The Project Gutenberg EBook of La plebe, parte III, by Vittorio Bersezio

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Title: La plebe, parte III

Author: Vittorio Bersezio

Release Date: August 29, 2014 [EBook #46725]

Language: Italian

Character set encoding: UTF-8

*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PLEBE, PARTE III ***




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LA
PLEBE

ROMANZO SOCIALE

DI

VITTORIO BERSEZIO


PARTE TERZA


PROPRIETÀ LETTERARIA

TORINO,
PRESSO CARLO FAVALE E COMP., EDITORI
1868.

[3]

PARTE TERZA.

La Lotta.

CAPITOLO I.

Il marchese di Baldissero, se vi ricorda, aveva recato seco il manoscritto di Maurilio che gli agenti di polizia avevano sequestrato nella perquisizione fatta in casa il pittore Vanardi. Le poche cose che ne aveva lette fugacemente, segnate colla matita rossa dal commissario Tofi ed additategli dal Governatore, lo avevano invogliato, uomo di alto senno e di imparziale giudizio qual egli era, di fare più ampia ed esatta conoscenza, come si suol dire, colle idee ardite insieme, e per lui, ed in quel tempo massimamente, affatto nuove, manifestate dal giovane pensatore.

Sedutosi adunque nel suo severo studiolo, dove siamo già penetrati, il marchese lesse con attenzione gli squarci seguenti:

«Sieyes disse in sul fine del secolo scorso la sua famosa frase: «Che cosa è il terzo stato? Nulla. Che cosa dev'egli essere? Tutto.» Egli con ciò esprimeva la sintesi, la conclusione del movimento di progresso del secolo XVIII nell'ordine politico ed economico, il programma della rivoluzione che ne legava le basi dell'attuazione e ne lasciava compiere l'edifizio al secolo corrente. E questo secolo non si finirà senza che si proclami un'altra formola, od anche non proclamata in parole senza che si cominci ad effettuare nei fatti, la seguente: «Che cos'è la plebe? Uno stromento cieco, una forza senza guida, di cui si ha paura e cui si comprime, capace ora più del male che del bene. Che cosa ha ella da diventare? Una forza consciente ed illuminata, che abbia essa stessa la ragione, e colla sua potenza trascini il mondo nella via del bene.» Ancor essa, la plebe, ha da diventar tutto, perchè nel suo gran seno ha da avvolgere e contenere e confondere quelle separazioni che ora diconsi classi, fatta serbatoio unico e comune di tutte le intelligenze, di tutte le individualità operatrici, in una specie di emanatismo politico, nell'unità di popolo.

«Leggevo l'altro giorno di certe macchine a vapor acqueo che mandano innanzi sopra rotaie di ferro una filza di carri di peso madornalissimo con velocità meravigliosa e fanno muovere i congegni e le ruote d'un intiero opifizio con un movimento trasmesso. Cotal forza di vapore non diretta, mal governata può essere uno sterminio; in quell'organismo meccanico è una benedizione. Ecco l'immagine della plebe nel movimento sociale: ecco la sua parte che oramai viene ad assegnarle il progresso allo stadio in cui si trova. Abbandonata a sè, malamente e a torto compressa, disordina o scoppia con danni infiniti. L'organismo meccanico che deve farne una forza utile è l'assetto politico e sociale che conviene rimutare di molto, non certo per bruschi passaggi, ma per lente gradazioni di miglioramenti.

«Ma quest'organismo politico e sociale deve egli [4] esser quello che attuò l'assolutismo accentratore, per cui la volontà d'un solo dia norma e regola a tutto il movimento della vita pubblica d'un popolo; deve egli esser quello che sognano i comunisti per cui la società assorbendo compiutamente ogni personalità, distrugge la libertà individuale per fare di tutti la ruota d'una macchina agente di forza sotto una specie di legge fatale? No: sono tirannia e il comunismo e l'assolutismo, due forme d'un medesimo errore, d'un medesimo delitto, lo schiacciamento della personalità umana, sul libero sviluppo della quale deve fondarsi il progresso dell'evo moderno. La condizione, l'ambiente in cui e per cui deve aver luogo la rigenerazione della plebe può essere soltanto LA LIBERTÀ........

················

«L'umanità cominciò per essere tutta schiava, perchè tutta ignorante: schiava delle forze della natura che non aveva imparato ancora a vincere e guidare, schiava dei proprii istinti animali che non aveva ancora imparato a dominare e farne virtù ed affetti. Dalla profondità di questo abisso di tenebre intellettuali e morali, cominciarono a sorgere gradatamente ad una luce relativa sempre via via crescente i pochissimi, poi i pochi; cominciano ora ad essere i molti; non sono ancora i più, conviene che sieno tutti. I sacerdoti prima, che usarono la forza del pensiero a consolazione e terrore insieme dell'universale, approfittandosi del sentimento religioso, primo sintomo di progresso nell'uomo uscito appena dall'efferatezza della barbarie; poscia i guerrieri che usarono la forza dell'animo e del braccio in difesa dell'associazione comune; quindi coloro che col commercio e coll'industria usarono delle forze della natura per accrescere la ricchezza della sociale agglomerazione. Al di sotto sta ancora l'immensa massa di coloro che usano le forze tutte della loro vitalità nella lotta della produzione, ad effettuare benefizi economici, sociali e intellettuali a cui essa troppo poco o nulla affatto partecipa. La società dell'India ha da secoli arrestato il movimento progressivo ascensionale delle classi, cristallizzandone per così dire l'assetto nella stabilita fatalità delle caste: a qual punto erano allora arrivati i differenti strati sociali dovevano fermarsi in eterno colla varietà immutabile dei loro diritti e vantaggi maggiori o minori misurati dall'ingiusta casualità della nascita: sacerdoti, guerrieri, trafficanti, ultimi i paria che non dovevano aver mai diritto, nè vantaggio nessuno. Ma quella società in tal modo s'è tolto l'elemento e la ragion della vita; immobilitando il suo organismo ne impedì la funzione migliore, quella del migliorarsi; ogni corpo sociale che non progredisce, decade; quella società da secoli sta lentamente morendo.

«Ma in Europa eziandio, anche dopo il fiero scuotimento della rivoluzione di Francia sono troppi ancora i paria! Il risultamento della gran rivoluzione, fu l'esecuzione la più compiuta possibile del programma di Sieyes: l'emancipazione, anzi il trionfo del ceto medio. L'impero stesso napoleonico non rappresenta altro a' miei occhi. È la democrazia del terzo stato che si afferma mercè la forza contro l'antica monarchia del diritto divino, contro l'antica aristocrazia dei privilegi, contro l'antica supremazia del papato; tre forze del mondo andato a fascio colla rivoluzione, le quali tenevano schiava l'umanità. Napoleone è un parvenu della borghesia che invano cerca coprirsi col manto del sacro romano impero di Carlomagno per illudere il monarcato e i vecchi patriziati d'Europa; che riesce a circondarsi d'una specie di Cesarismo democratico per trascinar seco le masse. In Roma non v'era ceto medio, e Cesare per abbattere l'aristocrazia si fece l'uomo della plebe; in Parigi, dopo la rivoluzione, Buonaparte si servì del militarismo e della conquista per ispandere le affermazioni politiche ottenute dal terzo stato e che erano sornuotate all'anarchia, dopo la sconfitta del demagogismo plebeo. L'opera di Napoleone, politicamente e socialmente parlando, è tutta nel Codice civile: il vangelo della società moderna. Dopo l'impero non fu possibile più che un monarcato borghese. I Borboni, tornati, dovettero acconciarsi a regnare in tal modo, e poichè Carlo X non seppe adattarvisi a dovere, la rivolta del 1830 lo cacciò per far luogo ad un re secondo il cuore dell'epoca: un re, come lo chiamano al di là delle Alpi, un re di bottegai[1].

«La plebe dalla grande rivoluzione, a dispetto delle audacie demagogiche e delle utopie sociali che si presentarono alla luce del giorno, non ebbe, nella divisione dei benefizi, che una menoma parte: appena se la ricognizione di alcuni diritti, la concessione di pochi; la precarietà delle sue condizioni non fu mutata, la sua emancipazione dalla miseria, o tentata soltanto e male, o pretesa attuare con ispedienti più nocivi e minacciosi dei diritti d'altrui. Il torto non fu degli uomini nè degli avvenimenti: fu della necessità delle cose. Il nostro ceto non trovavasi ancora in condizione da approfittare della rovina della società antica per farsi, nella ricostruzione della nuova, un posto migliore. Era giusto che il ceto medio ne vantaggiasse egli primo e quasi esclusivamente, perchè quella rivoluzione era opera sua, da lunga mano egli ci si era preparato, nel suo seno era sôrta quell'agitazione filosofica di criticismo che aveva arrivate ed affascinate anco le sfere superiori e preparava nell'ordine delle idee quella distruzione del vecchio che doveva poi aver luogo così meravigliosamente ne' fatti. A tutto ciò la plebe non aveva collaborato che con qualche tumulto suscitato dalla miseria, andando a gridare, sotto alle finestre di quella che era ancora per lei [5] la Provvidenza incarnata, voglio dire la monarchia, che aveva freddo e che aveva fame. Quando la rivoluzione, facendo come Saturno, ebbe divorato i migliori suoi figli, ella era entrata un momento nel campo lasciato libero, ma con non altro concetto direttivo che le follie o tristi o puerili degli Hebert, dei Babeuf e dei Clootz, col tristo corteggio delle tricoteuses della ghigliottina, allo sciagurato lampo della lama sanguinosa di quello stromento di morte.

«La rivolta del 1830 non giovò molto di più all'emancipazione della plebe. Non fu che una vendetta della borghesia verso la ristaurazione che aveva creduto poterla rigettare di nuovo sotto la dominazione delle vecchie schiatte feudali.

«Poi la quistione si complicò sventuratamente con quella della forma politica. Gli amici della plebe credettero che il vantaggio di essa più facilmente si otterrebbe col trionfo del partito repubblicano; e questo non ha tuttavia guadagnato la maggioranza delle coscienze e delle opinioni in Europa.

«La forma politica non vi ha da che fare. Anche la monarchia può soddisfare a ciò che pretendesi dalla giustizia verso le basse classi, che queste cominciano anche inconsciamente a domandare, che esige la legge medesima del progresso umano. Per questo è necessario oramai entri in azione l'elemento della plebe: quella forma politica qualsiasi, monarcato o repubblica, che saprà sinceramente accettare ed aiutare siffatta entratura e fondarcisi, avrà assicurate le proprie sorti soddisfacendo al bisogno dell'epoca....

················

«Quella classe che alla plebe dovrebbe tendere la mano è la borghesia. Uscita da poco, da ieri soltanto, fuor di quel baratro di soggezione, d'ignoranza e di miseria dove s'agita ancora il volgo, dovrebbe facilitare il cammino ai suoi fratelli. L'onda del progresso manda i derelitti a battere alla porta dell'edificio della civiltà dove banchettano i gaudenti, dov'è sapere e ricchezza: gli arrivati dovrebbero aprir loro il varco perchè colla violenza non lo dischiudano: colla violenza che tutto manda sossopra. Lo dovrebbero per generosità, lo dovrebbero per interesse: la borghesia, appena arrivata, lotta ancora coi tronconi tuttavia potenti dell'idra del passato che la scure della rivoluzione ha infranto, non ha spento del tutto. Le stanno a fronte più che tenacissimi, risuscitati a nuova vitalità, i resti del feudalismo, il militarismo, la teocrazia uniti in istretta lega dall'esperienza del comune pericolo a cui soggiacquero: un'alleanza fida, sicura, potentissima la troverebbe nella plebe.

«Anche la monarchia potrebbe avvantaggiarsene. Quel dì ch'essa apertamente si facesse redentrice delle plebi avrebbe schiacciato ogni rimasuglio di resistenza aristocratica, avrebbe scongiurato ogni rischio del dottrinarismo liberale borghese. E l'aristocrazia? Quando chiamasse ella stessa al desco fraterno della civiltà le classi tenute finora da esso lontane, nulla avrebbe a temer più della rivalità del ceto mercantile. Avrebbe trovato una forza nella dignitosa clientela di diritti che dimani avranno la foga di passioni e la terribile ragione del numero. Ma per ciò l'aristocrazia avrebbe da mutarsi del tutto d'indole e di essenza. E ciò, com'è oggidì, non vuole, non ha il coraggio da tanto, non ne ha neppure l'intelligenza. La borghesia liberale è ancora più adatta a quest'opera eccelsa e fatale, da cui ha da sorgere la società novella del venturo secolo; ma la borghesia in un accesso di cieco egoismo diffida e teme dei fratelli da cui si è separata da un giorno soltanto; e l'occhio volto esclusivamente alla ragion del guadagno ed alla materialità del suo benessere, dimentica la sua missione e i suoi veri interessi medesimi.

«Guai, guai a chi volesse di questa forza servirsi come d'una leva pel conseguimento de' suoi fini particolari, e di poi gettarla od infrangerla! Una volta affrontato il problema, o il suo scioglimento graduato ma logico e fatale, o la crisi la più spaventosa che abbia mai attraversato l'umanità.

················

Il marchese cessò un istante dal leggere e stette meditando.

— C'è molto da riflettere, disse fra sè, in queste pretese fra ingenue ed orgogliose della moltitudine, che ha trovato un ingegno ed una erudizione per dar voce all'inconscio lavorìo che si fa nel suo seno, e cui imprudentemente hanno solleticato ed aiutano le ambizioni malconsigliate dei rivoluzionari. È un sintomo dell'epoca. Codeste aspirazioni hanno bello ammantarsi delle sembianze generose di temperati richiami ad una ipotetica giustizia; le non sono altro che un mascherato desiderio dei godimenti materiali, cui soltanto i poveri vogliono vedere nella vita delle classi superiori. Sotto lo specioso nome di progresso, inventato dall'irrequieta ambizione de' moderni sovvertitori, non intendono in realtà altro che lo spogliar noi dei vantaggi sociali per goderne essi: l'ufficio alto e necessario ad un buon assetto dello Stato, cui esercita l'aristocrazia, disconoscono o fingono disconoscere: essi non pensano neppure ad assumersene il carico e non ne sarebbero capaci; e frattanto, togliendo alla classe superiore i privilegi, la riducono ancor essa nella impossibilità di compiere il suo mandato. Così la società rovinerebbe. A beneficio di chi? Delle più indegne passioni.

Curvò il capo fissando la fiamma vivace della legna che ardeva nel caminetto. Un penoso pensiero gli fece corrugare quella sua nobile fronte.

— Ma la nobiltà d'oggidì, soggiuns'egli con un sospiro, ma noi adempiamo ancora veramente ed efficacemente a quell'alto ufficio?

Non diede a se stesso risposta, come se non osasse, non sapesse; voltò una pagina del manoscritto [6] e riprese a leggere un altro passo segnato dalla matita rossa del Commissario.

«Il vero fondamento d'un buono organismo sociale è la libertà: sarà migliore quel sistema, farà più felici i suoi popoli quel governo, effettuerà quanto più è possibile l'uguaglianza civile quel complesso di leggi e di amministrazione che guarentirà come l'arca santa di tutte le libertà, la libertà individuale.

«Gli antichi usarono molto il vocabolo di libertà, ma di essa non ebbero il menomo giusto concetto, sacrificando il cittadino allo Stato, schiacciando sotto l'ente collettivo l'ente individuale. Non formiamoci un idolo di quest'essere collettivo, la cui personalità, risultando dal complesso di tutte quelle che la compongono, deve cercare la sua prosperità in quella delle singole monadi che la costituiscono. Lo Stato ha la sua ragion d'esistere nell'obbligo e nel fatto di ottenere la maggior felicità dei membri tutti ond'è composto: dico di tutti, non di una classe — di tutti secondo la loro capacità e condizione. Quando manca a codesto dovere, o tutto il popolo tenuto in malessere, o quelle classi che sono oppresse hanno diritto di sovvertirlo: rimedio certo estremo, cui e popoli e Governo dovrebbero impiegare tutta la prudenza per evitare. Se il diritto insorge e non trionfa, si ha il fatto della tirannia.

«Il mezzo più sicuro di ottenere la maggior felicità di cui sia capace un popolo è la libertà, la quale ancora è mezzo unico efficace perchè questo popolo si renda degno di felicità maggiore e la conseguisca. La libertà accompagnata dalla giustizia, che genera infallibilmente la moralità. La libertà è la responsabilità di ciascuno e di tutti in faccia a tutti ed a ciascuno ed a se stesso: è la possibilità e l'incoraggiamento di svolgere ed impiegare tutte le forze individuali nel comune lavorìo onde risulta la coltura: e questo svolgimento e questo impiego trovano così limite soltanto ed arresto nello svolgimento e nell'uso di altre forze individuali più meritevoli, più potenti più logiche e quindi più degne d'espansione e di successo. Alcuna forza buona in codesto urto di attriti rimarrà soffocata fors'anco, alcuna cattiva, per audacia e pravità della natura umana riuscirà a trionfare; ma sarà un'eccezione che andrà sempre via via diminuendo a seconda che durerà l'esercizio della libera vita.

«Ma la risponsabilità dell'individuo presuppone nel medesimo la facoltà dell'apprezzamento e gli elementi del giudizio. L'uomo è tanto più libero e tanto più risponsabile, quanto più è istrutto. L'istruzione è primo elemento della libertà: l'educazione della coltura. Volete mantener serva una gente? Fate che sia ignorante. Volete chiamarla alla libertà? Obbligatela ad aprir gli occhi alla luce. Fondamento sul quale innalzare l'edificio d'un libero vivere, l'istruzione e l'educazione obbligatoria pei fanciulli di tutti. «Obbligatoria? Questa parola sembra stonare col tenore del mio concetto. Libertà ed obbligo, come s'accordano? S'accordano sì. Sono due termini di un'antinomia che si risolve in una proposizione dialettica, recando la quistione sul suo vero terreno.

«La libertà individuale consiste in ciò che l'uomo possa fare tutto ciò che spetta alla sua azione, tutto ciò che gli piace ed ommettere eziandio a suo talento tutto ciò che non ha voglia di fare, quando col suo fatto colla sua ommissione non urti nella libertà degli altri, non leda i diritti altrui. Se ad un uomo piace l'essere ignorante, che diritto ha la società di dirgli: rompiti la testa a studiare, perchè io voglio che tu sia istrutto? Potrebbe dirsi che la società da un uomo istrutto ricava utile assai più che da un ignorante, ed ha perciò diritto di pretendere che quel suo membro le dia tutto ciò che può darle di sua capacità; ma questo a mio vedere è un sofisma. L'uomo dev'essere accettato dalla società quale si trova: ricco o povero di talenti, ricco povero di cognizioni, ella non può pretender altro se non che non violi i diritti altrui, non minacci la sicurezza comune. Con diverso criterio bisognerebbe ammettere che la società avesse diritto di scrutare se l'individuo può dare maggior lavoro di quello che dia effettivamente, maggior virtù, maggior senno e che so io, ed obbligarlo a dare questo tanto di più: il che sarebbe non che tirannico, assurdo.

«Ma quand'è che l'individuo ha da godere di questa sua libertà che è per così dire un santuario in cui nessuno deve osarlo turbare? Quando esso n'è fatto capace: quando la sua personalità è arrivata a quella maturanza per cui è risponsabile de' suoi atti, quando insomma è veramente uomo. Il fanciullo non ha la pienezza di questa libertà perchè non ha la possibilità di usarne: gli manca la responsabilità perchè gli manca la ragione; l'infanzia fisicamente e moralmente ha bisogno di sostegno; il diritto ch'essa ha, quasi per inversione, è appunto quello che altri abbracci e faccia come appendice della sua la esistenza di essa e provveda a tutti i suoi bisogni.

«Ora qui si trovano in accordo due principalissimi elementi: l'interesse che ha la comune associazione che le si crescano generazioni meglio capaci di conferire al bene comune mediante l'istruzione, ed il diritto che ha ciascun individuo, quando non può ancora da sè provvedere alle cose sue, che siccome si procura la soddisfazione de' suoi bisogni fisici, gli si fornisca eziandio quel capitale di cognizioni onde avranno ad avere soddisfacimento di poi i suoi bisogni intellettivi e morali. L'obbligo adunque dell'istruzione non s'impone all'individuo su se medesimo, quando capace di giudicare e volere, ma s'impone ai padri che debbono ancora volere e giudicare pei figli.

«La libertà dei padri rimane ella lesa? No. [7] Hanno essi diritto i padri di decidere e volere che i loro figliuoli rimangano nel lezzo dell'ignoranza? Questa loro libertà eccede i limiti in cui si deve muovere, perchè offende il diritto ingenito che ha il figliuolo all'alimentazione dello spirito, pari a quello che reca seco nascendo all'alimentazione del corpo. Se un padre rifiuta di provvedere il cibo a' suoi figli, lo si punisce — ed a ragione —; se non sa non può procurarglielo sottentra l'azione sociale a sostituirlo. Così dev'essere del cibo dello spirito.

················

«La plebe può quasi ancora paragonarsi alla fanciullezza[2]. Come tale non avrebbe ella il diritto di essere illuminata, anche con qualche costrizione? Se si mettessero obbligatorie per l'operaio le scuole serali degli adulti, per esempio?... Ma no; beneficia invitis non conferuntur, dissero i Romani; si lasci pure all'operaio già cresciuto la libertà di andare piuttosto all'osteria la sera che non alla scuola; ma questa scuola frattanto ci sia, perchè, dove lo voglia, egli vi si possa recare.

«Scuole obbligatorie per tutti indistintamente i fanciulli; scuole facoltative per gli operai adulti. Va benissimo: ma chi le pagherà tutte codeste scuole?

················

«Gli enti naturali che hanno la loro ragione di esistere superiormente alla legge sociale sono due: l'individuo e la famiglia. È legge di natura che l'individuo per isvilupparsi abbia bisogno della famiglia: questa è la ganga da cui si sprigionerà il metallo della persona individuale. Una famiglia rudimentale hanno anche i bruti: colla comparsa della ragione nell'umanità essa doveva progredire in nuova e più perfetta costituzione colla sanzione di più spiccati e maggiori doveri e diritti nei due termini che la compongono: la paternità e la figliuolanza.

«Ma quella prima agglomerazione d'individualità che è la famiglia, è ancora molto debole in faccia alla natura che impone ad ogni suo organismo vivente la lotta per l'esistenza. I comuni pericoli costringono parecchie famiglie ad unirsi in vincolo di comune difesa: d'altronde la famiglia è una sorgente feconda di altre famiglie, dal tronco si slanciano varii e molteplici rami e tutti rimangono uniti da una comunanza di bisogni, d'interessi e d'affetti. È la prima associazione che non impone più la natura medesima direttamente e inevitabilmente. Intravviene un fatto sociale. L'uomo ha dedotto delle conseguenze dalle premesse delle sue condizioni, dalla sociabilità messa in lui virtualmente, da quello che ha imparato dall'esperienza. È fatto un passo immenso nella civiltà: è creato il Comune, la vera unità dell'associazione politica, la base d'ogni esistenza collettiva di popolo.

«Più tardi la progrediente vita sociale creerà dei bisogni a cui provvedere, dei pericoli a cui riparare, non basterà più da solo il Comune. Si sente da essi l'utilità di consociarsi in parecchi affine di accrescere le loro forze, i loro mezzi d'azione, la loro difesa. È nato lo Stato, o per dir meglio il concetto del medesimo si è staccato da quello del Comune con cui prima si confondeva, e s'è visto in esso qualche cosa di più comprensivo, una somma di rapporti di più lata e diversa natura.

«Finchè lo Stato rimase piccolo bastò che trammezzasse fra lui e la famiglia il Comune; ma il movimento del progresso politico si è finora disegnato di guisa da volere ed effettuare via via sempre più grandi agglomerazioni di popoli, prima empiricamente, senza regola direttiva, per la violenza della spada, per l'ambizione d'un despota o d'un popolo conquistatore; da ultimo, dopo la rivoluzione francese, dietro una specie di norma nelle condizioni geografiche ed etnografiche, con la legge d'un nuovo diritto, quello delle nazionalità; alla costituzione ed al compimento delle quali è chiaro per me che l'umanità cammina senza possibil riparo nel presente secolo, nella continuante evoluzione, nello sviluppo dei germi posti dal gran cataclisma europeo di cui fu stromento il più efficace la Francia.

«Ma fra lo Stato cresciuto a queste proporzioni e tendente a tutto accentrare ed assorbire, ed il Comune che vide minacciata ed ebbe anco intaccata la sua vita autonoma, fu bisogno allora che si stabilisse qualche cosa di mediano che provvedesse a certi bisogni locali e partecipati a più Comuni, ed a cui lo Stato, tratta in altro campo più vasto la sua azione, mal poteva e voleva e non doveva por mano. E fu costituita la Provincia.

«Or dunque noi abbiamo a costituire l'organismo sociale parecchi elementi, parecchi esseri di cui alcuni hanno vita direttamente dalla natura medesima, gli altri mediatamente per convenzione degli uomini resa necessaria dalle condizioni immutabili delle cose: l'individuo, la famiglia, il Comune, la Provincia e lo Stato.

«Se ciascuno dei membri di questo gran corpo, se ciascuna delle ruote di questa immensa macchina sta a suo posto ed esercita la sua funzione, le cose cammineranno a seconda come in un organismo vivente dove sia piena salute; ma se l'uno di quegli organi impaccia od usurpa l'azione dell'altro, se uno pretende avocare a sè ed esercitare le attribuzioni altrui, allora abbiamo il disagio, allora il corpo sociale è ammalato, allora v'è la prepotenza di questi, la schiavitù di quelli.

«Lo Stato, appo noi, tutto compenetrato nella Monarchia, che s'appoggia ai privilegi d'una casta ed alla forza del militarismo, ha invaso il campo [8] d'azione delle altre parti del corpo sociale; quindi il malessere, quindi la servitù in cui viviamo....»

— La servitù! esclamò fra sè il marchese a questo punto, interrompendo di nuovo la lettura. Oh come la intendono essi, questi predicatori di democrazia, e che cosa vorrebbero per dirsi liberi? Invader loro le attribuzioni della monarchia e comandare a furore di popolo. La monarchia, stolti che sono, incarna il supremo diritto dello Stato, diritto superiore ad ogni altro, innanzi a cui le loro pretese sono da non curarsi, e se occorra schiacciarsi. L'aristocrazia e il militarismo a cui il trono s'appoggia e si deve appoggiare — e segnerebbe la sentenza di sua rovina il dì che cessasse dal farlo — l'aristocrazia e il militarismo, rappresentano e sono, quella le tradizioni e i sentimenti più nobili del passato su cui si deve regolare la monarchia, questo il freno delle triste e pericolose passioni del presente: costituiscono la forza di uno Stato all'interno ed all'estero. Dissensato od empio chi li volesse distrurre!...

Pronunziò queste parole con calore, levando fieramente la testa, come fa l'uomo valoroso innanzi ad un pericolo o ad una sfida: ma poi tosto, come ravvisatosi, sorrise, si curvò verso il fuoco, lo attizzò sbadatamente colle molle che aveva impugnate, e soggiunse:

— Ve' ch'io mi scaldo sui vaneggiamenti d'un giovinotto senz'esperienza, risultato di mal digeste letture, parodia di Rousseau in piccole proporzioni... Ecco i bei frutti di quell'istruzione che costui vuol data al popolo, ai pari suoi!... Il primo uso ch'ei ne fanno è di volgere quel poco che hanno imparato contro quella società che glie lo ha fatto o lasciato imparare. Istruite un popolano senza certe precauzioni, ed otterrete di sicuro un sovvertitore dell'ordine pubblico. Lo scrittore di queste pagine, che non si sa chi sia, che nulla forse ha provato del mondo, nulla ha visto, l'ingegno che gli concedette Iddio, poichè lo ha rinforzato con alquanti e chi sa quali studi, impiega tosto a condannare quello che hanno assodato e fatto concreto nel mondo i secoli trascorsi.... L'istruzione è un potente e nocivo liquore che va misurato con cura ed a centellini a' figliuoli del popolo: per ciò così provvida e necessaria l'opera dei gesuiti e delle associazioni religiose che da quell'ordine dipendono. Gesuiti, Ignorantelli e soldati hanno da tenere il mondo, chi non vuole la guerra civile in permanenza.

Appoggiò il capo alla palma della sua mano destra così bella ed elegante di forme, da vero aristocratico, e parve riflettere seco stesso sulle ultime parole che aveva pronunziate.

— E costui ha dell'ingegno. Sì; traverso questo suo falso modo di concepire le cose umane, traverso codeste che mi paiono ambizioni del suo pensiero, si scorge una certa potenza d'intelletto... Se la dirigesse al bene!... Perchè non si potrebbero acquistare ai sani principii anco queste ambizioni della classe infima?... Forse non è manco vero che questo tale nulla abbia provato del mondo, nulla visto. È nato nella plebe; non ha provato che i mali di quella condizione cui la sua intelligenza, maggiore delle ordinarie di tal classe, gli ha resi più sensibili; non ha visto la questione che da un lato solo. Quando potesse salire più in alto ed esaminare il problema sociale sotto un più vasto rispetto e in modo più regolare, non è egli probabile che vedrebbe e giudicherebbe diversamente? Dove la nostra parte, oltre l'autorità e il possesso del potere, abbia ancora l'intelligenza che ne propugni i principii, sarà di tanto più forte. E queste intelligenze è opportuno arruolarle fra le nostre file da qualunque punto si mostrino, da qualsiasi ceto esse sorgano... Parlerei volentieri all'autore di queste temerità rivoluzionarie così modestamente vestite della forma di pacifici e quasi dottrinali ragionamenti...

Un subito nuovo pensiero gli attraversò il cervello e parve gettarlo in un altro ordine d'idee.

— Ed e' si chiama Maurilio! esclamò levandosi in piedi, come sospinto da una vivace emozione. Maurilio?... Oh quel nome!

Passeggiò per la stanza a capo chino, le braccia incrociate al petto.

— Anche quell'altro: diss'egli: anche Maurilio Valpetrosa era un novatore, era un liberale, come sogliono essi stessi chiamarsi, un patriota. La prima volta ch'e' venne in Piemonte fu nel 1820 per prepararvi quella sciagurata gazzarra dell'anno di poi, cui battezzarono col nome di rivoluzione. Fu allora che io primamente lo vidi: fu allora ch'egli vide mia sorella Aurora... Fatalità! Fatalità! Egli era bello di forme, avvenente di modi, eloquente nella parola, piacevole per ogni verso. Chi avrebbe detto che sotto quelle leggiadre sembianze s'introduceva nella nostra casa la sciagura, la discordia, quasi il disonore, la necessità dell'omicidio?

Si fermò presso il camino, appoggiò il gomito alla mensola di marmo, e sorresse colla mano la testa in una mossa che abbiamo già visto essergli abituale.

— Ah! mi ricordo di tutto e sempre, come se non fosse avvenuto che da ieri. Santarosa, che era suo complice, lo aveva presentato alle più cospicue famiglie. Dal Pozzo e Dal Borgo lo trattavano col tu e ne parlavano con entusiasmo. Il principe di Carignano lo aveva ricevuto ufficialmente, e dicevasi che lo vedesse in privato quasi tutti i giorni. Egli aveva tratti e maniere che lo facevano degno d'essere accolto nella società più scelta; perfino mio padre, così severo e difficil giudice, non disdegnava sorridere al suo brioso conversare e gli aveva data la mano. E noi fummo così stolti e ciechi da non sospettare nemmeno che Aurora potesse!....

[9] S'interruppe di nuovo, preso da una certa commozione che diede ancora un altro avviamento al corso dei suoi pensieri.

— Povera Aurora!.... Avremmo dovuto vegliar meglio su di te. Così ti avremmo avanzati tanti dolori..... e l'immatura morte fors'anco..... ed a me il rimorso..... Ma fummo incauti dapprima, troppo crudeli — forse — di poi..... Oh perchè quell'uomo non era egli della nostra casta?.... Lo sciagurato! Com'ei ci seppe ingannar bene!.... Oh tutti questi rivoluzionarii sono infinti e traditori. Un uomo da nulla, il figliuolo d'uno scrivano osò stare alla pari con noi e rapirci la più preziosa gemma della famiglia..... Egli pure aveva ingegno; oh sì, moltissimo ne aveva. Era poeta. Quando parlava della sua utopia d'un'Italia libera dallo straniero, risorta a nuova grandezza, mercè l'unione delle sue varie membra sotto lo scettro di Casa Savoia vi sapeva entrare con tanta efficacia nell'animo che ognuno ne sarebbe rimasto scosso. Io, giovane allora, lo fui; perfino mio padre esitò un momento. Quando quel demonio tentatore gli espose dinanzi il quadro d'un regime rappresentativo in Italia in cui noi potessimo e dovessimo sostenere la parte che tiene con tanto lustro ed effetto l'aristocrazia in Inghilterra, mio padre stesso fu sovraccolto e non isdegnò fermare su tal concetto il suo pensiero. Ma lo spirito pratico e fermo di mio padre non tardò a vedere che l'impiantare il sistema inglese in Italia, con altri costumi, con altre tradizioni, era impossibile, e il crederlo una illusione. Ponendo le mani in quella congiura l'aristocrazia non avrebbe fatto che un marché de dupe; perchè o la congiura falliva e chi ci aveva da perdere maggiormente erano i nobili compromessi che ci ponevano in repentaglio la loro fama, il nome, la posizione, le ricchezze: o riusciva, e noi non avremmo fatto altro, introducendo forme liberali nel Governo, dando la spinta al sentimento popolare colla guerra allo straniero, che mettere in mano della borghesia procacciante lo strumento per soprammontarci..... E molti di noi — troppi — si diedero in preda all'illusione e credettero potere scatenar l'idra e vincere con essa il monarcato assoluto e il dominio straniero, due forze potenti, e quell'idra, quand'anche vittoriosa, dominarla poi!...

Fece una pausa ed era evidente, chi l'avesse visto, che la sua mente, così agitata da varie impressioni, ora s'affondava sempre più in una grave meditazione.

— L'Inghilterra, riprese egli a dir seco stesso, è quella che possiede l'aristocrazia più potente, più benemerita e fondata su più salda ed incrollabil base. Sul continente la monarchia, distruggendo il feudalismo colla forza, appoggiandosi sul popolo, ha fatto di noi poco più che cortigiani soltanto. Una Camera di Pari ci rialzerebbe i caratteri, l'autorità e le fronti.

Sorrise, poi tentennò il capo e fece un gesto colla mano, come per allontanare da sè la follia di quel pensiero.

— Eh via! soggiunse. Noi siamo oramai incastrati a questa monarchia tal quale essa è. Conviene vivere con essa della sua vita presente. Una modificazione nella medesima chi sa dire le conseguenze che può avere? Non sarebbe egli aprirvi dentro una breccia? E traverso questa, per quanto stretta, passerebbe senza fallo oggidì lo spirito sovvertitore moderno. Ma l'aristocrazia inglese ha un suo metodo per tenersi sempre in prima fila in quella vita di pubblicità e in quella lotta di intelligenze e d'ambizioni; ed è di studiar molto essa stessa, e poi di chiamare a sè, d'invitare, accogliere e far suoi tutti i più notevoli ingegni che dieno prova efficace di sè nelle classi inferiori. Così la si rifornisce, per così dire, di nuovo sangue, la si rinforza di nuovi campioni e li toglie a' suoi nemici che se ne potrebbero servire; acquista di quando in quando nelle nuove reclute lo zelo sempre più ardente di neofiti. Ciò dovremmo fare anche noi. Con un po' d'oro acquistare un ingegno; di questo non ne abbiamo troppa abbondanza per trascurare siffatto mercato...

Riprese in mano lo scartafaccio di Maurilio che aveva abbandonato sulla mensola del camino.

— Questo disgraziato che non ha nome, che non ha famiglia, che forse non ha pane, ha la ricchezza dell'ingegno. Perchè non diverrebbe un soldato della nostra falange?

Si diede a continuare la lettura del manoscritto.

«L'individuo gli è verso la famiglia che ha il diritto naturale di ricevere l'istruzione: lo Stato che ha interesse i suoi componenti sieno istrutti, gli è alla famiglia che ha il diritto sociale d'imporre la educazione dei figli.

«Ma se la famiglia non può? Perchè si raccolsero le famiglie in Comune se non perchè questo secondo ente collettivo sottentrasse colla sua forza maggiore là dove le forze della famiglia non potevano provare? L'educazione dei poveri è obbligo del Comune.

«Se questo manchi al debito suo, lo Stato, associazione superiore, dovrebbe obbligarlo a compierlo; e se il Governo, troppo lontano e non abbastanza in condizione da vedere e giudicare le circostanze locali, affidasse questo suo diritto e il sindacato che ne fa parte alla Provincia, tanto meglio e tanto più efficace il provvedimento.

«Il Comune adunque dovrebbe procurare che fosse aperta nel suo seno quella scuola che dà gli elementi necessarii ed indispensabili dell'istruzione alla fanciullezza. A quell'età l'istruzione è unica e serve per tutti, a qualunque classe si appartenga, qualunque carriera si sia per intraprendere di poi. Sarebbe assai venturoso che i figliuoli dei ricchi si frammischiassero fin d'allora ai figliuoli dei poveri, [10] e imparassero l'eguaglianza degli uomini innanzi al diritto, il rispetto alla dignità personale in ogni creatura umana. Ma se ciò sarebbe pur bene, non è tuttavia da imporsi. Quella libertà ch'io propugno, vorrei rispettata anche in codesto. Il Comune apre la sua scuola a tutti; ma se alcuno ha i mezzi di istruire i suoi figli all'infuori di questa scuola, sì lo faccia e resti libero dall'obbligo di mandameli, quando provi che questa istruzione egli loro fornisce realmente ed efficacemente.

«Pei trasgressori note di biasimo pubbliche e multe.

«Per mantenere la scuola il Comune tasserebbe i contribuenti d'un balzello apposito. Ma dunque i ricchi pagherebbero la scuola pei poveri? Appunto. Ma questo è socialismo! E lo sia; ma è socialismo che dirò onesto e ragionevole. È socialismo che già è in vigore per molti altri bisogni comuni dell'associazione. Chi paga le strade? chi l'illuminazione della città? chi la forza pubblica che mantiene la sicurezza, ecc., ecc.? I contribuenti: quelli che possedono. Ed il proletario non gode pur esso di questi vantaggi della vita sociale? Se voi pagate per illuminare le strade di notte affine di non essere assassinati, pagate senza rimpianto per illuminare le menti del popolo ottenebrate dall'ignoranza e ci guadagnerete eziandio nella sicurezza, e risparmierete forse e senza forse nelle spese degli agenti dalla polizia, nelle spese delle carceri. Anche codeste ultime spese le pagate voi, ricchi, pei poveri: e sarebbe meglio non le aveste da pagare....

«Ma in ciò altresì vorrei lasciato il primo posto alla libertà. Il Comune dovrebbe dire ai suoi cittadini: — Voi che possedete, volete liberamente consociarvi per mantenere le scuole onde abbisogniamo? Alla vostra libera associazione per quest'uopo, la quale appunto sarà tanto più zelante, io cedo volentieri il luogo, pronto a riprenderlo se voi fallite. Non volete? Allora sono costretto ad usare delle mie attribuzioni di ente collettivo stabilito per ottenere il meglio possibile i fini proposti.....»

Più in là il marchese incontrava quest'altro passo notato dal Commissario:

«La società famigliare è imposta all'uomo dalla natura, la società civile e politica è ancor essa il risultato necessario delle sue condizioni fisiche, fisiologiche, intellettive e morali. L'uomo non vi si può ribellare: il diritto comune è lì per ischiacciarlo s'e' lo tenta: il suo consentimento ai legami sociali se è giusto bensì, se risponde ai suoi bisogni ed interessi, è pur sempre tuttavia un consentimento forzato.

«Ciò vuol dire che questa società, che il Governo, in cui la si concentra e con cui agisce, deve strettamente rinserrare la sua azione entro i limiti delle cose che gli spettano realmente, per cui ha la sua ragione d'esistere. Uscendo di là esso, il Governo, abusa di quel costretto assenso, abusa della tacita costretta delegazione, offende la libertà: ogni passo fuori della cerchia delle sue attribuzioni è un passo nella tirannia.

«Ma quanti nelle condizioni presenti dello stato sociale si trovano a disagio! Le leggi che guarentiscono i gaudenti sono in pari tempo ceppi a chi soffre e vorrebbe mutar la sua sorte. Devonsi quelle leggi abolire? ma allora abbiamo l'anarchia. Devonsi comprimere colla forza soltanto i disagiati per farli stare nel loro disagio? ma allora abbiamo la guerra civile in permanenza.

«Il rimedio possibile — un rimedio, relativo e lento e di progressivo sviluppo, imperocchè in ogni cosa della creazione tanto riguardo alla materia sì organica che inorganica, quanto riguardo al mondo morale e intellettivo, nulla è brusco, improvviso ed assoluto — l'unico rimedio possibile, a mio avviso, è una che chiamerei forza del mondo umano, di cui la natura medesima ci diede l'idea, imponendoci la sociabilità, forza la quale non è nuova, nè nuovamente conosciuta, imperocchè ne troviamo imperfette applicazioni anco nel Medio Evo, ma che pur tuttavia ora soltanto pare aver trovate le condizioni acconcie nell'umanità per isvilupparsi e cominciar a mostrare ancora in lontano adombramento che cosa possa ottenere, sin dove arrivare: e questa è L'ASSOCIAZIONE.

«L'uomo, arruolato fin dalla nascita nel corpo sociale, non ha tuttavia con ciò esaurito quell'attitudine di sociabilità che porta seco, specialissimo e nobilissimo carattere dell'esser suo. La società politica e civile non risponde che ad una parte dei suoi bisogni e delle sue facoltà: in tutto il resto devo lasciarlo libero, mentre nello stesso tempo, col fatto suo gl'insegna la verità aritmetica che tante debolezze consociate formano una forza potentissima.

«Di questa sua sociabilità, come d'ogni altro diritto individuale, l'uomo deve potersi servire in ogni modo, a suo talento e capriccio, fin là dove l'esercizio del suo diritto non turbi e non violi il diritto altrui.

«La libertà d'associazione è uno dei più sacri diritti del popolo, ed è più che un attentato tirannico, è un'empietà il fatto d'un Governo che la contrasti e la neghi.»

E qui Maurilio scorreva rapidamente tutte le bisogne a cui poteva — e secondo lui doveva — applicarsi la libera associazione dei cittadini. Designava due vie che si dovevano percorrere, due correnti che avrebbero dovuto muoversi l'una dall'alto, l'altra dal basso, per incontrarsi, a così dire, a mezza strada in un comune intento: la miglioria sociale. Dall'alto le classi arrivate all'agiatezza dovrebbero mercè l'associazione guarentire i loro possessi dai pericoli delle passioni e delle ire che sobbollono nei bassi fondi delle plebi, antivenendo lo scoppio della rivolta che non domanda più ma azzanna [11] tutto, col concedere a poco per volta ciò che giustizia comanda e le condizioni del momento a seconda permettono e consigliano si debba concedere; dal basso i proletari, i lavoratori senza riserva di risparmi, in balìa delle esigenze del capitale, dovrebbero unirsi in tale associazione che facesse per loro come la base d'un ammasso di risparmi, che tenesse luogo in parte per essi del capitale e ne assicurasse loro alcuni dei vantaggi, quello almanco d'una certa sicurezza del domani. Quindi per risultamento del concorso di queste due correnti d'associazione, una dei ricchi, protettiva ed aiutrice, l'altra dei poveri, operativa e principale, guarentito ad ognuno della plebe che voglia — e chi non vorrebbe? — l'educazione della prole, l'esistenza della famiglia e il soccorso fraterno durante le malattie, il pane di tutti i giorni e la dolcezza del domestico focolare pulito e raccolto, mercè il lavoro, l'assistenza nella vecchiaia quando le forze mancano all'opera, così che quello fra tali invalidi operai che sia rimasto solo, non abbia da stentar la vita coll'elemosina che degrada, ma riceva una pensione, risparmio della sua opera giovanile che si è capitalizzato quasi senza sua saputa, e chi è nella famiglia non viva tutto a carico del lavoro certe volte scarso dei figli.

In altro luogo era toccata la quistione politica della forma di Governo. Lo scrittore aveva le sue preferenze per la forma repubblicana (qui la matita rossa del signor Tofi aveva tirate due righe con tanta forza che la carta n'era rimasta stracciata); ed invero egli credeva che in teoria, secondo la logica più stretta ed evidente, era quella forma la più consentanea all'uopo e la più adatta alla ragione. Ma concedeva egli pure che non sempre ai dettami della scienza in teoria, può corrispondere l'attuazione, cosa sempre relativa nella pratica, e che molte volte la povera logica traducendosi nei fatti, doveva sopportare le più strane e prepotenti storture. D'altronde, soggiungeva, quella appunto non è che forma: ciò a cui si deve tenere essenzialmente è la sostanza: questa consiste nella libertà e nella sicurezza insieme combinate. Quell'organismo politico il quale fornisse all'individuo la maggiore agiatezza di svolgere la propria personalità, di perfezionare le sue doti, di godere di tutte le sue facoltà, di raggiungere il suo scopo: quello sarebbe da accettarsi per migliore, avesse a capo un re o qualunque siasi magistrato con altro nome.

E qui scendeva a far la critica — una critica non ingiusta ma severa, qualche volta aspra e mordace — del reggimento assoluto, militare, clerocratico che in que' tempi gravava sul Piemonte; e provava che con tale sistema nè la civiltà poteva progredire, nè il popolo essere soddisfatto, nè la plebe redimersi.

Il marchese, interessato forse ancora più di quello che avrebbe creduto da siffatta lettura, erane a questo punto, quando una mano discreta grattò leggermente alla porta per annunziare che v'era qualcuno che desiderava entrare.

— Avanti: disse il marchese levando il capo e volgendo la faccia verso l'uscio.

Entrò il suo cameriere di confidenza.

— Che cos'è? domandò il padrone con accento che significava aver piacere di essere sbrigato presto e lasciato alle sue occupazioni. Forse qualcuno che vuol parlarmi?

— Eccellenza sì: rispose il servo inchinandosi.

— Oggi non ricevo nessuno. Se si ha bisogno di parlarmi si ripassi domani.

Il cameriere esitò alquanto; parve avere qualche osservazione da fare; ma non osò e inchinatosi di nuovo profondamente, si volse per uscire. Ma il marchese aveva visto quell'atto del servo.

— Voi volete dirmi qualche cosa? interrogò mentre il domestico già era fra i battenti dell'uscio.

Il servo si fermò.

— Chi è quella persona che vuol parlarmi? soggiunse il padrone.

— È Don Venanzio.

Il marchese sorse in piedi vivamente e disse con pari vivacità:

— Ah lui!... È un'altra cosa... Fatelo entrare.

Due minuti dopo s'introduceva in quel salotto la bella testa veneranda del vecchio parroco di villaggio.

CAPITOLO II.

Don Venanzio portava bravamente la più bella vecchiaia che si possa vedere. Nella sua faccia, che era tutta un'espressione di bontà, si manifestava la pace soave d'un'anima onesta; nel suo sguardo, ancora vivace, brillava la fiamma di quell'affetto di cui Cristo fu modello divino, la carità. Intorno al capo la capigliatura folta ancora ma bianchissima gli faceva come un'aureola di candore. Vegeto e robusto della persona, a dispetto de' suoi ottant'anni camminava dritto e sollecito; vestiva abiti alla foggia pretesca, di panno grossolano, ma pulitissimi; le sue grosse scarpe splendevano per la fibbia d'acciaio sempre lucida come uno specchio. Aveva quasi sempre seco due compagni fedelissimi: la sua mazza di giunco col pome rotondo di falso avorio e Moretto, il terzo o il quarto d'una dinastia di cani volpini che si erano succeduti nell'affezione del buon parroco, nella fedeltà al padrone e nell'ufficio poco gravoso di custodire la canonica, efficacemente difesa senz'altro dall'amore e dalla venerazione di tutti i terrazzani. Questi due compagni Don Venanzio aveva ora lasciati nell'anticamera, il bastone in un angolo e il cane accovacciatovi presso coll'intimazione fattagli a dito indice alzato di non muoversi di là, fino al ritorno del padrone.

Il nostro buon sacerdote, insomma, era l'incarnazione [12] la migliore e la più compiuta dell'accoppiamento d'una mente sana e d'una coscienza tranquilla in un corpo sano, ideale della personalità umana.

Il marchese, che era rimasto in piedi, fece per quel povero prete di campagna — un plebeo ancor esso, vivente in mezzo ai bifolchi — ciò che la sua dignità e la sua autorevolezza non l'avevano avvezzo a fare nemmeno pei più titolati e superbi maggiorenti dello Stato, gli mosse all'incontro colla mano tesa, un sorriso di vera cordialità sulle labbra.

— Eh buon giorno Don Venanzio, diss'egli: sia il benvenuto tra noi.

Don Venanzio toccò la mano che gli veniva porta così amichevolmente, e lo fece con rispettosa deferenza, ma insieme con franchezza, senza suggezione.

— Eccellenza: disse, mentre il marchese tenendolo per mano lo conduceva verso il camino e gli additava una poltroncina in faccia a quella da cui egli s'era alzato poc'anzi; Eccellenza, sono venuto a chiederle una grazia.

Baldissero sorrise con aria che non dinotava voglia alcuna di rispondere con un rifiuto.

— Ah! le grazie che Lei dimanda so già quali sono; si tratta di aiutarla a fare un po' di bene a qualche povero disgraziato.

— Eh! press'a poco.... è qualche cosa di simile: disse il buon parroco con tutta ingenuità aggiustandosi nella poltrona, mettendo il suo tricorno sulle ginocchia, incrociando le mani sul cappello e guardando in volto il marchese coi suoi occhi limpidi e schietti come una fontana di montagna. Le ho detto subito l'affar mio, da quell'impaziente ch'Ella sa..... che quando ho in capo qualche cosa che mi preme, non c'è verso che io possa indugiare a tirarla fuori.... Ma ora, mi permetta, Eccellenza, che le domandi notizie della sua salute e quelle della cara madamigella Virginia.... e del contino Ettore e del cavaliere Edoardo e del cavaliere Amedeo.... ed anche della signora marchesa.

Baldissero sorrise alla poca diplomazia del buon prete, che a dispetto d'ogni convenienza gerarchica faceva passare innanzi nell'ordine della sua rassegna quelle persone che più lo interessavano.

— La ringrazio, stiamo tutti bene: rispose. Edoardo ed Amedeo sono nell'Accademia militare. Ettore e Virginia e mia moglie la li vedrà fra poco, poichè Ella è nostro ospite.....

Don Venanzio fece un cenno come per iscusarsi.

— Oh la è cosa intesa.... e ne la prego: insistette il marchese. Ma veniamo tosto a quello che è il vero motivo della sua venuta, la buona opera ch'Ella ha bisogno di fare.

— La buona opera la deve far Lei: disse con tutta semplicità Don Venanzio. Si tratta d'un giovane per cui sono già venuto a supplicarla altre volte.... parecchi anni sono.... e quasi per un motivo identico.... un povero trovatello allevato nel mio villaggio.

Il marchese prestò una viva attenzione e parve raccogliersi per iscrutare nella sua memoria.

— Un trovatello allevato nel villaggio? diss'egli con molto interesse: e lo si chiama?

— Maurilio Nulla.

A questo nome il marchese non nascose un certo moto di sorpresa.

— È strana, diss'egli: quell'individuo di cui Ella mi parla, è probabilmente il medesimo del quale stavo adesso occupandomi.... Maurilio Nulla: sì, è lo stesso nome; trovatello: è la condizione sua di cui egli si lamenta....

Prese sulla mensola marmorea del camino lo scartafaccio che vi aveva deposto e lo porse al parroco, soggiungendo:

— Conosce Ella la scrittura di quel suo protetto?

— Signor sì.

— Ebbene, guardi se la è questa.

— Appunto.

Il marchese stette un momento sovra pensiero.

— Ella mi disse avermi parlato altre volte di codestui.

— Sì signore: quattro o cinque anni sono.

— Aiuti un poco la mia memoria; mi par bene d'averne un barlume di ricordo, ma non posso afferrare nulla di preciso.

— Questo giovane era stato arrestato sotto l'imputazione d'un delitto del quale io, conoscendolo per bene, lo sapevo assolutamente incapace. Son venuto ad invocare per esso la protezione di V. E., e grazie a questa potè venire scoperta la sua innocenza.

— Ah! ora mi sovvengo del tutto: esclamò il marchese. Uscito di carcere, stato ammalato all'ospedale, quel giovane privo di mezzi mi fu da Lei raccomandato perchè gli trovassi alcun impiego delle sue facoltà, ch'Ella diceva straordinarie, ed alcun guadagno dell'opera sua. In grazia di quel talento ch'Ella mi vantava... in grazia di quello strano suo nome.... voglio dire delle circostanze in cui quel tale si trovava, avevo deciso di accoglierlo io stesso come una specie di segretario; ma egli non si presentò mai da me, e parve che cotal condizione troppo non gli sorridesse.

— Fu in causa d'un amico: disse il buon Don Venanzio mortificato, come se egli avesse da scusarsi di una colpa; mentre io supplicava per lui da V. E. un impiego nella sua casa, quell'amico lo allogava altrove, ed egli che nulla sapeva di quanto io stava tentando, accettava senz'altro.

— Sta bene... Mi ricordo che Lei così mi ha detto anche allora.... Ma adesso, entrando, signor parroco, mi ha fatto intendere che la veniva a domandarmi per codestui la medesima cosa che mi chiese la prima volta che le toccò di parlarmene. Ella dunque [13] sa che il suo protetto fu arrestato; e ne sa Ella eziandio la cagione?

— Sì, Eccellenza. Vengo adess'adesso dalla casa dove quel giovane abita. Io gli voglio bene, sono io che l'ho educato, posso dire; gli ho insegnato tutto quel poco ch'io so...

Il marchese lo interruppe in gentil guisa con un sorriso leggermente malizioso:

— Mi rallegro con Lei. Tutte le belle teorie politiche e sociali che si contengono in quel manoscritto è dunque Lei che glie le ha ispirate?

Don Venanzio tornò a confondersi in una nuova mortificazione.

— Ah! rispos'egli, io gli ho appena appena mostrato a spiegar l'ali; quando fu in grado di volare, il suo volo era più alto e potente del mio, perchè io potessi accompagnarnelo e dirigerlo ancora...

— Badi che quel giovinotto è tentato dalle ambizioni d'Icaro e corre rischio di fare un dì il capitombolo medesimo.

Il parroco si curvò nelle spalle, chinò la testa ed allargò le mani in una mossa di cordoglio e di rassegnazione:

— Eh lo so bene: disse: ma spero nell'aiuto di Dio che lo salvi... La Provvidenza che gli ha dato tanto ingegno non vorrà che questo torni nocivo o si consumi inutile. In fondo poi alla sua natura, sotto vivaci e frementi passioni che possono volgerlo al male, ci sono delle generosità quasi istintive che sono capaci di miracoli di bene.... Dunque io l'amo quel giovane; e forse appunto l'amo tanto più in quanto che vedo i pericoli di perdersi in mezzo a cui cammina, e sarei fiero che Iddio adoperasse la mia pochezza per ricondurlo sulla buona strada, su quella del vero.

Arrossì come persona che si accusa d'un fallo.

— È certo soverchia vanità la mia, soggiunse, ma parecchie volte il Signore, appunto per dimostrare la potenza e l'efficacia della verità, usa de' più deboli strumenti per farla trionfare. Maurilio ha studiato molto, si è istruito assai della scienza terrena, ma tuttavia spero ancora che la mia ignoranza col rincalzo della fede possa aprirgli un giorno gli occhi sulle cose del mondo superiore. Ogni qual volta io capito a Torino, vengo a vederlo; talvolta non è che per quest'ultima ragione ch'io abbandono la tranquilla casetta del mio villaggio e casco giù a farmi toglier la testa nell'assordante confusione di questo viavai cittadino; e la presente è appunto una di quelle volte. Ho avuto come una specie d'istinto che quel poveretto doveva aver bisogno di soccorso; è il mio buon Angelo custode che me ne ha ispirata l'idea. Insomma da parecchi giorni avevo un gran bisogno di vederlo, e questa mattina non ci ho più resistito ed a dispetto della stagione e del cattivo tempo sono venuto. Alla sua abitazione, la signora Rosina (è la padrona del quartiere dove Maurilio dimorando in compagnia di alcuni amici, appigiona una camera ammobigliata), la signora Rosina mi raccontò tutto ciò che è avvenuto questa mane e di cui vedo V. E. essere già informata.

— Sì: il suo protetto fu arrestato come congiurante contro l'attual forma di Governo e contro la sicurezza dello Stato.

— Misericordia!.... Può dunque essere un affar serio?

— Se l'accusa viene provata, serio assai.

— Ma benedetta la pace! Come lo Stato e il Governo possono aver da temere di un misero giovane, senza aderenze, senza mezzi di sorta?....

— E l'ingegno? Quell'ingegno ch'Ella stessa Don Venanzio riconosce in lui superiore? Codesta è una forza contro cui ogni Governo deve con cura guardarsi. L'intelligenza dissemina i principii e sparge le idee: e queste e quelli, quanto più sono perniciosi, tanto più rapidamente attecchiscono e crescono come fanno le male erbe nei campi. Se si può arrestare la mano che getta i cattivi semi nei solchi non è egli miglior cosa che dover dipoi strappare le cattive piante già nate? E inoltre: guardi! In queste sue pagine ch'io stava appunto leggendo, quel giovane medesimo esalta a buon diritto la potenza dell'associazione. Un individuo solo potrà nulla o poco, per quanto abbia forza di mente; ma lasciate che a lui si uniscano parecchi, ed avrete ogni difficoltà a spezzarlo. Questo cotale è unito, a quanto pare, ad una schiera di giovani audaci che aspirano niente meno che ad un sovvertimento sociale.

Don Venanzio, spaventato, esclamò guardando il marchese con occhi pieni di supplicazione:

— Dio buono! Le cose sono sì gravi!..... Ed Ella, signor marchese, rifiuta di dar la sua protezione?

Baldissero levò la mano destra con mossa piena di nobiltà e di grazia, e disse con quel suo sorriso aristocratico:

— Non ho detto codesto, e non lo dico..... Sono anzi molto disposto a favorire il suo raccomandato. Ho scorso alcune di quelle sue pagine di scritto. C'è molto ingegno davvero! Un'intelligenza sviata che ha mestieri d'essere ricondotta fra le guide dei buoni principii dall'esperienza e dall'autorità d'una mente più matura. Ho una grande curiosità, che non mi so spiegare, di veder codestui e parlargli. Non penso neppure che il male sia poi tanto grave come apparve alla Polizia: forse c'è più imprudenza di giovinotti che altro; ho già preso l'impegno di parlare di ciò a S. M. io stesso: e se il Re porta su questo incidente un giudizio compagno al mio, spero che il suo protetto e quegli altri che partecipano ora la medesima sorte, saranno quanto prima restituiti alla libertà.

— Benedetta Lei!...

— Ma frattanto non mi spiacerebbe, caro Don Venanzio, d'avere da Lei alcuni maggiori ragguagli [14] sul conto di questo giovane. Ella me ne ha discorso un tempo, ma, confesso sinceramente che ho tutto obliato.

Il parroco raccontò ciò che sapeva di Maurilio; ed il marchese ascoltò con attenzione, e sollecitò per avere i più minuti particolari con sì minute domande che appariva metter egli in codesto un vivissimo interesse, quale Don Venanzio non avrebbe mai supposto potesse avere.

Di questa guisa il parroco fu tratto a dire di quegli oggetti che erano stati trovati addosso all'esposto bambino: la lettera scritta da mano di persona del volgo, il rosario d'agata e il bottone da livrea; cose di cui la prima volta che aveva fatto cenno di Maurilio al marchese, non era nato il caso di parlare.

— Ma codesto, disse il Baldissero, è un filo che può guidare allo scoprimento delle origini di quel giovane. Si può sapere, per esempio, a qual famiglia appartenesse la livrea di cui fece parte quel bottone d'argento...

— Ho bene sperato ancor io che ciò varrebbe a pormi in su alcuna traccia del vero, ma inutilmente: così disse Don Venanzio. Una volta, e son già di molti anni, e Maurilio, ancora fanciullo, se ne viveva presso i villani che l'avevan raccolto, venendo a Torino recai meco e il bottone e il rosario, sperando col primo scoprire la famiglia che aveva lo stemma impresso su quel bottone, e raccogliendo informazioni intorno ad essa tentare se mercè quel rosario e quella lettera si fosse potuto venire a capo di qualche cosa.

— Ebbene?

— Ebbene appresi che quello era lo stemma della famiglia de Meyrat, estinta da tempo, il cui ultimo rampollo anzi morì nelle guerre dell'impero. Ora siccome sono ventiquattro anni appena che il lattivendolo Menico trovò Maurilio abbandonato.....

— Ventiquattro anni! esclamò il marchese come se dèsse una certa importanza alla misura di questo tempo. Quel giovane ha dunque ventiquattro anni?

— O poco più, perchè veramente quando Menico lo trovò poteva già contare parecchi mesi, ma insomma non può avere a niun modo più di venticinque anni, e la famiglia de Meyrat non ha più avuto esistenza dal 1813.

— È vero, interruppe il marchese, l'unica ragazza, che sopravvisse al colonnello morto a Lipsia, morì monaca a Ciambery.

— Era dunque impossibile avere in proposito nessuno schiarimento, com'è impossibile che Maurilio abbia alcuna attinenza con quella famiglia.

Baldissero appoggiò il gomito al bracciuolo della poltrona, e sostenne il capo colla mano destra in mossa profondamente riflessiva.

— Quando i lontani collaterali che presero l'eredità dei de Meyrat ne liquidarono la successione, la maggior parte delle loro sostanze fu comperata dal signor La Cappa, ora barone; in quelle negoziazioni ebbe molta parte un uomo che servì pur anche la mia famiglia, Nariccia; non sarebbe forse inopportuno consultare quest'uomo.

Pronunziando il nome di Nariccia, il marchese ebbe un interno sussulto; si tacque, ma la sua riflessione si fece ancora più profonda. Chi avesse potuto guardargli nel cervello, vi avrebbe letto questi pensieri:

— Nericcia! Egli fu di cui si servì mio padre per togliere a mia sorella il figliuolo.... Bene giurò egli che quel bambino era morto; e se invece.... Ma codeste mie sono vere pazzie.... Perchè avrebbe egli mentito?... E costui che la fatalità mi mena innanzi con quel nome di Maurilio, come potrebbe esser mai quel bambino, mentre non ha che ventiquattro anni, e sono ventisei che quella tragedia è avvenuta?.... E poi che cosa ci avrebbe da entrare il bottone della livrea dei de Meyrat?

Si passò la mano su quella sua leggiadra fronte come per ispazzarne via i torbidi e folli pensieri, e riprese parlando a Don Venanzio:

— L'importante per prima cosa è di ottenere la libertà del suo raccomandato. E ciò tenterò tosto. Fra poco mi recherò a Corte e parlerò a S. M. Quando quel giovane sia libero, voglio vederlo, voglio parlargli e confidenzialmente ed a lungo.... E se vi ha luogo, faremo anche le ricerche occorrenti per iscoprire l'esser suo.

Un lieve grattare all'uscio annunziò di nuovo che alcuno domandava d'entrare: al permesso datone dal marchese venne il solito domestico, che annunziò:

— Il cavaliere Massimo d'Azeglio chiede di parlare a V. E.

Don Venanzio s'alzò in tutta fretta.

— Io la lascio in libertà, signor marchese, disse egli premurosamente quando appena Baldissero ebbe dato ordine al domestico d'introdurre il d'Azeglio.

— Caro Don Venanzio; rispose il marchese: Ella è nostro ospite già ci s'intende. Frattanto che io avrò il colloquio con questo signore che s'è fatto annunziare, passi di là da mia nipote Virginia a cui sarà un gran piacere il vederla.

— Quella cara fanciulla! esclamò il vecchio prete con accento di ossequenza affettuosa: per me sarà un favore l'esserne ricevuto.

Il domestico aveva riaperto l'uscio, ed entrava l'alta e simpatica persona di Massimo d'Azeglio.

Don Venanzio s'inchinò profondamente ma senza servilità innanzi al marchese, s'inchinò passando daccanto al nuovo venuto che s'avanzava, ed uscì col domestico che richiuse il battente dell'uscio.

Baldissero, senza abbandonare la poltrona, si volse verso il visitatore e fece col capo un cenno di saluto gentile sì, ma in cui pur tuttavia era una lieve traccia di riserbo, una tinta di autorevolezza da superiore.

[15] Massimo, egli, salutò con quella spigliatezza elegante che gli era naturale, in cui s'accordavano la grazia del gentiluomo e la libertà dell'artista.

— La riverisco signor marchese.

Questi gli accennò la poltrona da cui s'era levato allor'allora Don Venanzio.

— Buon giorno cavaliere. Godo di vederla.

Nessuno dei due offrì all'altro la mano. D'Azeglio sedette e fissando il suo occhio limpido e intelligente sulla nobile figura del marchese, con un sorriso de' più simpatici rispose inchinando leggermente la testa:

— La ringrazio. La mia venuta non la stupisce?

— No; sapevo che Lei era venuto a Torino dopo sì lunga assenza, ed ho avuto la superbia di lusingarmi ch'Ella non avrebbe affatto dimenticato un vecchio amico della sua famiglia.

— Dimenticato, no certo... Sarei venuto ad ogni modo a riverirla; ma pure, se mi vi sono recato così sollecito... Lei sa come uno dei miei pochi pregi è quello d'essere sincero... si è perchè, oltre il piacere di vederla, avevo da chiedere alla sua protezione un favore.

Baldissero tirò indietro la testa fino ad appoggiarla alla spalliera della poltrona, e guardando con occhio urbanamente scrutativo il suo interlocutore, disse:

— Udiamo questo ch'Ella dice favore. Se la è cosa ch'io possa, faccia conto già fin d'ora come se vi avessi assentito.

Massimo tornò ad inchinarsi.

— Come Ella sa, io mi sono fatto artista...

— E letterato: aggiunse il marchese con un sorriso e con un tono che difficilissimo il dire se erano un complimento od una finissima ironia.

— Letterato è un termine troppo ambizioso, che non ardisco adoperare: disse Azeglio con accento e con sorriso pari a quelli del marchese: scarabocchiatore di tele e di carta, sissignore... Basta: l'artista non ha mica escluso in me il cittadino: anzi!... Ho girato ed abitato varie parti d'Italia; ho imparato a conoscer meglio e ad amare di più la nostra nazione; ma non ho nemmanco cessato o sminuito di amare specialmente questo nostro angolo di terra, il Piemonte. Tornato per poco tempo a questo mio paese natìo, ho ricondotto qui non tanto l'artista, quanto il cittadino... L'ambiente di questo paese, anche dopo l'intelligente protezione data all'arte da Carlo Alberto, è ancora più propizio alle maschie virtù dell'amor patrio che non alle blandizie del culto del bello. Ho pensato di molte cose che mi furono suggerite dalla conoscenza che ho acquistata delle condizioni d'Italia, di molte cose che mi sembra avrebbe a tornare non inutile pel bene e d'Italia e del Piemonte stesso e della nostra monarchia di Savoia, che qualcuno sottomettesse all'apprezzamento del nostro Re, e mi sono detto che questo qualcheduno potrei essere io medesimo. È per ciò che sono venuto a pregarla, marchese, di farmi ottenere un'udienza il più sollecitamente che sia possibile da S. M.

Baldissero stette un momento in silenzio guardando d'Azeglio con quel suo sguardo cortesemente scrutatore, come se cercasse scorgere nell'animo di chi gli aveva parlato, o meditasse seco stesso quali potessero essere le cose che quel nobile fattosi liberale intendeva dire a Carlo Alberto, principe che in giovinezza aveva manifestato velleità liberali ancor egli; ma poi, come ravvisatosi e quasi pentito del piccolo indugio frapposto alla risposta, disse sollecitamente e con urbana condiscendenza:

— La ringrazio d'essersi rivolta a me per codesto. Quest'oggi stesso avrò l'onore di vedere S. M. e non dubito che mi sarà dato di farle una risposta quale Ella desidera.

Massimo fece un cenno del capo che era un ringraziamento; e Baldissero corrispose con un atto della mano che significava: è mio dovere. Stettero un momento in silenzio, come non sapendo qual discorso avviare, e fu il marchese che dopo un poco ricominciò a parlare.

— Conta Ella fermarsi alquanto tempo a Torino?

— Pochissimo. Fra due o tre giorni ripartirò per continuare la mia vita nomade d'artista traverso le città italiane.

— Ella dunque ha perso ogni affezione a questo nostro vivere torinese?

— Amo sempre questa città come il mio luogo natio; e trovo ch'essa potrebbe essere il più gradito soggiorno del mondo.

— Potrebbe essere? ripetè sorridendo il marchese.

— Signor sì: ribattè vivamente d'Azeglio; e non contraddico menomamente la giusta interpretazione che il suo sorriso dà alle mie parole. Potrebbe essere, ma non è tale per molte ragioni che qui non è il caso d'esprimere.....

— E sulle quali forse, aggiunse Baldissero, noi non andremmo facilmente d'accordo.

Massimo annuì con un cenno.

— Che cosa vuole? Riprese egli poi. Sono io che mi sono guasto. La vita spigliata e libera che ho intrapresa, mi fa restare disagiato alle stampite di questa grave e severa monotonia regolata. Gli è come un buon pastricciano di campagnuolo che avendo calzato sempre abiti larghi ed alla buona, lo si voglia poi far rinserrare le membra nel vestito stretto e il collo nella cravatta allacciata delle foggie cittadinesche di rispetto.

— Tutto sta, disse il marchese continuando in quella urbanità sorridente e un po' maliziosa: tutto sta a sapere se meritino preferenza i modi del campagnuolo o quelli del cittadino.

— È una questione che si può risolvere sotto varii rispetti: rispose l'Azeglio con un'espressione che [16] significava chiaramente declinar egli ogni volontà di discutere col suo nobile interlocutore. Rapporto a me confesserò che la risoluzione adottata è l'effetto dell'egoismo; mi trovo meglio in un modo che nell'altro..... Ma Ella sa bene, soggiunse allegramente, che i Taparelli ne hanno tutti un ramo.

— Quell'originalità d'ingegno e di carattere che Ella battezza così poco rispettosamente, ha fatto di tutti i Taparelli degli uomini superiori che hanno servito con gloria il re ed il paese.

D'Azeglio s'inchinò in segno di riconoscente ringraziamento.

— È una bella consolazione per un uomo di merito l'aver dietro di sè ne' suoi antenati tanti valenti uomini da imitare.

— Ciascuno dà quello che ha. Avrei voluto, vorrei benissimo poter dare in me alla patria un uomo di Stato, un valente guerriero, un abile diplomatico: venga l'occasione e tutto quel poco che so, che sono e che valgo, metterò in servizio del mio paese. Per intanto non ho potuto dar altro ai miei concittadini che un meschino artista ed un meschino scrittore. Mi sono scrutato, come dice la Scrittura, le reni, e non ho trovato in me stoffa da personaggio di vaglia.

— Suo padre l'aveva avviata per la carriera militare: disse vivacemente il marchese abbandonandosi alla piega confidenziale che aveva preso il discorso. È una delle più belle, delle più utili al paese, delle meglio fatte per un nome qual è il suo, per una natura irrequieta.....

— Come la mia: aggiunse d'Azeglio sorridendo, mentre Baldissero aveva troncato la parola per non dirlo egli.

— Bene; come la sua: ripetè scherzosamente il marchese. Perchè abbandonarla?...

S'interruppe: prese un'aria più grave, ma in pari tempo più affettuosa, quasi paterna.

— Mi perdoni, soggiunse, l'entrare in siffatti discorsi. Da tempo la mia famiglia è avvinta con vincoli di stima e d'affetto alla sua; i nostri avi combatterono sempre a fianco; di suo padre, il marchese Cesare, fui amico quasi intimo, e mi onoro nel ricordare la reciproca affezione che ci univa. Tutto ciò mi serve, se non di diritto, di scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.

— La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.

— Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.

— E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate... Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia..... Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.

— Ma Ella non sa vedere via di mezzo — e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! — fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi..... sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.

— Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per [17] farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?[3].

Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:

— Ah che testa, che testa!.... Non la si correggerà mai più.

— Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.

— Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?

Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.

Massimo si alzò in piedi, accostò la sua alta persona alla parete, armò i suoi occhi miopi delle lenti ed esaminò attentamente l'oggetto additatogli.

— Molto bello: diss'egli poi; e sta qui prova con tutto il resto, come V. E. rechi in ogni cosa il più severo e intelligente buon gusto.

— Ah ah! esclamò piacevolmente il marchese: io scopro in lei un difetto che non avrei creduto mai più: quello d'essere adulatore.

— È un difetto che non mi sono mai scoperto neppur io: rispose D'Azeglio. Poi prese congedo: allora il marchese gli porse la mano.

— D'oggi stesso le farò una risposta circa la sua domanda d'udienza da S. M. Dove glie la debbo indirizzare?

Massimo diede il suo indirizzo all'albergo Trombetta e partissi.

Meno di mezz'ora dopo il marchese di Baldissero trovavasi in presenza di S. M. il Re Carlo Alberto, nella reggia ricca e severa di Torino.

CAPITOLO III.

Carlo Alberto, seduto innanzi ad una tavola stupendamente intarsiata, col braccio appoggiatovi su dal gomito al pugno richiuso, stava nella sua attitudine abituale di sfinge incompresa e che non vuol lasciarsi comprendere. Non era un infingersi il suo, era un nascondersi: non portava innanzi alla faccia una maschera, ma copriva ogni sua emozione d'un velo di severo e solenne riserbo.

Dell'aspetto morale di quest'uomo storico, quale appariva in que' tempi, ci sia lecito tratteggiare il ritratto colle parole che nei suoi Ricordi ne scrisse Massimo d'Azeglio medesimo.

«Il re in quel tempo, era un mistero; e per quanto la sua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forse in parte mistero, anche per la storia. In allora i fatti principali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non erano certo in suo favore; nessuno poteva capire qual nesso potesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell'indipendenza italiana, ed i matrimoni austriaci; fra le tendenze ad un ingrandimento della casa di Savoia, ed il corteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini come l'Escarena, Solaro della Margherita, ecc.; fra un apparato di pietà, di penitenza da donnicciuola, e l'altezza di pensieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditi progetti.

«Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.

«Gran danno per un principe nella sua condizione: perchè con queste povere astuzie, affine di mantenersi l'aiuto di due partiti, si termina invece per perder la grazia degli uni e degli altri[4]

A Carlo Alberto che aveva mirabile il coraggio delle battaglie, che aveva un fermo animo innanzi ad ogni pericolo che minacciasse la sua persona, mancava il coraggio della risolutezza. Da ciò il suo continuo ondeggiare, dipendente non tanto dalla volontà e da un disegno prestabilito, quanto dal temperamento e dall'influsso delle momentanee circostanze. Si avanzava d'un passo da un lato, ma lo aspetto d'una difficoltà lo faceva indietrare poi tosto di due: e le difficoltà che lo attorniavano da ogni parte, morali e materiali, erano infinite e complicate e gravissime. Avrebbero richiesto una forza d'intelletto e di volere e di fibra ben superiore a quella che la natura e la sua vita trascorsa mettevano ora in poter suo. Questa sua che in realtà era debolezza, egli ammantava d'una solennità grave, che pareva profondità di concetto, avvolgeva d'un'atmosfera di silenzio, di dubbie parole e dubbi sorrisi e dubbie reticenze che pareva astuzia di macchiavellismo. Sapeva che una volontà anche non potente, ma soltanto tenace, vicino a lui l'avrebbe dominato; ed aveva quindi per sistema di sfuggire a tal pericolo mettendo sempre a fronte nel suo consiglio due volontà di due partiti opposti; con questo giuoco di bilancia, egli sperava ottenere una specie d'equilibrio per compensazione, in cui libera la sua volontà. Non s'accorgeva ch'egli non riusciva ad ottenere altra indipendenza fuori quella del pendolo elettrico che oscilla continuamente dall'uno all'altro dei due poli di elettricità differente.

Aveva delle velleità da piccolo Carlomagno e da Aroun-al Rascid. Avrebbe voluto veder tutto, saper tutto, conoscer tutto del suo popolo; sarebbe uscito ancor egli la notte, camuffato, come il celebre Califfo di Bagdad, per iscorrere traverso la città a sorprenderne i misteri e rappresentar la parte di Provvidenza interveniente, se avesse avuto il coraggio di violare quella che fu una delle tiranne della sua vita di Re: l'etichetta. L'esser egli Re per grazia di Dio, pensò e ritenne forse più ch'ogni altro mai, e credette avere nella sua persona una dignità direttamente [18] venuta dal cielo, cui doveva prestare ossequio egli primo e farlo prestare dagli altri. Ultimo dei re di medio evo, pensava non dover comparire innanzi al suo popolo che avvolto dai raggi della sua divinità terrena; non si mostrava che nell'apoteosi dell'uniforme, colla corte olimpica del suo stato maggiore.

Ma quello che non poteva vedere per sè, voleva sapere per esatti e moltiplici rapporti d'agenti. Aveva una polizia segreta, tutta sua personale, che camminava parallela e faceva il riscontro a quella dei Ministri. Talvolta questa polizia vi metteva tanto zelo che gli apprendeva anche ciò che non era. Il Re ascoltava cupamente tutte le narrazioni e le denunzie, leggeva da solo tutti i rapporti che gli venivano comunicati, li rinchiudeva in un suo stipo segreto — e non diceva nulla. Ma quali e quante diverse impressioni si avvicendavano in quell'animo sempre chiuso!

Quando il marchese di Baldissero venne ad esporgli i fatti che conosciamo, per conchiuderne, doversi quei giovinotti considerare come imprudenti ed esaltati cervellini e non altro, e quindi non aggravare su di loro la mano severamente punitrice dell'autorità, Carlo Alberto sapeva già tutto; ma pure si guardò bene dall'interrompere il marchese nella sua narrazione, e lo ascoltò immobile, in quell'attitudine di stanco abbandono che gli era abituale, il capo reclinato, il petto curvo, il suo giallognolo pallore sulla faccia incommossa, levando di quando in quando i suoi occhi generalmente miti dallo sguardo velato, per fissarli in volto a chi gli parlava e riabbassarli poi tosto.

Quando Baldissero ebbe finito, successe un istante di silenzio: pareva che il Re andasse cercando le parole che aveva da dire. Poi levò lentamente quella mano che teneva appoggiata alla tavola, se la passò sulla fronte due o tre volte, quindi vi appoggiò su il mento, tenendo il gomito puntato al piano della tavola e parlò colla sua voce bassa, come soffocata, di debole vibrazione, ma non disgradita:

— Ella dunque, signor marchese, è per la clemenza ed il perdono?

Baldissero s'inchinò.

— Ha ragione. Ella sa interpretare appunto i miei sentimenti, e consigliarmi quel partito a cui propendo. E tanto maggior effetto mi fanno le sue parole, in quanto che ho sempre creduto... so... che Ella conta fra coloro... fra quei zelanti difensori del trono che lo vogliono difeso validamente e senza debolezza nessuna contro gli assalti de' suoi nemici.

— Contro veri assalti di veri nemici, Maestà sì: ma questi giovani non mi sembrano tali, e i loro atti non meritano altro titolo che di ragazzate.

Il Re tornò a stare alquanto tempo in silenzio.

— Sono del suo parere, diss'egli poi, ma vi è qualcheduno che pretende esservi qualche cosa di più serio e di più colpevole che non paia, e che Ella non creda, signor marchese. Il vero è che una frotta di giovani si radunava in casa di un certo pittore, e di qual tenore fossero i discorsi che aveano luogo lo provano i libri che si rinvennero presso uno degli arrestati e certo scritto che fu trovato presso un altro...

S'interruppe e volse uno di quegli sguardi che balenavano raramente nelle sue pupille — uno sguardo vivo e scrutatore — sulla faccia del marchese.

— Anzi, soggiunse, Ella, s'io son bene informato, ha presso di sè codesto scritto.

— Sì Maestà.

— E può giudicare adunque meglio di qualunque altro delle tendenze e delle segrete volontà di codestoro.

— Quello scritto è l'opera giovanile di un'intelligenza precoce che ha molte idee e poca esperienza. Gli errori vi sono molti; anzi è tutto un errore, poggiando ogni sua considerazione ed opinione sopra una falsa base primitiva; ma in quelle pagine, a dir vero, non si rivela mai l'empia foga di chi non anela ad altro che mandare a soqquadro la società. Lo scrittore cerca e propugna una modificazione degli ordini esistenti — una modificazione assurda, già s'intende — ma non vuole violenza di rivoluzione... Io pensava, Sire, che queste giovani intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è un generoso perdono.

Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva immerso in una profonda meditazione.

— I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser clementi?...

S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.

— Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi parlando a se stesso. Quella [19] benedetta gioventù non dubita di nulla. Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma essi vogliono l'impossibile!... Marchese, Ella mi disse che in quello scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.

— Sì, Maestà.

— Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?... Voglio vederlo.

Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.

— Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure codesto il mio più caro desiderio.... Avrei voluto esserlo sempre.

Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni d'Alessandria.

— Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere — ah! crudele dovere — in un re l'essere inesorabile.

— Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso...

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul piano della tavola.

— Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.

Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.

— Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della *** propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei sostenuta? Egli vuole la severità.

— A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.

Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava sulle labbra, chinò il capo e si tacque.

— Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?

— Ha delle presunzioni... che hanno un certo valore... Una prova però sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.

— Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si spaccia e non altro.

— Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.

Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero sorriso.

— Ma egli è una testa così sventata!

Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.

— Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si ribellò agli agenti della forza pubblica.

— Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.

— Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.

— Sì, Maestà.

— Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue..... Ma e quell'altro che fece resistenza alla forza pubblica?

— Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.

Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.

— Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza propugnata così bene.

— La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza l'anima sua.

Carlo Alberto non rispose.

— Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.

— Comandi, Maestà.

— Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di sorta.

— Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno sempre lieti di obbedire.

— Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di guardatura.

Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.

— Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole di commiato.

Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.

[20] — Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho da domandarle.

— Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.

— Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.

— Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello che mostrasse ordinariamente.

— Sì Maestà.

Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento fioccare della neve che continuava.

— Può dire al cav. D'Azeglio, disse poi, come per determinazione subitamente presa, che lo riceverò domani mattina alle sei.

Era quella l'ora solita in cui Carlo Alberto usava dare le udienze confidenziali.

Il marchese ripetè il suo profondo inchino e partissi. Mezz'ora dopo un bigliettino recato dal lacchè del marchese all'albergo Trombetta avvisava Massimo d'Azeglio dell'ottenutogli favore.

In pari tempo un altro domestico si affrettava verso l'officina Benda con un'altra letterina scritta dalla contessina Virginia a Maria la sorella di Francesco.

Il marchese, appena rientrato nel suo palazzo, erasi recato egli stesso nelle stanze della nipote, dove stava ancora il buon Don Venanzio, il quale aveva per la nobile fanciulla, più che simpatia, stima, ammirazione ed affetto grandissimi.

— Caro Don Venanzio, aveva egli detto al vecchio parroco, fra poche ore Ella potrà abbracciare il suo raccomandato. Virginia, puoi mandar detto alla tua compagna di collegio che di quest'oggi stesso le sarà restituito suo fratello. Il Re volle tutto perdonare.

— E Dio benedica il Re! esclamò il sacerdote con voce commossa.

— Una buona novella non giunge mai troppo presto: disse madamigella Virginia alla quale il piacere provato dall'annunzio datole dallo zio aveva lievemente arrossato le guancie e fatto brillare lo sguardo; chiedo adunque licenza di scriver subito la lieta notizia a madamigella Benda.

— Hai ragione: disse paternamente sorridendo il marchese. Lasciamola fare, Don Venanzio; e s'Ella desidera veder presto il suo protetto, io la indirizzerò al Comandante perchè le contenti questo suo desiderio. Chi sa che l'ordine di rimettere in libertà quel giovane non sia già venuto, ed Ella non possa condurselo seco fuori del Palazzo Madama!

— Come quell'altra volta, esclamò Don Venanzio, in cui Ella pure mi fece ottenergli la libertà, e sono stato io a recargliene la novella.

— Uno di questi giorni, soggiunse il marchese; il più presto possibile, anche domani, mi farà un piacere, Don Venanzio, se mi condurrà quel giovane.... Ho gran desiderio di parlargli; e forse il colloquio che avremo non sarà inutile per lui.

— A quell'ora che sarà più comoda a V. E. io glie lo presenterò sicuramente.

Quando il buon parroco si fu avviato verso il Palazzo Madama con una commendatizia del marchese pel Comandante, quando il lacchè fu spedito all'albergo Trombetta colla lettera per Massimo d'Azeglio, Baldissero s'informò se suo figlio era in casa, e udito di sì, ordinò gli si dicesse che il padre lo aspettava nel suo salotto da studio.

— Ettore, disse il marchese al figliuolo appena fu entrato nel gabinetto, S. M. ha benignamente acconsentito che l'avvocato Benda e i suoi compagni fossero messi in libertà.

Il contino s'inchinò in modo che voleva significare esser egli di ciò pienamente soddisfatto.

— Vi ho detto poc'anzi che vostro debito sarebbe quello di andar voi da quel giovane che avete oltraggiato a tendergli primo la mano, e voi mi avete risposto che ciò non fareste mai e che l'unico obbligo cui vi credete di avere secondo le leggi d'onore, si è quello di rimettervi nuovamente a sua disposizione per uno scontro.

— Persisto in questa mia opinione, e vi persisterò sempre: disse alquanto seccamente il figliuolo.

— I Baldissero, Ettore, sono avvezzi ad ubbidire ciecamente ai cenni del loro Re: e codesto io ricordava testè a Carlo Alberto, il quale mi diceva essere suo volere che la vostra contesa con quel cotale non avesse più conseguenze di sorta.

Ettore fece una mossa piena di superbia.

— Ma i Baldissero, io mi penso, non obbedirono mai a nessuno in cosa che ritenessero lesiva dell'onor loro.

— I nostri antenati, maestri in fatto di giusta suscettività d'onore, non iscambiarono mai per essa un puntiglio di ripicco... Del resto, s'affrettò a soggiungere, voi siete oramai in età da avere la libertà delle vostre decisioni e tutta la risponsabilità delle medesime. Io non vi do che consigli. Ho creduto potere anche a nome vostro rispondere a Sua Maestà con una formola di piena devozione. Fate voi poi a vostro talento, contraddite pur anco alla parola di vostro padre; ma se commetterete il fallo di trasgredire l'ordine del Re, ch'io stesso vi trasmetto, mi recherò ai piedi di S. M. a supplicare io medesimo che si degni farvi rinchiudere per parecchi mesi a Fenestrelle.

Il contino accennò voler parlare, ma si contenne; aspettò un momento in silenzio, in apparenza indifferente e poi domandò:

[21] — Posso ritirarmi?

Il padre gli fece colla mano un cenno di licenza. Ettore salutò ed uscì.

— Bella libertà di determinazione che mi si lascia... colla minaccia di Fenestrelle: borbottava egli fra sè con rabbia repressa. E dovrò vedermi innanzi quel borghesuccio e tacere! Sacrebleu!..... Il soggiorno di Fenestrelle certo non mi sorride, ma se quel cotale ha la disgrazia di venirmi a stuzzicare, ma foi!...

Ho detto che madamigella Virginia s'era affrettata a mandare un domestico a casa di Benda con una sua letterina a Maria. Sperava la nobile fanciulla di essere la prima a partecipare la felice novella a quell'angosciata famiglia; e invece la era già stata prevenuta.

Il lieto annunzio era recato alla famiglia di Francesco dal dottor Quercia che col trotto serrato del suo bel cavallo attaccato al leggero ed elegante legnetto era passato innanzi al domestico che camminava a piedi.

E come mai Quercia aveva egli saputo così presto questa buona novella?

CAPITOLO IV.

Il principe protettore di Zoe la Leggera, il quale dimenticava sui sofà dell'elegante di lei boudoir il suo gran collare dell'Ordine, appena ricevuto il biglietto della cortigiana che lo chiamava, s'era affrettato ad accorrere; e inteso di che si trattasse, riprendendo il suo gingillo di decorazione, aveva promesso di ottenere quanto la donna gli domandava, e sopratutto di farla pagare a quell'impertinentissimo esploratore che aveva l'audacia di far la guardia intorno alla casa della Zoe. Abbiamo già visto dal colloquio del marchese di Baldissero col Re, come il Principe avesse parlato a Carlo Alberto, e dobbiamo soggiungere che con tutta la sua autorità e con ogni insistenza aveva raccomandato le due cose al conte Barranchi capo della Polizia.

Finito appena il colloquio col marchese di Baldissero, il Re aveva mandato detto al Principe, che trovavasi ancora a palazzo, come volesse soddisfare alle raccomandazioni da esso fattegli poco prima, e come sulla fede di lui volesse ritenere per innocenti i giovani arrestati, e restituirli alla libertà. — Il Principe, senza il menomo ritardo, ne aveva mandato l'annunzio per un valletto alla Zoe, in casa la quale era appunto tornato per saper le novelle Gian-Luigi, che grandissima importanza, come sapete, metteva in codesto affare.

Quercia aveva avuta la subita ispirazione di recare egli stesso la felice novella alla famiglia Benda. A dispetto di tutte le gravissime cose ch'e' stava agitando, delle tante e ponderose preoccupazioni che ne tenevan la mente, in lui era sempre tuttavia presente e non si smentiva mai il libertino seduttore, quell'appassionata smania di turbare nuovi cuori, di possedere nuove beltà, cui vieppiù solletica la pura innocenza, quell'empia curiosità sensuale mai saziata, onde la poesia e la tradizione hanno formato il tipo di Don Giovanni. L'ingenuo candore, la grazia ancora quasi infantile, la non regolare ma piacevole, ma freschissima leggiadria della sorella di Francesco, avevano piaciuto, come dice il poeta, agli occhi suoi, e nella sua anima corrotta suscitato un desìo, cui lo sciagurato era avvezzo a volere in ogni modo soddisfatto. Gli suonavano ancora all'orecchio dolcissime le parole con cui la giovinetta, tutto commossa, gli aveva promesso una eterna gratitudine, s'egli riuscisse a salvare il suo diletto fratello; aveva impresso nell'animo il mite sguardo supplichevole, onde quelle parole erano state accompagnate; voleva sentirsi rivolgere con quella voce soave la ricompensa d'un ringraziamento, con quegli occhi tanto espressivi, il premio d'uno sguardo benigno.

E così fu. Coll'annunzio del prossimo ritorno di Francesco nelle pareti famigliari, Quercia venne accolto da tutta quella desolata famiglia così festevolmente ed amorevolmente che nulla più. La madre pianse di gioia e lo benedisse; Giacomo colle sue maniere brusche e decise lo abbracciò profferendo tutto se stesso e l'aver suo in servizio di quel messaggere di lieta ventura; Maria gli strinse la mano, disse poche parole accompagnate da un caro rossore, ma espresse tante cose, e più ancora di quello che la si pensasse, col suo sguardo amorevole, brillante, umido di lagrime.

Tosto dopo sopraggiunse il domestico di Virginia col biglietto di lei; ma l'effetto da Gian-Luigi voluto e meditato era già tutto ottenuto. Questo fatal giovane fu ammirevole di grazia, di cortesia, di aggradevolezza. Alla giovane immaginativa di Maria apparve di molto superiore per ogni verso a quanti altri giovani ella avesse ancora visto mai. La sua bellezza, il suo brioso ingegno, le grazie de' suoi modi, della sua voce, de' suoi animati discorsi, non potevano a meno che fare una viva impressione nel cuore di una ragazza di molta sensibilità, giunta a quella fase appunto della vita in cui, come i fiori nella primavera, sboccia nell'animo il bisogno di amore. Voleva piacere e piacque. Padre e madre ne furono incantati; ne rimase rapita la ragazza. Ad un punto egli seppe insinuare destramente come avvenissero nelle relazioni sociali certi fatti che di presente stringevano in amichevole attinenza due individui, due famiglie, che prima od appena si conoscevano o niente affatto. Di questo genere parevagli essere l'avvenimento che quel dì l'aveva posto a contatto con quella casa. Di Francesco prima d'allora era stato appena se conoscente; affermava adesso parergli d'essere amico da tempo; coi parenti di esso non aveva avuto mai la menoma relazione: gli era con vera commozione d'affetto che [22] ora si rallegrava d'aver potuto giovare in alcun modo a sollevarne il dolore, di partecipare alla gioia ch'essi provavano, come aveva partecipato al cordoglio di prima.

Il padre di Francesco ne prese occasione per esclamare che da quel momento essi avrebbero ritenuto il loro generoso protettore, il zelante loro amico poco meno che se fosse della famiglia; e lo scellerato, interrompendo vivamente ed accompagnando le parole d'uno sguardo che fece arrossare la giovinetta, uscì a dire:

— E così imploro che sia veramente; e volesse la mia buona fortuna che io potessi davvero appartenere a questa egregia famiglia, che stimo ed amo sopra ogni altra mai.

Erano accorte parole codeste che, indirettamente e senza comprometterlo il meno del mondo, lo ponevano frattanto appetto a quelle brave e leali persone come aspirante ad imparentarsi con loro, come pretendente alla mano di Maria. Ciò aveva due effetti, ed era ciò appunto a cui intendeva: gli dava tosto una maggior libertà verso tutti, e specialmente con Maria, una domestichezza di cui egli faceva conto di approfittarsi; inoltre atteggiandosi subito innanzi alla fantasia della pura e virtuosa giovanetta come aspirante di cui sapessero e cui aggradissero i genitori, sperava di meglio, era sicuro di entrare senza contrasto nell'animo di lei.

Quando partì da quella casa il perfido Gian-Luigi recava seco la simpatia più accesa del padre e della madre di Maria, e di questa povera giovinetta la mente ed il cuore.

Il Re frattanto aveva mandato a chiamare il conte Barranchi. L'altezzosa arroganza di costui divenne l'umile piacenteria d'un cortigiano innanzi all'ombra di severo malcontento che copriva la fronte sovrana, come una nube la cima dell'Olimpo.

Carlo Alberto, per quelle sue informazioni particolari che ho detto, aveva saputo colle altre cose anche il modo barbaro ed indegno con cui era stato trattato dagli agenti di Polizia nell'essere arrestato il signor Giovanni Selva. Codesto gli aveva dispiaciuto moltissimo, tra perchè alla sua natura in fondo mite e generosa ripugnava la incivile prepotenza di quei mezzi in atti di cui per l'assolutismo del regime sino a lui saliva la risponsabilità; tra perchè già era egli finalmente un po' più inclinato, nel suo sino allora incerto oscillare, verso la parte della popolarità e del liberalismo monarchico.

— Signor conte, aveva incominciato il Re, appena il Comandante della Polizia ebbe fatto un arco della sua schiena di generale: duolmi che l'evento d'oggi abbia da mostrare così tanto fallace la mia speranza che le ho manifestato ieri: cioè non avessi ad udir più richiami di sorta per eccessi della sua Polizia.

Barranchi drizzò un momentino la spina dorsale e tentò sollevare uno sguardo all'altezza della faccia smorta del suo sovrano: ma vide che da quelle labbra non aveva finito di scendere a lui la manna amara delle parole di rimbrotto, e tornò a piegarsi sollecito in un arco più curvo di prima.

— Per Torino oggi non si parla d'altro che dei maltrattamenti fatti subire a quel giovane avvocato Selva, ed è una indignazione universale. Così facendo non si fa rispettare il potere, gli si acquista odio. Dopo le ammonizioni che avevo già avuta la spiacevole occasione di farle altra volta a questo proposito, dopo le parole che le ho detto ieri sera stessa, non credevo di aver più da farle un simil rimprovero.

Il conte, che non aveva già per natura e nelle circostanze ordinarie la parola molto facile, a quest'intimata, se la sentì mancare affatto come se la lingua gli si fosse annodata.

— Maestà, balbettò egli. Sire... Maestà. Creda... Sire...

Carlo Alberto ebbe pietà di tanta confusione; rispianò alquanto la sua fronte corrugata e soggiunse con accento di voce mitigato:

— Capisco che simili eccessi sono da imputarsi agli agenti subalterni: ma Ella, caro conte, deve inculcare ben bene ai suoi subordinati che si guardino oramai dal cadere in tali errori che non voglio assolutamente si rinnovino più.

Il nuovo tono del discorso e la parola caro che suonò al suo orecchio come una melodia fecero del generale dei Carabinieri reali quello che di Dante (se questo paragone è lecito) le parole di Virgilio, quando lo rianimi a imprendere il cammino per la valle dolorosa:

«Come i fioretti dal notturno gelo

Chinati e chiusi, poi che il sol li imbianca,

Si drizzan tutti aperti in loro stelo;»

così si ridrizzò la persona impettita del generale e si rasserenò la sua faccia raumiliata. Sulla sua anima risplendeva di nuovo a riscaldarla un raggio della grazia sovrana, il sole di quelle piante parassite da stufa di Corte.

— Sì, Maestà, gli è il fatto degli agenti subalterni: potè egli dire allora con abbastanza di scioltezza nella loquela: e procurerò che codesto non abbia da succeder più.

Carlo Alberto fece il suo pallido lieve sorriso e chinò leggermente il capo in segno d'approvazione.

Questo più vivace raggio di sole abbacinò il povero conte; e non gli lasciò più discernere la vera strada: credette d'avere una idea felice e diede tosto in un inciampone.

— Quantunque, aggiunse egli, tutto superbo della sua ispirazione, delle ciarle di quattro arfasatti di borghesi che si danno le arie di costituire l'opinione pubblica, non si ha poi da prendersi la menoma cura. V. M. non avrebbe che da desiderarlo, ed io prendo l'impegno di far tacere tutti quanti e di far disdire chi ha parlato, in men di mezz'ora.

[23] Il Re tornò a corrugare la fronte; e il Comandante della Polizia rivide con ispavento tutto nuvolo il suo orizzonte.

— Vedo che non ho la fortuna di farmi capire da Lei: disse colla sua voce lenta e cascante Carlo Alberto; o ch'Ella non ha desiderio e volontà di capirmi.

Non capire il suo Re! Non desiderare e non volere capirlo! Un servitore come quello! C'era da mandarlo alla disperazione per una simile accusa. Barranchi nel suo dolore trovò l'ardire e l'eloquenza delle più vivaci proteste. Il Re lo lasciò parlare guardando traverso la finestra, con occhio sbadato, la neve che continuava sempre a fioccare. Quando il conte ebbe esaurito il suo sacco non troppo voluminoso di frasi, di giuramenti e d'interiezioni, Carlo Alberto continuò in quel suo atteggiamento in cui pareva pensare a tutt'altro, e lasciò il generale sotto il grave peso del più impaccioso silenzio. Il cortigiano poliziotto sudava freddo. Lo sguardo plumbeo del Re si sviò finalmente dalla piazza reale deserta e si posò sull'uomo dal petto ingemmato di decorazioni, che gli stava dinanzi.

— Converrà, signor conte, disse il Re, non toccando più l'argomento di prima, che Ella dia gli ordini opportuni perchè i giovani arrestati sieno rimessi in libertà.

Barranchi s'inchinò. Era questo uno degli ordini che eseguiva meno volontieri: l'ordine contrario invece la trovava sempre disposto ad obbedire con entusiasmo; ma tuttavia s'inchinò profondissimamente.

— Però prima di rilasciarli, quei malintenzionati avranno da ricevere un'ammonizione..... una piuttosto severa ammonizione..... perchè imparino a non dilettarsi di pericolose letture sovversive, a non isparlare di quel potere che la Provvidenza ha voluto si raccogliesse nelle Nostre mani ed a non tentare di sfatarlo. Quanto all'avv. Benda soprattutto gli si farà sentire tutta la sua colpa nel contegno tenuto ieri sera, e inoltre gli si dovrà imporre la promessa che egli non avrà l'audacia più di provocare in alcun modo il conte di Baldissero.

L'inchino del generale oltrepassò il superlativo della profondità.

Congedato dal Re, Barranchi corse a casa sua e mandò a chiamare con premurosi ordini il Comandante della cittadella dove era ritenuto Francesco Benda, e il commissario Tofi.

Al primo diede le istruzioni perchè il prigioniero fosse mandato sciolto col voluto accompagnamento di ammonizione e d'intimazione; al commissario Tofi, che ricevette il secondo e che ritenne in più lungo colloquio, fece una sfuriata maledetta che era il minore sfogo cui il bravo generale si potesse concedere pel dolore e il crudelissimo disappunto di avere incontrato il malcontento del suo Re.

Ah! com'era fiero, ah! come stava diritto impettito, ah! come appariva imponente nella sua divisa e colle sue decorazioni che specchieggiavano sul suo largo petto il bravo generale! Ora egli era che stava rampognatore con un subalterno in condizione di colpevole; ciò che aveva preso di su egli rendeva di sotto con aumento di dose, generoso come egli era in questa razza di affari. Tofi, la faccia ispida più del solito, il mento quadrato appoggiato fermamente al suo duro cravattone, le sopracciglia aggrottate e lo sguardo chino a terra per deferenza al suo superiore, immobile e dritto come un soldato in servizio, aveva un contegno assai meno raumiliato e confuso di quello che avesse poco tempo innanzi, il superbo, prepotente conte Barranchi, in cospetto del Re.

— Ecchè? gridava il generale andando su e giù del suo gabinetto con passo che suonava secco sul pavimento e faceva quasi tremar le pareti come un peso che cadesse ad ogni volta per terra, ecchè? gli è così che mi obbedite, così che si rispettano i miei ordini? Che cosa vi ho detto questa stessa mattina, quando siete venuto a disturbarmi in sì indiscreta maniera?

— Signor conte: disse con rispetto ma senza la menoma confusione il Commissario: questa mattina io sono venuto appunto a pregarla di darmi le norme opportune di agire, e non ho fatto cosa che non fosse secondo le sue istruzioni.

— Le mie istruzioni un corno: proruppe sbuffando il nobile Capo della Polizia. Vi ho detto che lasciavo a voi la risponsabilità di tutto, vi ho detto che guai a voi se mi buscavo un rabbuffo da S. M. E me lo sono buscato, e che rabbuffo!... Non sapete mai far altro che compromettere i vostri superiori voi!

— Signor conte: riprese il Commissario impassibile, se volesse specificarmi in che cosa propriamente ho meritato queste sue severe parole...

— In che cosa? Ah in che cosa?.... E me lo domandate? Chi è quello sciagurato figliuolo d'un asino che ha fatto la perquisizione in casa Benda ed arrestato quel cotal Selva?

— Gli è l'agente Barnaba.

— E va bene.... Lo sapevo ch'era lui!.... Gli è sempre lui che ne fa delle belle.... Già è il vostro protetto.... Voi lo portate sempre in palma di mano.

— È un agente, disse coraggiosamente Tofi, di cui in verità non posso che lodare l'intelligenza e lo zelo.

— Bell'intelligenza! bel zelo! gridava sempre più furibondo il generale, che si ricordava allora i lagni fattigli poc'anzi di quel medesimo dal duca di Lucca e la raccomandazione di levarglielo dai piedi. In alto si è indignati del modo con cui si è proceduto all'arresto di quel Selva che il diavolo si portasse anche lui; in alto si vuole che si vada coi dovuti riguardi. E poi che impertinenza è quella [24] di questo cotal Barnaba di cacciarsi nella vita privata degli alti personaggi di cui dovrebbe rispettare i segreti? S. A. R. il duca di Lucca è su tutte le furie contro di lui. Per apprendere a vivere a questo impertinente gli laverete il capo di santa ragione e gli notificherete ch'egli abbia a partirsi tosto da Torino per andare addetto al Commissariato d'una qualche città di provincia.... per esempio Novara.... sì, va benissimo, Novara.

— Signor conte: riprese col medesimo tono il Commissario.

— Ho detto! esclamò Barranchi coll'accento e l'aspetto d'un Cesare in caricatura.

— Allontanando questo tale, continuò Tofi come se nulla fosse, mi si toglie uno dei migliori e più fidi miei strumenti, in un'epoca in cui molti e gravi sono i pericoli e gl'intrighi d'ogni fatta contro la pubblica sicurezza e contro l'assetto politico dello Stato. La Polizia ha impreso una lotta con quella tremenda cocca che sempre le si sottrae di sotto mano ed ha bisogno di avere, per vincerla, tutte le sue forze radunate...

— Baie! Bubbole! Storie! gridava il conte crollando le spalle. Quando dico, dico!... Quel Barnaba andrà a Novara; o sarà messo sul lastrico... Avete capito?... Basta, non più una parola. Andate e fate mettere in libertà quei giovani arrestati, ma prima regalateli di una buona ramanzina in tutte forme, e che se ci ricascano li facciamo senza tante cerimonie filare a Fenestrelle o in Sardegna. E se lo tengano appiccato alle orecchie... Non ho più nulla da aggiungere..... Sapete quel che avete da fare..... Marche!

Il Commissario stette ancora un istante immobile, quasi volesse prima di partirsi aggiungere alcune parole: poi si decise a partire senz'altro: girò sui talloni come un soldato che fa dietro-front e senza pur salutare partì col suo passo lungo, sollecito e regolato, cacciandosi sino agli occhi il suo cappello a larga tesa ed affondando nelle tascaccie laterali del suo soprabito le sue mani grosse, tozze e villose.

Il Commissario entrò nel suo antro al Palazzo Madama, più scuro e più brutto in viso che un temporale. Passando egli nell'anticamera, tutte le guardie in uniforme e senza che vi erano sorsero in piedi coi contrassegni del più timoroso rispetto. Un vecchio prete con bianchissima e folta capigliatura che sedeva sur una di quelle panche appoggiandosi alla mazza che teneva fra le gambe, con un cagnuolo di pelo nero accovacciato a' piedi, vedendo quel drizzarsi e quel contegno di tutti i presenti innanzi a colui che attraversava con passo da padrone la sala, senza dar segno nessuno di saluto, come se il luogo fosse deserto, capì che gli era un personaggio d'importanza, e levatosi in piedi ancor esso con umile atteggio, domandò timidamente sotto voce alla guardia che gli era più vicina:

— Chi è?

— È il Commissario: rispose brusco il poliziotto interrogato.

Don Venanzio, poichè il vecchio prete era lui, il quale stava appunto aspettando con molta calma e rassegnazione, ma non senza sollecito desiderio, la venuta di codesto autorevole personaggio, spinto da un subito impulso, fece un passo verso il signor Tofi, con un gesto supplichevole nella mossa ed una parola interrogatrice alle labbra. Ma il fiero signor Commissario volse su quella faccia aperta e bonaria uno sguardo così burbero e incollerito sotto le sue sopracciglia aggrottate, che il povero Don Venanzio rimase lì in asso, il piè sospeso, la bocca aperta, la voce estinta nella gola. Il signor Tofi passò.

— Signori: disse il parroco di campagna alle guardie, in mezzo a cui rimase, bersaglio ai loro sguardi e sogghigni schernitori: adesso che vi è il Commissario, potrò finalmente parlargli?

— Aspetti: gli si rispose col tono insolente che suole avere verso i deboli questa razza di gente, quasi a compensarsi della viltà della loro soggezione innanzi ai forti. Quando il signor Commissario vorrà ricevere, chiamerà.

Il signor Commissario aveva attraversato il corridoio ed era entrato nella stanza che precedeva il suo gabinetto.

L'impiegato che sedeva alla scrivania, vedendolo entrare si alzò tutto rispettoso ancor egli, nè più, nè meno di quello che avevan fatto le guardie.

— Barnaba, s'è visto? Domandò ruvidamente il signor Tofi senza rispondere nemmeno col menomo cenno al saluto, senza levare nè il cappello di testa, nè le mani di tasca.

— Signor sì: rispose l'impiegato. Egli è nelle stanze dell'altra torre dove prepara un particolareggiato rapporto per Lei.

— Mandatelo a chiamare.

L'impiegato suonò un campanello ed una delle guardie che erano nell'anticamera fu lesta a presentarsi.

— Andate negli uffici dell'altra torre e dite al signor Barnaba che venga qui subito: il signor Commissario lo chiama.

La guardia s'affrettò ad eseguir l'ordine, l'impiegato sedette di nuovo alla scrivania guardando timorosamente di sottecchi il signor Tofi che si vedeva chiaramente avere un diavolo per capello; il Commissario, le mani sempre affondate nelle tasche, andava e veniva con passo concitato, la tesa del suo cappellaccio negli occhi, il capo chino, borbottando fra i denti delle parole inintelligibili.

Cinque minuti non erano passati che Barnaba entrava con passo affrettato in quella stanza dove il terribile signor Commissario dava le volte del leone.

— Son qua, signor Commissario.

Questi si fermò d'un tratto a due passi dal nuovo [25] venuto, lo fulminò con uno sguardo che era già tutta una rivelazione di corruccio e di condanna, e rispose con un accento, appetto al quale il più ruvido che avesse mai adoperato prima d'allora era una soavità.

— Eh lo vedo che siete lì.....

Entrò in quella la guardia che era andata a chiamar Barnaba.

— Che cosa volete? domandò brusco il signor Tofi.

— Gli è quel prete che desidera parlare con Lei.....

— Vada a farsi benedire.

— È venuto da parte del signor Comandante, accompagnato da un'ordinanza, che l'ha raccomandato.

— Ah!....

Tofi esitò un momentino, poi crollò le spalle e riprese col medesimo accento collerico:

— Che m'importa?.... Alla croce d'Iddio, ho altro da fare io pel momento. Ditegli che se vuole parlarmi, aspetti, se non vuole aspettare, vada ai cento mila diavoli.

La guardia sparì dietro il battente dell'uscio.

— A noi due: disse il Commissario a Barnaba, sempre con quel tono tutt'altro che rassicurante.

Come aveva fatto la sera innanzi, aprì l'usciolo chiovato di ferro del suo gabinetto, colla grossa chiave che trasse di tasca, ed entrando egli primo, comandò con accento militare a Barnaba:

— Venite!

La porta fu richiusa alle loro spalle, Tofi si recò nella profonda strombatura del finestrone, volse le spalle alle invetrate, ed avendo innanzi a sè il suo subalterno, di guisa che nella faccia gli batteva di pieno la luce che entrava per la finestra, cominciò il colloquio con quel suo accento più burbero ed aspro che mai.

— Ve l'ho detto io che vi avventuravate sopra un terreno molto difficile e pericoloso. Voi non avete ancora una giusta opinione di quello che siete, di quello che potete, di quello che valete. Avere ardimento sta bene, ma la temerità di cimentarsi contro chi è più forte, conduce necessariamente a rovina. Nel mondo non vi hanno che vasi di terra e vasi di ferro: siete passato dalla parte di questi ultimi, va benissimo, ma non avete cessato d'essere meno di creta perciò. Avete ficcato la mano in un vespaio: mille influenze, mille raccomandazioni, mille autorità si sono suscitate a voler condannata l'opera vostra. La cosa è salita sino al Re, niente meno. Breve! Senza tanti discorsi, voi siete mandato via da Torino, e partirete il più presto possibile per Novara.

Questo annunzio fu un colpo gravissimo per Barnaba, da cui parve atterrato.

— Io! esclamò allibito, impallidendo, con voce e membra tremanti; abbandonar Torino!..... Adesso!..... E curvò il capo come uomo oppresso dalla desolazione.

— Sì signore, voi: ripetè il Commissario ancor più burbero. Che cosa avevate bisogno di andarvi a cacciare in certi affari di quel......

Trattenne sulle labbra la parola che stava per uscire, e la sostituì colle seguenti:

— Di S. A. R. il Duchino di Lucca?

Barnaba sollevò il capo ed un lampo d'intelligenza traversò il suo sguardo abbattuto.

— Ah! gli è per lui che mi si punisce a questo modo?

— Per lui e per gli altri. Voi avete maltrattato questa mattina arrestandolo quel giovane avvocato Selva.

— Egli ha distrutto con audacia incredibile, sotto i miei occhi stessi, una carta dov'era forse la prova di tutto ciò ch'io sospetto.

— Bisognava non lasciargliela distrurre. Come volsero le cose siete voi che avete torto.

Tofi tacque un istante, poi facendo piombare più acuto e più penetrante quel suo sguardo osservatore sulla faccia sconvolta di Barnaba:

— Olà, diss'egli, che ragione avete voi ad esplorare le gite del Principe in casa quella certa donna? Agli stipendi di chi e per quale interesse ciò facevate?

Barnaba scosse le spalle, prese un atteggio più risoluto e guardando ancor esso in faccia al Commissario, rispose con una sicurezza che poteva dirsi vera audacia:

— Agli stipendi di nessuno e per un interesse tutto mio particolare.

Tofi interruppe con una voce tra d'impazienza tra di collera:

— Uhff! Siete matto!... Interesse vostro particolare a spiare il Duca!...

— Ah! non è per lui: disse Barnaba con accento sommesso, contenuto, ma vibrante, gli è per quella donna.....

I suoi occhi mandarono strani sprazzi di fiamme.

— Gli è da lungo tempo, oh assai da lungo tempo ch'io la conosco quella donna!

— Stolto! proruppe il Commissario con collerica rampogna: quando si è nel vostro impiego, ne' vostri panni, non si fa il mestiere per proprio interesse.....

— Il mio interesse qui si congiungeva con quello del servizio. In quella casa, presso quella donna si reca tutti i giorni; e più volte ogni dì, il sedicente dottor Quercia.

Gli occhi gli balenarono di nuovo come e di più ancora che poc'anzi.

— Gli è di lui che mi do pensiero, continuò con accento più vivace e vibrato. Del Duca che cosa m'importa?.... Ah! gli è quell'uomo ch'io vorrei cogliere alla posta.

Il Commissario degnò finalmente permettere alle sue labbra grosse l'ombra d'un sorriso.

[26] — Sempre quella vostra idea fissa!.... Si direbbe che quel signor Quercia ve ne abbia fatta qualcheduna di grossa.

— È un mistero che voglio penetrare: interruppe vivacemente Barnaba. Ebbene sì, l'odio quel cotale.... Non mi domandi il perchè, sarebbe lungo lo spiegarlo.... voglio rovinarlo.... e lo rovinerò.

— Per intanto: disse colla sua grossolanità Tofi: siete voi che perdete la partita.

Barnaba si morse le labbra sino al sangue.

— Ah! non è persa ancora! esclamò egli con accento quasi feroce. Allontanarmi!.... Sì: Ella ha ragione.... È lui che la vince s'io mi allontano. Certo egli che mi ha trovato a fronte questa mattina, ha indovinato, ha sentito da parte sua la lotta che v'è fra di noi.... Che! crede Ella che il Duca abbia fatto attenzione il meno del mondo a me?.... La è quella donna che gli ha domandato come un favore io fossi scacciato da Torino.... e ciò dietro suggerimento di Quercia. Ne sono sicuro come se avessi assistito ai loro segreti parlari.

Tacque un istante, si concentrò, poi con impeto di quasi selvaggio furore proruppe:

— Invano si lusingano avermi tratto fuor dei piedi nel loro cammino.... Non partirò; ad ogni costo non partirò.

— Oh oh, Barnaba: disse il Commissario con meraviglia poco meno che corrucciata; vi ha dato di volta il cervello. L'ordine è preciso, converrà obbedire.

— E se mi vi rifiutassi? domandò l'agente subalterno con un'audacia che fece strabiliare il signor Tofi.

— Rifiutarvi! esclamò questi scandolezzato in sommo grado. Forse che pensate di poterlo fare? Oh quando mai la pialla ha detto alla mano che la spinge: io non voglio muovermi? Non lo sapete ancora che voi siete uno stromento, un infimo stromento nelle mani del Governo? S. E. ha detto: «quell'uomo andrà a Novara o lo si getterà sul lastrico.»

— Ebbene? che m'importa? disse Barnaba con cupa risoluzione: lascierò l'impiego, ma non mi strapperanno di qua.... Debbo rimanerci.... Vi sono attaccato per tutte le fibre del mio essere.... Non posso a niun modo allontanarmi.

Il Commissario, con rozzo atto eppure quasi affettuoso, gli pose una mano sulla spalla e gli affondò entro gli occhi quel suo sguardo d'augel grifagno.

— Sciagurato! diss'egli. Nel nostro ufficio, che è il più grave e il più necessario per la conservazione sociale, uomo non deve aver più nè passioni, nè affetti, nè moventi che del suo còmpito non sieno. È una sacra milizia la nostra in cui più che in qualsiasi religione monacale bisogna rinunziare a tutte le gioie come a tutte le vanità del mondo. Infelice chi non soffoca il proprio cuore; violatore del proprio dovere chi non distrugge in sè quelle tendenze e quei moti dell'animo, il cui giuoco deve osservare in altrui e dei quali frenare il corso e antivenire gli eccessi.... Voi partirete.

Barnaba scosse con risoluzione il capo.

— No: diss'egli fermamente: e se si persevera in questa risoluzione, la prego, signor Commissario, di considerarmi fin d'ora come congedato dal servizio.

Il signor Tofi ritirò la mano dalla spalla del suo subordinato ed incrociò le braccia al petto; un lampo di sdegno corse ne' suoi occhi affondati.

— Ah sì? esclamò egli. E va bene. Ma ammettendo un momento che io vi dèssi così la vostra licenza, fatemi il favore di dirmi di qual pane vorreste mangiare.

— Non mi sarà difficile procacciarmene un tozzo fors'anco minore... ma meno amaro.

— Come? Come? Insistette Tofi con ironia contenuta ma sdegnosa. Vorreste per caso tornare al vostro primo mestiere dell'infanzia e della gioventù?

Barnaba impallidì.

— Esso non deve avervi lasciato troppo gradevoli memorie; continuava il Commissario con crescente quell'ironia, la quale, al vedere i segni di sofferenza che si manifestavano nel volto di Barnaba, avreste dovuto dire veramente crudele, e poi, ora dopo tanto tempo dubito assai che abbiate ancora le membra abbastanza sciolte per fare l'uomo tartaruga o saltar sulla corda.

Il suo ascoltatore, più smorto d'un cadavere, si appoggiò con una mano alla parete a sorreggersi, sentendo venirgli meno per l'emozione le forze; il capo aveva chino alla terra, il respiro affannoso; però non disse motto, nè mandò pure una voce.

Tofi continuava:

— Oppure potreste, coll'arte vostra abbastanza scaltrita, colla conoscenza che avete dei mezzi di guerra dalla parte nostra recare a quelli che combatteste finora, al campo dei nemici della società di cui foste finora difensore, un valido e prezioso campione che certo da loro otterrebbe infiniti vantaggi. Lascio stare il merito e la moralità di codesta azione; e se voi ne siate capace o no; ma vi dico che voi a niun modo non la potete fare, perchè io non lo permetterò.

Si drizzò vieppiù della sua persona e parve ingrandirsi appetto all'uomo che gli stava dinanzi curvo, abbattuto e disfatto.

— Avete voi dimenticato, seguitò dando maggior vibrazione ed imponenza alla voce senza pure alzarla; avete voi dimenticato che io col segreto della vostra vita passata, tengo in pugno il vostro presente e il vostro avvenire? Che siete in mia balia talmente che il giorno in cui vorreste sottrarvi, io posso infrangervi senz'altro?

Barnaba fu assalito da un fremito; tese le mani supplicante e disse con accento pieno di preghiera e d'angoscia:

[27] — Ah! non mi perda!

Successe un istante di silenzio, in cui que' due uomini stettero di fronte a quel modo; Barnaba gli occhi fitti alla terra, umile e vinto, Tofi dominandolo da tutta l'altezza della sua statura, con uno sguardo imperioso e fiero.

Fu il subalterno che ricominciò a parlare:

— Signor Commissario, diss'egli, Ella ha ragione, Ella può fare di me tutto ciò che le aggrada; ma in nome di quanto vi ha di più sacro, in nome del Re e di questo nostro ufficio di cui Ella sente così a dovere tutta l'importanza e l'altezza, pel vantaggio del servizio di cui le giuro sull'anima mia trattarsi, la prego, la supplico a non mandarmi via così, di subito..... Non le domando che un indugio di pochi giorni, di una settimana, di due tutt'al più..... In questo frattempo spero di poterle venir a recare tali risultamenti dell'opera mia ch'Ella sarà lieta d'avermi accordata questa grazia. Dopo faccia pure di me tutto quel che la vuole; e se non riesco a nulla, mi punisca poi Lei con tutta la severità che creda opportuna. Mi rassegno fin d'adesso ad ogni suo volere. Ma, per amor di Dio, mi lasci compier l'opera. È un'opera difficilissima, intricata, delicatissima cui non posso cedere altrui, che altri non potrebbe assumersi e continuare in vece mia. È un viluppo di leggerissimi indizi ch'io indovino più coll'istinto di quello che scorga col raziocinio; è un complesso di fili tenuissimi cui bisogna trattare con cura infinita, perchè non si rompano lasciandovi senza scorta nessuna più nel labirinto. Io seguo, traverso un lecceto di circostanze indifferenti che imbarazzano il cammino, le traccie del vero coll'istinto del segugio che persegue una preda, questo vero voglio arrivarci a scoprirlo..... e scoprirlo io!... È una questione d'amor proprio; è una passione dell'arte mia oltre ogni altro impulso che possa essere in me; è un'ambizione, se vuole, ma cui Ella non può condannare. Mi lasci conquistar questo merito. Forse è una missione che mi ha data appunto la Provvidenza menandomi per le disgraziate, orribili vicende della mia vita passata; mi permetta ch'io la compia.

Il Commissario stette un momento, prima di rispondere, riflettendo; poi ad un tratto crollando le sue spallaccie, disse asciuttamente:

— Voi non partirete che fra un mese. La prendo su di me. Vi do un mese di congedo, cui potrete passare dove vi piace meglio. Se in questo frattempo voi riuscite in quell'impresa che dite, se quella che proseguite non è una illusione, e voi arrivate a porre la mano sopra una buona verità; allora la vostra disgrazia presente si potrà convertire in una splendida ricompensa.

Barnaba in un movimento di espansiva gratitudine, lieto com'era immensamente dell'ottenuto favore, accennò voler prendere la destra del Commissario; ma questi nascose le sue manaccie nelle larghe tasche del soprabito e disse con accento freddo freddo e con faccia burbera burbera:

— Andate e fate ch'io non m'abbia a pentire di quanto ardisco a vostro riguardo.

L'agente s'inchinò con tutta umiltà e s'avviò verso l'uscita. Quando ei fu per aprir l'uscio, il signor Tofi soggiunse:

— Passando dite che s'introduca quel prete cui mi ha mandato il Comandante.

Barnaba trasmise l'ordine ricevuto alle guardie dell'anticamera, e poscia uscendo del palazzo Madama si diresse verso l'osteria di Pelone.

Chi gli fosse stato accosto, avrebbe potuto udirlo borbottare coi denti stretti:

— Gli è colui la cagione della mia disgrazia, lui che mi volle far scacciare, lui che possiede l'amore di Zoe!... Oh! dovrà pur venire un giorno ch'io ne terrò la sorte nel mio pugno!

CAPITOLO V.

Don Venanzio colla letterina del marchese di Baldissero, erasi affrettato verso il Palazzo Madama; dove informatosi del luogo in cui fossero gli uffici del Comandante di piazza, eravisi introdotto umile e rispettoso. I soldati veterani, sotto uffiziali i più, che, conosciuti dal popolo col nome di ordinanze di piazza, facevano presso quell'uffizio poliziesco-militare da guardie di polizia insieme, da uscieri e da tavolaccini, non accolsero con molta deferenza questo vecchio ed umil prete dagli abiti poveri e dall'aspetto modesto. La richiesta di lui, d'essere ammesso a parlare coll'illustrissimo signor barone Panciù della Montoria, maggiore di fanteria nell'esercito di S. M. il re di Sardegna, Comandante della piazza di Torino, parve loro poco meno che una temerità in tale che non aveva il brillante degli spallini, l'autorità d'un alto impiego, l'imponenza d'un nome aristocratico e nemmanco il distintivo (in quel tempo non così comune come adesso) di una decorazione. Di certo il nostro buon sacerdote non sarebbe arrivato al suo intento se non fosse stato del bigliettino di S. E. il marchese di Baldissero, ministro di Stato.

A questo nome le faccie irte di baffi di quei bravi veterani fazionati dalla disciplina alla sprezzosa ruvidezza verso i borghesi, cominciarono a diminuire l'altezzoso, severo cipiglio. Uno di essi non disdegnò di prendere il biglietto e di recarlo nella camera vicina, dove un altro l'avrebbe preso per trasmetterlo ad un terzo il quale avrebbe poi avuto l'onore di consegnarlo nelle proprie mani del signor barone comandante: imperocchè già fin d'allora (cosa bellissima ed opportunissima che si è venuta perfezionando e crescendo) codesti uffizi, come tutti gli altri eziandio, erano affollati di utilissima gente occupata a non far nulla.

Ma il potente talismano di quella lettera fu appena [28] pervenuto nelle autorevoli mani del signor Panciù della Montoria, il quale, in benefizio dello Stato, sbadigliava gravemente crogiolandosi in una soffice poltrona presso il fuoco, che la causa del buon prete ebbe il cento per cento di guadagno. Il signor Comandante si degnò di suonare un campanello, ed a chi si presentò alla chiamata si degnò di ordinare che desse ordine a chi di dovere, perchè le ordinanze dell'anticamera lasciassero entrare il postulante. Così avvenne che Don Venanzio penetrasse sino nel gabinetto di quell'illustre personaggio.

Udito di che cosa si trattasse, il signor Comandante, voglioso di soddisfare al desiderio manifestatogli da un potente, quale il marchese, guardingo eziandio di non compromettere la sua dignità colla Polizia civile, da cui dipendeva in realtà la definizione dell'affare, recossi sopra se stesso e riflettè profondamente. Ma egli non era incanutito nel glorioso servizio della pacifica milizia di quel tempo per non trovare in simile occasione la salvezza della capra e dei cavoli. Levò fieramente la testa, come uomo che sa d'avere una felicissima idea, ed ordinò che il prete campagnuolo fosse scortato di sotto al pian terreno nell'ufficio del signor Commissario e si dicesse a costui che era desiderio di lui Comandante, la domanda del prete venisse esaudita.

Ma quando in quell'oscura e vasta anticamera dove siamo via penetrati più volte, entrarono Don Venanzio e l'ordinanza che gli faceva da guida, il signor Tofi era assente dall'uffizio; e il veterano, che non aveva tanto zelo da mettere a disposizione del prete, da rimaner lì a seccarsi aspettando nella società delle guardie poliziesche con cui le ordinanze di piazza non se la dicevan di troppo, il veterano disse concisamente ciò di che si trattava ai poliziotti presenti e se ne andò pei fatti suoi.

Don Venanzio sedette e, la sua mazza fra le gambe e le mani appoggiatevi su, il fido Moretto accovacciato a' piedi, stette tranquillamente ad aspettare.

Quando finalmente Barnaba nell'uscire dal gabinetto del Commissario, ebbe dato ordine il prete s'introducesse, Don Venanzio deposto il suo bastone, come soleva, ed ordinato all'obbediente cagnuolo di starvi presso e non muoversene a niun conto, passò il corridoio, traversò la prima camera, ed entrando nel riposto camerino, si trovò a fronte del terribile signor Tofi.

Difficilmente, chi l'avesse voluto fare apposta, avrebbe potuto mettere insieme due figure che più facessero contrasto. Il Commissario alto, magro, osseo, angoloso, la faccia ispida, di color terreo, aspetto burbero, la guardatura fiera; il prete piuttosto piccolo, grassotto, rosse le guancie, bonario e benigno il sorriso, mitissimo lo sguardo degli occhi azzurri, tutto bontà ed amorevolezza al solo vederlo.

Tofi guardò quella sorridente figura con occhio torvo; parve anzi che quelle aperte, benigne sembianze, irritassero in lui la scontrosità dell'umore.

— Ebbene? diss'egli con accento più ruvido ancora dell'ordinario. Che volete? Parlate, e spicciatevi, chè io non ho tempo da perdere.

Don Venanzio non si spaventò, nè s'indispettì di queste parole e del tono ond'eran dette; espose tranquillamente, con umile sicurezza la ragione della sua venuta, e non tacque della lettera del suo protettore al Comandante. Fosse il nome del marchese di Baldissero, fosse la voce simpatica e l'accento modesto e dignitoso insieme, di quel vecchio, che producesse effetto, il vero è che la orgogliosa insolenza del signor Commissario s'abbassò d'un tono.

— La vuol vedere quel cotal Maurilio arrestato questa mattina? Disse il sig. Tofi passando a parlare col Lei. Bene, la lo vedrà subito. S. E. il marchese di Baldissero le ha detto che avrebbe potuto condurlo via con sè? S. E. le ha detto giusto. Ho appunto l'ordine di rimetterlo in libertà; e nulla osta a ciò che Lei si porti quel giovane dove la vuole.

Ciò detto ordinò che il nominato Maurilio Nulla fosse tolto dal carcere in cui era stato messo e condottogli innanzi.

Maurilio aveva appena finito di raccontare, come abbiam veduto, le avventure del suo passato all'amico Selva, quando si udirono stridere fuor della porta i catenacci che scorrevano nei loro anelli di ferro, e scricchiolare nella serratura la chiave che apriva: i due giovani volsero curiosi i loro sguardi all'uscio e videro socchiudersi il grosso battente e il secondino medesimo che là dentro li aveva introdotti, mettere fra l'uscio e il muro la sua faccia ignobile e far passare per quell'apertura la sua voce rauca e villana.

— Quale di loro si chiama Nulla Maurilio?

I prigionieri si erano alzati tuttidue; Maurilio fece un passo innanzi e disse non senza un palpito nel cuore e un lieve tremito nella voce:

— Sono io.

— Venga meco.

Maurilio volse verso Giovanni uno sguardo desolato:

— O cielo! Ci vogliono separare.

Selva si cacciò avanti e interrogò il secondino.

— Dove avete da condurre il mio compagno?

— Dal signor Commissario.

— Perchè?

Il carceriere rispose crollando le spalle:

— Che so io? Non domando e non mi si dànno di queste spiegazioni..... Animo, su, muoviamoci.

Maurilio si gettò nelle braccia di Giovanni.

— Aimè! Disgiungendomi da te mi si toglie la maggior parte della mia forza.

— Coraggio, coraggio: gli susurrò alle orecchie [29] Selva abbracciandolo. Non sarà che per interrogarti, e poi ti restituiranno alla mia compagnia.

E con un bacio, come di addio, gl'insinuò nell'orecchia, tanto piano che Maurilio stesso appena le udì, le seguenti parole:

— Nega tutto e sempre, o piuttosto taci.

Il secondino accennava impazientarsi. Maurilio si staccò dalle braccia dell'amico e seguì l'uomo che lo era venuto a prendere, scorta al quale stavano due guardie, i bottoni della cui uniforme mandavano qualche riflesso di luce nell'oscurità del corridoio. Alle spalle di Maurilio fu richiuso lo spesso battente chiovato di ferro col medesimo stridere, col medesimo scricchiolìo di catenacci e di serrami.

Quando furono giunti all'uscio del gabinetto del Commissario, le guardie con uno spintone fecero entrar primo Maurilio, e dissero:

— Ecco il prigioniero.

— Sta bene: rispose la voce burbera del signor Tofi: andate.

Guardie e secondino sparirono; il nostro protagonista rimase timido ed esitante a quel posto, non osando levar gli occhi e sentendo nel petto battergli il cuore sotto la stretta d'una paura che cercava invano di dominare.

Ma prima che egli od altri avesse tempo di pronunziare una parola, appena partite le guardie, una persona si slanciò verso Maurilio e gli gettò le braccia al collo ed una voce amichevole e soave lo salutò chiamandolo per nome con infinito affetto.

Il giovane sentì dileguarsi il turbamento della sua paura, ebbe di botto l'animo rinfrancato trovandosi non senza molta meraviglia sul seno del vecchio parroco, del maestro e del protettore della sua infanzia.

— Lei!.... Lei qui, Don Venanzio: esclamò Maurilio con tanta commozione che appena poteva parlare. Oh! la è proprio il mio buon genio che la manda.

— Sì: disse il parroco: è la Provvidenza che ti vuol bene, e mi concede sempre la grazia di poterti soccorrere. Gli è un presentimento che mi ha spinto a venire a Torino; e qui ho trovato subito chi ha potuto farmiti restituire. Sono venuto a prenderti: tu sei libero, ed usciremo insieme da questo brutto luogo.

Un brivido di acuto piacere corse tutte le fibre del giovane.

— Libero: esclamò egli sentendosi quasi allargare i polmoni.

Non potè aggiungere altra parola; ma levò lo sguardo al cielo con espressione di commossa riconoscenza. Egli era persuaso che lo spirito benigno, il quale vegliava sul suo destino, era quello da cui era stato ispirato a Don Venanzio il presentimento da lui accennato, era stato suggerito il mezzo di venirlo a salvare.

Don Venanzio, abbracciato, baciato e ribaciato Maurilio, ne prese il capo colle due mani e lo stette guardando con amorosa attenzione e con viva sollecitudine. Dall'ultima volta che quei due s'eran visti, nella faccia espressiva del giovane erano ancora, e non di poco, accresciutesi le traccie della sofferenza e del malessere che a quel corpo indebolito cagionavano l'incessante travaglio dell'anima, la soverchia tensione dello spirito e il continuo lavorìo del pensiero. Più terreo il color delle guancie, più affondate le occhiaie, più sporgenti i zigomi nel macilento viso, più spiccate le rughe precoci alle tempia ed agli angoli della bocca, più curvo il petto ed abbandonato il portamento.

Il buon parroco, intenerito, lo baciò ancora una volta su quella vasta fronte incoronata dai nerissimi ispidi capelli come da una scura aureola, ed illuminata nel suo pallore dalla luce del pensiero.

— Mio povero Maurilio, disse Don Venanzio con accento di sì dolce affetto che più non avrebbe potuto la voce d'una madre. Tu hai sofferto ancora, tu soffri?

Il giovane rispose con un mesto sorriso.

Ma ad impedire ogni effusione suonò in quel momento la voce aspra e burbera del signor Commissario.

— Le vostre confidenze ve le farete poi in più acconcio luogo di qua. Per ora, giovinotto, voi siete libero, e ringraziate la clemenza di S. M. che invece di mandarvi a vedere il sole a scacchi a Fenestrelle, vi fa la grazia di lasciarvi andar a dormire nel vostro letto. Ma frattanto questo piccolo incidente vi serva d'avviso! Fate senno, dissensato che siete! Ficcatevi un po' di sugo in quel cervellino di passero che vuol menare a bere le oche; e invece di pensare a cambiare le cose del mondo e riformare il Governo, pensate ad essere buon suddito, buon cattolico e riformare a voi la testa sconclusionata. Vedete i bei capi che pretendono dettar la legge a chi comanda e far camminare il mondo a loro capriccio! È nell'ospedale dei pazzerelli dove meritereste d'essere rinchiusi, poverini di teste bruciate... D'ora innanzi badate a voi! Non crediate di poterla fare impunemente in barba alle autorità ed alle leggi. Noi teniamo gli occhi su di voi e vediamo tutto, quasi quasi i vostri pensieri eziandio. Se questa volta l'avete scappolata tanto a buon mercato, un'altra non sarà più così. E sappiate, impertinenti e stupidi animali di rivoluzionari, che S. M. il Re di Sardegna ha abbastanza carceri e carabinieri, e se occorre palle e schioppi da mettere alla ragione quanti ne sieno di voi e dei vostri pari... Ora andatevene con Dio, e pregate il vostro santo protettore che non m'abbiate più a comparire davanti.

Maurilio ascoltò l'intemerata a capo chino e senza dare il menomo segno di quello che sentisse dentro sè; ma il buon Don Venanzio non nascose nella sua [30] aperta e schietta fisionomia, tutto l'effetto di paura che in lui produssero le parole del Commissario.

— Andiamo, andiamo, diss'egli sollecito, prendendo il braccio del giovane, appena il signor Tofi ebbe finito. E il signor Commissario non dubiti che non daremo mai più ragione di malcontento all'autorità.

Maurilio però non si mosse, non ostante che Don Venanzio, a cui pareva mill'anni d'esser fuori da quel luogo, facesse a trarlo verso la porta.

— Signore, disse Maurilio al Commissario, quando venni arrestato, mi si sequestrarono delle carte.... un manoscritto....

— Ebbene? lo interruppe bruscamente il signor Tofi con un tale sguardo che avrebbe agghiacciata la parola anche sulle labbra d'un ardimentoso.

— Vorrei pregarla, balbettò Maurilio, se si potesse di dar l'ordine che mi fosse restituito....

— Un corno! gridò il Commissario. Quello scartafaccio è nelle mani di S. E. il Governatore che ne farà quel che vorrà.....

Il giovane accennò volere aggiungere ancora una parola; ma Tofi con più ruvidezza ancora:

— Adesso ho altro da fare che ascoltare le vostre sciocchezze. Non seccatemi dell'altro e partite, se non volete ch'io vi faccia ricondurre in qualcuno de' miei salotti qui sotto nei fossi del castello.

Maurilio non aprì più bocca, e Don Venanzio, che fece saluti rispettosi e vivaci per tuttedue, lo trascinò fuori sollecitamente. Nell'anticamera il parroco riprese la sua mazza e il suo cane che gli fece mille feste; e quando ebbe oltrepassata la sentinella che passeggiava dinanzi al portone, Don Venanzio mandò un gran sospirone di sollievo, strinse al suo petto il braccio di Maurilio su cui s'appoggiava affettuosamente e disse:

— Uhff! fa piacere l'essere fuori di lì, e faccio voti che per nessuna ragione, nè tu ned io non abbiamo da tornarci mai più.

Il povero prete doveva tornarci pur troppo per una dolorosissima cagione, onde assai aveva da soffrire la sua bella, onesta ed amorevol anima!

Camminato un poco in silenzio, Maurilio ad un tratto si fermò e scosse la testa, come uomo a cui una vicenda è troppo grave a sopportare.

— Lasciare nelle loro mani quello scritto! esclamò egli; ma colà dentro vi è tutta la mia anima, vi sono tutte le evoluzioni del mio pensiero; vi è quella parte della vita intima del nostro io, in cui non deve penetrar mai, è un sacrilegio che penetri occhio umano — e stento a credere perfino che penetri l'occhio di Dio... Ah! questa è la peggiore delle tirannie, questa è un'empia offesa alla libertà ed alla dignità della persona umana... E se mi presentassi al Governatore a richiamarmene, se invocassi colla forza del mio diritto la restituzione di ciò che è più mio di qualunque altra cosa possa appartenermi mai, di quello che è parte, si può dire, di me stesso, qual accoglienza mi si farebbe? qual risposta degnerebbero farmi?..... Quella di questo villano di Commissario: la minaccia di un carcere.

Don Venanzio, tutto spaventato, lo stringeva pel braccio, guardava intorno con occhio pieno di sgomento, e tirandolo per fargli riprendere l'andare, dicevagli sottovoce con accento di amorevole rimprovero:

— Vuoi tacere?... Ve' se si ha da parlare in questa guisa!... E ad alta voce ancora, in una piazza!... Per fortuna che con questo tempo c'è poca gente... Ma certe cose, Gesù buono, non bisogna nè anche pensarle. Vieni, vieni, andiamo a casa tua che abbiamo un milione di cose da dirci... Quanto al tuo manoscritto, credo di potertene dare le novelle, che l'ho visto io co' miei occhi non è più di un'ora.

— Davvero! esclamò Maurilio stupito non poco. Non è dunque più in mano del Governatore?

— No.

— E dov'è? chiese sollecito il giovane. E come fu dato a Lei di vederlo?

— L'ho visto fra le mani di quel medesimo personaggio a cui tu hai già dovuta quell'altra volta la tua liberazione, ed a cui tu la devi anche adesso.

In Maurilio queste parole produssero una subita emozione, cui Don Venanzio, se l'avesse osservata, avrebbe dovuto trovare strana ed inesplicabile.

— O chi? domandò egli con impeto, tremante la voce.

— Il marchese di Baldissero.

Maurilio mandò un'esclamazione dall'imo petto, d'una meraviglia che quasi pareva dolore.

— Il marchese!.... Lui?.... O fatalità! Il mio destino mi vuole dunque affatto perduto?

— No, no, calmati: s'affrettò a dire il parroco vedendo tanta commozione e tanta ansietà nel giovane. Il marchese bene trovò ardite le idee espresse in quello scritto, ma notò in esso tali traccie d'ingegno, che anzi desiderò vederti e parlar teco. Io gli promisi che nel giorno stesso di domani t'avrei condotto al suo cospetto.

Queste parole, invece che rassicurare, parvero turbare vieppiù il povero Maurilio.

— Io!.... Presentarmi a lui.... dopo ch'egli avrà letto?.... oh no, oh no mai!

E si coprì colle due mani la faccia.

— Ma che cos'è? domandò il prete meravigliato di quella tanta commozione, cui, per le ragioni ch'egli conosceva soltanto, trovava eccessiva. C'è alcuna cosa in quel tuo scritto che ti debba far vergognare a comparire innanzi ad un onest'uomo?

Maurilio strinse forte il braccio di Don Venanzio, che s'appoggiava sul suo.

— Vergognare, no, perchè non c'è colpa nè viltà qualsiasi; ma temere sì... Innanzi alla superbia aristocratica di quel blasonato, la mia può parere un'audacia insolente...

[31] — Ma spiegati!... Che cos'è in fin dei conti?

— Spiegarmi?... Non posso... È un segreto della mia anima, effuso entro quelle pagine in versi bollenti che eruppero come una lava; è un atto di quella mia vita interiore che dev'essere, che voglio chiusa ad ogni sguardo indiscreto... Nessuno ha da conoscere quel segreto e meno di tutti il marchese.

Don Venanzio rimaneva perplesso senza comprendere come alcuna qualunque attinenza, come indicavano le parole del suo giovane amico, potesse esistere fra il marchese e Maurilio che non si conoscevano il meno del mondo.

Il giovane, sempre agitato, continuava come parlando a se stesso:

— Può egli comprendere?... Avrà egli compreso sotto le mie parole la verità?... Chi non la comprenderebbe?... A qual altra persona possono convenire quei detti?... Più volte ne ho scritto il nome... È un nome che portano ben altri eziandio... Ma pure...

Il buon prete trovò una valida ragione, per lui sicurissima, da tranquillare Maurilio.

— Se io capisco bene, diss'egli, si tratta dunque di una cosa tua particolare, intima, segreta.

Il giovane fece un cenno affermativo.

— Ebbene, io metterei pegno qualunque cosa che il marchese non ne ha letto pure una parola. Conosco la delicatezza di quell'animo. Tutto ciò che gli sarà sembrato attenersi ai particolari della vita privata, egli lo avrà accuratamente tralasciato.

Maurilio parve acchetarsi; e lungo tutto il cammino che loro restava da percorrere per giungere alla casa dov'egli abitava, rimase taciturno, col capo chino e gli occhi dimessi.

Quando Maurilio e Don Venanzio giunsero alla porta n. 7 di via ***, dalla loggia della portinaia uscì fuori con impeto sora Ghita medesima scortata come da uno stato maggiore dalla comare Marta, dalla comare Polonia e da non so quali altre comari del quartiere.

L'evento straordinario dell'arresto dei giovani in casa del pittore aveva radunato colà l'esercito attivo e la riserva delle lingue femminili di pian terreno in tutta quella strada e formava l'argomento delle più vivaci chiaccole di quelle brave sfaccendate; quando ecco uno degli eroi dell'avventura tornare tranquillamente a casa per distrurre tutte le supposizioni di ogni sorta che quelle argute donne si erano già industriate di fare. E il ritorno non era meno strano dell'andata; condotto via da poliziotti, accompagnato da un agente della pubblica sicurezza, se ne tornava come se di nulla fosse stato, a braccio con un vecchio prete. C'era di che mettere in uzzolo altro che la curiosità di un drappello di vecchie comari! Fu perciò che sora Ghita, visto appena, nel campo di visione che apriva ai suoi occhietti sempre in sull'avviso il finestruolo della loggia, spuntare la faccia pallida di Maurilio e le chiome bianche di Don Venanzio, per un subito impulso si cacciò fuori, armata d'interrogazioni, e dietrole tutta la valorosa schiera delle comari.

— Ah! Ella qui, sor Maurilio! esclamò essa, levando le mani secche e rugose all'altezza della sua cuffia madornale in un atto di meraviglia che voleva esser piena di allegrezza e di consolazione. Oh che piacere! Hanno adunque riconosciuto che la era una gran porcheria lo arrestare della brava gente come lei? E l'hanno mandata sciolta, non è vero? Me ne rallegro tanto. E l'avvocato Selva? È egli vero che fu arrestato ancor egli? S'è detto così, lo si dice ancora per tutto il quartiere... Un altro bravo giovane quello lì che non ha il suo compagno. (E si volgeva alle comari, mentre col suo corpo seguitava a chiudere il passo a Maurilio ed al prete). Grazioso e gentile e ben educato che gli è un vero piacere. Non passa mai davanti al mio camerino senza salutarmi, e qualche volta viene a discorrerla meco e ci ha sempre un fascio di novellette e di piacevolezze che incanta ad udirlo. (E qui parlava di nuovo a Maurilio). Spero bene che avranno lasciato andare anche lui; o se non ancora, lo lascieranno andare quanto prima. E quell'altro, che è un signore quello là che ha dei milioni, l'avvocato Benda, il padrone di quella bestia del mi' uomo, non è una frottola che sia stato arrestato anche lui? Ma che smania è codesta di voler mandare in gattabuia tutta la gente ammodo! Io mi credo che abbia dato la volta a quei signori della Polizia... Io già rispetto l'Autorità, i comandamenti di Dio, della Chiesa e del signor Vicario, ma non mi posso tenere dal dire che queste le sono vere porcherie. Finiranno per mandare in galera l'onesta gente e lasciar stare tranquilli i birbanti che ce n'è una tal quantità oramai in questa nostra città che se vi rintoppate in uno sconosciuto, non siete sicuri di non aver dato del naso in un ladro; e lo provano i frequenti delitti che succedono tutti i giorni, che dicono che la è tutta una combriccola, che sono centinaia e più, che si chiamano la cocca, di ogni razza di Dio, birboni che non temono nè Cristo, nè l'Anticristo, nè gli angeli, nè il demonio, che al tempo della mia gioventù mai e poi mai si sono udite di simili cose...

Maurilio, esaurita affatto ogni sua provvista di pazienza, fece un tentativo infelice per isgusciare tra la portinaia ed il muro: ma sora Ghita non era donna da lasciarsi vincere nè per sorpresa, nè per altro; fu lesta a chiudere compiutamente il passaggio mettendosi davanti al giovane, e continuò lo scroscio della sua parlantina.

— E dunque, Lei sa s'egli è vero che l'avvocatino, come lo chiamano laggiù alla fabbrica, sia stato arrestato? E perchè poi? Si dice che c'entra la prepotenza d'un gran signore col quale ieri sera [32] ebbe un battibecco alla festa da ballo..... Ma guardiamo un po' se questa è ragione per arrestarlo.... ed anche i suoi amici!.... Io era così impaziente, così fuori della grazia di Dio, per codesto, che volevo correre con questo tempaccio fin colaggiù alla fabbrica ad udire un po' che cos'era stato, a rischio anche d'avere un rabbuffo con quello scontroso di mio marito, il più insopportabile uomo di questo mondo..... e d'ogni mondo possibile.....

Maurilio stava per offendere la brava portinaia, mandandola con ira ai centomila diavoli, ma Don Venanzio intromise colla sua solita dolcezza, col suo sorriso tutto bontà, la sua mite parola.

— Noi non sappiamo nulla di preciso, mia cara signora Ghita; ma certo v'è ogni ragione di credere che, come per Maurilio, così anche per gli altri, l'autorità avrà riconosciuto il suo errore e si affretterà a ripararlo. Errare è una cosa che succede a tutti, anche a chi comanda, perchè da nessuno si può pretendere che sia infallibile, ma quando lo sbaglio si corregge, allora non c'è più nulla da dire.

E con quel suo simpatico e benigno sorriso, spinse gentilmente da una parte la portinaia, e per l'apertura che rimase, s'affrettarono egli e Maurilio a guizzare.

Un quarto d'ora non era trascorso, ed ecco presentarsi alla vista delle comari, sempre ancora intente a chiaccherare, l'allegra figura di Giovanni Selva. E' se ne veniva col suo abituale piglio di buon umore, canterellando un'aria di teatro, un sigaro acceso in bocca, come uomo che se ne torna da una passeggiatina dopo un buon asciolvere. Come già intorno a Maurilio, la portinaia colle sue compagne assaltarono al passaggio il secondo venuto.

Selva, rimasto solo nel carcere, e non osando mai più sperare una sì pronta liberazione, non era senza inquietudine di ciò che in quel momento accadesse al compagno da cui lo avevano separato, di ciò che avesse poi da toccare a lui medesimo. Per fortuna la sua ansiosa aspettazione non fu di lunga durata. Come già erano venuti a prender Maurilio, così accadde di lui, e nella medesima guisa fu egli condotto innanzi alla faccia fieramente burbera del signor Commissario.

Il modo con cui questi accolse il giovane era tale da far agghiacciare il sangue nelle vene a qualunque che non avesse la calma, la risoluzione e la coraggiosa noncuranza di Giovanni. A costui l'intimata da farsi doveva essere ben più aspra e terribile e romoreggiante di severissime minaccie, perchè egli aveva osato ammaccare de' suoi pugni ribelli le brutte faccie dei poliziotti rappresentanti della legittima autorità. Era pur vero che que' malcreati di scherani colla prepotenza codarda del numero e dell'impunità assicurata se n'erano vendicati coi maltrattamenti che sappiamo; ma tuttavia il solenne principio che il suddito deve lasciarsi battere e dir grazie, porgere le spalle al bastone e baciar la mano che lo regge, principio su cui, secondo il signor Tofi, deve fondarsi ogni ben regolata società, codesto principio, dico, era stato gravemente offeso da que' tali scopozzoni somministrati da Giovanni, e bisognava guarentire da ogni ulteriore contusione la santità del principio e il naso degli sgherri. Un tiranno da dramma di arena in giorno di festa, che ha dietro la quinta il carnefice già bello e pronto coi calzoni rossi e la barbaccia finta al mento per comparire al primo olà muggito in voce di basso profondo, non accoglie più ferocemente il primo amoroso cui sta per mandare al patibolo, di quello che fece il Commissario verso il nostro Giovanni. La voce reboante del signor Tofi, dall'alto del suo cravattino duro tuonò come un temporale dalla montagna. Il colpevole che gli stava dinanzi era degno della galera e peggio; a tanto misfatto l'orrore dei buoni si doveva e la mano vindice del carnefice; del 33 avevano ricevuto un'oncia di piombo nella testa pervicace dei birboni di ribelli che appetto a Selva erano agnellini di candore governativo e d'ubbidienza e rispetto all'augusto legittimo Sovrano[5]. Ma del feroce discorso quanto più inaspettata, tanto gradita fu la conclusione all'orecchio del giovane: ed era che per intanto gli si dava il largo. Giovanni aveva ascoltato tranquillo le invettive e le minaccie del Commissario, come un modesto ascolta i complimenti che gli si fanno, senza chinar punto gli occhi innanzi alle fiere pupille che lucicchiavano sotto la gran tesa del cappellone che il signor Tofi teneva insolentemente piantato in testa; all'annunzio finale della sua libertà restituitagli, il giovane ebbe la forza di continuare nella medesima apparente impassibilità, ma il cuore gli si mise a saltellare allegramente nel petto, e confessò egli stesso di poi che il giuoco dei polmoni nel rifiatare gli divenne di subito più libero e più facile.

Ma le prove di Giovanni non erano ancora finite. Il signor Tofi ebbe la felicissima idea di volergli far giurare, prima di dargli il volo, ch'egli d'or innanzi sarebbe un esemplare di suddito veneratore del trono e dell'altare, rispettoso d'ogni agente del Governo dal primo ministro al cane dell'usciere, dal cappello gallonato del generale alla cassa dell'ultimo tamburo dell'esercito, dalla toga rossa del senatore alle manette dello sgherro.

Giovanni si dimenticò d'essere un avvocato per ricordarsi soltanto che era un uomo schietto a cui ripugnava un falso giuramento anche imposto dalla prepotenza. Non cercò sotterfugi, non ricorse a restrizioni mentali, [33] non addusse sofismi; guardò ben bene in faccia il Commissario e disse francamente ch'egli apparteneva alla setta dei Quaccheri i quali di giuramenti non ne facevano mai nè anco per salvarsi dalla morte.

Il signor Tofi aveva il più stretto dovere di salire in una collera ufficiale, e non ci mancò. Pensò un momento seco stesso se non aveva da rimandare nel carcere questo sedicente quacchero a maturare una più conveniente risoluzione; ma poi non ardì farlo ricordando le parole del conte Barranchi e l'ordine di liberazione venuto direttamente dal Re. Si contentò di fare scrosciar nuove minaccie sul capo del pervicace: che già l'autorità aveva l'occhio aperto su lui e sui suoi pari, e guardasse bene che al primo piccolo motivo di sospetto avesse dato, l'artiglio della polizia l'avrebbe preso di nuovo e per non lasciarlo più così di piano.

Selva salutò rispettosamente, uscendo, i cannoni che allora stavano appostati sotto l'atrio del Palazzo Madama, e confessò che quando si trovò fuori del portone al fioccar della neve che veniva giù fitta fitta, gli parve che quella giornata fosse più bella che una giornata di sole, e fu con un gusto tutto nuovo che accese il suo sigaro da un soldo in presenza dell'imponente facciata del castello in cui aveva sede l'orco della Polizia.

— Cara sora Ghita: disse Giovanni Selva alla portinaia rinfiancata dalla frotta fedele delle sue comari; sì, eccomi restituito alla libertà, agli amici, alla poesia ed a Lei. Come mi hanno arrestato? Colle manaccie di certi arcieri, più sporche della coscienza di un ladro. Perchè? Perchè quei furbi della Polizia, che leggono i pensieri nel cervello di una mosca, si sono immaginato che io ed i miei amici volessimo portar via le statue che stanno sul Palazzo Madama. Visto che le non ci entravano in tasca, hanno capito che eravamo innocenti e ci hanno mandati con Dio, senza darci manco da colazione. Tenga a mente questa esposizione di fatto, e la tramandi pure ai posteri, se la può, chè la storia ne trasmette loro difficilmente di più esatte e fedeli.

Ciò detto, abbracciando scherzosamente la vecchia portinaia, la tirò da parte per aprirsi il varco, e distribuito a manca ed a sinistra alcuni di quei suoi schietti ed allegri sorrisi, corse lesto verso le scale, cui salì a due scalini per volta, seguitando a canterellare allegramente la sua arietta.

Le cose dette da Selva non appagarono così compiutamente la curiosità delle donne che non avessero più materia di chiacchere e d'induzioni da mantenere vivo il colloquio per un'altra buona mezz'ora.

Ed ecco, a capo di questo tempo, presentarsi agli occhi della portinaia una persona la cui presenza era fatta apposta per interessare vivamente la vecchia ciarlona curiosa: il falso operaio della sera innanzi, l'interrogatore astuto ed insinuante, quello sconosciuto cui monna Ghita aveva trovato rassomigliare al fumista di via Santa Teresa, in una parola l'agente di Polizia, Barnaba.

Costui abbiamo visto, uscito dal Palazzo Madama, dopo il colloquio col Commissario, indirizzare i suoi passi verso l'osteria di mastro Pelone. Ciò che colà vi facesse e dicesse questo personaggio è giovevole che sappiamo per comprendere alcuni degli avvenimenti che avremo da narrare.

CAPITOLO VI.

Quando Barnaba entrò nell'osteria non vi erano punto avventori; Andrea, Marcaccio e Graffigna n'erano usciti già da un'ora; Pelone stava accoccolato a suo modo dietro il banco in fondo alla bottega; Maddalena, ritta innanzi ad uno specchietto sporco che era appiccato ad un luogo della parete presso la botola da cui si scendeva nelle stanze sotterranee, stava guardandosi con compiacenza ed aggiustandosi un nastro nelle chiome; Meo, mezzo inginocchiato, mezzo seduto presso il braciere, di cui sommuoveva di quando in quando le braci con una paletta di ferro, Meo colla sua aria d'imbecille stava mirando la Maddalena come un gatto mira una polpetta che gli suscita una maledetta voglia, ma cui la paura della cuoca presente gl'impedisce di ghermire.

Il bravo mastro Pelone, le ginocchia levate fino a mezzo il curvo petto, le mani sulle ginocchia e il mento sulle mani, gli occhi chiusi e il naso madornale volto a terra, immobile e senza pur mandare uno sbruffo di quella sua tosse cavernosa, avreste detto che dormiva. Il fior di galantuomo invece stava pensando ai casi suoi.

Penetriamo sotto quel cranio color d'avorio ingiallito, coperto da quel berretto sporco, e vediamo che razza di pensieri sobbollano nelle ripiegature di quel cervello.

— La mia condizione non è delle più facili. Sono fra l'incudine e il martello, tenendo per questo e per quello, e corro rischio d'essere picchiato frammezzo a loro. Ho paura di non poter continuare a lungo in questo giuoco di barcamenarmi fra tuttedue; converrà che una volta o l'altra mi getti addirittura e compiutamente, da una parte; ma da qual parte? Eh! la cocca ha pure una gran forza. Ho visto io che ha resistito a tutte le persecuzioni ed a tutte le arti della Polizia; e vi è quel diavolo d'un medichino che ha un talento ed un valore da doverne far caso..... Certo se mancasse lui!.... Ma farlo cadere non è mica impresa tanto facile..... E poi ci avrei io il mio interesse? Anche tolto lui di mezzo, la cocca esisterebbe; e vi sono certi individui colà dentro che vendicherebbero ad ogni modo ogni danno recato alla Società ed al suo capo..... La cocca inoltre mi frutta bene... [34] D'altra parte la Polizia è cosa ancor essa con cui si deve fare i conti; e poi l'è roba di Governo; ed io sono pel Governo..... Quel Barnaba è un furbo che mi pare abbia subodorato qualche zinzino del vero..... Se la cosa venisse scoperta da altri, e ch'io rimanessi compromesso?.... Sarebbe pur meglio che io allora mi facessi merito presso il Governo, e per virtù di questo merito, salvassi la pancia e le robe!.... Il medichino vuol conoscere di persona Barnaba: s'e' lo conosce, Barnaba è bello e spacciato; Barnaba da lungo tempo viene manovrando per conoscere la realtà dell'esistenza ed anzi le sembianze del medichino: e s'e' lo vede mai, Quercia è fritto..... Io posso contentar l'uno o l'altro; e da me dipende la catastrofe..... Che cosa ho da fare?.... Se soddisfacessi i desiderii di tutt'e due? Lascierei così che facesse vincere, dei due, quello che vuole la Provvidenza.....

Appunto in quella entrava Barnaba, il quale, non ostante la forza ch'egli possedeva su se medesimo e l'abitudine che aveva di padroneggiarsi, era tuttavia sconvolto nelle sembianze pel profondo e vivissimo scotimento che aveva avuto nel suo colloquio col Commissario. Nel venire in quel luogo egli aveva un disegno non ancora ben definito, ma fissato nelle generali, del quale era precipuo elemento il potere trovarsi un momento da solo con quell'imbecille di Meo, su cui aveva fatto alcun fondamento, abile com'egli era a sapersi giovare degl'interessi e delle passioni degli uomini come d'altrettanti stromenti.

Appena entrato, vide che per quel momento la cosa gli era impossibile. La presenza di Pelone e di Maddalena era un ostacolo insuperabile. Non mostrò il menomo disappunto, ed avanzandosi verso il bettoliere gli disse con accento di premura e di conturbamento che niuno, per quanto acuto osservatore, avrebbe potuto dire se sincero e reale:

— Ho bisogno di parlarvi, e subito.

Pelone si alzò lento lento a modo suo, guardando intorno coi suoi occhi semispenti dal fondo delle occhiaie infossate.

A Barnaba era nato in mente di botto un subito e nuovo disegno.

— Parlarmi! pensava l'oste: lo conduco dunque di là. Bell'occasione pel medichino di vedere, come desidera, codestui... Se lo mandassi ad avvertire?... Ah sarebbe un tradire la promessa che ho fatto e la confidenza che in me fu posta... Mi pronunzierei con ciò addirittura per la cocca ad ogni costo... Eh! ci avrei la Maddalena da mandarvi.

In quella incontrò appunto col suo lo sguardo di Maddalena, la quale aveva negli occhi un lampo, un ammicco d'intelligenza cui Pelone comprese benissimo.

— Quella sgualdrina, figliuola di Satanasso che Dio la benedica, ha avuto la medesima idea.... Sono certo che appena saremo entrati nell'altra stanza, essa se ne corre in Cafarnao passando per la bottega di Baciccia. Dovrei impedirglielo?... Eh sì; come fare? A meno di rinchiuderla.... E d'altronde, se glielo impedissi, ella mi denunzierebbe senza fallo al medichino; e allora.... povera la mia pelle!... Uhm! uhm! sarà forse meglio lasciar andare le cose come vogliono andare.

S'accostò col suo passo silenzioso e colla sua tosse profonda a Barnaba, e gli disse quasi in confidenza:

— Sono ai vostri ordini.

Barnaba passò primo nella stanza dell'uscio a vetri colle tendoline rosse, e l'oste lo seguì; ma nell'entrare egli potè vedere colla coda dell'occhio la Maddalena, che sgusciava fuori della porta d'entrata.

— La pettegola ci va davvero! Pensava Pelone: ora sì che mi trovo proprio fra l'incudine e il martello. Bisogna ch'io parli con costui di guisa da non destarne il menomo sospetto, e bisogna che chi mi ascolterà di dietro l'assito non possa arguirne tutto il tenore dei miei rapporti colla Polizia.... Basta! Non sono poi così novellino da lasciarmi facilmente intascare.

Ma il discorso che di botto incominciò il suo interlocutore fu tale e così inaspettato per Pelone, che egli non potè a meno di rimanerne tutto sbalordito.

— Sai tu quello che mi capita, vecchio Pelone? Una cosa inaspettata, inaudita, una scelleraggine che non può aver la compagna.... Oh va e frustati la vita, beccati il cervello e consuma i tuoi migliori anni e corri ogni maggior pericolo per servire a dovere i potenti ed il Governo.... Ecco il bel compenso che te ne danno! Ecco la bella gratitudine che hai da aspettarti!.... Sai tu quel che mi capita, Pelone?

Con un atto che gli era abituale quando voleva fermare più specialmente l'attenzione della persona a cui parlava, strinse il braccio del bettoliere e soggiunse a voce più bassa:

— Io sono mandato via dal servizio senza un nè due, sono cacciato sul lastrico come si caccia fuor della porta a calci un cane che ha il torto di non piacer più ad un malvagio padrone. Che diventi arrabbiato, o crepi di fame, o gli uomini del municipio gli facciano tirar le cuoia col boccone avvelenato. Che importa?..... Io, io stesso, ne sono a quella, Pelone.

Questi non dissimulò punto il grandissimo stupore che gli cagionò un simile discorso di cui non avrebbe mai più sognato avesse da sentir l'uguale.

— Davvero!... Possibile!... Voi privato dell'impiego?

— Scacciato come un servo inutile od infedele, ti dico: ripetè Barnaba dando alla sua fisionomia tutte le sembianze d'un'ira e di un dolore che in realtà non aveva da far molto sforzo nè impiegar molta arte per fingere.

[35] Ma in Pelone, che a prima giunta era stato preso dalla sorpresa della meraviglia soltanto, erano ora entrati il sospetto e la diffidenza.

— Uhm! diss'egli fra sè: adagio Biagio; qui c'è qualche tranello...

Tossì per due minuti di seguito affine di non aver da parlare, e intanto fissò ben bene quel suo sguardo affondato nella faccia dell'interlocutore; non potè a niun modo penetrare in costui, al di là di quella sembianza esteriore, maschera o verità che fosse, cui mostrava nell'espressione del viso.

— Ma come!... Ma perchè successe egli codesto? domandò poscia Pelone quand'ebbe finito di tossire.

— Come? rispose con amarissima ironia il poliziotto. Perchè? Nella più semplice maniera e per la più legittima ragione del mondo. V'è per costà un'illustre cortigiana venuta su dal fango del trivio alla suntuosità d'un appartamento di primo piano, grazie alla corruttela di ricchi e potenti viziosi, fra cui primo un principotto dal cervello di passero e dal cuore di lucertola.....

— Oh oh! esclamò scandolezzato Pelone; messer Barnaba, come parlate voi?

E intanto il furbo di bettoliere pensava:

— Questo è un tranello, gli è certo; in guardia. Pelone!

Barnaba da canto suo ficcò lo sguardo entro le affondate occhiaie dell'oste.

— C'è qualcheduno che possa udire le nostre parole qui? domandò egli bruscamente.

— Nessuno, nessuno affatto: rispose l'oste con premura; e mentre il poliziotto girava intorno uno sguardo scrutatore che pareva voler penetrar le muraglie. Pelone soggiungeva fra sè e sè:

— Ci sei tu, carino, che il diavolo possa torcerti il collo, maladetta d'una spia... e basta!

— Se dunque nessuno ci può sentire, lasciami parlare a modo mio, corpo di mille diavoli, chè la bile mi affoga: ripigliava Barnaba. Una sì nera ingratitudine non grida ella vendetta?... Essi credono di potersi sbarazzare d'un uomo della mia fatta, come d'un babbeo qualunque: e s'ingannano. Darei non so quanto e sarei capace di non so che cosa per farla loro pagare....

Tornò a mettere la destra sul braccio dell'oste.

— Dà un po' retta, Pelone: aggiunse abbassando la voce. Ad un'associazione di individui coraggiosi e senza scrupoli che si vogliano ricattare col fatto loro dei torti che subiscono dalla sorte e dalla società, oh non ti pare che sarebbe un acquisto niente affatto disprezzevole quello d'un uomo come son io?

Pelone tossiva e guardava in terra.

— Non vi capisco: rispose di poi quando il suo compagno si fu taciuto ed ebbe aspettato per un poco la risposta.

Barnaba ricorse allo spediente d'un apologo.

— Ci sono due eserciti che combattono: un capitano, un soldato anche solamente, se vuoi, maltrattato da quelli per cui espone la vita, abbandona le insegne e si reca nel campo nemico ad arrecare in servizio di quelli che furono sin'allora suoi avversari un valore che gli sarà di meglio ricompensato. Quando questo nuovo combattente potesse in realtà giovare di molto alla parte a cui è rifuggito, non avrebbero gran torto coloro ai quali si offrisse, di respingerlo?... Hai tu capito adesso?

Il bettoliere stette di nuovo un po' di tempo senza rispondere, poscia tentennando il capo ed osando guardare in faccia il suo compagno, disse tranquillamente:

— Io capisco poco. Le cose mi piacciono dette apertamente, senza arzigogoli e avvolgimenti. Se dunque volete ch'io vi possa fare una categorica risposta, abbiate la compiacenza di spiegarvi pianamente, da buon cristiano, senza favole ed esempi.

Il poliziotto che aveva preso e tenuto sino allora un tutto nuovo contegno di famigliarità amichevole, quasi da camerata, ritornò di presente in quello che sempre aveva avuto per l'innanzi verso il bettoliere: un contegno di superiorità autorevole insieme e motteggiante, di superbia e di scherno.

— Cospetto! Non l'avrei mai supposto che fosse così duro il tuo comprendonio. Tu vuoi dunque che io metta, come si suol dire, i punti sopra gl'i?... Bene! Stammi a sentire. Che tu sei un fior d'onest'uomo, questo si sa. Preso una volta, giovanetto ancora, a rubare con poca prudenza, assaggiasti del carcere; ma codesto fu per te di un meraviglioso profitto. La prudenza ti venne. Comprendesti che colla Polizia era cosa da pazzo l'urtare di fronte. Le diventasti amico e servitore; continuando nelle antiche attinenze coi ladri facesti intanto per essa onestamente la spia.

Pelone mostrava con evidenza di trovarsi in un poco gradevole momento. Dimenava sulla panca su cui erasi seduto, la sua lunga persona dinoccolata; ed un istante il suo sguardo si volse spaventato verso un punto della parete, tutt'intorno coperta sino ad una certa altezza di tavole di legno. Fu un movimento ratto come un baleno, ma pur tuttavia l'occhio esperto ed osservatore di Barnaba che stava intentissimo a scrutare le sembianze del suo compagno, quell'occhio da uccel di rapina lo vide. Scoccò ancor egli, il poliziotto, una guardata verso quella parte. Pelone s'accorse dell'errore a cui s'era lasciato andare, e curvato più giù il suo corpo macilento, ruppe in una tosse più forte, più violenta e di maggior durata del solito. Barnaba lo guardò a tossire in silenzio: quando l'oste ebbe finito riprese con tutta tranquillità il discorso come se non fosse stato in alcun modo interrotto.

— Tu dunque da una parte porgi una mano soccorrevole ai ladri che la sanno unger bene, dall'altra prendi dalla Polizia denaro e tolleranza per certe maccatelle, al prezzo di darle di quando [36] in quando tra mano qualche miserabile che tu vendi.

Un altro accesso di tosse assalì il povero Pelone che si trovava ad un vero supplizio; e anco una volta un intimo impulso più forte di lui gli fece correre lo sguardo a quel certo punto della stanza.

— Cospetto! che razza di tosse maligna che tu hai quest'oggi!

— Ah! la ho sempre pur troppo: rispose con tono dolente e colla sua voce più cavernosa che mai l'oste, i cui sguardi esprimevan insieme spavento e supplicazione; ma oggi la mi tormenta ancora di più. Gli è questo tempo così freddo che mi rovina. Se sapeste quanto soffro! Son di belle notti che dormo punto o poco; e giusto la notte scorsa fu per me una delle più triste.....

— Mi rincresce tanto: interruppe con beffarda insolenza Barnaba; ma siccome non ci so che fare, lasciami riprendere il nostro discorso.

— Il diavolo che lo strozzi, brutto arnese da forca, diceva fra sè stesso, masticando colle denudate gengive la sua stizza, il bravo bettoliere; che sì che là dietro vi può essere qualcheduno della cocca, che udendo codesto è capace di farmi qualche brutto complimento.

— Or dunque, continuava il poliziotto, io vengo da te, che hai sì buone attinenze dall'una parte e dall'altra, che vai coi santi in chiesa e coi ghiottoni all'osteria....

— Ho capito: disse vivacemente Pelone agitando la testa dall'alto in basso come un bamboccio chinese: ho capito perfettamente ciò che mi volete.

— Benone! Che sì che l'intelligenza ti si è svegliata in buon punto!

— Ma quello che voi volete, è impossibile, perchè nell'apprezzare la mia condotta voi mi calunniate stranamente. Io protesto e riprotesto che con quei tristi arnesi a cui voi fate allusione, non ho relazione di sorta.

— Eh via! vuoi tu pigliarmi per uno sciocco? Sai che da lungo tempo ti conosco.

Pelone fece un movimento.

— Tu dubiti della sincerità delle mie parole, riprese Barnaba con vivacità. Hai ragione. Farei lo stesso anch'io nei panni tuoi; certo dubiteranno ancora più di te quelli a cui comunicherai le mie proposte....

— Ma io non comunicherò nulla a nessuno, interruppe l'oste agitando la mano e il capo in una mossa protestatrice, perchè io non conosco nessuno, perchè io non so nulla di codesti affari.

Barnaba continuò come se la interruzione non avesse avuto luogo.

— Di' loro, a quei cotali, che io sono pronto, quando vogliano, a dar prove tali della mia buona fede, innanzi a cui ogni dubbio ed ogni sospetto deve sparire.

— Vi ripeto....

— Siamo intesi.... Ti lascio tempo a pensare alle mie parole, a deciderti e fare la mia commissione... Questa sera sul tardi passerò di qua, come al solito Sarà assai bene per te se mi potrai già fare una risposta; e meglio ancora se quella risposta sarà secondo il mio desiderio....

— Impossibile, impossibile, caro sor Barnaba, perchè proprio, in coscienza, in santa e vera verità io con quella gente non...

— Che se tu non vuoi fare a mio talento in codesto, sappi che non mi mancheranno altri modi per giungere al mio scopo, che so già fin d'ora quali altre strade aprirmi per arrivarci, e che a te la falò pagare ad ogni costo.

— Ma...

— Ora basta... Andiamo di là che ho due parole da dire alla tua Maddalena...

Nella stanzaccia non c'era che Meo, il quale tirava dei sospironi grossi, curvo sopra il braciere.

— E Maddalena? domandò Barnaba. È forse costì sotto?

Meo scosse la testa coll'aria addolorata d'un uomo che ha mal di denti.

— No.

— Dov'è?

— Fuori.

Pelone finse una gran collera.

— Sempre così quella sgualdrina d'una sgualdrina, pettegola, che Dio le mandi un accidente... Appena io ho voltato le spalle, la mi sguscia via per andare a chiaccolare... e far peggio.

Meo trasse un sospiro più forte di tutti i precedenti.

— L'aspetterò un momento: disse Barnaba. Frattanto che aspetto, tu, bel giovane, vai dal tabaccaio e mi compri un paio di sigari; tò un da quattro soldi.

Il giovinastro si alzò a malincuore, prese la moneta ed uscì con evidentissima mala voglia.

Barnaba stette ancora pochi minuti e poi fece l'atto d'un uomo che si ricorda di colpo d'una cosa cui aveva obliato. Guardò il suo oriuolo e disse:

— Per bacco! Non pensavo più che avevo un affare a cui provvedere proprio adesso. Conviene ch'io vada. Parlerò altra volta a Maddalena.

S'avviò all'uscio.

— E Meo coi sigari? domandò Pelone.

— Lo incontrerò per via, e se non l'incontro, mi terrete voi i sigari in disparte e serviranno per un'altra volta.

Quello di mandar Meo in commissione era stato uno spediente immaginato da Barnaba per aver modo di poter dire due parole a quello scimunito senza che le udisse il padrone nè Maddalena, i quali vegliavano con molta cura su di lui. Uscendo dall'osteria prima che Meo fosse rientrato e fermandolo per la strada, Barnaba sarebbe pur finalmente [37] riuscito a ciò per cui dopo il colloquio col Commissario aveva pensato di venire a quella taverna.

Ma mentre egli stava per partirsene, ecco soprarrivare correndo la Maddalena. Entrò coll'impeto d'una bomba, si tolse di capo un fazzolettino con cui aveva riparato le sue chiome dalla neve e si scosse dalle spalle e dalle braccia quella che vi era caduta su.

— Dove sei stata? donde vieni disgraziatella che..... Dio ti benedica! le disse Pelone a cui la debolezza dalla voce non consenti di gridare.

— Vengo da fare una commissione, oh bella! rispose la giovane correndo di nuovo innanzi allo specchietto a raggiustarsi i capelli.

— C'è qui il signor Barnaba che ti vuol parlare.....

Maddalena s'interruppe nella sua opera d'acconciatura, si volse a mezzo della persona sulle sue anche bene sviluppate e guardando con istupore il poliziotto si mise una mano sul seno per additarsi e disse meravigliata.

— A me?

— Si, Maddalena; e di cose che molto v'interessano e per cui mi sarete riconoscente, ne sono sicuro.

La ragazza fece spalluccie ed allungò il labbro inferiore in una smorfietta che significava:

— Non so a niun modo che cosa possiate dirmi voi che abbia alcun interesse per me.

— Ma ora, continuava Barnaba, non ho più il tempo. Verrò stassera: ed allora vi toglierò per dieci minuti ai vostri soliti adoratori.

Maddalena fece un cenno d'acconsentimento indifferente, e Barnaba uscì.

— Se crede trarmi nelle sue panie quel pocaccorto li; disse la giovane guardando con ischerno dietro il poliziotto che partiva; e' la sbaglia di grosso.

Pelone si fece accosto accosto alla giovane e le disse con voce tanto sommessa che non era più che un soffio:

— Dove sei tu andata cara figliuola?... (che il diavolo la porti): soggiunse fra le gengive.

Maddalena volse verso il padrone il suo muso impertinente.

— Dove? diss'ella.... To': ecco là qualcheduno che ve lo dirà per bene.

L'oste si voltò a quella parte che Maddalena gli additava. L'uscio a vetri dello stanzino s'era socchiuso senza rumore di sorta, e frammezzo alla apertura compariva la faccia da faina di Graffigna che faceva cenno a Pelone andasse a parlargli.

Maddalena era corsa con tutta la possibile velocità alla bottega del Baciccia, e colà aveva domandato la si lasciasse introdursi nel sotterraneo dove aveva roba di gran premura da fare e dire, e dove per quel momento non si poteva penetrare dalla taverna.

Baciccia che conosceva le strette ed intime attinenze che passavano fra costei e il capo della cocca, non fece la menoma difficoltà per lasciarla penetrare dal segretissimo usciuolo nell'andito che sotto il suolo del cortile e le fondamenta delle case conduceva nel cosidetto Cafarnao: e dieci minuti dopo essersi partita dall'osteria, la giovane entrava impetuosa e sollecita nel vasto stanzone che vi ho descritto nella seconda parte del mio racconto.

Colà poco prima di lei era entrato eziandio Andrea il fabbro, il povero marito di Paolina. Ma egli v'era penetrato nel modo seguente:

Uscito dall'ospitale in cui dolorava senza cognizione di sè la misera sua moglie; uscito dall'asilo in cui erano stati accolti i suoi figli sui quali egli aveva pianto e i quali avevano pianto con lui, come se un'eterna separazione dovesse aver luogo fra loro, Andrea aveva raggiunto Marcaccio, risoluto ad ogni cosa; ed animato com'egli era tuttavia dal vino, dal dolore vivissimo, dal furore contro lo spietato Nariccia, facilmente, senza più il menomo riluttare, era stato condotto dal perfido amico là dove li attendeva Graffigna, nella bottega da rigattiere di Baciccia.

— Caro mio, aveva detto Graffigna ad Andrea colla sua voce fessa e il tono dolcereccio, qui conviene prestarsi ad una piccola formalità: quella di lasciarvi bendar gli occhi e camminare così, tenuto per mano, un dieci minuti o un quarto d'ora, che tanto ci vuole ad arrivare all'entrata di quel luogo in cui devo introdurvi. Lo volete?

— Voglio: rispose laconicamente Andrea coi denti stretti da quell'ira profonda che tutto l'occupava.

Marcaccio, che non era abbastanza innanzi nella gerarchia della cocca per penetrare in Cafarnao, era partito appena aveva condotto il compagno innanzi a Graffigna.

Questi chiuse ben bene l'uscio che metteva nella bottega del rigattiere; poi aprì un armadio e fece comparire agli occhi d'Andrea un quadro in cui una grossolana stampa di Madonna alluminata a colori i più stonati del mondo, e intorno al quadro un arazzo di seta rossa a frangie d'oro, e dinnanzi per due ganci appiccati, due candele di quelle pitturate a fogliami che si sogliono distribuire dai sacrestani ai devoti (per averne la mancia) il dì della Purificazione della Vergine.

Graffigna con tutta la gravità e la compunzione che avrebbe potuto avere un sacrestano di professione, accese le due candele, poi trasse dinnanzi all'immagine Andrea meravigliato, levò di tasca uno stile la cui lama acuta luccicava al chiaror rossigno che mandava la fiamma delle due candele, e con accento pieno di solennità, gli disse:

— Voi avete ancora da giurare che di quanto vi capita qui, adesso, di quanto state per fare e per vedere, in qualunque siasi circostanza, per qualunque siasi ragione o minaccia, voi non vi lascierete [38] sfuggire parola alcuna con persona al mondo, nè anco colla più intima, e se mancate al giuramento questo ferro vi punisca nella vita presente, e Iddio vi condanni come spergiuro ai tormenti eterni nella vita futura.

In quell'epoca dell'anno la notte viene sollecita, più sollecita ancora in quelle straduzze strette in cui s'apriva il fondaco di Baciccia, e in giornate, com'era quella, di cattivissimo tempo. La retrobottega in cui la luce del giorno non penetrava che per una finestrucola aperta in un cortiletto cui avreste detto benissimo un pozzo scavato in mezzo alle alte case, era a quell'ora già più che a mezzo nelle tenebre; e tale oscurità conferiva a fare la voluta impressione nell'anima di Andrea da tutte le precedenze già troppo disposta ad essere facilmente maneggiabile dall'arte di Graffigna.

Andrea giurò quasi tremante, colla più sincera e ferma determinazione di non tradir mai quel giuramento; e allora il suo iniziatore, spente le candele, richiuso l'armadio, gli cinse le tempia d'un fazzoletto così bene e fortemente legato, che ci fosse stata in quella stanza anche la luce del pien meriggio, egli non avrebbe visto che notte compiuta. Poscia Graffigna lo prese per mano e gli disse:

— Ora ci conviene ancora fare un bel tratto di cammino prima di giungere all'entrata del luogo dove ho da condurvi; datemi la mano e venite senza timore. Per ora la via è tutta piana; quando vi sarà da discendere, ve ne avvertirò.

Lo prese per mano e lo fece avviarsi. Ad Andrea parve di andare, andare per lunga tratta, udì aprirsi e richiudersi diverse porte, e quando il suo conduttore gli disse poi: — Eccoci ora all'ingresso del nostro rifugio; — egli credeva d'essere di molto lontano da quella scura stanza di retrobottega, in cui gli avevano bendati gli occhi. Il vero era invece ch'egli non n'era punto uscito e che altro non gli si era fatto fare che dar le volte colà dentro, aprendosi e chiudendosi di quando in quando sempre la medesima porta che era quella per cui dalla retrobottega medesima si penetrava nel piccolo andito, dove un uscio accuratamente dissimulato metteva sulla scala per scendere nel sotterraneo.

Qui Graffigna lo fece scender piano piano dopo aver accuratamente chiuso alle loro spalle l'usciolo segreto, e traverso il lungo corridoio sotterra lo condusse in Cafarnao, dove finalmente gli levò la fascia dagli occhi.

Andrea guardò stupito intorno a sè. La luce che vi ho detto penetrare in quel luogo da certe feritoie onde si rinnovava l'aria eziandio, in quel momento per l'ora del giorno già avanzata faceva difetto del tutto: il luogo non era illuminato più che dalla lampada pendente dal mezzo della vôlta.

— Or su, qui non c'è tempo da perdere nè da stupirsi: disse bruscamente Graffigna ad Andrea: ecco qui tutti gli strumenti che vi possono occorrere pel vostro mestiere. Qui potete lavorare con tutta tranquillità, sicuro che nessuno verrà a disturbarci il meno del mondo. Io vi aiuterò ad accendere il fuoco e tirerò il mantice. Eccovi le impronte di cera; mettetevi di buon animo all'opera e fatevi onore.

S'erano appena messi alla bisogna, quando, come per contraddire alle parole di Graffigna, all'uscio ch'egli aveva chiuso dietro di sè (quell'uscio che per alquanti scalini metteva nella rotonda in cui facevano capo i tre sotterranei) s'udì un picchiare con un dato numero di colpi ed a certi intervalli.

Andrea fece un trasalto e impallidì.

— Non temete di nulla, gli disse Graffigna sorridendo, qui non ci può penetrare nemico nessuno, e quel modo di battere rivela un amico dei più intimi.

Andò ad aprire e si trovò in faccia la Maddalena affannata dall'essere corsa con tanta sollecitudine.

— Che cosa c'è? domandò Graffigna.

— Il medichino è qui? di rimbalzo interrogò Maddalena.

— No. Per che cosa siete venuta a cercarlo?

Maddalena gli disse la ragione.

— Collo da forca! esclamò Graffigna tutto lieto. La cosa non potrebbe andar meglio. È a me che tocca esaminare il muso di quel coso là. Il medichino me lo ha specialmente raccomandato, e mi preme farmi onore levandocelo dai piedi. Brava la mia ragazza. Voi tornate a casa vostra per la strada da cui siete venuta: io m'affretto pel corridoio al mio posto d'osservazione.

Maddalena partì com'era arrivata, e Graffigna disse ad Andrea:

— Io mi allontano di qui per pochi minuti soltanto, voi continuate allegramente nell'opera vostra e non abbiate timore nessuno che non tarderò a ritornare e con delle buone provvigioni per darvi forza al lavoro e passare allegramente i momenti di riposo.

Nel partire chiuse dentro a chiave il fabbro e pel corridoio sotterraneo corse dietro l'assito della stanza riposta dell'osteria di Pelone.

Appena ebbe posto l'occhio al bucherello per cui si vedeva entro la stanza, gli comparve innanzi la faccia sbarbata di Barnaba.

— Buono! diss'egli fra se medesimo. Nè il nome, nè la faccia non mi scappano più.

Stette ascoltando. Il poliziotto si offeriva d'entrare nell'associazione dei malfattori.

— Che stupido! pensò Graffigna crollando le spalle. Ed ei si pensa che noi diam dentro in simil rete grossolana?

Quando Barnaba fu uscito, Graffigna aperse pian piano l'usciolo nascosto nell'intavolatura, e sgusciato [39] nel camerino, comparve poi, come vedemmo, agli occhi di Pelone che chiamò perchè gli andasse a parlare.

L'oste si recò con premura nel camerino.

— Avete udito quel che qui si è detto? domandò egli a Graffigna non senza una certa ansietà.

— In parte..... Quel Barnaba ha detto che sarebbe tornato qui stassera sul tardi: è quello che ci vuole. Bisogna che voi troviate modo di farlo fermarsi qui il più tardi possibile...

— Come ho da fare? domandò Pelone, che guardava il suo interlocutore con una specie di paura.

— Che? Non sapreste da voi stesso trovare un espediente per ciò? Ditegli, per esempio, che avete comunicato la sua proposta a certuni, i quali desiderano parlare con lui direttamente e verranno qui dopo la mezzanotte....

— Ma codesto gli è confessare che io conosco quella certa gente.

Graffigna si strinse nelle spalle.

— Trovate voi qualche cosa di meglio. L'importante è che costui non esca di qua se non dopo la mezzanotte. Prima di quell'ora le strade non sono ancora ben sicure per un colpo, e poi c'è grande adunanza stassera e ci avrò da fare. Ch'egli si avventuri in queste strade dopo mezzanotte, e il suo conto sarà saldato.

Pelone fu preso da un accesso di tosse, il che lo esentò dal manifestare in qualunque modo una sua idea.

— Siamo dunque intesi: soggiunse Graffigna, che prese il silenzio dell'oste per un assentimento, e se la cosa mi va male per colpa tua, guai a te!... Ora dammi un paio di bottiglie di quel suggellato e qualche coserella da mettere sotto il dente, che ci ho là un operaio da mantenere in buona voglia e in buon umore.

Prese vino, pane e salame e tornò pel sotterraneo presso Andrea, che continuava nella sua opera di fabbricar le chiavi.

Barnaba intanto, uscito dall'osteria di Pelone, diresse i suoi passi verso la più vicina bottega da tabaccaio a cui pensava che quell'imbecille di Meo doveva essere andato. Lo incontrò diffatti a pochi passi da quella bottega, che veniva di ritorno alla taverna.

— Meo, gli disse arrestandolo, vieni un momento qui sotto questa porta che ti ho da dire due parole.

Il giovinastro seguì Barnaba sotto la vôlta d'un portone lì presso, e quando furono colà trasse di tasca i due sigari che aveva comperato e i due soldi che glie n'eran rimasti.

— To'; eccole la sua roba: diss'egli.

Barnaba prese i sigari e respinse la mano che teneva le due monete di rame.

— Que' soldi tientili; e' son per te.

Lo scimunito allargò tanto d'occhi a quel dono che era molto lontano dall'aspettarsi, e mise in tasca i due soldoni con una certa vivacità che svelava come la sua grossa natura non fosse inaccessibile alla seduzione del denaro.

— Bisogna che io ti parli a lungo e sul sodo di certe cose che ti interessano e ti toccano da vicino più che non credi: così continuava il poliziotto: ma bisogna che ciò avvenga in segreto, senza che alcuno possa sospettare, e tanto meno Pelone e la Maddalena. Per ora tu sei atteso in bottega e non ti conviene soverchiamente indugiarti; ma questa sera bisogna che tu prenda un'occasione qualunque di scappolartela e di venire ad un convegno ch'io ti darò per sentire ciò che occorre.... Hai capito?

Meo guardava chi gli parlava colla sua solita aria melensa e non faceva la menoma parola nè il menomo atto di intelligenza e di risposta.

Barnaba lo prese ai panni e scuotendolo un poco quasi per destarne gli spiriti, ripetè:

— Hai tu capito?... Ho cose gravissime da dirti che t'interessano.... Potrai guadagnare delle belle somme....

Accostò le labbra all'orecchio di Meo e soggiunse:

— E vendicarti di Maddalena e del suo amante.

Gli occhi di vetro dell'imbecille Meo all'udire accennate le somme ch'ei poteva guadagnare, mandarono un baleno, ma a quest'ultime parole si accesero vieppiù e sfavillarono come se ad un tratto si fosse suscitata dietro di loro la fiamma dell'intelligenza.

— Ah vendicarmi di loro! esclamò, di lui sopratutto!... Certo che sì..... Verrò dove Lei vuole..... Mi dica pure il luogo e l'ora... Avessi anche da scappare dalle mani di mastro Pelone, verrò.

— Vieni alle otto ore precise sotto il portico del Palazzo di Città. Ci sarò ad aspettarti; e non mi vi indugierò più di cinque minuti. Se tu manchi, bada bene che perdi l'occasione di fare un buon guadagno e di aver ragione della crudeltà di Maddalena a tuo riguardo.

— Verrò: ripetè di nuovo l'imbecille rotando furiosamente i suoi occhi. Ne sia sicuro.

Si separarono; Meo per tornare all'osteria, Barnaba dirigendosi verso la casa abitata da Maurilio e dai suoi giovani amici.

— Oh stranissima macchina umana! Mormorava fra sè Barnaba, camminando a capo chino: tutte tutte, per quanto forti o intelligenti, per quanto limitate ed imperfette, tutte hanno una susta che toccata le fa agire come si vuole. Benedetta la passione! Essa governa il mondo umano con irrefrenabile potere; e chi sa giovarsene mette le mani sulle briglie con cui si menano gli uomini e quindi gli eventi.

Quando sora Ghita, la portinaia, vide comparirle innanzi l'incognito della sera precedente, provò un misto tale di sentimenti che perfino la parola le mancò per un momento. Era stupore e indignazione [40] insieme, sospetto e paura. Quell'uomo entrò con tutta franchezza come si entra in casa d'un conoscente, e disse colla domestica scioltezza d'un amico:

— Buon giorno sora Ghita. Lei sta bene? Ne godo molto. Ho da parlarle da solo a sola. Mi rincresce disturbarla da sì aggradevole compagnia, ma io vengo mandato da tale e per tali faccende che non c'è da indugiare menomamente.

Si chinò presso la cuffia madornale della portinaia e le disse piano:

— Vengo mandato dal sig. Commissario di Polizia.

Ghita mandò un grido di terrore ed alzò le mani al di sopra della sua faccia conturbata.

Barnaba si volse verso le comari che facevano un circolo di occhi curiosi e di faccie interrogative intorno alla Ghita ed al nuovo venuto.

Madame, diss'egli facendo scorrere sulle vecchie uno sguardo severo ed imperioso: abbiano la bontà di lasciarci.

Le comari, spaventate da quella guardatura, non ostante tutta la loro curiosità si affrettarono verso la porta e parvero gareggiare a chi uscisse prima. Barnaba e Ghita rimasero soli nella loggia.

— Sora Ghita, incominciò di botto il primo dei due; in alto luogo non si è contenti di Lei.

La portinaia strabiliò.

— Come! diss'ella tutto commossa. Non si è contenti di me? Perchè? Che cosa ho io fatto? Nessuno può dir tanto così sul mio conto, per nessun verso; e se il signor Commissario, come Lei dice, la manda qui per rimproverarmi, la lo può accertare che fui calunniata.

E il poliziotto, coll'aspetto il più severo e minaccioso:

— Ella tien mano ai nemici del Governo.

— Io? Gesù buono! Come si può dire una calunnia falsa di questa fatta?

— Ella sparla degli atti e dei funzionari del Governo di S. M.

La Ghita si ricordò delle parole che aveva dette poco prima contro le prepotenze della Polizia: ma non si smarrì d'animo e gridò più forte di prima:

— Non è vero, non è punto vero.

In quella una carrozza tirata da un sol cavallo ma di prezzo, si fermò innanzi alla porta di quella casa; un giovane di occhi e capelli neri, di abito e maniere eleganti, ne discese lestamente, e di fretta entrato sotto l'andito si diresse verso le scale.

La portinaia e il poliziotto avevano interrotto il loro colloquio per guardare questo nuovo arrivato. Barnaba, appena vistolo, aveva fatto un moto come di gioia, e poi s'era tirato vivamente indietro per non lasciarsi vedere. Il giovane era passato senza gettare pure uno sguardo nella loggia della portinaia.

Appena passato quel giovane, Barnaba riprese con ancora più minaccioso contegno ed accento:

— Ieri sera io l'ho interrogata se quel signore che è venuto adesso adesso capitasse talvolta in questa casa, ed Ella me lo ha recisamente negato.

— Quel signore! esclamò la portinaia; ma io non l'ho mai visto, è la prima volta che viene.

Barnaba fissò ben bene la vecchia e le disse, pesando sulle parole:

— Quel signore è il dottor Quercia.

— Me ne rallegro tanto: rispose franca la portinaia: ma io non ho mai avuto il bene di conoscerlo neanco di nome, ed è la prima volta che lo vedo.

Il poliziotto prese la sua aria più tremenda.

— Badate bene! diss'egli. In queste cose non si scherza!... Abbiamo molte ragioni di dubitare di voi....

— Di me? esclamò sora Ghita mettendosi tuttedue le mani sul petto, coll'accento dell'innocenza meravigliata per una calunnia. Dio buono! Santa Madonna della Consolata! Di me che sono una povera donna che non faccio male a nessuno e che rispetto tutte le autorità..... oh domandi, domandi un po' nel quartiere che cosa si dice della Ghita, e sentirà; che una più onesta donna, non fo per vantarmi, ma si trova raramente sotto le stelle.

— Intanto qui in questa casa abitano parecchi giovinetti che non hanno timor di Dio nè rispetto del Governo.

— Ed io che cosa ne posso?... Non son mica io la padrona di casa da poterneli scacciare.

— E voi li proteggete....

— Io? Benedette le cinque piaghe! Non li proteggo niente affatto. Discorro con qualcheduno di loro quando talvolta, passando, mettono il naso nel camerino; ma io non ci ho nulla, proprio nulla da che fare con essi.

— Sono amici di quel cotale avvocato Benda che è un rivoluzionario di tre cotte; e presso costui è allogato a servire, e gli si dà molta confidenza, vostro marito.

— Ma Lei sa bene che io e mio marito ce la diciamo come l'olio e l'aceto.... L'aceto gli è lui.... Di tutto quel che faccia o dica quel disgraziato là, io non ne so nulla, non ne voglio saper nulla, non ci entro per nulla.

— Le parole valgon poco, cara sora Ghita, ci vorrebbero i fatti.

— I fatti? Che fatti? Mi dica Lei che cosa ho da fare.

— Al signor Commissario premerebbe assai di essere informato di tutte le volte che quel dottor Quercia, quel signore che avete veduto passare un momento fa, se ne viene in questo luogo.

— Ed io ne lo dovrei informare?

— E sarebbe tanto di meglio se poteste dire, anche soltanto approssimativamente, ciò ch'egli venga a fare costassù con quei giovani.

Sora Ghita capì benissimo che quel cotale stava proponendole onestamente di far la spia, e chinò il [41] capo in una grande perplessità. La cosa non le andava molto a genio, ma d'altronde ella aveva tanta paura della Polizia!

— Come vuole che io faccia per saper di queste cose? balbettò ella. Non posso mica tener dietro a chi viene e sgusciare con loro nei quartieri dove entrano.

— Il pittore Vanardi ha una moglie che chiacchera molto volentieri. Una donna accorta come voi dovrebbe sapere farla parlare.

— Ma... riprese la povera sora Ghita più perplessa che mai.

Il poliziotto non le lasciò aggiungere altre parole.

— Avete questa sola maniera di provare immeritati i sospetti che avete fatto nascere sul vostro conto: diss'egli con accento di autorità imperiosa.

In quel momento un grosso corpo opaco che passava innanzi al finestrino gettò un'ombra nella loggia: i due interlocutori si volsero a guardare chi era e si videro davanti la faccia onesta e il corpo madornale di Bastiano, il portinaio della casa Benda.

Come essi videro lui, così Bastiano vide pure quelli che erano nel camerino, e riconobbe nell'uomo l'agente di Polizia che era stato a fare la perquisizione in casa de' suoi padroni. Gli occhi del buon Bastiano diventarono come quelli d'un mastino che vuol mordere: e' si fermò su due piedi e sembrò volere aprir l'uscio della loggia ed entrarvi, ma poi quasi ravvisatosi, continuò il suo cammino verso la scala.

— Sapete chi è colui? Domandò Barnaba con una minacciosa ironia alla portinaia rimasta in asso. Lo conoscete quell'uomo?

— Pur troppo! balbettò la donna che in cuor suo mandava ai cento mila diavoli, più che non avesse fatto mai prima, il marito.

— Voi non potrete più negare, io spero, le attinenze fra codestoro quissù e la gente laggiù della fabbrica.

— Io non ho mai negato niente.

— E sapete che cosa è venuto in mente al sig. Commissario sul vostro conto?

— Che cosa mai? domandò la portinaia con molta ansietà.

— Che quello screzio che mostrate avere con vostro marito non sia che un inganno.....

Sora Ghita protestò con tutta la vivacità e la forza di cui era capace.

— Oh questa poi!.... Dica al signor Commissario che prima vorrei lasciarmi tagliare il collo..... guardi quel che dico!.... il collo, che aver da fare con quel bestione di mio marito.

— Sora Ghita, sarà la vostra condotta ulteriore che determinerà i giudizii del signor Commissario ed i miei. Siamo dunque intesi!.... Non occorrerà che voi abbandoniate la vostra loggia per recarvi al Palazzo Madama. Passerò io qui da voi, di quando in quando, la sera sul tardi; e voi mi direte allora tutto quello che è capitato, tutto quello che avete veduto, tutto quello che in qualunque siasi modo sarete arrivata a sapere. E più saprete e meglio sarete ricompensata di poi.

La portinaia non osò negare, nè assentire; stette in silenzio, col capo curvo, e naturalmente il poliziotto prese quel suo contegno come un assenso. Barnaba fece ancora un atto di tacita raccomandazione ed uscì.

— È stata una buona ispirazione quella di venir qui: pensava egli allontanandosi a passo lesto da quella casa. Ora ho la materiale certezza che il Quercia ha relazione con codestoro che molto probabilmente sono affiliati a qualche società segreta. Tengo in pugno lo spirito timoroso della portinaia, e così colui lo vengo circondando tutt'intorno di fili che ad un momento si possono serrare e pigliarlo nella rete..... Oh ci arriverò! ci arriverò!

Frattanto Bastiano era salito su fino all'alto quarto piano dove abitavano i giovani amici.

Francesco, liberato dalla cittadella e tornato a casa nel modo che vedremo fra poco, impaziente di sapere che cosa ne fosse degli amici suoi, lo aveva mandato a prenderne le novelle.

Quand'ebbe fatta l'ambasciata, il portinaio della casa Benda credette bene raccontare a Selva, a Maurilio ed al dottore Quercia che lo avevano ascoltato e gli avevano risposto, come lì sotto presso la Ghita avess'egli visto adesso adesso quel cotal poliziotto che era venuto alla fabbrica e che con tanta prepotenza aveva agito verso Giovanni.

Quercia corrugò minacciosamente le sopracciglia e lasciò vedere io mezzo la fronte quella sua riga caratteristica.

— Ah sì? diss'egli. Questo è un fatto di cui bisogna tener conto.

E fra sè pensò:

— Sempre quel medesimo!... Bisogna ad ogni modo che Graffigna me ne liberi e il più presto possibile.

E in quel momento medesimo Graffigna stava appunto comandando a Pelone di fare in modo da trattenere il poliziotto nell'osteria fin oltre la mezzanotte, per avere all'uscita di lui dalla taverna più facile il modo di accoltellarlo.

— Guardatevi bene, continuava Quercia: io conosco le arti di siffatta gente. I discorsi di codestui colla portinaia non sono senza un perchè. Io ci scommetto che in quella donna questo agente poliziesco si è fatta una esploratrice: e forse forse l'arresto vostro e quello di Benda già furono cagionati dalle ciarle di lei.

Bastiano, all'udire queste parole, scosse il capo e voltò gli occhi all'insù con espressione di sdegno profondo, mentre la sua mano accarezzava il pome di quel grosso bastone che soleva portar seco sempre come fido compagno.

[42] — Che sì che quella gazza maledetta n'è capace: diss'egli. Una lingua che non tacerebbe nemmanco sui carboni ardenti.... Ma corpo del diavolo! Adesso vado a dirgliene io quattro!...

Discese le scale furibondo ed entrò coll'impeto d'una catapulta nella loggia della moglie. Il pensiero che le ciarle di costei avessero potuto nuocere al padroncino lo mettevano fuor di sè dalla collera.

La Ghita, da parte sua, non era in uno dei momenti più acconci per tollerare in santa pace le invettive di chicchessiasi e specialmente del marito. La comparsa di lui in punto così inopportuno l'aveva sdegnata come una vera improntitudine ed impertinenza dell'uomo, a suo riguardo. La vista di Bastiano, sempre spiacevole alla brava moglie, in quell'occasione erale stata spiacevolissima e ce l'aveva con lui maledettamente.

Bastiano, come entrò senza cerimonie nel camerino, così saltò senza preamboli nel mezzo del discorso.

— Brutto mostro d'una linguaccia perfida, degna delle staffilate! Che sì ch'io non so chi mi tenga dal farvi assaggiar ben bene di questo randello traverso le spalle, per mostrarvi a tenerla a segno una volta....

La donna inviperita non potè tollerare più a lungo in silenzio. I cannelli della sua cuffia madornale fremevano d'indignazione; le guancie erano diventate color di mattone cotto e il naso color di un peperone d'Asti. Bastiano gridava forte colla sua voce da basso profondo; ma la Ghita si cacciò a gridare ancor più forte colla sua voce strillante insieme e nasale.

— Oh malnato d'un villanaccio senza sugo e senza creanza!... Che cos'è questo tono da spaccamontagne? Che cosa sono queste parolaccie da facchino?... Credete voi di farmi paura con quel ceffo da orso, prepotentone che siete?... Non è più il tempo in cui, povera donna, mi toccava star sotto un bestiale di marito... So farmi rispettare e so dove trovar protezione contro le violenze d'uno scellerato...

Cominciando in questo gentil modo il discorso voi potete agevolmente indovinare qual corso tenesse. I due contendenti ebbero in breve esaurito tutto il dizionario degl'improperii, e ciò in tono tale che tutte le comari del vicinato, scacciate dalla venuta di Barnaba, tornarono nel camerino ansiosamente curiose.

La Ghita che aveva già avuto cotanto coraggio da sola contro il marito, figuratevi come fu più audace ed aggressiva ancora quando si vide rincalzata dalla frotta delle sue comari, le quali non è da dire se presero tostamente le parti della loro compagna.

Il povero Bastiano ebbe una violenta tentazione di menare attorno il suo bastone sopra quel branco di oche che gli sbraitava intorno; ma il suo buon genio lo trattenne da un tanto scandalo. Si ritirò in buon ordine innanzi all'incalzante battaglione delle donnaccole, e si limitò uscendo a gettare come ultima minaccia queste parole a sua moglie:

— Ricordatevi che se la vostra lingua è cagione d'un sol dispiacere ad alcuno dei miei padroni, io vi faccio ballare senza suono una monferrina indemoniata...

La voce di Bastiano fu coperta dagli strilli delle vecchie comari che perseguitarono il fuggente, la Ghita in capo come duce e trionfatrice, sino sulla soglia del portone; ma ciò nulla meno la portinaia che conosceva l'umore e il polso del marito sentì penetrarsi quelle parole nell'anima ad accrescere in lei quella perplessità che le aveva lasciato il colloquio avuto coll'agente della Polizia.

CAPITOLO VII.

Quando Maurilio, accompagnato da Don Venanzio, giunse in casa il pittore, dov'egli abitava, fu accolto da Vanardi e dalla Rosina con ogni dimostrazione d'affetto, a cui il giovane corrispose non senza alcun intenerimento dell'anima. Dopo questi primi saluti e rallegramenti, Maurilio domandò tosto alla moglie del pittore gli restituisse quegli oggetti per lui preziosissimi, ch'egli partendo avevale consegnato, e Rosina glie li diede.

— Mio buon padre, disse Maurilio additandoli a Don Venanzio che ben conosceva che cosa fossero e che cosa valessero pel suo giovane amico quel rosario e quel bottone: oggi a proposito di questo mio piccolo tesoro, ho avuto una grande emozione.

E raccontò al buon parroco ciò che era capitato quando quel ragazzo ch'egli aveva fatto venire affine di istruirlo, aveva per azzardo visto quel bottone e riconosciutolo compagno ad uno cui possedeva la sua nonna.

Don Venanzio parve dare una certa importanza ancor egli a questo fatto.

— Tu hai avuto una buona ispirazione ed hai cominciato a fare un'opera assai buona volendo educare ed istruire quel bambinello; ed ecco che la Provvidenza te ne vuole di subito ricompensare, forse, porgendoti un filo da penetrare nel mistero della tua nascita. Il filo è tenue, è verissimo, e sarebbe imprudente il concepirne da codesto troppe vive speranze; ma pure io son d'avviso che non si debba trascurare e sia da tentarsi di andarne a capo.

Maurilio disse che già era sua intenzione recarsi presso quella donna e interrogarla in proposito, e che ciò farebbe di quel giorno medesimo. Sopravvenuto di poi Giovanni Selva, come quello che era conscio di tutto, venne chiamato a consiglio, e fra lui e don Venanzio decisero che meglio del giovane della cui sorte si trattava, un altro avrebbe potuto [43] colla conveniente freddezza interrogare la donna, pesarne la risposta, esaminarne i contegni, e giunger forse ad un più sicuro risultamento, e fu determinato che Selva medesimo e il buon parroco si recherebbero di compagnia essi stessi in casa quella vecchia, della quale Maurilio, in quel momento, non ricordò più che il soprannome di Gattona.

E ci sarebbero andati senz'altro indugio, poichè Don Venanzio con Maurilio aveva oramai scambiati quei discorsi con cui due che si amano, dopo un intervallo di tempo che non si sono visti, sogliono mettersi in giorno l'un dell'altro delle proprie cose, quando avvenne che inaspettato e come mandato anch'egli colà dalla mano del destino sopraggiungesse Gian-Luigi.

Il vecchio sacerdote non avea punto cessato di amare quell'altro dei due cui potuto avrebbe chiamare suoi figliuoli d'adozione: dei due che in realtà a lui dovevano la vita dello spirito, il risveglio dell'intelligenza, all'uomo più preziosi che non la vita materiale e lo sviluppo delle forze fisiche.

Molti anni erano che Don Venanzio non aveva visto più Gian-Luigi. Dal colloquio che ebbe luogo fra costui e Maurilio nella taverna di Pelone, abbiamo appreso che il figliuolo nutrito col latte della povera Margherita e da essa allevato coll'amore più che di madre, mai più non era tornato al villaggio, nè tampoco aveva colà dato segno nessuno più della sua esistenza; nelle sue gite a Torino il buon parroco mai non aveva avuto rincontro di quel giovane, ed altro più non aveva saputo di lui fuor ciò che glie ne apprendeva Maurilio il quale ad un punto disse che ancor egli avea cessato di vedere Gian-Luigi, e nulla più conosceva de' fatti suoi.

La sera innanzi, come vedemmo, il caso (Don Venanzio avrebbe detto la Provvidenza) aveva messo a fronte di nuovo i due compagni di sorte, i due amici d'infanzia, i due trovatelli. Codesto avveniva giusto appunto quando Gian-Luigi, affondatosi, per così dire, più che mai nella sua opera tenebrosa e tremenda di rivoluzione sociale, innanzi alle crescenti, agglomerantisi, spaventose vicende della catastrofe, non si smarriva già menomamente dell'animo, non sentiva già inferiori al còmpito la sua forza, l'audacia e la volontà, ma capiva che sommamente gli sarebbe riescito utile il concorso di un'altra intelligenza pari e forse a certe discipline più acconcia e forse meglio nutrita di studi e per più vasta potenza di comprensione abbracciante un maggiore àmbito d'idee. Aveva pensato all'intelligenza di Maurilio. Si pentì allora di non averselo tenuto legato al proprio destino, di aver disconosciuto e trascurato il soccorso che da lui poteva avere nella sua impresa. Dove sempre l'avesse conservato nella sua intimità e nelle domestiche consuetudini della vita, egli si lusingava che quell'affetto ammirativo cui Maurilio provava un tempo pell'amico suo di così brillanti doti fornito, che quell'influsso cui la sua volontà tenace e robusta, la sua forza operosa d'iniziativa esercitavano sull'anima più mite del compagno, avrebbero ottenuto che i suoi pensieri, le sue voglie, i suoi disegni, diventassero i disegni, le voglie e i pensieri di Maurilio, il quale in servizio loro avrebbe posto quell'ingegno non comune che Gian-Luigi gli riconosceva.

Forse non sarebbe andato a cercarlo; ma poichè la fortuna glie lo conduceva dinanzi, Gian-Luigi si era proposto di nulla pretermettere per associare alla sua intrapresa ed al suo destino l'antico compagno. In quel primo colloquio che avevano avuto all'osteria, subitamente interrotto dall'arrivo di Barnaba, innanzi a cui Gian-Luigi era scomparso, per ragioni che ora sappiamo: in quel colloquio l'audace capo della cocca avea capito che da una grande distanza, quasi da un abisso erano stati separati gli animi suo e di Maurilio in quegli anni che erano trascorsi senza che più si vedessero. Non si disse che ciò proveniva da che egli fosse camminato e di buon passo nella strada del male, dove ad ogni tappa aveva perduto alcuno de' suoi buoni istinti, smagata o corrotta alcuna delle sue buone qualità, mentre invece Maurilio od era rimasto su quel terreno dove lo avevano collocato i risultamenti dell'educazione di Don Venanzio e della maturanza della propria intelligenza, oppure eziandio era proceduto nella via del bene; ma avvertì che oramai l'uno e l'altro parlavano una lingua diversa e che per intendersi occorreva, da parte di lui, che era quello il quale desiderava penetrare sino all'animo ed al cervello dell'amico, occorreva, dico, uno sforzo maggiore e fors'anco un'arte di simulazione delle più accorte, affine di non urtare fin dalle prime nelle suscettività morali dell'altro.

Questa difficoltà, invece di stornarlo dal tentativo o disgustarnelo, aveva anzi aizzato il petulante amor proprio di Gian-Luigi e il giorno susseguente all'incontro avuto nella taverna, appena dalle molte sue occupazioni ebbe un momento di libero, l'elegante giovane che nella società era salutato col nome di dottor Quercia, s'affrettò verso l'abitazione di Maurilio, di cui questi la sera innanzi gli aveva dato l'indirizzo.

Entrò nel modesto quartiere dei giovani con quell'agiata e naturale eleganza di mosse con cui entrava nei saloni delle feste e negli stanzini delle signore. La signora Rosina ne fu abbacinata, e raccontò essa poi che quel bel giovane erale sembrato un'apparizione avvolta in una nube eterea di patchouli. Maurilio, che non credeva Gian-Luigi fosse per effettuare nè così presto, nè tardi, nè mai la sua promessa di venire da lui, mandò una leggera esclamazione di stupore. Don Venanzio, che era lontano le mille miglia dal pensare che l'altro suo allievo gli comparisse davanti colà, in quel modo, non lo riconobbe a tutta prima e si alzò da sedere [44] per salutare il nuovo venuto, con quella deferenza che si meritava l'alto grado sociale cui egli, giudicando dagli abiti e dalle maniere, sembrava occupare.

Gian-Luigi si fermò un istante sulla soglia prima d'inoltrarsi nella stanza in cui erano Maurilio e Don Venanzio. Al veder quest'ultimo non mostrò nè contrarietà, nè stupore, quantunque tale incontro fosse il più inaspettato del mondo e non dovesse essergli dei meglio graditi. Illuminò la sua fisionomia del più schietto e cordiale sorriso, e negli occhi gli brillò uno dei più lieti e simpatici sguardi ch'egli possedesse nel suo arsenale di seduzioni. Rattamente, colla facilità del suo fertile cervello egli aveva già concepito un disegno, mercè cui la presenza del vecchio prete doveva servirgli appunto a vincere le ostili prevenzioni che aveva notate in Maurilio contro di lui.

Si accostò adunque a Don Venanzio, l'aspetto commosso, gli occhi quasi umidi di pianto, una espressione nel volto e nel contegno di devozione, di affetto, di intenerimento da non dirsi.

Il buon parroco lo guardava tutto stupito e quasi ansioso. Gli pareva e non gli pareva di riconoscere quelle sembianze: sentiva nel cuore una specie di agitazione, quasi un palpito; voleva dire: Tu sei quel desso, e non osava.

— E la non mi riconosce più? domandò Gian-Luigi con quella sua voce vibrante e melodiosa, che era un'altra delle sue più efficaci seduzioni. Oh che Ella mi avrebbe del tutto dimenticato?

E più abile che un abilissimo commediante, lo scellerato aveva tale un accento di tenerezza, di rincrescimento, di effusione che nemmeno il più diffidente degli uomini ne avrebbe sospettato la sincerità.

Il primo impulso nel vecchio sacerdote fu l'esplosione della sua tenerezza quasi paterna.

— Gian-Luigi! esclamò egli con voce tremante per l'emozione, allargando le sue braccia.

Il giovane mandò un grido di gioia.

— Ah! mi ha ancora riconosciuto!

E si abbracciò con passione al buon parroco, che piangeva — egli — lagrime vere.

Ma dopo un istante la commozione in Don Venanzio lasciò luogo ad altro sentimento che da tempo gli stava nell'animo verso Gian-Luigi. Si sciolse dalle braccia di lui, ed allontanandosene un poco lo guardò dal capo alle piante con subita freddezza, quasi con sospetto, con evidente rimprovero.

— Cospetto! diss'egli: come voi siete vestito da signore! Avete dunque trovato per davvero il modo di arrivare quelle ricchezze, dietro cui anelavate con tanta passione?

Gian-Luigi fece un gesto leggiero e sbadato colla mano, come per dire: — questo per ora è quello che meno importa; e poi rispose con un accento in cui si sarebbe potuto notare un po' d'impazienza, ma tuttavia con inappuntabile rispetto:

— Sì, dopo molte fatiche e dopo molti travagli sono riuscito a raccapezzar qualche cosa e far valere alquanto i fatti miei... Ma di me, se le aggrada, discorreremo fra poco... Ora permetta alla mia impazienza che io la interroghi subito di quella persona che insieme con lei Don Venanzio, mi sta più a cuore, mi sta solamente a cuore, devo anzi dire, in tutto il nostro villaggio... Che nuove ha da darmi della buona Margherita?

Don Venanzio e Maurilio scambiarono un rapido sguardo per comunicarsi la gradita sorpresa che loro faceva questa richiesta sulle labbra di Gian-Luigi. Quanto a costui, nell'accento delle sue parole e nell'espressione del suo viso, mostrava, per colei che domandava, il maggiore interessamento che uom possa sentire per una creatura vivente.

— Ah la povera Margherita? disse il parroco ripetendo questo nome con un'intonazione che era un rimprovero. Vi ricordate adunque ancora un poco di lei?

Gian-Luigi fece un atto di vivacissima protesta.

— Se me ne ricordo!... Ah voi tutti avete giudicato male di me, pel mio silenzio, pel mio apparente oblio di quell'infelice?... Anche Lei, Don Venanzio, coll'anima sua sì mite e sì generosa!...

Il sacerdote volle parlare, ma egli non glie ne diede il tempo.

— Oh! non la condanno, nè mi dichiaro offeso... Ella ebbe in parte ragione.... Sì, ho fatto male; avrei dovuto io digiunare, io piuttosto morir di fame e mandare a costo di qualunque siasi sacrifizio alcun soccorso a quella santa donna.... Ella mi guarda con istupore, mio buon Don Venanzio, Ella non può comprendere com'io, vestito di questi panni, con questo florido aspetto di prosperità, parli di digiuno e di fame... Ma Ella nella sua vita modesta e ritratta non sa, non può nemmanco sospettare i misteri, i dolorosi, talvolta vergognosi misteri della vita cittadina che si nascondono sotto le apparenze d'uno sfoggio d'accatto.... Lo dissi ier sera a Maurilio, le cui parole chiaramente mi espressero quelle rampogne cui con tanta mitezza ora mi adombrarono il suo stupore in vedermi, la sua interrogazione, mio buon Don Venanzio; fu un tempo in cui mentre portavo nei salotti eleganti la mia faccia sorridente e le mostre d'una ricchezza che non avevo, più volte mi rodeva le viscere il tormento della fame; e i pochi guadagni ch'io poteva fare, le poche rivalse cui mi riusciva in qualsiasi modo raccogliere, sa Ella come impiegavo? Qualche soldo appena a comprarmi in segreto, la sera, nascondendomi come per commettere una vergognosa azione, un pezzo di pan nero; e il resto a procurarmi guanti color di butirro, stivalini di vernicato e a farmi inanellar la zazzera dal parrucchiere alla moda!... La mi dirà ch'ero pazzo, che mi facevo martire volontario [45] d'una stupida vanità cui è un adulare il chiamarla ambizione; ma per me, pel mio sogno d'avvenire, pei miei disegni era una necessità. Ridevo crudelmente di me meco stesso, mangiavo con amaro dispetto, quasi con disprezzo di me quel tozzo di pan nero; mi dicevo, imprecandomi, che meglio la esistenza del villano che suda sull'aratro, che dico? meglio quella del galeotto che trascina la sua palla infame; ma non pensavo pure a cambiar di cammino, non pensavo a pentirmi; era mia sorte, era mio dovere continuare, o soccombere come un animale che crepa alla fatica, o riuscire.

«Don Venanzio, bisogna aver compassione di questa mia pazzia — se vuole così chiamarla. Essa è parte essenziale della mia natura: io sono venuto al mondo con essa; e per isradicarla da me avrebbe bisognato ben altra forza, ben altra indole che la mia non sia. Non se ne ricorda? Fin da bambino siffatti istinti si svegliarono nel mio essere e stupirono e spaventarono la sua prudente antiveggenza. Di molto ha Ella fatto per combatterli e vincerli; e nulla potè a ciò riuscire. Io credo che nel mondo conviene prendere gli uomini come sono, colle facoltà, le disposizioni, e quasi direi le attribuzioni che ha loro dato la natura. Da questa varietà di caratteri si genera lo infinito viluppo delle vicende del dramma umano di cui noi non possiamo vedere, nè indovinare, nè anco in alcun modo immaginare lo scioglimento e la ragione. A Lei, Don Venanzio, per parlare il suo linguaggio, dirò come, poichè la Provvidenza manda nel mondo questi varii tipi di individualità differenti, conviene pure che ciascuno abbia una sua parte necessaria nel concerto universale, e che dunque soffocare queste speciali tendenze, ridurre questi particolari caratteri alla norma comune, imbrancandoli nel gregge delle pecore che camminano per una via soltanto, è forse mancare eziandio alla suprema volontà e togliere un elemento al concorso dei molti su cui la sapienza regolatrice ha fatto assegnamento.»

Tentennò il capo Don Venanzio, poco persuaso dalla buona fede di Gian-Luigi in questa teoria delle cause finali.

— La Provvidenza, diss'egli gravemente, ma senza il pedantesco accento del predicatore, ci accorda varii istinti ed attitudini diverse, perchè diversamente possiamo concorrere alla grande e sublime unità dello scopo comune: ma questo scopo è il bene: ed hanno ad essere domati ed altrove rivolti quegli stimoli e quelle tendenze che ci piegano al male. Per questi la risultanza ultima non può essere stimata affatto buona se gli effetti più prossimi ed immediati cominciano per essere cattivi.

Gian-Luigi proruppe con impeto:

— Ah! ci sono certi affetti e passioni che misurarli alla piccola norma comune è errore.

Si raffrenò tosto: riprese la sua calma primitiva e la serenità sorridente.

— Ma io non son venuto qui per discutere: continuò egli. Ho già ammesso fin da principio che ho potuto aver torto. Però quello cui tengo a stabilire si è che il mio torto non fu così grave come Lei, Don Venanzio, e tu stesso, Maurilio, hanno creduto. Mi sarebbe stato possibile con quel modicissimo peculio che mi fu dato dagli eredi del mio protettore avviarmi per una vita rassegnatamente oscura e per ogni verso modesta: ed allora avrei potuto subito soccorrere d'un po' di pane la mia vecchia nutrice. Io volli invece tentare di metter la mano su più splendida sorte, tutto avventurare per tutto acquistare. Quando fossi riuscito non era più un misero soccorso soltanto, ma era la ricchezza ch'io avrei recata alla vecchiaia di quella donna che mi tenne luogo di madre. Come già dissi, ho lottato, ho sofferto, fui sul punto di cadere nella disperazione più volte. La perseveranza, la tenacità e il coraggio mi giovarono pur finalmente. Non sono ancora arrivato dove e come voglio: ma sono sulla strada, inoltrato forse più che della metà. Fra poco tempo — forse dei giorni soltanto — sarò alla meta. E frattanto da quella ricchezza che tanto tempo ostentai, senza possedere, incomincio ad avere favori e larghezze... Sono venuto qui a trovar Maurilio, perch'egli — e' m'era dolce la cosa passasse per le sue mani — facesse avere a Lei, Don Venanzio, questo migliaio di lire per la povera e buona Margherita. Ma la fortuna mi volle essere benigna di tanto da farmi trovar qui Lei medesimo, nostro buon padre, e son lieto di poterla pregare di viva voce di voler accettare quest'incarico di sovvenire con questa somma la mia nutrice.

Trasse di tasca un rotolo di napoleoni d'oro incartocciato, e lo porse al sacerdote, il quale lo prese con qualche esitazione.

— Mille lire, disse Don Venanzio, tenendo il rotolo fra le sue dita con un certo riguardo; è una ricchezza per quella povera donna: ma le riuscirebbe assai più gradito il dono, se tu stesso, Gian-Luigi, venissi a recarglielo, se tu stesso, come buon figliuolo fa per la madre, provvedessi ad acquistarle con siffatta somma ciò di cui ella abbisogna.

— Ha ragione, rispose Gian-Luigi, e codesto farei molto volentieri, glie l'assicuro, se lo potessi, ma pur troppo gravissime, pressanti e numerose occupazioni mi tolgono dal potermi recare per alcun tempo al villaggio..... Ma le accerti alla buona Margherita, la prego, che appena mi sia fattibile — il che vuol dire fra una settimana o due al più — io mi recherò costà a vederla, a vedere quei cari luoghi pieni di tante memorie.....

Si volse a Maurilio che era sempre stato muto fino allora, immobile, col suo sguardo penetrativo fisso sulle avvenenti sembianze del suo compagno d'infanzia.

— Ci andremo insieme, Maurilio, non è vero? Mi sarà più caro ancora il far teco questo primo pellegrinaggio di ritorno alla nostra piccola Mecca.

[46] Maurilio fece un segno d'assentimento, ma non disserrò le labbra.

— Sta bene, disse allora il buon parroco, il quale, mezzo persuaso già dalle parole di quell'ingannatore, cominciava a trovarne minori i torti, ed aveva ripreso verso di lui l'accento affettuoso e cordiale di paterna tenerezza. Tu mi parli delle tue occupazioni che sono gravissime e numerose; ma quali son esse?

Il giovane non mostrò il menomo imbarazzo, e rispose con una specie di allegra leggerezza, facendo ballare colla mano inguantata i gingilli che pendevano dalla sua catenella d'orologio:

— Quali? Sono di vario genere... Prima di tutto, Don Venanzio, saluti pure in me un luminare della scienza medica, un dottore che ha saputo diventare, come si suol dire, alla moda.

— Medico! Come? Tu fai il medico?

— Sì signore. Non per tutti, non esclusivamente. Scelgo i miei clienti e le occasioni....

— Ma io ho sempre creduto che tu non avessi manco finito il corso di medicina.

— Finito e strafinito: esclamò Gian-Luigi dicendo questa bugia con più sicurezza che altri avrebbe avuta affermando una verità. Sono il medico prediletto delle signore che hanno i vapori e dei ricchi personaggi d'importanza che digeriscono male. Non accetto paga, ma mi forzano a prendere dei regali che valgono più del doppio.... Non c'è mezzo migliore per farsi pagar caro che il non voler nulla. Ad un povero medico che sia un pozzo di scienza, ma che si presenti infangate le scarpe, il cappello frusto e gli abiti che mostrano la corda, non si aprono le soglie eleganti dei palazzi dei ricchi; ed è molto se lo si stima degno di curare i servitori: lo si paga e lo si tratta come un operaio qualunque. Al signor dottore che ha carrozza e veste come un milionario si spalancano i penetrali del tempio di Pluto. Io sono creduto in società un ricco che presta il soccorso della sua scienza a qualche amico per favore; poichè non ho bisogno, si crederebbe offendermi non regalandomi il doppio di quel che mi viene. Ma questa è la parte minore dei miei proventi. Faccio delle operazioni bancarie col re della nostra Borsa, il cavalier Bancone, a cui ho dato qualche consiglio per domare la sua gotta. Per riconoscenza egli mi fa da filo d'Arianna nel labirinto dei giuochi di Borsa. Ho cominciato per trafficare di capitali che non avevo: adesso faccio fruttare e rimpolparsi i guadagni avvenuti.

Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo un'espressione di scontentezza:

— Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro serio.

— Seriissimo: rispose Gian-Luigi: perchè è quello che frutta di più.

— E onesto? soggiunse il prete.

— Certo! Il signor Bancone e i pari suoi sono gli uomini più stimati del mondo.

Don Venanzio si curvò nelle spalle.

— Sarà, conchiuse, ma io preferirei vederti medico nel nostro villaggio, guadagnar poco e far molto bene a quella povera gente.

Gian-Luigi interruppe vivamente con una strana intonazione nella voce:

— Oh di far bene alla povera gente io mi occupo di molto, e non solo alla povera gente del villaggio dove fui allevato, ma a tutta quella delle nostre contrade, e non negli angusti limiti soltanto che sono concessi ad un povero medico di campagna, ma in quelli fra cui spazia l'azione di un governo.

Don Venanzio guardava il giovane con tanto di occhi.

— Ella non mi comprende, soggiunse Gian-Luigi sorridendo, nè mi può comprendere, nè io mi posso per ora spiegare di meglio. È un segreto lavoro per cui sono venuto a cercare la collaborazione di Maurilio, e per cui quindi gli chiedo un colloquio sull'istante da solo a solo.

Il vecchio sacerdote guardò bene in volto l'uno e l'altro dei due giovani coi suoi occhi limpidi e sereni, e poi disse con quell'accento di paterna bontà che gli era naturale:

— Non capisco che cosa possa essere e non voglio capirlo... Possiate voi veramente essere così bene ispirati e così addotti sopra una buona via da ottenere alcun bene ai miseri che soffrono; ma permettete al vostro vecchio pastore di ricordarvi un consiglio di cui mi pare pur troppo abbiate bisogno ambedue; quello che nulla si fa di bene se non si procede col santo timor di Dio... Ora vi lascio soli, ed io con quel tuo amico, Maurilio, se gli è di comodo, andremo a trovar quella vecchia di cui ci hai dato l'indirizzo.

Maurilio ringraziò vivamente il parroco che così volesse far subito; Selva, che non aveva in quel punto occupazione nessuna, acconsenti sollecito di accompagnare Don Venanzio, e mentre i due trovatelli avevano il colloquio che vedremo nel capitolo seguente, Giovanni ed il parroco si recavano in casa la Gattona.

CAPITOLO VIII.

Appena rimasti soli Gian-Luigi e Maurilio, il primo s'accostò vivamente al secondo e incominciò con vivacissimo accento:

— Maurilio, io ti leggo nell'animo. Il tuo freddo silenzio mi parla più chiaro d'ogni parola. Tu diffidi di me; mi sospetti e sei presso a disistimarmi... Tu mi hai visto ieri sera colle vesti del povero nei ritrovi del povero; poi collo sfoggio del ricco nel convegno elegante dei gaudenti del mondo, e ti domandi: che cosa son io, che faccio? in qual razza di Proteo si è tramutato il tuo compagno d'infanzia? Ebbene, [47] gli è verissimo: sono un mistero, e lo sono per tutti così bene che pochi o nessuno sospettano pure in me, sotto la maschera dell'uomo gaio e leggiero di società, sotto le spoglie del damerino e dell'epicureo, l'individualità d'un proposito e la stoffa d'una volontà. Vengo a svelarti questo mistero... non per platonico trasporto d'amicizia, ma perchè — te l'ho detto ieri sera — perchè la mia risolutezza e l'audacia de' miei disegni hanno bisogno del tuo cervello.

Fece una pausa; Maurilio, sempre silenzioso, sostenendo colla sinistra delle sue grosse mani la fronte vasta e protuberante, abbassò la destra verso il compagno con atto che voleva significare:

— Parla.

Gian-Luigi trasse un profondo sospiro come uomo che ha il petto gonfio da qualche non lieve emozione, e coll'accento spiccato e misurato di chi studia le sue parole od anzi meglio dice parole studiate e preparate, continuò:

— Con te non occorre usare il linguaggio che bisogna parlare a quel buon Don Venanzio. Questo sant'uomo ha sempre vissuto in un guscio, e la sua esperienza e la scienza delle cose del mondo non eccedono la ristrettissima cerchia di un'anima che non ha mai avuto passioni, d'un cervello che non ha mai avuto idee al di là di quelle permesse dal catechismo. Tu soffri delle ingiustizie della sorte assodate nell'assetto sociale, egli in ogni fatto benedice il volere di Dio: tu hai capito e capisci la necessità della riforma, anzi della rivoluzione nell'ordinamento attuale dell'agglomerazione umana: egli non sente e non apprezza che la impotente e miserabile virtù della rassegnazione. Se io venissi a dire a quel buon vecchio: la necessità di cambiare quest'organamento che soffoca i tre quarti delle intelligenze umane, che costringe alla miseria i tre quarti degli uomini, si è fatta sentire su me più che su altri; ha pesato con mano più cruda su di me, quasi appunto per suscitare nella mia personalità appassionata uno stromento della rivoluzione della plebe, per crearmi tribuno e vindice del proletariato, per farmi sorgere apostolo e guerriero dell'emancipazione delle classi povere, ed io ho accettato il carico e mi sono sobbarcato all'impresa, Don Venanzio mi griderebbe spaventato il vade retro Satanas...

Maurilio l'interruppe e disse con voce lenta, fiacca, quasi svogliata:

— Ed è codesto che sei venuto dire a me?

Gian-Luigi guardò ratto intorno a sè, come per assicurarsi ancora che nessuno potesse udire: poi si curvò verso il compagno e rispose con forza:

— Gli è questo.

Maurilio scosse leggermente la testa.

— Una molto superba parte ti sei assunto: disse egli col tono medesimo di prima. Come ti sei sentito tu consacrare cosiffatto campione? Qual cosa o chi ti assicura in tanta impresa? Come Giovanna d'Arco, chiamata per salvar la Francia, hai tu sentito le voci del Cielo chiamarti per redimer le plebi?...

Gian-Luigi interruppe con impazienza:

— È ella un'ironia codesta?... Cotale risposta non mi sarei aspettata da un compagno d'infanzia come sei tu e da un'intelligenza qual'è la tua... Ebben sì; le ho sentite le voci del Cielo. Le ho sentite nella mia anima, nelle torture che io ho provato, e son quelle che provasti anche tu, nelle miserie di tanta parte del genere umano, nella crudele ingiustizia del mondo che rigetta dalle sue gioie il povero ed il debole, che per lasciarmi penetrar di straforo nell'oasi de' suoi godimenti mi ha obbligato ad infingermi e mentire. Noi empiamente condannano i costumi e le leggi: queste fondamento a quelli: bisogna rovesciare le une e gli altri.

— Rovesciare! rovesciare!..... Tu ne parli con molta agevolezza! L'edifizio non è così corroso alle fondamenta che un urto basti a sconquassarlo. Posa sopra una larga base cui, non foss'altro, l'abitudine ha contribuito a formare.

— Questa base siamo noi, i poverelli, i derelitti, i miserabili. Gli è sulle nostre spalle opprimendoci ch'esso regge. E se noi ci levassimo?

— Come farlo?

— Ecco quello ch'io ho studiato e preparato; e che ti dirò se tu vuoi essermi compagno all'impresa.

— Rovesciare!... Ammettiamo pur anco che tu ci riesca... E poi? Avrai accumulato intorno a te un caos di rovine. Come potrai far sorgere l'edifizio novello? E saprai tu costrurlo? Ci vuole la potenza dei secoli. Un equilibrio dopo un più o men lungo scombuiamento riuscirà certo a stabilirsi; ma chi può assicurare che in questo nuovo equilibrio l'umanità starà meglio di prima? E non sarà pagato troppo caro questo ancor meno felice stato novello dalla terribilità della crisi avvenuta?

— Tutte queste cose, credi tu che io non le abbia pensate?.... Forse a ricostrurre quel nuovo edifizio la tua intelligenza può essermi utile: ecco perchè io son venuto. Sento in me quanto esser debba il coraggio che affronta una simile risponsabilità, e questo coraggio io lo possedo. Ho lavorato finora nell'ombre, ma la mia opera è spinta oramai tanto innanzi che dal mio cenno dipende lo scoppio. Ancorchè tu mi manchi, questo cenno lo darò. Dal medesimo travaglio anche sanguinoso del conflitto, sorgerà la legge della civiltà avvenire. La società ora si viene corrompendo sempre più nel marasmo: come la natura, ha bisogno di quando in quando che alcuno sconvolgimento la desti e la fecondi per creazioni novelle. La rivoluzione è il percoter della selce: ne sprizzerà una scintilla....

— E intanto si cammina verso l'ignoto. Non è vero che la natura proceda per iscosse violente e [48] che il cataclisma sia l'elemento necessario d'ogni progresso nella creazione. Più attentamente esaminata la storia della natura è un lento e graduato svolgersi coll'opera del tempo. Così è dello incivilirsi del genere umano e del perfezionarsi delle forme sociali. Codesto procede in seguito all'azione di certe leggi morali, che forse un dì si scopriranno e definiranno, come furono scoperte e definite le leggi fisiche. Un uomo non può sostituire al giuoco di queste leggi il suo privato giudizio e la propria audacia. Finora non vi fu che un solo Messia sulla terra, e tu non puoi aver l'idea di dover essere il secondo. È l'opera di molti uomini, di molte generazioni che deve far ciò che tu sogni di ottenere ad un tratto. Per redimere la classe più infelice della società attuale, la plebe, non basta riporla materialmente in alto mandando in frantumi le attuali forme dell'ordinamento sociale; conviene che questa povera gente in prima venga rendendosi degna di stare là dove si vuole farla pervenire. Metti in mezzo alle ricchezze sociali le brutalità della plebe ineducata, e che cosa ne avverrà?....

— Ma quando a guidare questa plebe ci sieno intelligenze superiori — le nostre, per esempio?...

Gian-Luigi prese a Maurilio una mano e glie la strinse forte.

— Maurilio! soggiunse. Noi possiamo avere in pugno quella forza meravigliosa — dirigerla a nostro talento.

— Illusione! Rompi le dighe dell'Oceano, e poi cerca di regolare le onde irrompenti. Senti, Gian-Luigi!... La mia idea è che i tuoi tentativi, qualunque essi sieno, cadranno nel nulla.

Gian-Luigi fece un movimento.

— E così mi auguro che avvenga: soggiunse vivamente Maurilio.

— Così non avverrà, disse fieramente Gian-Luigi. Soccomberò forse, ma in un mucchio di rovine.

— Soccomberai senza pure le rovine. Tu hai nemiche tutte le potenze del mondo, il denaro, i governi, la religione. E che vuoi tu fare da questo piccolo angolo di terra contro tutta la moderna civiltà europea? So che tu hai cercato alleanza nelle congiure politiche, come la rivoluzione politica ha cercato un sostegno nella questione sociale.....

— Ah! tu lo sai? domandò con meraviglia Gian-Luigi.

— Sì, e giudico che soccomberete tutti...

— No, per Dio! Qui non sarà tutta concentrata la lotta. Il segnale della grande rivoluzione scoppierà nelle nostre mura, ma si ripercoterà nelle città principali, e là specialmente dove la cresciuta industria del secolo ha creato più grandi agglomerazioni di proletari e in questi maggior coscienza dei loro diritti. Abbiamo relazioni colla Francia, col Belgio, coll'Inghilterra, colla Germania stessa, e dappertutto la rivoluzione politica si cambierà, appena sorta, in quella sociale... Io sono uno dei capi nelle cui mani vengono a serrarsi i fili di tutta questa rete, a me lo stringerli o l'allentarli: ho bisogno di un ingegno capace che m'aiuti nell'opera, ed ho pensato a te. Vuoi tu esser quello?

Maurilio scosse il capo in segno negativo.

— A noi due l'impero in questa società che ci ha disprezzati: soggiunse Quercia con voce bassa quasi affannosa.

— Ah! tu mi tenti come Satanasso tentò Cristo: disse sorridendo Maurilio. Ma tutto è inutile. Non istimo vantaggiosa all'umanità l'impresa: non la credo possibile, e condanno assolutamente i mezzi che tu hai pensato di poter scegliere.

Un lieve rossore corse alle guancie di Gian-Luigi.

— Che vuoi tu dire? interrogò egli lampeggiando dagli occhi.

E Maurilio, con calma, e quasi afflitto:

— Ieri sera alla taverna di Pelone ho scoperto qual fosse l'individuo che porta il nomignolo di medichino famoso nella cronaca dei delitti....

Gian-Luigi questa volta impallidì; ma in mezzo la sua fronte si disegnò quella tal ruga che conosciamo. Sorse di scatto, e disse con impeto e con accento di comando:

— Taci! Non più una parola!

Passeggiò in lungo e in largo per la camera alcuni istanti: poi si piantò di nuovo innanzi a Maurilio:

— Ebben sì, son io quello.... Vuoi tu perdermi? Vammi a denunziare al commissario Tofi, e n'avrai buon premio.

— Gian-Luigi! esclamò con rampogna Maurilio.

— Dovresti farlo! Avresti così tolto di mezzo un accanito ed implacabile nemico di quella società che tu hai preso a difendere così bene.

Si serrò colle due mani la sua bella fronte da statua greca.

— Tu credi ai miei delitti? ripigliò dopo una piccola pausa, con voce soffocata. Oh Maurilio! Chi ci avesse detto che ci saremmo trovati in questa guisa dopo tanto tempo che non ci siam più visti, quando eravamo tuttidue bambini al villaggio!... Tu l'hai conosciuto fin d'allora, ch'io non poteva passare in mezzo al mondo ed estinguermi come una bollicina di schiuma nel mare. Non fosse che la fama d'Erostrato, qualche rumore si ha da fare intorno al mio essere... Un giorno converrà che tu sappia quali circostanze mi hanno trascinato là dov'io sono: allora forse mi compatirai... Se nella mia opera vinco, tutto il mio passato sarà come distrutto, assorbito nell'apoteosi della gloria; se soccombo non vi sarà imprecazione e disprezzo che basteranno ad infamarmi..... Sono un Catilina; se Catilina avesse trionfato, Cicerone sarebbe stato un calunniatore, e Sallustio avrebbe fatto il panegirico del ristauratore della repubblica romana.

In quel momento entrarono solleciti Don Venanzio [49] e Giovanni Selva che tornavano dopo aver parlato colla Gattona. Tutti due avevano nelle sembianze una certa emozione.

— Maurilio: disse il sacerdote con voce concitata; abbiamo da parlarti.

— Li lascio in libertà: soggiunse Gian-Luigi. Addio Maurilio! Quando ci rivedremo molte cose, forse, saranno cambiate..... E forse allora mi conoscerai meglio.

Non gli tese la mano, nè Maurilio porse la sua; salutò con molto affetto il vecchio parroco.

— E posso annunziare la tua visita alla buona Margherita? domandò quest'ultimo.

— Sì, rispose allegramente Gian-Luigi, appena finito il carnevale.

Ed uscì col medesimo sorriso col quale era entrato.

— Andiamo da quella povera Ester, si disse scendendo le scale; a quest'ora Jacob non ci sarà, e quando sopraggiunga me ne farò dare i denari.

CAPITOLO IX.

Torniamo nel sucido cortiluccio del ghetto in cui si apre la porta ferrata del misero stambugio di Jacob Arom il rigattiere ebreo.

Molte ore sono passate dacchè abbiam visto il vecchio avaro prendere colla figliuola il suo pasto frugalissimo apparecchiato dalla modesta scienza culinare della vecchia Debora. Lo donne sono sole di nuovo nella stanzaccia a pian terreno; e l'ombra della sera, prima ancora del solito per la nebulosità della giornata, incomincia ad invadere quel luogo tristissimo, fatto più tristo da quell'ora crepuscolare. Come prima, come sempre da varii giorni, le donne parlano di quel tremendo avvenire che la sventurata maternità sopraggiunta minaccia alla povera Ester. Aspettano con ansia che Gian-Luigi, fattone avvertito, compaia a rassicurarle, venga a dir loro che ha bello e trovato il modo di salvare la povera figliuola dall'ira, che sarà implacabile, del padre.

In realtà Debora ha maggior dose di speranza di quel che non abbia la povera Ester. Questa, nei meno ardenti trasporti degli ultimi convegni avuti insieme, nella lunga di lui assenza, ha sentito nell'amante sminuita quella passione che gli aveva fatto superare ogni ostacolo, vincere ogni circostanza per potere arrivare sino a lei. Ora — e l'istinto di donna meravigliosamente lo avverte — ogni amore che scema è amore che parte; quando non si ama più all'eccesso si è avviati a non amar più abbastanza; dietro la calma del primitivo ardore, sta la indifferenza e la sazietà. Ester aveva immensamente sofferto anche prima che la terribile verità del suo stato le fosse rivelata; di poi la sua pena era diventata doppia, e soffriva passando a vicenda da un'esaltazione d'animo ad un abbattimento rassegnato, ma di disperazione sempre.

Debora adunque la confortava alla speranza con ogni miglior argomento che sapesse trovare; e la infelice fanciulla scuotendo la sua stupenda testa degna del pennello di Tiziano esclamava con cupa risolutezza che era tale da far paura:

— No, Debora, vedrai ch'egli non verrà nemmanco. Il perfido! E' mi ha dimenticata del tutto... Chi lo avrebbe creduto?... Ah mio padre ha ragione. Tutti i cristiani sono mancatori di fede... Sai tu che cosa solo mi resta? Morire.

La vecchia alzava le mani secche e rugose verso il cielo, sclamando spaventata:

— Che cosa dite?... Vi dà di volta il cervello Ester?... Come siete sempre eccessiva, voi!... Vi dico che il signor Quercia verrà, e troverà modo di levarvi di qui; ed io vi seguirò, perchè già non voglio mica rimanere allo sdegno di vostro padre che cascherebbe tutto su di me, e che non sarà una giuggiola, no; e tutto sarà aggiustato.

Ester lasciò cadere abbandonatamente sopra le ginocchia la bella destra con cui si sosteneva il viso, e reclinò sul petto il capo.

— Mio padre! diss'ella a mezza voce, ma con espressione di molto cordoglio nell'accento. Abbandonarlo!... E sarà per sempre di certo... Non lo vedrò mai più, mai più in questa vita!... E nell'altra?... Ahi c'è forse un'altra vita?... Ancorchè ci sia, mai più, mai più egli non mi perdonerà, vivesse gli anni dell'Eterno... La sua maledizione, quella maledizione onde mi minacciava poc'anzi mi perseguirà traverso i secoli con odio implacato... Ed egli ora mi ama pure!... Quasi al pari de' suoi tesori... Ed io devo dargliene tanto dolore!... Che farà egli, quando solo, senza più affetto nessuno, fuggito dalla figliuola?

Debora la interruppe.

— Eh! non vi crucciate di codesto.... Che cosa farà? È facile indovinarlo. Si consolerà col suo denaro che in fin fine è ciò che ama di più, è anzi la sola cosa che ama.

Un picchio discreto risuonò all'uscio del cortile; le due donne sussultarono e si guardarono in faccia commosse.

— Se fosse lui! mormorò Ester diventata pallida, poi tosto arrossita.

— Gli è lui di certo: disse la fante levandosi più affrettatamente che poteva: ne riconosco il modo di battere, ve l'ho detto io che sarebbe venuto.

Si accostò all'uscio, e traverso i battenti gridò colla sua voce fiacca e balzellante da vecchia:

— Chi è là?

— Apri, Debora, son io: rispose la voce sonora di Gian-Luigi.

Ester fu dritta di balzo con un grido: e poichè le mani tremanti di Debora non erano abbastanza sollecite ad aprir la serratura e tirare i chiavistelli, [50] accorse la giovane all'uscio ed in un attimo ebbe essa medesima spalancato il battente innanzi al suo amante che entrava avviluppato nell'ampio mantello scuro, il cappello rabbattuto sugli occhi.

La penombra che regnava in quell'ambiente, non lasciava scorgere alla giovane l'espressione della faccia di Gian-Luigi; e fu ventura per lei, chè l'aspetto d'impaziente contrarietà ch'egli aveva entrando sarebbe stato per la misera un nuovo dolore, una piena conferma dei timori che istintivamente provava l'anima sua. Ma pur tuttavia, qual differenza di maniere fra il presente contegno dell'amante e quello ch'egli aveva un tempo ne' suoi incontri colla fanciulla! Era egli allora che tosto, ratto, impetuosamente l'afferrava con amorosa violenza, la stringeva con braccia appassionatamente desiose, le copriva di caldi baci il leggiadro viso arrossito, le diceva un mondo di soavi parole amorose; ora Gian-Luigi entrò senza manco un saluto; fu essa che, lasciando a Debora il richiudere accuratamente la porta, gettò al collo di lui le sue braccia e tutta abbandonandosi al suo petto, disse con voce tremante d'emozione ed amore:

— Sei tu!... Sei pur tu alla fine!... Oh quanto tempo che non ci siam visti!... Cattivo!... Perchè rimaner tanti giorni?... Li ho contati: e' mi parevano ciascuno un'eternità... Che cosa hai tu fatto in questo frattempo? Come non hai tu mai pensato a me? Potresti tu mai dimenticare che sei tu il sole della mia vita?

E queste parole, susurrate in quel tenace amplesso, venivano frammiste ai più caldi baci di quelle calde labbra color di corallo.

L'amoroso effluvio di quella avvenente persona che pendeva dal suo collo, l'ardore di quei baci che gli scoccavan fiamme nel volto, la passione di quelle parole poterono assai sull'animo di Gian-Luigi e ne dileguarono per quel momento la malavoglia e l'uggia con cui era egli colà venuto; onde fu con voce temperata a molto affetto e non senza rispondere col suo all'amplesso della giovane, che egli disse a sua volta:

— Dimenticarti, mia cara Ester!.... Non pensare a te!.... Sei tu la cattiva che puoi credere di simili cose e dirmele.

Le poche parole del giovane fecero maggior effetto sulla figliuola di Jacob che le molte della vecchia Debora. Ella sentì il suo cuore riconfortato. Per la donna, in generale, la parola dell'uomo che essa ama, per quanto destituita di prove, per quanto priva ben anco delle apparenze della verità, sarà sempre un'autorità degna di fede. Gian-Luigi poteva egli mentire? Mai più! Tanto eccesso di lui sì lo poteva ella pensare quando egli era lontano dagli occhi suoi, e non le stava presente la malìa della persona adorata; ma stretta dalle braccia di lui, sotto i suoi baci, udendone la dolcezza della voce, la misera, tutta posseduta dall'amore, non aveva più resistenza di sospetto, nè difesa di diffidenze.

— Tu dunque m'ami ancora? riprese Ester con più vivace prorompere che era tutto una gioia. Tu m'ami dunque?.... oh giuramelo di nuovo....

Queste parole raffreddarono alquanto l'effimero ardore che s'era suscitato in Gian-Luigi. Le donne hanno la grande smania di far ripetere giuramenti d'amore; e questa è od una inutilità, o una malaccortezza: se l'uomo continua ad amare, non v'è bisogno di nessun giuramento, il quale in realtà non riesce mai a guarentire in nessun modo l'avvenire, od egli ha cessato o viene cessando d'amare, e la necessità in cui lo si pone di dare un falso giuramento, o di subire una scena di rimproveri e di lacrime lo indispone anche peggio e gli accresce il desiderio di togliersi da quei legami. Fu qualche cosa di simile che provò Gian-Luigi, ed un poco di quell'impazienza con cui si era affacciato primamente alla porta gli rinacque nell'animo. Si sciolse pianamente dalle braccia della giovane, e senza rispondere altrimenti alle parole di lei, disse freddamente come si parla di cose indifferenti:

— Lasciami levar via questo mantello che è bagnato dalla neve.

Trasse un po' in là Ester e si tolse dalle spalle il mantello: nell'ombra lucicchiavano vivamente gli occhi della giovane ebrea fissati su di lui con infinito ardore. Nella mente del medichino sorse di botto un sospetto, ch'egli accolse come una speranza, ed era questo: che la fanciulla avesse inventata la novella della sua maternità per avere un mezzo potente da farlo venire da lei.

— Ehi Debora: diss'egli alla vecchia che, richiusa ben bene la porta, s'avanzava trascinando le sue pianelle scalcagnate verso il centro della stanza: se tu accendessi un lume non faresti male; qui non ci possiamo nè anco veder in viso.

La fante prese una lucernetta sucida di ottone, invasa dal verderame e, venuta presso il fornelletto l'accese mercè uno zolfino: i deboli raggi giallognoli di quella poca luce si diffusero oscillando per la tenebrìa di quello stanzone; gli occhi di Gian-Luigi corsero a mirare così rischiarati i lineamenti di Ester, la quale stava immobile, piantata, a quel luogo dove l'aveva spinta la mano di lui, allontanandola da sè. La emozione di quel momento aveva arrossite le guancie della giovane così che non ci si vedevan più quelle traccie dei patimenti a cui da alcun tempo andava soggetta, le quali quella stessa mattina ci aveva notate suo padre.

— Eh via, pensò Gian-Luigi: è stato un sotterfugio di questa furbacchiotta per farmi venire.

E si riavvicinò con un sorriso malizioso alla giovane che rimaneva ancora immobile a quel luogo.

— Ester, diss'egli, tu hai voluto vedermi ad ogni costo, non è vero? Ma come diavolo ti è saltato in mente di usare un mezzo qual fu quello del bigliettino che mi hai scritto?

[51] La giovane lo guardò stupita, senza comprendere.

— Tu mi hai fatto bestemmiar la sorte e maledire il Cielo, poichè più disgraziato avvenimento non poteva capitarci di quello che mi annunziavi....

Ester cominciò allora a capire il sorriso e il tono di leggerezza dell'amante.

— Che? esclamò essa con isdegnosa vivacità nell'accento e nella mossa, avanzandosi d'un passo verso di lui: tu dubiti?...

Levò le mani verso il cielo in un atto di protesta, di meraviglia, di risentimento, cui non aveva parole a poter bene esprimere.

— Debora! soggiuns'ella dirigendosi alla fante come per prenderla a testimonio di tanto eccesso: egli non crede alle mie parole, egli mi accusa di menzogna, egli nega fede alla mia sventura.

Queste parole, il modo ond'eran dette, il profondo turbamento dei tratti di lei, furono prova più che sicura a Gian-Luigi che la novella scrittagli da Ester era una verità. Le si accostò, la prese per la mano, e piantandole negli occhi il suo sguardo, disse con accento cupo che pareva una minaccia:

— Gli è dunque vero?... Maledizione!...

La giovane tolse via la sua dalla mano di lui, e si arretrò spaventata.

— Luigi!... Eterno Iddio!... Tu mi fai paura.

Il medichino si frenò di subito con quel dominio su se stesso che gli abbiamo già visto esercitar tante volte.

— Via, via, riprese egli con aspetto tornato tranquillo, pensiamo freddamente ai casi nostri... Abbiamo del tempo innanzi a noi; prima che la cosa possa venire scoperta, ci rimane agio ad immaginare e porre in esecuzione quel progetto che converrà meglio... Frattanto a te Ester che cosa sarebbe venuto in mente di fare?

Ester levò sul volto di lui i suoi grandi occhioni neri, e disse lentamente a voce bassa:

— Mi sembra che una cosa sola mi rimane da poter fare: fuggire, andare a nascondere la mia colpa all'abbominio de' miei ed all'ira di mio padre.

Gian-Luigi crollò le spalle.

— Fuggire!..... Dove?..... Come e in qual luogo trovare questo ritiro?

La fanciulla lo interruppe con accento quasi severo:

— Ho pensato che codesto era dover tuo e che tu l'avresti compito.

Il medichino non dissimulò un atto d'impazienza.

— Dovere! dovere! diss'egli. Eh! ho io ben altri affari e di maggior rilevo a cui pensare.

Ester impallidì nello stesso mentre che i suoi occhi lanciavano fiamme.

— Tu parli non solo come uno spergiuro, disse ella con forza, ma come uomo senza cuore.

— Ah! non facciamo delle frasi e non scendiamo a bisticciarci per carità... Io non ti abbandonerò certo, e se una fuga sarà assolutamente necessaria, bene, ti ci aiuterò; ma prima di sobbarcarci ad un tal passo, vediamo se non ci sarebbe altro mezzo...

— E quale? proruppe la giovane con impeto. Non sai tu che apprendendo la verità, mio padre è capace di uccidermi?

— Ah! se ci fosse costì sotto mano un qualche dabbene da sposare!....

Ester drizzò il capo con moto vivace di risentimento e di ripugnanza.

— Se tu parli per ischerzo, diss'ella con nobile fierezza, questi non sono nè il caso nè il momento da ciò; se parli dassenno oh che stima e che amore hai tu di me?

Gian-Luigi non rispose, assorto com'egli apparve in un nuovo pensiero che gli rendeva cupa la fisionomia.

— Ci sarebbe pure un mezzo, diss'egli a voce bassa, non osando guardare in volto la fanciulla.

Fece una pausa: essa si accostò ansiosamente per udire ciò ch'egli stava per soggiungere; il tristo continuava smorzando ancora di più il suono delle sue scellerate parole:

— La mia medicina me lo può dare questo mezzo.....

Susurrò alcune frasi cui potè cogliere soltanto l'orecchio di Ester verso la quale egli si chinò.

La giovane rimase immobile, fissandolo con occhi larghi come di chi non capisce, ma uno sguardo ratto e vivissimo di lui parve di colpo rischiarare in essa il senso di quelle misteriose susurrate parole; Ester si arretrò con una mossa ed un grido di orrore.

— Mio figlio!.... Mio figlio! esclamò essa con forza: osereste attentare alla sua esistenza?.... Ma io lo difenderò contro tutto e contro tutti.

— Calmati, calmati; disse Gian-Luigi che parve non aspettarsi quello scoppio di indignazione.

Ma i commovimenti in quell'anima sensitiva di fanciulla da parecchi giorni sì frequenti e sì vivaci l'avevano indebolita ed affranta. Ester si diresse vacillando verso la seggiola su cui soleva stare e lasciandovisi cadere abbandonata, coprendosi con ambo le mani la faccia, ruppe in un pianto dirotto.

Il medichino strinse le braccia al petto e rimase immobile a guardarla; sul suo volto era un'espressione di durezza malvagia ed ironica: quella d'un uomo che ad un suo volere incontra un inciampo nell'altrui debolezza che non gl'ispira se non fastidio e disprezzo.

La vecchia Debora s'accostò con interesse alla piangente e volle dirle alcuna parola di conforto; ma Ester non le prestò menomamente attenzione.

A poco a poco l'espressione della faccia di Gian-Luigi si venne rimutando; in presenza di quello sfogo di dolore della povera fanciulla, il quale in realtà gli rivelava tutto ciò ch'essa aveva sofferto e soffriva, alcuna parte dei buoni istinti della sua natura, che tuttavia erano rimasti in lui, si suscitò [52] e si commosse. I lineamenti del suo leggiadro volto si distesero, per così dire, abbandonando il maligno atteggio che li contraeva; una sembianza di pietà e d'affetto ne prese il luogo. S'accostò egli allora alla giovane, trasse in là bruscamente Debora che, stando sempre attorno ad Ester a dire di sue parole di conforto a cui non si badava, gli impediva il passo, e chinandosi verso la misera che piangeva, le prese una mano, glie la staccò con affettuosa violenza dal volto, e disse con voce veramente impressa d'amore questa sola parola:

— Ester!

In costei parve ritornata di subito la sua energia. Sorse di scatto, saettò il suo amante d'uno sguardo pieno di mille espressioni, e con forza d'accento quale danno soltanto le più accese passioni dell'animo, gli disse:

— In tutto codesto sai tu ciò ch'io scorgo di più tremendo per me e che mi rompe il cuore? Si è che tu più non mi ami.

Gian-Luigi volle protestare con un gesto: ma ella riprendendo con più vigore ancora:

— No, più non m'ami... Se tu m'amassi, mi avresti tu parlato a quel modo?... Tutto il resto posso sopportare, tutto affrontare... anche lo sdegno di mio padre: ma questa sciagura no... Ella mi fa perdere il senno, ella mi fa capace di tutto, sai!

Pose le due mani sulle spalle del suo seduttore e stando lì faccia a faccia con aspetto di risoluzione in cui avreste detto esservi qualche cosa di feroce, continuò:

— Sì, capace di tutto!... Oh con che passione, con che furore io t'ami, tu non hai ancora saputo discernere... T'amo da commettere un delitto se tu mi tradissi... Sono gelosa come donna forse non fu mai... Io, qui, nella mia solitudine, talvolta, pensando che tu lontano potevi parlar d'amore a un'altra donna, soltanto rivolgerle uno di que' tuoi sguardi infuocati che mi hanno incendiata l'anima, io soffrii e soffro degli spasimi mortali... Se tu cessi d'amarmi, morrò... Se ne ami un'altra... Oh! sono capace di ucciderla quella donna.

La esaltazione di questa giovane, ond'ella era fatta ancora più bella, commosse anche in quell'istante l'animo di Gian-Luigi. Rinacquero per allora le fiamme che in lui avevano desta la beltà della custodita fanciulla e la difficoltà di ottenerla; la cinse con appassionato amplesso fra le sue braccia, e le disse con accento di trasporto, in cui ciascuno avrebbe creduto sentire, e in quel punto era forse davvero la sincerità:

— Ma sei tu, donna mia, che io amo al mondo: che parli tu di altre, che temi tu di abbandoni o tradimenti?... T'amo!, t'amo! t'amo!

La infelice Ester si abbandonò sul seno dell'amante con quella tenerezza e quell'intima gioia che le inondavano l'anima nei primi giorni dell'amor loro.

Ma in quella, ecco all'uscio d'entrata una mano che picchiava dal di fuori, e la voce del vecchio Jacob che per la toppa della serratura cacciava dentro queste parole:

— Apri, Debora, apri senza paura: son io.

— Misericordia! il padrone! disse la vecchia fante quasi con isgomento.

Ester si strappò dalle braccia dell'amante e fuggì come atterrita all'altro capo della stanza. Debora corse ad aprire.

Il rigattiere entrò col suo passo, col suo aspetto, colla sua guardatura cautelosi e diffidenti; la prima cosa che vide fu la lucernetta accesa sopra il tavolo a metà della stanza.

— Ecchè? diss'egli con voce piena di rampogna e di disgusto: non è ancora notte affatto chiusa e ci avete già il lume acceso! Che cosa vi salta in capo di sciupar l'olio di questa maniera?

Nello stesso tempo ch'ei parlava, il suo sguardo corse per tutta la stanza; vide in un canto lontano dalla tavola su cui era il lume, la figliuola seduta, il capo chino sopra certo suo lavoro, come se fosse intentissima ad esso, benchè il fioco chiarore della lucerna che appena giungeva sino a lei non fosse tale da bastarle a lavorare, si meravigliò ch'ella non gli fosse mossa all'incontro come soleva ad ogni volta ch'egli rientrava, gli parve notare nel contegno di lei, nella ostinazione a tenere chinato il capo un certo imbarazzo; vide dritto presso la tavola a cui si appoggiava, il medichino senza la menoma traccia d'impaccio, egli, con tutta l'agiatezza che era propria della sua elegante persona; e la presenza di costui in casa sua, mentr'egli erane assente, dispiacque forte al vecchio ebreo.

— Ah! gli è qui Lei! disse Arom punto non curandosi di dissimulare il suo malcontento. Che cosa viene Ella a cercare in mia casa, mentre io non ci sono?

Gian-Luigi si atteggiò a tutta l'imponenza della sua mossa la più superba, guardando dall'alto in basso quell'omiciattolo che si avanzava verso di lui.

— Olà, mastro Jacob, diss'egli con tono compagno all'aspetto, con chi ti pensi tu di parlare?

Il vecchio usuraio tornò di botto in tutta la sua umiltà di contegno e di parole.

— Scusi, diss'egli, non voglio mica offenderla... Ma in casa mia, sa bene, sono avvezzo a non lasciar entrar gente quando io non ci sono... Tutti hanno le loro idee; ed io ho codesta. E d'altronde ho premura di sapere in che cosa posso servirla e che mi ha valso l'onore d'una sua visita.

Debora tremava, cercando di mettersi nella parte più scura della stanza, quasi per nascondersi agli occhi del padrone, del quale era pur certa che l'ira sarebbe caduta su di lei; avrebb'ella voluto difendersi, ma non sapeva troppo che cosa dire; onde benedisse in cuor suo il giovane che, sempre colla medesima alterigia, si degnò di dare al vecchio la seguente spiegazione:

[53] — Sono venuto per parlarti, e di cosa che mi preme; e tu sai che sia. Volli dunque entrare ad ogni costo per attender qui il tuo ritorno.

— Va bene, s'affrettò a dire Jacob più umile e sommesso che mai. Io sono il suo servitore, non ha che da comandarmi.

— Ti ho portata quella carta e sottoscritta col nome che tu hai voluto; spicciamoci dunque a terminar quell'affare.

Il rigattiere s'inchinò fino a terra.

— Agli ordini suoi: rispose. Vossignoria favorisca lasciarmi vedere quella scritta ed io mi solleciterò ad obbedire al voler suo.

Il medichino trasse di tasca il suo elegante portafogli, e da questo levò una cambiale per l'ammontare di cinquanta mila lire, sotto cui si stendeva nel suo carattere minuto ed elegante di donna la firma della contessa Candida Langosco di Staffarda nata La Cappa.

Jacob prese quel pezzo di carta con un certo rispetto e spiegatolo se l'accostò talmente agli occhi per esaminarlo con attenzione, che avreste detto lo volesse fiutare. Due minuti e forse più rimase egli scrutando la polizza da ogni parte, e in questo mentre Gian-Luigi lo stava guardando con una fissità in cui non avreste potuto dire che c'era un'ansia, ma un'aspettativa impaziente e un po' inquieta.

— Va bene, disse poi l'ebreo ripiegando lentamente quel fogliolino; la mi aspetti qui un poco e le porto la somma.

Mandò un profondo sospiro.

— Aimè! Tutti quei pochi miei risparmi che ho potuto fare; la sola scorta che abbia questo povero vecchio! Ma per Lei, che cos'è che non vorrei dare?....

— Risparmiami le tue imposture: disse bruscamente Gian-Luigi impazientito; e sollecita chè ho fretta.

Arom prese la lucerna di sulla tavola e s'avviò verso la scala a chiocciola che saliva al piano superiore.

— Olà! sclamò il medichino; vuoi tu lasciarci qui allo scuro?

— Ah! è vero: rispose Jacob. Scusi, non ci badavo.

Mandò un altro sospiro di rincrescimento e soggiunse:

— Debora, accendi un altro lume; questo io lo porterò di sopra.

Poichè la fante ebbe obbedito, il rigattiere continuò la sua strada, e già aveva un piede sopra il primo scalino della scala, quando, come per nuovo pensiero sopravvenutogli, si fermò e volto all'angolo in cui stava tuttavia quasi rannicchiata la figliuola, le disse:

— Ester, vieni un po' su con me, ho bisogno del tuo aiuto.

La fanciulla si levò sollecita. Aveva avuto tempo di dare alla sua fisionomia l'aria tranquilla ed indifferente, ma sulle guancie le stava una pallidezza marmorea, in mezzo a cui splendevano ardenti i suoi grandi occhi neri. Venne presso a suo padre con passo affrettato, ma passando vicino a Gian-Luigi, tanto non fu padrona di sè che non iscoccasse una ratta occhiata su di lui. Jacob travide questo sguardo che a lui, sospettoso com'era, parve quasi d'intelligenza. Non poteva credere che fra sua figlia ed il medichino fosse avviato nessun accordo, ma pure un'indefinita paura gli entrò nell'anima, e si promise di far ben bene attenzione, e di raddoppiare intorno ad Ester la vigilanza.

Padre e figlia salirono al piano superiore.

— Ah signore, disse Debora supplicante al medichino allorchè furono rimasti soli, per carità non tardi a levarci dalle branche del padrone. Quello lì è un uomo di vista acuta che vede tutto, che indovina tutto. Sono persuasa che fra breve quel demonio saprà il nostro segreto meglio di noi; ed allora la passeremo brutta, la povera Ester ed ancor io.

— Sì, rispose Gian-Luigi, il quale si trovava ancora sotto l'effetto di quel rinfocolamento sensuale di passione che gli aveva cagionato il trasporto della giovane innamorata: sì, rassicura la tua padroncina. Io mi occuperò senza indugio di lei e delle cose nostre: saprò trovarle un asilo così ben nascosto che niuno al mondo giungerà a scoprirlo mai, e colà segregati dall'universo, l'amore ci farà passare delle ore deliziose.

— Ma che ciò sia presto, la supplico, la scongiuro: insisteva la vecchia, la quale era eccitata a tanto zelo dal timore che aveva per se medesima: altrimenti non saremo più a tempo; chè una volta scoperta la cosa o sospettata solamente dal padrone siam belle e fritte, e di poterci salvare scappando non se ne può far niente più.

Discorrevano da alquanti minuti di codesto argomento, e già il medichino veniva divisando alla fante come avrebbe fatto per rendere avvertita Ester di quello che aveva provveduto per lei e della maniera e del tempo di fuggire dalla casa paterna, quando al di sopra di loro, nelle stanze dov'erano saliti il rigattiere e la sua figliuola s'udì un colpo come di cosa grave che cade con violenza per terra, poi un calpestìo di passi concitati e la voce di Jacob che con tutta quella poca forza ond'era capace gridava aiuto.

Gian-Luigi e Debora corsero verso la scala; ed ecco in alto della medesima comparire il vecchio Arom, la faccia tutto sconvolta e spaventata che con accento di grandissimo affanno gridava:

— La mia figliuola!... La mia figliuola!... Potenza dell'Eterno! Ella è svenuta che la mi par morta.

— O mio Dio! non potè trattenersi dall'esclamare con molta passione il medichino: Ester!

E si slanciò su per la scaletta con un impeto che [54] era indizio assai chiaro della ragione del suo commuoversi. Il padre di Ester, nel suo pur profondo turbamento, aveva tuttavia tanta libertà d'avviso da notare e interpretare codesto diportarsi del giovane intorno cui già era nato in esso alcun sospetto. Quel grido e sopratutto quel nome così domesticamente pronunziato furono per lui come una rivelazione: il fatto stesso dello svenimento di Ester e il come questo era avvenuto gli confermavano i suoi dubbi. Senza pure immaginarsi il meno del mondo che il male fosse così grave com'era in realtà, giudicò che nel medichino v'era più che un insidiatore, un rapitore di uno de' suoi tesori, il cuore della figliuola, e sentì di botto un odio immenso contro quel giovane sorgergli nel cuore in luogo di quella deferenza quasi ammiratrice che aveva per lui. Arrestò per un braccio Gian-Luigi che voleva penetrare nelle stanze superiori e gli disse freddamente:

— Non occorre che la si scomodi.

Il giovane volse sul rigattiere quel suo sguardo imperioso innanzi a cui quasi tutti gli occhi dovevano abbassarsi: per la prima volta le pupille affondate del vecchio ebreo sostennero imperterrite quello sguardo.

— In mia qualità di medico, disse Gian-Luigi, posso tornar utile a vostra figlia.

— No signore. Ella non lo è abbastanza medico, per mia figlia... o lo è troppo. Preferisco ricorrere alla scienza di un altro. Debora va tu presso Ester, e soccorrila come sai; io termino un piccolo affare con questo signore e poi ti raggiungo... Se sarà bisogno di un medico lo andremo allora a chiamare.

Gian-Luigi non ribattè parola: ridiscese nella stanzaccia terrena seguito dal vecchio, e della fanciulla svenuta non parlò più, come se ciò null'affatto lo interessasse.

— Eccole i cinquanta mila franchi: disse Jacob, che pareva aver dimenticato del tutto ancor egli la figliuola, e schierò sulla tavola altrettanti mucchietti di napoleoni d'oro di cinquecento lire ciascuno.

Quando il denaro fu contato, avvolto a rotoli nella carta, intascato da Gian-Luigi, Jacob si affrettò ad aprir l'uscio che metteva nel cortile, significando tacitamente con ciò che gli premeva il suo visitatore se ne andasse.

Il medichino s'avviluppò bene nel suo mantello, si trasse fin sugli occhi il cappello ed uscì; sul passo della porta si fermò per dire all'ebreo:

— Questa sera c'è grande adunanza per importanti risoluzioni. Ci verrai?

— Spero di sì: disse laconicamente Jacob, che dimenticò di salutare con tutta quell'umiltà che mostrava ogni altra volta.

Gian-Luigi s'allontanò; il padre di Ester chiuse accuratamente l'uscio dietro di lui, spense la lucerna che ardeva sulla tavola, ed a tentoni andò verso la scala e salì di sopra.

Ester, abbandonata sopra una seggiola come corpo morto, non era ancora tornata in sè; ed ecco in che modo era accaduto ch'ella fosse colta da un sì grave svenimento.

Appena saliti al piano superiore Ester e suo padre, questi che si mostrava preoccupato e sopra pensiero, mettendo il lume in mano alla figliuola, passò innanzi e si diresse verso l'ultimo scompartimento in cui era stata divisa la stanza, colà dove egli teneva ben bene serrata nello scrigno una parte, e la menoma, dei suoi denari. Padre e figlia ci giunsero in silenzio; Jacob guardava Ester con certo modo scrutatore e penetrativo, ond'ella si sentiva tutta conturbare: ma il vecchio non disserrava le labbra e la fanciulla era tutt'altro che disposta essa a parlare per prima.

Arom fece segno alla figliuola mettesse il lume sulla tavola che abbiam visto esserci colà e su cui quella stessa mattina l'avarissimo uomo aveva contato anche una volta fra le tante il suo denaro: poi spiegata di nuovo la carta della cambiale che il medichino gli aveva lasciato tra le mani, tornò ad esaminarla ben bene. Qui si trovava in presenza di un affare, e la sua preoccupazione cominciò a cedere a quell'attenzione della mente ch'egli soleva dare a ciò che per lui, per la sua smania di guadagno, aveva la massima importanza nel mondo. Anche questa seconda volta l'esame di quella carta non gli fece cattiva impressione, perchè sulle sue labbra livide e sottili apparve un certo stiramento che faceva funzione da sorriso, e senz'altro egli prese nel solito nascondiglio le chiavi dell'armadio ed andò ad aprirlo.

Quando ebbe dischiusa innanzi la cassa di ferro che era colà dentro e potè bearsi della vista dei sacchetti così bene ordinati in ischiera, ogni pensiero altro che la sua passione pel denaro non fosse, si dileguò del tutto dall'animo suo. Prese con mano che si potrebbe dire amorosa, uno di quei rigonfi sacchetti; avreste detto che lo palpava carezzevolmente, recandoselo in grembo, lo strinse al petto con affettuoso riguardo nel portarlo sulla tavola: colà ne sciolse il legacciolo e con precauzione e lentamente, perchè non sonassero di troppo, versò sul piano della tavola le monete d'oro che lo riempivano. Gli occhi del vecchio avaro brillavano, ne tremavan le mani, ne diventava affannoso come per troppa commozione il rifiato, si disegnava di più in più sulle sue labbra tirate la smorfia del suo sorriso.

— Ester, Esteruccia, diss'egli colla voce soffocata, aiutami a contare per cinquanta mila lire di marenghi... Poveri marenghi! Essi hanno da andar via, sono condannati a lasciarmi, a lasciare i loro compagni, ma non temere; e' torneranno... oh oh! se torneranno!... e conducendo con esso loro una buona e bella quantità di compagni.

Ester stava immobile presso la tavola, appoggiata [55] a questa colla sua bianca mano, e il suo pensiero era ben lungi dalle idee di suo padre; le suonavano ancora nell'anima le ultime voci amorose che erano uscite dalle labbra del suo amante, come in una nebulosa visione le comparivano alla mente le linee vaghe ed incerte d'un delizioso avvenire in una solitudine che il suo Luigi le avesse procurata, cui il suo Luigi imparadisasse del suo amore. Si mise a contare i denari macchinalmente per aiutare nell'opera sua il padre, il quale ad ogni mucchietto di monete che metteva in disparte per dar poi al medichino, mandava un sospiro che pareva un gemito.

Quando la numerazione del danaro fu finita, Jacob prese di nuovo in mano la cambiale datagli da Gian-Luigi e disse con quel suo cachinno:

— Pensare che questo straccio di carta vale tutto quel denaro lì!... E che potrebbe valere anche di più!...

Additò col suo indice magro, adunco, unghiato, che pareva un artiglio di falco, la sottoscrizione della contessa di Staffarda.

— Queste poche parole qui, soggiunse, valgono più che la firma d'un banchiere, e sono certo che loro si farà onore più che non faccia la miglior casa di questo mondo.

L'occhio di Ester cadde sbadatamente là dove accennava il dito di suo padre; essa ci vide il nome di Luigi e sotto quello d'una donna; un lieve rossore le venne alle guancie ed una qualche animazione nello sguardo.

— Chi è quella donna? domandò con interesse.

Arom sogghignò della più bella e crollò il capo maliziosamente.

— Chi è? Chi è? La è una gran dama, proprio coi fiocchi, la quale non si farà certo tirar l'orecchio per pagare. Di valor legale questa carta non ne ha nessuno, ma ne possiede uno ancora più sicuro. Quando io mi presenti per l'esazione si farà qualunque sacrificio per soddisfarmi.

— Perchè? domandò la giovane che si sentiva opprimere da un'indefinibile inquietudine.

— Perchè Quercia è l'amante di questa contessa imprudente.

Ester gettò un'esclamazione soffocata di vivo dolore.

— Impossibile! diss'ella.

— È la verità. Lo sanno tutti.

La giovane, posto in oblio ogni consiglio di prudenza, prese fra le sue le mani del padre e le strinse con forza.

— Giuratemelo!

— Sì che lo giuro..... Ma per la potenza dell'Eterno, Ester, che vuol dir codesto mai?

La piccola, curva persona del vecchio ebreo si era drizzata, e i suoi occhi saettavano fiamme: ma non ebb'egli campo ad aggiungere altre parole; Ester era diventata color d'un cencio lavato e senza manco un grido era caduta stramazzoni per terra. Jacob per prima cosa erasi affrettato a sollevarla e non senza molto sforzo era riuscito a trarla su e metterla comechessia sopra una seggiola, mentre chiamava soccorso; ma poi tosto si ricordò che di sotto non c'era Debora soltanto, ma quell'uomo altresì intorno a cui s'erano oramai così afforzati i suoi sospetti da esser quasi certezza; inoltre egli aveva ancora lo scrigno e l'armadio aperto e non voleva che il medichino vedesse Ester svenuta, nè il ripostiglio de' suoi denari, e quest'ultimo non voleva comparisse dischiuso nè anco a Debora. Con una rapidità di mosse che avreste creduta impossibile in quel corpo vecchio e in apparenza affatto svigorito, Jacob chiuse la cassa di ferro e l'armadio, insaccò i denari contati, nascose nella cappa del camino le chiavi, e fu a tempo a capo della scala per impedire che Gian-Luigi penetrasse nel piano superiore.

Quando il medichino si fu partito, Arom tornò nella stanza di sopra. Ester giaceva sempre a quel modo ed a nulla valevano per farla risensare le cure di Debora che si disperava intorno ad essa.

Il vecchio guardò un momento col suo occhio d'avoltoio la figliuola svenuta, e sulla sua faccia macilenta e raggrinzita non c'era altra espressione fuor quella d'un tremendo corruccio. Mise pesantemente la sua mano adunca sopra la spalla di Debora, e le disse minacciosamente fra i denti serrati:

— Tu mi spiegherai tutto codesto, vecchia scellerata. Che attinenze passano fra mia figlia e quel maledetto cristiano che è uscito or ora di qui?

Debora protestò per la legge e pei profeti che la non sapeva di niente e che non c'era niente.

Ester intanto, durando ancora lo svenimento, era stata assalita da movimenti convulsi che ne scuotevano miserabilmente le povere membra.

— Oh la mia padrona, oh la mia padroncina! gemeva la vecchia fante; ella si muore per sicuro...

Una qualche espressione di pietà tornò ad adombrarsi sulla trista faccia del rigattiere.

— L'abbiamo da lasciar morire così? continuava Debora torcendosi le braccia in atto di desolazione.

— No: disse allora Jacob scosso. Son disposto a qualunque sacrifizio per la mia figliuola..... anche quello di far venire un medico..... e vado a cercarne uno.

Fece alcuni passi e s'arrestò di subito.

— Ah! i medici costano l'occhio della testa, e non ne sanno nulla più di noi... e poi sono tutti cristiani... Debora, non ti pare che la vada meglio e che la sia per risensare?

— No pur troppo... Anzi!... veda che convulsioni!

— Allora vado... e pazienza!

Trasse un profondo sospiro e si decise realmente a partire. Corse traverso le strade già scure affatto [56] per la notte fino alla più vicina farmacia, e colà pregò un medico, che per caso appunto ci si trovava, a voler venire con lui per una donna assalita subitamente da un terribile deliquio. Il medico non si fece pregare e seguitò di buon animo l'ebreo sino colà dove giaceva ancora nel medesimo stato la bella giovane; guardò, esaminò, interrogò, tastò i polsi, studiò, ordinò un semplice calmante e poi sbattendo con forza dell'acqua nel volto alla svenuta la fece risensare.

Ester, quando si vide dappresso un estraneo e seppe che gli era un medico, arrossì, si confuse e si alzò precipitosamente come se volesse fuggire: ma le forze non bastandole ricadde sulla sua seggiola.

— Non è nulla, disse il medico, che parve dare importanza veruna a quel caso; voi siete maritata quella giovane?

La figliuola di Jacob arrossì più che mai: fu il padre che rispose:

— No, signor dottore.

— Ah ah! fece il medico in un certo tono strano che diede da pensare al sospettoso vecchio. Poco monta. Fate del moto, ma discretamente, non vi affaticate in nulla, e state di buon animo; ecco tutto.

S'alzò, salutò e si mosse per partire. Jacob lo accompagnò giù della scala facendogli lume, e fino all'uscita ad aprirgliene la porta.

— Non è dunque un affare grave? domandò il padre di Ester al dottore mentr'egli stava per partire.

— Niente affatto: rispose il medico con un sorrisetto malizioso.

— Ma che cos'è? insistette il vecchio rigattiere.

Se si fosse trattato di persona in altra condizione sociale più elevata, il medico ci avrebbe messo un po' più di riguardi, ed avrebbe fors'anco taciuto la verità; ma non si trattava che d'un miserabile ferravecchi e d'un ebreo; egli rispose ridendo:

— Che cos'è? Gli è che tutto dà a credere che quella giovane sia incinta da tre mesi.

Arom non mandò una voce, non fece un atto, impallidì e rimase immobile lì a quel posto, tenendo con una mano il lume, coll'altra il battente dell'uscio che aveva aperto, mentre il vento notturno gli cacciava sul volto la neve che fioccava: il medico, allontanatosi di buon passo, era già fuori del cortile che il vecchio padre di Ester stava ancora piantato sulla soglia del suo quartiere.

Un più forte buffo di vento che gli spense il lume tra mano e gli sbattè in volto più abbondanti i fiocchi della neve, lo fe' riscuotersi. Entrò e chiuse dietro di sè a tentoni, con tutte le sbarre che l'afforzavano, l'uscio pesante; s'avanzò nella stanza scura come una caverna sotterra finchè la sua mano tesa innanzi a sè non ebbe incontrato la tavola che ci stava in mezzo; depose su questa la lucerna spenta e poichè il suo stinco aveva urtato nella traversa d'una seggiola posta lì presso, egli vi si lasciò andar su e stette lì con una gran lassitudine d'anima e di corpo. Che cosa pensasse, o credesse o volesse non sapeva neppur egli, tanta era la confusione della sua mente. Quel colpo era stato così inaspettato e così violento che lo aveva tutto sbalordito. Non si faceva un'idea precisa della situazione, perchè in quel momento era incapace di connettere due idee; ma sentiva che un'irrimediabile sciagura gli era capitata addosso a rovinare tutti i suoi progetti d'avvenire, frustrare tutti i suoi desiderii, distrurre una gran parte della sua vita.

Tendeva l'orecchio ai lievi rumori che venivano dalla stanza superiore dov'eran le donne: un soffocato susurro di voci che parlavano, quantunque agitate, sommesso, il trascinarsi qua e colà delle pianelle di Debora che andava e veniva. Si domandava se era possibile che nella sua casa, senza che egli punto se ne avvedesse, sotto gli acuti e veglianti occhi suoi fosse avvenuto tal fatto che tutte cambiava le condizioni, tutto il suo destino e della famiglia.

— Non è vero, non è vero: diceva a se stesso scuotendo il capo, e si ripeteva queste parole molte e molte volte come per convincersene meglio egli medesimo.

Ma invece, a dispetto di ciò, a seconda che il primo turbamento veniva calmandosi, s'accresceva in lui la convinzione contraria. Ricordava lo strano umore, le melanconie, la pallidezza, le bizzarrie di idee e di gusti della figliuola da alcun tempo; e di subito, a fare il più luminoso commento a codesto, il turbato contegno di Ester al giunger del padre poc'anzi, la presenza del medichino, gli sguardi scambiati fra i giovani e da lui sorpresi, lo svenimento di lei all'apprendere che Quercia aveva un'amante.

— È lui lo scellerato: diceva Jacob a bassa voce, coi denti stretti. Su di lui piombi la maledizione dell'Eterno!... Ma come potè egli compire l'infame attentato?

In quella s'udì il trascinio delle pianelle di Debora accostarsi alla scala che scendeva colà dov'era coll'anima travagliata il padre di Ester, e la voce della vecchia cacciò giù queste parole:

— Siete costì messer Jacob?

Le due donne, dopo aver udito richiusa la porta, non avendo più visto comparire il vecchio nè sentito rumore di sorta, pensarono che uscito fosse ancor egli e ch'elle eran rimaste sole di nuovo, la qual cosa molto loro andava a versi, poichè avevano così tempo ed agio di concertarsi e studiare insieme intorno al modo di regolarsi. Ester poi aveva da sfogare l'immenso dolore che le aveva cagionato la per lei crudissima novella appresa dalla bocca di suo padre, che cioè Luigi avesse un'altra amante. State così un poco ad orecchiare, e non [57] venendo loro fatto di cogliere il menomo rumore che indicasse l'esistenza d'un'anima viva, non sapendo d'altronde darsi ragione del perchè il vecchio si rimarrebbe nella stanza di sotto senza tornare presso la figliuola della cui salute doveva pur essere e si era mostrato inquietissimo, le si persuasero d'esser sole; e Debora, per assicurarsene di meglio, venne alla botola della scala e disse quelle parole che ho più su riferite.

Ma queste indifferenti parole, o meglio la voce della fante, venne in tal punto che servi come di sprazzo di luce ad illuminare la mente di Jacob nella complicata quistione ch'egli si era posta dinanzi e che non sapeva affatto risolvere: come il medichino fosse pervenuto al compimento dell'empio disegno. Debora facendo ricordare la sua presenza in quel punto, veniva a chiamar su di sè l'attenzione del tradito padrone, veniva involontariamente a denunciarsi. Jacob non esitò pure un momento a credere che la scellerata vecchia era stata compra dal seduttore e s'era fatta l'infame suo stromento. Un'ira impetuosa, irrefrenabile, selvaggia lo prese: s'alzò con islancio furibondo e corse alla scala, tremante in tutte le membra per la collera che lo dominava.

— Sì, ci sono per tua disgrazia, vecchia figliuola di Baal! gridò egli con voce strozzata in gola dall'eccesso della rabbia, e fatte di volo le scale con una rapidità di cui non si sarebbero credute capaci le sue vecchie gambe, comparve nella stanza della figliuola, spaventoso per l'espressione feroce e tremenda delle sue sembianze orridamente contratte.

Debora all'udir solamente la risposta datale dal padrone, aveva capito che per lei era giunto un brutto momento e s'era affrettata a tornare presso di Ester, quasi come ad un rifugio.

— Aimè! Aimè! aveva ella detto tremando, vostro padre è furibondo..... Non l'ho udito parlare col tono d'adesso che una volta sola, quando ebbe perso quelle due mila lire.....

E già dietro la vecchia atterrita sopraggiungevano i passi concitati, quasi direi convulsi di Jacob e il soffio grave e affannoso del suo affrettato respiro. Appena nel cerchio di luce che mandava il lume, vide comparire la faccia allividita, gli occhi sfavillanti d'una cupa fiamma in fondo alle occhiaie, le labbra frementi di suo padre, Ester comprese ch'egli sapeva tutto e che un supremo momento era venuto per essa.

Ella stava ancora seduta, non essendole tuttavia tornate le forze ammorzate da quel penoso e lungo svenimento; ma al veder comparire in quell'aspetto suo padre s'alzò ed appoggiandosi alla tavola stette in piedi come preparata di meglio così ad accogliere quel pericolo che le precipitava addosso: le gambe le tremavano, il cuore le palpitava da impedirle il rifiato; gli occhi vedevano torbido e come dei lampi passavano innanzi alla sua vista offuscata. Quel momento terribilissimo che essa aveva temuto cotanto, per isfuggire il quale avrebbe tutto tentato, a salvarla dal quale aveva supplicato l'amante; quel momento era giunto. Quale scampo più le rimaneva? Nessuno. Che cosa stava per avvenire? Che sarebbe di lei?

Jacob a tutta prima non rivolse il suo furore contro la figliuola; non gettò su di lei che uno sguardo di sbieco, ma uno sguardo da agghiacciare il sangue nelle vene, tanto era niquitoso, e si slanciò con un balzo da tigre sopra Debora; l'afferrò pel collo così che le sue mani adunche le impressero nella pelle rugosa ed asciutta le unghie e con una forza che solo il furore poteva dare a quelle vecchie membra la trasse in terra cadendole sopra ancor esso.

— Miserabile!..... Infame!..... Sporca mezzana, quanto hai tu ricevuto per vendere mia figlia? diss'egli con voce soffocata dal parosismo dell'ira.

La vecchia si mise a strillare per quanto le concedea la stretta alla strozza delle mani convulse di Jacob.

— Misericordia!... Aiuto!... Per carità, gridava essa colla voce arrangolata; non mi ammazzate, sono innocente...

— Ah! innocente! sclamò con rabbia sempre maggiore Arom, il quale alzatosi prese a percuotere coi talloni la vecchia caduta, mentre questa liberata dalla stretta della gola urlava con quanto ne aveva in corpo:

— Soccorso!..... Accorr'uomo!..... o povera me!... Mi ammazzano!... Ahi! Ahi! Ahi!

— Taci!.... Vuoi tacere!.... diceva il furibondo percotendola sempre a quel modo.

Ma una persona s'avanzò, e, preso il vecchio alle spalle, lo allontanò dalla donna con una specie di autorità; era Ester. In lei s'era calmato alquanto il profondo turbamento del primo istante; nella gravità delle circostanze un'anima non fiacca trova sempre anche contro ogni previsione la forza e la risolutezza che occorrono; quando quella sventura o quel pericolo che tanto si sono temuti vi hanno sopraggiunto, per sopportarli ed affrontarli voi vi trovate ad un tratto una certa energia di cui non vi sareste manco creduti capaci. Ester in presenza della tragica solennità di quella scena tanto paventata sentì ben tosto riagire in sè un sentimento che era un'irritazione ancor esso, uno sdegno, un nuovo coraggio. Quando uno si sa minacciato da un disastro e vive nell'incertezza di quando e di come abbia esso a piombargli sopra, quasi desidera che presto avvenga la catastrofe per esserne fuori pur finalmente. Fu qualche cosa di simile ciò che pensò Ester in quel punto: la catastrofe era lì, presente; bisognava farle buon viso. La compassione per Debora così maltrattata dal vecchio inferocito venne a darle la spinta: a lei s'apparteneva d'entrare in mezzo a sostenere la parte principale in quell'orribile [58] scena. Su di sè era suo debito di chiamare lo sfogo di quel selvaggio furore; Ester, come vedemmo, si frammise fra Debora e suo padre.

— Tornate in voi: diss'ella freddamente e di guisa che appena era in lei un lieve tremito delle labbra a manifestare l'interna emozione. Non è con Debora che dovete prendervela, ma con me.

Jacob mandò una voce di furore, che pareva un ruggito soffocato e sembrò volersi lanciare su di Ester. Ella rimase immobile guardandolo con occhio triste, ma sicuro. Padre e figlia stettero così un minuto fronte a fronte, coll'aspetto egli d'un furibondo capace d'ogni eccesso, colla rassegnata fermezza ella d'una vittima pronta a tutto. Ma l'influsso di quelle avvenenti sembianze sull'anima del padre, in cui la figliuola era pure uno dei due unici suoi e potentissimi amori, non era tuttavia svanito così che fissando i suoi negli occhi di Ester non si commovesse in alcuna misura il suo cuore. Egli si tirò indietro d'un passo e la minacciosa ferocia della sua fisionomia lasciò alquanto luogo ad una espressione di profondo dolore.

— Tu dunque lo confessi, sciagurata! diss'egli con un gemito.

Liberata di quella guisa per l'intervento della padrona, Debora tutta indolenzita e sbalordita, erasi alzata lentamente tastandosi la persona: una paura indomabile la occupava; credevasi giunta alla sua ultima ora ed in lei gli anni non lasciavano bastevole vigoria da riagire contro il pericolo. Un pensiero solo rimaneva nella sua testa confusa, nella sua ragione smarrita: salvarsi da quegli artigli del vecchio, fuggire quel suo furore, cercare difesa contro nuovi eccessi del padrone dissennato dall'ira.

Ma come fuggire? Le gambe tremanti la reggevano appena: mai più non avrebbe avuto tempo di correr giù delle scale, precipitarsi all'uscio, aprirlo e guizzar fuori prima che Jacob l'avesse raggiunta. Guardando cogli occhi sbarrati tutt'intorno per cercare un modo di scampo, le venne fatto di veder lì presso la finestra: non ci stette a ragionar su nè poco nè assai, si gettò verso di essa, ne aprì le invetrate colle mani frementi e chinandosi all'infuori, con tutto quel più di voce che le consentiva la terribile sua emozione si diede a gridare per la tenebra della notte:

— Aiuto! aiuto!... Ci assassinano!

Non potè aggiungere altre parole chè Arom le arrivava sopra e ghermendola colla destra per quel poco di viluppo che le facevano sulla nuca le magre treccie delle sue chiome canute, la trasse violentemente entro la stanza, mentre coll'altra mano le tappava la bocca.

— Taci, mala femmina, o ch'io, com'è vera l'esistenza dell'Eterno, ti strozzo.

— Lasciate quella misera: disse Ester intromettendosi nuovamente: non la maltrattate ed ella tacerà; ve lo prometto io. Non è vero, Debora, che per far piacere a me tu tacerai?

La vecchia fante, ancorchè avesse voluto, non avrebbe potuto più continuare le sue grida. Ogni forza era assolutamente spentasi in lei. Jacob sentì che gli mancava sotto le mani, e poichè egli la lasciò andare, ella si accoccolò in terra non isvenuta, ma senza precisa e piena coscienza di sè e delle cose che avvenivano intorno a lei, quasi imbecillita.

Ester chiuse ella medesima la finestra: questa guardava in un altro cortiluccio interno del ghetto, diverso da quello in cui era l'uscio d'entrata; alcuni probabilmente dagli alloggi vicini avevano udito le grida di Debora, ma per quella fredda, nevosa notte d'inverno, nessuno aveva pensato bene di scomodarsi pur tanto da aprir la sua finestra a guardare donde partissero quelle grida e che cosa le cagionasse.

Abbandonata la fante, il padre di Ester si rivolse di nuovo alla figliuola; ma dal suo volto era scomparsa ogni traccia di men crudo sentimento e vi stava sola l'espressione dell'ira feroce.

— Tu lo confessi! ripetè digrignando i denti o, per meglio dire, le gengive. Tu sei colpevole?...

Ester sollevò nobilmente la testa, e con coraggiosa fermezza rispose:

— Amo!

Jacob abbassò la voce, ma l'accento era terribile:

— Tu se' madre?

La giovane curvò il capo.

— Maledizione! urlò il vecchio: e come hai tu potuto credere che io tollerassi una tanta infamia, una simil vergogna?... Ed è questo il compenso al tanto amore che ti portavo?... Pel Dio d'Abramo! La scelleraggine nasce adunque compagna alla donna e cova in lei seconda natura? La tua anima è un nido di vipere. Tu hai tradito tuo padre ingannandolo giorno per giorno, porgendo sfacciatamente al suo bacio una fronte infamata!... Oh mi annienti il fuoco del cielo se tu non avrai da scontare con lagrime di sangue, con lagrime per tutta la vita l'orrenda colpa: tu e quella sciagurata là, più vile d'ogni vil cosa in questo mondo.

Ed accostatosi alla vecchia Debora sempre accosciata a quel modo per terra, la percosse con un calcio.

La misera mandò un gemito.

— Per carità! per carità! susurrò essa con quel poco fiato che le rimaneva.

Ma il vecchio furibondo, assalito in quella da un'altra idea, si slanciava di nuovo contro la figliuola.

— E il tuo complice? Oh oh su di lui avrà da piombare eziandio la mia giusta vendetta... Io sono un povero vecchio.. un ebreo... un nulla, a cui si può impunemente recare la più fiera offesa, un verme che si schiaccia, senza il menomo riguardo [59] e senza il menomo rischio, passando... Quell'infame lo crede; e di certo ride di me, del debole padre ingannato e beffato... Miserabile! Il suo riso gli rimarrà nella strozza... Trema per lui, qualunque siasi, fosse pur anco un potente, trema per lui, donna perduta che tu sei, trema se tu l'ami!... Io no, non sono il verme innocuo che si calpesta impunemente; sono un essere che striscia nel fango, sono un rettile; sia; ma un rettile velenoso che morde il piede incauto che gli si posa sopra ed uccide il suo calpestatore... Il tuo amante, il padre di quel frutto infame che tu porti nelle tue viscere, te lo dico io, morrà, di cruda, orribil morte, morrà... E tu pure morrai; e la tua creatura maledetta nel tuo seno morrà senza veder la luce del sole.

Avanzava verso la figliuola il suo orribil viso di animale di rapina, acceso da una orribil fiamma di sdegno feroce. Ester incrociò le braccia al suo seno e disse fieramente ancor essa, con un lampo di superba audacia nei begli occhi neri:

— Credete voi che io non saprò difendere la vita di mio figlio? La mia poco m'importa; l'abbandonerei alla vostra vendetta; ma l'esistenza della mia creatura, oh per tutte le potenze del cielo e della terra, la difenderò anche contro di voi.

— Stolta! Povera stolta!... Tu non conosci ancora tuo padre... La tua colpa ha cambiato in lui l'amore che aveva per te in odio profondo... Tu lo troverai implacabile!..... Esso te lo ha detto: quando tu cessassi di camminar nelle sue vie egli avrebbe scatenato su di te tutte le maledizioni ed avrebbe invocate anche quelle dell'Eterno. Jehova, il Dio terribile, il Dio della vendetta, conferma le maledizioni de' padri!... Difendere la tua creatura! Come la potrai difendere contro la fame?

A questa orrenda parola che le rivelava l'avvenire minacciatole da suo padre, Ester non potè trattenere un grido e vacillò come se materialmente colpita da un urto.

— Ah padre! diss'ella giungendo le mani, non per me, ma per mio figlio, pietà! Esso è innocente.

— Pietà nessuna!

Ester tornò in un'espressione di riagente fierezza.

Egli, disse con una certa enfasi, saprà sottrarci, e me e suo figlio alle vostre mani.

Il parosismo della collera di Jacob che pur sembrava aver già toccato l'estremo suo limite, s'accrebbe ancora; le guancie gli diventarono color della cenere, mentre gli occhi avreste detto che in realtà schizzavan fiamme.

— Egli! Chi egli? Il tuo drudo, sgualdrina?.... Oh sentiamo un po' chi è costui!.... Ho gusto d'udirne pronunziato il nome dalle tue labbra..... Su via: chi è? Parla.

Ester scosse il capo in modo negativo. Il padre le afferrò le braccia ai polsi e stringendole colla forza convulsa del suo furore, ripetè:

— Chi è? Voglio saperlo..... Parla!

La giovane mandò un grido di dolore.

— Parlerai tu?

Ella si liberò con una violenta strappata da quella stretta che le lasciò un cerchio livido intorno le braccia e corse all'altro capo della stanza.

— Non ve lo dirò, non ve lo dirò mai: gridò essa con risolutezza disperata; e poichè vide suo padre accennare di accostarsele, soggiunse col medesimo accento: ah non tentate farmi violenza che io risponderei colla forza alla forza.

La sua attitudine la dimostrava pronta anche all'orribil lotta. Jacob si fermò: e padre e figlia si stettero guardando come sfidati nemici. Era un'orrenda scena!

— Che ho io bisogno tu mi dica il suo nome? riprese dopo un po' di silenzio il padre. La vostra imprudenza me lo ha rivelato; il mio istinto medesimo, anche senza di ciò, l'avrebbe saputo indovinare... Gli è un miserabile cristiano!..... Certo un così empio uomo, un vil seduttore di tal fatta non poteva che appartenere a quella razza di scellerati... Dio de' miei padri!... Mia figlia in potere di un cristiano; mia figlia contaminata dai baci d'uno di quei persecutori d'Israele!... Ma tu sciagurata non sai manco qual sia colui a cui ti sei prostituita! È un uomo che non ha nè fede nè legge; è un uomo a cui lo spergiuro e il delitto sono così facili come la parola ed il sorriso; è un uomo che ha le mani macchiate di sangue, che io potrei quando che sia far salir sul patibolo... E così farò, te lo giuro, e tu vivrai tanto solamente da vederlo per mano del boia appiccato, il tuo amante...

— Oh tacete! proruppe con esplosione d'orrore la giovane. Sperate voi ch'io creda queste assurde accuse?...

— Assurde!... Sono verità sacrosante; e lo vedrai. Ah! ci saranno eziandio altri occhi di donna oltre i tuoi che piangeranno sul supplizio disonorato di questo leggiadro rapitore di cuori..... Arrossisci e confonditi nella tua vergogna, miserabile druda d'un ladro ed assassino. Nè anco il suo amore tu non lo possedesti mai, ed egli uscendo dalle tue braccia andava a recare altrove i suoi sozzi amori deridendo con altre la tua credulità e l'abbandono dei tuoi trasporti.

Ester fece un sobbalzo come se tocca da ferro affuocato.

— Voi mentite! gridò essa con forza indignata; io non credo nulla di queste scelleraggini... Ah se lo credessi!

— Ebbene che faresti?

Gli occhi della giovane balenarono fieramente.

— Vorrei anch'io, disse, e saprei anch'io vendicarmi.

Il vecchio fece un orrido sogghigno.

[60] — Va bene! Vedo che qualche goccia di mio sangue c'è pure nelle tue vene..... Vendicarti?..... Va là, che sarò io ad ottenerti la più compiuta vendetta.... Ci vendicherò entrambi a misura di carbone....

La figliuola si accostò a Jacob e soggiunse con solenne accento:

— Giuratemi, padre, pel nostro Dio e per Israele, che quanto mi avete detto di quell'uomo è la verità.

Arom tese la scarna mano.

— Per Jehova e per Israele, per la memoria di tua madre e per la speranza del Messia ti giuro che tutto ciò che ti ho detto è vero.

E le raccontò gli amori di Luigi colla contessa di Staffarda, colla cortigiana Zoe, coll'abbietta Maddalena.

Ester divenne ancora più pallida di quel che fosse, strinse con forza convulsa le mani l'una nell'altra e disse con fiera pacatezza:

— Sta bene.... Fate di me e di lui quello che volete, padre.

In quel momento ella non pensava manco più all'innocente creatura che portava nel suo seno.

Questa rassegnazione parve placare alquanto il vecchio furibondo.

— Farò, farò, diss'egli, e si rallegreranno dell'opera mia gli angeli delle tenebre.

Volse lo sguardo verso Debora, che giacendo sempre per terra, pareva un viluppo di sordidi panni.

— E prima di tutto a questa infame!....

Le venne presso e la riscosse col piede come si farebbe ad un cane tignoso.

— Su, strega, alzati e seguimi.

La vecchia allargò tanto d'occhi in faccia al padrone e disse con voce piagnuccolosa:

— Per carità, non mi fate male.

— Alzati, ripetè Jacob.

Debora si drizzò.

Arom prese l'unico lume che ardeva sulla tavola, ed accennando l'uscio che metteva nel primo scompartimento dei due in cui era divisa la stanza, le comandò:

— Va!

La fante, vacillando sulle sue gambe che tremavano, s'affrettò ad obbedire.

Jacob, sul punto di uscire ancor egli, disse alla figlia:

— Questa sarà la tua carcere — per ora!

Varcò la soglia e chiuse dietro di sè la porta a chiave. Ester immobile pareva non prestar più attenzione a nulla che le avvenisse dintorno. Udì incommossa le ultime parole di suo padre, udì chiuder l'uscio di quella stanza da cui non sapeva se ancora sarebbe andata fuori vivendo; rimase all'oscuro, sola, e continuò a star dritta a quel luogo in cui si trovava — gli occhi fissi innanzi a sè, ai quali apparivano chi sa che crudeli visioni!

Il fiero vecchio intanto trasse Debora più morta che viva fin nel sotterraneo ripostiglio dove sappiamo ch'egli teneva nascosta la maggior parte dei suoi tesori. Cacciò là dentro la povera fante tramortita e ve la chiuse senza pure una coperta a difendere le sue vecchie membra dal freddo umidiccio di quel luogo.

— Le non mi scappan più: diss'egli risalendo alla stanza del pian terreno, e così non possono avvisar di nulla il medichino... Ah ah! gli è con costui ora che bisogna avviare una difficil partita. Bisogna perderlo senza perder me. Egli è furbo, egli è potente, egli è audacissimo...

Sedette in quello stanzone in cui ora si trovava solo, e messo il capo fra le due mani stette lungo tempo a meditare, senza che una sola parola più gli uscisse dal labbro. Si riscosse finalmente, s'alzò, prese il suo frusto cappello, il suo frustissimo pastrano, e si dispose ad uscire.

— Andiamo all'importante convegno della cocca: disse fra sè. Conviene che nessuno sospetti di niente, e intanto da quello che si farà e si dirà stassera, avrò forse qualche elemento per saper di meglio come regolarmi.

Ed uscito di casa, dopo aver chiuso con ogni maggior cura la sua porta venne fuor del ghetto e si diresse verso quella parte della città in cui era la bottega del suo collega rigattiere, il Baciccia.

CAPITOLO X.

Abbiamo visto come Don Venanzio e Giovanni Selva, mentre fra Maurilio e Gian-Luigi aveva luogo il colloquio che abbiamo riferito al capitolo VIII, si fossero recati da quella vecchia che era soprannominata la Gattona, e li vedemmo pure tornarsene presso il giovane loro amico, animati da una certa emozione, dicendogli che avevano qualche cosa di importante da dire.

Per meglio comprendere ciò che era avvenuto ai due amici di Maurilio, bisogna che ci rifacciamo alquanto indietro nella mattinata di quel giorno medesimo, quando nell'occasione dell'arresto del nostro protagonista, Gognino, il nipote della Gattona, aveva visto quel cotal bottone d'argento e meravigliatosi di trovarlo uguale ad uno cui possedeva eziandio la nonna. Già narrai come il ragazzo avesse contato codesto alla nonna che avea mostrato dare a tanto semplice fatto una certa importanza, ed erasi senza indugio recata al convento del Carmine a consultare il gesuita Padre Bonaventura[6]; già vedemmo eziandio come quest'ultimo fosse andato, subito dopo il colloquio colla Gattona, in casa messer Nariccia, e dalle poche parole che abbiamo udito nell'atto in cui l'usuraio riconduceva il frate fino sul pianerottolo dove trovava Gian-Luigi che [61] veniva da lui per impegnare i diamanti della contessa Candida, da quelle parole abbiamo potuto indovinare che Padre Bonaventura aveva ripetuto a Nariccia i discorsi che s'eran fatti fra lui e la nonna di Gognino, che il frate e la Gattona avevano alcun sospetto sull'origine di quel giovane che possedeva il piccolo oggetto veduto dal ragazzo, che l'usuraio non ispartiva que' sospetti, ma intanto approvava il consiglio che Padre Bonaventura aveva dato alla vecchia mendicante, di tacere per ora e cercare di appurar meglio la verità[7].

Le parole anzi di Nariccia furono tali che ci appresero aver egli non che alcun interesse in quell'affare misterioso, ma qualche rischio eziandio da correre; e ci è facile l'argomentare che se la Gattona con tanta sollecitudine era corsa ad apprendere al frate la scoperta di Gognino e consultarsene in proposito, e se il frate con pari sollecitudine erasi recato da Nariccia ad istruirlo di tutto, il vero dev'esser che quei tre personaggi hanno avuta una parte qualsiasi, ma certo importante, nel fatto che tolse alla sua famiglia, al suo grado, forse alle sue ricchezze un bambino e che ora dubitano, sia speranza o timore il loro non sappiamo, che questo bambino possa tornar loro innanzi nella persona di Maurilio.

E non molto più di questo avremmo potuto scoprire ancorchè avessimo trovato modo di udire i confidenziali colloquii che ebbero luogo in proposito fra la Gattona e Padre Bonaventura, e fra costui e Nariccia. Essi parlavano di cosa della quale ogni incidente era loro ben noto, di cui non avevano da richiamare alla mente nè propria, nè dell'interlocutore alcuno dei precedenti, di cui pareva inoltre che niuno avesse molto gusto nel ricordare e ripetere i particolari: essi quindi si capivano a mezze parole e chi ignorava ciò che fosse avvenuto fra di loro, non avrebbe a niun costo potuto ricostrurre il complesso dei fatti dai tronconi che presentavano le loro frasi.

Fra non molto ci sarà dato di penetrare in questo mistero, intorno a cui gravita e s'aggira gran parte del nostro dramma; per ora contentiamoci di questo adombramento che ci mostra uniti nel passato da un certo legame, forse di complicità, i tre poco nobili e poco simpatici personaggi, del gesuita, dell'usuraio e della vecchia spigolistra, mezzana e peggio.

Costei, dopo il colloquio col frate, era stata ancora un poco alla soglia della chiesa del Carmine coi suoi candelotti, cui alla richiesta di questo o di quel divoto andava ad accendere ad uno od all'altro altare per la ricompensa di due soldi ciascuno; ma quella mattina la donna non aveva la mente rivolta a questo religioso e stupido commercio, sibbene stava fra sè ruminando ben diversi e più gravi pensieri ed a suo avviso ben più importanti per la sua sorte medesima.

Ecco press'a poco le cose che le frullavano per la testa:

— Se questo fosse proprio il ragazzo ch'io credo, qual conseguenza ne verrebbe per me? Buona o cattiva?.... Cattiva è impossibile..... Non son io che ho deciso la sua scomparsa ed ho invece procurato fosse ancora possibile il rintracciarlo un giorno.... E poi in più cattive acque di quelle dove affogo non ci posso cascare..... Se invece la scoperta di codestui è presa pel buon verso, non è forse il caso ch'io mi debba aspettare qualche larga ricompensa?.... Se mi ricordo bene, il figliuolo del padrone non voleva la sparizione del bambino. È un uomo così onesto che se gli si conducesse davanti quel giovane e gli si provasse chiaro esser suo sangue, lo accoglierebbe a braccia aperte e lo vorrebbe risarcire del tempo trascorso; lo farebbe, non foss'altro che in memoria della morta..... Impossibile che lasci nella miseria la persona che facesse questo miracolo!.... E il giovane balzato così ad un tratto in mezzo alla ricchezza, che riconoscenza non dovrebb'egli avere per me?

Sorrise colla sua bocca sdentata alla prospettiva delle ricompense che le avrebbe dato siffatta gratitudine.

— Padre Bonaventura, così continuava seco stessa, vuole ch'io non muova nè anco un dito, che lascii fare a lui.... Già, perchè vuol tirar l'acqua al suo mulino, vantaggiarsene egli, ed a me levarmene ogni merito..... E fors'anco che a lui ed a quel birbante di messer Nariccia conviene di più metter la cosa in tacere, che la continui ad andare come la è ita fin adesso, e chi ha avuto, ha avuto. Ma se la è così, non foss'altro che per far danno a quello scellerato d'un Nariccia che si avvoltola nell'oro e me lascia nella miseria, dovrei parlare... L'importante si è di saper bene su che terreno si mette il piede prima di fare un passo; bisogna conoscere anzi tutto se quel certo bottone è proprio quello, e inoltre investigare le disposizioni d'animo di colui dal quale tutto dipende... Se potessi vederlo!... A comparirgli dinanzi mi ci perito... ma via ho abbastanza di coraggio da superare ogni simile esitazione... Il guaio si è che pare aver egli giurato di non ricevermi più: per quante volte mi sono presentata al suo palazzo, e' mi ha fatto dar l'elemosina ma non mi ammise mai al suo cospetto. Potrei scrivergli una brava lettera, in cui gli direi che bisogna assolutamente ch'io gli parli, che si tratta di cose che lo riguardano... Ma per far ciò bisognerebbe che avessi già dall'altra parte chiarito il vero intorno a quel giovinotto: ed ora per contrattempo egli è arrestato e chi sa fin quando non potrò parlargli!...

Affondò nelle palme delle mani la sua testa dalle chiome bianche, arruffate, mal coperte da uno sporco [62] e lacero fazzoletto, e rimase alcuni minuti in una tensione di mente straordinaria. Nel suo cervello si urtavano delle frasi bell'e fatte di quella lettera cui erale venuto in pensiero di scrivere.

— Finchè ci ho l'idea, bisogna ch'io non la mi lascii scappare, diss'ella poi riscuotendosi; comincerò per metter giù la mia brava missiva, a patto di farla ricapitar poi quando convenga.

Diede una gomitata a Gognino che, accoccolato presso di lei, tutto tremante e intirizzito dal freddo, sbadigliava a ganascie larghe.

— Animo, su, marmottone, drizzati, prendi il cestello dei candelotti e dei rosarii e vienmi dietro.

Il ragazzo non se lo fece dire due volte e passato il braccio nel manico della cesta seguitò la nonna co' suoi passetti stentati e zoppicanti per l'intirizzimento dei suoi poveri piedini indolenziti dai geloni.

Quando furono nella miserabile soffitta in cui la sera innanzi Maurilio s'era introdotto dietro la scorta di Gognino, per prima cosa la Gattona prese dal braccio del fanciullo il suo cesto dei candelotti, dei rosarii e degli agnusdei, e vi sostituì un altro con dentrovi alcune dozzine di mazzi di fiammiferi.

— To', diss'ella come desiosa di presto liberarsi del piccino, va e guarda di fare ammodo e di non baloccarti secondo il solito. Se questa sera non mi porti i dieci soldi, sta pur sicuro che ballerai una bella correnta.

Gognino allargò tanto d'occhi e guardò con istupore profondo il cestello che gli era stato messo al braccio e la nonna.

— Ebbene? disse ruvidamente costei dando colla mano uno spintone al ragazzo; che cosa c'è da star lì incantato? Non hai capito, o sei sordo?

— Ma.... balbettò Gognino.

— Ma, ma, ma, che ma vuoi tirar fuori adesso?

— Quel signore di ieri sera, disse timidamente il fanciullo, aveva detto che non mi mandaste più a vendere....

La nonna lo interruppe....

— Quel signore ha detto ciò che gli piaceva, ed io faccio quel che mi garba; va....

— E che vi dava dieci soldi per giorno: soggiunse Gognino senza muoversi dal posto, ma contorcendosi della persona come usava fare quand'era preso dalla malavoglia di obbedire.

— Olà! Che cosa vogliono dire tante ragioni? disse la vecchia corrugando minacciosamente le sopracciglia.

Ma Gognino, che era in vena di coraggio, ardì ancora di soggiungere:

— E questa mattina i dieci soldi e' ve li ha dati.

La Gattona alzò la mano per misurare al piccino uno schiaffo.

— Ve' l'impertinente!.... Che sì che ti mostro io il modo di parlare, tristanzuolo che tu sei!... Tira via subito senz'altre parole, o che ti levo io il ruzzo di capo: hai capito?

Il ragazzo fece greppo ma capì che il più conveniente per lui era l'obbedire.

— E da mangiare: diss'egli ancora colla voce fatta piagnolosa: quand'è che me ne date da mangiare?... Ho fame.

— Santa Madonna del Carmine! esclamò la vecchia come scandolezzata da quella richiesta. Questo maladetto ragazzo è un abisso senza fondo; e' mangierebbe il reddito di sette parrocchie!

— Ho fame! ripetè Gognino cominciando a piangere per davvero.

La nonna prese per colà un pezzo di pane inferigno e lo gettò nella cestina del ragazzo.

— Prendi e va che il diavolo ti porti.

Lo prese ad una spalla e messolo fuori chiuse l'uscio dietro di lui. Quando fu sola nella soffitta, la Gattona tirò fuori da un suo ripostiglio un pezzo di carta che poteva ancora dirsi bianco ed un calamaio di maiolica sporca in un bucherello del quale piantata una penna d'oca dalle ispide barbe; pose il tutto sul tavolo zoppo che si reggeva contro la muraglia e sedutasi colà colla carta davanti e la penna in mano s'accinse a scrivere.

Non ebbe da aspettare pure un momento l'ispirazione, perchè, come ho detto, fin da quando era in chiesa le pullulavano nella testa le idee onde quella lettera doveva essere concepita; e di subito la si pose a scrivere con un'ortografia ed una lingua tutte sue particolari.

«Ecelensa

Sonno io sotoscrita Modestina Luponi la cuale sonno statta bon[8] in chasa suva, la cuale con cuesta mia.....»

La era a questo punto della sua produzione letteraria, quando si picchiò all'uscio della soffitta.

— Chi va là? disse con accento malgrazioso la Gattona scontenta d'essere disturbata.

— Amici, rispose una voce franca e simpatica, che vi abbiamo da parlare di cose molto rilevanti.

La Gattona, benchè di mala voglia, pur tuttavia s'alzò e venne ad aprire. Entrarono Don Venanzio e Giovanni Selva.

— Siete voi, cominciò Selva senz'altro, quella donna cui chiamano la Gattona?

— Son io: rispose la vecchia facendo una riverenza a Don Venanzio la cui bella figura e l'abito pretesco sopratutto glie ne imposero di botto: Modestina Luponi è il mio vero nome, e son qui per servirli.

— Noi veniamo a parlarvi di cosa molto delicata e che può avere gravi conseguenze....

— Santa Madonna! esclamò la nonna di Gognino alquanto sgomentata da tali parole e dalla faccia [63] seria ed anzi severa con cui le parlava quel giovane ch'ella non ricordava d'aver visto ancora mai. Che cosa può essere? Che cosa posso aver io, povera donna, di comune con lor signori che non conosco?... Io sono una buona vecchia che non faccio male a nessuno, e spero che non si tratterà nemmeno di far del male a me....

— Tutt'altro! rispose Giovanni. Si tratta invece che molto probabilmente voi siete in grado di fare assai bene a qualcheduno.... e quindi anco a voi, perchè questo qualcheduno vi sarebbe di molto riconoscente.

La Gattona cominciò ad aprir le orecchie e prestare più volenterosa attenzione.

— Ah sì? diss'ella. Ma s'avanzino, li prego, s'accomodino.

E tirò innanzi verso i due visitatori due scanni. Don Venanzio, a cui l'età rendeva faticoso il salir delle scale, e che perciò dopo i cento e cinquanta scalini montati per venire fin colassù sentivasi assai lasso, sedette sur una di quelle seggiole, mentre il suo fido Moretto, entrato ancor egli dietro i calcagni del padrone, veniva a sdraiarglisi in mezzo alle gambe; Giovanni Selva, precisamente come aveva fatto la sera innanzi Maurilio, andava ad appoggiarsi alla tavola zoppa, a cui stava scrivendo la vecchia, quando i due visitatori erano venuti a picchiare.

— Mia buona donna: disse allora colla sua voce cotanto buona e affatto corrispondente alla soavità delle sembianze il canuto parroco; non è per nostro conto che noi veniamo a parlarvi, ma gli è per una persona che molto molto ci interessa, e cui, se siamo bene informati, voi per una ventura che è forse l'effettuazione d'un decreto della Provvidenza, avete conosciuto ieri sera.

La vecchia raddoppiò la sua attenzione e non cercò nemmeno di dissimulare la viva curiosità e il vivissimo interesse che in lei destavano siffatte parole.

— La vorrebbe dire per caso mai quel cotal signore che ier sera mi venne in casa accompagnato da Gognino?... che mi lasciò qui la polizza col suo nome scritto... Dove mai la si è cacciata?... Tò; eccola qui... Maurilio Nella... Gli è quello?

— È quello precisamente.

La Gattona si meravigliò seco stessa di quella combinazione della sorte, per cui nel punto ch'ella stava occupandosi di quel cotale e pensando al modo di averne informazioni, le venivano innanzi di tali con un proposito forse uguale, con fine probabilmente identico ed era facile che le recassero quelle nozioni appunto ch'ella desiderava.

Ma ne lo stesso mentre che seco stessa si rallegrava di questo incidente, la sua naturale furberia le suggerì più conveniente partito esser quello di rinserrarsi in un cauteloso riserbo per cui la potesse riuscire ad apprender essa ciò che voleva, senza svelare, da parte sua, agli altri nulla che la potesse compromettere.

— Che bravo signore! esclamò essa: che bell'anima!... Senza conoscermi, egli mi parlò come un vero benefattore, e si volle assumere verso di me e del mio povero nipotino un'opera di carità fiorita... Io non posso nulla per lui da mostrargli la mia riconoscenza; e se potessi, la Madonna mi legge nel cuore con quanta volontà, con quanto piacere farei qualunque cosa! Non posso che pregare il signore Iddio e i miei Santi protettori che lo ricompensino loro; e l'ho fatto... questa mattina ho sentito una messa di più a sua intenzione, ed ho detto la terza parte del Rosario per lui... E sì che ho appreso poi da mio nipote che una brutta disgrazia gli è piombata addosso questa stessa mattina. Egli fu arrestato...

— Ora è già rimesso in libertà: disse Don Venanzio che sperava poter tagliare le ciancie della donna e venir egli a dire ciò che importava.

Ma la chiaccherona non si lasciò mica sconcertare per così poco.

— Davvero! riprese ella colla foga della sua parlantina, ne ho veramente piacere. Santo cuor di Gesù e di Maria! Non poteva essere altrimenti... E chi sa che anco le mie preghiere... le povere preghiere d'una peccatrice sono qualche volta accolte dalla clemenza della Beata Vergine... e chi sa che anco le mie preghiere non abbiano giovato qualche poco...

Selva che era impaziente assai di tutte queste chiacchere della vecchia, interruppe con meno garbo certo di quello che avrebbe usato il buon Don Venanzio:

— Meglio che colle preghiere, poichè dite di voler giovare al nostro amico, voi lo potete fare col rispondere francamente e compiutamente alle domande che siamo venuti a farvi.

La Gattona si tacque e parve recarsi un istante sopra se stessa a riflettere.

— Queste domande sono venuti a farmele a nome di quel signore?

— Appunto.

— E come va?.... Scusino la mia domanda, ma io sono una povera donna che non conosco le cose del mondo..... Come va, dico, che poichè quel signore ora è libero, non è venuto egli stesso a farmi quelle domande che lor signori mi dicono importanti e la cui risposta può giovargli?

Don Venanzio, temendo qualche meno paziente risposta del suo giovane compagno, s'affrettò a risponder egli.

— La vostra osservazione è giustissima; però conviene che sappiate la cosa essere di tal natura, che un estraneo può trattarla colla ponderazione che ci vuole molto più di chi vi è principalmente interessato; inoltre, che ardendo di vivissimo desiderio d'essere chiarito il più presto possibile intorno [64] alle cose che siam qui per domandarvi, e non potendo tosto venire egli stesso perchè trattenuto da alcuna bisogna, Maurilio medesimo ci ha pregati di recarci qui in sua vece; e perchè abbia pregato noi piuttosto che altri, capirete agevolmente, quando saprete che costui — l'avvocato Giovanni Selva — è uno de' più intimi suoi amici, ed io sono un povero prete di campagna che l'ho conosciuto fin dai suoi primi anni, e l'ho educato ed amato sempre quasi come se del mio sangue.

La Gattona fece un atto d'acquiescenza, come per significare che quelle spiegazioni la soddisfacevano per l'affatto; poi dopo un poco di silenzio in cui si vedeva ch'ella aveva studiato con molta prudenza il modo di governarsi e le parole da pronunziare, ella disse:

— Favoriscano allora di farmele codeste domande ch'io risponderò schiettamente come son usa sempre di fare, e nulla desidero di meglio se non che le mie risposte possano giovare, come loro dicono, a quel signore.

Nè Don Venanzio, nè Giovanni, erano molto destri in quell'arte di simulazione e di accortezza che costituisce il pregio d'un buon diplomatico, e il miglior mezzo per arrivare un fine pensavano che fosse, e non sapevano usarne altro, quello di camminare schiettamente, a testa levata verso di esso. Per ciò Giovanni volendo risparmiare al vecchio sacerdote la fatica e il fastidio delle interrogazioni, cominciò egli a dire senza più preamboli:

— Conviene che sappiate essere il nostro amico un figliuolo d'ignoti genitori, abbandonato nelle fascie...

La vecchia non fu tanto padrona di sè che non mostrasse per un lieve movimento una certa impressione in lei prodotta da questa novella, e Giovanni, che era molto osservatore e che in questa occasione ancora ci poneva tutta la sua attenzione, non fu senza notare quell'effetto, quantunque fugace, delle sue parole.

— Con lui bambino, continuava l'amico di Maurilio, furono trovati alcuni oggetti destinati forse nel pensiero di chi ce li aveva posti a farlo riconoscere un giorno....

— Che oggetti? domandò con vivo interesse la Gattona, a cui fu impossibile frenare o nascondere un sentimento che era qualche cosa di più di una semplice curiosità.

— Non ho nessuna difficoltà a dirvelo: questi oggetti erano un rosario, un bottone d'argento da livrea ed una lettera di poche parole.

La nonna di Gognino chinò gli occhi alla terra perchè lo sguardo del giovane fisso su di lei non potesse vedere entro essi il turbamento che l'aveva presa. Giovanni si tacque come per aspettare che la donna dicesse alcuna cosa; ed ella, rimasta così un poco immobile e muta, cogli occhi bassi, sentendo che qualche parola bisognava pur dirla, domandò poi, evitando studiosamente d'incontrare coi suoi gli occhi del giovane:

— Or bene, per che modo ci ho io da entrare in codesto?

— Ve lo dico subito. Il vostro nipotino avendo per caso veduto uno di quegli oggetti, cioè quel tal bottone, si lasciò sfuggir detto che voi ne possedevate un altro affatto simile.

La Gattona fu così malaccorta da volersi tosto difendere.

— E che per ciò? diss'ella. Primieramente codesti bottoni da livrea si rassomiglian tutti, e il mio potrebbe anche non essere identico a quello: e poi, quand'anche fosse, chi sa quanti si troveranno possederne di simili, e si avrà da dire che per ciò hanno da aver avuto parte nel trafugamento, che so io di simile, di quel bambino?

Selva sentì nel suo interno un vivo movimento di gioia che ebbe la forza di non lasciar apparire; per lui era oramai quasi una certezza che la sorte li aveva messi sulle buone traccie per iscoprire la origine di Maurilio.

— E nessuno dice codesto: rispose egli con tutta pacatezza. Quanto all'essere o non essere uguali i bottoni è una questione che potrà essere presto risolta qui stesso, perchè voi non negherete di farci vedere quel vostro e noi potremo giudicarne di subito. La vostra seconda osservazione poi sarebbe giustissima se si trattasse d'un bottone da livrea d'una famiglia tuttora vivente e di cui molto facile quindi ve ne sieno di sparsi qua e colà; ma la cosa sta invece che là sopra vi è lo stemma d'un casato da molti anni estinto, e di cui non esiste più nè parentela, ne quasi persona che con esso abbia avuta attinenza. Un oggetto come quello che ha il mio amico non c'è ragione alcuna perchè sia stato conservato, da questa infuori, che la sia una memoria; e l'averne voi uno simile fa supporre che anche per voi esso rappresenti qualche ricordo del passato, manifesti qualche attinenza con quelle medesime persone che posero vicino al fanciullo abbandonato un oggetto compagno.

La vecchia invocò tutti i santi e le sante del paradiso per protestare ch'essa non sapeva di nulla e che la non ci entrava per nulla.

— Ma frattanto, disse allora Don Venanzio colla sua voce calma ed insinuante: avreste voi alcuna ripugnanza a lasciarci vedere quel vostro bottone?

La donna stette un momento in forse: ma poi la voglia vivace che in realtà aveva ancor essa di appurare il vero la spinse ad acconsentire alla richiesta. Andò presso una specie di madia che c'era in un angolo, ed apertala trasse dal fondo un cartoccino di carta, sviluppato il quale, fece brillare il terso argento d'un bottone stemmato. Don Venanzio, a cui la vecchia lo porse, non ebbe che da prenderlo in mano per riconoscere che era affatto affatto uguale a quello di Maurilio; la medesima arma gentilizia: [65] nella parte superiore un mezzo leone rampante in campo azzurro, nella inferiore tre stelle disposte a triangolo in campo d'oro, sormontato il tutto da un cimiero con corona comitale, ed intorno una lista ripiegata con scrittavi in carattere gotico la leggenda: voluntas ardua vincit.

A Giovanni era bastato eziandio un colpo d'occhio per vedere che Gognino aveva avuto ragione e quello posseduto dalla vecchia era tale e quale come il bottone trovato addosso al fanciullo abbandonato. I due amici di Maurilio si scambiarono uno sguardo d'intelligenza, il quale manifestava eziandio in ambedue una certa emozione.

— Non v'è più dubbio nessuno, disse Don Venanzio, i due bottoni sono perfettamente uguali.... Voi non vi stupirete, brava donna, se noi crediamo dover pregarvi a dirci come e in che modo questo oggetto è venuto nelle vostre mani, se voi avete avuto alcuna attinenza colla famiglia di cui qui sopra sta in rilievo lo stemma, se finalmente voi potete darci alcuno fosse pur anco lievissimo indizio per venire a capo di argomentare da chi sia stato abbandonato infante il nostro giovane amico, se alcun rapporto ha la sua nascita con alcuno che di poco o d'assai appartenesse a quella famiglia ora spenta.... Certo voi potete facilmente smagare ogni nostra domanda colla semplice risposta che già ci avete dato, cioè di non saper nulla: ma pensate, se fosse diversamente, in cosa di tanto rilievo qual carico prenderebbe la vostra coscienza....

— Pensate, soggiunse vivamente Giovanni che per vincere le esitazioni della vecchia pensava più acconci argomenti d'altra fatta, pensate che, se restituito col vostro aiuto ad una ricchezza, ad un nome illustre che gli appartengano, il nostro amico vi ricompenserà più che largamente.

La Gattona stette un poco senza parlare, profondamente riflettendo seco stessa, senza badare forse che queste sue oscitanze, come le parole che già si era lasciata scappare, davano sempre maggior fondamento alla supposizione che essa qualche cosa sapesse di quel segreto.

Quando poi parlò, invece di dare una risposta, fece essa una domanda.

— Poichè essi mi dicono che quell'arma appartiene ad una famiglia che ora è spenta affatto, sanno essi qual nome avesse questa famiglia?

— Si, rispose Don Venanzio. Ho già fatto, parecchi anni or sono, delle ricerche intorno ad essa e non venni a capo di null'altro che di sapere chiamarsi la medesima De Meyrat.

— Ebbene, disse allora la donna, io dirò tutta la verità per quanto mi riguarda e vedranno che la è molto semplice... È vero che quel bottone appartiene alla livrea dei De Meyrat; ed ecco il come si trova in mia mano... Mio marito buon'anima... che la clemenza di Dio gli dia pace nel mondo di là, che in questo, lo scellerato me ne ha fatto vedere di tutti i colori... mio marito era domestico in quella casa. Ne uscì naturalmente, e prima ancora che mi conoscesse, quando il colonnello, ultimo di quel nome, fu ammazzato ad una battaglia di Napoleone... laggiù in Alemagna.... che non mi ricordo più come la si dice.

— Lipsia: suggerì Don Venanzio che l'aveva udita rammentare ancora quella stessa mattina dal marchese di Baldissero.

— Sarà benissimo come Lei dice. Alla vendita che si fece di tutta la roba famigliare, si rubò a man salva da ogni parte, e l'intendente, com'è naturale, rubava più di tutti... Mio marito che allora era giovanissimo e inesperto... ah! se fosse stato più tardi avrebbe saputo farla un po' meglio..... non portò via che alcuni miseri gioielli e degli abiti, fra cui alcuni da livrea; è vero che di questi seppe scegliere quelli che avevano i bottoni e i galloni di vero argento, lusso che quella famiglia si permetteva, e che ora non si vede più... Come lor signori posson capire, tutta questa roba andò via via fondendo a poco a poco, e quando parecchi anni più tardi io sposai quel benedetto uomo... per mia disgrazia devo dire, ed in quel momento la Beata Vergine mia special patrona ed avvocata mi ebbe levato la sua santa protezione, chè ne ho visto di tutti i colori con quell'animale... basta!, quando lo sposai non rimaneva più che una filza di cotali bottoni; e questi gli uni dopo gli altri andarono ancor essi dall'argentiere, finchè non me ne rimase più che quello lì ch'io ho voluto conservare in ricordo d'un tempo migliore e come memoria del mi' uomo che Dio abbia in gloria... E questa è la verità sacrosanta, parola sacratissima di Modestina Luponi; e voglio che il Cielo mi perfondi se ho detto tanto così che non sia.

In tutto codesto, fosse o no la verità, non v'era lume alcuno da avere per l'intricata quistione cui proseguivano i due amici di Maurilio; e non potendosi essi acquetare così facilmente a rinunciare alla concepita speranza di trovare in quel fatto un bandolo della matassa, vennero muovendo e l'uno e l'altro a vicenda interrogazioni e sollecitazioni ed anco preghiere varie, insinuanti, accalorate; ma tutto inutilmente. La vecchia, lieta in sè stessa di essere da sua parte chiarita di quanto voleva sapere, pensava buona politica per suo interesse di lasciare i suoi interlocutori al buio, affine di poter agire essa sola in proposito e secondo sue convenienze.

I due amici di Maurilio, disperando oramai di vincere l'ostinazione della vecchia, e poco lontani dal persuadersi, che in realtà poi ella non avesse nulla da dire, stavano per andarsene, quando, per fortuna gli occhi di Giovanni Selva caddero sul foglio di carta cui la Gattona stava scrivendo prima del loro arrivo, ed al quale egli, appoggiato alla tavola, aveva sin'allora volto le spalle.

Il giovane mandò un'esclamazione in cui v'era [66] sorpresa, soddisfazione e trionfo, e senz'un nè due s'impadronì di quel pezzo di carta.

— Ah ah! diss'egli agitando in aria come un trofeo lo scritto della Gattona. Oserete ancora negare?

La vecchia non comprese per qual ragione Selva mostrasse tanta gioia di aver trovato quel foglio e paresse considerarlo come una prova a di lei carico: ma tuttavia domandò vivamente che quella carta le si restituisse e fece a prenderla ella stessa colle sue mani d'arpia.

— Piano: disse Giovanni, levando tanto in alto il foglio che la donna non lo potesse arrivare; questo è un documento prezioso che non abbandono più. Ah! voi protestate che del povero bimbo non sapete nulla?... Va benissimo; ma presso il meschinello, colle altre cose fu trovato anche un biglietto che diceva come foss'egli battezzato e con qual nome, e questo nome essere quello di suo padre; or bene la scrittura di quel biglietto è questa qui, la quale non può essere d'altri che di voi o di qualcuno che è qui con voi e che ci dovete nominare.

Don Venanzio che verificò la cosa essere appunto come Giovanni la diceva, ringraziò la Provvidenza la quale evidentemente si faceva collaboratrice dell'opera loro, e si unì al giovane suo compagno per pressare di questioni la vecchia, che a quel colpo inaspettato rimase allibita e per così dire gittata fuor degli arcioni.

Dopo inutili tentativi di ripigliarsi e combattere quell'evidenza, la vecchia rinunziò ad ogni simile difesa e finì per dire:

— Ebbene sì, molto probabilmente io potrei svelare l'arcano che copre la nascita di quel giovane... Ma è un grande segreto... un tremendo segreto che tremo tutta, solo a ricordarmene... C'è di mezzo una potente famiglia... potentissimi personaggi. Santa Madonna!... C'è da rifletterci due volte!... Ora, qui, subito, non posso parlare... Bisogna che raccolga i miei pensieri e le mie memorie... Bisogna eziandio ch'io mi consulti... Ah! non farei mai una cosa di tanta importanza senza sentire il parere del mio confessore... Gesù buono! Si tratta della tranquillità della mia coscienza... Si tratta di così gravi interessi!...

Per quanto dicessero i due amici di Maurilio, nulla valse a rimuovere la vecchia dalla sua ferma risoluzione.

— Ma quando in fin dei conti vi disporrete voi a parlare? domandò poscia Giovanni impazientito.

— Fra due giorni: domando due giorni di tempo per poterci riflettere.

Selva tese verso la vecchia la mano chiusa col solo dito indice puntato al di lei petto in atto di intimazione.

— Badate che cerchereste invano di sottrarvi! Ora che abbiamo posta la mano sopra un bandolo, non lo lasciamo andar più.... Guai a voi se tentaste sfuggirci, o prepararvi a deviarci dal cammino della verità!.... Intanto questo vostro scritto, che è sì chiara prova contro di voi, lo conservo appo me.

La Gattona protestò che ella era disposta a tutt'altro che a voler dissimulare il vero, poichè la Provvidenza dopo tanto tempo ch'ella credeva quel bambino affatto perso, aveva voluto così inaspettatamente menarglielo dinanzi; e Don Venanzio e Giovanni, a cui premeva recare le importanti novelle a Maurilio, tornarono con passo affrettato presso di costui, giungendo, come vedemmo, quando appunto aveva termine il colloquio dei due giovani, compagni d'infanzia.

Maurilio, all'udire le rivelazioni recategli dai suoi due amici, rimase sbalordito. Le vaghe speranze che egli aveva pur sempre carezzate nell'animo di poter un giorno penetrare il mistero della sua sorte, non avevano mai preso innanzi a lui un corpo così solido e preciso. La sua fu una commozione che parve quasi uno sgomento. Come avviene quando troppo ardentemente si è anelato ad una cosa da cui dipende la vostra sorte, che all'annunzio dell'effettuarsi della medesima una trepidazione vi assale per cui quasi vorreste tornare addietro e rigettarvi nell'ansia dell'aspettativa e negli stimoli del non appagato desiderio, così Maurilio sentì poco meno che una paura di quell'enimma che accennava voler levare il suo velo e pronunziare il suo motto misterioso: fu lieto di aver ancora due giorni innanzi a sè in cui misurare nelle intime fantasticaggini le audacie segrete della sua anima con quell'ignoto. Non ebbe molte parole: la sua meraviglia non si sfogò che in tronchi monosillabi e in esclamazioni tosto raffrenate, ma il pallore e il rossore che in lui s'avvicendavano e il fremito contenuto della sua voce rivelavano la sua emozione profonda.

Ad un punto si prese fra le sue mani grossolane la sua grossa testa e se la serrò forte, come se vi volesse contenere per entro qualche cosa che minacciasse scoppiare. Un'idea agitatrice gli scombuiava nella mente tutte le categorie de' suoi pensieri. Una domanda gli alitava sulle labbra, che finì per tradursi in parole accompagnate da un vivissimo rossore.

— Quella vecchia disse che in codesto è interessata una potente famiglia..... Oh! avrei io dunque illustre sangue nelle vene?

Ah! non era una sciocca e fatua vanità quella che gli metteva a forza sulle sue labbra ripugnanti queste parole. No: nel tumultuoso aggirarsi di idee e di immagini nel cervello in tramestio s'era levata di botto una splendida figura di grazia raggiante e di bellezza: — Virginia!

Se di nobile lignaggio nascesse egli pure, veniva atterrata quella fatale barriera che aveva visto fino allora innalzata ed insuperabile fra sè e l'amata fanciulla. Avrebbe dunque potuto aspirare a possederla!...

[67] Le idee di Don Venanzio, naturalmente, avevano preso un altro corso.

— Quelle parole della vecchia, diss'egli, intorno ad una potentissima famiglia, a potentissimi personaggi, di cui pare ch'essa abbia timore, mi fanno supporre che siavi alcuno interessato a non lasciar ricomparire in mezzo ai suoi il bambino trattone chi sa per che motivi, e chi sa con che mezzi!... Credo che sarebbe assai bene se potessimo avvalerci poi da parte nostra d'un qualche influente protettore, e penso che potrebbe esser tale per noi appunto il marchese di Baldissero che ha mostrato tanto desiderio di conoscerti, ed a cui ho promesso di presentarti oggi stesso.

Giovanni fu compiutamente del parere medesimo.

Maurilio tacque per un poco: quindi mosse alcune obiezioni, riuscendo a frenare il profondo turbamento a cui era in preda.

Era egli opportuno, era prudente di svelare quel fatto fin d'allora ad un estraneo, senza sapere bene ancora quale sarebbe poi stata la verità che s'aveva da apprendere?

Don Venanzio riconobbe la giustezza dell'osservazione, ma rispose che nel suo concetto non trattavasi già di contar la faccenda subito e senz'altro al marchese, sì invece di introdursi, Maurilio, nella casa e nelle buone di lui grazie, per aver egli più facilmente di poi, quando ne fosse il caso, entratura a parlare a quel potente personaggio di ciò che lo riguardava.

Il giovane non trovò più nulla ad opporre, e mezz'ora dopo Don Venanzio e Maurilio salivano le scale che conducevano all'appartamento del marchese. Come al giovane trovatello battesse il cuore, ve lo lascio pensare.

CAPITOLO XI.

Il marchese era in casa ed accolse i due visitatori appena gli furono annunziati. La prima impressione che su lui fece l'aspetto poco grazioso e in quel momento impacciato di Maurilio non fu delle più favorevoli. Dietro le cose scritte da quel giovanetto con tanto calore e tanta sicurezza, il marchese si era formata dell'essere di lui un'immagine ben diversa: e quel nome di Maurilio il quale era pure una delle cause precipue del subito interesse che il vecchio nobile aveva sentito per quello sconosciuto giovane gli aveva ricordato una tutt'altra figura, un tutt'altro tipo da quelli che ora vedevasi venire innanzi nella persona del protetto di Don Venanzio. La timidità e la mala grazia nel primo presentarsi di Maurilio, parvero al marchese una scontrosità diffidente ed un riserbo ostile per natura sospettosa e rozza. Poichè quell'individuo non rispondeva per nulla a quell'idea ch'e' se n'era formato, il marchese fu molto presso a dirsi tosto che avrebbe fatto meglio a non evocare innanzi a sè quello spirito della democrazia così infelicemente incarnato.

Era egli però troppo squisitamente gentile per manifestare nella menoma guisa questi suoi sentimenti. Senza punto muoversi dal suo seggiolone, fece un benevolo segno di saluto ai due che entravano, e colla mano accennò loro due scranne perchè sedessero.

— Eccole quel giovane, di cui abbiamo parlato questa mattina: disse Don Venanzio; cui Ella ha voluto essere così generoso protettore....

E volgendosi a Maurilio, soggiunse:

— Ringrazia il signor marchese, chè gli è proprio a lui che tu devi la tua liberazione.

Il nostro eroe si confuse, arrossì, e come sempre quando non aveva superata quella certa timidità che era in lui, balbettò impacciate parole.

— Certo... signor marchese... la ringrazio... la mia riconoscenza...

Baldissero venne in soccorso della sua confusione.

— Ella non mi deve nessuna riconoscenza. Ho creduto che la sua e quella dei suoi compagni non fosse che una imprudente avventatezza giovanile, abbastanza punita coll'arresto di poche ore... Ed è appunto per convincermi se in ciò avevo ragione che ho desiderato conoscerla e parlarle. Quello che ho letto scritto di suo pugno mi fa troppo temere in lei un nemico della società, e d'altra parte l'affetto e le raccomandazioni del nostro buon parroco per lei sono una guarentigia... Ho caro di convincermi da per me quale ha ragione dei miei timori o della buona idea del mio vecchio amico Don Venanzio.

All'udire il marchese parlare della lettura da lui fatta di quelle sue pagine scritte in segreto per sè, per la effusione segreta dell'anima, pagine che nel suo concetto non dovevano cader mai sotto l'occhio d'un vivente, Maurilio si turbò vieppiù. In parecchi luoghi di quello scartafaccio, l'amore che gli fremeva nell'anima aveva gittato per isfogo delle aspirazioni, dei trasporti, delle estasi in versi concitati e tumultuosi ed in prosa più lirica dei versi. Il marchese aveva egli letto anche quelle pagine? Il nome di Virginia trovavasi scritto in tutte lettere; e quel nome a Maurilio pareva che dovesse fiammeggiare in mezzo all'oscurità delle altre parole come una vivida luce ad attrar l'occhio del riguardante. La fanciulla dell'amor suo non era nomata con più precisa indicazione; ma chi, a suo concetto, non avrebbe dovuto, conoscendola, ravvisare la vera Virginia a cui quelle parole s'indirizzavano? A qual altra donna al mondo si sarebbero potute adattare quelle adorazioni, quegli omaggi, quelle ammirative parole? Secondo lui a nessuna. Il marchese doveva infallantemente nell'idolo a cui era bruciato quell'entusiastico incenso di passione, riconoscere sua nipote.

Bene lo aveva assicurato Don Venanzio che il [68] marchese nella sua squisita delicatezza si sarebbe guardato bene dal leggere cosa che appartenesse alla vita intima del cuore; ma leggendo le pagine in cui egli aveva espresse a sè e per sè solo le sue opinioni politiche e filosofiche, s'era pur penetrato nella vita intima della sua intelligenza, e perchè si sarebbero arrestati innanzi ai segreti del suo cuore, il marchese sopratutto che vi poteva essere invitato da quel nome di Virginia, che indubitatamente doveva rispiccargli innanzi agli occhi?

Il turbamento di Maurilio adunque fu tale che Don Venanzio e il marchese medesimo se ne accorsero.

— Coraggio! disse il primo dei due per venire in aiuto del giovane; il marchese ti ascolterà con bontà, e non hai nulla da temere da lui.

Baldissero fece colla mano un cenno pieno di garbo che significava: «Si tranquilli e rassicuri,» e si volse al parroco:

— Che cosa il suo amico potrebbe temere da me?... Nel mio pensiero questo colloquio non ha da essere l'urto di due personalità, sibbene la discussione di due principii che si trovano a fronte, se pure uno di questi principii non vuole sfuggirla, siffatta discussione.

Maurilio sollevò la sua grossa testa che teneva curva al petto ed espose alla luce la vasta fronte su cui l'interno suo travaglio di quel momento aveva fatto spuntare a goccia il sudore.

— No, signor marchese, diss'egli più fermo e più sicuro la voce e l'aspetto; il principio ch'Ella mi fa l'onore di credere ch'io rappresento non isfugge la discussione.

Ma il più importante per lui era frattanto avere alcuna maggior sicurezza su quello che il marchese aveva letto o non letto del manoscritto. Per ciò, soggiuns'egli tornando nella precedente esitazione:

— Ma per definir meglio la ragione e i limiti del dibattimento.... credo..... e il signor marchese mi farebbe un favore se mi restituisse quell'infelice scritto,.... credo che sarebbe opportuno si leggessero le parole testuali dei passi intorno a cui Ella mi vuole riprendere o interrogare.

— Molto volentieri le restituerei quel suo libro, rispose il marchese, ma in questo momento esso non è più in mio potere. Trovasi nelle mani di chi ha diritto di veder tutto e saper tutto: nelle mani del Re.

Maurilio fece un trasalto per la meraviglia.

— Del Re! esclamò egli.

— Del Re! ripetè giungendo le mani Don Venanzio più spaventato ancora che stupito.

— Sì, riprese Baldissero; a S. M. è stata riferita, come di dovere, ogni cosa; il Re ha desiderato leggere egli stesso le cose da lei scritte.

— Misericordia! esclamò il buon Don Venanzio con maggiore lo sgomento, chi sa quante pazzie ci saranno colà dentro!.... E che cosa dirà il Re?

Ma questa notizia, invece di atterrire, parve aver rassicurato Maurilio. Il suo contegno divenne più libero ed agiato, e fu con voce tranquilla che egli disse a sua volta:

— Il signor marchese e S. M. medesima — spero — non trascureranno d'aver presente che quelle cose furono buttate giù per non esser viste da altrui, soli appunti di pensieri che passarono per la mente d'un giovane, fatti concreti sbadatamente in poche parole. Se quelle idee avessero saputo di dover comparire innanzi a tali che le potevan condannare, avrebbero preso altra forma, altro sviluppo, una veste più acconcia.

Baldissero guardò bene in volto il giovane, e per la prima volta travide negli occhi di lui il corruscare dell'intelligenza.

— Vuol dire, interrogò egli, pronunziando lentamente, quasi perchè il suo ascoltatore avesse tempo a soppesar bene le parole: vuol dire che in quel suo scritto non è espressa la forma definitiva del suo pensiero, e che s'Ella avesse da manifestare altrui cotali idee, le vorrebbe modificare?

— Quanto alla sostanza no: rispose vivacemente Maurilio che pareva tornare a poco a poco in tutta la libertà del suo spirito; sì quanto alla esposizione e fors'anco a qualche deduzione delle medesime.

— Codeste le son dunque convinzioni radicate nel suo animo, stillate per così dire dalla sua riflessione, e non opinioni raccolte qua e colà per vaghezza giovanile dai moderni novatori, le cui speciosità illudono agevolmente una mente non ancora matura?

Maurilio rispose con forza temperata dal rispetto:

— Ah signor marchese, qualunque elle sieno, le mie povere idee, le assicuro che le ho meditate, stacciate traverso il crivello del mio debole criterio, e le sono portato della mia mente, sangue, se così potessi dire, della mia intelligenza.

C'era in queste parole e nel tono con cui furono dette, una certa onesta baldanza che non dispiacque al marchese.

— Non ne voglio dubitare, disse questi; ma non le pare che simili idee abbiano troppa temerità nella loro ricisa affermazione? Ella parla delle condizioni della società, e vuole di questa mutate le basi e i rapporti economici e politici: ora Ella è giovane di molto, e come nel poco tempo di sua vita può avere tanto visto e conosciuto da poter chiaramente rendersi conto in tutte le sue innumere parti di ciò che si tratta di riformare, da comprendere il complesso dei fatti e delle leggi che ci hanno luogo, da abbracciare tutte le fasi del ponderoso problema?

Maurilio approfittò d'una piccola pausa che fece il marchese, per rispondere vivamente e senza indugio:

— Sì, i miei anni di vita furono pochi di numero, ma tali pur tuttavia da contare per assai [69] più, mercè la moltiplicità e la gravità degli avvenimenti che li avvicendarono.

Sulle sue labbra venne a vagolare, per dir così, quel suo mesto sorriso pieno d'intelligenza.

— In tutti gli eserciti del mondo, continuava egli, il tempo che il soldato passa in guerra gli viene contato per doppio: il medesimo dev'essere in questo grande esercito di viventi, che ad ogni momento è chiamato a combattere col dolore. Questi miei anni trascorsi io li ho vissuti in una battaglia continua contro la sventura: ci ho guadagnato un'esperienza di quarant'anni. La sorte mi balestrò in varie condizioni, e facendomi passare traverso parecchi strati sociali mi pose in grado di conoscere i varii elementi dell'umanità, e le ragioni e i torti del suo assetto presente. Ho avuto campo a studiare più gl'infimi che i superiori ordini di questa razza umana che la religione e la ragione proclamano composta di fratelli, e che il fatto e la legge tuttavia dividono e schierano in comandanti ed in ubbidienti, in caste di eletti ed in plebe di derelitti; e di questi poveri ed umili i bisogni che ho partecipato, le miserie che ho sofferto mi hanno con morale coazione fatto comprendere, se non tutte, le più parti dell'arduo problema. Non dico poterlo sciogliere questo problema, dico averlo compreso. Alla mia propria ho cercato rincalzo dalla esperienza altrui fatta concreta nei libri. La fortuna in ciò mi fu benigna che mi pose in grado di poter tutta avermi dinanzi raccolta la scienza stillata in volumi del pensiero umano. Forse non v'ha alcuno al mondo, o pochi soltanto che abbiano divorato tanti libri quanto io. Non dico d'aver letto bene; ed anzi so pur troppo che ciò non è, ma della parola d'ogni pensatore mi sono pasciuto con avidità. Ho visto, letto, meditato di molto; ho sofferto più assai; ecco i miei titoli a dir ciò che penso del problema sociale.

Il vecchio marchese stette un poco prima di parlare a sua volta, e il suo sguardo si teneva fisso sulle espressive e travagliate fattezze del giovane; gli pareva che mercè quella luce d'intelligenza onde s'erano venuti illuminando, i tratti del viso di quel plebeo si fossero cambiati per assumere una specie di nobiltà tutto propria, per effetto di cui egli sentiva quasi un interessamento nascergli verso lo sconosciuto che ora per la prima volta gli era venuto dinanzi.

— Ella dunque ha sofferto, e di molto per causa del presente assetto sociale: disse poi il marchese con accento in cui non poteva ancora notarsi l'abbandono della confidenza, ma pure si sentiva vibrare qualche cosa che assai si accostava alla simpatia; e senza dubbio molti furono e sono e saranno mai sempre ai quali toccherà soffrire per questa ragione, imperocchè in nessun ordine di fatti l'uomo non può arrivare a cose perfette, ed un organamento tale che a tutti soddisfi quelli che sono parte della società penso che pur troppo non si avrà da raggiunger mai su questa terra.

Maurilio fece un piccolo atto che parve un segno rispettoso di voler interrompere.

— So quello ch'Ella vuol dirmi, continuò il marchese con qualche vivacità; senza pretendere alla perfezione è possibile un miglioramento progressivo anche in codesto, mediante modificazioni più o meno radicali, per cui gl'inconvenienti lamentati vengano via via cessando e per la via del meglio si vada accostandosi verso quell'ottimo che fors'anco non è nelle condizioni dell'uomo il raggiungere. Questa è appunto la teoria del progresso, s'io non mi inganno, che la democrazia moderna vuole applicata ad ogni cosa, nascondendo sotto queste modeste e discrete forme le sue passioni sovversive e rivoluzionarie che aspirano all'anarchia. Ma prima di tutto, questa teoria che mira a sfatare il passato e distrurre l'autorità del diritto storico e della tradizione, è falsa innanzi agli insegnamenti appunto della storia, alle reliquie degli antichi tempi; è falsa inoltre, ed è ciò che più importa, innanzi ai pronunziati della nostra santa religione.

E qui si rivolse verso Don Venanzio, il quale, sembrandogli forse troppo grave il pronunziarsi lì per lì in quistione di tanta importanza, curvò la testa e fece spalluccie come per dire: «sarà benissimo.»

— La storia, continuò il marchese, ci dice che il cammino percorso dall'umanità non è una spirale che sale e che sale con progresso indefinito, come dicono gli esaltatori dell'umanismo, ma sì invece è una specie d'altura giunti al culmine della quale bisogna discendere e qualche volta precipitare per rifarsi alle radici e ricominciar la salita da capo. Parecchie volte una razza, un popolo, una città giunsero a questo fastigio: le immense monarchie dell'Oriente, l'Egitto, la Grecia, Roma. Ebbene che cosa sono esse oggidì? Lo dicano l'erbe che crescono sulle ruine dei superbi loro monumenti. Il soffio di Dio ha fiaccato l'orgoglio della loro scienza e potenza umana. Le nazioni che oggidì tengono il campo, che cosa saranno da qui a mill'anni? La religione ci insegna che l'uomo fu creato da Dio nello stato più felice ed ottimo che alle sue condizioni di uomo convenisse; da quello stato egli decadde per sua colpa e non potrà in esso reintegrarsi mai più, perchè se il Redentore venne a rimetterci in comunicazione col cielo, Iddio non volle già che togliesse dalla terra gli effetti della maledizione del peccato, e la legge imposta ad Adamo alla cacciata dell'Eden dura e durerà sempre nei figli suoi. Il paradiso terrestre non si potrà riconquistar più. Quell'ideale di felicità terrena che l'uomo vagheggia è una reminiscenza del primitivo stato di grazia; e per errore d'ottica e di giudizio la passione dei beni terreni cerca nell'avvenire ciò che fu inesorabilmente spento nel più remoto passato.

[70] — Mi permette, signor marchese, ch'io osi contraddirla?

— Parli con tutta libertà.

— Ai miei occhi non è che la storia ci mostri l'umanità oscillante miseramente fra un limitato avanzamento insuperabile ed un inevitabil regresso; ed io non trovo da nessun valido argomento afforzata la teoria dei ricorsi di Vico. Sì, secondo me, la marcia dell'umanità è una spirale ascendente; ma il vero è che questa spirale ha dei giri di cui la parte inferiore scende più basso del livello a cui forse era sceso il giro precedente; ma il cammino non è interrotto, ma la forza ascensiva non è cessata, e da quella bassura, talvolta anche relativa soltanto, l'umanità si dovrà elevare ad un'altezza superiore a quelle che furono arrivate per l'innanzi. Certe razze e certi paesi giungeranno ad una grandezza di civiltà e poi ricadranno di nuovo nella barbarie; e ciò perchè essi avranno compita la parte loro assegnata nel gran disegno della Provvidenza; o perchè avranno falsato i principii che dovevano applicare e le loro conseguenze. Ma è da dirsi che il loro glorioso sfavillare d'un momento nella storia sia rimasto inutile; che soli passeggieri, dopo aver brillato un istante, si estinguano lasciando più densa intorno l'oscurità? Le grandi monarchie di Ninive e di Babilonia si sono estinte, ma chi può negare l'influsso di quella coltura, benchè mostruosamente applicata ed effettuata, in quel mondo orientale, a cui cotanto attinsero e l'Egitto e la Grecia, e Israele medesimo nel corto momento di suo splendore? La Grecia decade dopo avere raccolto in sè come in un foco tutti i conquisti dell'intelligenza umana ed aver tutto ammigliorato, ad ogni cosa dando l'impronta del suo genio puro, evidente, artistico, armoniosamente bello; ed ecco che Roma è già lì pronta ad accogliere la successione e spingere ad ulteriori conseguenze le ricevute, già sviluppate premesse. Il mondo pagano giunto ad un'altezza di coltura che pare il sommo arrivabile, devia nella più empia corruzione e precipita. Questa volta in presenza dell'invasione della nuova barbarie chi non direbbe avvenuto il regresso? chi non temerebbe almeno una soluzione di continuità in quella marcia ascendente? Ebbene no; il giro della spirale è disceso ad un bassissimo livello, ma la potenza di riscattar su non è tolta alla molla; in quella bassura temporanea prenderà nuova forza e nuovi elementi anzi per ispingersi a non ancora arrivate o nemmeno ancor sognate altezze; nella confusione del medio evo il cristianesimo matura la civiltà moderna che per tante ed importantissime cose sarà di tanto superiore all'antica. Ed è forse da credersi che i progressi della civiltà pagana sieno stati inutili all'assestamento di quella cristiana? Mai più. La letteratura e la scienza dell'antichità si scambiano ma proseguono nel mondo moderno; dànno la base, prestano il punto di partenza e le prime forze alle mosse del rinnovellato pensiero; il cristianesimo stesso non viene come un atto inaspettato senza radici nei precedenti, senza ragioni di conseguenze da cause anteriori, senza anteriori premesse. Nessun fatto accade di questa guisa nell'umanità. Il cristianesimo dà forma più elevata e più precisa, più pratica, direi quasi, e nello stesso tempo più pura a quelle aspirazioni che da assai tempo già si facevano strada di mezzo al politeismo e si manifestavano colla filosofia platonica e coll'umanitarismo, se così posso dire, della nuova commedia di Menandro e de' suoi. Come muoiono gl'individui e s'estinguono anche le razze, ma l'umanità non muore; così cadono le civiltà particolari di questo e quel luogo, ma non cade mai per l'affatto la civiltà umana; s'assopisce, sonnecchia, la fiamma s'abbassa e il fuoco si copre di ceneri, e poi ad un tratto soffia il vento, la si ridesta, le ceneri sono via portate e la luce ribrilla più splendida e maggiore. La fiaccola della civiltà è tenuta ora da questo or da quello fra le schiatte ed i popoli; ma quando l'uno inciampa o rovina ecco un altro o subito di lì a poco raccogliere la face e riprendere la via alla testa dell'umanità solidaria in ogni progresso de' suoi membri. L'opera provvidenziale s'interrompe, non cessa. L'ideale che si prosegue, anco inconsciamente dai più, non è nel passato, no: è là dinanzi a noi, nell'avvenire, in un avvenire che probabilmente non si raggiungerà mai, ma verso cui è legge costitutiva della nostra natura intellettuale anelar senza posa.

Un calore contenuto, sincero, pieno di persuasione epperò di efficacia aveva animato il discorso di Maurilio: la sua voce ordinariamente poco sonora, vibrava con simpatico vigore, il volto arrossatosi alquanto, gli occhi fatti più risplendenti davano alle sue sembianze una certa attrattiva quasi autorevole, che ispirava la considerazione per quella intelligenza ond'erano illuminati la fronte, lo sguardo, la parola del giovane.

Baldissero subì ancor egli l'influsso di codesta attrattiva: rivolse a Maurilio un sorriso assai benigno e gli disse con accento più amichevole che per l'innanzi:

— Ella mi ha confutato passo passo.....

— Ah! non ho ancora finito: interruppe, ma in modo molto rispettoso, Maurilio. Mi resta di manifestare la discrepanza delle mie dalle sue idee intorno ad un punto importantissimo: quello che la religione cristiana condanni il concetto e la teorica del progresso. La religione cristiana ha bensì per suo dogma il decadimento della natura umana per il peccato, ma, secondo me, non limita gli effetti della redenzione alla parte spirituale dell'uomo caduto. Il Cristo è venuto ad arrecarci col sacrificio di sè, non solamente la salute eterna, ma anche la miglioria della vita terrena, mercè il lavoro, la [71] virtù e la morale. La maledizione di Adamo non fu così distrutta nell'umanità che di botto ella tornasse allo stato primitivo di grazia e di felicità per l'anima e pel corpo condannati; ma la redenzione pose l'uomo individuo in grado di acquistarsi coll'opera sua particolare la salvezza eterna, l'uomo collettivo, il genere umano nella possibilità di venir migliorando sempre più le condizioni del suo vivere terreno. La fase grandiosa del progresso moderno incomincia dall'opera santissima del Cristo ed ha sua base nella buona novella annunziata all'umanità col Vangelo.

— Che cosa ne dice Lei, Don Venanzio? domandò il marchese ancora con quel suo benigno sorriso.

Il vecchio parroco ripetè il movimento che aveva fatto poco prima.

— Io non sono che un povero prete di campagna che ho studiato poco ed ho vissuto in una stretta cerchia di attinenze e d'idee. Può essere dunque facilissimo ch'io sbagli; ma mi pare che in tutto codesto non ci sia nulla di eterodosso.

— Per disgrazia, soggiunse il marchese, rivolgendosi di nuovo a Maurilio, il fatto, checchè Ella possa dire, sta lì a dar torto alle sue allegazioni. Scendiamo dalle generali per venire un po' più accosto alla realtà. Si tratta della società ch'ella dice e ch'io le accordo essere infelice, turbata, male in assetto; or bene guardiamo il passato: noi vediamo come prima che le empietà rivoluzionarie venissero a scuoterla dalle sue fondamenta e trarla fuori della sua base normale, prima che le passioni malvagie del materialismo e della irreligione venissero a sovvertire gli ordini stabiliti, e che avevano loro ragione di essere nella natura delle cose, nella tradizione e nel diritto storico; noi vediamo che la società posava più tranquilla, più sicura e quindi più felice. Ora noi vediamo sì un movimento, un funesto movimento di progresso; ma verso il peggio. Ogni giorno più noi sentiamo la società minacciata, scavato il terreno sotto le più sante istituzioni, sciolto d'un freno il popolo di cui si travia la mente e si eccitano i mali istinti col pretesto d'istruirlo. E la società non sarà salva e sicura finchè quelle triste passioni non si schiantino dalle masse, finchè quel soffio distruttore di libero esame e d'anarchia non sia compiutamente estinto. Sì, noi dobbiamo oggidì riformare la società, ma non andando verso un'ipotetica forma dell'avvenire che effettui le audacie delle sovvertitrici ambizioni plebee, sibbene tornando indietro al naturale, logico, storico stato sociale che le rivoluzioni di Francia hanno sciaguratamente distrutto.

— Ah signor marchese, disse allora Maurilio con un calore che tutta aveva superata la sua primitiva timidezza e toltogli l'impaccioso riserbo: io bene affermo che la società moderna ha molti mali ed è minacciata da molti pericoli, ma contesto che i rimedi a siffatti pericoli sieno da cercarsi nel regresso al passato, e che i mali presenti sieno maggiori di quelli della società dei secoli scorsi. Per quanto poco e insufficiente ancora, pur tuttavia un miglioramento s'è fatto; non c'è che da paragonare la plebe moderna agli schiavi dell'antichità, ai servi del medio evo, per vedere quanto acquisto abbia fatto anco nelle basse classi la personalità umana in punto a condizione economica ed in punto a dignità individuale.

— Miglioramenti fittizi ed anzi fatali: interruppe il marchese. La condizione economica?... Ebben sì; voglio anche ammettere che la ricchezza pubblica siasi accresciuta, e che la plebe possa quindi averne maggior parte coll'aumento de' suoi salari; ma che cos'è ciò, a che approda, quando pel funesto spirito moderno i suoi bisogni ed i desiderii sono accresciuti molto più a dismisura e non trovano quindi nè anco la centesima parte di quella soddisfazione a cui anelano? La dignità individuale? Ma dove e come restava questa lesa in quel rispetto alla gerarchia sociale ch'è un riconoscimento delle superiorità stabilite dal Creatore medesimo per mezzo della natura e del diritto ereditario? Oggidì si chiama col nome di tal dignità lo spirito d'insubordinazione che tutto minaccia sovvertire, che tutti spinge fuori dei limiti di quella condizione in cui li ha posti la Provvidenza. Ma come, in fede mia, può uno spirito imparziale, paragonando questa nostra alla società dei secoli scorsi non riconoscere la superiorità di quest'ultima? Allora gli ordini erano fissati con precisione dalla nascita: ciascuno quindi stava a suo posto, senz'ambizione di uscirne e senza paura di scaderne: la comunità non era tormentata dagli sforzi disperati di costoro per ispingersi su, di quegli altri per mantenersi nei ranghi superiori. Oggidì tutto questo non è più fermo come prima. Gli ambiziosi del basso dànno l'assalto continuo ai posti delle classi che predominano: è una lotta ardente e continua per arrivare; nulla è più certo e sicuro, la tranquillità è bandita dall'animo di tutti. Mentre il giusto privilegio della nascita dato da Dio scade sempre più, che cosa vediamo noi sostituirglisi? Lo ingiusto prepotere della ricchezza data dall'industria, dall'avidità, e molte volte eziandio dalla frode dell'uomo. E il denaro, che così va innanzi a tutto, non è nobile, nè intelligente, nè pietoso alle pene altrui; è il trionfo del più materiale egoismo.

«E codesto succede in tutta la compage del corpo sociale: dall'alto al basso una lotta miserabile per soprammontarsi l'un l'altro. Per giungere al loro scopo alcuni prendono i tragitti più vergognosi, le sconcie protezioni, l'intrigo, l'adulazione; altro che la dignità individuale!

«Ella mi parla di progresso e di miglioramento? Le ho già detto anche circa il miglioramento delle condizioni materiali, come esso non fosse a gran pezza bastevole alle nuove cresciute esigenze, e perciò riesca relativamente a fare ancora maggiori [72] le sofferenze di chi più volendo si accorge di essere destituito di maggior quantità di beni. Ma poi: che cosa serve un lieve miglioramento materiale, quando si ha pur troppo una degradazione così evidente e dolorosa nell'ordine della moralità e dell'intelligenza? Sì signore: quella caccia al successo ed al denaro smussa la delicatezza del sentimento e smaga la virtù. Cieco è chi non vede il livello morale essersi dolorosamente abbassato ed abbassarsi. Ed anche la parte intellettiva dell'umanità ne scade. È generale il lamento della decadenza delle arti e delle lettere nel mondo moderno. E qual n'è la precipua ragione? Quelle piante delicate hanno bisogno d'un ambiente propizio che le accolga e nutrichi e difenda: una classe superiore e privilegiata — diciamo la parola — un'aristocrazia soltanto può somministrar loro quest'atmosfera propizia.....

S'interruppe da sè medesimo per riprender tosto con accento ancora più grave e di maggior convinzione:

— L'aristocrazia!.... È contro di lei che lo spirito moderno, raccogliendo ed ereditando gli odii e i sospetti del monarcato che tanto l'ha combattuta, volge i suoi più vivi assalti. Sconsigliati che non vedono l'aristocrazia essere un portato di diritto naturale, illustrazione, grandezza, e nel medesimo tempo guarentigia della società. Chi crede che l'elevarsi dell'aristocrazia debba attribuirsi alla prepotenza di taluni che si sono imposti altrui senza ragione e diritto, ignora la storia e disconosce la natura umana. L'aristocrazia è il risultamento necessario d'un fatto provvidenziale. L'umanità si divide per la natura medesima delle cose in deboli ed in forti — sia riguardo al vigor fisico che riguardo all'intelligenza, alla volontà, al coraggio, ad ogni dote dello spirito e del cuore; questa differenza fra individuo e individuo, questa supremazia di alcuni, posta dalla natura medesima, può dirsi effettivamente di diritto divino. Ciò posto (e nessuno lo può negare) ad aggiustare la società senza la fondazione d'un'aristocrazia non occorrono che due sistemi: o sottomettere tutti e forti e deboli, senza differenza di gradi, ad un potere unico e sovrano il quale imperi assolutamente su tutti; oppure decretare contro la natura delle cose un'uguaglianza assoluta fra tutti quegli elementi discordi e dar al maggior numero di essi la sovranità e il potere — dispotismo sempre o d'un solo o della moltitudine. L'antica società, contro cui insorse e vinse pur troppo la rivoluzione di Francia, aveva invece risolta la questione in modo più acconcio e più umano, riunendo i forti e i deboli coi legami reciproci e morali della protezione e della fedeltà. Il forte, per mantenere e proteggere il suo grado contro il dispotismo d'un solo, aveva avuto bisogno di raccogliere intorno a sè i deboli e li compensava del loro appoggio mercè la sua protezione; il debole aveva avuto mestieri del forte per essere difeso contro la violenza e gli pagava codesta difesa colla sua fedeltà. Ecco la società feudale così poco intesa e così calunniata!

«La natura aveva cementato quell'ordinamento, l'interesse comune lo assicurava, dalle classi superiori discendevano la beneficenza e la giustizia, da quelle inferiori salivano la devozione e la gratitudine. Un legame d'affetto comune aggiuntosi alla abitudine colle continuate attinenze addolciva i rapporti; sotto l'apparenza della disuguaglianza si aveva in realtà un'uguaglianza di cuore, quella che sola è possibile fra gli uomini, meglio che non quella ingiusta, arida ed assurda che vuole stabilire la legge. Epperò vedevansi allora i subalterni amare i loro superiori, rispettare il potere e l'autorità, i giovani tacere innanzi ai vecchi, i figliuoli obbedire ai genitori e nessuno tentar d'usurpare il posto altrui. Le famiglie formavano delle unità vive ed immortali in cui durava la tradizione, e gl'individui imparavano i pubblici doveri alla scuola dei doveri domestici; e su tutto questo la religione, venerata, accettata da tutti, spargeva la sua luce divina e la grazia delle sue consolazioni supreme[9].

Il marchese si tacque e col suo contegno mostrò che attendeva da Maurilio una risposta, cui avrebbe ascoltata volentieri: e il giovane non la fece aspettare.

— Quella medesima religione, diss'egli, fu quella che più efficacemente valse a rovinare l'assetto aristocratico della società, appena fu essa meglio compresa dalle masse. Nulla vi ha di più democratico al mondo che la religione cristiana. Proclamando l'uguaglianza giuridica degli uomini, la legge moderna non ha fatto che applicare ai rapporti terreni quel precetto che Cristo predicò della uguaglianza delle anime innanzi al Padre Celeste; è un germe posto dal Cristianesimo nell'umanità con tanti altri della civiltà presente che fruttò da ultimo col trionfo della rivoluzione.

«Esaminata da lontano colle linee e coi colori che la sua parola, signor marchese, le ha saputo dare, certo l'antica società si presenta sotto uno specioso aspetto di ordine e di forza, di regolarità e di agevolezza nel suo funzionare: ma converrebbe esaminarla più da vicino, penetrare con occhio critico in essa per vederne i malanni, i disagi, gl'intimi dolori. Quando essa cadde, tutti — perfino i privilegiati — concorsero a darle la spinta, perchè tutti sentivano il malessere dalla medesima prodotto. Le rovine forse furono troppe e troppo rapidamente accumulate, e il sangue che fatalmente venne ad inaffiarle fece rinascere una pietà che parve simpatia e rimpianto delle cose perdute, ma ogni spirito acuto dovette accorgersi che tutto ciò ch'era caduto, da lungo tempo era corroso alle fondamenta [73] e non poteva più reggere. Il consolidamento della razza umana in ordini ed in caste immutabili in tanto può reggere in quanto che sia di comune accordo da tutti accettato; dal momento che la disuguaglianza è considerata come un'ingiustizia, essa diventa intollerabile ad ogni cuor generoso.

«Nè la disuguaglianza naturale fra gli uomini legittima lo stabilimento d'una disuguaglianza sociale tra le famiglie. Hannovi sì i forti e i deboli anche nell'ordine dell'intelligenza e dell'anima; ma non è mai che questi così ben si dividano che ad una schiatta appartengano sempre i meglio dotati ad un'altra i meno. Nella famiglia la natura dà la tutela dei deboli, i bambini e le donne, ai più forti, i genitori ed i mariti; ma nella società non si vede in nessun modo una protezione istituita di questi su quelli dalla natura medesima delle cose: ogni supremazia proviene o dalle circostanze che hanno date all'uno delle forze superiori, o dal libero arbitrio del protettore e del protetto. La tutela dei deboli non deve dunque appartenere a questi od a quelli elevati in casta privilegiata, sibbene alla società intiera, val quanto dire alla legge. L'antico regime aveva dunque gran torto fissando arbitrariamente la forza in certe famiglie e la debolezza in altre, invece di lasciare che liberamente la forza e la debolezza si manifestassero là dove esistevano. Certo nel fatto i nobili erano allora i più forti — lo sono ancora appo noi oggidì per favore della monarchia — ma in ciò appunto sta l'ingiustizia, perchè, come si prova che questa supremazia la meritino realmente quando è l'azzardo della nascita che loro l'accorda?

— Maurilio! esclamò con tono d'ammonimento Don Venanzio, timoroso che il suo protetto offendesse il nobile suo ascoltatore.

Ma il marchese con un benigno sorriso e con un cenno rassicurante della mano disse amichevolmente:

— Lo lasci dire, caro Don Venanzio; e poi voltosi a Maurilio soggiunse: continui con tutta libertà, la prego.

— Nella natura vi sono delle distinzioni fra gli uomini, così continuò Maurilio; nella società conviene che vi sieno fra essi dei gradi e delle condizioni diverse: ma come fissare il grado e la condizione che deve spettare ad un uomo prima ancora ch'egli nasca? Il diritto ereditario, che è giustissimo quanto alla proprietà economica acquistata dal lavoro individuale coll'intento specialmente di trasmetterla ai figli od alle persone che ci son care, diventa d'una assurda ingiustizia quando lo si vuole applicare a quei vantaggi cui soltanto il merito personale deve acquistare, che alle virtù di chi li possiede, non a quelle de' suoi maggiori si devono concedere. Certo non si potrà mai eliminare l'influsso delle circostanze esteriori in mezzo a cui ciascuno sviluppa la propria individualità, e di queste circostanze n'è una capitalissima l'azzardo della nascita in queste piuttosto che in quelle condizioni; ma appunto perchè questa ragion della sorte accorda già a taluno sopra i suoi simili un sì considerevol vantaggio, non è necessario, è anzi contro la verità e la natura lo aggiungere a questa prima fatalità un'altra fatalità legale: ed anzi deve la società, per essere giusta, veder di riparare alla disuguaglianza delle condizioni esteriori, aprendo a tutti sempre meglio e facilitando le strade di elevarsi, di pervenire, di perfezionarsi coll'educazione e colla dottrina. Tra il figliuolo del ministro e quello dell'operaio, tutte le probabilità di star sempre innanzi sono già pel primo; perchè stabilire ancora per legge, che il secondo, foss'anche un genio, deve continuare nelle misere e limitate condizioni paterne?

«Sono codeste le ragioni per cui quell'assetto sociale delle caste ha eccitato odii cotanti, fu assalito con sì acceso accanimento e la sua caduta nell'uragano che finì il secolo scorso fu salutata dai popoli con universale applauso in tutto il mondo. La protezione data di diritto ai forti verso i deboli, di cui Ella dice, signor marchese, era degenerata in oppressione — e non poteva essere altrimenti, ned io intendo farne accusa alla classe privilegiata, codesto era nella natura umana; — colui al quale è data un'autorità speciale, duratura, inamovibile per difendervi, troppo facilmente è tratto ad abusarne; l'ineguaglianza stabilita dalla nascita, ammessa come di diritto naturale, ispira quasi inevitabilmente nei privilegiati un disprezzo per coloro che si trovano nei più bassi gradi della scala, e dalla diversità della classe fra gli uomini troppo agevole è il passo a conchiudere per la diversità della natura; troppo è difficile in chi non vi è uguale e che per decreto d'una provvidenza umana che si vuol far passare per destino della Provvidenza divina è condannato a non esservi uguale mai; troppo è difficile vedere un nostro simile. La fraternità umana Cristo l'aveva proclamata, ma restava una lettera morta nell'ordinamento sociale sotto l'impero del feudalismo; la rivoluzione dell'ottantanove l'ha introdotta nell'ordine dei fatti.

«Qual è insomma il bisogno dell'umanità nel suo organamento sociale? quale il dovere di questa società verso l'individuo cui nel suo ambito abbraccia e comprende? Il bisogno di svolgersi il più liberamente e il maggiormente possibile in tutte le sue facoltà: il dovere di proteggere e favorire il meglio che si possa questo sviluppo dell'attività individuale che dà la somma del progresso complessivo e solidario del genere umano. La società feudale, la società divisa per caste, e cristallizzata nei quadri fittizi di condizioni prestabilite, immutabili per l'individuo, non soddisfaceva a questo dovere, impediva si soddisfacesse a questo bisogno. La rivoluzione francese venne a proclamare l'idea del nuovo regime che tosto o tardi dovrà mettersi in atto dapertutto; ed [74] eccone la formola: il maggiore possibile sviluppo della libertà individuale sotto tutte le sue forme, sotto l'impero della protezione sociale. Ogni uomo, quando è giunto nel pieno possesso della sua individualità, nel pieno sviluppo cioè delle sue facoltà fisiche ed intellettive, deve proteggersi da sè, lavorare di suo capo, pensare ciò che gli par vero, credere quanto la coscienza gli comanda, godere de' suoi beni secondo suo volere, in una parola non rispondere di sè che a sè stesso, fuori dei casi in cui osasse violare col fatto suo i diritti d'altrui; allora vi dev'essere la legge che interviene per farlo rientrare nei limiti concessi alla sua attività.

«Ma questa forma di società non è ancora effettuata, e mentre alcuni si sforzano di mettere insieme i rottami dell'antica e farli tener su come un edifizio solido, tuttavia la nuova società si viene lentamente e fra i contrasti costituendo; per dirla con una formola germanica viene diventando. Noi quindi siamo in un'epoca di transizione ed abbiamo tutti i mali, tutti i danni di quello che cade e di quello che spunta: ci troviamo in mezzo agli angoli di due ossature senza polpa, perchè dall'una questa si è già staccata, all'altra non è venuta ancora.

«Da questo stato di rivoluzione continuata nascono certi spostamenti e certi dolori inevitabili e fatali. Tutti gli antichi interessi che si vedono minacciati e lesi lottano con ogni forza e soffrono nel soccombere graduato a cui sottostanno a dispetto di tutto. Le influenze non si spostano senza danni materiali e morali: le abitudini nuove urtano le antiche e fan nascere molti conflitti più o meno dolorosi. I poveri medesimi, i derelitti non travedono ancora che oscuramente la terra promessa verso cui camminano, e da cui ostili interessi collegati li vorrebbero tener lungi. Cominciano ad avere la coscienza del loro diritto, presentono la possibilità di arrivare a soddisfarlo, e si arrabbiano e soffrono di vedersi ciò impedito. Questa situazione è gravida di mille pericoli cui tutti debbono applicarsi a scongiurare e più di tutti quelli della classe superiore che ci hanno maggior obbligo e maggior interesse.

«Io sono nemico della violenza: la abborrisco nella tirannia, la pavento nella rivoluzione. La violenza è una forza cieca che distrugge anche quello la cui distruzione può nuocere, e nulla edifica nè lascia edificare; ma pure alcune volte pur troppo, e quasi sempre per colpa e cecità degli uomini, essa è fatta necessaria, quando al cammino fatale del progresso si sono accumulati ostacoli tali cui null'altro più vale ad abbattere. Vorrei che questa cruda necessità non si verificasse: vorrei che, come lente e graduate si fanno nella natura le modificazioni geologiche, si facessero così a poco a poco, per via di naturale passaggio, gli ammiglioramenti sociali. Miglior mezzo da ciò credo quello che le classi superiori si facciano zelanti collaboratrici del destino, del disegno provvidenziale, nell'affrettare il divenire del futuro.

«E qui coloro che si credono i forti dovrebbero appunto esercitare, ma con altre forme, con altri intendimenti, quel patronato cui si allega posseder essi di diritto verso gl'infimi. Ho detto che l'uomo ha da avere esclusivamente la protezione di sè egli stesso, sotto quella generale della legge; ma questo non esclude il patronato doveroso della beneficenza o della carità. Finora i derelitti non hanno potuto giungere a quel massimo sviluppo possibile della loro individualità che deve farli capaci di provvedere in tutto e per tutto da sè: fino a che i grandi effetti che si devono aspettare dai nuovi fecondi principii non si sieno ottenuti coll'applicazione giusta e coscienziosa dei principii medesimi, bisognerà che i meno felici, i meno istrutti, e quindi, pur troppo, la maggior parte del popolo, sieno sostenuti, guidati, aiutati dal patronato dei felici, dei primi arrivati: da quello dei ricchi e degl'intelligenti, nobiltà o borghesia che si chiamino; ma ciò senza che menomamente ne sieno lesi i diritti e la libertà nè degli uni nè degli altri, ciò non per costrizione legislativa, ma per libera scelta di quelli che lo devono fare.»

Don Venanzio che aveva ascoltato con molta attenzione le parole di Maurilio e dava segni evidenti di provarne viva impressione ed interesse grandissimo, a questo punto saltò fuori con vivacità giovanile:

— Ma questa non è che l'applicazione d'una massima del Vangelo: «Fate agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi medesimo.» Chi figurandosi povero e derelitto non vorrebbe avere dal potente un aiuto a migliorare le sue condizioni?

— Vi sono certi aiuti, riprese Maurilio, che umiliano chi li riceve e non ottengono lo scopo. L'elemosina è di questi. Eccellente per rimediare a un danno temporaneo, ad una circostanza particolare, immediata, non conferisce per nulla al miglioramento nè particolare nè generale. La beneficenza che s'invoca, e ch'io intendo, dev'esser compresa in un più largo ed efficace significato.....

Fu interrotto da un grattare all'uscio che era il solito cenno del domestico per domandar licenza di entrare.

Il marchese, che aveva prestato e prestava la più raccolta attenzione a quei discorsi, sorretta la fronte dalla palma della mano, il gomito appoggiato al bracciuolo del seggiolone; il marchese sollevò il capo e disse verso la porta:

— Entrate.

Il servo venne ad annunziargli che il sig. Benda chiedeva d'essere ricevuto.

— Venga, disse vivamente il marchese, poi volgendosi a Maurilio, soggiunse con un graziosissimo accento e con un benigno sorriso: questo discorso, [75] se non le dispiace, lo riprenderemo altra volta; e per averne migliori e più facili occasioni voglio farle una proposta. Ho bisogno d'un segretario: vorrebb'ella assumere tale ufficio? Cento lire al mese, l'alloggio, la tavola, abbastanza di libertà per poter continuare nei suoi studii: ecco le mie condizioni.

Maurilio che, al pari di Don Venanzio, s'era alzato, fu assalito da un tremito di emozione, e non seppe rispondere altrimenti che con un inchino; ma rispose per lui Don Venanzio, che proruppe vivacemente:

— Le sono accettate.... Accetto io e rispondo per lui; e spero che la non ne sarà malcontento, signor marchese.

Questi fece un cenno di accondiscendenza e soggiunse:

— L'aspetto dunque fino da domani, se non v'è nulla da parte sua che lo impedisca.

Fu ancora Don Venanzio che rispose sollecito:

— Non c'è nulla, assolutamente nulla, e domani verrò io stesso a menarlo qui prima di partirmene per la mia parrocchia.

Maurilio, confuso, commosso, quasi sbalordito fu condotto fuori dal vecchio parroco, senza che egli sapesse bene se sognava o vegliava, tanto l'idea di entrare in quella casa, di venir ad abitare lì sotto il medesimo tetto con lei lo aveva conturbato. Nell'uscire s'incontrarono col padre di Francesco, che entrava.

Giacomo Benda si precipitò con impeto nel salotto del marchese.

— Eccellenza, esclamò egli, la mi perdoni, se vengo una seconda volta di quest'oggi a disturbarla, ma non potevo assolutamente fare a meno. Bisogna ad ogni patto che io venga a ringraziarla per impulso del mio cuore, per quello ancora più della mia povera moglie, a cui Ella ha fatto restituire il figliuolo.

Baldissero, alzatosi da sedere, aveva fatto alcuni passi incontro all'industriale e colla sua squisita cortesia, rispondeva:

— Sono lieto d'aver potuto contribuire a toglier di pena una buona madre, e Lei, signor Benda, ma non mi si devono ringraziamenti di sorta, perchè non ho fatto altro più di ciò che credetti dover mio. Se Ella per codesto avvenimento ha alcuna gratitudine da nutrire verso qualcheduno, la rivolga a S. M. che ha tutto il merito della clemenza....

— Oh sì, oh sì: interruppe con vivacità Giacomo. Non ha bisogno di dirmelo, la creda! Io sono sempre stato un suddito fedele e devoto di S. M., e me ne vanto; ma d'ora innanzi poi!... Cospetto! Non sarà a Giacomo Benda che si potrà parlar male del governo del Re.

Il marchese sorrise di quello zelo.

— Va benissimo, diss'egli: ma quanto a noi, signor Benda, io non ho ancora compito tutte le promesse che le feci questa mattina. Le ho detto che a suo figlio, il mio ed io stesso avremmo data una onorevole riparazione, esclusa quella assurda del duello.

— Ah, sì signore.... sì Eccellenza.... escludiamo questa brutta cosa.

— Che direbbe Ella se al signor avvocato Benda, in presenza di tutto quanto vi ha di più nobile e di più scelto nella società Torinese, io marchese di Baldissero e mio figlio il conte Ettore andassimo a porger la mano come ad uomo che non solo si stima e si apprezza, ma si ritiene e si vuole per amico? Non le parrebbe questa una sufficiente riparazione?

— Signor sì! signor sì! Esclamò l'industriale commosso. E le ripeto ciò che le dissi questa mattina, signor marchese, Eccellenza..... che la sia benedetta!...

Il marchese con un cenno della mano pose freno a quell'entusiasmo di riconoscenza.

— Or bene: soggiuns'egli: ciò avverrà questa sera medesima, alla festa da ballo data dalla baronessa X. So che suo figlio è in relazione con quella casa: gli dica che non manchi, e colà, senza che abbia bisogno di farsi presentare a me che di persona non lo conosco ancora, sarò io che cercherò di lui.

Giacomo tornò a confondersi nelle proteste della sua riconoscenza e della maggior soddisfazione. Quando poi fu tornato a casa ed ebbe narrato al figliuolo ciò che era intravvenuto fra lui e il marchese, Francesco non fu lento nè svogliato ad assicurare che a quel ballo non sarebbe mancato: più del pensiero della onorevolissima riparazione promessagli, lo spingeva l'idea che colà avrebbe di nuovo veduto Virginia, potuto avvicinarla, parlarle, bearsi del suono della sua voce, di alcuni almeno de' sguardi suoi.

Il marchese a sua volta aveva ordinato a suo figlio, e con quel tono a cui bisognava assolutamente obbedire, che gli toccava recarsi a quella festa e in compagnia di suo padre andare a rivolgere la parola e porger la mano per primi a Francesco Benda. Ettore dopo resistito un poco, aveva dovuto cedere al comando paterno, ma colla bile in cuore e col celato proposito di ripagarsi poi alla prima occasione su quel borghesuccio medesimo del sacrificio, secondo lui, enorme, che doveva fare per allora il suo orgoglio.

La baronessa X era quella compagna di collegio ed amica di Virginia, la quale aveva a costei primamente fatto conoscere di persona Francesco: e verso le dieci della sera di quel giorno in cui abbiamo già visto compirsi tanti avvenimenti, nelle sale eleganti di quella giovine signora si trovavano radunati in mezzo ad una sceltissima accorrenza di invitati, il marchese e la marchesa di Baldissero, il loro figliuolo Ettore, la loro nipote Virginia e il borghese Francesco Benda.

[76] Ma prima di introdurci in questo profumato e sfarzoso ambiente della ricchezza, dobbiamo recarci nella lurida taverna di Pelone e penetrare nel segreto stanzone del Cafarnao, dove ha luogo un grande ed importante convegno di tutti i capi della cocca.

CAPITOLO XII.

In quella scellerata associazione che chiamavasi la cocca, erano tre gradi: cominciando dall'alto della gerarchia veniva primo un sinedrio ristretto di pochi caporioni che formava il Consiglio de' ministri del capo supremo, al quale era bensì concessa una grande autorità, non però senza temperamento di preventivo esame e di sindacato susseguente ai suoi atti principali: questo sinedrio radunavasi in Cafarnao; eravi poi una più numerosa assemblea che componevasi dei capi delle singole squadre ed a questa, a cui erano taciuti gli alti avvisi o i segreti intendimenti del Consiglio superiore, spettava determinare le imprese minori, scegliere questi o quei modi d'esecuzione, distribuire fra i varii attori le parti, assegnare a ciascuno dei cooperanti una quota del bottino; quest'assemblea sedeva nella riposta stanza dell'osteria di Pelone; e se tutti i componenti di essa conoscevano l'esistenza del segreto ricovero dove si nascondevano le prede e si trafugavano le traccie dei delitti, a pochi soltanto e i più fidati era stato concesso l'introdurvisi; nello stanzone poi dell'osteria erano raccolti i semplici gregarii e non tutti, — perchè il loro numero era troppo maggiore di quel che la taverna potesse contenere — ma i principali, a cui, dopo presa una decisione, venivano dati i cenni opportuni, il motto d'ordine, le istruzioni e i convegni fissati, con incarico di trasmetterli a quegli altri compagni assenti che fosse stimato necessario. Alle adunanze del primo di questi poco onorevoli consessi assisteva sempre il capo supremo eletto da questo consesso medesimo; ai convegni dei capi-squadra era egli presente il più spesso, e fu a quest'occasione che Maurilio dovette di trovare nella bettola di Pelone Gian-Luigi travestito da operaio: alla massa dei semplici gregarii difficil era che il medichino si immischiasse, e molti di essi lo conoscevano di nome e lo rispettavano ossequenti per fama senza nemmeno conoscerlo di persona.

Quella sera, come già sappiamo, tutte tre le categorie degli affigliati alla infame Società erano convocate: il sinedrio supremo per risolvere, l'assemblea mediana per scegliere i mezzi d'esecuzione, la infima classe per ricevere gli ordini. Sulle peste di Macobaro, il quale, camminando frettoloso per la notte è giunto alla bottega di Baciccia, introduciamoci anche noi nel misterioso ridotto.

Quando il padre di Ester vi giunse, il medichino non c'era ancora. La lampada che pendeva dalla vôlta illuminava del suo chiarore rossigno le faccie diverse, ma tutte caratteristiche, di cinque individui seduti intorno alla tavola che trovavasi in mezzo a quel vasto camerone ingombro di tanta roba. Una di queste faccie era il muso appuntato di Graffigna che già ben conosciamo; vicino a lui, cogli avambracci posati sul piano della tavola, stava un omaccione a forme grosse, quadre e robuste: una testa enorme gli pencolava come ad uomo preso dal sonno che di quando in quando cede all'assopimento; la faccia imbestialita non lasciava più scorgere traccia nessuna di sentimento fuorchè un basso istinto animale; l'occhio semispento aveva qualche cosa di stupido insieme e di feroce, le labbra grosse colore della feccia del vino, parevano incapaci ed indegne dell'attributo dell'uomo che di tanto lo separa dal resto dell'animalità: la parola; avreste detto non poter uscire da quella bocca degradata che un grugnito belluino. Pareva immerso in una specie di torpore dell'anima e del corpo; ma tratto tratto ne usciva un istante per mescere d'un liquore del color dell'acqua, di cui aveva una bottiglietta innanzi a sè, in un bicchierino, il cui contenuto poi tracannava d'un colpo con mossa del braccio concitata, quasi rabbiosa. Era acquarzente della più forte; ad ognuno di tali bicchierini e' si riscuoteva un poco, alcuna intelligenza pareva tornare in quel suo sguardo sanguigno: ma poi non tardava a riprenderlo quel torpido assonnamento. Il terzo individuo, paragonati i suoi abiti a quelli miseri e frusti de' suoi compagni, vestiva da signore. Era tutto in nero ed aveva le apparenze d'un leguleio o d'un uomo di affari; portava sul naso degli occhiali colle lenti azzurrigne e parlava, si muoveva, stava con una certa importanza di sè. Dirigeva una casa di commissioni per allogamento di persone di servizio, per pigionare quartieri in città, per vendita od affitto di beni rurali, per impiego di denari e simili; sapeva a menadito il Codice civile e quello penale, era il consultore legale della Società, e i suoi compagni lo trattavano col sor. Degli altri due non è il caso di occuparsi: ci basti sapere che erano arrivati ancor essi a quell'alto grado nella gerarchia per merito di audaci ed accorti delitti e di utili vistosi recati col senno e coll'opera alla Società.

Fra questi cinque individui non una parola si scambiava. Ciascuno pareva assorto nei suoi pensieri; tenevano il capo basso in aspetto meditabondo e non si guardavano neppure l'un l'altro. Avreste detto che rattenevano fin anco la loro respirazione per non turbare l'alto silenzio, che veniva rotto tratto tratto soltanto dal colpo con cui l'omaccione batteva la tavola deponendovi su il bicchierino dopo averlo vuotato.

All'entrare di Macobaro i cinque personaggi levarono la testa; e visto chi fosse non gli dissero, nè fecero cenno di sorta che paresse un saluto, ma tornarono nel loro primitivo raccoglimento: [77] l'ebreo si venne inoltrando chetamente quasi con umile riverenza verso la tavola, prese una seggiola e vi sedette timidamente senza nè dire una parola neppur egli, nè fare un atto qualsiasi.

Si continuò per un poco ancora in quel silenzio; finalmente l'uomo dagli occhiali bleu fece un movimento, trasse di tasca l'orologio e guardandolo disse:

— Il medichino è in ritardo d'un quarto d'ora.

— È troppo: disse un altro.

— Quanto a me, saltò su con voce rauca l'omaccione, che aveva galvanizzata in quel punto la sua inerzia con un bicchierino di acquavite: quanto a me lo aspetto finchè qui dentro c'è una goccia di questa roba. Quando abbia finita questa fiaschetta me ne vado ai fatti miei, e il medichino il diavolo se lo porti.

Ma Graffigna gli diede sulla voce.

— Sta zitto, Stracciaferro. Bevi quel che hai dinanzi e non dir sciocchezze. Se il medichino non è qui ancora, è segno che ancora non ha potuto venirci; e quanto ai fatti tuoi, tu non hai altri che quei della cocca, e devi star qui appunto per essi.

Stracciaferro scosse la sua testa enorme; ma si tacque. Nè alcun altro aggiunse più parola.

Pochi minuti dopo si udì un passo franco nel piccolo camerino che precedeva l'ingresso al Cafarnao, ed entrò un uomo di alta statura, avvolto in uno scuro mantello che tuttavia non nascondeva la prestanza delle sue forme, la dignitosa leggiadria delle sue mosse. Era il medichino.

Mentre al sopraggiungere di ogni altro nessuno di quelli che già si trovavan colà erasi mosso, all'entrare di codestui, appena l'ebbero scorto, s'alzarono tutti in piedi con certa attitudine di rispetto, come per un taciturno saluto: tutti meno uno, che era Stracciaferro, il quale aveva scossa di nuovo la sua grossa testa ed aveva mandato una specie di grugnito che pareva quasi un'espressione di protesta contro quell'atto riverente degli altri.

Ad alzarsi primo di tutti era stato Macobaro, e il suo capo si curvò in umilissimo inchino, mentre il giovane capo della cocca fece scorrere di passata il suo vivido sguardo sulle infinite rughe della raggrinzita di lui faccia; ma chi avesse notato lo sguardo pieno d'odio implacabile che aveva guizzato a tutta prima verso Gian-Luigi dalle palpebre floscie ed ingiallite del vecchio, non avrebbe esitato a credere quest'uomo capace d'ogni più fiero proposito contro colui che così umilmente inchinava.

Il medichino s'inoltrò colla sua andatura fiera e la mossa naturalmente superba, senza sciorsi dal mantello onde si avvolgeva. I suoi occhi che erano corsi sulle faccie di tutti i presenti, si fermarono sulla figura grossolana e bestiale di Stracciaferro e la saettarono di sguardi che parevano di fuoco.

L'omaccione volle resistere col suo e lottare contro quello sguardo del giovane; ma nol potè a lungo; le sue pupille quasi a forza dovettero chinarsi, ed egli manifestò il malessere che quello sguardo gli cagionava e il dispetto che di ciò sentiva, con un altro dei suoi grugniti quasi bestiali.

In Gian-Luigi per l'intensità di quella fisa guardatura, le vene della fronte si gonfiavano a poco a poco, e, le sopracciglia aggrottandosi lentamente, veniva disegnandosi ed incavandosi sempre più quella ruga caratteristica che noi gli conosciamo.

— Perchè non vi siete levato in piedi, Stracciaferro? domandò il medichino con voce severa, ma calma e posata.

Stracciaferro fece un atto pieno d'irriverenza; ma non osò levare gli occhi sulla faccia del giovane.

— Perchè, rispose colla sua voce rauca ed ebriosa, perchè non ne ho punto voglia.

Gian-Luigi tirò giù lentamente la falda del mantello che aveva gettata sulla spalla sinistra, e dalle pieghe del panno cascante sprigionò il braccio destro e la sua mano fine e sottile, accuratamente inguantata.

— Qui non siete per fare le vostre voglie: disse con una pacatezza che era più minacciosa che l'accento della collera: qui conviene che compiate i doveri che avete verso la cocca e verso me che ne sono il capo. Quando ci avvenga di incontrarci come semplici individui qui o fuori di qui, che voi badiate o non a me, poco m'importa: aspetterò a darvi una lezione allora solamente che mi manchiate di rispetto; ma in queste adunanze, qui, adesso, voi siete innanzi a me in qualità di subalterno innanzi al suo superiore, ed io esigo che voi mi rendiate quelle onoranze che sono stabilite dai nostri accordi, che sono nel mio diritto di pretendere, e di cui anzi penso dovere della mia carica il mantenere intatta l'osservanza. Con voglia o senza, voi vi dovete alzare, e vi alzerete.

Fece una pausa. Stracciaferro non si mosse; allora con voce vibrata di comando, il medichino gli intimò:

— Alzatevi!

I presenti a quella scena stavano muti ed immobili; ma l'espressione della loro fisionomia era ben diversa. Graffigna pareva seccato di quest'incidente che faceva perder tempo e si vedeva non approvar egli niente affatto la condotta del suo compagno; il direttore della casa di commissioni, guardava con occhio indifferente come uno spettacolo qualunque che gli si presentasse; il ferravecchi ebreo aveva nell'aspetto un maligno interessamento affatto ostile al medichino; gli altri due sembravano meravigliati della temerità di Stracciaferro, ma non parevano alieni del tutto a schierarsi dalla parte del ribelle, quando egli avesse saputo vincerla; come i più, insomma, erano inclinati senza dubbio nessuno a dar poi ragione al più forte.

A quel riciso comando, Stracciaferro parve dapprima voler cedere; fece un movimento come per [78] obbedire, ma poi piantando le sue manaccie sulla tavola, quasi ci si volesse attaccare, disse risolutamente:

— Ebben no..... non lo voglio.

— Gli occhi di Gian-Luigi lampeggiarono più fieramente e la ruga che gli solcava il mezzo della fronte apparve più spiccata e profonda; tuttavia aveva egli ancora il dominio della sua volontà e padroneggiava la collera che gli sobbolliva nell'anima. Non era la prima volta che delle velleità di ribellione al suo potere si manifestavano in quell'uomo audacissimo e robustissimo. Fra le nature di quei due individui, l'una elegante, distinta, aristocratica, l'altra grossolana, volgare, bassamente plebea, si sarebbe detto corresse un'antipatia quasi necessaria, domabile soltanto dall'impero della forza, a benefizio di chi avesse questa forza da parte sua. Stracciaferro che di certo non ragionava sulle sue impressioni, ma agiva per istinto, s'era sdegnato di vedere il suo vigore, il suo ardimento, la sua ferocia sottomessi alla supremazia d'un giovane che per quell'empia strada in cui essi camminavano, gli pareva indegno del tutto d'andargli innanzi; e questo sentimento nato confusamente nel suo spirito offuscato dalla grossolanità della materia, dalla continua ebrietà, veniva in lui spiegandosi a poco a poco e manifestandosi via via con qualche atto da prima lievissimo, finchè quella sera l'acquavita gli aveva dato la risolutezza di palesarsi in quel modo che abbiamo visto.

Il medichino da parte sua teneva ognor presente che quel suo primato confertogli dalla scelta de' suoi compagni, egli doveva conservarselo o per dir meglio conquistarselo ancora ad ogni volta mercè l'audacia in una sempre continua lotta contro le ambizioni, le invidie, i sospetti, le malevolenze dei suoi scellerati subalterni; e sapeva che la prima volta in cui egli avesse avuto il di sotto, la sua autorità di colpo sarebbe stata affatto perduta. Andava egli quindi preparato sempre ad ogni evento; e non era uomo da evitare nessun pericolo nè sottrarsi a nessun cimento.

Prima di riprendere a parlare a Stracciaferro, dopo la insolente risposta di costui, Gian-Luigi si tolse il mantello dalle spalle e lo gettò lontano da sè, si sguantò le mani, e ponendo la sinistra in tasca, la destra appoggiò alla tavola che tramezzava fra lui e l'avversario il cui contegno era per lui una sfida.

— Facciamo ad intenderci: diss'egli con un sorriso alle labbra cui rendevano terribile il fuoco degli sguardi e l'aggrottamento della fronte. La vostra condotta e le vostre parole meritano un'esemplare punizione, Stracciaferro...

— Una punizione a me? ruggì quel Sansone avvinazzato digrignando i denti.

Ma il medichino parlando di forza con quell'accento che la natura pareva avergli dato apposta per comandare altrui:

— Non m'interrompete: gridò; risponderete quando io abbia finito di dire.

Stracciaferro borbottò confusamente qualche improperio e tracannò un altro bicchierino d'acquavita. Gian-Luigi continuava:

— Prima di darvi questa punizione però desidero sapere le ragioni che vi han mosso a trasgredire quel dovere di rispetto che avete pel vostro capo, per sapere appunto misurare a queste ragioni la gravità della pena. Or dunque che cosa vi ci ha mosso? Avete qualche rimprovero da farmi? Vi è sembrato scorgere in me qualche cosa che mi rendesse men degno del mio grado? parlate.

Stracciaferro, esordendo per un'orribile bestemmia, parlò colla più brutale franchezza.

— Il suo grado!... Io non so perchè Lei abbia da tenerlo il suo grado.... ecco!.... È forse dei nostri Lei? Ha lavorato come noi di mano e di persona? Ha frustato la vita nelle galere, trascinando la catena al piede come hanno fatto i nostri noi?.... Noi affrontiamo il capestro e Lei si pappa il meglio dei nostri guadagni.... Noi a trascinar una vitaccia sciagurata, inseguiti dalla canèa dei poliziotti; Lei a scialarla con cavalli e carrozze in abiti da moscardino e prendersi una satolla d'ogni piacere. Ora domando io se è giusto codesto; e domando che cosa dà diritto a Lei di godersela in questa guisa..... Perchè Lei e non noi?... Se si ha da guardare al merito, non ho più meriti io di cui tutti conoscono le imprese, e il cui nome è un terrore a tutta la gente ed alla polizia medesima? Se gli è la forza che deve primeggiare, non sono io il più forte?

E terminando con una bestemmia pari a quella con cui aveva incominciato, tese innanzi la sua grossa mano nera, villosa, muscolosa, serrata a pugno, e battè un colpo sulla tavola che parve battuto da un maglio di ferro.

Il medichino diede una ratta sguardata all'espressione delle faccie di quel ristretto pubblico che era presente alla scena. Graffigna appariva più impaziente che mai, l'uomo dagli occhiali mostrava un curioso interessamento che però sembrava propendere di meglio verso il capo della cocca; Macobaro s'era riparato dietro una maschera impenetrabile di indifferenza; gli altri due avevano una certa esitazione che accennava una tendenza a schierarsi dalla parte di Stracciaferro. Gian-Luigi capì che gli conveniva con un colpo decisivo domare senza indugio quelle velleità di ribellione.

Graffigna credette bene d'intervenire, e saltò in mezzo colla sua stridula voce dicendo:

— Queste le sono tutte scempiaggini, Stracciaferro, mio caro amico, che ti venga un accidente..... Tu ci fai perdere tempo e non altro.

— Tacete! intimò fieramente il medichino fulminando l'interrompitore con una terribile occhiata: chi vi ha dato il diritto di parlare?

[79] Graffigna rinsaccò la testa fra le spalle, e fece un atto che voleva dire:

— Non vada in collera con me: non me ne immischio dell'altro.

Gian-Luigi si volse a Stracciaferro e parlò con voce vibrante ma contenuta, autorevole e sempre calma.

— Alle vostre parole non dovrei fare manco l'onore d'una risposta e punirvi senz'altro, ma prima mi piace mostrarvi eziandio l'assurdità delle vostre impertinenti pretese, poi più pesante ancora si abbasserà su di voi la mia mano punitrice.

Stracciaferro tirò indietro dalla tavola la sua seggiola, e come disponendosi fin d'allora a sostenere un assalto, pose sulle sue grosse ginocchia le manaccie ossee, ronchiose, che facevano certi pugni da impaurire qualunque.

— La staremo a vedere! diss'egli bofonchiando fra i denti.

Gian-Luigi continuava col medesimo tono:

— Poichè voi osate istituire una gara di meriti e di titoli a questo primato che la scelta della cocca mi ha concesso e che voglio mantenermi intiero e in tutta la sua estensione e con tutti i suoi privilegi, per Dio; vi dirò che avere l'audacia di paragonar voi a me è lo stesso come paragonare lo stupido bue che tira l'aratro al coltivatore che lo guida e lo corregge. Voi siete una forza bruta, io sono l'intelligenza. Voi avete eseguito materialmente molto arditi fatti, ma chi li ha immaginati? Chi vi ha suggeriti i mezzi e condotti con sicura previdenza e con infallibile abilità al successo? Poichè io vi comando guardate quanta prosperità e come incessante abbia accompagnata la nostra associazione! Ella non fu mai così felice e gloriosa. E non è nulla ancora appetto all'avvenire al quale intendo e mi sento la forza di condurla. Cotale avvenire, questa sera appunto voi siete adunati per udirmi a svelarvelo, per udirmi proporvi le più importanti misure, per ricevere da me i più precisi ordini onde cominciarne l'effettuazione. Siamo alla vigilia d'un giorno che voi non avete osato sognar nemmanco pur mai: quello in cui la nostra società, noi, abbiamo in nostro potere la città tutta, ed apertamente dettiamo noi la legge altrui e di quelle armi che ora ci combattono possiamo servirci a far eseguire i nostri desiderii. Finora ci siamo contentati di togliere colla rapina, avvolgendoci delle ombre notturne, ai ricchi una parte piccolissima dei loro averi: io vi guiderò invece a tal punto che potrete, alla luce del sole, spogliare i ricchi d'ogni aver loro a beneficio di voi e dei vostri. E codesto a chi si dovrà? A quel pensiero che ha sede qui nel mio cervello, e che voi, bruto con forme d'uomo, nel vostro capo ottuso non sapete manco che cosa sia. Ecco già una buona ragione — e la migliore — pel mio predominio. Ma voi contate eziandio la forza fisica e il coraggio: e di queste qualità dovreste già sapere che io non vi sto indietro: e che anzi vi sopravvanzo anche in esse, vengo a darvene la prova sull'istante.

Camminò risolutamente verso Stracciaferro, facendo il giro della tavola che stava tra loro, la mano sinistra sempre in tasca, la sua destra bianca, affilata e gentile dondolante con abbandono lungo il corpo.

L'omaccione, vedendolo accostarsi, sorse in piedi e si fermò sulle sue gambe alquanto oscillanti. Lo sguardo torvo, feroce, quasi sanguigno di Stracciaferro seguiva le mosse del medichino come quello d'una belva fa alla preda che aspetta all'agguato. Ma ad un tratto Gian-Luigi fece un balzo: mentre il suo avversario piantato pesantemente sulla base dei suoi grossi piedi lo attendeva di facciata, egli con una mossa più ratta del baleno, più agile di quella d'una tigre fu addosso all'omaccione sopra il suo fianco destro, e prima che avesse tempo a voltarsi e porsi in alcun modo in difesa, a parare comecchesiasi il colpo, gli scaraventava alla tempia un pugno di tal forza che Stracciaferro barcollò e cadde stramazzoni, come bue colpito in mezzo al capo dal maglio del beccaio. Il suo avversario non aveva ancora toccato la terra, che il medichino era già rimbalzato indietro di due passi, e postosi in attitudine difensiva appuntando innanzi a sè colla mano sinistra una pistola a due bocche trattasi vivamente di tasca, pronto a far saltare le cervella al nemico quando quel primo colpo non l'avesse abbattuto.

Ma Stracciaferro non poteva pur pensare a muovere un assalto, nè manco ad altra cosa al mondo, abbandonato qual era, privo di sensi, per terra, come se morto. Il medichino prese lentamente la mossa naturale e tranquilla d'un uomo che non ha nulla per cui stare in guardia, ripose in tasca l'arma, come se niente fosse, e fece scorrere sui testimonii di quella scena uno sguardo nè trionfante, nè superbo, ma osservativo e imponente. Tutte le teste gli s'inchinarono dinanzi: quella di Macobaro s'inchinò più di tutte.

— Ora veniamo a noi, diss'egli colla voce così piana e tranquilla come se nulla fosse avvenuto, e facciamo a guadagnare il tempo che quell'animale ci ha fatto perdere.

Prese una seggiola ed andò a sedersi a capo della tavola, facendo invito agli altri ed accordando licenza con un gesto da sovrano di sedere ancor essi. Il corpo di Stracciaferro giacente era un impaccio per alcuni.

— Graffigna, comandò Gian-Luigi, guarda un po' se questa c...... vuole star lungo tempo coi ferri per aria; e se sì, tirala colà in un canto che non ci dia altro imbarazzo.

Graffigna si curvò sopra il vecchio suo compagno di delitti e d'infamia. Stracciaferro apriva gli occhi; ma il suo sguardo torbido ed appannato dinotava [80] come al suo cervello intronato non fosse ancora tornata la funzione di quell'intelligenza cui la natura già gli aveva data in sì scarsa proporzione, e cui la continuata ubbriachezza aveva ancora ottusa di tanto.

— Eh! non sarà nulla, disse Graffigna chino sull'omaccione, e' comincia a rifar l'occhiolino. Suvvia, soggiunse parlando al caduto, e scuotendolo per le spalle, animo, mio caro amico che tu possa crepare; non farci delle smorfie da femminetta e levati sulle piote, pendaglio da forca, mio degno compagno.

Stracciaferro trasse un grosso e profondo sospiro, e messosi con gran pena a sedere girò intorno uno sguardo da trasognato.

— A me, a me, riprese l'omiciattolo dalla faccia di faina. So ben io che cosa ci vuole a questo maccaco, nostro benemerito socio, per fargli tornare l'anima in corpo.

Prese sulla tavola il fiaschetto dell'acquarzente e ne mescette un colmo bicchierino, che venne a porre a contatto delle labbra spesse e tumide di Stracciaferro.

— Orsù, gli disse, bevi codesto, e lesto in gamba, che ti carezzi il piede di Gasperino[10].

Con un moto puramente animale Stracciaferro ingoiò il contenuto del bicchierino, e parve in verità che ciò gli ridonasse gli spiriti, perchè un qualche raggio di luce venne a brillare nei suoi occhi.

— Olà, non l'abbiamo ancora finita? Gridò allora la voce imperiosa ed impaziente del medichino.

Il vecchio galeotto tutto si riscosse; volse a quella parte ond'era venuta la voce, i suoi occhi rossi di sangue ed infossati nelle livide occhiaie, e incontrò lo sguardo superbo di supremazia disdegnosa, e vide l'aspetto imponente di quel giovane dall'alta fronte orgogliosa, a cui la sorte aveva tutto accordato: bellezza, intelligenza, coraggio, fermezza e perfino la forza muscolare. Che cosa si passò egli nell'animo di quello sciagurato la cui bassa natura confinava colla cieca animalità? Quello sguardo e quello aspetto lo vinsero più ancora della forza di quel colpo materiale che lo aveva atterrato: fece come una fiera in gabbia che ha voluto ribellarsi al suo domatore e che questi col dolore delle percosse e colla forza magnetica dell'occhio fascinatore, fa rientrare nella timorosa soggezione.

— Alzati ed accostati: gli comandò breve ed asciutto il medichino.

Stracciaferro si alzò non senza stento e venne accostandosi al capo della cocca con passo tuttavia mal sicuro.

— Sei persuaso ora d'aver torto? gli chiese bruscamente Gian-Luigi.

L'omaccione mandò uno de' suoi grugniti che poteva passare per un'esclamazione affermativa.

— Sta bene..... Una severa punizione l'hai meritata; ma per questa volta, mi contento di quel poco di correzione che hai preso... Per questa volta, intendi?..... Ad un'altra, al menomo cenno d'insubordinazione, al menomo contrasto alla mia volontà, ti faccio saltar le cervella, com'è vero che io qui sono... E così di qualunque altro che osasse imitare il tuo esempio. Ciascuno se lo tenga per detto.

Fece scorrere di nuovo sulle faccie dei presenti il suo sguardo lento, pacato e severo; e più di prima ancora, non trovò che fronti chine ed umilmente sommesse.

— Ora non se ne parli più: continuava col tono di generosa clemenza d'un Tito. Siedi costà e impiega tutto quel po' di cervello che ti resta a tentar di comprendere ciò che sto per dire ed ordinare.

I componenti il supremo Consiglio della cocca erano adunque tutti seduti intorno alla tavola a cui capo stava il medichino e con vivissima curiosità ed attenzione aspettavano le comunicazioni per cui erano stati colà raccolti.

Gian-Luigi così cominciò a parlare:

— Fin da principio che io assunsi quest'importantissimo ufficio che voi m'avete voluto affidare, fu mio proposito chiamare la nostra associazione a ben più alti destini di quelli a cui l'avessero spinta, cui avessero pur anco sognato soltanto tutti i miei predecessori. Noi per un'ingiustizia fatale siamo privi dei beni della sorte e con quello che la comune chiama delitti cerchiamo riparare a questa ingiustizia; ma gli effetti dei nostri atti non sono che temporanei, non riescono che a successi parziali, in una menoma parte soltanto dell'immenso complesso dei beni umani, non giovano che a pochi individui, per poco tempo, lasciando definitivamente nelle medesime condizioni la nostra classe, tutti quelli che come noi non hanno nulla, i poveri, gli umili, i derelitti e calpestati dai potenti — la plebe!

Graffigna fece un atto che significava chiaramente com'egli degli altri se ne curasse meno d'un mozzicone di sigaro e che contentavasi affatto di que' certi successi parziali che facevano entrare qualche buona manciata di monete nelle sue tasche. Ma il medichino volse per azzardo gli occhi verso di lui, ed egli, rinsaccato ancora il capo in mezzo alle spalle, chiuse gli occhi, come per assorbire di meglio le parole del suo superiore e meditarvi su con più attenzione.

Gian-Luigi continuava:

— Ma intorno a noi, contro di noi, a legarci in ogni nostra mossa, ad impedirci ogni atto, a reprimere ogni nostro conato, a rendere impossibile ogni miglioramento della nostra sorte, che cosa troviamo noi? La legge, che è fatta dai nostri nemici; tutto un ordinamento, un edifizio di istituzioni e di uffici, [81] di costumi e di autorità, organato direttamente a nostro danno ed a nostra repressione. È chiara e facile la conseguenza da dedursi: abbattiamo questo edificio, stracciamo questo iniquo patto di legge a cui noi non abbiamo acconsentito. La nostra parte ha la potenza del numero; ma pur tuttavia è debole ed impotente per mancanza d'unione e d'accordo, d'intendimenti e di guida, d'una forza di pensiero e di volontà che la informi, d'un centro intorno a cui la si agglomeri e che le indichi e cominci l'azione, e ve la spinga e capitaneggi. Quest'uffizio ho pensato che poteva adempiere la nostra segreta associazione così vasta e fondata, che, ignota anche ai più di quelli che la servono, pure diffonde così largamente le sue radici, che può di tanti mezzi disporre, che vanta a sè arruolati tanti coraggi, tanti animi risoluti e pronti ad ogni cosa. La nostra associazione, mi sono detto, può raccogliere in una massa le scontentezze, le ire, le disperazioni dei derelitti, far precipitare questa irrefrenabile valanga sul presente edificio, abbatterlo come la vera valanga schiaccia il villaggio che incontra nel suo cammino; e sulle rovine di ciò che ora esiste, può la nostra misteriosa cocca rimanere solo corpo organato che sopravanzi, ed impadronirsi della somma delle cose.

Fece una piccola pausa, e poi soggiunse con accento più vibrato, con occhi che sfavillavano d'una ardente cupidigia:

— Allora a noi tutte le ricchezze terrene: a noi tutti i tesori e i piaceri della vita, tutto che suscita il desiderio, che può soddisfare ogni passione. Affonderemo fino alle spalle le nostre braccia nell'oro — anco nel sangue se vogliamo — c'inebrieremo d'ogni voluttà, anche di quella della vendetta contro chi ci ha tenuti finora sotto il suo tallone. Saremo noi i re della terra!

Il suo accento appassionato ed eloquente faceva correre un fremito nella maggior parte de' suoi ascoltatori. Dietro le sue lenti colorate gli occhi del direttore della casa di commissione brillavano ancor essi d'un ardore indicibile di cupidigia. Macobaro aveva nel suo sguardo affondato uno scintillio maligno e sulle sue labbra tirate un sogghigno più perverso ancora; i due di cui non si è detto il nome, mandarono un'esclamazione soffocata di avidità che direi quasi feroce, e tesero le mani innanzi a sè come se già volessero afferrare quell'oro e quei diletti di cui parlava il medichino: soli Stracciaferro e Graffigna non partecipavano al comune entusiasmo. Il primo stava coi gomiti appoggiati alla tavola e la testaccia chiusa nelle mani, indifferente a quel che si diceva, come se non udisse o non comprendesse: il secondo crollava il capo ed aveva sulla sua faccia furbesca un'aria di malcontento che era una manifesta benchè silenziosa opposizione.

Gian-Luigi osservò l'espressione di quell'aspetto e cambiando ad un tratto accento e contegno, disse bruscamente e con imperiosa brevità:

— Tu hai qualche cosa da dire, Graffigna!

Questi fece un gesto come per iscusarsi ed esimersi dal parlare.

— Parla, parla, disse il medichino con autorevole insistenza. Voglio udire le tue ragioni, e ti comando di esporle.

Graffigna fece un gesto di umile e rassegnata ubbidienza, e disse col suo tono più insinuante e colla sua voce più esile:

— Ecco qui... Io non la so ragionare tanto per le difficili... Parlo come vien viene, e se dico delle bestialità conviene perdonarmi, che sono un povero uomo che il diavolo mi porti... Or dunque, io dico, che la cocca si è formata e noi vi ci siamo ascritti ed abbiamo lavorato per essa per questo motivo; che cioè noi che la componiamo potessimo avere più sicuri e più forti mezzi da mandare innanzi i nostri piccoli affari, combinare ed eseguire in barba a quella bestiaccia della Polizia i più bei colpi e i più fruttuosi..... Bene!.... Volerci far uscire di li, volerci mettere in imprese che noi non comprendiamo bene, che vanno più in là di quello che ci sia possibile, ho gran paura che non serva ad altro che a comprometterci. Di quelli che non appartengono alla cocca, miserabili o non miserabili che sieno, non m'importa a me l'anima d'un bottone, crepino o non crepino di fame quella brava gente che possano far conoscenza colle pantofole del boia... Dunque sor medichino parla certamente assai bene... che mi colga un accidente; ma mio avviso è che si lascii camminare il mondo come cammina, che non saremo noi che drizzeremo le gambe ai cani, e che continuiamo perciò senza tanti imbarazzi a sbrigar chetamente i nostri piccoli negozi.

La politica pedestre, ma positiva di Graffigna parve estinguere nei due birbanti innominati la fiamma dell'entusiasmo che le parole del medichino avevano suscitata; anche l'uomo dagli occhiali bleu sembrò recarsi su se stesso e riflettere: Stracciaferro conservava sempre la sua attitudine torbida ed astratta; Macobaro fu a combattere vivacemente la opinione di Graffigna.

— E come! diss'egli, dopo aver ottenuto da Gian-Luigi licenza di parlare: Graffigna, non capite tutta l'estensione e la efficacia del piano che il nostro egregio e benemerito capo ci ha adombrato? Voi non volete che quelle imprese le quali possono arrecare a noi un utile diretto, sicuro ed immediato; ma nissun'altra più di questa che ci viene proposta varrà mai a darci tanto vantaggio. È un colpo di rapina in grandi proporzioni, al quale ci facciam complici tutti i miserabili, e del quale noi profitteremo più di tutti. Riesca o non riesca la cosa, noi verremo sempre a capo di fare un bottino quale mai non fu fatto..... Pensate che possiamo avere a nostra discrezione per giorni, per delle ore almanco tutti i forzieri dei ricchi.....

[82] Gli occhi dei degnissimi soci tornarono a sfavillare di cupidigia.

— Pensate che insieme col guadagno, potremo anche avere quell'altra dolcissima soddisfazione che è quella della vendetta.

La sua curva persona si ridrizzò alquanto, e nella voce umile sempre e rimessamente trascinante, vibrò un'energia affatto nuova.

— Che? Non vi sorride, Graffigna, l'idea di poter tenere non fosse che un solo momento, sotto il vostro piede quegli scellerati che vi hanno schiacciato fin adesso, che vi schiacciano col loro tallone? Ah veder calpestati pur una volta chi ci calpesta, oppressi chi ci opprime, timorosi di noi chi ora ci fa paura, non è questo solo una benedizione di Dio?...

— Per me codesto poco importa, riprese Graffigna. Miglior modo di vendicarmi lo credo quello di farmene venire in tasca più che posso dei loro denari...

— E qui, con codesto, li prenderemo tutti i loro denari a quei birboni di nobili, di potenti e di ricchi: esclamò con forza di cui non avreste creduto capace la sua voce da vecchio, Macobaro le cui membra tremavano dalla profonda emozione: li prenderemo tutti i loro denari, le loro gioie, i loro argenti...

— Sì, se vincessimo, ma come sperarlo con tanta forza di arcieri, di carabinieri, di soldati che ci manderanno addosso. Sapete che arriverà? Che saremo schiacciati come rospi sotto una roccia, e tirando sopra la cocca tutto il furore dell'autorità, la metteremo al puntiglio di compiutamente distruggerla. Per me posso rassegnarmi benissimo ad andare a dar calci al vento nel circo dei pioppi a porta Susa[11]; ma mi sarebbe di soverchio dolore e rimorso vedere per nostra imprudenza rovinata quella cocca che, già impiantata da tanto tempo, ma scaduta e quasi dispersa, noi abbiamo avuto il merito di riavvivare, rafforzare, far prospera, e che vorrei trasmettessimo in ottime condizioni ai nostri successori.

Qui il medichino fe' cenno tacessero tutti ch'egli era a voler parlare. Gli fu prestata da quel fior di galantuomini una sollecita attenzione.

— Le parole di Graffigna, diss'egli, hanno il loro valore; ma credete voi che quelle osservazioni ed obiezioni io non me le sia fatte fin da prima che ho concepito questo mio disegno e che ho risoluto di metterlo in atto? Le ho meditate e discusse meco stesso, le ho pesate una per una; e se mi sono deciso dopo ciò a tentare la impresa — imperocchè sappiate che tutto oramai è disposto — gli è perchè ho trovato buone ragioni a combatterle, valevoli rimedii ad antivenire ed impedire quei danni. Questa nostra associazione, non lo dico per vantarmi, ma per amor della verità cui conviene qui accertare, se arrivò al grado di potenza e di prosperità al quale si trova, lo deve per la maggior parte a me: ora come potreste voi credere che io fossi tanto poco sollecito dell'opera mia da comprometterla con leggerezza ed esporla a facili sconfitte? No, compagni miei, non credetemi nè sì cieco, nè sì incauto, nè sì colpevole, perchè codesta sarebbe una vera colpa. Se io ho pensato di far della nostra cocca la molla principale della rivoluzione che voglio suscitare, la parte direttiva e quella perciò che ci avesse poscia il profitto migliore, ho pensato eziandio a cingerla ed avvalorarla della forza di molti altri complici che senza saperlo, credendo anzi muoversi per proprio interesse, lavorassero ad esclusivo di lei vantaggio, e in mezzo ai quali la cocca medesima sparisse nascosta, come la forza segreta che anima l'organismo vivente, cui nessuno può afferrare, per venire a galla soltanto allora che il trionfo le desse l'opportunità di saltar fuori ed afferrare la preda. Credete voi forse che questo sia un progetto sbocciato d'improvviso nel mio cervello, e voluto attuare colla foga del primo trasporto dell'immaginazione che non tien conto degli ostacoli? No; così non è. Questo progetto gli è da anni ed anni che io lo vo rivolgendo meco stesso nella mente; gli è da anni ed anni che s'è impadronito di tutto l'esser mio e che mi comparisce sotto ogni sua faccia e che mi s'impone colla sequela delle sue difficoltà per far travagliarsi il mio spirito a meditarle e sciorle l'una dopo l'altra: gli è fino dalla mia adolescenza, quando, affacciatomi appena alla soglia della vita, vidi così iniquamente distribuite le parti nel mondo, e in quel tirannico ordinamento non un posto per me... Quando le circostanze, i miei bisogni, le mie passioni mi gettarono in mezzo a voi, — ve lo confesso aperto — io mi vi diedi tutto, perchè all'anima mia era balenata di subito la speranza che questo sarebbe stato un saldo punto d'appoggio per quella leva ch'io voleva muovere a scuotere e rovesciare l'ingiusto assetto sociale presente: quando la mia audacia e la forza della mia volontà mi fecero vostro capo, giudicai che la sorte voleva darmi l'eccelsa contentezza di effettuare il mio sogno. Avevo già incominciato l'opera in umili e ristrette proporzioni; la continuai con più ardire, con più speranza, con più mezzi in un più vasto ambito, con più certi e più ampi successi.

«Nel mondo oltre i nostri, ci sono altri odii, altre ambizioni, altre passioni che imprecano alla società attuale e la vorrebbero modificata a loro profitto e ne minacciano alcuna parte. Non è solo qui da noi che ci sono poveri che soffrono, e ricchi che vivono empiamente del sudore del popolo; pensai che lo scoppio dell'ira dei pezzenti negli altri paesi potesse aiutarsi, eccitarsi, combinarsi per venire in soccorso e assicurare il trionfo del nostro. [83] Avvisai che noi potevamo sfruttare eziandio e il maltalento e le invidie del ceto medio che altrove, mercè la ricchezza, è arrivato già alla cima della scala e qui è tenuto basso dai privilegi accordati dalla monarchia assoluta alla nobiltà, gli sdegni e le aspirazioni delle intelligenze ora soffocate, le ambizioni di coloro che si accorgono d'essere schiavi perchè non son essi a comandare, le generose follie di chi, volendo avere una patria, vorrebbe costituire dell'Italia una nazione indipendente dallo straniero. Tutto questo ho raggruppato insieme e dei varii, molteplici fili, tengo i capi nella mia mano.

«Domenica ventura — date ben retta — fra pochi giorni adunque, domenica, di sera, quando piene affatto le tenebre la gran lotta ha da incominciare. Giovani dalla fantasia accesa e dal cuore in cui batte un sangue concitato, studenti, artisti, commercianti, insorgeranno armati nel nome della patria e della libertà; noi da nostra parte lancieremo nelle strade le scure e torbide legioni della miseria che grideranno «abbiamo fame e vogliamo del pane e dell'oro.» Quelli assaliranno l'arsenale, le caserme, le dimore delle autorità, — anche della prima di tutte: questi — i nostri — si precipiteranno sulle case e sui forzieri dei ricchi. Le truppe saranno occupate dalla rivoluzione politica, noi avremo il campo libero, ed il saccheggio sicuro.»

Pronunciò queste due ultime parole con accento spiccato, con espressione tentatrice come l'iniquo soffio del demone, con isguardi lucenti di passione profonda. Tutti i suoi uditori si riscossero, fin anco Stracciaferro, che levò dalle palme delle sue manaccie il suo volto animalesco e mostrò un lampo d'intelligenza nelle sue pupille offuscate.

— Ah sì, il saccheggio: grugnì egli a suo modo colla voce rauca e avvinazzata: questo mi va.

— Il popolo avrà delle armi: i nostri che faranno da capi alle turbe saranno più armati degli altri. Abbiamo oltre alle armi materiali quella morale più potente di tutte, il danaro. Pagheremo se non tutti una gran parte degli operai perchè facciano causa comune con noi contro i loro padroni. Più ancora del danaro possono in essi le ragioni e le idee che da tempo ho procurato si spargessero fra di loro.

Qui il direttore della casa di commissioni fece un lieve cenno che pareva significare aver egli alcuna cosa da dire.

— Parlate pure, gli disse il medichino interrompendosi.

— Voglio dire, poichè Lei me lo permette, che da questo lato le cose camminano il meglio che si possa desiderare. Dietro suoi ordini e secondo le sue istruzioni, ho continuato ad agire e far agire sì direttamente che indirettamente sui principali operai di tutte le officine.

Qui Graffigna interruppe dimenticando per un momento il suo rispetto alla disciplina.

— Questo è vero. Nella fabbrica Benda che è una delle primissime, so io di sicuro che non si starebbe guari ad avere dalla nostra buona mano di quei lavoratori. Marcaccio insusurrato da me va gonfiando le orecchie a certo Tanasio che ha molta influenza sui suoi compagni, e per suo mezzo quel caro uomo degno della galera ha messo assai bene il baco fra quegli operai... Non basta; testè quel Marcaccio medesimo — bravo capitale d'un assassino va! — ci ha fatto acquistare una preziosa recluta che ci sarà utilissima in molte occasioni, essendo che gli è un eccellente fabbro-ferraio, e che ci potrà aiutare assai bene anche in questa, perchè fu già negli opifizi del signor Benda, ne fu scacciato, ed oggi stesso, avendo mandato la moglie a supplicare d'esservi riammesso, si ebbe un bel no, di che sentì un'ira maledetta e giurò l'avrebbe fatta pagare al suo antico principale.

— Benone! esclamò l'agente d'affari. Quella è delle fabbriche più importanti e che abbiano maggior numero d'operai.

— Senza contare che il padrone di essa è uno dei più ricchi di Torino e che c'è da fare un leva ejus ne' suoi scrigni proprio co' fiocchi.

— È vero: esclamarono con avidità di desiderio gli altri, meno il medichino e Stracciaferro sempre assorto nel suo torpore.

— Ma il guaio si è, soggiunse finemente Graffigna, che sor medichino non vuole che alla famiglia Benda si tocchi.

Tutti si volsero a Gian-Luigi come aspettandone una spiegazione.

— Gli avevo suggerito questa mattina medesima un simil colpo, continuò Graffigna, ed egli me ne rimbrottò come un cane.

Il medichino stette un momento in silenzio reggendo colla sua mano bianca e sottile la bella fronte; poi scuotendo la testa, come per gettarne via alcun molesto pensiero, disse sorridendo d'uno strano sorriso:

— Sì, è vero..... Questa mattina ho parlato così: ma ero allora sotto l'impressione di certi sentimenti..... che gli è inutile spiegarvi..... Adesso quell'impressione è superata, e ragiono diversamente. Come tutte le altre, anche la fabbrica del signor Benda sarà sconvolta dalla sommossa.

— Così va bene: esclamò Graffigna. — E conto d'esserci io colà al momento buono: soggiunse fra i denti.

Gian-Luigi rimase di nuovo un istante riflessivo, poi riprese coll'accento di prima:

— Tutte le officine adunque insorgeranno. Noi sceglieremo accuratamente fra i nostri uomini quelli che per ciascuna dovranno ficcarsi in mezzo agli operai ad istigarli prima, a capitanarli nel momento dell'azione. Quando una massa di popolo trasmoda in tumulto, chi è più esagerato in parole, più audace nei fatti agevolmente se ne impadronisce, e nelle vie della violenza la volge a suo senno. I [84] nostri uomini, cui un per uno voi comunicherete le istruzioni che vi darò testè io stesso, parleranno ed agiranno da imporsi come capi alla sommossa. Ciascuno di essi riceverà prima del fatto una somma; del bottino poi, obbligato a renderne conto a noi e recare in comune, avrà promessa solenne di ottenere considerevolissima porzione. Le varie parti del disegno, le fasi della rivolta, i modi e l'ora degli assalti diviseremo accuratamente capo per capo, e ciascuno di voi sarà incaricato di provvedere all'esecuzione di ciò che a lui sarà stato assegnato, concertandosi cogli uomini che da lui dipenderanno. Ai principali di questi agenti subalterni parlerò ancor io medesimo. Essi però non dovranno conoscere il piano generale e riceveranno poscia man mano, quando impegnata l'azione, gli ulteriori ordini ed istruzioni. La massa comune degli affigliati alla cocca non saprà nulla di nulla e si caccerà nella riotta come a profittare d'una buona occasione di rapina che si presenti, senza avere il menomo sospetto che quest'occasione noi abbiamo lavorato a farla venire. I capi-squadra poi, trascelti per avere comunicazione di quella parte del disegno che occorra loro far nota affinchè possano utilmente servirci, ripeteranno il solito giuramento di morire piuttosto che rivelar nulla, se mai cadono negli artigli della polizia. — Ed ora, compagni, procediamo, senza ritardo alla scelta importantissima di questi individui.

Il direttore dell'agenzia d'affari trasse fuori un elenco di quei fiori di galantuomo, e lo scellerato sinedrio si pose con infinita attenzione a pesare nome per nome affine di sceverare dal mazzo i più degni dell'alto ed onorevole ufficio.

Quando codesta delicata operazione, che durò lungo tempo, ebbe termine, Gian-Luigi accennò di sciogliere l'adunanza ordinando ai sei accoliti di passare nella taverna di Pelone per cominciare ad impartire a chi si doveva le informazioni ed i comandi opportuni; ma Graffigna colla sua voce di falsetto domandò che lo si ascoltasse ancora un momento.

— Tutto questo va benissimo, diss'egli: quello del nostro medichino è un piano grandioso, che mi venga un accidente, degno di quel testone tanto fatto che ciascuno deve riconoscergli, un piano che con una sola retata ci può dare in mano più di quanto un centinaio di bei colpetti non possa fare. Non dico mica diverso, miei cari compagni ed amici: io non l'avrei saputa pensare una cosa simile: se dessi retta soltanto al mio piccolo comprendonio, direi che ci cacciamo in uno spineto da lasciarci non soltanto i brandelli dei calzoni, ma benanco della nostra p.... d'una pelle che non vale un botton frusto, siamo d'accordo, ma che pure ci è cara a tutti quanti, o che il diavolo mi porti.

Gian-Luigi fece un atto d'impazienza, l'omicciattolo s'affrettò a soggiungere:

— Non dico questo per oppormi in nessun modo all'affare. Le parole del medichino hanno trasportato anche me. Facciamo pure a suo senno: mi ci metterò di buona voglia, e quella frotta che avrà la mia compagnia, state pur sicuri che vorrà far per benino la sua bisogna....

— Insomma, lo interruppe Gian-Luigi impaziente: a qual conclusione vuoi tu venirne?

— A questa: il gran colpo esploderà domenica. Bene; ma da oggi a quell'ora ci abbiamo un quaternario di giorni in cui pare a me si potrebbe pur compiere qualche altro buon colpettino ammodo che ci aiutasse sempre meglio ad ugnere le carrucole. Io ce ne ho due belli e preparati, che sono come frutti maturi, i quali non si ha che da allungar la mano per coglierli....

— Sentiamoli, sentiamoli: dissero in coro gli altri.

— Eccoli qua, mia cara brava gente di galeotti. L'uno sarebbe pel marchese di Baldissero, nella cui casa è affare di poca difficoltà l'introdursi una notte in parecchi bravi amici, e di cui la Gattona saprà spiegarci per bene com'è diviso l'appartamento perchè vi ci possiamo cavare i piedi.

Al nome della Gattona Stracciaferro volse uno sguardo quasi intelligente al suo compagno di delitti e d'infamia.

— La Gattona! diss'egli: lasciala stare quella sciagurata di mia sorella. Ella è più trista di tutti noi.

— Giusto appunto! La ci può servir benissimo. L'altro colpo sarebbe verso quel birbone matricolato, senza fede nè legge, mio buon amico, l'avaro usuraio, strozzino scellerato di Nariccia. Qui la cosa è ancor più semplice. Il miserabile alloggio in cui quel vecchio esoso sta colla sua vecchia sudicia di fante, io lo conosco come il fondo della mia tasca: sor medichino lo conosce al pari di me: e per introdurci colà ci abbiamo le chiavi fatte a meraviglia dall'uomo procuratoci da Marcaccio e che apriranno benissimo, chete come olio.

Gian-Luigi interruppe vivamente:

— Ah! quelle chiavi ci sono?

— Sor sì: eccole qua.

— Bene! Mi fa piacere lo averle.

— E dunque: soggiunse col suo solito accento insinuante la voce squarrata di Graffigna: il colpo si fa?

— No... per adesso: rispose fermamente il medichino: nè questo nè un altro. Per questa settimana tutti ci conviene raccogliere i nostri spiriti e i mezzi nostri a preparare la grandissima lotta — forse finale — e non bisogna disperdere le nostre forze, nè chiamare di soverchio l'attenzione della Polizia sui fatti nostri. Se nella lotta di domenica riusciremo, non occorrerà più ricorrere a questi parziali delitti: se non vinceremo, allora, di poi, si potrà riprendere la nostra opera tenebrosa..... Or basti. Andate da Pelone e comunicate ai capisquadra le cose convenute.

[85] Due minuti dopo Gian-Luigi era solo in quel misterioso ridotto. Egli aprì l'uscio del gabinetto a lui riserbato esclusivamente, accese il lume che era colà e lasciandosi cader seduto nella poltroncina che stava innanzi alla scrivania, appoggiò i gomiti al piano di questa, resse nelle mani la fronte e parve immerso di subito in profondi pensieri.

CAPITOLO XIII.

Andrea aveva finito l'empio lavoro di fabbricar le chiavi false, animato sempre dall'eccitamento dell'ira, dal desiderio della vendetta e dai vapori dell'ebrietà, sotto gli occhi di Graffigna, il quale lo era venuto via via lodando e incoraggiando nell'opera, anche mercè frequenti libazioni di quelle bottiglie ch'e' s'era fatto dar da Pelone; ma quando il compito fu terminato, i vapori del vino dal cervello e i bollori della collera dall'animo erano dati un po' giù, e la coscienza ebbe campo a ridestarsi alquanto e fargli sentire il rimbrotto della sua voce.

Graffigna nella premura di afferrare e posseder quelle chiavi, le prese con mano sollecita da quella di Andrea che le teneva quasi esitante, e le due destre in quell'atto si toccarono. Per tutte le membra dell'operaio pochi momenti prima scioperato, ma tuttavia onesto, ed ora colpevole, corse una scossa, una specie di brivido, di ripulsione al contatto di quella mano del galeotto evaso dalle galere. Gli parve che codesto tocco fosse come una spinta che lo cacciasse giù nella strada del male; ed egli trasse indietro vivamente non solo la sua destra, ma la persona, come chi si vede giunto improvviso all'orlo d'un abisso e si ricaccia indietro con ispavento per non precipitarvi. La voce della coscienza che s'era levata formolò il suo rimprovero colla semplice domanda seguente:

— Che direbbe Paolina, se sapesse codesto?

Guardò le chiavi che aveva nella sua mano callosa ed annerita dal lavoro, e l'idea gli nacque di gettarle su quel fuoco che ardeva tuttavia, al quale egli le aveva costrutte, per farle ridiventare un pezzo innocente di ferro.

— No, no, diss'egli a Graffigna che gli si era avvicinato di quanto egli erasi tratto in là e che tendeva di nuovo la destra per prenderle; no, codesta in fin fine è una scelleraggine ch'io non devo fare.

Graffigna lo interruppe colla sua voce in falsetto:

— Che è ciò? Che storie son queste? Non mi fate il ragazzo adesso, stupidaccio che siete, mio caro galantuomo da forca. Oh che vi vengono gli scrupoli sul migliore? Quel fior di birbante di Nariccia, mio buon amico, che sì che li ha avuti gli scrupoli per cacciar voi sulla strada e vostra moglie a crepar sulla neve!...

A queste parole che rincrudivano la piaga dell'anima sua Andrea ebbe un fremito in tutta la persona.

— Animo, via, soggiunse l'omiciattolo che s'accorse aver ottenuto l'effetto che voleva, lasciate che l'acqua vada alla sua china e Nariccia abbia il fatto suo, e perciò a me quei bravi e carini ordegni che avete così bene fabbricati.

E prese le chiavi di mano ad Andrea che lasciò fare.

— Benone, continuava Graffigna, ora vi rimettiamo in libertà, e potete tornarvene all'osteria di Pelone con Marcaccio che vi attende; e non vi mancheranno più denari da scialarla quanto vi pare e piace in quella caverna del mio buon amico, lo strozzino avvelenatore, degno della corda, il bravo Pelone... E siccome noi non ci contentiamo di dar parole, ma facciamo bravamente dei fatti, eccovi qui alcuni ritondini che vi aiuteranno a passare in buona allegria la sera.

Pose in mano d'Andrea un pizzico di monete. Il marito di Paolina che non aveva un centesimo più da sostentar la vita, nè mezzo alcuno per guadagnarsene, arrossì sino alla fronte, ma ritenne entro il cavo della mano quei danari che l'omiciattolo vi fece sgusciare.

— Ed ora, continuava quest'ultimo, conviene partirsi di qua collo stesso modo e per la medesima strada come siete venuto. Perciò abbiate pazienza di lasciarvi bendar di nuovo gli occhi e venire dietro me tratto dalla mia mano.

Andrea si dispose a fare a senno di Graffigna.

— Un momento però: disse questi ancora dando alla sua voce fessa e stridula un'intonazione minacciosa e più ingrata ancora del solito; prima di imbarcarci per la via del ritorno, mio caro collega, bisogna ancora che vi ricordi una volta il giuramento che avete fatto prima di entrare. Ricordatevi che di quanto vi è successo quest'oggi con me, dell'esser venuto qui, di quel che ci avete visto e di quel che ci avete fatto, voi non direte parola nessuna con anima viva, fosse pur anche il Papa che venisse ad interrogarvi, ci fosse pur anche lì il boia col capestro per farvi sfringuellare.... Avete capito? Altrimenti vi ho già mostrato quel piccolo stromentino che sarebbe incaricato di mandarvi ad imparare la prudenza e la discrezione all'altro mondo.

Ad Andrea invece che paura, com'era accaduto prima, queste parole destarono ora una viva irritazione di sdegno: misurò con uno sguardo sprezzante le membra sottili di quell'omiciattolo, paragonandole alle sue robuste e muscolose; un subito impulso, una specie di tentazione gli venne di schiacciare senz'altro quel miserabile rettile velenoso che ardiva minacciarlo; fece un passo verso Graffigna con un'espressione di volto che rivelava il suo interno sentimento; l'omiciattolo con un guizzo fu all'altro capo dello stanzone, ponendo fra lui ed Andrea la tavola che stava in mezzo.

— Non le vi paian ciancie codeste, brav'uomo, che vi colga un accidente: soggiunse Graffigna. [86] Questo piccol uomo che vedete in me, ne ha già fatto stare di parecchi, sapete, che erano più grandi e più grossi di voi della bella guisa..... E se anche poteste scappare al vostro umilissimo servitore e buon amico Graffigna — cosa che credo un po' troppo impossibile per esser facile — di questi giocattoli qui (e trasse fuori il suo pugnale) con altre mani risolute al par della mia che li tengono, ne trovereste più d'uno, più di due, più di cento, ve lo dico io; ed uno di quelli che son pronti a maneggiare tal ordegno sulla vostra pelle, dove la sgarriate d'un punto, potete vederlo ora stesso, se vi date la pena di voltarvi, in quel bravo Stracciaferro, gloria della cocca, celebrità delle galere, mio degno compagno ed eccellente amico.

Andrea voltatosi vide nella penombra d'un angolo dello stanzone drizzarsi le forme madornali e la faccia imbestialita di quel gigantesco individuo, entrato poco prima chetamente, mentre il fabbro era tutto intento al suo lavoro. Capì che ogni velleità bellicosa era una follia, e chinò la testa in atto come di rassegnata sommissione.

Graffigna tornò ad accostarglisi con un sorriso trionfatore.

— Avete intesa l'antifona, e voglio sperare che non la dimentichiate: diss'egli. Bene!... saremo amiconi allora, amiconi per questa tristaccia di pelle che non vale un botton frusto... Ma ora abbastanza chiacchere... filiamo, chè di qui conviene sgomberare.

L'operaio si lasciò bendare gli occhi senza più una parola, e colle medesime precauzioni usate nell'introdurlo in quel segreto covo, fu egli ricondotto nella retrobottega di Baciccia, dove, prima di levargli la fascia dagli occhi, fu fatto girare ancora in lungo ed in largo, di su e di giù, dandogli l'idea di aver percorso un lunghissimo tratto di cammino.

— Ora, gli disse poi Graffigna togliendogli la benda, potete andare alla bettola dove vi aspetta Marcaccio... E ricordatevi sempre il vostro giuramento e le mie parole.

Andrea uscì dalla bottega del rigattiere senza idea nessuna nè di dove andare, nè di che cosa fare. Camminò per le strade dove era già notte chiusa, senza direzione, andando in balìa delle gambe come una mosca senza capo. Di tratto in tratto gli pareva sentire una voce misteriosa sotto la collottola del cranio gridargli: «hai commesso una cattiva azione». Si diceva anzi pian piano fra sè che quello si chiamava un delitto. Egli aveva dunque posto il piede su quella brutta strada. Lo avrebb'egli creduto un tempo? Non ci aveva fatto ancora che un primo passo; poteva ritrarsene; ma no, sentiva di non esserne più a tempo, di non volerlo più nemmanco. Gli pareva d'essere afferrato dalla morsa invincibile ed inesorabile d'una macchina potentissima; avrebbe avuto un bel dibattersi: era nelle branche d'un mostro che non lo avrebbe lasciato più. E poi desiderava egli stesso andare a capo dell'avventura che aveva incominciata. Nariccia gli aveva fatto tanto male; e il desiderio di vendicarsene non poteva sfumare così agevolmente dall'animo esulcerato dell'operaio disposto alle triste passioni dalla vita di vizi e di sciopero intrapresa da tanto tempo. Dell'agognata vendetta aveva egli appena gettate le basi, compito un primo atto, cominciato un preparativo; voleva seguitarne lo svolgimento, spingerla a fine egli stesso, godere della sua effettuazione. E poi perchè non ne avrebbe tratto vantaggio egli pure? Perchè non avrebbe sollevata la sua miseria, che quello scellerato avaro perseguitava ed accresceva, coi mal raccozzati tesori dell'avaro medesimo?

Il ritorno alla innocenza d'un tempo, alla virtù dall'onesto lavoratore egli lo credeva impossibile. Ci voleva una lotta di cui non si sentiva più la forza in sè stesso. Ah se avesse potuto rifar vivo il passato! Se avesse potuto levare dall'ospedale sua moglie e riaverla sana e lieta come un tempo nel modestissimo, pulito quartieretto! Allora sì che la forza glie ne sarebbe tornata, diceva egli a sè stesso; ma codesto era impossibile. Togliendogli la moglie, e forse per sempre pur troppo, il destino gli aveva tolto il suo buon angelo per lasciarlo del tutto in balìa del genio del male. Ancor egli, l'infelice, si ripeteva la folle scusa di tutti coloro che falliscono, che cioè era una fatalità, era decreto di una forza superiore al suo volere, era qualche cosa d'inevitabile che lo voleva precipitato in quell'abisso.

Assorto ne' suoi pensieri il misero Andrea non badava punto alla strada che percorreva. L'abitudine lo portò alla casa in cui fino a quel giorno aveva abitato colla famiglia, dove o più presto o più tardi, più o meno in sentore egli rientrava tutte le sere a trovarci la moglie e i figli suoi. Nel porre il piede sopra la soglia della porta da via, si riscosse, gli parve che una mano invisibile gli desse un urto nel petto per respingerlo di colà, tornò in sè come uomo che ad un tratto si desta, riconobbe il luogo dove si trovava ed ebbe presenti le sue condizioni. Non aveva più casa, non aveva più famiglia, e chi l'aveva ridotto a tal punto, ei si diceva, era quell'uomo che se ne stava tranquillo col suo oro in quella casa medesima. Un nuovo impeto d'odio contro Nariccia, che siffatto pensiero gli fece salire all'animo, concorse a scacciarne via ogni pentimento, ogni rincrescere di ciò che aveva fatto. Gli parve il suo il più natural atto del mondo, quasi l'esercizio d'un suo diritto.

Ma in presenza di quella casa più vivace erasi fatto in lui il pensiero della sua Paolina; senza rifletterci altrimenti prese la corsa e fu all'ospedale dov'ella era stata ricoverata. A quell'ora non c'era verso che alcun estraneo potesse introdursi [87] nelle sale dell'ospizio: il portiere trattò da matto il povero operaio che insisteva per entrare, e senza voler neppure dar retta alle supplicazioni che Andrea gli faceva per avere almeno alcune notizie della sua donna, lo respinse fuori e gli chiuse la porta sul muso.

Che cosa aveva da fare quel disgraziato? Dove andare? Si aggirò un poco per le strade della città e finì per capitare alla solita bettola di Pelone, dove Marcaccio lo aspettava.

La bettola di Pelone presentava quella sera un aspetto ancora più animato di quello che aveva la sera precedente, quando vi ci siamo primamente introdotti dietro i passi di Maurilio che vi guidava Gognino a rifocillarsi.

A tutte le tavole si serrava intorno numerosa una frotta di bevitori, nè Andrea avrebbe potuto trovare a nessuna un posticino, se Marcaccio, vistolo entrare, non l'avesse chiamato e fattogli un po' di luogo al suo fianco alla tavola a cui sedeva in compagnia d'una dozzina di brutti ceffi, l'uno più scomunicato dell'altro.

Marcaccio doveva aver parlato in buoni termini di Andrea a quella schiera di galantuomini, perchè lo accolsero fraternamente come uno dei loro, e gli posero innanzi senz'altro un bicchiere colmo di quel vino scuro dalla schiuma che pareva di sangue, cui cioncavano con delizia e con poca discrezione.

Le conversazioni erano animatissime, e il rumore che i varii parlari facevano saliva di quando in quando ad un tal fracasso che assordava; ma pure in mezzo al medesimo avreste potuto notare un susurrio sommesso di parole che si mormoravano all'orecchio da questo a quello, e insieme una specie di attesa, di emozione, di misterioso comune intendimento che correva da gruppo a gruppo, da persona a persona. Erano in gran parte colà i gregarii della famosa cocca, che sapevano i loro capi tener quella sera gravissimo consiglio per importantissime imprese, e loro esser radunati colà ad aspettarne, in conseguenza delle fatte risoluzioni, i cenni opportuni.

Piena di avventori eziandio, di guisa che un nuovo venuto non ci avrebbe trovato posto assolutamente, era la stanza dell'uscio a vetri; verso quest'uscio si volgevano tratto tratto curiosi e quasi impazienti gli occhi di molti e di molti.

Pelone, quella sera, aveva l'onesto animo invaso da una collera che per essere più contenuta non era meno intensa, e prometteva a sè stesso, bestemmiando come un turco, fra le sue gengive, di farla passar brulla a quel birbone di Meo, degno d'ogni peggior supplizio. Diffatti lo sciagurato, in tempo come quello, quando per la frequenza degli avventori c'era tanto bisogno di lui, mancava da un'ora, senz'avere pur domandato licenza al padrone di uscire, senza che nessuno sapesse dire dove si fosse andato a cacciare, e lasciava tutto il peso di servire tanta gente alla svogliatezza capricciosa di Maddalena ed all'infermiccia cascaggine del vecchio bettoliere.

— Figliuolo di mala femmina: borbottava Pelone fra un accesso e l'altro della sua tosse cresciutaglisi per la fatica che doveva fare ad andare di qua e di là recando piatti, vivande e mezzine. Non voglio aver più bene in questo mondo e nell'altro se non fo danzare un trescone a suon di legnate a quel malandrino: parola di Pelone!

E il malandrino su cui pendeva minaccioso lo sdegno del padrone, trovavasi fra gli artigli dell'astuto Barnaba, il quale con tutta la destrezza dell'arte sua sapeva spremerne fuori ciò che a lui importava e che Meo aveva pur giurato le molte volte di non dir mai a nessuno.

Se vi ricorda, l'agente di polizia aveva dato convegno al garzone dell'osteria per le ore otto sulla piazza del Palazzo di Città, e Meo, stimolato dal desiderio di nuocere a colui che era penetrato nel cuore di Maddalena, mentr'egli ne rimaneva escluso, non indifferente neppure alle promesse di buoni guadagni che Barnaba aveva fatto balenare alla sua cupidigia, s'era guardato bene dal mancare o dal tardare soltanto all'assegnato ritrovo, e pochi minuti prima che battessero le otto egli, in un momento che il padrone e Maddalena non lo potessero vedere, cheto cheto era sgusciato fuor della porta e corso al luogo fissato, per giungere al quale non aveva che poca strada da fare. Barnaba non si era fatto attendere di molto.

— Benissimo, diss'egli all'imbecille, accostandolo col suo felino sorriso; sei stato di parola e ne sarai contento. Ma qui non è luogo da poter discorrere di cose tanto importanti quanto son quelle che ti ho da dire; senza contare che ci fa un fresco da fare un sorbetto del nostro naso. Dunque vieni meco nella mia stanza, dove non ci avremo certamente una temperatura da stufa, ma almanco non correremo rischio di gelare e dove orecchio nessuno ci può sentire.

Il poliziotto appigionava una camera ammobiliata non molto di lì lontano; e ci furono in pochi minuti. Meo introdotto in quel povero locale, fra quei poveri arredi, si guardava intorno quasi sgomentito, attorcigliava il suo berrettaccio fra le mani impacciate, e se mai si fosse potuto dire che i suoi occhi di vetro esprimessero qualche cosa, in quel momento questo qualche cosa non sarebbe stato altro che un gran malessere di trovarsi colà ed una gran voglia di fuggirsene se avesse saputo come fare.

Barnaba, che non amava perder tempo, andò dritto al cuore dell'argomento e decise far tosto vibrare quella corda che unica poteva dar suono nella natura grossa e melensa del giovinastro.

— Dunque, cominciò egli, noi diciamo che la Maddalena è pure il gran bel tôcco di ragazza.

Le labbra di Meo si schiusero ad uno stupido sorriso della più stupida compiacenza.

[88] — E tu la sposeresti volentieri, Meo?

Lo sciocco si mise a torcere il suo berretto, come se fosse bagnato e volesse farne uscir l'acqua.

— Magari! rispose colla faccia illuminata l'imbecille.

— Tu l'ami molto, bravo Meo, eh?

Il giovine alzò al soffitto le pallottole vitree dei suoi occhi grigi.

— Come un assassino: diss'egli con tutta l'energia ond'era capace la sua voce senza vibrazione.

— Buono!... Ma il diavolo vuole che quella birbona sia intabaccata d'un altro, e si rida di te nella più scellerata maniera del mondo.

Meo divenne rosso rosso, e fece una smorfia come se gli avessero dato un pizzicotto con tenaglie di ferro.

— Quelle benedette ragazze! continuava Barnaba con tono di paterna compassione: sono proprio le più bizzarre creature che si possa immaginare, ed anco le più cattive... Sicuro cattive, e la Maddalena è più trista di tutte.

— Oh sì! sospirò con un grosso trar di fiato il povero scemo.

— Perchè infine ella sa che tu l'ami...

— Già che lo sa!

— E tu sei tale che ogni donna dovrebbe tenersene.

Sulle labbra di Meo tornò ad apparire, ma più leggiero e fugace, come un pallido raggio di sole in mezzo alle nubi, il sorriso di compiacenza di poc'anzi.

— Che cos'è che ti manca a te?

— Niente, glie l'assicuro.

— Sei giovane, sei bello...

— Sì signore.

— E sei onesto.

— Oh sì signore.

— Ma sei povero.

— Pur troppo!

— Se tu avessi il borsellino guernito di bei marenghini....

— Come ha sempre quell'altro: si lasciò scappar detto Meo con accento di stizza e d'invidia.

— Ah sì, neh?... Ebbene se tu fossi come quell'altro, e più ancora fornito di denaro, niun dubbio che saresti tu il preferito.

Meo ricominciò ad abbozzar quel tal sorriso; ma di subito lo cancellò dalla sua fisionomia, che ritornò in tutta la sua abbattuta tristezza.

— No pur troppo, diss'egli crollando il capo scoraggiatamente: la Maddalena va proprio così pazza di quel demonio d'un....

S'arrestò: la parola che stava per uscirne, parve gelarglisi sulle labbra.

— D'un medichino: suggerì l'agente di polizia col tono il più naturale del mondo.

Questo nome risuonando in quella stanza, sembrò destare in Meo un alto e subito terrore, sentimento che di subito superò ogni altro. Il giovinastro si trasse indietro come esterrefatto e la sua faccia melensa espresse più che mai il vivissimo desiderio di essere lontano da quel luogo le mille miglia.

Medichino! esclamò egli: io non so nulla del medichino.... non l'ho nominato, io.... io non so manco se egli esista.

Barnaba comprese che per giungere a scovar fuori da costui tutto ciò che importava, conveniva calmare alquanto quello spavento così tosto e sì violentemente inalberatosi. Colla riserva poi anche, se altri mezzi non avessero giovato, di vincere quello con uno spavento maggiore. Non insistendo dunque niente affatto su quel punto, riprese tornando il discorso all'indirizzo di prima.

— Io credo che tu hai torto a disperarti così; dove Maddalena ti vedesse ricco, tosto tosto sarebbe tutta per te. Or bene, di guadagnare dei bei rotoli di denari io posso dartene l'occasione.

E qui, sapendo, anche senz'aver letto Orazio, che assai più fanno impressione nell'animo le cose vedute coi proprii occhi, Barnaba aprì un suo stipetto che aveva per colà e ne trasse un mucchietto di monete d'oro che ci stavan riposte.

— Guarda! soggiunse venendo a far suonare le monete in mano, agitandole sotto il naso di Meo: questi bei marenghini sono per te.

Lo scemo tese avidamente la destra per ghermirli; ma Barnaba ritrasse la sua.

— Un momento: soggiunse. Sono per te, ma col patto che tu faccia quello che io voglio.

— Che cosa debbo fare?

— E non solamente questi, ma ne avrai di molti e di molti altri.

— Che cosa debbo fare? ripetè con ardore il giovinastro.

Oh strano potere dell'oro! Ecco un miseruccio di imbecille che ha un'anima torpida in corpo di torpidi sensi; cui la condizione della nascita, dell'esistenza, dell'intelletto non consente che pochi ed umili desiderii; il debolissimo spirito del quale è occupato da una paura tremenda che gli hanno fatta le minaccie di morte per costringerlo al silenzio intorno a quelle cose che di necessità a lui si dovettero lasciare scorgere e che a lui piuttosto che a un altro si permise fossero note, credendo appunto una guarentigia il suo timore e la sua melensaggine; ebbene quest'imbecille, al suono di poche monete che gli si fanno luccicare dinanzi, dimentica per un istante ogni altro sentimento, per non aver più che quello di potere far suo quell'oro.

— Che cos'hai da fare? disse Barnaba chiudendo in pugno i marenghini: rispondere la verità, tutta la verità alle domande che sto per farti.

— Signor sì, disse lo scemo, risponderò.

— Ieri sera, quando sono entrato da Pelone, nel gabinetto c'era il medichino: non è vero?

Meo si diede a grattarsi in testa con tanto furore [89] che pareva volersi strappare la lana grossolana e mal cardata de' suoi capelli.

Barnaba allargò la mano, e gli fece luccicare dinanzi agli occhi, e suonare all'orecchio, agitandoli di nuovo, i marenghini che teneva in pugno.

— Rispondi, e rispondi giusto, o di questi non ne vedrai più nemmen l'ombra.

Un crudele e feroce combattimento avveniva nell'anima sciocca del giovinastro fra la cupidigia e la paura. E' si grattava più forte in testa e si contorceva della persona come se fosse stato colto da mal di ventre.

— Era colà il medichino, ripetè a voce bassa ma vibrata il poliziotto: era colà il damo di Maddalena?

La cupidigia e la paura tenevano in Meo la bilancia del parlare e del tacere così equilibrata che mal si sarebbe potuto indovinare da qual lato avrebbe traboccato; ma l'arte di Barnaba, aggiungendo alla prima il peso della passione della gelosia, saputa eccitare a tempo, la fece precipitare dalla parte del parlare. Meo divenne rosso rosso e pronunziò con voce soffocata un monosillabo che pareva stentare ad uscirgli della gola.

— Sì.

Barnaba mandò un sospiro di soddisfazione, e fece scivolare un marenghino dalla sua nella mano dell'imbecille. Era egli vivamente soddisfatto, l'agente poliziesco, perchè finalmente aveva così certificata l'esistenza di quel misterioso personaggio di cui ogni malfattore che avessero arrestato fino allora, con una pertinacia indefettibile aveva sempre negata la reale personalità, parte per non conoscerla diffatti e per essere essi stessi persuasi che la era un mito, parte per fedeltà al prestato terribilissimo giuramento di tacerne, anzi di negarla ad ogni costo. Era soddisfatto altresì, perchè ben sapeva l'esperto poliziotto, che una volta superato quel riserbo e quel timore che tengono un uomo in silenzio, le parole poi, come fiume per infranto serraglio, precipitano in compiute rivelazioni.

Meo, al tocco di quel metallo coniato che perdette tante virtù, tante onestà, tante innocenze di uomini e di donne, sentì sminuire ancora più e quasi dileguarsi i suoi scrupoli e i suoi terrori; alla vista del luciore di quella moneta nella palma della sua mano, che mai sino allora non ne aveva stretta una di tanto valore come sua, dimenticò del tutto le ripetute minaccie del suo padrone e si diede compiutamente in preda alle due passioni che Barnaba aveva saputo eccitare in lui: il desiderio di vendicarsi del suo fortunato rivale e l'avidità di far suo quell'oro.

— Va bene: ripigliava Barnaba. Appena mi vide entrare, Maddalena..... quella birba di Maddalena che si getterebbe nel fuoco, che darebbe la pelle per colui, tanto ne va pazza... non è vero?

— Sì pur troppo! rispose il giovinastro coi denti stretti.

— Maddalena andò ad avvertirlo della mia venuta, ed egli, per non lasciarsi vedere, sparì tosto, come se fosse profondato sotto terra.

— Sì, e' fa sempre così: disse Meo, il quale, come Barnaba avea preveduto, ora ci andava di proprie gambe nel propalare le segrete cose ch'ei sapeva: ad ogni volta che il medichino comparisca nell'osteria, e ciò avviene di rado, ed è Maddalena che tutti i giorni..... che cosa dico?.... due o tre volte al giorno, tutti i momenti, quasi, la sparisce anco lei per andarlo a trovare nel segreto ridotto.....

Barnaba lo interruppe con tutta pacatezza.

— Ah ah! c'è un segreto ridotto? Domandò egli freddamente, lentamente, guardando ben fisso il giovane entro gli occhi.

Meo, che s'era lasciata scappare quasi inavvertita quella parola, a sentirla sulle labbra dell'altro si spaventò di nuovo come cavallo che inalbera.

— Non ho detto: soggiuns'egli volendosi tirare indietro.

Il poliziotto lasciò scorrere un'altra moneta nella mano di Meo.

— L'hai detto, e non c'è più da disdirsi. Tanto e tanto l'esistenza di quel segreto ridotto io la conosceva già!

— Sì? domandò tutto stupito il melenso allargando tanto d'occhi.

— Or bene, ascolta: gli è in questo segreto luogo ch'io voglio sapere il modo di penetrare. Se tu me lo insegni, non solamente tutto quest'oro sarà tuo, ma ne avrai il doppio, il triplo, quanto ne potrai desiderare.

Una grande agitazione s'impadronì di Meo. Barnaba, a crescerne ancora l'attenzione e fargli penetrar meglio l'efficacia delle sue parole, gli prese un braccio e glie lo strinse con forza:

— E ti vendicherai di quello scellerato che ti ha tolto l'amore di Maddalena, che mentre tu sospiri invano, da povero ciuco qual sei, se la gode tranquillamente con essa, sghignazzando insieme della tua grullaggine.

L'agitazione di Meo s'accrebbe forte: i suoi parevano gli occhi di quelle certe figure sopra gli orologi a contrappesi, che coll'andare e venire di qua e di là delle pupille segnano il movimento del pendolo.

Barnaba pensò che ad ottenere più compiuto il fine ch'egli si era proposto, non sarebbe stato inopportuno di aggiungere a quelli già messi in giuoco anche l'effetto della paura; soggiunse adunque facendo cupa la voce, e dando al suo accento tutta la minacciosa imponenza ond'era capace:

— Codesto otterrai tu parlando; ma se non parli, sai tu quale oramai sarà la tua sorte?..... Tu sei irremissibilmente perduto. Questa sera medesima io ti faccio arrestare, e non vedrai mai più la luce del sole.

[90] Meo si mise a tremare.

— Senta, signor Barnaba, diss'egli, io sono un povero diavolo che tutti maltrattano, a cominciare da Maddalena. Il padrone mi tien peggio d'un cane e so io quanta conoscenza hanno i miei calzoni qui di dietro con quella scarpaccia grossa del suo lungo piede destro... Le voglio contar questa: un giorno entro nel gabinetto che il medichino vi era solo con Maddalena. Quel prepotente, perchè gli è un prepotente sa! mi si volta a guardarmi con certi occhi che parevano quelli d'un basilisco. «Che cosa vieni a far tu qui? scimunito» mi dice con una faccia da Caifasso; io che avevo una rabbia maledetta perchè vedevo Maddalena seduta sulle ginocchia di lui, con un braccio passatogli intorno al collo, gli ho risposto non so più che parole, che egli trovò insolenti. «Ah ah gli è così che rispondi a me!» disse il medichino con quel suo tono che farebbe paura ad un tamburo maggiore, «ti vo' insegnar io la creanza.» Si tolse Maddalena dalle ginocchia e si alzò venendo tranquillamente verso di me. Se non ci fosse stata lì Maddalena, sarei scappato, ma in sua presenza ebbi vergogna e volli fare il bravo. « — Non mi tocchi, gridai, o ch'io le perdo il rispetto.» E' non parve aver udito nemmanco; mi appoggiò le sue mani sulle spalle e premette di guisa che, volere o volare, dovetti chinarmi giù e non arrestarmi finchè non fui in ginocchio a lui dinanzi; allora mi prese le due orecchie e me le tirò da farmi far sangue dicendo: «Ecco di che modo si puniscono i ragazzacci riottosi. Tu, Meo, adesso mi domanderai perdono e mi prometterai di star sempre buonino e rispettoso per l'avvenire.» Dovetti domandare e promettere ciò che volle; e intanto Maddalena si sganasciava dalle risa per le mie smorfie; diceva essa che erano ridevolissime, per la mia figura, per la mia umiliazione. Quando n'ebbe abbastanza di questo mio tormento, il medichino mi fece drizzare e mi congedò con un saluto a uso Pelone che mi fece saltar fuori della porta. Udii dietro di me le risa di Maddalena raddoppiare...

— E tu, stupidaccio, interruppe Barnaba con forza, esiteresti a vendicarti di quell'uomo?.... Ma che cosa hai dunque tu nelle vene invece di sangue?

— Ah! ci ho pensato ben bene e delle belle volte a vendicarmi: disse Meo con un sospiro e con una specie di fremito. Ma come poterlo? Non me ne veniva in mente nessun mezzo. Siccome queste venute del medichino si volevano tener segrete, ed a me s'era proibito di nominarlo perfino, quell'uomo, capivo bene che, se avessi parlato, avrei fatto a tutti loro una bella rabbia; ma mi hanno minacciato tante volte che alla prima parola che mi fuggisse di bocca io sarei un uomo morto, che non ho mai osato.... Ella dunque vede la mia condizione.... Se parlo, zaffete, quattro dita di lama nella coratella.

— Dallo in mio potere quell'uomo, ed egli non ti potrà nuocere mai più.

— Egli, va bene.... ma ce ne ha tanti d'amici e servitori... cominciando da Pelone.

— Preso lui, saranno presi anche gli altri...

— Ma prima che li prendano....

— Ebbene, ti salverò io senza fallo dai loro coltelli....

— Oh come? oh come?

— Tu lascierai la bettola e verrai meco. Ti terrò nascosto fino a che ogni pericolo per te non sia dileguato.

Meo tornò a grattarsi in testa con quel suo modo furibondo.

— Abbandonare l'osteria!.... Ma gli è che così non potrò più vedere la Maddalena.... So bene che la mi disprezza, vedo che sempre più mi maltratta; ma che cosa vuole? a me mi fa piacere il vederla.

— Scimunito! Non capisci che facendo a mio modo tu ti privi per alcuni giorni della vista di lei, ma arrivi poi a possederla per sempre?

— Davvero?

— Te lo guarentisco.

— Dunque io sono il suo uomo..... Faccia di me quello che vuole.

— Voglio che tu mi riveli per dove e come si entra in quel segreto ridotto.

— Ah! codesto io non lo so...

— Bada Meo!...

Questi si pose una mano sul petto,

— In fede di galantuomo, diss'egli, non lo so davvero.

Barnaba stette un momento raccolto in sè.

— L'ingresso è di certo nel camerino dell'osteria, poichè ieri sera alla mia venuta il medichino non è venuto fuori per l'uscio a vetri, e quando io entrai colà non c'era più. Sei tu capace di scoprire dov'è questo nascosto passaggio, se nella parete o nel pavimento, e di che guisa si apre?

— Io? esclamò spaventato il giovinastro. Se siamo d'accordo che non ci rimarrei più nell'osteria... Ho già detto e fatto sin troppo per compromettere la mia pelle.

— Or bene, disse Barnaba, ciò scoprirò io di per me.... Tu, se ci tieni a guadagnare l'oro che ti ho promesso e la vendetta che desideri, potrai servirmi in altro modo; ed è questo: domattina abbandonerai l'osteria e verrai qui dov'io t'attenderò verso le dieci; ti condurrò meco, camuffandoti in guisa da non potere essere da nessuno riconosciuto alla bella prima; ci apposteremo ad una certa cantonata, dove quasi di sicuro ha da passare un cotale, e quando io te lo additi, tu mi dirai — e per l'anima tua, tu m'avrai da dire il vero — se riconosci o no in quell'uomo il medichino. Hai tu capito?

— Signor sì.

— Or va e torna nella bettola, perchè la tua mancanza [91] non ne sia troppo lunga.... Prendi questi denari, e guardati bene dal lasciarti sfuggire parola di quanto si disse fra noi, di dove sei stato e che soltanto ci siam visti.... Se sarò contento di te, se la tua risposta domani fosse a seconda de' miei voti, tu avrai altrettanto di marenghini, quanto hai avuto adesso. Prudenza adunque, metti all'impegno quel tuo ottuso cervello, e va.... Fra un'ora o poco più, capiterò anch'io all'osteria. Bada bene che non un tuo cenno, non uno sguardo tradisca le nostre segrete intelligenze!

Meo s'affrettò a correre all'osteria, dove la sua venuta fu accolta dai più violenti improperii e dalla più violenta tosse di Pelone furibondo. Naturalmente il padrone volle sapere dove fosse stato il suo servitore, ma questi che non aveva in nissuna misura la facoltà della immaginativa, non sapendo inventare la menoma frottola con cui rispondere alle interrogazioni fattegli con insistenza e minaccie, non oppose che il più ostinato silenzio, accompagnato dalla sua insuperabile aria d'imbecille.

CAPITOLO XIV.

Frattanto la sera s'inoltrava. Come era avvenuto il giorno innanzi, la schiera degli avventori più eletti che radunavansi nel gabinetto erane venuta fuori ad un punto e si era sparsa per le tavole occupate dello stanzone. Erano i capi-squadra che già avevano ricevute le proprie ed acconcie istruzioni e venivano comunicarle ai loro dipendenti. Dall'uscio a vetri era comparsa un momento con cauteloso contegno la figura acuta di Graffigna che, vista nissuna faccia sospetta nell'osteria, aveva sporto in fuori tutta la testa per chiamare a sè Pelone.

Questi obbedì senza indugio all'appello e nel camerino ebbe luogo fra questi due valentuomini il seguente dialogo:

— Quell'uomo non è ancora venuto? domandò Graffigna.

— Che uomo? disse Pelone guardando le sue enormi scarpaccie.

— Non far lo gnorri, mio caro amico, che tu possa essere impiccato: soggiunse graziosamente colla sua voce in falsetto e col suo tono insinuante il galeotto. Tu sai bene di chi voglio parlare.

— Vi giuro di no, carissimo signor Graffigna — e fra sè l'oste di cattivo umore soggiungeva con tutta sincerità e caldezza d'augurii: potessi tu precipitare nel fin fondo dell'inferno, a farti attenagliare dagli artigli roventi di Satanasso.

— Ebbene, mio bell'amorino da galera: ripigliava vezzosamente Graffigna, voglio dire quel tuo degno amico, infame spia d'un poliziotto birbante, Barnaba, come ho sentito ch'e' si chiama.....

— Oh oh mio amico! protestò Pelone con accento indignato.

— Sicuro, stimabile Pelone, furfante matricolato. Rispondi adunque categoricamente, come dicevami l'avvocato fiscale nel suo interrogatorio: è egli già venuto?

— No, non l'ho ancora visto.

— Bene. E ti ricordi ancora quel che ti ho detto quest'oggi?

— Cioè? domandò il bettoliere guardando per terra in un angolo della stanza.

— Cioè che tu, quando sia capitato quel cotale, l'hai da ritener qui in bel modo, fin dopo la mezzanotte. Mi pare che te lo avevo cantato abbastanza chiaro per non avertelo più da ripetere..... Ed ora sai tu proprio ben l'affar tuo?

Pelone fu assalito da quella sua incomoda tosse che gli veniva così comoda per torlo all'imbarazzo di dar certe risposte che gli seccava pronunziare. Ma Graffigna non era uomo da contentarsi così agevolmente; aspettò che la tosse cavernosa fosse finita, e poi insistette:

— Hai tu capito?

— Ho capito: rispose con un fil di voce l'oste, a cui l'accesso della tosse pareva non aver lasciato più fiato in corpo.

— E farai secondo ciò che ti dissi?

Pelone provò di nuovo a ricorrere alla sua tosse: ma si accorse tosto che con quel mariuolo lì lo spediente non serviva a nulla, e ch'egli ci giuntava la fatica.

— Farò: disse con un lievissimo susurro.

— Bada bene che a Graffigna non si manca di parola; disse l'omiciattolo che arrivava appena alle spalle di quella pertica di Pelone, e innanzi al quale pure l'oste aveva un contegno tutto umiltà e paura: — bada bene, ripeteva levando con atto d'intimazione il dito indice della mano destra, che con noi non si scherza!....

— Non ischerzo: mormorò il taverniere con voce da moribondo.

— E perchè guardi sempre costà per terra o sulle tue barcaccie di scarpe? Chè hai paura a mostrarmi la bella pupilla degli occhi tuoi, martuffo d'uno scimione, mio caro compagno?

— No no, disse sollecito Pelone facendo un sorriso da becchino con quella sua faccia da morto: vi guardo benissimo e molto volentieri, compar Graffigna: e fra sè, per corollario: che tu potessi affogare in fondo alla melma d'una fogna!

— Ad ogni modo, ripigliava Graffigna, ricordati che qualcheduno potrà udire i discorsi che tu terrai con quel cotale.

Pelone fece un tentativo, che riuscì poco felice, per dirizzare il suo lungo corpo in un moto d'indignazione.

— Come! esclamò egli; si diffiderebbe di me?

— Si diffida di tutti, e si prendono le precauzioni in conseguenza. È il nostro principio, onesto Pelone, e penso faremo assai bene a non iscartarcene mai.

[92] L'uscio a vetri si socchiuse in quella un pochino e la voce di Maddalena cacciò dentro questa sola parola:

— Sparite!

Graffigna fu d'un balzo alla parete, si curvò a terra, premette ad un certo luogo nello zoccolo del tavolato, e in questo, senza rumore di sorta, s'aprì una cavità bassa e scura, in cui un uomo, anche della piccola statura del galeotto, non poteva entrare senza curvarsi. L'omiciattolo sgusciò per quell'apertura, la quale chetamente e sollecitamente del pari si richiuse dietro di lui, non lasciando ad occhio nissuno, per quanto acuto osservatore, traccia alcuna della sua esistenza.

Un minuto dopo entrava nel gabinetto Barnaba.

— Che fai costì tutto solo? domandò egli a Pelone, che gli mosse all'incontro.

— Io?!... niente: rispose l'oste. Di là fanno un fracasso che mi tolgon la testa, e passo di quando in quando a riposarmi in questa buco, dove non si viene a cacciare quella canaglia.

— E questa sera i soliti frequentatori di questo camerino non sono venuti?

— Sì.... Oh sono dei bravi figliuoli che non dimenticano il povero Pelone.... Se ne sono già andati.

— Va bene.

Barnaba sedette e poggiando i due gomiti sulla tavola e sostenendo il mento alle mani chiuse, guardò bene in viso il bettoliere, che, secondo sua usanza, si chinava verso di lui dall'altra parte del desco ad aspettare gli facesse note le sue volontà.

— E quel mio affare? domandò Barnaba a voce bassa.

Pelone ricorse a quel medesimo mezzo diplomatico che aveva usato con Graffigna; finse di non capire.

— Che affare? disse cercando cogli occhi spenti in tutti gli angoli della stanza.

Ma lo spediente non gli servì meglio di quello che gli avesse servito con quell'altro.

Barnaba si sollevò a mezzo sul suo sedile per recare le sue labbra al livello dell'orecchio dell'oste chinato innanzi a lui, e susurrò in quel largo imbuto che coronava l'organo auditivo di Pelone alcune parole la cui chiarezza non permetteva più dubbio, nè obblio, nè tergiversazione di sorta.

La risposta di Pelone non fu così chiara e netta.

— Ecco, diss'egli, come ho già avuto l'onore di dirle, io di quella gente cui accenna Lei non ho il vantaggio.... voglio dire la sfortuna, la maledetta sfortuna, che il diavolo mi porti, di conoscerne alcuno....

L'agente di polizia fece un gesto.

— No signore: soggiunse con forza Pelone, interpretando quel gesto come una manifestazione di incredulità. Posso dubitare su qualcheduno, congetturare di qualche cosa; ma i dubbi e le congetture non bastano ad autorizzarmi a pensare, a credere, a ritenere...

Barnaba lo interruppe, dicendogli con una calma lentezza che era molto significativa:

— Tu dunque neghi di prestarmi questo servizio?... Guarda che potresti pentirtene.

— No: riprese vivacemente Pelone, non nego... Mi metto anzi tutto a sua disposizione per quel poco che ci valgo; ma vorrei la si persuadesse che non sono in quelle condizioni ch'Ella crede...

— Insomma; la conclusione?

— Eccola. Quei tali su cui le dico che ho dei dubbi, che ho fatto delle congetture, vengono qui ordinariamente verso la mezzanotte; aspetti fino allora se le piace; io glie li additerò, dirò anche, se vuole, a quei cotali che Lei vuol parlare con loro, e se la vuole abbordarli poi, faccia a suo senno.

Barnaba guardò l'ora al suo orologio.

— Sono le undici: un'ora da aspettare..... Va bene; farò così... Intanto, siccome ho ancora da cenare, mandami qui alcuna cosa da mangiare..... quello che vuoi, chè a me poco importa. Ah! manda Maddalena a servirmi, chè ho piacere di parlarle.

Pelone uscì per dare gli ordini opportuni.

— Bada, diss'egli a Maddalena, inviandola nel gabinetto, che quello è un demonio di furberia che ti vuol mettere nel sacco.

Maddalena crollò le spalle e fece un sorriso di compassione.

— S'egli è furbo ed io non sono mica un'addormentata. E in punto a finezza una donna val sempre più che un uomo. Lasciate fare che sarò io a metter nel sacco lui.

E colla sua aria petulante, in mano un cestino coll'occorrente per apparecchiare, entrò nella stanza dall'uscio a vetri.

Barnaba, appena era rimasto solo nel gabinetto, aveva fatto ciò che già gli abbiam visto fare la sera precedente; sorse sollecito ed andò a toccare e battere sopra l'impiallacciatura di legno nella parete; se non che mentre la sera prima aveva tastato di qua e di là, questa volta fu dritto a quel punto dove il giorno innanzi gli era sembrato di udire sotto le nocca delle sue dita suonare una cavità. Battè di nuovo colà cautamente e pose l'orecchio a quel posto a sentire. Ed egli, guidato dalla sua accortezza, ed in parte si direbbe eziandio dall'istinto del suo mestiere, aveva davvero messo la mano su quella parte del tavolato che mercè una segreta molla s'apriva per lasciar passaggio da penetrare nel sotterraneo corridoio.

Ora, dietro appunto questo dissimulato ed invisibile usciòlo stava ancora in osservazione Graffigna, l'occhio alla piccola apertura e il suo acutissimo orecchio tirato. Egli udì il dialogo fra l'oste ed il poliziotto, scorse i movimenti di Barnaba, e tutto fremette e raccapricciò quando vide costui alzarsi [93] e con passo risoluto, senza incertezza di sorta, venire diritto al luogo della segreta porticina e percuotere con mano cauta ed esperta nel legno di essa.

Graffigna mandò fra sè un'orrenda bestemmia.

— Questo scellerato, pensò, conosce adunque l'esistenza di Cafarnao e come vi si entra?... Ma dunque siamo perduti!...

Una nube rossigna passò innanzi agli occhi dell'assassino ed e' non vide più che color di sangue; la sua destra corse al manico del pugnale che portava sotto panni, la sinistra si abbassò verso il punto dove si doveva premere per lo scatto della molla che faceva aprir l'uscio; fu suo proposito slanciarsi di balzo da quel suo nascondiglio sopra quell'uomo che era diventato il più pericoloso dei loro nemici e spegnerlo senz'altro indugio; ma non tardò a sopravvenire una riazione della sua facoltà riflessiva che lo trattenne.

— A me solo riesce impossibile venirgli addosso, impedirgli che strilli e succhiellargli bravamente le budella, infame scellerato d'un esploratore, che l'inferno l'inghiotta... Se fossimo in due! Ah! se avessi meco quel bestione d'un bravo Stracciaferro, sì che il colpo sarebbe fatto!... Io gli salterei di botto alla gola a serrargliela con tutte due le mani che non avrebbe manco tempo di far quach, e quel toro senza cervella del mio degno amico se lo piglierebbe fra le braccia come una poppatola per portarselo qui dove lo si avrebbe a discrezione da farlo bellamente cantare su quello che si sa e non si sa dei fatti nostri, su quel che ci minaccia e da cui abbiamo da pararci... Se andassi a cercare quel brutto elefante d'un prezioso amico, che gli possa cascare lo zuccone!... Eh sì, dove pescarlo così subito a quest'ora? E intanto il tempo va..... Contentiamoci adesso di non lasciarci scappare codestui e di dargliene il ben servito... Se altri poi di quella razza sapesse eziandio.....

A questo solo pensiero sentì fremere tutte le fibre ed i capelli quasi gli si drizzarono sul capo.

— Ah! converrà pensare a codesto..... Bisogna che glie ne parli subito al medichino.

Prima d'allontanarsi pose ancora l'occhio alla fessura e vide Barnaba che tornato a sedersi tranquillamente, pareva assorto in importante meditazione, mentre aspettava la venuta di Maddalena.

— Va, va: disse Graffigna coi denti serrati e facendo un atto di minaccia di dietro l'assito: potresti fare il tuo testamento e raccomandarti l'anima, chè questa è l'ultima tua ora, e tu puoi contare di essere in confortatorio.

Scese rapidamente la scala che menava nel corridoio sotterraneo, illuminato, come sappiamo, dalla fioca luce di rade lucerne postate ad una certa distanza fra loro, lungo di esso.

— Come giuns'egli questo birbante a scoprire cotal segreto? seguitava intanto a pensare, mentre colle sue gambe corte s'affrettava quasi di trotto verso il Cafarnao. Che qualcheduno ci abbia tradito? E chi? Pelone forse?.... Ah tanaglie e forca! Se mai fosse!....

Comparve trafelato innanzi a Gian-Luigi, il quale nel suo riposto gabinetto era affondato nelle più importanti occupazioni della sua iniqua carica di capo della cocca.

— Scusi se la disturbo, diss'egli affrettatamente, dimenticando perfino di levarsi di capo il suo frusto e sporco berretto: perdoni illustrissimo se le capito così inopinatamente contro tutte le regole della disciplina e della buona creanza; ma Ella deve già conoscere abbastanza Graffigna, per capire che, se così faccio, si è perchè vi ha una grande ragione, una grandissima ragione.....

Il medichino alzò gli occhi dalle carte che aveva dinanzi, li volse mezzo corrucciati su colui che veniva ad interrompere il suo lavoro, e disse con accento di chi vuol presto sbrigarsi d'un impaccioso:

— Ebbene? che cosa c'è?

Graffigna, persuaso quant'altri mai che quello non era momento da far delle frasi, raccontò in poche parole ciò che aveva visto. Il medichino sorse da sedere con un sussulto, la sua ruga minacciosa di subito impressa nella fronte, una fiamma infernale entro gli occhi.

— Maledizione di Dio! esclamò egli, e tese la destra col dito indice appuntato verso il galeotto, a cui l'aspetto in quel punto veramente terribile del suo capo incuteva un timore pieno di riverenza. Se tu non ci liberi da quell'uomo, Graffigna, se tu non vieni a giurarmi pel cielo e per l'inferno, per la tua gola e per la cocca, che quell'uomo è tolto dal numero dei viventi, guai a te!.... Gli è la tua pelle che me la pagherà.

Graffigna s'inchinò in atto di umilissima sommissione.

— Si farà tutto quel che sarà possibile... e se si fallisce, che un corno del diavolo m'infilzi, non sarà per mancanza di buona volontà, nè di precauzioni; ma sarà perchè il fistolo ci avrà messo la coda... Pur tuttavia Lei ha ragione ed io son contento di pagar la spesa della disavventura.

Gian-Luigi si pose a passeggiare su e giù, le braccia incrociate al petto, la testa china.

— Sarà egli il solo codestui a sapere questo troppo importante segreto? diceva egli, come pensando, ad alta voce.

— È quello che mi sono domandato anche a me: insinuò umilissimamente, colla sua voce più esile, Graffigna, il quale, accortosi di commettere l'irriverenza di tenere il berretto in capo innanzi al suo superiore, se l'era levato con mossa dispettosa di se stesso; e intanto, per lasciar più libero campo ai passi del medichino, s'era ritirato in un angolo della stanza.

— Conviene ad ogni modo prendere qualche provvedimento: continuava il medichino.

[94] — Signor sì, soggiungeva quell'altro. E sono venuto apposta in tutta fretta a dirgliene a Lei, perchè appunto Ella trovasse che cosa farci.

Gian-Luigi s'arrestò ad un tratto in mezzo la stanza; la calma era tornata alle sue belle sembianze; la sua risoluzione era presa.

— Conviene, diss'egli a Graffigna, che quel passaggio sia distrutto, e tosto, e che di questa notte medesima ogni traccia ne sia scomparsa; così che, se quel cotale non porterà seco nella fossa il segreto, gli altri a cui l'abbia comunicato non possano trovare nulla più di vero di quanto egli abbia detto.

Graffigna non parlava, ma i suoi occhietti vivissimi e tutto il suo contegno facevano una domanda: «Come fare per ottener codesto?»

Il medichino non fece aspettare la risposta.

— Prima di tutto darai il fatto suo a quel Barnaba: gli è ciò che più preme. Per maggior sicurezza dell'esito potrai prender teco qualche fido compagno....

— Ci ho già pensato.

— Poi cercherai quelli fra i nostri uomini che lavorano da muratore, farai distruggere nel tavolato dell'impiallacciatura ogni traccia di cardini di porta, di serrami e di molla, e dietro l'usciòlo tolto via e rimpiazzato da una tavola di legno come il resto dell'assito, farai levare il muro così spesso che riempia tutto il vano aperto nelle fondamenta della casa fin sotto dove finisce la scaletta. Chiusa l'osteria di Pelone, si potrà lavorare con tutto comodo senza paura di disturbi fino a domattina. Hai capito?.... Va.

Graffigna s'inchinò e si mosse per partire, ma al momento di varcar la soglia s'arrestò.

— E se il traditore fosse Pelone? disse.

— Non lo credo: rispose il medichino; ma però procureremo di scoprire qualche cosa a questo riguardo; e se mai fosse, lascia a me il pensare come punirlo.

L'omiciattolo guizzò via dal gabinetto. Si fermò in Cafarnao per camuffarsi. Si pose una parrucca di capelli tutto bianchi, si appiccicò alle guancie floscie e sbarbate una barba bianca del pari, compose il suo contegno ed il suo passo come quello d'un vecchio cadente e parve per l'affatto uno di quei mendici che tendono vergognosamente di soppiatto la mano a chi passa, borbottando confuse parole di supplicazione, con voce piagnucolante. Uscì per la bottega di Baciccia e dieci minuti dopo aveva la temerità di entrare per l'uscio della strada nella bettola di mastro Pelone. Andò a sedersi presso la tavola a cui stavano Marcaccio ed Andrea, e con una voce che era tutto diversa dalla sua ordinaria comandò a Meo, che non lo riconobbe menomamente, una mezzina di vino da sedici.

Marcaccio ed Andrea avevano già innanzi a loro un bel numero di bottiglie vuote, il primo, più robusto, resisteva di molto all'ebbrezza; il secondo, indebolito dai patimenti fisici ed anco dalla passione dell'animo, cui voleva obliare e si può dire veramente annegare nel vino, era già di nuovo ubbriaco del pari e più che la sera innanzi.

Graffigna sedutosi, come dissi, presso di loro, aspettò che Marcaccio il quale neppure non lo aveva riconosciuto, avesse gli occhi rivolti verso di lui e poi gli fece un segno convenzionale che nel linguaggio di gesti noto agli affigliati della cocca soltanto, voleva dire: «Sono uno dei vostri ed ho qualche cosa da dirvi.» Marcaccio pose allora tutta la sua attenzione ad osservare quel vecchio pezzente, e riconobbe alla fine in lui il benemerito Graffigna, rispose col medesimo linguaggio di gesti, com'era suo dovere, di aver capito e d'esser pronto ad ogni cenno. Il falso vecchio parve non pensare ad altro che a bere tranquillamente la mezzina che Meo gli aveva portata. Ma quando l'orologio a contrappesi che si drizzava a lato del banco di Pelone segnò le undici e tre quarti, Graffigna fece un altro segno a Marcaccio che non lo perdeva di vista, pagò lo scotto ed uscì dall'osteria senza parlare e senza guardar manco in viso nessuno. Il compagno d'Andrea si chinò verso quest'ultimo e gli disse:

— Aspettami qui che vengo subito, sai?

E diviato uscì ancor egli sulle traccie del finto mendicante.

— Buona sera, signor Barnaba, aveva detto Maddalena entrando nel camerino, con accento non soverchiamente rispettoso.

— Buona sera: rispose il poliziotto, facendo un sorriso, il più grazioso che fosse concesso alla sua faccia asciutta di color terreo, di guancie infossate: voi state bene, bella giovane?

— Benissimo.

La fanciulla crollò le spalle e guardò l'uomo con una certa espressione che voleva dir chiaro:

— Che v'importa a voi di codesto? M'accorgo bene che sono altre cose che mi volete dire; fate dunque presto a entrare nei discorsi che vi premono.

Barnaba parve comprendere il significato di quell'occhiata e di quell'atto.

— Sedetevi costà vicino a me, cara e leggiadra Maddalena, e datemi retta per un poco. Ve l'ho detto quest'oggi che avevo da parlarvi di cose che v'interessano di molto....

— Ed io le ho risposto che non sapevo proprio in che modo Lei avesse di tali cose da dire a me.

— Eh! lo saprete appena avrete cominciato a darmi ascolto.

Maddalena non sarebbe stata figliuola di Eva se non avesse avuta la sua buona dose di curiosità. Sotto l'ostentata sua indifferenza per le comunicazioni di Barnaba cominciava pure in lei a farsi sentire l'influsso di quella dote essenzialmente femminina; onde la ragazza sedette al medesimo desco dell'uomo che annunziava volerle dire le cose interessanti, [95] e dispose ad ascoltare il suo udito e la sua attenzione.

Il poliziotto aveva giudicato che il miele con cui si prendono siffatte mosche gli è la lusinga della vanità e l'amore dell'oro; aveva quindi preparato in conseguenza il suo disegno di assalto, e cominciò in questo modo a metterlo in esecuzione.

— Voi siete una delle più belle e delle più piacenti ragazze ch'io abbia visto mai, Maddalena: diss'egli con un tentativo abbastanza ben riuscito per dare alla sua faccia un'espressione affettuosa ed ammirativa ed alla voce un accento di sincerità insieme e di calore; ed io vi assicuro che fra quante signorone rinomate per bellezza vi hanno al mondo non ce ne sarebbe pur una che potesse starvi al paro, quando voi foste sfarzosamente vestita coi fiocchi e fronzoli come van loro.

Maddalena era venuta a quel colloquio corazzata bravamente dal sospetto e dalla diffidenza contro ogni parola di quel personaggio: ma qual tempra di simil corazza intorno a petto di donna resiste all'invincibil forza di simili complimenti? La giovane trovò che quell'uomo non aveva mai parlato così bene; levò gli occhi su di lui e per la prima volta le parve che quella faccia scura, terrea, dai lineamenti immobili come una maschera, avesse pure alcun che di simpatico; disse fra sè e sè ch'egli aveva grandemente ragione, e benchè la si sforzasse a mantenersi in quella indifferenza che s'era proposta, non potè tanto padroneggiare il movimento intimo del suo animo che un lieve sorrisetto non venisse a sbocciare sulle sue labbra rosse e carnose.

— Che? diss'ella però con finta ruvidezza crollando le spalle. La parla per chiasso Lei, la è di buon umore stassera e le salta di prendersi giuoco di me.

— Niente affatto... Parlo da maledetto senno: ripigliò il poliziotto cercando sempre di dare alla sua voce fredda, monotona e quasi direi sorda, la vibrazione d'un forzato calore di sentimento. Gli è da lungo tempo, sapete, Maddalena, che ho osservato codesto, che ci vengo pensando e che mi è venuto in animo di parlarvene.

Maddalena fissò i suoi occhi sgranati, pieni di petulanza, sul volto del suo interlocutore.

— Ah sì? diss'ella. In fede mia che non avrei mai più sognato una cosa simile.

E intanto fra sè andava ella pensando:

— A che cosa vuol far capo costui? Parla egli per suo proprio conto?.... Peuh! potrebbe risparmiare il fiato...., o per quello d'altri?.... E in questo caso di chi?

L'occhio acuto di Barnaba sembrò leggesse questi pensieri nella mente della giovane; poichè, quasi per risponder loro, egli soggiunse:

— Non vi figurate mia cara figliuola, ch'io vi parli con delle intenzioni interessate e con delle mire personali..... Oibò! Vi parlo proprio per solo vostro bene e per vantaggio del vostro avvenire, che non so manco io la ragione, mi sta a cuore, come se voi foste qualche cosa di mio.

— Oh! oh! pensò Maddalena: egli parla per conto altrui.... — Fa eziandio questo bel mestiere..... Ma chi mai l'avrà mandato?

— Grazie tante: diss'ella forte in risposta a Barnaba; quest'avvenire sarà quello che vorranno Dio e la Santa Vergine della Consolata.

— Sarà quello che vorrete voi, furfantella; ed io vi dico che per vivere da signora, con quel visino, con quegli occhi lì, non avrete che da volerlo.

Maddalena colla petulante vivacità della sua natura, affrontò risolutamente, senza reticenze, il nodo della quistione.

— Buono! diss'ella: e chi, secondo Lei, mi darà da scialarla come una signora?

Barnaba credette aver in pugno l'anima della donna e si rallegrò seco stesso.

— Chi? rispose: colui che vorrete voi. Su cento ricchi libertini non avreste che da scegliere a vostro gusto e secondo vostra convenienza. Quel matto famoso d'un Principe di Lucca, se vi vedesse soltanto, non tarderebbe ad impazzire per voi.

Maddalena sentì per la sua epidermide di cortigiana passare un lieve fremito di soddisfazione. L'amor proprio lusingato aggiunse una nuova luce ai suoi occhioni brillanti d'audacia e di ardore sensuale.

— Viene Lei a nome del Duca? chiese vivacemente, curvandosi sulla tavola verso il suo interlocutore, con una mossa piena d'aspettazione.

Barnaba esitò un momento a rispondere: il suo sguardo, per gli occhi della giovane volle e credette penetrare nell'animo di lei; fu persuaso più che mai d'averglielo afferrato e per non lasciarselo sfuggir più si decise ad una implicita menzogna.

— E se così fosse, diss'egli, che rispondereste? che cosa vorreste fare?

La pupilla dell'occhio nero di Maddalena si dilatò un istante e parve mandare più vividi raggi; una avida cupidigia si dipinse per un momento nella faccia invasa dal rossore, nella bocca semi aperta, come anelante. Ma codesto non durò che un minuto. Quella fiamma si spense negli occhi, quel rossore sparì dalle guancie; e la Maddalena chinò lentamente il capo, assorta di botto in altro e tutto diverso pensiero.

Vedete di che miracoli non è capace l'amore! Un tempo, prima che le avesse preso il cuore quella infuocata e tenace passione cui avevale ispirata Gian-Luigi, Maddalena avrebbe accolto le parole di Barnaba come una felicissima ventura, ed alla sorte fattale intravedere per esse, la si sarebbe appigliata con tutto l'ardore della sua naturale ambizione, della sua vanità eccitata, della sua foga desiosa di piaceri e di lusso; ora invece l'influenza seduttiva passò [96] appena un istante alla superficie della sua anima tutta occupata da un profondo, potentissimo affetto, e si dileguò ratta, scacciata dalla memoria, dal pensiero, dall'ardore dell'amor suo. Ella non poteva essere d'altri che del medichino: ella non poteva, non voleva avere altra sorte che quella non fosse di seguitare la sorte di lui, di rimanere sommessa a ciò ch'egli comandasse di lei. Ricordò le parole che quella mattina medesima Gian-Luigi le avea dette: «Lena, tu potresti avere e belle vesti ed ogni cosa che hanno le ricche, e potrei procurartene io stesso; ma tu sai che mi sei utile rimanendo in queste umili condizioni in cui ti ho trovata.» Ah! non ella avrebbe tradita mai l'aspettazione e la fiducia del suo amante.

Il poliziotto s'accorse del cambiamento che avveniva nell'animo della giovane, sentì sfuggirsi di mano quella presa ch'egli credeva aver fatto, ed affine di riguadagnarla, disse con tutto il calore che egli era capace di fingere:

— Non rispondete? Esitate?... Come! Sareste tanto ingrata verso la sorte da respingere una simil fortuna che la vi manda?... Ma, infelice e sconsigliata che siete! pensate che voi non avreste più desiderio di sorta che non vedreste subito appagato. Voi povera fanciulla siete nata e avete vissuto finora più o meno in mezzo agli stenti: ma certo avete visto dal basso delle vostre misere condizioni le gioie di quelle fortunate che si crogiolano in mezzo alle sete, alle trine, ai velluti, agli ori della ricchezza. Non sareste donna se non le aveste invidiate, se non sentiste in voi che siete fatta anche voi per quelle gioie, che colà al loro posto, in quelle carrozze, in quei saloni, con quegli abiti sareste più bella, più ammirata, più corteggiata, più adorata di tutte loro... La vostra invidia è giusta, Maddalena; il vostro intimo sentimento, il vostro istinto ha ragione. Voi sareste a mille doppi superiore a tutte in bellezza: voi vedreste tutti gli uomini ai vostri piedi.

Maddalena teneva sempre chino il capo, e lo scosse leggermente come tra per negare, tra per dire che non glie ne importava niente affatto.

— La ricchezza, continuava Barnaba con pari calore, è la prima e l'unica potenza del mondo.... Voi avreste la ricchezza, Maddalena!.... Vi piacerebb'egli sciuparla, gettandola per la finestra nella strada, alla faccia della gente meravigliata? E voi quanto ne consumereste follemente di denaro, tanto e più ritrarreste a vostro capriccio da un vostro sorriso, da una vostra lusinga. Vorreste invece pensare ai vostri anni avvenire e prepararvi un'esistenza sontuosa e tranquilla per la maturità della vostra esistenza? Ma in poco di tempo voi avrete radunato i guadagni di tutta una vita laboriosa di fortunato banchiere.... Ebbene, ditemi ora: che cosa decidete?

La giovane tornò a scuotere la testa, e disse freddamente con voce sommessa, sorda, per così dire, ma risoluta:

— Io sono contenta della mia condizione, e non desidero cambiarla.

Barnaba dalla maraviglia fece un sobbalzo sulla panca su cui era seduto, e guardò la ragazza come si guarda un fenomeno mai più visto, la cui stranezza lo fa parere soprannaturale. Non fu tanto ingenuo da credere che fosse la virtù a difendere così bene contro la seduzione quel fragile cuore di cortigiana. Gli era dunque l'amore ch'essa aveva pel medichino, che esercitava su di lei così potente influenza? A questa conclusione ch'egli ne trasse, il poliziotto ebbe un'ispirazione, che fu un vero tratto di genio. Le medesime cause producono sempre i medesimi effetti. Un amore simile in donna come quella, doveva essere geloso e furibondo quanto e più non fosse quello di Meo per Maddalena. La gelosia aveva conferito massimamente a dar vinto all'arte del poliziotto il giovinastro imbecille, chi sa che la gelosia pure non lo servisse ad impaniare quell'accorta, ma ardentemente appassionata fanciulla?

— Avete torto, Maddalena: riprese egli a dire; voi disprezzate e rigettate una sorte, a cui molte e molte, che cosa dico? tutte le fanciulle vostre pari sarebbero beatissime di potere aspirare. Ma di certo voi non vi rendete conto esatto di quello che potreste essere, di quel che diventereste senza fallo. Vorrei che solamente travedeste gli splendori della vita di Zoe soprannominata la Leggera. Essa vive in mezzo all'oro ed ai diamanti, ha i più bei cavalli e le più belle carrozze della città, e veste come una principessa. Ebbene la Zoe, quanto a beltà e piacentezza di modi e di sembianze, non è pure da mettersi in paragone con voi. E la vien su dal nulla, proprio dai ciottoli delle strade e dal fango delle piazze. Io che vi parlo l'ho conosciuta... l'ho veduta, voglio dire, magra come un chiodo, saltar sulla corda in piazza, vestita d'una sottanella strappata e sporca, tempestata di lustrini irrugginiti, con nissun'altra bellezza che due occhioni da metter l'inferno nell'anima della gente....

Queste parole pronunziò Barnaba con voce veramente commossa e faccia turbata. Maddalena levò i suoi occhi stupiti in volto al suo interlocutore, e questi a quella sguardata parve scacciare l'emozione onde si sarebbe detto essere stato preso, e tornò per l'affatto quello di prima.

— Voglio dire, continuò, che voi avete i cento, i mille meriti di più, per riuscire al medesimo e ad ancora più brillante destino.... Oh che forse ci avete un qualche amore che vi trattiene con una delicatezza di scrupolo che sarebbe soverchia davvero?

Fece una risatina così accortamente falsa che pareva vera.

— Giusto: soggiunse con tono di scherzosa famigliarità; sapete che vi fanno l'amante di quell'invisibile ed introvabile medichino di cui tutti parlano [97] e nessuno seppe scorgere pur mai l'ombra soltanto.

Gli occhi neri di Maddalena saettarono un nuovo sguardo di fuoco sulla faccia scialba del poliziotto che rimase impassibile.

— Ed Ella crede all'esistenza di questo medichino? domandò la fanciulla.

Barnaba crollò le spalle come fa uno scienziato innanzi ad un pregiudizio del volgo.

— Oibò! Non mi fate il torto di credermi così sciocco. Il popolo ha sempre bisogno di personificare in un essere ideale l'autore, o per dir meglio, i varii autori di tutto ciò che avviene di un po' strano onde la sua immaginativa resta colpita; il più delle volte anche gli stessi strani avvenimenti che dànno origine alla creazione di quel personaggio fittizio, sono inventati. Appo noi da un po' di tempo sono accaduti alcuni più audaci delitti che hanno sparso lo spavento nel gregge pusillanime dei possidenti; ed ecco di subito la fantasia sgomentata di quella brava gente immaginare una fortissima e numerosissima associazione di malfattori ed a capo di essa un malandrino più matricolato degli altri, orribile, feroce, un diavolo in carne ed ossa, che, non si sa poi per qual ragione, venne battezzato col nomignolo di medichino. Eh! non mi lascio abbacinare da queste puerilità io! Provate un po' a domandare al popolo, che viso, che aspetto, che modi ha questo famoso re di briganti e di assassini: uno vi dirà che gli è un gigante tanto fatto, con occhi da basilisco, con sembianze così truci da far basire di paura solamente a guardarlo, che gli è un mostro che beve sangue umano, non gode che dell'agonia di vittime umane immolate, non apre la bocca che per bestemmiare e comandare i più atroci delitti; altri invece ve lo dipingerà di apparenze tutto graziose e gentili, un giovinetto sbarbato che pare una donna, a cui si darebbe l'ostia consecrata senza confessione. Io ne concludo da ciò che è tanto vero il primo quanto il secondo ritratto di questo misterioso individuo, la cui esistenza cercano di far credere i birbanti medesimi per far essi di proprio capo le loro gesta e sviare con quell'arte da sè i sospetti della polizia..... Ma lasciamo stare quest'ipotetico individuo. S'egli non è il vostro amante, Maddalena, ciò non vuol dire che voi non ne abbiate un altro, al quale mi è avviso che voi vogliate bene — fortunato mariuolo, va! — più di quanto una ragazza di vostra fatta dovrebbe; e mi nasce il sospetto che sia appunto per riguardo di codesto vostro damo che voi non vogliate far buon viso alla felicità di quel certo avvenire che vi ho mostrato. Se così fosse, sarebbe questo uno scrupolo che vi onora, ma che dimostra una certa inesperienza e — lasciatemi dire — grullaggine. Forse che accettando la fortuna di cui vi si parla, voi sareste impedita di aver poi per vostro intimo amico colui che vi piacerebbe? Eh! di siffatti amanti ve ne potreste tenere quanti vi garba — ci basterebbe un po' di prudenza... To': anche qui posso citarvi l'esempio della Zoe, di cui vi parlavo un momento fa. Essa ha molti protettori — e quasi tutti alto locati, e fra questi il principino che ho nominato poc'anzi — i quali pagano e pagano lautamente; e poi ha un amante che non paga, ma cui anzi, dicesi, esser ella a pagare... Egli è un medico appunto; ma quello è un medico davvero; uno de' più belli ed eleganti damerini della città: il dottor Quercia.

Barnaba pronunziò queste ultime parole con affatto il medesimo tono col quale aveva parlato finora, senza pesare menomamente su di esse, come si dicono le cose del tutto indifferenti, a cui non v'è ragione alcuna di dare pure un'ombra d'importanza; ma il suo sguardo che non aveva abbandonato mai la faccia fresca e rubiconda della giovane era in sull'avviso più che mai da potere cogliere su di esso il più lieve e il più fuggitivo segno d'impressione qualunque.

All'udire quegli ultimi detti e sopratutto quel nome, tutta la persona di Maddalena ebbe una subita agitazione leggiera, ma che non poteva sfuggire allo sguardo attento del poliziotto; gli occhi di lei ebbero un baleno vivissimo cui tosto velarono le palpebre sollecitamente abbassate; e la sua volontà non fu tanto padrona del sangue improvvisamente riscosso che valesse ad impedirgli di salire ad arrossarle le guancie.

— Ah! esclamò ella sotto l'efficacia di quel primo impulso; Quercia è l'amante di codesta tal Zoe?....

Barnaba non ebbe più bisogno di altri argomenti per essere chiarito della identità ch'egli aveva sospettata fra il misterioso medichino ed il galante dottor Quercia; ne sentì una viva gioia, ma la sua faccia era troppo esperta ed avvezza a dissimulare perchè ne lasciasse scorgere un segno qualunque; vide che la sua ispirazione l'aveva servito bene, e determinò tentare di trarne tutti quei maggiori frutti che potesse.

— Quell'originale d'una Zoe ne va pazza: soggiunse. Gli è che quel mariuolo d'un seduttore è inarrivabile nell'arte di abbindolare una donna. Si conta anche d'una signora d'alto rango, una vera nobile, una contessa di Staffarda che si darebbe al diavolo — se pure non si è già data — per gli amplessi di quello scellerato d'un dottore.

— Contessa di Staffarda? dimandò Maddalena, come se volesse stamparsi anche questo nome nella memoria.

— Sì, rispondeva con tutta bonarietà il malizioso Barnaba, contessa Langosco di Staffarda..... Oh! una delle prime famiglie del regno..... Ed una bella donna poi!.... Capperi! che bella donna! Non c'è che dire; Quercia sa scegliere per benino le sue conquiste. La Zoe e la contessa sono due fior di bellezza.

Un subito smanioso desiderio invase l'animo di [98] Maddalena: quello di vedere le due donne che erano sue rivali.

— Dove abita ella, questa contessa? domandò ella ad un tratto.

Barnaba glie lo disse.

— E quell'altra? La Zoe!

Il poliziotto le disse anche di questa.

Maddalena sentì il bisogno di dare una ragione di queste sue strane domande.

— Ella mi ha detto tante cose di questa Zoe..... Mi piacerebbe un poco vedere co' miei occhi come la vive e la si governa; mi piacerebbe sentire dalla sua bocca medesima il bene e il male della sua esistenza.

— Vedrete in ogni modo che io non vi ho detto che la semplice verità.....

A questo punto nello stanzone vicino, divenuto oramai silenzioso del tutto per esserne partiti quasi tutti gli avventori, s'udì suonar mezzanotte dall'orologio a contrappesi. Maddalena si ricordò di botto che Gian-Luigi l'attendeva per quell'ora, e senza volere altro soggiungere nè ascoltar più, s'alzò frettolosa.

— È mezzanotte, diss'ella; non posso fermarmi più oltre. Bisogna ch'io me ne vada.

— Ancora un minuto solo...

— No; sono aspettata.

— Ah ah!... Non parlo più: allora, passando di là, fate il piacere di dire a Pelone che venga qui.

Nella stanzaccia dell'osteria non c'erano più che due avventori: uno era Andrea, il quale, appoggiate le braccia sul desco e sopravi il capo, s'era addormentato sotto l'influsso dell'ebbrezza; l'altro era Macobaro, che solo in un angolo, concentrato in se stesso, ruminava nella sua mente l'immensità della sciagura che gli era precipitata addosso ed accarezzava il pensiero e l'ancora incerto proposito della sua vendetta. Egli ritardava più che poteva il momento di tornare a casa. Giunto colà che cosa vi avrebbe fatto? L'idea di ritrovarsi in faccia alla sua figliuola colpevole gli era adesso penosa oltre ogni dire. Avrebbe voluto non rivederla più mai: frattanto rimaneva assorto ne' suoi cupi pensamenti, e lasciava passare le ore.

Pelone chiamato nel camerino da Barnaba, per mezzo di Maddalena (la quale poi erasi affrettata ad uscire di colà per recarsi dall'altro segreto passaggio al luogo dove il suo amante stava attendendola); Pelone andò con passo più lento ancora del solito verso il gabinetto in cui era il poliziotto. Non gli restava altro che mandarlo via; e non aveva ancor bene risoluto fra sè il modo migliore con cui far codesto; sapeva che metterlo fuori dell'osteria era un mandarlo alla morte, e provava in se stesso alcuna cosa che quasi poteva dirsi rincrescimento, non già che ad ispirargliela fosse la debolezza della pietà, ma sibbene l'egoismo della paura di rimanerci compromesso egli medesimo. La sua salute, la sua sicurezza dipendevano da quelle relazioni opportune ch'egli sapeva mantenere colla polizia da una parte, colla cocca dall'altra; e Barnaba era il frego d'unione fra lui e la prima di queste due potenze. Una volta rotto l'equilibrio, egli poteva essere esposto ai maggiori pericoli. L'uccisione di Barnaba rompeva questo sapiente equilibrio da una parte, e s'egli avesse cercato di sottrarre il poliziotto a codesta sorte, l'equilibrio precipitava dall'altra. Il bravo Pelone non s'era mai trovato in un simile imbroglio: ed ecco perchè il suo passo era più lento del solito, la sua faccia più lunga che mai mentre camminava verso il camerino dall'uscio a vetri.

Barnaba da parte sua pensava che l'oste lo avrebbe probabilmente messo a fronte di qualche scellerato con cui non gli occorreva solamente accortezza per sapersi governare, ma gli sarebbe stato necessario coraggio fors'anco per difendere la sua vita: e, preparato com'era ad ogni cosa, riandava seco stesso ciò che aveva preventivamente studiato dover dire in tal circostanza e guardava se fossero sotto la sua mano e agevolmente impugnabili i calci di due pistole a doppia canna che aveva nelle due tasche dei calzoni.

— E così, compare Pelone, domandò egli al bettoliere che entrava; questi amici sono venuti?

— No signore, rispose l'oste; e' non son venuti, e non verranno più, perchè gli è mezzanotte, e bisogna ch'io chiuda l'osteria, se non voglio buscarmi la mia buona multa.

Barnaba s'alzò lentamente.

— Vuol dire che mi mandi via?

— No.... tutt'altro.... Ma Ella conosce i regolamenti e gli ordini del signor Vicario, e spero che non vorrà che mi tocchi una contravvenzione.

Qui il poliziotto commise un grande errore: quello di volersi dare il gusto di spaventare quel furfante d'un bettoliere.

— Vado, caro Pelone, gli disse con ironica gentilezza, che suonò al vecchio birbante come una tremenda minaccia; ma ci rivedremo domani.... E mi vedrai venire in buona compagnia ad apprenderti quanto tu abbia avuto torto a tacermi i più importanti dei tuoi segreti.

Pelone rimase allibito.

— I miei segreti? diss'egli. O di che razza segreti la s'intende parlare?... Che cosa è che io ho taciuto? Santa Vergine con tutti i santi: io non ho taciuto nulla, o possa essere impiccato....

— Benone! continuò Barnaba con quella spaventosa ironia: il tuo generoso augurio sarà facilmente esaudito.... Addio.

Adesso gli era l'oste che lo avrebbe voluto trattenere; e fu il poliziotto che partì senza più dargli retta.

Pelone rimase il più perplesso uomo del mondo. Quando Barnaba era venuto fuori con quelle parole, [99] egli stava per tentare di copertamente avvisarlo del pericolo che lo minacciava; ora invece quasi rallegravasi di non averlo fatto.

— Questo demonio, pensava fra di sè, ha forse scoperto qualche cosa.... Ma se Graffigna lo coglie, ei si porterà nell'altro mondo tutto ciò che ha scoperto.

Mandò un patetico sospiro.

— Purchè quel figliuolo d'un cane di Graffigna non isbagli il colpo!... Ecco ciò che io sono ora costretto a desiderare.

Fece uscire Macobaro ed Andrea, svegliandolo, dall'osteria, e chiuse alle loro spalle ermeticamente l'uscio della bettolaccia.

Graffigna, uscito dall'osteria, dopo aver fatto cenno a Marcaccio di seguirlo, s'era fermato a pochi passi lontano dall'ingresso della bettola, sotto il fioco raggio d'un lampione municipale a cui troppo scarsamente l'illuminatore aveva misurato l'alimento dell'olio. Non cadeva più la neve, ma quella caduta lungo tutto il giorno, che copriva alta due palmi la strada, diffondeva un biancolastro chiarore per la notte, altrimenti scura e nebbiosa. Non un rumore più si udiva, non un passo muovere, non una voce suonare; non un'ombra più si vedeva accostarsi in quell'umidiccio e freddo ambiente di nebbia, or più or meno densa, che pareva sotto una misteriosa spinta rotolare chetamente sul suolo e lungo le pareti delle case le sue volute. Marcaccio non tardò a raggiungere il suo degno superiore nella gerarchia delle scelleraggini.

— Bene: gli disse Graffigna senza preamboli. C'è un uomo colà dentro, che bisogna ad ogni costo freddare. Ho pensato di servirmi del tuo aiuto.

Marcaccio, per quanto birbante egli fosse, mostrò tuttavia poco entusiasmo a questa proposizione fattagli a bruciapelo.

— Diavolo! diss'egli; di chi si tratta?

— Codesto tu non hai manco da saperlo. Quando i miei occhi da gatto lo vedranno venire, ti dirò: gli è quello; e ciò ti deve bastare.

— Ha egli molto denaro allato?

— Forse nè anche un soldo.

— E allora perchè?..,

— Perchè gli è l'interesse della cocca che lo vuole.

— Ah! fece Marcaccio curvando il capo, come non trovando più nulla da ridire a questa buona ragione.

— Sarò io che darò il colpo; riprese Graffigna: non mi fido che del mio succhiellino io...

Marcaccio parve niente affatto offeso della poca fiducia che il suo compagno manifestava in lui per codesta impresa; anzi trasse un respiro che si sarebbe detto di soddisfazione, od almanco di sollievo.

— Tu, continuava quell'altro, mi farai da bracco ad arrestare la preda, e non interverrai attivamente col tuo coltellaccio, se non quando ne nasca assolutamente il bisogno: cosa che non credo sia per avvenire. Ecco intanto quello che devi fare. Mettiti costà contro quel portone, nascondendo più che puoi la tua persona contro lo stipite. Quando l'uomo di cui si tratta non sarà più lontano da te che di due passi, io manderò il nostro fischio, ed in allora salterai fuori ad impedirgli il passo.

— Cospetto! disse Marcaccio: egli così mi vedrà per bene in volto, e se mai la scampa mi potrà riconoscere di poi.

— Va là che non c'è pericolo la scampi... E poi per maggior precauzione tirati sul naso il tuo cappellaccio e mettiti sulla bocca il fazzoletto tanto che non ti restino scoperti che gli occhi per vederci...

— Ad ogni buon conto farò così.

— Appena tu l'abbia arrestato, io gli piomberò addosso per di dietro dal posto in cui vado a mettermi in agguato, e tu lo vedrai cadere senza manco gridare un Gesù-Maria... Non c'è cosa più semplice e più facile. Hai tu capito?

— Ho capito benissimo.

— Allora ai nostri posti: ed attenti che fra dieci minuti l'individuo sarà qui.

Marcaccio andò ad appiattarsi dove gli aveva detto Graffigna, e questi da canto suo si postò un po' più indietro, dall'altra parte della strada, stando così aderente al muro dietro il poco riparo che faceva lo sporgere dello stipite d'una porticina, e così immobile, che in quelle tenebre il vederlo o il sospettare soltanto in quel luogo la presenza d'un uomo era impossibile.

Barnaba intanto, uscito dall'osteria, se ne veniva lentamente, e con aspetto preoccupato verso quella parte. Egli era lieto dei risultamenti ottenuti in quella sera, e veniva pensando come trarne miglior profitto. Adesso non era più con un'intima istintiva persuasione soltanto, ma con una morale certezza giustificata ch'egli avrebbe potuto presentarsi al signor Tofi a sostenergli l'identità del medichino coll'elegante dottor Quercia. La scoperta dell'esistenza già sospettata d'un segreto nascondiglio dove riparassero gli assassini e si nascondessero i corpi del delitto, era cosa importantissima; così egli tosto avrebbe provato ai superiori il torto e l'ingiustizia della sua disgrazia. Ma non conveniva indugiarsi per nulla e quanto più presto si sarebbe agito, tanto meglio aveva da essere. Si disse che il Commissario non l'avrebbe rampognato, ancorchè fosse venuto a disturbarlo a quell'ora per affare di tanto rilievo. Era opportuno senza perder tempo, con quella maggior forza di arcieri e di guardie che si poteva raccozzare in tutta fretta, invadere la bettola, rompere il tavolato là dov'egli era persuaso esistere il passaggio, e penetrare ad ogni rischio nel covo degli assassini. Più presto si facesse, e più si sarebbero presi i birbanti all'impensata, e minori sarebbero stati i rischi, e maggiore la messe delle prove. Si, non bisognava esitare, e correr subito dal Commissario.

[100] Presa questa risoluzione, egli aveva levato il capo e s'era posto ad affrettare il passo, quando udì dietro di sè suonare un fischio acuto, modulato in maniera speciale, e tosto dopo vide slanciarglisi innanzi, come se uscisse dalla muraglia della casa, un uomo grande e grosso colla faccia coperta da una pezzuola, il quale secondo l'abitudine di tutti questi galantuomini, gli disse:

— Ferma, birbante!

Barnaba cacciò la mano nella tasca dei calzoni per estrarne una delle sue pistole; ma chiuso e abbottonato nei panni, com'era, pel freddo, prima che avesse tempo di compier l'atto, si sentì una lama fredda ed acuta penetrare nel fianco a due riprese in fretta in fretta; volle mettere un grido, ma si sentì soffocare da un fiotto di sangue che gli venne alla gola, gli si annebbiarono gli occhi e cadde lungo e disteso sulla neve che ammantava la strada.

— Il suo conto è bello ed assestato: disse con orribile scherno la voce in falsetto di Graffigna; e lo scellerato si curvò sul giacente per certificarsi di meglio della morte di lui; ma in quella Marcaccio, che non ancora così agguerrito in queste orribili imprese, guardava intorno con occhio spaventato, vide venire a quella volta in mezzo alla nebbia le ombre di due uomini che camminavano ad una piccola distanza l'uno dall'altro. La poca tranquillità della sua coscienza gli fece pensar subito ai difensori della legge ed ai punitori dei misfatti, gli parve di veder luccicare le armi e la divisa dei custodi della sicurezza pubblica.

— Una pattuglia! esclamò egli colla voce soffocata dal più alto spavento: salva, salva!...

E senza aspettar altro se la diede a gambe che pareva il vento lo portasse.

La paura è contagiosa, massime in quei certi momenti in cui c'è davvero buona ragione d'averla. Graffigna levò il capo, vide ancor esso le ombre che si avvicinavano e non guardandoci tanto pel sottile, ora che il colpo era fatto, pensò miglior consiglio il porsi in salvo egli pure, e via di corsa dietro Marcaccio che già era sparito.

I due uomini che sopraggiungevano erano Macobaro ed Andrea.

Maddalena, penetrata in Cafarnao, aveva trovato Gian-Luigi ancora tutto assorto nel suo lavoro.

— Finalmente, esclamò ella con voce concitata, incapace di frenare la passione che la padroneggiava; finalmente conosco il nome di due delle mie rivali: la Zoe e la contessa di Staffarda.

Gian-Luigi levò verso Maddalena il viso tra corrucciato e stupito, e corrugò la sua bella fronte del più puro modello greco.

— Come hai tu appreso codesto? domandò egli vibratamente con accento di autorità imperiosa.

La giovane esitò.

— Parla: riprese impetuoso ed impaziente il medichino.

Maddalena, che con Luigi non sapeva fingere e che lo temeva troppo per non obbedirlo, rispose che ciò le era stato detto da quel cotal Barnaba, di cui fra loro si era discorso la mattina di quel giorno medesimo.

Il medichino impallidì leggermente.

— Ma quel demonio sa dunque tutto! esclamò egli non cercando punto di dissimulare l'ingrata sorpresa e lo sgomento ch'egli provava.

— Rassicurati: disse sollecitamente Maddalena, egli non ha parlato altrimenti di te, ma del dottor Quercia: ed all'esistenza del medichino ha protestato che ei non ci credeva il meno del mondo.

Gian-Luigi scosse la testa niente rassicurato.

— Folle che tu sei! E' ti ha detto così per ingannarti. Come e perchè vuoi tu che a te parlasse del dottor Quercia e delle sue amanti, s'egli non sapesse o non sospettasse almanco che quel dottor Quercia son io?

Maddalena sovraccolta dall'evidenza di codesto argomento, chinò il capo, spaventata essa pure della conseguenza di tal fatto.

— Per Dio! esclamò il medichino, stringendo il pugno, levando il capo con fiera mossa e saettando uno sguardo alla vôlta, quasi volesse sfidare il cielo. La fortuna, che finora mi ha secondato, sta ella per abbandonarmi adesso nel migliore? Sul punto di raccogliere le fila della trama così pazientemente e con tanta pertinacia tessuta, debbo io vedermi ad un tratto per l'oscuro colpo d'uno sgherro troncare i nervi ed impedire l'opera? Almeno questo ingiusto insensato del destino mi lasci scendere in campo e principiare la lotta; ch'io cada là in mezzo, se non è mia sorte il vincere, ma ch'io cada colla gloria d'un'ecatombe di vittime, colla superbia d'un cumulo intorno di rovine da me fatte, vedendo tremante e pallido per ispavento quel mondo sciagurato e codardo che mi vincerà colla forza de' suoi ordini ingiusti; Erostrato, ch'io perisca almeno nella gloriosa aureola delle fiamme da me suscitate!.... Ma cadere in mano della sbirraglia, ma morire ignobilmente per ignobile supplizio sopra un patibolo!... Oh Catilina, tu almanco nella tua sciagura hai avuto un fine condegno. E in questo momento forse è già tratto il dado della mia sorte... Ah! la mia fortuna e la mia vita sono sulla punta del pugnale di Graffigna.

Egli finiva appena di pronunziare queste parole che l'esile persona di Graffigna medesimo s'insinuava colla sua andatura felina in quel locale.

— Niente paura: disse l'assassino trafelato dall'aver corso; il pugnale di Graffigna non falla mai. Quell'uomo non può contar più i segreti da lui scoperti che ai vermi del sepolcro.

E ciò dicendo mostrava alla luce rossigna della lampada la lama sanguinosa del suo pugnale.

Ma lasciamo omai — e n'è gran tempo — questo tristo ambiente di feroci passioni e di delitti; [101] andiamo in più elevata sfera, dove altre ed anco accese passioni vedremo agitarsi, ma contenute almanco dall'onestà dell'animo e dalle forme civili dell'educazione: rechiamoci al ballo della baronessa X, dove sappiamo dover convenire parecchi fra gl'importanti personaggi del nostro racconto.

CAPITOLO XV.

Fra le più belle e splendide cose onde s'adorna l'immensità della creazione divina, va delle prime e delle più care un puro amore in cuore di vergine. Sovr'esso deve con ineffabile compiacenza rivolgersi lo sguardo stesso di Dio; è il più dolcemente sublime degli affetti concessi alla natura umana; è il più prezioso fiore dell'ideale che sboccia nella fervida primavera della vita; è l'astro di più mite luce che allieti l'orizzonte delle passioni terrene; è uno scampolo delle tenerezze celesti onde hanno gioia le angeliche esistenze, lasciato, a memoria forse, a preavviso, ad argomento delle nostre sorti superiori, in questa corporea transizione della vita immortale dell'anima. Il cuore della vergine è il mistico fiore, e n'è l'amore il soavissimo profumo: è un'arpa dalle corde d'oro, e l'angiolo del puro affetto ne suscita la divina armonia.

Quest'armonia e questo profumo aleggiavano più eletti, più sublimi che mai intorno al cuore di Virginia di Castelletto.

La nobile e leggiadra figura di questa ragazza, appena è se l'abbiamo veduta finora attraversare come una luminosa apparizione le tenebrose e complicate vicende del nostro racconto che si esplicano traverso tutti gli strati sociali: tempo è che c'indugiamo alquanto intorno ad essa, la virtù e la grazia personificate, la quale con pochi compagni sta nella schiera dei nostri personaggi a rappresentare quella parte di eccelso e di divino che Dio volle concessa e frammista alle bassezze ed alle turpitudini della natura umana.

In mezzo alle grandezze ed agli splendori della sua condizione, Virginia non poteva dirsi essere stata fino allora felice, e alla sua leggiadra fronte non era sconosciuta la mestizia e sul suo leggiadrissimo labbro non era frequente il sorriso. Le era toccata una delle peggiori disgrazie che possano capitare in sui primi passi della vita. Orbata in età affatto infantile di ambidue i genitori, non aveva conosciuta mai la soavità delle carezze materne. Bene ricordava ella con ineffabile, intima tenerezza d'una leggiadra figura di donna che appassionatamente la stringeva bambina al suo seno, che la baciava con caldi baci e mormorando soavi parole ch'ella non aveva capito, di cui ella non ricordava manco una, ma delle quali pure il suono le era stato impresso come una dolce melodia nell'anima; ed impressi del paro erano stati in lei gli sguardi lunghi, amorosi, carezzevoli degli occhi miti, benigni ma sempre melanconici di quella donna; tanto melanconici che Virginia si ricordava come non di rado si stemprassero in pianto. Le avevano detto — glie lo dicevano tuttavia — che quella donna era stata sua madre; essa ciò sentiva in se medesima ed adorava quella memoria divotamente raccolta in cuor suo, come un segreto Dio in un segreto santuario. Poco diverso da ciò che avveniva a Maurilio (il quale però non aveva ricordo alcuno d'averla vista pur mai) il pensiero di sua madre rimaneva di continuo nella mente di Virginia, e intorno all'anima sua quasi sentiva ella incessante un influsso, un effluvio dell'anima della madre. Ma questo pensiero d'una morta aveva dato una gravità singolare alla giovinezza della sensitiva fanciulla, aveva circondata d'una nube di tristezza l'espansione dell'affetto in quell'anima ad ogni nobile sentimento dischiusa.

Talvolta, per fare in se stessa più concreta e precisa l'immagine della madre, ella si fermava a contemplarne il ritratto che pendeva nella sua camera in faccia al suo letto, e stava lungo tempo a scrutarne le dipinte fattezze, a tenere fissi i suoi vivi negli occhi immobili raffigurati in quella tela; ma la sua memoria, le sue intime permanenti impressioni contrastavano con quella realtà dipinta. Questa le rappresentava una giovine donna nello sfoggio della bellezza e dell'abbigliamento, il fior della salute nello incarnatino delle guancie, l'allegria festosa della gioventù negli occhi e nel sorriso; e invece l'immagine che Virginia adorava nel suo cuore era di donna sofferente e smunta nelle pallide guancie, d'una beltà fatta severa, ma forse anco maggiore, dallo stampo d'una profonda irrimediabile mestizia.

Ed era infatti così. Sopra la cuna di questa fanciulla nata in mezzo al fasto, alle ricchezze, ad ogni prestigio di titoli e di onori, si era incurvato il più vivo ed immenso dolore che animo di donna abbia potuto sopportar mai, tanto vivo, tanto grande che in vero la pover'anima che n'era stata oppressa aveva condotta ad immaturo uscir della vita terrena.

Lo zio di Virginia, accolta presso sè l'orfana fanciulla, avevala circondata non che di tutto l'amore, ma di tutta la tenerezza ond'era capace la sua anima d'uomo: ma quale eziandio fra le donne può sostituire una madre? Meno acconcia del marchese a codesto era ancora la zia, essere superbo, di arido cuore, la natia bontà (se pur c'era) guasta e soffocata da stupidi orgogli e da ostinati pregiudizi di casta. Virginia in presenza di questa donna sentiva la sua anima chiudersi ed una specie di gelo circondarla: quelle due creature troppo diverse stavano a contatto, ma non poteva aver luogo fra loro nessuna vera comunicazione; si parlavano, ma non erano fatte per intendersi.

Tutto ciò fece che Virginia, quando per le altre giovanette corre il tempo della maggiore espansione di quell'intimo essere che si viene svolgendo ed affermando, del pari che si viene formando il [102] suo corporeo involucro, dovette invece recarsi sopra se stessa, racchiudere nel suo segreto e dibattere seco stessa le nuove impressioni della vita, affrontare colla sola sua ragione i problemi che già le si accennavano della sua esistenza di donna. Dalla mestizia del dolore materno pareva ella già aver ereditato la riflessiva gravità del suo riserbo temperata da seducentissima gentilezza; codesto suo concentrarsi di volontà, di sentimenti, di riflessioni e di affetti conferì a rafforzarne insieme la tempra dell'animo ed a dare alla sua giovinezza appena incominciata una inattesa maturanza.

Della storia di sua madre i congiunti non le avevano parlato mai; ed ella aveva trovato sempre nello zio, ogniqualvolta aveva tentato interrogarnelo, una risposta evasiva così fredda e improntata di tanta ripugnanza, che aveva perso affatto il coraggio di ritornare all'assalto; ma pur tuttavia, senza conoscerne alcun particolare (e pochi erano che conoscessero quella dolorosa storia, la famiglia Baldissero avendola gelosamente sottratta alla curiosità della gente) ella, per qualche lieve parola sorpresa, quasi direi per un segreto impulso di istinto figliale, per un'ispirazione che altri potrebbe chiamare seconda vista, aveva indovinato che quella di sua madre era la storia d'un infelice amore.

Amore! Questa parola, il cui senso racchiude un mondo, fu d'allora in poi quella intorno alla quale più si travagliassero nel segreto meditare la ragione, l'immaginativa e la riflessione insieme della virtuosa giovane. Del mondo aveva ella visto poco, ma aveva letto di molto e meditato più assai. La sua intelligenza più elevata, il suo cuore più ricco che non avvenga alla comune, erano fatti per comprendere ogni grandezza e quella tanto più dei nobili affetti. Il suo istinto muliebre, purificato, nobilitato, direi, dal sano ambiente della sua anima eletta, si converse in quello che il nostro maggior poeta chiama «intelletto d'amore» e ne fa una dote essenzialmente donnesca. Tutto l'esser suo era invasato d'amore, prima assai che a farlo concreto, a dargli corpo e sostanza sorgesse sull'orizzonte della sua anima l'immagine d'un uomo; il suo amore abbracciava tutto il creato, a lei ne parlava tutto l'universo; il Dio le si faceva sentire in un panteismo indefinito, prima che prendesse persona e s'affermasse nell'esclusivo affetto d'un solo.

Questo solo era stato Francesco Benda. Perchè lo aveva essa amato? Perchè alla sua anima avevano parlato il linguaggio delle più dolci cose e dei più nobili affetti le meste e gentili melodie del giovane compositore di musica, perchè le sembianze di lui avevano ai suoi occhi effettuato quell'ideale d'essere umano che nella fantasia ella era venutasi rappresentando come espressione della superiorità intellettiva, della bellezza morale e fisica dell'uomo. Non combattè la simpatia potente che volgeva la sua verso l'anima di lui; non contrastò a quell'influsso magnetico che attraeva i suoi occhi verso gli occhi di lui pieni d'adorazione, sulla fronte di lui sulla quale pareva risplendere insieme colla bellezza la sincerità e l'onore; non lottò contro quell'amore onde si sentì penetrare, e di subito, e tutta, e con autorità, quasi direi con violenza dolcissima: lo accettò come un naturalissimo e necessario risultamento dello svolgersi della sua personalità: amò santamente, di quel casto amor verginale onde sorridono lieti ed ammiranti gli angioli stessi del cielo.

Ella, fornita d'un nome illustre, appartenente ad una famiglia del più puro e superbo patriziato, con entro le vene il sangue più aristocratico che vantar si potesse, non pensò neppure che il giovane, la cui vista aveva parlato al suo cuore, non aveva al nome onoratissimo congiunto un titolo trasmessogli da parecchie generazioni di avi; ch'egli apparteneva ad una classe che i suoi, ed ella stessa allevata in quell'ambiente, erano avvezzi a considerare come inferiore. A dispetto dei pregiudizi della sua casta, a dispetto della educazione ch'ella aveva ricevuta al Sacro Cuore, fatta apposta per ribadire gli errori delle superbie aristocratiche, Virginia aveva pure in sè, naturalmente, un più giusto concetto della vera nobiltà, da vedere quest'essa nei meriti dell'ingegno, nel valore della persona, oltre che nella sonorità d'un titolo dato ciecamente alcuna volta dall'azzardo della nascita. Il vero è ch'ella a di codeste considerazioni non si fermò neppure; nè forse ci avrebbe pensato di poi, se un discorso avvenuto un dì fra sua zia e suo cugino Ettore non avesse rivolta la sua attenzione su cotale argomento.

Si era nel salotto, dopo il pranzo, prendendo il caffè. Il marchese padre sedeva al suo solito posto sulla poltrona presso il camino; la marchesa gli stava di faccia, impettita orgogliosamente nella sua orgogliosa positura immutabile; Ettore si consolava della privazione di fumare impostagli nel salotto dal severo divieto paterno, rotolando voluttuosamente colle dita un pizzico di foglie di Latachia in un pezzetto di carta senza gomma, per farne un sigaretto; Virginia seduta ad una tavola su cui una lampada accesa, sfogliava un album elegante con mano sbadata, e ne guardava con occhio distratto le immagini.

— Ha Ella sentita la novità? cominciò Ettore: la figliuola del marchese R... sposa il conte B....

La zia di Virginia fece un'alzata di testa d'una espressione superbamente sprezzosa.

— Conte, conte, diss'ella: bel conte ma foi! Suo padre faceva l'avvocato o il procuratore, o qualche cosa di simile.

— Era dapprima avvocato patrocinante, si fece immensamente ricco...

La marchesa crollò il capo.

— Eh! si sa che bei modi ci hanno questa brava gente.

[103] — Allora volle se désencanailler, passò nella magistratura, pervenne per non so qual cammino alla toga rossa da senatore, costituì un maggiorasco ed ottenne dal Re il titolo di conte.

La marchesa mandò un sospiro.

— Carlo Felice non ne faceva di queste.... Mi stupisce che il marchese R.... si sia lasciato éblouir dalle ricchezze di questo parvenu e gli dia la sua figliuola.

— Sicuro! Ella ha ragione, mamma. Il torto è nostro di accettare come di nostra razza questi intrusi della borghesia.

— Ah mon Dieu! esclamò la marchesa con tono di desolazione e di sdegno; de mon temps non succedeva così. Prima di quel fatale ventuno, quando tanti dei nostri hanno smarrito il senno, dopo tornati i nostri Principi, e la società si era riordinata sulle sue vere basi e dietro i buoni principii, la nobiltà non avrebbe lasciato se fourrer parmi elle il primo venuto, per la ragione che avesse dei denari. Fi donc!... Quanto a me, amerei meglio qualunque cosa che una mésalliance nella nostra famiglia; e se avessi una figliuola la vorrei monaca piuttosto che vederla degradarsi con un matrimonio indegno di lei e di noi... Non è questo pure il vostro avviso, marchese?

Questi, che pareva ascoltare siffatto discorso con una certa mala voglia, fece pur tuttavia un cenno affermativo colla testa, senza disserrare le labbra.

La madre di Ettore continuava ridrizzando con mossa ancora più orgogliosa la sua persona imponente:

— Ah! i Baldissero non sono tolleranti su questo argomento; il mio suocero sopratutto, il nobile mio suocero n'entendait pas raillerie su quel proposito lì; e la storia di vostra sorella Aurora, marchese...

Il marito la interruppe con una vivacità che non gli era abituale e con un'espressione di malcontento, qual egli raramente lasciava scorgere:

— Vi ho già pregata parecchie volte, marchesa, di non parlarmi di codesto mai più.

Successe un silenzio impaccioso: la marchesa prese un parafuoco sulla pietra del camino e si mise a giuocare con esso, in aspetto per metà corrucciato; Ettore seguitava ad avvolgere fra le dita il suo sigaretto; Virginia che aveva prestato a questo dialogo una sollecita attenzione, all'udire il nome di sua madre, alzò dalle pagine dell'album i suoi grandi, puri e limpidi occhi e li volse sulla zia dapprima, sullo zio di poi, curiosi, ansiosi, interrogativi, e quindi li chinò lentamente di bel nuovo sopra i dipinti di quell'album ch'ella guardava senza vedere.

Tacque ancor essa; ma una folla di pensieri le aveva invasa la mente. Pensò della propria sorte, pensò di quella di sua madre: capì a quel punto che fra quei due destini c'era una certa rassomiglianza. Con più forte impulso le venne alle labbra la domanda che già tante volte le era venuta instantemente e ch'ella avea ricacciata addietro pur sempre: — »Qual è questa storia di mia madre? Debbo conoscerla ancor io una volta!» Ma vide nel sembiante dello zio che quello era momento più inopportuno che mai, e represse le imprudenti parole. Per un istante non s'udì altro nel salotto che il fruscio dei fogli che la mano di Virginia voltava macchinalmente, e il rumore del parafuoco con cui la marchesa batteva dei piccoli colpi sul bracciuolo della sua poltrona.

Dopo un poco Virginia chiuse il suo album, si alzò ed attraversato lentamente il salotto ne uscì per ridursi nella sua camera. Aveva bisogno di esser sola affine di poter liberamente divisar seco stessa i tanti e sì varii suoi pensamenti. Non crediate già ch'ella disapprovasse le idee della zia e si attentasse pure a ribellarsi seco stessa contro la condanna così assolutamente data dalla marchesa di Baldissero, di ciò ch'ella chiamava una mésalliance; allevata in quel modo con cui si allevavano — e si allevano tuttavia — i figliuoli della nobiltà piemontese, ella, non ostante la superiorità della sua natura, non poteva a meno di attribuire ancor essa un valore di sostanza alla vanità delle distinzioni di casta; capiva che al suo matrimonio con un borghese la sua famiglia non avrebbe acconsentito, e non le dava torto, ed era così pronta a rassegnarsi, per quanto grande fosse il suo dolore, che, se anco per impossibile supposizione, i suoi l'avessero lasciata libera di fare a suo senno, ella non avrebbe osato stringer quel nodo. Il suo errore era stato di non aver pensato a ciò fin allora. L'amore l'aveva presa alla sprovveduta; o per dir più giusto l'amore l'aveva assalita con arma sì potente che quand'anche ella fosse stata in sull'avviso per opporgli subito, anche a tutta prima, l'insuperabile ostacolo di quella differenza di condizioni a cui non c'era rimedio, l'avrebbe vinta pur tuttavia. Uno sterminato, inesprimibile dolore la prese. Erale piombata addosso la certezza che l'amor suo non avrebbe corona di felice successo giammai! Pure non si propose tuttavia di combatterlo nel suo seno, di scancellarlo dal suo cuore; sentì che ciò era impossibile, lo credette anzi un delitto; si giurò di nasconderlo a tutti, ed a chi n'era l'oggetto il primo; ma sarebbe morta con quell'amore, con quel puro, quel santo, quell'unico amore nell'anima. Di lui ella non avrebbe potuto esser mai; e non sarebbe stata d'altri neppure. Le tornarono alla mente le parole della zia di poc'anzi, come una sua figlia piuttosto vorrebbe veder monaca che degradata in simil matrimonio; ebbene quella sarebbe la sua sorte: di nessun uomo a questo mondo; avrebbe ella seppellito nella pace di un chiostro il segreto del suo cuore.

Sua madre, pensava allora Virginia, aveva dovuto passare per le medesime angoscie, provare quei medesimi sentimenti. Ella si diceva che all'anima [104] di sua madre doveva rassomigliare l'anima che soffriva in lei: che perciò come la stessa fase recata dagli avvenimenti, quell'anima santa e venerata aveva dovuto avere le medesime risoluzioni. Ma pure Aurora di Baldissero aveva data la mano di poi ad uno della sua casta, ad un amico di suo fratello, il conte di Castelletto, che era stato padre di lei, Virginia. Oh certo non aveva ciò fatto Aurora di sua libera scelta. Virginia aveva abbastanza inteso del carattere fiero e violento, della volontà ferma ed incrollabile dell'avolo per poter arguire che la misera Aurora, anche con un altro amore nel seno, avesse dovuto sottostare al comando di suo padre che le imponeva quel maritaggio. Quanto la ne avesse sofferto, lo diceva alla figliuola il ricordo che serbava tuttavia di quella pallida, smunta, addolorata figura che aveva veduto curvarsi e piangere sopra la sua culla, glie l'affermava la morte immatura che all'infelice aveva recata forse l'incomportabile martirio.

Ma di sè, Virginia si affermava con risolutezza che nessuno l'avrebbe potuta forzare a tanto sacrifizio; ella non aveva più il padre che colla possa della sua autorità valesse a costringervela; chi quest'autorità verso di lei rappresentava era lo zio, il quale troppo era amorevole per volerla a forza piegare a cosa che a lei recasse l'infelicità di tutta la sua vita, al quale, se mai codesto volesse tentare, ella avrebbe pure avuto il diritto e si sentiva il coraggio di resistere.

Come per distrarre i suoi pensieri. Virginia andò a sedersi al suo gravicembalo, e le mani agili e delicate corsero rapidamente sui tasti. Cominciò ella per alcuni accordi gravi e pieni di mestizia; poi di mezzo a questi ecco sorgere una dolce, dolce melodia espressa con affetto infinito, la quale pareva gemere e palpitare soavemente sulle corde commosse; era il canto della romanza di Francesco, il Crepuscolo. Questa dolcezza di suono parve dare una maggior tenerezza all'emozione dell'anima della fanciulla. Le sembrò che per essa lo spirito di Francesco parlasse direttamente al suo spirito, e le parlasse dell'amor suo, di quell'amore ch'ella aveva letto negli sguardi del giovane, e glie ne parlasse non col volgare linguaggio dell'eloquio umano, ma con quello sovraterreno, eccelso, purissimo delle incorporee intelligenze. E in questo angelico linguaggio ella credeva sentirsi a dire: «Noi saremo su questa terra divisi; ma oltre questo soggiorno di prove e di miserie avremo una splendida vita immortale di luce e d'amore nell'eterno azzurro della beatitudine infinita. Colà, dove non disgiunge più le anime sorelle barriera nessuna di umane istituzioni, potremo liberi assembrarci e confonderci nella suprema gioia d'un palpito comune in un santo legame indissolubile.»

Un immenso desiderio di questo sognato avvenire, una potente aspirazione a quella splendida, vagheggiata meraviglia d'ideale prese l'anima della fanciulla innamorata; le sue mani quasi inavvertitamente dalla melodia della romanza di Francesco passarono ad esprimere con inarrivabil potenza di passione quella sì dolce nella sua mestizia, così piena di sentimento nel vago delle sue note, così palpitante nel suo ritmo d'ogni tenero affetto, la quale va conosciuta sotto il nome di Dernière pensée de Weber. Era quella composizione musicale una delle predilette di Virginia. In essa trovavano in parte espressione e sfogo i tanti, indefiniti, inesprimibili a parole, complessi affetti e sentimenti dell'anima sua; per essa si elevavano al mondo superiore, al regno dell'ideale, al cielo, più dolci, più illuminate da un raggio di speranza, più consolate direi quasi le aspirazioni del suo cuore.

Ella ripetè parecchie volte al suo spirito la carezza di quelle melodiche frasi; e le parve che ne venisse circondata come da un più tepido ambiente soavissimo. La tenerezza dell'anima le inumidì un istante le ciglia; mentre sotto le sue dita che si muovevano ora lente, quasi stanche, moriva la melodia come un'eco lontana che si estingue con ultime leggere vibrazioni nell'aria, due lagrime le colavano giù silenziose per le belle guancie; ma due lagrime sole! Aveva ella troppo nobile orgoglio per concedersi, anche in faccia a sè stessa solamente, la debolezza del pianto: si asciugò bruscamente il viso, s'alzò risoluta, e colla sua faccia calma e serena tornò nel salotto. Nessuno avrebbe potuto indovinare in lei la crisi a cui era stata in preda l'anima sua.

Il contegno di Virginia verso Francesco non mutò dopo questo in nessun modo: la stessa graziosa urbanità che dinotava la stima, che non escludeva la simpatia, ma che non lasciava sperare, fuorchè forse ad un fatuo impertinente, nessun più prezioso sentimento. Ma talvolta, pur tuttavia, tradivano il segreto della ragazza gli sguardi suoi. Ella bene si riprometteva, quando avesse da incontrarsi in Francesco, di non fare a lui più attenzione che alla massa degl'indifferenti il meno del mondo: ma lo era questa una promessa più facile a farsi che a mantenersi. Per un misterioso istinto, di cui non si meraviglieranno tutti quelli che hanno amato, ella presentiva fin dapprima, dove, come e quando egli sarebbe comparso agli occhi suoi; e non vi stupirò di certo dicendovi che con assai più svogliatezza Virginia si recava in que' luoghi dove sapeva ch'egli non si sarebbe trovato. Non di rado ella aveva voluto mancare a quelle concorrenze dov'era certa che Francesco interverrebbe, ma pure non glie ne era bastata la forza. Perchè negarsi il solo bene che dall'amor suo potesse attingere: quello di vederlo? Di questo poco bene aveva bisogno l'anima sua. Tanto e tanto l'immagine di lui stava senza cessa presente al suo pensiero: e quella veduta immaginaria ne accresceva il desio come inasprisce la sete all'assetato il pensiero delle limpide sorgenti [105] a cui non può accostare le labbra. Entrando in un luogo qualunque, ella sentiva tosto s'egli vi era o no, e se sì in qual punto preciso si trovasse; quando sopraggiungeva, senza volgersi a guardare, ella lo avvertiva, e tosto che gli azzurri occhi di Francesco erano fissati su di lei, Virginia sentiva penetrare in sè il loro sguardo come un caldo raggio. Allora non sempre poteva ella resistere all'intimo impulso del cuore; conveniva che di mezzo alle lunghe finissime ciglia, anche i suoi occhi saettassero a quella volta uno sguardo: le loro occhiate s'incontravano come due correnti elettriche e suscitavano un scintillio che vagamente illuminava di gioia e di amore i lor giovanili sembianti: era un ratto momento, ma era un momento di supremo diletto che arrestava il palpito del loro cuore, che sospendeva nel loro petto il respiro, che apriva alla loro mente con un fugace sbarbaglio tutto un paradiso di tenerezze ineffabili.

Dove si vedevano più sovente i due giovani si era al teatro; colà stesso dove il povero Maurilio accorreva per ammirare, nascosto umilmente dietro un pilastro del loggione, ignorato e palpitante, la divina bellezza di quella nobile ragazza, colà Virginia e Francesco scambiavano sguardi che erano nuovi e carissimi nodi al legame che avvinceva le anime loro. Egli sedeva abitualmente in una poltrona riservata di platea, e i suoi sguardi non avevano attenzione allo spettacolo della scena, nè al resto degli spettatori, ma soltanto per quel palchetto, dove appariva così modestamente sicura, così mite nella sua superba dignità, così leggiadra nel buon gusto del suo abbigliamento la giovane madamigella di Castelletto, alla quale Francesco volgeva, con quella frequenza che la convenienza permettesse, il suo omaggio di ammirazione, colle lucide lenti del suo cannocchiale. Quelle sere ambedue, partendosi dal teatro dove nella musica avevano sentito quasi confondersi gli spiriti loro, portavano seco un tesoro di segreti, inesprimibili affetti onde fatta era beata l'anima amante.

Povero Maurilio! Anch'egli, il più delle volte, in quelle sere medesime, rubandone i mezzi al suo scarso alimento, aveva comperato colla polizza d'entrata al loggione, il diritto di palpitare contemplando le belle sembianze della fanciulla adorata; anch'egli, quando il canto dell'opera fremeva in una melodia d'amore, e sopra il susurrio degli spettatori disattenti e chiacchieranti mandava sino a lui un'onda di passione, anch'egli sentiva tutto l'esser suo volare, precipitarsi con impeto ardentissimo, con tutta la forza d'una potentissima attrazione, verso l'anima di quella creatura di sublime bellezza, e volerla circondare in un abbraccio ideale del caldo effluvio dell'infuocato amor suo: di quell'amore, di cui ella ignorava ed avrebbe ignorato pur sempre fin l'esistenza!

Nel ballo in casa la sua amica la baronessa X, Virginia sapeva che avrebbe incontrato Francesco, e ciò desiderava ella quella sera più ch'ogni altra volta, perchè nella generosa bontà e giustizia dell'anima sua sentiva tutta, la gravità del torto che verso il giovane avvocato aveva il cugino Ettore, e parevale essere suo dovere eziandio di compensare alquanto l'oltraggiato con alcun suo maggior riguardo, con una parola più benevola, non fosse che con un atto, e perchè, inoltre, dopo ciò che era intravvenuto quel giorno, dopo i pericoli corsi dal giovane e le segrete ansietà ch'ella ne aveva provate, il bisogno di vederlo erasi nell'innamorata fanciulla notevolmente accresciuto.

Quando Virginia entrò nelle sale eleganti della baronessa e la sua beltà ci venne accolta dalla stipata folla degli invitati col più lusinghiero mormorio d'ammirazione, benchè il suo volto non esprimesse che la solita calma dignità ond'era per nuovo pregio adorna la sua tanta avvenenza, il cuore pur tuttavia le batteva più concitato. Quel presentimento ond'io parlai, le annunziava che quella sera sarebbe stata un avvenimento importantissimo nella storia dell'amor suo, e, senza saper menomamente quale, ella era persuasa che fra lei e Francesco qualche vicenda aveva da succedere, di cui gravi gli effetti nella loro sorte avvenire. Quel che decidesse il destino ella non voleva affrettare camminandogli incontro, ma non pensava neppure dovere sfuggire; aspettava gli eventi con animo franco, sicuro, valorosamente disposto alla sincerità come alla forza di adempir tutto ciò che credeva dover suo.

La prima persona ch'ella vide nel gran salone, in quel gran chiarore abbagliante che piovevano le mille facelle delle lumiere, fu la bella figura di Francesco Benda. Discorreva egli colla padrona di casa in una rispettosa famigliarità: il suo contegno era modesto con una sicurezza piena di cortesia, indizio d'un valor personale che non si ostenta, ma si conosce; quale si addice a chi non ha la superbia d'essere superiore altrui, ma sa che non è inferiore per animo a nessuno; egli portava con disinvolta semplicità il peso dell'avventura della giornata di cui era stato l'eroe, ed affrontava senza sfida come senza debolezza la curiosità susurrona della gente; si presentava coll'aspetto d'un uomo che in ogni caso voleva ed avrebbe saputo farsi rispettare.

Come Virginia tostamente vide lui, ed egli, al primo entrare della fanciulla, sentì la sua presenza e volse gli occhi a quella parte dove nello sfoggio meraviglioso della sua bellezza, ella si avanzava, come Dea dell'Olimpo circondata da un'aureola di luce. Non fu egli tanto padrone di sè che un leggier sussulto non gli scuotesse le membra, e un subito rossore non gli corresse alle guancie: ma chi ebbe a notare codesto potè supporre ne fosse cagione in lui la vista del suo nemico, il marchesino [106] Ettore, il quale insieme col padre, colla madre e colla cugina si avanzava a quella volta, un sorriso un po' forzato sulle labbra, un'ironia contenuta nello sguardo.

La baronessa X, appena ebbe veduto fa famiglia di Baldissero, lasciò lì Francesco e le mosse all'incontro colle mostre della maggiore affettuosità.

CAPITOLO XVI.

Il marchese padre aveva ordinato, ed alla sua autorità paterna egli sapeva ottenere e conveniva dare obbedienza. Sua moglie e suo figlio avevano tentato invano le prove d'una opposizione: avevano dovuto acconsentire a che nella festa da ballo di quella sera il marchese si facesse presentare il giovane insultato da Ettore e glie ne desse col suo modo di trattarlo una riparazione, mentre Ettore medesimo avrebbe pronunciate alcune parole che, senza farlo esplicitamente, avrebbero contenuta una implicita ritrattazione, un rammarico di ciò ch'era successo. Codesto pareva al giovane marchese assai grave, troppo grave per lui, e mentre si sentiva costretto a curvarsi al comando del padre, dentro sè ne accresceva l'astiosa animosità contro Francesco e si riprometteva di ripagarsene su di lui alla prima occasione, e se quest'occasione avesse tardato, era egli ben risoluto a farla nascere quanto prima.

La marchesa da canto suo aveva protestato ed era decisa che nulla mai l'avrebbe indotta a dire una parola, a far pure un atto che potesse parere un abbassarsi verso quel borghesuccio che a suo senno aveva tutti i torti e che era una debolezza imperdonabile non trattare, come si meritava, con quel disprezzo che solo conveniva a questa razza di gente.

Nel vedere avanzarsi verso di lui quel gruppo di persone, fra cui la faccia ironica del suo nemico, Francesco, lasciato solo colà dove si trovava dalla baronessa, la quale era mossa di alcuni passi incontro ai nuovi arrivanti, si era ridrizzato di meglio della persona, aveva sollevato la sua fronte sincera e sicura ed aveva rivolta la faccia aperta e risoluta senza mostre di millanteria verso il marchesino, come per significare ch'egli era là pronto a qualsiasi evento, e che l'avrebbero trovato qual si sarebbe voluto, o accondiscendente ad una degna conciliazione, o fermo avversario deciso a rivendicare l'onor suo; ma i suoi occhi come potevano resistere alla malìa che li attraeva con tanta forza sui leggiadri lineamenti dell'amata fanciulla? Francesco, egli pure, da parte sua, aveva intima coscienza che infiniti ostacoli, quasi insuperabili, si opponevano al felice successo dell'amor suo; ma pure nell'audacia della sua giovinezza, nell'impeto della sua passione gli pareva sentire una forza a tutto superiore, tale che potrebbe e dovrebbe ogni difficoltà anche gravissima, vincere e soprammontare. Egli non ragionava più; amava ed avea bisogno di vedere l'oggetto amato: tutto il resto del mondo non riteneva più per lui che un interesse ed un valor secondario, subordinato e dipendente da quel primo, immenso, unico affetto suo. Il sublime, temerario, folle egoismo dell'amore, non gli lasciava scorger più nell'universo che la donna adorata e sè adorante, e gl'intimi trasporti dell'animo suo, e le sragionate speranze del suo cuore. Sperava. Che cosa? Non sapeva precisamente; ma un tanto amore, gli pareva un'impossibilità, una cosa assurda nella natura che avesse ad urtarsi contro un fato inesorabile. Era una forza cotanta, a suo senno, che doveva trionfare; aspettava dalla Provvidenza anche un miracolo per quest'effetto, ed anche a prezzo di non so qual cataclisma la natura e il Cielo avevano il debito di riunire quei due esseri, secondo il suo ambizioso platonismo, destinati ab eterno alla sublime immedesimazione dell'amore.

Il patrio affetto cui in esso avevano suscitato la virtù dell'indole e la generosità degl'istinti, avevano nutrito la buona direzione degli studi, la domestica frequenza con amici ardenti di patriottismo; il patrio affetto era dominato anch'esso dalla prepotente passione; aveva dato il nome all'arrischiata congiura a cui partecipavano gli amici suoi, senza più rendersi conto ben esatto della gravità della cosa, senza preciso desiderio e cognizione dello scopo, dicendosi in segreto, come ragione la più impellente, che la rivoluzione politica sarebbe stata a lui un ausiliario potentissimo per abbattere quelle barbarie contro cui si urtava nel suo slanciarsi verso la donna dell'amor suo. Mentre Mario Tiburzio traverso i disagi, i pericoli, le ansietà, i travagli d'ogni fatta della vita di congiurato, per mezzo il sangue e gli orrori d'una lotta disperatamente temeraria, proseguiva la sublime chimera d'una nuova patria libera e grande, d'una nuova Italia risorta a spander luce di civiltà e dare leggi di progresso pel mondo; mentre Romualdo e Selva, abbagliati ancor essi da questo sublime miraggio che l'emigrato romano faceva specchieggiare agli occhi della loro mente, lo seguivano animosamente senza alcuno interesse o proposito personale; mentre Gian-Luigi in un parossismo direi d'immensa ambiziosa cupidigia delle gioie del mondo voleva infrangere la società esistente per predarvi egli nello sfacelo onori, grandezze, fortune, primato; mentre Maurilio, più pensatore che uomo d'azione, sognava una graduale riforma che in maggior proporzione introducesse la giustizia nella distribuzione dei beni terreni e dei vantaggi sociali sì materiali che morali e intellettivi; Francesco Benda, egli, sarebbe camminato traverso le rovine e le fiamme del mondo intiero per arrivare al possesso di lei che amava.

Or dunque adesso ch'ella gli veniva innanzi nell'atmosfera [107] di luce, di suoni e di profumi che era la festa da ballo della baronessa, il giovane amante beando della celestiale vista di lei gli occhi desiosi, non potè di botto a nulla pensare più che quella angelica creatura non fosse. Ogni espressione di fierezza e disdegno dal volto suo sparì: gli occhi suoi, le labbra, il tremar delle palpebre, l'impallidir delle guancie, si fusero, per così dire, in una ineffabil tenerezza che era tutto un omaggio d'amore.

Uno sguardo di Virginia — un solo, ma che sguardo! — lo compensò ad un tratto di tutta la rabbia, di tutto il furore che lo aveva dovuto corrodere la notte precedente per l'insulto del marchesino, la giornata trascorsa per la prepotenza dell'arresto. Sotto l'influsso di quello sguardo sentì innanzi a sè stesso accrescersi il suo valore; gli parve di ingrandire e superare il livello comune di tutti quei blasonati e titolati scioccamente superbi che gli stavano attorno; quello sguardo di lei lo sollevava sino alla sfera superiore in cui essa era, indegni tutti gli altri di arrivarci.

Il marchese di Baldissero, scambiati i convenevoli colla padrona di casa, le disse di poi con quel tono di naturale distinzione, che era uno dei pregi del vecchio nobile:

— Costì, se non isbaglio, è l'avvocato Benda. Desidererei molto ch'egli mi fosse presentato; e se quel giovane non ci si rifiuta, vorrebb'Ella, baronessa, avere codesta compiacenza?

La baronessa acconsentì molto volonterosa e si accostò senza indugio a Francesco: in tutta la sala si fece un movimento d'attenzione vivissimo; le conversazioni furono sospese quasi di comun accordo, tutte le faccie si volsero a quel punto del salone dove si trovavano a pochi passi di distanza, in faccia l'un dell'altro, il marchesino di Baldissero presso suo padre e l'avvocato Benda, quasi isolato dal resto della gente. Tutti avevano compreso che essendo insieme colà quei due individui fra cui tanta ragione vi era di urto e di lotta, alcuna cosa avrebbe avuto luogo, ed ora argomentavano che questo qualche cosa sarebbe tosto intravvenuto. Uno spazio vuoto fu lasciato intorno ai personaggi di quella scena che stava per succedere, come campo alla loro azione; e il fruscio della veste della baronessa che camminava verso Francesco, fu il solo rumore che in quel momento si udisse in quella sala.

La padrona di casa parlò a mezza voce, ma nel silenzio che s'era fatto le sue parole furono udite da tutti.

— Signor avvocato, diss'ella a Francesco, voglio presentarla a S. E. il marchese di Baldissero.

Francesco s'inchinò leggermente. Il cuore gli batteva un pochino; ma nello sguardo di Virginia aveva egli attinto tutta la sicurezza onde aveva bisogno in quell'istante sotto i numerosi, poco a lui simpatici sguardi di tutti quei superbi spettatori di tal scena.

— È un onore per me: rispos'egli con una freddezza non ostile ma spiccata ed un dignitoso riserbo: e ne la ringrazio vivamente.

La baronessa si trasse un pochino da parte per iscoprire al giovane la vista del marchese, e fece un atto, come ad invitare Francesco ad avanzarsi. Fra il giovane borghese e il vecchio nobile era la distanza di sei passi; ma quel piccolo spazio vuoto in mezzo alla folla era in tal momento come un'arena in cui venissero a cimentarsi con armi cortesi i rappresentanti di due classi, di due principii avversarii. Benda ebbe il fugace sentimento di codesta condizione di cose, e pensò rattamente, che in quel punto non era solamente l'onor suo e il suo decoro cui si trattava di sostenere, ma quelli della sua classe, del partito liberale a cui apparteneva. Sviò lo sguardo dalla bellezza di Virginia, s'impose di non vederla più per quel momento, e fissò i suoi sereni e limpidi occhi azzurri sulla nobile faccia del marchese.

Questi aveva sulle labbra una lieve mossa che non era un sorriso, ma vi si accostava e produceva l'effetto d'una preveniente gentilezza, aveva nel contegno un'aspettazione che era un incoraggiamento; la marchesa, ella, si era volta in là con un'evidente ostentazione, ed affettava volgere lo sguardo traverso le lenti dell'occhialino che teneva in mano con un'impertinenza supremamente elegante e la sua attenzione a tutt'altro oggetto; il marchesino Ettore stava di un passo più indietro di suo padre, e la contrarietà e il contrasto ch'ei provava nel suo interno tra il dispetto e la soggezione al comando paterno si traducevano nella non dissimulata ironia del suo sogghigno a fior di labbra; Virginia coraggiosamente guardava a fronte levata Francesco.

Il giovane capì che a lui, per molte ragioni, e non ce ne fosse stata altra, per quella dell'età, toccava avanzarsi verso il marchese. Si mosse lentamente; gli parve a quel punto che i suoi piedi fossero di piombo, cotanto aderivano al pavimento e ci aveva fatica a staccarneli; fece tre passi e s'inchinò di nuovo innanzi all'imponente figura del vecchio ministro di Stato.

— Signor marchese, disse la baronessa in mezzo al silenzio universale, accennando a Francesco, le presento l'avvocato Benda.

Poscia, come per ammonire indirettamente i suoi invitati che era un'offesa alla voluta discretezza il prestare così curiosa attenzione a quella scena, la padrona di casa si rivolse alla moglie del marchese che ostentava appunto una disdegnosa noncuranza, e si mise a parlare con essa di quelle cose indifferenti di cui si può parlare fra due signore ad un ballo. Ma l'esempio di queste due donne non fu imitato da nessuno; e il dialogo che successe fra [108] il padre di Ettore e il figliuolo del fabbricante di ferro ebbe luogo in mezzo alle labbra mute ed alle orecchie tese di tutti gli altri.

Il marchese di Baldissero all'inchinevole saluto di Francesco aveva risposto con un cenno del capo lieve sì, ma pieno pur tuttavia di gentilezza cortese nella sua dignità; dopo i detti della baronessa, col tono ordinario di voce d'una conversazione amichevole, di cui si lascia che chicchessia oda le parole, diss'egli a sua volta:

— Sono io che ho desiderato conoscerla, avvocato. Ella già conosceva mia moglie e mia nipote; quest'oggi stesso ebbi io il vantaggio di fare la conoscenza di suo padre; conveniva bene che anche fra noi intravvenisse un'attinenza che voglio sperare, a dispetto di certo spiacevole incidente, ch'io sono primo a rimpiangere, possa divenire amichevole.

La dignitosa imponenza con cui queste parole erano dette, l'accento benevolo benchè improntato d'una certa superiorità che pareva così naturale da non far venir manco in capo il pensiero d'inalberarcisi, la nobile e bella fisionomia di quel vecchio, l'autorità del grado medesima fecero effetto sull'animo di Francesco. Egli fu preso dalle squisite maniere di quel vero gentiluomo; sentì la sua ostilità fondersi per così dire innanzi a quella veneranda figura che con inaspettata generosità di procedere veniva primo a tentare, quasi a domandare al suo orgoglio offeso una conciliazione; la stessa fugace allusione a ciò che era successo fra lui e il marchesino gli parve accennata con tanto tatto e con tanta delicatezza che il suo amor proprio ci si trovava risparmiato del tutto. Le cose medesime, secondo le disposizioni dell'animo nostro, possono fare a volta a volta la più diversa impressione. Lungo tutto il giorno lo sdegno che durava del ricevuto oltraggio, che anzi erasi inasprito della rabbia per la sofferta cattura e prigionia, aveva tenuto l'animo di Francesco in una irritazione per cui egli pareva sarebbe stato più acconcio a respingere che ad accettar per buono ogni passo di conciliazione fatto da parte dei suoi avversari, ma poscia la tenerezza medesima provata dal suo cuore nel riabbracciare i suoi cari e nel vederli così felici di riabbracciarlo aveva incominciato a mitigare alquanto l'eccitamento sdegnoso del suo animo; non era rimasta senza effetto la narrazione che gli aveva fatto suo padre del come il marchese lo avesse accolto, del come premurosamente si fosse in beneficio loro adoperato; maggior effetto gli aveva prodotto il sapere dalla sorella le inquietudini e i benigni diportamenti di Virginia a riguardo di lui; effetto anche maggiore gli veniva facendo, a seconda che il giorno avanzava, il pensiero che fra poche ore egli avrebbe avuto il supremo bene di vederla. Ora, in presenza del vecchio gentiluomo, oltre l'influsso dalla dignitosa nobiltà di quest'esso esercitato, Francesco sentiva altresì quello efficacissimo degli sguardi della celeste creatura che pareva colà raggiare nella sua bellezza la mite luce che fa corona all'angelo del perdono. Per tutte codeste ragioni le parole del marchese a Francesco, che in quel momento non vedeva il sogghigno contratto di Ettore, tornarono come le più generose, le più cordiali, le più riparatrici ch'egli potesse desiderare. S'inchinò più profondamente di quanto non avesse fatto per l'innanzi e rispose con voce non esente da emozione:

— La ringrazio, signor marchese, di questo fatto e di queste parole; la ringrazio eziandio dell'essersi adoperato per me affine di restituirmi così tosto alla mia famiglia, e di ciò la ringrazio più vivamente per mio padre e per mia madre a cui l'essere privi del figliuolo è un incomportabile dolore.

Il padre di Ettore lo interruppe con un vero sorriso di benevolenza:

— Non mi ringrazi tanto chè non ho fatto fuor di ciò che mi pareva dover fare..... Ma lasciamo stare tutto ciò che è passato. Desidero... (fece una piccola pausa e poi soggiunse con inesprimibile seduzione di accento) e la prego anche Lei a voler fare che questo rincrescevole passato sia come se non avesse avuto luogo. Mio figlio è animato dai miei medesimi sentimenti, e spero che quando ci saremo stretta la destra, come uomini che sono degni di stimarsi a vicenda, non ci saranno più qui che dei conoscenti..... (parve esitare un momentino e poi finì colla parola che sembrava aver trovato dapprima un intoppo sulle sue labbra) degli amici.

E così detto porse egli la mano al giovane avvocato che la prese con rispettosa deferenza. Il marchese allora si volse a suo figlio con uno sguardo che era un invito e insieme un comando. Ettore, le labbra serrate, appena se dissimulato quel suo maligno sorriso, si avanzò d'un passo e toccò colla punta delle dita quelle del suo rivale. I due giovani non iscambiarono una parola, fecero un piccolo e secco cenno del capo, e gli occhi loro si rimandarono uno sguardo tutt'altro che benevolo. Esso diceva chiaramente che fra essi tutto non era finito.

Virginia vide questo sguardo, prese pel braccio suo cugino e lo trasse con sè in altra stanza; il marchese con un ultimo saluto aveva dato congedo a Francesco e si era volto a parlare con altri; la marchesa aveva affettato sempre di non prestare la menoma attenzione a quanto era successo ed aveva schivato d'incontrare co' suoi gli sguardi del giovane perchè egli non avesse da salutarla.

Francesco seguitò con uno sguardo desioso lo splendore della beltà di Virginia che si allontanava; e quando essa fu tolta alla sua vista, gli parve che a dispetto dell'abbagliante luce di quell'atmosfera, nell'animo suo si facessero le tenebre: il suono dell'allegra musica, il susurro delle conversazioni [109] che avevano ripreso più animate dopo l'avvenuto incidente, il confuso rumore della festa gli erano fastidiosi quanto mai. Provava un tal complesso di sentimenti diversi e pugnaci, che un imperioso bisogno glie ne venne d'esser solo a seco stesso divisarli. Passò assorto in se stesso in mezzo al poco benigno riserbo degli uomini titolati che lo consideravan colà dentro un intruso e che parlavano senza troppa simpatia di lui e della scena avvenuta; passò indifferente ai più benigni sguardi del sesso gentile, presso cui patrocinavano eloquentemente in favore del giovane la non comune di lui bellezza, l'eleganza e l'abilità di danzatore. Attraversò le sale in cui si ballava, passò quelle da giuoco e di lettura, andò fino al fondo di quel vasto e signorile appartamento a ripararsi in un gabinetto affatto riposto, dove per sua fortuna non c'era anima viva.

Seguiamolo colà. Nella folla della festa durano tuttavia i parlari e i commenti sul fatto testè avvenuto e sulla persona del giovane borghese; e questi commenti non sono ispirati dalla maggior simpatia per lui. Trovano i più che il marchese di Baldissero è stato fin troppo generoso, ha avuto un'abbondanza soverchia di bontà e di condiscendenza per quel da nulla di cui non occorreva darsi altro pensiero: se non si fosse trattato d'un uomo di tanta autorità quale il marchese, ne avrebbero addirittura condannato il procedere, come una debolezza. Ma questi discorsi vanno via via perdendosi, come si perde un suono in mezzo a mille altri suoni, ancorchè per un momento abbia dominato sugli altri; e fra un quarto d'ora di codesto incidente non si parlerà più.

Non così presto invece ha da cessare l'incomposto, indefinito tumulto nell'animo di Francesco.

Quel gabinetto in cui s'è ridotto, è per le interposte stanze così segregato dal vivo della festa, che il rumore di questa appena vi giunge con qualche ondata più sonora dei ripieni dell'orchestra, come un'eco lontana. Qui si par passati in altro mondo, tanto diverso è l'ambiente; appetto all'abbagliante luce delle sale, il mite chiarore della lampada che pende dal soffitto travelata in un cestellino di fiori sembra un'oscurità; dopo l'afa, il frastuono e l'agitazione del luogo dove ferve le danza, qua vi par di trovare una fresca atmosfera, il silenzio e quasi la pace della solitudine. Francesco si buttò a sedere sopra un sofà ed appoggiando allo schienale il suo capo confuso, chiuse gli occhi e stette lì immobile, come se volesse assorbire e far penetrare in sè, a calmare l'interna agitazione dei pensieri e degli affetti, quella tranquillità onde qui era circondato.

Come gli aveva sorriso il potente zio di Virginia! Come gli aveva stretta la mano! Nel discorso di lui non c'erano soltanto parole, c'era la verità di un sentimento pieno di simpatia. Quella mano che gli era stata pôrta non poteva ella tirarlo su fino al livello di Virginia? Sì che poteva, purchè volesse. E perchè non avrebbe voluto? Egli avrebbe fatto di guisa che la stima e la benevolenza mostrategli dal marchese avrebbero dovuto radicarsi più profonde in lui e crescere più vigorose. Forza gliene avrebbe data e merito la immensità dell'amor suo. Gli venne a sorridere più abbacinante che mai la follia d'una speranza. Ma in mezzo alle vaghe immagini compiacentemente accarezzate dalla fantasia venne a far capolino più precisa di tutte la pallida, ostile figura di Ettore. Qui era l'ostacolo. Ebbene che importa? Francesco si sentiva tanto vigore da passarvi sopra, e delle folate di rabbia contro quel suo nemico venivano a suscitargli tratto tratto una smania di cimentarsi con esso e schiacciarlo. Ma predominavano gl'impulsi della tenerezza e dell'affetto. Lungo tempo e' cullò la sua fantasia colle più dolci visioni di un impossibile romanzo. Superiore ad ogni altro sentimento in lui traboccava l'amore non manifestato mai che cogli sguardi, non confidato ancora mai. Aveva bisogno di un'espansione: aprì gli occhi e vide in un angolo un pianoforte aperto, i cui tasti parevano fargli invito; si alzò dal sofà e venne a porsi sul sediolo innanzi alla tastiera.

Avvenne allora a lui quello che non molto tempo prima abbiamo visto essere avvenuto a Virginia sola nella sua stanza colla mente occupata dai più varii e combattuti pensieri: le sue mani cominciarono a correre sull'avorio de' tasti non guidate da un'idea, non mosse da una volontà precisa, ma frementi di contenuta passione, e suoni rotti ed incerti, accordi tormentati urtantisi in toni diversi sorsero, s'incrociarono, si susseguirono, si confusero insieme sotto le agili dita. Pareva che l'interno sentimento andasse cercando in mezzo a quel turbinio di note la sua giusta espressione, che suscitasse un caos di frasi armoniche affine di sceverarne poi per entro la creazione della melodia che gli convenisse; oppure che la soverchia foga delle idee molteplici che s'aggruppavano e si spingevano nella mente del suonatore impedisse l'uscita ad un concetto chiaro e preciso. Ma poscia questo tumulto venne via via calmandosi; nel caos cominciò ad informarsi, e spiccare la individualità della melodia, e questa, rivelandosi più e più ad ogni misura, apparve una mesta, tenera, soave che noi avremmo potuto riconoscere, quella medesima che si era sollevata come un conforto, come una rassegnazione, come un inno d'amore insieme, come una speranza eziandio dal pianoforte di Virginia: la dernière pensée de Weber.

Meraviglioso accordo di quelle due anime ad un medesimo affetto temperate! Di ambedue era la prediletta la dolcezza di quella melanconica melodia; per ambidue era essa la voce misteriosa e il simbolico linguaggio onde potevan dare espressione e sfogo al vago e sublime trasporto di interni indefinibili affetti, cui per tradurre e far manifesti è troppo grossolana la forma della nostra parola.

[110] Francesco suonò sommessamente, per sè solo, ma con un'anima, con una efficacia, con una ispirazione, quali forse non aveva potuto aver mai. Ci mise, in quei suoni, tutto di sè: i tumulti del suo cuore, le dolcezze delle sue fantasticaggini, il fascino delle lusinghiere speranze. Sotto le sue mani le note palpitavano, fremevano, avevano la risuonanza della voce umana, erano sature di passione, componevano nel loro complesso una individualità, che, senza forme precise, pur si sarebbe fatta avvertire all'animo di chi ascoltasse, colla ineffabile simpatia d'un'accolta stupenda di sublimi sensi. Colle medesime note, secondo l'accento, quella melodia scambiava a volta a volta significazione ed effetti: era un soave inno d'amore, la eterna canzone della giovinezza eternamente rinnovantesi nel fecondo universo; era una preghiera, un trasporto, un'aspirazione al mondo superiore dello spirito, un salmo d'adorazione, un cantico di gioia purissima e grave, un indovinamento, una speranza d'un lucente mondo avvenire; era tutto quello che può concepire, immaginare, presentire di più sublime, la più nobile parte dell'intelletto umano.

Oh come in quell'istante il cuore amoroso del giovane si fondeva nella grandezza del suo affetto! Tutto si sentiva invasato dal nume. La sua ispirazione, il suo genio era amore. Chiusi gli occhi, egli vedeva starglisi dinanzi splendida, sorridente, pietosa, partecipante del divino trasporto della sua emozione, egli vedeva lei, Virginia, la donna dell'amor suo, dell'amore intimo, supremo, invariabile della sua vita; e intorno a lei, a quella pura bellezza, a quel capo di sì sublime aureola cinto, come altrettanti amorini facentile omaggio, come tutti i sospiri e i pensieri di lui che avessero preso corpo in luminose faville, danzavano le note della melodia sempre più dolce, sempre più commossa.

Era un'intima esaltazione di tutto l'esser suo nell'incomparabile affetto; mai non aveva egli amato cotanto, mai non aveva sentita in sè talmente la potenza dell'amor suo. Foss'ella stata presente, gli pareva che avrebbe avuto l'audacia di avvolgerla colle sue braccia; no, di caderle ai piedi, e dirle: «T'amo più che la vita dell'anima mia.» Il suo spirito nell'ineffabile trasporto avrebbe avuto l'autorità e la possa di afferrare con appassionato amplesso lo spirito di lei e trarlo seco per lieto consenso nell'Eden inesprimibile degli amorosi sogni, del completo abbandono di due anime in una tenerezza. La sua mente eccitata gli sembrò potesse dare all'intenso desiderio la forza di evocare viva e reale quell'angelica creatura, di cui nella fantasia i chiusi occhi suoi vedevano la immagine adorata. Tutte le potenze del suo animo si concentrarono nella tensione di uno sforzo di volontà che fu doloroso come l'angoscia del punto che precede la morte; il cuore sembrò presso a scoppiare, il cervello fu corso da pungenti fitte come se ferite da spille roventi, le tempia gli tenzonarono, provò una soffocazione, una scossa universale, un tremito in tutto l'essere. Una voce interna gli gridò: «Essa è qua.» Aprì gli occhi, balzò in sussulto, mandò un'esclamazione soffocata: una suprema gioia balenò dai suoi occhi. Il sortilegio della immensa passione aveva ottenuto il suo effetto miracoloso: l'evocazione era riuscita: gli stava dinanzi la divina fanciulla di cui l'immagine aveva egli fino allora vagheggiata nel suo cervello.

Virginia, come abbiam visto, aveva preso pel braccio suo cugino e condottolo seco in altra sala da quella in cui aveva avuto luogo l'abboccamento fra i Baldissero e Francesco; ella aveva capito che la cosa più urgente da farsi era togliere di presenza l'uno dell'altro i due avversarii, perchè troppo era facile che il menomo buffo d'un'occasione, fors'anco cercata, facesse levar la fiamma dell'ira mal sopita in Ettore, e probabilmente in tuttedue. La fanciulla capì eziandio che a lei non toccava parlar più in nessun modo di quello che era intravvenuto, e pure era suo vivo desiderio e suo scopo chiarirsi delle disposizioni d'animo del cugino ed esercitare ogni suo possibile influsso su di lui per dissuaderlo da violenti partiti.

— Vuoi tu che danziamo questa contraddanza per cui già le coppie si mettono a posto? domandò Ettore.

— Danziamola pure: rispose Virginia che pareva cercare un'ispirazione contemplando il mazzolino di fiori tenuto dalla sua piccola mano.

Presero posto nel salone ed aspettarono che la musica desse loro cenno e misura alla danza. Ettore faceva scorrere il suo sguardo armato dell'occhialetto inforcato sul naso sulle beltà più o meno artifiziate delle dame presenti: Virginia continuava a mirare le viole mammole e le camelie bianche del suo mazzo; non sapevano che cosa dirsi e pareva che ciascuno cercasse un argomento di discorso che non potesse trovare.

Fu Ettore che ruppe il silenzio.

— Guarda che faccia preoccupata ed inquieta è quella della Staffarda: diss'egli inchinandosi innanzi alla sua compagna nella classica riverenza che incomincia ogni contraddanza; è quello un volto da portare ad una festa da ballo?

Si volse dall'altra parte a ripetere l'inchino alla dama che aveva alla sua sinistra.

— Povera Candida! disse Virginia, quand'ebbe fatto a sua volta le usuali riverenze: e' pare che abbia di molti dispiaceri.

— Bah! non compatirla, Virginia, ch'ella non merita cotanto beneficio qual'è la tua pietà.

— Perchè? domandò la fanciulla.

La legge inesorabile della danza li obbligò ad interrompere il colloquio per un avant-deux che fu seguito da una demi-chaine, da una demi-queue de chat e che so io. Quando ritornarono al loro posto ed ebbero innanzi a sè alcune battute di riposo, [111] Ettore, a cui pareva tornasse eziandio il non lasciar cascare senza risposta il perchè di sua cugina, riprese:

— Perchè la Staffarda non merita la tua compassione? Perchè ha tutti i torti, e se paga il fio di tormenti parecchi, la non ne deve accagionare che un suo indegno ed ignobile attaccamento. Suo marito la rovina, gli è vero: ma il suo amante, oltre che rovinarla ancor egli, se son vere le voci che corrono, la disonora.

Virginia fissò in volto a suo cugino un superbo sguardo di virtù, di franchezza, di elevata espressione di sentimento.

— Certo, avere un amante è una colpa che dovrebbe sempre far disonore ad una donna maritata; ma nel mondo chi ha il diritto di lanciare la prima pietra a questa colpevole?

Ettore scosse la testa e fece un sorriso che significava:

— Eh via! non gli è codesto.

Ma non potè rispondere altrimenti perchè un bouquet-de-dames venne a portargli via la sua compagna. Quando, terminata la figura, Virginia fu restituita al suo fianco per un altro intervallo di riposo, il marchesino ripigliò a dire:

— Oh il mondo, mia cara, non è così severamente puritano come tu mostri di credere. Conoscono tutti troppo bene la parabola per pensare a lanciare sopra una donna che si diverte il menomo sassolino. Ma vi è façon e façon. Si capisce una passione, si perdona un capriccio, ma fra uguali; non si può trattenere la riprovazione innanzi ad un degradarsi.

La fanciulla rimbeccò allora con vivacità:

— La colpa adunque, secondo voi altri, non consiste nel fatto medesimo, sibbene in una circostanza accessoria. Poco monta il far male, purchè si scelga a dovere il complice di questo male....

— Codesto non è niente affatto un accessorio, mia cara. La scelta che una donna fa del suo amante è una rivelazione del suo gusto e della sua natura. Accordando il suo cuore ad un uomo di bassa estrazione, ella manifesta pur troppo un animo attemperato a quella misura.

Così dicendo, il marchesino pesava sulle parole, senz'alcuna affettazione però, e il suo sguardo piombava diretto e fisso sulla cugina; questa ne provò dapprima una specie di turbamento che minacciò mandarle alle guancie un rossore accusatore; ma la purezza e la nobiltà del suo affetto, la coscienza della dignità del medesimo vinsero sollecitamente quella prima impressione; sollevò essa la fronte sicura e rispose allo sguardo di Ettore con un suo limpido, sereno, tranquillo. I due cugini, traverso il colloquio in apparenza indifferente, erano venuti sopra un ardente terreno e sotto colore dell'avventura di Candida trattavano e discutevano di cosa che più direttamente e più da vicino li riguardava.

— Hai ragione: disse Virginia con semplicità e con calma, non senza però un certo calore contenuto nell'accento. Un indegno affetto rivela un animo poco degno; ma non solamente il sangue nobilita una persona, sibbene la virtù e l'ingegno eziandio.

Ettore guardò stupito sua cugina dalla cui bocca usciva codesta che a lui pareva eresia democratica.

— Margherita di Scozia, soggiuns'ella in fretta come per porre la sua proposizione sotto la difesa d'un esempio principesco, baciò Alano Chartier perchè da quella bocca uscivano sì bei versi.

— Ed è tradizione, soggiunse con ironia, ma cortesissima, il marchesino, che Eleonora d'Este riamasse quel va-nu-pieds di Torquato Tasso; ma il duca di lei fratello ha fatto benissimo a rinchiudere il poeta nelle carceri e mandarlo poscia a metter senno in un ospedale di pazzi.

Le esigenze coreografiche della contraddanza a questo punto interruppero di nuovo il dialogo dei due cugini.

Quando Ettore e Virginia furono tornati al loro posto, per un poco non parlarono più nè l'uno nè l'altra: forse ambidue avevano desiderio di riprendere l'interrotto discorso, ma ci si peritavano o non sapevano trovare di subito il modo di riappiccarlo; fu il marchesino, com'era naturale, che saltò di bel nuovo in pien mezzo dell'argomento.

— Ti citavo dianzi l'esempio del duca di Ferrara e di quel piagnoloso del Tasso, diss'egli, e sarebbe quello che in un caso simile mi piacerebbe seguire.

Virginia ebbe un sorriso affatto superficiale, ed esclamò con apparente allegria:

— Per fortuna dei Tassi moderni — se ce ne fossero, e pur troppo non ve ne ha — tu non sei duca di Ferrara.

Ettore si drizzò della persona in una mossa di smisurata superbia.

— Per grazia di Dio, rispose, sono tanto nobile quanto può esserlo duca al mondo.... Del resto il metodo del buon Alfonso lo saprei adattare alle condizioni particolari d'un gentiluomo del nostro secolo, che non ha a sua disposizione una brava carcere.... Io non so capire, per esempio, come Langosco non faccia da' suoi staffieri appianare le costure a quel cotal dottore che gli bazzica per casa e gettar giù delle scale.

La fanciulla guardò ben bene in faccia suo cugino; una lieve animazione si mostrava nel suo sguardo come poi nell'accento con cui parlò. Era il suo sangue generoso che si commoveva di sdegno a quella indiretta minaccia contro l'uomo da essa amato.

— Ah! la violenza, disse: è un mezzo nè bello, nè nobile, nè acconcio. Con esso non si scioglie quistione alcuna....

— La si tronca, che fa lo stesso.

[112] Virginia scosse il capo.

— Non fa lo stesso. Se Eleonora amò veramente Torquato, il saperlo nelle carceri, il saperlo infelice non dovette distruggere, sibbene afforzare l'amor suo.

Fissò in volto ad Ettore uno sguardo che aveva una certa autorità ed una significazione evidentissima, e soggiunse lentamente pronunziando:

— E il fratello che usò di tale violenza, ella dovette ripagare del suo sdegno, più che del suo sdegno, d'un implacabile rancore.

Parbleu! Tu credi?... disse il marchesino un po' sovraccolto, un po' ironico, un po' sdegnoso.

Ed ella senza lasciarlo continuare:

— Una donna, soggiunse vivamente, può combattere essa stessa e vincere un affetto a cui si oppongano giuste ragioni e insuperabili contrasti; ma non si arriverà mai a strapparglielo dall'anima, offendendo, ingiustamente perseguitando colui che n'è l'oggetto.

Virginia si tacque di botto stupita ella stessa della franchezza e dell'evidenza delle sue parole; quell'amore cui essa voleva nascondere a tutti, ecco che lo aveva quasi proclamato; ma la generosità della sua indole non aveva potuto frenarsi innanzi alle provocatrici minaccie di Ettore; troppa d'altronde era in lei la volontà di trovar modo onde far capire al cugino che l'umor battagliero e prepotente non era buon mezzo per andarle a' versi.

Il marchesino fu sul punto di esclamare:

— Ah dunque tu confessi d'amare quel miserabile a cui io ho gettato il guanto in faccia ieri sera?

Ma si contenne: si morse le labbra e in luogo delle dispettose e corrucciate parole che si ricacciò nella gola, non seppe in quel momento trovarne altre; tacque adunque. Del resto l'ultima figura richiamava i nostri dialoganti che, senza più un motto, conchiusero il colloquio e la contraddanza colla riverenza finale.

Virginia non tornò presso sua zia, ma si fermò in un crocchio di giovani amiche; Ettore mal contento andò nella stanza da giuoco a farsi passar mattana all'écarté, e sedette al tavolino dove i gialli raggi delle candele si riflettevano sulla gialla fronte calva del conte Amedeo Filiberto Langosco di Staffarda, il quale, col suo solito sogghigno e colla sua solita freddezza, perdeva secondo l'usato a rotta di collo.

Virginia neppure non era contenta di sè. Le rincresceva che il suo segreto, già sospettato dal cugino, ora fosse a costui quasi del tutto manifesto; il non aver più visto Francesco in quel ballo cagionavale un sentimento indefinito di dubbio, di contrarietà, quasi un vuoto nell'anima. Lo aveva cercato desiosamente cogli occhi, e la s'era stupita di non trovare fissi, supplichevoli, ammirativi, amorosi que' dolci sguardi; era egli partitosi? La s'era detto che Francesco aveva ragione, ma pure ne provava un intimo rammarico: avrebbe voluto vederlo e lo approvava di non comparirle dinanzi. La folla, i suoni, le danze, le vane ciarle di quelle conversazioni le davano fastidio. Combattuta fra sentimenti strani e diversi, provò ancor essa il bisogno di solitudine, e, pianamente sottraendosi alla stretta dell'affollata adunanza, la venne cercando nelle più riposte stanze.

Quando fu in quella che precedeva il gabinetto dov'era il pianoforte, udì venirle intorno carezzevole e soave l'onda armonica di quella composizione che sappiamo a lei pure dilettissima, la dernière pensée de Weber. Ristette; sentì farsi frequente il palpito del cuore; un tremito interno le tolse ogni forza, si appoggiò ad un mobile e stette ad ascoltare, afferrando, per così dire, con avido desio quei suoni con tanta passione eccitati, che le parlavano all'anima. Senza la menoma esitazione ella seppe chi era che parlava in quel modo, con quelle appassionate note a lei tanto dilette, quell'arcano linguaggio. Non poteva essere che lui. Un altro poteva egli sentir di quella guisa, comprendere così bene l'intimo pensiero di quella melodia quale aveva essa stessa compreso, pensare pur solamente a suonare allora in tal luogo sì mesta effusione d'affetti?

Era lui, solo di certo, lì vicino, non disgiunto da essa che di pochi passi, che per l'arazzo d'una portiera: era egli di cui l'anima e il pensiero volavano con que' suoni verso di lei; Virginia non ne aveva dubbio nessuno: ella sentiva quasi, intorno a sè, come un fluido lieve, lo spirito dell'amante; ella si lasciava penetrare da que' suoni con un'ineffabile tenerezza che metteva sulla beltà de' suoi tratti un mite splendore di paradisiaca gioia. Che doveva ella fare? Oh allontanarsi per certo, e tosto, fuggire meglio che ritrarsi: se lo disse, lo volle, ma rimase. Un fascino irresistibile l'attraeva. Come una potenza magnetica quell'onda musicale l'avvolgeva, la compenetrava, tutta la dominava... La portiera fu sollevata adagio adagio senza rumore: un'ombra scivolò lieve lieve sopra il tappeto; uno splendor di bellezza illuminò l'ambiente di quel solitario stanzino. Francesco allora ebbe la scossa profonda che ho detto: aprì gli occhi, si vide innanzi l'angiolo de' suoi sogni, tese verso la sublime apparizione le mani supplicanti e con voce che veniva dal cuore, pronunziò in un grido di gioia supremo, inesprimibile, una parola che per lui conteneva un mondo.

— Virginia!

CAPITOLO XVII.

Francesco s'era drizzato in piedi, ma tremava in tutte le membra; una emozione potente lo aveva assalito cui non poteva padroneggiare; era diventato pallido come un cadavere. Virginia era pallida ancor essa, e di lei pure vibravano i nervi in un tremito intimo, indefinibile.

[113] Stettero un minuto l'uno in faccia all'altra, immobili, muti: egli si sorreggeva al pianoforte presso cui s'era levato, essa alla spalliera d'una poltrona che le si trovò dappresso; non potevano parlare, non sapevano che cosa dire, ma si guardavano, ed una fiamma ardente e divina correva fra le loro pupille. Fu un minuto solo, ma un minuto che contenne per essi un infinito, mille dolcezze che erano insieme uno spasimo, una stretta al cuore che era pure nella sua acutezza un diletto. Le corde del cembalo vibravano ancora per gli ultimi colpi che aveva percossi sui tasti la mano di Francesco.

Quei loro sguardi dicevano di molto; molto eziandio aveva detto quel grido che era scoppiato dal cuore di lui nei vedersi innanzi di subito la invocata fanciulla su cui con tanta forza di volere e di desio erano concentrati i suoi pensieri. L'amore aveva rinfiammate ad un modo le anime loro in un accesso della sconfinata passione, ed aveva poscia postele a contatto, messele di fronte, mentre doveva a forza da esse traboccare l'imperioso, divino, ineffabile sentimento che tutte le possedeva. Quali due corpi saturi di elettricità diversa che si attraggono e si precipitano l'uno verso l'altro, come fra loro non sarebbe corsa la meravigliosa scintilla ad accomunare, assembrare, fondere in un rapimento di amore gli animi, gli spiriti, l'intiero essere?

Al pallor primiero successe sulle guancie di Virginia un rossore che, lieve dapprima, venne via via accrescendosi; per consenso, anche in Francesco il sangue, che pareva concentrato intorno al cuore quasi soffocandolo, salì pure alla testa e gli pose le fiamme alla faccia; ella chinò lentamente i suoi occhi, immobile sempre a quel posto; egli eziandio chinò i suoi; un impaccio, ma non fastidioso, anzi invece pieno di diletto, li faceva timidi di quella cara timidità cui dà anche all'uomo il più risoluto un vero amore. Avevano troppe cose da dire e temevano che la loro parola dicesse troppo per disserrare le labbra; ma lo stesso loro silenzio e il contegno parlavano. Si ascoltavano a vivere, per dir così, con una specie di sacro raccoglimento e di meraviglia, in quella crisi della loro vita intima; pareva che stessero lì a sentire avidamente a battere il proprio cuore e quello del compagno a vicenda.

Fu ella che comprese la prima come quel silenzio dovesse troncarsi; fece uno sforzo, s'avanzò di due passi verso il pianoforte a cui si sorreggeva Francesco, volle dire, con tono indifferente, indifferenti parole, e così cominciò:

— Ella dunque ama di molto eziandio quella mia carissima dernière pensée?

Ma come in quel momento avrebbero potuto uscire da quel labbro indifferenti parole? Qualunque con isforzo maraviglioso avesse ella scelto anco fra le più volgari ed inutili, avrebbero preso dalla tempra dell'animo vibrante d'amore un accento pieno di passione che avrebbe avuto il suo significato; qui poi non s'accorgeva ella, Virginia, che quei suoi detti certificavano di presente quella comunione di pensiero e di animo che esisteva fra di loro e che avrebbe pur voluto dissimulare?

Francesco sollevò i suoi occhi, e il raggio delle sue pupille s'affondò nella limpidezza di quelle di lei.

— Se l'amo! Diss'egli con voce tremante, quasi rotta dall'emozione, il respiro oppresso dal palpito del suo petto. L'amo come la voce del più caro amico che mi consoli, come il verso più splendido del poeta che mi parli alla mente ed al cuore.

La mano di lui cadde sui tasti del pianoforte che mandarono un risuono quasi supplichevole, come una tenerezza di gemito.

Virginia gli additò con un gesto vezzosissimo di preghiera il gravicembalo ancora vibrante.

— Ebbene, diss'ella con quella sua voce che, era una sì soave armonia, non le dispiaccia farmela sentire anco una volta.

Francesco s'inchinò lievemente in segno di ubbidienza e sedette di nuovo là donde s'era levato: le mani gli tremavano ancora, gli sussultava nel petto il cuore commosso. Le prime note uscirono di sotto le sue dita, incerte, oscillanti, saltuarie. Virginia appoggiò all'angolo del cembalo verticale il gomito del suo braccio più bianco di neve, più perfetto di quello d'una statua di Prassitele, sorresse alla mano la fronte, e stette, gli occhi chinati, in una mossa piena di grazia e di maestà. In mezzo a loro si elevava lenta, sommessa, ma più soave che mai, ma palpitante, quasi direi, e commossa, la dilicata melodia.

Non si guardavano i due amanti: ella teneva i suoi occhi rivolti immobilmente al suolo, egli li fissava innanzi a sè come se colà si aprisse l'infinito e non fossero a pochi passi da lui arrestati dalla parete: ma per ambidue, allo sguardo della mente si atteggiavano smaglianti, nella maggiore e più cara seduzione ch'esser possa, le fantasie più santamente amorose della loro giovanile immaginativa eccitata. Il mondo dei sogni, il mondo dell'ideale chiamava a sè, assorbiva l'intelletto loro, dolcemente cullato dalla carezza della malìa musicale. Dove si trovassero in quel momento non pensavano, non sapevano; la realtà delle contingenze circostanti non esisteva più per loro; si affondavano coll'animo, col cuore, con tutto l'essere nel misticismo soave della passione d'amore, scevra da ogni bassezza di sensualità.

Momenti sublimi! i più sublimi che viver possa l'anima in questa esistenza terrena! Infelice chi non li ha provati mai, chi vede scendere sulla sua persona il peso degli anni senz'aver palpitato di questi palpiti celesti, senz'aver gustato, non fosse che affacciandosi alla soglia, di questo Eden meraviglioso ed ineffabile! Per lui la terra ha nascoste le [114] sue più splendide bellezze; a lui, come figliuolo diseredato, non parla i suoi più divini accenti la natura, non appalesa la vita i suoi più preziosi tesori. Questi beati istanti, ratti, fugaci, pochi, ma celestiali, uom li accoglie e li serba come avaro geloso nel sacrario della memoria; sono un profumo di felicità onde avrete conforto nelle più empie traversie della vita, chi lo sa custodire incorrotto; al ricordo di essi, sorride beatamente anche il vecchio incanutito che già si curva sull'orlo della fossa, ed un'aura giovanile viene a carezzargliene l'anima intorpidita. Oh amore, tu se' il motto ultimo dei segreti dell'universo, tu sei la legge unica che governa i mondi del sensibile e dell'intelligibile, quella forza prima cui cerca la scienza; tu sei la più alta espressione nell'essere uomo di quel divino che c'è nella sua natura!...

Quando l'ultima nota della melodia soavemente s'estinse sopra le corde del pianoforte, i due giovani, leggiadri amanti si guardarono finalmente. Quello sguardo fu una fiamma, fu una confessione d'amore, fu un abbraccio delle anime loro. Le pupille palpitavano ancor esse. In quelle di Virginia color del mare, ma d'un mare benigno, su cui si stende sereno il cielo e ride il più lieto sole, c'era in vero tutta l'immensità d'un Oceano: un'immensità d'affetto; negli occhi bruni di Francesco raggiavano vibrando, sprazzi di calore e di luce.

Le tante, profonde, inesprimibili emozioni di lui, sotto lo sguardo benigno della fanciulla amata, ebbero il coraggio e la forza di trovare e di mandargli alle labbra un'espressione. Fu anche questa volta una parola sola, ma quante cose contenevansi in essa! Giunse le mani in atto di chi adora, e ripetè l'esclamazione con cui aveva salutato commosso il comparirgli delle vaghe di lei sembianze.

— Virginia!

Ella non cessò di guardarlo: si pose una mano sul cuore e il suo corpo elegante si sorresse vieppiù al mobile a cui era appoggiata, come se le venissero mancando le forze; un'ombra lieve di sorriso, timido, quasi involontario le alitò sulle labbra semiaperte. L'abituale nobile fierezza del suo aspetto s'era fusa anch'ella nella soavità dell'emozione; non ci rimaneva più che sotto le spoglie del dignitoso riserbo della virtù. Com'era lungi in quel punto dall'anima sua ogni influsso di pregiudizio sulla superiorità di casta!

Francesco intanto sentiva, in mezzo al quasi doloroso e pur soave palpito del cuore, al turbinio de' pensieri nella mente, alla foga delle sensazioni, crescergli il coraggio. Parlò tremando, con voce soffocata e rotta dall'emozione, con accento che da quello stesso inciampo del suo turbamento profondo acquistava nuova efficacia.

— Quante volte ho desiderato potere a lei presente rivolgere il suono di queste note!... E quante a lei, alla sua immagine, presente sempre al mio pensiero, ho fatto omaggio di queste aspirazioni vestite della forma dell'armonia!... Ma come in questo istante è riuscita inefficace la mia mano ad esprimere quel ch'io sento, quel ch'io vorrei!... Se avessi potuto mettere in questo freddo stromento una parte soltanto di quello ch'io provo!... Oh se potesse all'anima sua parlare direttamente l'anima mia!...

Un riso divino, un lampo di angelica luce balenò negli occhi, su tutta la fisionomia animata di Virginia.

— Perchè credere ch'io non abbia inteso il magico linguaggio di que' suoni?..... Colle parole del nostro idioma terreno chi potrà dir mai quello che dice il meraviglioso alito dell'armonia?...

Francesco sorse in piedi, la sua mano incontrò per azzardo quella di Virginia che pendeva presso al pianoforte a cui sempre teneva appoggiato il gomito; a quel tocco un brivido corse come un dolcissimo fluido tutte le membra di ambedue. Egli non ritrasse la sua mano; quella di lei non isfuggì neppure: le due destre stettero vicine l'una all'altra, toccandosi, senza stringersi, agitate da un lieve tremore, attingendo a vicenda da quel contatto un fuoco sottile che si metteva a circolare col sangue nelle loro vene. E frementi in tutto l'esser loro, accomunati in un solo e medesimo trasporto; stavano lì, in faccia l'un dell'altra, guardandosi, i due giovani innamorati.

— Ella mi ha dunque compreso? soggiunse Francesco con voce cui la passione e la gioia serravano nella gola; Ella ha compreso la potente, sconfinata adorazione che si eleva dal mio cuore verso il suo?..... Sì una vera adorazione, glie lo giuro, pura e santa come l'anima sua, ardente come la febbre di questo divino trasporto che mi fa batter le tempia.

Si lasciò scivolare dal seggiòlo su cui sedeva, in ginocchio ai piedi di lei e giunse le mani con atto di supplicazione appassionata, e pregò collo sguardo acceso delle più vive fiamme d'amore.

— Lo scopo unico della mia vita, l'ispirazione incessante del mio pensiero, la ragion sola d'ogni atto, d'ogni anelare, la fonte d'ogni gioia, il Dio della mia fede.... tutto al mondo ed oltre il mondo, per me, gli è Lei!.... C'è una forza superiore ad ogni volere umano che invincibilmente mi attrae qui.... ai piedi suoi.... anima e corpo, fantasia ed intelletto, desiderii e volontà, come un povero oscuro pianeta intorno alla splendenza del suo sole... Sì il mio sole!.... Quando non la vedo c'è la notte nell'anima mia, anco negli occhi miei.... Si, il mio sole!.... Quando l'ho mirata, la luce della sua bellezza mi è rimasta entro il cervello, in fondo alle tenebre della mia mente, come un astro di splendore divino. Chiudo le palpebre e me la vedo raggiante dinanzi..... Ma il vero è che sempre, sempre, nella veglia e nei sogni, io vagheggio presente al più [115] intimo dell'esser mio, la sua immagine invocata. La vedo, l'adoro, le parlo; mi beo del suo sorriso..... Se potessi esprimere qui in parole la menoma parte soltanto di quell'effusione con cui nel mio segreto l'anima mia adora la sua, ella potrebbe allora capire la forza, l'estensione, l'eternità dell'amor mio....

Questa parola «amore» fece riscuotersi la fanciulla. Ella ascoltava le affollate parole di Francesco col suo serio e benigno sorriso, il corpo lievemente inchinato verso di lui, gli sguardi negli sguardi del giovane, il petto commosso. La voce del suo amante le accarezzava l'animo più dolcemente ancora di quel che avesse fatto poc'anzi la soavità della melodia diletta. Obliava le sue condizioni, i suoi proponimenti, gli altri suoi pensieri, tutto il resto del mondo; sentiva il suo cuore fondersi beatamente al calore di quell'amoroso trasporto nel cuore dell'amante; avveniva quel misterioso congiungersi delle anime innamorate che è un adombramento della felicità sopraterrena, che è il vero maritaggio di due esseri eletti. Quella parola «amore» la destò, per così dire, con un lieve sussulto; una nube leggiera salì a velarle la luce dell'intima gioia che le splendeva sul viso; si recò la destra alla fronte, come a fermarvi un nuovo pensiero che si presentasse alla sua meditazione; il contatto dello svolazzo della sua veste leggiera coi panni del giovane, le parve un troppo suo abbandono e si trasse in là d'un passo; lasciò cadere più freddo, più riserbato il suo sguardo sulla fronte illuminata d'amore del giovane, e disse senza alterigia, senza un'ombra di sdegno, ma con rassegnata mestizia.

— S'alzi, la prego. — Questo contegno innanzi a me non conviene nè per mio nè per suo riguardo... Perchè mi ha Ella parlato a questo modo? Ned Ella doveva dire ned io ascoltare di queste parole. Il diritto di pronunciarle al mio orecchio può darlo ad un uomo il consentimento soltanto di chi mi tien luogo di genitori. Ora, non ha Ella pensato che direbbe mio zio il marchese ove sapesse di questo colloquio?

Francesco mandò una voce soffocata, un gemito di vero dolore. I detti di Virginia gli facevano sorgere di nuovo dinanzi quella fatale barriera onde ben sapeva essere egli da lei diviso, e cui aveva obliato un istante. Dalla folle esaltazione d'una impossibile speranza passò di botto all'abbattimento d'una disperazione inconsolabile. Aveva visto il paradiso aprirglisi un istante davanti, e poi si sentiva bruscamente ricacciato indietro nel dolore e contesogli inesorabilmente il passo. Sentì ogni sua forza venir meno nell'animo come nel corpo accasciati; volle alzarsi e non lo potè nemmanco; levò uno sguardo di muta ma dolorosissima lamentazione verso di lei, provò l'angoscia dell'uomo che nel pieno della sua vitalità si sente stringere ad un tratto le viscere dalla ghiaccia mano della morte.

Virginia ebbe pietà di quell'angoscia che vide dipingersi sul volto del giovane; la sentì ripercotersi nel suo cuore; ebbe un generoso impulso che le fece rimpiangere d'aver dato a quell'anima siffatto spasimo e desiderare di apprestarle alcun rimedio di consolazione; tornò ad accostarsi d'un passo a Francesco sempre inginocchiato e lasciò cadere su di lui la dolcezza d'un suo sguardo pietoso.

Francesco prese il lembo di quella veste di cui lo svolazzo tornava a toccar leggermente il suo corpo e lo baciò con passione.

— Mi perdoni, diss'egli: le parole mi traboccarono dall'anima..... Non cerchi in nome d'altri la mia condanna.... A Lei, a Lei sola lo assolvermi o il punirmi.... La più fiera punizione del mondo, il suo sdegno.... Gli è la sorte della mia vita che sta nel suono d'una sola sua parola.... La pronunci, l'aspetto.... Ah! non ho temerità di speranze.... Sono rassegnato all'ultima sciagura.... Il resto dell'universo non è più nulla per me.... La sua vista, un suo sguardo, un suo sorriso, lo giuro, conquisterei al prezzo di morte.

Virginia si sentiva ondeggiar l'anima fra diverse spinte; la sua fierezza lottava in ultimi sforzi contro la passione che la possedeva; un resto d'orgoglio le susurrava di rinnegar l'amor suo, ma per ciò aveva ella troppo sincera la coraggiosa tempra dell'animo. No, ella non s'abbasserebbe a mentire. Poichè la sorte aveva voluto che il momento di spiegarsi giungesse, essa non voleva ricorrere nemmanco a temporeggiamento nessuno, a veruna ipocrisia di spedienti e di parole. Sollevò risolutamente la testa, e il viso leggiadro apparve splendente di nuova luce di bellezza, come se una nuova, maggiore, interna fiamma, in lei divampando, le trasparisse sul candore delle sembianze. Abbassò lenta la sua destra verso il capo del giovane, posandogliela lievemente sulle chiome e con voce sommessa, contenuta, ma non esitante, non peritosa, con voce la quale all'anima ardente di Francesco che l'assorbiva spasimando, parve un'armonia di paradiso, disse:

— Il mio labbro non ismentirà il mio sguardo. Non ha Ella letto nulla negli occhi miei?

E nel medesimo tempo le sue pupille sfavillanti, piovevano sul volto di lui raggi accalorati e dolcissimi di tenerezza e d'amore.

Francesco che al tocco lievissimo di quella piccola mano inguantata sui suoi capelli, aveva sentito corrersi per tutte le vene, per tutti i nervi un fremito di sovrumano diletto; Francesco, il cui cervello, assalito da' fiotti di sangue febbrilmente dalla passione concitato, smarriva quasi la percezione della realtà e credeva essere in balìa d'un sogno beato; Francesco prese con impeto, con furore, quella mano che s'era abbassata su di lui, afferrò anche l'altra, le strinse ambedue con forza tra le sue frementi e pronunziò balbettando, mozzicate le parole, spallidite le labbra dall'emozione soverchia:

[116] — Che cosa ci ho letto? Non so... Talvolta sì, fui temerario... Ah non oso confessarlo a me stesso quel che mi apparve... Fu una visione di paradiso. Mi parve udir suonare per l'etere una parola divina...

Virginia si curvò, palpitante anch'ella verso il giovane palpitante. Quella parola divina, essa la disse, sommesso, ratta, vibrata.

— L'amo anch'io!

Fu un soffio di voce, ma penetrò fin nell'intimo del giovane innamorato. Un grido di gioia irrefrenabile proruppe dal suo petto. Sorse di scatto in piedi; tremava tutto, sotto l'invasione d'un trasporto ineffabile sentiva smarrirglisi il cervello: gli pareva d'essere il primo nel mondo, d'essere più che un uomo, credeva d'essere superiore ad ogni forza di avvenimenti, ad ogni crudeltà del destino; provò come un indiamento della sua natura, gli parve essergli nel cuore, degno santuario, disceso un Dio dal cielo.

Voleva parlare, ma non poteva; gli cantava nell'anima un inno sublime d'amore e le labbra tremanti non sapevano tradurlo in parole; stringeva le mani di lei, la guardava, palpitava, aveva gli occhi pieni di lagrime.

— Nulla più chiedo a Dio: diss'egli poi colla parola come prima interrotta. Troppa è la mia parte di felicità..... Sfido le sciagura e il dolore; sfido la morte..... Ella mi ha dato in questa terra il paradiso..... Oh questo momento benedetto sarà la gioia suprema della mia vita..... Adorerò il suo ricordo come s'adora quello delle soavi prime carezze materne..... Io Lei amo tanto! Tutto ciò che vi ha di caro, di sublime, di superiore nel mondo, io l'amo in Lei raccolto. Il mio culto al vero, al bello, al buono è l'amor mio per Lei..... Amiamoci!..... È la nostra sorte, è la nostra legge, è il volere di Dio!..... Affidi il suo cuore, Virginia, alla lealtà, all'ardore del mio..... Lo circonderò di tanto affetto, d'un'adorazione cotanta che non lascierò più passaggio nessuno al dolore..... La bellezza della nostra esistenza è amore: la ragione della nostra vita è amore..... Io a Lei ho consecrato tutto me; l'amor mio è una religione; morrà meco; è connaturato nell'anima mia, durerà eterno, se l'anima è immortale. Amiamoci in nome della giustizia eterna!

La valorosa anima di Virginia ebbe la forza di resistere al fascino oltrepotente di quel divino istante: sciolse le sue dalle mani di lui, e ritraendosi d'alquanto, disse con severa mestizia:

— L'amore ci unisce, ma ci separa il mondo. Amiamoci, ma dividiamoci. Non mi domandi le ragioni di ciò; quali sieno pensi Ella stessa senza dare a me ed a Lei il dispiacere di enumerarle. Questa vita terrena, pur troppo, non potrà veder mai congiunte le nostre sorti. Dissimulare i miei sentimenti non potevo, ho creduto di non doverlo, lasciarle una speranza ineffettuabile posso e devo anche meno. Ci sono fatalità della sorte che conviene subire; e la Provvidenza ce le manda per provare il vigore dell'anima nostra. Questo dev'essere l'ultimo colloquio che ha avuto luogo fra noi...

Esitò un istante, la voce le si fece meno sicura, ed una subita pallidezza le si stese sulle guancie, ma riprese tuttavia colla medesima coraggiosa risoluzione:

— Dovrebbe essere eziandio l'ultima volta che ci vediamo....

Francesco protestò con un'esclamazione di dolore.

Ella fu sollecita a soggiungere:

— Che ci vediamo almanco per effetto di nostra volontà. Ella deve sfuggirmi — e di ciò la prego —; io sfuggirò in ogni possibil modo la sua presenza. Che cosa avremo ancora da dirci collo sguardo o colla parola? Le nostre anime si sono rivelate: ora ciò che prima era un'imprudenza, una debolezza, sarebbe una colpa. Ciascuno custodirà come vuole nel suo cuore il comunicato segreto, le sue impressioni, le sue memorie; ma non dimenticherà più che una fatale barriera ci divide.

Francesco ebbe dal suo dolore il coraggio di ribellarsi a questa crudele sentenza, e con una specie d'esplosione proruppe:

— Questa fatale barriera è una vanità. Si cammini contro di essa risolutamente e la sparisce sotterra. Che? L'amore ci apre le delizie più sublimi dell'Eden; e noi non oseremo entrarvi, perchè sulla soglia ci sta un vano fantasma? L'amore è potente ben più di queste misere incantagioni; ben altri e più ardui ostacoli sa e può superare... Non amato, poteva io cedere alla sventura, ritrarmi e morire; ma forte dell'amor suo, come rinunziare alla felicità? Nol posso, nol debbo, nol voglio!

Virginia arrossì, fece un atto pieno di dignità a tener lontano il giovane che le si voleva accostare, e con uno sguardo ed un accento animati, ma più che da sdegno da dolore, disse nobilmente:

— Mi vuol Ella far pentire d'aver parlato?

Ogni audacia cadde subitamente dall'animo di Francesco.

— Perdono! perdono! balbettò egli chinando con mossa sconsolata la testa; ma se ogni speranza di possederla è persa, è persa per me ogni ragione della vita... Il solo essere amato da Lei è un orgoglio sublime, è una gioia di paradiso. Io l'ho accolta qui — tesoro dell'anima mia — ma tanto vale che io la porti meco nella tomba..... Potrei io resistere a vederla in possesso d'altrui?

La fanciulla tese vivamente la mano.

— Le proibisco di morire: diss'ella con accento che nessuna parola può descrivere: d'un altro non sarò mai!

Francesco prese quella mano e la baciò con passione. Era come il suggello d'un patto solenne stretto fra di loro. A quel punto un leggier fruscìo fu udito alla soglia; i due amanti si volsero e videro [117] dritto colà, che colla mano scartava l'arazzo della portiera per entrare, il marchesino Ettore.

Francesco e Virginia si allontanarono vivamente l'uno dall'altra; ella chinò gli occhi a terra e stette immobile; un lieve rossore accennò dapprima volere apparire sulle sue guancie, ma con uno sforzo sopra se stessa, ella comandò al sangue di restare. Sentiva di non aver nulla onde arrossire e non voleva che alcuno potesse vedere in lei la mostra pure di simil debolezza o di confusione; e tanto meno suo cugino. Questi si avanzò lentamente, facendo correre dal volto dell'uno a quello dell'altra uno sguardo ironico, provocatore, più tristo ancora del perfido sogghigno che piegava le sue labbra assottigliate dall'interna bile repressa. Nei sentimenti di Francesco non vi fu esitazione di sorta. Innanzi alla provocazione superba di quello scherno, egli sentì una subita ira vivace. Quella barriera di cui aveva fatto cenno Virginia, ecco che ora gli si drizzava, per così dire, dinanzi, incarnata nello sprezzante orgoglio del suo oltraggiatore; già poco fa, da solo, nell'abbandono de' suoi sogni dilettosi, Francesco aveva visto nella sua mente sorgere contro la speranza di cui pure gli balenava all'animo alcuna lusinga, la immagine detestata del marchesino, ed ora ecco che questa figura gli si presentava viva e reale, interruttrice del più venturoso ed importante momento che nella sua vita avesse passato ancora mai, impertinente, sfidatrice, maligna. Se la presenza di Virginia non gli avesse posto freno, egli si sarebbe lanciato contro di Ettore, gettandogli alla faccia alcune di quelle parole che vogliono il sangue d'un uomo. Per lo sforzo che fece su se medesimo a reprimere il subito impulso dell'ira, Francesco impallidì: il suo sguardo si incontrò con quello del cugino di Virginia, proprio come fanno due lame incrociandosi in un duello mortale di due nemici. Per un momento fuvvi un silenzio minaccioso, quasi solenne. Si udì allora giungere fino a quel luogo, travelato dalla distanza, il suono allegro della musica del ballo.

— E che vuol dire codesto? cominciò di poi con tono beffardo Ettore fissando il suo sguardo investigatore sulle palpebre abbassate di Virginia; mentre altri ti crederebbe trasportata dal capogiro del valtz, tu sei qui tranquillamente, lontana dal rumore, a...

Si arrestò; Virginia che sentiva lo sguardo di Ettore sopra di sè, levò le ciglia e fissò in volto il cugino coi suoi grandi occhi limpidi, sicuri, superbamente sereni; egli riprese:

— A discorrere tranquillamente col signore.

L'accento con cui fu pronunciata la parola «signore», il moto leggiero del capo per cui Ettore accennò Francesco erano così pieni di disprezzo che Benda se ne sentì fremere il sangue.

— Affè, continuava col tono medesimo il marchesino, che questo è proprio un perdere il tempo.

Il giovane borghese fece un piccolo passo innanzi e parve sul punto di parlare; Virginia s'intromise, ricorrendo al mezzo medesimo che aveva usato poc'anzi, quello di condur via suo cugino.

— Stavo appunto per ritornare nelle sale da ballo, diss'ella; e tu sei venuto a tempo per darmi il tuo braccio.

Ettore s'inchinò con una certa ironia nella sua gentilezza e rispose con uguale accento:

— Sono assai lieto d'essere arrivato opportuno.

E porse galantemente il braccio a Virginia.

Francesco sentiva che qualche cosa gli conveniva pur dire, provava come un'offesa al suo decoro il lasciar partire senza una protesta l'impertinenza di quell'orgoglioso. Si avanzò ancora d'un altro passo, e disse anch'egli con quello stesso accento con cui lo aveva detto il marchesino:

— Signore.....

Ettore si fermò di botto, e volgendo appena la testa dalla parte dov'era Francesco, gli mandò di sopra la spalla uno sguardo di sprezzante alterigia.

— Gli è a me che il signore intenderebbe parlare?

Benda arrossì di sdegno fino alla fronte.

— A Lei, disse asciuttamente.. Certo la mia pretesa è grande. Ella nel migliore degli abboccamenti i più importanti è solita farsi interrompere anche dall'intervento dell'autorità.

Fu la volta del marchesino di arrossire.

— Ah signore. Ella mi dà un merito che ben sa ch'io non ho: la è semplicemente una calunnia la sua.....

— Signore!...

— E per avere il favore d'un abboccamento con Lei io sono pronto ad accordarle qualunque ora le piaccia, e in qual luogo a sua scelta, dove non sia più possibile interruzione di sorta.

— La prendo in parola: disse Benda inchinandosi: e mi pare che per la scelta dell'ora e del luogo potremo riferirci di bel nuovo ai consigli dei medesimi amici rispettivi.

— Ha ragione.

— Dove i miei potranno adunque trovare i suoi?

— Domani verso mezzo giorno al whist-club.

— Sta' bene.

Si fecero un freddo saluto, e il marchese uscì dal gabinetto con Virginia.

— Tu conti batterti? diss'ella poscia a suo cugino.

Parbleu!

— Perchè disubbidire così a tuo padre?

— Perchè decisivamente quel signorino mi dà sui nervi.

— Non è ragione sufficiente per voler attentare alla sua vita.

— Olà! quel cotale t'interessa adunque?

Virginia non chinò il suo sguardo innanzi a quello di Ettore, e rispose francamente:

[118] — Sì.

— Ragione di più per lui couper les oreilles: disse con vivo dispetto il marchesino.

— Ettore, aggiunse la fanciulla con accento solenne, se alcun male per tuo fatto ha da affliggere quella famiglia, io non te lo perdonerò mai.

E come erano giunti ad una delle sale da ballo, Virginia tolse il suo dal braccio del cugino ed andò a raggiungere la sua amica la baronessa, lasciando lui in asso, stupito, quasi sbalordito, più irritato che mai.

Francesco intanto, rimasto solo, era in preda ancor egli ad un vivissimo sdegno che quasi poteva dirsi furore. Aveva desiderato, l'ostacolo fra sè e Virginia, rappresentato dall'oltraggiosa impertinenza del marchesino, schiacciare e distrurre; ed ecco che l'occasione veniva a porgersene alla sua collera accresciuta.

— Oh! l'ucciderò quel prepotente villano: diceva egli fra sè con una tempesta d'ira feroce nella mite anima sua. E siccome il suo istinto d'amante lo aveva avvertito che nell'odio di Ettore per lui e di lui per Ettore c'era eziandio la rivalità in amore, egli soggiunse con amaro sorriso: almeno quel superbo di certo non sarà a farla sua!

Ricordò a questo punto le preziose parole con cui essa erasi impegnata a non essere di nessuno mai, e tornò di botto nel suo animo il dolce influsso della tenerezza. Ah! non ella mancato avrebbe mai alla solenne, non chiesta, da lei liberamente accordata promessa. Francesco poteva portar seco quella certezza per tutta la vita, anco nella tomba. Qui ad un tratto gli sorse innanzi al pensiero, con un mesto ma affascinante sorriso, l'immagine della morte. S'egli fosse stato a soccombere, s'egli disceso nel regno delle ombre, come ne avrebbe caramente custodita la memoria nel suo cuore la generosa fanciulla! Più vivamente ancora, senza più riserve, più compiutamente l'avrebbe amato quell'anima nobilissima. Il ricordo di lui morto avrebbe riconfermata ad ogni tratto in lei la data promessa, sarebbe stato ostacolo insuperabile affatto ad ogni altro che tentasse penetrarle nel cuore; e se invece foss'egli l'uccisore e non l'ucciso, che cosa poteva sperare di bene? La morte del cugino al contrario di abbattere la barriera fra lui e l'amor suo, l'avrebbe fatta maggiore: come sperare che il marchese consentisse a mettere la mano della nipote in quella lorda del sangue di suo figlio? Come credere che Virginia medesima vorrebbe ciò fare?

Una morbosa, ma vivace voglia di morire stranamente lo assalse. Aveva provato una gioia di paradiso nello apprendere di essere amato; ma disgiunto senza rimedio da lei, non aveva egli poi da sopportare nella vita delle pene d'inferno? Essere pianto da quella fanciulla divina non era egli una gioia ineffabile? Vivere poi nell'anima di lei non doveva essere un paradiso? Lo sconsigliato nel calore della sua passione dimenticò per quell'istante la sua famiglia, perfino le lacrime di sua madre: decise morire.

S'era gettato di nuovo sul sofà ed aveva nascosto la faccia tra le palme, ed ecco presso a lui di nuovo il fruscio gentile d'una veste di donna, intorno a lui il profumo delicato che rivela la presenza d'una signora elegante: levò la testa in sussulto e guardò con una folle speranza: non era più l'angelo dell'amor suo, era la contessa di Staffarda.

— La disturbo, disse Candida con un sorriso forzato sotto cui cercava nascondere la preoccupazione e l'inquietudine che apparivano nelle sue sembianze. Ho creduto che dormisse.

— No: rispose Francesco impacciato, il quale non sapeva che cosa dire.

La contessa sedette sopra una poltrona in faccia a lui e giuocando col ventaglio, per darsi un'aria di leggerezza e d'indifferenza che non aveva, soggiunse:

— Se non la dormiva, certo sognava, e non dovevano essere lieti sogni i suoi, se io giudico dall'espressione del suo volto.

Benda compose la sua faccia ed il suo contegno.

— No, non eran sogni, diss'egli con una giocosità melanconica: i sogni sono di cose impossibili, immaginarie; il mio pensiero si trovava alle prese colla più spiccata realtà.

— Molte volte meglio la realtà anche brutta che una sciagura immaginata, temuta: disse la contessa con una specie di foga. I nostri dubbi, i nostri sospetti ci sono più crudi tormentatori che la fierezza medesima del destino.

Francesco s'inchinò senza rispondere.

Candida riprese dopo una piccola pausa:

— Mi dirà Ella indiscreta se io le confesso di sentire interesse per Lei?

— Oh signora contessa! esclamò il giovane inchinandosi di nuovo.

Ella si acconciò con mano sbadata le pieghe della gonna, si aggiustò gli smanigli alle braccia, e sorridendo non senza un po' di studio, continuò con un'ombra d'imbarazzo dissimulato dalla sciolta eleganza di modi e di parola appresa coll'abitudine nell'ambiente artifiziato della società sfarzosa.

— Ci sono certe avventure per cui noi donne ci dobbiamo sentire a forza interessate..... La sua è del novero.... Quando troviamo nella volgarità attuale di sentimenti qualche raggio di poesia, oggidì che siamo affogati da tanta prosa, noi ne restiamo tocche: i nostri voti sono per la fronte illuminata da questo raggio.... Nella vicenda che a Lei è capitata noi donne, amiche del romanzo nell'arida storia della vita, abbiamo travisto, indovinato quel più bello ed elevato sentimento che è fonte d'ogni poesia....

Francesco fece un movimento.

[119] — Ah! non creda che qui una vana curiosità venga a sollecitare una confidenza che non si merita: soggiunse affrettatamente la contessa. Tutt'al più è una manifestazione di simpatia.... una manifestazione strana se vuole, ma sincera.... O mio Dio! Noi non ragioniamo tanto su queste cose; agiamo d'istinto, per subita impulsione dell'animo, e quando troviamo un nobile affetto, una generosa devozione, un dignitoso carattere, ci piace venirgli a stringere la mano.

E ciò dicendo tese la sua destra al giovane meravigliato e confuso.

Francesco strinse quella mano con atto di rispetto e di riconoscenza; non sapeva spiegarsi le ragioni di tanto interessamento per lui in quella signora colla quale per l'addietro erano state superficialissime le sue attinenze; l'attribuiva alla pietosa natura del cuore di lei, e n'era commosso; la contessa continuando riusciva finalmente a quel punto che era stato lo scopo della sua finissima diplomazia femminile.

— So bene ch'Ella non ha bisogno dei contrassegni di simpatia degl'indifferenti... Ha molti amici, degli affezionati e devoti amici, onde può avere ogni conforto.... E per esser sincera, gli è appunto a quanto ho udito di Lei da uno di questi suoi amici ch'Ella deve accagionare in gran parte questo mio indiscreto passo.

— Uno de' miei amici? domandò Francesco il quale, pensando alla schiera de' suoi antichi condiscepoli d'università, non sapeva capire in qual modo fra di essi alcuno avesse avuto attinenza colla contessa di Staffarda.

— Sì signore, disse Candida; guardando attentamente le pitture miniate sul suo ricco ventaglio; il dottor Quercia.

— Ah! esclamò Benda con un'espressione che fece lievemente arrossire la contessa. Francesco, che vide quel rossore, ebbe rincrescimento e rimorso d'averlo provocato; essa era venuta con tanta simpatia verso di lui, ed egli aveva da corrisponderle con malizioso riserbo? Affine di rimediare alla crudeltà di quella esclamazione sfuggitagli, egli s'affrettò a soggiungere: — sì Quercia è mio amico; gli ho chiesta ieri una prova appunto di amicizia a cui egli non si rifiutò, e sto per chiedergliene un'altra domani.... o per dir meglio oggi stesso.

Una subita e viva soddisfazione si dipinse nel volto di Candida, che di presente dimenticò ogni diplomatica finzione ed ogni femminile cautela.

— Ella deve dunque vederlo prossimamente? domandò con piglio vivace.

— Nella mattinata di questo giorno che è già incominciato.

— Ah!

Questa esclamazione significava di molte cose, un desiderio che non osava manifestarsi, una volontà combattuta, e un'ansietà insieme che non si riusciva compiutamente a frenare.

Francesco guardò la contessa che teneva gli occhi bassi, e tormentava fra le mani agitate l'innocente avorio del suo ventaglio; ed ebbe compassione del turbamento di quella infelice.

— Certo, diss'egli, se alcuno avesse un'ambasciata da mandare al dottore, io prima di qualunque altro che si trovi qui glie la potrei comunicare.

Candida arrossì nel vedersi così bene indovinata, ma nello stesso tempo ringraziò il giovane con uno sguardo pieno di riconoscenza.

— Sarebbe forse un abusare... balbettò ella esitando, con un immenso desiderio, quasi una preghiera di venir contraddetta.

— Niente affatto, s'affrettò a dichiarare Francesco.

La contessa proruppe con una risoluzione quasi concitata:

— Ella può rendermi un servizio importantissimo di cui le sarò grata eternamente.

— Parli... Le prometto di obbedire.

— Mi faccia il favore di vedere se qui non viene alcuno.

Benda si alzò e si pose frammezzo alle cortine dell'uscio.

— Stia lì un istante, la prego.

— Non mi muovo.

La contessa strappò un fogliolino dal piccolo taccuino che doveva servirle a notare le danze impegnate, vi tracciò su in fretta col toccalapis poche parole, ripiegò la carta, e per chiuderla, non ci avendo altro modo, vi appuntò una spilla; poi s'alzò e venne presso Francesco.

— Questa cartolina, disse, dovrebb'essere consegnata al dottore domattina almeno prima delle dieci.

— Ci conti su: rispose il giovane.

Candida sporse alquanto la mano che teneva fra due dita il foglietto, ma a mezzo dell'atto apparve una certa esitazione nella mossa. Benda credette vederci l'indizio d'un timore e d'un sospetto, e s'affrettò a soggiungere:

— Spero non aver bisogno di giurarle che quella spilla sarà più sacra per me di qualunque suggello...

— La credo: interruppe vivamente la contessa, mettendo il bigliettino nelle mani di lui, e un po' confusa di vedere sì giustamente interpretata la sua esitazione. Se così non fosse, sarei io venuta di questa guisa da Lei?

Francesco prese la carta, e la ripose in un suo portafogli.

La contessa tornò a stringergli la mano con una forza nervosa, con un'emozione quasi febbrile.

— Grazie: diss'ella. Quando io possa alcuna cosa per Lei, non vorrà dimenticare, la prego, di avere in me un'amica.

[120] E mentre il giovane s'inchinava in segno di ringraziamento, ella scivolò via sollecita, come desiderosa di non essere colta in quel colloquio e timorosa che ciò fosse.

Per tornare nelle sale da ballo, Candida dovette passare in quella da giuoco dove suo marito perdeva colla sua solita indifferenza, malignamente scherzando secondo l'usato. Il conte Langosco sollevò dalle carte che teneva in mano le sue floscie palpebre e dal cerchio livido che contornava i suoi occhi lanciò sulla moglie uno sguardo vivido come quello d'un serpente.

— Gli è di me che cercate, contessa? domandò egli con quel suo tono di galanteria che costeggiava l'ironica beffa.

— No, rispose asciuttamente Candida; cerco un po' di fresco...

E il marito con quel medesimo accento:

— Ah! il signor fresco è ben fortunato.

— E siccome non lo trovo nè anco qui, penso tornarmene nel salone.

S'allontanò. Suo marito la seguì collo sguardo finchè la fu uscita della stanza. Una nube di sospetto sedeva sulla sua fronte calva, un più maligno cachinno piegava gli angoli della sua bocca sottile e sdegnosa.

Ed ecco quel che era intravvenuto fra il conte e la contessa di Staffarda, che era stato cagione del passo fatto da quest'ultima presso Francesco Benda.

Candida era nella sua stanza della teletta, in faccia al grande specchio del suo armadio entro cui si rifletteva la luce d'una dozzina di candele accese, e dava un'ultima guardata all'avvenente eleganza della sua acconciatura. Un lacchè era già venuto ad avvisare che la carrozza aspettava sotto il portone; la cameriera stava già lì colla pelliccia in mano per metterla sulle spalle nude della padrona, quando l'uscio si aprì discretamente ed un passo d'uomo, ammortato dallo spesso e morbido tappeto, s'inoltrò nella camera. La contessa si volse e vide non senza qualche stupore suo marito, il quale non soleva invadere colla sua persona quel santuario dei misteri della toilette. Lo guardò essa stupita, e non potè a meno di domandargli:

— Che cosa c'è, conte?

— Nulla: rispos'egli con quella sua gentilezza cortigianesca. Invece che aspettarvi nel salotto ho voluto venirvi a prendere fin qui.

— Son pronta. Andiamo pure: disse Candida, e volgendo le sue belle spalle alla cameriera, fe' segno le mettesse su la pelliccia.

— Un momento: s'intromise il conte arrestando con una mano l'atto della fante. Lasciate prima, contessa, ch'io vi ammiri alquanto nel buon gusto della vostra assettatura.

Candida crollò leggermente le spalle e fece una smorfietta piena di vezzo.

— Ebbene, che cosa ne dite? domandò ella con tono che voleva dire: finitela ed andiamo.

— Ammirabile: rispose il conte Amedeo, che faceva scorrere il suo occhialino scrutatore su tutte le parti del muliebre abbigliamento; sempre una perfezione secondo il vostro solito, ma.... se mi permettete una critica....

— Dite pure.

— Troppa semplicità.... È quasi una toilette di ragazza. Perchè non avete messo i vostri diamanti?

La contessa fu scossa da un lieve sussulto: ebbe paura di arrossire, e si volse in là fingendo specchiarsi.

— Oh! diss'ella aggiustandosi in capo un fiore, che non aveva bisogno alcuno d'essere tocco: un ballo privato in casa d'un'amica....

— Ragione di più. Sono queste occasioni in cui meglio che altra volta voi altre donne fate gara di sfarzo e di eleganza.... L'ho sentito dire da voi medesima ripetutamente.... Se non tutti, potevate almeno metterne una parte.... E ma foi, ci avete ancora tempo: è l'affare d'un minuto, e nè voi, nè io non abbiamo la gran premura di arrivarci a quel ballo piuttosto mezz'ora prima che dopo.

Questa insistenza del marito fece nascere un'ombra di timore nell'anima di Candida. Avrebb'egli qualche sentore di ciò che era avvenuto? Oh! impossibile, ma pure... Guardò il conte con un'aria scrutatrice e nello stesso tempo imbarazzata e peritosa. Amedeo Filiberto notò quest'espressione: di sospetti egli non ce ne aveva nessuno, e se allora egli era venuto a parlare dei diamanti, la ragione altra non era fuor questa, che a lui pure, impicciatissimo in debiti da soddisfare, aveva balenato l'idea di cercare un aiuto nel considerevole valore dei diamanti di sua moglie; ma ora il contegno di quest'essa gli fece nascere dei dubbi incerti, e cui ebbe di subito un gran desiderio di appurare.

— Siamo intesi, continuò egli; date la chiave dello scrigno alla cameriera perchè li vada a prendere... Prendili tutti, soggiunse parlando alla fante; sceglieremo qui quali da mettersi stassera.

La cameriera depose la pelliccia che aveva in mano e fece una mossa verso la contessa per riceverne la chiave.

— No: disse vivamente Candida: è inutile, stassera non li metterò... non mi piace... non voglio.

Amedeo Filiberto guardò ben bene la moglie.

— Bene! disse: non li metterete, ma ho piacere tuttavia di guardarli.

— Perchè? Li avete visti ieri sera che ne ho messa una gran parte al ballo dell'Accademia.

— Giusto. Mi parve che la montatura ne fosse un po' antiquata e che occorrerebbe rifarla — Poichè ora ciò mi è venuto in mente, lasciate un po' che esaminiamo insieme...

Candida fece un forzato sorriso. Le parole del [121] conte le avevano suggerito uno spediente da uscir d'imbarazzo.

— Vedete come andiamo d'accordo, disse; era quello precisamente anche il mio avviso, e li ho mandati oggi stesso dal gioielliere a farli ripulire e rimontare.

— Ah! esclamò Amedeo guardandola sempre a quel modo. Non avete forse scelto per ciò il tempo più opportuno. Lunedì c'è ballo a Corte, e convien bene che abbiate i vostri diamanti.

— Oh li avrò: interruppe vivamente la moglie: me lo ha promesso.

— Uhm! In così poco tempo, come potrà fare un lavoro ammodo? Sono cose codeste per cui conviene aspettare la quaresima... ed è appunto per la quaresima ch'io veniva a domandarvi di affidarmeli per... per restituirveli poi più brillanti di prima.

— Avete ragione: disse Candida col tono di chi vuol conchiudere il discorso: li manderò a riprendere... per lunedì li avrò senza fallo.

— Passerò io stesso dal gioielliere domattina... Gli è ben sempre X?

— Sì... ma non occorre che vi disturbiate...

— Non è un disturbo.... Figuratevi!

La contrarietà più viva e la inquietudine si dipinsero nel volto della contessa.

— Non datevi altro pensiero di ciò: soggiunse colla sua beffarda galanteria il conte Amedeo; e poichè non c'è più nulla da fare nè da dire per la vostra toilette, avviamoci dalla baronessa.

Prese egli medesimo la pelliccia che la cameriera aveva deposto sopra il sofà e la pose sulle spalle della moglie, cui fece uscir prima della stanza e dell'appartamento.

Lungo la strada marito e moglie non iscambiarono una parola, ma pensavano tuttedue e profondamente intorno al medesimo soggetto.

Dalle parole e dalle sembianze della moglie era apparso cosa certa al conte che in quell'affare dei diamanti c'era un mistero, ed egli aveva troppo interesse a penetrarlo per non provare una curiosità indomabile: si riprometteva di andare il domattina per tempo dal gioielliere X ad interrogarlo. Candida capiva da parte sua con isgomento che il marito aveva dei sospetti, e che non trovando poi dall'orafo indicato i gioielli, questi sospetti sarebbero andati molto presso alla verità cui poscia egli avrebbe voluto conoscere ad ogni costo. Come rimediarci? Essa non sapeva; la sua testa era confusa e invano cercava nel suo cervello un plausibil mezzo. Questo solo le si affacciò: ricorrere a Luigi, dirgli la cosa, e fare ch'egli provvedesse. Ma in qual maniera avvertire il suo amante? Di quella notte era impossibile; egli non doveva venire a quella festa; scrivergli la non poteva più; e il domattina doveva ella avventurarsi a mandargli una lettera? Il marito non poteva forse farla spiare? E della cameriera la si fidava assai poco; e non amava inviarla da lui, già ne sappiamo il perchè. Conveniva che ella stessa avesse un abboccamento con Luigi prima che il conte potesse recarsi dal gioielliere; il conte certo era che non si sarebbe alzato prima delle undici e non uscito prima di mezzogiorno; v'era dunque tutta la mattina di tempo. Ma poteva ella recarsi alla dimora di lui? Mai più: era un'imprudenza di cui egli medesimo l'avrebbe rimproverata. Oh! s'ella avesse potuto farlo avvertito in alcun modo di trovarsi ad un'ora acconcia nella rimota palazzina, solito asilo dei loro amorosi convegni!

Giunse alla festa da ballo che non aveva ancora un'idea precisa del da farsi ed era più perplessa che mai. La vista di Francesco Benda fu per lei un raggio d'ispirazione. Che quel giovane fosse amico di Luigi, glie n'era stato prova quel giorno medesimo l'interesse preso da quest'ultimo alla cattura del primo e il biglietto che a lei medesima aveva scritto in proposito; quanto stimabile ed onorevole per carattere e lealtà fosse il Benda era conosciuto nella società ed ammesso anche dalla malignità della gente. A chi poteva ella meglio affidarsi che a lui? D'altronde il tempo stringeva e per quanto affaticasse la sua mente, Candida non sapeva scorgere altro mezzo di sorta di cui servirsi.

Quando ebbe consegnata, come abbiam visto, a Francesco la cartolina per Quercia, in cui gli assegnava un ritrovo per le undici del mattino, la contessa Langesco, ricomparve più calma e più allegra a brillare in mezzo alla festa.

CAPITOLO XVIII.

Suonavano appena le sei mattutine del dì susseguente quando un uomo di alta statura, ben bene imbacuccato nel suo mantello, usciva dalla locanda di Europa ed attraversando dritto innanzi a sè la piazza detta del Castello dirigevasi verso il Palazzo Reale. L'oscurità della notte era piena tuttavia; e una folta nebbia occupava la piazza; aveva cessato di nevicare, ma la neve caduta nella giornata e nella sera precedente copriva tutto il suolo d'un bianco lenzuolo che mandava un certo albore sotto il grigio cupo di quella nebbia bassa; traverso questa parevano chiazze di luce sanguigna i pochi lampioni accesi, e in fondo, agli occhi del nostro mattinale passeggiero, pioveva una viva luce dai finestroni del Palazzo Reale già tutto desto ed illuminato.

Il personaggio, uscito della locanda, passò innanzi al soldato in sentinella che batteva i piedi e camminava affrettato su e giù alla cancellata della piazzetta affine di combattere l'intirizzimento di gelo onde lo minacciava l'aria ghiaccia di quell'ora mattutina, s'avanzò di buon passo ancor egli verso il portone del palazzo e s'intromise in esso per lo sportello aperto. Non si fermò nè innanzi all'altra sentinella [122] che sotto l'andito dava le volte ancor essa con andatura sollecita, nè dal portinaio, la cui grossa persona già vestita della montura gallonata del suo grado ed adorna dell'imponente e largo budriere della sua spada innocente appariva traverso i vetri dell'uscio del suo camerino, mentre egli si scaldava seduto presso ad un largo braciere; continuò senza la menoma esitazione fino all'estremità dell'atrio, volse a sinistra ed imboccato lo scalone salì e penetrò tranquillamente nel grandioso primo scalone dove stanno le guardie del palazzo, detto volgarmente il salone degli Svizzeri.

L'abitudine di re Carlo Alberto di dare udienze particolari a quell'ora mattutina era così ordinaria, che nessuno si stupì della venuta di questo personaggio e lo arrestò per domandargliene spiegazione. Giunto nel caldo ambiente del salone degli Svizzeri quell'uomo trasse giù dalla faccia la falda del mantello onde si copriva e si tolse di testa il cappello. Apparve la sua una fisonomia geniale che aveva qualche cosa insieme di fiero e di sorridente, una figura marziale e gentile, un piglio tra la franchezza militare e la grazia dell'uomo elegante di salotto.

Alcuni valletti che sedevano sopra una panca presso all'uscio che mette alle stanze interne si alzarono, ed uno di essi venne incontro al nuovo entrato e prese il mantello che il visitatore si levò dalle spalle.

— Sono il cavaliere Massimo d'Azeglio: disse il nostro personaggio; ed ho un'udienza da S. M.

Il valletto s'inchinò senza parlare, depose il mantello ripiegato sulla panca dove sedeva poc'anzi e facendo all'Azeglio un cenno che era un invito a seguitarlo, lo precedette nell'appartamento. Passarono la sala delle guardie del Corpo; in quella che seguiva trovarono un uomo vestito di nero a cui il valletto disse poche sommesse parole, e poi si ritirò. L'uomo vestito di nero fece un grande inchino al nuovo venuto e gli disse con molta urbanità:

— Vado ad annunziarla allo scudiere di servizio, signor cavaliere.

E sparì dietro la portiera dell'uscio che si trovava in faccia a quello per cui l'Azeglio era entrato.

Non passarono due minuti che la cappa nera tornò.

— Si compiaccia passare: disse alzando la portiera ed inchinandosi.

Massimo entrò in quella che si chiama anticamera di parata.

— Il signor scudiere verrà ad introdurla: soggiunse la cappa nera, e, fatto un altro inchino, ritornò nella sala precedente.

L'Azeglio rimase solo ad aspettare. Al momento di quell'importante udienza, che era stata un'audacia il domandare, per venire a dir cose al re che era forse una temerità il fargli sentire; al momento di comparire innanzi a quella sfinge coronata colla pretesa di penetrarne il mistero, Massimo confessa egli stesso ne' suoi Ricordi che il cuore gli batteva.

Dal colloquio che stava per aver luogo dipendevano tante cose! Quello poteva essere un punto solenne per la storia del Piemonte e d'Italia, un istante decisivo per quella stirpe principesca la quale, venuta da oltremonti, erasi fatta italiana, da Amedeo VIII in poi, di sangue, di spiriti e di ambizioni; una politica dinastica di quattro secoli, poteva ora conchiudersi colle aspirazioni di pari durata di una nazione oppressa. Tutto stava in ciò che il Re avesse l'intelligenza di capire i tempi e il coraggio di agire a seconda.

Massimo d'Azeglio non ebbe da aspettar lungo tempo; vide aprirsi un uscio e lo scudiere, presentandosi sulla soglia gli fe' cenno di entrare. L'autore di Ettore Fieramosca entrò solo, e lo scudiere passato nell'anticamera richiuse la porta dietro le spalle di lui. Il Re ed il cavaliere si trovarono a fronte.

Erano press'a poco della medesima alta statura, il corpo spigliato, la mossa elegante; ambidue portavano la testa un po' reclinata, come se loro fosse un peso, tenevano curvo alquanto il petto, come se l'interna vigorìa a reggere la lunga persona cominciasse a venir meno; più curvo il Re, il quale era più inoltrato negli anni, più macerato dai dolori della vita. I due personaggi si guardarono un istante, come per esaminarsi a vicenda; alla luce giallognola dei candelabri accesi la pallidezza di Carlo Alberto pareva più cadaverica, più scuro e più velato lo sguardo delle sue occhiaie infossate; ma sulle sue labbra senza colore, sotto i suoi folti baffi neri che facevano strano contrasto colla bianchezza precoce de' suoi capelli rasi all'usanza militare, aleggiava quel certo misterioso sorriso tra benigno, tra incerto, tra mesto e superbo. Massimo d'Azeglio si avanzò colla cavalleresca franchezza che gli era naturale, congiunta a tutto il rispetto che potesse pretendere il grado di chi gli stava dinanzi, e fece un riverente inchino. Carlo Alberto rispose con un grazioso cenno del capo, senza parlare, e recatosi alla finestra entrò nel gran vano della medesima, dove stavano allogati due sgabelli uno per parte; fece un segno all'Azeglio perchè si accostasse e sedutosi sopra uno di quei seggiòli del finestrone accennò al visitatore gli si ponesse in faccia. Massimo obbedì sollecito.

Nessuno dei due aveva ancora parlato. Il Re fece scorrere il suo sguardo nell'oscurità della piazza che si stendeva loro dinanzi, poi lentamente lo ricondusse sul volto di chi gli sedeva in prospetto. La sua faccia abitualmente severa aveva presa una espressione benevola, quasi affettuosa, dolcissima era diventata la sua guardatura, e con tono di voce affatto simpatico, con amorevole e famigliare accento incominciò a dire:

— Ecco assai tempo, cavaliere, che non ci siamo [123] più visti.... Già Ella non è quasi più stata in Piemonte.... E quasi vorrei dirle che non istà bene trascurare così il suo paese e noi che la amiamo.

Massimo sentiva un vero fascino esercitarsi su di lui dalla parola, dai modi, dallo sguardo del suo augusto interlocutore: il naturale e primo impulso della sua anima in presenza di quel re così dignitosamente famigliare, era quello d'una compiuta fiducia; ma le oscillazioni della sua politica, la gravità degl'interessi che egli era venuto colà a rappresentare innanzi al sovrano, la responsabilità che pesava su di lui, come mandatario quasi di tutto il partito liberale, la delicatezza e difficoltà del suo còmpito, che in fin dei conti si riduceva a formolare a Carlo Alberto, re assoluto e creduto ghiottissimo d'autocrazia, in forma meno aspra e ricisa, ma colla medesima franchezza e coi medesimi effetti quel dilemma che più tardi Daniele Manin doveva affacciare a Vittorio Emanuele II, re costituzionale e in fama di umori liberali: tutto questo imponeva all'Azeglio una gran cautela su sè medesimo, sulle sue impressioni, sulle sue parole, quasi una diffidenza, un obbligo di resistere alla seduzione di quelle regali maniere.

— Ah non creda, Maestà, diss'egli, che io trascuri e possa trascurar mai il mio caro paese e la devozione al mio sovrano.

Carlo Alberto fece un grazioso cenno del capo, come per significare che di codesto era egli agevolmente e pienamente persuaso; poi, come se volesse protrarre d'alquanto l'entrare in materia di quel discorso che sapeva bene essere l'oggetto e lo scopo di quell'abboccamento, s'informò delle cose particolari di Massimo con una cortesia benevola che era tutta sua e che gli guadagnava l'anima di colui col quale parlava. Dopo varie interrogazioni venne fuori questa:

— Ed ora di dove viene?

Massimo vide tosto che quello era il filo al quale poteva appiccare tutto il suo discorso; non se lo lasciò sfuggire, e così cominciò a parlare:

— Maestà, sono stato a girare città per città una gran parte d'Italia, e se ho domandato d'essere ammesso alla sua presenza, è appunto perchè, se la M. V. lo volesse permettere, amerei di farle conoscere lo stato presente d'Italia, quello che ho veduto ed udito parlando con uomini d'ogni paese e d'ogni condizione relativamente alle questioni politiche.

Carlo Alberto, contro suo costume, non esitò un momentino, e subitamente, con una certa premura, rispose:

— Dica pure: mi farà anzi piacere.

Massimo d'Azeglio, raccolse in breve la dolorosissima storia degli infelici moti liberali in Italia dal 14 in poi. Quelle folli ed impossibili imprese, fonti di sì triste conseguenze, erano pur tuttavia un effetto quasi inevitabile delle condizioni in cui era tenuta la patria nostra. Si soffriva dappertutto e l'estremo dei mali spingeva all'estremo rimedio della disperazione. Intanto ciò non faceva che crescere il malessere dei popoli, e dando ragione al prepotere sempre più dell'influenza straniera, se rincrudiva la schiavitù de' cittadini, doveva eziandio umiliare la dignità e l'indipendenza de' principi. Gl'Italiani più assennati mentre avevano capito la fatale inefficacia delle congiure e delle rivolte, non sapevano poi persuadersi come i regnanti della penisola non sentissero di loro onore e di loro decoro ad essere, invece che commissari per l'Austria, liberi e indipendenti reggitori sui loro troni, epperò d'accordo coi loro popoli contro lo straniero. Chi aveva mostrato sempre più sentimento della propria dignità regale e coraggio d'indipendenza era in Italia la stirpe di Savoia; il paese dove fosse unicamente un po' di forza militare era il Piemonte; pensavasi adunque da molti dei liberali che il Re Sabaudo e il Regno Subalpino potessero farsi centro, ispiratori e guida del nuovo partito nazionale, che senza imprudenze, colla forza della verità e della giustizia, potrebbe, non più nell'ombre d'una setta, non più coi tenebrosi raggiri delle congiure, ma apertamente, alla luce del giorno, anche in faccia alla diplomazia, patrocinare la causa e sostenere i diritti d'una terra e d'un popolo conculcati. Ma questa parte generosa, e quasi disse doverosa, la monarchia piemontese doveva assumerla volonterosa, coraggiosamente e sollecita, perchè urgevano le cose, perchè conveniva nell'animo di molti vincere delle diffidenze, perchè codesto soltanto avrebbe disarmato il partito eccessivo, a cui in disperazione di causa avrebbero finito per gettarsi in braccio anche i moderati.

Carlo Alberto teneva la faccia rivolta verso la piazza, immobile, freddo, in apparenza incommosso nel suo atteggio; i suoi occhi parevano fissare con attenzione l'oscillare della luce sanguigna de' lampioni traverso la nebbia. Chi sa quali immagini apparivano e passavano in quell'istante innanzi alla mente dell'antico congiurato del ventuno, dell'eroe del Trocadero, di colui che doveva essere fra pochi anni il vinto di Novara e il martire d'Oporto!... Chi sa se in mezzo a quella nebbia, nell'oscurità di quella fredda mattinata d'inverno non vide egli agitarsi le battaglie che doveva combattere col suo esercito, cura ed amore di tanti suoi anni, non vide sopra quello scombuiamento di sanguinose lotte, aprirsi la nube ed apparirgli in profetica visione, ahi troppo fallace, l'angelo della vittoria recandogli in un raggio di luce, per posarla sul suo fronte pensoso, quella corona di ferro cui non doveva afferrare che tanti anni di poi, suo figlio, il vinto della seconda Custoza!

Ad una parola che Massimo d'Azeglio pronunziò fugacemente, quasi sommesso, come se gli ardesse le labbra passando; alla parola diffidenza, non un muscolo della faccia nè del corpo si riscosse nel Re; [124] ma una lieve nube gli passò sulla fronte. Quando il suo interlocutore fece una pausa nel discorso, Carlo Alberto volse lentamente verso di lui la persona ed il viso, e guardandolo con occhio più vivo e più penetrante che non avesse ancora fatto, disse con accento fermo e posato:

— Ella ha già udito altra volta da me come questa pesante clamide di sovrano non abbia nel mio cuore distrutto le aspirazioni e gli affetti del cittadino; discendente d'una stirpe di principi che non ha mai lasciato intaccare il suo onore nè il suo decoro (e sollevò nobilmente la sua vasta, pallida fronte), io son pronto ad ogni impresa per mantenere intatto contro chiunque, il lustro della mia corona; ma questo medesimo non vorrei porre a cimento patteggiando, quasi alleando la causa del monarcato colle ardenti e feroci passioni che, anelando alla rovina d'ogni ordine stabilito, sobbollono in seno del popolo italiano sotto colore di patriotismo. I principi d'Italia hanno sì ostacolo innanzi a loro il predominio straniero, ma hanno pure minaccia alle loro spalle i pugnali dei settarii e le congiure dei repubblicani. Qui stesso, nel mio Piemonte, serpeggia l'infausto germe e tenta audaci fatti: lo so... Ed Ella, signor cavaliere, lo ignora forse?

Massimo sorrise d'un serio sorriso e crollando fievolmente il capo, rispose:

— No, Maestà, non lo ignoro. Io non fui mai di nessuna società segreta, non ebbi mai mano nè in combriccole, nè in congiure; ma siccome ho passato infanzia e gioventù sempre or qua or là in Italia e tutti mi conoscono e sanno che non sono spia, e perciò nessuno diffida di me, così ho sempre saputo tutto come se fossi un settario, ed anche ora mi dicono tutto..... o quasi: e quello che non mi dicono l'indovino. Dirò dunque a V. M. che il compresso furore dei patrioti italiani è molto ed esasperato di questi giorni e che facilissimo è li tragga a nuovi inconsulti, fatalissimi conati; le dico eziandio che qui stesso a Torino vi è un agente segreto di quella Giovane Italia che vuole a costo d'ogni sacrifizio la patria redenta, e che questo tale pronto a qualsiasi audacia è un'anima d'antico eroe, di quelli che per la patria incontrano sorridendo la morte, sia pure sul patibolo, lietissimamente poi sopra un campo di battaglia...

Carlo Alberto lo interruppe.

— Ella conosce costui?

— Sì, Maestà: rispose l'Azeglio senza esitare.

Il Re fece il suo indefinibile sorriso:

— E naturalmente la mia Polizia, che al dire del conte Barranchi sa tutto, ne ignora affatto la esistenza, e lo lascia tranquillamente maneggiare i suoi intrighi.

Massimo fissò il suo limpido sguardo sulla faccia sempre impassibile del Re, e disse lentamente:

— La Polizia lo ha ieri arrestato...

Il volto di Carlo Alberto fu lievemente corso da una espressione di sorpresa.

— Egli era tra quelli che si arrestarono ieri?... Ah ne indovino il nome vero o supposto. Egli di certo è quel tale che si spaccia per Medoro Bigonci e cui il Duca di Lucca mi ha con tanta sicurezza guarentito innocente.

Il suo sorriso prese un'apparenza d'amarezza che pareva quasi di dispetto.

— Ebben sì, gli è quello: disse con calore l'Azeglio; e l'additarlo a V. M. credo appunto il miglior mezzo per salvarlo.

Carlo Alberto continuò quel suo sorriso e soggiunse dondolando alquanto il capo:

— Eh! per mio ordine stesso tutti quegli arrestati furono posti in libertà..... E non contraddirò, nè anche dopo ciò che ho appreso, alla mia prima decisione... Parta da' miei Stati, e tosto; glie lo dica Ella medesima, cavaliere; ecco tutto.

Volse di nuovo la faccia verso i cristalli della finestra e parve occupato da nuova meditazione. Massimo non aveva finito il suo dire e s'apparecchiava a riappiccare il discorso, quando il Re medesimo tornando a voltarsi verso di lui, riprese con una certa vivacità:

— Ella vede bene com'io stesso sia minacciato.

— No, Maestà; rispose calorosamente Massimo. Si chiarisca apertamente amico d'Italia ed avrà l'ossequio, l'adorazione di tutti, anche di quelli che ora le congiurano contro. Credo poterglielo assicurare io sul mio onore. Ma conviene affrettarsi e non esitar più. I momenti sono gravi, gli animi tesi; Papa Gregorio è vecchio e cagionevole; alla sua morte certo, se non prima, qualche gran cosa si prepara; la Romagna andrà in fiamma, insurrezioni scoppieranno in altre parti di questa misera Italia, e si finirà, come sempre, con un'altra occupazione austriaca, un'altra serie di supplizi, d'esilii, un nuovo rincrudimento di tutti i malanni che ci opprimono. Senza vantarmi posso dire che per ora io ho molta influenza sugli uomini influenti in quei paesi e in quel partito. Se io potessi dire loro: «pazientate, aspettate, al momento opportuno Carlo Alberto è con noi, vedete che i suoi atti ce ne sono un'arra di promessa;» credo che da tutti si rinunzierebbe e dappertutto ad ogni velleità di funesti propositi.

Carlo Alberto aveva abbassati la testa e gli sguardi.

— Quanto durerebbero in queste savie idee..... (esitò un momento) nella fiducia in me?

— Confesso anch'io che su questo non v'è sicurezza. Entrano di mezzo passioni, interessi di molti generi, che talvolta determinano movimenti non generalmente approvati; bisogna inoltre tener conto eziandio delle tristi condizioni che pesano su quei popoli, dove venendo dall'alto l'arbitrio, la violenza, la corruzione, l'inganno, il sospetto, è naturale che dal basso si opponga il sistema medesimo; dove essendo generale il malessere materiale e morale, senza un solo mezzo ammesso d'ottener nulla di [125] meglio, non si può prevedere fino a qual punto e fino a qual giorno la prudenza e la ragione potranno servir di freno alla disperazione ed al furore. Chi soffre è il solo giudice della gran quistione del non poterne più. Gli uomini son così fatti; e la politica saggia e previdente deve prendere le mosse dallo stato reale delle cose ed accettarlo, se non vuole andare fuori di strada. Una politica più liberale adottata dal Governo Sardo.... Oh V. M. mi perdoni....

Carlo Alberto fece un atto di benigno acconsentimento.

— Anzi parli con tutta franchezza.

— Sarebbe, continuò l'Azeglio, una sicura maniera da fare radicarsi le speranze e quietare le impazienze di tutti gl'Italiani. Io questa politica ho avuto l'audacia di quasi prometterla da parte di V. M.: io per cercare appunto di far nuovo argine con un'idea nuova, all'irrompere di quelle disperazioni, ho girato e parlato come le dico: e qualche frutto, malgrado il caso di Rimini, credo averlo cavato. Ora la Maestà Vostra mi dirà se approva o disapprova quel che ho fatto e quel che ho detto.

Tacque ed aspettò la risposta, che la fisonomia del Re gli prometteva non acerba; e Carlo Alberto senza punto dubitare, nè sfuggire lo sguardo dell'interlocutore, ma fissando invece i suoi occhi in quelli dell'Azeglio, disse tranquillo, ma risoluto:

— Faccia sapere a quei signori che stieno in quiete e non si muovano, non essendovi per ora nulla da fare; ma che sieno certi che, presentandosi l'occasione, la mia vita, la vita de' miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana[12].

Il momento, le parole, il preso impegno erano solenni. Massimo d'Azeglio era venuto colla speranza d'un simile successo: i suoi precedenti discorsi col Re, da esso ripetuti a Mario Tiburzio, tutto ciò che aveva appreso di Carlo Alberto, bene lo lusingavano, che non senza grave risultamento sarebbe stato quel colloquio; ma trovandosi ora in faccia ad una sì ferma risoluzione sì fermamente manifestata, con semplicità antica che le accresceva peso e fiducia, il patriota non valse a frenare nè dissimulare la viva e profonda emozione che lo invase. Non potè egli proferir motto per alcuni istanti, quasi in quel mentre si ripetesse entro se stesso le udite parole del Re, per imprimersele nell'animo, per misurarne tutta l'efficacia, per persuadersene della realtà; ma gli sguardi, i lineamenti del volto, la mossa dicevano in lui tutta l'ammirazione e tutto il commovimento che provava. Se si fosse trattato di cosa sua particolare, l'Azeglio non avrebbe avuto mestieri d'altro più per tenersi compiutamente assicurato; ma ora, colà, trattavasi di così importante bisogna e di sì gravi interessi, era egli mandatario, un po' per volontà, un po' per necessità di circostanze, di tanti sofferenti, di tutto un popolo schiavo, e l'impegno assunto dal suo augusto interlocutore era tale che all'autore di Ettore Fieramosca parve necessario, prima di terminare quell'abboccamento, aver ancora dal Re medesimo una conferma di quelle benedette parole. Gli pareva che oltre all'interesse medesimo della cosa, fosse suo dovere l'intendersi bene, non lasciare lì frammezzo il menomo equivoco, chiarir bene che cosa s'aspettava dal sovrano piemontese, per parte del liberalismo italiano, ed a quali patti quindi questo affidasse all'iniziativa di lui la grand'opera della redenzione nazionale, persuaso come fu sempre l'Azeglio che gli equivoci e peggio le sorprese, non fanno altro che danni.

Perciò così pres'egli a dire:

— Maestà, non è uno spediente rettorico nè una vana espressione questa: che io sono così commosso dalla sua veramente eroica risposta da non trovare acconcie parole per manifestare i miei sentimenti... Io la ringrazio dal profondo dell'anima, non già a mio nome, ch'io sono un nulla, ma a nome di tutti gl'Italiani, a nome della patria, per cui la Maestà Vostra chiude l'èra degli sterili tentativi che non approdano ad altro fuorchè a far versare un generoso sangue, ad impoverire il paese de' migliori caratteri ed a rendere più dura l'influenza straniera. Sia benedetta la Maestà Vostra che aggiungerà a quello della sua corona il più vivo splendore che possa illustrare corona di Re: la gloria d'essere il redentore della sua nazione e l'amore del popolo.

Carlo Alberto sollevò nobilmente la sua testa dalle pallide guancie e dalla fronte pensosa; nel suo sguardo profondo balenò un raggio di vita novella, di giovenile ardore, di audacia; il sorriso ebbe una franchezza d'espressione che non gli era solita.

Allora l'Azeglio volendo ribadire il chiodo e prendere ancora più precisamente atto delle promesse del Re, pensò ripetere la medesima frase pronunziata da Carlo Alberto, e disse con accento spiccato tenendo i suoi occhi rispettosamente ma francamente fissi su di lui:

Farò dunque sapere a quei signori...

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno affermativo col capo, risoluto e fermo, che indicava aver capito la ragione per cui Azeglio aveva ripetute quelle parole e confermava che le erano proprio desse ch'egli aveva voluto dire, con tutto il significato che loro si doveva dare.

Quindi si alzò ad accennare che l'udienza era finita. Massimo, alzatosi tosto contemporaneamente, tolse commiato, e stava per partirsi, quando il Re, come volendo suggellare ancora con un atto esteriore e speciale quel solenne impegno che per lui [126] doveva essere più sacro di qualsiasi giuramento, pose le mani sulle spalle dell'Azeglio ed accostò a quelle di lui le sue guancie, prima l'una e poi l'altra. In quell'amplesso poteva dirsi che il monarcato piemontese firmava il patto d'unione colla nazionalità italiana.

Massimo d'Azeglio uscì dal palazzo, come dice egli stesso, con un tumulto nel cuore, sul quale volava ad ali tese una grande e splendida speranza. Uno de' suoi sogni più caramente vagheggiati ed il cui effettuamento, benchè sperato, gli pareva pur tante volte così difficile che quasi impossibile, stava per diventare una realtà. Egli, discendente da una illustre stirpe di devoti alla monarchia, amava quella Casa di Savoia per cui avevano sparso il loro sangue i maggiori suoi; egli, occupato dallo spirito moderno, amava la libertà della patria; e questi due amori che parevano fino allora escludersi e contrastarsi, vedeva finalmente conciliati in quell'alleanza delle ambizioni del trono e delle aspirazioni della nazione di cui era stato simbolo il suo amplesso col re. Certo egli a quel punto non osava credere così vicini i meravigliosi avvenimenti che dovevano mettere in lotta il piccolo regno subalpino coll'impero d'Austria, ma quell'invocato conflitto egli sperava pur tuttavia vederlo prima di scendere nella tomba, e già accarezzava il pensiero di combattere col principe sabaudo quell'invocata guerra[13].

Ma ora l'importante e l'urgente era di comunicar tosto a chi si doveva i risultamenti di quel colloquio, perchè senza indugio si troncassero quei tentativi che l'Azeglio non sapeva bene quali avessero ad essere, ma di cui pure aveva sentore come prossimi a scoppiare; conveniva quindi scrivere subito ai capi delle cospirazioni nelle altre città italiane, e trovar modo di vedere e di parlare qui in Torino a Mario Tiburzio. Tornò nella sua cameruccia all'ultimo piano della locanda d'Europa: il giorno non era ancora venuto e la nebbia della strada più folta che mai lo faceva anzi ritardare. Massimo d'Azeglio scrisse anzi tutto un bigliettino a Romualdo di questo tenore: «Ella deve aver modo di trovarmi subito M. T. Bisogna assolutamente che io gli parli il più presto possibile. Venga anche Lei ad accompagnarlo qui da me, chè la non sarà di troppo. Li attendo tutta la mattinata alla mia locanda. Ho parlato al Re. Tutto va bene. M. A.» Mandò la letterina per un garzone all'indirizzo di Romualdo che s'era fatto lasciare da costui, e quindi si pose a scrivere a quelli dei suoi corrispondenti ne' varii luoghi, che poi dovevano comunicare le cose scritte a tutti gli altri. Prima di lasciare quei cotali egli aveva immaginato una cifra d'una fattura affatto estranea a tutte quelle consuete, e ne aveva a ciascuno cui importava, confidato il segreto: questa cifra, che a parer suo era sicurissima e tale da sfidare tutte le induzioni, riusciva però faticosa molto a comporsi; e quindi tra per la ponderazione d'ogni parola che egli usava, trattandosi di cosa tanto rilevante, tra per la difficoltà materiale della scrittura, Massimo impiegò nella compilazione di quella lettera parecchie ore.

Aveva appena finito, quando un picchio all'uscio lo avvisò che qualcuno voleva entrare.

— Avanti! disse Massimo vivamente volgendosi verso la porta.

L'uscio si aprì e comparve un cameriere.

— Due signori domandano di Lei, e dicono che Ella li aspetta.

— Vengano vengano, esclamò l'Azeglio con premura, ed alzandosi dal tavolino mosse loro all'incontro.

Il cameriere si tolse di mezzo, e due giovani entrarono. Erano Romualdo e Mario: ma il primo aveva sulla faccia serena tutta la fiducia, la letizia, quasi, che le poche ma incoraggianti parole del biglietto dell'Azeglio gli avevano ispirato; parole che erano per lui tanto più preziose e di polso in quanto che venivano da quell'uomo: Mario invece aveva sulla sua fisonomia rabbuiata un'espressione di scontentezza, di amaro abbattimento, di quasi rabbioso dolore.

Il nobile patriota fece entrare i due giovani, chiuse accuratamente la porta, e fattili sedere, cominciò senz'altro il colloquio entrando di botto nel bel mezzo dell'argomento.

CAPITOLO XIX.

Mario, liberato egli pure il giorno innanzi, era venuto quella sera medesima dagli amici a dar contezza di sè, perchè non fossero altrimenti inquieti de' fatti suoi.

— L'abbiamo scappata bella: aveva esclamato Antonio Vanardi, pallido ancora e quasi tremante: possiam dire senza troppa esagerazione d'averci visto il capestro alla gola; ed affè che non ci si sta affatto bene in que' transiti. Che cosa decidiamo noi ora di fare?

Mario lo guardò con solenne e quasi rampognante severità.

— Ciò che si ha da fare, l'abbiamo già deciso: diss'egli. Tutto è risoluto, tutto è disposto. Ier mattina sono partiti gli ordini pei nostri fratelli delle [127] varie città; non può manco venire in mente a nessuno il pensiero di rinunciare all'impresa o pur di sospenderla.

Questo pensiero poteva benissimo venire in mente a qualcheduno, poichè era quello precisamente che frullava pel capo del povero Vanardi; ma pure questi a cui ne imponevano la severità ed il vigore morale di Mario Tiburzio, non osò più ribatter parola e chinò il capo rassegnatamente con un doloroso sospiro.

Tiburzio continuava:

— Poichè la nostra buona sorte ci ha fatti per questa volta uscir sani e salvi dagli artigli dell'orco che ci aveva afferrati, conviene anzi con più premuroso studio adoperarci alla distruzione di quest'orco. Se già non avessimo deciso lo scoppio, dovremmo ora affrettarlo. Un'altra volta che ci prenda, la tirannia non sarà più così mite, e noi saremo irrevocabilmente perduti. Il pericolo che la congiura venga scoperta, che i sospetti se non altro su di noi s'afforzino vieppiù, è certo ed imminente. Quel poliziotto che mi seguì l'altra sera su per queste scale mi fu posto in confronto alla presenza del Commissario; lo riconobbi per l'affatto: è proprio quello ch'io aveva sospettato, il funzionario della polizia papale a cui venni condotto innanzi quando fui arrestato la prima volta in Roma. Se influssi superiori, che abbiamo saputo mettere in giuoco, ci hanno valuto il momentaneo successo della nostra liberazione, ciò non distrugge per certo i sospetti che ha sul mio conto quel poliziotto il quale mi ha perfettamente riconosciuto, ed il quale, punto dal dispetto di vedermi per ora sfuggirgli, metterà in opera ogni suo possibil mezzo affine di certificare la verità. È nostra maggior sicurezza adunque lo spingerci avanti che il ritrarci: ma oltre questa considerazione personale, abbiamo il dovere morale sacrosanto di non mancar più al solenne impegno che abbiam preso cogli altri per quell'audace opera cui fummo dei primi e dei principali noi a stabilire e determinare.

Qui Romualdo entrò in mezzo e raccontò il suo abboccamento coll'autore d'Ettore Fieramosca, le conclusioni che s'eran prese nel medesimo, e le speranze ch'egli ne aveva concepito.

Mario Tiburzio crollò il capo.

— Illusioni! illusioni! illusioni! esclamò egli con un accento tra sdegnoso ed addolorato. Il Re avrà una di quelle risposte ambigue che non impegnano a nulla, furbamente diplomatiche, da lasciare appiglio all'ambizione dinastica di valersi del partito nazionale quando le circostanze dessero a questo il predominio, da non precludergli intanto i supplizi dei patrioti che gl'impongano l'interesse del suo assolutismo ed il comando dell'Austria.

Romualdo ribattè, non senza qualche vivacità, che così poteva esser benissimo, ma che avrebbe potuto esser vero eziandio il contrario, cioè che il Re di Piemonte in buona fede abbracciasse il partito della nazione, poichè un uomo come Massimo d'Azeglio si lusingava che ciò avesse da avvenire; che per la lealtà e pel patriotismo dell'Azeglio Mario medesimo aveva dichiarato avere tanta stima e tanta fiducia da non poterlo suppor mai ingannatore; e i suoi talenti e la sua esperienza degli uomini e delle cose facevano quell'egregio assai difficile ad essere ingannato; che dunque, senza voler per quel momento prendere e nemmanco discutere alcuna risoluzione in proposito, era da aspettarsi di sapere il risultamento del colloquio di Massimo col Re, e su questo risultamento aggiustar poi la loro condotta, se andare innanzi come se nulla fosse avvenuto, oppure adottare altri propositi.

— Ma ciò è impossibile: aveva interrotto a questo punto Mario Tiburzio colla sua foga da tribuno. Pensa che il segnale è partito, che quasi è materialmente impossibile fare pervenire a chi si dovrebbe un cenno contrario. Il dado è gettato, vi dico, e conviene correr la sorte. Che? Gli altri insorgerebbero, e noi eccitatori loro in gran parte, staremmo cheti a vedere? Andrebbero a morire i nostri compagni, i nostri fratelli, e noi, in virtù dell'accortezza di combinazioni politiche impossibili, staremmo in salvo riserbandoci per altre occasioni che non verranno mai più?... Ma cotal pensiero, sappi, Romualdo, fu quello che mi tormentò in tutta questa fatale giornata trascorsa, fu quello che delle poche ore di carcere mi fece un inferno. Come! Gli altri combatterebbero in nome d'Italia e della libertà; e noi nulla! Il nostro disegno è così strettamente concatenato che il fatto d'ogni parte deve concorrere al successo del tutto, e noi lascieremmo mancare alla santa opera, alla salute dei nostri, a quella della patria, l'aiuto della parte che ci tocca, che ci siamo assunta?...

— E se tutta si potesse arrestare quella gran macchina che si è congegnata ed a cui si sta per dar la mossa? soggiunse Romualdo. Credi tu che a ciò non potrà aiutarci colle sue infinite attinenze Massimo d'Azeglio medesimo?

Mario Tiburzio uscì di casa gli amici per nulla scosso nella sua fiera risoluzione: non diniegò tuttavia di sentir poi le parole dell'Azeglio, e si avviò taciturno, concentrato in se stesso a quel suo secondo alloggio dove si nascondeva e dove aveva bisogno di trovarsi solo per meditare. A dispetto della forza della sua volontà e della tenacia de' suoi propositi, sentiva in sè una specie di amarezza che era come un rilasciamento di quel vigore che aveva sin allora posto nell'opera, un dubbio maggiore di quanti avesse avuto ancora mai, una specie di scoraggiamento. Gli pareva sentirsi mancare intorno gli elementi d'azione, sotto i piedi il terreno, nelle mani la forza: Titano della libertà, dopo aver creduto di essere riuscito a sovrapporre monte su monte per dar l'assalto all'olimpo della tirannia, sentiva ora che [128] quella base su cui erasi fondato, gli crollava di sotto, prima ancora che l'avessero colpita de' loro fulmini il Giove austriaco e i suoi Dei minori, i principi della misera Italia. Le parole e i contegni dei più fidi amici suoi, de' più valorosi tra' suoi complici gli erano un ammonimento. Certo, non ostante i dubbi e le riserve da loro ultimamente manifestati, questi amici non avrebbero mancato, egli ben lo sapeva; anche colla certezza di soccombere sarebbero camminati al pericolo; ma la fiducia nel trionfo veniva mancando in essi, ciò indovinava, ciò scorgeva Mario Tiburzio, il quale non ignorava come la fede nella vittoria sia in ogni dove e sempre elemento principalissimo per ottenerla. Ma ciò che succedeva in quelli de' più accesi fra i liberali, che più vicino contatto avevano con esso lui, perch'egli potesse comunicar loro quell'ardore e quella fede che lo animavano: ciò stesso doveva pure avvenire degli altri ed era presumibile che in tanto maggiori proporzioni, quanto difficilmente, nella generalità, si vantaggiavano di anime d'una tempra sì forte ed erano da quel focolare di patriotica fiamma lontani.

Era come un mesto presentimento il suo, ma un presentimento che doveva avere ben tosto ragione.

Nel recarsi verso la sua dimora, quantunque assorto in cosiffatti pensieri, tuttavia, per abitudine omai inveterata di uomo che deve badare continuamente alla sua sicurezza su cui da un momento all'altro può incombere un pericolo, Mario Tiburzio scrutava con occhio attento i luoghi che percorreva, esaminava, senza che apparisse, le persone che passavano. Già era egli giunto presso la casa a cui era diretto, quando s'accorse che un individuo cautamente lo veniva codiando, dopochè incrociatolo nel suo passaggio lo aveva osservato attentamente. Mario non dubitò punto che quella non fosse una spia, e volendo senz'altro appurare la cosa, si volse indietro e camminò risolutamente verso quell'uomo. Questi parve esitare: si guardò sollecito dintorno, come se cercasse una via di scampo o volesse vedere se c'era qualcheduno da poterli osservare, rallentò il passo, ma non ischivò l'incontro di Mario, e quando si trovò presso di lui tanto che il panno della sua manica radeva il mantello dello emigrato romano, egli levò le mani che teneva nelle tasche del suo soprabito e fece rapidamente con esse un certo segno, al vedere il quale Mario rasserenò di botto la sua fisonomia. Guardò egli pure dintorno se qualcuno li osservasse, e rassicurato su questo punto, rispose con altro segno, e poi, come se di nulla fosse, tornò a volgere i suoi passi nella direzione che aveva prima, entrò innanzi allo sconosciuto con passo nè più tardo nè più sollecito, e quell'altro lo venne seguitando lentamente dalla lungi.

Giunto alla porta che metteva nel quartierino che sappiamo, Mario diede ancora una ratta sguardata intorno a sè, e visto nulla che potesse destare il menomo sospetto, entrò nell'andito, dove si fermò ad aspettare. Non tardò ad essere raggiunto da quell'incognito. I due uomini si guardarono ben bene entro gli occhi, e si chiarirono che non si eran visti mai; allora Mario fece alcuni nuovi segni, a cui l'altro rispose col medesimo linguaggio; poi lo sconosciuto si curvò all'orecchio di Mario e pronunziò una parola che doveva essere un motto di riconoscimento.

Tiburzio fece un cenno del capo, che pareva un'affermazione: pose una mano sulla spalla di quell'uomo, e gli disse con accento sommesso ma quasi solenne:

— Venite.

Lo introdusse nella sua riposta cameruccia. Là tenendogli fissi in faccia i suoi occhi grifagni, Mario lo interrogò:

— Chi siete?

Quell'uomo disse dell'esser suo. Era un commesso viaggiatore d'una casa commerciale della media Italia, il quale, affigliato alle cospirazioni, serviva di comunicazione fra i congiurati dell'una e dell'altra città, schivando così i sospetti delle polizie.

— Chi vi manda?

Invece di rispondere il messo trasse di tasca una lettera suggellata in un modo particolare e senza dargliela nelle mani, mostrò a Tiburzio la scrittura dell'indirizzo.

— Conoscete questo carattere? diss'egli.

Era quello d'uno dei capi principalissimi della vasta congiura nel quale si raccoglievano i fili della trama di tutta l'Italia mediana ed inferiore.

— Lo conosco... Gli è lui che vi manda?

Il viaggiatore fece un cenno affermativo.

— Vedo che quella lettera è diretta a me.

L'altro ripetè il cenno affermativo, ma non gli diede tuttavia la lettera.

— È stato lui che vi ha indirizzato a questo luogo?

— Sì.

— Mi conoscevate di persona?

— No.

— Come dunque mi avete ravvisato per istrada?

— Mi furono detti esattissimi connotati che vidi rispondere a capello colla vostra persona. Sapevo che dovevate rientrare verso quest'ora. Vi riconobbi quasi per un istinto.

— Va bene. Sapete voi quello che mi si scrive costì?

— No.

— Datemi adunque la lettera.

— Attendo ancora...

— Che cosa?

— Che voi pronunziate una parola.

Fu la volta per Mario di chinarsi all'orecchio del suo interlocutore e di pronunziare un motto.

Appena uditolo, il messo s'inchinò e gli pose in mano senz'altro la carta ripiegata e suggellata.

[129] Mario Tiburzio esaminò ancora ben bene i caratteri della soprascritta ed i suggelli, poscia rotti questi con una vivacità ansiosa, lesse avidamente. Il suo volto si rimbrunì a seconda ch'egli proseguiva nella lettura; un'imprecazione di rabbia, che egli mozzicò pur tuttavia fra i denti, gli sfuggì dalle labbra contratte; la sua mano spiegazzò in un moto di collera la carta che teneva; come a dare alcuno sfogo alla subita interna passione in lui suscitatasi, fece concitatamente due o tre giri per la stanza, le braccia incrociate al petto, la testa china. Non tardò a riprendere il dominio di se stesso, benchè la tempesta gli ribollisse ancora furibonda nell'animo; parve tornato affatto in calma; si fermò, rispiegò la lettera che teneva stretta nella mano chiusa a pugno e la rilesse attentamente; poi sollevò adagio il suo viso un po' impallidito, su cui v'era un lieve sogghigno di sdegnoso disprezzo.

— E sta bene: diss'egli, come parlando a se stesso: penserò a quel che mi resta da fare.

Accompagnò fuori il messaggiero, e poi, tornato a rinchiudersi nella camera, si buttò a sedere presso al tavolino dove soleva lavorare, e si affondò in una dolorosa meditazione.

In quella lettera fatale gli si scriveva da quello che era principal capo della congiura nel resto d'Italia, come dopo le ultime buone novelle mandategli (novelle che abbiam visto far decidere Mario e i suoi amici all'ultima prova), le cose erano cosiffattamente cambiate che si affrettavano a dargliene avviso, perchè tutto si mettesse in sospeso. Mentre pochi giorni prima eragli stato scritto che tutto era pronto, ora lo si ammoniva che in tutta Toscana e in quasi tutta l'Italia meridionale non c'era più da contare sopra la insurrezione; alcuni dei capi erano stati arrestati dai governi, forse messi in sull'avviso da qualche traditore; alcuni s'erano salvati colla fuga, andando ad accrescere l'infelice schiera degli esuli in Francia; la maggior parte anco dei congiurati era giù dell'animo, il volgo stanco, spaurito, ignorante, poco propizio a novità cui aveva sempre visto fino allora apportatrici di maggiori tormenti. Esserci solo da contare ancora su qualche località delle Romagne, quantunque gli ultimi casi di Rimini avessero colà pure smaccato gli animi; doversi per conseguenza conchiudere che più della prudenza la necessità consigliava, imponeva sospendere per allora ogni tentativo di movimento, contentarsi a serrare il meglio possibile i fili della trama e confermando nella fede e nell'ardore della religione della patria i generosi che avevano dato il nome alla congiura, aspettare più propizie occasioni; ciò si affrettavano a comunicargli, affinchè, come già nelle altre parti d'Italia s'era fatto, Mario anco in Piemonte disponesse a raffrenare ogni moto; la medesima comunicazione dicevasi inviata contemporaneamente al Comitato di Parigi perchè anch'egli provvedesse.

Mentre il nostro capo della congiura scriveva da parte sua agli altri che il tempo era venuto dei supremi cimenti, che non si doveva indietrare, nè indugiar più, ed assegnava il giorno a quella lotta audacissima a cui tutti parevano anelare ed egli si lusingava che veramente anelassero, mandavasi dagli altri l'annunzio che lo abbandonavano in quella sublime follìa, e i suoi cenni per determinare il momento dello scoppio alla mina dovevano arrivare quando già erano rimosse le polveri, già spenta la fiaccola che doveva incendiarle.

Mario percosse col pugno chiuso la tavola che aveva dinanzi.

— Siamo una stirpe di codardi, dal sangue degenerato nelle vene, degradati figliuoli di padri valorosi le cui ombre arrossiscono di vergogna. Siamo da meno della decaduta Spagna, della corrotta Grecia. Colà almanco il popolo ha mostrato saper morire per la libertà della patria: e qui... qui un popolo di servi che si curva sotto il bastone, non sa neppure d'aver una patria!...

Quando il mattino seguente, Romualdo, ricevuto il bigliettino di Massimo d'Azeglio, s'affrettò a recarsi da Mario, trovò costui calmo, ma immerso in una mestizia profonda, colle traccie sul volto d'una notte dolorosamente vegliata.

— Che avvenne? domandò Romualdo con inquietudine ed interesse.

— Lo saprai fra poco: rispose Tiburzio con voce in cui non era la simpatica vibrazione del solito suo calore di accento. E tu che mi rechi?

Romualdo gli porse la lettera dell'illustre scrittore piemontese. Mario la lesse, e senza mostrare in nessun modo l'impressione ch'egli ne ricevesse, disse tranquillamente, restituendola all'amico:

— Andiamo adunque dall'Azeglio, poichè ci chiama.

Quando furono per mettere il piede fuori dell'uscio, Tiburzio arrestò il suo compagno posandogli una mano sul braccio.

— È strano un popolo che per riconquistare la sua libertà si fa a supplicare i principi che l'opprimono perchè glie la concedano e glie la rivendichino essi stessi: disse con amara ironia. Non importa; andiamo a vedere se quell'onest'uomo di Massimo ci vorrà star garante della possibilità di tal miracolo.

Non disse più una parola, finchè i due giovani comparvero, come abbiamo visto, alla presenza dell'Azeglio, il quale erasi mosso loro all'incontro.

— Signori, cominciò senz'altro l'illustre scrittore: questo giorno conta per me come uno dei più importanti della mia vita, ed ho speranza che debba contare eziandio per importantissimo nella storia d'Italia. La benigna fortuna, me, sincero ma umilissimo amator della patria, volle fare stromento di uno dei maggiori fatti che si potessero compire in beneficio della nostra terra: l'alleanza col partito nazionale della monarchia militare del Piemonte.

[130] E qui, con tutta l'esattezza e il calore provenienti dalla freschezza delle impressioni ricevute, Massimo d'Azeglio ripetè i discorsi avuti col Re e le solenni parole da esso pronunciate.

— Ed Ella crede? domandò con vivacità Mario Tiburzio.

— Il cuore lo vede Iddio: rispose gravemente l'Azeglio: noi uomini dobbiamo argomentare colla scorta della povera nostra ragione. Nelle sembianze, nell'accento, nello sguardo di Carlo Alberto, io ho creduto notarci la sincerità; nella sua generosa ambizione, nelle tendenze manifestate dalla sua giovinezza, nell'interesse medesimo della sua dinastia, io credo vederci argomenti non ispregevoli di fiducia. E poi..... parliamoci schietto. Abbiamo noi altri mezzi di fondate speranze di probabile riuscita, fuor questo?... Le infelici insurrezioni del passato non vi hanno ancora aperti gli occhi?... Fin quando vorremo avventurare il sangue dei più generosi cittadini in lotte troppo ineguali, di certissima sconfitta?... Inoltre, combattendo contro i Principi nostrani è sempre una guerra civile quella che noi facciamo; perchè non preferiremmo di combattere coi soldati di Carlo Alberto, sotto le bandiere di questo Re contro lo straniero?

— Si lo faremo: proruppe Romualdo. Venga l'occasione soltanto, e noi, più lietamente che nella sommossa, daremo la nostra vita sui campi di battaglia... Io credo in Carlo Alberto poichè Ella sig. d'Azeglio ci crede.

Mario non disse una parola: teneva curva la testa, chini a terra gli occhi, serrate le labbra, contratte le mascelle; si vedeva che un'interna passione lo rodeva, che una lotta avveniva in lui con crudo travaglio dell'animo suo.

— E spero che tutta Italia crederà in esso: esclamò Massimo con calore; non ostante la funesta ricordanza del passato. La sua parola per me è molto, ma non vi domando neppure di credere ciecamente in essa: non vi prego che d'indugiare e di attendere a veder le prove di fatto delle sue intenzioni. Confido che queste prove non tarderanno a venire. Ho insinuata nel discorso il bisogno di una politica più liberale, ho detto che io a nome del Re, fattosi patriota, l'avevo già promessa, avrei seguitato, s'egli non mi contraddiceva, a prometterla agl'Italiani: egli acconsentì. Or io, qui in questa lettera, ai liberali dell'altra Italia, e colla parola a voi, non domando che la pazienza ancora di poco tempo, che un indugio, se non volete una rinuncia, negli avventati e fieri propositi.....

— È cosa fatta, interruppe con impeto e con amarezza Mario Tiburzio. Legga questa lettera, sor Massimo.

E gli porse la missiva che aveva ricevuto la sera precedente.

— Tanto meglio, tanto meglio: disse Azeglio con un sospiro di vero sollievo.

— Tanto peggio, dico io, esclamò Mario: perchè questa è mancanza di vigore e di polso negl'Italiani. Ah! cosiffatta prudenza rassomiglia molto ad una debolezza che merita il nome di codardia: ah! un popolo che mendica ed aspetta dai suoi tiranni a spizzichi la libertà, mi ha tutta l'aria d'essere un popolo di vili.

— Mio caro, interruppe col suo calmo e sereno sorriso Massimo d'Azeglio, posti nelle condizioni in cui fatalmente è caduto l'Italiano, tutti i popoli sarebbero quel medesimo. Tenute sotto secoli d'una servitù corruttrice curve le tante generazioni d'una schiatta, e poi pretendere che questa schiatta sia un'accolta di eroi è pretendere l'impossibile.....

— Ma noi dunque siamo condannati ad eterno servaggio? proruppe Tiburzio. Come un'ereditaria infermità nel sangue i nostri padri ci hanno dunque trasmesso nell'anima l'abbiettezza servile? Oh! io ho sognato un dì che una generazione da questo putridume sorgesse, degna d'infrangere essa stessa le sue catene; ed a questa generazione mi lusingai di appartenere. Illusione! follia! delirio!.... Bene! Aspettiamo il miracolo d'un re che per l'ambizione d'un trono maggiore rischii di farsi balzare da quel che possiede abbracciandosi alla rivoluzione che i troni distrugge: speriamo ed invochiamo la meraviglia d'un principe italiano che muova guerra a quell'Austria dove ha cercato finora il suo più valido sostegno, e rallietiamoci sognando che le armi da questo re con istudio raccolte non devono servire a mantenere il suo popolo soggetto, sì a farlo libero dallo straniero.... Ma in questa gente che cospira, e poi al punto di levare la maschera e brandire le armi si spaventa e corre a rappiattarsi, troveremo noi tanti valorosi che vogliano in campo aperto esporre il petto ai cannoni dell'Austria? L'esercito piemontese a combattere quell'ardua guerra non basta. Ci vuole per esso l'alleanza dell'insurrezione popolare: bisogna che tutta la nazione si levi e si rovescii sullo straniero. E questo popolo addormentato, che non si scuote al sacro nome della libertà, si desterà esso alla voce d'un re?

— Nulla a questo mondo succede per subito ed impreparato cambiamento: disse l'Azeglio col suo accento calmo, amichevole, persuasivo; tutto ha mestieri d'una graduale e successiva transizione. Loro rivoluzionarii non tengono abbastanza conto di questa legge universale, e credono che di botto ciò che esiste possa essere spazzato via e sostituito da altro. Ciò che esiste, ancorchè sia male, ha una forza di resistenza cui non bisogna disprezzare. In Italia abbiamo varii Governi, che hanno intorno a sè la loro buona schiera d'interessi ed anco di devozioni. Io non voglio mica dubitare che col tempo si riuscirà a liberarsene ed a costituire eziandio quell'unità italiana che a noi pare ancora un'utopia, ma che nell'avvenire ha da diventare una realtà; ma noi alle prese colle difficoltà presenti non facciamo [131] che illuderci se tiriamo la conseguenza dei nostri calcoli, senza occuparci d'un elemento importantissimo. Gl'Italiani dalle sêtte non poterono essere che malamente preparati all'amore della libertà e dell'indipendenza. Questa preparazione è sì un lavoro avviato, ma che deve ancora compirsi, e per codesto è necessario che abbiamo la collaborazione, od almanco la tolleranza dei principi. La tema ed il rispetto eziandio di quella monarchia di cui voi altri fate troppo facilmente gettito, e credete eziandio più debole e più tarlata che non sia, allontanano molti dall'idea nazionale, perchè la credono alla monarchia avversa: quando questa medesima sia animata da spiriti nazionali, tutti, o la maggior parte almeno dei difensori di lei, diventeranno patrioti ancor essi. Avremo quindi all'impresa ogni cuor generoso di qualunque fede politica, a qualunque partito appartenga.

Mario Tiburzio, dopo un istante, disse:

— Pensai che l'uomo potesse oramai valere e volere, esplicare la sua personalità e governarsi nella società civile, senza più il politico feticismo della monarchia. Ho dunque torto. L'ignoranza e l'insufficienza dei più hanno dunque bisogno ancora di prosternarsi nell'umiliante pregiudizio d'un'adorazione, non ad un merito, ma ad un privilegio....

— Ad un'idea: interruppe vivamente l'Azeglio. Non si ha da disconoscere che la monarchia ha rappresentato ed effettuato il principio della solidarietà comune nel frazionamento d'interessi e di ordini che recò seco la barbarie e poscia il feudalismo del medio evo. Finchè dura ed ha forza una istituzione, vuol dire che l'idea cui essa rappresenta, non ha ancora compita la sua azione nel mondo.

— E sia! Una sua osservazione mi ha colpito, sor Massimo: quella che non si può ottenere di balzo più cose in una, nella via del progresso umano, quindi nemmanco in politica. Noi vagheggiammo un ideale di patria libera che l'Italia non ci può dar tuttavia. Conviene scendere a patti colle miserie della realtà.... Sì in ciò Ella e i compartecipi delle sue idee hanno ragione. Borro unum est necessarium: disse il suo compatriota ed amico Cesare Balbo; cacciar fuori lo straniero di casa nostra. Questo necessario ce lo dia il monarcato, e noi combatteremo con esso.... Senta, sor Massimo, e prenda queste parole come il solenne giuramento d'un uomo che non fallirà mai a ciò che promette: Carlo Alberto dia col fatto un solo argomento di credere alla sincerità del suo patriotismo, ed io, senza indugio, vincerò ogni mia ripugnanza per vestire l'assisa di suo soldato, e piegherò la mia dignità d'uomo libero alla disciplina di quell'esercito che combatterà lo straniero.

— La prendo in parola: esclamò lietamente Massimo d'Azeglio, tendendo al giovane repubblicano tuttedue le mani.

— Ed anch'io fo questo giuramento: gridò Romualdo che sentì passarsi in quell'istante per le vene quel certo fremito, quella scossa, quel brivido cui suscitano i trasporti d'entusiasmo quando la più nobile parte dell'anima umana è sollevata dalla sublime generosità del sacrificio.

— Ed io lo accetto da tutti e due, soggiunse lo scrittore patriota; e faccia Iddio che presto, come ora siam qui, congiunte le mani da una fede, da un ardore di desiderio, da una reciproca promessa, ci ritroviamo insieme sui campi di battaglia!

Massimo d'Azeglio, che poche ore prima aveva ricevuto coll'amplesso dal Re il patto della monarchia, ora colla stretta di mani di que' due cospiratori accoglieva il giuramento del popolo nel concetto nazionale.

Quando Mario Tiburzio uscì da quel colloquio, la sua anima era ancora in tale agitazione che nè idee nè parole poteva aver tuttavia ordinate e precise.

— Bisogna adunque mandare in fretta contrordini a chi si deve, perchè si diramino di grado in grado; disse Romualdo.

— Sì: rispose Mario con voce tronca: provvedi da tua parte e di' agli altri provvedano; farò io tosto quel che mi spetta.

Percosse colla mano la sua fronte.

— Ah! sopratutto bisogna antivenire la già preparata insurrezione della plebe... Corro tosto a quest'effetto... Addio!

E lasciato lì il compagno, Tiburzio si diresse di passo affrettato verso la elegante dimora del dottor Quercia.

Questi non c'era, e il mariuolo che gli serviva da domestico non seppe dire a Mario quando sarebbe tornato; l'emigrato romano passò parecchie volte e sempre n'ebbe la medesima risposta, e perciò finì egli per lasciare al domestico una sua cartolina da visita, raccomandandogli pressantemente di dire al padrone appena rientrasse che l'individuo il cui nome era scritto su quella polizza (era il nome supposto di Bigonci) aveva urgentissimo bisogno di parlargli, e lo aspettava perciò tutta la giornata in quel luogo ch'egli sapeva.

Ma, per isventura, Quercia quel dì aveva tutto occupato il suo tempo, così che non rientrava nel quartiere che era la sua abitazione ufficiale, fuorchè a notte inoltrata; e siccome le occupazioni ch'egli ebbe interessano appunto la nostra storia, lasciate che lo seguiamo passo passo in quella fatale giornata.

CAPITOLO XX.

Erano appena le nove e mezza, quando Francesco Benda si presentava alla dimora del sedicente dottor Luigi Quercia, chiedendo con molta istanza parlargli. Il domestico rispondeva che il padrone, rientrato a casa ad ora tardissima, dormiva tuttavia della grossa; e chi volesse vederlo doveva aver pazienza [132] e rifar la strada verso mezzogiorno, chè prima d'allora era più che difficile ei si svegliasse.

Francesco insistette. Egli disse dover parlare al dottore di cose molto di premura, e perciò pregava il domestico andasse coraggiosamente a svegliare il padrone, chè quest'esso, udito ciò di che si trattava, ne sarebbe stato, anzi che corrucciato, contento; e questa sua affermazione appoggiò coll'efficace prova di uno scudo che fece sgusciare nella mano del servo. Questi fu convinto all'evidenza dell'argomento, si curvò nelle spalle, e penetrò con coraggio da eroe nell'ancor fitta oscurità della camera da letto di Gian-Luigi.

Il capo della cocca era diffatti immerso nel più profondo e pacifico sonno che possa avere la meglio virtuosa innocenza. La sua attiva e concitata giovinezza, le cui forze egli non risparmiava punto in nessuna parte, aveva bisogno del riposo riparatore del sonno, e la sua robusta natura glie lo concedeva a dispetto delle passioni e delle ansietà dell'animo, dei conati e dei tormenti dello spirito.

All'entrargli del domestico in istanza Gian-Luigi non si svegliò. Il servitore socchiuse alquanto le imposte della finestra e fece penetrare colà dentro un po' di luce: apparve sopra la bianchezza dei cuscini la faccia giovenilmente rosea del medichino colla sua aureola di folti e finissimi capelli neri. Così leggiadra veduta era quella, che lo stesso infimo mariuolo che sosteneva la parte di domestico in quella sanguinosa commedia, stette sovraccolto e quasi ammirato a contemplarla. Placida era la fisonomia del dormente, ed un'ombra di sorriso, anzi, disegnavasi sulle labbra di lui vividamente rosse, come se graziose e seducenti immagini venissero ad allietargli i sogni in voluttuose visioni; ma di quando in quando eziandio, ad un tratto, con brusco passaggio, una nube scura invadeva quella faccia, una contrazione di muscoli cancellava quel sorriso ed atteggiava invece ad espressione minacciosa le labbra, un corrugamento di sopracciglia faceva accennarsi quella sua ruga caratteristica sul fronte, indizio del ribollirgli nell'interno le sue feroci passioni.

Un artista avrebbe contemplato a lungo quella sì speciale e leggiadra figura ricca di sì complesse espressioni e di sì originale individualità; ma il domestico che non era artista, non ispese molto tempo in siffatta contemplazione, ed accostandosi all'addormentato, gli pose abbastanza pesantemente una mano sulla spalla.

Gian-Luigi si destò in sussulto; di balzo fu seduto sul letto, gli occhi larghi e sfavillanti, terribile di minaccia l'aspetto, impugnata colla destra una pistola che teneva costantemente sotto il guanciale.

— La non si turbi, la non si turbi: fu sollecito a dire il domestico: non sono che io, Varullo.

In un attimo quell'espressione svanì dal volto del medichino: ripose la pistola, si stirò le braccia, si ricacciò poi sotto le coltri, e disse con impazienza:

— Che cosa ti salta, stupido mariuolo, di venirmi a svegliare nel migliore del mio sonno? Dimmi tosto la ragione di questa tua impertinenza; e se la non è una buona ragione, puoi far conto di ricevere una ricompensa adeguata dal mio bastone.

Il servitore gli disse di Francesco. Gian-Luigi pensò un pochino e poi rispose:

— Be', poichè gli è costì che aspetta, poichè dice che son cose di molta premura, fallo pure venire innanzi; se le saranno bazzecole, non ti mancherà la tua razione di legnate.

Due minuti dopo Francesco Benda era seduto presso il letto elegantemente incortinato, in cui, frammezzo a lenzuoli candidissimi della tela più fine che aver si possa, giaceva mollemente il dottor Quercia.

— Sono due i motivi che mi hanno fatto così indiscreto da disturbarvi nel vostro sonno: disse Benda rispondendo alla domanda fattagliene: uno riguarda voi stesso, e l'altro me.

— Davvero? esclamò Gian-Luigi levando alquanto il suo busto col sorreggersi ad un gomito, e sostenendo alla mano la sua testa. Ci avete da comunicarmi eziandio qualche cosa che mi riguarda?

— Precisamente.

— Bene. Allora incominciamo piuttosto da ciò che interessa voi; parleremo dopo dell'affar mio.

— No, mio caro, vi prego che facciamo precisamente l'opposto.

Quercia rispose con un cenno di gentile accondiscendenza, che significava non voler egli contraddire al desiderio del suo visitatore. Francesco trasse il suo portafogli di tasca, e levatone la cartolina della contessa di Staffarda, la porse a Gian-Luigi.

— Questo fogliolino fui richiesto di consegnare nelle vostre mani prima delle dieci di questa mattina.

Luigi non domandò da chi quel biglietto gli fosse mandato, ned altro; solamente guardò bene in viso colui che glielo porgeva, mentre tirando lentamente fuori della coltri la destra lo pigliava con mossa sbadata e indifferente.

— Mi permetterete dunque che io lo legga subito: diss'egli col tono d'un gentiluomo, levando via la spilla che ne teneva riuniti i lembi ripiegati.

Benda fece un atto di premuroso acconsentimento; e Quercia lesse le parole seguenti:

«L. mi ha domandato dei diamanti: bisogna che abbia qualche sospetto: vuole assolutamente vederli. Bisogna che ci parliamo. Alle undici di mattina aspettatemi nella palazzina.»

Alla lettura di questo biglietto Gian-Luigi provò una viva contrarietà; ma non lasciò scorgerne traccia nessuna.

— Il diavolo si porti quel noioso d'un conte! [133] pensò egli fra sè. Ci andava ancora codesta seccatura a rompermi le tasche. Eh sì che non so davvero come la si abbia da accomodare!

Ripose tranquillamente la carta sotto il cuscino, e disse a Francesco col più sereno sorriso:

— Ci avete ancora qualche cosa che mi riguardi?

— No.

— Bene. Vi ringrazio dell'esservi incaricato di questa commissione per me; ed ora, di grazia, parlatemi delle cose vostre.

— Si tratta di riprendere con Baldissero, disse Francesco, la partita che ci fu ieri mattina così noiosamente interrotta.

— Ah sì? esclamò Luigi con interesse pieno di gentilezza. Lo pensavo che non avreste voluto finirla così di piano: ed io non avrei fatto diversamente.

— Siccome voi siete stato uno de' miei compagni nella prima, ho pensato non vorreste rifiutarvi di assistermi anche nella seconda giuocata che spero finalmente vorrà essere più seria.

— No certo che non rifiuto: e mi avreste recato offesa, non disponendo più della mia amicizia. Che cosa dunque si ha da fare?

Francesco disse che bisognava recarsi verso mezzodì al whist-club, dove sarebbero stati aspettando i padrini di Baldissero, coi quali non c'era altro che da intendere un'ora acconcia di quella medesima giornata (perchè egli era desioso ed impaziente di finir tutto il più presto possibile) ed un luogo sicuro da ogni sorpresa, dove potesse succedere il combattimento a quelle stesse condizioni che erano già state per l'altro ritrovo stabilite.

— Va benissimo: disse Quercia, quando Francesco ebbe finito. Verso mezzogiorno è giusto l'ora che più mi comoda. Ho appunto qualche faccenduccia che per quel tempo sarà compiutamente sbrigata. Mio compagno in codesto, penso sarà eziandio l'avvocato Selva.

— Sì; e dove ho da dirgli che vi potrà trovare per recarsi insieme con voi al convegno?

— Alle undici e tre quarti al caffè Fiorio.

— Ve lo manderò. Sarò colà anch'io al tocco per udire le prese decisioni. Vi ringrazio tanto, caro Quercia: e addio!

Si strinsero la mano: Francesco partì, e Luigi saltò giù dal letto e si pose a vestirsi con molta sollecitudine.

Diede una scampanellata, e il domestico fu lesto ad accorrere colla sua aria mezzo famigliare ed insolente, mezzo umile, sottomessa e timorosa:

— Vai e fa attaccar subito il cavallo al mio brougham, e sia pronto prima ch'io sia vestito, e sai ch'io sono sollecito.

Varullo vide dalla faccia del medichino che non era il caso di prendersi libertà nessuna di fare osservazioni e si affrettò ad ubbidire.

Mezz'ora dopo il legnetto di Gian-Luigi si arrestava innanzi alla porta che si apriva nel muricciuolo di cinta del cortile, in fondo al quale sorgeva la casetta dei misteriosi ritrovi del galante dottor Quercia.

Il medichino, come il giorno innanzi, trovò tutto disposto in quell'elegante appartamentino a ricevere chi sopraggiungesse e scaldato il salotto da un buon fuoco acceso nel camino. Luigi sbarazzatosi del suo pastrano, del suo cappello e dei suoi guanti, si pose a passeggiare su e giù di quel salotto, le braccia incrociate al petto, con un'aria d'impazienza e di contrarietà.

— Purchè la non mi faccia aspettare quella matta, borbottava egli fra sè. Ho tante cose per il capo, e conviene salti fuori ancora quest'incidente a darmi fastidio ed a rubarmi del mio tempo, di cui per le infinite bisogne che mi toccano non ne ho proprio d'avanzo. E quel signor conte che cosa viene egli a seccare colla sua indiscreta curiosità? Manderei ai cento mila diavoli tutto, moglie, marito e i diamanti...

S'udì un leggiero fruscio di abiti di seta nella camera vicina.

— Meno male che la è qui: soggiunse fra sè Gian-Luigi con un sorriso di superba compiacenza, non le ho lasciato prendere il vezzo di farmi aspettare.

L'uscio si aprì, e la contessa di Langosco, che avendo trovato le porte socchiuse aveva potuto penetrare fin lì, entrò nel salotto con passo sollecito, pallida e commossa.

Luigi le andò incontro con una galanteria affatto famigliare, e per saluto, prendendola alle mani, la trasse al suo petto, l'abbracciò e le pose un bacio sulla fronte: ma quell'amplesso e quel bacio erano più il materiale adempimento d'un'usanza che non la sincera espressione dell'amoroso affetto, della gioia del rivedersi. Candida sentì questa differenza, e siccome in lei, al di sopra di tutto, era pur sempre la donna amante, posto in oblio ogni altro argomento, ella non ebbe più pensiero che dell'amor suo, non ebbe più inquietudine che per la sorte di esso. Gettò il suo braccio intorno al collo del giovane, e pendendo quasi da quello, guardò con occhio pieno di amore e di dubbio insieme la faccia di lui, e gli chiese con voce ansiosa e presso che spasimante:

— Luigi, m'ami tu sempre?

Il medichino ebbe negli occhi un'espressione di impazienza insieme e di scherno; un'espressione che significava:

— Eh! gli è bene questo il tempo di tali smancerie. Ecco lì come son fatte le donne: colla spada di Damocle sulla testa vorrebbero ancora sentirsi parlar d'amore.

Non fu che un lampo, codesto; ma Candida che teneva lo sguardo fisso negli occhi di lui, lo vide; staccò il suo braccio dal collo dell'amante, ed allontanandosi da lui d'un passo, piegò il capo con [134] mossa abbandonata e piena di desolazione, e soggiunse amaramente:

— Che domando mai, folle ch'io sono!... Quando una donna è ridotta a chiederne per udirselo dire, per esserne assicurata, la sua sorte è già decisa.

Luigi che non voleva, cui non conveniva che troppo scoraggiamento occupasse l'anima della contessa, Luigi, desideroso tuttavia di mantenere sempre a quel grado di caldezza l'affetto di lei, non tardò a dare alla fisionomia ubbidientissima alla sua volontà una sembianza d'amorosa espansione che ognuno avrebbe detta la più sincera del mondo, e tornando a riprendere le mani della donna, traendola di nuovo a sè, stringendola un'altra volta e con più calore al suo seno, disse colle note più vibranti e più efficaci della sua voce ammaliatrice:

— Se t'amo sempre!... Vedi se codesta è una domanda da farsi!... Folle, tu hai detto, a chiederlo... Sì, te lo dico anch'io, folle davvero, perchè dovresti averne senz'altro la sicurezza... Forse che io posso cambiar mai il mio cuore? Forse che non mi sono dato a te per la vita e per la morte? Forse che per l'animo mio vi esiste altro bene più che tu non sia?

E queste parole accompagnava, come si suole, con caldi baci amorosi. Qual donna potrà resistere mai al valore di questi argomenti e sotto l'influsso dei medesimi conservare ombra di diffidenza o sospetto? Candida fu tutta invasa dalla tenerezza e dalla soavità di quei felici istanti d'amoroso trasporto.

Fu Luigi medesimo che primo ridusse il discorso all'argomento che era stato la cagione del ritrovo.

Candida allora narrò tutto quanto erale accaduto la sera innanzi col marito, e finì per iscongiurare il suo amante trovasse modo di ottenere dal gioielliere X che non disdicesse al conte Langosco, quando si recasse da lui, quello che la moglie gli aveva detto.

Trovar questo modo non parve a Gian-Luigi la cosa la più facile del mondo. Bene poteva egli recarsi dall'orafo e pregarlo di dare poi al conte quelle risposte che convenivano; ma come presso di quel cotale avrebbero avuta autorità le sue parole? Dopo molto riflettere ed avere proposti parecchi spedienti, che cimentati all'esame non reggevano, Quercia non seppe altro di meglio risolvere fuor questo, che cioè Candida medesima scrivesse al sig. X, il quale conosceva la scrittura di lei, una lettera dicendogli che cosa ella desiderasse da lui, e Luigi glie l'avrebbe recata in persona, appoggiando a voce le raccomandazioni fatte nel bigliettino.

Siccome il tempo stringeva, e perchè era necessario che Luigi si recasse dal gioielliere prima che il conte vi fosse, e perchè Luigi medesimo, per la promessa data di trovarsi al caffè Fiorio alle undici e tre quarti, aveva un'ora appena innanzi a sè da fare ciò che avevano stabilito. Quercia propose senza ritardo partire, e Candida, benchè in segreto certo a malincuore, accettò la proposta. Però nell'atto di separarsi ed uscire ella prima dalla palazzina, Candida si fermò e stringendo pel braccio l'amante che ne l'accompagnava fino alla soglia, disse con forza:

— Ad ogni modo, Luigi, tu non dimenticherai la promessa che mi hai fatta di restituirmi senza fallo quei diamanti prima di lunedì, perchè io li possa recare al ballo di Corte. Ci tengo, è indispensabile.

Gian-Luigi atteggiò le labbra ad uno strano sorriso che fu però fugacissimo.

— Sta tranquilla, rispose, pel ballo di Corte che avrà luogo avrai tutti i tuoi diamanti. Non son io che manco alla mia promessa.

— Ci conto! Addio.

Candida mormorò quest'ultima parola in un bacio soave, e lesta corse via traverso il cortile: a piedi per la neve s'affrettò essa verso Piazza Susina, dove da una carrozza da nolo si fece ricondurre a casa.

Gian-Luigi, partita la contessa, fece più franco quel sorriso che aveva appena abbozzato in presenza di lei.

— Il ballo di Corte! diss'egli. Spero bene che non ci sarà più nè ballo nè Corte.

Salì poscia nel suo legnetto che aveva fatto aspettare e corse dal gioielliere.

Erano appena le undici, quando Gian-Luigi in faccia all'elegante bottega del signor X scendeva di carrozza, e tutta la probabilità era che il conte di Staffarda non fosse a quell'ora nemmeno alzatosi di letto, altro che già uscito di casa e giunto a quel luogo. Ma ciò che pareva improbabile era invece il vero. La prima persona che Gian-Luigi vide nel metter piede in quel fondaco fu il marito di Candida, che lo salutò col suo ironico sorriso e colla sua superba gentilezza.

Amedeo Filiberto, pei suoi malanni, per la sua solita febbrile concitazione del sangue, usava dormire poco sempre: quel residuo di notte che passò dopo il ritorno dal ballo, per la più trista condizione dei suoi interessi in cui trovavasi, per la curiosità e i sospetti fors'anco destatisi in lui al contegno della moglie che gli aveva dato sentore d'un mistero sotto quella mancanza dei diamanti, il conte aveva dormito anche meno del solito, val quanto dire non aveva potuto chiuder occhio. Verso le dieci, suonato pel suo cameriere, aveva voluto scendere di letto e vestirsi in abbigliamento da città.

— E la contessa? domandò al cameriere ad un punto della lunga operazione della sua teletta.

Il cameriere non capì per nulla che cosa il padrone volesse dire con quella richiesta.

— La contessa.... che cosa?

Langosco provò una specie d'irritazione nel doversi spiegare, e rispose con accento d'impazienza [135] e di collera contro il cameriere, che non aveva avuto il talento di dirgli ciò ch'egli desiderava senza ulteriori spiegazioni.

— Ve ne domando le nuove: ha ella dormito bene, come sta?

La cosa era così straordinaria che il cameriere rimase a bocca larga con in mano il pettine con cui ravviava quel po' di chiome che ancora rimanevano in capo al padrone.

— Signor conte, io non ne so nulla: diss'egli; ma se Lei desidera che me ne informi...

Amedeo fece un cenno affermativo colla testa, assai brusco: il cameriere non attese altro ed uscì dallo stanzino col suo pettine in mano, ma per rientrare dopo nè anche trascorso un minuto secondo.

— Ho mandato Battista ad informarsi dalla cameriera della signora contessa.

Battista di lì a due minuti veniva a render conto della sua ambasciata.

— La signora contessa deve star benissimo, perchè è già uscita.

Langosco fece un trasalto sulla seggiola.

— Già uscita!... Davvero?

— Sì, signor conte.

Questi non dubitò menomamente, che la causa di tale mattutina e sollecita uscita non si attenesse a quel mistero ch'egli aveva sempre più voglia di penetrare. Decise recarsi il più presto possibile dall'orafo, e vestitosi in una fretta che molto stupì il suo cameriere, corse al fondaco del signor X; dove Gian-Luigi lo trovò entrandovi affrettato egli pure.

La vista del conte era tale un colpo da far perdere le staffe ad uno meno valente in arcioni del sedicente dottore. Gian-Luigi, per quanta fosse nel suo interiore la contrarietà, per quanto il timore di esser giunto troppo tardi, non mostrò tuttavia la menoma ombra di turbamento sulla sua faccia serena ed allegra.

— Qui costui! pensava frattanto il marito di Candida. Gli è certo venuto per intendersi col gioielliere affine di nascondermi la verità. Ben sospettavo che nell'imbroglio ci entrava questo sciagurato.

— Il conte mi ha preceduto: diceva da parte sua fra se stesso Gian-Luigi: diavolo! purchè io sia arrivato ancora in tempo.

Si avanzò col suo solito contegno elegante e spigliato, e con una famigliarità che gli permetteva il trattare verso di lui del conte, porse a quest'ultimo la mano.

— Eh buon giorno, conte: diss'egli: come mai già in giro a quest'ora? Sono appena le undici!

Amedeo Filiberto toccò lievemente la destra di Quercia e con una tinta di freddezza orgogliosa nella sua gentilezza aristocratica, per cui nè anche il più suscettivo avrebbe potuto trovar pretesto di adombrarsi, disse a sua volta:

— Buon giorno.

E poi si volse al gioielliere, come per significare dovess'egli continuare il colloquio cui l'arrivo del nuovo venuto non aveva punto da interrompere.

Il signor X, che stava innanzi al suo nobile avventore nel contegno d'un umile soggetto innanzi ad un'autorità, s'affrettò ad ubbidire a quel muto cenno, dando la risposta che ancora doveva ad una interrogazione che il conte, entrato appena pochi minuti prima, gli aveva mossa.

— No, signor conte, diss'egli, di questa mattina io non ho avuto l'onore di vedere la signora contessa.

Gian-Luigi capì che la compiuta spiegazione non era ancora avvenuta, ma che s'egli tardava ad intromettersi non c'era più rimedio.

Il marito di Candida aveva presa in mano una busta aperta in cui brillava di mille fuochi una collana di diamanti, e pareva tutto preso dal piacere di contemplarne gli smaglianti riflessi alla luce.

— Bellissimi questi diamanti: diss'egli; somigliano un poco a quelli di mia moglie... E gli è appunto a proposito di que' suoi diamanti, che credevo fosse venuta ella stessa a parlarvi.

Il gioielliere a cui, come abbiam visto, era capitato di vedere il giorno prima quei diamanti, di cui ora gli si parlava, in casa dell'usuraio Nariccia, non capì punto a che mirassero le parole di Langosco, ma travide esserci in codesto qualche pasticcio in cui conveniva star guardingo per non commettere delle balordaggini; laonde non sapendo bene che cosa rispondere andava cercando qualche innocente parola che non dicesse nulla, allorchè, come per influsso di magnetismo, i suoi occhi furono attirati dagli occhi neri di Gian-Luigi che lo fissavano con un'insistenza e con una forza indicibile. Non un muscolo della faccia del giovane si mosse, non un lineamento ebbe la menoma contrazione; ma quello sguardo vivo, brillante, imperioso comandava così assolutamente e con tanta chiarezza tacere, che il signor X, il quale aveva incominciato ad emettere la voce per quella risposta indifferente, cui credeva dover fare, soffocò le parole in una esclamazione che pareva di meraviglia e svelava tutto il suo imbarazzo.

Quercia levò l'indice della mano destra e se lo pose sulle labbra a riaffermare con quest'atto il suo muto comando di silenzio.

Il conte s'avvide che qualche cosa intravveniva fra que' due: si voltò in fretta e colse l'impaccioso stupore sulla faccia del gioielliere e il dito inguantato di Gian-Luigi sulle labbra, dove finse di subito ravviare la curva leggiadra dei baffi. Depose la busta che avea presa in mano e continuò tranquillamente, come se di nulla non si fosse accorto:

— Avete fatto benissimo a consigliar mia moglie di rifarne l'aggiustamento. Quello in cui sono incastrati attualmente è già antiquato, e son persuaso [136] che con una rifornitura più leggiera e più elegante, ben bene ripuliti, faranno del doppio la loro figura.

Il povero orafo, imbrogliatissimo, non rispose che con un inchino e con un — «certo, certo» che non lo comprometteva in nessun modo.

Gian-Luigi pensò non dover indugiar più ad intervenire.

— Scusi, signor conte, se vengo ad interromperla, ma ho una commissione di premura ed importante da fare al signor X, e subito subito, perchè sono aspettato fra pochi minuti ad un convegno in cui è un dovere l'essere esattissimo. Le chiedo perciò licenza di poterle rubare per un momento il signor X, tanto da dirgli quattro parole.

Amedeo Filiberto tenne un istante il suo sguardo ironico, diffidente, malizioso, fisso sulla faccia franca del giovane, che lo sostenne senza batter di ciglia, poi per risposta fece col capo un lieve segno di annuire.

— Abbia dunque la compiacenza, signor X, soggiunse Quercia, di darmi due minuti.

Passarono nel gabinetto vicino che serviva da scrittoio, e il giovine diede all'orafo senz'altro la lettera di Candida.

— Da parte della contessa di Staffarda, diss'egli vibratamente con tono che era insieme di preghiera e d'autorità: le renda il servizio di fare quello di cui essa la prega.

Il gioielliere la lesse in fretta.

— Per bacco! diss'egli di poi: l'affare non è mica tanto semplice come la contessa crede..... Dire a suo marito che ho io presso di me quei diamanti!... Non è mica una bazzecola... E se per caso andassero perduti?

Gian-Luigi fece un atto d'impazienza.

— Impossibile! interruppe tronco ed asciutto. La non corre rischio alcuno, l'assicuro io... E poi, tenendo Ella in mano questa lettera della contessa, non ha forse una sufficiente guarentigia?

— Eh! fino a un certo punto codesto è vero.

— La contessa ha momentaneamente disposto di quei gioielli...

— E so ben io dove sono; pensò il signor X che indovinò molta parte di vero.

— Ha gran desiderio ed interesse che suo marito non sappia nulla... Essa le sarà riconoscentissima, signor X, se Lei le vorrà rendere questo piccolo servigio.

Il gioielliere stette ancora un mezzo minuto a riflettere. Per affrettarne la decisione nel senso che egli voleva. Quercia soggiunse:

— Per lunedì la contessa conta come cosa sicura riavere i suoi diamanti; Ella terrà in suo potere la lettera di lei finchè non li veda coi proprii occhi nello stanzino di teletta della contessa. Questa la farà venire presso di sè per mostrarglieli, ed allora Lei renderà alla contessa medesima quel bigliettino.

L'orafo pensò che di questa guisa egli non poteva correre più nessun rischio, che rifiutandosi a ciò che gli veniva chiesto, perdeva sicuramente un'avventrice che gli fruttava buoni guadagni: acconsentì di fare secondo il desiderio della contessa.

Ripassando per la bottega Gian-Luigi salutò con pochi detti il conte, che gli rispose con anche meno parole, e poi si affrettò verso il caffè Fiorio, dove Giovanni Selva, mandatovi da Benda, già stava attendendolo.

Il marito di Candida al gioielliere, che gli era tornato dinanzi, disse ripigliando il discorso di guisa da non lasciar apparire che il menomo sospetto fosse entrato in lui:

— Temo soltanto che questo riaggiustamento e questa ripulitura di diamanti non ci sia tempo da farli prima di lunedì, e lunedì sera pel ballo di Corte bisogna che mia moglie li abbia.

Il gioielliere si percosse la fronte come uomo a cui si affaccia subitamente un'idea a cui non aveva pensato.

— È vero! esclamò. Ella ha ragione, non c'è tempo. Nè la signora contessa, nè io non ci abbiamo badato. Per assestarla faremo così: non darò loro che una pulitura superficiale, ed alla rimontatura ci penseremo di poi.

— Va bene... Intanto lasciatemeli un po' vedere; desidero che li guardiamo insieme per intendere d'accordo la nuova rifornitura da farsi.

L'orefice fu il più imbarazzato uomo del mondo.

— Scusi, balbettò egli, vorrei subito contentarla... Sarebbe un onore per me sentire il suo gusto e ricevere i suoi ordini..... Ma il caso vuole... è anzi la prudenza che mi ha consigliato così..... capisce che non si tiene qui in bottega un tanto valore... Il fatto è che quei diamanti li ho rinchiusi nella mia gran cassa di ferro che ho nell'officina.

— Ah! esclamò il conte con una certa espressione che poteva significare di molte cose. Però non insistette, raccomandò al gioielliere che non mancasse di restituire i diamanti per la giornata del lunedì e se ne andò.

— Signora contessa, diss'egli fra sè coi denti stretti, voi mi prendete troppo per un marito da commedia..... Voglio penetrare questo mistero.

Egli non doveva penetrarlo che più tardi, in conseguenza d'un'orribile tragedia.

CAPITOLO XXI.

Luigi Quercia e Giovanni Selva, unitisi al caffè, si recarono senza ritardo al whist-club, dove con tutta quella esagerazione di forbitezza che è propria in queste occasioni di chi si picca d'esser gentiluomo, furono accolti dai due padrini di Ettore di Baldissero, il conte di San Luca ed un altro giovane titolato.

Le parole non furono molte; si trattava soltanto [137] di riconfermare tutte quelle condizioni che già erano state intese pel ritrovo del giorno innanzi, e di assegnare un'ora per lo scontro ed un luogo sicuro da ogni possibilità di venir disturbati. Siccome eguale era la premura di finirla in ambe le parti, l'ora fu senza discussione stabilita per le tre di quel medesimo pomeriggio; e quanto al luogo San Luca propose e fu consentito che gli facessero l'onore di accettare l'ospitalità in una sua villa che aveva nelle vicinanze, nel giardino della quale vi era un praterello circondato tutt'attorno da una siepe uniforme, il quale era il campo chiuso più adatto del mondo per ammazzarsi due galantuomini. Nella palazzina della villeggiatura, egli avrebbe fatto prontare tutto ciò che occorreva per dare i primi soccorsi a quello dei combattenti a cui fosse stata avversa la sorte, e colà non ci sarebbe stato muso di poliziotto nè coccarda di carabiniere, che avrebbe potuto intromettersi.

I quattro padrini si separarono con nuove e maggiori le cerimonie di gentilezza, e mentre da parte loro quelli di Baldissero andavano a comunicare a quest'ultimo le avute intelligenze, Selva e Quercia tornarono al caffè Fiorio ad aspettarvi Francesco che aveva detto di capitarvi verso il tocco.

Fu egli esatto al convegno, e senza mostrare il menomo turbamento udì le comunicazioni de' suoi secondi. Con quali emozioni avesse passato le ore della notte e quelle della mattinata, non istarò a ridire, potendo ognuno che legge agevolmente per sè immaginarsele. Ad esaltare il suo coraggio, a fargli disprezzare il pericolo concorrevano e lo sdegno giusto e vivissimo ancora che la condotta di Baldissero aveva eccitato e teneva desto in lui ed anche più il dolcissimo ineffabile trasporto d'intima, superba gioia che gli procurava la felice acquistata certezza d'essere amato da Virginia. Il suo onore, che la delicatezza de' suoi sentimenti già gl'imponeva di conservare intattissimo, di rivendicare con energia da ogni oltraggio, ora il sapersi amato gli faceva un obbligo più sacro, uno scrupolo più permaloso di mantenere immune da ogni menoma cosa che la gente, fosse pur anche per un pregiudizio, potesse credere un appannamento; amava meglio mille volle morire che sembrare agli occhi di quel tiranno che è il mondo, di cui tutti subiscono la prepotenza pettegola, agli occhi di lei sopratutto, di non aver l'animo al di sopra d'ogni arrivo di codardia. La forza di porre innanzi a codeste fattizie suscettività di orgoglio personale i suoi doveri di figliuolo, di fratello, anche di cittadino, che per altre più utili prove deve conservare la sua vita; codesta forza non gli permettevano di avere e l'odio cui, volere o non volere, sentiva pure pel suo avversario, e la falsa idea mondana dell'onore cui egli veramente di buona fede spartiva colla comune delle persone ammodo, e il suo medesimo amore. Però, quando quella mattina, egli, come di solito, si trovò in mezzo alla sua famiglia, in quelle occasioni di vita comune che sono di tanta dolcezza, benchè l'abitudine riesca a non farne sentire ad ogni volta tutto il pregio; in mezzo alla sua famiglia, che sgomentata dal pericolo passato, e lieta nella falsa assicuranza che questo fosse ito per sempre, era per lui ancora più amorevole di prima, Francesco ebbe a provare uno stringimento di cuore, uno schianto dell'anima a nascondere i quali occorse tutto il vigore ond'era capace.

Ma il profondo, vivissimo dolore, benchè dissimulato, ch'egli dovette provare una seconda volta, quando nello spiccarsi dai suoi non potè a meno di pensare che quello era forse l'ultimo momento in cui gli fosse dato vederli; codesto dolore riuscì a sgombrare del tutto dall'animo di Francesco quel certo abbattimento, quell'abbandono d'energia, per così dire, per effetto del quale gli aveva sorriso ad un punto l'idea di offrirsi vittima volontaria alla morte. No; ora non voleva più presentarsi bersaglio rassegnato e passivo ai colpi dell'insolente suo avversario; ora voleva difendere la sua vita, quella vita che non era tutta sua, ma per sì stretti e sì cari vincoli si atteneva alla vita di altri, era parte eziandio della loro esistenza; e siccome in questa fatta di orribili giuochi, per difendere la propria vita non c'è altro mezzo che distrugger quella che ci sta dinanzi, egli pensò con una certa voluttà d'odio a riuscir vincitore in quella lotta mortale, a vedersi cader dinanzi l'orgoglioso che l'aveva oltraggiato.

Ciò non l'avrebbe ravvicinato di certo a Virginia; ma non era essa insuperabile, anche senza questo fatto, la distanza che da lei lo separava? E poi, in fondo in fondo, egli era geloso di quel giovane che abitava con esso lei, in cui il suo istinto d'amante aveva sentito un rivale, che poteva ogni giorno, quasi ogni ora, vederla, parlarle, respirare l'aria ch'ella respirava. Lo avrebbe tolto di mezzo, avrebbe smaccata quella fiera superbia, si sarebbe almanco vendicato.

Ed è con questi sentimenti che verso le due e mezzo Francesco salì nella carrozza di Quercia per recarsi alla villa del contino San Luca.

Vi giunsero in breve. Il custode, avvertito, aprì la cancellata, appena ebbe udito l'avvicinarsi della carrozza, fece un rispettoso saluto al passaggio di questa e diede un tocco alla campana che stava presso alla porta del suo casotto ad avvisare dell'arrivo di gente quelli che si trovavano nel palazzo, la cui facciata si vedeva sorgere in fondo ad un abbastanza lungo e largo viale piantato di ippocastani. Dal viale e dalla spianata che s'allargava innanzi alla casa erasi fatto levar via la neve, e le ruote del brougham corsero leggermente scricchiolando sulla sabbia finissima del suolo immollato. Le finestre del palazzo erano chiuse colle persiane fuorchè al pian terreno dove le persiane spalancate lasciavano brillare i tersi cristalli degli usci a finestra che [138] mettevano lungo la facciata sopra una specie di terrazzino che per cinque gradini lunghi quant'era lunga la casa scendeva al livello della spianata.

Appena la carrozza di Quercia si fu fermata innanzi a quegli scalini, all'altezza dell'uscio di mezzo della facciata, la porta a vetri si aprì e comparve sulla soglia un domestico in gran livrea. Francesco e i suoi due secondi entrarono in una vasta sala che era un'anticamera elegante; sul passo d'una porta che si apriva alla loro sinistra videro il conte San Luca che erasi mosso cortesemente ad incontrarli. Si salutarono con una certa solennità e in silenzio, e mentre il domestico ed un suo compagno che trovavasi pure colà, aiutavano i nuovi venuti a spogliarsi dei loro pastrani e mantelli, il padrone di casa disse con quel tono di raffinata urbanità che è proprio della nostra aristocrazia:

— Ho preceduto qui i miei amici per aver l'onore di riceverli, se lor signori fossero arrivati, come diffatti è avvenuto, prima dell'ora posta; ma non dubito che a momenti i miei amici saranno qui ancor essi.

Si tolse di mezzo all'apertura dell'uscio, facendo col cenno invito d'entrare ai tre giovani, i quali così passarono in un salotto arredato con ricco buon gusto, dove fiammava un bel fuoco che già aveva intiepidito per bene l'ambiente.

Uno dei domestici che era entrato in seguito ai tre ospiti, dispose intorno al camino quante poltroncine occorrevano e poi s'avviò per ritirarsi.

— Farete riparare la carrozza di questi signori sotto la tettoia del cortile, gli comandò il padrone; e prenderete cura del cocchiere.

Il domestico uscì, e tosto dopo si udì la carrozza allontanarsi girando dietro la casa.

— S'accomodino, signori: disse San Luca, accennando alle poltroncine.

Quercia si gettò in una che trovavasi più vicino ad un elegante tavoliere intarsiato, sul quale stavano un portasigari di porcellana di Sèvres ed una cave-à-liqueurs che aperta lasciava scorgere due ordini di bicchierini e quattro bottigliette di liquori. Francesco ringraziò con un cenno del capo l'invito di sedere, ma rimase in piedi appoggiando un gomito allo sporto del camino e voltando le spalle al grande specchio che stava sul medesimo. Selva fece alle parole di San Luca la medesima risposta che Francesco e si pose ad esaminare un quadro di merito che pendeva alla parete.

— Posso offrir loro un avana ed una goccia di rosolio?

Francesco e Giovanni rifiutarono cortesemente; Luigi allungandosi della persona, senza punto levarsi da seduto, tese la mano e prese sul tavolino il portasigari, dove con cura di intelligente della materia trascelse un grosso sigaro di foglie avanesi del colore della carnagione d'una mulatta, cui accese e cominciò a fumare con famigliare noncuranza.

— Signor conte, disse Benda con forbita cortesia, le sono molto grato di aver voluto dare al mio ritrovo col signor Baldissero, l'ospitalità della sua campagna.

— È un onore ch'essi mi fanno: rispose il conte col tono medesimo.

S'udì allora il rumore che facevano le ruote di una carrozza girando sulla sabbia umida della spianata, e traverso i cristalli dell'uscio-finestra si vide un legno chiuso, a due cavalli, dar la voltata innanzi alla casa e venirsi a fermare all'altezza dell'uscio d'ingresso. Mezzo minuto dopo la porta del salotto s'aprì, ed uno dei domestici gettò dentro due nomi titolati. Entrarono Ettore di Baldissero accompagnato dall'altro suo padrino.

Francesco sentì il cuore battergli un pochino più forte; non si mosse egli dal suo posto, ma levato superbamente il volto, gettò uno sguardo verso i nuovi arrivati: al vedere la faccia insolente del marchesino il nostro giovane amico s'accorse che quel palpito più frequente non era prodotto da nessuna emozione di tema, sibbene piuttosto da una nuova maggior vampa d'odio.

San Luca accorse sollecito all'incontro de' suoi amici; Quercia drizzatosi in piedi e Selva spiccatosi dalla contemplazione del quadro, fecero due passi ancor essi verso l'uscio d'entrata; Baldissero che veniva primo fece un cenno di saluto generale colla testa e diede la mano al padrone della villa.

— Spero di non essere in ritardo: diss'egli.

— No, rispose San Luca, mancano anzi alcuni minuti all'ora precisa.

— Signori, disse Quercia avanzandosi, credo inutile ogni indugio e possiamo recarci sul luogo.

— Prego uno di loro signori, soggiunse il contino, a voler prima venir meco per esaminare la località da me scelta affine di vedere se ci hanno qualche osservazione da fare in proposito.

— Vado io stesso: disse Luigi ed uscì col conte che lo fece passar primo.

Ettore sbadatamente, coll'aspetto e le mosse di un'assoluta indifferenza, non volgendo pure uno sguardo di sfuggita a quel luogo dov'era il suo avversario, andò all'uscio che metteva sul terrazzino, dove si pose a guardare traverso i vetri: Francesco stava sempre alla parete precisamente opposta della camera, presso il camino; Selva e l'altro padrino di Baldissero rimasero in mezzo della sala.

San Luca e Quercia non tardarono guari a tornare.

— Ho esaminato il posto: disse quest'ultimo ad alta voce per essere udito da tutti, senza rivolgersi a nessuno in particolare; e un migliore non si potrebbe avere.

— Allora, poichè già ne conosce la strada, disse San Luca, la prego a volerci guidare i suoi amici e precederci.

[139] Luigi prese il braccio di Francesco che s'era accostato tranquillamente, e con Selva passarono innanzi; i loro avversari li seguirono ad una distanza di circa venti passi: un domestico dall'anticamera tenne dietro a tutti portando la cassetta delle pistole.

In breve furono sul terreno. Era un bel praticello che San Luca aveva fatto eziandio sgombrar dalla neve, e intorno al quale correva una siepe di carpini ora assecchiti ma così uniforme che non poteva servire in nissun modo d'aiuto pel punto di mira, qualunque fosse la posizione dei tiratori.

Siccome tutto era già stabilito e regolato, senza altro indugio i duellanti furono allogati alla determinata distanza di 15 passi, e loro si diedero le pistole caricate a vista di tutti quattro i padrini.

A Quercia, come il giorno precedente, era assegnato di dare il cenno di far fuoco. Il domestico era stato mandato via da San Luca.

Luigi si spiccò, facendo un passo innanzi, dal gruppo dei padrini che s'eran posti a metà della distanza ond'erano separati i combattenti ad una ventina di passi dalla linea del tiro; si levò il cappello e salutò i duellanti che stavano volti di fianco l'uno in prospetto dell'altro, la pistola sollevata all'altezza della faccia.

— Signori, diss'egli con voce chiara e vibrata, avrò l'onore di dare i tre segnali convenuti con tre colpi delle mani.

Battè una prima volta palma a palma, e i due avversari armarono il cane della pistola; poscia attese un minuto secondo prima di dar l'altro colpo, al quale i duellanti dovevano prender la mira; ma dal secondo al terzo batter di palme pose un intervallo piccolissimo, e due lingue di fuoco partirono simultaneamente dalle bocche delle due pistole, e quasi una sola esplosione risuonò per l'aria. I due avversari stettero immobili, dritti l'uno in faccia all'altro. Selva si slanciò verso Francesco, e Quercia gli tenne dietro, mentre i padrini di Ettore si recavano da parte loro presso costui.

— Ebbene? domandò con ansia Giovanni: non sei colpito?

Benda fece un lieve sorriso.

— No: rispose: udii un fischio qui presso l'orecchia destra, e null'altro.

— Incolume: diceva a sua volta il marchesino a San Luca; pare che abbiamo tirato ai passeri della siepe.

I padrini ripresero le pistole, le ricaricarono, e messele di nuovo nelle mani dei combattenti, si rifece da capo.

Questa seconda volta, appena udito il colpo delle due pistole, ruppe dalle labbra di Francesco un grido quasi soffocato che pareva più di sorpresa che di dolore: lasciò egli cader la pistola che teneva e portò vivamente la mano al fianco destro, quattro dita al di sopra dell'anca.

— Son ferito: diss'egli, vacillando sulle sue gambe, e prima che Giovanni e Luigi, che tosto accorsero, fossero giunti presso di lui, l'infelice stramazzava per terra.

Anche questa volta Selva fu il primo ad essergli presso: lo strinse colle sue braccia sotto le ascelle e fece a sollevarlo.

— No, no, gli gridò Quercia che soprarrivava, lo lasci pur disteso; comincierò per esaminare tosto tosto la ferita.

Giovanni inginocchiatosi per terra teneva sollevato dal suolo con mano amorevole il capo del caduto. Gian-Luigi si curvò ancor egli.

— Dove fu Ella colpito? domandò, mentre lesto lesto traeva fuor di tasca una custodia di cuoio entro cui erano allogati i ferri chirurgici.

Francesco era diventato assai pallido; gli occhi parevano esserglisi allargati e guardavano con una strana espressione che pareva attonitaggine ed inquietudine insieme; la voce gli si era affievolita di subito e il rifiato diventato affannoso.

— Qui... qui... dove tengo la mano: rispose levando dal fianco la destra tutta imbrattata di sangue.

— Lo lasci pure distendersi lungo e supino per terra: disse Quercia a Giovanni che levatosi in fretta il pastrano lo ripiegò a fagotto e lo pose come cuscino sotto il capo di Francesco; io farò di levar subito la palla dalla ferita, e sarà tanto di guadagnato.

Così dicendo, con mano esperta e sollecita, Luigi sbottonava il soprabito e il panciotto del giacente, tagliava la camicia e il corpetto di lana che questi aveva su pelle, e scopriva il buco fatto dal proiettile nella carne fra la penultima e l'ultima costola, più presso a questa che a quella.

Cominciava egli per tastare tutt'intorno alla ferita con mano delicata, poscia introduceva nel foro della medesima il suo dito indice sottile ed affusolato.

Selva teneva lo sguardo ansioso fisso negli occhi del ferito, e questi con pari ansietà stava guardando Luigi.

— Soffri? domandò Giovanni.

Francesco si sforzò a sorridere.

— No: rispos'egli: mi sono sentito come una forte puntata... Mi pare che la palla mi sia penetrata nelle viscere... La sento qui nell'inguine...

— Zitto, zitto, non parli: disse con autorità Gian-Luigi continuando la sua esplorazione; quelli non sono che effetti di consenso.

Ad un tratto Giovanni mirò la fronte di Francesco aggrottarsi e la fisionomia assumere un'espressione di amarezza, di dispetto e di disgusto. Selva levò gli occhi e vide ai piedi del giacente dritti i due padrini del marchese, e quest'esso tre o quattro passi più in là, colle braccia incrociate al petto, che guardava quello spettacolo in una mossa dove l'imbarazzo [140] e fors'anco la pena si dissimulavano sotto un riserbo che pareva un'indifferenza.

— Signore, disse vivamente Giovanni a quello dei padrini avversarii che gli era più presso, faccia capire al marchese che il meglio da fare per lui è d'allontanarsi.

Il padrino di Ettore a questa uscita parve esitare un momento sulla risposta da darsi, ma il suo compagno, che era San Luca, s'affrettò a dir egli:

— Sì, conduci via Baldissero; io vi farò poi tosto saper le novelle.

Quell'altro andò con premura presso di Ettore, passò il suo braccio su quello di lui, e lo trasse con sè verso la casa.

Francesco li seguì fino al di là della siepe con uno sguardo indefinibile, in cui non v'era odio nè rancore, ma una profonda amarezza, come un rimpianto, come una dolorosa rampogna.

San Luca rimase.

— Ebbene? Domandò egli a Quercia tutto intento ancora nell'esplorazione della ferita.

Gian-Luigi non rispose di subito; questa esitazione parve a Giovanni ed al contino un cattivo indizio; si guardarono sgomentati e impallidirono lievemente.

Anche Francesco n'ebbe la medesima impressione. Di botto l'immagine della sua famiglia si presentò alla sua mente un po' sin allora confusa.

— Ah mia madre! esclamò egli con accento straziante, che chiamò le lagrime negli occhi di Giovanni. La vedrò ancora mia madre?... Quercia, ditemi la verità.... Non sarebbe neppur pietà l'ingannarmi.... Debbo io morire?

Gian-Luigi levò la faccia pacata, tranquilla e grave come d'uomo che sa il peso delle sue parole.

— Vi dico la verità, Benda, come vorrei che in simile caso la si dicesse a me: rispose. Non posso per ora nulla affermare di positivo; conviene che io tasti la ferita colla tenta in luogo e positura più comodi che questi. Mi lusingavo poter trovar qui subito la palla ed estrarnela; ma non mi fu fatto. Spero però che nessuna delle costole sia intaccata, e che il proiettile non abbia penetrato nella cavità del torace. Ora il meglio è che ci riduciamo in casa.

San Luca volle domandare i domestici per farlo trasportare di peso; ma Francesco disse parergli di poter camminare e preferire codesto. Quercia affermò che dov'egli ci reggesse, sarebbe anche meglio facesse quel piccolo tratto di strada coi proprii piedi; e il ferito, aiutato a levarsi su, appoggiato da una parte a Giovanni e dall'altra a Luigi, s'avviò con passo abbastanza franco verso la casa. I domestici, fatti venire dal contino, seguirono alla distanza di dieci passi, pronti ad accorrere, se nascesse bisogno dell'opera loro.

Francesco fu sdraiato sopra un letticciuolo e Gian-Luigi si accinse ad un più accurato esame della ferita chiamando in suo soccorso tutte le cognizioni chirurgiche onde s'era fornito nel suo passaggio traverso il corso di medicina all'Università. Ad un tratto Giovanni, che, come prima stava cogli occhi intenti a scrutare la faccia di Quercia, vide sulla fronte di costui una nube, sulle labbra una specie di contrazione che esprimevano una spiacevole sorpresa, una subita tema.

— Che cos'è? non potè Selva tanto frenare il suo sgomento che non chiedesse. Che glie ne pare?

Anche il ferito s'accorse di quel nuovo sentimento venuto nel medico. Una subita maggior pallidezza gl'invase le guancie, l'occhio si fissò ansioso su quello di Luigi, e con voce calma, benchè con labbra un pochino tremanti, domandò:

— La cosa vi par dunque grave, dottore?..... Vi ripeto la mia preghiera: non nascondetemi la verità... Sono un uomo... Mi sento capace di guardar freddamente in faccia alla morte.

Ed all'infelice parve realmente che lo scarno spettro di questa gli comparisse, al di sopra della spalla del medico ricurvo su di lui, ammiccandogli con ghigno feroce. Oh! morire così giovane, con tanta esuberanza di forza, d'affetti e di vita! Morire oscuramente, inutile ed amato!... Quella morte che la sera innanzi gli era sembrata per un istante un rimedio, un benefizio, una pace, ora gli tornava come la più tremenda sciagura, la più crudele sentenza del destino. In una rapida visione piena insieme di turbamento, di dolcezza, di penoso rimpianto, vide ad un tratto le care immagini di sua sorella, di suo padre, di sua madre, della fanciulla che adorava. Dover abbandonare tutto e tutti, e per sempre!... Sentì un singulto salirgli, per così dire, dal cuore affannato alla gola, ed ebbe tuttavia tanta forza di volontà da soffocarlo nella strozza.

Gian-Luigi levò lentamente gli occhi in volto al trafitto, e lo guardò un istante, quasi volesse chiarirsi se il giacente era in realtà, come diceva, capace di udire il vero e di guardare imperterrito in faccia alla morte.

— Mio caro: diss'egli poi con un sorriso ed un accento amorevoli che dinotavano come da quel tacito esame fossero ancora accresciute in lui la simpatia e la stima pel giovane, non vi tratterò certo come una femminetta, chè non lo meritate. Eccovi la pura verità: la ferita è più grave di quello che mi fosse sembrato dapprima, perchè la palla ha scalfitto una costola ed è penetrata... fin dove?..... Questo non ve lo posso dire..... Ha ella toccato qualche organo essenziale?..... Non vi so affermare nè il sì nè il no... Spero quest'ultimo, che non è impossibile, ma non vi taccio che il primo è più facile... Quanto a pericolo per la vita, sul momento, vi affermo sull'onor mio che non ce n'è.

Francesco trasse un sospiro.

— Allora, diss'egli, ho tutto il tempo ad andarmene [141] a casa... Ah povera madre mia!... Se qualcheduno potesse recarsi a prepararla a questo brutto colpo!

San Luca fece un passo verso il giacente e disse con nobile cortesia:

— Se Lei mi credesse capace di compire questo ufficio, la prego a voler disporre di me. Così nessuno de' suoi amici dovrebbe spiccarsi dal suo fianco.

L'offerta del contino fu accettata con riconoscenza da tutti.

In quella entrò un domestico che venne a parlar piano al suo padrone.

— Il marchese di Baldissero, disse poi questi a Francesco, addoloratissimo dell'accaduto, ansioso di saper sue notizie, manda a chiederne.

— Ah! esclamò Benda volgendo la faccia dall'altra parte.

— Vado io stesso a dargliene: continuò San Luca, mentre gli altri accoglievano con un glaciale silenzio le sue parole.

— Appena eseguita la sua incombenza, disse Quercia al contino che s'avviava, corra allo spedale San Giovanni e mandi in casa Benda, senza il menomo ritardo, il cerusico *** che è il primo operatore della città.

— Lo manderò colà colla mia carrozza.

San Luca uscì, e Quercia procedette a fare sulla ferita di Francesco una prima fasciatura.

Quando il contino giunse all'officina Benda, erano presto le quattro, e in quella stagione dell'anno cominciava ad annottare. Discese egli di carrozza, lasciando in essa Baldissero e l'altro padrino, che erano partiti con esso lui dalla villa; ed a Bastiano il quale all'udire il rumor della carrozza, era, secondo il solito, saltato fuori del suo camerino, domandò se il signor Giacomo era in casa, e se e dove si poteva parlargli.

Il padre di Francesco tornava appunto allor'allora dall'opifizio, e ponendo piede sotto il peristilio, udiva la richiesta fatta al portinaio e s'avanzava sollecito verso il signore che la faceva.

— Son qua io stesso, diceva egli, chi è che mi cerca?

San Luca salutò e disse il suo nome.

— Ella vuol parlarmi? domandò a sua volta sor Giacomo, a cui la figura, il contegno alquanto impacciato, il nome e il titolo di quel signore destavano indefiniti sospetti ed una specie di ansietà paurosa.

— Signor sì.

— Si compiaccia venir meco: disse il fabbricante; e precedendo il conte affine di essergli guida, s'avviò verso le scale e condusse il visitatore nel suo studiòlo. Colà, fattolo entrare e sedere con tutte quelle formalità che s'usano fra persone di garbo, sor Giacomo per incominciare il discorso, invitò il conte a parlare, colla solita richiesta:

— In che cosa posso servirla?

— Ella è un uomo, cominciò San Luca, che con tutta la sua scioltezza e l'audacia in quel momento avrebbe preferito tutt'altra bisogna da compire, e un uomo risoluto e di coraggio. Credo adunque miglior consiglio, senza tanti avvolgimenti e preparazioni che di solito non fanno che aumentare lo sgomento, abbordare con tutta franchezza la verità.

Giacomo Benda, a questo preambolo, sentì stringersi il cuore da una mano di gelo.

— Ella è dunque venuta ad annunziarmi una sciagura! esclamò egli impallidito di subito.

San Luca curvò tristamente il capo e stava per cercare colle parole di attenuare quell'improvvisa impressione di spavento e di dolore che vedeva dipingersi sulla faccia dell'industriale, ma questi non glie ne lasciò il tempo.

— E questa sciagura ha colpito mio figlio? soggiunse con impeto angoscioso, alzandosi di scatto e in tutte le membra tremante. Il misero padre aveva traveduto l'orrenda verità. E so qual è questa sciagura, continuava egli con voce affievolita dallo spasimo: egli si è battuto?

— Sì: rispose il contino con mesta attitudine.

Quell'uomo forte e robusto, pieno ancora di vita e dotato d'un coraggio a tutta prova, vacillò, come se stesse per cadere.

San Luca che s'era alzato ancor egli, fece sollecito un passo verso di lui, pronto a sorreggerlo se e' mancasse; Giacomo gli prese una mano e la strinse forte, quasi con una tacita minaccia e un compresso furore.

— Morto? domandò egli con voce che appena era un soffio.

— No: s'affrettò a sclamare il conte: ma ferito... gravemente ferito.

Giacomo mandò un grido soffocato, e lasciando la mano dell'uomo che gli dava tal colpo crudele si premette il cuore dove troppo dolorosamente era penetrata la botta. Ma al grido di lui, un altro grido, e più doloroso, e più straziante e disperato, rispose prorompendo improvviso dalla porta, che, apertasi violentemente, diede il passo ad una donna commossa da un'emozione di spasimo cui nulla vale ad esprimere.

— Mio figlio!... Mio figlio!... gridò essa: ferito!... Dov'è?... Voglio vederlo... In nome di Dio, in nome della Vergine, per l'anima sua, mi conduca da lui!... Voglio vederlo!

Chi può spiegare il segreto istinto d'un cuore di madre? chi i misteriosi, intimi, ineffabili legami che l'anima della madre legano indissolubilmente, senza cessa all'anima de' figli anche lontani, onde si compenetrano le loro esistenze ed ogni danno dal figliuolo sofferto si ripercote nella sensibile anima materna? Poichè Francesco fu uscito, Teresa era stata inquieta ed aveva provato un inesplicabil disagio: le assicurazioni dategli dal marito che la promessa del marchese [142] di Baldissero allontanava dal capo di Francesco ogni pericolo, il racconto che il figliuolo aveva fatto del suo abboccamento riconciliativo colla famiglia dell'avversario al ballo della baronessa, racconto al quale il giovane aveva studiosamente accresciute le tinte di sincerità e di amichevolezza; lo sforzo di Francesco medesimo a sembrar più lieto e senza pensieri che mai; tutto questo non era pur tuttavia riuscito a scacciare dal fondo del cuore di Teresa una specie di paura che era un presentimento. Avrebbe voluto potersi tenere il figliuolo all'arrivo de' suoi sguardi almanco tutto quel giorno, proteggerlo, oltre che colle sue preghiere, colla sua presenza: se avesse osato l'avrebbe scongiurato a non uscire di casa fino al domani. Ma verso le tre, quando appunto Francesco affrontava la morte, la inquietudine fino allora vaga e indefinita della madre amorosissima, divenne un vero tormento insopportabile; ad un punto sentì mancarsi addirittura il respiro, tanto s'accrebbe di subito l'angoscia, come se stesse per rompersi improvviso lo stame della sua vita. Ebbe la coscienza, l'avvertimento d'una gran sciagura capitata. Era l'istante forse in cui Francesco trafitto dalla palla del marchese Ettore di Baldissero, precipitava al suolo. Non potè frenar più, nè dissimulare la smania di sgomento che la tormentava. Voleva accorrere presso il marito che trovavasi nella fabbrica e dirgli mandasse tutta la gente onde poteva disporre in cerca di Francesco, affinchè, trovatolo, glie lo riconducessero tosto a casa, che a calmare la sua ansia mortale non c'era altro mezzo fuor quello di rivedersi il figliuolo dinanzi; voleva senz'altro mandare ella stessa il fido Bastiano... ma dove? Se l'avesse saputo non avrebbe esitato a correre essa medesima.

Maria, testimone e confidente di questi spasimi della madre, invano tentava sedarne i tumulti dell'animo; combatterne le paure; e non otteneva altro effetto che di sentire ella stessa invaso il suo cuore dai funesti presentimenti.

Quando la carrozza di San Luca si fermò al portone della casa, madre e figliuola non dubitarono un momento che con quel legno giungesse la spiegazione, la conferma, ahi forse! delle loro paure. Teresa si precipitò fuori della stanza per correre all'incontro di quel nunzio, fosse egli buono o cattivo; e Maria le tenne dietro agitata ancor essa; ma come stavano per uscir nell'anticamera, udirono in questa passar Giacomo col visitatore, che si dirigevano verso il gabinetto di studio. Si fermarono palpitanti le due donne per lasciarli passare, nascoste dietro le imposte dell'uscio; poscia l'ansia della povera madre era troppa, perchè la resistesse alla tentazione; impose bruscamente silenzio alle timide rimostranze della figliuola che voleva combattere il proposito materno, la rinviò aspramente nel salotto, ed ella, con un palpito di cuore che Dio vel dica, si recò all'uscio dello studiòlo del marito per origliare.

Non udì ben distinte tutte le poche parole che si scambiarono, tanto era il tumulto di tutto l'esser suo che le orecchie le ronzavano come intronate, ma sentì pronunziare da Giacomo: «mio figlio»; poi da quello sconosciuto i detti: «gravemente ferito!» Le si sconvolse la ragione: quello ch'essa provò nel cuore, nel cervello, nell'intimo dell'esser suo impossibile dirlo: si precipitò come forsennata, quasi furibonda, con quell'eccesso di trasporto che la natura dà anche alla più timida delle madri quando si tratta di difendere la prole.

San Luca si sentì commosso più che non avrebbe creduto, quasi spaventato innanzi all'esplosione di quel dolore materno.

— Si calmi.... si rassicuri: diss'egli in tutta fretta: non è gran cosa.... una ferita leggera....

Teresa si torceva le mani in una contrazione di spasimo: i suoi occhi ardenti saettavano sguardi pieni d'ansia, di dolore, d'odio sull'uomo che le stava dinanzi.

— Voglio vederlo: ripeteva essa colle labbra convulse: subito.... voglio vederlo finchè vive.... Mi conduca da lui.... se non vuole ch'io la maledica... E non sa che è tremenda la maledizione d'una madre a cui si viene a dire che suo figlio è ucciso?

— La lo vedrà, non dubiti.... verrà qui fra poco egli stesso.... Le ripeto che la ferita non è tale da sgomentarsi.

— Me lo giura Ella? proruppe Giacomo, il quale in presenza della moglie aveva sentito maggiore il bisogno di raccogliere tutte le sue forze e di aver calma e coraggio per tutti. Mi giura che la ferita di Francesco non è mortale?

Il conte esitò un istante: pensava che mentr'egli avrebbe dato cotal giuramento, l'infelice colpito in parte così essenziale del corpo avrebbe potuto già soccombere: e la pietà della sua risposta assicurativa riuscirebbe allora a quei poveri genitori anche più crudele della verità.

— Le ho già detto ch'essa è grave: rispose egli mestamente; un giudizio definitivo non si potè dare così di botto... tuttavia tutto induce a sperare.....

La misera madre non udì altre parole. A quella forza, a quell'impeto del primo terribile commovimento, successe nel suo organismo la riazione; il cuore che le si era messo a palpitare con irrefrenata violenza, come se fosse scoppiato ad un tratto, s'arrestò; il sangue le invase il cervello e le soffocò l'intelligenza: sentì morirsi, levò le mani e le agitò come fa chi annega, invocando aiuto nella suprema convulsione dell'agonia, e sclamando: «Hanno ucciso mio figlio!» cadde come corpo morto tra le braccia del marito che sentiva ancor'egli sotto l'influsso del dolore smarrirsi la sua ragione.

San Luca fu d'un salto al cordone del campanello, e lo tirò con forza e replicatamente. La prima delle persone che accorsero fu Maria, la quale, timorosa pur troppo anch'essa di funesta novelle, [143] stava con ansia inesprimibile aspettando il ritorno di sua madre. Entrò, vide Teresa abbandonata sopra un seggiolone dove il marito l'aveva posta: vide suo padre percotersi la fronte e stracciarsi i capelli in un parosismo di supremo dolore, e la fanciulla, l'anima sconvolta, la stretta della più fiera angoscia nel cuore, si gettò al collo della svenuta, esclamando fra le lagrime con accento di amore, di cordoglio, di angoscia inenarrabile:

— Mamma! Mamma! oh mamma mia!

E due giorni prima quella famigliuola così mite ed amorosa era tanto lieta, e pareva da lei tanto lontana ogni minaccia di sventura!

Non ostante la sua leggerezza egoistica, San Luca, quando raggiunse i suoi compagni che lo aspettavano nella carrozza, era profondamente commosso e turbato.

— Preferirei qualunque altra così, diss'egli, al fare una seconda di queste ambasciate. Gettare sur le carreau un individuo gli è nulla, ma venire innanzi ad una madre a dirgli: «stanno per portarvi vostro figlio bucato in petto da una palla,» corbleu! gli è piacevole come inghiottire degli aghi..... Ho creduto averla uccisa quella povera donna.

Nessuno gli rispose: il marchesino, che era nell'angolo della carrozza dalla parte opposta a quella per cui entrava San Luca, si volse a guardare in fuori pel finestrino: il conte comandò al cocchiere li conducesse di trotto serrato all'ospedale di San Giovanni, e poi montò nel cocchio tirandosi dietro quasi con rabbia lo sportello; erano tutti preoccupati; certo colle idee che avevano sul duello, niuno di loro sentiva il menomo rimorso nella coscienza, ma pure erano presi da un cattivo umore che in realtà era un rincrescimento profondo.

Francesco intanto, fatta la fasciatura della ferita, fu lasciato riposare un poco prima di accingersi a trasportarlo nella carrozza per ricondurlo a Torino, come Quercia giudicò che si poteva fare senza pericolo nessuno. Il giovane, allungato sul letticciuolo stato preparato, era in una condizione affatto strana; quello che gli era accaduto non gli sembrava pur vero; teneva gli occhi serrati per concentrar meglio le sue idee che gli scappavano dalla mente sbalordita, e parevagli che, aprendoli, avrebbe da trovare che tutto era un sogno soltanto; e li apriva diffatti ad ogni minuto, con una specie di sussulto, ma girandoli attorno, larghi, quasi attoniti, vedeva Giovanni Selva che stava guardandolo con amorosa sollecitudine, Luigi Quercia che gli toccava i polsi, vedeva lì presso i suoi panni macchiati di sangue, sentiva nel costato la trafittura, nell'interno del petto un dolor muto, sentivasi impacciato a muoversi come se invisibili legami lo tenessero a quel lettuccio; si trovava in pieno campo della brutta realtà, faceva a Giovanni un mesto sorriso e tornava a chiuder gli occhi. La ferita in vero non lo faceva soffrir molto; più che acuto dolore locale provava un sordo, generale malessere, una specie di prostramento, come se ad un tratto gli fossero stati recisi o almanco fiaccati i nervi precipui onde la volontà trasmette il moto ai muscoli. Il cervello un po' confuso aveva in parte cotale impotenza ancor esso, onde le idee, pur essendo giuste e precise, gli tornavano però meno spiccate e robuste, quasi sfumate e svaporantisi. Era una benignità della Provvidenza che di quella guisa non lasciava compire tutta la sua funesta azione al pensiero crudele del dolore de' suoi.

Quando a Luigi parve tempo, il trafitto, rivestito come si potè meglio de' suoi panni, fu preso a braccio da due domestici che San Luca aveva lasciati agli ordini dei padrini di Francesco, e dolcemente trasportato nella carrozza. Sedutolo nel fondo, adagiandovelo il meglio che si poteva, Giovanni e Luigi si posero innanzi a lui, e raccomandato al cocchiere di non andare che di passo per far minori i sobbalzi, la mesta comitiva s'incamminò verso la fabbrica. Prossimi ad arrivarci, Quercia trasse di tasca la boccetta d'un cordiale che aveva avuto la previdenza di arrecar seco e ne fece bere a Francesco buon numero di goccie; il ferito se ne sentì rinvigorire a meraviglia.

— In casa, diss'egli, per non ispaventare di soverchio i miei, che, poveretti! avranno già troppa passione, voglio scendere e camminare colle mie gambe. Me ne sento la forza.

— Tanto meglio: rispose Luigi. Il vigor dell'anima tien su questa benedetta macchina di corpo meglio che i fiacchi non credano. Basta volere; e voi siete capace di volere.

— Sì: disse Francesco non senza nobile compiacenza; ma intanto si sporse a guardare con immensa ansietà le costruzioni della fabbrica che già apparivano nello scuriccio della sera traverso i rami coperti di neve degli alberi.

Quando la carrozza entrò sotto l'atrio della casa della quale Bastiano, tutto commosso e colle lagrime agli occhi, aveva spalancato il portone, e si fermò innanzi al peristilio della scala, Giacomo, Teresa e Maria, pallidi, ansiosi, affannato il respiro, palpitante il cuore, stavano colà a ricevere il ferito, sollecitamente desiosi di vederlo, tremanti di paura e d'angoscia. Appena ai loro sguardi inquieti, illuminata dalla luce di candele tenute dai servi, apparve nel fondo della carrozza la faccia pallida del giovane, tre voci partirono da quei petti angosciati, tre gridi scoppiarono che dicevano una parola sola, ma tale e con tale accento di passione, da contenere tutto un immenso complesso di sentimenti e d'affetti.

— Francesco! esclamarono tre bocche; e sei braccia da tremito agitate si tesero, quasi supplicanti verso di lui.

Il giovane, alla vista di que' suoi cari, al suono di quelle voci, sentì dentro sè un rimescolio ineffabile [144] che gli cacciò quasi a forza le lagrime agli occhi; ma volle e riuscì a superare quella emozione: rivolse ai suoi congiunti un pallido sorriso di saluto che voleva dire: «non temete, non è nulla;» e per meglio rassicurarli, vivamente voglioso eziandio d'esser più presto fra le loro braccia, spiccò le spalle dal fondo della carrozza, e fece un movimento piuttosto brusco per venir giù; ma sentì allora come una morsa di ferro entro il petto, che a trattenerlo gli serrasse di colpo e cuore e polmoni; il fiato gli mancò, il sangue cessò di scorrere, divenne pallido, pallido, mandò un gemito e chiuse gli occhi, si lasciò ricadere indietro, credendo egli medesimo in quel punto dover perdere non che momentaneamente i sensi, ma la vita.

A quella vista tre nuove esclamazioni suonarono; e di esse una, non un grido, un gemito, quasi un rantolo d'agonia, più dolorosa di tutte, quella della povera madre.

Sotto il portone erano accorsi tutti i famigli, ed alcuni degli operai, primo il capofabbrica, la voce della disgrazia di Francesco essendosi sparsa subitamente negli opifizi. Tutti costoro si precipitarono verso la carrozza con vero trasporto d'interesse e d'affetto, volendo recar soccorso al giovane che pareva svenuto; ma innanzi a tutti, facendosi largo colle sue gomita poderose, era il madornale Bastiano il quale colla sua voce stentorea esclamava con tanta emozione che pareva fosse in collera:

— Oh! il mio padroncino..... oh sor Francesco, giuraddio!... Ed e' ci ha da tornare a casa in questo stato?... Che sì che se mi casca tra le mani il birbone che ce l'ha ridotto a tal punto, lo concio io per le feste.

E il buon portinaio tendeva già le sue mani grosse e robuste ad afferrare il giovane con tutta la delicatezza ond'era capace, quando una destra piccola ma dotata in quel momento d'una speciale forza nervosa, gli si posò sulla spalla e lo trasse in là. Bastiano si volse e vide la faccia più bianca d'un cencio lavato della signora Teresa.

— Lasciatemi il passo: diss'ella con accento fermo, imperioso, pieno di risoluzione e coraggio; voglio soccorrere io mio figlio.

Bastiano si chinò con umile riverenza e fece luogo alla infelice madre.

Al primo annunzio della crudele sciagura aveva soggiaciuto all'eccesso del dolore la debolezza del suo cuore di donna: era svenuta, aveva creduto morire addirittura di quel colpo; come se ogni vigore, ogni susta, per così dire, si fosse rotta in lei, la si sentiva essa stessa incapace d'azione e di pensieri; le era sembrato che tutto il mondo le fosse rovinato dattorno e nulla più restasse che abbandonarsi nell'impotenza della desolazione. Più si avvicinava il momento che il figliuolo le sarebbe condotto dinanzi — ahi! forse cadavere — e più cresceva in lei questa passione d'un dolore mortale senza energia; all'udire il rumore dell'aspettata carrozza poco mancò non isvenisse di nuovo, scese le scale sorretta dal marito, che altrimenti sarebbe caduta, e sotto l'atrio stette tremante, coll'angoscia nell'anima che deve avere un moribondo nel sentirsi fuggir la vita, dicendosi essa stessa tra sè che se mai suo figlio morisse, ed ella precipiterebbe di colpo cadavere eziandio. La vista del pallido volto di Francesco, in quell'anima che pareva già aver toccato il sommo dell'umano soffrire, fu uno schianto novello e tale che nessuna parola può esprimere. Se al viso di Teresa si fossero rivolti gli sguardi e l'attenzione degli astanti, per lei sarebbero stati la compassione ed il timore di tutti.

Ma quando ella ebbe visto il figlio sorriderle, volersi quasi lanciare verso di lei, e non poterlo, e ricadere come morto, una subita, meravigliosa rivoluzione avvenne nell'animo suo; l'energia fin allora latente si svolse ad un tratto; ora le appariva il bisogno dell'opera sua, le si apriva dinanzi il dovere; come il soldato che va la prima volta al fuoco della battaglia, e gli pare debbano mancargli dallo spavento gli spiriti, in faccia al pericolo poi sente suscitarsi il coraggio, così la tenera donna in cospetto della effettuata sciagura che le si presentava adesso viva e reale, sentì tutto e sublime sorgerle in cuore quell'eccelso coraggio di madre che è un eroismo più sublime d'ogni altro che possa vantare la generosità maschile; un'istantanea calma di risolutezza le acchetò il palpito tumultuoso, una chiarezza d'idee e una fermezza di propositi successero improvvisamente alla dolorosa e impotente confusione di prima; fu di botto all'altezza della sua missione. Respinse, come dissi, Bastiano, e si volle intromettere nella carrozza.

Luigi le si oppose con mano ferma, cortese e dirò anzi affettuosa.

— Scusi, diss'egli, qui per adesso faccio da medico e mi arrogo il diritto di dirigere ed ordinare ciò che tocca fare... Lascii per un momento Francesco riaversi... E badi che non sia troppo viva in lui l'emozione.

Teresa guardò Quercia con una sorpresa quasi ostile, come se volesse disconoscere e rigettare quell'autorità ch'egli aveva l'audacia di arrogarsi; ma non fu che un istante, vide nel volto del giovane una tale franchezza, l'espressione d'un tale interessamento che cedette di subito.

— Ha ragione: diss'ella quasi umilmente traendosi indietro; poi con infinito calore di supplicazione soggiunse: deh! mi salvi mio figlio!...

Quercia non rispose che con un atto di simpatia e rassicuratore, scese di carrozza, e fu seguito da Selva; poi ambedue si volsero ad aiutar Francesco, il quale, tornato compiutamente nel possesso della sua volontà e della sua morale energia, aveva riaperti gli occhi e sorrideva di nuovo a sua madre.

[145] Il ferito fu tirato giù pianamente dalla carrozza per opera di Luigi e di Giovanni e da loro stessi, tenendolo alle braccia, accompagnato su per le scale sino alla sua camera, dove già tutto era per cura di Maria apparecchiato a riceverlo. Quercia, che con una famigliare franchezza, quasi direi una benevola padronanza, diceva il da farsi a quella povera gente sì grandemente afflitta, che ansiosa pendeva dal suo labbro, come aspettandone la salvezza; Quercia sentenziò che per quel momento altro non conveniva che lasciar tranquillo il giacente, e la ferita non s'era punto da guardare nè da toccar più, finchè non fosse venuto il celebre e praticissimo cerusico, ch'egli disse aver mandato a chiamare; il padre e la madre che protestavano aver bisogno di vedere il figliuolo, non esser sicuri più se non lo avessero sotto gli occhi loro, egli concesse restassero nella camera dell'infermo, condizione assoluta non si parlasse menomamente, si evitassero studiosamente tutte le emozioni; Maria, la sorella, che ancor essa pregava la si lasciasse rimanere in un cantuccio della stanza di suo fratello, tanto da poterlo guardare, da potere aiutare la madre nelle cure che lo stato di lui richiedeva, Maria non ebbe il permesso che di recarsi di quando in quando in fondo al letto dove giaceva il ferito a contemplarne un istante le sembianze, e si vide costretta a rimanere nella camera vicina, dove Selva e Quercia medesimo si fermarono per aspettare la venuta del chirurgo. Bastiano, che non voleva lasciar più il padroncino, non ostante ogni sua resistenza e protesta, fu mandato inesorabilmente alla sua loggia, dove ebbe almanco lo sfogo di bestemmiare in lungo ed in largo e di mandare mille imprecazioni e minaccie all'indirizzo del feritore di Francesco, colla sua vociaccia stentorea e fremente di collera.

La povera Maria, frattanto, era colà sotto lo sguardo affascinatore e fatale di Gian-Luigi, come una debole colombella sotto le ruote minacciose del volo d'un girifalco. Dapprima, ella non aveva pensato a nulla, non aveva sentito nulla che il suo dolore e l'ansia pel fratello non fossero; nel suo cuore per un istante non vi fu luogo più a nessun altro affetto, ad impressione veruna. L'immagine di quell'uomo che ora le tornava innanzi, erale stata impressa dal giorno prima nell'anima, così che dentro sè, nella mente, ella quasi non aveva cessato vederla, ed a lui aveva pensato con frequente intensità, in mezzo ad un ineffabile turbamento; eppure adesso, per effetto della subita, nuova, così diversa e crudele commozione del dolore, essa non gli aveva a tutta prima badato più, il suo sangue non si era riscosso, quasi non l'aveva visto. Ma più tardi quella strana influenza che il risoluto, forte, ardente giovane aveva di subito acquistata sull'anima di lei, riprese a poco a poco la sua efficacia. Quercia voleva, ordinava e disponeva, e tutto gli obbediva dintorno; anche Maria al comando di quella voce così armoniosa, insinuante, autorevole, fece e non fece, andò e ristette; la si sentì rioccupare, per così dire, da quell'imperio d'una volontà altrui, il quale per uno strano fenomeno, ch'ella non sapeva e non cercava spiegarsi, era pur tanto caro e confortevole all'anima sua. Gli occhi della fanciulla incontrarono ad un punto quelli di lui, e non poterono così tosto spiccarsene; e senza sua volontà, a suo profondo dispetto anzi, fiammeggiarono d'una carissima vampa; n'ebbe sdegno ed insieme diletto, e poi rincrescimento e rimorso di codesto diletto. Poco dopo, nell'adoperarsi intorno al malato, una sua mano s'incontrò con quella di lui: le parve, e non sapeva se era illusione o verità, che la destra di lui fugacemente, ma espressivamente stringesse la sua; sentì tutto un rimescolio, ratto, penoso e pur dolce, il suo cuore palpitò, fu nel suo intimo la sensazione come di una scottatura; si allontanò alquanto, non ardì levare gli occhi; si domandò se non doveva allontanarsi per non comparir più presso il fratello finchè quell'uomo non fosse partito. Ora, nell'attesa del cerusico, ella stava con un tumulto stranissimo di affetti diversi nell'anima, dominata dalla potenza ammaliatrice di quel magnetizzatore.

Il chirurgo, che non tardò molto ad arrivare nella carrozza di San Luca, trovò che tutto era stato bene quello che Quercia aveva fatto; non credette fosse il caso di dover inciprignire la piaga per andar in cerca del proiettile; cavò dalle vene qualche oncia di sangue, scrisse una pozione sedativa, ordinò che si facessero bagnòli d'acqua ghiaccia sulla ferita, e, se sopravvenisse gagliarda la febbre con trasporto al capo, questi bagnòli si facessero alla fronte eziandio.

Il padre e la madre di Francesco accompagnarono il celebre dottore fino all'anticamera, domandandogli ansiosamente che cosa ci fosse da sperare, che da temere del loro figliuolo. La risposta non fu diversa da quella che già aveva data Quercia.

Il caso è grave, ma è tutt'altro che disperato. Bisognerà vedere in progresso di tempo: aspettiamo intanto la febbre che ha da sopraggiungere, ed ancorchè la vedano forte non se ne spaventino. Domattina di buon'ora verrò, e credo poter poi loro dire alcun che di più preciso.

Francesco si sentiva prostrato sempre più, voglioso di silenzio e di quiete, quasi sonnolento. Partito il dottore, Selva tolse commiato, e Quercia s'accinse ad andarsene ancor egli. Teresa, che aveva vista l'amorevolezza delle cure e l'intelligente risolutezza degli atti di Luigi intorno al ferito, e sembravale quindi che dall'opera, dal consiglio, dallo interessamento di lui dipendesse in parte la salute di suo figlio, Teresa gli disse con accento di vera supplicazione:

— Venga a vederci.... venga a vederlo per carità!

— Oh sì, soggiunse Giacomo con accento di preghiera ancor egli. Ci faccia questo favore.

Luigi fece guizzare uno sguardo verso l'angolo [146] dove muta, pallida, commossa stava Maria; nello sguardo di lei c'era una supplicazione ancora più viva.

— Verrò di certo: rispose con effusione il giovane, e domattina sarò qui nello stesso tempo in cui capiterà il dottore ***.

Il padre e la madre di Francesco lo accomiatarono coi più vivi ringraziamenti; poi tornarono a sedere nella stanza dell'infermo così che al poco chiarore mandato dalla lampada di sotto al coprilume, nell'ombra gettata dalle cortine del letto potessero vedere la pallidezza del viso di lui, potessero notare, senza che pur uno loro sfuggisse, i moti, i gemiti del figliuolo. Maria, nella stanza vicina, fu l'ultima da cui si spiccassero con parole confortatrici e pietose i due amici di Francesco. Ella era rimasta in piedi a metà della stanza, ed accompagnava con un indefinibile sguardo lui che s'allontanava.

Luigi fece uscir primo Giovanni, e si fermò sulla soglia a rivolgere alla ragazza un suo sguardo acceso ancor egli. Maria arrossì, chinò gli occhi, si sentì turbatissima, occupata quasi da un terrore. Egli tornando sui suoi passi s'avvicinò lentamente alla fanciulla il cui seno palpitava visibilmente.

— Maria! le disse Luigi, quando le fu vicino, con voce sommessa, ma dolcissima, ma fremente d'una irresistibile passione.

Ella sollevò gli occhi sul volto di lui quasi costrettavi a forza. L'urto che ricevette nel sangue dallo sguardo infiammato di amoroso ardore con cui Luigi la saettava, fu tale che sentì mancarsi quasi il rifiato, che mandò un'esclamazione sommessa che parea di dolore, ma stelle palpitante, fisse le sue nelle brune pupille di lui.

— Maria, soggiungeva egli avvicinandosele sempre più, facendo quasi sentire il suo caldo alito sulla pura fronte della fanciulla; Ella ha cominciato a conoscermi in mezzo alla sventura ed alle angoscie dell'animo; la mia venuta sembra aver portato seco in questo tranquillo e lieto asilo di pace il turbamento ed il dolore; oh sappia che la sua vista, invece, o Maria, ha recato in me una benedizione di paradiso.

Fece una piccola pausa, fissandola sempre colla inesprimibile tenerezza di quel suo sguardo incantatore; la misera sentiva l'anima sua, sfuggendo all'impero della volontà, fondersi intieramente nell'anima di lui; poscia il giovane la prese ratto per una delle mani tremanti, la trasse quasi con violenza a sè, le pose un bacio fugace, caldo come un carbone acceso, sulla vergine fronte, le susurrò nelle chiome le magiche parole:

— Maria, io t'amo!

All'inatteso atto, alla temeraria arditezza, Maria sentì mancarsele il cuore; non ebbe pur la forza di mandare un grido, chiuse gli occhi e si sorresse al vicino mobile per non cadere. Quando riaprì le palpebre. Quercia era sparito; ma ella sentiva nel suo cuore e nel suo cervello il suono dolcissimo di quelle fatali parole, sentiva nel sangue circolarle come fuoco sottile un ardore che le aveva comunicato l'alito di lui, sentiva sulla fronte la calda, penosa, ma pur cara voluttà di quel bacio.

Gian-Luigi intanto aveva raggiunto Giovanni Selva, condottolo nella sua carrozza sino a casa, e poi si era ridotto egli stesso alla sua abitazione.

— C'è qualche cosa di nuovo? domandò egli al mariuolo, che faceva da domestico.

Varullo prese un'aria significantemente misteriosa e rispose:

— Eh eh! se ce n'è di nuovo! Questo tale (e porse al medichino la polizza lasciata da Mario Tiburzio) è stato parecchie volte ed ha finito per dire, appena Ella giungesse, la pregassi a suo nome di recarsi colà dov'Ella sa, chè ha immenso bisogno di parlarle, e ci sarebbe stato aspettandola tutto il giorno.

— Eh! disse Quercia come parlando a sè stesso; a quest'ora non ce lo troverò più; ma so io dove coglierlo stassera.... C'è stato altri?

— Certo!.... Una ragazza.... e che tocco di ragazza!... Bella come un sole, ma che pareva matta come la luna; ci aveva certi occhi stralunati, era così male assettata nei panni, parlava in una certa maniera rotta, vibrata e convulsa, che faceva pena in verità.

Il pensiero del medichino corse subito ad una e la più infelice delle vittime della sua seduzione.

— E disse? domandò egli con un turbamento, un'impazienza e un'ansia insieme.

— Che voleva ad ogni costo parlare con Lei, che non si sarebbe mossa più finchè Lei non fosse giunta.

— È forse ancora di là? domandò vivacemente Gian-Luigi.

— No, perchè fortunatamente è sopraggiunto un tale che seppe dirle tanto bene da deciderla ad andarsene con esso lui.

— Un tale! Chi è? domandò con interesse Quercia.

— Uno che Ella ben conosce: rispose Varullo ammiccando furbescamente; il quale anche adesso trovasi appunto di là ad aspettar Lei.

— Chi è?... Quello sciagurato di Graffigna forse?

L'uscio del salotto s'aprì, un omiciattolo s'introdusse sgusciando in quella camera e la vocina in falsetto, che ben conosciamo, rispose dalla porta:

— Bravo! Son io precisamente, e la ragazza è quella povera sciagurata di una figliuola di Macobaro.

CAPITOLO XXII.

Era Graffigna; ma al solo vederlo, si sarebbe difficilmente conosciuto, con tanta arte egli si era camuffato, cambiando capigliatura, vestire, portamento, quasi dico le sembianze e la persona.

[147] Ciò nulla meno, il medichino camminò verso di lui minaccioso colle sopracciglia aggrottate:

— Sciagurato! esclamò egli, ti ho proibito di venir qui in casa mia.... Vuoi tu perder me, e te stesso, e tutti?

— Oh la si rassicuri: disse umile umile il galeotto; non sono mica un ragazzo, e la vede se c'è barba di spia o di arciere capace di riconoscermi; e ancora non son venuto che a notte. Ci ho cose molto interessanti da comunicarle e una domanda che preme da farle, e non avrei saputo come altrimenti poterla accostare.

— Tu hai detto che Ester era qui?

— Già.

— E tu l'hai condotta via?

— Ho pensato che qui le sarebbe stato d'impaccio.

— Che cosa ne hai tu fatto?

— L'ho rintanata in Cafarnao.

— Colà! esclamò Gian-Luigi che pensò ad un tratto come la fanciulla avrebbe potuto trovarsi da un momento all'altro in presenza dell'ira di suo padre, che certo sapeva tutto se ella era fuggita, o della gelosia di Maddalena, che non avrebbe mancato di indovinare in essa una rivale.

Graffigna capì il senso di quella esclamazione del medichino, e s'affrettò a soggiungere per iscusarsi:

— Non sapevo dove cacciarla altrimenti. A casa sua.... la lo vedrà anche Lei... non era manco da pensarci di farla tornare; qui non ce la volevo lasciare a niun patto. Per un po' di ore non è probabile che nessuno penetri sino da lei; ed Ella sor medichino, se vuole, potrà poi tosto, anche subito, farla entrare nel suo gabinetto colaggiù che manco il diavolo, se a Lei non piace, potrà ficcar il naso a vederla.

— Hai ragione. Ma dimmi frattanto tu, che cosa le è avvenuto, e come e perchè venne qui.

— Eh eh! fece Graffigna col suo sorriso malizioso: questa è una storiella piuttosto lunga che saprà raccontarle assai meglio e più esattamente di me la ragazza medesima. Io ci ho altre e più importanti cose e di premura da dirle, per cui la prego darmi tutta la sua attenzione.

Varullo ebbe ordine di rispondere a chiunque venisse cercando di Quercia, che egli non c'era; e il medichino e Graffigna, chiusi accuratamente in istanza fuori dell'arrivo delle orecchie anche del domestico, ebbero a voce bassa il seguente colloquio:

— Ho qualche inquietudine, cominciò l'omiciattolo, intorno al colpo di ieri sera!

— Quel di Barnaba?

— Già.

— Come! Perchè?... Hai ragione da temere che si sospetti il giusto e si sia sulle tue traccie?

— No; ma v'è una circostanza che mi mette sopra pensiero.

— Quale?

— La cosa è passata troppo liscia; oggi nessuno ne discorre; la polizia non s'è messa in campagna Pelone non ebbe il menomo onore d'una chiamata dal Commissario. Un poliziotto trivellato, e che la autorità non se ne dia fastidio... Uhm! trova Lei naturale codesto?

— L'osservazione è giusta: rispose il medichino alquanto preoccupato ancor egli.

— Ma c'è di più.

— Che cosa?

— Sta notte, appena fatto il colpo, udimmo gente che s'avvicinava; quel pan bollito di Marcaccio credette vedere gli schioppi de' soldati, gridò che l'era una pattuglia, in quel momento non tirava buon'aria a star lì per chiarirsi se fosse o non fosse vero; scappammo come scoiattoli; ma pattuglia o no che quella si fosse, il fatto era che appena pagato il conto a quel mariuolo, alcuni sopraggiunsero che dovettero trovare il cadavere caldo caldo, e forse lo raccoltarono seco, e la probabilità sarebbe che tosto tosto fossero andati o ad un Corpo di Guardia od al Palazzo Madama.

— È vero.

— E potrebbe anche darsi che quello sciagurato... quella razza di gente ha la vita cotanto invitiata alle loro maledette ossa!... non fosse ancora morto del tutto.

— Diavolo!

— È quello che esclamai ancor io, facendo tal supposizione questa mattina con quel pulcin bagnato di Marcaccio che ha una tremarella addosso da non dirsi. «Che il diavolo ti strozzi. Marcaccio, amico mio, gli dissi, che se quel minchione è cascato vivo in mano dei sopraggiunti, colla smania di chiaccherare che hanno prima di crepare quegli stolidi, come se loro ne tornasse qualche cosa ad accusare Tizio o Caio, può benissimo farti avere dei dispiaceri non ostante il tuo fazzoletto sulla faccia.» Ma ora quello che mi cruccia di più è il silenzio che si fa intorno a questo caso.

Gian-Luigi stette un poco a meditare.

— Non so vederci rimedio: diss'egli poi. Nulla v'è da fare che attendere... E d'altronde avremo poco tempo da stare in sospeso. Domenica saremo fuori di tutte queste paure.

— Buono! Gli è appunto di ciò eziandio che voglio parlarle.

— Sentiamo.

— Quello che a me toccava fare ho già fatto; e son sicuro dell'esito. Che gli altri compiano la loro parte come io la mia, e noi siamo a cavallo. Ho arruolato sotto le nostre bandiere la maggior parte degli operai e i più risoluti di questi opifici (e nominò alcuni dei principali, fra cui era pure quello dei Benda); domenica sera adunque, dopo avere per nostra cura ben mangiato e meglio bevuto, si raccozzeranno in varie frotte e colle grida: abbasso i padroni, aumento di salari, morte ai ricchi, invaderanno [148] parecchie fabbriche; noi provvederemo le armi, ci s'intende, e noi li guideremo come conviene, già si sa... Le belle parole ch'Ella mi ha mostrato a dire di tirannia di chi possiede contro chi non ha, di diritto nel povero alla vita, di prepotenza ed ingiustizia della legge che lascia crepar di fame i tanti per assicurare i milioni ai pochi, e va dicendo; tutte queste belle parole hanno pure prodotto il loro effetto, ma ciò che ne ha prodotto di più è il denaro che abbiamo sparso e le promesse di denaro ed altro che abbiamo fatte... Quanto a me, bisogna che di questa sera stessa faccia una nuova distribuzione di rotondetti che l'ho promessa... Ci sono ancora alcuni, e dei caporioni più influenti, che nicchiano... Un buon pizzico di marenghini leva loro ogni scrupolo; io li conosco... Ed ecco perchè sono venuto da Lei, e mi premeva tanto vederla... Ho bisogno dei quibus.

Il medichino fissò un istante il suo interlocutore con uno sguardo che pareva volergli penetrare nell'anima; e Graffigna sostenne quella scrutatrice occhiata con uno dei più ameni sorrisi che illuminassero mai la sua faccia da faina.

— Va bene, disse poi Gian-Luigi; ti conterò i denari onde abbisogni.

Graffigna non mentiva, e quella sera medesima in una bettolaccia compagna a quella di Pelone, Tanasio, l'operaio più riottoso della fabbrica Benda, condotto al colloquio da Marcaccio, prometteva per sè e per altri parecchi di quell'officina la più vigorosa cooperazione nei preparativi prima e poi nello scoppio della rivolta, nella lotta contro i padroni, i ricchi e la legge.

Gian-Luigi frattanto, congedava Graffigna coi denari, gli ordinava recarsi da Pelone e da Baciccia ed intimar loro a suo nome non lasciassero penetrar nessuno in Cafarnao, finchè loro non mandasse egli stesso un cenno in contrario; sì vi si introducesse Graffigna per recare ad Ester quel che le occorreva da sostentarsi, e insieme, per acquietarla, la promessa ch'egli, Luigi, sarebbe andato presso di lei a parlarle, ad apprenderne i casi, fra parecchie ore, che prima eragli ciò affatto impossibile. Quindi vestitosi da visita si recò alla locanda d'Europa dov'era solito pranzare, incantando i commensali della table d'hôte colla vivacità del suo spirito, il suo brio di buona lega, e la costante allegria del suo umore. Stette colà due ore mostrando sempre la maggior libertà di mente, proprio da giovane, ricco, senza contrasti, che non ha altri pensieri pel capo fuor quello di darsi sollazzo e goder della vita. Uscito dalla locanda fece un giro sotto i portici fumando un sigaro, e poi verso le nove si recò al teatro Regio.

Andò all'usciòlo che mette sul palco scenico, ed al cerbero che stava là a contendere l'entrata di quel paradiso di virtù ballerinesche mise in mano uno scudo e disse queste parole:

— Lasciatemi passare: non mi fermo che cinque minuti.

Il cerbero trovò che una lira per ogni minuto era un pagar bene, e dimenticò senza rimorso l'obbligo del suo ufficio. Quercia corse là dove sapeva che era il camerino di Mario.

Battè in una certa guisa speciale colle nocca delle dita nell'imposta dell'uscio: questo si aprì sollecitamente, e comparve Mario.

— Ah voi finalmente! esclamò egli; vi ho aspettato tutto il giorno.

— Non ho potuto andare a casa mia che stassera; voi avete gravi cose da dirmi?

— Gravissime.

— Riguardo l'impresa?

— Sì.

— Questo non è luogo adatto a tali discorsi; nè conviene pure che ci vedano parlare a lungo insieme, massime dopo il vostro arresto di stamane; dopo il teatro vi aspetterò colla mia carrozza sull'angolo di Doragrossa, salirete meco e vi condurrò in luogo dove potremo liberamente discorrere.

— Sta bene.

Quercia si allontanò frettoloso, andò a scambiare quattro parole colle principali corifee del corpo di ballo, tanto da dar ragione alla sua venuta, e poi si recò nella sala degli spettatori, dove al suo palco di second'ordine brillava in elegantissima acconciatura la contessa di Staffarda.

Se Candida fosse ansiosa di sapere ciò che era avvenuto la mattina dal gioielliere, ve lo lascio immaginare. Suo marito non aveva pronunziato verbo intorno a ciò, ned essa lo aveva interrogato: aspettava dunque con ansietà di veder Luigi, perchè egli le dicesse il risultamento della sua gita dall'orafo. Quindi, appena vistolo comparire in fondo alla platea del teatro, essa fissò su di lui il suo cannocchiale con una insistenza che chiaramente lo invitava a recarsi sollecito da lei. Luigi ubbidì. Nel palchetto della contessa eravi la solita frotta di visitatori, il solito genere di discorsi mondani composti di mormorazioni, di nullaggini e di malignità. Grande argomento di ciarle quella sera, e quasi l'unico nel teatro, come per tutta la città, in ogni ordine di loggie, traverso le file dei banchi e quelle dei seggioloni di platea, nei capannelli dell'atrio e intorno ai tavolini dell'acquacedrataio, era il duello avvenuto nel pomeriggio medesimo fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Benda.

Sul fondamento della verità, secondo suol sempre accadere, s'erano fabbricati i più diversi e più strani adornamenti di circostanze inventate, d'interpretazioni e d'aggiunte. Ciascuno raccontava il fatto in modo diverso e ciascuno voleva essere il meglio informato di tutti; secondo alcuni Francesco era morto addirittura sul colpo e non s'era più menato indietro che un cadavere; a detta d'altri la ferita era una semplice scalfittura da non farne caso: [149] i primi imprecavano alla manìa del duello, i secondi ghignavano con ischerno di que' pericoli da burla per cui tentano di farsi scambiare per eroi i moderni paladini in guanti bianchi.

In mezzo a ciò era venuta a ficcarsi la passione politica, o per dir meglio, quel sentimento di rivalità e di nemicizia che allora esisteva assai più spiccato fra le due classi onde va composta la parte colta della società, l'aristocrazia privilegiata e la borghesia istrutta e denarosa, nemicizia e rivalità che a quel tempo accrescevano ed inasprivano le immanenti ingiustizie degli ordinamenti governativi.

Nello scontro fra il discendente dell'antica prosapia ed il figliuolo del fabbricante arricchito, le due parti avevano visto adombrata la lotta delle loro caste, e quelli che appartenevano alla nobiltà, senza essere compiutamente in mala fede, venivano narrando le cose di guisa che tutti i torti spettavano al borghese, lieti e superbi inoltre della vittoria toccata al loro campione, mentre nel ceto medio, per compenso, si esponeva il fatto con certe tinte che accrescevano la petulanza del nobile e stabilivano il feroce di lui talento, che aveva cercato sfogo in un duello che poteva dirsi un assassinio. Un terzo partito poi comprendeva in una imparzialità di riprovazione e l'uno e l'altro dei duellanti, e sopratutto i padrini ai quali, secondo codestoro, doveva accagionarsi massimamente l'infelice esito dello scontro. I padrini, essi affermavano, avrebbero dovuto impedire lo scontro, cosa, a lor senno, facile ad ottenersi; avrebbero dovuto quanto meno farlo cessare dopo il primo colpo che non s'aveva disgrazia nessuna a lamentare. Vero è che questi Catoni, se il duello non avesse avuto luogo, o fosse terminato con una incruenta riconciliazione, sarebbero stati dei più zelanti nella schiera degl'ironici motteggiatori. Che? Il mondo è così fatto, e non saremo noi a cambiarlo.

Dei personaggi che avevano preso parte a quel dramma sanguinoso, nessuno era comparso in teatro quella sera, il marchesino e i suoi due secondi sentendo che ciò sarebbe sembrato quasi un voler comparire a far pompa d'una vittoria, che se non il loro cuore, il loro tatto di società e la delicatezza di educazione facevano avvertire rincrescevole.

Luigi Quercia, soprarrivando in mezzo a quel susurrio di ciarle nel momento in cui le erano più vive, ottenne, come suol dirsi, un successo di curiosità. Le interrogazioni, le affermazioni suggestive, le supposizioni piovvero su di lui fitte come gragnuola; egli le accolse con una serietà diplomatica che si contentò di eliminare tutta la provvista delle menzogne più o meno maligne, difendendo Francesco senza accusare nè aggravar l'avversario, affermando, senza entrare nei particolari, che ogni cosa era passata nei modi i più onorevoli e, come si usa dire, cavallereschi. La curiosità della gente non ne rimase soddisfatta; ma ciò non tolse che molti audacemente citassero, in sostegno delle invenzioni della loro fantasia, l'autorità di Quercia dal cui labbro affermavano aver udito questo e quello ch'egli non si era mai sognato di dire.

La contessa, quando Luigi era pervenuto, dopo la partenza di parecchi visitatori, a sedersele in faccia, approfittò di un momento in cui la conversazione nel palco era più animata, per curvarsi verso il giovane e dirgli in fretta e sommessamente:

— Fra un'ora sarò a casa: t'aspetterò.

Quercia levò gli occhi alle ore che si leggevano sopra il grande architrave del proscenio, vide che erano le nove e mezzo, calcolò che prima della mezzanotte, ora a cui terminava lo spettacolo, il suo colloquio con Candida sarebbe conchiuso di certo, ed egli avrebbe potuto recarsi al ritrovo concertato con Mario Tiburzio, e chinando ancor egli il capo verso la contessa, rispose in pari maniera:

— Va bene.

Dieci minuti dopo egli usciva dal palco della contessa e prima assai che l'ora fosse trascorsa egli per la scaletta privata saliva agli appartamenti di Candida, dove lo accoglieva la cameriera assai troppo, come già sappiamo, con esso lui famigliare.

Appena terminato il ballo Candida abbandonava il teatro, mentre il marito, a suo credere, doveva essere, come tutte le altre sere, a giuocare al club. Luigi stava nel salottino di lei aspettando, e non aveva per niente l'apparenza d'essere impaziente di questa aspettazione. Candida udito dalla cameriera entrando, ch'egli era già colà, venne sollecita nel salotto, senza deporre la sua mantellina, ed a lui che le camminò all'incontro le braccia tese per darle un amplesso, disse, ritraendosi alquanto e guardandolo fiso, come per leggergli nell'anima:

— Ah siete stato molto sollecito.

Ma ci voleva ben altro sguardo che quello da poter imbarazzare quell'uomo o penetrare sotto la maschera onde sapeva coprire il suo volto.

Atteggiò egli le labbra al suo più seducente sorriso e rispose col più tenero accento della sua voce:

— Quando mi tocca la fortuna di esser teco, e non ho un ostacolo insuperabile che me ne trattenga, come non vuoi tu ch'io sia sollecito?

Levò egli stesso dalle spalle di Candida la mantelletta ond'era ancora vestita e la gettò sulla spalliera d'un seggiolone; poi prendendola per le due mani, e guardandola con una specie di ossequio ammirativo, soggiunse, sempre con quell'amorosissimo accento:

— Quanto sei bella!... Ah! lascia ch'io ti contempli, lascia ch'io t'adori... tu sei la mia donna, tu la mia regina, tu sei la mia Dea.

E con atto pieno di passione e di grazia, pose un ginocchio in terra innanzi a lei, e raccogliendone le due piccole mani nella sua destra le coprì di baci infuocati.

Ella arrossì, sorrise; i suoi occhi balenarono di una fiamma di tenerezza.

[150] — Ah! tu sei sincero come un adulatore.

— Sono sincero come un amante.

Sorse in piedi, la prese colle sue braccia, la strinse, le coprì di baci la fronte, gli occhi, le guancie, la bocca, le spalle, il seno denudato, con un trasporto che pareva furore.

— T'amo, Candida, t'amo più che la vita!

Essa, lieta, palpitante, invasa da quell'ardenza, obliosa di tutto il resto del mondo, s'abbandonò un istante con profonda gioia alla dolce violenza di quelle carezze; poi si sciolse dalle braccia di lui.

— Lasciami, lasciami: diss'ella con voce soffocata: lasciami un momento... Vado a deporre questi ornamenti che mi pesano... Aspettami un minuto.

E sparì dietro la portiera dell'uscio della sua camera, scoccando colle dita un bacio al giovane che l'accompagnava con uno sguardo acceso di violento desìo.

Non istette veramente più che due minuti a ricomparire in mezzo alle cortine dell'uscio, toltisi di capo, dal collo e dalle braccia i gioielli, deposto l'abito scollacciato ed avvolto invece il bel corpo d'una veste da camera di finissima lana bianca foderata di seta rosa. Ma Luigi non lasciò che la si inoltrasse nel salotto; vistala appena, con un grido di gioia e d'amore, le volò dappresso ed abbracciatala la portò seco nel profumato, più intimo ambiente della camera vicina.

Luigi raccontò ciò che premeva a Candida di sapere intorno alla visita fatta al gioielliere, e tornò ad assicurarla che i suoi diamanti non le sarebbero mancati per quel famoso ballo di Corte: ma i loro discorsi non si rimasero soltanto a questo argomento, e furono così interessanti che più d'un'ora era passata senza che nè l'uno nè l'altra pur se ne avvedessero.

Gettato lo sguardo sull'orologio e visto che erano oramai le undici e tre quarti, Luigi pensò essere gran tempo per lui recarsi al ritrovo dato a Mario, tolse congedo, s'avviluppò nel mantello che aveva recato seco fin lì, e cogli ultimi amplessi stava per ispiccarsi dall'amante, e già aveva la mano sulla gruccia della serratura per aprir l'uscio che metteva nel salotto cui doveva necessariamente attraversare per partirsi, quando in questo salotto medesimo s'udì il passo d'un uomo e la voce del conte Amedeo, che diceva, probabilmente alla cameriera:

— È inutile annunziarmi; a quest'ora la contessa non sarà ancora addormentata, m'annunzierò io medesimo.

I due amanti si guardarono; ella esterrefatta, egli vivamente contrariato. Era la seconda volta che il marito veniva a sorprenderli in quel modo; ma se la prima essi avevano potuto affrontare la sua presenza, ed allora entrava nei calcoli di Gian-Luigi di far così, questa seconda il conte vedendo il giovane in quella camera e ad ora sì tarda, e la moglie in quell'acconciatura, con quel turbamento più che accusatore, era inevitabile uno scandalo; e Luigi questo scandalo non lo voleva a niun patto. Girò egli intorno lo sguardo, vide la nera apertura dell'uscio socchiuso che metteva nello stanzino della teletta, ed egli che l'altra volta aveva superbamente rifiutato nascondersi, fu colà d'un balzo, vi si cacciò dentro, e chiudeva appunto il battente alle sue spalle, quando dalla porta del salotto penetrava nella camera cubiculare di sua moglie il conte Amedeo Filiberto.

Marito e moglie stettero un istante in faccia senza parlare; ella si sforzava di superare la sua emozione, egli osservava con isguardo scrutatore lei e la camera. Fu il conte che ruppe primo il silenzio; si accostò alla donna con quella sua ostentata galanteria e prendendola per mano la condusse a sedere presso il camino, dicendole:

— Come mai una mia visita può ella turbarvi a questo punto? Se foste stata in compagnia, comprenderei — sono abbastanza modesto per ciò — che la mia venuta potesse riuscirvi fastidiosa; ma essendo qui sola.... e non potrebbe essere altrimenti, perocchè in codesto vostro santuario, permettetemi di chiamarlo così, nessuno (e pesò significantemente sulle parole) nessuno ha diritto d'introdursi fuorchè il marito.... il quale confesserete anche voi che di questo diritto non abusa certamente.... Ho potuto dunque, tutt'al più, interrompere una delle vostre meditazioni, e non giudico questa una ragione sufficiente per giustificare codesto turbamento che vedo sulle vostre belle sembianze.

Candida aveva ripreso in gran parte il dominio di sè.

— Il mio turbamento, rispos'ella senza tuttavia guardare in faccia suo marito, è un profondo stupore. Concederete che è abbastanza strano questo rinnovarsi d'una vostra visita ad una tal ora, perchè io abbia da meravigliarmi.... Tanto più che una volta almeno usavate la gentilezza di farvi annunziare.

— La vostra meraviglia è poco lusinghiera per me, poco giusta per voi, e troppo vivace....

— Ah! non perdiamoci in marivaudages fuori di stagione.... Che cosa mi volete di nuovo?... Avete ancora bisogno della mia firma?

— Voi siete crudele: rispose con una certa asprezza il conte, e poscia dando al suo accento una espressione d'autorità che non aveva ancora fatto sentire per l'innanzi, soggiunse: siete voi che avete bisogno di nuovo dei miei consigli.

Candida a questo punto acquistò l'ardimento di levar gli occhi in faccia al marito: guardò ben bene la gialla calvizie, l'occhio acuto e il sogghigno ironico del conte, e domandò con orgoglio:

— Che consigli?..... Vi avverto che ho molto sonno...

— Sarò breve... e spero interessarvi abbastanza per tenervi desta... Voi avete accennato testè ad [151] un'altra visita che ho avuto l'onore di farvi a quest'ora; vuol dire che la vi è stata abbastanza impressa perchè io possa lusingarmi che voi vi ricordate ancora dell'argomento di cui allora vi ho discorso.

— Mi avete parlato d'interessi, di obbligazioni, di firme...

— Questo non fu il solo soggetto di cui vi parlassi, avevo cercato eziandio porvi in guardia per certe attinenze con certe persone...

La contessa interruppe vivacemente:

— Circa quell'argomento mi pare che siasi detto fra noi tutto quello che s'aveva da dire e che non siavi più nulla da soggiungere.

Pardon... Quando nuove circostanze sopraggiungono...

— Che nuove circostanze?

— Permettetemi ch'io mi spieghi con una novelletta.

— O mio Dio!

— Abbiate pazienza: vi ho già detto che sarò spiccio, e manterrò la promessa.

— Sentiamo la vostra novelletta.

— Eccola. È un fatto vero che avvenne al tempo della mia gioventù.

— È dunque cosa antica.

Il conte s'inchinò con atto d'ironico ringraziamento.

— Voi dite benissimo: è cosa antica pur troppo, ma l'insegnamento che se ne può trarre è di tutti i tempi. Si tratta d'una ricca dama che strinse una troppo imprudente e troppo intima relazione con un giovane di cui poco noti erano i precedenti; un bel dì questo cotale trovò modo di avere in mano tutti i gioielli della dama, un vistosissimo valore affè, e sparì con essi.

La contessa arrossì fino alla fronte.

— Non vedo, signor conte, diss'ella con accento pieno d'irritazione, nè l'insegnamento vantato, nè l'applicabilità possibile della vostra favola; e se mi volessi sforzare a trovarceli non vedrei altro che un insulto gratuito ed indegno di voi a vostra moglie e ad uno che voi chiamate vostro amico...

Amedeo Filiberto, coll'atto che gli era abituale, alzò la sua fine destra aristocratica per interrompere le parole della moglie.

— Ah pardon, pardon! diss'egli. Andate un po' più a rilento nell'onorare alcuno del titolo di mio amico. Quella persona di cui appunto intendo parlarvi (perchè voi colla finezza della vostra intelligenza avete subito indovinato il vero), quella persona può benissimo essere degnata d'una mia stretta di mano, ma non ha, e non può in nessun modo pretendere la mia amicizia... Per mostrarvi poi che le mie parole non sono un insulto gratuito all'onorabilità di quell'individuo, sentite le voci che incominciano a correre sul suo conto, e che io comincio a ritenere per fondate!

Candida incrociò le braccia al seno e disse con coraggio e colla sicurezza d'una donna amante che non crede niun'accusa possa mai arrivare all'altezza in cui ha posto l'oggetto dell'amor suo:

— Bene! Fatevi pure l'eco di codeste calunnie: le sentirò volentieri.

Il conte, quasi irritato da quella specie di sfida gettatagli sulla faccia, pronunciò con una ruvida crudezza:

— Quell'uomo lo si accusa d'essere un baro, giuocatore di vantaggio ed un falsario.

Candida balzò in piedi colle fiamme dell'ira nella faccia e negli occhi.

— Questa è un'infamia! esclamò ella: e dovreste voi, conte, rendervene complice?

Amedeo Filiberto fece più amaro che mai il suo solito sogghigno.

— Calmatevi! Tudieu! che ardenza d'amicizia è la vostra..... Queste cose non le direi ancora ad un indifferente, ma le dico a voi perchè mi preme rendervi cauta... E se ve le dico, ben capite che gli è perchè, come vi ho già manifestato, comincio a temerle fondate.

— È un'infamia, ripeto...

— Badate un poco alle vostre espressioni, contessa, vi prego.....

— E voi, badate voi alle vostre?

— Sì signora... Udite: la continua e soverchia fortuna di quel cotale al giuoco ha suscitato sospetti in molti: io che non avevo voluto credere a quei dubbi, li sentii pur finalmente entrare vittoriosi nell'animo l'altra sera al ballo dell'Accademia... Di Francia è venuto avviso alla nostra Polizia che colà da qualche tempo s'introducono in gran quantità biglietti di quella Banca con molta arte falsificati e che si ha quasi la certezza siffatti biglietti fabbricarsi in Piemonte. L'altro dì in un pagamento che dovette fare quel cotale diede parecchie polizze di banco francesi, ed una di queste fu trovata di quelle falsificate. Egli s'affrettò a scambiarla con denaro sonante, ma...

La contessa sentiva nel suo petto ribollire una generosa indignazione. Il suo amante così scelleratamente accusato ella credeva suo dovere difendere con ogni vigore: le pareva d'amarlo ancora più; coll'impulso generosissimo del suo animo di donna si pensava quasi obbligata a dividere il peso di quelle calunnie con esso, a mostrarne la insussistenza compromettendo sè stessa in una compiuta rivelazione dell'amor suo per lui. La sua mente concitata non vide più acconcio partito che quello di ribattere, confondere tosto quelle vili calunnie nella persona medesima del conte, e poi far compiuto lo scandalo con una separazione dal marito, con una fuga insieme all'amante. Luigi, che udiva quelle sciagurate parole, fremeva certamente di doloroso furore, e soltanto per riguardo di lei trattenevasi dal comparire colà tremendamente vindice del suo [152] onore: ma quest'onore di lui, poichè lui amava cotanto, era a Candida più caro del proprio; per subita ispirazione determinò evocare essa stessa l'amante a schiacciare di presente l'accusatore e l'accusa.

— Signor conte: interruppe adunque Candida con violento scoppio di sdegno: quando un uomo come voi pronunzia di queste parole, dovrebb'essere pronto a ripeterle in presenza di colui che accusano.

Langosco drizzò la sua persona, ordinariamente incurvata, con una mossa piena di superba sicurezza e guardò tutt'intorno come per cercare quella presenza di cui gli si faceva cenno.

— E se il caso nascesse, diss'egli, sarei pronto anche a codesto.

— Come! se il dottor Quercia vi comparisse innanzi qui stesso, voi ardireste dirgli: siete un baro ed un falsario?

— Sì: rispose con forza il conte.

Gli occhi di Candida corsero all'uscio del gabinetto; ella si aspettava vedere spalancarsi quelle imposte e il suo Luigi apparire dicendo:

— Ebbene ripetetelo, se l'osate.

Gli occhi del conte seguirono quelli della moglie e si affisarono ancor essi sull'uscio dello stanzino. Nulla si mosse. Successe un momento di silenzio, in cui diede giù alquanto l'esaltazione di Candida. Luigi, pensò ella, aveva forse ragione di non rilevare in quel momento la disonorevole accusa: eppure ella avrebbe preferito vederlo prorompere con irrefrenato sdegno. Si lasciò cader seduta di nuovo con una specie d'abbattimento, e poichè le pareva che a lei si spettasse rompere quel penoso silenzio, disse con voce, con accento, con atteggio che dinotavano una grande stanchezza di quel colloquio:

— Non andrà molto, son certa, che avrete rimorso di aver parlato in tal guisa...

— Vorrei benissimo che così fosse, per lui... e per voi. Ma poichè queste parole sono dette, possano esse almeno riuscirvi opportune tuttavia..... Non v'infastidisco più oltre e vi lascio la buona notte...

Parve voler partire senz'altro; ma poi, come essendosi improvviso ricordato di quest'altro argomento, soggiunse:

— Mi scordavo dirvi che questa mattina sono stato dal gioielliere. Siamo rimasti intesi che i vostri diamanti ve li rimandasse, e li avrebbe riaggiustati poi nella quaresima.

Uscì dopo questa frecciata del Parto, e Candida, in preda ad una tumultuosa indefinita commozione, si coprì colle mani la faccia; dopo un poco si fece udire un lieve rumore, essa levò il capo e vide sulla soglia del gabinetto Luigi pallido, assottigliate le labbra, il solco della sua ruga caratteristica sulla fronte.

— Ho udito tutto, diss'egli freddamente, e ti ho dato la maggior prova di amore che possa dare un uomo: quella d'indugiare la vendetta di sì sanguinosi oltraggi per non compromettere la donna che lo accolse...

Il fatto era che non questo riguardo, nè timore altro nessuno avrebbe trattenuto il giovane, ma il suo interesse soltanto a cui egli pensava avrebbe fatto danno la violenza d'una crisi provocata.

Ma Candida era già passata in altro ordine di pensieri e di sensazioni: si slanciò essa al collo dell'amante ed abbracciandolo con passione gli disse:

— Tu se' innocente, non è vero?

Luigi l'allontanò da sè con quasi ostile freddezza, e guardandola fisso, amaramente ironico, le domandò:

— Tu ne dubiti?

— Oh no, oh no! s'affrettò ella ad esclamare, t'amo! Posso io creder male di te?

Quercia uscì dal palazzo di Staffarda che la mezzanotte da tempo era suonata; e quindi per quanto si affrettasse verso il luogo del convegno, Mario non era più colà ad attenderlo. Il medichino ne provò una viva contrarietà; la scena fra il conte e sua moglie, a cui egli aveva assistito, lo ammoniva che sempre più difficile gli si faceva il sottrarre più oltre il mistero della sua esistenza alla curiosità diffidente del mondo; mille indizi già gli avevano fatto avvertire che i sospetti erano cresciuti e ronzavano, per così dire, intorno alla verità; sentiva mancarsi sotto i piedi il terreno; le parole del conte gli avevano mostrato imminente il pericolo.

Per fortuna, egli si diceva essere vicinissimo lo scoppio della preparata lotta; due giorni ancora e la maschera sarebbe gettata; dicesse poi quel che volesse il mondo, egli apparirebbe addosso a lui angelo dell'esterminio. Però molto gl'increbbe la fatalità che quel giorno non lo lasciava accontarsi con Mario, il quale certo aveva comunicazioni da fargli a questo riguardo; e poichè non c'era per allora modo di rimediarvi, decise recarsi finalmente a trovare la povera Ester ricoverata, come sappiamo, in Cafarnao.

Gian-Luigi fu sollecito alla sua casetta del viale da cui, pel sotterraneo passaggio, si comunicava col segreto ridotto della cocca. Colà, sdraiato sul sofà dell'anticamera, trovò Graffigna che si apparecchiava a riposar tranquillo in quel locale ch'egli era incaricato di tener caldo e in ordine.

— Che fai tu qui? domandò brusco il medichino.

— Son venuto a dormire, rispose il mariuolo: la signorina costà sotto, quando fui a recarle da cena, mi ha intimato di lasciarvela sola ad aspettare Vossignoria, e non ho voluto contravvenire ai suoi ordini.

— Tu hai fatto come t'avevo ordinato?

— Signor sì. Fui prima da Baciccia, poi da Pelone e a tuttidue comunicai le volontà di Vossignoria; da questo ultimo furfante d'oste che il diavolo [153] faccia abbrustolire, nostro degno socio ed amico, mi provvidi d'un po' di ben di Dio da mangiare.... siccome si trattava d'una donnetta ho preso qualche cosa di delicato.... un salsicciotto all'aglio, dei peperoni in aceto, un po' di lodigiano, quattro nespole e mezza dozzina di noci.... ed ho portato il tutto con mezzo litro di barbèra alla nostra principessa schifiltosa, che le possa venire il mal dei pondi, la quale mi ha fatto il bel complimento di levarmele dinanzi e di non andarla a seccar più.

— Di modo che nessuno ha potuto penetrar colà a vederla?

— Signor no.

— Sta bene.... E di Barnaba hai tu sentito qualche cosa?

— Niente ancora. E Lei?

— Nemmen io.... Ora dà retta, Graffigna.

— Comandi.

— Ci abbiamo quella ultima serie di biglietti di Banca francesi.

— Sono belli e preparati a spedirsi pei soliti modi ai nostri soliti corrispondenti di là dei monti.

— Ebbene bisogna sospenderne per ora la spedizione. Ho appreso che la Francia ha scoperto fabbricarsi essi nel nostro paese, e chiamata su di ciò l'attenzione della Polizia di qui. Si hanno tutti gli occhi aperti, ed è prudenza lasciar di nuovo addormentarsi la mala bestia.

— È giusto... Conviene d'altronde riserbarci questa rivalsa, per ogni caso d'infelice riuscita del nostro colpo... Dico così perchè è prudenza prevedere anche il peggio; ma non è già ch'io creda ad uno scacco. Tutto anzi mi pare avviato il meglio del mondo. Questa sera ho insaccato coloro che le ho detto mi premevan di più. L'affare cammina colle corde insaponate. Domenica sera, le assicuro io che vorrà essere un bel giuoco da rallegrare il fistolo in persona.

— E se siamo schiacciati?

— Allora gambe aiuto: scompariamo per un poco dalla scena, e con quel tanto che ad ogni modo potremo pure arraffare, andiamo momentaneamente a beare della nostra industria altre terre più benigne, per tornar poi, ad acque chete, a riprender qui l'opera nostra.

Il medichino fece, sorridendo, un atto di assentimento, e senz'altre parole penetrò nel nascosto passaggio, a capo il quale era il Cafarnao.

Giuntovi, al fioco lume della lampada che pendeva dal mezzo della vôlta, scorse una donna, la quale appoggiati i gomiti alla tavola, nascosta la faccia tra le palme, appariva immersa in una profonda meditazione di dolorosi pensieri; le si accostò egli con passo affrettato esclamando: — Ester!

La donna si riscosse in sussulto, levò vivamente la faccia, quindi si drizzò in piedi, agitata da un tremito la persona, mandò un'esclamazione, i suoi occhi balenarono, e Gian-Luigi si vide dinanzi concitata e fremente la Maddalena.

Dallo stupore il medichino indietrò d'un passo.

— Tu! diss'egli. Sei tu qui?... Ed Ester? Dov'è? che ne hai tu fatto?

— Che ne ho fatto? rispose la fanciulla con un compresso furore: qui è mia casa, qui è mio regno, qui tu devi essere e ti voglio unicamente mio... Come aveva ella osato penetrare fin qua la sciagurata?... La scacciai, come si scaccia un'intrusa.

Nelle scure pupille del medichino balenò terribile il lampo dell'ira.

— Tu hai osato codesto?

La donna con una forza ed un coraggio che solo poteva darle l'impeto della sua gelosia feroce, stette impavida innanzi a quella tremenda espressione dell'ira di lui.

— L'ho osato: rispose ella fermamente.

— Tu hai disobbedito ai miei ordini, e non sai tu che da nessuno tollero questa colpa?

— Fa di me quello che vuoi; ma io neppure non tollererò mai di vedermi qui sotto gli occhi una rivale.

E la disgraziata digrignava i denti con un aspetto di ferocia da far paura. Egli la fissava sempre con quello sguardo che era più di qualsiasi parola una tremenda minaccia e sulla sua fronte s'incavava sempre più la ruga che era indizio in lui dei sanguinosi propositi dell'ira. Quelle due collere, quelle due ferocie stavano a fronte sfidandosi, quasi insultandosi ed incitandosi a vicenda.

— Che hai tu fatto di quella donna? ripetè Gian-Luigi accostandosi d'un passo alla Maddalena.

E questa sempre colla medesima fierezza di risoluzione:

— Le ho detto ciò che le conveniva: che la era una sgualdrina e peggio; la presi per un braccio... benedica il suo angelo custode s'io non l'ho strozzata colle mie mani... la trascinai fino fuori della bottega di Baciccia, la buttai là sulla neve, e faccia la Madonna della Consolata che ella sia basita di freddo come una infame ed una maledetta che essa è...

A Gian-Luigi in quel punto venne ad affacciarsi un pungente ricordo: che la povera Ester era madre. Si ricordò che il giorno innanzi, in quel luogo medesimo egli ne aveva letto il primo annunzio nel biglietto scrittogli dall'infelice, e tutti quei pensieri, tutte quelle sensazioni che aveva avute in quel momento gli tornarono in folla e ad un tratto nella mente e nell'animo. Pensò alla povera madre abbandonata sulla neve in una notte invernale, ed alla creatura innocente ch'ella portava nel seno — e quella creatura era sua!...

— Disgraziata! ruggì egli levando in un parosismo d'ira la mano e percotendo la Maddalena alla faccia; è il tuo mal genio che ti ha ispirata.

La ragazza non mandò neppure una voce, ma cadde traverso la tavola, a cui era vicina, come erba recisa dal ferro del falciatore.

[154] Per conoscere divisatamente in che modo la figliuola del rigattiere ebreo forse fuggita all'ira di suo padre per cadere in preda alla gelosia di Maddalena, rifacciamoci alla sera innanzi, quando Jacob Arom, chiusa in istanza sua figlia, nella cantina la fante, era uscito di casa per recarsi alla importante conventicola della cocca.

CAPITOLO XXIII.

Ester, lasciata sola da suo padre, era rimasta come sbalordita per un poco, senza quasi saper nemmeno d'essere in vita. Sentiva che tutto era finito per lei, che l'odio paterno mai più non le avrebbe perdonato, che la miglior sorte da augurarsi era quella di morir presto; poi un più acuto spasimo ricresceva in mezzo al suo tormento a lacerarle con più fiero artiglio il cuore indolorito: il pensiero che Luigi era infedele, ch'egli adunque nelle sue parole, nelle sue proteste, nei suoi giuramenti l'aveva ingannata. A quest'idea il suo abbattimento era interrotto da una vicenda di violenza nel soffrire, quasi di furore. Sentiva il capo tumultuarle come se la pazzia stesse per invaderle il cervello; aveva delle fiere smanie di vendetta; poi tornava nella primiera prostrazione e si diceva per ogni riguardo irrimediabilmente perduta, non esservi per lei altro più che abbandonarsi rassegnatamente alla corrente che la travolgeva. Suo padre l'avrebbe uccisa, ella se ne sentiva la paurosa certezza. Oh almeno non fosse stata troppo lenta a venire la morte!

Ma ad un tratto il pensiero della fine divenne per lei più spaventoso d'ogni altro, le divenne insopportabile. Qualche cosa erasi mosso nel suo seno che l'ammoniva esser ella, dover essere, per un duplice vincolo, per quello sacrosanto d'un infrangibile dovere, per quello d'una novella vita d'uno spirito mandato da Dio alle prove terrene, costretta alla esistenza, obbligata a difendere e salvare in ogni modo la sua. Non volle più a niun patto morire. E poi voleva ancora una volta veder Luigi, rimproverargli il suo tradimento infame, confonderlo.. Che cosa avrebbe dettogli e fatto non sapeva bene ancora. Si levò di dove stava accasciata con nuovo vigore; si slanciò contro la porta e volle colle sue deboli mani delicate staccarne i cardini, infrangerne la serratura, strapparne colle unghie le bandelle; la percosse, la urlò, si mise a gridare: «aiuto, accorr'uomo,» si fece sanguinose le dita, si fece rauca la voce nella gola, e tutto inutilmente. Si diede a girare per quella piccola stanza come belva in gabbia, stringendosi colle mani convulse la fronte, domandando invano al suo cervello una idea.

Di botto s'arrestò innanzi alla finestra. L'idea più semplice che poteva nascerle erasele affacciata: quella di salvarsi scendendo di là. Corse alla finestra e ne aprì con impeto le invetrate. Sappiamo già ch'ella guardava in un cortile interno del ghetto diverso da quello dov'era la porta da basso. In quella notte buia, quantunque fosse poca l'altezza di quel piano, il cortile, a chi si sporgesse a guardarci, appariva profondo come un abisso. Si ritrasse spaventata a tutta prima; ma il pericolo del rimanere le sembrava ben maggiore di quello; chiamò in soccorso tutta la sua energia, prese le lenzuola del suo letto, le congiunse, legatone un capo alla tavola, le fece pendere giù della finestra, ed aggrappatavisi colle mani, si lasciò scivolar giù.

Precipitò tramortita sul suolo, dove per sua fortuna la neve caduta e l'immondizia rammontatavi smorzarono il colpo. Dopo un istante la si riebbe. Levatasi in fretta, cercò uscire di là; ma non una luce era a guidarla, e tutto era silenzioso intorno come una tomba. Ella, poco pratica di quei tragitti, passò di cortiluccio in cortiluccio senza trovare anima viva a cui domandare la strada; ed avesse ben anco trovato qualcheduno, la si sarebbe piuttosto nascosta che osare accostarlo. Girò, girò tanto che pervenne ad un portone d'uscita; ma a quell'ora esso era chiuso, ed ella non aveva il coraggio di farselo aprire, e non sapeva manco da cui. Si appiattò in un angolo, tremante di paura, di freddo, di febbre, spaventata all'idea che suo padre, rientrando in casa e non trovandocela, si desse a cercarla e la scoprisse colà; ma Jacob, che abbiamo visto uscire alle dodici dalla taverna di Pelone, quella notte non si ridusse nel ghetto, e ne sapremo più tardi il perchè.

Che dolorosa notte di morali e fisici patimenti fosse quella per la infelice ve lo lascio pensare. Giunto finalmente il mattino, che parve ritardasse un'eternità a venire, ella intirizzita, tutto dolente e intormentita, confusa la testa, vacillante il corpo, s'affrettò ad abbandonare il ghetto, e le parve una gran fortuna codesta, e quanto più potè sollecita se ne allontanò. Non aveva altro scopo dapprima che quello: andar lontano di là; ma poi tornò più vivo e più intenso il desiderio, il bisogno di recarsi presso di lui, di vedere Luigi, non fosse che per gettargli in faccia la maledizione per la sua infamia.

Dove dirigersi ella non sapeva menomamente: andò come una mosca senza capo qua e là guardando ansiosamente dintorno, come se in ogni passeggiero avesse da riconoscere lui, come se in ogni cosa che l'attorniasse avesse da scoprire un indizio a guidarla. Debole ed affranta dal digiuno, dalla tremenda passione morale, dalla dura notte passata, sentiva mancarsi le forze oramai; ogni oggetto le girava dattorno; credeva da un momento all'altro dover cadere, fors'anco morta.

— Oh prima di morire voglio ancora vederlo. [155] si disse ridestando in sè con uno sforzo della volontà tutta l'energia che ancora le rimaneva.

Ebbe il coraggio di rivolgersi ai passeggeri e pregarli le insegnassero l'abitazione del dottor Quercia. Alcuni le ridevano in faccia, altri crollavan le spalle e tiravan dritto; i più la prendevano per pazza e peggio. Finalmente una guardia municipale n'ebbe compassione.

— Venite meco, le disse, vi condurrò al Vicariato, e colà potranno certamente indicarvi quel che cercate.

Ester seguì la guardia, e dietro loro s'avviò, come sempre suole, una frotta di monelli e di sfaccendati che scambiavano quella povera fanciulla per ben altro da ciò ch'ella era, e la venivano accompagnando di sciagurati motteggi. Ma la infelice non badava più a nulla, più non si dava pensiero di nulla; e il solo suo spavento era quello di trovare per istrada suo padre uso a girovagare per ragione del suo mestiere. Ciò non le avvenne; condotta innanzi ad un impiegato della Polizia municipale, che allora chiamavasi Vicariato, ella alle fattele interrogazioni rispose, assumendo il nome della sua fante, chiamarsi Debora V...., esser giunta da una città di provincia, non esser pratica di Torino, ed aver sommo, urgente bisogno di parlare al dottor Quercia.

Nell'essere menata da quell'impiegato Ester ebbe due fortune: una di trovare un discreto che non la fece aspettare in anticamera più di mezz'ora, che non la trattò villanamente, benchè avesse le apparenze di povera e si confessasse ebrea, che non la seccò di domande insistenti e superflue per soddisfare la sua curiosità; l'altra fortuna fu che quel medesimo impiegato conosceva appunto l'indirizzo dell'abitazione di Quercia.

Di questo modo adunque potè essa alla fine pervenire alla dimora di Luigi; ma colà trovava la desolante risposta di Varullo, che il padrone era fuori e non si sapeva quando sarebbe rientrato. Ester pregò perchè la si lasciasse aspettarlo; e il domestico, dopo alcune difficoltà, indottovi dalla bellezza della ragazza ed anco da un po' di compassione che gli avevan desta le supplicazioni e l'aspetto quasi disperato di lei, aveva finito per acconsentire. Più tardi era sopraggiunto Graffigna, il quale sappiamo che era conosciuto dalla giovane ed era informato della tresca fra lei e il medichino. Egli pensò che questi avrebbe a grado se gli avesse tolto dal suo alloggio la presenza della giovane ebrea, e inteso in poche parole da lei come e perchè fosse fuggita dal padre, e quindi come in ghetto non fosse possibile farla ritornare, non sapendo dove ricoverarla altrimenti, pensò condurla in Cafarnao, e giovandosi dell'autorità del nome di Luigi e del volere di lui, tanto seppe fare che indusse la giovane a seguirvelo.

Ricevuti dal medichino gli ordini che abbiamo udito dargli noi stessi, Graffigna erasi affrettato ad andare alla bettola di Pelone, dove aveva trasmesso nelle orecchie dell'oste il comando del capo, da comunicarsi a chi si doveva: nessuno osasse penetrare in Cafarnao, finchè un nuovo cenno tornasse a permetterlo; poi si era munito di alcune provvigioni da bocca, ed era trottato da Baciccia per ripetere colà l'avuta consegna ed introdursi nel sotterraneo, mentre nell'osteria di Pelone, secondo era stato deciso la sera innanzi, s'era distrutta la molla che faceva aprire l'usciòlo segreto nell'assito, s'era con lastre di ferro inchiodato l'usciòlo medesimo, e dietrovi otturato il passaggio con una muratura di oltre cinquanta centimetri.

Maddalena che non aveva udito la comunicazione di Graffigna e che dalla sua condizione di druda del medichino aveva il privilegio di potersi introdurre in Cafarnao senza chiederne licenza e senza manco farlo sapere a Pelone, tentava poco dopo aprire il passaggio segreto della stanza riposta e trovava sparito perfino il segno dove conveniva premere la molla; ricorreva all'oste meravigliata, domandandone spiegazione, e il bravo bettoliere che non ne sapeva meglio di lei non aveva altro da rispondere che con un uguale stupore. Qui venne il caso di raccontare alla giovane della commissione di Graffigna, e delle provvisioni da costui prese per una misteriosa abitatrice, come s'era lasciato scappar detto, del sotterraneo. La curiosità in Maddalena sorse immensa di botto, ma nacque ancora maggiore la gelosia. Certo si trattava d'una rivale. Ella voleva vederla; il pensiero che una donna era colà, dov'essa ancora la notte innanzi s'era trovata con lui, e stava aspettandolo, e forse già ne godeva la compagnia, questo pensiero, a quella violenta quasi selvaggia natura, era insopportabile. Uscì correndo della bettola, e fu in pochi minuti alla bottega di Baciccia. Colà affermò che essa veniva d'ordine preciso del medichino: ch'ella da parte di lui aveva qualche cosa da dire a quella donna che era stata lì dentro condotta. Baciccia credette e la lasciò passare.

Ester da parecchie ore stava aspettando, e la sua ansietà, una vaga paura venivano in lei accrescendosi sempre più. L'oscurità di quel luogo in cui la si trovava, le cose che in esso poteva scorgere al fioco chiarore di quell'unica lampada non erano acconcie a rassicurare ed invigorire la pover'anima della infelice abbattuta da tanto fisico e morale patimento. Eterno le sembrava il tempo a trascorrere, e via via si facevano strada nell'anima sua i più strani sospetti. Se Luigi era stato capace di tradirla, ella doveva crederlo capace di qualunque scelleraggine. Graffigna non era egli un cieco e devoto strumento di lui? Conducendola in quel sotterraneo luogo dov'ella era segregata da tutto il resto del mondo, non obbediva forse ai cenni dell'infedele e traditore amante, lieto di sbarazzarsi di lei? Non era ella fuggita alla ferocia dell'ira paterna che per cadere [156] in potere alla crudeltà dell'amante voglioso di liberarsi d'ogni fastidio?

Mentre essa era nel peggio di questi tormentosi pensieri, la sentì vicino a sè un fruscio, un suono di passi, un soffio di respiro affannato, e levò gli occhi con un sussulto quasi di sgomento: innanzi si vide lo sguardo acceso d'odio, la faccia improntata di furore, le labbra dall'ira contratte d'una donna fieramente minacciosa.

Ester si alzò spaventata e si trasse indietro d'un passo. Maddalena avanzò il capo verso di lei, allungando il collo, guardandola sempre con ghigno feroce ma in silenzio, esaminandone con indagine maligna le sembianze, affondandole negli occhi i suoi acuti come lame di pugnale, tenendola sotto il fascino dello sguardo come fa la tigre alla sua preda prima di slanciarsele addosso a sbranarla.

— Chi siete?... Che volete? domandò alla fine Ester tremante.

— Ah! voi lo domandate a me? ruggì Maddalena afferrandola ad un braccio e stringendola come con una morsa di ferro. Gli è voi che dovete rispondere a me... Che cosa siete venuta a far qui?... Che audacia è la vostra d'introdurvi qui, di ardire sfidare ed affrontare la mia collera, il mio furore?

Ester liberò a gran pena il braccio dalla stretta della donna furibonda e traendosi indietro esclamò sempre più spaventata:

— Lasciatemi... Voi mi fate male... Io non vi conosco, voi; io non vi ho fatto nulla a voi.

— Ah! non mi avete fallo nulla?... Sciagurata!... Voi venite fin qui a contendermi il mio Luigi.

La figliuola di Jacob, a queste parole, si riscosse: levò più fieramente il capo e osò guardare con fermezza la donna in cui capiva ora d'avere una rivale.

— Il vostro Luigi! esclamò ella con una potente, oltraggiosa ironia.

E la Maddalena scoppiando:

— Sì mio, più che vostro di certo, perchè io ho dato a lui tutto di me, anche la coscienza, anche la vita futura, ed egli mi ha aperto più che la sua anima, i suoi segreti... Mio qui soprattutto dove abbiamo passate insieme ore di paradiso... e dove non lascierò, per Dio! non lascierò mai che un'altra venga a disputarmelo.

Ester provò profondissimo il dolore, ma più profonda ancora la vergogna. Essa lo amava tanto, essa lo aveva amato tanto quell'uomo, a cui aveva sacrificato il suo onore, la sua intiera esistenza; ed egli la tradiva così infamemente! Le parole dettegli dal padre avevano la più piena conferma. Non bastava adunque ch'e' si spergiurasse nelle braccia d'una contessa; doveva eziandio ingannarla per costei cui l'aspetto, il vestire, il linguaggio dicevano a quale schiera d'infelici creature appartenesse. La povera tradita mandò un'esclamazione soffocata, curvò la testa e si coprì colle mani la faccia.

— Fate bene a vergognarvi: continuava Maddalena, che la vostra è davvero una impudente sfacciataggine... E non so proprio indovinare che cosa in voi abbia potuto piacergli...

La giovane ebrea stette immobile, colla faccia nascosta. La sua vergogna, la sua umiliazione erano tante che ogni forza era smarrita in lei; non era più capace nè di pensare, nè di volere, nè di desiderare nulla al mondo.

Maddalena continuava:

— Ch'egli fuori di qua faccia tutto quello che più gli talenta, pazienza, lo tollero, glie la perdono... Sì: l'amo talmente da perdonargli ogni cosa... Qui dentro, però, voglio esser sola e padrona: questi luoghi che hanno veduto i nostri amplessi non debbono vederne altri, per Dio!... A questo solo pensiero, mi sento qui qualche cosa che mi fa perdere la ragione... sono sempre statagli sottomessa come un cane... un povero cane che per una carezza dimentica ogni torto ed ogni battitura, ma ora..... al veder voi qui.... mi sento diventare una tigre... Sono capace di tutto, sapete! Sono capace di tutto.

E s'avanzò vieppiù verso Ester con volto illuminato davvero dalla più trista fiamma della più trista passione. La si vedeva capace d'ogni eccesso, di ogni delitto: se avesse avuto un coltello all'arrivo di mano, la non si sarebbe trattenuta di certo dal piantarlo nel seno della rivale.

La figliuola di Jacob guardò intorno sgomenta, come cercando un mezzo di scampo.

— Non son io, diss'ella, che volli venir qua..... Mi vi condussero senza ch'io sapessi dove..... Non ci voglio stare... Se sapessi partirmene...

Maddalena tornò ad afferrarla pel braccio.

— Ebbene venite: diss'ella con impero: a niun costo vi avrei qui lasciata aspettarlo, avessi dovuto portarvi fuor di qua cadavere... Venite.

La trascinò fino nella strada e per commiato, con uno spintone, le gettò queste feroci parole:

— E pregate Iddio che mai più non vi troviate innanzi a me, che mai non mi cadiate sotto le unghie: non ne uscireste più a così buon mercato, ve lo giuro.

Ester si trovò di nuovo un'altra notte senza ricovero, abbandonata nel mondo, senza sapere a cui rivolgersi, senza che si presentasse alla sua mente più nessun mezzo di salute, senza volerne più cercare nemmanco. Si sentiva spoglia affatto di ogni vigore di vita: non poteva reggersi in piedi, aveva un immenso bisogno di riposo al corpo, di oblio alla mente, questo riposo e quest'oblio fossero pure stati quelli del sepolcro. Si lasciò cadere sopra un mucchio di neve in cui inciampò al primo passo che volle fare; e stette là ingranchita, sfibrata, presso a perdere la cognizione. Le parve di essere vicina a morire, e invece che paura questo [157] pensiero le ispirò un'intima amara mestizia. Almeno tutto sarebbe finito!

In quello stato che non era sonno, e che non era di veglia, ma in cui le impressioni erano strane e quasi direi travelate, la infelice dopo un po' di tempo, che non sapeva dir quanto, sentì una mano posarsele sulla spalla ed una voce — ah! una voce che ben conosceva, una voce che le arrivò sino ai più intimi penetrali a riscuoterla come una forte corrente di elettricità — le disse:

— Ehi quella donna, che cosa fate costì?

La sventurata allargò gli occhi con ispavento; di botto fu tornata pienamente in sè: la vista delle sembianze di quell'uomo che era curvo su di lei la atterrì talmente che fu dritta in piedi con un balzo, ed una esclamazione, un grido di terrore partì dalle sue labbra.

L'uomo che l'aveva toccata, che le aveva parlato, che le stava dinanzi — era suo padre.

Macobaro, come già fu accennato, per ragioni che sapremo più tardi, non era tornato più a casa sua, dopo la fatale scena avuta colla figliuola, che il giorno appresso a mattina già inoltrata. Al vedere la finestra spalancata, le lenzuola pendenti al di fuori e la figliuola sparita, il vecchio ebreo rimase il più stupito ed indignato uomo del mondo. Gli rincrescevano del pari e la cosa in sè, e lo andar essa per la bocca della gente, come pur troppo temeva non mancherebbe d'avvenire, divulgandosi la fuga di Ester, e volendosene cercare, e sicuramente indovinandosene la ragione. Ritrasse egli frattanto di fretta le lenzuola nella stanza, guardò se in quel cortile alcuno fosse ad osservare quella novità, e non vedendoci anima viva, sperò che, tutte le finestre pel rigore della stagione tenendosi accuratamente chiuse, ed essendovi in quel luogo assai poco passaggio di gente, nessuno avrebbe ancora notato quel fatto, richiuse le invetrate, e sedutosi a mezzo di quella stanza, ove trovavasi ora solo, stette il capo serrato fra le scarne mani a meditare sul partito da prendersi.

La sua figliuola, egli la voleva riavere; non poteva rinunziare così al suo scellerato desiderio di vendicarsi su lei tormentandola; gli pareva una nuova offesa l'essergli di quel modo sfuggita la colpevole. Nella rabbia che lo corrodeva, pensò alla povera, disgraziata, vecchia Debora cui teneva chiusa in cantina, ed ebbe il crudele impulso di andare da lei a torsi almanco uno sfogo.

— La vecchia strega non mi sarà fuggita essa: si disse con feroce ironia, e prendendo seco un tozzo di pane inferigno, discese nella sotterranea stanza, dove aveva gettata la fante.

L'infelice creatura, pel soverchio patimento di quella notte passata senza coperture in quel freddo ed umido luogo, dopo tanto spavento e spasimo, tutta intirizzita, giaceva raggomitolata in un angolo sul nudo terreno, più morta che viva. All'entrar del padrone non si mosse, nè diede segno veruno d'averlo pur sentito; occupata da una febbre mortale non dinotava la vita che per certe scosse di brivido che le correvan di quando in quando le membra.

— Debora! gridò Jacob camminando verso l'angolo dove l'aveva scorta, vecchia infame, alzati, su, ho da parlarti.

La donna rimase immobile.

— Debora! gridò più forte il ferravecchi, curvandosi su di lei: questa sciagurata è capace di dormire...

Le vide in vero le palpebre abbassate, ma il color livido delle guancie e delle occhiaie, il respiro affannoso ed interrotto bene indicavano che quello non era sonno tranquillo e naturale.

— Odi tu o non odi, mala femmina che ti maledica l'Eterno? Vuoi tu aggiungere alle tue tante malizie anco quella di far la sorda? Olà! olà! ti farò sentire ben io... Hai da dirmi tutto.... tutto, capisci?... come successe la tresca infame... voglio saperne ogni circostanza... e tu me l'hai da narrare per filo e per segno.

Così dicendo, col piede scuoteva quella massa inerte che stava buttata come un sacco di cenci. Debora a quegli urti aprì gli occhi; ma nelle pupille che apparvero non c'era più intelligenza di sorta.

— Mi odi tu? ripetè Macobaro curvandosi ancora di più verso la cadaverica faccia di lei.

Ella non diede segno alcuno di risposta. Il padre di Ester si ridrizzò della persona, incrociò le braccia al petto, e la guardò un istante in silenzio; ma nel suo aspetto non c'era la menoma ombra di compassione.

— La è un po' sbalordita, diss'egli poi: bah! gli è nulla; questa razza di gente ha la pelle dura e la vita tenace: la si rimetterà presto, e tornerò allora a interrogarla.

Le gettò vicino al capo il tozzo di pan nero che aveva recato seco e le disse:

— To'; dovrei lasciarti crepar di fame come ti meriti, più trista delle triste femmine, che tu sei, corruttrice infame della mia figliuola, ladra d'uno dei miei tesori, rovina della mia vecchiaia; ma ho bisogno ancora che tu parli... e ti lascio vivere... A rivederci stassera.

Uscì richiudendo accuratamente la forte imposta della porta e tornò al suo precedente proposito: quello di rintracciare la figliuola. Era troppo naturale che Ester cercasse ricovero e protezione presso il suo amante, perchè a Jacob non venisse primo il pensiero che insieme con lui si ritrovava sua figlia. Certo gli sarebbe stato difficile poterla toglier di là e ridurla di nuovo in poter suo, ed egli non sapeva come avrebbe fatto per ciò; ma nella sua mente si andavano agitando e maturando i più gravi e niquitosi disegni di vendetta, cui avrebbe, in dipendenza [158] degli avvenimenti, eseguiti in tutto o in parte, e da cui anche la colpevole figliuola, che ora gli pareva odiare quanto aveva amata dapprima, sarebbe stata raggiunta e fieramente colpita. Per ora l'importante era sapere dove Ester fosse riparata, e decise mettere tutto il suo impegno a scoprirlo. Conosceva egli abbastanza le abitudini e la vita del medichino per sapere come in quel quartiere che era la sua dimora ufficiale, se anco la ragazza si fosse recata colà a trovarlo, egli non l'avrebbe tenuta; era quindi molto più facile, anzi quasi sicuro, che Ester si trovasse o nella palazzina del viale, di cui Arom, come uno dell'alto sinedrio della cocca, conosceva i misteri, oppure in qualcun'altra delle camere che Luigi affittava in città per più comodo convegno nelle sue tante avventure amorose.

Pensò prima di tutto cercar di chiarirsi se sua figlia fosse nella palazzina: corse sul viale, e giunse in faccia alla porta del murello che non erano ancora le dieci del mattino. La casetta aveva il suo solito aspetto deserto, e non un indizio appariva che fosse in essa qualcheduno. Macobaro, non iscoraggiato per questo, decise di stare colà in osservazione un po' di tempo. Ben presto ebbe da lodarsi del suo proposito e della sua accortezza, perchè vide di lontano coi suoi occhi di falco il conosciuto legnetto del medichino venire di trotto a quella volta. Si nascose dietro il grosso tronco d'una pianta, così da non essere veduto nè dal cocchiere, nè da chi era dentro la carrozza. Di colà scorse Gian-Luigi medesimo uscir del legno, traversare il cortiletto ed entrar nella casa.

— Essa è costà: si disse: ed egli è venuto a vederla.

Siccome il brougham non partì, ma, fermatosi a poca distanza dalla porta del muricciuolo, stette ad aspettare, Jacob ne argomentò che il medichino non si sarebbe colà trattenuto lunga pezza, e rimase per vedere ciò che succedesse.

Dopo alcuni minuti dovette ricredersi dalla sua prima opinione. Vide sopraggiungere una carrozza di piazza e da essa discendere una signora, cui, quantunque accuratamente velata, egli riconobbe assai bene per la contessa di Staffarda.

— No, diss'egli, Ester non c'è... Non ci avrebbe dato ritrovo a quest'altra..... Si trova adunque in qualcun altro de' suoi ricettacoli; ma dove?... dove?

Stette pur tuttavia fermo ad aspettare ancora, finchè vide la contessa uscir prima a piedi, e dieci minuti dopo partirsi egli eziandio colla sua carrozza. Allora Macobaro s'avviò a passo lento verso l'interno della città, riflettendo profondamente.

— Per adesso, borbottava egli intanto fra sè, non c'è nulla da fare... Tanto varrebbe cercare un ago in un fastello di fieno. Aspettiamo... E poi bisogna che torni presso quell'altro... Non conviene trascurare quel tasto...

Tutta la giornata fu occupatissimo in cose che sapremo poi; verso sera coll'animo di tastar terreno si recò alla taverna di Pelone, dove apprese da costui la proibizione di penetrare in Cafarnao per ordine del medichino. Ciò lo mise in sospetto; fatto mostra di nulla, dopo un poco egli abbandonò la bettola e corse verso la bottega di Baciccia per vedere se di là gli venisse fatto d'introdursi nel sotterraneo. E fu là, innanzi a quella bottega, che accostatosi ad una donna che vide giacente sopra un mucchio di neve, riconobbe in essa la cercata figliuola.

— Ah! per la pietra di Oreb, sei tu!... esclamò egli con gioia feroce: tu che Jehovah mi caccia tra i piedi. Hai voluto fuggire tuo padre? Hai voluto fuggire la giustizia dell'Eterno che ti colpirà colla mia vendetta?... Vedi come la colpa ha debole il corso; vedi come la sa afferrare alle chiome la mano della collera divina!

E quasi la sua fosse questa mano punitrice, tese egli verso di lei la sua destra scarna, fatta ad artiglio, agitata dal tremito dell'ira feroce.

— Non mi toccate, non mi toccate: gridò essa tirandosi in là, ma vacillando sulle gambe che non avevano pur la forza di reggerla.

Il padre l'afferrava per un braccio, e la stringeva tanto con rabbia convulsa, da farle entrare nella carne le sue unghie ricurve da uccello di rapina.

— Che fai tu qui? D'onde vieni? che aspetti, sciagurata d'una perduta?... L'indovino... Tu hai cercato ricovero dal tuo drudo; ed egli che ha saziata in te la sua libidine infame, egli che è stanco della tua polluta bellezza, ti ha respinta, ti ha rigettata nel fango della strada, che è il solo luogo degno di te, vil creatura che muovi anche nei più abbietti schifo e disprezzo.

Negli occhi di Ester s'era accesa una fiamma — la trista fiamma del delirio e della pazzia. Con un nuovo vigore sopravvenutole, liberò il suo braccio dalla stretta del padre, e con voce vibrante, saltuaria, in cui non era più nulla dell'armonia e della soavità di prima, si diede a gridare:

— Disprezzo!.... Anch'io lo disprezzo... Comprò il mio amore colla moneta falsa del suo..... Egli è un vile!... Quel suo orpello d'amore prostituì a tutte le cantonate... Oh mondo infame!... Odio e disprezzo tutti... anche voi, padre mio... e maledico la vita, e me stessa, e lui... e voi che m'avete data questa trista esistenza!

Jacob fece un moto come per riprenderle il braccio: ma ella, vieppiù concitata ancora, gli diede uno spintone che lo respinse in là, barcollante, alcuni passi, e poi ratta prese la corsa e fuggì.

— Ester, Ester, gridò il padre che la vide in un attimo perdersi nell'oscurità delle strade: fermati maledetta!..... maledetta! maledetta!..... ch'io non possa vederti più che cadavere!

Il fiero, iniquo augurio doveva ben presto essere esaudito.

[159]

CAPITOLO XXIV.

Il domani di buon'ora, nella riposta abitazione di Mario Tiburzio, succedeva finalmente il colloquio, che questi, fin dalla mattinata del giorno innanzi, aveva cercato di avere con Luigi Quercia, e cui la fatalità delle circostanze aveva sino allora impedito.

Ascoltate le inattese e troppo spiacevoli comunicazioni dell'emigrato romano, Gian-Luigi rimase per parecchi minuti in silenzio, ma la sua faccia s'era fatta più scura d'una notte nuvolosa d'inverno. Mario era severamente triste, ma calmo e fermo come uomo che ha un'irremovibile risoluzione. Egli non aveva creduto necessario svelare a Quercia l'intromissione in quella faccenda di Massimo d'Azeglio, ed aveva solamente manifestata la necessità di contromandare ogni scoppio di rivoluzione, in seguito alle novelle ricevute dall'alta Italia, delle quali, come gli erano state scritte, a prova delle sue parole, aveva dato lettura.

Dopo avere alcun tempo meditato, Gian-Luigi scosse la testa, e disse con calma freddezza ma pur tuttavia con una contenuta vibrazione d'accento, che era l'espressione d'una rabbia profonda:

— Io non ho che una risposta da fare alle vostre inaspettate parole; quella che fece la rivoluzion di Parigi a Carlo X nelle giornate del luglio: troppo tardi!

— Finchè non è desto l'incendio, per quanto accumulate sieno le materie combustibili, non è mai tardi lo spegner la miccia che deve appiccare il fuoco.

Luigi tornò a curvare il capo e stette di nuovo un istante in silenzio. Troppo amaro era il suo disinganno, troppo doloroso il colpo all'anima sua. Quand'egli credeva esser giunto alla meta da tanto tempo agognata, ecco attraversarglisi la fatalità a dirgli: tu non avanzerai; mentre tutto era preparato per la lotta e la vittoria, ecco torglisi l'arma di mano ed imporglisi di non combatter nemmanco; e frattanto già la sorte lo aveva ammonito che durarla così nel mondo non poteva più oltre, che le circostanze cominciavano a volgersi avverse per lui, che la sua maschera minacciava, sotto l'influsso penetrante della curiosità della gente, staccarsi e cadere, che quelle situazioni non si possono oltre un certo limite far durare, che diveniva una necessità assoluta per lui dichiararsi un Erostrato ed un Catilina, per non cadere nella infame volgarità d'una preda della galera o del boia.

— È troppo tardi, ripetè egli di poi con più fiera insistenza: ciò mi aveste almeno comunicato ieri!... Sarebbe forse stato possibile ancora arrestare il masso già avviato giù per la china...

— Ieri vi ho cercato tutto il giorno...

— Ma ora... ora gli è impossibile... chi può fermare quel masso che già precipita?

— Si tratta di impedire che inutil sangue si sparga. Conviene quel masso arrestarlo, anche a costo di farcisi schiacciar sotto.

— Sarò schiacciato e non si arresterà nulla meno... Non sapete voi che abbiamo già distribuite all'uopo le centinaia di mila lire?... Non sapete che ieri sera furono presi gli ultimi solenni concerti?... Credete voi ch'io sia solo, assoluto padrone di tutta quella turba di cui vi ho promesso il concorso e che basti a me volere e disvolere perchè gli altri tutti vogliano e disvogliano?... Ma se adesso io venissi loro innanzi a dire: tutti i sacrifizi e gli sforzi che avete fatti hanno ad essere inutili; dello scopo, che vi ho mostrato prossimo e possibile ad arrivarsi, non si deve discorrer più, oh non avrebbero essi diritto di accusarmi di tradimento?

— Tradimento sarebbe, quando si è acquistata la certezza che non può riuscire a buon fine la lotta, lasciar tuttavia che degli illusi la imprendano per inutilmente soccombere.

— Orsù, a che giuoco giuochiamo? Parliamoci schietto, signore... Ciascuno di noi proseguiva in segreto un'opera, in cui ha messo tutta l'energia della sua anima, tutte le facoltà della sua mente, le forze della sua vita; un'opera intesa a sottominare le basi dell'attuale ordinamento dell'agglomerazione umana, voi dal lato politico, io dal lato sociale. Per dir più giusto, voi ed io siamo i rappresentanti, i principali strumenti nell'oggi, di due opere che da secoli sono cominciate e si continuano nella società umana; opere incessanti in cui si accumulano gli odii degli oppressi e dei diseredati e che tratto tratto scoppiano in tumulto dei ciompi qua, in guerra dei Jacques colà, nelle masnade dei poverelli altrove, nelle bande dei contadini nel Canavese del XIV secolo, nel brigantaggio endemico dell'Italia meridionale, senza contare lo sfogo continuo del delitto contro la proprietà, mentre in politica ci danno le rivoluzioni del feudalismo che sconquassa il residuo dell'unità imperiale romana, dei Comuni che atterrano il feudalismo, della Monarchia che soffoca i Comuni, del ceto medio che in Inghilterra prima e poscia in Francia sfata la Monarchia... Ma, volere o non volere, queste due permanenti congiure camminano parallele ed hanno troppi punti di contatto perchè non s'incontrino, non s'aiutino a vicenda, a patto forse anche di combattersi poi quando si tratti di dividere i frutti della vittoria. Quindi in ogni rivoluzione le due quistioni hanno parte anche quando l'una abbia tal preminenza da sembrare in giuoco essa sola. Finora la politica sempre si vantaggiò col sacrifizio della quistione sociale; e noi, nei nostri patti, volemmo stabilire un più amichevole accordo ed un più equo riparto fra loro... Ma non è ora il caso di codesto. Era quasi inevitabile che le due nostre tenebrose e ardite strade s'incontrassero; e che noi, camminando per esse a capo del nostro partito, ci accontassimo [160] e pensassimo di convenire in mutua bisogna d'aiuto comune. Lascio stare chi sia stato il primo a cercare il concorso dell'altro; lascio stare che io al vostro partito potei recare una forza ben maggiore di quella che voi colle vostre schiere di congiurati possiate dare al mio; ma pongo il caso alla rovescia, e vi domando: «Se alla vigilia del gran giorno io fossi venuto da voi a dirvi che noi non si voleva più mantenere il patto, che cosa avreste creduto, che cosa mi avreste risposto?»

— Quando alle vostre parole aveste dato il saldo appoggio di buone prove e ragioni...

— E se voi, interruppe con foga impaziente il medichino, foste già tanto inoltrato nell'esecuzione da non potervi ritrarre?

Mario guardò nobilmente in faccia il suo interlocutore, e rispose senza millanteria, ma con fermezza calma e dignitosa:

— Avrei salvato i più che avrei potuto de' miei compagni, e sarei camminato senza esitare contro la morte...

Quercia sorse in piedi con un'esclamazione e con atto impazienti, e si pose a passeggiare concitato traverso la camera.

— La morte! la morte!..... Credete voi che io la tema e mi periti ad incontrarla? Ma forse che gente come noi, si ha da rassegnare così facilmente ad avere questa sola per conclusione di tanti sforzi, di tanti travagli, di tanta spesa d'attività, d'intelligenza, di coraggio? Morire, ma vincendo, che importa? Farsi o lasciarsi uccidere e vedere colla nostra morte perduta la nostra causa, è parte da vittima, è mestiere di deluso: ed io non lo voglio fare... Sentite, Mario. Io ho creduto scorgere in voi una di quelle tempre eccezionali — una tempra come la mia — che comandano fatalmente alle volontà altrui, che dominano perfino la fortuna e gli eventi. Provatemi che non mi sono ingannato. Voi potete avere in pugno la sorte d'Italia; non ve la lasciate sfuggire. Raccogliete intorno a voi de' vostri congiurati, tutti quelli che hanno cuore in petto, comunicate loro una scintilla soltanto di quel fuoco ch'io so, ch'io vedo ardere nell'anima vostra. Nelle vostre file dovete averne di cotali che sono capaci a rinfiammarsi. L'altro dì voi mi dicevate pure, quando io, tentandovi, parlai di aggiornare lo scoppio della rivolta, che anche colla certezza di soccombere, volevate lottare; ai miei dubbi intorno alla risoluzione ed all'eroismo de' vostri congiurati, voi mi rispondeste tutti amare la patria, tutti essere avvinti con sacramento ed essere voi sicuro non mancherebbero. Ebbene! gettate l'audace grido della lotta ad ogni modo. Se non tutti, vi seguiranno almeno quelli che hanno vergogna di essere spergiuri. L'esempio di questa città stimolerà l'ignavia delle altre; la tremenda voce della rivoluzione avrà un'eco fra gli altri popoli d'Italia, se pure meritano d'essere chiamati popoli e non branchi di servi torpidi e corrotti... Sappiate che da parte nostra l'esplosione di questa mina sarà il segnale di altre siffatte in Francia e nel Belgio, persino in Inghilterra..... Al ruggito della nostra plebe, risponderanno i ruggiti delle plebi parimente infelici e diseredate delle altre nazioni d'Europa...

Mario Tiburzio lo interruppe con viva emozione.

— Ma codesto mi spaventa. La quistione sociale credete voi che sia abbastanza matura perchè si possa agitar sull'arena con isperanza del comune pubblico vantaggio, con propizio scioglimento recato dall'orrore della lotta?... A mio avviso, no. Voi vi fate delle illusioni. Traverso il sangue e le rovine voi non camminerete che all'anarchia, quindi ad una riazione che ricondurrà uno stato peggiore di prima per tutti. All'assetto presente quale avete voi da sostituire, possibile e fecondo di benefici effetti? Nulla che utopie. Prima di passare nell'ordine dei fatti conviene che ogni riforma si compia nell'ordine delle idee, e si radichi non solo come possibile, ma come necessaria, nel campo della pubblica opinione universale; non è quindi di un balzo, di tutto punto che il rinnovamento può aver luogo, ma a poco a poco, parte per parte. La quistione sociale non trovasi ancora a questo stato di maturanza: la politica, quella nazionale soprattutto, in Italia, sì, lo è. Io poteva accettare il vostro concorso e promettervi in compenso giusti ed attuabili vantaggi; ma dare al vostro temerario ardimento, che ora soltanto scorgo in tutta la sua natura, la parte principale nell'opera e nello scopo di essa, farmi complice d'un tentativo che ravviso perniciosissimo a tutto ed a tutti, a quei prima cui si vorrebbe giovare, no, no, e poi no.

— Allora tutto è tronco fra noi: proruppe Quercia con impeto impaziente e minaccioso. Insensati!.... La valanga rovescierà anche voi.

— Che? voi persistete forse nel proposito?

Quercia tacque un momento, fissando il suo sguardo, che brillava d'una cupa fiamma, sulla fronte serena di Mario....

— Ciò che vorrò fare, disse poi, non istimo nè mio dovere, nè mia convenienza svelarvi, almeno fin d'ora. Ricordatevi che sarà un funesto momento pel liberalismo patriotico del ceto medio quello in cui rompe coi legittimi diritti o bisogni della plebe....

— Ma noi non si rompe che cogli eccessi delle passioni che si ammantano da diritti e si fanno arma dei bisogni del proletario.

Quercia rispose con amaro sogghigno:

— Il vostro giudizio è altrettanto severo quanto falso... Non monta! La questione sociale, checchè diciate, incombe su tutto, è al fondo di tutto, e proseguendo il vostro egoistico amore della libertà, voi, ceto medio, l'agitate senza volerlo. Nelle masse profonde della plebe sta la sorte futura del mondo. Guardate che, disconoscendolo, voi non diate occasione [161] al cesarismo di risorgere, guadagnarsi con alcune concessioni e collo sbarbaglio del suo lustro gli interessi e le fantasie mobili del volgo e mercè di queste schiacciarvi. Se l'indipendenza della patria, se la libertà politica voi non la fate sorgente di redenzione delle infime classi, avrete fondato sull'arena, ancorchè per miracolo riusciate ad una momentanea vittoria..... Questa redenzione io voglio tentare. Vi pentirete non tardi d'avermi negato il vostro concorso... Addio!

Gian-Luigi, uscito dalla dimora di Mario Tiburzio, si diresse all'abitazione dei Benda. Durante il tragitto che la corsa del bel cavallo attaccato al suo legno rese assai breve, egli aveva tanti di quei pensieri entro la mente che non sapeva, direi quasi, a quale di essi badare; gli pullulavano sì numerosi e sì diversi nel cervello i partiti ed i disegni che, in mezzo a loro, non sapeva districarsi e scegliere, la sua volontà. In quella soverchia e tumultuosa abbondanza di propositi, si disse che il migliore era per allora non prendere tuttavia decisione veruna, lasciarsi menar dalla corrente giù della china, affidare un poco alla fortuna dei casi particolari, che non gli era stata mai nemica sfidata, l'impegno di guidarlo e salvarlo nello sbaraglio. Con quel vigore di volontà che la natura aveva dato a quel favoreggiato individuo, egli scacciò fuori della sua mente tutta la turba di quei pugnaci pensieri che l'occupavano; e perchè non vi potessero rientrare la popolò di evocati, più dolci fantasimi, del corteo leggiadro delle donne che lo avevano amato, che lo amavano, di cui egli scelleratamente aveva compro, come aveva detto Ester, la pace, la virtù, l'onore con falsa moneta di sue ingannatrici parole amorose. Sorrise per un poco alle gentili immagini, ai ricordi piacevoli di soavi momenti; ma poi su questi pensieri eziandio venne a stendersi l'oscuro velo d'una nube, una mestizia insieme, un rimpianto, una malavoglia, una fastidiosa scontentezza che era in una lassitudine ed impazienza; una lieve tinta di più in quell'ombra di rincrescimento e si sarebbe potuto dire rimorso. Da quella giovenile schiera di donne, una s'era staccata, era venuta più innanzi nel campo della mentale di lui visione, aveva relegato nella penombra del fondo tutte le altre: una bella, giovane figura coll'impronta della disperazione sulla faccia, con un rimprovero tremendo nello sguardo, con una parola più tremenda ancora sulle labbra spallidite: Ester; la quale gli ripeteva le parole scrittegli due giorni prima: «sono madre.»

Il mistero della sua sorte, dopo ch'ella era fuggita la sera innanzi, per la tracotanza di Maddalena; questo mistero pauroso e minacciante, dava alla bella testa di lei come un'aureola di maggiore interesse nel pensiero del suo seduttore. Colei che, presente, non avrebbe certo tardato a infastidirlo, ora, assente, senza saperne novella, quasi perduta egli desiderava grandemente riavere, si doleva non poter soccorrere e consolare.

In questa la sua carrozza giunta alla casa Benda in sul viale, dava la voltata per entrare sotto il portone. Di presente un'altra idea, un'altra immagine si impadronì dello spirito di Gian-Luigi: l'immagine della pura ed innocente gentilezza ed avvenenza di Maria, l'idea dell'amore di lei. Si curvò al cristallo tirato su dello sportello e sollevò lo sguardo alle finestre del primo piano. Dietro i vetri d'una di esse stava un visino delicato di donna, il quale nello scontrare il suo collo sguardo del giovane che arrivava, arrossì e si ritrasse vivamente, quasi fuggendo. Ella aveva udito il giorno innanzi che Quercia sarebbe tornato quella mattina; stava essa aspettandolo? Povera Maria! Se avesse potuto vedere il sorriso di trionfo, di orgogliosa sicurezza che si disegnava sul labbro superbo di Gian-Luigi!

Questi salì sollecito le scale, e fu lasciato penetrare senza ritardo nella camera di Francesco. Il celebre chirurgo già era venuto; Giacomo e Teresa, che avevano vegliato tutta notte, stavano ansiosi intorno al letto del figlio; Maria non c'era. Il ferito aveva passato agitatissime le ore notturne, tormentato da una febbre gagliarda; nulla ancora di positivo poteva dirsi intorno al suo caso. Fu ordinato non gli si lasciasse veder nessuno, dai congiunti in fuori, Selva e Quercia; si evitassero tutte le emozioni, e intanto si lasciasse agire la benefica natura.

Quando il cerusico si partì, Giacomo fu ad accompagnarlo fino nell'anticamera; e s'era appena spiccato da lui, che gli si accostava con faccia preoccupata il capo-fabbrica, il quale già più volte aveva chiesto nella mattinata di parlare al principale, senza che questi volesse pur mai dargli udienza.

— Scusi, sor Giacomo, disse il capo-operaio con rispettosa umiltà, ma con un accento di premurosa insistenza, scusi se vengo a disturbarla in queste circostanze, in cui Ella ha sì gravi fastidii per la testa; ma conviene assolutamente ch'io le parli.

Il padre di Francesco fece un atto di crucciosa impazienza.

— Vi ho già fatto dire che di affari non volevo sentir nulla, non volevo occuparmi per nulla... Credete ch'io abbia la testa a codesto?... Lasciatemi in santa pace per amor del cielo.

— No, signore... Perdoni, ma si tratta di cosa troppo grave, e di premura.

— Che riguarda la fabbrica?

— Sì.

— Ebbene fate voi, provvedete come vi pare. Tutto quel che farete lo approvo fin d'ora...

— Ah! non mi prendo una responsabilità cotanta... Per carità, la prego io a mia volta di volermi ascoltare per pochi minuti.

Giacomo mandò un sospiro di rassegnazione e colla mossa dell'uomo che non ha mezzo di salvarsi da [162] una contrarietà, e si augura quanto meno d'esserne liberato il più presto possibile, disse tronco:

— Bene, parlate in vostra buon'ora, ma siate spiccio.

— Gli è qualche tempo, così parlò il capo-fabbrica, che tra gli operai notavo dei cambiamenti che non mi piacevano punto, che poscia cominciarono ad inquietarmi, e che ora fanno capo a spiacevoli conseguenze.

— Che cambiamenti? domandò brusco il principale. Che conseguenze?

— Negli opifizi si fanno i più strani discorsi di questo mondo, che mi sembrano eresie tanto fatte; che i principali sono i tiranni e gli oppressori degli operai, che finora quelli si sono... la mi permette di ripetere tali bestialità affinchè conosca tutto il male?

— Dite pure ogni cosa... anzi ve l'ordino.

— Che finora dunque i padroni si sono ingrassati dei sudori dei lavoranti, lasciando a questi nient'altro che miseria, e che ora è tempo gli operai dettino un poco la legge ancor essi ai principali, per averne più equo trattamento.

Giacomo, di natura impetuosa e già di solito poco paziente, in quei dì ed in quelle circostanze non era molto disposto ad essere calmo e tollerante.

— Gli sciagurati! proruppe: come se io succhiassi loro il sangue, viziosi di fannulloni la maggior parte che sarebbero a trattarsi colla sferza per farli lavorare, pieni di vizi e di pretese e null'altro, come quello scellerato d'Andrea! Oh che si hanno da lamentare di me? Sono ben pagati, li soccorro quando cadono infermi oltre ciò che sarebbe mio dovere, e vengono a tirarmi fuori di queste gretole?... Siete ben buono voi a venirmene a rompere il capo. Codestoro sono indiscreti e cattivi operai di sicuro. Non domando neppure se gli è Tommaso o Martino; ma qualunque essi sieno mandateli fuori dalla mia fabbrica, non voglio di queste rogne da grattare io, avete capito?

Il capo-fabbrica si mostrò imbarazzatissimo:

— Ah sor Giacomo... balbettò egli.

Ma il buon cuore dell'industriale avevagli già parlato non ostante l'eccitamento della sua bizza.

— Capisco quel che volete dire, soggiunse: cacciarli così su due piedi è un provvedimento un po' duro... Avete ragione, cominciamo per ammonirli... Se avessi la testa a segno lo farei io stesso, ma oggi non mi sento: non sono capace di mettere insieme quattro parole, e poi mi lascierei trasportare dallo sdegno e farei peggio. Parlate voi con loro: dite chiaro che non sono disposto a tollerare le indiscrezioni e l'indisciplina, che per ora basterà farli avvertiti, ma alla seconda di cambio stieno certi che non avranno più da me nè lavoro nè pane.

— Ah signore, temo pur troppo che codesto non basti...

— Come!

— Se si avesse da effettuare quella minaccia di rinvio, converrebbe metter fuori più della metà degli operai e non so come si potrebbe mandare innanzi la fabbrica.

— Che cosa mi dite? Possibile!..... Il male è a questo punto! E voi non mi avete mai avvisato? E non ci avete posto rimedio?

— È un fuoco che ha covato sotto la cenere, e che ora si manifesta quasi improvviso in quelle proporzioni. È certo che vi ha qualcheduno che soffia in questo fuoco; vi sono certuni degli operai che fanno una specie di propaganda, che ripetono evidentemente delle lezioni sovversive apprese a memoria... Costoro hanno denari, e mi pare che ne spargano fra i loro compagni..... Noti che, da quanto ho potuto intendere, anche in altri opifici succede il medesimo.

— Cospetto! esclamò Giacomo, in cui, malgrado il suo dolore morale, destavansi a quelle comunicazioni l'interesse, la curiosità e l'inquietudine. Codesto merita d'essere appurato.

— E pare adunque che siasi stabilito fra tutti gli opifici un accordo degli operai per dimandare simultaneamente un aumento di salari.

— Un aumento di salari? A questi giorni, colle attuali condizioni dell'industria!... Sono matti... Ma voi ben lo sapete che un menomo accrescimento nel costo della produzione ci toglierebbe ogni guadagno: noi dunque, padroni, ci toccherebbe lavorare e far lavorare il nostro capitale per favorire que' signorini soltanto, e noi rimetterci o non averne pure il becco d'un quattrino per profitto?...

— Eh! io lo so di sicuro codesto, ma quegl'insatanassati non la vogliono capire, e mi sono inutilmente sgolato a farla entrare nelle loro corna.

— Ma che vogliono adunque? Sentiamo le loro pretese.

— Domandano tutti indistintamente una lira di più al giorno di paga, una diminuzione invece di ore di lavoro, e inoltre.....

— Come! interruppe il principale con vero scoppio di collera, c'è ancora un inoltre? Oh che discreti!... Be', vediamo un po' fin dove spingono l'audacia?

— Vogliono che degli utili una buona porzione sia loro assegnata, da dividersi a ciascuno di loro, secondo l'importanza dell'ufficio e l'abilità del proprio lavoro.

— Carini! esclamò Giacomo con un'ironia sotto cui fremeva sempre maggiore il suo sdegno. E come vi hanno essi manifestate queste belle intenzioni?

— Hanno eletto fra di loro una Commissione, che voleva venire da Lei ad esporle il tutto....

— Ah sì?... La mi piglia giusto di buon umore... Le dico io, alla loro Commissione, in quattro parole ciò che si conviene.

— Io ho pensato che codesto nei momenti attuali [163] avrebbe potuto scomodar troppo Lei e farle perdere pazienza, ed ho indotto quei cotali a smettere il pensiero di venirle innanzi; che mi sarei incaricato io d'informarla di quanto succedeva.

— Avete fatto bene.... Sì, non sono in disposizioni da tollerare di molto.... Ed ora aspettano forse una risposta?

— Signor sì....

— Ebbene andate, e dite loro....

Ma qui un altro avviso gli venne di subito.

— Aspettate. È forse meglio che vada io stesso a parlare a quei matti.

— Oh sì signore, esclamò con premura il capo-fabbrica: è appunto ciò che andavo meco pensando, che avrei voluto, ma che non osavo suggerirle. Ci venga Lei. Quattro sue parole... ma senza collera, mi raccomando... faranno più effetto di qualunque altra cosa sulla gran massa degli operai, che in fondo hanno sempre per Lei rispetto e riconoscenza.

— Allora ci vado.

E s'avviava, quando un servo inviato da Teresa venne a dirgli che Francesco, desiderando voltarsi nel letto, incapace com'era fatto di muoversi, s'abbisognava di lui intorno al ferito. Giacomo pose in non cale tutto il resto; ebbe anzi rimorso d'aver potuto un momento mandare innanzi al pensiero del figliuolo quello d'un altro interesse.

— Andateci voi, senza più, diss'egli affrettatamente al capo-fabbrica, dite loro che non rompano le tasche, e se non vogliono capire la ragione, mandateli al diavolo, che io non ne voglio più sentire a parlare.

E, lasciato lì quel brav'uomo, corse nella stanza di Francesco.

Il capo-fabbrica tornò nella officina tutto mesto e imbarazzato; capiva che il guaio era serio, che gli umori degli operai erano vivamente eccitati, e non sapeva che cosa se ne sarebbe conchiuso. In un'occasione ordinaria, Giacomo, colle sue maniere schiette, ardite, autorevoli e benevole nello stesso tempo, avrebbe forse potuto imporne agli operai e dominare il tumulto; il capo-fabbrica si sentiva senza influsso di sorta su quei riottosi. Pareva che la sorte, messasi ad un tratto ad avversare quella famiglia, volesse della disgrazia già mandatale, far cagione di un'altra gravissima.

Gli opifizi Benda erano pieni di agitazione come un alveare o meglio un formicaio in tumulto. Ciascuno aveva abbandonato il suo posto da lavoro ed o si stava in gruppi vocianti e gesticolanti in mezzo agli stanzoni, o scorreva con vivacità dall'uno all'altro capannello, dall'una all'altra stanza: gli strumenti del lavoro giacevano buttati, i fuochi si spegnevano nelle fucine in cui i mantici avevano cessato di soffiare. Si parlava in molti — quasi tutti — ad una volta, con animazione di voce, di sembianze e di gesti, e sul comune, confuso rombare di tutte quelle concitate parole, ricrescevano, di quando in quando, e qua e là, le declamazioni di alcuni che più forte e più audacemente peroravano. Tanasio era fra i più clamorosi ed accesi di questi ultimi. Per quel fenomeno immancabile, che di una folla esagitata fa crescere in misura geometrica ad ogni minuto la febbre del tumulto, che ne dà il governo in mano a chi è più temerario ed eccessivo ne' partiti, che ne commette gli animi in preda alla violenza, al furore, alla ferocia; la raccolta, dapprima con sembianze pacifiche ed ordinate, era venuta via via diventando minacciosa e strepitante. Grida malvagie erompevano da qualche bocca, proposizioni scellerate già si osavano formolare da qualche più tristo: si era già arrivati al punto quando i buoni e gli onesti non hanno più il coraggio di rimbeccare e far tacere i birbi. La presenza e le parole del principale, come già ho detto, a quel momento avrebbero forse potuto ancora voltare a migliori propositi gli animi della grande maggioranza, riunire ai ragionevoli partiti tutti i moderati e i tranquilli che in realtà, come sempre, erano i più e si lasciavano trascinare dalla impertinente violenza dei pochi temerari; ma la comparsa invece del capo-fabbrica che tornava solo, con aspetto incerto, malvoglioso, quasi mortificato, non era tale da imporne ai riottosi e da sollevare l'animo e la risoluzione dei pacifici.

Appena fu visto entrare il loro mandatario, si levò da ogni parte più forte il vociare, che appunto si accresceva ancora dalle grida che si mandavano per indurre altrui al silenzio; e da tutti gli altri locali fu un accorrere tumultuoso degli operai in quello ove era entrato il capo-fabbrica affine di udirne comunicazione della risposta del principale.

— Gli è qui; gli è qui: gridavasi: fuori, fuori la risposta.

— Ebbene? Ebbene? Parli, suvvia parli!...

— Acconsente egli il principale?

— Abbiamo da gridar viva od abbasso il signor Benda?

— Che nuove adunque?... Presto, un sì o un no.

— Ma state zitti!... Lasciatelo parlare.

— Silenzio! Silenzio!... Volete tacere?

— Tiratevi in là, non vi spingete tanto.

— Che cosa dice? Che cosa dice? Noi non udiamo nulla di qua.

— Forte! forte! parli forte!

— Silenzio! Finitela!... Cheti figliuoli!...

Tanasio che si arrogava certi pigli da capo-schiera, saltò sopra una panca che c'era per colà, e dominando da quella maggiore altezza il fiotto di teste umane che si agitava e veniva a battere intorno al capo-fabbrica stordito da tanto rumore, fe' cenno colle mani di acquetarsi.

— Se gracidate tutti insieme come tanti ranocchi, gridò egli con voce stentorea, non potremo riuscir mai ad intendere quel che ci si ha da dire, e non se ne farà nulla. Smettetela un momento corpo di Satanasso e date retta...

[164] Fu uno scoppio di gridi d'assentimento da tutte parti.

— Sì, sì, sì... Zitto tutti... Parli il capo-fabbrica. Parli. Salga su anch'egli... Sì, su in piedi sopra la panca e dica forte.

Il capo-fabbrica salì presso Tanasio e fece segno colla mano che avrebbe parlato. Tutti quegli occhi accesi che aveva sotto di sè e che dardeggiavano su di lui, tutte quelle faccie animate ond'era pieno il camerone e che stavano a lui rivolte, gli producevano un effetto di soggezione che quasi poteva dirsi timore. L'espressione della sua faccia era più incerta e peritosa che mai, le guancie un po' pallide, malsicuro lo sguardo. Al solo mirarlo tutta quella folla capì che la risposta da notificarsi non era quale desideravano; onde s'era appena stabilito un po' di silenzio alla vista della testa del capo-fabbrica la quale s'innalzava sopra il livello delle altre teste, che tosto fu nuovamente turbato da un altro scoppio di esclamazioni e di voci.

— Ah! egli rifiuta!... Dica su presto... Non è vero che rifiuta?

Tanasio tornò ad elevare la sua vociona.

— Ma zitti una volta, chiacchieroni della malora..... E Lei, sor Ambrogio, parli subito, e parli forte.

Il capo-fabbrica incominciò a parlare; allora il fragore diede giù, e successe un alto silenzio in cui da tutti, anche coloro che erano all'estremo limite della folla, si potè udire la voce un po' tremante del direttore degli opifizi.

— Ho esposto al signor Benda i vostri desiderii...

— I nostri diritti: interruppe con accento da tribuno Tanasio che stava a fianco del parlatore, dritto sulla panca.

— Sì, sì, i nostri diritti: gridarono alcuni nella folla.

— Zitti! gridarono più forte molti altri: lasciatelo dire in santa pace una volta!

Tornò a stabilirsi il silenzio e il capo-fabbrica continuò:

— Se il nostro bravo principale non fosse stato colto da quella grossa sciagura che tutti voi sapete, non avrebbe mancato di venire egli stesso a parlarvi e ragionare con voi...

E qui una nuova esplosione di voci e di parole dalla turba.

— Che parlare! che ragionare d'Egitto! Non c'è bisogno d'altro che di dir .

— Sicuro che avrebbe dovuto venire...

— Che? Venga o non venga. Non è della sua persona che abbiamo bisogno, ma dei denari..... Acconsenta, e bravo lui! Tutto è finito.

— E' lo chiama bravo principale codestui! Bravo un corno! Bravo a far denari col nostro sudore.

— Olà! Siamo da capo: urlò Tanasio: se facciamo così non la vogliamo finir più. Acqua in bocca tutti, e parli sor Ambrogio.

E questi ripigliando a quel punto in cui era stato interrotto:

— Ma non potendo venir egli stesso, ha incaricato me di parlarvi a suo nome.

Qui il capo-fabbrica fece una sosta da se medesimo, benchè allora il silenzio fosse compiuto in quella folla piena d'aspettazione. Egli pensò che alla troppo cruda negativa con cui aveva da rispondere quegli spiriti eccitati avrebbero peggio imbizzarrito e decise temperare di proprio capo la ripulsa con una sembianza di promessa che in definitiva non avrebbe poi a nulla obbligato il principale.

— Il signor Benda, adunque, ripigliò, non desidererebbe di meglio che potervi soddisfare in tutto e per tutto. Se gli affari camminassero proprio a seconda, egli si sarebbe già affrettato a far ragione alle vostre domande: ma pur troppo oggidì le cose zoppicano maledettamente, i guadagni sono scarsi; appena è se si può tirare innanzi a questo modo, e un aumento nelle spese, anche leggiero, l'obbligherebbe a chiudere la fabbrica, la qual cosa voi vedete quanto sarebbe di grave danno a tutti noi... Capite bene che noi non si deve voler la rovina di questo stabilimento che ci dà onde sostenere la vita, e che andando esso in malora, noi saremmo sul lastrico... Dunque per ora... voi avete buon senso, bravi figliuoli e lo comprendete subito... per ora non c'è nulla da fare... Col tempo... quando le cose s'avviino un po' meglio... il signor Benda l'ha promesso egli medesimo... si farà tutto il possibile per migliorare eziandio la nostra condizione.

A questo punto il tumulto, fino allora compresso, scoppiò della più bella. Tutta quella folla teneva rivolti gli sguardi al luogo dov'era il capo-fabbrica, ma vicino a costui stava Tanasio e sulla faccia di lui gli operai e massime i riottosi, i sommovitori e gl'indettati da chi sappiamo, leggevano così le impressioni che avevano da ricevere dalle pronunziate parole, come il contegno da tenersi. Tanasio aveva incominciato a crollare il capo, a stringer le labbra, a strabuzzir degli occhi, a levar le spalle, a fare tutti quegli atti insomma che dinotano doversi disprezzare le cose che si odono, e non credersi punto nè dare importanza alle fatte affermazioni: e i suoi complici per mezzo alla turba ripetevano que' gesti con accompagnamento in sordina di mormorio di riprovazione. Del nuovo scoppio di malumore fu Tanasio eziandio che diede il segnale.

— Eh bubbole! esclamò egli. A chi lo si vuol dare ad intendere?... Delle promesse dell'avvenire me ne infischio io!... Comincio per crepar di fame oggi, e mi si vuol consolare che avrò una pagnotta da qui a un mese... Senza tanti arzigogoli, vuol dire che il principale se ne frega di noi e de' nostri diritti, e ci manda in quel paese...

— È vero, è vero: gridarono parecchi nella folla.

[165] — Ci si vuol lasciare nella miseria: urlarono i fidi di Tanasio.

— Non si ha compassione pel povero operaio.

— Che compassione?... Non si parla di compassione: non gli si vuol dare ciò che gli viene.

— Ascoltate, ascoltate: gridò il capo-fabbrica: abbiate pazienza, ragionate un momento.... Vi affermo, vi giuro sull'onor mio che accrescere le paghe ora non si può senza perderci sulla vendita... Volete dunque far chiudere l'officina?...

— Diavolo! sclamarono allora alcuni dei moderati che avevano ancora la testa a segno: far chiudere la fabbrica poi è un brutto affare che sì allora che ci troveremmo in belle acque.

— Buono! gridò più forte Tanasio. Voi credete a queste imposture!... Ci perderebbe eh il poverino di principale?... Sacco di nespole! Ci crederò quando veda che i guadagni che fa non gli permettono più di tener cavalli in iscuderia, di mandare sua figlia vestita come una principessa e di far scialare il figliuolo come un milord.

— È vero, è vero.... Bravo Tanasio! acclamarono plaudendo i suoi complici, e dietro essi i più degli operai.

E Tanasio con maggior forza ancora:

— E se il caro signor principale avesse anche da averne un cavallo di meno, e fosse pure che gli toccasse andare a piedi come vanno i nostri noi, e mangiasse pure un piatto di meno al suo pranzo, credete che il mondo non cascherebbe, e noi avremmo un po' più di pane da dare ai nostri figli e qualche solduccio di più in tasca da stare allegri.

— È giusto; è giusto! urlò il solito coro. Vogliamo l'aumento di paga...

— E subito!

— E parte nei guadagni.

— E qualche somma a conto di arretrati, per Dio!

— Or dunque, riprese Tanasio, senza più chiacchere, sor Ambrogio, il principale non vuol renderci giustizia.

— Ma, ecco...

— Non vuol renderci giustizia: lo sentite, lo capite, figliuoli?... Vedete come avevan ragione quelli di voi che volevan difendere il signor Benda.

E i soliti appostati qua e colà:

— È un cane come gli altri.

— I ricchi sono tutti d'una risma.

— E pensare che siamo noi che l'abbiamo fatto ricco...

— E che continuiamo a farlo.

— Se dunque ei non ci vuole far ragione, abbasso anche a lui.

— Sì sì abbasso!... Abbasso Benda!

E questo grido ostile risuonò formidabile a far tremare le invetrate delle finestre nell'officina.

Un uomo si precipitò come un furibondo in mezzo ai tumultuanti operai, facendosi largo con tremendi spintoni e vociando con polmoni degni di Stentore, l'omerico banditore de' Greci. Era il grosso Bastiano, armato dell'inseparabile grosso bastone, che al rumore accorreva scandolezzato in grado superlativo della scellerata opera di quel tumulto, dell'iniqua eresia di quelle grida.

In un attimo, grazie alle sue larghe spalle ed ai suoi robusti gomiti, fu egli nel centro dell'attruppamento dove stavano ancora dritti sulla panca il capo-fabbrica sbalordito e Tanasio trionfante, e senza metter tempo in mezzo apostrofò la turba con vociona ben più risonante ancora di quella del capo dei riottosi, tale da superare tutto il fracasso delle parole e delle esclamazioni altrui.

— Che novelle son queste? Che diavolo di Satanasso s'è impadronito di voi, sciagurati che vi caschi addosso un accidente?... Abbasso Benda?... Giuraddio!... chi è che ha da osare gridare questa bestemmia, qui fra queste muraglie, e che io l'intenda?.. Vorrei un po' vederlo, sangue d'una rapa!...

E girò intorno su quelle faccie che aveva di sotto lo sguardo del mitologico Nettuno di Virgilio quando dà la ramanzina ai fiotti irati del mare col suo famoso quos ego!... Sulle folle, massime a tutta prima, le mostre del vigore e della risoluzione, riescono sempre ad imporne. Per un momento Bastiano fu davvero il Nettuno di quella tempesta; il fragore si converse in un mormorio di parole susurrate sommesso, quasi con vergogna e confusione; gli animi dei tranquilli e moderati furono incoraggiti, il capo-fabbrica medesimo a quell'esempio attinse una maggior energia, e sentì anzi un certo sdegno d'essersi lasciato dominare dalla prepotenza di quel tumulto; Tanasio si tacque come se allora non gli si affacciasse allo spirito maligno pure una parola da dire; la parte buona e della ragione fu sul punto di prendere il sopravvento.

— Orsù, disse a sua volta il capo-fabbrica con nuova fermezza; è ora di finirla, figliuoli. Siate sicuri che tutto ciò cui potrà fare il signor Benda a rendere migliori le vostre condizioni, egli lo farà; e per intanto ritornate al lavoro; chè gli è gran tempo, e così scioperando non fate che il vostro danno.

La turba esitava, anche i più risoluti nicchiavano; Tanasio capì che bisognava fare uno sforzo per riprendere la influenza che gli sfuggiva.

— Tornare al lavoro! diss'egli. Bravi! Vuol dire riprendere la catena e portarla come prima. Sareste di gran minchioni a lasciarvi raggirare di questa guisa. Oh che, non s'è detto abbastanza chiaro, e non è abbastanza giusto? Non si torna più al lavoro finchè non è fatta ragione alle nostre domande.

— No, no, non si torna più al lavoro: gridarono alcune voci nella massa degli operai, ma erano isolate e non pareva avessero da trascinare al loro partito la generalità.

Il capo-fabbrica avvisò che un'altra e maggiore [166] manifestazione d'energia sarebbe opportuna e farebbe addirittura traboccare la bilancia oscillante dalla parte dell'ordine e della pacificazione.

— Al lavoro subito: gridò egli con forza; e chi si rifiuta obbedire, può far conto d'aver ricevuto il suo congedo e di non appartenere più ai nostri opifici.

Questa minaccia piena d'ardimento stava per ottenere il più favorevole effetto, quando Bastiano venne a guastar tutto colla sua imprudenza. Se una coraggiosa e forte risoluzione può imporne alle turbe, difficile riesce al contrario che queste non si ribellino alla violenza, soprattutto quando è troppo chiara cosa che esse sono forti più che non occorre per respingere e schiacciare quella violenza che si voglia esercitar su di loro.

Bastiano adunque, volendo ribadire l'effetto delle parole di sor Ambrogio, soggiunse con aria di sfida e di minaccia:

— E se qualcheduno vuole ancora alzar la cresta, lo prendo io con due dita al colletto e lo porto fuor della fabbrica a imparar la creanza.

A questa insolente uscita rispose un mormorio di sdegno. Bastiano si appoggiò bravamente sul suo bastone e dall'altezza della sua gran persona innalzata ancora dalla panca su cui era salito, dominando tutta quella folla sottoposta, continuò:

— C'è qualcheduno che abbia alcuna cosa da ridire? Ch'e' salti fuori.

Tanasio prese alle spalle il capo-fabbrica che si trovava trammezzo a lui ed a Bastiano e lo spinse giù; poi fece un passo verso il colossale portinaio, e col coraggio che gli dava il sapere dietro di sè un buon numero di aiutatori e difensori, disse standogli a fronte:

— Ci son qua io che ho da ridirci non poco. E vi dico che al lavoro non si ha da tornar più, e che voi non avete a ficcar il becco in questa faccenda e dovete tornarvene più che in fretta alla vostra loggia, se non volete che la creanza ve la insegniamo noi con una buona lezione che vi ammacchi le costole.

— Ah sì? esclamò Bastiano che non era dei meglio lodevoli per tolleranza di propositi e longanimità di pazienza; e senza aspettar di più afferrò Tanasio pel collo e fece a scaraventarlo giù dalla panca in mezzo alla folla de' suoi compagni: ma l'operaio s'attaccò ai panni del suo assalitore e, cadendo, lo trascinò seco per terra. Bastiano si vide così in un attimo preso in mezzo fra dieci o dodici che gli furono sopra a percuoterlo ed opprimerlo prima che avesse avuto tempo a pur pensare di porsi in sulle difese, senza che gli restasse agio a maneggiar il suo bastone. Il bravo portinaio non si smarrì d'animo nè anco in presenza di questa lotta per lui disperata; ma per quanto fosse egli forte e robusto, che poteva contro una dozzina di furibondi che lo percuotevano senza misericordia? In breve fu lasciato lì sul terreno colle membra peste, la testa spaccata, tutto sanguinoso e appena se ancora in cognizione di se medesimo.

Una volta incominciata la violenza non ebbe più ritegno. Il capo-fabbrica fuggì a mala pena, per non essere maltrattato ancor egli, e corse tutto affannoso, coi panni laceri indosso, dal principale a raccontare gli avvenimenti dell'officina: i riottosi trionfanti e vieppiù eccitati, percorsero gli opifici con ogni più malvagio grido e con ogni più fiera minaccia contro il padrone, impedendo a forza di mettersi al lavoro i compagni, strappandoli di locale in locale ai loro posti, guastando le fucine, rompendo i mantici, sperperando gli attrezzi. Tutto ciò faceva un baccano che pareva davvero il rumore d'un mare in burrasca.

Sor Giacomo era già avvisato da questo rumore, che giungeva fino alla stanza di Francesco, come alcun che di grave avvenisse nelle officine. Teresa aveva guardato suo marito con inquietudine quasi per chiedergliene una spiegazione; e il ferito medesimo, che era stato aggiustato in letto come desiderava per mezzo di suo padre e di Quercia, domandò che significasse quel fracasso che pareva uno scoppio di lontana bufera. Il padre di Francesco ebbe una rabbia grandissima di ciò che quegli sciagurati venissero a turbare financo la quiete così necessaria a suo figlio sofferente, e maggiore ancora lo spavento che aumentandosi il guaio arrecasse peggior danno alla condizione del ferito.

— Non è nulla, non è nulla: rispose pertanto simulando più che seppe l'indifferenza; ed uscì frettoloso dicendosi con compresso sdegno: — furfanti, vado io ora a metterli alla ragione.

Mentre correva verso la fabbrica, s'incontrò coll'Ambrogio che veniva nello stato che ho detto a portargliene le novelle; più in là incontrò Bastiano tutto malconcio, la testa rotta, sanguinante, che se ne veniva via barcollando e bestemmiando come un turco. Benda non istette nè a discorrere, nè a dimandare dell'altro: si cacciò di furia nelle officine e andò dritto verso il gruppo dei più fragorosi e de' più tumultuanti.

Al vederlo un movimento d'attenzione fece far sosta alla sommossa.

— Il principale! il principale! si esclamò di stanza in istanza, e un certo effetto d'apprensione, di aspettativa, di soggezione si produsse.

Benda non aspettò che gli si parlasse, non mosse richiesta, non volle ulteriori informazioni, ma con voce cui dava maggior forza la collera, proruppe:

— Sciagurati! Fuori di qua tutti!.... Siete i più tristi uomini del mondo, e vorrei prima dar fuoco io medesimo alla mia fabbrica che farvi guadagnare ancora il becco di un quattrino.... Fuori di qua, vi dico, subito, e non venite mai più a comparirmi dinanzi, che nessuno di voi da me nè lavoro, nè altro non potrà aver mai.

[167] Alcuno volle parlare.

— Silenzio: gridò egli più forte. Non voglio intendere nulla.... Fuori tutti, ripeto.... Voi non volete più lavorare, ed io non vi voglio più nelle mie officine, anche se foste voi a pagar me.... Uscite: questa è casa mia, e ve lo comando.

Gli operai uscirono a gruppi, a rilento, metà mogi, metà borbottando, i più con evidente rincrescimento e malavoglia. Se sor Giacomo avesse detto alcuna parola di conciliazione, forse avrebbe potuto ancora ravviarsi l'animo dei più; ma egli era troppo irritato per pensare solamente a codesto; anzi ad alcuni (ed erano fra i migliori e più cheti operai) che gli si accostarono peritosi coll'intenzione evidente di voler dire qualche cosa, il principale non diede altro incoraggiamento al parlare che mostrando loro con atto di sdegnoso comando la porta.

Sor Giacomo rimase l'ultimo col capo-fabbrica.

— Ed ora come la facciamo? domandò questi tutto costernato.

— In un modo o nell'altro l'aggiusteremo: rispose Benda crollando le spalle. Certo quei furfanti mi fanno perdere qualche buona giornata... Ma a dar ragione alle loro pretese, a lasciar imperversare così la indisciplina ci avrei perso anche di più..... A che cosa sia da farsi penseremo poi; per ora non voglio che esser lasciato tranquillo.

Uscirono dagli opifizi, chiudendo dietro di sè le porte. Ma gli operai non si erano mica partiti del tutto; se ne stavano a frotte aggruppati nel cortile e borbottavano in animati discorsi. Vedendo venire e passare in mezzo all'uno ed all'altro dei loro gruppi il principale, essi lo seguivano con uno sguardo in cui non c'era più nulla della primitiva soggezione.

Giacomo si fermò ad un tratto e colla medesima voce e col medesimo tono con cui aveva loro parlato nella fabbrica, disse vibratamente agli operai:

— Vi ho comandato d'andar fuori non solo dalle officine, ma di casa mia. Sgombrate adunque il cortile, e presto.

I borbottii cessarono, successe un alto silenzio, durante cui gli operai si guardavano in faccia l'un l'altro; ma nessuno si mosse.

Una voce di mezzo ai gruppi sorse allora e disse spiccatamente:

— Prima di partire, vogliamo essere pagati di ciò che ci si deve.

Era la voce di Tanasio.

La domanda non era nè indiscreta nè fuor di luogo, ma Giacomo Benda non aveva in quel momento abbastanza di calma da capirne la giustizia e la opportunità.

— Ch'io vi paghi? gridò egli con bizza che gli fece arrossare le guancie e sfavillare più ancora di prima gli occhi. Nè anche un soldo vi vo' dar più, birboni che siete.... Ciò che vi si deve?... Ma per mille diavoli, e ciò che mi dovete voi pei guasti che mi avete fatti negli opifizi?

Gli si poteva rispondere che questo brutto vandalismo era l'opera di alcuni e che non era equo farne pagar la pena, defraudandoli dell'aver loro, anche a quelli che n'erano innocenti; ma Tanasio, l'oratore della rivolta, avanzandosi verso il principale colla sua occhiaia dritta allividita da un famoso pugno che gli era toccato nella lotta contro Bastiano, fu meno logico e più temerario.

— Codeste le son male gretole: diss'egli, vogliamo essere pagati, e ci faremo pagare.

— Ci faremo!? esclamò sor Giacomo al colmo dell'indignazione. Vi farò cacciare a legnate di qua, se fate l'insolente.

— Legnate a noi? urlò Tanasio, e volgendosi ai compagni: lo udite? Ci si toglie il pane, ci si spoglia di tutto, ci si nega perfino quel po' di sacrosanto denaro che ci fanno guadagnare stentando, e poi ci si minacciano le legnate come ai cani!... Giuraddio! che gli è tempo di metterli alla ragione codestoro.

Fu uno scoppio di grida.

— Sì sì, alla ragione!... Abbasso! Abbasso!

E minacciosi si fecero intorno al principale.

Queste grida riscossero nella stanza di Francesco tutti quelli che vi si trovavano. Il ferito fece un sobbalzo nel letto e domandò inquieto che cosa fesse; Teresa e Maria impallidirono assalite da un pauroso presentimento; Luigi Quercia corse alla finestra che guardava appunto nel cortile.

— Non è nulla; diss'egli rivolto al malato, per tranquillarlo: non vi agitate nè inquietate; è una lite fra operai che sarà presto finita.

Ma Teresa non aveva potuto tenersi di accorrere anch'essa alla finestra. Vide suo marito circondato tutt'intorno dalla folla degli operai che vociando agitavano furiosamente teste e braccia, dando immagine d'un debole legnetto nel mare, assalito d'ogni parte dai fiotti burrascosi che stanno per sommergerlo, ed una esclamazione di spavento sfuggì a forza dalle sue labbra.

— Ah mio Dio!

— Taccia: le disse sollecito e vibrato Luigi. Una emozione troppo viva sarebbe fatale a Francesco.

Questi diffatti s'agitava nel letto, spaventato da quel grido della madre, e sforzandosi inutilmente di levarsi a sedere diceva con ansietà:

— Che cos'è?... Mamma, è avvenuto qualche cosa di brutto?

Teresa si dominò all'istante: fu d'un balzo alla sponda del letto con un sorriso sulle labbra, pallide e tremanti.

— Vuoi star fermo? diss'ella con amoroso rimprovero: gli è nulla... Sono alcuni che litigano..... Sai che codesto mi fa pena..... Ma vado io a dir loro di finirla, e son sicura di farli smetter tosto.

— Signora Teresa, disse Quercia, se la mi permette, vado io colaggiù...

[168] — No, no, disse vivamente la madre di Francesco; Lei stia qui presso mio figlio, la prego, voglio esserci io...

Ed accennò cogli occhi come per dire: «si tratta di mio marito e di mio figlio altresì; è mio debito accorrervi.» Uscì frettolosa di camera, e Francesco pregò Maria e Luigi che guardassero dalla finestra ciò che stava per succedere e glie ne dicessero.

Teresa con impeto irrefrenabile erasi precipitata nel cortile e cacciatasi furiosamente in mezzo al ribollire della sommossa, là dove aveva visto circondato dal più fitto de' riottosi suo marito. Luigi e Maria alla finestra non potevano udire le parole che si dicevano, e non sentivano che il confuso rombo di tutte quelle voci minacciose e concitate. Non si guardavano l'un l'altro, i due giovani; ma la fanciulla sentivasi pur tuttavia da quella vicinanza, dal contatto leggerissimo di lui, profondamente turbata. Egli fissava con certo sguardo strano e lucente quell'onda di teste umane che si agitava là sotto.

— Ecco la forza che io vorrei guidare a mio profitto: pensava egli: ecco scatenato il mostro dalla irresistibil possa... Ah chi potesse dirigere lo scoppio dell'ira popolare! E sarò io quello?

Maria vedendo la madre e il padre compiutamente avvolti da quel turbine, di botto impallidì e fu sul punto di lasciar scorgere il suo sgomento al fratello che seguitava ansioso a domandare che avvenisse.

— Calmati, Maria, disse piano Luigi colla sua voce armoniosa e confortatrice. Io te e i tuoi difenderò da ogni pericolo, salverò ad ogni costo: se occorrerà metterò la mia vita per risparmiarti un affanno, una lacrima!

Maria si sentì tremar l'anima nel più intimo; nè punto s'offese ch'egli le desse del tu con tanta dimestichezza; una nuova sicuranza la occupò; volse gli occhi miti e raggianti sul maschio volto di lui, come a ringraziarlo, come a prendere atto della protezione di lui e dichiarare che vi si affidava, che contava su di essa.

— È una coppia di mascalzoni che si vogliono levar gli occhi di capo: disse Quercia a Francesco per tranquillarne l'ansietà sempre più accresciutasi; ora vado io a spartirli.....

E si mosse diffatti per scendere nel cortile ancor esso; ma in quella un subito silenzio succedette al rumore che si faceva, e dalla finestra i due giovani videro gli operai, in sembianza ammansati, uscire a frotte dal cortile, e Teresa andando ora dall'uno ora dall'altro e stringer loro le mani e pronunziar parole che parevano di ringraziamento, mentre il marito, pallido ancora, colle sopracciglia aggrottate e in aria di sdegnosa fermezza stava colle braccia incrociate al petto, guardando quel pericolo che andava ora via via dileguandosi intorno a lui.

Ecco che cosa era avvenuto:

La madre di Francesco, sopravvenuta nel momento appunto in cui le minaccie stavano per tradursi in atto contro suo marito, con quel meraviglioso coraggio di donna che non teme pericoli quando è in giuoco la sorte de' suoi cari, si era lanciala innanzi a Giacomo a fare scudo a lui di se stessa.

— Per carità, fermatevi, ascoltate.

Come la donna dell'aneddoto fiorentino, cacciandosi innanzi al leone che le portava via il suo bambino, compì il miracolo di imporne alla belva, così fece Teresa di quell'altra belva che è una turba di popolo inferocita.

Gli operai si fermarono, si arretrarono. Coll'istinto donnesco, ella capì che teneva in pugno la vittoria e che non bisognava lasciarsela scappare. Giunse le mani nell'atto della maggior supplicazione e continuò con voce affatto compagna alla mossa:

— Vi prego in nome di Dio, in nome delle vostre famiglie, in nome dei vostri figliuoli! Mio figlio è là che spasima nell'agonia, lottando colla morte: volete voi aiutar questa a vincere? Volete voi togliermi mio figlio? volete uccidermelo?

I tumultuanti si arretrarono ancora di più e su quelle labbra frementi tacque di subito ogni grido. L'angoscia di quella povera madre li aveva commossi, l'immagine evocata de' loro figli aveva improvvisamente richiamata a miti propositi l'anima dei più; i pochi, cui nulla era capace di toccare, sentirono che continuando nelle voglie crudeli sarebbero stati isolati ed avrebbero anzi avuto contro di sè i loro compagni. Teresa ripigliò con accento di profonda gratitudine:

— Ah voi siete buoni, lo so, voi non volete far male ad una povera madre... Siate ringraziati, siate benedetti... Noi faremo tutto ciò che possiamo per voi; ma meglio di noi vi compenseranno Dio e la Santa Vergine Madre.

Molti avevano ricevuto benefizio di soccorsi nelle infermità e nella miseria da quella donna che ora li pregava; l'avevano vista lei e sua figlia entrare come angeli consolatori nelle squallide loro soffitte e lasciarvi partendo un po' di gioia e di pace. Costoro presero a braccia i più riottosi, che non osarono nemmeno contrastare, e li trassero via con loro senza manco più parlare. In pochi minuti il cortile fu sgombro e la fabbrica silenziosa; gli operai, muti, a tre, a quattro si allontanarono dirigendosi giù del viale verso la città.

Teresa, per prima cosa, passato il pericolo, si era gettata al collo del marito e l'aveva baciato con trasporto.

— Vieni, vieni, aveva ella detto di poi traendolo dolcemente con sè; andiamo presso nostro figlio.

Nel salire le scale s'incontrarono in Luigi che partiva.

— Francesco, loro disse il giovane, è compiutamente rassicurato. Per fortuna, e grazie al suo coraggio, signora Teresa, si è riuscito a risparmiargli una emozione, che avrebbe potuto essergli fatale.

[169] La madre del ferito non rispose che mandando un'esclamazione e prendendo la corsa per arrivare più presto nella stanza del figliuolo.

Sul passo del portone, Quercia, che stava per salire in carrozza, vide il colossale portinaio, che si era fasciata comecchessiasi la testa rotta e che con occhio torvo guardava dietro agli ultimi degli operai che si vedevano ancora in lontananza, borbottando fra sè parole minacciose e imprecazioni all'indirizzo di Tanasio.

— Andate in letto, brav'uomo: gli disse Luigi; e fatevi alla testa dei bagnòli d'acqua d'arnica.

Bastiano guardò con occhio torvo anche codestui che gli aveva parlato.

— Ah! se non fossero stati che sei! bofonchiò egli per tutta risposta, stringendo i pugni.

Quercia sorrise, e fu d'un salto nel suo legnetto che partì di corsa. Ad un tratto l'antico amico e compagno di Maurilio si disse ad alta voce, come se avesse da fare ad un altro una subita interrogazione:

— E se sposassi Maria?

Si cacciò nell'angolo della carrozza senza farsi una risposta a parole; ma pensava: «Francesco facilmente morrà; ella sarà l'erede d'una grande ricchezza. Il mio passato lo saprò ben nascondere. Con esso saprò rompere affatto. Non sarà la brillante sorte che ho sognato nella mia ambizione, ma sarà sempre una bella sorte, e più felice dell'altra. È possibile? Se facessi avvenire la prossima lotta, e in essa lasciassi perire la cocca?»

Una confusione di pensieri qui lo assalse, tutti così neri ed aggrovigliati ch'egli stesso non ci sapeva discerner chiaro e vi aveva persino ripugnanza a tentare di farlo. La sua faccia annuvolata diceva tutta la tempesta che gli scombuiava l'animo. Ad un punto si tirò su della persona, e disse risolutamente come per fissare una determinazione presa:

— Bisogna salvare ad ogni modo la fabbrica e i tesori di Benda.

Ma pronunziate appena queste parole si riscosse ed un vero lampo balenò ne' suoi occhi, sulla sua fronte, sulle labbra.

— E i diamanti di Candida, prorupp'egli con impeto. Come farò per riaverli, poichè la vittoria della plebe è fatta impossibile?

Tornò ad acquattarsi al fondo del suo legno e la sua fronte divenne più scura di prima.

CAPITOLO XXV.

La sera di quel giorno medesimo, la taverna di Pelone rigurgitava d'avventori; e questi erano più chiassosi del solito, tanto chiassosi che la loro animazione scorgevasi facilmente prodotta non dall'eccitamento dell'ebbrezza soltanto, ma da quello d'una passione che li dominasse.

Erano in gran parte gli operai scioperanti della officina Benda, e quelli più riottosi, più amici e più d'accordo col sommovitore Tanasio; fra essi trovavansi eziandio alcuni di altre fabbriche, cui venivano indettando e stimolando, intenti ad attizzare in ogni modo il fuoco, alcuni de' più malefici fra i componenti subalterni della cocca. Marcaccio si distingueva per vivacità e per zelo di propaganda.

In mezzo a tutta questa gente, a tutto questo chiaccherio, a tutto il chiasso assordante che ne riusciva, scorrevano e si agitavano di mala voglia e con poco frutto, Maddalena pallida, con certe occhiaie allividite, e invece del solito sorriso procace sulle labbra, che sembravano assottigliatesi, con una specie di sogghigno tutto amarezza, lassitudine, scherno e dolore, e Pelone col suo passo di spettro più riguardoso che mai, colla sua voce cavernosa e con una nube di malcontento che veniva ogni minuto facendosi più fitta e più scura sulla sua fronte gialla e ne' suoi occhi infossati. Meo dalla mattina mancava, e non se ne sapeva più novella: di che Pelone bestemmiava maledettamente, riserbandosi di fare le sue buone vendette sulle spalle di quel grullo quando tornasse. Ciò faceva che quella sera erano peggio serviti del solito gli avventori, che erano sempre serviti malissimo; onde da tutte parti richiami, grida, imprecazioni, picchi di coltello nei bicchieri, pugni sulle tavole e va dicendo, che sarebbero stati anche maggiori, se l'attenzione di tutta quella gente non fosse stata presa da alcun che di estraneo e di straordinario, onde, come ho già detto, erano animati i varii crocchi che si accalcavano intorno alle tavole.

Ora, a raccogliere sulla fronte non olimpica del povero Pelone quella nube che vi si notava, non erano mica tutte quelle maledizioni di cui era fatto segno dalle labbra avvinazzate di quella brava gente di scioperoni e di birbanti, non era nemmeno solamente la mancanza inesplicabile di Meo; sibbene quel certo che di straordinario, cui la sua sagacia aveva notato di presente fino dalla prima ne' suoi avventori, e che, crescendo l'ebrietà in que' sbrigliati compagnoni, veniva sempre più manifestandosi man mano.

Pelone aveva scoperto che si parlava male delle autorità, che, incominciando colle minaccie ai ricchi, s'era venuti alle imprecazioni ed alle minaccie contro il Governo che sosteneva e difendeva i ricchi colle baionette de' suoi soldati, colle manette dei suoi carabinieri e poliziotti, colle toghe nere dei suoi giudici. Pelone udiva tutto codesto con un sacro orrore che gli avrebbe fatto drizzare i capelli sul cranio, se ne avesse avuti. Che cos'era questo impancarsi di politica e toccare l'arca santa del Governo? Una pazzia senza pari. Oh! s'egli avesse avuto l'audacia da ciò, e la voce nel petto e la eloquenza opportuna! Avrebbe voluto gridare a tutti quegli sconsigliati: «manica d'imbecilli, contentatevi [170] di rubare e badate di sfuggire il capestro, senza tanti discorsi e senza entrare nella empia sciocchezza di simili sopraccapi.» Pochi dì prima egli, egli stesso, Pelone, aveva giurato e spergiurato a sor Barnaba, che quanto alla devozione al Re, alla famiglia reale, ai governanti per tutta la gerarchia, ai commissari di polizia ed ai gesuiti, nella sua bettola non si faceva un atto, non si pronunziava una parola che sapesse menomamente d'eresia; ed ora ecco che gli suonavano all'orecchio tali impertinenti temerità da far raccapricciare dal capo alle piante il suo sangue devoto di suddito fedele e sommesso alla monarchia, alla legge, alla prepotenza de' grandi, alle ingiustizie dei privilegi ed agli arbitrii della polizia. Che cosa fare? Andare a denunziare queste brutte novità al signor Commissario? La cosa era grave e ci aveva intorno a quel partito parecchie ragionate paure: la prima di tutte era quella di portare la sua faccia innanzi alla guardatura fosca ma penetrante del signor Tofi. Quegli occhi grifagni, ad ogni volta che se li era sentiti addosso, eragli sembrato che avessero a leggergli dentro, sotto quel cranio d'avorio ingiallito; e il bravo bettoliere aveva troppe buone ragioni perchè nessuno ci leggesse, e tanto meno un Commissario: e poi se ciò veniva a risapersi mai, quei furfantoni erano capaci di dargliene tal ripaga che povero a lui!... E tacere d'altra parte egli sentiva che era per l'affatto contro le sue opinioni esclusivamente governative, contro la sua coscienza e contro il suo interesse. Ah se Barnaba fosse comparso, od egli avesse saputo almanco dove pescarlo! A lui sì che si poteva far capire la cosa, e affidarsi tranquillo poi a quanto e' disporrebbe, senz'aversene egli da dare altro pensiero o comparir più comecchessiasi. Ma sì; dov'era egli quel povero sor Barnaba? E questa era un'altra cagione di paura e d'interno travaglio in Pelone, che non avendo più visto comparire il muso da faina del poliziotto, versava nella più penosa incertezza sulla sorte di lui. Conosceva troppo l'abilità di Graffigna per non aver sospetto sulla causa della sparizione di Barnaba, e il timore d'essere compromesso anche in codesto era in lui molto altresì. Per tutto ciò faceva scorrere in mezzo ai gruppi delle tavole la sua faccia scialba, improntata di cattivo umore, borbottando maledizioni fra le sue gengive.

Al desco dove sbraitava Marcaccio, sedeva eziandio Andrea, il marito della povera Paolina, ma di quanto mutato da quello di pochi giorni prima, che pure era già così diverso dall'Andrea dei tempi lieti! Pareva invecchiato di anni; aveva una cupa tristezza, cui l'ebrietà, invece che diradare o sminuire, faceva più fitta per dir così e maggiore; mostrava, nella guardatura, in certi sobbalzi della persona, un'inquietudine, un'apprensione che l'occupava costantemente; era l'incessante dominio di un'idea, quasi una paura, presso che un rimorso; la sua anima si sentiva afferrata dal male, come la sua volontà dalle morse di quell'organismo, di quel mostro complessivo che era la cocca; e anima e volontà si dibattevano in mezzo a quei vincoli, già fatte incapaci a romperli e sciogliersene, non ancora diventate tali da acquetarvisi. Di più nella sua esistenza del tempo trascorso dopo la capitatagli sventura che, per colpa di Nariccia, aveva dispersa così miseramente la sua famiglia e lasciatolo solo, pareva esistere un segreto, oltre quello della sua misteriosa entratura nel sotterraneo ricetto della vasta e potente associazione di malfattori e della sua opera — la prima criminosa che avesse fatto! — di fabbricarvi le chiavi false. Marcaccio, che di tutto il giorno non l'aveva più visto, non aveva potuto sapere dove Andrea avesse passata la notte, nè dove avesse posto sua stanza. Offertogli di andare con lui al bugigattolo che gli serviva di quartiere, Andrea aveva rifiutato ricisamente di tal guisa da non permettere d'insistere, ed alle richieste fattegli in proposito aveva risposto come chi non solo non vuole dire ciò che gli si chiede, ma non vuole che gli se ne parli altrimenti.

Ora posseduto da quell'ebbrezza in cui sventuratamente da tanto tempo andava cercando l'oblio della sue traversie, e presentemente cercava quello della sua pena ed anco lo stordimento del suo morale malessere, il povero Andrea bestemmiava ed imprecava ancor egli contro i ricchi, contro il Governo e contro la società; ma i ricchi per lui si personificavano nella scelleratezza di Nariccia e nella crudeltà di Benda, che lo aveva respinto dalla fabbrica, e il Governo e la società faceva egli risponsabili dell'appoggio dato coi loro ordinamenti e colla loro forza alle birbonate legali dell'usuraio padrone di casa, alla severità del fabbricante.

Pelone adunque raccapricciava a quei discorsi, e guardava su quale delle faccie degli uomini colà presenti vedesse la nobile impronta dalla spia, appostata lì a raccogliere e trasmettere all'orecchio di sor Commissario l'eco di quegli orrori. La sera fu lunga a passare per questo bravo bettoliere, e innumerevoli furono gli accidenti che in cuor suo mandò ai suoi indemoniati avventori, e quando finalmente verso la mezzanotte potè abbarrar l'uscio dietro le spalle dell'ultimo degli ubbriaconi messo fuori, Pelone mandò un sospiro tanto fatto e raggomitolatosi a suo modo sopra un seggiolo, le lunghe gambe ripiegate da quasi appoggiarvi su il mento, stette lì a pensare seriamente ai fatti suoi.

Innanzi a lui rimase piantata Maddalena, sempre pallida e mesta, in atto di chi ha qualche cosa da dire e non sa da che capo rifarsi.

L'oste agitava seco stesso questa grande quistione: «Domattina debbo andare o non andare al Palazzo Madama a spiattellare ogni cosa?»

Il suo spirito perplesso gli faceva dondolare il capo fra gli sbruffi della sua tosse profonda; del sì [171] e del no che gli tenzonavano nella mente, vedeva tutti i disavvantaggi e non sapeva definire da qual parte fossero i maggiori. Avrebbe dato volentieri l'ultimo dente che gli ballava nelle gengive per un buon consiglio. In quella, Maddalena, che aveva atteso un poco, gli si accostò e, messagli una mano sulla spalla, disse:

— Oh date retta, Pelone.

Il bettoliere si riscosse, come se gli avessero sparata una pistola presso l'orecchio.

— Che c'è egli? domandò tossendo. Ah sei tu, Maddalena? Come qui ancora?... Parola di Pelone io ti credeva già a casa del diavolo, voglio dire a casa tua.

— Ho qualche cosa da dirvi.

Pelone crollò le spalle.

— Cara mia, vedi, ho una carrata e mezzo di fastidi per la testa; non venirmi a seccare ancora colle tue favole, che Dio ti dia bene, e il fistolo ti colga!

Ma la ragazza, senza punto commuoversi, come se il padrone non avesse manco parlato:

— Voi m'avete da dire, riprese, perchè di questa notte fu chiuso il passaggio dall'osteria al Cafarnao.

— Che ne so io? rispose Pelone con impazienza: ma ad un tratto diede in un piccolo sussulto della persona, e alla sua mente s'affacciò il pensiero che quella in vero non doveva essere una cosa indifferente e che avrebbe potuto interessare anco lui il saperne la ragione.

— Ma già, appunto, borbottò egli; oh perchè fu esso così improvvisamente chiuso questo passaggio?

Volse verso il viso patito di Maddalena il suo sguardo semispento dal fondo delle sue occhiaie incavate sotto l'esagerata protuberanza dell'osso frontale.

— E tu lo domandi a me il perchè? le diss'egli. Tu che puoi saperlo dal....

Voleva dire medichino, ma nè anco da solo colla fante egli pronunciava volentieri quella parola.

— Da lui, disse invece.

Maddalena fece più amaro il suo sogghigno.

— Ah sì da lui! esclamò essa con indescrivibile accento di cordoglio e dispetto.

Pareva fosse per soggiungere altre e certo sdegnose parole, ma se ne trattenne; stette un poco, e poscia curvando il capo addoloratamente, riprese con voce sommessa, quasi soffocata:

— Forse non è che per escludere me da quel luogo.... Egli vuole sbarazzarsi dell'amor mio....

Un singhiozzo le salì alla gola, ed ella voltò in là il viso per nascondere le stille di pianto che le vennero agli occhi.

— Eh via! esclamò Pelone crollando le spalle: come puoi tu immaginarti d'essere un personaggio di tanta importanza da motivare un simil fatto? Quando e' non ti voglia più per i piedi, che sì che si prenderà la menoma suggezione a cacciartene via come un botolo fastidioso.... che tu sei: soggiunse a bassa voce fra le sue gengive.

La ragazza sentì che l'oste aveva ragione e curvò con anco maggior dolore la testa scoraggiata.

— Piuttosto, seguitava il bettoliere pensando fra sè, ciò indica che si ha paura la cosa venisse scoperta, che si ha motivo di credere alcun sospetto di codesto possa esser nato nei signori del Palazzo Madama.... Diavolo! diavolo!...

Colla sua destra grossa, lunga, ossea, villosa, del colore della pelle d'un salame, si trasse indietro la bisunta berretta e si grattò il cranio lucicchiante.

— Se così fosse, soggiungeva sempre fra sè, mi converrebbe provvedere un poco ai fatti miei, per non lasciarmi poi rovinare... dovrei parare almeno il peggior colpo, facendomi qualche merito di rilievo...

Rimise a posto la berretta, anzi se la tirò fin sopra le orecchiaccie; il partito di andare a riferire al Commissario ciò che era avvenuto nell'osteria quella sera, aveva vinto nell'anima sua fin allora combattuta.

Si levò da sedere e disse più brusco che non solesse a Maddalena, colla quale fino allora aveva sempre creduto di dover usare alcun riguardo parlando:

— Orsù, figliuola di mala femmina, mala femmina tu stessa, che cosa mi stai lì impalata dinanzi? Vuoi piantar le radici?... Prendi l'aire e vattene alla malora come ti meriti, e ti venga un canchero coi fiocchi.

L'anima della giovane doveva essere bene affranta, perchè, come se non avesse punto udite le parolaccie del padrone, ella, che prima se ne sarebbe maledettamente imbizzita, disse col medesimo accento di afflizione e di scoramento con cui aveva parlato finora:

— E vo' dirvi anche un'altra cosa: ed è che domani non vengo a bottega, che mi sento male, e questa vita oramai sono stanca e stufa di farla, e non so manco se mi ci lascierò ancora pigliare.

Pelone drizzò un poco la sua curva persona in un tentativo sbagliato di assumere un'aria imponente.

— Oh che capriccio è codesto? esclamò egli tossendo più forte. Quel martuffo di Meo... ah! se lo agguanto... questa mattina è scomparso e non si è lasciato veder più; ed ora tu, sgualdrina da quattro denari, mi vuoi dare anche tu un dolce piantone?...

— Sto male: soggiunse la ragazza con voce quasi supplichevole. Non vedete anche voi che sto male? Stassera ho fatto miracoli a reggere in piedi.

— Hai fatto, secondo il solito, il peggio che possa una miseruzza buona da nulla e che non ha voglia che di stare in panciolle. Oh! ve' la signorina che la si pretende regolare sè ed altrui a suo comodo [172] e talento! L'ha piacere di riposarsi, ed io ci ho da star qui solo a frustarmi l'osso della schiena, eh? Stai male?... Vorrei che crepasti, mangiapane a tradimento che tu se'!...

A questo punto l'antica Maddalena rinacque nella abbattuta ragazza. La fiamma della primitiva risoluzione, della solita audacia e di quella insolente autorità ch'ella si era attribuita e il padrone aveva dovuto sofferire che la si attribuisse per le sue relazioni col medichino, quella fiamma tornò a brillare negli occhi neri di lei, e levata fieramente la faccia con tutta l'impertinenza di prima, ribattè:

— Oh oh mastro Pelone, che vi credete voi di potermi parlare in questo tono e in questi modi?... Oh che non la conoscete ancora la Maddalena, che di male parole e di mali tratti la non ne soffre da persona... fuorchè da uno?

Lo sguardo del vecchio non sostenne quello della ragazza; come le pupille di lui si chinarono a terra, così il suo corpo tornò ad incurvarsi e il suo sembiante riprese quell'aria tra d'impaccio, tra di malvogliosa sommessione con cui usava sempre trattare colla petulante fantesca.

— Uhm! uhm! rispose tossendo, non dico mica io, non voglio già dire... sono espressioni così..... alla buona... anzi amichevoli..... Non voglio guastarmi teco il meno del mondo. Sai che ti porto molta affezione... (E piano fra le gengive borbottava a suo modo: ti darei alle mazzerate, e se mai il medichino ti pianta, l'abbiamo da vedere)... Dunque non corrucciarti meco, buona e cara la mia Maddalena... (che ti venga un accidente!)... Ma ti prego soltanto a non volermi lasciar solo nell'osteria, che non ci è più manco quel barbagianni di Meo, che vorrei vedere impiccato e peggio..... Ah! se mi casca fra le unghie!..... Ier sera e' ci ha avuto una buona lezione, ma se lo ripesco, alla misericordia di Dio, che gli voglio far danzare un trescone a battuta.....

— Egli di certo, interruppe la Maddalena, vi è scappato appunto pei vostri maltrattamenti, e non si lascierà coglier più... Non c'è che i cani, i quali, percossi, baciano la mano del padrone che li percuote... Un cane pel suo padrone, soggiunse con molta amarezza, ed io per lui!

— Ma io te, Maddalena, riprese Pelone, non ti ho mai maltrattata... Dininguardi!... Anzi!... Se vuoi dire proprio il vero, hai da confessare che io ho usato sempre verso di te de' maggiori riguardi...

— Ora non è caso da ciò... Vi avverto che per de' giorni, e non so quanti, non potrò venire all'osteria, e non ci verrò.

Pelone mandò parecchi gemiti, e tossì per parecchi minuti secondi.

— Ma, poveretto me!... Come ho da fare?... Tu vuoi rovinarmi, Maddalena... Aspetta almeno ch'io abbia un altro servitore in luogo di Meo..... E sai che non è facile sostituirlo... Non si può mica accettar qui il primo venuto...

Maddalena, che era tornata in tutta la prepotenza delle sue maniere, non volle nè udir altro, nè dare ulteriore risposta.

— Siamo intesi: diss'ella con accento di supremazia al bettoliere tornato nelle apparenze dell'umile bonarietà: domani non vengo, e se verrò ancora mai in avvenire, ve lo farò sapere.

Uscì ratta e sdegnosa, mentre Pelone faceva ancora un tentativo di supplicazione; ed all'oste contrariato all'estremo non rimase altro partito che di abbarrare le imposte dell'uscio.

— Ah se avessi a mia disposizione una provvista di accidenti, diss'egli bofonchiando, so io a chi ne vorrei mandare.... E quel bertuccione di Meo, dove sarà egli andato a cacciare la sua grullaggine?.... L'ho raccomandato a Graffigna, e son certo che questo gatto di buona razza saprà scovarnelo, il topolino.... E domattina intanto mi recherò a far riverenza a sor Commissario.

Con questi pensieri e con questa risoluzione andò a dormire; nè il suo sonno fu tranquillo di certo, chè troppe ragioni aveva da stare inquieto. La mattina, alzatosi, sentiva egli in sè vieppiù afforzata la risoluzione di fare la sua comparsa al Palazzo Madama, e stava per avviarsi, quand'ecco, per togliergli il merito d'una spontanea presentazione, venirgli innanzi il brutto ceffo d'una guardia di polizia travestita, a comandargli, d'ordine dell'egregio commissario sig. Tofi, di recarsi immantinenti ad audiendum verbum.

Il povero Pelone, che vide così fatta inutile tutta la sua buona volontà e i proponimenti del suo zelo, temendo già gli fosse piombato addosso quel pericolo e quel danno cui egli voleva appunto scongiurare, si sentì tremar le gambe e fuggire ogni coraggio: non seppe che rispondere e stette lì a bocca larga a mirare quel profeta di polizia, che veniva con sì brusco tono a scaraventargli sulla faccia allampanata il mane thecel phares del nume di Palazzo Madama.

— Avete capito? riprese più ruvidamente ancora l'arciere. E' vi conviene mettervi in cammino senza manco un trar di fiato, e venire con me.

— Ma... ma... balbettò l'oste confuso e intimorito: ma io sono qui solo... non ci ho manco un cane da stare a bottega in vece mia... Oh che ho da piantar lì l'osteria senza niuno che ci badi?

— Che volete mai ch'io vi dica? Vi ho da menare da sor Commissario, e vi ci menerò senza fallo... Non so altro io... Del resto aggiustatevi voi; e se non ci avete nessuno da lasciare, chiudete la bottega e filate.

Pelone adottò questo partito, chè diffatti non ce n'era altro da prendersi, e seguì il poliziotto, mogio come un bracco che vien fuor dell'acqua. Con quest'apparenza umilmente rimminchionita comparve innanzi al severo viso aggrottato del signor Tofi, che il mento riquadro posato gravemente sul suo [173] cravattone duro, abbottonato fino al collo nel suo lungo soprabitone, lo accolse coll'urbanità con cui uno staffiere riceve sul tappeto elegante d'una sala dorata un villanzone dalle scarpaccie infangate.

L'oste non ebbe mestieri di domandare la menoma spiegazione: col tono corrispondente all'aspetto, saettandolo d'uno sguardo freddamente minaccioso, il signor Tofi lo apostrofò di subito nella seguente maniera:

— Voi volete andare ad ingrassarvi un po' quel vostro scheletro col pan di prigione, tavernaio della malora.....

— Sor Commissario: balbettò il mal capitato, tremando verga a verga.

E il signor Tofi, con più superbo piglio di quello che avrebbe potuto avere il suo titolato superiore, il conte Barranchi medesimo:

— Silenzio! gridò: lasciatemi parlare e che le mie parole vi stieno ben bene attaccate alle orecchie. Nella vostra caverna di bettola si tengono discorsi sovversivi, discorsi che offendono il Governo di S. M. (si levò il cappello a larga tesa che aveva fieramente piantato in testa); e voi lo tollerate....

Pelone fu scosso da un raccapriccio come d'orrore, e la soverchia paura gli diede il coraggio di interrompere.

— Scusi!... Io non tollero.... Se avessi potuto ieri sera tappar la bocca a tutti quegli scellerati!... Che cosa vuole che faccia un povero vecchio contro una frotta di ubbriachi che son capaci di romper le ossa ad una persona come di bere un buon gotto di vino?...

— Perchè non avete denunciato il fatto all'autorità?....

— Ma Dio falso!... Cioè, voglio dire... Mi perdoni: sono così confuso che mi lascio scappare contro il mio solito delle bestemmie, io che rispetto sopratutto la religione, che il diavolo mi porti... Di questa razza discorsi se ne tennero ier sera per la prima volta.

Il Commissario fece un gesto d'incredulità.

— Glie lo giuro! esclamò con forza l'oste mettendosi la manaccia sul petto: parola di Pelone, ch'io possa essere sbattezzato! E questa mattina già ero sulle mosse per venire a fare il mio dovere, quando Vossignoria mi ha mandato a chiamare.... Questa è la verità vera, com'è vero che la mia protettrice è la Madonna della Consolata, che il diav.....

Masticò fra le gengive le altre parole, e parve inghiottirle in mezzo ad uno sbruffo di tosse.

— No, no, signor Commissario, rispose poi. Non è Pelone che sia mai per fallire al suo dovere di buon suddito. Glie l'ho detto ancora l'altra sera a sor Barnaba.

Ma non ebbe appena pronunciato quel nome che si morse la lingua, ed avrebbe pagato non so che cosa per poterlo tirare indietro. Che c'era egli bisogno d'andare a trarre in mezzo la memoria di quel cotale? Non ne aveva abbastanza impicci per quell'incidente, senza andare a cacciarsi in quelli di possibili interrogazioni intorno a colui che avrebbe voluto obliato da tutto il mondo? S'interruppe, guardò ratto, di sbieco, la faccia del Commissario e si turbò vieppiù vedendo un certo guizzo negli occhi di lui: riparò, secondo il solito, il suo imbarazzo in un accesso di tosse.

Tofi guardava veramente il bettoliere con una nuova espressione e con nuova intentività osservatrice.

— Oh appunto: diss'egli; poichè avete nominato Barnaba, conviene che vi dica qualche cosa eziandio sul conto di lui.

Pelone era abbastanza scaltrito per non sapere sollecitamente nascondere il suo imbarazzo; assunse la più naturale aria da nesci, e stette colla mossa di chi si prepara ad ascoltare, riverentemente attento.

— Ne sapete voi alcun che de' fatti suoi? domandò il Commissario dopo una brevissima pausa.

— Io?... Che ne ho da sapere? So quel tanto che sono obbligato per mio dovere.... Ecco!

— Da quando non l'avete più visto?

— Dall'altra sera.... Stette fino in sul tardi all'osteria.

— E ieri?

— Ieri non si lasciò vedere.

— E qual ragione pensate voi di questa sua mancanza?

— Non penso nulla.... Non ci viene mica tutti i giorni da me.

— E l'altra sera non vi disse niente?

— Di che?

— Di cosa che lo riguarda.

— Niente affatto.

— Ebbene ve lo dico io. Sappiate che Barnaba, per cagione di certa sua imprudenza, incontrò la disapprovazione de' superiori, e dovrà partirsene di Torino per una più umile destinazione in altra città.

— Oh bella! esclamò Pelone con tono di maraviglia bastevole da far credere quella essere la prima notizia ch'egli ne ricevesse. Egli è pur tuttavia un brav'uomo....

— Basti di ciò: interruppe Tofi. Torniamo ai nostri polli.

Pelone s'inchinò in atto d'umile assentimento; ma fra sè pensava:

— Uhm! c'è qualche cosa qui sotto. Perchè dirmi codesto? Per levarmi il filo della camicia? Ma allora avrebbe insistito nelle interrogazioni e non dato di presente la volta al discorso... Direi quasi che si vuole vedere s'io ho sentore di qualche cosa che è capitato, e di cui si avrebbe più caro che io fossi al buio... All'erta Pelone!

E la malizia di quel vecchio trincato andava molto presso alla verità.

[174] Il Commissario continuava:

— Or dunque badate bene a quello che si vuole da voi, e per cui vi si è mandato a chiamare.

— Sì signore.

— Voi avete da intromettervi fra i più caldi che sono sempre i più imprudenti di quei riottosi; e dovete mostrarvi più caldo e più imprudente di loro.

— Ah sor Commissario! Avrei da dir cose contro la mia coscienza....

Tofi non gli volse che un'occhiata, ma la fu tale che gli tappò la bocca meglio di qualunque parola. Pelone parve ringoiare non solo le parole, ma la lingua; e il Commissario, come se non fosse stato interrotto:

— Di questa guisa vi ficcherete tanto addentro nei loro armeggiamenti da scoprirne i piani e i mezzi e insomma quanto ci occorre... Avete capito?

— Sì signore.

— Possiamo contare su di voi?

Pelone tornò a mettere la sua manaccia sul curvo stomaco.

— La deve conoscere il mio zelo; le prometto di fare il possibile e l'impossibile.

Quella promessa era fatta con vera ed assoluta sincerità.

— Sta bene, rispose Tofi: ci conto su. Nomi e cose e propositi, vogliamo saper tutto appuntino... Badate che le vostre informazioni avranno riscontro con altre, e non datevi a credere di poterci dar lucciole per lanterne....

— Oh! esclamò l'oste coll'indignazione dell'onestà calunniata. Ella mi crederebbe capace?...

— Dunque siamo intesi... Andate. Appena avrete qualche cosa da comunicarmi, venite; e fate che sia presto. Quando io abbia qualche istruzione più particolareggiata da darvi, manderò per voi.

Pelone uscì tirando tanto di fiato; non credeva di cavarsene a così buon patto. Se ne tornò all'osteria dominato da una vera smania di far meravigliare di sè e dell'efficacia dell'opera sua il terribile Commissario Tofi: avrebbe denunziato in quell'accesso di ardore anche suo padre.

Come il signor Tofi fosse stato così sollecitamente e così bene informato di quanto era successo la sera innanzi nella taverna di Pelone, sapremo più tardi: ora seguiamo anche una volta sor Commissario in casa del suo superiore, il conte Barranchi, dove Tofi si reca, rigido al solito, le mani nelle larghe tasche del lungo soprabito, con passo di carica a cadenza militare.

CAPITOLO XXVI.

Il conte Barranchi era fra quelli che avevano accolto con crudele rallegramento la notizia dell'esito del duello fra il marchesino di Baldissero e l'avvocato Benda. Se n'era egli per più ragioni compiaciuto, e perchè, come nobile, godeva del sopravvento avuto in quella contesa da uno della sua casta, sopravvento che a senno di lui e dei pari suoi doveva essere uno smacco di tutta la borghesia, di tutto quel liberalume che, a dispetto della cappa di piombo dell'assolutismo, voleva pure alzare il capo e le spalle; e inoltre perchè ce l'aveva amara contro quell'insolente di borghesuccio che aveva osato rispondergli con sicurezza, ch'egli battezzava per arroganza, quella sera al ballo della Accademia filarmonica, e cui quando egli s'era già data la soddisfazione di farlo arrestare, aveva dovuto con non poco rammarico rilasciar tosto in libertà. Di tutto ciò gli cuoceva come di una grave offesa personale che ne avesse ricevuta, e la palla piantata nel fianco a Francesco da Baldissero fu per lui come lo strumento provvidenziale della sua vendetta.

— Ma bene, ma benone, ma benissimo! aveva egli esclamato al caffè Fiorio gridando forte, fregandosi le mani e guardando intorno a sè con superba baldanza come per dire: «e se vi ha qualcuno cui le mie parole non garbino, si palesi se ci vale!» Se non che Baldissero ha fatto troppo onore a quel rien-du-tout a battersi con lui... Sì, che codesti galletti hanno bisogno di buone lezioni, ma affè mia vale anche meglio che i nostri ufficiali fiacchin loro le costure con quattro piattonate, e se vogliono voltare i denti, crénom! tagliar loro la faccia.

La sua irritazione s'era ancora accresciuta per ciò che il Re, sdegnato contro il marchesino di Baldissero, aveva voluto che subito fosse tradotto agli arresti in cittadella. Certo il conte Barranchi non osava contrastare menomamente ad un ordine di S. M.: ma nell'orecchio di alcuni fidi amici di sua risma era pur giunto a susurrare che quella del Re era una inesplicabile accondiscendenza a ces malheureux di borghesi.

Più tardi quando Tofi medesimo era venuto a riferirgli quel po' di tumulto che era successo nella fabbrica Benda, egli ci aveva trovato argomento eziandio di soddisfazione.

— Ah! ah! aveva esclamato ridendo con una malignità che era la più villana cosa del mondo. Ci ho proprio gusto. Vorrei che quella fabbrica e la casa di tal gente fossero state sovvertite fin dalle fondamenta. Non ci avrebbero che il fatto loro. E' si vantano amici del popolo, codestoro, liberali dei tacchi de' miei stivali; vogliono far libero il popolo, parlano dei diritti del popolo, e che so io..... Tò ben vi sta: ecco di che guisa vi concia il vostro buon popolo... E sarebbe buono davvero se ci sbarazzasse affatto di voi.

S'interruppe e stette un istante come sovraccolto da un'idea. Nato per la nobile missione che compiva di capo supremo degli ammanettatori, che avrebbe voluto ammanettare financo il pensiero, [175] egli aveva nella mente corta, ottusa ed ignorante i lampi d'ispirazione del genio crudele che dettò tutte le infamie dei tiranni dell'umanità, dai Cesari di Roma ai Torquemada dell'inquisizione: gli balenò di subito al cervello l'orrendo concetto che guidò la polizia dell'Austria negli eccidi della Gallizia, appunto in quel torno di tempo: quello di scatenare le turbe ignoranti de' poveri contro i ricchi nemici dell'oppressione straniera, di far distrurre dalla plebe aizzata ed acciecata la classe colta fautrice di libertà.

— Sentite, Tofi: diss'egli dopo una breve pausa, e una mostra di riflessione apparve sulla sua fronte stretta e fuggente all'indietro. Se le cose si rimangono a far qualche danno a que' sciagurati dei Benda, non c'è gran male..... Quando avessero dei fastidii privati e finanziarii, quei valenti signori liberaloni non penserebbero più alla politica..... Dunque l'affare restando in quei limiti.... voi mi capite?

Tofi era troppo esperto per non comprendere quanto e più di quello che il suo superiore sapesse o volesse dirgli; e conosceva per prova che certi partiti, specialmente nell'ordine di quelle attribuzioni, non si formulano mai nettamente, e il subalterno accorto e che vuol farsi merito deve prima ancora indovinarli che capire, non lasciarli che leggermente adombrare da chi comanda, ed aver l'audacia, se il caso torni, di eseguirli sulla propria risponsabilità, anche a rischio di vedersi disconfessato e facilmente punito eziandio. Qui per Tofi si aggiungeva un'altra considerazione affatto personale, che lo faceva niente ripugnante al proposito accennato in nube dal comandante della polizia, di cui era conosciuta per prova in tutto lo Stato la predilezione pei provvedimenti estremi e feroci. Il Commissario, come ho già detto, era plebe ancor egli; di là era egli venuto, soffrendo mille stenti, e la sua esistenza, tutt'altro che piacevole ed agiata, era pure per lui il risultamento d'una lotta continua, aspra, irritante colle condizioni del suo stato sociale. Da ciò aveva egli recato seco un astio, che era un'invidia insieme ed un istinto demagogico di povero, contro la classe media che vedeva arrivare alla ricchezza e godere di tutti quei beni onde i suoi erano privi. Per la nobiltà, secondo lui (non già che si divisasse chiaro nella mente questi pensieri, ma li aveva in nube ed agiva anche senza saperlo in conformità dei medesimi); per la nobiltà, dico, quest'ingiustizia aveva ricevuto la sanzione del tempo, era un diritto storico, poteva supporsi che da principio la fosse provenuta da un fatto che la legittimasse; eppoi codesto entrava come elemento di quel regime dello Stato ch'egli serviva, di cui in buona fede non poteva credere esistesse il migliore, e cui volere anche in una lieve parte rimutare, era distrurre sciaguratamente tutto l'equilibrio; ma il ceto medio non poteva agli occhi suoi vantaggiarsi di nessuna di cotali ragioni. Esso era uscito pur ieri dalla massa comune; esso di quella somma di fortune che la classe privilegiata non aveva immobilitate in sè, accaparrava la maggior parte; esso che era uno spicchio così menomo dell'universalità del popolo, lasciando a tutto il resto nient'altro più che la miseria; e di più questa medesima classe ambiziosa ed audace, colle sue aspirazioni politiche minacciava quel reggimento a cui egli era devoto. Vi ho già detto che nel suo modo di trattare coi vari individui che gli cascavano fra le unghie, Tofi adombrava le sue simpatie: coi plebei, fossero pur ladri ed assassini, la sua ruvidezza scontrosa aveva tuttavia qualche cosa di famigliare, colle persone vestite di panni fini, qualunque fosse la causa che glie le menasse dinanzi, era villano, aspro, prepotente senza temperanza di sorta.

Alle parole adunque del Generale, egli ammiccò in un certo modo, e con prudente riserbo, rispose soltanto:

— Farò che V. E. non abbia ad essere malcontenta della condotta che terrò in questo affare.

Tofi uscendo dal Capo della Polizia già s'era fatto il criterio del modo di governarsi, e già si vedeva nella mente non che abbozzato, quasi colorito il disegno che intendeva seguire; ma le informazioni che aveva avute di poi, e propriamente quella mattina medesima, lo avevano chiarito che le cose non si rimanevano in quei limiti che aveva esposti al conte Barranchi, e che perciò occorreva avere con codestui nuove intelligenze e provocarne nuovi ordini; ed ecco perchè, assicuratosi il concorso di Pelone, il Commissario si recava ora di bel nuovo dal Generale Comandante dei Carabinieri.

Questi, alla relazione, breve, sommaria ma lucidissima, di quanto importava sapere, fattagli da Tofi, inarcò le sopracciglia, corrugò la fronte, scosse alquanto la persona impettita nell'uniforme, e parve affondarsi in una meditazione che doveva esser feconda di opportuni provvedimenti. Tofi, secondo soleva, stette immobile nella mossa del soldato senz'armi in presenza del superiore, ad aspettare.

Il Generale non era contento degli spedienti che si presentavano alla sua immaginativa, e lo mostrava colle smorfie della sua faccia più scontrosa ed antipatica del solito. Il brav'uomo non aveva che idee semplici e primitive, non sapeva scorgere in ogni cosa che una strada, la volgare battuta da tutti; e ciò non per manco di volere, ma di capacità. Qui egli ben sentiva che il caso era complesso, che vi doveva essere, che vi era un'occasione da raggiungere in una parecchi fini, da ottenere più d'un efficace risultamento in beneficio delle proprie opinioni, dei proprii intendimenti; ma codesto egli lo travedeva in nube, in digrosso, senza sapere far concreto il concetto ed arrivare a cogliere nessuna particolarità di mezzi. Se ne arrabbiava seco stesso; e tanto di più in quanto sentiva, suo [176] malgrado, che quel subalterno, col suo contegno di subordinazione affatto inappuntabile, colla sua aria rozza e grossolana, il quale gli stava dinanzi aspettando e fissando su di lui uno sguardo che era tanto interrogatore da parergliene persino rispettosamente ironico; quel subalterno, dico, aveva in capo un'idea del da farsi, e dove fosse stato in luogo del superiore non avrebbe avuto bisogno, per prendere una risoluzione, nè di sforzi di cervello, nè di suggerimenti.

— Tofi, diss'egli poi, vedendo che il Commissario impassibilmente trincerato nella sua attitudine di rispetto, non accennava di venire in soccorso alla sua perplessità: voi siete uomo da comprendermi e da saper eseguire i più dilicati còmpiti.

Si fermò a soffiar forte con importanza; il Commissario rimase immobile come un pezzo di legno.

— Qui, abbiamo un caso... un caso che direi speciale, da cui possiamo trarne partito per più e varie conseguenze tutte importanti.... Voi mi capite?

Tofi battè leggermente le palpebre di guisa che voleva dire:

— Continui, chè son qui ad ascoltarla tutto orecchi, e vedrò dopo quel che ho da capire.

— Bisogna renderci conto della nostra situazione, continuava Barranchi andando evidentemente a caccia delle parole, senza pure aver la fortuna di cogliere quelle che proprio avrebbe volute: parlo della nostra situazione, come agenti e difensori del Governo... del principio monarchico... di tutti i buoni principii politici e religiosi... come Polizia, insomma... Voi mi capite?

Tofi questa volta accennò del capo.

— La nostra situazione, eccola. Abbiamo lo spirito rivoluzionario della borghesia che minaccia il trono e l'altare..... Per disgrazia il Re,... avanzo di suoi umori giovenili, effetto della generosità della sua grand'anima (s'affrettò a soggiungere)..... ha delle velleità conciliative, delle propensioni, direi quasi, verso quelle fatali novità... Che peccato in un Principe così ammodo!... Sotto tutto questo ci è il popolino, gli straccioni, che salterebbe volentieri addosso agli abbienti della borghesia per isfamarsi colle loro robe... Très bien! Voi seguite il filo del mio ragionamento?... Sono due parti nemiche, le quali venendo a collisione fra loro, gioverebbero ad una terza... alla nostra... Fra due contendenti profitta il terzo... Se si potesse, se si sapesse sfruttare un movimento, che poi avrebbe ad essere seriamente compresso, si otterrebbe senza fallo: e che il Re, sgomentato dallo spettro rivoluzionario, tornerebbe a scostarsi da quella parte pericolosa verso cui pencola, e che il popolo da quello sforzo efficacemente represso, come un frenetico dopo una cacciata di sangue, riuscirebbe per assai tempo ancora più mogio, e che la borghesia medesima, spaventata da quel tafferuglio, dovrebbe per suo stesso salvamento gettarsi umiliata nel partito de' buoni... il nostro... quello del trono e dell'altare. Avete capito?

— Sì, signor conte: rispose allora con accento risoluto il Commissario. Se lasciassimo, prima d'intervenire, saccheggiar parecchie fabbriche?

— Parecchie no: disse il generale. Il danno sarebbe troppo grave, e il Re non ce lo perdonerebbe.

— Qualcheduna soltanto? domandò Tofi, guardando con occhio penetrativo la faccia superba del conte che ora si atteggiava ad una espressione di macchiavellismo che voleva essere indovinato.

— Il meno possibile: rispose Barranchi.

— Una fors'anco basterebbe? soggiunse il Commissario della maniera medesima.

Il conte accennò di sì.

— E sarebbe meglio che questa fosse di qualcheduno che va per la maggiore nel partito rivoluzionario.

— Certo, disse asciutto Barranchi aggiustandosi il collo nel goletto ricamato d'argento della montura.

— E così sarà rovinata del tutto una famiglia nemica al Governo.

Barranchi si degnò di fare un nuovo cenno affermativo.

— Dunque intervenire a cose compiute: soggiunse il Commissario con accento metà insinuativo e metà d'interrogazione.

— Ed allora: disse con forza il generale drizzandosi dell'alta persona: reprimere fortemente per ischiacciare eziandio il capo alla sommossa onde non conservi altra lusinga di potersi ancora levare altrimenti.

Tofi s'inchinò: aveva capito tutto, e il suo medesimo primitivo disegno poteva mettersi in atto, secondo ciò che aveva già seco stesso immaginato. Si partì e in breve ebbe disposto ogni cosa, perchè allo scoppiar dei tumulti tutti gli altri opifizi fossero efficacemente posti al riparo dall'ira della plebe, fuor quello di Giacomo Benda. Non restava che a sapersi il momento in cui la preparata lotta sarebbe avvenuta, e ciò veniva ad apprendere al signor Tofi quella sera medesima, il bravo Pelone, il quale non aveva perduto tempo, e per mezzo di Marcaccio e di Tanasio, mercè alcuni buoni fiaschi di vino, aveva spillato quanto occorreva per adempire a dovere all'assuntosi impegno.

In quel medesimo mentre Gian-Luigi s'adoperava a salvare la famiglia e le sostanze dei Benda, contro cui congiuravano tante ire. Ebb'egli per ciò a sè Graffigna, e senza preamboli, come quegli che non aveva e andava persuaso di non aver punto bisogno di farne, comandò al mariuolo che dovesse tener modo (e questo lo lasciava compiutamente alla scelta di lui), per impedire che alcun guaio più avvenisse, che alcun danno si recasse alla fabbrica di sor Giacomo.

[177] Graffigna colla sua aria d'ipocrita umiltà e di ostentata soggezione rispose grattandosi in capo:

— Ah sor medichino, io nulla desidero di più che obbedirla ciecamente, possano le mie spalle servir d'appoggiatoio alle pantofole di mastro Impicca; ma quello che Lei ora mi comanda, affè mia che gli è proprio difficile, tanto difficile quasi come fermare una palla di cannone una volta sparato: e far intendere ragione a que' birboni di tre cotte, nostri buoni amici, che hanno da essere dell'impresa, ed a quelle c... di operai, brava gente, tutt'oro di coppella, ma ciuchi ed incapati come non si può di peggio... E poi, e poi... La mi permetta, sor medichino, di parlare senza peli sulla lingua, come la sa che è mia usanza, da onest'uomo qual sono che possa frustarmi la pelle alle galere. Dunque le dico, che in quel luogo c'è un troppo buon colpo da fare perchè ci pensiamo e due, e tre, ed anco quattro volle, prima di dare così un calcio alla pignatta...

— Ci ho pensato quanto occorre: interruppe seccamente Gian-Luigi: e basta.

Graffigna non si mosse e continuò a grattarsi in capo, schiudendo ad un sorriso tra melenso e tra malizioso le sue labbra sottili sotto il suo naso appuntato.

— Non dovrei parlar più: diss'egli: non parlo più.... Sa bene Vossignoria se gli è quel buon diavolo di Graffigna che è capace di contrastare a un ordine del suo superiore. È un brigante di tre cotte, un famoso arnesaccio quel galantuomo, ci sto; ma per la subordinazione, per l'adempimento dei suoi doveri verso chi è da più, oh oh! non c'è chi gli vada a paro.... Ma con tutto ciò il busille si trova nella maniera di fare a senno di Vossignoria. Qui sta l'intoppo! Pensi che nella cassa di ferro.... nelle casse di ferro devo dire, perchè so di buona fonte che ce n'è un'altra nello studiòlo particolare del principale, nell'alloggio della famiglia.... in quelle casse di ferro adunque pensi che vi sono le belle centinaia di migliaia di lire: tutti denari lampanti e sonanti che la è una benedizione il solo vederli.

Gli occhietti del tristo omaccino scintillavano come carboni accesi.

— Pensi che gusto cacciarvi dentro le mani! E come avere il coraggio di dire a quella brava gente dei nostri uomini, fior di ladri ed assassini: «Alto là, e' non vi si ha da toccar più?» Sì eh! va a levare dalle zanne della gatta il topo acchiappato! Io la capisco, sa, sor medichino. Oh! io non sono come quegli arfasatti, grossolani più che una pialla: sono capace di capirla io! Quella infelice famiglia è degna di compassione e di riguardo: l'unico figliuolo moribondo.... una ragazza giovane e bella.

Gian-Luigi si riscosse e corrugò la fronte; Graffigna s'affrettò a soggiungere:

— Ma il sentimento è una cosa e l'interesse è un'altra; e la cocca vive di quest'ultimo.... Se rinunziamo a tutti i bei colpi che ci si affacciano, possiamo addirittura vestire il saione da frati e farci beatificare. Si ricorda che ho avuto l'onore di dirle, come dopo avere studiato maturamente in proposito, avevo trovato fuori la possibilità di tre bei colpi: Benda, il marchese Baldissero e Nariccia.

Il medichino fece un soprassalto.

— Ah! Nariccia, diss'egli con qualche esitazione: mi hai pur detto qualche cosa di più, riguardo a lui.

E Graffigna sollecito, avvicinandosi di più ed abbassando la voce, quantunque fossero fuori dell'arrivo di ogni udito umano.

— Le ho detto che ci avevamo le chiavi da penetrare nel covo di quel bestione selvatico, miserabile avaraccio d'un usuraio, quando che sia.

— Ah!

Questa esclamazione di Gian-Luigi aveva tanto significato che Graffigna, con un vivo lampo di gioia negli occhi soggiunse:

— E dunque la cosa si ha da fare... (E più basso ancora) stanotte se vuole...

— No: disse bruscamente il medichino. Se mai occorresse..., più tardi..... non parliamo di ciò adesso.

— Come le piace.

Dopo una brevissima pausa, Gian-Luigi con accento di comando che vuol essere indiscusso, riprese a dire:

— Siamo dunque intesi, e ricordati bene le mie parole: ai Benda non ha da succeder nulla, e se la mia volontà non sarà obbedita guai a te!.... Ora vattene.

Il mariuolo avrebbe ancora voluto aggiunger qualche cosa, ma il tono con cui il medichino l'aveva congedato e l'aspetto del volto di lui erano tali che Graffigna, espertissimo conoscitore dalle mostre esterne delle disposizioni dell'animo nel suo superiore, non credette per nulla conveniente l'avventurarsi a parlare ancora e rimanere. Si allontanò adunque; ma seco stesso pensava:

— Giusto! Bravo! Aspetti ch'io vada a serrarmi innanzi il più bel campo di raccolta, ad impedirmi la più fruttuosa rivalsa che io abbia avuto mai dinanzi.... Già! Gli è un uomo prezioso questo medichino, ma delle volte il gran bizzarro.... Eh! so ben io dove il basto lo ammacca.... C'è una ragazza per colà.... Poh! gran che!... Le cose avverranno come devono avvenire, e il povero Graffigna proverà chiaro come la luce del sole che non ci ha potuto cica, e quella ragazza medesima sarà mezzo a placare la collera di questo matto.... Sicuro!... Quando la si prenda e glie la si porti nella sua casetta, ed e' se la trovi colà a sua disposizione, oh che la collera gli vorrà sfumare senz'altro....

Gian-Luigi pensava da parte sua:

[178] — Sì, voglio ch'e' sien salvi....

Fece un amaro sorriso, in cui si sarebbe potuto notare un certo disprezzo di se medesimo.

— E le loro sostanze eziandio.

Prese il capo fra le mani, e stette immobile come se l'anima gli fosse fuggita dal corpo.

— Sono alla vigilia d'un gran momento che ho preparato con tanto travaglio, che ho agognato con tanta passione, che ho aspettato con tanta ansietà: ed ora, presso all'effettuamento, non mi sorride più lusinga alcuna di speranza! Mi sento mancare le forze di sotto mano. Saremo vinti: è inevitabile; ed io e le mie idee vinti e perduti!..... Debbo io lanciarmi nella voragine e lasciarmi rapire dalla bufera della catastrofe?... E perchè?... L'avvenire, un prossimo avvenire è forse per noi... Mario mi disse che la questione sociale non è matura tuttavia per ottenere l'anelata soluzione nell'ordine dei fatti. Ciò può esser vero; ah sì, è vero pur troppo per l'oggi; ma domani?... Perchè non mi conserverei per questo domani? Tutto questo ribollir di passioni nelle plebi di tutta Europa avrebbe da finire come un fuoco fatuo, come una fiammata di paglia che un po' d'acqua smorza? La repressione dell'oggi farà formarsi in segreto, concentrata e tanto più forte, nuova lava nella cavità del vulcano popolare... Sì, sì, sì per dio! Un giorno o l'altro eromperà tremendo.

Sorrise d'un orribil sorriso, quale un pittore potrebbe mettere sulle labbra di Satana ch'e' dipingesse in atto di superbamente allietarsi nel pensiero della sua ribellione contro Dio. Trasse di sotto i panni un fine, affilato pugnale di antica fabbrica fiorentina, un gioiello archeologico del medio evo ed una terribil arma in un pugno audace, nel delitto, e si pose a tempestare di piccoli colpi della sua punta la tavola che aveva dinanzi.

— E aspettando questo giorno, che farò io? Continuerò ad aggirarmi in questo mondo sotterraneo, scavando sempre più la mina sotto l'edifizio sociale?... Ah! quella pure è una schiavitù al mio libero spirito: di questa terribile associazione io sono capo, ma essa a sè mi lega con istretti vincoli che in fin de' conti duramente mi costringon le membra... Potessi sciormene!...

Tornò ad appoggiare il capo alle mani colle cui palme si stringeva la vasta fronte.

— Perchè ho visto le sembianze ingenue di quella ragazza?... Avrei creduto io forse d'essere tuttavia così novellino?... Que' miti sguardi, mi condussero il pensiero alla soglia d'un paradiso terrestre, di cui non avrei pensato mai ch'io potessi desiderare le gioie modeste: quello della domestica felicità.... Ma la mia anima inquieta è dunque condannata ad aver bramosa sete di tutto? ad anelare a tutto? a tutto volere stringere e possedere?... Voglio penetrare in quell'orto Esperide a dispetto del mio passato. E se volessi romperla davvero con questo mio passato, lo potrei?... Sì, sento in me tanta forza anche da ciò... L'uomo dev'essere padrone sempre del suo destino... Io riconquisterei la libertà intera, assoluta del mio essere, a prezzo anche d'un...

La parola che doveva seguire non pronunziò più: parve essa rifiutarsi alle sue labbra che lievemente si contrassero.

— Libertà, libertà!... È egli l'uomo libero mai?... Noi siamo i giocattoli d'un balordo o d'un burlone di destino, che ci mena dove forse non sa neppur egli, tirandoci i fili colle circostanze... È ella libera l'anima umana nella vita tranquilla e monotona della famiglia? Oibò! L'inevitabile sempre vi afferra e vi tiene in ogni dove, ognisempre, legati alla fatalità inesplicabile. Ci ho un esempio nella famiglia Benda. Eppure... ah gli è vero che l'uomo è un continuo essere diverso che si viene scambiando dì per dì, e diventando altro ora per ora; e da ciò il supremo bisogno di cambiamento a lui connaturato..... Eppure ora mi sorride così lieta al pensiero la gioia d'una domestica pace, d'un amore senza rimorsi!...

A quest'ultima parola si riscosse e fece un atto di dispetto, quasi di scherno.

— Rimorsi! esclamò. Che vocabolo ho io pronunziato cui ho voluto ed ho detto tante volte cancellato dal mio linguaggio come l'idea che rappresenta dal mio pensiero? Lasciamo quelle debolezze alla femminetta in cui la carne lottò colla paura del confessore e vinse. Un uomo che, in presenza delle vicende della vita, assecondò arditamente l'impulso della sua natura, quindi le leggi dell'esplicamento del proprio individuo, non deve avere nè pentimenti nè rimpianti. Incontrò nel suo cammino la necessità del male e dovette con essa procedere come con un compagno di viaggio... Il male? (Crollò le spalle con una disdegnosa impazienza). Una parola di convenzione anco quella. È una relatività delle nostre apprensioni. Esiste esso il male nell'assoluto?... Incontrò delle difficoltà al suo passo, e dovette superarle affine di proseguire. Alcuno rimase schiacciato. E con ciò? Tutta la natura è una lotta per la vita. L'animalità è un immenso fratricidio. L'uomo al fastigio della piramide di questa creazione organica, che nella sua stessa distruzione attinge gli elementi della vita, è condannato, più ancora d'ogni altro animale, per vivere, per pensare, per esplicarsi, a servire, invocare, gridare la legge di morte. Non ho rimorsi; non voglio averne. Posto di nuovo al principio della mia giovinezza, pressato dalle circostanze che mi spingevano, io sceglierei ancora la medesima strada. Fu fatale; anche i Numi della Grecia subivano il Fato.

«Ed ora una nuova forza, nata non in me, ma che in me si ripercuote, vuole spingermi fuori di questa via che gli uomini chiamano del delitto. È fatale anche ciò? Sì certo sarà, dove io ci riesca.»

Fece una nuova pausa: la ruga della sua fronte si mostrava profondamente incavata, e dalle ciglia [179] abbassate usciva pur tuttavia una fiera luce dagli occhi suoi.

— La natura, che è nostra grande maestra universale, ci dà un terribile insegnamento. Quando un mezzo qualunque le è diventato inutile..... non aspetta nè anco che sia diventato dannoso... certe volte, per una specie di capriccio, soltanto quando esso le torna meno gradito, spietatamente lo distrugge. L'uomo forte, l'uomo superiore, nella sua azione sul mondo ambiente, ha il còmpito della natura, attua ancor egli un'opera creativa, nell'ordine materiale, così bene come, e più, in quello intellettivo e morale. È un coadiutore consciente della madre natura; ha diritto, ha dovere d'imitarla. Io, la cocca, non dovrei con atto positivo distruggerla per mia opera medesima; non avrei che da lasciarla schiacciare: le circostanze mi si offrono operatrici esse stesse... non ho che da volere... non ho che da aiutarle...

Fu scosso come da una specie di brivido. Battè sulla tavola un colpo più forte del pugnale che vi si piantò, e sorse in piedi per una subita spinta di irrequietudine. Una voce che pareva estranea gli aveva gridato all'orecchio quella parola sotto a cui le labbra gli si erano irrigidite poc'anzi.

— Ma questo è un tradimento!

Andò su e giù della stanza con passo concitato, i pugni chiusi, gli occhi atterrati, le mascelle contratte.

— Mistero! Mistero! Mistero! gridò egli con una esplosione di rabbia profonda. Tutto è mistero in noi e fuori di noi. Dicevo che l'uomo è sempre via via diverso nella successione delle sue ore di vita. Gli è peggio: esso non è nemmanco mai uno nel suo essere, in un suo momento d'esistenza. Ecco, in che stanno ora due tendenze, due spiriti, due individui: l'uno è quello che ha scosso il fastello de' pregiudizi di quella grettezza di concetto, che gli uomini chiamano superbamente la morale; l'altro invece si sente riprendere a poco a poco dall'influsso di quella pretesa legge. Che sarei io, se non avessi infranto mai codesta legge, e camminato per la mia via ubbidiente all'ordine del contingente, al concetto dell'umanità presente effettuato nel reale? Quest'altro Luigi che ne sarebbe restato, io lo sento in me, lo porto meco in potenza, me lo vedo davanti nel campo oscuro e confuso della mia coscienza; e sono pur tutt'altro, e penso insieme in due modi diversi, e quel che voglia non so....

Crollò il capo nell'amaro sorriso dello scettico.

— Stolto! stolto! tre, quattro, cento volte stolto!... Noi non siamo che un risultamento. Non abbiamo neppure il diritto di chiamarci individui. L'universo può continuamente su noi, siamo l'opera sua incessante; materialmente o moralmente esso ci fa e ci disfa, atomi d'un nembo infinito di polvere, goccie d'un oceano sterminato. Noi non siamo nè una volontà, nè un disegno prestabilito, nè una monade indivisibile; siamo un aggregato in un oscillamento continuo de' suoi elementi.... Va al fondo di tutto questo, distruggi quella misteriosa forza di turbinio che chiama, agglomera e rigetta via via le varie molecole dell'eterno ambiente, che cosa ci trovi?... Il nulla!

Entrò nel riposto suo gabinetto che teneva sempre chiuso a chiave. Accese una dozzina di lumi, che sparsero colà un vivo chiarore rossigno, trasse da una specie di stipo un portaliquori in cui parecchie fiaschette di liquidi che a quella luce smagliavano con diversi e brillanti colori, lo pose sulla tavola innanzi a cui soleva sedere lavorando, e riempitosi un piccolo bicchierino di un liquore colore di smeraldo, lo tracannò d'un fiato. Si volse poscia ad una donna, che, discinta nelle vesti, mezzo nuda il seno, le chiome disciolte, pallida in viso, ma con occhi ardenti e labbra color di sangue, al veder entrare il medichino s'era sollevata alquanto della persona, appoggiandosi col gomito sul sofà dove giaceva distesa, e stava seguitando con isguardo sottomesso insieme e appassionato il giovane in ogni sua mossa.

— Maddalena! le disse Gian-Luigi con voce metallica, stranamente vibrante: ho bisogno di stordirmi, ho bisogno d'obliare, non fosse che un'ora. Questi liquori e tu dovete fare cotal miracolo anche questa volta... Te ne senti tu capace? Anche tu, povera donna, sei un inconscio elemento della mia vita. Segui la legge della tua natura e dàmmi quel che può dare il tuo essere. Il mondo lo chiama vizio e corruzione; lite di parole: è il frutto dell'albero, quale lo volle l'inconcepibile azzardo..... Tu non mi comprendi?... Che importa? Ora mi piaci; e ti basti. Percossa, scacciata da me, tu sei venuta trascinandoti sulle ginocchia a domandare perdono e la grazia di sedermi ai piedi... Ebbene, ti accetto, e ti rivoglio. Questo liquore m'inebria... ed anche il tuo bacio da vampiro, il tuo alito di fuoco m'inebriano..... Sono in faccia alla sfinge, sono in faccia all'abisso, sono in procinto di lottare coll'inevitabile... Ho bisogno d'ebbrezza.

Maddalena schiuse le voluttuose labbra al sorriso della Sunamite, e Gian-Luigi si precipitò fra le braccia che gli si protendevano, quasi direi palpitanti.

CAPITOLO XXVII.

Siamo alla sera della domenica. Il tempo è freddo e nuvoloso; la città, non ostante gli accesi lampioni, allora più scarsi che adesso non sieno, è avvolta nelle tenebre a cagione della densa nebbia che tutta la ricopre. In Piazza Castello, al fondo della spianata del Palazzo Reale, questo risplende per tutti i finestroni della luce che mandano i mille [180] doppieri ond'è internamente illuminato: luce che, per la nebbia traverso cui è rifratta, diventa all'occhio del riguardante di colore rossigno. Anche i portici del Teatro Regio sfavillano d'una maggior luce, e sotto di essi passa, entrando ed uscendone, una doppia corrente di carrozze che colle loro lanterne dànno immagine d'un'ordinata, lenta processione di lucciole, il cui fuoco tremola palpitante traverso la nebbia della notte.

Tutto luce, animazione, sfarzo è nell'interno la sala del teatro illuminata a giorno, brillante per le acconciature elegantissime di quante più ricche e belle dame contenga l'eletta cittadinanza.

Si aspetta la venuta della Corte che deve comparire fra poco nel Palco Reale in cui centinaia di fiammelle de' doppieri si riflettono sulle dorature delle pareti, sull'oro dei ricami delle drapperie di velluto cremisino.

Il teatro è pieno zeppo di gente, le conversazioni da capo a fondo della vasta sala, su per ogni ordine di loggie, sono vivacissime, ma non potreste dire quella essere allegria che agiti quelle numerose teste, come il vento agita nel campo le rigonfie spighe della messe. È un'agitazione che ha tutte le arie d'un'aspettativa quasi ansiosa, è come un sentimento di affanno e di paura istintivo. Di che? Nessuno forse lo sa ben chiaro: ma si sente qualche cosa nell'atmosfera medesima che si respira che v'inquieta. Tutto il giorno quella specie di intima emozione ha dominato la città. Voci vaghe sono corse, piene d'un certo terrore, misterioso perchè indefinito; fu come se moralmente si sentisse il terreno vacillare sotto i piedi, accadde allo ambiente degli animi quello che alla natura, quando appressandosi un temporale, di cui non si vede neppure ancora la minaccia, già tuttavia si avverte una inquietudine febbrile anche negli esseri inanimati traverso la campagna. Questa disposizione degli animi è venuta crescendo. Si temeva che avvenisse qualche cosa, e si aveva una curiosità estrema di assistervi. Mai il teatro non era stato così gremito di spettatori. Voltavano le loro faccie aspettanti verso il palco reale che in mezzo a quella ricurva parete di loggie piene di gente, vuoto ancora, colla tanta luce che mandava, pareva appunto il campo in cui avesse da venirsi a scrivere la parola del destino.

Lungo tutta la giornata avevano occupati i viali della città e le più basse osterie dei sobborghi le turbe degli operai di quasi tutte le fabbriche, i quali con una meravigliosa intesa avevano intimato ai padroni la guerra dello sciopero. Nel pomeriggio, alcuni gruppi di plebei, mezzo avvinazzati, con faccie truci e minacciose, s'erano avventurati nelle strade perfino della città, tenendosi a braccia, urtando nel passaggio con villana provocazione i tranquilli cittadini, sbraitando a squarciagola sciagurate canzonaccie; una frotta di cenciosi era entrata in uno degli eleganti caffè, s'era fatta servire di quanto vi aveva di meglio, poi per paga avevano rotto chicchere e bicchieri, minacciato i garzoni, ed eran fuggiti solamente innanzi alla guardia che era accorsa. Una nuvola di arcieri, di veterani del Comando militare, di carabinieri e di guardie municipali aveva dato la caccia a queste squadre di tumultuanti penetrate in città e le avevano facilmente fatte ritrarsi; ma colà sui viali pareva che temessero ad andarli perseguitare e disperdere. I buoni borghesi se ne stupivano. Bene susurravasi che le due brigate di guarnigione avevano tutti i loro uomini consegnati alle caserme per essere pronti ad ogni evento, e diffatti non un soldato vedevasi per le vie; ben sapevasi che le guardie al Palazzo Reale, al Palazzo Madama ed alle quattro porte erano state rinforzate, ma pure la paura del tranquillo proprietario e del poco eroico bottegaio si domandava il perchè della tolleranza della Polizia verso quelle sembianze di riottosi. Erano i primi sintomi d'un'agitazione rivoluzionaria qualunque che si mostrassero all'aperto in quella monotonia di sistema repressivo: il Re, dicevasi, n'era sdegnatissimo; chi poteva recarsi a teatro era ansioso di accorrervi quella sera per leggere sulla faccia pallida e misteriosa di Carlo Alberto il riflesso, il ripercotersi, l'effetto di quegli eventi.

Nella folla che si serrava fra le pareti del teatro, c'erano eziandio molti dei giovani liberali che avevano ordita la trama di quella temeraria congiura politica per la libertà della patria. Avevano rinunziato, per le ragioni che sappiamo, al matto loro proposito; ma pur tuttavia erano accorsi colà dove la scena principale dell'immaginato dramma politico avrebbe dovuto avvenire, ed essi avervi sì gran parte. Pensando all'audacissima opera che s'erano assunta, il cuore palpitava ancora nel loro petto, e forse, nell'intimo, quasi tutti si rallegravano che la Provvidenza li avesse sciolti, senza lor fallire, dal terribile impegno. Più che agli altri batteva agitato il cuore a Mario Tiburzio. Quanto a lui, probabilmente, più tranquillo e' sarebbe stato, se l'arditissimo disegno avesse avuto da compiersi. La sua fede nel patriottismo del monarca era troppo ancora recente, e con troppo lieve forza radicata, perchè il suo animo vi si potesse acquetare.

— Noi abbiamo rinunziato ad una realtà forse, per un'ombra: dicevasi.

Gli tornavano alla mente le parole di Quercia e si domandava se non aveva questi ragione, se in lui, Mario, non era ufficio, quasi dovere di patriota, far violenza al destino. Coll'aiuto delle turbe suscitate da Gian-Luigi, la rivoluzione in Torino avrebbe vinto; le altre città sarebbero state trascinate dall'esempio; era questa una prospettiva possibile, più reale e più prossima che non la problematica promessa di un re, legata a circostanze che forse non si verificherebbero mai. Ora egli sta [181] per comparire là in faccia a questo re, segretamente impegnato colla rivoluzione, in apparenza fiero sostegno d'ogni più stretta forma del passato, consacratosi, nell'ombra, campione dell'indipendenza della patria, alla luce della vita pubblica e del mondo diplomatico, devoto amico allo straniero oppressore. Da quelle tavole del palco scenico egli doveva gridare a quel discendente di principi la parola del popolo, a quell'erede di tante generazioni nella storia, il motto della generazione novella in un nuovo ciclo storico che doveva aprirsi; ora invece gli verrà innanzi a mandargli le note di un canto d'opera.

E pensava a Quercia, al principio ch'esso rappresentava, di cui fin allora egli non aveva tenuto calcolo a dovere, al suo persistere nella risoluzione della lotta, malgrado il ritrarsi di lui, Mario, e dei suoi. Aveva cercato più volte di Luigi affine di tentare ancora dissuaderlo, e non aveva potuto trovarlo mai; gli aveva scritto e non ricevutane risposta nessuna. Ora sentiva incomber su di sè una tremenda responsabilità di quanto fosse per avvenire. Non avrebb'egli dovuto, poichè da mutuo, solenne impegno eran legati, continuare a correre colla plebe la sorte medesima? Ma poichè, a suo senno, la riuscita impossibile e i danni crudelmente inutili, non era obbligo suo l'aver impedito in ogni modo che la fatal lotta succedesse? Gli elementi del suo giudizio morale si confondevano così stranamente e penosamente in lui, ch'e' non ci vedeva più lume. Si diceva che avrebbe dovuto morire coi rivoltosi che morrebbero; si diceva che avrebbe dovuto rendere impossibile lo scoppio, anche denunziandone il disegno: egli invece non aveva saputo che farsi, era stato inoperoso in una indecisione che era forse la peggiore delle colpe.

Mentre Mario Tiburzio stava tormentandosi di questa guisa nel camerino dove si vestiva, il teatro empitosi per l'affatto era tutto un brulichio. Fra gli habitués notavasi chi c'era e chi non c'era. Mancava la famiglia di Baldissero che aveva dato ad altri il suo palchetto, ma sapevasi che il figliuolo primogenito del marchese, in seguito al suo duello, era stato, d'ordine espresso del Re, condotto agli arresti nella Cittadella, e si capiva quella mancanza dai più, quantunque alcuni zelanti la giudicassero pur tuttavia quasi una colpa verso il Re, da parte del vecchio ministro di Stato: c'era invece la contessa Langosco di Staffarda, alla quale tutti s'accordavano nel trovare un'aria sempre più originale in quella evidente preoccupazione onde appariva posseduta.

Luigi Quercia, abbandonatamente seduto nella sua poltrona d'orchestra, guardava di qua e di là col suo cannocchiale, e scambiava parole allegre e vivaci coi suoi vicini dintorno, fra cui poco discosto il conte San Luca. Fuori di quel caldo e splendido ambiente, nella fredda oscurità di quella notte nebbiosa, stava per giuocarsi una tremenda partita, da cui dipendeva il suo destino: ed egli era là, sorridente di naturale e tranquilla gaiezza, con animo così leggiero e mente così libera, come se di nulla si trattasse. Fino al momento appunto di venire in teatro, egli ai capi della rivolta raccolti in Cafarnao aveva dato le ultime istruzioni, ed accomiatandoli aveva detto loro: — «Nel migliore della danza mi vedrete poi comparire e mettermi a vostro capo.» Li aveva guardati ad uscire con una strana espressione che pareva di sollievo, e gli era venuto in mente l'Ave Caesar, morituri te salutant dei gladiatori, i quali non dovevano uscir più dall'arena che morti. Aveva fatto dietro di essi un feroce sorriso; e levandosi i guanti che avevano toccato quelle mani, li aveva gettati per calzarne un altro paio di nuovi.

Mentre egli discorreva il più lietamente del mondo, di piacevolezze, di avventure galanti, di arte, di aneddoti più o meno maligni, andava pure seco stesso pensando: «Or ora incomincia l'azione: farsa o tragedia? Quei grulli birboni non sanno che in questo momento traggono il dado per sapere s'e' saranno predoni impiccati, od eroi celebrati nella storia.... Forse a questo momento la è già incominciata. Ne udremo ben tosto ripercotersi qui dentro il rumore.»

E con questi pensieri il suo cuore non aveva pur tuttavia un solo palpito più affrettato, il suo volto non un lineamento scosso dalla menoma emozione. Ah! egli era fatto veramente per dominare il pericolo e comandare anco al destino.

Di tratto in tratto egli volgeva il suo cannocchiale verso la contessa Candida e le faceva un cenno leggerissimo, un fugace ammicco che conteneva un'assicuranza, una risposta affermativa ad un'ansiosa interrogazione che gli occhi della contessa con febbrile ardore, come spinti da una forza oltre la volontà di lei, continuavano a rivolgergli. Era la continuazione, o meglio la ripetizione d'un dialogo che quel dì medesimo aveva avuto luogo tra di loro per lettere.

Essa gli aveva scritto, secondo il solito, in francese:

«Non dimenticate, per amor di Dio, l'affare dei diamanti. Io sono in un'ansietà inesprimibile. Domani mattina, per tempo, fate che io li riabbia, ve ne prego.

«T'amo sempre alla follia, e più ancora.»

Luigi aveva risposto sulla medesima cartolina profumata, e rimandatogli per lo stesso messaggiere fedele e sicuro, queste parole pure in francese:

«Li avrete domani al vostro svegliarvi.

«T'amo del pari.»

Verso le otto e un quarto una nuova agitazione commosse la fitta siepe di teste che si stipavano in platea; un'onda dalla porta si spinse e rifluì verso il centro: «È qui il Re» corse di bocca in bocca; tutte le faccie si volsero in su, verso la loggia reale; [182] i suonatori nell'orchestra, incravattati di bianco e vestiti di nero, intuonarono la marcia d'ordinanza; nella gran loggia, al centro del teatro, entrò il Re e presso di lui la Regina, e dietro loro tutta la Corte che s'allargò in cerchio per la loggia fiammante di luce, come un fiotto di ori e di gemme, colle sue monture ricamate, collo sbarbaglio delle sue decorazioni, coi gioielli delle sue dame.

Carlo Alberto si avanzò fino al parapetto, da cui pendeva il tappeto, largo quanto l'apertura della loggia, di velluto cremisi con suvvi ricamato in oro lo stemma reale, ed intorno un'alta e grossa frangia d'oro. Tutte le signore nei palchetti s'erano levate in piedi e fecero la riverenza: tutti gli uomini in platea, ne' banchi ordinari e ne' seggioloni d'orchestra, s'erano drizzati del paro e voltati verso la loggia reale; alcuni applausi, ma freddi, cerimoniosi, senza spontaneità, suonarono dalle mani inguantate dei nobili e degli ufficiali dell'esercito, che smaltavano di loro spalline d'argento e dorate la massa compatta degli abiti neri.

Il Re s'inchinò leggermente, salutando a destra e sinistra con un cortese cenno del capo; questo saluto fece eziandio la Regina che gli veniva accosto, mezzo passo più indietro; poi sedettero, il Re in metà, la sua consorte a destra, e i Principi del sangue a loro lato dall'una e dall'altra parte; formavano così una linea smagliante in cui ripercotevano a gara i raggi della luce e i bottoni lucenti delle monture e le decorazioni che coprivano il petto degli uomini, e i diamanti che sfavillavano intorno al capo ed al collo della Regina e della moglie del Principe ereditario. Dietro questa linea, le dame sedettero in semicerchio presso le pareti della loggia; in piedi, secondo il rango assegnato dalle leggi supreme della gerarchia e dalla autorità irrefragabile dell'etichetta, stettero i dignitari dello Stato, i funzionari di Corte, i brillanti parassiti di vario genere che debbono dar lustro alla monarchia e vivere dello splendore di essa. Notavansi in quel gruppo numeroso di divise, di abiti ricamati, di gran cordoni e di crachats, tutti i ministri, S. E. il Governatore di Torino, il Generale comandante dei Carabinieri, conte Barranchi, l'Intendente Generale, tutte le Eccellenze possibili ed immaginabili; dietro la seggiola del Re, a pochi passi di distanza, da poter tosto esser pronto al menomo cenno sovrano, si teneva rigido, impettito, coll'aria d'importanza d'un uomo che fa da Atlante ad un mondo, il gran Cerimoniere di Corte. Egli diffatti regolava tutto quel mondo speciale — che a lui pareva più rilevante e maggiore dell'intiero universo — col codice dell'etichetta; per suo cenno passavano e sfilavano i varii fortunati personaggi a cui la carica o la volontà sovrana dava il privilegio di poter accostarsi colla persona incurvata alla spalliera della seggiola reale, udire qualche parola dell'augusto labbro, risponderne alcuna anche loro nello sprofondarsi in riverenze, e tornare a perdersi nel serbatoio comune de' cortigiani.

Gli spettatori si erano seduti di nuovo ancor essi e tosto dopo il telone si era levato per dar principio al secondo atto dell'opera. Mario Tiburzio era, come si suol dire, di prima scena, e si avanzò verso la ribalta, precisamente in faccia del Re. Fissò egli lo sguardo in quella pallida figura che aveva un vago sorriso sulle labbra, una nube di mestizia sulla fronte e il riflesso d'un segreto ardore negli occhi.

— Eccomi in faccia ancor io all'enimma coronato: pensò l'emigrato romano. La parola ch'esso disse di sè a Massimo d'Azeglio è la vera?

Pochi degli spettatori e nessuno dei nobili occupanti il palco reale, facevano attenzione allo spettacolo: e quindi non fu menomamente notata l'audacia di quella fissità di sguardo dell'umile artista di teatro verso l'augusta persona di chi sta sopra a tutti e a tutto nello Stato; ma ben la vide il Re. Svanì dalle sue labbra il sorriso; si accrebbe la nuvola sulla fronte, si smorzò come dietro un velo la ardenza degli occhi. Il Re si volse al Cerimoniere di Corte e fece un legger cenno di richiamo; l'importante personaggio accorse sollecito, il corpo ripiegato in due.

— Sa Ella dirmi il nome di quel cantante?

Il cortigiano guardò stupito la faccia del Re, da cui non si sarebbe mai più aspettato una simile domanda, essendo conosciuta da tutti la profonda di lui indifferenza per le cose dell'arte teatrale, e poi fissò, aggrottando le sopracciglia, quel miserabile di un artista che aveva l'onore di destare la curiosità sovrana.

— Non lo so davvero. Maestà, rispose: non è del resto che una seconda parte...

— Voglio sapere come si chiama: disse il Re.

— C'è qui il Presidente della R. Direzione dei Regi teatri; e certo egli potrà soddisfare al desiderio di V. M.

— Lo faccia venire.

Il Gran Cerimoniere indietrò di alcuni passi, la faccia sempre volta alla spalliera della seggiola del Re, la schiena orizzontale; poscia si drizzò, e visto nel mazzo dei ricamati e decorati il nominato Presidente, gli fe' segno di accostarsi.

— S. M. desidera parlarle: gli disse.

Il personaggio così chiamato s'avvicinò a sua volta nella medesima guisa al Re, il quale gli fece la domanda rivolta poc'anzi al signor Cerimoniere.

— Si chiama Medoro Bigonci, rispose il Presidente: è secondo baritono, e fa eziandio da supplimento al primo. Ha dei mezzi naturali, buona voce, manca di studio, fa inappuntabilmente il suo dovere.

Carlo Alberto avevasi recato agli occhi il cannocchiale ed onorava d'un particolare esame il giovane artista.

— Ha un aspetto ardito molto: diss'egli. È romano, non è vero?

[183] — Sì, Maestà.

— Fu arrestato pochi giorni sono...

— Sì, Maestà, per un equivoco, ma il conte San Luca, e S. A. R. il Principe di Lucca chiarirono la sua innocenza, e fu tosto rilasciato.

Carlo Alberto fece il suo strano e misterioso sorriso; ad un tratto, come se per l'associazione di idee gli fosse venuto un nuovo e diverso pensiero, abbassò il cannocchiale e disse al cortigiano:

— Preghi il conte Barranchi di venirmi a parlare.

Diede con un lieve cenno di capo il congedo al Presidente della nobile Direzione teatrale; e questi rinculò, come aveva fatto il Cerimoniere, per allontanarsi. Fece l'imbasciata al generale Barranchi che recò sollecito i cordoni argentati del suo uniforme, lo sbarbaglio delle decorazioni che gli occupavano tutto il petto, ad inchinarsi alle spalle del Re.

— Conte, gli disse questi; sa Ella darmi notizie dell'avvocato Benda?

La domanda riuscì così strana ed inaspettata al signor generale che non ebbe di subito parole fatte per la risposta; il Re lo guardò stupito della tardanza di questa, e lo sguardo reale gli diede subito ispirazione e voce.

— Sì, Maestà, s'affrettò a dire. Sta meglio, sta molto meglio: è in fin dei conti cosa di poco momento.

— Mi fu detto invece, disse lentamente il Re, che la fosse una ferita gravissima.

— Pareva da principio, ma poi...

— Godo assai che sia com'Ella dice; e se il signor Benda guarisce presto e agevolmente, ciò vorrà di tanto migliorare la condizione del marchese di Baldissero innanzi a' suoi giudici.

Barranchi mostrò tanto stupore nella sua faccia da tracotante atteggiata ora all'umiltà ossequente di cortigiano, che il Re si compiacque di dare più ampia spiegazione del suo pensiero.

— Com'Ella sa, conte, io ho pubblicato un Codice Penale, in cui il duello è punito quale reato.

— Ma il figliuolo del marchese?..... susurrò Barranchi.

— Il figliuolo del marchese è un suddito come un altro, che non è per nissun modo al di sopra delle leggi.

Il generale ebbe tuttavia l'ardire di soggiungere:

— Credevo che gli arresti...

E Carlo Alberto, interrompendolo con una certa vivacità:

— Gli arresti glie li abbiam fatti intimare come nostro gentiluomo di Corte, e quindi soggetto ad una disciplina di obbedienza al nostro volere (cui noi gli avevamo fatto specialmente conoscere) e ch'egli ha audacemente infranto. Ciò però non lo assolve di dover rispondere all'Autorità competente della sua violazione della legge. Desidero anzi che sia dato un esempio, perchè si conosca che chi nella gerarchia sociale è più vicino al Trono, deve mostrarsi ed essere di tanto più zelante nell'ossequio alla legge.

Fece il piccol cenno di capo che equivaleva al congedo, e il conte, camminando a ritroso, andò a nascondere il suo stupore, per quelle parole del Re, fra la giubba ricamata d'un ciambellano e l'uniforme d'un aiutante di campo.

— Questa sera il Re è di cattivo umore, mormorò egli all'orecchio del ciambellano.

L'atto dell'opera era finito e passava l'intermezzo fra questo e l'azione coreografica, quando ad un tratto un certo movimento si manifestò nella massa dei corifei e delle comparse di Corte che riempiva la loggia reale, e questo movimento rapido si propagò nel resto del teatro, crescendo di vivezza e d'intensità, d'uno in altro ordine di palchi e fino nel mare onduloso di teste della platea. Che cosa era avvenuto?

Qualcheduno degli staffieri s'era presentato alla soglia della loggia reale ed aveva detto poche parole a quello de' suoi compagni che stava là impalato, a due passi dalle Guardie del Corpo in sentinella. Questi s'era inoltrato ed aveva parlato a sua volta piano ad uno scudiere, che era andato dal Ministro degl'interni a trasmettergli, come un'ambasciata, le parole che aveva udite, le quali erano le seguenti:

— C'è costì nella galleria un messo che dice avere gravi ed urgenti cose a comunicare a S. E. il Ministro degl'interni intorno a tumulti che hanno luogo in un punto della città.

La novella parve abbastanza interessante a S. E. perchè s'affrettasse ad uscire della loggia ed a recarsi colà dove il messo aspettava. Era un agente particolare addetto al servizio segreto del Ministro; e il suo aspetto scalmanato, il respiro affannoso e la faccia turbata dicevano abbastanza fin dalla prima il peso delle novelle che arrecava.

Non erano due minuti che il Ministro aveva lasciato la loggia reale, quando da parte di lui venivano sollecitamente pregati a venire nella galleria, dov'egli li attendeva il Governatore di Torino e il Generale dei Carabinieri.

— Che cos'è? Che cos'è? si domandarono dall'uno all'altro i cortigiani e le dame, vedendo uscire a quel modo con una certa premura gl'indicati personaggi.

Lo scudiere che aveva trasmessa al Ministro l'imbasciata parlò di novelle gravi di tumulti che stavano avvenendo nella città, e siccome nessuno ne sapeva dare i particolari, la cosa, secondo quel che sempre suole, prese tosto nell'immaginazione di chi diceva ed ascoltava, le maggiori proporzioni. La grandissima curiosità suscitatasi faceva friggere i nobili nervi dei cortigiani e delle dame, e sarebbero di sicuro corsi tutti quanti dietro le LL. EE. a cercare di apprendere tutta la verità, se non fossero state [184] a tenerli colà le catene — d'oro, se volete, ma sempre salde — dell'etichetta e del cerimoniale di Corte.

Qualche uffizialetto sgattaiolò fuori della loggia reale e corse, per avere il merito d'esser il primo, a recare l'importante novella nel palchetto di alcuna nobile signora alla moda, assiepata da visitatori. Ciò bastò perchè in un attimo la notizia circolasse in tutto il second'ordine dei palchi, si trasmettesse al primo ed al terzo, salisse fino alle alte regioni del quarto e del quinto.

Ed anco in platea non tardava a penetrare e spargersi il tristo annunzio. Qualcheduno era pur sopraggiunto dal di fuori che aveva recato, una turba immensa, migliaia e migliaia di rivoltosi avere assalito, saccheggiato, incendiato, tre, quattro, tutte le fabbriche che si contavano nei sobborghi e nelle vicinanze di Torino, ed ora quelli indemoniati, avanzarsi, vincitori, trionfanti, ebbri di liquori, di ferocia e di bottino, verso l'interno della città.

Se nel cortèo reale, fra i titolati e decorati mannechini di Corte, l'emozione era frenata e doma dalla legge infrangibile dell'etichetta, questa ragione non esistendo più per la folla degli spettatori stipati ne' palchetti e nella platea, l'agitazione dei discorsi, degli atti, di tutte quelle teste fu somma allo scorrere sopra di loro di sì nuova e tremenda novella; ed un susurrio, un bisbiglio, un fremito di voci si elevò a dispetto del silenzio che doveva imporre l'ossequio per la presenza dell'Augusta famiglia regnante.

Carlo Alberto non tardò a notare questa novità: fece il solito cenno al signor Cerimoniere, e questi s'affrettò a venire curvo come un tenero alberello piegato dal vento, all'arrivo della voce sommessa di S. M.

— Che cos'è stato a produrre questo commovimento che vedo in tutto il teatro?

— Non saprei bene, Maestà: rispose il Cerimoniere, il quale in fatti non sapeva in che modo rispondere per non dispiacere a nessuno e non compromettersi per nulla.

— Non ha Ella udito dir niente?

Il valente uomo non avrebbe mancato del coraggio di dire anche una bugia per trarsi d'impaccio: ma la menzogna gli parve tornasse troppo improbabile.

— Pare che si dica che vi possa essere qualche cosa di nuovo per Torino... Sembrerebbe che alcuni mascalzoni avrebbero cominciato a far chiasso.

Tutti questi dubitativi e questi condizionali impazientarono il Re.

— S'informi di tutto esattamente, disse con una certa vivezza: voglio conoscere, e tosto, intiera la verità.

Il Cerimoniere stava per allontanarsi, quando il Re, come ravvisato, domandò:

— Il Ministro degli interni?

— Si è allontanato adess'adesso per un istante, chiamato appunto, se pure non erro, da questo incidente.

Carlo Alberto volse alquanto il capo e fece scorrere il suo occhio velato sopra la cerchia dei cortigiani.

— E il Governatore?

— Andato ancor egli col Ministro.

— Ed è con loro eziandio il conte Barranchi?

— Sì, Maestà.

— Faccia il piacere, mandi subito per essi, affinchè vengano tutti e tre a parlarmi senza ritardo.

Il gran Cerimoniere s'affrettò a trasmettere l'ordine sovrano; e tosto dopo i tre personaggi designati rientravano nella loggia. S'inoltrarono presso al seggio reale fino alla distanza cui soleva tenersi il Cerimoniere, e s'inchinarono. Il Re fece segno al Ministro degl'interni che venisse a parlargli il primo. Il Ministro mosse due passi innanzi e si curvò verso il capo canuto del Re: gli altri due stettero dritti impalati, in riga col Cerimoniere di Corte.

— Che cos'è che succede? interrogò Cario Alberto. Dica tutto. Ella sa ch'io non voglio che mi si nasconda il vero.

— Ho avuto l'onore, rispose il Ministro, di prevenire V. M. che si tentava di far sorgere de' guai fra la sua buona popolazione di Torino.

— Ed io le aveva detto, si prendessero tutte le più efficaci misure perchè questi guai non avvenissero.

— Non si è mancato al dover nostro, Maestà. Mi sono messo in relazione coll'autorità militare per mezzo del signor Governatore e del Generale Comandante la divisione, e colla Polizia per mezzo del Generale dei Carabinieri, affine di stabilire un accordo comune in un'azione di concerto.

— E non ostante questo accordo e questo concerto, disse il Re con una certa ironia, ma velatissima, i guai non si sono evitati.

— È cosa di poco momento, Maestà. Non tarderà ogni tumulto ad essere represso, e la compiuta tranquillità ristabilita; anzi.... gli ordini sono già trasmessi... a quest'ora scommetterei che tutto è finito.

— Ma, in fine, quali sono i particolari del fatto?

— Una mano di sciagurati, la feccia proprio della plebe, fra cui alcuni operai, o tristi o traviati, tentarono penetrare in alcune fabbriche; ma noi che avevamo avuto sentore della cosa, abbiamo guernite le principali e le più minacciate, d'un certo presidio di guardie di polizia e di carabinieri; inoltre, siccome le truppe erano consegnate nelle caserme fin da questa mattina e l'ordine opportuno era dato, alla prima chiamata degli agenti di polizia, accorsero sopra luogo dei forti picchetti di fanteria. I tumultuanti, che al trovare l'inaspettata resistenza ed al vedere le divise dei carabinieri nelle [185] fabbriche cui movevano per assalire, già nicchiavano, al sopraggiungere dei soldati, se la diedero a gambe; e così avvenne presso quasi tutti i minacciati opifizi.

Il Re, a prima giunta, non badò a quel quasi.

— E tutto è dunque finito così?

Il Ministro esitò.

— Mi dica ogni cosa: soggiunse vivamente Carlo Alberto.

— Disgraziatamente, riprese il Ministro, una di codeste fabbriche, la quale non si credeva minacciata, non fu custodita come le altre.

Il Re sollevò vivamente gli occhi in volto al Ministro.

— Ebbene?

— I riottosi, scacciati da tutti gli altri luoghi, si raccozzarono e si gettarono tutti quanti contro di quella; riuscirono facilmente a penetrarvi, e pare che abbiano incominciato a saccheggiarla.

Carlo Alberto aggrottò le sopracciglia ed espresse nella faccia un vivo dispiacere.

— Ah codesto mi duole, diss'egli, mi duole assai; e non avrei voluto che una simil cosa succedesse sotto il mio regno..... Le sarei stato molto obbligato, conte, s'Ella avesse saputo fare in modo che Lei ministro, questo dispiacere mi fosse risparmiato.

Il Ministro arrossì a quel rimprovero.

— Creda, Maestà, che per parte mia.....

Il Re l'interruppe.

— Ed ora si è provvisto a che sì disgraziata vicenda abbia fine?

— Sì, Maestà. Il Governatore e il Generale dei Carabinieri hanno mandato i loro ordini; uno squadrone di questi ed una compagnia di Bersaglieri furono spediti a passo di corsa; e benchè quella fabbrica sia un po' lontana, ritengo che a quest'ora saranno già arrivati o saranno presso ad arrivare sul luogo.

Carlo Alberto che non aveva ancora dimandato quale si fosse questa fabbrica, ebbe curiosità di saperlo.

— Ella non mi ha ancora detto di chi sia quello sventurato opifizio.

— È l'officina di ferro del Benda.

S. M. fece un lieve moto della persona.

— Me ne dispiace, disse con tono di vero rincrescimento; oh mi dispiace tanto di più... Dica al Governatore che mi si accosti.

Il Ministro si ritrasse, e il Governatore prese sollecitamente il suo posto.

Carlo Alberto parlò molto severamente.

— Come non prese Ella tutte le disposizioni necessarie perchè gli sciagurati fatti che ho inteso dal Ministro non avvenissero?

Il vecchio militare rispose con rispettosa fermezza:

— Io ho fatto tutto quello che mi spettava nelle mie attribuzioni. Appena ricevuta in proposito la comunicazione del Ministero, io provvidi perchè ci fosse pronta ad ogni qualunque momento una forza bastevole a reprimere la sommossa, tutta la forza disponibile che abbiamo a Torino; ma l'impiego poi di questa forza non si apparteneva a me il determinarlo, nè pel luogo nè per l'ora, sibbene alla Polizia a cui disposizione l'avevo messa.

Il Re guardò il Governatore con un'aria che voleva dire: «Avete ragione:» ma non lo espresse a parole.

— Ed ora, soggiuns'egli poi, un nerbo di truppe sufficiente è stato spedito?

— Sì, Maestà.

— Va bene... Mi faccia venire il Generale dei Carabinieri.

Fu la volta del conte Barranchi di tornare presso Sua Maestà.

— Perchè, gli domandò il Re più severo ancora di quel che avesse parlato al Governatore, non ha Ella premunito, come le altre, la fabbrica del sig. Benda dagli assalti di quella canaglia?

— Non si sospettava, non si credeva.... disse il comandante della Polizia.

— Invece era da sospettarsi e da credersi più di questa che delle altre, poichè ier l'altro già avevano avuto luogo in essa dei guai.

Barranchi rimase alquanto sconcertato, e maledisse in cuor suo che il Re fosse così ben informato.

— Maestà, diss'egli dopo un minuto secondo di meditazione: tutto il male non viene per nuocere. Quella famiglia è un nido di rivoluzionarii.

Ma il Re lo guardò di tal guisa che le parole gli si arrestarono sulla bocca rimasta aperta.

— Non sa Ella, che dobbiamo la nostra protezione a tutti quanti i nostri sudditi? Signor conte, desidero che in codesto Ella non abbia neppure colpa di negligenza, ma non le posso dissimulare che tutto ciò mi è assai spiacevole.

Al rimprovero del Re il Ministro degl'interni era diventato rosso: a quello che ora toccava a lui, il conte Barranchi si fece addirittura scarlatto.

— Desidero, continuò Carlo Alberto, di essere informato sollecitamente e man mano di tutto quello che accade.... Dia gli ordini opportuni.

Barranchi si sprofondò in un inchino che non finiva più; e come il Re aveva fatto col capo il cenno di congedo, egli si ritrasse col volto del colore di matton cotto, e coi lineamenti sconvolti, come di chi è minacciato da un colpo apopletico.

La notizia che il Generale dei Carabinieri era caduto in disgrazia del Re circolò subito nella folla dei cortigiani, e parecchi che l'avevano amara con lui, ma che pure fino allora gli avevano sempre fatto bocchin da ridere, ebbero l'ardimento di voltargli le spalle mentr'egli passava loro dappresso.

Ma tutto questo andirivieni nella loggia reale, e [186] questo confabulare col Re di personaggi importanti erano stati osservati dal pubblico ed avevano conferito a dare maggiore vivacità e forza alle supposizioni, alle voci allarmami, alle gravi novelle che correvano pel teatro.

Come vi potete pensare, erano esse arrivate eziandio fino al sedicente dottor Quercia, che le accoglieva con una finta sbadataggine e con una specie d'incredula indifferenza, ma che in cuore s'allegrava, augurandosi che reale fosse la gravità delle novelle comunicategli.

Voglioso d'accertarsene, egli s'era rivolto al conte di San Luca, che ho detto sedere in una poltrona d'orchestra non molto lontana da quella di Quercia.

— Ella, signor conte, per mezzo di suo zio il Generale, potrebbe saper tosto ed esatta la verità.

— È giusto: esclamò San Luca, il quale s'affrettò ad abbandonare il suo posto per correre in cerca di informazioni.

Dieci minuti dopo egli ritornava: non aveva potuto arrivare sino allo zio, ma aveva parlato all'uffiziale medesimo per mezzo di cui il conte Barranchi aveva trasmesso i suoi ordini.

— Ebbene? Ebbene? gli domandarono ansiosamente tutti i vicini, fra cui Quercia, aggruppandosi intorno a lui.

— Non è vero, rispose San Luca, che sieno molte le fabbriche saccheggiate; non è che una sola fuori di città.

— Quale? domandò Luigi che ebbe di subito come un indovinamento del vero.

— Quella Benda.

Quercia si morse le labbra per non lasciarne prorompere una bestemmia: e senza por tempo in mezzo si tolse di là frettoloso.

— Dove andate? domandarono alcuni.

— Cospetto! Alla fabbrica Benda. Quella famiglia è de' miei amici, e corro a vedere se posso essere loro capace di qualche soccorso.

Questo generoso impulso del giovane fu molto ammirato. Gian-Luigi si precipitò fuori di teatro, corse nella piazza ad una carrozza da nolo, ed aprendone lo sportello disse vivamente al cocchiere:

— Sul viale ***; ti dirò io quando avrai da fermare. Ti do uno scudo se ci arrivi in dieci minuti.

Si slanciò nell'interno della carrozza; il cocchiere levò con una mano la coperta che stava sul dorso del cavallo, coll'altra diede alla povera bestia quattro buone frustate; e la carrozza partì di galoppo.

CAPITOLO XXVIII.

Le bande degl'insorti in numero di quattro, ordinate come il medichino aveva stabilito ed insegnato, raccozzatesi in punti diversi e con buona ragione trascelti, verso le sette, già essendo piena in quella stagione la notte, s'erano avviate, ciascuna verso quella meta che le era stata particolarmente assegnata; ma tre di esse non avevano tardato a trovare innanzi a sè l'ostacolo della truppa in tanta forza che una follia soltanto sarebbe stato un tentativo di resistenza. I riottosi avevano dato indietro, e come se i soldati non avessero comando che di impedirli dai luoghi custoditi, li avevano lasciati allontanare tranquillamente senza cercare di sbaragliarli e disperderli; ed allora per queste frotte ributtate, come se alcuno fosse colà appostato per dare a tempo opportuno il motto d'ordine, era corso il grido: «alla fabbrica Benda;» e tutta quella massa d'uomini eccitati dai fumi del vino s'era diretta all'officina di sor Giacomo.

Quella fra le bande che già fin dalla prima distribuzione delle parti doveva rivolgersi verso la casa e gli opifizi dei nostri amici ed assalirli, non ostante che Gian-Luigi avesse tentato poi, per mezzo di Graffigna, ottenere che verso quel luogo non si dirigesse, mercè la malizia di Graffigna medesimo che la guidava, era stata una delle più sollecite a recarsi al suo destino, e non aveva trovato sui suoi passi ombra d'ostacolo. Bastiano, che aveva ancora la testa fasciata, udito il rumore della folla avvicinantesi, il quale pareva quello dell'onda rumorosa d'un torrente straripato, aveva appena avuto tempo di chiudere ed abbarrare il portone da basso, che la turba veniva proprio come un fiotto a battere contro le pareti della casa, vociando, urlando, strepitando in mille guise.

La famigliuola stava riunita nella stanza di Francesco, che, alquanto migliorato, sonnecchiava per la prima volta tranquillamente senza febbre. La madre lo guardava intenerita, e sentiva ancor essa per la prima volta scemare alquanto, rammollirsi per così dire, la tensione dello spasimo e dell'affanno che le avevano torturata l'anima dal primo istante in cui aveva veduto comparirle innanzi il figliuolo ferito. Ad un punto, essa prima di tutti, per quell'acuità di sensi che dà in tali circostanze la sollecitudine del profondo, vivissimo affetto, udì lontano il fragore delle grida e dei passi della frotta minacciosa, come il rombo d'un temporale che sorge all'orizzonte. Senza che la povera madre si rendesse pure il menomo conto di ciò che potesse essere, una indefinita paura la riscosse nell'intimo: guardò Francesco che continuava tuttavia nel suo placido riposo; credette non foss'altro che una frotta di ubbriachi in quella sera dell'ultima domenica carnevalesca, si dolse che avessero proprio da passar colà, in quel viale deserto dov'essi dimoravano, per turbare il sonno del ferito, e pregò mentalmente dalla Santa Vergine che li tenesse lontani e non lasciasse che troncassero quel riposo riparatore del giacente; ma ad ogni minuto secondo il rumore cresceva, ed oramai appariva troppo maggiore e troppo diverso da quello che faccia una mano di [187] ubbriachi. Anche Giacomo, anche Maria levarono il capo attoniti, turbati, quasi atterriti; udirono lo sportello nell'imposta del portone da basso chiudersi con violenza, e tosto dopo lo scoppio delle grida di morte sotto la finestra e una salve di colpi violenti contro la porta.

— Che cos'è? domandò Francesco svegliandosi in sussulto e guardando con occhio largo i volti impalliditi de' suoi. È un nuovo guaio nella fabbrica? A quest'ora?

— Sta tranquillo: gli rispose il padre. Non so che cosa sia, ma vado a vedere...

Una più violenta esplosione di grida lo interruppe: in mezzo a quelle varie voci che urlavano parole diverse, parecchie delle più forti si unirono in un grido solo che giunse distinto alle orecchie dell'assalita famiglia.

— Morte a Benda!

Francesco nel suo letto trasalì; il padre si slanciò verso la finestra; ma in quella una grandinata di sassi venne lanciata con impeto contro la casa e precisamente contro la finestra dalla quale traverso i vetri appariva nella notte il fioco raggio della lampada, e due tre pietre rompendo la doppia invetrata penetrarono entro la camera; Giacomo stesso fu colpito abbastanza gravemente nel braccio, uno dei sassi venne rotolando fino ai piedi del letto in cui giaceva il ferito: le due donne non poterono frenare un grido di spavento.

Giacomo lasciò scappare una bestemmia.

— Morte a noi! esclamò Francesco vivamente e dolorosissimamente commosso: e ci si assale in questa guisa?... Oh per Iddio!...

E fece un moto per levarsi sul letto, e gettar i piedi sul pavimento: ma si fu appena sollevato di alquanto che dovette ricadere con tutto il suo peso sui cuscini, fattosi più bianco in volto delle sue lenzuola, presso a svenire; Teresa accorse al capezzale del figlio.

— Francesco! Francesco, per carità! esclamò ella: non muoverti.

Sor Giacomo s'era affrettalo a chiudere le imposte di legno sopra le invetrate rotte da cui penetrava fischiando l'aria gelata di quella notte invernale. Maria spaventata era accorsa presso il fratello ad aiutare la madre nell'opera di soccorrerlo. Al di fuori continuavano le grida e la tempesta dei sassi contro la parete e le finestre della casa di cui si udivano i vetri cadere infranti; le pietre che percuotevano nelle medesime imposte chiuse da Giacomo erano così frequenti che minacciavano romperle; spesseggiavano e più violenti i colpi nel portone che si voleva atterrare.

Il padre di Francesco, risoluto ed impetuoso come egli era, determinò di presente affrontare faccia a faccia quel pericolo, piuttosto di attendere, superate le deboli barriere che gli si potevano opporre, venisse a coglierlo colà nel santuario della sua famiglia. Si slanciò verso l'uscio della stanza; ma la moglie che vide quell'atto, che capì quel disegno, più ratta di lui gli fu innanzi sulla soglia e lo prese alle braccia con forza straordinaria.

— Che vuoi tu fare? gli disse autorevolmente. Esporti al furore di quelle belve eccitate? Ciò potresti se tu fossi solo... mi ci siamo noi...

— E forse questo è il modo migliore di salvarvene: disse Giacomo nella cui testa batteva il sangue tumultuosamente.

— No, disse la donna; e noi non vogliamo di salvamento a simil prezzo... Quegli sconsigliati non si possono più dominare... Non è che un esporti facil preda alla loro ferocia. Non uscire, Giacomo, te ne prego, per amore di Dio, per amore dei nostri figli, in nome di Francesco... Vuoi tu ucciderlo di subito quel poveretto?

Giacomo volse uno sguardo sul volto pallido di suo figlio, il cui capo riposava sul seno di Maria e che non aveva di vivo altro più che gli occhi larghi, irrequieti, ardenti di nuova febbre sopravvenuta, senza parola, senza quasi il respiro, e ristette; si percosse coi pugni chiusi la fronte ed esclamò con ispasimo doloroso, presso che disperato:

— Ma che cosa fare? che cosa fare adunque?

Teresa, la cui anima di madre era pure torturata dal massimo affanno, le cui membra tremavano dal più alto spavento, rispose tuttavia con quella nobile rassegnazione che nella donna è forza e coraggio:

— Rimanere insieme, correre, se non altro, noi tutti la medesima sorte, e pregare la salute da Dio.

Un picchio nell'uscio ed una voce affannosa, ma sommessa, si udirono dalla stanza vicina; la voce era quella del capo-fabbrica, che chiamava il padrone per nome.

Giacomo s'affrettò ad aprire e si vide innanzi insieme con colui che aveva parlato la grossa persona di Bastiano, che rotava degli occhi terribili sotto la fascia ond'era ancora coperta la sua fronte e che stringeva con mano contratta il suo grosso randello.

Abbiamo visto come nella medesima casa in cui egli abitava colla sua famiglia, Giacomo Benda avesse assegnato un quartieretto per alloggio ad alcuni dei capi-officina, e fra questi primo il direttore degli opifizi. Per fortuna al momento in cui la turba dei sollevati era giunta alla fabbrica, tutti costoro erano in casa, e di animo comune, come era naturalissimo, riunitisi, e con essi, ci s'intende, Bastiano, avevano determinato di adoperarsi in ogni loro modo a difesa del principale e della sua famiglia. Avevano tenuto una specie di consiglio di guerra, il quale, stante l'urgenza delle circostanze, era riuscito cortissimo, ed adottato il piano del portiere, che s'era costituito generale in capo di propria [188] autorità, ma cui nessuno aveva pure accennato di voler contestare, venivano a comunicare al principale le loro decisioni ed il loro disegno di difesa.

— Sor Giacomo: disse adunque il capo-fabbrica senza perdersi in preamboli che non erano frutta di stagione: ad assalirci sono delle centinaia; a difendere la casa, non contando lei, non siamo che cinque uomini; impossibile adunque poterli respingere, od impedire soltanto che rompano il portone.

Qui Bastiano interruppe:

— Eh! gli è ben solido e forte quel benedetto portone, e te l'ho assicurato io con certe sbarre, che non sono canapuli, alla croce di Dio! ma quando ci si mettono in tanti a fare una cosa!.... Può resistere mezz'ora, tre quarti d'ora, fors'anco un'ora, ma poi....,

— Bisogna impedire più lungamente possibile che quei forsennati arrivino fin qua: continuava il buon Ambrogio; abbiamo sbarrati ben bene tutti gli usci e la turba ancorchè penetri nella casa avrà da indugiarsi quanto meno ad abbatterli l'un dopo l'altro... Guadagnar tempo è tutto per noi, perchè non è possibile che si lascii compiere una tanta scelleraggine, e i soccorsi della forza pubblica non tarderanno ad arrivarci. — Noi poi, cinque con Bastiano, ci metteremo qui in questa camera che precede quella di sor avvocatino, e gli sciagurati non arriveranno di là che passando sui nostri corpi.

— Giuraddio! gridò Bastiano per appoggiare le parole del suo compagno, brandendo il suo bastone.

Giacomo sentì il ciglio inumidirsi di lagrime; strinse fortemente le mani dei due fedeli, e disse con voce commossa:

— Vi ringrazio, vi ringrazio... ed accetto la vostra eroica proposta... Sarò io qui con voi... E se sopravviveremo, voi sarete per me più che amici, più che fratelli...

— Ah! gli è per la fabbrica che non possiamo far nulla: disse con accento addolorato il direttore dei laboratorii.

— Che importa? disse Giacomo. Pera la fabbrica purchè si salvino i miei.

In quella un barlume di speranza venne a rallegrarli: il rumore al portone cessò di botto e tutta quella turba parve si allontanasse dalla casa. Che essa avesse rinunziato al suo proposito? Che già i soccorsi fossero giunti e la forza avesse scacciato i rivoltosi? Ah! non era nulla di tutto ciò pur troppo, e quel pericolo che pareva allontanarsi facevasi invece più pressante e maggiore che mai.

Graffigna, Marcaccio, Tanasio, Stracciaferro e il traviato Andrea (di cui la risoluzione alla trista opera era stata eccitata e mantenuta coll'aiuto dell'ebbrezza) erano a capo della banda assalitrice.

Il primo dei nominati, il quale capiva quanto fosse conveniente il far presto, s'impazientava assai nel vedere come gli sforzi di tutta quella gente, e perfino la forza erculea di Stracciaferro si spuntassero incontro alla solidità delle imposte di quel maledetto portone; si accostò a Tanasio e gli disse in un'orecchia:

— La fabbrica ha bene qualche uscita dall'altra parte?

— Sì; una porticina.

— È probabile che la sia meno forte di questo maledetto portone?

— Oibò! la è tutta rivestita e sprangata di ferro all'interno.

— E le finestre?

— Ci hanno tutte una famosa inferriata che a romperla o tagliarla ce ne vuole.

— Ecchè? Non ci sarebbe il mezzo d'introdursi per colà, qualcheduno che fosse destro ed ardito?

Tanasio fu sventuratamente illuminato da un'idea.

— Sì che c'è! Il fenile, al di sopra della rimessa, prende aria dalla parte della campagna per due buchi tondi in cui passa comodamente un uomo. Se ci fosse qualcheduno di molto agile....

— Ci sono io, disse modestamente Graffigna.

— Potrebbe, sollevato sulle spalle di alcuno alto e robusto....

— C'è Stracciaferro che è fatto apposta.

— Potrebbe arrampicarsi fin colà e penetrarvi. Dal fenile è un affar da nulla scendere nella corte.

— E per penetrare nella fabbrica?

— Le finestre verso il cortile non hanno inferriata.

— Buono! E là si potrà aprire la porticina.

— Sì, perchè io so dove il capo-fabbrica tiene la chiave nel suo gabinetto.

— Allora converrà che vi ci arrampichiamo tutti due. Siete uomo da ciò voi?

— Sì che lo sono.

— Ebbene, senza perder tempo, marche, andiamoci.

Presero seco Stracciaferro, Marcaccio e pochi altri, e destramente sgusciarono via di mezzo la folla, camminando rasente il muro verso il luogo indicato da Tanasio; in breve giunsero colà; Stracciaferro sollevò Graffigna fra le sue braccia come se fosse un bambino, e tanto lo sporse in su che questi potè arrivare colle dita l'orlo del finestruolo rotondo; coll'agilità d'un animale felino Graffigna vi s'aggrappò ed aiutato dalle mani di Stracciaferro che ne lo spingeva alle piante, strisciando, rampicandosi contro il muro quasi come una lucertola, pervenne ad entrare nel fenile. Allora fu la volta di Tanasio, al quale fu resa più facile la salita dal soccorso che anche Graffigna gli potè prestare traendolo su, prima pel colletto dell'abito, poi per le braccia. Quando i due scellerati furono nel fenile, non perdettero pure un minuto di tempo e scesero senza il menomo ostacolo nella corte, l'attraversarono correndo, e giunsero alle finestre del pian terreno di cui rompendo un vetro aprirono agevolmente quella che era [189] più comoda per introdurvisi, ed arrivarono il loro scopo: quello cioè che cinque minuti dopo la porticina era spalancata all'invasione dei riottosi, cui Marcaccio era andato ad avvertire, e che, abbandonato perciò il portone principale, accorrevano in furia alla piccola porta posteriore.

Da ciò era provenuto che il rumore innanzi alla facciata della casa cessasse subitamente, e il pericolo agli assaliti sembrasse allontanato. Anche nella stanza del ferito s'erano acquetati i cuori palpitanti di Teresa e di Maria; e Giacomo rientrando ad unirsi con loro, le donne gli si gettarono nelle braccia rallegrantisi in quell'amplesso della miracolosamente scampata sventura. Ma non fu lunga l'illusione di quella povera gente. Da un'altra parte, men vicino, ma più cupo e più terribile ancora giunse colà il rumore del tumulto. Il padre di Francesco capì di subito, indovinò che cosa era accaduto.

— La mia fabbrica! esclamò: ah gli iniqui hanno invasa la fabbrica!

Si slanciò di nuovo nella stanza vicina, la cui finestra si apriva nel cortile; un infausto chiarore di luce rossigna lo ferì negli occhi. Vide, traverso le finestre degli opifizi illuminati, correre ed agitarsi innumere forme nere che parevano demoni intenti all'opera della distruzione, e qua e colà di sotto il tetto, lanciarsi in turbini vorticosi verso il cielo il fumo e le fiamme dell'appiccato incendio.

L'infelice sentì infrangersi il cuore.

— Infamia! Infamia! diss'egli, coi denti contratti, serrando i pugni, mentre dagli occhi gli uscivano, più che per dolore, per rabbia, amare stille di pianto. Ah! l'uomo è tristo, l'uomo è feroce, vile e scellerato. Qual padrone fu più generoso e caritatevole verso i suoi operai?... Ecco la ricompensa che quei ribaldi me ne danno... Oh Dio ne li maledica!...

Teresa lo chiamava dalla stanza del figliuolo: quella voce lo ridusse in se stesso, gli fece sentire tutta la necessità di tornarsi in calma, di mantenere inalterata il più possibile tutta la freddezza della sua ragione. Fu capace di tale sforzo sopra sè da rendere tranquilla l'espressione della sua faccia; si premette coi pugni chiusi le occhiaie ad asciugarvi le lagrime, a ricacciare indietro quelle che volessero ancora spuntarvi, e rispose con voce ferma alla moglie:

— Vengo.

S'avviò diffatti con passo calmo e posato; ma davanti a lui vide le faccie pallide e sconvolte dei cinque uomini che gli si erano profferti ed erano accorsi lì a sua difesa. Si fermò a contemplarli un istante in silenzio; sulla sua faccia apparve una espressione di dubbio, di diffidenza, di ostile dispetto.

— Che fate voi qui? domandò egli bruscamente: che volete voi fare? Difendermi: avete detto. Mal consigliati! Perchè arrischierete la vostra vita per me e pei miei?... Siete uomini come gli altri; siete compagni di quella gente là; dunque provvedete un po' meglio a' fatti vostri, e senza esitazione veruna fate francamente quel che l'interesse vi consiglia e ve ne dice in segreto il cuore: abbandonateci, ponetevi in salvo voi, le vostre famiglie e le vostre robe: lo potete ancora; o meglio andate a congiungervi a quella frotta di assassini che distrugge la ricchezza accumulata dal lavoro di anni e di anni d'un onesto padre di famiglia; sarete più sicuri ancora, e ci avrete anzi giovamento... potrete prendere parte anche voi al bottino...

S'arrestò perchè vide sul volto leale di quella brava gente una sì dolorosa sorpresa che, a dispetto della sua stessa commozione, della irritazione della sua rabbiosa passione, pur ne fu tocco; capì che egli faceva loro un gravissimo, immeritato oltraggio. La faccia grossolana, ma buona, di Bastiano, protestava sopratutto contro la crudele accusa.

— Ah no: ripigliò con altro accento il signor Benda, porgendo di nuovo ai suoi subordinati le due mani con atto pieno di fiducia e d'espansione: voi non siete di quelli; per voi non è un peso la riconoscenza, non è manco una tentazione l'ingratitudine.

Quegli uomini afferrarono le mani ch'egli tendeva loro e le strinsero con forza, pronunziando confusamente tutti insieme parole di devozione e d'affetto.

— Oh dite, dite: riprese Giacomo, che a quelle dimostrazioni sentì entrare in petto una specie di tenerezza: ho io meritato codesto dai miei operai?

— No, no, certo che no, mille volte no; Lei, che è il migliore fra quanti padroni sieno al mondo: esclamarono in una i capi-officina; ma c'è qualche maledetto suo nemico che ha messo su quest'infame macchinazione.

— Ah! se lo potessi cogliere questo cotale: urlò a suo modo Bastiano, brandendo l'inseparabile suo randello.

Lo scoppio di voce del brav'uomo fece accorrere dalla stanza vicina Teresa vieppiù inquieta.

— Che cos'è? domandò essa aprendo il battente dell'uscio.

Ma nessuno ebbe tempo di farle una risposta. La funesta luce dell'incendio con rapidità spaventosa sviluppatosi le percosse gli occhi traverso i vetri della finestra. In fondo al cortile gli opificii ardevano oramai compiutamente. Era uno spettacolo di terribile, spaventosa bellezza. Le fiamme uscivano violente da ogni apertura, si strisciavano su per le pareti, lambivano il cornicione del fabbricato, cominciavano a mordere i capi dei travi del tetto, vi si appiccavano qua e colà, di passaggio soltanto dapprima, per divampare ed estinguersi, per isparire e tornare, come folletti aleggianti con bizzarro capriccio, che si conchiudeva poi in uno stabile dominio cui allargandosi prendeva l'incendio. [190] Tratto tratto, come se qualcheduno si compiacesse a gettare in quel vasto focolare, che oramai occupava tutto il piano terreno, qualche ammasso di materie più infiammabili o di limature di ferro, le fiamme divampavano più brillanti e maggiori, od una colonna densa di scintilluccie accese, vivacissime, danzanti irrequiete, schioppettanti per l'aria, come un fuoco artificiale, si sollevava verso il cielo, illuminando d'un color di sangue tutte le cose circostanti, e la casa e le rimesse e le scuderie e i magazzini e la neve del cortile. Già s'udiva il rumore speciale dell'incendio, il crepitar delle fiamme, lo scroscio dei materiali che cadevano, e in mezzo a tutto questo gli urli efferati di quella turba di barbari e di iniqui. Le mogli e i bambini dei capioperai che abitavano il piano superiore della casa strillavano disperatamente.

— Gran Dio! Madonna Santa! esclamò Teresa a quella vista. Il fuoco! Siamo tutti persi.

Francesco dal suo letto udì queste tremende parole della madre. Per quanta impressione fosse la sua, lo sforzo fatto poco prima lo aveva talmente prostrato ch'egli non potè altro più che agitare sui cuscini la sua testa dolorante.

— Il fuoco, diss'egli con appena un soffio di voce sulle aride labbra: il fuoco! Ed io non posso far nulla nè per altri, nè per me! O mio Dio! O mio Dio!

Padre e madre accorsero presso di lui. A Giacomo la necessità di attenuare il pericolo alla mente del figliuolo, l'aver trovato delle anime devote e fedeli in que' cinque uomini che si consecravano anima e corpo alla loro difesa, avevano restituita tutta la sua primiera energia; si accostò al giacente la faccia sicura e parlò con voce tranquilla:

— È alla fabbrica che ne volevano quei scellerati; l'hanno invasa e vi appiccarono il fuoco. Ciò vuol dire che ora, contenti di sì bella impresa, noi ci lascieranno tranquilli.... Quanto al danno della fabbrica gli è nulla, perchè quella benedetta assicurazione contro gl'incendi a cui siamo associati ci compenserà d'ogni cosa.

La sua tranquillità così ben simulata, riuscì a calmare alquanto l'ansia e lo spavento degli altri.

— Ma, disse ancora Francesco, guardando attentamente negli occhi suo padre; l'incendio non può egli avvolgerci nelle sue spire e consumarci prima che i soccorsi sieno giunti?

— Oibò: rispose con fermo viso il padre. Esso è nel centro degli opifizi; per fortuna non c'è buffo d'aria che spiri, e prima che arrivi a comunicarsi ai fabbricati laterali, da cui potrebbe poi arrivare sino a noi, ce ne vuole. D'altronde quella mano di scellerati non tarderà a fuggire essa stessa innanzi alle fiamme da lei suscitate, e potremo noi medesimi per mano alle nostre trombe idrauliche e in brev'ora, anche senza soccorsi, spegnere l'incendio.

Ma la sicurezza e le lusinghiere speranze, cui manifestava, Giacomo era ben lontano dall'avere realmente in cuor suo. Egli, con fondamento pur troppo, temeva che le fiamme, già così potenti fin da principio per essere stato il fuoco appiccato in più luoghi, non tardassero ad appigliarsi ai corpi di casa che fiancheggiavano il cortile, dove avrebbero trovato una troppa e funesta esca nel fieno e nella paglia che vi stavano in abbondanza raccolti; era men vero che non soffiasse aria in quell'ora, chè anzi un vivace e frizzante vento del nord curvava le fiamme nella direzione appunto della casa, le flagellava ed agitava a farle più impetuose e più vive; dell'usare le trombe idrauliche non era pur da pensarci, chè la presenza dei saccheggiatori noi consentiva a niun modo, e che questi si sarebbero ritratti abbastanza per tempo da lasciar agio agli abitanti di provvedere a tal bisogna non aveva egli pure la menoma speranza. E poi, fosse anche ciò avvenuto, che avrebbe provato l'opera di sei uomini contro la terribile potenza d'un incendio di tali proporzioni? E nemmanco era sincera in lui l'opinione cui Giacomo aveva con tanta sicurezza espressa, che i rivoltosi, contenti di porre a fuoco ed a ruba la fabbrica, non avrebbero nulla più tentato contro la famiglia del principale e rispettatone l'abitazione; ben sapeva come l'uomo, una volta avviato giù per la china del male, precipiti per essa con moto accelerato fino a tal grado che non avrebbe mai sognato dapprima, e che tanto più ciò avviene delle masse di plebe, le quali, uscite dall'ordine, niuno può dire a qual eccesso nel tumulto non sieno per arrivare.

E le sue paure avevano diffatti ragione, e compiutamente; perchè il fuoco incitato dalla brezza si piegava verso l'abitazione, e già guadagnava lentamente le travature dei letti degli edifizi laterali; e, camminando più frettolosamente dell'incendio, una frotta d'uomini dalle faccie malvagie, dall'aspetto spaventoso, anneriti dal fumo il volto e le mani, gli occhi ardenti dalla cupidigia, dall'ardore della ferocia, dalla passione del delitto, s'avviavano verso l'abitazione della famiglia Benda guidati dal rosso chiarore dell'incendio che rifletteva la sua luce spaventosa sulle pareti e sui cristalli delle finestre della casa. In questo gruppo di sciagurati erano primi, s'intende, Graffigna, Stracciaferro, Marcaccio, Tanasio, e il misero Andrea, che ubbriaco fradicio, il cervello vieppiù eccitato da quello spettacolo, dal calore dell'incendio, dal fragore, dallo schiamazzo degli urli, da quel parosismo di furore, ond'era stata invasa quella turba scatenata, veniva ripetendo con crescente violenza:

— Ah ah! il sig. Benda non mi ha più voluto accogliere nella sua fabbrica. Mi ha mandato a crepar di fame. Sta bene; ora l'aggiusto io, la sua fabbrica e lui!

Appena penetrati nelle officine col mezzo che abbiam visto, mentre la folla degli operai si dava [191] a guastare vandalicamente macchine, attrezzi e locali, quelli fra gl'invasori che appartenevano alla cocca, duce ed ispiratore Graffigna, si affrettavano al luogo dove per mezzo di Tanasio sapevano essere la cassa, e coi più acconci stromenti che loro forniva la stessa officina, giovandosi della forza straordinaria di Stracciaferro, in poco di tempo l'ebbero infranta e s'impadronirono di quanto conteneva. La forza di quel Sansone da galera, alla cui opera si doveva un così sollecito risultamento, venne ancora adoperata dal furbo Graffigna, che era l'intelligenza la quale metteva in giuoco quella macchina potente di carne ed ossa, affine d'impedire lo sperpero del bottino, ed evitare i guai che furono sul punto di nascere per la distribuzione del medesimo. Appena vista la preda, tutti quegli uomini si erano lanciati avidamente colle mani fatte ad artiglio per arraffarne la maggior parte che potessero; ma Graffigna, ponendo innanzi Stracciaferro, aveva gridato l'alto là colla sua voce fessa e sottile, che in quel momento solenne aveva trovata tanta forza da farsi udire distintamente in mezzo a quel fracasso indemoniato che aveva luogo tutt'intorno.

— Che nessuno tocchi, aveva gridato, che nessuno si serva, giuraddio! Si faranno le parti secondo regola e giustizia a cose finite; e il primo che avanza una mano, il mio buon amico Stracciaferro è incaricato di rompergli il grugno.

Il buon amico di Graffigna aveva commentato le parole di costui con un atto silenzioso ma eloquentissimo, levando in su agli occhi degli astanti le due masse nodose che erano i suoi pugni serrati; e innanzi alla figura bestiale e terribile di quel colosso, anche i più ardimentosi s'erano arretrati. Graffigna aveva spartito il bottino fra le sue e le tasche di Stracciaferro.

Codesto era appena finito che una nuova invasione di riottosi precipitavasi con accresciuto rumore sulla misera fabbrica. Erano le altre bande che soprarrivavano e volevano prender parte al saccheggio, alla devastazione. Come accade ad una fiorente campagna su cui s'abbatta ad un tratto una di quelle tremende nuvole di cavallette divoratrici che in pochissimo di tempo la riducono spoglia, nuda e desolata come dal gelo dell'inverno, così in un breve succedersi di minuti avvenne di quella misera officina così ben fornita, ordinata, dalle prospere condizioni pur dianzi. Tutto fu sciupato, tutto distrutto; il torrente irrompitore, colla sua potenza irrefrenabile ed infinita ebbe in un attimo ogni cosa messa a sperpero, portata via, infranta sul suo passaggio: le alte muraglie degli stanzoni vuotati parevano assistere con doloroso stupore a quella ridda infernale, a quella bufera di collera umana che strepitava in mezzo a loro; tutto trasportava frattanto con sè il turbine.

Ma quell'opera riusciva poca e non appagante abbastanza per la suscitata ferocia di quella turba scatenata. Il flagello sociale della rivolta aveva bisogno di ricorrere ad un flagello dato dalle forze della natura per averne collaborazione al suo empio proposito. La medesima idea funesta, come sempre avviene in simili casi, balenò contemporaneamente in più cervelli eccitati, la parola non fu manco pronunziata da labbro nessuno, e la cosa fu fatta in pari tempo da più mani scellerate: il fuoco venne appiccato in varii punti. Graffigna capì sollecito che quando i saccheggiatori non avessero più nulla da sperperare e da rubare negli opificii, si sarebbero gettati ancora mal paghi sull'abitazione del principale, e si affrettò a prendere una determinazione che doveva recargli due vantaggi: fuggire il fuoco che scacciava innanzi a sè gli assalitori, come demone che minaccia afferrare chi lo ha evocato, e giunger primo alla seconda cassa del fabbricante, innanzi che altre mani potessero arrivarla, innanzi che ad impedirgli l'agognato bottino venissero i soccorsi della forza pubblica: raccolse intorno a sè un manipolo dei più fidi e dei più acconci, e con essi accorse alla casa.

Furono arrestati dalla porticina del cortile accuratamente chiusa e solidamente abbarrata.

— Animo, Stracciaferro: disse Graffigna, gettami abbasso quest'uscio.

Il colosso si diede a percuotere nelle imposte con uno dei più grossi di quei martelli di cui si servono a battere il ferro affuocato sull'incudine, martellaccio ond'egli erasi armato, e che maneggiava con tanta facilità con quanta altri farebbe di un bastone.

I poveri assediati, dalle due stanze in cui s'erano rinchiusi, udirono i colpi tremendi e capirono che poco tempo avrebbe potuto resistere l'ostacolo dell'uscio; diffatti di lì a poco le imposte cedevano crocchiando, ed il varco era aperto. Ma in quel punto ecco sopraggiungere dagl'incendiati opifici una nuova frotta accorrente sulle poste di quei primi per prender parte ancor essi al saccheggio della casa. Graffigna che vide un imbarazzo non lieve alle sue mire in questo sorvenire di rinforzi, accorto com'egli era, non tardò a trovarci il rimedio.

— Eh un momento, cari amici che il boia v'impicchi: gridò ai sopravvenuti che tumultuariamente spingendosi tutti insieme verso la non larga apertura dell'uscio scassinato ed infranto facevano tal ressa da impedirsi a vicenda il passo; se facciam così ci schiaccieremo fra noi qui alla porta e non riusciremo a penetrarvi nessuno. C'è un'altra entrata per la scala grande di sotto l'atrio del portone; una parte di voi corra per di là, e dalle due parti verremo più facilmente a capo di renderci padroni della casa.

Il consiglio era buono; e lo resero ancora più efficace alcuni sergozzoni che Stracciaferro distribuì con assoluta imparzialità ai più ostinati che volevano [192] cacciarsi innanzi. La turba maggiore si precipitò sotto l'atrio e salì come un uragano lo scalone; Graffigna co' suoi fidi s'introdusse per la scaletta.

Giunti gli scellerati a quel pianerottolo, in cui abbiamo visto poche notti innanzi Francesco Benda di ritorno dal ballo dell'Accademia filarmonica fermarsi per accendervi il lume, ed incontrarvi sua madre che lo aspettava con inquieta sollecitudine, Graffigna si alzò in punta de' piedi tanto da mettere le sue labbra sottili più vicine all'orecchia di Stracciaferro, e gli fece scivolare nel padiglione auditivo le seguenti parole:

— Due cose preziose da portar via: la cassa e la ragazza... Io m'incarico della prima, tu della seconda... Fatto il colpo, lesti tutti due a gambe... E ci ritroveremo colla nostra preda rispettiva in Cafarnao.

Stracciaferro che aveva già ricevute precedentemente le istruzioni apposite, fece un cenno affermativo; e mentre il suo compagno con Marcaccio soltanto prendeva la direzione del gabinetto di sor Giacomo, gli altri, fra cui anche Andrea, atterrando ad un per uno gli usci si avvicinavano alle stanze in cui erano la misera famiglia e i suoi pochi difensori. Prima che vi giungessero, gli assalitori passati dallo scalone erano penetrati nell'appartamento ancor essi, e le due frotte si univano in una massa sola a dar l'assalto a quel debole uscio che soltanto più separava gl'invasori dalle loro vittime.

E frattanto l'incendio, non combattuto, favoreggiato anzi dall'aspro vento della notte, s'avanzava tremendo verso le rimesse e le scuderie, dalle quali poi avrebbe facilmente potuto arrivare la casa di abitazione.

Quando udirono la stanza precedente a quella in cui si trovavano invasa dal tumulto di quella turba briaca di ferocia, quando i primi colpi furono percossi contro i battenti dell'uscio per atterrare anche questo come avevano fatto degli altri, i cinque uomini che stavano colà, si guardarono in volto più pallidi che un cencio lavato e i più si fecero il segno della croce: erano come infelici condannati a morte che hanno udito l'annunzio dell'ultima ora.

Giacomo accorse sollecito a congiungersi a loro. Aveva abbracciato suo figlio e gli aveva susurrato all'orecchio:

— Tu sei un uomo, tu che hai avuto la temerità d'affrontare la morte per un pregiudizio, lontano dagli occhi de' tuoi genitori, devi avere coraggio in queste brutte emergenze che ci manda il destino. Coraggio adunque e freddezza per te e per quelle poverette lì, che sono tua madre e tua sorella.

— Oh ne ho di coraggio: disse il ferito con quel po' di voce che gli lasciava la grave infermità. Solo mi duole di non poter far nulla in difesa dei miei!...

Giacomo abbracciò eziandio la moglie e la figliuola.

— Voi altre pregate, disse loro.

Bastiano e i capi operai stavano facendo dietro l'uscio una barricata di tutti i mobili della stanza. Il padre di Francesco pose mano ancor egli a questo lavoro che fu in breve compiuto, come si potè meglio. Nessuno aveva armi, e le mani convulse degli aggrediti non istringevano a difesa che poco efficaci arnesi onde s'eran muniti in quel luogo medesimo: le legna che erano destinate ad ardere nel camino, gli alari di questo, il noto randello del portinaio.

Al secondo colpo battuto nell'uscio dalla poderosa mazza di Stracciaferro, la serratura s'infranse, i cardini si staccarono e i battenti sarebbero caduti se dietro di essi non ci fosse stato il serraglio dei mobili accatastati. Il bandito diede un tal urto della sua spalla contro le disgiunte imposte, che fece arretrare d'alquanto la barricata e ne riuscì un'apertura fra i battenti dell'uscio non tale da dar passo ad un uomo, ma sufficiente da lasciare apparire la faccia bestiale del galeotto scelleratamente animata in quel punto dall'ebbrezza dei liquori tracannati e dalla concitazione dell'iniqua opera intrapresa.

Fu tale l'effetto da quella vista prodotto sugli assaliti che tutti sei retrocessero spaventati. Stracciaferro mandò una voce che pareva un ruggito, e passando le sue braccia nerborute traverso l'ottenuta apertura dell'uscio si pose a scuotere colle mani i mobili che facevano barricata, tentando gettarli abbasso e levarli di mezzo.

— A me! a me! gridò Bastiano, che primo di tutti superò quel senso di paurosa sorpresa che aveva loro fatto l'apparire di quel terribile mostaccio; e s'avanzò levando il bastone affine di percuoterne con tutta la sua forza quell'arruffata, orribile, lurida testa che si sporgeva al di sopra della barricata. Ma Giacomo che capì come un atto di sì viva ostilità avrebbe senza manco nessuno distrutto compiutamente ogni ombra di speranza (e ne aveva pur poca) di poter uscir vivi dalle mani di que' forsennati, trattenne il colpo al portiere e gli disse ratto:

— Sta, lascia ch'io parli; vediamo prima se non si può patteggiare con codestoro.

Bastiano abbassò il suo randello, ma crollò il capo e mandò un sospiro che dinotavano la sua poca fiducia nei mezzi pacifici.

Giacomo si rivolse al brutto ceffo di Stracciaferro.

— Gli è alla mia roba che ne volete; ebbene in queste due camere non c'è nulla che pochi mobili. Prendete tutto ciò che si trova nel resto dell'alloggio, ma lasciateci tranquilli qui dentro e vi saremo ancora riconoscenti.

Stracciaferro non rispose che mandando di nuovo quel suo ruggito e dando un nuovo colpo di spalla ai mobili che vacillarono e cedettero; dietro di lui ruggiva pure la frotta che lo seguitava, ed un urto di tutti venne pure a percuotere la debole barricata. [193] I mobili accatastati si rovesciarono, i sei difensori dovettero ritirarsi per non essere offesi dalla loro caduta, il passo fu aperto e in un attimo la stanza fu invasa da una dozzina e più di quella canaglia.

— Ah ah! esclamò l'ubbriaco Andrea trovandosi in faccia al suo antico principale, la non mi volle accettar più come operaio nella sua fabbrica?..... Ecco che cosa ho fatto della sua fabbrica io!..... Ecco come vengo a casa sua a trovarlo io!.....

Giacomo non rispose parola; il suo sangue freddo per fortuna non l'abbandonò nemmanco in quel terribile frangente; si slanciò d'un balzo alla soglia della camera di suo figlio, gridando ai suoi compagni:

— Qui qui! per amor di Dio!

I suoi difensori, aimè, non erano più che in quattro: uno si era trovato innanzi a quella belva di Stracciaferro e giaceva lungo e disteso per terra col cranio frantumato dal pesante martello che quel mostro maneggiava.

— Lasciateci la vita, lasciateci la vita! si misero a gridare supplicando due dei capi operai, e in questo momento dietro le spalle dei cinque contro cui stavano per precipitarsi gli assassini, comparvero le figure pallidissime di Teresa e Maria supplicanti ancor esse.

Stracciaferro, a quella vista, abbassò il suo martellaccio e trattenne l'impeto de' suoi. Aveva da recare incolume per preda quella giovinetta nel misterioso recesso di Cafarnao, e non voleva che in un tumultuoso irrompere si facesse danno anco a lei.

— Piano! Cheti! gridò colla sua voce rauca, accennando colla mano: intendiamoci. Mettete pure alla ragione gli uomini; le donne nessuno le tocchi; me ne incarico io; chi volesse fare altrimenti avrebbe da aggiustarla meco.

Ciò detto si spinse verso Maria; ributtò Giacomo ed Ambrogio che le stavano dinanzi e tese la sua manaccia a ghermirla. Maria mandò un grido di spavento e fuggì nella camera di suo fratello fin presso il letto di lui: la madre le venne accosto pronta ad ogni cosa per difenderla, ed il galeotto, non potuto trattenere da alcuno, la seguì e già colla mano tesa era per afferrarla vicino al capezzale medesimo del povero Francesco fatto impotente a difenderla.

Ma sopra un'altra persona aveva prodotto un grande effetto la comparsa delle due donne; e questa persona era Andrea. Non ostante i fumi della sua ebbrezza, quando si vide innanzi la faccia di Teresa che tante volte lo aveva soccorso nella miseria, quella di Maria, la quale pochi dì prima ancora era venuta nella squallida di lui soffitta, come angelo consolatore disceso dal cielo, Andrea capì tutta la tristizie dell'opera a cui s'era lasciato indurre. Visto Stracciaferro penetrare nella stanza di Francesco inseguendo la fanciulla, ed egli pure si gettò colà, senza ben saper tuttavia quel che avrebbe fatto. Giacomo e gli altri, investiti e circondati da ogni parte dagli assalitori, non potevano a niun modo venire a difesa delle donne, e disputavano in una lotta disuguale, col coraggio della disperazione, la loro vita agli assassini.

Teresa erasi gettata innanzi a Maria per farle scudo del suo corpo.

— Lasciate stare mia figlia! gridò essa con quel coraggio che ha l'agnella eziandio per difendere i nati suoi.

Stracciaferro la guardò con aria di sprezzosa compassione che ha un mastino per un cagnuolo avanese che gli venga ad abbaiare alle gambe: la prese ad un braccio e la mandò a rotolare lontano. Sarebbe caduta, se non si fosse incontrata in Andrea, che sopraggiungeva e la sostenne.

— Voi, voi qui, Andrea!.... esclamò la desolata madre. Oh difendete mia figlia!

Stracciaferro aveva afferrata Maria, che si dibatteva come un augellino negli artigli d'un falco, mandando strazianti grida ad implorar soccorso.

Francesco trovò tanta forza da potersi levare a seder sul letto, più bianco d'un cadavere, ma gli occhi larghi, fiammeggianti d'indegnazione, i capelli ritti, le labbra frementi. Voleva parlare, ma la voce gli mancava; voleva scendere di letto, ma si sentiva come se avesse legate le membra.

Ad un tratto due mani vigorose afferrarono pel collo il bandito, che già aveva sollevato fra le sue braccia la fanciulla. Stracciaferro volse i suoi occhi pieni di sangue a questo suo assalitore e vide la faccia di Andrea, che gli si era slanciato addosso con tutto il vigore ond'era capace.

— Lascia stare quella signorina: disse Andrea: o t'impicco com'è vero Iddio.

Stracciaferro rispose a suo modo con un ruggito della sua rauca voce, che ora era fatta anche più rauca dalla stretta delle mani che lo serravano al collo; fece come fa il toro addosso a cui saltarono i mastini, il quale con una scossa violenta li slancia lontano da sè, diede un tal sobbalzo colle spalle e colla persona che si liberò dalla presa di Andrea e mentre deponeva a terra la ragazza, pur tenendola tuttavia afferrata ad un braccio colla sua mano sinistra, colla destra scaraventava un pugno tale nel petto del difensore di lei che il marito di Paolina andava indietro barcollando tre o quattro passi e finiva per cadere supino per terra.

L'assassino ghermì di nuovo la fanciulla. Chi avrebbe potuto venir più in soccorso della misera? Il padre e i pochi rimasti fedeli a quella famiglia erano avviluppati dall'onda degli assalitori e stavano per soccombere non ostante gli sforzi sovrumani della loro difesa. La madre di Maria che poteva ella se non piangere, pregare, gridare? E nè grida, nè preghiere, nè lagrime non potevano in modo alcuno commuovere quello scellerato in cui [194] ottuso era fatto tutto quanto ha di dilicato e di soave la natura umana. Teresa si trascinava per terra, afferrata ai panni, alle membra del rapitore di sua figlia, come fa la madre di Polissena nel bel gruppo del Fedi; ma a che cosa valeva egli codesto? E il misero Francesco doveva, impotente, incatenato al suo letto di dolore, assistere a questa scena tremenda! No; non poteva a niun modo restarsene inoperoso. Il sangue che la ferita e i salassi gli avevano lasciato nelle vene ribollì furibondo; una nuova forza venne dall'animo supremamente indignato ad invigorire le sue membra; saltò d'un balzo giù dal letto e corse con impeto contro il rapitore che oramai era giunto alla soglia della camera; ma non potè fare che pochi passi, le forze gli mancarono ad un tratto, sentì come rompersi qualche cosa entro il petto, agitò le braccia, mandò un grido, e cadde lungo disteso, battendo un gran colpo per terra con quel fianco appunto dove era aperta la sua ferita.

La infelice madre udì il tonfo, vide giacere privo di sensi, coll'aspetto di morto suo figlio, e un grido straziante le ruppe dal fondo dell'anima. Che doveva ella fare? A quale delle sue creature consacrarsi. Aimè! Forse ambedue erano perdute per lei... Ma la sua Maria in mano di quell'assassino!... Oh non poteva abbandonarla finchè una stilla sola di sangue fosse rimasta nelle sue vene. Si riattaccò più tenacemente di prima al rapitore cercando piantare le sue deboli unghie nel risalto dei muscoli di bronzo di quell'uomo.

Maria non riluttava più, non gridava nemmanco, ogni vigore, quasi ogni sentimento era smarrito in lei: la si sentiva come chi è trascinato dalla corrente giù dell'abisso, le pareva dover morire all'istante, il cuore le si stringeva così che non aveva più battito; chiuse gli occhi e fu sul punto di perdere i sensi e la ragione. Pure nell'intimo penetrale del suo essere stava ancora, come istinto di conservazione, un voto, una supplicazione, una speranza. Ah! v'era un uomo al mondo ch'ella sentiva sarebbe stato capace di salvarla, se fosse stato lì presente, un uomo che due giorni prima le aveva detto volerla difendere da ogni pericolo, salvarla ad ogni costo, voler mettere la sua vita per risparmiarle un affanno, una lacrima! Oh! s'egli potesse venire! Ella pregava dal Cielo mentalmente, ma con fervore glie lo mandasse; e l'impossibile speranza di vederlo comparire non era ancora del tutto scancellata dal suo cuore....

Impossibile speranza! Ah no! Il suo rapitore aveva appena tocca col piede la soglia della camera in cui Giacomo e i suoi lottavano ancora, ma vicino ad essere oppressi, che Maria si riscosse tutta, e una nuova forza le venne ad animarla.

— Aiuto! Aiuto! gridò ella, dibattendosi di nuovo tra le braccia di Stracciaferro. A me; a me. Luigi!

Ella aveva sentito avvicinarsi l'uomo che amava: e diffatti tosto dopo, come piovuto dal cielo, coll'impeto d'un arcangelo ministro dello sdegno divino, piombava in mezzo agli assalitori, bello e fiero di collera, terribile ed imponente nell'aspetto, brandendo colla mano destra una corta mazza impiombata, Luigi Quercia che gridava con una voce tremenda di comando e di rampogna:

— Fermi tutti!... Il primo che si muove, giuro al cielo, che l'ammazzo io di mia mano.

CAPITOLO XXIX.

Il medichino, arrivato al galoppo del cavallo della carrozza da nolo, al cocchiere della quale la mancia promessa non aveva lasciato risparmiare sferzate e voce di animazione alla povera bestia, s'era cacciato traverso gli opifici incendiati (chè il portone era ancora chiuso e non si aveva altra via di penetrare colà dentro) non s'era arrestato a contemplare nè a volere arrestare le scene di vandalismo che succedevano, ed era corso alla stanza, ch'egli ben conosceva, del ferito, così da arrivare, come abbiam visto, nel punto in cui l'intravvento d'un salvatore era il più necessario a quella povera famiglia.

La sua presenza e le sue parole negli affigliati della cocca che lo conoscevano, produssero il più subito e il maggiore effetto: ed anco negli altri la voce, il tono, l'aspetto, bastarono per farli stare a tutta prima. Il passaggio traverso le fiamme dell'incendio, la rapidità della sua corsa avevano guasta la eleganza della sua signorile acconciatura, ma questo nuovo disordine dei panni e delle chiome, insieme collo sdegno che ne improntava i lineamenti riusciva a dare alla caratteristica di lui figura una forza ed un'efficacia assai maggiori. La fronte alta, d'un candore quasi splendente, denudato di cappello, intorno alla quale si drizzavano le brune chiome inanellate che parevano mosse da un vento di collera, mostrava nel suo mezzo fra le due sopracciglia, profondamente incavata la ruga abituale dei momenti di furore, di abbandono della sua anima alla foga di qualche tremenda passione; gli occhi erano due fiamme vive; il respiro concitato, mandava un suono profondo fra le labbra semiaperte più rosse che il sangue.

Per un istante tutti quelli che si trovavano in quella stanza stettero immobili, guardando questo nuovo venuto che affermava così superbamente la sua potenza. Stracciaferro depose per terra la fanciulla che portava; ed essa corse a ripararsi al seno della madre, la quale la strinse a sè e la baciò piangendo.

Gian-Luigi fece scorrere intorno il suo sguardo d'aquila. Nel mezzo della stanza giaceva sanguinoso il cadavere dell'uomo ucciso da Stracciaferro; in un [195] angolo s'era trascinato carponi ed ora cercava sollevarsi Tanasio, a cui un colpo ammodo di Bastiano aveva gettato a terra metà i denti e rotta la faccia mandandolo a gambe in aria. Il portinaio l'aveva amarissima con Tanasio perchè lo sapeva uno degli istigatori principali della sommossa, perchè a lui doveva quella certa botta che due giorni prima gli aveva spaccato la testa; e il tristo operaio da parte sua non aveva perdonato a Bastiano il pugno famoso per cui portava ancora livida l'occhiaia; un mutuo rancore li aveva dunque spinti l'uno contro dell'altro ad un certame singolare, come quegli eroi delle battaglie omeriche i quali trascurano ogni altro nemico per misurarsi a vicenda, tratti dalla fama del valore che illustra l'uno e l'altro; e la conseguenza del certame, come ho già detto, era stata poco propizia a Tanasio che aveva, al primo urto, ricevuto di santa ragione il fatto suo.

— Uscite di qua tutti; gridò in tono di comando il medichino, accennando la porta; lo voglio, ve lo impongo.

Stracciaferro che aveva imparato pochi giorni prima quanto fosse poco acconcio partito il resistere ai cenni di quell'uomo, diede per primo l'esempio dell'ubbidienza, e si avviò lentamente per partire, colla mossa e l'aspetto d'un mastino cui la mazza del padrone costringe ad abbandonare una buona preda addentata ed a ritirarsi la coda tra le gambe per paura delle botte. Egli non capiva nulla in questo subitaneo ed inaspettato intervento del medichino; l'impresa era stata da lui proposta, ordinata e concertata: il ratto della ragazza, come episodio della medesima, gli era stato detto doversi eseguire per desiderio e commissione di lui, ed ora ecco che egli medesimo veniva ad interrompere l'opera e ad opporsi a quel fatto che si voleva compiere in suo vantaggio; ma quell'animalaccio d'uomo, nella sua offuscata intelligenza, fatta sempre peggio ottusa dalla più volgare ebbrezza, non si crucciava gran che di capire più o meno le cose. Quell'uomo, oltre l'autorità morale dal consenso dei complici accordatagli e da lui colla sua superiorità acquistata, autorità contro cui la imbestialita natura di Stracciaferro non era la più disposta a piegarsi: quell'uomo, dico, gli si era imposto eziandio coll'autorità materiale della forza; e la belva in forma d'uomo, compiutamente domata, era decisa a sottostargli senza punto ragionare il perchè degli ordini.

Gli altri fra i presenti che appartenevano eziandio alla cocca, e quindi conoscevano la persona e l'impero del capo di essa, erano disposti ad ottemperare agli ordini di lui; ma la massima parte di quei rivoltati, estranei a quella scellerata associazione, oppure aderenti alla medesima negli ultimi gradi, senza aver visto mai la misteriosa persona del supremo duce, non si rendevano, e non si volevano render ragione del come questo sconosciuto avesse da venire con tanta audacia a dar loro l'alto-là, ed essi dovessero obbedirgli; onde, passata quella prima impressione che la comparsa, le sembianze, la voce di Gian-Luigi avevano fatta su di loro, visto che gli era un uomo solo ad opporsi alla tumultuosa frotta di tanti, e senza il menomo contrassegno di pubblica autorità, non tardarono a prendere, tutti di tacito accordo, il partito di non dargli retta menomamente, e se l'incauto volesse persistere in quella sua ridicola pretesa di comando, avvolgerlo anche lui nel numero delle vittime, e soffocarlo insieme cogli altri sotto il fiotto della loro sommossa. Con parole ed atti di minaccia, di scherno, di offesa, i riottosi per ciò si serrarono e mossero di nuovo all'assalto anche contro il nuovo venuto. Questi s'era posto risolutamente a lato del signor Benda e dei quattro suoi difensori che ancora rimanevano più o meno offesi dalla corta, ma terribile ed inegual lotta già sostenuta; ed erano di nuovo sei uomini contro una ventina e più di assassini ferocemente eccitati. Quei della cocca, che conoscevano il medichino, rimanevano infra due, non osando certo muovere ad atti ostili contro di lui, rincrescendo loro dover lasciare la preda sul migliore, poco disposti ad ogni modo ad unirsi ai pochi, per farsi ancor essi opprimere dai molti; si ritiravano quindi o parevano disposti a sostenere la parte di spettatori indifferenti nella nuova fase che aveva presa quello sciagurato dramma di violenza e di sangue.

La sorte dei Benda, malgrado l'intervento di Gian-Luigi pareva oramai perduta, perchè contro tanti assalitori qual probabilità di felice successo poteva avere la difesa, per quanto eroica, di sì pochi? Quando la Provvidenza fece loro arrivare un nuovo e più efficace aiuto.

Venne esso annunziato da una mezza dozzina di giovinotti che in quel punto si precipitarono nella stanza, campo di sì disgraziata lotta, i quali si schierarono rattamente dalla parte degli assaliti, gridando nello stesso tempo con quanto ne avevano in gola:

— Coraggio! coraggio! Son qui che arrivano i bersaglieri, i carabinieri e le guardie a fuoco.

A capo di questi giovinetti erano Giovanni Selva e Romualdo, e la schiera componevasi di quei generosi ed imprudenti congiurati, i quali, secondo il primitivo progetto della cospirazione, quella sera medesima dovevano compire nel Teatro Regio un atto così importante della preparata e sognata rivoluzione. Benchè, come abbiamo visto, a quei matti disegni si fosse rinunziato, codestoro, attratti dalla curiosità, erano pur tuttavia intervenuti a quello spettacolo in cui essi avrebbero dovuto compire sì arrischiata e matta parte; e colà perciò avevano udito ancor essi le novelle che vi erano giunte dell'assalto e del saccheggio dato alle officine del sig. Benda, il cui figliuolo, per tanti rispetti in quei giorni degno d'interesse, era ancora loro [196] specialissimo amico e compartecipe delle loro idee e dei propositi. Senza por tempo in mezzo, col generoso slancio che è proprio della gioventù, erano corsi a difesa dell'amico; e venendo verso la fabbrica di galoppo avevano incontrato e sopravanzato i drappelli della forza pubblica, che pure di buon passo si affrettavano verso il luogo del tumulto.

La subita irruzione di codestoro, e più le parole da essi pronunciate, mutarono di nuovo apparenza alla scena. I riottosi tornarono ad arrestarsi, balenarono alquanto, i meno infuocati si diressero solleciti verso la porta d'uscita. Al di sopra del rumore che faceva nel cortile, negli opifizi e nel resto della casa la turba dei saccheggiatori, si udì il suono aspro delle trombe dei bersaglieri che suonavano la carica. Negl'insorti fu un salva chi può generale; si slanciarono nel corridoio che menava alle scale, precipitarono giù di queste, spingendosi, urtandosi, accavallandosi, montando uno sopra gli altri come un gregge di pecore spaventate che vuol fuggire il lupo ond'è inseguito.

Quasi al fondo della scaletta si intopparono in un ostacolo che loro sbarrava il passo. Erano Graffigna e Marcaccio, i quali dopo molti sforzi e molta fatica erano riusciti a staccare dalla parete a cui stava infissa la cassa di ferro, e venivano giù lentamente, portandola non senza disagio. Ma l'onda precipitosa dei fuggitivi superò quell'inciampo. I due ladri furono urtati, avvolti, trascinati, per poco non gettati a terra e calpesti: la cassa cadde loro di sulle spalle, rotolò giù degli scalini, e i fuggenti la saltarono via man mano senza che alcuno tentasse pure fermarsi per raccattarla. Il grido che mandavano parecchi: «Sono qui i bersaglieri,» il suono delle trombe che si avvicinava diedero ragione di questo panico a Graffigna ed a Marcaccio, i quali, con una rabbia da non dirsi, bestemmiando nel più scellerato modo del mondo, dovettero piantar lì la loro preda e non pensarono più che a mettersi in salvo ancor essi: impresa questa che ad uno dei due non doveva riuscire.

Il portone era stato spalancato dai saccheggiatori medesimi, i quali s'erano così aperto il varco ed alla fuga ed al trasporto delle derubate masserizie; per esso entrarono al passo di corsa, la baionetta a capo degli schioppi, i bersaglieri che si diedero alla caccia dei saccheggiatori fin tra le fiamme dell'incendio.

Dietro i bersaglieri arrivavano i carabinieri e le guardie a fuoco, che tosto si accinsero all'opera loro salvatrice ponendo in moto le trombe idrauliche che avevano condotto seco e quelle della fabbrica tuttavia incolumi e non tardava ad arrivare di poi anche un battaglione di linea che coadiuvava i bersaglieri ed i carabinieri nella caccia ai fuggiaschi e le guardie a fuoco nel periglioso lavoro di combattere il terribile incendio.

Nelle camera frattanto, dov'era ricoverata la famiglia Benda, così provvidenzialmente salva nel momento appunto in cui non pareva più possibile uno scampo, succedeva la più tenera e commovente scena del mondo. Teresa e Maria, dopo essersi con passione abbracciate, s'erano gettate al collo del marito e del padre, il quale, tranne alcune contusioni che gli allividivano le carni, non aveva per fortuna altro maggior danno, e con lagrime e rotte parole rendevano grazie a Dio dell'insperato salvamento; Giacomo ringraziava commosso i suoi dipendenti che per lui avevano esposto i loro giorni e de' quali alcuno sanguinava per ricevute ferite, e i giovani accorsi a loro difesa, di cui primo, e agli occhi di quella famiglia più meritevole, il dottor Quercia, al quale anche le donne in mezzo al loro turbamento esprimevano la più viva riconoscenza. La povera Maria sopratutto ebbe pel giovane uno sguardo, che nella sua rapidità di baleno diceva di più e con maggior eloquenza che non avrebbe saputo e potuto dir mai parola nessuna.

Tutto codesto era passato in un attimo, Teresa confusa, aggirata, non aveva ancora avuto il tempo di riaversi, di riacquistare il pieno possesso di sè, della sua ragione, della sua memoria. Ma ad un tratto, appena ebbe abbracciato la figliuola e il marito, vivamente, con forza, impetuosamente, fu ella assalita dal pensiero di suo figlio — di suo figlio che mancava a quell'amplesso — di suo figlio che testè aveva co' suoi occhi veduto essa stessa cadere come corpo morto a terra; mandò un grido, si gittò le mani nei capelli e corse disperatamente, come forsennata, verso il corpo di suo figlio, sul quale precipitò, quasi ella stessa cadesse abbandonata dalla vita. Francesco rimaneva immobile e insensibile a quel posto; la fronte e il viso aveva ghiacci come quelli di un cadavere, gli occhi richiusi; la ferita nel petto eraglisi riaperta e una larga macchia di sangue sgorgatone appariva sul candore della sua camicia. La madre lo prese di sotto le ascelle e fece a sollevarlo; ma la forza ne mancò alle sue braccia tremanti.

— Francesco! Francesco! esclamò essa con infinito spasimo dovendo lasciar ricadere a terra il corpo diletto ed accasciandosi essa stessa sopra di lui.

Ma gli altri avevano seguitata la povera madre e furono solleciti in soccorso di lei. Giacomo coll'animo troppo oppresso da tutto quel precipizio di avvenimenti, scemato eziandio il vigor fisico dalla lotta testè sostenuta e dalle ricevutevi percosse, non ci valse e dovette lasciarsi cader seduto sopra una seggiola dove, rompendo in pianto come un ragazzo — egli così risoluto, forte e robusto di volontà e di fibra — si nascose tra le palme la faccia.

Giovanni Selva e Luigi Quercia che pareva il destino volesse presenti sempre ad ogni grave circostanza della famiglia Benda, sollevarono Francesco tuttavia svenuto, e lo trasportarono sul letto.

[197] Teresa si rialzò di terra stando sulle ginocchia e protese le mani che tremavano verso il figliuolo.

— O mio Dio! gemette: Madonna della Consolata, Santa Vergine dei dolori, rendetemi il figliuol mio!...

Quercia disfece la fasciatura di Francesco per esaminarne la ferita. Il sangue n'era uscito in abbondanza ed era gran ventura che esso avesse versato al di fuori, invece che diffusosi nell'interno; nè questa era la sola ventura che in quell'infelice precipitare di dolorosi avvenimenti avesse pur tuttavia toccato al ferito. Gian-Luigi fece ad un punto un atto vivace di gradevole sorpresa: afferrò un lume e si chinò sulla denudata ferita ad esaminarla; e' non s'era ingannato, fra le labbra sanguinose della trafittura stava a fior di pelle la palla di piombo che fino allora non avevano potuto estrarre ed avevano anzi giudicato imprudente di andar cercando; ritenuta nelle carni di qualche muscolo, allo sforzo fatto dal giacente per levarsi e camminare, al colpo da lui battuto in terra nella sua caduta, se ne era staccata ed usciva da sè naturalmente fuor della ferita. Quercia non ebbe che da prenderla colle sue dita medesime. Ciò che ognuno avrebbe creduto di mortale effetto pel trafitto, poteva così invece divenire mezzo di sua salvezza.

Gian-Luigi mostrò il proiettile alla madre di Francesco, la quale rimaneva ancora in terra inginocchiata, palpitante in un'ansia tremendissima.

— Si rassicuri: le disse. Io non ho mai creduto finora poterle dare con sincerità delle buone speranze come in questo momento. Faccia conto che suo figlio ha passata una crisi pericolosissima, che accenna volgere ad ottimo risultamento. Lo salveremo.

Teresa mandò un grido di gioia sovrumano, balzò in piedi con nuovo vigore subitamente riacquistato, si gettò al collo di chi le diceva quelle benedette parole, e lo abbracciò con èmpito di vivissimo affetto; anche il padre di Francesco levò dalle palme il volto inondato di lagrime, per mandare un'esclamazione di gioia; Maria si accostò pianamente a Luigi, gli prese quasi di soppiatto una mano e glie la strinse con forza.

Il grido della madre e l'esclamazione paterna parvero aver forza di ridestare gli spiriti di Francesco, che aperti gli occhi, girò tutt'intorno uno sguardo semispento e smemorato.

— Siamo salvi, siamo tutti salvi: gli disse la madre con ineffabile espressione di tenerezza e di gaudio infiniti.

Francesco che forse voleva fare un'interrogazione, mosse le labbra come per parlare; ma Quercia che gli rifaceva la fasciatura alla ferita, disse con amorevole autorevolezza:

— Zitto, zitto per adesso, e non pronunziate pure una parola..... Come sieno volte le cose ve lo diremo tosto che sarete in grado di ascoltarne la narrazione; per ora vi basti sapere che nulla avvenne di male, che tutto è finito e che nissun pericolo sovrasta più di nessuna fatta.

Ma l'occhio di Francesco seguitava a girarsi qua e là irrequieto.

— Ho capito: soggiunse Quercia: voi volete vedere vostra sorella... La venga qui, madamigella Maria, e ponga la sua nella mano del fratello.

Maria s'accostò e fece splendere il suo pallido sorriso innanzi al giacente che vedendola, sentendosene stringere la destra, mostrò colle sembianze del volto essere l'animo suo rasserenatosi e tranquillo.

In quella ecco dal cortile giungere sino colà il suono d'un gran fracasso e insieme un alto grido mandato da centinaia e centinaia di persone sorprese, commosse, spaventate. I tetti degli opificii erano rovinati, affondandosi in una voragine di fuoco; e le fiamme, non ostante gli sforzi di chi le combatteva, erano giunte ad appigliarsi al fenile. Questo rumore richiamò alla mente di tutti l'incendio che in mezzo a tante e sì diverse e vive commozioni parevano aver dimenticato. Lasciando il ferito alle cure della famiglia, i giovani, e Quercia primo, corsero a prestare l'opera loro contro l'incendio.

La truppa aveva arrestati parecchi dei riottosi, non senza averne ferito qualcheduno colle baionette; i principali socii della cocca avevano però trovato modo di scappolarsela; non così Marcaccio e Tanasio: quest'ultimo concio pei dì delle feste dal randello di Bastiano, era stato dal portiere medesimo afferrato pel colletto mentre voleva sgattaiolare trascinandosi carpone per la stanza, e dato in mano ai primi carabinieri che s'erano presentati, colla raccomandazione di essere il più matricolato mariuolo della specie e il principale fra gl'istigatori e i caporioni del tumulto. Ora tutti gli arrestati, feriti e non, stavano in mezzo al cortile, solidamente legati da non poter fare pure un moto, ad aspettare che i carabinieri, finita ogni altra bisogna, per cui era ancora necessaria colà la loro presenza, li menassero in carcere.

Due ore dopo i fatti qui addietro narrati il fuoco era non ispento, ma circoscritto almanco, ed ogni pericolo per la casa di abitazione cessato. Quercia, che nell'adoperarsi contro l'incendio, aveva dato prove di tal coraggio, forza e sangue freddo da mandarne meravigliati tutti quelli che l'avevano visto, così bene che il comandante dei carabinieri, il maggiore di fanteria, il capitano dei bersaglieri e il capo delle guardie a fuoco glie ne avevano manifestato la più entusiastica ammirazione e s'erano proposti di rendere il dovuto omaggio nel loro rapporto al merito ed al valore di lui; Quercia, dico, verso mezzanotte, si presentò alla famiglia Benda a toglierne commiato. Il disordine accresciuto del suo abbigliamento, il fumo e la polvere ond'era lordo, i panni ed i capelli suoi perfino, riarsi dalle [198] fiamme, indicavano abbastanza qual parte di rilievo avesse egli presa in quella lotta contro l'incendio, cui ora veniva ad annunziare essere domato per l'affatto. Gli opificii e le rimesse erano affatto distrutti; i cavalli dalle aperte scuderie erano fuggiti per la campagna folli di terrore e forse non si sarebbero più riavuti; il danno era gravissimo, ma in paragone a quello che avrebbe potuto essere, che aveva minacciato di avverarsi, poteva dirsi tuttavia che la sorte, impietositasi poscia, avesse voluto risparmiare la colpita famiglia. La cassa di ferro del gabinetto di sor Giacomo, abbandonata dai malandrini nella fuga, era stata ricuperata intatta.

A Francesco, assalito ora da febbre gagliarda e cui vegliavano tutti i congiunti, i quali volevano stare riuniti, quasi timorosi che separandosi non avessero da rivedersi più, si ministrava di quando in quando un cucchiaio di pozione calmante, mentre sul capo gli si tenevano pannolini immollati d'acqua fresca, che erano le sole cose cui Quercia avesse detto essere da farsi per allora.

Luigi esortò tutti a porsi a letto e prendere un po' di riposo. Giacomo ne aveva assoluto bisogno, e dovette cedere: Maria e Teresa non vollero muoversi di là, e si prepararono a passar la notte, avvicendandosi or l'una or l'altra al capezzale del giacente, e riposandosi negl'intervalli sopra il lettuccio da sedere. Quercia si partì di là coperto, accompagnato dalle benedizioni e dalla riconoscenza di quella famiglia, avendo più a fondo ribadito nell'anima ingenua di Maria un funesto, fatalissimo amore. Si partì in apparenza commosso, e ognuno avrebbe detto, vedendolo, che il suo cuore eziandio era pieno di turbamento, di tenerezza e d'affetto. Maria lo credette per cosa sicura.

S'avviò egli lentamente a piedi, giù del viale, per ritornare in città. Siccome nello sbaraglio aveva perso pastrano e cappello gli erano stati forniti un cappello ed un mantello di Francesco; egli s'avviluppò bene per difendersi dal freddo notturno di quell'ora dopo le dodici, e fatti pochi passi s'arrestò un istante a gettare uno sguardo su quella casa da cui era uscito allor allora. Una strana espressione si dipinse sul suo volto, cui sarebbe stato difficilissimo il definire: era come un'ironia, quasi uno scherno e insieme un lampo fugace di contentezza. Crollò il capo e tornò ad avviarsi. L'incendio che finiva di consumarsi fra le muraglie annerite degli opifizi e tratto tratto mandava ancora una fiammata, diffondeva pel cielo fatto nebbioso, sui rami secchi degli alberi coperti di neve, sul terreno in cui la neve indurita dal gelo suonava e scricchiolava sotto i piedi, dei riflessi di luce rossigna d'un effetto pieno di cupa tristezza. Al fracasso di poche ore prima era succeduto un alto silenzio, rotto di quando in quando da qualche voce delle guardie a fuoco che ancora vegliavano a guarentigia e tuttavia volgevano di tempo in tempo il getto d'acqua delle trombe idrauliche su qualche punto della fabbrica incendiata.

Tutto era finito. Quella sera fatale preparata con tanto lavorìo, aspettata con tanta ansia, su cui Luigi aveva fondato tante speranze delle quali una parte aveva ancora conservata non ostante l'avverso volgere degli avvenimenti: quella sera era passata, e che cosa ne aveva egli raccoltato? Nulla. Aveva compiutamente fallito in ogni suo disegno, come in ogni desiderio. Che cosa gli restava da fare? Come conchiudere quella sua sorte ch'e' sentiva minacciata? Sparire per tornar poi un giorno? Rinunciare per sempre e sprofondarsi nell'oblio? Lottare ancora, resistere con maggiore audacia di prima ai sospetti del mondo?

Di botto egli ruppe in un riso secco, metallico, vibrante di malvagia ironia, quale la potente fantasia di Goethe dovette udire suonare al suo pensiero dall'evocato demone dello scherno.

— Strano, strano: esclamò egli: strano e supremamente burlesco, come ogni episodio di questa gran commedia che è la esistenza umana. Commedia? Una miserabile farsa affè di Dio! Quel matto d'un azzardo, che gioca ai birilli cogli uomini, ha vinto, contro la mia intelligenza e contro la mia pretesa libera volontà, una partita di frode in cui sono rimasto bellamente deluso. Ho creduto di accavallare come un Titano monte su monte per dar l'assalto all'Olimpo, e non sono riuscito che a rammontare un mucchio di miserabili pietre da fare alla sassaiuola; avevo sognato di trovarmi a capo d'una plebe in furore, che colla potenza irrefrenabile del numero tutto abbatte e distrugge, ed ho dovuto oppormi io stesso e star contro a quattro arfasatti e scellerati d'ubbriaconi cui si fanno alzar le berze collo scudiscio. La macchina di guerra, che avevo sognato terribile e cui volevo rivolgere contro le più potenti istituzioni sociali, eccola cambiatasi in un miseruzzo di razzo che va appunto ad appiccare il fuoco ad una meschina di casuola privata che avevo pensato far salva. Erostrato fallito, invece che il tempio di Diana, non sono riuscito che ad appiccar fuoco ad una capanna; parodia di Catilina non ho manco potuto far tremare il Senato e ispirare la rettorica d'un Cicerone; rimango un vile assassino qual prima, che deve nascondersi nelle tenebre e cercare coll'arte della dissimulazione o colla fuga uno scampo. La maschera che già mi cadeva, di cui sento già tanto uggiosa impazienza, bisogna riassicurarmela sopra il viso.

Ripetè quel suo ghigno mefistofelico; ma chi l'avesse potuto vedere avrebbe notato nella contrazione delle sue sembianze l'indizio manifesto d'una ira dolorosa che gli tormentava l'animo.

— E tutto con pari successo: riprese a dire fra sè. Quella famiglia Benda ho le maggiori ragioni del mondo per voler sempre più ricca, e ne scemo con vistosissimi danni le sostanze; Francesco, morendo, [199] mi recherebbe un considerevole vantaggio e la sorte fa di me lo stromento per salvarlo dalla tomba... Io non posso adunque più comandare a nulla, nè agli uomini, nè agli avvenimenti?

Tacque un istante, camminando a capo basso, sempre più cupo nel volto.

— Che cosa farò io della cocca? Non ho potuto servirmene come avevo immaginato, non posso nemmanco infrangerla e liberarmene... Sì, questa vita mi pesa. — Ah mi pesa altresì e più ancora questa misteriosa essenza che è dentro di me. Se credessi ad un'altra vita al di là della tomba, vorrei precipitarmi a vedere che cosa ella è, non fosse altro che per vaghezza di mutamento, che per trarmi all'impaccio dei problemi insolubili che vanamente agito nella mia coscienza e nella mia natura; ma colla morte piombare nel nulla!... Non esser più, nulla, per nulla, in nulla!... No, quest'organismo e quel non so che ond'è animato, hanno tuttavia una vitalità che ha bisogno di provarsi e di essere..... Se tentassi di rientrare nella carreggiata della vita comune?

Come a mostrargli la impossibilità di siffatto proposito, una nuova idea, che pareva non aver pure la menoma attinenza con quelle che ne occupavano la meditazione, balzò in mezzo alla sua mente, e lo fece riscuotersi come ferito d'improvviso dalla punta acuta d'uno spillo.

— E i diamanti di Candida? si domandò egli ad un tratto. Bisogna bene che domattina glie li restituisca. Glie l'ho promesso... e non ho più che queste poche ore di notte per riaverli... Andiamo.

Innanzi ad un fatto materiale e preciso da compiersi, la sua risoluzione tornò in lui, ogni nebbia di vago pensiero, ogni fantasticheria disparve; sulla sua faccia apparì l'espressione d'una volontà forte, ferma e potrebbe anche dirsi feroce, e il suo passo divenne più sollecito e più franco. Dieci minuti dopo, il medichino entrava in Cafarnao, dove già erano radunati ad aspettarlo i capi supremi della cocca, meno l'ebreo Jacob Arom.

Erano tutti mortificati come segugi dopo una caccia infelice, che temono lo staffile del canattiere. L'impresa era riuscita male: s'era fatto molto danno, ma all'associazione s'era recato poco vantaggio: il bottino non era stato sì abbondante da rimeritare dell'audacia adoperata; la cassa di ferro dovuta abbandonar nella fuga era un grave rammarico, un vivo dolore per l'animo di quella brava gente, e sopratutto per quello sensitivo di Graffigna; quantunque i capi fossero riusciti a porsi in salvo, tuttavia parecchi fra gl'inferiori associati della cocca erano stati presi dalla forza pubblica; la qual cosa era pur sempre per tutti la minaccia d'un pericolo. Ognuno di coloro era stretto da un terribile giuramento a non parlare; a dar rincalzo agli effetti di questa obbligazione morale si aggiungeva bene la paura di una buona stilettata promessa a chi tradisse il menomo dei segreti dell'associazione, promessa che si sapeva sarebbe stata scrupolosamente mantenuta, quando il caso avvenisse: ma pur tuttavia una parola è così presto sfuggita, e per quei curiosoni della Polizia una parola può essere un bandolo atto a disfare tutta una matassa: insomma una triste preoccupazione, un disagio gravava sull'animo di quei valentuomini. Meno tranquillo degli altri era in cuor suo Graffigna, che temeva la collera del medichino, per avere così audacemente disobbedito ai segreti ordini che gli aveva dato intorno ai Benda; e il mariuolo s'era preparata una furba ed eloquente difesa, in cui provava inconfutabilmente ch'egli non ci aveva pur l'ombra d'una colpa, che le cose dovevano andare di quella guisa, e che le erano appunto avvenute non ostante ogni suo sforzo per impedirle: ma egli si sarebbe pienamente e tosto assicurato e risparmiatasi la fatica di comporre nella sua mente quell'arringa, quando avesse potuto leggere nell'interno del medichino che questi quella notte medesima aveva bisogno di lui.

La conferenza fra il medichino e i suoi complici fu piena di glaciale riserbo. Non un rimprovero, non un'osservazione neppure uscì dalle labbra del capo supremo. Si verificò l'ammontare delle somme derubate da Graffigna e da Stracciaferro e se ne stabilì la divisione in parti acconcie, secondo il grado ed il merito, fra i varii membri dell'associazione che avevano preso parte al fatto: quindi Gian-Luigi disse asciuttamente:

— Per ora non abbiamo nulla più da dirci. Separiamoci.

E come tutti si mossero per partire, egli soggiunse con un tono quasi di comando:

— Voi Graffigna e Stracciaferro fermatevi.

I due interpellati ristettero.

— Ci siamo alla ripassata: pensò Graffigna che si tenne pronto a sfoderare il suo discorsetto di difesa; ma non ebbe alcun bisogno di esso, perchè fu di tutt'altro argomento che il loro capo li trattenne a voce bassa, concitata, quasi fremente. E questo argomento dovette riuscire moltissimo aggradevole a Graffigna, perchè i suoi occhietti, che sembravano forati col succhiello, si diedero a brillare d'una fiamma allegra e vivacissima.

— Ah finalmente! esclamò egli battendo insieme le palme delle mani, quando il medichino ebbe posto termine al suo dire: questo sì che mi va!

— La va anche a me! bofonchiò Stracciaferro colla sua voce rauca, rotando intorno uno sguardo feroce.

Tosto dopo uscirono tutti tre, e l'uno mantenendo una certa distanza dall'altro, volsero i passi verso una comune direzione — che era quella della casa di Nariccia.

[200]

CAPITOLO XXX.

Erano le due circa dopo la mezzanotte. Torino dormiva immersa nel più alto silenzio e la strada stretta e tortuosa in cui sorgeva la casa di Nariccia era d'ogni altra più deserta, più scura, più abbandonata, più taciturna. Tre uomini s'arrestarono alla porta da via della casa nominata: il più piccolo e sottile di corpo fra essi trasse fuor di tasca una chiave bene inoliata ed aprì senza il menomo rumore l'uscio pesante che chiudeva quella porta; poi chetamente entrarono nell'andito i tre individui, primo uno di spigliata corporatura, alto di persona, di portamento elegante e quasi direi autorevole, secondo un omaccione di forme colossali, pesante nell'andatura, dalle sembianze e dai panni della più abbietta plebe, ultimo l'omiciattolo che pareva avere ne' piedi scarpe di feltro, tanto era senza rumore il suo passo guardingo. Quest'omiciattolo perchè la serratura dell'uscio non venisse chiusa, fece entrare a forza un picciol cuneo di legno nell'apertura per cui scattava la stanghetta a molla, poi rabbattè pianamente l'imposta sullo stipite. Inoltratisi di pochi passi nell'andito, il medesimo piccol uomo trasse di sotto ai panni una lanterna di quelle chiamate occhio di bove, la cui luce però poteva accecarsi mercè il giro d'una lastra che serviva a coprire il vetro, l'accese e passò innanzi a rischiarare i passi dei suoi compagni.

— Un momento: disse con voce sorda l'uomo dalle sembianze signorili.

Gli altri due si fermarono. Colui che aveva parlato trasse fuori una maschera di seta nera e se la pose sulla faccia; la qual cosa vedendo, quel piccolo dal corpo sottile disse a mezza voce, quasi parlando a sè stesso:

— Eh! ancorchè vedano le nostre bellezze quei due che stanno qui su, non avranno più tanta salute domani da andare a dire altrui chi fu a far loro visita stanotte.

Ed un orribile sogghigno sulle sue labbra tirate completò l'orribile significato di quelle sue parole. L'uomo che s'era messo la maschera non disse verbo. Ah! ben lo sapeva ancor egli che gl'infelici, ai cui occhi egli stava per comparire come uno spettro in quell'ora tremenda, non avrebbero di poi sciolto la lingua mai più; ma pure, in questa, come in altre simili orribili imprese, a cui aveva già preso parte pur troppo, egli non voleva che le sue vittime potessero vedere il suo volto, quasi sperasse con ciò che, non riconoscendolo, non potessero accusarlo al Giudice Eterno, innanzi a cui stavano per comparire. Quand'ebbe assicurato ben bene alle sue orecchie i cordoni della maschera, che lasciava scoperta soltanto la fronte — una pallida fronte solcata in mezzo da una ruga profonda, — quell'uomo fece silenziosamente cenno ai compagni proseguissero il cammino. L'omiciattolo entrò innanzi facendo lume col raggio della cieca lanterna rivolta a terra; salirono col passo guardingo e sospeso sino al secondo piano e s'arrestarono innanzi all'uscio chiovato di ferro del quartiere abitato dall'usuraio Nariccia. Colà quel medesimo della lanterna trasse dalle tasche un piccol mazzo di chiavi nuove, il cui ferro lucente rimandò con vivo riflesso il raggio che l'uomo fece cadere sopra loro dall'occhio di bue per sceglierne due fra esse: queste così trascelte mise egli nelle toppe di quell'uscio pesante, e col meno rumore che fosse possibile aprì una dopo l'altra le due serrature chiuse a doppia mandata. Il battente allora chetamente sospinto cedette alla mano; ma non s'aprì di più della larghezza di quattro dita; chè un altro ostacolo lo trattenne: era una forte catena di ferro passata traverso l'uscio e tenuta fra due ganci infissi nelle imposte.

L'omiciattolo mandò fra i denti una bestemmia, a cui fece eco un'altra peggiore vomitata dall'omaccione; quello dalla maschera nera si avanzò.

— A codesto non avevi pensato tu: diss'egli a voce sommessa con tono di rampogna, e il piccolo a cui era rivolta la parola rispose:

— Signor no; ma non monta... Non è quest'io che sia preso mai alla sprovveduta.

E tratta sollecitamente di tasca una finissima lima, si pose a segare con essa uno degli anelli di quella catena con tanta abilità quanta può dare una consumata perizia. In dieci minuti l'anello era rotto e l'uscio spalancato. I tre individui s'intromisero in quel quartiere come tre ombre. Questa volta l'uomo dalla maschera entrò l'ultimo, e chiuse dietro di sè con attenzione il battente dell'uscio.

Nariccia, dopo quell'ultima volta che Gian-Luigi l'aveva visto, recandogli in pegno i diamanti della contessa di Staffarda, avea sentito accrescersi il suo malessere, e poco o punto giovamento glie ne avea recato il farmaco di cui il medichino gli aveva scritto la ricetta. In quel giorno che era da poche ore finito, egli era stato più male che mai: aveva avuto delle vertigini, delle soffocazioni, dei granchi alle braccia ed alle gambe, una debolezza di corpo ed una confusione di mente, come non aveva provato mai. Postosi in letto di buon'ora, non aveva fatto che girarsi agitato di qua e di là fra le coltri fino passata mezzanotte, ed erasi finalmente addormentato da poco di un sonno pesante, irrequieto, tormentato, pieno di brutti sogni, affannato dall'incubo che lo faceva gemicolare dormendo. La sua vecchia fante, Dorotea, aveva offertogli di andare per un medico, di fargli dell'infusione di camomilla, di passar dallo speziale e richiederlo di qualche farmaco che gli potesse giovare; ma Nariccia non aveva voluto nulla, e le aveva comandato di lasciarlo tranquillo; la donna era andata a coricarsi e non aveva tardato ad addormirsi della grossa.

[201] L'usuraio dormiva adunque, ma come se una parte dell'anima sua stesse vegliando per avvertirlo quando qualche pericolo s'avvicinasse a minacciarlo, l'anello della catena che sbarrava l'uscio d'entrata era appena infrantosi, ch'egli si svegliò in sussulto, nè più nè meno che se una mano estranea lo avesse riscosso, e si levò a sedere sul letto, tendendo ansiosamente le orecchie. Non udì nulla, ma pure il suo istinto avvertiva la presenza d'un nemico. Fece a rassicurarsi da se stesso: le sue buone serrature erano ben chiuse, ed erano tali che grimaldello nessuno valeva ad aprirle, la grossa catena di ferro passata traverso i battenti dell'uscio, questo in complesso così forte che ad abbatterlo sarebbe stata necessaria una catapulta. Eppure la sua inquietudine non cessava. A forza di stare coll'animo sospeso e l'orecchio tirato, gli parve d'udire un fruscio nel corridoio che menava alla sua stanza; afferrò con mano sollecita un mazzo di fiammiferi che aveva sul tavolino da notte e ne soffregò uno per accendere il lume. Forse non era che un topo; forse non era che uno di quei lievi rumori di cui non si può conoscer la causa, che si sentono la notte nei luoghi abitati, scricchiolar di legno nei mobili, o un soffio d'aria traverso una fessura, od uno staccarsi della tappezzeria dalla parete; ma ad ogni modo voleva vederci chiaro.

— Sacr.....! aveva detto l'omiciattolo che colla lanterna in mano precedeva i compagni nel corridoio, camminando con piede leggerissimo e cauteloso; quel birbone indemoniato di Nariccia, mio buon amico, è già sveglio... Converrà far presto a stringergli il gorgozzule, od egli si mette a gracchiare da far saltar fuori tutti i casigliani.

Acceso il lume, Nariccia tornò a sentire più spiccato e preciso il rumore. Non era più un'illusione questa volta, nè poteva avervi dubbio di sorta: era un passo; il pavimento del corridoio cedeva sotto il piede pesante dell'omaccione dalle forme erculee.

L'avaro spaventato gettò le gambe giù della sponda del letto per levarsi, e intanto con quanto ne aveva in gola si mise a gridare:

— Dorotea! Dorotea!... C'è i ladri... Chiamate aiuto... Accorr'uomo! Accorr'uomo!

L'uscio della stanza si aprì rapidamente, l'omiciattolo guizzò dentro, e d'un balzo, prima che Nariccia avesse tempo a porre i piedi per terra, gli fu sopra e lo serrò alla gola. L'avaro lo aveva riconosciuto.

— Graffigna! aveva esclamato: ah misericordia!...

Non aveva potuto soggiungere altro, perchè la mano dell'assassino, prendendolo alla strozza, non gli lasciava più varco nemmanco al respiro. Gli occhi spaventati dell'avaro che si empivano di sangue avevano visto entrare tacitamente, quasi con una cupa solennità, dietro l'omiciattolo, il colosso dalle forme pesanti e il personaggio dalla maschera nera; la disperazione, la stessa immensità del grandissimo terrore diede alle membra di Nariccia una forza straordinaria, quale non avrebbe pensato neppur egli di avere; liberò il suo collo dalla stretta della mano assassina, e facendosi a sua volta offensore, piantò le unghie nella faccia da animal rosicchiante del piccol uomo che lo aveva assalito. Questi per difendersi dovette lasciar cadere a terra la lanterna cieca che teneva ancora tra mano; dovette indietrare così che urtando in una seggiola la mandò a gambe in aria sullo spazzo, mentre Nariccia riacquistato l'uso della voce, se ne serviva gridando forte quanto più poteva:

— Dorotea! Dorotea!... Aiuto!... Ai ladri! Agli assassini!...

L'uomo mascherato che, avvolto in un mantello, s'era fermo in sul limitare, guardando traverso i buchi della larva con occhi che parevan di fuoco, veri tizzoni d'inferno, s'avanzò d'un passo, e disse con voce secca e tono di comando:

— Troppo rumore; bisogna finirla.

L'usuraio si riscosse tutto a quella voce.

— Che! esclamò egli: siete voi?.... Gli è Lei?... Ah la riconosco alla voce, dottore.... Lei non lascierà che si faccia male ad un povero vecchio.... e suo amico.

— Brigante d'un ladro: bofonchiava con voce di falsetto l'omiciattolo alle prese con Nariccia, soffiando forte nella fatica di quella lotta che non avrebbe mai più creduto avrebbe trovato sì aspra: tu riconosci troppo la gente, e capirai che codesto ci secca al non pisoltra.

L'omaccione moveva in aiuto del suo compagno, quando si precipitava nella stanza la vecchia Dorotea. Svegliata dalle grida del padrone e dal rumore della lotta, in quel primo istante di confusione che succede a chi si desta improvviso, ella non sceglieva il miglior partito che le si presentasse, quale sarebbe stato di aprir la finestra e gridare per aiuto, ma sbalordita, senza rendersi pur conto esattamente di ciò che succedesse, corse dove la si chiamava, incappando nelle mani dell'omaccione, il quale senza punto esitazioni nè indugi, afferratala con violenza, la ridusse per sempre al silenzio.

Ma mentre così compivasi la trista sorte della povera Dorotea, l'omiciattolo continuando nel conflitto con Nariccia, non riusciva, malgrado ogni suo sforzo, a vincerlo, nè a farlo tacere: egli si volse quindi al personaggio dalla maschera, dicendogli:

— La mi venga a prestare un colpo di mano... questo corbaccio impossibile azzittirlo.

L'individuo mascherato ebbe un momento d'esitazione; la sua mossa anzi espresse la più viva delle ripugnanze, ma la superò tosto e s'avvicinò con passo frettoloso ai due lottanti.

— Per carità: diceva l'usuraio colla voce arrangolata; mi lascino la vita... Dottore, per amor di Dio, la vita... No... non l'ho riconosciuta... non ho [202] riconosciuto nessuno... Non dirò nulla... Lo giuro sull'anima mia... Mi dicano quello che vogliono... Darò loro tutto... tutto darò loro... ma mi lascino la vita...

La maschera nera stava sopra ai due che lottavano. Quell'uomo trasse giù la falda del mantello che aveva gettata sopra una spalla, e fece così libero alle mosse il suo braccio destro; il mantello aveva affibbiato dinanzi sotto il risvolto del colletto. Di mezzo alle pieghe del panno cadente uscì ratta una mano in cui brillava qualche cosa di lucente; e il misero Nariccia vide sul suo capo un raggio della luce rossigna della candela ch'egli aveva accesa, riflettersi sopra una lama di pugnale. Con uno sforzo supremo rigettò l'omiciattolo che più accanitamente gli si stringeva addosso, la destra protese con violenza contro il nuovo aggressore ed afferrò dove poteva; un'angoscia d'agonia gli spremeva da tutte le membra un sudore gelato. Il colpo s'abbassò; ma il misero assassinato non n'era ancora côlto, che questo colpo erasi fatto inutile; gli occhi in cui parevasi travasato il sangue torsero convulsamente le pupille, le guancie, divenute d'un rosso cupo, quasi violaceo, si contrassero orribilmente, la bocca piegò tutta a sinistra con una smorfia orribile a vedersi; un suono gutturale uscì da quelle labbra annerite, e Nariccia, come una massa di piombo, precipitò lungo e disteso all'indietro, trascinandosi seco l'omicciatolo di nuovo a lui avvinghiatosi, lacerando e portando seco nella mano stretta come una morsa d'acciaio il bavero del mantello che aveva afferrato all'uomo dalla maschera. Il colpo di pugnale misurato al capo, sviato per questa guisa, cadeva nell'attaccatura del collo alle spalle producendovi soltanto una ferita poco profonda; ma ciò che non aveva potuto fare la lama omicida, l'aveva fatto quel colpo apoplettico, cui Quercia aveva riconosciuto pochi giorni prima minacciare l'esistenza dell'avaro.

L'uomo dalla maschera si curvò sul caduto; ne esaminò un istante i lineamenti convulsi e disse con accento in cui avreste notato una tinta di soddisfazione:

— Non siamo noi che l'abbiamo ucciso questo uomo; è l'apoplessia.

Ripulì nella camicia stessa di Nariccia il suo pugnale dal sangue ond'era lordo, e lo ripose; poi tentò svellere dalla destra di lui quel pezzo del bavero del mantello ch'egli aveva strappato; ma la mano dell'usuraio era così irrigidita che gli fu impossibile venirne a capo.

— La non crede vossignoria: disse con voce insinuante, in tono di falsetto l'omiciattolo: che sarebbe assai bene per maggior precauzione dargli a questo povero Nariccia, miserabile carcame d'un avaro, qualche trivellatina da assicurarci compiutamente? Questa razza di birboni ha la vita così invitiata alle ossa!...

L'individuo mascherato fece un atto di ribrezzo.

— Eh via, diss'egli: non sono i leoni, sono le jene che incrudeliscono contro i cadaveri.

Si diresse all'omaccione:

— Guarda di aprir la mano di quel morto e togliergliene quello squarcio di panno... E noi frattanto affrettiamoci al forziere.

Seguìto dall'omiciattolo si recò sollecito nella stanza che serviva di studio all'usuraio: in un attimo fu aperta la cancellata entro cui stava la cassa di ferro; e contro le complicate serrature di questa si cimentarono le chiavi fatte da Andrea. Le servirono a meraviglia; e pochi minuti bastarono perchè lo adoperarsi dell'omiciattolo, che mostrava in codesto un'abilità straordinaria, facesse capo al più favorevole successo. Lo sportello fasciato di ferro venne aperto, e in quella sopraggiungeva l'omaccione al quale troppo premeva di accorrere coi compagni ad impadronirsi del bottino.

E questo bottino era veramente tale da far mandare un'esclamazione di meraviglia, di contentezza, di trasporto ai tre assassini. Enorme era il valore che loro si offrì agli sguardi in monete, in ori ed argenti lavorati, in gemme e diamanti. Gli occhi degli scellerati brillarono di ardentissima cupidigia; e i due che portavano gli abiti della più abbietta classe sociale, tesero con rapida mossa le mani che tremavano verso quel tesoro; ma quello dalla maschera li trattenne con una fiera voce di comando, li trasse in là con una violenta spinta.

— Fermi! gridò: le mani a casa. Tutto questo non è guadagno nostro, è guadagno comune della associazione. Conteremo a quanto ammonta il denaro, quanti sieno gli oggetti di valore, e di tutto renderemo conto ai nostri compagni.

I due seguaci fecero una smorfia di rassegnazione poco volontaria.

— Una sola eccezione devo fare, riprese colui che aveva tutto il contegno di capo: ed è per quelle buste di gioielli di marocchino rosso con suvvi una cifra ed una corona impresse in oro. Esse non figureranno nel conto, perchè ho l'obbligo assoluto di restituirle io stesso a chi appartengono; e non ci voglio mancare.

Gli altri due si guardarono di sottecchi. Un comune pensiero manifestavano i loro occhi e le loro faccie: e si compresero vicendevolmente a meraviglia. Se il capo si prendeva così subito una tanta parte di bottino esclusivamente per sè, oh perchè non avrebbero dovuto essi stessi prelevare a loro vantaggio alcuna cosa in proporzione? Anche l'uomo mascherato li comprese; li guardò in un certo modo e ripetè seccamente:

— Codesto lo voglio; e del fatto mio darò ragione al consiglio.

Nessuno dei due osò ribatter parola.

Il forziere fu vuotato con una regolarità ed un'accuratezza senza pari; il capo pres'egli stesso e subito [203] le buste di gioielli che aveva, come udimmo, designate; fatto così all'ingrosso il conto, la preda saliva intorno alle ottocento mila lire. Avevano aperto tutti i cassetti, scassinato tutti i ripostigli, rifrugato in ogni cantuccio. In uno dei più segreti di quegli scompartimenti avevano trovato parecchi fasci di carte legati da cordoncini; erano la maggior parte lettere di cui alcune parevano antiche assai dal giallognolo della carta e dallo sbiadito dell'inchiostro. Non v'era nulla in codesto che dovesse interessare gli assassini; eppure il capo di essi sentì una strana, inesplicabile curiosità di sfogliare e scorrere quell'ammasso di scritture. Prese all'azzardo uno di quei fasci e senza scioglierne il legaccio, diede una sguardata alle carte: erano contratti in cui Nariccia non aveva mai la parte del deluso, obbligazioni di poveretti sgozzati dalle esigenze dell'usuraio, carte di pegno e va dicendo. Se il tempo e il luogo fossero stati opportuni, quell'uomo avrebbe forse fatto un simile esame di tutti gli altri fasci; ma i suoi complici, a cui pareva ora che quel terreno scottasse i piedi, lo pressavano di finirla e partirsi: egli capì che avevano ragione, pensò un momento di prender seco e portar via quelle cartacce per esaminarle poi a suo bell'agio, ma sorrise a questo strano capriccio, e come per levarsene la tentazione rinchiuse l'uscio del forziere con una certa vivacità. Un fogliolino sottile che forse erasi staccato da uno di quei fasci maneggiati, sollevato dall'aria mossa dallo sportello, volò via e andò a cadere per terra non molto lontano; l'omiciattolo lo raccolse, e quasi sbadatamente se lo pose in tasca.

Uscirono con precauzione i tre assassini da quella casa in cui avevano consumato l'orrendo delitto, richiusero pianamente le porte dietro di sè, e nessuno fu ad udirli, nè ad avvertire in alcun modo la loro presenza. Erano circa le tre dopo la mezzanotte, e le strade erano deserte e silenziose come quando erano venuti.

Camminarono solleciti verso la bottega del Baciccia, la quale, previi certi segni di riconoscimento, si aprì loro, e donde passarono senza indugio in Cafarnao. Non avevano scambiato più una parola. Il medichino aprì il suo gabinetto, e colà in luogo apposito furono deposti i denari e i gioielli derubati. Gian-Luigi si tolse il mantello, ed allora si accorse di nuovo dello strappo fatto al bavero, di cui non aveva più avuto campo a ricordarsi.

— Quel pezzo di panno, domandò egli, l'hai tu levato dalle branche del morto, Stracciaferro?

— No: rispose questi. Quell'indemoniato lo teneva così stretto nel pugno che manco una morsa di ferro non fa peggio.

— Sciagurato: proruppe con isdegno il medichino. Dovevi piuttosto tagliare quella mano che lasciare al fisco un tale appiglio d'indagini.... Meriteresti che ti rimandassi colà, te solo, per non perdonarti più che quando tu mi portassi quel giusto squarcio.

— Se la lo vuole: disse Stracciaferro rassegnato; io ci vado, ma c'è troppo pericolo di farmi pigliare.

Il medichino stette un momento in silenzio come riflettendo: quel mantello, per azzardo, non era manco suo, e chi mai avrebbe potuto riconoscere che esso apparteneva a Francesco Benda, e che nella casa di costui egli l'aveva preso quella sera? Egli non poteva pur sospettare che al di sotto del bavero, in quel pezzo precisamente che era rimasto in mano dell'assassinato, c'era un contrassegno speciale, le lettere F. B. trapunte.

Mentre stava così pensieroso, Gian-Luigi, per moto quasi inconscio d'abitudine, tolse da una custodia apposita un sigaro e se lo pose fra le labbra: poi si diede a cercare un fiammifero, e Graffigna, zelante e premuroso di rendersi accetto e mostrare la sua deferenza al superiore, trasse sollecito di tasca un pezzo di carta, lo rotolò così un poco fra le mani e lo accese alla lanterna per presentarlo al medichino, ma questi aveva già dato fuoco al suo sigaro e fece un cenno col capo a significare che più non gli occorreva la fiamma di quella carta. Graffigna la spense, e da uomo accurato, qual esso era, pose il fogliolino rotolato e bruciato ad un capo sull'orlo della scrivania. L'occhio di Gian-Luigi cadde per caso sulle parole che v'erano scritte, le quali si trovavano nella parte esteriore del foglio spiegazzato, e su cui il raggio della vicina lanterna cadeva illuminandole distintamente. Quella scrittura gli fece un vivo e straordinario effetto; prese il foglio, lo rispiegò e rispianò, guardò ben bene, ed esclamò con un interesse, una specie di turbamento affatto nuovo:

— Dond'è venuto questo pezzo di carta?

Graffigna gli narrò come fosse volato via dal forziere di Nariccia ed egli lo avesse raccolto.

— Da Nariccia! Esclamò il medichino con un'espressione indefinibile: e il suo volto impallidì mentre gli occhi balenarono in istrana maniera. Si percotè la fronte: guardava quei caratteri come si guarda un enimma, da cui uom sa che dipende il proprio destino; le sue labbra, quasi forzate da una spinta superiore alla sua volontà balbettavano:

— La è la medesima scrittura... Sì per Dio, la è quella!

Stracciaferro, che aspettava un'ultima parola per decidere sul da farsi, interruppe quella meditazione accompagnata da tanto turbamento:

— Ebbene, diss'egli, che cosa debbo fare?

— Lasciatemi: rispose il medichino col tono di un uomo che nulla desidera più che liberarsi d'ogni compagnia. Ho gravi cose per la mente. Mi occorre d'esser solo.

Graffigna prese pei panni Stracciaferro, e tirandonelo, gli fece segno non insistesse dell'altro e lo seguisse. Gian-Luigi chiuse alle loro spalle l'uscio [204] del gabinetto: poi corse in fretta ad aprire un suo riposto stipo e da esso trasse fuori un pezzo di carta vecchio e logoro; era una lettera stracciata a metà per lo lungo: quella colla quale egli Gian-Luigi era stato messo nella ruota dei trovatelli. Paragonò la scrittura di quest'ultima lettera con quella del foglio datogli da Graffigna: erano identiche, erano della mano medesima senza niun possibil dubbio.

Pareva che la sorte, la quale aveva dato un destino uguale a lui ed a Maurilio, volesse ora del pari e pel medesimo mezzo e contemporaneamente far loro scoprire le proprie origini, metterli in grado di rintracciare le loro famiglie. Il biglietto che era stato trovato addosso a Maurilio infante era scritto dalla Gattona, e quella metà di lettera onde era stato accompagnato Gian-Luigi era della mano di un tale che corrispondeva con Nariccia.

Il pezzo di quella carta su cui dovevano essere state la segnatura e la data del biglietto era stato consumato dal fuoco, e non si poteva veder più nè l'una nè l'altra; quello che rimaneva di scritto e che Gian-Luigi lesse con avidità, era del tenore seguente:

«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi prego di ritenerlo alle medesime condizioni; che per l'avvenire poi.....»

Qui la carta era bruciata e la lettera interrotta.

Chi aveva scritto quelle parole era dunque in molta relazione con Nariccia; e colui doveva sapere senza dubbio nessuno il segreto della nascita di Gian-Luigi. Ma forse Nariccia medesimo lo conosceva eziandio e presentandogli quella metà di lettera avrebbe potuto dire al giovane derelitto chi fosse suo padre: ed egli tante volte era stato con quel vecchio usuraio! Una parola sola avrebbe bastato a diradare quelle tenebre, nè mai questa parola era stata pronunziata! Ed ora Nariccia era estinto — ed estinto in gran parte per opera di lui Gian-Luigi! — l'unico capo che forse rimanesse a sciogliere la matassa di quel mistero era codesto, ed egli lo aveva reciso! Contrattempo e sventura!

Ma quello non doveva essere l'unico foglio che rimanesse a Nariccia di quelli scrittigli da quell'uomo. Da questo medesimo biglietto che Gian-Luigi teneva in mano, appariva come fra colui e l'assassinato corressero seguitate e piuttosto intime relazioni: chi sa che in quei fasci di carte non ce ne fossero di importanti che riguardassero la sorte del fanciullo abbandonato? che in esse non si trovasse tanto da potere egli stesso, Gian-Luigi, penetrare senz'altro nel segreto del suo destino? Determinò tornare egli solo, di subito, in casa l'usuraio, si fece dare da Graffigna le chiavi e senza indugio si mosse. Ma quando fu per entrare nella porta della casa di quell'uomo, ch'egli poche ore innanzi aveva assassinato, il coraggio glie ne mancò per l'affatto. Si sentì come respinto da un'invisibile barriera contro cui avesse urtato il suo petto. Si allontanò di là; tornò facendosi violenza; provò di nuovo il medesimo effetto; vide alla fine una pattuglia che s'avanzava a quella volta, e fuggì perdutamente, quasi parendogli che ogni occhio di uomo dovesse leggergli sul volto il delitto ch'egli aveva commesso.....

Quella sera medesima, che era il lunedì, la contessa Langosco di Staffarda compariva al ballo di Corte adorna della ricca magnificenza di tutti i suoi diamanti.

Fine della 3ª parte

NOTE:

1.  Badino i lettori che queste cose scriveva Maurilio parecchi anni prima del 1848.

2.  Vincenzo Gioberti nell'aureo suo libro del Rinnovamento fa precisamente questo paragone quando dice che l'emancipazione della plebe e della donna è la missione precipua del presente secolo.

3.  Espressione testuale dell'Azeglio.

4.  Massimo d'Azeglio: I miei ricordi, vol. II, pagine 457-58.

5.  Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che io sto ancora al di qua del vero.

6.  Vedi Capit. XIII della Parte II.

7.  Vedi Capit. XX della Parte II.

8.  Voleva scrivere bonne.

9.  V. Janet, Philosophie du bonheur, chap. IX.

10.  Nome che questa razza di gente suol dare al carnefice.

11.  In codesto luogo avvenivano in quei tempi le esecuzioni capitali dei malfattori.

12.  Parole testuali di Carlo Alberto, quali ce le ha conservate Massimo d'Azeglio ne' suoi Ricordi. Superfluo il dire che in questo dialogo io mi sono strettamente attenuto a quanto ce ne lasciò scritto l'Azeglio medesimo.

13.  Nei suoi Ricordi Massimo d'Azeglio ci lascia la confidenza che in codesto colloquio non erasi tuttavia dileguato dal suo animo ogni sospetto verso la creduta duplicità di Carlo Alberto; ma siccome la compiuta fiducia venne poscia in lui, e d'altronde Massimo dopo quell'abboccamento operò sempre come se questa fiducia l'avesse, credo potere coi privilegi accordati allo scrittore di romanzi antivenire d'alquanto questo fatto, e mostrare fin da quel momento l'Azeglio persuaso della sincerità del Re.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (capofabbrica/capo-fabbrica, desio/desìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.






End of Project Gutenberg's La plebe, parte III, by Vittorio Bersezio

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www.gutenberg.org Section 3. Information about the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state's laws.

The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
volunteers and employees are scattered throughout numerous
locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt
Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact

For additional contact information:

    Dr. Gregory B. Newby
    Chief Executive and Director
    gbnewby@pglaf.org

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular
state visit www.gutenberg.org/donate

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate

Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our Web site which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org

This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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