se stessa.

Il pontefice, dopo maturo esame, le disapprovò (1487), e Pico le difese in un'apologia, poi nell'Heptaptus de septiformi sex dierum geneseos enarratione, e nel De Ente et Uno. Da quel gergo scolastico non è agevole, almeno a me, ricavare un chiaro concetto; riducesi però ad appaciare Platone con Aristotele, la teologia pagana colla mosaica e colla cristiana.

Vantavasi d'aver egli primo in Italia reso ragione dell'aritmo teologico di Pitagora; l'unità numerica fondarsi sull'unità metafisica, la quale è al di sopra dell'ente. Allegorici credeva i libri di Virgilio, di Platone, di Omero; e lo stesso metodo applicava ai libri santi. A gran prezzo avea comprati certi libri di Esdra, che davano spiegazione della dottrina mosaica e dei misteri, e supponendoli genuini, con essi e colla cabalistica interpretava liberamente Mosè.

E quale allegoria, nell'Heptameron espose il genesi mosaico, trattandolo come i Neoplatonici avrebbero potuto trattare la mitologia, sfoggiandovi sapienza orientale e occidentale. «Mosè e i profeti, Cristo e gli apostoli, Pitagora e Plutarco (dic'egli), e in generale i sacerdoti e filosofi del mondo antico velarono la loro sapienza sotto immagini, perchè la folla non era capace di gustare quel cibo della verità, e intesero tutt'altro da quel che suonino le parole. È fuor di dubbio che Mosè, nell'enumerazione delle sei giornate, non volle parlare della creazione del mondo visibile; ed a prima vista sembra grossolano, attesa la legge degli antichi savj di adombrare le cose sublimi. Altrettanto fece Cristo parlando per parabola al vulgo, e perciò san Giovanni, che fu più degli altri istrutto negli arcani, scrisse solo tardissimo, e san Paolo ricusava il vital nutrimento ai Corintj, ancora carnali, e Dionigi Areopagita esortava a non mettere in carta i dogmi più reconditi; Cristo confidò arcanamente alcune verità a' discepoli suoi, che le tramandarono a voce; e il conoscerle è fondamento grandissimo della fede nostra». Non vi si giunge che per mezzo della cabala, dalla quale, per esempio, s'impara perchè [185] Cristo dicesse d'esistere prima d'Abramo, e che dopo di sè manderebbe il Paracleto, e che egli veniva coll'acqua del battesimo e lo Spirito Santo col fuoco.

Chi non vede ove potesse portare un tale eccletismo? Che se veniva applaudito dalle accademie e dalla Corte de' Medici ove tale era la moda, non potea piacere a Roma: e per quanto egli si schermisse dietro a ripetute proteste di soggezione alla Chiesa, realmente alla Chiesa volea sostituir se stesso nel definire e spiegare il dogma per mezzo della cabala e dell'ebraico. Innocenzo VIII diceva: «Costui vuol finir male, ed essere un giorno arso, poi vituperato in eterno, come qualchedun altro. Le cose della fede sono troppo delicate, e non posso tollerarlo: scriva opere di poesia, saranno più da' suoi denti»; malgrado le raccomandazioni del magnifico Lorenzo[223], mai non volle ritirarne la condanna, benchè schermisse da ogni molestia l'autore. Il quale, sempre più ingolfato negli studj, per quanto contento di sua sorte a segno, che diceva non vedrebbe di che mormorare contro la Providenza, se pure non perdesse lo scrignetto de' suoi scritti, non sapea darsi pace di essere incorso nella disapprovazione papale, si riprotestava di sentimento cattolico, e intanto non voleva confessare d'avere sbagliato nel sostenere certe proposizioni, anche dopo che furono condannate dalla bolla pontifizia.

Non mancavano persone che lo istigassero a buttar giù la buffa, romper con Roma, ed eccitare un grande scandalo: ma egli, assaggiata la vanità della scienza, tornò al cuore di Cristo e alla carità, ripetendo la sentenza di san Francesco, «Tanto sa l'uomo quanto opera». Allora contro gli Ebrei difese la fedeltà di san Girolamo nella versione dei salmi; voleva anche scrivere una grande opera per confutare i sette nemici della Chiesa; ma non compì che la parte contro gli astrologi; macerava il corpo; recitava l'uffizio come i preti, consumava «giorno e notte in leggere le sacre carte, nelle quali è insita una certa forza celeste, viva, efficace che con meraviglioso potere converte l'animo del leggitore all'amore divino», e pensava pigliarsi una croce e andar a piè scalzi predicando Gesù Cristo. Alfine da Alessandro VI ottenne una bolla, ove dichiaravasi che mai, per le tesi riprovate, non era incorso in veruna censura o sinistra nota, o da queste veniva assolto; e morì piamente nel 1494 in mano de' Domenicani, l'abito de' quali voleva vestire.

Ma la filosofia ponevasi sempre più in urto colla fede, e «non pareva fosse gentiluomo e buon cortigiano colui che de' dogmi non aveva qualche opinione erronea od eretica». I moderati credevano prestar omaggio alla fede col non riflettervi, accettare i dogmi senza esame, con quell'accidia voluttuosa che, in tempi a noi vicini, chiamava spirito forte l'indifferenza, e lo sdrajarsi col bicchiere in mano e spegnere i lumi. Già viveasi per l'intelletto più che per la coscienza; irrobustendo la ragione, lasciavasi ammutir la coscienza, guastare il cuore, e mescersi a tutto una superstizione puerile; e [186] come conseguenza un materialismo semplice e pratico, un'accidia voluttuosa, talchè può dirsi che tutta l'Italia fosse trasformata in un gran Decamerone.

Quel beffardo sincretismo manifestavasi, come avvien nelle mode, anche con frivolezze, e alla Corte de' Medici si teneano spesso dispute filosofiche e teologiche in questo senso. Nicola de Mirabilibus, domenicano, racconta come, post convivium magnifice ac splendide factum nel palazzo di Lorenzo de' Medici, si pose in disputa una tesi, affissa nel tempio di Santa Riparata dai frati Minori, che il peccato di Adamo non è il maggiore di tutti i peccati. Frà Nicola divisa gli argomenti addotti dai varj interlocutori, e massime dal magnifico Lorenzo.

Da per tutto, ma forse peggio in Italia, la buffoneria si esercita col bersagliare le convinzioni, e mettere in canzonella le quistioni più serie, quando vengono agitate. Per tale spirito Luigi Pulci, nel bizzarro poema del Morgante, volgeva in baja tali disquisizioni:

Costor che fan sì gran disputazione

Dell'anima ond'ell'entri ed ond'ell'esca

O come il nocciol si stia nella pesca

Hanno studiato in su n'un gran mellone.

Fin sul teatro recavansi, e sta manoscritta alla Biblioteca già Palatina di Firenze una rappresentazione del XV secolo, intitolala I Sette Dormienti, ove Tiburzio e Cirillo sostengono che, secondo Aristotele, la resurrezione dei morti è contro natura; Faustino cristiano disputa in contrario e conchiude:

Se Aristotel nol crede lo credo io,

Se non lo fa natura lo fa Dio.

Faustino racconta all'imperatore Teodosio le ingiurie dettegli dai filosofi, e l'imperatore chiama teologi e filosofi a disputare in sua presenza, ma poichè non giungono a una conclusione, l'imperatore li congeda, si veste di cilizio, e prega Dio a palesare la verità. Qui interviene il noto miracolo de' sette dormienti.

V'ebbe qualche filosofo che accendeva il lumicino all'immagine di Platone; qualche accademia celebrava feste all'antica, sagrificando un capro; e molti cambiavansi il nome di battesimo, quasi vergognosi di portare quel d'un santo; e d'Antonio, Giovanni, Pietro, Luca, faceano Aonio, Gianni, Pierio, Lucio; e mutavano Vittore in Vittorio o Nicio, Marino in Glauco, Marco in Callimaco, Martino in Marzio, e così via.

Si sgomentò di questo paganizzamento Paolo II, e fece processare alcuni, tra' quali Pomponio Leto e Bartolomeo Sacchi, detto il Platina da Piadena ove nacque il 1421. L'accusa era che latinizzassero i nomi, e coi Platonici mettessero in dubbio l'anima e Dio. Rispondeano che, quanto al venerare Platone, imitavano sant'Agostino; che filosofi e teologi tutti allora disputavano su questi punti, affine di giungere alla verità; che del resto essi non [187] disobbedivano alla Chiesa, anzi ne seguivano le pratiche[224], e mai non aveano lasciato di confessarsi e comunicarsi ogni anno.

È da bello spirito il lodare uno perchè perseguitato dai papi, e fargli merito di quel che i papi non poteano che riprovare. Ma dalla lettera ove il Platina, stando in carcere, racconta al cardinale Bessarione il suo processo, appare come l'accademia istituita da Pomponio Leto tendesse a trasformare il paganizzamento letterario in religioso; avvegnachè vi si celebrava il giorno della fondazione di Roma con sacrifizj; e Pomponio ogni giorno s'inginocchiava ad un altare dedicato a Romolo[225], e non volea leggere libro posteriore alla decadenza dell'impero, quindi neppure la Bibbia e i Padri. Fosse stato anche soltanto letterario, non v'è retto pensatore che non iscorga quanto pregiudicasse alla logica, alla morale, all'estetica il volere che Cristo e la redenzione cedessero il luogo alla voluttà pagana e al lepido bersagliamento contro le virtù domestiche e sociali.

Per estendere gli atti in colto stile, Pio II aveva attaccato alla sua cancelleria un collegio di sessanta abbreviatori, tutti letterati. Abusarono del loro posto per far traffico de' rescritti; onde Paolo II, volendo tutto fosse gratuito, li soppresse, senza riguardo alle somme con cui aveano compro que' posti. Si pensi quanti nemici si fece! ed erano scrittori. Fra essi il Platina, il quale credette sgomentare il papa minacciando scrivere contro di lui, e indurre i principi a radunare un concilio per riparare a tale ingiustizia. Ciò parve colpa di stato[226]; e aggiungendosi il sospetto d'una congiura contro il papa; con altri il Platina fu arrestato e torturato, prima per accusa di fellonia, poi di eresia, entrambi non provate. Tenuto in carcere quattro mesi e senza fuoco, siccome egli si lamenta, il Platina si vendicò col dettare una storia de' papi ostilissima, dalla quale i Protestanti ripescarono molti fatterelli contro la Corte romana, perciò noverando lui fra gli anticipati testimonj della verità. Qui noi non abbiamo che a notare la pochissima critica di questo abborracciatore passionato. Per esempio, di Paolo II egli fa un nemico di tutti i letterati, giudicandoli tutti eretici, e sconsigliando i padri dallo sciupare denari e tempo nell'istruzione dei figliuoli, bastando sapessero leggere e scrivere. Se non avessimo altre testimonianze, basti il dire come, sotto quel pontefice, s'introducesse la stampa a Roma, e i primi libri uscissero dedicati ad esso, con larghe lodi della sua munifica protezione; e il Platina stesso narra ch'e' cercava d'ogni parte statue antiche per ornar il suo palazzo[227].

Che se quanto noi esponemmo basta a smentire gli storici plebei, che cianciano fosse servile la fede, assoluta l'ignoranza, giustifica quelli che, al vedere la scienza staccarsi dall'appoggio della fede, spaventavansi che la salute delle anime si facesse dipendere dalle vicende del sapere. E questo paganizzamento, ancor più che nella scienza, rendeasi appariscente nelle arti belle e nella letteratura, dove al convenzionale tipico surrogavasi la [188] plastica raffinatezza; e l'appassionamento per l'antichità diede a credere non si potesse compiere il risorgimento se non ripristinandola, fino a rimettere in culto le idee che il vangelo aveva dissipate, e rialzare le ruine della Roma pagana sopra gli edifizj della Roma cristiana.

Sugli altari si correva ad ammirare pitturate le amasie de' pittori, e belle di divulgata cortesia nella Vergine della casta dilezione. Alessandro VI fu dipinto dal Pinturicchio in Vaticano sotto forma d'un re magio, prostrato avanti una Madonna ch'era la Giulia Farnese, come il Pordenone fece Alfonso I di Ferrara inginocchiato a una santa Giustina, la quale era Laura Dianti, druda di lui. Tutto gentilesco si mostrò il Ligorio nella villa Pia, eretta per ricreazione de' papi. Il Tiziano per santa Caterina fece il ritratto della regina Cornaro, pompeggiante di dovizie e bellezze. Nell'adorazione de' Magi spesso si ritrassero i Medici, per aver pretesto di porvi in testa quella corona a cui aspiravano. Nel quartiere della badessa di San Paolo a Parma il Correggio eseguì scene più che mondane: nella sacristia di Siena si collocarono le tre Grazie ignude; e ignudi turbavano l'austerità delle tombe principesche, e fin le cappelle pontifizie. A Isotta, amasia poi moglie di Pandolfo Malatesta signore di Rimini, fu su medaglie e sul sepolcro dato il titolo di diva; e Carlo Pinti nell'epitafio la dichiarava «onor e gloria delle concubine». S'un sepolcro in San Daniele a Venezia leggesi: Fata vicit impia; come la divisa di monsignor Paolo Giovio dicea: Fato prudentia minor. Sotto Giulio II esortavasi alla crociata perchè darebbe occasione d'acquistare manoscritti.

L'eloquenza sacra deduceva non solo le forme, ma e le autorità e gli esempj dei classici. Nei funerali di Guidobaldo da Montefeltro, l'Odasio ne recitò il panegirico nel duomo d'Urbino, più volte esclamando agli Dei immortali, dicendo come il vescovo di Fossombrone coi sacramenti amministratigli avesse placato gli Dei e i Mani; Deos illos superos et Manes placavit. Il cardinale Bessarione, compiangendo la morte di Gemistio Pletone, dice: «Intesi che il nostro padre e maestro, essendosi spogliato di quanto avea di terrestre, volò verso i cieli in un luogo purissimo, dove può ballare coi celesti la mistica danza di Bacco». Il Poliziano, scrivendo a Lorenzo de' Medici al 6 aprile 1479, lagnasi che sua moglie avesse messo il figlio Giovanni (che fu poi Leone X) a leggere i salmi, invece de' libri nostri: transtulit jam illum mater ad psalterii lectionem, atque a nobis abduxit[228].

Nel 1526 essendo presa Siena da' fuorusciti, un buon canonico, memore di ciò ch'è narrato nel terzo libro di Macrobio, recitò la messa, e proferì la formola imprecatoria che ivi è indicata contro i nemici; se non che, invece di Tellus mater, teque Jupiter obtestor, disse Tellus, teque Christe Deus obtestor.

Oscenamente scriveano il Panormita nell'Ermafrodito, Giovian Pontano, Francesco Filelfo, Poggio Bracciolini, il Landino, il Poliziano, Lorenzo [189] de' Medici, Giovanni Della Casa monsignore, Angelo Firenzuola frate, ed altre persone gravi, non solo porgendo manifestazioni, ma apologie del vizio, e scherzando su quanto ha di più sacro la società e la famiglia. Nell'esaltazione di Alessandro VI le iscrizioni alludevano sempre al nome eroico:

Cæsare magna fuit, nunc Roma est maxima: sextus

Regnat Alexander, ille vir, iste Deus;

e un'altra:

Scit venisse suum patria grata Jovem.

Per Leone X si fece quest'epigramma:

Olim habuit Cypris sua tempora, tempora Mavors

Olim habuit; sua nunc tempora Pallas habet.

Esso Leone X eccitava Francesco I contro i Turchi per Deos atque homines. V'è chi chiama Olimpo il paradiso, Erebo l'inferno, lectisternia le maggiori solennità, arciflamini i vescovi, infula romulea la tiara, senatus Latii il sacro concistoro, ambrosia e nettare le sacrosante specie; sacra Deorum la messa, simulacra sancta Deorum le immagini de' santi.

Le allusioni gentilesche del Bembo strisciano all'empietà; partendo per la Sicilia, invoca gli Dei propizj al suo viaggio, quod velim Dii approbent; fa Leone X assunto al pontificato per decreto degli Dei immortali; parla dei doni alla dea lauretana, dello zefiro celeste, del collegio degli auguri, per indicare lo Spirito santo e i cardinali; chiama persuasionem la fede, la scomunica aqua et igni interdictionem; fa dal veneto senato esortare il papa uti fidat diis immortalibus, quorum vices in terra gerit; e così litare diis manibus è la messa dei morti; san Francesco in numerum deorum receptus est. Ne' versi poi anteponeva il piacere di vedere la sua donna a quello degli eletti in cielo:

E s'io potessi un dì per mia ventura

Queste due luci desiose in lei

Fermar quant'io vorrei,

Su nel cielo non è spirto beato

Con ch'io cangiassi il mio felice stato.

Negli Asolani conforta i giovani ad amare; e al cardinale Sadoleto scriveva: «Non leggete le epistole di san Paolo, chè quel barbaro stile non vi corrompa il gusto; lasciate da canto coteste baje, indegne d'uom grave. Omitte has nugas, non enim decent gravem virum tales ineptiæ».

Nell'epitafio pel famoso letterato Filippo Beroaldo egli ne loda la pietà, per la quale suppone che canti in cielo:

Quæ pietas, Beroalde, fuit tua, credere verum est

Carmina nunc cœli te canere ad cytharam:

[190] eppure i costui versi ostentano gli amori colla famosa Imperia, e con un'Albina, una Lucia, una Bona, una Violetta, una Ghiera, una Cesarina, una Merimna, una Giulia, le quali appaja a quella cortigiana; ed era prelato.

Ma il Bembo, come gli altri del suo tempo, credeva il risorgimento consistere nelle forme; doversi abbattere la scolastica per mezzo di Cicerone, e mediante l'espressione materiale giungere allo spirito; abborriva dagli umanisti, che dicean il latino moderno dovere essere di vario colore; e piacevagli meglio parlare come Cicerone che essere papa.

Egli recitava a memoria molti passi dello scorrettissimo Battista Mantovano: ma ciò ch'è maggiore meraviglia, altrettanto faceva il Sadoleto, un de' più pii di quel secolo. Il quale ha una consolatoria a Giovanni Camerario per la perdita di sua madre, che tutta volge sulla intrepidezza e magnanimità pagana, senza toccare agli argomenti ben più efficaci della religione. Jacobo Sannazaro, per cantare il parto della Vergine, invoca le Muse, scusandosi se le adduce a celebrare un infante nato in un presepio, e non mai nomina Jesus perchè non è latino; perchè non è latino propheta, fa dal Giordano personificato narrare l'ascensione di Cristo qual la udì vaticinare da Proteo: Maria spes fida deorum, è dall'angelo Gabriele trovata intenta a leggere le Sibille (illi veteres de more Sibyllæ in manibus); e quand'ella assente a divenire madre, le ombre de' patriarchi esultano quod tristia linquant Tartara, et erectis fugiant Acheronta tenebris, Immanemque ululatum tergemini canis. Dapertutto insomma arte pagana in soggetto sacro, alla guisa che sul suo sepolcro in una chiesa sorgono Apollo e Minerva, fauni e ninfe.

Girolamo Vida, dotto e santo vescovo di Cremona, che digiunava spesso a sole radici, nella Poetica non parla che di Muse e Febo e Parnaso, come i classici di cui raccozzava gli emistichi, e ai quali, principalmente a Virgilio, prestava un culto da Dio:

Te colimus, tibi serta damus, tibi thura, tibi aras

Et tibi rite sacrum semper dicemus honorem.

Nos aspice præsens,

Pectoribusque tuos castis infunde calores

Adveniens pater, atque animis te te insere nostris.

Come in un poema sul giuoco degli scacchi, alle nozze dell'Oceano colla Terra fa gareggiare Apollo e Mercurio; così usa nella Cristiade, dove applica a Dio Padre tutti i nomi di Giove, regnator Olympi, superum pater, nimbipotens; del Figlio fa un eroe, sul tipo di Enea; multis comitantibus heros — immobilis heros orabat — curis confectus tristibus heros — ipse etiam (il cattivo ladrone) verbis morientem heroa superbis stringebat: Gorgone, Erinni, Arpie, Idre, Centauri, Chimere, spingono gli Ebrei al deicidio: all'ultima cena viene consacrato fior di Cerere: sulla croce al morente è porto [191] tristo umor di Bacco (sinceram Cererem — corrupti pocula Bacchi). L'uomo soffrente sul Calvario non è il Dio riparatore, e allo spirare suo, non che l'alito d'amore si difonda sulle ire procaci, gli angeli vorrebbero farne vendette: sempre insomma dal Cristo, redentore dello spirito immortale, volgea gli occhi all'Apollo, tipo di bellezza corporea.

Vero è che, sin quando il sentimento religioso predomina, esercita sulla forma la sua forza riparatrice; pure il ravvivato splendore dell'antichità abbagliava per modo, da adombrare il cristianesimo; ammirando unicamente il bello della società classica, non vedeasi il buono della moderna, e le teoriche di quella si applicavano agli affari pubblici.

La fede nella sua integrità era stata fino allora la fonte unica d'ogni diritto, d'ogni ordine. Tutto il mondo civile riconosceva una religione, cioè una dottrina generale sulle relazioni fra il cielo e la terra, uno scopo alla vita dell'umanità, cioè compiere il disegno divino; una l'origine degli Stati, cioè la volontà di Dio; conformità di credenze, che costituiva un legame tra le varie società.

Da questa fonte unicamente traevasi il diritto di governare e di punire; gli Stati prendeano il nome del loro patrono, dicendosi patrimonio di san Pietro, come repubblica di san Marco o di san Giovanni; e sant'Ambrogio, san Geminiano, san Petronio, san Siro indicavano Milano, Modena, Bologna, Pavia; il nome e l'effigie del santo metteasi sulle monete e sugli stendardi: perfino le date storiche riferivansi al calendario ecclesiastico, dicendo che il giorno della candelara erano state rapite le spose veneziane, alla sant'Agnese sconfitti i Torriani dai Visconti; al san Sisino si vinse il Barbarossa a Legnano; a san Cosmo e Damiano fu preso Ezelino.

Gli stessi pensatori non cercavano altro che rendersi ragione di quel che credevano. Cattolici prima che filosofi, volenti godere della tradizione che aveano ricevuta coll'intelligenza, studiavano comprendere, ma in fondo credevano, portando l'offerta della loro scienza e ragione al tempio del Signore; e non pretendeano riformare il mondo e la società col pensiero loro proprio, senza tenere conto de' loro simili, nè de' fratelli e dei canoni trasmessi dai vecchi.

Così per quindici secoli non si era avuto che un idioma per favellare a Dio, una sola autorità morale, una sola convinzione; tutta Europa alla stess'ora, il giorno stesso, colle stesse parole supplicava, aspirava, esultava.

Ora invece scomponevasi l'intima società col surrogare alla fede il raziocinio, alla credenza assoluta le religioni comparate; inoculando il dubbio corrompevansi i costumi, e i costumi riagivano sopra le credenze. Ciò appare in tutti gli scrittori, e principalmente in Nicolò Macchiavello e Francesco Guicciardini. Quest'ultimo guarda all'esito, non mai alla giustizia d'una causa: le peggiori iniquità racconta colla freddezza d'un anatomico; vede o arguisce sottofini e cattive intenzioni dapertutto, nè mai riconosce virtù, [192] religione, coscienza, bensì calcolo, invidia, ambizione; fatto ironico, forse per dispetto degli uomini e degli eventi, affetta un'imparzialità che in fondo è indifferenza tra l'onestà e la ribalderia. I papi non solo esamina e giudica al modo degli altri principi, ma sempre li trova in torto, gli accagiona di tutti i mali d'allora; eppure li servì; e diceva: «Il grado che ho avuto con più pontefici m'ha necessitato ad amare per il particolare mio la grandezza loro; se non fosse questo rispetto, avrei amato Lutero quanto me medesimo, non per liberarmi dalle leggi indotte dalla religione cristiana nel modo ch'è interpretata e intesa comunemente, ma per veder ridurre questa caterva di scellerati a' termini debiti, cioè a restare o senza vizj o senza autorità»[229].

Altrove consigliava: «Non combattete mai con la religione, nè con le cose che pare che dipendano da Dio, perchè questo objetto ha troppa forza nella mente degli sciocchi»[230].

Non decidendosi fra Mosè e Numa, fra Giove e Cristo, ammette i miracoli ma d'ogni religione «in modo che della verità di una fede più che di un'altra è debole pruova il miracolo»[231]; in ogni nazione, e quasi in ogni città sono devozioni che fanno i medesimi miracoli, segno manifesto che le grazie di Dio soccorrono ognuno[232]. Egli tiensi certo anche per esperienza propria che v'ha spiriti aerei, i quali domesticamente parlano colle persone[233].

Dopo di ciò, non è più un fenomeno stravagante e un mito il Macchiavello, il quale sull'idolatrato tipo de' Greci e Romani foggia la nuova civiltà, cancellandone Cristo e il Vangelo. Secondo lui, natura creò gli uomini colla facoltà di desiderare tutto e l'impotenza di tutto ottenere, sicchè dirigendo essi il desiderio sopra gli stessi oggetti, trovansi condannati a odiarsi gli uni gli altri. Per togliersi a questa guerra di tutti contro tutti, è permessa ogni cosa, e di violare qualunque diritto e dovere; e la società fu istituita per comprimere l'anarchia mediante la forza organizzata.

In somma la sua è la dottrina dello Stato ateo, il quale non teme d'andar all'inferno, ed è a se stesso fine e legge. Niente v'ha di superiore ai sensi; l'idea della giustizia nacque dal vedere come tornasse utile il bene e nocivo il male; al bene gli uomini s'inducono solo per necessità; il principe dee farsi temere anzi che amare; scopo dei governi è il conservarsi, nè questo si può che coll'incrudelire, «perchè gli uomini sono generalmente ingrati, simulatori, riottosi, talchè conviene ritenerli colla paura della pena». Suppone dunque l'uomo cattivo, come fa la Chiesa, non però in grazia del peccato originale, nè ammettendo un mediatore; non cerca il regno dello spirito, ma quello della forza. Dio è sempre coi forti; e a chi ha dà ancora; a chi ha poco, toglie anche quello che ha. È sventura che alla religione feroce antica, coi gladiatori, col culto degli eroi, coll'apoteosi de' conquistatori, e che mescolava le battaglie colle preghiere, il sangue colle feste, sia succeduta questa, tutta umiltà ed abjezione[234], negligente dei proprj interessi; [193] e se può sperarsi alcun bene all'umanità consiste nel rivolgimento delle sfere, che potranno far rinascere qualche culto simile all'antico.

Roma egli ammira per «la potenza delle esecuzioni sue», perchè conquistò tanti popoli, e per guerra o per frodi rapì ad essi ricchezze, leggi, libertà, indipendenza. Le crociate sono un mero scaltrimento di Urbano II; di frà Savonarola era stato entusiasta in gioventù, ma come ne vide la politica fallire, dovette credere non potesse riuscire se non la frodosa o violenta, scurante di ciò che sta sopra il tetto. Del maestro non ritenne più che l'amor della patria, e questa volea vedere forte e unita: «sian pur iniqui i mezzi, ma son passeggeri, e ne seguiranno il dominio supremo della legge, l'eguaglianza e la libertà di tutti, e si farà della cittadinanza un medesimo corpo, ove tutti riconoscano un solo sovrano»[235].

Adoratore della forza, e da quella sola sperando l'aquietamento delle fazioni, il Machiavelli fantasticava una monarchia italiana. Non già ch'egli pensasse mai a un signore, il quale soggiogasse le fiorentissime repubbliche di Venezia, di Genova, di Lucca, nè tanto meno Roma; ma un principe robusto che imponesse la sua politica a tutte. Eppure sarebbe stata questa, nelle idee d'allora, una vera servitù, una conquista, un uccidere l'autonomia a cui aspiravano i singoli popoletti; lo perchè tale politica era detestata dai migliori italiani. E sempre vi si erano opposti i pontefici, vedendo come il rinnovare un regno d'Italia al modo dei Goti e dei Longobardi non solo avrebbe mozza la loro sovranità, ma avvilita tutta Italia. Dell'essere stati operosissimi a impedir questa tirannide comune sopra l'Italia, il Machiavello imputava i pontefici. Ma non che altri, lo riprovava Francesco Guicciardini, riflettendo che l'Italia fu corsa a lor posta dai Barbari quando era sotto al dominio unico degli imperatori; che dalle sue divisioni trasse forse gravi mali, ma n'ebbe in compenso una straordinaria floridezza; che gl'Italiani, per abbondanza d'ingegno e di forze furono sempre difficilissimi a ridursi a unità anche quando Chiesa non v'era; che col conservare l'Italia in quel tenore di vita che s'addice alla sua natura e alla sua antichissima consuetudine, anzichè male, avea fatto bene la Chiesa romana[236].

Per far l'Italia il Machiavelli ricorreva, al solito, agli stranieri; non accorgendosi come i papi fossero la sola potenza che valesse a salvarne l'indipendenza, desiderava che i Francesi gli umiliassero, sollevando i baroni contro di essi in modo che o gl'insultassero come sotto Filippo il Bello, o li chiudessero in Castel Sant'Angelo; nè esser quelli «così spenti che non si potesse trovar modo a raccenderli»[237]; e a' suoi Fiorentini scriveva come si pensasse dai Francesi invadere Roma, il che «sarebbe da desiderare, acciocchè ancora a codesti nostri preti toccasse di questo mondo qualche boccone amaro»[238]. Ma della riforma religiosa non ebbe verun concetto; trattò il cristianesimo non altrimenti che il paganesimo, adattandolo a religione [194] civile, siccome leggeva in un frammento di Varrone; col che giustificava l'intolleranza.

E dappertutto non mostrasi egli novatore, ma sempre ripete idee classiche, con qualche aggiunta e qualche applicazione. Nell'esporre «le verità effettuate delle cose», non inculca espresso l'ingiustizia, ma toglie per unica norma l'utilità; non come Satana dice al male, Tu sei il mio bene, ma, Tu mi sei utile; se l'utile deva posporsi all'onesto è disputa da frati.

I tradimenti altrui e le proprie empietà espone in tono d'assioma, senza passione, come evenienze naturali, con freddo computo di mezzi e di fine, con un'indifferenza che somiglia a complicità. Con questa scienza senza Dio, che eleva l'ordine politico di sopra del morale, la ragione di Stato sopra l'umanità, che suppone unica meta delle azioni il soddisfare gl'istinti egoistici e interessati, assolve la menzogna, il perfidiare la parola e i trattati, il conculcare il diritto delle genti, la cospirazione, l'assassinio, purchè si raggiunga lo scopo, si soddisfi l'ambizione, qualunque siasi: la vittoria arreca gloria, non il modo con cui la si ottiene. Perciò il Machiavello ammira chiunque riesce, sia pure a fini opposti, eccetto Giulio Cesare che spense le libertà classiche, e Gesù Cristo che abjettì gli uomini predicando l'umiltà. Ammira la virtù dello scellerato Cesare Borgia, e fatto inorridire colle costui scelleratezze, conchiude: «Io non saprei quali precetti dare migliori ad un principe nuovo che l'esempio delle azioni del duca... Raccoltele, non saprei riprenderlo, anzi mi pare di proporlo ad imitazione a tutti coloro che per fortuna e con le armi d'altri sono saliti all'impero». L'appassionata sua vista non gli lasciava scorgere su quanto labile fondamento poggiasse la potenza di quel fortunato ribaldo; e quando egli cade, lo pronunzia «truculento e fraudolento uomo, e meritevole della pena che i cieli gli avevano serbata».

Armonizzar la natura col soprannaturale, la scienza colla fede, la rivelazione colla ragione, la filosofia colla teologia, era stato lo scopo degli Scolastici, e ormai erano beffati e posposti alle dottrine gentilesche[239]. Cambiata la bilancia degli atti, qual meraviglia se non veneravansi più i santi del paradiso, ma si applaudiva agli eroi dell'inferno? Virtù è la forza intelligente; mezzo di governo una dominazione unica e incondizionata. Invano Cristo avrà detto, «Perisca il mondo, ma facciasi la giustizia»; il Machiavello torna al pagano «Suprema legge è la salute dello Stato», e dice che «quando una città pecca contro uno Stato, per esempio agli altri e securtà di sè un principe non ha altro rimedio che spegnerla, altrimenti è tenuto o ignorante o vile: dove si delibera della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione di giusto nè d'ingiusto, nè di pietoso nè di crudele; nè di laudabile nè d'ignominioso». E segue che «un uomo il quale voglia fare in tutto professione di buono, conviene che rovini in fra i tanti che non sono buoni»: nelle esecuzioni non v'è pericolo alcuno, perchè chi è morto non può pensare alla vendetta.

[195] Altrettanto dicevano i Terroristi di Francia. Ed io non vedo in che cosa Machiavello sia migliore di Hobbes, se non che egli pone in capo di tutto la politica; e con voti contradditorj, contrasti inattesi, sentimenti generosi in mezzo a mostruose teoriche, scompiglia la critica, mentre Hobbes s'attiene alla morale, e tutto riduce ad unità inflessibile, non commovendosi per veruna passione: del resto entrambi confondono l'anima col corpo, l'onesto coll'utile, la ragione col calcolo, Iddio col nulla. Machiavello esprime l'egoismo del principe, come il Contratto Sociale di Rousseau espresse l'egoismo del suddito; entrambi del pari repugnanti alla carità cristiana, e ponendo fondamento alla sistemazione degli Stati non più l'ordine voluto da Dio, ma la volontà dell'uomo; traendo ogni podestà non da Dio ma dall'uomo; riducendo l'attività sociale non a compiere un disegno divino providenziale, ma ad emancipare l'umanità.

Non potevamo trascurare questa eresia politica, che trionfò e durò più delle altre; che, quando assassinava l'italica indipendenza, voleva uccidere anche il diritto e la giustizia: e indebolita l'autorità spirituale, preparava quel despotismo che non insinua la bontà, ma reprime colla forza, usata accortamente sopra la torma de' bipedi, che la loro stupidità condanna all'obbedienza.

Se questa sfacciataggine di politica anticristiana attesta come fossero mutati i tempi e aggravati i pericoli, fu gran sintomo della lamentata trascuraggine il non avere Leone X notato que' libri fra i proibiti, anzi all'autore dato commissione d'un'opera analoga, sul governo da porsi a Firenze; neppure Adriano VI, così onestamente rigoroso, li toccò; Clemente VII diede privilegio al Blado per istampar le opere del Machiavello, nel quale non vedeva se non l'illustre concittadino, perseguitato dalla sua casa, che narrava la storia di Firenze, e la dedicava a lui papa, il quale tenne il Principe per una bizzarria di spirito, una leggerezza come altre del segretario. Nè fino a Clemente VIII veruna condanna officiale gli fu inflitta[240]. Oggi è, come dicono, riabilitato, e onorato di statue come i pigmei suoi imitatori.

[200]

DISCORSO X.
SCANDALI NELLA CHIESA. RIMPROVERI FATTILE E TOLLERATI.

Chi non ravvisa in tutto ciò come il mondo civile s'innovasse? Pensieri elevati, bisogni meglio che materiali attestano come vi fosse tutt'altro che torpore e negligenza nella società d'allora; nè supina indifferenza pei diritti e i doveri, quale vorrebbero farci credere coloro, che dalla patria di Hutten e di Goetz von Berlichingen giudicano quella di Ficino e Pico, di Savonarola e Machiavello.

I re si venivano assodando coll'abbattere la feudalità; e le plebi restringeansi ai troni come ad asilo di ordine e di giustizia, come rimedio alle ineguaglianze oppressive ed offensive; la monarchia, benchè non avesse ancora schiacciato l'aristocrazia e la democrazia, crescea le ingerenze sue fin sulle cose ecclesiastiche: tra i varj governi s'erano stabilite relazioni più intime e frequenti, donde una specie di politica generale. Pertanto scemava il bisogno di domandare agli ecclesiastici regole per gli atti, protezione per gli interessi; il risorto diritto romano facea vagheggiare il coordinato accentramento degli antichi, in luogo delle istituzioni paterne, delle franchigie locali, e della personale indipendenza, introdotte dai Germani. La repressione della feudalità chiamava un maggior numero a partecipare ai diritti universali. Sopravviveva però lo spirito delle antiche repubbliche, concitato anzi dal resistere a coloro che le spegnevano; lo slancio cavalleresco non era ammortito dalla fredda ragione: metteasi passione nell'erudizione come nella filosofia, calore e amore nella luce. Rotti i ceppi del medioevo, non ancora assunti quelli delle convenienze, l'uomo seguiva gli istinti, la fantasia, la coscienza, virtuoso o ribaldo ma francamente, senza nè insuperbirne, nè vergognarne; donde una originale varietà di atti come di componimenti; epicureismo sfacciato a fianco d'una devozione fin mistica; serenità delle arti in mezzo alla devastazione di eserciti brutali, che strappavano alla patria nostra l'indipendenza; violazioni d'ogni diritto, e pregiudizj inumani e servili, mentre grandeggiava la giurisprudenza, e poneansi i fondamenti al diritto pubblico.

[201] Nobili intelligenze elevavansi, guidate dalla critica a riprovare la filosofia scolastica, l'architettura gotica, il latino chiesastico, la servile riverenza all'autorità, richiamando ai modelli classici nella letteratura e nelle arti, ai sommi filosofi, all'esame, all'esperienza; ma con un'esuberanza di forze, un entusiastico trasmodare, una indipendenza arrischiata, un'imitazione imprudente, un fervore pel bello, separato dal buono. E a vero dire, la riforma protestante, se si consideri come un ritorno verso l'antichità, era cominciata dai nostri umanisti: perocchè anch'essi voleano annichilare quattordici secoli di progresso, non per tornare ai primordj della Chiesa come poi Lutero, ma per riaccreditare la civiltà pagana, sovvertita dal cristianesimo: non già solo per distruggere come esso Lutero, ma per ripristinare gli ordinamenti antichi, e far che la materia rivalesse ancora sopra la morale. Come i re aveano trovato la polvere e i cannoni, così il popolo avea trovato la stampa: e Roma la accolse, la favorì, non avendo paura di nessun progresso: i primi libri si pubblicarono in badie, e dedicati a papi, che li proteggeano a diffondere non solo la verità, ma anche la civiltà pagana, e che presto doveano divenire i maggiori propagatori della tentazione protestante. Ma quando annunziavasi che il mondo non consisteva nelle sole tre parti antiche; che in America si trovava una differente vita animale e vegetale, e uomini e civiltà d'altra specie; che la terra gira e il sole sta; che ne' libri talmudici e nella cabala era riposta profonda scienza; che l'India possedeva una lingua, madre delle altre; che il Turco non era più barbaro dell'Ungherese; poteva la mente tenersi queta e soddisfatta ne' canoni che avea sin là venerati tacendo? Non doveano colle nuove idee destarsi bisogni nuovi e lo spirito d'esame?

Non va mai senza inconvenienti un improvviso effondersi di cognizioni. Stampa, scoperte di paesi nuovi e di codici antichi, secolo d'oro della letteratura, aumento di comodità e dilicature, fomentavano la vita sensuale, e per ricolpo le declamazioni contro il rilassato rigore cristiano ed ecclesiastico.

Per verità a sì grandi mutazioni bisognerebbe si trovassero pari coloro che guidano il mondo. I principi pretesero farlo col rendersi forti, accentrarsi ne' proprj possessi, ritrarre allo Stato le prerogative, in prima sparpagliate fra i possessori del suolo. La Chiesa videsi costretta fare altrettanto, e poichè principalmente l'esiglio avignonese (dov'era parso che il pontificato suddito comunicasse la sua servitù a tutto il mondo, come altre volte ne tutelava le libertà) avea mostrato l'indipendenza temporale essere necessaria garanzia della spirituale, dovette essa pure assettarsi a guisa di principato, fino a negligere quella che è essenza sua, la virtù, e il continuo migliorare di atti nella persistenza delle dottrine.

Molti dell'alto clero, assorti in cure secolaresche, investiti feudalmente di obblighi militari e fors'anche di diritti osceni[241], a nulla pensavano meno che ad istruirsi in quella fede, che per ufficio avrebbero dovuto tenere immacolata [202] e diffondere. Fra le guerre incessanti del medioevo, ad alcune chiese non provedeano quelli a cui spettava canonicamente di eleggere i successori: onde i prelati, affine di non lasciarle scoperte, le raccomandavano a qualche prete; oppure esse medesime, per sottrarsi a prepotenze, raccomandavansi a qualche signore. I protettori ne vollero un compenso: e fossero laici o prelati, teneansi parte della rendita, mentre del resto investivano amici o parenti. L'abuso dapprima fu corretto con editti; ma come è trista natura dell'uomo il facilmente abituarsi alle ingiustizie, i pontefici stessi conferirono commende, anche a vita, e concedendo gl'interi frutti al commendatario come al titolare; e mentre prima raccomandavasi la tal chiesa acciocchè intanto fosse governata, dappoi si disse: «Ti raccomandiamo la tal chiesa acciocchè tu possa con maggior decenza sostentarti». E poichè costoro erano instituiti dal pontefice, i vescovi locali non potevano frammettersi al governo che facessero di quella chiesa i commendatori, che vedendovi unicamente una fonte di guadagno, trascuravano e le anime e le temporalità[242].

Alcun vescovo rinunziava alla sede, riservandosi la collazione de' benefizj e certe propine; altri a denaro faceansi destinare de' coadjutori, ch'era uno spediente per trasmettere il vescovado ai così detti nipoti; fin arcidiocesi importantissime lasciavansi quasi retaggio a famiglie principesche, come la milanese agli Estensi; poco importando se l'investito fosse illetterato o fanciullo. Filippo, figliuolo del duca Lodovico di Savoja, da bimbo era vescovo di Ginevra, e fatto maggiore, depose l'abito clericale; come fece più tardi Emanuele Filiberto, eletto cardinale di due anni. Giovan Giorgio Paleologo vescovo di Casale, nel 1518 depose la tonaca, e menò moglie, e così nel 1515 Ranuzio Farnese, vescovo di Montefiascone a nove anni: a quindici nel 1520 Giovan Filippo di Giolea era vescovo di Tarantasia.

Ne derivò l'ubiquità, cioè di poter godere i frutti delle prebende dovunque si dimorasse, talchè uno poteva essere cardinale d'una chiesa di Roma, vescovo di Cipro, arcivescovo di Glocester, primate di Reims, priore di Polonia, e intanto alla Corte del cristianissimo trattava forse gli affari dell'imperatore. Giovanni de' Medici, che fu poi Leone X, appena adolescente si trovava canonico delle cattedrali di Firenze, di Fiesole, d'Arezzo; rettore di Carmignano, di Giogoli, di San Casciano, di San Giovanni in Valdarno, di San Pier di Casale, di San Marcellino di Cacchiano; priore di Montevarchi, cantore di sant'Antonio di Firenze, prevosto di Prato, abbate di Monte Cassino, di San Giovanni di Passignano, di Miransù in Valdarno, di Santa Maria di Morimondo, di San Martino, di Fontedolce, di San Salvatore, di Vajano, di San Bartolomeo d'Anghiari, di San Lorenzo di Coltibuono, di Santa Maria di Montepiano, di San Giuliano di Tours, di San Giusto e di San Clemente di Volterra, di Santo Stefano di Bologna, di San Michele d'Arezzo, di Chiaravalle presso Milano, del Pin nel Poitou, della Chaise-Dieu presso Clermont. Il cardinale Innocente Cibo suo nipote tenne contemporaneamente [203] otto vescovadi, quattro arcivescovadi, le legazioni di Romagna e di Bologna, le abbazie di san Vittore a Marsiglia e di san Ovano a Rouen. Il cardinale Ippolito d'Este, a sette anni era primate d'Ungheria, poi vescovo di Modena, Novara, Narbona, arcivescovo di Capua e di Milano, la qual ultima dignità rinunziò a un nipote di dieci anni riservandosene l'entrata: e questo nipote fu pure vescovo di Ferrara, amministratore dei vescovadi di Narbona, di Lione, d'Orleans, di Autun, di Morienne, a tacere un'infinità di badie. Il patriarcato d'Aquileja stette ne' Grimani dal 1457 al 1593: il vescovado di Vercelli da forse un secolo poteva dirsi ereditario nelle famiglie Rovere e Ferreria; Giuliano Della Rovere, divenendo papa, ne investì il cardinale Ferrerio, benchè già tenesse la sede di Bologna, e molte ricche badie. Al concilio tridentino il vescovo di Pamplona manifestò che, quand'egli salì a questa sede, da ottant'anni non vi risiedeva alcun vescovo, perchè erano cardinali.

Adunque i signori nella vigna di Cristo trovavano desiderabilissimi appanaggi ai loro cadetti; la curia romana, che male si confonde colla Chiesa, ne faceva pingui ricompense a' suoi devoti, conferendole meno per merito di scienza ed esemplarità, che per servigi resi in curia, o ancora peggio per raccomandazioni di principi; con molteplici serie di promozioni mirava a lucrare dalla vacanza e dalle collazioni de' benefizj, e moltiplicare le tasse di cancelleria. I vescovi, educati nel fasto spensierato anzichè a studj teologici, puntigliosi sul decoro della famiglia ed emuli del lusso fraterno, amanti del ben vivere più che del vivere bene, per trescare nelle Corti, o sollecitare posti a Roma, abbandonavano le diocesi a vicarj spirituali, e per economia preferivano sceglierli tra' frati mendicanti, i quali non esigevano mercede. I cardinali, dice il piissimo Bellarmino, non divenivano santi perchè aspiravano a divenire santissimi: le chiavi di san Pietro erano desiderate, non perchè aprono il cielo, ma perchè erano d'oro[243].

Gli inferiori sogliono foggiarsi sull'esempio dei capi. Recitavasi la messa con indifferenza meccanica, per abitudine, non altrimenti d'un rito qualunque, senza spirito nè unzione, senza conoscere come storicamente le sue cerimonie s'annettano a quelle della primitiva Chiesa. Molti possedeano il titolo di dottori in teologia, ma non la teologia; e come adesso non si leggono più libri serj e profondi, ma enciclopedie e giornali e compendj, così allora, invece dei Padri e della Scrittura, si stava alle Somme, ai Fiori, ai Manuali. Innocenzo VIII dovette rinnovare la costituzione di Pio II, che ai preti vietava di tenere macello, albergo, bettola, casa di giuoco, postribolo, o di fare da mediatori per denaro; e se dopo tre ammonizioni persistessero, non godrebbero più l'esenzione del fôro[244]. Silingardo vescovo di Modena, dirigendo la sua Somma di teologia morale al cardinale Morene, diceva avere «nella visita di quella diocesi trovata tanta ignoranza della lingua latina nella maggiore parte de' sacerdoti curati, accompagnata da così poca pratica [204] della cura delle anime, che verisimilmente si può temere una gran ruina e precipizio del gregge». I tre stati di Savoja, raccolti a Ciamberì nel febbrajo 1528, faceano istanza a quel duca perchè fossero frenati e moderati gli ecclesiastici, che trascendono in abiti e pompe mondane, ed esercitano l'usura con gran danno del popolo minuto, e che godono pingui benefizj senza adempirne gli obblighi di limosine e messe[245]. Insomma il sacerdozio consideravasi come uno stato, non una vocazione; le penitenze, lo studio, il predicare rimanevano incombenza de' frati.

Ma in questi pure appariva come sia pessima la corruzione dell'ottimo. Commendate le badie ad uno che mai non le vedeva, o vi compariva con treno secolaresco di cani, donne, cortigiani per raccorvi i frutti e far caccia nelle selve, chi più curava la disciplina de' monaci? E qual meraviglia se i conventi, già centri all'attività del pensiero, delle arti, della devozione, intepidivano nella rilassatezza dell'opulenza, o gareggiavano solo nella profana gelosia d'un Ordine coll'altro?

Mentre nell'Aretino e pari suoi si perdonava non solo ma si applaudiva la scostumatezza, la perfezione a cui devono aspirare i monaci rendeva rigorosi verso di loro; che d'altra parte obbligati per professione a sopportare e umiliarsi, non davano timore di ripicchio. Eccoli pertanto bersaglio alle leggerezze e alle arguzie. Lelio Capilupo di Mantova, famoso pei lubrici centoni, ne fece uno inimitabile contro i monaci, ch'è inserito in fine del Regnum papisticum di Naogeorgus. Chi non conosce i nostri novellieri?

Non è men vero che i monaci venivano rimproverati anche dagli austeri; se non che questi il facevano con carità, con esagerazione i depravati: questi pel maligno gusto di rivelare spettacoli stomacanti, quelli collo scopo di rimediarvi. Ambrogio abate generale de' Camaldolesi, dotto e pio, adoprato da Eugenio IV nelle controversie e nella carità, nel 1431 e 1432 visitando i varj conventi d'Italia trovò disordini, ch'egli, nel suo Hodœporicon, per prudenza dinota con voci greche; monache ch'erano vere εταιριδα; altrove omnes ferme πορνας ειναι; un'abadessa gli confessò τεκνον ποιησαι: d'un'altra un prete geloso pubblicò lettere oscene. Noi ci siamo tanto compiaciuti in lodare i frati, che non saremo imputati di malevolenza se deploriamo con pari franchezza che le istituzioni umane, al par che le verità, si disgradano quando sieno esposte al vento e alla pioggia del mondo. Chi ignora con qual buon senso stizzoso san Girolamo rivelasse i disordini de' monaci fin dal suo tempo? Vedemmo come, a riformarli, s'istituissero gli Ordini mendicanti, ma la costoro degenerazione fu tanto prossima all'istituzione, che san Bonaventura, generale de' Francescani, già nel 1257 querelavasi co' provinciali e guardiani, perchè, sotto veste di carità, i fratelli s'impacciassero d'affari pubblici e privati, di testamenti, di segreti domestici; sprezzando il lavoro, cadono nell'infingardaggine; e mentre pregano a ginocchi e meditano nelle celle, sbadigliano, dormono, si danno a vanità, o dai libri che composero [205] traggono un orgoglio, qual non prenderebbero col tessere stuoje o fiscelle come i primi romiti; vagando, riescono d'aggravio agli ospiti o di scandalo; per rifarsi della stanchezza mangiano e dormono oltre il prefisso; scompigliano le regole del vivere; domandano con tale importunità da farsi schivare come ladri. E segue a dire che la vastità dei conventi incomoda gli amici, ed espone a sinistri giudizj; ai parroci spiacciono perchè si danno attorno a funerali e a testamenti. Così un loro amorevole; che non doveano dirne Pier delle Vigne e Mattia Paris loro avversissimi?

L'Ordine francescano nel secolo XIV avea già dato cinque papi, quarantatrè cardinali, più di cento canonizzati. Venerandoli per santità, disinteresse, acume, le città chiamavano que' frati a compor litigi, ad amministrare finanze, a riformare statuti; i papi li deputavano a dilicate missioni, perchè nè costavano spesa, nè accampavano pretensioni; il Sant'Uffizio li riduceva a una specie di magistrati criminali, con bidelli, famigli armati, carceri e imperio sovra il magistrato secolare; essi che erano stati istituiti a profonda umiltà, a povertà assoluta. Allorquando nel 1457 se ne celebrò il capitolo generalissimo in San Francesco di Milano, con indulgenza pari a quella di Santa Maria degli Angeli d'Assisi, immenso numero ne concorse, pel cui sostentamento si raccolsero meglio di diecimila scudi di limosine: il duca Francesco Sforza prodigò ad essi trattamento e onorificenze, e sedette al loro pranzo frugale, mentre centomila curiosi affluirono a vederli.

Ricchi di privilegi, tra cui invidiatissimo quello di confessare, e predicare dovunque si trovassero, e farsi cedere il pulpito da ogni curato, ne ottenner di nuovi da Sisto IV, epilogati nella famosa Bolla dell'agosto 1474, fratescamente qualificata mare magnum, che minacciava sino di destituzione i parroci che non obbedissero ad essi. I vantaggi che traevano dall'opinione di santità tornarono a danno di questa; e resi mondani, con mille brighe cercavano le dignità; e (dice il cardinale Caraffa) «si veniva ad omicidj non solo con veneno, ma apertamente col coltello e colla spada, per non dire con schioppetti». Le gravissime controversie tra i più o meno rigidi Osservanti, procedute fino all'eresia de' Fraticelli, da molti papi si tentò invano toglierle di mezzo, finchè Leone X nel 1517 gli obbligò ad eleggere un solo generale, nè portar altro titolo che di Minori Osservanti.

Che dirò delle smancerie usate per sostenere un santo speciale, una speciale divozione, ciascun Ordine, ciascun villaggio, ciascuna chiesa? Ne' panegirici si trascendea fino alle assurdità, per dabbenaggine più che per frode moltiplicando i miracoli, le grazie, le reliquie, e attirando al santo prediletto un culto vulgare, che rasentava all'idolatria. Il fervore, non sempre disinteressato, per certe devozioni nuove, come il rosario de' Domenicani e lo scapolare dei Carmeliti, faceva proclamarle quale espiazione sufficiente a tutti i peccati, che perdevano l'orrore quando annunziavasi così facile [206] il redimerli, e ne veniva presunzione a chi le osservasse, e confidenza d'una buona morte dopo vita ribalda.

Altri frati, che s'occupavano nel trascrivere libri, si trovarono ridotti all'ozio dalla stampa. Non che cessare, cresceva il mal vezzo di gettarsi a quistioni di poca arte e molti cavilli, a dubbj curiosi e controversie puntigliose, facendo schermaglia di sillogismi, surrogando le sottigliezze scolastiche al vangelo, e alla logica attribuendo i diritti della ragione, come oggi all'audacia: aggiugnendovi un ingombro di indigeste autorità.

Se la beatissima vergine fu concepita anch'essa nel peccato originale; se i Monti di pietà sono un'istituzione opportuna, o un'usura riprovata dal vangelo, furono causa di lunghi abbaruffamenti fra Domenicani e Francescani. Jacopo delle Marche minorita, predicando a Brescia nel 1462, affermò che il sangue, da Gesù Cristo versato nella sua passione, era separato dalla divinità, e perciò non gli si doveva l'adorazione. Se ne levò tanto rumore, che Pio II volle fosse messo in disputa alla sua presenza da famosi teologi; i quali si bilanciarono in modo, che esso papa non potè se non imporre silenzio su tal quistione[246].

Al concilio di Basilea fu condannata un'opera teologica di Agostino Favaroni da Roma, composta di tre trattati; uno del sagramento dell'unità di Cristo, e della Chiesa; l'altro di Cristo e del suo principato; l'altro della carità e dell'amore infinito di Cristo verso gli eletti; dove si trovavano proposizioni ereticali: per esempio, che Cristo pecca ne' suoi membri, cioè nei fedeli; che la natura umana in Gesù Cristo è veramente Cristo. L'autore le spiegava in senso cattolico, e si sottopose al giudizio della Chiesa.

Sul pulpito la più parte non recavano studj profondi e dogmatica precisione, ma zelo e modi popoleschi, con improvida applicazione alle evenienze giornaliere. Di quegli aridi tessuti di scolastica e di morale, rinzeppati di brani e brandelli d'autori sacri e profani, con dipinture ridicole o misticismo trasmodato, non ci spiegheremmo i grandi effetti che la storia ci ricorda, se non attribuendoli al gesto, alla voce, allo spettacolo, e più alla persuasione della santità. E non il talento, bensì la fede e l'amore fanno i grandi predicatori, quali furono Bernardino da Siena, Michele da Carcano, Alberto da Sarzana ed altri, famosi per conversioni e per pacificamenti. Una novità aveva cercato introdurre Ambrogio Spiera, trevisano, servita e famoso teologo, i cui sermoni, stampati nel 1476, poi nel 1510, sono piuttosto trattati teologici, divisi in varie conclusioni, dove raccoglie tutto quanto in proposito dissero le sante scritture, i Padri ed altri dottori. Così evitava le opinioni particolari, ma quell'aridità sconveniva all'eloquenza del pulpito.

Mescolando sacro e profano, serio e burlesco, col nuovo, col bizzarro, col sorprendente attiravasi l'attenzione, ponendo i mezzi sopra lo scopo. Paolo Attavanti ogni tratto cita Dante e Petrarca, e se ne gloria nella prefazione. Mariano da Genazzano, levato a cielo da Pico della Mirandola [207] e dal Poliziano, «predicava attraendo con l'eloquenza sua molto popolo, perciocchè a sua posta aveva le lagrime, le quali cadendogli dagli occhi per il viso, le raccoglieva talvolta e gittavale al popolo»[247].

Non è raro il trovare una pietà sincera e un'ingenuità profonda associate senza gusto col buffo e col teatrale; e a riso anzichè a compunzione eccitano i sermoni di Roberto Caracciolo da Lecce, dai contemporanei supremato nell'eloquenza. Sale in pergamo a predicare la crociata? traendosi la tonaca, rivelasi in abito da generale, come pronto a guidare egli stesso l'impresa. Un'altra volta esclama: «Dicetemi, dicetemi un poco, o signori; donde nascono tante e diverse infermitadi in gli corpi umani, gotte, doglie di fianchi, febre, catarri? Non d'altro se non da troppo cibo ed essere molto delicato. Tu hai pane, vino, carne, pesce, e non te basta; ma cerchi a toi conviti vino bianco, vino negro, malvagìe, vino de tiro, rosto, lesso, zeladia, fritto, frittole, capari, mandorle, fichi, uva passa, confetione, et empi questo tuo sacco di fecce. Émpite, sgónfiate, allargate la bottonatura, et dopo el mangiare va, et bòttati a dormire come un porco»[248]. E a costui fioccavano e brevi in lode, et onorevoli commissioni, e mitre, e titolo di nuovo san Paolo.

Giacomo, arcivescovo di Téramo, poi di Firenze, fra varie opere, scrisse una specie di romanzo col titolo Consolatio peccatorum o Belial, dove immagina che i demonj, indispettiti del trionfo di Cristo sopra Lucifero, eleggano procuratore Belial per chiedere giustizia a Dio contro le usurpazioni di Cristo; Dio commette la decisione a Salomone; e Cristo citato, manda per rappresentante Mosè, il quale adduce a testimonj giurati Abramo, Isacco, Giacobbe, Davide, Virgilio, Ippocrate, Aristotele, il Battista. Belial li scarta tutti, eccetto l'ultimo, sostiene la sua causa con finezza diabolica, pure la decisione esce a lui contraria. Si appella, e Dio demanda la causa a Giuseppe; se non che Belial preferisce comprometterla in arbitri; e sono Aristotele ed Isaia per Mosè, per Belial Augusto e Geremia. I testi più venerabili sono stiracchiati beffardamente; e dopo tutti i garbugli della giurisprudenza, ove Belial imbarazza sovente Mosè men versato ne' cavilli, gli arbitri danno di quelle vaghe decisioni, che lasciano ad ambe le parti cantare trionfo.

Nescit prædicare qui nescit barlettare, dicevasi in onore di Gabriele Barletta, i cui discorsi ebbero moltissime edizioni nel secolo di Leon X[249], e pajono burlette. Per Pasqua racconta che molte persone offrironsi a Cristo onde annunziare la sua risurrezione alla madre: egli non volle Adamo, perchè, goloso dei pomi, non si indugiasse per istrada; non Abele, perchè andando non fosse ucciso da Caino; non Noè, perchè correvole al vino; non il Battista pel suo vestire troppo distinto; non il buon ladrone, perchè aveva rotte le gambe; bensì donne per la popolosa loquacità. Ma ben doveva esser applaudito quando, blandendo un sentimento troppo vulgare, predicava: «O voi, donne di questi signori e usuraj, se si mettessero le vostre vestimenta sotto il pressojo, ne scolerebbe il sangue de' poveri».

[208] Sempre poi conchiudevasi coll'accattare: e uno diceva: «Voi mi chiedete, fratelli carissimi, come si vada in paradiso. Le campane del monastero ve l'insegnano col loro suono: dan-do, dan-do, dan-do».

Il vizio non era nuovo, che già avea tonato l'Alighieri:

Ora si va con motti e con iscede

A predicare; e pur che ben si rida,

Gonfia il cappuccio, e più non si richiede.

I quali versi commentando, Benvenuto da Imola adduce alquante scempiaggini di Andrea vescovo di Firenze, che mostrava dal pulpito un granello di seme, poi si traeva di sotto la tonaca una grossissima rapa, e diceva: «Ecco quanto è mirabile la potenza di Dio, che da sì picciol grano trae sì gran frutto». Poi: O domini et dominæ, sit vobis raccomandata monna Tessa cognata mea, quæ vadit Romam; nam in veritate, si fuit per tempus ullum satis vaga et placibilis, nunc est bene emendata; ideo vadit ad indulgentiam[250].

A dir vero, questi modi, se men dignitosi, erano più efficaci che non le esanimi generalità, le perifrasi schizzinose, e i consigli senza coraggio dei secoli d'oro. Ma se a persone semplici e credenti recavano edificazione, se doveva poi con sciagurata efficacia imitarli Lutero, nel nascere della critica e della negazione davano appiglio ad accuse, alla loro volta esagerate. Della tecnica compagine stomacavansi gli schizzinosi letterati, e il Bembo, chiesto perchè non andasse a predica, rispose: «Che ci ho a veder io? Mai altro non s'ode che garrire il dottore Sottile contro il dottore Angelico, poi venirsene Aristotele per terzo e terminare la quistione proposta»[251].

E l'erudito Bracciolini fa dire da Cincio in un suo dialogo: «Parmi che tanto frà Bernardino da Siena, come altri troppi vadano errati per istudio di brillare più che di giovare; non vôlti a curar le infermità dell'animo delle quali si annunziano medici, quanto a ottenere gli applausi del vulgo, trattano qualche volta recondite e ardue materie, riprendono i vizj in modo che pare gl'insegnino, e per desiderio di piacere trascurano il vero scopo di loro missione, quello di render migliori gli uomini».

Alcuni non mancavano di merito letterario, quali frà Cavalca, il Passavanti, frà Giordano di Rivalta. Come quest'ultimo distinguesse le devozioni dagli abusi, giova mostrarlo a coloro, che in que' tempi e in que' frati non ritrovano che superstizione: «Viene (diceva egli) viene l'uomo, ed andrà a santo Jacopo in pellegrinaggio, ed anzi ch'egli sia là, cadrà in un peccato mortale, e forse in due, e talora in tre, e forse più. Or che pellegrinaggio è questo, o stolti? Che rileva questa andata? Dovete sapere che, chi vuole ricevere le indulgenzie, conviene che ci vada puro, come s'egli andasse a ricevere il corpo di Cristo. Or chi le riceve così puramente? E però le genti ne sono ingannate. Di queste andate e di questi pellegrinaggi io non ne consiglio [209] persona, perch'io ci trovo più danno che pro. Vanno le genti qua e là, e credonsi pigliare Iddio per li piedi: siete ingannati, non è questa la via; meglio è raccoglierti un poco in te medesimo e pensare del Creatore, o piangere i peccati tuoi o la miseria del prossimo, che tutte le andate che tu fai».

Parole altrettanto libere aveva proferite l'anno innanzi in Santa Maria Novella a Firenze. «Molti si credono fare grandi opere a Dio; tra noi ce ne facciamo grandi beffe. Verrà una femmina, e porrà sull'altare una gugliata di refe e tre fave, e parralle avere fatto un grande fatto: or ecco opera. Simigliantemente de' pellegrinaggi. Oh come pare grande opera questa, e di gran fatica cotal viaggio! E vanterassi, e dirà: tre volte sono ito a Roma due volte ito a santo Jacopo, e cotanti viaggi ho fatto. E se vedesse in Roma le femmine a girar cinque volte e sei all'altare, e' par loro avere fatto un grande deposito, e rimproveranlo a Dio, come quel Fariseo che dicea, Io digiuno due dì della settimana, or ecco grande fatto! e mangi, il dì che tu digiuni, una volta, e quella mangi bene e bello. Questo andare ne' viaggi io l'ho per niente, e poche persone ne consiglierei, e radissime volte; chè l'uomo cade molte volte in peccato, ed hacci molti pericoli; trovano molti scandoli nella via, e non hanno pazienza; e tra loro molte volte si tenzonano e adirano, e con l'oste e co' compagni; e talora fanno micidio ed inganni e fornicazioni; e caggiono in peccato mortale»[252].

Altri, massime dopo il Savonarola[253], stuzzicava l'attenzione col mescere ai discorsi allusioni di politica; chi predicando pei Guelfi, chi pei Ghibellini, chi pei Medici o per lo Sforza; talora erompendo in aperti attacchi contro principi non solo, ma contro prelati e papi.

Non rimestiamo più a lungo questo fango senza ricordare come la discordanza della teorica dalla pratica sia cosa umana, generale, e che non si tratta di riformare il precetto, bensì di cercarne l'adempimento. Infatti, se gli scandali erano vecchi, vecchio era pure il disapprovarli; anzi è degna di nota la franchezza con cui, da per tutto ma viepiù in Italia, si censuravano gli abusi degli ecclesiastici. Dante rimproverò i pontefici con una franchezza, che parve ereticale ai nostri secoli, adulatori de' principi e del vulgo. Francesco Petrarca ne' sonetti invocò «fiamma del cielo sulle treccie dell'avara Babilonia, scuola d'errori, tempio d'eresia», e peggio nelle lettere; eppure egli viveva alla Corte pontifizia, e in lui come in Dante i rimbrotti venivano da riverenza e dal desiderio di correzione.

Dopo di loro, sminuendosi le idee repubblicane e popolari col crescere delle principesche, la letteratura credette far pompa di non pericolosa libertà col volgere le spalle al dogma, invece di esso cantando armi ed amori. Allora allo sdegno di zelo e di ragione di Dante contro i vizj nella Chiesa, Giovanni Boccaccio sostituì lo scherno plateale e l'epigramma delle società [210] gaudenti; ridendo fra i disastri dell'umanità, e dei mali della patria consolandosi coll'egoismo, fa cominciare in chiesa l'osceno suo Decamerone, dove i vizj e i disordini de' monasteri sono il tema prediletto; e papi, santi, devozioni, misteri vi vengono trascinati, non per correggere il male, ma per celiarne. Che se in frà Cipolla non fa che canzonare gli spacciatori di reliquie, e in ser Ciappelletto le bugiarde conversioni, precipita affatto al razionalismo nella famosa storiella dell'anello, certamente d'origine musulmana e dalla scuola d'Averroè.

Gli altri novellieri, imitandolo, affastellarono arguzie ed avventure a carico dei monaci, e nessuno peggio del Novellino di Masuccio salernitano. Del quale ci viene specialmente al balzo la novella X, il cui argomento è, «Come un vecchio penitenziere, non in villa o in luogo rustico, che l'ignoranza il potesse in parte iscusare, ma nell'alma città di Roma e nel mezzo di San Pietro, per somma cattività e malizia vendea a chi comperare il volea come cosa propria il paradiso, sì come da persona degna di fede mi è stato per verissimo raccontato».

Non osando avventarsi contro l'impero e contro i tiranni, la satira si trastullò dunque contro la lassa disciplina. Il Poggio, che fu segretario di tre papi, descrivendo in lettera a Leonardo Bruno il supplizio di Giovanni Huss e Girolamo da Praga, li compassiona inveendo contro Roma: nelle invereconde sue Facezie, raccolta degli aneddoti che correano per le anticamere della cancelleria romana, insieme col vulgo e cogli aristocratici, cogli eruditi e coi parlatori, berteggia insolentemente gli ecclesiastici e la Corte pontifizia: eppure si stamparono in Roma stessa il 1469. Battista Spagnuoli, dalla patria detto il Mantovano, dettò satire virulente contro il clero. Giovian Pontano satirico, che aveva sempre un calcio pei vinti, pronto a carezzarli quando tornassero vincitori, spesso bersaglia gli ecclesiastici, e nel dialogo Caronte introduce vescovi, cardinali, monaci a far confessioni spudorate. Antonio Vinciguerra, segretario della repubblica fiorentina, verseggiò contro i peccati capitali che infestavano la Chiesa e l'Italia.

Leonardo Aretino (Libellum contra hypocritas) dice ai frati: «Tra i vostri grandi e deformi vizj, primeggiano l'orgoglio, l'avarizia, l'ambizione. Volete ricoprirli colle lunghe cappe e coi cappucci; perciò avviluppate i corpi onde asconder l'orgoglio sotto l'abito dimesso, l'avarizia e l'ambizione sotto apparenza di povertà..... Ma se desiderate esser persone dabbene, quali vorreste sembrare, bisognerebbe cacciar i vizj dalle anime vostre, e non asconderli sotto le tonache..... A tali ostentazioni io non credo; io non credo neppur a te, o ipocrita, perchè sospetto che sotto quei panni s'asconda qualcosa. Chi potesse guardarvi per entro, vedrebbe una cloaca di vizj turpi, e il lupo rapace sotto le vestimenta d'agnello. E come l'esca serve a pigliare i pesci, così le tonache grossolane coprono le vostre malvagità per ingannare gli uomini. A questo travestimento è congiunta la emaciazione del [211] volto e lo sbattimento, che son pure grandi stromenti d'ostentazione e di ciurmeria. Ipocrito, perchè sì tristo? che vuol dire cotesto collo torto? che cotesti occhi abbassati, coteste finte di integrità e di innocenza? Potete tenervi dal ridere quando vedete un altro dello stesso mestiere?»

Questi libri erano lo stillato delle conversazioni: e piaggiavano l'opinione pubblica, come suol chiamarsi l'opinione vulgare; ma quello scandolezzarsi della costumatezza del clero sa di strano in iscritti d'un libertinaggio perfin teorico, che rivelavano una depravatezza ben più profonda nella società laica. Non erano dunque frutti d'una filosofia indipendente: seguitavasi l'istinto, non la riflessione; lo scetticismo usufruttavasi, non per iscassinare la fede, ma per solleticare l'arte, la quale gavazzava in licenza sfrenata, eppure arrestavasi davanti all'albero proibito, senza formolare veruna dottrina eterodossa; indipendenti nell'oggetto, sommettevansi cattolicamente nello spirito; e nessuno metteva in discussione seria, cogli altri nè con se stesso, quei punti che sono il mistero della società, della credenza, della vita.

Vanno dunque a gran pezza dal vero quelli che raccolsero tali satire o declamazioni per designare de' precursori alla protesta religiosa. Abbastanza ci fu veduto come tutte le eresie, dal mille in poi, chiedessero la riforma, ben prima che si passasse dalle sètte entusiaste alla forma sintetica e scientifica del protestantismo. E sempre piissimi uomini e vescovi in prediche e in pastorali gemevano de' traviamenti curiali ed ecclesiastici, e reclamavano un rimedio. Già al suo tempo san Bernardo esclamava: «Chi mi darà che, avanti morire, io possa vedere la Chiesa di Dio qual era ne' primi giorni?» Eppure con forza ineluttabile si oppose ad Abelardo e ad Arnaldo, appena li vide intaccare la Chiesa. Crebbe tale libertà nel grande scisma, allorchè non ben determinavasi qual fosse la Chiesa vera, e Clemengis faceva a Gerson una pittura orribile della Corte di Roma, da pura e santa mutata in bottega d'ambizione e rapina, dove tutto si vende, dispense, ordini, sacerdozio, peccati, sacramenti, messe; per denaro si elevano al sacerdozio imbecilli che neppure sanno quel che leggono e cantano. Evvi un fannullone, inetto al lavorare? Si fa ecclesiastico per vivere in voluttuoso ozio. Talmente è convenuto che dai preti non si osserva la castità, che i laici non vogliono un curato se non ha la concubina, per così garantire il letto maritale[254].

Ed Enea Silvio Piccolomini, che poi fu papa: «La corte di Roma non dà nulla senza denaro: vi si vende fin la imposizione delle mani e i doni dello Spirito Santo; non vi si dà perdonanza de' peccati che a quelli che han denaro»[255].

Nella città, ove tante radici mise poi l'eresia, Caterina da Siena scriveva al suo confessore: «Il nostro dolce Cristo in terra crede, e così pare nel cospetto di Dio, sarebbero a levare via due cose singolari, per le quali la sposa di Cristo si guasta. L'una si è la troppa tenerezza e sollecitudine di [212] parenti; l'altra si è la troppa misericordia. Oimè, oimè! questa è la cagione che i membri diventano putridi pel non correggere. E singolarmente ha per male Cristo tre perversi vizj, cioè la immondizia, l'avarizia e la superbia, la quale regna nella sposa di Cristo, cioè ne' prelati, che non attendono ad altro che a delizie, e stati, e grandissime ricchezze. Veggono i demonj infernali portare le anime de' sudditi loro, e non se ne curano, perchè son fatti lupi, e rivenditori della divina grazia. Quand'io vi dissi che v'affaticaste nella Chiesa santa, non intesi solamente delle fatiche che voi pigliate sopra le cose temporali; ma principalmente vi dovete affaticare insiememente col padre santo, e fare ciò che voi potete in trarre li lupi e li demonj incarnati dei pastori, che a veruna cosa attendono se non in mangiare, e in belli palazzi, e in grossi cavalli. Oimè, che quello che acquistò Cristo in sul legno della Croce, si spende con le meretrici. Pregovi, se ne doveste morire, che voi ne diciate al padre santo che ponga rimedio a tante iniquitadi. E quando verrà il tempo di fare li pastori e' cardinali, che non si facciano per lusinghe, nè per denari, nè per simonia; ma pregatelo quanto potete, che egli attenda e miri se trova la virtù e la buona e santa fama nell'uomo, e non miri più a gentile che a mercenario, perocchè la virtù è quella cosa che fa l'uomo gentile e piacevole».

Brigida, nobile svedese, che reduce da Terrasanta, morì a Roma il 1373, ebbe e scrisse rivelazioni, riprovate dall'insigne Gerson, approvate dal cardinale Torquemada, e tradotte in tutte le lingue; fu canonizzata da Bonifazio IX; eppure si era avventata gagliardissima contro la Corte pontifizia sino a dire, «Il papa è l'assassino delle anime; disperde e strazia il gregge di Cristo; più crudele che Giuda, più ingiusto che Pilato, più abbominevole che gli Ebrei, peggiore dello stesso Lucifero. Convertì i dieci comandamenti in un solo, portate denaro. Roma è un baratto d'inferno, e il diavolo vi presiede, e vende il bene che Cristo acquistò colla sua passione, onde passa in proverbio:

Curia romana non petit ovem sine lana;

Dantes exaudit, non dantibus ostia claudit;

invece di convocare tutti, dicendo, Venite e troverete il riposo delle anime, il papa esclama: Venite alla mia Corte, vedetemi nella mia magnificenza maggiore di Salomone; venite, vuotate le vostre borse, e troverete la perdita delle vostre anime». Revelatio S. Brigitæ, l. 1, c. 41, ed. Romæ 1628.

Ben però discernete come questi zelanti non risparmiassero l'individuo, foss'anche il papa, perchè anelavano la purezza della Chiesa; anzi l'affiggere ciascun fatto particolare ai depositarj dell'autorità spogliava questa dalla scoria, lasciando intatta la persona morale. Imitavano Cristo, che aveva insegnato a rispettare la cattedra di Mosè malgrado le cattive opere degli Scribi e Farisei, sedutisi in quella: mentre da poi detestaronsi i dottori, e per essi anche la dottrina che insegnavano, e l'autorità che teneano da Dio d'insegnarla.

[213] Il cardinale Giuliano rappresentava ad Eugenio IV i disordini del clero, principalmente tedesco; donde l'odio che il popolo gli portava, fino a temere che i laici gli s'avventino al modo degli Ussiti: «Gli accorti tengono l'occhio a quel che faremo, e pare deva nascerne qualcosa di tragico: il veleno che nutrono contro noi si manifesta: bentosto crederanno fare opera accetta a Dio maltrattando e spogliando gli ecclesiastici, come esosi a Dio e agli uomini; la poca devozione che ancora sopravvive verso l'ordine sacro si perderà: si riverserà la colpa di tutti questi sconci sopra la Corte romana, considerandola come causa di tutti mali».

Gian Francesco Pico, principe della Mirandola, noto per la tragica sua fine (1533), scrisse un opuscolo[256], che i riformati ristamparono a Würtenberg nel 1521 per fare onta al papa, e per noverar fra i loro precursori quel principe, di cui ristamparono pure l'orazione De reformandis moribus, che egli recitò nel concilio lateranense, dove pone al pallio l'ambizione, l'avarizia, la scostumatezza del clero. E la recitava in un concilio, e la dedicava a Leone X, al quale pure dedicò quattro libri dell'Amor Divino; e tutto è pietà nel suo De morte Christi, et de studio divinæ et humanæ philosophiæ (1497); e nella dedica che Aldo pose all'opera di lui De immaginatione, accenna a commenti de' Salmi, che aveva lasciati incompiuti, e che si allestivano per la stampa: come ha pure tre inni eroici alla Trinità, a Cristo, alla Beata Vergine.

Lorenzo Valla, uno de' più battaglieri fra quegli eruditi che nel secolo XV empivano di risse la repubblica letteraria, nella prima giovinezza avendo invano domandato di succedere a suo zio come segretario apostolico, si vendicò con epigrammi contro la Corte romana: scrisse del Piacere anteponendo Epicuro allo stoicismo, contraddicendo a Boezio, come fece pure in un dialogo De libero arbitrio[257]; giostrò poi contro gli Aristotelici nelle Disputazioni dialettiche; nelle Eleganze della lingua latina mostrò molte improprietà nella traduzione vulgata della Bibbia e ne' padri della Chiesa. Francamente esercitò costui la critica con annotazioni al Nuovo Testamento, ponendo la vulgata in paragone coll'originale[258]; dimostrò spuria la lettera di Cristo al re Abgaro; falsa la donazione di Costantino a papa Silvestro[259]; nè che gli apostoli componessero ciascuno uno degli articoli del credo, e la dissertazione terminava esortando principi e popoli a frenare l'indebito imperio del papa, e avvertirlo che spontaneamente si tenga in porto, e rimanga soltanto vicario di Cristo. «O romani pontefici, esempio d'ogni ribalderia agli altri pontefici; o malvagi Scribi e Farisei che sedete sulla cattedra di Mosè, e fate l'opera di Natan e Abiron, si conviene egli al vicario di Cristo celesta pompa, e il vestire e le cavalcate? Non s'oda partito della Chiesa, la Chiesa guerreggia contro i Perugini, contro Bologna. Non è la Chiesa che combatte i Cristiani, ma il papa. Allora il papa si dirà e sarà padre santo, padre di tutti, padre della Chiesa: nè ecciterà guerra [214] fra' Cristiani, anzi le eccitate da altri accheterà colla censura apostolica e colla maestà del papato».

I declamatori, e massime gli odierni, ammirano il gran coraggio del Valla, ma noi diremmo piuttosto la violenza, con cui satireggia prelati e papi e grandi che gli tardassero qualche favore. Nel dialogo dell'avarizia e della lussuria flagella i cattivi predicatori, e specialmente i Minori Osservanti, e in quello sull'ipocrisia tutti i frati, e il clero in generale: eppure accusato al Sant'Uffizio, andò a Roma a giustificarsi, e ad Eugenio IV scrisse bassamente, confessando aver ingiuriato lui e il concilio: e se da questo non ottenne grazia, il nuovo papa Nicolò V lo accolse come scrittore apostolico, gli diede incarichi letterarj, benchè il Poggio, altro critico maligno, dal Valla provocato, cavasse da' costui scritti una sequela di proposizioni ereticali: Calisto III lo elevò anzi a segretario apostolico, e morto tranquillamente nel 1465 fu sepolto nella basilica lateranense. Il suo libro fu poi messo all'Indice dal concilio di Trento.

Tutto ciò pruova, non che si inclinasse già alla negazione protestante, bensì che si confessavano gli abusi, e che senza pericolo li denunciavano quelli che riferivansi alla forma, non mai alla sostanza.

E vaglia il vero, quando un potere non è contestato, e agli occhi di tutti serba il carattere sacro, si può giudicarlo severamente eppur riverirlo, nè reca scandalo il biasimo che sia portato sugli abusi non sull'essenza, e al quale non affigge concetto distruttivo nè chi lo fa, nè chi lo riceve. Ben altrimenti di quando, mancato il rispetto irriflessivo, si sottilizza il raziocinio, e s'insinuano non solo il dubbio erudito o la incredula beffa, ma la risoluta negazione.

[217]

DISCORSO XI.
I PAPI POLITICI. ALESSANDRO VI. IL SAVONAROLA.

A mali siffatti, pur beato quando si trova ad opporre fervido zelo, soda pietà, scienza matura! Nessun vorrà credere che lo spirito di verità e di santità, immorante colla Chiesa in eterno, non apparisse allora. Principalmente negli Ordini religiosi sorgeva chi ravvivasse il sentimento religioso, e tutti, a chi cercasse, offrirebbero personaggi insigni per virtù e per scienza. Bernardino da Siena per tutta Italia menava su' suoi passi la pace e la limosina, e moltiplicò chiese, conventi, spedali, missionarj che spedì in ogni parte del mondo. Bernardino da Feltre allettava il popolo coll'eloquenza e la virtù, e col raccogliere i gemiti delle vedove e de' pupilli; propagò i monti di pietà, allora appena introdotti da un Barnaba francescano a Perugia, per salvare i bisognosi dagli usuraj (1494). Giacomo di Mombrandone, patriarca delle Marche; Pier da Moliano e Antonio da Stroconio nell'Umbria; Pacifico da Ceredano nel Novarese, Angelo da Chivasso, riverito principalmente a Cuneo; Giacomo d'Illiria, frate presso Bari; Vincenzo d'Aquila dedito a stupende austerità, e altri assai Francescani, ottennero culto. De' Domenicani cercarono la riforma Antonio de' Marchesi di Roddi, vercellese, e sant'Antonino, che eletto arcivescovo di Firenze, conservò la frugale regolarità monastica, d'una mula accontentandosi per tutti i servigi, mentre il palazzo, la borsa, i granaj teneva aperti a chiunque; e profondea nelle pesti e ne' tremuoti; «contro a molti che dicono i prelati usare le pompe per essere stimati, giunto a Roma con una cappa da semplice frate, con un mulettino vile, con poca famiglia, era in tanta reputazione, che quando passava per la via s'inginocchiava ognuno a onorare lui, assai più che i prelati con le belle mule e con gli ornamenti de' cavalli e de' famigli»[260]. Fondò a Firenze il ricovero delle orfane e vedove decadute, ed altre istituzioni che durano fin oggi, o fin jeri, come i provveditori dei poveri vergognosi, anticipazione de' Paolotti: e lasciò una Summa theologica di temperate conclusioni, che passa ancora per delle meglio ordinate; e ch'egli stesso compendiò in italiano ad uso de' confessori. Matteo Carrieri da Mantova, portentoso per richiamare al cuore famose peccatrici, e coltivare nascenti virtù: catturato da un corsaro [218] e ottenutane la libertà, la esibì a riscatto d'una signora, presa anch'essa colla figlia; onde il pirata commosso rilasciò tutti i prigionieri (1450). Era domenicano, come Costante da Fabriano, diviso fra lo studio, la preghiera e le macerazioni, e che già vivo ottenne, direi, culto; Giovanni Licci da Palermo che edificò quell'Ordine in cenquindici anni di vita; Sebastiano de' Maggi di Brescia, che alle lodi di letterato rinunziò per attendere alla conversione de' peccatori ed al rappacificamento de' nemici, massime a Genova, ove morì nel 1494.

Francesco di Paola, istitutore de' Minimi, assunse per divisa la parola CHARITAS; non tacque il vero ai regnanti di Napoli; a Luigi XI di Francia, che mandò a cercarlo nell'ultima sua malattia, annunziò che la vita dei re sta come le altre in man di Dio e a questo si preparasse a renderla. A quella Corte lo chiamavano il buon uomo, titolo che colà rimase a' suoi frati, e ad una qualità di pere, di cui egli aveva portato l'innesto.

Francesca di Busso fu esempio delle matrone romane, massime ne' patimenti per l'invasione di re Ladislao e nella peste; per trent'anni servendo ai malati negli ospedali senza negligere le cure domestiche; infine istituì le Oblate. Caterina da Pallanza, udendo a Milano il beato Alberto da Sarzana predicare la passione di Cristo, a questo dedicò la sua verginità, e altre fanciulle raccolse sul monte di Varese ad ascetica perfezione. Veronica, di poveri parenti milanesi, costretta al lavoro continuo anche dopo entrata agostiniana, la notte imparava da sè a leggere e scrivere, e fu da Dio graziata d'insigni favori. Caterina, figlia d'un Fiesco di Genova vicerè di Napoli, costretta a sposare un Adorno qual pegno di riconciliazione fra le due emule famiglie, dopo dieci anni di paziente martirio, riuscì a convertire il marito; servì i poveri nello spedale, e nelle pesti del 1497 e del 1501; consolata da superne illustrazioni, lasciò opere, che per elevatezza e fervore emulano quelle della sua contemporanea santa Teresa.

Luigia d'Albertone romana, Caterina Mattei di Racconigi, Maddalena Panatieri di Trino, Caterina da Bologna, autrice delle Sette armi spirituali, la carmelitana Giovanna Scopello di Reggio; Serafina, figlia di Guid'Antonio conte d'Urbino, e moglie malarrivata di Alessandro Sforza signore di Pesaro; Eustochia dei signori di Calafato a Messina, fondatrice del Monte delle Vergini; Margherita di Ravenna, provata da Dio con penosissime infermità, fondatrice della confraternita del Buon Gesù; Stefania Quinzani d'Orzinovi, che le città s'invidiavano, e a cui il senato veneto e il duca di Mantova e quel di Milano chiedeano direzione; Margherita di Savoja, vedova del marchese di Monferrato che, offertole da Cristo d'essere provata colla calunnia o la malattia o la persecuzione, tolse di subirle tutte,... sono un piccolo saggio delle donne che infioravano il giardino di Cristo.

Ma la pietà di questi e de' troppi che ommettiamo non bastava a quella riforma, che sarebbe dovuta venire dall'alto; come già vedemmo dal fondo [219] della corruzione essere cavato il mondo per la forza di Gregorio VII, e per lo zelo e gli esempj de' santi Francesco e Domenico.

All'alito di Dio e sotto l'ale del cristianesimo era sbocciata la società moderna; e Dio, unica fonte d'ogni potestà, credevasi avere commesso l'esercizio della temporale non meno che della spirituale al suo vicario in terra; il quale, occupato delle anime, e di conservare integro il dogma e pura la morale, aveva affidato una delle due spade all'imperatore; l'imperatore, unto dal Cristo in terra, consideravasi come capo dei re, come rappresentante il potere temporale della Chiesa in quella grande unità, la quale nell'ordine religioso chiamavasi cattolicismo, e nell'ordine temporale sacro romano impero. Concetto sublime, che sottraeva il mondo all'arbitrio della forza per porlo in tutela della fede, piantava dominj non per conquista o per nascita, ma per riverenza ed opinione; preveniva spesso le guerre mediante l'arbitrato supremo, appoggiato alla minaccia delle scomuniche; sempre le rendeva meno micidiali; garantiva i re e i popoli dai mutui attentati col chiamare gli uni e gli altri a rendere ragione di loro condotta avanti ad un tribunale, inerme eppure potentissimo perchè fondato sulla coscienza de' popoli, e resistendo ai forti non in nome della rivolta, ma della sommessione che si deve a Dio più che agli uomini.

Al sublime divisamento vedemmo quali ostacoli s'attraversassero, sicchè rimasero male determinati i confini delle due autorità. I papi, per tutelarsi in un'età guerresca e quando ogni potenza derivava dal possesso de' terreni, dovettero procacciarsi un dominio temporale, ma tristo il guadagno che n'ebbero, avvegnachè li mise più d'una fiata in punto di scambiare per supremazia principesca quel ch'era tutela e arbitramento, affidato dalle coscienze, e fondato in un regno che non è di quaggiù. Di rimpatto gl'imperatori pretendevano dominare sopra i re, fare da tutori ai papi più che non fosse compatibile coll'indipendenza de' primi e colla dignità del padre comune dei fedeli. Di qui la diuturna contesa fra il pastorale e la spada, solo temporariamente sospesa mediante transazioni che all'uno e all'altra impedivano di trascendere, ma toglievano di spiegare intera la loro efficacia. Dopo le deplorate scissure di Basilea e di Costanza, ove ambedue i partiti ebbero bisogno del braccio dei re, questi, che aspiravano a concentrare in sè la pubblica potestà, colsero quel destro, e reluttando alle antiche prerogative di Roma dissero: «Noi conosciamo e sappiamo far il bene, meglio della Chiesa; noi non dobbiamo dipendere da nessuno; nessuno vi dev'essere nei nostri Stati, che da noi non dipenda».

Nella comune propensione di quel secolo a consolidare i principati sulle rovine delle repubbliche e dei Comuni, anche i papi procacciarono più solertemente negl'interessi temporali, o condotti dalla carne e dal sangue s'affissero a dare opulenza e stato alle proprie famiglie, da un lato accarezzando i potentati per averli conniventi alle loro aspirazioni, dall'altro spremendo i [220] deboli. Al concilio di Basilea un oratore, quel desso che valse a fare eleggere l'antipapa Felice, diceva: «Tempo già fu che io pensava sarebbe utile separare affatto la podestà temporale dalla spirituale: ora mi convinco che la virtù senza la forza è ridicola, che il papa romano senza il patrimonio della Chiesa non rappresenta che un servo dei re e dei principi».

Ed uno de' politici meglio accorti, Lorenzo de' Medici, scriveva a Innocenzo VIII esortandolo a rendersi forte coll'impinguare i suoi parenti. «Non solo Vostra Santità è dispensata dalla modestia e dalla riserva in faccia a Dio e agli uomini, ma potrebbesi biasimarla di non farlo, e attribuirlo ad altri motivi. Lo zelo e il mio dovere obbligano la mia coscienza a rammentare a Vostra Santità che nessuno è immortale; che un papa ha tanta importanza quanta vuole averne, e poichè non può rendere ereditaria la sua dignità, non può dire suoi se non gli onori e i benefizj che fa ai suoi»[261].

Lorenzo era ispirato da interesse personale, ma avrebbe fatta dichiarazione così esplicita se tale non fosse stata l'opinione comune? Era il tempo che si ergevano tutti i principati sulle ruine delle tarlate repubbliche, e il papa seguiva l'andazzo col rinvigorirsi anch'esso. Inoltre le potenze fissavano cupidi occhi sullo Stato romano; onde fattone quistione non di diritto, ma di forza, i papi poteano adoprarsi ad acquistarlo come gli altri, e contro gli altri proteggerlo.

L'esiglio avignonese avea fatto sentire più che mai la necessità che il papa stesse in terra indipendente, e quindi il bisogno di convalidare e crescere il suo dominio. Martino V ed Eugenio IV si valsero del modo di guerra allora usitato, cioè de' condottieri, per sottomettere le città rivoltose. Nicolò V tentò un tratto confederar tutti gli Stati d'Italia per opporli ai Turchi, che aveano presa Costantinopoli il 29 maggio 1453, e riuscì a conchiudere la pace di Lodi; ma questa assicurava i varj dominanti, non li federava per l'offesa e la difesa. Internamente la congiura del Porcari aveva offerto pretesto ai papi d'integrare il proprio dominio su Roma, annullando l'autorità popolare dei capi di rioni.

Quest'assoggettamento bisognava estenderlo a tutto lo Stato, reprimendo l'anarchico arbitrio de' signorotti che se lo divideano, e a ciò mirarono tutti i papi successivi, annaspando una politica non immune di violenze e di frodi, a cui dà risalto il carattere ond'erano rivestiti. Nella congiura de' Pazzi, prelati cospirarono ad assassinare i Medici in chiesa, e il popolo in vendetta appiccava fino un arcivescovo; pruova di deperita religiosità, ancor più della violenta diatriba, in quell'occasione avventata a Sisto IV, credesi da Gentile de' Becchi vescovo d'Urbino. Sebbene non crediamo che questo pontefice partecipasse a tale assassinio, nè i tant'altri gravami contro la sua memoria, forza è dire che esercitò trista politica; a titolo di mettere in pace l'Italia per armarla contro i Turchi, sparnazzò scomuniche, massime contro i Veneziani; sostenne la cadente libertà fiorentina contro l'usurpazione [221] dei Medici, ed aspirò all'indipendenza italiana, ma mostrandosi ambizioso e corrotto, disgustò anche i repubblicani, e mentre non attutì le irrequietudini intestine, lasciò che i rigori dell'Inquisizione si trapiantassero dalla Spagna nel paese nostro: per fare denari non abborrì da strani mezzi; creò nuovi uffizj da vendere, impose l'esoso dazio sul macinato, decime sui prelati: elevò impudentemente i parenti suoi, concesse perfino ad Alfonso, bastardo di re Fernando d'Aragona, appena di sei anni, l'arcivescovado di Saragozza.

Nè più saviamente si maneggiarono i suoi successori, l'andamento delle fortune d'Italia alterando per collocare, stabilire, dotare i loro figliuoli o nipoti; e guardandosi come capi dello Stato, più che capi della Chiesa. Non riscossi dalle minaccie di Basilea e Costanza addormentavansi nella sicurezza del possesso, e lasciavano nella stessa metropoli del cattolicismo preponderare lo spirito secolaresco. I cardinali aveano facoltà di imporre condizioni nel conclave al futuro pontefice, ma Innocenzo VI avea dichiarato che nessun giuramento anteriore all'elezione può restringere l'autorità pontifizia, atteso che, sede vacante, alla Chiesa non compete altro diritto che di eleggere il successore. Morto Sisto IV, i cardinali stesero una costituzione, ma tutta a loro mero vantaggio; non avessero meno di quattromila zecchini d'entrata; non rimanessero colpiti da censure o scomuniche o giudizj criminali, se non colla sanzione di due terzi del sacro collegio; non oltrepassassero il numero di ventiquattro, un solo de' quali potesse essere della famiglia del papa.

Siamo contenti di non esser obbligati a raccontare il regno di Innocenzo VIII, salito papa col promettere, e connivendo a indegni favoriti che di tutto faceano bottega.

Allorchè questi morì nel 1492, si manifestò più che mai nella cristianità il bisogno di riformare la Chiesa; «Lionello vescovo di Concordia n'espresse davanti ai cardinali il voto nel giorno che entrarono in conclave, in un magnifico discorso rappresentando come la romana, madre e radice della Chiesa universale, cadesse di giorno in giorno in maggiore dispregio; estremo il lusso del clero; i principi cristiani accanniti gli uni agli altri fino a distruggersi. Il dolore della figlia di Sionne è grande come il mare. Rimedio sia l'eleggere un pontefice santo, istruito, valente. Tutta la Chiesa ha gli occhi sopra di voi; ne aspetta un capo che, col buon odore del suo nome, attiri i fedeli alla salute; fedele come san Giacomo, ortodosso come san Paolo, che dalla Babilonia dell'apocalisse spinga la Chiesa verso i testimonj dell'Eterno»[262].

L'eletto fu Alessandro VI[263]; e il nome basterà per quelli che accettano bell'e fatte le opinioni. Trovava egli ancora il paese sovvertito dagli Orsini e dai Colonna, coprenti l'ambizione personale sotto i titoli di Guelfi e Ghibellini; ed egli vi mosse guerra risoluta, come ai Varani e Fogliani che possedeano [222] le Marche: ai Della Rovere, signori di Sinigaglia, ai Montefeltri di Urbino e di Gubio, ai Vitelli di Civita di Castello, ai Baglioni di Perugia, agli Sforza di Pesaro, ai Malatesta di Rimini, ai Riario di Imola, ai Manfredi di Faenza, ai Bentivoglio di Bologna; tutti in gara di violenze e di tradimento, e che promossero o favorirono la funesta calata de' Francesi con Carlo VIII, a cui Alessandro si opponea. Che se come uomo rimase tipo d'una più romanzesca che storica scelleraggine, egli salito pontefice a sessantun anno; se, mentre da capitano andava a combattere i Savelli, gli Orsini, i Colonna, lasciava il governo a sua figlia Lucrezia Borgia, fin coll'arbitrio d'aprire le sue lettere: se Cesare Borgia, eroe del delitto, infamato dalle lodi attribuitegli dal Machiavello, chiarì quanto potesse osare un figlio di papa, e in conseguenza quanto fosse opportuno il celibato de' preti: Alessandro come pontefice emanò savie costituzioni; colla sì ingiustamente beffata delimitazione delle terre scoperte prevenne i conflitti della Spagna col Portogallo nel nuovo mondo; i contemporanei s'accordano a lodarlo d'avere tarpate le minute tirannidi, e molti confessano, come fu detto di Tiberio, che in lui andavano pari i vizj e le virtù. Dove non veglino i tirannici ordinamenti che la cristianità sconosce, neppure l'inettitudine o la malvagità d'un capo abolisce la bontà delle istituzioni e la consistenza degli intenti[264].

Rinunziando a discolpe, che potrebbero scambiarsi per giustificazioni[265], torciamo dal genio delle tenebre verso un angelo di luce.

Qual Italia abbiamo? Le idee pagane sono in piena rifioritura: si rovistano gli avanzi di libri, di statue, di fabbriche; sulle antiche si modellano le opere nuove, a scapito dell'originalità e della naturalezza; l'autorità d'un filosofo o d'un poeta reggesi in bilancia con quella della Scrittura e d'un santo padre, fino a insegnare, Cristo dice così, Aristotele e Platone dice colà; la sottigliezza scolastica offusca la ragione col pretesto di illuminarla; la sublimità platonica invanisce in delirj teosofici; si magnificano solo le virtù pagane, e i nomi di greci e romani surrogansi a quelli ricevuti nel battesimo.

In quella civiltà cresciuto e fattosene adoratore, Lorenzo De' Medici cantò inni sacri per compiacere sua madre, e osceni carnascialeschi per compiacere alle brigate; e moriva circondato da tutto il fasto d'una Corte popolana, fra capi d'arte antichi, o moderni che gli emulavano; fra libri cercati di lontanissimo; fra olezzi di fiori, tratti dall'India; fra delicature tributategli da tutto il mondo. Ma i suoi sguardi su che si fissavano in quel memore punto? Sopra un crocifisso di legno rusticamente intagliato, stretto fra le mani d'un frate. Era frà Girolamo Savonarola. Nato di buona gente a Ferrara, già da fanciullo amava la solitudine; nelle campagne fin colle lacrime esalava la piena dell'affetto, e al Signore diceva: Notam fac mihi viam in qua ambulem, quia ad te levavi animam meam. Educato all'aristotelica, a Firenze verge ai Platonici e al misticismo, ma da' traviamenti lo rattiene l'ammirazione sua verso san Tommaso, per omaggio al quale entrò nell'Ordine dei Domenicani, [223] adottandone il vero spirito nell'astinenza, nell'obbedire, nell'adempiere a' più umili uffizj. Abbandonato fin ciò che prediligeva, alcuni libri e immagini, portava abitualmente un piccolo cranio d'avorio, che gli rammentasse il nulla delle onorificenze umane, e passava di città in città predicando, esortando, commentando, consigliando, confessando. Venuto nell'alta Italia, queste eccelse montagne coronate di ghiacci, quasi bastite erette da Dio a difesa di paese prediletto, e i colli degradanti in limpidi laghi o in pianure sconfinate l'incantavano; sicchè fermandosi dalla pedestre peregrinazione, sedeva sotto qualche albero guardando, e cercava nella memoria alcun versetto di salmo che esprimesse gli affetti onde sentivasi inondato. Nei dubbj del pensiero, nelle fiacchezze della volontà pregava, pregava. Fatto nel 1488 priore del convento di san Marco in Firenze, poc'anzi riformato dal santo arcivescovo Antonino, si mostrò severo coi traviati quanto mite coi ravveduti; e parendogli che da Dio gli fosse ispirato il modo con cui dovesse favellare, tonava contro l'universale pervertimento. Predicava egli sotto un gran rosajo damasceno, e malgrado la debile voce e l'accento lombardo, l'uditorio gli crebbe tanto, che dovette trasferirsi in Duomo.

Oratori avidi d'applausi, con iscolastiche argomentazioni, scienza profana, frasi armoniose, blandivano a que' popoli, fortunati di soavi aure, piene di vita, d'una civiltà sviluppata ne' materiali godimenti, sotto principi senza pari nel fasto e nel buon gusto, onorati e cerchi da re lontani, cantati dai poeti, inneggiati dal popolo.

Chi oserebbe rompere quel concerto di encomj e di gioja? Il Savonarola, che non conosce civiltà senza della virtù, e che, unendo la persuasa e fino entusiastica devozione di frate alla franchezza di tribuno, comincia a gridare, Sventura, sventura: e a declamare contro i viluppi d'una politica subdola, le profanità degli artisti, l'abominazione introdottasi nel santuario. Ed esclamava: «Tristo chi si vende al mondo! guai ai padri che allevano alla peggio i loro figliuoli! guai ai governanti che opprimono i popoli e ne fomentano le dissensioni, e gl'istinti malevoli e l'odio alla verità! guai ai cittadini e mercanti che non considerano se non il guadagno, come le donne agognano alle futilità, i villani al furto, i soldati alle bestemmie! guai ai prelati che, invece di menare il loro gregge a pastura intemerata e fresca, l'avviano seco alle fonti avvelenate! guai ai preti che scialacquano i beni della Chiesa, destinati ai poveri! guai ai sapienti che ignorano le verità della fede o si stomacano della semplicità del catechismo! guai agli artisti che, per amore dell'arte, perdono la fede, sagrificano il costume! guai ai maestri che spiegando autori pericolosi, avvezzano alla lubricità, prima che nelle Università si divaghino in una logica petulante, nella arroganza dell'argomentazione, surrogata al buon senso e al vangelo!»

Non sapeva egli perdonarla a que' predicatori, che fanno gemere e piangere e stupire, ma non correggono nè emendano, ed eccitano emozione [224] femminea, anzichè salutare fervore; invece del vangelo annunziano baje, spacciano pruriginose novità, volendo emulare la poesia di Virgilio o la scienza di Platone, la soavità d'Isocrate o l'impeto di Demostene; avviluppano Cristo nelle passioni umane; tolgono le distinzioni fra il cristianesimo e il paganesimo: delle futilità de' filosofi e della sacra scrittura fanno un miscuglio, e questo vendono su pei pergami, mentre le cose di Dio e della fede lasciano da banda.

«Questa pecora smarrita (diceva) Cristo l'ha perduta: il buon prete la ritruova, e deve renderla a Cristo; ma il malvagio la blandisce e la scusa, e le dice: So che non si può sempre vivere castamente e astenersi dal peccato; e così l'allontana più sempre da Cristo, e le fa perdere la testa e la tiene per sè. Io non nomino alcuno, ma la verità bisogna dirla. Se sapeste quel ch'io so! cose schifose, cose orribili; e ne fremereste, ed io non so frenare le lacrime pensando che i cattivi pastori si fanno mezzani per condurre l'agnella in bocca del lupo. Non serve che preti e frati vadano ogni giorno a piazzeggiare, e fare visita alle comari, ma che studiino la Bibbia. Dopo notti passate nel vizio, che vuoi tu fare della messa?»

«Le scienze (diceva ancora) bisogna adoprarle per dimostrare la fede, ma prendere la fede in semplicità, non dissiparsi in dissertazioni e ciancie, ma studiare la Bibbia e i Padri». Ed egli infatto alla Bibbia si appoggia continuamente; in nome e colle espressioni di quella, minaccia o loda, esalta fulmina; e crede che, nel senso mistico, si applichi non solo ai fatti generali della storia, ma anche ai particolari di ciascun tempo, qualora la Grazia ajuti a combinare i testi.

E più che al dogma, nella predicazione bada egli alla pratica; e tanto fino politico, quanto poco lo fu Lutero, vede gli imminenti pericoli, sa le notizie, vuole stabilire la repubblica evangelica, l'eguaglianza di ricchi e poveri. A differenza del Machiavello, sa che forza ed armi non bastano dove così profonda è la depravazione: il male sta nell'anima; questa bisogna rigenerare, e il miracolo sarà fatto. E professando la virtù essere necessario fondamento d'ogni libertà, e arte della tirannia pervertire i costumi, doleasi che per questa via le antiche repubbliche italiane «sobrie e pudiche», s'andassero precipitando nella tirannide; e proclamava che buon governo e moralità vanno inseparabili.

Perciò, quando Lorenzo de' Medici lo chiamò al letto della sua agonia, dicono che il frate gli ponesse come patto dell'assoluzione il restituire a Firenze la proprietà migliore, la libertà.

Come altri pretesi redentori d'Italia, mirò con compiacenza l'invasione di Carlo VIII, salutando i Francesi quai liberatori, e godette che per opera loro fossero cacciati i tiranni di Firenze: ma quando essi abusavano della vittoria, affacciossi a Carlo, e gli indirizzò quel che più sgarba ai potenti, la verità; e perchè quel re s'inchinava a lui davanti, e' gli mostrò un crocifisso dicendo: [225] «Non venerare me, ma questo, che ha fatto il cielo e la terra, ch'è re dei re, e manderà a rovina te con tutto il tuo esercito se non desisti dalla crudeltà». Come Carlo partì, fece stabilire a Firenze il regno di Cristo, cioè il governo a popolo, e parve l'idolo della città, alla vigilia di divenirne l'esecrazione.

Noi non abbiamo a qui discorrere de' suoi fatti politici e governativi, benchè fossero tanta cagione delle sue ultime vicende. Solo diciamo come le sue prediche fossero benedette di frutto stupendo; e per un momento parve che la Firenze del Pulci, delle giostre, de' carri carnascialeschi, fosse mutata in una città di santi. Dalle ville che popolano il Val d'Arno e le pendici dell'Apennino, affluivano contadini; e appena le porte si schiudessero, precipitavansi nella città, dove trovavano accoglienza e nutrimento dalla eccitata carità. Giovani, donne, fanciulli, vecchi, d'ogni classe, con giubilo devoto affollavansi ad aspettare le prediche del frate, ognuno queto al suo posto, con un lumicino per leggere l'uffizio o libri devoti; e non s'udiva uno zitto; se non che a tempo a tempo alcuno sorgeva ad intonare una laude, alla quale rispondeasi a vicenda: e le tre, le quattr'ore attendevano sinchè il frate venisse a spargere la parola or minacciosa, or confortante. Pareva proprio una primitiva Chiesa, dice un contemporaneo; dapertutto un conversare pieno di carità, un guardarsi, incontrandosi, con letizia inestimabile, fossero pure forestieri, bastando ch'erano figliuoli di quel gran padre: per le vie e pel contado non più canzoni e vanità, ma cantici spirituali, e per le strade vedeansi le madri andar recitando l'uffizio co' figliuoli, a modo de' religiosi; alle mense, fatta la benedizione, si leggeva qualche libro devoto; non si vendea più carne i giorni proibiti: la sera i giovani accoglievansi al focolare paterno a recitare il rosario; le donne ripresero la modestia nel vestire; sino i fanciulli chiesero dal magistrato regolamenti per proteggere il buon costume. Gli uomini viziosi s'asteneano, per paura d'essere additati dai fanciulli, come le donne addobbate in foggie disoneste. Voleano divertirsi? Adunavansi a brigatelle di venti o trenta, in qualche deliziosa postura; e comunicatisi, consumavano la giornata cantando salmi, o in pii sermoni, o recando in processione la Madonna e il Bambino: e le domeniche, côlti rami d'ulivi, uscivano sui prati e ripeteano laudi che il frate avea composte, adattandovi arie dedicate già alla frivolezza e all'immoralità.

Più si abbondava nelle opere di carità; faceasi venire grano a sollievo della carestia dominante; si eresse un monte di pietà per riparare alle usure; moltiplicaronsi altri atti che attiravano lo scherno de' gaudenti, i quali chiamavano costoro stroppiccioni, piagnoni, frati.

Al Savonarola doleva che la letteratura e le arti avessero preferito le vie di Betsabea a quelle di Betlem; lo studio della natura e dell'antico al sentimento intimo; e si ostentassero nudità fino sugli altari, come ne' versi le divinità e i sensi pagani usurpavano il luogo a Cristo e alla pensierosa [226] severità, quasi volesse farsi rivivere ciò che è defunto, e per sempre. Perocchè le belle arti, rinnovellatesi non a nome dell'idea, ma della pratica e del bello plastico, si erano rivoltate contro il medioevo a nome dell'antichità; prima vagheggiando i prestigi classici, poi dimenticando la sostanza per la veste, e surrogando il gusto all'entusiasmo. Il Savonarola cercò istituire scuole o congregazioni, onde ricondurle nel santuario, dove erano sbocciate; e a quell'anima entusiasta, sotto il bel cielo d'Italia, nella città altrice delle arti, come dovea sorridere il pensiero di rigenerarle, e di ricollocare la bellezza in grembo all'Eterno, dal quale essa deriva! Molti artisti convertironsi a lui, non già per distruggere e abolire il bello, come fecero i Protestanti, ma per consacrare il pennello, lo scalpello, il bulino a soggetti edificanti.

Anzi il Savonarola osò per amore un fatto, che troppo fu ripetuto per ira in altri paesi. I giovinetti, ch'egli educava nella pia austerità mandò attorno per la città a farsi dare libri sconci o di sorte, laide immagini, tessuti lascivi, canzoni amatorie, ritratti di bellezze divulgate, e di tutte queste vanità[266] il giorno di berlingaccio del 1498 fu fatta una gran catasta in piazza e postovi fuoco a suon di trombe e di canzoni. I savj secondo il secolo ne presero scandalo, e dicevano sarebbonsi potute vendere, e col denaro fare limosina; «come dissero già (riflette il Nardi) i mormoratori del prezioso unguento sparso da quella devota donna sopra i piedi di Cristo; non considerando che i filosofi pagani e gli ordinatori delle polizie, e Platone specialmente, scacciavano tutte quelle cose che oggi sono vietate più severamente dalla cristiana filosofia».

Del clero massimamente rimproverava frà Girolamo l'indegno vivere, e il non credere che nel sacramento sia Cristo, cioè l'accostarvisi indegnamente. «Fatti in qua, ribalda Chiesa, dice il Signore; io ti avea dato le belle vestimenta, e tu ne hai fatto idolo: i vasi desti alla superbia, i sacramenti alla simonia; nella lussuria sei fatta meretrice sfacciata; tu sei peggio che bestia; tu sei un mostro abbominevole. Una volta ti vergognavi de' tuoi peccati, ma ora non più. Una volta i sacerdoti chiamavano nipoti i loro figliuoli; ora non più nipoti ma figliuoli, figliuoli per tutto. Tu hai fatto un luogo pubblico, hai edificato un postribolo per tutto. Che fa la meretrice? Ella siede in sulla sedia di Salomone, e provoca ognuno; chi ha denari passa, e fa quel che vuole; chi cerca il bene è scacciato via. O Signore, Signore, non vogliono che si faccia il bene. E così, o meretrice Chiesa, tu hai fatto vedere la tua bruttezza a tutto il mondo, e il tuo fetore è salito al cielo. Tu hai moltiplicato le tue fornicazioni in Italia, in Francia, in Ispagna, per tutto. Ecco che io stenderò le mie mani, dice il Signore; io ne vengo a te, ribalda, scellerata: la mia spada sarà sopra i tuoi figli, sopra il tuo postribolo, sopra le tue meretrici, sopra i tuoi palazzi: e sarà conosciuta la mia giustizia. Il cielo, la terra, gli angeli, i buoni, i cattivi ti accuseranno, e non vi sarà persona per te, io ti darò in mano di chi ti odia»[267].

[227] E altre volte: «Quand'io penso alla vita dei sacerdoti, mi bisogna piangere. O fratelli e figliuoli miei, piangete sopra questi mali della Chiesa, acciò il Signore chiami a penitenza i sacerdoti. La chierica mantiene ogni scelleratezza. Comincia pure da Roma: e' si fanno beffe di Cristo e dei santi: sono peggio che Turchi, peggio che bovi. Non solamente non vogliono patire per Dio, ma vendono perfino i sacramenti. Oggi vi sono sensali sopra i benefizj, e si vendono a chi più ne dà. Credete che Dio voglia più sopportarlo? Guai, guai all'Italia e a Roma! venite, venite, sacerdoti; venite, frati miei: vediamo se possiamo resuscitare un poco l'amore di Dio»[268].

E vi applicava quel che Amos diceva contro i sacerdoti ebrei: «La nostra Chiesa ha di fuori molte belle cerimonie in solennizzare gli ufficj ecclesiastici, con belli paramenti, drappelloni e candellieri d'oro e d'argento, e tanti bei calici che è una maestà. Tu vedi là quei prelati con mitre d'oro e di gemme preziose in capo, con pastorali d'argento e piviali di broccato, cantare bei vespri e messe, con tante cerimonie e organi e cantori, che tu stai stupefatto; e pajonti costoro uomini di grande gravità e santimonia, e non credi ch'e' possano errare, ma ciò che dicono e fanno s'abbia a osservare come l'evangelo. Gli uomini si pascono di queste frasche, e rallegransi in queste cerimonie, e dicono che la Chiesa di Cristo Gesù non fiorì mai così bene, e che il culto divino non fu mai sì bene esercitato quanto al presente, e un gran prelato disse che la Chiesa non fu mai in tanto onore, nè i prelati in tanta reputazione; e che i primi erano prelatuzzi, perchè umili e poverelli, e non avevano tanti grassi vescovadi nè tante ricche badie, come i nostri moderni. Erano prelatuzzi quanto alle cose temporali, ma erano prelati grandi, cioè di gran virtù e santimonia, grande autorità e reverenza ne' popoli, sì per la virtù, sì pei miracoli che facevano. Oggidì i Cristiani che sono in questo tempio, non si gloriano se non di frasche; in queste esultano, di queste fanno festa e tripudiano; ma interverrà loro quello ch'io vidi, che il tetto rovinerà loro addosso, cioè la gravità de' peccati delle persone ecclesiastiche e de' principi secolari cadrà sul loro capo, e ammazzeralli tutti in sul bello della festa, perchè si confidano troppo sotto questo tetto.

«I demonj ed i prelati grandi, perchè hanno paura che i popoli non escano loro dalle mani e non si sottraggano dall'obbedienza, hanno fatto come fanno i tiranni delle città: ammazzano tutti i buoni uomini che temono Dio, o li confinano, o li abbassano che e' non hanno uffizj nella città; e perchè non abbiano a pensare a qualche novità, introducono nuove feste e nuovi spettacoli. Questo medesimo è intervenuto alla Chiesa di Cristo: primo, essi hanno levato via i buoni uomini, i buoni prelati e predicatori, e non vogliono che questi governino: secondo, hanno rimosso tutte le buone leggi, tutte le buone consuetudini che avea la Chiesa, nè vogliono pure ch'elle si nominino. Va, leggi il Decreto; quanti belli statuti, quante belle ordinazioni [228] circa l'onestà de' cherici, circa le vergini sacre, circa il santo matrimonio, circa i re e i principi come e' s'hanno a portare; circa l'obbedienza de' pastori; va, leggi, e troverai che non s'osserva cosa che vi sia scritta; si può abbruciare il Decreto, che gli è come se non ci fosse. Terzo, hanno introdotto loro feste e solennità per guastare e mandare a terra le solennità di Dio e de' santi.

«Se tu vai a questi prelati cerimoniosi, essi hanno le migliori paroline che tu udissi mai; se ti conduoli con essoloro dello stato della Chiesa presente, subito e' dicono: Padre, voi dite il vero, non si può più vivere se Dio non ci ripara. Ma dentro poi hanno la malizia, e dicono: Facciamo le feste e le solennità di Dio feste e solennità del diavolo, introduciamo queste coll'autorità nostra, col nostro esempio, acciocchè cessino e manchino le feste di Dio, e sieno onorate le feste del diavolo. E dicono l'uno all'altro: Che credi tu di questa nostra fede? Che opinione n'hai tu? Risponde quell'altro: Tu mi sembri un pazzo; è un sogno, è cosa da femminucce e da frati. Hai tu mai visto miracoli? Questi frati tutto il dì minacciano, e dicono, e' verrà, e' sarà; e tutto il dì ci tolgono il capo con questo loro profetizzare. Vedi che non sono venute le cose che predisse colui. Dio non manda più profeti, e non parla con gli uomini; s'è dimenticato de' fatti nostri, e però gli è meglio che la vada così, e che governiamo la Chiesa come abbiamo cominciato. Che fai tu dunque, Signore? Perchè dormi tu? Levati su, vieni a liberare la Chiesa tua dalle mani dei diavoli, dalle mani de' tiranni, dalle mani de' cattivi prelati; non vedi tu che la è piena d'animali, piena di leoni, orsi e lupi, che l'hanno tutta guasta? Non vedi tu la nostra tribolazione? Ti se' dimenticato della tua Chiesa, non l'hai tu cara? ell'è pure la sposa tua! non la conosci tu? È quella medesima, per la quale discendesti nel ventre di Maria; per la quale patisti tanti obbrobrj; per la quale volesti versare il sangue in croce. Vieni, e punisci questi cattivi, confondili, umiliali, acciocchè noi più quietamente ti possiamo servire»[269].

Nè già disapprovava egli i possessi temporali degli ecclesiastici, ma il tristo uso che faceano delle ricchezze[270]; e violento diveniva quando toccasse i vizj di Roma, sicchè per verità poco divario corre fra quel suo linguaggio e quel di Lutero; anzi, alcuni di coloro che guastano il bene coll'esagerarlo, coniarono allora medaglie, ove a Roma vedeasi soprastare una mano col pugnale e la legenda Gladius Domini super terram cito et velociter[271].

Intanto coi libri de' letterati e colle corrispondenze dei mercanti di Firenze divulgavasi il nome del Savonarola; «perfino d'Alemagna (diceva esso) ci vengono lettere dei seguaci che va acquistando la nuova dottrina». Riconosceva dunque egli stesso una nuova dottrina, la quale porse titolo d'accusarlo al pontefice, ch'era Alessandro VI. Questi, pauroso d'uno scisma, più volte l'ammonì, poi gli attaccò processo d'eresia, e gli interdisse di predicare. Il Savonarola non pensava staccarsi dalla Chiesa, e scrisse al papa: «La Santità [229] Vostra si degni indicarmi quale tra le cose che dissi e scrissi io deva ritrattare, e subitissimo il farò». Non impugnava dunque l'autorità delle somme chiavi, ma poichè allora le teneva un pontefice, che coi costumi proprj e de' suoi deturpava una cattedra, onorata da tanti sapienti e tanti virtuosi, il Savonarola sostenne fosse stato eletto iniquamente, e braveggiò la scomunica, dicendo, che se ingiusta non obbliga[272], che il papa potè essersi ingannato.

Scrisse ai principi, testificando «in verbo Domini, che questo Alessandro non è papa, nè può esser ritenuto tale; imperciocchè, lasciando da parte il suo scelleratissimo peccato della simonia, con cui ha comperato la sedia papale, ed ogni dì a chi più ne ha vende i benefizj ecclesiastici, e lasciando gli altri suoi manifesti vizj, io affermo ch'egli non è cristiano, e non crede esservi alcun Dio», ed esortava i principi a raccoglier il concilio in luogo atto e libero, dov'egli tutto ciò proverebbe.

Alessandro VI volle ancora scorgervi piuttosto trascendenza di zelo che vera malizia: e per lasciargli aperta la via al pentimento, non lo dichiarò eretico, bensì sospetto d'eresia, e cercò che la Signoria lo inducesse a chiedere l'assoluzione, la quale esso non gli negherebbe, come in appresso gli renderebbe anche il predicare[273].

Ma frà Girolamo, fin nell'ultimo suo discorso esclamava: «Bisogna rivolgersi a Cristo che è la causa prima, e dire: Tu sei il mio confessore, vescovo e papa: provvedi tu alla Chiesa che rovina. — O frate, tu debiliti la podestà ecclesiastica. — Questo non è vero: io mi sono sempre sottoposto e mi sottopongo anche ora alla correzione della romana Chiesa: non la debilito punto, anzi l'aumento. Ma io non voglio stare sotto la potestà infernale; ed ogni potestà che va contro al bene non è da Dio, ma dal diavolo».

E spesso ripeteva che un giorno darebbe volta alla chiavetta, e griderebbe, Lazare, veni foras; accennando al concilio, a cui s'appellava, e che non da lui solo, ma da molti era considerato come unico rimedio ai disordini della Chiesa. E questo chiedere la riforma per mezzo del concilio era tanto più comune dacchè in quel di Costanza erasi stabilito di radunar la Chiesa ogni dieci anni. Nel processo del Savonarola v'è l'esamina di un Giovanni Combi, che dice: «Sono giorni circa quaranta, che, trovandomi a casa ozioso, mi venne in animo di mandar allo imperatore il libro del Trionfo della fede fatto da frà Girolamo, avendo inteso ch'era bello libro, e mandavalo allo imperatore come a uomo dotto e che si diletta di cose simili. E così feci una lettera a S. M. nella quale narravo come il detto frà Girolamo era gran profeta, e prediceva cose future, massime la conversione de' Turchi, la ruina d'Italia e la renovazione della Chiesa. E che non era dubbio la Chiesa stava male, come S. M. può ben sapere, e che a S. M. prefata s'apparterrebbe remediare, come si faceva pei tempi passati, per mezzo de' concilj. Di poi andai con tal mia lettera a San Marco, non per [230] trovare frà Girolamo, ma per fare scrivere tal mia lettera in latino: e trovati frà Silvestro e Girolamo Benivieni, la lessi loro. Di poi la lasciai a Girolamo Benivieni perchè la facesse latina; e lui così mi promise di fare. Di poi a tre giorni andai a San Marco, e mi ha detto che io facessi motto a frà Girolamo che mi voleva parlare. E così andai a lui, ed inginocchiatomegli dinanzi, e' mi disse: «Io ho visto la bozza della tua lettera allo imperatore: sia contento non l'avere per male». Poi soggiunse: «La sta secondo il gusto mio e poco manca». E che voleva aggiungere alcune parole, e darmi copia di una lettera che aveva scritto al papa, perchè ve la inchiudessi. Ed io risposi essere contento a tutto, ecc.».

Ma poichè il frate procedea più sempre fino a non voler riconoscere altre autorità che di Dio e della propria coscienza, stimolato dalle nimistà cittadine, dalla gelosia d'altri monaci, e massime di frà Mariano da Genazzano, che in predica intitolava il Savonarola ebreone, ribaldone, ladrone, il papa rinnovò la scomunica «perchè alle apostoliche ammonizioni e comandamenti non ha obbedito», e vietava di ajutarlo, frequentarlo e lodarlo «siccome scomunicato e sospetto d'eresia».

I suoi discepoli, anche colla pruova del fuoco, si profersero a sostenere contro frati Francescani[274], 1º che la Chiesa di Dio ha bisogno d'esser rinnovata; 2º ch'essa verrà percossa; 3º dopo i flagelli essa e Firenze saran rinnovate e prospere; 4º gl'infedeli si convertiranno in Cristo; 5º queste cose si compiranno ai giorni nostri; 6º la scomunica contro frà Girolamo è nulla; 7º nè peccano quelli che non ne tengono conto.

Deponiamo l'entusiasmo che simpaticamente è eccitato dagli entusiasti, e viepiù dalla nobile e austera sembianza del Savonarola, e che cosa vi vediamo in somma? Il frate sostenere che la giustizia è perita, e in conseguenza restano esautorati il governo temporale e lo spirituale. Ma con ciò egli ergeva se stesso in giudice di tutti: non sarebbe stata giudice meglio competente la santa sede? No (egli risponde) perchè non è più santa, mentre santi sono i Piagnoni, i quali induce ad astinenze, ad austerità, a indietreggiare ai tempi di san Francesco e de' Fraticelli[275].

Per dimostrare che la sua missione era superiore agli altri, abbisognavano profezie e miracoli; or le profezie sue democratiche fallirono; quanto ai miracoli, uno gliene chiedeva Carlo VIII[276] come la gentuccia; esibitagli la pruova del fuoco, non potè cansarla, e non gli riuscì; donde scredito, e quel facile mutare degli amori fanatici in fanatiche esecrazioni.

La plebe, secondando i menapopolo, domanda una vittima; assale il convento di San Marco, ferendo, uccidendo: arresta frà Girolamo; ed essa che dianzi l'adorava, ora ebra di furore lo schiaffeggia, e sputacchia, dicendo: «Profetizza chi ti ha percosso», e «Salvati con un miracoluccio». E frà Girolamo se ne va, ripetendo ai suoi frati: «Rammentatevi di non dubitare: l'opera del Signore andrà sempre innanzi, e la mia morte non farà che accelerarla».

[231] Esultarono i tristi preti del cessato attacco; esultarono i Compagnacci che la voce di rimprovero fosse soffogata; esultarono i patrioti d'aver tolto di mezzo il turbatore della pace pubblica; avversarj fatti giudici lo esaminano, e perchè non trovano titolo a condannarlo, v'è chi esclama: «Un frate più o meno, che cosa importa?» Stirato e squassato alla fune, egli debole e affranto di corpo, confessa quel che vogliono, essere stato eretico, aver negato Cristo, finto profezie e rivelazioni; poi subito nega, e «Non ho mai detto di credermi ispirato; bensì di appoggiarmi solo alle scritture sante. Non cupidità delle glorie del mondo mi mosse, e desideravo che per opera mia si congregasse il concilio, nel quale speravo fossero deposti molti prelati e il papa, e i costumi si riformassero, a modello de' tempi apostolici. Circa alla scomunica, benchè a molti paresse che la fosse nulla, niente di meno io credevo ch'ella fosse vera, e la osservai un pezzo: ma poi parendomi che l'opera mia andasse in rovina, presi partito di non la osservar più, anzi manifestamente contraddirla e con ragioni e con fatti, per onore e per riputazione».

Rimesso alla tortura, confessava di ricapo quel che volevano, e meritar mille morti[277]. Ma interrogato se avesse voluto scinder la Chiesa di Cristo: «Giammai! (rispondeva risolutamente) se pur non si voglia intender d'alcune cerimonie, colle quali restrinsi la vita de' miei frati. Vero è che non ebbi mai paura delle scomuniche».

Ma la sua morte era un sacrifizio domandato da quella tiranna che, allora come adesso, s'intitolava opinion pubblica, e che dianzi ne chiedea l'apoteosi: sempre vulgo. Quando se ne discuteva nella Pratica, fra i minacciosi tremanti ardì alzarsi un Agnolo Pandolfini, e dire che pareagli esorbitanza il porre a morte un uomo, di sì eccellenti qualità che appena se ne vedeva uno in un secolo; e che potrebbe non solamente rimettere la fede nel mondo quando fosse mancata, ma ancora le scienze. Perciò proponeva di tenerlo prigione, e dargli modo di scrivere, acciò il mondo non perdesse i frutti del suo ingegno.

La Pratica accolse male la proposta, e gli si objettò non era a fidarsi nei magistrati futuri, che rinnovavansi ogni due mesi; talchè il frate sarebbe potuto tornar libero, e metter la città di nuovo a soqquadro. Nemico morto non fa più guerra: l'insegnò il Machiavello, e lo praticò Saint-Just.

E morte gli decretarono i concittadini, e l'assentirono i commissarj apostolici; e fu posto vivo sul rogo con due compagni, davanti al Palazzo Vecchio, dove sta ancora la lapide col decreto, pel quale egli avea fatto dichiarare unico re de' Fiorentini Gesù Cristo. Ai condannati il papa avea mandata l'assoluzione, onde l'assistente disse: «Piacque a sua santità liberarvi dalle pene del purgatorio, e concedervi l'indulgenza plenaria dei vostri peccati. L'accettate voi?»

Tutti tre chinarono il capo, e dissero sì. Così ai 23 maggio 1498 moriva [232] frà Girolamo tra gl'insulti della plebe, che struggeasi di metter fuoco alla pira, come un tempo di cogliere i fiori del rosajo ov'egli predicava; tra gli osceni strappazzi del boja, che schiaffeggiandolo attiravasi pubblici applausi: e la Signoria informava i principi «quei tre frati aver avuto fine condegna alle loro pestifere sedizioni». Ma che? Subito il Savonarola fu decorato del titolo di santo, di martire; i tizzoni del suo rogo, qualche avanzo di ossa, le ceneri si conservarono, e mostravansi a' suoi devoti, come adesso ai curiosi; e ad ogni anniversario la gioventù ne espiava il supplizio con ispargere fiori sul luogo ov'egli perì.

Il Savonarola fu eretico? I Protestanti lo dipinsero qual loro precursore, e che avesse insegnato la giustificazione operarsi per la fede senza bisogno d'opere, e l'uomo esser uno strumento passivo in mano di Dio, il quale lo elegge e lo ripruova, senza ch'egli possa contribuire alla propria salvezza. Ultimamente Meyer e Rudelbach[278] con molta scienza ne scrissero gli atti in tale intento, ma con quel sistema di modificazioni e reticenze, per cui fu facile allineare coi Protestanti gl'ingegni più ortodossi. Perocchè analizzandone le opere, le mutilano, le scontorcono così, da esprimere quel che essi prestabilirono, e principalmente sopprimono quel che vi ripugna. Per un esempio, delle tre prime parti del Trionfo della Croce, le dottrine sono comuni ai Protestanti e a noi: onde il Rudelbach le divisa con diligenza, industriandosi volta a volta di estrarne qualche senso protestante. Ma trasvola al IV libro ove frà Girolamo tratta dei sacramenti da perfetto cattolico. Il Meyer asserirà che il frate parla ben poco della Beata Vergine, quasi mai del purgatorio: ma non tien conto che in qualche luogo spinge il culto della madre di Dio fino ai limiti della superstizione, e raccomanda ai fedeli di suffragare pei defunti; e conchiude che «chi si parte dalla dottrina della Chiesa romana, si parte da Cristo».

E in quel famoso mistico carro, del quale più fiate egli ragiona, figura Cristo vittorioso, piagato, coi due Testamenti in una mano, nell'altra la croce e i segni della passione; a' piedi il calice, l'ostia, i simboli de' sacramenti; poi la Vergine Maria colle urne de' martiri; il carro è tirato da apostoli, predicatori, profeti; è seguito dalla moltitudine de' fedeli e de' martiri. E da quel carro dicea doversi dedurre una nuova filosofia, i cui canoni supremi sono che Cristo è stato crocifisso, adorato, e ha convertito il mondo; e la Vergine, i martiri, la Santissima Trinità sono adorati dai Cristiani. Nè di rado il Savonarola ritorna sulla necessità delle opere, sul libero arbitrio, sulla cooperazione dell'uomo alla Grazia; che se l'espressione non è sempre esattissima come dopo le definizioni tridentine, abbastanza rivela di pensar come la Chiesa cattolica; quantunque la Grazia diasi gratuitamente, noi dobbiamo apparecchiarci a riceverla forzandoci di credere, pregando, operando[279]. «Vuoi tu ricevere l'amor di Gesù Cristo? fa di consentire alla divina chiamata; il Signore ti chiama, fa tu pure qualche cosa»[280]. Aveva [233] anzi in gioventù addottato questo motto: «Tanto sa ciascuno quanto opera»: talmente era lontano dalla passiva aspettazione della Grazia.

Ma nella meditazione sul Miserere fatta in prigione, poneva: «Spererò nel Signore, e presto sarò liberato da ogni tribolazione. E per quali meriti? Pe' miei non già, ma per i tuoi, o Signore. Io non offerisco la mia giustizia, ma cerco la tua misericordia. I Farisei si gloriarono nella loro giustizia; onde non hanno quella di Dio, la quale si ha solo per grazia; e nessuno sarà mai giusto innanzi a Dio, solo per aver fatto le opere della legge.

«O cavaliere di Cristo: di che animo sei tu in queste battaglie? Hai tu fede o no?

«Sì, la ho.

«Ben sappi che questa è una grande grazia di Dio, perchè la fede è suo dono, e non per nostre opere: acciò nessuno si possa gloriare».

Queste parole parvero asserire la giustificazione indipendente dalle opere; sicchè quell'opuscolo fu diffuso in Germania da Lutero nel 1523, con una prefazione, ove dichiarava il Savonarola suo precursore, «sebbene ai piedi di questo sant'uomo sia ancora attaccato del fango teologico»[281], e aver lui sostenuto «la giustificazione per mezzo della sola fede, e PERCIÒ venne bruciato dal papa»; e soggiungeva: «Cristo lo canonizzò perchè non appoggiossi sui voti o sul cappuccio, sulle messe o sulla regola, ma sulla meditazione del vangelo della pace; e rivestito della corazza della giustizia, armato dello scudo della fede, dell'elmo della salute, si arrolò non all'ordine de' Predicatori, ma alla milizia della Chiesa cristiana».

Noi sappiamo che non dal papa fu bruciato, e non per questo motivo; ma il libro stesso a cui Lutero s'appoggiava lo smentisce, poichè, primamente, che la fede sia dono gratuito di Dio è sentenza comune di tutti i teologi e del concilio di Trento: poi in esso libro il Savonarola continua: «Chi addurrà un peccatore, sia pur grandissimo, il quale, rivoltosi e convertitosi a Dio, non sia stato accetto e giustificato?... Or non hai tu udito il Signore, che dice, Qualunque volta piangerà il peccatore, e si dorrà de' suoi peccati, io non mi ricorderò delle sue iniquità?... Cadesti? lèvati, e la misericordia ti riceverà. Rovinasti? grida, e la misericordia verrà».

Poi sollecitato dal carceriere a lasciargli qualche ricordo, frà Girolamo sulla coperta di un libro scriveva una Regola del ben vivere, più volte ristampata, ove dice: «Il ben vivere dipende tutto dalla Grazia; onde bisogna SFORZARSI D'ACQUISTARLA, e quando s'è avuta, d'accrescerla... Essa è certamente un dono gratuito di Dio; ma l'esaminar i nostri peccati, il meditare sulla vanità delle cose mondane, c'indirizza alla Grazia; la confessione e la comunione ci dispongono a riceverla... Il perseverare nelle buone opere, nella confessione[282], e in tutto quello che ci ha avvicinato alla Grazia è il vero e sicuro modo d'accrescerla».

Il Savonarola era piuttosto un mistico; e a indicarlo tale, se non bastassero [234] alcuni passi da noi addotti, ben altri potrebbero adunarsi, e per darne uno, quello ove definisce, «L'amore di Gesù Cristo è quel vivo affetto, per cui il fedele desidera che la sua anima diventi quasi parte di quella di Cristo, e che la vita del Signore si riproduca in lui, non per esterna imitazione, ma per interna e divina ispirazione. Vorrebb'egli che la dottrina di Gesù Cristo fosse in lui cosa viva, patir il suo martirio, salir con lui misticamente sulla croce. Amore onnipotente, che non può aversi senza la Grazia, perchè eleva l'uomo sopra se stesso, e la creatura finita congiunge al Creatore infinito»[283].

Ne' processi nega d'essersi spacciato mai come ispirato; pur realmente davasene l'aria, forse come artifizio a cattivar una plebe, che vuol sempre essere illusa[284]. Una volta salì in pulpito, ed: «Ho a rivelarvi un secreto celeste, che ancora non ho voluto manifestare ad alcuno, perchè non ne ero finora ben certo. Voi conoscete tutti il conte Pico della Mirandola, morto testè. Dicovi che l'anima sua, per le orazioni de' nostri frati, ed anche per alcune sue buone opere che fece in questa vita, e per altre orazioni, è nel purgatorio. Orate pro eo». Di tratti consimili è sparsa la sua vita, e ne' discorsi accenna spesso a rivelazioni speciali, o ad interpretazioni nuove di passi scritturali.

Uom di fede, di superstizione, di genio, abbondò di carità; credette all'ispirazione personale, all'opposto di Lutero che tutto affidavasi al raziocinio; e argomenti in favore e contro di lui possono raccogliersi nelle sue opere, dal cui complesso risulta come abbia cercato l'armonia della ragione colla fede, della religione cattolica colle franchigie politiche.

In ogni modo non impugnò l'autorità della Santa Sede, benchè reluttasse a colui che egli credeva tenerla illegittimamente, e contro di questo invocasse il concilio che doveva riformar la Chiesa legittimamente: la superbia degli applausi, il puntiglio delle contraddizioni lo fecero trascendere, ma operava con coscienza pura, senza ambizioni personali: non cercò propagar le sue persuasioni colla forza, sibbene coll'esempio, cioè credeva alla potenza del vero. E diceva: «Entrai nel chiostro per imparar a patire, e quando i patimenti vennero a visitarmi, gli ho studiati, ed essi m'insegnarono ad amar sempre, a sempre perdonare». Ma interposto Iddio fra il pensier suo e la sua persona, sottomise la prudenza umana all'ispirazione; credette guidar il popolo per mezzo della passione e delle grida di piazza, e a queste soccombette, come sempre avviene. Eretico non è se non chi si ostina in un'opinione contraria ad un punto di fede definito. La sua fama restò bilanciata tra il cielo e l'inferno, ma la sua fine fu deplorata da tutti, e forse primi quelli che l'aveano provocata. In Santa Maria Novella e in San Marco è dipinto in figura di santo, e da Raffaello nelle logge vaticane fra i dottori della Chiesa; ritratti e medaglie sue si tennero e venerarono, non solo fra que' pii che in Firenze continuarono ad opporsi alla depravazione e alla servitù che ne deriva, ma anche da gran santi.

[235] Nel 1548, il severo Ambrogio Catarino stampò a Venezia un Discorso contro la dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola, dedicato al cardinale Del Monte, dove ne raduna molte proposizioni, che crede repugnanti al dogma cattolico: ma «dichiara di oppugnar in questa opera non il Savonarola, giudicato piuttosto degno di compassione che di vituperio, bensì la dottrina e gli errori di lui, che ancora viveano nella riputazione di coloro che, non senza scandalo e pericolo delle loro anime, a lui prestarono fede».

Forse in conseguenza di tale denunzia quegli insegnamenti furono presi in esame sotto Paolo IV, e quando la commissione ne leggeva dinanzi a questo alcuni brani, egli esclamava: «Ma questo è Martin Lutero! cotesta è dottrina pestifera»; maturato però l'esame, non furono che sospese quindici prediche e il dialogo della Verità profetica: il padre Paolino Bernardini lucchese, fondatore della congregazione di Santa Caterina da Siena, compose Narrazione e discorso circa la contraddizione grande fatta contro le opere del r. p. frà Girolamo, sostenendo che la dottrina di esso «non poteva esser dichiarata nè eretica, nè scismatica, nemmanco erronea e scandalosa», e nell'indice del Concilio di Trento que' libri figurano solo donec emendati prodeant, cioè come intaccati solo d'errori accidentali. Dicevasi che Clemente VIII, nel 1598, avesse fatto voto, se riusciva ad acquistare Ferrara, santificare il Savonarola. Serafino Razzi, domenicano fiorentino, infervorato di frà Girolamo, v'esortò più volte il papa, scrisse anche una vita del frate, poi vedendo menarsi la cosa in lungo, comperò un asinello, e settuagenario com'era, l'anno santo recossi a Roma. Ma il papa «temendo dei tanti contraddittori», non volle tampoco vederlo, nè gli permise di stampare quella vita; e invano i Domenicani aveano preparato un'uffiziatura propria del Savonarola[285]. Se il filosofico Naudet lo intitolava Ario e Maometto moderno, il devoto padre Touron lo intitolava inviato da Dio; san Filippo Neri e santa Caterina de' Ricci lo veneravano per beato, e Benedetto XIV lo disse degno di santificazione. Al raccogliere de' conti fu un credente del medioevo, non un ragionatore del cinquecento: un'elegia del passato, piuttosto che una tromba dell'avvenire; ma quanto al voler associare la morale colla politica, vivono oggi ancora discepoli suoi, e combattono buona guerra.

Nessuno dei seguaci di frà Girolamo figurò fra i discepoli di Lutero, nè fra i traditori della patria libertà: Michelangelo, che edificava bastioni per la patria e il maggior tempio del Cristianesimo, l'ebbe sempre in venerazione; il Machiavello, che non s'avventurava ad opinioni contrarie alle correnti, dapprincipio ammirò il Savonarola; lo prese in beffe allorchè ebbe spiegata intera quella sua politica senza Dio, senza providenza, senza moralità; un'innata malvagità senza peccato originale e senza redentore; e la speranza del rigeneramento d'Italia volle non solo senza la Chiesa, ma a dispetto della Chiesa: insomma il preciso contrario del Savonarola.

[240]

DISCORSO XII.
GIULIO II. CONCILJ DI PISA E LATERANO.

Alessandro VI moriva, non colle circostanze date da diarj d'allora e da romanzi d'oggi[286], pure inaspettatamente, nel rimestìo delle ambizioni, colle quali preparavasi a fare suo figlio principe della Romagna, delle Marche e dell'Umbria, assicurare i dominj della Chiesa dai tirannelli che gli aveano usurpati, e introdurvi quiete e regolarità. Il Valentino, che sperò, anche dopo morto il padre, continuare coi delitti e le prodezze a fare l'Italia, fidando nelle truppe come un re moderno, circondò il conclave per imporre la sua volontà: ma il popolo sollevatosi lo cacciò; e i cardinali adunati presero accordo che il nuovo papa convocherebbe tra due anni un concilio. Pio III, de' Piccolomini di Siena, elettogli successore (1513), s'affrettò di concertarsi all'uopo colle potenze, nell'intento di riformare la Chiesa, incominciando (apertamente il professava) dalla curia romana. Ma dopo ventisette giorni morì e gli succedeva Giulio II genovese, che come cardinale Della Rovere era stato gran nemico di Alessandro VI, e durante il costui papato erasi sempre tenuto in armi e in difesa. Saliva papa, persuaso che la podestà pontifizia non potesse assodarsi se non assodandone il dominio temporale; laonde, se Sisto IV e Alessandro VI aveano mirato a fare grandi i loro figliuoli, esso volle far grande la Chiesa, in modo da stare arbitra fra la Spagna e Francia, e logorarle entrambe finchè le snidasse d'Italia. Fa arrestare il terribile Valentino, e l'obbliga a cedere alla Chiesa i paesi ch'egli ed altri n'aveano sottratti; ritoglie Bologna ai Bentivoglio, Perugia ai Baglioni; da Venezia si fa restituire Rimini, Ravenna, Faenza, Cervia; senza violenze procacciasi Urbino, e pone la Chiesa nella maggior forza che mai fosse. Alle città sottoposte lasciava gli antichi o concedea privilegi nuovi, formandone municipj indipendenti siccome nel Veneto; e dove corporazioni di nobili, di borghesi, d'artieri si teneano in reciproco rispetto. In Roma erano quotidiane le aggressioni e gli omicidj, e non rare le vere battaglie, e Giulio le terminò coll'imporre [241] e volere il disarmo generale. La nobiltà romana stava divisa in guelfa e ghibellina, per lo più tenendo bandiera guelfa gli Orsini, i Savelli e il popolo; ghibellina i Colonna, i Conti, i prefetti di Vico. Ora convennero tutti in Campidoglio, e giurarono concordia, stabilendo che «in perpetua e memorosa dannazione et infamia, sia licito le immagini de' contravenienti dipingere sottosopra al modo de' perfidi e crudeli traditori, in faccia del Campidoglio et in altri luoghi pubblici dal popolo frequentati, in perpetua commemorazione e testificazione di loro scellerata vita»[287]. Battagliero come un prelato del Mille, e padre de' suoi soldati, violento di natura, non dissimula le passioni, pure non se ne lascia conturbare; ardito ai progetti, cauto nello scegliere i mezzi, paziente nelle traversie, intrepido nei pericoli, ricevuto il paese in pieno scompiglio, Giulio rimise al freno i baroni; compresse la plebe; eroe se l'armadura e la fierezza non disconvenissero al successore del pacifico pescatore di Galilea. Luigi XII scende a vendicare Carlo VIII, e Giulio riesce a respingere i Francesi, e difende anche una volta l'indipendenza italiana. Dicea voler «riunire la comune patria sotto un solo padrone, e questi debbe essere perpetuamente il pontefice romano. Ma mi affanna il pensiero che non potrò arrivarvi per i gravi anni che mi ritrovo; e mi strazia l'idea di non poter compiere tanto per la gloria d'Italia, quanto ne sente il mio cuore»[288].

Ma quando il vediamo obbligato ad accampare egli stesso sotto al tiro del cannone, comprendiamo di versare in un'età troppo differente da quando una parola di Gregorio VII bastava a trarre i re umiliati, dal cuore della Sassonia, a baciare scalzi il suo piede nel castello di Canossa. E di Giulio non è male che non dicano il Guicciardini, il Budeo, Erasmo, Hutten[289] e la turma seguace. Ma chi al pari di lui suntuoso nello spendere? Abbellisce la chiesa de' Santi Apostoli; fabbrica un palazzo presso San Pietro in Vincoli; ingrandisce il Museo, collocandovi capolavori e una stamperia; fa la via Giulia e la via de' Banchi colla fontana iscritta «Italia liberata», e colà la zecca ove si battono i giulj. Dell'antica ricchezza di fontane a Roma non restando che l'Acqua Vergine, egli ne conduce un'altra al giardino del Vaticano, e su quel colle mette le fondamenta della più vasta chiesa del mondo, abbattendo l'antica basilica piena di sacre memorie[290] per eriger la nuova con inarrivabile magnificenza. Michelangelo presume a centomila scudi il valore della sua tomba, «Te ne darò dugentomila» dic'egli, e la vuole la più insigne opera del mondo; rifabbrica e munisce Civitavecchia ed Ostia, il castello ornandone con nobili pitture, come l'altro di Grottaferrata. Insomma, Carlo Fea potè sostenere che da lui più che da Leone X dovesse intitolarsi quel secolo.

Quanto all'ecclesiastico, non fece cardinali di case ricche, e pubblicò una famosa costituzione contro le elezioni simoniache. Nel conclave anch'egli avea preso impegno d'unire un concilio fra due anni, ma poichè altre occupazioni il distraevano, i cardinali Borgia, Carvajal e Briçonnet, stuzzicarono il re di [242] Francia a raccoglierlo. Strano scambio di parti si offerse allora: il capo della Chiesa combattere colle armi mondane; il re di Francia torcer contro di lui le armi spirituali. Convocati a Orleans poi a Tours (1510) i prelati del suo regno, Luigi XII posò loro delle domande, a cui risposero che il papa non avea diritto di fare guerra a principi stranieri; che questi, per riparare un'ingiusta aggressione, poteano anche invadere per qualche tempo le terre della Chiesa, e ricusare obbedienza al papa nemico, per difendere i loro diritti temporali; che negli affari ecclesiastici bastava attenersi al vecchio gius canonico, e non fare caso delle censure pontifizie (settembre 1511).

Accordatisi anche con Massimiliano, imperatore eletto di Germania, i cardinali indissero un concilio a Pisa, come necessario a reprimere questo papa sfrenato, contro le cui censure protestavano anticipatamente. Si pensi in quali furie ne montò Giulio II! e manifestò al mondo che solo le contingenze politiche aveanlo impedito dal convocare il sinodo, ma l'aprirebbe a Roma il 1 aprile 1512. I prelati di Francia s'accorgeano d'essere meri stromenti alla politica ed animosità del re; pure, sempre ligi al potere, il secondavano, ma trovaronsi quasi soli allorchè a Pisa fu aperto il concilio ai 5 novembre, protestando non separarsi finchè non fosse compiuta la riforma della Chiesa nel capo e nelle membra, e ristabilita la pace in Europa. Intanto, calcando le orme del concilio di Basilea, cercavasi ripristinare nella Chiesa il governo aristocratico, e si confermava il decreto di Costanza che riconosceva superiore il concilio al papa.

Così, pur professando riverenza al pontefice, minacciavano di rinnovare il grande scisma. Ma scarso assenso trovavano. De' prelati di Germania nessuno venne, malgrado le istanze di Massimiliano, il quale mandava circolari querelando che dalla nazione germanica ogni anno si smungessero ingenti grosse somme per alimentare il lusso della Corte di Roma, e che il concilio avrebbe, come il potere, così la volontà di porvi rimedio. I più consideravano il sinodo come un conciliabolo; il popolo pisano accoglieva a fischi i prelati; i Fiorentini mal soffrivano di tenersi in paese quel seme di zizzania, onde si dovette trasferirlo a Milano. Qui pure l'opinione popolare lo avversava; se que' prelati entrassero in una chiesa, sospendeansi i sacri riti; ed essendo in quel tempo, alla battaglia di Ravenna, caduto prigioniero de' Francesi il cardinale De' Medici, che poi fu papa Leone X, gli uffiziali affollavansi a implorare gli assolvesse d'avere guerreggiato il papa, e lasciasse dare sepoltura ecclesiastica ai loro camerata, cascati combattendo.

Fra ciò le sorti della guerra mutavansi; l'esercito pontifizio, sostenuto dagli Svizzeri, snidava i Francesi dalla Romagna e gli assaliva in Lombardia, sicchè i prelati migrarono da Milano ad Asti, poi a Lione, e sebbene continuassero a intitolarsi concilio ecumenico, altro non fecero che domandare sussidj al clero francese.

[243] Giulio II non solo avea rejetto ogni accordo col conciliabolo, ma depose e scomunicò i cardinali disobbedienti, e pose all'interdetto tutta la Francia, e particolarmente Lione. Poi al 10 maggio aperse il concilio in Laterano, ove convennero dapprincipio quindici cardinali e settantanove vescovi, cresciuti poi a cenventi, quasi tutti italiani. Le cinque sessioni tenutesi da vivo Giulio II, limitaronsi a riprovare il conciliabolo.

Leone X, appena succeduto papa, fece allestire appartamenti in Laterano volendo egli stesso assistere alle discussioni del concilio, e quando, al 6 aprile 1513, aperse quivi la sesta sessione, esortò sovratutto a rimettere pace fra i principi cristiani, e promise non chiuderlo finchè l'opera non fosse compiuta. Anche Luigi XII, che per astio contro Giulio II aveva accolto gli errabondi padri del conciliabolo di Pisa, ora «vinto dall'importunità di sua moglie e dalle rimostranze de' sudditi ch'essa suscitava d'ogni lato», cessò di favorirli, e aderì al sinodo lateranense, al quale i capi dello scisma vennero a chiedere perdono e l'ottennero.

Come in ogni concilio, così in questo, eravi una commissione per la riforma, e si propose espresso di correggere molti abusi, e ricondurre alla primitiva osservanza de' canoni[291]. Nell'apertura, frate Egidio Canisio da Viterbo, famoso predicatore, esclamava: «Chi può vedere senza lacrime la corruttela e i disordini del secolo malvagio nel quale viviamo, il mostruoso sregolamento che regna ne' costumi, l'ambizione, l'impudicizia, il libertinaggio, l'empietà trionfare nel luogo santo, da cui questi vizj dovrebbero essere sbanditi per sempre?»

Nella nona sessione, Antonio Pucci magnificava l'eccellenza della Chiesa, perchè maggiore apparisse il dovere di ridurla alla pristina purezza; e tutti, ma egli maggiormente deplorare che a ciò si opponessero le nimicizie de' principi cristiani: i quali rigurgitanti di denaro, di popolazione, d'armi, di vigore, di genio, non sapeano adoprarli che a sovvertire il mondo con ostilità reciproche, invasioni, correrie, saccheggi, incendj, uccisioni d'innumerevoli adoratori di Cristo. «O cuori affamati dei re, non mai satolli delle innocenti viscere de' popoli! o terra sitibonda, abbeverata da un rivo fumante di cristiano sangue! o cieca rabbia dei demonj, non calmata dagli innumerevoli micidj umani! Da vent'anni, cinquecentomila cristiani furono sgozzati di spada e ancor n'avete fame? e ancor sitite sangue?» Male ben peggiore dichiarava l'essersi provocata la collera di Dio con tante colpe; nè potere sopirsi la guerra esterna finchè non fosse tolta l'interiore de' vizj: «Vedete il secolo, vedete i chiostri, vedete il santuario; quali enormi abusi a correggere! Dalla casa di Dio bisogna cominciare, ma non fermarsi là»[292].

I decreti di quel concilio furono tanto prudenti quanto rigorosi. Non elevare al sacerdozio se non persone d'età piena, di costumi esemplari, e studiose. Il concilio, risoluto a una riforma universale e a smorbare il campo [244] del Signore e promuoverne la coltura, non dissimula che ogni giorno riceve lamentanze contro le estorsioni degli offiziali della curia romana, e perciò vuole si moderino le tasse, gli emolumenti, le regalie, i proventi, rimettendosi alle antiche consuetudini e alla istituzione primeva degli uffizj[293].

Domandato venissero tolti agli Ordini mendicanti i privilegi accumulati nella bolla Mare Magnum, non si osò, ma fu imposto che neppure essi potessero predicare se non esaminati prima dal loro superiore con tutta coscienza, e trovati idonei per costumatezza, età, dottrina, probità, prudenza ed esemplarità[294]. Non si predichino superstizioni o rivelazioni; non si dipingano fatti immaginarj, ma l'evangelica verità e la sacra scrittura giusta la interpretazione dei dottori, approvata dalla Chiesa o dall'uso diuturno, senza aggiungere cosa contraria o dissonante[295]. I maestri non insegnino solo i classici, ma anche i precetti divini, gli articoli di fede, gli inni, i salmi e le vite dei santi.

Furono condannati i filosofi, che dicono l'anima esser mortale e una sola in tutti gli uomini, mentre Clemente V nel concilio di Vienna proferì che «l'anima è veramente ed essenzialmente la forma del corpo umano; che essa è immortale e molteplice secondo il numero de' corpi ne' quali è infusa». Pertanto il pontefice esortava i professori a non agitare vane quistioni sulla natura dell'anima, e dimostrarne l'immortalità anche secondo i principj scientifici; più della filosofia platonica, si studii la teologia; solo chi questa conosca entrerà nel sacerdozio, ove poi si deve vivere sobrj, casti, pii, astenendosi non solo dal male, ma dalle apparenze. La casa de' cardinali sarà un porto e un ospizio a tutti gli uomini dotti e probi, a' nobili e onesti poveri: semplice, frugale la loro tavola; non lusso nè avarizia; pochi servi e vigilati, castigandone i disordini, ricompensandone la morigeratezza. I sacerdoti in servizio non s'adoprino a ministeri abjetti. A quei che vengono a sollecitare impieghi non badino, bensì a quei che chiedono giustizia; sempre disposti a sostenere la causa del povero e dell'orfano. Hanno parenti bisognosi? È giusto soccorrerli, ma non a spese della Chiesa. I vescovi facciano eseguire gli ordini del concilio, e almeno ogni tre anni tengano sinodi diocesani per decidere de' casi di coscienza e delle controversie. Risiedano nella loro diocesi, o se ne affidarono l'amministrazione a persone probe, la visitino almeno ogni anno per riconoscerne i bisogni e sindacare i costumi del clero. Morendo non dimentichino che la Chiesa da essi amministrata ha diritto alla loro riconoscenza: e vogliano modesti funerali, giacchè il bene che lasciano appartiene ai poveri[296].

Fra altri punti vi si trattò di uno, tanto nuovo quanto importante, la stampa; la forza più potente e lo stromento più formidabile, dopo la parola, che Dio ponesse a disposizione dell'uomo. I papi ne aveano favorito la diffusione, come dicemmo, e Alessandro VI (Inter multiplices) riconosceva «sommamente utile che quanto concerne le sane cognizioni e la sana [245] morale sia messo in luce mediante caratteri e lettere che fissano la verità in modo da porla sotto gli occhi degli uomini più lontani nel tempo e nello spazio». Ma presto e letterati e principi si accorsero che, quanta edificazione, tanto pericolo potea venirne alla fede, al costume, all'onoratezza. Pertanto il concilio decretò: «La stampa, per favore divino perfezionatasi ai nostri giorni, è opportunissima a esercitare gl'intelletti, e formare eruditi, de' quali godiamo che abbondi la Chiesa. Pure udiamo lamentare che molti imprimano opere, contenenti errori e dogmi perniciosi, e ingiurie a persone anche elevate in dignità; di modo che i libri, invece di edificare, guastano e la fede e i costumi. Affine dunque che un'arte felicemente trovata a gloria di Dio, a incremento della fede ed a propagazione delle scienze utili, non divenga pietra d'inciampo ai fedeli, e volendo che essa prosperi tanto più, quanto più vigilanza vi si apporterà, stabiliamo che nessuna opera si pubblichi se prima non sia riveduta dal maestro del sacro palazzo o dai vescovi, che vi metteranno la propria firma gratuitamente e senza indugio». Erano ripari che una barbarie mascherata doveva poi spezzare, per lasciar le verità più venerabili come i diritti più sacri in balìa alle codarde speculazioni d'una ciurma vilissima, sicchè un pontefice dovesse esclamare: «Siam compresi d'orrore nel vedere da quali mostruose dottrine, anzi da quali portentosi errori ci troviamo inondati per quel diluvio di libri, d'opuscoli, di ogni genere scritti, la cui deplorabile eruzione sparse l'abominazione sulla faccia della terra»[297].

Intanto Leone X a Bologna (1515) con Francesco I conchiudeva un concordato, che derogava molti privilegi che la Corte francese pretendeva nelle elezioni de' prelati secondo la prammatica sanzione; concordato che, come nuovo trionfo della Chiesa romana, subito venne approvato dal concilio Lateranese.

Parve dunque avere questo ottenuto il suo intento, difatto lo scisma, regolata l'obbedienza della Francia, promosse molte riforme, talchè si sciolse il 16 marzo 1517. Ma il cardinale De Vio generale de' Domenicani sentiva il turbine in aria, onde insisteva perchè i prelati non si separassero.

Chi non potrà negare questi fatti ripeterà quella poltrona frase de' nostri giorni, «Troppo tardi».

[248]

DISCORSO XIII.
LEONE X. MAGNIFICENZA PROFANA DEL PAPATO.

Al congresso che or dicemmo di Bologna tra Leon X e Francesco I, oltre i consueti omaggi del baciare i piedi, tenere la staffa, condurre a briglia il cavallo del papa, e fin sostenergli lo strascico, il re di Francia stette inginocchiato per terra tutto il tempo della messa, nella quale Leon X amministrò il sacrosanto pane ai francesi gentiluomini di esso. E poichè di questi la folla era soverchia, un uffiziale esclamò: «Santo Padre, giacchè non posso nè confessarmi al vostro orecchio, nè comunicarmi dalle vostre mani, m'accuserò in pubblico d'avere combattuto di tutta possa contro Giulio II». Il re soggiunse di trovarsi nel medesimo caso, scusandosene perchè quel pontefice era il più avverso che mai fosse stato alla loro nazione. Tutti i Francesi gridaronsi colpevoli di altrettanto, e il papa gli assolse tutti.

Quel re cavalleresco, per cui combattevano i cavallereschi Gastone di Foix e Bajardo senza paura e senza rimproveri, avea rese al papa Modena volontariamente, Parma e Piacenza per forza; di modo che il dominio temporale comprendeva le legazioni di Perugia (Umbria), Romagna, Bologna, Spoleto colla marca d'Ancona, e il ducato di Benevento chiuso nel napoletano; insomma le più belle contrade d'Italia dal Po a Terracina; contrade pingui, benchè alcune infette dalla malaria; schermite da attacchi stranieri, arricchite per la produzione dei terreni, delle miniere, dell'allume; pel traffico, principalmente ad Ancona; per l'aurea affluenza di forestieri. Il papa traeva da' suoi Stati non più di diciottomila scudi d'oro, eppure potea levarvi cinquemila pedoni e quattromila cavalli, oltre quelli dovutigli dai vassalli, e dodici galee: e l'autorità, ormai organizzata col reprimere i feudatarj e i tirannelli delle varie città, non sentivasi nè impacciata, nè invisa, perchè lasciava la libera attività ai Comuni.

È ben vero che Alessandro VI, volendo sottomettere i tirannelli della Romagna, avea di ciascun di costoro fatto un nemico, che nel principe della Romagna bestemmiava il capo della Chiesa: poi Giulio II colle superbe pretensioni [249] aveva eccitato e serj e beffardi contrasti: ma impacciavano poco più che le opposizioni de' moderni nostri parlamenti. Inoltre il papa possedeva il Contado Venesino in Provenza e la città di Avignone; i re di Napoli e Sicilia faceangli omaggio della loro corona, ch'egli impediva fosse unita all'impero per non mettere a repentaglio l'indipendenza italiana. Chi potrà poi calcolare il denaro che a Roma proveniva da tutto il mondo per dispense, spogli, riserve, aspettative, annate di benefizj[298], spedizioni di bolle e investiture, elezione di quasi tutti i prelati?

E qual Roma fosse quando stava al vertice della società cristiana colle sue memorie e le sue grandezze; e quasi la seconda patria di tutti, il punto di partenza della storia d'ogni paese, si argomenti dal veder come, anche adesso che rimase indietro dalla civiltà convenzionale d'altre contrade, mostri originalità di costumanze e di caratteri, alterezza nel popolo, dignità fin nel depravamento, e insieme devozione, amor di famiglia, ingenuità; un complesso inesplicabile, per cui un esercito vincitore o la rivoluzione demolitrice s'arrestano davanti alle eterne sue mura. Che doveva essere allora, quando vigeano le idee del medioevo? Sapeasi che da Roma erano partiti i missionarj per conquistare al cristianesimo e alla civiltà tutta Europa e il nuovo mondo; di là i decreti che fransero la schiavitù; di là elemosine per ogni bisogno, rese possibili dal colarvi rendite d'ogni paese.

L'anno santo del 1500 fu celebrato con una pompa, che mai la maggiore; il papa di propria mano smurò la porta santa, dopo che per tre giorni erano sonate a festa tutte le campane: di Francia, di Germania, di Boemia innumerevoli vennero a domandare l'assoluzione dalle censure incorse per avere adottato le eresie degli Ussiti ed altre; per bastare ai devoti che accorreano alla basilica Vaticana dovette aprirsi la via che ancor si chiama Borgonuovo; e il continuato concorso indusse ad allungare il tempo delle indulgenze. Derivano da quella occasione le maggiori solennità che tutt'ora accompagnano quel rito, e la consuetudine di concederlo l'anno seguente a tutto l'orbe cattolico.

Scoprivansi intanto un nuovo varco all'estremo Oriente e l'America e le isole Oceanine; e il primo oro che se ne trasse veniva, quasi primizia della divinità, mandato a Roma che l'adoprava a indorare la soffitta della basilica Liberiana: col secondo viaggio di Cristoforo Colombo spedivasi una colonia di Benedettini, che annunziassero la fede ai popoli nuovi; ben presto Alessandro Giraldini d'Amelia era inviato primo vescovo a San Domingo, e alle popolazioni scoperte facevasi un'intimazione ove, dichiarata la fratellanza delle genti come uscite da un solo ceppo, esponevasi che Dio aveva costituito san Pietro qual capo della stirpe umana, «sottoposto l'intero mondo alla giurisdizione di lui, ordinatogli di piantare sua sede a Roma, e datogli podestà di estendere l'autorità sua su tutte le altre parti del mondo, e governare e giudicare tutti i Cristiani, Ebrei, Mori, Gentili e di qualunque [250] fede; ed è chiamato papa, che vuol dire gran padre, tutore, ammirabile, il che durerà per tutti i secoli de' secoli».

E perchè tra le due nazioni scopritrici potea nascere conflitto sul dove cominciassero i dominj dell'una e finissero quelli dell'altra ne' paesi trovati, fu deferita la gran quistione al papa, ed egli di propria mano sulla mappa tracciò una linea meridiana, assegnando alla Spagna i dominj a ponente, e al Portogallo quelli a levante di essa[299]. Sublime immagine, il pontefice che divide il mondo per impedire la guerra, o che, dietro agli audaci scopritori, agli avidi trafficanti, ai sanguinarj conquistatori invia una milizia inerme che missiona, converte, battezza, incivilisce. E al tempo di Leon X venivano a Roma poveri Domenicani per denunziare al padre de' fedeli i barbari trattamenti che i conquistatori faceano soffrire agli Indiani, reclamando per questi i diritti di fratelli di Cristo.

Rinnovatrice del sacro romano impero, che, nella comune soggezione alla legge divina, dovea combinare le due potestà; antemurale all'invasione dell'Islam; cultrice della morale eterna, la santa sede avea potuto salvare dalle regie libidini l'inviolabilità del matrimonio e la dignità della famiglia; consolidare la sacerdotale disciplina, sdruscita dal contatto e dalla mistura coi signorili interessi, derivante dalla feudalità: ma dal costituire sovra base solida e riconosciuta le relazioni fra Stato e Stato, e fra lo Stato e la Chiesa fu impedita dalla gerarchia feudale, dalle comunali oligarchie, dalle consuetudini nordiche dominanti. Restava dunque nell'attuazione esterna difettivo quel cristianesimo applicato, onnipossente nella vita, profondamente umano, fautore dell'arte, affettuosamente comunicabile, amico della povertà, dell'obbedienza, della fedeltà, che nel mondo riconosce il governo della providenza, ispira agli uomini fiducia degli uni negli altri e in Dio, credendo che il cibo mortale possa convertirsi in pane e vino d'eterna vita.

La Chiesa non soffogava l'attività del pensiero e l'esercizio della ragione, ma tutelava i dogmi, e ben presto si conobbe che con quelli tutelava la verità e il diritto. Però di tutte le istituzioni è nemica inevitabile la diuturnità: dell'antica civiltà che il cristianesimo avea sanata, dimenticaronsi gli sconci, e parve bello il ritornarvi; il dogma tenne saldo, ma l'autorità non bastò a impedire le evoluzioni sociali, e dall'età credente si passò all'età politica, per quanto Roma avesse cercato ostarvi coll'accentrare i suoi poteri.

Ora sulla cattedra di san Pietro sedeva Leon X, rampollo di famiglia mercadante, ricchissima, abituata allo spendere largo, alle splendidezze, a proteggere le scienze, le lettere, egli stesso, scolaro del Poliziano, del Calcondila, del Bolzani, nel fiore degli anni, colto, amabile, agognante alle voluttà dello spirito, e a vedersi attorno faccie contente, e udire da tutti acclamare la beatitudine del suo tempo. Pel suo ingresso si spendono centomila scudi in addobbare le vie; altrettanti in sussidj ai poveri. Avvezzato alle Corti e ai campi, male si rassegna al contegno ecclesiastico: [251] sconcerta il suo cerimoniere uscendo senza rocchetto e talvolta fino in stivali; Cervetri e la villa Magliana sul Tevere lo vedono a cavallo cacciare per giornate intere, a pescare Bolsena; ogni anno chiama da Siena la compagnia comica dei Rozzi per rappresentare commedie; fa musica, e accompagna a mezza voce le arie: tiene per convivi abituali un figliuolo del Poggio, un cavaliere Brandini, un frà Mariano che in un boccone inghiotte un colombo, e sorbe fino quaranta ova: altri buontemponi che inventano celie e piatti bizzarri, e che sopportano qualunque tiro dal papa e dai suoi: ad un fiorentino de' Nobili, detto il Moro, «gran buffone e ghiotto e mangiatore più che tutti gli altri uomini, per questo suo mangiare e cicalare il papa avea dato d'entrata d'uffizj per ducento scudi l'anno» (Ser Cambi). Sopra cena, tratteneva sei o sette cardinali dei più intimi, coi quali giocare alle carte, e guadagnasse o perdesse, gettava manciate di fiorini agli spettatori.

Ama le lettere, ma invece di rispettarle come matrone, le accarezza come bagasce; dichiara arcipoeta Camillo Querno improvisatore, gran mangiatore, gran bevitore, che gli si era presentato col poema dell'Alessiade di ventimila versi, e di sue lepidezze gli ricreava la mensa. Vede alcuno preso da vanità? Esso gliela gonfia con onori e dimostrazioni, finchè divenga il balocco universale, come avvenne col Tarascon suo vecchio secretario, cui fece persuaso fosse improvisamente divenuto gran musicante, onde si pose a stabilire teoriche stravaganti, e finì pazzo. Così il Baraballo abbate di Gaeta a forza di encomj fu indotto a credersi un nuovo Petrarca, e Leone volle incoronarlo; e fattolo mettere s'un elefante donato da Emanuele di Portogallo, con la toga palmata e il laticlavio de' trionfanti, lo mandò per Roma, tutta in festa e parati, e non guardossi a spese acciocchè il poetastro salisse in Campidoglio ad onori che l'Ariosto non ottenne. Altre beffe usava a Giovanni Gazzoldo, a Girolamo Britonio poeti, all'ultimo de' quali fece applicare solennemente la bastonata per avere fatto de' versi cattivi.

Questi e simili spassi del papa sono descritti da Paolo Giovio vescovo di Nocera, con un'ilarità, che anch'essa è caratteristica in un prelato; com'è notevole la conchiusione a cui riesce, cioè ch'essi sono degni di principe nobile e ben creato, sebbene gli austeri li disapprovino in un papa.

A quel tipo informavasi la Corte. Il cardinale Bibiena si fece fabbricare sul Vaticano una villetta, dipinta voluttuosamente da Raffaello; sovrantendeva alle splendidezze della Corte, ai carnasciali, alle mascherate; persuase il papa a fare rappresentare la Mandragora del Machiavelli e la propria Calandra, alle cui scene da postribolo assistevano Leone in palco distinto[300], Isabella d'Este e dame delle più eleganti d'Italia. Chi pari a costui per trarre a far pazzie i meglio assennati?[301]. Si congratulava che Giuliano De' Medici menasse a Roma la principessa sua moglie, e «la città tutta (dice) [252] or lodato sia Dio, che qui non mancava se non una Corte di madonne, e questa signora ce ne terrà una, e farà la Corte romana perfetta»[302].

Accanto a loro, monsignore Giovanni Della Casa componeva capitoli di mostruosa lubricità, e domandava il cappel rosso non per le virtù proprie, ma «in mercè della perpetua fede e della sincera ed unica servitù che avea sempre dimostrata ai Farnesi». E questi, e il Bembo[303], e il cardinale Ippolito d'Este, e tropp'altri ostentavano figliuoli.

Così la società ecclesiastica scherzava coll'irruente scetticismo, nè accorgevasi di scavare l'abisso sotto i proprj piedi; non volevasi che nessuna apprensione turbasse le feste dell'arte, siccome i Coribanti attorno a Giove danzavano perchè non se n'udissero i vagiti; e l'autorità credeva attingere forza dalla bellezza, appoggiandosi a Rafaello e Michelangelo, all'Ariosto e al Bembo.

Tipo di quel raffinato epicureismo e di quel paganizzamento della coltura, che altrove imputammo al suo tempo, Leone X nel fulgore del bello offuscava il sentimento del giusto. «Avendo l'Ariosto fatto libri in lingua e verso vulgari, col titolo d'Orlando Furioso, in maniera scherzevole, ma con lungo studio e riflessione e molte veglie attesa la splendidezza del suo ingegno, e la devozione verso la sua famiglia», trova bene ch'e' se n'assicuri il guadagno, e possa altre volte pubblicarlo migliorato[304]: sicchè minaccia di scomunica chi ristampasse quel poema, del quale accetta la dedica, come dell'Itinerario di Rutilio Numaziano, uno degli ultimi pagani accanniti contro il nascente cristianesimo; aggradisce le annotazioni d'Erasmo al Testamento Nuovo, che poi furono messe all'Indice, e la dedica del libro di Hutten sulla donazione di Costantino, dal quale Lutero disse avere attinto tutto il suo coraggio; e concede ad Aldo Manuzio il privilegio per la stampa delle costui insolenti Epistolæ obscurorum virorum.

Quell'idolatria pel bello e per una letteratura tutta di sensi non di spirito, era secondata da tutta la Corte. Quando recitava versi l'unico Accolti, chiudeansi le botteghe di Roma: quando nel giardino di Tito si disotterrò un gruppo, che il Sadoleto riconobbe tosto pel Laocoonte, descritto da Plinio, sonarono tutte le campane, e fu tratto per Roma con cerimonie serbate ad auguste reliquie, fra ghirlande e musiche e canti di poeti. Guerrieri e artisti, prelati e principi, cortigiane e santi concorreano a porgere occasione di feste. Giovanni Coriccio, ogni giorno di sant'Anna teneva in sua casa una gara di poeti, in lode di questa santa, di sua figlia e di Cristo. L'Ariosto si rallegrava perchè in quella Corte

al Bembo, al Sadoleto, al dotto

Giovio, al Cavallo, al Blosio, al Molza, al Vida

Potrà ogni giorno e al Tibaldeo far motto[305].

Ivi Paolo Giovio, bugiardo gazzettiere de' fatti contemporanei, e il Valeriano indagatore de' fasti egizj: ivi il Castiglione e il Della Casa, precettori [253] di belle creanze. Celio Calcagnino scriveva latino e greco, leggeva nell'originale Omero e i profeti, e sosteneva che il cielo è fermo e la terra si muove. Teseo Ambrogio dei conti d'Albonese, canonico di San Giovanni Laterano, parlava il greco come Musuro di Creta e il latino come Erasmo, oltre che da solo apprese tutte le altre lingue, e seppe servirsene cogli accorsi al concilio di Laterano; insegnò il caldeo a Bologna, e da quella lingua tradusse la liturgia orientale; meditava una grammatica poliglotta, e preparò molti lavori, che andarono poi dispersi nel sacco di Roma.

Leone manda Fausto Sabeo, detto cacciatore di libri, a rintracciarne nelle badie di Francia, di Germania, di Grecia, al qual uopo spedisce pure in Germania e in Danimarca Giovanni Heytmers, e nelle provincie venete il Beazzano: lodi e privilegi dà a Francesco de Rossi ravennate, che andò a raccoglierne di greci ed arabi in Oriente e specialmente nella Siria[306]: paga cinquecento zecchini un manuscritto di Tacito, più completo di altro ch'erasi stampato a Milano, e promette larga cortesia a chi gli porterà opere antiche inedite: fonda un collegio greco coll'opera di Demetrio Lascari, Benedetto Lampridio e Favorino.

Sono ricordate ricche biblioteche dei cardinali Sadoleto, Bembo, Pio da Carpi, dov'era il Virgilio riveduto nel secolo V dal console Rufo; del Grimani, il cui breviario oggi è il giojello della Marciana di Venezia. Il Chigi, appaltatore delle miniere d'alume e protettore di Rafaello, aveva montato una stamperia, preseduta dal Lascari, donde uscirono le tragedie di Sofocle, gli Scolj d'Omero, gli opuscoli di Porfirio, il Tolomeo, il Pindaro, il Teocrito, ed altre edizioni oggi ancora apprezzatissime.

L'italiano ormai s'adoprava generalmente invece d'un latino, che stomacava i bongustai, dacchè eransi studiati i classici. Personaggi abili alle meditazioni filosofiche quanto alle fantasie poetiche, maneggiavano l'analisi e il calcolo come il dibattimento e gli affari; e a tutte le conquiste della filologia e delle scienze univano un gusto squisito. Roma era insomma il centro della civiltà, e a buon dritto lo Zanchi poteva cantare:

Omnia romanæ cedunt miracula terræ,

Natura hic posuit quidquid ubique fuit.

Vero è bene che gli studj ecclesiastici erano assai meno careggiati che i letterarj; e lo stesso cardinale Pallavicini imputa Leone X d'averli negletti; pure nel ruolo dell'archiginnasio romano, pubblicato da monsignore Gaetano Marini, bella parte tiene la teologia con professori illustri e ben retribuiti; da Leone fu fatto stampare il Pagnini; a lui è dedicata la Bibbia poliglotta del cardinale Ximenes; a lui la grammatica ebraica di Guidacerio calabrese, a lui la traduzione dall'arabo della filosofia mistica d'Aristotele per Francesco Rosi ravennate; a lui tre opere di Paolo di Middleburg, di Basilio Lapi, di Antonio Dulciati sulla riforma del calendario: nella reggia stessa di Leon X troviamo un cardinale Cajetano, teologo de' più profondi; un Egidio, ch'egli [254] andò a cercare in una selva di Viterbo per decorarlo della porpora, un Paolo Emilio Cesio, che diceva essere meglio mancare del necessario che lasciare soffrire gli altri; un Bonifazio Ferreri di Vercelli, che eresse a sue spese un collegio a Bologna; il Sadoleto che spesso loderemo; il Giberti, sornomato padre de' poveri e de' letterati.

Che se Leone bacia l'Ariosto e festeggia il Bibbiena, indica però al vescovo Vida il soggetto della Cristiade; col Sannazzaro, cantore del Parto della Vergine, si congratula perchè possa riuscire un David che colpirà Golia; riconosce l'attitudine del veronese Flaminio, e lo fa studiare, sicchè poi verseggiò in latino i salmi ben meglio del francese Marot.

Anche i sommi artisti venivano adoprati a fare santi e madonne, erigere ed ornare chiese. Michelangelo, vigorosa individualità, gemente sulle miserie del suo tempo, e voglioso di «non vedere, non udire finchè duravano il danno e la vergogna», ribellasi alle tradizioni accademiche, e vuol ogn'opera sua riesca singolare, originale; nudi che affrontano il pudore, sibille virili, profeti ideali, la maggiore cupola del mondo, la sublimità della scultura nel Mosè. Sebastiano del Piombo ritraeva sentitamente la santità; a un punto inarrivabile d'espressione e di bellezza era sorta la pittura con frate Angelico, e con Raffaello, che, per ordine di Giulio II, nella stanza della segnatura dipinse un grandioso poema, la vita intellettuale nelle sue quattro manifestazioni di teologia, filosofia, poesia, giurisprudenza; nella prima sovratutto esprimendo l'apoteosi del Corpo di Cristo, circondato da quanti furono più insigni conoscitori e maestri della scienza divina; e fu Leone X stesso che gli commise il giudizio di Leone III, la coronazione di Carlo Magno, la rotta dei Saraceni a Ostia, il miracolo di Bolsena, l'incendio di Borgo. Avesse voluto divenire cardinale, avesse voluto sposare una nipote di cardinale, Rafaello il poteva: ma in verde età morì, e nel testamento lasciava mille scudi onde celebrare dodici messe l'anno per l'anima sua; lascito assicurato sopra una casa in via de' Catinari, che esistette fino al 1805, quando, nelle vicende consumato il capitale, essa fu ricostruita.

Oltre che questi artisti erano solenne protesta contro la riforma iconoclasta de' Tedeschi, ci provano che non mancavano nè studj serj, nè sentimento religioso. Di Leon X vedemmo le cure date al concilio e alla riforma della Chiesa: s'applicò a spegnere gli avanzi degli Ussiti in Boemia; propagava il cristianesimo fra gli ancor barbari Moscoviti; cercava revocare dallo scisma i Maroniti e gli Abissini; fondava nuove chiese in America; il lungo e indecoroso litigio sui Monti di Pietà, se fossero usura od opere di misericordia, terminò dichiarando non vedervi nulla d'illecito od usurario; introdusse la commovente liturgia della settimana santa nel palazzo pontifizio. Con limpida integrità conferiva i benefizj, raccomandando a' suoi favoriti non lo inducessero a concedere grazie di cui dovesse pentire e vergognare, e piuttosto ai supplicanti soddisfaceva colla propria borsa. Sobrio sempre fra tante [255] squisitezze, fra poeti e naturalisti che celebravano, e cuochi che raffinavano le leccornie della sua mensa, astenevasi da carni il mercordì, al venerdì mangiava solo legumi e verdura, al sabato lasciava la cena, sempre beveva solo acqua. Ce lo attesta il Giovio, che nel lodarlo ne infamò i costumi[307], mentre Lutero, suo gran denigratore, non trovava da appuntarli.

Quando si crede vivamente, confondesi la pietà coll'entusiasmo del bello; ma più non si era a quelle credenze ingenue, e Leone, abbagliato dallo splendore del bello, credette che l'immaginazione e il cuore abbiano tanta parte nell'intelligenza umana quanto la ragione: pensò forse quel che altri sostennero, che la poesia e l'arte in teodicea valgano più che la filosofia; colle dignità ecclesiastiche retribuiva non insigne zelo ed esemplare bontà, ma spesso l'ingegno, comunque applicato. S'avventurò ad una politica di capriccio, senza concetti elevati; come un nuovo ricco sprecò nella pace i tesori accumulati da Giulio II in mezzo alle guerre, ne cercò di nuovi col vendere indulgenze, o coll'imporre tasse gravose; impegnò le gioje di San Pietro, vendette le statue dei dodici apostoli regalategli dall'Ordine teutonico: nominò ad un tratto trentun cardinali, fra cui due figli delle sue sorelle Orsini e Colonna, mentre da un pezzo si avea cura di non crescere con dignità la potenza pericolosa di quelle famiglie; inventò tante cariche da vendere, che a quarantamila zecchini elevò le spese annue della Chiesa; e tutto avea consumato quando morì.

E morì in fresca età, e corse un epigramma che diceva lui non avere presi in quell'estremo i sacramenti, perchè gli avea venduti[308]. Non esageriamo coi detrattori, ma neppure accettiamo certe apologie[309], di cui troppo si compiacquero alcuni nostri contemporanei per ricolpo al calunnioso vilipendio dei padri nostri. Buon signore, papa e principe non lodevole, potea stare su qualunque trono più competentemente che su quello di Roma; potea succedere al magnifico Lorenzo, non a Pietro Bariona; vedendo nella santa sede non una cattedra ma un trono, non un faro per illuminar il mondo, ma un piedistallo alla personale grandezza; meno pronto a richiamare i traviati al Calvario, che ad invitare le divinità dell'Olimpo ad esilarare il Vaticano.

E questa reviviscenza del paganesimo cercò realizzarsi durante la vacanza. Scoppiata peste furiosa, la più parte de' cardinali fuggirono di Roma, dove il guasto era cresciuto dal disordine che suol gittarsi durante l'interregno: e il popolo sbigottito rompeva alle violenze. Un tale Demetrio spartano volle rinnovare cerimonie della superstizione antica, e coronato un bove, e legatogli un sottile filo alle corna, lo condusse per Roma, poi nell'anfiteatro lo sagrificò. Non era che una delle ciarlatanerie, ripullulanti ne' grandi disastri, e costui secondava l'andazzo col ridestare memorie gentilesche; ma altri vollero vederci operazioni magiche e culto ai demonj; sicchè il popolo, temendo non [256] ne restasse aggravato il male pubblico, volle solenni espiazioni: e a folla uomini e fanciulli mezzo nudi passavano in processione da Chiesa a Chiesa flagellandosi e gridando misericordia, seguiti da lunghissime file di matrone, con ceri alla mano, anch'esse piangenti e supplicanti.

Quasi per contrapposto ai colti epicedj de' suoi cortigiani, uno di quei predicatori popolari e grotteschi che dicemmo, frà Callisto da Piacenza, ch'era de' meglio lodati, sermonando a Mantova il 1537 sul testo Seminastis multum et intulistis parum, prorompeva: «Povero papa Leone, che s'aveva congregato tante dignitadi, tanti tesori, tanti palazzi, tanti amici, tanti servitori; e in quell'ultimo passaggio del pertugio del sacco, ogni cosa ne cadde fuori, e solo vi rimase frate Mariano, il quale per essere leggero (ch'egli era buffone) come una festuca, rimase attaccato al sacco. Arrivato quel povero papa al punto di morte, di quanto e' s'avesse in questo mondo nulla ne rimase, eccetto frate Mariano, che solo l'anima gli raccomandava dicendo, Ricordatevi di Dio, santo padre; e il povero papa, in agonia constituto, a meglio che potea replicando dicea, Dio buono, o Dio buono! e così l'anima rese al suo Signore. Vedi se egli è vero che qui congregat merces, ponit eas in sacculum pertusum».

[258]

DISCORSO XIV.
I TEDESCHI A ROMA. ERASMO.

Ad ammirare questa splendida Roma, questo magnifico pontefice, questo secolo d'oro, questa terra prediletta dalla natura[310], venivano persone d'ogni paese; vi venivano dotti e curiosi, suntuosi e devoti; chi aspirava a benefizj o ad onorificenze; chi volesse venerare le reliquie di libere civiltà antiche, o quelle de' martiri; chi inebriarsi de' godimenti, od ottenere perdonanza di gravi peccati. Nessuno considerava compiti i suoi studj, se non li coronava con un viaggio in Italia, dove assisteva alla restaurazione delle arti per mezzo dell'imitazione, agli incrementi della scienza per opera del Mattioli, del Cesalpino, dell'Aldrovandi, esploratori della creazione materiale, del Fracastoro, del Falopio, dell'Eustachio, creatori dell'anatomia, fra i concittadini del Colombo, del Cabotto, di Americo Vespucci. E tutti, ma principalmente i Tedeschi, stupivano di quella libertà nella discussione, dello scherzo, del dubbio su punti, altrove venerati in silenzio; del vedere in vulgare insegnata la scienza, e fino tradotti i libri santi.

La Germania colla sua conversione aveva contribuito grandemente a consolidare il primato papale: indi col rivoltarsi contro Enrico IV aveva ajutato ad effettuare il robusto concetto di Gregorio VII. Ma poi, dal continuo mescolarsi di essa nelle vicende italiane era stata acuita la naturale antipatia delle istituzioni e delle nature germaniche contro le latine; e i nostri odiavano i Tedeschi come prepotenti, essi disprezzavano noi come fiacchi, e nella superiorità dell'ingegno non voleano riconoscere altro che furberia e mala fede.

La Germania strillava che tanto suo denaro fluisse a Roma[311], e viepiù dacchè questa, postasi a capo della resistenza contro i Turchi, di nuove imposte e decime doveva gravare per imprese che poi non sempre si assumevano, non riuscivano a prospero fine. Enea Silvio Piccolomini, che fu poi papa, ebbe a vergare molte lettere in proposito scusando i papi per questa necessità di tener fronte al nemico comune: ma la dieta d'Augusta nel 1510 levò alte querele sopra le esigenze pontifizie, minacciando una generale rivolta contro il clero, se non vi si riparasse.

[259] Lo spirito latino che riunisce, e il germanico che separa, aveano lottato incessantemente: e mentre quello avviava all'unità giuridica, politica, religiosa, attuata anche nell'istituzione dell'Impero, questo tendeva a separare, sia nei feudi, o nei Comuni, o nelle minute signorie; e già pensava farlo nella religione, reluttando alla primazia papale e all'accentramento romano. Che se l'opposizione religiosa in Italia era ironica, beffarda, scettica, negava ma sottometteasi; in Germania all'incontro procedea positiva, credente, collerica, e non proponevasi solo di restaurare, ma di demolire per rifabbricare. Ai nostri spettava il merito d'aver disonnato la ragione col pensiero, colla libertà dell'arte, collo studio dei classici; ma la Germania, dotata della curiosità scientifica, non del sentimento della bellezza formale, apponeva ai nostri di cercare il risorgimento letterario, non il filosofico; sprezzava l'arte italica, quanto gl'Italiani vilipendevano la scienza tedesca: infelice divorzio, per cui questa inarridì a segno da parere destituita d'ogni applicazione vitale, mentre la letteratura nostra riducevasi a un trastullo, a uno svago dello spirito. Nè aveano torto i Tedeschi quando la appuntavano di scostumata, e Puyherbault diceva[312]: «A che buoni cotesti scribacchianti d'Italia? Ad alimentare il vizio e la mollezza di cortigiani azzimati e di donne lascive; a stimolare le voluttà, infiammare i sensi cancellare dalle anime quanto v'ha di virile. Di molto siamo debitori agli Italiani, ma da loro togliemmo anche troppe cose deplorabili. I costumi di colà sentono d'ambra e di profumo; le anime vi sono ammollite come i corpi; i libri loro nulla contengono di gagliardo, nulla di degno e potente, e piacesse a Dio avessero tenute per sè le opere loro e i loro profumi! chi non conosce Giovan Bocaccio, Angelo Poliziano, il Poggio, tutti pagani piuttosto che cristiani? A Roma Rabelais immaginò il suo Pantagruele, vera peste de' mortali. Che fa costui? Qual vita mena? Tutto il giorno a bere, fare all'amore, socratizzare; trae al fiuto delle cucine, lorda d'infami scritti la miserabile sua carta, vomita un veleno che lontano si diffonde in ogni paese, sparge maldicenze e ingiurie su ogni ordine di persone, calunnia i buoni, dilania i savj; e il santo padre riceve alla sua tavola cotesto sconcio, cotesto pubblico nemico, schiuma del genere umano, tanto ricco di facondia quanto scarso di senno»[313].

E a Roma erano venuti a scuola quei che in Germania restaurarono gli studj classici; Rodolfo Agricola di Friesland, professore ad Eidelberga, che volle finir sua vita in un convento di Francescani; Lodovico Vives, vantato per acuto giudizio, come il Buddeo per ingegno. Ma molti vi moveano guerra arguta all'ignoranza de' monaci, o fossero umanisti come Erasmo, o cavalieri come Hutten.

Questo Ulrico di Hutten, tutto entusiasmo pel suo paese, fece suoi studj a Pavia; poi messosi soldato, qui scese con Massimiliano imperatore, fra le orde che passavano le Alpi ustolando agli ori de' nostri palazzi, [260] agli argenti delle nostre chiese. Poeta e guerriero, portava sopra del morione l'alloro, di cui l'imperatore avealo donato con seicento zecchini; e indispettivasi contro quest'Italia, che ricusava d'essere tutta dell'imperatore tedesco. Mosso con questo per distruggere Venezia, lo aizzava contro quel popolo di rane, cui bersagliò in due poesie Marcus e De piscatura Venetorum, oltre una Epistola Italiæ ad Maximilianum. In un epigramma introduce l'Italia a dire ad Apollo: «Tre mi fanno la corte; uno pien di mala fede, l'altro di vino, il terzo d'orgoglio. Poichè m'è forza sottomettermi, dimmi qual giogo sia meno grave. — Il veneziano è perfido sempre, rispose Apollo: sempre orgoglioso il francese; il tedesco non è sempre ubriaco: a te la scelta».

Combattendo, cantando, amorazzando scorre l'Italia, cogliendo un morbo che gli costò spasimi e denaro. Fra Roma e Viterbo assalito da sei Francesi, li pose tutti in fuga benchè ferito, sul che scrisse un epigramma In quinque Gallos a se profligatos; sentendo a Roma beffare la Germania da sette giovani, li sfida tutti; fa un trattato storico sulla continua reluttanza dei papi verso gli Imperatori: nella Trinità romana per rendere odiosa la Corte pontifizia, sostiene che da Roma si riportano tre cose; mala coscienza, stomaco guastato, borsa smunta; che tre cose ivi non si credono, l'immortalità dell'anima, la risurrezione dei morti, l'inferno; che di tre cose vi si traffica, grazia di Cristo, dignità ecclesiastiche e donne.

Attaccò lite con Erasmo da Rotterdam, che rispose Spongia Erasmi adversus aspergines Hutteni: fece una Oratio ad Christum pro Julio II ligure pontifice; scrisse pure gli Apophtegmata Vadisci et Pasquilli de depravato ecclesiæ statu; ripubblicò il trattato del Valla contro la donazione di Costantino, e più tardi la bolla di Leone X contro Lutero con glosse interlineari e marginali mettendola in ridicolo, e fu detto il Demostene tedesco per le sue filippiche contro il papa. Più si divulgarono le sue Epistolæ obscurorum virorum, ove imprestava il linguaggio dell'ignoranza e i sofismi della malizia ai monaci con tant'arte, che molti non s'accorsero fosse ironia.

Giulio II, pontefice armato, non gli parve solo un'anomalia, ma un tiranno, un sarmato di folta barba, di capelli arruffati, di occhio fiero, di labbra incollerite; invoca un Bruto che ne liberi Roma[314]; ogni città che il papa prende, è un usurpazione ai diritti di Cesare; a Cesare spetta la dotta Bologna; a Cesare la città de' sette colli; a Cesare Parma e Piacenza, dove i suoi antecessori resero giustizia; a Cesare il governo temporale, lo spirituale a Cristo, a' suoi apostoli ed ai predicanti evangelici, che annunziano la dottrina di Cristo[315]. A Roma, centro del sapere e delle arti belle, asilo de' profughi di Grecia, palestra de' sapienti di tutto il mondo, ove dipingeasi la Sistina, ove adunavansi la biblioteca e il museo vaticano, non iscorge che una folata d'avvocati, di giuristi, di procuratori, di bollisti, che succhiano il sangue della Germania[316]: fra tanti cardinali e prelati non [261] vede una figura tedesca, bensì fra' mulattieri, portacqua, mozzi di stalla: attorno alla fabbrica di San Pietro non trova a lavorare che due operaj, un de' quali zoppo[317]. Tant'è vero che ognun vede quel solo che vuol vedere. Ma egli se ne indigna, ed esclama: «Spezziamo i nostri ceppi, gettiamo via il costoro giogo», e la parola collerica, formulata in bei versi, tuona nella Germania, che risponde: «Spezziamo i ferri, sottraiamo il collo all'Italia, degenere, avvilita»[318] e gloriandosi di tale guerra, egli adotta per motto Lo osai (Jch hab's gewagt).

Di maggiore attenzione vuolsi onorare Erasmo di Rotterdam (1467-1536). Talento universale; non devoto ad alcuna teorica filosofica, pure di spirito filosofico, a questo accoppiava lo spirito comico, che adoprò a osteggiare di tutta forza la scolastica, ancora dominante in Germania, in contraddizione dell'altro insigne filologo Reuclin[319] volendo fondare una teologia ampia e illuminata. Coll'edizione de' Padri e della Bibbia e coi commenti a questa diede impulso all'interpretazione razionale delle sante scritture secondo il senso letterale; e se, per fare onta ai teologanti, dava importanza alla erudizione, questa diresse a intento pratico con libera indagine.

Più solita lode gli si dà di buon umanista. Talmente invaghito de' classici, che non avrebbe voluto altro parlare che il latino e il greco, trovando barbari tutti gli altri linguaggi; in Italia si astenne dall'imparare nemmanco le frasi più famigliari, tanto che ne corse pericolo della vita; disapprovava che ai fanciulli s'insegnasse il francese, idioma barbaro e strano, che scrive diverso da quel che pronunzia; rinunciò una cura in Inghilterra per non parlare inglese; neppure mai capì la favella di Basilea, dove fece sì lunga dimora.

A tacere le edizioni e i commenti di tanti autori, fra le opere precettive scrisse il Ciceroniano, per ribattere que' saccenti italiani, che non tolleravano nessuna parola se non usata da Cicerone; e mette in caricatura un di costoro, che da sett'anni non avea letto altro che Cicerone; nel suo studio teneva unicamente il busto di Cicerone; sigillava coll'effigie di Cicerone; in quattro enormi volumi avea registrate tutte le parole adoprate da Cicerone, tutte le diverse accettazioni di ciascuna, tutti i piedi e le cadenze con cui cominciano e finiscono i periodi di Cicerone; conchiude col lepido racconto dell'iniziazione d'un cittadino romano in un circolo di ciceroniani a Roma[320].

Enumerando i tanti dotti che conobbe in ogni parte di quest'Italia, dove Lutero non imbatteva che ignoranti e briaconi, dice avere, davanti a Giulio II, inteso un oratore fare una predica, in cui nominava Giove ottimo massimo che tutto muove colle sopraciglia, e paragonava il papa a Decio, a Curzio, ad altri che per la patria furono prodighi della vita; il meno che parlò fu della morte di Cristo, e le parole e i sentimenti applicò solo sull'autorità di Cicerone, e l'uditorio ammirò costui d'avere parlato così romanamente e ciceronianamente[321].

[262] Già illustre in Germania, in Francia, in Inghilterra, Erasmo era venuto in Italia nel 1506: a Torino ottenne la laurea dottorale; rimase un anno a Bologna, dove ha potuto conoscere Alessandro Farnese, Ottone Tuchses, Stanislao Oslo, Cristoforo Madruzzi, Ugo Buoncompagni, scolari circa quel tempo, e dappoi cardinali e l'ultimo anche papa; cacciatone dalla peste, vide Padova, piena di tanti eletti ingegni, che voleva intitolarla l'Italia dell'Italia; e nella cui Università si usava piena licenza nell'interpretare Aristotele e i suoi commentatori. Eccitava Ambrogio Leone professore a Napoli a pubblicare la sua grand'opera contro Averroè[322].

Alle bellezze del nostro cielo, all'ubertà del suolo, alla squisitezza delle arti belle non sentesi preso; dell'entusiasmo, dei dotti non solo, ma dell'intera città quando si scoperse il Laocoonte, neppure un motto egli fa in lettere, dove avverte attento la quantità fallata d'una sillaba, o l'interpretazione mal côlta d'un versetto. Pure onorava i nostri ingegni, sino a fare sinonimo italiano e dotto: mihi Italus est quisquis probe doctus est, etiam si apud Ibernas[323]. Di qua delle Alpi riconosceva già infranto il giogo dei Tomisti, degli Scotisti, degli Aristotelici; che se nelle moltitudini e nell'insegnamento ufficiale abbondavano pregiudizj, errori, superstizioni, era concesso combatterli sul serio o voltarli in beffa.

E a quest'ultimo partito s'appigliò Erasmo, con quel genio burlevole che è tanto micidiale alla verità, quanto opportuno per demolire. E come i beffardi, poco bada alla verità.

Egli accerta che a Roma pretesero dimostrargli, non corra divario tra l'anima delle bestie e degli uomini; avere udito colle proprie orecchie bestemmiare Cristo impunemente, e detti orrendi pronunziarsi fino da ministri della reggia pontificia, e proprio nella messa e ad alta voce[324]: accuse generiche, e che il buon senso repudia.

Ma mentre credea trovare qui la tranquilla sede delle arti e della dottrina, s'imbattè nella guerra recata dalla turpe lega di Cambrai; Bologna assediata da Giulio II che poi vi fa ingresso trionfale; pel quale anche in Roma festeggiasi il marziale pontefice. A glorie sì poco dicevoli dava poi Erasmo risoluta disapprovazione negli Adagia, con eloquenza risentita esponendo i danni della guerra, e viepeggio tra Cristiani, e la stoltezza degli uomini che affiggono merito all'uccidere e farsi uccidere; e vi raffaccia Leone X, agnello a nuocere, leone contro gli empj, e tutto occupato a rimettere in concordia i principi[325]. A Roma lo accolsero i cardinali, principalmente quelli di San Giorgio e di Viterbo, e Matteo Langio vescovo d'Albano, e il De Medici che presto divenne Leone X; il cardinale Campeggi gli regalò un anello con diamanti, pel quale Erasmo gli scriveva: «Il fuoco dell'oro mi sarà sempre simbolo della tua presenza cardinalizia, e la gratissima luce del diamante mi rappresenterà sempre la gloria del tuo nome». Il cardinale Domenico Grimani, che aveva una biblioteca di ottomila volumi[326], [263] lo considerava come un luminare della Chiesa di Cristo, e non che prodigargli cortesie, pareva prendersi soggezione del povero frate; gli esaltava i begli orizzonti nostri, il dolce clima; e che il suo posto doveva essere fra i grecisti, i poeti, i pittori che attorniavano Giulio II.

Roma, che affaticavasi a rigenerare gli spiriti mediante la forma, nel marmo scolpito ammirava la natura idealizzata; Erasmo, come Hutten, come Lutero e gli altri tedeschi, cercava Dio nell'uomo, non nelle opere d'arte; sapeagli d'idolatria l'ammirazione plastica, e che nocesse al movimento spiritualista il volgersi al marmo anzichè alla scrittura.

Questi disdegni erano rimbalzati dagli Italiani, che consideravano per barbari que' Tedeschi, i quali non faceano dipinture sì belle, non verseggiavano così squisito, non usavano il latino ciceroniano. Pure Giulio II offrì ad Erasmo una carica in corte; ed egli in fatti desiderava pigliare stanza nella gran città, per godervi i vantaggi della biblioteca papale, mentre «fra noi (dicea) si penuria di libri sacri greci: la stamperia Aldina non ci diede quasi altro che autori profani: a Roma i buoni studj han non solo tranquillità, ma anche onorificenze»[327].

Malgrado di ciò; malgrado che si deliziasse di que' facili costumi, e a Fausto Anderlini descrivesse le voluttà, «per le quali (diceva) non gli rincrescerebbe rimanere dieci anni fuori del tetto paterno»[328], fra breve mosse per l'Inghilterra, traversando il Comasco, le Alpi Retiche e Coira. Lungo il viaggio sbozzò il suo Elogio della Pazzia, dove schizza veleno contro gli ecclesiastici; e, quel che parrà strano a chi non intende i tempi, lo finì in casa di Tommaso Moro gran cancelliere d'Inghilterra, il quale perì martire del cattolicismo, e sotto la protezione del famoso cardinale Wolsey, del vescovo di Rochester, di altri prelati, irremovibili cattolici.

In quell'Elogio pajono oggi triviali, a forza d'essere ripetuti, ma allora sonavano arguti e nuovi i motti contro il traffico delle indulgenze, le espiazioni per l'anime purganti, l'efficacia di certe formole, il culto di certi santi, ove si trasformò Polifemo in Cristoforo, Ippolito o Ercole in Giorgio: burlava quelli che, se han visto un san Cristoforo, credono che quel giorno non morranno di mala morte; che torneranno salvi dalla guerra se recitino certe preci all'effigie di santa Barbara; che accendono candelette a sant'Erasmo per far guadagni. Così berteggia le insulse quistioni de' teologi, le sottili loro distinzioni, le dispute di parole, l'intolleranza d'ogni dissenso, quasichè nè il battesimo, nè l'evangelo, nè Pietro e Paolo, o Girolamo e Agostino, nè l'aristotelicissimo Tommaso renda cristiano, bensì l'assenso di costoro, i quali altrimenti sentenziano una proposizione di scandalosa, o poco riverenziale, o eretica. E per tali sofisterie si disistimano; han professata l'apostolica carità, e si odiano pel differente colore della tonaca, o il differente modo di cingerla. E qui sul vario vestire e sull'interminabile nomenclatura degli Ordini, sulle salmodie, sui digiuni, sul sudiciume, sulla moltiplicità delle [264] regole, e il predicare a sottigliezze o a sillogismi, e con mescolanze strane, egli s'abbandona a celie tanto facili quanto insulse. Meglio attacca quelli che, sulla fiducia delle indulgenze, addormentano la coscienza, e quasi con l'oriuolo misurano la durata del purgatorio, calcolandone a minuto i secoli, gli anni, i giorni. Non v'è mercante, o soldato, o giudice che, rubati migliaja di scudi, coll'offrirne uno non creda tergere «ogni labe dell'alma ed ogni ruga».

Rincalza questo bersagliare ne' Colloquj. Dall'Eco fa dichiarare i monaci sciocchi (monachos-αχος), che cercano il sacerdozio per l'ozio; beffa i Domenicani di intitolarsi cherubici e i Francescani serafici, e contro questi si scaglia irreposatamente. Nelle Esequie Francescane favoleggia la loro storia, con poca riverenza al fondatore dell'Ordine e alle sue stimmate, e alla liberazione di tante anime dal purgatorio nel suo giorno, e veemente inveisce contro l'avarizia e ricchezza di que' suoi, i più mendichi fra' mendicanti. E quando uno degli interlocutori domanda all'altro se non s'accôrse che taluni ridessero a quelle scene, risponde, s'accôrse, ma supponeva fossero «di quegli eretici, di cui oggi formicola il mondo»[329]. Nel Pellegrinaggio volta in canzone le visite ai santuarj non solo, ma il culto de' santi e di Maria. Nei Funerali atteggia le esequie di un soldato, arricchito con mezzi illeciti, che in punto di morte chiama i cinque Ordini mendicanti e il curato, i quali s'abbaruffano finchè rimangano soli due Ordini, dai quali il morto viene sepolto solennissimamente, dopo avere obbligato la moglie e i figliuoli a fare i voti, e dividere l'immenso retaggio tra Francescani e Domenicani. Nell'Ictiofagia un penitente non vuole gustare carne nè ova, sebbene gliene prescriva il medico, e intanto non si fa scrupolo di eludere un creditore con falso giuramento. Nell'Inquisizione giunge fino ad asserire che pel cristiano basta il credere al simbolo apostolico, al quale molti non credono a Roma; e a chi abbia questa fede, la scomunica non reca pregiudizio, quand'anche mangiasse diverse carni al venerdì. Nel Naufragio, mentre sulla nave tempestata tutti urlano di terrore, e si votano a quanti han santi le litanie, un solo non prega che Dio, non attende salute che da Dio. E negli Adagia e nel Ciceroniano e nella Bibbia greca non v'è male che non dica contro i monaci, come rappresentanti l'ignoranza, la ghiottornia, il libertinaggio; ed empì la letteratura e il mondo di aneddoti bizzarri contro queste degenerate società, i quali accolti senza disamina, ne crebbero lo scredito, e li posero senz'armi e senza fiducia di fronte ai prossimi attacchi.

Gœtz di Berlichingen, nel quale Göthe personeggiò il medioevo cadente, con cuor d'acciaio e mano di ferro difende contro il diritto nuovo la feudalità, combattuta dall'esercito imperiale e dall'insurrezione de' villani, e si crede ancor potente a fiaccarlo. Ma come vede in man di suo figlio un libro, questo prodotto della neonata stampa lo getta nella disperazione, sentendo perito l'antico mondo da che un figliuolo di barone preferisce alla spada il libro, [265] forza nuova che tutto invaderà. E questa forza, benedetta e cullata dai papi, or si voltava contro di loro efficacissima. Perocchè, se scherzi di petulanza eguale a quella d'Erasmo erano stati usati dai nostri novellieri e satirici, i costoro libri sfogliavansi da pochi, mentre adesso vi veniva ausiliaria la stampa, e dei Colloquj si diffusero ventiquattromila esemplari, milleottocento dell'Elogio della Pazzia la prima volta; poi ben trentuna edizione e i graziosi intagli dell'Holbein lo resero popolare.

Per conseguenza in Erasmo personificavasi il nemico de' frati, e a lui si dirizzavano quanti aneddoti e fatti comparissero in proposito, come testè faceasi al Gioberti di quelli contro Gesuiti. Il giureconsulto milanese Andrea Alciato, che, essendo professore a Bourges, aveva avuto scolaro Calvino, e che, al leggere la Diatriba di Lutero contro la Sorbona smascellavasi dalle risa, asserendo che nulla di più arguto erasi inteso da Aristofane in poi, al Mallio, che mostrava intenzione di farsi francescano, diresse una lettera ove snudava gli abusi della vita monastica, con libertà non minore di Erasmo. Francesco Calvi di Menaggio, che col nome di Minicius vendeva libri a Pavia, e che anfanò per diffondervi quelli di Lutero, spedì subito quella lettera ad Erasmo, e pensava farla pubblicare dal Frobenio di Basilea, editore delle opere eretiche. Del che fra corrucciato e scherzoso, l'Alciato gli scriveva: «Ah tristo di Calvi! ah capital nemico mio se ciò farai! Che mi varranno le veglie e i tanti studj? Se tu mi propini questo veleno, vorrei piuttosto esser morto. Lutero, i Piccardi, gli Ussiti e gli altri nomi d'eretici non saranno così infami come il mio, se tanto avvenga. Non sai, o fingi non sapere la potenza di questi cucullati, l'arabbattarsi, il declamar dal pulpito, l'esecrazione fra il popolo, le detestazioni e gl'infiniti guaj che (gli Dei me ne scampino) ricadran sul mio capo? Intenterò processo d'ingiuria, prima a te come corifeo, poi ad Erasmo, poi al Frobenio; invocherò uomini e Dei; moverò ogni pietra per iscagionar me, e imputare voi soli»[330].

Erasmo feriva anche i vescovi, che, dimentichi del nome, affidano il gregge di Cristo a frati; e i papi, che «tanto avrebbero a operare se pensassero ad esser vicarj di Cristo, cioè emularne la povertà, gli stenti, la dottrina, la croce, lo sprezzo della vita; invece non si dà viver più soave e men cruccioso del loro: e credono aver soddisfatto a Cristo quando, in mezzo a scenico apparato e cerimonie fastosissime, coi titoli di beatitudine, di riverenza, di santità, trinciano benedizioni o scagliano anatemi. Padri santissimi, a nessuno mostransi tanto rigorosi come a chi intacca il patrimonio di san Pietro: con tal nome chiamano i campi, le borgate, i dazj, le giurisdizioni, e per esse guerreggiano, spargono il sangue; e mentre la Chiesa fu fondata, confermata, cresciuta col sangue, or la sostengono col ferro».

Ci fu chi rispose ad Erasmo: la Sorbona lo imputò d'eretico per molte proposizioni, ed egli se ne difese con un'Apologia ai teologi di Lovanio, dicendo [266] che lo scopo de' Colloquj era di porgere le formole colle quali dir latinamente che che si fosse; ed essendo dialoghi, bisognava serbasse il costume della persona introdotta. Venendo poi ai particolari, cerca scagionarsi di proposizioni, in verità più che ardite; per esempio, che la confessione sia un trovato de' caporioni della Chiesa; che sia indifferente il mangiar qualsiasi cibo; e del celiare sulle indulgenze, e più sui voti, e deridere l'intercessione di Maria e de' santi. Aveva anche a contrapporvi altri passi, ove lodava tutto ciò: riflette che il criticare gli abusi equivale ad approvar l'uso: dice d'aver ammonito contro le false vocazioni, non contro l'entrar monaca[331]; nella Pietà puerile insegnato a ben udire la messa, ben confessarsi; aver esortato a conservare le usanze de' maggiori, quand'anche men lodevoli, e fin tollerare la tirannide, piuttosto che avventarsi nelle rivoluzioni[332]. Non tace che certi punti non erano ancora stati chiaramente definiti dalla bolla di Leon X, e molti si discuteano liberamente prima dell'editto di Carlo V.

Nell'edizione del Nuovo Testamento diede esempio di sagace critica, di grand'accuratezza nel confronto de' manuscritti; tanto più che la famosa Bibbia Complutense era ancora in lavoro. Certo restò lontano dalla critica odierna, dal culto letterale delle Scritture e dall'esegesi audace che discute l'autenticità dei testi sacri, ma osava impugnare l'impeccabilità della vulgata, sicchè sgomentò molti timorati, e trovò gran contraddittori. Poi nelle note e nelle parafrasi cercò il senso e lo spirito del libro santo, e desiderava fosse diffuso. «Il sole illumina tutto il mondo. Perchè non altrettanto dee fare la dottrina di Cristo? Io non la penso come quelli che non vorrebbero che la sacra scrittura in vulgare si leggesse da' privati; quasi gl'insegnamenti di Cristo fossero tanto astrusi da rimanerne solo capaci pochi teologi; o quasi la sicurezza delle scritture dipendesse dall'ignorarle gli uomini. Celino i re al popolo i misteri de' lor gabinetti; ma Cristo volle che i suoi misteri ricevessero la maggior pubblicità. Vorrei vedere anche le femminelle leggere l'evangelo e l'epistole di san Paolo, e che la Scrittura venisse tradotta in tutte le lingue, e corresse nelle mani non solo di Scozzesi e Irlandesi, ma fin di Turchi e Saracini»[333].

Ebbene, tutto ciò nol toglieva dalla grazia dei papi. Il cardinale De' Medici l'avea sempre difeso quando i prelati sentivano punti e sè e la religione: e mostrava lettere dove lodava la scienza e la virtù di ciascuno. E quando divenne papa, Erasmo scriveva, da lui sperare restituiti i tre precipui beni dell'umanità: la pietà cristiana, le ottime lettere, la concordia del mondo cristiano, fonte e generatrice della pietà e dell'erudizione[334]. Che se Leon X non gli attenne tutto quello che aveagli fatto intravedere da cardinale, raccomandollo a Enrico VIII, scrivendo che l'amore innato delle lettere eragli cresciuto cogli anni, perchè osservò che quei che le coltivano sono attaccati di cuore ai dogmi della fede, e ch'esse formano l'ornamento e la gloria della Chiesa cristiana (10 luglio 1515). Di più fece coll'accettarne la dedica della [267] tradizione del Nuovo Testamento[335], col che lo pose a schermo dalle accuse d'eterodossia, appostegli da Stunica, da Hoogstraten, da Lee, da Carenza, da Egmont, da altri. Adriano VI gli offrì un decanato: Clemente VII gli fece altre esibizioni e il dono di ducento fiorini: Paolo III pensò elevarlo cardinale[336]; e ben lo meritava egli se si badasse non al suo pensare e scrivere, bensì all'esser egli promotore benemerito del gusto classico e degli studj umanistici, benchè al severo gusto de' nostri il suo latino paresse di lega men pura[337].

Il pio e dotto vescovo Sadoleto fin dal 1524 gli scriveva ringraziandolo di avere scritto lettere piene di pietà e d'osservanza verso un papa veramente sommo ed ottimo, la cui liberalità verso di lui sarebbe ancor più grande se non si trovasse alle strette di tempi difficilissimi e fra ingenti spese, ma cercherà luogo d'onorarlo e ingrandirlo. Si congratula de' libri suoi, pei quali vivrà presso i posteri. E poichè scriveva che lui già sul declino (jam deficientem) Dio solo potea beare, ravvisava in ciò la pietà sua, ma non potea credere in calo l'uomo, di cui i secoli celebrerebbero la memoria; frutto che non è da sprezzare, sebben inferiore ai premj celesti[338]. Più tardi, lodandolo, l'esortava a cessar dalle contese, e ommettere le cose che, sebbene non aliene dalla vera pietà, contraddicono però alle inveterate opinioni popolari. Entrambi piuttosto (soggiungeva) per quanto valiamo, ajutiam virilmente l'afflitta fede cristiana. E altrove torna pregarlo a desistere dalle contumelie, ed ammonire con affetto paterno, nè opporsi a certi popolari culti d'immagini e di santi, che vengono da pietà, benchè sia meglio fissar il pensiero in Cristo solo. E gli ricorda d'aver un tempo animato il papa a concedergli un insigne sacerdozio in Germania, e questi l'avrebbe fatto se non l'avessero distolto calunnie: e d'aver dissuaso lo Stunica dallo scriver contro di esso[339].

Fatto è che ogni scritto di Erasmo era un avvenimento; e gli procacciava come grandi amici, così grandi avversarj; ed egli ingrazianivasi prelati e principi colle cortigianerie, e col metter sempre una frase che medicasse la audace o pungente. Era re dell'ironia[340], ma per usarla contro un privato si richiede o il coraggio del virtuoso, o la codardia del calunniatore. Al carattere di Erasmo si affà meglio la satira generale, a cui nessuno può contraddire, e da cui nessuno in particolare rimarrà ferito; e dove non si potrà snudare la menzogna, perchè è generica l'accusa. Taccerà d'ignoranza i frati di Germania, stando in Inghilterra; di scostumatezza i frati d'Italia, dopo che d'Italia uscì; questi ingiurierà in generale, ma lodando ciascuno in particolare; dirà male de' papi, ma benissimo di Leon X e d'Adriano VI. Quando levò rumore il Dialogo tra Giulio II e san Pietro alle porte del paradiso, ove quello è accusato di briacone, omicida, scellerato, simoniaco, venefico, spergiuro, rapace, lascivo, Erasmo protestò non esserne l'autore[341]. A ciò è condotto chi sagrifica la verità all'opinione.

In effetto, egli prende i sette peccati capitali, e gli affigge come abituali e [268] comuni a chiunque porta cocolla, e sbizzarrisce in istorielle, motti, quolibetti, in quegli aneddoti che il ricco, il dotto ed il patrizio vulgo accetta senza esame, ripete senza discrezione, e che il tempo tramanda alla non meno futile posterità.

Così, intanto che a Roma erano in favore i retorici, quando di tutt'altro era bisogno, i teologi in Germania erano messi in burla da Erasmo[342]. Ne' cui scritti e negli atti appare quanta fosse l'oscillazione degli spiriti prima del concilio di Trento, e quanta la confidenza nella ragione individuale. Erasmo poi professava non esser disposto a morire martire della verità; e che, indotto in tentazione, crede avrebbe imitato san Pietro. E in realtà egli non va catalogato fra gli eresiarchi, come volle taluno; bensì fra que' malcontenti, che non si prefiggono di distruggere, ma scalzano, danno impaccio al sistema prevalente, senza averne uno da francamente sostituire. Abborrendo dalla lotta, pareagli che anche il trionfo della verità saria compro troppo caro col sangue; confida sempre ne' progressi della civiltà, e come tanti altri, opina che la rivoluzione possa compiersi sulla carta o nel gabinetto, senza che se ne intrometta il popolo; — il popolo, che invece n'è il solo attore effettivo.

[273]

DISCORSO XV.
LUTERO, LE INDULGENZE, LA BIBBIA.

Tutto era dunque non solo preparato, ma incamminato, sia l'attacco o il riparo, sia la critica o lo scherno, sia la riforma amorevole o la demolitrice, allorchè, come tant'altri tedeschi, a Roma capitò, mandato per non so quale controversia insorta fra' suoi Agostiniani, frà Martin Lutero. Nato ad Eisleben l'anno che il Savonarola cominciò a predicare a Firenze, visto morire improvvisamente un amico, si spaventò di cascare impreparato nelle mani di Dio; onde resosi monaco, e disgustato d'ogni altra lettura a confronto della Bibbia, prega, digiuna, si mortifica; va alla questua, adempie i bassi uffizj del convento. Quando fu ordinato prete a Erfurt, diede la solita promessa di vivere e morire nel seno della santa Chiesa cattolica e obbedirla come madre, e nel celebrare la prima messa talmente si sentì compreso da quei misteri, che côlto da un tremito universale, a stento terminò.

Presto venuto in fama di abile teologo e predicante, fu messo professore di teologia alla recente università di Wittenberg, e delle arguzie di Erasmo contro il papa indignavasi a segno, che diceva, recherebbe egli stesso le fascine per bruciarlo. Ma l'orgoglio del proprio sapere e l'idolatria di se stesso lo invade: e spedito di qua dell'Alpi, non ci porta affetto ed entusiasmo, bensì dispetto, opposizione, censura. In Lombardia trova dapertutto «ospedali ben fabbricati, ben provisti, con buona dieta, servigiali attenti, medici esperti, letti e biancherie pulite, l'interno degli edifizj ornato a pitture; appena un malato v'è condotto, gli si tolgono gli abiti, tenendone nota per restituirli; è vestito d'un palandrano bianco, messo in un buon letto; gli si menano due medici; gli spedalinghi dangli a mangiare e bere in vetri limpidi, che toccano appena colle dita. Poi signore e matrone onorevoli vengono per servire i poveri, velate di modo che non si sa chi sieno». A Firenze vede ricoveri, ove i gettatelli sono nutriti che meglio non si potrebbe, allevati, istruiti, tutti in abito uniforme. Dapertutto poi eccellenti i collegi, quanto erano male condotti altrove[343]. Ma l'anima sua, sprovvista d'amore [274] come d'umiltà, nulla comprende alla poesia del nostro cielo, delle nostre arti, della nostra storia.

Già per viaggio, in luogo di quelle fontane, sgorganti rozzamente da un tronco di abete forato, dei Cristi e delle grossolane Madonnine sugli svolti de' trivj, incontrando architetture e sculture, marmi ed ori nelle chiese, non che stupito, ne rimane uggiato: gli pare piovoso il clima, disagiati gli alberghi, aspro il vino, micidiale l'acqua, l'aria febbrile, meschina la natura quanto gli uomini. Dall'altura di Montefiascone l'immensa campagna romana gli si mostra arida e sterile, anzichè ridere d'ulivi e di rose qual se l'immaginava: e rimpiange la scintillante verzura della Sassonia e le secolari sue foreste, e quella pendice del Poltesberg, la quale, a dire suo, splende di più fiori che non tutte le colline d'Italia.

Peggio gli uomini. Per lui chiunque porta una tonaca o dice messa, è un ignorante che non capisce il latino, e nè tampoco la lingua materna. A una taverna imbatte frati che sbevazzano, gesticolano, ciaramellano cavallerescamente di cose sacre: dapertutto santi, pitturati sulle case onde preservarle dal fuoco: dapertutto il matrimonio poco rispettato, onde dichiara questi Italiani figliuoli del peccato; prende scandalo d'un convento provisto di trentaseimila zecchini di rendita. Giunto alla santa Roma (così la qualifica), Lutero visita tutte le cappelle, crede tutte le legende, prostrasi a tutte le reliquie, sale ginocchione la scala santa; si duole che i suoi genitori non siano ancora usciti di vita, perchè potrebbe adoprarsi a riscattarli dal purgatorio con messe, preghiere, indulgenze; stupisce di quella pulizia severa, per cui di notte il capitano scorre la città con buone scolte, punisce chi coglie, e se ha armi lo appicca e getta nel Tevere; ammira il concistoro, e il tribunale della Sacra Rota, ove gli affari sono istruiti e giudicati con tanta giustizia[344].

Ma per lui Roma non è la città donde i santi apostoli respingono Attila flagello di Dio, dove imperatori e re fermansi venerabondi o sgomentati, e che personeggia il dominio dell'intelligenza sopra la forza brutale; la città che tiene i Turchi in apprensione, a cui si convertono gli sguardi di tutta la cristianità, da cui partono i missionarj di tutto il mondo, e dove da tutto il mondo si dirigono i reclami contro ogni oppressione, ogni ingiustizia. Al vedere tanti capolavori d'antichi, emulati dai nuovi colla penna, collo scalpello, coi colori, e sotto al manto papale raccolti tanti sublimi ingegni, uno dei quali basterebbe ad immortalare un paese, un'età: non uno dei raggi che partono dall'aureola di Rafaello e di Michelangelo commuove il gelo dell'anima sua razionatrice. Frate e tedesco, si scandolezza al lusso delle cerimonie, senza comprendere come l'idea ha bisogno di trasformarsi in immagine. Frate inosservato in tanta ricchezza, in tanto fasto, in tanta scienza, s'inviperisce e medita vendetta. Fra le splendidezze del culto, espressione mistica del rispetto e dell'amore verso Dio, fra la magnificenza de' pontificali, non calcola se non quanto denaro costano, e con che modi questo [275] procacciavasi: si fa il segno di croce al conoscere que' reprobi costumi, all'udire gli aneddoti spacciati sul conto di Leone X, alla sbadataggine di que' preti che dicevano sette messe nel tempo ch'egli una sola, «talchè i chierichetti gli ripetevano: passa avanti, passa avanti»[345]: alla venalità della curia disposta a dire come Giuda, «Quanto mi date ed io ve lo tradirò?» Crede tutte le baje di piazza e di bettola: e perfino che in un monastero (non indica quale) si disotterrarono da un giardino seimila cranj di neonati; che Roma possiede veleni così squisiti da uccidere col solo guardare uno specchio cospersone[346].

Altrettanto dispetto gli fanno le università e gli studj d'Italia, perchè interpongono la ragione fra la scienza e la fede; perchè vi s'insegna che la luce divina rischiara il lume naturale, come fa il sole con una bella pittura; perchè l'attività del pensiero s'applica a idee pagane, non alla dottrina di Cristo. Anzi, in quel suntuoso peripato di Leone X non vuol vedere che ignoranza, brutalità, grossolanità, quasi intendesse arrogarsi il vanto d'aver egli insegnato il latino, ridesti gli studj filologici, rivelato la Bibbia.

Rimpatriato con tali sentimenti, s'ingolfa nella Bibbia in greco e in ebraico, e fino dalle prime sue lettere, massime da quelle a Spalatino del 1518, manifesta il livore contro i Romanisti, il vilipendio per la teologia scolastica e pei maestri in essa più rinomati; la passione della novità, comunque sia cercata e trovata; il dubbio sofistico, la smania di togliersi dall'oscurità, e di dare una scossa al mondo.

A raccogliere in una fissa direzione i suoi pensamenti venne il dispetto per la vendita delle indulgenze.

La Chiesa, fino da' suoi primordj, come prescrisse penitenze e mortificazioni, così usò della facoltà di rimetterle o attenuarle, sull'esempio degli apostoli; e massime ai martiri si concedea di dare lettere d'indulto ai peccatori, cui per esse il vescovo alleviava la penitenza; laonde, accanto alla dottrina che insegna la salvazione venire da Cristo gratuitamente, stette quella della cooperazione dell'uomo, del soddisfacimento penale, e della remissione parziale o plenaria di questo, secondo le circostanze del penitente. E fino da que' primi tempi indulgenza indicava un'abbreviamento di quelle penitenze, che la Chiesa esigeva prima di assolvere, e che concedeasi al peccatore quando desse segni di profonda contrizione e di sentimenti mutati. Fra gli scolastici pigliò senso più ampio, fondato sopra ragioni valevoli sì, ma non come articolo di fede. Le singole pene non oltrepassavano mai i trent'anni, ma il loro cumulo formava talora più secoli. Essendo per conseguenza impossibile conseguire l'assoluzione in vita, si permise di commutarle, e farle eseguire da altri, e massime i monaci s'incaricavano di preci, pellegrinaggi, mortificazioni, discipline, in surrogazione del vero penitente. Domenico Loricato che ebbe questo titolo perchè portava una corazza di ferro e catene attorno al corpo, talora [276] assumevasi di scontare penitenze di cento e di mille anni. Tremila sferzate equivalevano ad un anno di penitenza: durante la recita dei cencinquanta salmi poteansi dare quindicimila colpi; laonde, col recitare venti volte il salterio sotto continua flagellazione, redimevasi la penitenza di cento anni; e talora Domenico la compiva in sei giorni. Così nella vita di esso attesta san Pier Damiani, vivente intorno al mille; e altrove scrive d'avere imposto all'arcivescovo di Milano la penitenza di cento anni, e tassata la redenzione in un annuo tributo[347]. Il Muratori stampò un Penitenziale, ove si espongono tali scambj di penitenza: «se uno non può digiunare, scelga un sacerdote giusto, o un monaco che vero monaco sia e viva secondo la regola, il quale adempia per lui, e se ne redima a prezzo conveniente. Una messa cantata speciale può riscattare dodici giorni; dieci messe riscattano tre mesi; trenta messe dodici mesi»[348]. Della messa il valore è infinito; onde venne adoperata più che le altre commutazioni.

Indulgenze concedeansi anche per opere civili o pietose, come il fondare un ospedale, erigere una chiesa, fino costruire un ponte o una via, conforme l'indole de' tempi ove ogn'atto di questo mondo consideravasi in relazione coll'altro; ovvero per visitare un santuario, guerreggiare contro gl'infedeli. Eravi chi avesse recato un danno a persona, cui non potesse risarcire? e' procuravasi l'assoluzione mediante una somma, che pareva soddisfare mediante l'uso che se ne faceva. L'Inquisizione avrebbe dovuto punire molti delinquenti, se non si fosse ad essi aperto uno scampo mediante le indulgenze, convertendo il delitto in peccato, il supplizio in penitenze.

I teologi si domandarono, come mai la Chiesa potè dirsi autorizzata a tale condiscendenza? E poichè allora la scolastica presumeva dare ragione di tutto, allegarono che il fondo inesauribile di misericordia preparato dal sangue di Cristo, e i meriti soprarogatorj dei santi, formano un tesoro, applicabile a chi pentito partecipi ai sacramenti. Ma di che non abusa l'uomo? Le indulgenze furono talvolta profuse con giubilei plenarj, e col concederle a chi sovvenisse a bisogni temporali della Chiesa, e persino a fazioni politiche de' suoi capi.

Furono rivolte anche sulle pene postume[349], volendo che papi e vescovi potessero applicarvi una parte di questo inesauribile tesoro di misericordia. Perocchè quel sentimento così umano che ci lega a coloro che ne precedettero in quest'esiglio e ci attendono nella patria, era stato consacrato dalla fede, riconoscendo la comunione de' fedeli, cominciata tra le pruove della vita, continuata nel luogo della temporaria espiazione, compita nella città celeste; sicchè a sollievo delle anime aspettanti, noi militanti possiamo applicare e le preghiere e le buone opere: tradizione antichissima, chiaramente indicata da Tertulliano e da sant'Agostino[350], nel quale già si trova cenno delle messe per defunti. Ma esso pure fu implebejato coll'idea del guadagno, e i suffragi si restrinsero quasi unicamente a messe ed uffizj, [277] che troppo facilmente prendevano aspetto di bottega, e offrivano appiglio alla maldicenza.

La Chiesa dichiarava espresso che le indulgenze esigono da una parte un merito soprabbondante, dall'altra buone opere e pia coscienza; e che mancano d'ogni valore se non vadano congiunte alla sincera ed efficace contrizione, rimettendosi la penitenza solo in quanto era satisfattoria cioè punizione, non in quanto era medicinale, cioè diretta a tener sotto gli occhi del peccatore l'orror della colpa commessa[351]. Anche i catechismi più comuni insegnano che l'indulgenza è una remissione di pene temporali, che rimarrebbero a scontare pei peccati già rimessi quanto alla pena eterna. Non concedesi dunque se non a quello cui già sia stata rimessa la colpa; vale a dire all'uomo in istato di grazia, cioè di moralità soprannaturale; all'uomo che possieda amore di Dio e de' suoi precetti, dolore de' peccati, e proposito di non più commetterne; amore del prossimo, perdono delle ingiurie ricevute, riparazione delle fatte, adempimento de' proprj doveri, insomma conformità (per quanto all'uomo è possibile) alla legge divina. Solo a queste condizioni si ottiene l'assoluzione e per ciò l'indulgenza, cioè la soddisfazione della pena temporale che il peccatore deve alla giustizia divina anche dopo rimessa la colpa. La qual pena temporale sconta l'uomo con opere penitenziali, a cui la Chiesa applica i meriti infiniti dell'Uomo Dio.

Pure gl'ignoranti facilmente sdrucciolavano in opinione erronea, e se la fomentavano coloro che ne traevano guadagno, ne facea beffe il bel mondo. «Come credere al purgatorio predicato da bocche barbose, che non sanno tampoco declinare Musa Musæ?» diceva Reuclin. E gli arguti: «Che? Sono dunque in mano dei preti le porte del purgatorio e del paradiso?» Sul teatro rappresentavansi spesso de' monaci, che vendeano l'assoluzione al ladro, il quale anche negli estremi momenti esitava fra la sua coscienza e il buon senso; altri che alle comari computavano quanti giorni un'anima resterebbe nel purgatorio, e quanto ci vorrebbe a riscattarla.

Fatto è che lo spaccio delle bolle d'indulgenze divenne pingue entrata della romana curia; v'ebbe persone che n'apersero bottega falsificandole: il che tutto e screditava le indulgenze, e ne adulterava il senso. Il vulgo facilmente recavasi a credere che quel denaro fosse il prezzo della cosa santa; e i questori che mandavansi a riscuoterlo, partecipando d'un tanto per cento al vantaggio, ne magnificavano profanamente la virtù. Ammirato il Giovane racconta che, nel 1431, a Firenze venne un cavaliere gerosolimitano con un Minorita; e quegli annunziava aver dal papa autorità ampia per assolvere dalla dannazione: questi stava a banco nelle chiese a scrivere e sigillare le lettere delle indulgenze e assoluzioni di colpa e di pena, dispensando in arduissimi casi chi portava non solo denari, ma vesti e panni. I senatori, dubitandone, vollero vedere la carta dell'autorità del cavaliere, e la trovarono minore di quella che annunziava; onde gli proibirono [278] di passar più avanti, ne scrissero al papa, e comminarono pene a simil gentaccia. Qual v'ha mai cosa santa, di cui l'avarizia non abusi?

Han levato gran rumore d'un libro intitolato Tasse della cancelleria romana, che nella sua crudezza sa di stranamente empio. Vi si dice: «Per l'assoluzione di chi abusa d'una fanciulla, sei carlini; per l'assoluzione d'un prete concubinario, sette carlini; d'un laico, otto. Per l'assoluzione a chi ammazza il padre, la madre, il fratello, la sorella, o altro parente ma laico, cinque carlini; d'un laico che uccise un abate o altro ecclesiastico inferiore al vescovo sette o otto o nove carlini; d'un marito che battè la moglie in modo che abortisse, otto carlini; di padre o madre o parente che abbia soffocato un fanciullo, quattro tornesi, un ducato, otto carlini. L'assoluzione per atto d'impurità qualunque commesso da un chierico, con dispensa di potere prendere gli Ordini e tenere benefizj, trentasei tornesi; per mangiare latticinj ne' tempi proibiti, sei tornesi». Fu stampato nel 1471 a Roma; vero è che non ha nessuna autorizzazione della Chiesa, ma moltissime volte fu riprodotto colà, e a Parigi, Venezia, Colonia, senza che scandolezzasse, finchè i principi protestanti l'inserirono nei Centum gravamina, e Antonio du Ginet lo riprodusse a Lione nel 1564 col titolo Taxe des parties casuelles de la boutique du pape, etc. Non è ben determinato quanto sia autentico e genuino: ma comunque esso urti il senso dell'onestà e della morale, basta il senso comune per comprendere come quella tassa non riguardi il perdono, bensì paghi la spedizione della cedola assolutoria, nè mai esclude la necessità del pentimento e della soddisfazione.

I concilj di Vienna, di Costanza, di Laterano aveano severamente vietato questo traffico; ma Leone X credette sorpassarvi per nobile oggetto, qual era di far concorrere tutta la cristianità a due grandi imprese, a tutta la cristianità interessanti; la crociata contro Selim granturco, e l'erezione d'un incomparabile tempio.

Perocchè, arrivati all'apogeo della loro grandezza, i pontefici vollero esprimerla anche materialmente con un tempio maggiore di tutti.

La basilica del Vaticano offre la storia della Chiesa e delle arti, da quando Proba nel IV secolo vi ergeva una cappella al defunto marito Anicio, fino a Tenerani e Pio IX. Nicola V, che fece per le arti non meno di Leone X, avea pensato riedificarla splendidissimamente, e l'annesso palazzo pontifizio ridurre in modo, che v'abitassero tutti i cardinali, quasi concilio permanente attorno al papa; ivi tutti gli uffizj della curia; ivi grandioso ricinto pel conclave, immenso teatro per la coronazione, suntuosi appartamenti pei principi ospiti; il colle Vaticano, seminato di palagi, comunicherebbe colla città mediante lunghi porticati a botteghe; attorno giardini, fontane, cappelle, biblioteca.

Il gigantesco divisamento gli fu tronco dalla morte: poi Giulio II, a cui nulla parea troppo grande, pensò dare condegna occupazione ai sommi artisti [279] allora fiorenti col ricostruire la basilica. Messosi all'opera, fece distruggere cappelle e monumenti, preziosi per antichità e per sante tradizioni, con grave dolore di chi venera le memorie[352]: e stabilì (1509) che tutti i legati pii, lasciati a luoghi incapaci d'accettarli, o che non si soddisfacessero dagli eredi, venissero applicati alla fabbrica di San Pietro; istituendo a tal fine un tribunale, che li riscotesse in tutto l'orbe cattolico[353].

Leone X, volendo compiere quel che il predecessore avea cominciato, pensò farvi contribuire tutta la cristianità, e concedette ampie indulgenze a chi offrisse denaro per quell'edifizio.

Il medioevo non avrebbe trovato a ridirvi; ma le nazioni già prendeano il volo fuori del nido in cui aveano messe le penne; i principi, bisognosi di denaro, chiedeano partecipare a questo speciale genere d'entrata, e voleano trafficare le indulgenze come trafficavano i voti per la corona imperiale.

L'incarico di predicare queste indulgenze era officio lucroso, come quel di ogni esattore. E poichè Alberto, arcivescovo di Magonza, dovea render al papa quarantacinquemila talleri e non n'avea modo, Leon X conferì ad esso il diritto di distribuire le indulgenze in Germania[354]; ed esso l'appaltò ai Fugger, banchieri famosi di Augusta. Giovanni Arcimboldo, diacono d'Arcisate, poi arcivescovo di Milano, che prima n'avea avuto l'incarico, riservossi la Danimarca e la Svezia, e in pochi anni raccolse abbondanti limosine, che l'infedeltà d'alcuni agenti mandò a male, pur la reputazione di esso uscendone intatta. Non così quella d'Alberto, che scelse a divulgarle Tetzel, domenicano di Pirna, oratore famoso per immaginazione, ma scarso di prudenza e di buon senso. Se dessimo fede a Lutero, purtroppo franco nel calunniare, Tetzel traversò la Sassonia con casse di cedole di perdono, bell'e firmate, e dove arrivasse alzava una croce in piazza, spacciava la sua merce nelle taverne, e «Comprate, comprate (diceva), che al suon d'ogni moneta che casca nella mia cassetta, un'anima immortale esce dal purgatorio»; e il popolo a calca versava talleri in cambio delle perdonanze. Così Lutero: ma i sermoni di Tetzel furono stampati, e da un Protestante, e vi si legge a tutte lettere la necessità della confessione e contrizione: quicumque confessus et contritus eleemosynam ad capsam posuerit juxta consilium confessoris, plenariam omnium peccatorum suorum remissionem habebit.

«Farò io un buco in questo tamburo», gridò Lutero, indignato a quella profanità; ad alcuni che le aveano comprate, negò l'assoluzione se non riparassero il mal fatto e si emendassero. «Vi dico che l'indulgenza non è nè di precetto, nè di consiglio divino. Che le anime possono liberarsi dal purgatorio mercè dell'indulgenza io nol so e nol credo. Hai tu denaro? Danne a chi ha fame, e varrà ben meglio che darlo per compaginare pietre. Quel che dico scompaginerà la costoro bottega: ma che importa il loro brontolio? Teste vuote, che non han mai letto la Bibbia; che non intendono acca delle [280] dottrine di Cristo; non si capiscono tampoco fra di loro». Così declamava: poi alla chiesa di Wittenberg, nella solennità d'Ognissanti, affigge novantacinque tesi; pronunziando maledizione e anatema contro chiunque negasse la verità delle indulgenze pontifizie[355], ma esservi abuso in esse.

E abuso v'era; lo attestò il medesimo concilio di Trento: sarebbesi potuto confessarlo e toglierlo senza rompere l'unità della Chiesa; i vescovi di Meissen e di Costanza aveano proibito quelle vendite; ma la materia era preparata di maniera, che poca favilla destasse inestinguibile vampa.

La materia delle indulgenze non era stata molto discussa dai dottori, non mai dalla Chiesa congregata. La bolla di Clemente VI pel giubileo del 1350 le stabiliva, ma non quanto bastasse per confutare le ragioni di frà Martino: laonde il Tetzel che, dialettico robusto al modo degli scolastici, presumeva trionfare di tutto mediante le argomentazioni, anzichè angustiarsi nella quistione speciale, affrontò la generale, asserendo che il consenso de' dottori della scuola le confermava, che il papa, infallibile in materia di fede, le approvava, e ne davano segno col pubblicarle: laonde le indulgenze erano articolo di fede, e bisognava credervi. Lutero anch'esso dilargasi dal suo tema, e toglie in esame l'autorità pontifizia; e dietro a questa la remissione de' peccati, la penitenza, il purgatorio, tutti punti che s'attengono all'indulgenze. Altri sorsero contraddittori a Lutero; ma da una parte, col sentenziare d'eresia ogni divergenza d'opinione, spingevansi molti nel campo nemico; dall'altra le dispute faceano il solito uffizio di approfondare viepiù il frapposto fosso; dal censurare gli abusi si trascorreva ad intaccare i principj; dall'asserire che i prelati trascendevano, al revocare in dubbio la legittima potestà del papa e persino l'autorità sua in materia di fede; e quando appunto le minacce dei Turchi rendevano necessaria una più compatta unione, la cristianità spartivasi in due campi, dapprima avversi, ben presto ostili.

Gli studenti di Wittenberg colgono un frate che portava ottocento copie delle controtesi di Tetzel, gliele tolgono, e invitano chiassosamente a venir vedere bruciarle, e il fanno tra le grida di «Viva Lutero, morte a Tetzel». Lutero professava sottomettersi alla decisione del papa, ma intanto sbraveggiava in tono di sfida; e dall'applauso popolare fatto confidente in sè e ne' testi letterali della Bibbia, conculca la tradizione e la scuola, e richiamando ai primi tempi della Chiesa, apre l'avvenire con un appello al passato.

Come già erasi fatto col Savonarola, Tetzel proponeva a Lutero la pruova dell'acqua e del fuoco; e questi, men civile del Ferrarese, rispondeva: «Io me n'impippo de' tuoi ragli. Invece d'acqua ti suggerisco il sugo della vite; invece del fuoco, odora una buona oca arrosto».

I dotti di qua dalle Alpi mal si capacitavano che da un barbaro potesse derivare nulla di straordinario: e quali, invaghiti del bello, credeano bastasse opporre ai sillogismi la fabbrica del Vaticano o il quadro della Trasfigurazione; [281] quali prendeano spasso di quelle controversie, e di scoprire a Lutero forza d'ingegno meravigliosa: e, sebbene scrivesse alla carlona, l'applaudivano di prendere pei capelli la screditata scolastica e i frati, ch'eran per loro l'ignoranza e la pedanteria incarnata. Gli spiriti forti ridevano del papa, messo in sì male acque, ridevano insieme dei riformatori, che davansi aria di rigoristi entusiastici, e collo scetticismo allora di moda, stavano a vedere chi prevarrebbe. Anime rette credettero in Lutero ravvisare l'uomo suscitato da Dio, non per demolire il dogma, ma per correggere le aberrazioni. Quei che s'ammantano col nome di moderati, deploravano quella scissura, ma credeano meglio non opporvisi per non esacerbare, per non impedire la riconciliazione, per non compromettersi: morrebbe di morte naturale, come tant'altre, nate negli ozj ringhiosi de' conventi. Tale la considerò dapprincipio Leone X: allettato da quelle arguzie, diceva: «Frà Martino ha bellissimo ingegno, e coteste le sono invidie fratesche»: poi messo in collera da insulti anche personali, scappava a dire: «Gli è un tedesco ubriaco, e bisogna lasciargli digerire il vino»[356]. Dopo nove mesi, per ribattere il novatore colla penna fu scelto Silvestro Mazzolini, da Priero presso Mondovì, maestro del sacro palazzo[357].

Facile trovare nel costui dialogo futilità e cattivo gusto[358]; e lo beffò Erasmo, sempre in caccia di corbellerie de' frati; ma è ben lontano dall'esser l'ignorante che i Riformati vogliono dipingerlo.

Lutero risponde (1518); quegli replica De juridica et irrefragabili veritate ecclesiæ, romanique pontificis; dove stabilisce che la Chiesa è un regno, e regno monarchico; e il papa superiore al Concilio, di cui parla con disprezzo: ma perchè, abbagliato dalla grandezza papale, trovava insoffribile ogni resistenza, ogni esame, e trascendea nelle confutazioni, venne consigliato a tacere, pur costituendolo vescovo e giudice di Lutero. E Lutero rispondeva: «Non abbiam noi corde e spade e fuoco per castigare i ladri, gli assassini, gli eretici? Perchè non ce ne varremmo a castigare il papa, i cardinali, i vescovi, e tutta la schiuma della sodoma romana, avvelenatrice della Chiesa di Dio? Perchè non bagneremo le mani nel loro sangue onde salvar noi e i nostri nepoti?»[359]

Altri risposero al novatore tessendo argomenti in quelle forme sillogistiche, di cui erasi abusato nelle dispute e fino ne' Concilj precedenti[360]; e Lutero sguizzava loro di mano con una celia; diceva: «Voi discutete se Cristo è figliuolo di Dio, se Maria è sua madre, e non tollerate che noi mettiamo in dubbio le indulgenze?» Avea torto, perocchè quelle quistioni agitavansi ne' conventi o in adunanze ecclesiastiche per mera esercitazione scolastica, mentre ora egli le portava in piazza, le sottoponeva al senso comune che non è competente; coll'audacia propria ringalluzziva la scolaresca che moltiplicava applausi a lui, fischiate ai contraddittori, perchè sempre la forza anormale viene ammirata, e trascina chi ha bisogno di movimento, e chi [282] trova più comodo il pensare coll'altrui che colla propria testa. Espiavasi così la tolleranza usata all'Aretino e al Berni; come la profanità dell'arte era espiata dalle migliaja di figure del Papa Asino, che si diffondevano per Germania.

Leon X, uscitegli invano le promesse e le minacce, non ottenuto dai principi che gli consegnassero Lutero, emana una bolla del 9 novembre 1518, ove dichiara legittime le indulgenze; e che esso, come successore di san Pietro e vicario di Cristo, aveva autorità di concederle. Lutero se n'appella al Concilio, e ricorrendo a frasi simpatiche, parla della schiavitù di Babilonia, della libertà cristiana: vindicemus communem libertatem, liberemus oppressam patriam, è il motto che dà a' suoi Tedeschi. I quali presero a riguardare la resistenza come una liberazione dalla tirannide italiana, e ripeteano le invettive che Hutten avventava al papa: «Sei tu che hai dilapidato la Germania: sempre il vangelo a te spiacque, o tiranno; tu ingojasti la Germania, tu la rivomiterai, coll'ajuto di Dio. Tu hai ciuffato, estorto il nostro denaro: cos'è che tu chiami la libertà della Chiesa? La facoltà di derubarci. Non v'ha che te di eretico, Leone X, tu divenisti vero leone e vorresti divorarci; non dimenticarti che il mio paese nutrisce altri leoni contro di te, se non bastano le tre aquile: Leone....»; il resto la creanza ci interdice di trascriverlo.

In fatto, sotto la specie di libertà religiosa, intendevasi libertà politica, del resto connesse fra loro. E gran bisogno sentivasene in Germania, ove ancora l'imperatore dipendeva dal papa; i baroni dipendeano dall'imperatore; gli uomini gregarj dipendeano dai baroni; alla gleba era legata la gentuccia e a servizj di corpo; libertà, libertà, ripeteasi dunque dapertutto, e tal voce era compresa anche dalla plebe. La nazionale avversione contro quanto stava di qua dall'Alpi trovava pascolo in questa guerra di nuovo conio, e che non cagionava nè spese, nè pericoli, nè spostamento d'abitudini; laonde i Tedeschi s'affezionano al nuovo Erminio che muove guerra implacabile agli Italiani, abisso di vizj e culmine d'orgoglio; declamano contro malignità e finezze a cui essi non arrivano; contro la gaja cultura, da cui si trovano tanto lontani; contro questi Italiani da cui erano stati impediti, di soggiogare l'intera Europa; e ai quali Lutero portava ora colla penna tanti danni, quanti già i Barbari colle armi.

Inoltre Lutero parla tedesco, e il tedesco vulgare, quando il più de' predicatori, e tutti quelli mandati da Roma usavano il latino; e possedendo se alcun altri mai il linguaggio popolare e quel dell'ingiuria e del riso, tanto efficace in tempi commossi, egli «va, viene, spezza, brucia le siepi che non può oltrepassare, precipita come un sasso dalla vetta, travalica monti e valli come il diavolo», che sì spesso egli invocava e adoperava.

E nel suo proclama alla nobiltà cristiana di Germania, la ingelosiva delle progressive usurpazioni del clero e di Roma contro la sua nazione, e «Via i nunzj apostolici, che rubano il nostro denaro. Papa di Roma, dammi [283] ben ascolto: tu non sei il maggior santo, no, ma il maggior peccatore; il tuo trono non è saldato al cielo, ma affisso alla porta dell'inferno.... Imperatore, sii tu padrone; il potere di Roma fu rubato a te; noi non siamo più che gli schiavi de' sacri tiranni; a te il titolo, a te il nome, a te le armi dell'impero; al papa i tesori e la potenza di esso; il papa pappa il grano, a noi la buccia».

Ma il potere che vien offerto dalla rivoluzione, non talenta a principi che abbiano senno; e Massimiliano imperatore, più vicino all'incendio, ne conobbe la gravezza, e sollecitò Leone a citar Lutero al suo soglio. Lutero, mentre riprotestavasi sommesso al pontefice, erasi procacciato appoggi terreni, e mercè dell'elettore di Sassonia impetrò che il papa deputasse uno ad esaminarlo in Germania. La scelta cadde su Tommaso De Vio, detto poi il cardinale Cajetano, perchè nato a Gaeta il 1469. Di buon'ora s'era egli salvato dal mondo vestendosi domenicano; lesse arti a Padova, e oltre sapere tutto a mente san Tommaso, ne imitava il modo d'argomentare, unendo cioè la dialettica d'Aristotele coll'ispirazione di Platone. Perciò correasi ad ascoltarlo, ma egli fuggiva i rumori, e s'ascose per sottrarsi a un trionfo in quell'università. Pure spesso interveniva alle dispute filosofiche e religiose, che molto costumavansi allora, e singolarmente in una del capitolo generale del suo Ordine a Ferrara, in presenza del duca e del senato, combattendo Giovanni Pico della Mirandola. Al conciliabolo di Pisa dal pulpito sfolgorò il cardinale Carvajal, e gli altri motori dello scisma, e compose un trattato sull'autorità del papa, sostenendone la supremazia monarchica sul concilio. Aveva anche pubblicato un'opera sulle indulgenze, lodata da Erasmo come di quelle che rem illustrant, non excitant tumultum, dove conferma l'efficacia di esse non solo nella remissione della pena ut est debita ex vinculo ecclesiæ, ma anche della pena ut est debita ex vinculo divinæ justitiæ: distinse i meriti di Gesù Cristo e de' santi, e l'applicazione di essi per modo di assoluzione e per modo di suffragio.

Fatto vescovo di Gaeta, poi cardinale da Leon X, si mostrò attivissimo nell'eccitare la Germania, la Scandinavia, l'Ungheria contro i Turchi: in Boemia represse le reliquie degli Ussiti; dimostrò come a torto si tacciasse d'avarizia la Chiesa romana per le decime, atteso l'uso che ne faceva; più tardi Clemente VII, udendo ch'egli era assalito dai saccheggiatori di Roma, mandò a supplicare per lui, acciocchè non s'estinguesse un tal lume della Chiesa. L'insigne teologo Michele Cano dice: «Io l'ebbi sempre in gratissima stima, e altamente giovò alla Chiesa, e poteva esser pari ai sommi edificatori di questa, se la dottrina sua non avesse macchiata di certa qual lebbra, e o per curiosità, o per sottigliezza d'ingegno non avesse esposte le sacre lettere piuttosto ad arbitrio suo, quasi sempre felicissimamente, ma in varj luoghi più acutamente che felicemente. Poco tenace dell'antica tradizione, nè molto versato nella lettura dei santi Padri, non volle apprender i misteri del libro [284] suggellato da quelli che, non a proprio senso, ma secondo la tradizione dei maggiori, cioè la vera, apersero la chiave del verbo di Dio. Avendo scritto molte cose eccellenti, da ultimo con alcune nuove sposizioni della Scrittura scemò autorità a ciò che avea detto pensatissimamente»[361].

A torto dunque si imputa Leone X d'avere scelto un debole avversario a Lutero. Questi propose una disputa pubblica in Augusta, ravvisando quanto vantaggio trarrebbe dal chiamare le turbe a giudici in punti positivi, fondati sull'autorità. Ricusato, Lutero tergiversa, vuol discutere, ringrazia il Cajetano d'avere usata carità con lui, che pur s'era mostrato violento, ostile, insolente verso il nome del papa, ma il Cajetano riduce la quistione ai veri e finali suoi termini, cioè l'obbedienza assoluta alla Chiesa come unica autorevole in materia di fede: «Il papa ripruova le vostre proposizioni: voi dovete sottomettervi. Il volete o no?» E Lutero ricusa l'incondizionata sommessione, e sostiene che anche ad un laico armato di autorità devesi credere più che al papa, che al Concilio, che alla Chiesa stessa.

Leone approvò l'operato dai distributori delle bolle d'indulgenze, e dichiarò eretico Lutero. Il quale al papa scrisse in tono di canzonella, compassionandolo come un agnello fra lupi, e ricantando tutte le abominazioni che di Roma si dicevano. «Gran peccato, o buon Leone, che tu sia divenuto papa in tempi ove nol potrebb'essere che il demonio. Deh fossi tu vissuto su qualche benefizio o del paterno retaggio, anzichè cercare un onore, solo degno di Giuda e de' pari suoi, da Dio rejetti».

Leone allora abbandonata la longanimità, scagliò la scomunica il 15 giugno 1520 in una Bolla studiosissimamente elaborata da Pietro Accolti cardinale d'Ancona. Invocato Cristo a sorgere in ajuto della Chiesa sua in tanto bisogno; e san Pietro a prendere cura di questa che gli era stata affidata da Cristo; e san Paolo, che, sebbene avesse giudicato necessarie le eresie per provare i buoni, trovasse conveniente estinguerle al nascere; e tutti i santi e la Chiesa universale perchè intercedessero appo Dio onde cessasse questa contaminazione, diceasi come molti errori, già condannati ne' Greci e ne' Boemi, alcuni asserti ereticali, altri falsi e scandalosi, si seminassero ora in quella Germania, che sempre fu cara a' pontefici, i quali da essa, dopo la traslazione dell'impero dall'Oriente in Occidente, sempre aveano chiesto i difensori.

Qui recita quarantun articolo intorno al peccato originale, alla penitenza, alla remissione de' peccati, alla comunione, alle indulgenze, alla scomunica, alla potestà dei papi, all'autorità de' concilj, alle buone opere, al libero arbitrio, al purgatorio, alla mendicità: tutti opposti alla carità, alla riverenza dovuta alla romana Chiesa, all'obbedienza che è nerbo della disciplina ecclesiastica. Dopo fattone diligente scrutinio con cardinali e capi d'Ordini regolari, e teologi e dottori, li condanna e ripruova come ereticali, scandalosi, falsi, contrarj alla cattolica verità; proibisce sotto pena di scomunica il [285] tenerli, difenderli, favorirli, predicarli. E poichè quelli sono asseriti ne' libri di frà Martino, condanna questi e chiunque li serba o legge, volendo siano abbruciati. Martino, più volte ammonito e citato con promessa di sicurezza, se fosse ito non avrebbe trovato nella Corte tanti falli quanti spacciava, e il papa l'avrebbe chiarito che i suoi predecessori mai non errarono nelle loro costituzioni. Ma avendo sostenuto un anno intero le censure, e fatto appello al Concilio (locchè era proibito da Pio II e Giulio II) poteva il papa procedere a condannarlo; eppure, scordate le ingiurie, voleva ancora ammonirlo a desistere dagli errori, e fra sessanta giorni revocarli e bruciare i libri: altrimenti lui e suoi sostenitori dichiara pertinaci e notorj eretici: deva ognuno prenderli e consegnarli, o almeno scacciarli, dichiarando interdetti i luoghi ove dimorassero.

Questa bolla ammiravano alcuni come un modello di latinità, di scienza, di diplomazia; altri la criticavano come soverchiamente lunga; e che vi s'adoprasse stile di curia, anzichè i pronunziati scritturali; e che le quarantuna proposizioni vi si dichiarassero cumulativamente ereticali o scandalose o false, anzichè specificare le singole.

Lutero, imitando quel che il Savonarola avea fatto co' libri immorali, davanti agli studenti di Wittenberg brucia le Decretali, la Somma di san Tommaso, gli scritti avversi, e la Bolla, dicendo: «Oh potessi fare altrettanto del papa, il quale conturbò il santo del Signore»; e gittata la cocolla, sposa Caterina Bore smonacata, cangia forma al culto, e mentre Leone persiste a chiamarlo a penitenza, pubblica il trattato della Libertà cristiana.

Egli non aveva un programma prestabilito e compiuto, come non l'ha verun novatore; procedeva a tentone, come chi fra il bujo si orizzonta a poco a poco, e trae conseguenze dalla primaria quistione. E la quistione suprema era: «L'uomo decaduto in qual maniera può mettersi in unione con Cristo, e partecipare del frutto della redenzione?» Svolgendolo, arriva al suo canone fondamentale, la giustificazione pei soli meriti di Cristo; donde qual corollario derivano il servo arbitrio e la predestinazione.

Tutto l'edifizio sacerdotale si compagina sulla credenza che le buone opere ci meritino la salute; Lutero, volendo demolirlo, nega che l'uomo possa cooperare alla propria salvezza; sola la fede ci salva, è scritto nel Vangelo; noi siamo corruzione e peccato, sicchè nulla possiamo se non quel che ci è dato dal nostro divin Salvatore, nè merito avvi o giustizia se non in esso; onde sono inutili, anzi nocevoli alla salute le buone opere dell'uomo, il quale non è libero della sua volontà più che nol sia la sega in man del legnajuolo; è pelagianismo il credere che l'uomo meriti la Salute, mentre la merita il solo Gesù Cristo. Che penitenze? Che sacramenti? Che suffragi pei morti, o altre opere satisfattorie? Il male è condizione d'ogni uomo finito; cioè il sentimento del peccato non può essere divelto da nessuna coscienza finita. Il cristiano non può raggiungere la pace se non coll'elevare lo spirito all'infinito, [286] alla considerazione della bontà di Dio. Allora alla libertà morale annichilata si surroga la libertà cristiana; questa significa affrancamento dalla legge morale, che non si riferisce se non al mondo finito; nè ammette applicazioni a ciò che è perpetuo.

Se la fede è non solo un dono gratuito, ma una specie di forza che costringe l'assenso, mentre l'uomo, corrotto radicalmente, è incapace di ogni libertà, fino quella di desiderare e scegliere il bene, egli non coopera a un atto di fede, e la Grazia opera in esso non solo avanti, ma senza della libertà; laonde fede e libertà si escludono. Pe' Cattolici invece il libero arbitrio suppone la facoltà non di meritare la Grazia divina, ma di assentirvi o no, sicchè l'atto di fede è un atto di volontà: credere in voluntate credentium consistit, dice san Tommaso: si conoscono grazie che provocano, che eccitano, che attraggono la libertà, ma nessuna che la costringa o la sopprima.

Colla giustificazione al modo di Lutero, cioè se l'uomo diviene giusto pei soli meriti di Cristo, a lui applicati per mezzo della fede, è tolto via tutto quanto s'interpone fra Cristo giustificatore e il fedele giustificato; cioè tutta l'azione intermedia della Chiesa sull'uomo. Per tal modo, dalla negazione della libertà metafisica egli deduce la libertà ecclesiastica.

Se ogni uomo è guidato da Dio, che bisogno ha più d'autorità umana? Che bisogno di espiazione se i fedeli divengono di colpo perfetti mediante i meriti di Cristo? Basta eccitare la fede mediante la predicazione del vangelo; se i Cristiani credono, eccoli santi; se no, vanno perduti senza avere subìto la noja di confessioni, di digiuni, di scomuniche. Il culto esterno è inutile, bastando la fiducia in Dio; sicchè ogni Cristiano è sacerdote, e la gerarchia fu costituita solo per ambizione d'alcuni, per ignoranza servile dei più, a scapito della libertà dei figliuoli di Dio. Manca la ragione della progressiva educazione di esso alla santità; e la Chiesa, coi vescovi, col papa, coi sacramenti inalterabili non solo, ma cogli Ordini monastici, colle penitenze, le indulgenze e tutto l'organamento esteriore, modificabile secondo i tempi, diviene un assurdo, un effetto di pregiudizj e di cupidigie.

Ma se ci manca il libero arbitrio, per qual fine Iddio ci ha dato i suoi comandamenti? Lutero non esita a rispondere, che fu per provare agli uomini l'impotenza della loro volontà, beffandoli coll'ingiungere cose, ad osservare le quali non hanno forza[362]. Pecchiamo pure, pecchiamo fortemente; uccidessimo, fornicassimo cento volte il giorno; non serve, purchè crediamo alle dovizie dell'agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo[363]. Questa negazione del cooperamento dell'uomo fu intitolato Vangelo, e nemico al Vangelo si disse chiunque sosteneva il contrario.

Noi insistiamo sopra Lutero perchè una dottrina religiosa dev'essere giudicata alla sua sorgente e in ciò che ha di originale e primitivo: e perchè egli è il vero fondatore del protestantismo, avendo aperto una via propria coll'eriger la ragione individuale al posto di Cristo, che solo rappresenta [287] l'umanità redenta e che non comunicò tal privilegio se non alla sua Chiesa. Le ragioni speciali che lo condussero a formulare il suo sistema, le prospettive generali del suo edifizio, le sue pruove dedotte dalla ragione e dalle opinioni, si riproducono nella interminabile figliolanza, per quanto sembri discorde; nè le passioni dell'anima sua possono separarsi dalle sue credenze.

Come si disse che Dio è l'unico autore della nostra santificazione, così, abolendo ancora ogni intervento della Chiesa fra il credente e la sacra scrittura, si disse che questa è unica sorgente, unica regola e giudice della fede. Nè l'intelligenza del santo libro è studio solo di filologia e storia, ma ispirazione divina; giacchè lo spirito pone la verità ne' nostri cuori. Confondeasi così il lettore della Bibbia colla Bibbia stessa, quasi non sia diverso il leggere uno scritto infallibile, ed essere infallibile nell'interpretarlo. Con ciò Lutero rendeva superfluo un magistero per l'istruzione cristiana e per conservare la tradizione. La Chiesa non è infallibile, e può discordare dalla parola divina. Questa vuole essere interpretata dai singoli con sincerità e invocando lo Spirito Santo; solo in quella vuolsi avere fede, non badando a Padri o ai Concilj, ma al testo qual è da ciascuno interpretato.

Con questo criterio, Lutero vi leggeva, che Iddio è unico autore del bene come del male; che i sacramenti dispongono alla salute, ma non la conferiscono; che nella santa cena è presente Cristo, ma non transustanziato; che il ministro è un uomo in nulla diverso dagli altri, e in conseguenza non può assolvere i fratelli, nè deve distinguersene per voti e rigori; che la giurisdizione religiosa spetta intera ai vescovi, eguali tra loro sotto Cristo, che n'è il capo, e scelti dai principi. Nei due Testamenti, e nei quattro primi Concilj non si parla di purgatorio, d'indulgenze, di voti monastici, d'invocazione de' santi, di suffragi: dunque non si devono accettare. L'Ordine non è sacramento: Dio consacra interiormente l'intelligenza di tutti.

Insomma per abbattere l'autorità ecclesiastica prevalsa, per inaridire la fonte delle ricchezze e della potestà del papa e dei preti, togliea la distinzione di spirituale e temporale, d'ogni laico faceva un sacerdote, dandogli la Bibbia e «Interpretala come Dio t'ispira».

Bisogna dunque vulgarizzarla. Fin nel primo secolo essa erasi voltata dall'ebraico e dal greco in latino[364], e sant'Agostino dice che ne correvano innumerevoli traduzioni, perchè, chiunque sapesse di greco, metteasi a farne una; onde s'aveano, a detta di san Girolamo, tot exemplaria quot codices; ma da noi preferivasi la itala. Era anche discussa, e Tertulliano scriveva nel libro delle Prescrizioni: «Gli eretici ripudiano i libri della Scrittura che a loro sconvengono; gli altri interpretano a loro fantasia; non si fanno scrupolo di cambiare il senso nelle loro versioni: per acquistare un proselito gli annunziano ch'è necessità esaminare tutto, cercare la verità in se stessa: acquistato che l'abbiano, non soffrono più ch'e' li contraddica: lusingano le [288] donne e gl'ignoranti col farli credere che ben presto ne sapranno meglio dei dottori; declamano contro la corruzione del clero e della Chiesa; hanno discorsi vani, arroganti, pieni di fiele: camminano dietro a tutte le passioni umane».

Questo scriveasi avanti il secolo II, non nel XV o nel XIX: tant'è vero che l'età nostra ci pare talvolta straordinaria sol perchè viviamo in quella, non nelle altre. Ulfila tradusse la Bibbia pei Goti, altri per gli altri popoli che si convertivano, nè forse v'è lingua che non ne possedesse versioni anteriori alla Riforma. La Biblioteca Imperiale di Parigi possiede ottomila ottocenventitrè Bibbie in sesto grande; novemila trecentottanta in medio; diecimila quattrocendicianove in piccolo; oltre trentasettemila quattrocentottantaquattro codici di alcune parti; e tutti, o la massima parte anteriori alla stampa. Nella Germania stessa noverano almeno sedici traduzioni nella lingua letteraria e cinque nella popolare, anteriori a Lutero[365].

Restringendoci all'Italia, il latino vi era conosciuto da chiunque sapesse leggere: pure Giambattista Tavelli di Fusignano avea fatto una traduzione vulgare della Bibbia a istanza d'una sorella di Eugenio IV; un'altra Jacopo da Varagine vescovo di Genova; quella di Nicolò Malermi o Manerbi frate camaldolese fu stampata a Venezia nel 1471, in kalende agosto. In kalende octobrio è iscritta un'altra che pare dell'anno stesso, e alcuno dubitò essere quella del Varagine, ma certamente è lavoro più antico, e di veneziano, malgrado i toscanesimi[366]. Esso Malermi nel prologo dice che «già per passati tempi è stato traducto esso magno volume della Bibbia in volgare et in lingua materna», ma con grandi errori e mancamenti, atteso i quali egli ripigliò il lavoro. E fu stampato trentatrè volte, di cui nove innanzi la fine del secolo, e cinque di esse a Venezia[367]. Nel 1472 si stamparono pure a Venezia per Cristoforo Arnoldo Le epistole e gli evangeli che si leggono in tutto l'anno nella messa, vulgarizzamento toscano, più volte riprodotto in quel secolo, il che attesta come si leggessero dal pubblico; nel 1486 si produssero Li quattro volumini degli evangeli, volgarizzati da frate Guido, con le loro esposizioni facte per frate Simone da Cascia. Ora appunto si stampa una Bibbia che credesi tradotta dal Cavalca[368].

È una delle rarità bibliografiche l'opera in-folio stampata a Venezia il 1512, per Zuane Antonio e fradeli da Sabio, col titolo Epistole, evangelii volgari historiadi, di cui alcune tavole sono intagliate in legno da Marcantonio Raimondi.

La biblioteca di Siena possiede un Vecchio Testamento in italiano, appartenuto ad una confraternita, che nelle adunanze festive ne leggeva alcuni brani. Altre versioni intere o di parti ha la Magliabecchiana di Firenze, che già furono di Santa Maria Novella, altre la Ricardiana, la Laurenziana, e due la imperiale di Parigi.

[289] Anzi Jacobo Passavanti, nello Specchio di penitenza, si lagna che i traduttori della sacra scrittura «la avviliscono in molte maniere, e quali con parlar mozzo la troncano, come i Francesi e i Provenzali; quali con lo scuro linguaggio l'offuscano, come i Tedeschi, Ungheri e Inglesi; quali col vulgare bazzesco e crojo la incrudiscono, come sono i Lombardi; quali con vocaboli ambigui e dubbiosi dimezzandola la dividono, come Napoletani e Regnicoli; quali con l'accento aspro l'irruginiscono, come sono i Romani; alquanti altri con favella maremmana, rusticana, alpigiana l'arrozziscono; e alquanti, meno male degli altri come sono i Toscani, malmenandola troppo la insucidano e abbruniscono, tra' quali i Fiorentini con vocaboli squarciati e smaniosi, e col loro parlare fiorentinesco stendendola e facendola rincrescevole, la intorbidano e rimescolano, con occi e poscia, aguale, pur dianzi, mai, pur sì e berretteggiate».

Censuravasi dunque il modo, non si condannava il fatto. L'ascetico autore dell'Imitazione di Cristo non vieta di leggere la Scrittura, ma vuole «vi si cerchi la verità, non la dicitura; leggasi collo spirito con cui fu fatta». Alfonso d'Aragona re di Sicilia avea letto quattordici volte la Bibbia coi commenti di Nicolò da Lira, e la citava ogni tratto.

E lettura assidua ne faceva il Savonarola, come appare dalle postille che caricano le Bibbie che gli appartennero, o che (noi supponiamo) gli erano date da' suoi devoti perchè le impreziosisse con sue annotazioni. Egli poi ne' sermoni e negli opuscoli, ne faceva l'interpretazione spirituale, la morale, l'allegorica, l'anagogica. A cagion d'esempio, «Dio creò il cielo e la terra», oltre il senso letterale, ha il senso spirituale di creazione dell'anima e del corpo; il senso morale vorrà indicare la ragione e l'istinto; il senso allegorico o riguarda la Chiesa ebraica, e cielo e terra significheranno Adamo ed Eva, sole e terra significheranno il gran sacerdote e il re; o risguarda la Chiesa cattolica, e significheranno il popolo eletto e i Gentili, il papa e l'imperatore. Il senso anagogico si riporta alla Chiesa trionfante, sicchè cielo, terra, sole, luna, stelle significheranno gli angeli, gli uomini, Cristo, la Vergine, i beati, e così via[369].

Egli vedeva però che per tal uopo occorre conoscere bene la lingua e la storia, avere molta famigliarità colla Bibbia, non urtare le opinioni della Chiesa romana, non trascinare i sensi a fini nostri particolari, per non mettere il nostro intelletto in luogo della parola divina, e lasciarsi guidare dalla Grazia divina, meritandola colla purità del cuore, col lungo esercizio della carità, coll'elevarsi sopra le cose terrene. Buoni avvertimenti, ch'egli ripeteva ogni tratto a se stesso onde tenersi in guardia; pure in fatto nella Bibbia trovava spesso i pensieri suoi, le sue speranze, l'allusione alle cose pubbliche e private, grandi e piccole, e le sue visioni e profezie.

Non per questo vogliamo negare che lo studio della sacra scrittura fosse negletto. Un frate esemplarissimo e d'eccellenti intenzioni, al Savonarola [290] ancora novizio dimandava che servisse leggere il Testamento Vecchio, e qual frutto si raccolga da avvenimenti di tanti secoli fa[370]. In fatti il paese nostro e il tempo erano cattolici, nè occorrevano controversie con eterodossi; laonde la Bibbia era piuttosto serbata come un repertorio pei predicatori. Tutte le feste della Chiesa si riferiscono ai fasti di Cristo e alla ricordanza delle persone che più rifulgono nella storia di essa: onde il parroco, spiegando il vangelo, non ha bisogno di discutere verità, che non sono poste in controversia. La scarsità dei libri facea volgere più volentieri a catene, a compendj, a concordanze di autori che aveano scritto sulla Bibbia, e delle cui asserzioni si fiancheggiavano: e come per la medicina adopravasi la Somma di Taddeo e per la giurisprudenza quella di Azzone, così per la teologia si ricorreva alle Sentenze di Pietro Lombardo, alla Somma di san Tommaso e ad altre, prestandovi fiducia illimitata, come avviene delle materie non discusse, e tenendosi dispensati dall'esaminare nè la natura per le materie fisiche, nè i testi per le morali, limitandosi ad applicarli con argomentazione sottile; affare di logica e nulla più. I predicatori, allora come oggidì, spesso ne alteravano il senso, e per trarne edificazione amplificavano, esageravano i testi, oltrepassando i limiti del vero; o per lo meno obbligati a fare un discorso a tempi fissi, non han tempo di stare a esaminare colla filologia e coll'esegesi la lezione del vangelo corrente; l'accettano come i più, o come essi stessi lo presero, fino violentando la lettera per acconciarla al loro intento morale.

Pure non mancava chi la Bibbia commentasse. Pantaleone Giustiniani, che fu frate Agostino da Genova, poi vescovo di Nebbio in Corsica, e intervenne al Concilio lateranese, e sapea greco, ebraico, arabo, caldeo, e fu adoprato da Francesco I a stabilire nell'università di Parigi l'insegnamento delle lingue orientali, deliberato a pubblicare la Bibbia in latino, greco, ebraico, arabo e caldeo, cominciò dal Salterio, dedicato a Leone X il 1516, in otto colonne, una col testo ebraico, le altre con sei interpretazioni e colle note; ma di duemila esemplari in carta e cinquanta in pergamena, appena un quarto trovò compratori; il resto naufragò con lui. L'università di Alcala in Spagna, fondata dal cardinale Ximenes, pubblicò la prima Bibbia poliglotta, dedicata a Leone X. Sante Pagnini lucchese, autore del Thesaurus linguæ sanctæ, opera mirabile per tempi sì scarsi di mezzi, e che neppure oggi troverebbe chi osasse rifarla, compì una nuova traduzione latina della Bibbia; Leone X ne pagò la stampa, che, morto lui, fu pubblicata a Lione nel 1527. Il padre Spirito Rotier, inquisitore a Tolosa, passava da Lione nell'agosto 1541, e sentendo sonare a morto tutte le compane, e vedendo trecento uomini abbrunati accompagnare una bara fra tutto il popolo accorso, domandò chi fosse morto, e gli fu detto, Sante Pagnini, un buon domenicano da Lucca, di settantun anno, la cui voce e l'esempio avea tenuto lontane le innovazioni luterane; che aveva istituito un ricovero pei facchini, [291] e indotto la città a fondare una leproseria, massime coi doni dei ricchi mercanti fiorentini, e ogni giorno facea questue a favore de' poveri[371]. La sua Bibbia, lodatissima da Huet e Touron, è criticata acerbamente da Richard Simon; ma qui non è quistione del merito, bensì del fatto. Il cardinale Adriano di Corneto, adoprato in nunziature ed alti uffizj, sbandito da Giulio II e da Leone X, dirige a Carlo V un trattato De sermone latino, nella cui prefazione racconta come egli erasi accinto a voltare dall'ebraico in latino il Vecchio Testamento; ma avendo dovuto, dallo sdegno del papa, rifuggire fra le Alpi trentine, dove nessun ebreo ardisce venire per l'antica uccisione del fanciullo Simone, erasi applicato a questi studj.

E solo per l'intelligenza della Bibbia si studiava l'ebraico; e il Concilio di Vienna del 1311 stabilì che nelle Università di Oxford, Parigi, Bologna, Salamanca, e dove siede la curia romana, v'avesse due professori di lingue orientali; ordine inserito nel Corpus juris canonici[372]. Il primo cristiano che ne desse lezioni in Italia, pare Felice da Prato, israelita convertito, che nel 1515 pubblicò la versione latina dei Salmi, e da Leone X fu invitato a Roma nel 1518. In quel tempo lo insegnava anche Agatia Guidacerio di Catania, chiamato poi da Francesco I nel collegio delle tre lingue, dove gli succedette Paolo Paradisi di Canossa. L'Italia fu la prima che stampasse ebraico: nel 1475 a Reggio di Calabria e a Pieve di Sacco nel Padovano n'erano tipografie, e subito dopo a Mantova, Ferrara, Bologna. Le sole edizioni della Bibbia ebraica in quel secolo furono: 1ª quella di Soncino cremonese nel 1488; 2ª quella del 1491 dai tipografi stessi di Soncino trasferitisi a Napoli; 3ª quella del 1494 a Brescia. Nel 1482 stampossi a Bologna il Targum di Onkelos, ch'è la migliore e più antica versione caldaica del Pentateuco.

I migliori codici della versione dei LXX gli abbiam in Italia, e valga per tutti il vaticano[373]. Nel secolo XV si fecero tre edizioni del Salterio greco: a Milano nel 1481, a Venezia nel 1486; poi da Aldo nel 1497 e 98. In Italia è la maggior raccolta di codici biblici, e la sola di Bernardo De-Rossi a Parma ne possiede settecendodici del testo ebraico: cioè più che non ne siano in tutto il resto del mondo. Meglio di cento edizioni della Vulgata si fecero in Italia. A Fano si stampò nel 1514 una raccolta di preghiere in arabo, nella stamperia fondata da Giulio II[374]. Il suddetto Pagnini cominciò a Venezia l'edizione originale del Corano[375]. Nel 1513 erasi pubblicato a Roma il Salterio in etiope[376]; poi nel 48 il Nuovo Testamento per cura di Mariano Vittorio di Rieti, che quattro anni più tardi diede la prima grammatica abissina[377]; Teseo Ambrogio dei conti d'Albonese insegnò a Bologna le lingue caldaica, siriaca, armena, delle quali e di dieci altre diede un'introduzione (Pavia, 1539) coi caratteri di quaranta alfabeti.

Risorta la filologia, la critica, addestrata sopra autori profani, volgeasi ai testi sacri; e nella baldanza d'un nuovo acquisto, ciascuno volea cercarvi [292] interpretazioni a suo senno. L'illustre tedesco Reuclin fece molte emende alla Vulgata; e se le menti anguste ne riceveano scandalo, Roma lo difese, tollerante fin dove non ne pericolasse l'unità della fede. Dicemmo come la traduzione di Erasmo fosse da Leone X francheggiata contro i censori. È dunque ciancia che soltanto dopo Lutero venisse divulgata la Bibbia; anzi son tanti i lavori d'esegesi sacra a quel tempo, che il protestante Mac Crie ammira la Provvidenza, la quale faceva dai Cattolici stessi affilare le armi che doveano trafiggerli.

Ma si ha da questo a indurre che la lettura della Bibbia abbia a diffondersi tra il vulgo?

I Protestanti, per togliere importanza al clero, proclamarono il diritto che ha ciascuno d'interpretarla; e asserirono che essa è facile, accessibile a tutti. E così? Ma tutto fra noi è autorità e tradizione, cominciando dal parlare, col quale riceviamo un'infinità di idee e di giudizj. Persino le verità fondamentali di fisica, di matematica, di giurisprudenza, di medicina pochi le attinsero alle prime sorgenti: e la pluralità non trae la scienza che dalla asserzione altrui. Che sarà poi d'una storia che in poche pagine compendia gli avvenimenti di quattromila anni, che espone l'origine e la destinazione del mondo e dell'uomo, le profezie e il loro adempimento, le costumanze pastorali e lo sfarzo delle reggie, la predica dell'apostolo, la disputa del dottore, le sentenze del savio, l'osanna della vittoria e il gemito della schiavitù? Un libro scritto la più parte in una lingua conosciuta da pochi, fedeli a una religione caduta; in uno stile che va dal più semplice racconto fin alla più sublime lirica; collo spirito di lontanissimi tempi e di civiltà diversissima, con allusioni, idiotismi, sarà egli spiegabile da qualunque lettore?

La verità divina v'è espressa colle forme del pensiero umano, colle condizioni dell'umano linguaggio, e però con tutte le condizioni di questo, coll'arte dello scrivente, le figure, l'iperbole; ora s'annunzia col mistero, ora per allusione e parabola; dirigesi all'immaginazione, al cuore, alla coscienza, non soltanto all'intelletto, a convincere il quale potrebbe dare una formola più precisa.

Quindi la varietà nell'intender le Scritture, e perciò nelle differenti versioni la Bibbia fu alterata, a seconda de' traduttori. La più antica, quella dei Settanta, è avvivata di spirito neoplatonico, e discosta dalla parafrasi caldaica, fatta per tutt'altri lettori. Differisce da entrambe la versione latina, fatta da san Girolamo, e che divenne la base di quella che la Chiesa cattolica adottò poi come vulgata. Lutero la repudiò e fece una versione tedesca pel comodo della nuova Chiesa; gli altri riformatori lo imitarono, sicchè v'ebbe Bibbia calvinista, metodista, sociniana, e via discorrete.

Più variate ancora sono le induzioni de' commentatori. Ogni errore vi trova appoggio; ogni sistema, anche filosofico. Quanti dottori, quanti libri disputarono [293] sul vero senso di alcuni passi! Prendansi due de' principali: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue»: e «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa»[378]. Quanto discuterne e fuori e dentro del cattolicismo! or come mai un semplice fedele pretenderà averne raggiunta la vera significazione? Un passo di san Paolo a Timoteo eccita un'infinità di discussioni; e dà fondamento alla moderna quistione intorno alla natura della theopneustia[379]. Quella risposta tanto precisa di Cristo al giovane, Se vuoi entrare alla vita osserva i miei comandamenti[380], Lutero la dichiara non compresa da nessuno, perchè reca impaccio al suo sistema, e porge buon appoggio all'edifizio cattolico. Anzi, chi assicurerà che la Bibbia è ispirata, se non ce lo dica la Chiesa? Lutero stesso parte accettava, parte repudiava del testo sacro. Per esempio, l'epistola di san Giacomo sulle relazioni tra la fede e gli atti del Cristiano contrariava le opinioni sue, ed egli la dichiarò falsa, indegna, straminea; così d'altri libri, che dappoi i suoi seguaci hanno ammessi.

Come dunque trovarvi quella solidità incrollabile ch'è necessaria alla fede? come trarne lume al credere e all'operare? Per la sapiente distribuzione della Scrittura, molti passi di essa non possono intendersi se non confrontati con altri e col complesso; lavoro a cui non possono essere capaci se non menti profondamente esercitate. In un luogo leggiamo, Qui credit in me habet vitam æternam, ma in un altro, Fides sine operibus mortua est. Alcuni possono fin riuscire di scandalo, per esempio il Cantico de' Cantici, o le dispute di san Paolo nella epistola ai Romani sovra il prepuzio e la circoncisione e alcuni de' Proverbj[381].

Per interpretare giusto bisognerebbe sapere tutto, giacchè chi ignorasse una cosa sola può dubitare che il conoscerla modificherebbe l'opinione sua sopra le conosciute. Ora l'ortodosso non sa tutto; ma sa che quel che sa è vero, perchè glielo dice la Chiesa che tutto esaminò[382].

Fu dunque prudenza il non divulgare la Bibbia, quand'anche non sapessimo che tale era pure la sorte di tutti i libri prima che la stampa li moltiplicasse. Divulgata che fu, ognuno v'attinse quel che alla passione sua giovava: Mattia Harlem e Muncer vi trovarono il comunismo; Giovanni de Leida il rimpasto della società; Fox feroci delirj; chi la bigamia, chi l'entusiasmo, chi l'annichilamento, e tutti la fierezza dei mezzi nell'attuare i loro delirj[383]. A fronte ai quali, l'intelligenza, posta tutta sola in presenza della rivelazione biblica, mai non può tenersi sicura, e precipiterà nello scetticismo. Ma la Chiesa destina un interprete, se stessa, o vogliasi dire ispirata continuamente, o vogliasi infallibile custode della primitiva tradizione, che non dimenticò, nè falsò giammai.

Perocchè la Chiesa è anteriore al vangelo, avendola Cristo fondata, e istituito i sacramenti, dato i precetti, fissato la gerarchia, insegnato l'orazione, prima che tutto ciò fosse scritto. E agli apostoli non disse, «Eccovi il [294] libro che dev'essere norma del vostro credere: questo mandate attorno»: bensì «Andate e predicate a tutti». La Chiesa dunque, incarnazione permanente e continuazione dell'Uom Dio, ha certezza immediata de' suoi insegnamenti: e ne' primi Concilj non allegò verun passo scritturale in appoggio delle sue decisioni, giacchè esponeva le verità ricevute immediatamente dalla bocca di Cristo, il quale «sarà con essa fino alla consumazione de' secoli».

V'è di più: non ogni cosa fu scritta nel Testamento; san Giovanni professa aperto essere innumerevoli i fatti che non pose nel suo vangelo: san Paolo ripete nelle epistole d'avere parlato come ad uomini carnali, e sottratto un cibo di cui non erano peranco capaci[384]. V'è dunque una tradizione orale, di cui è parimenti depositaria la Chiesa, e che viepiù le conferma l'autorità di unica interprete de' libri santi.

Questo titolo però non implica quel che i Protestanti asseriscono, che fra i Cattolici non rimanga campo all'esegesi, e anzichè confondere la fede colla disciplina, le opinioni d'un teologo col dogma, bisogna discernere la fede dalla teologia, che è scienza umana, e non ha promesse d'infallibilità. La Chiesa espone le sue decisioni sul dogma e la morale, non altro: nè si cura dell'interpretazione filologica delle parole e de' versetti singoli, delle particolarità archeologiche, dell'ordine cronologico, del perchè san Giovanni, abbia pubblicato il suo vangelo, o san Paolo indirizzato un'epistola anche ai Romani, nè chi sia l'autore del libro di Giobbe, di che patria, di che tempo, a quale scopo: nè tante altre quistioni, palestra scientifica. La Chiesa proferì e approvò: di là da quei limiti l'arringo è schiuso; non si può pensare contro le decisioni di essa, bensì di là da quelle. Ma la Chiesa non può essere tale, eppure permettere che ogni individuo si formi un proprio simbolo, o che si affermi e si neghi la stessa dottrina, che s'intenda in modo differente il Cristo, che variino i modi di conseguire la salute. Chi ad essa obbedisca quanto alla fede e alla morale, al di là è sciolto da vincoli, e può svolgere il talento e l'erudizione, applicare la cognizione crescente delle lingue e delle usanze, e il Concilio tridentino vietò solo di «interpretare la Scrittura contro l'unanime consenso de' Padri». Ora i Padri professano la stessa fede, la stessa morale, ma differiscono grandemente nel commentarle e svolgerle, secondo il genio particolare, nè la Chiesa ammise mai come proprie le opinioni di alcuno di essi per quanto grande[385]; e si riporta alla dottrina de' Padri quando rappresentano le opinioni dell'antichità, cioè testimoniano la fede della Chiesa.

A questo modo la Chiesa cattolica, volendo non solo l'unione, ma l'unità, esclude tutto ciò che non è lei, eppure è universale; mentre l'eresia unisce tutto a sè, eppure rimane locale. Si credette agevolar il progresso col sopprimere ogni intermedio fra la ragione individuale e la parola di Dio, e invece si crebbe la confusione.

[301]

DISCORSO XVI.
INCREMENTO E SUDDIVISIONE DE' PROTESTANTI.

Il protestantesimo non fu dunque un avvenimento straordinario, un fenomeno isolato nella storia. Cominciando dal discorso di san Paolo all'Areopago, la Chiesa dovette colla parola sostenere le verità che suggellava col sangue, e stretta attorno al successore di Pietro, discutere dogmi, e, secondo lo Spirito Santo, reprimere la superbia della ragione, la quale, uscendo dalla via degli umili, ch'è la sicura via dello spirito, a guisa dell'antico tentatore dice all'uomo, Tu sei Dio. Come sempre ci fu contrasto fra il diritto sociale e l'indipendenza individuale, così fu tra l'opinione personale e la credenza universale. Dietro ai Gnostici, fra i quali troviamo già tutti gli errori e intellettuali e morali[386], Valdesi, Catari, Ussiti e l'interminabile varietà de' novatori diceano che la tradizione, parola umana, va soggetta ad errare; e sola rimane integra la lettera di fuoco della Scrittura: la libertà del senso individuale era stata l'aspirazione di ciascun eresiarca; e sulla grazia, sulla giustificazione, sul purgatorio non v'ha opinione che non fosse stata messa in dibattimento. Da secoli desideravasi la riforma della Chiesa; chiedendola gli uni dall'autorità, gli altri contro l'autorità, quelli abborrendo, questi esagerando gli impulsi individuali. Voleasi tornar il papato verso le sue origini, o per la via monarchica o per la aristocratica; e già a Basilea e Costanza erasi proclamato che il potere spirituale non ha a che vedere col temporale, e il papa non è capo costitutivo, ma ministeriale; e Tommaso, vescovo di Bologna, che fu poi Nicola V, diceva sapientemente: «I romani pontefici han senza dubbio allargato di troppo le braccia, fin quasi a non lasciare podestà alcuna agli altri vescovi: ma alla lor volta i Padri di Basilea strinsero troppo la mano al principe degli apostoli. Nè è meraviglia: chi abusa del suo potere deve aspettare che altri faccia altrettanto; chi vuol dirizzare un albero incurvato, lo incurva dal lato opposto. Fermo mio proposito è di non usurpar i diritti de' vescovi, che vengono chiamati ad assistermi nella direzione della Chiesa»[387].

La protesta fu dunque un fatto comune a tutte le età; se non che anteriormente limitavasi a punti speciali; questa volta si fe generale, per modo [302] che tutte le susseguenti vi son comprese: prima erano ammutinamenti, allora rivoluzione.

Lutero stesso dichiara non avere inventato nulla, e solo disposte in corpo dottrinale opinioni correnti, innovazioni già introdotte o invocate. Nè realmente egli ebbe un sistema preconcetto; ma via via raggranellava traverso ai secoli i dubbj, sostituendo alla costanza della tradizione la volubilità di spiegazioni esoteriche; e colla intrepidezza che non si briga di metterle d'accordo, gettolle in un mondo, ove tutte le potenze dell'errore cospiravano contro la verità, offuscata dall'indifferenza e dalle prevaricazioni.

Il primo anno di Leone X, un frà Bonaventura predicava a Roma d'essere il salvatore del mondo[388], eletto da Dio, la cui Chiesa avrebbe capo in Sionne; e più di ventimila persone accorsero baciandogli i piedi come a vicario di Dio; scrisse un libro «Della apostatrice cacciata e maledetta da Dio meretrice Chiesa romana», ove scomunica papa, cardinali, prelati; predica che egli battezzerà l'impero romano, eccita i re cristiani ad accingersi d'armi e assisterlo, e massime esorta i Veneziani a tenersi in accordo col re di Francia, il quale è scelto da Dio ministro onde trasferire la Chiesa di Dio in Sionne, e convertire i Turchi. Nel 1516 fu arrestato e messo in castel Sant'Angelo.

«A Milano il dì vigesimoprimo d'agosto del 1515, venne un uomo secolare, di forma grande, sottile e oltremodo selvaggio, scalzo, senza camicia, col capo nudo, e capelli aggricciati e barba irsuta, e di magrezza quasi un altro Giuliano romita; solo avendo una vesta di grosso panno lionato; e il vivere suo era pane di miglio, acqua, radici e simili cose; e a dormire solo un desco, o vero la nuda terra gli bastava. Andò dal vicario dell'arcivescovo per intercedere licenza di potere predicare; ma esso non gliela volle concedere; non pertanto egli il dì seguente cominciò nel Duomo a predicare il verbo di Dio, e continuò sino a mezzo settembre, con tanta grazia di lingua, che tutta Milano vi concorreva. E dopo che avea finito il predicare se ne andava all'altare della Madonna, e a terra gittandosi, vi stava per un gran pezzo (credo) in orazione; e ogni sera poi alle ventitrè ore faceva sonare la campana di esso Duomo, donde molta gente vi concorrea con i lumi accesi a dire la Salve Regina; ma prima che la dicesse, stava circa mezz'ora in terra carpone. Denari in elemosina per modo alcuno non volea; e chi glieli offeriva, li facea donare all'altare della Madonna. Ma troppo era nemico de' preti, e molto più de' frati; e a ogni predica rimproverava loro grandemente, dicendo che la loro professione, la quale dovria essere povertà, castità e obbedienza, solamente era di rinunciare la fame e il freddo e le fatiche, e d'ingrassarsi nelle buone pietanze per amor di Dio; e quegli i quali non devono toccare denari, non solamente possedono de' suoi, ma e dell'avere d'altrui divengono guardatori.

«Era costui di età d'anni trenta, di nazione toscano, e disse lui avere [303] nome Geronimo; e, per quanto ho potuto comprendere nel ragionare seco, una fantasma mi parea e non un uomo; e molte volte mi vacillava di proposito; ma era di parlare soave, e nella scrittura sacra credo fosse assai dotto. Esso da chi era invitato non volea ospizio, ma secondo che nell'animo li cadea, ora in uno ora in un altro loco andava, e di lui molte meraviglie mi è riferito; ma perciocchè io non le credo, non voglio nè anche perdere tempo inscriverle»[389].

Questi vaneggiamenti palesano come si sentisse anche popolarmente e la prevaricazione degli ecclesiastici, e lo scandalo della loro impunità, e il bisogno di riformarli. Il piissimo cardinale Sadoleto ripete incessante la necessità di correggere la Chiesa[390], e, secondo Girolamo Negro, «aveva in animo di scrivere un libro De repubblica, dove crivellare tutte le repubbliche del nostro tempo, præcipue quella, non della Chiesa ma dei preti».

Nello stesso Concilio di Trento il cardinale di Lorena, dipinti gli orribili mali a cui cadeva preda la Francia, invocava come rimedio principale la riforma della Chiesa, e doversi applicare al clero quello di Giona, «Per colpa nostra accadde questa procella: buttate noi in mare».

Il cardinale Zabarella, anima e talvolta capo di quel Concilio, nel Tractatus de hujus temporis schismate rimprovera acremente i disordini della Chiesa romana; e se è messo all'Indice fu solo l'edizione che ne eseguirono i Protestanti ad Argentina con prefazione in senso ereticale.

Per non allungarla, uno de' più zelanti difensori della fede non solo ma della curia scrive: «Annis aliquot antequam lutherana et calviniana hæresis oriretur, nulla ferme erat, ut ii testantur qui tum vivebant, nulla prope erat in judiciis ecclesiasticis severitas, nulla in moribus disciplina, nulla in sacris literis eruditio, nulla in rebus divinis reverentia, nulla jam propemodum erat religio. Eximius ille cleri et sacri ordinis decor perierat; gravi diuturnaque laborabant infamia sacerdotes, quod panum et piscium, hoc est proventuum, majorem quam animarum curam haberent»[391].

Erasi dunque d'accordo sul bisogno d'una riforma. Ma una riforma conciliativa sarebb'ella stata possibile? Poteva un'alta e sincera volontà ricondurre a chiaro e cristiano scioglimento la sciagurata discrepanza delle idee pratiche e l'implicazione degli interessi ecclesiastici e religiosi coi politici e secolari, e ringiovanire la Chiesa, consolidando l'unità, anzichè distruggerla? Fu sperato dai buoni, ed è sempre difficile l'argomentare quel che sarebbe potuto accadere in circostanze ipotetiche.

Per verità, quanto ai dogmi, dapprincipio Lutero deviava sì poco, che fa meraviglia potesse suscitare tanta tempesta. Alcune delle sue tesi che allora levarono maggior rumore aveano buona parte di verità, come il definire la Chiesa assemblea de' santi, divinamente istituita, e dovere la fede avere una base soprannaturale. «Sua santità (scriveva il Muscetola) ha fatto esaminare [304] da varj teologi nostri le confessioni stese da' Luterani, e n'ebbe in risposta che molte delle cose ivi contenute erano del tutto cattoliche; altre capaci d'un'interpretazione non contraria alla fede, se i Luterani volessero prestarsi a un accomodamento, il quale per altri rispetti ancora non sarebbe impossibile»[392].

Sul punto così controverso delle indulgenze, il Concilio definì soltanto ch'esse sono utili, e che la Chiesa ha autorità di concederle, ma vuolsi farlo con moderazione, per non isnervare la disciplina ecclesiastica. Desiderando poi emendare gli abusi, per occasione dei quali dagli eretici sono bestemmiate, abolisce in generale qualunque guadagno per conseguirle; agli altri disordini che vennero da superstizione, ignoranza, irriverenza provedano i vescovi.

Lutero dapprincipio accettava sino il purgatorio e le applicate espiazioni, e nelle tesi del 1517 poneva: «Se alcuno nega la verità delle indulgenze del papa, sia anatema»[393]. Nessuno è certo della verità della sua contrizione, e tanto meno della pienezza del perdono[394]. E anche più tardi conveniva della eccellenza della Chiesa romana e della sua autorità[395].

La confessione auricolare, che è uno degli atti più repugnanti alla umana superbia, ed una delle primarie cagioni per cui alla Chiesa si ribellò tanta parte del mondo[396], aveva l'approvazione de' primi riformati. L'uso del calice era stato abbandonato per convenienze disciplinari che potrebbero scomparire[397]; e già coi Greci e cogli Ussiti erasi condisceso in molti riti.

Le spiegazioni a cui si venne posteriormente per tentar di rannodare le varie Chiese acattoliche, o per condannare quelle che si scostavano dalla così detta ortodossia protestante, chiarirono come i dogmi cattolici in proposito de' sacramenti e della giustificazione[398] fossero osteggiati in un senso meramente arbitrario.

Melantone, il solo contro cui non inveiscano i nostri, spirito mite che cercava conciliare le due Chiese, e che contano variasse quattordici volte d'opinione intorno al peccato originale e alla predestinazione, diceva: Dogma nullum habemus diversum ab ecclesia romana; e in Augusta asseriva al legato Valdes che la controversia riduceasi a tre punti: comunione sotto le due specie; matrimonio de' preti; abolizione delle messe private[399].

Pertanto non manca chi si persuade che, se, immediatamente e innanzi tutto corretta la disciplina, la Corte romana avesse receduto dalle pretensioni meramente curiali, non trasformate in dogmatiche le quistioni giurisdizionali, non tenuto troppo tenacemente a temporalità e privilegi, che col tempo le furono tolti senza scisma, ceduto insomma di buona voglia quel che poi dovette per necessità, avrebbe almeno tolto di mezzo il principale pretesto della Riforma.

Ma questa trasse importanza e carattere dal tempo; una di quelle epoche ove si manifesta il lavoro lento e graduale dei secoli, e sviluppansi i fecondati [305] semi di miglioramento, di civiltà, di coltura. Il manto papale avea perduto il suo splendore a forza d'esser baciato, e l'autorità mozza ai pontefici lasciava facoltà a conventi e a capitoli di traviare. Le scienze, munite della stampa, credeansi capaci di edificare da sè; la politica di governare da sè e con intenti nazionali; le arti di esercitarsi da sè; la filosofia credeva sua propria la certezza ch'erale stata comunicata dalla rivelazione, onde non sentiva più bisogno di ausiliarj contro il dubbio sistematico; l'opinione ruzzava contro l'irresponsalità che di fatto sottraeva gli atti del clero, al sindacato; la sovranità, consacrata dal cristianesimo e sostenuta dai progressi della tattica, non temea più reluttanza di sudditi; ed, al par della forza e dell'ingegno, sottraevasi alle leggi dell'ordine imposto da un'autorità superiore in nome di Dio e per l'organo del suo vicario in terra.

Quanto ai particolari, non è della natura umana che le discussioni portino ad una conciliazione; anzi approfondano la fossa che divide due opinioni. La rivoluzione d'allora differisce, è vero, dalla odierna, perchè, se la beffa e lo scetticismo del secolo XVIII che traeva a negar tutto, non poteano produr che calcolo, naturalismo, deismo, allora si usciva ancor religiosi, serbavasi gran parte del cristianesimo, per quanto si scemasse il timor di Dio, a misura che cresceva il timore dei governi. Ma i dissidenti sformavano a loro talento le dottrine che ci attribuivano; i nostri o esageravano le vere o difendeano imprudentemente anche errori, abusi, pretensioni curiali, e battagliavano del pari per la rivelazione infallibile come per opinamenti di scuola o d'alcuni dottori; entratovi il puntiglio, non voleasi confessare d'aver operato per bizza e spirito di contraddizione, senza seriamente riflettere alle conseguenze; pretendeansi dai Cattolici concessioni, ch'essi ricusavano, talora perchè sentivansi saldi nella verità, tal altra perchè aveanle negate dapprima.

È però più consueto spacciare che i papi sbagliarono nella condotta, che si ostinarono a torto, a torto esitarono; che non ebbero buoni campioni. Facile è il rimproverare dopo l'esito; facile e vulgare.

Entrante il luglio 1528, taluno da Parigi scriveva a Roma come avesse destato colà meraviglia «una Bolla, per la quale a giudici nella causa della fede si deputano tali, che Lutero non gli avrebbe saputo domandare più al suo proposito e favorevoli a' suoi seguaci». Non so che nuovo modo (seguiva) sia cotesto di commettere la causa della fede a giudici secolari e maritati, ed ignari della materia, escludendo tutti li teologi d'una Università, qual è la parigina, in cui sono più di cento maestri presenti, che hanno sempre pugnato accerrimi contro gli eretici per mantenere l'integrità della fede e l'obbedienza alla sede apostolica; che rimarrebbero nel loro dovere se anche tutti i Cristiani si voltassero a predicare le cose luterane: e se non fosse stato lo zelo e studio dei giudici precedenti, sarebbe talmente infetto questo regno dalla eresia luterana, che ne avreste visto il frutto molto tempo fa. Or [306] eccoli revocati perchè hanno condannato un Brachino, che ha qualche favore d'alcuni: ecco commesse tutte le cause della fede a secolari, e utinam tutti almen buoni cattolici, mentre parte di loro sono signiferi de' Luterani...... Due Italiani sono fra essi, uno de' quali so io disse palam, quando intese la rovina di Roma. Ora è pur distrutta l'alchimia della Corte romana: l'altro non disputa mai altro che Lutero essere stato un arcangelo mandato dal Cielo; e son secolari, li quali, insieme con gli altri che non sono che poeti o meri giureconsulti, non han altra cognizione delle cose della fede, se non in quanto hanno udito qualche volta la santa messa, e cantare vespro. È possibile che tanta negligenza si sia usata in cosa di così grande importanza?.... Se nostro signore dirà, gli ambasciadori della maestà del re avergliene parlato, e avere fatto detta bolla a loro istanza, io rispondo che se il re medesimo, e tutti quelli del mondo instassero a che sua santità facesse giudici in le cose della fede persone che non fossero idonee o sospette, dovrebbe soffrire più presto il martirio che consentire. Ma vi dico che la maestà del re e madama sono di ottima e pia mente, e hanno altri pensieri che di instare e domandare tali giudici: ma sono cose fatte ad intercessione e per opera di qualch'altro: e vi so dire ancora che tutti questi eretici si intendono insieme, e si ajutano l'un l'altro più che non fanno i Giudei, e sono studiosissimi in disseminare le loro eresie.... In questa materia della fede bisogna zelo, fervore, studio, diligenza e cognizione; nè vogliono essere tanti giudici a castigare gli eretici; chè mal si accorda una moltitudine, se ben fossero tutti buoni e intelligenti.... I teologi (dell'Università di Parigi) essendo stati esclusi dal giudicio in materia della fede, se gli potrà commettere da qui innanzi la materia culinaria. Non so se tanto poco rispetto si dovea avere a quell'Università, che è la prima de' Cristiani, e che sempre pugna per la sede apostolica, con farle un tale sfregio sul volto, e massime in questi tempi, che se ne dovrebbe accrescere l'autorità perchè fossero più muniti ed armati in combattere contro gli eretici. In Alemagna, per essere stato maltrattato e sdegnato un fratuzzo dal cardinale della Minerva, vedete quello è seguito....»[400].

Anche da qui trapela uno de' motori della Riforma, l'odio al papa non solo, ma all'Italia. Lutero avea profetizzato

Pestis eram vivens, moriens tua mors ero, papa:

vedendo la irreconciliabile lotta de' pontefici coll'imperatore, volle abbatter quelli pel trionfo di questi, e così rese possibile la grandezza di Carlo V e di Casa d'Austria: vedendo nascere la libertà politica, divertì l'attenzione sopra la libertà religiosa, e assodò il despotismo monarchico e amministrativo per distruggere l'ecclesiastico: dipinse gli Italiani, i Wahlen, come abisso d'ogni vizio e culmine dell'orgoglio; rinnegando la maternità e supremazia dell'italica civiltà, rinnovò col pensiero quel che i Barbari ci avean fatto colla [307] forza: all'universalità surrogava le chiese nazionali, come prima del cristianesimo, e perciò era adorato da' suoi Tedeschi come fautore dell'indipendenza.

Ov'è bene notare come i principi avversi ai papi carezzassero sempre gli eterodossi: così vedemmo di Federico II, così di Lodovico il Bavaro; Carlo VIII blandì il Savonarola; Luigi XII favorì il conciliabolo di Pisa; sicchè adesso i papi dovettero modificar la loro politica secondo la paura che l'imperatore parteggiasse cogli eretici.

Allorchè Leone X scagliò la condanna definitiva, Carlo V imperatore, che del papa aveva bisogno in quel momento, proscrisse Lutero e i suoi aderenti. Ma la Riforma erasi ingrandita col promettere ai principi gli ostensorj d'argento, ai frati la moglie, alle popolazioni la libertà. L'attrattiva d'unioni clandestine; l'abolirsi della confessione, del digiuno, delle riverenze, d'altre pratiche che mortificano la nostra superbia e i nostri sensi; l'austerità ostentata da coloro che chiedeano riforme, traevano tanti nelle nuove negazioni, da poter resistere all'imperatore. Alla dieta d'Augusta nel 1530 sporsero la loro professione di fede, perciò detta Augustana, compilata da moderati, che speravano vederla adottare anche dalla Chiesa cattolica. Questa non può accettare transazioni dov'è certa di possedere la verità; pure non perdette la speranza di conciliazione, e alla Germania deputaronsi prelati di gran sapere e grande prudenza.

Già abbiamo accennato del Priero e del cardinale Cajetano, eccessivamente sprezzati dagli avversi. Girolamo Aleandro, della Motta trevisana, lodatissimo da Aldo e da Erasmo per conoscenza del greco e dell'ebraico, da Alessandro VI dato secretario al duca Valentino, poi spedito per affari in Ungheria, chiesto da Luigi XII professore all'Università di Parigi, da Leone X tenuto al fianco in alti impieghi, quando fu deputato in Germania contro i Luterani parve esorbitare di zelo: eppure egli riprova alcuni per questo difetto. Da Spira il 16 ottobre 1531 scrive al Salviati: «Il Fabri dette fuora un libro De contradictionibus Lutheri, buono ma intempestive editur in ipso puncto concordiæ ineundæ. Similmente Ecchio quel medesimo giorno dette fuora un libretto sub titulo Cathalogi hæreticorum, dove nomina præcipue Melancthon; diceva il vero, sed non erat id tempus. Io certo siate sicuri che interterrò l'una parte e l'altra con dolci parole, ut malos lucrifaciam»[401].

Dalle lettere sue raccogliesi a che scompiglio fosse la Germania: e da Brusselle, il 26 ottobre 1531, scriveva al segretario Sanga[402]:

«Fummo invitati io e li precipui oratori di principi ed infiniti baroni e nobili di questa Corte ad un banchetto πρεσβ. τῆς Λυσιτανὶας, il quale διὰ τον πρωτὸτοκον τοῦ Βασιλέως αὑτοῦ ha fatto feste inaudite... dove fu recitata, præsente mundo, una comedia ἰβεριστὶ καὶ λυσιτανιστὶ di una mala sorte, che sotto nome d'un giubileo d'amore, era manifesta satira contro di Roma: sempre nominando apertamente ogni cosa; che da Roma e dal papa non veniva se [308] non vendizione di indulgenzie, e chi non dava denari non solo non era assoluto, ma scomunicato di bel nuovo: e così cominciò, e perseverò e finì la comedia. Ed era uno principale che parlava, vestito con un rochetto da vescovo, e fingeasi vescovo, ed aveva una berretta cardinalesca in testa, avuta da casa del reverendissimo legato, datagli però senza che li nostri sapessero per che fine. Ed era tanto il riso di tutti, che parea tutto il mondo giubilasse. A me veramente crepava il cuore, parendomi essere in mezzo a Sassonia ad udir Lutero, ovver esser nelle pene del sacco di Roma; e non potei far che con sommessa voce non ne facessi cenno di querela con Bari, e di poi eziandio l'ho detto ad alcuni de' precipui con bel modo, che questi non son atti da far in luogo di Cristiani, e tanto meno nella Corte d'un tanto e tam virtuoso e cattolico imperatore, ecc. Mi è stato risposto che certo non è cosa fatta ora, ma comedia d'altri tempi, della quale, per non aver altro, si servirono... Veda mo V. S. come va il secolo!»

Di troppo egli lusingavasi allorchè da Roma scriveva al Salviati[403]:

«Par pur che la Germania sia stanca de la tanta varietà di queste eresie. E se non fosse la aversione che acceca molti principi e private persone, così cattolici come eretici, che tengono li beni altrui, e præsertim della povera Chiesa, mi par che non saria molto difficile cosa mettervi qualche ordine con la assistenza de' detti principi ed altri divoratori delli beni ecclesiastici, che pochi vi sono ora in questa Germania netti da questa macchia».

Esso cardinale Aleandro alla dieta di Germania chiariva quanto si esagerasse intorno alle ricchezze, che dalla spedizione delle bolle, dalle annate, dall'altre grazie affluivano a Roma. Basterebbero appena a mantenere un principe mediocre; e il papa, che pure spende meno d'alcuni non grandissimi principi, v'adopera quel che gli è dato dai proprj dominj. E quel mediocre ricavo gli viene da tutti i regni cattolici: tant'è poco quel che i singoli contribuiscono. — Una volta non aveano neppure questo. — Oh sì: ma ritornate gli uomini a pascersi di ghiande, i principi a stare senza anticamere nè guardie o corte; le figliuole dei re a rasciuttare i panni, come una volta leggiamo si facesse. Siccome ne' corpi umani si mutano le complessioni e i bisogni secondo l'età, così accade de' corpi politici. Posto che, per l'unità e la maestà, vi debba essere un capo supremo della Chiesa, per non dare diffidenza ad alcuno è necessario non abiti nello Stato d'altri, ma nel proprio, con Corte e ministri proprj. Or chi gliene somministrerà i mezzi? Ogni terra ne dà al suo piovano, ogni diocesi al suo vescovo, ogni popolo al suo signore. Nè si considera aggravio che da un paese vada in altro il denaro, se con questo si procura la merce più di tutte preziosa, cioè la legge e la conservazione della giustizia. Direte che sta bene nutrir la reggia del cristianesimo per la necessità, ma non per le pompe. Se intendete le pompe per la struttura e gli addobbi de' tempj, questi certo mancavano alla Chiesa primitiva, ma per malignità del secolo. Del resto e Dio nell'antichità e i [309] Gentili vollero i tempj ornati, affinchè i popoli se ne invaghiscano, confortando la ragione coi sensi, la devozione col diletto. E anche voi, o principi, volete pompa di corte, e il popolo vuol teatri. Quanto alle pompe private, a Roma si commenda la vita povera, si venerano gl'istitutori della mendicità volontaria, ma tal perfezione può desiderarsi più che sperarsi. Ma se vogliamo che la reggia spirituale del cristianesimo, sia frequentata da persone d'ingegno, di nobiltà, di lettere, le quali abbandonino le patrie per sottoporsi al celibato o ad altri scomodi della vita ecclesiastica, bisogna possano sperare onori e stipendj. Perocchè Roma non è Corte di Romani natii, bensì d'ecclesiastici congregativi per elezione da varj paesi del cristianesimo. I giudici de' tribunali, i magistrati, i governatori, i nunzj sono scelti da tutti i paesi, sicchè a tutti sono comuni gli onori, le ricchezze, i vantaggi della Corte pontifizia».

Troppo ci darà a dire Pietro Paolo Vergerio vescovo di Capodistria, mandato nunzio in Germania. Nel 1536 vi andava il cardinale Morone milanese, e il papa gli raccomandava di pagare tutto e non lasciare debiti alle osterie, non isfoggiare lusso, visitare le chiese senza fasto nè ipocrisia, presentare nella sua persona la riforma romana: prevedeva che Lutero e Melantone non vorrebbero mai fare una ritrattazione: pure manderebbe una formola che non gli offendesse, stesa da persone savie e rispettabili.

Ma Lutero di buon'ora rese impossibile ogni accordo, proclamando ricisamente la condanna d'ogni tradizione ecclesiastica, d'ogni autorità della Chiesa; e sulle attinenze dell'uomo con Dio piantando un dogma, ch'egli stesso diceva sconosciuto alla Chiesa dagli apostoli in poi. Non chiedevasi dunque, come nelle licenziosità precedenti, che la Chiesa si riformasse nel capo e nelle membra, ma che s'annichilasse da sè; all'adorazione e al sacrifizio surrogasse la predica; sfasciasse l'organamento che teneva riuniti tutti i popoli[404]. Anche allora il papa dovea rispondere la parola più grande che siasi udita nel secolo di universale vacillamento, qual è il nostro: Non possumus; ma quella negazione potea formularsi colle parole che il De Maistre scriveva ad una Ginevrina: «Noi non possiamo fare un passo verso di voi; ma se volete venire a noi, noi spianeremo la via a nostre spese».

E già da particolari negazioni si era asceso a canoni generali: e principalmente al dogma della giustificazione. Nel Vangelo, Cristo dice all'adultera: «Va in pace e non peccar più»; dice al giovane: «Se vuoi conseguire la vita eterna, osserva i miei precetti»; Cristo accettò l'amore e il pentimento della Maddalena; accettò la buona volontà dell'operajo che arrivò all'ultima ora. Sempre insomma si vede che, nell'effettuare la giustificazione del peccatore, la volontà dell'uomo coopera alla Grazia, e ne conseguita una nuova vita, giusta l'osservanza della legge divina, e il produrre opere meritorie. Che se Paolo, nella lettera ai Romani, insiste che l'uomo viene giustificato non per le opere della legge, ma per la fede, intende degli Ebrei, i [310] quali, per repudiare la necessità d'un redentore, asserivano che, mediante la legge e le opere da questa prescritte, uno possa colle sole forze umane divenire giusto e accetto a Dio. Contro di essi pertanto scrive che l'uomo viene giustificato non dalle opere della legge mosaica, ma dalla fede, cioè dalla credenza in Cristo. In niun luogo però dice che la sola fede giustifichi senza le opere[405]: bensì valere in Cristo quella fede che opera per la carità[406].

Da ciò i Cattolici dedussero che della giustificazione (la quale è inerente all'anima, la tramuta, e porta il rinnovamento dell'uomo interiore) sono costitutivi necessarj la fede e le opere, e che si può perderla con nuovi peccati. I Protestanti all'incontro insegnano che essa non è se non la giustizia di Cristo, applicata a noi in modo, che le colpe, pur durando nell'anima, non ci possono essere imputate: ad ottenerla basta si creda che, pei meriti di Cristo, ci sono rimessi i peccati; non vi si richiedono opere buone, conciliabili con sentimenti cattivi, e non si può perderla più.

Da entrambe le parti i disputanti fondavansi su quel passo di san Paolo ed altri consimili; neppure tutti i Padri del Concilio tridentino caddero d'accordo sulla differenza tra la fede che giustifica, e le opere che non giustificano ma sono effetti della giustizia; e solo vi fu proferito che «la fede è il principio della umana salute, il fondamento e la radice della giustificazione, nè senza di essa è possibile piacere a Dio, ed entrare nel consorzio de' suoi figliuoli»[407]. E spiegossi poi che, non la legge de' Giudei nè le opere dei Pagani han valore, bensì la fede, che opera per la carità, che è informata dall'amore; giacchè senza le opere la fede è morta[408].

Lutero prorompeva: «Quando questi pazzi sofisti insegnano che la fede dee ricevere dalla carità il suo modo, la sua forma, delirano mostruosamente: la fede giustificante è la fiducia d'essere rientrati nella grazia di Dio, e aver ottenuto il perdono de' peccati pei meriti del Salvatore». E Melantone definisce più preciso: «La fede è un'assoluta confidenza nella divina misericordia, senza riguardo alle nostre azioni buone o malvagie».

Dunque l'uomo non può perdere la salute per qualsiasi peccato, e nemmeno volendolo, purchè non gli venga meno la fede nelle promesse di Dio[409].

Alla negazione della vera dottrina intorno alla giustificazione tenne dappresso quella del Sagrifizio; e come per la prima i Protestanti misuravano della lettera di Paolo ai Romani, così per la seconda appoggiaronsi alla lettera di lui intitolata agli Ebrei.

In questa vuol egli insegnarci che i peccatori non potevano evitare la morte se non surrogando chi morisse per loro. Finchè sostituirono sagrifizj d'animali, non faceano che attestare di meritar la morte: e poichè la giustizia divina non potea rimanerne soddisfatta, ricominciavasi ogni giorno l'olocausto inadeguato. Dopo che Gesù Cristo morì pei peccatori, Dio soddisfatto [311] non aveva più ad esigere altro prezzo del nostro riscatto. Non occorre dunque sacrificare altre vittime dopo Cristo, e Cristo medesimo non dev'essere sagrificato che una sola volta.

I Protestanti inducevano da ciò l'inutilità di ripetere il sagrifizio della Messa. Ma la Chiesa non ritrae il suo linguaggio da un passo isolato, e in quell'epistola san Paolo intende soltanto spiegare la perfezione del sagrifizio della Croce, e non già escludere i varj mezzi che Dio ci ha dati per applicarlo. Or la parola offrire spesso nelle sacre scritture indica presentare; onde la Chiesa non dice che Gesù Cristo si rifaccia vittima attuale nell'eucaristia, ma che si offre a Dio, comparendo per noi al suo cospetto[410]. Gesù Cristo una volta si immolò vittima della giustizia di Dio; ma non cessa d'offrirsi per noi; e la perfezione di quel sagrifizio consiste in ciò, che ad esso si riferisce tutto quanto lo precede come preparamento, o lo segue come consumazione e applicazione. Il prezzo del nostro riscatto non si ripete, essendo perfetto la prima volta; ma continua ciò che applica a noi quella redenzione.

Ora il sacramento dell'altare è centro di tutto il culto, è la comunione intima dell'uomo con Dio: onde il mistero della fede completa la ragione; l'ordine sopranaturale serve di pienezza all'ordine naturale. Il nostro intelletto debole li distingue; in realtà si continuano l'un l'altro; objettivamente si confondono nello stesso vero: ed anzichè esser contradditorj, nè tampoco diversi sono. Al Cristiano bisogna sempre combattere, e perciò bisogna rinnovar sempre le forze alla fonte eterna del vero, del bello, del buono.

E fu attorno a quest'epistola e a quella ai Romani che si moltiplicarono spiegazioni e quistioni esegetiche sulla fede, sulle buone opere, sulla grazia, sul libero arbitrio, sulla predestinazione, sulla vocazione, sulla glorificazione: e i punti non essendo a quel tempo ancora decisi, molti fermaronsi in giudizj diversi da quelli che poi furono sanzionati.

Pure al tirare de' conti tutto riduceasi alla suprema quistione dell'autorità della Chiesa, o dell'esame individuale.

Chi legge in san Paolo che l'ossequio nostro dev'essere ragionevole, capisce ch'è una trivialità il ripetere che i Cattolici escludono l'esame in materia di religione. Cristo disse: «Scrutate le Scritture, e vedete come rendono testimonianza di me»; cioè impose un esame d'adesione. Unico è il motivo della fede; moltissimi i motivi di credibilità; e v'è tante dimostrazioni della verità della fede, quanti motivi di credibilità. Non vi è dono di Dio che l'uomo non deva attuare colle proprie forze, e da sant'Agostino fino a noi si chiamò prodromo della fede l'esposizione delle pruove della rivelazione e dell'autorità della Chiesa. La qual fede ha per motivo immediato la veracità di Dio, e per regola l'autorità della Chiesa, ma suppone titoli ragionevoli. Quando so che Dio ha parlato, che stabilì per sua interprete [312] la Chiesa, più non posso discutere la parola di Dio contrariamente alle definizioni di quella, nè darle il senso che voglio; bensì posso rendermi conto della fede che professo o, per quei che non credono, ponderare secondo la critica e l'argomentazione se realmente Iddio ci rivelò la sua legge, e se stabilì un'autorità regolatrice della fede. Queste pajonmi dottrine elementari e universalissime, lontane così dalla fede ciecamente passiva come dal razionalismo, che esagera i diritti della ragione costituendola giudice della parola di Dio, e confonde la luce soprannaturale della rivelazione colla naturale dell'intelligenza umana.

Il problema dell'umana destinazione, della riunione misteriosa della natura umana che espia e della divina che perdona, è supremo; eppure la ragione è incompetente a darne soluzione adeguata, e perciò si richiedea la rivelazione divina: la parola umana è insufficiente a trasmettere la fede, e per ciò si richiede la Chiesa viva che la interpreti. Ne' suoi dettati non troviamo nè assurdità, nè contraddizione: il cristianesimo è fuor del dominio della semplice ragione: le verità d'ordine geometrico mal vorrebbonsi applicare ai dati del sentimento e dell'immaginazione, che pur sono legittimi quanto quelli dell'intelletto: vi manca la evidenza matematica, perocchè allora non sarebbe più fede nè dono di Dio.

Il Cattolico sa che la Chiesa, istituita per applicare i meriti dell'Uomo Dio all'umanità in generale e a ciascun uomo in particolare, operar la santificazione del genere umano, che in essa e per essa unicamente è possibile, ha sola il dono sopranaturale di conoscere infallibilmente la verità rivelata, e perciò china la sua intelligenza per adottare ciò che è prescritto come bontà e verità. Sa che la libertà è la potenza d'eseguire le proprie leggi: e che per farle abbisogna ch'essa possieda la certezza di queste, nè tale certezza può darsi senza l'infallibilità. Le decisioni della Chiesa vincolano la nostra libertà, come la stella polare vincola il pilota. O forse l'uomo cessa d'esser libero perchè è credente, perchè virtuoso? Se c'è libertà nell'uomo, vale a dire facoltà di far il bene e compier la sua destinazione, mentre ha la possibilità di far il male, dev'esserci un'infallibilità che lo renda sicuro nel suo operare.

L'uomo può accettare le affermazioni divine semplicemente, e allora egli non è che un credente; può chiarire le relazioni fra esse e i fatti interni ed esterni dell'universo, e allora la sua fede diviene scientifica. La certezza in materia di fede va distinta dalla scienza delle cose della fede: ciò che pruova la verità della rivelazione, da ciò che la difende dalle accuse. E appunto la teologia è la scienza che discorre di Dio e delle cose secondo le verità rivelate, proposte dalla Chiesa; la scienza degli sforzi fatti per isnodare il problema divino. Due oggetti distinti essa ha. L'uno, esporre la verità e i dogmi dati dalla Scrittura e dalla tradizione, e rigorosamente definiti dalla Chiesa, parte invariabile: perocchè, accanto ai principj necessarj della [313] ragione v'ha dottrine elevatissime, non semplicemente razionali, invariabili come il vero, e la cui invariabilità attesta esserne divina la sorgente. Sopra questa base divina elevasi l'edifizio della ragione, secondo oggetto della teologia, sottoposto alle condizioni d'ogni opera umana, svolgimento, mutazione, successione, progresso, regresso, a proporzione del sapere e delle attitudini dell'uomo e della società: e però anch'essa non si restringe nella categoria dell'essere, ma passa in quella del divenire; essendovi un solo modo di credere, ma molti di dimostrare e appoggiar la verità.

Tale l'assunsero i Padri, cercando con essa la rigenerazione intellettuale, identificata colla rigenerazione morale, poichè si proponeva la salute delle anime, primo, collo svellere il dubbio, che col sottile argomentare avea scosso le credenze più vitali; secondo, col riordinare le scarmigliate idee del dovere. Atteso che si attaccano i misteri in apparenza, in realtà si rinnegano i comandamenti.

Emancipare la coscienza individuale dalla tutela ecclesiastica, tenere ciascuno responsale delle proprie credenze come de' proprj atti, ed obbligato ad acquistare coll'esame convinzioni proprie, a seguire la coscienza propria, anzi che obbedire alla Chiesa o ascoltare il prete, costituisce il gran divario fra i Protestanti e noi.

Ma una generazione di rado s'accorge dell'opera che essa intraprende e compisce; nè i riformatori d'allora aspirarono a quel che, al cospetto dei moderni, ne costituisce il merito, la libertà di esame. Contro di questa impennavasi Lutero, ed esclamava: «Non v'è angelo in cielo, e molto meno uom sulla terra che possa ed osi giudicar la mia dottrina; chi non l'adotta non può andar salvo; chi crede ad altri che a me, è destinato all'inferno. Al Vangelo che io ho predicato devono sottomettersi papa, vescovi, preti, monaci, re, principi, il diavolo, la morte, il peccato, e tutto ciò che non è Cristo. La mia parola è parola di Gesù Cristo, la mia bocca è la bocca di Gesù Cristo»[411].

Anche enunciandosi principj malvagi di filosofia o di politica, l'esister la dottrina cattolica impediva gli eccessi e le storte applicazioni. Ora, scosse le credenze, invocavasi, come dopo ogni rivoluzione, il rassettamento; in parte l'abitudine antica, in parte l'indole delle moltitudini faceano sentito il bisogno di conservare la libertà, eppure costituirsi in comunità, formare una Chiesa, aver concistori che autorizzino a predicare[412]. Vero è bene che, sostenendo la giustificazione per mezzo della fede, venivasi ad accampare la coscienza individuale contro la tradizione secolare; ma direttamente all'autorità della Chiesa sostituivasi l'autorità della Bibbia.

Eppure questa da chi era trasmessa? da quella tradizione che essi rinnegavano. L'interpretarla poi rimettevasi al sentimento individuale, sicchè alla perfine si ritornava al libero assenso della coscienza. Così il Protestante aveva il testo della Scrittura colla mescolanza di verità di fede e verità di ragione, [314] senza la certezza del senso che contiene; il Cattolico ha il senso indefettibilmente conservato di un testo, in cui stanno tutti i dogmi di fede. Ma la fede è l'adesione dello spirito umano alla testimonianza di Dio. Essa non dà solo il presentimento della verità, ne dà la certezza. Libero esame è il diritto dello spirito umano di non ammettere in qualsiasi ordine di cose se non ciò che riconosce per verità. Dunque, prima di credere i misteri rivelati, dee aver certezza che sono rivelati: s'ha da adoprare la ragione fino al punto ov'essa ci conduce a riconoscere la Chiesa. Ecco l'esame previo alla fede, il quale non è punto interdetto ai Cattolici.

Ma il protestantismo disgrega tutto ciò che Dio aveva unito; la società spirituale dall'autorità su cui si fonda; la parola scritta dalla tradizione vivente che ne scopre l'origine e il senso; il sacrifizio unico della redenzione dalla perpetua sua offerta sugli altari del nuovo patto; la Grazia dai sacramenti che ne sono le grandi e divine arterie; la fede dalle buone opere che la mostrano viva; l'amore dal culto che n'è l'espressione; la preghiera dai gradi per cui ascende a Dio mediante gli angeli, i santi, la madre di Cristo: e per tal modo prepara il distacco totale della ragione dalla fede, della natura dalla Grazia, di Dio dall'uomo coll'ateismo o il panteismo, col deismo o il naturalismo.

E non meno di eresia religiosa fu eresia politica, combattendo la religione e la civiltà cristiana come nel pensiero così nell'azione: ergendo a principio supremo del vero e del bene l'io umano, in contrasto all'unificazione pontifizia: ergendo lo Stato in divinità; posponendo gli interessi di Dio che fin allora aveano primeggiato, sicchè, dopo aver gridato «Date a Cesare quel ch'è di Cesare», si dimenticherebbe di dar a Dio quel ch'è di Dio.

Così rinnegato il primato nell'ordine religioso, intaccavasi pure nel civile, mentre parevasi assodarlo. Le conseguenze non si conobbero che tardi, e ai nostri giorni, quando ormai a un'apparenza di unità non si arriva se non a spese della fede, e la fede non si produce che in contrasto coll'unità: ma subito si sentì il disordine.

Gaspare Contarini, veneziano (1483-1562), entrato ne' Pregadi della sua patria, appena l'età gliel permise, non sapea mai risolversi a prendere la parola, sebbene, quando il faceva, parlasse alla semplice, ma con profondità. Eruditissimo di filosofia e matematica, versatissimo in gravi maneggi politici, essendo stato savio grande del Consiglio, capo dei Dieci, riformatore dello studio, Paolo III lo elesse cardinale con altri sette di gran virtù e dottrina, benchè ancora laico e lontanissimo dal pensarvi: fu ambasciadore della Serenissima presso Clemente VII, col quale s'adoprò di tutta forza per isviarlo dalla politica tentennante, mostrandogli come recasse a precipizio l'Italia. Colla filosofia aveva egli studiato la teologia, propendendo per san Tommaso ma conoscendo tutti i santi Padri, e ancor giovane aveva scritto contro il Pomponazio suo maestro, poi due libri De Ufficio Episcopi (1516) e un altro [315] sull'origine divina della podestà del papa, con semplice gravità e meno triche di scuola che non solessero i teologanti: e di lui diceva il cardinale Polo, non essergli sconosciuto nulla di ciò che lo spirito umano scoprì colle sue ricerche e la divina grazia ha rivelato; e v'aggiungea l'ornamento della virtù.

Gaspare sedeva in consiglio quando gli giunse la notizia del cardinalato, e tutti ad applaudire; solo Alvise Mocenigo, costante avversario di lui e degli ecclesiastici, brontolò: «Codesti preti ci hanno rubato il miglior gentiluomo che la città avesse»[413]. Solo alle calde preghiere e all'idea del dovere egli rassegnossi ad accettare quel gravoso onore, e «non accortigianato nelle cose di Roma», insisteva sulle riforme: e scrisse, fra le altre, due lettere a Paolo III, intorno alle composizioni e alla potestà pontificia. «Il dispensiero (diceva), non può vendere ciò che non è suo ma di Dio, foss'anche il lucro destinato a far guerra al Turco o a riscattare schiavi, o qual altro siasi scopo; tutti convenendo nella sentenza di san Paolo che non può farsi il male per conseguire il bene, nè acconciare la verità di Dio agli esempj e alle costumanze nostre. Coloro che ampliarono in ciò l'autorità del pontefice sino ad affermare non abbia altra regola che la particolare sua volontà, porsero occasione agli avversarj di negarla del tutto. Qual cosa potrebbe immaginarsi tanto repugnante alla legge di Cristo che è legge di libertà, quanto il sottomettere i Cristiani a un capo, al quale sia attribuito l'ordinare leggi, il derogarle, il dispensarne a capriccio, anzichè a regola di dovere? Ogni potestà è potenza di ragione, ed ha per iscopo di condurre con retti mezzi alla felicità. Così anche l'autorità pontificia, conferita da Dio al beatissimo Pietro ed a' suoi successori sopra uomini liberi, vuol essere usata secondo la regola della ragione, dei precetti divini e della carità. Santo Padre, voi che soprastate agli altri in dottrina, senno naturale e sperienza delle cose, esaminate se dalla contraria dottrina non abbiano pigliato baldanza i Luterani a comporre i loro libri della cattività di Babilonia. E davvero, qual cattività peggiore di questa, professata da alcuni esuberanti sostenitori della podestà pontificia? Abbia la S. V. a cuore quella suprema potenza e libertà del volere, che viene dall'ossequio alla grazia divina e alla ragione; non pieghi all'impotenza della volontà, che sceglie il peggio, e alla servitù che mena al peccato; perocchè solo allorquando quella vera facoltà del volere sarà congiunta alla podestà pontificia conferitavi da Cristo, sarete potentissimo, affatto libero, e vera vita della repubblica cristiana»[414].

E trattando della giustificazione nelle epistole stesse, dichiara aperto che «l'uomo propende al male, in grazia dell'impotenza della volontà; dalla qual malattia, che è servitù dell'animo, non può liberarsi per le virtù morali acquistate coll'abito delle opere buone, ma solo per la grazia di Dio e la fede nel sangue di Gesù Cristo». Tale dottrina enucleò nel Tractatus [316] seu epistola de justificatione, lodato immensamente dal cardinale Polo, dal cardinale Sadoleto e da altri, che ammiravano come quell'arduo punto egli avesse sì ben chiarito, e con verità inaspettate, che pur erano nella sacra scrittura[415]. Onde può dirsi che il Contarini esibisse il vero programma di ciò che poi compì il Concilio di Trento, sia quanto alla riforma, sia quanto alla definizione dogmatica di quel punto scabrosissimo.

Insisteva egli presso papa Paolo acciocchè attuasse le riforme; e da Ostia l'11 novembre 1538 scriveva al cardinale Polo: «Il papa mi menò seco in carrozza a Ostia. Tra via, il nostro buon vecchio si intertenne meco sopra la riforma delle composizioni. Diceva d'aver sopra di sè il trattatello da me scritto in proposito, e d'averlo letto la mattina. Io avea perduto ogni speranza: ma ora mi ragionò in modo sì cristiano, che concepii di nuovo la speranza che Dio gli farà compiere qualcosa di grande, e non permetterà che le porte dell'inferno prevalgano nel suo spirito».

Ma il papa era intricato in idee politiche; quando il Contarini gli faceva objezioni sul nominare cardinali che a lui non pareano dover riuscire di onore alla Chiesa, gli diede sulla voce: «Già siamo stati cardinali anche noi, e sappiamo come ripugnino che altri abbian lo stesso onore». Al che il Contarini non potè trattenersi dal replicare: «Io non reputo che il maggior mio onore sia il cappello».

Spedito alla dieta di Ratisbona del 1541 per tentare la conciliazione fra Luterani e Cattolici, e almeno indur quelli a riconoscere i principj fondamentali, cioè il primato della santa sede, i sacramenti, e altri punti appoggiati alla Scrittura e all'uso costante, domandò al papa che, se mai da articoli indifferenti alla fede dipendesse la riconciliazione, potesse condiscendere sul celibato dei preti, sulla comunione d'ambe le specie ed altri simili; sempre coll'autorità del pontefice: ma non pare n'avesse il consenso[416]. Bensì è meraviglioso come riuscisse ad accordare i congregati in quattro articoli essenziali, della natura umana, del peccato originale, della redenzione, della giustificazione per mezzo della fede viva e operosa. «Quand'io vidi questa concordia d'opinioni (scriveva al cardinale Polo) sentii riempiermi di supremo gaudio, non tanto pel buon fondamento gettato alla pace, quanto perchè qui consiste tutta la dottrina cristiana».

Anzi l'elettore di Brandeburgo assentiva al primato del pontefice, trovandolo necessario colà dove una era la fede, una la chiesa[417]: Bucero stesso confessava che la disciplina dei Protestanti era molto scadente, e convenire che i vescovi esercitassero il loro potere spirituale in ordine gerarchico, benchè pensasse che il celibato, i digiuni, le penitenze non potessero affarsi coi tempi[418].

Ma le conciliazioni mal possono sperarsi in tempi turbinosi: e Lutero protestò che era la coda del diavolo che conduceva questo tentativo di pace[419]; le Corti mal gradivano la concordia; i principi di Germania temeano che [317] coll'unità religiosa non s'aumentasse la potenza dell'imperatore; gli entusiasti voltavano in beffa la moderazione; il re di Francia, con ipocrito zelo pel papa e per la Chiesa, biasimava il Contarini come freddo e ligio all'imperatore. Ne restò questi scoraggiato, secondo scrive Girolamo Negro che l'accompagnava, vedendo «il corpo, infermo talmente e indebolito, che nè dieta, nè medicina gli può giovare...... e intertenimenti secreti di principi, li quali non vorrebbero vedere che Cesare con questa unione si facesse patrono di queste provincie..... e i Protestanti far grande istanza contro le messe private, il celibato, i voti monastici, le invocazioni de' santi ed altre ordinazioni nostre non istituite da Cristo nè dagli apostoli»[420], e così l'opera fu mandata in fumo. Gli Italiani, al solito, ne versarono la colpa sul Contarini, il quale, se si dolse che «di tal moneta pagassero le sue fatiche», più dovette piangere dell'imminente disastro della Chiesa. La solita genìa dei buffoni facea scene a suo carico, e il Beccatelli racconta che, mentre tornava in Italia, un vecchio amico a Brescia domandogli: «Come stanno, monsignor reverendissimo, que' capitoli che ai Luterani avete sottoscritto tanto esorbitanti?» E avendo il Contarini risposto che le erano baje da Pasquino, l'amico gli mostrò lettere da Roma ove se ne parlava. Sicchè il Contarini dovette scrivere al papa di sospendere il suo giudizio finchè gli avesse chiarito il vero, come poi fece così splendidamente, che il papa stesso l'esortò a non vi badare, citandogli quel d'Ovidio, Summa petit livor, perflant altissima venti[421].

Colla concordia di Ratisbona sarebbesi conservata l'unità nella nazione germanica, senza temere le usurpazioni di Roma; ma Lutero ripudiò ogni conciliazione; non potere l'opera di Dio ravvicinarsi a quella di Satana. Anche a Roma se ne prese scandalo; temendo che l'imperatore, capo di tutta Germania, divenisse onnipossente, Francesco I di Francia si oppose: e il Contarini scrive al cardinale Farnese che Granuella, ministro di Carlo V, «mi affermò con giuramento avere in mano lettere del re cristianissimo, il quale scrive a questi principi protestanti che non si accordino in alcun modo, e che lui avea voluto vedere l'opinioni loro, le quali non gli spiacevano»[422].

Ai 15 giugno 1540 Nicolò Ardinghelli, a nome del papa scriveva ad esso cardinale Contarini[423] come fosse ormai impossibile la tolleranza, «essendo gli articoli che restano controversi tanto essenziali alla fede, che, senza procura di Gesù Cristo Nostro Signore, noi quaggiù non possiamo pigliarne sicurtà; anzi abbiamo la legge che non sunt facienda mala ut veniant bona; perchè essendo la fede indivisibile, non la può accettare in parte chi non l'accetta in tutto, quanto al potersi dire cristiano e fare un corpo medesimo nella Chiesa. E però nostro signore con tutto il collegio, nemine discrepante, ha risoluto di non poter dare orecchio in alcun modo a quella tolleranza che si domanda, nè, per quel che toccherà a sua beatitudine, macolare quella sincerità della fede, che i suoi predecessori hanno fin qui [318] conservata, comprovando con segni che questa è la cattedra di san Pietro, per la fede del quale pregò Gesù Cristo Nostro Signore».

Ciò che v'avea di troppo reale era il disordine gettatosi nelle intelligenze come nella vita, al moltiplicarsi di tanti discepoli, ognuno dei quali era un dissidente. Nella Confessione d'Augusta gli eterodossi aveano preteso raccogliere ciò che di comune aveano la loro e la cattolica fede, a tal uopo ricorrendo a termini ambigui, che la Chiesa non accettava perchè poteano, come esprimere la verità, così ratificar l'errore. Carlo V nel 1548 decretò l'interim, pel quale convenivasi che «interinalmente gli Stati erano liberi in religione, salvo a renderne conto a Dio e all'imperatore»: ma nulla attribuivasi alla Chiesa cattolica, la quale, oltre che emanato dall'autorità secolare incompetente, trovava lesivo quell'atto, dacchè ella erasi già pronunziata sui capitali dissensi. Fra' Protestanti medesimi fu chi lo disgradiva, e designavano gli accettanti col nome di rilassati, adiaforisti, indifferenti.

Ed ecco, al rumore della nuova dottrina, all'annunzio che i predicanti rompono la catena storica della tradizione, e ognuno può a suo senno interpretare la Scrittura, sorgono veggenti in ogni parte; i meno atti al ministero pretendono avervi più evidente vocazione; la Bibbia diviene stromento alle passioni; e i villani, lettovi che gli uomini sono eguali, scatenano l'irreconciliabile ira del povero contro il ricco, bandendo guerra all'ordine come tirannia, alla proprietà come usurpazione, alle scienze come distruggitrici dell'eguaglianza, alle arti belle come idolatria.

Ne gemeva Lutero, e diceva: «Appena cominciammo a predicare il nostro vangelo, fu nel paese uno spaventevole stravolgimento; si videro scismi e sêtte, e dapertutto la rovina dell'onestà, della morale, dell'ordine: la licenza e tutti i vizj e le turpitudini trascorrono, peggio che non facessero sotto il papismo: il popolo, dianzi tenuto in dovere, non conosce più legge, e vive come un cavallo sfrenato senza pudore nè freno, a grado di materiali desiderj. Dacchè noi predichiamo, il mondo diventa più tristo, più empio, più svergognato: i demonj s'avventano a legioni sugli uomini, che alla pura luce del Vangelo mostransi avidi, impudichi, detestabili peggio che non fossero sotto il papato: dal più grande al più piccolo non v'è dapertutto che avarizia, disordini vergognosi, passioni abbominevoli. Io stesso son più negligente che non fossi sotto il papismo, e vengo meno alla disciplina e allo zelo che dovrei avere più che mai. Se Dio non m'avesse celato l'avvenire, non avrei mai osato propagare una dottrina, da cui doveano conseguir tante calamità, tanto scandalo»[424].

Per verità, abbattuta l'autorità ecclesiastica, per non abbattere anche tutto l'ordine sociale si richiedeva un'incoerenza, un rifuggire dalle conseguenze necessarie; sicchè, più non dirigendo i venti che avea scatenati, Lutero rinnega il proprio canone della ragione individuale, e agli esagerati oppone la [319] sacra scrittura e i libri simbolici[425]: poi scostandosi dal popolo, di cui s'era fatto un appoggio, tende a ingagliardire il principato: e di qui comincia l'azione politica della Riforma, qual fu d'attribuire ai principi l'autorità anche in materie ecclesiastiche, talchè ogni suddito dovesse credere e adorare come voleva il sovrano; cujus regio ejus religio; e i principi più non conobbero ritegno da che diressero anche le coscienze[426].

E d'una direzione queste aveano bisogno, quando i fratelli uterini della Riforma pugnavano tra loro. Indarno Lutero s'arrovella contro ogni fede diversa dalla sua[427]: Melantone, Carlostadio, Ecolampadio, Engelhard, Brenzio modificano i dogmi, ciascuno a suo senno o a norma della costituzione del proprio paese; sbranamento inevitabile là dove a ciascuno è libero l'interpretare.

Contemporaneamente a Lutero, e senza sapere di lui, Ulrico Zuinglio, che aveva militato in Italia come cappellano di Svizzeri assoldati, insorse (1518) a Zurigo contro le indulgenze, che ivi erano predicate da Francesco Licetto bresciano, generale dei Minori, poi da frà Bernardo Sansone milanese, e dietro a ciò sostenne che bisogna fondare la fede sulla sacra scrittura, non su dettati clericali, e repudiando i quindici secoli della Chiesa per ricorrere alle fonti, studiò il greco, si mise a mente le epistole di san Paolo, riprovò i pellegrinaggi che al santuario di Einsideln si faceano; il pane e il vino della Cena essere meri simboli del sacrosanto corpo e sangue, e altri asserti che furono accolti in molta parte della Svizzera. Mentre sosteneva che il dogma della libertà conduce al panteismo, perchè facendo gli uomini indipendenti li pareggia a Dio, egli rendeasi vero panteista, asserendo che unica essenza è quella di Dio; tutto ciò che è, è Dio e proprio Dio.

Veramente egli ha un'importanza storica piuttosto che dottrinale, non avendo lasciato opere di rilievo; e fu assorbito nell'azione di Giovanni Calvino, francese. Questi, a Bourges studiando sotto il famoso nostro leggista Alciato, deplorò i disordini derivati dalla Riforma, e pensò emendarli coll'andare più innanzi, venire a un assoluto distacco. Ancora si conservavano altari e crocifissi: pregavasi in ginocchio; si facea la lavanda dei piedi. Calvino proclama un antagonismo perpetuo alle tradizioni stabilite. Così nella dogmatica parte da un'idea preconcetta, da un partito preso: perfin Zuinglio erasi piegato alla sacra scrittura; Calvino si ispira da essa, ma la fonde nel suo pensiero. Zuinglio oppone la Scrittura alla tradizione; Calvino si spinge più avanti, non è solo esegetico, ma dogmatico: in faccia alla tradizione non vuol solo appurarla, ma distruggerla.

Ginevra avea cominciato il suo risorgimento dal rivoltarsi contro al duca di Savoja, che la supremazia feudale volea ridurre a signoria assoluta. N'era seguita la solita disordinata prepotenza dei riottosi, per rimediare alla quale Calvino ricorse al despotismo. Lutero aveva abbattuto la monarchia cattolica per favorire i vescovi tedeschi, Calvino sagrifica questa aristocrazia luterana [320] alle idee repubblicane di Ginevra; e se i Luterani alzavano il principato per opporlo al papa, egli lo deprime per sottoporlo ai rivoluzionarj[428]. Posta la scure alla radice, impugna il mistero, colloca la certezza nella rivelazione individuale: l'arbitrio non è libero, e per iscegliere il bene fa duopo d'una Grazia necessitante, e questa sola produce la giustificazione, senza che v'abbia parte la volontà dall'uomo; Iddio è padrone assoluto delle sue creature, e ab eterno ha destinato queste al paradiso, quelle dell'inferno, qualunque siano le loro azioni. Il fedele dee mirare principalmente a tenere per sicura la propria salute: e per acquistare una tale sicurezza, crederla non fondata su opere od elezioni umane, ma sulla volontà suprema ed eterna.

Niuna efficacia dunque rimane al battesimo, i figli degli eletti appartenendo per nascita alla società redenta; niuna alla penitenza, poichè chi una volta fu eletto non può ricadere; nella santa cena non sono transustanziate le specie, ma sotto que' simboli il Signore comunica Cristo, per nutrire la vita spirituale. Abolito l'episcopato, le comunità religiose scelgonsi un ministro, distinto dagli altri soltanto per l'abito nero; ne' tempj nudi null'altro che il pulpito e una tavola su cui esporre il pane e il vino; allontanato tutto ciò che era proprio de' Cattolici, il culto resta non solo semplice ma nullo. Con quest'odio Calvino rendesi onnipotente, e stabilisce un ordinamento vigoroso, sotto il governo de' pastori, ma uniti cogli anziani; tolta ogni separazione fra ecclesiastici e laici, fra la Chiesa e il coro.

Questi dogmi austeri, dove erano negate la bontà e la libertà dell'uomo, sosteneva egli con inesorabile intolleranza, non presentando la sua come una dottrina che ammette la discussione, o cerca accordo con altre credenze. I Calvinisti, come eletti di Dio, sono autorizzati a schiacciare tutto ciò che si oppone alla loro esclusività; come ispirati, abborrono il ragionamento. Calvino ha il rigore del Vecchio Testamento, più che la mitezza del Nuovo: esigente, dittatorio, all'amministrazione ecclesiastica subordina la civile; moltiplica regolamenti fin sul vestito e sulla mensa, proscrivendo il lusso, gli ori, ogni squisitezza d'arti, per raffaccio alle frivolezze di Parigi e alle magnificenze di Roma. Divieto di sposare papisti; stampatori e libraj non si prestino a questi, nè pittori e scultori, vetraj, orefici, avvocati; non tengansi a fitto beni di Chiesa, per cui si devono offrire cera o incenso, che favorirebbero l'idolatria. Una fanciulla che si vestì da uomo; un proprietario che maltrattò i suoi lavoranti, lenti all'aratro; fanciulli che all'Epifania giocarono alla fava; uno che avea letto le Facezie del Poggio...... erano puniti, e più chi dicea male de' fuorusciti, martiri della verità. Così profondato l'abisso fra il credo antico e il nuovo, Calvino sbigottì le anime timide, e disingannò coloro che ancora fantasticavano un accordo; e quella risolutezza, quel sarcasmo, quell'irosa eloquenza contro Roma e la Sorbona e tutto il clero, trascinava, come tutto ciò che è violento. Allora parve la protesta avesse trovato l'ultimo suo termine; colla predestinazione rimetteasi tutto agli [321] ineluttabili decreti di Dio; annichilamento dell'uomo, che causava una contentezza austera; che formava dei martiri, e che dovea piacere a coloro che si trovavano perseguitati.

Novatore così radicale, pure Calvino volea conservare molti articoli primitivi; anzi spiegava fierezza contro chi li intaccasse; quasi che la trinità, la rivelazione, l'incarnazione, il peccato originale, l'espiazione di Cristo non si fondassero sulle stesse basi che gli altri dogmi cattolici.

Più tardi la critica, nata dalla filologia, dovea scassinare le idee tradizionali sopra l'origine e l'autorità dei libri sacri. Ma già allora gli Anabattisti gl'impugnarono; gli Unitarj, che vedremo prevalenti in Italia, escludeano la Trinità; insomma si ripudiava il cristianesimo, riducendosi a negazione sistematica dei dogmi della Chiesa.

Alcuni Protestanti si vergognavano di tanti disaccordi, e voleano negarli o attenuarli; altri invece faceansi belli delle variazioni[429], e diceano: «Noi non abbiamo unità di credenze: ma questo è vanto; perocchè la ragione individuale esercita così il proprio uffizio, e procediamo a seconda dei tempi. Le continue variazioni sono naturali al nostro principio: avvegnachè, mentre i Cattolici si ancorano nell'autorità, noi ci atteniamo al giudizio de' singoli, al che ripugna la dogmatica immobilità.

Le moltitudini però non erano venute alla Riforma per argomentazioni teologiche, bensì alcuni per ismania di libertà, altri per bisogno di coscienza e pietà; sicchè adottavano, senza troppo analizzarli, i simboli e le confessioni, in cui i novatori formularono le loro dottrine. E furono due principali; la Confessione Augustana o de' Protestanti, a cui aderì la Germania; la Confessione Elvetica o degli Evangelici, nella quale si confusero gli Zuingliani. Al 1550 le credenze già eransi costituite decisamente ostili, e ciò ch'è notevole, nei limiti geografici che press'a poco conservarono, restando la principale divisione de' riformati in Luterani e Calvinisti: i primi che accettano il senso letterale delle parole della Cena, gli altri il figurato.

Fuvvi un nostro pittore che formò un quadro in tre piani. Sul più basso, Calvino distribuiva il pane benedetto, e pronunziava: «Questa è la figura del mio corpo». Nel successivo, Lutero nell'atto medesimo, diceva: «Questo contiene il mio corpo». Di sopra era il Salvatore che, comunicando i suoi apostoli, diceva: «Questo è il corpo mio».

Vi sottopose la domanda: «A quale dei tre crederemo?» Il quadro piacque, e dicono che molti convertisse; forse impedì si pervertissero.

[327]

DISCORSO XVII.
L'APOLOGIA CATTOLICA. CONSEGUENZE DELLA RIFORMA.

Continuando queste nostre escursioni, ci fermiamo un tratto per ripetere che non intendiamo farne un soggetto o un'occasione di polemica; eppure miriamo a combattere una grand'eresia de' giorni nostri, coll'ostinarci alla storia, all'accertamento de' fatti: eresia intendiamo non tanto in senso religioso, quanto nel senso che v'attaccavano i giureconsulti delle età passate.

E in vero già lo Spinosa avea stabilito «Ciò che la mia ragione non comprende, non può essere avvenuto»: i filosofi dell'età nostra si spinsero più avanti dicendo: «Ciò che la mia ragione comprende come possibile, deve essere». È la formola dell'uomo che crea tutto; è la conseguenza della critica della ragion pura, dopo la quale tutta la metafisica del panteismo piantasi sopra la teoria che tutto esiste nell'uomo e per l'uomo, nella ragione e per la ragione.

Anche la storia dunque non sarà il racconto di quel che fu; bensì di quel che la ragione riesce a trovare; e ne nasceranno quelle tante mostruosità, che la superbia letteraria e la goffaggine governativa oggi moltiplicano anche in Italia col titolo di filosofia della storia. La indagine de' fatti, la verificazione, il confronto, son vecchiaggini; ogni cosa si riduce a pretto empirismo, e l'empirismo è l'ultima degradazione intellettuale.

La storia consiste dunque nell'affermare intrepidamente; non badando nè alle tradizioni, nè ai libri, nè alle autorità, nè ai monumenti, nè al senso comune. Enunciata un'idea, non si curi di provarla; basta svilupparla, cioè offerirla sotto i più varj aspetti, come nel caleidoscopio; tanto meglio quant'è più strana; se da un motto torrà occasione ad abbattere una completa serie di avvenimenti; se con un epigramma manderà in aria tutto un sistema: subordinare tutta la storia alle leggi dell'automa umano s'intitola filosofia; come l'astrologia dell'astronomia, così le religioni non sono che le precorritrici della fisica, della quale è una continuazione l'ideologia.

Per verità da noi gli studj sono oggi così trascurati, che anche questi delirj non ebbero che qualche meschino divulgatore, e non conseguirono [328] effetti durevoli neppure nell'opera del più applaudito fra' loro predicatori. Ma intanto le menti leggiere si lasciano affascinare da frasi, quanto più sono vaghe nel fondo ed assolute nella forma, e da libri ove la storia deve assumere il dogmatismo e la leggerezza d'un romanzo, e che studiata così, può appoggiare una teoria, non mai raggiungere il vero.

Per esempio, ci diranno: È indubitabile che per sola espansione naturale e spontanea delle sue facoltà, l'uomo un bel giorno improvvisò il linguaggio: — L'opinione che la Genesi sia opera di Mosè è al disotto d'ogni critica, nè noi dobbiamo discuterla: — Sono tre secoli che i pensatori tengono che il tutto è Dio, o che da Dio emana il tutto e a lui ritorna: — Il monoteismo non è idea propria che della stirpe semitica: — Le nazioni latine mancano di senso morale e d'ogni iniziativa religiosa: — La persecuzione è la prima delle voluttà religiose; e la coscienza cristiana lo comprese inventando quelle ammirabili legende, ove tante conversioni si operano per l'allettamento del supplizio: — Un pendio insensibile condusse dal paganesimo al cristianesimo, e la fede popolare salvò nel naufragio i simboli suoi più familiari: — Tutti i critici della detta Germania ammettono che i vangeli sono posteriori di almeno centrent'anni a Gesù Cristo, e sarebbe un ignorante chi credesse fossero conosciuti nel primo secolo: — Non v'è più chi dubiti che la dottrina di Cristo fu propagata arcanamente.....

Una volta libravansi gli attributi divini; i metafisici s'appigliavano all'ontologia; i teologi alla Scrittura; i poeti alle armonie del creato. Oggi la storia universale, che discute le origini e i progressi della società, hassi per un quinto vangelo, mentre i razionalisti ampliano i diritti e i limiti della ragione. Oggi la critica salta in mezzo colle civilità comparate, e colla superiorità di quelle ove esistono le credenze; e su queste posa il diritto, che altrove è sottoposto al successo e nelle coscienze all'utile. In conseguenza si confonde il soprannaturale col sopra intelligibile. Comprendere quello non possiamo, ma non perciò esso supera l'intelligenza. Dio è sovranamente intelligibile perchè sovranamente intelligente e base dell'intelligenza nostra, eppure trascende questa nell'essenza sua: ma ciò che in lui non comprendiamo non si discerne da ciò che comprendiamo. Altrettanto è nelle opere sue. Il soprintelligibile non è necessariamente sopranaturale, giacchè l'intelligenza nostra non è adequata a tutta la natura.

Oggi poi il lato storico di Dio e del suo Cristo è divenuto il principale studio della scuola teologica, e vedemmo di qual passo procedano i filosofi odierni della storia: l'asserire costa sì poco! Guai se il buon senso arresta queste indubitabilità, e dal vago dogmatismo richiama alla discussione! La taccia d'ignorante, di superstizioso è pronta: meravigliansi che costui non sappia che da non più di cinquant'anni esiste la vera storia: che solo a pochi genj è dato interpretare i documenti originali; genj abituati a svolgere l'eterno controsenso, che è il fondo della storia. Che [329] se all'avversario non possono negare il merito d'erudito, gli rinfacciano che il troppo sapere è un ostacolo al creare; che ben si assimila soltanto ciò che si sa a mezzo; che le dottrine non si combinano se non coll'indovinare: gli diranno che, immerso nel passato, ignora l'ultimo stato della scienza, la neue philosophie, la quale ha diritto di sbeffeggiare tutte le precedenti, finchè domani non venga una neuste philosophie a sbeffeggiare lei a vicenda.

E il vulgo, che prima sbigottiva davanti a quelle demolitrici asserzioni, s'abitua ad accettarle, rinnega la propria ragione per siffatte intrepide autorità. Così viensi a ridere del miracolo, non si cerca se quella che ci danno è la storia dei fatti, o la storia della mente dell'autore; se questi, invece dell'umanità, non ha davanti Carlo o Giuseppe, e principalmente se stesso. In tempi dove nelle scuole più non s'insegna su di che si fondi la certezza, e quanta autorità abbiano i testimonj, e come si fili un raziocinio o si distrighi un sofisma e un paradosso, e a tener conto del senso comune, e valutare quella sincerità evangelica, che impone di dire sì al sì, e no al no, troppo è facile ottengano corso le più assurde temerità dell'orgoglio umano.

Tutto opposto è il procedimento evangelico; e perciò gli apologisti dovettero sempre usare la stessa arte, da Eusebio fino al Ghiringhello e al Perrone; fedeli alla sana critica, cercando le testimonianze storiche, chiarendo i fatti, accettando i soprannaturali che sorpassano l'intelligenza umana quoad modum, non quoad existentiam suam et per divinam virtutem; quanto cioè al modo con cui avvennero, non quanto all'avvenimento stesso: citando in prima i testimonj de' fatti, dappoi quelli che gli udirono dai testimonj, indi la storia; e l'esegesi adoprando severamente a mostrare con ingegnosi ravvicinamenti l'assoluta conformità dei vangeli colla storia, colle arti, coi monumenti.

Alle nostre ragioni, costoro dicono «Ma fate sempre le stesse risposte». Sì, poichè le stesse sono le objezioni, cioè il prodotto d'un orgoglio che non vuole accettare ciò che non intende. Dov'è a notare che i primi avversarj del cristianesimo non negavano gli atti, e tanto meno l'esistenza del Cristo, bensì quelli attribuivano a magia, a illusioni; e gli apologisti confutano questa supposizione pagana, non mai l'ipotesi mitica, che da nessuno era stata messa innanzi; e che il secolo nostro doveva attendere da qualche tedesco o francese, discosto xviii secoli da que' casi.

Ma l'apologia cattolica a' giorni del luteranesimo, non procedeva così maestosa, essendosi, come Dante si lamenta, derelitti l'evangelio e i dottori magni, e più ai decretali studiandosi. Baldanzosi nei diritti della ragione individuale, i predicanti dicevano al popolo: «Iddio ha parlato: qual bisogno che altri venga a spiegarvi quel ch'egli disse? Non è egli infallibile? Non vi diede il suo libro? e lume dell'intelletto per comprenderlo? I Cattolici fecero alla legge di Cristo quel che i Farisei aveano fatto alla giudaica, vi sostituirono le loro opinioni; levarono l'autorità alla parola divina per [330] attribuirla all'uomo; il vaso conservò il nome, ma n'è svanito il profumo; il tempio di Dio fu convertito in bottega e in tana di ladroni. Sfogliate il Vangelo: dove trovate che comandi il celibato de' preti? o il digiuno, o la confessione auricolare? Una fede inculcata senza l'assenso della ragione, degenera presto in superstizione: la facilità dell'indulgenza e dell'assoluzione affida al peccare».

Di rimpatto, sbigottiti fino di quell'esame, il cui bisogno eleva e ingrandisce l'anima, ma che può inebriare nell'orgoglio del senso individuale, i pii cattolici inculcavano che una religione scandagliata e analizzata cessa di essere fede, e si lamentavano di vedere chiamate a scrutinio le cose che devono guardarsi con umile meraviglia, e che Iddio per occulti giudizj sottrasse all'uomo, ingiungendogli «Credi e adora».

Pertanto si rinserravano nel credo vecchio: pensavano vincere il nemico col negarlo; o, se il dovere li conducesse a combatterlo, com'avveniva degli ecclesiastici, usavano argomenti di senso comune. E dicevano a' loro avversarj: «O voi, che volete mostrarci in errore; non siete uomini voi pure? non siete voi pure all'errore soggetti? La protesta è sempre posteriore alla verità ch'essa impugna. Noi seguitiamo la tradizione di persone pie, e più vicine al tempo del Redentore: voi nasceste jeri. Noi ci atteniamo ad un'autorità di origine divina, al sentimento costante del genere umano: voi surrogate la più fredda delle umane doti, la ragione; il più variabile appoggio, la particolare persuasione. Voi ci apponete che santo abbiamo il precetto, cattivi i ministri; noi vorremmo poter supporre che i vostri predicanti siano migliori delle dottrine predicate. Eccoli annunziarci l'amor di Dio e del prossimo: eppure da voi nascono la scissura e la desolazione delle case e della patria. E che? l'augusto sacramento, di cui Cristo volle fare un simbolo di pace e di concordia, e che, assunto in sua commemorazione ricordasse ai figli suoi il sangue versato a salute comune, diviene pretesto d'acerbe contese: e sembra che ciascuna parte siasi proposto di mostrare colla condotta meno evangelica di possedere il vero vangelo. Se la vostra fede è la vera, se viene da Dio, provatelo col deporre questa rabbia anticristiana: la carità muove da Dio, la discordia dall'inferno: il nostro non è il Dio delle contese, bensì il Dio della pace e dell'amore[430]. Lo stesso Melantone, interrogato da sua madre che cosa dovesse insomma credersi fra tanto discordare di teologanti, le rispose: — Continuate a credere e adorare come sin qui; la nuova religione foss'anche più plausibile, l'antica è più sicura. — E voi, gregge nostro, non disertate gli altari, dove i padri vostri cibaronsi col pane della vita: non lasciatevi rapire la consolazione de' sacramenti, che mescono il gaudio e la sanzione del cielo alle più solenni circostanze della vita, dalla culla al letto di morte. E dopo morte su in paradiso, i padri vostri, che vi sono giunti credendo all'antica, stanno ad aspettarvi. Quanto dolore se vi vedessero precipitare coi nuovi alla perdizione!»

[331] Non sempre così pacate procedevano le controversie sul pulpito e nelle scuole. I Cattolici avevano il vantaggio che un capo solo dirigeva tutti i movimenti, principe d'un bello Stato, colla potenza della tradizione e l'abitudine dell'obbedienza: ma ai Protestanti apparteneva la forza di chi attacca, di chi censura, di chi seconda gl'istinti umani, e vanta quale progresso la distruzione del passato.

Come battagliassero i dissidenti lo vedemmo e il vedremo. Anche i nostri, considerandosi unici custodi della verità e censori autorizzati della giustizia, troppo spesso posavano la disputa non fra errore e verità, ma fra santità e inferno, e tutte le objezioni dichiaravano empie, immorali tutte i ragionamenti. La polemica e l'apologia assumeranno sempre caratteri diversi ed evoluzioni conformi alle aspirazioni del tempo; altrimenti mancherebbe alla Chiesa viva quel progresso di lume e di certezza, che sempre i Padri e i fedeli domandarono[431]. Ogni nuovo errore è una nuova riflessione, ed esige scienza nuova, sicchè non bastano i vecchi metodi; le idee non si cangiano che nel complesso e per sistema, nè si può persuadere un altro se non facendogli accettare una delle proprie conseguenze.

Scarsi d'iniziativa, di larghezza, di sintesi, sopratutto di vivacità, con un futile armeggio di sillogistica discutendo i singoli punti, vedeano tutto da quell'aspetto solo, che nulla prova a quei che guardano da un differente; filavano sillogismi, di cui era impugnata la maggiore; davano come concesso dagli avversarj ciò che deve essere sentito solo da chi crede come loro, e parea non propendessero che a raddormentar nella tradizione. Durava poi il gergo tecnico, argomentazioni opponendo ad argomentazioni col metodo geometrico, il cui apparente rigore stanca lo spirito senza sostenerlo; sicchè i teologi sprezzavano i letterati come gente da frasi, ed erano sprezzati da questi come pedestri scolastici. Il sant'uomo Gregorio Cortese da Modena, dapoi cardinale, deplora la scurrile polemica allora usitata, mentre d'una savia e dotta egli porgeva ottimo modello[432]: e Melchior Cano domenicano spagnuolo (-1560), i cui Loci son la più bella introduzione alla dogmatica, accusava i nostri di adoprare contra i nemici non armi di buona tempra, ma arundines longas.

La vera eresia di Lutero consisteva nell'impugnare l'autorità, rompere l'unificazione su cui è fondata l'indefettibilità della Chiesa, disperdere quelli congregati attorno all'unica mensa, col dare all'uomo la superbia di pensare da sè, e invece dell'umile acquiescenza alle definizioni dogmatiche e disciplinari della Chiesa, volere la comparazione tra l'infallibilità del vicario di Cristo, e la corruzione del papa figlio d'Adamo. I nostri avrebbero dunque dovuto insistere nel consolidare l'autorità della Chiesa, che conserva i comandamenti, le dottrine, i sacramenti, cioè le regole della verità e i mezzi della virtù. Ma non basta cogliere alcuni barlumi del vero, bisogna seguirlo fermamente in tutto il labirinto, coordinarne le parti, mostrarne l'insieme [332] e la filiazione, evitare ogni soluzione di continuità, convincere che tale teoria è una dimostrazione, che con essa tutto si spiega, e niente v'è ad opporle. Religione inventata da uomini è un'assurdità: non può essere tale se non data da Dio: e come tale non può venire messa in discussione; ove compare il dubbio scomparisce la fede.

E appunto i gran savj c'insegnavano che la Chiesa è società d'anime legate innanzi a Dio da identiche credenze: e che, rappresentando la natura umana prima del peccato, decide tra le contenzioni, senza lasciare luogo a negare le sue asserzioni; mentre gli uomini, incapaci di qualificare gli errori, vacillano nella libera discussione. Chi dunque dice Chiesa, intende permanenza delle verità di fede; chi dice cattolica, intende unione di persone, che sopra esse verità ritengono quel che si ritenne sempre, da tutti, dapertutto. I nostri vescovi derivano in linea retta dagli apostoli; insegnano quel che essi insegnarono, sia ne' libri, sia a voce; e secondo la Chiesa lo interpretò nel modo che piacque allo Spirito Santo. Una sola fede, un solo battesimo, dice il Vangelo; adunque l'unità è carattere della vera Chiesa, come l'immutabilità è solo propria della verità; e, siccome Bossuet ben lo formolò, dice agli altri: «Tu cangi, e ciò che si cangia non è la verità».

Qual sublime spettacolo quell'armonico movimento d'innumerevoli intelligenze in ogni tempo e luogo, sicchè i popoli, discordi od anche ostili per politica, per invidia, per interessi, per indole, aveano una casa stessa dove, colle parole e coi sentimenti stessi, quasi all'ora stessa cantavano al Signore, e supplicavano i santi suoi per ottenere quella pace che il mondo non può rapire! E questa Chiesa è una, perchè figlia dello stesso Redentore; come lui è vera, è visibile; e se fu necessario un Dio presente per rigenerare il mondo, è necessaria la permanenza di esso nella Chiesa per conservare e svolgere l'opera della redenzione.

Ora quest'unità sarìa possibile ove a ciascuno fosse libero interpretare la Scrittura a suo talento? Iddio ha imposta un'autorità, che l'uomo sia obbligato riconoscere per conseguire il suo fine supremo? o lasciò che la nostra stirpe barcolli fino al termine tra l'abuso dell'autorità e l'abuso della libertà individuale?

I Cristiani credono il primo fatto: i Protestanti ritengono che tale autorità sia il codice scritto. Dicono che il proferire «Noi crediamo alla Chiesa mercè della Scrittura, e alla Scrittura mercè della Chiesa» è un circolo vizioso. Eppure al modo stesso l'autorità delle leggi deriva dal Parlamento, e il Parlamento esiste in forza della legge. Ma realmente alla Chiesa crediamo per l'autorità di Cristo; è un'accidente che quella fede sia deposta nella Scrittura; potrebb'essere in un altro libro o nella tradizione. Anzi nel Nuovo Testamento non vi è parola che mostri avere Cristo voluto diffondere la sua dottrina mediante la Bibbia; parla d'ascoltare, di predicare, di parole; non mai di leggere o di libro: non disse «Mandate un libro»: questo nè [333] tampoco era scritto quando ordinò, «Andate e predicate»: potrebbero essere guasti i trentaquattromila suoi versetti: non vi si leggono gli articoli del Credo, che pure sono adottati da tutta la Chiesa.

Male si confonde la lettera della Bibbia, cioè l'involucro, colle verità divine che vi stanno: queste sole importa raggiungere; su queste sole fondansi le convinzioni religiose. Ma se a ciò adopriamo il senso personale, chi ci assicura che la nostra interpretazione sia conforme alla verità? introduciamo in quel libro un pensiero, concepito senza appoggio d'autorità superiore; e così non siamo certi di riposare sulle verità divine. Laonde quei soli che udirono Cristo avrebbero potuto erigere la loro fede su fondamento divino; gli altri divagarono, perfino a dedurre dal libro stesso la negazione della divinità di Cristo.

In realtà la Scrittura è infallibile, ma fallibile l'uomo che la legge, sicchè ha mestieri d'un'autorità che gliene ricavi la verità, e null'altro che la verità. Ora la Chiesa si professa custode del vaso ove fu deposta la dottrina di Cristo, e garante che lo spirito maligno non v'introdusse alcun errore: e colloca la sua autorità suprema nel ministero d'insegnamento, istituito da Cristo, nella parola vivente di Dio, nella promessa ch'e' diede agli apostoli d'essere con loro fino alla consumazione dei tempi, e «Chi ascolta voi ascolta me».

Pertanto l'autorità insegnante della Chiesa s'applica nel conservare perpetuo il senso e lo spirito della viva parola di Dio, e nel mantenerla pura e integra mediante un ajuto soprannaturale. Senza di ciò, la credenza non sarebbe che umana e subjettiva.

Ora l'uomo non apre l'anima se non a ciò ch'è improntato di superiorità; concede il suo assenso al pensiero, non alla forma; e questo pensiero divino è il solo che faccia autorità pel pensiero umano; l'anima vi si tranquilla; e l'autorità e la libertà si riconciliano.

La Chiesa è società governata da provvidenze sopranaturali. Il semplice credente accetta e adora; il pensatore svolge la propria ragione sopra i termini logici prodotti dall'analisi. Ma se in tale sviluppo analitico si trascendono i confini del soprannaturale, ecco rotta l'armonia che stabilisce la reciproca incolumità fra la ragione e la fede. Ripudiamo l'autorità vivente per attenerci unicamente alla Scrittura? Infinito stuolo d'opinioni umane pretendono impiantarsi su questa, quasi a provare che la Scrittura ammette ogni senso, cioè non ne ha veruno. Se ogni fedele può interpretarla a suo modo, bisognerà conchiudere che non è rivelazione divina, giacchè ci lascia in dubbio su quel che contiene, nè arriva a produrre fra' suoi seguaci un'intelligenza comune, durevole, inconcussa; e quindi disordine nell'intelletto, anarchia nella dottrina, dubbio e negazione nel pensiero. Ciò evita il Cattolico, credendo che la Scrittura contenga un senso unico e preciso, e l'ufficio dell'intelletto umano nella Chiesa consista nell'appropriarsi [334] quel senso con sempre maggior precisione e chiarezza, alleando l'argomentare umano colla fede divina. Essenziale alla forza è l'unione; all'unione è necessaria l'unità della dottrina; questa non si conserva che sottomettendo l'individuale giudizio all'autorità, e vero cattolico non è chi non ha prosternata la debole sua ragione davanti l'autorità infallibile.

Il Protestante invece, tolta ogni connessione fra la coscienza del fedele e la direzione del sacerdote, pretende l'interpretazione privata, sia per lume di ragione, sia per ispirazione superna; laonde la religione, ridotta a mera opinione, non ha maggior valore che una scuola filosofica; abbandonata a cieca sentimentalità o ad immaginazione esaltata, oppure alle sottigliezze dell'argomentazione.

Ma o non v'è autorità superna che diriga la libertà degli uomini, o quella si trova nella Chiesa cattolica. E questa autorità non si estende che alle verità annunziate da Gesù Cristo: e non risiede in ciascun vescovo, bensì nel corpo dei vescovi uniti col pontefice.

Ripudieremo la tradizione? Questa sussisteva già nella legge ebraica: viepiù occorreva nella nuova, tanto meno particolareggiata. Fino dai primi anni del cristianesimo gli apostoli si adunarono per decidere intorno all'osservanza delle pratiche mosaiche, cioè intorno a punti, sui quali il Redentore non si era espresso. San Paolo scriveva a Timoteo: «Le cose che hai udite da me come testimonio, confidale a uomini i quali sieno idonei ad insegnarle anche ad altri»[433]. E san Giovanni: «Molte cose avrei a scrivere a voi, ma non l'ho voluto fare con carta e inchiostro, perchè spero venire a voi, e parlarvi faccia a faccia»[434]. Non tutto dunque si scriveva. Anche senza di ciò, come credere al testo sacro se questo non ci fosse trasmesso da un'autorità conservatrice, della cui infallibilità è garante Iddio? Ora quest'infallibilità del testo sacro, e la conservazione sua traverso ai tempi è ammessa anche dai Protestanti, come da noi l'infallibilità della Chiesa. Alla quale noi attribuiamo pure il diritto d'interpretare le sacre carte; e già san Pietro ne ammoniva: «Ponete mente che nessun pronunziato della Scrittura è di privata interpretazione»[435]: e delle epistole di Paolo diceva: «V'ha passi difficili, a intendersi che gl'ignoranti stravolgono, come le altre Scritture, per propria ruina»[436]. E san Paolo aggiungeva: «Fratelli state fermi, e tenete le tradizioni che imparaste sia per le parole, sia per le lettere nostre»[437].

La Chiesa, spiegando le parole apostoliche dovette usarne di differenti. Anzi gli stessi evangelisti non hanno conservato l'identica forma della parola del Salvatore: e uno la riferì a un modo, l'altro all'altro. Viepiù bisognava farlo quando la Chiesa prendea di mira un dato errore, il quale aveva una propria terminologia e tesi proprie, che doveansi ribattere con antitesi convenienti. La dottrina sta invariabile: la forma differisce secondo il transitorio e l'umano.

[335] L'accusa dunque di predicare la dottrina della Chiesa, anzichè quella di Cristo, quasi fra queste due soggetti v'avesse contrarietà, è assurda: giacchè, come il verbo s'è fatto uomo, e l'uomo e Dio in Cristo sono un solo figliuolo di Dio, così la parola divina s'è incorporata nella parola e nella società sensibile della Chiesa, venendo trasmessa e conservata per azione umana: non sono già due parole, ma la parola divina, umanamente promulgata.

Nel deposito della fede ci sono verità, non ancora state avvertite, o formolate, o esplicitamente insegnate. Fino dall'origine la Chiesa credette la divinità di Cristo, e la procedenza dello Spirito Santo, e la divina maternità di Maria, eppure questi dogmi formolò solo quando furono impugnati. E sempre, nel repulsare nuovi errori, più viva e decisa luce viene diffusa sopra quistioni supreme. Innanzi che san Paolo ribattesse quei che difendeano il Mosaismo, nessuno avea sì ben espressa l'eccellenza della fede evangelica. Col vagliare i dissensi nati tra i fedeli di Corinto, egli chiarisce gli oracoli divini sulla costituzione della Chiesa. Gli errori de' Gnostici e de' Manichei fanno porre in sodo la natura e l'origine del male, il contrasto fra la natura e la libertà, le relazioni della prima creazione coll'edifizio cristiano. Ario costringe ad esplicare la divinità di Cristo e la sua natura. Disputando co' Pelagiani si misura la debolezza e miseria umana coll'ajuto della Grazia.

Volendo all'intelligenza umana mettere meno vincoli che sia possibile, la Chiesa, finchè non si sollevi un errore patente e sostenuto da molti, non viene a una decisione ponderata, la quale dilucidi e stabilisca la verità. Possono dunque trovarsi espressioni poco esatte fino ne' più cauti; ma opinioni e sistemi particolari, usi o discipline d'un tempo, non sono la Chiesa, nè essa li consacra. Per quanto essa veneri sant'Agostino, non fe sue tutte le sentenze di quel massimo fra i dottori intorno al peccato originale e alla Grazia. Onde a torto gli avversarj attaccano, come fossero dottrina della Chiesa, alcune opinioni speciali, talvolta ripescandole in autori oscuri; ovvero usanze e riti che la Chiesa non sanzionò mai; nè distinguono l'accidente dall'essenza, dalle opinioni d'alcuni teologi i dogmi; vale a dire ciò, e ciò solo che qual parola di Dio viene proposto dalla Chiesa[438]. Di questo ella è custode, non giudice di opinioni subjettive, sinchè a quello non si oppongono[439].

V'ha preghiere e riti che, indipendenti da fede intima, non racchiudendo veruna santa emozione, non diffondendo nè unzione nè raccoglimento, pure rispondono agl'indelebili istinti dell'uomo; esprimono l'amore di lui per Dio in tutte le cose, e per tutte le cose in Dio; la penitenza d'un fallo primitivo, origine d'ogni male in terra, il proposito di espiare le colpe personali mediante la fede e le opere, queste essendo morte senza di quella, e quella essendo vana senza di queste; la speranza in un Dio vivo, e di possederlo nella beata eternità.

[336] La poesia, l'entusiasmo hanno un linguaggio, che non pretende a dogmatica precisione. Perchè cercare in un inno, in qualche legenda, nel calore d'una predica, nell'immaginoso idioma del vulgo, espressioni che non reggono al crogiuolo della rigorosa teologia? Il tenere le immagini era proibito dalla legge mosaica. Che monta? non era proibito da quella il lavorare al sabato o il mangiare majale, e ordinato il circoncidersi, e tant'altre prescrizioni e divieti accidentali? Di rimpatto la Chiesa adottò moltissime usanze che già erano de' Pagani, o che s'attengono alla natura stessa dell'uomo nel fondo loro come nell'abuso; o convertì a santa significazione quel ch'era profano, ergendo coi vasi tolti all'Egitto un tabernacolo al Dio vivente. Già s'avea luoghi dedicati a un dio speciale; divinità invocate per certe malattie, per certi eventi, o scelte a patrocinio di alcuni mestieri o professioni; si faceano voti e pellegrinaggi: si usava l'acqua lustrale; si feriava in certi tempi, appunto come fa il cristiano. Che importa? il fedele, quand'anche nol professi dottrinalmente, pone il debito divario fra Dio e i santi suoi; non riconosce in questi se non speciali intercessori, quasi l'uomo, sentendosi indegno di avvicinarsi immediatamente al trono supremo anche dopochè gliene aprì l'accesso il Cristo, interponga altri che furono sottoposti ai bisogni, alle debolezze, ai peccati suoi stessi; veneriamo le ossa che aspettano la glorificazione; baciamo le reliquie per attingerne una virtù benefica e proponimento e forza d'imitarli. E Maria? culto pietoso e consolante, che presentando il tipo de' sentimenti più dolci in natura, il pudore della vergine e l'amor della madre, la rassegnazione dell'afflitta e il trionfo della martire, immacolata fin dal concepimento, eppure avvocata de' peccatori; si addatta alle miserie della vita porgendosi interceditrice innanzi al giusto, qual madre dell'uomo e donna de' dolori, e realizzando fuor di Dio tutte le qualità affettuose, di cui l'umanità non può far senza, sia nel culto, sia al focolare[440].

Chiunque crede Dio, crede che nulla è a lui impossibile. In conseguenza non ripugna da que' fatti che Dio compie indipendentemente dalle cause seconde, e che si chiamano miracoli. Ciò non porta a credere tutto, degradando le legittime ragioni della critica, nè ad accettare i delirj della superstizione, le illusioni dell'ignoranza, i vezzi della fantasia, costituenti una mitologia cristiana, che ogni credente discerne dalla verità[441]. Filosoficamente ogni miracolo è un fenomeno; teologicamente ogni fenomeno è un miracolo: quanto al finito, tutto è opera di natura; tutto è opera di Dio quanto all'infinito.

Il miracolo, in tempi di credenza, diveniva una delle condizioni ordinarie dell'azione di Dio sopra il mondo; il risultato naturale dell'innocenza, restituita per mezzo del sagrifizio; e talvolta, a forza di fissar l'attenzione nell'ordine della Grazia e del soprannaturale, si perdè l'intelligenza della semplice natura e della giustizia umana.

[337] Venuti secoli d'esame, si ripudiò una quantità di quelle legende; pure sono registrate secondo le pie tradizioni di età abituate a vivere di fede; registrate però e senza mettere limiti all'onnipotenza di Dio, il quale ha ricchezze infinite pe' cuori semplici e fedeli; e senza assegnare quanta certezza abbiano[442].

Tutto insomma si concorda, purchè si ami. Caddero abusi nella Chiesa? Chi il nega? Scopriamoli, correggiamoli, ma è egli giusto ripudiare la verità perchè se n'abusò?

Nella Chiesa accanto alla verità e ai precetti rivelati, stanno l'insegnamento, la giurisdizione, il ministero. Il dogma eleva l'intelligenza fin al soprannaturale. La morale segna chiaramente la giustizia, e la inculca mediante la carità. Il ministero deve perpetuar nella Chiesa sotto segni visibili la divina istituzione della giustificazione pei meriti di Cristo, e del santificamento per la comunicazione dello Spirito Santo.

Il dogma dev'essere annunziato e in parte spiegato: la morale dev'esser ridotta a notizia de' fedeli; il ministero deve compiersi per provvedere ai disegni della comunione de' Fedeli: laonde son elementi necessarj della Chiesa il dogma, la legge, il sacerdozio.

Pertanto il clero non può separarsi dalla Chiesa cattolica, se vuolsi ch'ella sia organata e vivente. Se venisse modificato nel triplice suo cómpito, le relazioni colla Chiesa ne resterebbero lese. Ad esso venne affidato il giudizio delle azioni umane in ordine alla vita eterna, «Come il padre mandò me, così io mando voi»; ciò è detto agli apostoli e legittimi successori, non ad altri; come agli apostoli fu detto di far in commemorazione la santa Eucaristia, cioè i ministeri più elevati.

Nella costituzione storica e giuridica della Chiesa coesistono dunque, 1º i battezzati, semplici credenti: 2º gli apostoli, con prerogative comuni a Pietro, quali sono la speciale vocazione[443], la podestà di legare e sciogliere[444], il magistero dell'insegnare[445], la missione di rigenerare e salvare i credenti[446], la facoltà di ordinare i successori[447], l'indefettibilità dei doni e delle promesse[448]. 3º A tutti sovrasta Pietro, fondamento singolare della Chiesa[449], a cui sono affidate le chiavi del regno de' cieli[450], l'offizio di pascere e di reggere gli agnelli e le pecore, cioè e i fedeli e i loro capi[451]; la stabilità della fede e l'uffizio di confermarvi i fratelli[452]; promettendogli l'indefettibilità, come fondamento della Chiesa[453].

Viene così a costituirsi un accordo di monarchia, aristocrazia, democrazia, come tre elementi, non tre poteri. L'aristocrazia de' vescovi partecipa di tutte le prerogative del capo, eccetto il primato: ad essi soli Gesù Cristo impartì la gerarchia della giurisdizione: i preti son loro cooperatori, con giurisdizione non ordinaria, ma delegata e varia, che ricevono potenzialmente, non effettivamente coll'Ordine.

[338] Sotto alla gerarchia sta la democrazia, l'universalità de' fedeli, la plebs, tutti figli di Dio, fratelli di Cristo, senza distinzione di classi o di nazioni, godendo la fratellanza, l'eguaglianza, la libertà.

Hanno essi diritto nel governo ecclesiastico?

La Chiesa è d'origine soprannaturale, sicchè opinioni o volontà umane nulla valgono nello scopo suo, ch'è di effettuare e propagare il sacramento di Dio per Gesù Cristo. E Cristo, il cui regno non era come quelli del mondo, non la affidò a re o a popoli, ad assolutismo o a suffragio universale, bensì all'ispirazione dello Spirito Santo. La consacrazione ai pastori non è data dalla plebe: onde neppur la giurisdizione; nè la sua forma può andare mutandosi, come ne' governi umani. Però noi plebe de' Fedeli abbiamo diritto di essere ben governati, con carità e riverenza, rettamente ammaestrati, fatti partecipi de' sacramenti: la scienza ci dà diritto di rimostrare, come abbiam veduto fare i più gran santi; la giustizia deve aver le sue forme, i suoi gradi, i suoi appelli; se ne devono accettare le pene, e il potere coattivo interno ed esterno secondo i tempi. Tal è la costituzione ecclesiastica.

Siffatti press'a poco saranno stati gli argomenti addotti dai nostri contro i novatori, e già indicammo i primi combattenti. Per toccare qui solo de' nostri, il già lodato cardinale Contarini[454] scrive con garbo e chiarezza, ma mostrasi filosofo arguto più che profondo teologo; tradusse gli Esercizj di sant'Ignazio, del quale era amico: poi fallitagli la concordia di Ratisbona, si restrinse a cercare la riforma morale dei vescovi di Germania. Messo legato a Bologna, potè spiegare e zelo, e carità, e qui serva ricordare come, avendo saputo che un gentiluomo parlava licenziosamente di Dio e della religione, lo prese suo domestico, e coll'esempio e le ragioni lo vinse di modo, che anche dopo la morte del suo benefattore egli ripeteva: «Di questi prelati ci vorrebbero, che sapessero cavare le anime di mano al diavolo fin sotterra».

Alvise Lippomano, pur di Venezia, vescovo di Modena, di Verona, di Bergamo, versato nelle lingue, essendo nunzio in Germania cercò «sterpar la mala erba luterana», compilò il catalogo degli antichi interpreti greci e latini della Genesi, dell'Esodo, dei Salmi, e stese la Confermazione e stabilimento di tutti i dogmi cattolici, con la subversione di tutti i fondamenti delli moderni eretici (Venezia 1553), e in sei volumi le vite dei santi, con critica maggiore della consueta, e conservando molti preziosi racconti di greci e latini. Possiamo aggiungere il cardinale Marino Grimani vescovo di Ceneda e patriarca d'Aquileja, che l'epistola ai Romani commentò in senso opposto ai reluttanti; Girolamo Amedei, servita senese, spedito in Germania; il domenicano Silvestri che fece un'Apologia della convenienza degli istituti cattolici colla evangelica libertà; Ambrogio Fiandino da Napoli, agostiniano, che già aveva confutato il Pomponazio, senem delirum, maledicum, patriæ vituperium, e dettò contro Lutero tre opere non mai stampate; Cristoforo [339] Marcello veneziano, arcivescovo di Corfù, e famoso per dottrina non meno che per disgrazie. Alla Magliabecchiana conservansi in cinque grossi volumi manuscritti Disputationes variæ v. fr. Nichola Stufæ O. Pr. habitæ in variis locis Galliæ et Germaniæ contra hæreticos calvinistas et luteranos, ma non ci parvero di forza sufficiente[455].

Spesso lo zelo dava ombra; e Andrea Bauria, ferrarese agostiniano, vigorosissimo predicatore contro i vizj, fu messo in sospetto a Leone X, il quale fece sospendere la stampa del suo Defensorium apostolicæ potestatis contra Martinum Lutherum. Anche frà Girolamo da Fossano, che abbondevoli frutti coglieva nelle valli subalpine dei Valdesi, fu sospettato d'eresia e sospeso dal predicare finchè si provò innocente, e scrisse una delle migliori difese della messa contro Lutero (Torino, 1554).

Maggior rumore levò Ambrogio Caterino. Nel secolo era stato Lancellotto Politi senese, studioso delle leggi quanto solevasi nella sua patria, della cui libertà fu fervoroso difensore. Studiò anche dieci anni a Parigi, e di trenta resosi frate, mostrò elegante dicitura, chiarezza, metodo, leale esposizione delle objezioni, ampio sviluppo degli argomenti, estesa dottrina ma litigiosa, per la quale vedendo eresie dapertutto, s'abbaruffò anche co' teologanti cattolici; e spirito indipendente, non si chinava all'autorità di san Tommaso o di sant'Agostino o d'altri. Benchè domenicano, asseriva l'immacolata concezione di Maria; contro san Tommaso sosteneva che Gesù Cristo sarebbe venuto al mondo, quand'anche Adamo non avesse peccato; nei commenti sui primi capitoli della Genesi e sulle Epistole canoniche, non esita a combattere spesso il cardinale Cajetano, imputandolo d'interpretazioni umane e opinioni singolari; nel trattato della Grazia, asseriva potersi esser certi della giustificazione, dottrina simile alla luterana, che gli fu ribattuta; sulla predestinazione credeva che pochi fossero eletti assolutamente, ma per un gran numero il decreto fosse condizionale; che i bambini morti senza il battesimo godono una felicità conveniente, e sopratutto non esser necessario che il ministro de' sagramenti abbia l'intenzione di far cosa sacra, purchè ne adempia le cerimonie. Lettere di gran lode gli scriveva il Sadoleto, e trovava eccellente il libro suo sul peccato originale e sulla giustificazione, materia tanto difficile, intorno alla quale erangli rimasti certi dubbj, che a tempo più calmo intendeva comunicargli; pure assicurandolo non aver letto nulla di più erudito e dove gran dottrina fosse accoppiata con tanta prudenza e vera religione[456]. Oltre un Discorso contro la dottrina e le profezie di frà Girolamo Savonarola (Venezia 1548), dove attacca i costui seguaci, scrisse De cælibatu adversus impium Erasmum; Quæstiones duæ de verbis quibus Christus SS. Eucharistiæ sacramentum instituit, opera che fu proibita; e un trattato De libris a christiano detestandis et a christianismo penitus eliminandis, ove un capitolo è intitolato: Quam execrandi sunt Machiavelli discursus, et institutio sui [340] principis. Osteggiò i varj eretici nel Rimedio alla pestilente dottrina di frà B. Ochino (Venezia 1544), nel Compendio d'errori ed inganni luterani (Firenze, 1520) dedicato a Carlo V. Nei Libri V adversus Lutherum, egli diceva all'eresiarca: «Se la Chiesa non è che in ispirito, come si potrà riconoscerla sulla terra?»

Lutero rispondea che la Chiesa è unicamente interiore, ma che i caratteri ai quali distinguerla sono il battesimo, la cena e sopratutto il Vangelo. Ma non sono questi appunto che fan della Chiesa una istituzione visibile?

Il Caterino fu vescovo di Minore, poi arcivescovo di Consa ed uno dei più operosi al Concilio di Trento, ove i suoi discorsi erano volontieri ascoltati per una certa franchezza, per la quale pareva inchinar verso gli eretici, mentre era soltanto vaghezza di farsi nominare colle novità: uomo (dice il cardinale Pallavicini) di somma reputazione ne' suoi atti, di minore nelle sue opere, forse non favorito in esse dalla universale opinione altrui; ma nelle contese cogli eretici e nelle funzioni del Concilio non inferiore d'applauso a veruno de' coetanei e de' colleghi. Morì settuagenario nel 1553.

Altri potremmo cercare, e avremo occasione di nominare, ma una rigorosa ed assoluta confutazione dell'errore, una sapiente e compita esposizione della verità non apparve; nè tampoco sorse tra' nostri chi, come il tedesco Erasmo e lo spagnuolo Melchior Cano, ristabilisse le vere nozioni sulla teologia e le pruove di cui essa si vale. Confutavasi dialetticamente, anzichè sistematicamente; dissertavasi sovra punti particolari, e davanti al tribunale inferiore della ragione individuale, anzichè incalzare gli avversarj entro barriere solidamente piantate, col mostrare che l'individuale interpretazione distrugge l'essenza della società spirituale, distruggendo la fede. Togli alla verità il carattere obbligatorio, essa rimane indistinta da qualsivoglia errore, nè il Protestante può condannare l'ebreo, il deista, l'ateo, se non coll'opporre alla ragione di questi l'autorità.

Poi ad ogni quistione s'immischia una turba di bersaglieri, che vuol venire alle braccia senza sapienza, nè gusto, nè modestia, e perciò temeraria e trascendente. Nel procedere del racconto incontreremo scritti di rabbia, ed esagerazione, e titoli beffardi. I Protestanti chiamavano noi papisti, poi s'adontavano se noi li chiamavamo luterani; quelli della Confusione Augustana; a troppi mancava quella salutare diffidenza dei proprj giudizj, che si chiama umiltà.

Tipo di costoro fu Girolamo Nuzio, nome che mutò in Muzio (1496-1576), aggiungendo justinopolitano perchè, sebben nato a Padova, era oriundo e cittadino di Capodistria; uno de' più fecondi scribacchianti del suo tempo. Servì da segretario a varj personaggi, fra cui al marchese del Vasto, a don Ferrante Gonzaga governator di Milano, al conte Claudio Rangone, col quale passò in Francia; azzeccò risse con molti letterati, e si segnalò nella scienza cavalleresca, come chiamavano allora la teorica de' duelli; i quali vedendo [341] non si potevano abolire, pensò sistemare, dandovi un'infinità di regole minuziose, come interviene ogniqualvolta s'introduce il casismo.

Il celebre Flaminio, scrivendo a messer Luigi Calino di Brescia intorno al fiorire delle buone lettere dice: «Fra gli ingegni ho sempre numerato quello del nostro messer Muzio, del quale avendo concetto una bellissima speranza, come potrei fare che non mi dolesse sommamente vedendo che così nobile pianta, per essere mal coltivata degeneri, e donde si aspettavano frutti soavissimi ed eccellentissimi, si raccolgono lambrusche e sorbe?»[457] Innumerevoli sono le opere sue, ed egli stesso dà il titolo di quelle che uscirono «dalla penna ad uomo, che dal XXI anno della sua età fino al LXXIV ha continuamente servito, ha travagliato a tutte le Corti della cristianità, e vissuto fra gli armati eserciti, e la maggior parte del suo tempo ha consumato a cavallo, e gli è convenuto guadagnarsi il pane delle sue fatiche». In dieci canzoni celebrò separatamente il viso, i capelli, la fronte, gli occhi, le guance, la bocca, il collo, il seno, la mano, la persona della sua amata; insieme traduceva i testi greci per comodo della storia ecclesiastica del Baronio. Côlto da grave malattia nel 1552, protestò voler «dare al servizio di Dio questo poco tempo che avanza, rivolgendosi tutto agli studj sacri»: ma don Ferrante lo persuase a rimanere a' suoi ordini. Morto che questo fu nel 1557, il Muzio passò ajo del principe Francesco d'Urbino, cui diresse un Trattato del principe giovinetto. Ne' viaggi avendo osservato i costumi de' Protestanti, non gli parvero quali dai lodatori erano vantati, e la loro dottrina confusione ed abusione; e accintosi a combattere la comunione del calice a' laici, il matrimonio de' preti e le altre novità, sostenne che non fosse necessario adunare un Concilio; dissuase Lucrezia Pia de' Rangoni dall'abbracciare gli errori diffusi tra i Modenesi; ebbe dall'Inquisizione romana l'incarico di far bruciare tutte le copie del Talmud nel ducato d'Urbino, e d'informarla di quanto scoprisse di men religioso, principalmente a Milano. Ove udendo predicare Celso Martinengo, lo denunziò al Sant'Uffizio, e poichè questo non osava prenderlo, citollo egli stesso ad esame, e lo incarcerava se non fosse fuggito. Di ciò i Milanesi gli presero un male a morte qual a persecutore, finchè non seppero che il Martinengo era stato assunto pastore degli Evangelici in Ginevra, dove l'effigie del Muzio fu chiassosamente bruciata. Del Vergerio, vescovo di Capodistria, era stato amico d'infanzia; ma come questo sviò, non che lasciarsene sedurre, non ommise alcun tentativo per richiamarlo al vero, e frustrati i consigli amichevoli, scrisse contro di lui al popolo di Capodistria (1550), e più dopo ch'ebbe apostatato.

Nei Tre testimonj fedeli, librando le dottrine de' santi Basilio, Cipriano, Ireneo, convince di falsità Erasmo ed altri; a sostegno del sinodo di Trento scrisse principalmente il Bullingero riprovato; l'Eretico infuriato contro Matteo Giudice professore di Jena; la Cattolica disciplina [342] de' principi contro il Brenzio. L'Antidoto cristiano, la Selva odorifera, la Risposta a Proteo, il Coro pontificale, le Mentite Ochiniane, le Malizie Bettine (1565), la Beata Vergine incoronata, erano i bizzarri titoli d'opere sue, buttate giù con violenza e scarsa critica, svelenendosi colle persone, anzichè teologicamente incalzare l'errore; modo di farsi leggere dal vulgo, non di vantaggiare la causa del vero.

Pio IV avealo favorito; viepiù Pio V, che l'usò ancora a scrivere contro gli eretici, principalmente contro l'Apologia per la chiesa anglicana del vescovo Jewel; poi contro le Centurie Magdeburghesi che pretese confutare in due libri di storia sacra (1571). La morte di quel papa lasciò il Muzio sprovvisto, sicchè al duca Emanuele Filiberto di Savoja scriveva qualmente, in cinquantaquattro anni di servizio, non avesse saputo assicurarsi cinquanta quattro soldi di rendita. Fedele alle pratiche, frequentava la messa e i sacramenti, recitava ogni giorno i salmi penitenziali: eppure qualche sua egloga sente di carne, come confessa che in fatto di continenza era «ancor atto più ad esser ripreso che a riprendere».

L'Aleandro al Sanga scrive da Ratisbona il 14 marzo 1532 d'un Paolo Riccio medico, da lui conosciuto in Italia trent'anni fa, dotto ebreo convertito, passato poi a' servigi della Casa d'Austria, ed entrato anche nel consiglio dell'imperatore, il quale scrisse libri in difesa della fede, ma inserendovi cose che sentono di giudaismo. Allora essendo ancora i tempi che tutto tiravasi a buona interpretazione, non vi si badò. Nate poi le discussioni, il Riccio cercava convertire Luterani, ma sempre mettendo avanti qualche dottrina men sana: poi fe stampare un libro, ove, supponendo la Chiesa divisa in due parti quasi eguali, mostrava volersene far mediatore. Cascò in molti errori, contro i quali scrisse il Fabro; e il Riccio, convinto si ritrattò[458].

Alberto Pio signore di Carpi, che molto figurò nelle vicende del suo tempo e come principe e come ambasciadore, studioso quanto devoto, in mezzo a tanti affari coltivava l'amicizia dei dotti, e scrisse egli medesimo varie opere, anche sulle controversie d'allora, e contro Lutero. S'indispettiva egli degli incessanti frizzi da Erasmo lanciati agli ecclesiastici; pareagli indebita la cortesia usatagli da papi e prelati; e ne sparlava alla sbracciata in Roma. Erasmo, tenero in fatto di lode, se ne lagnò con Celio Calcagnini, il quale interrogatone Alberto (1525), n'ebbe una lettera lunghissima, dove, lodando l'ingegno di Erasmo, l'imputa d'aver dato origine o fomento alle nuove eresie, ed analizza molte opinioni di esso, trovandole o simili o identiche a quelle di Lutero.

Intervenne in quel tempo il sacco di Roma, dal quale tanti letterati ebbero a soffrire ed anche il Pio; il quale poi a Parigi stampò essa lettera, cui Erasmo ne replicò un'altra, che ebbe postille dal Pio. Ivi Erasmo gli risparmia le ingiurie, ma in epistole private lo malmena, fino a supporre [343] che quello fosse lavoro di Giovan Genesio Sepulveda di Córdova. Il Pio stese poi un'opera ove censura le opinioni di Erasmo, e confuta lui e i novatori del tempo, massime intorno al libero arbitrio, schivando l'argomentazione scolastica, e procedendo con erudizione ed eleganza, più che con forza. L'opera comparve postuma[459], sicchè Erasmo potè con sicurezza attaccarla: anzi in un dialogo De funebri pompa Alberti Pii lo beffa dell'esser voluto morire in abito da francescano[460].

Ma Erasmo stesso, eminentemente letterato, sicchè il principio intellettuale lasciava prevalere al principio mistico, non potea gradire la Riforma, che rinnegava il bello[461]. Come tant'altri avea sperato che il progresso delle lettere e delle arti addolcirebbe i costumi, e schiarirebbe gli spiriti, per modo da dissipare le superstizioni; lo studio della Bibbia purificherebbe le credenze e raddrizzerebbe gli errori; i monaci si restringerebbero nella propria sfera, facendo dei conventi tanti ricoveri di studio, di pace, di pietà; Leone X, nè avviluppato negli intrighi politici della sua famiglia, nè frenetico d'armi come Giulio II, attuerebbe la riforma e il trionfo della verità insieme e del bello: egli stesso credea contribuirvi col saettare i disordini, gli eccessi, le abjezioni.

A queste illusioni lo strappavano le trasmodanze della Riforma, che violentemente diroccava ciò ch'egli non volea se non rimpedulare. Confessò che sulle prime aveva ammirato questo Lutero, il quale a testa alta veniva flagellando i vizj del suo secolo e i vescovi imporporati, nè chinavasi ad alcuna maestà, neppure all'antistite supremo; e con mano santamente libertina svelava fino le nudità del padre[462]. Al cardinale Campeggio scrive: «Non lessi dodici pagine di Lutero, e anche queste fretta fretta: pure vi ho riscontrato di belle qualità naturali, e una singolare attitudine a scoprire l'intimo senso delle Scritture. Ho inteso persone savie, d'esemplare pietà, d'intera ortodossia compiacersi d'averne letto i libri; anzi, quanto i suoi avversarj aveano maggior virtù, e s'avvicinavano alia purezza evangelica, tanto erano meno ostili a Lutero, e, pur non partecipando alle sue opinioni, ne lodavano grandemente la vita». E meglio esclamava: «Piacesse a Dio che ne' libri di Lutero s'incontrasse meno di buono, o che il bene non fosse corrotto da tanta malizia!» Ma colla solita ironia, al priore degli Agostiniani che gli chiedea «Finalmente che cos'ha fatto quel povero Lutero?» rispose: «Ha fatto due grossi peccati: attentò alla tiara dei papi e al ventre dei frati».

Leon X avea scritto ad Erasmo per tenerlo in fede, e perchè adoprasse il suo ingegno a difesa della verità[463]. Ma per difendere la verità ci vuol coraggio, e nulla lo toglie più che la smania della popolarità.

Celio Calcagnino, illustre filologo, pure non ciceroniano, che a Ferrara aveva complimentato Erasmo in un latino sì puro e facondo da renderlo mutolo e incapace di rispondere[464], spedì ad Erasmo un suo manuscritto [344] De libero arbitrio in confutazione di Lutero: ed egli lo ammirava, e «Per gloria del vostro nome lo farei stampare, se non fosse uno sciagurato passo, ove mostrate credere che io mi compiaccia a questo spettacolo di religiose capiglie, standomene a bocca badata e colle mani in mano davanti al cinghiale che devasta la vigna del Signore».

Come cercò mitigare le escandescenze di Lutero contro il pontefice, così disapprovava questo d'aver proceduto con rigore. Appena salì papa Adriano VI, ch'era stato suo condiscepolo nella famosa scuola di Deventer, Erasmo gli scrisse persuadendolo alla mansuetudine, ma presto s'accertò che non era più a sperare una riconciliazione. E diceva: «Ciò che mi colpisce di più in Lutero è che, qualunque cosa tolga a sostenere, e' la spinge all'estremità. Avvertitone, non che mitigarsi, cacciasi più avanti, e pare non voglia che passare ad eccessi maggiori. È un Achille, la cui collera è indomita. Aggiungetevi la gran riuscita, il favore dichiarato, i vivi applausi di tutta la scena, e c'è di che guastare anche uno spirito modesto».

Incalzato a confutarlo, Erasmo rispondeva: Nunc Luterus scribit in se ipsum, videns rem alio verti quam putarat, et exoriri populum non evangelicum sed diabolicum, cum interitu omnium bonorum studiorum.

E nelle lettere: «Qual cosa più detestabile che l'esporre le ignoranti popolazioni a udir trattare pubblicamente il papa d'anticristo, vescovi e preti da ipocriti, la confessione da pratica abominevole; le espressioni di merito, di buone opere, di buone risoluzioni da pure eresie, e professare che la nostra volontà non è libera, che tutto avviene fatalmente, e che poco monta di qual sorta siano o possano essere le azioni degli uomini?»[465]

Dopo gli onori dell'attacco voleva dunque anche gli onori della resistenza. Ma conservarsi neutrale fra partiti debaccanti era egli possibile a personaggio sì in vista? Sospetto agli uni e agli altri, troppo indipendente per Roma, ove Pasquino applicavagli il virgiliano Terras inter cœlumque volabat; troppo esitante per Lutero: i Protestanti, che, atteso il suo odio pei frati, s'erano immaginati d'averlo per corifeo, perduta questa speranza, gli si avventarono, attribuendogli occhio d'aquila, cuor di capretto; ed egli allora uscì a combatterli sul punto vitalissimo del libero arbitrio. Non combatteva però da avversario o da papista, e solo indignavasi di tanti o sbagli o frodi nelle citazioni: ma se l'opera mancava di nervi, traeva autorità dal nome: e Lutero, che prima celiava della costui pretensioni di camminare sopra le ova senza schiacciarle, e ripeteagli che lo Spirito Santo non è scettico, allora gli s'avventò con ingiurie, quali solevano suggerirgliele i bicchieri. Anche l'insigne Girolamo Accolti, che poi fu cardinale, da amico di Erasmo divenuto avversario, ne dipinse sinistramente il carattere. Altrettanto fece il Sadoleto, che fu detto il Fénélon italiano.

Primo Conti milanese, uno dei primieri discepoli di san Girolamo Miani, andato in Germania per opporsi alla propagantesi eresia, si lusingò di convertire [345] Erasmo, al quale scrisse firmandosi Primus Comes mediolanensis. Il dotto credette questo il titolo di qualche gran signore, e gli si fece incontro con molta cerimonia; poi vistolo arrivare senza nemmanco uno stalliere, rise dello sbaglio, pur protestando veder più volentieri sì valente letterato che qualsifosse grande. Ma il Conti non fece alcun profitto col tepido.

L'Aleandro da Brusselle, il 30 dicembre 1531, scrive al Sanga che Ecolampadio a Basilea assicurò aver molti fautori in Fiandra, Inghilterra, Francia, Italia: in Ispagna pochi per le diligenze dell'Inquisizione; ma soggiunge che gli Ebrei s'industriano di farvi penetrare il luteranismo, sol per danneggiare la fede nostra. E che colà, non osandosi parlare liberamente di Lutero, perchè già condannato, mettono in cielo Erasmo, e fanlo «adorare in quel paese, dove ci sono de' suoi libri assai, già tradotti in quell'idioma; dico di quelli pericolosi: di modo che, trattandosi là per la Inquisizione di condannare le sue opere, per favori diversi fu fatta inibizione che non procedessero. Ed ora che è condannato a Parigi, costoro impazziscono, perchè ben vedono che la Chiesa universale seguiterà quella sentenza parigina in questa parte. E già undici anni, io lo dissi ad Erasmo in questa propria terra, pregandolo che mutasse alcune cose ne' suoi scritti ed alcune altre mitigasse, altramente tenesse per certo che, lui vivo o morto, sarieno condannati detti luoghi.... E ben si sa che, se non fosse per irritarlo a far peggio, già la sede apostolica avria condannato molte delle sue cose, non ostanti i favori che gli si usano etiam per li nostri summati, e da quelli che fanno il santo, per essere laudati da lui in un'epistola: e così abnegat Christum minimæ gloriolæ causa»[466].

Erasmo vedea benissimo d'avere insegnato quanto or insegnava Lutero[467]: diceasi proverbialmente, aut Erasmus luterizat, aut Lutherus erasmizat; ma egli è un altro esempio del quanto potesse spingersi innanzi la critica sopra la Chiesa, pur senza rompere il legame della carità; e ci spiega la franchezza di quelli, che a torto i Riformati vollero considerare come loro precursori, e la speranza che lungamente si nutrì di riconciliare i dissidenti colla Chiesa universale[468].

Disgustato da quel gran movimento, a cui avea dato di sprone, ma non valeva a mettere il freno; aborrendo la scostumatezza e i disordini soliti dei fuorusciti[469], incapace di essere capitano, insofferente di servir da gregario; conculcato, come sogliono essere tutti i precursori, dalla folla che li trascende; invano ricredendosi, e fin ritrattandosi su molte parti di quel suo ghigno letterario, ch'era stato il lampo ai tuoni della calunnia e della negazione, moriva in Basilea, dopo provato quanto facilmente un popolo tramuti i suoi idoli dall'altare al dimenticatojo. E un altro retore, capoameno, che aveva egli pure fatto un elogio della pazzia, il bizzarro milanese Ortensio Lando, ne canzonava la fine col Dialogo lepidissimo[470]. Così [346] era beffato il beffardo; il quale rimarrà tipo di quel torbido d'indifferenza, che fattosi una gloria della propria perplessità, si attribuisce a merito il risparmiare qualche tradizione; che posa principj, e non ardisce tirarne le conseguenze; che non applaudisce all'errore ma lo titilla; che vede la verità, ma non osa abbracciarla, come Pilato dondolandosi fra la giustizia e la popolarità, fra Cristo e Barabba.

Pure Erasmo avea toccato un punto principalissimo della controversia allorchè intimava: «Voi vi riferite tutti alla parola di Dio, e ve ne credete gl'interpreti veraci; ebbene, mettetevi d'accordo tra voi, prima di volere dar legge al mondo».

In quella vece il disordine dagli intelletti trasfondeasi alle volontà e da queste alla vita e privata e sociale: e prima ne risentì la Germania, volta tutta a capopiede. Le quistioni religiose, per quanto pajano astratte, non può farsi che non penetrino nelle viscere della società, e in un sistema teocratico quale avealo introdotto il medioevo, non si tocca la fede senza scompaginare lo Stato. Il cristianesimo avea dato soluzioni, non negative come la scienza d'oggi, ma positive alle quistioni capitali dell'uomo e della società, e conduceva a conseguenze effettive nella religione, nella morale, nella politica, nell'arte; donde istituzioni e leggi certe e un andamento storico sociale. Ora il protestantesimo lo sovvertiva, rivocando in dubbio i canoni fondamentali. Tendendo esso non tanto a condur l'uomo alle azioni più benefiche, quanto a trasformare i moventi dell'essere suo, ruppe nell'economia religiosa e sociale dell'umanità i due legami a cui si attiene la suprema nozione del diritto; il legame intimo che stringe l'uomo a Dio nell'eternità, mediante la coscienza; e il legame imperioso universale che lo sottomette ad una legge objettiva, ad una autorità esteriore nel tempo; e presumendo sistemare la vita umana senza riflesso al dogma, non surrogò all'antico un nuovo sovrano di diritto, ma abbandonò la società alle potestà temporali, sovrane di fatto; all'autorità che persuadeva surrogò il comando che costringe; trasferì l'infallibilità dall'intelligenza e dalla rivelazione alla forza e ai decreti. L'individuale interpretazione toglieva l'universalità dei principj, e i canoni accettati come senso comune; non era più la Chiesa che giudicasse gl'individui, ma essi lei; e l'individuo era nel bivio di rinunziare a credere, di compaginarsi da sè la propria credenza. I figli dunque dissentivano dal padre; i fratelli ai fratelli contraddicevano, le mogli ai mariti; la scossa domestica si propagava alla società civile, dove ciascuno pretendeva operare a proprio senno, dacchè a proprio senno pensava; al diritto, alla morale, fin là unicamente piantati sulla religione, mancava ogni appoggio al mancar di questa; e ribellato il pensiero alla fede, gli uomini trovarono spento il faro che gli avviava, allora appunto che imperversava la procella. Ognuno fonda una Chiesa nuova, che domani cessa per mancanza d'accordo e d'autorità: ogni predicante del minimo villaggio credesi autorizzato a divenire fondatore [347] di una religione, senza che alcuno valga a mettervi ordine. I vulghi sorgevano domandando ai nuovi apostoli «Che cosa dobbiamo fare?» Ma è appunto in tempi siffatti che i guidapopoli non sanno quel che fare, e una mano scassina quel ch'è posato dall'altra.

Il fedele, trovatosi sacerdote e papa, volle anche esser re; possedendo le doppie chiavi, ne' dubbj non ricorreva all'autorità, ma al proprio giudizio; l'indagine dal sistema ecclesiastico si voltò sul laico, ch'era tanto peggiore, e ne cominciarono rivoluzioni e il predominio della forza. Erasi elevato il potere spirituale affine di impacciar il temporale; ora si volle restituire ai re la dittatura pagana: sempre l'eccesso.

Melantone, che tanto aveva procurato prevenirle, allora gemeva sulle sconcordie, e ne presagiva di peggiori da quella sfrenatezza, da quel rinnegamento d'ogni autorità, e «Tutte l'acque dell'Elba non mi basterebbero a piangere le sventure della religione e del paese».

Il cardinale Sadoleto, nell'orazione ai principi tedeschi esclamava: «Quest'anni passati vedemmo di voi quel che giammai avremmo creduto. Dianzi vivevate in pace e concordia tra voi, ora siete nel dissenso più atroce. Dio e i celesti tutti con somma pietà veneravate; ora, estinta la pietà, gli studj della vera religione per la più parte abbandonaste; stavate alle leggi, che per la sobrietà e l'astinenza dagli avi vostri, santi personaggi, e dagli antichi padri erano state fatte, poi accettate e comprovate dall'osservanza di tutti i secoli; ora, sovvertite le leggi, tolta la distinzione delle cose, lentati i freni della continenza, tutto voleste libero e sciolto».

E continua a deplorare questo scapestrarsi delle ire, questo togliere ogni rispetto alle leggi divine e umane, ogni divario di superiori e inferiori, non accordandosi che nel vituperare il sacerdozio e straziare la romana Chiesa, che n'è capo. «Eppure in questa città di Roma, per reprimere e moderare i vizj urbani, e principalmente l'avarizia di cui più si pecca, e revocarla al costume antico, casto e modesto, furono dal sapientissimo e ottimo pontefice invitati da ogni parte del mondo personaggi, e posti nel sommo grado di onore, acciocchè con maggiore autorità e diligenza attendano a quest'uopo»[471].

E ben tosto tutta Europa fu in fuoco, e un secolo e mezzo di fierissime guerre minacciarono una nuova barbarie. E un'altra ne sovrastava.

I papi erano stati motori e centro della resistenza contro i Turchi. Oggi, che vediam questo popolo in quell'ultima decadenza dove più non lo sostiene che la volontà dei forti, l'Europa vanta la sua tolleranza nel rispettare fino il Musulmano, la sua indifferenza fino a sorreggere un governo che ha per canone politico il fratricidio, per canone domestico la poligamia, per canone economico la pirateria. Ma ai giorni di Lutero i Turchi minacciavano una conquista senza pietà, una preponderanza senza freno: si trattava ancora di decidere se l'Europa sarebbe di Cristo o di Maometto; se si progredirebbe col [348] Vangelo fino al pieno trionfo della democrazia, o si retrocederebbe fino ai serragli, agli eunuchi, alla legge incarnata in un uomo. E appunto allora i Turchi, comandati da principi eroi, avendo conquistate le coste dell'Adriatico e alcune isole, minacciavano l'Italia, corseggiavano a baldanza le nostre marine, tentarono fin sorprendere in una villeggiatura Leon X e la famosa Giulia Gonzaga. Pio II aveva evocato tutta la cristianità a questa tardiva crociata, ed egli stesso andava a porsene a capo, quando morì. I successori proclamarono sempre la guerra santa, e fervorosamente Leon X. Ma che? Ulrico di Hutten gridò alla sua Germania non gli si desse ascolto: sotto quel pretesto il papa vuole squattrinare il popolo ignorante, munger il latte delle genti, inebbriarsi alla mammella dei re[472]. E Lutero argomentava: «Noi dobbiamo volere non solo quel che Dio vuole che noi vogliamo, ma assolutamente tutto ciò ch'egli vuole. Ora egli vuol visitarci col mandare i Turchi; il respingere questi è un resistere alla sua volontà». E ripeteva: «No, Cristiani; tutti io vi scongiuro a pregare per i nostri poveri principi tedeschi, acciocchè non un soldato, non un soldo diano al papa contro i Turchi; meglio i Turchi e i Tartari che la messa. La guerra, ve lo canto chiaro, mi spiace contro il turco, non men che contro il cristiano[473]. I Turchi empiono il cielo di beati: il papa empie l'inferno di Cristiani. Se il Turco arrivasse a Roma, non sarei io che ne piangesse»[474].

I Cattolici, è vero, continuarono a tener testa ai Turchi; ma dacchè la cristianità fu divisa in due campi, non bastò più a cacciarli[475]; le forze doveano logorarsi nelle lotte interne, gl'ingegni s'aguzzavano nello scassinare la fede romana. Anche per convertire i paesi infedeli scemavano i mezzi: missionarj non partivano più che da Roma, e in mezza Europa trovaronsi distrutti i frati, che n'erano i principali stromenti.

[355]

DISCORSO XVIII.
ADRIANO VI PAPA RIFORMATORE. CLEMENTE VII. SACCO DI ROMA. PRELUDJ D'UN CONCILIO.

Il figlio d'un Florent, povero operajo d'Utrecht, meritò la predilezione de' maestri perchè mostrava inclinazione allo studio; ottenuto un posto gratuito in un collegio di Lovanio, vi apprese filosofia, matematica, diritto canonico, latino e greco, oltre il tedesco. V'aggiungeva tanta pietà, che non usciva mai di scuola senza entrare in una chiesa, e se imbattesse un povero, dividea con esso la parca cibaria. Acchiocciolatosi in una cameretta a tetto, fredda, malsana, la notte andava a leggere al lume de' pubblici lampioni, finchè Margherita d'Austria, vedova di Carlo il Temerario, allora governatrice dei Paesi Bassi, avutone contezza, gli mandò legna e trecento fiorini per comprare libri, e in appresso gli conferì una parrocchia, poi un canonicato a San Pietro di Lovanio. In questo viveva egli ritiratissimo, fra autori classici ed ecclesiastici e con qualche camerata; non lodato, neppure troppo gradito pe' suoi modi da grossolano brabanzone; ma ben contento quando dal vivere gli avanzasse tanto da soccorrere alcun poveretto. Fatto decano, si applicò a riformare quel capitolo; oculato nel conferire i benefizj; durante il pasto frugale faceva leggere le sante scritture.

Stampò in quel tempo Commentarium de rebus theologicis in quatuor sententiarum questiones[476], e il suo nome giunse fino all'imperatore Massimiliano, che lo scelse per insegnar francese, spagnuolo e latino a suo nipote. Questo divenne, col nome di Carlo V, imperatore di Germania e re di Spagna, e poichè tanta parte ebbe negli affari d'Italia e della religione, bene sta che ci badiamo alquanto a considerarlo. Erede de' possessi austriaci per padre, de' Paesi Bassi e della Spagna per madre, e in conseguenza de' dominj d'Italia e de' paesi testè scoperti in America e nelle Indie, fu fortunato sino ad avere prigioniero alla battaglia di Pavia il proprio emulo Francesco I di Francia, e con ciò assicurata la sua preponderanza di qua dell'Alpi, mentre dal nuovo mondo gli giungevano ogni giorno annunzj di altri imperj scoperti e assoggettati, ch'egli mai non vedrebbe, di miniere d'oro e d'argento scavate, di preziose spezierie, avviate dall'estremo [356] Oriente e dai paesi equatoriali a' suoi porti di Spagna. A contatto con tutti i paesi d'Europa per dominj che estendevansi da Cadice a Bruxelles, da Messina al Baltico, potè fantasticare la monarchia universale, non come immediata dominazione, ma come supremazia; nè fu vana millanteria il dire che il sole non tramontasse mai ne' regni suoi.

E veramente egli sta a capo de' re moderni. Uscendo dai secoli della cavalleria per entrar in quelli del machiavellismo, fu vario come il suo tempo, a vicenda cupo e generoso, tollerante e fanatico, ostinato ne' proprj e ligio agli altrui pareri, intrepido e sfiduciato, ambizioso fino a sognare l'alta direzione e dei regni e della Chiesa, e di abbattere la costituzione germanica, sostituendovi la monarchia ereditaria, poi umile sino a terminar la vita in un convento: non fastoso, non cavalleresco, bensì politico, affettante il casalingo; affettante il leale, mentre niuno lo pareggiava nell'ordire e tessere un intrigo, nel promettere, corrompere, eludere, conciliare, soprattutto temporeggiare, conforme alla divisa che aveva assunta, Nondum[477]. Mai non montava in collera: offeso, avvolgeasi nella dignità del silenzio: la gratitudine non conobbe: la fiducia poco; mal soffriva la contraddizione, e credeva che il lungo riflettere sia cauzione del buon successo. Pari a lui nessuno in attività, ed ebbe ad esercitarla non solo nell'amministrazione di sì varj Stati, ove le libertà e le forme tutelari del medioevo dovea soffocare nell'assolutezza amministrativa de' moderni, ma nelle guerre ostinate colla Francia, nelle civili colla Spagna e col Belgio, nelle generose coi gran guerrieri dell'impero turco; sempre con mezzi sproporzionati agli alti fini, e costretto a ricorrer a disastrosi spedienti finanziarj, e trovare impediti i suoi concetti da un frate, che colla parola arrestava o deviava l'immensa sua potenza, e toglievagli di scioglier nessuna delle grandi quistioni che eransi sollevate a que' giorni nel campo della politica come in quel del pensiero e del sentimento.

Nella sua grandezza egli ricordò il suo maestro Adriano, e lo pose vescovo di Toledo, e da Leone X gli ottenne la porpora. Erasmo, gran nemico dei frati, non ha che blandizie per questo, ne ammira le virtù non meno che le lezioni di teologia; Lutero stesso lo chiama di splendida e lodata vita.

Qual migliore per opporre alla Roma paganizzante?

Su lui dunque si accolsero i voti del conclave[478]. Trovavasi egli allora in Ispagna, e Carlo V gli mandò l'aspettasse, volendo accompagnarlo a Roma; ma esso gli rispose: «Mi sarebbe caro assai vedere V. M., ma sì calda è la stagione, che, se veniste a fretta, vi nocerebbe; se altrimenti, dovrei differire di molto l'andata, lo che tornerebbe in gran danno degli affari comuni nostri e della cristianità. I dispacci, che ricevo da Roma, da Genova e da ogni parte d'Italia, recano che le cose nostre vanno in ruina, e che non si può rimediarvi senza la mia presenza: onde non ho cuore di indugiar più oltre»[479].

[357] Per disposizione del regio alunno e pel decoro della Spagna, Adriano salpò con numerosa flotta; duemila fra prelati e cortigiani, quattromila soldati; sbarcato a Genova, «disse messa e racconsolò alquanto quella povera città del sacco e de' danni ricevuti»[480]: approdato poi ad Ostia, ricusò lo spendio e le baldorie che soleano accompagnare le entrate in Roma; fe sospendere la costruzione d'un arco trionfale, dicendo, «Le sono usanze da Gentili, non da cristiano e religioso».

Come il nome, così serbò i costumi primitivi; la fantesca che si menò dietro, dovea servirlo nè più nè meno di prima; pel pranzo non assegnava di là d'un ducato, che ogni sera dava di propria mano allo scalco, dicendogli, «Ecco per la spesa di domani», nè a più di dieci ducati doveva giungere quella della Corte. Leon X avea premiato gl'inventori di buoni bocconi; Adriano mangiava merluzzo, invece dei pesci fini celebrati dal Giovio, e s'impennò all'udire il costo di certe lucaniche, fatte con polpe di pavoni. Suggeritogli di prendere dei servi, rispose volere prima sdebitare la Chiesa; e udendo che Leon X teneva cento palafrenieri, si fece il segno della croce, e pensò che quattro sarebbero d'avanzo[481]. Avendo conferito un benefizio di sessanta scudi a un suo nipote, che, vacatone un altro di cento, glielo chiese, rispose con un gran rabbuffo che quello bastava a mantenerlo; e quando, vinto dalle istanze, glielo concesse, volle rassegnasse il precedente.

Allorchè egli entrò, Bernardino Carvajal, cardinale ostiense, gli recitò un'orazione, esponendogli sette ricordi, che sono: 1º eliminare le tribolazioni antiche, cioè simonia, ignoranza, tirannide e gli altri peccati; aderire a buoni consiglieri; reprimere la libertà de' governanti; 2º riformare la Chiesa secondo le leggi canoniche, sicchè più non somigli una congrega di peccatori; 3º i cardinali e gli altri prelati amare d'amor reale, esaltando i buoni, e provedendo ai bisognosi perciocchè in quell'altezza non s'avviliscano; 4º amministri la giustizia senza differenze; 5º sostenti i fedeli, massimamente nobili, e i monasteri nelle loro necessità, come usavano i papi buoni; 6º faccia guerra ai Turchi, perciò procurando denaro, e tregue fra i principi cristiani; 7º compia la basilica di san Pietro, parte a spesa sua, parte de' principi e popoli[482].

Frate Egidio Canisio da Viterbo già mentovammo come il più famoso predicatore d'allora, e il Sadoleto lo vanta per facilità del parlare toscano, e profondi studj di teologia e filosofia, talchè sapea (dice) nelle prediche piegar le menti, serenare le turbate, incalorire le tepide all'amore della virtù, della giustizia, della temperanza, alla venerazione di Dio e all'osservanza della religione; e senza divario di giovani o vecchi, d'uomini o donne, di primati o vulgari, tutti scotea con forza di ragionamento, fiume d'elettissime parole, d'eccellenti sentenze[483]. Non v'era solennità cui non fosse invitato a predicare, sicchè Giulio II riservò a sè il destinarlo: e sebbene il pochissimo ch'e' ci lasciò non giustifichi tanti encomj, tutti sono d'accordo nell'esaltarne [358] la virtù e l'integrità, per le quali Leon X, che gli scriveva con famigliarità d'amico, lo ornò della porpora.

Egli dirigeva ad Adriano VI un commento sulla corruzione della Chiesa e le guise di ripararvi. A dir suo, la depravazione s'insinuò dacchè la facoltà di sciogliere e legare fu adoprata a vantaggio degli uomini più che a gloria di Dio. Conviene dunque limitarla, considerandola come uno de' principali uffizj del pontefice, e quindi adoprarvi il consiglio d'uomini, integri ed esperti; escludere le aspettative de' benefizj, che fanno desiderare la morte, quand'anche non la procurino; evitare l'avaro e ambizioso accumulamento di benefizj; reprimere l'ambizione dei monaci, che sotto la giurisdizione de' loro conventi tengono infinite parrocchie, affidandole a qualche prete amovibile e mal proveduto. La turpe vendita di cose sacre, ammantata col titolo di composizioni, repugna ai canoni, ispira invidia a' principi, e dà ansa agli eretici; sicchè dovrebbe restringersi l'uffizio del datario, che smunge il sangue dei poveri come dei ricchi. Nè le riserve di benefizj gli pajono oneste. Prima di concedere le grazie, si facciano da persone savie esaminare secondo la giustizia e l'equità; e così prima di promuovere a benefizj vacanti. A tutti poi gli uffizj si scelgano quei che più buoni, abili e fedeli, e si diano uomini alle dignità e alle amministrazioni, non queste ad uomini: le concessioni, gl'indulti, i concordati con principi si rivedano esattamente, acciocchè questi non usino e abusino verso secolari e verso ecclesiastici. Indecoroso e imprudente modo si tenne in maneggiare le indulgenze; sicchè voglionsi revocare le commissioni date ai Minori Osservanti, per le quali riesce svilita l'autorità episcopale. Nessuna cura paja soverchia nell'amministrare la giustizia; un cardinale robusto e savio riveda le suppliche sporte al papa; scelgansi con somma diligenza gli auditori di Rota, man destra del pontefice, ed abbiano un soldo fisso, anzichè impinguare sulle sportule, le quali sono cresciute a segno, che le cariche vendute un tempo a cinquecento ducati l'anno, or si comperano a meglio di duemila; come quelle degli auditori di Camera pagansi trentamila ducati, mentre dianzi valutavansi quattromila. Via via determina gli uffizj della giustizia; se ne rivedano le giurisdizioni e gli statuti, che buoni dapprima, poi depravaronsi; abbia riforma il governo delle Legazioni, dove vorrebbe che i legati non rimanessero oltre due anni, come pure i governatori e prefetti e gli altri uffiziali; tutti lasciassero una garanzia del loro operato, finchè subissero un sindacato; e a chi n'esce con lode, si attribuissero onori e comodi. I debiti onde Leon X gravò la sede col creare tanti nuovi uffizj che consumano l'anno centrentamila ducati delle rendite della Chiesa, si cercasse redimerli, e se ne esaminassero attentamente i titoli; non si surrogassero i vacanti, e gl'investiti medesimi si compensassero con altri benefizj. Si potrebbe pure alleggerire il debito col riservarsi una parte delle rendite di tutte le chiese ed un sussidio caritativo massime dai monasteri[484].

[359] E Adriano nulla desiderava meglio che di riformare. Avendo già scritto sopra le indulgenze prima degli attacchi di Lutero, convinto per argomenti scolastici delle verità rivelate, trattava le nuove dottrine di insipide, pazze, irragionevoli[485]; non potea supporre buona fede ne' Protestanti, sebbene deplorasse fossero stati spinti alla disperazione col serrare loro in faccia le porte; e aveva esortato Carlo V a mandare Lutero al papa, suo giudice vero, che lo punirebbe secondo giustizia[486]. D'altro lato, venuto da contrade forestiere, restò colpito dagli abusi della Corte romana. Mandando nunzio alla Dieta di Norimberga Francesco Cheregato vescovo di Téramo, nelle istruzioni conveniva dei disordini: «Dirai che ingenuamente confessiamo che Dio permette questa persecuzione dei Luterani contro la Chiesa sua per li peccati degli uomini, e massime de' sacerdoti e prelati. Le Scritture gridano che i peccati del popolo derivano da quelli de' sacerdoti, e perciò, come scrive il Grisostomo, il Salvator nostro volendo curare l'inferma Gerusalemme, entrò prima nel tempio per castigare innanzi tutto le colpe de' sacerdoti, come medico che il male cura dalla radice. Sappiamo che in questa santa sede già da molti anni avvennero cose abominande, abuso delle cose spirituali, eccesso ne' mandati, tutto vôlto in peggio: nè è meraviglia se il morbo discende dal capo nelle membra, dai sommi pontefici negli inferiori. Tutti e prelati ed ecclesiastici deviammo dalle rette vie, nè vi fu chi facesse bene, neppur uno»[487].

Egli si fece promettere dai cardinali che smetterebbero le armi, non darebbero ricetto ne' loro palazzi a sbanditi e birbi, lascerebbero che il bargello v'entrasse per eseguire la giustizia. «Se gli ecclesiastici (scrive Giovanni Cambi) aveano barba grande alla soldatesca, o abito non lecito a preti, ei riprendevali; perchè era tanto scorsa la cosa, che portavano i prelati la spada a cavallo e cappa corta e barba. Ed io scrittore vidi un nostro fiorentino che era arcivescovo di Pisa, d'anni ventiquattro in circa, fattogli avere da papa Leone da un altro arcivescovo di Pisa ch'era ancor vivo con dargli uffizj di Roma in compenso e altri benefizj, in fatti comperato a dirlo in brevi parole, vederlo andare per Firenze il giorno a spasso a cavallo con una cappa nera alla spagnuola che gli dava al ginocchio, e la spada allato, e il fornimento del cavallo o mula di velluto a onore di Dio e della santa Chiesa: e il cardinale Giulio De' Medici sopportava tal cosa, e andava sempre alla Chiesa col rocchetto scoperto senza mantello o cappello, con una barba a mezzo il petto, e assai staffieri colle spade attorno, e senza preti e cherici: e a questo era venuta la Chiesa, d'andar in maschera cardinali e prelati, a conviti, a nozze e ballare».

Adriano, volendo correggere tutto e subito, consultava ora i Tedeschi ora gli Italiani, e pareangli facili le riforme, messe in discussione; ma quando volea ridurle in atto, riuscivangli impossibili. Perocchè v'ha abusi antichi, i quali, col resistere alla pruova del tempo, mostrano essere compatibili col [360] bene, vi sono verità nuove che, avventando la società sopra un calle diverso, le riescono micidiali: sicchè ogni rivoluzione e per ciò che erige, e per ciò che demolisce, genera perturbamenti e conflitti. V'ha abusi così profondamente radicati, da far temere che colla zizzania si svelga anche il buon frumento, oltre che gl'interessi personali impediscono i buoni e pronti effetti. Perciò si lagnava egli della misera condizione dei pontefici, che, pur vedendo il bene, nol poteano effettuare. Chiamò per ajutarlo in tal uopo Giampietro Caraffa e Marcello Gaetano, austeri ecclesiastici; sgomentò coll'annunzio di volere recidere di colpo i disordini della dateria e della penitenzieria; col togliere le vendite simoniache, pregiudicava quelli che in buona fede le aveano prese in appalto; turbò le aspettative coll'abolire la sopravvivenza delle dignità ecclesiastiche: cinquemila benefizj rimaneano così vacanti, ed eccitavano speranze smisurate, che tutte trovavansi deluse; diffidando dei più come corrotti, era costretto porre il capo in grembo ai pochi cui credeva, e che lo tradivano; per togliere via le indulgenze voleva ripristinare le antiche penitenze, ma gli fu fatto intendere che, per serbare la Germania, mettevasi a rischio di perdere l'Italia. Ignoto alla Corte, senza appoggi di famiglia come straniero, nè creandosene di nuovi perchè esitava lungamente prima di conferire i benefizj e lasciavali scoperti per paura di darli a indegni. Adriano dibattevasi invano tra quell'inestricabile labirinto. Mentre si trovavano ora ingiuste, ora impossibili le sue proposte da quegli stessi che più le aveano reclamate, i Protestanti interpretavano in sinistro la sua candidezza, menando trionfo delle sue confessioni sugli scompigli della curia. Gli furono anche mandati Cento gravami della nazione tedesca, ove Roma era rimproverata di sordidezza, d'indecenza l'uffiziatura della basilica vaticana; negligersi gli ospedali e le altre opere pie: lasciare le meretrici procedere con pompa matronale sopra le mule, e corteggiate dalle famiglie di prelati; tollerarsi nimicizie aperte e sanguinose fra i grandi[488].

Allora si sviluppò quell'oidio, che guastò e guasta tante promettenti vendemmie: il malcontento. Quella sua semplicità, quel dire la messa e l'uffizio tutti i giorni eccitarono le risa nel palazzo abituato con Giulio II e con Leon X. Da un pezzo non v'erano papi forestieri; e di questo, che neppure parlava la lingua italiana, facevano beffe o fingeano sgomento i nostri letterati. La gente, avvezza a vivere dietro ai prelati, ne sbertava la miseria. «Egli è un tedesco; povera Italia! (dicevano); sente di luterano: povera religione! Certo e' si piglia i cardinali, e ce li porta a un nuovo esiglio d'Avignone».

Giulio II era entrato nella scena del mondo da gran principe, scotendosi dalle piccolezze de' predecessori, e col sentimento della propria forza volea dominar gli eventi, muover principi e repubbliche secondo i suoi intendimenti, respingere i tiranni, non per vantaggio suo, ma della santa sede, e [361] proclamò i diritti che i popoli hanno sul proprio suolo. Dopo di lui, il papato si trovò immolato ai principi, l'Italia agli stranieri; i pontefici cessarono di proteggere i deboli, e gettaronsi in braccio ai forti, sentendo ch'era necessario un appoggio per tener in rispetto i vicini, e garantire l'indipendenza spirituale, minacciata dalla Riforma. Di qui l'anguillare di Leon X. Adriano VI struggeasi di riparar ai torti de' predecessori, ma troppi interessi l'attraversarono; l'austerità di papa comprometteva l'opera di sovrano: l'intempestiva sua condiscendenza ai riottosi disgustava i depositarj della tradizione papale: e barbaro era reputato perchè non comprendeva i bisogni intellettuali ed artistici della città eterna[489].

Realmente egli non intese mai come negli intelletti italiani s'elaborasse l'elemento pagano collo spirito indigeno; come colle arti, fatte linguaggio della religione, i papi volessero mostrare quanta ispirazione ci fosse nel cristianesimo, e capitanare i grandi ingegni, e tenere a loro disposizione non soltanto la manifattura ma l'ispirazione, e il mondo che ridiveniva greco, e che dalla fierezza germanica tornava all'oscenità gentilesca. Mancante del sentimento dell'arte, Adriano suspecta habebat poetarum ingenia, utpote qui minus sincero animo de christiana religione sentire et damnata falsissimorum deorum numina ad veterum imitationem celebrare studiose dicerentur[490]; essendogli mostrato il Laocoonte, esclamò: «Idoli pagani»; e torse gli occhi dalle classiche nudità.

In conseguenza egli che, oltr'Alpe era reputato protettore degl'ingegni, e che aveva agevolata la fondazione del collegio trilingue a Lovanio[491], fu reputato un barbaro da cotesti umanisti ch'e' più non salariava, e che, dopo aver invano sperato che il suo zelo cessasse co' primi momenti[492], levaronsi in fuga beffando e bestemmiando: prorompe la sciagurata manìa delle satire e delle arguzie: tutti i Sesti (diceva un epigramma) han rovinato Roma[493]; il Negri querelavasi che tutte le persone per bene se ne partissero; il Berni avventava un capitolo violento contro di lui e dei quaranta poltroni cardinali che l'aveano eletto; e Pasquino il dipinse in figura d'un pedagogo, che ai cardinali applicava la disciplina come a scolaretti. Laonde fu inteso esclamare: «Quale sciagura che v'abbia tempi, in cui il miglior uomo è costretto soccombere!» In fatti egli pio e zelante fu reputato un flagello non minore della peste che allora infieriva; la morte sua fu salutata con pubblica esultanza, e alla porta del suo medico si sospesero corone civiche ob urbem servatam. E sono di gran verità i due epitafj destinatigli:

Hadrianus VI hic situs est, qui nihil sibi infelicius in vita quam quod imperaret duxit.

Proh dolor! quantum refert in quæ tempora vel optimi cujusque vita incidat.

Carlo V avea forse creduto che Adriano sarebbe tutta cosa sua, ma questi, [362] ignaro de' destreggiamenti politici, stette fermo contro le pretensioni di esso e gl'intrugli de' suoi ministri e creati; non volle allearsi con esso a danni altrui: e fra l'altre amarezze ebbe quella di udir che Rodi era stata presa dai Turchi, e che questi minacciavano il regno di Napoli e la Sicilia: cercò che i principi cristiani si alleassero per resistere, ma Francesco I domandava innanzi tutto gli si restituisse il toltogli milanese[494].

Appena morto Adriano, Carlo V scriveva al suo ambasciatore che facesse riuscir il Medici, anche colla forza se i Francesi si opponessero[495]; e in fatti, per la solita altalena che ad un vigoroso fa surrogare un lasso, a un ascetico un politico e viceversa, nel nuovo conclave rivalsero i fautori de' Medici, e con arti che in allora furono denunziate come turpi, venne data la tiara a Giulio, figliuolo naturale di Giuliano De' Medici. Cavaliere gerosolimitano, destro in armi come in trattative scabrose e in giravolte cortigianesche e diplomatiche, fatto arcivescovo di Firenze e cardinale, era stato la mano dritta di Leon X suo cugino; ed allora assunse il nome di Clemente VII (1523 18 novembre).

Vanno concordi i contemporanei nel dargli lode che non tollerava simonia, non distribuiva i benefizj a capriccio, e in tutto esigeva la regolarità; invece di musici e buffoni, amava intertenersi con letterati, filosofi, teologi, ingegneri; generoso come tutta la sua famiglia, non donava nè prometteva l'altrui; e poichè le sue limosine non impinguavano i cortigiani, dispensieri della riputazione, passava per avaro e misero[496].

Aggiungasi che, trovato l'erario esausto per lo spreco di Leon X e per l'astinenza di Adriano VI, dovette mettere imposizioni e istituire Monti, e principalmente il Monte della fede per soccorrere Carlo V contro i Turchi.

Ma pretendeva all'infallibilità non meno nella politica che nella fede; sicchè, se ascoltava tutti, faceva poi a proprio senno; e alla conchiusione metteva la politica nell'irresolutezza, e l'abilità nel variare. Subito mandò fuori lettere ove, coi treni consueti deplorando le jatture della cristianità, ne accagionava le discordie de' principi e lo sformamento dell'ordine ecclesiastico; la correzione doversi cominciare dalla casa di Dio: egli emenderebbe se stesso; i cardinali facessero altrettanto; visiterebbe in persona tutti i principi onde concordare una pace; fatta la quale, celebrerebbe un concilio per restituirla anche alla Chiesa. Persuaso però che innanzi tutto bisognasse opporsi ai Turchi, e sopire l'incendio germanico, rassegnavasi a transazioni coi novatori.

Si dirà, tale essere lo stile delle autorità minacciate, riservandosi poi di eludere le promesse quando ripiglino fiato. Certo è che, sgomentato dall'assalto mosso all'autorità spirituale, vacillò sempre anche nel governo del temporale; ed anzichè accorgersi che questo non era mai stato altrettanto esteso e solido, non ebbe sentimento che della propria impotenza; sperò logorar Francia per mezzo dell'Impero, e l'Impero per mezzo della Francia, [363] onde ora all'uno ora all'altra gettandosi, non amato da alcuno nè temuto, immensi mali trasse sopra l'Italia e sopra se stesso.

Non è da questo luogo il narrare come allora si esacerbassero le inimicizie fra Carlo V e Francesco I, il quale nella battaglia di Pavia cadde prigioniero (1525, 24 febbrajo); comprata la libertà, ne violò i patti, e ruppe nuova guerra, dove andarono a miserabile strazio la Lombardia e il regno di Napoli. Il papa, impaurito dall'ingrandire degli imperiali, e scontento di Carlo V anche perchè aveva ordinato che il regio exequatur fosse necessario alle bolle pontifizie in Ispagna, s'unì in una lega, per lui detta santa, coi Francesi e cogli altri, che pretessevano la solita maschera della indipendenza italiana. Lega a lui funestissima: perocchè subito i vassalli più potenti, e massime i Colonna, si rivoltarono contro Roma (1526), sopra la quale ben presto si difilò l'esercito imperiale, guidato dal connestabile di Borbone, francese traditore, messosi al servizio dell'imperatore.

Non era un esercito regolare, bensì un ammasso di quarantamila venturieri, quali noi pure ne abbiamo veduti, che obbedivano personalmente a un capo, purchè egli facesse quel che essi desideravano. E il desiderio loro era saccheggiare Roma, tutti anelando all'oro di essa, molti essendo Luterani, la più gran parte Tedeschi, avvezzi a considerare i papi e gli Italiani come sanguisughe della loro nazione e che aveano per unico grido Nicht Papa. Un d'essi, chiamato Verdesilva, diceva: «Colla pelle di papa Clemente voglio far uno staffile, e lo porterò a Lutero perchè veda com'è punito chi resiste alla parola di Dio». Il Freundsberg, loro capitano, teneva appeso all'arcione un laccio d'oro e un d'argento, proponendosi di strozzare con quello l'ultimo dei pontefici, coll'altro i cardinali. Lo seguiva Jacopo Ziegler, che, in una vita di Clemente VII, spacciò irosamente le colpe di questo e della curia romana.

Cotali assalirono Roma (1527), ed essendosi ammalato il Freundsberg, e ucciso nell'assalto il Borbone, inviperiti e sfrenati vi entrarono, ciascuno non pensando che a sfogare i brutali istinti dell'avarizia, della libidine, della rabbia. La capitale del mondo cristiano la sede delle belle arti, l'asilo e la palestra di ogni letterato e artista, la seconda patria d'ogni cristiano, restava preda a ladroni e miscredenti: la vita d'ogni illustre di quel tempo ha una pagina dove si raccontano nuovi orrori di questo sacco, che è uno di quei regj misfatti che lasciano impronta indelebile nella storia; e dove la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia; così la barbarie superba metteasi sotto i piedi quella civiltà che la mortificava.

Di quel disastro, ove si calcolò che Roma perdesse per dieci milioni di zecchini, noi non dobbiamo raccorre se non il particolare furore spiegato contro le cose sacre. Violarono i sepolcri, e principalmente quel di Giulio II, reo d'aver voluto sbrattare l'Italia da stranieri. Chiese, monache, frati erano [364] specialmente esposti alla brutalità di costoro, che stallavano i loro cavalli in San Pietro, li stabbiavano colle bolle papali, gli abbiadavano ne' battisteri, ungevansi gli stivali co' sacri crismi; entro i calici s'ubbriacavano; nelle devote capelle violavano le vergini devote, e parati cogli arredi delle sacristie, celebravano orgie abbominevoli. Ai cardinali della Minerva e di Siena al Ponceta, a Giovanni Maria del Monte che fu poi papa, al Bartolini arcivescovo di Pisa, al Pucci vescovo di Pistoja, al Ghiberti vescovo di Verona, a san Gaetano recarono invereconde e tormentose contumelie, come a tutti quei moltissimi che dalla subitanea irruzione non s'erano potuti campare. Altri mettono un cardinale su di un asino a ritroso, nella sublime semplicità della porpora, e lo trascinano di porta in porta a mendicare il riscatto. Chiamano un prete che accorra col viatico, e il menano in una stalla, e vogliono costringerlo a comunicarlo a un giumento, e perchè ricusa lo trucidano. Fecero beffarde esequie al cardinale Aracœli; in un beffardo conclave deposero Clemente VII, e gli surrogarono Martin Lutero, festeggiandolo in buffonesca cavalcata. Gli archivj palatini sono bruciati: nella cappella Sistina s'accendono fiammate che tutta l'affumicarono: è impiccata una donna per aver dato delle lattughe a Clemente VII. Quanto insomma era venerato per devozione, per senso artistico, per antichità, per tradizione, fu scopo alla brutalità più ribalda e grossolana dei compatrioti di Lutero, eccitati da questo a detestare e sprezzare gli Italiani.

Allora sarebbesi detto veramente perduto il cattolicismo colla sua metropoli, e «infino da plebei uomini già si diceva che, non istando bene il pastorale e la spada, il papa dovesse tornare in San Giovanni Laterano a cantar la messa»[497]. Tutte le città del Patrimonio insorgeano; tutti i vassalli accorreano a spogliare l'antico padrone. I Piagnoni ne imputavano la corruzione cristiana e la persecuzione contro chi l'avea rinfacciata, e ricordavano che, quarant'anni prima, frà Savonarola aveva esclamato: «O Roma, te lo ripeto, fa penitenza. Dice il Signore: quand'io verrò sopra l'Italia con la spada, a visitare i suoi peccati, visiterò Roma: in San Pietro e sugli altari sederanno le meretrici, e faranno stalla a cavalli e porci: vi si mangerà e berrà e commetterassi ogni sporcizia. Taglierò, dice Dio, le corna dell'altare, cioè le mitre e i cappelli; taglierò la potenza de' prelati: rovineranno quelle belle case, que' bei palazzi; tante delizie, tanti ori saran gittati per terra; saranno ammazzati gli uomini; andrà sossopra ogni cosa». Altri romiti eran venuti predicando non solo la rovina d'Italia, ma la fine del mondo, e che l'anticristo fosse o il Borbone o Clemente VII. Brandano senese, prima del sacco, correva per Roma vaticinando sventura, sventura; venissero a penitenza, placassero Dio. Nel saccheggio avendo i lanzichenecchi percosso una Madonna, questa stillò sangue; come a Treviglio un'altra pianse all'entrare de' Francesi, i quali ne furono sì commossi, che risparmiarono l'incendio e il saccheggio. Per egual occasione sudò la Madonna della Cintola [365] a Prato, e rivolse la faccia verso il Bambino, e gli pose la mano sul capo. Da per tutto, come i miracoli, così moltiplicavansi digiuni e litanie: e a Milano si menò una lunga processione, ove migliaja di devoti ad ogni istante alternavano Misericordia, Misericordia, tanto che il clero non potè fra que' clamori intonare altre preghiere, e non era uomo o donna che si tenesse dal piangere: e un predicatore, dipingendo a colori nerissime le sventure d'allora, prometteva che da Milano avrebbe principio la rinnovazione della Chiesa, la quale prima è mestieri che venga afflitta e ridotta all'ultima ruina.

Questo i Cattolici: in senso contrario un frate Egidio Della Porta comasco, scrivendo a Zuinglio, esclamava: «Dio ci vuol salvare: scrivete al Borbone che liberi questi popoli, tolga il denaro alle teste rase, e lo faccia distribuire al popolo famabondo; poi ciascuno predichi senza paura la parola di Dio: la forza dell'anticristo è presso alla fine»[498].

Così i partiti non discernono mai i mezzi, purchè conducano al loro scopo. I Protestanti esultarono dell'orrido strazio fatto a Roma; altri, quelle tribolazioni giudicando castigo di Dio contro le iniquità pretine, si separarono dalla Chiesa, e «nelle case private in diverse città, massime in Faenza, terra del papa, si predicava contro la Chiesa romana, e cresceva ogni giorno il numero di quelli, che gli altri dicevano Luterani, ed essi si chiamavano Evangelici».

Ma tutti gli uomini serj ne fremettero: Francia e Inghilterra intimarono guerra a Carlo V, per ragione o pretesto adducendo la sua condotta verso Roma; tale essendo la natura di questa città e di questo dominio, che d'ogni attacco mossogli si risente tutta la cristianità. E veramente quegli anni del secol d'oro furono peggiori all'Italia che qualunque altri del secolo di ferro: «Mantova è tutta abbandonata di peste (scriveva un contemporaneo da Piacenza): Ferrara, Padova, Cremona, tutto il Bresciano: questa terra va peggiorando: Genova addio: non si vede che cerei e frati ad accompagnar morti: e vi concludo ch'è il più grande spavento che mai fosse veduto ad andare pel paese»[499]. Negli State papers che si pubblicano ora in Inghilterra, al tomo VII pagina 226 è una lettera del 12 settembre 1529 degli ambasciadori di Enrico VIII, che da Bologna scrivono: «Mai nella cristianità s'è visto desolazione pari a quella di queste contrade. Le buone città distrutte e spopolate; in molti luoghi non si trova carne di veruna sorte. Tra Vercelli e Pavia, per cinquanta miglia del paese più ubertoso del mondo in vigne e grano, tutto è deserto; nè uomo o donna vedemmo che lavorasse ai campi, nè anima viva fuorchè tre povere donne che racimolavano l'uva rimasta: giacchè non si seminò nè mietè, e le viti inselvatichirono, e i grappoli infradiciano senza che alcuno li colga. Vigevano, buona terra con rôcca, non è più che rottami e deserto. Pavia mette pietà: nelle strade i bambini piagnucolando chiedono pane, e [366] muojono di fame. Ci fu detto, e il papa ce lo confermò, che la popolazione di quelli e d'altri molti paesi d'Italia fu consunta dalla guerra, dalla fame, dalla peste, e molti anni ci vorrà prima che l'Italia ritorni in buona condizione. Quest'è opera de' Francesi non men che degli Imperiali».

Mentre Clemente VII stava prigioniero, re Ferdinando scriveva al fratello Carlo V, non lasciasse uscir di mano il prigione senza aver messo ordine nella cristianità: questo esser unico rimedio alle maledette eresie[500]. Molti cardinali s'adunarono a Piacenza per provedere a sì luttuosi frangenti[501], e per sicurezza della Chiesa divisavano trasferire la Santa Sede ad Avignone, fuori di questa Italia, divenuta campo alle battaglie degli stranieri. Fomentavanli a ciò i re di Francia e d'Inghilterra, che n'avrebbero cavato vantaggio; e molti di retta intenzione v'aderivano. Ma il cardinale Francesco Cibo, legato di Bologna, che avea saputo tener in fede le Romagne, accorse a Piacenza, e dissuase con validissime ragioni da un passo, che avrebbe recato l'ultimo tracollo all'Italia e un urgente pericolo alla Chiesa.

Eppure, dopo che Roma ebbe sofferto per aggiunta la fame e la peste; che Clemente VII durò lunga prigionia; che i Colonna e gli Orsini aizzavano quelle discordie in cui gli Italiani più inviperiscono quando sono percossi da peggiori flagelli; che amici e nemici s'impinguarono delle dovizie nostre; che si ripeteva esser terminato il potere pontifizio, si vide quel papa rifinito splendere di nuove glorie mondane. Perocchè Carlo V volle essere coronato da Clemente VII; e mentre la Germania erasi lusingata di mirare in quell'occasione il pontefice umiliato davanti a quell'imperatore, che i predecessori di esso aveano tante volte obbligato venire all'obbedienza, allora Carlo V professò dolersi delle atrocità commesse a Roma in suo nome; domandò l'assoluzione per chi v'aveva ecceduto; si obbligò di far restituire alla santa sede Modena e Reggio, tolte dal duca di Ferrara, Cervia e Ravenna occupate dai Veneziani; prender accordi con questi per le terre che aveano sottratte al regno di Napoli nella Puglia, e col papa per rintegrare gli Sforza nel ducato di Milano; pose se stesso e le sue armi a disposizione del papa, facendolo arbitro di ordinargli quando snudare e quando riporre la spada, e si fe da esso ornare cavaliere di San Pietro.

La solennità della coronazione fu delle più splendide che la storia ricordi. Quel cencio di porpora, traforato dalle scomuniche papali, e che i suoi antecessori eransi gittato da sè sulle spalle, ma che non rappresentava più il centro laicale della cristianità, consacrato dall'unzione sacerdotale, pensò Carlo V, col rimetterselo in dosso, attirare ancora un raggio del diritto divino sul successore di Carlo Magno. S'ebbe vergogna di farlo nella testè desolata metropoli del cristianesimo, ma nella cattedrale di san Petronio a Bologna, ridotta a imitazione della Lateranese. Non vi erano invitati gli elettori, nè altro tedesco che Filippo di Baviera; e invece de' cavalieri germanici, genti di ogni nazione capitanate da Anton de Leyva; paggi [367] e araldi spagnuoli aprivano il corteo; Bonifazio Paleologo marchese di Monferrato portava lo scettro; il duca d'Urbino la spada; la corona Carlo di Savoja, che a forza d'impegnare e imprestare erasi fatto un abito di 300,000 scudi[502]. All'imperatore servivano i maggiori nobili d'Italia, Medici, Pio, del Carretto, Gonzaga, Pico, Trivulzio, Dal Verme, Doria, Sanseverino. Colle rituali solennità unto del sacro crisma, Carlo ricevette la corona di Carlo Magno, in segno d'universal dominio sopra la cristianità, e giurò difendere i possessi, le dignità, i diritti del papa e della Chiesa[503].

Sarebbesi detto rinnovato l'accordo fra lo scettro e il pastorale, mentre invece questo soccombeva a quello; andava spezzata la monarchia universale per dar luogo a principati nazionali, emuli astiantisi; l'Italia cascava ancella degli stranieri, e per l'ultima volta l'imperatore universale giurava lealtà e fede davanti all'universale ministro della verità e della giustizia. L'unità, come nella Chiesa, così era finita nel mondo; i principi sarebbero uomini, sostenuti soltanto dalla forza, combattuti dall'esame e dall'insubordinatezza, sbalzati da non più cessabili rivoluzioni, non fidenti che negli eserciti, sinchè venga il giorno che anche gli eserciti ragionino e discutano l'obbedienza, e si compia il trionfo dell'individuo, che surroga se stesso al bene comune.

Fra le condizioni poste alla liberazione del papa fu il convocare un Concilio generale.

Quel disordine degli spiriti, quel rinegare ogni autorità facea spavento a Carlo V, che al cardinale Campeggi ripeteva, il Concilio essere necessario non tanto per riformare gli ecclesiastici, quanto e molto più per i laici, ch'erano declinati dalla vera via; e se nol si facesse, pensava non debba, fra termine di dieci anni, esser uomo che possa sotto obbedienza reggere dieci case, non che Stati, regni ed imperi[504].

Ma la fede cattolica trae sua forza dall'essere una, e conservarsi inalterabile. Parlare dunque di riformare la fede era un rinegarla, era non meno una contraddizione che un'empietà: un obbligare il mondo a credere alla Chiesa mentre ella stessa repudiava la propria infallibilità. Sonava dunque assurda la domanda che, in tal senso, ne faceano i Riformati.

Repugnava poi Clemente VII a raccorre il Concilio, principalmente per la controversia se questo sia o no soggetto al papa. Dagli ultimi convocati erasi visto che, adunato che fosse, il Concilio si pretendea superiore al papa; questo il negava; ne nascea scisma; eleggeasi un antipapa; disordine che riuscirebbe d'immensa ruina nelle agitazioni presenti[505]. Pure alfine Clemente aderì, e di propria mano scriveva a Carlo V:

«Carissime in Christo fili noster, salutem, et apostolicam benedictionem.

«Ho inteso per la man propria di Vostra Maestà, e per quello, che m'ha referito l'oratore Majo, e m'ha ancor avisato il Legato, che il parer di quella, e di quelli signori elettori, e principi che sentono bene nella fede christiana, che sia necessario, per estirpare li errori che sono in quella nazione, [368] è assentire che si convochi il Concilio dimandato, ma con condizione, che gli eretici desistano da' loro errori, e si conformino a vivere cattolicamente nella fede e obbedienza della santa madre ecclesia. Sopra la qual proposta avendo consultato con quelli cardinali, che ho deputati nella causa della fede, siamo stati tutti ardentissimi in questa sentenzia, che sia da condiscendere prontamente e alla convocazione del Concilio e a tutte le provisioni che tendano ad eradicare l'eresie, perchè così conviene al servizio di Dio e alla salute universale della cristianità. Vero è che, molti di loro, ancorchè desiderino sommamente questo fine, non risolvono totalmente che la convocazione del Concilio sia mezzo sicuro, o conveniente a conseguirlo, giudicando, che sia di grande imprudenza alla Chiesa di Dio il consentire che si torni a disputare di quelle cose, le quali in altri tempi sono state dichiarate da Concilj, e osservatesi lungamente da tutti li Cristiani; perchè la sede apostolica è stata consueta concedere i Concilj alli eretici quando l'opinioni loro, se bene erano erronee, o contra il rito universale della Chiesa, non erano ancor state riprovate o dannate. Ma il voler ora mettere in dubbio quello che hanno determinato i Concilj, par loro cosa scandalosa, di mal esempio, e con poca dignità di questa sede, nè sperano, che alla medicina di questi errori abbi a conferire più l'autorità del futuro Concilio, che faccia ora quella delli passati, celebrati da tanti santissimi e dottissimi Padri, le sante determinazioni dei quali chi sprezza, non si può sperare che non abbia a fare il medesimo di quello, che per l'avvenire si determinasse, nè si possono persuadere che la dimanda, che essi fanno del Concilio, tenda ad alcuno fine laudabile, anzi, che come sempre sogliono fare gli eretici, abbia nascosto qualche pestifero pensiero, che possa esser causa di maggior confusione e disordine. E tanto più inclinano li cardinali predetti in questa opinione, quanto par loro che il tempo di convocarlo non sia al presente molto opportuno, non tanto per guerra che si potesse temere in tra Cristiani, circa la quale molto prudentemente discorre la Maestà Vostra, quanto per il pericolo della guerra del Turco, del quale, come sa ben Vostra Maestà, sono le minaccie e apparati grandissimi di invadere l'anno futuro con ogni sforzo la cristianità; al qual tempo essendo impossibile, che ancora sia indrizzato il Concilio, pare da considerare bene quanto danno potria generare, mentre si attendesse al Concilio, se urgesse nuova guerra dagl'inimici della fede, perchè bisognerebbe, per attender al Concilio, negligere le provisioni tanto necessarie per la difesa della cristianità, che sarebbe cosa perniciosa, o per provedere alla guerra, lasciare il Concilio imperfetto e questo si può più facilmente dire che fare, perchè serrandolo senza la satisfazione delle nazioni, potria facilmente partorire scisma, o qualche grave scandalo nella Chiesa di Dio, la qual satisfazione universale delle nazioni, quanto la Maestà Vostra e io ci possiamo poco promettere, lo dimostra, oltre alle altre ragioni, l'esperienza delle difficoltà, che ora sente Vostra Maestà a potere in cose [369] tanto giuste disporre d'una minima parte di quella nazione sola. Le quali difficoltà nel tempo d'un pericolo tale, facilmente aumenterebbono; perchè gli eretici e maligni pigliarebbero le necessità per occasione di ottenere qualche cosa perniciosa alla santa fede cattolica. Alla corroborazione della quale nessuno rimedio è di più autorità, più santo, e cagione di maggiori beni, che la convocazione del Concilio, quando si fa per cause, con mezzo e in tempo convenienti, per contrario nessuno più pericoloso, e per partorir maggiori mali, quando non concorrono le circostanze debite, o vi nasca qualche accidente che lo disordini. Le quali ragioni insieme con le altre allegate da cardinali predetti, avrebbono forse tenuto dubbio l'animo mio, se in me non avesse potuto più l'autorità di Vostra Maestà, la qual conoscendo io religiosissima, veramente cattolica, e devotissima della sede apostolica, e non meno prudentissima e circospetta, e considerando che, per trovarsi presente in quella provincia, per sanità della quale si propone questo rimedio, può facilmente intendere quello che li sia necessario, più che non possono coloro, che ne sono lontani, mi rendo certissimo che non desidererà, nè proporrà cosa che non sia utile al servizio e al bene universale della cristianità. E però, pregatala prima che esamini maturamente, e consideri molto bene quello che sia al proposito de' fini sopradetti, dico a Vostra Maestà che io son contento, che quella, in caso giudichi esser così necessario, offerisca, e prometta la convocazione del Concilio, con condizione però, secondo che scrive anco Vostra Maestà, che appartandosi da' loro errori, tornino incontinente al vivere cattolicamente, e all'obbedienza della Santa Madre Chiesa, e secondo i riti e dottrina di quella, infino a tanto che dal Concilio fosse determinato in altro modo, all'obedienza e determinazione del quale in tutto e per tutto si sottomettano; senza le quali condizioni è notissimo quanto saria scandaloso e di pessimo esempio a concedere il Concilio. E in questo è necessario che Vostra Maestà avvertisca diligentemente, che queste condizioni si promettano e eseguiscano in modo che possiamo esser sicuri, che gli eretici, ottenuta la convocazione del Concilio, non tornino a' pristini errori, perchè sarebbe cosa scandalosissima; e sarebbe manifesto ad ognuno, che dal proseguir in tal caso più oltre, non si potrebbe aspettare la reformazione degli errori, che desidera, ma non altro che frutti pestiferi e venenosi; a che siamo certissimi che Vostra Maestà avvertirà, dalla quale subito che avremo avviso che loro abbiano accettato, e osservino questa condizione, si convocherà il Concilio per quel tempo che sarà giudicato espediente. Il quale Vostra Maestà si prometta che sarà con più brevità si possa, la quale son certo che, per quello che sopra questa materia parlammo in Bologna, e per quanto conosce dell'intenzion mia al bene universale, non dubiti, che da me non sarà interposta dilazione alcuna. In che non mi estenderò altrimenti, perchè in tutte le cose e pubbliche, e che concernono il particular mio, io ho fede [370] grandissima in Vostra Maestà non meno che in me proprio, e la quale non è mai per mancare. Così mi persuado che Vostra Maestà si confidi che io proceda sempre seco con tutta la libertà e sincerità che sia possibile. E perchè io ho veduto li articoli proposti da quelli eretici, giudicherei necessario che Vostra Maestà li ammonisse a restringerli solo a quelli punti nei quali pretendono avere più causa da dubitare, perchè si fugga la lunghezza, che sarebbe infinita, e si moderi quanto si può l'inconveniente di avere a ritrattare le cose stabilite nelli altri Concilj. Statuirassi ancora al medesimo tempo il loco, nel quale si abbi a convocare, sopra che intenderei volentieri il parere di Vostra Maestà, perchè a me nè per commodità propria, nè per alcun particolar rispetto importa più un luogo, che un altro, avendo massime ad intervenirvi Vostra Maestà. Ma per quanto mi occorre di presente, essendo sommamente necessario che il Concilio non si celebri altrove che in Italia, crederei che Roma dovessi satisfare a ciascuno per l'opportunità grandissima che ha di sostener tanta moltitudine, quanta vi concorrerà, e poichè questo Concilio non si convoca per causa di scisma che sia nella Chiesa di Dio, nè per dissensione che sia tra principi cristiani, che potriano dar cagione d'allegar la suspizione de' luoghi, ma solo si propone per purgar la cristianità dall'eresie, e per l'espedizione contra infideli, par molto conveniente che si convochi in quella città, che è capo di tutta cristianità, e dove per il passato sono stati celebrati tanti Concilj a che m'inclina ancor assai il conoscere che, se dopo tante calamità che ha patito, se le aggiunge una sì lunga assenza della Corte, saria quasi causa dell'ultima sua ruina. Pur quando Roma non satisfacesse, che a mio parere dovria satisfare, e si potria provedere che nessuno la recusasse per non sicura, ci è Bologna, Piacenza, Mantova, tutte città capaci, come sa Vostra Maestà, delle quali, o di qualch'altra che fusse a proposito, si farà risoluzione.

«Circa gli abusi, aspetto risposta dal Legato, a cui feci scriver, alli dì passati, che avvisasse sopra che si desidera riformazione, e venuta che sia la risposta, si piglierà tal forma, che ognuno conoscerà che l'intenzion mia è di corregger le cose che fossero inoneste, e di satisfare in tutto ciò che si potrà, agli amorevoli e prudenti ricordi di Vostra Maestà, con la quale, per non la tediar più, mi rimetto a quanto sopra questa materia ho scritto anco al Legato, e parlato con M. Majo suo oratore: pregando sempre Dio che le conceda quanto lei desidera. Da Roma, all'ultimo di luglio 1530».

Ai 18 novembre tornava sul medesimo promettere, e soggiungeva: «Se convenisse che io da me solo ne deliberassi, confido tanto nell'amore e prudenza della M. V. che, senza aspettar altro, le direi assolutamente di voler seguire in tutto il consiglio e voler suo. Ma per esser cosa che tocca a tutta la Chiesa e la cristianità, prima che possa risolutamente risponderle è conveniente che consulti con li cardinali, e intenda bene l'inclinazione degli altri principi al Concilio»[506].

[371] Intanto Clemente VII, che, come dice il Guicciardini, per troppa finezza di vedere, scorgeva tutte le possibilità e in conseguenza vacillava, cercavasi altri alleati. E prima sperò negli Svizzeri, e l'Aleandro al Sanga da Brusselle il 14 novembre 1531 scriveva: «Si trova per le istorie che le grandi eresie mai non si estinguono se non col sangue. Se Dio vuol far così ancor di questa, niun modo pare potesse esser miglior di questo, perchè, per esser gli Svizzeri vicini all'Italia, facilmente con ogni piccola cosa si potrà soccorrerli, e puossi veder buon conto dell'amministrazione del denaro, e andar porgendo ajuto alla giornata. Il che non saria così se l'impresa si fesse in mezzo alla Germania, e che più è, saremmo fuora di quel timore ch'era, se si faceva impresa generale contro Luterani, che la Germania tutta si unisse contro noi...... Quella parte di Svizzeri ch'avrà più archibusieri, ancor che sia in minor numero di picche, sarà vittoriosa, perchè si sa ben quanto gli altri Svizzeri temono e buttano giù le picche, visti gli archibusi.....

«Molto mi meraviglio e dolgo ch'a questa tanto santa occasione, tutti li re, principi e popoli non si muovano a contribuir qualche somma di denari, e præsertim li signori Veneti, che sono confinanti per più bande a' Luterani; che se Svizzeri cattolici perdono, la vigilia loro saria la festa di questi»[507].

Clemente trescava pure con altri, e il Sanga ad esso Aleandro nunzio apostolico scriveva da Roma il 12 settembre 1531, che il duca di Ferrara cercava ogni modo di nuocere al papa, e avea fatto saper all'imperatore d'aver intercette lettere, per le quali il papa a Inghilterra e Francia prometteva tutto, purchè non si facesse il Concilio. «Il che quanto sia lontano dal vero, nessuno lo sa meglio di vostra signoria, qual sa in questo l'animo buono di Sua Santità». Il papa se ne duole coll'imperatore stesso in iscritto, domandando sieno prodotte le lettere stesse, e non voler aquetarsi benchè l'imperatore si mostri certissimo della buona intenzione di Sua Santità. «E parli qui francamente, che mai fu falsità più falsa di questa»[508].

Alfine Clemente si fissò colla Francia, a' cui dominatori sempre si volsero i papi nelle loro angustie, chiaminsi Carlo Magno o Napoleone III. Sperando dunque che Francia lo sorreggerebbe nelle sue ambizioni domestiche, e rimarrebbe fedele all'antico simbolo, mosse egli stesso a trovar Francesco I. Al colloquio erasi assegnata Nizza, ma il duca di Savoja ebbe gelosia di lasciarla occupare da navi pontifizie, ond'egli andò a Marsiglia (1533, 13 ottobre) col pretesto di condurvi sua nipote Caterina, figlia di Lorenzo De' Medici duca d'Urbino e di Maddalena de La Tour d'Auvergne, promessa sposa ad Enrico, secondogenito di Francesco I. Quanto quello di Bologna coll'imperatore, solennissimo fu il ritrovo davanti a' maggiori dignitarj di Roma e di Francia. Seduto in eccelso trono, il pontefice ricevette il re, che davanti a lui piegò il ginocchio, giurogli obbedienza, e gli baciò i piedi, la mano e la stola; il primogenito del re fu ammesso al medesimo favore; i due più giovani figli [372] baciarongli la mano e i piedi; i soli piedi gli altri della Corte. L'arcivescovo di Parigi a nome del suo signore professò che il re cristianissimo, come primogenito della Chiesa, lo riconosceva in tutta umiltà e devozione qual pontefice e vero vicario di nostro signor Gesù Cristo; lo venerava come successore di san Pietro, e gli prestava obbedienza e fedeltà; offrendosi a tutta sua possa per la difesa sua e della santa sede apostolica, al modo che aveano fatto i suoi predecessori.

Ma se il re, tornando da quel congresso, diede severi ordini per «far processi contro chi fosse convinto del delitto d'eresia che pullula e cresce nella buona città di Parigi» (10 dicembre 1533), seguitò per altro i consigli della politica sostenendo la Lega Smalcadica de' Protestanti tedeschi contro Carlo V imperatore di Germania: vale a dire, puniva chi non andasse alla messa, favoriva coloro che la messa aveano distrutta.

Questo buon re Francesco, il protettore delle lettere, che i palazzi suoi facea costruire dal Primaticcio, dipingere da Leonardo, fregiare da Benvenuto: che volle essere armato cavaliere da Bajardo senza paura e senza taccia, al 21 gennajo 1535 assisteva in Parigi al supplizio di sei Luterani. Venivano in solenne processione i vescovi, i dottori della Sorbona, i dignitarj, poi il re a capo scoperto, con una torcia in mano, e dietrogli principi e principesse e cortigiani. L'arcivescovo portava il Santissimo, pel quale erano stati costruiti sei altari di riposo; e a canto a ciascuno una forca e un rogo. Il popolo trasaliva d'insulti e d'impazienza, volendo colle proprie mani straziare gli infelici condannati; i quali erano avvinti a una trave in bilico, che calava per tuffarli nella fiamma, e risaliva sinchè questa non consumasse le corde. Cominciava l'orribile altalena allorchè il re avvicinavasi, ed egli, giunto a quel posatojo, cedeva la torcia al cardinale di Lorena, prosternavasi a fare l'adorazione, intanto che si compiva il supplizio de' condannati; poi ripigliava la torcia e la via. Al termine della quale tenne un discorso contro la perversa setta, protestando che, se ne sapesse infetto uno de' proprj membri, lo taglierebbe; se un suo figliuolo, lo sagrificherebbe egli stesso[509].

E le persecuzioni continuarono un pezzo; e il giugno 1540 un editto da Fontainebleau ordinava ad ogni balìo o siniscalco, procuratori, avocati del re di cercare i Luterani, per darli al giudizio delle Corti supreme, altrimenti perderebbero l'uffizio.

Le nazioni non hanno dunque di che rinfacciare l'una l'altra; meglio è che, disapprovando le violenze d'allora, imparino la tolleranza, tanto predicata eppur tanto poco ottenuta in questo nostro tempo di sì caldi e sì poco leali partiti. Noi siamo lieti di trovare che papa Paolo, saputo di que' supplizj, altamente li disapprovò, benchè da buona intenzione: rammemorando che Cristo usò più misericordia che rigorosa giustizia; nè doversi con morte tormentosa far disperare un uomo, che pur potrebbe mutare di credenze[510].

[377]

DISCORSO XIX.
IL VALDES.

Allorchè le bande di Carlo V saccheggiarono Roma, e l'Europa era piena delle oltraggiose miserie ivi sofferte o recate, un giovane spagnuolo dettava un dialogo, ove suppone che a Valladolid un soldato, reduce da quel misfatto, s'incontri in un arcidiacono e nel cortigiano Lattanzio, e gliene divisi le particolarità. Lattanzio non rifina di stupire che un papa faccia guerra, e guerra contro l'imperatore: tutt'altro essere l'uffizio del vicario di Cristo. Il soldato risponde che di ciò non prendesi meraviglia in Italia, anzi v'è tenuto da nulla un papa che non maneggi le armi. Descrivendo poi quell'atroce catastrofe, nelle particolarità rilieva ciò che reca disonore al clero; il cortigiano ve lo attizza colle sue suggestioni, e conchiude ammirando i giudizj di Dio, il quale castigò in tal modo le ribalderie del papa e de' suoi[511]. Perocchè della guerra attribuiva la colpa al papa e a Francesco I, scagionandone Carlo V, lo che adempie pure in un precedente dialogo fra Caronte e Mercurio, ove dalle anime che arrivano al tragitto d'Acheronte fa raccontare molti abusi, l'opposizione fra la dottrina cristiana e la pratica, e passando a scrutinio un teologo, un frate, un vescovo, una donna e così via, mostra il peggiorarsi della razza umana. Al gusto odierno dee sapere di strano l'udire Caronte e Mercurio discutere del vangelo: ma le son licenze comuni a questi dialoghi de' morti.

Autore n'era Giovanni Valdes, persona di alta nascita e di molto merito alla Corte di Spagna.

Il tono di quei dialoghi, le accuse prodigate ai pontefici e alla Chiesa indignarono molti, e il mantovano Baldassar Castiglione, famoso autore del Cortigiano, che nel 1524 era ito nunzio del papa in Ispagna, e che morì a Toledo il 1529, si credette in dovere di denunziar severamente il Valdes al papa e all'imperatore. Lagnossene egli, quasi fosse venuto meno alla cortesia mostratagli, e avesse condannato il libro senza conoscerlo. Il Castiglione gli rispondeva una lunga lettera, professando d'avere denunziato quel libro con piena conoscenza, e perchè vi côlse un mar di errori e di calunnie contro le cerimonie, le reliquie, la religione stessa. [378] E qui ragionando punto per punto, non gli perdona il dichiarare empietà che uno dica la messa in peccato. Se un prete è malvagio, se celebra appena levatosi d'accanto a una donna, forse ciò giustifica il rubare gli ostensorj e gl'incensieri? Le ricchezze sono bene spese in onor di Dio, e lo credeano persino i Pagani: ond'è mal gusto quel suo cuculiare le magnificenze del culto. Nè minor torto ha quando scusa Lutero, e trova bisognasse, prima di condannarlo, correggersi delle colpe ch'egli rinfacciava. Di rimpatto il Valdes non v'è obbrobrio che risparmii a Clemente VII, e ciò per discolpare l'imperatore; quell'imperatore che al papa professava affezione e ossequio, al tempo stesso che lo lasciava depredare e oltraggiare in tal guisa, che agli Spagnuoli stessi dolse di quella tragedia. Solo il Valdes esortava Carlo V a tenere cattivo il papa, e giacchè l'aveva in mano, non perdere sì propizia occasione di emancipare la cristianità. «Voi dunque, nuovo riformatore degli ordini e delle cerimonie cristiane, nuovo Licurgo, nuovo conditor di leggi, correttore de' santissimi concilj approvati, nuovo censore de' costumi degli uomini, dite che l'imperatore riformi la Chiesa con tener presi il papa e i cardinali? e che facendolo, oltre al servizio di Dio acquisterà ancora nel mondo gloria immortale? E volete indurlo a far così empia azione?....... Ah impudente! ah sacrilego! ah furia infernale!..... E non temete che Dio mandi il fuoco dal cielo che v'arda?» E qui, ritorcendo l'argomentazione in invettiva, gli preconizza un san-benito.

Non erano materie dove si facesse a credenza; e il Valdes stimò prudente abbandonare la Spagna, ricoverandosi a Napoli, ove il dominante era ancora Carlo V, ma i privilegi nazionali teneano in freno il Sant'Uffizio. Il Llorente, storico dell'Inquisizione parabolano e sempre mal informato come mostreremo, dice abbandonasse la Spagna perchè condannato d'eresia. Nol fu mai da vivo: sol dopo morto fu tenuto per capo d'eretici, ma non si specifica di quali eresie peccasse, e ogni Chiesa dissidente vorrebbe trarlo a sè, fin gli Antitrinitarj. Quest'è certo ch'egli può stare alla testa de' riformati italiani. In Napoli fu carezzato, stette segretario del vicerè Toledo, e scrisse varie opere, fra cui i filologi lodano il dialogo sulle lingue, nel quale fa da due Italiani e due Spagnuoli discorrerne sulla spiaggia di Napoli.

Quivi introdusse i libri di Lutero, di Bucer, degli Anabatisti che avea conosciuti in Germania, e fece proseliti. Pubblicò un commento delle Epistole di san Paolo (Venezia 1556) e riflessioni sopra san Matteo e sopra alcuni salmi, dedicate a Giulia Gonzaga del ramo di Gazzuolo, duchessa di Trajetto a Fondi, donna di sì famosa bellezza che Solimano granturco desiderò vederla, e mandò il terribile Ariadeno Barbarossa per rapirla, al che poco mancò riuscisse mentr'ella stava a Fondi con papa Leone[512]. Dopo vedova del famoso Vespasiano, essa adottò per impresa un amaranto e il motto Non moritura; e passata a Napoli nel 1537 per certi litigi, in casa sua teneva un circolo, ove disputavasi di materie religiose. Del Valdes citasi pure un [379] «Avviso sopra gl'interpreti della santa scrittura», ove sostiene che noi fummo giustificati per la passione di Cristo, e che possiamo conoscere con certezza la nostra santificazione.

Nel catalogo dei libri proibiti pubblicato da monsignor Della Casa è notato Il modo di tenere nell'insegnare e nel predicare al principio della religione cristiana, libriccino il qual è solamente di tredici carte in ottavo; e il Vergerio, postillando esso catalogo, attribuisce quell'opuscolo al Valdes, e non rifina di lodarlo, facendo le meraviglie che si riprovi chi predica Cristo sinceramente e prudentemente, mentre si tollerano e lodano le sguajatezze del Barletta, tutto buffonerie ed empietà.

L'opera capitale del Valdes è quella stampata a Basilea nel 1550, col titolo Le cento et dieci divine considerationi del signor Giovanni Valdessa; nelle quali si ragiona delle cose più utili, più necessarie et più perfette della cristiana professione. Nella prefazione, Celio Secondo Curione «servo di Gesù Cristo, a tutti quelli i quali sono santificati da Dio Padre, e salvati e chiamati da Gesù Cristo nostro Signore» augura: «la misericordia, la pace et la carità di Dio vi sia moltiplicata». E comincia: «Ecco fratelli, noi vi diamo non le Cento novelle del Boccaccio, ma le Cento e dieci considerazioni del Valdesio, e di quanta importanza sieno vengo a dichiararvi».

E continua che «de' molti i quali scrisser delle cose cristiane, chi meglio e più saldamente e più divinamente il fece è Giovanni Valdesio, dopo gli apostoli ed evangelisti». Esaltandone i pregi, professa che di questo grande e celeste tesoro siamo tutti debitori a monsignor Pietro Vergerio, come stromento della divina provvidenza in farlo stampare, acciò da tutti potesse essere veduto e posseduto. «Egli, venendo d'Italia, e lasciando il finto vescovato per venire al vero apostolato, al quale era chiamato da Cristo, portò seco di molte belle composizioni, e fece come si suol fare quando, o per incendio della casa propria o per sacco e sterminio di qualche città, dove ogni uno scampa le più care e più preziose cose ch'egli si trova in casa: così il nostro Vergerio, non avendo cosa più cara che la gloria del Signor Nostro Gesù Cristo, ne recò seco di quelle cose le quali ad illustrarle ed allargarle servir potevano». Soggiunge che fu dallo spagnuolo, da persona degna in lingua italiana tradotto. Del Valdes racconta che «non seguitò molto la Corte dopo che gli fu rivelato Cristo, ma se ne stette in Italia, e fece la maggior parte della vita sua a Napoli, dove, con la soavità della dottrina e con la santità della vita guadagnò molti discepoli a Cristo, e massime fra gentiluomini e cavalieri, e alcune signore lodatissime. Pareva che costui fosse da Dio dato per dottore e pastore di persone nobili e illustri; ha dato lume ad alcuni de' più famosi predicatori d'Italia..... Morse in Napoli circa l'anno 1540, lasciando altre belle e pie composizioni, le quali per opera del Vergerio, com'io spero, sarannovi comunicate».

[380] Cominciò di quel tempo a correre per Italia un opuscolo, intitolato del Benefizio della morte di Cristo, senza nome «acciocchè più la cosa vi muova che l'autorità dell'autore». Sul qual autore faremo indagini altrove; qui basti dire che a moltissimi fu attribuito; e ch'è uno de' libri di più bizzarra fortuna, talchè potrebbe prendersi a simbolo delle vicende della Riforma in Italia. Dato fuori nel 1542; stampato poco dopo; diffuso, dicono, a quarantamila esemplari, si riuscì a sopprimerlo a segno, da più non trovarsene esemplare; lo Schölhorn e il Gerdes, tanto solleciti raccoglitori in questo genere, nol seppero rinvenire; Mac Crie, Mac Aulay, Ranke lo dichiararono irreparabilmente perduto. Ma nel 1774 un tal dottore Antonio Ferrario di Napoli ne avea deposto un esemplare nel collegio di San Giovanni in Cambridge, con uno della traduzione francese del 1552. Ivi testè fu ritrovato; indi un altro nel 1857 nel collegio medesimo, ch'era appartenuto a Laura Ubaldina, poi al vescovo Moore, poi a re Giorgio I, il quale lo donò ad essa biblioteca. Una traduzione in croato, edita il 1563, era stata dal celebre filologo Kopitar donata alla biblioteca di Lubiana, dove giace pure un esemplare dell'italiano. Se l'essersi distrutte tutte le copie dell'italiano può darci argomento della potenza dell'Inquisizione, è inesplicabile che non si facessero più ristampe nemmanco delle traduzioni, talchè d'esse pure v'avea tanta rarità, finchè il reverendo Ayre riprodusse nel 1847 la versione inglese, sulla quale si fece una versione italiana, stampata a Pisa nel 1849, ed una migliore colla data di Firenze; poi scopertosi l'originale, fu diffuso dalla società biblica e si venne così a conoscerlo ed a parlarsene[513].

È un opuscolo in buon italiano, dove è asserito che, avendo Cristo versato il sangue per la salvezza nostra, noi non dobbiamo dubitare di questa, anzi conservare la massima tranquillità. S'appoggia ad autorità antiche per affermare che coloro, i quali rivolgono le anime a Gesù Crocifisso, e si affidano per mezzo di esso a Colui che non può ingannare, sono liberati d'ogni male, e godono il perdono di tutte le colpe.

Il peccato originale (insegna) fu causa de' nostri mali, ma non li conoscevamo sin quando non fu data la legge. Il primo ufficio di questa fu appunto far conoscere il peccato; il secondo ingrandire il peccato, vietando la concupiscenza; il terzo dimostrare lo sdegno di Dio a coloro che non osservano la legge; il quarto incutere timore all'uomo; il quinto costringerlo a rivolgersi a Gesù Cristo, dal quale unicamente dipendono la remissione de' peccati, la giustificazione e tutta la salute nostra. Se il solo peccato d'Adamo bastò, senza colpa nostra, a rendere peccatori noi tutti, a più forte ragione la giustizia di Cristo avrà forza di renderci tutti giusti e figli della Grazia, senza cooperazione nostra: la quale non può essere buona se prima noi stessi non siamo divenuti buoni. Iddio avendo già punito ogni peccato nel Figliuolo suo dilettissimo, ha conceduto al genere umano generale perdono, e ne gode chiunque creda al Vangelo. Da Cristo solo deve dunque ciascuno riconoscere la propria [381] salvezza, in lui solo confidare, non nelle opere proprie. Questa santa confidenza entra nei cuori nostri per opera dello Spirito Santo, il quale ci si comunica mediante la fede; e la fede non viene mai senza l'amore di Dio. Laonde ci sentiamo mossi da lieto e operoso ardore a fare azioni buone, sentiamo forza di eseguirle, e di soffrire tutto per amore e gloria del nostro Padre misericordioso.

«Per le cose dette (prosegue) si può intendere chiaramente che il pio cristiano non ha da dubitare della remissione de' suoi peccati, nè della grazia di Dio: nondimeno per maggior soddisfazione del lettore voglio scrivere alcune autorità de' dottori santi, i quali confermano questa verità». E qui adduce numerosissime autorità; indi ripiglia: «Nessuno però creda coi falsi cristiani, i quali degradano di costumi, che la vera fede consista nel credere la storia di Gesù Cristo come si crede quella di Cesare e Alessandro, o come i Turchi credono al Corano. Fede siffatta non rinnuova il cuore, nè lo riscalda dell'amor di Dio, nè produce le buone opere e i cambiamenti di vita, che provengono solo dalla fede vera, la quale è un'operazione di Dio entro di noi. La fede giustificante è simile a fiamma che non può non tramandare luce; così essa non può bruciare il peccato senza il concorso delle opere. E come, vedendo una fiamma che non mandi luce, riconosciamo essere falsa e dipinta, così quando in alcuno non vediamo la luce delle buone opere diciamo che non ha quella vera fede ispirata da Dio[514].

«Che se ci prende diffidenza, ricorriamo al sangue di Gesù Cristo, sparso per noi sulla croce, e distribuito nell'ultima cena sotto l'ombra d'un sacramento augustissimo. Chi s'accosta a questo senza fede nè carità, non credendo che quel corpo del Signore è vita e purgazione di tutti i peccati, fa Gesù Cristo mentitore, calpesta il figliuolo di Dio, e stima non essere nulla meglio che una cosa comune e terrena, il sangue del Testamento, pel quale fu giustificato. E però il Cristiano, quando comincia a dubitare se abbia o no ricevuto il perdono, quando lo rimorde la dubbiosa coscienza, ricorra a questo divino sacramento, che gli assicura il perdono di tutti i misfatti.

«Sant'Agostino costuma chiamare questo divinissimo sacramento vincolo di carità e mistero d'unità, e dice che, chi riceve il mistero dell'unità, e non conserva il vincolo della pace, non riceve il mistero per sè ma una testimonianza contro di sè. Adunque abbiamo a sapere intendere che il Signore ordinò questo sacramento, non solo per renderci sicuri della remissione dei peccati, ma ancora per infiammarci alla pace, all'unione e carità fraterna. Perocchè in questo sacramento il Signore ci fa partecipare del suo corpo in modo, ch'e' diviene una cosa medesima con noi, e noi con lui. E com'egli ha un solo corpo del quale ci fa partecipi, così noi, per tale partecipazione, diveniamo un sol corpo fra noi. Questa unione è raffigurata dal pane nel sacramento, formato di molti grani, misti e impastati insieme in guisa, che l'uno non può dall'altro discernersi. Parimenti noi tutti dobbiamo essere [382] congiunti in tale accordo di spirito, che niuna divisione possa insinuarsi tra noi. Adunque, ricevendo la santissima comunione, dobbiamo ritenere nell'animo che tutti siamo incorporati in Cristo, e tutti membri d'un medesimo corpo; membri, dico, di Cristo, in maniera che non possiamo più offendere, nè infamare, nè vilipendere alcuno de' nostri fratelli, senza offendere, infamare, vilipendere il nostro capo Gesù Cristo; nè tenere discordia con qualunque de' nostri fratelli, senza essere in opposizione con lui. Così non possiamo amare lui se non amiamo i nostri fratelli. Dobbiamo prepararci al divin sacramento eccitando gli animi nostri ad un amor fervente riguardo al nostro prossimo. Qual maggiore stimolo ad amarci che il vedere Gesù Cristo, non solo col dare se stesso a noi, allettarci a dare noi stessi per gli altri, ma comunicandosi esso a tutti noi, fare sì che noi diventiamo con lui tutt'una cosa?»

Conchiude raccomandando la comunione frequente, e così la preghiera, la fiducia nella predestinazione, per quanto il demonio ci tenti per levarcela, e per farci credere che, se per fragilità cadiamo in peccato, noi diveniamo vasi d'ira e dimenticati dallo Spirito Santo. Sant'Agostino dice: Niun de' santi è senza peccato; nè perciò cessa d'essere santo se con affetto ritiene la santità. È gran cecità l'accusare i Cristiani di presuntuosi se si vantano di possedere lo Spirito Santo; anzi senza questo vanto non sarebbero veri cristiani. Il timore servile sgomenta i reprobi; ma l'amore filiale conforta gli eletti colla fiducia che Dio, per sua misericordia, li manterrà nello stato felice ove gli ha posti, e che i suoi peccati gli furono gratuitamente rimessi.

«Noi siam giunti al fine di questi nostri ragionamenti, ne' quali, il nostro principale intento è stato di celebrare e magnificare, secondo le nostre piccole forze, il beneficio stupendo che ha ricevuto il Cristiano da Gesù Cristo crocifisso: e dimostrare che la fede per sè stessa giustifica, cioè che Dio riceve per giusti tutti quelli che veramente credono Gesù Cristo avere soddisfatto ai loro peccati: benchè, siccome la luce non è separabile dalla fiamma che per se sola abbrucia, così le buone opere non si possino separare dalla fede che per se sola giustifica. Questa santissima dottrina, la quale esalta Gesù Cristo ed abbassa la superbia umana, fu e sarà sempre oppugnata dalli Cristiani, che hanno gli animi ebri. Ma beato colui il quale, imitando san Paolo che si spoglia di tutte le sue proprie giustificazioni, nè vuole altra giustizia che quella di Cristo, della quale vestito, potrà comparire sicurissimamente nel cospetto di Dio, e riceverà da lui la benedizione e l'eredità del cielo e della terra insieme col suo unigenito figliuolo Gesù Cristo, nostro Signore, al quale sia gloria in sempiterno, amen».

L'opera fu da principio accettata come di retto sentire, e la sua tanta diffusione attribuiscono a persone pie, al Flaminio, ai cardinali Morone e Polo, a monsignor Carnesecchi. Poco si tardò ad avvertirne gli errori; ma su quel punto della giustificazione non erano ben d'accordo neppure i Cattolici, atteso [383] che gran parte della disputa consisteva in parole, e, come dice Bossuet, v'aveva una mala intelligenza, anzichè vi fosse difficoltà in tal quistione..... Chi di noi (soggiunge) non ha sempre creduto e insegnato che Gesù Cristo soddisfece soprabbondantemente per gli uomini, e che il Padre eterno, contento di questa soddisfazione del Figlio, ci tratterà favorevolmente come se noi medesimi avessimo soddisfatto alla sua giustizia? Se vuol dirsi ciò solo quando si dice che la giustizia di Gesù Cristo ci è imputata, è cosa fuori di dubbio, e non valea la pena di turbare l'universo, nè chiamarsi riformatori per una dottrina così nota e confessata»[515].

Or bene, questo libretto fu attribuito al Valdes, e più generalmente alla scuola ch'egli formò a Napoli. Perocchè colà egli nella allegra e pittoresca sua casa a Chiaja raccoglieva il fior della nobiltà napoletana, persone distinte per talenti, e signore quali la Gonzaga ora detta, donna Maria Brizeño, donna Costanza d'Avalos, donna Isabella Manriquez; e da esso derivarono i principali promulgatori della riforma, come l'Ochino, il Vermiglio, il Carnesecchi. Al qual ultimo, Jacobo Bonfadio scriveva poi[516]: «Dove andremo noi, poichè il signor Valdes è morto? È questa certo gran perdita e a noi e al mondo; perchè Valdes era un de' rari uomini di Europa, e quei scritti ch'egli ha lasciato sopra le epistole di san Paolo e i salmi di David ne faranno pienissima fede. Era senza dubbio ne' fatti, nelle parole e in tutti i suoi consigli un compiuto uomo: reggeva con una particella dell'animo il corpo suo debole e magro: con la maggior parte e col puro intelletto quasi come fuor del corpo stava sempre sollevato alla contemplazione della verità e delle cose divine. Mi condoglio con monsignor Marcantonio Flaminio, perch'egli più che ogni altro l'amava ed ammirava. A me pare sino, quando tanti beni e tante lettere e virtù sono unite in un animo, che faccian guerra al corpo, e cerchino quanto più tosto possano di salire, insieme con l'animo, alla stanza ond'egli è sceso».

E generale fu il compianto per la morte di questo bel ingegno, del quale un poeta cantava:

Valdesio ispanus scriptore superbiat orbis[517].

Il Caracciolo, frate domenicano, che lasciò una vita manoscritta di Paolo IV, di cui molto faremo uso, riferisce: «Accadde nel 1535 che con Carlo V venne un detto Giovanni Valdes, nobile spagnuolo ma altrettanto perfido eretico. Era costui (mi disse il cardinale Monreale che se lo ricordava) di bell'aspetto e di dolcissime maniere, e di un parlare soave e attrattivo: faceva professione di lingue e di sante scritture: s'annidò in Napoli e in Terra di Lavoro. Di costui furono tre i principali discepoli: frà Pietro Vermiglio, canonico regolare ed abate di san Pietro d'Ara: frà Bernardino Ochino da Siena, e Marcantonio Flaminio, tutti e tre letterati principalmente nelle lingue e nelle lettere umane. Ora costoro, mentre furono in Napoli, per fare brigata maggiore di discepoli s'erano divisi in diversi pulpiti di scrittura santa: il [384] Vermiglio in San Pietro d'Ara leggeva l'epistole di san Paolo..... il Valdes leggeva in sua casa l'istesse epistole.... I nostri Padri scoprirono l'eresie in Napoli, essendo il nostro ordine acerbo persecutor dell'eresie, e che fa professione di difendere la fede cattolica. Il modo con che furono dai nostri scoperti, s'ha da sapere che Raniero Gualanda e Antonio Capponi, per la pratica che ebbero con Valdes e Ochino furono a pericolo anch'essi incautamente di essere macchiati un poco di quella pece. Ma perchè si confessavano dai Padri nostri in San Paolo, però i nostri che ne stavano sospetti si fecero riferire da loro tutto ciò che intendevano da quegli occulti eretici. In questo modo vennero a conoscere i nostri il mal seme che coloro seminavano, e le secrete conventicole d'uomini e di donne che facevano. Le quali da loro scoperte, e scritte al cardinale Teatino (Caraffa) in Roma, se ne fuggirono tutti di Napoli...... In Napoli se ne appestarono tanti, e particolarmente molti maestri di scuola che arrivarono al numero di tremila, come si riconobbe poi quando si ritrattarono.

«Il seme diffuso dall'Ochino fu coltivato da G. A. Mollio di Montalcino, e da frate Angelo francescano, confessore del vicerè, e da Lorenzo Romano, siciliano. Questi dapprima diffuse le sue opinioni sponendo i salmi e l'epistole di san Paolo, e diffondendo il Benefizio di Cristo, ma poi confessò i suoi falli al cardinale Caraffa, che l'indusse a palesar molte persone, anche di gran qualità, e far ritrattazione pubblica nelle cattedrali di Napoli e di Caserta».

Qual fosse la dottrina del Valdes non è ben chiaro: i Sociniani vorrebbero trarlo a sè, ma pare avesse sulla Trinità opinioni sue particolari. Nella biblioteca degli Antitrinitarj leggesi: De Jo. Valdesio quid dicendum? Qui scriptis publicis suæ eruditionis specimina nobis relinquens, scribit se de Deo ejusque Filio nihil aliud scire, quam quod unus sit Deus altissimus Christi Pater: et unus dominus noster Jesus Christus ejus filius, qui conceptus est in utero virginis; unus et amborum spiritus. Nelle lettere di Teodoro Beza troviamo che un ministro della Chiesa francese di Embden fu imputato d'aver fatto tradurre le Considerazioni del Valdes, folte di bestemmie contro la parola di Dio, senza le note che v'erano apposte nell'edizione di Lione. E avendo egli risposto che non v'avea bestemmie, e che la pietà del Valdes dovea potersi lodare non meno ad Embden che a Zurigo, a Basilea, a Ginevra, gli fu replicato che quest'opera avea fatto assai male alla chiesa di Napoli; che di là l'Ochino aveva attinto le fantasie che lo perdettero; e che molte persone, le quali prima aveano lodato le Considerazioni, cambiaron opinione dopochè le ebbero meditate, e il librajo che le stampò a Lione se ne pentì e ne chiese perdono a Calvino[518].

Fatto è che molti diedero ascolto al Valdes, ma Nicola Balbani[519], che fu ministro della chiesa italiana a Ginevra, riferisce che, dei convertiti alla riforma in Napoli, la più parte s'accontentavano d'accettare il dogma della [385] giustificazione, riprovavano alcune superstizioni, pure non lasciavano la messa e il resto: quando perseguitati, abjurarono: alcuni furono uccisi come relapsi, fra cui il Caserta che aveva convertito Galeazzo Caracciolo.

Di quest'ultimo, come degli altri nominati nel presente capitolo avremo a dire ampiamente.

[387]

DISCORSO XX.
PRIMI RIFORMATI ITALIANI. PIETÀ SOSPETTA. MICHELANGELO. IL FLAMINIO. IL CARDINAL POLO. VITTORIA COLONNA.

Di mezzo alle gravi sventure politiche, nelle quali perdeva l'indipendenza e ad altre naturali che venivano ad esacerbarle[520], l'Italia si sentì minacciata d'una ancor più grave, qual era di andar divisa negli articoli di fede.

Ci siamo chiariti come qui prima che altrove si svolgesse il seme delle protesta religiosa, tra per meditazione di pensanti, tra per arguzia di letterati, tra per esagerazione di pietà. E appunto i nostri riformatori potrebbero distinguersi in tre categorie. Gli uni che, per passione degli studj e abbagliamento de' classici, attribuivano a questi un'autorità eguale o simile a quella della Bibbia e de' santi padri; volendo emancipata la ragione umana, non le tolleravano neppur i vincoli della fede, o distinguevano un ordine di verità secondo la religione, uno secondo la filosofia; o pretendevano questa con quella conciliare mediante l'ecclettismo che, in fatto di fede, rasenta l'incredulità.

Altri, vedendo la depravazione insinuatasi nella Chiesa di Dio, e gli ecclesiastici tuffarsi in cure secolaresche, dal riprovare l'abuso passavano a censurare la Chiesa, fino a reluttare all'autorità di questa, che unica ha il diritto di riformare.

Altri, ritirandosi dal mondo contaminato, si esaltavano nella penitenza, e pregavano che Dio la infliggesse alla Chiesa tutta. Un'ortodossia rigorosa, capace di tanto odio quanto amore, arriva a non comprendere ciò che per poco si scosti dalla fede. Una esagerata preoccupazione morale, la passionata credenza alla giustizia di Dio portano a una vita cupamente austera, scevera d'ogni dilettamento, e tra mortificazioni poco proprie della stirpe umana, e ancor meno della italiana. Di questi già avemmo il tipo ne' discepoli del Savonarola, che, pur disapprovando molto nella Chiesa, arrestavansi davanti alle decisioni e all'organica venerazione di essa. Pietro Paolo Boscoli, uno de' siffatti, per congiura di Stato condannato a morte in Firenze, ebbe a se Luca della Robbia, grave letterato, e gli commise di [388] dire ad un certo loro amico, abbandonasse le umane lettere che gonfiano il cervello, e si convertisse tutto agli studj e alla disciplina della cristiana filosofia. Nardi.

Dagli eccessi della pietà, o dagli ardimenti del pensiero che, interpreta sì, ma accetta il dogma esposto dalla Chiesa, corre gran distanza alla rivolta della ragione individuale e mutevole contro la credenza universale ed inalterabile, nè i nostri spingeano il desiderio di riformare sino al proposito di distruggere.

A dir vero, nella libertà con cui qui si disapprovava la romana curia, svampavano quelle stizze, che represse ingagliardiscono; e la vicinanza faceva che, coi traviamenti delle persone non si confondesse la santità delle istituzioni. Mentre i Tedeschi invidiavano a noi il papato come fonte di ricchezza e di potere, i nostri s'accorgevano che esso conservava all'Italia quell'importanza, che sotto ogni altro conto smarriva, e che qua attirava persone, affari, denaro. Tutti i principi, tutte le case magnatizie tenevano uno o più de' lor membri nel Sacro Collegio o nelle prelature, i quali e godevano pingui prebende, considerate come appannaggi de' cadetti d'illustri famiglie, ed esercitavano autorità come legati, nunzj, protettori de' regni, elettori del papa. Gli artisti aveano dalla devozione i principali loro esercizj, nelle chiese, ne' conventi. I letterati si chiamavano riconoscenti ai papi e ai cardinali, che li prendevano per secretarj o clienti. Le classi inferiori non erano state guaste dal rinato paganesimo, nè il raziocinio, limitato fra gli scienziati, sovvertiva le coscienze popolari. Poi, se Lutero avrebbe potuto sopra le profonde convinzioni di Dante, qual presa poteva avere fra i contemporanei dell'Ariosto che ride di tutto; ride dei dogmi come e più di Lutero?

Quante famiglie si onoravano d'aver dato prelati, e papi, e fino qualche santo alla Chiesa! stando solo alla Toscana, di nobili case usciano i sette fondatori dell'Ordine de' Serviti: Buonfigliuolo Monaldi, Buonagiunta Manetti, Manetto dell'Antella, Amadio Amidei, Uguccione Uguccioni, Sostegno Sostegni, Alessio Falconieri. I Ricci gloriavansi di santa Caterina; gli Orsini di sant'Andrea; i Falconieri delle beate Giuliana e Carissima; i Pazzi di santa Maddalena; i conti Guidi del beato Carlo; i Soderini della beata Giovanna; i Vespignano del beato Giovanni; del beato Ubaldo gli Adimari; i della Rena di Certaldo della beata Giulia; i Gambacurta di Pisa del beato Pietro, e via discorrete. Fuori di là, i Latiozi di Forlì aveano avuto il beato Pellegrino; i Malatesta di Pesaro la beata Michelina; i Borromeo di Padova santa Giustina; poi seguivano tutte le famiglie papali; poi, dove la storia venisse meno, supplivasi con tradizioni e sino con favole, quasi non s'avesse per casata insigne quella cui mancasse un santo. E per vero, qual più bel titolo di nobiltà che il contare fra gli antenati eroi da paradiso? e qual empietà il disperdere e profanare que' vanti e quegli avanzi degli [389] avi! Il culto delle memorie non si rinega dalle nazioni, se non quando siano rese imbecilli dall'intrigo e dalla rivoluzione.

Ciò svogliava in generale gli Italiani dal buttarsi alla riforma. E poichè la grandezza maggiore, la potenza, la ricchezza all'Italia è sempre venuta dall'esser sede di que' pontefici, ai quali appunto si intimava guerra, l'interesse che vi spingeva i forestieri ne disamorava i nostri, che aveano anzi a indispettirsi contro questo Lutero, il quale accanniva le genti germaniche contro l'Italia, maestra e vittima de' compatrioti di lui.

Di queste ragioni umane si ammantò la grazia che Dio concedette al paese nostro di non unire, a tant'altre organiche divisioni, anche quella delle credenze e del culto.

Però l'Italia rimaneva ancora conquassata dalle intraprese dei tirannelli contro i popoli, per le quali i principati quasi da per tutto si erano sostituiti al governo dei più. La lotta non era finita allorchè cominciò a predicarsi la Riforma; e pel consenso che hanno fra loro le proteste contro l'autorità, poteva credersi che i reluttanti, e sopratutto i profughi, si alleerebbero coi dissenzienti, e cercherebbero introdurne le idee in patria. Viepiù poteano esservi spinti i Toscani, i cui oppressori temporali erano pontefici e cardinali; e i Romani, troppo spesso incapricciati di far dispetto al loro sovrano. Potevano così complicarsi la religiosa colla quistione politica; e ricondurre que' sciagurati momenti, ove un paese rimane governato da' suoi fuorusciti.

Nulla avvenne di ciò: e per quanto noi abbiam in altro luogo[521] esaminato partitamente i maneggi de' rifuggiti, non incontrammo ombra di quest'alleanza.

Ma se l'amore delle novità non invase nè le plebi, nè i principi, e se quelli che si brigavano di regolare la propria fede erano pochissimi a fronte di coloro che ne usavano e ne viveano senza punto analizzarla, erra chi crede che la Riforma non abbia fra le Alpi avuto ed estensione, e conseguenze civili e politiche.

Se non che, mentre in Germania fu partito de' principi, in Francia partito de' nobili, in Italia fu principalmente da letterati. Dopo che la protesta fu formulata in Germania, la estesa reputazione de' dotti italiani fece che i novatori forestieri ne sollecitassero l'adesione, e cercassero qui divulgare le loro scritture, mentre la vivacità degli ingegni nostrali inuzzoliva delle nuove predicazioni. Alcuni di qua si tenevano in corrispondenza coi dotti tedeschi; e i cardinali Bembo e Sadoleto carteggiavano coll'erudito Melantone, il principale apostolo di Lutero, amante la pace e mediatore, ma senza iniziativa. Gli studenti tedeschi che qui, e principalmente a Padova e a Siena[522] venivano a raffinarsi, e i nostri che s'addottrinavano nelle Università germaniche, servivano a trasmettere le nuove dottrine.

Fin dal 1520 Burcardo Scenk, gentiluomo alemanno, scriveva a Spalatino, cappellano dell'elettore di Sassonia, che Lutero godeva stima a Venezia e ne [390] correano i libri, malgrado il divieto del patriarca; che il senato penò a permettere vi si pubblicasse dai pulpiti la scomunica contro l'eresiarca, e solo dopo uscito di chiesa il popolo[523]. Lutero stesso per lettere felicitavasi che tanti di quella città avessero accolto la parola di Dio[524], e teneva corrispondenza col dotto Giacomo Ziegler, che fervorosamente s'adoprava a diffondervi le innovazioni. Di là erano diretti esortamenti a Melantone perchè non tentennasse nella fede, nè tradisse l'aspettazione degli Italiani[525].

A Venezia si ristamparono la spiegazione del Pater di Lutero, anonima; i Luoghi comuni di Melantone, col titolo di Principj della teologia di Ippolito da Terranegra. Perocchè i falsi nomi erano un artifizio d'eludere le ricerche; e il Commento sui salmi di Bucer apparve sotto il nome d'Arezio Felino, le opere di Zuinglio sotto quello di Coritio Pogelio, o di Abideno Corallo; così Postel s'intitolava Helia Pandoches: Giulio da Milano trasformavasi in Girolamo Savonese: anzi il Commento di Lutero sull'epistola ai Romani e il Trattato della giustificazione si diedero per opere del cardinale Fregoso. Questi mascheramenti eludevano la vigilanza; altre opere giungevano entro botti di vin di Borgogna o di Tokai, o in balle di panni e cotonerie. Francesco Calvi, di Menaggio sul lago di Como, donde il suo cognome di Minicius, e ch'era stato anche tipografo apostolico, teneva bottega di libri a Pavia, e ito a cercare dal Froben di Basilea le opere di Lutero, le propalò in Lombardia.

Che fin dalle prime fossero accolte in Italia le dottrine nuove ce n'è altro testimonio Martino Bucer, il quale tradusse dal tedesco in latino le postille di Lutero, e stampate nel 1526 a Basilea, le dedicò ai fratelli italiani. Ma Bucer repudiava la consustanziazione, accettata da Lutero, sicchè alterò varj passi: di che altamente irritato, Lutero l'assalse con ogni peggiore ingiuria, talchè quel mite ristampò a parte i passi genuini, e v'aggiunse esse lettere di Lutero.

Il qual Lutero scriveva a Baldassare Altieri, veneziano e secretario dell'ambasciadore d'Inghilterra, si guardasse dalle dottrine di Bucer, di Bullinger, di Pellicano, di altri intorno alla eucaristia, come da pestilenziale eresia; e interrogato dai nostri sopra la presenza reale, anatemizzava Zuinglio ed Ecolampadio, «dottori contagiosi e falsi profeti». Bucer, inclinato alla pace, dirizzò una lunga lettera «agli Italiani fratelli che invocano Cristo con pura fede a Bologna e a Modena, venerandi e carissimi», congratulandosi che ogni giorno avanzassero nella cognizione di Cristo, e a sempre nuovi la partecipassero; gli duole siano nati dissensi fra loro intorno all'eucaristia: stiano contenti di sapere che si pascono della carne e del sangue di Cristo, cioè in Cristo vivono più pienamente, e in sè vivo il sentono viepiù. E qui spiega la quistione nata su tal punto, concludendo di ricevere quei simboli con pietà, non offenderli con curiose e profane disquisizioni, dalle quali confida guariti anche i Tedeschi[526].

[391] Si ha una lettera, che alcuni nostri da Bologna, nel 1533, scrissero al signor di Planitz, ambasciadore del duca di Sassonia all'imperatore, attestando di approvare la Chiesa protestante, e d'insistere pel Concilio[527]. L'anno stesso stampavasi in italiano il libro di Lutero dell'emendazione e correzione dello stato cristiano.

La bolla di Clemente VII, del 15 gennajo 1530, deplora che in diverse parti d'Italia avesse attecchito la pestifera eresia di Lutero, non solo tra persone secolari, ma anche ecclesiastiche e tra regolari, mendicanti o no, a segno che alcuni con discorsi, e fino con pubbliche prediche infettavano altri. Pertanto autorizza gli inquisitori domenicani a procedere contro costoro, ed anche Carmelitani o d'altri Ordini mendicanti: possano istituire vicarj e comissarj abili, purchè di trent'anni; ed essi e questi possano assolvere i ravveduti. Maggiori privilegi concede ai Crociati, che dagli inquisitori s'erano istituiti ne' varj luoghi per averne ajuto e consiglio.

Paolo III, con bolla del 14 gennajo 1542, confermava questi provedimenti informato che a Bologna, a Milano e in altri luoghi v'avea secolari e religiosi, che allegavano indulti e privilegi per tenersi immuni dalla giurisdizione degli inquisitori, e così proporre e disputare pubblicamente proposizioni scandalose, erronee e talvolta ereticali, con iscandalo e pericolo.

Già abbiamo veduto come il cardinale Sadoleto si lagnasse della defezione degli spiriti: e il cardinale Caraffa dichiarasse a Paolo III che l'eresia luterana aveva infettato l'Italia, e sedotto non solo persone di Stato, ma molti del clero. Più ancora significano le baldanzose speranze di alcuni apostati.

Egidio Della Porta, d'illustre famiglia comasca e frate agostiniano in patria, l'11 dicembre 1525 a Zuinglio «egregio soldato di Cristo, e venerando come padre», mandava: «Da un pezzo io desiderava scriverti, ma n'ebbi vergogna. Or mi rimprovero questa pusillanimità, pensando che Cristo istesso senza distinzione riceve anche i più umili. Come Paolo, dopo percosso, udì il Signore comandargli di visitare Anania e ricevere i consigli suoi, così, se io non sarò Paolo, sii tu a me Anania, e dirizzami colla parola nella via della salute. Vanno quattordici anni che, per zelo, com'io credo, pio, sebbene non secondo scienza, mi sottrassi ai parenti, e mi feci agostiniano, credendo coi Pelagiani poter procacciarmi la salute colle opere; e tanto feci che da sette anni attendo a evangelizzare la parola di Dio, ma con quanta ignoranza delle buone lettere! Perocchè nulla sapevo di Cristo, nulla della fede: tutto alle opere attribuendo, insegnavo a confidare in queste. E chi sa quali veleni ho io sparsi nel campo del Signore! Ma il buon Dio non volle che il suo servo perisse in perpetuo, e mi prostrò sicchè io esclamai: Signore, che vuoi ch'io faccia? E il cuor mio s'intese dire: Va ad Ulrico Zuinglio, e te l'insegnerà..... Ormai non tu, ma Dio per te mi camperà dai lacci: e spero addur meco alcuni fratelli. A noi non son note la lingua greca e l'ebraica, poco la latina: vogliamo impararle, ma più imparar Cristo. Tarderemo [392] la venuta nostra fino a Pasqua, e durante la quaresima predicheremo il verbo di Dio.... Scrivendomi, dirigi ad Andrea Mondino, di qui....»

Poi al 15 dicembre 1526, di nuovo:

«Gran piacere mi recò la tua lettera. Prudentissimamente la venuta nostra nè disconsigli, nè comandi. Non sai che io son povero all'estremo. Potrai pregare nosco Iddio che al più presto si faccia la volontà sua. Temo non abbiasi ad attendere a lungo il Testamento che stiamo traducendo. Da mille faccende siamo distratti; ora spediti alla questua, ora tenuti alle ore canoniche, or qua, or là pei paesi, per le piazze, consumiamo gran tempo in faccende da nulla. Come poi si potrà stampare non scorretto se non vi assista qualche italiano? Ma lasciamo ciò. Il Signore suscitò in me lo spirito suo, che per tuo mezzo vuol perfezionare. Milano e il suo territorio, per la guerra recente è talmente spoverito, che molti benestanti giaciono in miseria: oltre gl'innumerevoli che già prima erano mendici. Sono senza fine le sciagurate che per la miseria si prostituiscono. Insomma la mano di Dio s'è talmente gravata sul popolo, che gli uomini inveleniti credono lecito l'affiggersi qualsiasi ingiuria.

«Queste sciagure Iddio curerà per tuo mezzo. Scrivi al duca di Milano una lettera d'esortazione e, se non l'ascolti, di minaccia, perchè a' suoi sudditi proveda il pascolo dell'anima e del corpo, togliendo il denaro ai pingui frati, e distribuendolo fra il popolo; lasci a ognuno predicare la pura parola di Dio, il che torrà, se rimanga alcuno scrupolo nell'azione predetta. Che se egli diffidi, guardi ai Tedeschi che fan altrettanto con avidità. Aggiungi che più facilmente fiaccherà la possa dell'Anticristo, il quale confida nelle sue ricchezze, e se ne vale a perdizione di molti. Varj fratelli, non isprovisti di pietà e d'erudizione, mi incalzano acciocchè io te ne scongiuri per Dio. E che scriva ai capi del nostro Ordine o setta, colle ragioni che più forti saprai svellendoli da quella faragine di regole, ma bada di non tacciarli d'ignoranza, perocchè sono vanitosissimi, e se n'impennerebbero.... Ma che sto io ad insegnarti? La terza domenica dopo Pasqua si raccoglieranno a capitolo per esaminare e deformare, volli dire riformare. Tal lettera dirigi a noi. Con qualche esempio nelle sante carte fa lor veduto com'è volere di Dio che si predichi la parola sua con semplicità e senza fronzoli, e che peccano contro di lui quelli che spacciano le proprie opinioni come responsi del cielo»[528].

Con apostolato più fiero la negazione era stata sparsa dai guerrieri, qui calati a straziarci. Carlo V, mentre professavasi difensore della Chiesa, aveva menata in giro una marmaglia di soldati, spesso cerniti da' paesi più infetti della Germania, e che diffondeano, se non le dottrine nuove, lo sprezzo delle vecchie, piacendosi di fare affronti agli ecclesiastici, di gravarli di castighi o d'ingiurie. Giorgio Frundsberg, inventore de' Lanzichinecchi, portava allato una soga d'oro, colla quale vantavasi di volere strozzare in Clemente [393] VII l'ultimo dei papi, ed una d'argento pei cardinali. I papi stessi, come tutti gli altri principi, chiamavano nelle nostre guerre soldati svizzeri e germanici, che divenivano apostoli dell'eresia o colla parola o coll'esempio.

Ha ben riflesso Bossuet che, oltre coloro che chiedono la Riforma da rivoluzionarj, v'ha molti che il fanno senza asprezza nè violenza; deplorano i mali, ma con rispetto propongono i rimedj, nè li vorrebbero mai ottenere colla scissione, la quale considerano come il pessimo de' mali; la dilazione sopportano senza dispetto, riflettendo che possono sempre cominciare l'emenda in se stessi: sanno che Cristo insegnò ad onorare la cattedra di Mosè, anche quando vi siedono peccatori; e la riforma vogliono fatta secondo la divina istituzione della Chiesa, per ripristinarla sulle sue basi, non per crollarle.

Qualche dotto prendea passione alla Bibbia come avrebbe fatto ad un manuscritto recentemente scoperto. Coloro che aveano censurato gli abusi della Chiesa, compiacevansi d'udirli ripetere dai Protestanti, e di poter esclamare, «Anch'io l'avea detto e prima di loro; e se mi si fosse dato ascolto, se ne sarebbe tolta l'occasione». Altri vagheggiava fama di franco pensatore coll'assentire alla disapprovazione delle cose antiche, a quegli epigrammi, o raziocinj poco migliori d'epigrammi, che vengono facilissimi a chi è mal informato della soggetta materia. Inoltre era divenuto moda l'asserire qualche proposizione condannabile, e favorire qualche eretico, per l'irrefrenabile spirito di ricalcitramento contro l'autorità. D'altro lato il disgusto causato dalla politica romana infondeva desiderio di ravvicinarsi a Dio; e parea che i primi riformatori tirassero a ciò o col misticismo che avvicina immediatamente a Dio, o col togliere il clero di mezzo fra l'uomo e il creatore; e i discorsi pieni di pensieri pii e di parole sante, e i lamenti sulla depravazione, espressi con forza e libertà, mascheravano di zelo lo spirito di rivolta. Massime chi era contemplativo più che indagatore dovea restar commosso dai dubbj, allora gettati nell'intelligenza e nella fede, donde il turbamento venutone alle coscienze più pure.

Ma i delicati, se erano offesi dall'antica superstizione, restavano scandolezzati dalla audacia presente; riprovavano il culto delle immagini, l'invocazione dei santi, i segni materiali di credenza, come la croce, i rosarj, gli scapolari: offendeansi sopratutto delle ambizioni papali e dell'ingordigia curiale: pure sentivano il bisogno di appoggiare la libertà all'autorità, per non rimanere perplessi sulle grandi quistioni della presenza reale, della predestinazione, della soddisfazione di Cristo. Dal dissipamento e dalla corruttela ritornavasi quindi alla devozione, fino ad associarla col delitto, e per lo più finivasi piamente una vita menata nelle colpe. Il duca Valentino, tipo della scelleraggine meditata, caricavasi di reliquie; e Vitellozzo, che era in guerra col papa e che cadeva vittima de' colui tradimenti, supplicava in morte di ottenergliene l'assoluzione. Carlo VIII veniva con [394] molte reliquie alla spedizione d'Italia. Alessandro VI gloriavasi d'avere acquistato la lancia con cui fu trafitto il Redentore in croce; portava in collo una bulla contenente le sacre specie: alla sua Lucrezia raccomandava la devozione a Maria. L'astuto Lodovico il Moro, il Cavour di que' tempi, moltiplicava chiese, e la notte prima di fuggire da Milano, vegliò nella Madonna delle Grazie sul sepolcro di sua moglie. Il Machiavelli, un degli empj se ce n'ebbe, ha discorsi sacri, e una predica sul De Profundis, ove esorta a «imitare san Francesco e san Girolamo, i quali, per reprimere la carne e torle facoltà a sforzarli alle inique tentazioni, l'uno si rivoltava su per i pruni, l'altro con un sasso il petto si lacerava... Ma noi siamo ingannati dalla libidine, incôlti negli errori, inviluppati nei lacci del peccato, e nelle mani del diavolo ci troviamo: per ciò conviene, ad uscirne, ricorrere alla penitenza, e gridare con David, Miserere mei, Deus, e con san Pietro piangere amaramente»[529].

Non citerò l'infame Aretino, che colle più laide composizioni ne alternava di sacre, vendereccio nelle une come nelle altre; ma e l'Ariosto e i Cellini e tutti gli artisti sentivano il bisogno di raccogliersi talvolta a Dio, e rinnovare quelle pratiche, in cui gli aveva nodriti la loro madre. Giorgio Vasari più d'una volta risolse di ritirarsi in solitudine devota, «e così offenderò meno Iddio, il prossimo e me stesso, dove nella contemplazione di Dio, leggendo si passerà il tempo senza peccato, e senza offendere il prossimo nella maldicenza»; e ridottosi fra i monaci di Camaldoli, elevandosi a un misticismo cui ben poco mostrasi propenso nelle sue pitture, scriveva a Giovanni Pollastra:

«Siate voi benedetto da Dio mille volte, poichè sono per mezzo vostro condotto all'ermo di Camaldoli, dove non potevo, per cognoscer me stesso, capitare in luogo nessuno migliore; perchè, oltre che passo il tempo con util mio in compagnia di questi santi religiosi, i quali hanno in due giorni fatto un giovamento alla natura mia sì buono e sano, che già comincio a conoscere la mia folle pazzia dove ella ciecamente mi menava, scorgo qui in questo altissimo giogo dell'Alpe, fra questi dritti abeti, la perfezione che si cava dalla quiete. Così come ogni anno fanno essi intorno a loro un palco di rami a croce, andando dritti al cielo; così questi romiti santi imitandoli, ed insieme chi dimora qui, lassando la terra vana, con il fervore dello spirito elevato a Dio alzandosi per la perfezione, del continuo se gli avvicina più; e così come qui non curano le tentazioni nemiche e le vanità mondane, ancorchè il crollare de' venti e la tempesta li batta e percuota del continuo, nondimeno ridonsi di noi, poichè nel rasserenare dell'aria si fan più dritti, più belli, più duri e più perfetti che fussero mai, che certamente si conosce che 'l Cielo dona loro la costanza e la fede; così a questi animi che in tutto servono a lui. Ho visto e parlato sino a ora a cinque vecchi, di anni ottanta l'uno in circa, fortificati di perfezione nel [395] Signore, che m'è parso sentir parlare cinque angioli di paradiso; e sono stupito a vederli di quell'età decrepita, la notte per questi ghiacci levarsi come i giovani, e partirsi dalle lor celle, sparse lontano cencinquanta passi per l'ermo, venire alla chiesa ai mattutini ed a tutte l'ore diurne, con un'allegrezza e giocondità come se andassero a nozze. Quivi il silenzio sta con quella muta loquela sua, che uno ardisce appena sospirare, nè le foglie degli abeti ardiscono di ragionar co' venti; e le acque, che vanno per certe docce di legno per tutto l'ermo, portano dall'una all'altra cella de' romiti acque, camminando sempre chiarissime, con un rispetto maraviglioso».

Viepiù sentiva questi bisogni dello spirito il Bonarroti, «Michel più che mortale angel divino»: grand'intelligenza e gran cuore, che idealizza anzichè esprimere, e che come artista figura l'armonia de' contrasti. Era venuto su come gli altri in quel secolo fra il rinnovato paganesimo: e ne' colloqui col magnifico Lorenzo nel giardino di San Marco, o nel palazzo di via Larga, o nel suburbio di Careggi, s'imbevve di quelle idee gentilesche, per le quali pareva assai se nell'Olimpo faceasi un posto ospitale anche al Cristo. Ma per quel vigor suo che nol lasciava servile a concetti altrui, s'addiede anche alla Bibbia, ed «ha con grande studio ed attenzione lette le sante Scritture sì del Testamento Vecchio come del nuovo, e chi sopra ciò s'è affaticato», scriveva il Condivi, lui vivo. Aveva ascoltato frà Girolamo, e ne trasse l'amor della religione associato a quel della patria: ma come si volle denigrare il suo patriotismo, così la sua fede. Il Grimm, in una vita che recentemente ne scrisse,[530] volle porre anche questo tra coloro che pensavano co' Protestanti; e che singolarmente non accettasse la necessità de' sacramenti, nè il purgatorio, giacchè, deplorando la morte di Giovansimone suo fratello, dice che poco importa se non abbia prima ricevuto i sacramenti.

La frase è proprio di Michelangelo, ma se connettasi alle precedenti significa tutt'altro. Perocchè scrive: «Lionardo; io ho, per l'ultima tua, la morte di Giovansimone. Ne ho avuto grandissima passione, perchè speravo, benchè vecchio sia, vederlo innanzi che morisse, e innanzi che morissi io. È piaciuto così a Dio: pazienza! Avrei caro intendere particolarmente che morte ha fatta; e se è morto confesso e comunicato con tutte le cose ordinate dalla Chiesa: perchè, quando l'abbia avute, e che io il sappi, n'avrò manco passione».

Che cosa gli fosse risposto appare da questa sua replica: «Mi scrivi che, sebbene non ha avuto tutte le cose ordinate dalla Chiesa, pure ha avuto buona contrizione: e questa per la salute sua basta, se così è».

Vedi, lettore, come lo staccare una frase ne sovverta il senso. E Giorgio Vasari, suo veneratore, e che non facea legendarj, racconta che con esso girava di chiesa in chiesa per guadagnare il giubileo, pur tenendo ragionamenti [396] dell'arte. E gli disse una volta: «Se queste fatiche che io duro non mi giovano all'anima, io perdo 'l tempo e l'opera». E altrove: «Non nasceva pensiero in lui che non vi fosse scolpita la morte.... per il che si vedeva che andava ritirando verso Dio.... Volentieri in questa sua vecchiezza si adoperava alle cose sacre, che tornassino in onore di Dio..... Sovveniva molti poveri e maritava secretamente buon numero di fanciulle».

Malatosi suo fratello, scrive al padre: «Non vi date passione, perchè Dio non ci ha creati per abbandonarci». E quando stava per gittare in Bologna la statua di Giulio II, «Pregate Dio che io abbia onore qua, e che io contenti il papa; e ancora pregate Dio per lui». E riuscitovi: «Io stimo le orazioni di qualche persona m'abbiano ajutato, e tenuto sano, perchè era contro l'opinione di tutta Bologna che io la conducessi mai»[531].

Ben è vero che, irato ai tempi e a Giulio II, uscì talvolta in rabbuffi, fieri come ogni opera sua, e cantò:

Qua si fa elmi di calici e spade

E 'l sangue d' Cristo si vende a giumelle,

E croce e spine son lance e rotelle

E pur a Cristo pazïenza cade.

Ma non arrivi più 'n queste contrade

Chè n'andria 'l sangue suo fin alle stelle,

Poscia ch'a Roma gli vendon la pelle

Ed eci d'ogni ben chiuse le strade

Ma la sua fede non venne mai meno, anzi considerava beata la gente rustica, che onora e ama e teme e prega Dio pel meglio de' suoi lavori, de' suoi armenti, de' suoi campi; e non agitata dal dubbio, dal forse, dal come, dal tristo perchè, adora e prega con fede semplice[532]. E nelle sue rime molte suonano di preghiera e di pentimento; ricorre spesso alla misericordia di Dio, e gli dice:

Non mirin con giustizia i tuoi santi occhi

Il mio passato, e 'l gastigato orecchio

Non tenda a quello il tuo braccio severo:

Tuo sangue sol mie colpe lavi e tocchi,

E più abbondi quant'io son più vecchio

Di pronta aita e di perdono intero

Fra le sue carte, non di suo pugno ma su foglio ov'è altro scritto di lui, vedemmo questa preghiera:

«O Padre altissimo, che per tua benignità mi facesti cristiano solo per darmi il regno tuo; di nulla l'anima mia creasti e incarcerasti quella nel misero corpo mio; donami grazia che, tutto quanto il tempo ch'io starò in questa carcere inimica dell'anima mia, nella quale tu solo mi tieni, che io [397] ti laudi: perchè, laudandoti tu mi darai grazia di beneficare i prossimi miei, e di far bene in particolare agli inimici miei, e quelli sempre a te raccomandare. Concedimi grazia ancora, santissimo Dio, che avendo al partire passione corporale, io conosca che quelle non offendono l'anima mia; rammentandomi del tuo Figliuolo santissimo, che per l'umana salute morì tanto vituperosamente; e per questo mi consolerò e sempre lauderò il tuo santo nome, amen».

Oh va, e fammene un protestante!

Ne' suoi versi, per una mescolanza troppo solita a' nostri, ve n'ha molti d'amore: un amore alla petrarchesca, nel quale, vagheggiando il bello effettivo, pur si vuole elevarlo con idee platoniche. E tale fu quello ch'egli portò alla Vittoria Colonna; non scevero di passione quant'altri presunse, elevato certamente, e sublimato poi dalla morte. Da quella mirabil donna egli chiedeva consigli e sostegno, e dicevale:

Ora in sul destro ora in sul manco piede

Variando, cerco della mia salute;

Fra 'l vizio e la virtute

Il cor confuso mi travaglia e stanca;

Come chi 'l ciel non vede

Che per ogni sentier si perde e manca.

Porgo la carta bianca

A' vostri sacri inchiostri,

Ch'amor mi sganni e pietà 'l ver ne scriva,

Che l'alma da sè franca

Non pieghi agli error nostri

Mio breve resto, e che men cieco viva

Chieggo a voi, alta e diva

Donna, saper se 'n ciel men grado tiene

L'umil peccato che 'l soperchio bene.

Poi quand'ella si spense, egli scriveva con sublime sconcordanza: «Morte mi tolse uno grande amico»: e ne cantò a lungo, e diceva:

Il mio rifugio e 'l mio ultimo scampo

Qual più sicuro, e che non sia men forte

Che 'l pianger e 'l PREGAR?

Baldanzoso com'era, e smaniato del nuovo, repente sentivasi talvolta preso da scoraggiamento, e non leggeva più che la Bibbia e Dante, non tratteggiava che soggetti sacri, e rifuggiva sotto l'ale della misericordia eterna:

Nè pinger nè scolpir fia più che queti

L'anima, vôlta a quell'amor divino

Ch'aperse a prender noi in croce le braccia.

[398] Il Panizzi, nell'edizione inglese dell'Orlando Innamorato, ripubblicò un opuscolo del vescovo apostata Vergerio[533] dov'è asserito che il Berni a quel burlesco poema intarsiasse dottrine anticattoliche, le quali poi furono espunte dopo morto l'autore, e allega diciotto stanze, prologo al XX canto, di tenore riottoso: donde l'editore conchiude che tali opinioni fossero comuni nella classe educata d'Italia, quanto oggi le liberali. Prova incerta, ma non nuova; che già altri vollero noverare tra i riformati il Manzolli pel Zodiacus vitæ, astiosissimo contro il clero, l'Alamanni, il Trissino, altri ed altri, mal comparando chi riprova gli abusi con chi proclama la fondamentale protesta della ragione individuale, presa per unico interprete del codice sacro.

I Riformati ammetteano i dogmi primarj del cristianesimo, pretendeano anzi richiamare a quelli la Chiesa traviata; ne negavano alcuni. Pertanto è facilissimo, in detti e scritti di ottimi cattolici, trovare espressioni consone a quelle de' Protestanti, o lo scopo di richiamare le opinioni vulgari alle definizioni vere e alle interpretazioni autentiche della Chiesa. Chi non ne esamini il complesso, li fa assenzienti agli eretici. Ma dessero anche in fallo, era colpa dell'intelletto più che della volontà; l'errore sincero non costituisce eresia; e se anche ne dà le apparenze, vuolsi distinguerlo dalla ribellione volontaria e meditata: e più erano scusabili quando il Concilio di Trento non aveva ancora nè sì ben definiti, nè sì popolarmente espressi i canoni della credenza.

La dottrina cattolica abbraccia e mette in armonia il divino elemento e l'umano, il terrestre e il soprannaturale, ossia il principio mistico e il principio intellettuale. Quell'armonia forma la meraviglia e la venerazione de' contemplanti. Può anche succedervi squilibrio, nè per questo uscire dal cattolicismo se non s'arrivi al disprezzo dell'autorità ecclesiastica, e a rompere i vincoli della fraterna carità.

Non è consueto nel nostro paese narrare la vita dello spirito, nè dipingere i caratteri, come fecero principalmente i grandi secentisti di Francia; onde non possiamo assistere alle lotte interne di quelle anime elette, e a quelle ambasce di spirito, che non si comprendono più nell'inintelligente età del dubbio. Ma oggi stesso, fra un popolo serio perchè libero di realtà non solo di istituti, chi volesse vedere come le quistioni religiose agitino profondamente i più gravi pensatori e i cuori più sensitivi, legga in Neumann, in Pusey, in Manning gli spasimi e le emozioni provate allorchè, nel 1851, si discuteva sulla necessità del battesimo, sulla autenticità e divina ispirazione delle Scritture, la colpa originale, le profezie, l'incarnazione dello Spirito Santo. Ed era l'età del vapore e dei telegrafi elettrici.

Qualcosa di siffatto accadeva in Italia nel secolo XVI; laonde furono confusi coi Riformati persone di gran pietà, che colla stessa austerità loro, col congregarsi a ragionare di Dio, coll'occuparsi d'indagini teologiche, protestavano [399] contro l'indifferenza dei più. Molti della predicazione luterana non vedeano che il lato morale; una pietà forse inconsiderata, ma che vagheggiava la purezza perduta nella Chiesa; un desiderio di diminuire importanza alle cerimonie esteriori e alle opere suprarogatorie, d'altrettanto rialzando la pietà interiore; un deplorare le persecuzioni che si faceano all'Ochino o a Pietro Martire, mentre si tolleravano l'Aretino e il Franco; una profonda fiducia nei meriti di Gesù Cristo, senza avvedersi che essa perdea lode col repudiare l'autorità e i sacramenti da Lui istituiti: un gridare all'emendazione del clero, al depuramento del culto, pur senza voler menomamente distruggere i papi o i riti. Oltrechè ciò nulla ha a fare colla quistione dogmatica dell'unità, quanti non sono in ogni età coloro che adottano un principio, e non ne tirano le conseguenze?[534]

Di tali intenzioni noi crediamo Marcantonio Flaminio. Questo veronese, buon medico ed elegante latinista, ridusse i salmi in odi latine, che furono messe all'indice da Paolo IV: e stampò In psalmis brevis expositio (Aldo, 1515) dedicata a Paolo III, dicendo essere stato indotto a farla dal vescovo Giberti, e a pubblicarla dal cardinale Polo. Girolamo Muzio, annusatore di eresie, l'appuntò perchè, interpretando un verso del salmo 45, dice che «dobbiamo cessare da tutte le opere nostre, e la vera giustizia per nostra fatica non si può acquistare»; e altrove ammonisce «che cautamente leggano gli scritti del Flaminio, anzi che non li leggano quelli che al cristianesimo s'appartengono, perciocchè maggior danno potranno conseguire dalle sue sentenze che diletto dalle sue parole»[535]. I Protestanti danno per segno di sua apostasia l'ardore suo per Cristo e per l'eucaristia, il non volgersi mai nelle odi a Maria o ai santi, nè mentovare il purgatorio; il raccontare egli stesso come, essendo malato, risanò per preghiere dirette dal Caraffa a Dio, non a verun santo[536]. Vedasi se meritino peso tali presunzioni, come la pietà che spira dalle sue lettere[537]; la conoscenza che mostra delle Scritture è un'altra pruova che queste non erano inusate neppure fra i Cattolici. Nel 1535 scriveva a Pietro Pamfilio d'aver detto addio ad ogni studio, eccetto quello delle divine cose, e che proponeasi dedicare il resto di sua vita a meditare la fede cristiana.

Nel Giudizio sopra le lettere di tredici uomini illustri pubblicate da M. Dionigi Atanagi (Venezia 1554), opera forse del sunnominato Vergerio, si legge che il Flaminio «solo tra questi ebbe qualche gusto e cognizione di Cristo e della verità, ma non in tutti gli articoli, perocchè Dio non scopre e non rivela tutti i suoi tesori ad un tratto, ma a parte a parte. Certa cosa è che, se il Flaminio intese la giustificazione per la sola fede in Cristo e la certezza della salute nostra, egli o non intese la materia dell'eucaristia, o non ebbe ardimento di dirla come sta». E riferite le discrepanze, soggiunge: «Questo guadagno almeno facciam noi di quella lettera flaminiana, che, avendo esso dimostrato dissentire da noi in questi punti, [400] e non detto di dissentire ove noi neghiamo esservi la transustanziazione, e quella oblazione doversi applicare per vivi e per morti, e dove anche neghiamo la cena doversi dividere, il che fanno i papisti quando ai laici non danno la spezie del vino, in questi tre punti almeno esso Flaminio ha dimostrato di tenere che noi abbiamo ragione; e credo io che, se egli fosse vivuto, sarebbe eziandio in tutti gli altri corso più avanti, ed entrato nelle opinioni nostre; e credo di più che, chi avesse potuto vedere il secreto del suo cuore, avrebbe veduto che già v'era entrato». Induzione assurda, eppure abituale.

Ci tornerà occasione di parlarne nel processo del cardinale Moroni, e qui basti indicare come fosse reputato autore del libro che analizzammo sul Benefizio di Cristo, o (come dice il padre Laderchi, storico della Chiesa più abbondante di pietà che di critica) d'un'apologia d'esso Benefizio. Questo il Laderchi crede opera del Valdes, senza darne pruove, ma è abbastanza noto che e il libro e le apologie ascrivevansi a persone diverse, onde crescervi credito. Del resto il Flaminio conservossi devoto alla messa; credeva la presenza reale; a monsignor Carnesecchi scriveva da Trento, ricordandogli come «alli mesi passati parlassero alcune volte insieme del santissimo sacramento dell'altare e dell'uso della messa»: e si lagna di quelli che «stanno ostinatissimi nelle loro immaginazioni, acciecati dalla superbia che si nasconde facilmente sotto il falso zelo della religione, ove si mettono in pericolo di perdere l'onore, la roba e la vita, perchè non si possono immaginare di essere ingannati dalla carne e dal diavolo; e così ognora più s'indurano nelle falsità, e diventano acerbissimi censori del prossimo, condannando d'impietà l'universale senso e perpetuo uso della Chiesa, e chiunque non si fa servo delle loro opinioni. Da questa arroganza e da questi amari zeli li liberi Nostro Signore Iddio, e doni loro carità e dolcezza di spirito, e tanta umiltà che s'astenghino dal giudicare temerariamente i dogmi e usanze della Chiesa, condannando sì rigidamente tutti quelli che con vera umiltà di cuore la riveriscono e seguitano, e cominciano a credere che, molti di coloro che da essi sono condannati e tenuti idolatri ed empj, perchè non credono quello che credono essi, sono veramente religiosi, pii ed a Dio cari; e per contrario nimico ed odiato da Dio chiunque seguita questa loro superba presunzione. E noi, signor mio, se non vogliamo far naufragio in questi pericolosissimi scogli, umiliamoci al cospetto di Dio, non ci lasciando indurre da ragione alcuna, per verisimile ch'ella ne paresse, a separarci dall'unione della Chiesa cattolica, dicendo con David: Vias tuas, Domine, demonstra mihi, et semitas tuas edoce me, quia tu es Deus salvator meus. E senza dubbio saremo esauditi, nam bonus et rectus Dominus, propterea diriget mansuetos in judicio, docebit mites vias tuas. Laddove, volendo giudicare le cose divine col discorso umano, saremo abbandonati da Dio, e in questo secolo contenzioso talmente ci accosteremo ad una delle parti ed odieremo l'altra, che perderemo [401] del tutto il giudizio e la carità, e dimanderemo la luce tenebre, e le tenebre luce; o persuadendoci d'essere ricchi e beati, saremo poveri, miseri e miserabili per non saper separare pretiosum a vili; la qual scienza senza lo spirito di Cristo non si può imparare; al qual sia gloria in sempiterno, amen».

V'è un prezioso libretto, capolavoro della mistica, come la Somma di san Tommaso è il capolavoro della scolastica; produzione di quel medioevo tanto vituperato, e di un monaco ignoto; libro ch'è il più letto dopo la Bibbia, sicchè fu detto sarebbe il primo del mondo se questa non esistesse; stampato almeno milleottocento volte, tradotto in ogni lingua; e che, fatto pei solitarj, è tuttavia il conforto ed il sostegno anche di persone tuffate negli affari. Parlo dell'Imitazione di Cristo, eloquio d'un'anima che, senza intermedio di profeti o dottori, eppure adoprando il loro linguaggio, s'intertiene con Dio e col Mediatore. Non dunque dispute, non sottilità scolastiche, non decisioni particolari, ma impeti di quel mistico amore che assorbisce la fede, aspirazioni alla solitudine per sottrarsi all'infelicità dei tempi, e ascoltare Dio che parla: affetto della croce, come salute, vita, schermo dai nemici, come infusione di superna dolcezza, vigore alla mente, gaudio allo spirito. «Nella croce sta tutto, nè alla vita e all'interna pace v'è altra via che della croce; nessun'altra ve n'ha più alta di sopra, o più sicura di sotto. La croce è sempre apparecchiata, e in ogni luogo t'aspetta, nè la puoi cansare, dovunque tu corra. Se una croce tu getti via, un'altra ne troverai forse più grave».

Così adduce a imitare Cristo, con un linguaggio tanto semplice, tanto intimo, che i Riformati dovettero cercare di metterlo fra i loro precursori, se non voleano confessare che nella Chiesa viveva sempre il vero spirito evangelico. Ma quell'aureo libricino invoca i santi; e l'iniziazione progressiva conduce per mezzo dell'astinenza, dell'ascetismo, della comunione finchè si giunga all'unione; talchè nè d'un punto scatta dalle ritualità della Chiesa nostra, la quale col venerarlo mostrava abbastanza che tale era la costante sua pratica[538].

Il Flaminio lo esalta grandemente, e «non saprei proporvi libro alcuno (non parlo della scrittura santa) che fosse più utile di quel libretto De imitatione Christi, volendo voi leggere non per curiosità, nè per saper ragionare e disputare delle cose cristiane, ma per edificare l'anima vostra, e attendere alla pratica del vivere cristiano; nella quale consiste tutta la somma, come l'uomo ha accettato la grazia del vangelo, cioè la giustificazione per la fede. È ben vero che una cosa desidero in detto libro, cioè che non approvo la via del timore, della quale egli spesso si serve. Non già che io biasimi ogni sorta di timore, ma biasimo il timore penale, il quale è segno d'infedeltà o di fede debolissima; perocchè, se io credo daddovvero che Cristo abbia soddisfatto per tutti i miei peccati, passati, presenti e futuri, non è possibile [402] che io tema di essere condannato nel giudizio di Dio; massime se io credo che la giustizia e la santità di Cristo sia divenuta mia per la fede, come debbo credere se voglio essere vero cristiano»[539].

Anche lo storico cardinale Sforza Pallavicino appunta il Flaminio di «covare nella mente tali dottrine, per non dover combattere le quali ricusò d'andare secretario al concilio di Trento»; e soggiunge che, in fine degli anni suoi, la salutevole conversazione del cardinale Polo il facesse ravvedere, e scrivere e morire cattolicamente. In fatto il cardinale Polo invitò il Flaminio a venire da lui a Viterbo, e quando fu eletto uno dei Legati al concilio di Trento, ve lo condusse. Il Flaminio morì poi di cinquantadue anni, e Pier Vettori ne dava notizia ad esso cardinale da Firenze il 13 aprile 1550, consolandosi che «santamente e piamente fosse uscito di vita con tal costanza di mente e alacrità, qual poteva aspettarsi da uomo che, come lui, era vissuto imbevuto della vera religione». Il Polo curò fosse sepolto nella chiesa degli Inglesi.

Ma appunto nessuno più volentieri gli eterodossi ascriverebbero alla loro coorte che il cardinale Reginaldo Polo (Pool). Nasceva in Inghilterra dai duchi di Suffolck, ed uscito dal regno per non aver voluto approvare il divorzio di Enrico VIII, scrisse poi contro di questo a difesa dell'unità della Chiesa; laonde quel re dispotico fe decapitare il fratello di esso, il nipote, la madre settuagenaria, mentre gli altri parenti si salvarono colla fuga: bandì cinquantamila scudi a chi uccidesse il cardinale, e infatto lo tentarono due inglesi e tre italiani, fra i quali un bolognese confessò essersi trattenuto lunga stagione a Trento con tale proposito.

Per lunga dimora e per tante relazioni e per la lingua che adoperò, il Polo è degno d'essere contato fra' nostri, e può considerarsi rappresentante dello introdottosi spirito di pietà, che ai Riformati dovea parere una protesta contro la rilassatezza di cui imputavano i Cattolici. Dal cardinale Cortese era stato invaghito degli studj biblici; e mentre stette Legato pontificio a Liegi, vi s'intratteneva nel modo ch'è descritto dal Priuli in lettera al Beccatelli del 28 giugno 1537[540]:

«La mattina ognuno si sta nella sua camera fino a un'ora e mezza innanzi pranzo, nella qual ora convenimo in una chiesuola domestica, ed insieme cantiamo le ore more theatinico senza canto. Monsignore di Verona è il nostro maestro di cappella. Dette le ore, si ode messa, e poco dappoi si disna: a parte della mensa si legge san Bernardo: poi si ragiona. Postquam vero exempta fames epulis est, il vescovo legge ordinariamente un capitolo di Eusebio De Demonstratione evangelica: si continua, e ripiglia dappoi qualche onesto e grato ragionamento che dura fino a una o doi ore dopo mezzo giorno; ed allora ognuno ritorna alla sua camera, ove si sta fino a un'ora e mezza innanzi cena; a quell'ora cantiamo vespero e compieta; e dappoi il reverendissimo legato si ha tandem lasciato [403] exorare di leggerci le epistole di san Paolo alternis diebus; ed ha incominciato dalla prima a Timoteo, con somma soddisfazione del vescovo e di tutti noi. Oh quanto desidero e voi ed il nostro dabbenissimo vescovo di Fano a questa santissima lezione da questo santissimo uomo con tanta riverenza ed umiltà, e con tanto giudizio letta, che io non saprei certo desiderar meglio, nè credo che l'amor m'inganni questa volta. Spero dalle miche ch'io ne raccoglierò potervene dar buon saggio, quando al signor Dio piacerà che ci troviamo insieme. Alquanto dopo la lezione si cena: si va per una o doi ore in barca per il fiume, o in l'orto passeggiando, e ragionando sempre di cose convenienti a questi signori; e spesso spesso, anzi cotidianamente desideriamo, e chiamiamo il reverendissimo vostro, e la sua compagnia a questo nostro onesto, e bel tempo ringraziando il Signor Dio di tanto bene, che 'l si degna di concederne. O quante volte mi replica il signor legato: Certe deus nobis hæc otia fecit! O quanto gli siamo obbligati etiam hoc nomine! ed aggiugne sempre: Oh perchè non è monsignor Contarini con noi?»

E il Polo al Contarini da Carpentras scrive della cara compagnia del Priuli e d'altri: «Noi per nostra consolazione mutua avemo cominciato a conferire insieme li salmi di quel grande profeta e re, il quale Dio aveva eletto secundum cor suum, e oggidì eramo arrivati a quel salmo che comincia, Salvum me fac, Domine, quoniam defecit sanctus».

inoltre il cardinale Polo ringraziava esso Contarini a nome di tutta la sua compagnia «per il gran dono di carità il quale risplende più in quel santo negozio di Modena», alludendo certo al catechismo che il cardinal Contarini avea steso per gli erranti di Modena, come avremo a divisare. E infatto il Polo era tacciato di poco rigore verso gli eretici, ch'egli considerava come infermi, i quali bisognasse risanare.

Dell'indole stessa erano le unioni che il Polo teneva mentre, come Legato del patrimonio di san Pietro, sedeva a Viterbo; unioni che sono presentate come convegno di miscredenti. Da varie lettere che ce le dipingono leviamo qualche saggio, e prima da una del Polo al Contarini il 9 dicembre 1541: «Il resto del giorno passo con questa santa ed utile compagnia del signor Carnesecchi e monsignor Marcantonio Flaminio nostro. Utile io la chiamo, perchè la sera monsignor Flaminio dà pasto a me e alla miglior parte della famiglia de illo cibo qui non perit, in tal maniera che io non so quando io abbia sentito maggior consolazione nè maggiore edificazione: tanto che, a compimento di questo mio comodissimo stato, non manca altro che la presenza di vostra signoria reverendissima».

Frasi simili ripete in lettera del 23 dicembre, e in altra del 1 maggio 1542: «Quanto al loco di san Bernardo, notato da vostra signoria reverendissima, dove parla così esplicitamente della giustizia di Cristo, l'avemo trovato e letto insieme con questi nostri amici con grandissima soddisfazione [404] di tutti: e considerando da poi la dottrina di questo santo uomo dove era fondata, e la vita insieme, non mi è parso meraviglia se parla più chiaramente che gli altri, avendo tutta la sua dottrina preparata e fondata sopra le scritture sante, le quali nel suo interior senso non predicano altro che questa giustizia, ed appresso avendo così bel commento per intendere quel che leggeva, com'era la conformità della vita, la quale gli dava continua esperienza della verità imparata, e per questo doveva esser risolutissimo. E se gli altri avversarj di questa verità si mettessero per questa via a esaminare com'ella sta, cioè per queste due regole delle scritture e dell'esperienza, cesserieno senza dubbio tutte le controversie[541]. Nunc enim ideo errant quia nesciunt scripturas et potentiam Dei, quæ est abscondita in Christo, il quale sia sempre laudato, che ha cominciato rivelare questa santa verità, e tanto salutifera e necessaria a sapere, usando per istromento vostra signoria reverendissima, per la quale tutti siamo obbligati continuamente a pregare sua divina maestà ut confortet quod est operatus alla gloria sua e benefizio di tutta la Chiesa, come femo tutti et in primis la signora marchesa [Vittoria Colonna], la quale senza fine si raccomanda a lei».

La pietà di quei colloqui appare viemeglio da quanto allora scriveva il Flaminio, e singolarmente da questa lettera a Galeazzo Caracciolo, del quale parleremo appresso:

«La felice nuova, che mi diedero della santa vocazione di vostra signoria il signor Ferrante e il signor Giovan Francesco, diede grandissima allegrezza non solamente a me, ma ancora al reverendissimo Legato, e a questi altri signori, ed ora per confermare ed accrescere questa nostra allegrezza, vostra signoria m'ha fatto degno d'una sua lettera, la quale è quasi una ratificazione di quello che i predetti signori m'aveano scritto. Signor mio colendissimo, considerando io quelle parole di san Paolo, Voi vedete, fratelli, la vostra vocazione, che fra voi non sono molti savj secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili, ma Dio ha eletto le cose stolte del mondo, per confonder le savie, e le cose deboli per confonder le forti, e le cose ignobili per confondere le nobili e quelle che non sono per distrugger quelle che sono, dico che, considerando io queste notabili parole, mi pare di vedere che 'l signor Dio abbia fatto un favor molto particolare a vostra signoria, volendo che ella sia nel numero di quelli pochissimi nobili, che egli orna di una nobiltà incomparabile, facendoli per la vera e viva fede suoi figliuoli; e quanto è stato più particolare il favore, che ella ha ricevuto da Dio, tanto la veggo più obbligata a vivere, come si conviene ai figliuoli di Dio, guardando che le spine, cioè i piaceri e gli inganni delle ricchezze e l'ambizione non soffochino il seme dell'evangelo, che è stato seminato nel cuor suo: benchè mi rendo certo, che il Signore, il [405] quale ha cominciato a gloria sua l'opera buona in voi, la condurrà a perfezione, a laude e gloria della grazia sua, la quale creerà in voi un animo tanto generoso, che, siccome per lo addietro ponevate tutto il vostro studio in conservare il decoro de' cavalieri del mondo, così ora porrete tutta la vostra diligenza in conservare il decoro de' figliuoli di Dio, a' quali convien imitare con ogni studio la perfezione del loro celeste padre, esprimendo, e rappresentando in terra quella vita santa e divina, la quale viveremo in cielo.

«Signor mio osservandissimo, in tutti i vostri pensieri, in tutte le vostre parole, e in tutte le vostre operazioni ricordatevi, che siamo diventati per Gesù Cristo figliuoli di Dio, e questa memoria, generata e conservata nell'anima nostra dallo spirito di Cristo, non ci lascierà di leggieri nè fare, nè dire, nè pensare alcuna cosa indegna della imitazione di Cristo, al quale se noi vogliamo piacere, è necessario che ci disponiamo a dispiacere agli uomini, e a disprezzare la gloria del mondo per esser gloriosi appresso a Dio; perciocchè, come dimostra Gesù Cristo in san Giovanni, è impossibile, che alcuno possa credere veramente in Dio, mentre che egli cerca la gloria degli uomini, i quali come dice David, sono più vani della medesima vanità. Laonde è cosa stoltissima e vilissima fare stima del loro giudicio, dovendo i figliuoli di Dio aver sempre innanzi agli occhi il giudicio di Dio, il quale vede non solamente tutte le nostre operazioni, ma tutti gli occulti e profondi pensieri del nostro cuore.

«Essendo dunque impossibile piacere a Dio e agli uomini del mondo, che furore sarebbe il nostro, se eleggessimo di dispiacere a Dio per piacere al mondo? E se stimiamo cosa vergognosissima che una sposa voglia piuttosto piacere altrui che al suo sposo, che biasimo meriterà l'anima nostra, se ella vorrà più piacere ad altri che a Cristo suo dilettissimo sposo? Se Cristo, unigenito e naturale figliuolo di Dio, ha voluto non solamente patire per noi le infamie del mondo, ma il tormento acerbissimo della croce, perchè non vorremmo noi per la gloria di Cristo tollerare allegramente le derisioni degli inimici di Dio? Sicchè, signor mio, contra le calunnie e derisioni del mondo armiamoci di una santa superbia, ridendoci delle loro derisioni, anzi come veri membri di Cristo abbiamo compassione alla loro cecità, pregando il nostro Dio, che doni loro di quel suo santo lume che ha donato a noi, acciocchè, diventando figliuoli della luce, sieno liberati dalla misera servitù del principe delle tenebre, il quale con questi suoi ministri perseguita Cristo e le membra di Cristo: la qual persecuzione, malgrado del demonio e de' suoi ministri, ridonda finalmente in gloria di Cristo e in salute de' membri suoi, i quali godono di patire per Cristo, essendo predestinati a regnare con Cristo. Chiunque ha veramente questa fede, resiste facilmente alle [406] persecuzioni del demonio, del mondo e della carne. Però, signor mio colendissimo, preghiamo giorno e notte il nostro padre eterno che ci accresca la fede, e faccia produrre nell'anima nostra quei dolcissimi e felicissimi frutti, che ella suol produrre nella buona terra di tutti i predestinati a vita eterna; acciocchè, essendo la nostra fede feconda di buone opere, siamo certi che ella non è finta ma vera, non morta ma viva, non umana ma divina, e per conseguenza pegno preziosissimo della nostra eterna felicità. Mostriamo che noi siamo legittimi figliuoli di Dio, desiderando sempre che il suo santissimo nome sia glorificato, e imitando la sua ineffabile benignità, la qual fa nascere il sole sopra i buoni e sopra i rei, adoriamo la sua divina maestà in spirito e verità, consacrandole il tempio del nostro cuore, e offerendo in esso le vittime spirituali per Gesù Cristo nostro Signore: anzi come veri membri di questo pontefice celeste, facciamo un sacrificio della nostra carne, mortificandola e crucifiggendola con le sue concupiscenze, acciò che, morendo noi, viva lo spirito di Cristo in noi. Moriamo, signor mio, volentieri a noi medesimi e al mondo, acciò che viviamo felicemente a Dio, e a Gesù Cristo. Anzi, se siamo vere membra di Cristo, conosciamoci già morti con Cristo, e risuscitati, e ascesi in cielo con esso lui, acciò che la nostra conversazione sia tutta celeste, e si vegga in noi uno eccellentissimo ritratto di Cristo; il qual ritratto sarà tanto più bello e più maraviglioso in voi, quanto voi siete un signore nobilissimo, ricco e potente.

«O che giocondo insaziabile spettacolo agli occhi de' veri Cristiani, anzi agli occhi di Dio e di tutti gli angeli, vedere un pari vostro, il quale, considerando la fragilità della natura umana e la vanità di tutte le cose temporali, dica con Cristo, Ego sum vermis et non homo; e con David gridi Respice me, et miserere mei quia unicus et pauper sum ego. Oh veramente ricco e beato colui, che per favor di Dio perviene a questa povertà spirituale, renunziando con l'affetto tutte le cose che egli possiede, cioè la prudenza mondana, le scienze secolari, le ricchezze, le signorie, i piaceri della carne, la gloria degli uomini, i favori delle creature, e ogni confidenza di se stesso! Costui, diventando per Cristo stolto nel mondo, e in mezzo le ricchezze dicendo di cuore Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, e preponendo l'improperio di Cristo e le tribulazioni e i piaceri ai favori del mondo, e non volendo nè altra santità, nè altra giustizia che quella, che si acquista per Cristo, entra nel regno di Dio; e sostentato, favorito e governato dallo spirito di Dio, e tutto ripieno di gaudio, canta col profeta. Il signor è mio pastore, niuna cosa mi mancherà; egli in luoghi ameni e erbosi mi fa riposare, e lungo le acque del refrigerio mi conduce. E crescendo tuttavia la diffidenza di se medesimo e di tutte le creature, e la confidenza in Dio, nè volendo nè in cielo nè in terra altra sapienza, altri tesori, altra potenza, altro piacere, [407] altra gloria, altro favore che quello del suo Dio, grida col medesimo profeta: Signor, chi ho io in cielo oltre a te? Niuno io voglio teco sopra la terra: per lo desiderio di te, la carne mia e il cuor mio si consuma; o fortezza del mio cuore. Dio è la mia eredità in sempiterno.

«Considerate che colui, il quale dice queste dolcissime e umilissime parole, congiunte con grandissima generosità, il quale non vuole nè in cielo nè in terra, niuna cosa se non Dio, considerate dico, che costui era un re potentissimo e ricchissimo. Ma egli non si lasciava offuscare l'intelletto, nè corrompere l'affetto dalla sua potenza nè dalle sue ricchezze, conoscendo per favor di Dio, che tutta la potenza, e tutte le ricchezze sono di Dio, e come cosa di Dio le dobbiamo possedere e dispensare a gloria di Dio: laonde si legge nel primo libro intitolato Paralipomenon, ch'egli in presenza di tutto il popolo disse queste divinissime parole: Benedetto signor Dio d'Israele, padre nostro ab eterno: tua è, signor, la magnificenza e la potenza e la gloria e la vittoria e la laude: perciocchè tutte le cose, le quali sono in cielo e in terra sono tue, tuo è, signore, il regno, e tue sono le ricchezze, tua è la gloria; tu sei signore di tutti; nella tua mano è la grandezza e l'imperio di ciascuno: per la qual cosa ora, Dio nostro, ti ringraziamo, e lodiamo il nome tuo inclito. Chi sono io, e chi è il popolo mio, che ti possiamo promettere tutte queste cose? Tutte sono tue, e quelle che dalla tua mano abbiamo ricevuto, ti abbiamo dato; perciocchè siamo peregrini nella tua presenza, e forestieri, sì come tutti i padri nostri: i giorni nostri sono come un'ombra sopra della terra, e se ne fuggono senza alcuna dimora.

«O signore mio, pregate di continuo il signor Dio che, insieme con questo gran re, vi umiliate da dovvero sotto la potente mano di sua divina maestà, lasciando a Dio tutta la gloria, tutta la potenza, per ricevere da Dio i beati doni della grazia sua, la quale egli comunica solamente agli umili, lasciandone vacui i superbi. Queste parole dice il Signore appresso Geremia: Non si glorii il savio nella sapienza sua, nè si glorii il forte della sua fortezza, nè si glorii il ricco delle sue ricchezze: ma chi si gloria, si glorii nel conoscermi; perciocchè io sono il Signore, il quale esercito la misericordia e la giustizia in terra; perciocchè queste cose a me piacciono, dice il Signore. Se dunque vi volete gloriare, non vi gloriate, come fanno coloro che hanno gli animi vili e plebei, nelle ricchezze e nella nobiltà carnale. Si glorii in queste cose vilissime e vanissime colui che vive nel regno della carne e del peccato; ma voi che siete entrato nel regno di Dio, gloriatevi che il vostro Dio abbia usato con voi la sua misericordia, illuminando le vostre tenebre, facendovi conoscere la sua bontà, facendovi, di figliuolo di ira, figliuolo suo; di vilissimo servo del peccato, nobilissimo cittadino del cielo; donandovi finalmente il suo unigenito figliuolo Gesù Cristo, e ogni cosa con lui; di maniera che, [408] come dice san Paolo, il mondo, la vita, la carne, le cose presenti e le future e ogni cosa, è vostra in Cristo, e per Cristo unica felicità dell'anima vostra. Questa sorta di gloriazione si conviene ai Cristiani; per la quale si esalta la misericordia di Dio, e si annichila la superbia umana, la quale s'innalza contra la cognizione di Dio, volendo gloriarsi di Dio e confidare in se medesima. Questa gloriazione ci fa umili nelle grandezze, modesti nelle prosperità, pazienti nelle avversità, forti ne' pericoli, benefici verso ognuno, stabili nella speranza, ferventi nell'orazione, pieni dell'amor di Dio, vacui dell'amor immoderato di noi medesimi e delle cose del mondo, e finalmente veri imitatori di Cristo, nella quale imitazione dobbiamo mettere tutto il nostro studio, riputando ogni altro studio, rispetto a questo, superfluo e vano.

«Signor mio colendissimo, volendo io ubbidire alla lettera di vostra signoria ho fatto contro al mio istituto, perciocchè conoscendo per favor di Dio ogni ora più la mia grande imperfezione e la mia insufficienza, conosco ancora che a me conviene udire e non parlare, essere discepolo e non maestro. Ma per questa volta ho voluto che abbia maggior forza il desiderio di vostra signoria, che la mia deliberazione. Il reverendissimo legato ama vostra signoria come suo dilettissimo fratello in Cristo, e avrà gratissima l'occasione, che gli manderà il signor Dio di poter mostrare con gli effetti l'amor suo. Sua signoria reverendissima, e l'illustrissima signora marchesa di Pescara salutano quella, e questi altri gentiluomini con meco le baciano la mano, pregando con tutto il cuore il nostro signor Dio, che la faccia diventare con la grazia sua di gran lunga più povera di spirito che ella non è ricca di castella e di beni temporali, acciò che la povertà spirituale la faccia ricchissima de' beni divini, e sempiterni. — Di Viterbo, il giorno 13 di febbrajo del xliii».

Da per tutto ove andasse, il Polo amava tali adunanze; e venuto nel monastero di Maguzzano presso Brescia, si trasse intorno monaci dotti e pii, quali Teofilo Folengo, Alessio Ugoni, un degli Ottoni, un Bornato, un Massato, che tutti invogliò a studiare la Bibbia.

Egli stesso dettò molte scritture in proposito dello scisma d'Inghilterra e singolarmente Della unità della Chiesa. Eppure fu sospettato d'eresia, e sotto il rigido Paolo IV messo prigione: là dicono scrivesse un'apologia, col calore che suol mettervi chi si trova incolpato a torto: poi rilettala a mente fredda, la giudicò troppo pungente, e buttolla al fuoco dicendo: «Non denudare le vergogne del padre tuo».

Era naturale che il Polo esercitasse molta efficienza sulle persone che lo attorniavano[542]; e Pier Paolo Vergerio, colle solite insinuazioni, dice che il Flaminio sarebbe entrato nelle opinioni luterane, se non fosse stato rattenuto dal cardinale Polo. Il quale, a dir suo, «intendeva o fingeva intendere la giustificazione per la sola fede di Cristo e l'insegnava a molti che teneva in [409] casa (fra' quali esso Flaminio e messer Giovanni Morellio, morto ministro nella Chiesa de' forestieri a Francoforte): ma intanto persuadeva a contentarsi di tal cognizione secreta, e non tener conto degli abusi ed errori della Chiesa; e che si può farsi avanti con la pura dottrina tacendo, dissimulando e fuggendo». Gli amici di questo (egli continua) asserivano non aspettasse che il tempo «di dirla in faccia al papa o fare un qualche bel rumore in gloria di Dio»; ma invece richiamò al papismo l'Inghilterra, «e vi ha introdotto tutte le feccie, tutti gli abusi, e tutte le superstizioni e ribalderie papali, fino una statua di Tommaso Cantuariense»[543].

In fatto la Riforma aveva operato sì poco sulle moltitudini in Inghilterra, che bastò il salir regina Maria per restaurarvi il cattolicismo. Giulio III vi mandò il Polo, che, come più intelligente e tollerante, capì bisognava dar l'assoluzione pei beni ecclesiastici venduti: ma Paolo IV stette fermo a negarla (rescissio alienationum), e revocò il Polo; e subito dopo la nuova regina Elisabetta ripristinò la chiesa scismatica. Allora Paolo IV esclamava: «Nelle guerre perdiam la Germania: pel ritiro del cardinal Polo perdemmo l'Inghilterra: vogliam il Concilio; vogliamo la riforma e la pace».

Nè è fuor di luogo notare come la Chiesa anglicana conservasse un complesso di dogmi, di sacramenti, di riti, di prescrizioni, d'osservanze, che, più d'ogni altra forma di protestantismo, la avvicinano a noi; con un sacerdozio che si presume apostolico; colla pretensione di purità, unità, perpetuità. Anche il suo Common Prayer book, o libro di preghiere, nella maggior sua parte si scambierebbe per cattolico; la nostra messa è, si può dire, tradotta: altrettanto avviene nelle Omelie, ne' Formularj, nelle scritture di molti teologi de' primi tempi dello scisma. Ciò poteva anche esser un artifizio per insinuar poi le massime eterodosse, ravviluppate in tanto di vero. E da principio non pochi cattolici ne restarono illusi, talchè la Chiesa dovette intervenire per metterli sull'avviso: ma su queste conformità si fondano i tentativi odierni de' Puseisti di accordar l'anglicana colla Chiesa cattolica[544].

Tornando a que' pietosi, alla rinascenza quale s'ebbe in Italia, fondata solo sull'arte e sul sentimento del bello, voleano surrogare quella fondata sulla morale seria e sull'applicazione positiva; ricorreano alle fonti della tradizione, e taluni, più infervorati del senso morale, arrivavano a supporre che la parola interiore, vale a dire la coscienza e la ragione, sieno superiori alla lettera biblica, e contentavansi di sviluppar il sentimento religioso, men curandosi delle credenze positive. A questo misticismo sono sempre più proclivi le donne, essendo esso il grado più elevato dell'affetto, l'eccesso dell'abnegazione, l'amor divino spinto talora fino alla passione; come si vide nel xiv secolo in santa Caterina, nel xvi in santa Teresa, poi nella beata di Chantal, nella Guyon, nella Bourguignon; e fino ai dì nostri nella Krudner e nelle scolare del Saint-Martin, le marchese di Lusignan, di [410] Coislin, di Chabannais, di Clermont-Tonnerre, la marescialla di Noailles, la duchessa di Bourbon.

Vi arieggiava Vittoria Colonna, che i Protestanti fanno dal Polo convertita. Nata dall'illustre famiglia di Roma il 1490 in Marino, feudo domestico, di cinque anni fu promessa sposa al marchese Francesco Ferrante d'Avalos di Pescara, campione della Spagna in Italia: di diciannove lo sposò, e vivea spesso in Pietralba alle falde del monte Ermo, più spesso in Ischia. Quel suo marito si segnalò per valore e si deturpò per spioneggio nel noto affare del cancelliere Morone, onde il milanese Ripamonti scrive non essere stato in quei tempi alcuno nè più infame in perfidia, nè più illustre nell'armi. Infatti contribuì grandemente alle vittorie de' Francesi in Italia: restò ferito e prigione alla battaglia di Ravenna del 11 aprile 1512, e giovane morì il 25 novembre 1525. Vittoria immortalò con poetici compianti le imprese di lui e il proprio affetto, chiamandolo il suo bel sole: ritiratasi a Roma fra le monache di San Silvestro in capite, soffrì delle sventure che cagionarono i suoi Colonnesi; ricoverò a Marino, pregando e offrendo riscatti pei tanti miseri nella terribile invasione; quando Paolo III ruppe guerra ai Colonna[545], ella passò nel monastero di San Paolo d'Orvieto, poi nel 1542 in quello di Santa Caterina a Viterbo.

Sette anni dopo ch'era vedova, venne a Napoli lo spagnuolo Valdes; ed a' suoi discorsi infervoratasi del vangelo, ella non trovava pace e consolazione che nella parola di Dio.

Due modi abbiam da veder l'alte e care

Grazie del ciel: l'uno è guardando spesso

Le sacre carte, ov'è quel lume espresso

Che all'occhio vivo sì lucente appare;

L'altro è alzando dal cor le luci chiare

Al libro della croce, ov'egli stesso

Si mostra a noi sì vivo e sì dappresso,

Che l'alma allor non può per l'occhio errare.

Altrove prorompe:

Deh, potess'io veder per viva fede,

Lassa! con quanto amor Dio n'ha creati.

Con che pena riscossi, e come ingrati

Semo a così benigna alta mercede:

E come Ei ne sostien; come concede

Con larga mano i suoi ricchi e pregiati

Tesori; e come figli in Lui rinati

Ne cura, e più quel che più l'ama e crede.

[411]

E com'Ei nel suo grande eterno impero

Di nuova carità l'arma ed accende,

Quando un forte guerrier fregia e corona.

Ma poi che, per mia colpa, non si stende

A tanta altezza il mio basso pensiero,

Provar potessi almen com'Ei perdona.

Dalla fiducia nel sacrifizio di Cristo è tutto ispirato il seguente sonetto:

Tra gelo e nebbia corro a Dio sovente

Per foco e lume, onde i ghiacci disciolti

Sieno, e gli ombrosi veli aperti e tolti

Dalla divina luce e fiamma ardente.

E se fredda ed oscura è ancor la mente,

Pur son tutti i pensieri al ciel rivolti;

E par che dentro il gran silenzio ascolti

Un suon che sol nell'anima si sente.

E dice: Non temer, chè venne al mondo

Gesù, d'eterno ben largo ampio mare,

Per far leggero ogni gravoso pondo.

Sempre son l'onde sue più dolci e chiare

A chi con umil barca in quel gran fondo

Dell'alta sua bontà si lascia andare[546].

Le sue poesie spirituali, sebbene artefatte e dialettiche più che immaginose e sentite, sono delle migliori d'allora, e rivelano una profonda religione, qual doveva penetrare le anime virtuose, che deplorando i mali della patria, gli attribuivano alla depravazione de' Cristiani e alla negligenza de' prelati. Onde scriveva:

Veggio d'alga e di fango omai sì carca,

Pietro, la nave tua, che, se qualch'onda

Di fuor l'assal, d'intorno la circonda,

Potria spezzarsi e a rischio andar la barca.

La qual, non come suol leggera e scarca

Sovra 'l turbato mar corre a seconda,

Ma in poppa e 'n prora, all'una e all'altra sponda

È grave sì, ch'a gran periglio varca.

Il tuo buon successor, ch'alta cagione

Dirittamente elesse, e cor e mano

Muove sovente per condurla a porto.

Ma contro 'l voler suo ratto s'oppone

L'altrui malizia; onde ciascun s'è accorto

Ch'egli senza il tuo ajuto adopra invano.

[412] Adduconsi principalmente il Pianto della marchesa di Pescara sopra la passione di Cristo, e l'orazione sopra l'Ave Maria[547] onde provare come ella aderisse alle dottrine nuove. Noi però osserveremo come ella assoggetti la sua ragione alla cristiana umiltà:

Parrà forse ad alcun che non ben sano

Sia 'l mio parlar di quelle eterne cose,

Tanto all'occhio mortal lontane e ascose,

Che son sovra l'ingegno e il corso umano.

Non han, credo, costor guardato 'l piano

Dell'umiltade, e quante ella pompose

Spoglie riporti, e che delle ventose

Glorie del mondo ha l'uom diletto invano.

La fe mostra al desio gli eterni e grandi

Obblighi, che mi stanno in mille modi

Altamente scolpiti in mezzo al core.

Lui che solo il può far prego che mandi

Virtù, che sciolga e spezzi i duri nodi

Alla mia lingua onde gli renda onore.

E ancor meglio in quest'altro sonetto:

Quel pietoso miracol grande, ond'io

Sento per grazia le due parti estreme

Il divino e l'uman, sì giunte insieme,

Ch'è Dio vero uomo, e l'uomo è vero Dio,

Erge tant'alto il mio basso desio

E scalda in guisa la mia fredda speme,

Che 'l cor libero e franco or più non geme

Sotto l'incarco periglioso e rio.

Con la piagata man dolce e soave

Giogo m'ha posto al collo, e lieve il peso

Sembrar mi face col suo lume chiaro.

All'alme umili con secreta chiave

Apre il tesoro suo, del quale è avaro

Ad ogni cor d'altere voglie acceso.

Fu essa a Ferrara nel 1537 al tempo della duchessa Renata, che vedremo calda fautrice di Calvino, e forse per mezzo di essa legò relazione con Margherita regina di Navarra, corifea de' Riformati in Francia, e le diresse una lettera di questo tenore:

«Le alte e religiose parole della umanissima lettera di vostra maestà mi dovriano insegnare quel sacro silenzio, che invece di lode si offerisce alle cose divine. Ma temendo che la mia Riverenza non si potesse riputare ingratitudine, [413] ardirò, non già di rispondere, ma di non tacere in tutto, e solo quasi per inalzare i contrapesi del suo celeste orologio, acciocchè, piacendole per sua bontà di risonare, a me distingua ed ordini l'ore di questa mia confusa vita, fintantochè Dio mi concederà di udire vostra maestà ragionare dell'altra con la sua voce viva, come si degna di darmene speranza. E se tanta grazia l'infinita bontà mi concederà, sarà compiuto un mio intenso desiderio, il quale è stato gran tempo questo, che, avendo noi bisogno in questa lunga e difficil via della vita, di guida che ne mostri il cammino, con la dottrina e con le opere insieme ne inviti a superar la fatica. E parendomi che gli esempj del suo proprio sesso a ciascuno siano più proporzionati, ed il seguir l'un l'altro più lecito, mi rivoltai alle donne grandi d'Italia per imparare da loro e imitarle; e benchè ne vedessi molte virtuose, non però giudicava che giustamente l'altre tutte quasi per norma se la ponessero. In una sola fuor d'Italia s'intendeva esser congiunte le perfezioni della volontà, insieme con quelle dell'intelletto..... Certo non mi sarà difficil viaggio per illuminare l'intelletto mio e pacificare la mia coscienza; e a vostra maestà penso che non sia discaro per aver dinanzi un subjetto ove possa esercitar le due più rare virtù sue; cioè l'umiltà, perchè s'abbasserà molto a insegnarmi, e la carità, perchè in me troverà resistenza a ricever le sue grazie.... Potessi io almeno servire per quella voce che nel deserto delle miserie nostre esclamasse a tutta Italia di preparar la strada alla venuta di vostra maestà! Ma mentre sarà dalle alte e reali sue cure differita, attenderò a ragionar di lei col reverendissimo di Ferrara, il cui bel giudizio si dimostra in ogni cosa, particolarmente in riverir la maestà vostra. E mi godo di vedere in questo signore le virtù in grado tale che pajono di quelle antiche nell'eccellenza, ma molto nuove agli occhi nostri, troppo omai al mal usati. Ne ragiono assai col reverendissimo Polo, la cui conversazione è sempre in cielo, e solo per l'altrui utilità riguarda e cura la terra: e spesso col reverendissimo Bembo, tutto acceso di sì ben lavorare in questa vigna del Signore»[548].

La regina Margherita rispondendo la ringrazia delle lodi datele, protestando di ben poco meritarle. «Per il di dentro io mi sento sì contraria alla vostra buona opinione, che io vorrei non aver vedute le vostre lettere se non per la speranza che ho, che, mediante le vostre buone preghiere, elle mi saranno uno sprone per uscire dal luogo ov'io sono, e cominciare a correre appresso di voi.... alla qual cosa è necessaria la continuanza delle vostre orazioni e le frequenti visitazioni delle vostre utili scritture...... Vostre lettere più che giammai desidero di avere, e ancor più di essere così avventurosa, che in questo mondo possi da voi udir parlare della felicità dell'altro».

Le espressioni della devota marchesa sentono la cortigianeria d'allora, più che un assenso ai pensamenti della regina. E nelle sue poesie troviam invocati [414] e Maria e gli Angeli e i Santi, nominatamente Caterina e «Francesco, in cui, siccome in umil cera, con sigillo d'amor sì vivo impresse Gesù l'aspre sue piaghe»: e manda in regalo un Redentore, e altra volta:

L'immagin di Colui v'invio che offerse

Al ferro in croce il petto, onde in voi piove

Dell'acqua sacra sua sì largo rivo.

Ma sol perchè, signor, quaggiuso altrove

Più dotto libro mai non vi s'aperse

Per lassù farvi in sempiterno vivo.

Il Boverio, annalista de' Cappuccini, ci racconta come a Ferrara la Colonna tolse a proteggere i Gesuiti, introdotti di fresco, e assistette anche di denaro i Cappuccini, a favor de' quali (egli racconta) s'adoprò acciocchè potesse raccogliersi il loro capitolo generale del 1535, sollecitatavi da frà Bernardino Ochino, che poi apostatò; a tal uopo essere ella andata anche al papa, ed espugnatone l'ordine di adunarlo. Noi potremmo opporre che ad essa è dedicata la Nice di Luca Contile, opera tutt'altro che casta, sebben l'autore fosse secretario del cardinal di Trento.

Ritirata, come dicemmo, nel convento di santa Caterina a Viterbo, la Colonna v'avea frequenti colloqui col cardinale Polo ivi residente e col Flaminio[549], col Carnesecchi ed altri amici di lui, studiosi della Scrittura. Non è superfluo l'addur questa lettera di essa al cardinale Cervini, che fu poi papa Marcello II:

Da Viterbo il 4 dicembre 1542.

«Illustrissimo e reverendissimo monsignore,

«Quanto più ho avuto modo di guardar le azioni del reverendissimo monsignor d'Inghilterra, tanto più mi è parso veder che sia vero e sincerissimo servo di Dio. Onde, quando per carità si degna risponder a qualche mia domanda, mi par di esser sicura di non poter errare seguendo il suo parere. E perchè mi disse che gli pareva che, se lettera o altro di frà Bernardino (Ochino) mi venisse, la mandassi a vostra signoria reverendissima, senza risponder altro se non mi fosse ordinato, avendo avuto oggi la alligata col libretto che vedrà, ce le mando: e tutto era in un plico dato alla posta qui da una staffetta che veniva da Bologna, senza altro scritto dentro. E non ho voluto usar altri mezzi che mandarle per un mio di servizio; sicchè perdoni vostra signoria questa molestia, benchè, come vede, sia in stampa, e Nostro Signor Dio la sua reverendissima persona guardi con quella felice vita di sua santità che per tutti i suoi servi si desidera.

«PS. Mi duole assai che, quanto più pensa (l'Ochino) scusarsi, più si accusa, e quanto più crede salvar altri da un naufragio, più gli espone al diluvio, essendo lui fuor dell'arca che salva e assicura».

[415] Così l'umiltà salvava da quegli eccessi, a cui talvolta trae la soverchia concentrazione, sia pure ne' sentimenti più autorizzati. Molto ella ammirava il cardinal Contarini, e quando morì a Bologna il 24 agosto 1542, compiangeva perchè

Potean le grazie e le virtù profonde

Dell'alma bella, di vil cose schiva

Ch'or prese il volo a più sicura riva

Vincendo queste irate e torbid'onde,

Rendere al Tebro ogni sua gloria antica;

E all'alma patria di trionfi ornata

Recar quel tanto sospirato giorno

Che, pareggiando il merto alla fatica,

Facesse quest'età nostra beata

Del gran manto di Pier coperta intorno.

Nella qual occasione a suor Serafina Contarini dirigeva condoglianze, ricordandosi «delle sue pie e dolci lettere, quando convitava quello amatissimo fratello a desiderar di ritrovarsi con lei alla vera patria celeste, e della domanda che gli fe di esponer certi salmi, che dinotava aver la morte, passione e resurrezione di Cristo sempre impressa nel cuore». Ed enumera i meriti del defunto, e «l'ottimo e divino esempio che dava a ciascuno, e la molto importante utilità alla Chiesa, alla pace e al quieto viver nostro. Ma dovemo esser sicuri che l'infallibil ordine de re, signore e capo di tutti noi, sa il migliore e più atto tempo di tirare a sè le membra sue. Rimane solo la perdita della sua dolcissima conversazione, e il profitto di santissimi documenti suoi... Or altra spiritual servitù non mi resta che questa dell'illustrissimo e reverendissimo monsignor d'Inghilterra (Polo), suo unico, intimo e verissimo amico e più che fratello e figlio: qual sente tanto questa perdita, che 'l suo pio e forte animo, in tante varie oppressioni invittissimo, par l'abbia lasciata correre a dolersi più che in altro caso che gli sia occorso giammai».

Ma il suo affetto principale restava pel cardinale Polo: e quand'esso partì pel Concilio di Trento, minacciato sempre dagli assassini, essa il raccomandò caldissimamente al cardinale Morone, e nel processo fatto poi a questo trovammo varie lettere, per verità oscure e dubbie[550]. Eccone una da Viterbo il 30 novembre:

«Con molti servizj etiam che da Dio mi fossero date potenti occasioni, non potrei mostrare alla signoria vostra la mia volontà di servirla, nè esplicarle le securtà che mi dette allorchè, umanamente e con tanta cristiana affezione, mi disse che, in Cristo fondando ogni mia fede, credessi che la signoria vostra reverendissima faria per monsignor d'Inghilterra quel che gli fosse possibile, e che sperava andasse e tornasse come si desiderava [416] da tutti li servi del Signore. Ed avendo poi inteso che continua in vostra signoria reverendissima questa sollecitudine, dimostrandola ogni ora con evidentissimi segni, mi allegra tanto e mi conferma sì nella presa speranza, che non ho potuto lasciar di molestar vostra signoria con questa mia, ringraziando Dio in Lei che si sia degnato legar in tanta unione col vincolo della vera pace due suoi sì cari amici, e di costituirmele serva in modo, che, absente da loro, senta consolazione della divina carità che si fanno insieme, massime che la mia estrema indignità mi toglie l'impedimento che suol dare l'invidia, ancora fosse santa e buona; e mi lascia umilmente godere che Cristo, unico signore capo e ogni ben nostro, abbia voluto che insieme conferiscano gli ampli tesori e inestimabili divizie sue, e gli abbia eletti ad un tanto e sì importante effetto. E qui non si manca da queste purissime spose di Cristo pregarlo che tolga ogni impedimento e ogni dilazione a perficere le ottime aspirazioni delle signorie vostre, sempre conformi, e rimesse alla sua suprema e rettissima volontà così in man della signoria vostra di comandarmi al mezzo di monsignore, che per troppa sua umiltà o per mia troppa indegnità non vuol che pensi pur di servirla, sia da me servito in lei, che certo non potrà fare maggior carità che essere occasione che io non mi alleviassi tanto peso di obbligo che ho con vostra signoria reverendissima che è di prezzo tanto, quanto per me vale l'anima mia quando la riguardo in Cristo, ove lui, come suo istromento, me la fa vedere e sentire ogni momento la grandissima verità che Iddio gli ha posto nel cuore, riguardato e conosciuto da quel di vostra signoria reverendissima con altro lume che non fo io. Piaccia al Signore di aumentarli in grazia sua, e favorirli quanto per sua gloria gli bisogna».

«PS. Non lascerò di dire a vostra signoria questo a mia confusione, che, quando il senso talor, imitando la madre del giovane Tobia, mormora de' timori per le insidie fatte a monsignor, subito lo spirito gli risponde, Satis fidelis est vir ille cum quo dimisimus eum. Sicchè vostra signoria vede che fa l'officio dell'angelo».

Più tardi lo ringraziava di quanto fece per esso monsignor d'Inghilterra, e «quando riguardo vostra signoria reverendissima e monsignor Polo insieme in una medesima stanza, non mi ammiro se, da una stessa virtù riscaldati, non si saziano d'accendersi l'uno l'altro: ed io sola fredda ed inferma, scrivo consolata della certezza che pregano il Signor nostro per me, e che vostra signoria si degni servirsene, che certo più che mai si rinforzano qui da queste buone madri l'orazioni per lei».

In altra lettera gli ha invidia della «sua molta umiltà, sapendo quanto è differente il concetto che ne hanno quelli che in Cristo il conoscono; e rimpiange la conversazione che avea con lui «massime quando le ragionava di quel libro che sì bene apre spesso»[551]. Confesso a vostra signoria che mai a persona fui più obbligata che al Polo, e ora in tanto spirito che nelli [417] suoi scritti non si degna nominare altro che Gesù, come poi la signoria vostra vedrà con grazia di Dio, qual si degni sempre mandarlo di consolazione in consolazione, finchè sia abbracciato dalla vera e eterna in quella patria, dove solo guardando, si fa ogni faticoso peregrinaggio felice».

Le tribulazioni che il Polo soffre, e fatiche e calunnie «niente mi molestano, chè troppo saldo è il suo fondamento, e troppo ben compatto e stagionato l'edifizio con mille ferme colonne di esperienza, in modo che tutte le tribulazioni son sicuri testimonj della sua fede invittissima: ed ogni vento contrario accende il lume della sua speranza: e quanta opposizione gli può dar il mondo nelle opere che fa, vedo sempre al fine che son della sua divina carità, arsa ed estinta di maniera, signor mio, che ardisco dire che me ne ha presa, per Dio grazia, qualche scintilla, sicchè non serbo la metà dell'amaritudine che sentirei in tutte le difficoltà e molestie che mi occorsero: e con certi suoi amorosi e dolci modi cristiani ha fatto che, in due anni, io non ho saputo dove mi tener la testa... ma in questo caos mi fece sentire che doveva alzare gli occhi in un altro modo a quel lume, che poteva illuminare lui secondo li miei bisogni, e non secondo la mia volontà. E così fo, ogni cosa reputando egualmente venir da Cristo, pigliando sommo piacere delle consolazioni quando Dio per suo mezzo le manda a me.... Quando non vengono, non quanto solevo mi doglio, ma mi umilio, o a dir meglio cerco di umiliarmi».

«Sto bene in questo silenzio (di Viterbo) e quanto più, per grazia di Dio, il gusto, più compassione ho alla signoria vostra reverendissima: ma il Signore con tanta pace le parli dentro, che non senta li strepiti di fuora, come la mia debilità li sentiva..... Considerando lo stato di vostra signoria reverendissima, non so se più compassione gli debbo avere o quando è con le turbe servendo Cristo nelli suoi fratelli, o quando è solo con Cristo, vedendo i fratelli di lui: massime che, essendo il corpo in fatica, e la mente desiderando la solitudine, mi fa chiaro il copioso fonte d'ogni grazia non gli lascia tanta sete senza dargli spesso qualche dolce poto, acciocchè o col desiderio o coll'effetto sostenga la sua cristianissima vita».

«Avendomi detto che non lo laudi mai, mi bisogna tacere. Che se in questa materia avessi potuto allargarmi, vostra signoria reverendissima avria visto il caos d'ignoranza ove io era, e il labirinto di errori ov'io passeggiava sicura, vestita di quell'oro di luce, che stride senza star saldo al paragone della fede, nè affinarsi al fuoco della vera carità: essendo continuo col corpo in moto per trovare quiete, e con la mente in agitazione per aver pace. E Dio volle che da sua parte mi dicesse Fiat lux, e che mi mostrasse esser io niente, e in Cristo trovare ogni cosa».

«.....Sapendo io il credito che monsignor ha alla signoria vostra e la reverenza che monsignor Luisi (Priuli) e monsignor Marcantonio (Flaminio) le hanno, la supplico a tenerli spesso ricordati che attendano con ogni [418] possibil diligenza alla sua guardia, lasciando in questo a sua signoria la guardia severissima della sua intrepida fede, considerando che Dio gli ha eletti fra tanti altri suoi servi a custodire questo membro suo, il qual a me pare che faccia sempre male, come che si muova o a dextris secondo lo spirito suo, a sinistris secondo la carne mia.....»

E al cardinale d'Inghilterra:

«Sa il Signor nostro che per altro non desidero eccessivamente di parlar con vostra signoria se non perchè vedo in lui un ordine di spirito, che solo lo spirito lo sente: e sempre mi tira in su a quell'amplitudine di luce, che non mi lascia troppo fermare nella miseria propria: anzi con sì alti sostanziosi concetti mi mostra la grandezza di lassù e la bassezza e nichilità nostra, che, vedendo noi stessi e tutte le cose create servirci a questa, bisogna trovarci soli in Colui che è ogni cosa. E quanto più ho bisogno di parlare alla vostra signoria, non per ansia nè dubbj nè molestia che abbia o tema d'avere per bontà di colui che mi assicura, ma perchè ogni volta che la vostra signoria parli di quel stupendissimo sacrificio, della eterna destinazione, dell'esser preamati, e di quel pane ascondito trovato su quelli monti e fonti che scrive....., fa star l'anima sull'ali, sicura di volar al desiderato nido; sicchè tanto è per me parlare con vostra signoria come con un intimo amico dello Sposo che mi parlerà per questo mezzo, e mi chiama a lui, e vuol che ne ragioni per accendermi e consolarmi».

Chi ha letto santa Teresa e la beata di Chantal non istupirà dell'affetto, che del resto, in donna, radamente si scompagna dalla venerazione. E forse il Priuli ne faceva appunto a Vittoria, la quale gli rispondeva: «La cosa è sì perfetta, l'affezione mia sì giusta, debita e santa, così utile all'anima mia, sì cara e grata a Dio, che mi andrei solo ritirando, come si suol ritirare la mente dalla troppo fissa orazione e dolcezza dello spirito, acciò ritorni a servir gli altri prossimi per esercitar la carità, perchè con monsignor esercito più la fede, ricevendo assolutamente da Dio quanto lui fa: sicchè sempre sono obbligatissima al dolcissimo mio e reverendissimo Morone, che in tutti i modi mi fa consolata».

Chi poi, in questi ultimi anni, ha potuto assistere in Parigi ai convegni della signora Swetchine, e attorno a questa intelligente russa vedere raccolti Lacordaire, De Falloux, Montalembert, Dupanloup ed altri caporioni della scuola cattolica, nell'intimo bisogno di dirsi un all'altro il proprio pensiero sulle quistioni supreme, e di accomunar le melanconie della gioja e l'istruzione dei dolori, nel penoso rispetto del diritto e nel disgusto delle defezioni e delle debolezze; e riconoscere che, per arrivare all'oasi, bisogna attraversare il deserto; assicurarsi che, quando non si prenda la vita dal lato di Dio, non si sbriga questa matassa arruffata; e scontenti del mondo e di sè, contenti di Dio, con amabile semplicità accattare la solenne espiazione, e sostenersi vicendevolmente a soffrire, nella persuasione superna che Dio sa quel che fa, [419] e nella mondana che, senza i colpi dell'avversità, ci sarebbe ancora del ferro ma non dell'acciajo; chi gli ha veduti, dico, gode immaginarsi che qualcosa di simile avvenisse attorno alla marchesa poetessa, fra quelle pie persone, cupide di sottrarsi al doloroso supplizio dell'incertezza. Deh, perchè in tanti studj di drammatizzar il passato, nessuno toglie a ravvivar quelle sante e dotte confabulazioni, che allora dovettero passare a Viterbo fra queste anime pie, nel mentre in Germania straziavansi e a vicenda si bestemmiavano i predicatori del disenso?

La Vittoria morì poi a Roma uscente il febbrajo 1547, e udimmo come la compiangesse Michelangelo, il quale doleasi d'una cosa, di non averla baciata quando la vide cadavere.

Proseguendo, noi avremo a indicare altri, per malizia o per leggerezza imputati di eresia: oltrechè questa era divenuta l'accusa che paleggiavasi fra avversarj, con troppo solita slealtà: onde il cardinale di Ravenna scrive al cardinale Contarini: «Sendo questa città parzialissima, nè vi rimanendo uomo alcuno non contaminato da questa macchia delle fazioni, si van volentieri, dove l'occasion s'offerisce, caricando l'un l'altro da nimici»[552].

Federico Fregoso genovese, dottissimo in greco ed ebraico, fu involto nelle vicende della sua patria e della sua famiglia e nelle guerre contro i Barbareschi, adoprato in negozj scabrosi, caro ai migliori d'allora, riordinatore della diocesi di Gubbio, e autore del Pio e cristianissimo trattato dell'orazione. Eppure i Protestanti lo annoverano fra i loro[553], ma per frode, avendo fintamente apposto il suo nome all'opuscolo Della giustificazione e delle opere, e alla Prefazione alla lettera di san Paolo ai Romani.

Il Rucellaj, nelle Api, esponendo la dottrina di Pitagora che tutte le cose sian avvivate da un'anima divina, le corporee come le incorporee, le ragionevoli come le brute, e che da quella provengano le anime nostre e a quella ritornino, continua:

Questo sì bello e sì alto pensiero

Tu primamente rivocasti in luce,

Trissino, con tua chiara e viva voce:

Tu primo i gran supplizj d'Acheronte

Ponesti sotto i ben fondati piedi

Scacciando la ignoranza de' mortali (698-704).

Da questi versi, che io lascio lodare ad altri, s'indurrebbe che il poeta Giorgio Trissino insegnasse l'anima del mondo; ma invece di negare ciò, come altri fece[554], poteasi vedervi l'abitudine, allora abbastanza estesa, di discutere e sostenere le opinioni anche le più lontane dall'ortodossia, come chiarimmo parlando della scuola di Padova, dove appunto predicavasi la dottrina d'Averroè sull'universalità dell'anima. Quanto all'altra parte, vorrebbe dire che il Trissino togliesse la paura dell'inferno, disnebbiando gli intelletti; ma ognuno vi riconosce un'infelice imitazione di Virgilio[555].

[420] Il Trissino, placido ingegno, ch'ebbe onori e incarichi fin di ambascerie da due papi, nell'Italia Liberata, poema che tutti conoscono e nessuno legge, s'avventa contro i preti, i quali «spesse volte han così l'animo alla roba, che per denari venderiano il mondo», e da un angelo fa vaticinare a Belisario in quanta corruzione cadrebbe la Corte romana, sicchè i papi non penserebbero che a rimpolpare i loro sterponi con ducati, signorie, paesi; conferire sfacciatamente cappelli ai loro mignoni e ai parenti delle loro bagasce; vendere vescovadi, benefizj, privilegi, dignità, o collocarvi persone infami; per denaro dispensare dalle leggi migliori, non serbare fede, trarre la vita in mezzo a veleni e tradimenti, seminare guerre e scandali fra principi cristiani, sicchè i Turchi e i nemici della fede se n'ingrandiscano: e conchiude che il mondo ravvedutosi correggerà questo sciagurato governo del popolo di Cristo.

Non era il concetto medesimo, per cui, nel secolo precedente, alcuni pii aveano fantasticato la venuta d'un papa angelico? Del resto il dire che la Corte romana era corrotta, venale la dateria, ribalda la sua politica, non curare le scomuniche, ridere dei frati, disapprovare il mercimonio delle indulgenze, impugnare le decretali, vedemmo consuetissimo in Italia: e il Trissino non facea che seguitare la moda; nè cotesta sua libertà pruova altro se non ciò che altrove mostrammo, quanto fossero tollerate le declamazioni contro di abusi, che si confessavano anche quando non si provedeva a correggerli.

E come oggi il liberalismo politico professa di volere la libertà, nel mentre i conservatori pretendono combatterlo in nome anch'essi della libertà, altrettanto accadeva allora del liberalismo religioso. Molti potevano lealmente credere che, se il papato era stato necessario per l'educazione de' Barbari, allora si poteva omai dispensarsene: che la critica non farebbe se non appurare la Chiesa e consolidare il dogma; non essendosi ancora veduto, come oggi vediamo, succedersi dottrine tutte cangianti, tutte attaccabili, senza autorità nè coerenza, al punto che gli spiriti non si inebriassero più che del dubbio. E in generale si sapeva, o almen si sentiva, che riformare non è distruggere; che le riforme opportune e durevoli debbono venire dall'amore non dalla collera, dall'autorità che dirige, non dalla violenza che scompiglia.

Ma chi assiste alla turpitudine degli odierni pugillatori non si meraviglierà che allora si accusassero di eresia i nemici. A tacere il Muzio, l'Aretino, il Franco e simil ciurma, il Vasari imputa il Perugino di miscredente, mentre l'indole sua e i suoi dipinti il mostrano così diverso. Anche del gran Leonardo da Vinci egli scrive che «tanti furono i suoi capricci, che filosofando delle cose naturali, attese a intendere la proprietà d'elle, contemplando e osservando il moto del cielo, il corpo della luna e gli andamenti del sole; per il che fece nell'anima un concetto sì eretico, che non s'accostava a qualsivoglia [421] religione, stimando per avventura assai più l'essere filosofo che cristiano», e che solo in punto di morte fosse istruito nella fede. In ciò il cortigiano dei Medici non era informato nulla meglio di quando il fa spirare fra le braccia di Francesco I; ed egli medesimo temperò quest'asserzione nella ristampa; oltre che abbiamo il testamento, che Leonardo fece un anno prima di morire, dove, tutto pietà, «raccomanda l'anima sua a Nostro Signor messer Domenedio, alla gloriosa Vergine Maria, a monsignor san Michele»: prescrive trenta messe basse e tre alte, da dirsi per l'anima sua in tre chiese di regolari ad Amboise.

Gli stessi procedimenti della Riforma le diminuivano seguaci. Come svegliar le coscienze addormentate con un credo vago ed oscillante? La Bibbia, la meditazione, il libero esame! Davvero mezzi opportuni per condur a quella certezza che è suprema necessità per operare. Io uom del popolo ho da lavorare sei giorni per settimana, quattordici ore per giorno. Chi mi parla di Dio? della Grazia? della giustificazione? Su ciò disputino il dotto, il ricco, la signora oziosa, e creino tanti sistemi quante hanno teste; ma io povero, io ignorante, io nell'ospedale, io nella manifattura! No: è impossibile che Dio abbia messa a tal prezzo la mia salvezza. Egli non può che aver diretto moralmente e intellettualmente l'umanità, costituendo una società istruita da lui stesso, da lui governata, in cui un'autorità umana, esterna, visibile sia partecipazione dell'autorità sua divina, e dove l'uomo appaja solo stromento di Dio, annunziatore della parola del maestro eterno; sempre intenta al cielo mentre soddisfa in noi il bisogno intellettuale della verità, il bisogno morale del bene, il bisogno sensuale della felicità.

E il popolo nostro si tenne al credo vecchio. Oltre i pii che riconosceanvi solo un'empietà, spiaceva il vedere sconvolto il mondo da questa superbia del surrogare l'autorità dell'individuo a quella della città eterna. Anche coloro che gridavano la Chiesa romana avere bisogno di correzione, trovavano che i Protestanti la correggevano troppo male.

E che ogni giorno rivelava la moltiforme natura della Riforma: in Germania assodatrice del principato, in Francia faziosa, in Inghilterra dispotica e persecutrice, in Iscozia fanaticamente esagerata, regia nella Scandinavia, repubblicana in Svizzera, deleterica in Polonia. Intolleranti come e più di quelli da cui si erano staccati, e senza avere come questi l'appoggio dell'autorità divina, ognuno presumeva con eguali titoli trovarsi al possesso esclusivo della verità; un concistoro scomunicava l'altro; l'un predicante espelleva l'altro; il Bullinger, pastore supremo a Zurigo, querelavasi però altamente degl'Italiani, rifuggiti in gran numero in quella città; Comander li chiamava accattabrighe, insofferenti dell'istruzione altrui, della propria opinione tenacissimi. Gli Italiani non si risolveano fra le varie negazioni. Lutero, adorato dai Tedeschi pel suo odio contro l'Italia, poco gradiva ai nostri[556], che spendevano piuttosto a Zuinglio, perchè avea [422] scritto in latino, e procedea più serio e più logico: e così fece l'Altieri sunnominato dopo che visitò le Chiese elvetiche. Calvino, non più riformator nazionale, ma vero eresiarca, trovava maggiori assensi, ma i nostri mal sapeano acconciarsi a quel dogma che annichila la libertà umana sotto la stretta del peccato, e rinserra la natura in un dilemma fra il male e la grazia, offendendo e il moralista e il filosofo. Molti, accettando la giustificazione pei soli meriti di Cristo, continuavano però a frequentare la messa e gli altri riti. Ma Luterani e Calvinisti sbigottivansi dell'audacia che i fuorusciti italiani prendevano non appena avessero assaporata la libertà di coscienza, e il Gerdes asserisce che i paradossi e le sentenze erano il vizio di costoro. Persuasi del valore della parola, credono con essa dare esistenza alle cose; compongono libri, anzichè preparare dei martiri; non si fanno scrupolo di tenere una credenza interiore differente dalla parola; nè si brigano molto di convertire il popolo, quasi questo vada dietro ai pensanti. Olimpia Morata parafrasò i salmi in greco, lavorò affatto letterario come quel del Flaminio che li ridusse in versi latini; piantavano dispute, ma le trattavano filosoficamente, donde l'accusa di cui li colpisce Melantone, di troppo platonizzare. Ciò li distoglieva dall'essere persecutori, come gli altri più convinti, e quindi d'aggiunger un altro stimolo ai miscredenti, il rumore e la pubblicità della repressione. Anzi, abituati alla grande unità cattolica, i nostri traviati stupivano nel vedere i Protestanti così discordi fra loro, e s'affannavano a conciliarli con quelle transazioni, che li faceano disgradire dagli uni e dagli altri.

Più d'uno dei nostri, oltre il Contarini, fu accusato di cercare questi accordi, se non altro, col tollerare espressioni che repugnassero all'esattezza cattolica. Sul qual proposito il famoso Echio esclama: «Non è schietto figlio della Chiesa quel che volesse fare transazioni con ingiuria della madre: nasca scandalo, piuttosto che lasciare la verità, dice san Gregorio. E san Basilio, la Chiesa otterrebbe facilmente pace dagli eretici se alla verità ceder volesse: ma non l'otterranno mai. Se fosse, che farebbe tutta la Germania? che i ricchissimi regni della Spagna? che l'Italia, madre della religione, e la Francia col suo re cristianissimo? che il Portogallo, l'Ungheria, la Polonia, la Scozia, l'Inghilterra, la Sicilia, Napoli, la Croazia, la Navarra? che le maggiori potenze: Venezia col regno di Creta e Cipro; Milano, Firenze, Genova, Siena, Lucca, e i fortissimi otto cantoni Elvetici coi Valdesi? Consentiranno essi, e daransi vinti, e confesseranno d'aver essi e i loro antecessori mutata l'istituzione di Cristo? O temerità!».

Aggiungiamo che i nostri non vi portavano cognizioni profonde della scienza di Dio, e di raro convinzioni tenaci. Liberi pensatori, amavano rompere i ceppi che l'autorità cattolica imponeva loro, cessar le pratiche o incomode o umilianti, e poter pensare di loro capo, interpretare liberamente il sacro testo, se non altro negare. Nella Riforma non vedeano che un'altra [423] superstizione surrogata all'antica, talchè la ragione o restava servile al passato, o, rotto ogni freno, usciva sino dal cristianesimo; e fuor d'ogni fede positiva cercava il Dio ignoto. Non Luterani o Calvinisti, sunt ingenia ad contentionem prona et ad placandum difficilia, scrive uno. E Comander: Nos exosos habent magnates nostri propter italos: nam contentiosi sunt et inquieti: ex quacumque re levissima rixam movent: nec doceri a quoquo sustinent, nec a sua pervicacia remittunt; unde nobis sunt oneri.

Gli storici fanno eco a tali accuse, e anche non è guari il Villers asseriva che gli Italiani sono o teisti o papisti[557].

Vogliasi ammettere che nei nostri fuorusciti non si trova la bassa piacenteria verso la plebe o verso i principi, che deturpa gli scritti di Lutero, ma neppure il merito letterario. In molti paesi la Riforma diede origine o cagione a costituire o sviluppare le lingue vulgari; così fu del romancio fra' Grigioni, del boemo al tempo degli Ussiti, del tedesco colla Bibbia di Lutero, e in gran parte anche del francese coll'Istituzione di Calvino e colle prediche de' suoi. In Italia la lingua avea già raggiunto la sua maturanza; e dei tanti letterati che aderirono alla Riforma nessuno scritto rimase fra i classici; nol meritando neppur la Bibbia del Diodati, sebbene testè adottata dalla Crusca: non avemmo alcuno che portasse lo splendore della rinascenza nel seno della Riforma.

[425]

FINE DEL VOLUME I

(Aprile 1866)

[431]

INDICE DEL PRIMO VOLUME

Ai Lettori serj Pag. 5
Discorso I. Fondazione e stabilimento della Chiesa 15
II. Prime eresie. Consolidamento della primazia papale. Gli Iconoclasti 37
III. Età ferrea del pontificato. I concubinarj. Le investiture. Guerra fra il pastorale e la spada 52
IV. I Patarini. Gli Ordini mendicanti. La scolastica 75
V. Origine dell'inquisizione. Segue de' Patarini. La Guglielmina 103
VI. Mistici. L'Evangelio eterno 121
VII. Crollo all'onnipotenza pontificia. Bonifazio VIII e Dante. Cecco d'Ascoli 137
VIII. L'esiglio d'Avignone. Il grande scisma. Concilj di Costanza, di Basilea, di Firenze 156
IX. Eresia scientifica e letteraria. Paganizzamento dell'arte, della vita. Eresia politica 171
X. Scandali della Chiesa. Rimproveri fattile e tollerati 200
XI. I papi politici. Alessandro VI. Il Savonarola 217
XII. Giulio II. Concilj di Pisa e Laterano 240
XIII. Leone X. Magnificenza profana del papato 248
XIV. I Tedeschi a Roma. Erasmo 258
XV. Lutero, le Indulgenze, la Bibbia 273
XVI. Incremento e suddivisione de' Protestanti 301
XVII. L'apologia cattolica. Conseguenze della Riforma 327
XVIII. Adriano IV papa riformatore. Clemente VII. Sacco di Roma. Preludj d'un Concilio 355
XIX. Il Valdes 375
XX. Primi riformati italiani. Pietà sospetta. Michelangelo. Il Flaminio. Il Cardinale Polo. Vittoria Colonna 387

[432]

ERRATA-CORRIGE

Pag. 16 lin. 23 invece di rilevate leggasi rivelate

Pag. 19 lin. 19 invece di pare leggasi appare

Pag. 34 lin. 5 e 13 invece di Cyprian. leggasi Ciprian.

Pag. 116 nota (9) invece di juxta leggasi justa

Pag. 139 lin. 11 invece di 1234 leggasi 1294

Pag. 150 lin. 17 invece di esso Dino potea gli leggasi esso Dino gli

Pag. 155 nota (25) i versi di Dante leggansi

Che se potuto aveste veder tutto

Mestier non era partorir Maria

Pag. 158 lin. 24 invece di S. Ireneo di Poitiers leggasi S. Ireneo

Pag. 177 lin. 8 invece di presene leggasi presone

Pag. 177 lin. 27 invece di Paola leggasi Paolo

Pag. 182 lin. 9 invece di achitto leggasi achito

Pag. 197 lin. 12-14 leggi probare videntur mortalitatem animæ......: si quæ videntur probare ejus immortalitatem ecc.

Pag. 212 lin. 8 ult. aggiungi in nota Revelatio S. Brigitæ, l. 1, c. 41, ed. Romæ 1628.

Pag. 212 lin. 6 ult. invece di anelvano leggi anelavano

Pag. 212 lin. 4 ult. invece di scorie leggi scoria

NOTE:

1. Delle opere recentemente pubblicate intorno ai riformati italiani conosciamo le seguenti:

Th. Mac Cree, Storia della riforma in Italia, suoi progressi e sua estinzione. Edimburgo 1827. Caloroso protestante scozzese, dice che «gli scrittori cattolici s'accordarono a dissimulare un soggetto penoso quanto delicato, o a mostrar que' movimenti come deboli e passeggeri, e di pochi sedotti da amor di novità». Può considerarsene continuazione fin ai giorni nostri Leopold Witte, Das Evangelium in Italien. Lipsia 1861. Molto se ne occupa anche D'Aubigné nella Histoire de la Reformation, fanaticamente e troppe cose ignorando; egli distingue i principj della riforma da quelli del protestantismo, che però ravvisa come conseguenza immediata.

Kerker, Die kirchliche Reform in Italien unmittelbar vor dem Tridentinum; nella Theologische Quartalschrift di Tubinga, anno XLI, 1859.

M. Young, The life and times of Aonio Paleario, or a history of the italian reformers in the XVI century; illustrated by original letters and unedited documents. London 1860. Due grossi volumi.

F. C. Schlosser, Leben des Peter Martyr Vermili. Heidelberg 1809.

Edv. Bridge, vicario di Manaccan nella Cornovaglia; A voice from the tomb of P. Martyr against popery, 1840.

Dr. C. Schmidt, prof. di teologia a Strasburgo, Peter Martyr Vermigli Leben und ausgewählte Schriften. Elberfeld 1858.

C. H. Sixt, P. P. Vergerius päpstlicher Nuntius; eine Reformation geschichtliche Monografie, u. s. w. Brunswich 1856.

Ferdinand Meyer, Die evangelische Gemeinde in Locarno; ihre Auswanderung nach Zürich, und ihre weitern Schicksale, 2 vol. Zurigo 1836.

Eynard, La reforme à Lucques et les Burlamaki.

Gibbing, Trial and martyrdom of Carnesecchi. Dublin 1856. Ebbe il processo originale in 70 fogli dal collegio della Trinità in Dublino, che l'ultimo duca di Manchester aveva acquistato a Parigi, dove, nell'occupazione di Napoleone I, moltissime cose furono portate da Roma concernenti l'inquisizione. Promette pubblicar anche il processo di frà Fulgenzio Manfredi, del tempo di Paolo Sarpi.

G. Heyne, Ueber die Verbreitung der Reformation in Neapel, con notizie tratte dall'archivio di Simanca. È nella Zeitschrift für Geschichtswissenschaft del 1847, vol. VIII, p. 545.

Robert Turnbull, The times, life and writings of O. Morata. Boston 1846.

Jules Bonnet, Vie d'Olympia Morata; 3ª edit. Paris 1856.

See, Some memorials of Renée of France. Londra 1859.

C. Schmidt, Celio Secondo Curione, nella Zeitschrift für die historische Theologie di C. W. Riedner, 1860: dove altre cose relative all'Italia.

C. T. Kind, Die Reformation in den Bisthümern Chur und Como, dargestellt nach den besten ältern und neuen Hülfsmitteln. Coira 1858.

A questo può riferirsi un articolo di J. Andr. von Sprecher negli «Archivj per la storia della Svizzera», Päpstliche Instruction neu betreffend Veltlin aus der Zeit p. Gregors XV. Zurigo 1858.

Napoleon Peyrat, Les Réformateurs de la France et de l'Italie, au XII siècle. Parigi 1860; a cui possono aggiungersi, per la connessione colle cose nostre.

Eugène Haage, La France protestante.

C. J. Tissot, L'Eglise libre du canton de Vaud.

De Castro, Hist. de los protestantes españoles y de su persecucion por Felipe II. Cadice 1851.

Trechsel, Die protestantischen Antitrinitarier vor Faustus Socin. Heidelberg 1839, 2 vol.

Inoltre molte cose pubblicate nei Fox's Acts and Monuments (1838); nel Taschenbuch di Stauber (Basilea 1851 e seg.); nella Révue Chrétienne di Giulio Bonnet, e in Hugo Laemmer, Monumenta vaticana historiam ecclesiasticam sæculi XVI illustrantia. Friburgo di Brisgovia 1861.

2. Breve Acceptissimum munus del 22 dicembre 1753.

3. Hoc inveni quod fecerit Deus hominem rectum; et ipse se infinitis miscuerit quæstionibus. Eccles. VII, 30. Deus constituit ab initio hominem, et reliquit illum in manu consilii sui... Ante hominem vita et mors, bonum et malum, quod placuerit ei dabitur. Eccli. XV, 14-18.

4. Longe clarissima urbium Orientis, non Judeæ modo. Plinio, Naturæ hist., v. 14.

5. Il soprannaturale trascende la natura, non però vi ripugna, altrimenti sarebbe falso. Il dire che Dio può fare che una cosa sia e non sia nel tempo stesso, sarebbe una repugnanza alla natura; il dire che tre Dei sono un Dio solo, sarebbe l'assurdo.

6. Quam fidem ab Ecclesia perceptam custodimus, et quæ semper a Spiritu Dei quasi in vase bono eximium quoddam depositum juvenescens et juvenescere faciens ipsum vas in quo est. Hoc enim Ecclesiæ Dei creditum est munus, quemadmodum ad inspirationem plasmationi, ad hoc ut omnia membra Ecclesiæ vivificentur... Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei; et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et omnis gratia: Spiritus autem veritas. Quapropter qui non participant eum, neque a mammillis matris nutriuntur in vitam, nequaquam percipiunt de corpore Christi procedentem nitidissimum fontem, sed effodiunt sibi lacus detritos de fossis terrenis, etc. Ireneo, III, 24.

7. Unum caput est, et origo una, et una mater fæcunditatis successibus gloriosa. Illius fœtu nascimur, illius lacte nutrimur, illius spiritu animamur... Hæc nos Deo servat, hæc filios regno quos generavit assignat... Habere jam non potest Deum patrem qui Ecclesiam non habet matrem. Cipriano, De Unit. Eccles.

8. Cum toto sacramento, cum propagine nominis, cum traduce Spiritus Sancti, in nos quoque spectat persecutionis obeundæ disciplina, ut in hæreditarios discipulos et apostolici seminis frutices. Tertulliano, Scorpiace, cap. 9.

9. Luca X, 16.

10. Matt. XXVII, 20.

11. Luca, ib., Matt. XVIII, 17.

12. Ut unitatem manifestaret, unitatis ejusdem originem ab uno incipientem sua auctoritate (Christus) disposuit. Ciprian., De Unit. Eccles.

13. Epist. I ad Chorint., cap. XL.

14. Quamvis apostolis omnibus post resurrectionem suam parem potestatem tribuat, et dicat. Sicut misit me Pater et ego mitto vos; accipite Spiritum Sanctum; si cujus remiseritis peccata remittentur illi, si cujus teneritis, tenebuntur; tamen, ut unitatem manifestarent, unitatis ejusdem originem ab uno incipientem sua auctoritate disposuit. Hoc erant utique et cæteri apostoli quod fuit Petrus, pari consortio præditi et honoris et potestatis, sed exordium ab unitate proficiscitur, et primatus Petro datur ut una Christi ecclesia, et cathedra una monstretur. Cipr. ib.

15. Ad hanc enim ecclesiam propter potiorem principalitatem necesse est omnem convenire ecclesiam, hoc est eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab his qui sunt undique conservata est ea quæ ab Apostolis est traditio. Ireneo, III, 43, 2.

16. Ad Ephes., IV, 4.

17. Sopra la letteratura cristiana ci siamo diffusi nella nostra Storia Universale, libro V, cap. 32, 33. Qui diamo solo ciò che verrà in uso nel procedere di quest'opera. Così non intendiamo far una piena esposizione della fede nè de' traviamenti, ma accennar solamente i punti, sui quali cadranno le dissensioni che verremo a raccontare.

I dogmi possono disporsi in

1. Teologia propria, cioè di Dio, e suoi attributi, creazione, providenza, e appendice di quella la creazione dell'uomo, e di angeli o démoni;

2. Antropologia teologica, innocenza primitiva, peccato originale;

3. Cristologia, sulla persona e le opere del Salvatore;

4. Caritologia, o teorica della Chiesa e dei mezzi di salute;

5. Escatologia, cioè della morte, immortalità, purgatorio, resurrezione, giudizio finale, paradiso, inferno, fine del mondo.

18. Il simbolo non fu scritto nè fatto scrivere dagli Apostoli, ma tramandato oralmente: e da sant'Agostino (De tradit. symboli) si raccoglie fosse proibito a' catecumeni scriverlo, ma imparavasi a mente. Da ciò le varianti; oltrechè a ciascun vescovo era lecito farvi cambiamenti. P. es. Rufino ci reca il simbolo qual recitavasi dalla Chiesa romana, più incontaminato, e quale dall'aquilejese, a cui esso prete apparteneva. Eccoli a confronto:

Romano. Credo in Deum patrem omnipotentem.

Aquilejese. Credo in Deo patre omnipotente invisibili et impassibili.

Romano. Et in Christum Jesum unicum filium ejus, dominum nostrum.

Aquilejese. Et in Christo Jesu, unico filio ejus, domino nostro.

Rom. e Aq. Qui natus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine.

Romano. Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis.

Aquilejese. Crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, descendit ad inferna, tertia die resurrexit e mortuis.

Rom. e Aq. Ascendit in cœlos, sedet ad dexteram Patris: inde venturus est judicare vivos et mortuos.

Romano. Et in Spiritum Sanctum. Sanctam Ecclesiam. Remissionem peccatorum. Carnis resurrectionem.

Aquilejese. Et in Spiritu Sancto. Sancta Ecclesia. Remissione peccatorum. Hujus carnis resurrectione.

Dalle catechesi di Massimo vescovo di Torino (Homil. in traditione symboli), di san Pietro Crisologo vescovo di Ravenna (in Symb. apost.) e da altri raccogliamo i simboli delle diverse Chiese, dove trovansi introdotte le parole conceptus, passus, mortuus, catholicam, sanctorum communionem, vitam æternam, dappoi addottate nel simbolo comune, qual già si trova ne' sermoni 240, 241, 242, posti in appendice ai sermoni genuini di sant'Agostino nell'edizione dei Padri Maurini.

Alcune di quelle aggiunte pajono arbitrarie e quasi futili; ma tendevano a confutare alcuni errori divulgati. Così nel surriferito simbolo aquilejese, il descendit ad inferna si oppone agli Apollinaristi ed Ariani, che negavano l'anima a Cristo, quasi ne facesse vece la divinità; l'invisibili et impassibili è contro i Noeziani e Sabelliani, che diceano esser nato e aver patito il Padre Eterno: l'hujus carnis contrasta a chi teneva che dovessimo risorgere con un corpo aereo e celeste.

Gli esegeti tedeschi danno pel più antico simbolo che si conosca, quello della Chiesa copta, usato nella Chiesa d'Alessandria. Eccolo:

«Il vescovo o il prete dirà al catecumeno: Credi al solo vero Dio, padre onnipotente, ed al suo figlio unigenito signor nostro e salvatore, e allo Spirito Santo vivificatore, trinità consustanziale, una sovranità, un regno, una fede, un battesimo; alla santa Chiesa cattolica, apostolica, alla vita eterna?» Il catecumeno risponderà: «Credo».

Poi il vescovo od il prete gli domanderà: «Credi tu nel N. S. G. Cristo, figlio unigenito di Dio Padre? Credi che egli si è fatto uomo come noi per azione miracolosa dello Spirito Santo sopra la Vergine Maria; che fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, e morto per la nostra redenzione; risuscitò il terzo giorno rompendo le catene; che siede alla destra del suo Padre nel cielo, e che verrà a giudicar i vivi ed i morti quando apparirà esso e il suo regno?

«E credi nel Santo Spirito vivificatore, che purifica tutto nella santa Chiesa?» e il catecumeno risponderà: «Credo».

Vedasi uno studio del protestante Michele Nicolas nella Revue moderne 1865, giugno.

19. Vedi Gruner, De odio humani generis, Christianis a Romanis objecto. Coburgo 1755.

20. Nelle epistole passim.

21. Decreto 11 giugno 1855 della S. Congregazione dell'Indice.

22. Luca XXII, 29.

23. Sap. XIV, 22 e seg.

24. S. Paolo ad Galat. v. 19.

25. Secondo Eusebio (Vita di Costantino, II, 65), l'imperatore scrisse ad Ario: «Son persuaso che, se io fossi tanto fortunato da recar gli uomini ad adorare tutti lo stesso Dio, questo cambiamento di religione ne produrrebbe un altro nel governo»: e soggiunge che s'adopera a questo scopo «senza far troppo rumore». Avea dunque chiaro concetto della rivoluzione ch'egli operava.

26. Anastasio Bibliotecario trasse dagli archivj del Vaticano il catalogo degli arredi donati da Costantino alla basilica di san Giovan Laterano; baldacchini, statue, vasi, croci, candelabri, lumiere, altari, patene, coppe, urne, incensieri, d'oro, d'argento, con pietre fine; tanto da sommare a 683 libbre d'oro e 12,943 d'argento, oltre la doratura di tutta la volta della basilica; sicchè varrebbero quasi 2 milioni di lire. Costantino vi aggiunse beni fondi da rendere L. 230,000 l'anno, e l'annuo tributo di 130 libbre d'aromi. Critici serj e prudenti sostennero l'autenticità di questo catalogo.

27. Farebbe concedere da Costantino al papa la sovranità su Roma, l'Italia e le provincie d'Occidente. Forse fu inventata nell'VIII secolo, ed inserita nelle Decretali del falso Isidoro. Ma già nel XII secolo l'autenticità ne era impugnata: poi Lorenzo Valla la repudiò con ragioni, a cui aderirono anche i più caldi difensori della Santa Sede.

28. Il concetto di tutto il medioevo fu appunto che gl'imperatori abbandonassero Roma perchè era destinata providenzialmente a divenire e restar metropoli della cristianità. Lo cantò Dante in una delle più belle parti del divino poema.

29. Da ciò chiamaronsi Nicolaiti i concubinarj, eretici dell'XI secolo.

30. Lib. III, Adversus hæres., c. 3.

31. Ep. 91, nell'anno 382.

32. Leg. 7. Cod. de Summa Trinitate.

33. Contra Parm., L. II.

34. Contra Petil., L. II, c. 57.

35. Nihil asperum, nihil grave nos constituros speramus. Prologo di san Benedetto.

36. A quattro regole principali possono ridursi tutti: 1º quella di san Basilio, che prevalse in Oriente; 2º quella di sant'Agostino, adottata dai canonici regolari, dai Premonstratesi, dai Domenicani e dagli Ordini militari; 3º questa di san Benedetto a cui si annettono Cistercensi, Camaldolesi, Vallombrosiani, Certosini; 4º quella di san Francesco con cui cominciano gli Ordini mendicanti.

Leone XII avea divisato di riformar le regole e il vestire de' frati, riducendoli a tre soli Ordini; uno di regolari, poveri, di scienza discreta e gran carità, che servissero al popolo sussidiando i parroci, e prestandosi agli spedali. Il secondo tutto all'educazione e istruzione della gioventù, e a sostenere gl'interessi della religione e del buon costume. Il terzo di contemplativi che predicassero, salmeggiassero, e aspirassero all'evangelica perfezione.

37. Sant'Agostino definisce lo scisma scissio charitatis; l'eresia scissura fidei; hæreticus est qui non sequitur catholicam veritatem; schismaticus est qui non amplectitur catholicam pacem; apostasia est totius fidei omnimoda abnegatio.

38. Lo dice san Gerolamo, De script. eccl.

39. Est nobis liber contra hæreses et sectas omnes compositus quem si legere volueritis, damus.

40. De præscriptione, c. 42.

41. Mescolanze, p. 221, 269.

42. De unitate, epist. ad plebem.

43. Cod. Theod., libro XVI, titolo I, legge 2.

44. Queste scuse non so quanto possano applicarsi ad Agrippino vescovo di Como, del quale parlando nella mia Storia della città e diocesi di Como, mostrai il traviamento, e con ciò parvi ad alcuno mancar di riverenza a chi era onorato del titolo di santo. Ma la verità anzi tutto: poi non è detto che Agrippino non si ravvedesse. La mia asserzione, oltre una lettera di san Colombano a Bonifacio IV, appoggiasi a un bellissimo titolo, che or serve di mensa all'altar maggiore della chiesa di Isola nella Comacina, ed è siffatta:

Degere quisquis amat ullo sine crimine vitam

Ante diem semper lumina mortis habet.

Illius adventu suspectus rite dicatus

Agripinus præsul hoc fabricavit opus.

Hic patriam linquens propriam, karosque parentes

Pro sancta studuit pereger esse fide.

Hic pro dogma patrum tantos tollerare labores

Noscitur, ut nullus ore referre queat.

Hic humilis militare Deo devote cupivit

Cum potuit mundi celsos habere grados.

Hic terrenas opes maluit contemnere cunctas

Ut sumat melius præmia digna.... (polo? sibi?).

Hic semel exosum sæclum decrevit habere

Et solum diliget mentis amore Deo.

Hic quoque jussa sequens Domini legemque Tonantis

Proximum ut sesse gaudet amare suum.

Hunc etenim quem tanta virum documenta decorant

Ornat et primæ nobilitatis honor.

His Aquileja ducem illum destinavit in oris

Ut gerat invictus prœlia magna Dei.

His caput est factus summus patriarcha Johannes

Qui prædicta tenet primus in orbe sedem.

Quis laudare valet clerum populumque comensem

Rectorem tantum qui petiere sibi?

Hi sinodus cuncti venerantur quatuor almas,

Concilium quintum postposuere malum.

Hi bellum ob ipsas multos gessere per annos

Sed semper mansit insuperata fides.

45. Alludendosi più volte in questi discorsi a opinioni de' primi eretici, sarà bene accennarne il significato.

Paolinisti e Fotiniani credeano Gesù Cristo semplice uomo, non preesistente alla sua concezione.

Simoniaci, derivanti da Simon Mago che a san Pietro offriva denari per ottenerne la facoltà di comunicar lo Spirito Santo, chiamansi quelli che fan mercimonio delle cose sacre, e più solitamente de' benefizj.

Gli Ariani negano la divinità di Cristo, e i Macedoniani la divinità dello Spirito Santo.

I Nestoriani dividevano la persona di Gesù Cristo, negando che in lui Dio e l'uomo fossero una persona sola; in conseguenza Maria non era madre di Dio.

Gli Eutichiani confondevano le due nature di Cristo, dicendo che una sola erasene fatta dalla natura sua divina e dall'umana.

Manichei e Marcioniti credeano a due principj indipendenti, l'uno del bene, l'altro del male; l'uno creatore dell'anima, l'altro del corpo; l'uno del nuovo, l'altro del vecchio Testamento.

Novaziano negava alla Chiesa l'autorità di rimettere i peccati. I Donatisti invalidavano il battesimo conferito dagli eretici. Aerio rigettava l'episcopato, il pregare pei morti, i digiuni stabiliti, e altre osservanze ecclesiastiche; Vigilanzio il culto delle reliquie e l'invocazione dei santi; gli Iconoclasti tutte le immagini.

I Pelagiani negavano il peccato originale e la necessità della grazia interiore.

I Semipelagiani ammettevano il peccato originale, e non negavano la necessità della grazia interna per compire la nostra salute, ma diceano ch'essa davasi per meriti precedenti, e che l'uomo comincia la salute sua da se medesimo, senza la grazia.

Più tardi Berengario negò la presenza reale e la transustanziazione: gli Albigesi rinnovarono le credenze de' Manichei, e i Valdesi quelle di Aerio e Vigilanzio.

Questi sono i principali eretici, ma l'enumerazione de' singoli è lunghissima, e può vedersi nel Dizionario delle eresie di Pluquet, e nella traduzione francese del Commonitorio di san Vincenzo di Lerins, fatta dall'abate Pavy, il quale ne annovera settantuna nel IV secolo.

46. Ep. XI, 13.

47. Nelle opere inedite che il cardinale Mai trasse dalla biblioteca Vaticana, si trova un'importante confessione della supremazia del vescovo di Roma, fatta da un patriarca greco, anteriore di mezzo secolo allo scisma. Difendendo esso le immagini sacre, allora combattute da Costantino Copronimo, dice che l'errore degli Iconoclasti poteva essere scusato per ignoranza solo avanti il secondo sinodo niceno. «Fu questo radunato convenientissimamente e con tutta legittimità; poichè, secondo le antiche stabilite regole divine, vi teneva il posto più degno, e presedeva una notabile parte del supremo clero occidentale, cioè dell'antica Roma; senza del quale, niun dogma che nella Chiesa si esamini, quantunque già ammesso per decreti canonici e per consuetudini ecclesiastiche, non si riguarderà mai come approvato e dedotto ad assoluta definizione e pratica. Imperocchè quella Chiesa gode il primato del sacerdozio, e ritiene tal dignità come trasmessale dai due corifei degli apostoli». Συγκεκροήτο γὰρ τοῦτο μάλιστα ενδικῶς, και εννομώτατα επειπερ ἤδη, κατὰ τοὺς ὰρχήθεν τετυπωμένους θειους θεσμοὺς προῆγη κατ’αυτὴν, καὶ προήδρευεν, όσον τε τῆς έσπεριας λήξεως, ἤτοι τῆς πρεσβυτερος Ρώμης, μέρος οὺκ ἄσημον ῷν ἄνευ, ουδὲν δόγμα κατὰ τὴν ηκκλησιαν κινουμενον, θεσμοῖς κανονικοῖς καὶ ιερατικοῖς έθεσι νενομισμενον άνωθεν, τὴν δοκιμασιαν οὺ σκοιὲ, ὴ δεξαιτ’ άν ποτε τὴν περαιωσιν, ώς δὲ λαχόντον κατὰ τὴν ιερωσυνεν εξάρκειν, καὶ τῶν κσρυφαιων ὲξ αποστόλοις ὲγκεχειριδμένον τὸ ὰξιομα.

48. Stefano II alla dieta di Quiersy 14 aprile 754 statuisce con Pepino un'alleanza.

Statuimus cum consensu et clamore omnium, ut tertio kalendas majarum (29 aprile) in Christi nomine hostiliter Longobardiam adissemus; sub hoc, quod pro pactionis fœdere per quod pollicimus et spondemus tibi, beatissimo Petro clavigero regni cœlestis et principi apostolorum, et pro te huic almo vicario tuo Stephano egregio papæ summoque pontifici, ejusque successoribus usque in finem sæculi, per consensum et voluntatem omnium infrascriptorum abatum, ducum, comitum Francorum, quod si Dominus Deus noster pro suis meritis sacrisque precibus, victores nos in gente et regno Longobardorum esse constituerit, omnes civitates atque ducata seu castra, sicque insimul cum exarcatu Ravennatum, nec non et omnia quæ pridem tuæ per imperatorum largitionem subsistebant ditioni, quod specialiter inferius per adnotatos fines fuerit declaratum, omnia quæ infra ipsos fines fuerint ullo modo constituta vel reperta, quæ iniquissima Longobardorum generatione devastata, invasa, subtracta, ullatenus alienata sunt, tibi, tuisque vicariis sub omne integritate æternaliter concedimus, nullam nobis nostrisque successoribus infra ipsas terminationes potestatem reservatam, nisi solummodo ut orationibus et animæ requiem profiteamur, et a vobis populoque vestro patritii Romanorum vocemur. Seguono i confini.

Sull'autenticità di questo documento vedi il Troya, e Brunengo, Le origini della sovranità temporale dei papi. Roma 1862.

49. Nell'elezione dell'imperatore, l'arcivescovo di Colonia gli domandava:

Vuoi mantenere con tutte le forze la santa fede cattolica?

Vuoi esser difensore e protettore alle sante chiese e ai ministri di esse?

Vuoi al santo padre il pontefice romano riverentemente prestare soggezione e la fede dovuta; non violare la libertà ecclesiastica; mostrarti a tutti benigno, mansueto, affabile secondo la regia dignità; e condurti in modo da regnar a utilità non tua, ma del popolo tutto; ed aspettar il premio de' tuoi benefizj non in terra ma in cielo?

Dopo coronato, l'imperatore giurava: «Professo e prometto in faccia a Dio e agli angeli suoi, di osservare le leggi, far giustizia, confermar i diritti del regno, prestare il dovuto onore al pontefice romano e agli altri vescovi e vassalli; conservare le cose donate alla Chiesa».

Queste idee sulla distribuzione del potere non le deduco da teologi o romanisti; ma nello Specchio di Svevia, costituzione della Germania antichissima, è detto che Cristo, principe della pace, lasciò in terra due spade per difesa della cristianità; ed affidolle a san Pietro, una pel giudizio secolare, l'altra per l'ecclesiastico: la prima è dal papa imprestata all'imperatore (des weltichen Gerichtes Schwert darlihet der Papst dem Kaiser); l'altra rimane al papa affinchè giudichi stando s'un palafreno bianco, e l'imperatore dee tenergli la staffa acciocchè la sella non si scomponga; significando così che, se alcuno resiste ostinatamente al papa, l'imperatore e gli altri principi devono costringervelo colla proscrizione. Nessuno può scomunicar l'imperatore fuorchè il papa, e questo per tre sole cause: se dubita della fede vera; se ripudia la moglie; se turba le chiese e le case di Dio. Quando si scoprono eretici bisogna procedere contro di essi ai tribunali ecclesiastico e secolare; la pena è il fuoco. Ogni principe che non punisce gli eretici è scomunicato. E se fra un anno non venga a resipiscenza, il papa lo priverà dell'uffizio principesco e di tutte le sue dignità. Schilter, Antiq. Teuton., T. III.

50. Vedi Celestino Masetti, Dei vantaggi arrecati alle nazioni cristiane dai Romani Pontefici per mezzo delle nunziature apostoliche. Roma 1842.

51. Quam fœdissima ecclesiæ romanæ facies, cum Romæ dominarentur potentissimæ æque ac sordidissimæ meretrices, quarum arbitrio mutarentur sedes, darentur episcopi, et, quod auditu horrendum et infandum est, intruderentur in sedem Petri earum amasii pseudo pontifices, qui non sunt nisi ad signanda tantum tempora in catalogo romanorum pontificum scripti. (Ad ann. 912, n. XII) Così dice il Baronio, che era cardinale, scriveva per impulso di san Filippo Neri, e per sostenere il papato contro le storie che dettavano i Protestanti, e massime le Centurie Magdeburgesi. Eppure vedasi come riprova i disordini della Chiesa. Nel che anzi eccedette, come l'accusa perfino il Muratori, sì poco papale; e come il provano altri documenti intorno a quell'età.

52. Questa favola della papessa Giovanna, su cui vedremo trastullarsi i satirici e protestanti, si collocherebbe all'855; non è accennata che da Mariano Scoto, cronista dell'XI secolo, poi narrata a disteso da Martin Polacco, che dettò una storia de' papi fino al 1277. Oltre ch'egli è tardivo, il passo sembra interpolato, mancando in alcuni codici, com'è intruso nella Storia de' pontefici di Anastasio Bibliotecario, il quale altrove a Leone IV fa succedere Benedetto III, non già questo supposto Giovanni VII, e dice che l'elezione fu notificata a Lotario imperatore, il quale si sa che morì nel settembre del 855; sicchè non vi saria bastante intervallo per frammettervi un altro papa. Produssero ultimamente una medaglia del 855, che porta il conio e di Lotario e di Benedetto III; locchè conferma l'immediata successione di questo. Si noti che Leone IX, scrivendo a Michele Cellulario patriarca di Costantinopoli, gli dice come in Occidente era sparso che una donna fosse stata fatta patriarca di Costantinopoli. Il fatto sarebbe men improbabile per una sede, cui dicesi ottenessero anche eunuchi; ma il papa non avrebbe accennato questa diceria, nè il Cellulario avrebbe lasciato di rimbeccarnelo se fosse stata anche solo bisbigliata la storia della papessa Giovanna. Ed è pure da valutarsi che, nei contrasti che allora la sede romana avea colla greca, fra tante ingiurie che il patriarca Fozio lancia contro i Papi, non fa la minima allusione a questa papessa. Lasciam dunque in siffatte cloache l'abate Casti, Bianchi Giovini e simili sozzure.

53. Cardinali vescovi eran quelli di Ostia, Porto, santa Rufina, Alba, Sabina, Tusculo, Preneste, vicarj del papa qual parroco di san Giovan Laterano. Cardinali cherici erano i parroci dipendenti da quattro altre chiese patriarcali di Roma. I cardinali diaconi presedevano agli istituti di carità.

54. Già sotto i Longobardi, Paolo Diacono si lamentava che nessuno frequentasse la chiesa di san Giovanni di Monza, perchè i suoi preti erano concubinarj e simoniaci. Nel 790 girò attorno a Brescia un monaco, annunziando vicina la fine del mondo, in grazia della depravazione de' religiosi: spacciatosi profeta, distribuì i suoi proseliti in cori di angeli, guidati da arcangeli, e maltrattò i frati sinchè egli stesso venne mandato a morte. Rodulphi Notarii Hist. rerum brixian., p. 17.

55. Il passo fu accertato essere stato intruso. Ad ogni modo si sa non essere questo divieto a' preti di aver moglie che una disciplina, e la Chiesa l'adottò per alte convenienze, pur tollerando in alcun luogo, come fra i Greci. Che a Napoli il matrimonio de' preti e sin quello de' frati fosse riconosciuto vorrebbero indurlo da documenti autentici, ove trovansi soscrizioni, Ego Petrus, filius domini Stephani monachi: Ego Sergius, filius domini Johannis monachi: Ego Joannes, filius domini Petri monachi.... (alle pagine 10, 21, 40, 46 della Sylloge de' Monumenti del grande archivio di Napoli). Ma ciò può riferirsi a persone monacatesi dopo vedovate. Il concilio di Melfi nel 1059 limitò il matrimonio de' preti: dopo il concilio romano del 1072 fu proibito. Nelle consacrazioni dei vescovi prescriveansi norme intorno all'ordinare conjugati: e l'arcivescovo Alfano nel 1066, consacrando il primo vescovo di Sarno, gli indiceva ne bigamum, aut qui virginem sortitus non est uxorem, ad sacrum ordinem permittat accedere: et si quos hujusmodi forte reperit, non audeat promovere. Ughelli, Italia sacra, tom. VII, p. 571. Barbato arcivescovo di Sorrento, nel 1110 ordinando Gregorio vescovo di Castellamare, dicea: eique dedimus in mandatis ne nunquam ordinationem præsumat facere illicitam, nec bigamum, aut qui virginem non est sortitus uxorem, neque illiteratum.... ad sacrum ordinem permittat ascendere. Id., tom. VI, p. 609, ediz. Venezia 1721. Tutto ciò poteva riferirsi a vedovi, e tale disciplina è seguita oggi pure, non ordinandosi chi fosse stato bigamo vero, cioè marito successivo di due donne, o bigamo similitudinario, cioè marito d'una vedova.

56. Il cronista Arnolfo da principio mostrasi caldissimo dell'indipendenza della Chiesa milanese dalla romana, disapprovando altamente la plebe che tumultuava contro gli eretici. Ma dopochè nel 1077 intervenne all'ambasceria con cui i Milanesi implorarono perdono da Gregorio VII, cangiò stile, protestando «non dissentire punto da quelli che riprovavano le consacrazioni simoniache e l'incontinenza de' preti» (Lib. IV, 12); oggimai vedere ben altrimenti di prima, e confrontando il presente col passato, arrossire non già pei barbarismi del suo stile, ma d'avere sventatamente riferito i fatti e i detti altrui: cumque præteritis præsentia scriptis scribenda conferret, rubore perfusum fideliter erubescere, nec barbarismos in verbis egisse, sed aliorum quælibet dicta vel facta temere indicasse confundi (IV, 43). Col che veramente indica piuttosto aver imprudentemente recato fatti e detti, che non mentito alla verità.

Landolfo Seniore invece, parteggiando affatto per l'indipendenza della Chiesa milanese, non solo svisa i fatti contemporanei, ma anche i precedenti, volendo sempre esporli come tipo e specchio de' presenti; esalta tutti i vescovi precedenti, e massime Eriberto da Cantù; trova le virtù e i meriti tutti ne' concubinarj, asserendo con leggerezza e mentendo con impudenza, come avviene de' settarj.

57. Permittis ut ecclesiæ tuæ clerici, cujuscumque sint ordinis, velut jure matrimonii confœderentur uxoribus. Quid est, pater, quod tibi soli vigilas, et his pro quibus priorem exigendus es rationem, tam inerti securitate dormitas?... Præsertim, cum et ipsi clerici tui, quidem satis honesti et literarum studii sint decenter instructi. Qui dum ad me confluerent, tamquam chorus angelicus et velut conspicuus ecclesiæ videbantur eniteres.

Ottocento anni dopo, Royer Collard in Francia diceva: «Nel 1793 le persone della mia età videro la filosofia del tempo, sostenuta dal terrore, ammogliar alcuni preti. Che preti erano? che donne sposavano? I pochi che restano ancora di tali vergognosi matrimonj stanno sotto la riprovazione universale. La pruova non si rinnoverà; ma se fosse, non esito affermare che il prete ammogliato salendo all'altare desterebbe orrore al nostro popolo cattolico, e l'indignazione pubblica lo dichiarerebbe incapace e indegno del sacerdozio».

58. Gregorio VII, nella famosa lettera al vescovo di Metz, non esita a mettere il papa di sopra dei re. «Questa dignità di monarca, inventata da' pagani, non dev'essere soggetta all'eterna autorità di san Pietro, che la misericordia di Dio ha depositata in mano dell'uomo per salute de' redenti? Re, principi, duchi, imperatori hanno ereditato questi nomi pomposi da uomini dannati eternamente, i quali con rapine, perfidie, violenze, assassinj, esercitarono sopra i loro simili l'esecrando diritto del forte, e fatti despoti dominavano con tirannico orgoglio. Chi può dubitare che i ministri della Chiesa, i sacerdoti di Cristo, i successori di Pietro devano esser venerati per padri e maestri dei re, dei popoli, del genere umano?... Un semplice esorcista è rivestito d'un'autorità superiore a qualunque principe, perchè discaccia gli spiriti maligni. Il pio sacerdote governa i suoi simili a salute dell'anime loro, ad onore e gloria di Dio: mentre i potenti del mondo non regnano che per soddisfar all'orgoglio ed a materiali passioni. Un monarca cristiano, quando giace sul letto di morte, implora l'assistenza del prete che gli rimetta i peccati, e salvi da Satana, e lo guidi dalle tenebre agl'eterni splendori: vedeste mai un prete o un laico in agonia rivolgersi al suo re? Qual principe della terra si arroga di riscattare un'anima dall'inferno in virtù del santo battesimo? E ciò che forma la sublimità della religione cattolica, il mistero che gli angeli contemplano e le potenze infernali paventano, dov'è il monarca che possa con una sola parola creare il corpo e il sangue di Cristo? Chi dunque dubiterà che l'autorità del pontefice non sovrasti a quella del re? Quegli non cerca che le cose di Dio, e vive austero fra le vanità della terra; questi si occupa solo del proprio interesse, e opprime i fratelli a danno della propria salute. Quegli è membro del corpo di Cristo; questi dell'angelo della menzogna. Quegli rinnega i suoi appetiti, macera il corpo per regnar un giorno con Dio: questi regna quaggiù per esser in eterno schiavo di Satana. Appena qualcuno ne troviamo che sia stato virtuoso e prudente. Chi di loro ebbe il dono de' miracoli come Antonio, Benedetto, Martino? Ma la santa sede conta da Pietro in poi cento vescovi ascritti alla milizia celeste, ecc.».

59. L'agosto 1098 tenevasi un concilio a Roma, e 8 cardinali, 4 vescovi, 4 preti, fautori dell'antipapa, firmarono una lettera sinodale «a tutti quelli che temono Dio ed amano la salute della repubblica», per premunirli contro le eresie introdotte o rinnovate da Ildebrando; le quali erano il celibato de' cherici e il divieto delle investiture laicali.

60. La condizione a cui si sarebbe ridotta l'Europa se la spada fosse prevalsa al pastorale, può argomentarsi da quella d'un paese che ora fa molto parlare, per la speranza di riunirla alla Chiesa nostra, la Bulgaria. Il Turco lascia eleggere il clero ai Cattolici, ma vende le più alte dignità. Il patriarca che comprò per 400,000 lire l'alto suo seggio, rivende i vescovati fin per 50,000; questi fan mercato coi papassi o curati, che possono accumulare fin 15 o 20 cure. Così tutto va all'incanto, e quello cui meno si bada è il merito o il servizio delle anime. Chi compra cerca rimborsarsi con tutti i mezzi. Uno de' mezzi è il divorzio, pel quale richiedesi una dispensa costosa, onde non l'ottengono che i ricchi. Pei poveri ci son altri ricavi. Se per qualche sopruso si fa appello al patriarca, il vescovo ne compra la connivenza; se le plebi minacciano diventar cattoliche, il patriarca punisce, cioè cambia di posto il vescovo: e così la tirannia del sultano vien a pesare fin sugli infimi: e i vescovi, invece di rivelare al popolo i diritti che acquistò cogli ultimi atti del Tanzimat, del Hatti-Scerif, del Hatti-Humayum, glieli nascondono attentamente.

61. Quelle false decretali, che per lungo tempo si dissero inventate a Roma, diffuse in Ispagna, e di là nel mondo, introducendo nuovi canoni e diritto nuovo per consolidare l'autorità dei papi a scapito di quella dei vescovi, apparvero tutt'altro a leali cercatori, protestanti e cattolici. La prima indagine avrebbe dovuto cadere sul corpo del delitto, e si provò che tutti aveano discorso senza conoscerle sia nei testi, sia nell'unica informe edizione fattane da Merlin nel 1530. Un'esatta descrizione ne porse il dottore Philipps: poi l'abate Migne le stampò nel vol. CXXX della sua Patrologia, con una dissertazione del dottore Denzinger professore a Wurtzburg.

Risulta di là che la Spagna non le conobbe mai; che fino al secolo XI uscente non ebbero mai autorità in Italia: a tal segno che nel 1085 il cardinale Otto, il quale fu poi Urbano II, incontrandone primamente alcune in un concilio tedesco, le ripudiò con disprezzo: che l'opera fu compilata in Germania, probabilmente da Benedetto Levita, cherico dell'arcivescovo di Magonza Autcario, verso l'834.

Quanto al fondo, le decretali non toccano pur un punto che già non fosse stabilito; e scopo loro è di sorreggere i diritti de' prelati a fronte de' metropoliti, cioè sostenere l'indipendenza de' vescovi, anzichè ringrandire il potere pontifizio.

62. Al contrario de' nostri, la quistione eterna della libertà e della predestinazione fu la prima che i teologi maomettani dibattessero: e i Kadariti, sostenitori della libertà, e i Giabariti, o Predestinaziani, precedettero le discussioni sugli attributi di Dio.

63. Epistola 243.

64. Pantheon 464.

65. Arnaldo è diventato un mito, e in conseguenza la storia di lui fu oscurata peggio che mai, principalmente a' nostri tempi: e chi lo difendesse viene stampato eretico dagli esagerati d'una parte, gesuitante dagli esagerati dell'altra chi l'incolpasse: arti abituali colle quali il secolo nostro pretende arrivare alla verità. Metter nè un Lutero nè un Ciciruacchio al XII secolo è anacronismo, quanto il metter all'età nostra un san Pietro o un san Francesco d'Assisi. I nostri Ghibellini che volevano umiliare il papa, non per questo erano ligi all'imperatore germanico; che se a questo si attaccavano i tirannelli per prepotere nelle città e per uccidere la libertà comunale, i pensatori volevano, o almeno ideavano, un imperatore romano che stesse in Italia. Lo dice chiaro anche Dante, che pure si appassionò per Enrico VII; perchè sempre gli Italiani, da Narsete sino a Felice Orsini, sperarono liberarsi dagli stranieri per mezzo degli stranieri. Forse i Romani, e Arnaldo con essi, avevano sperato di sbalzar il papa coll'opera di Federico, il quale, come se ne vanta il suo cugino e storico Ottone di Frisinga, qui portò pro auro arabico teutonicum ferrum; sic emitur a Francis imperium: ma il prefetto della città, che in occasione delle prediche di Arnaldo era stato insultato e peggio, fe prendere questo bresciano, e giustiziare.

Il contemporaneo Geroldo di Reichersperg (nel libro I De investigat. Antichrist. ap. Gretser, Prolegomena ad scriptores adversus Waldenses, cap. 4) dice: Quam ego vellem pro tali doctrina sua, quamvis prava, vel exilio vel carcere, aut alia pœna præter mortem punitum esse, vel saltem taliter occisum, ut romana Ecclesia sive curia ejus necis quæstione careret! Nam, ut ajunt, absque ipsorum scientia et consensu a præfecto urbis Romæ, de eorum custodia in qua tenebatur ereptus, ac pro speciali causa occisus ab ejus servis est. Maximam siquidem cladem ex occasione ejusdem doctrinæ idem præfectus a romanis civibus perpessus fuerat; quare non saltem ab occisi crematione et submersione ejus occisores metuerunt quatenus a domo sacerdotali quæstio sanguinis remota esset. Sed de his ipsi viderint, sane de doctrina et nece Arnaldi idcirco inserere præsenti loco volui, ne vel doctrinæ ejus pravæ, etsi zelo forte bono, sed minori scientia prolata est, vel ejus necis perperam actæ videar assensum prœbere.

Del resto, in quei giorni il papa ed i cardinali erano affatto in arbitrio del Barbarossa, che giunse fin a portarli via: e il suddetto Ottone di Frisinga dice: Mane facto, quia victualia nobis defecerant, assumpto papa et cardinalibus cum triumpho victoriæ læti discessimus (p. 989 dell'edizione del Muratori).

Meglio del Tamburini e d'altre meschinità dei Giansenisti del secolo passato, vedi H. Franke, Arnold von Brescia und seine Zeit. Zurigo 1852.

66. Questo fatto è vero? Lo negano i più, quasi un'insolenza, a torto imputata al papa: sì poco conoscono i tempi! lo sostenne il benedettino Fortunato Olmo in un curioso opuscolo: Historia della venuta a Venetia occultamente nel 1177 del papa Alessandro III e della vittoria ottenuta da Sebastiano Ziani doge. 1629. Ripigliò questo assunto Carlo Lodovico Ring nel Saggio storico per illustrare un fatto finora messo in dubbio, della vita di due contemporanei, entrambi aspiranti alla Signoria del mondo (tedesco). Stuttgard 1835.

67. Son passi dei documenti raccolti da Huillard Bréolles nella Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, avec une étude sur le mouvement reformiste du XIII siècle, Parigi 1865. E per non citare i cattolici, vedasi History of Frederick the second, by T. L. Kington. Londra 1862, 2 vol.

68. Col nome di Questioni siciliane furono trovati nella biblioteca di Oxford, e li pubblicò Michele Amari nel Journal Asiatique, 1853, p. 240.

69. Semper fuit nostræ voluntatis intentio, clericos cujusque ordinis, præcipue maximos, ad illum statum reducere quales fuerunt in Ecclesia primitiva, apostolicam vitam ducentes et humilitatem dominicam imitantes.

70. Brunetto Latini dice di Federico II: «Les cuers ne hacit à autre chose fors que a estre sires et souverains de tout le monde. Il cuidoit bien par lui et par ses filz sousprendre tot l'empire et la terre tote, en tel manière que ele n'issist jamais de leur subjection. Tesoro». L. i.

71. Rad. Glaber.

72. Landulfi Senioris Historia Mediolani, II, 27. Vedi qui sopra, a pag, 71.

73. La confessione di fede dei Valdesi delle valli subalpine del 1120 porta: Fermament tenèn tot quant se contèn en li doze articles del symbolo, lo qual ès dict de gli apostol; tenèn esser heresia tota cosa la qual se discorda e non ès convenient à li doze articles.

74. Multa petebant instantia prædicationis auctoritatem sibi confirmari. San Stefano di Borbon ap. Giesler, pag. 510.

75. Però in un manoscritto di Cambridge della Nobla leçon, che vorrebbero supporre del 1100, cioè anteriore ad esso Valdo, leggesi:

Que non volìa maudire, ni jurar, ni mentire,

Ni ahountar, ni ancire, ni prenre de l'autrui,

Ni venjar se de li sio ennemie,

Illi disent quel ès Vaudès e degne de meurir.

Giulio Perticari (Dell'amor patrio di Dante, c. XII), dice la Nobla leçon «scoperta non ha guari a Venezia», mentre fin nel 1669 ne dà degli estratti Giovanni Leger.

Nella parola valdese alcuno vorrebbe sentire il tedesco Wald, foresta.

Cataro in greco vuol dire puro, e forse presero tal nome per la pretesa innocente vita. Sant'Agostino già denomina Cataristi i Manichei. De hær. Manich. I Tedeschi chiamano ancora Ketzer gli eretici.

76. Fra molt'altre ragioni, diceasi loro: L'uomo vuole ora il bene, ora il male. Se è creatura del Dio benefico, come mai propende al male? se del malefico, come mai opera il bene?

77. Così il Vignerio, reputato dai Protestanti il restauratore della storia ecclesiastica. Bibliotheca historica, addiz. alla parte II, pag. 313. Anche frà Ranerio Saccone dà le Chiese di Francia e d'Italia originate da quelle di Bulgaria e Drungaria. Bossuet non potè indovinare dove fosse questa Drungaria: noi crediamo apporci dicendola Tragurium, cioè Traù.

78. Die Waldenser in Mittelalter, opuscolo di A. W. Dieckhoff, in risposta a quello di Herzog sul soggetto medesimo.

M. C. Schmidt, Hist. des Cathares ou Albigeois.

J. Venedey, Die Pataria im XI und XIX Jahrhundert. Parigi 1854.

79. Del Saccone, vissuto verso il 1230, la Summa de Catharis et Leonistis, sive Pauperibus de Lugduno fu inserita nel Thesaurus novus anedoctorum dei PP. Martene e Durand. Parigi 1717, tom. V. In questa Summa trovo menzionato un volume di dieci quaderni, in cui Giovanni di Lugio avea deposti i suoi errori. Buonaccorso, già vescovo dei Catari in Milano, li confutò nella Manifestatio hæreseos Catharorum, che sta nello Spicilegio del padre D'Achery, tom. I, p. 208 del 1723. Nel suddetto Thesaurus (v. 1703) vedasi pure una Dissertatio inter Catholicum et Patarinum; e l'opera di frà Stefano di Bellavilla inquisitore; e così i sermoni di Ecberto (verso il 1165) contro i Catari, stampati a Colonia il 1530; l'opera di Alano, insigne teologo (morto il 1202) contro gli eretici e valdesi, stampata a Parigi il 1612.

80. In una costituzione di Federico II leggesi: In exemplum martyrum, qui pro fide catholica martyria subierunt, Patarinos se nominant, veluti expositos passioni. Ed anche le Assise di Carlo I portano nel francese d'allora: Li vice de ceans son coneu par leur anciens nons, et ne veulent mie qu'il soient apelé par les propres nons, mais s'apellent Patalins par aucune excellence, et entendent que Patalins vaut autant comme chose abandonnée à soufrir passion en l'essemble des martyrs, qui souffrirent torment pour la sainte foy.

È da notare che anticamente i Druidi chiamavansi Pataru o Pateri, forma di patres.

81. Da cui il Bougre de' Francesi, il Bolgiron de' Lombardi.

82. Da Como? Anche Concorezzo è borgata vicina a Monza: come Bagnolo si ha nella Lombardia, in Piemonte, nel Napoletano e in Provenza.

83. Alcuni pretendono (p. e. Döllinger) distinguere i dualisti dai monarchi: e fra questi ultimi metterebbero i Concorezj e i Bagnolesi.

84. Ne' loro riti trovansi certe formole popolari e ritmiche. Così al fine della predica il maestro spegnendo il lume, diceva: Quis habet teneat; o in piemontese: Quel qu'eseguirè con lume de la lanterna gagnerè la vita eterna; e in italiano: Alleluja alleluja segua chi ha la suja.

85. Ap. Lanzi, Lezioni di antichità toscane, XVII.

86. Da un codice della biblioteca Casanatense di Roma. A. iii, 34. Vedi Archivio storico, nº 38.

87. Sono singolarissime le particolarità che dà quasi di ciascuna persona e luogo. Donna Johanna de Francia que tingit filum, induta de camelino, et moratur in plano versus portam qua itur ad monasterium — Forneria de Ulmo, pinguis et grossa — Quedam juvenis de Ast, magna que moratur in plano juxta quendam virum qui non potest se moveri de lecto — Quidam macellarius, qui habet macellum in plano versus apothecas pannorum in penultima banca — Quedam masceria dominorum satis colorata — In quadam cassina cujusdam tabernarii grassi et pinguis, qui moratur prope plateam castri in quodam palacio seu domo magna — Due mulieres que morantur ultra Dariam, una prope aliam; quedam alia que moratur veniendo de ecclesia sancti Martini a manu sinistra in domo coperta paleæ — Quedam alia vetula grossa et colorata moratur in summitate ville — Quedam tabernaria que moratur in introitu porte veniendo de sancto Petro et vendit sal, pulcra est, et ex oppositu ipsius moratur quidam tabernarius — Quedam alia testrix que vendit drapellos et est lentigiosa.

88. Grosso volume in-folio, edito a Roma il 1743 dal padre Tommaso Agostino Richino, col titolo Venerabilis patris Monetæ cremonensis ordinis Prædicatorum, sancto patri Dominico æqualis, adversus Catharos et Valdenses libri quinque.

89. Dicono che la seconda parte dell'Ave Maria fu aggiunta solo al cominciar del protestantesimo, e il Mabillon non ne troverebbe vestigio prima del 1508. Ma il breviario della Chiesa d'Ivrea, che fu usato fino al 1545, in una copia del 1488 riporta anche la Sancta Maria, ecc.

90. «E tutte le creature appellava fratelli e sirocchie, dicendo che tutti aveano uno cominciamento da un medesimo creatore e padre». Vite de' Santi Padri. — Fratres mei aves, multum debetis laudare Creatorem.... Sorores meæ hirundines.... Segetes, vineas, lapides et silvas, et omnia speciosa camporum, terramque et ignem, aerem et ventum, ad divinum movebat amorem... Omnes creaturas fratris nomine nuncupabat frater cinis, soror musca. Tommaso Celano suo discepolo. Acta SS. octobris. Vedi i Fioretti di san Francesco, uno de' più ingenui libri del nostro Trecento, e dei più beffati dai riformatori del Cinquecento.

91. Santa Maria Novella in Firenze, santa Maria sopra Minerva in Roma, san Giovanni e Paolo in Venezia, san Nicolò in Treviso, san Domenico a Napoli, a Perugia, a Prato, a Bologna, coll'arca stupenda del fondatore; santa Caterina a Pisa, sant'Eustorgio e le Grazie a Milano, ed altre chiese, segnalate per ricca semplicità, e per lo più architettate da frati.

92. Guitton d'Arezzo scriveva di san Francesco:

Cieco era il mondo, tu failo visare (vedere);

Lebbroso, hailo mondato;

Morto, l'hai suscitato;

Sceso ad inferno, failo al ciel montare.

Dante pone un magnifico elogio dei due patriarchi in bocca a san Tommaso e a san Bonaventura nei canti X e XI del Paradiso. Di san Francesco conchiude:

Pensa oramai qual fu colui, che degno

Collega fu a mantener la barca

Di Pietro in alto mar per dritto segno.

E questi fu il nostro patriarca:

Perchè, qual segue lui com'ei comanda,

Discerner puoi che buona merce carca.

E a san Bonaventura, lodando san Domenico, fa dire:

L'esercito di Cristo...

dietro all'insegna

Si movea tardo, sospettoso e raro,

Quando lo imperador che sempre regna

Provvide alla milizia, ch'era in forse

..... A sua sposa soccorse

Con due campioni, al cui fare, al cui dire

Lo popol disviato si raccolse.

93. Che il concetto di san Tommaso vincitore delle eresie, e specialmente di quelle di Averroè, fosse affatto popolare, si prova dal vederlo atteggiato dai pittori. In Santa Caterina di Pisa, ove tenne scuola, Francesco Traini, discepolo dell'Orgagna, dipinse Tommaso, sul quale piovono raggi splendidissimi da Dio e dagli angeli e santi, e altri meno vivi da Platone e Aristotele: esso li riflette tutti sopra i dottori della Chiesa, fuorchè uno il quale percuote Averroè che sta rovesciato a' suoi piedi, e passa fuor fuori il libro del gran commento. Anche Taddeo Gaddi ritrasse l'Angelico sopra un'eccelsa cattedra, circondato da personaggi dei due Testamenti e dalle quattordici scienze, ognuna di esse sormontata dal sapiente che n'è tipo: e a' piedi stanno Ario, Sabellio, Averroè. E costui si scorge in molti altri dipinti, cruciato dai demonj, stracciantesi le chiome, ecc.

Sulle dottrine di Averroè dovremo tornare, onde giova notare come Guglielmo di Tocco, autore della vita di san Tommaso, enumerando le eresie vinte da questo, pone in primo luogo quella di Averroè «che insegnava esservi un intelletto solo: errore sovversivo del merito de' santi, giacchè allora non v'avrebbe differenza tra gli uomini». E prosegue: Mirum est quam copiose sanctus Thomas in illam vanissimam sententiam semper inveheretur. Captabat ubique tempora: quærebat occasiones unde ipsam traheret in disputationem: pertractam vero torquebat, exagitabat, monstrabatque non a christiano solum, sed ab omni quoque alia, peripateticaque præcipue philosophia dissentire. Bolland., Acta Sanctorum Martii.

94. Veritas intellectus est adœquatio intellectus et rei, secundum quod intellectus dicit esse quod est, vel non esse quod non est. Adv. gent. I, 49, I.

95. «Legge è un ordinamento della ragione, promulgato da chi sovrintende al Comune pel bene di tutti». I della 2ª quest. 95, art. 4.

«Due cose devono avvertirsi intorno al buon ordinamento del principato in qualunque città e nazione: la prima, che tutti ottengano qualche parte nel principato, lo che mantiene in pace il popolo, e fa che tutti amino e difendano l'ordinamento. L'altra riguarda la forma del reggimento. Ottimo principato è dove uno presiede a tutti secondo il merito, e dopo lui governano altri secondo il merito; il qual principato è di tutti, perchè tutti possono essere eletti, e tutti partecipano all'elezione». Quest. 105, I della 2ª, art. 1.

Ottima è la sua osservazione intorno allo svilimento de' caratteri, prodotto dall'assolutismo: sotto il quale, dic'egli, gli uomini in servilem degenerant animum et pusillanimes fiunt ad omne virile opus et strenuum. De reg. pr. L. I. 3.

96. Pietro Tamburini, che abituò i Lombardi al servilismo ufficiale, è accannito contro la scolastica. De fontibus sacræ theologiæ. Pavia 1790, vol. iii, diss. 10. La difese Gerdil nel Saggio d'istruzione teologica, art. Scolastici, tom. X.

97. Ad abolendam diversarum hæresum pravitatem quæ in plerisque mundi partibus modernis cœpit temporibus pullulare, vigor debet ecclesiasticus excitari, etc. Labbe, Concilia, tom. X, pag. 1737.

98. Ap. Raynaldi ad ann. 1226, n. 26.

99. Fredericus Magdeburgensi archiepiscopo, comiti Romaniolæ, et totius Lombardiæ legato, dilecto principi suo gratiam suam, et omne bonum.

Cum ad conservandum pariter, et fovendum Ecclesiasticæ tranquillitatis statum ex commisso nobis imperii regimine defensores simus a Domino constituti, non absque justa cordis admiratione perpendimus, quod hostilis invaleat hæresis, proh pudor! in partibus Lombardiæ, quæ plures inficiat. Eritne igitur dissimulandum a nobis, aut sic negligenter agemus, ut contra Christum, et fidem catholicam ore blasphemo insultent impii, et nos sub silentio transeamus? Certe ingratitudinis et negligentiæ nos arguet Dominus, qui contra inimicos suæ fidei nobis gladium materialem indulsit, et plenitudinem contulit potestatis. Quapropter in exterminium, et vindictam actorum sceleris tam nefandi, complicum et sequacium hæreticæ pravitatis, quocumque nomine censeantur, utriusque juris auctoritate moniti, dignos motus nostri animi exercentes, præsenti edictali constitutione nostra, in tota Lombardia inviolabiter de cætero valitura, duximus faciendum, ut quicumque per civitatis antistitem vel diœcesanum, in qua degit, post condignam examinationem fuerit de hæresi manifeste convictus, et hæreticus judicatus per potestatem, consilium et catholicos viros civitatis, et diœcesis earundem, ad requisitionem antistitis illico capiatur, auctoritate nostra ignis judicio concremandus, ut vel ultricibus flammis pereat, aut, si miserabili vitæ ad coercitionem aliorum elegerint reservandum, eum linguæ plectro deprivent, quo non est veritus contra ecclesiasticam fidem invehi, et nomen Domini blasphemare. Ut autem præsens hæc edictalis constitutio nostra debeat in hæreticorum exterminium firmiter observari, circumspectioni tuæ committimus, quatenus hanc constitutionem nostram per totam Lombardiam facias publicari, amodo per imperialis banni censuram ab omnibus universaliter observandam. Dat. Cathaniæ, anno Dominicæ Incarnationis MCCXXIV, mense martii, undecimæ indictionis.

100. Constitutio Inconsutilem: Const. de receptoribus, Lib. I. Il professore Höffler a Monaco pubblicò (Kaiser Friedrich II, ein Beytrag u. s. w. 1844) alcune nuove lettere di Federico II, fra cui la seguente a papa Gregorio IX, relativa all'inquisizione ereticale:

Celestis altitudo consilii, que mirabiliter in sua sapientia cuncta disposuit, non immerito sacerdotii dignitatem et regni fastigium ad mundi regimen sublimavit, uni spiritualis et alteri materialis conferens gladii potestatem, ut hominum hac dierum excrescente malitia, et humanis mentibus diversarum superstitionum erroribus inquinatis, uterque justitie gladius ad correctionem errorum in medio surgeret, et dignam pro meritis in auctores scelerum exerceret ultionem... Quia igitur ex apostolice provisionis instantia, qua tenemini ad extirpandam hereticam pravitatem, potentiam nostram ad ejusdem heresis exterminium precibus et monitionibus excitatis; ecce ad vocem virtutis vestre, zelo fidei quo tenemur ad fovendam ecclesiasticam unitatem gratanter assurgimus, beneplacitis vestris devotis affectibus concurrentes; illam diligentiam et sollicitudinem impensuri ad evellendum et dissipandum de predictis civitatibus pestem heretice pravitatis, ut, auctore Deo, cui gratum inde obsequium prestare confidimus, ac vestris coadjuvantibus meritis, nullum in eis vestigium supersit erroris, ac finitimas et remotas quascumque fama partes attigerit, inflicta pena perterreat, et omnibus innotescat nos ardenti voto zelare pacem Ecclesie, et adversus hostes fidei ad gloriam et honorem matris Ecclesie ultore gladio potenter accingi. Dat. Tarenti XXVIII febr. indict. IV.

In un'altra lettera, esso Federico insiste con nuovo fervore per la repressione degli eretici. Ut regi regum, de cujus nutu feliciter imperamus, quanto per eum hominibus majora recipimus, tanto magnificentius et devotius obsequamur, et obedientis filii mater Ecclesia videat devotionem ex opere pro statu fidei christiane, cujus sumus, tamquam catholicus imperator, precipui defensores, novum opus assumpsimus ad extirpandam de regno nostro hereticam pravitatem, que latenter irrepsit tacite contra fidem. Cum enim ad nostram audientiam pervenisset, quod, sicut multorum tenet manifesta suspicio, partes aliquas regni nostri contagium heretice pestis invaserit, et in locis quibusdam occulte latitant erroris hujusmodi semina rediviva, quorum credidimus per penas debitas extirpasse radices, INCENDIO TRADITIS quos evidens criminis participium arguebat; providimus ut per singulas regiones justitiarias cum aliquo venerabili prelato de talium statu diligenter inquirant, et presertim in locis, in quibus suspicio sit hereticos latitare omni sollicitudine discutiant veritatem. Quidquid autem invenerint, fideliter redactum in scriptis, sub amborum testimonio, serenitati nostre significent, ut per eos instructi, ne processu temporis illic hereticorum germina pullulent, ubi fundare studemus fidei firmamentum, contra hereticos, et fautores eorum, si qui fuerint, animadversione debita insurgamus. Quia vero supradicta vellemus per Italiam et Imperium exequi, ut sub felicibus temporibus nostris exaltetur status fidei christiane, et ut principes alii super his Cesarem imitentur; rogamus beatitudinem vestram quatenus ad vos, quem spectat relevare christiane religionis incommodum, ad tam pium opus et officii vestri debitum exequendum diligentem operam assumatis, nostrum si placet efficaciter coadjuvandum propositum, ut de utriusque sententia gladii, quorum de celesti provisione vobis ac nobis est collata potentia, subsidium non dedignatur alternum, hereticorum insania feriatur, qui in contemtum divine potentie extra matrem Ecclesiam de perverso dogmate sibi gloriam arroganter assumunt. Messine XV jul. indict. VI.

101. Item statuimus et perpetuo sancimus, quod omnia eorum mobilia et immobilia publicentur; et domus quæ nunc destructæ sunt, et eorum domus in quibus steterint vel ante recepti fuerint, vel se congregaverint, destruantur et ulterius non liceat alicui eas reædificare.

102. Late patet Dei clementia, qui, pulso infidelitatis errore, veritatem fidei suis fidelibus patefecit: justus enim ex fide vivit, qui vero non credit, jam judicatus est. Nos igitur, qui gratiam fidei in vanum non recipimus, omnes non recte credentes, qui lumen fidei catholicæ hæretica pravitate in imperio nostro conantur extinguere, imperiali volumus severitate punivi, et a consortio fidelium per totum imperium separari; præsentium tibi auctoritate mandantes, quatenus hæreticos Valdenses et omnes qui in Taurinensi diœcesi zizaniam seminant falsitatis, et fidem catholicam alicujus erroris seu pravitatis doctrina impugnant, a toto Taurinensi episcopatu imperiali auctoritate expellas; licentiam enim, auctoritatem omnimodum, et plenam tibi conferimus potestatem, ut, per tuæ studium sollicitudinis, Taurinensis episcopatus area ventiletur, et omnis pravitas, quæ fidei catholicæ contradicit, penitus expurgetur. Ap. Gioffredo, Storia delle Alpi Marittime al 1229.

103. Labbe, T. XI, p. 334, 335.

104. La Maestruzza è una Somma, detta anche Pisanella perchè fatta da frà Bartolomeo da San Concordio, che serviva ad uso dei Domenicani, e tratta de' sacramenti e de' comandamenti. La volgarizzò D. Giovanni dalle Celle.

105. Cap. XXXI De Simonia; cap. XXIV De Accusationibus.

106. Cap. fin. De Hæreticis.

107. Multo gravius est corrumpere fidem, per quam est animæ vita, quam falsare pecuniam, per quam temporali vitæ subvenitur. Unde, si falsarii pecuniæ vel alii malefactores statim per sæculares principes justæ morti traduntur, multo magis hæretici statim ex quo de hæresi convincuntur, possunt non solum excommunicari, sed et juste occidi. S. Thomas, Summa theologica, 2ª, quaestio XI, art. 3.

108. Bolland., tom. X, Vita S. Petri Parens.

109. Regesta, num. 123, 124, e pag. 130, lib. X.

110. Giachi, App. alle ricerche storiche di Volterra.

111. Richardus, Chron. ad 1231. Raynaldi, ad ann. n. 13.

112. Capitula Annibaldi senatoris et Populi Romani edita contra Patarenos. Nel c. 123 si comanda che Hæretici, videlicet Cathari, Patareni, Pauperes de Lugduno, Passagni, Josephini, Arnaldistes, Speronistæ et alii cujuscumque hæresis nomine censeantur, singulis annis a senatore diffidentur.

Nella vita di Cola Rienzi: «Gridavano come se fao, ha, ha, ha, a lo Patarino». Dappoi il legato scomunica Cola, appellandolo patarino e fantastico.

Anche gli Spoletini in guerra coi Fulignati, gridavano: Moriantur Patareni, Gibellini. Muratori, Antiquitates Italicæ, T. III, p. 499, 507, 143, ecc.

113. Noverit Universitas vestra, quod nos excommunicamus et anathematizamus universos hæreticos Catharos, Patarenos, Pauperes de Lugduno, Passaginos, Josephinos, Arnaldistas, Speronistas, et alios quibuscumque nominibus censeantur, facies quidem habentes diversas, sed caudas ad invicem colligatas, qua de vanitate conveniunt in idipsum. Damnati vero per Ecclesiam, sæculari judicio relinquantur, animadversione debita puniendi, clericis prius a suis ordinibus degradatis. Si qui autem de prædictis, postquam fuerint deprehensi, redire voluerint ad agendam condignam pœnitentiam, in perpetuo carcere detrudantur. Credentes autem eorum erroribus, similiter hæreticos judicamus. Item receptatores, defensores, et fautores hæreticorum excommunicationis sententiæ decernimus subjacere. Similiter statuentes, ut si, postquam quilibet talium fuerit excommunicatione notatus, si satisfacere contempserit infra annum, ex tunc ipso jure sit factus infamis; nec ad publica officia, seu consilia, nec ad eligendos aliquos ad hujusmodi, nec ad testimonium admittatur. Sit etiam intestabilis, nec testamenti habeat factionem, nec ad hæreditatis successionem accedat. Nullus præterea ipsi super quocumque negotio, sed ipse aliis respondere cogatur. Quod si forte judex extiterit, ejus sententia nullam obtineat firmitatem: nec causæ aliquæ ad ejus audientiam perferantur. Si fuerit advocatus, ejus patrocinium nullatenus admittatur. Si tabellio, instrumenta confecta per ipsum nullius penitus sint momenti, sed cum auctore damnato damnentur, et in similibus idem præcipimus observari. Si vero clericus fuerit, ab omni officio, et beneficio deponatur. Si qui autem tales, postquam ab Ecclesia fuerint denotati, evitare contempserint, excommunicationis sententia percellantur, alias animadversione debita puniendi. Qui autem inventi fuerint sola suspicione notabiles, nisi juxta considerationem suspicionis, qualitatemque personæ, propriam innocentiam congrua purgatione monstraverint, anathematis gladio feriantur, et usque ad satisfactionem condignam ab omnibus evitentur; ita quod, si per annum in excommunicatione perstiterint, tunc velut hæretici condemnentur. Item proclamationes, aut appellationes hujusmodi personarum minime audiantur. Item judices, advocati et notarii, nulli eorum officium suum impendant, alioquin eodem officio perpetuo sint privati. Item Clerici non exibeant hujusmodi pestilentibus ecclesiastica sacramenta: nec eleemosynas, aut oblationes eorum recipiant: similiter Hospitalarii, aut Templarii, aut quilibet regulares; alioquin suo priventur officio, ad quod nunquam restituantur absque indulto Sedis Apostolicæ speciali. Item quicumque tales præsumpserint ecclesiasticæ tradere sepulturæ, usque ad satisfactionem idoneam excommunicationis sententiæ se noverint subjacere, nec absolutionis beneficium mereantur, nisi propriis manibus publice extumulent, et projiciant hujusmodi corpora damnatorum, et locus ille perpetuo careat sepultura. Item firmiter inhibemus, ne cuiquam laicæ personæ liceat publice vel privatim de fide catholica disputare: qui vero contra fecerit, excommunicationis laqueo innodetur. Item si quis hæreticos sciverit, vel aliquos occulta conventicula celebrantes, seu a communi conversatione fidelium vita et moribus dissidentes, eos studeat indicare confessori suo, vel alii, quem credat ad prælati sui et inquisitorum hæreticæ pravitatis notitiam pervenire: alioquin excommunicationis sententia percellatur. Hæretici autem, et receptatores, defensores et fautores eorum, ipsorumque filii usque ad secundam generationem, ad nullum ecclesiasticum beneficium, seu officium admittantur; quod si secus actum fuerit, decernimus irritum et inane. Nos enim prædictos ex nunc privamus beneficiis acquisitis, volentes ut tales et habitis perpetuo careant, et ad alia similia nequaquam in posterum admittantur. Illorum autem filiorum emancipationem hujusmodi, ad invium superstitionis hæreticæ, a via declinasse constiterit veritatis.

Datum Viterbii, pontificatus nostri anno IX.

114. Raynaldi, ad 1231. — Corio, Storia di Milano, part. II, f. 72.

115. Per ussit: è in piazza de' Mercanti. Ma Galvano Flamma, frate e cronista di retto senso, dice: In marmore super equum residens sculptus fuit, quod magnum vituperium fuit. Il Frisi, nelle Memorie di Monza, vol. II, 101, reca gli statuti dell'arcivescovo Leon da Perego e dell'arciprete di Monza contro gli eretici.

116. Documenti diplomatici degli Archivj milanesi.

117. Quia in civitate Brixiæ, quasi quodam hæreticorum domicilio, ipsi hæretici et eorum fautores nuper in tantam vesaniam proruperunt, ut armatis turribus contra catholicos, non solum ecclesias quasdam destruxerint incendiis et ruinis, verum etiam, jactatis facibus ardentibus ex eisdem, ore blasphemo latrare præsumserint quod excommunicabant romanam ecclesiam et sequentes doctrinam ejusdem; volumus et mandamus ut turris dominorum de Gambara, et turris Ugonum, turris quoque Orianorum, et turris filiorum quondam Botatii, de quibus specialius et vehementius ad insanias hujusmodi est processum, diruantur omnino, et usque ad terræ pulverem detrahantur; non reædificandæ de cætero absque Sedis Apostolicæ licentia speciali, sed in acervos lapidum ad memoriam et testimonium pœnæ tantæ vesaniæ tantique criminis permansuræ: atque in eadem damnatione sint turres quæ sunt ob causam hujusmodi jam destructæ. Aliæ vero turres, quarum domini, etsi ad tanti furoris rabiem non processerint, eas tamen contra catholicos munierunt, usque ad tertiam partem, vel usque ad mediam, pensatis excessuum quantitatibus, diruantur, nec eleventur de cætero, nisi, etc. Nullus autem eorum qui nominatim excommunicati sunt hac de causa, sive sint hæretici, sive ipsorum fautores, absolutionis beneficium assequatur, nisi personaliter ad apostolorum sedem accesserit, excepto mortis articulo, etc. Honor., lib. IX, ep. 146.

118. Ricardi S. Germani Chron. ad ann. 1232.

119. Ap. Mattia Paris ad 1243.

120. Venientes Pratum, pro facto D. Imperatoris, bona Paterinorum et Paterinarum ibi morantium fecimus publicari, et domos eorum fecimus subverti et destrui, ponentes firmum bandum et mandatum ex parte D. Imperatoris, quicumque pratensium vel de districtu aliquid Paterinorum vel Pater Plinarum in domo sua receperit, consilium vel auxilium in verbo vel in facto eis dederit, et si potuerit eum capere et non ceperit, et si nuntio D. Imperatoris in hac parte aliquo modo contradixerit, vel et pro posse non obediverit, condemnamus eum in centum libras pisanorum, etc.

121. P. Domenico Maria Sandrini, Vita di frà R. Calcagni, ms.

122. Convien dire che le carte del Sant'Uffizio siano andate nel vescovado o a Roma, perocchè l'archivio di Stato contiene soltanto poche tra quelle che furono di Santa Maria Novella e di Santa Croce. Di Santa Maria Novella, del 1245 ve n'ha diciannove, dove varj Consolati confessano avere a bella posta disturbato le prediche de' frati: esistono pure le sentenze contro Pace e Barone, pronunziate in piazza di Santa Maria Novella, e fra i testimonj incontrasi Pietro da Verona.

123. A Forlì si venera il beato Marcolino, che pretendesi sia stato l'uccisore di Pietro da Verona, e che dappoi si convertì. Pochi anni dopo, frà Tommaso domenicano, facendone il panegirico, disse che san Francesco avea ricevuto le stimmate da Dio morto; ma san Pietro da Dio vivo. Tal proposizione mise in subbuglio i Francescani contro i Domenicani, e fu riprovata da papa Nicolò IV.

124. Chronicon Parmense, nei Rerum It. Scriptores IX.

125. Esistono nella Biblioteca Ambrosiana, e il Puricelli ne formò una dissertazione, che mai non fu pubblicata.

126. Vedi P. Giovanni Maria Canepano domenicano, Scudo inespugnabile de' cavalieri di Santa Fede.

127. Una delle legende più divulgate è quella di Barlam e Giosafat, della quale si ha pure una traduzione o imitazione del buon secolo della lingua. Felice Liebrecht provò ch'essa è una contraffazione cristiana della vita di Budda Sakia Muni, qual è offerta nel racconto del Lalita vastara in indiano. Nè già trattasi solo del concetto, delle linee fondamentali, ma di passi interi. Anche là Sakia Muni è un figlio di re, che tocco dalle miserie umane, si ritira nel deserto, malgrado la famiglia sua, a vita religiosa, convertito da un solitario. Un qualche monaco siro tradusse questa legenda, inserendovi le lodi del cristianesimo, e valendosi dell'ascetismo monastico, ch'è comune alle due religioni. Più tardi vi si aggiunsero satire contro la corrutela del tempo e la depravazione del clero.

128. La sua vita sta negli Acta Sanctorum al 29 maggio.

129. Pietro Lombardo, Maestro delle sentenze, avea detto (Lib. i, dist. 5) coi trattatisti, che nè il Padre generò la divina essenza, nè la divina essenza generò il Figlio, nè la divina essenza generò l'essenza: «col qual nome di essenza intendiamo la divina natura, che è comune alle tre persone, e tutta in ciascuna».

Parve a Gioachimo, che Pietro portasse la Trinità a quaternità, asserendo le tre persone, e inoltre l'essenza comune, distinta da esse. Molto se ne disputò, finchè Innocenzo III condannò il costui libro. Vedi Mattia Paris al 1179, e ci serva di prova de' cavilli allora usitati.

Le profezie di esso furono difese da Gregorio di Lauro, abate cistercense, nell'opera B. Joannis Joachim abatis apologetica, sive mirabilium veritas defensa. Napoli 1560. L'esame delle dottrine di esso vedasi in Natale Alessandro, Historia ecclesiastica, Tom. VI, pag. 287.

130. Costituzione Exiit quid seminat, nel VI delle Decretali, tit. de verbor. significatione.

131. A torto dunque Alessandro Natale comincia l'articolo sui Fraticelli con queste parole: Fraticellorum sectæ initium dedere Petrus de Macerata et Petrus de Forosempronio, Ordinis Minorum apostatæ, etc. Vol. VI, pag. 83.

132. Borghini, Trattato della Chiesa e vescovi fiorentini.

133. Fra la Scelta di curiosità letterarie, che stampasi a Bologna, nel 1865 si pubblicò una lettera dei Fraticelli a tutti i Cristiani, nella quale rendono ragione del loro scisma. A rinforzo di testi della Scrittura e del Decreto mostrano essersi «separati dal papa e da li altri prelati», credendoli rei per eresia, per simonia, per pubblica fornicazione. Papa Giovanni XXII esser morto pertinace eretico provano dalle dottrine sue, e principalmente dall'aver condannata la proposizione che «il nostro Signor Jhesu Christo et li apostoli suoi non avessero proprio nè in speciale nè in comune». La sua simonia deducono dall'essere nel Decreto severamente vietato di ricevere denari pel battesimo, per la cresima, per la comunione, per la sepoltura, ecc., «dovendo li doni di Cristo essere dispensati e donati di grazia. Li fornicatori pure sono scomunicati». E però essi prelati e papi sono scomunicati, mentre per scomunicati dichiarano i Fraticelli, che niun'altra colpa hanno se non di non stare alla loro obbedienza. E «posto che li Catholici non possano avere la sacra comunione di Christo visibilmente e corporalmente per li heretici che soprastanno, nondimeno, mentre che colla mente sono congiunti ad Christo, anno la sacra comunione di Christo invisibilmente».

134. Bolla Quorum exigit nelle Estravaganti, tit. De verborum significatione.

135. Vedasi Wadingo, Ann. Minor. T. V ad 1298. nº XXIV: e 1306, nº VIII.

136. Bonifazio VIII passa per gran nemico di frà Jacopone, eppure a lui s'attribuisce un canto, che non può se non tenersi come traduzione dello Stabat Mater:

Stava la Vergin sotto della croce

Vedea patir Jesù, la vera luce.

Madre del re di tutto l'universo.

Vedeva il capo che stava inchinato

E tutto il corpo ch'era tormentato,

Per riscattar questo mondo perverso, ecc.

Altri versi di frà Jacopone arieggiano al Dies iræ:

Chi è questo gran sire

Rege di grande altura?

Sotterra i' vorria gire,

Tal mi mette paura.

Ove potria fuggire

Dalla sua faccia dura?

Terra, fa copritura

Ch'io nol veggia adirato.

E altrove:

Non trovo loco dove mi nasconda

Monte nè piano, nè grotta o foresta

Chè la veduta di Dio mi circonda.

137. Sta in Eccard, Corp. hist. Tom. II, pag. 849.

138. Chronica Fr. Salimbene; Parma 1857, pag. 233 e seg. Esso frà Salimbeni, che nella cronaca distesamente parla de' Fraticelli, all'anno 1280 racconta che, avendo i Domenicani fatto bruciar donna Alina per eretica, il popolo di Parma si levò a rumore, e li cacciò, nè, malgrado le scomuniche lanciate dal cardinale Latini, poterono tornarvi fino al 1287.

139. Fr. Christ. Schlosser, Abelardo e Dolcino; vita ed opinioni d'un entusiasta e d'un filosofo. Gota 1807. — G. Baggiolini, Dolcino e i Patareni. Novara 1838. — Julius Krone, Frà Dolcino und die Patarener, historische Episode auf den piemontesischen Religionskriegen. Leipzig 1844.

Questa ostentata povertà stava forse in mente all'autore dell'Imitazione di Cristo, allorchè scriveva (Lib. II, c. 11): «Dove si troverà chi a Dio voglia servire gratuitamente? Di rado si trova alcuno, tanto spirituale, che d'ogni cosa sia denudato. Un vero povero di spirito e spoglio d'ogni cosa creata, chi lo troverà? se l'uomo abbia dato ogni sostanza sua, non è ancor nulla. Se abbia fatto gran penitenza è ancor poco. Se abbia imparato ogni scienza, n'è ancor ben lontano. Se abbia gran virtù e fervorosa devozione, molto ancora gli manca; quello cioè che sommamente gli è necessario. E che cos'è? Che, lasciato tutto, lasci se stesso ed esca affatto da sè, e nulla ritenga d'affezione privata. Fatto che abbia tutto, senta d'aver fatto nulla, e si riconosca servo inutile. Allora veramente povero e nudo di spirito potrai essere, e dir col profeta: Umile e povero son io».

140. La sentenza trovasi in Pucci, Storia del vescovado di Siena, pag. 253.

141. Edita nella Scelta di curiosità letterarie.

142. Hist. di tutte l'heresie. Vol. IV, pag. 198. Quest'autore, declamatorio quanto il Gioberti, par sempre armato dello staffile di pedante per flagellar l'avversario, empio, frodolento, degno d'inferno, bestemmiatore, scismatico, ecc.

143. Ep. Nicolai V, Lib. XXII, pag. 53.

144. Ep. Calixti, Lib. XIV, pag. 255.

145. Nella bella Storia di Bonifazio VIII e de' suoi tempi del padre Luigi Tosti (1847), leggesi che «quest'uomo, vituperato da molti, non può non ammirarsi da tutti, come ultimo sostegno di quel magnifico pontificato civile, in cui questo, sponendo a luce nel seno dell'Italia una civiltà forbita e gentile, sconosciuto, calunniato da' suoi figli, stanco e doloroso si ritraeva a posare ne' penetrali santi ed inviolabili della religione che informava». Libro V, in principio.

146. Giuseppe Ferrari, nelle Lezioni sugli scrittori politici, riflette che, cinque secoli più «tardi, un'altra dottrina s'impossessava della Francia, e a nome della ragione reclamava pure il diritto di procedere col terrore, di bandir la crociata, e di spodestare tutti i re della terra».

147. Ap. Raynaldi al 1293, n. 55.

148. Vedansene le prove in Philipps, Diritto ecclesiastico, vol. III, lib. I, § 138.

149. Il Sismondi, caloroso protestante e accannito contro Bonifazio, scrive che i Francesi «avidi di servitù, chiamarono libertà il diritto di sacrificare persino le coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che contro la tirannide offriva loro un capo straniero e indipendente.... I popoli dovrebbero desiderare che i sovrani dispotici riconoscessero al di sopra di loro un potere venuto dal Cielo, che li fermasse sulla strada del delitto.» Storia delle Repubbliche italiane, c. 24.

150. De Rubeis, Storia di Ravenna, lib. VI.

151. De' processi in Toscana discorse ripetutamente all'Accademia Lucchese monsignor Telesforo Bini, com'è a vedersi negli Atti del 1838 e 1845. I molti documenti, da cui raccolgonsi nomi di centosette Templari, spargono gran luce s'un punto storico, molto dibattuto dopo la tragedia del Raynouard.

152. Oltre il Tosti suddetto 1847, vedansi varj scritti pubblicati pel VI centenario di Dante.

153. Paradiso XI.

154. Inferno II.

155. Purgatorio XX.

156. «E certo sono di ferma opinione che le pietre che nelle mura sue (di Roma) stanno, sieno degne di reverenza, ed il suolo dove ella siede, sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e provato». Convivio.

157. Il chiarissimo filologo Bartolomeo Sorio lesse quest'anno all'Istituto Veneto una memoria sopra il Filicopo di Giovanni Boccaccio, ove pretende mostrare che scopo di questo romanzo storico era di esortare i principi Angioini al dovere che come feudatarj aveano di accorrer a difesa del papa, ch'era stato costretto uscir di Roma ed esulare ad Avignone; sicchè, com'ebbe dire nel Decamerone, Roma, già capo del mondo, allora era coda.

Con quello stravagante e fin empio infrascamento di sacro e profano, ivi racconta l'incarnazione del figlio di Giove, e come subì l'iniqua percossa di Atropos, poi ritornato al padre, dopo spogliata di molti prigioni l'antica città di Dite, mandò a' principi de' suoi cavalieri il promesso dono del santo ardore. Segue la predicazione del vangelo nella Spagna per opera del possente Dio occidentale, ch'è san Giacomo. «E in te, o alma città, o reverendissima Roma, la quale egualmente a tutto il mondo ponesti il tuo signoril giogo sopra gl'indomiti colli, tu sola permanendo vera donna, molto più che in altra parte risuona, siccome degno luogo della cattedral sede dei successori di Cefas. E tu di ciò dentro a te non poco ti rallegra, ricordando te essere quasi la prima predatrice delle sante armi; perciocchè conosci te in esse dover tanto divenir valorosa, quanto per addietro in quelle di Marte pervenisti, e molto più. Onde contentati, o Roma, che, siccome per l'antiche vittorie più volte la tua lucente fronte ornata fu delle belle frondi di Penea, così di quest'ultima battaglia (religiosa) con le nuove armi trionfando, tu vittoriosamente meriterai d'esser ornata d'eternal corona. E dopo i lunghi affanni la tua immagine fra le stelle sarà allogata, tra le quali co' tuoi antichi figliuoli e padri, beata ti troverai». Lib. I, num. 25 e seg.

158. Lo studio della natura dell'impero e delle sue relazioni colla Chiesa è di suprema importanza per intendere la storia del medioevo. Perciò noi v'insistiamo. Su ciò versa un'opera recente dell'inglese James Bryce, The holy Roman Empire. Oxford 1864.

159. Lege I de requir. reis.

160. Mystéres d'iniquité, pag. 419.

161. Foscolo, Discorso sulla D. C. Londra 1823.

162. Sullo spirito antipapale che produsse la riforma. Londra 1832, 3 vol. Già l'Aconzio (Stratagematum Satanæ, Lib. VIII) avea supposto negli autori un linguaggio a due sensi. Il famoso scettico Bayle conchiudeva: «Badate che Dante offre pruove e a quei che lo dicono buon cattolico, e a quei che il negano».

163. Dante hérétique, revolutionnaire et socialiste, revélations d'un catholique sur le moyen age. Paris 1834.

La Comédie de Dante traduite en vers selon la lettre, et commenté selon l'esprit, suivie de la clef ou langage symbolique des fidèles d'Amour. Tomi 2. Paris 1856.

Le Paradis de Dante illuminé a giorno; dénouement tout maçonnique de sa Comédie albigeoise. 1855.

Preuve de l'hérésie de Dante, notamment au sujet d'une fusion opérée vers 1312 entre la Massènie albigeoise, le Temple et les Gibelins pour constituer la Franc Maçonnerie, ib.

Clef de la Comédie anticatholique de Dante.

L'Hérésie de Dante démontrée par Francesca da Rimini.

Les mystéres de la chevalerie et de l'amour platonique au moyen age. 1858.

In senso opposto vedasi Dante revolutionnaire et socialiste, non hérétique, par Ferjus Boissard, 1850.

164. Inferno III.

165. Inferno XXII.

166. Come terrà questa regola quando Dante chiama i prelati in veste di pastor lupi rapaci? e quando intima che di voi, pastor, s'accorse il vangelista? e quando si lamenta sia usurpata per colpa del pastor la giustizia di Firenze?

167. Per esser conseguente, Lenoix (Origine de la Francmaçonnerie, p. 235) sostiene che san Bernardo era francomuratore.

168.

Veggio il nuovo Pilato sì crudele

Che... senza decreto

Porta nel Tempio le cupide vele.

169.

State contenti, umana gente, al quia;

Che se potuto aveste veder tutto,

Mestier non era partorir Maria.

170. Beatrice dice a san Pietro.

O luce eterna del gran viro

A cui nostro Signor lasciò le chiavi

Ch'ei portò giù di questo gaudio miro,

Tenta costui de' punti lievi e gravi

Come ti piace, intorno della fede

Per la qual tu su per lo mare andavi. Paradiso 24.

171.

Avete il vecchio e il nuovo Testamento,

E il pastor della Chiesa che vi guida

Questo vi basti a vostro salvamento. Paradiso V.

172. Convivio, Tratt. IV, c. 5. «Oh istoltissime e vilissime bestiole, che a guisa d'uomo vi pascete, che presumete contro a nostra fede parlare, e volete sapere, filando e zappando, ciò che Dio con tanta prudenza ha ordinato. Maledetti siate voi e la vostra presunzione, e chi vi crede».

173. Inferno, c. VIII.

174. Sonetti della Vita Nuova.

175. Hist. des sciences matem. en Italie, tom. II, pag. 195 e 200.

176. Vedi Palermo nel Catalogo dei manoscritti della Palatina di Firenze.

177. Capo 91. Vedi qui sopra, a pag. 109.

178. Lib. X, c. 41.

179. Defensor pacis, p. II, c. 20.

180. Sul tempo di Lodovico il Bavaro fu pubblicata ultimamente un'opera tedesca di Guglielmo Schreiber, Die politischen und religiosen Doctrinen unter Ludwig dem Bayern: Landshut 1838, dove si espongono le quistioni d'allora intorno ai limiti dell'autorità papale e imperiale, mettendo principalmente in vista Dante, Marsilio da Padova, Occam e Leopoldo di Siebenburg. Il primo rivela la morale nella Divina Comedia, la politica nella Monarchia, sostenendo la monarchia universale, giusta la Bibbia e la storia. Marsilio, aristotelico, sostiene la suprema autorità del Concilio, convocato dall'imperatore, come mezzo di riconciliar il pastorale colla spada. Il vescovo di Bamberg nega al papa il diritto di trasferir ad altri l'impero. Occam, nel Compendium errorum, fu il più vivo oppugnatore della Santa Sede a favore del principato. Tutto è ben esaminato dal punto di vista del medioevo.

181. Augustini de Ancona, Summa de ecclesiastica potestate fu edita ai primordj della stampa in Roma da Fr. de' Cinquinis, 1479, in 4º gotico.

182. Nello Statuto di Ferrara del 1270, la rubrica XII è quod nullus se scovet, e in margine v'è il flagello a nodi, di cui si servivano costoro. E lo Statuto dice: Quia per inimicos Sancte Matris Ecclesie cum magna cautela tractatum fuit, et inventum fuit batimentum, annis preteritis, in offensionem et periculum amicorum partis ecclesie, et in aliquibus partibus oportunum fuit quod amici ecclesie sibi in tali periculo providerent: quia enim dicitur quod tractatur simili modo batimentum de novo: idcirco vir nobilis dominus Obizo Estensis marchio... statuunt et bannum imponunt, secundum quod inferius declaratur. E qui impongono pene corporali a chi introducesse la flagellazione, o si flagellasse, o non denunziasse chi si flagella.

183. La Dissertazione XVIII del Lami tratta Della setta de' Flagellanti in Toscana.

184. Gregorio XI nel 1372 ordina inquisitoribus ut faciant comburi quosdam libros sermonum hæreticorum, pro majori parte in vulgari scriptos.

185. Raynaldi, al 1376, n. 26.

186. L'opera De modis uniendi et reformandi ecclesiam in concilio universali, si attribuisce a Gerson, ma forse a torto, giacchè, a tacere le ragioni estrinseche, parla con tale violenza contro di Giovanni XXIII, e con tale disamore e tanti errori sulla costituzione ecclesiastica, da parer piuttosto lavoro d'un wiclefita.

187. Riflettono che, quantunque Giovanni XXIII fosse papa dubbio, pure il concilio di Costanza temette trascendere la sua autorità col deporlo; sicchè negli atti è espresso che il re de' Romani, i cardinali, i deputati proposero che «il papa assentisse alla propria deposizione, promettesse ratificarla, e, in quanto era bisogno, egli medesimo rinunziasse». Furono in fatto spediti cardinali che persuadessero Giovanni XXIII, il quale confermò egli stesso la sentenza di deposizione.

188. Così è generalmente asserito; pure si ha una lettera di Huss, che dice: Exeo (da Praga) sine salvoconductu; e in un'altra: Venimus (a Costanza) sine salvoconductu. Ap. Rohrbacher, Hist. eccles., tom. XXI, p. 191.

189. Il fondatore degli Ussiti sosteneva, dacchè un principe cadeva in grave colpa, si era disobbligati dall'obbedirgli. I suoi seguaci spinsero tanto avanti l'intolleranza, da volere puniti di morte gli eccessi nel bere e nel mangiare, l'usura, l'incontinenza, lo spergiuro, il ricever mercede per messe o assoluzioni, e ogni altro peccato mortale; e ciò metteano per condizione al loro ritorno alla Chiesa Cattolica, la quale ricusò tale fierezza. I Fratelli Boemi, come condizione per riunirsi ai cattolici metteano l'abbattere tutti gli istituti di letteratura o di scienze; professare che i maestri d'arti belle sono pagani e pubblicani.

190. Il concilio di Basilea trovasi difeso da Nicolò Tedeschi arcivescovo di Palermo, contro del quale il cardinale Torrecremata pubblicò la grande ed ingegnosa Summa de ecclesia.

191. «Venne il pontefice con tutta la Corte di Roma, e collo 'mperadore de' Greci, e tutti i vescovi e prelati latini, in Santa Maria del Fiore, dove era fatto un degno apparato, ed ordinato il modo ch'avevano a istare a sedere i prelati dell'una Chiesa e dell'altra. Istava il papa dal luogo dove si diceva il vangelo, e cardinali e prelati della Chiesa romana; dall'altro lato istava lo 'mperadore di Costantinopoli con tutti i vescovi e arcivescovi greci: il papa era parato in pontificale, e tutti i cardinali co' piviali, e i vescovi cardinali colle mitere di damaschino bianco, e tutti i vescovi così greci come latini coi piviali, i greci con abiti di seta al modo greco molto ricchi; e la maniera degli abiti greci pareva assai più grave e più degna che quella de' prelati latini..... Il luogo dello 'mperadore era in questa solennità dove si canta la Epistola all'altare maggiore; ed in quello medesimo luogo, come è detto, erano tutti i prelati greci. Era concorso tutto il mondo in Firenze per vedere quell'atto sì degno. Era una sedia dirimpetto a quella del papa dall'altro lato, ornata di drappo di seta, e lo 'mperadore con una veste alla greca di broccato damaschino molto ricca, con uno cappelletto alla greca, che v'era in sulla punta una bellissima gioja: era uno bellissimo uomo, colla barba al modo greco. E d'intorno alla sedia sua erano molti gentili uomini che aveva in sua compagnia, vestiti pure alla greca molto riccamente, sendo gli abiti loro pieni di gravità, così quegli de' prelati, come de' secolari. Mirabile cosa era a vedere ben molte degne cerimonie, e i vangeli che si dicevano in tutte dua le lingue, greca e latina, come s'usa la notte di Pasqua di Natale in Corte di Roma. Non passerò che io non dica qui una singulare loda de' Greci. I Greci, in anni millecinquecento o più, non hanno mai mutato abito: quello medesimo abito avevano in quello tempo, ch'eglino avevano avuto nel tempo detto; come si vede ancora in Grecia nel luogo che si chiama i Campi Filippi, dove sono molte storie di marmo, dentrovi uomini vestiti alla greca nel modo che erano allora». Vespasiano fiorentino, Vita di Eugenio IV.

Dopo i molti cattolici che scrissero del concilio di Firenze, comparve nel 1861 una memoria di Basilio Popoff, studente di teologia a Mosca, che descrive quell'ultimo tentativo di unione fra le due Chiese dal punto d'aspetto greco e con gran lodi ai membri della greca.

192. La copia più intera di quell'atto sta nella Laurenziana a Firenze. Alle altre manca la firma del gran sincello. Una ne è nell'archivio di Stato d'essa città. Nell'archivio capitolare di Milano se ne conserva un esemplare autentico, scritto in latino e greco, e colle firme originali di papa Eugenio IV e di otto prelati latini, e dell'imperatore Paleologo in cinabro, e colla bolla imperiale. Nell'Archivio storico del 1857 fu pubblicato l'atto d'unione, che comincia così: Eugenius ecc. Consentiente carissimo filio nostro Johanne Paleologo Romeorum imperatore illustri et... orientalem ecclesiam representantibus. Letentur celi et exultet terra; sublatus est enim de medio paries qui occidentalem orientalemque dividebat Ecclesiam, et pax atque concordia rediit: illo angulari lapide Christo, qui fuit utraque unum, vinculo fortissimo caritatis et pacis utrumque jungente parietem, et perpetue unitatis fœdere copulante ac continente; postque longam meroris nebulam, et dissidii diuturni atram ingratamque caliginem, serenum omnibus unionis optate jubar illuxit. Gaudeat et mater Ecclesia, que filios suos, hactenus invicem dissidentes, jam videt in unitatem pacemque rediisse: et que antea in eorum separatione amarissime flebat, ex ipsorum modo mira concordia cum ineffabili gaudio, omnipotenti Deo gratias referat. Cuncti gratulentur fideles ubique per orbem, et qui christiano censentur nomine matri catholice Ecclesie colletentur. Ecce enim occidentales orientalesque Patres, post longissimum dissensionis atque discordie tempus, se maris ac terre periculis exponentes, omnibusque superatis laboribus, ad hoc sacrum ycumenicum concilium desiderio sacratissime unionis, et antique caritatis reintegrande gratia, leti alacresque convenerunt, et intentione sua nequaquam frustrati sunt. Post longam enim laboriosamque indaginem, tandem Spiritus Sancti clementia ipsam optatissimam sanctissimamque unionem consecuti sunt. Quis igitur dignas omnipotentis Dei beneficiis gratias referre sufficiat? quis tante divine miserationis divitias non obstupescat? cujus vel ferreum pectus tanta superne pietatis magnitudo non molliat? Sunt ista prorsus divina opera, non humane fragilitatis inventa; atque ideo eximia cum veneratione suscipienda, et divinis laudibus prosequenda. Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio, Christe, fons misericordiarum, qui tantum boni sponse tue catholice Ecclesie contulisti, atque in generatione nostra tue pietatis miracula demonstrasti, ut enarrent omnes mirabilia tua. Magnum siquidem divinumque munus nobis Deus largitus est: oculisque vidimus quod ante nos multi, cum valde cupierint, adspicere nequiverunt. Convenientes enim Latini ac Greci in hac sacrosancta synodo ycumenica, magno studio invicem usi sunt, ut, inter alia, etiam articulus ille de divina Spiritus Sancti processione summa cum diligentia et assidua inquisitione discuteretur.

Item diffinimus Sanctam Apostolicam sedem, et Romanum Pontificem in universum orbem tenere primatum, et ipsum Pontificem Romanum successorem esse beati Petri principis Apostolorum, et rerum Christi vicarium, totiusque Ecclesie caput, et omnium Christianorum patrem et doctorem existere; et ipsi in beato Petro pascendi, regendi, ac gubernandi universalem Ecclesiam a Domino nostro Jesu Christo plenam potestatem traditam esse; quemadmodum etiam in gestis ycumenicorum conciliorum, et in sacris canonibus continetur, Renovantes insuper ordinem traditum in canonibus ceterorum venerabilium Patriarcharum, ut Patriarcha Constantinopolitanus secundus sit post sanctissimum Romanum Pontificem, tertius vero Alexandrinus, quartus autem Antiochenus, et quintus Hierosolymitanus, salvis videlicet privilegiis omnibus et juribus eorum.

193. Ozanam, Filosofia di Dante. Al qual proposito giovi soggiungere che Benvenuto da Imola, commentando Dante ove dice esser più di mille gli eretici, riflette che chussi poteano dire plus de centomillia migliara: e che i siffatti son generalmente huomini magnifici.

194. Almeno lo asserisce sant'Agostino De Civitate Dei, VIII, 8.

195. Vedi Renan, Averoè et l'averoisme, 2 édit., p. 112.

196. Vedi qui sopra, a pag. 97, e alla nota 23 del Discorso IV.

197. De materia cœli contra Averroem. Padova 1493. De intellectu possibili, quæstio aurea contra Averroym. Venezia 1500.

198. Il testo dice mot callemin.

199. Hermannus Alemannus translator Manfredi, nuper a D. rege Carolo devicti, dice Rogero Bacone.

200. Defensores hujus hæresis dicunt quod aliquod secundum philosophiam est, licet fides aliud ponat secundum theologiam. Ed egli stesso confutandolo professa che in hac disputatione nihil secundum legem nostram dicemus, sed omnia secundum philosophiam... tantum ea accipientes quæ per syllogismum accipiunt demonstrationem. Opp. Tom. V, pag. 218, 226, 380.

201. Unum te obsecro ut ab omni consilio mearum rerum tui isti Arabes arceantur atque exulent: odi genus universum... Vix mihi persuadebitur ab Arabia posse aliquid boni esse. Contra medicum quemdam.

202. Ad hæc ille nauseabundus risit, et «Tu (inquit) esto christianus bonus: ego horum omnium nihil credo. Et Paulus et Augustinus tuus, hique omnes alii quos prædicas, loquacissimi homines fuere. Utinam tu Averroim pati posses, ut videres quanto ille tuis istis nugatoribus major sit». Exarsi, fateor, et vix manum ab illo impuro et blasphemo continui. Senil. L. V, ep. 3.

203. In un manoscritto della biblioteca di San Giovanni e Paolo a Venezia si trova fossero Leonardo Dandolo milite, Tommaso Talento mercante, Zaccaria Contarino nobile, veneziani, e il medico Guido di Bagnolo da Reggio. La lor conversazione è il soggetto del trattato De sui ipsius et multorum ignorantia.

204. Canem illum rabidum Averroem, qui furore actus infando, contra Dominum suum Christum, contraque catholicam fidem latrat. Ep. sine titulo 656.

205. Nel Conciliator differentiarum f. 15 dell'edizione di Venezia, scrive: Ex conjunctione Saturni et Jovis in principio arietis, quod quidem circa finem 960 contigit annorum, totus mundus inferior commutatur, ita quod non solum regna, sed et leges et prophetæ consurgunt in mundo... sicut apparuit in adventu Nabuchodonosor, Moysis, Alexandri Magni, Nazarei, Machometi. Lex nelle traduzioni d'Averroè equivale sempre all'arabo Scharié, che esprime e legge e religione.

206. Riccoboni, De Gymn. Patav., p. 134.

207. Molta parte fu stampata nel 1858 da M. Alexandre a Parigi.

208. Dedica del Giamblico, e proemio al Proclo.

209. Ista sunt quæ me premunt, quæ me angustiant, quæ me insomnem et insanum reddunt... Perpetuis curis et cogitationibus rodi, non sitire, non famescere, non dormire, non comedere, non expuere, ab omnibus irrideri. De fato, Lib. III. c. 8.

210. De fato III, 7.

211. Quanto all'opinione dell'unità delle anime, quamvis tempestate nostra sit multum celebrata et fere ab omnibus pro constanti habeatur eam esse Aristotelis, asserisce non trovarsi che in Averroè, il quale fu talmente sconfitto in tal proposito da san Tommaso, che non lasciò più alcun appiglio se non di vomitar ingiurie contro di esso. De immortalitate animæ, p. 8 e 9.

212. Respiciens legislator pronitatem viarum ad malum, intendens communi bono, sanxit animam esse immortalem, non curans de veritate sed tantum de probitate, ut inducat homines ad virtutem; neque accusandus est politicus. De immortalitate animæ.

Matter (Hist. des découvertes morales et politiques des trois derniers siècles) alzò a cielo il Pomponazio come avesse stabilito la legge della perfettibilità umana, il progresso delle istituzioni e delle scienze, e la dottrina d'indipendenza dei tempi moderni. Sono sofismi degni di chi chiama barbara l'Italia al tempo di Leon X.

Le opere del Pomponazio furono raccolte e ristampate a Basilea nel 1567 con una prefazione di Guglielmo Gratarola, medico che troveremo fra i riformati, e che pure stampò le opere proprie con testimonianze del Beza e d'altri personaggi che lo lodano di gran pietà. Egli difende il Pomponazio e asserisce che morì piamente secondo i tempi, cioè da cattolico: se negò l'immortalità dell'anima secondo Aristotele, ciò non può essergli imputato se non si pruovi che voleva con ciò insinuare l'ateismo.

213. His ita se habentibus, mihi (salva saniori sententia) in hac materia dicendum videtur quod quæstio de immortalitate animæ est neutrum problema, sicut etiam de mundi æternitate: mihi autem videtur quod nullæ rationes naturales adduci possunt cogentes animam esse immortalem, minusque probantes animam esse mortalem, sicut quam plures doctores declarant: quapropter dicemus sicut Plato, de legibus, certificare de aliquo cum multi ambigunt, solius est Dei; cum itaque tam illustres viri inter se ambigant, nisi per Deum hoc certificari posse existimo. De immortalitate animæ, pag. 124. Animam esse immortalem articulum est fidei, ut patet per symbolum apostolorum et Athanasii. Si quæ rationes probare videntur mortalitatem animæ, sunt falsæ et apparentes, cum prima lux et veritas ostendant oppositum; si quæ videntur probare ejus immortalitatem, veræ quidem sunt et lucidæ, sed non lux et veritas; quare hæc sola via inconcussa et stabilis est, cæteræ vero sunt fluctuantes. Ib. p. 128.

214. Hujusmodi legislatores, qui Dei filii merito nuncupari possunt, procurantur ab ipsis corporibus cœlestibus. De incant., Lib. XII.

215. Che v'abbia cose vere secondo la teologia, false secondo la filosofia, è proposizione condannata dalla Chiesa. Cumque verum vero minime contradicat, omnem assertionem veritati illuminatæ fidei contrariam, omnino falsam esse definimus. Leon X, bolla Apostolici regiminis, edita nel concilio Lateranense V, 19 dicembre 1512. A ciò conformossi Pio IX nella enciclica ai vescovi, 9 novembre 1846: Etsi fides sit super rationem, nulla tamen vera dissensio, nullumque dissidium inter ipsas inveniri unquam potest, cum ambæ ab uno eodemque immutabilis æternæque veritatis fonte Deo O. M. oriantur.

216. L'epitafio che l'Achillini si fece porre in San Martino di Bologna è un altro testimonio della pendenza alle idee pagane.

Hospes Achillinum tumulo qui quæris in isto

Falleris: ille suo junctus Aristoteli,

Elisium colit, et quas rerum hic discere causas

Vix potuit, plenis nunc videt ille oculis.

Tu modo, per campos dum nobilis umbra beatos

Errat, die longum perpetuumque vale.

217. De Thou, Mém., p. 235.

218. Racconta il fatto il Sanudo, Rerum Ital. Scr. XXII, p. 1206, e dice il Marzio fosse di Montagnana.

219. Naudée in Judicio de A. Nipho.

220. Commentarj di Pio II.

221. Lo racconta lo Zilioli, manoscritto della Biblioteca Marciana.

222. Non est qui purum aurum non malit habere sub Teutonum nota, quam sub romano symbolo factitium. Lett. ad Ermolao Barbaro.

223. Il costui carteggio in proposito con Giovanni Lanfredini fu pubblicato dal Berti nella Rivista Contemporanea, con ricche notizie. Dianzi Sigwart volle mostrare la relazione tra le dottrine di Zuinglio e quelle di Pico della Mirandola. Ulrich Zwingli, die Karakter seiner Theologie mit besonderer Rücksicht auf Pic von Mirandula durgestellt. Stuttgard 1855.

224. Quid ad vos et Paulum si mihi fœniculi nomen indo, modo id sine dolo ac fraude fiat? Amore namque vetustatis, antiquorum præclara nomina repetebam, quasi quædam calcaria, quæ nostram juventutem æmulatione ad virtutem incitarent. Platina in Paulo II.

225. Vero è che andava anche spesso co' suoi scolari a una Beata Vergine sul Quirinale, e morì piissimamente. È poi singolare che, nelle recenti indagini del De Rossi per entro le catacombe di San Sebastiano a Roma, fra i nomi di quelli che le visitarono nel secolo XV trovasi notato Regnante Pom. pont. max.: e Pomponius pont. max. e Pantagathus sacerdos academiæ romanæ; titoli che farebbero credere una gerarchia stabilita, e risospettar di quello, di cui pareva essersi con sincerità discolpato il Leto.

226. Se il ricorrere a principe forestiero contro il proprio sia fellonia, lo dica il lettore. Platina stesso ci riferisce la lettera da lui scritta, ove conchiude: Rejecti a te, ac tam insigni contumelia affecti, dilabemur passim ad reges, ad principes, eosque adhortabimur ut tibi concilium indicant, in quo potissimam rationem reddere cogaris cur nos legitima possessione spoliaveris.

227. Si avverta che Sisto IV fece suo bibliotecario il Platina, e gli diede egli stesso la commissione di scriver le vite dei papi: mandasti ut res gestas pontificum scriberem, dice egli nella prefazione.

228. Qui alcuno aspetterà ch'io metta anche i lamenti attribuiti a Poliziano pel tempo buttato via nel dir l'uffizio, riportati dal Bayle e copiati da tanti. Ebbene, tutt'al contrario, nell'epistola 9 del libro II a Donato, egli si querela che le frequenti visite lo obblighino a interrompere sin l'uffizio. Adeo mihi nullus inter hæc scribendi restat aut commentandi locus, ut ipsum quoque horarium sacerdotis officium pene, quod vix expiabile credo, minutatim concidatur. Melancton e Vives dissero che il Poliziano avea letto una volta sola la sacra scrittura, e si lagnava del tempo perdutovi. Son forestieri e non allegano pruova del loro asserto. Noi al contrario sappiamo da lui stesso che, ne' quattordici anni che fu benefiziato nella metropolitana di Firenze, spiegava al popolo la Bibbia: cum per hos quadragesimæ proximos dies enarrandis populi sacris libris essem occupatus.

229. Ricordi politici, XXVIII e CCCXLVI.

230. Ricordi politici, CCLIII.

231. Ricordi politici, CXXIII.

232. Ricordi politici, CXXIV.

233. Ricordi politici, CCXI.

234. Anche quelle stranezze trovarono plagiarj ai dì nostri. Göthe diceva di collocarsi la testa del Giove Olimpico in faccia al letto, per potere, allo svegliarsi, indirizzargli la preghiera: e imprecava alla rivoluzione cristiana, che alla Venere Gnidia sostituì la Vergine pallida e ascetica; e la scarna effigie d'uno, penzolone da quattro chiodi, alla perfezione estetica del corpo umano, rappresentata dai simulacri della Grecia.

235. Lettera al Vettori.

236. «Credo sia vero che la grandezza della Chiesa sia stata causa che Italia non sia caduta in una monarchia; ma non so se il non venire in una monarchia sia stata felicità o infelicità di questa provincia. Sebbene Italia, divisa in molti dominj, abbia in varj tempi patite molte calamità, che forse in un dominio solo non avrebbe patito (benchè le inondazioni de' Barbari furono più a tempo dell'impero romano che altrimenti), nondimeno ha avuto a rincontro le tante floride città, che io reputo che una monarchia le sarebbe stata più infelice che felice. O sia per qualche fato d'Italia, o per la complessione degli uomini, temperati in modo che hanno ingegno e forza, non è mai questa provincia stato facile ridurla sotto un impero, eziandio quando non vi era la Chiesa, anzi sempre naturalmente ha appetito la libertà. Però, se la Chiesa romana si è opposta alla monarchia, io non concorro facilmente essere stata infelicità di questa provincia; poichè l'ha conservata in quel modo di vivere, ch'è più secondo l'antichissima consuetudine e inclinazione sua». Considerazioni al Machiavelli, I, 12.

237. Legazione IX alla corte di Francia. Blois 9 agosto 1510.

238. Legazione XII. 18 agosto 1510.

239. Nel sillabo del 1864 al nº XIII è riprovato il dire che «il metodo e i principj, con cui i dottori scolastici coltivarono la teologia, non rimangono più colle necessità dei tempi nostri e col progresso delle scienze».

Come questa filosofia e teologia venissero messe in onore ai giorni nostri e qua, lo sanno quanti conoscono il padre Ventura, il Rosmini, il Liberatore, il canonico Sanseverino, il Perrone, ecc.

240. Un grande avversario dei papi e de' preti, l'ex-prete Luigi Bossi, nelle note alla traduzione della vita di Leon X del Rosoe riflette che, l'abitudine che Machiavello aveva di scrivere in certo qual modo all'azzardo e senza un disegno ed un fine preciso, poteva ragionevolmente far nascere qualche dubbio, e questo ancora nella Corte romana, sulla sincerità delle sue intenzioni. Tom. X, pag. 49.

A torto si suol attribuire al Possevino l'aver nella Bibliotheca gridato primo all'arme contro il Machiavello, sceleratum Satanæ organum. Il cardinal Polo, nella sua Apologia a Carlo V, narra come gli venisse alla mano il Principe, e subito lo riconoscesse scritto da un nemico del genere umano, dove religione, pietà, tutte le maniere di virtù sono sovvertite, e veramente scritte col dito del demonio, spargendo orribili massime fra principi e fra popoli. E fin d'allora alcuno gli avea detto, per iscusa dell'autore, che egli odiava grandemente i Medici, e consigliandoli a que' delitti, volea prepararne la ruina col colmarli di odio. Iste Satanæ filius, inter multos Dei filios edoctus omni malitia, ex illa nobili civitate prodiit, et nonnulla scripsit, quæ omnem malitiam Satanæ redolent. E vien via analizzandolo, in modo da non potersegli imputare quel che al Possevino, cioè che l'abbia confutato senza leggerlo.

Lo combatterono pure frà Caterino Politi, e il Muzio, e il Bosio De ruinis gentium, e quasi tutti i teologi politici.

241. Si vuole che, qualche prelato, come feudatario, esercitasse, o almeno possedesse l'osceno diritto delle prime notti; e il Lancellotto, nel bizzarro suo libro L'Hoggidì, ovvero il mondo non peggiora, dice: «Cotal costume, dai Pagani e dai Gentili praticato, fu già in Piemonte; ed il cardinale illustrissimo Geronimo della Rovere mi diceva aver egli stesso abbruciato il privilegio che aveva di ciò la sua casa». Se mai esistette un tal diritto di fodero o di marcheta, bisogna dire che n'abbiano ben accuratamente distrutti gli atti, giacchè nè da me nè da altri cercatori mai nessuno ne fu trovato. Probabilmente non era che una tassa imposta sulle nozze, forse colla simbolica rappresentazione del metter una gamba nel letto; e come tale, n'ebbero il diritto perfino alcune badesse.

242. Oltre i novellieri, sul teatro pure si pungeva l'avarizia e l'ignoranza degli ecclesiastici. Nel San Giovanni Gualberto, rappresentazione del secolo XV, dovendosi eleggere il piovano d'una chiesa, il cappellano esamina gli aspiranti, e riferisce al vescovo:

Messere, io l'ho saputo, e me l'han detto:

Quello a chi 'l popol la vorrebbe dare,

È un buon prete, ma gli è poveretto,

E non potrebbe un cieco far cantare.

Quell'altro mi mostrò un pien sacchetto,

E son ducati, secondo il sonare,

E dice ve gli arreca, e son dugento.

Monsignore. Costui ha ben ragion! mettili drento.

Alcuni monaci s'accordano per far eleggere abate un di loro, il qual promette nominar l'uno priore, l'altro spenditore, l'altro camerlingo: e vanno al vescovo, e gli offrono cento ducati perchè nomini quell'abate.

Monsignore. E molto volentieri i' ho ben inteso;

Ma ditemi, figliuol, sono di peso?

Monaco. Monsignor, e' son nuovi tutti quanti.

Non fa bisogno che voi li pesiate.

Monsignore. Da voi in fuora, io vorrei duo tanti,

Ma io vo' ben che voi mi ristoriate

Ogni anno per la pasqua e l'ognisanti

L'oca, il cavretto e' cappon mi rechiate.

Monaco. Noi siam contenti, e' cappon fien duo paja,

E le candele per la candellaja.

243. Ma chi si scandalizza delle ricchezze del clero cattolico d'allora non si dimentichi quante ne abbia il clero protestante d'oggi in Inghilterra. I vescovi vi percepiscono da 4200 a 10000 sterline, cioè da 105 a 230 mila franchi, oltre un palazzo in città e uno in campagna: ai due arcivescovi di York e di Cantorbery aggiungonsi per la rappresentanza una gratificazione di quasi 273 fr. Nel settembre 1865 morì Roberto Moore, che godeva sei benefizi senza far nulla, e si calcola che durante la sua vita ne traesse 753 mila sterline, cioè più di 18 milioni.

244. Raynaldi, al 7 aprile 1488, § 21.

245. Cibrario, Istituzioni della Monarchia di Savoja, pag. 127.

246. Alfonso Tostat, famoso teologo spagnuolo, reputato il maggior ingegno del suo secolo, a Siena sostenne, in presenza d'Eugenio IV, ventuna tesi teologiche, alcune delle quali non vennero approvate dal pontefice. Questi destinò l'altro famoso teologo cardinale Torquemada a confutar queste due: che, sebbene non v'abbia peccato che non possa esser rimesso, pure Iddio non rimette nè la pena nè la colpa, e nessun prete può dare l'assoluzione; e che Gesù Cristo sofferse la passione al 3 d'aprile, non al 25 marzo. Le due proposizioni furono riprovate, ma il Tostat pubblicò la Difesa delle tre conclusioni, e parve mostrare non bastante deferenza per la decisione pontifizia.

247. Burlamacchi, Vita del Savonarola.

248. Predica I, ediz. di Venezia 1530.

249. A Lione 1502, 1505, 1507, 1536, 1571, 1573, 1577, 1594; a Agen 1508, 1510, 1514, 1578; a Parigi 1518, 1521; ad Argentina e Rouen 1515; a Brescia 1521; a Venezia 1585.

250. È a vedere anche Barberino, Documenti d'amore, part. VIII, d. 2.

251. Landi, Paradossi.

252. Ed. del Moreni 1831, I, 187, 232. Declamò novamente (II, 50) contro l'andare al perdono di Roma e altri santi luoghi, predicando sotto la loggia d'Or San Michele nel 21 settembre 1309, cioè parecchi anni più tardi. Forse questi passi delle prediche di frà Giordano furono presenti al beato Giovanni delle Celle quando dissuadea Domitilla dal pellegrinaggio di Terrasanta, nella IXª delle sue lettere.

253. Questi pure si lamentava che

Ogni predicator buffoneggiava

Nè quasi si credea dal tetto in su.

Cedrus Libani. Nella Magliabecchiana è manoscritto del quattrocento un Promptuarium prædicatorum, dove, sopra argomenti che possono esser soggetto di predica, si adunano le autorità della santa scrittura, affinchè le prediche riescano non subtilia magis quam utilia.

254. Contra prælatos simoniacos, qui ordines sacros cœteraque spiritualia publice vendunt.

255. Epist. Lib. I, c. 66.

256. Opusculum de sententia excommunicationis injusta pro H. Savonarolæ innocentia. Firenze 1497.

257. Antonio Floribello, nell'orazione sopra l'autorità della Chiesa, scrive: Quod vero Lutherus et quidam ejus discipuli, omnia fato et necessitate fieri, nihil in potestate nostra situm esse, agi nos, non agere a principio dixerunt, cum idem senserunt quod nonnulli veteres philosophi, tum Viclefi illius sui, Laurentiique Vallensis opinionem impiam et humano generi perniciosam revocarunt. Sadoleti, Opera II, p. 401.

258. De collatione novi Testamenti. Fu pubblicata solo cinquant'anni dopo morto l'autore, da Erasmo. Per tacere i vecchi, il Maj, il Rank, il Vercellone, il Cavedoni notarono della versione itala molte voci non usate dai classici, come abintus, ascella, maletracto, prendo, regalia, satullus, retia per rete, advenit per accade, martulus per martello, manna per manata, altarium per altare, glorio e combino per lodo e congiungo, scamellum per scannello, e forme grammaticali errate, come odiet, odiant, odivi, plaudisti, avertuit, sepellibit, eregit, prodiet, exiam, exies, perient, scrutaberis, abstulitum est, prævarico e demolient per prævaricor e demolientur, lignum viridem ecc. Il conchiuderne che la traduzione della Bibbia è barbara è un'assurdità ove si pensi che, massime l'itala, fu fatta ne' floridi tempi dell'impero, essendo vivissima la lingua latina. Fu dunque buon consiglio quello del De Vit, di raccoglierne le voci nella ristampa che ora fa del Lexicon totius latinitatis. Di ciò discorro io distesamente in una Dissertazione sull'origine della Lingua Italiana. Napoli 1866.

259. De falso credita et ementita Constantini donatione, declamatio. È però a notare che la falsità dell'atto di donazione di Costantino era già stata sostenuta da Pio II, ancora privato, dal cardinale di Cusa, dal Pocock vescovo di Chicester. Dico dell'atto, perocchè su questa donazione tanto controversa han discorso i migliori moderni in ben altro senso dal vulgare, dietro al De Maistre, che avea scritto: «Una medesima mura non potea contenere l'imperatore e il pontefice. Costantino cedette Roma al papa. La coscienza del genere umano l'intese a questo modo, e ne nacque la favola della donazione, che è verissima. L'antichità, cupida di vedere e toccar tutto, tramutò l'abbandono in una donazione formale; la vide scritta su pergamena, deposta sull'altare di San Pietro. I moderni gridano falsità; ed era l'innocenza che raccontava le sue idee. Non c'è cosa sì vera quanto la donazione di Costantino».

Eppure Stefano Dumont, professore parigino, sostenne l'autenticità anche dell'atto; autenticità simile a quella che dicemmo dell'altre Decretali, che Graziano o il falso Isidoro non inventarono, bensì mutilarono o cangiarono per ridurle opportune a una collezione legale.

260. Vespasiano, Vite, ecc.

261. Fabroni, Vita di Lorenzo, II, 390.

262. Raynaldi, ad 1492.

263. Le inclinazioni di Alessandro VI erano conosciute precedentemente, sicchè quando fu eletto, Pietro martire d'Angera scriveva al cardinale Sforza: Hoc habeto, princeps illustrissime, non placuisse meis regibus (Fernando e Isabella di Spagna) pontificatum ad Alexandrum, quamvis eorum ditionarium, pervenisse; verentur namque ne illius cupiditas, ne ambitio, ne (quod gravius) mollities filialis christianam religionem in præceps trahat. Epist. 119 dell'ediz. di Amsterdam 1670.

264. Nelle carte di Urbino nell'archivio centrale di Firenze è una lettera del 21 luglio 1494 di Alessandro VI a Lucrezia Borgia sua figlia, che finisce: «E per questa volta null'altro se non che attendi a star sana, et a esser devota de nostra donna gloriosa». Si sa ch'egli portava sempre in dosso una palla, contenente l'ostia consacrata.

265. Il signor Chantrel, nella Storia popolare dei papi, tolse or ora a discolpare Alessandro VI, mostrando come la vita sua non fu scandalosa, neppur mentre era privato; sempre poi edificante nel papato; e ch'egli fu gran re e gran pontefice; le accuse prodigategli mancar di fondamento, e ricader sopra gli storici, bugiardi, maligni, ostili ad esso papa, o alla cattedra su cui sedette.

Sono a vedersi per lo stesso assunto la Storia d'Alessandro VI dell'abate Jorry, e un articolo della Rivista di Dublino, del gennajo 1859. Un amico ci fa avvertire che nelle lettere inedite dell'Alberoni, trovasi un giudizio sopra Alessandro VI, che s'accorda sostanzialmente col da me espresso. Benedetto XIV, nel carteggio confidenziale coll'Alberoni, suo legato di Bologna nel 1740, gli manifestò l'intenzione di correggere varj abusi, e sovratutto di riformare il paese, rovinato da dieci anni di allegria e di conversazioni (Lettera da Castelgandolfo li 18 ottobre di quell'anno). L'Alberoni pur desiderando non ci fosse occasione di venire a que' rimedii troppo repugnanti al naturale della Santità sua, non potè di meno, da quell'uomo schietto qual era, di secondare un sì santo pensiero, aggiugnendo che il bisogno di tale riforma era universalmente sentito da tutti i buoni e dentro e fuori di Roma (Lettera dell'Alberoni di Bologna, 25 ottobre 1741). Il papa lesse, forse con poca riflessione, la lettera dell'Alberoni nella sua conversazione, dove saranno stati probabilmente alcuni bisognosi di tale riforma, e levossi uno schiamazzo contro l'impudenza del legato di Bologna, che avea avuto l'ardimento di scrivere tali cose ad un tal papa, quasichè il suo pontificato fosse quello di Alessandro VI. Non è qui luogo di trascrivere la lunga e veemente risposta dell'Alberoni allo stesso Benedetto XIV, degli 8 novembre: ma sul punto toccato s'esprime così: «Non so come costoro possino far entrare nel mio discorso Alessandro VI. Se si avesse a parlare del di lui pontificato si potrebbe dire che fu un misto di vizj e di virtù: che i primi furono mancanze d'un uomo privato, ma che le seconde furono qualità eminenti d'un principe di gran mente. Tale lo fanno conoscere le di lui famose Bolle e non Pataffie, che saranno di eterna memoria e venerazione, e fra tante altre azioni eroiche del sue pontificato, una sarà la restituzione della Romagna fatta dai Tiranni alla Santa Sede; opera che tutta si deve al coraggio e alla prudenza e sagace condotta di Alessandro VI».

266. Anche san Paolo ad Efeso si fe cedere gli amuleti e talismani della Dea colà adorata, e i libri de' misteri, e quantunque di carissimo costo, valendo cinquantamila denari, li fe bruciare. Act. apost. cap. XIX.

267. Prediche sopra Ezechiele. Predica XXII.

268. Prediche sopra l'Esodo.

269. Sermone sopra Amos.

270. «O frate, tu vuoi dire che la Chiesa non possa tenere beni temporali. Questo saria eresia. Non dico questo io, perchè non è da credere, se non si potesse tenere, che san Silvestro li avesse accettati, e san Gregorio li avesse confermati. Però noi ci sommettiamo alla Chiesa romana, o che valga meglio che ne abbia o no. Questa è una gran quistione, perchè vediamo che ha pur fatto male per avere queste ricchezze, e non bisogna che io lo pruovi. Rispondiamo dunque, non però assolutamente, come il marinaro che non vuol gittare le ricchezze in mare, ma fuggire il pericolo; e diciamo che la Chiesa staria meglio senza ricchezze, perchè sarebbe in unione con Dio». Sopra Ezechiele.

«Il papa è Dio in terra, ed è vicario di Cristo. Ciò è vero, ma Dio e Cristo comandano che si ami il proprio fratello, che si faccia il bene. Adunque se il papa ti comandasse cosa contraria alla carità, e tu la facessi, tu allora vuoi che il papa facci più che non fa Dio. Il papa può errare, non solo per false informazioni, ma qualche volta ancora perchè ha in odio la carità. Ciò che tanto ha corrotto la Chiesa è la potestà temporale. Quando la Chiesa era povera, allora era santa: ma quando le fu data la potestà temporale, cadde nella polvere delle ricchezze e delle cose terrene, e cominciò a sentire la sua superbia... Concilio vuol dir congregare la Chiesa, idest tutti li buoni abbati, prelati e secolari di essa. Ma nota che non si domanda propriamente Chiesa se non dove è la grazia dello Spirito Santo. Ed oggi dove si trova essa? forse solamente in qualche buon omiciattolo... Nel concilio s'hanno a far riformatori che riformino le cose giuste. Nel concilio si castigano li cattivi cherici; si depone il vescovo che è stato simoniaco o scismatico. Oh quanti ne sarebbero deposti! forse non ne rimarrebbe nessuno. Pregate il Signore, che si possa finalmente congregare una volta, per favorire ed ajutare chi vuol far bene e per combattere i tristi». Prediche del 1498, sopra l'Esodo.

271. Jacobo Pitti, Storie, lib. I, cap. 51.

272. «Oh non hai tu paura? Non io che mi vogliano scomunicare perchè non faccio male. Portatela in s'una lancia questa scomunica, e apritele le porte. Io voglio rispondere; e se non ti fo meravigliare, di' poi quel che ti pare. Io farò impallidire tanti visi là e qua, che ti parranno ben molti; e manderò fuori una voce che farà tremare e commuovere il mondo... Se io volessi andare adulando, non sarei oggi a Firenze, nè avrei la cappa stracciata, e mi saprei cavar fuori di questo pericolo. Ma, o Signore, io non voglio queste cose; io voglio solamente la tua croce: fammi perseguitare, io ti domando questa grazia che tu non mi lasci morire in sul letto, ma che io ti renda il sangue mio, come tu hai fatto per me.» Sopra Ezechiele, pred. XXVIII.

273. Il papa diceva al Bonsi, oratore di Firenze: «Io ho letto le prediche del vostro frate, e parlato con chi le ha udite. Egli ardisce dire che il papa è ferro rotto; che è eretico chi crede alla scomunica, e che egli, piuttosto che chiedere assoluzione, vorrebbe andar all'inferno. È scomunicato non per alcuna istigazione o per false insinuazioni, ma per la sua disobbedienza al nostro comando di unirsi alla nuova congregazione tosco-romana. Noi non lo condanniamo delle sue buone opere, ma vogliamo che venga a chieder perdono della sua petulante superbia, e volentieri gliela concederemo quando si sarà umiliato a' nostri piedi».

274. Anno Domini MCCCCIIC. — Dilectis filiis guardiano et fratribus D. Francisci ad Sanctum Miniatum extra muros Florentinorum Ordinis Fratrum Minorum de observantia nuncupatorum, Alexander Papa sextus.

Dilecti filii, salutem et apostolicam benedictionem. Relatum nobis fuit quod apostolico zelo veritatis et justitiæ accensi, ac pro nostro, et hujus sanctæ sedis honore contra perniciosum dogma falsamque doctrinam perditionis filii Hieronimi Savonarolæ ordinis fratrum predicatorum, ac populi seductionem multis ac veris conclusionibus et argumentis sæpius publice ac privatim predicaveritis, ac eo fervoris et studii processeritis ut, pro sustinendis vestris veris rectisque argumentationibus, et ipsius Hieronimi pertinacia convincenda, non defuerit ex vobis qui etiam se in ignem projicere proposuerit; Laudamus certe devotionem vestram ac tam pium tamquam religiosum ac venerandum opus quod procul dubio nulla poterit oblivione deleri: Nobis vero et ipsi sedi ita gratum et acceptum ut gratius et acceptius esse non possit. Hortamur et monemus vos in Domino, ut eodem tenore pergentes adversus ipsius errorum reliquias, si quæ supersint, et complicem perseverare velitis, ut exinde a Deo et hac sancta sede merita condigna consegui possitis. Dat. Romæ apud S. Petrum sub annulo Piscatoris XI die aprilis 1498, Pontificatus nostri anno sexto.

Dilecto filio Francisco Apuliensi, Ordinis fratrum Minorum de observantia nuncupatorum professori, Alexander Papa sextus.

Dilecte fili, salutem et apostolicam benedictionem. Intelleximus quanto fervore pro veritate et justitia, proque nostro ac huius sanctæ sedis honore nuper predicaveris verbum divinum in civitate ista florentina adversus falsum et perniciosum dogma iniquitatis filii Hieronimæ Savonarole, qui prius suis demeritis excommunicatus, ausu sacrilego quam plurima scandalosa et heresim sapientia tam diu disseminare tam publice non erubuerat. Fecisti profecto opus valde meritorium, ac maxima laude dignum, ac quale religiosum virum decebat, quod nobis et toti sacro venerabilium fratrum nostrorum Sanctæ Romanæ Ecclesiæ cardinalium collegio mirifice complacuit. De qua devotione te plurimum commendamus, monentes et exhortantes ut, si quid forsitan reliquarum deinceps tanti ac nepharii erroris supersit, in tam bono ac pio instituto perseverare, ac illud eodem veritatis mucrone retundere cures, ita ut majores in dies ac uberiores fructus in agro dominico producens, nostram et ipsius sedis benedictionem et gratiam valeas promereri. Datæ Romæ apud S. Petrum 1498, XI aprilis, Pontificatus nostri anno sexto.

275. I Fraticelli non erano forse del tutto spenti in Firenze. Nella Magliabecchiana (MSS. G. 3. 368) si ha una lunga lettera di don Giovanni delle Celle contro di essi, e una loro risposta assai sviluppata, ma che in fondo accusa la Chiesa di aver traviato, come poi disse Lutero; essi pochi custodire la verità: la via del paradiso essere stretta, onde non è meraviglia se essi sono pochi in numero: peccar contro la carità quelli che gli accusano.

Il codice XI della classe XXXIV de' manoscritti d'essa biblioteca ha molte scritture contro i Fraticelli dell'opinione e singolarmente del vescovo Ortano, che dice essere stato deputato coll'arcivescovo di Milano ed altri vescovi a discutere contro costoro, sorti principalmente intorno ad Asisi, e che aveano preso per capo un tal Nicolao di Marano, nell'Agro Piceno.

276. Faites moi un petit miracle.

277. Non ha bisogno di commenti questo passo del processo: «Jussus expoliari. Orsù uditemi. Iddio, tu mi hai côlto (inginocchiasi). Io confesso che ho negato Cristo. Io ho detto le bugie. Signori Fiorentini, io l'ho negato per paura de' tormenti. Siatemi testimonj. Se io ho a patire, voglio patire per la verità. Ciò che io ho detto l'ho avuto da Dio. Dio, tu mi hai dato la penitenza per averti negato. Io lo merito. Io ti ho negato. Io ti ho negato. Io ti ho negato per paura di tormenti, per paura di tormenti (erasi inginocchiato e mostrava il braccio manco quasi guasto). Gesù ajutami. Questa volta tu mi hai côlto».

278. Fr. Karl Meyer, G. Savonarola aus grossen Theils handschriftlichen Quellen dargestellt. Berlino 1836. Contiene molti atti sconosciuti, e che più tardi furono riprodotti da altri biografi come nuovi.

Rudelbach, H. Savonarola und seine Zeit, aus den Quellen dargestellt. Amburgo 1835. Questi riconosce per profeti della Riforma l'abate Gioachino, santa Brigida, santa Caterina da Siena, ed altri.

279. Predica IV, p. 237. Pr. V, p. 246. Pr. XII, p. 373.

280. Predica XVI, 443.

281. Vorrede über Savonarola's Auslegung des LI psalms.

282. Suole dirsi che sol dopo san Carlo e dopo l'istituzione de' cherici regolari si estese l'uso del frequente confessarsi e de' confessionali in chiesa, ecc. Nel processo, frà Girolamo diceva: «Circa a' confessori, io ne mettevo molti in San Marco, confortandoli che confessassino assai: non per intendere da loro le confessioni, perchè non l'avrebbero fatto per la pena grande, et anche per conservarmi la reputatione appresso di loro: perchè, se io li havessi richiesti di simile cosa, mi sarei al tutto scoperto maligno: ma io lo facevo per havere più concorso, et per tenere gli amici nostri confortati all'opera nostra: et anchora perchè fossino più uniti».

283. Trattato dell'amor di Gesù Cristo. Firenze 1492.

284. Talora disse: «Se un angelo di Dio venisse un giorno a contraddirmi, non gli credete, perchè è Dio medesimo che parlò. Predica 17 febbraio 1497.

E nella Verità profetica leggiamo:

Savonarola. Atqui io son profeta. Poichè ragionevolmente mi sforzi, non senza verecondia e umiltà confesso essermi stato da Dio, per suo dono e non per alcuno mio precedente merito, conferito.

Uria. Guarda che questo sia detto non per umiltà, ma più presto per arroganza.

Savonarola. Io non m'attribuisco il falso, ma non mi vergogno già di confessare di averlo ricevuto a laude di Dio e per salute de' prossimi».

285. L'officio proprio per frà Gerolamo Savonarola e i suoi compagni, scritto nel secolo XVI, e ora per la prima volta pubblicato per cura del conte C. Capponi, con un proemio di Cesare Guasti. Prato 1860.

Il codice 34 della classe XXXIV dei manoscritti della Biblioteca Magliabechiana contiene una raccolta di giudizj di varj sopra la vita e le dottrine del Savonarola. Quanta traccia di sè abbia lasciato il frate appare dall'infinità di scritture a lui relative, che si trovano in tutte le biblioteche di Firenze. Fra le centinaja citerò il codice 7 della classe XXXIV manoscritto nella Magliabecchiana, che contiene Vulnera diligentis di Benedetto da Firenze, ch'è un'apoteosi del Savonarola. Nella prima pagina ordina, hoc non publicetur volumen nisi post mortem illius decimi (cioè Leon X), de quo scriptum est Leo in quinto rugitu morietur, filius Sodomæ ecc.... Detur Adriano VI P. M. ad ciò sia conservata questa cristiana opera dalle mani de' combustori et persecutori della verità.

Nella Storia degli Italiani io mi son diffuso intorno al Savonarola, esaminando se fu un martire della verità anticipata, se profeta, se un gran patrioto, un gran democratico, o un allucinato, o un impostore. Furono pubblicate di recente molte opere intorno a lui, e massime la Storia di Girolamo Savonarola del Villari (1859), e la Storia del convento di San Marco del p. Marchese.

286. Perfino Voltaire, il calunniatore per eccellenza, rimprovera il Guicciardini d'avere ingannato l'Europa intorno alla morte di Alessandro VI, e d'aver troppo creduto all'odio suo. Così nella Dissertazione sulla morte di Enrico IV, dove alle, non asserzioni, ma insinuazioni del Bembo, del Giovio, del Tommasi, del Guicciardini oppone le ragioni del buon senso; l'aver il papa 87 anni, l'esser ricchissimo, il convenirgli di tenersi amici i cardinali, anzichè inimicarseli con un avvelenamento clamoroso: infine il non farne parola quel ciarlatano di Burcardo.

287. Ratti, Della famiglia Sforza, 283.

288. Giornale di Paride Grassi, nº 48.

289. Eccitarono la bile di Ulrico di Hutten le imprese di Giulio II.

Hoc mens illa hominum, partim sortita Deorum,

Et pars ipsa Dei patitur se errore teneri?

Ut scelere iste latro pollutus Julius omni,

Cui velit occludat cælum, rursusque recludat

Cui velit, et possit momento quemque beatum

Efficere aut contra, quantum quiscumque bene egit,

Et vixit bene, si lubeat, detrudere possit

Ad stygias pœnas, et Averni Tartara ditis,

Et quod non habet ipse, aliis divendere cælum...

Et nunc ille vagus sparsit promissa per orbem

Qui cedem et furias, scelerataque castra sequantur

Se duce, ut his cælum pateat. Qua fraude, tot urbes

Et tot perdidit ille duces, tot millia morti

Tradidit, et pulsa induxit bella acria pace,

Tranquillumque diu discordibus induit armis

El scelere implevit mundum, fas omne nefasque

Miscuit. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Naufraga direpti finxit matrimonia Petri

Vindice se bello asserere, atque ulciscier armis.

290. N'ebbero dispiacere tutti i pii. Qua in re adversos pene habuit cunctorum ordinum homines, et præsertim cardinales, non quod novam non cuperent basilicam magnificentissimam extrui, sed quia antiquam toto terrarum orbe venerabilem, tot sanctorum sepulcris augustissimam, tot celeberrimis in ea gestis insignem, funditus deleri ingemiscant. Panvinio ap. Fea, Nota intorno a Raffaello, 41.

291. Cupientes, quatenus nobis ex alto promittitur, ea jam nimium invalentia mala corrigere, ac pleraque in pristinam sacrorum canonum observantiam reducere. Sessio X, bulla reformationis.

292. Labbe, Concil., tom. XIV, 232.

293. Sessione VII.

294. Sessione XI.

295. Mandantes omnibus ut evangelicam veritatem et sanctam scripturam, juxta declarationem, interpretationem et ampliationem doctorum, quos ecclesia vel usus diuturnus approbavit, legendosque hactenus recepit, et in posterum recipiet, prædicent, explanent: nec quidquam ejus proprio sensui contrarium aut dissonum adjiciant, sed illis semper insistant quæ ab ipsius sanctæ scripturæ verbis et præfatorum doctorum interpretationibus, rite et sane intellectis, non discordant.

296. Vedasi tutta la Sessione IX.

297. Enciclica Mirari vis di Gregorio XVI. Queste precauzioni non erano ignote all'antichità pagana. Valerio Massimo (Lib. VI, cap. 3) dice che, avendo Archiloco pubblicato poemi che offendeano il pudore, gli Spartani li fecer portar lontano dalla città, per impedire una lettura più atta a corrompere i costumi che ad ornar gli intelletti. Cicerone diceva di certi poeti: «Vedete quai mali cagionano? Ammolliscono le anime; spengono ogni impulso alla virtù». Lo stesso Ovidio dissuadeva dal leggere i libri osceni: Eloquar invitus; teneros ne tange poetas. M. Ulpiano poi è detto che, quando in un legato testamentario si trovino libri pericolosi, il giudice deve, sopra il parere d'uom prudente e onesto, far disparire ciò che diverrebbe sorgente di corruzione. Altri esempj sono a vedere in Gretser, De jure et more prohibendi libros malos. E vedasi pure F. A. Zaccaria, Storia polemica della proibizione dei libri. Roma 1797.

298. Le annate sono usanza tanto antica, che nel codice Giustinianeo, Nov. CXXIII, c. 16, si legge: Neque clericum cujuscumque gradus dare aliquid ei a quo ordinatur, aut alii cuilibet personæ permittimus; solas autem præbere eum consuetudines iis qui ordinantium ministrantes sunt, ex consuetudine accipientibus, unius anni emolumenta non transcendentem.

299. Nel Museo Borgiano conservasi quella carta geografica, colla linea vaticana tirata di mano propria d'Alessandro VI.

300. Fu tratta ultimamente dagli archivj di Modena una lettera del segretario ducale Paulucci, che agli 8 marzo 1519 da Roma scriveva al duca di Ferrara, descrivendogli una comedia datasi giorni prima alla Corte papale. Leon X stava egli stesso alla porta, colla sua benedizione indicando quei che poteano entrare. Dappoi si collocò sopra un'alta sedia fra un anfiteatro di spettatori, e si recitarono i Suppositi dell'Ariosto. I Francesi ne restarono scandolezzati: il nunzio Spinola «si dolea che alla presenza di tanta maestà si recitassero parole che non fossero oneste»: ma il papa guardava col suo occhialetto, e molto rideva. Vi furono concerti, moresche, cena: caccia di tori, ove tre uomini rimasero morti e quattro feriti. Un frate espose un'altra comedia, ma essendo spiaciuta, il papa fece balzar quel frate sopra una coltre, e dar un gran colpo sul tavolato della scena; poi gli fece tagliar i sostegni de' calzoni e calarli fin a' calcagni, e così montar a cavallo, dove fu battuto in modo, che dovette star molto a letto. Questa «moresca fece assai ben ridere il papa». Vedi Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le provincie Modenesi e Parmensi. Vol. I, p. 128.

301. Accesserat et Bibienæ cardinalis ingenium, cum ad arduas res tractandas peracre, tum maxime ad movendos jocos accomodatum. Poeticæ enim et etruscæ linguæ studiosus, comœdias multo sale, multisque facetiis refertas componebat, ingenuos juvenes ad histrionicam hortabatur, et scenas in Vaticano spatiosis in conclavibus instituebat. Propterea, quum forte Calandram a mollibus argutisque leporibus perjucundam per nobiles comœdos agere statuisset, precibus impetravit ut ipse pontifex e conspicuo loco despectaret. Erat enim Bibiena mirus artifex hominibus ætate vel professione gravibus ad insaniam impellendis, quo genere hominum pontifex adeo oblectabatur, ut laudando, ac mira eis persuadendo donandoque, plures ex stolidis stultissimos et maxime ridiculos efficere consuevisset. Giovio.

302. Lett. di Principi a Principi, vol. I, 16.

303. Nella Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici del Calogerà, tomo XXIX, Venezia 1743, si trova un'apologia del cardinale D. Bembo, fatta dall'abate G. B. Parisotti, principalmente difendendolo dal Lansio, che nella Orazione contra Italiam (Amsterdam 1637) avea detto che epistolas omnes Pauli palam condemnavit, easque, deflexo in contumeliam vocabulo, epistolaccias est ausus appellare.

304. Cum libros vernaculo sermone et carmine, quos Orlandi Furiosi titulo inscripsisti, ludicro more, longo tamen studio et cogitatione, multisque vigiliis confeceris, easque conductis abs te impressoribus ac librariis edere cupias, cum ut cura diligentiaque tua emendationes exeant, tum ut si quis fructus ea de causa percipi possit, is ad te potius, qui conficiendi laborem tulisti, quam ad alienos deferatur, volumus et mandamus ne quis, te vivente, eos tuos libros imprimere aut imprimi facere, aut impressos venundare, vendendosve tradere ullis in locis audeat, sine tuo jussu et concessione.

305. Sat. VII.

306. Sadoleti, ep. 22 del lib. XVII.

307. Vita Leonis X. Ci mancano le relazioni degli ambasciadori veneti a Roma fino al 1533, ma ne' diarj di Marin Sanuto si dà il sunto di esse. Leon X v'è sempre indicato come buono e pio, ma gaudente. «È amator delle lèttere, dotto in umanità e giure canonico, e sopratutto musico eccellentissimo: e quando canta con qualcuno, gli fa donare cento e più ducati» (pag. 86 Relazioni; Firenze) «È dotto e amator di dotti, buon religioso, ma vuol vivere e star sui piaceri, massimamente su quelli della caccia» p. 64. «Dormiva molto tardi... andava alla messa, dava udienza, stava a tavola e giocava volontieri a primiera. Digiunava tre volte la settimana, mangiava una volta al giorno, a ore 21; il mercore e il sabato mangiava cose quadragesimali... Si serviva molto di domandar denaro a prestito; vendeva poi gli ufficj, impegnava le gioje, gli arazzi del papato, e fino gli apostoli (i busti) per aver denari».

Curiose sono le particolarità che vi si esibiscono intorno ai cardinali, tutte profane, e alcune anche peggio.

308.

Sacra sub extrema si forte requiritis hora

Cur Leo non potuit sumere, vendiderat.

L'attribuirono al Sannazzaro.

309. Audin, Vie de Leon X.

310.

Tu l'as vu ce ciel enchanté

Qui montre avec tant de clarté

Le grand mystère,

Si pur qu'un soupir monte à Dieu

Plus librement qu'en aucun lieu

Qui soit sur terre.

Alfred de Musset.

311. Il cardinale De Luca (De locis montium), Giovanni Marchetti (Del denaro straniero che viene a Roma e se ne va per cause ecclesiastiche; calcolo ragionato. Roma 1800) asseriscono che, pei bisogni della sola Germania, da Paolo III a Paolo V, il tesoro pontifizio spese 16 milioni di scudi; dovendo per ciò non solo erogare quanto ne riceveva, ma creare i debiti, noti col nome di Luoghi di monte.

312. Teotimus, de tollendis malis libris, 1549.

313. Rabelais francese, che non so bene se si facesse buffone per abbattere, od abbattesse per far il buffone sapendo che in Francia si ride sempre del partito vinto, sparnazzò celie col vaglio, adorava la divina bottiglia, e domandava di legger in cattedra sopra la ubbriachezza lucida. Passato a Roma, facea rider di sè il papa e i cardinali, mentre raccoglieva onde rider di loro nel suo Pantagruele, libro stranamente audace, dove non la perdona tampoco a Cristo. Eppure morì curato, fra il clero a cui tanto avea nociuto.

314.

Julius est Romæ; quis abest? date, numina, Brutum:

Nam quoties Romæ est Julius, illa perit.

Vedi Klag und Vermahnung gegen die übermässige, unchricstliche Gewalt des Pabst in Rom.

315. Das weltiche Regiment gehört dem Kaiser zu, das geistlich Christo, seinen Apostolen, und allen evangelischen Predigern, welche predigern Christi Lehren. Hutteni Conquæstiones ad Carolum imperatorem et principes Germaniæ.

316.

Manch Advocat und Auditor

Notarius, Procurator,

Die Bullen geben, sprechen Recht

Dero jeder hat sein G'sind und Knecht

Und nehmen täglich ein

Von Teutschen unser Schweiss und Blut;

Ist das leiden, und ists gut?

317. Lapides noctu migrant, nihil hic fingo. Principes romani imperii, imo orbis totius cuncti sollicitantur pro æde Petri, in qua duo tantum opifices operantur, et alter claudus.

318. Dirumpamus vincula eorum, et projiciamus a nobis jugum ipsorum.

319. Reuclin aveva studiato il greco a Firenze e a Milano sotto il Calcondila.

320. Com'è stile de' polemici, qui Erasmo prende per tipo qualche esagerato. Il famoso ed elegante teologo Paolo Cortese da Modena, avendo detto in una lettera al Poliziano che bisogna seguire per esemplare Cicerone; il Poliziano, con gran forme di stima lo confuta; e quegli risponde non aver voluto dire altro se non che devesi imitare il modello più perfetto, non già contraffarlo. Quæ stultitia esset, cum tam varia sint hominum ingenia, tam multiplices naturæ, tam diversæ inter se voluntates, eas velle unius ingenii angustiis astringi et tamquam præfiniri? Ep. Politiani, L. VIII, 16, 17.

321. Probabilmente era Tommaso Fedro Inghirami, custode della biblioteca Vaticana, dictus sui sæculi Cicero; nel quale riconosceva mira in dicendo tum copia tum auctoritas (Ep. 4, lib. XXIII), e che tanti manuscritti avea disepolti dalla libreria di Bobbio.

322. Utinam prodisset ingens illud opus adversum Averroem, impium καὶ τρὶς κατάρατον. Epistola del 15 novembre 1519.

323. Ep. Latimerio.

324. Ego Romæ his auribus audivi quosdam, abominandis blasphemis debaccantes in Christum et in illius apostolos; idque multis mecum audientibus, et quidem impune. Ibidem multos novi, qui commemorabant se dicta horrenda audisse a quibusdam sacerdotibus aulæ pontificiæ ministris, idque in ipsa missa, tam clare, ut ea vox ad multorum aures pervenerit. Ep. XX, lib. 35.

325. «Rimanga a Giulio la gloria della guerra; abbiasi egli le sue vittorie, abbiasi i magnifici trionfi, che io non dirò quanto s'addicano a pontefice. Ben dirò che la gloria di lui, qual ella si fosse, andò unita all'eccidio e al dolore di moltissimi; gloria più vera partorirà a Leone la pace restituita al mondo, che non a Giulio tante guerre, dappertutto suscitate gagliardamente o felicemente condotte». Dulce bellum inexpertis. Esagerazione di biasimo e di lode, per deficenza nel sentimento della verità.

326. Suo padre, ammiraglio veneto, essendo mal riuscito nella guerra contro i Turchi, fu accusato e messo in carcere a Venezia. Il figlio cardinale ve l'accompagnò, sorreggendone la persona e le catene, e supplicava i senatori a ricever lui in prigione in sua vece, almeno permettergli di starvi con esso. Non l'ottenne: il padre per allora ebbe l'esiglio, e poi anni dopo, rimesso in onore, fu doge. Il cardinale avea tradotto varie omelie di san Giovanni Grisostomo.

327. Epistol., pag. 357.

328. Ep. 5, lib. X. Un altro famoso erudito visitò allora l'Italia, Guglielmo Budeo di Parigi, mandato da Francesco I al papa. Egli stesso racconta: «Due volte fui a Roma, e le insigni città d'Italia e i dotti uomini di colà vidi di passaggio più che non gli udissi; e i professori delle migliori lettere salutai quasi dal limitare, cioè per quanto fu possibile ad uomo che scorreva l'Italia in fretta, e non per libera missione» (Epist. Erasmi 30, lib. II). Il Varillas (Hist. de Francois I) racconta che «l'accademia di Roma, che mai non era stata così pulita dal secolo d'Augusto in poi», gli fece accoglienza straordinaria, ed egli acquistò bentosto la famigliarità del papa, perchè era eccellente sovrattutto nella cognizione delle antichità greche di cui sua santità si piccava di conoscere. E soggiunge che gli faceva objezioni, dond'egli aveva occasione di sfoggiar dottrina; il che garbava al papa, desideroso di tirar in lungo i negozj e di nulla conchiudere. Ne' suoi scritti, principalmente De asse, si avventa contro la sregolatezza del clero, ma fu sempre avversissimo ai novatori, e nel libro De transitu hellenismi (1535) esorta Francesco I a conservarsi fedele cattolico, e loda la famosa processione, nella quale al re fu dato lo spettacolo di molti eretici bruciati.

329. Fra le meraviglie che Cristo predisse a san Francesco, v'era la promessa che, chi malvolesse all'Ordine serafico, non vivrebbe mezza l'età sua: e ciò s'era avverato poc'anzi nel cardinale di Sion, quel prelato guerresco che tanta sciagurata parte ebbe nelle guerre d'Italia. Per principale opera di esso (narra il dialogante), quattro Domenicani erano stati bruciati a Berna nel 1509, perchè con finte visioni aveano indotto il sarto Jezer a professare come rivelatogli, che Maria Vergine ebbe il peccato originale; e quando Jezer si avvide della frode, essi lo avvelenarono nell'eucaristia. Riferisco questo fatto perchè, come in troppi altri, s'imputerà il sant'Uffizio d'avere arso uomini per un'impostura o per un mistero, tacendo che il fece per delitto comune, aggravato da un'empietà che desterebbe orrore fino in quest'età nostra, tollerantissima in fatto di colpe, quant'è intollerante in fatto di sbagli o di dissensi.

330. Marquardi Gudii et doctorum virorum ad eum epistolæ. Utrecht 1697.

331. Nella Vergine Misogamo: Quemadmodum nemini suadere velim ut, quæ se in hoc vitæ genus conjecerit, luctetur emergere, ita non dubitem hortari puellas omnes, præsertim indolis generosæ, ne se temere eo præcipitent, unde post sese non possint explicare.

332. Pugnent qui volent, ego censeo leges majorum reverenter suscipiendas, et observandas religiose, velut a Deo profectas, nec esse tutum, nec esse pium de potestate publica sinistram concipere aut serere suspicionem. Et si quid est tyrannidis, quod tamen non cogat ad impietatem, satius est ferre quam reditiose seluctari. Ἰχθυοφαγία.

333. Paraclesis in Novum Testamentum.

334. Ep. 30, lib. I.

335. Nelle note al c. 19, XII di san Matteo dice corna del celibato monastico: al c. 6 di san Giovanni si avventa contro gli Ordini mendicanti.

336. Quum Paulus III statuisset in futurum synodum aliquot eruditos in cardinalium numero allegere, propositum est et de Erasmo. Sed objiciebantur impedimenta; valetudo ad obeunda munia inutilis, ac census tenuis. Ajunt enim esse senatusconsultum, quo submoventur ab ea dignitate quibus annui reditus sunt infra tria ducatorum millia. Nunc hoc agunt ut onerent præposituris me... reclamantem, ac manibus pedibusque recusantem, ac perpetue etiam recusaturum. Lib. XVII., epp. 28 e 25.

337. Il Flaminio dice che «Lo scriver bene, massime nella lingua latina, è tanto difficile, che dovremmo mirar quasi come cosa miracolosa un buon scrittore, ma siamo tanto ignoranti che non sappiamo discernere gli eccellenti da' plebei: e subito che l'uomo nelle sue composizioni schifa i vocaboli barbari e frateschi, pensiamo ch'egli scriva bene latino; e da qui nasce che, non solamente il vulgo, ma eziandio molti che per le città hanno fama di buona dottrina e di buon giudizio, ammirano lo stile di Erasmo, del Melantone, e di certi nostri italiani, li quali non seppero mai, nè forse sapranno ciò che sia la bellezza, l'eleganza, la purità e la copia della lingua latina». Lettere vulgari.

338. Sadoleti, Ep. 2. lib. XVII.

339. Ep. 1 e 2, lib. IV.

340. Fra le sue celie è notevole questa: Deputatos appellant Galli, opinor quod male putati sint, aut certe plus satis putati. De colloquiorum utilitate.

341. Dialogus cujuspiam eruditissimi festivus sane ac elegans, quomodo Julius II pontifex maximus post mortem cœli fores pulsando, ab janitore illo D. Petro intromitti nequierit. Tutti però ne lo credettero autore, sebbene altri lo attribuissero a Fausto Anderlino, e meglio a Hutten. È certo una delle più argute satire. Giulio II s'infuria perchè san Pietro non vuole introdurlo, ed enumera meriti, che tali non sono agli occhi del santo, il quale gli chiede la ragione delle sue guerre contro Bologna, contro Ferrara, contro i Veneziani, che aveano usurpato una parte del patrimonio di san Pietro. Questa denominazione fa non poca meraviglia all'apostolo, che ogni ben suo avea lasciato per seguire Cristo. E si meraviglia ancora che la Chiesa adunata in concilio non abbia deposto un tal papa. Giulio risponde, non poterlo essa nè per omicidio, nè per fornicazione, nè per bestemmie, nè per simonie; e soggiunge:

Il concilio! fremereste d'orrore se sapeste cosa proponeva.

San Pietro. Cioè?

Giulio. Fremo ancora di rabbia. Questi scellerati voleano ricondur la Chiesa nostra, così florida e opulenta, ai giorni di sua miseria e delle frugali virtù. Voleano che i nostri cardinali, potenti e doviziosi come principi, ritornassero gli umili e poveri diaconi d'un tempo: che si spogliassero i vescovi dei loro palazzi, del fasto, delle carrozze, e si mettesse sul trono papale non il più ricco, ma il più degno.

San Pietro. Questi scellerati parlavano come Quello di cui tu ti chiami vicario. Ma quai sono i nemici che tu volevi cacciar d'Italia?

Giulio. I barbari.

San Pietro. Che bestie sono coteste che chiami barbari?

Giulio. Sono uomini.

San Pietro. Uomini dunque; ma non cristiani.

Giulio. Anche cristiani; ma cos'importa?

San Pietro. E perchè li chiami barbari?

Giulio. È il nome che noi italiani diamo agli stranieri.

San Pietro. Eppure Cristo è morto per tutti gli uomini; la sua croce gli ha resi tutti eguali.

Giulio. E' non è morto pei Francesi, che disprezzano i nostri fulmini, e ridonsi delle nostre bolle. Passi per gli Spagnuoli, che ci adorano in ginocchio, come noi mandiamo ad essi vasi d'oro, stocchi benedetti, bolle, ed essi ci ripagano con oro e soldati.

San Pietro. Il tuo regno è di Satana, non di Cristo. Chi si fa vicario del mio maestro, dee attendere solo a seguire gli esempj di esso.

Giulio. Nulla è più nobile che veder ingrandita la Chiesa.

San Pietro. La Chiesa si compone di tutti i cristiani; e tu la scomponi soffiando guerre e discordie.

Giulio. Che parli di popoli cristiani? noi chiamiam chiesa le basiliche, i preti, e principalmente la Corte di Roma, e me pel primo, che son capo della Chiesa.....

Segue un bizzarro confronto fra la Chiesa umile e povera de' tempi di san Pietro, e la suntuosa e potente di Giulio; quello si gloria d'aver guadagnato migliaja d'anime a Cristo; questo d'aver arricchito la Chiesa. San Pietro lo manda a fabbricarsi con quelle ricchezze un paradiso, chè in questo e' nol riceverà. Giulio minaccia por l'assedio al paradiso, ed entrarvi di forza coi 60 mila uomini che perirono nelle sue guerre; onde alfine san Pietro dice non meravigliarsi se, con tali uomini a capo, sì pochi or giungano al paradiso.

342. Avremo a parlarne di nuovo. Possono vedersi

Ad. Mueller, Vita di Erasmo di Rotterdam. Amburgo 1828.

Lieberkuen, De Erasmi ingenio et doctrina. Jena 1860.

343. Quali fossero i collegi di là dell'Alpi lo raccogliamo, per tacere altri, da due che avemmo occasione di nominare. Erasmo racconta che, nel collegio di Montaguto a Parigi, avea per direttore un Giovanni Staudin, non cattivo, ma privo di giudizio; non dava che letti duri, cibo insufficiente, veglie penose, lavori stanchevoli. Molti giovani di belle speranze ne morirono, o divennero ciechi, o furon presi dalla lebbra o da follia. E non solo maltrattava i poveri, ma anche giovani di ricche famiglie. Di fitto verno non dava che un tozzo di pan duro, e mandavali alla fontana attinger un'acqua fetida, malsana, gelata. I dormitorj erano al pianpiede, presso a latrine puzzolenti, e con muri coperti di muffa (Colloquia: Ichthyophagia). Rabelais fa dire a Ponocrate, intorno al collegio stesso: «Seigneur (Grandgonfier), ne pensez pas que je l'aye mis au collège de pouillerie qu'on nomme Montaigu; mieux l'eusse voulu mettre entre les genoulx de saint-Innocent, pour l'énorme cruaulté et villenie que j'y ai cognue: car trop mieulx sont traicté les forcés entre les Maures et Tartares, les meurtriers en la prison criminelle, voyre certes les chiens en votre maison, que sont ces malautrus au dit collège».

344. Opere di Lutero, ediz. di Walch, tom. XXII, pag. 786 e seg.

345. Opere di Lutero, tom. XIX, pag. 1509, si legge espresso: «Prima ch'io finissi il vangelo, il mio vicino avea finito la messa, e mi si diceva, passa, passa». I biografi posteriori esagerarono questo racconto per tramutare una celia in una bestemmia, e più rilevare la corruzione de' preti. Selneccer (Oratio de divo Lutero, pag. 31), traduce: «Passa, passa, idest, festina et matri filium remitte». Mathesius lo copia, se pure non fu lui che l'inventò. E i biografi moderni si fecero belli di quest'empio scherzo contro la dottrina della transustanziazione.

346. Tischreden, pag. 464, 607. Dopo le tante vite di Lutero, uscì or ora Leben und ausgewählte Schriften der Väter und Begründer der luterischen Kirche, eingeleitet von K. J. Nitsch. Elberfeld 1860 e seguenti.

347. Opere, T. I, op. 5.

348. Nelle regole di san Bonifazio, Michelet (Hist. de France, T. I, p. 286) lesse che «se un monaco peccò con una donna, digiuni due giorni in pane e acqua». Ora il testo dice: Si quis monachus dormierit in una domo cum muliere, tres dies in pane et acqua: si nescivit quod non debet, uno die. Del resto in quel Penitenziale, ducento colpi, che è il massimo delle sferzate, equivalgono a due giorni in pane e acqua.

349. Il concilio di Firenze definì intorno allo stato delle anime dopo morte, «che quelle de' veri penitenti, morti nella carità di Dio prima di aver fatto frutti degni di penitenza in espiazione dei loro peccati di commissione e di ommissione, sono purificate dopo morte colle pene del purgatorio, e sollevate da queste per suffragi de' fedeli viventi, come il sacrifizio della messa, le preghiere, le limosine e altre opere di pietà, che i fedeli fanno per gli altri fedeli, secondo le regole della Chiesa. Le anime di quelli che hanno peccato dopo il battesimo, o che, caduti in peccato, ne furono purificati in vita prima d'uscirne, entrano subito in cielo, e vedono puramente la Trinità, gli uni più perfettamente degli altri, secondo la differenza de' meriti loro. Le anime di quelli che son morti in peccato mortale attuale o nel solo originale, precipitano nell'inferno per esservi puniti, quantunque inegualmente».

350. Essendo morta Monica sua madre, Agostino racconta come Evodio prese il Salterio e cominciò a cantare un salmo, a cui tutta la casa rispondeva: Misericordiam et judicium cantabo tibi, Domine. E molti fratelli e religiose donne accorsero, mentre egli cercava reprimere l'intenso dolore. «Quando il corpo fu portato via, andai e tornai senza lagrime; e neppur nelle preghiere che a te, o Signore, porgiamo mentre ti si offriva per essa il sagrifizio del Salvator nostro (Cum tibi offerretur pro ea sacrificium pretii nostri), posto il cadavere vicino al sepolcro, come colà si usa, io non piansi» (Confessioni, lib. IX, cap. 12). Pure si accusa di averla troppo deplorata, e guarito dall'eccesso, prega Dio per essa colle lacrime che vengono dal riflettere ai pericoli d'ogni anima che muore in Adamo. Perocchè, sebben essa fosse vissuta santamente, pure non era certo che non le fosse uscita qualche parola contro il precetto divino: e guai alla vita più lodevole se venga scrutata senza misericordia! E però lo esortava pei peccati di sua madre, non allegando i meriti di essa, ma pel redentore che pendette in croce, e che sedendo alla destra di Dio implora per noi. «E poichè operò essa misericordiosamente, e perdonò ai debitori, perdona ad essa pure i suoi debiti. Se contrasse alcuna macchia in tanti anni dopo il lavacro di salute, perdonale, o Signore, te ne prego, e non entrar in giudizio con essa. Nè essa desiderò monumento o aromi, o il sepolcro patrio. Non questo ella ci raccomandò, ma di commemorarla all'altare tuo, al quale s'era prostrata ogni giorno infallantemente, dove sapeva dispensarsi la vittima santa dalla quale fu cancellato il chirografo a nostro carico; O Signore Dio mio, a' tuoi servi, ai fratelli miei, a chiunque leggerà queste carte, ispira che all'altare tuo si ricordino di Monica e di Patrizio che fu suo marito» (cap. 13). Inoltre nel sermone XVI, de verbis apostoli, dice: Injuria est pro martyre orare, cujus debemus orationibus commendari. Boezio, Della consolazione della filosofia, lib. IV, 4, scrive: Nullane animarum supplitia post defunctum morte corpus relinquis? Et magna quidem, quorum alia pœnali acerbitate, alia vero purgatoria clementia exerceri puto.

Il Muratori, nella Dissertazione LVI delle Antiquitates medii ævi, reca molti lasciti, anteriori all'800, per far dire messe anche quotidiane.

351. Gian Galeazzo Visconti desiderando evitare i pericoli causati dall'esser in guerra coi Fiorentini, e ammassar denaro per la fabbrica del duomo di Milano, impetrò da Bonifazio IX che i suoi sudditi potessero acquistar il giubileo senza andare a Roma, ma visitando quattro basiliche di Milano. Il Corio asserisce che la bolla portava che, «se anche non fosse contrito nè confesso, fosse assolto da ogni peccato in questa città, dimorando dieci giorni continui». Or noi possediamo tal bolla, del 12 febbraio 1391, e dice espresso che sieno vere pœnitentes et confessi.

352. Vedi la nota 5 del Discorso XII.

353. Da ciò nacque il tribunale della reverenda fabbrica di San Pietro, che esiste tuttora.

354. Il Guicciardini scrive avere il papa assegnato il prodotto delle indulgenze di Germania a sua sorella madonna Cibo. Esiste la bolla pontifizia che gli dà la mentita.

355. Proposizione 71.

356. Ein wohl betrunkener Deutscher. Lutero, Opere, tom. xxii p. 1337.

357. San Domenico ottenne da papa Onorio III il convento di Santa Sabina in Roma nel 1218, e parte del palazzo pontifizio per collocarvi i suoi religiosi. Consigliò al papa di deputar alcuno che istruisse nella morale e nella religione gli addetti a questo palazzo, e il papa ne affidò l'incarico allo stesso san Domenico, che tolse a spiegar le epistole di san Paolo. Piacque a Onorio perpetuar tale istituzione, affidandola sempre a un domenicano, col titolo di maestro del sacro palazzo. Così si succedettero settantasei maestri, i quali ora, l'avvento e la quaresima, predicano ai famigliari palatini, e tengono tre giorni di catechismo avanti ciascuna delle quattro comunioni generali annue che si fanno nel palazzo apostolico. Al maestro venne poi commessa la censura de' libri. Vedi Annio da Viterbo, De dignitate officii magistri sacri palatii: Catalani, De magistro S. P. apostolici, libri duo. Roma 1751.

358. In præsuntuosas M. Luteri conclusiones de potestate papæ dialogus. Ho alla mano Replica fratris Silvestri Prieiratis ad fratrem Martinum Lutherum, senza data, in dieci carte, ove difende sè dalle dategli incolpazioni.

359. Luteri Opp. Jena, tom. I, pag. 60.

360. Per esempio, al Concilio di Basilea erasi argomentato: «Per presedere alla Chiesa universale bisognerebbe che il papa presedesse ai capi e ai membri di tutte le Chiese stabilite nell'universo. Ora il papa non presiede al capo della Chiesa romana, perchè non può presedere a se stesso. Dunque non presiede a tutte le Chiese che costituiscono la Chiesa universale».

361. Federico Borromeo racconta che il duca Lodovico il Moro, recatosi nel convento de' Domenicani a Milano per conversare, come soleva, con que' frati, vide il padre Vio, di piccola e spregevole statura, e domandò al priore perchè tenesse omicciatoli siffatti. Il priore rispose: Ipse fecit nos et non ipsi nos: e introdotto a ragionar con esso il Vio, lo chiarì quanta ne fosse la sapienza e la virtù, sicchè dappoi il duca l'ebbe in maggior credito che gli altri frati.

362. De servo arbitrio. Invano gli si nega un insegnamento così repugnante all'intimo senso morale e alla sana ragione. Nelle sue opere dell'edizione di Wittenberg, 1572, tom. VII, fol. 18, si legge: «Un'opera buona, compita il meglio possibile, è un peccato quotidiano davanti la misericordia di Dio, e un peccato mortale davanti la sua stretta giustizia». Nella Cattività di Babilonia: «Ve' quanto un cristiano è ricco! non può perdere la sua salute neppure volendolo. Commetta peccati gravi quanto vuole, finchè non è scredente nessun peccato può dannarlo. Finchè la fede sussiste, gli altri peccati sono cancellati in un istante dalla fede». E nella Libertà Cristiana: «Di qui si vede come il Cristiano è libero in tutto e sovra tutto; giacchè per esser giustificato non ha mestieri di veruna specie di opere, e la fede gli dà tutto a sovrabbondanza. Se alcuno fosse tanto stolto da credere ch'e' può giustificarsi e salvarsi mediante le opere buone, perderebbe subito la fede con tutti i beni che l'accompagnano». Quando nel 1541 a Ratisbona Melantone cercò accordarsi coi Cattolici, dicendo che per la fede che giustifica doveva intendersi una fede operante per la carità, Lutero dichiarò ch'era un misero ripiego, una toppa nuova s'un abito vecchio, che lo straccia di più.

363. Esto peccator et pecca fortiter: sed fortius fide et gaude in Christo, qui victor est peccati, mortis et mundi — Peccandum est quamdiu hic sumus — Sufficit quod agnovimus per divitias Dei Agnum qui tollit peccata mundi; ab hoc non avellet nos peccatum, etiamsi millies, millies uno die fornicemur aut occidamus. Lettere di Lutero, raccolte da Giovanni Aurifabro. Jena 1556, Tom. I, pag. 545.

364. Sull'uso primitivo della liturgia nelle varie lingue delle provincie convertite, può, senza ricorrere a opere pesanti, consultarsi Martigny, Dict. des Antiquités chrétiennes. Parigi 1865, principalmente all'articolo Langues liturgiques. Sol quando le antiche lingue si mutarono nelle nuove, non parve prudenza il mutar la liturgia. Nulla però vieta di farlo, e, per esempio, ai Cinesi fu conceduto l'uso della lingua loro.

365. Panzer, Not. lett. delle Bibbie tedesche anticamente stampate.

366. Le legende del reverendo Jacobo da Varagine furono riprovate da Melchior Cano e da Lodovico Vives; ma fin nel secolo XIV eransi riconosciute favolose, e frà Bernardo Guidone domenicano fu spinto dal suo superiore ad opporvi un legendario attinto a migliori fonti. Altri modernamente il difese, mostrando ch'egli non dà per accertato quel ch'è mera tradizione; talvolta ripudia certi fatti; giova poi immensamente come testimonio delle credenze del tempo, e a spiegare passi di poeti e opere d'artisti del medioevo.

Il Malermi nel 1475 volgarizzò il legendario del Varagine, e dice che chiamò a sè «il dilecto Hieronymo clarissimo citadino fiorentino, non meno erudito nelle sacre lettere quanto di virtù adornato, adciochè qui rivedesse e ad arbitrio suo emendasse quello ritroverebbe da essere correcto».

Il Fontanini dimostrò che non esiste una versione della Bibbia del Varagine, vissuto a metà del XIII secolo. Ben si conosce una traduzione dell'Apocalissi, con sposizione continua, fatta in rozzo veneziano da frà Federico de Renoldo, che visse nel 1300, e fu stampata dal Paganini a Venezia nel 1515 col titolo «Apocalypsis J. C. hoc est revelatione fatta a sancto Giohanni Evangelista con nova espositione in lingua volgare composta per el Reverendo Theologo et angelico spirito Frate Federico Veneto ordinis Predicatorum, cum chiara dilucidatione a tutti soi passi».

Aldo Manuzio, nella lettera premessa al salterio greco del 1495 prometteva pubblicare l'intera Bibbia in latino, greco, ebraico, e aver già preparato i caratteri ebraici, de' quali in fatto trovasi un saggio alla biblioteca della Sorbona (vedi Foscarini, Della letteratura veneziana, lib. IV). La Bibbia dei LXX comparve per gli Aldi sotto la direzione di Andrea Asolo nel 1518, e il paragone colla vulgata diede esercizio alla critica.

367. Haym porge l'edizione del Malermi per Vindelino da Spira a Venezia, 1471: un'altra dell'anno stesso senza nome nè luogo: una Bibbia italiana, Pinerolo per Giovanni de' Rossi, 1475: altra del Malermi, Venezia per Antonio Bolognese, 1477: e dell'anno e luogo stesso per Pietro Trevisano: e del 1484 per Andrea Paltafichio di Cataro, e del 1494 per Giovanni Rosso vercellese ad istanza di Luc'Antonio Giunta. Le epistole, vangeli e lezioni di tutto l'anno: Bologna 1473: Venezia 1483, poi 1487 per Annibale da Parma: Roma 1483: Venezia 1507 e 1522, senza nome del traduttore.

368. Sarebbe quella del Genson del 1471. La Crusca si valse d'un testo manuscritto, senza ben comprendere che cosa fosse; e lo citò come annotazioni evangeliche; poi nella stampa che or fa del Vocabolario, come volgarizzamento di pistole e di vangeli.

369. Nella Bibbia edita a Basilea nel 1491, ch'è nella Magliabecchiana, oltre le postille in margine, ha molti fogli in principio e in fine, scritti così minuto, che vuolsi la lente a leggerli. Nell'altra edizione di Venezia 1492, or nella Ricardiana, le note son molto più chiare; vi si dan notizie storiche e geografiche, il senso d'alcune parole ebraiche per trarne poi le varie interpretazioni, ma ben di rado entra in discussioni meramente teologiche, e non si ferma ai passi che viepiù furono discussi dai Riformati.

Consimile lavoro faceasi anche da altri frati, come può vedersi in varie Bibbie, e senza scostarsi da Firenze, in due che stanno a San Marco, in pergamena, e che erroneamente si attribuiscono al Savonarola stesso. V. Villari, La storia di Girolamo Savonarola, 1859.

370. Savonarola, Sermone per la V domenica di quaresima.

371. Quetif et Echard, Script. Ord. Prædic., tom. II, pag. 114, 115.

372. Clementine, lib. V, tit. De magistris.

373. Il cardinale Ximenes per la sua Bibbia ebbe molti ajuti dalla Biblioteca Vaticana, e nella dedica a Leon X dice: In ipsis exemplaribus græca sanctitati tuæ debemus, qui ex ista apostolica bibliotheca antiquissimas tum veteris, tum Novi Testamenti codices perquam humane ad nos misisti.

Erasmo, esaminando qualche varianti del codice vaticano del Nuovo Testamento, si stupì della conformità di esso colla vulgata latina, ove questa discorda dai codici greci, e pensò fosse corretto sulla versione latina. Ma più saviamente il cardinale Cervini da Trento scriveva a Roma a monsignor Maffei: «Li testi delle due lingue (greca ed ebraica) sono spesso più scorretti che li latini: anzi, quanto più sono di esemplari antichi e fedeli, tanto più si trovano conformi alla nostra vulgata». Così i legali del cardinale Farnese scriveano: «Quanto più li testi greci et hebrei sono migliori, tanto più comprovano la lettione di questa vulgata». Vedansi le dissertazioni del Vercelloni. Ed oggi in fatto i migliori critici vorrebbero si possa valersi della traduzione detta Itala per correggere il testo greco del Nuovo Testamento e la versione dei LXX.

Il Prayer Book, o Libro di preghiere adottato dalla Chiesa Anglicana, si valse, per tutti i passi biblici, della nostra vulgata. Ristampandolo testè, si conservò il medesimo sistema, del che menarono gran rumore i rigoristi. Ma si mostrò che Routh, preside del collegio di Oxford, raccomandava a' suoi scolari la vulgata come eccellentissimo commento sulla Scrittura.

374. Schnurrer, Bibl. Arabica, pag. 231-34.

375. Id. pag. 402.

376. Le Long, Ediz. Masch., vol. I.

377. Colomesii, Ital. oratores, ad nomen.

378. Eck racconta che Lutero diceva che Cristo disse a Pietro: «Tu sei pietra», poi toccando se stesso, soggiunse: «E su questa pietra sarà edificata la Chiesa». Il dottore Thiess (Incompatibilità della potestà spirituale colla profana, p. 17) annovera ottantacinque diversi commenti della parabola del castaldo infedele, e centocinquanta di quel testo, Mediator autem unius non est: Deus autem unus est. Ad Gal. III, 20.

379. Cioè, Dell'ispirazione divina delle sacre scritture. È il versetto 16 del c. II, ep. II ad Timoth.

380. San Matteo xix, 17.

381. Nelle regole per l'Indice è detto esser manifesto che, se la Bibbia in vulgare passim sine discrimine permittatur, ne vien più pericolo che utilità; si stia dunque al giudizio del vescovo o dell'inquisitore per concederla a quelli che possano trarne non danno, ma aumento di fede e pietà. Regola IV.

382. Pietro Nicole, famoso avversario de' Gesuiti, nei Préjugéz légitimes contre les Calvinistes (1671), toglie a mostrare che «la via proposta dai Calvinisti per istruir della verità è ridicola e impossibile». E vuol provare che giovarsi di questa via non è possibile se non assicurandosi, 1º se i passi allegati son veramente tratti da un libro canonico; 2º se son conformi all'originale; 3º se non v'è maniera differente di leggerli, la quale ne affievolisca la pruova. Ne trae la conseguenza che quei che nel XVI secolo uscirono dalla comunione romana nol poterono che con eccesso di temerità; salvo che avessero esatta conoscenza delle ragioni che la favoriscono, di quelle che la combattono, e di tutte le objezioni che possono farsi sui passi scritturali addotti da una parte e dall'altra.

Claudius pretese confutarlo mostrando che altrettanti studj occorrono per essere accertati delle verità cattoliche. Non parmi. Ammesso che la Chiesa possa dire «Chi ascolta voi ascolta me», tutte le dubbiezze sono tolte dalla decisione di quest'autorità vivente. Vedi sopra ciò la Conferenza collo stesso Claude sur la matière de l'Eglise.

383. Bartolomeo Caranza, arcivescovo di Toledo, che vedremo vittima dell'inquisizione spagnuola, così discorreva delle Bibbie in vulgare. «Prima che le eresie di Lutero sbucassero dall'inferno, non so che in nessun paese siasi proibita la Bibbia in vulgare; se ne fecero versioni in Ispagna, d'ordine del re cattolico al tempo che Ebrei e Mori poteano viver tra' Cristiani, governandosi a leggi proprie. Cacciati che gli Ebrei furono di Spagna, i presidi alla religione s'avvidero che alcuni convertiti istruivano i figliuoli nel giudaismo, avezzandoli alle cerimonie mosaiche mediante queste Bibbie vulgari, che poi si stamparono a Ferrara in Italia. Per questo motivo giustissimo proibironle in Ispagna: pure si fece eccezione ai collegi, ai monasteri, a persone superiori al sospetto, dandosi loro licenza di tenerle e leggerle». Segue narrando tali proibizioni in altri paesi, e conchiude: «In Ispagna, dove, per grazia di Dio, si dura immuni dalla zizzania, si vietò ogni traduzione vulgare della Bibbia per toglier occasione ai forestieri di trattar delle loro quistioni con persone semplici e illetterate, e anche perchè si ha pruova di casi particolari e di errori, che rampollavano in Ispagna, nati dall'aver letto qualche passo scritturale senza capirlo. Così sta il fatto, e per ciò si proibirono le Bibbie volgarizzate». Commenti al Catechismo cristiano.

384. Et ego, fratres, non potui vobis loqui quasi spiritualibus, sed quasi carnalibus, tamquam parvulis in Christo lac vobis potum dedi non escam, nondum enim poteatis: sed nec nunc quidem potestis, adhuc enim, carnales estis. I ad Corinthios III. 1, 2.

385. Basta citar ad esempio alcune vedute proprie di sant'Agostino sulla Grazia e sul peccato originale che non furono mai adottate dalla Chiesa come dottrina universale.

386. Sant'Epifanio descrive le più turpi sporcizie de' Gnostici, tali che neppur in latino oseremmo produrle. Asserisce che uxores habuerunt communes.... impudica fœminarum et virorum contractatio nota fuit ejusdem professionis in religione.... Synaxim ipsam turpitudine multiplicis coitus polluerunt, comedentes ac contingentes tum humanas carnes, tum immunditias.... Vir quidem concedens alteri uxorem, Surge, dixit, fac dilectionem cum fratre... Voluptatis gratia tantum, non generationis coierunt: hanc enim aversati sunt... Si quæ prægnans facta fuit mulier, detractum fœtum in mortario pistillo contuderunt, et admixto melle ac pipere et aliis quibusdam aromatis ac unguentis ad avertendam nauseam, sic congregati omnes porcorum et canum horum sodales participes facti sunt pueri contusi... Animam dixerunt esse virtutem menstrui sanguinis et genitalis seminis; quam colligentes et edentes, sive carnes, sive olera, sive panem, sive aliud quod vorarent, gratificare se creaturas dixerunt, animam ab omnibus colligentes, et ad cælestia secum transferentes. Animam enim et in animalibus et in plantis et in hominibus eandem esse docuerunt... Exarsere etiam in seipsos, viri in viros, fœminæ in fœminas..... (Hæres. XXVI). Eusebio di Cesarea asserisce che usavano anche l'arte magica: magicas Simonis præstigias non clam ut ille, sed palam ac publice tradendas esse censebant.

387. Koch, Sanctio pragmatica Germaniæ illustrata. Cap. ii, § 45.

388. A Piacenza un frate fanatico annunziò, nel 1420, che da tre anni era nato l'anticristo in Babilonia, col che costernò i cittadini, finchè lo confutò il vescovo Alessio da Seregno.

389. Prato, Cronaca di Milano.

390. Jacobi Sadoleti cardinalis, De Christiana Ecclesia, Ad Johannem Salviatum cardinalem.

... Majores nostri sapientissimi homines, optimis illis temporibus, quibus ecclesiastica vigebat disciplina, quæ nunc tota pæne nobis e manibus elapsa est, tales eligebant et consacrabant sacerdotes, quos doctrina vitaque eximios, egregie et posse et velle intelligerent docere populum publice, habere conciones, præcipere plebibus quæ facienda cuique essent.., Solis tum presbyteris et sacerdotibus Dei hæc concionandi et dicendi provincia in templis et sacris locis erat demandata; reliquis omnibus de populo, etiam ex ea vita quam monasticam vocamus, quamvis doctis et prudentibus ab hoc omni munere penitus exclusis.

391. Bellarmino, Concio XXVIII in dom. Lætare.

392. Lettera 19 agosto 1532 nelle Cartas al emperador Carlo V escritas por su confesor. Berlino 1848.

393. Proposizione 71.

394. Proposizione 31.

395. Quando gli Anabattisti e gli altri fanatici spinsero all'eccesso l'interpretazione individuale, Lutero sosteneva verità oppostissime a quelle che tennero poi i suoi seguaci. «Il dogma della presenza reale non fu inventato dagli uomini, ma è fondato sul vangelo e sulle precise irrefragabili parole di Cristo, e fin dal principio fu uniformemente predicato e creduto. In mancanza d'altre prove basterà la tradizione di tutte le chiese per respingere i sofismi de' settarj: poichè è pericoloso il dar ascolto a cosa alcuna contro la testimonianza unanime della Chiesa e la dottrina ch'essa c'insegnò da quindici secoli. Chi mette in dubbio questo dogma, nega la santa Chiesa cristiana. Ora negar la Chiesa è condannar Gesù Cristo, gli apostoli e i profeti. Se Dio non può mentire, la Chiesa non può errare». E prosegue a sviluppar le idee stesse. Vedasi la sua lettera ad Alberto di Prussia. E dice anche: «Noi riconosciamo che nel papismo vi è molto di buono, anzi tutto il buono cristiano, il vero battesimo, il vero sacramento dell'altare, le vere chiavi, il vero perdono de' peccati, la vera predicazione, il vero catechismo. Io dico che sotto il papa vi è il vero cristianesimo, o a meglio dire il fior del cristianesimo».

396. Lo dice Pascal, ne' cui Pensieri se ne vede una stupenda spiegazione e giustificazione.

E Lutero e Melantone riteneano anche l'assoluzione: perocchè il primo nella disputa del 1518, e l'altro nell'apologia della Confessione Augustana, sostennero, absolutionis ministrum, etiamsi contra prohibitionem superioris absolvat, vere nihilominus absolvere a culpa, et coram Deo. Lutero dice: Occulta confessio, quæ modo celebratur, etsi probari ex Scriptura non possit, miro modo tamen placet, et utilis, imo necessaria est, nec vellem eam non esse; imo gaudeo eam esse in ecclesia Christi. De Captivitate Babylonis, tom. II, pag. 292.

E negli articoli smalcaldici, p. III, c. 8: Nequaquam in ecclesia confessio et absolutio abolenda est, præsertim propter teneras et pavidas conscientias, et propter juventutem indomitam et petulantem, ut audiatur, examinetur et instituatur in doctrina christiana. La confessione fu conservata lungo tempo dai Protestanti, e il famoso Spener fondatore de' Pietisti, nel 1686 era confessore dell'elettor di Sassonia: ma allora appunto Schaden trovò che quell'atto fosse fonte di superstizione, ingannandosi i penitenti sull'effetto dell'assoluzione: ne nacque gran disputa, e Spener riuscì ad acquetarla, facendo decidere fosse libero ai fedeli premettere o no alla sacra cena la confessione. Ciò la fece cadere in disuso.

397. Möhler che, nella Simbolica, diede la più bella esposizione delle contrarietà dogmatiche fra Cattolici e Protestanti, dice «vedrebbe con piacere l'uso del calice lasciato all'arbitrio di ciascheduno: locchè avverrà certo allorquando il voto generale in amore e unità si pronunzii in favore di tal pratica con tanto vigore, con quanto la avversò dopo il secolo xii». § xxxiv.

398. Oggi la dottrina di Lutero sopra la giustificazione è ormai abbandonata da tutti i Protestanti.

399. Vedi la relazione di Spalato ap. Seckendorf II, 165.

400. Lettere di Principi a Principi, vol. III, pag. 16, senza indicazione di nome.

401. Vedi Monumenta Vaticana, Num. LXIII, pag. 84. E pag. 89 dove torna più ampiamente su questo punto.

402. Monumenta Vaticana, Num. LXVIII.

403. 31 agosto 1532, nel vol. V, 224 delle lettere della legazione di Germania nell'Archivio Vaticano.

404. Döllinger (La Chiesa e le Chiese), per mostrare ch'è illusione l'attender l'unione de' Cattolici coi Protestanti per mezzo della Scrittura, fa osservare che la disputa fra Luterani e Riformati sulle parole con cui Gesù Cristo istituì l'Eucaristia, dopo infiniti colloquj e migliaja di libri per tre secoli, non ha fatto un passo.

405. Al testo di san Paolo sulla efficacia della fede, Lutero aggiunge la parola sola: e scrivendo a Link nel 1550, dice: «Se il papista vuol seccarci per la parola sola, rispondetegli chiaro: Il dottor Martino vuol così, e dice: Papista e asino è tutt'uno. Sic volo, sic jubeo, sit pro ratione voluntas. Mi rincresce di non aver messo anche senz'alcun'opera d'alcuna legge, che esprimerebbe più netto il mio pensiero. Perciò voglio che questa parola rimanga nel mio nuovo Testamento, e dovessero tutti questi asini di papisti impazzirne, non riusciranno a levarla».

406. Ad Galatas, V, 6.

407. Sessione vi, cap. viii.

408. Ibid., cap. vii.

409. Homo christianus, etiam volens, non potest perdere salutem suam, quantiscumque peccatis, nisi nolit credere. Nulla enim peccata eum possunt damnare, nisi sola incredulitas. Lutero, De captiv. Babyl.

410. Nell'epistola stessa è detto che Gesù Cristo si offre a Dio entrando nel mondo (10,5); che si mette al posto delle vittime che a lui non piacquero (9,24); che continua a comparire per noi davanti a Dio (9,26), e non cessa d'intercedere per noi (7,25); senza che con ciò l'apostolo accusi d'insufficienza l'oblazione sulla croce e l'intercessione fatta morendo.

411. Lutheri Opp. ediz. Witenberg. Tom. II, p. 44, T. VII, p. 56.

412. L'istituzione de' concistori per autorizzar alla predicazione è in aperta contraddizione colla missione che vien attribuita a ciascun fedele. Fu sancita nella Confessione Augustana, art. XIV, e in conseguenza si dovette imporre alle Chiese d'aver un ministro e di mantenerlo. Ma il popolo non intendeva questa campana, e Lutero se ne lagna spesso, e «Il popolo non vuol offrire niente: la sua ingratitudine è tanto nauseante, che, se la coscienza non mi distogliesse, gli leverei e curati e predicanti, perchè viva da bestia, qual è in fatto».

413. Lettera di Daniel Barbaro a Domenico Venier nelle Lettere Vulgari. Venezia 1542, pag. 94. Era egli a Siviglia nel 1522 quando fece ritorno la nave Vittoria, che per la prima avea fatto il giro del globo; e stupivano d'aver perduto un giorno, benchè esatto giornale avessero tenuto. Nessuno sapeva darne ragione, ma il Contarini la spiegò.

414. Bibliotheca maxima pontificia. Roma 1698. Ad Paulum III P. M. de potestate pontificis in usu clavium et compositionibus, duæ epistolæ, pag. 179-183 del vol. XIII.

415. Su tal punto tenne qualche opinione particolare; non accettò pienamente quella di sant'Agostino, nè che pel peccato originale gli uomini siano riprovati: ed esorta i predicatori a toccare con gran riserbo tali quistioni.

416. Il fondamento di tutto ciò è principalmente nella raccolta delle epistole di Reginaldo Polo. Una vita del Contarini per monsignor Lodovico Baccadelli, contemporaneo, fu stampata il 1827 a Venezia.

417. Il Contarini scriveva al cardinale Farnese da Ratisbona, 28 aprile 1541: «Quanto al primato del pontefice, l'elettore di Brandeburgo non vi fa una difficoltà al mondo; Imo dice che gli pare necessarissimo, essendo fra cristiani una fede ed una Chiesa» Ep. Reginaldi Poli, tom. III, pag. 254.

418. Sua lettera del 19 gennajo 1541 al vescovo Nausea di Vienna, in Doellinger, die Reformation. Ratisbona 1848, tom. II, pag. 49.

419. Vedi la sua lettera all'elettore di Sassonia nella raccolta del De Wette, tom. V, pag. 353, 377.

420. Lettere di Principi a Principi, lib. III, pag. 169.

421. Un'ampia apologia del Contarini trovasi nella diatriba del cardinale Quirini alle epistole del cardinale Polo.

422. Quirini, Diatribæ III, CCLV. Le opere principali del Contarini sono: De immortalitate animæ contro il Pomponazio; Conciliorum magis illustrium summa, compendio più volte ristampato e giudizioso, cui spesso va unito il trattato De potestate pontificis: Scolj sulle epistole di san Paolo; Dei doveri de' vescovi; molte opere di controversia.

423. Lettere di XIII uomini illustri. Venezia 1564.

424. Ediz. di Walch, V, 114. — IX, 1310. — X, 2666. — VI, 620. — VIII, 564 ecc.

425. Libro simbolico è chiamato da' Protestanti una esposizione della dottrina ricevuta in una Chiesa particolare, insieme coll'enunciazione degli articoli su cui una dissente dalle altre sètte. Applicando tal denominazione anche alla Chiesa cattolica, chiamano primo libro simbolico il Concilio di Trento, secondo la professione di fede tridentina, terzo il catechismo romano.

426. Non è fuor di tempo ricordare uno dei Discorsi da Tavola di Lutero: «Dice il proverbio che la roba dei preti va in crusca; e di fatto quei che ghermirono i beni delle Chiese finirono per restare più poveri. Burcardo Hund, consigliere di Stato dell'elettor di Sassonia, soleva dire: «Noi nobili abbiamo aggiunto i beni de' conventi ai nostri, e quelli mangiarono questi in modo, che nè gli uni ci restarono, nè gli altri». E voglio raccontarvi una favoletta: «L'aquila rapì un pezzetto di carne arrostita dall'altare di Giove, e lo portò agli aquilotti del suo nido, e riprese il volo per cercare altra preda. Ma un carbone ardente era rimaso attaccato alla carne; cadde nel nido: vi appiccò il fuoco; e non sapendo gli aquilotti ancora volare, bruciarono col nido. Così avviene a coloro che pigliano per sè i beni della Chiesa, i quali furono dati per onorar Dio, o per sostenere la predicazione e il culto divino: devono perdere il loro nido e i pulcini, e soffrire nei corpi e nelle anime.» Tischreden, p. 292. Jena 1603.

427. In modo differente argomentava il re d'Inghilterra Enrico VIII contro Lutero: «Emilio Scauro, accusato da persona di niun conto al popolo romano, rispondeva: Quiriti, Varo afferma ed io nego: a chi crederete voi? E il popolo applause, e l'accusatore n'andò confuso. Questo solo argomento opporrò io alla questione del potere delle chiavi. Lutero dice che le parole d'istituzione s'applicano a' laici: Agostino nega: a chi crederete? Lutero dice di sì: Beda di no: a chi crederete? Lutero dice di sì, la Chiesa tutta levossi, e disse di no: a chi crederete?»

Un'altra imitazione de' forestieri nel 1865 fu l'introduzione in Italia de' Liberi Pensatori. Essi non appartengono agli eretici, perchè ripudiano ogni religione positiva: pure, colla solita incoerenza, impongono una fede. In fatto «Non ammettono altri veri che quelli dimostrati dalla ragione, altra legge morale che quella sancita dalla coscienza».

Qui è già supposto nell'uomo qualcosa d'innato, una morale naturale, una coscienza anteriore e indipendente da ogni legge. Poi la ragione potrebbe benissimo dimostrare che il cristianesimo o qualunque altra religione è vera. Eppure i Liberi Pensatori soggiungono un dogma esclusivo, che «considerano come negazione della coscienza e della ragione umana le religioni dogmatiche e rivelate». Nè basta: come conseguenza di questo loro dogmatismo impongono degli atti, con tanta assolutezza con quanto lo farebbe il papa o il gran lama, volendo che i loro associati professino di «vivere e morire fuori del seno di qualsiasi Chiesa o credenza dogmatica, e di uniformare a questo morale impegno tutti quegli atti che hanno rapporto alla nascita e morte de' figli non ancora in istato di libero discernimento, ecc.». L'intolleranza poi è spinta al segno di scomunicare quelli che, non solo propaghino, ma professino principj contrarj a quelli dalla società affermati. Vi sarà pure un sant'Uffizio, perchè la scomunica verrà proferita «da un giurì di nove socj, eletto nel seno della società». V'è la sua propaganda: v'è la solidarietà: tutte insomma le forme della servitù che rinfacciasi alla Chiesa costituita.

428. Calvino commentando il capo VI di Daniele, dice: Abdicant se potestate terreni principes cum insurgunt contra Deum: indigni sunt qui in numero hominum censeantur ideoque in capita potius eorum conspuere oportet quam illis parere.

429. Melantone professava «doversi gli articoli di fede mutar sovente e accomodarli ai tempi e alle circostanze». Infatto variò fin nelle asserzioni più solenni, per esempio, intorno alla presenza reale. I Luterani lo riprovarono, e in pieno sinodo (Colloq. Altenburg.) dichiararono: Cambiando e ricambiando di continuo, apprestò armi ai papisti, ridusse i fedeli a non conoscere più che cosa devono tenere per vera dottrina. I suoi Luoghi teologici son piuttosto a dire Giuochi teologici.

430. I Ep. ad Corinthios, XIV, 33.

431. Già san Vincenzo di Lerino diceva: Nullusne ergo in Ecclesia Christi profectus habebitur intelligentiæ? Habebitur plane et maximus, sed ita tamen ut vere profectus sit ille fidei, non permutatio. Commonitorium, c. 29.

432. Vedi nel Discorso XI.

433. Ep. 2, II, 2.

434. Ep. 4, Joann. II, v. 12, e III, v. 13.

435. Ep. B. Petri II, cap. I, 20.

436. E. II, cap. III, v. 16.

437. II ad Thess. v. 14.

438. Catholici tenent unum esse principium fidei: verbum Dei ab Ecclesia propositum (Wallenburg). Illud omne et solum est de fide catholica quod est revelatum in verbo Dei, et propositum omnibus ab ecclesia catholica, fide divina credendum (Veronius, Regula Fidei cath.).

439. Il parigino Francesco Véron (1575-1649), nella Regula Fidei, e nel Metodo di trattar le controversie, espose con chiarezza e precisione le verità di fede canonicamente decise, distinguendole da altre che sono opinioni teologiche. È noto come ciò abbia pur fatto Bossuet, a segno che i Protestanti di buona fede domandaronsi in che cosa diversificassero essenzialmente dai Cattolici. Capitale in queste senso è la Esposizione delle antitesi dogmatiche fra Cattolici e Protestanti di G. A. Moehler, 1840.

440. A quanto dicemmo sulla cattolicità di Dante aggiungiamo ch'egli fe di Maria Vergine il centro di tutta la sua visione: ritrasse in questa tutto quanto la Chiesa crede, insegna o pratica ad onore di Colei che a Cristo più s'assomiglia, e «in cui s'aduna quanto in creatura è di bontade»: simboli, immagini, canti vi rappresentano il culto di lei colla scienza del teologo e la legenda del popolo, e la figurano in «cielo qual meridiana face di caritade, e giuso intra i mortali qual di speranza fontana vivace». Sant'Antonino scrisse: Qui petit sine ipsa duce, sine pennis, sine alis tentat volare. E Dante avea cantato:

Donna, se' tanto grande e tanto vali,

Che, qual vuol grazia e a te non ricorre,

Sua desianza vuol volar senz'ali.

441. Sulla mitologia cattolica, Giuseppe De Maistre scrive ad un amico (Lettres, tom. I, 235).

«Sans doute toute religion pousse une mythologie. Mais n'oubliez pas que celle de la religion chrétienne est toujours chaste, toujours utile, et souvent sublime, sans que, par un privilège particulier, il soit jamais possible de la confondre avec la religion même». Écoutez un exemple: «Un saint eut une vision, pendant laquelle il vit Satan debout devant le trône de Dieu, et ayant prêté l'oreille, il entendit l'esprit malin qui disait: Pourquoi m'as-tu damné, moi qui ne t'ai offensé qu'une fois, tandis que tu sauves des millières d'hommes qui t'ont offensé tant des fois?» Dieu lui répondit: «M'as tu demandé pardon une fois?»

«Voilà la mythologie chrétienne. C'est la vérité dramatique, qui a sa valeur et son effet indépendamment même de la vérité littérale, et qui n'y gagnerait même rien. Que le Saint ait ou n'ait pas entendu le mot sublime que je viens de citer, qu'importe? Le grand point est de savoir que le pardon n'est refusé qu'à celui qui ne l'a pas demandé».

L'osservazione è argutissima; ma perchè fosse del tutto vera bisognerebbe un fatto assolutamente contrario all'indole della mitologia, cioè che esistesse qualche autorità, la quale scegliesse, tra i mille parti delle fantasie e dell'ignoranza, le favole che sono caste, morali, sublimi. Vero è che la più parte di quelle che furono foggiate da Cristiani recano onore al genere umano e profitto alla virtù, e attestano una vittoria della debolezza sopra la violenza, del bene sopra il male.

442. Bridgewater lasciò una grossa somma perchè si facessero otto trattati in cui, secondo le varie scienze, si dimostrasse la verità della rivelazione. Fra queste scienze non figurava la matematica, e dopo che Chalmers ebbe trattato della morale natura dell'uomo, Buckland della geologia, Whewell dell'astronomia ecc., Babbage volle far un Nono trattato per dimostrare che colla matematica e la meccanica pure si potea dimostrarla ancor meglio. È facile capire come un intelletto che si ribella a tutto ciò che non è algebra, e che fa dipender la rivelazione tutt'affatto da testimonianze umane, cozzi spesso coll'ortodossia, e confondasi con quelli, che, abbassando il Creatore alla propria misura, pretendono nel sopranaturale ciò che sta solo nel naturale. Ma è bello vederlo raccoglier tanti argomenti, da svergognare coloro che ridono d'ogni miracolo. Nella famosa sua macchina da calcoli mostrava potersi introdurre anche una legge arbitraria, per un periodo più o men lungo, dopo il quale essa n'addotterebbe un'altra, impostagli dall'inventore sin da principio: potersi anche disporne il meccanismo in modo che, a un dato tempo, ricomparisse la prima o un'altra legge: o che durante l'azione di una, questa potesse esser sospesa per far luogo a un'altra che opererebbe solo in quell'occasione, o tornerebbe a determinati intervalli.

Al modo stesso Iddio, nella creazione, prevedendo le necessità avvenire, potè provedere a tutte le eventualità: imporre alla natura leggi che operassero per un tempo, indi cedessero ad altre, o che bastassero per deviazioni temporarie. Se il sole s'arrestò alla voce di Giosuè, tal fatto poteva esser compreso nei disegni primitivi del Creatore, e prodotto dall'azione transitoria d'alcuna legge acconcia. Se morti resuscitarono, fu effetto d'una forza che opererebbe solo a rari intervalli, benchè compresa nel piano primordiale del creato. Più facile è l'applicar tale ragionamento alle epoche geologiche, segnate dall'apparir di nuove specie animali e vegetali.

Secondo il nostro matematico, può dunque ammettersi che Dio previde tutte le circostanze contingibili che potrebbero reclamar un'effimera o durevole alterazione nell'economia del creato, e proveduto ai mezzi di farle arrivare. Così chi facesse un oriuolo che andasse sempre, che sospendesse i movimenti a un dato tempo per un minuto, che a un momento assegnato tornasse indietro le lancette, attesterebbe un'abilità stupenda, ma le variazioni sarebbero dovute a un disegno primitivo, a una legge grande e unica: e l'intelletto capace di abbracciar d'un colpo tutte le combinazioni possibili, è superiore a quello che intervenisse periodicamente a cambiare meccanismo o a invertire le proprie regole.

Tutto ciò può ispirare a una mente colta un sublime concetto della sapienza che presedette alla creazione, e sventa il sofisma di coloro che trovan indegno dell'Ente Supremo l'interromper le proprie leggi e cambiar il corso della natura per qualche bisogno dell'uomo, per qualche preghiera: o per coloro che dicono che il venir d'un'altra età geologica attesta l'imperfezione della precedente, e che il mondo fu fatto alla bell'e meglio. Pure bisogna confessare che c'è qualcosa di arido in questo mondo che va per puro meccanismo: lo spirito può contentarsene, il cuore no. Direbbesi che all'Onnipotente costi il mantener il mondo in buona condizione, il presedervi in persona, anzichè per mezzi secondarj, il governare per atti diretti di volontà, anzichè rimettersi a leggi inviolabili. L'Onnipotente può del pari e far un miracolo a dato tempo, e averlo preparato centomila anni prima; perchè dunque c'invidieremmo la consolazione di vederlo operar ad ogni caso direttamente, anzichè per un prestabilito meccanismo?

Il cardinale De La Luzerne, nella dissertazione sui miracoli, li stabilisce appunto sull'autorità dei testimonj umani e i fondamenti della certezza; e sol dopo fissate le regole della critica storica ne fa l'applicazione ai racconti evangelici. Anche Frayssinoux, volendo difendere la verità de' miracoli evangelici, consacra un'intera conferenza sull'autorità de' testimonj umani; stabilendo che un miracolo, anzitutto, è un fatto; e bisogna provarlo o distruggerlo, invece di costituir sistemi a priori.

443. Vocavit discipulos et elegit duodecim ex ipsis, quod et apostolos nominavit. Matt. X, Marc. III, Luca VI.

444. Quæcumque ligaveritis super terram, erunt ligata et in cœlo, etc. Matt. XVIII.

445. Qui vos audit me audit: qui vos spernit me spernit. Matt. X, Luca X, Joann. XIII.

446. Data est mihi omnis potestas in cœlo et in terra. Euntes ergo docete omnes gentes, baptizantes eos, etc. Matt. XXIII. Euntes in mundum universum, prædicate evangelium omni creaturæ. Qui crederit et baptizatus fuerit, salvus erit, etc. Marc. XVI.

447. Accipite Spiritum Sanctum. Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis, et quorum retinueritis, retenta sunt. Joann. XX.

448. Ego vobiscum sum omnibus diebus, usque ad consummationem sæculi. Matt. XXVIII.

449. Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam. Matt. XVI.

450. Tibi dabo claves regni cœlorum. Ib.

451. Pasce agnos meos... pasce oves meas. Joann. XXI.

452. Ego rogavi pro te ne deficiat fides tua; et tu conversus confirma fratres tuos. Luca XXII.

453. Portæ inferi non prævalebunt adversus Ecclesiam. Matt. XVI.

454. Vedi il Discorso XVI, pag. 314.

455. Ne' manuscritti della Magliabecchiana, D. 743, è una raccolta di sonetti contro le varie eresie. Per esempio

Wittemberga ed in lei la setta luterana.

Qual Pentapoli in fiamme od in faville

S'erghino l'alte torri e vasti campi:

Nelle tue cieche vie piede non stampi,

Ma l'onde sol di Stige a mille a mille....

Fonte de' prischi e de' novelli errori.

Che nel tuo sen disseminò Lutero

Contro alla fede, all'opre, al maggior duce.

E a Ginevra:

Crudele arpia che t'eleggesti in prova

D'impietà asilo, acciò ch'ogni alma pera...

Del tuo lago infernale il ciel commova

L'onde sovra di te chi al tutto impèra...

Geneva d'eresie l'eletto albergo

Di Farello empia sede e di Calvino

Ove Anticristo l'ampie vie disserra...

D'ogni altra la peggior, Sodoma in terra.

E meglio in altro all'Eresia:

Da chi vieni? da chi? rea, da qual banda

Senza patente aver teco o missione?

Se 'l tuo spirto privato n'è cagione

Adunque non è Dio quel che ti manda.

Più sfacciata di Flora e più nefanda,

Se miracol non fai: dunque a ragione

O vien da facoltà che ha successione,

O di' che 'l diavol è quel che t'arranda, ecc.

456. Sadoleti Epp. 11 e 12, lib. XIV.

457. Lettere vulgari.

458. Monumenta Vaticana, LXXXI, LXXXII.

459. Alberti Pii Carporum, comitis illustrissimi et viri longe doctissimi, præter præfationem et operis conclusionem, tres et viginti libri in locos lucubrationum variarum D. Erasmi Roterodami quos censet ab eo recognoscendos et retractandos. Venezia 1531.

460. Lo riprodusse poi ne' Colloquj col titolo di Exequiæ seraphicæ, cambiandone il nome in Eusebio, ma lasciando le allusioni a colui, ex principe privatum, e privato exulem, ex exule tantum non mendicum, pene addideram sycophantem.

461. Ubicumque regnat lutheranismus, ibi literarum est interitus. Ep. 1101 del 1528. Evangelicos istos, cum multis aliis tum hoc nomine præcipue odi, quod per eos ubique languent bonæ literæ, sine quibus quid est hominum vita? Amant viaticum et uxorem, cœtera pili faciunt. Hos fucos longissime arcendos censeo a vestro contubernio. Ep. 946 dell'anno stesso.

462. Ep. 736.

463.

Roma, 15 gennajo 1521.

«Caro figlio, gratissima ci fu la tua lettera, poichè ci chiarì di quello su cui ci davano a dubitare non solo l'asserzione di pie e prudenti persone, ma alcuni tuoi scritti stessi, che tu conservi buona volontà verso noi e la santa sede, e per la pace e concordia cristiana: il che perfettamente conviensi e all'egregio ingegno che Dio ti ha donato, e alla pietà che sempre professasti. E noi che, sebben lontano, ti avevamo sempre in memoria, e pensavamo dar qualche premio alle esimie tue virtù, se eravamo stati smossi da questo pensiero, lietamente ci vedemmo dalla tua lettera restituiti alla primiera intenzione. E deh come ora è certo a noi, fosse così agli altri, la benevolenza tua verso questa sede apostolica e la comune fede di Dio! No, mai non vi fu tempo più opportuno o causa più giusta di opporre l'ingegno e la dottrina agli empj, nè alcuno sarebbe di te più adatto a tale offizio, al quale pur s'adoprano molti in fama di pietà e scienza somma. Ma Iddio diresse i loro cuori, e alla tua prudenza vuolsi ciò rimettere. Noi, contro le contumelie degli uomini sediziosi, armati di pazienza e del soccorso divino, siamo viepiù dolenti che colla zizania molta buona messe si corrompa; ed ogni danno del gregge a noi commesso ne affligge, non potendo non dolerci del veder le buone menti tratte in errore, mentre desidereremmo salvi anche gli autori dell'empietà. Ma nè Dio mancherà a noi, nè noi al nostro dovere. Quanto alla tua lettera, essa ci assicura della tua ottima intenzione, e la tua venuta qui, quando ch'ella sia, riceveremo volentierissimo.»

Nella Biblioteca Vaticana, Nunziatura di Germania. Vol. I, pag. 40.

464. Sul suo epitafio fe scrivere: Ex diuturno studio hoc didicit, mortalia contemnere, et ignorantiam suam non ignorare.

465. Ep. 601.

466. Monumenta Vaticana LXIX.

467. Videor mihi fere omnia docuisse quæ docet Lutherus, nisi quod non tam atrociter, quodque abstinui quibusdam ænigmatibus et paradoxis. Ep. a Zuinglio.

468. Più tardi il nome di Erasmo sonò ereticale. Nella biblioteca di San Salvadore a Bologna, l'inquisizione, sotto Paolo IV, ne portò via le opere; e le traduzioni di Ecolampadio ch'erano postillate da Erasmo, furono lavate con acqua di calce per farle scomparire; al qual modo fu pure guasta un'edizione di san Girolamo, postillata dallo stesso, e confiscato uno Svetonio che portava il nome di Erasmo.

469. Civitates aliquot Germaniæ implentur erroribus, desertoribus monasteriorum, sacerdotibus conjugatis, plerisque famelicis ac nudis; nec aliud quam saltatur, editur, bibitur ac cubatur, nec docent, nec discunt; nulla vitæ sobrietas, nulla sinceritas. Ubicumque sunt, ibi jacent omnes bonæ disciplinæ cum pietate. Erasmi ep. 902 del 1527.

470. In Erasmi funus dialogus lepidissimus. Basilea 1540.

471. Anche il cardinale Comendone veneziano alla dieta germanica nel 1561 insisteva sui disordini d'intelletto e di fatti, venuti dietro alla riforma. In quos, Deus bone, et quam devios anfractus deflexistis! quibus vos erroribus implicuistis! quibus mentes vestras tenebris mersistis! at etiam iniquo animo ferri ad principibus vestris nuper dicebatis quod nos varia ac multiplici religione agitari impellique Germanos vobis adjecimus, idque inficias ire verecundia non fuit. An potest clarius, an evidentius esse quidquam, vestris esse inter vos de tota cœlestium rerum ac divinarum cæremoniarum ratione dissidiis et concertationibus? Una est vestrum omnium consensio et conspiratio adversus nos, Ecclesiamque a qua defecistis; cætera nihil dissimilius, nihil disjunctius, nihil discrepantius. An vero id non testatum omnibus? an non omnis referta libris Germania est, contraria et propugnantia docentibus? an adeo hebetes nos ac rudes germanicarum rerum esse putatis, ista ut ignoremus? at Lutherus quidem ipse, Paulus alter ut vos vultis, qui præceps se ex Ecclesiæ navi in mare dejecit, a quo jactata a vobis Augustana formula conflata est, quando sibi, aut in quo satis constitit? an istam ipsam formulam non quotannis quamdiu vixit commutatam, diversasque in sententias contortam edidit? An qui postea ipsum secuti sunt, non æque licenter trahendo eam, quo cujusque libido rapuit totam aliam fecerunt? Sed quod jam vixæ inter vos de dictis sententiisque Lutheri? Et quotus quisque est, qui quæ placita illi sunt probet? quot Melanchthon? quot Œcolampadius? quot Zuinglius? quot denique Calvinus trahit? quot alii sexcenti, qui omnes de summis rebus a Luthero, atque inter se dissentiunt? Non modo civitas, aut municipium, sed ne domus quidem in Germania et ulla horum certaminum expers. Cum viro uxor, cum parentibus liberi, de fide sacrorum, de divinarum literarum intelligentia altercantur. Fœminæ, pueri in circulis, in cauponis, inter pocula ludosque, quod miserandum est, de religione constituunt. A vobis denique ipsis, hoc ipso in conventu, quanto laboratum est opere ut aliquam uniusmodi mentis speciem præferre possetis? Quod assequi tamen nequivistis; scilicet ut discrepare inter se vera, ita conjungi et convenire falsa non possunt etc. Gratiani, De vita Johannis Fr. Commendoni card. Parigi 1669, pag. 92.

472. Verum sub hoc prætextu, per hanc fictam pietatem, sub hoc umbrato nomine expoliare imperitiorem populum, sugere lac gentium, inebriari mamilla regum vult. Oratio de non dandis decimis.

473. Ut libere animum meum aperiam, hoc aperte de me prædico, quod tam invitus Turcam gladio impeterem quam christianum fratrem. Confut. determinat. doctorum Paris.

Ich Martinus bitte alle Cristen wollten helfen Gott bitten, für solche elende, vorblendte teutsche Fürsten, dass wir ja nit folgen wider den Türcken zu ziehen, oder zu geben.

Ja viel lieber den Türchen und Tattern lèyden, dann dass die Mess solt bleiben. Tisch Reden.

474. Die Türck macht den Himmel voll heyligen. Der Papst aber füllet die Höll mit eitel Christen... Würd der Türck auf Rom ziehen, so sehe ichs nicht lugern. Tisch Reden. Ultimamente Michelet, nella sua opera sulla Riforma, mista di profondo e di buffo, con stile sempre a sorprese, con un dubbio sistematico, trova che si avea torto di favorir il papa contro l'eresia e contro il Turco. Sarebbe stato un male se il Turco avesse occupato Napoli? Tutt'altro. Come nella Cina i Tartari furono inciviliti dai conquistatori, così il Turco sarebbesi ridotto europeo.

Di fatto, occupando la Grecia, hanno i Turchi migliorato di civiltà! Tanto acceca l'odio contro il cattolicismo.

475. Il solo cardinale Ippolito De' Medici, figliuolo naturale di Giuliano, e uno de' migliori capitani del secolo, essendo legato a latere di Carlo V in Germania, armò del suo ottomila Ungaresi e sette compagnie di cavalleggieri, e contribuì non poco a respingere i Turchi dall'Austria. Adriano VI, trovato esausto il tesoro, non potè che mandare quarantamila ducati agli Ungaresi per sostenersi contro i Musulmani; ma il cardinale Palmieri napoletano offrì denaro e truppe, e di condurle egli stesso a Rodi, quando udì ch'era stata presa. Clemente VII, nel 1526, creò luoghi di monti per dare armi e truppe a Carlo V contro i Turchi. I Veneziani contavano imporre ai beni del loro clero un decimo de' frutti per cinque anni: ma Paolo III nol consentì, esibendo invece un milione di ducati del suo. Vuol dunque dire che il decimo da levarsi doveva essere per lo meno altrettanto, cioè almeno ducentomila ducati l'anno: il che porterebbe a due milioni di ducati la rendita annua de' beni del clero veneto. Pio IV concesse al re di Spagna settecentomila ducati sui benefizj di Spagna, e impose a' proprj sudditi un tributo di quattrocentomila scudi d'oro per la guerra turca. Alla battaglia di Lepanto assistevano dodici galee pontifizie, oltre legni minori assai, con millecinquecento uomini.

Dal 1520 al 1620, Roma donò agli imperatori di Germania sedici milioni di scudi e sei alla repubblica veneta per combattere i Turchi.

476. E. H. J. Reusens pubblicò nel 1862 a Bonn La teologia di Adriano VI con un apparato della vita e degli scritti di esso: e Aneddoti, desunti parte dal codice autografo di Adriano, parte da apografi.

477. Più tardi la cambiò col Plus ultra, suggeritogli dal medico milanese L. Marliano.

478. Il Guicciardini, che in tutti questi affari della Chiesa e della Riforma si mostra ancor più ignaro che maligno, dice che i cardinali diedero il suffragio a quest'Adriano per chiasso, e tanto per consumar quella mattinata; onde rimasero attoniti quando riuscì eletto. Di ciò lo riprova il Pallavicino. Lo stesso Paolo Giovio dice tutt'altro. Valeriano Pierio fece una satira violenta contro questa elezione, dicendo appunto:

Nil tale patribus facere se putantibus,

Nihil minus volentibus

Quam quem eligebant; nil minus poscentibus

Quam quem vocabant. O mare!

O terra! votis Hadrianus omnibus

Fit pontifex: sed omnibus,

Quis credat? invitis. Deúm vis hæc: Deúm

Deúm abditum hoc arbitrium est...

479. Lanz, Correspondens des Kaisers Karl V. Tom. I, p. 60. Gachard, Corr. de Carles V et d'Andrien VI, pag. 105, del 27 luglio e 5 agosto 1522.

480. Girolamo Negro, canonico padovano, al Micheli, da Roma 15 agosto 1522.

481. Sanuto, Diarj al 1523; presso il quale è un'epistola che dice: Vir est sui tenax, in concedendo parcissimus, in recipiendo nullus aut rarissimus; in sacrificio quotidianus et matutinus est: quem amet aut si quem amet, nulli exploratum. Ira non agitur, jocis non ducitur. Neque ob pontificatum visus est exultasse: quinimo constat graviter illum, ad ejus famam nuntii, ingemuisse.

482. Manuscritto nella Vallicelliana.

483. Epistole familiari. Tom. I, pag. 18.

484. Sta nella biblioteca di Monaco, e noi l'abbiamo inserito negli schiarimenti al libro XV della Storia Universale.

485. Adriano, ancor cardinale, di Lutero avea scritto: Qui sane tam rudes et palpabiles, hæreses mihi præseferre videtur, ut ne discipulus quidem theologiæ, ac prima ejus limina ingressus, ita labi merito potuisset... Miror valde quod homo tam manifeste tamque pertinaciter in fide errans, et alios in perniciosissimos errores trahere impune sinitur. Burmann, Analecta hist. de Hadriano VI.

486. Gachard, ubi supra, p. 245.

487. Il Pallavicino disapprova le istruzioni date da Adriano al Chieregato, dicendo che han fatto desiderare in lui maggior prudenza e circospezione, e che non solo il regno del Vaticano, dominio composto di spirituale e temporale, ma il governo di piccole religioni, quantunque semplici e riformate, meglio si amministra da una bontà mediocre accompagnata da senno grande, che da una santità fornita di piccolo senno... «Chi svela tutto il suo cuore getta il dono che gli ha fatto natura in darglielo imperscrutabile, e fa comuni tutte le sue armi all'avversario».

Noi abbiamo sentito accuse consimili farsi a Pio IX.

488. Si dissero spediti il 1522 dopo sciolta la dieta di Norimberga, ma non si credono autentici.

489. È noto con quanta cura gli antichi facessero giunger buone acque sui colli di Roma. Gli acquedotti furono o spezzati o negletti dai Barbari, e ciò fu gran ragione dello spopolarsi della città. Va notato che Adriano VI fu il primo che pensasse a restaurarli, riconducendo l'aqua Marcia, che poi tornò a guastarsi. E le acque e le fontane sono uno de' maggiori meriti de' pontefici verso la città eterna.

490. Paolo Giovio in ejus vita.

491. Erasmo, Ep. 1176, dice: Vix nostra phalanx sustinuisset hostium conjurationem, ni Adrianus, tum cardinalis, postea romanus pontifex, hoc edidisset oraculum, Bonas literas non damno, hæreses et schismata damno. Anche il Negri, nelle lettere ove dipinge sì bene quel pontificato, confessa: «Dilettasi sopratutto di lettere, massimamente ecclesiastiche, nè può patire un prete indotto».

492. «Dubito che, come beva di questo fiume Leteo, non mandi in oblivione tutti questi santi pensieri, e massimamente perchè natura non tollera repentinas mutationes; essendo la Corte più corrotta che fosse mai, non vi vedo alcuna disposizione atta a ricever così tosto queste buone intenzioni». Negri, 14 aprile 1522.

493.

Sextus Tarquinius, Sextus Nero, Sextus et iste:

Semper et a Sextis diruta Roma fuit.

494. Adriano fece lega con Carlo V per salvare l'indipendenza italiana dai Francesi, unitamente a varj principi italiani e ai feudatarj della santa sede, e il 5 agosto 1523 solennemente in Santa Maria Maggiore la proclamò. Qui i panegiristi del papa si sforzano a mostrare come i cherici devano astenersi dalle armi; ma pure, quando le spirituali non bastino, può ricorrere alle temporali per difendere se stesso e i Cristiani. E conchiudono che, come principe temporale, il papa deve avere e milizia e fortezze al par degli altri, e chi gli negasse d'esser principe, sovvertirebbe i principj di natura e di legislazione, che legittimano i regni; e chi tenta abbatterlo piglia il coltello per la punta. Vedi Ortiz, Descrizione del viaggio, ecc. De Lagua suo annotatore. Burmanno, ecc.

495. «Teniendo sempre respecto a que la eleccion se haga con toda libertad, si ya por la parte francese no se intentasse hazer alguna fuerza, que en este caso haveyos de mostrar reziamente por nuestra parte; ayudandos para ello de los visorreyes de Napoles y Sicilia y de nuestro esercito, y de todos los subsidios y otros medios que pudieredes» scriveva Carlo V al duca di Sessa da Valladolid, il 13 giugno 1523, ap. Gachard.

496. Io spiego in questo senso il Guicciardini, ove dice che egli «era reputato avaro, di poca fede, e alieno di natura dal beneficare gli uomini».

497. Varchi, Stor. fior., tom. ii, p. 43.

498. Hottinger, Ecclesia sæculi XVI, tom. II, p. 61. Di rimpatto i nostri notarono che il connestabile di Borbone morì nell'assalto: il succedutogli principe d'Oranges, poco dopo, all'assedio di Firenze; Lannoy della peste, Moncada poco sopravvisse: anzi, due anni dopo il fatto, nessun più era vivo dei depredatori di Roma, e le ricchezze erano passate in mani estranee. Notarono pure che, per salvar il cadavere del Borbone dagl'insulti, fu portato in quella fortezza di Gaeta, ove nel 1849 ricoveravasi un altro papa, che colà da un generale francese riceveva le chiavi della ricuperata Roma.

499. Galeazzo Visconti, il 21 luglio 1528, ap. Molini, Docum. di Storia Italiana.

500. Gevay, Urkunden ecc., pag. 52.

501. Esso Ferdinando scriveva a Carlo V: «La lunga guerra ha fatto trascurare il guasto della religione e la necessità del rimedio. Per essa avvenne la prigionia del pontefice e la devastazione di Roma, onde pigliarono tanto scandalo i Cattolici, esempio di licenza i tristi, baldanza e giubilo gli eretici, sicchè la infezione delle Sètte luterane e le ambizioni de' principi fanno strazio della Germania».

Gevay, Urkunde ecc., p. 66-70. Istruzione, per Martino de Salinas, dall'8 febbrajo 1529.

502. Il serche par tout à emprunter, voyre à pouvoir vendre pour fere san voyage: et pour aller jusque a Bouloingne ou la environ, il espere trouver moyen de soy equipper. Poupet de la Chaux, An den Kaiser. Lione 23 settembre 1529.

503. Cronaca della venuta e dimora in Bologna di Clemente VII per l'incoronazione di Carlo V, per Gaetano Giordani, Bologna 1842. In questa è a vedersi la quantità di letterati e altri illustri italiani, convenuti a quella solennità.

504. Lettere del Campeggi al Salviati nel 1520. Monumenta Vaticana per H. Laemmer, pag. 50-57.

505. Vedi il carteggio del Campeggi nei Monumenta Vaticana, pag. 64.

506. L'Aleandro al Sanga da Brusselle, il 19 novembre 1531, scriveva: «Dio sia ringraziato che ci ha dato così cattolico principe (Carlo V). Che se in questi pessimi tempi avessimo avuto imperatore un Federico Barbarossa, un Lodovico Bavaro, o un Enrico IV o simili, già o poco o nulla avressimo di gran parte della cristianità.

«Nel breve a S. M. eravi posto espressamente de celebratione universalis concilii. A queste parole S. M. con grande attenzione aperse gli occhi e gli orecchi, dicendo: — Sia ringraziato Dio che Sua Santità persevera in quello che altre fiate mi ha promesso, e fa bugiardi costoro che dicono Sua Santità sutterfugere il Concilio —. Allora diss'io: — Sire, Sua Santità non rifiuta il Concilio, purchè si celebri secondo il debito di ragione, cioè che in primis V. M. sempre sia assistente, come al Concilio Niceno Costantino, a Costantinopolitano Marciano, e agli altri i seguenti imperatori. Poi, che si abbia evidente speranza di tre cose: l'una di ridur veracemente i Luterani al grembo di santa Chiesa, ed a questo bisogna che sufficientemente consentano, perchè per questa principal causa si avria a far il Concilio. L'altra, che non si partorisca uno scisma con le altre nazioni cattoliche che restano, che saria quando Francia, Anglia e Scozia non volessero convenire. La terza, che si facesse una buona e santa reformazione di tutta la Chiesa di Dio in capite et in membris, da vero e da buon senno: altramente, pensando a gabbar Dio, ne gabberemmo noi stessi: S. M. rispose ecc.

«Finito questo colloquio, domandandomi se io sapea scrivere in ebreo, dissegli che sì, ma che la non pensasse però ch'io fossi nato ebreo, come fingono gli eretici, dicendo ch'è cosa ingiusta che un giudeo difenda la Chiesa cristiana. Mi domandò dove io l'aveva appreso. Dissi che da un Giudeo, non già di mia terra, dove mai poterono star Giudei, ma spagnuolo, qual si fece poi cristiano in casa di mio padre». Monumenta Vaticana, LXV.

507. Monumenta Vaticana, LXXXV.

508. Carteggio del Campeggi, ib. LXXVII.

509. Et quant à moy qui suis vostre roy, si je sçavois l'un de mes membres maculé ou infecte de cette détestable erreur, non seulement vous le baillerois à couper, mais davantage, si j'aperçevois aucun de mes enfants entachez, je le voudrois moy-mesme sacrifier. Vedi Théod. Beza, al 1534, e Sismondi, Hist. des Français al 1535.

510. Est à scavoir que le bruit fut en juings 1535 que le pape Paul, adverty de l'éxécrable justice et horrible que le Roy faisoit en son royaume sur le Luthèriens, on dit qu'il manda au roy de France... qu'il pensoit bien qu'il le fist en bonne part... néantmoins Dieu le crèateur, luy estant en ce monde, a plus usé de miséricorde que de rigoureuse justice: et qu'il ne faut aucunes fois user de rigeur, et que c'est une cruelle mort de faire brusler vif un homme, dont par ce il pourroit plus qu'autrement renoncer la foy et la loy. Parquoy le pape prioit et requeroit le roy par ses lettres, vouloir appaiser sa fureur et rigeur de justice, en leur faisant grâce et pardon. Journal d'un Bourgeois, pag. 458.

511. Due dialoghi: l'uno di Mercurio e Caronte, nel quale, oltre molte cose belle, gratiose et di buona dottrina, si racconta quel che accadde nella guerra dopo l'anno MDXXI: l'altro di Lattanzio e di uno arcidiacono nel quale puntualmente si trattano le cose avvenute in Roma nell'anno MDXXVII. Di spagnuolo in italiano con molta accuratezza et tradotti et rivisti. In Vinegia con gratia et privilegio per anni dieci. Senza anno, e si suppongono volgarizzati dal Bruccioli. Sono 148 fogli in-8º. Su questa traduzione fu fatta la francese del 1565.

512. Le coste d'Italia erano molestate e depredate da corsari turchi, e talvolta da armate. Singolarmente notevole è lo sbarco che, nel 1480, fecero ad Otranto, ove ben ottocento cittadini furono rapiti: i quali, piuttosto che rinnegare la fede avita, subirono la morte, e meritarono d'essere venerati come beati martiri. Sul che or ora pubblicò un'interessante relazione il canonico Giovanni Scherillo (Napoli 1865).

513. The benefit of Christ's death, reprinted in fac-simile from the italian edition of 1543, together with a french translation printed in 1551, to which is added an english version made in 1548 by E. Courtenay earl of Devonshire, with an introduction by Churchill Babington. Londra 1853.

Conosciamo cinque edizioni in italiano fatte a Lipsia dopo il 1835, in tedesco ad Amburgo e a Strasburgo nel 1856; a Vevey e Lausanne nel 1856, ed a Parigi. A Torino nel 1860 se ne formò una stereotipa. Per trovare l'originale bastava ricorrere ala biblioteca della Minerva in Roma, fondata dal cardinale Torrecremata, poi riccamente dotata dal cardinale Casanatta, che fu bibliotecario della Vaticana (1620-1700). I Domenicani di quel convento aveano la licenza di leggere qualunque libro, per veder quali proibire; locchè fa rinvenire in quella biblioteca una quantità di libri, divenuti rarissimi, e fino unici. Clemente XI, nel 1701, avea pubblicato regole per il modo di conservar essi libri separatamente, e comunicarli solo a chi n'avesse formale licenza.

514. Su questa necessità delle buone opere è famoso il discorso di Lutero dopo uscito dal ritiro della Warzburg. In somma negavasi efficienza a quelle sole opere che soleano profittare al clero cattolico. Vedasi la nota 20 del nostro Discorso XV.

515. Histoire des variations.

Quanto si vacillasse da principio sul punto della giustificazione appare dalle accuse che il padre Spina diede al Caterino e dalle difese di questo contra schedulam Paulo III oblatam, in qua quinquaginta errorum Catharinus insimulabatur; e versano la più parte su ciò e sulla predestinazione.

Fu uno de' teologi più reputati di quell'età frà Jacobo Nachiante fiorentino, vescovo di Chioggia (-1569), carissimo a Paolo III, a Giulio III; sentito assai nel Concilio di Trento, e scrittore di molte opere, di cui fanno al caso nostro la Enarratio maximi pontificatus, maximive sacerdotii Jesu Christi; de primatu Petri: De auctoritate Papæ et concilj. De actis concilj approbandis per papam. De sacrosanctis indulgentiis. De expiatorio missæ sacrificio. De natura et sacramento evangelici matrimonii. Eppure vi fu chi lo tacciò di errori intorno all'essenza della libertà; del che peraltro lo difende il Tomassino, tom. III, tratt. IV De gratia, e il Reginaldo De mente Conc. trident., P. II, cap. 77.

516. Lettere vulgari di diversi nobilissimi uomini. Vinegia 1548.

517. Vorrebbero distinguere due Valdes fratelli; Alfonso e Giovanni: il primo fosse autor dei dialoghi e segretario dell'imperatore sotto al Gattinara, col quale assistette alla coronazione di Carlo V a Bologna, poi al convegno d'Augusta, ove si proclamò la Confessione luterana. L'altro sarebbe l'eresiarca: ma non parmi evidente la distinzione.

Dalla Società biblica furono ristampate le opere del Valdes a Oxford nel 1845.

518. Beza, Ep. IV, pag. 200, tom. III, Opp.

519. Vita di Galeazzo Caracciolo. Nel processo del cardinale Morene, fatto dopo il 1555, del quale molto avremo a occuparci in appresso, sta questa deposizione d'un testimonio, il cui nome, secondo il solito, è taciuto, come quelli delle altre persone, implicate subordinatamente:

«Volendo io confessar ingenuamente alle VV. SS. Reverendissime (i cardinali inquisitori) tutti gli errori miei dal principio al fine, dico che, essendo io a Napoli circa otto anni sono, pochi giorni prima che andassi a Basignano col N N che era a Napoli; vedendo che io aveva cominciato a lasciar la mala via del mondo, e con desiderio di ritornar alla buona delle buone opere, incominciò a tentarmi sopra l'articolo della giustificazione che siamo giusti pel sangue di Gesù, e non per le opere nostre; mostrandomi molti lochi nel Testamento Nuovo, i quali par chiaramente il dimostrino. E però gli dissi che ciò mi piaceva. Il che detto esso al Valdesio, con cui spesso conversava, e con N ed N che ancor essi erano a Napoli, il Valdes rispose all'N, secondo mi riferì, che non si fidasse di me, sapendo che io era carnalissimo, e perciò il detto Valdes non volle che mai io andassi coll'N a lui, nè che io intervenissi o sapessi li lor ragionamenti. Pure il N mi andava dicendo e confermando sopra l'articolo della giustificazione.

«Ritornato a Napoli in casa del N, andai a visitare l'N, e gli portai certi scritti del N sopra due o tre capitoli dell'epistola di san Paolo alli Romani, dove parlava ampiamente della giustificazione, conforme al libretto del Benefizio di Cristo, e domandandomi se N gli avea letti, gli dissi non saperlo, come era vero.

«Mi domandò ancora del signor cardinale Morone, quel che esso teneva della giustificazione: gli risposi che io non sapeva, altro se non che il N e il N grandemente il commendavano a Trento della bella mente e bello animo suo, di esser innamorato di Dio e non delle cose del mondo; che mostrava essere ben capace della giustificazione per Cristo, e che sempre pareva loro che più fosse acceso nell'amor di Dio».

520. Nel 1530 la Lombardia ebbe i ricolti devastati dalle locuste; e non c'è regione, di cui le cronache non attestino le desolazioni.

521. Spigolature negli Archivj di Toscana.

522. A Siena la chiesa di San Domenico è coperta d'epitafj di studenti tedeschi.

523. Seckendorf, Hist. Lutheranismi, tom. I, pag. 415.

524. Luther's sammtliche Schriften, tom. XXI, p. 4092 (ediz. Walch). Melancton, Opp. col. 598, 835 ecc.

525. Celestini, Acta comit. Aug., tom. II, p. 274, tom. III, p. 18.

526. Argentorati, 10 settembre 1541.

527. Seckendorf, Hist. Lutheranismi, lib. III, pag. 68.

528. Hottinger, Eccl. sæc. XVI, tom. II, p. 611. De Porta, Ref. Eccl. ræticarum, lib. II, 5.

529. Il Machiavelli osserva che, se la religione «non fosse stata ritirata verso il suo principio da san Francesco e san Domenico, sarebbe al tutto spenta». Noi sappiamo che non sarà mai spenta, ma vedasi quanta importanza egli attribuiva a questi riformatori.

530. Leben Michelangelo's. E vedi tutto ciò illustrato nelle Rime di M. A. Bonarroti curate sugli autografi e pubblicate da C. Guasti. Firenze 1863.

531. Di questo sentimento di pietà, svolgentesi ne' gran momenti degli artisti, avemmo un esempio in questo gennajo 1866, quando il Papi a Firenze fuse il David di Michelangelo. Al momento decisivo buttaronsi a ginocchi l'artista e i fattorini, in prima pregando, poi ringraziando il Signore e i santi suoi.

532.

Onora e ama e teme e prega Dio

Pel pascol, per l'armento e pel lavoro,

Con fede, con ispeme e con desio

Per la gravida vacca e pel bel toro.

E 'l dubio, e 'l forse, e 'l come e 'l perchè rio

Nol può ma' far, chè non istà fra loro

Se con semplice fede adora e prega

Iddio e 'l Ciel, l'un lega e l'altro piega.

533. Stanze del Berni con tre sonetti del Petrarca, dove si parla dell'Evangelio e della corte di Roma. Io vi dico che se costoro taceranno, i sassi grideranno. Basilea 1554. La stanza forse più forte è questa:

La parola di Dio s'è risentita,

E va con destro piè per l'Alemagna,

E tesse tuttavia la tela ordita,

Scovrendo quell'occulta empia magagna,

Che ha tenuta gran tempo sbigottita

E fuor di sè la Francia, Italia e Spagna,

Già per grazia di Dio fa intender bene

Che cosa è chiesa, caritade e spene.

534. Nel 1861, l'Edimburg Review stampò un notevolissimo articolo di Cartwright sul Progresso della Riforma Cattolica in Italia. Prestabilito che la nostra Chiesa ripudii ogni movimento, ogni dissenso, considera come avverso ad essa, o almen minaccioso, chiunque professa idee liberali sia in fatto di governo, sia in fatto delle temporalità della Chiesa. Pertanto a capo a questi riformatori starebbero il Rosmini e tutto il suo Ordine, perciò osteggiati dai Gesuiti; poi i Domenicani, poi i Benedettini, poi Cappuccini; ne' quali Ordini indica personaggi favorevoli, anzi banditori d'idee molto avanzate.

La conseguenza potrebb'essere tutta opposta a quella ch'esso deduce; vale a dire che la Chiesa cattolica, perfin ne' suoi membri più devoti quali sono i monaci, non ripudia la discussione e anche la proclamazione di dottrine, contrarie alle legali, ma che pur non intaccano il dogma e il vincolo della carità. Un'argomentazione simile a cotesta facea che, nel XVI secolo, i Riformati considerassero come loro fautori molti, che con vivacità e fin con amarezza disapprovavano i disordini della Chiesa, ma senza rinnegarla. Del resto ciò non fu fatto solo coi nostri. A Dresda nel 1860 e seguenti, si pubblicò Aurora, sive Bibliotheca selecta ex scriptis eorum qui ante Lutherum ecclesiæ studuerunt restituendæ. Ediderunt F. Pistoth, Schoepff, Neumann.

Vedi pure C. Ullmann, Reformators vor der Reformation, vornemlich in Deutschland, und den Niederlanden. Amburgo 1841. Sono teologi tedeschi, Giovanni di Goch, Giovanni di Wesel, Cornelio Grapheus, Gregorio di Heimburg, Giacomo di Jüterbock, Matteo di Cracovia.

Bonnechose, Les Reformateurs avant la Reforme. Parigi 1860.

Simon Goulart, Catalogus testium veritatis.

535. I tre testimonj fedeli, cap. 37.

536.

Cum casum miseratus ille magnus

Carapha, Italiæ decus Carapha,

Ad cœlum geminas manus tetendit

Multis cum lacrymis Deum salute

Orans de mea: et ecce acerba fugit

Febris, et lateris dolor, refectæ

Vires, etc.

Nello Schoelhorn, vol. II, è un trattato De religione M. Antonii Flaminii, e vi si legge: In ipsa Italia, veritati evangelicæ inimica, et in medio pravi perversique generis hominum micabat tamquam splendidum luminare, plenusque divinæ lucis radiis ita sensit, ita vixit, ut non dubitemus virum optimum purioris religionis veræque pietatis studiosis adscribere. In præcipuis fidei christianæ capitibus eum nobiscum conspirasse evidentissime probatum dabunt loca, quæ deinde ex ipsis ejus scriptis recitabimus piane egregia.

537. Vedansi nelle Lettere Volgari del 1567.

538. Si sa che, dell'Imitazione, un volgarizzamento del XIV secolo trovò Antonio Parenti, il che lo proverebbe anteriore al Gerson e a Tommaso da Kempen, credutine autori, e appoggerebbe chi lo aggiudica al Gersen, abate di Sant'Andrea di Vercelli.

Bossuet chiama questo libro «epilogo del cristianesimo, dotto e misterioso compendio di tutta la dottrina del vangelo, di tutte le istituzioni de' santi padri, di tutti i consigli di perfezione; dove compajono eminenti la prudenza e la semplicità, l'umiltà e il coraggio, la severità e la dolcezza, la libertà e la dipendenza; dove la correzione ha tutta la sua fermezza, la condiscendenza tutto il suo vezzo, il comando tutto il suo vigore, la soggezione tutto il suo riposo, il silenzio la sua gravità, la parola la sua grazia, la forza il suo esercizio, la debolezza il suo sostegno».

Poichè i Protestanti vollero vedervi un loro precursore, giovi notare come tutto il libro v tratti della comunione in senso affatto cattolico.

C. 2. «Mirabil cosa e degna di fede, e che pur trascende l'umano intelletto, che tu, signor Dio mio, vero Dio e uomo, sotto piccola specie di pane e vino, tutto sii contenuto, e senza consumazione sii mangiato da chi lo prende».

Al c. 5 tratta della dignità del sacerdote «che consacra e maneggia Cristo sacramentato, e prende in cibo il pan degli angeli»: e gli raccomanda non intorpidisca dall'orazione finchè meriti impetrar la grazia e la misericordia. Quando il sacerdote celebra, onora Iddio, edifica la Chiesa, ajuta i vivi, dà requie ai morti, e si rende partecipe di tutti i beni». Prima della comunione (dice il Diletto) «esamina la tua coscienza, e con ogni potere, con vera contrizione ed umile confessione mondala e chiarificala». E conforta a non tralasciar di comunicarsi per qualche turbamento o avversione: «ma va tosto a confessare, e perdona le offese altrui. Or che giova il tardar la confessione e differir la comunione?»

In Sacramento altaris, totus præsens es, Deus meus, homo Christus Jesus... O invisibilis conditor mundi, quam mirabiliter agis nobiscum, quibus semetipsum in sacramento sumendum proponis, etc. Lib. IV, c. 1, e tutto quel libro.

Il discepolo offre al Signore tutte le opere sue buone, per quanto poche e imperfette; i pii desideri de' devoti, e quei che desiderarono dicesse preghiere e messe per loro e pe' suoi, o vivano ancora o siano defunti.

Al libro III, c. 12: «Se dirai non poter te molte cose soffrire, e come sosterrai il fuoco del purgatorio?

Al c. 6: «Sappi che all'antico nemico spiace l'umil confessione: e se potesse, farebbe cessare dalla comunione».

«Oh quanto soave e giocondo convito istituisti quando te stesso desti in cibo». Lib. IV, c. 2.

Quanto al sacerdozio:

«Oh com'è grande e onorevole l'uffizio de' sacerdoti, ai quali è dato il signor della maestà consacrare con sacre parole, benedir colle labbra, toccar colle mani, prender colla propria bocca, somministrarlo ad altrui!» C. 11, lib. IV.

«Tu devi te stesso a me volontariamente in oblazione pura e santa, ogni giorno nella messa con tutte le forze e gli affetti tuoi offerire». C. 8.

«Solo i sacerdoti, regolarmente ordinati nella Chiesa, hanno la podestà di celebrare e di consacrar il corpo di Cristo». C. 5.

«È necessario a me, che sì spesso travaglio e pecco, m'intepidisco e manco, che con frequenti orazioni e confessioni, e col prender il corpo tuo, mi rinnovi, mi mondi, m'accenda». C. 3.

E quanto all'esame e a l'autorità:

«Guardati da inutili e curiose indagini su questo profondissimo sacramento, se non vuoi sommergerti nel profondo del dubbio. Chi scruta la maestà sarà oppresso dalla gloria. Beata la semplicità che lascia le difficili vie delle questioni, e va pel piano e sodo cammino de' comandamenti di Dio». Lib. IV, c. 18.

E sulla soddisfazione:

Nunc labor tuus est fructuosus fletus acceptabilis, gemitus exaudibilis, dolor satisfactorius et purgativus... Melius est modo purgare peccata et vitia resecare, quam in futuro purganda reservare. Lib. I, c. 24.

539. A Carlo Gualteruzzi, 28 febbrajo 1542.

540. Epistolarum R. Poli collectio II, civ. pubblicata dal cardinale Quirini.

541. Il Polo scrive male l'italiano, e tratto tratto l'abbandona per ripigliare il latino col quale ha maggior pratica. Ma del resto si sarà potuto vedere dalle carte da noi addotte come tale fosse la consuetudine generale allora: siccome oggi per molti si fa col francese.

542. Il Caracciolo, autore della vita di Paolo IV manoscritta, ebbe a mano il compendio de' processi dell'Inquisizione, e ne usa con poca critica, non distinguendo il sospetto dalla colpa. Secondo lui, il cardinale Polo era molto sospetto di eresia, della quale era infetta tutta la sua Corte a Viterbo, estendendosi alle monache di colà: «com'anche a Firenze i monasteri interi erano infetti».

Nel processo del cardinal Moroni, un testimonio racconta d'un prete che, divenuto familiare del Polo, fu da questo convertito alle nuove dottrine; talchè scrisse al Contarini, lagnandosi gli avesse insegnato tanti errori, mentre ora aveva aperto gli occhi alla verità. Vuol pure che il Moroni fosse stato pervertito da esso Polo.

543. Il Polo morì nel 1558, ed oltre il citato Pro unitate Ecclesiæ ad Henricum VIII, scrisse De Concilio; De summo pontificis ufficio et potestate; De justificatione; De baptismo Constantini.

544. Testè alcuni membri della chiesa alta inglese sperarono poter profittare dell'inclinazione de' Puseisti verso il cattolicesimo, e rimettere in unità la Chiesa anglicana e la russa colla romana. Il cardinale Patrizzi, 18 novembre 1865, rispondeva loro, affettuosamente, badassero non ingannarsi supponendo che la Chiesa, fondata sul solo Pietro, possa transigere con altre; giacchè cesserebbe di diritto e di fatto d'essere cattolica: nè potersi procurar un accordo se non riconducendo le altre chiese ai principj su cui la nostra fu fondata da Cristo, una, indivisibile, eguale in tutti i tempi e i luoghi, e propagata dagli apostoli e loro successori. Per arrivare a l'intercomunione ecumenica non basta deporre ogni ostilità ed ira contro la Chiesa romana, ma vuolsi abbracciare compitamente la fede e la comunione di essa.

Ciò serve di commento ai molti tentativi di riconciliazione, che indicammo e indicheremo fatti al tempo che discorriamo e posteriormente, fra cui vanno distinti i nobili sforzi del Leibniz, seguìti dalla disperazione di riuscita. Nel qual senso il Grozio diceva «aver sempre desideratissima la riconciliazione dei Cristiani in un sol corpo: ma essergli dimostrata impossibile perchè gli animi di quasi tutti i dissidenti ne sono alienissimi, e per non aver quelli alcun principio di unità nel reggimento ecclesiastico. Per le quali ragioni (e' prosegue) le antiche parti non si potranno ricongiungere, e di sempre nuove ne sorgeranno. Onde penso non potersi rannodare i Protestanti se prima non si rannodino colla sede romana: senza la quale nessun reggimento comune si può sperare: ond'è desiderabile sia tolta la scissura, e le cagioni che la produssero. Fra le quali cagioni non è dà noverare il primato del vescovo romano, ch'è conforme ai canoni, per confession di Melantone, il quale anzi lo stima necessario all'unità. Ciò non è un assoggettar la Chiesa all'arbitrio del pontefice, bensì un riporla nell'ordine che la sapienza le ha costituito». Grotii Opera, t. IV, p. 744.

545.

Se l'imperio terren con mano armata

Batte la mia Colonna entro e d'intorno,

La notte in foco e in chiara nube il giorno

Veggio quella celeste alta e beata,

Sua mercè, colla mente: onde portata

Sono in parte talor, che, se in me torno,

Dal natural amor che fa soggiorno

Dentr'al mio cor, ben spesso richiamata,

Mi par per lungo spazio e queto e puro

Quanto discerno e quanto sento caro.....

E al papa dirigea varj sonetti, fra cui questo:

Veggio rilucer sol di armate squadre

I miei sì larghi campi, ed odo il canto

Rivolto in grido, e 'l dolce riso in pianto

Là 've prima toccai l'antica madre.

Deh mostrate con l'opre alte e leggiadre

Le voglie umili, o pastor saggio e santo!

Vestite il sacro glorioso manto

Come buon successor del primo padre.

Semo, se 'l vero in voi non copre o adombra

Lo sdegno, pur di quei più antichi vostri

Figli, e da' buoni per lungo uso amati!

Sotto un sol cielo, entro un sol grembo nati

Sono, e nudriti insieme alla dolce ombra

D'una sola città gli avoli nostri.

546. Altrettanta fiducia palesa in questo sonetto:

Chi temerà giammai nell'estrem'ore

Della sua vita il mortal colpo e fero

S'ei con perfetta fede erge il pensiero

A quel di Cristo in croce aspro dolore?

Chi del suo vaneggiar vedrà l'orrore

Che ci si avventa quasi oscuro e nero

Nembo in quel punto, pur ch'al lume vero

Volga la vista del contrito core?

Con queste armi si può l'ultima guerra

Vincer sicuro, e la celeste pace

Lieto acquistar dopo 'l terrestre affanno.

Non si dee con tal guida e sì verace,

Che per guidarne al ciel discese in terra,

Temer dell'antico oste nuovo danno.

547. Venezia, Aldo 1561. Dalla vita di essa, stampatane da Lefevre Derimier a Parigi il 1856 poco s'impara. Vedasi piuttosto Rime e lettere di Vittoria Colonna. Firenze 1860, edizione tratta da quella che erasi fatta a Roma da P. E. Visconti per uso privato.

548. Lettere volgari di nobilissime donne ecc. Grave difetto di quella raccolta è il non mettere la data delle lettere.

549. Il Flaminio dirige a un tal Ottavio Pantagato de' faleucj per invitarlo alle acque di Viterbo.

Octavi pater, ad viterbiensem

Secessum venias, rogamus omnes,

Polus, Parpalias, Priulus, ipse

Tuus Flaminius. . . . . . . .

Cur ergo, pater, huc venire cessas?

Num te illa innumerabilis librorum

Tenet copia curiosum? habebis

Et hic græca volumina ut latina,

Quæ lassare valent decem otiosos

Plinios, licet usque, et usque, et usque

Noctes atque dies legas, et hercle

Facis, etc. etc.

550. Su quelle lettere fu molto escusso il cardinal Morone, e rispondendo sul conto della marchesa, disse: «Io la conobbi in Napoli, e, quando fui fatto vescovo, mi mandò certi rochetti e breviarj, e dopo qualche anno, la vidi in Roma, e forse prima in Viterbo essendo per passaggio, ce la conobbi molto affezionato (come mostrava spiritualmente) del cardinal Polo, il quale allora era povero, e pativa gran persecuzione dal re d'Inghilterra per un libro che avea scritto contro detto re in favore del primato di Nostro Signore: e per quanto mi fu riferito da diverse persone, mandarono qui uomini a posta per farlo avvelenare, ed anche per farlo ammazzare, e credo che per questa causa papa Paolo III gli mantenesse alla guardia un certo capitano con alcuni soldati continuamente, e quando volse andar a Trento, Legato al Concilio, la signora marchesa di Pescara mi raccomandò con ogni affetto la salute di questo signore».

Quel che il Morone pensasse lo leggeremo nella difesa di questo.

551. Troverem ragioni per credere fosse il Benefizio di Cristo.

552. Epistolæ card. Poli, III, 208.

553. Gerdes, Specimen Italiæ reformatæ, pag. 262.

554. Vedi Lettera di Giovanni Checozzi vicentino, nella edizione delle Api del Rucellaj, fatta in Padova dal Comino, il 1718.

555.

Felix qui....... ineluctabile fatum

Subjecit pedibus, strepitumque Acherontis avari.

556. Moltissimi nostri scrissero contro Lutero. Qui accenniamo che Bernardo di Lutzemburg (-1535) nel Catalogus hæreticorum dice che a Roma, l'11 giugno 1521, alle 10 ore secondo l'orologio nostro, in campo Agonis, presente infinito popolo, fu eretta una macchina, ove da una parte era dipinto Lutero in abito da frate, dall'altra era scritto La dottrina di M. L. è dichiarata eretica e riprovata; vi si aggiunsero libri di lui, fu recitato un discorso del padre Cipriano Beneto, lettore di teologia nelle sapienze, indi vi fu messo il fuoco dagli sbirri.

Esso Bernardo ha un Opusculum de jubilæo, sive peregrinatorium ad urbem Romam in XXX dietas redactum, in quo miræ antiquitates et sacrorum interpretum sententiæ referentur: curioso viaggio da Colonia a Roma in occasione del giubileo del 1525.

Un F. G. cremonese, probabilmente domenicano, nel 1520 stampò a Cremona Revocatio Martini Lutheri ad sanctam sedem, libretto or rarissimo, ove procura convertir Lutero con questi capi: 1, Suadeat ratio; 2, Hortetur ss. Patrum auctoritas; 3, Alliciant accepta munera; 4, Premat divinæ justitiæ severitas; 5, Trahant in populis orta schismata; 6, Preces tuæ professionis emolliant; 7, Excitet Germana majestas; 8, Invitet heroum christianorum humilitas in primis Francisci I; 9, Compellat S. R. E. medio caritatis fonte proluens divina pietas.

Frà Paolino Bernardini di Lucca (-1585), che fu uno de più ferventi difensori del Savonarola, fra molte opere teologiche ha una Concordia Ecclesiastica contra tutti gli eretici, ove si dichiara qual sia l'autorità della Chiesa, del concilio della sedia apostolica e de' santi dottori, Firenze 1552, cui è soggiunto un Discorso sopra lo stato, dottrina e costumi de' Luterani, tradotto dal latino di Giorgio Vicellio.

557. Influence de la Réforme de Luthèr.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (chierici/cherici, Lepanto/Lèpanto e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni elencate a pag. 432 (Errata-Corrige) sono state riportate nel testo.

Le note, nell'originale raccolte a fine capitolo, sono state spostate al termine del libro, e i relativi numeri di pagina sono stati eliminati.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






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