The Project Gutenberg eBook of Pe' belli occhi della gloria This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Pe' belli occhi della gloria Scene quasi vere Author: Salvatore Farina Release date: May 18, 2023 [eBook #70792] Language: Italian Original publication: Italy: Alfredo Brigola, 1887 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PE' BELLI OCCHI DELLA GLORIA *** SALVATORE FARINA PE’ BELLI OCCHI DELLA GLORIA SCENE QUASI VERE MILANO ALFREDO BRIGOLA & C. EDITORI _Proprietà letteraria._ Milano 1887. — Tip. Pagnoni. Lettera aperta all’amico e collega carissimo GIOVANNI FALDELLA _Ti ricordi? Un giorno del passato anno, girellando per la campagna soleggiata dall’arte, contenti di trovarci insieme, molto lontani dagli stradoni polverosi dell’accademia, i quali tratto tratto, per un acquazzone di arte novissima, diventano pozzanghere, si venne a dire della distinzione che fanno taluni fra la letteratura amena e... quell’altra, che è poi la letteratura grande, dotta, illuminata e seria._ _Si espresse il sospetto che quella letteratura massima nel più dei casi non sia grande se non nell’arroganza; e io andai fino ad affermare che qualche volta è semplicemente buffa, e tu mi desti ragione. Corroborammo poi l’affermazione con esempi e con risate, che fecero ammutolire le cicale negli alberi vicini._ _Si passò poi in rassegna tutta quanta l’arte, per arrivare di buon passo all’arte nostra. E qui ci fermammo volentieri, essendo tutti e due d’accordo nel lamentare l’imbecillità di certa critica solenne, che va in giuggiole, o almeno dice, quando può ripescare negli archivi una novella sconclusionata, in cui non è pensiero, nè arte, e nemmeno stile; nel compatire allegramente un arrogante illustre, il quale un giorno negò ogni valore alla prosa per conceder tutto alla poesia, e un altro giorno disse ira di Dio del romanzo e dei romanzieri, mettendoci tutti in un fascio, e arriverà finalmente, se pure non è arrivato, a dire che l’arte è... lui soltanto._ _Ma come mai, dicevamo, si può esprimere sul serio questa disistima per una forma letteraria? Che il romanzo sia una forma amena e popolare, potrebbe sembrare un disastro alla gentuccia letteruta (come scrivesti tu) la quale non si pasce se non di radici; ma chi ha appena un dito di cervello sotto il cappello a stajo non stenta a riconoscere che se tutte le forme letterarie possono dire qualche verità, il romanzo può dirne più delle altre, unicamente perchè è più ascoltato._ _Per contro è verissimo che questa popolarità della forma narrativa, ha allagato l’Italia di racconti in cui, tolto il titolo solleticante e la favoletta inverisimile (e appunto per ciò data per vera), si nota peggio che mai la grave malattia di cui la letteratura italiana, a essere sinceri, è afflitta da parecchi secoli_: l’anemia del pensiero. _E non bastando il diluvio di romanzucci piovuti in Italia, vi è il guajo dell’inondazione, perchè le Alpi non sono dighe abbastanza sicure da non lasciar straripare il romanzaccio._ _A dir poco, due milioni di quasi analfabeti si nutrono quotidianamente del fatto_ vario _del romanziere famosissimo e francese che cento giornali imbandiscono in appendice, timorosi che un cattivo giorno di magro possa essere troppo scarsa la cronaca dei fatterelli grassocci e pepati, fornita dai tribunali e dalla questura. Niente di male, dicevamo noi. Non pretendendo che i direttori di giornali si piglino la scesa di capo di correggere il gusto del pubblico, arrivavamo fino a dire che il lettore arguto forse si forma a poco a poco, potendo essere benissimo che fra cento spugne di appendici, si prepari un cervello che capisca e gusti._ _Solo ci doleva che certi grossi critici (ahi! tanto grossi!) avessero a sentenziare della forma romanzesca, badando solo a qualche appendice di giornale capitata loro sott’occhio, mentre per noi era chiaramente dimostrato che quella sorta di critici, peggio se illustri, non si sono degnati mai di leggere tutto un libro ameno, e farvi poi un pensiero serio._ _Quel giorno le cicalate finirono con la conclusione che chi facesse l’esperimento di scrivere la novella o il racconto ad uso soltanto del lettore che pensa qualche volta, correrebbe il rischio di non trovare più nemmeno i lettori, i quali non vogliono assolutamente pensare mai._ _Scrivendo questo libro, ho dubitato che un po’ di quelle idee manifestate allora mi fossero rimaste aderenti alle pareti del cranio, e non stupirei che un lettore ingenuo ti avesse a domandare_: — _Perchè_ scene, _perchè_ quasi vere? _E tu fa per bocca mia questa risposta altrettanto ingenua_: — _Perchè questo libro non è una novella, nè un racconto, nè un romanzo; si accontenta di essere qualche cosa di meno; ma pretende di stare una spanna più alto. Non è nemmeno una storia, perchè l’autore, avendo fatto finora il romanziere, non può aver perduto tutto il vizio di dire le bugie; ma è sincero nell’attenzione che egli ha messo per aprire il solco di certe rughe del cuore umano poco vedute. Io dico_ poco vedute, _perchè l’uomo sociale è stato, in ogni tempo, industrioso nell’ingannare sè stesso_. _Milano, 1887._ S. FARINA. Pe’ belli occhi della gloria I. La provvidenza aveva fatto di tutto per render felice Mattia, od almeno per contentarlo; non vi essendo riuscita per settant’anni, si era smarrita di coraggio, lasciando che la disgrazia gli piombasse addosso. Sì, perchè Mattia fino al settantotto era sano come un pesce sano; aveva una compagna che lo sapeva tutto a memoria e gli voleva un bene dell’anima, un figliuolo intelligente e buono, che si faceva onore all’Accademia; aveva gli agi guadagnati colla sua pittura, aveva la stima dei vicini, aveva l’ammirazione dei lontani. Un altro ne avrebbe avuto d’avanzo; Mattia no, perchè egli si era innamorato de’ belli occhi della gloria. Quando era stato tutto un mese davanti al cavalletto, mattina e sera, colla tavolozza in pugno; quando si era tirato indietro mille volte a dir poco per giudicare l’opera propria; quando si era accostato altre mille fino a toccarla col naso; quando finalmente deponeva tavolozza e pennello sul trespolo per fregarsi le mani perchè aveva finito, credete voi che Mattia fosse contento? Della sua tela sì, perchè, guardata da vicino e da lontano, aveva la solidità di colore dei veneziani, l’idealità dei fiorentini del buon tempo, la sicurezza di disegno dei pittori vecchi, senza nessuna delle sprezzature che i giovani hanno messo di moda; della sua tela sì, era proprio contento, ma non già della.... critica. No, non era contento della critica scimunita, della critica bestiale, della critica impotente ad altro che a dar la tortura all’arte. Non era contento di _Sincerus_, il quale predicava nella vecchia gazzetta in nome d’una teorica raccattata alla diavola sui libri e messa in cielo come dogma; non era contento di _Novus_, che in un’altra gazzetta spropositava allegramente il primo giovedì d’ogni mese, dando la celebrità ai giovinetti impazienti, la baia agli altri. Sapeva bene che _Sincerus_ non aveva mai sporcato una tela, e che per farsi fama di critico autorevole gli era bastato abbeverarsi nel truogolo (Mattia diceva _truogolo_) dove l’arte d’ogni tempo ha ripulito i proprî pennelli; sapeva che Novus aveva voluto essere artista, e perchè non era riuscito se non a far ridere i compagni di scuola, aveva scelto bravamente di far paura ai professori nelle gazzette. Ma queste considerazioni non lo consolavano. Avrebbe voluto che tutti gli artisti, quanti sono veramente tali, quanti sono gl’innamorati del bello, si alzassero superbamente in faccia a questo mestiere impotente che chiamano critica, e ne ridessero in coro. Invece avveniva allora, e forse segue il medesimo ancor oggi, che i pittori d’ingegno si facessero lodare dal cattivo compagno di scuola diventato critico. Quel _Novus_, per esempio, non solamente lodava l’arte nuova, ma l’adulava accortamente dicendo ira di Dio dell’arte vecchia. Così i pittori di primo pelo non ridevano più, se non in segreto, accettavano, adulavano alla loro volta il critico, chiedendogli a faccia tosta il giudizio, la lode, e il cielo gli confonda, anche il consiglio. Dunque una volta Mattia non era contento della critica, tutt’altro. Aveva anzi radunato una quantità di spropositi d’arte, di contraddizioni, che si leggevano in appendice, e se appena appena gli si porgeva il destro ne citava un paio perchè la gente ingenua vedesse e toccasse il malanno che stava addosso alle arti belle. Fortuna che questo malanno era sopportabile in grazia di Tomasina, la quale da trent’anni aveva la missione di coltivare la pittura e l’amor proprio di suo marito, d’incoraggiarlo quando la critica aveva spropositato peggio, di sostenere la sua fede perchè non si smarrisse nella strada della gloria. E quando finalmente Mattia, facendola in barba a Sincerus ed a Novus, era riuscito a portare all’estero l’arte sua e il proprio nome, era ancora Tomasina che gli aveva sorriso il sorriso della gioventù, un sorriso a cui mancavano molti denti, ma pieno sempre del vecchio amore. Poi Tomasina se n’era andata all’altro mondo, dolente di obbedire alla gran voce prima di aver chiuso gli occhi a quel poveraccio tanto glorioso e tanto debole, da volere immortalità e d’accontentarsi della lode. Perchè Tomasina aveva visto giusto, e non confondeva la gloria, a cui Mattia guardava qualche volta da lontano, coll’approvazione che egli incontrava tutti i giorni nella sua strada. Tutti i giorni, è un modo di dire; il vero è che non la incontrava sempre; che Sincerus, almeno una volta il mese, lo tanagliava nell’appendice; che Novus... — E che importa a te di _Sincerus_ e di _Novus_? entrava a dire Tomasina; se tu sei glorioso, se la tua fama cresce ogni giorno, se i forestieri che arrivano a Milano vogliono visitare il tuo studio, stringerti la mano, assicurarti che i tuoi quadri sono ammirati nei loro paesi.... — E vero, è vero, conveniva Mattia con rassegnazione; e mi pagano anche, e mi pagano bene. Ma pure si è fatti di carne, si vive e si gode della carne che ci avvicina. Del resto hai forse ragione tu, la critica maligna non mi farà più male del morso d’una zanzara. E per dire il vero, nella vita dell’artista le zanzare non sono inutili, perchè gli avversari possono fare più bene degli amici. I grandi artisti hanno sempre avuto un nemico prezioso a cui devono la loro grandezza. Avendo proferite queste frasi piene di senno filosofico, ne aveva voluto dire ancora una più filosofica e rassegnata, che aveva fatto crollare la testa a Tomasina. — Queste due zanzare mi possono mordere quanto vogliono; io le schiaccierò coll’arte mia. Poi quando Mattia si era curvato in lagrime sul lettuccio dell’amica, della compagna, per dirle che rimanesse ancora, che non lo lasciasse solo, essa strinse al petto scarno la testa gloriosa, pronunziando per l’ultima volta la parola che aveva servito per trent’anni: _coraggio_. Dopo che Tomasina se ne fu andata in cimitero, Mattia aveva voluto resistere; e al figliuolo, che gli scriveva da Arnheim lettere piene di affetto, proponendo di lasciare non copiata la testa del _Colonnello Los_ di Franz Hals, per correre a piangere a fianco di suo padre, Mattia rispondeva con baldanza: “Io sono forte, ed ho l’arte, la mia consolatrice; resisterò. Tu che sei giovine, studia la tecnica della gran pittura fiamminga; troverai pur troppo a Milano dei giovinetti, i quali non sanno ammirare più nulla, e, studiando unicamente il vero, sono appena appena copisti...„ Solamente dopo aver esposto nel suo studio la sua ultima tela grandiosa, si era sentito prendere dallo scoraggiamento, ed aveva chiamato il figliuolo perchè lo aiutasse a medicarsi. Quella tela era veramente un po’ accademica, ma aveva la solidità di colore, la sicurezza di disegno che nemmeno i più invidiosi negavano a Mattia. Da un fondo luminoso, in cui s’indovinavano abbozzi di quadri celebrati, si staccava una bella figura, tutta nuda, sfolgorante nelle carni bianche, intatte; appoggiava un piede al terreno, ma teneva la testa levata in alto, e gli occhi scrutatori cercavano mondi lontani. La bella creatura sembrava proprio volersi alzare al cielo, ma essere trattenuta... Da che mai? Forse da un ramoscello d’edera, che le aveva afferrato il piede gentile. Tutt’intorno si moveva una folla d’artisti giovani, i quali lavoravano il marmo e stavano al cavalletto, senza voltarsi nemmeno a dare un’occhiata alla nuda magnifica; solo, in un canto, un artista canuto, ma innamorato ancora, accennava alla ragazza di non se ne andare. Ebbene, il quadro di Mattia ebbe la peggiore sventura che possa toccare ad un artista: non fu inteso. Ma era stata colpa dell’artista se il suo concetto non entrava tutto d’un pezzo nel cervello del pubblico. Ne conveniva egli stesso. Perchè fare economia di quattro parole di titolo? Perchè non dire, per esempio: _L’arte incurante della carne_? Sarebbe stata una bugia enorme, ma almeno moltissimi vi avrebbero creduto. Che fanno gli artisti modernissimi quando assicurano d’aver avuto un’idea? Battezzano la cornice, niente più. Mettete in un fondo nero un torso di cavolo, o qualche altra cosa, annunziate dalla cornice che avete espresso un concetto filosofico, e gli ammiratori della filosofia non mancheranno. Sì, perchè il pubblico è stato sempre molto incline alla filosofia... sì, perchè il pubblico... Il pubblico, in questa occasione, si era dimostrato quello che è sempre (io non dico che cosa è, Mattia diceva _filosofo_); ma che dire della critica di _Sincerus_, il quale nella magnifica nudità non aveva visto se non _la modella eterna_, cioè l’arte, che può essere la carne o l’anima? E che dire poi della critica di _Novus_? Stando nascosto dietro la tela, con un artifizio adoperato già da Apelle, Mattia lo aveva pur visto venire, col suo codazzo di pittori imberbi; guardare attentamente, avvicinarsi, scostarsi, avvicinarsi ancora; non aveva aperto bocca. — Va a casa, imbecille — sono parole autentiche pensate da Mattia dietro la tela — pensaci bene, e spropositerai meglio; stamperai il tuo sproposito giovedì. Ma era venuto il primo giovedì; ne era venuto un secondo ed un terzo, e _Novus_ non si era degnato di fiatare. Questa fu la critica che fece uscir dai gangheri quell’uomo glorioso. Non gl’importava un fico, come potete credere, di quello che avrebbe scritto _Novus_; avesse anche stampato che Mattia aveva dipinto il trionfo della carne, padronissimo; ma almeno la sua propria carne sarebbe stata contenta; invece, stando in silenzio Novus, la carne trionfava di Mattia. Fu allora che scrisse a suo figlio Tito di piantare il colonnello Los e di tornare a casa. E quando se lo ebbe stretto forte al petto combattuto da tante tenerezze sopite, da un dolore che si svegliava acuto, quando lo ebbe guardato negli occhi buoni, come per ritrovarlo intero, allora lo condusse nello studio davanti alla sua tela. Non diceva parola per lasciare intatte le prime impressioni. Quel giovinotto pallido e sereno esaminò lungamente, come un vecchio artista, e infine si buttò al collo di suo padre, che respirava appena come un esordiente. — Ah! Ti piace? E dimmi; tu intendi quello che ho voluto esprimere? Tito ebbe bisogno di guardare la tela ancora, poi disse tranquillamente: — _Il trionfo dell’idea_! Ed era proprio il titolo del quadro che Mattia non aveva scritto in un cartellino a piè della cornice. Egli aveva baciato in fronte il figliuolo, poi sedendo sul trespolo, aveva detto con dignità: — Sì, è l’idea dominatrice di tutta quanta l’arte; è l’idea senza la quale non si è altro mai che copisti; l’idea tutta nuda, per significare che è la verità. Quel nudo non è classico, e a me non pare nemmeno accademico, ma è bello, perchè la verità dev’essere anche bella se ha da innamorare l’artista. Osserva bene la nudità di questa fanciulla; è casta. Il suo sguardo va oltre la terra; un ramo d’edera le afferra un piede; è umana. Intorno a lei si affaccenda molta gente, che, negando l’ideale, si credono artisti; un solo di tanti si ferma a guardare, ed ha i capelli bianchi... — Sì, è bello, bello, bello; rispondeva sottovoce Tito; mi piace il colorito smagliante delle carni; molta biacca, tinte verdastre, poco minio, poco cinabro; e su tutto ciò una leggera velatura; non è così? il cielo luminoso in fondo; biacca, turchino e minio; qui, dove luccica quel mucchio di stelle, poche pennellate di cobalto. Sì, mi piace proprio. Anche quel modo grammaticale di lodare _il trionfo dell’idea_ non era spiaciuto all’artista glorioso, il quale fu contentone di poter svelare il segreto della propria tavolozza a suo figlio, che l’aveva indovinato. II. Erano stati giorni lieti quelli passati insieme al cavalletto, padre e figlio, dipingendo tutti e due, accostandosi ciascuno ogni tanto ad interrogare ciò che l’altro aveva messo sulla tela. Tito si accontentava di ammirare in silenzio; Mattia, forte della propria autorità, dava qualche volta un consiglio, per lo più diceva _bravo_, o _bravissimo_, e quando diceva _bravissimo_ sentiva il bisogno di abbracciare il giovine artista, non ostante gl’impacci delle due tavolozze e dei due appoggiamani. Perchè quel giovine di ventidue anni era già un vero artista. Egli non sapeva ancora mettere molta filosofia nelle sue tele; confessava ingenuamente che la vita non gli sapeva dare se non l’immagine delle cose; ma si sforzava di penetrarne il senso arcano, _l’anima_, come diceva lui. — Per ora non so far altro, confessava umilmente. Fece anche meglio in seguito; e quando, l’anno dopo, aveva esposto a Brera la sua _Campagna Lombarda_, tutti i milanesi restarono ammirati e stupiti che ad un pittore d’ingegno fosse bastato fare quattro passi fuor delle mura per trovare un quadro vivo e pieno di sentimento. Tito Bondi aveva derivato la poesia da una gora pantanosa, in cui certamente al crepuscolo si affacciavano le rane a dire il rosario in coro. Mattia fu contento che il suo figliuolo cominciasse dov’egli non era arrivato se non a prezzo di tante fatiche, cioè a scuotere la gente addormentata, e costringerla a dire bello davanti all’immagine d’una natura indifferente, anzi brutta. Fu tanto contento che perdonò a Novus quest’altra sentenza da pigliar colle molle: “Vedete bene; la verità salva l’arte; a Tito Bondi è bastato fermarsi davanti ad una gora per fare un paesaggio splendido; il suo merito è di avere espresso fedelmente quello che ha visto.„ — Bada bene, figliuolo, disse Mattia; puoi accettare la lode di _Novus_, se ti piace; l’accetto io pure... per quel poco che vale. Ma tu sai meglio di me che accade precisamente tutto il contrario; non è la verità che salvi l’arte, la quale non ha bisogno di essere salvata da chicchessia, ma è l’arte eterna che salva la verità. E sta appunto in ciò il gran merito dell’artista, che è di spargere una velatura sulle cose indifferenti, e farle belle. Tu hai _idealizzato_ un pantano, ed è la tua gloria. Non so quello che accada agli scrittori, ma nessuno mi toglie dal capo che i paesaggi che essi rappresentano colla penna, siano sparsi sempre d’un po’ d’ideale, anche quando sono verissimi. Perciò essi dicono qualche cosa: dicono se non altro come gli ha visti l’autore; e tu sai che di dieci persone, le quali guardino, nove vedono qualche cosa che ciascuna per conto proprio ha messo nell’oggetto guardato. — E il decimo? interrogò sorridendo Tito per dargli l’allegria di sparare un razzo. — Il decimo è il copista, è l’usciere, che facendo l’inventario si crede più vero di tutti, perchè è scrupoloso nel non dir nulla; perchè non è ideale, ma è semplicemente falso. Pensa bene a quel che ti dico: la verità, senza l’ideale, è meno di niente. Tito aveva pensato un poco a queste e ad altre cose che gli era andato dicendo suo padre, vi aveva pensato in silenzio, e Mattia potè immaginare di averlo convinto vedendo di lì a poco una tela incominciata, in cui si affacciava da un cielo di nebbia una testina di fanciulla tutta promesse. Ed aveva detto tirando ad indovinare: — Hai voluto esprimere a tuo modo la mia _idea_; tu mi nascondi il corpo della fanciulla divina per fermare meglio l’occhio sulla testa. Bada che forse hai ragione. Intanto la tua testa è maravigliosa; te lo dico io; ma promette troppo, e non so se manterrà le sue promesse; temo che l’arte, anche quando siamo riusciti a fermarla ed a farci guardare, sia più severa e più sdegnosa. A me almeno è costata molta fatica. Il giovine si era fatto rosso a queste parole, e non aveva osato confessare a suo padre che quella testina tutta promesse non era l’arte, non era l’ideale, non era nemmeno un’idea come un’altra, ma solamente una fanciulla che gli sembrava più viva di quante fanciulle aveva visto fino allora, e che gli faceva soffrire le pene del purgatorio, promettendogli il paradiso. Mattia aveva inteso benissimo che la pittura sana non era entrata per nulla nel rossore di suo figlio, e quando volle sapere di che male soffrisse l’arte di lui, trovò la bellissima forma di una ragazza di diciott’anni. Si chiamava Cesira, era sbarcata appena in terra d’artisti, ed aveva già dato la tortura a molti facendo la modella a due lire l’ora. Dicevano che posava unicamente per la testa, che per mostrare nudi un braccio, un omero e poco più, si era fatta pregare molto; e che per guardare quella poca grazia il pittore aveva conchiuso un vero trattato. Aveva dovuto essere prima di tutto maturo molto, convenirne più del necessario, e promettere che nell’ora di posa non sarebbe penetrata anima viva nello studio. Infine l’artista aveva giurato sulla propria calvizie di non dir nulla agli altri meno calvi di lui, ma non credendo egli alla propria calvizie, tutta la _Famiglia artistica_ fu informata della cosa. Si era saputo più tardi che la pudica Cesira aveva avuto un innamorato, e non già platonico, e la famiglia artistica si era formata il criterio che la ragazza volesse arrivare per la via dell’arte al matrimonio. Ma Tito Bondi assicurava che l’idea di Cesira era un’altra, che se avesse voluto trovare un marito, se ne sarebbero immediatamente presentati dieci. Avrebbe anche potuto aggiungere che l’autore della _Campagna Lombarda_, giovane a ventidue anni, agiato, quasi indipendente (perchè il vecchio Mattia non avrebbe visto nulla di male che il figlio si portasse in casa una forma così ideale) si era lasciato fuggir di bocca una parolina matrimoniale, e che Cesira la semi-casta aveva risposto picche. Dopo aver fatto girare la testa a molti, Cesira un giorno aveva abbandonato la famiglia artistica per consacrarsi al dramma e alla tragedia. Molte volte aveva fatto allusione al proprio disegno, dicendo agli artisti innamorati di lei e del vero, che essa pure obbediva alla verità, e perciò faceva la modella; ma che un giorno o l’altro una verità diversa e più potente l’avrebbe chiamata a voce alta, ed essa allora avrebbe piantato la pittura. E intendeva dire d’una voce di palcoscenico. E infatti un capocomico famoso accettò la bella modella promettendo di farne in poco tempo l’amorosa della compagnia, e anche qualche cosa di più se desse retta ai suoi consigli. Cesira aveva ripetuto con entusiasmo queste parole che le aprivano le porte della gloria, e Tito Bondi le aveva ascoltate in silenzio. Poi con voce tremante il giovane balbettò: — Cesira, pensateci ancora; io vi voglio un gran bene, e si potrebbe essere tanto felici. Ho un’arte, e sarebbe l’arte vostra, la vostra più che la mia, perchè voi mi dareste l’ispirazione. Ma Cesira aveva crollato la testina bella. — Comprendo tutto, vi ringrazio; ma ognuno porta con sè la propria sorte. Tito l’aveva vista partire ad occhi asciutti, per andarsene a Roma; e tornato a casa fece impensierire molto il vecchio Mattia non toccando quasi cibo, nè pennelli per molti giorni. Poi l’arte, l’eterno amore, si era affacciata ancora nel cervello del giovine, e la famiglia artistica aveva potuto credere che quell’amore fosse caduco come tutte le cotte dei pittori. Solo suo padre non si era lasciato ingannare; nell’umore taciturno del figliuolo, nelle tele che incominciava e non finiva, egli aveva visto che Tito pensava ancora a quella donna fatale; solamente sbagliava anche lui, come la famiglia artistica, attribuendo la persistenza della malattia amorosa ad un desiderio insoddisfatto. Tito avrebbe potuto dire che Cesira, impietosita da un amore ingenuo e forte come non avrebbe mai incontrato il simile sul palcoscenico, si era data a lui interamente; che gli sonavano ogni tanto nel cervello le parole drammatiche della resa; che vedeva ancora l’atto indifferente ma tragico con cui si era rassegnata al sagrifizio; e che sentiva ogni volta il turbamento infernale di quell’ora di paradiso. “Voglio contentarvi; voglio che non pensiate più a me, voglio che mi possiate dimenticare.„ Erano le parole che Tito aveva ripetuto a sè stesso mille volte per sentirne ancora il suono; non ne mancava una. Dopo di che Cesira aveva chiuso gli occhi... Ah! li chiudeva anche il giovine quando non si voleva credere abbandonato del tutto. Ma erano passati molti mesi e Cesira non aveva dato nessuna notizia di sè. Un giorno, da Buenos Ayres, giunse finalmente una lettera della commediante; annunziava di essere divenuta la prima amorosa, d’essere applaudita ogni sera, di essere finalmente arrivata e felice. _Arrivata_ e _felice_ erano sottolineati. E conchiudeva: “Nulla mi manca, proprio nulla, perchè io sono madre d’una bella bambina, e siete stato voi a darmela. Non ve lo volevo dire, sapete! perchè vi conosco e temevo che questa notizia potesse guastare la vostra pace, mentre a me ne dà tanta. Ci ho pensato meglio; e vi dico che mi avete resa gloriosa, dandomi l’unica felicità che mi mancasse. Non v’inquietate di nulla e siate felice anche voi; io amerò molto la mia creatura, e le ho già insegnato il nome vostro.„ Il povero giovane lesse due volte come uno smemorato; non sapeva bene che cosa andasse ricercando nella notizia allegra che rimescolava tutto il suo vecchio dolore; ma finalmente, in un angolo di quella lettera di quattro pagine fitte, trovò queste parole dimenticate dalla prima amorosa nella foga dello scrivere e aggiunte dopo, probabilmente quando ebbe recitato a voce alta ciò che aveva scritto: “La mia bambina si chiama Bianca...„ Il primo pensiero di Tito Bondi era stato quello di correre, come si trovava nello studio, senza cappello, in maniche di camicia, difilato a Buenos Ayres per baciucchiare la propria creatura, e anche per stringersi al petto quella madre tanto bella, e pregarla, e scongiurarla, e costringerla, se fosse necessario, ad accettare il nome, la casa, l’avvenire, tutto il grande amore che le aveva già offerto una volta. Ma siccome quel viaggio richiedeva quasi un mesetto, e i vapori postali non partono tutti i giorni per la Plata, ebbe agio di riflettere, e formulò un telegramma conciso ma chiaro, che gli parve dover riuscire efficacissimo. “Tito felice rinnova proposta, scongiura torniate subito; vi aspetta col primo postale. Scrive.„ Rileggendo, si era avveduto che bisognava cancellare le parole _rinnova proposta_, perchè potevano dare l’idea d’un dubbio; rileggendo ancora, cancellò la parola scrive. Ma quando ebbe fatte queste cancellature, e mandato il dispaccio, non essendo ancora ben sicuro che Cesira si arrendesse, scrisse. E dimostrò con molte parole questo unico assioma: “La felicità che non mi avete concesso e che io non vi chiederei più, è diventata una necessità, un dovere per tutti. Non vi è lecito respingere l’uomo che vuol essere il padre della propria creatura.„ Mandata questa lettera che decideva dell’avvenire, ebbe bisogno di raccogliersi per fare nella solitudine molte riflessioni inutili. Il risultato fu che, scrivendo a quel modo, scrivendo senza riflettere, scrivendo subito, egli aveva fatto molto bene per molte ragioni. Notiamole in buona fede: _perchè_ il dovere va innanzi a tutto; _perchè_ non vi è maggior dovere di quello che stringe un padre a sua figlia; perchè l’istinto stesso dell’amore è fatto di pietà; perchè il sangue... Il perchè del sangue non entrò bene nemmeno nel cervello di Tito, il quale, volendo immaginare come era fatta la piccina a cui aveva dato la vita, non trovò mai altro che le forme della madre tanto bella. Tutto quel giorno aveva avuto la febbre; si era detto cento volte; “a quest’ora Cesira ha ricevuto il telegramma, pensa ai fatti suoi, parla al capocomico, si decide, telegrafa per avvisare la partenza...„ Quando il suo pensiero infilava questa strada, Tito era proprio felice, e se non si buttava nelle braccia di suo padre e non gli confidava la sua grande speranza, era perchè il suo pensiero si metteva subito in un viottolo cieco, dove il desiderio trovava prima una muraglia alta e forte, l’indifferenza della donna, poi una più alta e più forte, la vanità della commediante. E nondimeno, dopo aver aspettato un telegramma senza molta speranza per due giorni interi, si era accorto che al suo dispaccio mancava qualche cosa d’essenzialissimo, e lo corresse con un altro: “Se vi occorre denaro per viaggio, telegrafate.„ Cesira non telegrafò, non venne col primo postale, nè col secondo, e nemmeno scrisse. Tutte le notti Tito sognava Cesira; la sognava bella ed arrendevole come era stata una volta; la sognava innamorata. Svegliandosi, trovava il proprio desiderio inquieto di farla sua per sempre. In queste visioni del sonno e della veglia, egli voleva che entrasse anche la bambinetta color di rosa, altrimenti non sarebbe stato degno del nome di padre; ma vi entrava fuggitivamente, quasi chiedendo scusa all’uomo buono, che le faceva l’elemosina di chiamarla figlia. Tito sapeva che tutti i mercoledì parte un vapore postale per la Plata; e non volendo darsi vinto, aveva scritto ogni lunedì una lettera di quattro pagine fitte, crescendo il tono ogni volta, aumentando in buona fede la tortura che diceva di patire perchè non poteva nemmanco immaginare il visino gentile della sua Bianca. Dopo molti mesi di silenzio aveva annunziato disperatamente che se Cesira non rispondesse quest’ultima volta, non avrebbe scritto più nulla, ma sarebbe venuto in persona. Minacciata così, Cesira rispose una lettera che faceva cascar le braccia. “Io non potrei essere vostra, perchè sono di altri, perchè sono stata di tanti. Credetelo. Non ho mai amato nessuno, sono incapace di amare; voglio bene unicamente alla mia piccina, e sono grata a voi che me l’avete data. Siete giovane, siete artista, innamoratevi d’una buona fanciulla, come ce ne sono tante, e sarete felice.„ Tito Bondi si era proposto di non dir nulla a suo padre finchè ogni cosa fosse intesa; diceva a sè stesso: “non sgomenterò quella cara testa che sogna finchè non sia venuta l’ora;„ ma quando vide crollare tutta la sua speranza, si sentì preso da una pietà di sè stesso, che lo indusse a ricercare una parola di quel sicuro amore. Mattia crollò il testone canuto, e trovò per istinto la via del cuore di quell’ammalato. Disse melanconicamente: — La tua malattia la conosco; so che pene fa soffrire. Non disse altro, ma con queste parole si assicurava la confidenza; e infatti il giovine, sapendo di trovare scavato nell’anima di suo padre uno stesso dolore, spento ma intelligente ancora, si era affrettato a versarvi tutto sè stesso. Quando avevano letto insieme quella lettera che non lasciava sopravvivere nulla, Tito disse con amarezza: “è una commedia„ e Mattia rispose: “sì, è una commedia, ma è sincera.„ E spiegò il proprio concetto: — Tutte le commedianti scaltre fanno così; mettono sempre una parte della verità negl’inganni. I più bravi a far la commedia sono quelli che possono qualche volta ingannare sè stessi. Ai miei tempi ho visto tante attrici piangere; ne vedrai tu pure. Ciò che scrive Cesira è la verità, e ti puoi chiamare fortunato se nella commedia che fa in questo momento a Buenos Aires, chi sa con chi, a te siano toccate le parole sincere. Fa a modo mio; non ci pensare più se puoi; ma quando ci pensi, voglio che ne parli al tuo vecchio amico. Guariremo più presto, e se avremo la fortuna di innamorarci d’una buona fanciulla... Tito aveva protestato in silenzio, accontentandosi di diniegare con un moto del capo; all’ultimo aveva interrotto per assicurare in buona fede: — Credilo, babbo mio, Cesira od un’altra sarebbe per me indifferente; ma il pensiero che quella disgraziata è madre, e che il mio amore è risponsabile d’aver dato la vita ad un’infelice... Mattia fu brutale, e non gli lasciò finire la frase. — E che ne sai tu se quella bambina è nata della tua colpa? La madre non ti scrive forse che si è data e si dà ad altri? sarebbe capace di ricominciare se tu facessi la corbelleria di sposartela. — La sua stessa schiettezza... balbettò Tito scoraggiato; la sua abnegazione... il suo disinteresse... E allora Mattia fu indulgente; prese nelle proprie la mano di suo figlio e gli parlò semplicemente, in tono dimesso, coll’aria di non volerlo nemmeno convincere. — Pensiamoci insieme: vediamo quanto valga la schiettezza d’una commediante, se non sia sempre un inganno, anzi il più audace degli inganni. Vediamo se in quella che chiamiamo abnegazione non entri là vanità — perchè se vi entrasse appena appena, non crederemmo più all’abnegazione. Al disinteresse poi, non ci credo assolutamente. Chi sa a quanti altri avrà affibbiata quella maternità di cui si dice orgogliosa... — Ora sei ingiusto, babbo; essa non domanda nulla... — Perchè non ha bisogno; perchè forse ottiene senza domandare. Chi ti assicura che non domanderà più tardi, quando, avendo bisogno, non sarà sicura di ottenere? Ma allora sarai guarito e potrai anche far l’elemosina, se ne avrai voglia... — Ti assicuro che io sono guarito... — E se scendi in fondo alla tua coscienza, disse Mattia, vedrai che lo scrupolo paterno non entra per nulla nella tua smania. Egli non disse, e sarebbe stato inutile, che nell’anima inquieta di Tito viveva ancora il desiderio di quella vaghissima madre. Ci viveva tanto, che quel giorno stesso il giovine aveva inviato un’altra lettera dicendo (che cosa non disse in quella lettera di otto pagine?) dicendo che, se volesse tornare, ora e sempre, lei e la sua creatura sarebbero accolte a braccia aperte. Aveva scritto senza confidarsi con anima viva, ma si pentì e non volle serbare segreti per suo padre, il quale disse unicamente questa parola: _aspettiamo_. Aspettarono infatti insieme otto settimane ancora, immaginando che Cesira pensasse meglio ai casi suoi; poi Mattia non aspettò più, e Tito aspettò ancora per molti mesi. Mattia il glorioso era arrivato al quarto d’ora della disgrazia. La provvidenza, abbandonando lui, lo mise in braccio a suo figlio, che aveva anch’esso un gran bisogno di staccarsi dalla smania amorosa per guardare in faccia a un dovere. Per dir tutto in poche parole: Mattia si ammalò di paralisi, complicata di amaurosi. Col tempo la paralisi fu vinta, ma l’amaurosi rimase: Mattia era condannato a non vedere mai più i capolavori proprii, a non leggere mai più le appendici delle gazzette. Le quali, tutte d’accordo, stamparono che l’illustre, il venerando Mattia, il pittore, che aveva dato all’arte tante tele celebrate, non avrebbe dipinto più nulla. In quel coro si erano uniti con tutta la buona volontà _Sincerus_ e _Novus_, adoperando press’a poco le parole medesime. Se non che _Sincerus_ si accontentava di chiamare _illustre_ il povero cieco; _Novus_ aveva abbondato negli epiteti e gli dava ora dell’_illustre_, ora del venerando, e una volta dell’_illustre_ e _venerando_ insieme, per farla finita. III. La cecità era stata un colpo crudele della sorte per quel vecchio glorioso. Per due anni interi aveva consultato gli oculisti più famosi, non ricevendo mai nessuna lusinga, ed egli lusingandosi sempre; s’immaginava e diceva che un bellissimo giorno, fissando la parete nera che gli stava sempre davanti agli occhi, la vedrebbe accendersi e splendere, da costringerlo a chiudere le palpebre. “Vedrai, aveva detto a suo figlio, il mio malanno è venuto a un tratto, e così se n’andrà.„ Ringraziava i critici, che quando lo avevano creduto spacciato si erano accorti che egli poteva essere _illustre_ e _venerando_, ma era sicuro che un giorno dovrebbero rintascare quelle lodi prodigate come monete, che sonerebbero per l’ultima volta per non avere corso mai più. “Voglio vederli ridiventare avari, quando avranno visto e toccato che io sono vivo ancora, e ancora artista.„ Tito diceva sempre di sì, e metteva anzi nella bugia un tantino di enfasi perchè dal tono di voce il vecchio la potesse credere la verità. Ma due anni di aspettazione e di fede stancano anche le illusioni più robuste. Nella notte che lo circondava, il tempo, come lo spazio, si era perduto a poco a poco, e se ora Mattia guardava ad un avvenire, altro non vedeva se non il proprio passato glorioso continuarsi nel presente. E perciò si era rassegnato. Quell’inverno si era fatto portare nello studio un’ampia seggiola e aveva voluto che fosse collocata innanzi al finestrone per modo che il sole ad una certa ora gli battesse sulle gambe. Stava là per ore intere, in silenzio, poi a un tratto sorrideva ad un’immagine gioconda che si era affacciata nel buio. — Che stai facendo ora? domandò un giorno a suo figlio. — Metto un po’ di nero nel fondo per staccare meglio la figura; ma ho quasi finito; un momentino ancora e ti dirò se sono contento. Quando seppe che la macchia nera del fondo faceva bene nel quadro, e che la figura aveva più aria di prima, il vecchio artista fece una domanda inutile, alla quale Tito rispose semplicemente, dopo di essersi curvato a guardare meglio l’espressione della faccia del cieco. — Babbo, tu pensi ad altro. — Non è vero, disse Mattia, ma col sorriso smentiva la negazione. — Tu hai qualche cosa da dirmi, continuò Tito; dimmela subito. — Prima Mattia rise forte all’invito amorevole, poi si fece serio e tacque lungamente, mentre suo figlio continuava a lavorare davanti al cavalletto. A un tratto, come se continuasse un dialogo avviato, il cieco entrò a dire: — Io ho capito tutto; il babbo tuo ci vede ancora. — Che cosa hai capito? balbettò Tito, curvandosi per istinto a guardare suo padre negli occhi; hai indovinato il tema del mio quadro nuovo? Volevo tacere perchè mi vergognavo della mia debolezza; sì, babbo, hai ragione; quella donna si è cacciata nella mia testa, e non avrò pace fin che non ne l’abbia fatta uscire. Tu sai che agonia è copiare un’immagine, che si affaccia nel cervello e si nasconde. Però posso dirti che come artista soltanto m’innamora, ma come uomo, è una cosa finita, propriamente finita. Mattia non rispose, ma continuò a sorridere in un certo modo misterioso. — E credi che arriverai in tempo? disse poco dopo. — A che? — La sai bene la massima mia; tutto il lavoro incominciato nell’anno dev’essere finito a San Silvestro. — Spero, disse Tito; ma quelle parole e il lieve sorriso che durava ancora sulla faccia serena del cieco gli fecero venire un’idea. E subito staccò silenziosamente dalla parete un telaio preparato, e, lì per lì, con pochi tocchi di carbone segnò le prime linee d’una testa pensosa che s’incorniciava nella spalliera altissima d’un’antico seggiolone. Il cieco stava in ascolto. — Ora non capisco più; sento lo sfregamento del carbone sulla tela nuova; tu lavori sopra un altro telaio? — Sì, rispose Tito ridendo; è una testa molto difficile; quando le teste sono difficili il miglior sistema è di cancellarle; ma io non cancello, perchè in quello che ho fatto ci è del buono. E Mattia fu lusingato di sapere che egli aveva una testa difficile. — Ma se tu ci vedi meglio di me, soggiunse il giovine artista dopo un lungo silenzio, è inutile che facciamo la commedia; dimmi la verità: non ti fai un’idea della tela che sto dipingendo?... — Chi sa? Forse sì, disse il cieco. In un canto della tela, un seggiolone antico, come questo, nel seggiolone un vecchio con una testa difficile, molta barba bianca e molti capelli bianchi; gli occhi aperti che non guardano più le cose della terra perchè hanno visto molte cose del cielo... Va bene così? — Va benone. A San Silvestro il tuo ritratto sarà finito. — Mi posso muovere? domandò di lì a poco Mattia. — Sì; smetto. Tito si rammaricava in cuore che quell’idea naturale di dipingere la bella testa del padre cieco non fosse venuta a lui prima che al vecchio, il quale probabilmente da molti giorni posava coscienziosamente per il proprio ritratto. E per punire sè stesso, voltò contro la parete la solita Cesira, salvo a rivoltarla più tardi. Mancavano dieci giorni a San Silvestro, e a quel tempo il ritratto doveva essere finito, non già perchè Tito avesse fatto sua la massima vantata dal padre, ma perchè Mattia avrebbe compiuto i settantaquattro. Avendo lavorato con lena due giorni interi, la vigilia di Natale il giovine artista potè dirsi contento dell’opera propria, e Mattia potè respirare liberamente. — Perchè, vedi, figliuolo mio, sono quasi due mesi che in ci lavori. — No, babbo.... non credo.... — Sì, proprio due mesi; fa il conto; hai cominciato il 20 ottobre, quel giorno dell’acquazzone, e hai detto così, mi par di sentirti ancora: “piove, la nostra passeggiata è perduta; mettiti davanti alla finestra ed ascolta come la pioggia picchia sulle vetrate; io intanto.... sporcherò una tela nuova...„ E quando volli sapere che cosa avevi fatto, mi dicesti che non ti era riuscito nulla di buono. Da quel giorno tu hai sempre lavorato all’improvvisata che mi volevi fare; di’ che non è vero, se puoi... lo vedi? La provvidenza, figliuolo, ci aiuta tutti quanti, dà agli sventurati la forza di sopportare la sventura, dà ai ciechi la doppia vista. E siccome Tito, credendosi obbligato a rispondere qualche cosa, fece allusione alla guarigione in cui non sperava nemmanco lui, Mattia tentennò il capo a sorrise senza amarezza. — Tu dici così, ma non credi tu stesso. Però senti: voi altri che ci vedete, che camminate diritti, che volate sulla vostra giovinezza, non potete pensare senza orrore alla disgrazia di chi non vedrà più nulla, di chi ha una gamba di legno, di chi si trascina appena tanto è debole. Ma è un inganno della vostra pietà. I ciechi, gli storpi, i monchi e gli ammalati godono anche la loro parte di cielo. Se sono riusciti a farsi l’abitudine, possono essere felici come la gente che ha due gambe buone e due occhi che portano lontano. La rassegnazione sembra una virtù molto difficile; così è sembrata a me per un anno intero. Ma ora che ho perduto ogni speranza.... — Non dir così, babbo. — E perchè non dovrei dirlo, se questa speranza, dopo avermi medicato per tutto un anno, se n’è andata lasciandomi una forza, che non mi abbandonerà più? Avendo infilato quella via il cieco vide subito che poteva andare fino al proprio desiderio segreto, e vi andò di buon passo. — Mettiti bene in capo che io non posso più patire di nulla; vivendo d’un passato che non può essermi tolto, trovo nella memoria tutte le sorgenti del mio godimento. Ma tu non crederai che si possa vivere senza un desiderio almeno... io ne ho uno.... — Dimmelo. — Sì? Te l’ho a dire? Te l’ho a dire proprio? Non lo disse. Il desiderio suo era che Tito scegliesse una compagna, non già per lui solo, ma anche per quell’egoista di Mattia; una donnina che fosse bella, che aiutasse il figlio a sperare, che accarezzasse la cecità rassegnata del padre. Il cieco aspettava un indizio che gli permettesse di proseguire; e quando Tito si lasciò sfuggire un sospiro, egli vi aggiunse una risata discreta, e non fiatò più. Ma sembrava fatto a posta; quel giorno Barbara ebbe il coraggio ostrogoto di servire in tavola due braciuole, che dalla gratella erano andate a finire nella cenere; e Tomaso si lasciò pigliare ancora una volta dal suo vecchio amore per il vino vecchio del suo vecchio padrone. E allora il cieco spiattellò il proprio desiderio segreto. Tito ascoltò in silenzio la parola paterna, e non rispose, ma baciò il testone canuto. Più tardi entrò a dire: — Peccato che tu non sappia sonare il pianoforte; peccato che non lo sappia sonare nemmeno io; quanto volentieri a quest’ora si farebbe insieme un po’ di musica! Ma di’ un po’; se ogni sera venisse in casa un sonatore, che si mettesse al cembalo un’ora o due.... Non sarebbe bello? Il cieco applaudi. — Uno che sonasse tutta la vecchia musica di Cimarosa, di Rossini... Sicuramente, sarebbe bello. Se poi volesse leggere qualche novella, o qualche poesia, sarebbe anche meglio; ma un sonatore od un lettore si annoierebbe presto; avrei più fede in una lettrice.... Dovette convenire anche Tito che gli uomini sono meno pazienti delle donne, e che un’antica maestra, una vecchia zitellona, una vedova senza figli.... — Ma perchè vecchia, ma perchè antica? interruppe il cieco; se la lettrice fosse giovine e la parola sua fosse argentina; se la sonatrice fosse allegra e bella, che male ci vedresti? Tu t’immagini forse che uno, quando è vecchio e cieco, sia indifferente alla gioventù ed alla bellezza? Ma non per nulla siamo rimasti per cinquant’anni artisti. Tito convenne di buon grado anche in questo. — E allora trovami tu una ragazza intelligente, che voglia adattarsi a passare qualche ora con un vecchio cieco; ce ne devono essere tante, che non aspettano altro. Se non me la trovi tu, sai che faccio io? mi metto alla finestra e grido: “Una bella ragazza che sappia sonare il pianoforte e che abbia voce chiara e amabile per fare la lettura, troverebbe un buon collocamento.„ Scommetto che si fermerebbe molta gente, e che non tarderei a trovare il fatto mio. Tito vide in questa idea venuta a lui, migliorata da suo padre, lo scampo alla necessità che gli si era affacciata tante volte, e che lo avrebbe tormentato sempre più; diciamo la necessità di prender moglie. E andò un passo più avanti del cieco. — Se poi fra queste concorrenti se ne trovasse una buona tanto da poter tener luogo della figliuola che ti manca.... — Ebbene.... allora.... — Allora potresti pregarla di rimanere sempre in casa, fin che non trovasse marito. Il cieco sospirò di nascosto, e disse semplicemente: — Dunque trovamela subito. La stessa sera Tito andò a dire alla _Famiglia artistica_ che lo aiutasse a salvarsi dal matrimonio, trovando una sonatrice per il padre cieco; e un vecchio artista, famoso, anche lui, per avere cominciato molte tele senza averne mai finito una, lo prese in disparte. — Io ho due figliuole, gli disse con solennità: sono allieve del Conservatorio... Vedo che lei non sa che io sono il Salvi; tutti le diranno chi è il vecchio Salvi; suo padre forse mi conosce. Le mie figliuole verranno in casa sua perchè il vecchio Bondi possa scegliere. Ma le posso dire che sonano tutte e due benone, che Giuditta è bellissima, che Sofia è tanto buona.... — Mandi Sofia, si affrettò a dire Tito. — Perchè Sofia e non Giuditta? domandò il vecchio Salvi. — Perchè le bellissime ragazze sono sempre meno pazienti delle.... altre, rispose il giovine sorridendo. — La sorte ha voluto renderle pazienti tutte e due, affermò il vecchio con sussiego. Lasci fare a me; gliele mando domani al mezzodì. Vennero infatti all’ora indicata; Giuditta si presentò la prima sull’uscio del salotto, si tenne un momento ritta nel vano per fare la riverenza, poi si scostò lentamente per scoprire Sofia, che era tanto minutina e dimessa, quanto la sorella appariva alta, sicura di sè.... e bella. Mattia, che le aspettava sul vecchio seggiolone, quando si accorse che le ragazze erano entrate, disse lentamente: — Mi scusino se non posso riceverle come vorrei; or ora verrà mio figlio, che ci vede; ma se hanno la bontà di accomodarsi... lì, ci sono delle sedie. Giuditta si accomodò subito, Sofia rimase in piedi, non ostante che la sorella le accennasse di imitare il suo esempio. Dissero _grazie_ entrambe. In quel punto entrò Tito. — Sono qua, babbo; buon giorno, signorine. Ma ne salutò fuggitivamente una, fu dal primo momento incatenato dalla bellezza dell’altra; la quale si era rizzata un momentino, e si era rimessa a sedere spargendo intorno a sè una malia, unicamente col moto del capo e con lo splendore degli occhi neri. — Lei, signorina, è Giuditta? balbettò il poveraccio divincolandosi da quella bellezza feroce. — Sissignore; e questa è Sofia, mia sorella. Il babbo ci ha mandato da loro perchè ci vedano; soniamo tutte e due, e ciascuna di noi può fare la lettura ad alta voce; mia sorella sa più di me, perchè è la maggiore; io sono più allegra. Ma di’ qualche cosa anche tu, Sofia. — Che vuoi che dica? Abbiamo molta parte del giorno libera... — E possiamo disporre di tutto il tempo necessario, interruppe Giuditta. Ma il pianoforte dov’è? — Ci sarà domani, disse il cieco; ma prima mi dicano: quale di loro è la più paziente? — Sofia! — Lei che ha parlato è?... — Giuditta. Tito si lusingò che questa risposta potesse risolvere il quesito per Sofia, ma il cieco ci pensava ancora, e rispose: — Brava Giuditta. E lei, Sofia, che cosa dice? È della stessa opinione? — Mia sorella mi vanta sempre, non mi lascia mai tempo di dire bene di lei. — Il bene che si può dire di me, lo posso dire io stessa, assicurò Giuditta: sono allegra... ecco. Ma una lieve reticenza diceva a Tito: “io sono bellissima, e posso essere generosa con mia sorella, che, al confronto, è bruttina.„ Evitando di guardare quel fascino, Tito non sapeva come fare ad avvertire suo padre che Giuditta era troppo bella ed audace, e lui troppo giovine e troppo artista da resisterle a lungo. Ma per fortuna anche il cieco non si sentiva forte per risolvere addirittura, e non si potendo consultare con suo figlio fece una pensata. — Sentano, signorine; il vecchio Salvi le ha mandate perchè io faccia la scelta; ma io, che sono un cieco astuto, le scelgo tutte e due. Vogliono? quando non potrà venire Sofia, verrà Giuditta; e quando mai una di loro avesse altre occupazioni o si annoiasse troppo leggendo e sonando per un artista invalido... potrà mandare sempre sua sorella. Vogliono? — Altro che! disse Giuditta. — Sono contento! e mi facciano il piacere di dire al babbo che il vecchio Bondi conosce e stima molto il Salvi. — Grazie! rispose Sofia con un lieve tremito di contentezza, che non isfuggì al cieco. Giuditta era attenta a spiare nello specchio dirimpetto se quel giovinotto fosse proprio tanto indifferente, come voleva parere. Quando le due sorelle se ne furono andate, rimase nel cervello di Tito l’impressione dell’atto freddo con cui Giuditta lo aveva salutato in anticamera, guardandolo appena appena sbadatamente. Sofia invece gli aveva sorriso un sorriso buono, mostrando denti uguali e candidi, lo aveva guardato con occhi non tanto accesi come quelli di Giuditta, ma grandi, intelligenti e pensosi. Veramente egli non aveva badato molto a Sofia, ma pure si ricordò di quegli occhi e di quel sorriso, quando il cieco gli chiese: — Ebbene? Che te ne sembra? Sono belle, non è vero? E siccome la risposta non fu pronta, Mattia lasciò fiorire sulle labbra la soddisfazione maliziosa: — Vuoi sentire quel che penso io di quelle ragazze? — Sì; sentiamo che concetto te ne sei fatto; io, per dire la verità, non ho ancora avuto tempo di farmene uno. Comincia da Giuditta... — Giuditta è bella, o almeno crede di essere... — È vero. È bellina, ma si crede bellissima. — È magra... piuttosto alta, sì?... deve avere due occhietti piccoli che caccia in faccia alla gente; e forse non è nemmanco allegra, come si vanta... — È vero, è verissimo, approvò Tito; ma in quel ritratto di maniera gli occhi meravigliosi chiedevano giustizia, e il giovane artista credette di essere coscienzioso correggendo così: solamente gli occhi di Giuditta non sono piccoli. — Non sono però tanto belli, come quelli di Sofia... È vero? — Forse; ma sono pieni di luce. — Sofia, continuò il cieco incoraggiato dal buon successo, Sofia è più piccola, più modesta, più melanconica, più attenta. Dev’essere una di quelle buone figliuole che, nascondendosi sempre, dicono ogni giorno qualche virtù. Non ti pare? Tito ci pensava. — Può essere; ma non l’ho osservata bene. — Segno che è brutta, disse Mattia; e questo mi dispiace. Allora Tito si pentì d’essere stato troppo sincero, ed assicurò che al contrario Sofia era bella quanto Giuditta, ma che la sua bellezza non era di quelle che fanno colpo... IV. Il giorno successivo, dopo il desinare, venne Sofia, e rimase due ore col vecchio sonandogli Cimarosa. Quella musica gaia faceva penetrare ondate di luce nel cervello melanconico del cieco, il quale alla fine d’ogni pezzo diceva _brava_ e batteva le mani. — Bravissima! disse in ultimo; e mi dica, signorina, lei non sente nell’allegria di Cimarosa una nota di pianto? — Tutta la musica piange; rispose la fanciulla con semplicità. — Può essere, soggiunse Mattia; dopo aver pensato un momento a quelle parole; quando si ha il cuore preparato alla melanconia, tutta la musica piange; ma io vorrei sapere che la mia piccola amica non è melanconica. — Non sono molto allegra, ma nemmeno melanconica, assicurò Sofia timidamente; non parlavo di me: dicevo che la musica può sembrare allegra agli spensierati; è sicuro che certa musica non dice nulla, ma quella non è musica, è chiasso. Parlava con parola facile ed armoniosa, ma si faceva rossa in viso come se il cieco potesse scorgere nella frase sfuggitale un’affettazione che essa non vi aveva messo. Il cieco pensava invece: — Questa bella donnina è piena di sentimento; peccato che Tito non sia rimasto! Tito non era rimasto perchè si teneva sicuro che sarebbe venuta Giuditta, e non gli spiacendo mortificare la vanità di quella civettuola, voleva anche sottrarsi al fascino. Perchè, ahi!... Tito, avendo frugato nel proprio cervello, aveva riconosciuto che una medesima cellula nutriva uno stesso amore prepotente per l’arte e per la bellezza. E ancora aveva visto che Mattia non era l’uomo più adatto per arrestarlo sulla china della corbelleria quando mai si fosse incamminato ad innamorarsi un’altra volta; piuttosto vi avrebbe contribuito con uno spintone paterno. Ora quando il cieco gli disse della venuta di Sofia, e della bellezza e delle grazie e della bontà di quella creatura, il giovane artista disse in segreto: “Me lo dovevo immaginare: Giuditta verrà, domani, ma Oloferne difenderà la propria testa, non si lasciando trovare in casa.„ Diceva questo un po’ per celia, un po’ per davvero; non gli dispiacendo di corbellare sè stesso, esagerava la debolezza erotica del proprio temperamento. Ma il giorno dopo venne ancora Sofia, e allora il giovine non seppe più che cosa pensare. Decise di rimanere sempre in casa di piè fermo. La bellissima fanciulla non venne nemmeno il domani; e quando Tito vide Sofia arrestarsi nel vano dell’uscio a salutare timidamente, ebbe per istinto un po’ di rancore che si riserbava a spiegarsi più tardi. Ma fu cortese con quella ragazza meschina, che sembrava scusarsi di non essere bella quanto Giuditta. — Sono sempre io, disse sorridendo; mia sorella non ha potuto venire. Il cieco non nascose la propria contentezza, e rispose: — Lei, signorina, è sempre la benvenuta; fra di noi s’è già fatto amicizia; più tardi faremo amicizia anche con sua sorella, ma sono contento che essa non abbia potuto venire oggi. Così mio figlio potrà sentire come suona lei la nostra vecchia musica. Così dicendo teneva il capo rivolto verso Tito, come per aggiungere sottovoce: — Esamina bene questa donnina; non è vero che è proprio bella? Osserva come guarda, come sorride; con che vocina e con che manierine parla. Quando avrò finito io, fammi il piacere di dirle anche tu una parola gentile. Tito intese ogni cosa, e non titubò menomamente nell’accontentare quella ragazza bruttina, che gli chiedeva misericordia con due grandi occhi buoni, con un visino patito, con una bocca troppo grande. Fece anche di più. Sapendo di non correre pericolo, si tenne accanto a lei, quando essa fece correre le dita sulla tastiera come per risvegliare il pianoforte. E quando, dopo molte volate, arpeggi ed ottave da stordire, annunziò la sinfonia del _Barbiere_, Tito si mise tranquillamente a sedere in modo da guardarla in faccia. Pericoli non ce n’era proprio. Non ostante il proprio temperamento amoroso, potrebbe stare dinanzi a quella ragazza tutta quanta la vita senza scaldarsi la fantasia. Fu il primo pensiero che gli venne questo di domandarsi come mai una linea sbagliata in una faccia femminile possa mutare tutto l’ordine di sentimenti che sarebbe capace d’ispirare. Guardando ben bene Sofia, mentre sonava a capo basso, Tito notò che la faccetta pallida aveva un ovale delicato, che la fronte sua era pura come se non fosse stata mai invasa da altre idee fuor che da quelle suggerite da Gioachino Rossini; notò gli occhi buoni velati da lunghe ciglia, che ogni tanto si alzavano ad interrogare la musica; notò che nel mento tondeggiante si scavava una fossetta. E infine convenne che quella testina avrebbe potuto ancora scaldare la testa d’un giovinotto, il quale non fosse mai stato al fuoco vivo, come era stato lui, se un pennello intelligente avesse potuto assottigliare l’estremità del naso, cancellare un po’ di bocca. La sinfonia del _Barbiere_ faceva ancora il chiasso delle ultime battute, quando Tito, rimasto incolume, ne aumentava il rumore battendo le mani. — Brava! Brava! Brava! disse il cieco, e rivolgendosi a suo figlio aggiunse: che cosa te ne pare? Tito, potendo guardare al sicuro gli occhioni sereni, ne abusava fino a dar soggezione alla ragazza. — La musica che preferisce lei, signorina, è proprio questa del _Barbiere_ che ci ha sonato con tanta grazia? Sofia fu sincera; a costo di ferire l’ideale del cieco, disse che il suo gusto era per la musica più moderna e più... sentimentale. — Bellini, allora; fu pronto a suggerire Mattia, oppure Donizetti... — Sì, ma Bellini e Donizetti hanno fatto cantare la voce umana; non hanno fatto parlare il pianoforte come Beethoven, Chopin... E senza aspettare d’essere pregata, incominciò la _Sonata appassionata_, mandando in estasi il giovine artista e accontentando il vecchio. Quando poi la ragazza, lasciandosi trasportare dal proprio temperamento, sonò la _Marcia funebre_ dì Chopin, Mattia trovò una lagrima negli occhi ciechi. — Scusi, disse Sofia vedendo il vecchio intenerito a quel punto; scusi, non credevo di farle pena. — Non me n’ha fatto, sono anzi contento; gli occhi mi servono ancora a qualche cosa, se hanno potuto piangere. In quelle due ore la ragazza finì di guadagnare il cieco, il quale volle baciarla in fronte. — Il tempo è freddo; si copra bene, signorina; cacci le mani nel manicotto, perchè se le venissero i geloni non potrebbe più sonare come ha fatto oggi... E dica... dove abita lei? chi l’accompagna a casa? — Sto a quattro passi di qui, e non ho paura della gente. — Non importa che lei non abbia paura; oggi è domenica, vi sono sempre degli ubbriachi per le vie; se mi permette l’accompagnerò io... disse Tito. — Grazie, non è necessario; ci ho già chi mi accompagna. Si fece rossa in viso all’idea che queste parole potessero essere intese malamente, e si affrettò a soggiungere: — Ci ho mio cugino... Ancora non bastava. Balbettò una parola: Tonio... — Buona notte! disse poi rinunziando a giustificarsi. — Buona notte! ripeterono Bondi padre e figlio. Il vecchio aspettò che la ragazza fosse uscita per dire: — Ha l’innamorato! Ma già bisognava immaginarlo! È tanto bella! Tito non fiatò, e Mattia aggiunse fra sè e sè: _peccato_! V. Tonio aspettava all’aperto da un’ora almeno, con le mani in tasca, interrogando ogni tanto il cielo rigido, che prometteva una bella nevicata per ceppo; stando sulla soglia di casa Bondi, batteva i piedi perchè non s’irrigidissero, oppure attraversava la strada, per mutare maniera di battere i piedi, ma senza mai perdere di vista il portone di casa. Finalmente la fanciulla aspettata apparve: — Tonio! eccomi. — Oh! sei tu? disse il giovinotto. — Sì, sono ancora io. Si strinse nello scialle e si avviarono a braccetto. Per un poco tacquero tutti e due. Sofia si era accostata il manicotto di pelo alla bocca, Tonio pensava a quello che potrebbe dire per uscir dal silenzio. — Giuditta non ha potuto venire nemmanco questa volta, disse la ragazza; me ne dispiace. — Non fa nulla, rispose melanconicamente Tonio; e poi, senti, quasi è meglio così; tu sei tanto buona, con te posso parlare; essa invece non mi ascolta. — Che cosa hai di nuovo a dirmi? interrogò Sofia parlando nel manicotto. — Sempre le stesse cose; ho fatto scuola tutto il giorno, ma non me la sono potuta levar d’attorno un momento; essa è stata sempre lì nel mio cervello, indifferente e bella... tanto bella e tanto indifferente! — Povero Tonio!... Ma chi sa poi se Giuditta è tanto indifferente come te l’immagini. Un po’ di bene te lo vuole di sicuro... — Questo sì! assicurò il maestro di scuola lasciandosi andare alla credulità; anche l’altr’ieri mi ha detto: se tu mi potessi offrire uno stato come voglio io, non avrei nulla di più caro che d’esser tua, Tonio. Te lo ricordi; ha detto proprio così: _non avrei nulla di più caro_. Ma, ricadendo subito nella sfiducia, aggiunse: — Sicuro; se io potessi darle lo stato che desidera! Diceva questo con molta melanconia, ma senza ombra di amarezza, come se fosse una cosa stabilita così, dal cielo o dall’inferno. — Lo sai tu, Sofia, qual è lo stato che accontenterebbe tua sorella? Io glie l’ho domandato tante volte, e non mi ha mai risposto. E pure, se essa mi amasse solamente un poco, si potrebbe essere tanto felici insieme! Facendo scuola tutto il giorno mi busco da vivere; e quando vedessi la necessità di fare la scuola serale, sarei tanto contento di affaticare il doppio per lei. E poi, non ha la sua musica? potrebbe dare delle lezioni anche essa. A me sembrerebbe una cosa tanto facile essere felici in due. Non pare a te pure, Sofia? La domanda era di quelle che non aspettano risposta. Fecero un tratto di strada in silenzio, poi Tonio ripigliò: — Bisognerà pure che mi risolva a non pensarci più; a dirle che cerchi la sua felicità per un’altra strada. Non troverà Tonio a darle noia, te lo assicuro io. Al mondo ci sono tante belle ragazze... e un uomo vale quanto un altro. Sofia acconsentì a ridere un momentino; poi disse seria: — Basta saperla aspettare, la felicità arriva sempre; nessuno ne è più degno di te, povero Tonio! — No, non mi compiangere; non voglio essere il povero Tonio; io sarò infelice, ma forte. Vedrai; tu non mi conosci ancora, anche Giuditta non sa come sia fatto il cuore, che le ha chiesto l’elemosina. Verrà giorno in cui saprò venirle incontro, e fissare gli occhi nella sua bellezza senza tremare. Vedrai. Tacque per dar tempo a quella visione di formarsi tutta nel suo cervello. Tante volte vi si era provato inutilmente; ma ora che l’aveva presentata a sè stesso a voce alta, gli sembrava una cosa facile. Si vide tanto indifferente quanto era stato appassionato, sicuro di sè quanto era stato debole nell’umiliarsi; ascoltava il suono melanconico delle parole che avrebbe proferito; erano poche parole gravi e virili da meravigliare molto la bella creatura. Senza verun proposito di vendicarsi, egli forse sarebbe vendicato. — Vedrai!... ripetè a questo punto. La visione continuava. Ora nel cervello di Tonio si presentava Giuditta innamorata e melanconica; diceva: “Tonio, possibile che tu non mi voglia più bene?„ e Tonio rispondeva: “il mio cuore se n’è andato; che cosa vuoi farne di un uomo che non ha il cuore? Tu sei giovine e bella; innamorati di un altro e sarai felice.„ Erano giunti in vista della casa abitata da babbo Salvi; ad una finestra tonda del quinto piano, sopra le grondaie, appariva la luce di una candela. La visione scomparve. — Ci è lume alla sua finestra! mormorò il giovane; chi sa mai a che pensa? — Addio, Tonio, disse Sofia scostando il manicotto dalla bocca; fatti coraggio! — Oh! sì, sì; ma tu dille... — Che cosa vuoi che le dica?... chiese Sofia dopo avere aspettato inutilmente. — Non le dir nulla; sarà meglio. L’accento smentiva le parole. Sofia si curvò per passare l’usciolo basso e stretto che si apriva nel portone chiuso, si volse ancora nell’ombra, chinandosi a stringere la mano di suo cugino. — Coraggio! ripetè sospirando. — Vedrai... vedrai... Non disse altro; la ragazza scomparve. Tonio attraversò la via e stette un poco a guardare la luce immobile, che scendeva melanconicamente dal quinto piano; poi la luce si mosse, e il poveraccio pensò: “Ora Sofia è arrivata, ora le parla di me.„ Alla finestra tonda si accostò un’ombra, una faccia appiccicandosi al vetro guardò nel buio; sembrava dire: “Sei lì, povero Tonio? ascolta come batte il tuo cuore.„ Poi la luce e l’ombra della finestra si agitarono un’altra volta, scomparvero; sulla strada il cuore innamorato martellava ancora. “Figliuole, disse il vecchio Salvi, vedendole venire dalla loro camera; la cena è pronta, e voglio che mi diciate qualche cosa di questa cavolata.„ Giuditta si affrettò a guardare nella pentola fumante, e non ci vedendo altro che fumo, domandò: — Che cosa ci è dentro? — Ci è un cavolo, disse ridendo; ma ci è proprio. E ci è ancora molta cotenna di lardo, e il poco lesso avanzato dal desinare. Voglio che me ne diciate qualche cosa... Sofia si affrettò a scodellare, e Giuditta potè accontentare il babbo, dicendo: — Buona! bonissima; ma scotta!... — E tu, Sofia, che ne dici? Sofia aveva scodellato la grossa porzione di suo padre, e scodellava la propria. — Buona! disse approvando con un cenno del capo e con un sorriso. — E allora, buon appetito! consigliò il vecchio soddisfatto della propria parte di cuoco. Per non mangiare in silenzio, il vecchio Salvi, che quel giorno era di buon umore, intercalava ogni tanto delle esclamazioni che dicessero alla sua progenitura, a sè stesso e agli invisibili il buon effetto prodotto da ogni cucchiaiata. — Questa è scesa diritta perchè sapeva dove andare — quest’altra ha riempito un posticino in un cantuccio — questa ha fatto tacere un nervo affamato che gridava troppo forte — questa... Le ragazze ridevano per incoraggiare il babbo, il quale propose un quesito: — Vediamo: perchè noi tre assomigliamo ai giocatori di bussolotti? Le ragazze si guardarono in faccia esagerando il loro sbigottimento. — In questo momento solo, oppure sempre? domandò Sofia. — In questo momento, disse il babbo a bocca piena. Ci pensavano; e Giuditta disse: — È troppo facile: perchè facciamo sparire la cavolata... Babbo Salvi fece un risolino malizioso. — Ci sei andata vicino... E Sofia disse: — Perchè la cavolata è calda, e ad ogni cucchiaiata noi ci soffiamo dentro prima di metterla in bocca... — Al soffio la cucchiaiata sparisce... e il giuoco è fatto. Brava Sofia! Dopo aver riso forte, continuò a sorridere. Quando le ragazze vedevano di buon umore il babbo, erano sicure che egli era contento della propria pittura; ma non era avvenuto mai che dopo aver fatto sparire la cavolata, o il risotto, o il minestrone, comparisse qualche altra ghiottoneria. Questa era un’arte di prestigio ignota ancora a babbo Salvi. Invece quel giorno babbo Salvi sbottonò la giacchetta, e dalla tasca interna con molta malizia estrasse un involto rosso che depose sulla mensa. Le ragazze si curvarono più del necessario a guardare il fenomeno, e Sofia, come se non potesse più resistere alla curiosità, allungò un dito per toccare; incoraggiata dall’esempio, Giuditta fece altrettanto. Avevano fiutato che si trattava di cacio di Gorgonzola, ma stettero ferme ad aspettare che il babbo lo avesse rivelato come gli paresse meglio per mantenere il tono del buon umore. La celia di babbo Salvi fu questa, di scoprire lentamente l’involto rosso per lanciarne apparire un altro blu, e di nuovo uno rosso, e ancora uno blu; finchè, dopo molto ridere, Sofia e Giuditta di comune accordo dichiararono che avevano capito tutto, e che tutti quegli involti non vestivano un bel niente. Allora il genitore si affrettò a spogliare di altre due camicie il cacio di Gorgonzola, che apparve tutto nudo, trionfando sulla mensa. — Che idea ti è venuta quest’oggi di portare a casa il cacio di Gorgonzola? interpellò Giuditta. Babbo Salvi non rispose, ma brandendo il coltello con molto mistero spartì la gorgonzola in quattro parti; ne offrì una a ciascuna delle figlie, una a sè stesso, lasciò l’ultima sulla mensa per gl’invisibili. Quest’ultima porzione era piccolissima, perchè, secondo la dottrina del pittore Salvi, gl’invisibili sono bensì ghiotti e vogliono mangiare di tutto, ma si contentano di poco. All’ultimo disse: — Non vi voglio far penare; Nerone mi ha dato tre numeri; gli ho giocati, ed ho vinto... — Quanto? dissero insieme le ragazze. — Poco... trenta lire; ma mi fanno comodo. — Gl’invisibili potrebbero essere più generosi, disse Giuditta; per essere stato imperatore di Roma, Nerone non è splendido. — Contentiamoci, Giuditta; Nerone fa quel poco che gli è concesso nell’altro mondo, dove non sono più nè imperatori nè sudditi, ma solamente spiriti alti e bassi... che non possono far male... — Per fortuna! interruppe Giuditta, se no il tuo Nerone sarebbe capace di ricordarsi le prodezze che compiva in terra; per esempio quando... — Taci... disse Sofia. In quel punto si udì un colpo secco sulla credenza; i tre commensali si guardarono in silenzio. Poi babbo Salvi cominciò a parlare con voce profonda e cogli occhi fissi sul punto dove si era manifestata la collera dell’invisibile. — Nerone, se pure l’amico nostro non ha avuto le sue ragioni di umiliarsi pigliando ad imprestito questo nome odioso, Nerone è mutato. Se gli sarà concesso d’incarnarsi un’altra volta, darà prova di pentimento con tutti; ma intanto con babbo Salvi e con voi altre si è sempre comportato con bontà, e noi lo ringraziamo di tutto cuore. Il vecchio artista parlava alla credenza con voce melliflua, per pigliare colle buone lo spirito di Nerone; e quando ebbe finito aspettò un momento ancora per essere sicuro di averlo placato, poi, mutando modi e con un accento stizzosetto, disse a Giuditta: — Già da te non si può mai avere una parola indulgente; la signorina è sempre pronta a condannare; prego il cielo che tu non abbia mai bisogno d’essere compatita ed assolta. Giuditta non si scompose, ma allungò un braccio verso suo padre; aveva la mano candida al cui paragone la bianchezza sospetta della tovaglia faceva una figura pessima; e senza muovere il corpo menomamente per accostarsi, agitava le dita sulla mensa, perchè il vecchio vi pigliasse una carezza. Egli volle resistere ancora un poco, disse che quella severità nel giudicare gli altri avrebbe poi dovuto essere accompagnata da qualche altra virtù (e non espresse quale), da qualche altra cosa (non disse nemmeno più virtù), da... insomma...; e allora si arrese, e strinse la manina inquieta che si moveva sulla mensa. — Caro! disse Giuditta; m’impazientavo, sai? Dunque si ha proprio a dir grazie a questo spirito se ha mandato un ambo? — E a chi vorresti dirlo? chiese il vecchio. — Non so bene; lo direi, mi pare, al caso indifferente... — Dicessi almeno: “alla provvidenza,„ interruppe Sofia. — Per te tutto è provvidenza. Quando un padre di famiglia si ammala, la malattia è stata provveduta perchè i figliuoli patissero l’appetito. E se il padre muore, è la provvidenza o la società che lo fa almeno seppellire? — La società obbedisce alla provvidenza, disse Sofia. — E per obbedirle, fa strillare gli orfani, non è così?... — I disegni dell’invisibile sono impenetrabili, assicurò con voce grave il vecchio pittore. Ma Giuditta non dava retta; la boccuccia bella voleva dire ancora poche parole, e le disse: — Già, col mistero voi altri accomodate ogni cosa; tutte le cose stupide o brutali le ha fatte il caso cieco e sordo, non è vero? e se ogni tanto ne imbrocca una di vostro genio, allora vi pare che veda ed ascolti, e diventa la provvidenza. Babbo Salvi cercò una frase nuova capace di sfasciare tutto quel cattivo ragionamento, e non la trovando ne ripetè una di cui si era servito inutilmente tante volte. — I disegni dell’invisibile sono impenetrabili. Disse queste parole fissando la credenza d’abete, come per invitare Nerone ad intervenire. Giuditta, che aveva indovinato l’intenzione di suo padre, ascoltò in silenzio, accennò anzi alla sorella di star zitta, e quando le parve che la credenza non avesse voglia di contentare il vecchio, disse ridendo: — Nerone è occupato altrove. Ma la credenza scrosciò forte in quel momento; babbo Salvi e Sofia si guardarono alla sfuggita; Giuditta crollò il capo continuando a ridere. Rifacendosi seria, la bella ragazza entrò a dire: — Vediamo un poco come possiamo spendere queste trenta lire... — Vediamo, disse babbo Salvi. — Teniamole da parte, propose Sofia; non mancheranno le occasioni di farle servire... — Oh! questo sì. Non mancheranno mai le occasioni; anzi ne avremo sempre almeno un paio, che si saranno presentate senza che noi ci degnassimo di badare. L’altro mese, per esempio, spirava la moda d’autunno, spirava anche il nostro cappellino di paglia rimasto in vita per miracolo alla fine dell’estate, perchè era nero. Se il cappellino avesse potuto parlare, avrebbe detto allora che una occasione più bella d’essere lasciato in guardaroba tutto l’inverno non si sarebbe presentata mai più. A me lo va dicendo alla muta, sempre che me lo metto in testa; ma chi gli dà retta? — A me pure, disse Sofia, va dicendo qualche cosa di simile; ma è proprio il caso di dire: chi gli dà retta? Io no, sicuro, e nemmeno tu, Giuditta, perchè noi pensiamo che il babbo ha bisogno di tante cose. — Io non ho bisogno mai di nulla, affermò il vecchio con molta dignità. — Sì, tu hai bisogno di un cappello meno unto, e fra poco avrai necessità di un buon paio di scarpe, perchè quelle che hai indosso sono lì lì per lasciar le suole sul lastrico. Invece il nostro cappellino, ricoperto da una piuma e da un cencio di velluto, non dirà più a nessuno che è di paglia; può aspettare ancora... non è vero, Giuditta? — Sì, è vero; può affliggerci ancora un poco... sospirò la ragazza. Babbo Salvi aveva curvato la testa sul petto, per non far scorgere un sorriso malizioso; ma le figliuole lo notarono, e subito Giuditta battendo le mani disse: — Di’ la verità, babbo; tu hai vinto un terno! — Gesummaria! che cosa ti salta in capo? disse prontamente il vecchio; per carità non lo stare a credere nemmeno un momentino. Un terno! Ma se avessi vinto un terno, sapete voi che cosa farei?.... Non ve lo immaginate nemmeno.... Farei... tante cose. Ma, se non è un terno, è forse qualche cosa di meglio: ho venduto, un quadro! — Un quadro! dissero insieme le figliuole. — Cioè una tela... che sarà messa in cornice. Ho venduto il paesaggio napoletano... quello del Vesuvio... — L’hai finito? disse Giuditta. — Non ci sono mai tele finite per un artista, sentenziò il vecchio. Un signore francese ha inteso parlare dei miei sgorbi, ed ha voluto vedere il mio studio. “Non ci ho studio,„ ho detto io; “un cavalletto nella mia stanza da letto; molte tele incominciate, nessuna finita.„ “Non importa, voglio vedere,„ ha detto lui. Stamane è venuto; ha visto la Campagna napoletana; gli è piaciuta e l’ha presa così com’era; non ha voluto nemmeno che aggiungessi i colombi che si dovrebbero levare a volo, quando il ragazzo corre per mandarli via dal mucchio di grano. — Quale ragazzo? disse Sofia. Non me lo ricordo. — Non ti ricordi del ragazzo seminudo, che mi ha fatto penare tanto? — A! sì, quello che prima avevi messo in groppa a un asinello, e poi in cima ad un pino e finalmente sull’aia. Sì, ora me lo ricordo; mi piaceva quando era in groppa all’asinello... — Piaceva anche a me; ma mi venne in mente che sarebbe stato meglio nudo come un piccolo selvaggio di bronzo, sotto il sole napoletano... e sta meglio infatti, ma avrebbe avuto bisogno di due pennellate ancora per dire le sue ragioni a voce alta... Peccato che quel francese non ne abbia voluto sapere. Babbo Salvi aveva fatto tanta esperienza inutile nella propria vita d’artista, e pensava in buona fede che questa volta avrebbe ottenuto ciò che non gli era riuscito mai, cioè di rimettere una tela incominciata sul cavalletto senza farne un’altra da finire più tardi. — Ve la voglio mostrare, disse preso dalla sua malattia. Lo sgomento balenò negli occhi delle due ragazze, e Giuditta disse alla sorella, appena il babbo fu scomparso nella sua camera: — Bisogna impedirgli di guastare la sua tela; questo tocca a te. Sofia non trovò parole per rispondere; quando il vecchio Salvi tornò colla tela in mano, erano tutte e due desolate. — È inutile, più la guardo, e più vedo la necessità di gettare un poco di luce sul grano; anche una pennellata di ombra farebbe staccare meglio la figurina... con tre o quattro tocchi di biacca i colombi si leverebbero davanti a questo monello... Non ti pare, Sofia? Presa così di fronte, la povera ragazza fu astuta per istinto, e dopo essere stata a guardare la tela in silenzio, disse parlando a sè stessa: — Sì, mi pare; questo braccio del ragazzo si staccherebbe con un po’ di scuro nell’ombra; il grano con due tocchi di giallo e di biacca sembrerebbe proprio d’oro. Ma tutto questo è inutile, ora che il contratto è fatto, aggiunse con fermezza. — Perchè inutile? Se io posso migliorare l’opera mia, se per far questo mi tocca lavorare ancora, in che vedi il male? — Tu non sai se il compratore sarà contento; ci è della gente così stramba che l’arte non l’ammira se non nei difetti. E tu lo sai! Se migliorando quello che è per te un difetto, avessi a cancellare quello che pare un pregio al compratore francese... — Hai ragione, disse il vecchio artista ridendo. Ci pensò ancora in silenzio ed aggiunse: — E poi ho promesso di consegnarla stasera al Manin; la porterò io stesso. Aiutatemi a levarmi dagli occhi la tentazione. Ah! finalmente si respirava! In un momento le due ragazze ebbero nascosto la tela in una gran fascia di carta e difeso la fascia con un giro di cordicella; dopo di che Giuditta disse: — Quanto? — Non molto; ma ci sta un cappellino per te, uno per tua sorella; per me un paio di scarpe nuove e un cappello, se vi sembra proprio necessario... — Altro che necessario! — E poi ancora qualche altra cosa; ma siccome bisogna fare economia... — Quanto? ripetè Giuditta. — Lo vuoi proprio sapere: cento lire! La somma parve bellina, veramente bellina, ma nessuna delle ragazze lo diceva perchè ora toccava a babbo Salvi esprimere una contentezza rassegnata. — Sì, cento lire non sono molte, diss’egli, se pensiamo in che acque pesca la pittura moderna; del resto la colpa è anche mia; se sapessi accontentare me stesso di poco, il pubblico si accontenterebbe magari di nulla. Ma io faccio l’arte e non il mestiere. Questa tela incominciata vale mille lire almeno; potrei finirla in poche ore e farmi pagare anche più, come fanno certuni che conosco io; ma allora non varrebbe più nemmeno cento, e mi sembrerebbe di rubare in casa mia. A questo punto babbo Salvi ebbe un impeto di rettorica, e rizzandosi fieramente in faccia alle sue figliuole, come fossero lì, a posta, a rappresentare il mondo burattino, il mondo corbellatore e corbellato, mentre le povere ragazze avevan tutt’altro per il capo, aggiunse con enfasi queste parole magnifiche: — Io non sarò mai fra i mantenuti dell’arte; mi piace meglio dare l’obolo mio alla divinità; pagare in ginocchio, adorando e soffrendo. Per solito, quando gli era venuta fuori una di quelle frasi con cui medicava la propria povertà, il vecchio artista, ingenuo in fondo in fondo, stava a ripetersela sottovoce per ammirarla ancora, e qualche volta ne sorrideva per il primo nel fitto della barba brizzolata. Quella sera, essendo di buon umore, ne rise forte addirittura, e invitò le due ragazze a far eco. — Dare l’obolo in ginocchio alla divinità... ti piace, Sofia, e a te, Giuditta? La frase era piaciuta a tutte e due, di sicuro, ma nè Sofia nè Giuditta espresse la propria soddisfazione altrimenti che con un sorriso. Solamente, appena babbo Salvi se ne fu andato con la tela per consegnarla all’_Albergo Manin_, Giuditta disse con amarezza: — Mi fa proprio ridere; ah! che prurito ho avuto di dirgli il mio pensiero. Scommetto che ti è venuta in mente la stessa cosa. — A me non è venuto in mente nulla. — Io invece mi sono ricordata la favoletta della volpe e dell’uva. “I mantenuti dell’arte!„ Il segreto di saper stare al mondo non consiste forse nell’essere i mantenuti di qualcuno? — Oh! Giuditta! — Non stare a credere nulla di male. Voglio soltanto dire che quando un uomo o una donna ha un capitale qual si sia, l’ingegno, come il babbo, o la bellezza, come... noi, è colpa sua se non arriva alla ricchezza. L’altro giorno il professore di letteratura ci ha parlato della meccanica celeste; ha detto che è una cosa alta, che pochi la intendono. Ma io l’ho intesa a modo mio. La meccanica celeste ha fatto anche più del necessario per far arrivare noi donne quando ci ha dato una molla, cioè un po’ di bellezza. — Oh! Giuditta; ripetè Sofia. — Non capisci proprio nulla; disse la bella ragazza con accento dispettoso; ebbene sì, ho detto mantenere, è questa la parola che ti offende? Ma sta tranquilla; io voglio farmi mantenere da un uomo ricco, che non possa scapparmi mai più; io voglio farmi mantenere da mio marito. Rassicurati, sono molto astuta, sarò molto virtuosa. Sofia crollò il capo. — Io credeva che la bellezza ti fosse stata data per farti amare... — Sicuro! Appunto per questo... — Sì, ma non per questo soltanto; anche per amare. Giuditta crollò le spalle; Sofia continuò: — A che ti servirà l’essere amata, se non contenta il tuo cuore? — Il mio cuore si contenta di poco, e se voglio si contenterà di niente; tu piuttosto bada a quello che fai; se ti credi in dovere di amare ognuno che ti dice le belle paroline... — A me nessuno dice le paroline, perchè io non sono bella... — Ma sì, che sei belloccia tu pure; affermò Giuditta con indulgenza; solamente bisognerebbe che tu non chinassi gli occhi a terra più del necessario, e non avessi sempre quell’aria di dire ai giovinotti: non mi state a guardare, tanto non ne vale la pena. Balenò nella faccetta buona della ragazza la vanità contenta, ma subito si spense. — Non mi domandi di Tonio; disse per isviare il sentimento, che si stava aprendo la strada nel suo cervello. — Giusto! sta bene, Tonio? Povero Tonio, non si vuol persuadere che butta via il suo tempo ad innamorarsi di me. — Ma tu che cosa hai fatto per non alimentare questa passione? gli hai detto che non ti piace, che non sarai mai sua? — Questo non sarebbe stato la verità, e non gli avrebbe fatto piacere. Tonio è un bel giovinotto... gli ho detto che se egli avesse una posizione da contentare i miei gusti, io non avrei nulla in contrario a sposarlo. E siccome questa posizione è difficile che l’abbia mai... — Bisognerebbe spiegare meglio il tuo pensiero; se no quel poveraccio crede che potrà bastare ammazzarsi di lavoro, perdere gli occhi per far la scuola serale di disegno per arrivare fino a te. — È vero. Glielo dirò domani. Andrò io a fare la musica dal tuo cieco; probabilmente mi aspetta... non ti ha chiesto perchè non sono andata ancora? — No, rispose Sofia; purchè qualcuno suoni, si contenta. — E il giovine? Questa domanda era preparata da un pezzo, e Sofia l’aveva vista affacciarsi più d’una volta. — Con quello mi sembra che non ci sia niente da fare, disse sorridendo. — Chi lo sa? Non ti ha dimostrato nessuna curiosità di sapere perchè io non sono venuta? Non ti ha detto nulla? — Nulla, proprio nulla. Giuditta, andando a letto, pensava: — Quella povera Sofia è innamorata di Tonio; è meglio che io glielo lasci. Purchè non sia innamorata anche di Tito! Ne è capacissima. L’amore sembra fatto a posta per essere offerto dalle ragazze brutte a chi non ne vuole. VI. La mattina successiva babbo Salvi fu costretto dalle sue ragazze ad entrare nella bottega del cappellaio dirimpetto, dove si trovò alle prese con cinquanta cappelli a staio tutti stretti; e già sperando di non trovarne uno a misura del proprio testone, non perdeva di vista l’antico indumento, e una volta se lo mise ancora in capo per guardarsi nello specchio; vedendosi spelato agli orli, ammaccato in più luoghi, ammise che la sua testa era forse fatta male, e non era sincero, ma disperò sinceramente di trovare un coperchio nuovo. — È inutile, disse quando il bottegaio tornò a lui con due cappelli; vedrà che saranno stretti anche questi. Infatti uno era ancora stretto. Ma il cappellaio sorrise come sorride un cappellaio, che ha la fede robusta; non dubitava menomamente che nel suo magazzino non si trovasse da coprire anche il testone del vecchio artista; solo, perchè babbo Salvi non perdesse la pazienza, assicurò che pochi avevano una testa come la sua. — Per lo più gli uomini si contentano di poca testa, disse celiando; provi questo... Quello finalmente era così largo da scendere fino al naso. Sofia e Giuditta, che assistevano all’impresa difficile, risero insieme col babbo e col cappellaio; e dopo questa risata la fede tornò in tutti e quattro; solamente quando babbo Salvi ebbe il suo coperchio nuovo (egli si era impuntato a dargli questo nome che gli sembrava faceto), volle ancora esaminare quello che gli era sceso sul naso, e non disse nulla. Fu Giuditta la prima a suggerire al babbo di recarsi quella sera in casa Bondi, insieme con lei. — Tanto gli dobbiamo una visita, ci aspettano. Vuoi? — Sì. Non gli sarebbe venuta mai l’idea di mettersi faccia a faccia con Mattia Bondi, col famoso Mattia Bondi, se non per dirgli quello che pensava della sua pittura leccata, della sua pittura filosofica, e più che tutto della sua fortuna; non lo avendo fatto mai quando l’artista celebrato era sano, ora che egli era cieco sentiva una riluttanza che non sapeva spiegar bene. Chi sa? il vecchio ricco e famoso potrebbe esclamare: _anche lei è venuto_! e pigliare per un omaggio all’artista ciò che in fin dei conti non sarebbe se non un atto doveroso, o, a dir molto, un omaggio alla sventura. È vero che babbo Salvi aveva smesso la fierezza, quando aveva proposto le sue figliuole per divertire il cieco, ma allora aveva umiliato il padre povero, l’artista no; anzi nell’umiliazione di sè stesso e delle figliuole, gli era paruto di dire superbamente al rivale fortunato: “vedete a che riduce l’amore dell’arte?„ E a volte immaginava che, con queste parole, il suo caso fosse spiegato luminosamente da non lasciar luogo ad equivoci; e che Mattia, scendendo in fondo alla propria coscienza, potesse vedere la distanza che lo separava ancora dalla gloria vera. Queste idee, queste ombre si erano combattute fieramente nella grossa testa di babbo Salvi ogni volta che le figliuole gli avevano detto di andare in casa del cieco. Questa volta Giuditta fu più fortunata, e il babbo disse sì senza pensarci. Pensandoci dopo, non si pentì nemmeno, e solo stupì dentro di sè di averlo detto alla prima. Le figliuole anch’esse rimasero meravigliate della condiscendenza, non si potendo immaginare che un coperchio nuovo potesse aver tanta padronanza sopra un vecchio testone. Insomma quello stesso giorno babbo Salvi andò a far visita al vecchio Mattia. Andò solo, non avendo voluto che nessuna delle figliuole lo accompagnasse, tanto si sentiva forte nel suo cappello nuovo (egli diceva _nella sua miseria_); vi andò di buon passo, e, introdotto nello studio, dove Tito gli voltava le spalle lavorando a fare il ritratto di suo padre, si arrestò sulla soglia. Tito non aveva udito rumore, e continuava a lavorare davanti al cavalletto; ma il cieco, volgendo verso di lui la testa luminosa, sembrava guardare fissamente. — Disturbo? domandò babbo Salvi con disinvoltura, presentando il cappello nuovo come uno scudo. — Niente affatto! rispose allegramente Tito, andandogli incontro colla tavolozza, coll’appoggiamani e col pennello ancora in pugno. Qual buon vento? Sai chi è, babbo? — È Primo Salvi. — Proprio io, rispose Salvi, stringendo la mano di Tito, che per offrire una stretta aveva afferrato un pennello coi denti; proprio io; mi scusi, se ho tardato a venire da lei; il mio dovere era di venire subito. Mattia, porgendo tutte e due le mani al collega disgraziato, disse: — Sì, l’ho aspettato, ma non mi stia a parlare di dovere; l’ho aspettato per ringraziarlo, per dirle che con questo po’ di capelli bianchi mi sono innamorato. È stata quella sua figlia impertinente a farmi la burletta. Ho indovinato subito che era lei perchè lo aspettavo, ed anche perchè da un pezzo non viene più nessuno a trovare l’artista cieco; nessuno di quelli che ci venivano sempre, invece altri, che non erano venuti mai, mi fanno visita qualche volta, perchè la sventura ha almeno questo di buono, che concede da una parte quello che toglie dall’altra. Gli anni e la cecità avevano reso Mattia verboso più del necessario; perchè, non potendo interrogare nella faccia degli interlocutori l’effetto delle proprie parole, non si sapeva contentare di dire le idee a mezzo. Primo Salvi, senza pensarci molto, rispose: — È vero, io non sono venuto mai, perchè ci venivano tanti. Ma appena ebbe pronunziato queste parole, si maravigliò di scorgervi un significato tutto diverso da quello che egli aveva sempre immaginato; e non seppe dire a sè stesso se ora veniva a visitare l’artista cieco per generosità, oppure perchè tutte le piccole invidie, tutte le piccole collere, che gli erano sembrato fierezze grandi, fossero placate da una sventura. Era un quesito da risolvere a casa, più tardi, se ne avesse voglia; ma intanto poteva star sicuro che nell’intenzione di Mattia Bondi le parole avevano un significato ingenuo e che se vi entrava un tantino d’amarezza non era sicuramente per lui. — Forse è stata un po’ di fierezza, confessò umilmente babbo Salvi; ho sempre temuto di essere confuso cogli adulatori. Io sarei stato schietto... avrei detto il mio pensiero... — Mattia ascoltava con molta docilità, preparato a sentirsi dire una piccola impertinenza.... — Non sempre sarei stato d’accordo cogli altri, perchè ciascuno ha le proprie... debolezze... ma quando le avessi detto che in sostanza... nessuno ammirava le sue tele quanto me... lei forse mi avrebbe messo nel mazzo con tutti gli altri. Lusingato dal giro che aveva preso la frase in bocca di babbo Salvi, il cieco lasciava vagare sulle labbra un sorriso, che illuminava la sua testa gloriosa. E rispose lentamente: — La lode in bocca d’un adulatore mi ha sempre dato il suono di una moneta falsa; mi è sempre piaciuta la sincerità, mi piace questa sua schiettezza. Dicendo così, s’immaginava di essere propriamente nel vero, perchè infatti quella schiettezza di Primo Salvi lo accontentava. Se ne accontentò anche Primo Salvi, pensando che quando si dice schiettezza non s’intende già impertinenza brutale, e che quanto all’ammirazione... Non ebbe tempo di compiere il proprio pensiero, perchè il cieco proseguiva: — Ma non sa quante volte io mi sono occupato di lei, fin da quando espose a Brera, si ricorda? l’abbozzo d’una _Madonna della peste_... se ne ricorda? — Altro! altro! — Ha poi finito quella _Madonna_? — L’ho cancellata... — Peccato! Mi ricordo di aver notato certe nuvole basse che pesavano sulla terra come il flagello di Dio; da quel tempo non perdei di vista il nome suo, e mi accadde molte volte di fermarmi davanti alle sue tele, che non erano mai molto finite, se ricordo bene. Le pare? — Altro! altro! Babbo Salvi non voleva sviare quella lode, che gli andava in tanto sangue, ma in un’altra occasione avrebbe detto baldanzosamente che per lui quelle tele erano finite, che gli artisti veri devono vedere i quadri in un modo diverso dal pubblico grosso. Ma se avesse detto questo, probabilmente sarebbero entrati in una discussione, e allora l’artista cieco non avrebbe più potuto medicare le ferite che facevano tanto male a babbo Salvi. Lasciò che compiesse quell’opera di misericordia, senza interromperlo. — Sì, signor Salvi; ho avuto sempre desiderio di conoscerlo, per incoraggiarlo; — mi sarebbe stato lecito incoraggiarlo perchè sono molto più vecchio di lei — le avrei detto che nei suoi abbozzi vi era sempre una pennellata che parlava. E dica, è vero che non vuol mai finire un quadro? — Sì, è vero; confessò babbo Salvi; forse amo troppo l’arte mia, l’amo tanto da non mi accontentare; ho fatto nel mio cervello tanti quadri che mi sembravano belli, ma quando gli ho fissati con entusiasmo sulla tela, mi hanno lasciato dispettoso; allora gli ho cancellati, qualche volta col pennello, qualche volta colla pietra pomice... Era la prima volta che babbo Salvi guardava in faccia il proprio peccato senza sentirsi umiliato e nemmeno pentito, perchè durante la confessione il cieco glorioso continuava a mormorare: _peccato_! — Peccato! ripetè ancora. E Primo Salvi compì la propria confessione. — Così ho sciupato tutta la mia vita. — Non dica così.... — Scusa, babbo, disse Tito dal cavalletto, volta un tantino la testa... a sinistra... così. — Scusi anche lei, signor Salvi, se continuo a lavorare; il tempo se ne va, e questa testa dev’essere finita per san Silvestro. — Faccia il comodo suo... Il ritratto del babbo, non è vero? — Sì, è una testa difficile... Primo Salvi osservò attentamente il cieco, e dopo un poco convenne anche lui che la testa di Mattia era difficile. — Che ci posso fare io? disse il cieco. — Sì, ha una testa difficile, affermò babbo Salvi; e messo in vena di corbellare sè stesso, soggiunse: mi pare che io la cancellerei tante volte. Fu una risata discreta. — Mi vuol lasciar vedere quello che ha fatto? chiese il Salvi, e avuta la licenza si andò a mettere di fronte al cavalletto, stette un poco a guardare il ritratto e l’originale, e disse: “bravo!„ Ripigliando il posto di prima soggiunse: — Pieno di luce!... Che cosa stavo dicendo? Mattia non sapeva più. — Quando? — Io le diceva che colla mia incontentabilità, col soverchio amore dell’arte mia, ho sciupato la vita... e lei mi pare che volesse dire qualche cosa... — Ah! Non dica così; le sue tele sono ammirate dagli intelligenti; ogni artista sa che un abbozzo può valere un quadro finito; sa che tante volte il quadro finito è il maggior nemico dell’abbozzo — solamente l’amore dell’arte va inteso con un po’ d’umiltà; finire i quadri incominciati è un dovere; il pubblico vuol la parte sua; e si può dire in odio del pubblico tutto quello che si vuole, ma se l’arte deve essere una missione, non si ha a dimenticare il pubblico, che dà il... pane, il plauso, il coraggio... e perfino la gloria. Babbo Salvi non rispose. Ricercava in quelle parole gravi, pronunziate con una lentezza solenne, un significato che fosse rimasto inavvertito per lui; e non lo trovando, crollò il capo. — La gloria! a vent’anni l’ho guardata in faccia anch’io; sembrava mi sorridesse; ma ora ho imparato che la gloria della pittura non comincia se non dopo che il pittore è ben morto. Il cieco si oscurava in viso, ma Primo Salvi lo medicò così: — Io conosco una persona, che ha meritata la gloria vera, ma è viva ancora, e non l’avrà forse se non quando sarà morta... il cielo la conservi! Tempo addietro questa persona ha avuto le sue battaglie; ora gli hanno dato una tregua perchè si è ammalata. Speriamo che guarisca e che il cielo confonda tutti gli avversari. Mattia, senza parlare, allungò la mano perchè babbo Salvi la stringesse. Avrebbe potuto mettere le cose nella vera luce, correggere almeno il criterio che quell’artista sbagliato si era formato della gloria, facendogli toccare con mano che un uomo può essere immortale ed accontentarsi di essere vivo; ma scelse d’essere umile in silenzio. Quando babbo Salvi annunziò che aveva abusato abbastanza, Mattia lo pregò di non dir così, che anzi aveva fatto un’opera di misericordia, e che ne facesse ancora spesso. — E non dimentichi di mandarmi la signorina Sofia dopo pranzo. Andando a casa di buon passo babbo Salvi vide il cappellaio sull’uscio di bottega, e potè immaginarsi che entro il cappello nuovo ci avesse una testa ancora più grossa e novissima. Per via riflettè un poco, ma poco poco, a tutte le parole che aveva detto per consolare il cieco, alle bugie pietose che gli erano venute in bocca, alle adulazioni meritorie con cui aveva pagato quel poveraccio illuso ma sincero. E infine per togliere di mezzo anche l’ombra del pentimento, affermò forte in faccia alle figliuole la propria contentezza di aver fatto visita a quel cieco illustre, a quell’artista, sodo, acuto, pieno di criterio... nel giudicare le pitture degli altri. — Che cosa ti hanno detto? domandò Giuditta. — Tante cose. E disse quali, nel disordine con cui gli si presentavano alla mente. Ma Giuditta non si accontentava ancora; essa voleva sapere una cosa, e perchè il babbo non la diceva, interrogò: — Non ti hanno domandato perchè non sono mai andata in casa loro invece di Sofia? — No, non me l’hanno domandato. Ma in sostanza, dicano quello che vogliono gli altri, per me Mattia Bondi è un grande artista. Più tardi, ripetendo la stessa frase, rimpicciolì le dimensioni di Mattia Bondi, ma non tanto che il cieco non si potesse accontentare; disse che era un artista di molto valore... un artista che sapeva il fatto suo... E per tutto quel giorno non indietreggiò altro. VII. Dopo il desinare, Giuditta disse alla sorella: — Stasera andrò io a fare le sonatine al cieco. Non ti dispiace? Credi che non saranno scontenti del cambio? — Perchè scontenti? rispose ingenuamente Sofia; è il tuo dovere andarci; non si era rimasti d’accordo così? Giuditta andò. Costretta ad aspettare in salotto, intanto che il servitore andava a dire ai padroni che era arrivata quell’altra, ne approfittò per guardarsi in uno specchio di fronte, pensando che non potesse venirle incontro il cieco solo; infatti vennero tutti e due, padre e figlio; ma subito la bella sì avvide che erano tutti e due ciechi, perchè quello che ci vedeva non le metteva gli occhi in viso come la prima volta. Furono però cortesi; vollero prima un po’ di ciancia appena appena, poi della musica, troppa musica che la meravigliosa ragazza fu costretta a sonare dando le spalle al prossimo, senza nemmeno potersi rifare guardando nello specchio che era troppo alto e non abbastanza inclinato da riflettere tutta la sala, per chi stava a sedere sopra lo sgabello del pianoforte. Pure sonò il meglio che potè e sonò benissimo; fece sfoggio di tutta la sua bravura d’allieva del Conservatorio, che per via di arpeggi, e sopratutto di molte scale, vuole salire a qualche cosa. E interrogata, spiegò il suo ideale, che era di diventare una concertista di pianoforte da girare tutto quanto il mondo. “Facendo girare la testa a ogni abitante maschio dei due emisferi,„ aggiunse mentalmente Tito, che si era tenuto al fianco di suo padre sul divano. “Fino a tanto,„ aggiunse ancora mentalmente la magnifica ragazza, “fino a tanto che un brav’uomo, come m’intendo io, non mi arresti per avere tutta la felicità che posso dare colla mia bellezza.„ E per dire questo alla muta si era voltata di scatto, facendo fare allo sgabello un giro di vite. Tito era sempre rimasto sull’avvisato; si conosceva troppo bene, o forse si conosceva troppo male da non credersi battuto abbastanza da una gran burrasca. Temeva la bellezza femminile, perchè vi aveva naufragato una volta; ma non sapeva che certe anime deboli si temprano colla osservazione di sè stessi, e che allora la debolezza può essere la forza di tutta quanta la vita. Di quella mossa di Giuditta sullo sgabello, Tito intese tutto il significato, e ne sorrise; ma pure non guardò la pianista, che veniva spiegando al vecchio Mattia la propria idea. Il cieco approvava tutto col capo, e all’ultimo disse: — Mi rallegro; non sarò io a dirle: badi, va incontro a molti dolori che saranno pagati forse con poche soddisfazioni. Si vince ogni cosa da chi sa patire, e lei mi sembra innamorata della gloria... — La gloria! Io innamorata della gloria! Ma niente affatto innamorata! A che serve la gloria? Come è fatta la gloria? Chi l’ha vista mai da vicino? Quelli che l’avrebbero sono troppo morti, quelli che l’avranno sono troppo vivi. Giuditta espresse questi concetti ridendo e celiando, e infine confessò che non se gli era fatti lei; non aveva avuto tempo di pensare certe cose; ripeteva quello che aveva sempre inteso dire a tavola, dal babbo. — So benissimo come la pensa il babbo; me l’ha lasciato intendere oggi stesso; egli crede di amare unicamente l’arte e di non pensare alla gloria; invece ne è innamorato cotto anche lui; non glielo stia a dire, perchè andrebbe in collera; ma può credere ad un cieco che da molto tempo guarda nell’anima umana, e vi scorge cose poco vedute. Giuditta, fissando attentamente la faccia del vecchio, notò che Tito le aveva messo gli occhi in faccia due volte, fuggitivamente; e che la terza volta non li staccò più. — Sarà benissimo, disse Giuditta tanto per dire qualche cosa quando il cieco ebbe finito; e non sapendo dove mettere lo sguardo per non dar soggezione, lo girava qua e là, poi lo chinò a terra un momentino, per rialzarlo sfolgorante e piantarlo addosso al giovinotto. Ma Tito sostenne l’urto senza barcollare, perchè, avendo pensato a Cesira e ad altre donne belle, a Sofia ed altre ragazze buone, Giuditta era rimasta lì, in faccia a lui, mentre egli era altrove. Infatti per il resto della serata si sentì tanto al sicuro da offrirsi di accompagnarla a casa, come aveva fatto la prima volta con Sofia. La bella ragazza rispose melanconicamente grazie, perchè la nuova disinvoltura di Tito le faceva intendere che aveva sprecato tutta la strategia. Ma non disperava ancora. Non si era ricordata nemmeno più di Tonio, che a quell’ora faceva sentinella, e indovinandolo all’altro lato della strada, non lo volle vedere. Il poveraccio, che già aveva mosso un passo per venirle incontro, si sentì inchiodato a terra da quella sbadataggine. Dopo un poco, la seguì da lontano, attratto dalla sua disgrazia. Osservava e pensava senza amarezza: “Lui è un bel giovane, è ricco, è quello ch’essa cerca; egli le parla forte, senza voltare il capo verso di lei; ora tace; tacciono entrambi; sarebbe mai vero che non ne fosse innamorato?„ Ma ad ogni mossa del capo di Giuditta, ad ogni parola mormorata che l’aria rubava a quei due per mordere il seno del disgraziato, egli sentiva crescere la propria disgrazia. Però tacevano molto; erano venuti quasi al portone di casa, non avevano detto gran che. Poi Giuditta si fermò, si fermò anche Tonio. “Sono arrivata!„ disse Giuditta. E il bellissimo giovinotto non disse peccato! come Tonio aveva immaginato che i bei giovinotti dicessero sempre a tutte le donnine belle; disse invece, e Tonio udì benissimo: “le raccomando di salutare il babbo e la signorina Sofia.„ Poi salutò profondamente e tirò diritto senza nemmeno voltarsi. Allora Tonio sentì la spinta di una molla segreta e in due salti fu sul portone. Giuditta l’aveva aspettato. — Bel modo il tuo! gli disse appena fu a tiro; non presentarti subito, e seguirmi da lontano, per far nascere, magari, il sospetto che io ti avessi dato la posta in istrada, o che tu... — Oh! Giuditta! — È la verità; se ti fossi presentato subito, non ci sarebbe stato nulla di male; avrei detto al signor Tito che sei mio cugino. Così, non sapevo che fare; sicuramente egli deve essersi accorto che tu mi accompagnavi... come me ne sono accorta io. — Oh! Giuditta; non lo stare a credere, non si è nemmeno voltato una volta... Giuditta continuava implacabile: — Ti avrei chiamato io, per castigarti; ma ho pensato: chi sa? è capace di dire una corbelleria, di compromettermi. — Oh! Giuditta! — Ma ti saresti meritato che io ti castigassi. — Ho temuto d’essere importuno, sospirò Tonio, e perciò non mi sono presentato subito; quel signor Tito è un bel giovine. — Che ne importa a te? e a me che ne importa? — Dici davvero che non te ne importa? — Nè di lui, nè di te, nè di altri; lo dovresti sapere a memoria; io non sarò mai moglie d’uno che non sia ricco. È parlar chiaro, mi pare. Addio, Tonio, dimenticami presto; è per la tua felicità che ti do questo consiglio. Tonio rimase su quel portone come se la felicità lo avesse cacciato di casa. Giuditta, rientrata in casa, trovò sua sorella al tavolino, con dinanzi il calamaio da tasca e un quaderno di carta; ma non ebbe la curiosità di sapere che cosa avesse scritto. Girò per la camera, deponendo qua lo scialletto, slacciando alla finestra i nastri del cappellino, e tornando a deporre il cappellino sul letto, accanto allo scialle. Aveva detto appena ciao Sofia, entrando; ora non diceva più altro. Alla fine vedendo che Sofia, rimasta a sedere, seguiva tutte le sue mosse, voltando gli occhi e la testa, si cominciò a lamentare: — Non dici nulla, questa sera? — Tacevo perchè devi aver tu qualche cosa da dirmi... Io so bene che cosa... — Sì, ho da dirti che in casa di ciechi non ci vado più. — Ti hanno detto qualche parola disgustosa? — Nessuna parola... nè disgustosa nè altro; ma ti ho a dire che mi sono seccata, e non ci ricasco; il cieco, tanto tanto, può passare, ma l’altro, quel tuo signor... come lo chiami?... Tito... — Perchè mio? domandò ingenuamente Sofia. — Perchè te lo lascio; perchè non so che farmene. Sofia si era fatta rossa rossa, e taceva per timore di rispondere una parola grave da offendere sua sorella, che era nel buon momento di mettere broncio. Dopo un poco, Giuditta si pentì delle proprie parole, e disse con amorevolezza: — Non sono punto in collera, sai? anzi ti voglio dire le ultime parole di questo tuo... di questo Tito... le vuoi sapere?... ha detto: “le raccomando di salutare la signorina Sofia...„ come vedi, io non ho mancato. Credo che potresti fare qualche cosa con lui... se avessi giudizio. — Perchè non ne fai... qualche cosa tu stessa? rispose Sofia con tranquillità. — Se ti dico che per me non ci è nulla a fare, prima di tutto perchè non mi piace, e poi perchè dev’essere già innamorato. A questo punto notò che sua sorella stava scrivendo, e le dimandò: — A chi scrivevi? — A nessuno, rispose prontamente Sofia. Ed era la verità. Scriveva a sè stessa, scriveva al suo cuore inquieto ma forte, al proprio desiderio indocile, al pensiero alato; scriveva così: “pazienza ancora per poco; troverete la forza della quale unicamente si vive.„ Non era scritto qual fosse questa forza. VIII. Tito aveva mantenuto la promessa, e per san Silvestro il ritratto del babbo era finito. Da molti anni quel giorno non era venuto senza portar una messe sempre crescente di biglietti di visita, di letterine, di augurii, di mazzolini di fiori come ad una bella donnina, e perfino di mazzi colossali come ad una prima donna assoluta. Era stato ogni anno il gran stupore di Mattia, come facesse il mondo ad occuparsi dei fatti suoi, a sapere in che giorno e di qual anno egli era venuto a pigliarsi la propria porzioncina di gloria e papparsela in silenzio. Invece Tomasina, buon’anima, non si stupiva niente affatto, e diceva celiando, ma sul serio, che se Mattia faceva chiasso, lo doveva all’indiscrezione di aver voluto la porzione troppo grossa, e di non se ne contentare ancora, tanto è vero che la chiamava _porzioncina_. Rallegrato da queste parole, l’artista glorioso aveva finito con acconsentire modestamente che il mondo vede tutto, sa tutto, e che è inutile tentare di corbellarlo. Era il buon tempo, quello. Ma quando più tardi si era scatenato l’impressionismo per mordere a tutte le cantonate ogni artista invecchiato nell’adorazione dell’idea, quando ogni impressionista minchione si era vantato di trattare l’arte come una facile conquista del primo venuto, che avesse un po’ d’ingegno, mentre ai vecchi era costata tanta fatica; e quando la monelleria, invece di essere messa nel banco dell’asino, fu lodata dai giornali, ammessa nelle esposizioni, e persino pagata, allora soltanto Mattia ebbe il primo sospetto d’una gran verità. La verità grande, espressa ad alta voce in lingua volgarissima, era questa: il mondo è fatto apposta perchè i corbellatori se lo possano mettere comodamente in tasca. Ma non ostante la nuova malattia della pittura, non ostante la malattia cronica della critica dei giornali, anche sotto il regno dell’impressionismo, a san Silvestro i biglietti, i mazzolini, gli augurii avevano continuato a fioccare, e l’ultimo giorno dell’anno Mattia si poteva dire pagato delle offese sopportate con poca rassegnazione tutto l’anno. Poi era venuta la cecità, era scesa sulla casa di Mattia una valanga di condoglianze, e il cieco aveva pensato in buona fede all’idea di poter vivere della propria gloria passata, e se mai fosse il caso, prepararsi alla rassegnazione. Fin dalla vigilia del giorno famoso, era arrivato l’augurio d’un vecchio russo e d’un croato; si dicevano ammiratori tutti e due, e si poteva credere, perchè erano stati anche compratori. Il croato faceva il suo augurio in cattivo italiano; il russo, per esprimere il diletto che gustava ancora dopo tanti anni guardando nella sua sala da pranzo l’Idillio greco, adoperava la lingua latina. Era stata una mezz’oretta allegra, quando, dopo aver corretto la grammatica spropositata del croato, Tito e Mattia si erano cacciati nel latino del russo senza speranza di portarlo via tutto. — _Velim mei semper recorderis_, aveva detto Tito ridendo; chi sa che cosa è quel velim; il resto sicuramente vuol dire _si ricordi sempre di me_. Non ti pare? — Credo anch’io, acconsentì il cieco; chi mai avrebbe potuto immaginare che per sporcare qualche tela non fosse inutile studiare il latino? — È vero; ma scommetto che abbiamo inteso tutto. Non è poi il diavolo il latino. _Velim mei semper recorderis et si venerit tempus quo aliqua in re tibi esse possim_... Si capisce quasi tutto. — Quasi. Ma il cieco, lusingato da quell’augurio che arrivava da Pietroburgo, si può dire dall’altro mondo, scritto in lingua morta, non era scontento di farselo spiegare molte volte da quanti fossero venuti a fargli visita, ancorchè non avessero saputo di latino. Perchè, se tutto l’anno non si vedeva quasi nessuno, salvo qualche artista poveraccio, a cui Mattia faceva l’elemosina, non era così a san Silvestro; almeno i numerosi amici di Tito, sapendo di far piacere al compagno, avrebbero portato un augurio al vecchio. Vennero infatti tutti; e ognuno ebbe una parola bugiarda per consolare il cieco. Egli domandava: — Che cosa fate voi altri? Qual è la pittura di moda fra i giovani? I burloni rispondevano sempre: la vecchia; gli altri s’impaperavano, dando il gusto a Tito di poter dire con indulgenza rassegnata: “peccato che io non possa vedere quello che fate!„ — Mi faccia piacere di dir _fortuna_, ribatteva il burlone; lei ha chiuso gli occhi in tempo, glielo dico io. Oppure il burlone rispondeva: — Sì, un gran peccato, perchè se potesse vedere quello che facciamo noi, farebbe qualche cosa di meglio lei! Il cieco si schermiva appena appena, ma finiva accettando la lode; a questo punto gli veniva in mente il latino del russo. — Oh! Giusto!... fagli un po’ vedere la lettera famosa... chi sa che egli ne capisca più di noi. Egli non capiva affatto, e il vecchio si rallegrava sempre più. Tutto l’anno, quanto è lungo, Mattia era ridotto alla contemplazione della propria gloria; era una contemplazione melanconica, ma oramai aveva imparato il metodo di annoiarsi, e quasi si può dire che non si annoiava più. E a san Silvestro, quando nella solitudine credeva che fioccassero i biglietti di visita a richiamarlo da lontano, offrendogli un giorno, un’ora del passato, pareva a Mattia di essere preso a braccetto da questa sua gloria che gli camminava a fianco tutto l’anno senza parlargli ad alta voce. Ogni anno, a tutte le ore della posta di quel famoso giorno, aveva sorriso senza dir nulla, aspettando che Tito gli mettesse in grembo una manciata di biglietti. — Sono pochi, aveva detto una volta palpandoli, e prima gli aveva contati fra le dita in silenzio, poi aveva voluto che Tito glieli leggesse a uno a uno. Ma ogni volta erano andati scemando di numero, un po’ perchè taluni degli ammiratori erano morti, un po’ perchè gli enfatici, per esempio quelli che al proprio nome aggiungevano una coda di superlativi, si erano stancati di ammirare. Tito aveva avuto paura che suo padre, il quale intendeva tante cose dell’anima umana, non potesse intendere questa: che l’ammirazione è una gran fatica, e che l’enfasi ha sempre il fiato corto. E perciò Tito, quando la messe era stata scarsa, vi aveva aggiunto un po’ del vecchio raccolto, per far dire a suo padre: “Sono molti!„ Sebbene, in fondo al cuore, Tito si dolesse di questa malizia, come farsi un vero scrupolo d’un inganno che, non facendo male a nessuno, faceva gongolare il povero cieco? Quell’anno la pioggia di augurii era scarsa; la prima posta del mattino ne aveva portati cinque, la posta delle undici tre appena, dopo il mezzodì il portalettere non aveva portato altro che una lettera d’un vecchio compagno di scuola, e la gazzetta che Mattia si faceva leggere dopo cena. — Ecco una lettera che ti farà piacere, disse Tito al vecchio; indovina chi ti scrive... — L’ambasciatore americano... il segretario della legazione di... — Niente ambascerie, nè legazioni; è un amico vecchio, un compagno di scuola. — Gerolamo... è proprio lui?... dà qua... Volle toccare la lettera, prima di dire: — Leggila. Era una grossa porzione del passato che Gerolamo gli presentava alla memoria; si vedeva che lo scrivente era vecchio, perchè nel fare gli augurii non parlava dell’avvenire. “Ti ricordi?„ diceva ad ogni tratto, e finiva con poche parole di tenerezza melanconica. Mattia, rimasto un po’ a fantasticare, si svegliò poi a dire: — Immagino che saranno anche arrivati i soliti biglietti... — Oh! sì sì... — Molti?... — Abbastanza, mi pare... li vuoi? — No; me li leggerai più tardi; anzi, me li farò leggere da Sofia; verrà a desinare, lo sai?.... Non ti spiace? — Tutt’altro. — Ho fatto pregare anche quel povero diavolo di suo padre e la signorina Giuditta... Non ti spiace? — Hai fatto bene. Ma all’ora del desinare vennero soltanto Sofia e suo padre, il quale, appena entrato in salotto, giustificò l’assenza dell’altra figliuola con l’emicrania. E avendo Mattia detto ah! appena appena, Primo Salvi si ricordò della gran raccomandazione che la figlia rimasta a casa gli aveva fatto prima d’uscire. “Ricordati, gli aveva detto, ricordati bene di dire a Mattia Bondi che mi associo io pure a tutti gli amici suoi nell’augurargli...„ E allora Mattia il glorioso interruppe modestamente dicendo: “Grazie„ e volle sapere se quell’emicrania faceva molto soffrire la buona ragazza. Quando babbo Salvi lo ebbe rassicurato informandolo che Giuditta andava soggetta a queste sorte d’emicranie passeggiere, all’artista glorioso uscì di bocca una parola ingenua: peccato! E spiegò prontamente che, se non fosse stato di quel peccato, le due sorelle avrebbero potuto sonargli molta musica a quattro mani. Ma dopo il desinare, che fu allegro quanto babbo Salvi non aveva immaginato, Mattia non sentì verun bisogno di musica. Il suo commensale nemmeno. Continuava a trovarsi benone a tavola; messo di fronte ad un vinone di Valpolicella, si può dire senza testimoni — perchè il cieco non poteva vedere quanto gli piacesse, e i due giovani erano accalorati a discorrere — non gli era costata fatica avviare il discorso sull’arte eternamente giovane. Confortato da quel vinone, egli era diventato indulgente cogli altri e sopratutto con Mattia, crudele soltanto con sè stesso; ma l’artista glorioso medicava tutte le ferite man mano che babbo Salvi se le faceva. E credevano di fare un’opera pietosa tutti e due. A un certo punto il cieco smascherò il proprio disegno, che era di far leggere a voce alta i nomi di tutti coloro che gli avevano mandato gli augurii. — Abbiano pazienza un momentino; per solito mio figlio in questo giorno ha troppe cose per la testa; soltanto dopo il desinare abbiamo un po’ di pace. Primo Salvi si versò da bere, ed assicurò che non era scontento niente affatto, anzi si propose per lettore lui stesso. Aveva l’aria di dire: “vedete come sono fatto io; sono buono come il pane, io; il mondo che mi maltratta tutto l’anno, fa di me quello che vuole se mi prende per il verso giusto.„ — Dove sono i biglietti di visita? disse a Tito. Il babbo vuole i biglietti di visita; li leggerò io stesso. Tito si fece rosso nel levarsi da tavola; girò la testa di qua e di là, come uno smemorato, prima d’accostarsi ad uno scaffale in fondo alla stanza. Primo Salvi gli stava dietro cogli occhi, impaziente di cominciare la lettura; sentiva dentro di sè una grandezza nuova, a cui egli non si curava di dare nemmeno il nome, contento di sentirla appena. Però non tralasciava le proprie osservazioni, e non gli sfuggì che il giovine era un po’ impacciato nel mettere sulla mensa la coppa dei biglietti. — Dia qua, gli disse; il suo babbo è contento che legga io; non è vero? Il cieco acconsentì, sorridendo alla sorte che gli serbava ancora dei momenti buoni. E Tito cercò inutilmente di resistere al braccio allungato sulla mensa, e consegnò la coppa. Babbo Salvi, prima d’incominciare, volle che il cieco assaporasse bene la propria gloria, se quella si poteva dire gloria, chè egli ci aveva i suoi dubbi. — Metta una mano qua dentro; quanti! non è vero? Il primo biglietto che si presentò aveva un nome lungo lungo. Ariodante Ramirez Spinosa dei marchesi di Roccamala augurava cento anni di vita al grande artista. — Cento anni sono troppi, disse Mattia modestamente. — Troppi niente affatto; affermò con sicurezza Primo Salvi. “Chevalier M. N. O. Blowitz, attaché à l’ambassade d’Autriche.„ — Oh! le chevalier Blowitz!... senti Tito; le chevalier Blowitz non era morto? Primo Salvi sorrideva ad un altro biglietto di visita più complicato, impaziente di leggerlo forte, per vedere come se la sarebbe cavata; non vide che il povero giovine si era fatto rosso. — Pare anche a me; ma se ha mandato il biglietto di visita, è vivo. Il cieco pensava. — Ma no, ma no, che non è vivo... Ma sì, ma sì, le chevalier Blowitz è morto e sepolto; quel biglietto è un intruso... — Può essere che il servitore abbia sbagliato... che l’abbia raccattato da terra e messo lì cogli altri... — Può essere, disse il cieco con diffidenza. Babbo Salvi, raccogliendo tutti gli spiriti vitali, si provò a pronunziare un nome difficile: — “Casimiro Trr... Trr... Trz... Trzcinski Granichski„ magnifico nome; merita la corona di cinque punte che gli sta sopra... Trzcinski Granichski. — Un polacco; l’ho conosciuto in viaggio. Ma dall’accento dimesso con cui il cieco diede questa dilucidazione, babbo Salvi potè credere che egli avesse mancato di riverenza a quel nome, e fu peggio quando Tito propose di andare innanzi lui e gli si fece accosto, mettendoglisi dietro la spalliera. — No, legga pure lei, signor Salvi. Per un po’ la lettura andò benissimo; ma ad un certo punto Tito gli levò di mano il biglietto che stava per leggere. — È morto anche questo? disse Primo Salvi. — Ci è un altro morto? domandò il cieco. — Sì, non so come sia accaduto; qualcuno deve aver confuso i biglietti... ma quelli che abbiamo letti finora sono tutti arrivati stamattina. Babbo Salvi non sapeva che cosa pensare di quei morti, di quel rossore del giovine, dello scoraggiamento del vecchio. Volle leggere ancora un nome, ma il cieco gli disse: — Lasci stare; è sicuramente avvenuto un equivoco. Se la signorina Sofia ci vuol sonare una cosa allegra, sarà meglio. Sofia disse di sì, e andò a prendere il braccio del cieco. Si avviarono in silenzio. L’allegria superba di Rossini quella sera non fu molto fortunata, e a un certo punto il cieco volle riudire la Sonata appassionata di Beethoven. Mentre la fanciulla sonava, babbo Salvi notò ancora che Tito aveva quell’aria stramba di uno, il quale ha fatto una corbelleria e non sa come rimediarla. E andando a casa allegramente disse a sua figlia: — Quel Tito non so quanto valga; ma suo padre è veramente un buon uomo; poveraccio! è stato un quarto d’ora lucciola, e si è creduto una stella fissa; è da compatire, ora che è cieco. Però ha le idee giuste, e sa pesare gli uomini. — Perchè dici che il signor Tito non sai quanto valga? — Perchè mi ha l’aria di essere impaziente di arrivare; sbaglierò, ma lo credo anche geloso della fama di suo padre... Già, tutti fatti così, questi ragazzi della scuola moderna... Sbaglierò... — Sta zitto, babbo, perchè sbagli di sicuro. Babbo Salvi non fiatò più fino a casa. Presso al portone trovarono Tonio in sentinella. — Sono io! disse egli attraversando la strada. — Oh! Tonio! stavi qui a pigliar il fresco? domandò babbo Salvi. — Dopo la scuola, ho detto: voglio mi po’ andare a portare gli augurii a zio Salvi ed alle cuginette. — Se vuoi venire di sopra... Giuditta non è andata a letto; vedo che ha ancora il lume in camera. Tonio volle essere eroico per resistere alla tentazione; ma quella luce che scendeva dalla finestra, quella luce che lo aveva incatenato lì per un’ora, fu più forte di lui. Seguì a capo chino zio Salvi, dicendo alla cugina Sofia su per le lunghe scale: — Non vorrei dar noia; me ne andrò subito... Ma era proprio disgraziato il povero maestro di disegno; Giuditta era già andata a letto, e Sofia tornò a dire che sua sorella leggeva un romanzo bello, che ringraziava il cugino degli augurii, e gli contraccambiava... — Grazie! mormorò Tonio. Fino a tarda sera, rimase in salotto, parlando a monosillabi, e quando zio Salvi, immaginando che quella buona pasta di ragazzo volesse dire qualche cosa in segreto alla cuginetta, gli disse di fermarsi ancora un poco, se voleva, ma che egli aveva sonno, allora Tonio si svegliò del tutto. E disse: — Me ne vado. Sono le undici; fra un’ora comincerà il nuovo anno; sia un anno felice per lei, zio Salvi, per lei, Sofia... per Giuditta! — Sia un anno felice per tutti! rispose babbo Salvi. Sofia aggiunse sommessamente: — Coraggio, Tonio. E Tonio uscì ripetendo a sè stesso con baldanza: “coraggio, Tonio; il mondo è pieno di belle ragazze; coraggio per amarne una che ti corrisponda; coraggio per dimenticare una che non vuol saperne di te.„ Giunto sulla strada guardò in alto, alla finestra illuminata. Giuditta lesse lungamente il bel romanzo prima di spegnere la candela. Allora Tonio si avviò a casa. Per la prima volta la faccenda della lettura dei biglietti di visita era andata malaccio; e Tito, non sapendo bene se il cieco si fosse accontentato della toppa che aveva messo lui lì per lì, si aspettava altre interrogazioni prima che il babbo andasse a letto. Mattia non diceva nulla, rimaneva solo un po’ più del solito a tavola; a un certo punto Tito potè immaginare che il sonno glie l’avesse fatta; e si scostava in punta di piedi. — Non dormo ancora, disse il cieco; ma se stavo qui ancora un poco, ci cascavo; chiama e me n’andrò a letto. Il tono di voce era spigliato, quasi allegro. Tito, non si fidando ancora, gli girava intorno, dopo aver toccato il bottone del campanello. Tomaso si affacciò, e disse che il letto era caldo. — Senti, Tomaso, disse Tito; sei stato tu a confondere i biglietti di visita? — Quali biglietti? Tomaso protestò che, quanto a lui, potevano star sicuri, che non aveva confuso nulla, che i biglietti di visita non gli aveva nemmeno toccati. — Lascia stare, disse il cieco; ti dai pensiero di una cosa da nulla; domani staremo un momento a scegliere quelli che sono arrivati oggi, e me li leggerai tu stesso. Buona notte, figliuolo mio. E appena fu solo col servitore, gli disse: — Tito vuole che gli sia lasciata ogni cosa in ordine; e tu bada a contentarlo. Quelle carte di visite che hai confuso... Tomaso interruppe per dichiararsi pronto a giurare sul Vangelo che egli non aveva confuso nulla. — Allora, se non sei stato tu, sarà stata Barbara... Ma no, ma no; non poteva essere nemmanco lei; la giustizia prima di tutto, ecco; era stato sempre lui a ricevere le lettere dal portinaio... E poi ci era poco da confondere; Tomaso poteva fare il conto ancora adesso. Il portinaio gli aveva portato le lettere tre volte; la prima volta cinque letterine; la seconda... Mattia non fiatava. .... la seconda tre; la terza una e la gazzetta — e tutte e tre le volte Tomaso era andato difilato a consegnare ogni cosa in mano del signor Tito; _ogni cosa_, cioè la prima volta cinque letterine, la seconda tre, la terza una... Mattia non parlò più; si lasciò spogliare, e solamente dopo essersi messo a letto, disse: — Sei ben sicuro che le lettere fossero nove? — Altro che sicuro! mi sembra di vederle; la prima volta cinque; la seconda tre; la terza una — e niente più. — Niente più proprio? — Proprio niente. — Buona notte, Tomaso. E Tomaso se ne andò portando via il lume. Dopo una notte insonne, aveva chiuso gli occhi al primo mattino; alle dieci dormiva ancora, e Tito, affacciandosi alla camera del babbo, stava per andarsene in punta di piedi, quando il cieco si svegliò. — Tito! — Babbo! Hai dormito più del solito. — Sì... cioè no; ho vegliato; è stata una lunga notte di combattimento, figliuol mio. Il cieco parlava con accento mesto, ma tranquillo, e non potendo leggere negli occhi di Tito, gli stendeva la mano cercando la sua. Quando la ebbe stretta con tutta la forza nuova che aveva guadagnato nella battaglia, soggiunse: — Taci... non mi dir nulla; ho compreso tutto. — Che cosa? — Ho compreso l’inganno della tua pietà... povero figliuolo; taci... non cercare d’ingannarmi ancora.... è inutile. Sono forte.... solamente ho ancora sonno; lasciami dormire fino all’ora della colazione. Vedrai che l’appetito mi servirà a tavola... Zitto... Dammi un bacio. — Mi spiegherai poi... perchè io non capisco... — Sì, sì, ti spiegherò poi... disse Mattia voltandosi sul fianco. Tito se ne andò sconsolato. Per evitare lo sproposito commesso a tavola, egli ora vedeva come bisognava fare; lo vedeva chiaro chiaro ora che lo spropositaccio era commesso. A sanarlo, se fosse possibile, non gli rimaneva altro scampo che mettere faccia tosta per mentire; Tito ci si preparò in buona coscienza, studiando l’accento sincero della menzogna, come avrebbe potuto fare... una brava commediante. — Ti assicuro, babbo, che è avvenuto un equivoco, che... Sentiva che nel dire queste poche parole si sarebbe fatto rosso, ma Mattia non avrebbe visto. Solamente, prima di colazione, bisognava fare un po’ di esame di quei biglietti perchè non seguisse ancora qualche grosso guaio. A tavola Mattia fu sereno come il solito, anzi un po’ più ciarliero; ma non dava le spiegazioni promesse. Tito, commediante malsicuro di sè, era impaziente di recitare la propria parte, e d’altro canto temeva di guastare il buon umore di suo padre. Ma prendendo il proprio coraggio a due mani, disse con disinvoltura: — Oh! vuoi che te li legga ora, i biglietti? Mattia non rispose. — Però... sta tranquillo: ci ho messo un po’ di ordine. Il cieco si oscurò in volto, ma finì col sorridere nella gran barba bianca, e disse allegramente: — Sì, mi farai piacere proprio... Sono molti, non è vero? — Ce n’è una valanga. Vuoi che cominci? — Sì, comincia pure... E Tito lesse una litania di nomi e di titoli, che per un po’ fece star allegro suo padre. Poi Mattia piegò il capo sul petto, e disse: — Basta così. Tito rispose ingenuamente: — Ce n’è ancora. — Lo so, ma basta così. Lasciò passare l’idea nera che gli era venuta, e si alzò per baciare suo figlio sulla fronte. Non disse nulla. IX. L’invernata di quell’anno fu crudele. Tutto gennaio Mattia aspettò inutilmente il raggio di sole, che soleva entrare in studio e posarsi sopra le ginocchia del cieco. Invece del sole, venne molta pioggia, ora scrosciando sul lastrico, ora tamburellando sulle vetrate, ma per lo più lenta lenta, tanto che, misurata dallo stillicidio d’una gronda vicina, le ore sarebbero sembrate eterne a Mattia, se egli non avesse avuto tanto da fare per rassegnarsi. — A che pensi, babbo? gli domandava Tito qualche volta che stava troppo zitto. E Mattia rispondeva, scotendosi di dosso la melanconia, che non pensava a nulla, che era allegro quanto si può essere sotto il diluvio; ma poi, insistendo ancora suo figlio perchè dicesse qualche cosa, cascava a parlare dell’arte, che è un’innamorata infedele, dell’arte che fa godere quando ci sorride, che fa sanguinare quando ci abbandona. Diceva l’arte, ma voleva intendere la gloria, e ne parlava con accento scherzoso, perchè non era rassegnato ancora all’abbandono. Un giorno, con suo grande stupore, sentì esprimere a suo figlio un concetto che già era stato enunziato con molta arroganza da Primo Salvi, e che egli stesso non era ancora riuscito ad accettare. — Che importa? disse Tito. Che importa se l’arte ci abbandonerà un giorno? Finchè ci sorride ed è bella, bisogna amarla. Del resto tu stesso che credi di essere stato abbandonato crudelmente, hai continuato a volerle bene per le gioie che ti ha dato, e... anche per quelle che ti darà ancora. “Per quelle che mi darà ancora„ ripetè a sè stesso Mattia, senza nessuna amarezza verso la sorte, nè verso suo figlio, il quale s’ostinava a mettergli dinanzi agli occhi ciechi un trastullo guasto senza rimedio. La nuova sventura, piombando sull’anima del cieco, aveva ancora lasciato due molle intatte: l’affetto paterno e un po’ di fede in un’altra vita, quella fede che è parente prossima dell’ideale, secondo assicurava Mattia. Con queste due molle robuste, la rassegnazione è meno difficile. Allo spirar di quell’invernata, quando agli ultimi di febbraio Tito portò a suo padre le prime violette colte nel loro giardinetto, quell’anima, che si era stancata tanto nell’inseguire un’ombra, poteva dire d’essere arrivata alla pace. — Ho la coscienza di aver compiuto la mia missione con tutte le forze che mi erano state date; l’ho compiuta fino all’ultimo, e se il cielo mi aprisse gli occhi un’altra volta, per un giorno o per un’ora, so che tornerei da capo a fare quello che ho sempre fatto. Diceva questo perchè era sgomentato all’idea che suo figlio si innamorasse anche lui delle ombre, e che non avesse poi la forza di rinunziarvi. E quando potè accorgersi che Tito non correva nessun pericolo, almeno finchè non si fosse innamorato ancora d’una creatura viva, volle sapere se pensava sempre a Cesira, e se Sofia... Tito fu sincero. Confessò che Cesira lo aveva fatto soffrire abbastanza e che gli era caduta miseramente dal cuore. — E allora... insinuò sorridendo il cieco. — È una melanconia riconoscere la propria miseria; credevo che avrei sempre amato quella donna per il dolore che mi ha dato; invece.... — La natura è più generosa della volontà... — Non so se più generosa, ma è sempre vera almeno; mentre la volontà... Sì, la volontà si nutre anche di molta rettorica. — E allora... insistè Mattia, innamòrati di un’altra.... guardati intorno; mi pare che io non stenterei a vederne una... Tito volle parlare schiettamente: — Sofia, non è vero? È una gran buona figliuola, piena di fede e di coraggio; sarà la consolazione dell’uomo che vorrà farla sua; ma non sarò io quello... Il cieco non fiatava. — Prima di tutto essa è innamorata d’un altro... — Come lo sai? — Me l’ha quasi detto, quando le ho parlato di quella donna fatale... senza però mai nominarla.... e della figliuola che forse... Mattia, scoraggiato, disse: — E tu sei andato a parlarle di queste cose? — Ma sì... fra Sofia e me si è fatto un patto di alleanza; siamo due buoni amici, e l’amicizia fra un giovinotto e una ragazza non può durare senza la confidenza intera. — Amicizia... confidenza... balbettava il cieco. — Abbiamo promesso a noi stessi di non essere mai altro che amici; a Sofia sarà facilissimo perchè è innamorata di un altro; a me non sarà difficile... — Perchè?... — Perchè... te l’ho a dire? perchè Sofia, fisicamente, non mi piace... — Hai torto... — Sicuro che ho torto... Stando a quattr’occhi con quella ragazza mi sento tanto bene; ma non mi passa mai per il capo l’idea dì poterne fare qualche cosa di più... o di meno... di un’amica intima. — Hai torto, insistè il cieco curvando il capo sul petto; poi volle sapere di chi fosse innamorata quella buona figliuola. Ma siccome Tito titubava ad accontentare il babbo, egli stesso fu primo a pentirsi. — Non me lo dire; non voglio saper nulla; lo indovinerò. Infatti non tardò molto ad indovinare che la buona ragazza aveva una segreta inclinazione, di cui si sentiva umiliata, e che combatteva forte per vincere. L’inclinazione segreta e combattuta era per Tonio; per il cugino innamorato di sua sorella; ed era un’inclinazione di cui non avrebbe dovuto vergognarsi, perchè era nata da una gran pietà. Quando era venuto Marzo ad annunciare con magnifiche giornate di sole che l’invernata era propriamente finita, Mattia aveva voluto scendere ogni giorno in giardino a far due passi, mentre suo figlio lavorava al cavalletto. Il braccio di Tito non gli era necessario; tastando col bastone le muraglie e tenendosi alle branche delle scale, era sicuro di non sbagliare; così diceva; ma Tomaso, consigliato da Tito, non lo perdeva mai di vista. Faceva lunghe passeggiate nel viale, finchè si sentisse stanco; allora si andava a sedere sopra una panca di sasso, e stava per ore intere ad ascoltare il cicaleccio dei passeri; qualche volta si svegliava nel vecchio platano la voce di un merlo; faceva lunghi discorsi dicendo cose melanconiche, e Mattia lo ascoltava con una gran tenerezza. Poi Tito veniva a raggiungerlo, e si passeggiava ancora a braccetto, prima del desinare. Ora non accadeva più di parlare del passato. A che cosa poteva servire ancora pensare ad un amore sepolto, ad un’ombra svanita? Tito diceva in buona fede che, amando l’arte sinceramente, si è al sicuro da ogni altro amore; Mattia non era persuaso, ma non diceva di no. Aspettava. E quando la sera, puntualmente, arrivava Sofia, il cieco innamorato ancora, ma non sapendo più di che, le presentava le due mani, perchè essa corresse a stringerle. Una sera erano soli. Tito era andato all’adunanza della Famiglia Artistica; il cieco aveva provocato con astute suggestioni la confidenza della sua giovane amica, e Sofia si era arresa a dire quasi tutto; aveva pensato un momentino prima di svelare il proprio sentimento, e l’aveva svelato perchè quella confidenza, se mai, non poteva far male ad altri che a lei. Mattia aveva saputo molte cose, per esempio che quel Tonio era un bonissimo figliuolo, pieno di cuore e di volontà; che Giuditta era una ragazza accorta, che arriverebbe di sicuro a tutto quanto desiderava — (che cosa desiderava? — Sofia non lo volle dire); che babbo Salvi aveva la virtù ignota a tanti, d’essere fiero della propria sorte... e perchè la vita gli aveva dato l’arte, o almeno l’amore dell’arte, e perchè la morte gli prometteva... — La pace, affermò il cieco. — Oh! tutt’altro; il babbo non se ne sarebbe contentato; piuttosto la battaglia — ma perchè la morte gli prometteva semplicemente un’altra vita, babbo Salvi era contento. Mattia aveva voluto sapere di più, e siccome la fede, che faceva tanto bene a babbo Salvi, e ne faceva molto anche a lei, non poteva far male al cieco, Sofia si dilungò a parlare di spiriti e di spiritismo. — Lei ci crede? domandava ogni tanto il vecchio; lei crede proprio che Nerone... No, Sofia non credeva a Nerone, anzi non era sicura di credere a nessuna delle manifestazioni che gl’iniziati assicurano d’aver ottenuto dal mondo superiore... — E perchè non ci credeva? — Oh! unicamente perchè non aveva visto e toccato nulla lei stessa; ma credeva alla buona fede di chi aveva visto e toccato; credeva ad un mondo superiore che guarda ed aspetta. Il cieco ascoltava attentamente. Le parole meditate della ragazza lo facevano pensare. Egli confessò umilmente che se aveva guardato qualche volta in alto, era stato per non perder d’occhio l’ideale, quando si era immaginato che l’arte potesse essere tutta la sua vita. Quella sera stessa, dopo un lungo silenzio, Mattia disse alla sua piccola amica: — Può essere che anch’io, senza saperlo, abbia una religione, e non mi dispiacerebbe che fosse la sua. Sofia assicurò che egli ne aveva una. Oh! non aveva avuto sempre il culto dell’ideale? Ebbene l’ideale è del cielo. “L’ideale è del cielo;„ ripetè parecchie volte il cieco dubitoso. Lo ripetè ancora quando Tito, tornato a casa dalla Famiglia Artistica, annunziò che Tonio era lì, in istrada, ad aspettare Sofia per accompagnarla a casa. — Mi è venuto voglia di dirgli che venisse di sopra, invece di aspettare; ma egli mi ha visto e si è allontanato; glie lo dica lei, signorina. — Glie lo dirò, rispose Sofia; povero Tonio! Il cieco era stato ad ascoltare in silenzio per vedere se mai nelle parole di suo figlio e della bellissima Sofia si potesse scorgere un tantino di dispetto da una parte, di turbamento dall’altra; non ci vedendo nulla, tornò al pensiero di prima: “L’ideale è del cielo!„ Tonio era puntuale. Alle nove di ogni sera, si avviava melanconicamente da casa sua, per avere tempo di aspettare una mezz’oretta la cugina Sofia. La buona ragazza si era doluta un paio di volte di quel sagrificio, aveva fatto notare che la casa del cieco era a pochi passi dalla propria, che a quell’ora la strada era ancora frequentata, e molte botteghe aperte, e infine che se ne avesse visto la necessità avrebbe detto a babbo Salvi di venirla a prendere, ma necessità non ce n’era proprio. Ma Tonio, non volendo farsi bello del sagrificio, aveva assicurato ingenuamente che quell’ora non sapeva impiegarla meglio che accompagnando la cuginetta. Era in buona fede. Non aveva taciuto nemmeno che nel venire ad aspettare Sofia passava, quasi senza volere, per la strada di... babbo Salvi, e che qualche volta si fermava a guardare in alto se la finestra tonda era illuminata. Così Sofia si lasciò accompagnare senza lagnarsi più. Qualche volta il poveraccio le camminava al fianco in silenzio, ed allora toccava a Sofia risvegliare il dolore muto, perchè si lamentasse. — Ah! quanto l’avrei amata! diceva Tonio; essa non saprà mai, voglio che non sappia mai quale amore ha respinto. Sofia non rispondeva nulla, e Tonio continuava fin che la sua compagna, rallentando il passo per dargli tempo di finire il lamento incominciato, lo facesse accorto che il portone noto era in vista, che alla finestra tonda brillava la luce d’una candela. Allora Tonio ammutoliva ancora, Sofia lo consolava colla sola parola forte che le fosse rimasta. E non sapeva nemmeno lei se fosse la pietà di lui, o di sè stessa, o della povera umanità, che la profferisse: — Coraggio! — Oh! sì, sì, ne avrò, assicurava il giovine maestro. Questo accadeva nel primo tempo, dopo che Giuditta aveva manifestato il proprio sentimento, senza lasciare speranza che potesse mutarlo. Ma, durante quell’invernata crudele, Tonio fu a poco a poco condotto a considerare la propria miseria senza lamento; se per un pezzo era stato puntuale nell’accompagnare a casa la cuginetta quando Sofia era il pretesto di parlare di Giuditta tanto bella e tanto amata, ora sembrava aver vinto quell’amore fino a non parlare più di Giuditta, fino a parlarne ancora senza nominarla, fino a nominarla con melanconia tranquilla. Pareva a Sofia che, arrivato a questo punto della convalescenza, Tonio si potesse dire al sicuro; che se nondimeno aveva continuato ad accompagnare la cugina, lo avesse fatto per iscrupolo di gratitudine, o per troppa bontà, o per timidezza. Quella sera di febbraio, Tonio era stato per istrada un po’ taciturno; sembrando alla ragazza non sapesse che dire, pensò che, senza avvedersene nemmeno, fosse un tantino seccato di quell’impresa cavalleresca di mettere in salvo ogni sera una ragazza bruttina, sempre la stessa ragazza bruttina, la quale, per dire il vero, non si sentiva punto bisogno di salvamento. — Senti, Tonio, disse Sofia; ora tu sei proprio guarito, non è vero? Oh! bene. L’invernata è finita, stanno per cominciare i giorni più lunghi di marzo; non stare più ad aspettami la sera; il tuo tempo può servire a qualcosa di meglio. — A che vuoi che mi serva? domandò il maestro di scuola. Dimmelo tu. — Non so io... A vedere gli amici, a passeggiare, a far delle ciancie... — Se non vuoi proprio... se ti do noia... — Oh! Tonio, non lo stare nemmeno a pensare. — Ebbene, se non ti do noia, lascia ch’io venga sempre; mi fa tanto bene stare con te, tu trovi sempre una buona parola per consolarmi. Me ne accorgo, sai, che sono noioso, che invece di parlare, qualche volta taccio per tutta la strada; ma con te si può anche star zitti, non è vero? Sofia rispose di sì, che con lei si poteva anche tacere. Infatti tacquero tutti e due fino al portone di casa. — Addio, Tonio. — Dunque, domani vengo ancora?... Vuoi?... — Vieni, se vuoi. X. Passarono ancora due mesi di quella vita serena. Tonio era venuto tutte le sere, per accompagnar a casa Sofia, tacendo molto, ovvero parlando a scatti; sembrava non occuparsi nemmeno più di Giuditta, perchè teneva di continuo gli occhi a terra fino quasi al portone di casa Salvi, senza pensare a sollevarli. Una volta sola fissò lungamente il finestrino illuminato: ma quella luce non scese più alla sua fantasia per svegliare il desiderio, ma solo per provocare una curiosità che egli espresse tranquillamente così: — Chi sa mai se ha trovato il suo sogno? Sofia non rispose, Tonio non insistette. Se avesse insistito, la sincerità avrebbe obbligato la ragazza a dire di sì, che forse aveva trovato il suo sogno. Quel sogno era un agente di cambio, il quale, stanco degli esercizii di borsa, voleva riposare nella vita matrimoniale. La cosa non era ancora assicurata, ma il più era fatto, perchè l’agente era innamorato cotto. In quei due mesi sereni, babbo Salvi aveva fatto molte visite al collega glorioso; e interrogato da lui, gli aveva esposto diffusamente la dottrina spiritica. “Proviamo,„ aveva detto il cieco. E un giorno provarono. Erano soli in una stanza appartata, alle due estremità della tavola, faccia a faccia; babbo Salvi invitò in buona maniera il suo buon amico Nerone a manifestarsi; e Nerone si manifestò con un picchio discreto, ma non volle picchiare tre volte, sebbene pregato e ripregato. “Non abbiamo fluido bastante,„ assicurava babbo Salvi. Ma questa verità spiritica non poteva entrare in testa al cieco, il quale lasciava balenare un sorriso malizioso. Era da far indispettire uno spiritista convinto come babbo Salvi, il quale, per non perdere un neofita così ben preparato, fece violenza alla propria coscienza e diede lui stesso i tre colpi che Nerone non volle dare; poi tentò ancora d’indurre il suo buon amico, dicendogli tante cosine belle perchè si manifestasse, e quando vide che non se ne faceva nulla, tornò a dire che non avevano fluido bastante. — Ma dica, insistè il cieco, i tre picchi gli ha dati proprio la tavola? cioè lo spirito? — Altro! — Non vi è nessuno in stanza, non è vero? Lei certamente non voleva corbellarmi; e non è stato lei a picchiare? — Le pare? Dopo queste assicurazioni rimase nell’opinione di Mattia che la religione spiritica era una cosa da lasciare in disparte. — Proveremo un’altra volta. — No, non stiamo più a provare; qualunque cosa sentissi, dubiterei sempre; è la sorte dei ciechi. Quando questo pensiero melanconico si affacciava al suo cervello, Mattia si credeva il più infelice degli uomini; allora enumerava le proprie sventure, e dava un gran valore a tutte le rinunzie che negli ultimi tempi aveva dovuto fare, per poter buttare in faccia a suo figlio queste parole significative: “che ci sto a fare al mondo?„ Ma non era vero che egli non sapesse stare nel posticino che gli era rimasto, accanto al suo figliuolo, nell’intimità di quella buona ragazza, che gli faceva la lettura e gli sonava la gran musica. Nell’ora di buon umore lo confessava egli stesso. Solamente aggiungeva che perchè la sua felicità fosse intera, gli mancava una cosa, sempre la stessa cosa. Qualche volta la sera, quando era sicuro che Sofia e Tito fossero vicini, badava bene a non sviare il silenzio con una parola; aspettava il caffè, o lo aveva bevuto appena, e se ne stava zitto in aria meditabonda, per far credere a quei due ragazzi che egli si fosse appisolato; ma in verità tendeva l’orecchio aspettando una parola sommessa che non veniva mai. — Che veste ha in dosso oggi? aveva chiesto tante volte alla ragazza. Ah! se gli fosse stato lecito dare un consiglio a quella magnifica creatura sempre vestita di lana bigia e coi capelli pettinati male! “Signorina, le avrebbe detto se non avesse avuto paura d’intimorire la sua modestia; signorina, il bigio non sta bene alle belle ragazze come lei, lei è bruna, è pallida, dunque ci vuole l’arancio; oppure il nero; i capelli me li tenga rialzati in modo da lasciar vedere la fronte, accomodi le treccie dai lati e le lasci cadere sugli omeri, come una cornice. Se farà tutti i giorni così, qualcuno non resisterà lungamente.„ Però qualche speranza gli rimaneva ancora; notava che Tito da un poco non andava volontieri alla _Famiglia Artistica_, preferendo rimanere col vecchio babbo e colla nuova amica. Così si era giunti ai bei giorni di maggio. Ma la serenità fu rotta da una lettera inaspettata, da un nome non dimenticato: Cesira! Erano ancora a tavola quando il servitore portò quella lettera arrivata colla posta delle otto. Tito, appena ebbe dato un’occhiata alla soprascritta, impallidì; guardò Sofia, che lo guardava. Mattia, interrotto nella dimostrazione canzonatoria d’una teorica d’arte, sorrideva ancora pronto ad avviarsi ancora; ma siccome il silenzio si prolungava più del necessario, chiese sommessamente: — Che cosa è stato? che ci è in quella lettera? — Ancora non l’ho letta, rispose Tito nervosamente. Ma tu non puoi immaginare chi è che scrive?... — Cesira! balbettò il cieco. Che cosa ti può scrivere? — Ora lo sapremo, disse il giovine. Ma guardava ancora la busta suggellata. — Senta, disse la ragazza, non legga subito; aspetti almeno un poco, aspetti d’essere solo. Allora Tito lacerò la busta e lesse con un tremito nella voce. La commediante scriveva: “Amico mio! “Tu mi dicesti una volta: “in ogni tempo, qualunque cosa accada, ricordati che tu e la tua figliuola sarete sempre le ben venute.„ “Ebbene, io sono qui a pochi passi da te e sono infelice, quanto mai può essere una creatura umana. Ho perduto tutto ciò che un giorno mi ha fatto amare da te, e che ti ha fatto soffrire. Bianca anche essa non sta bene, ha la tosse; le hanno consigliato il mutamento di clima; ed ho pensato che suo padre soltanto può guarirla. La mamma non potrebbe altro che morire con lei. Tito, amico mio buono, fatti cuore e cerca di vincere il tuo risentimento per pietà di questa innocente. Essa picchia alla tua porta chiedendo l’elemosina della carezza paterna. Essa sola. La madre sua non vuol nulla; e ti benedirà in eterno chiedendoti soltanto questo, che tu non cerchi nemmeno di vederla. Rispondi fermo in posta alla disgraziata “CESIRA.„ Fu un lungo silenzio. Tito aveva piegato il capo sul petto e Sofia guardava fissamente nel vuoto, trattenendo a forza la commozione. Soltanto il cieco aveva un sorriso amaro sulle labbra; e fu il primo a rompere quella pena. — Rileggi ancora; spero che non ti farà male, anzi ti farà bene. Tito si provò a rileggere, ma era commosso troppo, e Mattia insistè. — Signorina, vuol leggere lei? Sofia interrogò Tito collo sguardo, e il giovine consegnò la lettera. E allora la giovinetta lesse con lentezza; lesse ingenuamente senza commenti d’accento e di pause, ma anche essa aveva la voce velata da un singhiozzo represso. Nel restituire la strana missiva, le erano spuntate le lagrime che aveva trattenuto inutilmente. Tito vide ogni cosa; fissando in volto la fanciulla, mormorò grazie. — A me par chiara, disse il cieco, e a voi? Non ebbe risposta e proseguì abbassando la voce. — Dunque la prima attrice rientra in scena per recitare la gran parte lagrimosa. Ma noi non ci lasceremo cogliere! Nessuna risposta ancora; il cieco proseguì quasi parlando fra sè e sè: — Se fosse vero che essa non chiede nulla, che si contenta di vedere la sua piccina sotto la protezione d’un uomo onesto.... — D’un padre, interruppe Tito con amarezza. — Ebbene sì, d’un padre... ma non sarai tu, sarò io; affermò tranquillamente il cieco. Per difenderti contro il tuo passato, contro te stesso, io ti dico che quella creatura non è tua, ti dico che è mia. Tito continuava a tacere, e Sofia pure; si guardavano negli occhi, ascoltavano entrambi quelle parole mormorate appena. — Ah! se fosse così! speriamolo, perchè tutto è possibile ad una commediante... anche la verità. Ma se invece questa lettera è un tranello, bada bene Tito... — Sta sicuro, babbo mio. Ma pensiamoci stanotte ancora, domattina ne riparleremo. Dico bene, signorina? Sofia accennò di sì, ma si sentiva a disagio, non trovando parole per nascondere il turbamento insolito cagionatole dallo sguardo profondo di Tito, dalle parole sommesse del cieco, dall’accento lamentoso di quella missiva. Rimase per un po’ sgomenta, non sapendo nemmeno lei di che, se degli altri o di sè stessa, e infine chiese licenza d’andare a casa. — L’accompagno fin sull’uscio, disse Tito. E quando furono giù per le scale, aggiunse: — Signorina, l’accompagno fino a casa... me lo permette? La giovinetta non rispose. — Dovrei dirle una cosa... insistè Tito. — A me? balbettò Sofia; e cercando una difesa al sentimento da cui si sentiva afferrare, mormorò: Tonio! Ma subito si pentì e trovò un po’ di disinvoltura per soggiungere: — Tonio mi accompagna ogni sera; ma oggi ho anticipato, e forse non ci è ancora; guardiamo. Fece gli ultimi scalini di corsa, e andò a tirare il catenaccio, perchè l’aria fredda della notte le battesse sulla faccia. Tito si era affacciato egli pure nella strada deserta. — Non ci è nessuno, disse il giovane; dunque l’accompagno. Ma venne in mente alla ragazza che, quando venisse Tonio, starebbe Dio sa quanto ad aspettare. — Lo aspettiamo, vuole? Rimasero un poco nel vano dell’uscio; nel buio la mano di Tito trovò quella di Sofia; ma non diceva altrimenti la cosa che gli era sembrato di dover dire alla ragazza. Poi un passo celere sonò nel silenzio della strada. — Tonio! ripetè Sofia, e si sciolse dalla mano che la tratteneva. Allora, sotto l’imminenza dell’addio, Tito finì la propria confessione, parlando all’orecchio della ragazza. — Senta, Sofia, la cosa che io le doveva dire è solamente questa, che le voglio bene, che le voglio bene tanto, che ora sono proprio sicuro di averle sempre voluto tanto bene. Tonio era già lì a due passi. — Buona notte, balbettò la ragazza e corse incontro a Tonio. — Già qui! disse il giovine, vedendo Sofia che gli si buttava addosso. — Sì, ho avuto bisogno di andare a letto più presto. Il signor Tito voleva accompagnarmi, quando ero sull’uscio ti ho visto. — Che hai? Non ti senti bene? — Benissimo. Sofia s’incamminò frettolosa; il suo compagno stentando a tenerle dietro non sapeva che pensare. — Sofia, disse dopo un po’ di silenzio, assicurami che non ti è accaduto nulla di male. — Nulla; solamente sono eccitata; temo che stanotte avrò un po’ di febbre; senti... Tonio si fermò sulla strada per tastare il polso di sua cugina lungamente; concluse che non se ne intendeva, ma che infatti gli sembrava... La ragazza riprese l’andatura di prima, e Tonio dietro. Quando furono sul portone di casa, Sofia disse al cugino: — Senti, Tonio, non stare più ad aspettarmi la sera; non avevo mai pensato che dovevi stare in sentinella un pezzo... — Che importa?... — Importa molto. E poi, te l’ho già detto, io non ho bisogno che nissuno mi accompagni, anzi non so nemmeno se andrò regolarmente in casa Bondi; e quando non ci andassi, tu mi aspetteresti inutilmente. Ti ringrazio per quello che hai fatto e che faresti ancora per me; ma non voglio più. — Non vuoi?... balbettò Tonio. — Sì, non voglio proprio. Il giovane guardò di qua e di là, come cercando le parole restie. Trovò finalmente queste e le pronunciò con voce affievolita. — Verrò domattina per vedere se non hai avuto la febbre... — Non avrò febbre; ora mi sembra che sia passato tutto. Senti. Tonio toccò il polso come la prima volta. Non era ben sicuro, secondo lui, che una febbricciatola non le venisse nella notte. — Verrò domattina in ogni modo... — Vieni; buona notte. XI. Sofia sapeva di non trovare nessuno a casa. Babbo Salvi e Giuditta essendo andati al Conservatorio per il concerto di una pianista famosa, era proprio una fortuna per lei di poter star sola, di aver tempo a lasciar passare le idee nuove, che le si presentavano in processione, e fermarne una che fosse salutare, non per lei soltanto, ma molto più per... lui. Salì le scale di corsa e nel ricercare la chiave di casa ebbe bisogno di arrestarsi perchè il cuore le batteva forte. Quando fu nella propria cameretta, non ebbe nemmeno bisogno di accendere il lume; perchè i sentimenti, che poco prima erano nebbie appena, pigliassero un contorno era meglio stare al buio. Sedette al tavolino, e fissò lungamente la parete nera, dove luccicava in una cornice dorata il ritratto della mamma morta. Vide al chiarore incerto della finestra tonda, le ombre lunghe dei letti. — Ma dunque? diceva forte ogni tanto. E stava ad ascoltare se dal mondo invisibile le giungesse una parola. Ma il silenzio non fu rotto da nessuno di quegli scricchiolii con cui le anime morte si annunciano alle anime che soffrono. Soffriva essa realmente? Sì. Le pareva di soffrire la pena di uno sgomento che ancora non sapeva definire... Sì, soffriva lo strazio della coscienza inquieta. La processione d’ombre continuò. Passò la commediante ignota, ma bellissima, passò la bambinella malata, passò il cieco sorridente nella splendida canizie, passò il giovine artista che era stato fino ad un’ora prima l’amico, e non altro. E passò pure Tonio, il segreto amore d’una volta; passò innamorato di Giuditta, e poi indifferente a tutto. La coscienza inquieta sembrava accusare Sofia d’infedeltà, perchè colui che era poc’anzi l’amico, null’altro, le sembrava divenire il solo, il vero, il suo grande amore. E quando la coscienza si fu placata fino a farle quasi accettare l’infedeltà, rimase in quel cuore semplice e schietto come la umiliazione di una caduta dall’altura in cui essa aveva collocato i propri sentimenti. Allora volle veder chiaro nel passato e in sè stessa; accese il lume, e rilesse molte pagine di un suo libriccino di memorie. Il libriccino non nominava nessuno, ma qualche volta accennava ad un sogno suggerito dalla pietà, ad un sogno che era fra le cose belle da dimenticare. Quando non era possibile farne di meno, questo sogno era espresso con una iniziale. Sola nella sua cameretta, rileggendo quelle pagine in cui aveva cercato di raffermare sè stessa, stranissima cosa, le pareva che dove era accennato Tonio, si avesse a leggere Tito, ora e sempre e unicamente Tito, perchè era lui che le aveva detto la prima parola d’amore. Ma, cosa più strana ancora, non era in pace colla coscienza anche per questo; e volle dirlo alle anime morte, le quali certamente in quel punto le stavano intorno curvandosi a guardare quello che avrebbe scritto nella pagina bianca. Essa scrisse una data: 1 _Maggio_! pensò ancora lungamente, e non aggiunse altro. Chinò il capo, chiuse gli occhi e la processione di ombre continuò a passare. Babbo Salvi e la sorella tornarono a casa dopo le undici. Giuditta era di buon umore. — Peccato che tu non abbia potuto venire, avresti imparato qualche cosa!... — Quella pianista è proprio tanto brava come dicono? — Ah! sì, bravissima; ma ci è altro che la pianista; ci è l’agente di cambio, il mio vecchio; egli mi si è messo vicino, ed ha voluto farsi presentare al babbo. Capisci, ha voluto lui, ed io l’ho presentato. Il babbo, siamo giusti, si è portato benissimo, sembrava che sapesse la lezione, e invece ti giuro che egli non sapeva nulla ancora. — Ed ora sa?... — Sì, tornando a casa, gli ho detto: hai notato quell’uomo che si è fatto presentare; cosa te ne sembra?... È vecchio, ha detto lui, ma è ben conservato... Ebbene, quell’uomo ben conservato, ho detto io, ha molti quattrini, non ha moglie e si è innamorato di me. — E che cosa ha detto il babbo? balbettò Sofia. — Che non ci stessi a pensare nemmeno, che noi siamo stati sempre disgraziati, e che non ci può toccare una fortuna simile. — Ha detto proprio così? — Sì; allora gli ho detto che quando fossi diventata la signora dell’agente di cambio — senti che effetto: la signora dell’agente di cambio!... — la miseria sarebbe finita per me, per lui, per tutti... — Ebbene... che cosa ha detto? — Il cielo t’ascolti... ha detto; ma per le scale mi ha assicurato che veramente lui non avrà bisogno di nulla, che, come ha vissuto sempre, vivrà ancora; ma sarà contento per noi altri... Un diluvio di parole... Spero che tu sarai più schietta. Sofia non rispondeva. Quelle parole di Giuditta e del babbo erano scese alla sua anima turbata. E per essere almeno schietta, si umiliò anche più, e rispose: — Se riesci a sposarlo, sarà un colpo magnifico: so bene che non ti scorderai di me. — Meno male che sai che ho buon cuore, che non sono avara, che non sono egoista. — È vero, tu non sei egoista! Beata te, che sai di non esserlo! Dopo una notte agitata, la mattina, contro il suo solito, Sofia dormiva ancora quando Giuditta, che era levata da un pezzo, fece molto rumore nella camera perchè sua sorella si svegliasse. E appena svegliata, le disse: — Che cosa hai avuto ieri sera, che sono venuti in due a chiedere notizie? — Sono venuti in due? Chi? — Tonio e il servitore di Mattia il glorioso... Tonio è venuto su nell’andare a far scuola; il vecchio Bondi ha fatto domandare se stavi bene, e ti prega di andarlo a trovare questa mattina stessa. È stato il babbo a riceverli tutti e due, io non mi sono lasciata vedere. Sofia mormorò grazie e si levò in silenzio. In quelle poche ore di sonno, tutto il rimescolio di idee si era posato; rimaneva vivo ed inquieto il solo pensiero della minaccia che pendeva sopra quelle due anime buone, tutte due ingenue, e tutte due, in diverso modo, cieche. Giuditta aspettò un poco in silenzio che sua sorella le dicesse qualche cosa; vedendo che non rispondeva nulla, insistè: — Mi pare che potresti rispondere a tua sorella. — Scusa, che cosa mi hai domandato? — Ho domandato che cosa hai avuto ieri sera? — Ma nulla. Tonio e il signor Mattia si sono spaventati di nulla; ho avuto un po’ mal di capo, e sono venuta a casa più presto del solito. Giuditta, non intendendo ancora, disse: — Ah!... intendo; e quando siamo venuti a casa dal concerto, che erano le undici sonate, eri ancora levata!... intendo... — Si può entrare, bambine? interruppe babbo Salvi schiudendo l’uscio. — Avanti, rispose Sofia, e corse a ricevere il bacio. Senza essere interrogata, ripetè che la sera prima si era sentita male al capo, ma che la notte aveva portato il rimedio, ed ora stava benone. — Tu non t’immagini che cosa possa volere il vecchio Mattia da te, che ti fa chiamare di mattina? — Può essere per una lettera arrivata ieri che ho dovuto leggere io. Vedendo che anche suo padre aspettava la confidenza, si affrettò a soggiungere tranquillamente: — Non ho capito nemmeno bene di che cosa si tratti; e poi non è un segreto mio. Dopo di che confrontò con un’occhiata i due cappellini, il vecchio e quello nuovo regalato da babbo Salvi, e mise in testa il vecchio. Quando fu uscita per andare dall’artista _glorioso_, Giuditta affermò con sicurezza: — Quella modestina deve aver fatto molta strada. — Che vuoi dire? Non ti capisco. — Capirai presto... e data un’occhiata indagatrice all’artista, che non voleva essere fra i mantenuti dell’arte, gli disse tranquillamente: anzi mi hai già capito. Babbo Salvi ripetè che non aveva inteso affatto affatto, era pronto a giurarlo; del resto, siccome egli non era mai stato curioso, era contento che Giuditta non gli dicesse nulla. XII. Nell’andare in casa del cieco, Sofia sapeva bene di obbedire ad un dovere più forte di lei stessa, ma qualche volta le sembrava che la felicità l’avesse chiamata a nome; e allora rallentava il passo, perchè era una felicità così grande che metteva paura a quell’anima ingenua. Oh! come le battè il cuore passando per l’andito in cui quella felicità le aveva parlato all’orecchio! Ancora non aveva visto nessuno, perchè il portinaio non si era nemmeno affacciato al finestrino. Salì le scale lentamente, e quando fu sul pianerottolo si arrestò incerta; ma si schiuse un uscio, e le apparve lui stesso, Tito. Aveva l’aspetto battuto, dall’ansietà forse, o forse dalla veglia soltanto; perchè dalle prime parole che disse stringendo la mano della giovinetta, appariva mesto, ma sicuro di sè. — Grazie, disse, grazie; lei è sempre tanto buona che mi vorrà perdonare l’audacia che ho avuto ieri sera... E siccome Sofia non fu pronta a rispondere, insistè: — Dica di sì, che mi ha perdonato. — Ho perdonato tutto, rispose la fanciulla. Dov’è lui? Non aveva voluto dire: _il babbo_, come aveva detto tante volte. — In sala.... La fanciulla si avviò risoluta, Tito rimase a guardarla finchè ebbe picchiato all’uscio e fu entrata nel salotto. — Sapevo bene che lei sarebbe venuta subito, disse il vecchio cieco arrestandosi nel mezzo della stanza; aveva in mano la bacchettina che gli serviva a dirigersi e a riconoscere gli oggetti, quando aveva bisogno di girellare per le stanze. Offriva la mano aperta in cui la ragazza pose la propria. — Mettiamoci a sedere. Lei non immagina nemmeno quanto può essere indiscreto un vecchio cieco, che ha visto, propriamente visto, una bell’anima come la sua. Ma si tratta di fare una buona azione, e mi pare che non ci possa essere altri che lei per aiutarmi a farla... Quell’esordio rassicurava il cuore turbato di Sofia. Senza intendere ancora di che si trattasse, essa rispose: _grazie_. — Lei ha letto ieri la lettera della commediante, che vuole affibbiare a mio figlio una paternità... ignota. Ho parlato lungamente con Tito, e l’ho persuaso senza molta fatica che egli non può essere la vittima d’un falso dovere. Mio figlio deve molto ancora al suo avvenire, e non lo butterà via per uno scrupolo; io voglio che egli sia marito e padre alla sua ora, voglio che sia felice. Sofia non rispondeva, e il cieco proseguì lentamente: — Ma ciò che non può fare mio figlio, lo farò io stesso, se lei mi aiuta: sarò io il padre di quella creatura innocente. — Lei? — Sì, proprio io. Può essere che quando quella donna abbia visto andar a male la commedia, rinunzierà all’idea di abbandonare la sua bambina; ma se è davvero determinata a lasciarmela, io me la piglio, come è vero che le parlo. — Oh! mormorava Sofia commossa. — Non mi stia a lodare troppo; non creda nemmeno che io sia molto generoso... tutt’altro forse... se guarda bene alla mia generosità ci troverà un po’ di egoismo.... A lei posso dir tutto. Ho paura che quella donna si penta della proposta che ha fatto e non voglia accettare la mia... Allora addio il _mio avvenire_... giacchè se quella madre si decide ad abbandonare sua figlia, avrò anch’io un avvenire. Sofia strinse in silenzio la mano del cieco. Mattia proseguì: — Mi dirà: che posso fare io? Glielo spiego: venga a stare colla mia bambina; tenga il luogo della madre... Vuole?... Non mi risponda subito.... ci pensi. Ma Sofia non ci pensò nemmeno; sapeva che la riflessione non avrebbe potuto aggiungere una parola alla risposta che la pietà aveva già scolpito nel suo cuore. — Sono pronta, disse tranquillamente. Quando ebbe fatto questa promessa, volle pensare a tutte le conseguenze per sè e per i suoi; ma il cieco, come per non dar tempo ad un pentimento, disse tre volte grazie. — Ah! sia ringraziato il cielo! ho trovato il lume dei miei occhi! Dunque stia a sentire quello che ho pensato di fare. Prima di tutto ho pensato che Tito se ne vada a fare un po’ di moto per l’aperta campagna, sulle Alpi o in riva al mare, dove meglio gli piaccia, tanto da non lasciarsi pigliare dalla tentazione di vederla... parlo di quella donna fatale che gli ha fatto perdere la testa una volta... Sta bene che egli è sicuro che non gliene importa... ma non si sa mai... Quando Tito sia andato via, io scrivo a quella commediante una letterina che ho già in mente... La vuol sentire?... — Dica... — Facciamo di meglio; io detto e lei scrive. Abbia pazienza; non potrei già servirmi della mano di mio figlio, perchè quella donna ne conosce la scrittura. Vuole che andiamo di là? La ragazza prese le mani del cieco e lo accompagnò fino allo scrittoio. — Dunque detto? — Detti pure. “Signora, “La lettera che ha scritto a Tito, è stata consegnata da lui a suo padre cieco, ed è il padre cieco che le risponde. So che mio figlio ha scritto le parole che lei accenna; so anche che ne ha scritto altre per invocare un diritto, che allora lo avrebbe reso interamente felice. Lei non rispose prima e rifiutò in ultimo. Ora che la ferita del mio Tito è interamente sanata, io posso dirgli a voce alta: “non voglio che tu accetti un falso dovere; hai diritto alla tua parte di sole, e l’avvenire ti sorride ancora; tu sarai padre unicamente dei figliuoli della donna che ti avrà fatto felice coll’amor suo.„ “Ma se lei è veramente la disgraziata donna che dice, se lei ha proprio perduto ogni cosa, se non vede altra salvezza che affidare la sua bambinella ad una persona di cuore, l’accetterò io. “La piccina troverà in me un tutore, e se per poco è buona ed affettuosa, come mi piace immaginarla, anche un amico, che qualche volta è meglio d’un padre. “Mi accompagni la bambina al mezzodì: io la aspetto.„ — Faccia il piacere di leggere quello che ha scritto. Sofia lesse forte perchè il cieco vedesse se non ci era nulla da aggiungere. — Mi pare che ci sia tutto. Lei cosa dice? — Se quella donna ha detto la verità, non vorrà venire, e scriverà ancora. — Perchè? — Perchè lo ha scritto essa stessa: “sopratutto non cercare di vedermi... ho perduto tutto ciò che mi ha fatto amare da te.„ Ah! se Mattia avesse potuto vedere di che rossore si copriva la faccia buona della ragazza! — Ci ho pensato anch’io; può essere che sia diventata un mostro e che si vergogni della sua deformità... può essere... Ma può essere anche... un artifizio di palcoscenico. E se scrivessi che mio figlio se ne va per non trovarsi con lei, invece di rassicurare la sua vanità, mi sembrerebbe di alimentarla. E poi... — E poi?... — E se invece la prima donna vuol fare una scena di commedia, non verrà più sapendo di non trovare il primo attore. Ci riserberà un atto, parecchi atti, molti atti; ora a tutti noi sta a cuore di affrettare la catastrofe, e di farla finita. — È vero, è vero... mormorava Sofia. Ma nell’accento con cui lo diceva, il cieco vide una titubanza rimasta. — Lei non è persuasa? Lei crede veramente che la signora Cesira sia diventata brutta come l’orco? — Ma... non so... Sì, lo credeva veramente; non sapeva dire perchè, ma le sembrava proprio che la sciagurata donna... — Sarà l’effetto della mia cecità... ma io continuo a vedere le cose come le ho viste una volta... Può essere come dice lei. Dobbiamo dunque aggiungere che Tito è assente? Sofia non rispose; ci pensava ancora, ma prima che avesse risposto, Mattia disse: — Scriva ancora questo: “Io sono cieco, mio figlio è assente per affari — può dunque venire liberamente perché non sarà vista da nessuno.„ Va bene così? — Oh! così va bene... rispose Sofia. — Ora stia a vedere come so scrivere ancora, disse il cieco appoggiando la mano sul foglio; non cancello nulla?... No... Ed ora guardi... — “Mattia Bondi!„ pronunziò Sofia; ma benone! — È scritto chiaro? Si legge bene? È un po’ di sghimbescio, forse? — Ma no; ma no; un pochino appena... E il vecchio artista si rallegrò ingenuamente di aver scritto il proprio nome un po’ di sghembo, ma in modo leggibile. Quando Sofia ripassò nell’anticamera per tornare a casa sua, Tito, che l’aspettava, le venne incontro. — Grazie, ripetè; grazie; io so già quale risposta ha dato a mio padre. La ragazza sorrise melanconicamente nell’interrogare: — Come lo sa? — Lo so perchè la guardo. Lo so perchè da molto tempo ho imparato a leggere nell’anima sua. Dunque lei verrà? Sofia non rispose subito; diede tempo ai propri sentimenti di ricomporsi, poi disse semplicemente: — Vado a casa per dirlo a mio padre; poi vengo. — Crede che babbo Salvi non si opporrà? — Spero. La fanciulla scese le scale e infilò l’uscio della portineria senza voltarsi a guardare il giovine rimasto sul pianerottolo. XIII. Sofia era al suo posto. Poteva dire che tutto era preparato intorno a sè per ricevere la bambinella inferma; la quale verrebbe al mezzodì, quando Tito doveva salutare i monti severi del lago di Lecco, la Grigna, il Barro, il San Martino. Andando e venendo per la nuova casa piena di luce, Sofia ne pigliava possesso, mentre il vecchio si aggirava nel buio, fermandosi ogni tanto di fronte al pendolo a contare i secondi. Sofia lo aveva trovato più volte in questo atteggiamento, prima di dire: — Mezzodì sta per sonare; senta... Mattia non aspettò nemmeno che il pendolo avesse battute le dodici; al primo scatto, disse scoraggiato: — Sapevo bene che non sarebbe venuta. Ma in quel punto Tomaso portò una lettera. — Di lei! annunziò la ragazza. — Mettiamoci a sedere, disse Mattia, non sperando più nulla di buono; e Sofia, stando in piedi in faccia a lui, lesse: “Uomo generoso. Perdoni ad un’infelice se non viene all’ora indicata; essa accompagnerà la bimba prima di notte. Se la porta del giardino che mette sulla strada sarà aperta, Bianca entrerà. Oh! potesse la disgraziata madre baciare la mano che proteggerà la sua creatura! Ma ne morrebbe di vergogna... Grazie, grazie, grazie. “Cesira.„ — Sta bene, aspettiamo ancora; disse Mattia; e dopo un momento di silenzio: lei, Sofia, che cosa ne dice? Interrogata così, la giovinetta disse che lei se lo aspettava. — Che cosa si aspettava? — Si aspettava che quella donna non volesse venire al mezzodì. A quell’ora sarebbe stata veduta, e la cecità dell’_uomo generoso_ non la metteva al sicuro dagli altri occhi. — Può essere, ripetè Mattia, può essere. La musica, il desinare, la lettura s’ingegnarono a far passare le ore di quella giornata di maggio, e molto prima del crepuscolo, il cieco scese in giardino, accompagnato da Sofia. Passeggiarono un pezzo in silenzio; più volte Mattia interrogò se il sole si mostrasse ancora sull’orizzonte e si impazientì delle ciarle che facevano sul suo capo i passeri sul vecchio ippocastano. Finalmente quel ciaramellio di vocine celianti scemò, e cadde quando il merlo gettò al vento la prima domanda lunga e melanconica. Allora Mattia prese Sofia per mano, e l’accompagnò fin sull’uscio, che metteva nella viuzza deserta. La ragazza volle tirare il catenaccio, ma non riuscì; e il vecchio le disse con un po’ di tremito: “sono ancora più forte di lei...„ Aperto l’usciolo, Sofia si affacciò nella strada. — Non vi è nessuno, disse: Si andarono a mettere sulla panca più vicina. Il sole era proprio tramontato. I contorni delle cose cominciavano a sfumare, e il merlo continuava ad interrogare nel gran silenzio. Poi una bambina si affacciò nel piccolo vano dell’uscio socchiuso, si guardò intorno, mosse pochi passi barcollanti come per obbedire ad un eccitamento, poi si fermò e si volse. Il cieco aveva sentito tremare nella propria la mano di Sofia, indovinò il resto, e subito rizzandosi in piedi e voltandosi verso l’uscio, disse con voce amorevole: — Bianca! Sentendosi chiamare per nome, la bambina tornò indietro; e allora Mattia chiamò con voce profonda: — Cesira!... La sciagurata madre si mostrò. Teneva il capo curvato sul petto e un fitto velo le nascondeva la faccia; appoggiò le mani sugli omeri della piccina, che si voltava a guardare ingenuamente. — Cesira! ripetè Mattia. — Sono qua. — Mi dia la mano, proseguì il cieco; così mi parrà di vederla. Cesira sussultò a queste parole, e scorgendo Sofia che si teneva in disparte, fece l’atto di voler fuggire; ma si accontentò di assicurare il velo nero, e porse una mano tenendo con l’altra sua figlia come per difendersi o per difenderla. Sofia notò che tutto questo era fatto con atteggiamenti teatrali; e notò ancora che la piccina continuava a guardare curiosamente. Il cieco si era commosso nello stringere la mano di quella donna, che, potendo fare una felicità grande, non aveva voluto. Le parlò con benevolenza: — Lei mi ha scritto d’una sventura; ma non mi ha detto quale sia. Se volesse dirmelo, se si potesse ancora rimediare.... Il cieco aspettò una parola, che non venne. — Non me lo vuol dire?... Aspettò ancora; poi abbandonando la mano della madre, cercò il volto della bimba, di cui sentiva l’alito. — Dunque, siamo intesi; disse mutando accento; me la piglio io. Così dicendo, attirava dolcemente a sè la testina, finchè la sentì appoggiata alle proprie ginocchia; la madre infelice esalò un sospiro lungo; la piccina continuava a guardare curiosamente ora l’uomo colla barba bianca, ora la mamma nascosta sotto il velo nero. — Ah! quanto sono disgraziata! mormorò Cesira. — Oh! sì; molto disgraziata, confermò Mattia, commosso; è la peggior disgrazia che le potesse toccare.... voler rinunziare alla sua creatura... — Rinunziare, no; interruppe Cesira con accento drammatico; la mia figliuola, il mio sangue mi appartiene ancora; spero che lei mi permetterà un giorno di rivederla, di amarla sempre e che dirà a quest’innocente di non dimenticare la mammina, di volerle sempre bene, d’aspettarla, perchè essa verrà, verrà presto. Queste ultime parole furono mormorate appena; all’ultimo vinta dalla commozione la commediante pianse. Pianse propriamente. La bambinella, dilettata molto da questa scena, rideva. Mattia tacque; non già perchè non credesse a quell’ardore di palcoscenico, ma perchè la commedia, se era tale, aveva vinto lui stesso e gli levava di bocca le parole. — Si ricordi che la sua figliuola è in mano di un uomo di cuore, disse poi affannosamente; e se posso fare qualche cosa per la sua sventura... me lo dica subito. Allora Cesira baciò la mano del cieco; poi, con frenesia disperata, avvinghiò la piccina. — Ti ricorderai di mammina, non è vero? dillo; te ne ricorderai? Mammina verrà presto, sai? presto presto. E scriverò a questo buon signore; e scriverò anche a te. — Una lettera che sia tutta scritta, che sia sigillata, e con francobollo... raccomandò la bimba. — Sì, sì, sì.... Dette queste parole si guardò intorno, in silenzio, come per ricordarsi lungamente l’ora e il luogo. Le venne veduta Sofia, che in tutto quel tempo si era tenuta in disparte. — La raccomando anche a lei. E corse alla porticina, dove si fermò un momento senza voltarsi. — Se n’è andata? domandò Mattia, lisciando con mano tremante la testina di Bianca. — Addio! gridò per l’ultima volta Cesira voltandosi per mandare un bacio alla ragazza. — Se n’è andata, rispose Sofia. Allora il cieco si accertò colla mano che la piccina non piangeva, e le disse: — Figliuola mia; la mamma ha fatto per celia... ma tornerà... lo sai? — Sì che lo so; rispose Bianca. — Ed ora non bisogna più piangere... La bambina mostrò il bel volto ridente. — Ora non piango più; ho pianto tante volte in teatro, quando quell’uomo nero sgridava mammina; mammina era rimasta in ginocchio, e mi diceva: va, ora ricordati di piangere bene; era tanto bello; la gente batteva le mani, io faceva la riverenza. Il cieco ascoltava le parole ingenue, e gli pareva che già quella vocina avesse cantato in lui come la vecchia musica di Cimarosa e di Rossini. Era una vocina soave e lenta, frammezzata da respirazioni lunghe. Non gli veniva in mente dove nè quando egli ne avesse sentito la cadenza e il suono. Tenendo con una mano la testa della bimba, volle dirigersi verso l’abitazione. — Sofia? chiamò a bassa voce. — Sono qua. — Rientriamo in casa; vuole? — E l’uscio del giardino rimane aperto? — È vero; mi faccia il piacere di chiuderlo lei. La bambina vide dar di catenaccio a quell’uscio e volle sapere come mammina avrebbe potuto tornare. — Passerà da un’altra porta, rispose Sofia. Nel breve tratto del viale, Bianca notò ancora che il vecchio tastava colla bacchetta i tronchi allineati nel viale di acacie. — Perchè fai così? — Perchè non ci vede, rispose Sofia, accarezzandole il mento. — Perchè sono cieco, disse il vecchio. Bianca alzò la testina intelligente verso il suo nuovo amico, e le balenò negli occhi una curiosità pietosa. Ma dal canto suo non abbandonando mai la mano di Bianca, anche Mattia aveva notato il passo incerto e un po’ sbilenco della bimba. Quando furono in salotto e il vecchio si fu accomodato nel canapè: — Ora lascia che io ti veda, disse; mettiti qua, fra le mie ginocchia. Così. Dopo aver tastato le mani, le braccia e il torace miserino della nuova figlia, Mattia ripetè che voleva vederla proprio. — Cominciamo di qui, annunziò celiando; e la bambina sentendosi afferrare il nasino, rise molto. Fu una lunga carezza; la mano leggiera dell’artista glorioso passò sugli occhi, sulla fronte, sulle orecchie, sulla bocca e sulle guancie della bambina. Poi si cacciò accortamente fra i ricciolini biondi, e all’ultimo accostò al petto la testina che continuava a ridere. Sofia stava a guardare melanconicamente. — Ora che ti ho vista bene, voglio che tu sappia chi sono io. Io sono il babbo. — Il babbo? domandò la piccina incredula. — Sì, il babbo; non ti è stato mai parlato del babbo? — Mammina mi ha detto che era un bell’uomo... — E ti pare che io non sia bello? — Sì, sei bello anche tu; ma sei vecchio. — Ti pare? E perchè ti pare che io sia vecchio? Vedi un poco quanti capelli ho anch’io; ne ho tanti come te... — Sì; ma gli hai bianchi; e poi, vedi, qui non sei liscio come gli altri. Mattia ebbe l’aria di pensarci un poco; ma finì coll’arrendersi; e Bianca, contenta di averlo persuaso, disse trionfando: lo vedi! — Sì, sì, lo ammetto; sono un babbo vecchio; non ho la faccia liscia; ma tu devi voler tanto bene al babbo vecchio. Non è vero? La piccina rispose distrattamente tanto; aveva messo gli occhi in faccia a Sofia, che la guardava con bontà. — Tu, come ti chiami? La ragazza la baciò in bocca, sugli occhi e sulla fronte con una tenerezza grande che non sapeva da che cosa fosse suggerita; poi rispose: — Mi chiamo Sofia, e ti voglio tanto bene. Bianca rispose tranquillamente che anch’essa glie ne voleva tanto. Mattia, continuando l’esame incominciato, disse: — Ora parla, dimmi qualche cosa. — Che cosa ti devo dire? — Parlami del paese dove sei stata, parla di quello che facevi in teatro. Bianca obbedì; e parlò di mammina bella, del teatro in cui essa aveva fatto tante parti, quando stava bene. Era una cosa tanto bella! Ma poi si era ammalata ad una gamba, e non aveva più potuto perchè era rimasta zoppina. Non se n’era accorto Mattia? Ma sicuro! egli non ci vedeva! Ma Sofia sì, se n’era accorta; ad una scarpina portava i tacchi alti alti, per non zoppicare, ma tanto zoppicava ancora... Dunque quando era sana aveva fatto tante parti, e la gente le diceva brava, e una volta perfino le avevano regalato dei dolci e una bambola grande grande... — Che cosa altro vuoi sapere? Ti ho detto tutto... Ah! di mammina bella... E Bianca parlò di mammina bella, senza titubanza; disse che non la sgridava mai, ma che aveva tante cose da fare, imparare la parte, e poi fare la prova, e poi recitare... da un po’ di tempo era di malumore, forse perchè aveva la tosse. — Non sei tu che hai la tosse? — L’ho avuta, ma ora non l’ho più. Mattia non insistè nelle induzioni per non abusare di quell’innocenza. La lasciò parlare un pezzo, finchè la chiacchierina fu interrotta più volte dallo sbadiglio. Allora Sofia domandò alla bimba: — Hai sonno? — Sì, un poco... — Vuoi che ti metta a letto? — No, aspetto mammina; ha promesso di tornar presto. — Mammina è andata in teatro; tornerà tardi; quando eri in casa tua, a quest’ora sicuramente mammina ti metteva a letto per andare alla recita... Era verissimo; ma solo da quando era stata ammalata; prima no, perchè faceva la commedia anch’essa. Continuò un poco così, parlando a scatti, finchè il sonno la prese interamente fra le ginocchia del cieco. — Povero angiolo! disse Mattia a bassa voce dopo aver ascoltato la respirazione tranquilla della piccina. Lei, Sofia, che cosa dice? — Povero angiolo! confermò la ragazza. Per un po’ tacquero; poi il vecchio volle sapere se la bimba... era bella... — È tanto bella, è proprio un amore. — È ricciuta, non è vero? Sofia disse di sì. — È bionda? La ragazza disse ancora di sì. — Ha il nasino rivoltò in su; ha la fronte ampia, nelle guancie due fossette, le orecchie piccolissime... Lo so bene... Ma vorrei sapere... — Se gli somiglia?... interruppe Sofia con tenerezza; è proprio il suo ritratto. Mattia non disse nulla; ma gli tremò la mano nel lisciare i capelli e la fronte dell’innocente. Era la prima carezza di nonno; e Sofia stette a guardare in silenzio, finchè il cieco disse: — Tito dovrebbe essere qui; e sono state io a mandarlo via... La giovinetta continuò a tacere per non dire il proprio pensiero che, dopo aver aspettato una parola di risposta, fu espresso meglio dal vecchio. — Non mi avrebbe dovuto obbedire; il suo posto a quest’ora era qui, e non sul lago di Lecco... — Si sveglia... disse Sofia; è meglio metterla a letto. Si prese in braccio la bimba, e le disse: — Ti mettiamo a letto. — Mammina, mormorò Bianca; dov’è mammina? — Mammina verrà dopo il teatro... Nell’attraversare le stanze, Sofia col suo fardello, il cieco dietro tentoni, la bimba si addormentò ancora; ma si svegliò del tutto quando fu nella cameretta che in avvenire doveva essere il nido delle due fanciulle. Disse a Sofia: — Qui è bello! Sei tu che dormi accanto a me?... Ma tu perchè non te ne vai? — Mi mandi via, disse il vecchio; hai vergogna di spogliarti in faccia agli uomini, non è così? Ma io sono cieco. — Non ci vedi proprio niente? domandò la bimba. — Proprio niente! Bianca si ricordò che non aveva detto l’orazione: e mettendosi in ginocchio sul letto disse ad alta voce: “Signore, che siete nei cieli, mettetemi sulla buona via per arrivare sino a voi; benedite la mammina, il babbo e tutti i miei parenti.„ Dopo di che lasciò che Sofia finisse di spogliarla e si cacciò nel letticciuolo. — Dammi un bacio, disse a Sofia. — E da me lo vuoi un bacio? disse il nonno. — Anche da te. Quando torna mammina, ricordati di dirle che sono stata buona... Pochi minuti dopo la bimba dormiva placidamente. Allora Mattia parlò a sè stesso. — Ho fatto male a mandarlo via. Il suo posto era qui, era proprio qui. Dopo un breve silenzio disse a Sofia collo stesso accento: — Domattina mi farà il piacere di scrivergli che suo padre lo aspetta.... che sua figlia lo aspetta. Me lo farà questo piacere? Sofia non ebbe tempo di rispondere, e il cieco, abbassando la voce, aggiunse: — Peccato di quella gambina! Lei ha visto bene che male ha? Non crede che si potrà guarirla? Sofia spiegò che la gambina destra era ben fatta, ma solo pareva colpita da atrofia, al paragone dell’altra; e perciò la bimba barellava un poco nel camminare. Rimasero accanto al letticciuolo della fanciulla, fino a tarda sera; fu Mattia il primo a dire: — Me ne vado a letto; anche lei avrà bisogno di riposare. Buona notte. — Io l’accompagno, disse Sofia mettendo la mano in quella del vecchio. — Non si muova: Bianca potrebbe svegliarsi... Io so la mia strada, non posso sbagliare. Solamente, ho bisogno di un bacio... me lo dia. Sofia si rizzò in punta di piedi per baciare il vecchio sulla guancia, e Mattia, contento, si avviò diritto all’uscio che aprì senza far rumore. — Buona notte, disse ancora. La ragazza, senza pensarvi, volle fargli lume; ma appena si fu affacciata al lungo corridoio, vide seduto in un canto... chi mai? Tito in persona. Egli le faceva cenno di star zitta; intanto Mattia continuava imperturbato la sua strada, tastando colla bacchettina la parete. Quando il cieco fu entrato nello studiolo, Tito si levò e corse a Sofia. — Me la faccia vedere, disse. XIV. Dov’è mammina bella? aveva chiesto Bianca, nello svegliarsi; e per molti giorni questa domanda era tornata ogni tanto, fra le chiacchierine, ma senza ansia nè sgomento. E ogni volta Sofia rispondeva prontamente, per paura che la piccina maliziosa si accorgesse che Mattia e Tito stavano troppo zitti. Diceva: “Mammina bella verrà presto; ha mandato a dire che sta bene, che si diverte, che è contenta, e che vuol sapere se sei contenta anche tu.„ — E tu che cosa gli hai risposto? che io sto bene, che la tosse non mi è più venuta, che mi piace tanto stare con voi, che tu sei la zia, che questo è il babbo, e che questo qui è il nonno.... e che io faccio la bambina buona... — Proprio così... E la zia, poi il babbo, il nonno in ultimo, si stringevano al petto quella testina intelligente. Come aveva detto la bimba, tutti avevano subito imparato la loro parte. Sofia confessava a sè stessa che si sentiva tanto bene, occupata nelle nuove cure, e che così i pensieri non si affollavano troppo alla sua mente; Mattia, cieco ed avariato come l’avevano ridotto il tempo e la disgrazia, dava molti punti ai più giovani e più sani nel far la parte di nonno. Dalla sua bocca soltanto s’udiva la celia meravigliosa per far aprir tanto d’occhi alla bimba; ed era poi còmpito del babbo distruggere ciò che la meraviglia aveva fatto per la fantasia, colla spiegazione naturale e vera che educasse il criterio. Quanto al cuore, se non ci fosse stato altri, bastava la zia. Non aveva essa la missione in terra di amare tutta la gente che soffriva, o che le sembrasse minacciata dal dolore? Questa domanda era stata fatta sottovoce un giorno da Tito, mentre il nonno si teneva sulle ginocchia la piccina, e le andava empiendo la testa delle cose stupefacenti che avrebbero fatto insieme più tardi, quando la nipotina avesse avuto sedici anni, e il nonno fosse guarito dalla cecità. Sofia fissò gli occhi in volto al giovine. Non disse parola. Ma rimase nell’anima di Tito un turbamento che egli non seppe spiegare a sè stesso, come se in quell’occhio sereno ma supplichevole avesse visto un proposito. Quale? Ci pensò senza venir a capo di nulla; ma in quest’indagine trovò la via per guardare attentamente nel proprio essere. Sembrava che la figliuola di Cesira imponesse a lui un dovere senza molto concedere in cambio, e una sera lo disse con amarezza, mentre la bimba dormiva sulle ginocchia del nonno. — A te, babbo, a lei, Sofia, è facile amare questa buona bambina; non è vostra; siete tutti e due ispirati dalla pietà; ma a me no, non è facile, ve lo dico io. Quando mi viene la tentazione di amarla molto, ci è qualche cosa che mi trattiene; ed è... non lo indovinereste mai... è l’idea che può essere... _mia_. — È tua, affermò Mattia; io ti dico che è tua. Dica lei, Sofia, dica lei, se non è sua. — È proprio il suo ritratto; disse la ragazza arrossendo; ha la stessa fronte, lo stesso girar d’occhi, e quando sorride, fa appunto come lei ora... Tito tentò inutilmente d’indovinare in quelle parole un sentimento segreto. Tacquero per affacciarsi all’avvenire, finchè Mattia disse: — Però non bisogna amarla troppo; la prudenza lo insegna. La prudenza insegnava anche a parlare con voce sommessa e ad accarezzare i capelli della bimba così leggermente che non si svegliasse. Sofia e Tito si guardarono di sfuggita. — Perchè? domandò la giovinetta. — Perchè la madre mi fa paura; perchè non sappiamo dove mira quella donna; perchè non è improbabile che sia rimasta in Milano ad aspettare lo svolgimento della sua commedia, perchè un giorno o l’altro ci è il pericolo di trovarcela ancora di fronte per richiedere la sua figliuola. Perciò non bisogna amarla troppo. Quest’idea era già balenata a tutti. Sofia guardò melanconicamente Tito, il quale soltanto, a parer suo, avrebbe potuto correggere la minaccia che parlava per bocca del cieco. Ma il giovine non contraddisse apertamente e subito; solo, sentendosi penetrare dallo sguardo indagatore della ragazza, dopo un breve silenzio entrò a dire al vecchio: — Non ti ho detto tutto, babbo. Quel giorno che tu mi credevi sul lago di Lecco, e che io era rimasto invece accanto a voi, non era soltanto per vedere la piccina, ma anche la madre. — Cesira!... mormorò il vecchio crollando il capo... — Sì. Ho voluto vederla, senz’esser visto, per poterti dire a voce alta che Cesira non esiste più per me, che la mia passione è morta di dolore. E ho sperato che essa fosse bellissima, più bella di prima, per poterti dire che la sua bellezza mi aveva lasciato indifferente. Parlava con voce profonda e lenta, senza mai voltarsi verso Sofia. — L’hai vista? domandò Mattia. — Ho visto venire una donna velata e la sua bimba che zoppicava; si accostarono alla porta del giardino, la bimba entrò, la madre rimase; poi entrò essa pure; io mi teneva celato dietro un albero del bastione. Dopo un poco riapparve Cesira sola; ma non la potei vedere in faccia. Ditemi che è bellissima ancora... Sofia era la sola che potesse rispondere, ma ebbe timore che il suono della sua voce tradisse l’intimo pensiero. Rispose invece il cieco. — Sofia non ha potuto vederla in faccia nemmeno lei; ho voluto sapere la verità da quest’angioletto, e le ho domandato se la mamma è bella, se non ha avuto una grave malattia... e mi ha risposto sempre che la mamma è tanto bella. — Anche a me ha detto così; ma una madre è sempre bella agli occhi d’un’innocente. Queste parole fuggite di bocca alla giovinetta, la turbarono; e per il resto della serata non parlò più. Solamente quando ebbe messo a letto la piccina, e il cieco si fu ritirato nella sua camera, Sofia, trovandosi un momento sola col giovine, gli disse senza turbamento: — Senta, signor Tito; lei soffre una pena che non ha propriamente meritato; non pensi a chiudere il cuore all’innocente che chiede un po’ d’affetto... Non credo che suo padre abbia ragione quando dice... L’occhio di Tito, fisso nel suo volto, le fece mancare la parola. — Che cosa dice mio padre? — Quando dice che la prudenza insegna a non amar molto questa poveretta; quando dice questo, il buon vecchio inganna sè stesso. Si provi lui ad amarla con misura, se gli riesce? Tito, continuando a guardare quella faccina, si avvide che il proprio sguardo vi metteva un po’ di rossore. — Dica, dica... — Mi sembra che non avrei paura del dolore, se volessi tanto bene a questa piccina. Io glie ne voglio già tanto; e lei pure, e il nonno pure — amiamola con coraggio. Tito le prese una mano, e disse umilmente, sottovoce, come se avesse paura di svegliare un sentimento selvatico che dormisse nell’anima buona della fanciulla: — Allora, mi aiuti ad amarla; sia lei la compagna mia, sia la sposa mia, sia tutta la mia felicità. Sembrava che quelle parole sommesse, quasi tremanti, continuassero la confessione incominciata nel vano dell’uscio di strada, quella notte, che era già tanto lontana. Il sentimento selvatico che il giovine aveva indovinato era ben sveglio, ma non trovava parole nell’anima di Sofia. Essa ascoltò lungamente quella musica, quella carezza. All’ultimo si sciolse dolcemente dalla mano, che stringeva la propria, e mormorò: _grazie_. Il giovine insistè: — Un’altra parola ancora, dica solo di sì. — Grazie, signor Tito, ripetè la fanciulla fissando gli occhi a terra; ma sono tanto commossa; mi lasci pensare. Creda che sarei felice di poter rispondere subito come lei ora desidera; non pensi nulla di male se non lo faccio; io sono proprio superba delle parole che mi ha detto; mi sembrerà sempre di ascoltarle... — Dunque!... dunque!... balbettò Tito scoraggiato; dunque non si sente sicura di potermi amare, un giorno, se ha bisogno di pensarci... Allora Sofia lo guardò. Aveva negli occhi un luccicore di tenerezza, e la pietà profonda per gli altri, ma non per sè. — Mi lasci pensare, disse ancora; non si offenda, se mai tarderò a rispondere. Queste parole melanconiche dicevano che il lavoro del pensiero era cominciato. — Aspetterò quanto vorrà; ma mi lasci almeno credere che non le sono indifferente. — Indifferente! disse Sofia; e nell’accento di questa parola era tutta la breve storia d’un amore che aveva vinto un altro amore. Il giovine non volle sapere di più; lasciò che Sofia si ritirasse nella propria camera, poi corse al letto del padre cieco, a risvegliare il vecchio desiderio. XV. Tito non era stato impaziente; avendo promesso di aspettare che la fanciulla si decidesse a diventar la _madre_ della piccina, egli aveva cominciato subito ad essere il _padre_. “Amiamola con coraggio„ aveva detto Sofia, e il giovine andò alla _Famiglia artistica_, a dare la buona novella che egli si era preso in casa una piccina di sei anni, bella come un amore, e che col tempo l’avrebbe adottata. La notizia non aveva meravigliato nessuno di quei capi ameni. Erano gente assorta nell’amore della forma, e poco badavano al resto; non era infrequente — tutt’altro — che la carità fiorisse in mezzo alle loro strettezze. Non meravigliò anche perchè la notizia della piccola zoppina piovuta in casa Bondi aveva fatto molta strada, ed era naturalmente arrivata alla Famiglia Artistica. Solamente Tito aveva taciuto il nome della madre dell’orfanella. Padre e figlio erano già d’accordo che non bisognava mettere la ragazza troppo alle strette; che se anche era una pena aspettare, il sì della buona creatura doveva essere dato con coscienza e con libertà; e che intanto nessuno doveva fiatare. Tito sentendosi sicuro di sè, non aveva molta fede nella pazienza del vecchio; e fin dal primo giorno, se il cieco si pigliava fra le ginocchia la bambinella, con l’aria di non volersi occupare se non di lei, notò che quando Sofia passava, o diceva una parola, la testa del cieco diventava immobile, la carezza si arrestava a mezzo. Quando poi la zia rimaneva un poco a discorrere sommessamente col _nonno_, Tito aveva una gran paura che suo padre si lasciasse uscire di bocca una parolina tentatrice. E appena erano soli, diceva: “che cosa le hai detto?„ Questo nel primo giorno; ma il secondo la sicurezza dell’animo aveva cominciato a vacillare, e dopo il terzo, notando che la ragazza diveniva sempre più malinconica e taciturna, furono tutti e due d’accordo che non se ne poteva proprio più. — Io le parlo chiaro, a costo di commettere una corbelleria. Ah! se i miei occhi si aprissero ancora! Ma tu che ci vedi, non sei tu buono a guardarla bene in faccia, a dirmi se posso parlare?... chi sa che non aspetti altro, se non d’essere interrogata. Tito guardò lungamente, e più volte, e sempre che lo potè fare di nascosto; ma nella faccia della ragazza non lesse altro se non che, parlando, v’era il rischio di affrettare la catastrofe. Furono giorni tormentosi per tutti, perchè anche Sofia lasciava scorgere nella faccia un pensiero che le dava molta battaglia. Se non fosse stata la piccina a porgere un filo di discorso a tavola, avrebbero desinato alla muta. La sera, che per lo più si spendeva in ciancie allegre, fu con tacito accordo consacrata interamente alla musica; e la _sonata appassionata_ disse molte volte a Mattia ed a Tito lo strazio d’un cuore in lotta col pensiero, finchè una sera Bianca, che stava sempre a guardare attentamente come facevano le mani della zia a trovare nella tastiera quella musica così bella, levò gli occhi a guardare la faccia pensosa, e corse dal nonno a dirgli sottovoce: _piange_. Mattia fu subito in piedi, e venne a mettersi accanto alla sonatrice. Intanto la bimba aveva ripetuto la scoperta fatta al babbo, e Tito, istintivamente, si pigliò la piccina in collo per andarsene nella vicina stanza. Nel salotto rimasero il vecchio e la fanciulla. Sofia si era accorta che il cieco le stava alle spalle, che Tito era andato via colla bimba; continuò a sonare quella musica dolente sino all’ultima nota. Quando ebbe finito, il cieco le mise le mani sugli omeri. — Basta ora; venga qui, con me, e mi dica una cosa. Sedette sul canapè, e tenendo allacciate le mani della giovinetta, e alzato il capo verso di lei come se potesse coll’occhio spento penetrare l’anima innocente, soggiunse a bassa voce, per meglio invitare alla confidenza: — Me lo vuol dire dunque, perchè la sonata di Beethoven l’ha fatta piangere? Sofia rimase un po’ perplessa, ma non seppe mentire. — Sì, glielo voglio dire; credo anzi d’aver bisogno di dirlo a lei, che è tanto buono e mi compatisce. Mi sembra di essere un’ingrata verso di loro. Il signor Tito mi ha detto una parola che m’innalza fino a lui, ed io non ho potuto ancora risolvermi. Mi crederanno una ragazza superba e sciocca... non è vero? — Non è vero. Solamente mio figlio, che le vuol tanto bene, si accora perchè lei non gliene vuole. — Io glie ne voglio tanto; confessò umilmente la poveretta; ma non glielo dica... Ho bisogno di pensarci ancora... non mi stia a dir nulla; tutte le parole che lei potrebbe dirmi me le sono già ripetute io stessa; ma ne ho ascoltate molte altre che hanno parlato nella mia coscienza... — E queste altre... non me le vuoi dire? Sofia strinse la mano del cieco. — Basto io, rispose; bisogna che la mia coscienza mi permetta di essere felice. — È una strana fanciulla, disse Mattia a suo figlio, quando la piccina e la zia si furono ritirate nella loro camera; ha degli scrupoli che mi nasconde, ma intanto è certo che ti vuol bene. Tito ne dubitava. — Ti dico che ti vuol proprio bene; ti dico che è innamorata di te. Mi sembra che ti dovrebbe bastare. Aspetteremo ancora domani; poi... — Poi? — Poi faremo qualche cosa; immagino che potremo fare qualche cosa, per farla decidere. Il domani passò senza portare nessun altro avvenimento fuor che una più profonda mestizia di Sofia, e una letterina che Bianca aveva voluto scrivere alla mamma. La missiva fu letta forte dalla bimba prima di essere mandata. Diceva: “Mammina bella. “Io sto bene in questa casa; tutti mi vogliono bene, ed io ne voglio tanto a tutti. Tu mi avevi insegnato a scrivere l’alfabeto; la zia Sofia mi ha insegnato anche le parole, e questa prima lettera è per te, mammina cara. Ora so anche contare fino a cento, e tornare indietro, che è molto difficile. Io ti aspetto tutti i giorni, e tu non vieni mai. La tosse se n’era andata, ma l’altro ieri mi è tornata; poco poco. Ti mando molti baci e i saluti della zia Sofia, del babbo Tito e del nonno cieco. Sai? Non ci vede proprio. Scrivi presto. “La tua piccola Bianca.„ Quella letterina fu uno spiraglio di luce per Mattia. — Sei stata proprio tu a scrivere così bene? domandò accarezzando il visino contento. — Sì, proprio io; ma la zia mi ha aiutato un poco. — Voleva sempre scrivere a mammina, ed io l’ho aiutata. — Ed ora, soggiunse la bambina, ora bisogna portargliela subito. Tito s’impossessò della lettera, e tranquillamente la mise in una busta. Bianca batteva le mani. — La soprascritta, disse poi il giovine, la scriverà la zia; ma non possiamo portarla... perchè mammina non è in Milano; è andata via. — Dov’è andata? — In un paese lontano; ma la lettera l’andrà a trovare quand’io ci abbia messo il francobollo. Ecco fatto. Ora la zia farà la soprascritta. Sofia scrisse il nome; e continuando a tenere il capo chino, domandò il paese. — Metta Barcellona. La giovinetta scrisse Barcellona. Bianca volle ancora sapere se quello era un paese molto distante, e quanto tempo ci vorrebbe perchè la lettera arrivasse al suo recapito; dopo di che Tito si avviò dicendo che andava alla posta. Sofia non sapeva ancora che pensare; solamente, quando il giovine tornò a dire che aveva fatto mettere in buca da Tomaso la lettera della piccina, comprese che nemmeno lui sapeva dove Cesira era andata. Quella sera stessa Mattia parlò a suo figlio così: — Tu hai inteso tutto, come ho inteso io; essa non si sente sicura che Cesira un giorno o l’altro non ritorni, e non s’impadronisca un’altra volta del tuo cuore. È stata una malizia infernale quella di non lasciarsi vedere in faccia! Anche a Tito pareva che fosse così. Ma s’ingannavano tutti e due. XVI. La mattina successiva Sofia ebbe bisogno di rivedere la sua casa povera, il lettuccio in cui aveva fatto tanti sogni, il babbo tanto debole a cui voleva tanto bene, la sorella tanto forte che le metteva soggezione. Ma trovò in casa solamente Giuditta. — Sei venuta proprio tempo; comincio a credere anch’io nello spiritismo; è stato sicuramente il vostro Nerone a mandarti. Dunque rallegrati: mi sposo. Sparata a bruciapelo questa notizia strepitosa, non diede nemmeno il tempo a Sofia di meravigliarsi, e spiegò d’un fiato le maliziette impiegate per indurre il vecchio agente di cambio. “I vecchi, assicurava la ragazza astuta, poco o tanto sono tutti un poco imbecilli; ma mio marito è più forte di quello che credevo. Mi ci è voluta un po’ di fatica... Ma lascia che ti guardi in faccia; non mi hai l’aria contenta. Si direbbe che non ti faccia piacere che io mi sposi. Va là, sorniona, che anche tu sei a buon punto.„ Era verissimo che Sofia non aveva l’aria contenta. E come avrebbe potuto essere allegra, se contro il suo cuore ingenuo si appuntava peggio che mai uno dei tanti pensieri maligni di molte notti insonni? Ed era che il mondo crederebbe anche lei una sorniona in cerca di un buon negozio. Le sembrava già di udire dietro i suoi passi: “quell’altra almeno aveva la bellezza, ma questa qui non ha proprio nulla.„ Giuditta non credeva che vi potesse essere uno della famiglia, il quale non fosse contento della fortuna toccata a lei, e bastò che Sofia domandasse: “è proprio una cosa intesa?„ per rispondere allegramente: — Altro che intesa! Il mio vecchio non ha tempo da buttar via; si andrà subito a far le pubblicazioni, faremo le nozze presto. Dico il mio vecchio, per dire, ma non ha ancora cinquant’anni. Egli almeno me lo assicura, poveretto! teme che io possa pentirmi di pigliarlo se ne avesse cinquanta sonati... Quel cinismo era così ingenuo, che la stessa Sofia si unì alla risata. — Ora parlami del caso tuo, perchè io ci ho pensato sempre, sai? Di’ su. — Ma io non ho nulla da dire. — Sei un tantino ipocrita; non te lo avere a male... Come se io non sapessi tutto... — Che cosa sai? — So che il signor Tito è cotto, e che non manca se non la tua decisione... abbi pazienza, non farmi l’aria afflitta, che è inutile... lo so dal babbo; e al babbo è stato detto dal tuo innamorato in persona, un giorno che egli non ne poteva più. Il babbo è stato lì lì per correre subito a farti una ramanzina, ma il tuo signor Tito gli ha detto di non parlare ancora. Infatti il babbo, per non dirti nulla, da cinque giorni non viene a trovarti... Tutte le mattine dice: se non si decide oggi, andrò io domani a dirle il fatto suo. — Posso entrare? interruppe una voce discreta dietro l’uscio socchiuso. — Oh! Tonio! Qual buon vento? — Babbo Salvi mi ha incontrato per istrada e mi ha dato la buona notizia, rispose il giovine con accento spigliato; ti faccio i miei augurii. — Grazie, rispose Giuditta; gli accetto perchè so che sei sincero e che mi hai sempre voluto un po’ di bene. Hai già visto il mio sposo? No?... Non è bello, e nemmeno giovane, ma non si può aver tutto quello che si desidera. — Che importa la bellezza? La bellezza può dare il capogiro, ma non dà mai la felicità. Questa frase era uscita più che mezza dalla bocca di Tonio, quando egli si avvide che poteva ferire l’innamorata antica; ma nondimeno la finì con un tantino di compiacenza. Giuditta intese tutto, e non si avendo a male dell’indifferenza del cugino, gli strinse la mano nel dirgli: — Mi fa proprio piacere che tu parli così. — E tu, Sofia, come stai? chiese il giovine. Sofia stava bene, ma si era fermata troppo, e il cieco l’aspettava... — Fai musica anche la mattina? domandò Giuditta. Sofia non rispose. Era turbata dalle parole della sorella che le si erano fitte in mente, dall’intervento di Tonio, proprio di lui, e in quel momento di battaglia; non vedeva l’ora di trovarsi all’aperto, per troncare il litigio colla propria coscienza. — Te ne vai proprio? — Sì, vado; addio Giuditta; addio Tonio. — Vengo anch’io, disse il cugino. Scendendo le lunghe scale, la ragazza trovò più volte il coraggio di sagrificare sè stessa, l’avvenire, Tito, ogni cosa, e di dire al proprio scrupolo ed al mondo: “tacete tutti, ora siete soddisfatti;„ e più volte trovò l’idea baldanzosa di far felice Tito, il babbo e sè stessa, di beffarsi allegramente dello scrupolo e della malignità della gente. Tonio scendeva in silenzio alle sue spalle. — Dove sei avviato? domandò Sofia al cugino. — Ti accompagno, se non ti do noia; è un pezzo che non facciamo questa strada insieme. Si avviarono. Dopo essere rimasto taciturno un tratto di via, Tonio cominciò a dire lentamente, e con una voce profonda che toccava il cuore: — Non ti sei mai accorta che io sono uno stupido? che io sembro fatto apposta per arrivare in ritardo alla felicità? No? Non te ne sei mai accorta?... — Non ti capisco... balbettò Sofia. — Quasi non mi capisco nemmeno io. Non capisco perchè abbia aspettato tanto a dirti il mio pensiero, e che senta il bisogno di dirtelo ora che non può giovare a nulla. E siccome Sofia non chiese: _quale pensiero?_ Tonio proseguì: — Io so che il signor Tito ti vuol bene, e che anche tu gli vuoi bene; so che sarete felici, e che nissuno ne avrà tanto piacere sincero, quanto me. Perchè anch’io ti ho voluto bene, e ancora te ne voglio, e sento che te ne vorrò sempre. Direi che ti ho sempre amata senza saperlo, mentre mi pareva di non poter vivere senza Giuditta; ma tu avresti ragione di riderti di me. Ed è per questo che non ho osato parlare; per la vergogna di aver amato un’altra, e che questa altra fosse tua sorella. Sofia guardò suo cugino con quegli occhi buoni che dicevano tanta indulgenza e tanta pietà. Camminarono ancora un pezzetto senza dir parola; Sofia cercava la risposta da dare a Tonio, per non affliggerlo, per consolarlo, e anche per non pentirsi essa stessa delle proprie parole o del proprio silenzio. Scelse di dire la verità. — Sì, è vero; il signor Tito mi ha detto che mi vuol bene; è vero anche che io gliene voglio. Ma ancora non ho accettato l’offerta che mi ha fatto. — L’accetterai, disse Tonio melanconicamente; devi accettarla se gli vuoi bene... Sofia crollava il capo. — Tu non sai... Al mio posto, tu faresti come me; ne sono sicura, come sono sicura che tu sei il più generoso e più sincero degli uomini. — È possibile mai?... È possibile mai?... interruppe Tonio, e gli tremava la voce. — È tanto possibile, rispose mestamente Sofia, che io non credo più alla felicità... non parlo per te; sono sicura che tu sarai felice... e te lo meriti... ma non credo più alla mia felicità. Erano arrivati alla porta di casa Bondi. — Ma... se... per caso rifiutassi... allora?... — Allora rimarrei zitella. Pronunciando queste parole, fissò tranquillamente suo cugino, il quale pigliò la mano che gli veniva offerta, e la tenne un poco fra le sue, in silenzio. — Una ragazza che può dare la felicità a qualcuno, è in dovere di farlo. Non ti far scrupoli di essere felice... Sorrisero tutti e due melanconicamente. — Addio! — Addio! Sofia si arrestò su per le scale, per asciugarsi gli occhi. Tonio si avviò di buon passo a scuola. Camminando colla testa eretta come un conquistatore, non tremava una fibra della sua faccia melanconica; ma gli erano cadute due lagrime sulle guance, ed egli non ci badava nemmeno. Ci badava la gente, che lo vedeva passare con quell’aria spavalda e colla faccia bagnata di pianto. XVII. — Che ci è di nuovo? domandò Sofia al servitore. — Ci è suo padre; è in salotto che aspetta da un bel poco. Infatti babbo Salvi andava su e giù nella sala. Sua figlia lo arrestò. — Sei qui solo? — Non sono sempre stato solo; la tua Bianca mi ha fatto tante ciancine; è stato anche qui il signor Tito, un momento, perchè ha dovuto andar via per affari. — E il cieco? — Poco fa era qui anche lui; mi ha detto che tu eri venuta a trovarmi; e allora ho pensato di aspettarti. Babbo Salvi studiava le parole. Sofia intese che era venuta l’ora di parlar chiaro; si lasciò cadere sopra una seggiola e disse rassegnata: — Tu mi vuoi dire qualche cosa... parla pure. In tutto quel tempo che babbo Salvi era andato su e giù per la sala, aveva preparato varie forme oratorie per arrivare all’animo della sua figliuola; si era immaginato due o tre scenette, in qualche punto aveva così bene preveduto le parole di Sofia che le aveva pronunciate egli stesso e si era risposto trionfando; — ma tutta la sua strategia andava a male per questa prima mossa impreveduta. Non sapendo come rispondere, si andò a mettere dietro la seggiola della ragazza, e le lisciò la fronte, i capelli, il visino melanconico. — Io non ho nulla a dirti, disse poi con accento carezzevole; ma tu invece dovresti aver molte cose da dire a tuo padre. Sofia pensò un momento a queste parole, poi rialzò il capo per incontrare lo sguardo del vecchio. — Può essere che io abbia avuto torto di tacere con te, ma l’ho fatto perchè non volevo guastare la tua pace; perchè volevo battagliare io sola per vincere. — Ed hai vinto? — Non ancora, disse umilmente Sofia; sono troppo attaccata alla felicità... A queste parole sconsolate babbo Salvi fece la corbelleria di abbandonare la posizione vantaggiosa che aveva preso per venire a mettersi di fronte alla figliuola, sotto lo sguardo buono e mesto ma risoluto. Cercando una sedia, gli venne veduto uno sgabello basso, e lo andò a prendere in buona fede. E quando ebbe messo il testone spettinato sotto la carezza della fanciulla, s’immaginò d’essere più forte nel dirle l’animo paterno. Disse lentamente: — Io non voglio far violenza alla tua volontà, ma ti dico che la tua coscienza questa volta non è buona consigliera. Anzi ti posso assicurare che non già la tua coscienza parla dentro di te; ma uno scrupolo falso. Diede tempo la fanciulla di pensare a quelle parole paterne, prima di proferirne altre che s’era preparato. — Vedi, figliuola, io non mi ho a male che tu non pensi al conforto che darebbe al tuo vecchio padre il sapervi arrivate tutte e due all’agiatezza; non mi ho a male che tu non pensi che io morrei contento di aver vissuto un po’ di tempo accanto alle mie figliuole, compiacendomi della loro ricchezza... — Ah! non dir questo, babbo mio, interruppe Sofia; non dirlo, perchè non lo pensi; non dirlo, perchè tu pensi il contrario. — Lo dico; lo ripeto... avevo fatto il sogno di passare una settimana con Giuditta, magari due con te; Giuditta mi avrebbe compatito perchè in casa di mio genero l’agente di cambio non avrei trovato _l’ambiente_ artistico; mentre in casa di mio genero l’artista famoso... — Taci, taci, babbo; ti fai torto. — Ma... perchè? Mi faccio torto! ma perchè? — Perchè rinunzi a tutto te stesso. Tu sei sempre stato povero, e non te ne sei mai vergognato; tutta la vita hai combattuto la povertà colla fierezza; e vorresti farmi credere che la ricchezza delle tue figliuole avesse a distruggere nella vecchiaia una virtù, non diciamo pure virtù, se vuoi... — Diciamolo anzi... una virtù, una virtù. — Diciamo invece una _forza_ che ti è costata tanto. Tu non puoi essere un altro da quello che sei sempre stato; tu rimarrai fedele all’orgoglio che ti ha fatto incontentabile della pittura, ma innamorato dell’arte. Le tue figliuole hanno visto i sagrifizi che hai fatto per mandarle a scuola ad imparare una professione, e non pretendono da te la rinunzia che fai ora. Se Giuditta fosse qui, ti direbbe essa pure che ti siamo grate di tutto. Gli occhi di babbo Salvi, fissi ancora negli occhi della giovinetta, non avevano più la fermezza vivace; e a un certo punto si oscurarono, come se ritorcessero lo sguardo a veder nell’anima propria cose non mai viste o viste male. — Ah! lo riconosci, babbo caro, continuò a dire Sofia. Tu volevi farmi credere ad una... cosa di cui ti saresti poi pentito. E ciò perchè ti sei fatto l’idea che la ricchezza sia molto per la felicità di una ragazza, e che una giovine non possa stare al mondo senza un marito. — Questo poi lo credo, mormorò babbo Salvi. — Ma il resto no; ne convieni? Vedi! Ci avevo perfino pensato io stessa... — Che cosa avevi pensato? — Avevo pensato che il ricco matrimonio delle tue figliuole avrebbe potuto farti torto agli occhi del mondo... — Perchè... Ah! t’intendo... “Quel babbo Salvi ha saputo cavare le sue castagne dalla cenere.... non ha mai finito un quadro, ma ha dato due ricche cornici alle sue ragazze. Grand’artista quel babbo Salvi!„ È questo che il mondo minchione avrebbe detto, non è vero? Sofia non rispose; sicuramente, era questo. — Il mondo ha la lingua lunga, tentò di affermare babbo Salvi; ma non bisogna dare importanza alle chiacchiere della gente maligna. — Ed io non gliene ho data; è stata un’idea fra le tante; è venuta, se n’è andata. Ma altre sono rimaste, ed una non mi lascia pace. Il vecchio Salvi, messo per la prima volta di fronte a sè stesso, andava frugando nella propria coscienza di uomo, di padre, di artista; alle ultime parole della giovinetta, la sua mente si arrestò un momento per ripigliare subito l’inquieto lavoro di ricercare sè stesso. — Dimmi... quali sono rimaste?... Vogliamo guardare in faccia tutti gli scrupoli, assicurò babbo Salvi. Ma la baldanza di queste parole era smentita dall’accento dimesso e distratto. — Guardiamoli pure, disse Sofia mestamente; il primo scrupolo è stato che, essendosi trovato un marito ricco per Giuditta, io non dovessi assolutamente fare il paio... Era la fierezza, era la tua fierezza che ho nel sangue, che mi parlò così; pensandoci, riconobbi che quest’idea non aveva fondamento... — Meno male; la gente chiacchiera volontieri; quando può, dice l’ira di Dio; ma in fondo è indifferente a tutto. — Poi venne lo scrupolo che la gente avesse a dire male di te... — Sempre la gente... — Ma, per essere sincera, durò poco. Poi... — Poi? insistè babbo Salvi. — Poi mi si presentò Tonio, a cui mi sembra di aver voluto tanto bene, quando... egli non pensava punto a me, quando io non pensava... ad un altro.... Babbo Salvi stette zitto; lasciò che quell’idea se ne andasse da sè, prima di dire: — E che altro scrupolo? — Povero Tonio!... mormorò Sofia. — E che altro scrupolo? insistè babbo Salvi. Vuoi che ti dica io l’altro scrupolo? Tu hai avuto paura, e tu hai paura ancora, che il signor Tito abbia lasciato un brano del suo cuore in quella donna fatale che lo innamorò un giorno. Non sei ben sicura che quella donna sia diventata brutta, e temi che quando egli la rivedrà bellissima possa ricascare nella rete. Questa era una delle tante frasi che babbo Salvi aveva preparato; solamente mancava l’accento ironico col quale le doveva pronunziare per far bene la sua parte; aveva anzi parlato colla monotonia melanconica di un cattivo avvocato, che non confida nel trionfo della propria eloquenza. — Di’ la verità; è questo che tu temi? Sofia non rispose, e babbo Salvi proseguì: — Ebbene, sappi che è stato lo stesso Tito... a farci venire in mente, a me ed a Mattia Bondi, questa idea curiosa della gelosia anticipata... Sofia crollava il capo. — Non diciamo gelosia, diciamo amor proprio, dignità di sposa... Nessuna parola esprimeva bene il concetto, a quanto pareva. — Non diciamo nulla; ma ti dico io che Tito è sicuro, proprio sicuro, che quella donna gli è caduta dal cuore. Tu non lo credi? — Lo credo. — Pensando che in te potesse entrare un turbamento qualunque, egli ha cercato di vedere in volto quella donna velata; sperava che fosse bellissima sempre, per poter venire a te a dirti che gli era indifferente. — Lo so, rispose Sofia. Avevo capite tutto questo... prima che egli me lo dicesse. — E allora... e dunque? — Dunque non capite nulla... affermò Sofia. Babbo Salvi cercò frettolosamente se avesse dimenticato qualche cosa; e non trovando, tirò ad indovinare. — La piccina... Bianca? Oh! in buon ora! Ma che ti viene in mente che questo sia un ostacolo alla tua felicità?... Alla felicità di Tito?... Se tu vuoi bene a quella creatura, e se lo merita perchè è tanto bonina, se tu le vuoi bene, dovresti essere contenta di far una parte che a te riuscirà senza fatica, la parte di madre. Sofia fissò gli occhi in faccia a suo padre, e disse: — Sì, io vorrei essere la mammina di Bianca, lo sarei con affetto sincero, lo sarò fin che mi sarà lecito; ma non è possibile che, di proposito, metta me stessa fra la piccina e... i suoi genitori. — Ma che ne sai tu, se...? — Non dirlo... si legge in faccia... E anche se rimanesse il dubbio, lo scrupolo sarebbe forte ancora fino a tanto che rimanesse una probabilità... — Quale probabilità?... — Che, incontrandosi un giorno, quella donna e il signor Tito sentissero la necessità di amare insieme la poveretta a cui hanno dato la vita... Non voglio essere io a frappormi... ad un dovere... Quella creaturina ha il diritto di portare il nome di chi l’ha messa al mondo. Non ti pare, babbo caro? Il vecchio Salvi chinò sul petto il testone canuto. Dopo un po’ di silenzio, si rizzò in piedi e baciò sua figlia in fronte. — Mi hai fatto vedere ancora l’anima giusta della mia povera morta. Lasciando la stanza andò a dire al cieco ed a Tito con umiltà: — Ho fatto fiasco; mia figlia mi ha messo in sacco... E quando ebbe spiegato tutto il colloquio diplomatico, conchiuse affermando con un po’ di baldanza: — Quella ragazza si è servita delle stesse armi che ha trovato in casa, delle armi con cui avevamo combattuto, la mia morta ed io. Ma siccome Tito e Mattia avevano altro per il capo che sapere di quali armi si erano serviti i coniugi Salvi, il vecchio artista fu preso da uno scrupolo, e modestamente non finì la frase. Senza di che, tutti avrebbero saputo quel medesimo giorno che babbo e mamma Salvi avevano combattuto con la giustizia e colla fierezza — due armi che la società ha ridotto a due monconi per il mal uso che ne ha fatto. XVIII. Una mattina Tito annunziò ai cieco ed a babbo Salvi che andava di buon passo a riconoscere sua figlia. — Credo che ci vorranno dei testimoni; vuol esser lei uno? Altro che! Babbo Salvi non chiedeva di meglio; ma aveva i suoi dubbi che la cosa si potesse fare così alla lesta; in ogni modo non sarebbe nulla di male tentare; egli conosceva parecchi impiegati all’ufficio dello stato civile, essendo già andato ad informarsi come dovesse fare per le pubblicazioni dell’altra sua figliuola. Era pronto a seguirlo. Andarono. Il cieco, rimasto solo, si ricordò che nella libreria ci doveva essere un libriccino che gli aveva servito qualche volta, e subito si affacciò all’uscio della camera delle _sue_ ragazze. “Sofia! Bianca!„ — Non posso perchè faccio la calligrafia, rispose la piccina. Sofia venne a mettere le proprie mani in quelle del vecchio. — Che cosa vuole? mormorò la giovinetta con un filo di voce. — Lei ha pianto, rispose il cieco sommessamente, me ne accorgo; venga subito qui, in camera mia, a dirmi che cosa l’ha fatta piangere. Sofia si lasciò condurre per mano, e quando furono soli, confessò che aveva pianto molto, che era sicura di piangere ancora molto, e che tutte le sue lagrime non basterebbero a farla contenta. — E perchè? — Perchè forse sono un’ingrata; o almeno perchè loro avranno tutta la ragione di credermi così; perchè forse, credendo di far bene, tradisco me stessa, e... gli altri. Mattia rimase un po’ in silenzio, prima di dire: — Lei non tradisce nulla; lei ha tutte le ragioni; babbo Salvi anch’esso ne ha convenuto; e ne conviene perfino mio figlio... Ora sono andati tutti e due al Municipio; Tito vuole riconoscere la propria creatura... per togliere di mezzo anche questo ostacolo. — Riconoscere sua figlia? E lo può fare, senza?... — Non lo so, non me ne intendo... Ma se lei mi vuole aiutare, cercheremo insieme... Nella libreria ci dev’essere un libriccino legato in marocchino verde; ci è scritto sul dorso: _Codice Civile del Regno d’Italia_. Vuol cercarmelo lei? Salita sullo scaleo, la giovinetta andò leggendo le scritte di tutti i libriccini che le cadevano sott’occhio, mentre Mattia rimaneva in piedi, aspettando. La ricerca non fu fortunata. — E pure ci dev’essere, diceva il cieco; una volta mi ha servito per accomodare un litigio, me lo ricordo bene.... pazienza; Tito tornerà fra poco, e se non ci dirà che la cosa è fatta, mi pare che dovrà almeno dire che si può fare... Ora segga qui, accanto a me, mi lasci vedere se è proprio contenta. — Di suo figlio, sì; ma non ancora di me stessa; vorrei che quella donna si presentasse... la mia coscienza allora non sarebbe più turbata... Lo vedo bene che sono una sciocchina... mi compatisca. Il cieco compativa tutto, sapeva troppo bene come siano implacabili gli avversari d’ogni umana felicità, sapeva quante debolezze possono entrare in un cuore forte per dargli battaglia — sapeva questo e altro il vecchio Mattia, e lo disse con parole carezzevoli ed affettuose, tanto che in ultimo potè dire a sè stesso d’aver vinto la partita. Non lo disse però a Tito quando egli tornò dal Municipio, dove le sue generose impazienze erano state frenate da un vecchio impiegato dello Stato Civile. Questo impiegato vecchio aveva fatto intendere che la cosa che Tito voleva fare era nobile quanto mai, ma punto spiccia; che occorreva un decreto reale perchè l’ufficiale dello Stato Civile potesse stendere l’atto di riconoscimento, e che per ottenere il decreto, bisognava far domanda al Tribunale d’Appello, il quale, quando si fosse accertato che nessuna opposizione degli interessati era stata fatta al riconoscimento, ne avrebbe riferito al ministero, che ne avrebbe detto una parolina al Re. Insomma un’eternità. E pazienza se non sorgessero ostacoli degl’interessati... — Che ostacoli possono insorgere? — Gli ostacoli preveduti dall’articolo 188. Tu non hai letto mai l’articolo 188? ma io sì, e lo so a memoria: “Il riconoscimento può essere impugnato dal figlio o da chiunque vi abbia interesse.„ È scritto così, mi sembra di vederlo. — Tu possiedi un Codice? — L’ho preso nella tua libreria; ora è di là, sul mio tavolino da notte... — E che altro dice? — Dice tante cose; dice, in sostanza, che Cesira può opporsi al riconoscimento. — Ma non si opporrà di sicuro... — Lo credo anch’io; ma il Tribunale vorrà il consenso accertato... ora noi non sappiamo nemmeno dove sia andata... quella donna. Lasciando che suo figlio sfogasse il proprio rammarico contro la sorte e contro il Codice, il cieco intese che era il momento di far l’ultima mossa; e perciò disse a Tito: “aspettami.„ Difilato, come se gli si fosse rischiarata la strada, andò a picchiare alla porta della cameretta di Sofia. — Io sono ancora qui, figliuola cara... per assicurarle in coscienza che lei può dire a Tito la parola tanto aspettata; gliela dica subito, che se lo merita... Ma che ci è di nuovo? Che cosa ha Bianca?... — Dopo aver fatto un po’ di calligrafia, si è sentita male; ho voluto che si buttasse sul letto, ed ora sembra che stia meglio. — Sì, sto bene, nonno caro, balbettò Bianca col tremito della febbre. Il cieco toccò le mani e la fronte della piccola ammalata, le accarezzò il visino infocato: “Non è nulla,„ disse. Scostandosi dal letticciuolo, e come parlando a sè stesso, aggiunse: — Non ci mancava altro! Povero Tito! — Tito! chiamò forte. — Dov’è? — È di là, gli ho detto di aspettarmi. — Vuole che vada io? — Sì, vada lei. La giovinetta attraversò il lungo corridoio come una smemorata. Ricercava le parole migliori con cui annunziare il febbrone di Bianca, e non ne trovò una che non fosse brutale. — Dunque? disse Tito pigliando le mani della fanciulla, e guardandola fissamente negli occhi pietosi. — Sì, tutto quello che vuole, tutto quello che vogliono; io non ho più volontà. — Invece ne devi avere una per imparare a volermi bene, chè non me ne vuoi ancora. — Oh! non dica così... — Non lo dirò più, ma l’ho pensato tante volte. Dunque, è inteso? Non ti pentirai? — Spero di no; per pentirmi bisognerebbe battagliare ancora, ed io ho già combattuto tanto. Non combatterò più, glielo prometto. Ma lei pure mi prometta che se fra un mese si pentisse... — Dunque è inteso?... interruppe Tito. — È inteso che se lei fra un mese mi vorrà ancora, io sarò la sua sposa. Per tutto un mese saremo gli amici di una volta. Vuole? Tito rispose avventando un bacio, che andò a cadere sui capelli della ragazza. — Ora venga con me, a vedere Bianca che sta male... — Che cosa ha? — Ha un po’ di febbre; ma non sarà nulla... — E il medico? — L’ho fatto chiamare; verrà fra poco; non si sgomenti. Vedrà che la guariremo. Disgraziato Mattia! Egli non aveva potuto leggere nel volto di suo figlio la gioia repressa da uno sgomento; tentava di indovinare il senso di quell’accento carezzoso con cui Tito veniva parlando alla piccola ammalata, ma il silenzio di Sofia non le pareva naturale; volendo sincerare il dubbio, se ne andò nella sala attigua, e di là chiamò forte: Sofia! La giovinetta corse a lui. — Figliuola cara, poco fa le stavo dicendo che la parola aspettata da Tito lei la può dire con sicurezza, perchè da un pezzo mio figlio aveva già pensato a riconoscere Bianca. Dica un poco dove si era ficcato il Codice che abbiamo cercato inutilmente poco fa... Vediamo, se indovina. — L’aveva preso il signor Tito... — Sì, se l’era preso Tito; dunque gliela dirà la parola aspettata? Sofia tacque ed accostò la testa al petto del vecchio. — Tu glie l’hai già detta, non è vero? le mormorò Mattia all’orecchio. Sia ringraziato il cielo! Ora facciamo guarire la nostra creatura. XIX. Erano tutti là, a’ piedi del letticciuolo, mentre il medico esaminava attentamente la piccola malata; altro non si udiva se non la respirazione ansante di Bianca, fin che il silenzio fu rotto da una parola del medico, che parlò alla piccina carezzandole la fronte: _è fatto_! — Dunque? domandò il cieco. — Non ci è ancora niente di grave, tornerò stasera... — Non ho nulla io, balbettò la piccina col tremito della febbre. — Vedono; lo dice anche lei... ma io tornerò ancora; sei contenta? — Torna pure. Tito non fiatava; teneva gli occhi fissi sulla creatura a cui forse aveva dato la vita. — Vieni qua, babbo, ordinò la piccina; e Tito corse al capezzale del letto, per baciucchiare quella faccia arsa dalla febbre, mentre il medico scriveva una ricetta. — La facciano fare subito, e gliene diano una cucchiaiata ogni mezz’ora. A Sofia, che l’accompagnò fin sull’uscio, il medico disse, senza essere interrogato: — È un corpicino tanto fragile! La giovinetta ebbe la forza d’interrogare se vi era pericolo. — Per ora no; ma può essere anche una febbre infettiva. — La rosolia? — Spero; ma potrebbe essere la scarlattina, il tifo, il vaiuolo; vedremo stasera. — Speriamo, balbettò Sofia. Ma non sperava. Tanto forte nella idea della giustizia umana, si sentiva tanto debole pensando alla fatalità che agli uomini sembra fatta con tutte le forze del caso, ma che certamente è giustizia anch’essa, e noi non l’intendiamo. Nemmeno lei, per quanto ci si affaticasse, riusciva a penetrare quella legge crudele; solo ne aveva l’intuizione vaga, quando le pareva di dire a sè stessa: “sei stata tu a condannarla; senza volere che la povera bimba morisse, anzi volendo che vivesse per essere amata da suo padre e da te, sei stata tu a tentare la giustizia celeste.„ E veramente se la piccina se n’andasse in paradiso, ogni cosa sarebbe appianata; fra la propria coscienza e l’unione di Tito non vi sarebbe altro che la felicità interminata. Tornò al capezzale di Bianca, e per tutta quella giornata non si mosse più, per essere sempre pronta alla carezza; solamente quando la piccina chiuse gli occhi ad un sonno tranquillo, raggiunse Tito e Mattia. Il giovine aveva impiegato il resto di quel giorno a ricercare Cesira, se mai essa fosse rimasta a Milano; ma si era dovuto convincere che quella donna era partita l’istesso giorno dell’abbandono della sua creatura. Dov’era andata? A Nizza prima, ma poi? A Marsiglia, e forse di là a Barcellona. L’impiegato di questura a cui il giovine artista si era rivolto, prometteva di occuparsene; gli avrebbe detto qualche cosa di più fra alcuni giorni. Questo era tutto il bagaglio di notizie di Tito. Altre notizie portò babbo Salvi; le pubblicazioni di matrimonio erano cominciate; chiunque le poteva leggere in Municipio e nella gazzetta. Il vecchio artista annunziava la cosa con un certo riserbo, senza compiacersi, anzi con un po’ di melanconia, e solamente quando la ragazza disse: “sono contenta per Giuditta„ acconsentì col testone. Intanto che si aspettava il medico, Tito se ne andò in camera della piccola malata; di lì a poco Sofia lo seguì. Rimasti soli i due vecchi artisti, il cieco disse: — Senta, babbo Salvi, ora si tratta di avvisare la madre di questa creatura, perchè sappia che delle febbri infettive facilmente si muore. Nessuno sa dove sia andata quella disgraziata, ma noi sappiamo dove era tre anni fa: a Buenos Aires, a far le parti d’amorosa. Ci dev’essere in Milano un giornale che si occupa dei commedianti... — Ce n’è almeno un paio, corresse babbo Salvi. — Non pare a lei che se sapessimo dove è in questo momento la compagnia a cui apparteneva Cesira, sarebbe fatto il primo passo... Babbo Salvi capì a volo ogni cosa, e si propose di andare all’ufficio del giornale. “Vada„ gli fu detto, ed egli andò. Mattia, rimasto alcuni momenti solo prima di avviarsi in camera della piccina, si arrestò sul limitare, perchè Bianca parlava forte. Aveva l’aria di fare un discorso agli astanti. “Bene, Dio ti accompagni. Dicono che la civetta sia stata un tempo la figlia d’un fornaio. Noi sappiamo quello che siamo, ma non già quello che possiamo diventare. Dio presieda alla tua mensa.„ — Brava la mia figliuola! esclamò allegramente Mattia; dunque stai bene, non è vero? Ma che cosine vai dicendo? Tito si scostò dal letto per andar a mettere la propria mano in quella del cieco, mentre la piccola ammalata rispondeva: “Spero che tutto finirà bene. Ci vuol pazienza; ma non posso far a meno di piangere quando penso che lo vollero mettere sotto la gelida terra.„ — Che cosa dice? insistè il vecchio sottovoce. Allora Tito rispose: — Ha la febbre; ha tenuto a mente qualche frase che sua madre ha recitato. Sofia non diceva nulla; andava rimutando le pezzuole diacciate sulla fronte della piccina; ogni tanto, quando Bianca sentendo la nuova frescura metteva gli occhi negli occhi della sua infermiera, la giovinetta le sorrideva con amore, e in quel sorriso splendeva ancora la fiducia, mentre il suo pensiero non sapeva se non misurare il dolore che si preparava a quella casa. Il medico aspettato venne in quel mentre. Il viso acceso della piccina bastò a fargli intendere che la cosa era grave anche più che non avesse creduto; e la ciancia non sconnessa ancora, ma eccessiva, lo fece accorto che ben poco rimaneva a sperare. Però fu cauto, e non manifestò il proprio pensiero. — La piccina è stata forse ferma al sole, a capo scoperto? — No; nè oggi, nè mai; si scendeva ogni giorno in giardino tutti insieme; ma la bimba non stava mai ferma. La risposta parve contentare il medico, perchè non fece altre domande. Prima di andarsene raccomandò di tenerle tutta notte del ghiaccio sulla testa. — Bisognerà che qualcuno la vegli. — La veglierò io, promise Sofia. E appena furono soli, la giovinetta si strinse al petto del cieco con una tenerezza grande. — Vedrà, vedrete che la salveremo. — Ah! Così il cielo ti ascolti! Accanto al capezzale, Tito andava ricercando lo sguardo vagante e imbambolato di sua figlia che stentava a tener aperti gli occhi. Ogni tanto le parlava sottovoce: — Stai meglio? E la piccina rispondeva sommessamente; — Altro! Dicono che la civetta sia stata un tempo la figlia del mugnaio... A tarda sera babbo Salvi venne a dare una capatina in camera dell’ammalata; non disse nulla a Sofia nè a Tito, ma fece intendere col gomito a Mattia Bondi che aveva qualche cosa da dirgli, lo andasse ad aspettare in un’altra stanza. E Mattia andò, e babbo Salvi lo raggiunse. — Mi è costato un po’ di lavoro, ma sono riuscito. Si figuri che l’uffizio del giornale si chiude dopo le 5; ma per solito si riapre alle nove. Ho aspettato di piede fermo dalle 9 alle 11 perchè il direttore era andato al teatro. Finalmente è venuto, ed è stato molto gentile con me; abbiamo esaminato insieme la cosa, e si è visto che la medesima compagnia era a Buenos Ayres tre anni fa ed è ora a Barcellona. “Se si potesse avere l’elenco della compagnia,„ ho detto. “Si può, ha risposto il direttore. Un momentino e glielo trovo.„ Lo trovò infatti, ma non vi è il nome di Cesira, e le parti di prima amorosa sono affidate ad un’altra artista che quel bravo direttore conosce di persona. Ecco tutto quello che ho potuto penetrare; non so se sia poco. — Non è poco, assicurò Mattia; ma non è tutto quello che io sperava; scrivendo a Barcellona, il capocomico risponderà, e fra una settimana potremo sapere qualche cosa. — Se il capocomico sa qualche cosa. — S’intende. Mi vuole aiutare a scrivere? Mattia Bondi e babbo Salvi non penarono molto a interpellare il capocomico di Barcellona; dopo di che Tomaso fu mandato ad imbucare la lettera alla stazione centrale, perchè partisse colla prima corsa. La mattina successiva la febbre di Bianca era quasi cessata, e il delirio pure; nondimeno il medico non fu soddisfatto di quel miglioramento che accontentava Sofia, Tito e più degli altri Mattia, il quale ogni volta che si accostava al letticciuolo, pigliava fra le sue una manina della bimba, poi l’altra e se ne andava soddisfatto ad enunciare una sua opinione ardita, cioè che il medico fosse come gli altri... cioè un pezzo d’asino. — I medici, insinuò una volta, esagerano volontieri il malanno, per potersi dare il vanto di compiere una cura difficile. Pure il medico fu ascoltato, quando, esaminando Sofia, le ordinò di aversi riguardo. — Chi ha vegliato questa notte? Lei, non è vero? Ebbene le proibisco di vegliare ancora. Si pensò a chiamare un’infermiera. Venne quello stesso giorno, prima del tramonto, quando dalla prostrazione di forze della piccina e da qualche parola sconnessa, si potè intendere che la febbre ricominciava. Quell’infermiera apparteneva alla Congregazione della Misericordia, e quando entrò in camera con quella sua veste a sacco, tutta nera, parve portare la disperazione dove era già entrato lo sconforto; ma aveva un visino giovane e bello, sebbene molto patito, e alle prime parole mormorate dolcemente alla piccola inferma, Bianca guardò la nuova venuta con meraviglia ma senza ripugnanza. — Come ti chiami? — Suor Anna. Quella notte e parecchie altre successive Bianca ebbe la febbre, che si ribellava a tutte le medicine; nel delirio chiamava spesso _mammina bella_, e credendo le avesse scritto preparava la risposta che voleva scrivere sul guanciale. Mentre si aspettava da Barcellona qualche notizia dal capocomico venne invece da Nizza una lettera di Cesira. Si lagnava che sua figlia non avesse risposto due parole a mammina quando le aveva scritto da Marsiglia; il cuore, proprio il cuore soltanto, diceva alla disgraziata madre che sua figlia non stava bene, scongiurava la rassicurassero prontamente. Sembrò a tutti una delle tante forme di commedia con cui era impastata quella natura femminina; ma nessuno espresse il proprio sentimento, solamente essendosi trovato presente babbo Salvi, affermò che a lui la posta non aveva perduto mai nulla. E non era un paradosso. Fu egli stesso a rispondere a quella madre che, se voleva abbracciare la sua piccina, si affrettasse, perchè forse non v’era tempo da perdere; e quella forma brutale non ferì la coscienza di nessuno, non ferì nemmeno la misericordia di Sofia, tanto erano convinti tutti che quella donna non sapeva far altra cosa che la commedia. Ma il domani giunse da Barcellona la risposta aspettata, in cui il capocomico si doleva di non poter dir nulla della sua prima amorosa di una volta; sapeva solamente che da un anno non apparteneva più al teatro. Non essendovi ragione di sorta per dubitare della sincerità di quelle parole, si cominciò a credere che Cesira avesse detto una verità; allora Sofia volle correggere la lettera di suo padre con un’altra più consolatrice, assicurando sembrare proprio, e non sembrava davvero, che la piccina si mettesse meglio; in ogni modo affrettasse, perchè Bianca la chiamava sempre. Dopo aver preso varie forme e tenuto il dottore incerto per molti giorni tra la meningite e il vaiuolo, la malattia della piccina aveva detto il nome suo: tifo addominale. Il medico cominciò a sperare che, combattuta con bagni e con gl’impacchi diacciati, la febbre non avesse a bruciare gli organi necessarii alla vita. Suor Anna, che in Sofia aveva trovato un’infermiera quasi altrettanto abile quanto lei, preparava gl’impacchi due volte il giorno; “Ah! quanto mi piace!„ diceva la piccola ammalata, sentendo sulle carni infocate quella frescura. Imprigionata nel lenzuolo, Bianca si sentiva rivivere; ricomponeva le proprie idee, trovava la chiaccherina gentile e perfino la celia. “Vi vorrei carezzare, perchè avete tutte e due la faccia buona, diceva, ma non posso nemmeno muovere il braccio; mi avete stretto tanto nel lenzuolo.„ E voleva che tutti le venissero intorno per assistere al proprio godimento. Una volta disse: “Non avete nessun ritratto di mammina? In casa ce n’erano tanti; ce n’era uno vestito di bianco, che aveva i capelli sciolti; si chiamava Ofelia; era tanto bello!„ Tito non disse che un ritratto di quella donna egli lo aveva pur fatto tante volte; Sofia volle dirlo lei, non osò. — Mammina verrà.... — Non ci credo; me l’hai detto tante volte. — Verrà, te lo assicuro. Tito non parlava; lasciò che quel discorso, non trattenuto nè sviato, se ne andasse da sè, e appena non si parlò più di Cesira, andò a prendere nello studio un piccolo telaio, la tavolozza e il pennello. — Che cosa vuoi fare ora? — Quello che avrei fatto tante volte, se fossi stato sicuro di poterti trattenere un’ora ferma davanti a me; voglio fare il ritratto di una piccola ammalata.... In queste ultime parole vibrava la commozione repressa dal tono di celia e di carezza. — Che idea di dipingermi ora che sono ammalata, disse Bianca; chi sa come sono brutta! Tacquero tutti; la mano dell’artista, animata dal cuore del padre, andò ricercando per un poco le traccie di quel visino affilato, a cui la febbre dava un insolito splendore; ma il pennello, dopo essere stato incerto nel fare l’abbozzo, si diede vinto. — Non posso; non mi riesce nulla di buono; mi proverò domani. Depose tavolozza e pennello sopra una seggiola e si curvò sulla piccola ammalata. Fu un lungo bacio. XX. Una mattina venne Giuditta. — Sai? disse a sua sorella; ho voluto venire prima, appena ho saputo dal babbo che le cose tue erano accomodate.... no?... non sono ancora accomodate? va là, che si accomoderanno; il più l’hai fatto e saprai fare il resto. E se non lo fai tu, sai chi lo farà? Sofia non sapeva. — Lo farà la provvidenza, in cui voi altri avete tanta fede; il babbo deve già avere interrogato l’amico.... — L’amico? — Sì, Nerone; e Nerone deve avergli riposto che i destini umani sono imperscrutabili agli spiriti quando sono lontani, ma che quando vengono a tiro, uno spirito che sappia il fatto suo, gli può guardare ad occhio nudo. E mi pare che la Provvidenza si sia incaricata lei della faccenda.... — Non ti capisco, assicurò Sofia. — Non importa; come sta oggi la piccina? Allora Sofia intese tutto il segreto pensiero di sua sorella, e non rispose subito; solamente quando Giuditta insistè: “non sta peggio del solito?„ la giovinetta affermò che stava meglio. — Se non è inganno dell’affetto, oggi mi pare che la creatura ci camperà. Tutti le vogliamo tanto bene; anche il babbo ha detto che gli sembra migliorata.... aspettiamo il medico; noi speriamo sempre. Sofia sembrava implorare che le fosse lasciata quella speranza, e fu contenta che sua sorella dicesse anche lei: — Speriamo. Ma poco dopo la schiettezza della sua natura le pigliò la mano, ed affermò che non bisogna poi dar molto valore alla speranza, perchè la speranza è un trastullo, e altre sono le forze vere della vita.... e quelle della morte. — Senti che belle parole ho detto; in bocca del nostro professore di declamazione avrebbero fatto colpo.... A te fanno pena?... Scusami, sai? sono fatta così.... Parliamo d’altro.... Sai tu che cosa sta mulinando il babbo? — No.... — Credevo che tu lo sapessi; anzi è per questo che sono venuta. Tu non hai fatto un certo discorso al babbo? — Che discorso? — Un discorso di amore dell’arte, di povertà, di fierezza.... Non ti viene in mente? Forse l’avrai fatto senza pensarci.... e da qualche giorno il babbo non vuol più saperne di venire a stare in casa mia; dice che farà la vita che ha sempre fatto, continuando ad abitare nella stessa soffitta, e che tutt’al più per non essere solo come un cane, appigionerà la nostra camera a qualche artista povero come lui. Non ti ricordi di avere detto qualche cosa che gli abbia fatto venire in mente questa pazzia?... — Sì.... ma non è questo che io gli ho detto.... — Ebbene, egli crede che sia questo, o almeno è sicuro di farti piacere facendo così... L’ha detto lui... “Sofia, ha detto, approverà il mio disegno.„ Ma dimmi un poco che tu non approvi niente affatto, perchè io glielo possa ripetere stasera.... Pensa che figura si farebbe noi, pigliando tutte e due un marito ricco, e lasciando nostro padre nella condizione di prima.... col pretesto che egli è stato sempre fra gli stenti, e che vuol stentare ancora un poco.... E che figura ci farebbero i nostri mariti? Al mio l’ho già detto.... ed è andato in collera.... collera di agente di cambio, s’intende.... — Vien gente, disse a bassa voce Sofia. Venne il medico, che, salutate in salotto le due sorelle, se n’andò difilato nella camera della piccina. — Ti lascio, disse Giuditta, ma siamo intese; parla un po’ tu al babbo; è facile che a te dia retta.... — Lascia fare.... addio. Giuditta se n’andò, e Sofia raggiunse il dottore e gli altri, che erano tutti accanto al letto della inferma. Bianca quella mattina si era svegliata prima di giorno, aveva chiamato suor Anna, come soleva fare, e dopo essere stata un po’ in contemplazione di quel volto pallido e buono incorniciato nella pezzuola di bucato, aveva detto d’aver sonno ancora, e dal primo mattino dormiva. — Pare che stia meglio, assicurò Sofia. Il medico non rispose, e Sofia insistè interrogando suor Anna. — La febbre sembra vinta; le carni sue sono più fresche. Tito e Mattia rimanevano a piedi del letto tenendosi per mano; sembravano guardare tutti e due fissamente in faccia al destino, che finalmente disse la sua parola crudele. — La malattia ha preso forma di meningite un’altra volta, disse il dottore con parola lenta; rimane poco a sperare. Fu un profondo silenzio dopo quella sentenza. Per un poco non si udì altro che la respirazione profonda dell’ammalata, interrotta ogni tanto da parole sconnesse; mentre il dottore, stando colle braccia in croce, pensava, gli altri rimanevano là, immobili, aspettando una speranza. E il medico ne diede una ancora per pietà di quei cuori desolati, scrivendo una ricetta. — La facciano fare subito. — Che cosa è? domandò Mattia. — Una pomata; bisogna ungerle la fronte.... sulla testa ghiaccio, molto ghiaccio pesto in una vescica.... E siccome nessuno fece la domanda che era nell’animo di tutti, il dottore se ne andò dicendo: — La natura ha alcune molle incognite. Per tutto quel giorno la piccina sembrò dormire, e solo quando le veniva mutata le vescica di ghiaccio, apriva gli occhi come per cercare qualcuno mormorando parole indistinte. Si avvicinava la notte crudele, la notte degli ammalati, consacrata al delirio, la notte piena di paure ai veglianti. Per solito all’ora del crepuscolo, Sofia aveva fatto portare il lume; ma quel giorno, pensando alle parole di sua sorella, alla sorte della creaturina che sembrava pronta a spiccare il gran volo, quel giorno era rimasta al capezzale, chiudendo gli occhi anch’essa per abbandonarsi meglio al pensiero. “Mamma!„ mormorò la piccina; e questa parola fece sussultare Sofia. Aprendo gli occhi, si vide quasi al buio, ma indovinò suor Anna, che dall’altra sponda del letticciuolo, si era inginocchiata a dire le sue orazioni. In quel momento, senza strepito, fu aperta la porta che metteva in salotto, e due ombre passarono la soglia. Una si accostò senza titubare, ed era il cieco. — Sofia! interrogò sommessamente quando fu rasente al letto dell’inferma. Allora la giovinetta, guardando l’ombra rimasta accanto alla porta, intese tutto. — Sono qua. — Mio figlio ha bisogno di lei. Ma qui è buio... mi pare. Senza dir parola, Sofia accese il lume. “_Ave Maria_,„ disse suor Anna rizzandosi in quel punto, dopo aver recitato le sue preghiere; “_Ave Maria_,„ rispose Sofia e andò verso l’uscio senza esitanza. Passando rasente a Cesira, questa le pigliò una mano e volle baciarla. Aveva la faccia stravolta per l’ansia, per la fatica, per l’insonnia, guardava innanzi a sè, non la propria creaturina morente, non quella sventura che già le stava addosso, ma un’altra lontana, immutabile. Disse: “grazie„ nulla più. Tito aspettava in salotto. Appena Sofia le fu vicino domandò, pigliandole una mano: — È bella ancora? — Tanto. Egli non chiese altro. Tenendo stretta per mano la sua fidanzata andò nella camera dell’ammalata, nè Sofia potè sciogliersi da quel nodo, se non quando fu accanto al letticciuolo. La sciagurata Cesira, che andava mormorando parole d’amore all’orecchio della sua creatura, tacque, voltò il capo, e intese ogni cosa senza dispetto. “Non riconosce nemmeno più le mie carezze„ disse poi a bassa voce, rivolgendo a Tito i grandi occhi che avevano fatto versare tante lagrime. Tito sentì venire un’onda di parole amare; ma sorrise appena, e Cesira si curvò a baciucchiare la propria creatura. — Mamma! Ha detto: mamma! m’ha riconosciuto! annunziò sottovoce agli astanti. Sì, mammina è arrivata; non ti lascerà più; che le importa del mondo, se ha la sua piccina? Dopo un poco, con lo stesso accento di prima, ma senza guardare nessuno in faccia: — Ora dice: _babbo_; la sua vocina è come un alito... Tito, rimasto a piedi del letto, continuava il sorriso amaro, senza mutar positura. Ma la voce di Bianca ripetè forte: _babbo!_ e allora il giovine si avvicinò al capezzale, mentre la disgraziata donna che aveva dato la vita a quella morente, nascondeva la faccia sulla coltre. Sofia se n’era andata in fondo alla camera, ed aveva messo la propria nella mano del cieco, senza dir parola. — La tua mano trema, notò Mattia; che cosa hai? che accade ora? — Io non ho nulla, nulla davvero; mi sento bene, mi sento forte; facciamoci coraggio tutti. — Muore? interrogò il cieco sottovoce. — No: non deve morire; preghiamo il cielo perchè non muoia. Suor Anna, che si era accostata anch’essa, rispose: — Preghiamo, ma crollò il capo per fare intendere che la preghiera era inutile. Invece Sofia radunò tutte le forze del suo amore forte ed ingenuo, dell’amore che è fatto di carità, per chiedere al cielo che lasciasse in terra quell’angioletto e lo donasse all’amore dei genitori, offrendo tutta sè stessa al dolore. . . . . . . . Il medico non sentenziò che una catastrofe era imminente, anzi alle insistenze di quegli animi che sembravano implorare da lui la misericordia, egli ne ebbe molta, tanto da lasciare che essi si potessero illudere ancora. — La sua respirazione è più tranquilla, notò Mattia, curvando la testa canuta fino a toccare la testina dell’inferma; non è un buon indizio? Il medico rispose di sì, che era un buon indizio, e nell’andarsene il cieco e suor Anna lo accompagnarono per interrogarlo ancora. La speranza alitando per l’ultima volta in quei cuori desolati, Tito ebbe anch’esso un momento baldanzoso, in cui gli parve di essere forte e di poter domare il destino. Con uno sguardo fece intendere a Sofia che voleva rimaner solo con Cesira, la quale teneva la testa appoggiata al letto, nascondendo la faccia con un lembo del lenzuolo. — Cesira! disse il giovine. La sciagurata madre rialzò il capo. — Cesira! ripetè Tito con voce ferma e tranquilla; la vostra creatura non morrà, deve vivere... — Oh! se il cielo vi ascoltasse... — Il cielo ci ascolterà; se gli promettiamo di essere degni che Bianca ci sia lasciata... Cesira non intendendo il significato di queste parole, fissava i grand’occhi fatali in volto al suo antico innamorato. — Ho voluto riconoscere mia figlia, ma non ho potuto, perchè si richiedeva il vostro consenso. — Possibile! E...? — Sofia era contenta, anzi fu lei a farmene venire l’idea. Dopo un po’ di silenzio, Cesira disse: — Buona ragazza!.... Sarete molto felice con essa... Tito le troncò la frase. — Ora importa sapere che cosa farete voi, che cosa permetterete a noi di fare quando la nostra bimba sarà guarita... Dite, dite subito... non abbiamo tempo da perdere... ci è qualcuno che aspetta le vostre parole, le vostre promesse sincere... per portarle in alto. Il giovine sembrava ispirato, dominava la bellezza che lo aveva vinto una volta. — Farò tutto quello che vorrete, disse Cesira umiliata e tremante. — Allora promettiamo al cielo che se Bianca ci sarà lasciata viva, voi non vorrete condurvela ancora per il mondo. Dopo un breve silenzio Tito proseguì con voce profonda: — Che cosa potreste fare di lei? Una commediante?... — Oh! no!... Ma la mia bambina!... rinunziarvi per sempre! — Voi sarete sempre sua madre, e quando vi piaccia venire a trovarla, e quando piaccia a lei di andare a trovarvi... Passò un sorriso amaro sulle labbra di Cesira. — Non le piacerà mai... sono sicura che le insegnerete ad amare voi più che sua madre... Dillo tu, bimba cara? Ma il bacio che volle imprimere sulla fronte della figliuola fu rotto da un grido selvaggio. — Ah! Non la sento più. Mi guarda ancora, ma non la sento più, non la sento più, bambina mia, amor mio... dimmi che non è vero che il tuo cuore non batte... dillo a mammina... dillo, dillo... Accorsero tutti per allontanare la sciagurata. Allora Tito si curvò ad ascoltare lungamente se mai dalla bocca della sua creatura uscisse ancora un alito. Poi si rialzò in silenzio, impassibile in volto, ed uscì dalla camera della morticina. — Vadano, vadano, suggerì suor Anna al cieco ed a Sofia; vadano a dirgli qualche cosa; rimango io per quest’infelice che si dispera. Sofia corse dietro i passi di Tito, e sedettero tutti e due sul canapè del salotto, per piangere insieme, stretti cuore contro cuore. XXI. Il cieco era rimasto. Stando ritto a piedi del letto, allargava le braccia pietose e mormorava: “Cesira!„ Ma la sciagurata madre non gli dava retta, e continuò a dibattersi fra le strette del dolore, ora smaniando, ora interrogando a bassa voce la propria creaturina. Suor Anna, cingendola con le braccia robuste, invano tratteneva la bella testa dal dar del capo sulla lettiera, e ogni volta che Cesira riusciva a picchiare con la fronte sul ferro, il letto della morticina oscillava dando un suono lugubre; e il cieco ripeteva con le lagrime agli occhi e inutilmente: “Cesira!„ Poi la smania diè luogo alla prostrazione assoluta. Cesira fu interamente nel dominio di suor Anna, la quale, senza farle violenza, la indusse a sedere in un canto. Allora il cieco fece il giro del lettuccio. Quando le mani tremanti ebbero toccato il volto della piccina, egli curvò la testa e stette lungamente ad ascoltare se mai tutti gli altri si fossero ingannati; ma il coricino non batteva proprio più. Allora accarezzò la fronte e la baciò. Nel risollevarsi, disse ancora una volta: “Cesira!„ ma suor Anna soltanto gli venne al fianco. — Si è calmata, disse sottovoce; lasciamola stare; vadano a riposare tutti; io preparo ogni cosa. — Le dica.... balbettò Mattia; le dica.... che conti sopra di me.... Cesira udì queste parole e rialzò il capo come per parlare, ma non seppe dir altro che grazie, e il vecchio se n’andò senza aver inteso. Per un po’ suor Anna diè sesto alla camera, perchè il dolore terreno armonizzasse col decoro della morte; ripose in un canto le pezzuole che avevano rinfrescato la testa arsa dalla febbre, la pomata che aveva richiamato la sera prima una idea nella fronte presa dallo stupore; ma quando volle toccare la bimba, Cesira le corse incontro. — No, non voglio. Poi intese che suor Anna non voleva far altro che alleggerire le coltri, e aiutò anche lei, senza smaniare, senza piangere. — Domani faremo il resto, disse la suora; lei dia retta a me; cerchi di riposare un poco; si butti nel letto dell’altra camera.... no? e allora si riposi nel canapè. — Non posso, rispose Cesira. — E allora preghiamo insieme; vuole? Senza aspettare altro, suor Anna cominciò; Cesira ascoltò impassibile il latino delle litanie dei morti, ma cadde in ginocchio accanto alla morta quando, con voce vibrata, alzando gli occhi al cielo, la suora disse: — Signore, voi che siete tutto misericordia, accogliete quest’anima, che si era smarrita nel mondo, e che torna a voi. — Sì, signore, accoglietela, mormorò Cesira. Dopo quella preghiera, suor Anna ne cominciò un’altra, e in ognuna Cesira trovò una frase, o una parola, che cadeva nel fondo della propria coscienza a destare un rumore di echi non pauroso. — Suor Anna, disse interrompendo la preghiera, suor Anna, crede lei che il Signore gradirebbe una confessione che facessi qui, alla mia bambina morta ed a lei? Suor Anna ci pensò un momento. — Il Signore gradirà la confessione fatta a lui solo. — Ebbene, Signore, io ho peccato molto... Suor Anna la interruppe. — Non a voce alta; io non ho alcuna veste per ascoltare. Cesira ammutolì. Dopo un poco volle sapere a che ordine apparteneva la suora; e quando intese essere della Misericordia, s’informò se potesse entrare _chiunque_ a far parte della famiglia.... e intendeva dire se la vita passata non fosse un ostacolo allo stato di sorella. — Tutte abbiamo qualche cosa da farci perdonare, ma il cielo è alto, assicurò suor Anna. Prima dell’alba, cedendo alle insistenze della sua compagna, andò ad appoggiare la testa al canapè, e fu presa da un sonno agitato, che le schiudeva il labbro ogni tanto; fin che svegliandosi in sussulto, tornò a guardare in faccia la sciagura. Entrava il sole per la finestra socchiusa, entrava l’aria mattutina, entravano il cicaleccio dei passeri e la domanda lunga, insistente, dello stornello non contento ancora della gran risposta che quella notte gli aveva dato. La sciagurata madre, nel baciare la sua morticina, trovò l’ultima lagrima. — Eri tanto bella! disse; ed ecco come sei diventata. Venne Mattia in quel punto. — Lei non ha dormito? interrogò suor Anna. — Chi lo sa? non lo posso dire nemmeno io; rispose sottovoce il cieco. Cesira! Cesira venne a prendergli la mano in silenzio, e l’accostò alle labbra. — È arrivata questa lettera per lei, disse il cieco. — Per me!... Quando? — Ieri; era rimasta fra le altre, quando nessuno pensava alla posta. Cesira guardò la soprascritta e disse tranquillamente, cacciando la lettera in tasca: — È di lui; questa lettera deve aver viaggiato con me, ed era preparata da un pezzo. So già quel che contiene. Suor Anna annunziò che andava in cucina a bere un brodo, perchè si sentiva sfinita; Mattia e Cesira rimasero soli. — Ora mi dica che cosa vuol fare, mi dica se posso fare qualche cosa per lei. — Grazie; posso soffrire ancora; è meglio che nessuno mi aiuti. — Ma.... insistè il cieco con voce profonda; le persone che hanno sofferto con lei... quelle che hanno sofferto per lei... non vogliono la vendetta, domandano solo la pace. Forse sono egoisti, aggiunse dolcemente, e per avere il diritto di essere felici vorrebbero esser certi che... — Che il cielo non mi abbandonasse... No, il cielo è generoso; si è pigliato mia figlia perchè io l’aveva distaccata da me per darmi a un altro che si annoiava d’averla sempre al fianco; sì, il cielo se l’è presa perchè io non l’amava più abbastanza. Parlava senza singhiozzi, con voce uguale e coll’occhio fisso a terra. — Sì, ho amato un altro più di mia figlia; l’ho amato molto, l’ho amato troppo; era la prima volta che amavo davvero, e nel mio cuore ci è poco posto per amare. Prima che conoscessi _lui_, mi lusingavo d’essere più forte delle altre donne, perchè tanti avevano chiesto il mio cuore con tenerezza; e lo diedi a lui, che fu brutale e mi ordinò di volergli bene. Mattia non disse parola; lasciò durare il silenzio penoso, finchè Cesira ripigliò: — Il cielo è generoso, perchè amo la mia creatura un’altra volta, e ora sono sicura di amarla sempre. Mi permette di leggere questa lettera? E senza aspettare risposta ruppe il suggello. “Cara Cesira.„ — No, interruppe il cieco... no. — Mi lasci leggere forte; è una consolazione. “Cara Cesira. “Da molto tempo noi non ci amiamo più come una volta; è inutile illuderci, tu parti, ed io ti leggo nel cuore che quando sarai a Milano, quando la tua piccina sarà guarita, mi scriverai per liberarti d’un legame che ti pesa. Voglio risparmiarti una pena, e sono il primo a scriverti. Ripiglia dunque la tua libertà. Riceverai tutte le valigie che ti appartengono; lascierò Nizza fra due giorni, portando la memoria dei giorni d’amore che mi hai dato.„ Ritornava suor Anna, seguita da Barbara che portava i ceri da accendere accanto al letto della morta. — E che cosa risponde lei? domandò il cieco sottovoce: — Una parola sola; la dirà il telegrafo: _grazie_. — Che fa ora suor Anna? — Accende le candele alla mia piccina. Il cieco stette in ascolto, e quando gli sembrò che le candele dovessero essere accese, insistè: — Un’altra cosa le vorrei dire; Cesira... mi sente? — Sì, ascolto; dica... — Mio figlio andrà stamane a dichiarare la morte di Bianca; se dirà il nome del padre della nostra creatura, lei non se l’avrà a male, non è vero? Cesira da principio non intese bene, poi diede un grido di gioia angosciosa, e cadde in ginocchio dinanzi all’altare di sua figlia morta. Si accostò al cieco. — Dica a quella giovinetta buona, dica a suo figlio che Cesira... vuol diventar degna di pregare... e pregherà per la loro felicità. Leggendo sulla faccia del cieco un’inquietudine, comprese e domandò umilmente: — Debbo ritirarmi un momento? Il cieco accennò di sì. Allora Cesira impresse un lungo bacio sulla fronte della sua morta, e andò nella stanza attigua. Avvertiti dal cieco, vennero tutti e due al capezzale, Sofia e Tito; stettero un po’ in silenzio, tenendosi per mano; poi Sofia s’inginocchiò, mentre il padre con le labbra fredde trovava il bacio che un giorno aveva desiderato tanto. Il giorno dopo il melanconico dramma era finito. Bianca dormiva nella piccola bara, fra i fiori che le orfanelle avevano buttato nella fossa. Cesira, uscita nascostamente dalla casa che l’aveva ospitata nel dolore, non fu più vista venire. XXII. Quindici giorni dopo Giuditta giurava davanti all’assessore di seguire l’agente di cambio dovunque gli piacesse andare; e siccome al marito piacque di andar subito a Parigi, essa vi andò volentieri; perchè fra i pochi suoi sogni, quella ragazza soda, quasi punto sognatrice, si era riserbato questo per la luna di miele: visitare il teatro dove si erano svolte tante scene dei romanzi di Paul de Kock. Ma fu l’ultima disillusione, e pochi giorni di viaggio bastarono a farla rinsavire del tutto e ricondurla nella strada giusta e pratica, dove passano i _tram a vapore_, i cavalli di _omnibus_, gli agenti di cambio affaccendati, le donnine lente che aspettano e le dame indifferenti che non aspettano più nulla. Giuditta fu una di queste; in poco tempo ebbe ridotto la sua vita all’equilibrio perfetto fra i desiderii e le soddisfazioni; e siccome l’agente di cambio era ricco veramente, e veramente innamorato, quella donnina savia avrebbe potuto dire a sè stessa ed a tutti di essere proprio contenta, se non fosse stata una fissazione di babbo Salvi. Il quale, essendosi ficcato il chiodo di continuare la vita povera, continuò ad abitare la soffitta colle finestre tonde, col pretesto d’indipendenza, di fierezza, di dignità e di altre parole magnifiche. Anzi, per mettersi al sicuro dalla tentazione, aveva indotto Tonio a far casa in comune, e Tonio aveva accettato. Il primo giorno che il maestro di scuola portò le proprie camicie e i cartoni di disegno in casa di babbo Salvi, fu nel cuore del poveraccio un gran tumulto di idee melanconiche. Aveva deposto la valigia a’ piedi del lettuccio di Sofia, appoggiato i cartoni a quello di Giuditta, e stette lungamente come uno smemorato, sembrandogli di pensare a qualche cosa, ma non sapendo nemmeno lui che cosa. Quando babbo Salvi gli venne a domandare allegramente se avesse scelto il letto in cui voleva dormire, Tonio rispose, allegramente anche esso, che dormire in un letto piuttosto che in un altro gli era sempre stato indifferente. Scelse il letto di Sofia, e quella notte fu contento di vegliare col lume a ventola di Giuditta, leggendo distrattamente un vecchio romanzo dimenticato dalla bellissima creatura ch’egli aveva amato tanto; poi gli parve d’aver sonno, ma spento il lume, gli si presentò nel buio l’occhio tondo della finestra a guardare lungamente nel suo cuore rassegnato. E perchè pensare a Sofia, se essa amava Tito, se dovevano sposarsi? Fu una mattina di settembre; la cerimonia si compì senza chiasso, e i due testimoni in municipio ed in chiesa furono l’agente di cambio e il maestro di scuola, il quale aveva voluto contribuire anche lui in qualche modo alla felicità di sua cugina. Ma invece di un viaggio a Parigi, si fece una scampagnata tutti insieme a Vaprio. Vi prese la sua parte il cieco, più allegramente di ogni altro. Il maestro di scuola, nella sua qualità di testimonio, era stato invitato e non aveva saputo resistere alla propria sorte implacabile, che era di guardare in faccia tutta la felicità degli altri, tutta la propria miseria. Era quasi sicuro che i mariti dovevano essere stati informati tutte e due, non parendogli possibile che la prima confidenza della sposa non fosse stata per svelare l’amore del povero Tonio. Così gli andava dicendo un pensiero, in cui non entrava amarezza, ma solo un po’ di scetticismo ingenuo. Ma quando ebbe guardato negli occhi l’agente di cambio e l’artista, intese che Sofia si era sentita in dovere di non confidare un segreto che non le apparteneva interamente, e che Giuditta aveva spiattellato ogni cosa, non per vantamento, ma per la fissazione d’essere sincera, che è una forma dell’egoismo umano. A tavola ognuno volle fare il suo brindisi. Ce ne fu uno allegro molto, quello di babbo Salvi, il quale bevve all’avvenire dei suoi figliuoli; un altro di poche parole, ma che valevano tutta la gran fatica costata all’agente di cambio, il quale, parafrasando le parole del suocero, volle bevere anche lui alla salute dei propri figli. Tonio fu il primo a battere le mani, e quando gli parve venuta l’ora di fare il suo brindisi, si levò e curvandosi attraverso la mensa venne a mettere la faccia buona vicino a quella degli sposi, per dire sommessamente: “Io non so fare dei brindisi, ma vi dico solo; siate felici.„ — Grazie! rispose Tito; grazie, mormorò Sofia. Il brindisi più lungo fu quello del vecchio Mattia. Egli parlò a bassa voce, nel gran silenzio che si fece intorno alla sua canizie e alla sua cecità; parlò come un patriarca; ricordò tutte le piccole speranze che gli erano sembrate grandi quando era troppo modesto, e le vittorie del trionfo che non lo avevano contentato mai interamente; parlò dell’amore, da cui era stata confortata la sua battaglia dell’arte, e finì dicendo a suo figlio: “Ama tua moglie, ama l’arte tua, amala molto come l’ho amata io; ma non pensare alla gloria, la quale raramente è qualche cosa per i vivi, e non sappiamo che cosa sia per i morti.„ Ciò detto, volle i baci dei suoi figli; e gli volle anche babbo Salvi. Il ritorno a Milano fu fatto per buona parte a piedi, nell’ora del crepuscolo; settembre mandava incontro alla comitiva allegra brevi folate di un venticello tiepido, che a Sofia ed a Tito sembrarono le prime carezze della nuova vita. Poi proseguirono in tre carrozzelle, che si erano fermate al crocicchio per ordine dell’agente di cambio. Quando su una ebbero preso posto il cieco, babbo Salvi e Tonio, Mattia continuando la sua parte di patriarca, ma solamente parlando più forte per vincere il rumore delle ruote, fu così eloquente da indurre il vecchio collega ad accettare un po’ di ospitalità. — Senta, disse; una volta eravamo in due a lavorare, io e mio figlio; ora Tito lavora solo, ed io me ne rimango là, per ore intere, a sognare tele che non potrò più dipingere; lei, che ci vede, perchè non si mette nella lotta? Ognuno di noi deve dare all’arte tutto il meglio che sa, non le pare? Dunque, se ne venga lei a combattere al mio posto. Babbo Salvi, preso di fronte da questa tentazione, si provò ad essere modesto, assicurando che il meglio che egli poteva dare l’aveva dato tutto, non essere colpa sua se non era stato capace di far di più; ma poi corresse la propria umiltà. — Sicuramente che se io avessi avuto i mezzi... se la sorte mia si fosse placata un quarto d’ora, se... qualcuno mi avesse aiutato; se... Tutti quei se finirono in una stretta di mano, e il patto fu conchiuso. Dunque babbo Salvi verrebbe ogni giorno nello studio, lavorerebbe al cavalletto di Mattia, e colla tavolozza dell’artista glorioso. In una delle altre carrozze avevano preso posto le due sorelle; nella terza i due cognati. — Abbi pazienza, disse Giuditta, se ti rubo a tuo marito per un’ora, ma credo che anche tu avrai bisogno di essere un momento sola con tua sorella in questa gran giornata. Cominciò subito a dire di tutte le contentezze e di tutte le noie a cui sua sorella doveva essere preparata; essa aveva saputo che la madre della morta era venuta e sapeva anche che era bella... sì... sapeva tutto, perchè si sa sempre tutto; anche quando le sorelle che dovrebbero confidarsi credono di far bene a tacere, il mondo ha mille bocche che cianciano, e almeno due mila orecchi per ascoltare... È vero che acqua passata non macina più, ma in ogni modo una certa cautela nel caso di Sofia era necessaria... — Ci sono cento modi di farsi amare dal marito, assicurò Giuditta; mi vuoi dire quale sarà il tuo... — Amarlo molto, amarlo sinceramente... Giuditta non volle essere crudele il giorno delle nozze e si accontentò di dire che poteva essere una maniera buona anche quella... Sofia ascoltò docilmente la parola autorevole di sua sorella; all’ultimo, quando l’ebbe ben persuasa che la lezione era caduta in un terreno preparato, fece anche essa una domanda, a cui Giuditta si affrettò di rispondere celiando: — Felice? Altro che! Felice io, felice lui! Io sono una moglie onesta, e non mi costerà fatica serbarmi fedelissima al mio povero vecchietto; egli forse non chiederebbe nemmeno tanto. Ma è il mio temperamento, la castità! In quei giorno Sofia, Tito e Mattia avevano pensato più d’una volta alla commediante; ma non se n’era parlato mai; tornati a casa, gli aspettava una sorpresa, una lettera di Cesira. Scriveva da Genova per far gli augurii agli sposi, ed annunziava che si ritirava dal mondo. — Lo aveva detto a suor Anna, confessò ingenuamente Sofia. Il cieco non disse nulla, ma Tito fu sincero nello scetticismo, tanto da sembrare spietato. — Queste parole parrebbero accennare all’idea di farsi monaca; ma Cesira è ancora troppo bella; le donne come quella si danno a Dio più tardi.... La mano di Sofia tappò la bocca maligna. Cominciò una vita nuova per tutti. Babbo Salvi, nelle cui vene sembrava circolare un sangue giovane, stava per ore intere al cavalletto a dipingere l’Illusione. Il suo modello era Mattia; quella testa luminosa per la canizie intatta, per le carni ancora rosate, quegli occhi ciechi che cercavano sempre la bellezza ideale, erano veramente tali da invogliare a un capolavoro. Anche Tito dal canto suo non aveva penato a trovare il tema, aveva scelto di fare il ritratto di sua moglie, e alla fine d’ogni seduta, andava a baciare il modello ed a domandargli: — Lo sai tu come avvenga che più ti guardo e più mi sembri bella; se ti avessi veduta sempre come ti vedo ora, mi avresti fatto soffrire di più... — Ti ho fatto soffrire io? — Oh! tanto; ma avrai la tua punizione, amandomi molto, molto, molto. — Ma io t’amo molto e non soffro. — Mi amerai anche di più... vedrai. Quella fatuità contenta era una nota singolare nella nuova felicità. Primo Salvi finì il suo quadro; finalmente ne finiva uno! Ma mentre egli ne era soddisfatto, nessuno degli artisti invitati ad ammirare quell’opera lodò apertamente; tutti invece lodarono le tele che babbo Salvi non aveva fatto. Allora, svegliatosi una mattina di mal umore, corse difilato a cancellare l’_Illusione_. E si trovò più d’uno che disse: _peccato_! FINE Romanzi e Novelle di Salvatore Farina Due Amori — 3.ª edizione rinnovata L. 2 — Un Segreto — 3.ª edizione rinnovata » 2 — Frutti proibiti — 3.ª edizione » 2 — Il Romanzo d’un vedovo — 3.ª edizione » 2 — Il Tesoro di Donnina — 4.ª edizione » 4 — Amore bendato — 4.ª edizione » 2 50 Una Separazione di letto e di mensa, ecc. — 3.ª edizione » 1 20 Fante di Picche — 3.ª edizione illustrata » 1 50 Capelli biondi — 4.ª edizione » 4 — Un Tiranno ai Bagni di mare — 3.ª edizione » 1 20 Dalla Spuma del mare — 3.ª edizione » 2 50 Oro nascosto — 3.ª edizione, con ritratto » 4 — Prima che nascesse — 4.ª edizione » 1 50 Le Tre Nutrici — 4.ª edizione » 1 50 Coraggio e avanti! — 4.ª edizione » 1 50 Mio figlio studia — 4.ª edizione » 1 — L’intermezzo e la pagina nera — 2.ª edizione » 1 50 Mio figlio s’innamora — 2.ª edizione » 1 50 Il marito di Laurina — 2.ª edizione » 2 — Nonno — 2.ª edizione » 1 50 Mio figlio! — 5.ª edizione » 5 — Il signor Io — 6.ª edizione illustrata » 2 50 Fra le corde di un contrabasso — 2.ª edizione » 1 20 Amore ha cent’occhi — 3.ª edizione » 5 — Si Muore: Caporal Silvestro, Storia semplice — 2.ª edizione » 2 — Si Muore: L’ultima battaglia di Prete Agostino » 2 — _Dirigere domande e vaglia agli Editori A. Brigola & Comp. Milano, Via Alessandro Manzoni, 5._ Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PE' BELLI OCCHI DELLA GLORIA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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