The Project Gutenberg eBook, Scritti di Giuseppe Mazzini, Politica ed Economia, Vol. I, by Giuseppe Mazzini

This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with
almost no restrictions whatsoever.  You may copy it, give it away or
re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included
with this eBook or online at www.gutenberg.org

Title: Scritti di Giuseppe Mazzini, Politica ed Economia, Vol. I

Author: Giuseppe Mazzini

Release Date: June 9, 2009 [eBook #29082]

Language: Italian

Character set encoding: ISO-8859-1

***START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI, POLITICA ED ECONOMIA, VOL. I***

 

E-text prepared by Claudio Paganelli, Barbara Magni,
and the Project Gutenberg Online Distributed Proofreading Team
(http://www.pgdp.net)

 


 

 

 

SCRITTI

DI

GIUSEPPE MAZZINI
__________

POLITICA ed ECONOMIA


VOLUME PRIMO


PENSIERO ED AZIONE.


CASA EDITRICE SONZOGNO—MILANO
VIA PASQUIROLO, 14.



PROPRIETÀ RISERVATA
ALLA CASA EDITRICE SONZOGNO—MILANO




Milano.—Stab. Grafico Matarelli, via Passarella, 13-15.

[5]

PREFAZIONE

Per meglio diffondere fra il popolo gli scritti di Giuseppe Mazzini abbiamo di buon grado stipulato un contratto col benemerito e solerte editore signor Edoardo Sonzogno, il quale s'è assunto l'incarico di pubblicare in quattro volumi della sua Biblioteca Classica quanto di più eletto e di più importante sortì dalla penna del grande Educatore.

Nè la scelta degli scritti era molto agevole a farsi, come può sembrare a primo aspetto, perchè non si trattava di compendiare un lavoro storico o scientifico o di raccogliere brani scelti, come si fa talora, a comporre delle antologie, pei quali lavori non si chiede che attitudine a riassumere o gusto del bello letterario. Qua invece trattavasi di scegliere, prima di tutto, fra un grandissimo numero di scritti tutti ammirabili, sia che si guardi o alla forma o al concetto o all'efficacia; e non potevamo d'altra parte ridurli a brani senza nuocere alla loro chiarezza, senza menomarne l'importanza, e senza—ci si consenta di dirlo—mancare di riverenza a quel Sommo, in cui atto, pensiero, affetto, tutto è così armonico ed uno.

Eravamo nella condizione di chi, posto innanzi ad una collezione d'opere d'arte tutte ugualmente belle, con facoltà di sceglierne alcune, prima comincia a prendere questa e quella, poi un'altra ed un'altra ancora, finchè, accortosi d'aver oltrepassato il numero consentito, si trova costretto ad un nuovo doloroso lavoro d'eliminazione, e spesso rimane incerto, indeciso con l'oggetto nella mano, il quale non può ritenere senza cederne un altro, e che [6]non vorrebbe abbandonare.

Così a noi accadde, nella prima scelta, di mettere insieme molto più materiale di quello necessario, e costretti quindi a ridurlo nelle proporzioni volute dalla presente edizione, sovente restammo dubbiosi intorno all'esclusione di qualche scritto, finchè non si convenne di tenerci a questa regola: raccogliere dalle Opere complete del Mazzini specialmente gli ultimi scritti indirizzati ai giovani, ad associazioni popolari, a comitati, perchè i consigli, gli ammonimenti in essi contenuti sono anch'oggi opportuni come quando furono la prima volta dettati.

Ma scegliendo di preferenza gli ultimi lavori del gran Genovese, non potevamo escludere quelli che si riferiscono ai primi tempi del suo apostolato, perchè in quelli si pare nel pieno vigore l'altezza del suo intelletto, che ebbe spesso lume di vaticinio, l'indomito animo sol confortato da una fede che parve a molti follìa, e quindi tutta la grandezza dell'opera sua a beneficio della Patria per l'Umanità.

Non potevamo escludere i più importanti fra i primi suoi scritti anche perchè—e proviamo dolore e rossore nel confessarlo—non molti in Italia sanno anch'oggi—dopo ventidue anni da che egli è morto—la suprema importanza che ebbe il grande Agitatore nell'opera emancipatrice della Patria; perchè anch'oggi la storia o timida od aulica non sa o non può o non vuole indagare e svelare tutta la verità di quel primo glorioso periodo di predicazione, di lotte e di martirio. Ricordiamo d'aver veduto per molto tempo, appesi in locali pubblici, dei quadri raffiguranti, più o meno rozzamente, i fondatori dell'Unità d'Italia: Vittorio Emanuele in gran dimensione, poi Cavour, Garibaldi, Cialdini, Rattazzi, ecc. Giuseppe Mazzini non c'era, oppure si scorgeva lontano lontano, nello sfondo del quadro, quasi messo lì a fare corteggio agli altri.

Ricordiamo che da quattro o cinque anni appena, scrittori scolastici di storie d'Italia o di libri di lettura educativa[7] ardiscono inserirvi una monca e timida biografia di quell'uomo del quale la storia veridica dirà che fu il primo e il massimo tra i fondatori dell'unità d'Italia e che per altezza d'ingegno, per efficacia d'azione supera di tanto i sovraccennati, di quanto l'Alighieri supera gli altri tre poeti che, per lungo tempo, professori idolatri della forma anche senza pensiero, glorificarono pari a lui.

Era, da prima, nostra intenzione dividere la presente raccolta in quattro volumi: Politica, Economia, Filosofia, Letteratura; e ci fu subito agevol cosa fornire la materia per il volume letterario. Maggiore difficoltà incontrammo invece nel mettere insieme il III volume, perchè sovente negli scritti del Mazzini l'esame d'un avvenimento politico dà luogo a considerazioni d'ordine filosofico, come sovente dall'enunciazione d'un concetto filosofico escono ammaestramenti d'ordine politico.

Pure, dopo un lavoro paziente, riuscimmo a mettere insieme anche quel volume, scegliendo quelli scritti nei quali la parte filosofica predomina; ma per quanto si tentasse, ci fu impossibile fare una scelta conveniente di scritti che trattino esclusivamente d'economia; e le ragioni di tale difficoltà si fanno subito manifeste anche a chi, senza avere piena conoscenza delle opere del Mazzini, ricorda che per lui la questione economica è così congiunta alla questione politica, che afferma sempre essere vano ed assurdo occuparsi dell'una senza occuparsi dell'altra. Tutta l'azione mazziniana infatti è compresa in questo concetto: L'organismo politico è il mezzo necessario: il miglioramento economico e morale, il fine.

Ovvero nelle sue parole:

«Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione dev'essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo nelle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo triplice progresso,[8] essendo più urgente per le classi operaje, ad esse anzitutto devono essere rivolti i beneficî della rivoluzione.

«E neppure può esservi una rivoluzione puramente sociale. La questione politica, cioè a dire, l'organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, e tale che renda impossibile l'antagonismo alla Causa del progresso, è una condizione necessaria alla rivoluzione sociale»[1].

La verità di quest'affermazione, scritta nel 1862 e confermata da tutto lo sviluppo successivo del movimento sociale europeo, non avrebbe bisogno di commento se non occorresse rammentare come negli ultimi anni della travagliata vita fu per il Mazzini causa di amaro dolore ed altresì occasione di prestare alla patria, così ingrata verso l'esule, un grande e segnalato servigio.

Sorse poco dopo l'Internazionale a bandire che tutti i lavoratori dovessero unirsi nel solo intento di provvedere al loro avvenire economico, che dalla politica dovessero fare divorzio come da sterile lotta fra borghesi che li distoglieva dalla cura dei loro interessi materiali, i soli veri, i soli legittimi, i soli necessarî. E da tutte le nazioni, artigiani, scrittori ed uomini d'azione, attratti dalla lusinga di facili promesse, s'erano fatti intorno animosi alla novella bandiera—duci Carlo Marx e Bakunin—militando sotto la quale speravano di rinnovare ab imis la moderna società civile.

Era invero una critica poderosa delle ineguaglianze e delle ingiustizie che dilaniano il consorzio civile, era una potente affermazione delle sofferenze a cui è condannata una parte dell'Umanità per l'egoismo dell'altra, era un monito dei servi agli emancipati, come lo sciopero è monito agl'industriali che le leggi le quali governano la produzione e la distribuzione nelle industrie, non sono più[9] in relazione con la civiltà odierna, e vanno uniformate a criterî più equi e più umani. Ma questo verbo di nuovo progresso peccava alla base: credeva poter raccogliere sotto la bandiera degl'interessi individuali i lavoratori di tutto il mondo senza por mente al cozzo dei singoli interessi nella lotta per l'esistenza; credeva di sopprimere le barriere fra le nazioni, le favelle, le tradizioni, quanto si racchiude nella parola patria, per sostituirvi la solidarietà nel guadagno; il contrasto fra proprietà e lavoro, senza considerare che faceva appello a sentimenti e passioni radicate nell'egoismo, incapaci di suscitare quello spirito di fratellanza e di sacrificio, che solo un alto e nobile ideale può svegliare nell'anima delle moltitudini.

E dall'Inghilterra e dalla Francia ove prima sorse l'Internazionale, varcò la frontiera, e pose, per un momento, le sue tende in Italia; nè è a dirsi quale e quanta parte della gioventù si sarebbe lasciata attrarre dalle lusinghe di un movimento mondiale fra i proletarî, se Giuseppe Mazzini non avesse con la potenza de' suoi insegnamenti dimostrata la fallacia delle promesse di cui facevansi banditori i nuovi apostoli.

Fra questi non pochi spiriti generosi ma superficiali, sedotti dalla visione di una smagliante uguaglianza universale, si staccarono da lui per passare nell'altro campo, e col fervore di neofiti non risparmiarono amare accuse, violente apostrofi, senza per un istante deviarlo di una linea dalla via che si era tracciata, ma aggiungendo al tramonto d'un'esistenza, votata al sacrificio, altre spine a quelle che già lo avevano dilaniato.

Soffrì e vinse.

Dell'Internazionale più non si parla, come non si parla di altre scuole socialistiche, esotiche e nostrali, e da venticinque anni i sistemi più diversi e più estremi, sortiti dalle loro ceneri, dal collettivista all'anarchico, provarono e provano ogni giorno col fatto la verità dell'affermazione mazziniana—che[10] tanto condannarono una volta—collegandosi, agitandosi, socialisti e anarchici, per conquistare i pubblici poteri; gli uni per rinnovarli, gli altri, in teoria, per distruggerli.

I capi del socialismo germanico, i quali per lungo tempo furono citati per oppugnare col loro esempio l'opinione del Mazzini, prima col fatto—accettando il mandato di rappresentanti del popolo—poi con esplicite dichiarazioni, le quali vennero, e non è molto, provocate, affermarono essere la politica indispensabile a risolvere la questione sociale.

E se non bastasse la prova di coloro i quali aspirano alla comunità, non manca la riprova in quei pochi individualisti, i quali non rifuggono dai più selvaggi attentati per dimostrare con esempî di una barbarie medioevale la necessità del rinnovamento politico per preparare il terreno al rinnovamento sociale.

Così negli scritti del Maestro le due questioni sono—come erano nel suo pensiero—sì fattamente congiunte, che riesce impossibile, come abbiamo detto, separarle, se pure non ci si contenta di prendere qua e là brani, sentenze, formule, senza ordine e senza nesso.

Abbiamo quindi pensato di raccogliere quel maggior numero di scritti economico-politici consentito dalle proporzioni di questa edizione, distribuendoli in due volumi e disponendoli per ordine cronologico.

L'ordine cronologico è sempre necessario che venga adottato nella pubblicazione delle opere dei grandi scrittori, come quello che dalla genesi del pensiero ne fa notare via via, d'epoca in epoca, l'esplicazione, l'evoluzione, e spesso la trasformazione, offrendo così al lettore il destro di giudicare quanta parte ebbero in quelle manifestazioni gli anni, gli affetti, le pubbliche vicende.

Quest'ordine invece è richiesto dagli scritti del Mazzini soltanto per seguire lo svolgimento storico; chè, del[11] resto, nessun uomo forse, che sia stato meritevole d'immortalità per virtù di pensiero o d'azione, serba come il Mazzini immutato il cuore, l'intelletto, la fede nei diversi stadî d'una vita lunga e agitatissima.

Si direbbe che egli nacque colla fede già impressa nell'anima, che il genio si manifestò in lui d'un tratto in tutta la sua potenza, fino da quando si affacciò la prima volta alla vita politica. Ed è tanto vero e mirabile ciò, che i suoi scritti svolgono una medesima sintesi, spirano tutti una perpetua giovinezza, dai primi della Giovine Italia agli ultimi su Foscolo e Rossel.

E questo avvenne perchè egli, a differenza degli altri scrittori od uomini d'azione, non subì ma dominò, con la potenza del genio, l'epoca in cui visse; agitò, trasformò tutta una generazione per spingerla a conseguire quell'unità ch'egli solo, fra tanti consacrati sapienti, previde e volle con tenacia di propositi, con suprema virtù di sacrificio; egli d'un altro avvenire, tuttora lontano ma inevitabile, strenuo banditore fino alla morte.

Nè l'inflessibile attaccamento ad un reggimento popolare, fu nel Mazzini idea fissa, preconcetto dogmatico; fu invece un riflesso di quel meraviglioso intuito col quale, leggendo nel libro dell'avvenire, antiveggeva nella sovranità popolare la fatale decadenza dei troni, in Italia non solo, ma ovunque i nuovi bisogni e le nuove conquiste del popolo non potevano più confinarsi entro i limiti consentiti dalle regie prerogative.

Aboliti i maggioraschi che consacravano sotto la veste di proprietà le ultime vestigia dei diritti feudali, non potevasi più erigere a feudo un paese a beneficio dei maggiorenti di una famiglia; rivendicato al popolo il diritto di scegliersi i proprî reggitori, diveniva una contradizione mostruosa il far eccezione del maggiore e più geloso degli uffici, per trasmettere le redini della suprema direzione dello Stato, da padre a figlio, quasi che la[12] cresima usurpata dai pontefici in nome del diritto divino non fosse passata nelle mani del popolo.

A brandelli a brandelli i lembi del manto regio, fra rivoluzioni ed evoluzioni, passano in mano ai cittadini per lasciare a nudo una parvenza della forte tradizione monarchica: l'assurda finzione costituzionale del re che regna e non governa. E l'anima dell'apostolo, intenta all'opera educatrice d'insegnare il vero, il buono, il giusto, si ribellava a questa menzogna, e la mente dello statista calcolava tutte le conseguenze politiche e sociali che dovevano derivare da quell'innesto di un paese giovane su di un vecchio e cadente tronco; e numerava le schiere di adoratori curve dinanzi a quel feticcio, le abitudini ed i vizî delle corti insinuandosi e diffondendosi dalla vetta fino alla base della piramide sociale; e preconizzava le sorti del paese ammanettate a quelle di una dinastia, le libere espansioni di fratellanza, le simpatie popolari, gli affetti, le tradizioni incanalate e dirette a rinvigorire altre prerogative, a ribadire altri ceppi, a portare tributo di adorazione ad altri feticci; e vedeva ingaggiarsi una lotta continua fra la prerogativa sovrana e le libertà popolari, e in quella lotta e nei puntelli eretti intorno al trono sfibrarsi le migliori energie, esaurirsi le forze morali ed economiche del paese; e però nella sua opera educativa egli fu repubblicano: repubblicano visse e repubblicano morì.

E gli avvenimenti odierni, la decadenza morale ed economica, una fatale inerzia che stende un velo grigio su tutto il paese e rende ognuno indifferente, apata, passivo, mentre pericoli e vergogne frusterebbero il sangue a febbrile calore: tutto il ciclo triste dell'ultimo quarto di secolo mostra quant'egli era nel vero!

L'importanza storica degli scritti del Mazzini è tale e tanta, che scrivere non si può la storia d'una gran parte del secolo XIX senza consultare sovente, con onesto intendimento,[13] quegli scritti e nel loro concetto e nella loro potenza educativa; osiamo anzi asserire che nelle opere del Mazzini già pubblicate, e nell'Epistolario che verrà in seguito alla luce, è condensato una gran parte del materiale indispensabile a chi voglia scrivere con verità la storia d'Italia dal '21 fino ai giorni nostri; perchè il pensiero mazziniano non cessò con la morte del maestro, ma continuò nei suoi discepoli rimasti custodi e difensori e propagatori delle sue dottrine, bersaglio alle invettive e, quel ch'è più amaro, alle derisioni dei soddisfatti o dei sognanti vagheggiatori d'una nuova Città del sole.

La fede mazziniana, la fede nel dovere e nel sacrificio, è destinata dalla sua stessa natura a educare ben altre generazioni e a veder perire—condannate dall'educata coscienza delle moltitudini—dottrine che oggi hanno plausi ed inni, sebbene la miseria sia pronta a correre dietro ad ogni bella promessa, e l'ignoranza non permetta d'indagare quanto in quella promessa vi sia fondamento di verità.

E non i soli scritti del Mazzini, come abbiamo accennato, hanno grande importanza storica, ma bensì l'opera sua indefessa, rischiarata da tanta luce d'intelletto, riscaldata da tanto ardore di fede, e che a quelli è commento; però pensammo di raccogliere e collegare in questo primo volume le note autobiografiche scritte fra il '61 ed il '65 per la edizione completa delle opere, le quali non giunsero oltre l'ottavo volume per il sopraggiungere della morte che tolse alla Patria ed all'Umanità la persona, non l'anima, del grande Italiano.

Sono note che commentano ed illustrano un periodo di agitatissima vita italiana dal '21 al '53; e così raccolte nel presente volume ed interpolate da qualche scritto importante che meglio rende la fisionomia morale dell'apostolo e dell'agitatore, formano come una storia a larghi tratti di avvenimenti, ora dolorosi, ora lieti, ma sempre[14] grandi; di uomini d'antica tempra che nella lotta, nell'esilio, nel carcere e sul patibolo furono sempre magnanimi; e crediamo che questa storia, benchè compendiosa, molto opportunamente preceda la raccolta degli scritti politici ed economici, la cui serie va dal '32 al '72, attraverso cioè un periodo di 40 anni.

Spirato Giuseppe Mazzini in Pisa il 10 marzo 1872 ed instituita un'apposita Commissione per continuare la stampa e la diffusione delle opere di lui, rimaste in tronco, fu scelto a capo di essa Aurelio Saffi, il quale, con affetto d'amico, con reverenza di discepolo, ed anche con integra coscienza di cittadino e con autorità di primo e quasi diuturno cooperatore nell'apostolato mazziniano, commentò, illustrò con magistrali proemî gli altri nove volumi delle Opere complete pubblicate nel corso di 18 anni, finchè la morte inesorabile lo colse, mentre stava per metter mano al diciottesimo ed ultimo volume, coronamento della benefica ed insigne opera sua e degno monumento al più grande degl'Italiani.

Ma non potendo noi in questa edizione nemmeno riassumere i proemî del Saffi, i quali completano le note autobiografiche qui pure raccolte, nè volendo d'altra parte che le notizie intorno alla vita ed all'azione di Giuseppe Mazzini si arrestino all'anno 1853, abbiamo aggiunto alcuni brevi cenni, che troveranno la loro sede nel volume secondo, per completare a larghi tratti la parte biografica e per far meglio comprendere l'opportunità e il valore degli altri scritti che Mazzini pubblicò dal '53 al '72.

Fu lamentato da taluno che il prezzo elevato della nostra edizione completa abbia dato fin qui a pochissimi di poter conoscere nella sua integrità la dottrina di Giuseppe Mazzini, e che perciò la classe operaja, la quale fu cura precipua e affetto profondo e forte speranza del grande Educatore, poco sappia dell'opera e del pensiero di lui, e[15] quel poco sovente travisato da ignoranza o da mala fede d'interpreti.

Pur troppo ciò che si afferma intorno alla causa della scarsa diffusione degli scritti del Mazzini solamente in parte è vero, perchè noi vediamo ogni giorno editori e scrittori far la loro fortuna con pubblicazioni di romanzi o d'altri generi di componimento che sono frivoli quando non sono immorali; le quali edizioni pur costano assai specialmente per raffinati e spesso indecenti lenocinî tipografici.

Oggi, invero, una letteratura sbracata, malsana, corre le vie, s'insinua dappertutto, nelle case, nelle scuole; e colla pornografia larvata a positivismo scientifico aizza le passioni men nobili, stimola alla materialità di soddisfazioni fisiche che uccidono ogni senso d'ideale, ogni sentimento che eleva l'uomo al di sopra del bruto. È una educazione a rovescio che affinando l'intelletto e rivolgendo tutte le energie alla sola conquista dei godimenti materiali, distoglie lo sguardo dal cielo ove l'ascetismo cristiano l'aveva fissato, ma per ripiombarlo invece nelle manifestazioni della vita animale sulla terra. Quando, come oggi, dalla teoria darwiniana si elimina il pensiero di eterno progresso che la governa e si eleva la sterile lotta per la vita a mezzo e fine a sè stessa; quando nella evoluzione della specie non si vede la scala infinita che inalza l'umanità a Dio, e dai contrasti sociali altro non si deduce se non gli appetiti del gregge disputantesi la scarsa pastura e il pavoneggiarsi dell'animale maschio per impossessarsi della femmina; quando scopo della letteratura è il fotografare le fogne che carreggiano al mare i detriti sociali, o l'idealizzare le raffinatezze di un sensualismo dedito ad uccidere l'uomo ed il tempo; se da cotesta lenta soffocazione d'ogni nobile aspirazione lo Stato non sa difendere la gioventù alle sue cure affidate, non sostituendo più sana, più virile educazione,[16] non è a meravigliarsi se le vetrine dei libraî siano guarnite da libri di cui non sai se sia più sconcia l'illustrazione od il titolo; non è a meravigliarsi se laddove con riverente affetto passavano di mano in mano le opere di Dante o del Mazzini ora si mostrino le scollacciate pubblicazioni degli editori da trivio.

Si è domandato più volte la ragione perchè la Commissione editrice non abbia popolarizzati gli scritti dei quali cura la divulgazione, mediante una edizione per dispense a pochissimo prezzo. La risposta è semplice: sta nella triste esperienza dei fatti. In questo momentaneo disguido degl'intelletti, che nella morbosità degli appetiti rifiuta il sano cibo a cui la generazione omai tramontata deve i forti fatti della rigenerazione patria, e eccita gli snervati sensi cogli stimoli più pungenti, la iniziativa non sortirebbe utile risultato; non è il momento in cui il paese possa assimilare gl'insegnamenti di chi sopratutto l'amò, e per esso sperò e patì.

Sarà così in un prossimo avvenire?—Per il bene della patria, per l'onore di quella generazione a cui spetta la grande opera di redenzione morale, speriamo di no.

Intanto possa questa edizione economica in quattro volumi, a una lira il volume, trovare fra le classi popolari larga diffusione, perchè in essa è compreso ogni pensiero fondamentale, ogni sviluppo della dottrina di Mazzini, e sotto quest'aspetto può dirsi completa.

Al popolo italiano questi scritti affidiamo, perchè pel popolo furono dettati, perchè nel popolo, nel solo popolo, sono i germi di rigenerazione cui egli volle fecondare.

La Commissione editrice.

[17]


SCRITTI DI GIUSEPPE MAZZINI


INTRODUZIONE DELL'AUTORE

Londra, 25 marzo, 1861.

Richiesto di prefiggere all'Edizione de' miei Scritti politici e letterarî i ricordi della mia vita, ricusai l'incarico e persisterò. I frequenti dolori e le rare gioje della mia vita privata non importano se non ai pochi ch'io amo e che m'amano d'affetto individuale profondo: quel tanto di vita pubblica ch'io m'ebbi sta ne' miei Scritti; e l'influenza ch'essi esercitarono sugli eventi ch'oggi si compiono spetta al giudizio del paese, non al mio. Noncurante per tendenza ingenita dell'animo di quel vano romore che gli uomini chiamano fama, sprezzatore per indole altera e securità di coscienza delle molte calunnie che s'addensarono su' miei passi lungo la via, e convinto sino alla fede che debito della vita terrestre è dimenticare l'io pel fine che le facoltà dell'individuo e le necessità dei tempi prescrivono, non ho serbato mai note, copie di lettere o memoria di date. Ma s'anche io avessi custodito gelosamente ogni cosa, non mi darebbe l'animo di giovarmene. Davanti al ridestarsi d'un Popolo che solo finora ha da Dio, visibile nella Storia, il privilegio di rimutare, in ogni grande periodo della propria vita, l'Europa, ogni biografia d'individuo è meschina: fiaccola accesa di fronte al sole che sorge.

Andrò bensì frammezzando agli Scritti alcuni ricordi di cose ch'io vidi e d'uomini ch'io conobbi giovevoli a far meglio intendere il moto Europeo dell'ultimo terzo di secolo, ed anche qualche reminiscenza mia personale ove accenni al perchè degli Scritti e s'immedesimi collo svolgimento dei fatti che assicurano in oggi il trionfo dei due principali elementi dell'era nuova: Popolo e Nazionalità. La mia voce fu spesso voce di molti: eco di pensiero collettivo dei nostri giovani che iniziavano l'avvenire. S'essa ha valore, è quello di[18] documento storico; e ogni cosa che riesca a crescergli evidenza e mostrarne l'intima connessione colle vere tendenze Italiane, può tornar utile quando che sia. Forse interrogando le sorgenti del moto, i miei fratelli di Patria intenderanno più agevolmente e men tardi quali sieno gli errori e i traviamenti dell'oggi.

Giuseppe Mazzini.


NOTE AUTOBIOGRAFICHE.

Una domenica dell'aprile 1821, io passeggiava, giovanetto, con mia madre e un vecchio amico della famiglia, Andrea Gambini, in Genova, nella Strada Nuova. L'insurrezione Piemontese era in quei giorni stata soffocata dal tradimento, dalla fiacchezza dei Capi e dall'Austria. Gli insorti s'affollavano, cercando salute al mare, in Genova, poveri di mezzi, erranti in cerca d'ajuto per recarsi nella Spagna dove la Rivoluzione era tuttavia trionfante. I più erano confinati in Sampierdarena aspettandovi la possibilità dell'imbarco; ma molti si erano introdotti ad uno ad uno nella città, ed io li spiava fra i nostri, indovinandoli ai lineamenti, alle foggie degli abiti, al piglio guerresco, e più al dolore muto, cupo, che avevano sul volto. La popolazione era singolarmente commossa. Taluni fra i più arditi avevano fatto proposta ai Capi, credo Santarosa ed Ansaldi, di concentrarsi tutti nella città, impossessarsene e ordinarvi la resistenza; ma la città dicevano, era militarmente sprovveduta d'ogni difesa, mancavano ai forti le artiglierie, e i Capi avevano ricusato e risposto: serbatevi a migliori destini. Non rimaneva che soccorrere di danaro quei poveri e santi precursori dell'avvenire; e i cittadini vi si prestavano liberalmente. Un uomo di sembianze severe ed energiche, bruno, barbuto e con un guardo scintillante che non ho mai dimenticato, s'accostò a un tratto fermandoci: aveva tra le mani un fazzoletto bianco spiegato, e proferì solamente le parole: pei proscritti d'Italia. Mia madre e l'amico versarono nel fazzoletto alcune monete; ed egli s'allontanò per ricominciare con altri. Seppi più tardi il suo nome. Era un Rini, capitano nella Guardia Nazionale che s'era, sul cominciar di quel moto, istituita. Partì anch'egli cogli uomini pei quali s'era fatto collettore a quel modo; e credo morisse combattendo, come tanti altri dei nostri, per la libertà della Spagna.

Quel giorno fu il primo in cui s'affacciasse confusamente all'anima mia, non dirò un pensiero di Patria e di Libertà, ma un pensiero che si poteva e quindi si doveva lottare per la libertà della Patria.

Io era già inconsciamente educato al culto dell'Eguaglianza dalle abitudini democratiche dei due miei parenti e dai modi identici che essi usavano col patrizio e col popolano: nell'individuo essi non cercavano evidentemente se non l'uomo e l'onesto. E le aspirazioni alla libertà, ingenite nell'animo mio, s'erano alimentate dei ricordi di un periodo recente, quello delle guerre repubblicane francesi, che suonavano spesso sulle labbra di mio padre e dell'amico nominato più sopra; delle Storie di Livio e di Tacito che il mio maestro di Latino mi faceva tradurre; e della lettura di alcuni vecchi giornali da me trovati semi-nascosti dietro ai libri di medicina paterni, fra i quali ricordo alcuni fascicoli della Chronique du Mois pubblicazione girondina dei primi tempi della Rivoluzione di Francia. Ma l'idea che v'era un guasto nel mio paese contro il quale[19] bisognava lottare, l'idea che in quella lotta io avrei potuto far la mia parte, non mi balenò che in quel giorno per non lasciarmi più mai.

L'immagine di quei proscritti, parecchi dei quali mi furono più tardi amici, mi seguiva ovunque nelle mie giornate, mi s'affacciava tra i sogni. Avrei dato non so che per seguirli. Cercai raccoglierne nomi e fatti. Studiai, come meglio potei, la storia del tentativo generoso e le cagioni della disfatta. Erano stati traditi, abbandonati da chi aveva giurato concentrare i loro sforzi all'intento; il nuovo re aveva invocato gli Austriaci: parte delle milizie piemontesi li aveva preceduti in Novara; i capi del moto s'erano lasciati atterrire dal primo scontro e non avevano tentato resistere. Tutte queste nozioni ch'io andava acquistando sommavano a farmi pensare: potevano dunque, se ciascuno avesse fatto il debito suo, vincere; perchè non si ritenterebbe? questa idea s'impossessava più sempre di me, e l'impossibilità d'intravvedere per quali vie si potesse tentare di tradurla in fatti m'anneriva l'anima. Sui banchi dell'Università—v'era allora una Facoltà di Belle Lettere che precedeva di due anni i corsi legali e medici e ammetteva i più giovani—di mezzo alla irrequieta tumultuante vita degli studenti, io era cupo, assorto, come invecchiato anzi tratto. Mi diedi fanciullescamente a vestir sempre di nero; mi pareva di portar il lutto della mia patria. L'Ortis che mi capitò allora fra le mani mi infanatichì: lo imparai a memoria. La cosa andò tanto oltre, che la mia povera madre temeva di un suicidio.

Più dopo quella prima tempesta si racquetò; e diè luogo a men travolti pensieri. L'amicizia ch'io strinsi coi giovani Ruffini—ed era per essi e per la santa madre loro un amore—mi riconciliò alla vita e concesse sfogo alle ardenti passioni che mi fermentavano dentro. Parlando con essi di lettere, di risorgimento intellettuale Italiano, di questioni filosofico-religiose, di piccole associazioni—ch'erano preludî alla grande—da fondarsi per avere di contrabbando libri e giornali vietati, l'anima si rasserenava: intravvedeva possibile, comecchè su piccola scala, l'azione. Un piccolo nucleo di scelti giovani d'intelletto indipendente, anelante a nuove cose, si raggruppava d'intorno a me. Di quel nucleo, la cui memoria dura tuttavia nel mio core come ricordo di una promessa inadempita, nessuno è rimasto a combattere per l'antico programma, da Federico Campanella in fuori, oggi Membro di un Comitato di Provvedimento per Venezia e Roma in Palermo; morti gli uni, disertori gli altri: taluno fedele tuttavia alle idee, ma inattivo. Allora quella plejade fu salute all'anima tormentata. Io non era più solo.

 

Ho detto ch'io non intendo scrivere la mia vita, e balzo all'anno 1827. Sul finire, credo, dell'anno anteriore, io aveva scritto le mie prime pagine letterarie, mandandole audacemente all'Antologia di Firenze, che, molto a ragione, non le inserì e ch'io aveva interamente dimenticate, finchè le vidi molti anni dopo inserite, per opera di N. Tommaseo, nel Subalpino: versavano su Dante, ch'io dal 1821 al 1827 aveva imparato a venerare, non solamente come poeta, ma come Padre della Nazione.

Nel 1827 fremevano accanite le liti fra classicisti e romantici, tra i vecchi fautori d'un dispotismo letterario la cui sorgente risaliva per essi a duemila e più anni addietro e gli uomini che, in nome della propria ispirazione, volevano emanciparsene. Eravamo, noi giovani, romantici tutti. Ma a me pareva che pochissimi, se pur taluno, s[20]i fossero addentrati a dovere nelle viscere della questione. I primi, Arcadi di Roma, Accademici della Crusca, professori e pedanti, andavano ostinatamente scrivendo imitazioni fredde, stentate, senza intento, senz'anima, senza vita: i secondi, non dando base alla nuova Letteratura fuorchè la fantasia individuale, si sbizzarrivano in leggende dei tempi di mezzo, inni menzogneri alla Vergine, disperazioni metriche non sentite, e in ogni concetto d'un'ora che s'affacciasse alla loro mente intollerante d'ogni tirannide, ma ignara della santità della Legge che governa, come ogni altra cosa, anche l'Arte. E parte di questa Legge è che l'Arte o compendii la vita di un'Epoca che sta conchiudendosi o annunzii la vita di un'Epoca che sta per sorgere. L'Arte non è il capriccio d'uno o d'altro individuo, ma una solenne pagina storica o una profezia: e se armonizza in sè la doppia missione, tocca, come sempre in Dante e talora in Byron, il sommo della potenza. Or, tra noi, l'arte non poteva essere se non profetica. Gli Italiani non avevano da tre secoli vita propria, spontanea, ma esistenza di schiavi immemori che accattavano ogni cosa dallo straniero. L'Arte non poteva dunque rivivere se non ponendo una lapide di maledizione a quei tre secoli e intonando il cantico dell'avvenire. E a riuscirvi bisognava interrogare la vita latente, addormentata, inconscia del popolo, posar la mano sul core pressochè agghiacciato della Nazione e spiarne i rari interrotti palpiti e desumerne riverenti intento e norme agli ingegni. L'ispirazione individuale doveva sorgere con indole propria dalle aspirazioni della vita collettiva italiana, come belli di tinte varie e d'infiorescenza propria sorgono, da un suolo comune a tutti, i fiori, poesia della terra. Ma la vita collettiva d'Italia era incerta, indefinita, senza centro, senza unità d'ideale, senza manifestazione regolare, ordinata. L'arte poteva dunque prorompere a gesti isolati, vulcanici: non rivelarsi progressiva, continua, come la vita vegetale del Nuovo Mondo, dove gli alberi intrecciando ramo a ramo formano l'unità gigantesca della foresta. Senza Patria e Libertà noi potevamo avere forse profeti d'Arte, non Arte. Meglio era dunque consecrare la vita intorno al problema: avremo noi Patria? e tentare direttamente la questione politica. L'Arte Italiana fiorirebbe, se per noi si riuscisse, sulle nostre tombe.

Questi pensieri—che l'ingegno sommo e l'amor del paese devono avere di certo suggerito a Manzoni e che tralucono divinamente nei Cori delle sue tragedie ed altrove, raumiliati poi dalla soverchia mitezza dell'indole e dalla fatale rassegnazione insegnatagli dal Cattolicismo—erano allora pensieri di pochi. Predominava a tutto quel subuglio di letterati non cittadini la falsa dottrina francese dell'arte per l'arte. Soli, sul campo della Critica fecondatrice, ne davano indizio nell'Antologia Tommaseo e Montani. In me rinfiammavano l'idea dell'aprile 1821 e determinavano la mia vocazione di rinunziare alla via delle lettere per tentare l'altra più diretta dell'azione politica.

E fu il primo grande mio sacrificio. S'affaccendavano in quel tempo nella mia mente visioni di Drammi e Romanzi Storici senza fine, e fantasie d'Arte che mi sorridevano come imagini di fanciulle carezzevoli a chi vive solo. La tendenza della mia vita era tutt'altra che non quella alla quale mi costrinsero i tempi e la vergogna della nostra abjezione.

La via dell'azione a ogni modo era chiusa: e la questione letteraria mi parve campo ad aprirmela quando che fosse.

Esciva allora in Genova, edito dal tipografo Ponthenier, un giornaletto d'annunzî mercantili; e doveva, in virtù di non so quale prescrizione governativa, limitarsi a quell'angustissima sfera. Era [21]l'Indicatore Genovese. Persuasi il librajo ad ammettere annunzî di libri da vendersi, coll'aggiunta di due o tre linee quasi a definirne il soggetto e m'assunsi di scriverle. Fu quello il cominciamento della mia carriera di Critico. A poco a poco gli annunzî impinguarono e diventarono articoli. Il Governo, assonnato allora come il paese, non se ne avvide o non se ne curò. L'Indicatore si trasformò in giornale letterario. Gli articoli estratti da quel giornale, ristampati molti anni dopo tra gli Scritti d'un Italiano vivente, in Lugano, e che ricompariranno in questa edizione, non hanno valore intrinseco, ma rivelano l'intento con cui da me e da pochi altri giovani amici si scriveva e s'intendeva la questione del Romanticismo. La controversia letteraria si convertiva in politica: bastava mutare alcune parole per avvedersene. Erano guerricciuole, zuffe di bersaglieri sul limite di due campi. Per noi l'indipendenza in fatto di Letteratura non era se non il primo passo a ben altra indipendenza: una chiamata ai giovani perchè ispirassero la loro alla vita segreta che fermentava giù giù nelle viscere dell'Italia. Sapevamo che tra quelle due vite essi avrebbero incontrato la doppia tirannide straniera e domestica e si sarebbero ribellati dall'una e dall'altra. Il Governo finì per leggere e irritarsi di quella tendenza. E quando, sul finir del primo anno, noi annunziavamo imbaldanziti ai lettori che il Giornale s'ingrandirebbe, un divieto governativo lo spense.

Ma quei lavorucci dettati con impeto giovanile, e il fine ardito che trapelava, m'avevano fruttato un grado qualunque di fama in Genova e conoscenze d'uomini altrove che lavoravano poco dopo con me sulla via più dichiaratamente emancipatrice. Un mio rimprovero a Carlo Botta, storico di tendenze aristocratiche, senz'ombra d'intelletto filosofico, ma il cui stile foggiato talora a gravità tacitiana e lo sdegno alfieriano contro ogni straniero infanatichivano allora la gioventù, mi valse contatto cogli uomini, timidi i più, ma d'animo italiano dell'Antologia di Firenze. E due articoli d'un altro studente, Elia Benza di Portomaurizio, giovine d'alto sentire e di forte ingegno isterilito poi, con mio dolore, dalla soverchia analisi e dai conforti della vita domestica, pel Dramma I Bianchi e i Neri, ci diedero a corrispondente il Guerrazzi. Guerrazzi aveva già scritto, non solamente quel Dramma, ma la Battaglia di Benevento; e nondimeno, tanta era la separazione tra provincia e provincia d'una stessa terra, il di lui nome era ignoto fra noi: il Dramma, capitatoci a caso, ci aveva, di mezzo a forme bizzarre e a una poesia che rinegava ogni bellezza d'armonia, rivelato un ingegno addolorato, potente e fremente di orgoglio italiano. Io risposi alla di lui lettera, e s'intavolò fra noi un carteggio fraterno allora e pieno d'entusiasmo per promuovere l'avvenire. Quando il Governo Sardo soppresse l'Indicatore Genovese, il vincolo tra noi e i giovani Livornesi che facevano corona a Guerrazzi era già stretto di tanto da suggerirci l'idea di continuare la pubblicazione sotto il titolo d'Indicatore Livornese in Livorno.

Era la prima lotta che imprendevamo coi governucci che smembravano la povera Patria, e il senso di quella lotta ci crebbe l'ardire. Le tendenze politiche si rivelarono in quel secondo Giornale nel quale scrittori più assidui eravamo Guerrazzi, Carlo Bini ed io più esplicito e quasi senza velo. Parlammo di Foscolo, al quale, tacendo degli altri meriti, gl'Italiani devono riverenza eterna per avere egli primo cogli atti e gli scritti rinvigorito a fini di Patria il ministero del Letterato—dell'Esule, poema di Pietro Giannone, allora proscritto, di fede incorrotta, ch'io imparai più tardi a conoscere ed a stimare—di Giovanni Berchet delle cui poesie, magnifiche d'ira[22] italiana, moltiplicavamo allora noi studenti le copie e che mi toccò di vedere nel 1848 immiserito tra patrizî moderati e cortigiani regî in Milano. Osammo tanto, che l'intormentito Governo Toscano, compito l'anno, c'intimò di cessare. E cessammo. Ma quei due giornali avevano intanto raggruppato un certo numero di giovani potenti di una vita che volea sfogo; avevano toccato efficacemente nell'anime corde che fin allora giacevano mute; avevano—e questo era il più—provato ai giovani che i Governi erano deliberatamente avversi a ogni progresso e che libertà d'intelletto non era possibile se non cadevano.

Tra quell'armeggiare letterario, io non dimenticavo lo scopo mio e andava guardandomi attorno a vedere s'io potessi trovare uomini capaci d'avventurarsi all'impresa. Serpeggiavano tra noi voci vaghe di Carboneria rinata, d'un lavoro segreto comune alla Francia, alla Spagna, all'Italia. Cercai, spiai, interrogai tanto che finalmente un Torre, amico e studente di Legge, mi si rivelò membro della Setta o come dicevano allora dell'Ordine e mi propose l'iniziazione. Accettai.

Io non ammirava gran fatto il simbolismo complesso, i misteri gerarchici e la fede—o piuttosto la mancanza di fede politica—della Carboneria, come i fatti del 1820 e del 1821, da me studiati quanto meglio io poteva in quelli anni, me l'additavano. Ma io era allora impotente a tentare cosa alcuna di mio e mi s'affacciava una congrega d'uomini i quali, inferiori probabilmente al concetto, facevano ad ogni modo una cosa sola del pensiero e dell'azione e sfidando scomuniche e pene di morte, persistevano, distrutta una tela, a rifarne un'altra. E bastava perchè io mi sentissi debito di dar loro il mio nome e l'opera mia. Anch'oggi, canuto, credo che, dopo la virtù di guidare, la più alta sia quella di saper seguire: seguire, intendo, chi guida al bene. I giovani, troppo numerosi in Italia e altrove, che si tengono, per rispetto all'indipendenza dell'individuo, segregati da ogni moto collettivo d'associazione o di partito ordinato, sono generalmente quelli che più rapidamente e servilmente soggiacciono a ogni forza ordinata governativa. La riverenza all'Autorità vera e buona, purchè liberamente accettata, è l'arme migliore contro la falsa e usurpata.

Accettai dunque. Fui condotto una sera in una casa presso San Giorgio, dove, salendo all'ultimo piano, trovai chi doveva iniziarmi. Era, come seppi più tardi, un Raimondo Doria, semi-corso; semi-spagnuolo, d'età già inoltrata, di fisionomia non piacente. Mi disse con piglio solenne come la persecuzione governativa e la prudenza necessaria a raggiunger l'intento vietavano le riunioni e come quindi mi si risparmiassero prove, cerimonie e riti simbolici. M'interrogò sulle mie disposizioni ad agire, a eseguire le istruzioni che mi verrebbero via via trasmesse, a sagrificarmi, occorrendo, per l'Ordine. Poi mi disse di piegare un ginocchio e, snudato un pugnale, mi recitò e mi fece ripetere la formula di giuramento del primo grado, comunicandomi uno o due segni di riconoscimento fraterno, e m'accomiatò. Io era Carbonaro.

Uscendo, tormentai di domande l'amico che m'aspettava, sull'intento, sugli uomini, sul da farsi, ma inutilmente: bisognava ubbidire, tacere e conquistarsi lentamente fiducia. Mi felicitò, dell'avermi le circostanze sottratto a prove tremende e, vedendomi sorridere, mi chiese con piglio severo che cosa avrei fatto se m'avessero, come ad altri, intimato di scaricarmi nell'orecchio una pistola caricata davanti a me. Risposi che avrei ricusato, dichiarando agli iniziatori che, o la carica cadeva, per mezzo d'una valvo[23]la interna, nel calcio della pistola ed era farsa indegna d'essi e di me, o rimaneva veramente nella canna ed era assurdo che un uomo chiamato a combattere pel paese cominciasse dallo sparpagliarsi quel po' di cervello che Dio gli aveva dato. Fra me stesso io pensava con sorpresa e sospetto che il giuramento non conteneva se non una formula di obbedienza e non una parola sul fine. L'iniziatore non aveva proferito sillaba che accennasse a federalismo o unità, a repubblica o monarchia. Era guerra al Governo, non altro.

La contribuzione colla quale ogni affigliato doveva alimentare la Cassa dell'Ordine consisteva di 25 franchi all'atto della iniziazione e di 5 franchi mensili: contribuzione grave e a me, studente, più che ad ogni altro. Pure mi parea buona cosa. Grave colpa è raccogliere danaro altrui e usarne male; più grave l'esitare davanti a un sacrificio pecuniario quando le probabilità stanno perchè giovi a una buona causa. Oggi gli uomini—ed è uno dei più tristi sintomi che io mi sappia dell'egoismo abbarbicatosi all'anime—argomentano per un franco. E mentre si gettano ogni dì somme ingenti a procacciare a sè stessi conforti non reali, ma artificiali i più, gli uomini che per una impresa come quella di fondar la Patria o di crear libertà dovrebbero far moneta del sangue, lamentano l'impossibilità di sacrifici frequenti, e pongono, anzichè schiuder la borsa, la vita, l'onore, la dignità dell'anima loro o di quella de' loro fratelli a pericolo. I cristiani dei primi secoli versavano sovente a' piedi del sacerdote, a pro dei loro fratelli poveri, tutta quanta la loro ricchezza, non serbandosi che il puro necessario alla vita. Tra noi, è impresa utopistica, gigantesca, quella di trovare tra ventidue milioni d'uomini, che cicalano di libertà, un milione che dia un franco per l'emancipazione del Veneto. I primi avevano fede: noi non abbiamo se non opinioni.

Ebbi, non molto dopo, l'iniziazione al secondo grado e facoltà d'affigliare. Conobbi due o tre Carbonari, fra gli altri un Passano, antico Console di Francia in Ancona, che dicevano alto dignitario dell'Ordine; vecchio, pieno di vita, ma che si pasceva più di piccolo raggiro e d'astuzie che non d'opere tendenti virilmente e logicamente allo scopo. Rimasi nondimeno sempre in una assoluta ignoranza del loro programma o del che facessero; e cominciai a sospettare che nulla facessero. L'Italia non appariva nei loro discorsi che come terra diseredata d'ogni potenza per fare: appendice più che secondaria di altrui. Si professavano cosmopoliti: bel nome se vale libertà per tutti; nondimeno, a ogni leva è necessario, per agire, un punto d'appoggio e quel punto d'appoggio ch'io intravvedeva fin d'allora in Italia, era per essi visibilmente in Parigi. Fervevano allora in Francia le liti d'opposizione, nella Camera e fuori, alla Monarchia di Carlo X, ed essi non sognavano e non parlavano che di Guizot, di Barthe, di Lafayette e dell'Alta Vendita Parigina. Io pensava che avevamo dato noi Italiani l'Istituzione dei Carbonari alla Francia.

Fui richiesto di stendere in francese una specie di memorandum, indirizzato a non so chi, in favore della libertà della Spagna e a provare l'illegalità e le tristi conseguenze dell'intervento Borbonico del 1823. Mi strinsi nelle spalle e lo stesi. Poi, giovandomi delle facoltà che m'erano date, mi diedi ad affigliare tra gli studenti. Presentiva il momento in cui, crescendo di numero e formando tra noi un nucleo compatto avremmo potuto infondere un po' di giovine vita in quel corpo invecchiato. Continuavamo intanto, aspettando che si potesse far meglio, la zuffa contro quei che chiamavamo i Monarchici delle Lettere. E scrissi il lungo articolo d'una Letteratura Europea, che dopo lunghe contestazioni, note e corrispondenze fu ammesso[24] nell'Antologia di Firenze e troverà luogo in questa edizione. Finalmente, all'appressarsi visibile della tempesta in Francia, i nostri Capi parvero ridestarsi a un'ombra d'attività. E mi fu commesso di partire per la Toscana a impiantarvi la Carboneria. La missione era più grave ch'essi non pensavano. Le abitudini della famiglia, dalle quali io non aveva mai desiderato d'emanciparmi, s'opponevano inappellabilmente alla gita, quindi alla possibilità d'avere i mezzi che erano necessarî. Dopo lunghe esitazioni, risolsi compire a ogni modo l'incarico. Dissi ch'io mi recava per due giorni in Arenzano presso uno studente amico di casa, raggranellai sotto diversi pretesti un po' di danaro dalla buona mia madre, e mi preparai a partire.

Il dì prima della partenza—e cito questo fatto perchè mostra per quali vie si trascinasse allora la Carboneria—mi fu intimato di trovarmi a mezzanotte sul Ponte della Mercanzia. Vi trovai parecchi de' miei giovani affigliati convocati essi pure senza sapere il perchè. Dopo lungo aspettare, comparve il Doria; e lo seguivano due ignoti, ammantellati sino agli occhi e muti come due spettri. Il core ci balzava dentro per desiderio e speranza d'azione. Fatto cerchio, il Doria dopo un breve discorso rivolto a me sui biasimi colpevoli e sulle intemperanze dei giovani inesperti e imprudenti, accennò ai due ammantellati e dichiarò ch'essi partivano il dì dopo per Barcellona onde trafiggervi un Carbonaro reo d'avere osato sparlare dei Capi, però che l'Ordine, quando trovava ribelli, schiacciava. Era una risposta a' miei lagni rivelati da qualche affigliato zelante. Io ricordo ancora il fremito d'ira che mi sorse dentro alla stolta minaccia. Mandai, su quei primi moti dell'animo, a dire ch'io non partiva più per Toscana e l'Ordine schiacciasse pure. Poi, racquetato e ammonito dagli amici ch'io sacrificava senza avvedermene la causa del paese all'offeso individuo, mutai consiglio e partii, lasciando lettera a rassicurare la mia famiglia.

In Livorno fondai una Vendita: affigliai parecchi Toscani ed altri d'altre provincie, tra i quali ricordo un Camillo d'Adda, lombardo, allievo di Romagnosi e ch'esciva allora, credo, dalle prigioni dell'Austria, e Marliani, che moriva anni dopo difendendo Bologna contro gli Austriaci. Commisi il resto a Carlo Bini, anima buona e candida, serbatasi incontaminata attraverso una gioventù passata fra i rozzi e rissosi popolani della Venezia[2], ingegno potente, ma che imprigionato fra le cure mercantili e fatto indolente da un profondo scetticismo, non di principii, ma degli uomini e delle cose d'allora, non potè rivelarsi che a lampi. Una immensa rettitudine d'animo e una immensa capacità di sagrificio per ciò ch'ei credeva bene, sagrificio tanto più meritevole quanto meno ei credea nel successo, erano doti immedesimate con lui. Ei rideva con me delle formalità e del simbolismo dei Carbonari, ma credeva, com'io credeva, nell'importanza d'ordinarci, sotto qualunque forma si fosse, all'azione.

Viaggiammo insieme a Montepulciano dov'era allora relegato Guerrazzi, colpevole d'aver recitato alcune solenni pagine in lode d'un prode soldato italiano, Cosimo Delfante, tanto quei miseri Governi d'allora s'adombravano d'ogni ricordo che potesse guidarci a sentire men bassamente di noi. Avrebbero, se fosse stato in loro potere, abolito la Storia.

Vidi Guerrazzi. Ei scriveva l'Assedio di Firenze e ci lesse[25] il capitolo d'introduzione. Il sangue gli saliva alla testa mentr'ei leggeva ed ei bagnava la fronte per ridursi in calma. Sentiva altamente di sè, e quella persecuzioncella che avrebbe dovuto farlo sorridere gli rigonfiava l'anima d'ira. Ma ei sentiva pure altamente della sua Patria nei ricordi della passata grandezza e nei presentimenti de' suoi fati futuri; e mi pareva che l'orgoglio italiano, e l'orgoglio dell'io, non gli avrebbero forse impedito di sviarsi quando che fosse, ma gli avrebbero resa impossibile ogni bassezza e ogni transazione con chi egli avrebbe sentito da meno di quel ch'egli era. Non aveva fede. La fantasia potente oltremodo lo spronava a grandi cose: la mente incerta, pasciuta di Machiavelli e di studî sull'uomo del passato più che d'intuizioni sull'uomo avvenire, lo ricacciava nelle anatomie dell'analisi, buone a dichiarare la morte e le sue cagioni, impotente a creare e ordinare la vita. Erano in lui due esseri combattenti, vincenti e soggiacenti alternativamente: mancava il nesso comune, mancava quell'armonia che non discende se non da una forte credenza religiosa o dagli impulsi prepotenti del core. Stimava poco: amava poco. Io cercava in lui una scintilla di quell'immenso affetto che si versava dagli occhi di Carlo Bini, mentr'egli commosso dalla lettura delle magnifiche pagine che i giovani d'Italia sanno a memoria, lo guardava d'un guardo di madre pensoso unicamente dal suo soffrire. Erano i tempi (1829), nei quali ci venivano, aspettate con ansia, di Francia, le lezioni storiche di Guizot e le filosofiche di Cousin, fondate su quella dottrina del Progresso che contiene in sè la religione dell'avvenire, che splendeva, rinata da poco, nei discorsi eloquenti di quei due e che non prevedevamo dovesse miseramente arrestarsi un anno dopo all'ordinamento della borghesia e alla Carta di Luigi Filippo. Io l'aveva attinta dal Dante nel Trattato della Monarchia, pochissimo letto e sempre frainteso. Ed io parlava con calore dei due Còrsi, della Legge, del futuro che doveva presto o tardi irrevocabilmente escirne. Guerrazzi sorrideva tra il mesto e l'epigrammatico. E quel sorriso m'impauriva come s'io avessi intravveduto tutti i pericoli di quell'anima privilegiata: m'impauriva di tanto, ch'io partii senza parlargli a viso aperto del motivo principale della mia gita e commettendo a Bini di farlo. E nondimeno io l'ammirava potente e benedetto d'un nobile orgoglio, che, come dissi, m'era mallevadore dell'avvenire. Stringemmo allora una fratellanza che più tardi si ruppe, non per mia colpa.

Tornato in Genova, trovai mali umori tra gli alti dignitarî dell'Ordine. A me fu detto di non dare conto del mio lavoro al Doria; poco dopo, redarguito di non so che, egli ebbe intimazione da chi stava più in alto di lui d'allontanarsi per un certo tempo dalla città, e promise farlo. Ma un giorno ch'io esciva di casa sull'alba per recarmi a una campagna (Bavari) dove stava allora mia madre, lo incontrai sulla via, e ne feci riferta. Non so di dove egli escisse a quell'ora; ma tramava, irritato, vendetta contro l'Ordine, i suoi lavori e i nuovi affigliati.

Scoppiava l'insurrezione francese del luglio 1830. I capi s'agitavano senza intento determinato, aspettando libertà da Luigi Filippo. Noi giovani ci diemmo a fondere palle e a prepararci per un conflitto che salutavamo inevitabile e decisivo.

Non ricordo le date; ma poco dopo le tre Giornate di Francia, mi venne ingiunto di recarmi ad ora determinata al Lion Rouge, albergo esistente allora nella salita San Siro, dove avrei trovato un maggiore Cottin di Nizza o Savoja, il quale avea ricevuto, dicevano, il primo grado di Carboneria da Santa Rosa e invocava il secondo[26] ch'io doveva conferirgli. Eravamo noi giovani maneggiati dai Capi a guisa di macchine e sarebbe tornato inutile chiedere perchè scegliessero me a quell'ufficio invece d'altri a cui fosse già noto il maggiore. Accettai quindi l'incarico. Soltanto, côlto da non so quale presentimento, mi intesi, prima di compierlo, coi giovani Ruffini, intimi di mia madre, intorno a un modo di corrispondenza segreta da praticarsi per mezzo delle lettere della famiglia nel caso possibile d'imprigionamento a cui soggiacessi. E l'antiveggenza giovò.

Mi recai, nel giorno assegnato, all'albergo, nelle cui stanze intravidi il Passano, che fece sembianza di non conoscermi. Chiesi del Cottin e lo vidi. Era uomo piccolo di statura con un guardo errante che non mi piacque: vestiva abito non militare: parlava francese. Gli dissi, dopo d'essermi fatto riconoscere fratello, o, come allora dicevano, cugino, ch'ei doveva sapere perch'io venissi. Introdotto nella sua stanza da letto, chiuso l'uscio, ei piegò un ginocchio ed io, cavata, com'era d'uso, una spada dal bastone, cominciava a fargli prestare il giuramento, quando si schiuse subitamente un piccolo uscio praticato, accanto al letto, nel muro, e s'affacciò da quello un ignoto. Mi guardò e richiuse. Il Cottin mi pregò d'acquetarmi, dichiarò ch'era quegli un domestico suo fidatissimo e si scusò dell'avere dimenticato di chiudere l'usciolo a chiave. Compita l'iniziazione, il maggiore mi disse ch'ei si recava tre giorni a Nizza dove avrebbe lavorato utilmente fra la milizia, ma che la memoria lo tradiva e ch'io avrei fatto bene a dargli la formula del giuramento in iscritto. Ricusai, dicendogli che non era abitudine mia scrivere cose siffatte: scrivesse egli sotto mia dettatura. Scrisse, e m'accomiatai, scontento di quella scena.

L'ignoto, come seppi più dopo, era un carabiniere regio travestito.

Trascorsi pochi giorni io era nelle mani della polizia.

Io aveva sulla persona, al momento in cui la sbirraglia s'impossessò di me, materiale per tre condanne: palle da fucile, una lettera in cifra del Bini, un ragguaglio delle tre giornate di Francia stampato su carta tricolorata, la formula di giuramento del secondo grado e inoltre, dacchè fui preso sull'uscio di casa mia, un bastone con entro lo stocco, fra le mani. Riuscii a liberarmi di ogni cosa: quella gente aveva le tendenze, non l'ingegno della tirannide. La lunga perquisizione fatta in casa e fra le mie carte non fruttò scoperte pericolose. Fui nondimeno, e quantunque il commissario (Pratolongo) sostasse e mandasse per ordini, tratto alla caserma dei carabinieri in Piazza Sarzano.

Là fui interrogato da un vecchio commissario per nome Bollo, il quale, dopo avermi tentato in ogni modo possibile, nojato della mia freddezza, pensò atterrirmi provandomi ch'io era tradito, e mi disse a un tratto ch'io, il tal giorno, la tal ora, nel tal luogo, aveva iniziato al secondo grado di Carboneria, il maggiore Cottin. Un lieve brivido mi corse l'ossa; mi contenni nondimeno, e risposi ch'io mal poteva confutare un romanzo, ma sperava che il maggiore sarebbe venuto a confronto con me.

Non venne. Egli aveva, accettando la parte di agente provocatore, stipulato che non se ne sarebbe fatto motto nel processo. Rimasi parecchi giorni nella caserma, esposto al sogghigno e ai motteggi dei carabinieri, il più letterato fra i quali m'additava ai compagni come una nuova edizione di Jacopo Ortis, corrispondendo, mercè un pezzetto di matita ch'io m'era trovato mangiando, fra i denti—il pranzo m'era mandato da casa—e col quale io scriveva nella biancheria, rimandandola. Diedi in quel modo avviso agli amici perchè distruggessero alcune carte pericolose agli affigliati toscani. Seppi che erano stati [27]imprigionati altri con me, Passano, Torre, un Morelli avvocato, un Doria librajo, ed uno o due ignoti: nessuno dei giovani affigliati da me.

Governava allora in Genova un Venanson, lo stesso che, richiesto da mio padre delle mie colpe, rispondeva non esser tempo di dirle; ma ch'io era a ogni modo dotato di certo ingegno e tenero di passeggiate solitarie notturne, e muto generalmente sui miei pensieri; e al Governo non andavano a sangue i giovani d'ingegno dei quali non si sapeva che cosa pensassero.

Una notte, destato subitamente, mi vidi innanzi due carabinieri, i quali m'ingiunsero d'alzarmi e di seguirli. Pensai si trattasse d'un interrogatorio; ma l'avvertirmi d'un d'essi ch'io non lasciassi il mantello, mi fece accorto ch'io doveva escire dalla caserma. Chiesi dove s'andasse: risposero non poterlo dire. Pensai a mia madre che, udendomi il dì dopo sparito, avrebbe ideato il peggio, e dichiarai risolutamente ch'io non sarei partito se non trascinato, quando non mi venisse concesso di scrivere un biglietto alla famiglia. Dopo lunghi dubbî e consigli col loro ufficiale, concessero. Scrissi poche linee a mia madre dicendole ch'io partiva, ma che non temesse di male alcuno, e seguii i miei nuovi padroni. Trovai all'uscio una portantina nella quale mi chiusero. Quando si fermò, udii a un tempo uno scalpito di cavalli, indizio di partenza per luogo lontano e la voce inaspettata di mio padre che mi confortava ad avere coraggio.

Non so come egli fosse stato informato della partenza, dell'ora e del luogo. Ma ricordo ancora con fremito i modi brutali dei carabinieri che volevano allontanarlo, il loro sospingermi dalla portantina nella vettura, sì ch'io potei appena stringergli la mano, e il loro avventarsi furente, per riconoscere un giovane che stava fumando a poca distanza e m'avea salutato del capo. Era Agostino Ruffini, uno dei tre che mi furono più che amici, fratelli, morto anni sono, lasciando perenne ricordo di sè, non solamente fra gli Italiani, ma tra gli Scozzesi che lo conobbero esule e ne ammirarono il core, l'ingegno severo e la pura coscienza.

Eravamo davanti alle carceri di Sant'Andrea. Scese da quelle un imbacuccato che fecero salire nella vettura ov'io era e vi salirono pure due carabinieri armati di fucile; e partimmo. Nel prigioniero riconobbi poco dopo Passano. Uno dei due carabinieri era l'ignoto del Lione Rosso.

Fummo condotti a Savona (Riviera Occidentale) in Fortezza e tosto disgiunti. Giungevamo inaspettati, e la mia celletta non era pronta. In un andito semibujo dove mi posero, ebbi la visita del governatore, un De Mari, settuagenario, il quale motteggiandomi stolidamente sulle notti perdute in convegni colpevoli e sulla tranquillità salutare ch'io troverei in Fortezza—poi rispondendomi, sul mio chiedere un sigaro, ch'egli avrebbe scritto a S. E. il Governatore di Genova per vedere se poteva concedersi—mi fece piangere, quand'ei fu partito, le prime lagrime dall'imprigionamento in poi.

Erano lagrime d'ira nel sentirmi così compiutamente sotto il dominio d'uomini ch'io sprezzava.

Fui dopo un'ora debitamente confinato nella mia celletta. Era sull'alto della Fortezza: rivolta al mare e mi fu conforto. Cielo e Mare—due simboli dell'infinito e, coll'Alpi, le più sublimi cose che la natura ci mostri—mi stavano innanzi quand'io cacciava il guardo attraverso l'inferriate del finestrino. La terra sottoposta m'era invisibile. Le voci dei pescatori mi giungevano talora all'orecchio a seconda del vento. Il primo mese non ebbi libri: poi, la cortesia del nuovo governatore, cav. Fontana, sottentrato per ventura all'antico, fe' sì ch'io ottenessi una Bibbia, un Tacito, un Byron. Ebbi p[28]ure compagno di prigionia un lucherino, uccelletto pieno di vezzi e capace d'affetto, ch'io prediligeva oltremodo. D'uomini io non vedeva se non un vecchio sergente Antonietti che m'era custode benevolo, l'ufficiale al quale si affidava ogni giorno la guardia e che compariva un istante sull'uscio, ad affisare il suo prigioniero, la donna piemontese, Caterina, che recava il pranzo, e il comandante Fontana. L'Antonietti mi chiedeva imperturbabilmente ogni sera s'io avessi comandi, al che io rispondeva invariabilmente: un legno per Genova. Il Fontana, antico militare, capace d'orgoglio italiano, ma profondamente convinto che i Carbonari volevano saccheggio, abolizione di qualunque fede, ghigliottina sulle piazze e cose siffatte, compiangeva in me i traviamenti del giovine e tentò, a rimettermi sulla buona via, ogni arte di dolcezza, fino a tradire le sue istruzioni conducendomi la notte a bere il caffè colla di lui moglie, piccola e gentile donna imparentata, non ricordo in qual grado, con Alessandro Manzoni.

Intanto, io andava esaurendo gli ultimi tentativi per cavare una scintilla di vita dalla Carboneria coi giovani amici lasciati in Genova. Ogni dieci giorni io riceveva, aperta s'intende e letta e scrutata dal Governatore di Genova a da quello della Fortezza, una lettera di mia madre e m'era concesso risponderle, pur ch'io scrivessi in presenza dell'Antonietti e gli consegnassi aperta la lettera. Ma tutte queste precauzioni non nuocevano al concerto prestabilito tra gli amici e me, ed era che dovessimo formar parole, per sovrappiù di cautela, latine, colla prima lettera d'ogni alterna parola. Gli amici dettavano a mia madre le prime otto o nove linee della sua lettera; e quanto a me, il tempo per architettare e serbare a memoria le frasi ch'io dovrei scrivere, non mi mancava. Così mandai agli amici di cercare abboccamento con parecchi fra i Carbonari a me noti, i quali tutti, côlti da terrore, respinsero proposte ed uomini; e così seppi l'insurrezione Polacca, ch'io per vaghezza d'imprudenza giovanile annunziai al Fontana, il quale m'aveva accertato poche ore prima tutto essere tranquillo in Europa. Di certo, ei dovè raffermarsi più sempre nell'idea che noi avevamo contatto col diavolo.

Bensì, e il terrore fanciullesco dei Carbonari in quel solenne momento, e le lunghe riflessioni mie sulle conseguenze logiche dell'assenza d'ogni fede positiva nell'Associazione, e una scena ridicola ch'io m'ebbi col Passano (il quale incontrato da me per caso nel corritojo mentre si ripulivano le nostre celle, al mio susurrargli affrettato: ho modo certo di corrispondenza; datemi nomi, rispose col rivestirmi di tutti i poteri e battermi sulla testa per conferirmi non so qual grado indispensabile di Massoneria), raffermavano me nel concetto formato già da più mesi: che la Carboneria era fatta cadavere e che invece di spendere tempo e fatica a galvanizzarla, era meglio cercar la vita dov'era, e fondare un edificio nuovo di pianta.

Ideai dunque, in quei mesi d'imprigionamento in Savona, il disegno della Giovine Italia; meditai i principii sui quali doveva fondarsi l'ordinamento del partito e l'intento che dovevamo dichiaratamente prefiggerci: pensai al modo d'impianto, ai primi ch'io avrei chiamato a iniziarlo con me, all'inanellamento possibile del lavoro cogli elementi rivoluzionarî Europei. Eravamo pochi, giovani, senza mezzi e d'influenza più che ristretta; ma il problema stava per me nell'afferrare il vero degli istinti e delle tendenze, allora mute, ma additate dalla storia e dai presentimenti del core d'Italia. La nostra forza dovea scendere da quel Vero. Tutte le grandi imprese Nazionali si iniziano da uomini ignoti e di popolo, senza potenza fuorchè di fede e di volontà che non guarda a tempo nè ad ostacoli: gl[29]'influenti, i potenti per nome e mezzi, vengono poi a invigorire il moto creato da quei primi e spesso pur troppo a sviarlo dal segno.

Non dirò qui come gli istinti e le tendenze d'Italia, quali m'apparivano attraverso la Storia e nell'intima costituzione sociale del paese, mi conducessero a prefiggere intento all'Associazione ideata l'Unità e la Repubblica. Accennerò soltanto come fin d'allora il pensiero generatore d'ogni disegno fosse per me, non un semplice pensiero politico, non l'idea del miglioramento delle sorti d'un popolo ch'io vedeva smembrato, oppresso, avvilito: ma un presentimento che l'Italia sarebbe, sorgendo, iniziatrice d'una nuova vita, d'una nuova potente Unità alle nazioni d'Europa. Mi s'agitava nella mente, comunque confusamente e malgrado il fascino ch'esercitavano su me in mezzo al silenzio comune le voci fervide di coscienza direttrice uscenti allora di Francia, un concetto ch'io espressi sei anni dopo; ed era che un vuoto esisteva in Europa, che l'Autorità, la vera, la buona, la Santa Autorità nella cui ricerca sta pur sempre, confessato a noi stessi o no, il segreto della vita di tutti noi, negata irrazionalmente da tanti i quali confondono con essa un fantasma, una menzogna d'Autorità e credono negar Dio quando non negano che gli idoli, era svanita, spenta in Europa, che quindi non viveva in alcun popolo potenza d'iniziativa. È concetto che gli anni, gli studî e i dolori hanno confermato irrevocabilmente nell'animo mio e mutato in fede. E se mai, ciò ch'io non credo, mi fosse dato, fondata una volta l'Unità Italiana, di vivere un solo anno di solitudine in un angolo della mia terra o in questa ove io scrivo e che gli affetti m'hanno fatta seconda patria, io tenterò di svolgerlo e desumerne le conseguenze più importanti ch'altri non pensa. Allora da quel concetto non maturato abbastanza balenava, come stella dell'anima, un'immensa speranza: l'Italia rinata e d'un balzo missionaria di una Fede di Progresso e di Fratellanza, più vasta assai dell'antica, all'umanità. Io aveva in me il culto di Roma. Fra le sue mura s'era due volte elaborata la vita Una del mondo. Là, mentre altri popoli, compìta una breve missione, erano spariti per sempre e nessuno aveva guidato due volte, la vita era eterna, la morte ignota. Ai vestigi potenti d'un'epoca di Civiltà che aveva avuto anteriormente alla Greca, sede in Italia, e della quale la scienza storica dell'avvenire segnerà l'azione esterna più ampia che gli eruditi d'oggi non sospettano, s'era sovrapposta, cancellandola nell'oblìo, la Roma della Repubblica conchiusa dai Cesari, e avea solcato, dietro al volo dell'aquile, il mondo noto coll'idea del Diritto, sorgente della Libertà. Poi, quando gli uomini la piangevano sepolcro di vivi, era risorta più grande di prima e, risorta appena, s'era costituita, coi Papi, santi un tempo quanto oggi abbietti. Centro accettato d'una nuova Unità che levando la legge dalla terra al cielo, sovrapponeva all'idea del Diritto l'idea del Dovere comune a tutti e sorgente quindi dell'Eguaglianza. Perchè non sorgerebbe da una terza Roma, la Roma del Popolo Italico, della quale mi pareva intravedere gli indizî, una terza e più vasta Unità che armonizzando terra e cielo, Diritto e Dovere, parlerebbe, non agli individui, ma ai popoli, una parola di Associazione insegnatrice ai liberi ed eguali della loro missione quaggiù?

Queste cose io pensava tra l'inchiesta serale dell'Antonietti e i tentativi per convertirmi del governatore Fontana, nella mia colletta in Savona: queste io penso oggi, con più logico e fondato sviluppo, nella stanzuccia, non più vasta della mia prigione, ov'io scrivo. E mi valsero nella vita accuse d'utopista e di pazzo, e oltraggi e delusioni che mi fecero sovente, quando fremeva tuttavia dentro me una s[30]peranza di vita dell'individuo, guardare addietro con desiderio e rammarico alla mia celletta in Savona, tra il mare e il cielo, lungi dal contatto degli uomini. L'avvenire dirà s'io antivedeva o sognava. Oggi il rivivere d'Italia, fidato a materialisti immorali celebrati grandi da un volgo ignaro e corrotto, condanna le mie speranze. Ma ciò ch'è morte agli altri popoli è sonno per noi.

Da quell'idee io desumeva intanto che il nuovo lavoro dovea essere anzi ogni altra cosa morale, non angustamente politico: religioso, non negativo; fondato sui principî, non su teoriche d'interesse; sul Dovere, non sul benessere. La scuola straniera del materialismo aveva sfiorato l'anima mia per alcuni mesi di vita Universitaria; la Storia e l'intuizione della coscienza, soli criterî di verità, m'avevano ricondotto rapidamente all'idealismo de' nostri padri.

Il mio processo era stato rimesso a una Commissione di Senatori in Torino, fra i quali non ricordo che il nome d'un Gromo. La promessa data al Cottin limitava tutte le testimonianze a mio danno a quella del carabiniere che m'avea veduto, collo stocco snudato, nella stanza dell'iniziato. Contro quella stava la mia; e s'equilibravano. Era chiaro ch'io doveva essere assolto. Avrei adunque avuto campo al lavoro.

Fui difatti assolto dalla Commissione Senatoriale. Se non che il Governatore Venanson, odiato e odiatore in Genova, irritato dallo sfregio e pauroso della taccia di calunniatore che la popolazione, vedendomi libero, gli avrebbe avventato, corse a gettarsi ai piedi del re clementissimo, Carlo Felice, accertandolo che per prove fidate a lui solo io era colpevole e pericoloso, e il re clementissimo, commosso al dolore inquieto del Governatore, calpestò la sentenza dei giudici e i miei diritti ed il dolore muto de' miei genitori, e fece intimarmi che o mi scegliessi soggiorno, rinunziando a Genova, a ogni punto delle spiaggie liguri, a Torino e ad altre città d'importanza, Asti, Acqui, Casale o altra piccola città dell'interno—o ch'io andassi in esilio a tempo indefinito da prolungarsi o accorciarsi dalla volontà regia a seconda dei meriti o demeriti della mia condotta. E il bivio mi fu posto da mio padre che s'affrettò a Savona per liberarmi dall'ultima noja dell'essere ricondotto in Genova fra gendarmi, dacchè al decreto del clementissimo era aggiunta la disposizione ch'io non vedessi alcuno fuorchè i miei più vicini parenti. Il Passano, in virtù dell'antico consolato in Ancona e della nascita in Corsica, era stato già prima di me ridonato a libertà senza patti e passeggiava le vie di Savona: abitudine antica d'ogni governo regio in Italia d'aborrire la Francia e adularla a un tempo e compiacerle e servirle.

Era intanto scoppiata, poco prima della mia liberazione, l'insurrezione del Centro (febbrajo 1831). Intesi in Genova che gli esuli Italiani si addensavano sulla frontiera confortati di larghe speranze e d'ajuti dal nuovo Governo di Francia. In una delle minori città di Piemonte, ignoto fra ignoti, io mi sarei veduto condannato a un'assoluta impotenza dalla vigilanza della polizia e imprigionato nuovamente al primo atto sospetto. Per queste ragioni scelsi l'esilio che mi dava libertà piena e ch'io allora fantasticava brevissimo. Lasciai la famiglia; dissi a mio padre, ch'io non doveva rivedere più mai, di star di buon animo e che la mia era assenza di giorni; e partii. Traversai la Savoja che la libertà moderata non aveva ancora fatta francese, e il Cenisio; e mi recai in Ginevra. Di là io doveva avviarmi a Parigi, e la sollecitudine materna m'avea dato compagno di viaggio uno zio che avea abitato per lunghi anni la Francia.

Andai a visitare Sismondi, lo storico delle nostre repubbliche, pel quale io avea commendatizia d'una amica sua, Bianca Milesi Moion.[31] M'accolse più che cortese, e con lui la moglie Jessie Mackintosh scozzese. Sismondi lavorava allora intorno alla Storia di Francia. Era buono, singolarmente modesto, di modi semplici e affabili, italiano d'anima; e m'interrogò con ansia d'affetto sulle cose nostre. Mi parlò di Manzoni del quale ammirava oltre ogni sua cosa il Romanzo, e dei pochi i quali davano segno di vita intellettuale rinascente. Deplorava in noi le tendenze appartenenti tutte al XVIII secolo, ma le spiegava colla necessità della lotta. Le sue non n'erano emancipate quant'ei credeva; e la sua scienza non oltrepassava i limiti delle teorica dei Diritti e la conseguenza unica di questa teorica, la Libertà. E d'altra parte l'amicizia che lo stringeva ai capi della scuola dottrinaria d'allora, Cousin, Guizot, Villemain, annebbiava visibilmente i suoi giudizî sugli uomini e sulle cose. Nelle tendenze di quegli uomini dei quali nè egli nè io sospettavamo l'intento, nel culto esclusivo, frainteso, della libertà, e nelle condizioni della sua Svizzera egli avea succhiato il federalismo e lo predicava siccome ideale di reggimento politico ai molti esuli Italiani, segnatamente lombardi, che gli stavano intorno e pendevano dalle sue ispirazioni: non era fra essi chi sospettasse possibile e desiderabile l'Unità. M'introdusse, nel Cerchio di Lettura, a Pellegrino Rossi, il quale si limitò ad additarmi un tale seduto in un angolo e creduto spia. Non so quale indefinito senso di sconforto s'insignoriva di me vedendo dappresso quelli esuli ch'io aveva fino a quel giorno ammirati rappresentanti l'anima segreta d'Italia. La Francia era tutto per essi. La politica m'appariva nei loro discorsi come scienza, maneggio, calcolo diplomatico di transazioni opportune, non fede e moralità.

Mentre a ogni modo io m'accomiatava un giorno da Sismondi chiedendogli s'io poteva far cosa alcuna per lui in Parigi, un esule lombardo che avea sempre ascoltato attentamente i miei discorsi senza mover parola, mi chiamò in disparte e mi susurrò nell'orecchio che, s'io aveva desiderio d'azione, mi recassi in Lione e mi presentassi agli Italiani che troverei raccolti nel Caffè della Fenice. Lo guardai con vera riconoscenza, chiedendogli il nome. Era Giacomo Ciani, condannato a morte dall'Austria nel 1821.

In Lione, trovai fra i nostri una scintilla di vera vita. Predominava negli esuli che v'erano raccolti, e v'accorrevano ogni giorno, l'elemento militare. Trovai molti di quelli uomini ch'io aveva veduto dieci anni addietro errare, coll'ira della delusione sul volto, per le vie di Genova; e avevano d'allora in poi onorato il nome Italiano nell'armi difendendo la libertà Spagnuola o la Greca. Vidi Borso de' Carminati, ufficiale che nel 1821 s'era in Genova, in Piazza de' Banchi, cacciato fra il popolo irruente e i soldati ai quali era stato ordinato fuoco contr'esso, militare d'alte speranze, salito più tardi ai più alti gradi nelle guerre spagnuole, e che avrebbe levato grido di sè nelle nostre, se l'indole irritabile, incauta, intollerante d'ogni sopruso, non lo avesse travolto, per odio ad Espartero, in un tentativo indegno di lui che gli costò vita e fama: Carlo Bianco, che mi diventò amico e del quale riparlerò: un Voarino, ufficiale di cavalleria, un Tedeschi ed altri, piemontesi tutti, proscritti del 1821 e in mezzo ad una maggioranza costituzionale monarchica, non per fede ma perchè monarchica era la Francia, repubblicani. Erano accorsi per partecipare in una invasione che stava ordinandosi della Savoja da un Comitato, membri del quale ricordo il generale Regis, un Pisani, un Fechini. La spedizione contava da forse duemila italiani e un certo numero d'operai francesi. I mezzi abbondavano, però che la bandiera monarchica e la credenza che il Governo Francese spingesse al moto avevano raccolto[32] esuli ricchi, patrizî, principi, uomini d'ogni colore, all'impresa. I preparativi si facevano pubblicamente: la bandiera tricolore Italiana s'intrecciava nel Caffè della Fenice, stanza del Comitato, alla bandiera Francese; i depositi d'armi erano noti a tutti: correvano comunicazioni continue tra il Comitato e il Prefetto di Lione.

Le stesse cose avevano luogo ad un tempo sulla frontiera Spagnuola. Luigi Filippo non era ancora stato riconosciuto dalle monarchie assolute: cercava d'esserlo; e agitava per atterrire e costringere. Come Cavour diceva, trent'anni dopo ai plenipotenziarî raccolti in Parigi: o riforme o rivoluzioni, la nuova monarchia di Francia diceva ai re titubanti: o accettazione dei Borboni secondogeniti o guerra di rivoluzione. I re accettarono e Luigi Filippo tradì. Era il terzo tradimento regio ch'io vedeva compirsi quasi sotto gli occhi miei nelle cose d'Italia: il primo era la vergognosa fuga del principe Carlo Alberto, carbonaro e cospiratore, al campo nemico: il secondo era quello di Francesco IV duca di Modena, il quale avea protetto la congiura tessuta in suo nome dal povero Ciro Menotti, poi, al momento dell'esecuzione, lo avea assalito coll'armi e tratto prigione fuggendo a Mantova, per poi impiccarlo quando l'Austria gli spianò le vie del ritorno.

Un giorno, mentr'io mi recava alla Fenice pieno l'animo di speranza per l'azione imminente, vidi la gente affollarsi a leggere uno stampato governativo affisso sulle cantonate. Era una dichiarazione severa contro il tentativo italiano, una intimazione di sciogliersi agli esuli e una minaccia brutale di visitare col rigore delle leggi penali chiunque s'attentasse di violare frontiere amiche e compromettere coi Governi la Francia. Il bando esciva dalla Prefettura. Trovai il Comitato atterrito: le bandiere sparite, l'armi sequestrate in parte, il vecchio generale Regis in pianto. Gli esuli imprecavano al tradimento e ai traditori: vendetta sterile di quanti in una impresa di patria fidano in altro che nelle proprie forze. Taluni ostinati, magnanimi nella fede che il re galantuomo Luigi Filippo non potesse deludere a quel modo le speranze degli uomini della libertà, insinuavano che il Governo avveduto non intendesse se non a levarli anzi tratto d'ogni sospetto di cooperazione, ma non pensasse a impedire. Mi avventurai a proporre che si sciogliesse il problema mandando un nucleo d'armati, quasi antiguardo della spedizione e frammischiandovi quanti più si potesse degli operai francesi, sulla via di Savoja; e fu fatto. Ma un drappello di cavalleria li raggiunse e li sciolse a forza: primi a ubbidire i francesi, ai quali l'ufficiale parlò di doveri verso il paese e della necessità di lasciare al Governo la cura delle imprese liberatrici. La spedizione era fatta impossibile. Cominciò la cacciata degli esuli. Parecchi furono condotti ammanettati fino a Calais, e imbarcati per l'Inghilterra.

Fra quel subuglio di fughe, d'imprigionamenti, minaccie e disperazioni, Borso mi rivelò ch'egli e pochi altri repubblicani partivano la stessa notte alla volta di Corsica, per di là raggiungere in armi l'insurrezione, che ancor durava, del Centro, e mi chiese s'io volessi seguirli. Accettai senz'altro. Celai la subita determinazione allo zio, lasciandogli poche linee pregandolo di tranquillarsi sul conto mio e a tacere per pochi giorni colla mia famiglia; e partii. Nella diligenza che ci portava a Marsiglia trovai Bianco, Voarino, Tedeschi, un Zuppi, se non erro, napoletano, e non so chi altri. Borso con tre o quattro compagni seguiva in altra vettura. Viaggiammo sempre senza quasi fermarci fino a Marsiglia: da Marsiglia a Tolone; e da Tolone sopra un legno mercantile napoletano, attr[33]averso il mare più tempestoso ch'io abbia veduto mai, a Bastia. Là mi sentii nuovamente, con gioja di chi rimpatria, in Terra Italiana.

Non so che cosa abbiano fatto dell'isola, d'allora in poi, l'insistenza corruttrice francese e la colpevole noncuranza dei Governi d'Italia; ma nel 1831 l'Isola era Italiana davvero: Italiana non solamente per aere, natura e favella, ma per tendenze e spiriti generosi di patria. La Francia v'era accampata. Da Bastia e Ajaccio in fuori dove l'impiegatume era di chi lo pagava, ogni uomo si diceva d'Italia, seguiva con palpito i moti del centro e anelava ricongiungersi alla gran Madre. Il Centro dell'Isola, dov'io feci una breve corsa con Antonio Benci, toscano, collaboratore dell'Antologia e ricovratosi, per minaccia di persecuzioni, in Corsica, guardava unanime ai Francesi come a nemici. Quei ruvidi ma buonissimi montanari, armati quasi tutti, non parlavano che di recarsi a combattere nelle Romagne; e c'invocavano Capi. Leali, ospitali, indipendenti, gelosi oltremodo delle loro donne, avidi d'eguaglianza e sospettosi del forestiero per temenza di violata dignità, ma fraterni a chi stende loro la mano come d'uomo a uomo e non come d'incivilito a selvaggio, vendicativi ma generosamente e di fronte e avventurando nella vendetta la vita, quei Corsi del centro mi sono tuttavia un ricordo d'affetto e di speranza ch'essi non saranno sempre divelti da noi. La Carboneria, recatavi dai profughi napoletani, era allora dominatrice dell'Isola, e i popolani ne facevano quel che ogni uomo dovrebbe fare d'una associazione liberamente accettata, una specie di religione. Come alla vigilia d'una grande impresa, molti i quali avevano giurato vendetta l'un contro l'altro, si riconciliavano in essa. N'era capo venerato dagli isolani un Galotti, lo stesso che riconsegnato al tiranno di Napoli da Carlo X stava a rischio di morte, quando la rivoluzione di luglio lo rivendicò a libertà. Conobbi con lui La Cecilia ed altri proscritti del mezzogiorno d'Italia, convenuti da più punti nell'isola, pel disegno dei miei nuovi amici politici.

Ed era di recarsi, come dissi, nel Centro, ma capitanando una colonna di due o più migliaja di Corsi ch'erano ordinati e con armi. Mancava il danaro pel noleggio dei legni e per un lieve sussidio da lasciarsi alle famiglie povere degli isolani che doveano seguirci. E questo danaro ch'era stato, a quanto dicevano, sacramentalmente promesso da uomini legati a un Bonnardi prete patriota e affigliato di Buonarroti, non venne mai. Due dei nostri, Zuppi e un Vantini dell'Elba che fu poi fondatore di parecchi alberghi in Londra ed altrove, furono inviati al Governo Provvisorio di Bologna a offrirgli l'ajuto e chiedergli la somma indispensabile, e da quel Governo inetto che non fidava se non nella diplomazia e s'atterriva dell'armi ebbero risposta di stranieri barbari: chi vuole la libertà se la compri. D'indugio in indugio, l'intervento Austriaco riconquistò nella prima metà di marzo le terre insorte ai padroni. Sfumata ogni speranza d'azione e consunti i pochi mezzi ch'io aveva, lasciai la Corsica e mi condussi in Marsiglia dove mi richiamava, in nome della famiglia, lo zio.

E in Marsiglia ripigliai l'antico disegno di Savona, la fondazione della Giovine Italia. V'affluivano gli esuli da Parma, da Modena, dalle Romagne, oltrepassando il migliajo. Frammisto ad essi, conobbi in quell'anno i migliori, Nicola Fabrizi, Celeste Menotti fratello del povero Ciro, Angelo Usiglio, Giuseppe Lamberti, Gustavo Modena, L. A. Melegari, Giuditta Sidoli, donna rara per purezza e costanza di principii, e altri molti, giovani, ardenti, capaci e tutti convinti degli errori commessi e ch'io aveva in animo di distruggere. Erano elementi preziosi al lavoro, e taluni d'essi lo provarono all'Italia[34] negli anni che seguirono. Ci affratellammo della saldissima tra le amicizie, che è quella santificata dall'unità d'un intento buono: amicizia che con alcuni, come con Nicola Fabrizi, vive anch'oggi carissima, con altri, come Lamberti, non fu interrotta se non dalla morte, con nessuno fu da me primo tradita. Abbozzai le norme dell'Associazione e trasmisi cenno delle mie intenzioni ai giovani amici di Genova e di Toscana.

Intanto nell'aprile di quell'anno, morto Carlo Felice, sottentrava re nei dominî Sardi il cospiratore del 1821, Carlo Alberto, e con lui fra i deboli che abbondavano ed abbondano, un'onda di speranze che la idea del cospiratore si tradurrebbe in azione dal re. Dimenticavano che la sua non era idea, ma solamente velleità d'ambizione, e che il pericolo di perdere la piccola corona lo ritrarrebbe dal tentare coll'ardire necessario la grande. Il sogno a ogni modo affascinava le menti, e mi fu risposto che la mia proposta era buona, ma riuscirebbe importuna e non troverebbe seguaci se non quando cadessero le illusioni sul nuovo re.

Da quelle risposte germogliò in me il pensiero di scrivere a Carlo Alberto per via di stampa.

Io non credeva allora nè credo in oggi che possa dalla Monarchia venir salute all'Italia, cioè all'Italia com'io la intendo e la intendevamo noi tutti pochi anni addietro: Una, libera, forte, indipendente da ogni supremazia straniera e morale e degna della propria missione. Nè il presente mi costringe finora a mutare avviso. La Monarchia Piemontese non avrebbe mai preso l'iniziativa del nostro moto, se l'uomo del 2 dicembre non le profferiva l'ajuto de' suoi eserciti e Garibaldi coi cinque sesti degli uomini di parte repubblicana non le profferivano cooperazione; or chi mai poteva prevedere cose siffatte? E nondimeno, la Monarchia Piemontese ci darà—se pur mai—una Italia smembrata di terre ch'erano, sono e saranno sue concesse, in compenso ai servigi resi, alla dominazione straniera e serva aggiogata della politica francese e disonorata per alleanze funeste col dispotismo e debole e corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione e coi germi delle risse civili e delle autonomie provinciali risorti. Oggi e mentr'io scrivo il mal governo inerente all'istituzione monarchica prepara rapidamente una crisi di separatismo nel mezzogiorno d'Italia che s'era affacciato alla nuova vita ebbro d'Unità e del grande ideale di Roma. Ma se l'Unità Monarchica è oggi pregna di pericoli, era, quand'io deliberai di scrivere quella Lettera e per un uomo della tempra di Carlo Alberto, una assoluta impossibilità. Scrivendo a lui ciò ch'egli avrebbe dovuto trovare in sè per fare l'Italia io intendeva semplicemente scrivere all'Italia, ciò che gli mancava per farla. Mal dunque s'apposero gli uomini i quali si fecero più tardi un'arme di quello scritto sia per giustificare, coll'esempio altrui, sè stessi della diserzione dalla bandiera, sia per accusarmi d'incertezza o d'arrendevolezza soverchia nelle dottrine. Se non che a me importa poco oggimai dell'opinione degli uni o degli altri; e solamente per la stima ch'io serbo profonda all'ingegno suo e alla sua tenacità di propositi, mi dolse trovare fra gli ultimi Carlo Cattaneo[3].

A lui vorrei ricordare, senza rimprovero ma perch'ei non dimenticasse come la necessità sia talora padrona di tutti noi, ch'egli repubblicano come io sono e convinto che l'intervento monarchico[35] avrebbe sviato l'insurrezione dal segno, abdicò nondimeno nel 1848 il potere—quando compito il trionfo con sole forze di popolo, egli era, per l'energica condotta del Comitato di guerra da lui presieduto, moralmente padrone dei combattenti lombardi—in mano d'uomini ch'ei pur disprezzava inetti e traditori anzi tratto del concetto della Nazione. Quanto a me individualmente—e sia detto una volta per sempre—la teoria politica che dice a un uomo bambolo in fascie: tu regnerai dall'alto, impeccabile sempre e inviolabile e solamente combattuto ne' tuoi Ministri, sullo sviluppo della vita d'una Nazione fidato in tutte le sue manifestazioni al principio d'elezione, mi pare più che errore, contradizione e follìa che condanna il popolo a retrocedere o agitarsi perennemente e periodicamente a nuove rivoluzioni. E sparirà, quando vinte la servilità e la paura che signoreggiano l'anime nostre, la democrazia, ch'oggi abbiam sulle labbra, entrata davvero nei nostri cuori c'insegnerà che l'onesto operajo non è da meno d'un discendente di dieci generazioni di re—quando il tocco di mano del secondo non ci parrà evento più rilevante nella nostra vita che non quello del primo—quando sapremo che lo Stato deve governarsi come si governa da ciascun di noi l'amministrazione delle faccende private, scegliendo, ovunque si trovino unite, probità e capacità intellettuale.

Scrissi la lettera al Re, e la lessi, prima di stamparla, a un solo fra gli Italiani coi quali era in contatto, Guglielmo Libri, scienziato illustre, capo in quell'anno d'una cospirazione contro il Gran Duca in Toscana, accusato, credo a torto, di tradimento, ma tratto più dopo, e mi duole il dirlo, dal materialismo che stava in cima alle sue dottrine e da un esagerato scetticismo su tutti uomini e su tutte cose, a tradire la dignità dell'anima e i doveri ch'egli, ingegno potente davvero, dovea compiere verso il paese. Il Libri lodò, ma cercò svolgermi dal pubblicare la Lettera, schierandomi innanzi, conseguenze inevitabili, l'esilio perpetuo, l'abbandono d'ogni cosa più cara, le delusioni che mi sarebbero compagne sulla via. E m'esortava a lasciare la politica militante e consacrarmi alla Storia.

Fui ribelle ai consigli e stampai.

Fu quello il mio primo scritto politico. Non serbo, e non meritavano d'essere serbate, alcune pagine ch'io aveva scrit[36]te prima in francese, col titolo la Notte di Rimini, maledizione alla Francia di Luigi Filippo, che il National pubblicò mutilate—(1861).


A CARLO ALBERTO DI SAVOJA

UN ITALIANO[4].

Se no, no!

Sire,

S'io vi credessi re volgare, d'anima inetta o tirannica, non v'indirizzerei la parola dell'uomo libero. I re di tal tempra non lasciano al cittadino che la scelta fra l'armi e il silenzio. Ma voi, Sire, non siete tale. La natura, creandovi al trono, v'ha creato anche ad alti concetti ed a forti pensieri; e l'Italia sa che voi avete di regio più che la porpora. I re volgari infamano il trono su cui si assidono, e voi, Sire, per rapirlo all'infamia, per distruggere la nube di maled[37]izioni di che lo aggravano i secoli, per circondarlo d'amore, non avete forse bisogno che d'udire la verità; però, io ardisco dirvela, perchè voi solo degno estimo di udirla, e perchè nessuno tra quanti vi stanno attorno può dirvela intera. La verità non è linguaggio di cortigiano: non suona che sul labbro di chi nè spera, nè teme dell'altrui potenza.

Voi non giungete oscuro sul trono. E vi fu un momento in Italia, Sire, in cui gli schiavi guardarono in voi siccome in loro liberatore; un momento che il tempo v'aveva posto dinanzi, e che, afferrato, dovea fruttarvi la gloria di molti secoli. E vi fu un altro momento in cui le madri maledissero al vostro nome, e le migliaja vi salutarono traditore, perchè voi avevate divorata la speranza e seminato il terrore. Certo, furono momenti solenni, e voi ne serberete ancora gran tempo la memoria. Noi abbiamo cercato sul vostro volto i lineamenti del tiranno; e non v'erano; nè l'uomo che avea potuto formare un voto santo e sublime potea discendere a un tratto fino alla viltà della calcolata perfidia. Però abbiamo detto: nessuno fu traditore fuorchè il destino. Il principe lo intravide da lunge, e non volle affidare all'ostinazione la somma delle speranze italiane. Forse anche, l'alto animo suo rifuggì dall'idea che la calunnia potesse sfrondare il serto più immacolato, e mormorare: il principe congiurò la libertà della patria per anticiparsi d'alcuni anni quel trono che nessuno potea rapirgli.

Così dicemmo: ora vedremo, se c'ingannammo: vedremo se il re manterrà le promesse del principe.

Intanto le moltitudini non s'addentrano nelle intenzioni: afferrano l'apparenza delle cose, e insistono sulle prime credenze. Ora quel tempo è passato; ma le speranze, i rancori, i sospetti e le simpatie vivono tuttavia. Non v'è cuore in Italia, che non abbia battuto più rapido all'udirvi re. Non v'è occhio in Europa che non guardi ai vostri primi passi nella carriera che vi s'apre davanti.

Sire, è forza dirlo: questa carriera è difficile. Voi salite sul trono in un'epoca, della quale non saprei scorgere la più perigliosa pei troni negli annali del mondo.

Al di fuori, l'Europa divisa in due campi. Dappertutto il diritto e la forza, il moto e l'inerzia, la libertà e il dispotismo a contrasto. Dappertutto gli elementi del vecchio mondo, e quei d'un nuovo mondo serrati a battaglia ultima, disperata, tremenda. I popoli e i re han rinnegato i calcoli della prudenza: han gettata la spada nelle bilancie dell'umanità: han cacciata via la guaina. Quarant'anni addietro i re dominavano i popoli col solo terrore delle bajonette, e i popoli non guerreggiavano i re se non coll'armi del pensiero e della parola. Ora siamo a tempi nei quali la parola s'è fatta potenza, il pensiero e l'azione son uno, e le bajonette non valgono, se non son tinte di sangue. Da entrambe le parti è forza e immutabilità di proposito; ma i re combattono per conservare le usurpazioni puntellate dagli anni, i popoli combattono per rivendicare i diritti voluti dalla natura. Per gli uni stanno le arti politiche, le abitudini, la ferocia, e, per ora, gli eserciti. Per gli altri, l'entusiasmo, la coscienza, una costanza a tutta prova, la potenza delle memorie, dieci secoli di tormenti e la santità del martirio. I gabinetti diffidano l'uno dell'altro, i popoli si affidano ciecamente, perchè i primi vincola l'interesse, i secondi affratella la simpatia. Al fondo del quadro una guerra inevitabile, perchè tutti gli altri modi di controversia sono oggimai esauriti: universale, perchè ai popoli e ai re la causa è una sola: decisiva e d'estinzione, perchè guerra non d'uomini ma di principî.

[38]

Al di dentro un fremito sordo, un'agitazione indistinta, un disagio in tutte le classi, perchè la miseria dei molti non è che velata dalla opulenza dei pochi; e i pochi si stanno anch'essi diffidenti del presente, e incerti dell'avvenire. Le intraprese commerciali s'arrestano davanti a un orizzonte che muta ad ogni istante: il commercio marittimo vuol pace al di dentro, e securità al di fuori, e noi non abbiamo certezza nè dell'una nè dell'altra. Quindi le sorgenti della circolazione e della vita sociale interrotte, come la circolazione del sangue si aggela per terrore nei corpi umani; quindi una forte tendenza a mutamenti, perchè ogni mutamento cova sempre l'idea del meglio, e ai popoli, come agl'individui, l'incertezza è morte continua: stato violento da cui conviene uscire a qualunque patto. Tra noi, come tra gli altri, l'ardore di nuove cose s'appoggia su bisogni innegabili; l'aspettazione è rinforzata dalle antiche promesse. E le promesse son dimenticate da' principi, non mai dai popoli. Poi la potenza degli esempî, le fresche speranze, i rancori novissimi, e l'ira, stan presso a ridurre il desiderio all'azione.

Per circostanze sì fatte, voi salite sul trono; sopra un trono che nè prestigi di gloria, nè memorie solenni fanno venerato o temuto; sopra un trono composto di due metà ostili l'una all'altra congiunte a forza, e tendenti pur sempre a separazione.

Che farete voi, Sire?

Volete voi essere uno dei mille? Volete che il vostro nome passi fra i molti che ogni secolo consacra all'esecrazione o al disprezzo?

Due vie vi si affacciano. Due vie fra le quali i re si dibattono da quarant'anni. Due sistemi tra i quali oscilla tuttavia il dispotismo, rappresentati da gran tempo in Europa da due potenze di primo rango, l'Austria e la Francia, e che nel Piemonte importano anche oggidì l'alleanza coll'una o coll'altra.

La prima è la via del terrore.

Terrore, Sire! Il vostro cuore l'ha già rinnegato. La è carriera di delitto e di sangue; nè voi vorrete farvi il tormentatore dei vostri sudditi. Dio vi ha posto al sommo grado della scala sociale, vi ha cacciato al vertice della piramide. I milioni stanno d'intorno a voi, invocandovi padre, liberatore. E voi! voi darete ferri? porrete il carnefice accanto al trono? inalzerete la mannaja tra il presente e l'avvenire, e ricaccerete l'umanità nel passato?

Sire! l'umanità non si respinge col palco e la scure. L'umanità si arresta un istante, tanto che basti a pesare il sangue versato, poi divora i satelliti, il tiranno e i carnefici.

Pure talvolta, nell'uomo che si mette per sì fatta via, i cortigiani nutrono una speranza che il solo apparato del terrore basti a soffocare i germi della resistenza: mostratevi forte, dicono, e gli altri saranno vili.

Sire! Un tempo, quando l'ignoranza e la superstizione incatenavan le menti e nessuno guardava al passato o nell'avvenire, e la causa dei popoli non contava trionfi, il terrore agli occhi del volgo valeva potenza. Ora, ognuno sa che il terrore, eretto in sistema, è una prova di debolezza; un riflesso di paura, che rode l'anima a chi lo spiega; una necessità di uomo disperatamente perduto, che non ha se non quest'una via di dubbia salute. Oggimai la minaccia non basta. È d'uopo essere e mostrarsi scellerato; vivere e morire tiranno, porsi la benda sugli occhi, e inoltrarsi rotando la sciabola a destra e a sinistra. È d'uopo cacciar la maschera d'uomo e tuffarsi nel sangue.

Sire, farete voi questo? e facendolo, riescirete? e per quanto? E' vi son uomini, Sire, che han giurato di n[39]on riposarsi che nel sepolcro, o nella vittoria. Li spegnerete voi tutti? Soffocherete colle bajonette i moti popolari, ch'essi vi susciteranno?

Sire! il voto di Nerone tradiva l'impotenza della tirannide. Il sangue vuol sangue. Ogni vittima frutta il vendicatore. Mozzerete dieci, venti, cinquanta teste; insorgeranno a migliaja: l'idra della vendetta non si spegne nei popoli, come negl'individui; e il ferro del congiurato non è mai sì tremendo, come quando è aguzzato sulla pietra sepolcrale del martire.

O tenterete ridurli all'impotenza coll'arte? Dura e difficile impresa. Or comprate la plebe coll'oro, la milizia coi gradi. Cacciate i delatori nelle famiglie; addormentate col lusso e la corruttela le classi agiate dei cittadini; tenete viva la dissenzione fra l'uomo d'arme e l'uomo del popolo; esplorate i moti, le parole e i gesti; ma indefessamente, senza rallentare un istante, senza arrestarvi d'un passo davanti all'ombra dei traditi, perchè dove un minuto conceda agli schiavi d'intendersi, voi siete perduto. Ma, e l'anime di ferro che non riconoscono despota abbastanza potente per atterrirle, nè abbastanza ricco per comprarle; l'anime che non respirano se non un'idea, che non si vendono se non alla morte, non sono esse? Pochissime, è vero; pur sono, e consacrate dalla sciagura ad una santa missione, e tremende d'influenza e di forza, perchè la vera energia è magnetismo sulle moltitudini. Le bajonette che oggi si appuntano al loro petto, domani si ritorcono al vostro; nè dovete obliare che, sotto l'assisa del soldato, battono cuori di figlio, di fratello, d'amico. Pur conterrete le masse, struggerete le rivoluzioni nei loro principî! Ma, Sire! è parola dura a udirsi, e durissima a pronunciarsi da chi abborre, il delitto. Pure soffrite ch'io la pronunci questa parola: chi vi salverà dal pugnale?—Deludete anche questo; siate immortale, Sire! e la esecrazione delle generazioni? e la infamia ne' secoli? Chi vi salverà dal pugnale dell'anima? Le censure, le proscrizioni, gli esilî? Ma il mondo è troppo vasto perchè non rimanga un angolo allo scrittore; ma nè potenza di tirannide, nè viltà di servaggio, può spegnere la memoria, o sotterrar sotto le ruine del presente la voce dell'avvenire. Il senato mandava al rogo le storie di Cremuzio Cordo, e la grand'anima di Tacito raccoglieva da quelle fiamme la scintilla che fe' viva ne' suoi annali l'infamia dei tiranni di Roma. O è essa l'infamia un peso divenuto così leggiero per la testa dei re, che non degnino di metterla a calcolo?

La seconda via che i cortigiani vi proporranno è quella delle concessioni.

Mutamenti nelle amministrazioni, riduzioni economiche, miglioramenti nei codici, distruzioni d'alcuni abusi, allentamento di freno; una riforma, insomma, lenta, temperata, insensibile; ma senza guarentigia d'istituzioni, senza patto fondamentale, senza dichiarazioni politiche, senza una parola che riconosca nella nazione un diritto, una sovranità, una potenza.

Così voi non vi appoggiate sopra alcun dei partiti che dividono la nazione, nè sopra i tristi che speculano sul re tiranno, nè sui buoni che invocano il re cittadino. Così voi vi inimicate il Tedesco senza riconciliarvi l'Italiano. Così voi mostrate che non avete nè l'energia del delitto, nè la coscienza della virtù.

Sire! non basta: voi differite forse di alcuni momenti la vostra ruina, ma la fate più certa, isolandovi.

E vi conviene, seguendo cotesta via, conciliare a un tempo colla illimitata potenza del trono i diritti del popolo e le pretese dell'aristocrazia, perchè voi avete bisogno del concorso di tutte le volontà,[40] e un solo de' grandi elementi sociali non può mancarvi all'impresa, che non vi si attraversi nemico. Vi conviene trovar mezzo di far rivivere la confidenza nei governati senza dar pegni di stabilità. Vi conviene procedere per mezzo a minuzie infinite, a interminabili particolari, a ostacoli speciali e di mille generi senza poter ricorrere a regole generali, e pur costretto a spendervi tanta somma di attenzione e di forze, che basterebbe a gettar le basi d'un edifizio immortale. Vi conviene far guerra minuta, eterna, individuale, a molti abusi introdotti nelle amministrazioni, e nei modi governativi, e rinascenti sempre sotto altre forme, senza troncarli tutti, e d'un colpo, alla sorgente. Vi conviene illudere i popoli a stimarsi liberi senza fondar libertà, far sentire gli effetti senza dar vigore di legge alle cause, sciogliere insomma il problema difficile di appoggiarsi sovra tutte quante le molle sociali, di giovarsi d'ognuna d'esse, di concentrarle a uno scopo senza che alcuna preponderi un sol momento sull'altra, senza che alcuna acquisti attività per sè stessa, e coscienza di attività.

E tutto questo perchè? perchè un incidente non preveduto, una imprudenza, un grido proferito da un'anima fervida e intraprendente vi sconvolga l'edifizio, che avrete penosamente inalzato? perchè un colpo di fucile tirato imprudentemente sul Reno o sull'Alpi, rovini i vostri progetti, precipitando le cose e gli uomini a circostanze violenti, a condizioni di rapidità incalcolabile? Sire, il tempo mancò a Bonaparte. Chi può afferrare il tempo ed imporgli: Tien dietro a me? Questa vostra, Sire, è opera di pace; e v'è potenza umana o divina in Europa, che possa oggimai decretar pace d'un anno, d'un mese, d'un giorno solo?

Sire, non vi lasciate illudere dai cortigiani. Essi vi dipingeranno lo stato queto al di dentro, sicuro al di fuori. Essi mentono al re; voi passeggiate sopra un vulcano. Guardatevi intorno; scendete nel vostro cuore. Voi non potete fidar nel presente; voi siete incerto dell'avvenire. Voi avete a temer di tutto e da tutti; non avete speranza che in voi medesimo; non potete aver salute che in una forza fisica e morale dipendente dall'opinione.

Or, come conquisterete voi l'opinione? Come farete a non conculcare il popolo inalzando d'un grado l'aristocrazia, e a non irritare l'orgoglio dell'aristocrazia mescolando il popolo ne' suoi ranghi, e ne' suoi favori? Come farete a sradicare gli abusi, e a non crearvi nemici implacabili tutti coloro, e son molti, che ingrassano negli abusi? Sperate compensar l'odio loro coll'amore delle moltitudini?—Gli amori delle moltitudini sono brevi e mutabili, quando non poggian sopra qualche cosa di determinato e di certo, che vegli perenne alla loro tutela, che parli ai loro sensi ogni giorno. Le moltitudini vi applaudiranno un momento, e nel secondo grideranno contro di voi, perchè in fatto di riforme, l'universale ha nome di sapiente giustizia, il particolare ha nome e carattere di arbitrario; perchè i mutamenti, le riduzioni, le destituzioni d'impiegati prevaricatori che sotto libere leggi arridono al popolo, assumono apparenza di parzialità e di capriccio ogni qual volta mancano al popolo le sole vie di verificazione, norme certe invariabili di giudizio a' casi particolari, e pubblicità di processo.

Sire, i governi camminano sui principî, non sulle eccezioni.

Non v'è esistenza senza un modo certo d'esistenza. Non v'è sistema durevole, se non poggia sopra una serie d'idee ordinate, e vincolate l'una all'altra, atte a ridursi a dichiarazione. In altri termini, i governi un tempo posavano sopra una volontà disordinata, ajutata da una cieca potenza; ora vivono di logica.[41]

Sapete voi qual suffragio otterrete? E' v'è una gente in Italia, come in ogni contrada, che non sa, nè cura di libertà consacrata da istituzioni. Una gente fredda, calcolatrice e paurosa, per avarizia, di ogni rapido mutamento, che ama sovra ogni altra cosa la pace, fosse anche pace di cimitero. Ne avrete il voto alla timida e lenta carriera che forse imprendete. Ma, Sire, è voto che non pesa, nella bilancia dello Stato; voto sterile, nudo, impotente all'azione. È classe inerte per calcolo e per abitudine; non ha dottrine e non s'adopera a sostenerle; non compie rivoluzioni, ma non le strugge, non contende con esse. Voi ne avrete lodi e adulazioni, finchè le lodi non fruttan pericoli; ma nè sacrifici nè devozione a fronte di una potenza contraria. Una bandiera che sventoli all'aure, un grido che intimi: pronunciate: chi non è meco è contro di me; e questa gente si ritrarrà dall'arena ad aspettare il nome che la fortuna saluterà vincitore.

Sire! da gente sì fatta non pende il destino della cosa pubblica. Il nerbo della società, l'azione, l'opera, la potenza vera sta altrove; nel genio che pensa e dirige, nella gioventù che interpreta il pensiero e lo commette all'azione, nella plebe che rovina gli ostacoli che si attraversano.

Il genio, Sire, è scintilla di Dio, indipendente e fecondo com'esso; nè si vende, nè si stringe a individui, ma provvede alle razze, e interpreta la natura. La gioventù è bollente per istinto, irrequieta per abbondanza di vita, costante ne' propositi per vigore di sensazioni, sprezzatrice della morte per difetto di calcolo. La plebe è tumultuante per abito, malcontenta per miseria, onnipotente per numero.

Or, genio, gioventù e plebe stanno contro di voi; non s'acquetano a poche concessioni, dono d'uomo, a cui niuna legge vieta rivocarlo il dì dopo; non s'appagano di riforme che fruttano ricchezza o potenza all'individuo che le promuove; bensì voglion riforme che fruttino tutto alla nazione e null'altro che amore a chi le propone. Vogliono riconoscimento dei diritti dell'umanità manomessi ad arbitrio per tanti secoli; vogliono uno stato ordinato per essi e con essi; uno stato la cui forma corrisponda ai bisogni ed ai voti sviluppati dal tempo; vogliono leggi, vogliono libertà. Il genio ne ha letto da gran tempo il precetto nella natura delle cose e nei principj di universale progresso sviluppati nella storia coi fatti; la gioventù nel proprio cuore, nella coscienza di facoltà che la tirannide condanna a giacersi inoperose, nella maestà degli esempli, sulla tomba dei padri: la plebe nella parola dei buoni, nelle memorie, nell'istinto potente che la suscita a moto, nella propria tristissima condizione, e in certo suo intimo senso, davanti a cui impallidisce sovente l'intelletto del savio.

Vogliono libertà, indipendenza ed unione. Poichè il grido del 1789 ha rotto il sonno dei popoli, hanno ricercato i titoli co' quali potevano presentarsi alla grande famiglia europea, e non hanno trovato che ceppi; divisi, oppressi, smembrati, non han nome nè patria; hanno inteso lo straniero a chiamarli iloti delle nazioni, l'uomo libero a esclamare visitando le loro contrade: non è che polvere! Han bevuto intero il calice amaro della schiavitù; han giurato di non ricominciarlo.

Vogliono libertà, indipendenza ed unione; e le avranno, perchè han fermo di averle. Dieci secoli di servaggio pesavano sulle lor teste e non han disperato. Han guardato indietro ne' tempi che furono, hanno rimescolata la polvere delle sepolture, e ne hanno dissotterrato memorie di grandezza da lungo tempo obliate, memorie d'antiche imprese, di leghe terribili, alle quali non mancò che costanza. I [42]bandi di Giovanni d'Austria e di Nugent, le bandiere di Bentink, 1809 e 1814, insegnarono ad essi il sentimento della loro potenza. Poi il cannone di Parigi, di Brusselle e di Varsavia ha mostrato che questa è potenza invincibile. Ora ad un popolo che ha fede e potenza che cosa manca per rigenerarsi fuorchè l'occasione?

E pensate voi che poche concessioni addormentino i popoli, o non piuttosto ch'esse svelino la debolezza dei dominatori? Pensate che rimovano per lungo tempo quell'occasione o non piuttosto l'affrettino? Siete cinto da tutte parti di paesi italiani, che anelano al momento di ritentare le vie fallite una volta per inesperienza di cose, per tradimento straniero; e sperate che manchino occasioni? Ponete che essi afferrino il tempo; e, o le armi tedesche non verranno a combatterli e il contatto di terre libere sommoverà i vostri sudditi, o verranno, e chi vi assicura che i fratelli contempleranno inerti due volte la ruina de' loro fratelli?

Sire! le vostre forze si logoreranno in una lunga e penosa guerra contro la vostra situazione, ma non farete retrocedere il secolo, non ispegnerete un partito, che niuna cosa al mondo può spegnere. Trascinandovi tra l'odio e l'entusiasmo, procederete in mezzo all'universale freddezza, nojoso agli uni come riformatore imprudente, sospetto agli altri come perfidamente politico; e gli uni e gli altri vi accuseranno di debolezza; accusa mortale ai re, che non posson vivere se non di potenza o d'amore. Ogni concessione dà campo all'opre, speranza di meglio, coscienza delle proprie forze e del proprio diritto. Il popolo si avvezza a vedersi esaudito, e le espressioni dei bisogni e dei desiderî si fa più imperiosa ogni giorno. Intanto gli uomini della libertà spiano le circostanze, profittano d'ogni errore, di ogni incertezza a screditarvi nelle moltitudini e trarvi a partiti estremi. Lasciateli fare, voi siete perduto. Opponetevi, siete tiranno, e tiranno tanto più increscioso ed esoso, quanto più le prime concessioni presagivano ai cittadini moderazione. A qualunque via vi atteniate vi concitate addosso l'ira o il disprezzo, perchè non potete concedere più che non vorreste senza debolezza, nè retrocedere senza delitto; perchè o vi abbandonate al torrente, o smarrite lo scopo senza neppur raccogliere il merito dell'iniziativa; o tentate arrestarlo, e Dio ha dato il moto alle cose, ma nè Dio stesso potrebbe forse sospenderlo. Davanti alle esigenze e ai pericoli, nella impossibilità di adottare determinazioni energiche e decisive, voi siete forzato a ordinare una lotta coperta contro l'opere vostre, contro le speranze suscitate da voi; ritorre coll'arte ciò che avete dato con vigore di volontà; contendere le conseguenze dei principî sanciti tacitamente ne' primi giorni del regno vostro. Ed è sistema in cui ricaddero necessariamente i re ogni qual volta non seppero esser tiranni, nè liberatori; ma fruttò sciagure irreparabili a tutti, esilio ad alcuni;—a due il patibolo.

E allora, quando minacciato da ogni parte e spaventato dall'isolamento, in cui v'ha messo una politica incerta, vorrete salvarvi e null'altro, cercherete voi un rifugio nell'ajuto straniero? Invocherete le baionette tedesche a puntellarvi il trono vacillante? Fatelo: giurate sommessione ad un nemico che avete sul principio sprezzato; fatevi schiavo dell'estero; ma badate, Sire! non tutte le provincie italiane son prive di mezzi per difendersi dalle aggressioni, come le popolazioni della Romagna; non tutte le occasioni troveranno il popolo inerte, e sviato da' preparativi di guerra per fede cieca in un principio che i governi han mille volte violato; badate che i popoli imparano più da una [43]sconfitta, che non i re dal trionfo; badate che quando la lotta è da nazioni ad eserciti, due vittorie non bastano al assicurare la terza.

O forse cercherete una condizione di vita ne' trattati che avrete stretti colla Francia? Sire, un'ora crea i patti, un'ora li rompe, dacchè fra i calcoli diplomatici e le risultanze, fra i trattati e la loro durata si è frapposto gigante l'arbitrio d'un terzo elemento sociale, che giacque inerte per molti secoli, contro il quale le alleanze, le convenzioni hanno perduta ogni realità di vigore. Stringetevi a lega cogli uomini che governano oggi la Francia; chi vi assicura che l'intervento popolare non rovescierà quegli uomini, e la vostra sicurezza con essi? Credete voi che i cadaveri di diecimila martiri non abbiano a servire che a sorreggere lo sgabello di sette ministri? Il ministro Perier, Sire, ha stretto un patto coll'infamia, non coll'eternità. Ma la nazione francese non ha segnato quel patto; la nazione francese ha suggellato col proprio sangue l'alleanza de' popoli. Iddio creò in sei giorni l'universo fisico; la Francia in tre ha creato l'universo morale. Come Dio, essa si è riposata e riposa, perchè l'immensa azione esaurisce per un tempo le forze; ma credete voi che il leone sia spento perchè non n'udite il ruggito? Attendete un mese e l'udrete: attendete un anno, e le associazioni che or passano inosservate avranno generata la grande federazione nazionale; le società popolari che or procedono mute, formeranno la montagna del secolo decimonono; la Francia avrà avuto il suo 10 agosto. La rivoluzione francese, Sire, non è che incominciata. Dal terrore, e da Napoleone in fuori, la rivoluzione del 1830 è destinata a riprodurre, su basi più larghe, tutti i periodi di quella del 1789.

Sire! a voler vivere una vita potente e sicura, voi dovete edificare, anzichè sul presente, sull'avvenire; e l'avvenire è prima d'ogni altra cosa la guerra. Or sapete voi che cos'è per la Francia la guerra? È guerra di propaganda, guerra altamente rivoluzionaria, guerra europea, lunga, feroce; guerra dei due principî che da secoli si contendono l'universo; non v'è guerra possibile per la Francia ove non sia nazionale, ove non s'appoggi alle passioni delle moltitudini, ove non si alimenti d'uno slancio comunicato ai trentadue milioni che la compongono. Non v'è slancio possibile per la Francia se non si rinnovellano gli uomini, i sistemi e le cose; se non si commuove la gioventù con la gloria, e il popolo con una vasta idea d'incremento e d'utile gigantesco. Ma la gloria de' giovani sta nel grido che i loro padri bandirono al mondo: guerra ai re! libertà e pace ai popoli! E l'incremento che può sommuovere la nazione è riposto nella fratellanza colle nazioni confinanti, nell'unità d'interessi collocata su basi perpetue, nel predominio politico consecrato dalla vittoria e dalla riconoscenza dei beneficî prestati. Quindi la necessità di chiamare il popolo e la gioventù ad una parte più attiva nella somma delle cose; quindi inevitabilmente un ritorno, se non alle forme, almeno allo spirito repubblicano. E quando, spinti dall'impulso di diffusione inerente allo spirito repubblicano, costretti dal prepotente interesse di guerra, gli eserciti francesi varcheranno l'Alpi ed il Reno; quando lo stendardo tricolore s'affaccierà alle vostre contrade promettendo rapida e intera quella libertà che voi avrete lasciato intravvedere soltanto da lungi, che farete voi, Sire? Darete voi allora come dono regale ciò che i popoli insorti potranno ritorvi coll'armi? O condurrete gli schiavi a combatter co' popoli, colla Francia, col secolo? Sire, guardate al 1798; e la libertà era allora in Italia opinione d'individui; ora è passione di moltitudini; la libertà sorgeva nuova a tutti, incognita a molti, sospetta a quanti, nati, educati sotto condizioni contrarie, aborrivano da un mutamento, a cui non potevano nè sapevano[44] partecipare: ora è sospiro di mezzo secolo, idea famigliare, cresciuta, radicata negli animi per studî, per educazione paterna, e memorie dei primi anni, pensiero rinfiammato dalla vendetta, santificato dal martirio di mille forti, dal gemito di mille madri.

Riassumete, Sire! voi siete a tale, che il sistema del terrore vi uccide, dichiarandovi infame; ed il sistema delle concessioni v'uccide, svelandovi debole; siete a tale, che non potete durare esecrato, nè cader grande.

Sire! sono queste le sole vie che vi avanzano? Siete voi tale da non poter mietere che l'odio o il disprezzo?

E' v'ha una terza via, Sire, che conduce alla vera potenza e alla immortalità della gloria. V'ha un terzo alleato più sicuro e più forte per voi che non sono l'Austria e la Francia. E v'ha una corona più brillante e sublime che non è quella del Piemonte, una corona che non aspetta se non l'uomo abbastanza ardito per concepire il pensiero di cingerla, abbastanza fermo per consecrarsi tutto alla esecuzione di siffatto pensiero, abbastanza virtuoso per non insozzarne lo splendore con intenzioni di bassa tirannide.

Sire! non avete mai cacciato uno sguardo, uno di quegli sguardi d'aquila che rivelano un mondo, su questa Italia, bella del sorriso della natura, incoronata da venti secoli di memorie sublimi, patria del genio, potente per mezzi infiniti, ai quali non manca che unione, ricinta di tali difese che un forte volere e pochi petti animosi basterebbero a proteggerla dall'insulto straniero? E non avete mai detto: la è creata a grandi destini? non avete contemplato mai quel popolo che la ricopre, splendido tuttavia malgrado l'ombra che il servaggio stende sulla sua testa, grande per istinto di vita, per luce d'intelletto, per energia di passioni, feroci o stolte, poichè i tempi contendono l'altre, ma che sono pur elementi dai quali si creano le nazioni; grande davvero, poichè la sciagura non ha potuto abbatterlo e togliergli la speranza? Non v'è sorto dentro un pensiero: traggi, come Dio dal caos, un mondo da questi elementi dispersi; riunisci le membra sparte e pronuncia: È mia tutta e felice; tu sarai grande siccome è Dio creatore e venti milioni d'uomini esclameranno: Dio è nel cielo e Carlo Alberto sulla terra?

Sire! voi la nutriste cotesta idea; il sangue vi fermentò nelle vene quando essa vi si affacciò raggiante di vaste speranze e di gloria; voi divoraste i sonni di molte notti dietro a quell'unica idea; voi vi faceste cospiratore per essa. E badate a non arrossirne, Sire! Non v'è carriera più santa al mondo di quella del cospiratore che si costituisce vindice dell'umanità, interprete delle leggi eterne della natura. I tempi allora furono avversi; ma perchè dieci anni e una corona precaria avrebbero distrutto il pensiero della vostra gioventù, il sogno delle vostre notti? Dieci anni e una corona avrebbero ricacciata nel fango l'anima che passeggiava sui re dell'Europa? Onta a voi! La posterità perdona ogni cosa a un re fuorchè la viltà; e che cosa è l'uomo che può esser grande e non è? Quel concetto, Sire, è pur sempre il maggior titolo, l'unico forse che voi abbiate alla stima degli uomini italiani; e voi rinneghereste la parte che aveste in esso? Tutta l'Italia non sarebbe che illusa? E mentre ognuno crede che Carlo Alberto ambisce d'essere da più degli altri uomini, non avrebbe egli ambito che pochi anni di trono prima del tempo? Per Dio, Sire, che i dominatori de' popoli abbiano ad esser diseredati dalla natura di tutte quante le generose passioni? Che un cuore di re non abbia a battere mai per quanto fa battere i cuori delle migliaja? Che il sole d'Italia non abbia a fecondare di affetti magnanimi che petti[45] di cittadini! Che i tiranni stranieri abbiano soli accarezzata per secoli quest'idea e l'accarezzino tuttavia, un principe italiano non mai!

Sire! se veramente l'anima vostra è morta a' forti pensieri, se non avete, regnando, altro scopo che di trascinarvi nel cerchio meschino de' re che vi han preceduto, se avete anima di vassallo, allora rimanetevi: curvate il collo sotto il bastone tedesco e siate tiranno; ma tiranno vero, perchè un sol passo che accenniate di muovere al di là dell'orma segnata, vi fa nemica quell'Austria che voi temete. L'Austriaco diffida di voi; ma cacciategli ai piedi dieci, venti teste di vittime; aggravate le catene sugli altri; pagategli colla sommissione illimitata il disprezzo di che dieci anni addietro vi abbeverò! Forse il tiranno d'Italia dimenticherà che avete congiurato contro di lui: forse concederà che gli serbiate per alcuni anni la conquista, ch'ei medita dal 1814 in poi.

Che se leggendo queste parole, vi trascorre l'anima a quei momenti, nei quali osaste guardare oltre la signoria di un feudo tedesco; se vi sentite sorger dentro una voce che grida: tu eri nato a qualche cosa di grande; oh! seguitela quella voce; è la voce del genio; è la voce del tempo che v'offre il suo braccio a salire di secolo in secolo alla eternità; è la voce di tutta Italia, che non aspetta se non una parola, una sola parola, per farsi vostra.

Proferitela questa parola!

L'Austria vi minaccia i dominî, minaccia Italia intera colle pretese, colle congiure e cogli eserciti accumulati; a ingojarvi essa non attende che un'occasione.

La Francia vi minaccia coll'energia delle moltitudini, colla diffusione dei principî, coll'azione delle sue società, colla necessità prepotente che, spingendola un dì o l'altro alla guerra, la caccierà nel bivio o di perire o di eccitare i popoli alle insurrezioni, ed appoggiarle coll'armi.

L'Italia vi minaccia col furore di libertà che la investe, col grido delle infinite vittime, coll'ira delle promesse tradite, colle associazioni segrete che han due volte tentata la libertà della patria, che proseguono all'ombra, che nessuna forza può spegnere.

Sire! respingete l'Austria,—lasciate addietro la Francia,—stringetevi a lega l'Italia.

Ponetevi alla testa della nazione e scrivete sulla vostra bandiera: Unione, Libertà, Indipendenza! Proclamate la santità del pensiero! Dichiaratevi vindice, interprete de' diritti popolari, rigeneratore di tutta l'Italia. Liberate l'Italia dai barbari! Edificate l'avvenire! Date il vostro nome ad un secolo! Incominciate un'era da voi: siate il Napoleone della libertà italiana! L'umanità tutta intera ha pronunciato: i re non mi appartengono; la storia ha consecrato questa sentenza coi fatti. Date una mentita alla storia e all'umanità: costringetela a scrivere sotto i nomi di Washington, e di Kosciusko, nati cittadini: v'è un nome più grande di questi; vi fu un trono eretto da venti milioni di uomini liberi che scrissero sulla base: A Carlo Alberto, nato re, l'Italia rinata per lui!

Sire! La impresa può riescir gigantesca per uomini che non conoscono calcolo se non di forze numeriche, per uomini che, a mutar gl'imperi, non sanno altra via, che quella di negoziati e d'ambascerie. È via di trionfo sicuro, se voi sapete comprendere tutta intera la posizione vostra, convincervi fortemente d'esser consecrato ad un'alta missione, procedere per determinazioni franche, decise ed energiche. L'opinione, Sire, è potenza che equilibra tutte le altre. Le grandi cose non si compiono coi protocolli, bensì indovinando il proprio secolo. Il segreto della potenza è nella volontà. Scegliete una via, che[46] concordi col pensiero della nazione, mantenetevi in quella inalterabilmente; siate fermo e cogliete il tempo: voi avete la vittoria in pugno.

I Polacchi, Sire, hanno insegnato al mondo la potenza d'un popolo che combatte per l'esistenza politica e la libertà. Suscitate l'entusiasmo, e anche i sudditi vostri diverranno Polacchi. Cacciate il guanto all'Austriaco, e il nome d'Italia nel campo: quel vecchio nome d'Italia farà prodigi. Fate un appello a quanto di generoso e di grande è nella contrada. Una gioventù ardente, animosa, sollecitata da due passioni onnipotenti, l'odio e la gloria, non vive da gran tempo che in un solo pensiero, non anela che al momento di tradurlo in azione: chiamatela all'armi. Ponete i cittadini a custodia delle città, delle campagne, delle vostre fortezze. Liberato in tal guisa l'esercito, dategli il moto. Riunite intorno a voi tutti coloro che il suffragio pubblico ha proclamati grandi d'intelletto, forti di coraggio; incontaminati d'avarizia e di basse ambizioni. Ispirate la confidenza nelle moltitudini, rimovendo ogni dubbiezza intorno alle vostre intenzioni, e invocando l'ajuto di tutti gli uomini liberi.

Gli uomini liberi, Sire, in Italia son molti; hanno pur potenza, confessatelo, di farvi tremare sul trono; hanno potenza di rovesciare tutti quei troni che non s'appoggiano sulle bajonette straniere. Caddero, Sire, ma voi sapete il perchè: caddero traditi, venduti, perchè lottavano coi governi, e combattevano coll'armi de' generosi, e colla innocenza della virtù, mentre i governi pugnavano coll'oro, colle seduzioni, colla perfidia, coll'arti inique del delitto nascosto. Caddero perchè mancanti di capi che reggessero coll'influenza d'un nome l'impresa, e la facessero legittima agli occhi del volgo. Or che sarebbe quando tutti gli ostacoli si mostrassero calcolati ed aperti, quando essi non avessero a contrastar col potere, bensì a riunirsi con esso? Che sarebbe quando tutti vi si annodassero intorno, quando tutti usassero la loro influenza a pro vostro, quando tutti vi cacciassero ai piedi le loro vite per pagarvi del beneficio d'aver creata un'idea sublime, d'aver somministrato all'universo un nuovo tipo di grandezza, la virtù sul trono? Sire! a quel patto noi ci annoderemo d'intorno a voi: noi vi profferiremo le nostre vite: noi condurremo sotto le vostre bandiere i piccoli Stati d'Italia. Dipingeremo ai nostri fratelli i vantaggi che nascono dall'unione: provocheremo le sottoscrizioni nazionali, i doni patriotici: predicheremo la parola che crea gli eserciti, e, dissotterrate le ossa de' padri scannati dallo straniero, condurremo le masse alla guerra contro i barbari come a una santa crociata. Uniteci, Sire, e noi vinceremo, perocchè noi siam di quel popolo, che Bonaparte ricusava di unire perchè lo temeva conquistatore di Francia e d'Europa.

Questo faremo; ma voi, Sire, non ci mancate all'impresa: nel sapere scegliere il momento è riposta la somma delle cose; ed ora è il momento: ora che la Russia spossata da una lotta sanguinosa, travagliata negli eserciti dalle opinioni e da' morbi, screditata in faccia all'Europa, ha d'uopo rifarsi col riposo e riordinarsi:—ora che la Prussia è agitata da terrori di sommosse all'interno, e costretta a serbar le sue forze per una guerra che un colpo di fucile belgico può rompere da un momento all'altro:—ora che l'Inghilterra è condannata all'inerzia, finchè non sia consumata la gran lite della potenza popolana e della feudale aristocrazia. E la nazione francese è per voi. Or che temete? Il Tedesco? gridategli guerra: ardite guardar da vicino questo colosso, composto di parti eterogenee, minato in Galizia, nella Ungheria, nella Boemia, nel Tirolo, nella Germania; e che non è forte se non dell'inerzia, e perchè altri è debole. Gridateg[47]li guerra e assalite: l'assalitore ha immenso vantaggio sul suo nemico. Una voce ai vostri, una voce alla Lombardia, e avanzatevi rapidamente. Là nella terra lombarda hanno a decidersi i fati dell'Italia, ed i vostri: nella terra lombarda, che non aspetta se non un reggimento ed una bandiera per levarsi in massa: nella terra lombarda che divorerà i suoi nemici come a' tempi di Federigo e triplicherà il vostro esercito! Ma siate forte e deciso: rinnegate i calcoli diplomatici, gl'intrighi de' gabinetti, le frodi dei patti. La salute per voi sta sulla punta della vostra spada. Snudatela e cacciatene la guaina. Fate un patto colla morte e l'avrete fatto colla vittoria.

Sire! e' m'è forza il ripeterlo: Se voi non fate, altri faranno e senza voi, e contro voi. Non vi lasciate illudere dal plauso popolare che ha salutato il primo giorno del vostro regno: risalite alle sorgenti di questo plauso, interrogate il pensiero delle moltitudini: quel plauso è sorto, perchè, salutandovi, salutavano la speranza, perchè il vostro nome ricordava l'uomo del 1821: deludete l'aspettazione; il fremito del furore sottentrerà ad una gioja che non guarda se non al futuro. Oggimai la causa del dispotismo è perduta in Europa. La civiltà è troppo oltre, perchè l'insania di pochi individui possa farla retrocedere. I re della lega lo intendono, ma son troppo in fondo per poter risalire. Essi lottano disperatamente col secolo e il secolo li affogherà. Han detto: chi nacque tiranno, morrà tiranno: e sia: vissero paurosi e colpevoli, morranno esecrati e rejetti. Ma voi, Sire, siete vergine di delitto regale: siete degno ancora d'interpretare il voto del secolo. Davanti al voto del secolo che la grand'anima sua intravedeva, impallidiva Napoleone quando il diciotto brumajo lo costituiva in contrasto colla libertà nella sala de' Cinquecento. Fu l'unica volta che Napoleone impallidì: ma pochi anni dopo, egli commentava dolorosamente nell'isola di Sant'Elena quel pallore, proferendo le memorande parole: j'ai heurté les idées du siècle, et j'ai tout perdu.

Sire! per quanto v'è di più sacro, fate senno di quelle parole. Volete voi morir tutto e vilmente? La fama ha narrato che nel 1821 uno schiavo tedesco insultò al principe Carlo Alberto fuggiasco, salutandolo re d'Italia. Quell'onta, Sire, vuol sangue. Spargetelo in nome di Dio, e lo scherno amaro ripiombi sulla testa de' nostri oppressori. Prendete quella corona: essa è vostra, purchè vogliate.

Attendete le solenni promesse.—Conquistate l'amore de' milioni. Tra l'inno de' forti e dei liberi, e il gemito degli schiavi, scegliete il primo. Liberate l'Italia dai barbari e vivete eterno!

Afferrate il momento.

Un altro momento, e non sarete più in tempo. Rammentate la lettera di Flores-Estrada a re Ferdinando; rammentate quella di Potter a Guglielmo di Nassau!

Sire! io v'ho detto la verità. Gli uomini liberi aspettano la vostra risposta nei fatti. Qualunque essa sia, tenete fermo che la posterità proclamerà in voi—il Primo tra gli uomini, o l'Ultimo de' Tiranni Italiani.—Scegliete! (1831).

Un Italiano.


La lettera, pubblicata in Marsiglia, entrò in Italia in piccolo numero d'esemplari indirizzati, dacchè io non aveva allora altri modi, in via epistolare e per posta a uomini ch'io non conosceva se non di nome, in diverse città dello Stato Sardo. La violazione delle lettere non v'era ancora, come fu poi, ridotta a sistema. Ma tre o quattro ristampe clandestine la diffusero poco dopo per ogni dove. Il re[48] l'ebbe e la lesse. Non andò molto che una Circolare governativa spedita a tutte le autorità di frontiera dava i miei connotati, perchè, s'io mai tentassi introdurmi, fossi imprigionato senz'altro. S'avveravano le previsioni del Libri.

Lo scritto intanto era accolto dai giovani con favore, indizio ch'io parlando dichiaratamente d'Unità di Patria trovava un'eco nell'anime incerte, inconscie fin allora delle loro tendenze ingenite. Raccolsi quell'indizio con vera gioja. Era il primo conforto ad osare. L'Unità, comechè presentita di secolo in secolo da taluni fra i nostri Grandi, era, era sul campo della politica pratica, ciò che gli uomini battezzano, sorridendo, del nome utopia. Nessuno la sospettava possibile. La parte più illuminata della vecchia emigrazione era universalmente federalista. Nè credo che da Melchiorre Gioja in fuori in un libriccino dimenticato, un solo degli scrittori politici sorti in Italia nel periodo dell'invasione francese contemplasse l'unità politica della patria comune. Miravano a una lega di Stati. E d'altra parte la questione di libertà preoccupava più assai le menti che non quella della Nazione. Or dove mai può essere libertà dove la forza non l'assecura? E da qual principio può scendere un'associazione di liberi se non dai diritti dell'individuo o dal principio d'una comune missione fidata da Dio a tutti quanti i figli d'una stessa terra? A me la dottrina dei diritti, dottrina americana, inglese, francese del XVIII secolo, pareva fin d'allora metà del problema, e impotente tanto a fondare Governo vero quanto a promovere l'Educazione progressiva dei Popoli.

Le illusioni fondate su Carlo Alberto sfumavano rapidamente davanti a' primi suoi atti. E' non aveva neppure decretato il richiamo degli esuli che avevano giurato con lui, molti de' quali erano stati trascinati nella congiura del 1821 dal solo suo nome e parecchi gli erano stati ajutanti, compagni, amici. Ripensai, interrogai prima di decidere. Carlo Bianco, col quale io viveva allora in Marsiglia, mi comunicò l'esistenza d'una società segreta capitanata da lui sotto l'alta direzione di Buonarroti chiamata degli Apofasimèni. Era un ordinamento militare complesso di simbolismo, giuramenti e gradi molteplici che uccidevano colla disciplina l'entusiasmo del core, sorgente d'ogni grande impresa; e mancava inoltre d'un principio morale predominante. Ora, io non concepiva una Associazione se non come educatrice a un tempo e insurrezionale. L'armonia fra il pensiero e l'azione signoreggiava in me ogni concetto. E finalmente i moti del Centro erano, nel mio modo di vedere, un colpo mortale alla supposta vitalità dell'Associazione. O gli Apofasimèni, io diceva a Bianco, si frammisero ad essi, e sono a quest'ora esuli, dispersi o noti; o si tennero in disparte, ed è prova che non erano forti. Più dopo, conobbi alcuni dei capi, un Berardi, parmi, di Bagnacavallo tra gli altri: erano inetti o, come quest'ultimo, spie.

L'esistenza o no d'altra società non era del resto cagione di dubbiezze per me: m'era chiaro che dopo una disfatta come quella dell'insurrezione del Centro d'Italia, non esisteva possibilità di successo se non per un lavoro rifatto di pianta con elementi non noti e giovani. Ma si trattava di ben altro. Si trattava di tentar d'avviare l'educazione morale d'un popolo: si trattava di cercare non solamente che l'Italia fosse, ma che sorgesse grande, forte, degna delle sue glorie passate e colla coscienza della sua missione futura. E tutte le mie convinzioni erano diametralmente opposte alle tendenze predominanti. L'Italia era materialista, machiavellizzante, credente nella iniziativa francese, tendente a emanciparsi e migliorare le proprie condizioni nei diversi suoi Stati più che a ricomporsi in Nazione, poco cura[49]nte dei principî supremi e presta ad accettare ogni forma di reggimento, ogni ajuto, ogni uomo che promettesse sottrarla ai suoi patimenti immediati. Io credeva, allora più per istinti che per dottrina, che il problema dell'oggi fosse problema religioso e tutti gli altri gli fossero secondi. Ciò ch'altri chiamava teorica di Machiavelli non era per me che Storia e Storia d'un periodo di corruttela e decadimento che bisognava sotterrar col passato. Mi fremeva dentro il pensiero dell'iniziativa Italiana e a ogni modo io sentiva che non si risorge senza fede in sè, e che quindi bisognava prima d'ogni altra cosa distruggere la servile soggezione all'influenza francese. E per questo era mestieri mover guerra all'idolatria degli interessi immediati e sostituirle il culto dei principî, del Giusto, del Vero, e convincer l'Italia che il sagrificio e la costanza nel sagrificio erano le sole vie per le quali conseguirebbe, quando che fosse, vittoria.

La Carboneria—traduco qui alcune pagine[5] ch'io scrissi per gli Inglesi nel 1839, perchè compendiano lo idee che mi s'affaccendavano nella mente allora e mi determinarono a fondare la Giovine Italia—la Carboneria m'appariva come una vasta associazione liberale, nel senso attribuito a quel vocabolo in Francia sotto la monarchia di Luigi XVIII e di Carlo X, efficace a diffondere lo spirito d'emancipazione, ma condannata dall'assenza d'una fede positiva, determinata a mancare di quella potente unità, senza la quale riesce impossibile il trionfo pratico d'ogni difficile impresa. Sorta, in sul maturarsi della caduta d'una gigantesca ma tirannica unità, l'unità napoleonica, tra i frammenti d'un mondo, tra giovani speranze e vecchie pretese a contrasto, tra presentimenti tuttavia mal definiti di popolo opposto ai ricordi d'un passato che i Governi si preparavano a dissotterrare, la Carboneria aveva portato l'impronta di tutti quei diversi elementi e si era affacciata in dubbia attitudine nel crepuscolo diffuso in quel periodo di crisi su tutta Europa. La protezione regia incontrata al suo nascere e finchè s'era sperato in essa uno stromento di guerra contro la Francia Imperiale, aveva più sempre contribuito a comunicare all'Istituzione quella incertezza di moti che sviava gli animi dalla vera idea nazionale[6]. Vero è ch'essa aveva, tradita, respinto poi quel giogo da sè; ma serbando inconscia taluna fra le antiche abitudini e segnatamente una fatale tendenza a cercar capi nell'alte sfere sociali e a considerare la rigenerazione Italiana come parte più degli ordini superiori che non del popolo, principale operatore delle grandi rivoluzioni. Ed era errore vitale, inevitabile bensì ad ogni consorteria politica alla quale manchi una salda religiosa credenza in un vasto e fecondo principio, bandiera suprema su tutti eventi. Or siffatto principio mancava alla Carboneria. Essa non aveva per arme che una semplice negazione: chiamava gli uomini a rovesciare, non[50] insegnava il come s'inalzerebbe sulle rovine dell'antico il nuovo edifizio. Esaminando il problema, i Capi dell'Ordine avevano trovati tutti gli Italiani concordi sulla questione d'Indipendenza, non su quella dell'Unità Nazionale o sul modo d'intendere la Libertà. Impauriti dalle difficoltà e incapaci di scegliere risolutamente tra i diversi partiti, s'appigliarono a una via di mezzo e scrissero sulla bandiera Indipendenza e Libertà; di definire il come dovesse intendersi e provocarsi la Libertà non curarono: il paese, dicevano—e il paese era per essi nell'alte classi della società—deciderebbe più tardi. La parola unione fu similmente sostituita alla parola Unità, e il campo lasciato aperto ad ogni possibile ipotesi. D'eguaglianza non facevano motto o richiesti ne parlavano con modi sì incerti che ogni uomo poteva a seconda delle proprie tendenze interpretarla politica, civile, o semplicemente cristiana. Così senza porgere soddisfacimento ai dubbî che agitavano le menti, senza dire a quei ch'essa chiamava a combattere quale programma potrebbero offrire al popolo che doveva secondarli, la Carboneria s'era data ad affratellare. E aveva trovato in tutte le classi copia d'adepti, perchè in tutte era copia di malcontenti ai quali non si chiedeva se non di prepararsi a distruggere la condizione di cose esistenti e perchè il profondo mistero ond'erano ravvolti i menomi Atti della Setta affascinava la fantasia oltremodo mobile degli Italiani. Il presentimento delle esigenze di quella moltitudine d'affratellati ripartiti fra le spire della intricata molteplice gerarchia suggeriva l'adozione di numerosi, strani, incomprensibili simboli che celassero il vuoto delle dottrine; poi l'ingiunzione d'una cieca obbedienza ai cenni di capi invisibili. Ma era difesa contro quelle esigenze, più che mezzo d'azione; e però l'esecuzione delle prescrizioni procedeva fiacca e a rilento. La severità della disciplina era men di fatti che di parole.

La forza numerica della Società aveva a ogni modo raggiunto un grado di potenza ignoto a quante altre associazioni vennero dopo. Ma la Carboneria non aveva saputo trarne partito. Diffusa nel popolo, non aveva fede in esso: non lo cercava per condurlo dirittamente all'azione, ma per attirare con quell'apparato di forze gli uomini d'alto rango nei quali solamente essa riponeva fiducia. L'ardore dei giovani affratellati che sognavano patria, repubblica, guerra e gloria davanti all'Europa era fidato alla direzione d'uomini vecchi d'anni, imbevuti dell'idea dell'Impero, freddi, minuziosi, diseredati d'avvenire e di fede, che lo ammorzavano invece di suscitarlo. Più dopo, quando il numero gigantesco degli affigliati e la impossibilità di serbare più a lungo il segreto la convinsero che bisognava operare la Carboneria, aveva sentito il bisogno d'una unità più potente, e non sapendo trovarla in un principio, s'era data a cercarla in un uomo, in un principe. Ed era stata la sua rovina.

 

Intellettualmente, i Carbonari erano machiavellici e materialisti. Predicavano libertà politica, e dimenticando che l'uomo è uno, quei tra loro che si occupavano di letteratura, predicavano sotto il nome di classicismo la servitù letteraria. Si dicevano nel loro linguaggio simbolico Cristiani e intanto, confondendo superstizione e fede, papato e religione, disseccavano il vergine entusiasmo dei giovani con uno scetticismo rubato a Voltaire e negazioni rubate al secolo XVIII. Erano settarî, non apostoli di una religione nazionale. Ed erano tali nella sfera politica. Non avevano fede sincera nelle Costituzioni, ridevano fra di loro della monarchia; e l'acclamavano nondimeno, dapprima perchè s'illudevano a trovare in essa una forza dell[51]a quale pensavano abbisognare; poi perchè la monarchia li liberava dall'obbligo di guidare le moltitudini ch'essi temevano e mal conoscevano; da ultimo perchè speravano che il battesimo regio dato alla insurrezione avrebbe ammansato l'Austria o conquistato l'ajuto di qualche grande potenza, Francia o Inghilterra. Avevano dunque cacciato lo sguardo su Carlo Alberto in Piemonte, sul principe Francesco in Napoli: d'indole naturalmente tirannica il primo, ambizioso, ma incapace di grandezza; ipocrita e traditore fin da' primi suoi passi il secondo; e avevano commesso all'uno ed all'altro i fati d'Italia, lasciando al futuro di porre in accordo le mire inconciliabili dei due pretendenti.

I fatti intanto avevano dimostrato quali siano le inevitabili conseguenze del difetto di principî negli uomini che si pongono a capo delle rivoluzioni, e come la forza spetti veramente non alla cifra, ma alla coesione degli elementi che si adoprano a raggiungere il fine. Le insurrezioni avevano avuto luogo senza ostacoli gravi; ma rapidamente seguite dalla interna discordia. Compita la loro promessa di rovesciare, gli affigliati dei Carbonari erano tornati ciascuno alle proprie tendenze, e s'erano divisi su ciò che importasse fondare. Gli uni avevano creduto di cospirare per una unica monarchia, altri pel federalismo; molti parteggiavano per la Costituzione francese, molti per la Spagnola: taluni per la repubblica o per non so quante repubbliche; e tutti lagnandosi d'essere stati ingannati. I Governi provvisorî s'erano trovati indeboliti in sul nascere dall'opposizione aperta degli uni e dalla inerzia calcolata degli altri. Quindi le diffidenze, l'incertezza di quei Governi e i pretesti al non fare, cercati in una opposizione che non potea vincersi se non facendo, e il popolo e i giovani volontarî lasciati senza sprone, senza ordinamento, senza intento determinato. Quindi l'assenza di libertà vera nella scelta dei mezzi, perchè la monarchia scelta a capitanare le insurrezioni traeva seco vincoli e tradizioni d'ogni genere ostili all'ardito sviluppo del principio insurrezionale. La logica vuole in ogni tempo il suo dritto. I capi del moto avevano dichiarato implicitamente incapace il popolo d'emanciparsi e governarsi da sè: bisognava dunque astenersi dall'armarlo, dal suscitarlo di soverchio a frammettersi nelle cose: bisognava sostituirgli una forza, cercarla al di fuori ai gabinetti stranieri, e ottenere promesse menzognere a patto di concessioni reali: bisognava lasciare ai principi la libera scelta dei loro ministri e dei condottieri degli eserciti, anche a rischio—avverato più dopo—di vederli scelti traditori o incapaci e di vedere i principi stessi sfuggire in un subito al campo nemico o andare a gittar l'anatema sull'insurrezione da Laybach.

La rivoluzione napoletana era caduta in Napoli dopo avere esaurito ad una ad una le conseguenze fatali di un primo errore; dopo aver negato sui primi giorni la tendenza nazionale col rifiuto di Pontecorvo e di Benevento, città appartenenti allora agli Stati Romani ma circondate dalle terre napoletane e che avevano, insorgendo esse pure, chiesto di confondersi coi popoli emancipati; dopo aver decretato che la guerra sarebbe puramente difensiva e che l'esercito austriaco spinto nel core non dovea considerarsi nemico se non quando traverserebbe la frontiera napoletana; dopo avere insomma spenta ogni fiamma d'insurrezione nell'Italia Centrale. E l'insurrezione piemontese, sorta quando già quelli errori erano stati commessi nel Sud e insegnavano il come evitarli; mentre la fremente Lombardia, sguernita di forze Austriache eguali all'incarico di reprimere, potea, con soli 25,000 uomini sommoversi da un capo all'altro, e quei 25,000 uomini potevano avviarsi[52] una settimana dopo l'insurrezione, era caduta non tentando questo nè altro, inceppata dagli stessi vincoli, condannata dalla stessa influenza che avevano impedito il moto due mesi prima, quando il Sud era libero e poteva ordinarsi la difesa comune[7].

Nè mai—anche limitandosi a scorrere la Storia onesta ma imperfetta del moto scritta da Santarosa—erano state più visibili le tristissime conseguenze d'un tristo programma. Un proclama di Carlo Alberto, capo del Governo Rivoluzionario, aveva largito amnistia alle truppe che lo avevano fondato. La Giunta s'era avvilita in negoziati coll'ambasciatore russo, conte Mocenigo, che offriva sfrontatamente perdono ai cospiratori e qualche speranza d'una Carta Costituzionale. Erano uomini d'innegabile patriotismo e di core, e giurati tutti alla Carboneria; e nondimeno tremanti fra le esigenze della rivoluzione e le forme accettate della legalità monarchica, costretti a derivare ispirazioni da un uomo che in fondo del core sprezzavano e temevano li tradirebbe un dì o l'altro, consapevoli del diritto e non osando affermarlo, avevano preteso di mutare le istituzioni del paese senza mutare gl'impiegati della vecchia amministrazione o i capi dell'esercito stretti al giuramento di mantener la tirannide; avevano lasciato il Governo di Novara al conte di Latour e quello della Savoja al conte d'Andezene, ambi nemici aperti della causa rivoluzionaria; avevano preveduto e predetto la guerra e, per timore che il programma monarchico potesse essere presto o tardi violato, negate l'armi al popolo che le chiedeva, differito indefinitamente l'adunarsi delle assemblee elettorali, e negletto ogni atto capace d'affratellare alla rivoluzione le moltitudini, sino alla revoca del decreto col quale Genova insorta aveva ridotto il prezzo del sale a metà. Erano caduti, fuggiti, non davanti alla forza che poteva con onore combattersi, ma davanti a un sofisma innestato nel programma rivoluzionario.

Tale m'appariva la carboneria: vasto e potente corpo, ma senza capo: associazione alla quale non erano mancate generose intenzioni, ma idee, e priva non del sentimento nazionale, ma di scienza e logica per ridurlo in atto. Il cosmopolitismo che una osservazione superficiale d'alcune contrade straniere le avea suggerito, ne aveva ampliato la sfera, ma sottraendole il punto d'appoggio. L'eroica educatrice costanza degli affratellati e il martirio intrepidamente affrontato avevano grandemente promosso quel senso d'eguaglianza ch'è ingenito in noi, preparato le vie all'unione, iniziato a forti imprese con[53] un solo battesimo uomini di tutte provincie e di tutte classi sociali, sacerdoti, scrittori, patrizî, soldati e figli del popolo[8]. Ma la mancanza d'un programma determinato le aveva tolto sempre la vittoria di pugno.

Queste riflessioni m'erano suggerite dall'esame dei tentativi e delle disfatte della Carboneria. E i fatti appena allora conchiusi dell'Italia Centrale mi confermavano in esse, additandomi a un tempo altri pericoli da combattersi: primi fra i quali erano quello di collocare le speranze della vittoria nell'appoggio di governi stranieri e quello di fidare lo sviluppo, il maneggio delle insurrezioni a uomini che non avevano saputo iniziarle.

Nei fatti del 1831, il progresso delle tendenze s'era rilevato innegabile. L'insurrezione non aveva invocato come necessità indeclinabile l'iniziativa dell'alte classi o della milizia: era sorta dalla gente senza nome, dalle viscere del paese. Dopo le tre giornate di Parigi, il popolo in Bologna s'affollava all'Ufficio Postale. I giovani salivano nei caffè sulle sedie e leggevano ad alta voce i giornali agli astanti. Si preparavano armi, s'ordinavano compagnie di volontarî, si sceglievano i capitani. I comandanti la truppa dichiaravano al prolegato che non assalirebbero i cittadini. Lo stesso aveva luogo nell'altre città. L'eco del cannone sparato, nella notte del 2 febbrajo in Modena, contro la casa di Ciro Menotti aveva dato il segnale. Bologna s'era levata il 4.—Il 5, il popolo di Modena, riavuto dallo stupore, aveva cacciato in fuga duchi e duchisti; Imola, Faenza, Forlì, Cesena, Ravenna s'erano emancipate. Il 7, Ferrara aveva seguito l'esempio: gli austriaci s'erano ritratti. Pesaro, Fossombrone, Fano ed Urbino s'erano, l'8, liberate dei loro Governatori. Il moto aveva trionfato il 13 in Parma: poi in Macerata, Camerino, Ascoli, Perugia, Terni, Narni ed in altre città. Ancona, dove il colonnello Sutterman s'era mostrato in sulle prime disposto a resistere, aveva ceduto davanti ad alcune compagnie di soldati e di guardie nazionali comandate da Sercognani. E tutto questo s'era operato per impulso di popolo, per entusiasmo collettivo che si stendeva alla donna e ai canuti; mentre le prime lavoravano coccarde e bandiere, parecchi tra i veterani del Grande Esercito mostravano ai giovani lievemente diffidenti le cicatrici delle antiche ferite, dicendo loro: noi le riportammo difendendo il nostro paese. Così il 25 febbrajo due milioni e mezzo quasi d'Italiani avevano abbracciata la Causa Nazionale, presti a difesa od offesa per l'emancipazione degli altri loro fratelli.

Ed era infatti la Causa Nazionale che gli istinti avevano in quei moti universalmente additato alle moltitudini. Italiana era la coccarda adottata per ogni dove in onta alle preghiere d'Orioli ed altri appartenenti più tardi al Governo. Dai primi giorni la gioventù Bolognese aveva tentato d'invadere la Toscana; quella di Modena e Reggio d'inoltrare su Massa. Più dopo, le Guardie Nazionali chiedevano d'esser condotte per la via del Furlo sul Regno.

Di quel moto tutto Italiano nell'origine e nell'intento, i Capi intanto avevano fatto un moto puramente provinciale. Sua legge naturale era stendersi, allargare la propria base, quanto era possibile; essi l'avevano limitata nei più angusti confini; avevano proscritto ogni tentativo di propaganda: avevano accumulato ostacoli alla rivoluzione invece di lavorare a spianarli. La nazionalità era l'anima dell'impresa; ed essi avevano cercato sostegni alla rivoluzione fuori d'Italia. La guerra coll'Austria era inevitabile; bisognava dunque preparare la vittoria; ed essi avevano dichiarato che il trionfo della rivoluzione consisteva nel conservarsi pacifici; che la pace non er[54]a solamente possibile, ma probabile e quasi certa; e che in conseguenza era necessario astenersi da ogni dimostrazione tendente a turbarla. La rivoluzione s'incamminava necessariamente, per natura d'elementi e per condizioni speciali delle terre insorte, a repubblica: i Governi non potevano esserle favorevoli: urgeva cercarle alleati in elementi omogenei, nei popoli; ora, solo pegno d'alleanza tra i popoli sono le dichiarazioni di principî, ed essi non ne avevano fatta alcuna; avevano calcolato sull'ajuto dei re, e prostrato un moto di popolo appiedi della Diplomazia. Bisognava suscitare l'azione coll'azione, l'energia coll'energia, la fede colla fede; ed essi, deboli, tentennanti, avevano in ogni loro atto rivelato il terrore dell'anima. Quindi la diffidenza cresciuta in seno ai paesi insorti, lo sconforto nell'altre provincie d'Italia, le delusioni diplomatiche e la ineluttabile rovina del moto. Appoggiato unicamente sul principio del non intervento, era caduto con esso.

Il principio del non-intervento era stato, a dir vero, proclamato esplicitamente, solennemente, dal Governo di Francia. Già prima del moto una memoria stesa da parecchi Italiani influenti aveva chiesto all'ambasciatore francese in Napoli, Latour Maubourg, quale sarebbe stata la condotta della Francia se una rivoluzione in Italia provocasse l'intervento armato dell'Austria; e l'ambasciatore aveva scritto in calce di proprio pugno che «La Francia avrebbe difeso la rivoluzione purchè il nuovo Governo non assumesse forme anarchiche e riconoscesse i principî d'ordine generalmente adottati in Europa.»

Latour Maubourg negò nel seguito quella nota; ma, consegnata nei primi giorni del moto al Governo Provvisorio, fu veduta e attestata da un de' suoi membri, Francesco Orioli, nel suo libro stampato nel 1834-35 in Parigi sulla Révolution d'Italie. Poi Lafitte, presidente della Camera dei Deputati, aveva il 1º dicembre 1830, proferito le seguenti parole: «La Francia non permetterà violazione alcuna del principio del non-intervento.... La Santa Alleanza aveva per base di soffocare collettivamente la libertà dei popoli dovunque ne fosse sollevato lo stendardo; il nuovo principio proclamato dalla Francia è quello di concedere incontrastato sviluppo alla libertà ovunque essa sorga spontanea.» Il 15 gennajo, Guizot aveva detto: «Il principio del non-intervento è identico col principio della libertà dei popoli.» Il 22 dello stesso mese, il Ministro degli Esteri aveva dichiarato: «La Santa Alleanza era fondata sul principio d'intervento sovvertitore dell'indipendenza di tutti gli Stati secondarj: il principio opposto che noi abbiamo consecrato e che faremo rispettare, assicura a tutti libertà e indipendenza.» Il 28, le stesse cose erano state ripetute dal Duca di Dalmazia: il 29 da Sebastiani.

Ma se i Capi del moto avevano diritto di credere che non sarebbero stati traditi, avevano pure debito di considerare che nel 1831 una guerra tra l'Austria e la Francia doveva risolversi in guerra generale Europea tra i due principî dell'immobilità e del progresso per mezzo della sovranità nazionale. E in guerra siffatta, se la Francia non aveva che trionfi da mietere, Luigi Filippo correva rischio di perdere ogni cosa, affogato nel moto. L'impulso rivoluzionario dato alla Francia avrebbe travolto la monarchia nel vortice d'una guerra alla quale la natura degli elementi chiamati in azione avrebbe impartito rapidamente il carattere d'una crociata repubblicana; e la monarchia d'allora era debole e senza radici di simpatia popolare in paese. La pace era dunque pegno d'esistenza alla dinastia. Non v'era dunque che un mezzo per costringerlo ad attener le promesse: preparare la resistenza tanto da prolungare una lotta quanto bastasse a[55] sommovere in Francia l'opinione; e adoprarsi a estendere il moto per ogni dove e segnatamente in Piemonte dove l'intervento dell'Austria è inconciliabile, come quello della Prussia nel Belgio, colla tradizione politica della Francia. Pretender di vincere la ripugnanza di Luigi Filippo mostrandosi deboli, era follia; e follia illudersi a credere che il principio del non-intervento avrebbe impedito l'innoltrarsi all'Austria. Anche a rischio di guerra, l'Austria non poteva tollerare che di fronte a' suoi possedimenti Lombardo-Veneti si stabilisse un Governo di libertà. Il Governo dell'insurrezione non preparando la guerra, dava tempo all'Austria per distruggere rapidamente la cagione di lite colla Francia e lo toglieva all'agitazione francese. L'importanza del tempo era stata intesa così bene da Luigi Filippo che sperando repressa l'insurrezione prima che gli si chiedesse conto delle promesse, ei nascose per cinque giorni al Presidente del Consiglio, Lafitte, inetto ma onesto, il dispaccio col quale l'ambasciatore francese in Vienna annunziava l'invasione dell'Austria nell'Italia Centrale.

E nondimeno, i Governi Provvisorî delle provincie insorte avevano adottato l'ipotesi che l'Austria non invaderebbe, ch'essa concederebbe alla rivoluzione d'impiantarsi stabilmente nel core d'Italia; e che tutta la politica della rivoluzione dovea consistere nel non somministrare motivo legittimo all'invasione. Non un atto quindi aveva proclamato la sovranità nazionale, non uno aveva chiamato il popolo all'armi: non uno aveva ordinato il principio d'elezione: non uno aveva confortato ad agire l'altre provincie italiane. La paura trapelava in ogni loro decreto. La rivoluzione v'appariva accettata anzichè proclamata. I Governi Provvisorî di Parma e di Modena avevano dichiarato che avendo i principi abbandonato i loro Stati senza lasciare governo ordinato, il popolo s'era veduto nella necessità di fondarne uno nuovo. Quel di Bologna affermava d'essersi costituito perchè la dichiarazione di Monsignor Clarelli, prolegato, annunziando la di lui intenzione di abbandonare interamente l'amministrazione politica della provincia, era urgente d'evitar l'anarchia. E anche quando la rivoluzione trionfante, secura all'interno, avea suggerito stile più ardito, quel Governo che concentrò in sè a poco a poco la direzione generale del moto, non aveva osato richiamarsi al diritto che vive eterno in ogni popolo, ma s'era affaccendato a desumere la libertà di Bologna dalla tradizione locale, dalla convenzione stretta nel 1447 tra Bologna e il Papa Nicolò V; e un lungo, pedantesco e poco degno scritto del Presidente Vicini, in data del 25 febbrajo[9] commentava da legulejo la tradizione. In Parma, a un Fedeli che, scelto a capo della Guardia Nazionale, ricusava, a meno d'un permesso della Duchessa, il Governo aveva concesso lo richiedesse e n'era stato rimeritato da lui poco dopo con una congiura retrograda: poi, nello stremo delle finanze, ordinava si continuassero gli stipendî agli impiegati della Corte scacciata.

[56]

Mentre il sorgere dell'Italia Centrale aveva messo in fermento gli spiriti in Napoli, nel Piemonte e per ogni dove tutti aspettavano con ansia che dal centro iniziatore dell'impresa giungesse l'ispirazione del da farsi, il decreto dell'11 febbrajo aveva freddamente annunziato che «Bologna non avrebbe interrotte le antiche relazioni d'amicizia coll'altre contrade, nè concederebbe la menoma violazione dei loro territorî, sperando che in ricambio nessun intervento avrebbe luogo a suo danno: il solo obbligo della difesa potrebbe trascinarla all'azione.» Il Centro aveva con quell'atto rinunziato ad ogni iniziativa, e separato la propria causa da quella d'Italia. E gli uomini di pura ribellione, troppo numerosi tra noi, avevano, sdegnati, abbandonato ogni pensiero d'azione altrove: la gente diplomatizzante anche sull'orlo della sepoltura e cospiratrice all'antica aveva in quel codardo abbandono intraveduto un grande mistero di politica calcolatrice e aveva susurrato per ogni dove: «rimanetevi inerti; perchè, se quei Governi non fossero certi dell'ajuto francese, non agirebbero come fanno.»

Questa illimitata fiducia, in quanto ha sembianza di calcolo o tattica, e la diffidenza perenne dell'entusiasmo, dell'azione e della simultaneità dell'opere, tre cose che racchiudono in sè tutta quanta la scienza della rivoluzione, furono e sono tuttavia piaga mortale alla Italia. Noi seguiamo, aspettiamo, studiamo gli eventi, non ci adopriamo a crearli e padroneggiarli. Onoriamo del nome di prudenza ciò che in sostanza non è se non mediocrità insopportabile di concetto. Lo sconforto che i deputati lombardi avevano, nel 1821, trovato a Torino, li aveva indotti a rinunciare all'azione: operando, avrebbero distrutto quello sconforto.

Il Governo di Bologna, fidando unicamente nelle promesse dell'estero, aveva rinunziato, non all'offesa soltanto, ma alla difesa. La proposta d'ordinare una milizia era stata rigettata. Le fortificazioni d'Ancona non erano state riattate. Il progetto di Zucchi che, giunto a Bologna, aveva ordinato la formazione di sei reggimenti di fanteria e di due di cavalleria era stato attraversato. L'idea, proposta più volte da Sercognani, d'una decisiva impresa su Roma, dove il 12 febbrajo s'erano mostrati sintomi d'insurrezione, era sempre stata respinta. Nè il ministro Armandi[10] nè altri aveva saputo intendere l'importanza d'una bandiera di Patria sventolante dal Campidoglio. Il mormorare de' giovani era stato acquetato da promesse continue, non attese mai: il linguaggio severo della stampa, represso da un editto del 12 febbrajo «minacciante condanna finanziaria o di prigione ai venditori di scritti capaci di nuocere alle relazioni di pace e amicizia esistenti coi Governi stranieri.»

E, conseguenza inevitabile del codardo operare, il meschino Governo era stato abbandonato, tradito da tutti. Al conte Bianchetti, mandato a Firenze a interrogare gli ambasciatori di Francia e d'Austria, il Governo Francese non aveva pur degnato rispondere, e corrispondeva amichevolmente col Papa. Il conte di Saint'Aulaire, inviato[57] di Francia a Roma nel marzo, aveva evitato la via di Bologna sfuggendo ad ogni contatto col Governo Provvisorio. L'Austria aveva, aggiungendo l'ironia all'oltraggio, dichiarato che avrebbe invaso Modena e Parma, ma soltanto in virtù di non so qual patto di riversione, e Bologna, purchè si mantenesse saggia, sarebbe stata rispettata. La invasione di Parma, Modena e Reggio aveva avuto luogo: e il 6 marzo il Governo Provvisorio aveva detto: «le cose dei Modenesi non sono le nostre; il non intervento è legge per noi come pei nostri vicini; e nessuno di noi dove immischiarsi nella contesa degli Stati finitimi;» aveva decretato che «quanti stranieri si fossero presentati alle frontiere, si disarmassero e s'internassero;» e i 700 stranieri modenesi, guidati dal Zucchi, avevano dovuto traversare Bologna in sembianza di prigionieri. L'occupazione di Ferrara aveva tenuto dietro a quella di Modena e Parma: Ferrara era parte delle Provincie Unite e aveva sette deputati in Bologna, e nondimeno il governo aveva annunciato, l'8 marzo, il fatto senza commento; il Precursore, organo governativo, aveva il 12 sostenuto la tesi che il principio del non-intervento non era violato, dacchè i trattati di Vienna concedevano all'Austria diritto di guarnigione in Ferrara: due inviati del Governo, Conti e Brunetti, avevano riportato da Ferrara assicurazione verbale di Bentheim che gli Austriaci non si sarebbero inoltrati. Una reggenza pontificia s'era istituita intanto in Ferrara; e il Governo Bolognese aveva sostenuto che tra le operazioni papali e le austriache non era vincolo necessario. Gli Austriaci s'erano presentati alle porte di Bologna il 20; il Governo aveva intimato stessero tutti quieti, la Guardia Nazionale mantenesse l'ordine, solo suo intento; e s'era ritirato in Ancona, dove il 25 marzo, due soli giorni dopo eletto un triumvirato e abdicato quindi ogni potere, aveva capitolato col cardinale Benvenuti, chiedendo amnistia: firmati tutti, fuorchè Carlo Pepoli ch'era assente[11]. I patti della Capitolazione erano stati, come di ragione, violati, annullati il 5 aprile dal Papa. Gli editti del 14 e del 30 condannavano capi, complici, sostenitori. E dacchè i Governi insultano sempre ai caduti, il 23 giugno Luigi Filippo annunziava nel suo discorso alle Camere ch'egli aveva ottenuto dal Papa piena amnistia per gli insorti. E il 9 luglio una circolare fatta pubblica dalla Francia, dalla Prussia, dal Piemonte e dall'Inghilterra, chiamava altamente colpevoli gli insorti e il loro Governo. Intanto i padroni legittimi degli Italiani violavano la libertà dei mari, catturando la nave che portava in esilio Zucchi e da circa settanta insorti e conducevali nelle prigioni di Venezia; e pubblicavano decreti come il seguente: «qualunque volta, in virtù di denunzie o testimonianze segrete (gli autori delle quali non verranno mai compromessi da confronti o altrimenti) noi otterremo certezza morale di un delitto commesso, noi, invece d'esporre l'individuo rivelatore, ci contenteremo di condannare, per misura di polizia, il colpevole a un castigo straordinario, più mite dell'ordinario, ma al quale sarà sempre aggiunta la pena dell'esilio.» Editto del duca di Modena dell'8 aprile 1832.»

Così gl'infausti moti del 1820, del 1821, del 1831, m'insegnavano gli errori che bisognava a ogni patto evitare. I più, confondendo indivi[58]dui e cose, traevano, dal mal esito, cagione di profondo sconforto. Per me, non ne esciva se non il convincimento che il successo era un problema di direzione e non altro. Il biasimo meritato dagli uomini che avevano diretto ricadeva, dicevano, sul paese: il solo fatto dell'essere essi e non altri saliti al potere, rappresentava per tutti quasi un vizio inerente alle condizioni d'Italia: la media, per così dire, della potenza rivoluzionaria italiana. Io non vedeva in quella scelta se non un errore di logica capace di rimedio. Ed era quello, prevalente anche oggi pur troppo, di fidare la scelta dei capi delle insurrezioni a quei che non le hanno operate. In virtù d'un senso di legalità buono in sè, ma spinto oltre i termini del dovere; per un timore, onorevole nell'origine ma esagerato e improvvido, di soggiacere all'accusa di anarchia o d'ambizione; per un'abitudine tradizionale di fiducia, giusta solamente in condizioni normali, negli uomini provetti d'anni e di nome più o meno illustre nelle loro località; finalmente per una assoluta inesperienza della natura e dello sviluppo dei grandi fatti rivoluzionarî, il popolo e la gioventù avevano ceduto sempre il diritto di dirigere ai primi che, con un'apparenza di legalità, si erano presentati ad esercitarlo. La cospirazione e la rivoluzione erano state sempre rappresentate da due ordini diversi d'uomini: gli uni messi da banda dopo d'avere rovesciato gli ostacoli, gli altri sottentrati il dì dopo a dirigere lo sviluppo d'una idea che non era la loro, d'un disegno che non avevano maturato, d'un'impresa della quale non avevano studiato mai le difficoltà o gli elementi e colla quale non si erano, nè per sacrificio nè per entusiasmo, immedesimati. Quindi l'andamento del moto trasformato in un subito. Così, nel 1821, in Piemonte, lo sviluppo del concetto rivoluzionario era stato affidato ad uomini i quali, come Dal Pozzo[12], Villamarina, Gubernatis, erano rimasti stranieri alla cospirazione. Così in Bologna s'erano accettati a membri del governo provvisorio uomini approvati dal governo stesso che si rovesciava: il loro titolo era un editto di monsignore Paracciani Clarelli. Così generalmente, i consigli d'amministrazione comunale, assunto il nome di consessi civici, s'erano dichiarati rappresentanti legali del popolo e avevano eletto, senza dritto alcuno, le autorità provvisorie. Ora predominavano in questi Consigli gli uomini di età canuta, nudriti di vecchie idee, sospettosi della gioventù e atterriti ancora degli eccessi della Rivoluzione Francese; il loro liberalismo era quello ch'oggi chiamano moderato, fiacco, pauroso, capace d'una timida, legale opposizione su particolari, non risalente mai a principî. E sceglievano naturalmente uomini di tendenze affini, discendenti di vecchie famiglie, professori, avvocati di molti clienti, diseredati dell'intelletto, dell'entusiasmo, dell'energia che compiono le rivoluzioni. I giovani, fidenti, inesperti, cedevano: dimenticavano l'immensa diversità che corre tra i bisogni d'un popolo servo e d'un popolo libero e che difficilmente gli uomini, i quali rappresentarono gli interessi individuali o municipali del primo sono atti a rappresentare gli interessi politici o nazionali dell'ultimo.

[59]

Per riflessioni siffatte, deliberai finalmente di seguire l'istinto mio e fondai la Giovine Italia, dandole per base il seguente Statuto


ISTRUZIONE GENERALE PER GLI AFFRATELLATI

NELLA

GIOVINE ITALIA


LIBERTÀ.EGUAGLIANZA.UMANITÀ.

INDIPENDENZA.UNITÀ.

§ 1.º

La Giovine Italia è la fratellanza degli Italiani credenti in una legge di Progresso e di Dovere; i quali, convinti che l'Italia è chiamata ad esser Nazione—che può con forze proprie crearsi tale—che il mal esito dei tentativi passati spetta, non alla debolezza, ma alla pessima direzione degli elementi rivoluzionarî—che il segreto della potenza è nella costanza e nell'unità degli sforzi—consacrano, uniti in associazione, il pensiero e l'azione al grande intento di restituire l'Italia in Nazione di liberi ed eguali, Una, Indipendente, Sovrana.

§ 2.º

L'Italia comprende: 1.º L'Italia continentale e peninsulare fra il mare al sud, il cerchio superiore dell'Alpi al nord, le bocche del Varo all'ovest, e Trieste all'est; 2.º le isole dichiarate italiane dalla favella degli abitanti nativi e destinate ad entrare, con un'organizzazione amministrativa speciale, nell'unità politica italiana.

La Nazione è l'universalità degli Italiani affratellati in un patto e viventi sotto una legge comune.

§ 3.º

Basi dell'Associazione.

Quanto più l'intento d'un'associazione è determinato, chiaro, preciso, tanto più i suoi lavori procederanno spediti, securi, efficaci.—La forza d'una associazione è riposta, non nella cifra numerica degli elementi che la compongono, ma nella omogeneità di questi elementi, nella perfetta concordia dei membri circa la via da seguirsi, nella certezza che il dì dell'azione li troverà compatti e serrati in falange, forti di fiducia reciproca, stretti in unità di volere intorno alla bandiera comune. Le associazioni che accolgono elementi eterogenei e mancano di programma possono durare apparentemente concordi per l'opera di distruzione, ma devono infallibilmente trovarsi il dì dopo impotenti a dirigere il movimento, e minate dalla discordia tanto più pericolosa, quanto più i tempi richiedono allora unità di scopo e di azione.

Un principio implica un metodo; in altri termini: quale il fine, ta[60]li i mezzi. Finchè il vero e pratico scopo d'una rivoluzione si rimarrà segreto ed incerto, incerta pure rimarrà la scelta dei mezzi atti a promoverla e consolidarla. La rivoluzione procederà oscillante nel suo cammino, quindi debole e senza fede. La storia del passato lo insegna.

Qualunque, individuo o associazione, si colloca iniziatore d'un mutamento nella nazione, deve sapere a che tende il mutamento ch'ei provoca. Qualunque presume chiamare il popolo all'armi, deve potergli dire il perchè. Qualunque imprende un'opera rigeneratrice, deve avere una credenza: s'ei non l'ha, è fautore di torbidi e nulla più: promotore d'un'anarchia alla quale ei non ha modo d'imporre rimedî e termine. Nè il popolo si leva mai per combattere quand'egli ignora il premio della vittoria.

Per queste ragioni, la Giovine Italia dichiara senza reticenza ai suoi fratelli di patria il programma in nome del quale essa intende combattere. Associazione tendente anzi tutto a uno scopo d'insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno, essa espone i principî pe' quali l'educazione nazionale deve avverarsi, e dai quali soltanto l'Italia può sperare salute e rigenerazione. Predicando esclusivamente ciò ch'essa crede verità, l'associazione compie un'opera di dovere e non d'usurpazione. Preponendo al fatto la via ch'essa crede doversi tenere dagli Italiani per raggiunger lo scopo; inalzando davanti all'Italia una bandiera e chiamando ad organizzarsi tutti coloro che la stimano sola rigeneratrice, essa non sostituisce questa bandiera a quella della Nazione futura. La Nazione libera e nel pieno esercizio della sovranità, che spetta a lei sola, darà giudizio inappellabile e venerato intorno al principio, alla bandiera e alla legge fondamentale della propria esistenza.

La Giovine Italia è repubblicana e unitaria.

Repubblicana:—perchè, teoricamente, tutti gli uomini d'una Nazione sono chiamati, per la legge di Dio e dell'umanità, ad esser liberi, eguali, e fratelli; e l'istituzione repubblicana è la sola che assicuri questo avvenire,—perchè la sovranità risiede essenzialmente nella nazione, sola interprete progressiva e continua della legge morale suprema,—perchè, dovunque il privilegio è costituito a sommo dell'edificio sociale, vizia l'eguaglianza dei cittadini, tende a diramarsi per le membra, e minaccia la libertà del paese,—perchè dovunque la sovranità è riconosciuta esistente in più poteri distinti, è aperta una via alle usurpazioni, la lotta riesce inevitabile tra questi poteri, e all'armonia, ch'è legge di vita alla società, sottentra necessariamente la diffidenza e l'ostilità organizzata—perchè l'elemento monarchico, non potendo mantenersi a fronte dell'elemento popolare, trascina la necessità d'un elemento intermediario d'aristocrazia, sorgente d'ineguaglianza e di corruzione all'intera nazione—perchè, dalla natura delle cose e dalla storia è provato, che la monarchia elettiva tende a generar l'anarchia, la monarchia ereditaria a generare il dispotismo—perchè, dove la monarchia non s'appoggia, come nel medio-evo, sulla credenza, oggi distrutta, del diritto divino, riesce vincolo mal fermo d'unità e d'autorità nello Stato—perchè la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente le società allo stabilimento del principio repubblicano, e l'inaugurazione del principio monarchico in Italia trascinerebbe la necessità d'un'altra rivoluzione tra non molti anni.

Repubblicana—perchè, praticamente, l'Italia non ha elementi di monarchia: non aristocrazia venerata e potente che possa piantarsi fra il trono e la nazione: non dinastia di principi italiani che comandi per lunghe glorie e importanti servizî resi allo sviluppo[61] della nazione, gli affetti o le simpatie di tutti gli Stati che la compongono—perchè la tradizione italiana è tutta repubblicana: repubblicane le grandi memorie: repubblicano il progresso della nazione e la monarchia s'introdusse quando cominciava la nostra rovina e la consumò: fu serva continuamente dello straniero, nemica al popolo, e all'unità nazionale—perchè le popolazioni dei diversi Stati italiani, che si unirebbero, senza offesa alle ambizioni locali, in un principio, non si sottometterebbero facilmente ad un Uomo, escito dall'un degli Stati, e le molte pretese trascinerebbero il Federalismo—perchè il principio monarchico messo a scopo dell'insurrezione italiana trascinando con sè per forza di logica tutte le necessità del sistema monarchico, concessioni alle corti straniere, rispetto alla diplomazia e fiducia in essa, e repressione dell'elemento popolare, unico potente a salvarci, e autorità fidata ad uomini regî interessati a tradirci, rovinerebbe infallibilmente l'insurrezione—perchè il carattere assunto successivamente dai moti tentati in Italia insegna l'attuale tendenza repubblicana—perchè a sommovere un intero popolo è necessario uno scopo che gli parli direttamente, e intelligibilmente, di diritti e vantaggi suoi—perchè, destinati ad avere i governi contrarî tutti per sistema e terrore all'opera della nostra rigenerazione, ci è forza, per non rimanere soli nell'arena, di chiamarvi con noi i popoli levando in alto una bandiera di popolo e invocandoli a nome di quel principio che domina in oggi tutte le manifestazioni rivoluzionarie d'Europa.

La Giovine Italia è Unitaria—perchè senza Unità non v'è veramente Nazione—perchè senza Unità non v'è forza, e l'Italia, circondata da nazioni unitarie, potenti e gelose, ha bisogno anzi tutto d'essere forte—perchè il Federalismo, condannandola all'impotenza della Svizzera, la porrebbe sotto l'influenza necessaria d'una o d'altra delle nazioni vicine—perchè il Federalismo ridando vita alle rivalità locali, oggimai spente, spingerebbe l'Italia a retrocedere verso il medio-evo—perchè il Federalismo, smembrando in molte piccole sfere la grande sfera nazionale, cederebbe il campo alle piccole ambizioni e diverrebbe sorgente d'aristocrazia—perchè, distruggendo l'unità della grande famiglia italiana, il Federalismo distruggerebbe dalle radici la missione che l'Italia è destinata a compiere nell'Umanità—perchè la serie progressiva dei mutamenti europei guida inevitabilmente le società europee a costituirsi in vaste masse unitarie—perchè tutto quanto il lavoro interno dell'incivilimento italiano tende da secoli, per chi sa studiarlo, alla formazione dell'Unità—perchè tutte le objezioni fatte al sistema unitario si riducono ad objezioni contro un sistema di concentrazione e di dispotismo amministrativo che nulla ha di comune coll'Unità.—La Giovine Italia non intende che l'Unità nazionale implichi dispotismo, ma concordia e associazione di tutti.—La vita inerente alle località dev'esser libera e sacra. L'organizzazione amministrativa dev'esser fatta su larghe basi, e rispettare religiosamente le libertà di comune; ma l'organizzazione politica destinata a rappresentar la Nazione in Europa dev'essere una e centrale. Senza unità di credenza e di patto sociale, senza unità di legislazione politica, civile e penale, senza unità di educazione e di rappresentanza, non v'è Nazione.

Su queste basi e sulle loro conseguenze dirette esposte negli scritti dall'associazione, la Giovine Italia è credente, e non accoglie ne' suoi ranghi se non chi le accetta. Sulle applicazioni minori, e nelle molte questioni secondarie di organizzazione politica da proporsi, essa lavora e lavorerà: ammette ed esamina le divergenze, e invita i membri dell'associazione a occuparsene. L'associazione pubblicherà v[62]ia via scritti appositi su ciascuna delle basi accennate e sulle principali questioni che ne derivano, esaminate dall'alto della legge di Progresso che regola la vita dell'Umanità e della Tradizione Nazionale Italiana.

I principî generali della Giovine Italia comuni agli uomini di tutte le nazioni, e gli accennati fin qui sulla nazione italiana in particolare, verranno predicati, svolti, e tradotti popolarmente dagli iniziatori agli iniziati, e dagli iniziati, quanto più possono, all'universalità degli Italiani.

Iniziati e iniziatori non dimenticheranno mai che le applicazioni morali di principî siffatti sono le prime e le più essenziali—che senza moralità non v'è cittadino—che il principio d'una santa impresa è la santificazione dell'anima colla virtù—che dove la condotta pratica degli individui non è in perfetta armonia co' principî, la predicazione de' principî è una profanazione infame e una ipocrisia—che solamente colla virtù i fratelli nella Giovine Italia potranno conquistare le moltitudini alla loro fede—che se noi non siamo migliori d'assai di quanti negano i nostri principî, non siamo che meschini settarî—che la Giovine Italia è non setta, o partito, ma credenza ed apostolato. Precursori della rigenerazione italiana, noi dobbiamo posare la prima pietra della sua religione.

§ 4.º

I mezzi de' quali la Giovine Italia intende valersi per raggiunger lo scopo sono l'Educazione e l'Insurrezione. Questi due mezzi devono usarsi concordemente ed armonizzarsi. L'Educazione, cogli scritti, coll'esempio, colla parola, deve conchiudere sempre alla necessità e alla predicazione dell'insurrezione; l'insurrezione, quando potrà realizzarsi, dovrà farsi in modo che ne risulti un principio d'educazione nazionale. L'educazione, necessariamente segreta in Italia, è pubblica fuori d'Italia.—I membri della Giovine Italia devono contribuire a raccogliere ed alimentare un fondo per le spese di stampa e di diffusione.—La missione degli esuli Italiani è quella di costituire l'apostolato. L'intelligenza indispensabile ai preparativi dell'insurrezione è, dentro e fuori, segreta.

L'insurrezione dovrà presentare ne' suoi caratteri il programma in germe della Nazionalità italiana futura. Dovunque l'iniziativa dell'insurrezione avrà luogo, avrà bandiera italiana, scopo italiano, linguaggio italiano.—Destinata a formare un Popolo, essa agirà in nome del Popolo e si appoggerà sul Popolo, negletto finora.—Destinata a conquistare l'Italia intera, essa dirigerà le sue mosse dietro un principio d'invasione, d'espansione, il più possibilmente vasto ed attivo.—Destinata a ricollocare l'Italia nell'influenza tra' popoli e nel loro amore, essa dirigerà i suoi atti a provare loro l'identità della causa.

Convinti che l'Italia può emanciparsi colle proprie forze—che a fondare una Nazionalità è necessaria la coscienza di questa nazionalità, e che questa coscienza non può aversi, ogni qual volta l'insurrezione si compia o trionfi per mani straniere—convinta d'altra parte che qualunque insurrezione s'appoggi sull'estero dipende dai casi dell'estero e non ha mai certezza di vincere—la Giovine Italia è decisa a giovarsi degli eventi stranieri, ma non a farne dipendere l'ora e il carattere dell'insurrezione. La Giovine Italia sa che l'Europa aspetta un segnale e che, come ogni altra nazione, l'Italia può darlo. Essa sa che il terreno è vergine ancora per l'esperimento da tentarsi—che le insurrezioni passate non s'appoggiarono che sulle forze di[63] una classe sola, non mai sulle forze dell'intera nazione—che ai venti milioni d'Italiani manca non potenza per emanciparsi, ma la fede sola. Essa ispirerà questa fede, prima colla predicazione, poi coi caratteri e coll'energia dell'iniziativa.

La Giovine Italia distingue lo stadio dell'insurrezione dalla rivoluzione. La rivoluzione incomincerà quando l'insurrezione avrà vinto. Lo stadio dell'insurrezione, cioè tutto il periodo che si stenderà dall'iniziativa alla liberazione di tutto il territorio italiano continentale, dev'esser governato da un'autorità provvisoria, dittatoriale, concentrata in un piccol numero d'uomini. Libero il territorio, tutti i poteri devono sparire davanti al Concilio Nazionale, unica sorgente di autorità nello Stato.

La guerra d'insurrezione per bande è la guerra di tutte le Nazioni che s'emancipano da un conquistatore straniero. Essa supplisce alla mancanza, inevitabile sui principî delle insurrezioni, degli eserciti regolari—chiama il maggior numero d'elementi sull'arena—si nutre del minor numero possibile d'elementi—educa militarmente tutto quanto il popolo—consacra colla memoria de' fatti ogni tratto del terreno patrio—apre un campo d'attività a tutte le capacità locali—costringe il nemico a una guerra insolita—evita le conseguenze d'una disfatta—sottrae la guerra nazionale ai casi d'un tradimento—non la confina a una base determinata d'operazioni—è invincibile, indestruttibile. La Giovine Italia prepara dunque gli elementi a una guerra per bande, e la provocherà, appena scoppiata l'insurrezione. L'esercito regolare, raccolto e ordinato con sollecitudine, compirà l'opera preparata dalla guerra d'insurrezione.

Tutti i membri della Giovine Italia lavoreranno a diffondere questi principî d'insurrezione. L'associazione li svolgerà cogli scritti, ed esporrà, a tempo, le idee e i provvedimenti che devono governare lo stadio dell'insurrezione.

§ 5.º

Tutti i fratelli della Giovine Italia verseranno nella cassa sociale una contribuzione mensile di 50 centesimi. Quei tra loro che potranno, s'astringeranno nel momento della loro iniziazione all'offerta mensile d'una somma maggiore, corrispondente alle loro facoltà.

§ 6.º

I colori della Giovine Italia sono: il bianco, il rosso, il verde.

La bandiera della Giovine Italia porta su quei colori, scritte da un lato le parole: Libertà, Uguaglianza, Umanità; dall'altro: Unità, Indipendenza.

§ 7.º

Ogni iniziato nella Giovine Italia pronunzierà davanti all'Iniziatore la formula di promessa seguente:

Nel nome di Dio e dell'Italia,

Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera o domestica,

Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m'ha posto, e ai fratelli che Dio m'ha dati—per l'amore, innato in ogni uomo, ai luoghi dove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli—per l'odio, innato in ogni uomo, al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio—pel rossore ch'io sento in faccia ai cittadini dell'altre nazioni, del non avere nome nè diritti di cittadino, nè bandiera di nazione,[64] nè patria—pel fremito dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell'isolamento della servitù—per la memoria dell'antica potenza—per la coscienza della presente abjezione—per le lagrime delle madri italiane pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio—per la miseria dei milioni:

Io N. N.

Credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al suo adempimento;

Convinto che dove Dio ha voluto fosse Nazione, esistono le forze necessarie a crearla—che il Popolo è depositario di quelle forze—che nel dirigerle pel Popolo e col Popolo sta il segreto della vittoria;

Convinto che la Virtù sta nell'azione e nel sagrificio—che la potenza sta nell'unione e nella costanza della volontà;

Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti nella stessa fede, e giuro:

Di consecrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l'Italia in Nazione Una, Indipendente, Libera, Repubblicana;

Di promovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d'azione, l'educazione de' miei fratelli italiani all'intento della Giovine Italia, all'associazione che sola può conquistarlo, alla virtù che sola può rendere la conquista durevole;

Di non appartenere, da questo giorno in poi, ad altre associazioni;

Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l'unione de' miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati i segreti;

Di soccorrere coll'opera e col consiglio a' miei fratelli nell'associazione,

Ora e sempre.

Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abominio degli uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in tutto o in parte il mio giuramento.


Io giurai, primo, quello Statuto. Molti lo giurarono con me allora e poi, i quali sono oggi cortigiani, faccendieri di consorterie moderate, servi tremanti della politica di Bonaparte e calunniatori e persecutori dei loro antichi fratelli. Io li disprezzo. Essi possono aborrirmi, come chi ricorda loro la fede giurata e tradita; ma non possono citare un sol fatto a provare ch'io abbia mai falsato quel giuramento. Oggi come allora io credo nella santità e nell'avvenire di quei principî: vissi, vivo e morrò repubblicano, testimoniando sino all'ultimo per la mia fede. S'essi mai volessero dirmi, quasi a discolpa, ch'io pure mi adoprai negli ultimi due anni e tuttavia m'adopro per l'Unità sotto una bandiera monarchica, io additerei loro le linee dello Statuto che dicono: l'Associazione non sostituisce la sua bandiera a quella della Nazione futura: la Nazione libera. . . . . . darà giudizio. . . . . venerato.—Il popolo d'Italia è oggi travolto da una illusione, che lo trascina a sostituire l'Unità materiale all'Unità morale e alla propria rigenerazione: non io. Io piego la testa, dolente, alla Sovranità nazionale, ma la monarchia non m'avrà impiegato nè servo; e se la mia fede poggiasse sul Vero, dirà il futuro.

Lo Statuto risponde a ogni modo alle cento accuse che furono avventate[65] più tardi contro noi da libelli di spie come il De la Hodde, o di frenetici come D'Arlincourt, e citate spesso con amore da scrittori di parte moderata che le sapevano false. Sopprimendo la condanna di morte, minacciata da tutte le Società segrete anteriori, ai traditori dei loro fratelli; sostituendo fin d'allora alla erronea straniera dottrina dei diritti la teorica del Dovere come fondamento dell'opere nostre; prefiggendo ai buoni un programma definito, norma suprema sulla quale ogni affratellato potea giudicare delle istruzioni trasmesse; negando risolutamente la necessità dell'iniziativa straniera; dichiarando che l'Associazione, serbando segreto il lavoro tendente all'insurrezione, svilupperebbe colla stampa i proprî principî e le proprie idee, io separava interamente la nuova fratellanza dalle vecchie Società segrete, dal dispotismo di capi invisibili, dalla indegna cieca obbedienza, dal vuoto simbolismo, dalla molteplice gerarchia e da ogni spirito di vendetta. La Giovine Italia chiudeva il periodo delle sette e iniziava quello dell'Associazione educatrice.

Più dopo, consunto il primo periodo della nostra attività, sorsero nelle Calabrie e in qualch'altro punto organizzazioni indipendenti dal Centro che, assumendo il nome fatto popolare della Giovine Italia, coniarono, a seconda delle abitudini del paese o delle inspirazioni personali dei fondatori, Statuti in parte diversi dal nostro. Ma o le circostanze vietarono ogni contatto fra noi, o insistemmo perchè accettassero le nostre norme fondamentali. Quei che ci apponessero deviazioni siffatte farebbero come quei che apponessero al principio repubblicano il terrore del 1793, o al monarchico gli assassinii del 1815 nel mezzogiorno di Francia. Ogni Partito, ogni moto nazionale ha sobbollimenti, pei quali, presso gli onesti ragionatori, il Partito e il moto non sono mallevadori.

Mi posi a capo della impresa perchè il concetto era mio ed era naturale ch'io lo svolgessi, e perch'io sentiva in me potenza d'attività infaticabile e pertinacia di volontà capaci di svolgerlo; e l'unità della direzione mi pareva essenziale. Ma il programma era pubblico e destinato ad essere l'anima dell'Associazione. Io non poteva deviarne menomamente senza che gli affratellati sorgessero a rinfacciarmelo. Poi, io ero circondato d'uomini i quali m'erano amici, e usavano liberamente dei diritti dell'amicizia, e accessibile a tutti e in tutte le ore. Era in sostanza un lavoro collettivo fraterno nel quale chi dirigeva s'assumeva più ch'altro il privilegio d'incorrere il biasimo, le opposizioni e la persecuzione per tutti.

Fermo nell'idea d'iniziare la doppia nostra missione segreta e pubblica, insurrezionale ed educatrice, mentr'io dava opera assidua, come dirò poi, all'impianto dei Comitati dell'Associazione in Italia, m'affrettai a stampare il manifesto della Giovine Italia, raccolta di scritti intorno alla condizione politica, morale e letteraria dell'Italia, tendente alla sua rigenerazione. Noi non avevamo mezzi pecuniarî. Io andava economizzando quanto più poteva sul trimestre che mi veniva dalla famiglia: i miei amici erano tutti esuli e dissestati in finanza. Ma ci avventurammo, fidando nell'avvenire e nelle sottoscrizioni volontarie che dovevano venirci se i nostri pr[66]incipî tornavano accetti. Il Manifesto escì sul finire, a quanto ricordo, del 1831. Gli tenne dietro di poco, nel 1832, il primo fascicolo.


MANIFESTO

DELLA

GIOVINE ITALIA

Se un Giornale a noi Italiani esuli raminghi, e sbattuti dalla fortuna fra gente straniera, senza conforto fuorchè di speranza, senza pascolo all'anima fuorchè d'ira e dolore, non dovesse riuscire che sfogo sterile, noi taceremmo. Fra noi, finora, s'è speso anche troppo tempo in parole: poco in opere; e se non guardassimo che a' suggerimenti dell'indole propria, il silenzio ci parrebbe degna risposta alle accuse non meditate, e alla prepotenza de' nostri destini; il silenzio che freme e sollecita l'ora della giustificazione solenne; ma guardando alle condizioni presenti, e al voto, che i nostri fratelli ci manifestano, noi sentiamo la necessità di rinnegare ogni tendenza individuale a fronte del vantaggio comune: noi sentiamo urgente il bisogno di alzare una voce libera, franca e severa che parli la parola della verità ai nostri concittadini, e ai popoli che contemplano la nostra sventura.

Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principî, che colle bajonette: dapprima nell'ordine morale, poi nel materiale. Le bajonette non valgono se non quando rivendicano, o tutelano un diritto: e diritti e doveri nella società emergono tutti da una coscienza profonda, radicata nei più: la cieca forza può generare vittime e martiri e trionfatori; ma il trionfo, collochi la sua corona sulla testa d'un re o d'un tribuno, quand'osta al volere dei più, rovina pur sempre in tirannide.

I soli principî, diffusi e propagati per via di sviluppo intellettuale nell'anime, manifestano nei popoli il diritto alla libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge alla forza. Quindi l'urgenza dell'istruzione.

La verità è una sola. I principî che la compongono sono pochi: enunciati per la più parte. Bensì le applicazioni, le deduzioni, le conseguenze de' principî sono molteplici; nè intelletto umano può afferrarle tutte ad un tratto, nè afferrate, comprenderle intelligibili e coordinate, in un quadro limitato e assoluto. I potenti d'ingegno e di core cacciano i semi d'un grado di progresso nel mondo; ma non fruttano che per lavoro di molti uomini ed anni. La umanità non si educa a slanci; ma per via d'applicazioni lunghe e minute, scendendo a particolari e paragonando fatti e cagioni, impara le sue credenze. Un Giornale, opera successiva, progressiva e vasta di proporzioni, opera di molti che convengono a un fine determinato, opera, che non rifiuta alcun fatto, bensì li segue nell'ordine del tempo e li afferra, e ne trae, svolgendoli per ogni lato, l'azione de' principî immutabili delle cose, sembra il genere più efficace e più popolare d'insegnamento, che convenga alla moltiplicità degli eventi, e alla impazienza dei nostri tempi.

[67]

In Italia come in ogni paese che aspira a ricrearsi v'è un urto di elementi diversi, di passioni che assumono forme varie, d'affetti tendenti in sostanza a uno stesso fine, ma con modificazioni presso che all'infinito. Molti, anime alteramente sdegnose, abborrono lo straniero, e gridano libertà soltanto perchè lo straniero la vieta. Ad altri la idea della riunione d'Italia sorride unica, nè ad essi increscerebbe il concentrarne le membra sotto l'impero d'una volontà forte, foss'anche di tiranno cittadino, o straniero. Alcuni paurosi delle grandi scosse, e diffidando di potere senza lunghi travagli soffocare ad un tratto tutti quanti gl'interessi privati e le gare di provincia a provincia, si arretrano davanti al grido d'unione assoluta, e accetterebbero una divisione che minorasse non foss'altro il numero delle parti. Pochi intendono, o pajono intendere la necessità prepotente, che contende il progresso vero all'Italia, se i tentativi non s'avviino sulle tre basi inseparabili dell'Indipendenza, della Unità, della Libertà. Pur questi pochi aumentano ogni dì più, e assorbiranno rapidamente tutte l'altre opinioni. L'abborrimento al Tedesco, la smania di scuotere il giogo, e il furore di Patria sono passioni universalmente diffuse, e le transazioni, che la paura, e i falsi calcoli diplomatici vorrebbero persuaderci, sfumeranno davanti alla maestà del voto nazionale. Però la questione sotto questo aspetto vive e s'agita fra l'ardire generoso che tenta il moto, e la tirannide che fa l'ultime prove e le più tremende.

Non così sui mezzi, pei quali può conseguirsi l'intento, e tramutarsi la insurrezione in vittoria stabile ed efficace. Una classe di uomini influenti per autorità e per ingegno civile contende doversi procedere nella rivoluzione colle cautele diplomatiche, anzichè colla energia della fede, e d'una irrevocabile determinazione. Ammettono i principî, rifiutano le conseguenze; deplorano i mali estremi, e proscrivono gli estremi rimedî: vorrebbero condurre i popoli alla libertà coll'arti, non colla ferocia della tirannide. Nati, cresciuti, educati a' tempi, nei quali la coscienza degli uomini liberi era in Italia privilegio di pochi, diffidano della potenza d'un popolo che sorge a rivendicare gloria, diritti, esistenza; diffidano dell'entusiasmo, diffidano d'ogni cosa, fuorchè dei calcoli de' gabinetti che ci hanno mille volte venduti, e dell'armi straniere che ci hanno mille volte traditi. Non sanno che gli elementi d'una rigenerazione fermentano in Italia da mezzo secolo, e ch'oggi il desiderio del meglio è fremito di moltitudini. Non sanno che un popolo schiavo da molti secoli non si rigenera se non colla virtù, o colla morte. Non sanno che ventisei milioni d'uomini, forti di giustizia, e di una volontà ferma, sono invincibili. Diffidano della possibilità di riunirli tutti ad un solo voto; ma essi, tentarono forse l'impresa? Si mostrarono decisi a sotterrarsi per essa? Bandirono la crociata italiana? Insegnarono al popolo che non v'era se non una via di salute; che il moto operato per esso dovea sostenersi da esso; che la guerra era inevitabile, disperata, senza tregua fuorchè nel sepolcro, o nella vittoria? No: ristettero quasi attoniti della grandezza dell'opera, o camminarono tentennando, come se la via gloriosa che essi calcavano fosse via d'illegalità, o di delitto. Illusero il popolo a sperare nell'osservanza di principî ch'essi traevano dagli archivi de' congressi o da' gabinetti: addormentarono l'anime bollenti, che anelavano il sacrificio fecondo, nella fede degli ajuti stranieri: consumarono nella inerzia, o in discussioni di leggi che non sapevano come difendere, un tempo che doveva consecrarsi tutto a fatti magnanimi, e all'armi. Poi, quando delusi nei loro calcoli, traditi dalla diplomazia, col nemico alle porte, colla paura nel core, non videro che una via d'ammenda generosa all'errore, la morte su' loro s[68]canni, rinnegarono anche quella, e fuggirono. Ora negano la fede nella nazione, mentr'essi non tentarono mai suscitarla coll'esempio: deridono l'entusiasmo, ch'essi hanno spento coll'incertezza e colla codardia. Sia pace ad essi però che non traviarono per tristo animo; ma dovevano essi assumere il freno d'una intrapresa, che non s'attentavano neppure di concepire nella sua vasta unità?

Ma nelle rivoluzioni ogni errore è gradino alla verità. Gli ultimi fatti hanno ammaestrato la crescente generazione più che non farebbero volumi di teoriche, e noi lo affermiamo, coi moti Italiani del 1831, s'è consumato il divorzio tra la Giovine Italia e gli uomini del passato.

Forse a convincere gl'Italiani, che Dio e la fortuna stanno coi forti e che la vittoria sta sulla punta della spada, non nelle astuzie de' protocolli, si volea quest'ultimo esempio, dove la fede giurata sui cadaveri di sette mila cittadini fu convertita in patto d'infamia e di delusione. Forse a insegnare che un popolo non deve aspettare libertà da gente straniera, non bastava la vicenda di dieci secoli, nè il grido dei padri caduti maledicendo: e si voleva lo spergiuro d'uomini liberi insorti sei mesi prima contro ad uno spergiuro, poi l'esilio, le persecuzioni, e lo scherno. Ora, l'Italia del XIX secolo sa che la unità dell'impresa è condizione senza la quale non è via di salute: che una rivoluzione è una dichiarazione di guerra a morte fra due principî: che i destini dell'Italia hanno a decidersi sulle pianure Lombarde, e la pace a fermarsi oltre l'Alpi: che non si combatte, nè si vince senza le moltitudini, e che il segreto per concitarle sta nelle mani degli uomini che sanno combattere e vincere alla loro testa: che a cose nuove si richiedono uomini nuovi, non sottomessi all'impero di vecchie abitudini o di antichi sistemi, vergini d'anima e d'interessi, potenti d'ira e d'amore, e immedesimati in una idea: che il segreto della potenza sta nella fede, la virtù vera nel sagrificio, la politica nell'essere e mostrarsi forti.

Questo sa la Giovine Italia, e intende l'altezza della sua missione, e l'adempirà, noi lo giuriamo per le mille vittime, che si succedono instancabili da dieci anni a provare, che colle persecuzioni non si spengono, bensì si ritemprano le opinioni: lo giuriamo per lo spirito che insegna il progresso, pei giovani combattenti di Rimini, pel sangue de' martiri Modenesi. V'è tutta una religione in quel sangue: nessuna forza può soffocare la semenza di libertà, però ch'essa ha germogliato nel sangue dei forti. Oggi ancora la nostra è la religione del martirio: domani sarà la religione della vittoria.

E a noi giovani, e credenti nell'istessa fede, corre debito di soccorrere alla santa causa in tutti i modi possibili. Poichè i tempi ci vietano l'opre del braccio, noi scriveremo. La Giovine Italia ha bisogno d'ordinare a sistema le idee che fremono sconnesse e isolate nelle sue file: ha bisogno di purificare d'ogni abitudine di servaggio, d'ogni affetto men che grande, questo elemento nuovo e potente di vita che la spinge a rigenerarsi: e noi, fidando nell'ajuto Italiano, tenteremo di farlo: tenteremo di farci interpreti di quanti bisogni, di quante sciagure, di quante speranze costituiscono la Italia del secolo XIX.

Noi intendiamo di pubblicare, con forme e patti determinati, una serie di scritti tendenti a cotesto scopo, e a norma de' principî che abbiamo accennati.

Noi non rifiuteremo gli argomenti filosofici, e letterarî: l'unità è prima legge dell'intelletto. La riforma d'un popolo non ha basi stabili se non posa sull'accordo nelle credenze, sul complesso armonico delle facoltà [69]umane; e le lettere, contemplate come un sacerdozio morale, sono espressione della verità dei principî, mezzo potente di incivilimento.

Rivolti principalmente all'Italia, noi non ci allargheremo nella politica forestiera e negli eventi europei, se non quanto giovi a promuovere la educazione e l'esperienza italiana, se non quanto giovi ad accrescere infamia agli oppressori del mondo, o a stringer più fermo il vincolo di simpatia che deve raccogliere in una fratellanza di voti e d'opere gli uomini liberi di tutte le contrade.

Una voce ci grida: la religione della umanità è l'Amore. Dove due cori battono sotto lo stesso impulso, dove due anime s'intendono nella virtù, ivi è patria. E noi non rinnegheremo il più bel voto dell'epoca, il voto dell'associazione universale tra' buoni; ma un sangue gronda dalle piaghe, aperte dalla fede nello straniero, che noi non possiamo dimenticare ad un tratto. L'ultima voce dei traditi si frappone tra noi e le nazioni che ci hanno finora venduti, negletti, o sprezzati. Il perdono è la virtù della vittoria. L'amore vuole equilibrio di potenza e di stima. Però, noi, rifiutando pur sempre l'ajuto e la compassione dello straniero, gioveremo allo sviluppo del sentimento europeo col mostrarci, non foss'altro, quali noi siamo, nè ciechi nè vili, ma sfortunati; e cacciando sulla mutua stima le basi della futura amicizia. L'Italia non è conosciuta. La vanità, la leggerezza, la necessità di crear discolpe ai delitti han fatto a gara per travisare fatti, passioni, costumanze e abitudini. Noi snuderemo le nostre ferite: mostreremo allo straniero di qual sangue grondi quella pace alla quale ci sacrificarono le codardie diplomatiche: diremo gli obblighi che correvano a' popoli verso di noi, e gl'inganni che ci han posto in fondo: trarremo dalle carceri e dalle tenebre del dispotismo i documenti della nostra condizione, delle nostre passioni, e delle nostre virtù: scenderemo nelle fosse riempiute dell'ossa de' nostri martiri, e scompiglieremo quell'ossa, ed evocheremo que' grandi sconosciuti, ponendoli davanti alle nazioni, come testimonî muti dei nostri infortunî, della nostra costanza, e della loro colpevole indifferenza. Un gemito tremendo di dolore, e d'illusioni tradite sorge da quella rovina, che l'Europa contempla fredda, e dimentica che da quella rovina si diffondeva ad essa due volte il raggio dell'incivilimento, e della libertà. E noi lo raccorremo quel gemito, e lo ripeteremo alla Europa, ond'essa v'impari tutta l'ampiezza del suo misfatto, e diremo a' popoli: queste son l'anime che voi avete trafficate sinora: questa è la terra che avete condannata alla solitudine e all'eternità del servaggio! (1831).


Le obbiezioni a noi più frequenti movevano, singolare a dirsi, dalla credenza radicata nei più tra gli uomini delle insurrezioni passate e nei mezzi ingegni della Penisola, che l'Unità fosse utopia ineseguibile e avversa alle tendenze storiche degli Italiani. Tra gli oppositori e me il fatto ha deciso. Ma allora, quando il dissenso era nelle classi dette educate, pressochè universale—quando i Governi di tutta Europa mantenevano la teoria di Metternich che facea dell'Italia una espressione puramente geografica, e gli uomini più noti in Francia ed altrove per tendenze repubblicane ostili ai Trattati e invocanti rivoluzione parteggiavano pel federalismo come solo possibile tra noi—le cagioni di dubbio erano molte davvero. Armand Carrel e gli uomini del National insinuavano i vantaggi delle confederazioni in Italia, nella Spagna, in Germania. Buonarroti e gli uomini che cos[70]piravano intorno a lui erano teoricamente favorevoli alle Unità Nazionali; ma la loro decisione irrevocabile, intollerante, che nessun popolo dovesse mai movere se non dopo la Francia, rendeva illusoria l'idea e minacciava spegnerla in germe. Il vero è che mancava a tutti in quel periodo di concitamento europeo l'intuizione dell'avvenire. Il moto era, più che d'altro, di libertà. Pochi intendevano che libertà vera e durevole non può conquistarsi all'Europa se non da popoli compatti, forti, equilibrati di potenza e non ridotti dal terrore d'una invasione a mendicare con turpi concessioni un'alleanza proteggitrice o sviati da speranze d'ajuti per lo scioglimento d'una od altra questione territoriale a imparentare la libertà propria coll'altrui dispotismo: pochissimi intendevano che l'invocata associazione dei popoli pel progresso ordinato e pacifico dell'Umanità tutta quanta esigeva prima condizione che i popoli fossero. E popoli non sono dove pel congiungimento forzato di razze o famiglie diverse manca l'unità della fede e dell'intento morale che soli costituiscono le nazioni. Il riparto d'Europa, come i Trattati del 1815 l'avevano sancito, frapponeva, colla eccessiva potenza degli uni e la debolezza degli altri, colla necessità d'appoggiarsi a ogni patto su qualunque grande Potenza s'offrisse creata ai piccoli Popoli e col germe delle divisioni interne lasciato vivo in seno a quasi ciascuna Nazione, un ostacolo insormontabile a ogni sviluppo normale e securo di libertà. Rifare la Carta d'Europa e riordinare i popoli a seconda della missione speciale assegnata a ognun d'essi dalle condizioni geografiche, etnografiche, storiche, era dunque il primo passo essenziale per tutti. A me la questione delle Nazionalità pareva chiamata a dare il suo nome al secolo e restituire all'Europa una potenza d'iniziativa pel bene che non esisteva più da quando Napoleone aveva, cadendo, conchiuso un'epoca intera. Ma quei presentimenti non erano se non di pochissimi. Quindi la questione d'Unità che stava in cima de' miei pensieri non era guardata siccome importante, e gli ostacoli apparenti inducevano facilmente i nostri a sagrificarla. In Francia l'istinto, inconsciamente dominatore non delle moltitudini, ma degli ingegni, accarezzava allora, come sempre, teorie e disegni che miravano a ordinare intorno alla Francia Una e forte, libere, ma deboli confederazioni.

Bensì, a me per verificare le probabilità del mio concetto importava, più assai che non il voto dei mezzi ingegni stranieri e nostri, l'istinto delle moltitudini e dei giovani ignoti a contatto con esse in Italia. Mi diedi dunque, tra un articolo e l'altro, a impiantare l'Associazione segreta. Mandai Statuti, Istruzioni, avvertenze d'ogni genere ai giovani amici lasciati in Genova e in Livorno. Là, mercè i Ruffini in Genova, Bini e Guerrazzi in Livorno, s'impiantarono le prime Congreghe. Così chiamavamo con nome desunto dai ricordi di Pontida i nostri nuclei di direzione.

L'ordinamento era, quanto più si poteva, semplice e schietto di simbolismo. Respinta l'interminabile gerarchia del Carbonarismo, l'associazione non avea che due gradi: Iniziatori e Iniziati: erano iniziatori quanti, oltre la devozione ai principî, avevano intelletto abbastanza prudente per scegliere nuovi membri da affratellarsi; iniziati semplici gli uomini ai quali era sottratta la facoltà di affigliare. Un Comitato Centrale all'estero, destinato a tenere sollevata in alto la bandiera dell'Associazione, a stringere quanti più vincoli fosse possibile tra l'Italia e gli elementi democratici stranieri, e a dirigere generalmente l'impresa:—Comitati interni, dirigenti la cospirazione pratica nei particolari, impiantati nei capoluoghi delle provincie importanti:—un Ordinatore in ogni città posto a centro degli Iniziatori:—poi[71] gli affratellati divisi in drappelli ineguali di numero capitanati dagli Iniziatori;—era questa l'ossatura della Giovine Italia. La corrispondenza correva quindi dagli Iniziati agli Iniziatori, da questi, separatamente per ciascuno, all'Ordinatore; dagli Ordinatori alla Congrega della loro circoscrizione, dalle Congreghe al Comitato Centrale. Eliminati come soverchiamente pericolosi i segni di conoscimento tra gli affratellati, una parola convenuta, una carta tagliuzzata, un tocco speciale di mano accreditavano i viaggiatori dal Comitato Centrale ai Comitati provinciali e da questi a quello: mutabili per trimestre. Le contribuzioni mensili, alle quali ogni affratellato s'astringeva a seconda dei mezzi, rimanevano pei due terzi nelle Casse dell'interno: un terzo rifluiva, o più esattamente dovea rifluire nella Cassa Centrale per supplire alle spese d'ordine generale. La stampa doveva alimentarsi da sè colla vendita degli scritti. Un ramoscello di cipresso era, in memoria dei Martiri, il simbolo dell'Associazione. Il motto generale ora e sempre accennava alla costanza necessaria all'impresa. La bandiera della Giovine Italia portava da un lato, scritte sui tre colori italiani, le parole: Libertà, Eguaglianza, Umanità e dall'altro: Unità e Indipendenza: indicatrici le prime della missione internazionale Italiana, le seconde della nazionale. Dio e l'Umanità fu fin dai primi giorni dell'Associazione la formola da essa adottata in tutte le sue relazioni esterne: Dio e il Popolo la formola per tutti i lavori risguardanti la Patria. Da questi due principî, applicazioni a due sfere diverse d'un solo, l'Associazione deduceva tutte le sue credenze religiose, sociali, politiche, individuali. Prima fra tutte le Associazioni politiche di quel tempo, la Giovine Italia mirava a comprendere in un solo concetto tutte le manifestazioni della vita Nazionale e a dirigerle tutte, dall'alto d'un principio religioso: la missione fidata alla creatura, verso un unico fine, l'emancipazione della Patria, e il suo affratellamento coi Popoli liberi.

Le istruzioni che io in quel primo periodo dell'Associazione andava inculcando ai Comitati, agli Ordinatori e a quanti giovani venivano a contatto con me, erano in parte morali, in parte politiche.

Le morali sommavano, mutate le parole, a questo: «Noi siamo non solamente cospiratori, ma credenti: aspiriamo ad essere, non solamente rivoluzionarii ma per quanto è in noi rigeneratori. Il nostro è problema d'educazione nazionale anzi tutto: l'armi e l'insurrezione non sono se non mezzi senza i quali, mercè le nostre condizioni, è impossibile scioglierlo: ma noi non invochiamo le bajonette se non a patto ch'esse portino sulla punta un'idea. Poco ci importerebbe distruggere, se non avessimo speranza di fondare il meglio: poco di scrivere doveri e diritti sopra un brano di carta se non avessimo intento e fiducia di stamparli nell'anime. Questo neglessero i nostri padri; questo dobbiam noi aver sempre davanti la mente. Determinare i diversi Stati d'Italia a insorgere, non basta; si tratta di crear la Nazione. Noi crediamo religiosamente che l'Italia non ha esaurito la propria vita nel mondo, essa è chiamata a introdurre ancora nuovi elementi nello sviluppo progressivo dell'Umanità e a vivere d'una terza vita; noi dobbiamo mirare a iniziarla. Il materialismo non può generare in politica se non la dottrina dell'individuo, buona forse ad assicurare—e appoggiandosi sulla forza—l'esercizio di alcuni diritti personali, ma impotente a fondare la nazionalità e l'associazione, ch'esigono fede in una unità d'origine, di legge, di fine: lo respingiamo. Noi dobbiamo tendere a rannodare la tradizione filosofica italiana dei secoli XVI e XVII,[72] tradizione di sintesi e spiritualismo; a ravvivare le forti credenze, e risuscitare nel core degli italiani la coscienza dei fatti della nazione; a dar loro con quella coscienza coraggio, potenza di sagrificio, costanza, concordia d'opera.»

E le Istruzioni politiche ripetevano:

«Il partito più forte è il partito più logico. Non vi contentate d'un semplice senso di ribellione nei vostri; o d'incerte, indefinite dichiarazioni di liberalismo: chiedete a ciascuno la sua credenza e non accettate se non gli uomini la credenza dei quali è concorde colla vostra. Non fate assegnamento sul numero, ma sull'unità delle forze. Il nostro è un esperimento sul nostro popolo: ci rassegniamo alla possibilità di trovarci delusi nelle nostre speranze, ma non al pericolo di vedere sorgere tra noi la discordia il dì dopo l'azione. La vostra è bandiera nuova: cercatele sostenitori fra' giovani: è in essi entusiasmo, capacità di sagrificio, energia. Dire loro tutta quanta la verità, tutto ciò che vogliamo. Saremo certi d'essi s'accettano. Supremo errore del passato fu quello di fidare le sorti del paese agli individui più che ai principî: combattetelo: predicate fede, non nei nomi ma nelle moltitudini, nel diritto, in Dio. Insegnate a scegliere i capi tra quei che avranno attinto le inspirazioni nella rivoluzione, non nella condizione di cose anteriori. Ponete a nudo gli errori del 1831: non tacete alcuna delle colpe dei capi. Ripetete sempre che la salute d'Italia sta nel suo popolo. E la leva del popolo sta nell'azione, nell'azione continua, rinnovata sempre senza sconfortarsi o atterrirsi delle prime disfatte. Fuggite le transazioni: sono quasi sempre immorali e per giunta inutili. Non v'illudete a poter evitare guerra, guerra inesorabile, feroce, dall'Austria: fate invece, quando vi sentirete forti, di provocarla: l'offensiva è la guerra delle rivoluzioni; assalendo, inspirerete paura al nemico, fiducia e ardore agli amici. Non abbiate speranza nei Governi stranieri: se potrete mai averne un ajuto non sarà se non a patto di convincerli prima che siete forti e capaci di vincer senza essi. Non fidate nella diplomazia; sviatela lottando, e pubblicando ogni cosa. Non insorgete mai se non in nome d'Italia e per l'Italia tutta quanta è. Se vincerete la prima battaglia in nome d'un principio e con forze vostre, sarete iniziatori tra i popoli e li avrete compagni nella seconda. E se cadrete avrete almeno promosso l'educazione del paese: lascerete sulla vostra tomba un programma per la generazione che terrà dietro alla vostra.»

Vivono ancora molti degli uomini ch'ebbero in quel tempo contatto con me; e possono dire se il mio linguaggio non era tale.

L'esperimento riuscì.—Il popolo confutò i mezzi ingegni.

I Comitati si costituirono rapidamente nelle principali città di Toscana. In Genova, i Ruffini, Campanella, Benza ed altri pochi che accettarono l'ufficio di diffondere l'associazione, erano pressochè ignoti, giovani assai e senza mezzi di fortuna od altro che potesse conquistare ad essi influenza. E nondimeno da studente a studente, da giovine a giovine, l'affratellamento si diffuse più assai rapidamente che non era da sperarsi. I primi nostri scritti supplirono all'influenza personale. Quanti potevano leggerli, s'affratellavano. Era la vittoria delle idee sostituita alla potenza dei nomi o al fascino del mistero. Le nostre trovavano un'eco, rispondevano visibilmente a una aspirazione fino allora inconscia e dormente nel core dei giovani. E[73] bastava per rinfrancarci, e segnarci doveri che in verità noi tutti, piccola falange di precursori, per quanto concerne operosità instancabile e sagrificio, compiemmo. Dall'associazione dei San Simoniani in fuori, alla quale la semplice pretesa di religione inspirava appunto in quei tempi più assai potenza di sagrificio e d'amore che non n'ebbero tutte le società democratiche puramente politiche, io non vidi—e lo dico per debito ad uomini che morirono o vivono noncuranti di fama e pressochè ignoti—nucleo di giovani devoti con tanto affetto reciproco, con tanta verginità d'entusiasmo, con tanta prontezza a fatiche d'ogni giorno, d'ogni ora, come quello che s'adoprava allora con me. Eravamo, Lamberti, Usiglio, un Lustrini, G. B. Ruffini ed altri cinque o sei modenesi quasi tutti soli, senza ufficio, senza subalterni, immersi l'intero giorno e gran parte della notte nella bisogna, scrivendo articoli e lettere, interrogando viaggiatori, affratellando marinai, piegando fogli di stampa, legando involti, alternando tra occupazioni intellettuali e funzioni d'operai: La Cecilia, allora dirittamente buono, s'era fatto compositore di stampa: Lamberti, correttore; tal altro letteralmente facchino per economizzarci la spesa del trasporto dei fascicoli a casa. Vivevamo eguali e fratelli davvero, d'un solo pensiero, d'una sola speranza, d'un solo culto all'ideale dell'anima; amati, ammirati per tenacità di proposito e facoltà di lavoro continuo dai repubblicani stranieri: spesso—dacchè spendevamo, per ogni cosa, del nostro—fra le strette della miseria, ma giulivi a un modo e sorridenti d'un sorriso di fede nell'avvenire. Furono, dal 1831 al 1833, due anni di vita giovine, pura e lietamente devota, com'io la desidero alla generazione che sorge. Avevamo guerra accanita abbastanza e pericoli, com'ora dirò, ma da nemici dai quali l'aspettavamo. La misera tristissima guerra d'invidie, d'ingratitudini, di sospetti e calunnie da uomini di patria e spesso di parte nostra, l'abbandono immeritato d'antichi amici, la diserzione dalla bandiera, non per nuovo convincimento, ma per fiacchezza, vanità offesa e peggio, di quasi una intera generazione che giurava in quelli anni con noi, non aveva ancora non dirò sfrondato o disseccato l'anime nostre, amorevoli oggi e credenti siccome allora, ma insegnato a noi pochi

La violenta e disperata pace,

il lavoro senza conforto di speranza individuale, per sola riverenza al freddo, inesorabile, scarno dovere.—E Dio ne salvi quei che verranno.

Il contrabbando delle nostre stampe in Italia era faccenda vitale per l'Associazione e grave per noi. Un giovane Montanari che viaggiava sui vapori di Napoli rappresentandone la Società, e morì poi di colèra nel Mezzogiorno di Francia, altri, impiegati sui vapori francesi, ci giovavano mirabilmente. E finchè l'ira dei Governi non fu convertita in furore, affidavamo ad essi gli involti, contentandoci di scrivere sull'involto destinato per Genova, un indirizzo di casa commerciale non sospetta in Livorno, su quello che spettava a Livorno un indirizzo di Civitavecchia e via così: sottratto in questo modo l'involto alla giurisdizione doganale e poliziesca del primo punto toccato, l'involto serbavasi dall'affratellato sul battello, finchè i nostri, avvertiti, non si recavano a bordo dove si ripartivano le stampe celandole intorno alla persona. Ma quando, svegliata l'attenzione, crebbe la vigilanza e furono assegnate ricompense a chi sequestrasse, e pronunziato minacce tremendo agli introduttori—quando[74] la guerra inferocì per modo che Carlo Alberto, con editti firmati dai ministri Caccia, Pensa, Barbaroux, Lascaréne, intimò a chi non denunzierebbe, due anni di prigione e una ammenda, promettendo al delatore metà della somma e il segreto—cominciò fra noi e i governucci d'Italia un duello che ci costava sudori e spese, ma che proseguimmo con buona ventura. Mandammo i fascicoli dentro barili di pietra pomice, poi nel centro di botti di pece intorno alle quali lavoravamo, in un magazzinuccio affittato, la notte: le botti, dieci o dodici, si spedivano numerate per mezzo d'agenti commerciali ignari a commissionarî egualmente ignari nei luoghi diversi, dove taluno dei nostri avvertito dell'arrivo, si presentava a mercanteggiare la botte che indicava col numero il contenuto. Cito un solo dei molti ripieghi che andavamo ideando.

Avevamo del resto ai contrabbandi l'ajuto di qualche repubblicano francese e segnatamente della marineria dei legni mercantili italiani, buona allora com'oggi, e verso la quale avevamo con attività grande diretto il nostro lavoro. Primi fra i migliori erano gli uomini di Lerici, e ricordo con affetto e ammirazione come ad esempio un tipo mirabile di popolano, Ambrogio Giacopello, che perdè nave e ogni cosa per averci contrabbandato sulle coste liguri duecento fucili, e mi rimase amico devoto. Credo ch'ei viva tuttavia in Marsiglia, e vorrei che potessero cadergli sott'occhio queste mie linee. So ch'egli sarebbe lieto del mio ricordo. Non ho mai trovato ingratitudine e oblio nei popolani d'Italia.

Incapace d'impedire la circolazione dei nostri scritti all'interno, i Governi d'Italia tentarono di soffocare la nostra voce in Marsiglia, e si rivolsero al Governo Francese. E il Governo Francese che, riconosciuto da tutti, non aveva più cagione d'impaurire il dispotismo Europeo, annuì alle richieste. Ma quella persecuzione non impedì menomamente il progresso del nostro lavoro. L'ordinamento si diffuse rapidamente da Genova alle Riviere, a parecchie località del Piemonte e a Milano, dalla Toscana alle Romagne. I Comitati si moltiplicarono. Le comunicazioni segrete si stabilirono regolari e possibilmente sicure fino alle frontiere napoletane. I viaggiatori da una provincia all'altra corsero frequenti a infervorare gli animi e trasmettere le nostre istruzioni. La sete di stampati fu tale che, non bastando i nostri, stamperie clandestine s'impiantarono su due o tre punti d'Italia: ristampavano cose nostre o diramavano brevi pubblicazioni inspirate dalle circostanze locali. La Giovine Italia, accettata con entusiasmo, diventava in meno d'un anno associazione dominatrice su tutte l'altre in Italia.

Era il trionfo dei principî. Il nudo fatto che in così breve tempo pochi giovani, ignoti, sprovveduti di mezzi, esciti dal popolo, avversi pubblicamente nelle dottrine e nelle opere a quanti avevano, per voto di popolo e influenza riconosciuta, capitanato fin allora il moto politico, si trovassero capi d'una associazione potente tanto da concitarsi contro la trepida persecuzione di sette Governi, bastava, parmi, a provare che la bandiera inalzata era la bandiera del vero—(1861).

Il decreto ministeriale che, per compiacere ai governi dispotici d'Italia, m'esiliava di Francia, mi colse nell'agosto del 1832. Importava continuare in Marsiglia, dov'erano ordinate le vie di comunicazione coll'Italia, la pubblicazione dei nostri scritti. Però determinai di non ubbidire e mi celai, lasciando credere ch'io partiva.

Gli esuli di tutte le Nazioni erano allora accantonati con un misero[75] sussidio nei dipartimenti e sottomessi, in virtù di quel sussidio, a leggi speciali che ricordavano i sospetti dell'antica rivoluzione e somigliavano a quelle che poi costituirono la classe degli attendibili nel Mezzogiorno d'Italia. Io non riceveva sussidio governativo e mandai quindi alla Tribune, giornale repubblicano d'allora, la protesta seguente:

«Quando vige un sistema fondato sulle eccezioni, quando diritti di domicilio e di libertà individuale sono manomessi da una legge ingiusta anche più ingiustamente applicata, quando accusa, giudizio e condanna emanano da uno stesso potere, o senza possibilità di difesa, quando lo sguardo cacciato intorno non s'abbatte che in esempî di tirannide e di sommessione, è debito d'ogni uomo ch'abbia senso di dignità di protestare altamente.

«E scopo della protesta non è un tentativo di difesa inutile e impotente, nè un desiderio di movere a simpatia quei che soffrono essi pure gli stessi mali, ma il bisogno d'infamare davanti agli uomini il Potere che abusa della propria forza, di rivelare al paese, nel quale l'ingiustizia è commessa, le turpitudini di chi governa, d'aggiungere un documento a quelli sui quali un popolo presto o tardi condanna quei che lo tradiscono e lo disonorano.

«Per queste ragioni io protesto.

«I Giornali parlarono dell'Ordine che m'è dato dal Ministero Francese e dei motivi sui quali è fondato.

«Io sono accusato di cospirare per l'emancipazione del mio paese, cercando di suscitarvi gli animi con lettere e stampati segretamente introdotti: sono accusato di mantenere corrispondenza con un Comitato repubblicano in Parigi, e d'avere avuto, io Italiano privo di relazioni e di mezzi e risiedente in Marsiglia, contatto pericoloso allo stato coi combattenti del chiostro di S. Mery.

«Non respingerò io di certo la responsabilità della prima accusa. Se cercare di diffondere utili verità, per via di stampa, nella propria patria ha nome di cospirazione, io cospiro. Se l'esortare i propri concittadini a non addormentarsi nella servitù, a durare combattendola, a vegliare e afferrare, appena s'affacci, il momento propizio per conquistarsi nome di patria e Governo Nazionale, è cospirazione, io cospiro. Ogni uomo ha debito di cospirare per l'onore e la salute de' suoi fratelli. E nessun Governo che s'intitoli libero ha diritto di trattare come colpevole l'uomo che compie quel sacro dovere. Soli gli uomini dello stato d'assedio possono rinnegare principî siffatti[13].

«Ma della seconda accusa ove stanno le prove?

«I dispacci ministeriali citano alcuni estratti di lettere che s'affermano scritti da me agli amici dell'interno, e, a quanto dicesi, sequestrate.

«Quelle lettere contengono, a detta del ministero, rivelazioni sulle giornate del 5 e del 6 di giugno. Esse dichiarano che i fatti di quei due giorni non hanno danneggiato in modo alcuno la parte repubblicana di Francia; che il tentativo fallì unicamente perchè i patrioti dei Dipartimenti, che dovevano trovarsi in Parigi, mancarono alla promessa; che nondimeno si sta maturando un altro non remoto disegno d'insurrezione; che il trono di Luigi Filippo è minato per ogni dove; e finalmente che il Comitato repubblicano di Parigi sta per mandare cinque o sei emissari in Italia per coordinarvi i lavori degli uomini della libertà.[76]

«Ove sono quelle lettere? in Parigi? le sequestrava il Governo di Francia? furono esse comunicate all'accusato? Somministrano la mia condotta, i miei atti, le mie corrispondenze prove che convalidino l'affermazione dell'essere le lettere scritte da me? No. Le citazioni delle lettere spettano alla polizia Sarda; gli originali stanno, dicono, ne' suoi archivî; il ministro di Francia non le cita che a brani, sull'altrui fede. Soltanto, ei crede che le altrui relazioni meritino fede da lui. Perchè? Come? esiste un solo ragguaglio di polizia francese che mi dimostri cospiratore contro il Governo di Francia? Fui io mai colpevole di ribellione? o sorpreso nelle file della sommossa?

«In condizione siffatta di cose, che mai posso io fare?

«È possibile dimostrare le falsità d'un fatto speciale, definito; non è possibile dimostrar quella d'un fatto generale che può abbracciare gli atti e i pensieri di tutta una vita: non è possibile difendersi da una accusa che non s'appoggia su prova alcuna.

«Io chiesi che mi fossero comunicate le lettere ministeriali; ed ebbi rifiuto. Non mi rimaneva che la facoltà di negare il fatto siccome falso, e lo feci. Negai l'esistenza nelle mie lettere delle linee in corsivo che sole accennerebbero a un intendimento comune tra me e il partito repubblicano di Francia. Quelle linee sono una interpolazione. Altro non esprimono che osservazioni e giudizî intorno a fatti recenti, e non possono formare argomento d'accusa.

«Io dissi queste cose al Ministro in una mia lettera del 1.º agosto. Smentii quelle linee, sfidando la polizia francese e la sarda a provarne l'autenticità. Chiesi inchiesta, processo e giudizio. Il Ministro non condiscese a rispondermi.

«Il prefetto di Marsiglia, che m'aveva promesso d'aspettare la risposta del signor di Montalivet, m'intimò a un tratto un secondo ordine di partenza. E mi fu forza cedere.

«Son questi i fatti.

«Uomini del Potere, che cosa sperate? che la vostra vergognosa sommessione ai voleri della Santa Alleanza c'induca a tradire i nostri doveri verso la Patria? o che le vostre insistenti persecuzioni possano mai sconfortarci e stancarci di quella santa libertà che voi rinegaste saliti appena al potere? Pensate di riuscire con una serie di atti arbitrarî nella missione retrograda che v'assumeste di far germogliare la diffidenza dove il vincolo di fratellanza va più sempre stringendosi? o d'infondere un senso di riazione nei patrioti di tutte contrade contro quella Francia alla quale voi soli contendete fati e missione?

«O credete, uomini abbiettamente codardi, cancellarvi di sulla fronte il marchio meritato d'infamia, allontanando gli uomini che voi spingeste sull'orlo dell'abisso per abbandonarli al pericolo, gli uomini la cui presenza sul suolo francese è un sanguinoso rimprovero, un perenne rimorso per voi? Non lo sperate. Quella macchia è incancellabile; ogni giorno della vostra dominazione la fa più profonda; ogni giorno solleva una voce di proscritto per maledirvi e gridarvi:

«Seguite, seguite! Voi ci rapiste libertà, patria, esistenza: rapiteci or, se potete, anche la parola: rapiteci l'alito che ci reca un profumo della nostra terra: rapite al proscritto la sola gioja ch'ei serbi sul suolo straniero, quella d'affondare lontano sul mare lo sguardo dicendo a sè stesso: là è l'Italia! Seguite, seguite! D'una in altra umiliazione trascinatevi ai piedi dello Czar, del Papa o di Metternich; supplicate perchè vi si concedano ancora alcuni giorni d'esistenza,[77] offrendo in ricambio oggi la libertà d'un patriota, domani la di lui testa. Seguite, seguite! Spingetevi più sempre innanzi sulla via che attraverso il disonore conduce a rovina. È necessario, perchè i popoli raggiungano salute, che voi possiate rivelarvi in tutta la nudità d'un sistema d'inganno e di bassezza nuovo in Europa. È necessario, perchè la santa causa trionfi, che si dimostri innegabilmente per voi l'impossibilità d'una alleanza tra la causa dei re e quella dei popoli.

«Ma quando la misura sarà colma, quando la campana a stormo dei popoli suonerà l'ora della libertà, e la Francia in armi vi chiederà: come usaste il potere ch'io v'affidai? guai a voi! popoli e re vi respingeranno ad un'ora. Voi consegnaste la patria senza difesa alle insidie dei despoti; cacciaste a piene mani il disonore sovr'essa; faceste quasi retrocedere d'un passo l'associazione universale; per voi la libertà delle nazioni fu data in pasto alla Santa Alleanza; per voi s'invelenirono l'anime, s'annebbiarono di diffidenza i generosi pensieri, s'interruppe il nobile moto di fratellanza che le giornate del Luglio avevano iniziato. Poi, quando le vittime della vostra diplomazia, dei vostri perfidi protocolli, vennero, siccome spettri, a chiedervi asilo, voi le respingeste, le abbeveraste d'oltraggi, e cancellaste dai vostri codici i diritti inviolabili della sciagura e il dovere ospitale.

«Quanto a noi, uomini d'azione, minorità sacra alla sventura, sentinelle perdute della rivoluzione, diemmo, il dì che giurammo alla causa degli oppressi, un addio solenne alla vita, alle sue gioje, a' suoi conforti. Non entri in noi ira ingiusta o diffidenza fatale. La fazione ch'oggi governa nulla ha di comune coi popoli che gemono conculcati come noi gemiamo. Serbiamoci uniti, e stringiamo le file. L'ora della giustizia verrà per noi tutti[14]

24 agosto 1832.Giuseppe Mazzini.

Dopo la Protesta, rincrudirono, com'era da aspettarsi, le persecuzioni. Irritato della nostra ostinazione e sollecitato senza posa dagli agenti dei nostri Governi, il Ministro Francese tentò tutte le vie per sopprimere la Giovine Italia: intimò lo sfratto a parecchi tra i nostri operai compositori e a taluni fra quei ch'egli supponeva collaboratori: s'adoprò a impaurire il pubblicatore: minacciò di sequestri: moltiplicò le ricerche per avermi in mano. Noi sostenemmo virilmente la lotta: agli operai cacciati sostituimmo operai francesi: un cittadino di Marsiglia, Vittore Vian, si fece gerente: i nostri si dispersero nei piccoli paesi vicini al centro del nostro lavoro: provvedemmo a trafugare le copie degli scritti appena escite dal nostro torchio; e quanto a me, cominciai allora quel modo di vita che mi tenne ventidue anni su trenta prigioniero volontario, fra le quattro pareti d'una stanzuccia. Non mi rinvennero. Gli accorgimenti coi quali mi sottrassi—le doppie spie che servivano, a un tempo, per poco danaro, al prefetto e a me, inviandomi lo stesso giorno copia delle informazioni date sul mio conto alle Autorità—il comico modo col quale, scoperto un giorno il mio asilo, persuasi al Prefetto di lasciarmi partire, invigilato da' suoi agenti, senza scandali e chiassi, poi mandai in mia vece a Ginevra un amico che m'era somigliante della persona, mentr'io passava tra i birri in uniforme di guardia nazionale—non entrano in questo racconto che non mira a pascere la curiosità dei[78] lettori sfaccendati, ma a giovare d'indicazioni storiche e d'esempî il paese. Basti ch'io rimasi per tutto un anno in Marsiglia, scrivendo, correggendo prove, corrispondendo, abboccandomi a mezzo la notte con uomini del Partito che venivano d'Italia e con taluni fra i capi repubblicani di Francia.

Ed ebbe allora cominciamento, da una atroce calunnia, quella turpe guerra sleale d'accuse non provate mai nè fondate, d'insinuazioni impossibili a confutarsi, di sospetti introdotti in una pubblicazione per giovarsene poi in un'altra, di congetture gesuitiche sulle intenzioni, di frasi strappate all'insieme d'uno scritto e mutilate e isolate e tormentate a farne escire un senso contrario alla mente dello scrittore, che la polizia francese dei tempi di Luigi Filippo insegnò alle polizie dei tirannucci italiani e che, continuata con insistenza sistematica da storici, uomini in ufficio, gazzettieri anonimi, scribacchiatori d'opuscoli e aspiranti a impieghi o sussidî, e spie e trafficatori di parte moderata per tutta Italia, ci seguì, come i corvi gli eserciti, per oltre a trent'anni di vita; m'assalì sui fianchi, alle spalle, raro o senza nome di fronte, latra anch'oggi e ringhia e urla contro ogni mio atto vero o inventato di pianta, e riuscì, colla plebe dei creduli e di quanti, irati nel segreto dell'anima alla propria impotenza, abborrono, come i gufi la luce, chi fa o tenta di fare, ad accumulare nella mia patria, e qui dov'io scrivo, le taccie di comunista, e socialista settario, d'uom di sangue e di terrorista, d'ambizioso intollerante esclusivo e di cospiratore codardo contro me che confutai stampando le sette socialistiche a una a una, chiamai il terrorismo francese delitto d'uomini tremanti per sè, sagrificai, non curando il biasimo de' miei più cari, la predicazione delle mie credenze a ogni probabilità che si facesse l'Italia per altra via, diedi lietamente l'opera mia nel silenzio anche a uomini di parte avversa purchè giovassero, strinsi, immemore di me stesso, la mano che avea scritto mortali e false accuse sul conto mio quando m'apparve liberatrice, e affrontai con indifferenza serena ogni sorta di pericoli, mentre gli accusatori non sognarono mai di pericolo nella vita fuorchè di spiacere ai padroni. Guerra di tristi bassamente e crudeli, perchè non paga di perseguitare colla forza chi dissente da essi, tenta d'uccidere l'anima e l'onore dell'avversario: guerra di vili, perchè combatte senza rischio e di sotto allo scudo del potente, sopprime le difese colla violenza e si giova financo del silenzio sdegnoso del calunniato a convalidar la calunnia: guerra fatale ai popoli che non le impongono fine, perchè mette nella loro vita il tarlo d'una immoralità che ne rode la fama al di fuori e la maschia energia dell'azione al di dentro. E per questo ne parlo e mi toccherà riparlarne.

L'accusa alla quale io alludo m'apponeva un assassinio e peggio, dacchè un decreto d'assassinio è colpa peggiore. Il Governo Francese, irritato del non potere trovarmi, pensò che infamandomi reo di delitto volgare, avrebbe allontanato da me la stima e l'affetto che mi procacciavano asilo. Però, raccolse dalle mani d'un agente di polizia un documento storico al quale l'impostore aveva apposto il mio nome, e lo inserì, pur sapendolo opera di falsario, nel Monitore.

Il 20 ottobre 1832 un Emiliani era stato assalito sulla strada e ferito non mortalmente in Rodez, dipartimento delle Aveyron, da parecchi esuli italiani. Il 31 maggio 1833, poco dopo pronunciata sentenza di cinque anni di prigione contro i feritori, l'Emiliani e un Lazzareschi di lui compagno, furono, in un caffè, mortalmente feriti da un giovine Gavioli, esule del 1831. Ambi erano, a quanto poi seppi, spie del duca di Modena e tenuti per ta[79]li dai loro compagni di proscrizione. Al tempo dei tristi fatti io non sapea che esistessero; e m'erano egualmente ignoti i loro aggressori.

Già pochi giorni dopo il primo ferimento, il Giornale dell'Aveyron avea preparato il terreno all'accusa, e m'avea suggerito la protesta seguente:

Al Direttore della Tribune.

«Signore,

«Il Giornale dell'Aveyron nel suo numero del 27 ottobre, parlando del triste fatto accaduto recentemente in Rodez e nel quale un Emiliani, antico stalliere del Duca di Modena, fu ferito, s'esprime così:

«Le informazioni raccolte dal Prefetto lo conducono a credere che gli assalitori italiani dello sventurato Emiliani non sono che strumenti dei quali si giovano i capi del Partito detto della Giovine Italia per liberarsi di quei fra i loro compatrioti che non vogliono sottomettersi ai loro Statuti.»

«Se il gazzettiere intende parlare degli uomini stretti a una fede politica ch'essi credono sola capace di rigenerare la loro patria e i principî della quale si svolgono nella pubblicazione mensile la Giovine Italia, io sono, come Direttore di quella pubblicazione, uno fra i capi di quel Partito. Credo quindi aver facoltà di rispondere per tutti all'accusa.

«Io do la più solenne mentita al gazzettiere e a quanti si compiacessero di ripeterne le affermazioni.

«Io sfido chicchessia a portare in campo la menoma prova di ciò che così avventatamente s'afferma a danno d'uomini onorevoli per lo meno quanto il gazzettiere dell'Aveyron, a danno d'uomini che la sventura non foss'altro dovrebbe proteggere contro la calunnia.

«Aggiungo che l'idea d'un partito il quale si proporrebbe di spegnere quanti non abbracciano i suoi Statuti è siffattamente assurda che solo forse in Francia il gazzettiere dell'Aveyron può profferirla.

«La Giovine Italia non ha stromenti: non accoglie se non uomini liberi che liberamente abbracciano i suoi principî e non giurano se non di sperdere, appena potranno, gli Austriaci.

«Ed è questa la mia risposta.

«Quanto a ciò che il gazzettiere si compiace d'aggiungere intorno a scene che i costumi francesi rispingono e che non potranno mai nazionalizzarsi in Francia, non monta occuparsene. Ogni Francese che pensa prima di scrivere sa che gli agguati non appartengono specialmente ad alcuna nazione e che si commettono in ogni luogo delitti respinti dai costumi dei popoli. Gli assassini di Ramus e Delpech valgono di certo quei che ferirono l'Emiliani.

«Credetemi, Signore, vostro

30 ottobre 1832[15]. «Mazzini.»

Ma nel giugno 1833 comparve, come dissi, nel Monitore una Sentenza pronunziata da un Tribunale Segreto che condannava Emiliani e Lazzareschi a morte, altri a diverse pene, col nome mio e quello di La Cecilia come Preside e Segretario del Tribunale. L'artificio[80] era grossolano. Le date non corrispondevano alla possibile realtà. L'italiano era pieno zeppo di errori grammaticali[16] ch'io non era uso veramente a commettere. Protestai nuovamente, nei termini seguenti, nel National.

«Signore.

«Il Monitore del 7 giugno contiene, a proposito d'un assassinio commesso in Rodez, una pretesa esposizione dei fatti che precedettero e accompagnarono quel triste evento; s'afferma in quella che la morte d'Emiliani e di Lazzareschi è dovuta a una sentenza pronunziata contr'essi da un tribunale segreto siedente in Marsiglia e appartenente alla Giovine Italia. Il Monitore cita la sentenza in esteso e v'appone il mio nome colla qualità di Preside del Tribunale.

«Ch'io sia stato cacciato di Francia senza cagione, senza difesa, per solo arbitrio ministeriale e bench'io vivessi indipendente, fuori d'ogni deposito e di mezzi miei, non ha di che sorprendere alcuno come fatto d'un Governo corrotto e corrompitore, che fu successivamente spergiuro sui Pirenei, birro in Ancona, denunziatore in Frankfort, e persecutore, in nome e a pro della Santa Alleanza, dovunque spuntava un raggio d'indipendenza, dovunque s'incontrarono anime generosamente altere in preda a sciagure virilmente durate. È tra noi, patrioti, ed esso guerra mortale.

«Ma che dopo d'aver ferito s'infonda veleno nella piaga, dopo di aver vibrato contro un nemico ogni saetta di persecuzione si vibri anche quella della calunnia, dopo d'avergli tolto libertà, conforto, riposo, si tenti togliergli anche l'onore, è cosa sì bassa che non vorremmo trovarne colpevoli gli uomini stessi dello stato d'assedio.

«Io non ispenderò tempo a notare tutte le contradizioni che abbondano in quella esposizione, lavoro perfido e assurdo, nel quale ogni cosa è falsa dalla data della mia proscrizione ch'ebbe luogo nell'agosto, e non dopo il novembre 1832, fino a quella della pretesa sentenza attribuita a Marsiglia, mentre è citata nell'atto stesso una lettera indirizzata da Marsiglia a non so qual punto: dall'asserzione che pone a risultato dei procedimenti, iniziati in ottobre contro i[81] supposti autori delle prime ferite inflitte a Emiliani cinque anni di reclusione, mentre quei procedimenti furono conchiusi da una assoluzione senza restrizioni fino alla comunicazione della sentenza che il Ministero dichiara fattagli nel gennajo 1833, mentre l'istruzione cominciata in ottobre, e proseguita oltre il gennaio, non ne fa cenno.

«L'accusa parte da troppo basse sfere perch'io m'avvilisca a difendermi. Ma davanti ai tribunali io chiederò conto al Monitore dell'audacia colla quale ei s'attentava di sottoscrivere quel documento col nome d'un onesto, straniero financo a un pensiero di colpa. Chiederò come, senz'altro indizio che una semplice copia della quale non fu provata l'autenticità, s'osi chiamarmi assassino.

«Intanto i molti, che s'assunsero spontanei la mia difesa, hanno diritto di esigere che io smentisca l'accusa.

«Però, la smentisco.

«Smentisco formalmente esposizione, sentenza, ogni cosa.

«Smentisco Monitore, gazzette semi-officiali e Governo.

«E sfido il Governo, gli agenti suoi, e le polizie straniere che architettarono la calunnia, a provare una sola delle cose affermate a mio danno; a mostrare l'originale della sentenza e la firma mia, a scoprire una sola linea proveniente da me che possa far credere alla possibilità d'un tale atto da parte mia.

«Vogliate, Signore, inserire ecc.

«Giuseppe Mazzini.»

Il Monitore tacque. L'originale non fu mostrato. Io non poteva allora, celato in Marsiglia com'io era e non potendo quindi nè presentarmi nè dar mandato legale a chi facesse le parti mie, iniziare il processo di diffamazione. Se non che l'Autorità giuridica sciolse senz'altro il problema. La Corte Suprema dell'Aveyron[17] decise che il delitto, conseguenza di rissa, s'era commesso senza premeditazione. Più dopo, credo nel 1840, Gisquet, Prefetto di Polizia nel 1833, scrivendo le sue Memorie e speculando, per far denaro, sugli aneddoti melodrammatici, riprodusse l'accusa: poi, chiamato in giudizio da me, dichiarò stimarmi onesto e incapace di misfatti e il tribunale pronunziò sentenza in quel senso[18]. Più dopo ancora, nel 1845, un Ministro Inglese, Sir James Graham, che aveva osato far rivivere la calunnia, fu costretto, da informazioni attinte presso i Magistrati dell'Aveyron, a chiedermi scusa in pubblica seduta di Parlamento. E nondimeno, da quella prima calunnia ripetuta per più anni da gazzette e da libelli anonimi a uomini che non avevano letto e non potevano, sotto la tirannide, leggere i documenti officiali che la distruggevano, scese e si radicò lentamente nell'animo di molti l'opinione ch'io mi fossi uomo di vendette tenebrose e di sangue e che la Giovine Italia avesse Statuti tremendi ai violatori del giuramento e a quanti dissentissero dalle sue dottrine.

Io abborro—e quanti mi conoscono dappresso lo sanno—dal sangue e da ogni terrore eretto in sistema, come da rimedî feroci, ingiusti ed inefficaci contro mali che vogliono essere curati dalla[82] diffusione libera delle idee: credo la vendetta, l'espiazione e altri simili concetti, posti finora a base del diritto penale, tristissimi e sterili, sia che l'applicazione mova dalla Società o dall'individuo; e non accetto guerra, lamentandone la necessità, contro la forza materiale violatrice del dovere e del diritto umano, se non aperta e leale, fuorchè in un caso—e avrò campo di dire qual sia. Ma la Giovine Italia che, separandosi dalle formole e dalle abitudini vendicatrici dell'antica Carboneria, aveva abolito fin la minaccia di morte contro il traditore spergiuro, non ebbe mai, dal Centro che la dirigeva, se non uno Statuto, ed è quello che i lettori possono vedere in questo volume. Soltanto, gli furono, appunto nel tempo al quale si riferisce questo volume, aggiunte alcune dilucidazioni morali che inserisco qui appresso. Nè mai ci dipartimmo da quelle norme. A chi ci proponeva di spegnere traditori o spie, rispondevamo: additate i Giuda a tutti e basti per essi l'infamia. Quanto fu affermato o citato sul conto nostro da scrittori infermi d'insania come d'Arlincourt e Cretineau Joly, o da libellatori venduti come Bréval e Lahodde, è falso e apocrifo. Ben possono a insaputa nostra essersi improvvisate modificazioni locali al nostro Statuto da frazioni menome dell'Associazione; ma chi tra gli onesti vorrebbe giudicare il Cattolicesimo sui giuramenti orribili del Sanfedismo? È possibile che uno o altro nucleo dell'Associazione abbia, nelle Romagne segnatamente, decretato il pugnale contro disertori o denunziatori; ma chi tra gli onesti vorrebbe apporre all'istituzione monarchica l'assassinio di Prina?

Le dilucidazioni date nel 1833 al nostro Statuto erano le seguenti:

«

«La Giovine Italia ha per doppio scopo di riunire la gioventù nella quale sta il nervo delle forze italiane sotto l'influenza d'uomini veramente rivoluzionari, onde, allo scoppiare del moto, non ricada sotto i primi che si presentano a impadronirsene, e di riunire in accordo per capi o rappresentanti tutte le diverse società che in Italia s'adoprano, sotto forme diverse, a ottenere Unità, Indipendenza, Libertà vera alla Patria.

«Il primo intento è affidato, proporzionatamente ai loro gradi e alla loro situazione, a tutti i membri della Giovine Italia. Il secondo è serbato alla Centrale, e alle Congreghe Provinciali, sotto la direzione della Centrale.

«Principii politici e morali dell'Associazione:

«Una Legge morale governa il mondo: è la Legge del Progresso.

«L'uomo è creato a grandi destini. Il fine pel quale è creato è lo sviluppo pieno, ordinato e libero di tutte le sue facoltà.

«Il mezzo per cui l'uomo può giungere a questo intento è l'Associazione co' suoi simili.

«I popoli non toccheranno il più alto punto di sviluppo sociale al quale possono mirare, se non quando saranno legati in un vincolo unico sotto una direzione uniforme regolata dagli stessi principî.

«La Giovine Italia riconosce in conseguenza l'Associazione universale dei Popoli come l'ultimo fine dei lavori degli uomini liberi. Essa riconosce e inculca con ogni mezzo la Fratellanza dei Popoli.

«Bensì, perchè i popoli possano procedere uniti sulla via del perfezionamento comune, è necessario ch'essi camminino sulle basi dell'Eguaglianza. Per essere membri della grande Associazione conviene esistere, avere nome, e potenza propria.

«Ogni popolo, in conseguenza, deve, prima d'occuparsi dell'Umanità, costituirsi in Nazione.

«Non esiste veramente Nazione senza Unità.

[83]

«Non esiste Unità stabile senza Indipendenza: i despoti, a diminuire la forza dei popoli, tendono sempre a smembrarli.

«Non esiste Indipendenza possibile senza Libertà. Per provvedere alla propria indipendenza è d'uopo che i popoli siano liberi, perchè essi soli possono conoscere i mezzi per serbarsi indipendenti, essi soli hanno a sagrificarsi per esserlo, e senza libertà non esistono interessi che spingano i popoli al sagrifizio.

«La Giovine Italia tende in conseguenza a conquistare all'Italia l'Unità, l'Indipendenza, la Libertà.

«Quando il potere è ereditario e nelle mani d'un solo, non v'è libertà durevole mai.

«Il potere tende sempre ad aumentare e concentrarsi.

«Quando il potere è ereditario, gli acquisti del primo fruttano al secondo. L'eredità del potere toglie a chi ne è rivestito la coscienza della sua origine popolare. Sottentrano per conseguenza nei Capi ereditarî interessi particolari a quelli della Nazione; e inducono una lotta che, presto o tardi, trascina la necessità d'una Rivoluzione. Ora quando una nazione compie una Rivoluzione, essa deve cercare d'imporle fine il più presto possibile, e non ha altro mezzo per questo che troncare radicalmente ogni via per la quale si possa ricadere nella lotta.

«Le Rivoluzioni si fanno col Popolo pel Popolo. Per produrre vivissimo nel Popolo il desiderio della Rivoluzione conviene infondergli la certezza che la Rivoluzione si tenta per esso. Per infondergli questa certezza, è necessario convincerlo de' suoi diritti, e proporgli la Rivoluzione come il mezzo d'ottenerne il libero esercizio. È necessario per conseguenza proporre come scopo alla Rivoluzione un sistema popolare, un sistema che enunzi nel suo programma il miglioramento delle classi più numerose e più povere, un sistema che chiami tutti i cittadini all'esercizio delle loro facoltà e perciò al maneggio delle cose loro, un sistema che s'appoggi sull'eguaglianza, un sistema che impianti il Governo sul principio dell'elezione largamente inteso e applicato, ordinato nel modo meno dispendioso e più semplice.

«Questo sistema è il Repubblicano.

«La Giovine Italia è repubblicana unitaria.

«Essa tende, in religione, a stabilire un buon sistema parrocchiale, sopprimendo l'alta aristocrazia del clero.

«Essa tende, in generale, all'abolizione di tutti i privilegi che non derivino dalla legge eterna della capacità applicata al bene; a diminuire gradatamente la classe degli uomini che si vendono e di quelli che si comprano; in altri termini a ravvicinare le classi, costituire il Popolo, ottenere lo sviluppo maggiore possibile delle facoltà individuali; a ottenere un sistema di legislazione accomodata ai bisogni; a promovere illimitatamente l'educazione nazionale.

«Bensì, finchè il primo perno della Rivoluzione, ossia l'Indipendenza, non sia ottenuto, essa riconosce che tutto deve essere rivolto a quello scopo. Finchè quindi il territorio Italiano non sia sgombro dal nemico, essa non riconosce che armi e guerra con tutti i mezzi. Una dichiarazione di doveri, una di diritti, ma l'effetto sospeso f[84]ino all'emancipazione del territorio: un Potere dittatoriale, fortemente accentrato, composto d'un individuo deputato per ciascuna provincia[19], riunito a consesso permanente, responsabile allo spirar del mandato, vegliato nell'esercizio del suo potere dall'opinione pubblica e dalla Giovine Italia convertita in Associazione Nazionale: primi provvedimenti intorno alla stampa, intorno ai giudizî criminali, intorno alle annone, intorno all'amministrazione, e null'altro: creato intanto Commissioni che maturino progetti di legislazione politica e civile da presentarsi al Congresso Nazionale raccolto, libero il territorio, in Roma: vietati gli accordi col nemico sul territorio: i cittadini armati chiamati a guardar la città, a mobilizzarsi all'uopo e recarsi in bande a infestare il nemico e servire d'ausiliarie all'esercito Nazionale. Prima armi e vittoria, poi leggi e Costituzione.

«La Giovine Italia predica questi principî. I mezzi coi quali essa si propone d'ottenere l'intento sono l'armi e l'incivilimento morale.

«Pel primo, essa congiura, pel secondo, essa diffonde gli scritti liberi, pubblica giornali, ecc.

«Congiurando e scrivendo, essa sa che la rigenerazione Italiana non può compirsi che per mezzo d'una Rivoluzione Italiana davvero. Essa biasima in conseguenza i movimenti parziali: essi non possono che aggravare la nostra condizione. L'insurrezione d'un Popolo deve compiersi con forze proprie. Dallo straniero non scendè mai libertà vera o durevole. La Giovine Italia s'ajuterà degli eventi stranieri, ma non fonderà su quelli le proprie speranze.

«Tutti i suoi membri sono incaricati di diffondere queste norme generali.[85]

«Ordinamento dell'Associazione:

«Una Congrega Centrale:

«Una Congrega Provinciale per ogni Provincia Italiana composta di tre membri:

«Un Ordinatore per ogni città:

«Federati propagatori:

«Federati semplici.

«La Congrega Centrale elegge le Congreghe Provinciali, trasmette le istruzioni Generali, crea e mantiene l'accordo fra le Congreghe Provinciali, comunica i segnali di riconoscimento necessarî alle Congreghe, provvede alla stampa e alla sua diffusione, forma un disegno generale d'operazioni, riassume i lavori dell'Associazione, accentra, non tiranneggia.

«Ogni Congrega Provinciale tiene la somma delle cose della Provincia che le è affidata e dirige il lavoro: crea i segnali per gli affratellati della Provincia, trasmette le istruzioni della Centrale, inviando ad essa di mese in mese relazione dei progressi dell'Associazione nella Provincia, dei mezzi materiali raccolti, delle condizioni dell'opinione nelle diverse località: osserva i bisogni e ne trasmette l'espressione alla Centrale.

«L'ordinatore in ogni città, scelto dalla Congrega Provinciale, riassume i lavori della città e ne trasmette il quadro di mese in mese alla Congrega Provinciale. Gli elementi della sua corrispondenza con quella sono a un dipresso gli stessi dei quali si compone la corrispondenza della Congrega Provinciale colla Centrale.

«I Propagatori vengono eletti dall'Ordinatore e dalla Provinciale tra gli uomini che hanno core e mente: iniziano i semplici affratellati e li dirigono secondo le loro istruzioni. Corrispondono ciascuno coll'Ordinatore della loro città, e gli elementi della loro corrispondenza sono a un dipresso gli stessi che formano la corrispondenza dell'Ordinatore colla Provinciale. Trasmettono di mese in mese all'Ordinatore il quadro del loro lavoro, e comunicano ai loro subalterni le istruzioni che da lui ricevono.

«I semplici affratellati scelti dai Propagatori tra gli uomini che hanno core, ma non mente bastevole a scegliere gli individui idonei, dipendono dal loro Propagatore, a lui comunicano informazioni, osservazioni, conoscenze, diffondono i principî della Giovine Italia, e aspettano la chiamata.

«Ogni affratellato ha un nome di guerra.

«L'Associazione deve diffondersi, per ciò segnatamente che riguarda le classi popolari[20], nella gioventù, negli uomini che hanno succhiato le aspirazioni del secolo.

«Gli affratellati devono, possibilmente, provvedersi d'un fucile e di cinquanta cartucce. A quei che non possono, provvederanno le Congreghe Provinciali.

«Gli affratellati versano all'atto dell'iniziazione una contribuzione che continuerà mensilmente, quando nol vieti la loro condizione. L'ammontare delle contribuzioni, trasmesso di mano in mano sino alla Congrega Provinciale, sarà c[86]onsacrato ai bisogni dell'Associazione, nella Provincia, salva una quota serbata alla Centrale per viaggiatori, stampe, compra d'armi, ecc.

«Determinazione di contribuzione e di riparto, esenzioni, forme di iniziazione, e tutte le disposizioni d'ordine secondario, si lasciano alle Congreghe Provinciali. La Centrale abborre da ogni tendenza soverchiamente dominatrice e non impone se non quel tanto ch'è strettamente necessario all'unità del moto e all'accordo comune.

«L'Associazione ha due ordini di segnali: gli uni, che non giovano se non alle Congreghe Provinciali e ai viaggiatori che vanno dall'una all'altra e da esse alla Centrale, e reciprocamente—e sono ideati e trasmessi dalla Centrale: gli altri, che servono per gli affratellati delle Provincie, sono scelti da ciascuna Congrega Provinciale, comunicati alla Centrale, e variati ad ogni tre mesi, più frequentemente se il bisogno lo esiga. S'anche quindi i segni d'una Provincia fossero scoperti dalle polizie, l'altre provincie, avendoli diversi, rimarrebbero fuor d'ogni rischio.»

Il nostro lavoro era coronato di successo. L'istinto Nazionale s'era ridesto. La formola Unità Repubblicana s'accettava con entusiasmo dalla gioventù in tutte le provincie d'Italia. Gli uomini della tirannide, il principe di Canosa, Samminiatelli, gli editori della Voce della Verità scrivevano contro noi, ma con sì pazza ferocia ch'ogni loro assalto ci fruttava amici. Metternich presentiva l'importanza del nostro lavoro e scriveva al Menz in Milano: J'ai besoin de deux éxemplaires complets de la Giovine Italia, dont cinq volumes ont paru jusq'ici. J'attends aussi toujours les deux exemplaires de la Guerra per Bande[21]. La Società degli Apofasiméni coi suoi affiliati delle Romagne, diretta da Carlo Bianco si versava nelle nostre file; Carlo Bianco entrava membro del nostro Comitato. La Società dei Veri Italiani, che non s'era ancora, in quell'epoca, fatta regia, stringeva alleanza con noi. E le reliquie della Carboneria che s'agitavano tuttavia, membra disjecta, in alcune provincie Italiane, accettavano la nostra fede, e la nostra direzione. In Francia, capo supremo di quanti avevano, anteriormente a Luigi Filippo, dato il nome alla Carboneria, e corrispondente venerato delle fratellanze segrete in Germania e altrove, era il Buonarroti; e si poneva con me in contatto regolare e fraterno. E in contatto con me stavano gl'influenti delle nuove Associazioni repubblicane francesi, Goffredo Cavaignac, Armand Marrast e gli arditi uomini della Tribune, Armand Carrel e i tattici del National. Parole d'incoraggiamento ci venivano da Lafayette. Con noi erano i capi dell'emigrazione Polacca. L'elemento Italiano cominciava, mercè nostra, ad essere riconosciuto da quanti uomini di progresso lavoravano uniti o indipendenti in Europa elemento importante dell'avvenire. E in Italia erano uomini avversi, per istinto o paura, a ogni cosa che fosse moto: non moderati. Gioberti, padre e pontefice anni dopo della malaugurata consorteria e insultatore sistematico di me e di tutti noi, accettava in Torino gli ordini del nostro lavoro e ci scriveva inneggiando: Io vi saluto, precursori della nuova Legge politica, primi apostoli del rinovato Evangelo:... io vi prenunzio un buon successo nella vostra impresa, poichè la vostra causa è giusta e pietosa, essendo quella del popolo, la vostra causa è santa, essendo quella di Dio... Ella è eterna e però più duratura della forma antica di quello, il quale diceva: Dio e il prossimo; ma ora dice per vostra bocca e del secolo: Dio[87] e il Popolo... Noi ci stringeremo alla vostra bandiera e grideremo Dio e il Popolo, e studieremo di propagar questo grido... Combatteremo eziandio certi falsi amatori di libertà, che vogliono questa senza il popolo o contro il popolo, malaccorti od ingiusti; certi odiatori delle antiche aristocrazie... che, facendo rivoluzioni, intendono a traslocare il potere in sè stessi divisi dal popolo, anzi che farsi popolo e restituirgli i diritti rapiti: certi che vilipendono e bistrattano il popolo con nomi spregevoli ed abborriti, con angherie, con soprusi, ed aggravano il suo giogo colla stessa mano, con cui tentano schermirsi da quello dei nobili e dei tiranni... Io vi prometto francamente una costante disposizione e un vivo desiderio di morire con voi, se v'è d'uopo, per la comune patria[22].

L'ordinamento dell'Associazione era, a mezzo il 1833, potente davvero e segnatamente in Lombardia, nel Genovesato, in Toscana, negli Stati Pontificî. L'anima dell'Associazione Toscana era in Livorno, dove Guerrazzi, Bini ed Enrico Mayer eran operosissimi e inspiravano Pisa, Siena, Lucca, Firenze. Pietro Bastogi, oggi Ministro, era Cassiere del Comitato. Enrico Mayer viaggiava a Roma, dov'ei fu per sospetti imprigionato, poi, tornato in libertà, a Marsiglia per intendersi meco: egli era uno dei migliori, più sinceri e devoti uomini, che mi sia stato dato conoscere. Il Professore Paolo Corsini, Montanelli, Francesco Franchini, Enrico Montucci, Carlo Matteucci, oggi Senatore del Regno, un Cempini, figlio del Ministro, oggi, a quanto odo, calunniatore nostro nella Nazione, insieme a Carlo Fenzi, cospiratore egli pure con me, un Maffei ora avversissimo, e altri molti ch'or non importa nominare, secondavano nelle varie città toscane l'inspirazione livornese. Nell'Umbria, Guardabassi era capo del Comitato. Nelle Romagne, pressochè tutti gli uomini che oggi, insigniti d'onori, impieghi e pensioni, ci gridano la croce addosso, si agitavano irrequieti nelle nostre file; e vivono ancora i popolani Bolognesi, che ricordano il Farini, vociferatore di stragi nei loro convegni, e uso ad alzare la manica dell'abito sino al gomito e dire: ragazzi, bisognerà tuffare il braccio nel sangue. In Roma, avevamo un Comitato. In Napoli, Carlo Poerio, Bellelli, Leopardi e gli amici loro facevano, quanto ai metodi, parte da sè, ma si dichiaravano ai nostri viaggiatori, che tuttavia vivono, capi d'un ordinamento potente, alleati, presti a fare collo stesso nostro programma, e corrispondevano stenograficamente con me. In Genova, non solamente i giovani della classe commerciale e gli influenti fra i popolani, ma s'accostavano a noi, convinti della nostra potenza, gli uomini del patriziato; i fratelli Mari, il Marchese Rovereto, i due Cambiasi e Lorenzo Pareto, che fu poi Ministro, fra gli altri. In Piemonte il lavoro procedeva più lento: nondimeno le nostre fila toccavano tutti i punti importanti e si stendevano fino alle terre, popolate d'arditi uomini, del Canavese: l'avvocato Azario, Allegra esule ripatriato del 1821, Sciandra commerciante, Romualdo Cantara, Ranco, Moia, Barberis, Vochieri, Parola, Maotino Massimo, Depretis, un ex militare Panietti d'Ivrea, un Re di Voghera, Stara e altri parecchi s'adopravano alacremente. E uomini collocati più in alto, e ch'or non giova additare, non s'affratellavano regolarmente all'Associazione, ma lasciavano sapere che dove l'impresa[88] s'iniziasse potente, l'ajuterebbero. Con copia d'elementi siffatti e coi pericoli che la duplice parte, di congiura e d'apostolato, alla quale si era astretta l'Associazione, trascinava con sè, bisognava giovarsi dell'entusiasmo crescente prima che le persecuzioni venissero ad ammazzarlo, e pensare seriamente all'azione.

Così facemmo.

Base dell'azione dovevano essere le provincie Sarde. Forti di mezzi, d'armi ordinate, d'influenza morale e d'abitudini di disciplina che avrebbero fruttato a qualunque riuscisse a impadronirsene, gli Stati Sardi avevano due punti strategici d'alta importanza, Alessandria e Genova; ed erano appunto quelli pei quali eravamo più potenti d'affiliazioni. Un moto nel Centro, più agevole forse, non offriva appoggio di forze reali e non avrebbe suscitato l'entusiasmo di tutta l'Italia. D'altra parte, io era certo che al primo annunzio del moto, l'Austria avrebbe occupato, coll'assenso di Carlo Alberto, il Piemonte e resa quindi impossibile ogni azione diretta o rapida sulla Lombardia, nella quale io aveva fin d'allora fede grandissima. D'un moto in Napoli e delle norme colle quali procederebbe non potevamo, mercè la semi-indipendenza nella quale si stavano gli elementi coi quali eravamo in contatto, non potevamo starci mallevadori. E inoltre, il convertire ciò che deve essere riserva in centro del moto, non mi sembrava, checchè dicessero i militari, buona strategìa di rivoluzione. Movendo in Napoli, noi non eravamo certi che per invasione degli insorti o per altra via, il moto si sarebbe diffuso rapidamente all'altre parti d'Italia; e io temeva la tendenza pur troppo naturale in tutti i paesi ad aspettare lo sviluppo d'ogni moto che s'operi dietro ad essi, e sognare disegni dottamente complessi d'insurrezione quando il nemico assalitore e respinto può collocarsi tra due forze ostili e vedersi staccato dalla sua base. Di pretesti siffatti all'inerzia, suggeriti ed accettati con arte profonda e sempre fatale alle insurrezioni, erano frequenti nel passato gli esempî. Una insurrezione nel Mezzogiorno non scemava un solo dei pericoli che le insurrezioni del Centro e del Settentrione avrebbero dovuto affrontare; un moto in Piemonte salvava invece dal primo urto dell'armi straniere Mezzogiorno e Centro ad un tempo. Battuti in Piemonte potevamo appoggiarci su quel terreno come su potente riserva. Poi—e questa è ragione ch'io riteneva importante, comechè poco intelligibile a quanti non vedono in una rivoluzione che un problema di strategia regolare—ogni rivoluzione operata in un popolo addormentato da secoli sviluppa vulcanicamente tremende le forze latenti ch'essa possiede se provocata e sollecitata da pericoli che possono riescirle mortali, intorpidisce e si consuma nel sonno e nelle illusioni se abbandonata a sè stessa e secura. Il nostro nemico era l'Austria. Bisognava cacciarle il guanto dai primi giorni, fidare nella Lombardia e assalirla invece di aspettarne gli assalti. L'entusiasmo della guerra allo straniero, abborrito da tutti com'era, avrebbe sopito ogni interno dissidio e fondato l'Unità nell'azione comune.

Per queste e altre ragioni determinai che l'iniziativa dell'insurrezione Nazionale si tenterebbe nelle terre Sarde, perni Genova e Alessandria; noi esuli invaderemmo, appena dato il segnale dall'interno, la Savoja, non solamente per dividere le forze ostili e per aprire un varco sino al centro del moto agli uomini che l'esperienza acquistata al di fuori chiamava a capitanarla civilmente e militarmente, ma per cacciare un anello tra i nostri e i repubblicani di Francia, che allora accennavano a diventare potenti e preparavano, tra gli operai, elementi numerosi di riscossa in Lione.

[89]

Tentammo l'esercito. Trovammo gli alti ufficiali renitenti, i bassi vogliosi di mutamento e arrendevoli al concetto dell'Italia Una e Repubblicana. Riuscimmo a impiantare relazioni con quasi tutti i reggimenti: nuclei d'attivi in alcuni e fila più numerose nell'artiglieria in Genova e in Alessandria, dove stava a guardia degli arsenali. Affratellammo caporali, sergenti e capitani; a contatto continuo coi loro soldati son essi più influenti dei capi; e ricordavamo i Cavalleggeri che disubbedienti, nel 1821, alla chiamata del loro colonnello Sammarzano, s'erano poco dopo lasciati trascinare all'insurrezione da un semplice capitano, l'adesione della legione procacciata dal sergente Gismondi e altri fatti consimili. Taluno fra i generali, presti sempre a seguire chi vince—Giflenga tra gli altri—promise cooperazione a patto che ci mostreremmo forti. Acquistammo in sostanza convincimento che l'esercito osteggerebbe o no a seconda del carattere che la prima mossa assumerebbe; e sarebbe in ogni modo tiepido nel resistere.

Proposi il moto e chiesi ajuti pecuniari alle Congreghe. La proposta fu accolta. Gli ajuti furono dati, benchè al solito inferiori al bisogno e al dovere. Strana cosa, ma vera: gli uomini della libertà danno, occorrendo, il sangue, restii a dare il danaro che potrebbe risparmiarlo sovente.

Comunicato il disegno generale del moto ai nostri di Genova, di Alessandria, di Vercelli, di Torino, della Lomellina, io mi preparai a trasferirmi da Marsiglia a Ginevra, da dove io dovea preparar gli elementi per l'insurrezione nella Savoja. Ma prima, volli intendermi coi repubblicani di Francia.

Cavaignac e gli uomini della Tribune non avevano bisogno d'eccitamenti; fremevano azione. Non così gli uomini del National, diffidenti dell'elemento operajo sul quale i primi appoggiavano tutte le loro speranze in Lione. Pregai Carrel di recarsi in Marsiglia e venne. Cavaignac si recava intanto a Lione.

Armand Carrel, ch'io vidi in casa di Demostene Ollivier, membro nel 1848 dell'Assemblea, era uomo signorile nei modi, freddo in apparenza, ma capace d'energia quando lo esigessero le circostanze, chiaramente onesto e tale da provocar fede assoluta nelle sue promesse, più amico della repubblica che non dei repubblicani, e poco disposto a fiducia negli operai dai quali lo tenevano discosto le abitudini della vita e certe tendenze militari rimastegli dal primo periodo della gioventù e accarezzate da lui. Intelletto acuto, non vasto, analitico più ch'altro, educato a scuole di materialismo e veneratore del secolo XVIII, credente nella teorica dei diritti e presto a dare fatiche e vita al suo trionfo più per senso d'onore e generosità d'indole che non per dovere religiosamente supremo, intendeva molte delle aspirazioni del secolo, ma non sentiva profondamente che quelle di libertà. E il suo ideale era la repubblica come s'intende in America, dove l'individuo è sovrano, la missione sociale di chi regge fraintesa e il diritto personale ogni cosa. Più in là non andava o a disagio, e le questioni sociali lo impaurivano. Logico per natura, si sentiva tratto a desumere le ultime conseguenze della dottrina che ha per base l'individuo e tra queste il federalismo; insinuava infatti a ogni tanto il federalismo per l'Italia, per la Spagna, per la Germania, unitario per la Francia, tra perchè l'Unità era fatto compiuto, tra perchè l'istinto dominatore francese potentissimo in lui gli mostrava perpetua la supremazia della sua Nazione nella debolezza delle confederazioni all'intorno. Le sue idee andavano nondimeno migliorando e allargandosi a più vasto orizzonte, quand'egli[90] morì; e ne fanno fede i suoi ultimi articoli. Morì sulla breccia, repubblicano com'era vissuto, puro d'ogni basso affetto, d'ogni immoralità, d'ogni servile tendenza alla ricchezza o al potere, amato da chi lo conobbe dappresso, rispettato da' suoi nemici.

Fermammo accordo tra noi che se l'Italia avesse iniziato il moto repubblicano, ei si sarebbe unito a Cavaignac per affrettare l'insurrezione Lionese e l'avrebbe secondata in Parigi.

Intanto, un incidente, irrilevante per sè, sperdeva tutto il disegno.

La diffusione non foss'altro dei nostri scritti, malgrado lo zelo posto dalla Polizia a impedirla, avvertiva il Governo che un lavoro segreto, potente esisteva nelle Provincie Sarde; e da più mesi era posta in opera ogni arte per discoprirne le fila e il centro, ma senza successo. Cercavano quel centro dove non era, nell'alte sfere sociali e tra gli antichi cospiratori del 1821; non ideavano neppure che una Associazione, visibilmente numerosa e capace d'eludere le instancabili inquisizioni della polizia mettesse capo a pochi giovani di nome ignoto e ricchi non d'altro che d'energia di volere e d'attività senza pari.

Però temendo di porre sull'avviso, col vibrar colpi in fallo, i veri cospiratori, spiavano gli indizî senza procedere. E l'insurrezione avrebbe potuto coglierli all'impensata.

Ma or non so bene se sul finire del marzo o sul cominciar dell'aprile 1833, due artiglieri, uno dei quali apparteneva all'Associazione e aveva fatto proposte all'altro, venuti a subita lite per una donna, dalle parole proruppero ai fatti. Impediti dai carabinieri regî, l'un d'essi, quegli appunto che avea avuto invito dall'altro ad affratellarsi, lasciò sfuggire parole di minaccia come s'egli potesse, volendo, essergli causa di male. Quelle parole furono raccolte e additarono al Governo il momento per tentare di risalire da uomo a uomo al segreto della congiura. Ricordo ch'io fatto partecipe dell'incidente, presentii le conseguenze fatali e scrissi: agite, se potete, o siete perduti. Il consiglio non giunse o non valse.

Il Governo si mise all'opera coll'energia di chi è minacciato da un supremo pericolo. Una rigorosa perquisizione nelle mucciglie e nella caserma degli artiglieri condusse alla scoperta d'alcuni stampati della Giovine Italia. I possessori furono imprigionati, e poco dopo i loro più intimi amici; gli uni e gli altri isolati da ogni contatto. Studiati i volti, i moti, l'inquietudine, il pallore, la mestizia insolita diventarono argomenti di carcere. E ciò che si fece in Genova fu fatto altrove; le prigioni di Torino, d'Alessandria, di Chambery s'aprirono a una moltitudine d'uomini che parevano sospetti, e si frapposero indugi tra l'uno e l'altro imprigionamento, tanto che gli ultimi imprigionati potessero credere a denunzie dei primi. E denunzie furono: vere in parte, in parte menzognere e suggerite da chi diceva: denunziate o perite: i codardi furono tre militari e un borghese, altri si avvilirono senza tradire i compagni, ma si confessarono, implorando, colpevoli e bastava: si catturarono gli amici loro. Dalle primarie si passò alle città secondarie, Nizza, Cuneo, Vercelli, Mondovì. Ebbero così tra le mani senza pur saperlo, parecchi degli uomini che dovevano dare il segnale del moto, e da carte sequestrate, da imprudenti parole o da altri indizî di nome. Intanto il terrore entrava negli animi; molti dei nostri si celarono; parecchi fuggirono. Sul cominciare della persecuzione i capi esitarono, in parte avvedendosi che il Governo poco sapeva e credendo che la tempesta trapasserebbe rapida com'era venuta, in parte,—e parlo d'Jacopo e Giovanni Ruffini segnatamente—perchè d'animo generoso, paventavano che dove il tentativo in quei frangenti fallisse a buon porto, s'apponesse ad essi l'aver dato[91] improvvidamente il segnale a salvar sè stessi: dopo pochi giorni, l'insorgere s'era fatto impossibile. «Le caserme erano chiuse ai borghesi, custodite e vegliate[23]. E a render vano ogni tentativo d'accordo tra i cittadini e l'esercito, la Gazzetta Ufficiale stampava che le carte sequestrate provavano come i cospiratori professassero l'ateismo; come per distruggere il trono e l'altare intendessero giovarsi d'ogni mezzo il più orrendo dal pugnale all'incendio; come veleno in copia fosse stato trovato nelle stanze di due ufficiali; come in Chambery fossero preparate le mine a fare esplodere la polveriera situata a ridosso delle caserme, e la città di Torino fosse devota alle fiamme e decretata in Genova guerra di vespri contro i soldati piemontesi: arte nefanda di Governi immorali ch'io vidi ripetersi in Genova nel 1857, quando ci preparavamo ad ajutare l'ardita impresa di Carlo Pisacane sulle terre meridionali. Poi, se un fatto isolato di vendetta o d'irrefrenabile ira ha luogo nelle nostre file, gli uomini servi di Governi siffatti si fanno vermigli in volto e accusano noi tutti di teoriche del pugnale, come se il pugnale della calunnia che mira a spegnere l'onore e l'anima fosse da meno di quello che ferisce il corpo. E lo sciagurato che, falsando il nostro principio, vibra il coltello contro il nemico, è non foss'altro solo e senza mezzi per proteggersi da lui o punirlo altrimenti: i Governi che avventano sistematicamente l'arme certa della calunnia contro i perseguitati e pongono, come gli Irochesi, l'insultatore accanto al carnefice, hanno a difendersi, potenza di ricchezza, di prigioni e d'eserciti.

«Allontanato a quel modo e col terrore ogni pericolo d'insurrezione il Governo poteva allentare la propria ferocia e tornare, per punire, alle norme d'una leale giustizia. Ma infierì più che mai, fatto doppiamente crudele dal pericolo corso e dalla coscienza d'averlo temuto. La pagina di storia che si scrisse dalla Monarchia Sabauda in quell'anno fu tale che vorrebbe la penna d'un Tacito e intinta nel sangue; ed è di quelle che gli uomini dovrebbero rileggere ogni qualvolta sentono a infiacchirsi nell'animo loro l'abborrimento della tirannide, e le madri ripetere ai figli perchè v'imparino quali possano essere le sorti d'una terra non libera. Mentre al difuori delle prigioni era detto ai parenti e agli amici degli imprigionati che posassero tranquilli, e li rivedrebbero dopo indugio non lungo, dentro cominciavano scene terribili per indurre i sospetti a dichiararsi colpevoli.

«Ogni cosa, che l'odio ajutato dalla più profonda scienza del male può suggerire, era posta in opera per ottenerne confessioni: cogli uni la corruttela, cogli altri la menzogna sfrontata o il machiavellismo degli interrogatorî: con tutti, prima o dopo il terrore. A quei che si indovinavano meno fermi era detto: noi vi sappiamo colpevoli: morrete di fucilazione tra ventiquattro ore, ma svelando i complici vostri, potete salvarvi. Con quelli dei quali era nota la robusta tempra o la virtù, s'usava linguaggio diverso: erraste; ma per illusione di bene, lo sappiamo e vi compiangiamo; voi pensavate adoperarvi in un'opera di devozione e fidaste in traditori indegni del vostro sagrificio; il vostro silenzio non salva amici fidati e costanti, ma perde voi stessi e le vostre famiglie per codardi che vi denunciano; eccovi le loro testimonianze a vostro danno. Or volete, confermandole, versare anche una volta la gioja sul capo dei vostri cari ricongiungendovi ad essi o, persistendo a tacere, perire miseramente? E testimonianze con firme falsificate[92] si ponevano un istante, in quell'ora di turbamento supremo, sotto gli occhi loro[24]. Per altri dai quali non volevano se non una confessione della loro partecipazione individuale all'impresa, ricorrevano allo spionaggio delle prigioni. S'introducevano vicino ad essi falsi cospiratori i quali agguatavano ogni momento d'abbandono o di disperazione per estorcere le informazioni volute[25]. Per ogni individuo si creavano nuove torture; tutte egualmente ignobili, codarde, feroci. Sotto la prigione dell'uno, una voce di pubblico gridatore annunziava fucilazione e imminenza d'altre. Di fronte alla prigione d'un altro, nello stesso corridojo, si poneva un amico dell'imprigionato: a quest'ultimo si parlava dei pericoli che minacciavano l'altro, il quale mutato subitamente e con ostentazione di straordinario calpestìo di soldati, di stanza, lasciava il prigioniero in balìa delle più tristi congetture possibili; e allora una scarica di moschetteria, indizio certo della sorte dell'amico, veniva a ferirgli l'orecchio[26].

«Altrove i prigionieri erano assordati da un frastuono continuo: si impedivano loro i sonni: poi dopo quattro o cinque notti agitate, erano assaliti dagli interrogatorî architettati a tale una tortura morale che non può calcolarsi se non da chi l'ha patita. Allora quando vedevano l'energia morale del prigioniero esaurita, gli affacciavano un'offerta di perdono o profanavano la santità degli affetti domesti[93]ci trascinando nella prigione un vecchio padre, o una madre a supplicarlo ch'ei rivelasse[27]. Parecchi piegarono. Altri si mantennero fermi e perirono. Uno solo l'autore dello scritto sul Giuramento Militare citato più sopra, dotato d'anima pura e potente, che le seduzioni e le minaccie di tutti i re della terra non avrebbero mai potuto appannare o atterrire, sottrasse lo spirito ai corruttori e il corpo al carnefice. La notte, con un chiodo strappato all'uscio della prigione, ei s'aprì una vena del collo e si rifugiò, protestando contro la tirannide, nel seno di Dio. Ed ei lo poteva, perch'era incontaminato. Era il più dolce giovane, il più delicato e costante negli affetti ch'io m'abbia veduto. Amava la pa[94]tria, della quale intendeva l'ampia missione, la madre, modello d'ogni virtù i fratelli e me[28]. Aveva vasto e pronto intelletto, ed era capace delle più grandi idee, però che le più grandi idee vengono dal core. Quei che conobbero intimamente Jacopo Ruffini venerano anch'oggi la sua memoria come quella d'un santo.»

Narra Brofferio nella sua Storia del Piemonte come Carlo Alberto, fatto per paura feroce, anelasse sangue, e a tal punto che dolendosi con Villamarina dell'umile condizione delle prime vittime, gli dicesse: non è bastevole esempio il sangue dei soldati: pensate a qualche ufficiale. Non ho modo d'appurare il fatto: ma di certo Villamarina, tenuto fino allora per uomo di spiriti liberali, e Giudici e Governatori, si condussero in guisa da far credere che sapessero di potere, incrudelendo, mercarsi favore dal Sire. Morto ogni senso di giustizia e sprezzate le stesse apparenze, si decretò fossero commessi i giudizî[95] a tribunali di guerra tanto per incolpati civili quanto pei militari. Protestarono i primi, ma indarno. Protestarono pure con nobile ardire, il 17 luglio, cinque avvocati genovesi estranei ai procedimenti, ed ebbero risposta negativa il 25. Fu chiesto che ai civili si concedesse almeno il diritto di scegliersi difensori, e s'ebbe rifiuto. I denunziatori, ai quali era promessa la vita, mal s'accordavano tra di loro: due furono messi, il dodici maggio, nella stessa prigione; tre il 23, quattro il 30, e si concertarono. S'intese allora il sergente Turff a dichiarare, in appoggio alla testimonianza d'un Piacenza, soldato, d'avere somministrato egli stesso all'Associazione minuti ragguagli intorno all'Artiglieria; e nondimeno, in sette esami anteriori, ei non avea fatto cenno di questa gravissima circostanza. Rimanevano, a ogni modo, incancellabili, le contradizioni dei primi esami, contradizioni spinte al punto di dirsi taluni affigliati alla Giovine Italia dal 1830, quando l'Associazione non esisteva. Su rivelazione d'uomini siffatti si pronunziarono le sentenze: sentenze di morte anche contro prigionieri provati innocenti d'ogni attiva complicità, ma rei d'avere saputo e non denunciato[29]. Le difese furono una ironìa. I documenti si davano ai difensori mutilati, imperfetti, e per tempo sì breve da non lasciar campo a maturo esame. E i difensori appartenenti tutti all'esercito, furono non molto dopo, generalmente, puniti: forse avevano tradito nella voce o nella espressione del volto il commovimento dell'animo. Tra una sentenza e l'altra escivano decreti che il Governo non si sarebbe attentato di pubblicare in tempi normali, che minacciavano di galera e talora di morte qualunque darebbe circolazione in Piemonte a scritti avversi ai principî della monarchia: decreti infami in ogni tempo, che attribuivano ricompensa di cento scudi a chi si farebbe denunziatore.

Quei che perirono furono Giuseppe Tamburelli, caporale nella brigata Pinerolo, il 22 maggio 1833, in Chambery: Antonio Gavotti di Genova, maestro di scherma, il 15 giugno, in Genova: Giuseppe Biglia di Mondovì, sergente nei granatieri guardie, lo stesso giorno in Genova: Domenico Ferrari di Taggia, sergente nella brigata Cuneo il 14 giugno, in Alessandria; Giuseppe Menardi, Giuseppe Rigasso Amando Costa, Giovanni Marini, sergenti nella brigata Cuneo, lo stesso giorno, in Alessandria; Effisio Tola, di Sassari, luogotenente nella brigata Pinerolo, l'11 giugno, in Chambery; Alessandro de Gubernatis, di Gorbio, sergente nella brigata Pinerolo, il 14 giugno, in Chambery: Andrea Vochieri, d'Alessandria, legale, il 22 giugno, in Alessandria.

Condannati a morte, ma fuggiti in tempo, furono l'avvocato Scovazzi; Ardoino, luogotenente nella brigata Pinerolo; Vacarezza, sottotenente nella stessa brigata; i sergenti Vernetta, Enrici, Giordano, Crina; il chirurgo Scotti; Gentilini, proprietario; il marchese Carlo Cattaneo; Giovanni Ruffini; l'avvocato Berghini; l'ufficiale divisionario Barberis; il marchese Rovereto ed altri. Io pure allora fui condannato nel capo. Thappaz, luogotenente nel regio corpo degli ingegneri, fu condannato a venti anni di prigionia; il generale fuori di servizio Giuseppe Guillet a dieci; il medico Orsini a venti; Noli, mercante, e Moja, a prigione perpetua; Lupo, gioielliere, a venti anni; altri molti a cinque, a tre, a due; parecchi ufficiali imprigionati ad arbitrio; Spinola, Durazzo, Cambiaso e altri del patriziato furono, come puniti abbastanza dal carcere sofferto, restituiti alla libertà.[96]

Tutto questo fu fatto affrettatamente, senza riguardo a legalità, senza alcuna di quelle apparenze solenni che danno indizio, non foss'altro, d'un atto di giustizia da compiersi. Era un furore, un terrorismo rivoluzionario senza grandezza di fine, senza scusa di prepotente necessità. Parea temessero di vedersi strappate le vittime. Carlo Alberto avea chiesto sangue, e davano sangue. Lo spargevano allo spuntare del giorno, fra le tenebre e l'alba. Le tinte del delitto incoloravano quelle opere di vendetta. Le mani della giustizia somigliavano quelle dell'assassino.

Qua e là accadevano scene da rabbrividirne. I carnefici, certi del regio sorriso, superavano la crudeltà del loro padrone[30]. Il generale Morra in Chambery, Gaverga Governatore, in Cuneo, il Generale Governatore d'Alessandria Galateri, furono per ferocia, cospicui. Al più feroce Carlo Alberto diede l'ordine della Santa Annunziata che gli conferiva il diritto di salutare il re del nome di cugino. E lo meritava.

Ringrazio Iddio d'avermi inspirata una fede che non s'è mai contaminata in Italia di simili orrori. I repubblicani di Napoli, di Venezia e di Roma escirono dal Governo puri di sangue cittadino e di bassa vendetta.

Non dirò com'io mi fossi, a quell'accalcarsi di nuove funeste, nell'animo mio: scrivo appunti di fatti, non la storia delle mie sensazioni. Parve bensì a me e agli amici miei che durasse in ogni modo per noi la necessità di tentare un fatto. Era visibile, nelle incertezze dei cospiratori dell'interno, quello squilibrio tra il pensiero e l'azione che anch'oggi, in grado minore, inceppa l'andamento del nostro risorgere. I principî di rivoluzione che predicavamo erano accolti; la necessità d'operare a seconda non era abbastanza sentita. Bisognava moralizzare il Partito: provargli col fatto che quando uomini d'una fede, e che si stanno mallevadori della salute o della rovina altrui, hanno promesso di fare, devono fare e non lasciarsi sviare da nuovi ostacoli o da cagioni individuali, comunque nobili e generose. Noi pure, capi al di fuori, avevamo promesso, e toccava a noi, insegnatori, di mantener le promesse. Avevamo d'altra parte, se ci veniva fatto d'operare sollecitamente, probabilità di successo. I più tra i nostri elementi non erano stati scoperti: sgominati, incerti e senza unità di capi o disegno, duravano pure potenti di numero, e una ardita iniziativa da parte nostra li avrebbe senz'altro raggranellati all'azione. Il fremito suscitato dalle crudeltà delle quali accennai era universale, e trapiantando rapidamente l'iniziativa dall'interno in noi, eravamo quasi certi di dar moto a una riscossa in Italia. Le nostre speranze erano talmente fondate che—per accennar qui di volo un tentativo intorno al quale non occorre spendere lunghe parole—il solo annunzio della nostra decisione bastò a raccogliere gli elementi dispersi di Genova e risuscitare il disegno. Sul finire dell'anno, un moto era nuovamente preparato in quella città, e non fallì se non per l'inesperienza dei capi, buoni, ma giovanissimi e ignoti ai più. Giuseppe Garibaldi fu parte di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga[31].

[97]

Deliberammo adunque di fare. Lasciai Marsiglia e mi recai in Ginevra.

Studiai il terreno dal quale dovevamo operare. Come ogni Governo, il Ginevrino doveva opporsi a ogni tentativo d'irruzione armata in un paese finitimo; ma venuto a contatto coi cittadini influenti, tra i quali era Fazy, allora amicissimo mio, poscia, fatto capo di Governo, nemico, m'avvidi che l'opposizione sarebbe stata fiacca e che avremmo avuto il favore del popolo. Strinsi lega con quanti avrebbero potuto all'uopo giovarci; ajutai l'impianto d'un giornale, l'Europe Centrale, destinato a diffondere l'idea dell'emancipazione della Savoja; trovai gli uomini capaci di mantenere sicure le corrispondenze segrete con quella Provincia: feci insomma quant'era in me per accertare che avremmo potuto, anche a dispetto del Governo, operare.

La Savoja era oppressa, malcontenta, disposta a insorgere. Ebbi abboccamenti con cittadini di Chambery, d'Annecy, di Thonon, di Bonneville, d'Evian, d'altri punti. Si concertarono le basi del moto. A chi mi chiedeva quali erano le sorti serbate, in caso di riuscita, al paese, io rispondeva: che sarebbe lasciato al voto della popolazione di serbarsi all'Italia o dichiararsi Francese o congiungersi alla Confederazione Svizzera; e che, quanto a me, avrei desiderato si scegliesse il terzo partito. Ed era in fatti ed è tuttavia mia opinione che nel riparto futuro d'Europa, la Federazione Svizzera, mutata in Federazione Alpina, e fatta barriera tra Francia, Italia e Germania, dovrebbe stendersi da un lato alla Savoja, dall'altro al Tirolo Tedesco, e più oltre. La Lega delle popolazioni Alpine è indicata dalle condizioni geografiche, dalle tendenze più o meno uniformi degli abitatori dei monti, e dalla missione speciale a pro della pace Europea che quella zona intermedia, fatta più forte ch'oggi non è, sarebbe chiamata a compire. E credo che, quando la Svizzera, smembrata fra la Germania, la Francia e noi, non sia cancellata dalla Carta d'Europa, sarà quello il futuro. Soltanto la politica funesta di Cavour ha seminato difficoltà tremende dove non erano, come ha cacciato, colla cessione di Nizza, il germe d'una guerra nell'avvenire tra due nazioni, chiamate ad amarsi e procedere unite.

Gli elementi non mancavano all'azione ideata. E avremmo potuto raccoglierli tutti fra li esuli italiani; se non che il chiamarli dai diversi luoghi di deposito in Francia avrebbe, oltre al suscitar l'attenzione, importato gravissima spesa. Altri elementi erano stati accumulati dalle circostanze in Isvizzera: esuli tedeschi in conseguenza del tentativo fatto in Hambach; esuli polacchi cacciati per insubordinazione ai regolamenti o per altro dalla Francia. Ed erano, agglomerati, i primi nei cantoni di Berna e Zurigo, i secondi in quei di Neuchâtel, Friburgo, Vaud e Ginevra. Noi potevamo dunque ordinarli e giovarne l'impresa senza rivelare, con subite traslocazioni, il disegno ai Governi. A me sorrideva l'idea d'inanellare colla causa di Italia quella d'altre nazioni oppresse, e d'impiantare sulle nostre Alpi una bandiera di fratellanza Europea. La Giovine Europa era nella mia mente uno sviluppo logico del pensiero che informava la Giovine Italia. E il ridestarsi d'Italia doveva essere a un tempo un atto di iniziativa, una consecrazione dell'alto ufficio che le spettò nel passato, e le spetterà, confido, nell'avvenire. La Federazione dei Popoli doveva trovare il suo germe nella nostra Legione.

Il pensiero comunicato da me ai migliori tra gli esuli delle due nazioni, fu accolto con entusiasmo. Si fondarono comitati: si lavorò all'ordinamento pratico militare dei diversi nuclei che dovevano essere chiamati all'azione. M'ajutavano in questo lavoro alcuni militari,[98] tra i quali era primo Carlo Bianco che s'era con Gentilini, Scovazzi e altri collocato in Nyon. Intorno a me, nell'albergo della Navigazione, ai Pâquis, s'erano raccolti Giovanni e Agostino Ruffini di Genova, Giambattista Ruffini di Modena, oggi Maggiore, Celeste Menotti, Nicola Fabrizi, Angelo Usilio, Giuseppe Lamberti, Gustavo Modena, Paolo Pallia e altri parecchi. L'albergo era tutto nostro e fatto inaccessibile alla vigilanza delle polizie. Giacomo Ciani lavorava operoso a conquistare al disegno i facoltosi lombardi, sparsi qua e là per la Svizzera: operoso egli pure, un Gaspare Belcredi di Bergamo, valente medico, noncurante di fama o d'ogni altra cosa fuorchè del fine e ch'io cito perchè fra i pochissimi che non mutarono mai, e mi sono ancora, mentr'io scrivo, amicissimi. Raccogliemmo nuovi mezzi in danaro, segnatamente da Gaspare Rosales, gentiluomo lombardo, raro per unità di pensiero e d'azione, d'indole generosa, leale, cavalleresca. Provvedemmo da Saint-Etienne e dal Belgio armi in buon numero: preparammo cartucce e quanto occorreva. Lavoravamo tutti concordi e lietamente instancabili.

Tutto andava a seconda. Se non che, come dissi, importava agire rapidamente; e da una esigenza dei comitati dell'interno e degli uomini che ajutavano con danaro l'impresa, sorse un ostacolo che dovea condannarla a indugi indefiniti e a rovina. Chiedevano un nome. Volevano messo a capo dell'invasione un uomo militare, di grado superiore, e che alla capacità aggiungesse il fascino della rinomanza. E indicavano il Generale Ramorino.

Mandato, dal Comitato degli amici della Polonia in Parigi, a Varsavia, durando l'insurrezione nazionale Polacca, Ramorino, legato colla frazione capitanata dal Principe Czartoriski e dall'aristocrazia del paese, s'era condotto, negli ultimi tempi della guerra, in modo giudicato severamente dai migliori patrioti. Ma, tornato in Francia, era stato salutato d'ovazioni da quanti nello straniero soldato volontario in Polonia vedevano rappresentato il principio della fratellanza dei popoli, e da quanti, dando plauso a ogni uomo che avesse combattuto in Polonia, intendevano onorare non tanto lui quanto le lotte d'una nazione oppressa dal numero ma destinata a rivivere. Il nome di Ramorino era inoltre popolare in Savoja dov'egli, credo, era nato, in Genova dove viveva la di lui madre, e generalmente in Italia dove l'orgoglio dei caduti in fondo era accarezzato dagli omaggi profusi a un Italiano. E nessuno badava più oltre. Ebbi intimazione solenne di dovermi porre in contatto con lui e offrirgli il comando della fazione.

Protestai quanto seppi.—Affratellato coi migliori tra gli esuli della Polonia io aveva, dalle loro conversazioni come dall'attento esame delle operazioni militari di Ramorino, ritratto giudicio diverso da quello dei Comitati. Ricordai loro che avevamo tutti predicato il principio: a cose nuove uomini nuovi; che nelle grandi rivoluzioni le imprese avevano creato i nomi, non i nomi, le imprese; che in ogni modo, nel duplice stadio dell'iniziativa e della guerra che terrebbe dietro, sarebbe stato più cauto lasciare il primo agli ordinatorî del moto, e affidare al Generale il secondo, quando i primi successi avrebbero già fatto securo il programma e vincolerebbero il Capo qualunque ei si fosse. Non valse, il prestigio d'un nome era pur troppo allora—ed è tuttavia—più assai potente che non il principio. Mi fu dichiarato che senza Ramorino non s'agirebbe. E m'avvidi che s'interpretava il dissenso mio come istinto di chi ambiva essere capo civile e militare ad un tempo. Vive tuttavia chi mi vide prorompere in lungo ed amaro pianto convulso al primo allacciarsi di quella ac[99]cusa: io la meritava sì poco che non aveva mai sospettato potesse sorgere. E m'era tremenda rivelazione dell'avvenire di sospetti, di diffidenze e calunnie serbato agli uomini che con un'anima pura e piena di fiducia in altrui si consacrano a una grande impresa. Quella rivelazione s'adempì tristissima sulla mia vita.

Piegai, credo a torto, la testa e invitai Ramorino. Udito il disegno accettò. Statuimmo che l'invasione s'opererebbe da due colonne; che la prima moverebbe da Ginevra, e io ne assumeva l'ordinamento; la seconda da Lione dove Ramorino affermava d'aver influenza grandissima; e imprendeva egli a formarla. Ramorino mi chiese, per le spese necessarie all'ordinamento della colonna, 40,000 franchi; e li diedi. L'ottobre (1833) non doveva trascorrere senza vederci in azione. Ei partì sollecitamente. Io gli raccomandai come segretario un giovine modenese, fidatissimo nostro, che doveva invigilarlo e informarmi.

«Non molto prima della spedizione, sul finire del 1833[32], mi si presentò all'Albergo della Navigazione in Ginevra, una sera, un giovine ignoto. Era portatore d'un biglietto di L. A. Melegari, che mi raccomandava con parole più che calde l'amico suo, il quale era fermo di compiere un alto fatto e voleva intendersi meco. Il giovine era Antonio Gallenga. Veniva di Corsica. Era un affratellato della Giovine Italia.

«Mi disse che da quando erano cominciate le proscrizioni, egli aveva deciso di vendicare il sangue de' suoi fratelli e d'insegnare ai tiranni una volta per sempre che la colpa era seguita dall'espiazione: ch'ei si sentiva chiamato a spegnere in Carlo Alberto il traditore del 1821 e il carnefice de' suoi fratelli; ch'egli aveva nutrito l'idea nella solitudine della Corsica, finchè s'era fatta gigante e più forte di lui. E più altro.

«Obbiettai, come ho fatto sempre in simili casi: discussi, misi innanzi tutto ciò che poteva smuoverlo. Dissi ch'io stimava Carlo Alberto degno di morte, ma che la di lui morte non salverebbe l'Italia, che per assumersi un ministero di espiazione, bisognava sentirsi puro di ogni senso di povera vendetta e d'ogni altro che non fosse missione; che bisognava sentirsi capace di stringere, compito il fato, le mani al petto, e darsi vittima; che in ogni modo ei morrebbe nel tentativo, morrebbe infamato dagli uomini come assassino, e via così per un pezzo.

«Rispose a tutto; e gli occhi gli scintillavano mentr'ei parlava: non importargli la vita: non s'arretrerebbe d'un passo, compito l'atto: griderebbe viva l'Italia e aspetterebbe il suo fato: i tiranni osar troppo, perchè sicuri dell'altrui codardia, e bisognava rompere quel fascino: sentirsi destinato a quello. S'era tenuto in camera un ritratto di Carlo Alberto e il contemplarlo gli aveva fatto più sempre dominatrice l'idea. Finì per convincermi ch'egli era uno di quegli esseri le cui determinazioni stanno tra la coscienza e Dio e che la Provvidenza caccia da Armodio in poi di tempo in tempo sulla t[100]erra per insegnare ai despoti che sta in mano d'un uomo solo il termine della loro potenza. E gli chiesi che cosa volesse da me.

«Un passaporto e un po' di danaro.

«Gli diedi mille franchi e gli dissi che avrebbe un passaporto in Ticino.

«Fin là, ei non sapeva neanche che la madre di Jacopo Ruffini fosse in Ginevra e appunto nell'albergo ov'io era.

«Gallenga rimase la notte e parte del giorno dopo. Pranzò colla Ruffini e con me: non si disse verbo tra loro. Lasciai la Ruffini ignara delle intenzioni. Essa era generalmente ammutolita dal dolore e non mosse quasi parola.

«Nelle ore ch'ei passò meco, sospettai ch'ei fosse spronato più da una sfrenata ambizione di fama che non dal senso d'una missione espiatoria da compiersi. Mi ricordò sovente che da Lorenzino de' Medici in poi non s'era compiuto un simile fatto, e mi raccomandò ch'io scrivessi, dopo la sua morte alcune linee sui suoi motivi. Partì valicando il Gottardo, mi scrisse poche parole, piene d'entusiasmo: s'era prostrato sull'Alpi e avea nuovamente giurato all'Italia di compiere il fatto. Ebbe in Ticino un passaporto col nome di Mariotti.

«Giunto in Torino, s'abboccò con un membro del Comitato dell'Associazione del quale egli aveva avuto il nome da me. Fu accolta l'offerta. Furono presi concerti. Il fatto doveva compirsi in un lungo adito in Corte, pel quale il re passava ogni domenica recandosi alla cappella regia. S'ammettevano taluni a vedere il re con un biglietto privilegiato. Il comitato potè provvedersi d'uno. Gallenga andò con quello, senz'armi, a studiare il luogo. Vide il re e più fermo che mai: lo diceva almeno. Fu statuito che la domenica successiva sarebbe il giorno del fatto. Allora, impauriti del procacciarsi, in quei momenti di terrore organizzato, un'arme in Torino, mandarono un membro del Comitato, Sciandra, commerciante, oggi morto, per la via di Chambery a Ginevra, a chiedermi l'arme e avvertirmi del giorno.

«Un pugnaletto con manico di lapislazzuli che m'era dono carissimo, stava sul mio tavolino: accennai a quello, Sciandra lo prese e partì.

«Ma intanto, non considerando quel fatto come parte del lavoro d'insurrezione ch'io dirigeva, e non facendone calcolo, io mandava per cose nostre in Torino un Angelini nostro sotto altro nome. L'Angelini, ignaro del Gallenga e d'ogni cosa, prese alloggio appunto nella via dove stava in una cameretta quest'ultimo. Poi, commettendo imprudenze di condotta, fu preso a sospetto; tornando a casa, la vide invasa dai carabinieri: tirò di lungo e si pose in salvo.

«Ma il Comitato, udito che a due porte da quella del regicida erano scesi i carabinieri, e non sapendo cosa alcuna dell'Angelini, argomentò che il Governo avesse avuto avviso del progetto e fosse in cerca del Gallenga. Perciò lo fece uscir di città, lo avviò a una casa di campagna fuor di Torino, dicendogli che non si poteva tentare quella domenica, ma che se le cose si vedessero in quiete, lo richiamerebbero per un'altra delle successive.

«Una o due domeniche dopo, mandarono per lui: non lo trovarono più. Era partito ed io lo rividi in Isvizzera.

«Rimanemmo legati: ma si sviluppò in lui un'indole più che orgogliosa, vana, una tendenza d'egoismo, uno scetticismo insanabile, uno sprezzo d'ogni fede politica, fuorchè l'unica dell'Indipendenza Italiana. Lavorò meco, nondimeno: fu membro del nostro Comitato Centrale e firmò, come Segretario, un appello stampato agli Svizzeri contro la tratta de' soldati sgherri che facevano. Poi s'astenne e si[101] diede a scrivere articoli di Riviste e libri. Disse e misdisse degli Italiani, degli amici, e di me. Prima del 1848 si riaccostò e fece parte d'un nucleo che s'ordinò sotto nome nostro. Venne il 1848. Io partiva; mi chiese di partire con me. In Milano si separò, dicendomi ch'egli era uomo di fatti, e voleva recarsi al campo. Invece d'andare al campo andò in Parma, dove congregato il popolo in piazza, cominciò a predicare quella malaugurata fusione che fu la rovina del moto. Diventò segretario d'una Società Federativa presieduta da Gioberti, del quale egli aveva scritto plagas nei suoi articoli inglesi sulle cose d'Italia; sottoscrisse circolari destinate a magnificare la monarchia piemontese; e fu scelto dal Governo a non so quale piccola ambasciata in Germania.

«Lo incontrai nuovamente dopo la caduta di Roma, in Ginevra. Mi parlò; e indifferente a biasimo o lode, gli parlai. Egli accusava i lombardi di non avere secondato il re; io gli narrai quelle storie di dolore ch'io avea veduto svolgersi, egli no: gli provai la falsità dell'accusa. Parve convinto e insistè perch'io scrivessi su quell'argomento. Dopo un certo tempo, tornato in Londra, trovai ch'egli, giuntovi appena, avea pubblicato un libello contro i milanesi dov'egli li chiamava persino codardi. Nauseato e dolendomi di vedere così calunniato da un Italiano, tra stranieri, un popolo di prodi traditi, deliberai di non più vederlo e non lo vidi mai più.»

Quando questa mia rivelazione fu letta in Torino, si levò tale una tempesta contro il Gallenga ch'ei s'avvilì. Scrisse lettere sommesse e pentimenti del trascorso giovanile: diede la sua dimissione di Deputato: rimandò non so qual croce che gli avevano appiccata al petto, sì come indegno di farne mostra, e dichiarò solennemente nel Risorgimento del novembre 1856 ch'ei rinunziava d'allora in poi ad ogni atto e scritto politico. Poi, mendicò di bel nuovo ad un collegio di ignari la Deputazione e si fece corrispondente pagato, per le cose d'Italia del Times, nelle cui colonne egli versa due volte la settimana oltraggio e calunnie sui volontari Garibaldini, sull'esercito meridionale, sugli artigiani associati, sul Partito d'Azione e su me. È decretato che ogni uomo il quale s'accosta alla setta dei moderati debba smarrire a un tratto senso morale e dignità di coscienza?

Sui primi d'ottobre, ogni cosa era pronta da parte mia: non così da parte del generale Ramorino, al quale io scriveva e riscriveva senza ottenere risposta: mi giungevano bensì dal giovane segretario ragguagli tristissimi che m'additavano Ramorino perduto nella passione del gioco, indebitato e vôlto a tutt'altro che ad ordinar la colonna. Passò l'ottobre. Gli mandai viaggiatori, tra i quali ricordo Celeste Menotti che dovè raggiungerlo in Parigi, dov'ei s'era, senza scopo apparente, ridotto. Spronato, rimproverato, ei chiese tempo, allegando ostacoli impreveduti al lavoro. Gli concedemmo, riluttanti, il novembre. E il novembre anch'esso passò. Sul cominciare di dicembre, ei finalmente mi dichiarò che gli riusciva impossibile d'ordinare anche cento sui mille uomini promessi; che la polizia parigina informata, l'aveva interrogato sul disegno; ch'ei s'era valentemente schermito, ma che invigilato, adocchiato in ogni suo passo, ei non poteva ormai più adempiere alle sue promesse—e mi rimandava 10,000 sui 40,000 franchi affidatigli. Più tardi seppi ch'egli, cedendo a minacce e promesse di pagamento dei debiti, s'era messo in accordo col Governo francese, vincolandosi, non a tradire sul campo, ma a impedire che v'entrassimo mai.

Intanto, l'opportunità della mossa andava sfumando. Il partito all'interno, decimato, impaurito, sviato, cadeva nell'anarchia e nella[102] impotenza. Al di fuori, il segreto dell'impresa, fidato a centinaja di uomini italiani, polacchi, francesi, svizzeri, si svelava a tutte le polizie. I loro agenti convenuti da ogni lato di Ginevra, spiavano ogni nostro passo, accumulavano ostacoli, insistevano colle autorità Ginevrine perchè disperdessero gli esuli agglomerati nel Cantone. Li disseminammo come meglio si poteva, a sviar l'attenzione e i sospetti; ma rimossi dalla vigilanza del Centro, lasciati alle loro inspirazioni individuali, scorati, e diffidenti pei lunghi indugi e per le promesse ripetute e sempre fallite perdevano ogni senso di disciplina, partivano, tornavano, s'allontanavano senza dir dove, in cerca d'occupazione: altri molti, privi di mezzi, ricorrevano alla Cassa Centrale ed esaurivano i mezzi serbati all'azione. Deputazioni incessanti venivano dai più impazienti fra i proscritti stranieri a lagnarsi, a chiedere quando si farebbe, ed assegnare termini perentorî all'azione, minacciando taluni di sciogliersi, altri d'operare rovinosamente da sè. L'ambasciata Francese offriva ai polacchi cacciati poco innanzi da Besançon oblio, passaporti, danaro, ogni cosa purchè vi tornassero; e i comitati Svizzeri, informati di quelle offerte, ricusavano più oltre soccorrerli. Bisognava, a trattenerli, dar loro paga regolare. L'indugio era una vera rovina.

E nondimeno, io non poteva svelare il vero. La voce fatta correre all'interno che Ramorino capitanava l'impresa era diventata una condizione sine qua non. Il nostro dichiarare che s'agirebbe, ma senza di lui, avrebbe disanimato tutti i cospiratori della Savoja, e l'interpretazione più ovvia sarebbe stata ch'ei s'asteneva, giudicando l'impresa impossibile. Nè io, sospetto di volere allontanato un rivale, avrei ottenuto fede, se non con prove documentate, ch'io non aveva, della sua mala condotta.

E come se quel viluppo di difficoltà pressochè insormontabili non bastasse, s'aggiungeva l'opposizione segretamente dissolvitrice di Buonarroti. Buonarroti in lega con me fino allora s'era fatto subitamente avverso a ogni nostro tentativo d'azione: angusto di vedute e intollerante nel suo giudicare degli uomini, ei vedeva nel mio collegarmi con Giacomo Ciani, con Emilio Belgiojoso, ch'era venuto a offrirsi ajutante di Ramorino, e con altri patrizî o ricchi lombardi ch'ei chiamava sdegnosamente i banchieri, una deviazione dai principî della pura democrazia; ma sopratutto, egli, cospiratore per tutta la vita a Parigi, ignaro assolutamente d'ogni elemento Italiano e neppur sognando che l'iniziativa potesse e dovesse un giorno trapiantarsi di Francia in Italia o in altra Nazione, non ammetteva che potesse cominciarsi un moto fuorchè—non dirò in Francia, perch'egli avversava pure i disegni del Lionese—ma in Parigi. E fulminò scomunica contro di noi: scomunica abbastanza potente, perchè tutti gli elementi Svizzeri che m'erano indispensabili erano affratellati nella Carboneria, ed egli costituiva, con Testa, Voyer di Argenson ed altri l'Alta Vendita della Setta. Io mi trovava a un tratto minato nelle parti vitali del mio lavoro, e sentiva tutte le ruote del congegno arrestarsi, senza poterne indovinare il perchè.

Com'io resistessi a ostacoli siffatti e rinascenti ogni giorno, non so. Era una lotta d'Antèo, cadente a ogni tanto e risorgente con nuova forza dalla terra toccata. Mi toccò riconquistare a uno a uno gli agenti Svizzeri e staccarli da Buonarroti. Raccolsi nuovo danaro. Trattenni i Polacchi. Mandai uomini nostri a formare rapidamente, perchè non fallisse una parte del disegno ch'era promessa e che era diversione importante, un nucleo di colonna in Lione, fidandone la direzione a Ro[103]sales, a Nicolò Arduino e all'Allemandi: in quel nucleo era il giovine Manfredo Fanti, più tardi Generale, Ministro, e nemico nostro.

Perchè non rinunziai all'impresa? Oltre le cagioni del persistere accennato più sopra, il dire a un tratto a tutti gli elementi dell'interno a tutti gli uomini nostri e stranieri che al difuori vivevano in quella fede, ai repubblicani francesi, a tutti coloro che avevano dato denaro pei quattro quinti già speso: non era che un sogno, era un decretare morte per sempre al Partito nella cui vita io vedeva gran parte della salute dell'Italia. Era meglio tentare e cadere in campo, lasciando non foss'altro un insegnamento morale a chi volesse raccoglierlo. Poi se taluno fra' miei lettori è stato mai a capo d'una impresa collettiva, egli almeno deve sapere come l'impresa giunta a un certo grado di sviluppo diventi padrona dell'uomo e non gli conceda più di ritrarsi.

Passava intanto in quei lavori, non solamente tutto il novembre, ma il dicembre; con tale rovina della fiducia di tutti, e con tale esaurimento di mezzi da comandarmi imperiosamente l'azione. La risolsi pel finir di gennajo (1834) e sollecitai perchè verso quel tempo s'operasse in Lione. L'eco dell'insurrezione Francese avrebbe largamente supplito a tutti quei gradi di potenza che s'erano irreparabilmente perduti in Italia.

Scrissi a Ramorino, dicendogli ch'io avrei iniziato a ogni modo; venisse ad assumere il comando della fazione, e se non prima, ricevuta appena la nuova del nostro ingresso. Il moto era fissato pel 20 gennajo.

E aspettando risposta, ordinai quant'era necessario alla mossa. Si determinarono i giorni, l'ora della partenza di nuclei collocati sui diversi punti, l'ordine delle giornate, le vie da tenersi, i viveri, i corrieri di punto in punto. Si fece deposito delle armi, per quei che venivano da lontano, in Nyon, sulla sponda del lago. S'apprestarono barche e zattere, tanto che invece di spingersi tutti in Ginevra dove eravamo già troppi, e dove il Governo avrebbe necessariamente tentato d'opporsi, tragittassero il lago e venissero a ricongiungersi con noi in Carouge, punto di convegno per tutti. In Carouge si trasportarono l'armi per quei che dovevano muovere da Ginevra e dintorni. Si compì l'ordinamento militare; si scelsero i capi; si prepararono i proclami.

Poco importa ora l'esporre minutamente il concetto di guerra che mi parve da scegliersi. Basti il dire che il punto centrale dell'operazione era Saint-Julien, sulla via d'Annecy. Non potendo nè volendo determinare l'ora dell'insurrezione delle provincie Savojarde, ordinai si raccogliessero in Saint-Julien, delegati di ciascuna, tanto che fatti certi del nostro arrivo, corressero a dare alle loro circoscrizioni il segnale del moto. La nostra forza era tale da rendere ogni valida resistenza in Saint Julien impossibile.

Io sperava che Ramorino s'attenesse al secondo partito insinuatogli e non venisse che dopo iniziata la mossa; ma fui deluso. Mi scrisse che sarebbe venuto a tempo. E questa sua promessa fu intanto cagione di nuovi indugi fatali allora più che mai. S'arrestò sulla via, mi mandò avvisi che mi trattennero di giorno, in giorno, e ci trascinarono fino al 31 gennajo, quand'ei giunse la sera, con due generali, polacco l'uno, spagnuolo l'altro, un ajutante, un medico.

Lo vidi. Stava sul suo volto il sospetto di chi sente d'essere sospettato e meritamente. Ei non levava, parlandomi gli occhi da terra. Io ignorava ancora gli accordi stretti col governo francese, ma presentii un tradimento possibile. Determinai stargli a fianco, e giunti che fossimo a Saint-Julien, negargli, occorrendo, [104]il potere. L'insurrezione iniziata avrebbe probabilmente sentito la propria forza e concesso minor importanza al prestigio di un nome.

Non proferii parola sul passato. Gli diedi il quadro delle nostre forze. Gli comunicai il disegno di guerra. Gli proposi l'approvazione degli ufficiali. Accettò ogni cosa. Soltanto, allegando la responsabilità che pesava su lui, volle assumere sin d'allora il comando ch'io avrei voluto non cominciasse che a Saint-Julien: fu appoggiato da quanti fra i nostri vedevano nella supremazia militare la salute dell'impresa, e se ne giovò per istituire alcuni capi, quello fra gli altri che dovea guidare i polacchi destinati ad attraversare il lago da Nyon. Lo condussi, per vincolarlo più sempre, a un convegno segreto col generale Dufour. Là furono studiate nuovamente le basi del disegno.

Il 1.º febbrajo ci ponemmo in moto. In Ginevra il governo tentò d'impedire, anche più energicamente ch'io non avrei pensato, il concentramento. I battelli furono sequestrati. L'albergo ov'io era fu circondato dai gendarmi. S'arrestavano i nostri quando il menomo indizio, un'arme, un berretto, una coccarda li rivelava. Ma la popolazione preparata di lunga mano si levò tutta a proteggerci. Ufficiali e soldati guardavano con favore la nostra mossa e cedevano facilmente alle istanze semi-minacciose dei cittadini. Tutti i nostri si raccolsero al convegno e s'armarono. Rimasi l'ultimo in Ginevra per dirigere la mobilizzazione, poi, la sera, in un battello ch'era stato giudicato inservibile, traversai coi Ruffini e uno o due altri il lago e mi recai al campo dei nostri. Era tutto entusiasmo, lietezza, fiducia.

Ma ci aspettava d'altra parte una serie terribile di delusioni.

I giovani tedeschi che avevano avuto le mosse da Zurigo e Berna, spinti da un entusiasmo che esagerava la facilità dell'impresa e dimenticava l'inevitabile opposizione del governo Svizzero, s'avviarono collettivamente, a nuclei, quasi in ordine di battaglia, con coccarde repubblicane germaniche, foglie di quercia al berretto, e rivelando agli occhi di tutti il fine per cui movevano. La distanza dal punto di convegno era grande e concedeva tempo e mezzi di repressione alle autorità. Gli uni furono lungo la via circondati; altri dispersi; molti vinsero gli ostacoli e giunsero, ma per vie diverse dalle segnate e tardi: pochissimi tra quelli elementi ci raggiunsero in tempo. E fu perdita grave.

La colonna dei polacchi che dovevano attraversare il lago da Nyon, affidata da Ramorino a un Grabski, commise l'inescusabile errore di separare gli uomini dall'armi: barche svizzere con soldati del contingente passarono in mezzo, s'impossessarono della zattera sulla quale erano l'armi, e condussero gli inermi prigioni.

Questi e altri incidenti simili ci privarono a un tratto dei tre quarti almeno delle nostre forze, e quel ch'è peggio, diedero a Ramorino il pretesto che gli mancava.

Per qualunque avesse avuto scintilla di genio insurrezionale e sopratutto intenzione di riuscire, la posizione era chiara. Noi potevamo anche colle poche nostre forze, correre difilati su Saint-Julien e occuparlo. Non v'erano truppe. Certi di non poterlo difendere, i capi piemontesi, all'annunzio della nostra mossa, avevano abbandonato quel punto, e s'erano collocati a metà strada per coprire Annecy. Giunti a Saint-Julien e partiti a diffondere il segnale d'insurrezione i delegati che s'erano raccolti, poco importava la cifra delle nostre forze. E inoltre l'entusiasmo delle popolazioni svizzere, infervorato dal nostro primo successo, avrebbe costretto il governo a mettere in libertà le nostre colonne che ci avrebbero poco dopo raggiunti.

La nuova dell'allontanamento delle truppe da Saint-Julien era stata comunicata a Ramorino. Credendo nell'esecuzione della prom[105]essa e non volendo dar pretesti al sospetto di dualismo e d'ambizione nascente, presi una carabina e mi confusi nelle file dei militi.

Il documento collettivo ch'or qui si ripubblica lascia intendere abbastanza come Ramorino si facesse un'arme dell'imprigionamento dei polacchi del lago e della speranza di riaverli per mutare subitamente il disegno, sviarsi dal punto obbiettivo, costeggiare per quasi ventiquattro ore il lago, stancare, sconfortare, rendere incapaci di disciplina i nostri elementi. Ond'io m'asterrò dal ripetere, e dirò solamente in poche linee ciò che mi concerne personalmente.

Io aveva presunto troppo delle mie forze fisiche. L'immenso lavoro ch'io m'era da mesi addossato le avea prostrate. Per tutta l'ultima settimana io non aveva toccato il letto; avea dormito appoggiandomi al dosso della mia sedia a mezz'ore, a quarti d'ora interrotti. Poi, la ansietà, le diffidenze, i presentimenti di tradimento, le delusioni imprevedute, la necessità d'animare altrui col sorriso d'una fiducia che non era in me, il senso d'una più che grave responsabilità, avevano esaurito facoltà e vigorìa. Quando mi misi tra le file, una febbre ardente mi divorava. Più volte accennai cadere e fui sorretto da chi m'era a fianco. La notte era freddissima e io aveva lasciato spensieratamente non so dove il mantello. Camminava trasognato, battendo i denti. Quando sentii qualcuno—era il povero Scipione Pistrucci—a mettermi sulle spalle un mantello, non ebbi forza per volgermi a ringraziarlo. Di tempo in tempo, poi che m'avvidi che non s'andava su San Giuliano, io richiamava con uno sforzo supremo le facoltà minacciate per correr in cerca di Ramorino e pregarlo, scongiurarlo perchè ripigliasse il cammino sul quale eravamo intesi. Ed ei m'andava, con un guardo mefistofelico, rassicurando, promettendo, affermando che i polacchi del lago s'aspettavano di minuto in minuto.

Ricordo che a mezzo dell'ultimo abboccamento, mentr'ei più deliberatamente mi resisteva, un fuoco di moschetteria partito dal piccolo nostro antiguardo mi fece correre al fascio delle carabine, con un senso di profonda riconoscenza a Dio che ci mandava finalmente, qualunque si fosse, la decisione. Poi, non vidi più cosa alcuna. Gli occhi mi s'appannarono; caddi, e in preda al delirio.

Fra un accesso e l'altro, in quel barlume di coscienza che si racquista a balzi per ricadere subito dopo nelle tenebre, io sentiva la voce di Giuseppe Lamberti a gridarmi: che cosa hai preso? Egli e pochi altri amici sapevano ch'io temendo d'esser fatto prigione e tormentato per rivelazioni, aveva preso con me un veleno potente. E affaticato pur sempre dal pensiero delle diffidenze che s'erano, o mi pareva, suscitate in taluni, io interpretava quelle parole come s'ei mi chiedesse quale somma io avessi preso dai nemici per tradire i fratelli. E ricadeva, smaniando, nelle convulsioni. Tutti quei che fecero parte della spedizione e sopravvivono, sanno il vero delle cose ch'io dico. Quella notte fu la più tremenda della mia vita. Dio perdoni agli uomini che, spronati da cieca ira di parte, seppero trovarvi argomento di tristi epigrammi.

Appena Ramorino seppe di me, sentì sparito l'ostacolo: salì a cavallo, lesse un ordine del giorno che scioglieva la colonna dichiarando l'impresa impossibile, e l'abbandonò. Supplicarono Carlo Bianco perchè li guidasse: egli s'arretrò davanti alla nuova responsabilità e al disfacimento visibile tra gli elementi. La colonna si sciolse.

Quando mi destai, mi vidi in una caserma, ricinto di soldati stranieri. Vicino a me stava l'amico mio Angelo Usiglio. Gli chiesi ove fossimo. Mi disse con volto di profondo dolore: In Isvizzera. E la colonna? in Isvizzera (1861).[106]


Il primo periodo della Giovine Italia era conchiuso e conchiuso con una disfatta. Doveva io ritirarmi dall'arena e rinunziando a ogni vita politica, aspettando paziente che il tempo o altri più capace o più avventuroso di me maturasse i fati italiani, seguire nel silenzio una via di sviluppo individuale e riconcentrarmi negli studî che più sorridevano all'anima mia?

Molti mi diedero quel consiglio: gli uni convinti che l'Italia, guasta fino al midollo dal lungo servaggio e dall'educazione gesuitica, non avrebbe mai potuto far suo il nostro ideale e conquistarne colle proprie forze il trionfo; gli altri già stanchi sul cominciar della lotta, bramosi di vivere della vita dell'individuo e impauriti dalla tempesta di persecuzioni che s'addensava visibilmente sulle nostre teste. E i fatti che seguirono l'infausta spedizione convalidavano i loro argomenti. Un immenso clamore di biasimo s'era levato, da quanti in tutti i tempi non adorano che la vittoria, contro di noi. L'onda, rotta agli scogli, retrocedeva. Dall'Italia non venivano che voci di sconforto, nuove di fughe, diserzioni, imprigionamenti e dissolvimento. Intorno a noi, nella Svizzera, il favore col quale erano stati accolti i nostri disegni si convertiva rapidamente in irritazione. Ginevra era tormentata di note diplomatiche, richieste imperiose di liberarsi di noi e minaccie; e i più cominciavano a imprecare a noi caduti come a stranieri che mettevano a pericolo la pace del paese e rompevano la buona armonia della Svizzera coi governi europei. L'autorità federale mandava commissarî, iniziava inquisizioni e processi. Il nostro materiale di guerra era sequestrato: i nostri mezzi finanziarî erano quasi esauriti di fronte alla tristissima condizione degli esuli, sprovveduti i più d'ogni cosa. E anche tra i nostri la miseria e l'amarezza della delusione seminavano recriminazioni e dissidî. Tutto era bujo all'intorno. Ben promettevano dalla Francia battaglia imminente e vittoria in nome della repubblica; ma io credeva spenta per allora l'iniziativa francese, e quelle uniche promesse di meglio mi trovavano incredulo. E più potente d'ogni consiglio e d'ogni minaccia mi suonava all'orecchio il grido di dolore e di suprema inquietudine della povera mia madre. Avrei ceduto a quello se avessi potuto.

Ma era tal cosa in me che le circostanze esterne non valevano a domare. La mia natura era profondamente subbiettiva e signora de' proprî moti. L'io era fin d'allora per me una attività chiamata a modificare il mezzo in cui vive, non a soggiacergli passivo. La vita raggiava dal centro alla circonferenza, non dalla circonferenza al centro.

La nostra non era impresa di semplice riazione, moto d'infermo che muta lato ad alleviare il dolore. Noi non tendevamo alla libertà come a fine, ma come a mezzo per potere raggiungere un fine più positivo e più alto. Avevamo scritto Unità repubblicana sulla nostra bandiera. Volevamo fondare una Nazione, creare un Popolo. Cos'era, per uomini che s'erano proposto intento sì vasto una disfatta? Non era appunto parte dell'opera educatrice quella d'insegnare ai nostri l'imperturbabilità negli avversi eventi? Potevamo insegnarla senza darne l'esempio noi? E non avrebbe la nostra abdicazione somministrato un argomento a quanti ritenevano impossibile l'Unità? Il guasto radicale in Italia, ciò che la condannava all'impotenza, era visibilmente non una mancanza di desiderio, ma una diffidenza delle proprie forze, una tendenza ai facili sconforti, un difetto di quella[107] costanza, senza la quale nessuna virtù può fruttare, uno squilibrio fatale tra il pensiero e l'azione. L'insegnamento morale che dovea porre rimedio a quel guasto non era possibile in Italia, sotto il flagello persecutore delle polizie, per via di scritti o discorsi, su larga scala, in proporzioni eguali al bisogno. Era necessario un apostolato vivente: un nucleo d'uomini italiani forti di costanza, inaccessibili allo sconforto, i quali si mostrassero, in nome d'una Idea, capaci di affrontare col sorriso della fede persecuzioni e sconfitte, cadenti un giorno, risorgenti il dì dopo, e presti sempre a combattere e credenti sempre, senza calcolo di tempo o di circostanze, nella vittoria finale. La nostra era, non setta, ma religione di patria. E le sette possono morire sotto la violenza: le religioni non mai.

Scossi da me ogni dubbiezza, e deliberai proseguir sulla via.

In Italia, il lavoro doveva inevitabilmente rallentarsi. Bisognava dar tempo agli animi di riaversi, ai padroni di credersi vincitori e riaddormentarsi. Ma potevamo rifarci all'estero delle perdite dell'interno e lavorare a risorgere un giorno e gittare una seconda chiamata all'Italia, forti d'elementi stranieri alleati e dell'opinione europea. Potevamo, nel disfacimento, ch'io vedeva lentamente compirsi, d'ogni principio rigeneratore, d'ogni iniziativa di moto europeo, preparare il terreno alla sola idea che mi pareva chiamata a rifare la vita dei popoli, quella della Nazionalità, e una influenza iniziatrice, in quel moto futuro all'Italia. Nazionalità e possibilità d'iniziativa italiana: fu questo il programma, questa la doppia idea dominatrice d'ogni mio lavoro dal 1834 al 1837.

La nostra stampa aveva attirato su noi l'attenzione degli stranieri. L'ardito tentativo sulla Savoja aveva raccolto intorno al nostro comitato una moltitudine d'esuli di tutte contrade. Erano, i più, Tedeschi e Polacchi; ma parecchi venivano di Spagna, di Francia e d'altrove—e citerò ad esempio Harro Haring, scrittore di merito e vero pellegrino della Libertà, dacch'egli avea combattuto e lavorato per essa in Polonia, in Grecia, in Germania. Era nato sulle sponde del Mar Glaciale e portava con sè l'aspirazione ignota allora a tutti fuorchè a lui e a me, ma pur destinata a tradursi in fatto un dì o l'altro, all'Unità della Scandinavia. Fra tutti quegli uomini, e prima che la persecuzione ci balestrasse a diverse foci, intesi a cacciare i germi della doppia idea e d'una alleanza universalmente invocata, non tentata ordinatamente da alcuno.

La Carboneria diretta in Francia da Buonarroti, Teste e, credo, Voyer d'Argenson, tentava naturalmente di stendere i suoi lavori in tutte le contrade: e accoglieva nelle sue file uomini d'ogni terra. Ma era Associazione cosmopolita nel senso filosofico della parola: non vedeva sulla terra che il genere umano e l'individuo; e individui, non altro, erano per essa i suoi membri. La Patria non aveva altare o bandiera nelle Vendite: il Polacco, il Tedesco, il Russo non erano, dopo iniziati, se non Carbonari. Figli idolatri della Rivoluzione Francese, quelli uomini non oltrepassavano le sue dottrine. Cercavano per l'uomo, per ogni uomo la conquista di ciò ch'essi chiamavano suoi diritti: diritti di libertà e d'eguaglianza, non altro. Ogni idea collettiva, e quindi l'idea-Nazione, era per essi inutile o—quando la giudicavano dal passato—pericolosa. Teoricamente, ignoravano che non esistono diritti per l'individuo se non in conseguenza di doveri compiti: dimenticavano che la legge di vita dell'individuo non può desumersi se non dalla specie; e rinegavano il sentimento della vita collettiva e il concetto dell'opera trasformatrice che ogni individuo deve tentare di compiere sulla terra a pro dell'[108]umanità. Praticamente, essi s'assumevano d'agire con una leva alla quale sottraevano il punto d'appoggio, e si condannavano all'impotenza.

«Se per cosmopolitismo[33] intendiamo fratellanza di tutti, amore per tutti, abbassamento delle ostili barriere che creano ai popoli, separandoli, interessi contrarî, siamo noi tutti cosmopoliti. Ma l'affermare quelle verità non basta: la vera questione sta per noi nel come ottenerne praticamente il trionfo contro la lega dei Governi fondati sul privilegio. Or quel come implica un ordinamento. E ogni ordinamento richiede un punto determinato d'onde si mova, un fine determinato al quale si miri. Perchè una leva operi, bisogna darle un punto d'appoggio e un punto sul quale s'eserciti la sua potenza. Per noi, quel primo punto è la Patria, il secondo è l'Umanità collettiva. Per gli uomini che s'intitolano cosmopoliti, il fine può essere l'Umanità: ma il punto d'appoggio è l'uomo-individuo.

«La differenza è vitale; è la stessa a un dipresso che separa, in altri problemi, i fautori dell'Associazione da quei che non riconoscono come strumento d'azione se non la libertà sola e senza limitazione.

«Solo, in mezzo dell'immenso cerchio che si stende dinanzi a lui e i cui confini gli sfuggono, senz'arme fuorchè la coscienza de' suoi diritti fraintesi e le sue facoltà individuali, potenti forse, pur nondimeno incapaci di spander la loro vita in tutta quanta la sfera d'applicazione ch'è il fine, il cosmopolita non ha se non due vie tra le quali gli è forza scegliere: l'inerzia o il dispotismo.

«Poniamolo dotato d'ingegno logico. Non potendo da per sè solo emancipare il mondo, ei s'avvezza facilmente a credere che il lavoro emancipatore non è suo debito: non potendo, col solo esercizio dei suoi diritti individuali, raggiungere il fine, ei prende rifugio nella dottrina che fa dei diritti mezzo e fine ad un tempo. Dov'ei non trova modo di liberamente esercitarli, ei non combatte, non muore per essi; si rassegna e s'allontana. Ei fa suo l'assioma dell'egoista: ubi bene, ibi patria; impara ad aspettare il bene dal corso naturale delle cose, dalle circostanze, e convertito a poco a poco in paziente ottimista limita la propria azione alla pratica della carità. Ora, qualunque, nei tempi nostri, non esercita che la carità, merita taccia d'inerte e tradisce il dovere. La carità è virtù d'un'epoca oggimai consunta e inferiore moralmente alla nostra.

«Poniamolo illogico e facile a contradire a sè stesso. Volendo a ogni patto tradurre in fatti l'idea, e sentendo il bisogno d'un punto d'appoggio, ei lo cerca ove può, o tenta supplire con una forza artificiale, usurpata, alla forza reale e legittima che gli manca. Quindi le teoriche d'ineguaglianza, le gerarchie arbitrariamente ordinate dall'alto al basso, nelle quali noi vediamo rovinar fatalmente i più tra i riformatori sistematici de' nostri giorni. Quindi—e in ambo i casi—il materialismo, inevitabile presto o tardi in ogni dottrina che noi, s'appoggia se non sul concetto dell'individuo.

«Io non dico che tutti i cosmopoliti accettino conseguenze siffatte: dico che dovrebbero, logicamente, accettarle. Seguono, se afferrano una terza via, gli impulsi del core, non l'intelletto: son nostri, incapricciati, per lunga abitudine o noncuranza del retto significato delle parole, a serbarsi quel nome.

[109]

«La prima specie di cosmopoliti occorre pur troppo frequente per ogni dove, e fu spesso rappresentata in teatro: la seconda esiste fra gli scrittori, segnatamente Francesi. Tutti quei pretesi cosmopoliti che negano la missione delle razze e guardano disdegnosi al concetto o all'amore della Nazionalità, collocano—appena si tratti di fare, e quindi della necessità d'un ordinamento—il centro del moto nella propria Patria, nella propria città. Non distruggono le Nazionalità; le confiscano a prò d'una sola. Un popolo eletto, un popolo-Napoleone è l'ultima parola dei loro sistemi; e tutte le loro negazioni covano un nazionalismo invadente, se non coll'armi—ciò che è difficile in oggi—con una iniziativa, morale e intellettuale, permanente, esclusiva, che racchiuderebbe, pei popoli abbastanza deboli per accettarla, gli stessi pericoli[34].

«Gli avversi all'idea nazionale servono, inconscî, a un pregiudizio ch'io intendo senza dividerlo. Essi derivano la definizione della parola nazionalità dalla storia del passato. Quindi le obbiezioni e i sospetti.

«Or noi, credenti nella vita collettiva dell'Umanità, respingiamo il passato. Parlando di nazionalità, parliamo di quella che soli i popoli liberi, fratelli, associati, definiranno. La Nazionalità dei Popoli non ha finora esistenza: spetta al futuro. Nel passato, noi non troviamo nazionalità fuorchè definita dai re e da trattati tra famiglie privilegiate. Quei re non guardavano che ai loro interessi personali; quei trattati furono stesi da individui senza missione, nel segreto delle Cancellerie, senza il menomo intervento popolare, senza la menoma inspirazione d'Umanità. Che poteva escirne di santo?

«Patria dei re era la loro famiglia, la loro razza, la dinastia. Il loro fine era il proprio ingrandimento a spese d'altrui, l'usurpazione sugli altrui diritti. Tutta la loro dottrina si compendiava in una proposizione: indebolimento di tutti per securità o giovamento dei proprî interessi. I loro Trattati non erano se non transazioni concesse alla necessità: le loro paci erano semplici tregue: il loro equilibrio era un tentativo diretto unicamente dall'antiveggenza di combattimenti possibili, da una diffidenza ostile e perenne. Quella diffidenza trapela attraverso tutte le mene diplomatiche di quel tempo, determina le alleanze, regna sovrana in quel Trattato di Vestfalia, ch'è parte anche oggi del diritto pubblico Europeo e il cui pensiero fondamentale è la legittimità delle razze regali dichiarata e tutelata. Come mai l'Europa dei re avrebbe potuto concepire e verificare un pensiero d'associazione e un ordinamento pacifico delle Nazioni? Essa non riconosceva principio superiore agli interessi secondarî e parziali nè credenza comune che potesse essere base e pegno di stabilità a' suoi atti. La dottrina delle razze regali legittime consacrava solo arbitro del futuro il diritto degli individui. E ne usciva un misero nazionalismo, che non è se non parodìa di ciò che il santo nome di Nazionalità suona oggi per noi.

«E allora, conseguenza dello spirito del Cristianesimo che non voleva sulla terra nemici, conseguenza pure della legge del Progresso[110] che preparava le vie all'associazione, cominciò una grande inevitabile opposizione all'idea travisata della Nazione. La filosofia e l'economia politica introdussero il cosmopolitismo tra noi. Il cosmopolitismo predicò l'eguaglianza dei diritti per ogni uomo, qualunque ne fosse la patria: predicò la libertà del commercio: ebbe interpreti politici in Anacarsi Clootz e altri oratori nella Convenzione: creò una Letteratura col romanticismo; e fece in ogni cosa ciò che fanno generalmente le opposizioni: esagerò le conseguenze d'un principio giusto in sè, e non vedendosi intorno che nazionalità regie e patrie senza popoli, negò Patria e Nazione: non ammise che la terra e l'uomo.

«D'allora in poi, il popolo entrò sull'arena.

«Oggi, di fronte a quel nuovo elemento di vita, tutto è mutato. Il romanticismo, il mercantilismo, il cosmopolitismo, sono passati, come ogni cosa che ha compito la propria missione. La nazionalità dei re non ha più sostegno che nella cieca forza e rovinerà inevitabilmente un dì o l'altro. Il nazionalismo dei popoli va rapidamente spegnendosi condannato dall'esperienza e dalle severe lezioni che i tentativi di rigenerazione, impresi isolatamente e governati dall'egoismo locale, fruttarono. Il primo popolo che si leverà, in nome della nuova vita, non ammetterà conquista fuorchè dell'esempio e dell'apostolato del vero. Il periodo del cosmopolitismo è ovunque compito: comincia il periodo dell'Umanità.

«Or l'Umanità è l'associazione delle Patrie: l'Umanità è l'alleanza delle Nazioni per compire, in pace e amore, la loro missione sulla terra: l'ordinamento dei Popoli, liberi ed uguali, per movere senza inciampi, porgendosi ajuto reciproco e giovandosi ciascuno del lavoro degli altri, allo sviluppo progressivo di quella linea del pensiero di Dio ch'egli scrisse sulla loro culla, nel loro passato, nei loro idiomi nazionali e sul loro volto. E in questo progresso, in questo pellegrinaggio che Dio governa, non avrà luogo nimicizia o conquista, perchè non esisterà uomo-re o popolo-re, ma solamente una associazione di popoli fratelli con fini e interessi omogenei. La legge del Dovere accettata e confessata sottentrerà a quella tendenza usurpatrice dell'altrui diritto che signoreggiò finora le relazioni fra popolo e popolo e non è se non l'antiveggenza della paura. Il principio dominatore del diritto pubblico non sarà più indebolimento d'altrui, ma miglioramento di tutti per opera di tutti, progresso di ciascuno a pro' d'altri. È questo il futuro probabile e a questo devono ormai tendere tutti i nostri lavori.

«Ma pretendere di cancellare il sentimento della Patria nel core dei popoli—di sopprimere in un subito le nazionalità—di confondere le missioni speciali assegnate da Dio alle diverse tribù dell'umana famiglia—di curvare sotto il livello di non so quale cosmopolitismo le varie associazioni schierate a gerarchia nel disegno provvidenziale, e romper la scala per la quale l'Umanità va salendo all'Ideale—è un pretendere l'impossibile. I lavori diretti a quel fine sarebbero lavori perduti; non riuscirebbero a falsare il carattere dell'Epoca che ha per missione d'armonizzare la Patria coll'Umanità, ma ritarderebbero la vittoria. Il patto dell'Umanità non può essere segnato da individui, ma da popoli liberi, eguali, con nome, coscienza di vita propria e bandiera. Parlate loro di Patria, se volete ch'essi diventino tali, e stampate a caratteri splendidi sulla loro fronte il segno della loro esistenza, il battesimo della Nazione. I popoli non entrano sull'arena dell'iniziativa se non con una parte definita, assegnata a ciascun d'essi. Voi non potete compire il lavoro e rompere lo stromento: non potete usare con efficacia la leva sottraendole il punto d'appoggio. Le[111] nazioni non muojono prima d'aver compita la loro missione. Voi non le uccidete negandola, ma ne ritardate l'ordinamento e l'attività.»

Erano queste le idee che dovevano, a quanto parevami, dirigere il nostro lavoro. E il mio modo d'intender la Storia le convalidava. Io vedeva la serie delle Epoche, attraverso le quali si compie lentamente il progresso dell'Umanità, quasi equazione a più incognite, e ogni Epoca svincolarne, come dicono gli algebristi, una, per aggiungerla alle quantità cognite collocate nell'altro membro dell'equazione. L'incognita dell'Epoca Cristiana conchiusa dalla Rivoluzione Francese era per me l'individuo; l'incognita dell'Epoca nuova era l'Umanità collettiva; e quindi l'associazione. La leva era l'Europa. L'ordinamento politico Europeo doveva necessariamente precedere ogni altro lavoro. E quell'ordinamento non poteva farsi che per popoli: per popoli che liberamente affratellati in una fede, credenti tutti in un fine comune, avessero ciascuno una parte definita, una missione speciale nell'impresa. Perchè l'Europa potesse inoltrare davvero, raggiungere una nuova sintesi e consecrare a svolgerla tutte le forze ch'oggi si consumano in lotte interne, bisognava rifarne la Carta. La questione delle Nazionalità era ed è per me, e dovrebb'essere per tutti noi, ben altra cosa che non un tributo pagato al diritto o all'orgoglio locale: dovrebbe essere la divisione del lavoro Europeo.

In ogni modo, la questione delle Nazionalità era per me la questione che avrebbe dato il suo nome al Secolo. L'Italia, com'io l'intravvedeva e amava, poteva esserne iniziatrice, e lo sarà, se liberandosi dalla turba codarda e immorale ch'oggi la domina, intenderà un giorno il proprio dovere e la propria potenza.

Pensai che il lavoro doveva stendersi tra i popoli che non erano ancora e tendevano ad esser Nazioni. La Francia era Nazione: avea conquistata prima d'ogni altro popolo la propria Unità: e i problemi che s'agitavano in essa erano d'altra natura.

Sono in Europa tre famiglie di popoli, l'Elléno-Latina, la Germanica, la Slava. L'Italia, la Germania, la Polonia le rappresentavano. La Grecia, santa di ricordi e speranze, e chiamata a grandi fati nell'Oriente Europeo, è or troppo piccola per essere iniziatrice. La Russia dormiva allora un sonno di morte: mancava d'un centro visibile in cui la vita potesse assumere potenza praticamente direttiva, nè a me pareva ch'essa potesse sorgere così presto a coscienza di sè[35]. Il nostro patto d'alleanza doveva dunque stringersi dapprima fra i tre popoli iniziatori. La Grecia, la Svizzera, la Romania, i paesi Slavi del Mezzogiorno Europeo, la Spagna si sarebbero a poco a poco raggruppati ciascuno intorno al popolo più affine ad essi fra i tre.

Da questi pensieri nacque l'Associazione che chiamammo Giovine Europa.

Ma intanto, la persecuzione infieriva. Moltissimi fra i nostri erano condotti, a guisa di malfattori, alla frontiera, e spinti in Inghilterra o in America: altri si disperdevano collocandosi ad uno ad uno, sotto nomi mentiti, qua e là ne' paesetti dei Cantoni di Vaud, Zurigo, Berna, Basilea, Campagna. Cercati più ch'altri, riescimmo, noi Italiani a sottrarci. Lasciai, insieme [112]ai due Ruffini e a Melegari, Ginevra. Rimanemmo celati per un po' di tempo in Losanna; poi prendemmo, tollerati, soggiorno in Berna.

«Non erano»—io diceva in alcune pagine pubblicate in Losanna col titolo Sono partiti! parlando della persecuzione ai proscritti—«non erano che duecento; e nondimeno, al solo vederli, la vecchia Europa aveva, côlta d'odio e terrore, indossato l'antica armatura di note e protocolli per dar loro battaglia mortale e avea posto in moto contr'essi tutta quanta la turba de' suoi diplomatici, birri, sgherri d'aristocrazia, prefetti, uomini d'armi e spie sotto ogni guisa di travestimento. Da un punto all'altro d'Europa, tutta quella ciurma bifronte, diseredata di cose, che Dio tollera quaggiù come prova ai buoni, s'era raccolta alle porte delle ambasciate a riceverne gli ordini, poi s'era diffusa per ogni angolo della Svizzera, denunziando, calunniando, frugando. Era cominciata la caccia ai proscritti.

«Per quattro mesi, le note piovvero, come grandine, come locuste, come mosche sopra un cadavere, sulla povera Svizzera. Vennero da Napoli, dalla Russia, dai quattro punti cardinali; e intimavano tutte, con linguaggio più o meno acerbo d'ira e minaccia: scacciate i proscritti.

«Pur fingevano talora di disprezzarli. Erano, scrivevano i loro giornali, giovanetti inesperti, esciti di fresco dalla scuola, cospiratori in aborto. S'erano inebbriati di sogni e cercavano l'impossibile. Era giusto s'educassero, espiando le stolte illusioni; ma in verità non erano da temersi.

«Sì; erano, i più, giovanetti, benchè solcata prematuramente la candida aperta fronte dall'orme di mesti e solenni pensieri; benchè deserti d'ogni carezza di madre, d'ogni gioja d'affetti domestici: fanciulli d'un nuovo mondo, figli d'una nuova fede; e l'Angelo dell'esilio mormorava ad essi, sui primi passi del loro pellegrinaggio, non so quale dolce e santa parola d'amore, di fratellanza universale, di religione dell'anima, che li aveva inalzati al di sopra degli uomini del loro secolo, perchè li aveva trovati puri d'egoismo come la gioventù, presti al sacrificio come l'entusiasmo. Al tocco dell'ala dell'Angelo, il loro occhio aveva intravveduto cose ignote alla tarda età; un nuovo verbo fremente sotto le rovine della vecchia feudale Europa; un nuovo mondo ansioso di vederlo emergere dalle rovine alla luce della vittoria; e nazioni ringiovanite; e razze, per lungo tempo divise, moventi, come sorelle, alla danza, nella gioja della fiducia; e le bianche ali degli angeli della libertà, dell'eguaglianza, dell'Umanità ad agitarsi sulle loro teste. E innamorati dello spettacolo, avevano richiesto il loro Angelo che mai dovessero fare; e l'Angelo avea risposto: seguitemi; io vi guiderò attraverso i popoli addormentati e voi predicherete coll'esempio la mia parola e conforterete a levarsi quanti giacciono e gemono. Nessuno conforterà voi; e sarete respinti dall'indifferenza e perseguitati dalla calunnia: ma io vi serberò una ricompensa al di là del sepolcro. Ed essi s'erano posti in viaggio tra i popoli e predicavano per ogni dove la santa parola; e ovunque un fremito di popolo oppresso e prode giungeva al loro orecchio, accorrevano, ovunque udivano un lamento di popolo oppresso e avvilito, s'affrettavano e dicevano a quel popolo: levati, e impara la forza ch'è in te. E spesso, com'era stato loro predetto, incontravano sulla via la calunnia e l'ingratitudine: ma un'orma del loro pellegrinaggio rimaneva pur sempre e i popoli stessi che li avevano respinti sentivano con maraviglia non so quale mutamento in sè stessi che li migliorava.

«E queste cose erano state intravvedute anche dai re, perchè anche lo Spirito del Male intravvede il futuro; soltanto è condannato[113] a combatterlo. Tutti gli oppressori odiavano i proscritti perchè li temevano. L'Italia si cingeva di patiboli per respingerli dalla frontiera; la Germania guardava con terrore a vedere se taluno di quei giovani erranti non si celasse nel folto della Foresta Nera; la Francia, la Francia, dei dottrinari e degli elettori privilegiati, consentiva loro la via attraverso le proprie terre, ma faceva di quella via un ponte dei sospiri pel quale andavano a morire di stenti e miseria in altre terre lontane e diffalcava dai soccorsi di via ch'essa loro accordava il soldo dei gendarmi che li trascinavano alla coda dei loro cavalli, e il valore della catena ch'essa poneva talora al collo di quei nobili perseguitati.

«E ora, essi sono partiti. Gli ultimi, giovani Tedeschi, colpevoli d'aver pubblicato alcune pagine energiche indirizzate ai loro compatrioti, furono, or son pochi giorni, consegnati dai gendarmi di Berna ai gendarmi Francesi a Béfort, per essere avviati a Calais. Sono partiti, salutando d'un lungo sguardo di dolore e rimprovero questa terra Elvetica che aveva dato ai proscritti d'Europa solenne promessa d'asilo e per paura la rompe, questi monti che Dio inalzava perchè fossero la casa della Libertà e che il materialismo dei diplomatici converte in uno sgabello della tirannide straniera, questi uomini che li avevano circondati d'affetto e di plausi nei giorni della speranza e ch'oggi ritirano la loro mano dalla mano dei vinti. Essi avevano inteso a combattere per la Libertà non solamente del loro paese, ma di tutti, per la Libertà come Dio la stampava nel core dei buoni, pei diritti di tutti, per la luce su tutti; e uomini che s'intitolano repubblicani li rinegano nella sventura e non una voce ha osato qui, tra l'Alpi, levarsi e rispondere agli scribacchiatori di Note: no; noi non violeremo la religione della sventura; non cacceremo questi esuli; e se mai vorrete strapparli da noi colla forza, Dio, le nostre Alpi e le nostre armi ci difenderanno da voi.

«E l'ardita parola avrebbe fatto retrocedere i persecutori. L'Europa diplomatica, turbata, sommossa per quattro mesi dai duecento giovani proscritti, non avrebbe osato affrontare il grido di resistenza d'un popolo che ricorda Sempach e Morgarten.

«Perchè—non lo dimenticate, uomini deboli ch'esciste dalla rivoluzione e la rinegate—non s'arretrarono essi, quei re stranieri ch'oggi minacciano perchè vi vedono tremanti, davanti alla guerra nel 1831? Non videro, impotenti ed immobili, l'elemento democratico, il principio popolare, a invadere ad una ad una le costituzioni dei vostri Cantoni? Allora, eravate fermi e guardavate con fiducia al popolo: allora i vostri contingenti federali s'incamminavano lietamente alla frontiera minacciata dall'Austria; e voci energiche gridavano ad essi: voi difenderete contro qualunque l'assalga la terra dei vostri padri. E s'arretrarono quei re terribili. Siate oggi quali foste allora: come allora s'arretreranno. Fra il primo colpo di cannone dei re e l'ultimo d'un popolo che combatte una guerra d'indipendenza, sanno essi quanti troni possano rovinare, quanti popoli insorgere? Voi tenete in mano le due estremità della leva rivoluzionaria, la Germania e l'Italia.

«

«Voi non avete saputo osare. Vi siete fatti stromento ignobile delle persecuzioni monarchiche. Avete violato i diritti della sventura. Avete scacciato quei che abbracciavano, invocando, i vostri focolari. Avete rinegato il vincolo più sacro che unisca l'uomo a Dio, la pietà.

«

[114]

«Quando i depositari del Dovere d'una Nazione si mostrano incapaci di serbare intatto quel sacro deposito, spetta, o giovani Svizzeri, alla Nazione levarsi, dapprima per avvertire i mandatari infedeli di mutar via, poi per rovesciarli nel fango e fare da sè[36].

«

«Sono partiti! Dio li scorga e versi la pace sull'anima loro nel lungo pellegrinaggio al quale li condanna inospitale l'Europa. Non disperate, giovani proscritti, dell'avvenire che portate nel core; inalzate il vostro pellegrinaggio all'altezza d'una missione religiosa; soffrite tranquilli. La nuova fede della quale voi siete apostoli ha bisogno, per trionfare, di martiri; e i patimenti nobilmente sopportati sono la più bella gemma della corona che l'angelo dei fati Europei posa sulla testa de' suoi combattenti. I giorni intravveduti da voi sorgeranno. È tal cosa in cielo che nè decreti di Consigli, nè Diete, nè ukasi di Czar valgono a cancellare, come le nuvole addensate dalla tempesta non possono cancellare il sole dalla vôlta azzurra: la Legge morale universale; il progresso di tutti per opera di tutti. Ed è tal cosa in terra che nessuna tirannide può soffocare lungamente: il popolo, la potenza e l'avvenire del popolo. I fati si compiranno. E un giorno, quando appunto s'illuderanno più fortemente a crederlo acciecato, incatenato, sepolto per sempre, il popolo alzerà gli occhi al cielo, e, Sansone dell'Umanità, con un solo sforzo di quella mano che stritola i troni, romperà ceppi, bende e barriere, e apparirà libero e padrone di sè.

«. . . . Apparirà, apparirà! E la santa legge dell'Umanità, la santa parola di Gesù, amatevi gli uni cogli altri, la libertà, l'eguaglianza, la fratellanza, l'associazione, avranno il compimento che Dio decretava. I popoli confonderanno in un abbraccio fraterno dolori passati e speranze dell'avvenire.

«E allora, se alcuni di quei proscritti, di quei pellegrini sublimi, messi al bando dell'Umanità per averla troppo ardentemente amata, rimarranno tuttavia in vita, saranno benedetti. E se tutti, a eccezione d'un solo, saranno caduti nella battaglia, quell'uno s'incurverà sulla pietra che coprirà le bianche ossa de' suoi fratelli e mormorerà ad essi attraverso l'alta e folta erba cresciuta su quella: fratelli, gioite, però che l'Angelo ha detto il Vero e noi abbiamo vinto il vecchio mondo.

«E quegli sarà l'ultimo proscritto, perchè i soli popoli regneranno.»

In Berna, tra le incertezze del futuro, le noje del presente e i frequenti richiami della polizia che a ogni nuova Nota diplomatica ci tormentava, stesi e stringemmo congregati—se la memoria non mi tradisce—in diciasette fra Tedeschi, Polacchi e Italiani, il Patto di Fratellanza che doveva avviare il lavoro dei tre popoli a un unico fine. E fu questo:

«Noi sottoscritti, uomini di progresso e di libertà:

«Credendo:

«Nell'eguaglianza e nella fratellanza degli uomini,

«Nell'eguaglianza e nella fratellanza dei Popoli;

«Credendo:

«Che l'Umanità è chiamata a inoltrare, per un continuo progresso e sotto l'impero della [115]Legge morale universale, verso il libero e armonico sviluppo delle sue facoltà e verso il compimento della sua missione nell'Universo;

«Ch'essa nol può se non coll'attiva cooperazione di tutti i suoi membri liberamente associati;

«Che l'associazione non può costituirsi veramente e liberamente se non tra eguali, dacchè ogni ineguaglianza racchiude una violazione d'indipendenza e ogni violazione d'indipendenza annienta la libertà del consenso;

«Che la Libertà, l'Eguaglianza, l'Umanità sono egualmente sacre—ch'esse costituiscono tre elementi inviolabili in ogni soluzione positiva del problema sociale—e che qualunque volta uno di questi elementi è sagrificato agli altri due, l'ordinamento dei lavori umani per raggiungere quella soluzione è radicalmente difettivo;

«Convinti:

«Che se il fine ultimo al quale tende l'Umanità è essenzialmente uno, e i principî generali che devono dirigere le famiglie umane nel loro moto verso quel fine sociale sono gli stessi, molte vie sono nondimeno schiuse al progresso;

«Convinti:

«Che ogni uomo e ogni popolo ha la sua missione speciale, il cui compimento determina l'individualità di quell'uomo o di quel popolo e ajuta a un tempo il compimento della missione generale dell'Umanità;

«Convinti finalmente:

«Che l'associazione degli uomini e dei popoli deve congiungere la certezza del libero esercizio della missione individuale alla certezza della direzione verso lo sviluppo della missione generale;

«Forti dei nostri diritti d'uomini e di cittadini, forti della nostra coscienza e del mandato che Dio e l'Umanità affidano a tutti coloro i quali vogliono consecrare braccio, intelletto, esistenza alla santa causa del progresso dei popoli;

«Dopo d'esserci costituiti in associazioni Nazionali libere e indipendenti, nuclei primitivi della Giovine Polonia, della Giovine Germania e della Giovine Italia;

«Uniti in accordo comune pel bene di tutti, il 15 aprile dell'anno 1834 abbiamo, mallevadori, per quanto riguarda l'opera nostra, dell'avvenire, determinato ciò che segue:

«I. La Giovine Germania, la Giovine Polonia e la Giovine Italia, associazioni repubblicane tendenti allo stesso fine umanitario e dirette da una stessa fede di libertà, d'eguaglianza e di progresso, si collegano fraternamente, ora e sempre, per tutto ciò che riguarda il fine generale.

«II. Una dichiarazione dei principî che costituiscono la legge morale universale applicata alle società umane, sarà stesa e firmata dai tre Comitati Nazionali. Essa definirà la credenza, il fine e la direzione generale delle tre Associazioni.

«Nessuna potrà staccarsene nei suoi lavori senza violazione colpevole dell'Atto di Fratellanza e senza soggiacere a tutte le conseguenze di quella violazione.

«III. Per tutto ciò che non è compreso nella dichiarazione dei principî ed esce dalla sfera degli interessi generali, ciascuna delle tre Associazioni è libera e indipendente.

«IV. L'alleanza difensiva e offensiva, espressione della solidarietà dei popoli, è stabilita fra le tre Associazioni. Tutte lavorano concordemente alla loro emancipazione. Ciascuna d'esse avrà diritto al soccorso dell'altre per ogni solenne e importante manifestazione, che avrà luogo in seno ad esse.

[116]

«V. La riunione dei Comitati Nazionali o dei loro delegati costituirà il comitato della Giovine Europa.

«VI. È fratellanza tra gli individui che compongono le tre Associazioni. Ciascun d'essi compirà verso gli altri i doveri che ne derivano.

«VII. Un simbolo comune a tutti i membri delle tre Associazioni sarà determinato dal Comitato della Giovine Europa. Un motto comune indicherà le pubblicazioni delle Associazioni.

«VIII. Ogni popolo che vorrà esser partecipe dei diritti e doveri stabiliti da questa alleanza, aderirà formalmente all'Atto di Fratellanza, per mezzo dei proprî rappresentanti.

«Berna, 15 aprile 1834.»


ISTRUZIONE GENERALE

PER GLI INIZIATORI.

1. La Giovine Europa è l'associazione di tutti coloro i quali, credendo in un avvenire di libertà, d'eguaglianza, di fratellanza per gli uomini quanti sono vogliono consecrare i loro pensieri e le opere loro a fondare quell'avvenire.

PRINCIPII COMUNI.

2. Un solo Dio;

Un solo padrone, la di lui Legge;

Un solo interprete di quella Legge: l'Umanità.

3. Costituire l'Umanità in guisa ch'essa possa avvicinarsi il più rapidamente possibile, per un continuo progresso, alla scoperta e alla applicazione della Legge che deve governarla; tale è la missione della Giovine Europa.

4. Il bene consiste nel vivere conformemente alla propria Legge: la conoscenza e l'applicazione della Legge dell'Umanità può dunque sola produrre il bene. Il bene di tutti sarà conseguenza del compimento della missione della Giovine Europa.

5. Ogni missione costituisce un vincolo di Dovere.

Ogni uomo deve consecrare tutte le sue forze al suo compimento. Ei troverà nel profondo convincimento di quel dovere la norma dei proprî atti.

6. L'Umanità non può raggiungere la conoscenza della sua Legge di vita, se non collo sviluppo libero e armonico di tutte le sue facoltà.

L'Umanità non può tradurla nella sfera dei fatti, se non collo sviluppo libero e armonico di tutte le sue forze.

Unico mezzo per l'una cosa e per l'altra è l'Associazione.

7. Non è vera Associazione se non quella che ha luogo tra liberi ed eguali.

8. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti gli uomini sono liberi, eguali, fratelli.

9. La Libertà è il diritto che ogni uomo ha d'esercitare senza ostacoli e restrizioni lo proprie facoltà nello sviluppo della propria missione speciale e nella scelta dei mezzi che possono meglio agevolare il compimento.

[117]

10. Il libero esercizio delle facoltà individuali non può in alcun caso violare i diritti altrui.

La missione speciale d'ogni uomo devo mantenersi in armonia colla missione generale dell'Umanità.

La libertà umana non ha altri limiti.

11. L'Eguaglianza esige che diritti e doveri siano riconosciuti uniformi per tutti—che nessuno possa sottrarsi all'azione della Legge che li definisce—che ogni uomo partecipi, in ragione del suo lavoro al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze sociali poste in attività.

12. La Fratellanza è l'amore reciproco, la tendenza che conduce l'uomo a fare per altri ciò ch'ei vorrebbe si facesse da altri per lui.

13. Ogni privilegio è violazione dell'Eguaglianza.

Ogni arbitrio è violazione della Libertà.

Ogni atto d'egoismo è violazione della Fratellanza.

14. Ovunque il privilegio, l'arbitrio, l'egoismo s'introducono nella costituzione sociale, è dovere d'ogni uomo, che intende la propria missione, di combattere contr'essi con tutti i mezzi che stanno in sua mano.

15. Ciò ch'è vero d'ogni individuo in riguardo agli altri individui che fanno parte della Società alla quale egli appartiene, è vero egualmente d'ogni popolo per riguardo all'Umanità.

16. Per Legge data da Dio all'Umanità, tutti i popoli sono liberi, eguali, fratelli.

17. Ogni Popolo ha una missione speciale che coopera al compimento della missione generale dell'Umanità. Quella missione costituisce la sua Nazionalità. La Nazionalità è sacra.

18. Ogni signoria ingiusta, ogni violenza, ogni atto d'egoismo esercitato a danno d'un Popolo è violazione della libertà, dell'eguaglianza, della fratellanza dei Popoli. Tutti i Popoli devono prestarsi ajuto perchè sparisca.

19. L'Umanità non sarà veramente costituita se non quando tutti i Popoli che la compongono, avendo conquistato il libero esercizio della loro sovranità, saranno associati in una federazione repubblicana per dirigersi, sotto l'impero d'una dichiarazione di principî e d'un patto comune, allo stesso fine: scoperta e applicazione della Legge morale universale.»

Firmarono quei due atti, per gli Italiani, L. A. Melegari, Giacomo Ciani, Gaspare Rosalez, Ruffini e Ghiglione con me: altri pei Polacchi e pei Tedeschi. Poi, parecchi tra noi s'allontanarono per varie[118] direzioni. Rosales partì pei Grigioni, Ciani per Lugano, Melegari per Losanna, Campanella per Francia[37], attivi tutti nel diffondere l'Associazione. Tedeschi e Polacchi rimasero, i più almeno, in Isvizzera, ma separati e in Cantoni diversi. Gustavo Modena durò nel Bernese dove qualche tempo dopo contrasse amore con Giulia Calame, oggi di lui vedova, donna mirabile, come per bellezza, per sentir profondo, per devozione e costanza d'affetti e per amore alla sua seconda patria, che corse più tardi ogni pericolo di guerra accanto al marito nel veneto e ch'io imparai a conoscere nel 1849 durante l'assedio di Roma. I due Ruffini, Ghiglione e io ci ricovrammo nel Cantone di Soletta, in Grenchen, nello Stabilimento di Bagni tenuto dai Girard, ottima famiglia d'amici, nella quale uomini e donne gareggiavano verso noi di cure protettrici e gentili. Così dispersi, riuscivamo ad allontanare la tempesta e scemare terrori e noje al Governo Centrale.

L'ideale della Giovine Europa era l'ordinamento federativo della Democrazia Europea sotto un'unica direzione, tanto che l'insurrezione d'una Nazione trovasse l'altre preste a secondarla con fatti, o non foss'altro con una potente azione morale che impedisse l'intervento ai Governi. Però statuimmo che in tutte si cercasse di costituire un Comitato Nazionale al quale si concentrerebbero a poco a poco tutti gli elementi di progresso repubblicano, e che tutti questi Comitati s'inanellassero per via di corrispondenza a noi come a Comitato Centrale Provvisorio dell'Associazione; diramammo norme segrete per le affiliazioni: determinammo le formole di giuramento per gli iniziati: scegliemmo—ed era una fogliuzza d'ellera—un simbolo comune a tutti; prendemmo insomma tutti quei provvedimenti che sono necessarî all'andamento d'una associazione segreta. Bensì, io non poteva illudermi sul suo diffondersi regolarmente o sul suo raggiungere mai un grado di forza compatta e capace d'azione. La sfera dell'Associazione era troppo vasta per poter ottenere risultati pratici; e il bisogno d'una vera Fratellanza Europea richiedeva tempo e lezioni severe per maturarsi fra i popoli. Io non tendeva che a costituire un apostolato d'idee diverse da quelle che allora correvano, lasciando che fruttasse dove e come potrebbe.

Buchez dichiarava allora nell'Européen che quell'Atto racchiudeva una dottrina affatto nuova; e soltanto aggiungeva, per obbligo di settario monopolizzatore, parergli evidente che gli uomini dai quali scendeva ne avessero desunto le inspirazioni da lavori e comunicazioni orali della sua scuola[38]. La scuola di Buchez—più inoltrata, per quanto riguarda la parte morale e la sostituzione dell'idea Dovere a quella del nudo diritto di quelle che avevano voga tra gli uomini di parte repubblicana—tentava, credo più per tattica che non per convincimento profondo, un'opera allora e sempre impossibile, la conciliazione del dogma cristiano colla nuova fede nella Legge del Progresso; e professava riverenza al Papato come a istituzione che le predicazioni della Democrazia religiosa avrebbero ravvivata e ricostituita iniziatrice d'ogni futuro sviluppo. La scuola ch'io cercava promovere e ch'era in germe nella Giovine Europa respingeva fin dalle primo linee: un solo Dio; un solo padrone, la Legge di Dio; un solo interprete della Legge, l'Umanità, ogni dottrina di Rivelazione esterna, immediata, finale, per sostituirle la lenta, continua, indefinita rivelazione del disegno Provvidenziale attraverso la Vita collettiva dell'Umanità; e sopprimeva deliberatamente tra gli uomini e Dio ogni sorgente[119] intermedia di Vero che non fosse il Genio affratellato colla Virtù, ogni potere, esistente in virtù d'un preteso diritto divino, Monarca o Papa. Nuove a ogni modo, non nella sfera del pensiero, ma nelle Associazioni politiche che s'agitavano allora in Europa, erano di certo le idee della Nazionalità considerata come segno d'una missione da compiersi a pro' dell'Umanità—della Legge morale suprema sovra ogni Potere e quindi dell'unità destinata a cancellare un giorno il dualismo fra le due potestà, spirituale e temporale—della Libertà politica definita in modo da escludere da un lato l'assurda teorica della sovranità dell'individuo, dall'altro i pericoli dell'anarchia—e altre accennate nei due documenti. E forse, ripetute e diffuse dai moltissimi affratellati, giovarono in parte a promovere nelle file della Democrazia quella trasformazione di tendenze e dottrine visibile in oggi, e senza la quale sono possibili sommosse più o meno importanti, non rivoluzioni durevoli. Parlo delle tendenze che mirano a farci escire dalla ribellione d'un materialismo che nega e non edifica per assumere carattere di missione religiosa, positiva, organica e capace di sostituire una Autorità vera e liberamente consentita alle menzogne d'autorità che signoreggiano anch'oggi in Europa.

Fondammo il Patto della Giovane Europa sei giorni dopo l'insurrezione Lionese, tre dopo la sconfitta, e mentre ogni speranza di moto Francese sfumava. Era la nostra risposta alla vittoria conseguita dalla monarchia repubblicana sul popolo che s'era illuso a credere in essa. Era, com'io l'intendeva, una dichiarazione della Democrazia ch'essa viveva di vita propria, collettiva, europea e non dell'iniziativa d'un solo popolo, Francese o altro. Anche sotto quell'aspetto, credo che la nuova istituzione giovasse. L'idea, che le Nazionalità contrastate potrebbero impossessarsi un giorno dell'iniziativa perduta e ricominciare sotto la loro bandiera il moto d'Europa, cominciò d'allora a diffondersi.

Si trattava allora, non d'azione immediata, ma d'apostolato d'idee. Cercai quindi contatto cogli uomini che, nel Partito, rappresentavano sopratutto il Pensiero. Non serbai copia delle mie lettere nè le risposte; le mie mi parvero sempre inutili fuorchè all'intento immediato; e la vita errante, i pericoli ch'io corsi traversando spesso paesi appartenenti a governi nemici e l'aver talora smarrito, per singolare circostanze, carte date in custodia ad amici, mi suggerirono, a torto, di dare, ogniqualvolta io m'avventurava, alle fiamme le lettere altrui. Non m'avanza quindi vestigio di quella lunga attivissima corrispondenza con uomini di terre diverse, da una lettera infuori diretta a Lamennais e della quale un amico di quest'ultimo serbò copia. E la inserisco come indizio delle idee che mi dirigevano in quella molteplice corrispondenza.

«12 ottobre 1834.

«Signore.

«Ebbi la vostra del 14 settembre, io la serberò come ricordo prezioso, come uno di quei ricordi che confortano e ritemprano nelle ore senza nome che s'aggravano talora sull'anima con tutto il peso d'un passato e d'un presente incresciosi e le susurrano il dubbio sull'avvenire. Vi mando un esemplare della Giovine Italia. Là stanno in germe tutte le nostre idee, tutte le nostre credenze: senza lo sviluppo e le applicazioni che esigerebbero; ma pensammo che intendendo a mutare la base dalla quale move in Italia lo spirito rivoluzionario,[120] importava d'insistere sui principî generali più che d'affaccendarci, a pericolo di smarrirci, intorno a una moltitudine di questioni secondarie. Tra noi, come altrove, arte, scienza, filosofia, Diritto, storia del Diritto, metodo storico, tutte cose insomma aspettano un rinnovamento, ma l'analisi ci ha troppo sviati perchè si possa da noi sperare di farla stromento all'impresa. Sola la sintesi crea i grandi moti rigeneratori che mutano i popoli e ne fanno Nazioni. È dunque anzi tutto necessario di suscitare le anime coll'azione d'un principio unitario; dato l'impulso, la logica, la forza delle cose e i popoli faranno il resto.

«Che vi dirò io, Signore, del timore espresso nella vostra lettera, che, movendo guerra al Papato, si nuoccia per noi alla fede e alla morale pratica? una lettera mal potrebbe trattare coi necessarî sviluppi una questione di tanta importanza. Occorrerebbero lunghe e intime conversazioni a spiegare i pensieri attraverso i quali s'è generato in noi il convincimento le cui conseguenze vi sembrano pericolose. Nondimeno, credetemi; non è irritazione di ribelle la mia. Tutte le tendenze individuali dell'animo mi spronano a contemplare rispettando ogni grande concetto unitario e organico; e non v'è illusione giovanile, non sogno d'avvenire ch'io non abbia una volta almeno versato su quella gigantesca rovina che racchiude la storia d'un mondo. Io, non foss'altro per amore della mia terra, avrei voluto che un raggio del sole sorgente della giovine Europa si posasse su quella rovina a redimerla e a ravvivare in essa lo spirito di vita che animava Gregorio VII, senza il pensiero dispotico proprio del suo, non del nostro tempo. Avrei desiderato che almeno le due grandi istituzioni del medio evo, l'impero ed il Papato, oggi cadenti a frantumi, senza gloria, senza onore, senza eredità, fossero state capaci di morire rappresentate da uomini inspirati, come chi sa d'aver compito sulla terra una missione sublime e trasmette a un tempo alle generazioni la formola dell'epoca dominata dal proprio concetto e la prima parola della nuova. Ma ciò non è. Quelle rovine non hanno più se non una sorgente di poesia, quella dell'espiazione. La condanna del Papato non vien da noi, ma da Dio: da Dio che chiama il popolo a sorgere e a fondare la nuova unità nelle due sfere del dominio spirituale e del temporale. Noi non facciamo che tradurre il pensiero dell'epoca. E l'epoca respinge ogni potenza intermedia tra sè e la sorgente della propria vita: essa si sente capace di collocarsi al cospetto di Dio e chiedergli, come Mosè sul Sinai, la legge dei proprî fati. L'epoca vi abbandona il papa per ricorrere al Concilio generale della chiesa, vale a dire di tutti i credenti: Concilio che sarà nello stesso tempo ciò ch'oggi chiamano costituente, perchè riunirà ciò che fu sempre finora diviso e fonderà quell'unità senza la quale non esiste fede nè morale pratica. Il papato deve perire, perchè ha falsato la propria missione e rinnegato padre e figli ad un tempo: e padre e figli gli maledicono. Il papato ha ucciso la fede sotto un materialismo più assai funesto e abbietto di quello del XVIII secolo, dacchè quest'ultimo aveva almeno il coraggio della negazione, mentre il materialismo papale procede ravvolto nel mantello gesuitico. Il papato ha soffocato l'amore in un mare di sangue. Il papato ha preteso schiacciare la libertà del mondo, e sarà schiacciato da essa. E quando, al primo grido d'un popolo, alla prima insurrezione veramente europea per concetto e per fine, tre secoli solleveranno le loro accuse contro un papato spirante, senza fede, senza forza, senza missione, e gli intimeranno di ritirarsi e sparire, dov'è la potenza umana che potrà salvarlo? Le grandi istituzioni non ricominciano la loro vita, perchè non sono interpreti all'umanità che d'una sola parola.[121]

«Il papato e l'impero d'Austria sono destinati a perire: l'uno per avere impedito per tre secoli almeno la missione generale che Dio affidava all'umanità; l'altro per avere impedito per tre secoli egualmente l'adempimento della missione speciale che Dio affidava alle razze. L'umanità s'inalzerà sulle rovine dell'uno; la patria su quelle dell'altro. Pensateci, Signore. Non vi sorprenda l'ardita parola: essa deve indicarvi la potenza ch'io vedo in voi e la fiducia che m'inspirate. Dove andrebbe l'Europa se gli uomini di potenza e di fede, si ostinassero a gridarle nei momenti che precedono la crisi suprema: tu dovrai desumere dal papato le norme della morale pratica? Qual vincolo potrà congiungere in celeste armonia le due sorelle immortali che han nome patria e umanità, se alla vigilia della nuova creazione i credenti avranno insegnato ai popoli che soltanto nel Dio del medio evo vive il segreto dell'unità?

«E un altro pensiero contenuto nella vostra lettera mi diede dolore. Voi vi dichiarate convinto che nella sua condizione presente l'Italia è incapace d'emanciparsi politicamente colle proprie forze. E questa idea è quella appunto che, predicata e diffusa, ha tolto ogni forza ai nostri tentativi d'emancipazione. Voi condannate all'impotenza ventisei milioni d'uomini che hanno per basi di difesa le Alpi, l'Apennino ed il mare, ed hanno, per rialzarsi, tremila anni di grandi ricordi. Voi rapite all'Italia ogni missione sulla terra, dacchè senza spontaneità non esiste missione, senza coscienza di libertà non esiste libertà, senza conquista d'emancipazione con forze proprie non esiste coscienza di libertà.

«Non manca forza all'Italia, Signore: essa ne ha tanta da superare ostacoli due volte più gravi di quelli che abbiamo oggi a fronte. Manca all'Italia la fede; non la fede nella libertà, nell'eguaglianza e nell'amore—quella fede è manifestata nelle sue continue proteste—ma la fede nella possibile realizzazione di quelle idee, la fede in Dio protettore del diritto violato, la fede nella propria forza latente, nella propria spada. L'Italia non ha fede nelle proprie moltitudini che non furono chiamate mai sull'arena: non ha fede in quella unità di missione, di voti, di patimenti, che può fare d'una prima vittoria una leva potente a suscitare l'intera Penisola: non ha fede nel vigore ignoto finora dei principî, che non rifulsero mai sugli occhi del popolo, che non furono invocati mai e che dirigeranno, lo spero, la nostra prima impresa di libertà. Ma questa fede, unica cosa che manchi ad essa, albeggia, mentre noi ci scriviamo: sorge dalle lezioni del 1830 e del 1831 ch'essa, l'Italia, sta meditando: comincia a rivelarsi nei fatti, tra le file della gioventù illuminata, da dove scenderà a poco a poco sulle moltitudini; e progredirà, non dovete dubitarne, perch'essa veste i caratteri d'una credenza religiosa. Guardate, Signore, alle tendenze di spiritualismo che si ravvivano, ai rischi tremendi che s'affrontano per leggere ciò che scriviamo, all'entusiasmo destato dalle vostre calde, sublimi pagine, ai nostri tentativi ripetuti in onta al mal esito, ai nostri apostoli, ai nostri martiri. Ora questa fede sorgente, questa fede nell'azione che trae le sue forze dall'alto e tenta di scendere sulle moltitudini, mancò finora alla lotta, non pesò mai sulla bilancia dei fati rivoluzionarî d'Italia. Però che in Italia si more da secoli per un istinto d'indipendenza, di ribellione, d'avvenire mal definito; ma da due anni si more in Savoja, in Genova, in Torino, in Alessandria, in Napoli, per la Giovine Italia, per giuramenti prestati al popolo, per un convincimento che l'Italia può rigenerarsi con forze proprie. E quando ques[122]ta fede, questo nuovo principio, splenderà sopra una bandiera nazionale a un tempo ed umanitaria, chi può dire ch'essa soccomberà?

«Non giudicate, Signore, del nostro avvenire dal nostro passato. È tra essi un abisso. Tutti i nostri tentativi rivoluzionari perirono; ma tutti furono opera d'una casta militare o aristocratica e intesi a pro' d'una casta: tutti s'arretrarono davanti alla parola generatrice delle grandi rivoluzioni: Dio e il Popolo: tutti sagrificarono a non so quali meschine speranze il dogma sublime dell'Eguaglianza: tutti furono, in sul nascere, soffocati dal tradimento. E quel tradimento, che allontanava il popolo e ricacciava la gioventù nello scetticismo, era inevitabile: l'avevano posto al sommo dell'edifizio, in un disegno diplomatico, in una promessa di principe, in una protezione straniera sostituita alle battaglie per una santa causa. Gli uomini erano tuttavia sotto il dominio d'una fredda scuola d'individualismo che agghiacciava in una analisi materialista tutti i nobili pensieri, tutti i grandi concetti di sintesi, d'entusiasmo, di sagrificio. E dato un falso principio, bisognava subirne tutte le conseguenze fatali. E in virtù di quel falso principio, tutti, amici e nemici, gridavano all'Italia: i tuoi figli non bastano a darti salute; nessuno osava dirle: levati potente d'energia e di devozione, però che tu non devi sperare che ne' tuoi figli e in Dio.

«La rigenerazione d'Italia non può compirsi per fatto altrui. La rigenerazione esige una fede: la fede vuole opere: e le opere devono essere sue, non imitazione dell'opere altrui. E d'altra parte, come può mettersi amore in una libertà non conquistata con sagrifici? Come può esistere libertà forte e durevole dove non è dignità d'individui e di popolo? E come può esistere dignità d'uomini o popoli dove la libertà porta sulla fronte il segno del benefizio altrui? L'azione crea l'azione. Un solo fatto d'iniziativa è più fecondo di progresso morale a un popolo decaduto, che non dieci insurrezioni determinate da una azione esterna o da mene di diplomazia.

«Cerco diffondere, per tutte le vie possibili, la mia credenza. Incontro ostacoli gravi, ma non mi sconforto. Da parecchi anni ho rinunziato a quanto versa un'ombra, non foss'altro, di felicità sulla vita terrestre. Lontano da mia madre, dalle mie sorelle, da quanto m'è caro, perduto nelle prigioni il migliore amico de' miei primi anni giovanili, e per altre cagioni note a me solo, ho disperato della vita dell'individuo, e detto a me stesso: tu morrai perseguitato e frainteso a mezzo la via. Ma non avrei di certo trovato in me forza per vincere la tempesta e rassegnarmi, se questa grande idea della rigenerazione italiana compita con forze proprie non m'avesse dato il battesimo d'una fede. Distruggetela; e per che o per chi lotterei? A che affaticarci, se l'Italia non può sorgere che dopo una grande insurrezione francese?

«Io ho provato, Signore, un profondo dolore, quando, dopo d'avere pianto e sorriso sugli ultimi versi del vostro capo XVIII—e detto a me stesso: ecco l'uomo che c'intenderà—e scritto a voi l'animo mio coll'entusiasmo e colla franchezza d'una fiducia senza confini—ho udito dal vostro labbro, invece della confortatrice parola ch'io sperava mandereste ai miei fratelli di patria, il freddo consiglio che m'è toccato d'intender più volte dai diplomatici e dai falsi profeti: rimanetevi inerti e aspettate; forse, la libertà vi verrà dal nord, forse, dall'ovest della Germania o dalla Penisola Iberica. Ma io lessi nelle vostre pagine inspirate, che la libertà splenderebbe su noi, quando ciascuno di noi avrà detto a sè stesso: voglio esser libero; quando per diventarlo ciascuno di noi sarà pronto a sacrificare e sof[123]frire ogni cosa. Dirò io che noi non siamo finora pronti a sacrificare e patire quanto dovremmo? Lo so; ma perchè oggi ancora l'anima nostra è ravviluppata di dubbio, non avremo certezza mai? Perchè la fede or ci manca, dobbiamo disperare dell'avvenire? Io non vi chiedeva di darci il segnale della battaglia: vi chiedeva per l'Italia ciò che avete dato alla Polonia, un commento al consiglio che ho citato dal vostro libro. Rimproverateci, come profeta, i nostri vizî, la nostra fiacchezza, le nostre divisioni, la nostra mancanza d'ardire; ma diteci a un tempo: il giorno in cui vi sarete fatti migliori e fratelli tutti, sarà il giorno della vostra emancipazione. Quando vorrete davvero, voi non dovrete più temere i vostri nemici nè esigere, per vincere, cosa alcuna dai vostri amici.

«Addio, Signore. Credete alla mia immensa stima. Senz'essa io non avrei osato parlarvi, aperto il mio cuore.

«Giuseppe Mazzini.»

Negli ultimi mesi del 1834 impiantai l'Associazione della Giovine Svizzera: e s'ordinarono Comitati nel Bernese, nei Cantoni di Ginevra e di Vaud, nel Vallese, nel Cantone di Neufchâtel e altrove.

La Svizzera era ed è paese importante non solamente per sè ma e segnatamente per l'Italia. Dal 1.º gennajo 1338 quel piccolo popolo non ha padrone nè re. Per esso, da oltre a cinque secoli, unica in Europa, ricinta di monarchie gelose e conquistatrici, una bandiera repubblicana splende, quasi incitamento e presagio a noi tutti, sull'alto della regione Alpina. Carlo V, Luigi XIV, Napoleone passarono: quella bandiera rimase immobile e sacra. È in quel fatto una promessa di vita, un pegno di Nazionalità non destinata, com'altri pensa, a sparire. I trentatrè pastori del Grütli che, eguali tutti e rappresentanti popolazioni sorelle, inalzarono, oltre a cinque secoli addietro, contro la dominazione di casa d'Austria, quella bandiera, furono di certo interpreti, allora inconsci, d'un programma che Dio, segnando col dito la gigantesca curva dell'Alpi, affidava alla forte razza disseminata, quasi a difenderle, alle loro falde. Lungo quell'Alpi si stende una fratellanza di tradizioni popolari, di leggende, d'abitudini indipendenti e di costumanze che accenna a una missione speciale. Nel riparto territoriale futuro d'Europa, la Confederazione Elvetica dovrebbe trasformarsi in Federazione dell'Alpi, e affratellandosi da un lato la Savoja, dall'altro il Tirolo Tedesco e possibilmente altre terre, stendere una zona di difesa tra Francia, Germania e l'Alpi Elvetiche e nostre. È l'idea ch'io cercai di diffondere e che, dovrebbe, parmi, dirigere quanti guardano con ingegno severo all'avvenire delle Nazioni. Oggi, gli uomini della monarchia l'hanno fatta, cedendo la Savoja alla Francia, retrocedere d'un passo. Nondimeno chi sa gli eventi tenuti in serbo dalla crisi trasformatrice che i tempi inevitabilmente e rapidamente maturano?

Ma quando si fondava la Giovine Svizzera, la Nazione conservatrice in Europa della forma repubblicana, era infiacchita, anneghittita dal difetto di coesione interna, e quindi da un senso di debolezza servile che la condannava, verso l'Europa dei re, a una politica ignominiosa e suicida di concessioni, della quale dovevamo non molto dopo sperimentare gli effetti. Lasciando da banda le cause morali che intiepidendo negli animi ogni fede collettiva e il concetto del Dovere che ha base in essa, li sospinge oggi su tutta quanta l'Europa a ravvilupparsi più o meno in un manto d'indifferenza atea fra il bene e il male, quel senso di debolezza era conseguenza diretta del vizio fondamentale mantenuto ostinatamente nella Costituzione Svizzera; la mancanza di Rappresentanza della Nazione.[124]

Il concetto d'una Repubblica Federativa racchiude l'idea d'una doppia serie di doveri e diritti: la prima spettante a ciascuno degli Stati che formano la Federazione; la seconda, all'insieme: la prima destinata a circoscrivere e definire la sfera d'attività degli individui, come cittadini dei diversi Stati, l'interesse locale; la seconda destinata a definire quella degli stessi individui come cittadini dell'intera Nazione, l'interesse generale: la prima determinata dai delegati di ciascuno degli Stati componenti la Federazione; la seconda determinata dai delegati di tutto il paese. Or, nella Svizzera, questo concetto è violato. Gli Stati o Cantoni sono rappresentati, governati da autorità che più o meno direttamente, più o meno democraticamente, emanano dal popolo dei Cantoni: la Dieta, o Governo centrale, è composta dei delegati di ciascun Cantone scelti dai grandi Consigli dei Cantoni medesimi; la Svizzera non ha quindi rappresentanti proprî, e il Potere Nazionale non è che un secondo esercizio della Sovranità Cantonale. In questa Dieta scelta sotto l'inspirazione degli interessi locali, ogni Cantone, qualunque ne sia l'importanza, l'estensione, la popolazione—e sebbene gli oneri ne siano determinati dal numero de' suoi abitanti—ha un voto. Un voto è dato a Zurigo che, popolato di circa 225,000 abitanti, versa nell'esercito federale un contingente di circa 4,000 uomini e nell'erario tra i settanta e gli ottanta mila franchi: un voto a Zug che ha da 14,000 abitanti e contribuisce di 250 soldati e di 2,500 franchi al paese. Un voto rappresenta i 355,000 abitanti di Berna e i 13,000 d'Uri. Ove i piccoli Cantoni s'uniscano in un intento, una minoranza di mezzo milione o poco più tiene fronte a una maggioranza di due milioni incirca di Svizzeri. E quasi a evitare la possibilità che una inspirazione nazionale sorga efficacemente nel core d'uno o d'altro Delegato, un mandato imperativo cancella in lui ogni spontaneità di coscienza. I rappresentanti sono vincolati da istruzioni precise date dai grandi Consigli Cantonali, e le questioni, comunque urgenti, che sorgono inaspettate, non possono sciogliersi se non interrogando nuovamente quelle sorgenti d'autorità.

Mercè condizione siffatta di cose, i Gabinetti stranieri riescono facilmente dominatori sulla mal connessa Confederazione. Essi mal potrebbero tentare d'atterrire o corrompere un popolo di due milioni e mezzo di repubblicani; ma possono, indirizzandosi separatamente ai piccoli Cantoni, giovandosi delle loro tendenze aristocratiche e della loro ignoranza, o accarezzando di speranze e di piccole concessioni un Cantone a danno dell'altro, conquistarsi una minoranza legalmente potente a equilibrare le tendenze della maggioranza del popolo. E quelle seduzioni alternate colla minaccia perenne e temuta a torto dalla Svizzera di ridurre a nulla quella mallevadoria di neutralità che crea non securità ma dipendenza al paese, riescono a perpetuare nella Confederazione una debolezza che ordinamenti migliori cancellerebbero. L'assetto pubblico non tende, come dovrebbe, a porre in armonia verso un fine comune le esistenze Cantonali, ma soltanto a proteggerne la quasi assoluta indipendenza. L'autorità Federale manca di relazione diretta coi cittadini, e di forza per costringere i violatori de' suoi Decreti. Il sistema aristocratico, assurdo, di rappresentanza mantiene un principio funesto d'ineguaglianza nel core della Nazione, e semina rancori e gelosia tra Cantone e Cantone. La Confederazione non ha coscienza d'unità Nazionale. I Cantoni si toccano, non s'associano. Il diritto civile, la legislazione penale, la fede politica, si mantengono troppo diversi. E se non fosse il vigore che spetta naturalmente all'istituzione repubblicana, la Svizzer[125]a, mercè l'arti dei Governi che la circondano, sarebbe da lungo caduta nell'anarchia o nell'agonia lenta e disonorevole dell'impotenza.

Ho accennato queste cose per rendere ragione a un tempo dell'intento e del diritto della Giovine Svizzera. Congiurare per congiurare fu in passato vezzo di molti, non mio. Frammischiarsi deliberatamente nelle faccende interne d'una Nazione straniera è materia grave e pericolosa. Ma quando un vizio politico genera conseguenze Europee come le capitolazioni militari a servizio del dispotismo, concessioni ecclesiastiche a Roma papale, potenza all'ordine de' Gesuiti e violazioni perenni del Diritto d'Asilo, ogni uomo che crede potersi inframmettere utilmente a combatterlo, deve farlo. La libertà è diritto Europeo. L'arbitrio, la tirannide, l'ineguaglianza non possono esistere in una Nazione senza nuocere alle altre. I Governi lo sanno, ed è tempo che noi lo impariamo.

La Giovine Svizzera ebbe missione di combattere i vizî accennati; e se l'una o l'altra delle loro conseguenze sparì o è presso a sparire l'apostolato fondato da noi non v'ebbe parte.


Lo scritto dell'Iniziativa rivoluzionaria in Europa[39], steso sul finire del 1834, fu inserito nella Revue Républicaine, del gennajo 1835. Diretta da Godefroy, Cavaignac e Dupont, quella Rivista parigina rappresentava le opinioni della parte repubblicana ordinata sul terreno dell'azione nella Società dei Diritti dell'uomo. La questione Europea v'era di tempo in tempo tentata con aspirazioni generose, ma governate sempre dall'idea che alla Francia spettasse, quasi per decreto di Provvidenza, l'iniziativa del Progresso in Europa. E questa idea, filosoficamente e storicamente falsa e funestissima alla vera morale emancipazione dei popoli, avversava ostinatamente su tutti i punti, e segnatamente nella Svizzera dove l'Alta Vendita di Buonarroti aveva tuttavia molti seguaci, il nostro lavoro. Io la combatteva con frequenti circolari diramate segretamente, suprema formola delle quali erano le parole: nè Uomo-re nè Popolo-re. Ma richiesto di qualche lavoro dagli Editori della Revue, stimai opportuno di trattare apertamente la questione. La Storia degli anni che seguirono confermò le mie idee; ma allora le apparenze mi stavano contro: il Partito repubblicano era potente per numero, audacia, intelletto e virtù, nella Francia del 1834, e i popoli guardavano tutti riverenti in Parigi come unico centro di speranze e di vita (1862).

Fondai nel giugno del 1835 un giornale destinato a estendere l'Associazione e le sue idee nella Svizzera. Esciva due volte la settimana, su due colonne, francese l'una, tedesca l'altra.

Avevamo fatto acquisto d'una stamperia in Bienna, nel Cantone di Berna. Il professore Weingart, svizzero, dirigeva lo Stabilimento, nel quale allogammo operai profughi, tedeschi e francesi. E una Commissione d'uomini svizzeri, taluni, come Schneider, membri del Gran Consiglio, somministrava i mezzi e additava e confermava i lavori. Pubblicavamo, oltre il giornale, opuscoli politici e una Biblioteca popolare economica.

Il giornale, che portava il nome dell'Associazione e la formola: Libertà, Eguaglianza, Umanità, era diretto da me; ma, poi ch'io doveva starmi pur sempre semi-celato, Direttore visibile era un Granier, estensore in capo un tempo della Glaneuse in Lione e che l'insur[126]rezione repressa aveva balestrato fra noi. Traduttore tedesco era un Mathy, giovine assai capace e fervido allora d'entusiasmo per la nostra fede, più dopo, poi ch'ei ripatriò, mutato, come dicono, in conservatore.

Tendevamo a formare una scuola e a richiamare la politica dalle gare meschine delle fazioni e dal culto esclusivo degli interessi materiali agli alti principî di moralità religiosa senza i quali i mutamenti non durano o volgono a liti d'individui o sette anelanti il potere. E il nostro linguaggio era pacifico, grave, filosofico, inusitato nella polemica giornaliera d'allora. Nondimeno, e appunto perchè nuovo, fruttò corrispondenti ed amici in tutti i Cantoni: pochi ma buoni, come diceva Manzoni dei versi del Torti. Erano giovani stanchi di scetticismo ribelle e di negazioni, ministri protestanti che c'interrogavano sul carattere religioso della nostra dottrina di Progresso, madri che avevano fino a quel giorno raccomandato ai figli di tenersi lontani dal subuglio, sterile fuorchè d'ire e pericoli dei Partiti e che intravvedevano, leggendoci, un Dovere d'amore e di Verità da compirsi e insegnarsi. Sei mesi dopo il primo numero della Jeune Suisse noi ci trovammo, comunque assaliti rabbiosamente dai materialisti della vecchia scuola economica come Fazy e altri simili a lui, a capo d'un numero di Svizzeri affratellati all'apostolato Italiano e presti ad opere attive per avviare la loro Patria all'intelletto della missione che Dio le assegnava.

Scrissi in quel giornale da cinquanta a sessanta articoli d'argomento Svizzero o intorno alla questione Europea[40]. Le più tra le idee ch'io v'espressi furono più dopo da me trasfuse in altri scritti.


Gli scritti che s'andavano via via stampando da Tedeschi e Svizzeri affratellati con noi, e il giornale, e più l'importanza che l'apostolato italiano conquistava visibilmente in una terra strategicamente pericolosa, indifferente fino allora al moto europeo, davano intanto pretesto e cominciamento a una persecuzione assai più accanita della prima. Finchè l'agitazione repubblicana si concentrava tutta, per assenso di popoli inserviliti, in un solo fôco, Parigi, era facile invigilarla e combatterla; non così quando, emancipati gli animi dal pregiudizio che affidava l'iniziativa perenne del moto alla Francia, sorgesse in più punti, assalitrice ovunque vivesse istinto di nazione e coscienza di diritti violati. I governi collegati vedevano inquieti levarsi o farsi potente una bandiera che mirava a un nuovo riparto d'Europa e che presentivano dovere essere un dì o l'altro la bandiera dell'Epoca. E deliberarono di soffocarla.

Le varie diplomazie, dalla Francia ai governucci italiani, dalla Russia all'Austria e ai governucci Germanici intimarono al fiacco e illiberale governo elvetico d'imporre fine al nostro apostolato e disperdere l'associazione. E a rendere la turpe concessione possibile, s'adoperarono i soliti modi: false accuse e agenti provocatori. Sul cadavere d'un Lessing accoltellato da mano ignota e per cagione ignota presso Zurigo, architettarono tutto un edificio di società segreta all'antica, di giuramenti terribili, di tribunali vehmici e di condanne mortali pronunziate dalla Giovine Germania. Su qualche[127] parola avventata, espressione d'un desiderio inefficace, composero lunghe e minute rivelazioni di disegni, ordini, armi raccolte per invadere un punto o l'altro della frontiera Germanica. E a far nota di parole imprudenti e provocarle ove non escivano volontarie, seminarono le nostre file d'incitatori e di spie. Un Giulio Schmidt, sassone, trovò modo, fingendosi agli estremi di povertà e supplicando lavoro, d'introdursi nella nostra stamperia. Un Altinger, israelita, che assumeva il nome di barone Eib, si diede a promuovere, con un segreto che voleva esser tradito, arrolamenti fra gli operai tedeschi. Una circolare fu coniata in mio nome nell'ambasciata francese diretta allora dal duca di Montebello e diramata a parecchi tra gli esuli cacciati di Svizzera dopo la spedizione di Savoja e soggiornanti in varie città della Francia, a invitarli a Grenchen ov'io era per irrompere di là nel Badese. Potrei citar venti fatti di questo genere, ma si riassumono tutti, nei loro caratteri di profonda immoralità e di perfidia, in quel di Conseil che or ora ricorderò.

Le accuse segrete appoggiavano le Note pubbliche. E la guerra diplomatica inspirata e iniziata dall'Austria, dalla Prussia e dalla Russia, finì per concentrarsi sotto la direzione della Francia. Fu sempre abitudine della Francia monarchica di fare il male per impedire ad altri di farlo; e le monarchie dispotiche si valsero di quella vecchia tendenza per ottenere il fine voluto e rovesciarne i tristi effetti sulla monarchia costituzionale sospetta ad esse e temuta: minacciarono intervento perchè la Francia s'affrettasse ad intervenire; e riuscirono. Era anima del ministero francese Thiers. E' s'assunse di capitanare l'ignobile impresa.

Intanto, il governo centrale (vorort), credulo alle pazze denunzie, cominciava la codarda persecuzione contro gli esuli repubblicani. Il 20 maggio ebbi avviso da un ingegnere amico in Soletta che si distribuivano cartucce alla piccola guarnigione della città prima d'avviarla a una spedizione pericolosa. Alcune ore dopo duecento soldati e una mano di gendarmi circondavano e invadevano lo stabilimento dei Bagni. V'eravamo in tre, io e i due fratelli Ruffini; ma tra l'avviso e l'arrivo, era giunto, inaspettato, dalla Francia Harro Haring: gli era stata mandata la circolare apocrifa di convocazione, ed egli avea creduto, accorrendo, di compiere il debito suo. Era munito di passaporto inglese e lo ammonii di mostrarsi ignoto a noi; se non che quand'egli udì il capo di quella forza a intimarmi di seguirlo a Soletta, ei disse il proprio nome e fu imprigionato con noi.

Condotti nel carcere di Soletta, fummo, senza esame di sorta, lasciati liberi dopo ventiquattr'ore: la gioventù della città minacciava liberarci da sè. La lunga perquisizione nei Bagni di Grenchen non aveva scoperto un fucile, un proclama, una circolare, un solo indizio della pretesa spedizione germanica. Ci fu nondimeno intimato d'escir dal Cantone. Varcammo il limite e ci ricovrammo nel primo paesetto al di là, Langenau nel Bernese, in casa d'un ministro protestante, che ci accolse come apostoli d'una fede proscritta, ma santa e destinata al trionfo.

Non per questo la persecuzione si rallentò. Il governo centrale avea, nelle sue inquisizioni, trovato, rimpiattati in uno o in un altro Cantone, parecchi tra i cacciati del 1834, e a rabbonire i governi stranieri decretò che sarebbero ricondotti alla frontiera. Un dispaccio sommesso annunziava il 22 giugno all'ambasciatore francese la decisione, e chiedeva l'ammessione dei cacciati sul territorio di Francia: aggiungeva, pegno di devozione, la lista dei condannati e di quei ch'erano fra noi più sospetti. Ogni concessione codarda imbaldanzisce[128] a insolenza il nemico, e, mercè i suoi ministri, l'Italia d'oggi lo sa. Il duca di Montebello rispose il 18 luglio colla Nota la più minacciosamente oltraggiosa possibile. Invocava, esigeva un sistema di mezzi coercitivi a danno degli esuli e annunziava che se la Svizzera non ponesse fine a ogni tolleranza contro gli incorreggibili nemici del riposo dei governi, la Francia provvederebbe da sè.

Era un guanto di sfida cacciato, senz'ombra di pretesto, all'indipendenza della Svizzera, nella quale Luigi Filippo aveva ne' suoi anni di sventura, trovato asilo. E a creare quell'ombra, s'adoprò un mezzo siffattamente immorale che giova ricordarlo a insegnamento del fin dove scendano le monarchie costituzionali dell'oggi, e a conforto dei repubblicani, contro i quali nessuno può sollevare accusa siffatta.

Sui primi del luglio di quell'anno 1836, un Augusto Conseil, affiliato alla polizia parigina, era stato chiamato al ministero dell'interno e spedito in Isvizzera con una missione riguardante gli esuli. Ei doveva, prima di tutto, tentare ogni via di contatto con noi, rappresentarsi come complice d'Alibaud, che aveva tentato poco innanzi di uccidere il re, e conquistarsi così la nostra fiducia: poi, cacciati noi, accompagnarci in Inghilterra e rimanerci vicino, denunziatore perenne: intanto, la sua presenza tra noi convaliderebbe davanti al governo svizzero le accuse di disegni regicidî che si movevano nelle Note. E a far sì ch'ei fosse creduto ciecamente da noi, l'ambasciata francese in Berna dovea ricevere da Parigi denunzia formale che lo indicherebbe partecipe dei tentativi di Fieschi e Alibaud e incarico di chiederne al governo elvetico la consegna o la cacciata. Per tal modo egli avrebbe potuto seguirci. Gli fu dato danaro, un passaporto col nome di Napoleone Cheli, e un indirizzo per corrispondere. Ei partì il 4 luglio alla nostra volta. La denunzia fu spedita poco dopo e trasmessa il 19 luglio dal Montebello al Direttorio svizzero. Conseil era in Berna dal 10.

Là, ei trovò modo d'affiatarsi con due esuli italiani, Boschi e Primavesi, poi con un Aurelio Bertola, preteso conte di Rimini, avventuriero tristissimo e truffatore, ch'io feci qualche anno dopo imprigionare a Londra, ma che trovava allora suo pro' nel recitare la parte di patriota perseguitato; e mentr'ei cercava d'ascriverli alla società segreta francese delle famiglie onde ne stendessero le fila in Berna, parlò loro delle sue relazioni coi regicidî, annunziò nuovi tentativi e chiese un abboccamento per rivelazioni importanti con me. Avvertito, fiutai la spia: un complice d'Alibaud non si sarebbe svelato mai a uomini ignoti a lui, e trovati a caso per via o in un caffè. Ricusai l'abboccamento e consigliai si costringesse impaurito a cedere le proprie carte. Ma prima che ciò si facesse, egli, sviato dalla polizia Bernese, ripartiva per Besançon, in cerca di nuove istruzioni da Parigi, di danaro e d'un altro passaporto.

Gli fu spedita ogni cosa e istruzione di tornare a Berna e presentarsi per consigli all'ambasciatore francese, fatto complice della trama egli pure. Tornò, sotto il nome di Pietro Corelli, il 6 agosto. Ebbe un abboccamento la sera col duca di Montebello. Il 7, Boschi, Primavesi, Migliari e Bertola che l'avevano incontrato nell'albergo del Selvaggio, seguirono il mio consiglio e minacciandolo, ebbero le sue carte e confessione esplicita d'ogni cosa.

Importava dimostrare più sempre la complicità dell'ambasciatore. Conseil fu quindi indotto a ripresentarglisi, seguito da lungi, la sera. V'andò; nol vide; ma vide in sua vece il segretario Belleval e n'ebbe danaro, un altro passaporto col nome d'Hermann e una lista[129] d'esuli da invigilarsi: la lista conteneva, s'intende, il mio nome, quello dei fratelli Ruffini, e poi altri d'esuli tedeschi e francesi.

Le prove bastavano per chiarire ogni cosa e somministrare al governo svizzero un'arme potente per respingere le audacie francesi. Diemmo quindi conoscenza di tutto alla polizia. Una istruzione governativa iniziata il 16 agosto fu conchiusa da un documento contenente la confessione di Conseil[41].

E nondimeno, in una Nota del 27 settembre, il duca di Montebello parlava sfrontatamente alla Svizzera il linguaggio della virtù calunniata, parlava di dignità offesa, sospendeva ogni relazione officiale colla Svizzera e minacciava di peggio. Tutta questa galante gentaglia che prende nome di diplomatici, ambasciatori, segretarî di legazione e che rappresenta in Europa le monarchie, vive, move e respira, siccome in proprio elemento, nella menzogna. Gli uomini politici dei nostri giorni si tengono onorati del loro contatto e s'affaccendano a ottenerne un sorriso, una stretta di mano. Io crederei insozzata la mia dalla loro. Il primo tra essi non vale l'onesto operajo che dice ruvidamente il vero e arrossisce se colto in fallo.

Gli uomini che governavano a quel tempo la Svizzera erano opportunisti, machiavellici, moderati; immorali quindi e codardi. L'imitazione di quelle che chiamano abitudini e tradizioni governative e non sono se non una deviazione dall'unica morale e logica idea del Governo rappresentare tra i popoli per mezzo d'un popolo il Vero ed il Giusto, aveva infiacchito in essi il severo costume e il vigore repubblicano. Invece di rispondere all'ambasciatore: mentite e chiederne il richiamo al governo; invece di dire ai gabinetti stranieri: voi non avete diritto di giudici in casa nostra; lasciateci in pace—e certi come pur erano per esperienza che nessuno avrebbe osato di varcare la frontiera e assalirli—risposero sommessamente alle Note, querelandosi d'essere fraintesi, invocando le vecchie alleanze, gli antichi vincoli d'amicizia. I governi, vedendoli tremanti, insolentivano più che mai.

Allora, io diceva agli Svizzeri: «La sicurezza e l'indipendenza della patria sono nelle vostre antiche virtù e nell'onore. I suoi nemici stanno fra quei che tradiscono quelle virtù e contaminano l'onore della bandiera repubblicana piantata sul sepolcro dei loro padri. Che importa il godimento precario d'un diritto d'associazione o di stampa, se la santità di quel diritto v'è ignota, se invece di ravvisare in esso l'applicazione d'un principio universale, frammento della legge di Dio, voi insegnate ai vostri figli a non vedervi che un semplice fatto? Che importa la libertà s'essa deve, colla paura nell'anima e la vergogna sulla fronte, trascinarsi, in sembianza di cortigiana avvilita, d'ambasciata in ambasciata, per mendicarvi alla diplomazia monarchica una esistenza d'un giorno? Libertà siffatta non è se non amara derisione; e simile alla ironica leggenda che una mano d'empio inchiodava sulla croce di Cristo, essa forma l'eterna condanna degli uomini che la scrivono sulla bandiera e crocefiggono il Giusto al disotto.

«Sventura agli uomini che, sconoscendo quanto ha di santo l'esilio, calpestando la sacra ospitalità, speculano sull'isolamento del proscritto e pongono una corona di spine sulla testa consecrata dal battesimo dei patimenti e del sagrificio! Sventura al popolo capace d'assistere[130] indifferente a quello spettacolo e senza sentirsi spronato a levare la mano e dire: quei proscritti sono fratelli che Dio ci manda; rispetto per essi e per noi! La libertà de' suoi padri si dissolverà come ghiaccio al sole, alla prima difficile prova. Le lagrime provocate dal suo egoismo testimonieranno contr'esso. Esse ne cancelleranno la gloria e il nome. Perchè Cristo disse: date da mangiare agli affamati e da bere a chi ha sete. Ma la libertà è il pane dell'anima e l'ospitalità è la rugiada versata da Dio sui buoni, perch'essi la riversino sulle fronti solcate dalla persecuzione.» (Giov. Svizz., 2 luglio 1836.)

E il popolo era, come sempre, diverso da' suoi raggiratori e presto a incontrare ogni sagrificio per mantenere intatto l'onore del paese. Il fermento era generale e generale il grido di resistenza. Radunanze patriotiche di diecimila uomini a Reiden, di ventimila a Viediken, ne facevano fede. Ma alle titubanze accennate s'aggiungevano le divisioni inerenti ad ogni federazione e fomentate dalle monarchie, ch'esercitavano influenza sopra un Cantone o sull'altro, la Prussia su Neuchâtel, l'Austria sui tre piccoli Cantoni, la Francia pel contatto dell'ambasciata, su Berna. Di fronte allo scandalo di Conseil e malgrado l'energica opposizione di parecchi fra i deputati, la Dieta ritrattò ogni espressione che nelle Note anteriori avesse sembianza d'accusa o rimprovero al governo francese, e decretò si procedesse più severamente che mai contro gli esuli pericolosi.

Era un aprire il varco all'arbitrio, e fu spinto all'estremo. Non potendo e pur volendo sopprimere il giornale La Giovine Svizzera, il governo imprigionò, sotto diversi pretesti, prima il traduttore tedesco, poi il correttore, e dopo lui i compositori tedeschi e francesi, e finalmente taluni fra i collaboratori, cittadini svizzeri, come Weingart e Schïeler: a noi la vita errante e l'impossibilità di comunicazioni regolari coi nostri vietavano di sottentrare con un lavoro periodico. Il giornale fu quindi costretto a cessare sul finire di luglio.

«Un vento gelato del nord»—io diceva in uno degli ultimi articoli, il 18 giugno—«ha soffiato sull'anime. Odo voci ignote a mormorare parole ignote anch'esse finora su questa terra repubblicana: rompiamo cogli esuli, rannodiamo coi governi: sagrifichiamo ad essi questa mano d'agitatori: proscriviamo i proscritti, e rovesciamo sulle loro teste le colpe delle quali i governi ci accusano. E si stendono liste di proscrizione, s'imprigionano ad arbitrio gli esuli contro i quali non milita accusa: novanta individui formano una categoria di sospetti: hanno ricompensa le denunzie e prezzo le teste. I giornali ridondano di calunnie. Non siamo interrogati nè ammessi ad esame. Segnati quasi capi d'armento, siamo destinati gli uni all'Inghilterra, gli altri all'America. Perchè? In virtù di qual diritto? Per quali scoperte? Quali delitti furono commessi da noi? Su qual codice è fondato il giudizio? Quali testimonianze s'invocano? Quali giustificazioni ci sono chieste? Come nell'antica Venezia, la persecuzione è fondata su denunzie segrete. Le condanne non poggiano sul diritto comune, su leggi note. Non v'è legge per noi. Il nostro presente, il nostro avvenire è dato in balìa al diritto dello Stato, a un non so che d'incerto, d'indefinito, a una autorità cieca e sorda come l'Inquisizione di Schiller, senza nome siccome l'Ateo. E non una voce di patriota influente, di legislatore repubblicano, si leva per protestare in nome degli uomini ai quali ogni protesta è vietata, e dire: i proscritti sono uomini: hanno diritto ad ogni umana giustizia: ogni condanna non fondata sulla legge di tutti è iniqua: ogni giudizio non preceduto da pubblica discussione, e da libera illimitata difesa, è delitto davanti agli uomini e a Dio. No; non una. Diresti che lo monarchie esiliandoci dalla Patria ci esiliassero dall'Umanità.[131]

«Dall'Umanità? Sì—e Dio sa che il dolore da me provato mentr'io scrivo questo parole non deriva da considerazioni individuali—non ho mai sentita così profondamente com'oggi la verità di quel detto di Lamennais: Dio versi la pace sul povero esule, perch'egli è, dovunque, solo.

 

«Io scrivo senz'odio e senza amarezza.—Il primo mi fu sempre ignoto. Ma uno sdegno profondo mi solca l'anima, quand'io penso al come si giochi quaggiù sul tappeto d'una Cancelleria la libertà, la dignità, l'onore d'un popolo—quand'io vedo i delegati d'una repubblica ordinare, a benefizio delle polizie monarchiche, una tratta di bianchi—quando odo uomini che sono padri, fratelli, sposi, pronunziare spensieratamente, presso alla culla dei loro bambini, il nome d'America per altri uomini che hanno perduto ogni cosa e ai quali unico conforto è forse di poter guardare all'Alpi o al Reno, pensando che la loro patria è al di là. Son essi conscii di quel che fanno? Ricordano che noi pure, proscritti, abbiamo madri, vecchi padri e sorelle? Sanno le conseguenze che quella loro spensierata parola può trascinare per essi e per noi?

«Un giorno, nel 1834, un uomo mi venne innanzi richiedendomi d'ajuto fraterno. Era un proscritto, proscritto da vent'anni, e aveva bevuto a lenti sorsi tutto quanto il calice amaro che l'esilio versa sui poveri e soli. L'avevano sospinto da Berna a Ginevra, da Ginevra in Francia. La Francia lo aveva respinto, perch'ei mancava di carte regolari. Avea ricorso il paese a piedi e trovato un rifugio in Berna dove alcuni Italiani prendevano cura di lui. Fu riconsegnato ai gendarmi e respinto su Ginevra. Là, fu messo in prigione, per avere osato tornarvi, poi scacciato com'uomo senza domicilio legale.—Io lo vidi quand'ei compiva a quel modo il terzo viaggio. Le lagrime gli scendevano giù per le guancie, mentr'ei mi narrava i suoi casi. Commoveva profondamente. Gli intimarono, poco dopo, di partire per l'Inghilterra. E partì, attraversando Svizzera e Francia pedone.

«Quell'uomo era napoletano e si chiamava Carocci. Morì attraversando il mare.

«Sua madre e suo padre vivevano ancora. Aveva fratelli e sorelle. Dio perdoni ai repubblicani che avvelenarono di dolore i loro giorni.»

Nulla d'individuale, come dissi, inspirava le mie lagnanze. Non ho mai tentato, attraverso le persecuzioni alle quali soggiacqui, d'impietosire alcuno per me. Quando un conclusum della Dieta m'intimò l'esilio in perpetuità dalla Svizzera, mi strinsi nelle spalle e rimasi. Rimasi, cercato inutilmente per ogni dove, fino al dicembre di quell'anno, e sarei rimasto indefinitamente se il modo di vita, che ci era comandato dalle circostanze, non avesse seriamente minacciato la salute dei due amici che dividevano meco la persecuzione.

Nel gennajo del 1837, io giunsi in Londra con essi.


Ma in quelli ultimi mesi, io m'era agguerrito al dolore e fatto davvero tetragono, come dice Dante, ai colpi della fortuna che m'aspettavano. Non ho mai potuto, per non so quale capriccio della mia mente, ricordare le date di fatti anche gravi, spettanti alla mia vita individuale. Ma s'anch'io fossi condannato a vivere secoli, non dimenticherei mai il finir di quell'anno e la tempesta per entro i vortici[132] della quale fu presso a sommergersi l'anima mia. E ne acenno qui riluttante, pensando ai molti che dovranno patire quel ch'io patii e ai quali la voce d'un fratello escito—battuto a sangue, ma ritemprato—dalla burrasca, può forse additare la via di salute.

Fu la tempesta del Dubbio: tempesta inevitabile credo, una volta almeno nella vita d'ognuno che, votandosi ad una grande impresa, serbi core e anima amante e palpiti d'uomo, nè s'intristisca a nuda e arida formola della mente, come Robespierre. Io aveva l'anima traboccante e assetata d'affetti e giovine e capace di gioja come ai giorni confortati dal sorriso materno e fervida di speranze se non per me, per altrui. Ma in quei mesi fatali mi s'addensarono intorno a turbine sciagure, delusioni, disinganni amarissimi, tanto ch'io intravidi in un subito nella scarna sua nudità la vecchiaja dell'anima solitaria e il mondo deserto d'ogni conforto nella battaglia per me. Non era solamente la rovina, per un tempo indefinito, d'ogni speranza italiana, la dispersione dei nostri migliori, la persecuzione che disfacendo il lavoro svizzero ci toglieva anche quel punto vicino all'Italia, l'esaurimento dei mezzi materiali, l'accumularsi d'ogni maniera di difficoltà pressochè insormontabili tra il lavoro iniziato e me; ma il disgregarsi di quell'edifizio morale d'amore e di fede nel quale soltanto io poteva attingere forze a combattere, lo scetticismo ch'io vedea sorgermi innanzi dovunque io guardassi, l'illanguidirsi delle credenze in quei che più s'erano affratellati con me sulla via che sapevamo tutti fin dai primi giorni gremita di triboli, e più ch'altro, la diffidenza ch'io vedeva crescermi intorno ne' miei più cari delle mie intenzioni, delle cagioni che mi sospingevano a una lotta apparentemente ineguale. Poco m'importava anche allora che l'opinione dei più mi corresse avversa. Ma il sentirmi sospettato d'ambizione o d'altro men che nobile impulso dai due o tre esseri sui quali io aveva concentrato tutta la mia potenza d'affetto, mi prostrava l'anima in un senso di profonda disperazione. Or questo mi fu rivelato in quei mesi appunto nei quali, assalito da tutte parti io sentiva più prepotente il bisogno di ricoverarmi nella comunione di poche anime sorelle che m'intendessero anche tacente; che indovinassero ciò ch'io, rinunziando deliberatamente a ogni gioja di vita, soffriva; e soffrissero, sorridendo, con me. Senza scendere a particolari, dico che quelle anime si ritrassero allora da me.

Quand'io mi sentii solo nel mondo—solo, fuorchè colla povera mia madre, lontana e infelice essa pure per me—m'arretrai atterrito davanti al vuoto. Allora, in quel deserto, mi s'affacciò il Dubbio. Forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l'idea ch'io seguiva era un sogno. E fors'io non seguiva una idea, ma la mia idea, l'orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria, più che l'intento della vittoria l'egoismo della mente e i freddi calcoli d'un intelletto ambizioso, inaridendo il core e rinegando gli innocenti spontanei suoi moti che accennavano soltanto a una carità praticata modestamente in un piccolo cerchio, a una felicità versata su poche teste e divisa, a doveri immediati e di facile compimento. Il giorno in cui quei dubbi mi solcarono l'anima, io mi sentii non solamente supremamente e inesprimibilmente infelice, ma come un condannato conscio di colpa e incapace d'espiazione. I fucilati d'Alessandria, di Genova, di Chambery, mi sorsero innanzi come fantasmi di delitto e rimorso pur troppo sterile. Io non potea farli rivivere. Quante madri aveva già pianto per me! Quante piangerebbero ancora s'io m'ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d'una Patria comune, la gioventù dell'Italia? E se questa Patria non fosse che una illusione? Se[133] l'Italia esaurita da due Epoche di civiltà, fosse oggimai condannata dalla Provvidenza a giacere senza nome e missione propria aggiogata a nazioni più giovani e rigogliose di vita? D'onde traeva io il diritto di decidere sull'avvenire e trascinare centinaja, migliaja d'uomini al sagrifizio di sè e d'ogni cosa più cara?

Non m'allungherò gran fatto ad anatomizzare le conseguenze di questi dubbi su me: dirò soltanto ch'io patii tanto da toccare i confini della follìa. Io balzava la notte dai sonni e correva quasi deliro alla mia finestra chiamato, com'io credeva, dalla voce di Jacopo Ruffini. Talora, mi sentiva come sospinto da una forza arcana a visitare, tremante, la stanza vicina, nell'idea ch'io v'avrei trovato persona allora prigioniera o cento miglia lontana. Il menomo incidente, un suono, un accento, mi costringeva alle lagrime. La natura, coperta di neve com'era nei dintorni di Grenchen, mi pareva ravvolta in un lenzuolo di morte sotto il quale m'invitava a giacere. I volti della gente che mi toccava vedere mi sembravano atteggiarsi, mentre mi guardavano, a pietà, più spesso a rimprovero. Io sentiva disseccarsi entro me ogni sorgente di vita. L'anima incadaveriva. Per poco che quella condizione di mente si fosse protratta, io insaniva davvero o moriva travolto nell'egoismo del suicidio.

Mentr'io m'agitava e presso a soccombere sotto quella croce, un amico, a poco stanze da me, rispondeva a una fanciulla che, insospettita del mio stato, lo esortava a rompere la mia solitudine: lasciatelo, ei sta cospirando e in quel suo elemento è felice. Ah! come poco indovinano gli uomini le condizioni dell'anima altrui, se non la illuminano—ed è raro—coi getti d'un amore profondo!

Un giorno, io mi destai coll'animo tranquillo, coll'intelletto rasserenato, come chi si sente salvo da un pericolo estremo. Il primo destarmi fu sempre momento di cupa tristezza per me, come di chi sa di riaffacciarsi a una esistenza più di dolori che d'altro: e in quei mesi mi compendiava in un subito tutte le ormai insopportabili lotte che avrei dovuto affrontare nella giornata. Ma quel mattino, la natura pareva sorridermi consolatrice e la luce rinfrescarmi, quasi benedizione, la vita nelle stanche vene. E il primo pensiero che mi balenò innanzi alla mente fu: questa tua è una tentazione dell'egoismo: tu fraintendi la Vita.

Riesaminai pacatamente, poi ch'io lo poteva, me stesso e le cose. Rifeci da capo l'intero edifizio della mia filosofia morale. Una definizione della Vita dominava infatti tutte le questioni che m'avevano suscitato dentro quell'uragano di dubbî e terrori, come una definizione della Vita è base prima, riconosciuta o no, d'ogni filosofia. L'antica religione dell'India aveva definito la Vita: contemplazione; e quindi l'inerzia, l'immobilità, il sommergersi in Dio delle famiglie Ariane. Il Cristianesimo l'avea definita espiazione: e quindi le sciagure terrestri considerate come prova da accettarsi rassegnatamente, lietamente, senza pur cercar di combatterle; la terra, guardata come soggiorno di pena; l'emancipazione dell'anima conquistata col disprezzo indifferente alle umane vicende. Il materialismo del XVIII secolo avea, retrocedendo di duemila anni, ripetuto la definizione pagana: la Vita è la ricerca del benessere; e quindi l'egoismo insinuatosi in noi tutti sotto le più pompose sembianze, l'esoso spettacolo d'intere classi che dopo aver dichiarato di voler combattere per il benessere di tutti, raggiunto il proprio, sostavano abbandonando i loro alleati, e l'incostanza nelle più generose passioni, i subiti mutamenti quando i danni della lotta pel bene superavano le speranze, i subiti sconforti nell'avversità, gli interessi materiali anteposti ai principî e altre molte tristiss[134]ime conseguenze che durano tuttavia. M'avvidi che, comunque tutte le tendenze dell'anima mia si ribellassero a quella ignobile e funesta definizione, io non m'era tuttavia liberato radicalmente dalla sua influenza predominante sul secolo e nutrita tacitamente in me dai ricordi inconscî delle prime letture francesi, dall'ammirazione all'audacia emancipatrice dei predicatori di quella dottrina e da un naturale senso d'opposizione a caste e governi che negavano nelle moltitudini il diritto al benessere per mantenerle prostrate e schiave. Io avea combattuto il nemico in altrui, non abbastanza in me stesso. Quel falso concetto della Vita s'era spogliato, a sedurmi, d'ogni bassa impronta di desiderî materiali e s'era riconcentrato, come in santuario inviolabile, negli affetti. Io avrei dovuto guardare in essi come in benedizione di Dio accolta con riconoscenza qualunque volta scende a illuminare e incalorire la vita, non richiesta con esigenza a guisa di diritto o di premio; e aveva invece fatto d'essi una condizione al compimento dei miei doveri. Io non avea saputo raggiungere l'ideale dell'amore, l'amore senza speranza quaggiù. Io adorava dunque, non l'amore, ma le gioje dell'amore. Allo sparire di quelle gioje, io avea disperato d'ogni cosa, come se il piacere e il dolore côlti fra via mutassero il fine ch'io m'era proposto raggiungere, come se la pioggia o il sereno del cielo potessero mai mutare l'intento o la necessità del viaggio. Io rinegava la mia fede nell'immortalità della vita e nella serie delle esistenze che mutano i patimenti in disagi di chi sale un'erta faticosa in cima alla quale sta il bene, e sviluppano, inanellandosi, ciò che qui sulla terra non è se non germe e promessa: negava il Sole, perch'io non poteva, in questo breve stadio terrestre, accendere alle sue fiamme la mia povera lampada. Io era codardo senza avvedermene. Serviva all'egoismo pure illudendomi ad esserne immune, soltanto perch'io lo trasportava in una sfera meno volgare e levata più in alto che non quelle nelle quali lo adorano i più.

La Vita è Missione. Ogni altra definizione è falsa e travia chi l'accetta. Religione, Scienza, Filosofia, disgiunte ancora su molti punti, concordano oggimai in quest'uno: che ogni esistenza è un fine: dove no, a che il moto? a che il Progresso, nel quale cominciamo tutti, a credere come in Legge della Vita? E quel fine è uno: svolgere, porre in atto tutte quante le facoltà che costituiscono la natura umana, l'umanità, e dormono in essa, e far sì che convergano armonizzate verso la scoperta e l'applicazione pratica della Legge. Ma gli individui hanno, a seconda del tempo e dello spazio in cui vivono e della somma di facoltà date a ciascuno, fini secondarî diversi, tutti sulla direzione di quell'uno, tutti tendenti a svolgere e associare più sempre le facoltà collettive e le forze. Per l'uno è giovare al miglioramento morale e intellettuale dei pochi che gli vivono intorno; per un altro, dotato di facoltà più potenti o collocato in più favorevoli circostanze, è promovere la formazione d'una Nazionalità, la riforma delle condizioni sociali in un popolo, lo scioglimento d'una questione politica o religiosa. Il nostro Dante intendeva questo più di cinque secoli addietro, quand'ei parlava del gran Mare dell'Essere, sul quale tutte le esistenze erano portate dalla virtù divina a diversi porti. Noi siamo giovani ancora di scienza e virtù, e una incertezza tremenda pende tuttavia sulla determinazione dei fini singolari, verso i quali dobbiamo dirigerci. Basti nondimeno la certezza logica della loro esistenza; e basti il sapere che parte di ciascun di noi, perchè la vita sia tale e non pura esistenza vegetativa o animale, è il trasformare più o meno, o tentare di trasformare, negli anni che ci sono dati sulla terra, l'elemento, il mezzo, nel quale viviamo, verso quell'unico fine.

[135]

La Vita è Missione; e quindi il Dovere è la sua legge suprema. Nell'intendere quella missione e nel compiere quel dovere sta per noi il mezzo d'ogni progresso futuro, sta il segreto dello stadio di vita al quale, dopo questa umana, saremo iniziati. La Vita è immortale: ma il modo e il tempo delle evoluzioni attraverso le quali essa progredirà è in nostre mani. Ciascuno di noi deve purificare, come tempio, la propria anima d'ogni egoismo, collocarsi di fronte, con un senso religioso dell'importanza decisiva della ricerca, al problema della propria vita, studiare qual sia il più rilevante, il più urgente bisogno degli uomini che gli stanno intorno, poi interrogare le proprie facoltà e adoperarle risolutamente, incessantemente, col pensiero, coll'azione, per tutte le vie che gli sono possibili, al soddisfacimento di quel bisogno. E quell'esame non è da imprendersi coll'analisi che non può mai rivelar la vita ed è impotente a ogni cosa se non quando è ministra a una sintesi predominante, ma ascoltando le voci del proprio core, concentrando a getto sul punto dato tutte le facoltà della mente, coll'intuizione insomma dell'anima amante compresa della solennità della vita. Quando l'anima vostra, o giovani fratelli miei, ha intravveduto la propria missione, seguitela e nulla v'arresti: seguitela fin dove le vostre forze vi danno: seguitela accolti dai vostri contemporanei o fraintesi, benedetti d'amore o visitati dall'odio, forti d'associazione con altri o nella tristissima solitudine che si stende quasi sempre intorno ai Martiri del Pensiero. La via v'è dimostra: siete codardi e tradite il vostro futuro, se non sapete, per delusioni o sciagure, correrla intera.

Fortem posce animum, mortis terrore carentem,
Qui spatium vitæ extremum inter munera ponat
Naturæ, qui ferre queat quoscumque labores,
Nesciat irasci, cupiat nihil. . . . . . . . . . . . .

Son versi di Giovenale, che compendiano ciò che noi dovremmo invocare sempre da Dio, ciò che fece Roma signora e benefattrice del mondo. È più filosofia della vita in quei quattro versi d'un nostro antico che non in cinquanta volumi di quei sofisti che da mezzo secolo inorpellano, traviandoli, con formole d'analisi e nomenclature di facoltà la troppo arrendevole gioventù.

Ricordo un brano di Krasinski, potente scrittore polacco ignoto all'Italia, nel quale Dio dice al poeta: «Va e abbi fede nel nome mio. Non ti calga della tua gloria, ma del bene di quelli ch'io ti confido. Sii tranquillo davanti all'orgoglio, all'oppressione, e al disprezzo degli ingiusti. Essi passeranno, ma il mio pensiero e tu non passerete.... Va e ti sia vita l'azione! Quand'anche il core ti si disseccasse nel petto, quand'anche tu dovessi dubitare de' tuoi fratelli, quand'anche tu disperassi del mio soccorso, vivi nell'azione, nell'azione continua e senza riposo. E tu sopravviverai a tutti i nudriti di vanità, a tutti i felici, a tutti gli illustri; tu risusciterai non nelle sterili illusioni, ma nel lavoro dei secoli, e diventerai uno tra i liberi figli del cielo.»

È poesia bella e vera quant'altra mai. E nondimeno—forse perchè il poeta cattolico, non potè sprigionarsi dalle dottrine date dalla fede cattolica per intento alla vita—spira attraverso a quelle linee un senso di mal represso individualismo, una promessa di premio ch'io vorrei sbandita dall'anima sacra al Bene. Il premio verrà, assegnato da Dio: ma noi non dovremmo preoccuparcene. La religione del futuro dirà al credente: salva l'anima altrui e lascia cura a Dio della tua. La fede, che dovrebbe guidarci splende, parmi più pura, nelle poche parole di un altro polacco, Skarga, anche più ignoto di Krasinski[136], ch'io ho ripetuto sovente a me stesso: «Il ferro ci splende minaccioso sugli occhi: la miseria ci aspetta al di fuori; e nondimeno, il Signore ha detto: andate, andate senza riposo. Ma dove andremo noi, o Signore? Andate a morire voi che dovete morire: andate a soffrire voi che dovete soffrire!»

Com'io giungessi a farmi giaculatoria di quelle parole—per quali vie di lavoro intellettuale io riuscissi a riconfermarmi nella prima fede e deliberassi di lavorare sino all'ultimo della mia vita, quali pur fossero i patimenti e il biasimo che m'assalirebbero, al fine balenatomi innanzi nelle carceri di Savona, l'Unità Repubblicana della mia Patria—non posso or dirlo nè giova. Io vergai in quei giorni il racconto delle prove interne durate e dei pensieri che mi salvarono, in lunghi frammenti d'un libro foggiato, quanto alla forma, sull'Ortis, ch'io intendeva pubblicare anonimo sotto il titolo di Reliquie d'un Ignoto. Portai meco, ricopiato a caratteri minutissimi e in carta sottile, quello scritto a Roma e lo smarrii, non so come, attraversando la Francia al ritorno. Oggi, s'io tentassi riscrivere le mie impressioni d'allora, non riuscirei.

Rinsavii da per me, senza ajuto altrui, mercè una idea religiosa ch'io verificai nella storia. Scesi dalla nozione di Dio a quella del Progresso; da quella del Progresso a un concetto della Vita, alla fede in una missione, alla conseguenza logica del dovere, norma suprema; e giunto a quel punto, giurai a me stesso che nessuna cosa al mondo avrebbe ormai potuto farmi dubitare e sviarmene. Fu, come dice Dante, un viaggio dal martirio alla pace[42]: pace violenta e disperata nol nego, perch'io m'affratellai col dolore e mi ravvolsi in esso, come pellegrino nel suo mantello; pur pace, dacchè imparai a soffrire senza ribellarmi e fui d'allora in poi in tranquilla concordia coll'anima mia. Diedi un lungo tristissimo addio a tutte le gioje, a tutte le speranze di vita individuale per me sulla terra. Scavai colle mie mani la fossa, non agli affetti—Dio m'è testimone ch'io li sento oggi canuto come nei primi giorni della mia giovinezza—ma ai desiderî, alle esigenze, ai conforti ineffabili degli affetti, e calcai la terra su quella fossa, sì ch'altri ignorasse l'io che vi stava sepolto. Per cagioni, parecchie visibili, altre ignote, la mia vita fu, è e durerebbe, s'anche non fosse presso a compirsi, infelice; ma non ho pensato mai, da quei giorni in poi, un istante che l'infelicità dovesse influir sulle azioni. Benedico riverente Dio padre per qualche consolazione d'affetti—non conosco consolazioni da quelle infuori—ch'egli ha voluto, sugli ultimi anni, mandarmi, e v'attingo forza a combattere il tedio dell'esistenza che talora mi si riaffaccia; ma s'anche quelle consolazioni non fossero, credo sarei quale io sono. Splenda il cielo serenamente azzurro come in un bel mattino d'Italia o si stenda uniformemente plumbeo e color di morte come tra le brume del settentrione, non vedo che il Dovere muti per noi. Dio è al disopra del cielo terrestre e le sante stelle della fede e dell'avvenire splendono nell'anima nostra, quand'anche la loro luce si consumi senza riflesso come lampada in sepoltura.—(1862).


I primi tempi del mio soggiorno in Londra non corsero propizî al lavoro politico. Alla crisi morale durata nella Svizzera sottentrò—co[137]nseguenza in parte d'obblighi da me contratti per le cose d'Italia e ai quali io dovea consecrare il denaro destinato alla vita, in parte di danaro speso per altri—una crisi d'assoluta miseria che si prolungò per tutto l'anno 1837 e metà del 1838. Avrei potuto vincerla svelando le mie condizioni: mia madre e mio padre avrebbero trovato lieve ogni sagrifizio per me; ma essi avevano sagrificato già troppo e mi parve debito tacere con essi. Lottai nel silenzio. Impegnai, senza possibilità di riscatto, quanti rari ricordi io aveva avuto da mia madre e da altri; poi gli oggetti minori, finchè un sabato io fui costretto a portare, per vivere la domenica, in una di quelle botteghe, nelle quali s'accalca la sera la gente povera e la perduta, un pajo di stivali e una vecchia giubba. Mi trascinai, mallevadori taluni fra' miei compatrioti, d'una in altra di quelle società d'imprestiti che rubano al bisognoso l'ultima goccia di sangue—e talora l'ultimo pudore dell'anima—sottraendogli il trenta o quaranta per cento su poche lire da restituirsi di settimana in settimana, a ore determinate, in uffici tenuti, fra malviventi e briachi, nei public houses o luoghi di vendita di birra e bevande spiritose. Attraversai a una a una tutte quelle prove che, dure in sè, lo diventano più sempre quando chi le incontra vive solitario, inavvertito, perduto in una immensa moltitudine d'uomini ignoti a lui e in una terra dove la miseria, segnatamente nello straniero, è argomento di diffidenze sovente ingiuste, talora atroci. Io non ne patii più che tanto nè mi sentii un solo istante avvilito o scaduto. Nè ricorderei quelle prove durate. Ma ad altri condannato a durarle e che si crede per esse da meno, può giovare l'esempio mio. Io vorrei che le madri pensassero come nessuno sia, nelle condizioni presenti d'Europa, arbitro della propria fortuna o di quella dei proprî cari, e si convincessero che, educando austeramente e in ogni modo di vita i figli, provvedono forse meglio al loro avvenire, alla loro felicità e all'anima loro che non colmandoli d'agi e conforti e snervandone l'indole che dovrebbe agguerrirsi fin dai primi anni contro le privazioni e gli stenti. Io vidi giovani italiani, chiamati dalla natura alla bella vita, travolgersi miseramente nel delitto o ricovrarsi sdegnosi nel suicidio per prove ch'io varcai sorridendo, e accusati mallevadrici le madri. La mia—benedetta sia la di lei memoria—m'aveva preparato, con quell'amore che pensa all'avvenire possibile, tetragono ad ogni sventura.

Uscito da quelle angustie, mi feci via colle lettere. Conobbi e fui noto. Ammesso a lavorare nelle Riviste—taluna delle quali mi retribuiva una lira sterlina per ogni pagina—scrissi quanto era necessario per equilibrare la modesta rendita colle spese maggiori in Inghilterra che non altrove. I più tra quei lavori di critica letteraria sono compresi in questa edizione, e i lettori possono giudicarne i demeriti o i meriti. A me, pei soggetti direttamente italiani o per le frequenti allusioni alle vere condizioni della nostra terra, furono scala a richiamare l'attenzione degli Inglesi sulla nostra questione nazionale interamente negletta, e preparare il terreno a quell'apostolato deliberatamente politico che avviai in Inghilterra dopo il 1845 e che vi fruttò, credo, gran parte delle attuali tendenze a pro della nostra unità.

In Inghilterra, paese dove la lunga libertà educatrice ha generato un'alta coscienza della dignità e del rispetto dell'individuo, le amicizie crescono difficili e lente, ma più che altrove sincere e tenaci. E più che altrove è visibile negli individui quella unità del pensiero e dell'azione ch'è pegno d'ogni vera grandezza. Non so quale tendenza esclusivamente analitica, ingenita nelle tribù anglo-sassoni e fortificata[138] dal protestantismo, insospettisce gli animi d'ogni nuovo e fecondo principio sintetico e indugia la nazione sulle vie del progresso filosofico e sociale; ma in virtù di quella unità della vita alla quale accenno, ogni miglioramento, conquistato una volta che sia, è conquistato per sempre; ogni idea accettata dall'intelletto è certa di trapassare rapidamente nella sfera dei fatti: ogni concetto, anche non accettato è accolto con tolleranza rispettosa, purchè le azioni di chi lo professa ne attestino la sincerità. E le amicizie s'annodano profonde e devote a fatti più che a parole anche tra uomini che dissentono sovr'una o altra questione. Molte delle mie idee sembravano allora talune, sembrano tuttavia, inattendibili o pericolose agli Inglesi; ma la sincerità innegabile di convinzioni immedesimate con me e logicamente rappresentate dalla mia vita, bastò ad affratellarmi parecchie tra le migliori anime di quest'isola. Nè io mai le dimenticherò finch'io viva, nè mai proferirò senza un palpito di core riconoscente il nome di questa terra ov'io scrivo, che mi fu quasi seconda patria e nella quale trovai non fugace conforto d'affetti a una vita affaticata di delusioni e vuota di gioje. Appagherei l'animo mio citando molti nomi di donne e d'uomini, s'io scrivessi ricordi di vita individuale più che di cose connesse col nostro moto politico; ma non posso a meno di segnare in questa mia pagina il nome della famiglia Ashurst, cara, buona e santa famiglia, che mi circondò di cure amorevoli tanto da farmi talora dimenticare—se la memoria de' miei, morti senza avermi allato, lo consentisse—l'esilio.

Il consorzio d'uomini letterati e lo scrivere intorno al moto intellettuale d'Italia ridestarono in me, in quei primi tempi di soggiorno in Inghilterra, il desiderio lungamente nudrito di crescere più sempre fama ad uno scrittore, al quale più che ad ogni altro, se eccettui l'Alfieri, l'Italia deve quanto ha di virile la sua letteratura degli ultimi sessanta anni. Parlo d'Ugo Foscolo, negletto anch'oggi affettatamente dai professori di lettere, pur maestro di tutti noi, non nelle idee mutate dai tempi, ma nel sentire degnamente e altamente dell'arte, nell'indole ritemprata dello stile e nell'affetto a quel grande nome di patria dimenticato da quanti a' suoi tempi scrivevano—ed erano i più—in nome di principi, d'accademie o di mecenati. Io sapeva che dei molti lavori impresi da lui nell'esilio parecchi erano stati soltanto in parte compiti, altri erano, per la morte che lo colpì povero e abbandonato, andati dispersi. Mi diedi a rintracciar gli uni e gli altri. E dopo lunghe infruttuose ricerche, trovai, oltre diverse lettere a Edgar Taylor—oggi contenute pressochè tutte nell'edizione ch'io pure ajutai, di Lemonnier—quanto egli aveva compito del suo lavoro sul poema di Dante, e in foglietti di prove, due terzi a un dipresso della Lettera apologetica ignota allora intieramente all'Italia. Quest'ultima scoperta fu una vera gioia per me. Quelle pagine, senza titolo o nome dell'autore, stavano cacciate alla rinfusa con altri scritti laceri, e condannati visibilmente a perire, in un angolo d'una stanzuccia del librajo Pickering. Come nessuno fra i tanti Italiani stabiliti in Londra o viaggiatori a diporto andasse in cerca di quelle carte quando tutte potevano senza alcun dubbio ricuperarsi, e toccasse a un altro esule, fra le strette egli pure della miseria, la ventura di restituirne, undici anni dopo la morte di Foscolo, parte non foss'altro al paese, è memoria fra le tante di noncuranza e d'ingratitudine, vizî frequenti nei popoli inserviliti. Ma oggi che gli Italiani millantano d'essere liberi, perchè, a espiar quell'oblìo non sorge una voce che dica: «Invece di mandar doni a principesse che nulla fanno o farann[139]o mai pel paese, e inalzar monumenti a ministri che nocquero ad esso, ponete, in nome della riconoscenza, una pietra che ricordi chi serbò inviolata l'anima propria e la dignità delle lettere italiane, quando tutti o quasi le prostituivano?» Se non che forse, meglio così. L'Italia d'oggi serva atterrita e ipocrita del Nipote, mal potrebbe consolare l'ombra dell'uomo che stette solo giudice inesorabile e incontaminato dell'ambiziosa tirannide dello Zio.

Comunque, rinvenni io quelle carte; e lo dico perchè altri, non so se a caso o a studio, ne tacque. Ma il librajo, ignaro in sulle prime di quel che valessero e sprezzante, poi fatto ingordo dalla mia premura, ricusava cederle s'io non comprava il lavoro sul testo dantesco—e ne chiedeva quattrocento lire sterline. Io era povero e non avrei potuto in quei giorni disporre di quattrocento soldi inglesi. Scrissi a Quirina Magiotti, rara donna e rarissima amica, perchè m'ajutasse a riscattar le reliquie dell'uomo ch'essa aveva amato e stimato più ch'altri nel mondo: e lo fece; ma il librajo insisteva per cedere indivisi i due lavori o nessuno, ed essa non poteva dar tutto. Com'io, dopo molte inutili prove, riuscissi a convincere Pietro Rolandi, librajo italiano in Londra e che m'era amorevole, d'assumersi il versamento di quella somma e per giunta le spese dell'edizione, davvero nol so. Fu miracolo d'una fermissima volontà di riuscire da parte mia sopra un uomo calcolatore, trepido per abitudine e necessità, ma tenero in fondo del core delle glorie del paese più che i librai generalmente non sono.

Altre pagine del prezioso libretto, connesse appunto colle racquistate da me, furono poco dopo trovate in un baule di carte foscoliane sottratto alla dispersione dal canonico Riego, unico che vegliasse, nell'ultima malattia, al letto dell'esule, acquistato poi da Enrico Mayer e altri amici in Livorno, ma non esaminato fino a quei tempi. La scoperta dei frammenti smarriti ridestò in essi tutti un ardore di ricerca che fruttò all'Italia dapprima il volume di scritti politici d'Ugo Foscolo ch'io pubblicai in Lugano, poi l'edizione fiorentina delle opere diretta con intelletto d'amore dall'Orlandini. Manca una vita ch'io m'era assunto di stendere e che pur troppo mi fu vietata dalle circostanze e da cure diverse. Unico avrebbe potuto—e dovuto—scriverla degnamente G. B. Niccolini; ed è morto, e aspetta tuttavia anch'egli la sua.

Ma, l'edizione del Dante Foscoliano mi costò ben altre fatiche. M'offersi, com'era debito mio verso il generoso editore, di dirigere tutto il lavoro e corregger le prove. Ora, strozzato dalla miseria e dalla malattia, Foscolo non aveva compito l'ufficio suo fuorchè per tutta la prima cantica. Il Purgatorio e il Paradiso non consistevano che delle pagine della volgata alle quali stavano appiccicate liste di carta preste a ricevere l'indicazione delle varianti, ma le varianti mancavano e mancava ogni indizio di scelta o di correzione del testo. Rimasi gran tempo in forse s'io non fossi in debito di dichiarare ogni cosa al Rolandi; ma Pickering era inesorabile a vendere tutto o nulla, e il librajo italiano non avrebbe probabilmente consentito a sborsare quella somma per sola una cantica. A me intanto sembrava obbligo sacro verso Foscolo e la letteratura dantesca di non lasciare che andasse perduta la parte di lavoro compita; e parevami di sentirmi capace di compirlo io stesso seguendo le norme additate da Foscolo nella correzione della prima cantica e immedesimandomi col suo metodo, l'unico, secondo me, che riscattando il poema dalla servitù alle influenze di municipio, toscane o friulane non monta, renda ad esso il suo carattere profondamente italiano. Tacqui dunque e impresi io[140] stesso la difficile scelta delle varianti e la correzione ortografica del testo. Feci quel lavoro quanto più coscienziosamente mi fu possibile e tremante d'essere per desiderio di sollecitudine irriverente al genio di Dante e all'ingegno di Foscolo. Consultai religiosamente i due codici ignoti all'Italia di Mazzucchelli e di Roscoe. Per sei mesi il mio letto—dacchè io non aveva che una stanza—fu coperto dalle edizioni del poema attraverso le quali io rintracciava le varie lezioni che la mancanza d'un testo originale, l'ignoranza dei tardi copisti e le borie locali accumularono per secoli su quasi ogni verso. Oggi, credo mio debito dir tutto il vero e separare il mio lavoro da quello di Foscolo[43].—(1863).


Come le conseguenze logiche della nostra fede mi trascinassero a lavorare non solamente pel popolo, ma col popolo, non occorre ripeterlo. E i pochi popolani d'Italia coi quali, nei casi passati, io aveva avuto contatto mi s'erano mostrati tali e così vergini di calcolo e di basse passioni da confortarmi davvero al lavoro. Ma le opportunità per addentrarmi nello studio di quel prezioso elemento m'erano finora mancate. Londra m'offrì inaspettatamente la prima, e m'affrettai ad afferrarla.

Affiatandomi, sulle vie della vasta città, con taluni di quei giovani che vanno attorno coll'organino, imparai, con vero stupore e dolore profondo, le condizioni di quel traffico, condotto da pochi speculatori, ch'io non saprei additare con altro nome che con quello di tratta dei bianchi: vergogna d'Italia, di chi siede a governo e del clero che potrebbe, volendo, impedirlo. Cinque o sei uomini italiani stabiliti in Londra, rotti generalmente ad ogni mal fare e non curanti fuorchè di lucro, si recano di tempo in tempo in Italia. Là, percorrendo i distretti agricoli della Liguria e delle terre parmensi, s'introducono nelle famiglie dei montagnuoli, e dove trovano i giovani figli più numerosi, propongono i più seducenti patti possibili: vitto abbondante, vestire, alloggio salubre, cure paterne al giovine che s'affiderebbe ad essi: una certa somma, dopo trenta mesi, pel ritorno e per compenso dell'opera prestata. E steso un contratto; se non che i poveri montagnuoli non sanno che i contratti stesi sul continente non hanno, se non convalidati dai consoli inglesi, valore alcuno in Inghilterra. Intanto, i giovani raccolti a quel modo seguono lo speculatore a Londra: ivi giunti, si trovano schiavi. Alloggiati, quasi soldati, in una stanza comune, ricevono, i giovani un organino, i fanciulli uno scojattolo o un topo bianco, gli uni e gli altri ingiunzioni di portare, la sera, al padrone una somma determinata. La mattina, hanno, prima d'uscire, una tazza di the con un tozzo di pane; ma il pasto della sera dipende dall'adempimento della condizione: chi non raccoglie, non mangia; e i più giovani sono, per giunta, battuti. Io li vedeva, la sera in inverno, tremanti per freddo e digiuno, chiedenti, quando la giornata era stata—come in quella stagione è sovente—poco proficua, l'elemosina d'un soldo o di mezzo soldo agli affrettati pedoni, onde raggiungere la somma senza la quale non si attentano di tornare a casa. E non basta: l'avidità dei padroni arbitri onnipotenti trae partito dalle infermità, che commovono, quando sono visibili, le buone fantesche inglesi. Taluno di quelli infelici, sospinto sulla strada benchè consunto dal morbo e col pallore della morte sul[141] volto, fu raccolto dagli uomini della polizia e portato allo spedale, dove morì senza proferire parola. A tal altro è ingiunto di fingersi mutolo, ferito in un piede o côlto da convulsioni epilettiche. Costretti da minacce tremende a mentire per conto dei loro tiranni, quei giovani, esciti buoni dalle loro montagne, imparano a mentire e architettare inganni anche per conto proprio, e tornano in patria profondamente corrotti. Spesso, sullo spirare dei trenta mesi, i padroni si giovano d'un pretesto qualunque, d'una lieve infrazione, facilmente provocata, ai patti, per cacciare sulla strada quelli infelici senza pagar loro la somma stipulata colla famiglia, e condannarli al bivio di perire di stenti o vivere d'elemosina e furti.

Una circolare diramata dal governo ai sindaci di comune e ai parrochi, perch'essi, influenti come sono nelle piccole località, illuminassero le famiglie sulle tristi condizioni alle quali, cedendo agli allettamenti de' speculatori, espongono i figli, basterebbe probabilmente a imporre fine al traffico o a moderarlo. La legalizzazione consolare inglese data in Italia ai contratti, e alcune istruzioni mandate agli agenti governativi italiani in Inghilterra perchè vegliassero a proteggere quei meschini, raddolcirebbero a ogni modo la loro sorte. Ma i governi monarchici s'occupano di ben altro. E quanto al clero italiano in Londra, i miei articoli sulla scuola gratuita mostrano abbastanza il come, diseredato omai non solamente di fede ma di carità, intenda la propria missione.

Tentai dunque d'alleviare in altro modo quei mali e istituii a un tempo un'associazione per proteggere quei giovani abbandonati, e una scuola gratuita per illuminarli sui loro doveri e sui loro diritti, onde ripatriando inspirassero migliori consigli ai loro compaesani. Più volte trassi i padroni, rei di violenza, davanti alle corti di giustizia. E il sapersi adocchiati li persuase a meno crudele e meno arbitraria condotta. Ma la scuola ebbe guerra accanita da essi, dai preti della Cappella sarda e dagli agenti politici dei governi d'Italia. Prosperò nondimeno. Fondata il 10 novembre 1841, durò sino al 1848, quando la mia lunga assenza e l'idea che il moto italiano, consolidandosi, aprirebbe tutte le vie all'insegnamento popolare in Italia, determinò quei che meco la dirigevano a chiuderla. In quei sette anni, la scuola diede insegnamento intellettuale e morale a parecchie centinaja di fanciulli e di giovani semibarbari che s'affacciavano sulle prime sospinti da curiosità e quasi paurosi alle modeste stanze del numero 5, Hatton Garden, poi s'addomesticavano a poco a poco conquistati dall'amorevolezza de' maestri, finivano per affratellarsi lietamente e con certo orgoglio di dignità acquistata all'idea di rimpatriare educati, e accorrevano, ponendo giù l'organino, ad assidersi per una mezz'ora, tra le nove e le dieci della sera, sui nostri banchi. Insegnavamo ogni sera leggere, scrivere, aritmetica, un po' di geografia, disegno elementare e d'ornato. La domenica, raccoglievamo gli allievi a un discorso d'un'ora sulla storia patria, sulle vite de' nostri grandi, sulle più importanti nozioni di fisica, sopra ogni cosa che paresse giovevole a secondare e inalzare quelle rozze menti intorpidite dalla miseria e dalla abbietta soggezione ad altri uomini. Quasi ogni domenica per due anni parlai di storia italiana o di astronomia elementare, studio altamente religioso e purificatore dell'anima che, tradotto popolarmente ne' suoi risultati generali, dovrebbe essere tra i primi nell'insegnamento. E da forse cento discorsi sui doveri degli uomini e su punti morali furono recitati da Filippo Pistrucci, improvvisatore noto un tempo all'Italia, e che, creato da me direttore della scuola, s'immedesimò con zelo senza pari colla propria missione.

[142]

E fu un secondo periodo d'operosità fraterna e d'amore che rinverdì a forti e costanti propositi l'animo mio e quello di altri esuli tormentati. Era davvero una santa opera santamente compita. Tutto era gratuito nella scuola. Direttore, vice-direttore—ed era un Luigi Bucalossi toscano, infaticabilmente devoto—maestri, quanti s'adopravano intorno all'istruzione degli allievi, s'adopravano non retribuiti. Ed erano tutti uomini che avevano famiglia e la sostentavano col lavoro. Insegnavano il disegno Scipione Pistrucci, figlio del direttore, e un Celestino Vai, vecchio bresciano, al quale era affidata la custodia della scuola, impiegato oggi in Milano nell'ufficio dell'Unità e del quale non vidi mai uomo più amorevole agli allievi, più convinto del dovere di tutti noi verso i poveri ineducati. Insegnavano a leggere e a scrivere operai che dopo aver faticato tutta la giornata al lavoro, rinunziavano alle sole ore che avessero libere per accorrere a compiere l'ufficio assuntosi, ed erano a un tempo sottoscrittori. Il 10 novembre d'ogni anno, anniversario della fondazione, noi raccoglievamo da circa duecento allievi, prima a una distribuzione di piccoli premî ai migliori, poi a una modesta cena, nella quale noi tutti facevamo da scalchi, distributori e domestici, e ch'era rallegrata da canti patriottici e da improvvisazioni del direttore. Una di quelle sere era eguale, nelle conseguenze morali, a un anno d'insegnamento. Quei miseri, che i padroni trattavano siccome schiavi, si sentivano uomini, eguali e animati. Amiche e amici inglesi intervenivano a quelle cene di popolani e ne uscivano commossi, migliori anch'essi. Ricordo la povera Margherita Fuller venuta dagli Stati Uniti con non so quali diffidenze di noi. Condotta in mezzo a una di quelle riunioni ci era, dopo un'ora, sorella. L'anima sua candida, e aperta a tutti i nobili affetti, aveva indovinato il tesoro d'amore che la religione del fine aveva suscitato fra noi.

L'esempio fruttò, prima in Londra, dove i preti della Cappella sarda, poi che videro inutili i loro sforzi per far cadere la nostra scuola, si ridussero a impiantarne un'altra nella stessa strada: poi in America, dov'io aveva in quel torno impiantato relazioni fraterne. Scuole simili alla nostra furono istituite nel 1842, per cura di Felice Foresti e di Giuseppe Avezzana, in Nuova York, per cura del professore Bachi in Boston, e per cura di G. B. Cuneo in Montevideo.

Intanto la scuola mi fu, come dissi, occasione di contatto frequente cogli operai italiani in Londra. M'occupai, scelti i migliori, d'un lavoro più direttamente nazionale con essi. Fondai una sezione di popolani nell'associazione e l'Apostolato popolare col motto: Lavoro e frutto proporzionato.

E ristrinsi pure in quelli anni i vincoli di fratellanza che, annodati nella Svizzera tra noi e i Polacchi, erano stati rallentati dai casi. Nè importa oggi ricordare i particolari di quel nuovo lavoro internazionale.

Solamente a mostrare come fin d'allora l'Associazione oltrepassasse nel suo concetto la sfera d'un moto nazionale polacco per allargarsi a quella che comprende tutte le tribù slave, inserisco le linee seguenti colle quali ci riunimmo a chi celebrava in Londra, il 25 luglio 1845, il diciannovesimo anniversario della morte dei martiri russi—(1863).


Credendo che superiore a tutte le patrie esiste una patria comune nella quale gli uomini son fatti cittadini dall'amore del bene, frat[143]elli dal culto della stessa idea, santi dal martirio e che Pestel, Mouravief, Bestugef, Ryleief, Kochowski, morti per la redenzione delle famiglie slave, sono concittadini e fratelli a quanti combattono sulla terra per la causa del giusto e del vero.

Credendo che le famiglie slave sono chiamate a una grande missione d'ordinamento interno e d'incivilimento da diffondersi altrove, che non potranno compire se non con una serie di lavori fraterni, e che la Russia e la Polonia devono, per ragioni storiche e geografiche, essere a capo di quei lavori.

Credendo che la lega dei governi assoluti non può essere vinta se non dalla santa alleanza dei popoli.

Credendo inoltre che le famiglie slave dovranno un giorno affratellarsi specialmente all'Italia in una guerra al nemico comune, l'Austria.

Il comitato centrale della Giovine Italia, associazione nazionale, unita in anima e cuore ai voti, alle speranze, alle aspirazioni dei patrioti polacchi, dà nome e adesione alla commemorazione dei cinque martiri russi.


Nel 1844 ebbe luogo la spedizione dei fratelli Bandiera. I Ricordi ripubblicati in questo volume contengono quanto importa all'Italia, nè intendo riparlarne. Ma l'incidente della violazione delle mie lettere merita ch'io vi spenda alcune parole. È un episodio d'immoralità ministeriale monarchica da porsi allato a quello della spia Conseil riferito in questo volume; e quella immoralità dura tuttavia eretta a sistema da pressochè tutti i governi d'Europa.

A mezzo quell'anno, or non rammento più se in giugno o sul cominciare del luglio, m'avvidi che le lettere dei miei corrispondenti in Londra—ed erano tra quelli i banchieri per mezzo dei quali mi giungeva la corrispondenza straniera—mi venivano tarde di due ore almeno. Concentrandosi dai diversi punti all'uffizio postale generale, le lettere vi ricevono un timbro che accerta l'ora del loro arrivo: la distribuzione a domicilio ha luogo nelle due ore che seguono. Esaminai accuratamente quei timbri e trovai ch'erano generalmente doppî: al primo era sovrapposto un secondo timbro, di due ore più tardo e collocato in modo da celare il primo, e allontanare il sospetto. Bastava per me, non per altri increduli d'ogni violazione di ciò che chiamano lealtà britannica e che accoglievano con sorriso ironico i miei sospetti. I timbri così sovrapposti lasciavano mal discernere le due ore diverse e serbavano apparenza di lavoro affrettato e data illeggibile. Ideai d'impostare io stesso all'uffizio centrale lettera diretta a me, calcolando l'ora tanto che il primo timbro dovesse portare la cifra 10. Or dopo avere ricevuto quel timbro, le lettere a me dirette erano, per ordine superiore, raccolte e mandate a un uffizio segreto dov'erano aperte, lette, risuggellate, poi rinviate al postiere incaricato della distribuzione nella strada ov'io allora viveva, ch'era Devonshir Street, Queen square. Quel nefando lavoro consumava due ore a un dipresso; e il timbro da sovrapporsi alla cifra 10 dovea quindi portare il 12 che, per quanto facessero lasciava visibile parte dello zero del 10. Chiarito quel punto, raccolsi altre prove. Feci impostare, in presenza di due testimonî inglesi e ripetutamente, alla stessa ora e allo stesso ufficio postale, due lettere, una delle quali era diretta al mio nome, l'altra a un nome fittizio, ma alla stessa casa: i testimonî venivano ad aspettare con me la distribuzione; e accertavano con dichiarazione scritta come la lettera che portava i[144]l mio nome giungesse invariabilmente due ore più tardi dell'altra. In altre lettere a me dirette racchiusi granellini di sabbia o semi di papavero; e li trovammo, aprendo con cura, smarriti. Istituimmo una serie d'esperimenti intorno ai suggelli, scegliendo i più semplici e segnati di sole linee, poi collocandoli sì che le linee cadessero sulla lettera ad angolo retto; e ci tornarono identici di forma, ma colle linee piegate lievemente ad angolo acuto. Inserii un capello sotto la ceralacca, e non era più da trovarsi: risuggellando, lo consumavano. E via così, finchè raccolto un cumulo di prove innegabili, misi ogni cosa in mano a un membro del parlamento, Tommaso Duncombe, e inoltrai petizione alla Camera perchè accertasse e provvedesse.

L'accusa produsse vera tempesta. Alle interpellanze che da ogni lato furono mosse ai ministri, questi diedero per alcuni giorni risposte evasive; poi, meglio informati sul conto mio e convinti ch'io non mi sarei avventurato senza certezza di prove, confessarono, schermendosi in parte con certo vecchio editto che risaliva alla regina Anna e a circostanze eccezionali, in parte con insinuazioni a mio danno e come s'io avessi macchinato pericoli all'Inghilterra. Confutai queste ultime in modo da ridurre il ministro accusatore—ed era sir James Graham—a farmi ammenda pubblica in parlamento. E quanto all'altra difesa, afferrai la via che m'apriva per disvelare all'Inghilterra tutta la piaga. Non era da credersi che gli stessi ministri e gli altri che li avevano preceduti avessero resistito sempre, fuorchè in quell'unico caso, alla tentazione di valersi, pei loro fini, di quell'editto antiquato. Feci quindi chiedere e ottenni che s'istituissero due commissioni d'investigazione nelle due Camere. E le relazioni che fecero, comunque tendenti a palliare le colpe più che non a produrle brutte com'erano, provarono che dal 1806 fino al 1844, da lord Spencer a lord Aberdeen, tutti i ministri, compresi Palmerston, Russell e Normanby, s'erano successivamente contaminati di quell'arbitrio—che non solamente le mie e quelle d'altri esuli, ma le lettere di molti inglesi, di membri del parlamento, di Duncombe medesimo, erano state violate a quel modo—che si erano inevitabilmente praticati, a celare la colpa, artifizî contemplati dalle leggi penali, falsificazione di suggelli, imitazione di timbri e altri—che le mie erano state aperte per quattro mesi.

E provarono cosa più grave: che l'arti nefande di Talleyrand e Fouchè s'erano praticate dai ministri d'Inghilterra, non per indizî ch'io cospirassi contro lo Stato o m'immischiassi pericolosamente di faccende inglesi, ma per compiacere servilmente a governi stranieri e dispotici, e che ad essi—a Napoli e all'Austria—si trasmettevano regolarmente le cose che parevano più importanti nelle lettere a me dirette. Molte di quelle cose riguardavano appunto il disegno, da me combattuto, dei due Bandiera, e rivelate suggerirono al governo di Napoli l'atroce pensiero di provocarli, di sedurli, per liberarsene, all'esecuzione. I ministri inglesi s'erano fatti complici di quell'assassinio; e lo sentivano e ne arrossivano. Lord Aberdeen, il gentiluomo più onorato in Inghilterra per fama d'impeccabile schiettezza e la cui parola era considerata da tutti come sillaba di Vangelo, fu trascinato a mentire sfrontatamente alla Camera. Fatto interrogare da me se si fosse data comunicazione dei segreti contenuti nella mia corrispondenza a governi stranieri, il nobile lord aveva, plaudente la Camera—a quale affermazione di ministri non plaudono le Camere escite dalla legge del privilegio?—risposto: nè una sillaba di quella corrispondenza fu mai sottomessa ad agenti di potenze straniere. Poche settimane dopo, la relazione delle due commissioni investigatrici gli gettava in viso: le informazioni raccolte dalla corrispondenza erano comunicate a un governo straniero.[145] Io scrissi il dì dopo su' giornali, alludendo alle calunnie insinuate contro me da sir James Graham, che quando uomini di Stato scendevano alla parte di falsificatori e bugiardi, non era da stupirsi che fossero anche calunniatori.

Nè giova stupirne. Ogni governo fondato sull'assurdo privilegio dell'eredità del potere e che si regge su vuote formole come quelle che il capo dello Stato regna ma non governa; che tre poteri serbandosi in equilibrio perenne creano il progresso, e siffatte delle monarchie costituzionali, è trascinato inevitabilmente presto o tardi all'immoralità. Vive di menzogne, di norme ideate, di tradizioni diplomatiche vigenti in una piccola frazione di società privilegiata, in guerra quindi più o meno dichiarata coll'altra, non delle inspirazioni che salgono dalla coscienza collettiva a quella dell'individuo. E ogni vita artificiale e profondamente immorale esce dal vero e dalla comunione colla umanità, ch'è la via per raggiungerlo. In quelli uomini di governo naturalmente buoni e leali, ma veneratori di formole artificiali architettate a sorreggere un concetto artificiale anch'esso e non desunto dalla natura intima delle cose, s'era fatalmente smarrito quel senso diritto e morale che insegna l'unità della vita, e si commettevano, come uomini di Stato, ad atti davanti ai quali si sarebbero ritratti impauriti com'uomini e nulla più. Intanto la loro politica immoralità insegnava immoralità agli inferiori guidandoli a dirsi: se per utile dello Stato è lecito dissuggellare, violare gli ultimi segreti, sottrarre e trasmettere l'altrui proprietà, perchè nol potremmo noi per l'utile delle nostre famiglie? Non v'è forse paese in Europa dove le lettere siano così frequentemente violate come in Inghilterra; e parlando delle lettere contenenti danaro, il direttore delle poste in quel tempo, lord Maberly, diceva che tanto valeva cacciarle sulla pubblica via quanto affidarle alla posta. Ma se i più tra gli uomini d'oggi non fossero schiavi d'anima ed educati dalla monarchia a guardare, più che l'uomo, la veste dell'uomo—se rifiutando l'immorale distinzione tra l'uomo politico e il privato e intendendo che al primo, come a quello che si assume una parte educatrice nella nazione corre anzi debito maggiore di scrupolosa onestà, visitassero severamente la colpa—se il dì dopo la menzogna, le sale dei convegni amichevoli si fossero tutte chiuse, come a uomo disonorato, a lord Aberdeen—la lezione sarebbe stata proficua non foss'altro a' suoi successori. Prevalse alla nozione morale il prestigio dell'aristocrazia e dell'alto ufficio; e mentre il paese pur dichiaravasi avverso all'abuso, lasciò che i colpevoli durassero amministratori. Però il segreto delle corrispondenze è oggi come allora, comunque più raramente, violato.

A me intanto quella violazione additò il momento proprio per trattare davanti l'Inghilterra la causa, fin allora negletta, della mia patria e con uno scritto diretto a sir James Graham cominciai quell'apostolato a pro dell'Italia che diede più tardi origine ad associazioni, riunioni pubbliche e interpellanze parlamentari. Lo intitolai: l'Italia, l'Austria e il Papa, e lo pubblicai in inglese. Fu poi tradotto nella Revue indépendante di Parigi.

Le prove accumulate in quel libretto a far conoscere lo sgoverno [146]finanziario e amministrativo che pesava sulle provincie italiane soggette all'Austria e al papato sono oggi inutili[44].


I documenti contenuti in questo volume riguardano un periodo solenne per gloria e sventura, per errori, per insegnamenti e per delusioni. Queste ultime mi riuscirono inaspettate e dolorosissime. Immemori della lunga nostra predicazione e del culto da essi medesimi giurato ai principî come a quelli che soli potevano dar salute all'Italia, i migliori tra i nostri—e parecchi m'erano individualmente amicissimi—al primo apparire d'una forza, o d'un fantasma di forza, disertarono la bandiera e si fecero adoratori ciechi del fatto. Da pochissimi infuori, temprati non solamente a combattere, ma, avversi i fati, a vivere solitarî nel mondo delle credenze e delle aspirazioni al futuro, il partito si sviò tutto quanto a transizioni, fazioni e concetti di leghe ipocrite e inefficaci tra rappresentanti d'opposti principî che tendevano scambievolmente a deludersi. L'Italia abbandonò allora le tradizioni generose della propria vita per rincatenarsi a quelle che nei secoli XVI e XVII ci vennero dalla incontrastata dominazione straniera e dalla inenarrabile corruttela d'una Chiesa non italiana nè alloramai più cristiana. Machiavelli prevalse a Dante. E i danni e la vergogna di quelle trasformazioni durano tuttavia.

Io potrei—e molti forse lo aspettano da me—scrivere un capitolo di storia che consegnerebbe al giudizio severo dei posteri molte debolezze oggi ignote che diedero cominciamento a quella crisi di dissolvimento morale; molte violazioni di solenni promesse rimaste arcane; molte ingratitudini d'uomini debitori a noi di fama e d'altro e che ci si fecero avversi appena videro schiudersi un'altra via per salire. Ma nol farò. Per cagioni d'affetto patrio, io non potrei dir tutto e di tutti, e anche il vero tornerebbe in certo modo ingiusto ai trascelti. Tacerò dunque; e mi limiterò ad accennare rapidamente la serie dei fatti tanto da porne alcuni, negletti finora o fraintesi, in luce migliore che giovi alla storia del principio nazionale, unico fine del mio lavoro.

Poi, a che pro? Perchè m'occuperei d'individui? Le loro colpe, i loro errori, le loro fiacchezze risalgono a cagioni morali e si ripe[147]tono oggi e si ripeteranno in altri negli anni futuri, finchè durano quelle cagioni, sole che importi distruggere. Le generazioni rappresentano, a seconda dalla loro educazione morale, idee o interessi: noi possiamo, quand'esse vivono governate dalle prime, antivederne gli atti e calcolarne logicamente, a pro dei nostri disegni, la capacità e la costanza; quand'esse traviano dietro ai secondi, mutabili per circostanze fuggevoli d'ora in ora, ogni logica è muta. La generazione vivente nel 1848 non aveva filosofia, nella sua generalità, se non quella degli interessi; interessi personali nei più guasti: interessi di vittoria, di partito, d'odio al nemico, nei migliori. La fede senza calcolo di frutto immediato nell'ideale e nell'avvenire, non era in essa. Noi avevamo sperato sostituirle in un subito l'entusiasmo pel bello e pel grande. E ci eravamo ingannati. La fede è dovere: il dovere esige una sorgente, una nozione superiore all'umanità, Dio. E Dio non era e non è pur troppo nella mente del secolo.

L'Italia era ed è tuttavia—e se s'eccettuino i buoni istinti che incominciano, segnatamente nelle classi operaje delle città, a rivelarsi—appestata di materialismo: materialismo che dalla filosofia meramente analitica e negativa del secolo passato s'infiltrò nella vita pratica, nelle abitudini, nel modo di considerare le cose umane. Le ardite negazioni del secolo XVIII assalivano un dogma inefficace oggimai perchè inferiore all'intelletto dell'umanità; erravano perchè confondevano uno stadio consunto di religione colla vita religiosa del mondo, una forma collo spirito che la riveste a tempo, un periodo di rivelazione coll'eterna rivelazione progressiva di Dio tra gli uomini; ma combattevano non foss'altro nella sfera del pensiero e la vita ritraeva ancora un non so che dell'antica unità. Oggi noi soggiaciamo non ai principî, ma alle conseguenze di quel periodo: traduciamo la dottrina negli atti, senza il vigore di battaglia ch'era nella dottrina medesima. Un alito di fervore religioso fremeva tuttora per entro a quella irreligiosa ribellione: gli uomini che abbiuravano il Dio del mondo cristiano inneggiavano con lunghe apostrofi alla Dea Natura, sollevavano sugli altari la Dea Ragione. Tra noi pochi—se pur taluno—s'attenterebbero, richiesti, di rispondere che Dio non è, ma i più non sanno e non curano di sapere ciò che importi Dio nella vita e come tutta una serie di solenni e inevitabili conseguenze derivi da quella prima nozione: facili a oziosamente accettarla a patto d'esiliarla inerte, infeconda, in non so quale angolo del regno delle astrazioni. La legge morale, conseguenza di Dio—la sanzione della legge nella vita futura dell'individuo—il dovere che ne discende a ciascun di noi—il vincolo fra terra e cielo, tra gli atti e la fede—sono cose indifferenti agli uomini d'oggi. L'unità della vita è così smembrata per essi; il nesso tra l'ideale definito dalla religione e il mondo visibile, che deve esserne interprete e rappresentarlo nei diversi rami dell'umana attività, è posto siffattamente in obblio che fu salutata a' dì nostri siccome formola d'alto senno civile la vuota frase libera Chiesa in libero Stato. Quella formola vale legge atea e religione falsa o vera, buona o trista non monta; vale progresso nella pratica e immobilità nella teorica, anarchia perenne tra il pensiero e l'azione, intelletto liberamente educato e coscienza serva. Diresti che nessuno intravveda l'unica ragionevole soluzione al problema, la trasformazione della Chiesa sì che armonizzi collo Stato e lo diriga, senza tirannide e progressivamente, sulle vie del bene.

Senza cielo, senza concetto religioso, senza norma che prescriva il dovere e la virtù, prima fra tutte, dal sagrificio, la vita,[148] sfrondata d'ogni eterna speranza per l'individuo e d'ogni fede inconcussa nell'avvenire dell'umanità, rimane in balìa degli istinti, delle passioni, degli interessi, agitata, ondeggiante fra gli uni e gli altri a seconda degli anni e dei casi. I generosi impulsi e la poesia d'un entusiasmo naturalmente fervido quando l'anima vive più spontanea e meno signoreggiata dal mondo esterno, suscitano i giovani a contrasto colla tirannide e li avviano inconsci sulle vie dell'azione. Poi, quando le aspirazioni, le rapide speranze e le illusioni dorate sugli uomini e sulle cose si rompono alla fredda prosaica realtà del presente e le inevitabili delusioni, le persecuzioni, le disfatte aspreggiano a ogni tanto la via, sorge il dubbio, sorge quel senso di stanchezza che persuade l'impossibilità della lotta e dietro a quello s'insinua l'egoismo che tende a godere—dacchè l'immortalità è ignota—quaggiù. E allora, la prima proposta d'un disegno che non rinnega ma dimezza e pospone il programma, è ascoltata; il primo affacciarsi d'una forza appartenente ad altro campo, ma che pur promette adoprarsi contro il nemico, è salutato come un modo d'accostarsi con rischi e sagrificî minori all'intento. L'anima senza una fede sulla quale possa riposare secura e sentirsi potente a procreare fatti quando che sia, si ribellerebbe forse a una diserzione, ma s'arrende agevolmente a transazioni che pur vi conducono. Entrata su quella via di machiavellismo e d'ipocrite concessioni, s'avvela; smarrisce a poco a poco la luce del vero, s'avvezza ad affratellarsi col calcolo e muta più o meno lentamente ma inevitabilmente natura, finchè avvedendosi, tardi e quando è fatta incapace della virtù santa del pentimento s'irrita intollerante del biasimo altrui e s'ostina, per orgoglio e per utile ad un tempo, nel traviamento accettato.

Tale è la storia della generazione che, tra il 1847 e l'anno in cui scrivo, mutò lato e bandiera. E si rifarà fino a che gli uomini si rimarranno diseredati di Dio e d'una fede che insegni il Dovere. Io lo ripeto sovente, perchè so che in questo è la radice d'ogni nostro male. Il popolo d'Italia potrà essere fantasma di nazione, ma non nazione vera, grande, potente a fare, conscia della propria missione e ferma di compierla, se non rieducandosi a religione: religione intendo quale i progressi intellettualmente compiti e le tradizioni, studiate a dovere, del pensiero italiano l'additano.

Su questa condizione morale, o piuttosto immorale, di cose s'innestò la parte così detta de' moderati, composta d'uomini che avevano, come Farini, cospirato con noi e s'erano stancati d'una via sulla quale incontravano a ogni passo pericoli e persecuzioni; d'altri ai quali, come ad Azeglio, era ingenita una avversione aristocratica al popolo e alla democrazia e finalmente d'alcuni timidi angusti intelletti immiseriti fra le tradizioni del piccolo Piemonte e incapaci d'afferrare ogni concetto che non avesse perno in un re, in una corte, in un esercito regolare.

La tradizione della parte alla quale accenno non era splendida. Moderati si dicevano gli uomini che nel 1814 avevano, in Lombardia, applaudito al ritorno degli eserciti austriaci: moderati quei che avevano nel 1821 legato i fati dell'insurrezione piemontese a un principe disertore: moderati quei che avevano nel 1831 tradito il moto degli Stati romani prima colla teorica anti-nazionale del non-intervento da una provincia nostra ad un'altra; poi colla codarda capitolazione di Ancona. Ma erano individui, come ne trovi in ogni crisi, vuoti d'intelletto rivoluzionario, non partito costituito, ordinato. Ben di fronte alla Giovine Italia s'era formata, sotto nome di Veri Italiani, una [149] società di fautori monarchici che si raccolsero intorno a un patrizio lombardo, Arconati, in Brusselle e di là s'adoprarono a diffondere le prime aspirazioni verso la dinastia savojarda: ma respinta dai buoni istinti del nostro popolo, abbandonata a poco a poco, mercè il nostro apostolato, da' suoi migliori, s'era trascinata nell'ombra seminando di soppiatto accuse ai repubblicani e germi di divisione, senza copia di seguaci, senz'eco. La parte moderata non pensò a costituirsi davvero e a sostituire alla nostra la propria influenza prima del 1843 e poco dopo la sventurata impresa dei fratelli Bandiera. Quell'impresa, attribuita inonestamente da essi a noi e segnatamente a me, aveva innegabilmente versato sconforto e diffidenza nelle nostre fila. Le circostanze a ogni modo non correvano propizie a disegni di moti e mi pareva che si dovesse lasciar tempo alle idee perchè trapassassero a poco a poco dalla gioventù degli ordini medî al popolo non foss'altro delle città. I vincoli dell'associazione s'erano quindi allentati e io mi limitava a mantener contatto qua e là, in Lombardia più che altrove, con nuclei di giovani uniti senza forma definita e liberamente a un intento d'apostolato e a invigilare se mai sorgesse il momento opportuno a far meglio. Di quell'intervallo di stanchezza e d'inazione forzata da parte nostra si giovarono i moderati.

La prima loro manifestazione fu nel 1845 in Rimini. E quasi a dichiarare l'assoluta assenza d'idee politiche, inalzarono bandiera bianca. Bensì, dovendo pur dire al popolo agitato, perchè movessero, diffusero un manifesto steso dal Farini ch'era pallida copia del memorandum dato inefficacemente dalle potenze al papa nel 1831. Quel manifesto sostituiva al moto nazionale i moti locali; alle grandi vitali quistioni dell'indipendenza, dell'unità, della libertà i miglioramenti amministrativi economici.

Io so che i più tra i capi dei moderati avevano essi pure nell'animo—non dirò la libertà, della quale non curano o poco—ma l'indipendenza d'Italia, la questione nazionale, la cacciata dello straniero. Dico che il metodo loro insegnava a disperarne per un lungo indefinito periodo di tempo e sviava dal segno, che noi gli avevamo additato, l'educazione del popolo. Dico che moltissimi fra quelli uomini non volevano l'unità, nessuno la credeva possibile. E dico che se i principi più avveduti, meno tristi e meno spronati dalla fatalità che li sospinge, per somma ventura e legge dei tempi, a rovina, avessero tanto quanto soddisfatto a quel monco programma, noi non avremmo oggi ventidue milioni d'Italiani stretti a unità di nazione, ma il vecchio mosaico di grandi e piccole monarchie e leghe più o meno ipocrite e traditrici. Quelle leghe furono l'ideale dei pensatori del partito: da Balbo fino a Cavour. Giacomo Durando predicava le tre o cinque Italie a beneplacito dei principi volonterosi. Mamiani era centro in Genova d'apostolato federativo. Gioberti proponeva in una lettera del 16 marzo 1847 a Pietro Santarosa che «s'ottenesse dall'Austria con rimostranze un mutamento di politica in Lombardia tanto che pacificata colla dolcezza e colle riforme, potesse poi, con agio e tempo, ricevere d'accordo coi potentati un assetto definitivo.» Cavour proponeva, non molto prima che Garibaldi scendesse nel regno, patti e alleanza al Borbone. L'assenza d'ogni fede unitaria nei moderati è fatto documentato che la storia dei tempi, quando sarà imparzialmente scritta, registrerà; nè le millanterie machiavelliche dei giorni posteriori all'unità conquistata dal popolo varranno a cancellarlo.

E un altro fatto, conseguenza di questo primo e troppo trascurato finora, verrà registrato dalla storia, base e scorta all'intelletto degli eventi[150] di tutto il periodo; ed è il dualismo perenne tra l'azione, generatrice d'ogni mutamento importante, dell'elemento popolare nostro e l'influenza, potente unicamente a menomare, a sviare dal segno quei mutamenti, esercitata dai moderati. Oggi, a udirli, diresti avessero fatto l'Italia e promosso col loro metodo quanto ebbe luogo negli ultimi quindici anni. Ma quando il tempo e l'Italia rinsavita avranno imposto silenzio al cicalìo di gazzette vendute e alle calunnie e alle lodi sfacciate, i fatti e le inesorabili date diranno che dall'amnistia papale infuori, ogni concessione di principi, ogni passo mosso innanzi dal paese originò dall'azione, avversata dai moderati, del popolo, dai moti di piazza com'essi sprezzando dicevano.—Da sommosse in Livorno, nelle Romagne, in Roma, l'accresciuta libertà di stampa e l'istituzione delle guardie nazionali—dalle petizioni firmate a tumulto su per le vie e dagli assalti ai conventi, la cacciata de' Gesuiti—dall'insurrezione siciliana del 1848 gli Statuti regi—dalle cinque giornate di Milano la guerra, miseramente tradita, d'indipendenza—come nella recente seconda fase del periodo, dalle resistenze del popolo ai disegni federalisti del Bonaparte, dalle nostre minacciate spedizioni su Roma, dal moto di Sicilia, dalle imprese di Garibaldi, originarono le annessioni del Centro, l'invasione delle Marche, l'emancipazione del Mezzogiorno. Il nostro metodo sopravviveva, negli istinti del popolo, a noi. Soltanto i moderati, fatti per lungo artificio e pompose ripetute promesse e profezie misteriose e prontezza ad attribuire a sè stessi ogni successo ottenuto e a prudenza di tattica il biasimo dato invariabilmente ai tentativi, soli e visibili padroni del campo, raccoglievano, accettando i fatti compiuti, i frutti di quelli istinti.

Miravano non a conquistare un governo all'Italia, ma a conquistarsi i governi italiani: non s'indirizzavano al popolo, ma ai principi: non provocavano insurrezioni, ma un lento e temperato progresso dall'alto al basso: rinnegavano le associazioni segrete e la stampa clandestina e tentavano ottenere alcune dosi omiopatiche di libertà dalle carezze, dalle lusinghe, dalle adulazioni servili profuse ai governi. E quanto al Lombardo-Veneto e all'Austria, non avevano concetto di sorta; e i filosofi politici della setta si limitavano a vaticinare possibilità di risolvere la questione quando suonasse, per virtù d'atomi confederati e arcadiche conversioni di monarchi al progresso e al bene dei popoli, l'ora dello smembramento dell'impero turco in Europa. Ma quando la febbre popolare irrompeva—quando il sangue dei nostri martiri ribolliva nelle viscere del suolo d'Italia e a guisa d'agente vulcanico lo sollevava—si rassegnavano volonterosi e lasciavano intendere col loro sorriso ch'essi avevano antiveduto e aspettato quei moti anormali come conseguenza del loro operare sagace. Al popolo, politicamente ineducato e ignaro del come importi allo sviluppo dei fatti la coscienza delle vere loro cagioni, poco caleva di chi li rivendicasse: accettava chi più s'acclamava suo capo: confondeva causa ed effetti; e quando gli ripetevano che i suoi trionfi erano dovuti all'avere i moderati conquistato un papa che lo benediceva e un re che aspettava l'astro e teneva allato la spada d'Italia, plaudiva, colla gaja noncuranza del fanciullo, non—di tanto gli giovavano gli istinti e gli insegnamenti raccolti—al papato o alla monarchia, ma a Pio IX e a Carlo Alberto. Intanto i moderati s'insignorivano del potere e si collocavano a capo dell'alte sfere sociali.

Se non che non si viola impunemente la logica; ogni errore porge origine a una serie d'inevitabili conseguenze. Ogni menzogna proferita[151] e accettata genera un grado d'immoralità che logora a un tempo vigore e virtù nel core della nazione. E temo che la conseguenza più grave della supremazia assunta dai moderati sarà pur troppo uno strato di nuova immoralità sovrapposto ai molti che la tirannide e la paura e il gesuitismo e il materialismo congiunti hanno steso d'antico intorno al core d'Italia.

Una profonda immoralità è infatti radice a tutte le teoriche e al metodo dei moderati. L'eterno vero è da essi perennemente sagrificato alla misera realtà d'un breve periodo; l'avvenire al presente; il culto dei principî all'utile presunto della giornata; Dio all'idolo subitamente inalzato dalla forza, dall'egoismo o dalla paura. Le forti credenze, i forti affetti, i forti sdegni non allignano in quelle anime fiacche, arrendevoli, tentennanti fra Machiavelli e Lojola, mute a ogni vasto concetto, vuote d'ogni profonda dottrina, abborrenti dalla via diritta, impastate di ripieghi, di transazioni, di finzioni, d'ipocrisia. Noi li udimmo, i capi della fazione, a dirci, colle stesse labbra che paragonavano nei loro congressi a Giove Olimpico il re di Napoli e dichiaravano miracolo il re di Piemonte e redentore novello Pio IX: è necessità dei tempi, ma in sostanza lavoriamo per voi. Li vedemmo insolenti col debole, striscianti in terrore davanti al potente; stringere or col popolo ora collo straniero, a propiziarsi l'uno e l'altro, patti che intendevano di non mantenere; dichiararsi riverenti al papa pur cercando modo di scavargli la fossa; professarsi alleati devoti del Bonaparte che abborrono come abborre chi soggiace e per sentita viltà; cospirare a un tempo, per prepararsi la via a due ipotesi, con Garibaldi e contro Garibaldi. Nè dico che a tutti fosse o sia sprone su queste vie tortuose e indegne degli educatori d'un popolo il basso desiderio di meritarsi una nomina di senatore o di consigliere di Stato. Parecchi tra loro vissero o vivono indipendenti. Ma la mancanza d'un concetto religioso e quindi l'intormentimento del senso morale, il torpore delle facoltà lasciate alla sola sterile analisi e l'interna anarchia delle idee senza base determinata, senza fede d'intento, hanno pervertito in essi intelletto e cuore e li commettono agli impulsi sconnessi che vengono ad essi di giorno in giorno dai casi, dai menomi fatti o dalle apparenze di fatti. Quando Salvagnoli diceva a Brofferio: bisogna tirare innanzi come si può e del resto colla verità non si governa, ei sommava in sè la teorica di tutto il partito. Quando i moderati acclamavano a Gioberti come al primo pensatore e al più potente filosofo che avesse l'Italia, preparavano ai posteri la giusta misura della loro mente e dell'ideale filosofico che veneravano.

No; Gioberti, il gran sacerdote della setta, non era filosofo; e l'essere egli stato generalmente riconosciuto siccome tale dimostrerà a quali poveri termini fossero ridotti in Italia gli studî filosofici. La filosofia è una affermazione dell'individualità fra una sintesi religiosa che cade e un'altra che sorge: è una coscienza del mondo presente illuminata dai raggi d'un mondo futuro: è un criterio determinato di vero fondato sulla universale tradizione del passato e tendente con un metodo egualmente determinato a indagar l'avvenire. Gioberti non ebbe vero intelletto di tradizione nè intuizione—oggi nessuno vorrà negarlo—dell'epoca che va maturandosi. L'uomo che esordì dalle dottrine di Giordano Bruno per sommergersi in un concetto neo-guelfo di primato italiano per mezzo del papato—che salutò d'entusiasmo la formola Dio e Popolo per rinnegarla poi a profitto d'un cattolicesimo rintonacato—che dopo d'avere fulminato dall'altezza d'una coscienza filosofica gli artifici del gesuitismo, li ado[152]ttò cardine de' suoi disegni, appena entrato sull'arena della politica pratica—che viaggiò di città in città, pellegrino crociato d'una monarchia da lui sprezzata, adulando a ciascuna da Pontremoli a Milano come a prima città d'Italia—che diceva a me nel 1847 in Parigi: io so che differiamo in fatto di religione; ma Dio buono! il mio cattolicesimo è tanto elastico che potete inserirvi ciò che volete—non fu nè filosofo nè credente. Ingegno facile, rapido, trasmutabile, fornito d'una erudizione copiosa ma di seconda mano e non derivata dalle sorgenti, capace d'eloquenza, ma di parole più che di cose, fervido d'imaginazione più che di core, non ambizioso nè cupido di potere o d'agi ma vano e irritabile e intollerante d'ogni opposizione, Gioberti soggiacque per impazienza di successo e per indole naturalmente obbiettiva agli impulsi esterni, agli avvenimenti che si sottentravano e v'accomodò, scendendo dalle serene-immutate regioni della filosofia, le sue facoltà. Non diresse, riflesse. E dacchè il periodo era, come io dissi, guasto d'immoralità, non cercò di vincerla, vi s'adattò. Ei fu, inconsciamente, con Balbo e Azeglio, tra i primi corruttori della giovine generazione: mentre Balbo insegnò la rassegnazione della scuola cattolica e seminò lo sconforto nelle forze collettive del paese—mentre Azeglio pose in core alle classi medie della nazione il materialismo veneratore servile dei fatti e i germi d'un militarismo pericoloso—Gioberti rivestì di sembianze filosofiche l'immorale dottrina dell'opportunità e mascherò da idea l'irriverenza alle idee. E fu primo—biasimo assai più grave—che introducesse nel campo della libertà l'arme atroce della calunnia politica e l'insana accusa di settatori dell'Austria contro repubblicani e dissenzienti dal concetto del regno del nord, dalle fusioni imposte, dalle guerre che rispettavano il Trentino e Trieste e da ogni idea che non fosse sua.

I fatti del 1848 e del 1849 sono commento alle cose ch'io dico. A me non tocca or ripetere ciò ch'io accennai di quei fatti nei Cenni e Documenti della guerra regia e negli altri scritti contenuti in questo volume e nel seguente. Ma dirò—perchè importa al piccolo nucleo di repubblicani che si serbarono in quei due anni incontaminati—come sentissimo, come prevedessimo fin d'allora gli eventi e quale fosse la norma della nostra condotta.

Fin da quando, gran tempo innanzi al delirio che invase nel 1847 le menti, si mostrarono, nel mezzogiorno segnatamente, i primi indizî di tentennamento fra i due principî, io mi diedi a combatterli più che pubblicamente privatamente, per via di lettere. E ne inserirò qui a saggio delle molte ch'io scrissi, una ch'io diressi a un Leopardi, membro del Comitato napoletano, repubblicano nel 1833, incerto nel 1834 dopo il mal esito del tentativo sulla Savoja, monarchico dichiarato nel 1848 e autore d'un libro oggi dimenticato nel quale sono da trovarsi parecchie falsità sul mio conto e su quello di parte nostra.

«. . . . . . . . . . . . . . Avete fede»—io gli diceva—nei destini d'Italia? Avete fede nel secolo? V'arde il sacro pensiero di proclamare l'unità delle famiglie italiane? Avete provato quanto ha di grande, di solenne, di religioso, il concetto che chiama la generazione del secolo decimonono a creare una Italia? Volete farla grande e bella fra tutte le nazioni? Intendete come si tratti per noi d'un'opera immensa, divina, ove ci riesca di darle la parola dell'epoca nuova, di cacciarla alla testa d'un periodo di civiltà, di commetterle una missione che influisca sull'umanità intera? Allora, staccatevi dalle idee di transazione anche momentanea, anc[153]he concepita come gradino al meglio, e siate repubblicano, repubblicano sin d'oggi apertamente e credente nella possibilità, nella necessità del trionfo del simbolo repubblicano. Però che tutte le altre idee sono illusioni, menzogne della vecchia politica che s'è abbarbicata alle menti.

«Guardate all'Europa. Il suo moto è a repubblica, moto universale che aumenta ogni giorno, che trascina gli intelletti un tempo più schivi, fin Chateaubriand, fin Lamennais. La prima rivoluzione francese, avvenga quando che sia, sarà per necessità repubblicana: la prima insurrezione germanica, repubblicana per necessità: dacchè le divisioni politiche e l'assenza d'una famiglia che abbia quanto basti d'influenza e di virtù per riunirle, escludono il governo monarchico a quei che vogliono unificare l'Alemagna.

«La Svizzera si regge a repubblica e progredisce verso un nuovo assetto più popolare e più energicamente concentrato. E voi vorreste che l'Italia, sorgendo a rivoluzione, gridasse un grido costituzionale monarchico? Vorreste collocarla in condizioni di avere rivoluzioni posteriori? Ridurla allo stato della Francia d'oggi? Porla retrograda fra i popoli che s'affrettano alla meta? L'Italia si trascinerebbe stentatamente dietro al moto europeo, quando è destinata a precorrerlo? Il simbolo popolare, dovunque verrà proferito, darà a quel popolo la palma dell'incivilimento europeo, e noi, questa palma vogliamo darla all'Italia—e possiamo, volendo.

«Il simbolo popolare è unico a darle vigore e possibilità di unità. Create una o più monarchie costituzionali: avrete sancita, educata, fortificata la divisione in Italia: avrete di necessità creato un'aristocrazia, elemento indispensabile nel reggimento monarchico costituzionale: avrete forse gettati i germi d'una guerra civile tremenda. Perchè non giova illudersi; cacciato un governo costituzionale nel regno di Napoli, credete voi che il Piemonte e la Lombardia s'uniscano sotto la bandiera di quel re? No. Le gare, le invidie sono sopite perchè il simbolo popolare, che s'è affacciato, non ammette irritabilità d'amor proprio di provincie; ma si ridesteranno formidabili ogni qual volta si parlerà di monarchia. Il Piemonte non subirà mai un re napoletano. Napoli non subirà mai un re piemontese. Avanza dunque una federazione di re italiani. Una federazione di re non ha esistito, nè esisterà mai.

«Una federazione non è che un passo mosso verso l'unità, e questa è contraddittoria alla esistenza dinastica dei re. Una lega di re può esistere—esiste; ma contro ai popoli, contro al moto delle idee, non a favore della libertà e delle idee progressive. E d'altra parte, ponete Napoli governata costituzionalmente, come farete cotesta lega? Pacificamente o colle armi? Pacificamente no certo, nè alcuno lo crede. Sarebbe portento tale che supererebbe le difficoltà d'una rivoluzione repubblicana. Colle rivoluzioni non l'avrete mai; perchè, a cagion d'esempio, l'insurrezione ligure non sarà mai che repubblicana[45]. Abbiatelo—dalle cagioni in fuori che fanno tendere Genova a separarsi da un re piemontese—come fatto inevitabile, del quale io starei mallevadore sulla mia testa. Allora, che farete in Italia? Se ponete anche che le rivoluzioni strappino ovunque un patto costituzionale ai nostri principi, poserete voi una[154] confederazione italiana sulla lega dei principi costituzionali, per violenza esercitata sovr'essi? Faranno lega, forse; ma per emanciparsi dai popoli—non per altro. Noi vogliamo non solo mutar le sorti d'Italia, ma rigenerarla; perocchè vogliamo farne un gran popolo; ed elemento d'un popolo grande è, più che non si pensa, un popolo schiavo, ma fremente. Gli estremi si toccano. Nelle grandi scosse i popoli si ritemperano, si consacrano alle grandi cose. Non così se, invece di chiamarli dal nulla alla creazione, volete indugiarli in tentativi incerti e graduati. La monarchia costituzionale è il governo più immorale del mondo; istituzione corrompitrice essenzialmente, perchè la lotta organizzata, che forma la vitalità di quel governo, solletica tutte le passioni individuali alla conquista degli onori e della fortuna che sola dà adito agli onori. Vedete la Francia! come ridotta in Parigi! e che indifferenza e che egoismo non la ucciderebbe se non sorgessero tratto tratto i martiri repubblicani a riconfortarla! Gli anni della Restaurazione, la commedia dei quindici anni e l'ipocrisia continua delle lotte d'opposizione parlamentare l'hanno sfinita, gangrenata, guasta per modo, che se la sua missione d'incivilimento è finita, se ad un popolo qualunque dà l'animo di sorgere primo. E dovete paventare più per l'Italia.

«La Francia ha inaugurato il programma dell'èra moderna; la Francia ha avuto la Costituente e la Convenzione: l'Italia, uscente dal servaggio per addestrarsi nell'arena costituzionale, avrà da aggiungere ai vizî del primo i vizî e le corruttele del reggimento monarchico-misto. Quindi, troncato l'avvenire italiano—troncata, per un mezzo secolo, la grandezza italiana—troncato, forse per sempre—io non cesserò mai di ripeterlo a voi caldo e intelligente italiano—il primato morale italiano sulla civiltà dell'Europa. Pure, se a fronte d'una quasi impossibilità di sorgere come vogliamo, si mostrasse una certezza, una speranza fondata di sorgere come possiamo! Ma noi abbiamo spiato bene addentro il pensiero dell'Europa monarchica. Abbiamo esplorato tutte le vie di miglioramento. Non ve n'è una fondata sulle mire dei governi. Siamo soli, o coi popoli.

«L'Europa è in oggi un campo d'audacia pel partito repubblicano; un campo d'astuzia pel partito monarchico dove la forza delle cose ha strappato le concessioni; un campo di ferocia dove il dispotismo regna sicuro.

«L'Austria e la Russia rappresentano quest'ultimo. La Francia e la Spagna l'altro.

«L'Inghilterra nulla rappresenta nel sistema europeo. Il principio motore del governo non è mutato. È l'egoismo nazionale, commerciale—e non altro. Da Canning in giù, uomo mal noto ai buoni, e che in più cose gode di fama usurpata, non v'è grado di progresso verso idee d'equilibrio europeo. V'è una lotta segreta ma vivissima interna tra l'aristocrazia e il popolo, che assorbe ogni cosa. L'alleanza colla Francia è nulla, è parola cacciata a illudere i due popoli—null'altro. Quando il governo inglese ebbe voce che si tenterebbero reazioni Carliste in Francia, cacciò il partito whig e spinse il tory. Il nome di Wellington rappresentante il dispotismo nella sua brutalità militare, fu posto innanzi. Svanite le speranze dell'assolutismo si tornò alle tendenze di Grey. Ma chiunque conosce l'Inghilterra, sa come in oggi gli whigs, sieno ridotti, come perdano ogni giorno le forze nella gran contesa che pende tra i tories e i radicali, e come non possedano più se non quella vita che si trascina senza concetto di avvenire, senza idee d'iniziativa[155] Europea, senza possibilità di averle e praticarle. L'Inghilterra non è, nè sarà mai alla testa di una propaganda qualunque. Essa riconosce i fatti: riconosce la regina in Ispagna: riconosce D. Pedro, perchè tende da secoli a farsi del Portogallo una specie di colonia commerciale: riconoscerebbe noi, ove insorgessimo vigorosi.—Ma, nè un uomo, nè un obolo dal governo per un punto ch'esso non desideri far suo direttamente o indirettamente—siatene certo.

«La Spagna non è ora a porsi in calcolo per un appoggio, come non è per un ostacolo ai progetti dei popoli. Il governo, intravedendo una insurrezione, ha transatto; ma, nè buona fede al di dentro, nè influenza vera al di fuori.—

«La Francia?—Luigi Filippo è collocato in un bivio. Il partito repubblicano minaccia cacciarlo; le potenze del Nord minacciano cacciarlo. La guerra, da qualunque parte venga, gli è mortale, ed egli lo sa. La guerra trae seco infallibile—alla prima vittoria come alla prima disfatta—il trionfo repubblicano. L'ira del popolo nel secondo caso, le sole promozioni nel primo, bastano a rovinarlo, perchè l'esercito, nella bassa ufficialità, gli è minato. Il re, il governo non ha partito alcuno: partito di Luigi Filippo in Francia non esiste: esiste un partito di ciò che è, dello stato-quo; un partito della pace a ogni prezzo fondato sugli interessi immediati. Togliete la pace, togliete l'unica speranza di quel partito che chiamano juste-milieu, la rivoluzione è compiuta. Per questo il governo ha evitato la guerra quando, due o tre volte, tutta l'Europa la gridava inevitabile. Noi dicemmo il contrario sempre, perchè nessun governo si suicida. Per questo Luigi Filippo ha sacrificato, nel 30 la Spagna, nel 31 l'Italia, poi la Polonia—a malgrado delle promesse solenni. Per questo egli ha obbedito agli ordini del Nord, che gl'imposero di vietare le associazioni. Per questo ei s'è fatto capo, ora di fresco, della crociata diretta dai governi contro i proscritti, temuti perchè repubblicani e tutte le arti sue tendono a cacciarli in America. Per questo egli ha avvertito sempre i governi di ciò che si tramava contr'essi, ogni qualvolta gli venne fatto di risaperne come all'epoca del tentativo di Francoforte. Per questo metterà sempre tutti gli ostacoli che per lui si possono a qualunque moto italiano, perchè moto italiano e guerra sono sinonimi. V'è tal cumulo di fatti oggimai sul conto di Luigi Filippo, che il travedere intenzioni di progresso in lui è un ostinarsi ne' sogni. Bensì la Francia lo inceppa, il fremito delle nazioni lo inceppa; e però, mentre i re del Nord stanno Attila della tirannide, a lui è stata affidata una parte ipocrita. Luigi Filippo è il Tartuffo della santa lega. A lui è stato commesso il differire i moti, che gli altri si riserbano di spegnere dov'ei non riesca. Quindi le voci di leghe e di speranza cacciate a caso, onde i popoli seguano e si ritengano nell'aspettativa e nell'inerzia. Sogni che sviano dal lavoro e dalle vere terribili cospirazioni—inganni tesi per la millesima volta ai cospiratori di tutti i paesi, senza che questi rinsaviscano mai. Quei progetti che vi seducono gli furono affacciati, non da noi direttamente, chè abbiamo cacciato il guanto e lo manteniamo, ma da gente inspirata da noi e che doveva servirci di esploratrice—affacciati, nel 31, al segno di proporre un re d'Italia che gli fosse figlio: affacciati in altra forma risguardante l'Italia centrale, al tempo dell'occupazione di Ancona—affacciati poco prima della spedizione di Savoja, e ogni volta che si venne alle strette, un ritrarsi è un tradire. Abbiamo prove materiali della politica che qui vi accenno.

[156]

«E perch'ei lo sa, perch'ei sa che in lui non avremo fiducia mai, che da noi egli non ha speranza nè di rivelazione nè d'altro, intende a cacciarci in America. E prima che ciò avvenga, potrebbe accadergli ciò che gli troncasse a mezzo la via. Ma per somma disavventura, vi sono, a Parigi specialmente, uomini illusi che vorrebbero ostinarsi a fidare, e vi sono altri a' quali è principio opporsi ad ogni tentativo che non venga da Parigi, e che, non sapendo il come, tentano illudere i nostri concittadini a sperare in progetti, de' quali Luigi Filippo e i suoi agenti ridono di soppiatto. Il nostro Pepe è fra quelli ed alcuni de' nostri e molti dell'Italia centrale. Ma quali? Membri di governi provvisorî, che tradirono la causa italiana alla illusione del non intervento, e non possono in oggi condannarsi da sè, però insistono su quelle miserie. Uomini d'una fratellanza che s'intitola de' Veri Italiani, diretta sotterraneamente da quella stessa alta vendita che noi abbiamo denunciata, perchè è rovina alla causa, e che, prefiggendosi apparentemente gli stessi principî che noi predichiamo, va pure stillando negli animi la massima che nessun moto è da tentarsi, che l'Italia è impotente a reggersi insorta, che dalla sola Francia può partire il segnale.—E guai se coteste massime filtrano negli Italiani! Guai se i buoni, come siamo noi e siete voi, non le contrastano a viso aperto!

«Riflettete. Il partito dell'Austria, e però delle potenze del Nord, è preso: guerra, guerra inevitabile a qualunque progresso italiano, perchè qualunque progresso è mortale all'Austria; guerra, ne segua che può. E quando essa vide il pericolo non si arretrò nè davanti a patti di non intervento, nè a minaccie nè ad altro. Volete ch'essa si rassegni a morire? A morire vilmente? Essa avventurerà la vita per tentare la vittoria, anzichè rimanersi spettatrice inerte de' nostri progressi. La guerra coll'Austriaco noi non possiamo evitarla mai, sia che moviamo a gradi, sia che ci lanciamo d'un balzo all'ultimo della carriera. La speranza di evitare questa guerra è la causa che ha perduto tutte le nostre rivoluzioni. L'avere posto i re a direttori dell'impresa italiana ci ha tratto in fondo fino ad oggi. Perdio! Ricadremo ne' vecchi errori? Attraverso tanto sangue di martiri sparso per questa Italia che vogliamo liberare, torneremo ancora una volta al punto d'onde partimmo?

«Torneremo nel 1834, al 1821?

«Io non vi ho parlato di principî perchè in politica l'unica vertenza che può esistere fra gente come noi siamo non può posare che sulla questione di fatto, di possibilità o d'impossibilità, ma pure è necessario ch'io il dica; è necessario che sappiate a che attenervi circa alle intenzioni della Giovine Italia. Nulla è mutato alle sue leggi, al suo scopo, ai mezzi ch'essa intende di scegliere e di porre in opera. Però essa insiste ed insisterà nel suo grido repubblicano, essa rifiuterà qualunque transazione s'offrisse: essa crede alla potenza di rigenerarsi in Italia, alla possibilità della iniziativa italiana in Europa, al dovere di ogni buon Italiano di promuoverla con ogni mezzo. L'impresa è grande, ma per questo è italiana. Per questo io v'invito a promuoverla. Non vi sviate per quanto v'è di più sacro, dietro a speranze chimeriche: queste speranze le abbiamo nutrite un giorno noi pure: poi una accurata disamina e un addentrarci più sempre nel segreto delle Corti alleate, e un'intima conoscenza delle molle che pongono in gioco queste voci di transazione, ci hanno convinti che nulla v'ha da sperare se non nell'armi[157], nel popolo e nei popoli. Come intendiamo adoperar queste forze vi dirò domani in un'altra mia alla quale io vi pregherò di risposta.

«Dio voglia, per l'Italia e per noi, ch'essa sia quale io la invoco e la spero.

«Ho scritto a voi; ma, come bene intendete, per tutti i buoni che sono con voi e che vi prego d'abbracciare per me.

«Siatemi fratelli, e innanzi.»

Quella lettera fu scritta nel 1834. Tredici anni dopo, quando l'entusiasmo per Pio IX toccava i limiti della follìa e Montanelli—anima buona, ma debole e affascinata successivamente dalla Giovine Italia, dai sansimoniani, dai neo-cattolici, da Gioberti, da tutti e da tutto—mi scriveva cose mirabili intorno alla trasformazione del papato e all'accordo del dogma cattolico coi progressi dello spirito umano, insistendo perch'io parlassi da convertito o tacessi, io rispondeva il 16 luglio 1847: «.....Nell'impossibilità di ricreare la fede in un dogma oggi essenzialmente in cozzo coi progressi irrevocabili dell'intelletto spinto a nuovi mondi da Dio padre ed educatore, voi vi troverete colla nuda e sola morale; e io so che nessuna morale può durare feconda di vita nell'umanità senza un cielo e un dogma che la sopportino. . . . . . . . . Lascio al tempo la verificazione dei miei presagi, e s'io vedrò la vita dell'umanità rinnovarsi nella vostra credenza, io mi prostrerò riverente agli altari dei nostri padri.

 

«Andreste errato di molto se credeste me e quelli che stanno con me intolleranti, esclusivi adoratori dei principî democratici repubblicani e trattenuti per quelli dall'unirci a voi. L'avvenire democratico repubblicano, non al modo degli Stati Uniti ma ben altro e ben altrimenti religioso e derivante dall'autorità bene intesa, m'apparisce così inevitabile, così connesso col disegno provvidenziale che si manifesta nella progressione storica dell'umanità, ch'io non sento bisogno alcuno d'essere intollerante. . . . . . Se oggi dunque la maggioranza buona della nazione s'accentrasse intorno a un papa o a un re e lo gridasse iniziatore de' suoi destini e questo papa o questo re li iniziasse davvero, io primo dimenticherei che questo re m'ha rapito il mio primo e migliore amico, che questo papa rappresenta essenzialmente una credenza o per meglio dire un ricordo d'autorità contro la quale tutta l'anima mia si ribella; e accetterei la bandiera ch'egli m'offrisse e darei quel che m'avanzasse di vita e di sangue e persuaderei gli amici miei a far lo stesso. . . . . . . Bensì, dov'è essa questa bandiera intorno alla quale vorreste avermi? Io non conosco che una sola bandiera, quella della nazione, quella dell'unità. Io vi sacrificherei per un tempo, tutte l'altre parole che vorrei scritte sul vostro vessillo; ma quell'una no. E mi parrebbe di tradire Dio, la patria e l'anima mia. . . . . . .

«Non so se voi conosciate il papa, se ne abbiate quindi potuto ottenere nel colloquio privato quella fede ch'io non potrei trarre se non dai fatti. A me i fatti sinora non rivelano che il buon uomo, il principe che tra per le necessità dei tempi più minacciosi ne' suoi Stati che non altrove, tra per la bontà del cuore, ha dovuto vedere se amministrando un po' meglio, con un po' più di tolleranza, con un po' più d'amore, le condizioni de' suoi sudditi, non si potrebbe imporre fine ai tumulti, alle congiure, alle insurrezioni fatte ormai permanenti. Dati i primi passi, gli applausi poco dignitosi degli uni, le esagerazioni, ipocrite nei più, [158] d'entusiasmo. . . . . gli hanno fatto legge di durare nella benevolenza, nelle parole della gratitudine e della fiducia. Più in là non vedo per quanto io mi faccia. . . . . . Ho taciuto sempre per non essere accusato di nuocere a progetti ignoti e ho studiati attentamente gli atti, le parole del papa e degli scrittori moderati. Per questi ultimi ho spesso arrossito; ma nel papa, io lo ripeto, non ho potuto vedere che l'uomo buono, senza una fede, tentennante fra l'Austria e le proprie tendenze, senza una sola delle intenzioni italiane ch'altri ha voluto vedere ne' suoi primi atti. S'io m'inganno, il primo fatto che mi smentirà mi troverà pronto a ravvedermi. Ma fino a quel fatto, dov'è la bandiera di Pio IX? Dov'è la bandiera italiana senza la quale io non intendo unione possibile ed efficace? Io invecchio e non posso facilmente farmi entusiasta di sogni e di sogni, dato che tali fossero, pericolosi. . . . . . .

«Non approvo la strategìa che m'indicate in poche linee, ma prima di dirvi il perchè, vorrei farvi intendere che il mio non approvarla non parte da spirito di liberalismo cospiratore. La cospirazione non è per me un principio, è un tristissimo fatto, un derivato d'una condizione di cose che la rende indispensabile. Tutte le mie tendenze individuali stanno per la pubblicità e voi dovreste farmi giustizia e ricordare che lasciandomi spesso tacciare di imprudenza, ho aggiunto fino dalle prime mosse la pubblicità al lavoro segreto; che la Giovine Italia si mise subito in aperto contrasto colla vecchia Carboneria fissa a voler procedere in tutto e per tutto nell'ombra; che da noi si fece segretamente quello che non poteva farsi pubblicamente, ma che inalzammo una bandiera e ci cacciammo a tenerla levata a viso aperto e come predicatori di principî. Se v'è chi m'apra una via di predicare unità di nazione in Italia, io lo benedirò e verrò immediatamente in Italia. Ma qualunque predicazione non abbia quel nome, quel vocabolo a principio e fine, tornerà, temo, non solamente inutile ma dannosa. Io non posso accettare la strategìa che mi proponete perchè non può condurre a quel fine; può condurre a conquistare qualche miglioramento amministrativo, qualche concessione, qualche riforma di codici; può condurre, se pur volete, a conquistare una porzioncella omiopatica di libertà a ciascuno dei molti Stati in cui siamo divisi, non già a riunirli, a farne nazione: può condurre, se vi ci concentriamo tutti, a sviare gli animi dalla meta, a persuadere le popolazioni italiane che possono migliorare le loro condizioni sotto gli attuali governi, a dare sfogo all'attività concentrata dei giovani che un giorno avrebbe prodotto l'esplosione nazionale, a cacciare nuovi germi di divisioni federalistiche, a creare vanità locali, a generare spirito di machiavellismo e di tattica dove abbiamo bisogno di fede, sincerità e virtù vera. . . . .

«Mentr'io m'era deciso di tacere, sento ormai dovere di parlare e parlerò fra non molto. Non parlerò esclusivo come parmi temiate; parlerò d'Italia e d'unità nazionale, perchè i più fra i vostri la pongono in dimenticanza; e mentre voi continuerete a giovarvi delle occasioni che, non l'amore ma la debolezza dei governi vi porge, per spingere innanzi le popolazioni assonnate e divise, io procurerò di tenere alzata la santa bandiera, sì che, sospinte, sappiano a che fine dirigersi: dirigersi, badate, quanto lentamente casi e tempi vorranno—la nostra non è questione di tempo—ma dirigersi continuamente a quell'unico intento che le moltitudini potrebbero facilmente dimenticare per adagiarsi nel lett[159]o di rose dei miglioramenti materiali e amministrativi:—soli che voi, seguendo il metodo attuale, possiate ottenere e precariamente. . . »

E più dopo ancora, il 3 gennajo 1848, io scriveva a Filippo de Boni:

«. . . . . . . . . . Non so con quale occhio vediate ora l'andamento delle cose nostre; ma due fatti son certi: il retrocedere del papa e il pessimo maneggio dei moderati. Abbiamo taciuto: ceduto quanto si poteva; ma non giova. Il silenzio è interpretato come congiura, e sapete che vanno ripetendo per ogni dove ch'io sto maneggiando per un moto repubblicano immediato! Perduto il papa, impazziscono pel primo capitano d'Italia, l'eroe del Trocadero: perduto quello, impazziranno pel Granduca; più tardi Dio sa per chi. Che sperare per la rigenerazione d'Italia da un partito che grida viva il re di Napoli dopo le atrocità di Messina e di Reggio e stende petizioni a quel re imbrattato di sangue? da un partito che predicò nel Risorgimento l'unità d'Italia essere assurda, illegale, funesta? da un partito che ne' suoi giornali comincia a transigere coll'Austriaco e insinua che anche lo Stato del Lombardo-Veneto migliorerà? da un partito ch'è una menzogna in faccia a sè stesso, che si dichiara, in molti de' suoi membri, unitario e nondimeno imprende a educare, terrorizzando, il popolo all'eccellenza del federalismo, salvo, come dicevano in un convegno tenuto in Genova per la Lega, a educarlo più tardi alla eccellenza dell'unità? Coscienza di scrittori e d'apostoli.

«Mentr'io vi scriveva, giunge la vostra; e sospendo la mia tirade contro i moderati, dacchè vedo che consentiamo. . . . . . Dal vostro silenzio argomento che, voi non avete ricevuto la mia Lettera al papa, ch'egli ebbe in settembre e ch'io ho consentito si stampasse perchè mi pare che da un lato possa far sentire vieppiù il contrasto fra' suoi doveri e la sua attuale condotta, e che dall'altro mantenga saldo il nostro principio dell'unità.

«. . . . . . . . . Con tutta l'avversione ch'io ho a Carlo Alberto, carnefice dei migliori miei amici, con tutto il disprezzo che sento per la sua fiacca e codarda natura, con tutte le tendenze popolari che mi fermentano dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da tanto da essere veramente ambizioso e unificar l'Italia a suo pro, direi amen.

«Ma ei sarà sempre un re della Lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la prenderà non farà che impaurir l'Austria e ritenerla forse nei suoi confini, che i re della Lega rispetteranno; e questo è il peggio.

«. . . . . . . . . . Vidi il nome vostro fra i collaboratori della Concordia. Vorrei foste scelto a dirigere quel giornale. Valerio è una delle migliori anime ch'io mi conosca in Torino; ma minaccia da molto di cadere in quella politica sentimentale creata da taluno fra i neo-cattolici, che perdona tutto, spera tutto da tutti, abbraccia re, popoli, federalisti, unitari, e intende che la risurrezione d'Italia si compia in Arcadia. Il titolo stesso è arcadico. Concordia? Tra chi?. . . . . . »

Tra questa lettera e l'altra indirizzata a Montanelli io scrissi la lettera a Pio IX contenuta in questa edizione. Quello scritto mi fu apposto da uomini deliberati di trovare a ridire quasi deviazione politica e prova a ogni modo di credulità nelle intenzioni del papa. I critici o non lessero o non capirono, per ansia di cogliermi in fallo, la mia lettera. Le forme adottate furono quelle[160] senza le quali, nell'Italia, allora tutta farneticante, non un uomo l'avrebbe letta. Ma la sostanza diceva a Pio IX: «Albeggia un'epoca nuova: una nuova fede deve sottentrare all'antica: questa nuova fede non accetterà interpreti privilegiati fra il popolo e Dio. Se volete, giovandovi dell'entusiasmo ch'or vi circonda collocarvi a iniziatore di quell'epoca, di quella fede, scendete dal seggio papale e movete apostolo del Vero tra le turbe come Pietro Eremita predicatore della crociata. Il popolo vi saluterà capo e fonderà in Italia uno Stato che cancellando l'atea formola: sia dato l'uomo interno alla Legge e all'Amore, l'esterno alla Forza; adorerà l'altra: l'uomo interno e l'esterno, l'anima e il corpo son uno: una è la legge che deve dirigerli»—e diceva agli italiani: «È necessario che Pio IX sia tale, s'ei deve rigenerarvi e crear l'Italia: or lo credete da tanto?»

Se quella lettera non fu intesa allora a quel modo da una gente che delirava, non è colpa mia. Ma quei che dopo aver delirato e più volte cogli altri s'atteggiano oggi a critici puritani del mio passato, sono fanciulli davvero e non meritano ch'io mi dilunghi a confutare le loro accuse.

Sei mesi dopo ch'egli aveva avuta la mia lettera Pio IX dava, coll'enciclica del 19 aprile 1848, una solenne smentita alle adorazioni dei neo-guelfi e ai sogni dei moderati. Se non che ad anime siffatte tornava facile ogni cosa fuorchè il rinsavire. I neo-guelfi si tramutarono in ghibellini; i moderati, che avevano dissertato a provare la sola via di salvar l'Italia esser nel congiungimento del pastorale colla spada, dissertarono a provare che la spada d'Italia bastava. Nel marzo intanto quella spada, che potea salvare davvero l'Italia, era stata snudata dal popolo nel Lombardo-Veneto e poco prima in Sicilia. E il primo suo lampeggiare in Sicilia aveva convertito i principi agli ordini costituzionali e ottenuto in un subito più assai che non avevano ottenuto le tattiche adulatrici di tutto un anno: il secondo in Milano aveva sgominato un esercito creduto fin allora invincibile e affrancato quasi dal nemico straniero il suolo d'Italia. La vera forza era dunque visibilmente nel popolo. Bastava intenderlo: bastava dire al popolo: prosegui, l'impresa è tua—ai principi: alleati tutti, padroni nessuno—ai principi, al popolo, all'Europa: vogliamo essere uniti, liberi, forti: vinta la guerra dell'indipendenza, l'Assemblea nazionale deciderà in Roma degli ordini coi quali dovrà reggersi l'Italia—perchè l'impresa si compisse in guisa degna di noi. Un governo d'insurrezione e di guerra—e il nucleo di quel governo esisteva nella commissione delle Cinque giornate—che avesse affratellato in sè l'elemento lombardo col veneto e chiamato qualch'altro dalla Sicilia e d'altrove, avrebbe, col programma accennato, unificato fin d'allora l'Italia.

Se non che i moderati dai quali l'insurrezione lombarda era stata fino all'ultimo giorno avversata come impossibile—che avevano, richiesti, spronati dai nostri, contribuito fra tutti d'una misera somma di settemila lire italiane alla lunga agitazione anteriore—e che avevano invariabilmente alternato fra i tentativi di conciliazione coll'Austria e gli inutili maneggi segreti colla monarchia piemontese—s'impossessarono del moto appena lo videro trionfante; gli uomini della commissione delle Cinque giornate abbandonarono, per disdegnosa noncuranza, il potere a un governo provvisorio che disprezzavano—e i giovani che avevano antiveduto, preparato, capitanato sulle barricate il moto del popolo, inesperti, soverchiamente modesti e paghi dei gloriosi fatti compiti, si ritrassero dall'arena quando importava tenerla.[161]

Quei giovani erano nostri. Nostri, esciti pressochè tutti dalla Giovine Italia, amici miei e in contatto con me, erano Mora, Burdini, Romolo Griffini, il povero Pezzotti, Carlo Clerici, De Luigi, Ercole Porro, Daverio, Bachi, Ceroni, Antonio Negri, Bonetti, Pietro Maestri e gli altri che avevano, stretti a nucleo e consigliandosi talora con Carlo Cattaneo, educato il popolo all'abborrimento dello straniero, diffuso scritti popolari, predicate le idee, insegnato ai giovani la coscienza della propria forza, ispirata e diretta l'agitazione progressiva che affratellò le moltitudini nel concetto e deliberato il moto quando giunse la nuova delle concessioni imperiali: nostri e giova or dirlo e nominarli, dacchè nessuno lo disse o li nominò. Al nucleo di quei giovani repubblicani appartenevano Emilio Visconti Venosta oggi ministro e un Cesare Correnti, spettabile per ingegno ma appestato di scetticismo e senza fede ne' principii, della cui rovina m'occorrerà tra non molto dar cenno.

Taluno fra quei buoni si lasciò, poco prima del moto, sedurre dal raggiro monarchico e scese, a insaputa del nucleo, a patti coi faccendieri torinesi che mentivano quando promettevano ajuti ma che presentivano possibile l'insurrezione e miravano a impadronirsene. Errarono tutti—e lo noto perchè l'errore si ripete generalmente nelle insurrezioni e le svia—affaccendandosi a prestabilire un governo. Il governo d'una insurrezione deve sorgere dall'insurrezione stessa; tra i più arditi e a un tempo avveduti a guidare il popolo nella lotta. Scegliendolo prima, la scelta cade inevitabilmente sovr'uomini stimati influenti per uffici anteriori o ricchezza o tradizioni di famiglia, buoni forse, ma che non avendo il segreto dei santi sdegni e delle sante audacie del popolo, non hanno fiducia in esso nè intelletto d'iniziativa rivoluzionaria nè coscienza del fine cercato dall'insurrezione e tradiscono, sovente inconsci, il mandato per ignoranza o paura. Noi vedemmo nell'ultimo mezzo secolo insurrezioni repubblicane date al governo d'uomini d'opposizione monarchica—insurrezioni contro il dominio straniero fidate a individui che avevano patteggiato con esso accettandone incarichi pubblici—insurrezioni preparate e iniziate, come in Polonia, dall'elemento democratico, cedute all'influenza di principi e aristocrazie, consumarsi miseramente in un cerchio di transazioni che senza fruttare un solo ajuto reale dai governi, incepparono, limitarono, spensero l'energia popolare e l'entusiasmo delle nazioni sorelle. In Lombardia—dacchè per inopportuna modestia, fiacchezza o noncuranza colpevole, i promotori dell'insurrezione si ritrassero dal dirigerne lo sviluppo—il governo fu dato a uomini inetti come Casati, aristocratici come Borromeo, raggiratori come Durini: anime di cortigiani che non potevano vivere senza padrone e cacciarono popolo, libertà, avvenire d'Italia e ogni cosa, senz'ombra di patti a' piedi di Carlo Alberto.

Quand'io giunsi in Italia, era tardi per ogni rimedio. I moderati guidavano dominatori: gli altri seguivano ciechi: il popolo, tra il quale avevano diffuso le più atroci calunnie a danno dei repubblicani, fidava illimitatamente nel re.

Due partiti s'affacciavano a un uomo della mia fede.

Ritrarsi; e come Trasea escì, ravvolta la testa nel manto, da un senato corrotto e tremante, allontanarsi da una terra dimentica dei principii e condannata a rovina: ricalcare le vie dell'esilio e dall'esiglio tenere levata in alto la bandiera repubblicana: non guardare a tempi nè ad uomini e dir tutta la verità, inascoltato, maledetto dai vivi, perchè i posteri la ricevessero [162]un giorno e ammirassero chi non l'aveva taciuta mai:—ed era partito al quale tutte le sdegnose tendenze dell'animo mio mi spronavano.

Rassegnarsi all'onnipotenza dei fatti e tentare lentamente di modificarli tanto da trarne un grado di progresso verso non foss'altro un dei termini del problema, l'unità: non separarsi dai proprî fratelli perchè sviati: non interrompere, collocandosi in una sfera per allora inaccessibile ad essi, la tradizione emancipatrice iniziata: confutare colla pazienza dell'onesto e colla mesta riverenza alla volontà del paese le accuse d'intolleranza, di spiriti esclusivi e dittatoriali, versate sui repubblicani: tacere, senza apostasia, parte del vero perchè l'altra possibilmente prevalesse; percorrere col popolo e senza illusione la via crucis delle delusioni onde conquistare il diritto di dirgli un giorno: io era teco: ricordati; insegnare a ogni modo l'amore, e il dovere perpetuo del sagrificio, anche della fama, e non del vero ma d'ogni orgoglio del vero, a pro di chi s'ama.

E mi scelsi quest'uno.

Taluni, molt'anni dopo—Giuseppe Sirtori unico allora—mi rimproverarono quella scelta. A Giuseppe Sirtori fondatore nel marzo del 1848 in Milano d'una società democratica e che, partendo per Venezia, mi scrisse ch'io disertava, non m'occorre rispondere: egli è oggi generale di re e credente nella onnipotenza del regio statuto; io sono tuttavia esule e repubblicano. Ma agli altri, fratelli miei di credenza, dirò ch'io ho ripensato sovente a quel periodo della mia vita con profonda tristezza, ma senz'ombra di rimorso. Noi eravamo fatti, quand'io giunsi in Italia, impercettibile minoranza. Il popolo non era—nè sarà mai in Italia monarchico; ma era ciò che oggi chiamano opportunista: vedeva una forza ordinata, un esercito d'italiani presto a combattere contro l'abborrito straniero e, a quanto gli predicavano uomini tenuti fino a quell'ora da esso in conto di apostoli della libertà, unica sua salute: quell'esercito era capitanato da un re; le acclamazioni salutavano quindi liberatori, esercito e re. Sul compirsi della quinta giornata, quando il popolo, ebbro di vittoria, era solo sull'arena, la parola repubblica avrebbe potuto proferirsi: nell'aprile avrebbe suscitato, e senza pro, la pessima fra tutte guerre, la guerra civile. D'altra parte, perchè parlare a ogni tratto di sovranità popolare, di riverenza alla volontà del paese, e tenerle in niun conto non sì tosto si pronunziassero in modo diverso dal desiderio? Non toccava a noi repubblicani più che ad altri educare gli animi, salva la missione di modificare le idee coll'apostolato, al dovere di non violarle colla forza? Il diritto d'iniziativa era in noi quando, schiavo universalmente il nostro popolo, noi dovevamo, noi soli potevamo aprire la via: desto e libero il popolo, non avevamo diritto fuorchè di consiglio, di voto, o d'azione in virtù d'un mandato affidatoci. E quanto al ritrarci nell'isolamento per poter dire tutto il vero, pareva a me tentazione dell'io inconsciamente geloso più di sè stesso, della propria dignità o del proprio atteggiarsi pei posteri, che non del fine da raggiungersi e della patria, traviata, inferma, ingannata, pur sempre patria, cara e sacra pel passato e per l'avvenire. Rousseau poteva vivere solitario e dire senza reticenze quanto parevagli vero, perch'ei non tentava nè presentiva la Rivoluzione imminente nella sfera dei fatti; ma per noi, per me, la Rivoluzione era iniziata: egli era uomo di pensiero soltanto, noi di pensiero e d'azione. E se avevamo una missione speciale, era quella appunto di tradurre sempre—come e quanto concedevano le circostanze—il pensiero in fatti: se un insegnamento poteva escire dalla nostra vita era quello di non separarsi mai dalle sorti della[163] nostra terra, di dividere tutti i palpiti della sua vita, di menomarne i mali o tentarlo quando non potevamo distruggerli, di conquistarle un grado d'educazione, una frazione dell'ideale, quando l'ideale stesso era—per colpe non nostre—impossibile.

Praticamente io antivedeva la rovina della guerra regia: ma una speranza m'accarezzava l'anima sconfortata; e quella speranza avea nome Venezia. Su Venezia sventolava la bandiera repubblicana. Quando l'imbecillità e il tradimento avrebbero consumato l'opera loro nella Lombardia, gli occhi di tutti, liberi di false visioni, si sarebbero rivolti a quella bandiera. Da Venezia, fatta centro di resistenza e guida, avrebbe potuto risorgere la guerra del popolo. Per questa idea ch'io taceva, io avviava la legione Antonini a Venezia: per questa io consigliava a Garibaldi, reduce da Montevideo, di recarvisi a porre se e il suo nucleo di prodi a' cenni del governo veneto: per questa tentai più dopo di concentrarvi i Polacchi condotti dal poeta Mickiewicz. Se non che l'imbecillità e il tradimento dovevano distruggere, consumando l'opera loro in Milano, ogni possibilità d'una nuova chiamata alla Lombardia.

Ho nominato la legione Antonini. E la seguente lettera ch'io indirizzai a Lorenzo Valerio, direttore della Concordia, giornale torinese, ricorderà come i moderati d'allora intendessero in modo non dissimile da quei d'oggi l'unione dei partiti e come incoraggiassero i nostri sforzi.

«Signore.—In alcune linee inserite nel vostro numero del 25 aprile è parlato della banda d'operai male intenzionati provenienti di Francia e scesi, credo, il dì dopo in Genova, per avviarsi qui dove si combatte la guerra dell'indipendenza. La banda male intenzionata è una legione d'Italiani che all'annunzio ricevuto in terra straniera dell'insurrezione lombarda decisero raggiungere in ogni modo i combattenti la guerra santa. Il danaro indispensabile per la mobilizzazione del corpo fu raccolto dall'Associazione nazionale italiana alla quale io presiedo; e il cui programma ripubblicato da più giornali d'Italia e approvato dalla vostra censura, non espresse altro simbolo fuorchè l'indipendenza e l'unificazione d'Italia. Dall'Associazione escirono i capi della legione e le norme regolatrici della mossa. Il capo che la dirige è il generale Antonini, incanutito nelle guerre di Francia e di Polonia.

«La mossa fu preceduta da un indirizzo della legione ai loro fratelli italiani, che fu reso pubblico in parecchi giornali, forse nel vostro, e che avrebbe dovuto meritare agli uomini che lo dettarono risposta fraterna assai diversa dalle misere calunnie diffuse da non so chi e che mi pesa vedere riprodotte nel vostro giornale. La legione fu accolta in Genova con apparato di precauzioni governative, e quel ch'è peggio, con tale una freddezza dalla ingannata popolazione genovese che dev'essere stata punta mortale al cuore d'uomini che accorrevano a dare il sangue per la patria loro e molti de' quali si erano preparati a missione siffatta con lunghi anni d'esilio e patimenti virilmente incontrati.

«È duro il discendere dopo lunga assenza e col palpito di chi cerca e merita amore, sulla propria terra, e incontrarvi calunnie e minaccie ridicole, è vero, di bajonette. È duro l'accorrere lietamente, in nome d'Italia, ad affrontare le palle austriache per la libertà del paese, e trovarsi a un tratto fra volti diffidenti e irosi, tra gente che accusa la parola e il silenzio d'ingratitudine e d'anarchia. Poco importa del resto. Gli uomini devoti a un'idea non aspettano conforti se non dalla propria coscienza e da Dio; ma stimandovi co[164]m'io vi stimo, ho sentito necessità prepotente di richiamare la vostra attenzione sul carteggio dei vostri corrispondenti di Genova, perchè le colonne della Concordia non si contaminino di ben altre ingratitudini che non quelle di che s'accusano in oggi, per nuova moda, uomini che hanno lungamente amato, patito, operato, quand'altri taceva, per la patria loro, unicamente perchè non rinnegano a un tratto le credenze maturate per vent'anni di studî e «d'esiglio.»

Milano, 27 aprile 1848.

Accettai dunque—e i miei amici accettarono con me—i fatti compiuti come terreno donde movere innanzi. Piegammo la testa alla manifestazione della volontà popolare che diceva monarchia e pensammo a provvedere, per quanto era in noi al trionfo d'una guerra che si combatteva sotto bandiera non nostra, ma che ricacciando l'Austria oltre l'Alpi potea farci liberi di conquistare l'unità della patria. Ma rassegnandoci al silenzio, non rinnegammo la fede nel nostro ideale. Ci offrimmo alleati leali e a tempo del campo regio; non dichiarammo che quel campo era il nostro. Sospendemmo, come inopportuna e pericolosa all'impresa emancipatrice dallo straniero, la predicazione dei nostri principî; non ci facemmo predicatori di principî contrarî. E lo dico pensando ai molti, i quali repubblicani giurati ieri, sono, mentr'io scrivo, giurati monarchici, non per convincimento mutato, ma per ciò ch'essi chiamano tattica e non è se non mancanza d'una fede qualunque. Essi non potranno mai, checchè tentino, richiamarsi all'esempio nostro. Noi ci mantenemmo puri di menzogna e d'ossequio servile; essi no. Dimenticando che primo, supremo dovere verso un popolo che sorge a nazione è l'educazione morale alla dignità dell'anima e alla costanza, essi, sperando in quel modo ottenere qualche miglioramento finanziario, qualche riformuccia amministrativa dalla parte avversa, gittano a' piedi della monarchia il presente e l'avvenire; accettano incondizionatamente l'istituzione contro la quale predicavano pochi anni addietro; giurano che da uno Statuto, il cui primo articolo è violazione della libertà di coscienza, escirà logicamente ogni sviluppo possibile di libertà; teorizzano sull'assurdo equilibrio dei tre poteri; s'irritano, pur sogghignando nel loro segreto, se il sacro inviolabile nome del re è tratto sull'arena da un incauto ministro e dichiarano che tutta la questione italiana si risolve in un mutamento, non di principî, ma d'uomini. E gli avversi ridono delle proteste additando, col rancore di chi non perdona, il passato, e il popolo attinge in quel machiavellismo d'evoluzioni un insegnamento d'immoralità o un senso di sfiducia egualmente dannosi. Quei che verranno dopo noi li diranno apostati; io li compiango deboli e malati della malattia d'un secolo scettico e senza ideale.

I pochi rimasti, nel 1848, fedeli all'ideale repubblicano seppero rispettare la volontà, suprema s'anche errata, del popolo e serbarsi nondimeno incontaminati. E v'insisto perchè, mentre taluni ci accusano d'avere deviato in quel periodo dalla fede, i più persistono, ingannati dalle calunnie d'allora, a credere che da noi escissero per avventatezza repubblicana, semi d'anarchia e di ruina nel conflitto contro lo straniero. Donde escissero quei semi è accertato negli scritti del volume anteriore, nella memoria di Carlo Cattaneo Sull'insurrezione di Milano e nell'Archivio triennale delle cose d'Italia. A me, in questo lavoro che compendia la tradizione repubblicana italiana negli ultimi trentaquattro anni, importa provare come il nostro linguaggio rimanesse invaria[165]bilmente conforme al programma di condotta adottato; tanto che gli Italiani sappiano potere la parte nostra ingannarsi ma non ingannare.

Quel programma di condotta—unità nazionale anzi tutto; guerra concorde contro lo straniero: sovranità del paese da interrogarsi al finir della guerra—era già indicato sin dal febbrajo e prima dell'insurrezione lombarda in una lettera ch'io indirizzai ai Siciliani e che riproduco:

«Siciliani!—Voi siete grandi. Voi avete in pochi giorni fatto più assai per l'Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni d'agitazione, di concitamento generoso nel fine, ma incerto e diplomatizzante nei modi. Avete, esaurite le vie di pace, inteso la santità della guerra che si combatte per le facoltà incancellabili dell'uomo e del cittadino. Avete, in un momento solenne d'ispirazione, tolto consiglio dalla vostra coscienza e da Dio: decretato che sareste liberi: combattuto, vinto e serbato la moderazione dei forti nella vittoria. E la vostra vittoria ha mutato—tanto i vostri fati sono connessi con quelli della penisola—le sorti italiane. Per la vostra vittoria s'è iniziato un nuovo periodo di sviluppo italiano: il periodo del diritto, delle istituzioni, dei patti sostituito al periodo delle concessioni e delle riforme. Per la vostra vittoria, il popolo italiano ha riconquistato la coscienza delle proprie forze, la fede in sè. Per voi, noi, esuli dall'Italia, passeggiamo con più sicura e serena fronte tra gli stranieri che ieri ci commiseravano ed oggi ci ammirano. Dio benedica l'armi vostre, le vostre donne, i vostri sacerdoti e voi tutti, come vostri fratelli v'amano e v'ameranno d'amore perenne e riconoscente.

«Ma perchè noi v'amiamo riconoscenti, perchè ripetiamo con orgoglio il vostro nome e le vostre gesta ai nostri ed agli stranieri perchè salutiamo in voi un elemento iniziatore di progresso italiano, noi abbiamo diritto di parlarvi liberi come fratelli a fratelli: abbiamo diritto di ricordarvi i nostri comuni doveri: abbiamo diritto di dirvi: voi siete nostri; voi non potete staccarvi da noi, non potete esservi rivelati ottimi fra quanti abitatori ha l'Italia, per ritrarvi, per isolarvi. Foste grandi di prodezza e d'onore davanti agli obblighi del presente; noi vi chiediamo d'essere grandi nell'amore, grandi nel presentimento dell'avvenire.

«Voi siete in oggi parte importante, vitale, dello Stato più popoloso, più forte per posizione, navigli e armi, d'Italia. Primi a levare in esso il grido di libertà, primi al trionfo, salutati d'ammirazione concorde dai vostri concittadini di terra-ferma, voi avete conquistato una influenza che non morrà, una potenza morale che nessuno vuole o può contrastarvi, diritti che nessuno s'attenterà più di rapirvi. Perchè scemereste, separandovi, forza ai vostri concittadini e a voi? Perchè dal rango che, uniti, potete occupare in Europa, scendereste, per volontario suicidio, al quarto, all'ultimo rango, condannandovi a debolezza perenne e alla inevitabile influenza straniera? Perchè il governo di Napoli v'ha lungamente oppressi e trattati come popoli di colonia? Ma non pesava la stessa tirannide su' vostri concittadini di terra-ferma? Non l'abborrivano, non l'abborrono essi, come voi l'abborrite? Non protestarono colle congiure, colle associazioni segrete, col sangue dei migliori fra i loro? Non furono i vostri carnefici carnefici ai Napoletani? Non corsero più volte patti solenni d'insurrezione tra voi e gli uomini delle Calabrie? Non ebbero quei patti solenne manifestazione in faccia all'Italia, in faccia all'Europa, nella bandiera levata fra l'agosto e il settembre del 1847, per entro il b[166]reve cerchio di quarantotto ore, in Reggio e in Messina? Ah, non dimenticate, o Siciliani, l'alleanza che i martiri di Reggio e Messina e Gerace segnarono del loro sangue. Non tradite nella vittoria le sante promesse della battaglia. Siate ora e sempre fratelli, come giuraste. Non fate che lo straniero dica esultando: saranno liberi forse, uniti e potenti non mai. Avete insegnato all'Italia la potenza del volere; insegnatele la santità dell'amore, insegnatele la religione dell'unità che sola può ridarle gloria, missione e iniziativa, per la terza volta in Europa.

«Io non sono napoletano. Nacqui in Genova, città grande anch'essa una volta per vita propria, libera, indipendente: grande per aver dato, nel 1746, all'Italia sopita l'ultimo esempio di virtù cittadina, come voi avete or dato il primo all'Italia ridesta. Come voi, fummo nel 1815 dati, senza consenso nostro, a un altro Stato d'Italia col quale pur troppo i ricordi del passato aspreggiavano le contese e dal quale pur troppo, come avviene sempre in ogni unione non liberamente scelta, ma decretata dall'arbitrio straniero, avemmo per molti anni più danni assai che vantaggi. E non per tanto, quanti fra noi amavamo la patria comune, quanti avevano desiderio e certezza dell'avvenire, salutarono quella unione come fatto provvidenziale. In questo lento ma costante moto di popolazioni oggimai vicino al suo termine che, logorate con lavoro di secoli influenze di razze dominatrici, aristocrazie feudali, ambizioni di municipî discordi, prepara all'Europa, dopo l'Italia dei Cesari e l'Italia dei Papi, l'Italia del Popolo, ogni frazione di terra italiana unificata ad un'altra segna un trionfo per noi, una difficoltà pacificamente rimossa. Ogni smembramento sarebbe un passo retrogrado. Tolga il cielo che l'esempio funesto debba, o Siciliani, venirci da voi!

«La vostra questione, o Siciliani, sta, non fra Napoli e voi, ma tra voi e l'Italia futura, tra un alto insegnamento d'unione e un pessimo d'individualismo locale; tra l'Europa che deciderà dall'opere vostre se noi risorgiamo a nazione o a mero egoismo d'utile materiale e di libertà, e l'Austria che studia i modi di conculcarci e vi riescirà se invece di stringerci a falange serrata, ci confineremo nella formola immorale del ciascuno per sè, nell'esosa indifferenza alle sorti comuni; e sta fra la vita potente, attiva europea, che si prepara a venticinque milioni d'Italiani ricchi di mente, di cuore e di mezzi, e l'esistenza nulla, impotente, dominata dalla prima influenza straniera che vorrà soggiogarvi, destinata all'isola vostra se sola e non immedesimata coi fati della penisola. Pensatevi. Molti fra voi vi parlano di costituzioni vostre, di tradizioni, di diritto pubblico fondato su precedenti del 1812. In nome di Dio, non tollerate che la posizione conquistata da voi cogli ultimi fatti scenda a termini così meschini. Se poteste mai rassegnarvi a ritrocedere nel passato e cercarvi le origini del vostro diritto, rinneghereste a un tempo l'Italia futura e la coscienza che vi spronava a insorgere e vi meritava vittoria.

«Le origini del vostro diritto stanno, o Siciliani, non in una costituzione ineguale alle ispirazioni dei tempi che vi fu data quando il gabinetto inglese non aveva altro modo di far dell'Isola vostra una stazione militare per le sue armate e che vi fu tolta quando, caduto Napoleone, quel bisogno cessò; ma nella vostra gloriosa insurrezione del 12 gennajo e nell'entusiasmo con che essa fu accolta da un capo all'altro della penisola. E quel diritto non vi fallirà perchè fa parte del nuovo diritto italiano, diritto che non conosce i trattati del 1815 e darà la formola d'una nuova vita che[167] scenderà dalla nozione di Dio all'interpretazione del popolo: vita d'una nazione che non fu mai sino ad ora e sarà. Ma l'altro il vecchio diritto desunto da fatti non nostri, scritto un terzo di secolo addietro a formole ambigue come la parola dell'inganno, violato a ogni tratto dai principi e cancellate oggimai da pianto e sangue di molti popoli, riannetterebbe il vostro sviluppo a una tradizione di menzogne, vi travolgerebbe nelle reti d'una diplomazia corrotta e corrompitrice, e vi preparerebbe, presto o tardi, infallibilmente tradimenti eguali a quelli che già provaste.

«Siciliani, fratelli! Vi sentite voi forti per riassumere in voi soli la vita, quale un giorno sarà, dell'Italia, maturi per balzare d'un salto all'ideale che affatica l'anime nostre e costituirvi a un tratto con ordini di governo superiori a quanti esistono in oggi, nucleo e insegnamento vivo della nazione? In quell'unico caso, cesserebbe in me, cesserebbe in noi tutti, il diritto di scongiurarvi all'unione cogli Stati di terra-ferma. Ma se voi sentite prematuro il disegno, se tra voi e Napoli non corrono in oggi se non questioni di forme, d'istituzioni divergenti soltanto nei particolari, di maggiore o minore emancipazione locale, ascoltate la parola d'un fratello vostro che ama, dopo Dio, la patria comune e ha logorato in quell'amore la vita: è parola, oso dirlo, di tutta Italia. Ponete quel santo nome di nazione sulla bilancia, non date l'esempio d'uno smembramento ai fratelli che guardano in voi. Rimanete uniti ai vostri concittadini della penisola: uniti per combattere insieme ad essi le battaglie della libertà, per combattere fra non molto insieme a noi tutti le battaglie dell'indipendenza: uniti per confortarci del vostro aspetto e della vostra parola autorevole nei nostri parlamenti, nelle nostre adunanze: uniti perchè i fratelli, schiavi tuttora, si inanimiscano alla guerra sacra; uniti perchè lo straniero senta la virtù del sacrificio nell'anime nostre e ammiri; uniti perchè i fati dell'Italia si compiano, mercè vostra, più rapidi e l'umanità si rallegri e Dio protegga bella di potenza e d'amore la terra sua prediletta.»

Londra, 20 febbrajo 1848.

Poco dopo, nel programma dell'Associazione nazionale italiana ch'io fondai, nel mio breve soggiorno in Parigi, il 5 marzo, io diceva:

«. . . . . . . . . . . . Qualunque sia, nelle nostre menti il concetto del progresso futuro, qualunque la forma che lo rivelerà alle nazioni europee, noi tutti sappiamo che fummo grandi—che vogliamo e dobbiamo esser grandi, più grandi che mai non fummo pel bene della patria e dell'umanità—e che nol possiamo se non vivendo d'una vita comune, ordinandoci forti e compatti sotto una sola bandiera, affratellandoci in un solo patto d'amore, sommando in una tutte quante le facoltà, le forze, le aspirazioni del core e del senno italiano. Sappiamo che tra noi e quel patto d'amore fraterno ed uno sta l'Austria—che all'Austria soggiacciono molti milioni d'Italiani fratelli nostri—che prima della loro emancipazione noi non possiamo aver patria—che vita, libertà, forza, unità, securità di progresso, saranno menzogna per noi, finchè non avremo con guerra aperta, ostinata, irreconciliabile, cacciato oltre le ultime Alpi lo straniero che contamina le nostre contrade. Sappiamo che fintantochè un solo Italiano avrà chiuso il labbro e compresso il pensiero dalla forza brutale straniera, tutto sarà per noi provvisorio e incerto; e a fronte dei nostri patti, dei nostri imperfetti progressi quell'Italiano potrà sorgere e dire: [168] io pure nacqui sul vostro terreno: a me pure Dio rivelava parte dell'idea che l'Italia è chiamata a rappresentare nel mondo: e il mio labbro fu muto e il mio senno e il mio cuore non ebbero parte nei vostri consigli, nei decreti ai quali voi volete ch'io, non consultato, soggiaccia.

«Rappresentare questo pensiero, questa comune credenza è l'intento dell'Associazione in nome della quale parliamo. L'Associazione non è toscana, piemontese o napoletana; è italiana: non tende a discutere questioni d'interessi locali; tende ad armonizzarli, a unificarli nel grande concetto nazionale: non prefigge a' suoi sforzi il trionfo predeterminato d'una o d'altra forma governativa; ma li consacra a promuovere, con tutti i mezzi possibili e in accordo colle ispirazioni progressivamente manifestate dal popolo italiano lo sviluppo del sentimento nazionale; li consacra ad affrettare col consiglio e coll'opera, collo studio accurato dei voti dei più e coll'esercizio del diritto di suggerimento fraterno, il momento in cui il popolo italiano fatto nazione, libero indipendente, forte della coscienza de' proprî diritti e della propria missione, santo dell'amore che annoda in bella eguaglianza i credenti in comuni doveri, potrà dar voto solenne intorno alle forme di viver civile che meglio gli converranno, intorno alle condizioni politiche, sociali, economiche che ne costituiranno l'essenza.

 

«È questo un momento solenne: momento di crisi suprema, di nuova vita europea. Qui d'onde scriviamo, un popolo glorioso tra quanti mai furono, ha provato l'onnipotenza della volontà nazionale e rovesciando in poche ore un edifizio a cui gli eserciti, le corruttele, le false dottrine e le diplomazie promettevano lunga durata, ha iniziato un nuovo diritto europeo. Ma a noi rimane intatta una grande missione: cancellare dal mondo europeo un'antica ingiustizia e sostituire sulla Carta d'Europa, coll'esempio della nostra emancipazione, una libera federazione di nuove nazioni a un impero fattizio, colpevole d'avere negato per secoli la santa legge di progresso che Dio prefiggeva all'umanità. . . . . . »

E il 22 marzo, in un indirizzo al governo repubblicano di Francia, io definiva nuovamente in questi termini il fine dell'Associazione.

«. . . . . . . . Il suo scopo, signori, è quello che fu annunziato o preveduto da tutti i grandi italiani, da Arnaldo da Brescia fino a Machiavelli, da Dante fino a Napoleone, che appartiene a voi come a noi: l'unificazione politica della penisola; l'emancipazione dal mare all'Alpi di questo suolo dal quale esciva due volte la parola d'ordine dell'unità europea; la fondazione d'una nazionalità forte e compatta che possa pel bene del mondo collocarsi nella confederazione dei popoli e apportare al lavoro comune le ispirazioni e il sagrificio, il pensiero e l'azione di venticinque milioni d'uomini liberi, fratelli e uniti in una sola fede nazionale: Dio e il Popolo in una sola fede internazionale: Dio e l'Umanità.

«Questa fede, signori, è, malgrado gli sforzi fatti per oscurarla, la fede dei nostri padri. Dalla scuola pitagorica dell'Italia meridionale sino ai filosofi pensatori del secolo XVII—fra le torture che invano tentavano d'annientare l'idea sociale di Campanella e le palle che troncavano sulle labbra dei fratelli Bandiera il loro ultimo grido di viva l'Italia! il genio italiano ha sempre dichiarato, con una serie non interrotta di proteste individuali che sua tradizione nazionale era Unità e Libertà: unità come pegno della missione, libertà come pegno di progresso.

[169]

«Fra i ceppi, fra le corruttele figlie del dispotismo, sotto la bajonetta straniera che minacciava ogni battito del suo core, dal fondo delle segrete, dall'alto dei patiboli, il genio italiano gridò sempre alle attente nazioni: l'Italia non è morta; essa sta trasformandosi, e la sua grande idea escirà pura, com'oro dal crogiolo, dai suoi trecento anni di schiavitù, quando l'opera di fusione sarà compita quando le popolazioni italiane si stringeranno in un amplesso unanime intorno alla santa bandiera della patria comune per dare all'Europa, dopo l'Italia degli imperatori e l'Italia dei papi, l'immenso spettacolo dell'Italia del popolo.

«Questo momento, signori, noi lo crediamo vicino.»

 

Con queste idee, con questo programma, io mi recai in Milano. E le prime parole indirizzate ai Bresciani, i quali si querelavano, per non so quale faccenda interna, di Milano, furono di concordia e di pace. «Oggi l'uomo—io diceva—non è che l'incarnazione d'un dovere. Troppo grandi cose avete da fare, perchè vi sia lecito pensare alle locali vertenze. Avete in mira, voi come Milano, come tutte le altre città dello Stato, i destini di venticinque milioni d'uomini che vi sono fratelli, il rinnovamento della terra che v'ha dato vita la creazione d'un popolo, gran parte dei fati europei, però che i fati europei dipendono essenzialmente da noi. E a compiere i vostri doveri, avete d'uopo di miracoli d'amore; avete d'uopo di sorridere come a gioja suprema, ad ogni sagrificio d'individualità, che le circostanze vi chieggano. Ho sentito ieri, vedendo sfilare i soldati del reggimento Ceccopieri tornati alla bandiera della patria, un bisogno prepotente d'abbracciar con amore il mio primo nemico, un bisogno di qualche grande sagrificio pel bene comune, per farmi degno della mia contrada. Voi tutti sentite com'io sento...» Nè queste idee furono tradite mai da me e da' miei amici. Le mantenemmo fedelmente, tra diffidenze, calunnie e minacce, per tutto il periodo della guerra regia. Forse, se tutti gli uomini di parte nostra si fossero schierati risolutamente con noi intorno al programma: Guerra e Costituente Nazionale dopo la guerra, che poggiava su promesse solenni date da Carlo Alberto e dal governo provvisorio, la lotta contro l'Austria avrebbe avuto esito diverso. Ma i più tra i nostri si diedero, come dissi, senza patti. La monarchia rimase incondizionatamente padrona.

Il giorno istesso in cui doveva, in seno al governo, discutersi il malaugurato decreto della fusione, comparve inaspettato nella mia stanza Cesare Correnti, seguito da Anselmo Guerrieri, e mi parlò, com'uomo che v'intravvede rovina, della proposta. Dissi a lui e al Guerrieri ciò ch'io avea detto poche ore prima a un altro membro del governo, Durini, che m'aveva inutilmente tentato perch'io aderissi. La fusione subitamente richiesta e con aperta violazione dei patti, dal re era indizio certo ch'ei sentiva le sorti della guerra corrergli avverse e premeditava ritrarsi, ma con un documento di signoria da dissotterrarsi quando che fosse in futuro. L'adesione intanto persuaderebbe la Lombardia del contrario e infondendole più sempre fede nella determinazione del re, l'addormenterebbe a stimarsi secura e difesa quando appunto importava risuscitarne l'energia e prepararla a salvarsi da sè. Le promesse tradite irriterebbero i partiti che si erano persuasi per amor di patria a tacere. L'ingrandimento della monarchia di Savoja, non più sospetto ma fatto, darebbe a tutti gli[170] altri principi d'Italia il pretesto, da lungo cercato, per separarsi da una guerra senza speranza per essi. Il re, soddisfatto d'avere conquistato un diritto alle terre lombarde, si rassegnerebbe più facilmente a differirne l'attuazione e cedere per allora il campo all'Austriaco. La Lombardia, non più alleata ma suddita, perderebbe ogni opportunità di preparare la propria difesa, e perderebbe, soggiacendo, anche l'unico vanto, prezioso per l'educazione e per l'avvenire d'Italia, d'aver mirato a fondare, anzichè un misero regno del Nord, l'unità nazionale. Queste e altre cagioni trovavano assenso nei due, i quali si dichiaravano deliberati in ogni modo d'opporsi e chiedevano d'intendersi con me sul come. Proposi che s'intendessero con Pompeo Litta e coll'Anelli di Lodi—unico per fede, onestà incontaminata e senno antiveggente in quel gregge di servi—poi, esaurito ogni argomento, protestassero uniti contro il voto della maggioranza, si ritirassero dal governo e pubblicassero, esponendone le cagioni, dimissioni e protesta: lasciassero il resto a noi. Noi avremmo con una manifestazione popolare costretto il governo a dimettersi; ma invece di sostituire all'elemento monarchico il nostro e ad evitare ogni pericolo d'aperto contrasto col re, avremmo acclamato i quattro oppositori e senza rompere interamente la tradizione legale raccolto intorno a quel nucleo d'antichi governanti altri nuovi non repubblicani, ma consapevoli dei pericoli che s'addensavano e capaci di scongiurarlo o tentarlo. La proposta fu accettata e promisero: Correnti più assai concitatamente dell'altro; e poco mancò, tanto pareva fremente e melodrammatico, ch'ei non giurasse sul pugnaletto che aveva a fianco.

Il giorno dopo, i primi nomi che mi ferirono l'occhio in calce al decreto furono quei di Correnti e Guerrieri. Seppi che quest'ultimo, natura buona ma debole, s'era lasciato travolgere dal compagno e ne ebbe per molti giorni rimorso vivissimo.

Rividi, caduta Milano, Correnti. Io era nel giardino Ciani in Lugano con Carlo Cattaneo e altri, quando Pezzotti—uno de' migliori nostri e che morì suicida nelle prigioni dell'Austria—venne a dirmi che Correnti chiedeva vedermi. Ricordo ancora il volto di pentito e l'accento di supplichevole con cui, fisso l'occhio al suolo, ei mi disse: non parlarmi del passato, ma usciere, sentinella, ufficiale, fatemi ciò che volete, pur ch'io giovi al paese. Riferii quelle parole agli amici: diffidavano tutti. Pensai nondimeno che s'egli avea male operato, i casi di Milano erano tali da guarire radicalmente chi non fosse profondamente corrotto. E divisai d'avviarlo a Venezia, dove il popolo teneva levata in alto la bandiera tradita dalla monarchia. In Lombardia, Garibaldi errava tuttavia in armi tra Como e Varese. Migliaja d'esuli s'accalcavano nel Cantone Ticino e potevano, se una opportunità s'affacciasse, rivarcare la frontiera. Gli spiriti duravano in fermento nelle valli bergamasche e bresciane, importava dare un centro visibile, una bandiera, una direzione semi-legale all'agitazione e mi pareva che dovesse trovarsi in Venezia. Manin v'era l'anima della difesa. Deliberai dunque d'inviargli Correnti a dirgli le nostre forze, le nostre speranze e persuaderlo che concentrasse in sè la direzione del moto, additasse il dovere alla Lombardia e dicesse: Venezia, emancipata dal tradimento, combatte non per sè, ma per tutti: stringetevi tutti intorno alla sua bandiera repubblicana. Il pentito accettò la proposta festante: ebbe lettere e danaro da noi; e partì, accompagnato da un fidatissimo nostro, Ercole Porro.

Non so che cosa ei dicesse a Manin: so che Manin nulla fece di quanto era debito suo; ch'ei, Correnti, non si fece mai vivo con noi; e che lo udimmo poco dopo in Torino, faccendiere di quel[171]la inetta, assurda, aristocratica congrega che s'intitolava Consulta e accoglieva Casati e quanti altri avevano con lui rovinato il paese.

Ho citato fra i tanti quest'incidente perch'altri indovini quale storia io potrei tessere dei moderati di quel periodo—perchè gl'Italiani v'imparino a non fidarsi, fino a vittoria compiuta, di subiti pentimenti—e perchè i giovani vedano come le tendenze scettiche possano travolgere a bassa e sleale condotta le menti più svegliate e chiamate ad altro.

Tentammo il possibile per ricominciare popolarmente la lotta e la iniziammo in Val d'Intelvi. Ma da un lato gare inaspettate fra d'Apice e Arcioni, capi militari dell'impresa, dall'altro la potenza del pregiudizio monarchico che immobilizza la leva dell'azione nella capitale e, quella caduta, sconforta dall'osare le città di provincia, fecero inutile ogni tentativo. Di tutto quello splendido moto di popolazioni, non rimase se non un potente insegnamento, ch'io sperai fosse allora raccolto e non fu. Tutte quelle migliaja d'esuli d'ogni condizione e d'ogni colore che giuravano non commetterebbero più mai le sorti della patria a un principe e applaudivano freneticamente agli ultimi versi della Clarina di Berchet recitati da Gustavo Modena, sagrificavano come prima servili, pochi anni dopo, alla monarchia.

Lasciai, disperata ogni cosa in Lombardia, la Svizzera e m'avviai, per Francia, verso Toscana.

Il papa era intanto fuggito. Roma era fatta libera di governarsi a suo modo. Venezia prometteva lunghe difese. La rivoluzione viveva tuttavia in Toscana, governata da uomini, un tempo, di fede nostra. La cessione di Milano lasciava screditata la monarchia, irritati gli animi e disposti ad accettare il principio contrario. L'impresa nazionale, caduta nel nord, potea risorgere dal centro. Da Roma dovea escire la parola iniziatrice; e forse, uscendo senza indugio, mentre durava il fremito universale e Napoli non s'era peranco rassegnata alla schiavitù, sarebbe stata più feconda di conseguenze che non fu dopo quattro mesi. Convinto di questo e libero oggimai di seguire apertamente la fede mia, indirizzai il 5 novembre la seguente lettera a' miei amici romani[46].

«. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Tendo l'orecchio a udire se mai venisse dalla città vostra un'eco di parola maschia, libera, degna di Roma, un suono di popolo ridesto all'antica grandezza; e non odo che le solite evirate vocine d'Arcadi parlamentari che ricantano alla culla d'una nazione le nenie mortuarie delle spiranti monarchie costituzionali. Scorro avidamente coll'occhio le colonne del vostro Contemporaneo, sperando ogni giorno trovarvi un di quei decreti che ingigantiscono chi li legge; e dopo il famoso autografo nel quale il papa raccomanda, in cattivo italiano, non il ministero, ma i proprî palazzi, non vi trovo, a consolazione del mondo cattolico, se non che Roma è tranquilla. Tranquilla sta bene; anche il Signore riposava tranquillo il settimo giorno, ma dopo d'avere creato un mondo.

«E voi potete, volendo, creare un mondo civile. Voi avete in pugno le sorti d'Italia e le sorti d'Italia son quelle del mondo. Voi non conoscete, o immemori, la potenza ch'esercita l'accozzamento di quattro lettere che forma il nome della vostra città; voi non sapete che ciò che altrove è parola, da Roma è un fatto, un decreto imperatorio: urbi et orbi. Perdio! Che i vostri monumenti, i vostri ricord[172]i storici non mandino una sola ispirazione all'anima degli uomini che reggono le cose vostre! Io, nella mia religione romana, m'andava confortando dello spettacolo di meschinità e d'impotenza che pur troppo ci danno finora le nostre città col pensiero che toccava a Roma, che il Verbo non poteva uscire se non dalla Città Eterna: ma comincio a temere d'essermi illuso. Roma così com'è, colle sedute ch'io leggo è una ironia, una cosa, perdonatemi, tra il ridicolo e il lacrimevole.

«Io non credo che la provvidenza abbia mai detto così chiaramente ad una nazione: tu non avrai altro Dio che Dio, nè altro interprete della sua legge che il popolo. E non credo che sia al mondo una gente più ostinata della nostra a non vedere nè intendere. La provvidenza ha fatto dei nostri principi una razza d'inetti e di traditori, e noi vogliamo andare innanzi a rigenerarci con essi. La provvidenza, quasi a insegnarci guerra di popolo, ha fatto sconfiggere un re in una impresa già quasi vinta, e noi non vogliamo far guerra se non con quel re. La provvidenza ha fatto del Borbone di Napoli un commento vivo dei ricordi di Samuele agli Israeliti che chiedevano un re, e la Sicilia, liberata di quello, bussa alle porte delle sale regie in cerca d'un altro. La provvidenza vi fa d'un papa un fuggiasco spontaneo: vi toglie, come una madre al bambino, ogni inciampo di sulla via; e voi, ingrati, rimanete in forse e come se non aveste mente, nè cuore, nè storia, nè esperienza che basti, nè avvenire, nè l'Italia in fermento d'intorno a voi, nè l'Europa in fermento d'intorno all'Italia, nè la Francia repubblicana allato, nè la Svizzera repubblicana di fronte, nè venti altre cagioni di decisione, andate ingegnandovi a governarvi coll'autografo dei palazzi. Carlo XII, prigioniero dei Russi, mandava un suo stivale a governare lo Stato; ma son parecchi anni e Carlo XII non era fuggito e la metropoli svedese non era Roma.

«Io vivo, voi lo sapete, irrequieto per l'unità d'Italia messa a pericolo dai guastamestieri, non per la repubblica immancabile, inevitabile, non solamente in Italia, ma in pressochè tutta Europa. E aspetto come ho detto, scritto e stampato, devoto e sommesso che la volontà dell'Italia si manifesti solennemente. Ma parmi di potervi dire senz'essere agitatore: quando la forma repubblicana, senz'opera vostra, senza violenza, senza usurpazione di minorità, v'è messa davanti, pigliatela; non fate vedere all'Italia e all'Europa che voi, repubblicani nati, la rifiutate senza perchè. Voi non avete più governo; non potere, malgrado l'autografo, che sia legittimo. Pio IX è fuggito: la fuga è un'abdicazione: principe elettivo, egli non lascia dietro sè dinastia. Voi siete dunque, di fatto, repubblica, perchè non esiste per voi, dal popolo in fuori, sorgente d'autorità. Uomini logici ed energici ringrazierebbero il cielo del consiglio ispirato a Pio IX e direbbero laconicamente: il papa ha abbandonato il suo posto: noi facciamo appello dal papa a Dio convocando un Concilio. Il principe ha disertato, tradito: noi facciamo appello dal principe al popolo. Roma è, per volontà di provvidenza, repubblica. La Costituente italiana, quando queste mura l'accoglieranno, confermerà, muterà o amplierà questo fatto. E scelto dal popolo un governo, s'accoglierebbe in Roma, poichè i popoli d'Italia non son liberi tutti sinora, il nucleo iniziatore e precursore della Costituente italiana futura; e questo nucleo d'uomini noti, mandati dalla Toscana, dalla Sicilia, da Venezia, dall'emigrazione lombarda, dai circoli, dalle associazioni, presterebbe appoggio efficace al governo; e quel governo, con poch[173]i atti nazionali davvero, diventerebbe governo morale di tutta Italia in brev'ora. Dio che ajuta i volenti e ama Roma farebbe il resto.

«Perchè non abbiate fatto questo nelle prime ventiquattr'ore, perchè non lo facciate ora, m'è arcano. So che così non potete stare; e che tra il seguir questa via e il mandar deputati supplichevoli a Pio IX e dirgli: tornate onnipotente, cancelliamo ogni traccia della giornata del 16, non è via di mezzo. Taluni mi scrivono che li trattiene il timore d'essere invasi. Invasi? E nol sarete voi a ogni modo? Non vedete che la questione sta fra il concedere la iniziativa e la scelta del tempo e del come al nemico o l'assumerla voi, averne tutti i vantaggi e sconvolgere i disegni dell'invasore? Non vedete che in una ipotesi cadrete derisi perchè nessuno moverà in ajuto d'un ministero tiepido e senza nome; nell'altra inizierete quello a che tutti in Italia tendono, quello a che sarete trascinati inevitabilmente un dì o l'altro, ma coi traditori nel campo?

«Nè sarete soli a combattere...»

Giunsi in Livorno l'8 febbrajo 1849, quando appunto giungeva al governatore Pigli l'annunzio della fuga del duca. E fui pregato d'annunziarla io stesso al popolo, che s'era raccolto per festeggiarmi, dacchè temevano non si trascorresse a violenze contro i fautori noti del fuggiasco principe. Era timore mal fondato. Il popolo livornese è popolo d'alti spiriti, tenerissimo di libertà e presto sempre a virilmente conquistarla o difenderla: facile appunto per questo a guidarsi sulle vie del bene, purchè additate da chi abbia fiducia in esso e ispiri ad esso fiducia. Annunziai il fatto come buona nuova e dicendo quanto importasse ai cittadini di provare a tutti che potevano vivere più che mai concordi e amorevoli senza principe. Nè vidi mai città più lieta e ordinata. A taluni che parlarono d'atterrare una statua del duca, bastò suggerire che la velassero. Livorno è città repubblicana e onorerà tra le prime l'Italia futura.

Il 9 febbrajo, la repubblica era proclamata in Roma.

Era l'iniziativa ch'io cercava; e m'adoprai quanto seppi in Firenze perchè la Toscana affratellasse le proprie sorti a quelle di Roma. L'esempio avrebbe fruttato in Sicilia e altrove. Minacciata dall'Austria, insidiata dal Piemonte, il cui ministro Gioberti tendeva a restaurare i principi per ogni dove[47], la Toscana non poteva, isolata, salvarsi. Ricovrandosi sotto l'ali di Roma, essa poneva i proprî fati sotto la tutela del diritto italiano e accrescendone le forze, apriva la via alla possibilità d'un nuovo moto della nazione: cadendo, essa lasciava almeno una splendida testimonianza a pro dell'unità repubblicana, giovevole all'educazione politica del paese. E gli istinti del popolo, afferravano, come sempre, il concetto. In una pubblica adunanza tenuta il 18 febbrajo sotto le logge degli Uffizî e alla quale si affollavano da diecimila persone, feci votare l'adozione della forma repubblicana, l'unione a Roma e la formazione d'un Comitato di difesa, composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti. Gli uomini che [174]reggevano ricusarono. Io partii alla volta di Roma, dove m'avevano eletto deputato.

Roma era il sogno de' miei giovani anni, l'idea madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; e v'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma era—ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi—il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, unità morale all'Europa. Io avea viaggiato alla volta della sacra città coll'anima triste sino alla morte per la disfatta di Lombardia, per le nuove delusioni incontrate in Toscana, pel dissolvimento di tutta la parte repubblicana in Italia. E nondimeno trasalii, varcando Porta del Popolo, d'una scossa quasi elettrica, d'un getto di nuova vita. Io non vedrò più Roma, ma la ricorderò, morendo, tra un pensiero a Dio e uno alla persona più cara, e parmi che le mie ossa, ovunque il caso farà che giacciano, trasaliranno, com'io allora, il giorno in cui una bandiera di repubblica s'inalzerà, pegno dell'unità della patria italiana, sul Campidoglio e sul Vaticano.

Le cagioni che mi determinarono a trasvolare sul 1848 militano identiche perch'io mi taccia sulla storia dei quattro mesi che corsero dal mio giungere in Roma fino alla caduta della repubblica. Non potrei dir tutto. E mi limiterò ad accennare per sommi tocchi la parte mia e il concetto che governò gli atti miei. Nella pagina gloriosa che Roma scrisse in quel breve periodo, l'individuo dovrebbe sfumare. Pur sono anch'io repubblicano e la mia vita, comunque poca cosa, è parte della tradizione repubblicana. Nè vedo perchè, presso all'escirne, io debba lasciarla, per molti errori che gli avversi a noi v'accumularono intorno, fraintesa.

Fu scritto che noi, vincitori un istante, proclamammo la repubblica romana, non l'italiana. L'accusa è stolta. Una insurrezione, dichiarando illegale quanto esiste d'intorno a sè, può scrivere sulla propria bandiera ogni più audace formola, purchè suggerita dalla coscienza del Vero: un'Assemblea escita legalmente e pacificamente dal voto d'una frazione menoma del paese, nol può. Il mandato avuto è supremo per essa. Proclamare da Roma—di fronte al Piemonte costituzionale e armato—di fronte alle condizioni generali—la repubblica per tutta l'Italia, sarebbe, del resto, stato più ch'altro, ridicolo. La repubblica non poteva conquistare l'Italia a sè se non emancipandola dallo straniero, facendola. E per farla, bisognava creare una forza.

Pochi giorni bastarono a convincermi che non solamente quella forza non esisteva, ma che nessuno pensava a ordinarla. Gli istinti buoni abbondavano: mancava un concetto. Da circa 16,000 uomini formavano l'esercito dello Stato; ma erano senza coesione, senza uniformità di disciplina, d'assisa e di soldo; lo stato maggiore era nullo; il materiale di guerra pochissimo. Le forze disponibili erano disseminate in gran parte lungo la frontiera napoletana, unico punto da dove quei che reggevano temevano offese e che quel metodo radicalmente errato di cordone militare, debole per ogni dove, non avrebbe potuto difendere.

Io non temeva offese da Napoli: un tentativo da quel lato, creando in noi un diritto di reazione, era, più che da temersi, da desiderarsi. Nè allora io presentiva pericoli dalla Francia; ma li presentiva inevitabili, presto o tardi, dall'Austria. E dov'anche l'Austria non avesse assalito, dovevamo prepararci ad assalirla noi. Ridestare l'Italia contro l'eterno nemico; iniziare una nuova crociata e dire col fatto al paese:[175] la repubblica farà ciò che la monarchia non seppe o non volle; era quello il mio disegno. Preparare la resistenza a un pericolo, che poteva essere imminente e preparare a un tempo l'azione futura se quel pericolo non si verificasse, era ciò ch'io adombrava, dicendo in quei giorni all'Assemblea: bisogna lavorare come se avessimo il nemico alle porte e a un tempo come se si lavorasse per l'eternità.

Il 16 marzo, proposi all'Assemblea l'elezione d'una Commissione di guerra composta di cinque individui, che dovesse studiare i modi migliori d'ordinamento per l'esercito e provvedere all'altra necessità di difesa e d'offesa. Il 18 la Commissione era eletta. Carlo Pisacane ne era anima e vita. E con lui io m'intendeva compiutamente.

Al sistema inefficace dei distaccamenti sparsi su tutti i punti della lunga frontiera meridionale, sostituimmo, pensando alla difesa, il concentramento delle forze su due punti, Bologna e Terni; e a questo concentramento anteriore fu dovuta in parte la possibilità della prolungata difesa di Roma.

Alla cifra di 16,000 uomini sostituimmo, pensando all'offesa, quella di 45,000, cifra facile a raggiungersi colla coscrizione nello Stato e cogli elementi che potevamo agevolmente raccogliere dall'altre parti d'Italia.

Il Piemonte intanto, in parte per timore di vedere l'iniziativa nazionale trapassare dalla monarchia alla bandiera repubblicana, in parte per altre cagioni, intimava nuovamente la guerra all'Austria. La repubblica romana non era stata riconosciuta dal Piemonte. E nondimeno, bastò la lettura del bando che annunziava imminente le ostilità perchè, affogata nell'entusiasmo ogni considerazione, la Repubblica decretasse spontanea, senza alcun patto, l'invio di 10,000 uomini, capo il tenente colonnello Mezzacapo: spontanea, dico, perchè Lorenzo Valerio non giunse, con missione semi-officiale d'intendersi in Roma se non dopo il decreto. Il 21 marzo, i soldati di Roma partivano. Se non che quattro giorni bastarono a quella misera guerra regia, iniziata il 20, e conchiusa, colla colpa e colla vergogna di Novara, il 24. La monarchia vedeva poco dopo Roma assalita dallo straniero, senza neanche una parola di protesta a suo pro.

Il 29 marzo fui scelto Triumviro. Aurelio Saffi e Armellini mi furono colleghi.

Il 17 aprile confermammo con decreto le proposte anteriori sulla cifra e sull'ordinamento dell'esercito. Avevamo già sui primi di quel mese tentato ogni modo per avere in Roma la Divisione lombarda, forte di 6 a 7000 uomini: ma il governo sardo, ajutato dal general Fanti, deluse, ingannando, il disegno[48].

Il 25 aprile i Francesi erano in Civitavecchia. Non avevamo avuto un mese di tempo per ordinare le forze, assestar la finanza, rimediare al difetto d'artiglierie, provvederci d'armi.

[176]

Con quei che scrissero essere stato errore il resistere non è da discutersi. Ma alle molte evidenti cagioni che ci comandavano di combattere, un'altra se ne aggiungeva per me intimamente connessa col fine di tutta la mia vita, la fondazione dell'unità nazionale. In Roma era il centro naturale di quell'unità; e verso quel centro bisognava attirare gli sguardi e la riverenza degli Italiani. Or gli Italiani avevano quasi perduto la religione di Roma: cominciavano a dirla tomba, e parea. Sede d'una forma di credenza omai spenta e sorretta dall'ipocrisia e dalla persecuzione, abitata da una borghesia vivente in parte sulle pompe del culto e sulle corruttele dell'alto clero e da un popolo virile e nobilmente altero, ma forzatamente ignorante e apparentemente devoto al papa, Roma era guardata con avversione dagli uni, con indifferenza sprezzante dagli altri. Da pochi fatti individuali infuori, nulla rivelava in essa quel fermento di libertà che agitava ogni tanto le Romagne e le Marche. Bisognava redimerla e ricollocarla in alto perchè gli Italiani si riavvezzassero a guardare in essa siccome in tempio della patria comune: bisognava che tutti intendessero la potenza d'immortalità fremente sotto le rovine di due epoche mondiali. E io sentiva quella potenza, quel palpito della immensa eterna vita di Roma al di là della superficie artificiale che, a guisa di lenzuolo di morte, preti e cortigiani avevano steso sulla grande dormiente. Io avea fede in essa. Ricordo che quando si trattava di decidere se dovessimo difenderci o no, i capi della guardia nazionale, convocati e interrogati da me, dichiararono, deplorando, pressochè tutti che la guardia non avrebbe in alcun caso ajutato la difesa. A me pareva d'intendere il popolo più assai di loro: e ordinai che i battaglioni sfilassero il mattino seguente davanti al palazzo dell'Assemblea e si ponesse da un oratore la proposta ai militi. Il grido universale di guerra che s'inalzò dalle loro file sommerse irrevocabilmente ogni trepida dubbiezza di capi.

La difesa fu dunque decisa dall'Assemblea e dal popolo di Roma per generoso sentire e riverenza all'onore d'Italia, da me per conseguenza logica d'un disegno immedesimato da lungo con me. Strategicamente, la guerra avrebbe dovuto condursi fuori di Roma, sul fianco della linea d'operazione nemica. Ma la vittoria era, se non ci venivano ajuti d'altrove, dentro e fuori impossibile. Condannati a perire, dovevamo, pensando al futuro, proferire il nostro morituri te salutant all'Italia da Roma.

Pur nondimeno e anche antivedendo inevitabile la sconfitta, noi non potevamo, senza tradire il mandato, trascurare l'unica via di salute possibile; ed era un mutamento nelle cose di Francia. L'invasione era concetto di Luigi Napoleone che, meditando tirannide, volea da un lato avvezzare la soldatesca a combattere la repubblica altrove, dall'altro prepararsi il suffragio del clero cattolico e di quella parte di popolo francese che in provincia segnatamente ne segue le ispirazioni. L'Assemblea di Francia, incerta e divisa com'era, dissentiva da ogni proposito deliberatamente avverso a noi: aveva approvato l'intervento, ingannata sulle nostre condizioni e sul fine segreto della spedizione. I complici di Luigi Napoleone affermavano imminente la invasione austro-napoletana a pro della dominazione assoluta papale e dichiaravano la popolazione dello Stato nemica al sistema repubblicano e soltanto compressa dal terrore esercitato da pochi audaci: Roma quindi impotente a resistere e preda in brevi giorni dell'Austria se non s'inframmettevano l'armi di Francia. Provare alla Francia l'assenza in Roma di ogni terrore, l'unanime volere delle nostre popolazioni, la possibilità per noi di resistere a un intervento austriaco[177] o napoletano; costringere Luigi Napoleone a smascherare il suo vero disegno; combattere, separando nella serie dei nostri atti, la nazione dal Presidente di Francia: vincere tanto da testimoniare della nostra determinazione, ma senza abusare della vittoria, senza irritare l'orgoglio e le subite passioni francesi; somministrare per tal modo una opportunità ai membri della Montagna, ai nostri amici nell'Assemblea, d'iniziare la resistenza a Luigi Napoleone: era questo il debito nostro e non lo tradimmo. Quindi gli ordini mandati a Civitavecchia e traditi dall'altrui arrendevolezza alle menzognere promesse del generale Oudinot, di resistere a ogni patto, non fosse che per ore, pur tanto da provare il desiderio unanime di resistere, l'energia delle nostre dichiarazioni agli inviati del campo francese, i preparativi solleciti e la battaglia—e a un tempo la richiesta ai municipî, accolta da tutti, perchè esprimessero nuovamente adesione al governo repubblicano—il rinvio dei prigionieri francesi fatti nella giornata del 30 aprile—l'ordine spedito in quel giorno a Garibaldi di desistere dall'inseguire i Francesi in rotta—e generalmente l'attitudine assunta e mantenuta da noi durante l'assedio e ch'io compendiava dicendo che Roma era non in condizione di guerra con la Francia, ma di pura difesa. Quell'ordine a Garibaldi mi fu apposto come errore, da chi non guardò che al fatto isolato. Ma che importava, di fronte al concetto accennato, qualche centinajo più di Francesi morti o prigioni?

E quel concetto—gli uomini dagli appunti non dovrebbero dimenticarlo—se Luigi Napoleone non violava ogni tradizione di lealtà affidando all'inviato Lesseps poteri illimitati pacifici e annullandoli a un tempo con istruzioni segrete trasmesse al generale Oudinot, riesciva. Il 7 maggio, commossa dall'opera nostra e dal nostro linguaggio, l'Assemblea di Francia invitava solennemente il potere esecutivo ad adottare senza indugio i provvedimenti necessarî a far sì che la spedizione di Roma non fosse più oltre sviata dal vero suo fine; e mandava incaricato di statuire gli accordi con noi il Lesseps. Sul finire di maggio, si firmava tra noi e il plenipotenziario di Francia un patto che dichiarava:—L'appoggio della Francia è assicurato alle popolazioni dello Stato romano: esse riguardano l'esercito francese come un esercito amico che viene a correre alla difesa del loro territorio.—D'accordo col governo romano e senza menomamente intromettersi nell'amministrazione del paese, l'esercito francese prenderà gli alloggiamenti esteriori convenienti, tanto per la difesa del paese come per la salubrità, alle sue truppe. Così la guerra era convertita in alleanza: l'esercito francese diventava nostra riserva contro ogni altro invasore straniero: Roma, com'io aveva detto, rimaneva sacra e inviolabile ad amici e nemici: la diplomazia repubblicana otteneva una vittoria splendida come quella dell'armi repubblicane in aprile: noi eravamo liberi di correre ad affrontare gli Austriaci e li avremmo disfatti.

Ognun sa come Oudinot rifiutasse d'assentire al trattato e disdicesse a un tratto la tregua. Egli aveva da Luigi Napoleone istruzioni segrete direttamente contrarie a quelle da lui date a Lesseps.

Il 13 giugno, i nostri amici nell'Assemblea francese tentarono, capitanati da Ledru Rollin, sommovere Parigi contro l'infamia commessa: ma non riuscirono. Il loro tentativo era un appello all'insurrezione senza i preparativi necessarî a iniziarla.

Taluno m'appose d'aver continuato la difesa anche dopo le infauste nuove del 13 giugno. Avrei creduto tradire il mandato, l'onore del paese, la bandiera repubblicana e me stesso, s'io avessi fatto altr[178]imenti. Dovevamo noi lacerare la pagina gloriosa che Roma scriveva, dichiarando all'Europa che se avevamo accettato la guerra, non l'avevamo fatto per compire, a ogni prezzo, un dovere, ma perchè speravamo in una insurrezione francese?

Noi dovevamo resistere fino all'estremo. Quando si trattava nell'Assemblea di decidere tra l'accogliere i Francesi che movevano su Roma o combatterli, io m'astenni, per non esercitare influenza sopra una decisione che doveva essere espressione collettiva e spontanea, dall'assistere alla seduta: il Triumvirato non v'era rappresentato che da Saffi e Armellini, titubanti ambidue. Ma raccolto da un popolo e da un popolo repubblicano, in nome del Dritto, il guanto nemico, il duello non dovrebbe cessare che coll'esaurimento assoluto o colla vittoria. Le monarchie possono capitolare; le repubbliche muojono: le prime rappresentano interessi dinastici; possono quindi ajutarsi di concessioni e occorrendo di codardie per salvarli: le seconde rappresentano una fede e devono testimoniarne fino al martirio. Per questo noi avevamo fatto anzi tratto gremir Roma di barricate: alla guerra delle mura doveva sottentrare la guerra delle strade; e in Roma sarebbe stata tremenda. Quella guerra fu resa impossibile dai Francesi i quali s'appagavano visibilmente di padroneggiare la città dalle alture occupate e ridurla, strema com'era di vettovaglie, ad arrendersi. Ma l'idea di prolungare la lotta finchè ci rimanesse un uomo e un fucile era siffattamente elementare nell'animo mio che, disperata ogni difesa in Roma, proposi un altro partito: escire dalla città: escirne col piccolo esercito e coi popolani armati che volessero seguirci: escirne noi Triumviri accompagnati dai ministeri e se non da tutta, da una numerosa delegazione dell'Assemblea, tanto da dare alla mosse dell'esercito autorità legale e prestigio sulle popolazioni. Allontanarci rapidamente da Roma, approvvigionarci sull'Aretino, gettarci poi tra Bologna e Ancona, sulla linea di operazione austriaca, e cercare con una vittoria di risollevar le Romagne; era quello il disegno mio. I Francesi avrebbero così occupato Roma senza vincere la repubblica e sotto una perenne minaccia; nè avrebbero potuto seguirci sul nuovo terreno se non combattendo a pro dell'Austria e smascherando l'infamia dell'invasione davanti alla loro patria e all'Europa. E fu il disegno tentato da Garibaldi, ma con poche migliaja raccozzate da corpi diversi, senza artiglieria, senza appoggio d'autorità governativa e in condizioni che vietavano ogni possibilità di successo.

Il 30 giugno, padroni i Francesi dei bastioni e di tutte le alture, convocai i capi militari a consiglio. Garibaldi rispose non potere allontanarsi un solo istante dalle difese e ci recammo quindi ov'egli era. Là dichiarai che l'ora suprema per Roma essendo giunta e urgendo decidere qual partito dovesse scegliersi, il governo desiderava, prima di comunicare coll'Assemblea, raccogliere i consigli dei capi dell'armi. Dissi com'erano innanzi a noi tre partiti: capitolare—resistere finchè la città fosse rovina—escire da Roma, trasportando altrove la guerra: il primo essere indegno della repubblica: il secondo inutile dacchè l'attitudine dei Francesi annunziava che non scenderebbero a battaglia di barricate e di popolo, ma aspetterebbero, tormentandoci dall'alto colle bombe e le artiglierie, che ci vincesse la carestia: il terzo essere quello ch'io, come individuo, proponeva. Furono diversi i pareri. Avezzana, i capi romani e altri votarono, a maggioranza di due, perchè rimanessimo, ostinati a difenderci, in Roma: Roselli, Pisacane, Garibaldi con altri parecchi accettarono la mia proposta: non uno—e lo ricordo a onore del piccolo esercito repubblicano—pose[179] il nome nella colonna in capo alla quale io aveva scritto: capitolazione. Disciolsi il Consiglio e m'affrettai all'Assemblea.

Ad essa, raccolta a comitato segreto senza intervento di popolo, dissi ciò ch'io aveva detto al Consiglio di guerra: e proposi il partito che solo mi pareva degno di Roma e di noi. L'Assemblea non volle accettarlo. Non narrerò i particolari, a me tristissimi, della seduta. Ma trovai avversi al partito i migliori amici ch'io m'avessi tra i membri. Taluni mi rimproverarono poco dopo, e a ragione, di non avere anzi tratto preparato gli animi alla decisione; se non che la singolare, tranquilla e veramente romana energia mostrata fino a quel momento dall'Assemblea m'aveva illuso a credere che la proposta sarebbe stata accolta con plauso.

Prevalse il partito proposto da Enrico Cernuschi, e fu decretato che Roma cessasse dalle difese.

Io aveva lasciato l'Assemblea prima che il voto sancisse quella proposta. Il decreto fu trasmesso al Triumvirato coll'invito a noi di comunicarlo al generale francese e trattar con lui pei provvedimenti necessarî a tutelar l'ordine e le persone nella città conquistata. Ricusai di farlo: scrissi all'Assemblea ch'io era stato eletto Triumviro per difendere, non per sotterrar la repubblica, e accompagnai quelle parole colla mia dimissione. I miei due colleghi s'unirono a me.

Il 3 luglio, io deposi nelle mani dei segretari dell'Assemblea la seguente protesta:

«Cittadini.

«Voi avete, coi vostri decreti del 30 giugno e del 2 luglio, confermato involontariamente, voi incaricati dal popolo di tutelarla e di difenderla sino agli estremi, il sagrificio della repubblica; ed io sento, con un immenso dolore sull'anima, la necessità di dichiararvelo, perchè non rimanga taccia a me stesso davanti alla mia coscienza e per documento ai contemporanei che non tutti disperavano, quando voi decretaste della salute della patria e della potenza della nostra bandiera.

«Voi avevate da Dio e dal Popolo il doppio mandato di resistere, finchè avreste forze, alla prepotenza straniera e di santificare il principio incarnato visibilmente nell'Assemblea, provando al mondo che non è patto possibile tra il giusto e l'ingiusto, fra il diritto eterno e la forza brutale, e che le monarchie, fondate sull'egoismo delle cupidigie, possono e devono cedere o capitolare, ma le repubbliche, fondate sul dovere e sulle credenze, non cedono, non capitolano: muojono protestando.

«Voi avevate ancora forza nei generosi della milizia che pugnavano mentre voi stendevate il decreto fatale; nel popolo che fremeva battaglia; nelle barricate cittadine; nell'influenza esercitata dal vostro consesso sulle provincie. Nè popolo nè milizia vi domandavano di cedere: la città era tuttavia irta di barricate ordinate da voi come solenne promessa che Roma si sarebbe, esauriti i modi della milizia, popolarmente difesa. E nondimeno voi decretaste impossibile la difesa e la rendeste tale pronunciando l'esosa parola. Voi dichiaraste che l'Assemblea stava al suo posto. Ma il posto dell'Assemblea era l'ultimo angolo di terreno italiano dove potesse tenersi eretta, anche un giorno di più, la bandiera della repubblica; e voi, confinando l'esecuzione del mandato per entro le mura del Campidoglio, uccidevate sotto la morta lettera lo spirito del decreto.

«Voi sapevate, per insegnamento di storia e di logica, che nessuna Assemblea può durar libera un momento solo colle bajonette[180] nemiche alle porte; e che la repubblica cadrebbe il giorno in cui un soldato francese porrebbe piede dentro le mura di Roma. Voi dunque, decretando che l'Assemblea repubblicana starebbe in Roma, decretavate a un tempo e inevitabilmente la morte della repubblica e dell'Assemblea. E decretando che l'esercito repubblicano escirebbe di Roma senza voi, senza il governo, senza la rappresentanza legale della repubblica, decretavate, senza avvedervene, la prima manifestazione di dissenso tra quei ch'erano stati fortissimi nell'unione e, Dio nol voglia, lo scioglimento d'un nucleo sul quale riposavano tutte le più care speranze d'Italia.

«Voi dovevate decretare l'impossibilità del contatto, fuorchè di guerra, fra gli uomini chiamati a rappresentar la repubblica e gli uomini venuti a distruggerla—ricordarvi che Roma era, non una città, ma l'Italia, il simbolo del pensiero italiano, e grande appunto perchè, mentre tutti cadevano disperando, aveva detto: io non dispero, ma sorgo—ricordarvi che Roma non era in Roma, ma dappertutto dove anime romane, santificate dal pensiero italiano, erano raccolte a combattere e soffrire per l'onore d'Italia—ricordarvi che terra italiana si stendeva d'intorno a voi e trasportare governo, Assemblea, ogni elemento rappresentante il pensiero e i buoni armati del popolo in seno all'esercito, portando di terreno in terreno, finchè tutti vi fossero chiusi, il palladio della fede e della missione di Roma. A confortarvi della speranza che il fatto frutterebbe, sorgevano ricordi antichi e il ricordo moderno dell'Ungheria. Ma dov'anche nessun esempio vi confortasse, voi, fatti apostoli della terza vita d'Italia, dovevate essere primi a dare spettacolo di nuova indomita costanza all'Europa. Queste cose vi furono dette: non le accettaste; e io, rappresentante del popolo, protesto solennemente in faccia a voi, al popolo, a Dio contro il rifiuto e le sue conseguenze immediate.

«Roma è destinata dalla provvidenza a compiere grandi cose per la salute dell'Italia e del mondo. La difesa di Roma ha iniziato queste grandi cose e scritto la prima linea d'un immenso poema che si compirà checchè avvenga. La storia terrà registro della iniziativa e della parte che voi tutti, generosi d'intenzioni, v'aveste. Ma dirà pure—e gemo, per affetto violato a un tratto, scrivendo—che nei supremi momenti nei quali voi dovevate ingigantirvi maggiori dei fati, falliste alla vostra missione e tradiste, non volendo, il concetto italiano di Roma.

«Possa l'avvenire trovarci uniti a riscattar questa colpa!»

3 luglio 1849.

Entrati i Francesi e rientrata con essi la coorte di preti nemici che s'era accentrata cospiratrice in Gaeta, io rimasi una settimana pubblicamente in Roma. Le ciarle delle gazzette francesi e cattoliche sul terrore esercitato da me in Roma durante l'assedio m'invogliavano di provare a tutti la falsità dell'accusa, offrendomi vittima facile a ogni offeso che volesse vendicarsi e ottenerne guiderdone dalla setta dominatrice. Poi, non mi dava il cuore di staccarmi da Roma. Vidi, col senso di chi assiste alle esequie della persona più cara, i membri dell'Assemblea, del governo, dei ministeri, avviarsi tutti all'esilio; invasi gli ospedali dove giacevano, più dolenti del fato della città che non del proprio, i nostri feriti; le fresche sepolture dei nostri prodi calpestate, profanate dal piede del conquistatore straniero. Io errava al cader del sole, con Scipione Pistrucci e Gustavo Modena,[181] ambi ora morti, per le vie di Roma quando appunto i Francesi movendo lentamente, colle bajonette in testa; fra un popolo cupo, irritato, intimavano lo sgombro delle contrade, fremente di sdegno e ribollente di pensieri di lotta. Parvemi che gli occupatori si fossero collocati in modo sì incauto da prestare opportunità a una serie di sorprese e m'affrettai a chiedere al generale Roselli e a' suoi dello stato maggiore se, dove un leva leva di popolo capitanato da me, che non aveva vincolo di patti con anima viva, avesse luogo, ajuterebbero, ed assentirono: ma era tardi: i capi-popolo erano in fuga e ogni tentativo fallì. Suggerii al Roselli di chiedere al generale Oudinot, sotto colore d'evitare collisioni probabili, la distribuzione del piccolo esercito romano in accantonamenti fuori della città: là, i nostri militi si sarebbero riavuti dall'esaurimento della lunga lotta: avremmo potuto riequipaggiarli: io mi sarei tenuto celato e prossimo ad essi; poi, forse, avremmo potuto cogliere un momento propizio per gittarci a sorpresa sul nemico di Roma. Ma quel disegno, sulle prime accettato, tornò pure inutile: la partenza in armi di Garibaldi insospettì l'Oudinot: fu intimato che l'artiglieria romana rimanesse in città: i nostri militi, convinti che il nemico era capace d'ogni iniquo procedere, s'insospettirono alla volta loro che si volesse collocarli senza mezzi di difesa tra i Francesi e gli Austriaci e farne macello; il piccolo esercito si smembrò e poco dopo fu sciolto. Pazzi e rovinosi consigli; ma in quei giorni tutte le potenze dell'anima mia non vivevano che d'una idea: ribellione a ogni patto contro la forza brutale che, in nome d'una repubblica, annientava, non provocata, un'altra repubblica.

Perchè preti e Francesi non si giovassero allora dell'occasione ch'io offriva per avermi morto o prigione, m'è tuttavia arcano. Ricordo come la povera Margherita Fuller e la cara venerata amica mia Giulia Modena mi supplicassero di ritrarmi e serbarmi, com'esse dicevano, a tempi migliori. Ma s'io avessi potuto antivedere i nuovi disinganni e le ingratitudini e il fallirmi d'antichi amici che m'aspettavano e non avessi pensato che al mio individuo, avrei detto loro: lasciatemi, se mi amate, morire con Roma.

Comunque, partii. Partii senza passaporto e mi recai in Civitavecchia. Di là mandai a chiederne uno all'ambasciata americana, e l'ebbi, ma non contrassegnato, come si richiedea per l'escita, dalle autorità francesi, inutile quindi. Stava in Civitavecchia un vaporuccio, il Corriere Côrso, presto a salpare. Il capitano, parmi un De-Cristofori; côrso egli pure, m'era ignoto: m'avventurai nondimeno a chiedergli se volesse, a suo rischio, accogliermi senza carte, ed ebbi inaspettato assenso da lui. M'imbarcai. Il vapore moveva verso Marsiglia, toccando Livorno, allora tenuta dagli Austriaci. Trovai sul bordo, ingrato spettacolo, una deputazione di Romani tra gli avversi a noi che s'avviava a quest'ultimo porto per risalparne e recarsi a implorare Pio IX in Gaeta. Non li guardai. Ma essi mi conoscevano e il capitano temeva ch'essi, scendendo in Livorno, denunziassero la mia presenza agli Austriaci. Nol fecero e giunsi in Marsiglia. Non importa ai lettori sapere com'io, sprovveduto di passaporto, v'entrassi e come mi venisse fatto di recarmi, attraverso le terre del nemico, in Ginevra. Ma ho notato queste cose di me, perchè gli storici e i gazzettieri di parte moderata, menzogneri per calcolo, ciarlarono allora e riciarlerebbero, occorrendo, oggi, dei miei tre passaporti, degli appoggi inglesi ch'io m'era procacciati anzi tratto e della prudenza colla quale io provvedeva alla mia salvezza.

[182]

Pur, nè calunnia sistematica di moderati nè altro può cancellare l'unico fatto che importi; ed è la difesa. La pagina gloriosa, iniziatrice, profetica, che Roma scrisse in quei due mesi di guerra rimarrà documento ai rinsaviti dagli errori dell'oggi di ciò che possono un principio e un nucleo d'uomini fermi in incarnarlo logicamente, intrepidamente nei fatti. Roma era città di vastissima cinta, non munita, pressochè aperta sulla sinistra del Tevere, ad ogni assalto nemico. Difettavamo d'artiglierie; eravamo sprovveduti di mortai: non preparati a guerra: mancanti, per fatto del vecchio governo, del nervo d'ogni resistenza, danaro; mancanti a segno che la notte della nostra elezione, raccolti noi Triumviri ad esaminare qual fosse la condizione finanziaria e guerresca della repubblica, ponemmo a voti se non dovessimo rassegnare la mattina dopo l'ufficio. La popolazione era, per lunghi secoli di schiavitù corruttrice, ignara, intorpidita, incerta, sospettosa d'ogni cosa e d'ogni uomo; e noi eravamo nuovi, ignoti i più, senza prestigio di nascita, di ricchezza, di tradizioni. Individui ch'erano stati a governo e rappresentavano l'elemento moderato costituzionale diffondevano, duce Mamiani, presagi sinistri sugli effetti della forma adottata e non s'arretravano dal cospirare col nemico straniero. Gaeta era fucina di raggiri, di turbamenti e congiure: di ribellione aperta sull'Ascolano. Fummo assaliti subitamente, prima d'ogni sospetto! assaliti da chi era potente in Italia per antichi affetti, tenuto per invincibile in guerra e ajutato dal prestigio d'una bandiera repubblicana come la nostra: poi dal re di Napoli, dagli Austriaci e dalla Spagna. E nondimeno fugammo, colle nostre nuove milizie, le truppe del re di Napoli, combattemmo l'Austria, resistemmo per due mesi all'armi francesi. Nella giornata del 30 aprile i nostri giovani volontari videro in rotta i vecchi soldati d'Oudinot; in quelle del 3 e del 30 giugno pugnarono in modo da meritare l'ammirazione del nemico. Il popolo, rifatto grande da un principio, partecipava alla difesa, affrontava con calma romana le privazioni, scherzava sotto le bombe. Popolo, Assemblea, Triumvirato ed esercito furono una cosa sola, s'afforzarono a vicenda d'illimitata fiducia. Governammo senza prigioni, senza processi: io potei mandare a dire a Mamiani, quando fui avvertito de' suoi colloqui notturni con Lesseps, che seguisse pure, non temesse del governo, badasse soltanto a sottrarre la conoscenza del fatto al popolo: sprezzammo le piccole cospirazioni e vedemmo il cavaliere Campana, convinto dopo lungo studio dell'impotenza d'ogni tentativo di fronte all'accordo dell'immensa maggioranza con noi, venire egli stesso spontaneo a denunziare i suoi complici. Queste cose furono dovute all'istituzione repubblicana, ai forti istinti del popolo ridesti dall'esistenza d'un governo suo, alla formola Dio e il popolo che diede subitamente a ciascuno coscienza del proprio dovere e del proprio diritto, alla nostra fiducia nelle moltitudini, alla fiducia delle moltitudini in noi. La monarchia non aveva saputo, con 45,000 soldati e col Piemonte a riserva, trovare in Milano altra via di salute che il tradimento. E mentr'io scrivo, la monarchia, con mezzo milione d'armati tra soldati regolari, volontari e guardie nazionali mobilizzabili—con un vasto materiale di guerra—con mezzi finanziari considerevoli—con ventidue milioni d'Italiani invocanti Venezia—esita ad assalire, sul terreno italiano, le forze austriache.

Viva la repubblica! Il sentimento repubblicano poteva solo ispirare tanto valore agli Italiani. Sono parole contenute nella relazione scritta a nove ore di sera del combattimento del 3 giugno da Luciano Manara.

Non so quanto i Romani ricordino oggi il 1849. Ma se le madri romane hanno, come dovevano, insegnato ai figli la riverenza ai martir[183]i repubblicani, in quell'anno, della loro città—se additarono loro sovente il luogo ove cadde ferito a morte il giovine poeta del popolo, Goffredo Mameli—il luogo ove Masina, già indebolito da un colpo e con diciannove seguaci, avventò il cavallo contro una posizione difesa da 300 francesi e moriva—il luogo ove perivano senza ritrarsi, combattendo venti contro cento, Daverio e Ramorino—Villa Corsini—Villa Valentini—il Vascello—Villa Panfili—le pietre dei dintorni di Roma santificate quasi ciascuna dal sangue d'un caduto col sorriso sul volto, col grido repubblicano sul labbro—Roma non sarà, sorgendo, profanata—o nol sarà lungamente—dalla monarchia (1864).

La condotta di parte nostra, determinata dall'iniziativa altrui e da fatti che si svolsero indipendenti dalla nostra fede, risulterà chiara a chi vorrà esaminarla spassionatamente: noi ci limitammo a trarre il migliore partito possibile dagli eventi, perchè il paese se ne giovasse a tener sospesa sul capo agli uomini, che a noi sottentravano, la spada di Damocle della Rivoluzione; perch'essi inoltrassero a forza sulla via, non foss'altro dell'Unità Nazionale. Ma, in quel periodo di tempo tentammo una iniziativa, della quale giova parlare perchè generò, a mio credere, conseguenze importanti.

La Lombardia era, per colpe monarchiche, nuovamente dominio dell'Austria; ma aveva, con fatti, provato d'essere capace d'emanciparsi per virtù di popolo. Venezia era caduta, ma dopo lunghe eroiche prove e come chi vince. Roma era dei Francesi e del Papa, ma l'esito morale della battaglia era nostro: redenta davanti all'Italia, la sacra Città era per la terza volta centro e perno delle aspirazioni della Nazione. S'anche le anime nostre fossero state capaci di sconforto, non ne avevamo cagione.

Ci raccogliemmo, dopo la caduta di Roma, in Losanna, Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Mattia Montecchi ed io. Altri profughi ci raggiunsero, collocandosi nei paesetti fra Losanna e Ginevra. Imprendemmo senza indugio—settembre 1849—la pubblicazione dell'Italia del Popolo, collezione di scritti mensile, il cui programma era, com'io diceva, nella parola escita il 9 febbrajo da Roma, madre comune e centro d'Unità a tutte le popolazioni d'Italia e nella missione che all'Italia assegnano la tradizione e la coscienza popolare. Gli scritti ch'io v'inserii sono, da pochi in fuori, contenuti nel Vol. VII delle Opere. Ma i lavori che v'inserirono Aurelio Saffi, Carlo Pisacane, Filippo De Boni e altri, meriterebbero d'essere raccolti in un volume e gioverebbero perchè combattono vecchi errori, rinnovati in oggi e fatali. Ne pubblicammo sedici fascicoli sino al febbrajo 1851. Ma nel maggio 1850 l'Assemblea di Francia era chiamata a discutere una legge restrittiva del suffragio, che violava apertamente l'articolo 3.º della Costituzione e spianava la via alle mire usurpatrici di Luigi Napoleone. Pensai giunta l'occasione d'un moto decisivo in Parigi e, avventurandomi, mi vi recai. E questa mia assenza nocque naturalmente all'Italia del Popolo, ch'io dirigeva; e comunque dall'Inghilterra ov'io, dopo il soggiorno d'un mese incirca in Parigi, mi condussi, cercassi continuarle vita, non vi fu modo. Il Buonamici, editore, datosi al tristo, fuggì abbandonando moglie e negozio, in Australia. Il piccolo nucleo si sciolse. Saffi, Montecchi, Agostini mi raggiunsero in Londra.

In Parigi ebbi a confermarmi nelle idee, nudrite ed espresse fino dal 1835, che la Francia era per molti anni perduta e che l'iniziativa del moto Europeo era da trovarsi altrove. Vidi Lamennais, Flotte,[184] Giulio Favre e quanti mi parevano all'uopo, fino al principe Napoleone Bonaparte, antico cospiratore con me finchè gli Orléans reggevano. Non v'era speranza. Gli animi erano travolti da gare di parte, da stolte paure, da rancori personali, e smarrivano il segno. M'affannai inutilmente a dimostrare a quanti vennero a segreto convegno con me, che il vero unico pericoloso nemico della Repubblica era il Presidente, e che importava anzi tutto togliergli forza di compier disegni, evidenti fin d'allora per me. La borghesia, impaurita dei pazzi sistemi che assalivano la proprietà, tremava d'un socialismo inverificabile e minaccioso soltanto a parole. I repubblicani avventati, o come li dicevano rossi, non vedevano pericoli alla repubblica fuorchè dai bianchi, dai monarchici dell'Assemblea, capaci di sviare e profanare l'Istituzione, incapaci, per difetto d'unità di consigli e d'audacia, d'abolirla. Tutti sprezzavano, errore dei più fatali, il nemico e mi dicevano, quand'io vaticinava il colpo di Stato, che se mai tentasse, il Presidente sarebbe quetamente condotto a Charenton, ospizio degli impazziti. Lasciai Parigi col presentimento della catastrofe.

Ma l'Italia? Era essa condannata a seguire, quasi satellite, i fati di Francia? Non poteva un popolo di ventisei milioni, ridesto a coscienza di libera vita dalle giornate di Milano e dalle eroiche difese di Venezia e Roma, raccogliere l'iniziativa tradita altrove? Padrone del proprio suolo e del proprio avvenire nel 1848, quel popolo non era caduto se non perchè aveva ceduto la direzione delle proprie forze e del moto a mani d'inetti e di tristi, a principi e cortigiani. Bisognava insegnargli che non esistono capi per diritto di nascita o di ricchezza: che soli capi legittimi d'una rivoluzione sono gli uomini che hanno più combattuto per essa: che un popolo non deve mai rinunziare al proprio diritto d'iniziativa, nè confidar ciecamente, nè allontanarsi dall'arena, nè dire a sè stesso: altri farà in vece mia. E per questo, il miglior partito era quello di condurre il popolo primo sul campo, tanto ch'esso imparasse in un tratto il proprio debito e la propria forza, e gli altri imparassero a rispettarlo e temerlo.

Questi pensieri mi diressero nel nuovo stadio d'agitazione che da Londra iniziai.

In Roma, io aveva lasciato, prima d'allontanarmene, le norme necessarie all'impianto d'una Associazione Nazionale segreta, che si ordinava rapidamente. In Londra fondai un Comitato Europeo e un Comitato Nazionale Italiano.

L'impianto e gli Atti del Comitato Nazionale trovarono favorevole accoglimento in Italia. Gli animi si riconfortarono a speranza e lavoro. Adesioni e promesse vennero pressochè unanimi dagli uomini che, nei fatti di Venezia e di Roma, avevano conquistato nome e influenza. Comunque, per diverse cagioni, il risultato pratico dell'Imprestito dovesse, in ultima analisi, come dirò, riuscire meschino, le nostre cedole erano su quei primi tempi ricercatissime. L'ordinamento segreto si estendeva rapidamente. Nella Lombardia, in Toscana, in Roma, la stampa clandestina s'iniziava operosa, ardita, irreperibile. Un Comitato Siciliano si costituiva fin dalla prima metà del 1851 nell'Isola, e un altro Comitato d'esuli Siciliani in Parigi stava anello intermedio fra quello e noi. Tra il 1850 e il 1851 si fondavano in Piemonte e nella Liguria le prime Associazioni Operaie, paghe del modesto fine del mutuo soccorso, ma pronte a cogliere ogni opportunità di dichiarare la loro devozione alla Patria. In Genova, dove, giovandosi della semi-libertà concessa dallo Statuto, il popolo s'accalcava a pubbliche manifestazioni, anche l'elemento militare s'affratellava[185]: un sergente di bersaglieri prorompeva, in un banchetto d'oltre a duecento individui, in quel grido che dovrebbe suonare per tutto l'esercito nazionale: anche la truppa è popolo, e Francesco Quetand, della Brigata Savoja, parlando per tutti i suoi commilitoni, osava proferire il mio nome e quello di Garibaldi, e conchiudeva: le nostre armi non si tingeranno mai del vostro sangue ch'è nostro sangue, perchè noi non abbiamo che una madre[49]. E in Roma, l'Associazione alla quale accennai s'era, in un anno, fatta potente di tanto, che dichiarava a mezzo il 1851 compito il lavoro preparatorio e scioglieva, entrando in un secondo periodo, il suo Comitato, per istituire una Direzione Centrale, incaricata di studiare i modi e le opportunità dell'azione. A quella Direzione, affidata a un uomo singolare per intelletto, per fede, per cuore e per illimitato spirito di sagrificio, era mia mente d'accentrare a poco a poco tutti gli elementi nostri in Italia.

E da tutto quel lavoro sorgeva spontanea una parola: Repubblica. La stampa clandestina milanese saettava continuamente i tentativi dei monarchici lombardi ricoverati in Piemonte. Il Comitato Siciliano scriveva in fronte ai suoi Atti la formula: Dio e il Popolo. Repubblicano si chiariva il Comitato dei Siciliani in Parigi. Repubblicana era la stampa segreta toscana. Di Roma non occorre ch'io dica. Ma in Genova, quando l'11 giugno 1850, in un pubblico convito, l'avv. Brofferio avventurava parole, che a torto o ragione furono interpretate come favorevoli alla federazione e alla monarchia, un grido unanime gli rispose: Viva Roma, capitale della Repubblica Italiana! Noi non avevamo provocato l'espressione di quella tendenza; ma dovevamo raccoglierla e movere un passo innanzi. Non potevamo pretendere di guidare con bandiera neutra un lavoro generale, che inalberava la bandiera repubblicana.

Come membro del Comitato Europeo, apposi, nell'agosto del 1851, il mio nome a un suo Atto, che s'indirizzava agli Italiani e additava loro come sola via di salute l'istituzione repubblicana. Per quel fatto, Giuseppe Sirtori c'intimò, con parole dissennatamente irritate, di protestare, come Comitato Nazionale, contro quell'Atto o d'accettare la di lui dimissione. Accettammo la dimissione, dichiarando «che il Manifesto del Comitato Europeo non racchiudeva contradizione alcuna col nostro e che il consiglio dato agli Italiani d'attenersi, pel moto futuro, al simbolo repubblicano, era conseguenza logica del principio di Sovranità Nazionale da noi sancito.»

Di mezzo a quel fervore d'apostolato, io guardavo sempre all'Italia e alla possibilità di ridestarla all'azione. E l'opportunità non tardò a rivelarsi.

S'era formata, spontanea, ignota a noi tutti, nel 1852, in Milano, una Fratellanza segreta di popolani, repubblicana di fede e con animo deliberato di preparare l'insurrezione e compirla. Non s'era ri[186]volta per ajuti e consigli ad abbienti o letterati; non aveva cercato contatto con noi: aveva prima voluto esser forte. Uomini di popolo erano suoi capi: influente fra tutti, un tintore, Assi di nome, assiduo di cure nell'ordinamento e largo in quell'opera d'un po' di fortuna che gli era venuta dal lavoro: lo chiamavano il Ciceruacchio di Milano. La Fratellanza v'era divisa in nuclei contrassegnati dalle lettere dell'alfabeto: abbracciava ogni ramo di lavoro, e con quel senso pratico ch'è facoltà prominente degli operai, s'era giovato del facile accesso ai luoghi più vigilati, per raccogliere quante nozioni di fatto potevano, in un momento dato, agevolare una impresa. E nel silenzio, senza che l'esistenza ne fosse sospettata, non dirò dal nemico, ma dagli uomini appartenenti nell'altre classi al simbolo nazionale, aveva raggiunta la cifra di parecchie migliaja d'affratellati.

Allora soltanto l'Associazione, sentendosi forte e vogliosa di fare, cercò contatto con me. Offriva azione immediata, e chiedeva istruzioni, direzione, ajuti in armi e danaro.

Come sintomo, il fatto che mi si rivelava era di una importanza vitale, e additava innegabile l'incarnazione del lungo nostro apostolato nel popolo.

Come avviamento all'azione, era incerto: pendeva dalla somma di mezzi, richiesta a porre in moto quell'elemento e, più ch'altro, dalla risposta a una questione difficile: sarebbe l'energia del popolo nell'azione eguale alla costanza spiegata nel preparare? Scelsi un uomo militare non noto, prudente, avveduto, d'abitudini atte a cattivarsi la fiducia dei popolani e a studiarli; e lo mandai verificatore in Milano.

Una serie di relazioni che mi venne da lui, confermò tutte le affermazioni degli artigiani milanesi sulle forze e sulla disciplina della Fratellanza. Accolto siccome capo e in contatto continuo coll'Assi e con quanti stavano alla direzione dei nuclei, ei mi giurava che potevano e volevano. Quanto mi adoprai a raccogliere per altre vie raffermava le relazioni dell'inviato.

Non mi dilungherò a spiegare com'io accettassi l'ipotesi dell'azione: ne parlo in uno scritto da trovarsi poco oltre; e del resto, chi ha letto i miei volumi, sa ch'io credeva—e dacchè la nostra Rivoluzione Nazionale non è compita, credo—unica via all'educazione politica del paese l'Azione. L'Italia era per ogni dove solcata di lavori nostri; e dopo i fatti del 1848 io mi sentiva convinto che una sconfitta all'Austria in Milano avrebbe dato moto all'insurrezione lombarda dapprima, poco dopo a quella di tutta Italia. E nondimeno, la decisione del movere non fu mia. Inferociti pei supplizî di Mantova[50], gli influenti fra i congiurati, raccolti una notte in numero di sessanta a convegno, decretarono sul finire dell'anno che si moverebbero e m'inviarono dichiarazione solenne che, s'anche il Comitato Nazionale ricusasse assenso ed ajuto, farebbero, anzichè soggiacere a uno a uno alle persecuzioni dell'Austria, in ogni modo e da sè. Vivono tuttavia gli uomini che potrebbero, ov'io non dicessi il vero, smentirmi.

Accennerò soltanto rapidamente—chi mai potrebbe in questi [187]giorni[51] diffondersi in particolari su cose passate?—come si preparasse e perchè fallisse l'impresa.

Mancavano all'Associazione le armi; mancava il denaro. Di denaro diedi quanto occorreva sul non molto raccolto dall'Imprestito Nazionale. Ma il contrabbando delle armi era difficilissimo e, scoperto, com'era probabile, avrebbe rivelato il disegno. Riescii ad introdurre in Milano un certo numero di projettili di nuova invenzione che non giovarono, dacchè le barricate, alla difesa delle quali erano destinati, non furono fatte; ma, quanto ai fucili, risposi che le insurrezioni erano avviamento alla guerra, non guerra; che l'armi dovevano e nelle città potevano sempre conquistarsi sul nemico; che a conquistarle bastavano animo deliberato davvero e coltella. Quei buoni popolani intesero, e dissotterrate, non so di dove, da circa cento pistole, arrugginite le più e inservibili, si diedero pel resto lietamente a raccogliere pugnali e temprare e immanicare grossi chiodi da barca, dove i pugnali mancavano.

Non v'è cosa alcuna che, nell'insorgere d'una città, non possa compiersi per sorpresa; soltanto è necessario, perchè le sorprese riescano, che siano tenute gelosamente segrete ai più, tra quelli stessi che devono compirle e siano eseguite a puntino e a scocco d'oriuolo. Fu architettato un numero di sorprese che dovevano dar Milano, senza grave lotta, in mano agli insorti. Le caserme, i corpi di guardia, il fortino, il Castello dovevano alla stessa ora, anzi allo stesso minuto, assalirsi a un tratto, invadersi, quando sprovveduti quasi di difensori, da squadre, apprestate a pochi passi, d'uomini armati d'arme corta e ignari essi medesimi, dai capi infuori, dell'operazione da compiersi, fino al momento in cui sarebbero stati raccolti al convegno. Da quella generale sorpresa dovevano escire a un tempo la disfatta della soldatesca e l'armarsi dei popolani. I luoghi occupati dal nemico erano stati minutamente studiati, nell'interno e negli approcci, dal capo militare preposto all'ordinamento e, sotto la di lui direzione, dai capi chiamati a guidare all'azione le squadre. S'era scelto per l'insurrezione il 6 febbrajo 1853, giorno detto del giovedì grasso, in cui i sollazzi carnevaleschi chiamano in piazza, senza ch'altri sospetti, tutto quanto il popolo di Milano. Alle due pomeridiane incirca, i soldati ricevevano la loro paga e si disperdevano per la città e nelle taverne a bere, giuocare e ballare. Contro i piccoli nuclei rimasti a guardia dei luoghi diversi, il subito assalto avrebbe avuto luogo alle cinque. Le truppe consegnate a quartiere o altri simili indizî avrebber rivelato il nemico essere avvertito e sulle difese; e il moto sarebbe stato quetamente, senza grave sconcerto, senza agitazione visibile, protratto a tempo più opportuno.

I tre punti che più importavano erano il Palazzo ove risiedeva il Comando Generale, il locale della così detta Grande Guardia, e il Castello.

Nel primo, custodito da soli venticinque uomini, si raccoglievano a pranzo, appunto alle cinque pomeridiane, Governatore, Generali, uffiziali componenti lo Stato Maggiore e altri; la sorpresa, comparativamente facile, di quel palazzo, bastava quindi a interromper ogni unità d'ordini e cacciar l'anarchia nella difesa. Cento e più risoluti popolani dovevano impadronirsene; ed erano stati affidati a un tale, ch'era noto sotto il nome di Fanfulla, era stato nel 1848 ufficiale nei lancieri di Garibaldi, ed era tenuto prode da tutta Milano. Il secondo, dov'erano centoventi uomini con tre ufficiali e due obici carichi a mitraglia, collocati davanti al portone, presentava più gravi difficoltà; ma il punto aveva per l'insurrezione importanza strategica, e[188] s'era scelto a punto di concentramento per gl'insorti d'una larga sezione della città: il popolano—non ricordo il nome e men duole, ma trafficava carbone e teneva bottega—eletto a impadronirsene co' suoi, doveva, riuscendo, afforzarvisi, chiudendo ogni ingresso e lasciando aperta a metà quello soltanto dove erano gli obici destinati a proteggerlo. Il Castello era punto naturale di concentramento al nemico, minaccia temuta più del dovere dalla città e racchiudeva, oltre quei del presidio, 12,000 fucili: la sorpresa era dunque cosa vitale per noi e s'era accertata in modo da non ammettere, se ignaro il Governo, un'ombra di dubbio: diciotto uomini, scelti fra i più arrischiati e comandati dal Capo di tutto quanto l'ordinamento, dovevano avventarsi improvvisi col pugnale alla mano sui diciotto soldati messi a custodia della prima corte; e, a un segnale dato, due squadre di popolani, sommanti a trecento incirca, comandate una dall'Assi, l'altra da un falegname capo di bottega, il cui nome m'è ignoto, dovevano irrompere a corsa da tutti i luoghi dove, in vicinanza del Castello, i capi li avrebbero, poco prima della fazione, appostati. I pochi soldati rimasti, dispersi nei cameroni, inermi e côlti alla sprovveduta, non avrebbero di certo potuto resistere a quella piena. I fucili di deposito nei magazzeni erano nostri, in un batter d'occhio; i due armajuoli, che di tempo in tempo li ripulivano e riattavano, erano nostri, avevano le chiavi dei magazzini e dovevano in quel giorno, sotto un pretesto qualunque, tenerli aperti perchè l'operazione non incontrasse il menomo indugio; e attennero la promessa. Il Capo stesso, sprezzatore d'ogni rischio, s'introdusse, un'ora prima della prestabilita all'insorgere, nella piazza interna del Castello e li vide al lavoro. Riescito il colpo, un colpo di cannone e la bandiera tricolore inalzata dovevano essere segnale agli insorti d'accorrere ad armarsi.

Mentre si sarebbero compite quelle sorprese, duecento giovani dovevano correre a due a tre le strade della città e cogliere soldati e ufficiali che, avvertiti dal romore levato, avrebbero, uscendo dalle taverne, dai caffè, dalle abitazioni, tentato raggiungere isolati i varii punti di concentramento. Era un Vespro; e gli scribacchiatori moderati ci accusarono d'avere preparato armi non generose. Ma chi, da Dante a noi, non aveva registrato fra le glorie italiane il Vespro di Sicilia? Chi, fra gli ipocriti ai quali alludo, non avrebbe acclamato al tentativo dei popolani lombardi, se coronato dalla vittoria? A emancipare la patria dalla tirannide dello straniero ogni arme—se lunga o breve non monta—è santa; e se l'arbitrio sospettoso d'uomini, che a proteggere l'usurpazione di terre non loro si giovano dell'arme infame del patibolo non lascia ai cittadini altro ferro che quello delle loro croci, benedetto sia chi, a salvare la libertà dei corpi e dell'anime, svelle e aguzza ad offesa quel ferro!

A tutto s'era pensato, a tutto s'era, come meglio potevasi, provveduto. Ottanta terrazzani erano presti, forniti di picconi, pali di ferro e pale a inalzar barricate, ove si prolungasse, per incidenti non preveduti, la lotta. L'impresario dell'illuminazione a gas era nostro e s'era con lui d'intesa perchè l'illuminazione, occorrendo, non avesse luogo. S'erano tentati, e in parte con esito buono, gli Ungaresi che facevano parte del presidio: un ex-ufficiale inviato da Kossuth, allora in pieno accordo con me, avea secondato il lavoro e conquistato a noi un ufficiale di cavalleria; e molti bassi ufficiali, degli acquartierati in San Francesco, avevano dato solenne promessa d'unirsi ai nostri nell'azione, non sì tosto avessero ottenuto un primo successo. Klapka s'era recato, sui primi del febbrajo, da Ginevra a Lugano per entrare e assumere il comando de' suoi compatrioti il secondo giorno.[189]

Costretti dall'assoluta necessità del segreto sulla natura del disegno che doveva tentarsi e certi di non poter evitare, in un vasto lavoro, inchieste e inquisizioni pericolose, ci eravamo, coll'altre città lombarde, limitati a far presentire, in un tempo non remoto, eventi supremi e a raccomandare si preparassero a profittarne. Soltanto coi giovani universitarî della vicina Pavia eravamo andati più oltre e si era stretto accordo perchè, a segnali di fiamma che si sarebbero inalzati dalla punta del Duomo, movessero rapidi alla volta di Milano; e, a intento siffatto, io aveva apprestato fucili sul Po, affidando la direzione d'ogni cosa riguardante quel punto all'Acerbi, prode e devoto esule mantovano. Per l'altre città tenevamo pronti corrieri a cavallo, che avrebbero recato l'annunzio del fatto e chiamato i più prossimi ad affrettarsi in ajuto a noi, tanto da avere, per la fine del 7, un forte nerbo d'armati, capace di resistere a ogni tentativo d'Austriaci, che volessero dalle vicinanze operare contro Milano. Noncurante del mortale pericolo, Aurelio Saffi, uomo d'indole nobilissima per intelletto e per cuore e rimasto, dal 1849 in poi, amico mio e non della ventura, s'era recato, fra gli Austriaci, in Bologna, per animare a preparativi quella valente città e le Romagne.

Perchè fallì il tentativo? Perchè da tanti apprestamenti non escì se non una breve sommossa?

Non mancò il popolo dei congiurati; mancarono al popolo i capi. Il segreto, cosa mirabile davvero se si pensi ai tanti che ne erano più o meno partecipi, era stato gelosamente serbato. Il Governo ignorava ogni cosa: avvertito da taluni di pericoli che sovrastavano, ma avvezzi a cercarli nelle classi agiate e a sprezzare il popolo come incapace d'iniziativa, aveva spiato attentamente le prime e, non vedendovi indizio d'ostili disegni, s'era rassicurato. Il 6 febbrajo, distribuite le paghe, i soldati s'erano, come al solito, dispersi per la città, lasciando presso che vuoti ed indifesi i luoghi contro i quali dovevano operarsi le sorprese. Ma il Fanfulla partì subitamente, nè s'arrestò se non a Stradella: l'Assi sparì; più altri capi lo imitarono: le squadre, non convocate e lasciate senza nuovi capi da chi non sapeva la diserzione dei primi, non si recarono ai luoghi di convegno: altre che si tenevano preste, non udendo d'assalto alcuno al Castello, assalto al quale—e fu nostro errore—s'erano subordinate parecchie sorprese, idearono tradimento o cangiamento di disegno e si sciolsero. Un solo fatto importante, l'occupazione della Grande Guardia, trovò capo e popolani esecutori fedeli, e riescì; se non che, immemori delle istruzioni che statuivano quel punto a punto di concentramento, gli occupatori, lieti di trovarsi armati e ansiosi d'azione, abbandonarono, dopo breve tempo, il luogo per correre le vie. Ed essi e i giovani armati di solo pugnale, scelti a operare indipendenti contro il nemico, bastarono a versare sugli austriaci un terrore, che non cessò se non sulla sera. Contro tutte le forze, spiegate allora dal Comando generale, quel pugno di popolani, abbandonati da tutti, tentò difendersi asseragliandosi, presso Porta Romana, nelle case e facendo fuoco dalle finestre; ma, e sopratutto, per difetto di munizioni, fu costretto, dopo un'ora di combattimento, a disperdersi. Perirono nel conflitto [190]da cento cinquanta soldati nemici e due ufficiali superiori assaliti nel caffè della Scala[52].

Perchè, audaci e costanti nei lunghi pericoli dei preparativi, quei capi-popolo s'arretrassero, giunta l'ora, davanti all'azione, mi pesa il dirlo, ma può tornare utile insegnamento in imprese future. Essi, i più almeno, retrocessero davanti all'isolamento in cui furono lasciati dalla classe media. Avevano lavorato soli, senza sconfortarsi dell'inerte indifferenza d'uomini, che i ricordi del 1848 e l'intelletto educato additavano ad essi capi naturali del moto, sperando che, compito il lavoro, dimostrata innegabilmente la propria tenacità di proposito e conquistata potenza di numero e d'ordinamento, li avrebbero compagni alla prova. Ma quando, sull'avvicinarsi dell'ora suprema, mentre pensavano che il sacrificio di sangue, al quale, per la salute e per l'onore del paese, s'apprestavano lietamente, li avrebbe fatti cari e fratelli a quelli uomini, si videro freddamente accolti, guardati con sospetto e rimproverati di commettere a un tentativo imprudente le sorti della città—quando s'udirono a dire: combattete dacchè lo volete: dopo la prima giornata saremo con voi—vacillarono e non osarono assumersi, essi poveri popolani, l'immensa responsabilità d'una iniziativa, non divisa da alcuno di quei, ch'essi s'erano avvezzi a chiamare i loro migliori. Non un abito—non una marsina—ripetevano dolorosamente gli insorti che cercavano ispirazione sul come si potesse più utilmente morir per l'Italia.

Non una marsina, infatti, si vide tra i combattenti del 6 febbrajo a incuorarli, a dirigerli. I portoni, le finestre delle case si chiusero. Milano prese aspetto di città deserta. Unico, o quasi, delle classi medie che si mostrasse in quelle ore fu un Bianchi Piolti, eccellente giovane, allora in contatto con me, oggi, se non erro, deputato, pur sempre onesto e liberale nelle tendenze.

Fin da quando il lavoro dei popolani accennò a tradursi in azione, io presentii quel pericolo; e parevami inoltre che, dov'anche[191] le forze dell'Associazione fossero state sufficienti a vincere la prova in Milano, avremmo pur dovuto desiderare che in una lotta da iniziarsi a pro di tutti, tutti fossero rappresentati. M'era dunque rivolto a quelli fra i giovani intellettualmente educati, che nel 1848 erano stati uniti con me intorno alla bandiera sollevata dall'Italia del Popolo: prominenti fra questi, l'Allievi e Emilio Visconti Venosta. Ma li trovai mutati, scettici, riluttanti a ogni pensiero d'azione. Cominciarono per dichiarare impossibile l'esistenza d'una vasta associazione di popolani; poi, quand'ebbero prove irrecusabili, si ricacciarono sulla impossibilità del segreto, e confutato il timore della rivelazione di quella parte del disegno che riguardava la scelta dell'ora, la paga ai soldati e gli indizî che escirebbero dalle loro mosse, cominciarono ad argomentare sulla poca disposizione delle provincie lombarde a seguire: temevano i pericoli del moto, la possibilità della disfatta e, credo, egualmente le conseguenze d'una vittoria preparata esclusivamente dal popolo. L'anima loro, impicciolita tra la vanità pedantesca della mezza-scienza, il materialismo delle scuole francesi, che allora seguivano, e il meschino freddo sussiego di letterati borghesi, s'arretrava sospettosa davanti a quel ridestarsi di popolo, che avrebbe dovuto inorgoglirli di gioja italiana.

Così titubavano paurosi, svogliati, inerti sino alla fine: non diedero un uomo, nè una moneta, nè un'arme: avevano non so quanti fucili e li rifiutarono, dicendo che se ne gioverebbero per la seconda giornata. Il Venosta accettò d'entrare, come loro delegato, in una direzione formata di Bianchi Piolti, d'un Fronti, del capo militare e di lui; ma non intervenne se non due volte ai convegni, ascoltando, nè mai proponendo cosa che potesse tornar utile al moto; poi si dileguò. Finalmente, richiesti, spronati, rimproverati, dichiararono che consulterebbero, prima di decidersi a cooperare, una competente autorità militare.

L'autorità militare competente fu per essi Giacomo Medici, allora volontario garibaldino, oggi generale nell'esercito regio, il quale da Genova, ov'ei soggiornava, era fuori d'ogni lavoro e ignaro delle forze nostre, del disegno e d'ogni cosa. Gli spedirono l'ingegnere Cadolini, oggi deputato. Medici rispose: impedite il moto con ogni mezzo: se non riuscite a impedirlo, cercate afforzarlo. E i richiedenti fecero, sconfortando, sviando taluni fra i capi, annunziando a tutti il loro dissenso, quanto era in essi per impedire. Fu questa principale cagione di disfatta al disegno. Era, in seno alla borghesia, il cominciamento d'una scuola analoga, comunque inferiore d'ingegno, a quella dei dottrinarî francesi ai tempi di Luigi Filippo, e della quale l'Italia vede oggi in quei che la reggono lo scandalo e i frutti.

E nondimeno ho certezza, che nel prepararsi generale degli animi, nello sviluppo storico del risorgimento italiano, quel tentativo giovò. Lasciando dello stolto e feroce spirito di repressione, che la paura spirò allora più che mai nei consigli dell'Austria, delle contribuzioni arbitrarie sui beni degli inoffensivi patrizî lombardi e degli esuli, e dell'irritazione che ne nacque in essi, il popolo, il vero popolo, salutò come sua l'impresa tentata, inorgoglì dell'ardito concetto, e cominciò a credere nella propria forza e nella parte che sarebbe un giorno chiamata a compiere. I segni d'una trasformazione morale nelle classi operaje apparvero poco dopo più frequenti e visibili nelle associazioni, fondate pubblicamente in Piemonte e nella Liguria, tra gli uomini del lavoro, nella parte presa altrove dai popolani nei tentativi che seguirono, e, a me segnatamente, negli indirizzi, nelle proposte, nelle dichiarazioni d'affetto, che da essi mi vennero quan[192]do appunto il volgo letterato e gli ingannati da esso mi rovesciavano quasi universalmente sul capo una tempesta d'accuse, di rimproveri e di villane calunnie[53]. Da Genova, da Parma, dalle città romagnuole i popolani mi dicevano: voi avete creduto in noi, stimati da tutti incapaci di fare: vi rendiamo grazie, e vi proveremo quando che sia che non v'illudete sul conto nostro. Il 6 febbrajo strinse fra gli operai d'Italia e me quel patto d'amore e di comunione educatrice, che fruttò e frutterà, e che conforta di serenità e di speranze italiane i miei ultimi anni, abbeverati d'amara e profonda mestizia, per le delusioni e per l'abbandono di molti fra quei che m'eran più cari.

A quel tempestoso periodo appartiene lo scritto che segue. Io l'aveva, fin dal 22 febbrajo, promesso con queste poche linee indirizzate all'Eco delle Provincie:


Al Direttore dell'Eco delle Provincie.

Il fatto recente di Milano che, comunque strozzato ne' suoi principî da incidenti sottratti a ogni calcolo umano, e rimasto isolato per virtù di prudenza, che non guarda a biasimo o lode, ma all'intento da conquistarsi, avrebbe pur dovuto sollevare d'orgoglio italiano ogni anima buona e rivelare ai più incerti le vere tendenze del nostro popolo, frainteso, traviato da pregiudizî funesti e da codarde paure, ha suscitato un biasimo pressochè universale.

Sento tutta quanta la responsabilità che trascina con sè l'ultimo proclama del Comitato Nazionale, scritto da me e firmato da uno solo de' miei colleghi—e non la rifiuto.

Scriverò con tutta quella sollecitudine che consentono le condizioni in ch'io verso, le cagioni per le quali io l'assumo, volenteroso ed altero. Scenderò, poichè amici tiepidi e irreconciliabili nemici lo esigono, a parlare di me.[193]

Chiedo—non agli uomini che hanno per tutta dottrina il vae victis!—non ai gazzettieri che vendono per trecento franchi mensili la coscienza e la penna a un'aristocrazia prima morta che nata—non ai consci o inconsci colpevoli che diseredano l'Italia d'una potenza d'iniziativa, fatto oggimai evidente dai martirî eroici e dalle eroiche audacie degli ultimi quattro anni—ma agli Italiani che amano davvero la loro patria e sentono altamente de' suoi fati e fremono e combattono per compirli, pochi giorni d'indugio nei loro giudizî.

Ho l'anima amara, ma di dolore, non di rimorso. La fede che scaldava, ventiquattr'anni addietro, di un sorriso d'entusiasmo la mia giovinezza, splende or più che mai, stella eterna dell'anima, davanti a' miei occhi. Non la rinneghino i giovani. Non la rinnegherà un popolo che, fatto superiore ai mezzi intelletti d'una classe che dovrebbe guidare e dissolve, assale nell'inerzia comune, colla sola arme che l'Austria non può rapire al cittadino, cannoni e Castello in Milano.

22 febbrajo.Vostro

Giuseppe Mazzini.


AGLI ITALIANI

Marzo, 1853.

. . . . . Come da me si suole,
Liberi sensi in semplici parole.

Tasso.

Io mando queste pagine ai giovani ignoti d'Italia, ai quali è fede l'unità della patria comune, speranza il popolo in armi, virtù l'azione, norma di giudicio sugli uomini e sulle cose l'esame spassionato dei fatti non travisati e delle intenzioni non calunniate.

Pei gazzettieri che mercanteggiano accuse e opinioni a beneplacito di monarchie cadaveriche o aristocrazie brulicanti su quei cadaveri:—pei miseri, quali essi siano, che in faccia a un paese schiavo e fremente, non trovano ispirazioni fuorchè per dissolvere e accusano d'ambizione chi fa o tenta fare, rosi essi medesimi d'ambizioncelle impotenti, che non fanno nè faranno mai cosa alcuna:—per gli stolti, che, in una guerra nella quale, da un lato stanno palesemente, regolarmente ordinati, eserciti, tesori, uffici di polizia; dall'altro, tutto dall'invio d'una lettera fino alla compra di un'arme, è forzatamente segreto, non applicano ai fatti altra dottrina che quella del barbaro: guai ai vinti!:—pei tiepidi, ai quali il terrore di qualche sacrificio da compiersi suggerisce leghe ideali di principi, disegni coperti di monarchie due volte sconfitte, o guerra tra vecchi e nascenti imperi, da sostituirsi all'unico metodo che conquisti libertà alle nazioni, l'insurrezione:—per gli uomini, prodi di braccio, ma fiacchi di mente e d'anima, che nei fatti di Milano, Venezia e Roma, nel 1848 e nel 1849, non hanno saputo imparare che l'Italia non solamente deve, ma può emanciparsi, e la condannano a giacersi serva derisa finchè ad altri non piaccia esser libero—io non ho che disprezzo o compianto. Gli uni non vogliono intendere: gli altri non sanno. Nè io scenderei per essi a parole dilucidatrici o a difese.

Ma ai giovani—maggioranza nel Partito Nazionale e speranza[194] dell'avvenire—che non rinegano per disavventure la santa tradizione di martirio e di lotta incessante segnata dai migliori fra i nostri: ai giovani, che non hanno imbastardita la mente italiana tra sofismi di sette straniere, nè immiserita la potenza dell'intuizione rivoluzionaria tra le strategiche delle guerre regolari governative, nè sfrondato il core d'ogni riverenza all'entusiasmo, alla costanza, alle grandi audacie e alle grandi idee, che sole rifanno i popoli, io debbo conto delle cagioni che promossero il recente tentativo popolare in Milano, delle principali che lo sconfissero.

Il Comitato Nazionale è disciolto; disciolto dopo un proclama d'insurrezione, ch'io scrissi, e che due soli de' miei colleghi firmarono. Di questo fatto io debbo pur conto al paese.

E parmi ch'io debba oggimai parlare al paese anche di me, delle idee che dettarono la mia condotta, delle norme che mi diressero. È la prima e sarà l'ultima volta. Ma le accuse e le calunnie vibrate al mio nome mirano a ferire tutto intero il partito d'azione; e non mi è concesso negligerle. Fors'anche il perpetuo silenzio da parte mia potrebbe generare dubbî e incertezze nell'animo di quei che mi richiesero, in questi ultimi anni, di consiglio e di direzione. E importa ch'essi mi sappiano deluso e tradito ne' miei calcoli e nella mia fiducia, non reo d'avventatezza sistematica, o di spregio delle altrui vite o d'orgoglio insensato, che vuol moto a ogni patto e senza speranza.

Giuseppe Mazzini.

I.

Roma era caduta; ma come chi deve infallibilmente risorgere. I Francesi occupavano le mura e le vie della città e cancellavano le insegne e la sacra formola della Repubblica; ma non potevano cancellare due grandi fatti, conseguenza dell'eroica difesa: il Papato moralmente spento e l'unità italiana moralmente fondata. Il Papa, rimesso in seggio da una gente materialista, affogava nel sangue dei martiri d'una nuova fede; e l'Italia aveva trovato il suo centro. Parvemi che la conquista fosse tale da non doversi commettere alle incertezze, all'anarchia del partito, e che fosse pensiero degno del luogo il cacciare nel terreno della sconfitta il germe della vittoria futura. E prima di ritrarmi, ultimo fra i noti, da Roma, lasciai fondata l'Associazione Nazionale. Il Comitato Nazionale doveva esserne il centro visibile.

Quale era il mio intento, quale era il nostro, dacchè allora eravamo tutti concordi? L'azione: l'azione fisica, diretta, insurrezionale. Riordinando l'Associazione, noi intendevamo ordinare il partito all'azione. Il Comitato Nazionale doveva condurlo fino al punto in cui l'azione fosse possibile; poi sparire tra le file del popolo combattente.

Due anni prima, la missione degli influenti nel Partito poteva essere diversa. Viveva abbastanza diffuso, conseguenza naturale d'una oppressione stolta e feroce ad un tempo, l'abborrimento all'austriaco, ma localmente, senza vincolo, senza simbolo, senza speranza comune. La nazione era aspirazione di menti e d'anime elette, non fede di moltitudini. Mancava al popolo d'Italia, non l'istinto, il desiderio del meglio, ma la conoscenza della propria forza. Quando noi, repubblicani, dicevamo ai giovani lombardi del ceto medio o patrizio: «Voi avete bisogno del popolo; ma questo popolo non l'avrete se non osando, creando in esso, col fascino della fede incarnata in voi stessi, l'opinione della propria potenza,» crollavano, increduli, il capo; e disperavano, pochi mesi, pochi giorni prima della insurrezione lombarda, di trascinare sul campo d'azione le moltitudini. I fatti soli[195] potevano convincerli; e quei fatti dovevano escire, non dalla volontà d'uno o di pochi individui, bensì da circostanze propizie, presentite, non create da noi. Allora l'azione poteva e doveva predicarsi, come intento finale e mezzo unico di riscossa, quando che fosse, senza tempo determinato: a guisa d'apostolato educatore, più che come disegno pratico di congiura. Ma, nel 1849, le condizioni erano radicalmente mutate. Il popolo aveva detto in Sicilia ai suoi oppressori: aderite alle domande nostre il tal giorno, o insorgiamo: ed era insorto e aveva vinto. Braccia di popolo pressochè inermi avevano emancipato in cinque giorni il Lombardo-Veneto dall'Alpi al Mare. I popolani di Bologna avevano, soli, e abbandonati da chi più doveva combatter con essi, combattuto due eroiche battaglie contro gli Austriaci. Brescia aveva segnato in ognuna delle sue strade una pagina storica. In Roma, nel cuore della Nazione, s'era manifestata tanta vita da rifare un popolo intero. In Venezia, guerra, bombe, colèra e fame non avevano potuto suscitare un tumulto, strappare un gemito. I nostri giovani militi s'erano fatti, in pochi mesi di combattimenti, vecchi soldati. E tutti questi miracoli di virtù guerriera e di sacrificio s'erano compiti in un fremito di patria comune, sotto la grande ombra d'una bandiera che portava il nome d'Italia. E l'ultima codarda illusione che aveva affascinato il popolo a credere possibili fondatori di libertà nazionale un papa ed un re, s'era logorata e per sempre in un esperimento, al quale io, non volendo che la bandiera repubblicana si contaminasse, al primo apparire, di guerra civile, aveva assistito, cupamente rassegnato e con dolorosa pazienza, che mi fu poi, da uomini pazienti allora, oggi più che pazienti, rimproverata. Davanti a cosiffatte innegabili rivelazioni, con un popolo ridesto alla fede, che aveva in due anni imparato, non solamente a morire, ma a vincere, le parti d'un Comitato Nazionale non eran più dubbie.

Fondare all'interno l'unità del Partito: concentrarne la forza a principî comuni, a intento comune: preparare le cose in modo che l'impresa, ove fosse vigorosamente iniziata in un punto, diventasse infallibilmente impresa nazionale italiana: predicare il dovere e la possibilità dell'azione: poi, quando il popolo decretasse di movere, ajutarne, con un po' di materiale raccolto, le prime mosse.

Fondare, all'estero, l'unità della Democrazia: cacciar le basi dell'alleanza futura dei popoli nell'alleanza, sopra un terreno comune, degli influenti sul partito attivo in ogni Nazione: far sì che, data una iniziativa italiana, fosse rapidamente seguita dai popoli aggiogati ora sotto l'Austria e ajutata di favore operoso dagli altri.

Fu questo il programma del Comitato, dichiarato apertamente, come da noi si usa; svolto nelle molteplici comunicazioni private, praticato con insistenza dal primo fino all'ultimo giorno. Ogni altro programma avrebbe fondato un ozioso dominio di setta, e dato al carnefice vittime senza scopo. Or noi non eravamo settarî, ma apostoli, credenti in una fede di non lontano risorgimento; non eravamo sì illusi da volere che un popolo risorgesse senza sacrificio di vite, ma nè sì stolidi e appestati di egoismo da guardare freddamente al patibolo dei nostri migliori e non desumerne, com'oggi altri fanno, che un insegnamento di pazienza servile.

II.

Il Comitato esciva, in parte dal fatto dell'associazione ordinata, in parte dalla tradizione, buona a conservarsi, del Triumvirato di Roma. Era in breve tempo confermato, con adesione scritta, ch'io serbo[196], da un numero considerevole d'uomini che avevano rappresentato il popolo in Roma e d'altri che avevano virilmente difeso, nella milizia o negli ufficî civili, l'onore della nazione per tutte parti d'Italia. E presso le moltitudini, vogliose sempre di trovar chi le guidi a fare, presso quella gioventù santa che non ha vanità individuali da accarezzare, ma non domanda se non di combattere, vincere, o morire ignota per la Patria comune, non era per mancarci autorità direttrice, quanto almeno bastava all'intento nostro. Pur nondimeno pareva onesto e giovevole, segnatamente per l'estero, che i più noti fra gli esuli si raggruppassero in questo lavoro di riordinamento interno e di rappresentanza internazionale; e determinammo richiederli. Scrissi allora io stesso a parecchi, tra i quali ricordo Enrico Cernuschi, Amari, Montanelli, Manin, Cattaneo. Chi per una, chi per altra ragione, ricusarono tutti. Manin non rispose. Cattaneo, ora avversissimo, senza ch'io possa indovinare il perchè, rispose magnificando, dichiarando che bastavamo, che la tradizione dell'unico potere popolarmente legale era in noi, che ogni accessione avrebbe guastata l'integrità del concetto e che egli ajuterebbe a ogni modo; e poco dopo inviava una forma di cedola, quasi interamente adottata per l'imprestito Nazionale. A noi dolse che uomini, il cui nome avrebbe potentemente giovato a operare una più rapida unificazione degli elementi, mancassero alla chiamata, ma il loro non fare lasciava intatto l'obbligo nostro, e deliberammo compirlo. Saliceti e Sirtori, nomi cari, l'uno agli italiani di Napoli, l'altro a quei del Lombardo-Veneto, s'erano uniti a noi.

Da taluno fra gli esuli fu susurrata allora l'idea—e fu l'unica, dacchè gli altri non allegavano se non motivi di circostanze, o, peggio, d'antipatie individuali—che un Comitato dovesse escire dal voto universale dell'emigrazione, e comporsi di tanti individui quante sono oggi, per nostra sventura, le parti d'Italia. E se noi non avessimo avuto in core che la meschinissima ambizione di recitare una parte, avremmo accettato: eravamo certi d'essere eletti. Ma troppi e troppo fatali traviamenti erano già entrati a corrompere la schietta logica dell'esercito della democrazia, perchè da noi si consentisse, con tattica indegna della nostra coscienza, a sancirne un nuovo. Sulla non infallibilità del suffragio universale, adoperato anche su larga scala, e in condizioni normali, gli esperimenti non foss'altro di Francia dovrebbero, a quest'ora, aver illuminato molti fra i nostri e insegnato la suprema necessità d'accoppiarlo a un disegno d'educazione nazionale, non solamente gratuita, ma obbligatoria per tutti. La ragionevolezza del suffragio, a ogni modo, quand'è applicato ad un Popolo, sta nel patto comune che gli elettori hanno davanti agli occhi scegliendo, e del quale gli eletti s'assumono di farsi interpreti. Ma il proporre che si scegliesse per via di suffragi un Comitato destinato a unificare, sotto certe norme, il partito; e l'affidare l'esercizio del voto a una emigrazione di tempi e di principî diversi, dispersa fra Tunisi e Montevideo, fra Costantinopoli e Nuova York, vegliata, perseguitata, impaurita spesso dai governi sulle cui terre s'accoglie, era consiglio inattendibile e pericoloso: inattendibile, perchè proclamava un diritto d'elezione dove non erano condizioni di libero voto, nè di metodo uniforme, nè di pubblica discussione fraterna, nè di verificazione severa: pericoloso, perchè fidava all'anarchia delle opinioni ed al caso la scelta della bandiera, sotto la quale doveva ordinarsi il partito. La bandiera era stata inalzata, tra un fremito d'assenso di quanti intendono l'avvenire immancabile dell'Italia, nella metropoli della Nazione, in Roma: nè potea, senza colpa, sottoporsi a vicende[197] di voti dati fuor di paese. Il problema s'agitava, del resto, in Italia; e in Italia stavano gli elementi che solo potevano scioglierlo; l'emigrazione non li rappresentava, nè l'interno avrebbe accettato il suo voto, quando non fosse escito mirabilmente concorde colle proprie tendenze.

Questa mania di suffragi, di sovranità popolare, omeopaticamente applicata dove non è nè indipendenza, nè popolo, fu, tra noi, rovina di molte imprese e indugio perenne al concentramento delle forze e alla rapidità delle operazioni. Noi non siamo, giova pur sempre ripeterlo, la Democrazia, ma un esercito di cospiratori—e chiamo cospirazione, tanto il lavoro che si adopera a diffondere stampe vietate, quanto quello che tende a preparar barricate—militante a conquistare un terreno alla Democrazia. Le norme dell'assoluta libertà, applicate oggi al compimento della nostra missione, ricordano il Libertas che i genovesi scrivevano un tempo sulle porte delle prigioni. Nelle congiure, come tra le barricate, l'iniziativa scende, non sale. Spetta ai pochi che si sentono fatalmente spronati a fare, e capaci d'indurre altri a seguire, e puri d'anima e irrevocabilmente determinati a non adorar idoli d'opinione, transazioni o menzogne, ma solamente l'idea che li guida e l'intento. E se la loro è, come spesso avviene, illusione, il popolo non li segue.

Il popolo—il popolo dei volenti azione—accennava seguirci. L'Associazione s'ordinava rapida e spontanea su tutti i punti; e il primo atto d'ogni nucleo era un'adesione al Comitato Nazionale. Il bisogno d'unità era universalmente sentito, e cancellava, nei migliori, ogni lieve dissenso. I giovani che amavano, più che sè stessi, la patria, non temevano sagrificata una parte d'indipendenza nell'accentrarsi volontariamente a una direzione; non sospettavano che, pel loro consenso, potesse mai inalzarsi un seggio d'autorità pericolosa al paese: chi è degno di libertà non teme di perderla, nè la perde. Però procedemmo, lasciando ch'altri dicesse, e presti a seguire chi facesse meglio e più attivamente di noi.

III.

Fondato il Comitato Europeo, e costituita, vincolo di fratellanza tra esso e il Comitato Nazionale Italiano, l'identità di credenze, noi predicammo, dentro e fuori, le poche semplici norme, che ci parevano meglio opportune a guidare il partito sulle vie dell'azione, e a dargli vittoria. Come individui, ciascun di noi serbava libero il pensiero, libera la diffusione delle proprie idee sui problemi di soluzione pacifica e più remota, che tormentano il secolo e ne vaticinano la grandezza: come nucleo collettivo, dovevamo tenerci per entro i limiti di sfera men vasta, sopra un terreno già conquistato e accettato dai più. E noto questo, perchè a taluni, i quali non hanno cura se non di scrivere libri, libercoli, o articoli, parve bello l'atteggiarsi a pensatori più arditi, e rimproverarci l'incerto, il limitato, come essi dicevano, del nostro programma. Scambiavano i caratteri della nostra missione; e confondevano, col lento e solenne svolgersi della rivoluzione, i preparativi d'una insurrezione. Noi non potevamo ridurci a proporzione di setta; dovevamo studiare di rappresentare tutto quanto il Partito. Dovevamo essere repubblicani, perchè la monarchia spegnerebbe in sul nascere la nostra rivoluzione; unitarî, perchè, senza unità, l'Italia non può essere nazione; ma lasciare ogni altra questione alla nazione e alle ispirazioni dell'avvenire.

Le norme fondamentali da noi proposte eran queste:

[198]

Per forza di cose e d'idee, di leghe regie e istinti di popoli, di intuizione logica e di storia severamente documentata negli ultimi anni, l'Europa dovea considerarsi come divisa in due campi: il campo della tirannide e del privilegio dei pochi, e il campo della libertà e delle nazioni associate. La Democrazia, chiesa militante dell'avvenire, doveva ordinarsi ad esercito, presta a promuovere pacificamente lo sviluppo progressivo dei popoli, dove son liberi i mezzi pacifici; a rovesciare colla forza la forza dove quei mezzi sono contesi. Le nazioni dovevano riguardarsi come divisioni di quell'esercito, chiamato ad operare sotto un disegno comune e sotto la mallevadoria d'uomini, vincolati da un patto a non ricadere nell'esoso egoismo locale, che rese impotenti i moti del 1848. La questione d'iniziativa, fidata teoricamente ai fati provvidenzialmente preordinati e alla coscienza d'ogni nazione, perdeva così l'importanza pratica, che l'orgoglio degli uni e la servilità degli altri avevano fatto degenerare funestamente in monopolio esclusivo. Poco importava su qual punto strategico d'Europa s'aprisse la lotta, purchè tutte le forze dell'esercito democratico sottentrassero alla battaglia. Sorelle sul campo, le nazioni rimarrebbero tali, vinta la guerra, quando, riordinata la Carta d'Europa, un Congresso di rappresentanti, scelti da esse, darebbe al nuovo riparto consecrazione di comune consenso. I popoli, indipendenti nell'assetto interno, alleati per tutto ciò che riguarda gl'interessi europei e le relazioni internazionali, s'avvierebbero così alla risoluzione pacifica dell'eterno problema, svisato quasi sempre dalle sêtte moderne, armonia tra l'associazione e la libertà.

E le stesse norme dovevano più o meno applicarsi al problema italiano. Il campo italiano si divideva, come sempre, in due parti: gli uomini che s'ostinavano ad aspettare la libertà della patria dalla diplomazia, da disegni arcani di principi ambiziosi o da guerre straniere, e gli uomini ch'erano fermi a cercarla nell'azione delle forze italiane, ajutate dall'elemento popolare europeo. A questi soli il Comitato Nazionale si rivolgeva: da questi soli chiedeva concentramento ordinato sotto un disegno comune e un'unica direzione; gli altri sarebbero stati trascinati dal fatto. E questo fatto non doveva, nè poteva avere un giorno predeterminato a manifestarsi;—la nostra era questione d'idea, non di tempo—ma, accettato come possibile, e maturato tanto da raggiungere condizioni ragionevoli di vittoria probabile, prorompere, quando il partito credesse, conseguenza di moti europei o principio ad essi.

Intento del fatto doveva essere conquistarci una Patria, costituirci in Nazione; una dunque doveva esserne la bandiera: inalzarsi, ovunque le circostanze darebbero, in nome di tutti; proteggersi da tutti; trionfare per tutti: guerra di popolo, governo di popolo. E perchè il popolo potesse rivelare solennemente l'animo proprio, i proprî bisogni e la propria fede:—perchè non traesse, come nel 1848, da pericoli ipocritamente esagerati, o da speranze ipocritamente affacciate, occasione a cedere improvvidamente le proprie sorti ad ambizioni di principi e raggiri di cortigiani sofisti:—perchè, col decidere immaturamente, prima d'essere libero tutto ed affratellato, non richiamasse a vita, spenti, ma da poco, germi fatali di federalismo:—perchè, infine, le incertezze, le oscillazioni, i pericoli d'una libertà mal ferma, sospettosa quindi e facile a sùbiti sconforti e a mortale anarchia, non si trapiantassero nel campo, non disviassero dalla suprema necessità di combattere, non involassero, spegnendo la vittoria in fasce, i frutti della vittoria:—il Comitato Nazionale segnava due periodi alla risoluzione del problema; il primo, periodo d'ins[199]urrezione, da governarsi con assoluta unità da un nucleo di pochi buoni e volenti, acclamato e vegliato dal popolo, operante a rendere nazionale, popolare, rapida e tremenda la guerra; il secondo, non ottenuta, ma assicurata la vittoria, e libero, se non tutto, quasi tutto il popolo d'Italia, da reggersi normalmente e svolgersi, sotto la tutela d'una libertà meritata, dall'Assemblea Nazionale, raccolta, per voti di tutti, in Roma.

Il Comitato Nazionale prometteva di sciogliersi davanti al Governo d'insurrezione: la nostra missione era quella d'agevolare l'insurrezione, non di dirigerla. E davanti al Concilio della Nazione, il Governo d'insurrezione dovea render conto, sciogliersi, o portar la testa sul palco. Norme siffatte, accettate, predicate, radicate per tutto quanto il partito, bastavano per sè sole a spegnere ogni pericolo d'usurpazione; ma s'altre, più positivamente proteggitrici, fossero state credute necessarie per quel primo periodo, il popolo le avrebbe architettate e sancite. Quanto ai cento problemi dell'avvenire, noi collettivamente, non dovevamo occuparcene; ed era debito del Comitato educare, coll'esempio, gli animi a fidare nel senno, raccolto in Assemblea, del paese. Solamente, poi che senza tradir la nazione non potevamo non dirci unitarî, aggiungevamo che l'unità vagheggiata non era l'unità napoleonica—che non dovrebbe confondersi col concentramento amministrativo—che l'associazione e la libertà, la Nazione ed il Comune, erano, due eterni elementi, sacri egualmente, dello Stato, come per noi si ideava;—e che all'elemento reale, storico, del Comune, ampliato e sostituito all'elemento fattizio, arbitrario, degli Stati d'oggi, doveva senz'altro attribuirsi quanta forza bastasse a non renderne illusoria la libertà, quanta indipendenza potesse localmente ordinarsi senza travolgere la Nazione nell'anarchia di vita politica e d'educazione.

IV.

Non so s'io m'illuda: ma non parmi che queste norme possano formar soggetto, da una in fuori, di controversia da chi accetti pel paese la necessità d'una crisi rivoluzionaria: sgorgano da una logica elementare documentata da quante rivoluzioni vollero riescire a buon porto e riescirono. Comunque—e importa notarlo—nol formarono allora. Espresse senza riguardi ed ambagi fin dal primo Manifesto del Comitato, furono accolte con favore dalla generalità del partito; combattute tiepidamente, e senza il corredo delle solite villanie, dai giornali pagati per essere avversi. Nessuno levò allora la voce—ed era il momento naturalmente additato alla buona fede—per dichiarare che la nostra teorica rivoluzionaria era falsa; nessuno escì in campo a proporne un'altra; nessuno s'attentò di fare atto pubblico di codardia e di dirci: l'Italia, checchè facciate, è e sarà pur sempre impotente a movere ed emanciparsi, se prima non move la Francia o un'altra contrada. Gli umori che serpeggiavano fra taluni, segnatamente in Parigi, si strisciavano, come dissi, rodendoli, intorno a nomi, non a idee, d'individui. E noi, poco curanti di questo, procedemmo, con animo alacre, nell'opera incominciata e nella pratica delle dottrine enunciate. Primo passo su questa via, e nuovo indizio che per noi si tendeva all'azione, fu l'emissione dell'Imprestito Nazionale: concetto arditamente buono, che fu accolto con tanto favore da rivelare l'animo del paese, ancorchè il risultato materiale non fosse gran cosa; diedero, non i ricchi, colpevoli d'un'avarizia che espiano cogli imprestiti forzosi e coi sequestri dell'Austria, ma i poveri.[200]

Io non dirò, per ragioni facili a indovinarsi, quello che sotto l'ispirazione del Comitato e la forte instancabile attività iniziatrice di Roma si facesse all'interno; e soltanto affermo il lavoro condotto al punto di dare certezza, che ove una vigorosa iniziativa sorgesse in una parte d'Italia, sarebbe, più o men rapidamente, ma infallibilmente, seguita da tutte l'altre; e della vigorosa unità del partito hanno, del resto, dato indizî che bastano l'audacia inconquistabile della stampa clandestina, le dimostrazioni periodiche a ricordo della repubblica in Roma e provincie, i fatti compiti a danno di delatori in Milano ed altrove, i terrori dei governi e le vittime, pescate il più delle volte a caso, pure in tutte le classi, dal prete fino al più umile popolano. Ma all'estero, accettate dal Comitato Europeo le basi intorno all'iniziativa e alle relazioni internazionali accennate più sopra, il lavoro assunse proporzioni importanti davvero e preparò risultati, che agevoleranno all'Italia, quando vorrà coglierli, la via per collocarsi, tra le nazioni, su quell'altezza, alla quale i fati la chiamano. Per questo almeno io sento di meritare—e mi preme più assai di meritarla che non d'averla—la gratitudine del paese. Per circolari, indirizzi e inviati, il nome e la parola d'Italia suonarono potenti in tutte le file, disgiunte prima del 1848, rannodate ora a un disegno comune della democrazia Europea. L'alleanza, temuta e inutilmente assalita con tutt'arti possibili, tra gli ungheresi e noi, più visibile dacchè l'elemento rivoluzionario ungarese s'incarna in un uomo, non fu se non una delle molte che traemmo—educandole con amore attraverso difficoltà più gravi che altri non pensa—dai germi che le delusioni del 1848 avevano seminati. Dalla penisola Iberica, destinata ad unificarsi, fino alla Grecia alla quale apparterrà un giorno, checchè facciano le diplomazie per galvanizzare un cadavere, il primato su Costantinopoli; in Polonia, centro pur sempre d'una delle quattro divisioni future del mondo Slavo; nelle valli, troppo dimenticate dall'Italia, dove s'agita, in cerca dell'avvenire, una gente romana di nome, di ricordi e d'affetti, da Traiano in poi; in Germania; in Oriente, tra popolazioni varie, taluno semi-barbare, ma il cui sommoversi cova inevitabile la guerra europea, noi cercammo e trovammo nemici all'Austria. I pensatori, ai quali è centro di politica europea Moncalieri, sorridano increduli a posta loro, ma chi cerca appurare il vero, viaggi per quei paesi, interroghi, e veda se l'importanza data all'Italia non è cresciuta di tanto, da far parere ogni suo moto, ogni sua sommossa, fatto grave di conseguenze ai moti e al progresso d'Europa. Questo cangiamento nella teorica dell'iniziativa europea, accettato senza analisi di cagioni dai popoli, è dovuto alle manifestazioni che nel 1848 e nel 1849 rivelarono un'Italia, ignota fino a quei giorni. Il Comitato Nazionale non fece che indovinar quel fatto, giovarsi dei diritti che dava a chi parlasse in nome d'Italia, e fondarvi sopra una fratellanza più positiva, un accordo predeterminato pel caso d'azione. Pur tanti anche oggi fra i nostri—e dovrò or ora, con dolore e rossore, accertarlo—dimenticano quel fatto supremo e guardano all'Italia, siccome a schiava giacente, finchè piaccia a Parigi o a Berlino di dirle: sorgi! dimenticano che non è senza merito di fede in noi l'avere inteso quanta parte di vita europea s'agita nella patria nostra, e l'aver preparato, come meglio si poteva, il terreno ad alleanze, che l'Italia dovrà e potrà stringere fin dai primi giorni del suo risorgere.

E in Inghilterra e negli Stati Uniti d'America—in questi ultimi per opera in parte di Kossuth, che affratellò sempre i fati dell'Ungheria e dell'Italia—l'opinione, sistematicamente traviata dalla[201] stampa ligia alla monarchia piemontese, si trasformava, si incaloriva rapidamente. Il mutamento in America, dove le tradizioni isolatrici dei fondatori dell'Unione, cedono alla coscienza e al fremito della vita virile, assumeva aspetto più pratico che gli eventi—se l'Italia vorrà dar moto agli eventi—riveleranno. In Inghilterra a ogni modo la Nazione sottentrava nelle menti al Piemonte; il popolo d'Italia sottentrava negli affetti a una aristocrazia, i cui ricordi avevano data all'emigrazione patrizia del 1821: cresceva e cresce l'irritazione contro l'Austria quasi eguale a quella che suscita negli animi contro il papato. A capo della propaganda trasformatrice si poneva un'Associazione, fondata, dopo l'istituzione del Comitato, dai migliori amici ch'io m'abbia. E se i miracoli delle Cinque giornate, o fatti come quei di Roma, verranno mai a verificare le predizioni e rafforzarne il linguaggio, vedremo, dove prima non fu se non tiepida e sterile ammirazione, fremere una vita larga d'affetti operosi e d'ajuti.

Ma tutto questo a che pro? a che sollecitare gli animi con un cumulo di lavori e speranze se l'Italia, diseredata di vita e potenza propria, doveva aspettare, a tempo incerto, indefinito, libertà dalla Francia? A che edificare con ostinato studio nella fratellanza europea una iniziativa alla cospirazione italiana, se non per trarne, quando occorresse, una possibilità d'iniziativa all'Italia? E chi mai poteva credere che noi tentassimo imprestiti, predicassimo la necessità di procacciarsi materiale di guerra e spingessimo con quanto ardore potevasi adoperare, a concentramento di forze, se non per agire?

Nessuno lo credeva. Quanti s'accostavano a noi sapevano e udivano ripetersi dalle nostre labbra che noi, pronti a seguire s'altri facesse, tenevamo l'Italia capace, come ogni altra nazione, di fare ed esser seguita. Se v'è taluno tra i nostri ch'oggi affermi il contrario, o dimentica o inganna. Io non ingannai nè dimentico. E questo mio serbarmi indeclinabilmente fedele al primo proposito, rimprovero, credo, acerbissimo, checchè millantino, a quei che mutano ad ogni tanto o dicono ciò che non pensano, è sorgente precipua d'ire e d'accuse. Se non che a me torna più conto di starmi in pace colla mia coscienza, che non cogli uomini de' miei giorni; porto, come i cavalieri crociati, il mio simbolo sul petto e morrò con esso.

La coscienza mi dettava allora, com'oggi: che ad ogni uomo della mia terra, il quale mi richiedesse del fine a cui s'ha da tendere, io dovessi rispondere: all'azione:—ch'io predicassi, come obbligo oggi supremo d'Italia, il prepararsi a insorgere e insorgere:—ch'io nondimeno non dovessi illudere, affascinare gli animi a moti non desiderati, sostituendo al loro il giudizio mio:—ma che qualunque volta, da uomini capaci di rappresentare il voto delle moltitudini, mi fosse detto: vogliamo agire, io dovessi dir loro: «Dio benedica il generoso concetto,» e, come meglio potessi, ajutarli. Non ho tradito alcuno di quei consigli. Quei che maravigliano in oggi del mio dire al paese di lavorare ad insorgere, dimenticano ch'io, da ventiquattro anni, predico la stessa cosa: quei che mi accusano d'aver detto o di dire: insorgete comunque; insorgete anche pochi; insorgete a ogni patto, affermano, consci o inconsci, quel che non sanno.

Gl'italiani devono insorgere pronti a morire, ma quando le probabilità stanno per la vittoria. Soltanto, taluni non credono io credo che probabilità siffatte possano raggiungersi dall'Italia guardando a sè stessa, non a Londra o a Parigi.

V.

[202]

Intanto, mentre i lavori accennati si facevano dal Comitato e l'interno assentiva e noi ci rallegravamo nell'animo del potere poco o molto giovare da lungi al paese, prendeva forma e corpo e sorgeva più sistematica, più attiva e dannosa, quell'opposizione, della quale notai più sopra i germi esistenti segnatamente in Parigi, ma che allora si diffuse qua e là tra gli esuli in altri punti; opposizione che, versando tra elementi eterogenei, atei, cattolici, militari, federalisti, repubblicani e non repubblicani, era inefficace a fare o sostituire cosa alcuna a ciò che per noi si tentava: ma efficace pur troppo—e chi non lo è?—a distogliere, a intiepidire, a dissolvere, a dar pretesto d'inerzia ai molti che abborrono in core dal sacrifizio qualunque siasi. E trovarono faccendiere ed antesignano un Ferrari, ingegno francese al peggiorativo, scrittore facile, ardito, superficiale: copista delle negazioni di sessanta anni addietro, scettico di fede, di principî e di dottrine; inavvertito—e questo è il segreto dell'ire—in Italia. Costui stampò un libro a provare—dopo avermi biasimato per tenacità d'idee in altri scritti—ch'io non era a vero dire repubblicano, ma monarchico alternativamente e papista e non so che cosa altro; poi che all'Italia, per rigenerarsi, bisognavan due cose: farsi scettica e farsi francese. Or se in Italia sono uomini che accettino questi due rimedî alla servitù, accettino anche quello ch'ei dice di me: non cercherò convertirli. E non occorre che io parli altro di lui. Ma tra gli uomini, che allora si fecero oppositori, sono parecchi ch'io stimo per doti di core o di mente, e che diedero in altri tempi prova d'amore intenso all'Italia. Ed è necessario citarne le accuse.

Erano varie e contradditorie, come le tendenze degli uomini dai quali escivano.

Gli uni ci rimproveravano il silenzio, del primo Manifesto, intorno al principio repubblicano, e ci accusavano di tener celata la nostra bandiera. Non la celavamo; era incarnata in noi tutti che l'avevamo difesa in Roma; era incarnata in me che aveva, venti anni prima, e poi sempre, predicato repubblica, quando nessuno, in Italia, osava fiatarne. E alla repubblica guidavano inevitabilmente le norme prefisse nel Manifesto, allo stadio d'insurrezione e al modo d'assetto finale. Ma la riverenza alla Sovranità Nazionale e il concetto puramente insurrezionale che il Comitato s'era fatto della propria missione, ci aveva persuasi a tacerne il nome. Pur nondimeno, dacchè repubblicani eravamo e repubblicana era l'Associazione e repubblicane si manifestavano le tendenze di tutto il partito d'azione in Italia, deliberammo di troncare in un secondo Manifesto ogni dubbio, dissenziente, per semplice opinione d'inopportunità, il solo Giuseppe Sirtori, che ci lasciò, addolorati, e addolorato egli pure: tra lui e noi, mallevadore d'affetto fraterno, rimaneva e rimane[54] il core, più potente d'ogni passeggero dissidio.

Altri ci accusavano d'antagonismo alla Francia; ma a quale? alla Francia governativa eravamo, per debito verso noi e verso la vera Francia, irrevocabilmente nemici; e avversi alla Francia delle sêtte intolleranti, traviate, esclusive, ch'io da più anni, vedeva—e lo scriveva in Inghilterra e in Italia—spianar la via, colle stolte minaccie a quanti possiedono, colle promesse inattendibili al popolo, colle utopie senza mente a danno della libertà e col culto degli interessi materiali, anzi degli appetiti, alla tirannide del primo che, potente a giovarsi della corruttela, vorrebbe, ottenerla: colla buona, [203]colla pura Francia repubblicana, colla Francia dalle larghe e filosoficamente religiose tendenze sociali, colla Francia sorella, non monopolizzatrice d'una civiltà ch'è l'alito della vita europea, non traduttrice del principio monarchico in una monarchia di nazione, noi eravamo legati in concordia d'opere, nota a molti francesi, e indovinata per istinto dal loro governo, che m'odia quanto io lo disprezzo. La democrazia italiana sovveniva, mentre gli accusatori parlavano, la democrazia francese d'azione, di consigli fraterni e d'ajuti materiali. Eravamo antagonisti, non alla Francia dell'avvenire, ma al pregiudizio servile di molti fra i nostri, i quali, senza pure operare a mutarla, dichiaravano la Francia arbitra unica delle cose d'Europa e sola datrice possibile di libertà a venticinque milioni d'uomini nati in Italia. Parecchi tra gli adulatori della Francia repubblicana piaggiano oggi all'imperatore.

Taluni riparlavano di suffragio; e a questi, dopo tutte le ragioni ch'io dissi, concedemmo una doppia prova in un Comitato scelto per voti dell'emigrazione in Marsiglia, e in un altro, eletto per la Sicilia da tutti gli esuli di quell'inclita parte d'Italia. Le proteste di quei che si dicevano lesi o delusi dall'elezione, l'inesecuzione degli ordini, i dissidî insorti tra gli esciti dall'urne, costrinsero, dopo breve tempo, i due Comitati a disciogliersi.

Lascio delle accuse volgari: delle pretese, mormorate appunto dagli uomini che non hanno mai contribuito d'un obolo, che si desse conto ad altri, che non al paese insorto e rappresentato, delle offerte, date e impiegate segretamente, all'imprestito Nazionale:—dei motti codardi e codardamente gittati contro le abitudini dei membri del Comitato, mentre, rispettando all'inviolabilità del deposito e all'indipendenza dell'anima loro, i membri del Comitato si facevano lietamente, per vivere, maestri di lingue:—e d'altre consimili: il Comitato non dovea che riderne, sprezzando, e rideva. Ma le più forti accuse, quelle che trovavano più facilmente un'eco nei deboli d'intelletto o di fede, si concentrarono su due punti, che meritano d'essere rapidamente toccati: la guerra bandita al federalismo, e la teorica del governo dittatoriale raccomandata all'insurrezione.

Io considero—e noi tutti consideravamo il federalismo come la peste maggiore che possa, dopo il dominio straniero, piombar sull'Italia; il dominio straniero ci contende per poco ancora la vita; il federalismo la colpirebbe d'impotenza e di condanna a lenta, ingloriosa morte, in sul nascere. Rampollo d'un vecchio materialismo che, incapace d'affermare la collettiva unità della vita, non può coll'analisi scoprirne se non le manifestazioni locali e ignora la Nazione e i suoi fati, il federalismo sostituisce, al concetto della missione d'Italia nell'Umanità, un problema di semplice libertà e d'un più soddisfatto egoismo. Senza base di filosofia:—senza teorica d'antecedenti storici in Europa, dacchè tutte le federazioni non furono, nel passato, che concessioni imperfette alla tendenza unitaria, cadute, appunto perchè imperfette, ogni qualvolta si scontrarono coll'unità già ordinata:—senza argomenti d'analogia nel presente, dacchè delle due sole confederazioni esistenti, la Svizzera e l'America, questa rappresenta la sola unità possibile tra i paesi d'un continente intiero, quella, formata per aggregazione successiva, rappresenta la sola unità possibile tra popoli di lingua, di razza, e di credenze diverse:—senza tradizione nazionale, dacchè non furono mai in Italia se non leghe a tempo, limitate sempre a una parte sola della Penisola, e tutte, dalla Lombarda infuori, funeste al paese:—senza appoggio possibile di diplomazia, dacchè nè i federalisti medesimi s'attentano di d[204]ichiarare giusta e da rispettarsi la divisione attuale, ineguale, arbitraria, tirannica, come è, degli Stati:—senza conforto d'aspirazione di popolo, dacchè il popolo non conosce se non la nazione e la propria città:—il Federalismo italiano non è nè può essere che capriccio intellettuale di letterati imprudenti o sogno inconscio d'aristocrazie locali, accarezzato da mediocrità ambiziose alle quali l'ampia sfera nazionale minaccia l'oblìo. E aristocrazie locali di mediocrità; usurpazioni tanto più facili, quanto più la sfera, nella quale tentano compiersi è angusta; influenze straniere e contrarie di nazioni gelose esercitate, a seconda della posizione geografica, degli interessi commerciali o dei ricordi storici, sul Sud, sul Centro, o sul Nord dell'Italia; invidie e gare civili di supremazia mercantile o politica rieccitate nelle diverse parti: debolezza perenne e perenne mancanza d'iniziativa, scenderebbero inevitabili dal sistema federativo applicato alla nazione risorta. Per tutte queste, e per più altre ragioni, noi credemmo debito nostro il dichiararci, senza riguardo alcuno ai pochi avversi, esclusivamente unitarî. Ma pensando come per noi si temperava l'idea di unità e al come gli altri parevano capire il federalismo, non mi venne mai fatto d'intender di che si lagnassero, o che si vogliano. Com'essi, noi adoriamo, riverenti, la libertà: com'essi, abborriamo dal concentramento amministrativo: com'essi teniamo sacra la spontaneità della vita locale. Soli due elementi storici esistono in Italia per noi: il Comune, dal quale incominciò lo sviluppo della nostra vita; la Nazione verso la quale andò, d'epoca in epoca, operandosi più sempre la fusione del nostro popolo. Sono i due elementi che corrispondono ai due, violati alternativamente dai sistemi del socialismo francese, individuo e società, in ogni Stato; e, com'essi, sono inviolabili e devono armonizzarsi, non negarsi l'un l'altro. Il Comune, unità primordiale politica, deve ampliarsi e dotarsi di forze proprie che gli consentano indipendenza, per quanto concerne doveri e diritti locali, dal governo della Nazione: esercizio d'attribuzioni, che costituiscano un primo grado d'educazione civile, pratica al cittadino; e ricchezze che lo abilitino a irraggiare un incivilimento progressivo nelle campagne, oggi isolate soverchiamente e ignoranti. La Nazione, unità complessiva e suprema, rappresenta, tutela e promove l'insieme dei doveri e diritti, che spettano a quanti nascono tra l'Alpi e l'ultimo nostro mare, e costituiscono al di dentro e al di fuori la missione Italiana. E mentre cura e vocazione della famiglia dev'essere l'educare uomini al Comune, il Comune deve educare cittadini alla Nazione, la Nazione educare le generazioni italiane a compiere la parte e gli obblighi loro nell'Umanità. V'è chi possa levarsi protestando contro questo ideale, o vagheggiarne, sotto nome di federalismo, uno migliore? Io intendo—Dio mi guardi dall'approvarlo—il federalismo monarchico di Gioberti e Mamiani; essi sacrificano Italia, principî, avvenire a una pretesa opportunità o alla codarda ambizione d'una famiglia di principi. Ma il federalismo repubblicano, il federalismo che non ha innanzi se non tre vie:—sagrificare giustizia e principî rispettando gli Stati attuali—affrontare tutti gli ostacoli incontrati dagli unitarî e più altri nuovi per fondare ad arbitrio una diversa serie di Stati—o scendere, per equa deduzione di logica, alla sovranità d'ogni campanile, alle cento o duecento repubblichette, al medio evo rifatto in faccia al moto verso gigantesche unità nazionali che affatica l'Europa—mi riesce, io confesso, inintelligibile. E duolmi che un ingegno potente d'analisi e di nozioni pratiche come quel di Cattaneo, si lasci sospettare di siffatta follìa.

Ma l'altra accusa, vecchio grido d'allarme di quanti demagoghi[205] mirarono a conquistarsi, adulandone le incaute passioni, il popolo, sollecitava pur troppo tutte le invidiuzze, le ambizioncelle, i sospetti e la foga irrequieta di libertà, che s'agitano tra gli oppressi, e più nell'emigrazione. I tristi—e dovrò dirne tra poco—non arrossivano far discendere la questione del centro unico dittatoriale sul terreno degli assalti personali; i migliori esageravano, dimenticando che una insurrezione non è libertà, ma guerra per conquistarla, i pericoli d'una dittatura che non potrebbe mai diventare tirannide, se non quando gl'Italiani meritassero tutti d'essere servi—e nol meritano. Taluni—perchè i più saviamente s'astennero—fra i membri dell'Assemblea Romana, sognandosi pur sempre reduci in patria per virtù d'armi francesi, poi che si sarebbe compita la pacifica rivoluzione dell'urne, s'affrettarono a dichiarare, in un documento, che in qualunque luogo avessero veduto compirsi l'insurrezione, essi si sarebbero immediatamente raccolti, in virtù del loro mandato, come monade e nucleo generatore di una Assemblea Nazionale, dirigendo intanto i primi moti del popolo insorto: e ci mandarono, perchè il rifiuto ci chiarisse pericolosi alla futura libertà del paese, quel documento, richiedendoci di firmarlo. La nostra coscienza ci comandava di amare il popolo, e d'ajutarlo a conquistarsi una Patria, non d'adularlo, ingannandolo; e però ricusammo. Quei valentuomini non s'avvedevano che la loro proposta era, più d'ogni altra, usurpazione dittatoriale di sovranità: i rappresentanti del popolo in Roma, eletti dagli uomini, non d'Italia, ma dello Stato, con mandato di provvedere alle sorti, non d'Italia, ma dello Stato, avevano esaurito degnamente quel mandato, proclamando il 2 luglio dal Campidoglio una Costituzione buona in più parti, ma che certo non sarà mai Costituzione d'Italia. Se non che, a una usurpazione che avesse avuto in sè virtù di salvare la patria, noi avremmo piegato il capo e, ripetendo la formola dei nostri padri, aderito. Ma io vedeva dall'Assemblea Romana ricostituita escire, in forza d'un diritto analogo, al quale di certo non mancherebbero gli invocatori, l'Assemblea Veneta, l'Assemblea Toscana, l'Assemblea di Sicilia: e riviver con esse tradizioni di partiti e illusioni o peggio, che sviarono a certa rovina la rivoluzione del 1848; e l'impossibilità di condurre rapidamente, energicamente, nazionalmente, fra le gelosie, le esigenze, le improntitudini di quattro assemblee, l'insurrezione a buon porto; e, s'anche miracoli di popolo le avessero procacciato vittoria, gravi e quasi insuperabili pericoli all'Unità della Patria. E questi miei timori si confermavano dal linguaggio d'uomini di Sicilia, Toscana, Venezia, ch'io andava via via richiedendo del loro parere, e che, fautori d'una Assemblea, erano pur tutti avversi al rivivere della Romana. Ond'io, forte d'un voto esplicito, decisivo, dato da tutta quanta l'Associazione di Roma e Provincie, minacciosamente ostili alla proposta di quei pochi Rappresentanti, proponeva ad altri che si riunissero nel primo punto libero bensì, per far atto degno veramente di loro e di Roma, e fecondo di conseguenze giovevoli all'insurrezione, dicendo: noi non capitolammo, e non abdicammo il mandato davanti alle bajonette; noi, nei quali vive per decreto di voto il pensiero di Roma, anima, centro, altare d'Italia—ci raduniamo a scioglierci e abdicare il mandato imperfetto davanti alla maestà del popolo insorto: con noi perisce ogni diritto, ogni sovranità di passato: a cose nuove poteri nuovi: una sola Assemblea è legittima, quella che la Nazione Italiana convocherà. Ma quando? E la questione, sciolta cogli uomini dell'Assemblea Romana dal voto dell'interno e più dopo dai mutamenti di Francia, ris[206]orgeva, e risorgerà, probabilmente, con altri, i quali vorrebbero i fati dell'insurrezione affidati a una Assemblea nuova da raccogliersi immediatamente.

Immediatamente? S'io avessi mai potuto sostituire, per accattare suffragi, gli accorgimenti tattici dei più tra i cospiratori al libero diritto favellare del pensatore patriota, avrei riecheggiato allora e riecheggerei oggi quella parola. La forza delle cose avrebbe deciso e deciderà sempre in favore dell'opinione ch'io mantengo. La convocazione d'una Assemblea qualunque, esige un vasto tratto di terreno assicurato dall'insulto nemico, tregua a quel primo stadio di guerra che assorbe il popolo tutto nell'azione incessante, redazione di legge elettorale, comizî, voto, comunicazione agli eletti, riunione da punti diversi, verificazione: in tutto quel tempo l'insurrezione deve pur governarsi; avrà capi quindi e autorità direttrice, e se i primi passi di quell'autorità avranno creato vittorie, se avranno rivelato al paese gli uomini potenti di concetto e audaci nell'eseguire che hanno, più ch'altri, fede e sanno infonderla nelle moltitudini, non un'Assemblea prematura oserà balzarla di seggio finchè dureranno i supremi pericoli. Ma le reticenze, le transazioni colla propria e coll'altrui credenza, e le tattiche dei machiavellucci parlamentari, arnesi buoni per monarchici e monarchie, minacciarono di troppo in questi ultimi anni l'educazione repubblicana del nostro popolo, perchè s'accettino da noi. E però dissi allora e ridico: che il fidare le sorti d'una insurrezione italiana ad un'Assemblea convocata dai primi tempi, riescirà, se mai si facesse, a moltiplicare gli ostacoli e i pericoli sulla via dell'insurrezione, senza educare il popolo a libertà vera o proteggerlo dalle brighe degli ambiziosi. La nostra insurrezione potrà vincere—tante sono le forze che possono adoprarsi in Italia—rapidamente: un anno, sei mesi forse—e gli uomini delle guerre governative sorridano a posta loro—basteranno, tante sono le conseguenze, possibili altrove, d'un moto nazionale italiano, a far sì che si segni la pace oltr'Alpi; ma a patto che la battaglia sia di giganti; a patto che le forze interne si concentrino tutte a un intento da una volontà ferrea, non indugiata da gelosie, paure o riguardi; a patto che le conseguenze dell'insurrezione italiana si rendano inevitabili all'estero coll'audacia che lacera in viso ai regnanti trattati e protocolli di diplomazia e costringe le nazioni schiave a trasalire fra i ceppi, a sentire il tocco d'un'ora di vita suprema voluta da Dio, a salutare con entusiasmo di fiducia il popolo iniziatore; a patto che le operazioni, maturate, ordinate nel segreto assoluto, prorompano, inaspettate, come colpi vibrati in duello; a patto che gli animi, i pensieri, le azioni del popolo insorto, sollecitato, affascinato dalla fredda audacia dei capi, non si sviino un solo istante dal grande, dall'unico intento, insurrezione, guerra, vittoria. Ma chi può mai sperar questo, se non da pochi individui puri, volenti, energici, affratellati, quasi dita d'una stessa mano, in unità di concetto e di moti liberi e mallevadori al paese solamente degli ultimi risultati? Dove è la potestà esecutiva che possa mai attentarsi, siedente un'Assemblea, di sprezzare le pretese della confederazione Germanica nel Tirolo, di sprezzar le proteste di tutti i Consoli del commercio europeo in Trieste, di abbandonare, occorrendo, il paese alle devastazioni dei nemici racchiusi nelle fortezze del quadrilatero, per trasportare altrove, tagliando il nemico dalla propria base, la forza dell'insurrezione, senza chiederne assenso da quell'Assemblea? Pur quelle e ben altre audacie racchiude il segreto della vittoria; e il segreto, dato a discussioni, pubbliche o no poco monta, di parecchie centinaja d'uomini, è segreto perduto. Citar Roma, citar Venezia, parmi, più che[207] argomento, artificio rettorico d'allievi inesperti. In Roma e in Venezia sì trattava di tutelare città, non di fondare una Nazione: era guerra non d'offesa ma di difesa; non passibile di concetti e disegni radicalmente diversi; e ogni perdita di tempo era tolta dal continuo contatto fra la potestà esecutiva e l'Assemblea; e il cannone nemico tuonava alle porte, mirabil rimedio a lievi dissensi. E l'unico potente esempio, che par soccorrere ai fautori dell'Assemblea, quello dei prodigi operati in Francia sotto la Convenzione, è per me sofisma pericoloso. Un unico esempio—ed unico è nella storia—mal fonda teorica, alla quale s'affidi la salute d'un popolo; ma neppur quell'unico regge. La Convenzione venne, terza assemblea in un paese già concentrato a unità nazionale dopo tre anni di rivoluzione crescente, di libera stampa, d'agitazione popolare e di società giacobine, e quando fremeva nell'animo a tutti la coscienza d'una rivoluzione invincibile; la nostra si raccoglierebbe in sui primi moti di una insurrezione, incerta tuttavia de' suoi fati, in una terra che deve conquistarsi unità e indipendenza ad un tempo, da un popolo d'elettori buoni per istinto, ma ineducati, tra un popolo di eleggibili, ignoti per mancanza di contatto colle moltitudini e di vita pubblica anteriore; predominante necessariamente in essa una classe di cittadini timidamente devoti, di pretese superiori all'intelletto e dotati della semi-scienza fatale alle insurrezioni, che vede e calcola tutti i pericoli senza indovinare le audacie sublimi che possono vincerli. Chi può dire: noi avremo la Convenzione? E nondimeno a quali patti fu grande d'energia la Convenzione di Francia? Le denunzie che escivano pe' suoi membri dai banchi de' giacobini si trasformavano in condanne sulle labbra degli uomini del Comitato di salute pubblica o di Robespierre e si compievano sul patibolo. La guerra civile inferociva in seno alla Convenzione; una metà scannò l'altra: passeggiò su tutte, dominatrice tremenda, la ghigliottina. La dittatura a tempo e limitata di pochi chiamati dal popolo, invigilati dal popolo, mallevadori al popolo, è dunque siffattamente pericolosa, che debba preferirsi la dittatura della ghigliottina e lo spettacolo di terrore e di sangue, ch'oggi ancora impaurisce gli animi della Repubblica? Non so s'io traveda, ma la via ch'io propongo parmi la sola che possa dar salute all'insurrezione e liberare a un tempo l'Italia dalla tristissima necessità del terrore ordinato in sistema e del sangue. Un'assemblea esige nel paese un esercizio di libertà illimitata, che nel concitamento febbrile di quel primo periodo, deve tradursi infallibilmente in licenza: si divide essenzialmente in partiti, che rappresentati da uomini cinti della fascia di mandatarî del popolo, si riproducono potenti non foss'altro nel collegio degli elettori; e trapassando di crisi in crisi, di discordia in discordia, finirà, checchè si faccia, per insegnare al popolo l'anarchia—l'inerzia della stanchezza—o la dittatura: e alla istituzione di un potere dittatoriale conchiusero, ne' momenti supremi, le Assemblee quanto furono, antiche e moderne. Ma non cova maggiori pericoli una dittatura, sancita per confessione implicita d'impotenza, da un'Assemblea, che non quella alla quale il popolo fiderebbe nei primi momenti il governo dell'insurrezione e a un tempo l'ufficio di preparare, libero d'ostacoli e di pericoli, il terreno alla convocazione dell'Assemblea? Non fu la maggior parte della via alla tirannide agevolata a Luigi Napoleone dallo scredito in cui l'Assemblea era caduta?

Non cito i danni minori:—l'imprudenza di dettar leggi regolatrici della vita d'un popolo, prima che quel popolo abbia potuto manifestare la somma di facoltà, di bisogni, di credenze, di aspirazioni ch[208]e gli compongon la vita:—il pericolo di soggiacere, senza pur avvedersene, alle tradizioni d'un passato abbarbicato ancora alle menti:—la certezza di subire, in disposizioni destinate a regolare un avvenire pacifico, l'influenza d'un presente, affannato dall'ansie, dai sospetti, dalle riazioni d'una guerra non per anco decisa:—e finalmente l'allontanamento forzato dal campo, e dagli uffici praticamente utili all'insurrezione, d'un numero d'uomini militari ed altri: benchè io ricordi tuttavia che se la proposta ch'io, semplice rappresentante del popolo in Roma, e antiveggendo i pericoli prossimi, feci all'Assemblea, di disperdere i suoi membri a portar la croce di fuoco tra i loro elettori nelle provincie, non fosse stata da improvvidi sospetti respinta, forse le Romagne non davano il triste spettacolo—e so che laveranno quell'onta—di lasciare il tedesco passeggiar senza ostacolo da Bologna sino ad Ancona. Ma come può esistere Assemblea Nazionale legislatrice su tutti e obbedita da tutti, se tutti, o i più almeno, fra gl'Italiani non l'hanno eletta? Ben so ch'altri, a scansare l'ostacolo, propose un'Assemblea, che andasse via via rafforzandosi dai rappresentanti delle frazioni di territorio che s'andrebbero via via emancipando. Ma le leggi via via votate non rimarranno pur sempre mal ferme, per vizio d'illegalità, nell'animo dei non elettori? o dovranno riesaminarsi ad ogni nuova infornata di rappresentanti? Pensando all'immensa unità richiesta da un'impresa, come quella di far d'un popolo insorto Nazione, e ad un tempo al continuo variar di tendenze, all'incertezza di sistema governativo, alla instabilità d'ogni disegno di guerra e pace, che prevarrebbero in quell'Assemblea, formata per alluvione, non pare, a dir vero, proposta da senno.

Io intendo l'atto d'una prima Assemblea Nazionale Italiana, raccolta in Roma, a definire e consecrare col Patto la terza vita d'un Popolo predestinato, come il nostro, a infondere la propria nella vita dell'Umanità, siccome l'atto il più solennemente religioso che possa, in questa Europa sconvolta, compirsi; e lo vorrei tale nelle circostanze, nella pace d'anima dei rappresentanti, liberi da ogni influenza d'eventi passeggieri e violenti, nella maestà d'un Popolo circostante, purificato dal martirio e in riposo sull'armi della vittoria. Vorrei che gl'Italiani avessero prima imparato l'unità della Patria nel campo, la missione della Patria nel sacrificio, la libertà della Patria nella coscienza d'aver combattuto e vinto per essa. Vorrei che il Messia dell'Italia, l'Assemblea Nazionale, avesse profeti che gli preparassero la via. E cura del Governo d'Insurrezione sarebbe quella di prepararla in quel breve periodo colla educazione iniziatrice, colla stampa ordinata ad un fine, coll'associazione pubblica concentrata a una sola bandiera, coll'esercizio della facoltà elettorale, dato, fin dov'è possibile, ai militi e ai comuni pei loro uffici: di leggi, quel Governo a tempo non dovrebbe farne se non concernenti la guerra, e le poche richieste dai più urgenti bisogni del popolo e dalla necessità di fargli intendere che combatte per sè, pel suo meglio. Commissioni o assemblee di provincia, raccolte intanto senz'altro mandato che quello di snudare le piaghe del passato, di studiare i nuovi bisogni, di preparar materiali alla futura Assemblea, costituirebbero di fatto una potenza invigilatrice, pel caso in cui il Governo d'Insurrezione accennasse tradire o prolungasse il periodo transitorio oltre il termine indicato dall'esito della guerra: guerra, ripeto, tanto più breve quanto più concentrata, quanto più dittatoriamente diretta. Nè temo gran fatto d'usurpazione da quei pochi: tremenda è la tirannide d'una Assemblea, perchè il punirla minaccia le fondamenta dello Stato ed esige l'insurrezione di tu[209]tto un popolo; ma i pochi, rivestiti di mandato a tempo e per un intento definito, non avrebbero appoggio possibile se non nella forza; e quella forza—non atteggiata ad esercito permanente e separato dalla nazione—in un popolo ringiovanito nelle battaglie della libertà, starebbe contr'essi. A me, nell'udire tanti puritani di libertà affaccendarsi dall'esilio a custodire dalle ambizioni possibili la patria futura, veniva spesso sul labbro: che! sognate un Cesare in ogni patriota, a cui lo studio delle rivoluzioni suggerisca idee dissimili dalle vostre, e non sapete giurare a voi stessi di essergli Bruti?

VI.

Queste cose dicevamo, in termini assai più miti e meno assoluti, agli avversi; e aggiungevamo: «tra le opinioni nostre e la vostra, avremo giudice supremo il paese: noi non abbiamo desiderio di costringere il paese ad accettarle, nè potenza per farlo; il primo giorno dell'insurrezione vedrà disciolto il Comitato Nazionale: a che dunque aspreggiarsi e dividersi per questioni siffatte? D'una sola cosa siamo tutti debitori all'Italia: d'operare ad affrettarne l'emancipazione: uniamoci per questo intento. Il Comitato Nazionale è oggimai un fatto: e voi non potete fare che i fatti non siano. Noi concentriamo elementi d'azione importanti d'intorno a noi: abbiamo fiducia dalle democrazie nazionali straniere, e simpatia lentamente conquistata dai buoni d'Inghilterra e d'America, e qualche mezzo materiale raccolto. Voi non potreste—nè dovreste volerlo—rompere, disperdere questo cominciamento d'unificazione, prezioso per la terra nostra; ma potete dargli, cooperando, più vigoroso sviluppo e migliorarlo e trasformarlo gradatamente. Venite: ci avrete fratelli, non capi.» Io ricordo d'aver scritto, insistendo, a uno de' principali tra loro, che se temevano di soggiacere a idee preconcette, o ad influenze che non amavano, d'individui, venissero in tre, in quattro, in cinque: sarebbero tutti accettati e formerebbero maggioranza; però che noi non fidavamo in altra potenza che in quella del vero; e lo avremmo discusso tra noi. E non valse. Non avendo che dire, tacevano; ma avversavano con quanti potevano all'Imprestito Nazionale, sindacavano, notomizzavano ogni frase dubbia dei nostri scritti, evocavano fantasmi d'ambizioni o di stolti concetti insurrezionali, ci davano carico d'ogni sillaba che escisse di bocca a un gregario di parte nostra; e architettavano, eretto di contro al Comitato Europeo, non so quale Comitato Latino in Parigi, angusto di concetto e di forma, che s'esauriva in un Manifesto. Firmato da soli francesi e anonimo per l'altre nazioni, quel Manifesto dichiarava non ammettere che alcuno individuo o Comitato potesse—da francesi in fuori, suppongo—rappresentare il Partito Nazionale in Italia. Era atto scortese quanto impolitico; e non di meno, anche dopo quell'atto, noi mandammo parole di pace e offerte d'azione fraterna, alle quali non s'ebbe cenno mai di risposta. Le portò Saliceti, che allora appunto, per cagioni personali estranee ad ogni politica, si staccava, recandosi altrove, da noi e ci lasciava dichiarazione scritta, e promessa d'adoprarsi a convincere i dissidenti e proteste d'amicizia, ricambiata sinceramente da noi, smentita più tardi, e senza cagione, da lui.

Pochi, in Italia, badavano a questo dissidio. La Direzione Romana redarguì gli autori con parole severe. Inattivi e fuor di contatto col popolo, gli anonimi del Comitato Latino non potevano nuocere sensibilmente al nostro lavoro. Pur diedero agli stranieri pretesto per ripeterci la vecchia accusa delle divisioni intestine, e ajutarono [210]a fecondare il germe dell'idea monopolizzatrice francese, che assunse forme più definitive poco prima del tentativo milanese e lo rovinò.

VII.

Venne la crisi di Francia e l'usurpazione del dicembre, provocata dalla falsa tattica che avvertiva il nemico d'una condanna a giorno determinato, senza togliergli i mezzi di prevenirla, e accettata codardamente dai più, per cagioni ch'io vedeva da lungo tempo operare a traviare e dissolvere la parte repubblicana, e che un Manifesto del Comitato Nazionale additò agli Italiani. La rivoluzione del 1848 aveva tradito il concetto europeo, che solo poteva procurarle consecrazione e trionfo. Guidate da uomini di poco cuore, di non largo intelletto e di meschina insistente ambizione, le sétte socialistiche avevano falsato, per entro a sistemi pomposi di forme, vuoti o assurdi nella sostanza, il vasto Pensiero Sociale che appartiene ai migliori di tutta Europa. Diseredati di sintesi e di aspirazione, servi a mezzo il secolo nostro di Bentham e dei materialisti dell'ultimo secolo, i più tra i Francesi avevano, con una falsa definizione della vita, la ricerca del benessere, insegnato al paese il culto della materia e soffocato il nobile istinto di sagrificio che ispirò le più belle pagine della storia di Francia. Un'analisi dissolvente e rissosa aveva ministrato a invidie meschine di più meschino dominio e logorando ad una ad una le migliori riputazioni, aveva rotta ogni unità del partito; la paura, esagerata ad arte, della dittatura di una idea, aveva preparato la dittatura della forza cieca; la foga demagogica di libertà che rifiuta ogni ordinamento, ogni associazione, ogni capo, non avea lasciato che individui e anarchia a fronte d'una fazione ordinata. Pareva che la Provvidenza avesse voluto insegnare praticamente all'Italia la necessità d'unificazione, d'ordinamento e di fiducia reciproca che noi andavamo predicando a tutti com'unica via di salute. E pareva, salendo in più alta sfera, che gl'italiani dovessero vedere patente, in quel fatto, la conferma di quello ch'io fin dal 1835 dichiarava a' Francesi ed a' nostri: che l'iniziativa della Francia in Europa era spenta, e che la via era aperta a ogni popolo per colmare il vuoto, davanti al quale l'Umanità s'arrestava pensosa ed incerta[55].

Per noi dunque, pel Partito Nazionale Italiano, quando non volesse smentire vilmente il linguaggio tenuto dal 1849 in poi, nulla era cangiato. La Francia non periva: espiava Roma; ma s'anche essa non avesse dovuto mai più risorgere, era debito del Partito il dire: Perisca la Francia: viva l'Europa! Due grandi quistioni s'agitavano infatti e s'agitano tuttavia in Europa: la questione sociale e la questione della Nazionalità. La Francia, che prima di noi seppe conquistarsi la più forte unità nazionale che sia; la Francia, libera di stranieri, poteva maturar dentro sè lentamente, attraverso una purificazione di dolori e di studî severi, l'esplicazione del problema sociale. Le Nazioni, oppresse, smembrate, negate dal Diritto Monarchico, contendevano per esistere. Spettava ad esse, alla loro Alleanza, l'iniziativa in Europa, perchè se la questione sociale può idealmente sciogliersi dai pensatori individui, nol può, nè lo potrà mai, praticamente, nella sfera dei fatti, se non quando, rifatta la carta d'Europa, un migliore e libero assetto conceda un'ampia scala alle applicazioni. E spettava, nell'Alleanza, l'iniziativa a quella tra le Nazioni che più[211] delle altre avesse potenza di ferire il nemico al core; alla quale la tradizione storica insegnasse più che all'altre missione d'universalizzare la propria vita, e che raccogliesse fra tutte più larga messe di affetti, di simpatie e di fiducia in Europa. Era l'Italia. Sola l'Italia avea dentro sè la duplice rappresentanza dell'Autorità condannata, Papato ed Impero, Roma e Milano: sola potea levarsi e annunziare a un tratto all'Europa l'emancipazione dei corpi e delle anime, del Pensiero e dell'Azione. La vita d'Italia, nelle sue grandi epoche, fu sempre vita d'Europa: da Roma, dal Campidoglio e dal Vaticano, si svolge nel passato la storia dell'umana unificazione. Nè mai su terra d'Europa s'abbracciarono tanti affetti di riverenza, compianto e speranza, come su questa sacra terra Italiana, alla quale poeti, artisti, martiri del pensiero e del core, dimandano ricordi, ispirazioni e conforti. Pronti dunque a seguire lietamente la Francia, se mai, ridestata a un tratto, cacciasse la vergogna del bonapartismo da sè, attivi più che mai a secondare di ajuti la parte repubblicana, che in Parigi e altrove andava riordinandosi, fermammo tra noi di procedere innanzi nel lavoro italiano e di ripetere ai nostri: l'iniziativa europea può escir d'Italia come di Francia: s'altri non fa, fate voi. E fu la sostanza di quanto dicemmo in un Manifesto, escito due mesi o più dopo il 2 dicembre. Quel Manifesto rimane condanna inappellabile per chi, fra noi, si arretrò poi davanti a ogni concetto d'iniziativa italiana e disdice in oggi i compagni, i quali non hanno colpa, se non quella d'aver pensato quello che firmavano.

VIII.

Questa idea d'iniziativa italiana possibile, affacciata a ogni tanto da me agli uomini dell'interno, non era—e neppur dopo i mutamenti francesi—respinta teoricamente se non da pochi. Gli animi non s'erano affatto prostrati: parevano anzi, al cader della Francia, essersi ritemprati d'orgoglio italiano e di fede. Dalla sovversione della repubblica in Francia sino al finire dell'anno 1852, il lavoro preparatorio corse più ardito e più rapido, come di chi sente cresciuti gli obblighi. Da due punti d'Italia, ambi importanti, ebbi proposta di movimento immediato: da uno tra i due, con rimprovero al continuo indugiare e minaccia d'andar oltre, anche senza l'assenso del Comitato. Accusato io sempre, da chi afferma, inonestamente, ciò che non sa, di volere e promuovere azione a ogni patto, sconsigliai, pregando, insistendo perchè non si prorompesse in moti parziali prima d'essersi ottenuta certezza che sarebbero seguiti ove più importava, nel Lombardo-Veneto. Vivono, e liberi, gli uomini che proponevano e coi quali io discuteva le cagioni del mio rifiuto.

Senza l'azione iniziatrice o simultanea del Lombardo-Veneto, una insurrezione in Italia aveva ed avrà pur sempre pericoli centuplicati. E so che parecchi, pur d'accusare, accuseranno d'imprudenza queste mie parole, come s'io rivelassi al nemico i segreti del nostro campo: ma non ne curo: l'Austria non ha bisogno d'essere erudita da noi sull'importanza del Lombardo-Veneto, nè può crescer cautele o provvedimenti efficaci pel giorno in cui gli uomini di quella parte d'Italia vorranno intendere i loro obblighi e la loro potenza. Nel Lombardo-Veneto sta la chiave, il punto strategico dell'insurrezione italiana. Pel peso d'una tirannide efferata quanto l'Austriaca, per somma minore d'ostacoli, dacchè quella tirannide s'appoggia su forze nazionali per importanza militare di posizione, per materiale da guerra, ozioso in oggi e prezioso ad una impresa emancipatrice, Napoli dovrebbe[212], non v'ha dubbio, assumersi gli onori dell'iniziativa. Pur nondimeno—e dacchè, lo scrivo con dolore, Napoli sembra dimenticare la lunga splendida tradizione di martiri e di nobili tentativi ch'essa diede alla Patria comune—le migliori speranze del Paese accennano, siccome a Roma per l'idea, alle terre Lombarde per l'azione decisiva insurrezionale. Il nostro principale nemico è l'Austriaco: e il nemico s'assale dov'è, dove può ferirsi al core, per modo che non risorga. Napoleone marciava direttamente sulle Capitali: la tattica dell'insurrezione dev'esser la stessa; tentar la vittoria dove una vittoria prostra e dissolve le forze nemiche e trascina con sè i risultati più generali. Una, non dirò vittoria, ma battaglia vera sulla terra Lombarda, e l'insurrezione di tutta Italia, son cose identiche; e però s'anche la battaglia volgesse a sconfitta, la riserva della insurrezione avrebbe campo a ordinarsi nel centro e nel mezzogiorno: il nemico, indebolito, spossato dalla battaglia, collocato sopra un terreno vulcanico fumante e presto a riardere, mal potrebbe operare contr'essa. Ma una vittoria, tronca a un tratto dalla sua base la lunga linea, che il nemico spinge sino a Foligno e impedisce il concentramento: forse, se decisiva e compita in alcuni punti importanti, separa dalla loro vera primitiva base d'operazioni tutte quante le forze nemiche. Ma vittoria siffatta non s'ottiene se, come dissi, il moto non procede e non prorompe almeno simultaneo al sorgere dell'altre parti d'Italia. Ogni altro moto è annunzio all'Austriaco; e se gli è dato tempo per farsi forte sui punti strategici, per incatenare le città col terrore o, se occorre, prepararsi a sgombrarle e cingerle dal di fuori, la guerra Italiana potrà conquistare la Lombardia; l'insurrezione sarà impossibile o inefficace.

Per queste ragioni; spronato da quelle proposte; spronato anche da frequenti disegni ed annunzi dei repubblicani francesi, annunzi ch'io doveva—e questo pure mi venne apposto da molti—quasi per ufficio di scolta e senza che s'avesse diritto di farmene mallevadore, trasmettere ai nostri; io mi diedi a esplorare più attento la Lombardia.

L'odio all'Austriaco e il desiderio d'emancipazione v'erano universali; ma quanto ai modi, alle speranze, al tempo, le opinioni variavano. V'erano i millenari della fazione regia, beati di calcoli innocenti sulla venuta del messia di Piemonte: pochi e nulli; invisi al popolo, che serba vive le memorie del 1848. V'erano i letterati dal progresso omiopatico, contenti di produrre di tempo in tempo, mozzato dalla censura, un articolo di gazzetta, sviati da qualche scritto di settarî francesi, socialisti pazienti, proudhonisti sommessi, tronfi di vedersi a stampa, e rassegnati alla parte più misera ch'io mi sappia, quella di pedanti sotto il bastone: pochissimi e ignoti al popolo. Ma al di sopra di queste e d'altre minute frazioni, vivevano, fremevano, italiani e repubblicani, i giovani d'ogni classe, maggioranza assoluta in paese, stretta nelle tendenze generali alla nostra fede, e senza speranza fuorchè nella rivoluzione d'Italia e d'Europa. Molti bensì tra loro, i più forse, si mostravano titubanti, tentennanti sul come: consentivano nel fine, si dichiaravano incerti, sfiduciati sui mezzi: non mancava ad essi il core, mancava l'intelletto della rivoluzione.

Dichiaro io qui, prima d'andar oltre—e desidero che questa mia dichiarazione non sia dimenticata fuorchè dagli uomini di malafede, gazzettieri dell'Opinione e siffatti, dai quali è bello l'essere calunniati—ch'io non alludo a una classe intera, come non alludo a una sola città. Del vizio ch'io noto son tocche Ancona, Bologna, Firenze come Milano, e non esclusivamente le classi che chiamano medie, m[213]a frazioni importanti di tutte classi, dal patriziato fino agli uomini che vivono col lavoro delle loro braccia. Ventura somma è per noi che non s'agitino in Italia, come in Francia o in Inghilterra, odii o distinzioni di classi, e che un governo Nazionale possa, quando che sia, provvedere ai diritti del povero, e sciogliere quetamente i più ardui problemi sociali, senza trapassare tutto quel trambusto, pregno di sangue e risse civili, che sotto nome usurpato di socialismo minaccia oltr'Alpi di convertire la santa dottrina d'associazione in rapina, e la nostra fede di libero progresso e d'amore in tirannide d'egoismo ordinario. La comune oppressione ha generato fratellanza comune: il prete cattolico e il pensatore, il proprietario e il popolano hanno segnato col loro sangue sul palco un patto, che l'anime hanno raccolto e che manterranno nei giorni di redenzione. Ma da tutte le classi, e segnatamente dov'è mezza scienza, s'è formata, dopo il 1849, una setta di giovani, vecchi a venticinque anni, e scettici pur colle sacre parole della fede italiana sul labbro, che hanno smarrito tra i sofismi di un raziocinio di terza sfera ogni potenza d'intuizione e intisichito l'entusiasmo tra le anatomie d'una analisi, senza lume di sintesi che la diriga: li diresti i primi cristiani intesi a fondare il mondo novello colla triste dialettica dei Greci del Basso Impero. Io mi trovava innanzi, dopo i dottrinarî monarchici del 1848, i dottrinari repubblicani. Dovea, dopo i tanti, toccarmi il dolore senza nome di veder morta in quattro anni nella vita dell'anima mezza una generazione di giovani amici, che avevano dalle barricate Lombarde, dalle lagune Venete, dai bastioni di Roma, bandito all'Europa, tra il plauso e le speranze dei popoli, che l'Italia aveva finalmente riconquistato la coscienza delle proprie forze.

Erano popolo allora; avean fede in esso, potenza sovr'esso e vincevano. Da quei momenti di ispirazione, di comunione coll'avvenire d'Italia, di suprema unità tra le facoltà della mente e del core, è scesa l'aureola che incorona a parecchi tra loro la fronte, che additava ai nostri affetti i migliori tra gli apostoli della Patria, e che rende oggi più intenso il nostro dolore. Oggi, il guardo semispento, il sorriso arido dell'incredulo, le braccia pendenti a sconforto, accusano la mente adombrata di formole, la vita smembrata, illanguidita fra piccoli sistemi e piccoli calcoli, e la fiamma dei forti pensieri, la fiamma che illumina e crea, spenta o vicina a spegnersi sotto influenze estranee, spregevoli; forse, per molti, sotto il freddo alito inavvertito dell'egoismo. Prima loro piaga è l'orgoglio; non l'orgoglio che a me, incanutito, rigonfia l'anima giovane tuttavia, l'orgoglio del nome e dell'avvenire italiano, l'orgoglio del guanto gittato solennemente da noi a quanti s'adoprano a tenerlo prostrato nel fango, ma l'orgogliuzzo dell'io, l'orgogliuzzo saccente, cresciuto su qualche pagina di Jomini o di Machiavelli; l'orgogliuzzo che, senza attentarsi di guidare, s'irrita all'idea di seguire, che arrossisce, quasi côlto in fallo, quando il core s'è sollevato, memore a una parola d'entusiasmo e di fede; che rinnega le grandi speranze e le ispirazioni d'azione mormorate al loro orecchio dal Dio dell'Italia, quando l'anima loro era vergine, più potente d'intuizione e migliore che oggi non è. Seconda piaga è l'inaridirsi in una atmosfera artificiale di libri e d'uomini, morti senza scendere a ritemprarsi tra il popolo sul quale lo istinto non allacciato da erudizioni, e l'amore e l'odio versano più gran parte di verità che non sul gabinetto del letterato. Non lo studiano, non lo conoscono, e ne diffidano. E mi dicevano ch'io m'esagerava le tendenze e le capacità delle moltitudini, alle quali, senza eccitamento di eventi stranieri e insurrezioni di mezza Europa, sarebbe stato impossibile persuadere d'entrar nella lotta.[214]

Interrogai, non per convincermi, ma per convincerli, le moltitudini.

Non dirò il come; e ognuno intende il perchè. Ma affermo solennemente e come s'io parlassi a Dio stesso, che dal popolo, esplorato interrogato in tutte le frazioni che lo compongono, non escì che una sola risposta: azione, azione immediata: date chi guidi, agiremo tutti. Non chiedevano di Francia o d'altro; non numeravano l'armi; un ferro, dicevano, ci darà un fucile. La tradizione delle Cinque giornate vive venerata ed intatta nel petto dei popolani e la coscienza delle forze italiane con essa. Un patto di patria vendetta annoda senza forme, in un solo concetto, in una sola speranza, tutta una popolazione. L'Austria può spegnere infamemente a sua posta: se i consiglieri dell'imperatore non trovano modo di verificargli il voto che faceva Nerone, il vulcano eromperà un dì o l'altro a sotterrargli carnefici, battaglioni ed Impero. E potrei citare, per onore al popolo e documento di progresso operato in esso, prove di segreti fidati a centinaja, e tuttavia inviolati, più eloquenti che non tutte le prove d'ardire e coraggio indomato date dai pochi che agirono.

Questi ragguagli furono dati da me e da altri alla classe d'uomini, dei quali io parlava poc'anzi, e che dovrebbero esser guida nell'impresa patria alla inesperienza dei popolani. E allora, dacchè quella prima obbiezione spariva, sorsero, delusione amarissima a me che stimava ed amava quegli uomini come legione sacra nel nostro campo, dubbiezze d'ogni maniera, opposizioni che tradivano una codardia morale strana in chi aveva affrontato e affronterebbe anche oggi, non v'ha dubbio, la morte in una posizione o sopra una barricata, purch'altri avesse iniziato la guerra. Dicevano le condizioni politiche d'Europa avverse; numeravano i gabinetti ostili all'emancipazione d'Italia: registravano i reggimenti austriaci, prussiani, russi; e chiedevano dov'erano i nostri. Dei popoli dimenticavano perfin l'esistenza, delle questioni che pendono tremende fra i gabinetti non sapevano o non curavano; degli elementi di dissolvimento, esistenti innegabilmente in seno dell'esercito austriaco, non tenevan conto; della rapidità colla quale si erano pochi anni addietro ordinate forze in Italia, ovunque i capi avevano voluto ordinarle, non ricordavano cosa alcuna. Il problema posto per essi era una piccola minoranza d'uomini iniziatori di lotta sul terreno lombardo, l'Europa dei popoli immobile, e tutte le forze alleate del dispotismo, anzi della monarchia, dall'altro lato. Posto a quel modo, il problema era senz'altro deciso: se non che, il porlo a quel modo e dichiarare ch'essi non conoscevano addentro nè l'Italia, nè l'Europa dei popoli, nè quella dei re, tornava tutt'uno. Ammettevano, i più tra loro, la possibilità dell'insurrezione; s'arretravano, atterriti, davanti alla guerra che seguirebbe. Potevano, e non volevano. Il popolo sentiva di potere e voleva.

Il popolo si era commosso alle inchieste: commosso tanto più, quanto più era stato fino allora negletto. Il popolo, illuso anch'esso, non potea credere che gli uomini, i quali avevano da molti anni rifatto l'alfierianismo, ripetuto classicamente all'Italia gli acerbi rimproveri tradizionali nei nostri poeti da Dante fino a Leopardi, e predicato con me la necessità d'aver fede in sè, di liberarsi con armi proprie e di non guardare per ajuti oltre i nostri confini, potessero ritrarsi quando appunto gl'Italiani accennavano d'aver raccolto e di voler ridurre ad atto l'insegnamento. E si apprestava a combattere da sè, certo d'essere, dopo poche ore, seguito. Ed io pure era certo di questo. Ma posta una volta in chiaro la determinazione dei popolani, non dovevano quegli uomini fortificarla ora, priva d'ajuto, di consiglio o di direzione?[215]

Sperammo che lo avrebbero fatto. Sperammo che ad essi non sarebbe bastato l'animo di starsi freddi spettatori dei preparativi del loro popolo, d'assistere come in un gioco, al trarre dei primi dadi, per vedere quanto corressero avverse o propizie le probabilità. L'altrui esitanza non mutava, a ogni modo, gli obblighi nostri; e, determinato dagli ultimi avvisi, lasciai Londra e toccai la frontiera d'Italia. Aurelio Saffi era partito già prima, ed altri dei nostri. Mattia Montecchi dissentiva allora da ogni tentativo, e rimase. Ad altri esuli, che partecipavano al nostro lavoro, non feci motto partendo, sì perch'io m'era fatto legge inviolabile di segreto con tutti, e sì, perch'io durava tuttavia incerto sulle ultime e irrevocabili decisioni.

E l'ultime irrevocabili decisioni furono prese in tempo così poco lontano dai fatti, ch'io, s'anche avessi voluto, non avrei avuto agio di avvertire, di consultare o convincere chi rimaneva. E questo io noto per l'Agostini. Usai del suo nome, il quale, come di segretario, non scemava nè cresceva gran fatto valore al proclama, perchè io l'aveva lasciato farneticante, al cospetto di tutti i nostri, per l'azione pochi giorni prima ch'io mi partissi, e stimai dargli prova d'amicizia e pegno d'onore firmando per lui. Duolmi il dover pensare che, se il tentativo avesse sortito buon esito, egli avrebbe raccolto grato quel pegno e ringraziato me della fede riposta in lui.

Scrivo quando gli uomini dell'interno potrebbero, s'io non parlassi il vero, smentirmi; scrivo agli Italiani che mi sanno, qualunque sia la loro opinione sul conto mio, ardito e sprezzatore quanto basta per dire, se fosse, mossero arrendendosi a un cenno mio: e aggiungo che s'io mai potessi falsare i fatti e cedere all'impulso di disdegno e di sfida generato nell'animo mio dal sozzo inveire che fu fatto contro di me, mi sentirei affascinato a dire quelle parole. Ma mi parrebbe di menomare l'importanza del tentativo e di sottrarre parte di lode ad un popolo ch'io ammiro, compiangendo chi non lo fa. Le decisioni furono prese all'interno: spontanee, e da uomini i quali credevano che la determinazione fatta irrevocabile bastasse, come dissi, a trascinar sull'arena i buoni dubbiosi. Più dopo, era tardi: il popolo era in fermento e disse: faremo da noi. M'era noto il disegno, e braccia di popolani bastavano a compirlo. Nondimeno, scrivendo e parlando, il mio linguaggio fu sempre, sino agli ultimi, questo: vi sentite tali da eseguire il disegno? siete convinti, colla mano sul core, di poter convertire la prima battaglia in vittoria? potete darci in una il frutto delle Cinque giornate? fate e non temete la guerra. Se vi sentite mal fermi, se vi stanno contro forti probabilità, arretratevi: sappiate soffrire ancora. Quando ebbi risposta: facciamo, non vidi che un solo dovere; ajutare—e ajutai. Diedi quella parte d'opera che mi fu chiesta: scrissi un proclama che domandavano: provvidi perchè il moto, appena si mostrasse forte, fosse seguito altrove. E rifarò, dove occorra, le stesse cose. Altri, tra miei colleghi, fece lo stesso: e rifarebbe, è conforto il dirlo, occorrendo.

Perchè non fu eseguito il disegno, confessato certo nell'esito anche da chi dissentiva? Perchè una sola frazione di popolo oprò, mentre l'altre non si mostrarono? Nessuno, spero, tra gli onesti si aspetta ch'io, per compiacere a gazzettieri di corte, o di ciambellani in aspettativa, tradisca segreti che involgono vite e speranze future. Basta a me, al mio collega e a quanti fra gli esuli si adoperarono con noi, l'aver dichiarato, senza timore d'essere smentiti da quei che all'interno guidavano, che noi seguimmo e non provocammo, che diemmo ajuti, e non cenni a chi volea fare; che per noi si fece ciò che ci[216] parve fosse debito nostro, e non s'impose ad altri di fare il loro. Bastino, a provare la vastità del disegno, la moltitudine d'elementi che s'agitavano in seno al popolo milanese e i pericoli che l'Austria corse, i terrori e le incertezze dell'Austria, le querele congiurate di tutte le monarchie, gli audaci fatti compiti dai pochi in Milano, l'attitudine tuttavia minacciosa dei popolani. E bastino a provare, per gli animi spassionati, il vero di quello ch'io prediceva sugli effetti inevitabili d'una prima vittoria italiana, le nuove, registrate di giorno in giorno dalle gazzette e dai decreti dei Generali Austriaci, sull'attitudine dei paesi stranieri, il fremito dell'Ungheria, della Transilvania, de' paesi Germanici, gli stati d'assedio e le proscrizioni. Or penda sul capo al nemico la spada di Damocle. Ei sa che sta in mani italiane troncare il crine che la sostiene. Noi non abbiamo più ostacolo d'impotenza; ma soltanto una falsa funesta idea preconcetta, che un generoso impulso di core o la mente illuminata da più severe meditazioni può distrugger domani.

IX.

Il tentativo di Milano ha intanto, comunque strozzato in sul nascere, provato due cose: ha provato all'Europa che il silenzio della Lombardia era silenzio, non di chi giace rassegnatamente assonnato, ma di chi odia cupamente e tanto, da non poter esprimere l'odio se non coll'azione: ha provato all'Italia che il fremito d'emancipazione è sceso alle moltitudini e che i popolani assaliranno, sprezzando il nemico coi ferri aguzzati delle loro officine, qualunque volta agli uomini intellettualmente educati, parrà di dire: eccoci con voi, sorgete! Da oggi in poi non sarà più concesso ad alcuno di mascherare il rifiuto sotto pretesti d'impotenza o di freddezza nel popolo: bisognerà dire: non vogliamo perchè siamo, fisicamente o moralmente, codardi.

E un altro vantaggio ha reso quel tentativo alla causa nazionale italiana: ha smascherato, per qualunque non è stipendiato, o imbecille, mi contenterò di dire, la nullità, l'assoluta impotenza della parte regia in Piemonte. L'insegnamento non è nuovo per noi. L'impotenza del Piemonte regio a vincere m'era nota fin da quando io antivedeva e predicava in Milano, nell'Italia del Popolo, le vergogne della guerra del 1848; e più dopo, poco prima della rotta di Novara, io gridava a' miei concittadini, nei Ricordi ai Giovani: «se ritenterete la guerra sotto quella povera insegna, sarà guerra perduta.» E la tattica del Piemonte regio m'era pur nota d'antico. Io aveva provato ne' miei Cenni e Documenti sulla guerra regia, come quella malaugurata campagna fosse stata impresa, non per vincere, ma per impedire ogni via alla repubblica, e conquistare un precedente alla monarchia per ogni caso futuro di vittoria altrui. Io sapeva come la seconda guerra fosse stata intimata per tema che Roma repubblicana covasse—e lo covava difatti—il disegno di ricominciare entro l'anno l'impresa per conto d'una migliore bandiera. E d'allora in poi tattica tradizionale e invariabile della parte monarchica era stata di far credere in disegni occulti di guerra e d'indipendenza per sottrarre elementi all'iniziativa repubblicana e impedirla; e a un tempo di tenersi pronta a confiscare a profitto proprio un moto, che prorompesse vittoriosamente per opera d'altri; librarsi tra i due partiti tanto da raccogliere, senza rischio proprio anteriore, l'eredità di qualunque tra i due soccombesse, il favore o i dominî attuali dell'Austria. Ond'io, ad uomini della Camera piemontese ed altri arcadi della politica, che m'interrogavano,[217] e sembravano in buona fede sperare nella loro monarchia per la cacciata dell'Austria, andava dicendo a ogni tratto: «io non nutro le vostre speranze; ma voi che v'ostinate a credere l'armi della monarchia vostra essenziali alla liberazione del paese, perchè non entrate al lavoro con noi? La vostra monarchia non si moverà, se pur mai, che dopo consumata una vittoria di popolo sulle barricate.» Pur duravano illusi. Ma oggi, dopo gli atti nefandi usati con italiani, accusati non d'altro che d'aver voluto, tentato, desiderato—anzi per taluni neppur quest'ultima colpa è reale—giovare all'emancipazione della Lombardia: poi che vedemmo perquisiti, imprigionati, ammanettati come malfattori e deportati in America giovani, sospettati d'aver cospirato contro l'Austria: noi abbiamo diritto di dire ai regi: «rimanetevi ormai sulla via nella quale siete entrati: non è men trista dell'antica, ma è più leale. Non cercate illudere con promesse e speranze, prima falsate che date, i deboli che vi credono forti: non alimentate colla stampa o nel segreto un odio, che trattate come delitto quando intende a svelarsi. A voi, volendo pur essere piemontesi e non italiani bastava disarmare, impedire quei che, varcando la vostra frontiera, correvano in ajuto ai loro fratelli. Il furore di persecuzione spiegato contro uomini emigrati sulla vostra terra, perchè a voi piacque abbandonar Milano nel 1848, v'accusa ligi dell'Austria o tremanti dell'Austria: tristi o codardi. Nel primo caso, noi non possiamo aspettarci che tradimenti da voi; nel secondo, chi mai può sperare iniziativa di guerra da un governo che, per terrore d'essere assalito, accetta disonorarsi, dando alla prigione e all'esilio quei che l'Austria non può dare al patibolo?»

Da questo dilemma, presentato e senza confutazione possibile, sgorgarono tutte le contumelie e calunnie versate, come bava di serpente irritato, sul mio nome, su' miei fatti, sulle mie intenzioni dall'Opinione, dalla Gazzetta del Popolo e da tutta la stampa regia o aristocratica del Piemonte. A una stampa, che di fronte a una protesta ardita di popolo schiavo contro l'oppressore straniero, può farsi per un mese austriaca di vitupero contro uomini creduti eccitatori di quella protesta, non ho che dire. I ragionamenti non giovano; non giova ripetere ad essa il consiglio di Foscolo: imparate a rispettarvi da voi, affinchè, s'altri v'opprime, non vi disprezzi. Serve chi paga: oggi la monarchia di Savoja, domani il Bonaparte, e il dì dopo noi, se pagassimo: calunnia sapendo di calunniare; e basti il suo ripetere a ogni tanto, pur sapendo che la corrispondenza pubblica dei Bandiera, prova il contrario, ch'io spinsi quei due prodi a morire, appunto come le gazzette stipendiate di Francia ripetono a ogni tanto, pur sapendo che due giudizî solenni di tribunali e la dichiarazione d'un Ministro inglese m'esonerano, ch'io firmai la condanna a morte di due profughi, spie. Seguano adunque i gazzettieri intrepidi nel mestiere che scelsero; e solamente accettino il mio consiglio di riconsigliarsi a ogni tanto coi loro padroni per vedere se l'assalire continuamente d'ingiurie villane un uomo dichiarato, ogni anno almeno una volta nelle loro colonne, morto e sepolto nell'opinione e abbandonato da tutti e deriso, non guasti per avventura il nobile intento che si propongono.

X.

D'alcune accuse gittatemi talora contro da altri, forse più ingannati che tristi, e accettate troppo facilmente anche da uomini di parte nostra: accuse d'imprudenza, quando dei molti viaggiatori da me spediti[218] in diverse parti non uno capitò male, nè le polizie vantano una lettera mia in loro mani, nè un amico mi fu vicino che non mi rimproverasse una soverchia tendenza al segreto—accuse di inavvedutezza nella scelta d'agenti come Partesotti, quando il Partesotti, scelto all'interno, non ebbe mai una linea mia, e il suo carteggio, che ho tutto presso di me, lo mostra ridotto a celarsi in un sotto-tetto di Parigi e imposturare viaggi favolosi e favolose conversazioni in Londra con me, per buscarsi qualche centinajo di franchi dalla polizia Austriaca—ed altre consimili—non so se non gioverebbe scolparmi; ma non è mio stile. Feci, da quando fondai la Giovine Italia, due promesse a me stesso: ch'io non manderei a stampa una sola linea di politica senza il mio nome, e ch'io, avverso più o meno a tutti i governi che esistono, concederei, senza farne caso, ai governi e agli agenti loro d'essermi ostili e di calunniarmi; agli altri di male interpretare, senza irritarmi, un'attività che vive, forzatamente e senza colpa mia, nel segreto. Mantenni la doppia promessa; e i più, spero, ricorderanno, che delle accuse avventate alla mia vita in questi venti anni da governi e governucci, da scrittori malati di vanità offesa, da birri libellisti e romanzieri infelici, da commissariucci di polizie fallite senza speranza, e da gazzettieri pagati o in candidatura di paga, tutti irritati del vedermi sempre lo stesso e disperati d'atterrirmi o comprarmi, io potrei fare una serie interminabile di volumi, mentr'essi delle mie difese non potrebbero far tre pagine. Ma protesterò, per debito non tanto a me, quanto a tutti gli onesti che furono o saranno tormentati santamente d'una santa idea e incontrarono o incontreranno la stessa calunnia, contro una sola: ed è quella d'ambizione personale e d'aspirazione a esercitare una dittatura qualunque. E a questa accusa, tristissima fra le tristi, diede occasione il sistema logico d'insurrezione ch'io ho accennato alcune pagine addietro.

Tristissima fra le tristi: perchè se a un uomo non è concesso tra voi di sostenere un'opinione politica agitata da secoli, senza ch'altri gli dica: tu intendi a farti di quell'opinione sgabello al potere—o di predicarvi che l'epoca matura nuove credenze trasformatrici e purificatrici delle vecchie, senza che gli si susurri all'orecchio: tu aspiri ad essere rivelatore e pontefice—meglio è dichiararvi addirittura fautori del voto d'ostracismo, che il contadino dava ad Aristide, perchè gli era noja l'udirlo salutato del nome di giusto, e decretare la cicuta ad ogni Socrate che s'attenti annunziarvi un Dio ignoto; e gemo pensando al pianto e al sangue versato, nelle età che furono, per questa invida, ingiusta, funestissima diffidenza. A me l'accusa villana fu gittata prima dai meno liberi d'animo tra gli esuli, da uomini prontissimi a piegare il collo a tutte le esigenze di paesi servi a soggiacere, sommessi alla dittatura dell'ultimo commissariuccio di polizia straniera o domestica; poi da taluni—ed erano gli ambiziosissimi—tra i socialisti settarî francesi, ai quali io aveva osato dire, a rischio di essere battezzato retrogrado, che le loro sètte, le loro utopie ineseguibili, e il materialismo d'interessi, al quale essi pure avevano educato le moltitudini, avevano perduto la Francia. Quei miseri s'atteggiavano a puritani gelosi d'ogni influenza unificatrice e sospettosi d'ogni mia parola, che suonasse accordo, ordinamento, unità di disegno e di direzione, mentre i loro fratelli soggiacevano alla dittatura della forca e del bastone tedesco in Italia, alla dittatura d'un avventuriere e d'una soldatesca briaca nella patria francese. Io mi stringea nelle spalle senza rispondere. Dittatura a che prò? per dominare sovr'uomini quali essi sono?

Non lo credevano. Speravano e sanno ch'io, nato di popolo senza[219] tradizione di nome illustre, senza ricchezze per comprare satelliti e scribacchiatori, senza prestigio di milizia, senza capacità d'adulare, non riescirei, s'anco io fossi dissennato e tristo ad un tempo, a far correre rischi alla libertà in un popolo, la Dio mercè, non corrotto e dove l'individuo serba più che altrove tendenze vigorose all'indipendenza. E sapevano, che s'anche io lo potessi, non lo vorrei. Dai sogni colpevoli e stolidi di ambizione di potere, se per ventura io avessi avuto successo ne' miei tentativi, m'assicuravano, non foss'altro, le abitudini parche della mia vita, l'animo altero, sdegnoso di lode e non curante di biasimo, se non quando biasimo o lode mi vengono dalle creature—e son poche—che io amo d'amore; e una certa prepotente disposizione all'antagonismo non colle moltitudini che, tratte in azione, sono migliori di noi letterati, ma al plauso e agli omaggi delle moltitudini. Ho sempre potuto guardare addentro nell'anima mia senza arrossire: la serbai da giovine pura di vanità meschine e di basso egoismo, ed oggi, solcata come è di lunghi dolori e benedetta di qualche nobile affetto, s'io volessi farla scendere a sfera più bassa che non è quella dell'idea emancipatrice dove visse finora, non m'obbedirebbe.

Ben mi freme nell'anima, fin da quando, imprigionato in Savona, io meditai di sostituire una nuova associazione al vecchio carbonarismo, una ambizione, un orgoglio: l'orgoglio ch'io desunsi dai ricordi del nostro passato e dai presentimenti del nostro avvenire; l'orgoglio di Roma; l'ambizione di veder la mia patria sorgere, gigante in fasce, dal sepolcro, ove giace da secoli, e posarsi, grande a un tratto di pensiero e d'azione, e a guisa d'angelo iniziatore, tra quel sepolcro scoperchiato e l'avvenire delle nazioni. Era l'ambizione di quei che morirono in Roma; e parmi strano che non tormenti l'anima di quanti, pronti allora a imitarli, ne raccoglievano il pensiero e l'esempio; ed oggi sono, ho vergogna e dolore in dirlo, servi ostinati della iniziativa francese.

XI.

Dell'iniziativa francese. Perchè, non vale il negarlo: gli uomini ai quali io alludo, e che leggeranno queste mie pagine, gli uomini che assentono plaudenti alle nostre parole di patria, d'indipendenza, di fede in noi stessi, e si staccano, biasimando, da noi ogni qual volta noi cerchiamo tradurle in atto, non credono nell'iniziativa della parte monarchica piemontese; non s'aggiogherebbero a tentativi bonapartisti; non credo pongano sì basso l'onore italiano da pretendere che la sola città di Vienna, o l'Ungheria, ricinta di nemici da ogni lato e incalzata dal Russo, s'assumano d'iniziare ciò ch'essi non osano: in che dunque sperano, se non nella iniziativa francese? Nessuno di loro ama la Francia; taluni, esagerando, la sprezzano; io li ho uditi inveire, prima e dopo il 1849, contro l'antico prestigio esercitato dalla Francia sugli animi: e nondimeno ne invocano l'iniziativa: incatenano a' suoi fati i fati della nazione: cancellano di fronte all'Italia ogni segno di spontaneità: negano a venticinque milioni d'uomini potenza di emanciparsi da centomila soldati stranieri. Con dottrina siffatta, non rimane che a tacere d'Italia per sempre, e ad arrossire ogni qual volta s'incontri uno Spagnuolo o un Greco per via.

L'iniziativa francese, io lo dico, giustificato ad ogni tanto dai fatti, da ormai vent'anni, è un errore storico e un fantasma politico evocato dall'altrui codardia. A nessun popolo, da quello infuori di questa nostra sciaguratissima Italia—sciaguratissima dacchè i migli[220]ori tra' suoi figli non sanno intenderne la storia, la potenza e la vocazione—è dato di riassumere un'Epoca e iniziarne un'altra. La Francia, grande per questo, e veneranda a noi tutti, compendiò colla sua Rivoluzione il lavoro intellettuale di diciotto secoli: consecrò per sempre in faccia a tutte tirannidi l'emancipazione dell'individuo: tradusse nella sfera politica le conquiste di libertà e d'eguaglianza, elaborate nella sfera religiosa del dogma cristiano. Non basta? Perchè pretendete che essa sciolga per voi anche il problema dell'associazione, dell'alleanza fra le nazioni della nuova Carta d'Europa? Essa potrebbe forse, se non ostasse la legge provvidenziale guidatrice dell'Umanità, fondare, trasfondendo la sua coscienza, la sua individualità in tutti noi, una Monarchia Europea; ma l'associazione, l'alleanza fraterna, non possono fondarsi che sull'armonia, sull'eguaglianza inviolabile delle coscienze nazionali; e la coscienza che siete Nazione, il segno che può darvi rango nell'alleanza, il battesimo della vostra individualità collettiva, non possono escire, non possono rivelarsi all'Europa, fuorchè dalla vostra insurrezione spontanea, da un atto solenne della vostra sovranità davanti agli uomini e a Dio. L'iniziativa francese s'è spenta con Napoleone, come l'iniziativa dell'antica Grecia si spense con Alessandro, come l'iniziativa dell'antica Roma si spense con Cesare. Dal 1815 in poi, la Francia si trascina ne' suoi moti lungo la periferìa d'un cerchio, che non varcherà se non per opera nostra e dell'altre nazioni europee. La Francia studia, raccolta, raggomitolata in sè stessa, i termini del problema sociale applicati alle relazioni [221]degli individui che la compongono; il terreno per una più larga applicazione deve conquistarsi da noi[56].

Voi potete contemplare il passato fino al punto in cui l'occhio abbagliato vi fantastichi l'avvenire; ma voi non potrete far sì che[222] sorga. Avrete in Francia moti, insurrezioni, rivoluzioni; ma questi moti, inevitabili dov'è com'oggi, un governo sprezzato, questi moti che una vostra insurrezione determinerebbe e che, fecondati dall'iniziativa delle nazioni, s'affratellerebbero nell'idea comune e romperebbero per la Francia quel cerchio fatale, non vi daranno, prorompendo primi, quel che cercate. Aveste patria e libertà dalla rivoluzione francese del 1830? Le aveste dalla repubblica del 1848? L'iniziativa francese vi darebbe, o miseri, non la libera patria, ma l'impulso alla monarchia che, impotente a fare da per sè, è vigile a preoccuparvi la via; e la diplomazia europea consigliera ai vostri principi di concessioni e di leghe: e la guerra regia sostituita alla nazionale; e le sue vergognose, inevitabili, fatali disfatte. Oggi, se volete rimanere padroni del vostro moto, della vostra guerra, del vostro intento, v'occorre, e v'incombe di mover da voi. Voi non potete—e Dio v'ispiri d'intendere l'incoraggiamento di questa parola—esser liberi che essendo grandi.

Grandi, intendo, di coscienza spontanea: grandi d'intuizione: grandi di quel coraggio morale, che dilegua i fantasmi addensativi intorno dalla falsa scienza dei tattici, dai sofismi de' paurosi, dai calcoli volgari d'un inetto materialismo, dalle diffidenze nudrite di vanità, di machiavellismo scimiottante e d'una anarchia insinuata dall'estero. Perchè, dato il moto, non v'occorrerà d'esser grandi, ma di esser uomini.

Io intendo i pericoli dell'insurrezione; e nondimeno i più tra i nostri sanno che possono superarsi—non intendo i pericoli, quanto all'esito ultimo della guerra, e m'è inconcepibile come uomini di mente e di core ricusino in Italia l'oggi per paura del poi. Hanno studiato, essi che s'affaccendano in cerca di scienza rivoluzionaria, nei libri delle guerre regolari le pagine del loro Jomini sulle guerre nazionali?[57] Hanno meditato sulla guerra della penisola Iberica scritta, non dirò da Torreno, ma dai generali francesi? Hanno pensato che l'esercito nemico s'assottiglia lungo una linea di quasi quattrocento miglia al di qua dell'Alpi? che delle tre zone tenute dall'occupazione, due sono inevitabilmente perdute fin da principio pel nemico, la terza, invasa tutta, tranne pochi punti—e lo fu nel 1848—dall'insurrezione, può essere conquista di due provvedimenti e di poche rapide marcie? Hanno calcolato, sulla cifra dell'aggio che segue la carta dello Stato, la condizione delle finanze Austriache, sostenute unicamente nei[223] quattro ultimi anni da sequestri, contribuzioni straordinarie, imprestiti volontari o forzati, e alle quali l'insurrezione troncherebbe a un tratto queste sorgenti di vita? Hanno sottomesso, come noi, all'analisi quell'esercito nemico, composto di elementi eterogenei e diffidenti l'uno dell'altro, potente nell'inerzia, incapace di resistere ordinato e compatto a una battaglia perduta? Prevedono tutta quanta l'azione di dissolvimento che eserciterà su milizie, nelle quali l'ufficiale d'una nazionalità comanda il soldato d'un'altra, l'elemento ungarese, nostro, e l'Austria lo sa, al primo urto potente che lo affidi di non essere abbandonato senza scampo alla vendetta de' suoi padroni? È un solo tra loro che non abbia scritto o non dica a sè stesso, pensando al 1848, ah! se chi dirigeva la guerra avesse voluto vincere o lasciarci vincere! Molti hanno combattuto, vincendo, contro truppe regolari austriache e francesi, con giovani volontari, educati soldati tra una zuffa e l'altra. Conoscono tutti, come noi, le forze considerevoli, gl'infiniti mezzi di guerra, che possono trarsi dal paese contro un nemico che non ha terreno per sè se non quello su cui accampa. Non hanno più dubbio sulle tendenze del nostro popolo. E nondimeno, dubitano, indugiano, aspettano l'impulso iniziatore di Francia. Oh come deve il governo austriaco, conscio com'è della propria debolezza, il governo austriaco che ha tremato davanti ai pugnali di poche centinaja di popolani, sorridere dei nostri uomini di guerra e della nostra inerzia!

L'insurrezione italiana, nelle condizioni attuali dell'Impero, trascina con sè inevitabilmente l'insurrezione dell'Ungheria: l'insurrezione d'Italia e d'Ungheria trascinano inevitabile l'insurrezione del popolo in Vienna: l'insurrezione d'Italia, d'Ungheria e di Vienna, trascinano inevitabile l'insurrezione di mezza Germania, il fermento dell'altra metà. Non seguirebbero gli altri popoli? non seguirebbe la Francia? L'iniziativa d'Italia è l'iniziativa delle nazioni: il 1848 rifatto su più larga scala e con popoli affratellati. La nostra insurrezione è oggimai il solo fatto difficile da compiersi: la guerra è un mero problema di direzione.

Chi non sente il vero di queste linee ch'io scrivo, non intende le condizioni d'Europa, dell'Italia e dell'Austria. Chi sente quel vero e non opera, non proferisca il santo nome di Patria: ei non l'ha e non la merita. Giaccia tacendo; e non lamenti sì che lo odano gli stranieri; nulla è più esoso del guaito dell'uomo che può rompere, volendo, le sue catene.

XII.

Il Comitato Nazionale è disciolto. L'ultima sua parola fu un grido d'azione, quei che posero il loro nome appiedi di quello scritto, non potrebbero oggimai che ripetere ai loro concittadini la stessa parola.

E perchè rimarremmo? per registrare al compianto degli stranieri i nomi dei nostri migliori imprigionati, torturati, strozzati? per dir loro che in Italia i nostri amici si impiccano nelle prigioni come Pezzotti, o tentano di segarsi la gola come Rossetti, per non soggiacere ai pericoli d'un lento martirio? per ricordare ad ogni tanto alla Europa che sulla terra ove, quattro anni addietro, bastò sorgere per vincere; sulla terra dove Roma, Venezia, Brescia, Bologna, Ancona, Messina suscitarono combattendo il plauso dei popoli, oggi l'austriaco governa, come tra un branco di giumenti, adoperando il bastone, adoperandolo sopra uomini e donne? e udirci dire: che! non avete braccia? non avete core? non sentite prepotente sopra ogni altra cosa il bisogno di unirvi tutti in uno sforzo supremo di lotta feroce invincibile? O rimarremmo per congiurare oziosamente, instancabili e senza scopo?[224] Ah! la congiura, apostolato nelle catacombe, è cosa santa, checchè dicano gli appestati d'egoismo e gli stolti, dove la libera parola è vietata e alle idee rispondono le bajonette; ond'io accettai altero questo nome frainteso e proscritto di cospiratore. Ma oggi, solcato il terreno per ogni dove di elementi nostri e sceso il fremito dell'Italia futura al core delle moltitudini, ogni cospirazione che non tenda all'azione diretta, immediata, è delitto. L'Italia è matura: bisogna fare. S'è decretato che vittime siano; muojano almeno all'aperto, nella gioja della lotta e coll'armi in pugno.

Il Comitato è disciolto. Io mi separo per sempre—e Dio sa con qual dolore io lo dica, dacchè tra quelli dai quali io mi svelgo conto amici di quindici o di dieci anni—dalla cospirazione officiale, dal lavoro ozioso, indefinito, e nondimeno origine di persecuzioni, prigioni e patiboli ai buoni, dagli uomini che non sono abbastanza freddi e calcolatori per rassegnarsi ai codardi conforti della schiavitù, nè abbastanza devoti e sapientemente audaci per intendere ch'essi hanno la salute della patria in pugno. Due partiti soli io riconosco oggi in Italia: il partito passivo, partito di tiepidi con qualunque nome si chiamino, partito d'uomini che aspettano la libertà dalla Francia, dalle ambizioni monarchiche, da guerre ipotetiche, da smembramenti in Oriente, da cagioni insomma estrinseche alla terra nostra; e il Partito D'azione, partito d'uomini che intendono a conquistarsi la libertà in nome e colle forze della Nazione; partito d'italiani che credono in Dio, sorgente prima di doveri e di diritti, e hanno fede nel Popolo, potenza viva e continua per interpretarli e compirli; partito d'iniziatori che sentono venuta l'ora e sanno che l'Italia è matura a levarsi e vincere per sè e per altrui. Gli uomini di questo partito intendano che il 6 febbrajo ha cominciato la serie delle proteste armate e, ispirandosi a Roma, la continuino ovunque possono: essi m'avranno sempre—e lo sanno. Dei tiepidi giova ch'io possa, emancipato da tutti i riguardi e indipendenti da vincoli, essere di tempo in tempo censore libero e smascheratore: giova che io possa dire all'Italia che mentre fra i popolani ho trovato uomini pronti ad assalire con pugnali un esercito, io non ho potuto trovare fra i loro ricchi un sol uomo a cui affetto di patria o ambizione di fama, abbia persuaso di farsi banchiere al Partito e di porre mezza la sua fortuna pel trionfo della bandiera:—che, tra i loro intelletti, ho trovato dissenso perenne tra il pensiero e l'azione, servilità meschina a sofismi, sistemi e fondatori di sêtte straniere, e vanità meschinissime davanti ai loro connazionali:—che ad essi al loro appartarsi da ogni generoso disegno, al loro dissolvere collo sconforto, coll'inerzia, col biasimo sistematico, qualunque impresa tenda a troncar la questione, spetta—e non a noi—il rimorso delle vittime che, di mese in mese, di settimana in settimana, vanno e andranno, pur troppo, facendosi:—che due mesi d'accordo, di vita e comunione fraterna, di nobile sagrificio e d'abdicazione delle vanità, dei rancori, delle gelosie individuali davanti all'unità indispensabile di direzione e d'intento, potrebbero, se volessero, imporre fine a vittime, tormenti e vergogne e far dell'Italia un tempio di libertà a' suoi figli e alle nazioni d'Europa.

Dai traviati giovani di Milano io m'accomiatai colla seguente lettera ch'io inserisco come saggio di molte simili ch'io scrissi in quel tempo. Era indirizzata al Visconti Venosta, che non rispose:

5 aprile 1853.

[225]

Non v'atterrite d'una mia lettera; è l'ultima che avrete da me. In alcune pagine stampate or ora, e che probabilmente vi giungeranno, ho detto che mi separava dalla cospirazione ufficiale—e con questo nome io intendo voi, gli amici vostri, i vostri in Genova e altrove. Ma questa separazione cova per me tanto dolore, che sento il bisogno di dirvelo. Voi siete uno di quelli, ai quali io guardava, anni sono, con vero affetto, come a quelli che—io sperava—avevano più inteso il culto della patria italiana e avrebbero più logicamente dedotte conseguenze pratiche di questo culto. Non so se a voi e agli amici vostri, pochi anni cresciuti, dolcezza di vita, sofismi di mezzi ingegni, o altro abbiano intorpidito gli affetti, come vi hanno fatto infedeli ai sogni dei vostri primi anni. A me, venticinque anni di stenti e di delusioni, non hanno potuto togliere l'interna vitalità dell'affetto: però, vi scrivo un'ultima volta; e Dio voglia, non per me, ma per essi, che non abbiate fra gli amici vostri chi sorrida, come a debolezza, a questo senso che mi costringe a scrivervi.

Quando noi c'intendevamo, molti anni sono, in una predicazione di idee, che volevano dire azione—quando ci emancipavamo alteramente da ogni cieca influenza di idee straniere, per rifarci italiani—quando, facendo la critica delle insurrezioni passate, rimproveravamo ai capi di non aver avuto fede nel popolo, e al popolo di non aver sentito la propria potenza—quando m'applaudivate per questo linguaggio—quando mi davate eccitamenti a stringere, in nome della nuova vivente Italia, fratellanza con altri popoli qual era la mente vostra? Quella di avervi così usurpata fama di progressista? di piantare scuola innocente di contemplatori, di confortarvi i sonni della coscienza, paga di sentirsi inoltrata teoricamente? Era una menzogna? una millanteria? un'aristocrazia intellettuale? Per me era la vita, una religione, un'unità di pensiero e d'azione, un'impresa d'emancipazione patria che noi giuravamo. Eravamo uomini che, nudriti di tradizioni, di presentimenti, commossi d'ira santa, di vergogna, d'orgoglio italiano, di dignità d'anime offese, dicevamo l'uno all'altro: «Noi ci affratelliamo per far quello che la Spagna ha fatto, che la Grecia ha fatto, che l'America ha fatto, che tutte le nazioni schiave hanno fatto: conquistarci con idee nostre, con armi nostre, con sacrificî nostri la patria.»—Io prendeva la cosa sul serio e vi dedicava la vita. Ma voi, voi giovani lombardi allora, ora uomini, avete serbato, serbate oggi, fede al concetto? Noi, partito, noi più inoltrati, più santamente devoti—lo dicevamo almeno—non abbiamo mai osato prendere l'iniziativa. Cospiratori eterni, oggi per introdurre libri, il dì dopo per organizzare, il terzo per opposizioni passive, abbiamo cacciato nei giovani idee e furore di patria, per poi assistere muti alle loro persecuzioni, al loro supplizio. Abbiamo fatta propaganda nel popolo e propaganda d'odio e di aspirazioni nazionali, per poi dirgli: «ora rassegnati e aspetta la Francia.»—Abbiamo magnificato il nostro paese, le nostre piaghe, il nostro fremer di schiavi all'estero, perchè poi l'estero meravigliasse dell'udire i servi frementi, predicatori, sotto il bastone, d'inerzia sistematica e di rassegnazione codarda, a ricevere, quando che sia, libertà da altri. Abbiamo rese inevitabili le agitazioni, le congiure, le sommosse, le associazioni, per poi dichiararle impotenti a renderle tali, separandoci dagli altri. Abbiamo insomma offerto la decima di sangue di tormenti, d'esilî, di sconforti morali supremi all'austriaco, che pur avevamo giurato di cacciare dal paese.

E questo era inevitabile per un periodo dell'impresa. Eravamo pochi a principio. Bisognava educare; e se sulla via dell'educazione dovevamo seminar martiri, esuli e patiboli, era dolore tremendo, ma che[226] accettavamo per giungere al fine. Ma ora?—Ora abbiamo il popolo con noi. Chi dice il contrario, chi affetta dubitarne, mente scientemente. Il popolo di Milano ha cacciato l'austriaco in cinque giorni, mentre Cattaneo pronunziava la sera prima ch'era impossibile. Il popolo s'è battuto con furore in Brescia. Il popolo s'è battuto, solo, due volte in Bologna. Il popolo ha rivelato miracoli di pazienza eroica in Venezia. Il popolo ha redento Roma. Il popolo, dovunque s'è voluto averlo, è venuto. Dovunque si vorrà averlo, verrà. Voi, nel fondo del vostro cuore, non ne dubitate, Emilio; non ne dubitano i vostri amici. Non è tra voi chi possa di buona fede dirmi che, se voi tutti, nostri un tempo, assentivate all'azione popolare alcuni giorni prima del 6 febbrajo, tutto il popolo non scendeva. I capi popolo che non fecero il loro dovere, che non eseguirono le concertate sorprese, che titubarono il 6, si sentivano soli, col dissenso dei migliori della loro città con un forestiero per capo.

E non è tra voi chi non sappia, che se Milano, non dirò vinceva, ma combatteva due giorni, la Lombardia tutta era in fiamme. E non è tra voi chi non senta che la Lombardia in fiamme, era il centro d'Italia in fiamme; era la Sicilia: era il regno posto fra due insurrezioni: era Genova, era il Piemonte in agitazione. Era il 1848. Direte che nel 1848 si cadde? Non mi direte questo: voi stessi avete dimostrato venti volte perchè si cadde; voi stessi siete convinti che, se il Governo provvisorio fosse stato composto di uomini capaci, devoti e nostri, non cadeva. Se in Roma, io, salito al potere, senza uno scudo, nè un fucile, tanto da dover discutere la prima notte se si dovesse o no ricusare l'ufficio, ho potuto trovar modo di resistere due mesi alla invasione, voi non potete dubitare che miglior bandiera e migliori uomini non compissero l'impresa in Lombardia, dove il popolo generalmente parlando, è migliore che non era il romano allora.

E voi avete a fronte una forza seminata di ungaresi; e sapete che son nostri; nostri il primo giorno che l'insurrezione si mostrerà forte. Voi non potete negarlo. Voi potete convincervene quando volete. Gli ungaresi sono, come i nostri, guardati, confinati, traslocati, fucilati. Gli ungaresi vi davano la caserma loro, se i nostri si presentavano ed agivano. Gli ungaresi, non potendo altro, disertano—e me ne piange il cuore—sul cordone che guarda la Svizzera. E quest'elemento prezioso, decisivo, disorganizzatore delle forze nemiche, non vi basta.

Avete una condizione d'Europa, che v'assicura non poter aver luogo una vittoria italiana senza eco d'insurrezione al di fuori. Avete letto, studiato le relazioni e le misure governative dopo il 6? Le scoperte di Komorn? Gli arresti di Berlino? Le misure prese in più punti in Germania?

Voi non vedete impossibile l'insurrezione. Voi non potete credere che l'Austria possa sostenere la guerra senz'essere assalita nell'interno e smembrata. Quali obiezioni avete dunque all'azione?

Voi dovete intendere ciò che io non poteva pubblicar prima. Dato il moto lombardo, la zona d'occupazione, che si stende da Bologna in su, è perduta per gli austriaci coll'insurrezione della città, che è primo punto di concentramento alla linea. I distaccamenti avventurati nelle Romagne sono perduti. E il concentramento delle forze, che sono in Toscana e più in su, è impossibile pure. Noi non abbiamo che ad essere padroni della Lunigiana; e lo eravamo e lo saremo qualunque volta l'insurrezione lombarda sarà un fatto accertato. Rimangono le forze attualmente in Lombardia, rotte dall'insurrezione minate dagli ungheresi, ai quali terrebbero dietro altri elementi. Date moto all'insurrezione al nord: in Como, Lecco, Bergamo, Brescia,[227] Valtellina: abbiate una sorpresa che tronchi le comunicazioni del quadrilatero col lago, col Tirolo; accentrate queste forze dell'insurrezione delle parti che ho nominate nel Tirolo italiano: date la mano con quest'operazione al Friuli e al Cadore, fremente d'agire, e ditemi dov'è la guerra dell'Austria. L'Austria in Italia dev'essere girata, tagliata dalla sua base nei primi dieci giorni dell'insurrezione.

E mentre il governo dell'insurrezione farebbe questo—e verificherebbe facilmente pensieri che io maturo da anni: mentre l'insurrezione della parte superiore dello stato romano si rovescerebbe, non curando altro, su Napoli, gli ungaresi rivoltati, disertati, ordinati sotto Kossuth e Klapka—il povero Klapka era meco febbricitante di speranza tutta la giornata del 6—darebbero il segnale al loro paese e con un'operazione ardita, ma verificabile, svierebbero la guerra da noi.

Emilio, io concedo a voi tutti di discutere l'insurrezione. E perchè quella è impresa seria e base d'ogni altra, io ho voluto provarvi che il popolo, se chiamato da voi, è pronto a fare. Ho voluto suggerirvi il come si possa, per sorpresa, scemare i sacrificî e impossessarsi di materiale. Voi sapete che queste sorprese sono possibili e possono, occorrendo, prepararsene altre diverse. Ma non concedo a voi, non concedo ai vostri amici, parecchi dei quali sono militari, di dirmi: «Noi non potremo vincere la guerra.»—Non v'è—lasciate che ve lo dica—che un'assoluta inferiorità di intelletto che possa ispirare negazione siffatta—o la paura dell'egoismo.—

Perchè la Lombardia e non un'altra parte d'Italia? E debbo sentire questa parola da voi; da lombardi? Ho accennato le ragioni nell'opuscolo che avete. Ma se io fossi lombardo non vorrei averle richieste. Per dio! avete il nemico d'Italia in casa, e vorreste che Napoli agisse? Potete annientare il nemico d'Italia in un subito e chiedete perchè lo fareste? Roma andrà altera di dovere per benefizio del mondo rovesciare la rappresentanza dell'autorità spirituale usurpata; non dovrebbe la Lombardia andare altera di poter vibrare un colpo mortale all'autorità temporale? Siete diventati proudhoniani di tanto che una pagina storica—non parlo del dovere—non possa più scuotervi a meritarla?

L'insurrezione di qualunque altra parte d'Italia che precedesse quella di Lombardia, la renderebbe, o impossibile, o assai meno decisiva: ma se anche ciò non fosse, io vi direi sempre:—«l'Austria è tra voi, a voi tocca l'onore dell'iniziativa.»—

Oh sventura a voi, che intendete, ma non sentite più le cose ch'io vi dico! Sventura a noi tutti che dobbiamo trovare negli uomini del marzo la freddezza, il piccolo machiavellismo dei corrotti di Francia! Oh, i miei sogni perduti, Emilio! E mi sentiva così santamente orgoglioso in quei giorni, quand'io poteva ripetere a me e agli stranieri:—«Hanno imparato la loro forza; l'Italia è rinata!»—

D'allora in poi io non v'intendo più: cadrei scettico e disperato pensando alla pazienza sovrumana da voi sostituita alla fiamma di patria che avevate comune con me. E credo oramai che non amiate più, che fosse in voi tutti bollore di sangue giovanile, di riazione, di ambizione, di gloria, non adorazione dell'idea, non culto d'Italia. Avete veduto scannare gli amici vostri più cari: avete veduto impiccare, fucilare a dozzine: avete veduto bastonare uomini e donne in Milano; avete esuli vostri a migliaja, avete veduto cose che solleverebbero iloti e negri. E tuttavia non avete smarrito il sangue freddo un istante; non vi siete, se credevate alla vostra impotenza, travolti nella demenza o nel suicidio! No, voi leggete, discutete—mentre i croati bastonano[228]—punti di sistemi stranieri; passeggiate tranquillamente. Amate! sì ma badate a istillare prudenza e tiepidezza d'affetto patrio nel cuore della donna che amate: il croato punisce col bastone le imprudenze femminili!

Io ho la morte nel cuore, Emilio, scrivendovi. Le codardie, le bassezze, il gelo che m'è toccato vedere e palpare in questi ultimi mesi hanno superato quello ch'io, nei momenti più neri, poteva idearmi. Uomini, come... disdirmi l'amicizia, perchè io diceva—«verifichiamo se il popolo vuole agire,»—uomini come... farsi denunziatore dei miei amici: uomini, come Maestri, scrivermi che bisognava far libri: uomini come Manin e Montanelli, rallegrarsi della disfatta perchè ucciderebbe la mia influenza: uomini, come voi, rimanervi freddi, assiderati, immobili di mezzo al fremito del popolo vostro, e vagheggiare l'iniziativa francese! E, devo pur dirlo, gelosiucce meschine, vanità meschinissime, diffidenze colpevoli, a rodere, di mezzo a voi, il mio nome, che non è se non una bandiera caduta, domani, la mia influenza che, prima della lotta, avreste dovuto usare come un mezzo di forza, le mie idee che non sono se non quelle predicate un tempo da tutti voi. E che temevate da me? Io non ho che la febbre d'Italia, l'amore d'Italia, l'ingegno d'Italia. Io vi portava un vincolo di simpatie straniere, un vincolo con importanti elementi, un po' di fascino esercitato sui giovani d'azione. Non potevate giovarvene, e spegnermi, annientarmi il dì dopo? Non avreste avuto un rimprovero da me, com'è vero ch'io esisto! Ho il tarlo nel cuore; non posso più gioire, e la vita mi pesa dacchè io non stimo più i meglio educati fra gli uomini del mio paese. E in Italia io non ho più che sepolture. E all'estero non ho più core di parlare dei nostri patimenti: le ciglia s'inarcano e mi sento dire: «Come fate a sopportar tanto? il popolo è visibilmente con voi: ajutatevi dunque, o soffrite muti.»

Voi avete la salute del paese in pugno: se un giorno mai v'accorgeste della triste parte che fate in Europa, e volete far opera degna, pensate a me; a quel tanto d'ajuto ch'io posso portarvi; ditemi:—«Siate con noi il tal giorno»—io vi sarò. Se persistete nella vergognosa apatia, Dio vi perdoni, io non lo posso. Ma non v'irriterò più con lettere, dirò il vero agli ignoti. Addio.

G. Mazzini.

Un'ultima inchiesta; leggete questa lettera a quanti più potete fra i vostri amici prima di abbruciarla.


I tre scritti: Il Partito d'azione, Del dovere d'agire, e Centro d'azione[58] rivelano abbastanza chiaro a quale trasformazione del Partito io mirassi. Da un lato, io vedeva sorgere in seno alla borghesia letterata, quei vizî di pedanteria dottrinante, di dissenso tra il pensiero e l'azione d'inerzia che sostituisce la fiducia paziente nella forza degli eventi al compimento del Dovere, fatale a tutte le nazioni e cagione visibile di decadimento alla Francia; e bisognava cercare il rimedio nell'azione di un nuovo elemento, vergine di sistemi e ricco di buoni e ineducati istinti, l'elemento popolare. Dall'altro, l'idea Nazionale era oggimai sufficientemente diffusa: mancava l'attitudine, la tendenza a fare. Or non s'educa all'azione se non coll'azione, coll'esempio, coll'ira, col[229]la coscienza della debolezza del nemico che si tradisce nelle continue paure, negli esagerati sospetti, nelle ingiuste immoderate repressioni suggerite dalla perenne minaccia. Entrai su quella via premeditatamente, risolutamente. E lo dico, perchè i miei fratelli di patria mi giudichino, lo sapeva che mi porrei sull'anima nuovi e gravi dolori ma non rimorsi. I popoli non si ritemprano se non con forti fatti, pericoli intrepidamente affrontati e patimenti virilmente durati.

E un'altra ragione, verificata in seguito da una serie di fatti e nondimeno inavvertita da quanti mi giudicarono, mi spronava su quella via. La Monarchia ricominciava a desiderare, ad agitarsi, a tentare timidamente, pur con insistenza fuori e dentro il terreno, per vedere se vi fosse modo d'ampliarsi. Cominciavano i turpi amoreggiamenti alla Francia Imperiale, ed era facile antivedere l'alleanza che li avrebbe, presto o tardi conchiusi. Ora il concetto accarezzato da Luigi Napoleone era di federalismo per noi, di unità fortemente accentrata e facilmente dominatrice, per la Francia. Nè gli uomini della Monarchia piemontese oltrepassavano quel concetto: i suoi più potenti ingegni parlavano apertamente di leghe regie; e alla turba volgare e al monarca, volgo egli pure, sarebbe bastato il cenno del Dittatore Francese. Io vedeva crescente il pericolo e non vedeva certi i rimedî: la mia fede, non nel futuro dell'Italia, ma nella generazione, alla quale io parlava, s'era illanguidita: il materialismo la signoreggiava, più assai ch'io non aveva creduto; e il materialismo doveva guidarla—e la guidò pur troppo—al culto della forza, dei primi successi, dell'opportunità sostituita all'adorazione dell'Ideale. Il concetto della Monarchia sarebbe stato, per poco ch'essa facesse, seguito. Bisognava dunque impaurirla, sospenderle sul capo la spada di Damocle, farla credere nella necessità di andare innanzi a seconda degli istinti del paese, o perire: e per questo bisognava ordinare la minoranza che mi seguiva, a protesta e minaccia continua in nome dell'Unità repubblicana: o riescivamo in uno dei tentativi ad afferrare il ciuffo della fortuna, a cogliere un momento propizio e fecondo d'entusiasmo popolare e potevamo conquistare Unità e a un tempo Repubblica:—o gli Italiani non erano maturi per emanciparsi in nome d'un principio senza cooperazione di re e avremmo, accennando continuamente a fare, costretto la monarchia ad andare oltre i termini prestabiliti, a darci almeno l'Unità Nazionale.

Taluni fra i nostri m'accusarono, più dopo, d'aver deviato, ammettendo ne' miei calcoli che si potesse trarre partito dalle opere della Monarchia. Gli scritti coi quali io chiamava il Partito a trasformarsi sistematicamente in Partito d'Azione non parlano di Monarchia ed escludono quindi il rimprovero. Ma quanto alle ipotesi della mente, esse furono purtroppo giustificate dai fatti. L'iniziativa fu presa, coll'ajuto dello straniero, dalla Monarchia: i repubblicani non ne furono capaci. Se quanti allora ciarlavano di repubblica avessero dato opera a ordinarsi, a disciplinarsi, a raccogliere mezzi, ad armarsi per fare, noi non avremmo forse oggi sulla fronte della povera Italia le vergogne di Nizza, di Lissa e Custoza e della perenne soggezione all'influenza straniera. E s'oggi non si sfogassero in proteste indecorose e derise, ma seguissero, severamente deliberati, le norme pratiche che fruttano potenza a un Partito, noi potremmo cancellare speditamente quelle vergogne, nè a me toccherebbe di struggere i miei ultimi giorni nel dolore, supremo per chi ama davvero, di vedere ciò che più s'ama inferiore alla propria missione. Se non che è più facile rimproverare che fare.

Io credo d'avere, con quel metodo d'agitazione, contribuito a costringere, non foss'altro, e dacchè i repubblicani non seppero ordinarsi[230] e fare, la Monarchia sulla via, non voluta dell'Unità Nazionale; nè vedo, pur disprezzandola più sempre trascinata non da fede, ma da paura, perchè m'increscerebbe. Saremmo noi, riordinati federalmente, più vicini alla conquista del nostro ideale?

I monarchici intanto iniziavano dal canto loro un nuovo stadio di attività con una perfidia.

Ho accennato al nembo di rimproveri e d'accuse che si rovesciò da ogni lato su me dopo il 6 febbrajo: rimproveri e accuse tanto più feroci, quanto più io sembrava sprezzarli e persistere. Al disciogliersi del Comitato Nazionale e alla condanna che taluni fra i suoi membri s'affrettarono a proferire contro di me, tenne dietro un generale dissolvimento. Per più mesi io non ebbi, fuorchè da popolani, una sola lettera che trattasse di cose italiane. Ogni lavoro s'era sospeso o sottratto alla mia direzione. In Roma, soltanto, l'Associazione serbava meco l'antico contatto: l'uomo, singolare per ingegno, per intrepida fede repubblicana, per potenza di logica e antiveggenza del futuro, che la dirigeva, non era tale da mutar giudizio e condotta per un tentativo fallito. E Roma, era punto siffattamente importante, ch'era necessario rapirmelo, o condannarsi a vedere ravvivarsi a poco a poco la mia influenza sui lavori del Partito in Italia.

Un agente di parte monarchica fu spedito da Torino a Roma a tentar l'impresa. Giovandosi dell'opinione largamente diffusa, ch'io fossi politicamente un uomo perduto, si disse a parecchi dei nostri che la Monarchia si preparava alacremente a operar per l'Italia—ch'io era stato fin allora, colle mie improntitudini repubblicane, ostacolo a' suoi disegni—che importava quindi staccarsi da me, provato incapace dagli ultimi fatti, e unirsi fraternamente al Piemonte—che la unione delle forze determinerebbe, quasi immediata, l'azione—che ogni uomo potrebbe serbare intatte le proprie idee, ma che si trattava d'unirsi oggi per vincere, poi il paese deciderebbe del proprio avvenire. E le proposte furono accolte: primo a cedere un giovane che, ordinatore supremo nei primi due anni dell'Associazione, poi segretario del Direttore nella sua corrispondenza con me, possedeva nomi, cifre segreti e meritata influenza.

Raccolti a deputazione, i dissidenti dall'antico programma fecero proposta solenne al Direttore perchè, adottando il nuovo, decretasse fusione dell'Associazione colla parte monarchica e sostituisse alla formula unitaria repubblicana le parole: Indipendenza e Unione. Il Direttore diede formale rifiuto.

Cominciò allora contro di lui una guerra sulla quale io trasvolo. I mezzi di corrispondenza colle provincie gli furono interrotti: il contatto coi nuclei esistenti in Roma gli fu seminato di difficoltà e di pericoli: condannato, com'egli era, a vivere in un nascondiglio, ei si trovò a un tratto quasi isolato. Accuse d'ogni genere lo assalirono: fu detto che ei ricusava l'azione, ch'ei negava per ambizione di dittatura la sovranità del paese; ch'ei tradiva, per intolleranza e cieca riverenza a questioni di parole e di mere forme, il fine del lavoro; ch'egli ingannava l'Associazione parlandole in nome di un Partito che s'era chiarito impotente e di un uomo, che s'era chiarito incapace; furono di lui dette cose peggiori e bassamente sleali. Il direttore durò imperturbabile, irremovibile.

Una notte ei fu preso, e furono presi nelle loro case quanti membri o impiegati della gerarchia dell'Associazione persistevano fedeli al programma repubblicano: dal primo fino all'ultimo, il postiere Trabalza. Non accuso uno o altro individuo, ma è fatto, ammesso a quei giorni da tutta Roma e chiarito dal carattere, dai modi e da[231]lla simultaneità delle scoperte, che la lista dei nomi fu trasmessa al Governo Pontificio dagli agenti monarchici legati coi dissidenti.

Parecchi fra gli imprigionati in quella notte gemono tuttavia—benchè nati in paesi che fanno parte del Regno Italiano—nelle carceri del Papa; vergogna eterna del Governo Italiano che non esige, forse perchè sono amici miei e repubblicani, la liberazione: vergogna degli Italiani, che li dimenticano.

Contro quella diserzione dalla bandiera, io pubblicai, con altri, la seguente protesta:

«I sottoscritti, Italiani di Roma e provincia, informati del mutamento reazionario che, per opera di pochi e in contradizione alle tendenze del Popolo, ha preteso rovesciare recentemente la Direzione Centrale dell'Associazione Nazionale, per sostituirvi un Comitato, il cui primo atto è un atto d'ateismo politico, un passo retrogrado verso i nemici della bandiera inalzata nel 1849 in Roma, e un tradimento del patto solenne stretto fra gli uomini dell'Associazione Romana e il Partito Nazionale.

«Dichiarano:

«che la deviazione dal principio Repubblicano, come bandiera di redenzione futura Italiana, colpa grave in ogni parte del territorio Italiano, è infamia e vergogna in Roma:

«che questa deviazione tradisce Roma, alla quale rapisce l'iniziativa morale, ch'è suo dovere e diritto nella Nazione; tradisce l'Italia che guardava a Roma come depositaria della tradizione repubblicana; tradisce l'Azione che non può escire se non da una bandiera di popolo:

«che il fare retrocedere il Partito Nazionale sino alla politica senza nome del 1848, dopo che i fatti hanno dato a quella politica una nota incancellabile d'infamia colla cessione di Milano e col tradimento di Novara, è opera di manifesta ignoranza, o di mala fede:

«che la bandiera repubblicana non rappresenta un interesse particolare in Italia, ma l'interesse, la missione, l'avvenire e l'unità della Nazione, mentre la bandiera che porta scritta l'unica parola d'Indipendenza, bandiera regia senza coraggio di dirsi tale, non rappresenta se non federalismo, interessi dinastici, discordia tra il fine e i mezzi, e quindi impotenza assoluta a combattere e vincere:

«Protestano in conseguenza contro il mutamento tentato, contro l'inganno fatto a un Popolo, che meritò l'ammirazione dell'Europa combattendo per la Repubblica; contro ogni atto emanato o che emanerà dal Comitato fusionista novellamente istallato; e lasciando che la responsabilità dello scandalo d'un'apparente discordi e ricada su chi lo promosse, si assumono di far noto al popolo di Roma e Provincie l'inganno e la delusione di cui è vittima in oggi.

«Aprile 1853.

«G. Mazzini.»


Qui finiscono le note autobiografiche di Giuseppe Mazzini, comprese nei primi otto volumi delle Opere, e che riunite insieme in questo libro ci danno a grandi tratti una storia delle eroiche lotte, dei dolori ineffabili che ebbe a sostenere il grande Apostolo d'Unità e di Libertà.

[232]

Seguono quindi gli scritti politici più importanti, disposti per ordine cronologico.


D'ALCUNE CAUSE

CHE IMPEDIRONO FINORA

LO SVILUPPO DELLA LIBERTÀ IN ITALIA


ARTICOLO PRIMO.

Un principe—et des consèquences—
voilà tout.—

Convention Nationale.

Ma gli uomini pigliano certe vie del mezzo che sono dannosissime, perchè non sanno essere nè tutti buoni, nè tutti cattivi.—

Machiavelli.Discorsi.

I.

Trattando delle cagioni, che tornavano in nulla i tentativi di libertà nell'Italia—dei vizî che contrastarono al concetto rigeneratore di farsi via tra gli ostacoli, noi siamo ad un bivio tremendo.

O noi parliamo parole alte, libere, franche—parliamo coll'occhio all'Italia, la mano sul core, e la mente al futuro—parliamo, come detta la carità della patria, senza por mente ad uomini o pregiudizî, snudando l'anima agli oppressori, ai vili, agli inetti, flagellando le colpe e gli errori ovunque si manifestino—e un grido si leva dagli uomini del passato contro ai giovani, che s'inoltrano nella carriera, ignoti alle genti, senza prestigio di fama, senza potenza di clientela, soli con Dio, e la coscienza d'una missione: voi violate l'eredità dei padri, perdete la sapienza degli avi; voi usurpate un mandato, che il popolo non v'affida esclusivamente; voi cacciate l'ambizione di novatore frammezzo ai vostri fratelli!

O noi rinneghiamo ispirazioni, studii ed affetti per una illusione di universale concordia—ci soffermiamo nella predicazione di principii nudi, teorici, astratti, senza discendere all'applicazione, senza mostrare nella storia dei tempi trascorsi le violazioni di questi principii—erriamo intorno all'albero della scienza, senz'attentarci di appressarvi una mano, lamentiamo una malattia esistente nel corpo sociale senza ardire di rimovere il velo che la nasconde e dire: là è la piaga!—e gl'Italiani indurano nell'abitudine degli errori; e gli elementi non mutano, i tentativi insistono sulla stessa tendenza, le generazioni agitano, non frangono le loro catene; e lo straniero ci rampogna inerti nel progresso comune, c'insulta colla pietà del potente al fiacco, si curva sulle sepolture dei nostri grandi, e esclama: ecco la polvere dell'Italia!

O sospetti, o colpevoli—condannati al silenzio o alla guerra[233]—esosi agli uomini che parteggiano per le vecchie dottrine, o traditori alla patria che le provava fino ad oggi inefficaci e funeste.—

La Patria anzi tutto.—Noi parliamo tra i sepolcri dei padri e le fôsse dei nostri martiri—e le nostre parole hanno ad essere forti, pure, incontaminate da lusinga e da odio, solenni come i ricordi dei padri, come la protesta che i nostri fratelli fecero dal palco ai loro concittadini.—

La Patria anzi tutto.—E chi siam noi perchè abbiamo a calcolare i nostri discorsi dalle conseguenze personali? L'epoca degli individui è sfumata. Siamo all'era dei principii: siamo all'era che pose quel grido in bocca ai lancieri Polacchi: Periscano i lancieri, e la Polonia si salvi!—e che monta alla patria se le nostre parole avessero anche a fruttarci una guerra che il nostro core vorrebbe fuggire? Gli uomini passano. La posterità sperde il garrito delle fazioni; ma i principii rimangono:—e guai all'uomo, che tenta una impresa generosa e s'arresta davanti alle conseguenze quali esse siano!

Una idea—e l'esecuzione: ecco la vita, la vera vita per noi: una idea generosa, spirata dalla potenza che creava l'uomo ad essere grande, lampo della primitiva ragione, quando l'anima giovine, vergine di pregiudizî, di vanità e di meschine paure, s'affaccia ai campi dell'avvenire che l'angiolo dell'entusiasmo illumina d'un raggio immortale—ed una esecuzione costante, assidua, ostinata, sviluppata in tutte le fasi dell'esistenza, nelle menome azioni, come nei rari momenti che vagliono un'epoca, in un'epistola famigliare come in un volume di meditazioni, nei segreti della cospirazione come nella pubblica testimonianza del palco. A questi patti s'è grande—a questi patti si promuove la causa santa—e del resto avvenga che può, perchè l'uomo il quale si slancia nella crociata dell'umanità senz'aver dato un addio ai calcoli, ai conforti, a tutte quante le gioje della vita, non ha missione. Chi scrive codeste linee ha disperato—tranne un affetto—della vita contemplata individualmente—e per questo ei si sente più forte nella predicazione del pensiero rigeneratore. In politica non v'è che un sistema d'azione stabilmente efficace: il sistema che matura i principî, sceglie l'intento, medita i mezzi, poi si pone in moto senza deviare a dritta o a sinistra, facendo gradino degli ostacoli, non rifiutando le conseguenze logiche dei principî, e guardando innanzi.—La verità è una sola. L'eclettismo applicato alla scienza d'ordinamento sociale ha prodotta una dottrina che l'Europa dei popoli infama, e rinega; e la stolta pretesa di voler conciliare elementi che cozzano per natura, ha rovinate a quest'ora più sorti di popoli, che non l'armi aperte, o le insidie della tirannide. Oggimai, s'è giunti a tanta incertezza di sistemi e di vie, che le moltitudini, affaticate pur sempre dal desiderio del meglio, si stanno inerti, aspettando che i loro istitutori s'intendano fra di loro.

Applichiamo queste idee all'Italia.

Le opinioni, le dottrine, i partiti sono in Italia ed altrove. Noi non li creammo: guardammo e la esistenza loro ci balzò davanti, come un fatto incontrastabile, e prepotente sui fati della nostra rigenerazione.

Ora, che vie ci s'affacciano a superarne gli ostacoli?

Noi abbiamo lungamente pensato al modo; abbiamo cercato una via di fusione, un mezzo d'accordo tra chi insiste sulle antiche idee e chi sente fremersi dentro le nuove.—Questa via non v'era: i popoli s'erano illusi di averla trovata, ed hanno scontato quella illusione con tanto pianto e con tanto sangue, che oggimai il volere ricrearla può[234] dimostrare forse bontà di cuore, non senno politico; nè le illusioni, sfumate una volta, si ricreano mai. Il moto è in noi, sovra noi, intorno a noi; e dove gli uni s'abbandonano al moto, e gli altri s'industriano a costringerlo in un cerchio determinato, non v'ha transazione possibile. O innanzi, o addietro! L'anello intermedio fra la inerzia e il moto, fra la vita e la morte, è il segreto di Dio.

Oggi, i popoli hanno sete di logica; e tra molte opinioni inconciliabilmente discordi, io non veggo che una via sola: consecrarsi alla migliore—inalzarne la bandiera—e spingersi innanzi. Là è il progresso! Là è la vittoria!

Così abbiamo detto—e faremo.

Pace e fratellanza a chiunque saluta la bandiera del secolo; a chiunque adotta i principî del secolo.—Gli altri ripeteranno per qualche tempo ancora la insulsa accusa che ci chiama seminatori di discordia: accusa simile a quella che i tiranni infliggono ai buoni, rampognandoli violatori dell'ordine—come se l'ordine potesse esser mai il riposo nell'errore: come se a fondare una concordia potente fosse altra via dal trionfo del vero in fuori. I vizî e le colpe della gente che beve con noi un raggio dello stesso sole, hanno a circondarsi, dicono, di silenzio: paventano l'insulto dello straniero. Lo straniero?—Rammenti che noi fummo grandi e temuti, quando il mondo era barbaro, rammenti che la sua civiltà è opera nostra, la nostra abbiezione opera sua—e arrossisca—però che lo scherno gli ripiomberebbe sul core amaro come un rimorso!—Ma a noi la carità della patria non acciechi il lume della mente. Le vanità puerili, le adulazioni accademiche, le cantilene de' letterati di corte, e il pazzo entusiasmo di quei tanti amatori della patria, che s'inginocchiano davanti ai simulacri dei nostri grandi, senza oprare a farsi grandi com'essi, hanno partorito lunghi sonni e codardi all'Italia—e non altro. L'adorazione al genio dei trapassati, e a quello che spande il suo raggio sulla faccia della terra patria, è bella veramente, quando chi si prostra è tale da potere posarsi eretto davanti alla generazione che gli brulica intorno. Ma i nomi, le memorie, le grande imagini, se non sono applicate alla vita, e migliorate, ed emulate, sono come quell'armi che stanno attaccate alle pareti delle sale: arrugginiscono se non le adopri. Noi non parliamo certo a chi siede tra le rovine e inalza l'inno di disperazione; però che si tratta di confortar gli uomini a osare, anzichè travolgerli nella inerzia. La patria, come la donna amata, può non essere talora stimata: vilipesa non mai! E noi, questa patria caduta, questa bella giacente, noi la circondiamo di tanto affetto, che la vita intera e la morte non varranno a svelarne la menoma parte. Forse, s'essa fosse fiorente di bellezza e di gloria, noi l'ameremmo d'un affetto men caldo e santo: ma non si torna a vita lo scheletro, incoronandolo di rose—nè quelle dive anime incontaminate di Catone e di Tacito adonestavano le colpe de' loro concittadini, ma le flagellavano a sangue. Che se l'orgoglio insuperbisse a taluno nel petto, è grande, ben più che illudersi sulla patria il dire: la patria è caduta e noi la faremo risorgere.

Noi insistiamo sovente sul nostro simbolo di progresso e d'indipendenza, anche a rischio di vederci accusati d'audacia, perchè l'uomo senza credenza non è veramente uomo, e colui che l'ha e non s'attenta bandirla, è men ch'uomo—perchè pur troppo v'è una gente che alla menoma reticenza sospetta prave intenzioni, una gente il cui studio è quello di introdurre un lembo della loro veste macchiata, sotto la toga candida, incontaminata dell'apostolo della verità—perchè infine noi esponiamo le nostre credenze come il programma[235] delle azioni future. Siamo ai tempi nei quali le opinioni hanno ad essere decise ed aperte, nei quali ad ogni uno che si presenti per ottenere la cittadinanza dell'uomo libero corre debito di portare in fronte una dichiarazione de' suoi principii, perchè giovino alla condanna se mai i fatti della vita contrastassero un giorno ai principî enunciati. Noi facciamo questa dichiarazione. Noi la facciamo fidenti, perchè siam giovani e vergini di passato, abbiamo il core puro, le mani pure, la mente pura, e non abbiamo speranza di meglio, di gloria, di trionfo, di lode che nell'avvenire.—Gl'Italiani giudicheranno i nostri atti.

II.

I tentativi di rivoluzione italiana tornarono fino a quest'oggi in nulla. Perchè?—Siam noi codardi tutti? Mancano elementi rivoluzionari? O veramente il mal esito de' moti italiani era dipendente dalla direzione che le fazioni diedero a questi moti?

Lo straniero scelga, se vuole, la prima causa. Noi, Italiani, adopriamoci a rintracciar la seconda.

Noi non siamo codardi. I popoli non sono codardi mai, quando l'impulso che li move è potente—noi men ch'altri—e l'Europa lo sa.

Gli elementi di rivoluzione non mancano all'Italia. Quando un popolo diviso in mille frazioni, guasto dalle abitudini del servaggio, ricinto di spie, oppresso dalle bajonette straniere, divorato per secoli dall'ire municipali, stretto fra la cieca forza del principato e le insidie sacerdotali, senza insegnamento, senza stampa, senz'armi, senza vincoli di fratellanza fuorchè nell'odio e in un pensiero di vendetta, trova pur modo di sorgere tre volte in dieci anni—e il nemico interno sfuma davanti alla potenza di un voto espresso, senza un colpo di fucile, senza un grido d'opposizione, senza una voce che sorga a difendere la causa della tirannide: quando in dieci giorni la bandiera italiana sventola sopra venti città, e gli uomini della libertà invocano confidenti i comizî popolari per concertare le opportune riforme: quando nè persecuzioni, nè sventure, nè delusioni, nè morti possono spegnere il pensiero rivoluzionario—e le prigioni sono piene—e i cannoni s'appuntano contro al popolo—e i dominatori tremano d'una congiura ad ogni romore notturno—compiangete quel popolo che le circostanze condannano ancora all'inerzia, ma non lo calunniate: v'è una scintilla di vita in quel popolo, che un dì o l'altro porrà moto a un incendio: v'è una potenza in quel pensiero intimo di libertà, educato con tanto amore e tanta energia di costanza, in quel voto che cinquecento anni di silenzio non hanno potuto sperdere—che il Genio potrebbe trarne miracoli—ma il Genio solo;—e dov'è il Genio che abbia governati fin qui i tentativi italiani? Dov'è tra quei che stettero al maneggio delle cose nostre, l'ingegno che abbia indovinato il segreto di quei tentativi?

Le moltitudini non mancano alla libertà in Italia, nè altrove. Nei due terzi dell'Europa, le moltitudini han fin d'ora un istinto del bene che può bastare a rigenerarle; soltanto esse non possono esserne interpreti ancora, e abbisognano d'uomini che s'assumano di ridurre i loro sentimenti a sistema politico, che concentrino in una giusta direzione quanti elementi s'agitano incerti e indefiniti negli animi non educati.—Quand'altro non fosse, le moltitudini soffrono, le moltitudini sono oppresse, conculcate dall'aristocrazia, immiserite dai dazî, dalle imposte e dalle dogane, dissanguate dai frati ai quali l'altre classi son già sottratte. Le moltitudini hanno dunque bisogno di m[236]utamento: v'anelano, e lo accetteranno qualunque volta sia loro proposto. Tutto sta nel guidarle; nel convincerle che i mutamenti torneranno loro efficaci; nel persuaderle, che in esse è potenza sufficiente per ottenerli.

Intanto le rivoluzioni italiane hanno presentato finora un aspetto singolare all'osservatore. Nei loro principî furono brillanti, unanimi, confidenti, audacemente intraprese, prosperamente operate: poi, dati i primi passi, languirono, si mostrarono incerte, paurose; e le moltitudini si stettero inerti, indifferenti, sfiduciate dell'avvenire—sorsero come stelle: svanirono come fuochi di cimitero. Simili a quelle creature che nascono bellissime di forme e d'espressioni, ma col germe della distruzione già sviluppato, colla condanna del destino sulla fronte, e delle quali tu diresti ammirandole: morranno prima d'avere raggiunto il fiore della giovinezza—le rivoluzioni italiane ti s'affacciano belle e pure nel concetto primo, ma inceppate, sviate, o soffermate a mezzo il cammino da un ostacolo prepotente che tutti indovinano, pochi hanno espresso liberamente.

D'onde procede l'ostacolo?

Noi lo diremo francamente: mancarono i capi; mancarono i pochi a dirigere i molti; mancarono gli uomini forti di fede e di sagrificio, che afferrassero intero il concetto fremente nelle moltitudini, che intendessero a un tratto le conseguenze; che, bollenti di tutte le generose passioni, le concentrassero tutte in una sola, quella della vittoria; che calcolassero tutti gli elementi diffusi, trovassero la parola di vita e d'ordine per tutti; che guardassero innanzi, non addietro; che si cacciassero tra il popolo e gli ostacoli, colla rassegnazione di uomini condannati ad essere vittime dell'uno o degli altri; che scrivessero sulla loro bandiera: riuscire o morire,—e attenessero la promessa. Siffatti uomini mancarono ai tentativi: nè giova indagarne la causa—ma quando sorgeranno e Dio li caccierà fra le turbe, l'Italia rinata darà solenne mentita a quanti l'accusano di codardia, o la vilipendono ineguale al disegno.

E badate, o Italiani, che la questione è decisiva per voi. Però che se non mancarono i capi, mancarono le moltitudini: mancarono e mancano gli elementi di rigenerazione. A questo bivio siam tratti: abbiamo a scegliere tra l'errore dei pochi e l'impotenza de' molti: abbiamo a rinegare le speranze in un vicino avvenire o la venerazione nei capi che ci guidarono. Per noi, la scelta non è dubbia: gli altri che ripongono l'onore del nome italiano nell'adonestare le colpe italiane, vedano se giovi meglio alla patria il sagrificio dei pochi colpevoli, o l'anatema gittato a un'intera nazione.

Mancarono i capi. Mancarono prima d'animo, poi di scienza politica: prima di fede in sè, nelle moltitudini che reggevano, nella santa bandiera che inalberavano; poi di consiglio rivoluzionario, di spirito logico e del segreto che suscita i milioni di difensori a una causa.—E noi accenneremo successivamente dove e perchè mancassero; e come non s'intendessero nè i mezzi, nè l'intento d'una rivoluzione. Ai popoli si parla efficacemente in due modi: colla virtù dell'esempio, e colla utilità del fine proposto; trascinandoli coll'entusiasmo, o seducendoli coll'avvenire.—E parleremo in principio della mancanza di animo negli uomini che tennero il freno delle cose nostre, perchè l'animo è prima condizione del fare—perchè dove quello manchi o non sia deliberato abbastanza, è follia mettersi a grandi imprese—perchè il vero beneficio d'una rivoluzione deve affacciarsi al popolo con certezza fin dai primi giorni del moto, ma non può, generalmente parlando, svilupparsi c[237]he al secondo stadio della rivoluzione, quando essa è già santificata dalla vittoria.—A fare, conviene prima d'ogni altra cosa esser forti.

III.

Del difetto d'energia nei guidatori delle nostre rivoluzioni, degli errori che s'accumularono, della incertezza, delle contraddizioni ch'emergono ad ogni passo dalla storia dei fatti trascorsi, fu detto da molti. Un fremito d'ira generosa si levò nell'anime veramente Italiane al vedere, come per colpa dei pochi l'Italia cadde nel gemito della paura anzichè nel ruggito del lione ferito. Come accadesse, come avvenisse ch'uomini puri nelle intenzioni, amatori del nome italiano e consecrati fin dai primi anni alla carriera politica, si lasciassero travolgere a tanta debolezza da commettere i destini della loro patria a una illusione di tutela straniera anzichè all'armi e al consiglio de' forti, non fu detto mai, ch'io mi sappia. Forse, quando i buoni fremevano la parola del dispetto e della rampogna, le piaghe erano troppo recenti, perchè il raziocinio potesse frammettersi alla passione, e perchè riuscisse di risalire per mezzo agli errori alla sorgente d'onde partivano. Fu guerra di particolarità, di minuzie, di fatti isolati; fu grido d'uomini ai quali la prepotenza degli eventi struggeva l'ultima delle speranze che fan bella la vita, e non lasciava che l'ultimo appello della creatura al cielo, la maledizione agli uomini ed alle cose.—Esce a ogni modo da quelle accuse un senso di sconforto, una disperazione dell'avvenire, che può ridurre l'anime nuove e incerte alla inerzia e le forti e deliberate a vivere d'una vita propria, intima, individuale, a ricoverarsi nella solitudine e nel concentramento dalla fallacia dei progetti e dal sorriso dei tristi. Oggi, è urgente di ritrarre quell'anime dall'isolamento in cui giacciono, di rinfiammarle alla costanza dell'opere, di riconfortarle ad osare, mostrando come nessuna fatalità pesi sopra di noi, ma il solo errore degli uomini, e non invincibile, non inevitabile da chi riassuma in poche massime le vicende passate a trarne insegnamento al futuro. Ora—e per somma ventura—quegli uomini, ch'ebbero un istante le sorti italiane nelle mani, son fatti uomini del passato; quei nomi son retaggio dei posteri, e noi possiamo favellarne senz'ira ed amore; possiamo esaminare più sedatamente qual violazione di principio trascinasse la rovina dei tentativi italiani. Un tentativo fallito si riduce quasi sempre ad un principio violato.

Nelle rivoluzioni più che in ogni altra cosa l'armonia è condizione essenziale del moto. Quando esiste disparità, sconnessione, disarmonia tra gli elementi e la tendenza che ad essi s'imprime, tra chi dirige e chi segue, non v'è speranza.

Gli uomini nati a governare e compiere le rivoluzioni son quei che stanno interpreti delle generazioni contemporanee, miniatura del loro secolo; che riassumono in sè i voti segreti, le passioni, le tendenze, i bisogni delle moltitudini; che si collocano innanzi d'un passo alle genti che seguono, ma come centro in cui vanno a metter capo tutti gli elementi esistenti, tutte le fila ordinate all'intento. Indovinare il pensiero generatore della rivoluzione, e assumerlo proprio, fecondarlo, svilupparlo, e guidarlo al trionfo—tale è il primo ufficio di chi dirige le rivoluzioni. Senza quello si cade tra via scherniti o infami, per impotenza o per tradimento.

Ora, furono essi tali i capi delle nostre rivoluzioni?

No; non furono.

Vediamo l'ultima rivoluzione dell'Italia centrale.

[238]

Noi lo dichiariamo: noi la togliamo ad esempio, non perchè gli errori notati v'appajano più manifesti che altrove; nè perchè a noi piaccia diffondere un biasimo non meritato sui nostri fratelli delle Romagne. Noi li amiamo come Italiani: noi li veneriamo come quei che sorsero mentre noi giacevamo; come quei che diedero all'Italia e alla Europa un esempio d'opinione popolare e concorde; come quei che pajono incaricati di affacciare ai popoli una continua protesta in nome nostro contro la tirannide che ci conculca.—I moti del 1820, e 21, furono predominati dagli stessi errori, errori, come dicemmo, più dell'epoca che degli uomini. Vero è che l'epoca ora è mutata, e gli stessi moti dell'Italia centrale lo provano; però l'anacronismo politico, commesso da chi resse que' moti, sgorga più evidente dall'ultime vicende che dalle prime. Poi le piaghe sanguinano tuttavia—e noi scriviamo coll'ultimo gemito di Ciro Menotti, e coll'eco dei fucili di Rimini nell'orecchio.

La rivoluzione dell'Italia centrale presenta distinte due classi d'uomini: i molti insorti, e i pochi moderatori dell'insurrezione.

Che volevano gl'insorti?

Chiedetelo al pensiero che ordinava quei moti—chiedetelo al grido levato dai primi a insorgere in tutte le terre che afferravano spontanee il concetto di vita—chiedetelo al palpito di tutti i cori, al fremito generoso che invase la intera Penisola, quando narrarono i colpi di fucile tratti dalla casa Menotti, all'ardore che fece correre all'armi la gioventù di Bologna quando il vento recò ad essa l'eco del cannone di Modena—all'entusiasmo della gioventù parmigiana non avvertita, non coordinata, non commossa dalle congiure—alle stampe, ai bandi, ai colori adottati, ai viaggiatori che corsero da un punto all'altro per affratellare le varie contrade, alla bandiera che sventolò tra quei moti. Quella bandiera fu la bandiera italiana—quei colori erano i nazionali italiani—quelle prime voci erano voci di patria, di fratellanza, di lega italiana—quel fremito, quel tumulto, quel moto era il voto dei forti, serbato intatto per quaranta anni di sciagure e di persecuzioni; concentrato allora intorno ad un nome—al vecchio nome d'Italia, a quel nome immenso di memorie, di gloria, di solenne sventura, che i secoli di muto servaggio non avevano potuto spegnere, e che mormorato all'orecchio era trapassato di padre in figlio, come il nome del temuto nella lunga cattività degli Ebrei. Volevano l'unità, l'indipendenza, la libertà della Italia; volevano una patria; volevano un nome, col quale potessero presentarsi al congresso futuro de' popoli liberi, e che cacciato sulla bilancia Europea promovesse d'un passo la civiltà. Però la gioventù insorta non s'arretrava davanti a ostacoli di lunga guerra, o di disagi d'ogni genere; chiedeva la gioventù Bolognese fin dal secondo giorno del movimento d'invader la Toscana; chiedevano i nazionali di Reggio e Modena di conquistare Massa e Carrara alla libertà; chiedevano più tardi le guardie civiche condotte dal Zucchi di movere per la strada del Furlo al regno di Napoli; però che ogni uomo a' quei giorni—tranne chi reggeva—sentiva profondamente che si trattava d'una causa italiana, non Bolognese, o Modenese: ogni uomo—tranne quei del governo—sentiva ch'era venuto tempo per gl'Italiani di manifestare alla nazione e all'Europa con qualche atto solenne il loro concetto, il principio che li guidava, la intenzione in che s'erano mossi—del reato non curavano. Quel primo momento di rivoluzione, di manifestazione generosa è sì bello, bello di sacrificio individuale, di speranza infinita e d'audacia Titanica, che può scontarsi colla morte in campo, o sul palco: nè gl'insorti pensavano allora doverlo, per la inerzia di pochi, scontar col ludibrio.[239]

Con siffatti elementi, con questa tendenza del popolo insorto, quali erano i doveri degli uomini che il voto dei più, il caso e le circostanze elessero a capi?

I doveri de' capi—noi lo dicemmo—emergono dal voto, dalla tendenza predominante le moltitudini; stanno scritti nella bandiera adottata dalle moltitudini. Ogni rivoluzione è la manifestazione, la espressione pubblica d'un bisogno, d'un sentimento, d'una idea; e quando un popolo insorge, la scelta dei capi costituisce un contratto tacito fra quel popolo ed essi. Il primo, eleggendo, dice ai secondi: noi ci levammo per rivendicare un diritto usurpato o violato; ci levammo per ottenere un miglioramento di condizione che i governi ci vietano; ci levammo perchè noi, maturi per salire d'un passo nella carriera del progresso, eravamo pure inceppati e costretti alla inerzia da una prepotenza d'ostacoli materiali. Ora, insegnateci la via; noi la ignoriamo; ma eccovi braccia e mezzi; traetene il maggior partito a guidarci dove noi vogliamo: vi seguiremo attraverso i pericoli.—I secondi, accettando, rispondono: noi sacrificheremo ogni cosa allo sviluppo di cotesta idea; noi poniamo vita, senno, consiglio dove voi ponete le sostanze e la vita. Seguiteci con fiducia, però che dovunque, tra i pericoli inevitabili, vedrete ondeggiare la nostra insegna, voi sarete certi, ch'ivi è la via che avete trascelta.—Queste condizioni a noi pajono intervenire più solennemente tra la nazione e i suoi capi, che non se fossero proferite a parole; perchè dove il mandato sgorga dalle circostanze e dal voto pubblico è più santo che non sarebbe uscendo da formole; nè i popoli manifestano mai così solenni i loro voti, come quando li manifestano colle azioni. Non giova illudersi; chi fraintende quel voto può meritare compianto—ma qual nome serba la patria a chi, intendendolo, lo delude, e inganna deliberatamente le migliaja che glie ne fidano lo sviluppo?

IV.

A quei che stettero primi nella rivoluzione dell'Italia centrale—a quei che convalidarono col silenzio e colla inerzia le loro dottrine—a quei che in oggi si assumono le difese dei loro atti, e maledicono alla gioventù perchè non li venera muta, noi abbiamo il diritto di chiedere:

Volevate voi dirigere la rivoluzione all'intento voluto dalle moltitudini, che la operavano?

Allora—dovevate costituirvi rivoluzionarî davvero: cacciare un grido all'Italia, e lanciarvi innanzi. Dovevate prefiggere ad ogni atto della vostra esistenza politica il pensiero d'indipendenza, d'unità, e di libertà che fremeva nel petto ai vostri concittadini; dovevate procedere con franchezza, e con energia alle conseguenze dei principî rigeneratori. Allora—v'era mestieri calcolare le difficoltà della vostra situazione, e affrontarle anche a rischio di soccombere davanti ad esse; v'era mestieri meditare le leggi fondamentali d'ogni rivoluzione, e subirne le conseguenze e l'azione; v'era mestieri, se fatti non potevate, cacciar principî sull'arena italiana; lasciare un alto insegnamento ai posteri, se le sorti ci contendevano un miglioramento materiale, positivo: educarli, se liberarli non v'era dato. Allora—vi correva debito sacro di definire davanti all'Europa la tendenza, il carattere dei moti Italiani; debito di tentare tutte le vie per le quali una rivoluzione può conquistar la vittoria; debito di ritemprare con forti esempli l'anime incodardite negli anni lunghi di servitù, di cacciare[240] un guanto ai nostri nemici, ch'essi dovessero tremare di raccogliere, di lasciare almeno alla crescente generazione—s'altro non era concesso—il programma della rivoluzione avvenire. Gli elementi stavano dinanzi a voi; Dio, padre della libertà, li aveva creati per voi, se sapevate o volevate usarne. L'entusiasmo, il coraggio, ed il genio—tre angioli di vita a un popolo decaduto: tre scintille di potenza immortale: tre raggi che brillarono di bellissima luce mentre il bujo della paura vi si stendeva intorno all'anima sconfortata—erano con voi e per voi, purchè aveste cercato suscitarli col sacrificio e coll'audacia dei generosi; purchè aveste saputo evocarli colla fede e col martirio, purchè non aveste isterilita ogni vostra potenza colla funesta parola: l'Italia è morta. L'Italia morta? Oh! v'è una vita in questa Italia caduta, che non conosce la morte!—L'Italia morta? Oh! se di mezzo a voi un uomo si fosse levato; se quest'uomo, trascorrendo con occhio d'aquila tutti gli elementi di lotta esistenti in Italia, avesse inteso il partito che potea trarsene; s'egli avesse sentito la vastità del ministero che le circostanze gli davano; s'egli avesse detto a sè stesso: a questo punto, non vi hanno riguardi, non v'è autorità, non v'è legalità, non v'è che un dovere: tentare la salute della patria; il mandato a fare non emana in siffatti momenti da un congresso, o da una commissione provvisoriamente governativa, ma dalla legge suprema della necessità, dal suffragio dei proprî fratelli, dalla coscienza delle proprie forze e della propria virtù; se quest'uomo avesse fatto un appello alla nazione, avesse diffuso una gioventù bollente sulle terre vicine, sui monti, nelle campagne, avesse detto ai giovani: siate grandi! alle moltitudini: siate con noi, però che noi veniamo a togliervi allo stento ed alla miseria; ai giacenti: sorgete! levatevi in arme! noi veniamo a vincere o morire con voi!—che non avrebbe egli fatto della gioventù? di quella gioventù, che sfiduciata da mille delusioni, abbandonata e tradita, resa inerte dalla diffidenza, dai sospetti, dal difetto di ordini, trovò pur modo di salvare l'onore italiano, e di protestare a Firenzuola, a Novi, a Rimini, che dove fosse stata unione, confidenza, ed energia di condottieri sapienti, la potenza del nome italiano sarebbe stata?—Forse, se un linguaggio e un contegno decisivo s'assumevano dagli uomini ai quali erano fidate le sorti della patria; se una parola solenne bandiva che l'Italia Centrale era sorta per tutti, ch'essa avrebbe combattuto per tutti, o sarebbe caduta vittima per tutti; se un fatto—un fatto solo, ma grande, ma potente, ma tremendo d'una volontà disperata, e compiuto al cominciar della lotta dai rappresentanti il pensiero italiano, avesse scosso le menti, forse strappavamo alla mano del tempo l'ora della risurrezione, forse il grido di guerra a morte sorto di mezzo alle barricate cittadine, o la maledizione al barbaro cacciata dai canuti morenti tra le rovine d'una città, rompeva il letargo dei secoli, suscitava alla vendetta i milioni incerti fra la speranza e la tema; però che la virtù d'un esempio è infinita, e dai rottami di Missolungi sorse la Grecia.—O fors'anche, quei primi forti perivano, e soli; ma si salvava l'onore, si struggevano le insulse accuse che ci vengono dallo straniero, le infamie che suonarono dall'alto della tribuna francese sulla bocca di Thiers e Guizot non erano proferite; e si gittava tra le rovine italiane un principio che avrebbe fruttato miracoli nell'avvenire, un principio essenziale, inevitabile,—perchè, davvero, o Italiani, senza simili fatti, senza quei sagrifici, non sarete liberi mai.

V.

[241]

E voi, condottieri delle rivoluzioni passate, che avete voi fatto?

Che avete voi fatto del popolo, della gioventù, dell'idea rivoluzionaria, de' principii che ne dominano lo sviluppo, dell'Italia e della missione, ch'essa v'aveva fidata?

Nulla! Avete sprecate o neglette lo forze che vi s'accumulavano intorno; avete scavato un sepolcro a tutte le più belle speranze; avete creato la morte. Ora l'adorate divinità prepotente!

Avevate una parola, che proferita al popolo, potea suscitarlo all'opre del braccio. Era la parola onnipotente; la parola della quale si valsero per legge di cose tutti i grandi che vollero dominare o trascinare all'azione le moltitudini; la parola che creava i quattordici eserciti della Convenzione, e più tardi, benchè convertita in delusione, la potenza di Napoleone; la parola che Dio scrisse nella prima pagina del libro della creazione, il core.—L'avete voi detta? Avete voi gittato in mezzo alle turbe quel nome magico, che annunciando all'uomo la propria dignità, crea dallo schiavo l'eroe, quella parola d'eguaglianza, che Cristo aveva pronunciata diciannove secoli addietro, e che in un mondo corrotto, anarchico, egoista, incredulo, lacerato dai barbari aveva pur bastato a fondare una religione? Avete voi detto al popolo: noi veniamo ad emanciparvi; veniamo a stringere il patto d'amore; veniamo a porre un termine alle vostre miserie?—No, avete tremato del popolo; del popolo senza del quale non farete mai nulla; del popolo, primo elemento delle rivoluzioni. Perchè, noi lo abbiam detto e lo diremo finchè prevalga, le rivoluzioni hanno ad esser fatte pel popolo e dal popolo; nè finattantochè le rivoluzioni saranno, come ai nostri giorni, retaggio e monopolio d'una sola classe sociale e si ridurranno alla sostituzione d'un'aristocrazia ad un'altra, avremo salute mai. Ma voi, dimenticando che una riforma sociale è viziata ne' suoi principî, se non comprenda e non rappresenti gl'interessi e i bisogni di tutte le classi; dimenticando che a trionfare avevate bisogno di braccia, e che ad averle è necessario animarle d'una idea di potenza, di fratellanza, e d'ammiglioramento, poneste mente a comprimere il popolo, e frenarlo nell'istinto del bene che lo agitava, e vietargli la lotta. Però il popolo vi lasciò soli; stette inerte a contemplare lo spettacolo d'una contesa, alla quale non era chiamato.—Un grado di progresso nella grande fusione sociale, nell'equilibrio possibile, ecco l'intento delle moltitudini. L'idea è nulla per esse, dove non sia scesa all'applicazione; e d'onde trapelò nei vostri atti, nella vostra carriera questo desiderio d'applicazione?—Io scorro i vostri mille decreti; dov'è un decreto, che proclami solennemente il principio della sovranità del popolo, sorgente di tutti i poteri? Dov'è un decreto che ordini l'esercizio del principio d'elezione, vastamente inteso e applicato? Dove un decreto, che dica al popolo: armatevi, e che provveda ad armarlo? Dov'è un atto solo in cui il popolo abbia schiusa, col suo intervento, davanti a sè la carriera della insurrezione?

Avevate una gioventù calda, ardita, impaziente d'azione, dalla quale potevate, sapendo, trarre una potenza invincibile; però che la gioventù è santa; la gioventù anela al sagrificio puro, e per premio, una speranza che le conforti il sospiro ultimo, una parola di lode.—Che avete voi fatto per essa? Quali sorgenti d'entusiasmo avete schiuso a quell'anime giovenili, che volano al grande collo slancio? Quali generose passioni avete tentato dirigere all'intento sociale?—Nessuna. L'anime giovanili s'erano infiammate al sole della novella Civiltà, s'erano levate sublimi alle idee di patria comune, di fratellanza italiana, di gloria europea, d'emulazione coi loro fratelli di Francia, di Brusselle, di Varsavia—e voi sfrondaste quelle idee fin dalle prime[242] mosse, impiccoliste quell'anime nelle angustie d'una sommessione cieca ed inerte; le intorpidiste colla diplomazia; le fiaccaste colla diffidenza e colla paura. La gioventù fremea guerra,—e voi non che attentarvi pur di bandirla, non osaste intravvederne la necessità; non osaste mirarla in faccia un solo momento senza tremare; cacciaste nei vostri primi discorsi, ad agghiacciarle il sangue bollente, una parola di pace, di pace obbrobriosa, e impossibile. E mentre le grida dei giovani; commossi al pericolo dei loro fratelli di Modena e Reggio, vi richiedevano d'armi, di capi, e d'un cenno per volare a soccorrerli, voi mandavate la infame parola: le circostanze dei modenesi non sono le nostre[59]; rinnegavate l'Italia e i vostri fratelli decretando si togliessero l'armi, e si rinviasse nell'interno qualunque estero s'introducesse nello stato, però che nessuno de' vostri dovea prender parte alle querele dei vicini; e queste parole uscivano da labbra italiane, si parlavano ad Italiani, e gli esteri erano Italiani, favellavano un linguaggio italiano, e la bandiera che l'Austriaco calpestava coi piedi era italiana!!!—Sperda il tempo quella parola, e verrà giorno in cui le nostre generazioni ricuseranno di crederla. Ma in oggi, a chi non prepone all'utile della patria una illusione di meschino amor proprio, giova farla suonare alto, sì che l'Italia arrossisca d'averla intesa e sofferta! Giova ripeterla a snudare la piaga che dannava a morte una rivoluzione nata sotto bellissimi auspicî; giova dirla, perchè lo straniero impari a conoscere come furono tradite da pochi capi le più care speranze d'un popolo condannato finora a starsi errante tra la infamia dei gabinetti e la codardia de' suoi condottieri! Furono visti i settecento Modenesi di Zucchi attraversare Bologna disarmati e dimessi, in sembianza di prigionieri. I cittadini piangevano a tanta viltà; il ministro della guerra era Armandi, e dava quest'ordine mentre gli Austriaci avevano già oltrepassato il confine Bolognese; rotto il non-intervento a Modena, a Reggio, a Parma, a Ferrara; e tutto quel giorno (20 marzo), non fu dato un ordine ai cittadini armati raccolti ai quartieri; e fu pubblicato solamente un manifesto, in cui s'esortavano i cittadini non a preparare le barricate, ma a starsene tranquilli nelle proprie case; e s'affermava la guardia nazionale essere istituita a mantenere non la indipendenza della nazione, ma il buon ordine, e non altro; e fu sussurrato ai padri, ai capi di famiglia o di negozio, ai giovani stessi di non abbandonar la città per raccogliersi in Ancona; e chi facea queste cose, prometteva sarebbe stato l'ultimo a partirsi, poi si partiva primo, la sera, e secretamente!—Nè gli estremi pericoli sono scusa a siffatto procedere, però che nessun pericolo scusa dalla viltà, nè d'altra parte quelle codardie furono generate dalle incertezze degli ultimi momenti d'una rivoluzione caduta, ma furono effetto d'un sistema; del sistema che noi combattiamo; del sistema che parve adottato a infiacchire e sperdere la potenza d'ogni elemento rivoluzionario.—Nove dì prima di quel giorno, invasa Ferrara dagli Austriaci, e sostituita al Comitato Governativo una reggenza a nome del Papa per opera di Flaminio Baratelli, infamissimo tra gli uomini, usciva un bando del Governo Provvisorio bolognese, che parrebbe dettato dall'Austria, se le firme non fossero, a difendere e giustificare quella infrazione al patto del non-intervento; a coonestare per via di sofismi e d'arguzie forensi quell'atto di guerra aperta; a frenare l'impeto dei cittadini, [243]che correvano all'armi, colle allegazioni del trattato di Vienna, colle esortazioni alla inerzia, colle promesse di pace[60]. E Ferrara aveva sette deputati a Bologna, e la unione e la libertà s'erano decretate solennemente!—Or credevano essi gli uomini del governo alle proprie parole o fingevano? Certo i posteri male potranno discernere se in quelli atti predominasse la viltà, o la ignoranza.—E nei primi giorni della insurrezione, quando urgeva dilatare l'incendio per ogni dove, e fomentare lo slancio, le prime voci che gli uomini influenti predicavano ai giovani armati erano voci di moderazione; e il primo giuramento che fu fatto prestare in pubblica piazza fu quello di: siate moderati; come se vi fosse moderazione possibile prima della vittoria; come se vi fosse altro giuramento in rivoluzione da quello in fuori d'essere, e farsi forti!

Con siffatti modi si voleva animare la gioventù! Con siffatti modi si pretendeva giovare alla rivoluzione italiana nascente!

Ed oggi v'è chi assume la difesa di quei ciechi decreti! V'è chi dimanda quasi schernendo perchè, se la gioventù fremeva avversa a siffatte cose, non si levò nello sdegno a ricacciar nella polvere i pochi che ne tradivano il voto!

Perchè?

Oh! io la so, io la so quella storia di sensazioni amarissime per le quali il giovine del secolo XIX trapassò sì veloce dall'entusiasmo alla indifferenza, dai conforti della speranza alle angoscie della delusione, dal grido di guerra al destino, alla fredda bestemmia del disperato!—Da prima uno slancio indefinibile, senza limiti, un delirio di gioja, un anelito alla lotta, una fiducia nella vittoria—e quando la prima voce di libertà si diffonde per le città, quando il primo stendardo patrio sventola sulle torri, un'adorazione a quella voce, a quello stendardo, un rinegamento, un oblìo totale di tutto ciò ch'è individuale, per impalmare le destre, e correre alle armi! Allora i primi che si mostrano rivestiti d'una missione sono venerati e seguiti colla stessa fede che meriterebbero dopo averla compiuta. La gioventù s'annoda, si stringe intorno ad essi, ad attendere il cenno, le norme per moversi. Poi, quando la lentezza, o la incapacità incominciano a mostrarsi nell'opere di quei duci, quando la espressione del voto pubblico esce travisata, indebolita, o velata, una incertezza di giudicio, una esitazione funesta, una speranza che gli arcani della profonda politica imperino quelle mosse timide, e inadequate all'intento. Poi, il sospetto, il freddo mortale sospetto insorge; la gioventù intende confusamente, che non v'è il potente alla testa; la gioventù freme ma tacitamente, però che il ribellarsi, il tumultuare, il cacciarsi innanzi da sè le frutterebbe taccia d'ambiziosa, d'irrequieta, d'incontentabile. La libertà s'affaccia ad essa così pura, così santa, che il grido della rivolta pare contaminarla. Intanto lo spirito pubblico si deprime; la diffidenza si stende; le voci di tradimento serpeggiano nelle moltitudini; i partiti si formano; e il nemico innoltra, profittando d'ogni cosa.—Poi, quando il momento della crisi è giunto, l'anatema ai capi s'innalza potente, ma è tardi; il precipizio è aperto, la rovina è inevitabile. Spento il coraggio, che dà la vittoria, rimarrebbe ai giovani il sagrifizio. Ma il sagrifizio per chi? Per nulla? Per quei che hanno minato, distrutto l'opera generosa? E senza speranza d'esito favorevole?—Allora un freddo s'apprende al core; allora un senso di stanchezza, di sconforto, di misantropia, s'insignorisce della facoltà; allora vien la bestemmia, la sterile, disperata bestemmia. Ecco anime perdute! Maledizione a chi le ha perdute! Maledizione a chi non seppe trarne cosa alcuna a pro della umanità![244]

Io lo chiedo ai giovani italiani. Quanti fra loro non hanno subìto la progressione di questi pensieri? Quanti fra loro non sentirono un palpito nell'anima, non balzarono di gioja generosa all'idea del pericolo? Chi è tra loro che non salutasse colla fede dell'avvenire il mattino, il fresco mattino, vegliato al sorgere sovra una rupe, colla bandiera al vento, la vedetta in distanza, un pensiero alla donna del suo core, e una palla pel primo soldato austriaco? Chi non ha inebbriato l'anima di questa poesia—poesia d'azione, di vita, di moto in tutte le facoltà, libera, piena, potente—poesia del secolo—poesia i cui primi raggi incoronano la zolla che ricopre l'ossa di Koerner, i secondi strisciarono sul fucile del Klefta e posano sul sepolcro di Botzaris, i terzi scherzeranno, io lo spero, intorno al berretto del giovine italiano sui gioghi dell'Apennino?—Ma come oprare, come tradurre in azione questa poesia dell'anima, dove tutto è paura, dove si combatte colla diplomazia non coll'armi, dove ogni pensiero virile è maledetto col nome d'audacia, dove mancano ordini, norme, esempli, materiali di guerra, incoraggiamenti; dove finalmente gl'individui che rappresentano quel voto d'una nazione che aspira a ringiovanirsi lo rinegano al primo apparire d'una bajonetta nemica?

VI.

Uomini delle rivoluzioni passate! Che volevate voi dunque quando assumeste l'ufficio di guidare le moltitudini, di dirigere l'insurrezione a un intento?—Noi torniamo a questa dimanda perchè è la sola che ponga la questione nel vero aspetto; la sola, che stabilisca un criterio per giudicare del passato utilmente per l'avvenire.—Se il voto nazionale, popolare, imponeva una condotta interamente diversa da quella che voi teneste; se non avete fatto cosa alcuna per verificare, per condurre ad effetto quel voto—che volevate voi dunque? Qual era l'intento che v'animava? il simbolo che dirigeva i vostri atti? la credenza politica che recavate sul seggio rivoluzionario?

Odo dire da taluni: le cose Italiane vanno trattate con maturità: nessuno è da più dei proprî destini, e i destini italiani non sono finora quei della Francia o degli altri popoli Europei che si costituiscono a nazione. Leggo scritto da un uomo che tenne nell'ultime vicende un ministero, anima della rivoluzione: la riunione d'Italia non sarà mai che una brillante utopia (e queste parole noi le registriamo quaddentro, perchè in esse sta il segreto delle passate sciagure, e perchè i giovani, che sentono come noi sentiamo, si rinfiammino a smentirle): dobbiamo adunque limitare i nostri sforzi al miglioramento delle nostre istituzioni... nei diversi stati che la compongono. Il solo voto, il cui compimento possa sperarsi in questo momento, è quello di vedere sparire la divisione assurda e meschina della parte centrale, e d'ottenere la riunione di queste frazioni in un solo stato valente a sostenersi da sè[61].—Così scrive in Parigi, coll'idioma francese, e davanti all'Europa il ministro della guerra delle provincie insorte nel 1831, perchè l'Europa esclami: con siffatti uomini poteva aver esito prospero la rivoluzione italiana?—E nè egli, nè quanti giudicano com'egli giudica, intendono l'Italia, e come tra noi il bisogno di unità sia oggimai più fortemente sentito che non quello di libertà, dacchè per[245] esser libera una gente ha necessità d'esistere come nazione. Ma a lui, e a quanti in criterio politico gli somigliano, la gioventù italiana insorta nel 1831 ha diritto di dire: «Perchè avete accettato l'ufficio a che noi vi ponemmo? Perchè con un pensiero diametralmente opposto a quello di cui noi chiedevamo lo sviluppo, avete pure assunto la nostra assisa, inframmettendovi alle cose nostre? Se non avevate energia o concetto rivoluzionario, dovevate almeno serbare intatta la buona fede. E quando noi vi fidammo l'incarico di condurre la impresa italiana, perchè non rivelaste il vostro sospetto? Perchè le parole che oggi scrivete a giustificarvi anche a spese dell'utile nazionale, non le avete proferite allora, che potevano fruttare utilmente alla patria? O avevate allora sagrificata la vostra opinione alla universale, avevate determinato di tentare le sorti italiane e vedere se mai quella ch'oggi dite utopia fosse una verità—e perchè opraste vilmente? Perchè rifiutaste i mezzi che vi s'offrivano? Perchè chiudeste la via di Roma a quei che il buon senso politico aveva spinto a quella volta? Perchè vietaste l'organizzazione delle milizie che il figlio del conte di San-Leu progettava, e ve ne vantate? Perchè diceste al barone di Stoelting, che non chiedevate se non pace ed amicizia all'Austria, e ve ne vantate? Perchè impediste alla gioventù di promovere una rivoluzione nella Toscana, e ve ne vantate?—O avete falsato il giuramento tacito che prendeste, assumendovi la direzione del moto; avete sostituito il concetto proprio al concetto della nazione; avete tradito il mandato che vi s'era imposto—e allora tacete; non aumentate i vostri torti, scrivendo; non vi paragonate a Kosciusko, e ricordatevi che Kosciusko fu trovato sul campo delle patrie battaglie trafitto dalle palle nemiche!»

Altri furono di buona fede. Amavano la patria, amavano l'unità italiana, senza la quale non v'è libertà, ma tremarono—e il tremare in rivoluzione è delitto. Come gli antichi, deificarono la paura; ma gli antichi rivolgevano la faccia del simulacro al nemico, essi gli ergevano un altare nel proprio core. Travolta la mente dalle vecchie norme, non intravvidero salute che nelle diplomazie—lo dissero almeno.—Senz'attentarsi di fare la più piccola prova delle forze italiane, disperarono d'esse, e disperano. Furono incerti, esitanti dai primi passi; non ebbero virtù d'animo forte e sprezzatore d'ogni pericolo per lanciarsi a corpo morto nella carriera del sacrificio, nè logica di spirito rivoluzionario per intendere come l'efficacia d'ogni diplomazia posi sulla forza e sull'armi. Pregarono e piansero: fu questa diplomazia? Gli Austriaci invadeano il Modenese—ed essi rinegavano i Modenesi. Gli Austriaci s'impossessavano di Ferrara—ed essi mandavano bandi a giustificare gli Austriaci. Gli Austriaci violavano il confine bolognese—ed essi fuggivano. Era questa diplomazia? Credevano essi che l'Austria si fermasse alle porte della loro città? Ideavano che una scintilla di libertà potesse sorgere e mantenersi in qualunque parte d'Italia, senza che l'Austria accorresse a spegnerla? Insurrezione e guerra coll'Austriaco sono una cosa per noi, perchè la libertà trapassa muri e ripari, e l'Austria, consapevole della potenza dell'esempio, non può nè deve appagarsi della promessa di non estendere la rivoluzione oltre certi confini. O fidavano nella Francia? Fidavano sul principio del non-intervento? Nelle parole di Lafayette?—Ma la Francia non poteva scender nel campo che a guerra incominciata, ed essi non volevano romperla, non raunavan forze e materiali per sostenerla un sol giorno—ma il non-intervento (parola infame in bocca degl'insorti, però che la idea del non-intervento valendo soltant[246]o tra paesi stranieri, riconosceva, applicata a noi, la legittimità dei governi, che ci dividono) violato già dalla Francia nelle cose del Belgio, non poteva allegarsi efficacemente davvero se non in quanto l'intervento austriaco s'opponesse alla volontà nazionale; ed essi comprimendo qualunque manifestazione di questa volontà si tentasse dai nostri, non movendo un passo per dichiararla coi fatti, ajutavano i sofisti dottrinari a rivocarla in dubbio—ma Lafayette aveva detto: italiani, meritate la libertà, e la francia vi assisterà; ed essi a meritarla, decretavano toghe, facevano editti sul bollo delle carte da gioco, mutavano professori d'università, col barbaro a venti passi. Era questa diplomazia?

Ma se un uomo fra quei che reggevano fosse sorto e avesse parlato agl'Italiani queste parole:

«Non fidate nello straniero; la libertà non è veramente ottenuta, se non la conquistano i cittadini col proprio sangue; nè lo straniero scenderà a versare il suo sangue sulle vostre campagne, se non quando paventerà in voi un nemico potente o vedrà in voi un potente ausiliario. La libertà isterilisce rapidamente quando è commessa a mani d'esteri. Se volete essere ajutati, mostratevi forti; cominciate per cancellare la macchia di viltà che v'appongono; invocate il rispetto de' dritti o la simpatia de' popoli coll'arme al braccio. La diplomazia s'appoggia sulla minaccia: non v'è diplomazia per chi fugge: ma uomini e Dei soccorrono al forte.—In rivoluzione, l'arrestarsi prima d'aver toccato lo scopo, è colpa gravissima. Proclamate l'intento sociale della rivoluzione; enunciatelo al popolo; chiamate le moltitudini all'opra. L'onnipotenza sta nelle moltitudini: convincetele che voi non oprate se non a migliorare il loro destino; scrivete sulla vostra bandiera: eguaglianza e libertà da un lato, dall'altro: Dio è con voi; fate della rivoluzione una religione; una idea generale che affratelli gli uomini nella coscienza d'un destino comune e il martirio: ecco i due elementi eterni d'ogni religione. Predicate la prima, slanciatevi sublimi verso il secondo; cacciate la gioventù alla testa delle moltitudini insorte: voi non sapete gli arcani di potenza nascosti in quei cori giovanili; non sapete la influenza magica che la voce dei giovani esercita sulle turbe: voi troverete nella gioventù una folla d'apostoli alla nuova religione. Ma la gioventù vive di moto, ingigantisce nell'entusiasmo e nella fede. Consecratela coll'altezza d'una missione; rinfiammatela colla emulazione e colla lode; diffondete ne' suoi ranghi la parola di foco; la parola dell'ispirazione; parlate ad essi di patria, di gloria, di potenza, di grandi memorie—poi rovesciate moltitudini e gioventù sull'Austriaco; bandite la crociata addosso al barbaro che divora l'oro italiano, che beve il sangue italiano, che profana le memorie italiane, che sfronda colla sua sciabola i cedri dei nostri terreni, che contamina l'aure del nostro cielo, che ci toglie vita, patria, nome, gloria, intelletto e sostanze—e assalite primi. Le rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo. Insurrezione e guerra sono sinonimi e poichè non potete sfuggirla, rompetela primi: rompetela in modo che non lasci via di pace o di tregua; snudate la spada e cacciate via la guaina; ma badate se non è guerra d'eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi che la natura somministra allo schiavo dal cannone al pugnale, cadrete e vilmente! Badate che dove il tamburo non s'accompagni del suono delle campane a stormo, dove il fatto campale non alterni colla barricata, cadrete! Badate che dove non calcoliate esattamente le[247] vostre forze, dove non adottiate un metodo di guerra speciale, dove presumiate troppo o troppo poco di voi, cadrete! volgetevi ai monti: là sono le speranze della libertà; là stanno le vostre difese insuperabili eterne, sol che vogliate; di là scendete, dilagatevi nelle varie contrade italiane; gittate in mezzo ai vostri fratelli un brano di bandiera Italiana, un grido di risurrezione: avrete un eco per ogni dove, perchè dapertutto è dolore, oppressione, anelito alla libertà santa.—Fate questo; poi, se il secolo vi contrasta il passo, se la prepotenza degli umani destini v'affoga, allora... allora libate a giove liberatore e morite. Avrete almeno morendo il conforto di non aver tradito voi stessi, d'aver lasciato una scuola che i posteri imiteranno, d'aver versato un sangue che frutterà un giorno o l'altro—ma inevitabilmente—il vendicatore.»

L'uomo che avesse parlato queste parole, sarebbe stato l'eletto del popolo; quell'uomo avrebbe mutato forse le sorti italiane.

Perchè chi può calcolare l'influenza d'un fatto generoso, d'una mossa rapida, d'un esempio virile davvero? Chi può calcolare le conseguenze d'una incursione nella Toscana? Chi può prevedere i risultati d'un assalto dato a Massa di Carrara, invocato—e il Governo Provvisorio modenese lo sa—da inviati della Liguria?—Forse il Piemonte sorgeva; forse gli Abruzzi tornavano alle prove antiche; forse, sedotto dalle nuove d'una resistenza ostinata ed eroica, il popolo francese trascinava i suoi governanti a partito più leale e più nobile. Ma dove nessuno ordinava la resistenza; dove il terrore sedeva nel consiglio, accanto ai ministri, sul seggio del Presidente; dove i governi rivoluzionarî capitolavano prima d'aver tratto un colpo solo di cannone; quali speranze potevano concepire le moltitudini e che slancio esigere nell'Italia? Quella capitolazione fu l'ultimo atto d'una carriera di codardie; pose il suggello alle colpe. Fu fatta quando la nuova del fatto di Rimini non era giunta ancora all'orecchio di chi segnava e tutte le forze—quali pur fossero—erano, nell'opinione del governo, intatte. Fu fatta, quando i poteri di chi segnava erano nulli, e la somma delle cose era rimessa nelle mani di tre uomini, atti a reggere l'impresa senza viltà. Fu fatta dietro un'esposizione incompleta e inesatta dei generali Armandi e Busi: e i componenti il governo tremavano della non accettazione e mandavano agli inviati «d'adoperarsi possibilmente affinchè fossero stipulate le convenzioni di salvezza che ognuno conosce: lasciando però al loro prudente arbitrio di adottare quelle deliberazioni che nella somma urgenza delle cose credessero all'uopo opportune[62]» cioè, a chi ben vede d'arrendersi a discrezione, ove le condizioni proposte fossero rifiutate. Importava agli uomini del governo d'arrendersi, non il come. E se a chi magnifica in oggi la sapienza e il patriottismo di quella Capitolazione si mostrassero le lettere scritte pochi dì dopo da taluno ai Cardinali, a implorare dalla sacra Porpora il perdono e l'oblìo delle colpe asterse (dal Benvenuti) non gli rimarrebbe che un fremito d'ira per la immensa paura de' pochi preposti. Colpe! Oh sì! ve ne hanno; ma non v'è amnistia, o bacio di Porpora che possa astergerle; nè l'Italia dimenticherà facilmente.

VII.

[248]

Leviamoci da cotesto fango. Parliamo all'Italia, parliamo alla gioventù che fremeva e freme e nella quale stanno riposte le più care speranze italiane. Confortiamo nei pensieri dell'avvenire, e nella coscienza d'aver parlato utilmente alla patria, l'anima stanca d'errare tra le rovine d'un passato doloroso, con un ufficio che non concede di scrivere una sillaba senza gemito. Ora il nostro ufficio è compiuto. Stendiamo una pagina di dimenticanza tra il passato e noi. Noi l'avremmo stesa assai prima, se non corresse debito incancellabile a ogni uomo che ama la patria anzi ogni altra cosa, di segnare i precipizî ove caddero i primi, perchè non vi rovinino i secondi; e di esercitare tutta la severità del giudicio sovra gli uomini che assumono la direzione della cosa pubblica, onde astringerli a dritto sentiero.

Giovani miei concittadini! Se in voi è proposito deliberato e tenace di risurrezione, la voce del giovine come voi, che si sente acceso delle stesse vostre passioni, che v'ama come la speranza del secolo, che intravvede un avvenire di gloria per voi, che veglia questo vostro avvenire, quest'aurora della vostra emancipazione, coll'affetto d'una madre all'infante, che sente balzarsi il core d'una gioja insolita ogni qual volta intende un bel fatto vostro, che non vive se non in un concetto vostro tutto, che darebbe la vita per accrescervi lode, che la darà quando sorgerà il gran momento—la sua parola nulla per sè, fiacca, debole e impotente ad esprimere le passioni generose che gli fremono dentro, dovrebbe pure infiammarvi ad oprare! Non vi avvilite, perchè i primi tentativi fallirono: nulla è perduto, se il coraggio non è perduto. Ponete una mano sul cuore: lo sentirete battere di potenza. Siate dunque potenti.—Vogliate, e farete. Rannodatevi a noi; riconcentratevi alla bandiera che noi inalziamo: essa è vostra questa bandiera; e se noi l'inalziamo primi, non è che un beneficio—il solo beneficio—che ci concede l'esilio. Rannodatevi a noi, finchè il caso ci dà di bandire l'espressione del concetto, che vi si agita nel petto: poi quando voi saluterete il momento che vi schiuderà la via delle azioni, allora sorgete e calpestatela: inalzatene una più bella e più vasta e calpestate la nostra—calpestatela, perchè avete un grado di progresso a salire; perchè noi non siamo tristi, ma voi avete ad essere migliori; perchè infine ne abbiam bisogno a smentire le accuse che forse ci movono, a provare che noi non aspiravamo a cosa alcuna individuale.—Ora i nostri ammaestramenti possono esservi utili: l'unità di principî e di direzione può esservi necessaria. Allora, l'unità sarà ben altrimenti potente: allora dovrete farla sorgere voi. Guarderete d'intorno a voi e nei nostri ranghi: gli eletti di Dio alla rigenerazione vi si riveleranno nell'attrito delle circostanze e dei casi. Dove scorgerete religione di pochi ma fecondi principî—esattezza di conseguenze logicamente dedotte e intrepidamente applicate—potenza di sagrificio illimitato—intelletto ed entusiasmo—e tanta solennità di manifestazione di opinioni da non poter retroc[249]edere senza infamia e rovina totale, là sceglierete. Là stanno i vostri capi: là nella scelta accurata, sta la salute dell'Italia e la vostra.



ARTICOLO SECONDO.

Qu'il n'ait qu'un seul amour, l'amour du peuple; qu'un source de poésie, la souffrance du peuple; qu'une ambition, la délivrance du peuple!

Que tout privilège excite sa haine comme un vice. Que la vue de toute misère et de toute dégradation le trouble comme un remords.

Que pendant son sommeil, ces seuls mots soient murmurés par ses lèvres: l'avenir du peuple! Et que pendant le jour ces mêmes mots ne puissent être prononcés devant lui sans que sa poitrine frissonne, et que des larmes brulantes étincellent à ses regards.

Edouard Charton.

Il popolo! il popolo

Antico grido italiano.

I.

Dalla meditazione severa sulle vicende dei quaranta anni trascorsi e sulle cagioni per le quali molti dei tentativi operati con animo generoso a pro della emancipazione de' popoli tornarono in nulla, emerge parmi, un fatto singolarissimo che giova anzi ogni altra cosa distruggere, perchè frappone un ostacolo grave ai disegni degli uomini liberi, ed è questo: che i più fra quanti combattono la tirannide politica, intellettuale e civile o non hanno o non manifestano un simbolo intero, una credenza coordinata. Distruggere, rovesciare il vecchio edifizio sociale; sperdere le reliquie del feudalismo; rompere i ceppi agli uomini d'una nazione—in questo concordano. Più oltre s'arrestano incerti, come se a quel termine avesse fine la loro missione. Procedono animosi com'Attila, nell'opera devastatrice: com'egli, davanti a Roma, s'arretrano paurosi davanti a ciò che dev'essere intento all'impresa, davanti alla parola che deve ridurre a formola le loro dottrine, a definizione i loro progetti. Non parlano di fondare, o se lo fanno, è linguaggio timido, misterioso, indeterminato per siffatto modo che varrebbe meglio tacersi. Scrivono libertà sulla loro bandiera. Libertà di che sorta? Come ordinata? Da quali principî dedotta?—I senatori Veneti facevano suonare alto quel nome; ma la loro libertà si stava confinata tra: a palace and a prison[63], tra i piombi e la bocca del leone.—I Genovesi l'aveano scritta sulle loro prigioni; e v'è tal contrada in Europa che ricorda in oggi la prigione dei Genovesi.—Bentinek l'affacciava agli Italiani del 1814 sullo stendardo Britannico, e gli Italiani sanno come il congresso di Vienna interpretasse quella parola. Non v'è usurpatore, tiranno o invasore straniero che non abbia cacciato innanzi a sè quel vocabolo a spianarsi la via del trono o della rapina.—È dunque necessario determinarne il senso e le applicazioni; e nol fanno. Paventano le[250] divisioni, come se un dì o l'altro, compita l'opera di distruzione, queste non dovessero insorgere, e più tremende perchè non calcolate. Paventano l'accusa di dittatura, come se tra l'esprimere un'opinione e imporla colla forza non corresse un divario infinito. Paventano d'errare come se l'errare fosse delitto, come se non rimanesse sempre aperta una via d'ammenda all'errore, morendo in un angolo della patria per la volontà nazionale manifestata.

Noi non paventiamo l'accusa di fautori di divisioni, però che il nostro franco discorso può, come sovente dicemmo, chiarirle, ma non crearle, e d'altra parte, se noi a proporre un simbolo del futuro, vogliamo attendere che tutti consentano, meglio è ristarsi; dacchè i buoni ad affratellarsi con noi hanno bisogno di conoscerci quali siamo, i tristi non consentiranno mai; nè d'essi curiamo.—Non paventiamo d'errare, perchè, o il popolo sarà con noi, e la verità sta col popolo, o i nostri principj verranno respinti dal voto dei più, e noi curveremo riverenti la testa davanti alla maestà del voto nazionale.—All'accusa d'ambizione noi sdegneremmo rispondere. E però noi diremo il nostro simbolo liberamente, come liberamente lo concepimmo. Cercare la verità con animo spassionato e tranquillo; bandirla con entusiasmo e fiducia; e morire per essa, quando il sagrificio frutti utilmente: questo è il debito del cittadino alla patria, e non altro. Questo faremo. Apriamo un campo e vi convochiamo i nostri fratelli. Spieghiamo primi la nostra bandiera, però ch'essa è pura, incontaminata. Ognuno sollevi lealmente e generosamente la sua.—L'Italia darà giudicio, e al giudicio italiano nessuno vorrà o potrà ribellarsi.

Nelle circostanze presenti, la missione dell'uomo è doppia: abbattere uno stendardo e inalzarne un altro; spegnere un errore e rivelare una verità; struggere ed edificare. Chi dimezza l'opera, non intende la chiamata del secolo. Noi siamo in sul finire d'un'epoca critica, e sul cominciare d'una organica; al tramonto d'un ordinamento sociale, all'alba d'un altro, e dobbiamo rifletterne i primi raggi. Stiamo fra il passato e l'avvenire e a voler promuovere lo sviluppo della civiltà, ci conviene dalle rovine del primo cacciare le prime linee del secondo. Ci corre debito inviolabile, sciogliendo i ceppi all'umanità e restituendola al moto, illuminarle la via, e farle almeno intravvedere un intento politico al viaggio. Ci corre debito inviolabile, emancipando una razza, condurla almeno, come Mosè, in faccia alle terre promesse—quand'anche come Mosè, noi dovessimo salutarla da lungi e morire.—

Quella smania di struggere senza fondare, quel grido di morte lanciato al presente senza una voce che annunzi la vita dell'avvenire, quella incostanza di dottrine e di norme, che bene spesso ha meritato ai tentativi dei liberi la taccia di preparatori dell'anarchia, è contrassegno profondo ancora del secolo—secolo di transizione, di lotta, di guerra fra gli elementi che costituiscono la società. Nelle lettere, nella filosofia, nell'altre discipline, lontane dalla politica, ma che pure sono raggi dello stesso foco, espressioni varie d'un solo pensiero, noi vediamo riprodursi la stessa tendenza, o meglio la stessa assenza di tendenza distinta, quindi di concentramento agli sforzi individualmente tentati.—Il romanticismo in letteratura, lo scetticismo in filosofia hanno eretta una bandiera nera, senza nome, senza motto, senza carattere determinato che possa farne bandiera di moltitudine. Il primo ha rotto le porte della religione che i trattatisti, i professori, le accademie, e i pedanti avevano imposta agli ingegni, e schiudendo uno spazio infinito all'intelletto inceppato da secoli, ha gridato: sei libero, va come vuoi e fin dove puoi;—ed oggi, che l'intelletto lanciato a corsa sfrenata, s'è perduto [251]nel misticismo o s'è cacciato nelle rovine de' bassi tempi, esclamano: l'intelletto ha bisogno di trattatisti, e accademie.—L'altro, sfrondando a un tempo superstizioni e credenze, confondendo le forme mutabili delle cose colla sostanza, struggendo—o tentandolo almeno—simbolo e idea, ha snudato i vizî delle credenze, e creduto abolirle; ha rovinato l'altare senza por mente al pensiero che fece di quell'altare un sacrario all'umanità: ha creato il vuoto intorno all'uomo, stimando costituirlo libero; poi, quando s'è avveduto che l'uomo brancolava in quel vuoto, e cercando un appoggio, e non trovandolo, ricadeva alle antiche credenze o a peggiori, lo scetticismo ha sorriso, crollando la testa ed esclamando: l'uomo è un ente debole; non v'è progresso, ma una vicenda eterna di generazioni progressive e di retrograde.

Il progresso esiste, esisteva esisterà, perchè è legge di Dio—nè tirannide civile o sacerdotale può romperla. La vicenda eterna è interpretazione meschina alla gran pagina della storia del mondo data da chi sostituisce nei suoi giudizî, la propria vita, la propria epoca, la propria nazione alla umanità: tronca il nodo, non lo discioglie. L'uomo individuo è debole: l'uomo collettivo è onnipotente sulla terra ch'ei calca, e l'Associazione moltiplica le sue forze a termine indefinito. Bensì la libertà è altra cosa che una protesta o una negazione contro ciò ch'esiste. La libertà è un ordinamento della facoltà umana all'intento voluto dalla natura; la libertà è una rivelazione di verità alle moltitudini; la libertà è il trionfo d'un principio passato dalle dottrine dei saggi all'approvazione, alla sanzione di tutti; nè senza un principio che vivifichi le forze motrici della società, senza una unità potente che le colleghi, le coordini e le concentri tutte a un sol fine, le rivoluzioni, ossia le conquiste d'un grado di sviluppo e di perfezionamento, riusciranno durevoli mai.—Ora, non è certamente nello scetticismo o nel materialismo del secolo XVIII, teorica fredda, negativa ed essenzialmente individuale, che noi rinverremo questa unità. Non si fonda, negando; e noi dal core, dagli studî storici, dalla osservazione dell'umana natura, dall'andamento delle società, abbiamo desunto, che siamo al limitare d'un'epoca, cioè al tempo in cui la crisi morale spinta agli ultimi termini annuncia una operazione radicale da compiersi nella società, la scoperta d'una nuova relazione fra gli esseri che la compongono, la rivelazione d'una legge organica:—che il carattere di differenza tra l'epoca della quale noi siamo le prime scolte, e l'epoca ora consunta, è che questa nuova dev'essere altamente sociale, laddove l'antica era individuale; l'opera dei grandi popoli laddove quella era dei grandi uomini, l'epoca d'ordinamento ai materiali e non altro:—che l'epoca dovendo somministrare un grado di sviluppo maggiore all'associazione civile, è necessaria l'esistenza e l'ammessione d'un principio, nella cui fede gli uomini possano riconoscersi, affratellarsi, associarsi:—che questo principio dovendo porsi a base della riforma sociale, dev'essere necessariamente ridotto ad assioma: e dimostrato una volta, sottrarsi all'incertezza e all'esame individuale che potrebbe, rivocandolo in dubbio ad ogni ora distruggere ogni stabilità di riforme:—che a rimanere inconcusso, è d'uopo rivesta aspetto di verità d'un ordine superiore, indistruttibile indipendente dai fatti, e immedesimato col sistema morale dell'universo:—che, da esso in fuori, tutto è mutabile e progressivo, perchè tutto è applicazione di questo principio; e il tempo svolgendo via via nuove relazioni tra gli esseri, amplia la sfera delle applicazioni:—e finalmente che questo principio, avendo a stabilire un vincolo d'associazione tra gli uomini, deve costituire per tutti un'eguaglianza di natura, di missione, d'intento. [252]Altri vedrà qual sia questo principio ridotto ad espressione astratta nelle regioni filosofiche. Noi per ora, rintracciamone l'applicazione politica.

II.

Il popolo—ecco il nostro principio; il principio sul quale deve poggiare tutto l'edificio politico; il popolo; grande unità che abbraccia ogni cosa, complesso di tutti i diritti di tutte le potenze, di tutte le volontà; arbitro, centro, legge viva del mondo.

Il popolo! il popolo!—E quando noi ci stringemmo alla sua bandiera, e dicemmo, fin dalle prime linee del nostro giornale: le rivoluzioni hanno da farsi dal popolo e pel popolo, non era affettazione di calcolo politico, o detto gittato a caso: era la nostra parola, tutta la nostra dottrina ridotta a formola, tutta la nostra scienza, tutta la nostra religione stretta in un solo principio: era l'affetto delle nostre anime, il segreto dei nostri pensieri e della nostra costanza, l'intento delle nostre veglie, il sogno delle nostre notti; perché noi siamo popolo, e la natura ci temprava a sentire tutte le gioje e i dolori del popolo. E quando noi guardiamo il popolo, com'è in oggi, passarci davanti nella divisa della miseria e dell'ilotismo politico, lacero, affamato, stentando a raccogliere dal sudore della sua fronte un pane che la opulenza gli getta innanzi insultandolo; o ravvolgersi immemore nei tumulti e nell'ebbrezza d'una gioja stupida, rissosa, feroce, e pensiamo: là su quei volti abbrutiti, sta pure la impronta di Dio, il segno d'una stessa missione—quando, alzandoci dalla realtà al concetto che vede il futuro, intravvediamo il popolo levarsi sublime, affratellato in una sola fede, in un solo patto d'eguaglianza e di amore, in un solo concetto di sviluppo progressivo, grande, forte, potente, bello di virtù patrie, non guasto dal lusso, non eccitato dalla miseria, solenne per la coscienza dei propri diritti e dei proprî doveri—il popolo della lega Lombarda, della Svizzera ai tempi di Tell, della federazione del 14 luglio, delle tre giornate—noi sentiamo battere il core d'un palpito che geme sul presente e superbisce sull'avvenire, e compiangiamo quegli uomini che avendo un popolo a ricreare, traviano dietro a un principe a una famiglia, a una classe sola. Quelli uomini ignorano il loro secolo, le rivoluzioni e il segreto che le perpetua. L'epoca degli individui s'è consumata con Napoleone. Dopo Napoleone e Lafayette non v'è regno di nomi possibile; forse Lafayette s'è inoltrato troppo nel secolo, per avere sul suo sepolcro la corona popolare com'ei l'ebbe vivendo. Oggi il culto s'è trasportato dagli uomini ai principî e i principî soli hanno potenza per sommovere le nazioni. Ai nomi il popolo è muto, nè una rivoluzione può sottrarsi al popolo senza fallire all'intento. Dove tutti gli elementi politici che stanno in una nazione non son calcolati e rappresentati in un mutamento, il tentativo morrà tra le mani di chi cerca compierlo; ed oggi l'elemento popolare è comparso; il popolo ha inalzato la sua bandiera.

La sua bandiera è inalzata.

Un tempo, il popolo non vivea d'una vita propria, ma dell'altrui. Era elemento di civiltà, quindi di rivoluzione, ma come stromento che aspettava chi l'adoperasse; materia nella quale il genio spirava l'anima sua. Spento il genio ricadea nell'inerzia. Le moltitudini conculcate fremevano talora d'un fremito, che annunziava il bisogno di un miglioramento; ma quel fremito si consumava nell'impotenza dei moti isolati e non governati dalla mente che crea la vittoria. Bensì, perchè la legge del progresso insisteva, sorgeva a tempo l'iniziator[253]e: sorgeva un nome, Gracco, Mario, Spartaco, o altri—e il popolo si stringeva a quel nome, si cacciava sull'orme di quel rivelatore d'un dolore, d'un bisogno sociale; ma non durava attivo oltre l'interprete del suo pensiero e il pugnale patrizio uccideva Gracco e le pretese del popolo a un tempo: nè da quei rivolgimenti usciva forse vantaggio da uno in fuori, che il popolo s'esercitava all'azione. Mancava al popolo la coscienza de' suoi diritti. Il paganesimo, religione che affogava l'idea nel simbolo, riducendo ogni cosa al fisico, materializzava in certo modo anche l'io umano, confinandolo nel sentimento unico della patria: il suolo creava diritti e doveri: diritti e doveri di cittadino, non d'uomo, spirito d'indipendenza e d'onore, non di libertà, e di perfezionamento morale. Perchè la religione di patria è santissima, ma dove il sentimento della dignità individuale e la coscienza di diritti inerenti alla natura d'uomo non la governino, dove il cittadino non si convinca ch'egli deve dar lustro alla patria, non ritrarlo da essa—è religione che può far la patria potente non felice; bella di gloria davanti allo straniero, non libera. E però il popolo romano non progrediva con Roma: era venerato da lungi, e servo del patriziato, o dei tiranni al di dentro, e più negli ultimi tempi che non nei primi—più dopo, poi che una parola di rivelatore ebbe mormorato agli uomini: siete fratelli! e una religione spirituale manifestò all'uomo una parte di sè diversa, indipendente, indomabile dalla materia e dalla forza. Distrutta in principio la ineguaglianza delle caste, abolita la servitù, il primo passo verso l'associazione fu dato, la prima coscienza de' suoi diritti svelata al popolo—e allora dopo un lungo soggiorno nel cielo, quasi a far riconoscere i suoi diritti da Dio, il pensiero del popolo scese in cerca d'uno sviluppo nella società e la lotta incominciò. Allora l'altare fu santo, perchè il popolo conculcato vi ricercava un rifugio e una forza; il papato fu santo perché s'appoggiava al popolo, proteggendolo dall'aristocrazia signorile; perchè somministrava al popolo una potenza morale contro la potenza materiale della conquista e del feudalismo; perchè costituiva il centro visibile d'una associazione universale e il popolo contemplava con gioja il servo cinto della tiara, calcare col piede la testa d'un imperatore. Poi, quando il papato, compita la sua missione e rinnegata la propria origine, fornicò coi tiranni, il popolo fu ghibellino, cercò gli antipapi, plaudì ai tentativi delle riforme. In tutta quell'epoca che si stende dalla parola di Cristo alla grande riforma nella quale ruppe l'antica unità, e alla rivoluzione francese nella quale creò la propria, il popolo visse d'una vita composta della sua e dell'altrui—ma visse. Troppo debole ancora per inoltrarsi da sè s'appoggiò ora ad una, ora ad un'altra forza speciale. Si strinse in Francia alla monarchia per distruggere l'elemento aristocratico ch'esso aveva già combattuto all'ombra delle abbazie e della stola sacerdotale. Si raccolse intorno ai baroni nell'Inghilterra, dove l'elemento signorile feudale preponderava, per restringere il principio monarchico. S'ordinò a comune in Italia; guerreggiò nelle Spagne sotto la bandiera degli Stati; si valse del commercio a costituirsi in associazione di città libere nella Germania. Sorse, giacque, risorse; ma sempre conquistandosi qualche frazione d'esistenza politica, sempre invadendo ad una ad una le molle sociali, sempre ampliando la propria sfera d'azione e minando la potenza di casta, sia lanciando una minaccia di distruzione colla jacquerie, e l'altre insurrezioni delle campagne, sia transigendo col potere a fortificarsi d'una carta, d'un diploma di borghese, d'un privilegio d'elezione nelle città. La storia dello sviluppo progressivo dell'elemento popolare attraverso diciotto secoli di[254] vicende e di guerre, manca tuttavia e chi la imprendesse farebbe salire d'un altro grado la umanità, riducendo alla espressione più semplice l'enigma europeo e rivelando il segreto della lotta che tenne fino ad oggi divise le generazioni, e le terrà finchè gli uomini della libertà s'ostineranno a traviare, per sistemi di transazione e per conciliazioni impossibili dalla vera linea politica. La guerra tra gl'individui e l'universale tra il sistema frazionario e l'unitario, tra il privilegio ed il popolo, ecco l'anima di tutte le rivoluzioni, la formola della storia di diciotto secoli. Dominio e servaggio, patriziato e plebeismo, aristocrazia e popolo, feudalismo e cattolicismo nei primi tempi della Chiesa, cattolicismo e protestantismo negli ultimi, dispotismo e liberalismo, torna tutt'uno. Sono aspetti diversi della grande contesa, espressioni variate dei due principî che si contendono ancora il dominio dell'universo: popolo e privilegio. Ma il privilegio è agli ultimi aneliti nell'Europa; il popolo ha seguito sempre il suo movimento ascendente, finchè trovato un simbolo nella Convenzione, si posò eretto davanti al suo Creatore, e riconoscendone solennemente l'esistenza, ne derivò come Mosè, la tavola de' suoi diritti e della sua legge e ridusse l'universo a due termini: Dio e il popolo.

Dio—e il popolo; ecco il programma dell'avvenire.

Dio—e il popolo; questo è pure il nostro, e lo sosterremo con quanto ardore un convincimento radicato può dare.

È tempo di scendere nelle viscere della questione sociale. È tempo di predicare agli uomini che tentano la libertà della patria, che i loro sforzi hanno non solamente ad essere rivolti all'utile del popolo—in questo tutti concordano,—ma che devono proclamarlo altamente e dirigersi francamente all'intento; che il tempo delle paure è passato; che il popolo è sorto, e che senz'esso non avranno vittoria. È tempo di dire e ripetere a tutti: in Lione, in Parigi, in Bristol, in Londra, il popolo ha parlato; di mezzo alle barricate, e tra gl'incendî il suo grido v'ha rivelato la sua potenza a fare e distruggere: non dimenticate quel grido. Se non avete anima per affratellarvi alle moltitudini, nè intelletto per indovinarne il segreto, nè scienza per adoprarle utilmente; se non vi sentite potenti ad eccitarle e a dirigerle, ritraetevi; quando le sorti saranno mature per una rivoluzione, sorgerà il popolo e la compierà. Ma se vi sentite ispirati alla santa missione; se volete iniziarlo a un grado di progresso; se sperate diminuire la somma de' guai che accompagnano una rivoluzione, e trarlo all'intento senza gravi perturbazioni, senza spogliazioni, senza inutili carnificine, non dimenticate quel grido; non condannate all'inerzia le moltitudini frementi; non v'illudete ad oprare per esse; non fidate a una classe sola la grand'opera d'una rigenerazione nazionale. Se convertite una rivoluzione in guerra di classi, rovinerete; o non durerete senza violenze inaudite, senza fama d'usurpatori, senza accuse di novella tirannide. Le moltitudini sole possono sottrarvi alle necessità del terrore, delle proscrizioni, dell'arbitrario. Le moltitudini sole possono santificare col loro intervento i vostri atti; perchè sospetti ed accuse sfumano davanti al loro solenne consenso. Ma badate a non chiamarle nell'arena, quando, esaurite le forze, non vi rimane speranza che in esse, perchè allora non avrete più via di dirigerle; badate che il vostro appello ad esse sia la chiamata del forte, non il gemito della paura: badate che il vostro grido percota il loro intelletto, come un richiamo, la loro memoria, come una promessa d'avvenire infallibile, come una parola d'alta fiducia in voi, in esse, e nella vittoria. Così vincerete.—In altro modo non avrete che la tristissima soddisfazione d'aver durato per alcun tempo una lotta,[255] senza efficacia d'intento—la maledizione di tutti coloro che sperando nei vostri sforzi vedranno ricadere le cose a eguali sorti, o peggiori—poi, gli onori del patibolo, la vergogna della disfatta, e una parola di diffidenza mormorata dai vostri, sul vostro sepolcro.

Noi italiani, più ch'altri, abbiamo bisogno d'avere le moltitudini con noi, perchè nessun popolo forse ha più ostacoli da superare—nè giova il dissimularli.—Abbiamo nemici al di dentro, pochi a dir vero, ma potenti di ordinamento, d'oro, e d'insidie. Abbiamo un esercito straniero, padrone di posizioni munite, di città primarie, di molte delle nostre fortezze, e superbo delle passate vittorie. Abbiamo le divisioni provinciali, che i molti secoli di sciagura comune hanno potuto logorare, ma non distruggere. Abbiamo, e questa è piaga mortale, la mancanza di fede in noi e nelle forze nostre, sicchè molti tra gl'italiani si stimano impotenti a fare e guardano oggi ancora allo straniero, come se dallo straniero potessero aver altro mai che nuove delusioni, nuovi ceppi, e nuovi tormenti. Abbiamo la inesperienza nell'arti di guerra, la innata diffidenza dei capi, e il perenne sospetto dei tradimenti, cresciuto in noi dagli eventi. E non pertanto a tutto questo porremo rimedio, se noi vorremo davvero. Non v'è ostacolo vero per ventisei milioni d'uomini che vogliano insorgere e combattere per la patria. I pochi nemici dell'interno, potenti all'astuzie, ma vili—e abbiamo fatti—al pericolo, o sfumeranno davanti al nostro primo grido di guerra, o li conterremo col terrore. Vinceremo lo straniero colla unità del moto, e con un genere di guerra insolita, forte di tutti i mezzi, diffusa su tutti i punti, varia, inesauribile, e tale che nè venti disfatte possono spegnerla, nè stagione od altro può imporle tregua, nè truppa disciplinata e avvezza alla battaglia campale può sostenerla gran tempo senza disordinarsi, senza sfiduciarsi, e perire. La scelta avveduta scemerà la diffidenza nei capi; e quanto ai tradimenti, è tradito chi vuole. Quando i capi sapranno d'avere la morte a fianco, e l'infamia alle spalle; quando la viltà sarà punita come la perfidia; e il libero linguaggio ch'or taluni riprovano, avrà tolto a' codardi e agl'infami la speranza di divorare il prezzo del tradimento nel silenzio comune, non tradiranno—o pochissimi. Ma per questo ci è forza avere le moltitudini; è forza, che il nostro vessillo sia vessillo di popolo; è forza presentarsi in campo colla maggiore potenza possibile; perchè abbiamo a compiere grandi cose, e soli tra i popoli, dalla Germania in fuori, abbiamo a conquistarci l'unità, l'indipendenza, la libertà. Ora, noi dobbiamo vincere, e rapidamente.—Prima legge d'ogni rivoluzione è quella di non creare la necessità d'una seconda rivoluzione.

III.

Ma per avere compagno all'opera le moltitudini, per suscitarle dalla inerzia che le occupa, quali vie s'affacciano al forte che tenti l'emancipazione della sua contrada?—Il popolo ha fatto il callo al suo giogo; il servaggio ha stampato profondo il suo solco sulla fronte del popolo, e la polvere di cinque secoli posa sulla sua bandiera. Dov'è la voce così potente che valga a rompere il sonno ai giacenti da secoli, e dire efficacemente: levatevi?—Dov'è il soffio che possa sperdere quella polvere, e restituire la vivezza degli antichi colori al vecchio stendardo del popolo?

Il popolo?—Ah! Se voi non lo aveste chiamato mille volte a risorgere, e mille deluso; se egli fosse vergine di passato; se una santa parola non gli fosse troppo sovente suonata parola di derisione; se la[256] libertà ch'egli vedeva scritta sulle vostre insegne, ch'egli udiva con ansia d'aspettazione suonare alto da' vostri seggi, nei vostri consessi, non fosse stata per lui come il frutto del lago Asfaltide, bei colori al di fuori, cenere dentro; se quando egli fidava salire d'un grado nella scala sociale, non avesse trovato una nuova aristocrazia al luogo della rovesciata, il privilegio dell'oro sottentrato a quello del sangue; se, quando egli sperava migliorare di condizione e togliersi di dosso i cenci della miseria, egli non avesse trovato i nomi soli mutati, non già le cose; s'egli non vi avesse udito teorici di pretesa, legislatori meschini, contendere d'una interpretazione di legge, d'una formalità politica, mentr'egli, il popolo, chiedeva pane e un diritto di rappresentanza; se finalmente egli avesse trovato in voi una scintilla dei grandi riformatori, la virtù del martirio per la fede che annunciavate, io vi direi: chiamatelo! Mormorate alle generazioni la parola di libertà, la parola dell'avvenire; e le generazioni verranno alla vostra chiamata; e voi vedrete il popolo levarsi, rompere il sonno e le abitudini della inerzia, scuotere i cinque secoli di servaggio come il lione la sua criniera, e innoltrarsi gigante: però che il popolo, come il Nettuno Omerico, ha potenza per correre in tre passi la carriera rivoluzionaria; e i popoli si rinnovano alla parola di libertà, come gl'individui all'amore. Io vi direi: nessun popolo, chiamato a sorgere pei suoi diritti, ha rifiutato: nessun popolo—tranne forse il Portoghese oggidì, e la chiamata è di re, nè ispira fiducia.—Ma in oggi, conviene pur dirlo, la esperienza di tante rivoluzioni che non hanno fruttato miglioramenti alle moltitudini, ha insegnato al popolo la diffidenza. E però, dove dieci anni addietro bastava chiamarlo, in oggi è necessario convincerlo; dove un nome, una idea bastavano a creargli speranze, in oggi è d'uopo esporgli apertamente l'utile materiale che deve indurlo all'azione. Questi frutti escivano dai sistemi praticati dalla fazione dottrinaria francese. Vegliamo almeno a sottrarre i tentativi futuri italiani alla influenza della fazione dottrinaria italiana.

Una opinione generata dal desiderio non calcolato di raccogliere tutti i voti, tutte le sentenze intorno a un sol punto, vorrebbe levare il grido di Giulio II, gridar guerra al barbaro!..... e tacer dell'altro.—Nessuno rifiuterà, dicono, di sorgere alla chiamata contro l'Austriaco. Gli uomini s'affratellano volentieri nell'odio. Non inalzate bandiera speciale. Lasciate al futuro le questioni intorno alla forma del reggimento che avremo a scegliere. Non usurpate i diritti del popolo. Il popolo, liberata la terra patria, deciderà.

Il consiglio move da gente ch'ama veramente l'Italia, e si slancerebbe forse tra' primi alla santa crociata. Però, noi lo esponemmo, e lo combatteremo, rispettandolo.

Dapprima,—e i nostri lettori oggimai lo sanno, ma giova ripeterlo,—la unione di tutti i pareri, di tutte le opinioni, di tutte le credenze in un solo intento, sta per noi, come utopia seducente, ma pericolosa. Se la impresa che noi tentiamo fosse impresa di distruzione e non altro, la concordia non riescirebbe difficile: ma l'epoca, la missione di fondazione si concentra così strettamente alla prima, che noi non possiamo disgiungerle. Le antiche rivoluzioni fallirono in questo, che ordite a raunare i voti, comunque discordi, in un solo concetto generale e non abbastanza determinato, riescono potenti alla prima operazione, inette a compiere la seconda. I cospiratori raccolsero in un voto di rovina ogni sorta d'uomini; non interrogarono che volessero, ma soltanto che non volessero; commisero il resto al tempo.—Insorsero, e facilmente, però che vincevano in numero; ma il dì dopo, quand'era più urgente lo stringersi, gl'insorti [257]apparivano divisi in più campi.—Le forze imponenti a principio, si smembravano in mille simboli, in mille sistemi d'ordinamento civile; perchè l'insurrezione avea, struggendo il nemico comune, restituito ad ognuno la indipendenza; e ogni uomo si sentiva forte a inalzare la bandiera, che gli studî, le passioni e il calcolo gli suggerivano. Però riescivano inefficaci a resistere, e cadevano: con quanta vergogna d'Italia noi possiamo sentirlo nel core, o leggerlo sulla fronte dello straniero! Ma noi v'abbiamo imparato a non calcolare di troppo la importanza delle unioni che aggregano elementi eterogenei per via di programmi insignificanti o d'un breve entusiasmo. V'abbiamo imparato che non v'è bacio Lamourette pei partiti che dividono una nazione; e che potenti, possono spegnersi, non confondersi; deboli, si confondono, ma facendosi, e mostrandosi forti,—e in politica, quel partito è più forte che rappresenta non la più alta cifra, ma la più alta e intera concordia di volontà. Però noi vogliamo non unire, ma unirci; non consumare gli sforzi e il tempo a conciliare cose di diversa natura, ma stringere a falange serrata gli uomini che professano le nostre credenze. A questi, diffusi e isolati fin qui, abbiamo detto e diciamo: giovani o canuti, forti di braccio o di senno, siate con noi; rannodatevi alla nostra bandiera. Agli altri: rimanetevi: voi non potete essere con noi; ma concentratevi, e non ci accusate d'usurpazione: perchè o i più risponderanno alla nostra chiamata, e il diritto sarà con noi: o rimarremo minorità, e noi non attireremo sulle teste dei nostri concittadini la maledizione delle risse civili.

Ma quando avremo cacciato in Italia il grido di: guerra al barbaro; quando l'altra faccia del nostro stendardo non presenterà una parola di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale alle moltitudini, le moltitudini saranno con noi?—Non posiamo le basi dell'avvenire sopra illusioni. Le nazioni in oggi non si levano per una bandiera di guerra. Le nazioni non sorgono che per un principio. Gemono oppresse, immiserite, conculcate dalla tirannide, e contro alla tirannide si leveranno: ma la tirannide è tremenda, cittadina o straniera. A noi, potenti d'odio e d'amore, educati dagli studî, dai monumenti e dalle pagine storiche all'orgoglio della sventura, può stringere l'anima di più vergogna, e commoverla del fremito italiano, il sapere che chi ci opprime parla una parola non nostra, e che la sciabola, suonante oggi sulle tombe dei nostri padri è sciabola di straniero—ma le moltitudini intendono il grido di libertà più che quello d'indipendenza. Poi, l'assisa Austriaca splende abborrita agli occhi dell'Italiano di Lombardia, perchè le messi, gli uomini, l'oro lombardo trapassano nei granai, negli eserciti, nelle casse dell'Austria: ma gl'Italiani del Piemonte, del Genovesato, di Napoli, della Toscana, non sentono direttamente questo giogo sul collo. Il bastone di Metternich governa i tirannetti italiani; ma è segreto di gabinetto, e le moltitudini non s'addentrano nei gabinetti. Il pensiero del popolo erra fremente sulle piazze delle città, per le vie, nei tugurî, lungo i solchi delle campagne; non varca,—o di rado—oltre alle frontiere. Il barbaro per l'uomo del popolo è l'esattore, che gl'impone un tributo sulla luce ch'egli saluta, sull'aura ch'egli respira; il barbaro è il doganiere che gl'inceppa il traffico; il barbaro è l'uomo che viola, insultando, la sua libertà individuale; il barbaro è la spia, che lo veglia nei luoghi dov'ei tende obliare l'alta miseria che lo circonda! Là, nelle mille angherie, nelle vessazioni infinite, nell'insulto perenne d'un insolente potere, d'una esosa aristocrazia, stanno i guai delle moltitudini: di là avete a trarre quel grido che può farle sorgere. Gridate all'orecchio del popolo: la tassa prediale v'assorbe la sesta parte o l[258]a quinta dell'entrata—le gabelle imposte alle polveri, ai tabacchi, allo zucchero, ed altri generi coloniali, agguagliano la metà del valore—il prezzo del sale, genere di prima necessità, v'è rincarito di tanto che nè potete distribuirne al bestiame, nè talora potete usarne pur voi medesimi—la necessità d'adoprare pei menomi atti, per le menome contrattazioni, la carta soggetta al bollo v'è sorgente continua di spesa—i vostri figli sono strappati alle madri, e cacciati nei ranghi di soldati, che v'appunteranno al petto le bajonette, sol che il vostro gemito si faccia potente per salire al trono del tiranno che vi sta sopra; nè v'è speranza per essi di promoversi nelle patrie battaglie a condizione onorevole. Dite al popolo, per te non v'è dritto,—non rappresentanza,—non ufficio—non magistrato speciale—non amore,—non simpatia: v'è pianto, e miseria: v'è oppressione civile, politica, sacerdotale: v'è tirannide del principe, scherno dei subalterni, insulto di soldatesca, prepotenza di privilegio, d'opulenza—perpetuità di servaggio, palco e scure se t'attenti di romperlo senza vincere!—Poi mormorategli le grandi memorie de' Vespri, di Masaniello, di Legnano, del 1746: narrategli le battaglie di Parigi, di Bruxelles, di Varsavia: narrategli le barricate, le picche, le falci.—Ditegli: sta in te l'imitare quelli atti; sorgi gigante nella tua potenza: Dio è con te: Dio sta cogli oppressi! Quando vedrete passare sopra quei volti un pensiero di vita, quando udrete levarsi, come un vento sul mare, il fremito popolare—allora—ma allora soltanto, slanciatevi alla sua testa, stendete la mano alla terra Lombarda: là stanno gli uomini, che perpetuano il vostro servaggio: stendetela all'Alpi: là stanno i vostri confini:—e mandate il grido di fuori il Barbaro: guerra all'Austriaco!—Il popolo vi seguirà.

IV.

E v'è una parola che il popolo intende dovunque, e più in Italia che altrove, una parola che suona alle moltitudini una definizione dei loro diritti, una scienza politica intera in compendio, un programma di libere istituzioni. Il popolo ha fede in essa, perchè egli in quella parola intravvede un pegno di miglioramento e d'influenza—perchè il suono stesso della parola parla di lui, perchè egli rammenta confusamente che s'ebbe mai potenza e prosperità, le dovette a quella parola scritta sulla bandiera che lo guidava. I secoli hanno potuto rapirgli la coscienza delle sue forze, il sentimento de' suoi dritti, tutto; non l'affetto a quella parola, unica forse che possa trarlo dal fango d'inerzia ov'ei giace per sollevarlo a prodigi d'azione.

Quella parola è—repubblica.—

Repubblica—ossia cosa pubblica: governo della nazione tenuto dalla nazione stessa: governo sociale: governo retto dalle leggi, che siano veramente la espressione della volontà generale.

Repubblica—ossia quel governo, in cui la sovranità della nazione è principio riconosciuto, predominante ogni atto, centro e sorgente di tutti i poteri, unità dello stato—in cui tutti gli interessi son rappresentati secondo la loro potenza numerica—in cui il privilegio è rinnegato dalla legge e l'unica norma delle pene e de' premî sta nelle azioni—in cui non esiste una classe, un individuo che manchi del necessario—in cui le tasse, i tributi, i gravami, gl'inceppamenti alle arti, all'industria, al commercio son ridotti al minimo termine possibile; perchè le spese, le esigenze e il numero dei governanti e dell'amministrazione sono ridotti al maggior grado possibile d'economia—in cui la tendenza delle istituzioni è volta principalmente[259] al meglio della classe più numerosa e più povera—in cui il principio d'associazione è più sviluppato—in cui una nuova via indefinita è schiusa al progresso colla diffusione generale dell'insegnamento e colla distruzione d'ogni elemento stazionario, d'ogni genere di immobilità—in cui finalmente, la società intera, forte, tranquilla, felice, pacifica e solennemente concorde, sta sulla terra come in un tempio eretto alla virtù, alla libertà, alla civiltà progressiva, alle leggi che governano il mondo morale, sulla cui faccia possa scolpirsi a Dio, il popolo!

V.

Questo nome di repubblica, che noi pronunciamo con tanta franchezza, è terrore a molti, i quali non s'attenterebbero di proferirlo, se prima non avessero esaurito tutte l'arti di perifrasi e circonlocuzioni, che il linguaggio somministra a chi scrive. Perchè? Nol sappiamo. Si stanno tremanti del nome, non della cosa. Se a ognuno d'essi s'affacciassero, senza tradurle in un solo vocabolo, le condizioni di reggimento, che noi abbiamo pur ora accennate, pochissimi rifiuterebbero consentire: ma s'arretrano paurosi davanti alle imagini d'un terrore, che accompagnò negli anni addietro non la repubblica, ma un tentativo di repubblica, una guerra repubblicana—davanti ai simboli d'un tempo che non è più, che per noi non fu mai, nè sarà—davanti a rimedî di leggi agrarie, di proscrizioni, di rapine di proprietà famigliari, d'usurpazioni subìte e di violenze, che se nell'anarchia delle prime crisi, alcuni affacciarono al popolo, son oggi provate inefficaci, crudeli ed ingiuste. E a noi, se il pregiudizio che s'adopera ad annettere a quella parola un significato non suo, sembrasse non che impossibile a togliersi, radicato almeno negli animi e diffuso ai più, non s'affaccerebbe un solo momento l'idea d'insistere su quella parola, di far battaglia per nomi: e sagrificheremmo alla concordia dei nostri quel grido, benchè l'anima ci sorrida dentro all'udirlo soltanto, benchè quello fosse il grido dei nostri padri, benchè quella bandiera ci splenda innanzi come la bandiera dei secoli avvenire, incoronata d'una grandezza antica che non morrà, e bella d'un pensiero d'emancipazione per tutti, d'amore e di fratellanza, che ci è vita, anima, conforto, religione. Ma quelle false interpretazioni non pajono potenti e diffuse, se non perchè la paura le esagera e la insidia de' nostri oppressori le ingigantisce. Guardando alla Francia, un gran fatto ci balza innanzi, un popolo levato in armi che, rovinata la tirannide d'un solo, non s'induce ad accettare un nuovo signore se non veggendo l'uomo stimato simbolo di repubblica, affratellarsi col nuovo dominatore, se non ascoltando una promessa solenne, che il trono sarebbe stato circondato d'istituzioni repubblicane. Or crederemo quella fosse concessione fatta dal popolo ai pochi trafficatori della sua vittoria, o non piuttosto dagli uomini della dottrina a un popolo fremente repubblica nel suo segreto e non bisognoso d'altro che d'una opposizione imprudente e d'un Mirabeau repubblicano per correre a quella forma di reggimento? E in Francia son pur vive le immagini del terrore, vivi i figli dei proscritti del 93, vive le memorie atroci di Lione, d'Arras, di Nantes—e tutte quelle ferocie tornate in nulla, suggeriscono la diffidenza nell'efficacia del simbolo, nel cui nome si commettevano—e da oltre a trent'anni, i nemici delle pubbliche libertà e la genìa de' giornalisti venduti e i rinnegati—che pur son tanti—per cupidigia d'imperio, s'adoprano a ingigantire quei fatti al popolo, a convincerlo che carneficine, usurpazioni e repubblica sono una cosa; a falsare la[260] verità della storia, che insegna a discernere gli eccessi dei subalterni dai rimedî dolorosi, ma necessarî, adottati dalla Convenzione a salvaguardare la indipendenza del territorio, e liberarsi dalle interne congiure, dalle insidie coperte, che preti e nobili ordivano coll'oro inglese, dagli assalti dell'emigrazione insistente sulle frontiere, e dagli eserciti stranieri impossessati di piazze forti, e inoltrati sul suolo di Francia.—Ma in Italia, dov'è il terrore che abbia accompagnato i pochi anni di moto repubblicano? Dove sono le stragi o le devastazioni che abbiano contaminato le idee di reggimento popolare? Le poche grida che potevano racchiudere la minaccia, isolate e non seguite da effetto, stanno raccolte e poste in tutta luce, ampliate a fantasmi nelle pagine di taluni, che hanno prostituito la loro potenza a calunniare le moltitudini, a fraudare i più santi concetti, a piangere sulle rovine d'un'aristocrazia, che fondava il suo potere sulle delazioni, sulla corruttela e sui piombi, e che giunta l'ora della prova non seppe nè cedere da saggia, nè morire da forte. Il popolo non sa quelle pagine: il popolo sa che la sua condizione migliorava progressivamente colle istituzioni repubblicane: che il suo nome non era allora nome di scherno; che la sua bandiera era potente e temuta. Il popolo sa che, l'Italia non conosce proscrizioni se non regali, le antiche di Napoli, le moderne di Piemonte e di Lombardia, le novissime dell'Italia centrale, ordinate dal Canosa e dal Duca, e le atrocissime di Cesena e Forlì, commesse nel nome del Papa, dagli sgherri del Papa, colla benedizione del Papa.—Noi intanto abbiamo bisogno del popolo—e il tempo stringe, più forse ch'altri non crede—e al popolo non basta un grido di distruzione, o una parola indeterminata, però che i popoli non si fanno nomadi in politica, non mutano governo, come gli Arabi del deserto mutan di tende. Or, chiamandolo all'armi, perchè, se abbiamo un grido che gli è famigliare, un grido che gl'ispira fiducia che lo commove a un'idea di potenza, che gli dimostra direttamente l'intento del moto, perchè rinnegheremo quel grido santo che Genova, Firenze, le città Toscane, le città Lombarde conoscono, che consacra Roma, malgrado le infamie de' Papi, che Bologna, e le città della Romagna hanno nell'ultima insurrezione inalzato?

Il popolo, il popolo!—E quando noi cacceremo quel grido—quando agitandogli sugli occhi il suo vecchio stendardo repubblicano, noi ci slanceremo alla sua testa, e incontreremo le prime palle austriache, credete voi che il popolo non affronterà le seconde? Quando spiegheremo dinanzi a lui, come un programma dell'avvenire, la dichiarazione dei suoi diritti, la tavola dei vantaggi che le libere istituzioni gli frutteranno: quando gli diremo i primi, i più urgenti miglioramenti, e per sicurezza degli altri porremo le nostre teste, dicendogli: «tu devi esser libero, non tiranno: là è l'austriaco, l'unico ostacolo allo sviluppo ordinato e progressivo delle tue facoltà: per te e pe' tuoi figli libera il suolo de' padri tuoi; nel nome di Dio e della patria, sorgi e sii grande, terribile nella battaglia, moderato dopo la vittoria:» credete voi che il popolo contaminerà col delitto la sua solenne risurrezione, che il sangue fraterno consacrerà all'infamia i primi suoi passi, ch'egli vorrà far retrocedere, divorandola in germe, la rivoluzione?—Date al popolo il moto, e abbandonatelo a sè; le suggestioni de' suoi nemici, le abitudini del servaggio, gli eccitamenti della lunga miseria lo trarranno in braccio alla prima fazione che vorrà impadronirsene. Ma siate voi quella: non vi ritraete, non lo sfiduciate colla freddezza, non rifiutate guidarla per codarde paure, o vanità di virtù inoperose: mescolatevi con esso, assumetevi una influenza, una potenza di direzione, che, senza questo, cadrà in mani[261] perverse: morite con esso, e il popolo vi seguirà come voi vorrete. Ricordate Parigi, ricordate Lione, ricordate le moltitudini di Londra poi che il ministero Gray cesse il governo dello stato a Wellington. Quale eccesso contaminò la sua causa?—Ah! la gemma della sua corona splende d'una luce più pura che non la vostra, uomini che chiamaste a insorgere il popolo, per chiamarlo barbaro tre giorni dopo!

Ma a tutti gli uomini, i quali sospettassero, nel simbolo che noi predichiamo, prave intenzioni: a tutti gli uomini che ci attribuissero passioni di sangue o anelito di guerre civili, noi qui diciamo solennemente, ed ogni sillaba che noi scriviamo giovi a condannarci nell'avvenire, se i fatti non converranno colle parole: «noi non siamo feroci: uscimmo da una madre, ed amiamo. Ma non siamo deboli: vogliamo la libertà della patria; morremo, se farà d'uopo, per essa e guai ai traditori, e ai fautori aperti della tirannide! Chi porrà la sua vita nella bilancia, chi commetterà l'anima a Dio per la patria, avrà diritto di proferire queste parole; avrà diritto che il suo sagrificio non rimanga sterile, inefficace; avrà diritto che dal suo sangue germogli un fiore di libertà, che il sorriso schernitore de' tristi non passi sulle sue ossa, che la speranza d'una bandiera italiana piantata sulla sua zolla scenda sotterra con lui. I vili e gl'inerti vadano colla maledizione della loro viltà, non si commettano ai pericoli, che non sanno reggere: vivono di paura, e nella paura.—Noi non siamo feroci; ma dovremo sempre temere d'essere feriti da tergo? Dovremo sempre, per difetto d'energia e d'antiveggenza, dar lo spettacolo al mondo della nostra caduta? Ah! v'è un peso di delitti e d'infamie su questo suolo d'Italia, accumulato dalla tirannide e dalla viltà; v'è un tal suono di pianto dietro noi, un tal grido di vittime sotterrate per noi, che s'anche un pensiero di vendetta di sangue ci strisciasse sull'anima, amara per la perdita d'ogni cosa diletta, e per vedere il fiore de' giorni giovenili consunto nel tormento d'un'unica idea, o solcasse la fronte d'uomini, sulla cui testa canuta pesano undici anni d'esilio di patimenti non meritati, nessuno avrebbe diritto di rimproverarlo come delitto! Ma noi non siamo nè crudeli, nè tristi. Non cacceremo le nostre sciagure sulla bilancia: non sommoveremo alle proscrizioni le moltitudini: non abuseremo del diritto di reazione: sommetteremo i tradimenti ed i traditori alla giustizia della nazione, e ci getteremo tra il popolo e le vittime de' suoi sospetti. Non avremo forse per noi, per tutto il passato, per compenso alle persecuzioni e all'esilio, l'abbraccio delle nostre madri, la gioja sublime di contemplare sulle nostre torri la bandiera italiana, il momento, il momento divino di stringerci alla donna del nostro core, e dirle: ora tu sei libera, e d'un libero?—Abborriamo dal sangue fraterno; non vogliamo il terrore eretto a sistema: non vogliamo sovversioni di diritti legittimamente acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà. Vogliamo un nome, una esistenza riconosciuta, una via schiusa al progresso, una rappresentanza, e un miglioramento di condizione per un povero popolo, che geme da secoli nella miseria. Non cacceremo il guanto della guerra civile, noi primi: la sosterremo e la spegneremo virilmente, se una minorità, una frazione di venduti al potere o di fabbri di superstizioni, s'attenteranno di suscitarla colle insidie o colle congiure, perchè noi non vogliamo farci persecutori; ma nè essere delusi, trafficati, scherniti. Questo è il nostro simbolo—ed è strano dover dichiararlo, quando gri[262]diamo: repubblica. Gli uomini, che meditano sulla politica, sanno che il terrore non è elemento inerente a governo alcuno; bensì rare volte necessità per ogni governo che vuol durare: per l'iniquo Miguele, per Francesco IV, come per la Convenzione di Francia. Sanno, che le cagioni del 93 nella Francia erano, più che nella volontà di pochi individui, negli infiniti elementi di discordia interna, nelle insurrezioni della Vandea e dei dipartimenti, nelle trame segrete degli alleati, nelle ostilità aperte del patriziato o del sacerdozio: e che queste ragioni non saranno, dalle trame straniere in fuori, nè potenti, nè attive in Italia. Sanno che il reggimento repubblicano è il solo inteso dal popolo, che le moltitudini furono e saranno incerte davanti ai termini di bilancia politica, equilibrio dei tre poteri, lotta ordinata d'elementi legali, reggimento misto parlamentare, ecc., che la forma monarchico-costituzionale è forma transitoria, consunta—e che la repubblica sola può esistere in Italia, e conciliarsi colla unità.»

VI.

Perchè—parliamo a quei che non intendono diritti, ma fatti soltanto—a chi fidare, nella ipotesi monarchico-costituzionale, la somma dei destini italiani, lo scettro unico, il volume unico delle costituzioni italiane, però che italiane vogliono essere? Chi riunirà i voti di ventisei milioni d'uomini, divisi per secoli, per gare, per ambizioni, per corruttela di favella, per usi, per leggi, per re? Chi spegnerà il vecchio lievito di spirito provinciale, che un mezzo secolo di predicazione ha sopito e logorato, ma non tanto che non appaja talora, e che, risuscitato, non potesse farsi tremendo?—Un re tra gli attuali? Vergogna e scherno! Qual è fra i tirannetti italiani, che non abbia col sangue dei sudditi segnato il patto coll'Austria? Qual è quei, che il passato non separi violentemente e inesorabilmente dal suo popolo e dall'avvenire?—Un solo forse poteva assumer l'impresa. Era macchiato d'uno spergiuro; ma l'Italia s'offriva a dimenticarlo. Fu un punto solo. Nol volle; e fu meglio per noi! Ma chi è oggi fra i nostri principi che presuma stender la mano a quella corona, ch'egli non seppe raccogliere? Oh! la mano gli arderebbe, però che su quella mano, qualunque essa siasi, sta rappreso sangue d'Italia e di liberi! Chi è che dimostri, non dirò amore di patria o di libertà, ma ambizione deliberata nelle vie da scegliersi, ambizione d'uomo che sa—se tra lui e la cosa voluta sta la morte—affrontarla senza esitare? Ambizioni inette, meschine; uomini deboli per paura, e stolidamente feroci. Poi, la questione si riduce a due soli dei nostri principi, perchè, dove non sono eserciti, chi vorrebbe formare un pensiero di conquista italiana? Tra quei due, la questione è rapidamente decisa, o meglio, non v'è questione possibile. Nessuno dei due, al punto in cui siamo, riescirebbe a mettersi in capo la corona dell'altro, senza guerra lunga e decisa: nessuno dei due ha diritto d'affetti, di simpatia, di virtù, d'ingegno o di fama per contendere all'uno i sudditi dell'altro. Tra lo spergiuro del 1821, e l'assassino di De Marchi, chi vincerà la questione?—I due eserciti saranno fratelli, non cederanno all'armi reciproche mai. Accendete la guerra: ecco risse civili, e stragi, e per anni: odj, offese d'onore, invidie potenti rinate per secoli: e il pensiero di libertà e di patria sfumato nell'infame contesa. O sceglierete un re nuovo, e non di dinastia regnante in Italia?—Cittadino o straniero?—Di razza regale, o plebeo?—Sceglietelo cittadino. Dopo la difficoltà della scelta sottentra più forte l'altra della [263]conquista, della occupazione di tutta Italia: avete guerra civile; e chi dovrebbe sostenerla, incomincerebbe privo anche dell'ajuto che il primo aspetto della questione somministrava: uno stato, e un esercito suo. Ma—giova ripeterlo mille volte—il napoletano non accorrà mai un re piemontese; e reciprocamente. L'ire di provincia e di municipio non piegheranno mai che davanti a un principio: riarderanno tremende ogni qual volta si moverà parola d'un uomo. Il principio è comune a tutti: il suo trionfo è trionfo di tutti, il consesso che lo rappresenta è consesso di tutti, nè può suscitar gelosie: ma l'uomo nasce d'una terra, rivendicato dalla vanità d'una terra, abborrito dall'orgoglio dell'altra. O saluterete l'eletto della vittoria? Inalzerete sullo scudo il soldato fortunato?—Fatelo: avrete così una rivoluzione sociale sfumata in un uomo: avrete un Bonaparte che vi prometterà libertà, poi avrà bisogno d'una Sant'Elena per riconoscerla valida e prepotente: avrete un'aristocrazia militare, una gloria forse a prezzo della prosperità e dei vostri diritti: una tirannide di pretoriani. Poi, i grandi geni militari non si manifestano onnipotenti a conciliare i partiti più discordi, in un'ora, s'allevano fra le battaglie: vincono nelle campagne gli sproni di cavaliere. Dall'assedio di Tolone all'impero trascorsero parecchi anni, due campagne in Italia, ed una in Egitto. E intanto? Vi rimarrete, attendendo il genio, e le circostanze che lo fecondino? A non cacciare nella nazione un principio che distrugga le vostre future speranze, soggiornerete sempre nel provvisorio?—Sceglietevi un principe straniero. Dalla Svezia alla Francia, dal Brasile all'Africa, i coronati che invocano uno stato sono tanti!—Oh! è essa sì bassa cosa questa corona d'Italia, che abbiate ad offrirla all'incanto ai raminghi stranieri, colla certezza di trarvi in patria gli eserciti e le battaglie, e, peggio, i protocolli dello straniero—dacchè la Italia non è stato tale, che un germe di casa regale possa esserne scelto a dominatore, senza concitare l'invidia e le paure e le gelosie delle corti d'Europa?—Ora, qual è il modo di conciliare codesti elementi? Di spegnere la tirannide, di non vendersi a un tiranno soldato, di non ricommovere gli animi alle stragi civili, di non crearvi nemici potenti in tutti i gabinetti stranieri? Io vi chiedo: datemi un re ma un re italiano, potente d'intelletto e di core, grande nell'arti della vittoria e della giustizia civile, che non mi ponga a [264]fronte del mio fratello—avanza una federazione di re, e dei re viventi in Italia! avanza il Papa!!—avanza l'Austriaco!!!—[64].

VII.

Oggimai, a chi guarda all'Europa, i governi monarchico-costituzionali appajono forma spenta, senza vita, senza elementi di vita, senz'armonia coll'andamento della civiltà. Costituivano una forma di transizione tra il servaggio assoluto e la libertà, un genere di reggimento che somministrava, a tutti quanti gli elementi che s'agitano nelle società, un campo per esperimentare le loro forze, esercitarsi a fare, svilupparsi in una guerra ordinata, sotto tutti gli aspetti possibili, finchè s'intravedesse a qual d'essi spetta il dominio sugli altri. I governi misti valgono nella scala del progresso come una educazione politica, una prova all'intelletto d'un popolo, perch'ei salga maturamente e non di balzo all'ordinamento sociale, una transazione dell'elemento popolare debole ancora cogli elementi che lo circondano, ma provvisoria, a tempo, e non omogenea. L'Inghilterra pose in favore la teorica costituzionale; e ad essa ragioni di fatto e positive prescrissero quella forma di reggimento. L'aristocrazia signorile, risultato della conquista normanna, proprietaria delle terre, ed accetta alla nazione per la magna Carta strappata a Giovanni, era elemento predominante. Gran parte della lotta rivoluzionaria si consumava tra essa, e il potere del re; e poich'ebbe ottenuta vittoria, il patriziato rimase dominatore. Ma poichè due elementi non possono in un governo trovarsi a fronte soli senza che l'urto duri perenne, il re si rimase potere fra i due elementi aristocratico e popolare, termine intermedio, vincolo d'accordo se l'uno cozzasse coll'altro.—Seguì la Francia; ma gli uomini nel secolo XVIII quando posero mano alla grand'opera della rigenerazione sociale, si diedero, noi lo dicemmo, a distruggere quanto pareva avverso all'intento. Era la loro missione, ed era così gigantesca, il terreno era così ingombro di pregiudizî, di superstizioni, di codici barbari, e d'altro, che una generazione bastava appena a purgarlo. Ridussero il loro simbolo alla negazione, e trasandarono la parte organica positiva. E non pertanto urgeva affacciare qualche forma che potesse sostituirsi alle vecchie: urgeva, più ch'altro, vincere il presente; e poichè i popoli procedono più facilmente per termini di comparazione ed opposizione, fu forza trascegliere. I filosofi, non avendo il tempo di creare un sistema governativo, ne andarono in traccia nella vecchia Europa, e stimarono averlo trovato nell'Inghilterra. L'Inghilterra, nella quale l'elemento popolare non s'era peranco sviluppato, presentava un'apparenza di riposo, di tranquillità, d'equilibrio che innamorò la scuola filosofica. Il suo governo fu scelto a modello, in opposizione alla Francia di Luigi XIV e XV. Montesquieu, così mal giudicato finora, Montesquieu che i molti s'ostinano a intendere legislatore, mentr'egli non fu che narratore filosofo di ciò ch'ei vedeva, e degli elementi che gli era dato scoprire nell'antichità e nei tempi moderni, incominciò ad accreditar quella forma. Pure, egli tradiva tutto il segreto dell'esistenza di quel governo, quando deduceva che monarchia non poteva concepirsi senza le classi privilegiate. Voltaire, genio d'azione, di distruzione, creato per la guerra, non per l'ordinamento che segue la vittoria, estremamente superficiale nel contemplare le cose, ma facile ad appassionarsi, e ingegnoso abbastanza per puntellare ogni suo paradosso, si diede non a studiare quella forma, ma a predicarla pe[265]r ispirito di contrasto, parendogli singolare di combattere il sistema francese con armi d'un vecchio nemico; e ingigantì la perfezione di quell'edificio sociale, come a combattere la religione di Cristo, afferrò Confucio, e intese a far dei Cinesi un popolo di filosofi. Pure le massime di Voltaire trascinavano all'eguaglianza.—L'autorità di quei nomi prevalse intanto e prevale tuttavia in molti a farsi ammiratori fanatici d'un governo, che il tarlo popolare ha minato per ogni dove.

In oggi, la prova è fatta. La lotta s'è guerreggiata in tutte le guise possibili. L'Europa ha tentato le forme, quante erano, della monarchia, senza potersi riposare in alcuna: monarchia assoluta, per diritto divino, monarchia per diritto di forza, monarchia per diritto, come dicono, di popolo. Luigi XVI ha conchiusa la prima, e Carlo X, che volle risuscitare il cadavere, non ebbe la testa mozza sul palco, perchè i costumi erano fatti più miti e la nazione più sicura della propria potenza. Napoleone chiuse la seconda, e certo dopo lui, nessun mortale oserà ritentarla. La terza sta ora chiudendosi e rapidamente. E se l'ultima prova, e il risultato morale riescì fatale alla forma monarchico-costituzionale, impotente a inoltrare o retrocedere in Francia, essa è assalita al core nell'Inghilterra, dacchè l'elemento popolare s'è mostrato nel dramma politico.

Napoleone ha riassunto l'epoca, allorquando pronunciò: che l'Europa nello spazio di quaranta anni sarebbe stata cosacca o repubblicana.

L'Europa sarà repubblicana—Napoleone era la forza, nè poteva rinunciare a porre un certo equilibrio tra quella e il diritto. Il mondo per lui era un oggetto di guerra e di conquista per due genî di natura opposti, come i due principî persiani. Ma ciò ch'egli vide fu l'impossibilità d'un sistema permanente di transizione, fu che la guerra tra due principî incominciava disperata, decisiva, finale! O innanzi—o addietro: la umanità era impaziente d'affacciarsi a un'epoca positiva ed organica. Questo egli vide, e gli anni avverano la predizione.

VIII.

Il Popolo! Il Popolo!—Torniamo al nostro grido. È il grido del secolo: il grido dei milioni, che fremono moto: il grido d'un'epoca che s'inoltra veloce. Salutate la bandiera del popolo, però ch'egli è l'eletto di Dio a compiere la sua legge: legge d'amore, d'associazione, d'eguaglianza, d'emancipazione universale. Spianate il sentiero al popolo, però che, dove voi nol facciate, egli lo farà, e volontariamente. Annunciate a tutti la sua manifestazione, i suoi bisogni, e i suoi diritti, perchè, dove un tale elemento s'è rivelato, fu tolta all'individuo, qualunque pur siasi, la potenza di fare contr'esso o senz'esso.

O Italiani, giovani miei fratelli! Se volete imprendere imprese generose, se avete in anima tentare il risorgimento davvero: associatevi le moltitudini. Non v'illudete. Siete pochi, e morrete. È bello il morire per la propria contrada, ma la vostra contrada vi grida: morite lasciandomi libera, perch'io possa onorare almeno i vostri cadaveri. Non v'illudete: santificatevi nell'entusiasmo e nella fede d'una missione, ma badate a non isolarvi nell'entusiasmo: badate a non pensare che tutto è fatto, quando i giovani, che si sono ispirati alle sciagure della patria, si sono stretti la mano, dicendo l'uno all'altro: a domani il banchetto di Leonida.—Siete pochi all'impresa: tanti da ergere un mucchio di spenti su cui si levi visibile all'Europa la[266] vostra bandiera dell'Italia ringiovanita; ma chi la sosterrà quella bandiera, perchè sventoli per sempre sui vostri sepolcri?—Associatevi le moltitudini. Non temete il loro silenzio: quel riposo apparente cova un vulcano, che divorerà colla sua lava il barbaro e i fautori del barbaro. Ma stringetele colla famigliarità: destate in esse la fiducia: amatele, e mostratelo. Il tempo stringe—ed io guardo, e non veggo, che voi operiate abbastanza a meritarvi l'aiuto delle moltitudini nell'ora della lotta.—Perchè giacete? Io v'ho detta tanta parola di lode e di conforto, che posso mormorarvi un rimprovero, senza che voi m'incolpiate di poco amore. Perchè scrivete inezie e canzoni d'amore invece di rivolgere la letteratura al popolo, all'utile suo? Perchè non promovete con sacrificî d'ogni genere l'istruzione elementare, la diffusione dell'insegnamento popolare? Perchè non vi fate voi nelle vostre campagne maestri di lettura ad alcuni degli uomini di montagna? Perchè non rappresentate al popolo i suoi fatti antichi nei quadri, nei libercoletti, negli almanacchi, in tutti i modi che possono illudere la tirannide? Perchè non viaggiate a portare di paese in paese e di villaggio in villaggio la croce di foco?—V'arde il furore di patria che vi ha consecrati a una idea? I vostri passi siano tra le moltitudini. Salite i monti: assidetevi alla mensa del coltivatore: visitate l'officine, e quegli artigiani che voi non curate. Parlate ad essi delle loro franchigie, delle loro antiche memorie, della gloria, del commercio passato: narrate le mille oppressioni ch'essi ignorano, perchè nessuno s'assume di rivelarle. Quei volti che la fame e l'avvilimento hanno sformati, lampeggeranno d'un lampo italiano: quelle mani negre, abbronzite, incallite all'aratro e alla vanga, tremeranno forse brancolando quasi in cerca d'un fucile, d'un'arme—allora dite, o Italiani, avete voi armi?—Per voi, e per essi?—

Moltitudini, ed armi—Eccovi il segreto delle rivoluzioni future.—1832.


FRATELLANZA DEI POPOLI

Peuples, formons une sainte-alliance,
            Et donnons nous la main.

Béranger.

Quando Iddio cacciò la terra nello spazio infinito, mandò una voce all'Uomo che l'animava: va! tu sei chiamato ad alti destini: io t'ho creato a mia imagine; ma tu non mi contemplerai faccia a faccia, se non quando potrai posarti davanti a me nella pienezza delle tue facoltà, nell'esercizio libero delle tue potenze ordinate a un intento sublime. Va! io t'ho steso dinanzi una vasta carriera di progresso; ma tu non puoi correrla solo: affratellati in un gran pensiero di sviluppo morale con tutti gli esseri, nei quali troverai riprodotta la imagine mia. La via t'è seminata d'ostacoli; ma va! la vittoria è con te, perch'io t'ho dato la potenza d'associazione.—

Nessuno sa i secoli che passarono sulla terra; le pagine del mondo fisico ne rivelano una lunga serie senza determinarli: ma l'eco di quella voce non è perduto, e sospinge tu[267]ttavia le generazioni sopra una via, alla quale l'occhio non vede orizzonte determinato, ma che ogni passo rivela più ampia e più bella.

L'umanità stette come inerte, concentrata, raggruppata in sè, quasi intenta a studiarsi, a raccogliere le sue forze, a calcolare il punto d'onde movere con più vantaggio, nel mondo orientale. Fu gigantesca come le Piramidi: ma come le statue egiziache, aveva i piedi giunti, e la immobilità per carattere. Poi, si slanciò a rintracciare una terra che somministrasse materiali più vasti al pensiero, attitudini maggiori al moto.

Questa terra è l'Europa. L'Europa è la leva del mondo. L'Europa è la terra della libertà. Ad essa spettano i fati dell'universo, e la missione di sviluppo progressivo ch'è legge all'umanità.

Quattromila anni scorsero, dacchè il primo raggio di civiltà spuntò nella Grecia dalle rupi del Caucaso. Era un raggio fioco, incerto, e tremolava nel bujo. La scintilla involata da Prometeo era così debole che parea destinata a morire con esso. Ma la razza de' titani, che pugnarono contro il destino asiatico, si perpetuò. Il germe europeo educato dagli Elléni si sviluppò ingigantendo. Oggi ricopre l'Europa: quel raggio è fatto sole d'incivilimento; nè v'è Giosuè che possa arrestarlo.—Dacchè la umanità fece atto d'attività in un angolo della Grecia, ogni periodo storico, ogni secolo rivelò l'azione dei due principî sui quali s'appoggia la nostra religione.

L'umanità camminò sulla via del Progresso.

Ogni grado di progresso fu conquistato coll'associazione; e, reciprocamente, nessun grado di progresso fu conquistato che non aprisse una via, o un vantaggio all'associazione dei popoli.

Oggi le teoriche del progresso indefinito e dell'associazione Europea, un tempo retaggio dei pochi che il volgo dei dotti battezzava utopisti, son fatte credenze pressochè popolari in Francia, dove le delusioni e le colpe non sono tante ancora da toglierle l'iniziativa dell'incivilimento Europeo. Dacchè Cristo cacciò una base d'associazione, bandendo agli uomini il principio dell'eguaglianza, senza la quale non v'è associazione possibile; dacchè la stampa creò un vincolo universale e concesse a quanti sentivano dentro la consecrazione a una missione di sviluppo sociale, di coordinare i loro sforzi individuali, di stampare una grande unità morale in tutti gli elementi materiali che avevano alle mani, la tendenza all'associazione, l'anelito alla fratellanza Europea crebbe evidentemente, e senz'arrestarsi. La rivoluzione francese l'eresse in legge, in principio politico. Napoleone l'ajutò, forse senza volerlo, colla conquista, e sacrando col battesimo di sangue tutte le genti, sulle quali passeggiò colla spada nella destra, e un codice—qualunque pur fosse—nella sinistra. I popoli s'affratellarono prima nell'odio, poi nell'amore; e mentre i principi, piegando davanti alla previsione d'una lega degli uomini liberi, strinsero un patto d'infamia a contrastarne i tentativi, i popoli anch'essi strinsero la loro. La parola d'ordine fu Libertà; e quando Parigi scrisse quelle parole sulla sua bandiera, levandola in alto sicchè tutta Europa la vedesse, tutta Europa sentì la necessità di concentrarvisi; tutta Europa fermentò d'una nuova potenza, e gli uomini liberi intesero a strignersi la mano, per essere più forti. Le nazioni Europee entrano ad una ad una nel convegno, come viaggiatori che si raccolgano ad iscrivere il loro nome. L'Inghilterra, ultima terra del feudalismo, della ineguaglianza, quindi della tendenza all'individualismo, si commove tutta a nome di riforma cacciato alle moltitudini; e il primo modo d'espressione che gl'Inglesi scelsero, fu quello d'inviare con Bowring il saluto di fratellanza agli insorti di luglio, quasi un atto d'adesione [268]ai principî, che hanno a reggere dominatori pacifici dell'universo. Il trono Francia fu sull'orlo della rovina per la caduta di Varsavia. Dall'Ungheria venne una voce di conforto ai prodi, che Lelewel aveva inspirati, e che si battevano sotto Ramorino. Il pellegrinaggio dei bravi Polacchi infiammò gli animi nella Germania; ed oggi gli uomini di Fichte, gli uomini d'Arndt, di Jahn, di Körner, ritolgono la pensione al dottor Wirth, per aver confuso la Francia cogli uomini che governano. Fin le gare e gli odî tra Portoghesi e Spagnuoli si logorano in faccia a un avvenimento che può diventare Europeo; e se suonasse la campana a stormo dei popoli, se una guerra di principî, sola possibile in Europa, inalzasse le due bandiere al vento, quanti segreti di simpatia noi non vedremmo manifestarsi, quante moltitudini, ch'ora giacciono mute ed inerti, covanti il fermento Europeo, non si slancerebbero risorte a intrecciare le destre, a stendere le picche del cittadino, sull'altare dell'umanità!

Un giorno, quando noi avremo nome, e patria, e libertà, noi spiegheremo dinanzi ai nostri fratelli il quadro gigantesco e sublime del progresso dello spirito d'associazione, e le vicende per le quali attraverso rovine d'imperi e nazioni, attraverso i mille ostacoli che le tirannidi e l'individualismo suscitavano ad ogni tentativo, giovandosi ora delle conquiste, ora delle emigrazioni, ora del commercio, fuggendo un popolo per trionfare in un altro, svanendo in un secolo per ricomparire poi più potente, aspirando in un'epoca all'unità colla spada di Roma, tentandola in un'altra col pastorale, tramutando insensibilmente lo schiavo in servo, in vassallo, in borghese, in uomo libero; trasformando la proprietà; combattendo il feudalismo colla monarchia, il dispotismo coll'aristocrazia del sangue, colla potenza dell'oro, e l'insolenza dell'oro colla influenza della capacità; sviluppando più sempre la natura morale dell'uomo, e diminuendo il dominio della natura fisica: vincendo le abitudini del clima colle frequenti comunicazioni, colle vie moltiplicate, coi telegrafi, la Civiltà progressiva n'è inoltrata a un punto, dal quale nessuna forza oggimai può farla retrocedere—e la umanità emerge raggiante, sempre potente di nuovi ajuti, sempre raccogliendo qualche popolo nel suo cammino, sempre acquistando terreno in Europa, e incominciando ad invadere l'Asia. Sarà bello, finita la gran giornata, gittare uno sguardo, come il pellegrino, sulla via trascorsa. Oggi, noi stiamo sulla breccia, siamo stretti dalle urgenze dei tempi e degli avvenimenti; abbiamo la lancia in pugno. Si tratta di combattere, si tratta di vincere, si tratta di decidere se la civiltà d[269]ebba arrestarsi in faccia a pochi uomini—se la fratellanza dei popoli sia una illusione o l'unico mezzo di trionfo per noi.—1832.



ITALIA E POLONIA


COMITATO NAZIONALE POLACCO

N.º 498, Parigi, via Taranne, 12.

Il dì 6 ottobre 1832[65].

Figli d'Italia!

Un Genio forte non si stanca mai, e nelle varie vicende sta sempre intento a risuscitare gli alti pensieri ed a fortificare i nobili sentimenti. Tale fu il Genio della vostra classica terra da tre secoli soggiogata. Un lungo infortunio ha creata l'esperienza della vostra nazione, la quale, principiando una nuova vita, non ha cessato mai di dare alla patria uomini dotti che preparando per voi un felice futuro, hanno mostrato al mondo i veri principî della libertà. Il popolo, dal cui seno uscirono cittadini predicanti siffatti principî, non è per certo destinato alla schiavitù. Ed oggi, figli d'Italia, Giovine Italia! la vostra gioventù fervida di speranza è una viva e brillante imagine del rinascimento vicino della vostra indipendenza e della vostra libertà.

Un popolo, che sa sentire, ascolta ed intende qualunque altro popolo è posto in simili circostanze. Per questo, i figli d'Italia accetteranno con gioja la parola dei figli della Polonia, i quali giunti in esilio insieme ad essi, si sono incontrati sull'amica terra di Francia. Qui uniti si ricordano insieme delle speranze svanite, quando i popoli d'Italia e di Polonia, riposando sull'eroe di Francia, incontrarono ogni sorte di sacrificî per rilevare la loro esistenza; e questa fraterna amicizia principiata allora fra i combattenti sotto gli stessi segni guerrieri, fa in oggi ricordare la rovina di tutti gli sforzi insieme ultimamente fatti per questo grande oggetto; fa intendere i suoi pensieri e indovinare l'avvicinato futuro.

Quei prossimi e preziosi istanti non lasciano assai tempo per risvegliare que' ricordi, per parlare di quelle strette relazioni che dai principî del cristianesimo avevano uniti i Polacchi e gli Ungheresi coi vicini Italiani. Il loro pensiero è tutto occupato di questo combattimento europeo coll'atroce dispotismo, tanto per la libertà ed il supremo potere dei popoli, quanto per la libertà e l'eguaglianza del diritto [270]di ciascuno contro i privilegi e le usurpazioni di qualche eccezione: combattimento per l'indipendenza e per l'unione delle oltraggiate nazioni.

Figli della Penisola oltremontana! Non siete stranieri lontani, quando sul Continente si tratta una causa così importante. Simile è sempre ed in tutto la situazione dell'Ungheria, della Polonia e dell'Italia: la loro causa è la stessa; simili dunque e contemporanei devono per tutti essere i momenti d'operazione. Questa persuasione bolle nel sangue degli eroici guerrieri d'Italia e di Polonia, e il cuore dei cittadini delle due nazioni s'infiamma egualmente per la causa dell'Umanità. Nell'esilio, e nell'infortunio, le loro mani unite siano un segno dei loro desiderî, dei loro sacrificî e delle loro sempre concordi operazioni.

 Lelewel.
ValentinoZwierkowski.
AntonioHluszniewicz.
 Rykaczewski.
AntonioPrzeciszewski.
LeonardoChodzko.
V.Pietkiewicz.

GIOVINE ITALIA

Poloni!

La Giovine Italia accoglie con gioja la vostra parola. Voi siete prodi, o Poloni. Dal giorno in cui l'infamia dei re congregati smembrò la vostra contrada, voi non avete cessato mai dal combattere apertamente o celatamente contro i vostri oppressori. Voi avete più volte, col martirio, protestato solennemente in faccia all'Europa, che nessuna forza potrebbe spegnere il pensiero d'indipendenza che vi fremeva nel petto, come nessuna usurpazione poteva cancellare i vostri diritti di popolo e di nazione. La vostra bandiera, proscritta sul vostro terreno, pellegrinò, sublime di memorie, per tutta Europa, ma combattendo e vincendo per l'altrui salute, mescendovi con altri prodi, il vostro pensiero era sempre alla Vistola, e il voto che ispirava Dombrowski scaldava i vostri cuori sulla terra straniera. Avete dato al mondo un esempio unico di costanza e di fermo volere. E quando nel 1830, sorgeste a salvar la Francia e l'Europa superaste gli esempî dei padri. Sorgeste quando tutte le forze dell'Impero erano in marcia verso le vostre frontiere. Sorgeste soli: combatteste soli. Onta all'Europa che rimase inerte! Oppressi dal numero, fors'anche dal tradimento, cadeste; ma l'aquila bianca, non brillò mai d'una luce sì bella come a quell'eroico cadere, e v'è tal nazione, alla quale sarebbe più gloria l'esser caduta, come voi cadeste, che non il trascinare una vita incerta e grave del gemito e della maledizione dei popoli.

Però la vostra parola ci suona nell'esilio come una promessa d'avvenire, e stringendo la mano che voi ci porgete, noi pure ci sentiamo più forti.

Ma il diritto d'onore, che il vostro coraggio v'ha dato da molti secoli, s'è convertito, dal 1830, in diritto di fratellanza. A[271]mpliando la sfera dei vostri sentimenti, e fecondando il pensiero patrio col pensiero europeo, mente dell'epoca in cui viviamo, voi avete imposto un debito di riconoscenza e di lega a chi non avea che un debito d'ammirazione.

«Se anche, voi diceste all'Europa, in questa lotta della quale noi non ci dissimuliamo i pericoli, dovessimo combattere soli pel vantaggio di tutti, pieni di fiducia nella santità della nostra causa, nel nostro valore e nell'assistenza dell'Eterno, noi combatteremo fino all'ultimo sospiro per la libertà! E se la Provvidenza ha condannata questa terra a un servaggio perpetuo, se in quest'ultima lotta la libertà della Polonia è destinata a soccombere sotto le rovine delle sue città e i cadaveri de' suoi difensori, il nostro nemico non regnerà che sovra deserti, e ogni buon Polono trarrà seco morendo questo conforto, che se il cielo non gli concedeva di salvare la patria egli almeno con questa guerra mortale ha salvato per un momento, le libertà minacciate d'Europa.»

Furono parole solenni, grandi come la vostra sciagura: e l'Europa dei popoli le ha raccolte. Dal giorno in cui lo proferiste, fu segnato il patto d'alleanza perpetuo tra voi, e gli uomini della libertà in tutte contrade. Dal 20 dicembre 1830 ha data il titolo della Polonia alla grande Federazione Europea.

E però noi ora non facciamo che ratificare nell'esilio quel tacito patto: patto santificato dalla sventura: patto che durerà, perchè sgorga dalla natura della guerra che sosteniamo, e dalla missione che i destini dell'Europa e dell'incivilimento progressivo ci affidano. Sacerdoti d'una religione ch'oggi ancora è proscritta, ma il cui trionfo è sicuro, devoti dalla coscienza e dallo spirito del secolo a una bandiera che ha scritto da un lato libertà ed eguaglianza, dall'altro Umanità, dovevamo forse incontrarci tutti in un esilio comune, perchè da questo convegno di proscritti escissero i germi del gran convegno dei popoli; perchè serrati a cerchio come i cospiratori del Grütli giurassimo la alleanza degli oppressi contro l'alleanza degli oppressori. Da qui noi ci riporremo in viaggio, nella direzione che la natura commette a ciascuno, voi, coll'Alemagna unitaria, e coll'Ungheria ricostituita, all'emancipazione del Nord, all'incivilimento delle razze Slave; noi, colla Francia e colla Spagna all'emancipazione del Mezzogiorno. Ma in qualunque luogo noi ci troviamo, ricorderemo le amicizie strette nei giorni della sciagura: a qualunque zona del cielo europeo si rivolgano i nostri sguardi, noi diremo: là abbiamo fratelli: là il sole della libertà scalda anime di generosi!

Fratelli di Polonia!—i nostri padri hanno, voi lo accennate, combattuto sotto gli stessi segni. Illusi dalle stesse speranze, diedero insieme il loro sangue per cimento ad un trono che potea diventare il trono della civiltà, e non fu che quello d'un uomo.

Fratelli di Polonia!—qualche cosa ci dice che nelle lotte parziali inevitabili a toccare l'intento comune, noi combatteremo anche una volta insieme. Ma quelle battaglie non c'inganneranno nei risultati, perchè saranno combattute per noi e da noi, perchè saranno le battaglie non d'un uomo ma d'un principio.

[272]

Per la Giovine Italia,
Mazzini.         


DELL'UNITÀ ITALIANA

1833.

L'Italie est une seule nation. L'unitè de mœurs, de langage, de litterature doit, dans un avenir plus ou moins éloigné, réunir enfin ses habitans dans un seul gouvernement.

Napoléon.

Italiam! Italiam!.....

Virgilio.

I.

La questione se l'Italia, emancipata dal barbaro, debba ordinarsi in lega di repubbliche confederate, o costituirsi repubblica una e indivisibile, vorrebbe forse più lungo discorso che non concedono i limiti d'un articolo di giornale. Non che per noi si credano egualmente convalidate di forti argomenti le due sentenze. L'opinione che predica il sistema federativo ci sembra generata da una strana confusione d'idee e di vocaboli, che forse non dura se non perchè pochi la discussero freddamente, e vergini di pregiudizî[66]; poi da quel senso di sfiduciamento che s'è coi secoli di servaggio inviscerato negli Italiani, e li indugia sui confini del nuovo stato in continue transazioni col vecchio che pur vorrebbero struggere. Ma è questione che vezzeggia e sollecita l'individualismo, potentissimo anch'oggi in Italia: questione che si nutre di tutte quelle gelosie, gare e vani[273]tà di città, di provincie, di municipî, passioncelle abbiette e meschine che brulicano nella Penisola, come vermi nel cadavere d'un generoso che cinquecento anni di debolezza e cinquanta di predicazione non hanno potuto spegnere, e che la grande esplosione rivoluzionaria potrà sola sperdere nella manifestazione solenne dell'unità nazionale. E a deciderla converrebbe scendere coi libri delle nostre storie alla mano in un campo d'ingratissima realtà a tesser gli annali delle mille ambizioni e influenze provinciali, aristocrazia di località più tremenda assai della aristocrazia dell'oro o del sangue, perchè dove queste si rivelano esose e assurde, quella assume aspetto di spirito generosamente patrio—risalire alla sorgente comune, la divisione dell'Italia in più Stati—poi seguirne lo sviluppo inseparabile dalle nostre sciagure—e mostrare come da più secoli la tendenza frazionaria e il decadimento italiano camminino su due parallele—e svolgere le conseguenze favorevoli al commercio, all'industria, all'arti e alle lettere che verrebbero dal concetto unitario—ed esporre intero il piano d'ordinamento sociale per cui la vita e l'impulso allo sviluppo progressivo e la direzione armonica dei lavori hanno a propagarsi dal contro alle menome parti, senza incepparne la libertà, senza violarne l'indipendenza, senza isterilirne le potenze speciali: tesi vasta ed organica che le angustie del tempo ci vietano e che noi non tratteremo che a cenni. Ma a qualunque intenda a fondare, la parte critica, comechè incresciosa e nelle apparenze sterile, riesce pure inevitabile a trascorrersi. Però a questa è volto il presente articolo. Purgato dagli inciampi il terreno e svincolata la questione dai pregiudizî e dalle paure ond'oggi è impedita, sarà facile cacciarvi le basi degli ordini futuri. Lo spirito umano anela libero l'orizzonte davanti a sè. Dove ostacoli frapposti tra il suo volo e la meta lo costringano a combattere e soffermarsi a ogni tanto, infiacchisce e si logora.

Quando nei primi anni della gioventù, irritati delle basse tirannidi che s'esercitavano nelle scuole di tutta Italia a mortificare gl'ingegni o a nudrirli di misantropia, frementi una patria che nessuna contrada Italiana ci offriva, ma senza pur sospettare che il fremito individuale potesse convenirsi in azione, ponemmo il pensiero all'Italia, fummo unitari. Vergini di studiata scienza, liberi d'ogni servitù di sistema, insofferenti delle lunghe disamine e delle applicazioni pazienti, il vero stava per noi nella prima idea che ci balzasse improvvisa davanti, grande, vasta, solenne, raggiante di poesia, di potenza e d'amore—e questa idea ci s'affacciava nell'Italia una, ricinta dall'alpi e dal mare; in una parola di volontà onnipotente uscente da Roma dalla Roma dei Cesari, e valicante l'alpi ed il mare; in una missione di civiltà universale assunta da noi sin dai giorni della potenza romana coll'armi, continuata cogli esempî di libertà dalla prima metà dell'evo medio, colle lettere diffuse all'Europa dalla seconda, e fremente dopo i miracoli dell'impero nell'Italia del XIX secolo. Ma questa idea ci sorrideva come una musica d'anime, come un raggio di sublime poesia che ci mandava il cielo d'Italia, perchè nel nostro cuore s'ergesse un altare al concetto puro, santo, incontaminato, senza meditarlo, senza verificarne la possibilità, senza rintracciarne la verità politica per entro ai costumi, alle abitudini, alle credenze dei nostri concittadini. Era il sogno di Dante, di Petrarca, di Machiavelli—e si venerava da noi, come l'idea della libertà greca e romana dai cospiratori Italiani del XV secolo, per istinto, per entusiasmo, per foga di slancio, non per convinzione ragionata e come frutto di studî severi.

[274]

Poi venne la fredda, la calcolatrice, la dotta politica: vennero voci d'uomini gravi, nei quali il dubbio perpetuo riveste aspetto di profonda e arcana dottrina; d'uomini che professando non sottomettersi che all'alta immutabile ragione dei fatti sorridono a quante ipotesi s'appoggiano direttamente su' principî generali, e ci dissero: «L'unità Italiana è brillante utopia, contrastata dai fatti che vi s'affacciano a ogni passo che voi moviate sulla Penisola. Eccovi storie e cronache e documenti dei vostri maggiori. Ognuna di quelle pagine gronda sangue fraterno. Ogni palmo del vostro terreno è infame per risse civili. Le nimicizie di molti secoli hanno lasciato a ognuna delle nostre città un legato d'odio e di vendetta che il servaggio comune cancella nelle apparenze, ma che il grido di libertà farà rivivere più tremendo. Vario il clima, varia la topografia dei luoghi varie le abitudini e le tendenze. Potrete spegnerle con una idea? Potrete confonderle con una formola di legge? Le leggi esprimono, non creano fatti. Le razze non si riconciliano colla violenza. E quando crederete averle fuse per via di decreti, quando v'illuderete ad avere statuita unità, troverete anarchia. Abbiamo elementi eterogenei: affrettiamoci a riconoscere i diritti e i bisogni diversi, perchè non irrompano a rivendicarli coll'armi e colla rivolta. I popoli non si governano a illusioni. Quando un fatto è, non giova il dissimularlo: giova ammetterlo anzi tratto, poi moderarne le conseguenze dannose, e trarre da quel fatto il miglior partito possibile. In Italia, il governo federativo è l'unico compatibile col fatto delle divisioni e delle differenze esistenti. Se vorrete il più, avrete il meno. Il concetto delle federazioni è concetto primitivo in Italia. Afferratelo. Con quella forma avrete libertà dentro, e forza al di fuori. Vedete la Svizzera, e le repubbliche americane. E le autorità d'uomini sommi, Montesquieu, Sismondi e altri, convalidano gli argomenti dei fatti. Poi col sistema unitario avrete presto tirannide, se d'una capitale, d'un consesso, d'un unico centro, o d'un re, poco monta. La centralizzazione uccide la libertà delle membra. Da ultimo, repubblica in una piccola estensione di terreno può stare; ma le vaste proporzioni la fanno impossibile.»

E quelle voci che ci parevano concordi ai fatti, ci stillavano lentamente il dubbio nell'animo. Il pensiero di Dante e di Machiavelli ci sfumava di mezzo a un caos di forme, di visioni, di sembianze individuali, diverse di costumanze, d'abitudini, di tendenze, e tutte ostili, rivali, nemiche, che le formole di quei politici evocavano davanti a noi. Il medio evo colle sue mille guerre, dall'urto scambievole delle razze nordiche sino alle fazioni lombarde, dalla battaglia di Monte-aperti fino a quella nella quale suonavano, come l'ultimo gemito dell'Italia, l'estreme parole di Francesco Ferrucci al calabrese: tu vieni ad uccidere un morto, sorgeva gigante a frammettersi tra noi e il concetto unitario, a protestare tremendamente contro quel sogno affacciatosi nello spazio di tre secoli a due grandi anime, che forse morendo, lo rinnegavano. E forse ciò che costituiva il genio, e lo differiva dalle razze umane, era il tormento d'una idea solitaria, inapplicabile, condannata a starsi in perpetuo nei dominî dell'astrazione. La mano scarna della dottrina ci sfrondava l'albero delle illusioni giovanili, e v'innestava sistemi architettati studiosamente e complicatamente sugli antichissimi esempli greci, e su' nuovissimi americani. E quelle difficoltà superate apparentemente, quella intricata discussione intorno al modo di stringere un vincolo d'unione fra più Stati liberi e indipendenti, ci sembrava argomento d'altissima scienza in chi l'assumeva. L'unità, semplicissima fra tutte le idee, s'af[275]faccia istintivamente all'umano intelletto ne' suoi primi sviluppi, e filosoficamente negli ultimi; e v'è fra queste due un'epoca intermedia, comune agli individui e alle nazioni, nella quale l'intelletto, traviando nella folla di sistemi che gli si parano innanzi, si compiace nelle astruse combinazioni, e inorgoglisce nelle oscurità metafisiche. E l'epoca dei governi misti, delle teoriche costituzionali, delle due camere, della bilancia dei poteri, dell'ecclettismo, delle federazioni. Ma il vero è semplice per essenza. Il genio è unitario. Quando i tempi non erano maturi, cercava l'unità nel dispotismo, oggi la cerca nella libertà, e nella creazione di vaste e grandi repubbliche.

Quell'epoca d'incertezza pseudo-scientifica, d'errore rivestito del manto della sapienza, noi la subimmo—e la trapassammo. Fummo federalisti, e lo diciamo francamente, perchè crediamo che molti dei nostri concittadini abbiano corso quello stadio di gradazioni—perchè rivelando i dubbî che ci tennero incerti, intendiamo mostrare come il simbolo unitario, ch'or predichiamo e sosterremo energicamente, sia nostro non per ardore d'utopia giovanile, ma per lento e maturo convincimento—perchè vinto quel periodo di scetticismo, e superate le difficoltà che pareano attraversarsi, noi siam lieti della nostra credenza, e non corriamo oggimai pericolo di mutarla.

Siamo unitarî—e staremo. Troppe cose si contengono in questo simbolo d'unità, troppi vincoli lo connettono alla libertà italiana, che noi cerchiamo, perchè da noi si possa scender più mai al pensiero gretto pauroso e funesto d'una federazione. Certo: noi non infameremo la contraria opinione, com'oggi—e forse a torto[67]—gli unitarî di Francia infamano gli uomini della Gironda. La libertà può[276] fondarsi in una federazione come in uno Stato unitario: concepita anzi in siffatto modo, la questione è ridotta al nulla[68]. Nessun ostacolo vieta alla libertà stabilirsi in un aggregato d'un milione d'uomini, quando è possibile stabilirla in uno di venti. Ma stabilirsi e durare son due termini essenzialmente diversi, e per noi v'è impossibilità nelle presenti condizioni europee, perchè una libertà fondata sull'unione federativa di molti piccoli Stati duri intatta e secura: impossibilità generata da due vizî radicalmente inerenti ad ogni federazione, interno l'uno ed esterno l'altro. Però la questione è vitale per noi, e immedesimata, come la questione repubblicana, con quella della libertà. Tolleranti su tutte le mille questioni che non feriscono al cuore la libertà popolare, noi siamo quindi per questa. Siamo esclusivamente unitarî, perchè senza unità non intendiamo l'Italia, e dove si contende dell'esistenza, l'intolleranza è santa, la tolleranza è menzogna vuota di senso. Siamo esclusivamente unitarî, come siamo esclusivamente repubblicani, perchè dalle basi repubblicane infuori non veggiamo libertà vera possibile, dall'unità in fuori non veggiamo libertà forte e durevole.

Cos'è il governo federativo?—D'onde traggono origine le federazioni?—Qual è l'elemento principale che le costituisce?

Ogni federazione trae evidentemente origine dalla debolezza degli Stati che la compongono. La necessità d'una difesa che più Stati isolati non trovano nelle proprie forze, li determina a collegarsi per reggersi l'un l'altro contro ogni nemico che s'affacciasse.

L'essenza del governo federativo è riposta nel patto che stringe gli Stati confederati a proteggere e tutelare la indipendenza di ciascuno colle forze di tutti,—l'altre son condizioni accessorie, d'importanza secondaria, e sottomesse a modificazioni infinite.

Che cercano gli Stati confederandosi?

La forza?

Dove la cercano?

Nella unione.

E questa unione non la ristringono a ciò ch'è di pura necessità, ma l'ampliano d'ordinario a confini più larghi: non la fondano unicamente sul patto giurato della difesa, ma tentano cacciarne le basi sulla uniformità delle leggi interne, dei bisogni mutui, dell'utile commerciale: non s'acquetano a desumerla dall'istinto che guida gli Stati a crearsi per ogni dove sicurezze d'indipendenza, ma s'adoprano a darle sostegno la fratellanza. A quelle unioni che posano solamente sulla promessa di proteggersi scambievolmente, è serbato il nome di Leghe; ma le federazioni procedono innanzi. I più tra gli Stati cercano confederarsi con chi li somiglia. Son rare le confederazioni di[277] repubbliche e monarchie. Un istinto politico insegna ai popoli che la conformità dei reggimenti interni fa le unioni durevoli. E le antiche e le nuove federazioni statuirono principî dichiarati e immutabili, dai quali non fosse concesso partirsi. Le repubbliche greche spinsero tant'oltre gli obblighi di leggi uniformi che correvano ai confederati, da mutare interamente la natura indipendente delle federazioni; e lo vedremo tra poco. Delle nuovissime, basti l'America. Tutte—tranne la Svizzera ch'oggi intende il suo vizio—hanno cercata l'unione federale durevole nel riavvicinamento graduato all'unità, delle leggi, degli istituti, de' principî fondamentali.

Da questi pensieri che s'affacciano spontanei al primo esame della questione, e sgorgano dalla definizione del sistema federativo, emerge un dubbio: perchè se a più Stati vicini con molti punti di contatto e collocati in simili circostanze, giova l'unirsi, cotesta unione non toccherebbe gli ultimi termini?—Perchè se il bisogno d'essere forti li stringe a confederarsi, la certezza dell'incremento di questa forza ch'essi tentano procacciarsi non li indurrebbe all'unità?—Perchè, se la uniformità di governo e di leggi fondamentali è bisogno sentito da quanti si stringono a federazione, non lo adeguerebbero essi creandosi un solo governo, una sola legislazione?

La questione specialmente in relazione all'Italia, si ridurrebbe dunque a questione di possibilità o d'impossibilità: teoricamente decisa a favore dell'unità scenderebbe ai dominî della pratica, che spesso dicono, cozza colla teorica, rifiutando inappellabilmente ciò che i principî vorrebbero.

Noi crediamo poco a questo dissenso fra la teorica e la pratica che pur s'allega così sovente nelle questioni politiche. Generalmente parlando, i principî stanno per noi sommi sovra tutte cose e le dominano. Teorica e pratica sono indissolubilmente congiunte. La prima è il pensiero, la legge, l'idea: la seconda è il segno che rappresenta il pensiero, la formola scritta attraverso la quale è rivelata la legge, la forma che l'idea assume trapassando nel mondo sensibile. Se un principio è vero, le applicazioni hanno a riescirne più che possibili, inevitabili, perchè nessun principio può rimanersi sterile a lungo e senza conseguenze. E dei dieci casi, nei quali sembra manifestarsi questo dissenso, tre forse spettano a una intelligenza parziale e frazionaria di quel principio che s'è tentato applicare senz'averlo scoperto tutto—sei a un'applicazione falsa, incompiuta, o paurosa—un solo a fatti reali che s'attraversavano, dissonanze cacciate dalla natura, opposizioni inerenti alle umane cose che l'intelletto è certo di vincere, non di vincere a un tratto. Ma la scienza politica che riassume i gradi di progresso e presenta, dopo le religioni e la filosofia, la formola più estesa delle nozioni acquistate dall'intelletto, esce da poco d'infanzia. Le dottrine gesuitiche dei settatori della tirannide assumono quei casi, li moltiplicano e ingigantiscono, e sviano gli animi dall'addentrarvisi: la presuntuosa ignoranza dei pedanti in politica che s'arrogano la dittatura perchè ha raccolto, senza discuterli, [278]una collezione di fatti, avvalora l'arti della tirannide; e la inerzia dei più vi s'acqueta[69].

Pur, poi che quell'unico caso potrebbe verificarsi in Italia, giova accettar la questione tratta a quei termini. Bensì l'obbligo di provarlo esistente spetta a chi nega possibile l'Italiana unità.

Or lo provano? e come?

I più nol provano: non allegano argomenti diretti; ma si richiamano alla storia. Mostrano nelle sue pagine alcuni esempî di repubbliche confederate, salite a potenza, e prospere interiormente: di repubblica unitaria su vaste proporzioni, non uno—e ne inducono senz'altro esame la conseguenza che per noi si combatte. Mutano così la questione. Dimostrano non l'impossibilità di costituire quando che sia la repubblica unitaria in Italia, ma la possibilità di costituirla federativa. Pure stabiliscono a ogni modo una presunzione favorevole alla loro credenza, e giova distruggerla.—Ma prima è necessario per noi l'accennare il come vorremmo si procedesse in politica—e inalzarci apertamente contro l'abuso che si fa degli esempî, vera tirannide d'autorità, che ove prevalesse, distruggerebbe ogni indipendenza di raziocinio; vecchio sistema, che non accettiam[279]o momentaneamente se non per combatterlo, ma che noi rifiutiamo, e al quale in tesi generale, non vogliamo sottometterci mai.

Un pregiudizio domina tuttavia la politica: il pregiudizio dell'esempio, l'imitazione servile.

A qualunque dallo spettacolo della patria guasta, corrotta, inceppata da pessime istituzioni, è suggerito il pensiero di porvi e proporvi rimedio, si affaccia innanzi a tutte una via: quella di torlo altrove. I più dagli ordini che reggono la contrada nativa ritraggono lo sguardo all'Europa, finchè trovino una terra dove un principio contrario o diverso domini le istituzioni; trovato, lo afferrano come àncora di salute: non guardano se quel principio spetti esclusivamente, per vigore di cagioni preesistenti, al paese ove ha vita, e se trapiantato possa fruttare conseguenze uniformi; non s'addentrano a vedere se quel principio sia destinato a lunga vita nel futuro o covi la morte; se veramente da quello o da altre ragioni derivino i vantaggi che l'una nazione ha sull'altra; lo adottano e lo scrivono sulla bandiera che inalzano—e la turba vi corre, perchè quando le moltitudini ineducate hanno sete di mutamento, s'affollano al primo stendardo che sventola, non curando se mutino in meglio o peggiorino. Poi, quando i danni d'un sistema accolto precipitosamente, incominciano a sperimentarsi, gl'ingegni più desti s'avvedono della illusione, ma tardi, quando la credenza in quel simbolo s'è radicata, quando il popolo anela riposo, quando quindici anni di delusioni e molte vittime bastano appena a risuscitarlo. La rivoluzione è compita, nè le rivoluzioni si maturano di giorno in giorno.

Quando affermiamo che questa gretta, esclusiva, superficiale, funestissima maniera di trattar le cose politiche ha esercitato dominio su tutti quasi i rivoluzionarî dell'epoche in oggi consunte, e lo esercita tuttavia, malgrado le molte esperienze, sugli scrittori politici, noi diciam cosa che a molti parrà frutto d'audacia giovanile, o d'un'ira mal concetta contro il passato; stolta accusa, che oggimai non è da respingersi se non col sorriso. Noi veneriamo il passato, quando è grande; ma nè il consenso de' secoli può ingigantirlo ai nostri occhi, quando l'intelletto ce lo affaccia meschino. Le nostre teoriche di progresso riabilitano il passato, anzichè gittargli l'anatema; ma noi sappiamo che la terra troppo calpestata diventa fango, e vogliamo prender le mosse del passato, non insister sovr'esso.

La scuola politica del secolo XVIII fu tutta inglese. Montesquieu e Voltaire, il primo, intelletto potente a evocare con venti parole l'imagine fedele d'un secolo di passato, ma cieco dell'avvenire; il secondo, ingegno vasto più che profondo, critico per eccellenza, e nella foga di distruggere, che l'invadea, avido più di trovare che non di creare un tipo a cui attenersi; l'uno e l'altro, tendenti all'aristocrazia, predicarono primi le istituzioni britanniche—e dietro a quei due la turba degli enciclopedisti, i filosofi, i mezzo-politici e gli imitatori servili. Il sistema che reggeva gl'Inglesi sgorgava dalla loro storia diversa affatto dalla francese. La loro aristocrazia era elemento della nazione traente origine dalla conquista. In Francia non v'era aristocrazia se non per abuso; ma un nuovo stato dovea sotterrarla inevitabilmente. Il popolo più che libertà anelava eguaglianza. Ma chi tra' francesi scrittori guardava alla Francia?—Il solo che si ribellasse al torrente fu Rousseau—e Rousseau fu greco: spartano: ideò repubbliche che avevano ad esser nuovissime, e fu trovato che i loro titoli stavano in un angolo dell'Europa, sotto la polvere d'uomini morti da venti secoli. La rivoluzione, convocando il popolo, elemento eterno, sulle rovine della Bastiglia, scrisse il de[280]creto di morte ad ogni privilegio monarchico aristocratico. Ma non valse. Il sistema inglese che s'era fatto pigmeo in Mounier, Tollendal, Malouet, per insinuarsi non visto nell'assemblea nazionale, dileguatosi sotto la mano ferrea dell'uomo del blocco continentale, ricomparve audacissimo a tentare la seconda prova nella Staël, in Beniamin Constant, Royer-Collard, e gli altri, che assisero il fantasma monarchico sul trono di Bonaparte. Ed oggi poichè la seconda tornò in nulla per le tre giornate, ritenta la terza—e speriamo—l'ultima prova. La ritenta, mentre pur quell'unico esempio dell'Inghilterra è sfumato—mentre il sistema rovina nel luogo ov'ebbe la culla—a fronte del ruggito irlandese—a fronte del manifesto popolare lanciato in Lione, in Parigi, per ogni dove—quando i colori della repubblica si mostrano in Francoforte, secondo centro dell'aristocrazia europea—quando le dispute vertono oggimai sulla forma, non sul principio repubblicano. Ma che sperare da gente come quella ch'or regge in Francia, se non l'ultimo disinganno alle moltitudini?

Il sistema inglese agonizza. Il sistema americano sorge collo stendardo repubblicano. L'America fu l'arena che vide prima la lotta fra il principio monarchico-misto e il repubblicano. La repubblica v'ebbe la prima vittoria. Ciò basta alla politica imitatrice per dichiararsi americana esclusivamente. La scuola americana, duce Lafayette, uomo di rara virtù, d'intelletto mediocre, domina in oggi gran parte dei repubblicani: invoca in Francia, nelle colonne del National, le due camere, contradizione patente al principio della sovranità popolare; il senato, asilo aperto all'elemento aristocratico; il governo a buon mercato, senza avvertire che la economia nazionale non dipende dalla quantità del tributo, bensì dall'uso e dal riparto di questo: in Italia, invoca la federazione.—Perchè non invoca anche gli schiavi che nelle repubbliche americane costituiscono il settimo della popolazione?

È tempo che la politica s'emancipi da cotesta tirannide degli esempî. È tempo che il secolo XIX tragga dalle proprie viscere, dai proprî elementi, dai proprî bisogni la politica che deve guidarlo. L'Italia del XIX secolo racchiude nel proprio seno le condizioni della sua futura esistenza, e le forze per raggiungerle. Guardiamo dunque all'Italia, non all'America o a Sparta. Non abbiamo noi intelletto nostro e basi di giudizio e fatti presenti, perchè si debba da noi statuire a criterio, a principio politico un esempio straniero, o spettante al passato?—Un fatto è il prodotto delle mille cagioni, dei mille fenomeni che s'incontrarono in un dato periodo, in un dato paese; e quei fenomeni e quelle cagioni s'incontreranno identici sempre, perchè s'abbia a volerne la conseguenza che ne fu tratta altrove?—I principî prevalgono ai fatti, perchè non dipendono da circostanze fortuite o singolari, ma dalla eterna ragion delle cose. Ogni nazione cova un principio che domina la sua storia, e ch'essa è chiamata a sviluppare o perire. Il principio nazionale tra noi vive occulto, come vogliono i tempi, ma non tanto che l'indole del secolo, degli abitanti, delle passioni, dei fatti concatenati che costituiscono la nostra storia, delle rivelazioni ch'emergono dalle lettere, dai bisogni e dai tentativi operati non lo esprimano a chi vuol rintracciarlo. Dissotterrate quel principio. Poi se gli esempî stranieri verranno a convalidarlo, meglio.—Contemplateli; ma del guardo dell'aquila al sole, libero, indipendente, potente. Contemplateli; ma come termini d'una proporzione, il cui primo termine deve rappresentarvi. Non rifiutate un trovato straniero, se, applicato a voi, frutta incremento alla patria. Ma non lo accettate alla cieca, unicamente perchè già altrove accettato. Co[281]sì facendo, sarete Italiani, e vi troverete per legge di cose, europei. In altro modo vi rimarrete servi, o meschinamente ribelli al vero.

Ed ora scendiamo agli esempî.

I primi ci s'affacciano nella Grecia.

Chi disse la varietà nell'unità essere il tipo del mondo greco, disse cosa più vera ch'altri non pensa. La Grecia splende nella storia europea d'una potente unità; ma d'una unità vivente nel genio greco più che negli ordini greci; d'una unità che vegliava nelle religioni, nelle abitudini, nella missione che i destini fidavano alla Grecia, nucleo primitivo del mondo europeo, nella opinione radicata, che tutti stranieri eran barbari, non nelle leggi e negli istituti politici interni. La missione greca di romper guerra in nome dell'Europa futura al genio orientale s'adempieva fatalmente, per legge di razze, senza che fosse necessaria una forte e preordinata unità. E d'onde sarebbe sorta cotesta necessità, quando la Grecia era sola in Europa?—Però nei tempi delle greche repubbliche le confederazioni valsero contro ai Persiani, come leghe formate a tempo, e volute dalla urgenza di combattere una guerra comune a tutela dell'elemento nazionale. Ma quando sorsero le ambizioni e le invidie domestiche, e le leggi varie partorirono le varie tendenze, le federazioni non valsero a quetare la discordia e le guerre intestine, nè a salvar la Grecia dalla dittatura d'un principe o d'una delle repubbliche, nè a proteggerla dall'invasione straniera: quando questa invasione venne d'Europa, la lotta fu varia, ostinata, perpetua. Durò continua fra Sparta e Atene, fra l'elemento dorico e l'elemento ionio. Nè la Lega anfizionica valse a indurre la pace. Fu simulacro, non esempio di lega. Fu, nei tempi più queti, guerra tacita e quasi legale, sostituita all'aperta. E la storia greca ai tempi anfizionici, è storia di contrasti e d'usurpazioni alterne, nella quale ora Sparta, or Tebe, or Atene furono dominatrici nel consiglio supremo. Poi venne la potenza macedone—e quando Filippo e Alessandro sorsero primi, fu lega di servaggio comune, non libera fratellanza di repubbliche confederate a serbare intatto il sacro deposito dell'uguaglianza[70]. E quando il popolo romano, il popolo Napoleone cacciò sull'arena il guanto della universale dominazione, la lega achea riuscì impotente a sottrarvisi. Le federazioni greche, come tutte federazîoni contro una potenza unitaria, si fransero contro la unità di Roma.

Varchiamo d'un balzo tutto quel periodo nel quale la grande unità romana delineò coll'armi il programma dell'era moderna che la pace dei secoli liberi svolgerà nel futuro. Varchiamo tutto quel lungo periodo di guerre virilmente difese contro il colosso romano, ma inefficacemente ordinate e mal collegate che strappò di bocca a Tacito[282] quella sentenza: che rara è la concordia di due o tre città nel combattere un comune pericolo[71]. Dalle leghe italiche in fuori, alle quali per domare la potenza romana non mancò che d'essere forti d'un vincolo unitario, nessuna lega apparisce, nessuna confederazione che meriti esser tolta a modello; leghe di schiavi, leghe di colonie e di municipii, che Roma struggeva d'un cenno. L'unico tentativo di lega che meriti l'attenzione dei posteri, è quello ch'escì dal concetto d'un gladiatore tracio: è il grido di Spartaco a' suoi fratelli di servitù. E il grido di Spartaco potente a far tremare la stessa Roma, fu grido d'unione concentrata e universale a quanti gemevano conculcati dalla romana aristocrazia; fu il programma dell'unità popolare, come Roma fu della unità nazionale italiana.

Il primo esempio di federazione che ci s'affaccia nel mondo europeo moderno, è la Svizzera: la Svizzera, federazione di fatto, di necessità, d'aggregazioni successive, che nessuno sceglierà mai a modello d'organizzazione politica; la Svizzera, terreno neutro, che la mutua gelosia delle grandi potenze salva dalle usurpazioni straniere ogniqualvolta l'equilibrio europeo turbato non trascini con sè la invasione: la Svizzera, associazione d'elementi eterogenei, composta di Cantoni d'indole, di religione, di politica, di credenze diverse, complesso di tutte le forme d'istituzioni aristocratiche, popolari, monarchiche[72]—che non ebbe se non un secolo bello di pace, il XIV—ch'oggi nel moto d'eventi che incalza l'Europa, sente evidentemente il bisogno di avvicinarsi all'unità, o la condanna a rodersi di anarchia. E so che taluni fra i politici—quelli appunto che gridano alto contro le utopie dei repubblicani unitarî—tennero e forse tengono tuttavia la Svizzera come un soggiorno di beati e pacifici abitatori, e predicano la innocenza e la purità del costume e le abitudini pastorali e patriarcali che regnano sulle balze elvetiche e le proteggono dalle ambizioni, dalle risse e dalle corruttele europee. Dov'essi travedano cotesta Svizzera non è facile risaperlo; forse negli idillî di Gessner. Pur se anche innocenza e semplicità prevalessero tra gli Svizzeri, non sarebbe frutto del reggersi a federazione, bensì di cagioni inerenti ai luoghi, all'educazione, alla povertà naturale. Ma io scorrendo la storia[73] veggo la Svizzera campo di guerre e stragi fraterne per intolleranza religiosa in un secolo, per pretese di aristocrazia in un altro, e sempre per raggiri dei gabinetti stranieri influenti nei consigli e nei varî governi. E guardando al suo patto, lo veggo ineguale ai bisogni, impotente a crear la concordia, e violato sempre all'estero ed all'interno—e mentre il patto conteneva solenne divieto ai cantoni di stringere alleanze straniere senza il consenso di tutti, veggo i cantoni ligi sempre delle potenze straniere collegarsi or coll'Austria, or colla Francia, or colla Spagna e or con Venezia senza pur chiedere il consenso voluto—e mentre ogni cantone cercava provvedere unicamente alla propria gloria e al proprio incremento a dispendio della intera confederazione, il timore s[283]olo dell'ambizione e della potenza dei principi tenerli uniti, e superato il pericolo, rotta immediatamente la unione—e la Svizzera forte a principio dell'altrui debolezza, la Svizzera repubblicana decadere rapidamente, quando tutte le monarchie ingigantirono nelle armi e nei mezzi—e odo la veneranda voce di Giovanni Muller dichiarare che la intenzione d'occuparsi in un trattato sul mantenimento della libertà nella Svizzera gli sarebbe tornata inutile, dacchè quanto aveva veduto gliene dimostrava l'impossibilità[74].—Però l'esercito repubblicano francese, malgrado alcuni fatti di resistenza ostinata, soggiogò in brev'ora la Svizzera. L'onnipotente unità ruppe la mal legata federazione. Poi se Napoleone riconobbe nell'atto di mediazione del 1803 l'indipendenza dei Cantoni, non fu perchè ei riconoscesse una suprema necessità o la eccellenza delle forme federative, ma perchè Napoleone voleva fondare il dominio universale francese sull'altrui debolezza; perchè le confederazioni ch'ei piantava all'intorno porgevano alla Francia occasione di protettorato, e, occorrendo, pur di dominio: perchè pronunciando a Sant'Elena che la Italia sarebbe, rifiutò pur di crearla, paventandola fatale alla Francia. Ma il trarre partito a favore del sistema federativo dal progresso che s'ebbe la Svizzera nei dieci anni durati sotto l'impero dell'atto di mediazione, varrebbe lo stesso che voler desumere un argomento a danno dell'unità dalla condizione infelicissima della Svizzera durante l'unità statuita dalla francese repubblica. L'