The Project Gutenberg eBook of Cronica di Matteo Villani, vol. 5 This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Cronica di Matteo Villani, vol. 5 Author: Matteo Villani Editor: Ignazio Moutier Release date: January 29, 2023 [eBook #69902] Language: Italian Original publication: Italy: Magheri, 1825 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the Bayerische Staatsbibliothek) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 5 *** CRONICA DI MATTEO VILLANI A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA COLL’AIUTO DE’ TESTI A PENNA TOMO V. FIRENZE PER IL MAGHERI 1826. LIBRO DECIMO CAPITOLO PRIMO. _Il Prologo._ La superbia, la quale prima nel cielo mostrò la sua malizia, se nelle menti terrene si trova non è da maravigliare, considerato che l’umana natura indebilita per lo peccato del primo uomo è ne’ vizii inchinevole e pronta. Questo peccato quanto sia grave, e quanto sia in ira di Dio, per lo suo fine l’ha sovente mostrato; porne alcuno esempio in nostri ricordi forse non fia da biasimare, se non da coloro che per morbidezza d’animo sono amatori delle brevi leggende, o da coloro che per tema di spesa veggendo la moltitudine de’ fogli non osano fare scrivere. Serse re d’Asia, avendo avuto più tempo nelle guerre prospera e felice fortuna, insuperbito, lo mare coperse di navi, e intra Sesto e Abido, due isolette di mare, per pomposa memoria di suo innumerabile esercito sopra le navi fè ponte, e a riceverlo tutta la Grecia non parea sofficiente, nè a ricevere nè a pascere la sua brigata; e infine da poca gente vituperato e sconfitto, e in uno piccolo legno tornò in suo paese morta tutta sua gente. Sennacherib maravigliosamente esaltato per beneficio della ridente fortuna, con l’animo altero montò sopra le stelle spregiando gli Dii, e massimamente quello degli Ebrei, come se fossono minori e meno possenti di lui; costui veggendo l’esercito suo tagliato, vilmente fuggì, e nel tempio degl’Idoli suoi da’ suoi proprii figliuoli vilmente fu tolto di vita. Dario re potentissimo, più volte sconfitto dalla poca gente d’Alessandro re di Macedonia, infine da’ suoi propri congiurenti vilmente fu morto. Ciro re di Persia e di Media, eccellentissimo di potenza.... _Il codice Ricci è mancante in questo luogo di una pagina, che dovrebbe contenere il rimanente del Proemio, il capitolo secondo, e il principio del terzo, e con mio sommo rincrescimento non son riescito a riempire questa laguna col soccorso di un altro codice, poichè non m’è stato possibile trovarne copia. La Biblioteca Riccardiana possiede tre codici di Matteo Villani, e uno la Laurenziana, ma non oltrepassano il nono libro. Per supplire in qualche modo a questa laguna mi son servito d’un’Epitome fatta da Domenico Boninsegni delle storie fiorentine di Giovanni, Matteo e Filippo Villani, che si conserva nella Biblioteca Laurenziana, e che un giorno faceva parte della Biblioteca Mediceo-Palatina, segnato di num. 160._ CAP. II. _Dell’atto e rilevato stato della casa de’ Visconti di Milano._ «Più era infocato che mai messer Bernabò nell’impresa di Bologna, e impuose e trasse da’ cherici del suo tenitorio in tre mesi più di trecento migliaia di fiorini d’oro, e da’ secolari per nuova imposta circa trecentosessanta migliaia di fiorini d’oro; e venne in tanta superbia, forse per lo parentado fatto in Francia, che nessuno accordo si potè trovare tra lui e ’l legato, nè per il gran siniscalco nè altri, usando di dire, che non temeva potenza di signore terreno che gli potesse trarre Bologna di mano, e molto sparlando contra il legato. Ma per lo contrario il legato ricorse all’aiuto di Dio, e per comandamento del papa a ogni prete d’Italia fece fare in ogni messa dietro al _Pater noster_ speziale orazione de’ fatti di Bologna, e mandò al re d’Ungheria per gente, ed ebbe da lui duemila Ungari bene capitanati, e poi tremila di loro volontà, e subito furono in Lombardia e in Romagna al servigio del legato.» CAP. III. _Del pauroso e vile partimento dell’oste di messer Bernabò da Bologna._ «Per la venuta di questi Ungari, e per l’operazione d’Anichino di Bongardo, entrò paura alle genti di messer Bernabò per modo che non ubbidivano al capitano, e tutto dì si fuggivano; per la qual cosa al capitano» montata la paura, vedendo partire l’un l’altro, e non sapendo il perchè, chè per la forza e autorità che ’l capitano avesse non gli potea ritenere; onde vedendosi il capitano a questo pericolo richiese Anichino che lo accompagnasse infino valicato Bologna verso Modena, e avuta la compagnia, volendo da sè fare buona condotta, fu costretto da’ vili d’andarsene di notte sconciamente abbandonato il campo con assai fornimento e arnesi, e campati per lo beneficio della notte valicarono Castelfranco, ove s’arrestarono per non parere rotti, e ivi la mattina fermarono il campo; e stativi pochi dì, il primo d’ottobre valicarono a Modena, e tornarsi con gli orecchi bassi al loro signore, il quale quasi arrabbiato più dì stette rodendo in sè medesimo il suo orgoglioso furore, acciocchè riposatamente ai forestieri dimostrasse, ch’alla festa si ragunavano, per magnanimità questa cosa avere per niente, ed essere intervenuto per lo peggiore del legato, come di sua bocca a molti pronunziò. CAP. IV. _Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite._ Sentito in Bologna la vile partita dell’oste di messer Bernabò, tutto che ancora del tutto non fosse del Bolognese partito, il popolo prese cuore, e per lo essere tenuto affamato, furioso, giusta la sentenza di Lucano che dice, che il popolo digiuno non sa che sia il temere, straboccatamente e senza aspettare condotta o regola uscì di Bologna, e con grand’ardire assalì la bastita che guardava verso Romagna, e quella aspramente combattendo e con grida ch’andavano al cielo ebbono per forza, e tagliati e fediti molti di quelli ch’erano alla difesa la rubarono e arsono, e con quell’empito e gloria corsono ad altre due, e per simile modo l’ebbono, rubarono e arsono. Quando giunsono a quella di Casalecchio in sul Reno trovarono il becco più duro a mugnere, perocchè era ben guernita di gente da piè e da cavallo, e dato di cozzo in essa con loro dammaggio si ritornarono a Bologna, nullo assedio lasciato alla bastita: onde que’ d’entro scorreano fino alle porti di Bologna facendo danni, nondimanco aperti i cammini di Romagna cominciarono a venire della roba a Bologna; e dagli Ungheri i quali alloggiati erano fuori della città tenuti erano a freno quelli della bastita da Casalecchio, e in Romagna s’apparecchiava grande carreggio e salmeria di vittuaglia per conducere in Bologna alla venuta del legato. CAP. V. _Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli ambasciadori del re d’Ungheria._ In questo mese di settembre furono in Firenze tornati di corte di Roma gli ambasciadori del re d’Ungheria, e andaronne al re, avendo impromesso al papa, in quanto il bisogno occorresse, che la persona del re d’Ungheria verrebbe incontro al signore di Milano con patto, che ciò che egli acquistasse delle terre de’ detti signori, fossero sue ed egli avea fatto dire al papa che con meno di diecimila cavalieri non potrebbe venire, ed era in accordo d’avere ogni mese fiorini quarantamila d’oro, de’ quali dovea avere dalla lega de’ Lombardi sotto il titolo di Genovesi fiorini sedicimila, e fiorini quattordicimila dovea pagare il legato traendoli della Marca e del Ducato, del Patrimonio e di Romagna, e diecimila ne dovea mettere la camera del papa. La cosa fu divolgata per tutto, ma i signori di Milano poco se ne curavano, s’altra fortuna non avesse barattata loro intenzione. CAP. VI. _Dell’avvenimento del legato a Bologna._ Partita l’oste di messer Bernabò dall’assedio di Bologna, il legato fatto conducere di Romagna in Bologna molta vittuaglia, e fatta la condotta degli Ungheri, col grande siniscalco del Regno, e con messer Malatesta e altri valenti uomini della Romagna e della Marca, all’entrata d’ottobre del detto anno entrò in Bologna, dove da’ Bolognesi fu ricevuto a gran festa e onore, e prestamente intese a ordinare e riformare e la guardia e il reggimento della città, e i fatti della guerra contro a’ nemici suoi, non come prelato, ma come esperto e ammaestrato capitano di guerra cominciò a trattare, come conseguendo l’opere sue ne dimostreranno. CAP. VII. _Cominciamento della nuova compagnia d’Anichino di Bongardo Tedesco._ Levatasi la gente di messer Bernabò del distretto di Bologna, Anichino di Bongardo Tedesco, non senza infamia d’avere maculata sua fede, all’entrata d’ottobre s’accolse a Salaruolo presso di Faenza a tre miglia con ottocento barbute e trecento Ungheri, ricettato dal legato, e datoli vittuaglia; e sì avea il legato circa a milledugento barbute e quattromila Ungheri da poterlo prendere o cacciarlo di suo paese, per la qual cosa assai fu manifesto che il legato per nuovo servigio gli fosse obbligato: e avvegnachè assai fosse segreto, egli stette tanto a Salaruolo, che pagati gli furono quattordicimila fiorini, ovvero genovini d’oro; il perchè egli tantosto crebbe sua compagnia e di Tedeschi e masnadieri, e di volontà del legato a mezzo ottobre cavalcò il contado de’ conti d’Urbino; appresso entrò nella Ravignana, e di là valicò ad Ascoli del Tronto in servigio della Chiesa per certa rivoltura fatta in quella città contro al legato, e stettono alquanti dì nel paese, e poi di novembre valicarono il Tronto, e arrestaronsi nel paese verso Lanciano, ove soffersono lungamente gran disagio, come al suo tempo diremo. Stando in questa compagnia nel numero di duemila cinquecento tra Ungheri e Tedeschi, e molti fanti a piè nella Ravignana, e dando boce di valicare da Firenze, i Fiorentini ne tennono consiglio, e infine deliberaro di provvedersi alle difese, e imposono per legge personale a chi consigliasse, trattasse o parlasse occulto o palese del prender accordo alcuno con la detta compagnia: e ciò fu assai utile cagione e materia a tutti i Toscani, perocchè le compagnie vanno cercando chi fugga e fannone preda, e fuggono le resistenze, perocchè dove e’ le trovano non possono durare, nè trarne furtivo guadagno. CAP. VIII. _La rivoltura d’Ascoli della Marca_ Ascoli della Marca era all’ubbidienza del legato, e Leggieri d’Andreotto di Perugia v’era alla guardia per la Chiesa, e di fuori n’erano ribelli l’arcidiacono e messer Filippo.... con altri molti di loro animo e volere; costoro del mese di settembre detto anno accolta gente in loro aiuto rientrarono nella città, e trovando il seguito d’assai cittadini corsono alle case de’ loro nemici, e uccisonne ventidue; gli altri che poterono campare s’uscirono della terra, e Leggieri d’Andreotto fu preso, e tanto ritenuto, che quivi fece dare la fortezza che v’era per la Chiesa, dicendo che teneano la città all’ubbidienza di santa Chiesa, ma che voleano potere stare sicuri in casa loro. La novella forte dispiacque al legato, e pensossi con la compagnia d’Anichino farla tornare al suo volere, ma i tornati in Ascoli di quella poca cura pigliavano; il legato come savio e astuto s’infinse di non se n’avvedere, perchè mostrando cruccio non si mettessono a più grave ribellione. CAP. IX. _Come a petizione del legato fu preso messer Ridolfo da Camerino._ All’uscita d’ottobre detto anno, messer Ridolfo da Camerino essendo stato principio col suo consiglio e con le savie e sollecite operazioni di sua persona di vincere e riducere i Malatesti all’ubbidienza del legato, ed appresso continovato intorno a’ fatti di santa Chiesa operazioni leali e degne di merito, tanto seppe operare messer Malatesta, ch’era divenuto il più segreto consiglio ch’avesse il legato, che ritornandosi messer Ridolfo da Bologna a Camerino, e capitato nella città di Fermo, invitato da messer Giovanni da Oleggio marchese della Marca, e fattali allegra accoglienza, come ebbe mangiato, prendendo da lui messer Ridolfo congio, fugli detto ch’era prigione, dicendoli messer Giovanni, che ciò gli convenia fare contra suo grado per mandato del legato, e mostrò le lettere che mandate gli avea. Il valoroso cavaliere messer Ridolfo niente per tale presura sbigottito, il fece di presente sapere a’ suoi, dicendo, ciò essere senza niuna sua colpa, e confortando che di lui nessuna minima cura prendessono, e che nè per minacce nè per tormenti, nè per morte che a lui data fosse, nè di loro terre nè di loro giurisdizione dovessono dare per ricomperare la vita sua, e ciò, come cara avessono la grazia sua. I fratelli teneri di tanto uomo, e ubbidienti a lui, con i sudditi loro feciono consiglio, i quali loro offersono quarantamila fiorini i quali di presente impuosono tra loro, e fornirsi di gente d’arme, e intesono a buona guardia, e al legato mandarono ambasciadori per sapere che ciò volea dire. Di tale presura il legato forte fu biasimato da tutta maniera di gente, e quale che si fosse il suo movimento, altro non se ne manifestò che detto sia, ma valicato il mese di sua presura il legato il fè diliberare: messer Ridolfo senza tornare al legato sdegnoso e pieno d’ira e di mal talento si tornò a Camerino. CAP. X. _Del maestrevole processo del legato co’ suoi Ungari in questo tempo._ Era, come addietro è detto, capitano degli Ungari il maestro Simone conte, e il legato avea condotto con tremila Ungari, e gli altri Ungari con alcuna provvisione nutricava: il maestro Simone in segreto con gli Ungari ch’erano di fuori s’intendea e con quelli ch’erano seco, e come era con loro fuori di Bologna gli mantenea quasi in discordia col legato rubando i Bolognesi come nemici, e facea alla sua gente usare parole, nelle quali lodavano messer Bernabò, e dicevano sè essere al servigio suo, biasimando il legato: per tale astuzia si divolgò per tuttochè gli Ungari erano rivolti dal servigio della Chiesa. E continovando la cosa in questa contumacia, e messer Bernabò veggendosi avere fatte disordinate spese nella guerra, e vedendosi al cominciamento del verno, cominciò a cassare de’ suoi cavalieri, i quali nel suo paese s’accoglieano col grido di fare compagnia; e maestro Simone con i suoi Ungari scorreano in preda in guisa di compagnia, senza gravare i paesani come nemici: e nondimeno il legato mantenea l’oste alla bastita di Casalecchio, e mostrava di volere rivocare gli Ungheri a sè per la fede avea avuta dal re d’Ungheria, e mostrava di mandare lettere perchè il re rinfrenasse gli Ungheri, che non trasandassono contro a santa Chiesa. CAP. XI. _Come s’ebbe per i Bolognesi la bastita di Casalecchio sopra il Reno. _ Essendo la bastita fatta per l’oste di messer Bernabò sopra il Reno luogo detto Casalecchio lungamente tenuta in grande confusione de’ Bolognesi, avendo per quella tolta l’acqua delle mulina di Bologna, ed essendo presso alla terra luogo forte e ben fornito, facea continua e tediosa guerra infino alle porti. Partita l’oste del Biscione, non potendola i Bolognesi avere per battaglia, l’assediarono, e sopravvenendo i difetti dentro, e non essendo soccorsi da messer Bernabò, furono costretti d’arrendersi, e fatto il patto salvo le persone, a dì 11 di novembre detto anno s’arrendè, e gli Ungari pronti e con più forza la presono, e mostrarono di volerla tenere per loro contro la volontà del legato; e mostrandosi la riotta grande tra il legato e gli Ungari per la bastita, il legato fece venire lettere dal re a maestro Simone comandandoli che rendesse la bastita al legato, e che non si partisse dal suo volere. E fatto questo comandamento la bastita fu renduta a’ Bolognesi, e maestro Simone di nuovo condotto con mille Ungari, e gli altri furono licenziati; e partitisi di là per fare compagnia, arrestandosi tra Bologna e Imola, avendo la vittuaglia dal legato: e fatta questa dissensione, messer Bernabò prese fidanza, e cassò più di sua gente, sicchè al bisogno non potè riparare agli Ungari, come seguendo nostro trattato diviseremo. CAP. XII. _ La venuta a Giadra del re d’Ungheria e della moglie._ In questi tempi lo re d’Ungheria non potendo avere figliuoli della reina sua moglie, alla quale portava grande amore, avvegnachè figliuola fosse d’un suo suddito barone, a lui e a tutto il regno ne parea male, che trascorresse il tempo senza speranza d’avere successore e di lui erede nel regno. E la moglie medesima per l’amore che portava al re n’era in afflizione, e ben disposta di fare ciò che piacesse di sè e ch’ella potesse perchè al suo signore non mancasse rede, sentendosi in istato da non potere portare figliuoli, e per questa cagione si disse palese che il re e la reina erano venuti a Giadra, e là dimorarono parecchi mesi facendo edificare un grande e nobile munistero a onore di santo..... nel quale si dicea che dovea con la dispensazione di santa Chiesa entrare la reina in abito e stato monachile, e lo re dovea potere torre altra donna. Se ciò fu vero, l’amore della donna lo vinse, e solo la fama della volontà rimase. CAP. XIII. _La presa di Gello fatta per quelli di Bibbiena, e la compera ne fece poi il comune._ Gello è un bello castelletto presso a Bibbiena a due miglia, e possiede buoni terreni. Messer Luzzi figliuolo bastardo di messer Piero Tarlati l’avea lungo tempo occupato all’abate di Magalona, e rispondevali certa cosa per anno. I fedeli occupati vedendo loro tempo per uscire di servaggio, diedono il castello a coloro ch’erano in Bibbiena per i Fiorentini all’entrata del mese di novembre, e accomandaronsi al comune. Messer Luzzi in questo dì era accomandato de’ Sanesi, i quali mandarono ambasciadori a Firenze, e tanto operarono, che ’l comune a dì 15 di gennaio detto anno per riformagione di consigli diedono a messer Luzzi per compera del castello di Gello fiorini milledugento, ed egli fece consentire all’abate; e le carte fece ser Piero di ser Grifo notaio delle riformagioni del comune di Firenze. CAP. XIV. _Come il comune di Firenze mandò ambasciadori al legato e a messer Bernabò per trattare accordo._ Essendo l’impresa di Bologna barattata nelle mani di messer Bernabò per altro modo che non istimava, e ripiena d’Ungheri la Lombardia, il comune di Firenze avvisando che tempo fosse atto a trovare via d’accordo, mandò di novembre di detto anno a smuovere il legato a lasciare trovare modo alla concordia, lo quale trovarono in vista e nelle parole bene disposto, e però andarono a Milano a messer Bernabò, e cercato più volte di poterli parlare, non poterono da lui in Milano avere udienza, perocchè la notte innanzi mattutino messer Bernabò era a cavallo e andava alla caccia, e la sera tornava tardi, e non dava udienza, perchè convenne che la notte il seguitassono sponendo loro ambasciata, e cavalcando forte il signore senza arrestarsi, e non di meno parea desse speranza al trovare de’ modi; e così seguì più dì senza avere udienza altro che cavalcando, sopravenne quello, che il legato trattò co’ suoi Ungheri, come appresso diviseremo; per la qual cosa sdegnato messer Bernabò non volle più udire da quella volta innanzi gli ambasciadori di Firenze, e senza onore si ritornarono al loro comune. CAP. XV. _Come il legato mandò gli Ungari sopra la città di Parma._ Il valente legato conoscendo l’animo di messer Bernabò niuna fede prendea di lui, e avendo lungamente dimostrato discordia con gli Ungheri come narrato avemo, e sentendo inverso Reggio mille barbute casse da messer Bernabò, con l’aiuto di messer Feltrino da Gonzaga per certa provvisione le condusse, e improvviso a tutti in una notte fece pagare per certo tempo gli Ungari ch’avea cassi e quelli ch’avea condotti, e mostrando d’andarsene gli Ungari di verso Ferrara, avendo avuta la licenza del passo, si rivolsono, e valicarono Modena e Reggio, e furono prima in sul Parmigiano, ch’alcuna novella n’avessono avuta i paesani, e per questo improvviso corso feciono di bestiame grosso e minuto preda senza misura. E appresso agli Ungari vi mandò il legato messer Galeotto con mille barbute, e a lui feciono capo l’altre mille condotte a Reggio per modo di compagnia, valicarono la Fossata, e poi il fiume della Parma, e stettono in larga preda più di venticinque dì, perocchè per comandamenti di messer Bernabò il paese non era lasciato sgombrare. La stanza e la ritornata fu senza contasto, e a Bologna si ritornarono a dì 11 di dicembre, con fama d’avere avuti danari da messer Bernabò; per la qual cosa il capitano degli Ungari tornato poi in Ungheria dal suo signore fu messo in prigione. CAP. XVI. _Della presura del conte da Riano._ Il re Luigi avendo sentito come Anichino di Bongardo con la sua compagnia s’avviava nel Regno, o che ’l conte da Riano gli fosse di ciò infamato, o ch’egli avesse sospetto di lui, lo fece mettere in prigione, con minacce di farli torre la persona. Il conte si sentia senza colpa, e non temea, confidandosi nella verità, e nel grande parentado che avea con i maggiori baroni del Regno, i quali riprendeano il re di quella presura, per la quale non piccola dissensione era nel reame, e per l’aspetto della compagnia, e ancora perchè il duca di Durazzo non si fidava del re; e il gran siniscalco si stava a Bologna, e mostrava non curarsi di ritornare nel Regno, accortosi che ’l re avea troppa fede data ai baroni ch’erano a lui in contradio. Lo re non era sano, e il prenze perduto per le donne e per lo vino dalla cintura in su, e per queste cagioni il re sollecitava con lettere il gran siniscalco che tornasse a lui, ed egli sostenea per soccorrere al tempo del gran bisogno, e per fare ricredenti gli avversari suoi, come poscia addivenne. CAP. XVII. _Come la compagnia d’Anichino sostenne fame all’entrata del Regno._ Anichino di Bongardo con la sua compagnia essendo valicato nel Regno, tentato l’andare all’Aquila, e trovato i passi forniti alla difesa, fu costretto arrestarsi del mese di novembre, essendo i passi stretti e male agiati di vittuaglia, verso Lanciano, per la qual cosa soffersono gran fame e assalto a’ passi da’ paesani, onde in quel luogo perderono circa a ottocento tra cavalieri ungari e masnadieri; e non potendo in quel paese acquistare se non fame, presono la via di verso la Puglia, e all’entrata di dicembre furono in Giulianese: le terre trovarono afforzate e sgombro il paese, sicchè poco di preda vi poterono avanzare, nondimeno gli Ungari e i soldati cassi nel paese di là seguivano la compagnia sentendosi entrare nel Regno, e accrescevanle forza. CAP. XVIII. _Come messer Cane Signore rimandò la moglie che fu di messer Cane Grande al marchese di Brandisborgo._ Morto messer Gran Cane dal fratello, e tornato messer Cane Signore in Verona, presa la signoria dopo il lamento fatto della morte del marito, la donna che fu di messer Gran Cane sirocchia del marchese di Brandisborgo con disonesta fama di messer Cane Signore lungamente contro suo volere fu ritenuta in Verona. E in quei giorni addivenne, ch’a un parlamento fatto dai principi d’Alamagna con l’imperadore, il marchese di Brandisborgo si dolse dell’oltraggio fatto alla sirocchia per messer Cane Signore; onde dall’imperadore e dagli altri principi d’Alamagna fu confortato ch’attendesse a vendicare sua ingiuria, promessogli fu in ciò loro aiuto. Come ciò pervenne agli orecchi di messer Cane Signore cagione gli fu di rendere la donna, la quale rimandò del mese di novembre detto anno con quello onore e con quella compagnia ch’a lui piacque infino fuori de’ suoi confini, e quivi trovato di sua gente che gli si faceano incontro la lasciarono, udendo minacce grandi contro al signore loro. Il detto duca fece partire di suo paese tutti i sudditi del signore di Verona, e a tutti vietare le fiumane e’ passi come a suoi nimici. CAP. XIX. _Come la compagnia d’Anichino di Bongardo prese Castello san Martino._ Essendo di Giulianese entrata la compagnia nel distretto del duca di Durazzo, avendo difetto di pane, e mostrandolo maggiore, quelli di Castello san Martino essendo molto forniti di vittuaglia, per ingordigia del prezzo i villani di quello cominciarono a vendere il pane un gigliato. La gente d’arme maliziosa e cauta, veggendo i villani allargarsi all’esca del danaio, mandavano a uno e a due nel castello insieme con le mani piene di gigliati a comperare del pane, ed eglino si stanziavano di fuori senza fare alcuna guerra al paese; onde avvenne, che dimesticata la gente matta e avara, per potere vendere più del pane lasciarono entrare nel castello degli uomini della compagnia, i quali dato segno a quelli di fuori furono di subito alla porta, e con quelli d’entro cominciarono la mischia, e cacciarono le guardie dalla porta, e misono dentro la compagnia, facendo per ciò sussidio grande al loro stremo bisogno, ch’erano nel dicembre, e per loro non trovavano pane nè strame per i cavalli, e nel castello abbondantemente ne trovarono, e pertanto gran parte del verno vi dimorarono sovente cavalcando il paese, e riducendosi all’ostellagione senza costo loro con le prede faceano nel paese. CAP. XX. _Come il re d’Araona diè per moglie la figliuola a don Federigo di Cicilia._ Del mese di novembre detto anno, lo re d’Araona diliberò di dare per moglie a don Federigo figliuolo di don Piero di Cicilia la figliuola, e a dì 27 di dicembre seguente giunse nell’isola di Cicilia con quattordici galee ben armate, e fatto porto a Cattania, dove il giovane re facea suo dimoro, ricevuta la donna con quella festa che far le potè secondo il suo povero stato la disposò; e pensandosi che le galee de’ Catalani facessono guerra a Messina e all’altre terre del re Luigi, senza arresto alcuno fornita la festa delle nozze se ne ritornarono in Catalogna. CAP. XXI. _Come messer Bernabò si provvedde per avere gente, nuova per guerreggiare Bologna._ Messer Bernabò mostrò di non curarsi dell’avvenimento degli Ungheri e de’ Tedeschi che alquanto del verno stettono sopra le terre sue, anzi scrisse al legato parole di scherno, volendo mostrare, che quello che fatto avea tornerebbe tosto in sua confusione. E a certi suoi confidenti mostrò un grandissimo tesoro accolto di nuovo senza toccare quello della camera sua, il quale passava il numero di secento migliaia di fiorini, i quali affermava sè avere diputati per vincere la gara di Bologna. E per ciò cominciare e con danari e con doni mandò il conte di Lando in Alamagna a sommuovere baroni e cavalieri a sua provvisione per averli al primo tempo; il quale trovando che per l’imperadore e per lo doge d’Osteric, e per lo marchese di Brandisborgo, e per gli altri principi d’Alamagna fatto era comandamento, che niuno arme prendesse contro a santa Chiesa, del mese d’aprile seguente tornò con dieci bandiere di ribaldi, i quali per non avere che perdere non curarono i comandamenti de’ loro signori, golando il soldo di messer Bernabò. Ora nel processo nostro per lo verno dando sosta all’altre fortune ci si apparecchia a narrare cosa spiacevole alla nostra città di Firenze, e all’altre città a lei vicine. CAP. XXII. _Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del Regno venne in Firenze, e della novità che per sua venuta ne seguio._ Messer Niccola Acciaiuoli fatto per lo legato conte di Romagna e del suo segreto consiglio, sollicitato dal re Luigi co’ comandamenti, e da’ Fiorentini e dagli altri comuni di Toscana procacciava aiuto contro alla compagnia d’Anichino; onde egli fatto vececonte in Romagna, e provveduto d’uficiali alle terre commesse al suo governo per santa Chiesa, a dì 9 di dicembre venne a Firenze, dove da’ parenti e dagli amici, e dagli altri cittadini discreti e da bene a grande onore fu ricevuto. Lo suo dimoro e portamento nella città era onesto e di bella maniera, mettendo ogni dì tavola cortesemente, e senza alcuna burbanza, chiamando i cittadini, e i grandi, e i popolari alla mensa, onorandoli successivamente: e così stando in Firenze, con ogni onesta sollecitudine che potea procacciava di fornire il comandamento del suo signore, e richiedeva sovente con riverenza i suoi signori priori e collegi d’aiuto, e simile in spezialità gli altri cittadini che in ciò gli prestassono favore. E in questo stante novità occorsono nella nostra città, che tutta la terra puosono in confusione, come nel seguente capitolo diremo. CAP. XXIII. _Come per sospetto nato nella città di Firenze di messer Niccola indegnamente egli ne ricevette vergogna._ Anichino di Bongardo, com’è di sopra scritto, e con sua compagnia era passato nel regno di Puglia, con animo d’offendere il re Luigi a suo podere, il quale sollecitamente si dava a’ ripari, il perchè il gran siniscalco n’era venuto a Firenze per avere aiuto, e promessa avea avuta d’avere trecento cavalieri; or come piacque alla fortuna occorse, ch’al nuovo priorato, che trar si dovea per legge di comune, far si dovea lo squittino nuovo de’ priori e collegi, e fallare non potea che stando messer Niccola a Firenze o vicino non fosse priore, perocchè nelle borse vecchie niuno v’era rimaso se non egli, e delle nuove trarre non si potea se non si votasse le vecchie, ed egli a ogni nuovo priorato era tratto, e rimesso per assenza: il caso che parea appensato, e l’uomo per la grandezza sua nella città per tema di tirannia verisimilmente sospetto, con assai colorata credenza facendo i governatori della città fortemente sospettare, e mormorio n’era tra loro, il quale per lo procaccio si stendea nel volgo, e se ne parlava e in piazza e a’ ridotti, ma per quello che veramente sentimmo l’animo del nobile cavaliere della detta intenzione era tutto rimoto, e per tanto per quetare il mormorio sollecitava d’avere la gente dell’arme che il comune gli avea promessa, e proposto s’era al tutto nell’animo che se necessario caso l’avesse ritenuto di renunziare l’uficio. Occorse in quei giorni, che licenziandosi i nostri ambasciadori dal legato di Spagna, il quale come di sopra è scritto presa avea la signoria di Bologna, ed egli avendo l’uno di loro conosciuto per uomo grave e intendente e d’autorità, e a cui molta fede era data nel suo comune, avanti che a loro desse il congio, quel tale segretamente chiamò nella camera sua, e datali la credenza, prima gli rivelò come certamente sentia che in Firenze era trattato e congiura per sovvertere lo stato loro. Il discreto e accorto ambasciadore gli rispuose, che tale credenza tenendola a lui era pericoloso, e simile al suo comune, e che per tanto a lui piacesse che a’ suoi signori il potesse manifestare, non domandando come savio più oltre, per non avere materia d’abominare i suoi cittadini, senza i quali non pensava ragionevolmente potere essere trattato. Lo cardinale non glie n’aperse più, ma gli concedette licenza che di quello che detto gli avea ne facesse fede a’ signori suoi come gli avea domandato. Per la rivelazione di costui generale e oscura il sospetto preso di messer Niccola crebbe a maraviglia, e in tanto, che senza niuno intervallo di tempo provvisione si fè, la quale in effetto contenne, che niuno ch’avesse giurisdizione di sangue, o sotto sè città o castella non potesse essere all’uficio del priorato: ma per non fare più vergogna al valente cavaliere trovandosi egli alla tratta de’ nuovi priori, affrettarono di dare la gente promessa perchè avesse onesta cagione di partirsi, il quale avendo ricevuto la gente, al modo del buono Scipione Affricano per liberare dal sospetto la patria e sè da vergogna, con la gente datagli di presente prese viaggio, e giunto a Siena, e appresso a Perugia, loro in nome del re Luigi richiese d’aiuto, e altro che belle parole non ne potè riportare. In questo fortunoso ravviluppamento assai per li savi non odiosi si comprese della magnanimità del gran siniscalco, perocchè nè in atto nè in parole in lui veruno turbamento si vide o sentì, ma piuttosto tranquillità d’animo, quasi come se ciò s’avesse recato a onore che in tanta città fosse preso che tanto animo avesse: e tutto che per lo trattato che poco appresso si scoperse si manifestasse l’innocenza sua e purità d’animo, non di meno la legge rimase, e fu riputata utile e buona, perchè si dirizzava a conservamento di libertà, la quale in questo mondo certano è riputata la più cara cosa che sia. CAP. XXIV. _Come si scoperse congiura di certi cittadini di Firenze, e trattato per sovvertere lo stato che reggea._ Vedendosi manifesto per ogni qualunque intendente, che la legge fatta in favore della parte, tutto ch’ad altro fine fosse principiata, era in sè utile e buona ma male praticata, e che coloro che ne doveano secondo il proponimento di coloro che l’aveano creata essere disfatti n’erano sormontati e aggranditi, e che la città n’era in molte parti stracciata e divisa, e di male talento piena ne stava in tremore e sospesa, e’ rimedi sufficienti al male non si vedeano, e se si vedeano erano posti a silenzio, il perchè quasi per una boce comune forte si dubitava di cittadinesca commozione. Ed era per certo da dubitare, come l’esperienza poco appresso ne fè manifesto, perocchè tale mala disposizione conosciuta da certi cittadini mal sofferenti e d’animo grande, e che mal contenti viveano, massimamente veggendo alzare troppo i loro avversari, e da certi che per ammunizione erano a loro parere contra ragione offesi, ed eranne poco pazienti, loro diede audacia e materia di cercare novità, e gli mosse a congiura, e in una a cercare de’ modi e delle vie da levare dello stato coloro i quali per loro nemici teneano. Costoro loro capo feciono Bartolommeo di messer Alamanno de’ Medici, uomo animoso troppo, e che si sarebbe messo a ogni gran pericolo per abbattere gli avversari suoi; al quale parendo che il tempo abile a ciò fare fosse venuto, riscaldato e sollecitato da Niccolò di Bartolo del Buono, e da Domenico di Donato Bandini, i quali erano stati ammuniti e levati dagli ufici e onori del comune come sospetti della parte, non perchè fossono, ma per operazione di chi gli avea con quel bastone voluti fare ricomperare, ristrettosi con loro, cominciarono segretamente a cercare de’ modi e delle vie da pervenire all’intento loro: e così cercando, trovarono che Uberto d’Ubaldino di messer Uguccione Infangati, uomo cupido e vago di novitadi, e atto assai a dovere e potere cercare, e avendo rispetto al male disposto e intrigato stato della città, come per quella scritta avemo di sopra comprendere si può, per suo proprio movimento, e senza averne con alcuno conferito, sotto la speranza d’avere il seguito de’ malcontenti, de’ quali allora il numero era grandissimo ogni ora che gli avesse richiesti, avea tenuto trattato con uno Bernarduolo Rozzo Milanese, il quale era cameriero di messer Giovanni da Oleggio de’ Visconti per allora signore di Bologna, e stato era suo tesoriere, uomo sagace, astuto e d’animo grande, il quale entrato n’era in ragionamento col detto messer Giovanni, mostrandoli per assai belle e apparenti ragioni come se volea il potea fare signore di Firenze. Il tiranno giusta il costume de’ tiranni vi prestò l’orecchie, ma infra il tempo per necessario caso occorse ch’esso tiranno per lo migliore suo s’accordò con la Chiesa, e rendè Bologna a messer Egidio d’Albonazio di Spagna cardinale e legato di santa Chiesa nelle parti d’Italia, il perchè il trattato cominciato per messer Bernarduolo Rozzo si rimase. I predetti Bartolommeo, Niccolò, e Domenico avendo segretamente odorato che per Uberto si cercava rivoltura di stato, e che per tanto verificando il titolo e nome della famiglia sua s’era Infangato, tutto che il modo e le persone con cui trattava non sapessono, conoscendolo uomo sufficiente e atto a fornire delle intenzioni loro, e di quello che loro andava per l’animo, e stimando che per l’errore già commesso per lui loro dovesse essere fedele, lo tirarono ne’ loro segreti consigli, e intorno a loro impresa gli dierono faccenda e pensiero, con dirli cercasse consiglio e aiuto pronto col quale loro intenzione potessono fornire. Parendo a Uberto che i suoi vecchi pensieri fossono di nuovo appoggiati e di consiglio e di forza, senza ai suddetti niuna coscienza farne col detto Bernarduolo Rozzo ricominciò il vecchio trattato, parendoli avere migliorato condizione, offerendoli al servigio sufficiente seguito a fornire il cominciato trattato con lui, e diedeli certe scritture di sua testa compilate, dove soscritto apparea non piccolo numero di cittadini e grandi e popolani, e de’ maggiori e de’ mezzani e de’ minori, tutti persone e da nome e da fatti. Il detto Bernarduolo, parendoli avere in mano la detta cosa per fornita, di tanta audacia e presunzione fu, che avendo cercato questa faccenda con messer Giovanni da Oleggio, e veggendo che sua intenzione gli era faltata per lo dare che fatto avea di Bologna a santa Chiesa, fu di tanta audacia e presunzione, che sentendo il cardinale di Spagna uomo d’alto animo, fattivo e cupido di fama mondana, e desideroso oltre a modo di temporali signorie, e per tanto quasi senza considerazione, e per tanto di grandi imprese lo richiese, mostrandoli, che senza niuno dubbio con poca spesa e fatica potea essere signore di Firenze. Il legato, tutto fosse cupido e animoso, era savio e temperato, e conoscea che fallandoli l’impresa potea essere il suo disfacimento, e promessa credenza di tutto, il trasse fuori di pensiero de’ fatti suoi; poi come detto è di sopra a uno degli ambasciadori fiorentini il detto cardinale in genere revelò che trattato era in Firenze. Nè però ristette Bernarduolo di cercare, e seguendo la via cominciata, portò il trattato a messer Bernabò, il quale mostrò d’averlo caro e accetto, ma come signore di grande sentimento e pratico delle baratte del mondo, non parendoli che la cosa dovesse avere effetto, secondo l’offerte che gli erano fatte dava e toglieva parole e tenea in tranquillo, mettendo per lunga via la mena, e per simile il detto Uberto dicea ai detti Bartolommeo e i compagni che cercava cose ch’anderebbono a loro intenzione, ma che per ancora non avea tanto che loro niente effettualmente ne potesse dire. CAP. XXV. _Come si scoperse il trattato che era in Firenze, e certi ne furono puniti._ Mentre le dette cose si cercavano per Bernarduolo, parendo ai detti tre Bartolommeo, Niccolò e Domenico, che ogni piccolo indugio loro fosse pericoloso, poichè incominciato aveano, e temendo che lunghezza di tempo non impedisse, e scoprisse quello che intendeano di fare, sollecitavano continovamente, e un’ora non si lasciavano fuggire di mano, pensando dì e notte de’ modi come loro proponimento potessono fornire, intra i quali uno loro ne cadde nell’animo, il quale poi si conobbe sufficiente a muovere scandalo grande e pericoloso, ma non a terminare secondo il concetto dell’animo loro; e per mandarlo ad esecuzione. I detti caporali con inventivi modi e argomenti sottili e sagaci trassono in loro congiura e trattato messer Pino di messer Giovanni de’ Rossi, Niccolò di Guido da Sanmontana de’ Frescobaldi, Pelliccia di Bindo Sassi de’ Gherardini, Beltramo di Bartolommeo de’ Pazzi, Pazzino di messer Apardo Donati, Andrea di Pacchio degli Adimari, Luca Fei, Andrea di Tello dell’Ischia (questi ultimi due per molti si tenne che senza colpa fossono messi nel ballo) e frate Cristofano di Nuccio de’ monaci di Settimo, il quale era stato lungo tempo alla guardia della camera dell’arme, e quindi per alcuno procaccio d’altrui era stato rimosso: di molti altri si disse, ma non si trovò esser vero, e se fu, si tacque, e ammorzò per lo migliore, e per fuggire disordinato fascio, ma agl’intendenti parve, non essendo matti i detti nominati di sopra, sì grande tentamento dovesse avere maggiore appoggio e sequela e nel numero. La motiva loro fu più per odio e nimistà speziale che vogliosamente portavano a certa famiglia di popolari grandi e in comune, e per levarli di stato e cacciarli, che per zelo che avessono alla repubblica o ad altri loro cittadini. L’ordine per i detti dato a fornire loro impresa fu di questa maniera, che l’ultimo dì di dicembre frate Cristofano, che per le reliquie del vecchio uficio che gli era stato levato ancora liberamente usava l’entrata e l’uscita del palagio de’ priori, ed era signore delle chiavi, dovea segretamente mettere quattro fanti in sulla torre del palagio de’ signori, e rinchiuderli in una camera che v’è, e non s’usava, e poi di notte dovea aprire lo sportello della porta del palagio di verso tramontana, che non s’usava, e mettere quetamente per quella ottanta fanti, e riporli ivi di presso nella camera dove si riducono gli uficiali delle castella, ch’allora non vi stava persona, e la seguente mattina, quando escono i signori vecchi ed entrano i nuovi, rimanendo dentro un fante solo che serra la porta, mentre che le dicerie e solennità a tali atti usati si fanno, i detti ottanta fanti doveano uscire della detta camera, e uccidere o prendere il detto portiere, e serrare la porta, e salire sul corridoio del palagio, e con le pietre percuotere chiunque fosse sulla ringhiera, e i fanti della torre doveano sonare le campane a stormo, e in quell’ora si doveano muovere i detti congiurati col seguito loro, stimando che molti cittadini offesi e malcontenti, e quelli che stavano indubbio dello stato loro traessono a loro, e gli dovessono seguire; con volere che per altro ordine si governasse la terra, della quale s’immaginavano essere principali e maestri, com’erano principali della matta impresa, con mostrare di volere che a neuno fosse fatto oltraggio o torto. Il pensiere loro fu riputato da molti folle, perchè non avendo altro braccio, rimaneano in podestà del furore del popolo, se non avesse consentito al loro movimento. Altri stimavano, che essendo il popolo confastidiato come detto avemo, e per natura mobile e vago di novità, e che scorrere si lascia quando è scommosso là dove non possono i savi stimare, che loro pensiero potesse avere effetto: ma Dio che è guardia de’ semplici e innocenti, e che talora per rispetto loro tempera l’ira sua contra i rei, perchè il caso parea come suole fare, o per fortuna o per privati odii contra loro straboccare, volle si scoprisse il trattato, e fu in questo modo. Detto avemo come il legato sotto parole generali avea fatto sentire come nella città era trattato, ma d’esso non avea dato indizio veruno; e stando per questo i governatori e i cittadini di Firenze nel tenebroso sospetto, Bernarduolo Rozzo, che vedea suo ragionamento tornato in fummo, pensò di fare civanza, e trarre vantaggio delle fatiche che avea ordinato in male operare, e venuto a Santa Gonda, mandò per uno suo amico della casa degli Antellesi, e a lui disse, che quando il comune di Firenze gli volesse dare venticinque migliaia di fiorini, ch’egli manifesterebbe il trattato, e chi lo conducea. Ciò sentito per i signori, e tenuto segreto consiglio, per trarre il popolo di periglio, e di sospezione e paura, diliberarono gli fosse dati danari, e alla promessa d’essi s’obbligarono i signori, e’ collegi, e’ richiesti, e se ne fè scrittura obbligatoria con saramento, e il pagamento se ne dovea fare in Siena, manifestato ch’avesse in forma bastevole la verità del fatto. Anzi che fosse il detto ragionamento fornito, o fattone esecuzione, fu noto a Bartolommeo che ’l fatto si venia a scoprire, non perchè il detto Bernarduolo il sopraddetto processo e ordine sapesse, ma che per quello che tenuto avea con Uberto Infangati sapea i nomi di coloro che sapea che teneano al suo, si manifestò e aprì a Salvestro suo fratello, e quello che occultato avea, e a lui e a’ suoi consorti palesò. Salvestro udito il voglioso e poco savio movimento del fratello, per ricoverare l’onore suo e della casa sua, che per la detta impresa potea cadere in sospicione, e per trarre il fratello di pericolo e d’abominio, con certi dello stato discreti e fidati, e alla famiglia sua, di presente ne fu a’ signori, e da loro prese sicurtà per Bartolommeo, dicendo, che da lui avrebbono tanto, che potrebbono trarre di sospetto e di paura il comune, il quale quasi per lusinghe tirato nel trattato, con infingere di non sapere se non la corteccia, dissono a’ signori, che se avessono Niccolò e Domenico di Donato Bandini che ne saprebbono il tutto, come da’ caporali e guide del trattato; di che i signori di subito mandarono per loro in forma e in modo, che se si fossono voluti cessare non aveano il podere, e quelli per loro prima esaminati li dierono al podestà. Gli altri congiurati sentito questo si cessarono subitamente; e i detti presi confessato il loro eccesso furono dicapitati: gli altri nomati, eccetto il detto Bartolommeo, furono per lo potestà senza vituperevole titolo condannati nella persona. Il detto Bernarduolo Rozzo, avendo per la detta sua operazione certificato il comune che ’l suo palesare il trattato era per vendere la vita di molti cittadini, e non per palesare il suddetto trattato, del quale niente sapea, fu di tanta presunzione e ardire, che sotto la promessa di dare al comune scritta di mano propria de’ congiurati, alla quale erano sottoscritti molti cittadini di loro propria mano, e suggellato di loro proprio suggello, domandò ed ebbe fidanza di venire a Firenze, e a’ signori la detta scritta diede, la quale si trovò essere di mano d’Uberto Infangati, fittamente e coloratamente composta, secondo che fuori n’uscì la boce, se vera fu, o no. Ragunato il consiglio, _coram omnibus_ la scritta fu arsa senza altrimenti farne dimostrazione. A Bernarduolo Rozzo furono donati cinquecento fiorini d’oro, e tratto del nostro contado dato gli fu il congio. La legge, ch’era stata in gran parte cagione e materia di tanto male, e peggio per l’avvenire promettea, per tutto ciò ammendata non fu, nè regolata nè aggiustata in niuna sua parte. CAP. XXVI. _Come si comperò Montecolloreto, e la giurisdizione di Montegemmoli dell’Alpe per lo comune di Firenze._ Ottaviano e Giovacchino figliuoli di Maghinardo e Albizzo degli Ubaldini, essendo male in accordo co’ figliuoli di Vanni di Susinana, e con gli altri Ubaldini teneano Montecolloreto, e possedeano l’Alpi con millecinquecento fedeli e’ fitti perpetui, e costoro cercavano di volere vendere Montecolloreto e l’Alpe, e le ragioni ch’aveano in Montegemmoli, e in Cornacchiaia e nell’altre villette dell’Alpe al comune di Firenze per loro vantaggio, e dispetto de’ loro consorti. Il comune intendea alla compera. Gli altri Ubaldini che si teneano avere ragione nell’edificio di Montecolloreto mandarono a Firenze a contradire la vendita. La cosa stette lungamente in dibattito, infine il comune comperò la proprietà da coloro che teneano Montecolloreto, e tutta l’Alpe, e la giurisdizione ch’aveano i figliuoli di Maghinardo, e comperò tutti i fitti perpetui ch’aveano nell’Alpe, sicchè il paese e gli uomini rimasono liberi del comune di Firenze, e i detti Ottaviano, Giovacchino, e Albizzo, e tutti i loro congiunti e loro famiglie furono fatti per riformagione del comune, a dì 30 di dicembre del detto anno, cittadini e popolari di Firenze, e fatte le carte della detta vendita per ser Piero di ser Grifo delle riformagioni, ed ebbono contanti fiorini seimila d’oro, com’elli furono in concordia e in patto d’avere dal comune di Firenze. L’Alpe fu recata a contado, e gli uomini liberi da’ fitti perpetui. CAP. XXVII. _Come una compagnia creata novellamente prese Santo Spirito._ Finite le guerre, e fatta la pace fra i due re d’Inghilterra e di Francia, tornato il re Giovanni in Francia, e intendendo dolcemente a rassettare il reame, fece gridare per tutto suo reame che tutta mala gente si dovesse partire, e sgombrare il suo reame sotto gravi pene; e per tale cagione diverse compagnie s’adunarono, le quali l’una dopo l’altra poi trassono ad Avignone. Sicchè dove speranza era che il re liberasse la Chiesa seguitò il contrario, e più si credette per tutti che i paesi si posassono, e s’intendesse a’ mestieri e alle mercatanzie, ma incontanente seguitò in Parigi e nel paese di Francia grandissima carestia e mortalità, e coloro ch’erano usi in guerra, e più atti alle prede e alle rapine ch’alle mercatanzie e mestiere, udito il grido e il comandamento del re in diverse parti s’accolsono insieme per modo di compagnia, e feciono diversi capitani, e chi vernò in un paese e chi in un altro alle spese de’ paesani, conturbando le provincie; e un’accolta si fece verso Lione sopra Rodano, in grasso e abbondante paese, e ivi stettono senza contasto, e dimorati alquanto nel paese, si misono verso Lione per valicare in Provenza: il vicario di Lione coll’aiuto de paesani occuparono i passi, che sono stretti e forti, e non gli lasciarono passare; e vedendosi la compagnia impedire, un’altra volta maliziosamente si strinsono sopra Lione, ove tutta la forza della città e delle vicinanze trassono alle difese, e i capitani della compagnia aveano fatto eletta di mille barbute, e ordinato quando la gente traesse a loro che prendessono un altro cammino per l’alpe della Ricodana, e così fatto fu senza trovare chi loro contradicesse, e tra il giorno e la notte appresso l’alpe passarono, che di mala via furono oltre a miglia quaranta, e alla dimane si trovarono nel piano presso a Santo Spirito in sul Rodano, e quivi per lo freddo sostenuto la notte con fuochi si ristorarono, e a’ loro cavalli provvidono e a loro di vivanda per riprendere forza della gran fatica che la notte per lo gran cammino aveano sostenuta; e ciò fatto, montati a cavallo si dirizzarono a Santo Spirito, dove trovarono la gente sprovveduta, e nullo resistente s’entrarono nel borgo. La rocca si tenea per uno castellano lucchese, e quella col castellano presono: e perchè il fatto fu incredibile per la fortezza del luogo, molti pensarono che fatto fosse per ordinamento del Delfino, e perchè il castellano fu lasciato e poi ripreso ad Avignone, stimossi che il papa il sentisse, e per lo meno male lo si tacesse. I terrazzani da bene uomini e donne si ridussono nella chiesa ch’è forte, e aspettando il soccorso de’ vicari circostanti e dal re di Francia per spazio di sei dì, si patteggiarono di dare fiorini seimila d’oro, salvo l’avere e le persone: i danari furono pagati, ma i patti non furono attesi, che tutti furono rubati, e molte femmine giovani ritenute al servigio della compagnia. Santo Spirito è vicino ad Avignone a otto leghe di piano. E il nobile ponte sopra il Rodano di presente occupato fu per quelli della compagnia, d’onde aveano libera l’entrata nel Venisì, e poteano a loro piacere cavalcare fino ad Avignone: per tale cagione il papa e i cardinali ebbono gran paura, e la città tutta prese l’arme serrate le botteghe, e solo s’intendea a fare steccati e bertesche sì alla città e sì al gran palagio del papa, e a provvedersi di vittuaglia, e con soldati s’attendea a buona guardia, e di dì e di notte. E oltre a questa provvisione il papa bandì la croce sopra la compagnia, credendo subito avere gran concorso di gente d’arme e da piè e da cavallo, e nullo si trovò che la prendesse, onde lentamente cominciò a fare gente di soldo, e fè capitani il cardinale d’Ostia con certi altri prelati, e li mandò nel Venisì a fornire le castella della frontiera contro i nemici perchè non potessono stendere nè verso Avignone nè verso la Provenza, massimamente perchè sentiva che la compagnia era per avere maggior forza in corto tempo da quelli che rimasi erano di là da Lione. Al modo delle guerre de’ prelati la boce fu grande, e la difesa fu piccola quando alla compagnia parve il tempo da valicare, ma per allora essendo pochi, ed avendo roba assai, gran tempo stettono senza fare cavalcate, e il ponte afforzarono in forma, che le navi che veniano di Borgogna ad Avignone con vittuaglia non poteano passare, onde la corte sostenne grave carestia. Lasceremo per ora questa materia la quale ebbe lungo processo, e seguiteremo le cose d’Italia, che nel tempo richieggiono il luogo debito loro. CAP. XXVIII. _Come tornati gli Ungari e messer Galeotto da Parma si misono a Lugo._ Tornati gli Ungari del Parmigiano, il legato, perchè non gravassono dentro i Bolognesi, gli mandò sopra Lugo, dando boce di volere rivolgere un fiumicello che corre verso Castello san Piero sopra Lugo; e per fare la mostra apparente ragunò maestri paesani a ciò fare, e niuno effetto ne seguì. Stando gli Ungari a campo a Lugo messer Galeotto cavalcò sopra Castelfranco, e mancandogli i soldi pagati per lo legato agli Ungari e ai soldati, si partirono del detto mese di gennaio e da Lugo e da Castelfranco, e di loro una parte dal Biscione prese soldo, ed entrò in Lugo a fare guerra contro al legato, e alquanti il legato se ne ritenne. Mille o più a piano passo si dirizzarono in Romagna, e quindi nella Marca vivendo a legge di compagnia, e parte di loro s’aggiunse alla compagnia del Regno. Poco appresso il legato s’accordò con quelli ch’erano passati nella Marca, e di febbraio gli fece tornare sopra Lugo, per rattenere quelli ch’erano in Lugo dal conturbare la Romagna, ma poco tempo là durarono per la povertà del legato, ch’avea l’animo grande e la fonda vota. CAP. XXIX. _D’alquanti trattati tenuti in diverse parti che tutti si scopersono._ In questi giorni, certi d’una casa di Forlì che si nomava di Capo di Ferro, i quali il legato avea rimessi in Forlì, con altri loro amici e congiurati cercarono di mettere una notte in Forlì la gente di messer Bernabò ch’era in Lugo. Il trattato si scoperse, e furono presi venticinque cittadini, e trovati colpevoli, due di quelli di Capo di Ferro ed altri due del mese di gennaio furono decapitati, e dodici di loro seguito mandati a’ confini. La terra si rassicurò con sollecita guardia. Seguendo simili cose e’ pare, che quando il verno non lascia campeggiare la sfrenata rabbia degl’Italiani, non resti di procurare scandali e commuzioni. I Perugini in questi dì trovarono certi loro grandi che voleano rompere il popolo, e mutare il reggimento di quella città, e furono tanto e sì potenti, che scoperto il fatto non s’ardì a fare punizione. In Siena fu sospetto di mutamento di stato, e lungamente se ne stette in gelosia e in guardia. In Volterra fu il simigliante, e con gli ambasciadori del comune di Firenze si quetò la materia dello scandalo. In Bologna in questo verno si scoperse un altro trattato, che alcuni cercavano con messer Bernabò, de’ quali erano due de’ Bianchi caporali, non sapendo l’uno dell’altro. Ed avendo il podestà condannati Giovanni e Federigo de’ Bianchi nella persona per questo tradimento, e mandandoli alla giustizia con due altri, il legato fece liberare Giovanni ch’era meno colpevole, e Federigo e’ compagni furono decapitati. I Perugini, con trattato ch’aveano con certi loro sbanditi ch’erano al soldo del signore di Cortona, il doveano fare uccidere: il fatto scoperto, i traditori furono presi, e fattone quello che meritavano. CAP. XXX. _Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno, e quello ne seguì._ Per inzigamento di messer Giannotto dello Stendardo, e di messer Ramondo dal Balzo e de’ seguaci loro, allora governatore del re, messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco al giudicio de’ cortigiani parea in poca grazia del re, e giunto in Napoli, e scavalcato al castello del re, convenne che quel giorno col seguente solo a solo col re dimorasse, e con lui a quelle cose che nel Regno erano a fare diede il modo, e lo re lo fè suo luogotenente, e per suo decreto e a’ baroni e a’ popolani comandamento fece, che ubbidito fosse come la persona sua. Quindi a pochi dì fatto suo apparecchiamento, colla gente del comune di Firenze e quella potè avere del paese cavalcò in Puglia verso la compagnia, e misesi nelle terre vicine alla frontiera loro, e li comimciò forte a ristrignere di loro gualdane. CAP. XXXI. _D’un segno nuovo ch’apparse in cielo sopra la città di Firenze._ A dì 9 di febbraio detto anno, alle quattro ore di notte, in aire apparve sopra la città di Firenze un vapore grosso infocato di tale aspetto, che a molti parve che fosse fuoco appresso nella città vicino a loro vista, e per tanto cominciarono a gridare al fuoco, e le campane della chiesa di santo Romeo sonarono a stormo, e lungamente, come è usanza di sonare per lo fuoco; per lo quale romore molti cittadini si levaro da dormire, e vedendo ch’erano vapori incesi nell’arie uscirono delle case, e andarono a’ luoghi aperti, e vidono il tempo sereno, e il lume della luna, e di qua e di là dal vapore sua larghezza rosseggiante a guisa di fuoco per spazio di miglio, e sua lunghezza di quattro, e il suo montare alto del basso tanto era, che le stelle si mostravano in esso come faville di fuoco; e levatosi in distanza alcuna di sopra a Firenze valicò Fiesole, tenendo forma di ponte da Montemorello a Fiesole, e poi con assai lento andamento trapassò nel Mugello, e in un’ora e mezzo consumato si mostrò a coloro che di Firenze n’aveano aspetto. Di tal segno niuna altra influenza si vide da farne menzione, se altra per più lunghezza di giorni non dimostrasse, se non alcuno secco, che danno fè assai alle terre sottili di nostre montagne per tutto nostro paese. CAP. XXXII. _Dimostramento di smisurato amore di padre a figliuolo._ E’ ne parrebbe degno di riprensione lasciando in dimenticanza un caso occorso in questo tempo, perchè ci pare esempio di mirabile carità intra padre e figliuolo, ed e’ converso, tutto che apparito sia in uomini di bassa condizione. Nel contado di Firenze e comune della Scarperia, villa di santa Agata, uno garzoncello nome Iacopo di Piero, sprovvedutamente uccise un suo compagno, e ciò fatto, lo manifestò al padre, il qual turbato gli disse, che subito si partisse, e si riducesse in luogo salvo, e così fece. Il malifizio fu portato alla signoria, e incolpato e preso ne fu il padre del garzone, il quale tormentato, per non accusare il figliuolo confessò sè avere commesso il peccato all’uficiale della Scarperia, e mandato a Firenze al podestà, confessando questo medesimo e raffermando, fu condannato nel capo. Il figliuolo, che segretamente era venuto a Firenze per vedere che fine avesse, vedendo il padre innocente andare a morire per lo difetto suo, mosso da smisurato amore da figliuolo a padre, diliberato di morire perchè il padre campasse, il quale liberamente vedea andare alla morte per campare lui, con molte lagrime si rappresentò alla signoria, dicendo: Io sono veramente colui che commessi il peccato; io sono colui che ne debbo portare la pena, e non per me questo mio padre innocente, che è tanto acceso di carità verso di me perchè io campi, che soffera di morire per me. L’uficiale udito il garzone, quasi stupefatto ritenne e sostenne l’esecuzione che si facea del padre, e trovato la verità del fatto, il padre fu liberato, e il figliuolo, per la necessità della corte, a dì 6 di marzo con pietose lagrime a chiunque l’udirono o vidono fu decapitato. E certo se stato fosse commesso il malificio senza malizia e casualmente, tanto atto di pietà a un benigno signore credere si dee ch’arebbe meritato perdono almeno della vita. CAP. XXXIII. _Contrario esempio d’incredibile crudeltà di madre._ Avvegnachè quello che segue appresso alla narrata pietà di padre e figliuolo dopo i sei mesi occorresse, per collazione del bene col male, volendo operare la sfrenata lussuria operatrice d’incredibile crudeltà di madre contra figliuolo, contra la forma di nostro ordine giugneremo i tempi lontani. All’entrata d’agosto detto anno, nella città di Perugia, una donna di legnaggio non basso avendo avuto d’un onorevole popolano suo marito un figliuolo di buono aspetto, morto il padre, dopo certo tempo la donna giovane si rimaritò a un altro cittadino dabbene, il quale amava il figliastro quanto che figliuolo, sì per l’ubbidienza, sì per l’industria, sì per li buoni costumi vedea in lui, il quale era d’età di dieci anni. La madre per disordinata concupiscenza fu presa dell’amore d’un altro giovane perugino assai accorto e dabbene, e lui pensò d’avere per marito, e godersi con lui e sua dote, ch’era grande, e l’eredità del figliuolo, ch’era maggiore, e altro successore non avea che lei. E con l’adultero tenuto trattato diedono certo ordine alla morte del figliuolo, che lo dovea la notte strangolare, ed ella dovea avvelenare il marito; e dato l’ordine, la madre empia mandò il figliuolo a casa l’amico con certe cose, e gli comandò non si partisse da lui se non lo spacciasse; giunto il fanciullo al buono uomo, e datogli quello che gli mandava la madre, con molta purità con istanza gli domandava d’essere spacciato: vedendo l’uomo la semplicità del fanciullo, glie ne venne pietà e cordoglio, e gli disse: Vattene a tua madre, che tempo non è a quello ch’ella vuole. Vedendo la madre tornato il fanciullo si turbò forte, e lo domandò perchè non l’avea spacciato, e il fanciullo le fè la risposta. La sfacciata meretrice rimandò il figliuolo, e gli comandò, che non tornasse a lei, ma tanto stesse, ch’egli fosse spacciato di ciò che ragionato avea con lui. Il fanciullo ubbidiente alla madre tornò all’amico di lei, e con molte preghiere lo richiedea, che fare dovesse quello che la madre gli avea imposto; ed egli molto più intenerito, quasi lacrimando gli disse: Di’ a tua madre, che non istia a mia fidanza, ch’io nol voglio fare: e il figliuolo tornato alla crudelissima madre le disse quello che gli era stato detto. La bestiale scellerata ciò udito, in esso stante comandò al figliuolo ch’andasse nella cella, ed ella gli tenne dietro, dicendo: Quello che non ha voluto fare egli farò io; e con le diaboliche mani segò la gola al figliuolo, e quivi lo lasciò morto. Poco il marito tornò in casa, e domandò la madre del figliuolo: la donna presa l’astuzia del serpente con fronte audace gli rispose: Ben lo sai tu, va’ nella cella e vedrailo. Il marito ignorante e puro scese al luogo, e trovò il fanciullo morto, il perchè e’ venne meno, e forte sbaì, e perdè la favella: la moglie lo serrò dentro, e levato il pianto, traendo guai incominciò a gridare, e dire, che il traditore del marito le avea morto il figliuolo per godere la sua eredità; e tratta la vicinanza a romore, ella squarciandosi il viso e’ capelli mai non lasciò aprire l’uscio della cella infino che la famiglia della signoria non venne, la quale apersono l’uscio, e trovarono il malificio, e a furore ne menarono il marito, il quale tormentato confessò sè aver fatto il malificio, e la cagione per godere l’eredità del figliastro. E apparecchiandosi la signoria a farne aspra giustizia, all’amico della pessima donna venne compassione di tanto male, e del sangue innocente sparto e che spargere si dovea, e del fallo suo presa sicurtà da’ signori manifestò la verità del fatto, e la donna venuta in giudicio, senza alcuno tormento confessò la sua iniquitade, e condannata alla tanaglia, e più a esserle levate le carni a pezzo con i rasoi, fece terribile esempio all’altre. Questo peccato tanto enorme forse meritava silenzio di penna, per l’orrore d’udire tra’ cristiani sì alto e sì sfacciato male, conchiudendolo con un verso di Giovenale poeta, che dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter audent, parlando delle femmine che da sè hanno scacciata la pudicizia e la vergogna, il quale in volgare suona: Forte animo prestano alle cose che sozzamente ardiscono di fare. CAP. XXXIV. _Delle compagnie ch’entrarono in Provenza per conturbare i paesani e la corte di Roma._ Avvegnachè grave cosa fosse alla corte di Roma la presura che una compagnia avea fatto di Santo Spirito sul Rodano di sopra a Avignone otto leghe, nondimeno altre compagnie sommosse di Guascogna del reame di Francia del mese di gennaio, febbraio e marzo, fuggendo la pace, la carestia e la mortalità, in poco tempo l’una appresso l’altra vennono in Provenza; e l’una che si nomava la Compagnia bianca, venne appresso a Avignone a trenta miglia, e teneva mercato d’avere danari dal papa, e di levare quella di Santo Spirito, che per cagione ch’avea il Rodano di sopra in sua signoria gravava la corte, non lasciando uscire la vittuaglia di Borgogna; e appresso un’altra di Guascogna e di Spagna partita dalla guerra di quello di Focì e d’Armignacca, che lungamente aveano accolta gente per guerreggiare insieme. Per questa tempesta che conturbava i paesi d’intorno e il papa e i cardinali erano in grave travaglio, e la corte il dì e la notte sotto l’arme, e con molte gravezze di fortificare la città di muri, di fossi, e di steccati, e di cittadinesca guardia, e lo re di Francia non avea podere di liberare le sue terre dalle loro mani non che d’aiutare la Chiesa: e in queste tribolazioni stette Avignone come assediata lungamente, e non vi si potea entrare nè uscire con sicurtà, e l’arti, e’ mestieri, e le mercatanzie tutte v’erano perdute, e la carestia d’ogni bene vi montò in sommo grado. Il papa richiese Franceschi, Provenzali, Guasconi e Catalani che lo atassono dalle compagnie; catuno chiedeva danari per fare l’impresa, e la Chiesa non si fidava d’accogliervi più gente d’arme che v’avesse: e così in tribolazione grande stette lungamente, infino che per operazione del marchese di Monferrato col danaio della Chiesa, come al tempo innanzi diviseremo, vi si mise rimedio. Daremo ora sosta a queste compagnie e a’ fatti della corte, per ritornare all’altre novità che in questo tempo occorsono alla nostra città di Firenze. CAP. XXXV. _Come per comperare gli onori del comune alquanti che li venderono ne furono condannati_ Rade volte occorse che i cittadini sieno condannati per baratteria, non perchè sovente non caggino in tale errore, ma per la negligenza de’ rettori, che passano il vizio a chiusi occhi: e perchè l’eccesso che scrivemo fu tanto palese a tutti i cittadini, il rettore a cui la cognizione s’appartenea di ciò non potè senza sua evidente vergogna passare non ne conoscesse. Dalla morte di Carlo duca di Calavria in qua, per ordinazione e costume di nostro comune osservata, e che è di tre anni in tre anni, del mese di gennaio e di febbraio si fa lo squittino solenne de’ cittadini degni dell’onore del comune, sì del priorato come de’ dodici, e gonfalonieri ed altri ufici. Avvenne nel 1360, che certi de’ collegi per danari trassono a essere del numero degli squittinatori certi pochi degni per loro antichità o virtù, il perchè finito lo squittino, e scoperta la cattività, tali de’ collegi trovarono colpevoli dall’esecutore degli ordinamenti della giustizia furono condannati per baratteria, chi in libbre duemila, e chi in mille, e pur tale pena puose freno al disonesto peccato. CAP. XXXVI. _Come i fatti di Francia verso il primo tempo procedeano._ Tornato il re di Francia, trovò il reame assai rotto e mal disposto, e poco era ubbidito, e da sè nullo vigore avea di potere riducere le cose al consueto e primo loro corso, e gastigare non potea chi fallasse, e per questo gli uomini d’arme s’accostarono insieme a contristare le provincie del reame: e intra l’altre tribolazioni, nel pieno del verno, la contessa la quale fu moglie del sire di Ricorti, a cui lo re di Francia avea fatto tagliare la testa quando tornò per ricomperarsi dal re d’Inghilterra, ch’era suo prigione, preso cuore e animo virile fece raccolta di Spagnuoli, di Guasconi, e di Normandi, e dicea di volere dal re ammenda; e certo assai di male e dammaggio avrebbono fatto al reame, se la fame che strignea il paese non l’avesse vietato: questa poi con grossa compagnia trascorse in Proenza, la quale compagnia poi passò in Lombardia. Il conte d’Armignacca e quello di Focì manteneano guerra in Tolosana e nelle loro terre, l’uno contro all’altro, il perchè troppo ne conturbavano il reame; il re reprimere non potea i falli de’ suoi baroni, nè porre ordine in suo reame. CAP. XXXVII. _Come fu guasta la bastita che ’l cardinale di Spagna facea fare in sul canale della Pegola._ Nell’entrata di marzo del detto anno, il legato per tenere sicuro il cammino e ’l canale dalla Pegola a Bologna facea fare con grande studio una bastita in sul canale, ed era quasi che compiuta. I cavalieri di messer Bernabò ch’erano in Lugo, intorno di ottocento barbute, una notte si mossono, e vennono alla bastita, e sì improvviso a coloro che la guardavano che vi entrarono dentro, e mortine assai il resto presono, e rubato quella parte stimarono di portarne il resto arsono con la bastita, e senza contasto alcuno della preda, e’ prigioni ne menarono a Lugo. Della qual cosa a’ Bolognesi parve rimanere in male stato, per tema che quel cammino non fosse loro tolto, e per tal tema costretti rimisono mano a rifare la detta bastita, e a custodirla con più cauta e sollecita guardia, e poco appresso l’ebbono fatta e afforzata per modo non ne temeano. Lasceremo alquanto le tempeste de’ cristiani, per dar luogo un poco a quelle degl’infedeli che apparirono in questi tempi. CAP. XXXVIII. _Della grande pestilenza che percosse i saracini._ In questo anno pestilenza di febbri fu in Damasco e al Cairo tanto fuori di modo, che senza niuno riparo quasi generalmente ogni gente uccidea; il perchè si credette, che le provincie di là rimanessono disolate e senza abitatore, e se guari tempo fosse durata avvenia. I morti furono tanti, che stimare numero certo o vicino non si potè. La cagione onde mosse, a Dio solo, o cui lo rivela, è manifesta. La naturale necessità, la quale surge dall’influenza de’ cieli e delle stelle, dà luogo alla necessità soluta, che procede dalla sua volontà. CAP. XXXIX. _Come fu morto il soldano di Babilonia, e rifattone un altro, il quale uccise molti de’ suoi baroni._ Avvenne innanzi poco a questa mortalità, ch’essendo il soldano di Babilonia uscito a campo contro a quelli che rubellati gli s’erano, i baroni che con lui erano, qual cosa si fosse la cagione, s’intesono insieme alla morte sua, ed egli non prendendosi guardia di loro nel campo l’uccisono, e tornarsene al Cairo, e quivi un suo fratello feciono soldano; il quale presa la signoria, e confermato nel regno, non seguendo la volontà de’ suoi ammiragli, sentì che contro a lui s’erano congiurati per farlo morire, onde esso si provvedea di buona guardia, e niente mostrava di sentire contro a loro, ma l’un dì trovava cagione contra l’uno, e facealo morire, e l’altro dì contra l’altro facea il simile, e per questa via in pochi mesi la maggior parte fece morire, e nella fine la volta toccò a lui, e morto fu per le mani de’ suoi ammiragli del mese di febbraio detto anno, e feciono soldano un suo fratello piccolo, e rimaso di dodici l’ultimo, perchè non si potea traslatare il regno in altri senza gran confusione di tutti i sudditi suoi. CAP. XL. _Come un signore de’ Turchi trattò di fare uccidere l’imperadore di Costantinopoli._ Lo signore di Boccadave possente tra i Turchi, ed ai Greci vicino, avendo molte volte tentato con palese guerra di vincere Costantinopoli, e non ne possendo avere suo intendimento, cercò con doni larghi e con impromesse grandi fatte a certi Greci costantinopoletani, i quali erano della setta di Mega Domestico cacciati dall’imperadore, a modo tirannesco di farlo uccidere, pensando che morto lui per la inimicizia ch’avea nella provincia, e per molte terre ch’avea acquistate sopra l’imperio, d’essere del tutto signore; ma come piacque a Dio si scoperse il trattato, e quale de’ traditori fuggì, e quale rimase o preso o morto, ma non di manco la città ne rimase in mala disposizione. Il Turco nondimeno tenendo Gallipoli e altre terre vicine, con suoi legni in mare e con i suoi Turchi per terra tribolava e consumava il paese, senza trovarsi per i Greci alcun riparo fuori che delle mura. E in questi medesimi giorni il signore d’Altoluogo in Turchia si guerreggiava con un suo zio, e l’altro signore della Palata si guerreggiava col fratello; e portante guerre e divisioni de’ Turchi i paesi loro erano rotti e in grande tribolazione, e per questa cagione i Greci aveano minore persecuzione da loro; e più ciò fu materia al re di Cipro di fare l’impresa sopra loro con onore e vittoria grande, come a suo tempo racconteremo. CAP. XLI. _Come il legato si partì di Bologna per andare al re d’Ungheria._ Tornando alle italiane fortune, il legato di Spagna, uomo savissimo e pratico delle mondane volture, vedendosi per allora e a tempo senza potenza da resistere a messer Bernabò, e povero di danari, e veggendo la poca gente d’arme ch’avea alla difesa, conoscendo che il tiranno suo avversario era di sue entrate abbondante, e di quello che gravava i sudditi suoi, il perchè non si curava di mantenere la guerra, e per continovare la guerra gli parea essere certo di vincere Bologna, e perciò mantenea a Castelfranco e a Priemilcuore, a Pimaccio, e a Lugo tanta gente a cavallo e a piè, che con le loro cavalcate teneano sì assediata Bologna di verso la Lombardia e la Romagna, che poca roba vi potea dentro entrare, e di verso l’Alpe facea agli Ubaldini rompere le strade, perchè al legato ne parea essere a mal partito, e a’ cittadini a peggiore: e vedendo ch’a petizione di santa Chiesa niuno tiranno, comune o signore italiano si volea scoprire ad atare Bologna contro a messer Bernabò, avendo la Chiesa lungamente trattato col re d’Ungheria, il quale s’affermava che farebbe l’impresa con la persona, al primo tempo parve al legato d’uscire di Bologna sotto scusa d’andare a lui, e nel vero e’ non si fidava potervi stare con suo onore, nè senza grave pericolo. E però contro la volontà de’ cittadini prese d’andare al re, promettendo di tornarvi del mese di maggio prossimo, e a dì 17 di marzo se ne partì facendo la via d’Ancona, e là soggiornato alquanto mandò al re d’Ungheria, come seguendo nostro trattato diviseremo. In Bologna lasciò messer Malatesta e messer Galeotto suo figliuolo capitani de’ soldati e de’ cittadini alla guardia. CAP. XLII. _Della ribellione fatta per messer Giovanni di messer Riccardo Manfredi al legato._ Isidoro nelle sue etimologie afferma, che per la differenza e natura varia de’ climati i Greci per natura sono lievi, i Romani gravi, gli Affricani astuti e maliziosi, e gl’Italiani feroci e d’agro consiglio. Questo vedemo nella piccola provincia di Toscana, dove sono i Sanesi reputati lievi per natura, i Pisani astuti e maliziosi, i Perugini feroci e d’agro consiglio, i Fiorentini gravi, tardi, e concitati, e così per natura i Romagnuoli hanno corta la fede: e pertanto per antico proverbio si dice, che il Romagnuolo porta la fede in grembo: e però non è da maravigliare quando i tiranni di Romagna mancano di fede, conciosiachè sieno tiranni e Romagnuoli: i tiranni per paura di loro stato, e cupidi ancora di più signoria, usano e fanno arte di tradimenti. Messer Giovanni figliuolo naturale di messer Manfredi di Faenza avendo pace col legato, vide suo vantaggio per le promesse di messer Bernabò, e rubellossi alla Chiesa, e cominciò a fare guerra e da Bagnacavallo, e da Salervolo, e da altre sue tenute a Faenza e ad altre terre della Chiesa di Romagna, e avuta cavalieri da messer Bernabò ch’erano a Lugo, cavalcò a Porto Cesenatico, dove trovò molta mercatanzia, le case arse e ’l porto, e la mercatanzia e grossa e sottile e’ prigioni ne menarono in preda, e in quel porto peggiorò i cittadini di Firenze oltre a dodicimila fiorini d’oro di loro mercatanzie, e senza impedimento alcuno si tornò a Bagnacavallo. Per questa rebellione i suoi palagi di Faenza furono disfatti. CAP. XLIII. _Come il marchese di Monferrato trasse delle compagnie da Avignone per conducere in Piemonte._ Essendo lungamente la Provenza di là dal Rodano, e ’l Venisì, e la Provenza di qua dal Rodano, e la corte di Roma stata in grandissime persecuzioni delle compagnie addietro narrate, e tenuto il papa con loro per le mani di più baroni trattati di trarli del paese senza avere effetto, in fine il valente marchese di Monferrato, per la guerra ch’avea co’ signori di Milano, essendo molto amato dai buoni uomini d’arme, e favoreggiato co’ danari della Chiesa, in prima s’accordò con la compagnia ch’era a’ Mongiulieri, Inghilesi, Guasconi e Normandi, con la donna del siri di Ricorti: ed avendo fatto questo accordo del mese di marzo, non tennono il patto, ma sotto la sicurtà del trattato passarono il Rodano, e mutarono pastura; e un’altra maggiore compagnia valicò nel Venisì, e consumando il paese infino al maggio. Cominciata la fame e la mortalità in quelle provincie, la compagnia di Santo Spirito, avuto dal papa trentamila fiorini con patto di seguire il marchese lasciata la terra, e l’altra che ’l marchese con danari della Chiesa avea prima patteggiata s’accozzarono a volere passare in Piemonte, e non meno per fuggire la pestilenza e ’l paese, che per servire la Chiesa e il marchese, con tutto che più di centomila fiorini costasse al papa la spesa di levarlisi d’intorno. E spandendosi di ciò la boce per la Provenza, una gran parte se n’avviò a Marsilia, e credendosi entrare nella terra e non potendo, e non avendo da’ Marsiliesi il mercato, arsono i borghi della città, e feciono assai danno nel paese, e poi s’addirizzarono verso Nizza, e a parte a parte valicarono seguendo il marchese nel Piemonte, non senza grave danno de’ Provenzali. E nondimeno essendo di Provenza partiti da seimila cavalli, ne rimasono due altre compagnie, una di quà una di là dal Rodano, lungamente a vivere di preda e di rapina sopra i paesani, e teneano la corte in paura e in travaglio. Lasceremo delle compagnie, e torneremo ad altre più degne cose di nostra memoria. CAP. XLIV. _Della morte del duca di Lancastro cugino del re d’Inghilterra._ Egli è strano al nostro trattato fare memoria della naturale morte d’uomo, ma considerando l’altezza della superbia umana con la fragilità di quella recata alla mente degli uomini, non può passare senza alcuno frutto. Il conte d’Aui duca di Lancastro, cugino carnale del valente re Adoardo d’Inghilterra, avendo lungo tempo fatte grandi e notevoli cose d’arme, essendo sopra i Franceschi stato venticinque anni grave flagello, e riposata la guerra in pace con grande sua fama e onore, a dì 22 del mese di marzo gli anni Domini 1360 lasciò l’arroganze delle guerre, e le fallaci fatiche del mondo con la sua morte, lasciando senza ereda maschio due figliuole femmine ne’ suoi baronaggi. CAP. XLV. _Come riuscì l’impresa del re d’Ungheria, dove la speranza del legato di Spagna si riposava._ La Chiesa avea richiesto il re d’Ungheria al soccorso di Bologna, ed il re avea dato speranza alla Chiesa di fare l’impresa con la sua persona, e mandati però suoi ambasciadori a corte per fermare i patti, de’ quali per diversi modi si sparse la fama in Italia, in prima che dovea avere titolo dalla Chiesa e dall’imperio, e danari assai dal papa, che le terre ch’acquistasse fossono sue: l’altra boce era, che ’l papa il dovesse assolvere del saramento si dicea ch’avea fatto di fare il passaggio d’oltremare, e che dovea dispensare che la moglie, la quale apparve per infino a qui sterile, si rinchiudesse in un munistero di sua volontà, ch’egli potesse avere anche un’altra moglie, acciocchè ’l reame non rimanesse senza successione di sua generazione, e che di questo il legato avea dal papa piena legazione: verisimile e non senza grande cagione il legato andò a lui in Sagravia del mese di maggio del detto anno. Il re in quei giorni avea fatto bandire generale oste per tutto suo reame, per titolo di porre confini al suo regno, per lo quale tutti i baroni e popoli lo debbono servire, e credettesi che ciò fosse per intendere al servigio della Chiesa; ma come che la cosa s’andasse gli ambasciadori di messer Bernabò erano a lui, e ricevuti avea doni da parte di messer Bernabò. E però, o perchè non avesse dalla Chiesa quello che volesse, o avesse promesso al tiranno di non venire contro a lui, la vista fu ch’egli intendea d’andare con la sua gente per l’oste già bandita in altra parte; e quello che rispondesse al legato non si potè per parole comprendere, ma l’effetto si dimostrò per opere, che senza alcuno aiuto il legato del detto mese di maggio si ritornò ad Ancona, perduta la speranza del soccorso di Bologna, in grave pericolo di quella città, cresciuta la baldanza e l’oste dei suoi avversari. CAP. XLVI. _Della pestilenza dell’anguinaia ricominciata in diversi paesi del mondo, e di sua operazione._ In Inghilterra d’aprile e di maggio si cominciò, e seguitò di giugno e più innanzi, la pestilenza dell’anguinaia usata, e fuvvi tale e tanta, che nella città di Londra il dì di san Giovanni e il seguente morirono più di milledugento cristiani, e in prima e poi per tutta l’isola. Gran fracasso fece per simile nel reame di Francia; nella Provenza trafisse ogni maniera di gente. Avignone corruppe in forma che non vi campava persona: morironvi nove cardinali, e più di settanta prelati e gran cherici, e popolo innumerabile. E di maggio e giugno si stese e percosse la Lombardia, e prima Como e Pavia, con tanta roina, che quasi le recò in desolazione. In Milano mise il capo, dove altra volta non era stata, e tirò a terra il popolo quasi affatto, con grande orrore e spavento di chi rimanea. Vinegia toccò in più riprese, e tolsele oltre a ventimila viventi. La Romagna oppressò forte e assai quasi per tutte sue terre, ma più l’una che l’altra, e nell’entrata del verno cominciò a restare in Lombardia, e a gravare la Marca, e la città d’Agobbio forte premette. L’isola della Maiolica perdè oltre alle tre parti degli abitanti. Nè lasciò l’Alpi degli Ubaldini senza macolo per molti de’ luoghi suoi. E molti paesi del mondo in uno tempo erano di questa pestilenza corrotti, nè già quelli a cui parea che Dio perdonasse non ritornavano a lui per contrizione, partendosi dalle iniquitadi e dalle prave operazioni ostinate, e come le bestie del macello, veggendo l’altre nelle mani del beccaio col coltello svenare, saltavano liete nella pastura, quasi come a loro non dovesse toccare, ma più dimenticando gli uomini il giudicio divino si davano sfacciatamente alle rapine, alle guerre, e al mantenere compagnie contra ogni uomo, alle ingiurie de’ prossimi, e alla dissoluta vita, e a’ mali guadagni assai più che negli altri tempi, corrompendo la speranza della misericordia di Dio per lo male ingegno delle perverse menti; e ciò per manifesta sperienza si vide in tutte le parti del mondo dove la detta pestilenza mostrò il giudicio di Dio. CAP. XLVII. _Come per la fama delle compagnie che scendevano in Piemonte i signori di Milano si provvidono alla difesa._ Messer Galeazzo Visconti sentendo che il marchese di Monferrato venia in Piemonte con le compagnie tratte di Provenza del mese d’aprile del detto anno, e sapendo ch’ell’erano per poco tempo provvedute di soldi, e che già la mortalità era tra loro, e cominciata nel Piemonte, provvide di gente d’arme tutte le sue terre e le loro frontiere per fare buona guardia, e sostenere l’impeto de’ nemici, senza mettersi a partito di battaglia; e però messer Bernabò ritrasse della gente ch’avea a Lugo e a Castelfranco sopra Bologna la maggiore parte per dare favore al fratello, pensando straccare quella gente, come in parte venne loro fatto, con piccolo danno di loro distretto, come appresso si potrà nel suo tempo vedere. Nondimeno tra per lo riparo del Piemonte, e del fare la guerra a Bologna, continovo si fornivano di gente d’arme, non curandosi della grande spesa, perocchè bene la poteano comportare a quella stagione. CAP. XLVIII. _Come messer Bernabò venne sopra Bologna, e assediò e prese Pimaccio._ All’uscita del mese d’aprile del detto anno, messer Bernabò accolse gente, li più cittadini di sue terre, e con duemila cavalieri in persona venne da Milano a Castelfranco dov’era il forte di sua gente, e di nuovo fece combattere il castello di Pimaccio per due riprese, e appresso il fece assediare intorno, e a dì 9 di maggio per patto ebbe la terra, e la rocca si tenne. Di là poi si partì lasciando fornita la terra, e la rocca assediata, e con la gente sua cavalcò a Panicale presso di Bologna facendo danno assai; e del detto mese di maggio ebbe la rocca di Pimaccio, e andossene a Lugo, e l’accomandò a messer Francesco degli Ordelaffi, e diegli gente d’arme, con che egli guerreggiasse Bologna da quella parte e la Romagna; e fornite l’altre terre, e confortati gli amici suoi a fare guerra, e lasciato il marchese Francesco al ponte del Reno a campo, con milledugento cavalieri si tornò a Milano, e la sua gente ebbe fatta forte e ben guernita di tutto all’entrata di giugno la bastita dal ponte del Reno. CAP. XLIX. _Come il legato procurava aiuto contro messer Bernabò._ Il legato del papa, tornato senza niuna speranza d’aiuto dal re d’Ungheria, pur tanto s’aoperò, che ’l detto re scrisse e fece comandamento agli Ungheri ch’erano al servigio di messer Bernabò, che se ne partissono, e assai furono quelli che l’ubbidirono. Anche tanto operò con l’imperadore, che egli mandò comandando a messer Bernabò che si dovesse rimanere di fare guerra contro la Chiesa a Bologna, e quegli che fè il detto comandamento fu messer Giovanni da.... ed assegnogli termine infra i venti dì seguenti, com’era determinato per l’imperadore, e se questo non facesse fra il termine gli significò, com’egli il privava d’ogni onore, e dignità e privilegio che avesse dall’imperio; ma per tutto questo messer Bernabò non si rimanea dell’impresa, ma a suo potere continuo fortificava la guerra, dicendo: Io voglio Bologna mi. E questo fu del mese di maggio a’ 12 dì del detto anno. E in questo medesimo tempo per apostolica sentenza messer Bernabò fu condannato per eretico e contumace a santa Chiesa, e per tutta Italia in dì solenni fu da’ prelati scomunicato in presenza de’ popoli, ma di questo poco si curò, sollecitando per ogni modo pure di volere Bologna. CAP. L. _Come la compagnia d’Anichino di Bongardo ch’era nel Regno si rassottigliò e venne al niente._ Del mese d’aprile erano nella compagnia d’Anichino di Bongardo in Puglia gli Ungari tanto moltiplicati, che passavano il numero di tremila. Il re loro avendo di questo sentore loro mandò comandando, che non fossono contro i suoi consorti, per la qual cosa s’accordarono col re Luigi una gran parte, e partironsi dalla compagnia de’ Tedeschi, e promisono di dare vinta o cacciata la compagnia del Regno per trentasei migliaia di fiorini d’oro, de’ quali si convennono col re: e seguitando il gran siniscalco ridussono Anichino co’ suoi Tedeschi in Basilicata, e ridussonli in Atella terra tolta per loro al duca di Durazzo, e ivi li assediarono, stando d’intorno alle frontiere; e durando il giuoco lungamente, molti se ne tornarono nella Marca e nella Romagna, e gli altri rimasono al servigio del re, e senza cacciare o vincere la compagnia catuno consumava i paesani. CAP. LI. _Come i Sanesi ebbono Santafiore._ In questi dì, del mese di maggio del detto anno, i Sanesi avendo molto assottigliati e annullati i conti di Santafiore, in fine di questo mese medesimo ebbono Santafiore a patti. CAP. LII. _Come i Fiorentini comperarono il castello di Cerbaia._ Il comune di Firenze avea dato bando a Niccolò d’Aghinolfo de’ conti Alberti conte di Cerbaia perchè avea morto un popolare di Firenze; e vedendo che la Cerbaia era una chiave forte alla guardia del suo contado da quella parte, gli venne voglia d’avere quel castello, e fece trattato di comperarlo; il conte per uscire di bando, ed essere cittadino popolano di Firenze, e considerando che a tenere quella fortezza gli era non meno di spesa che d’entrata, e sempre ne vivea in gelosia, ne domandò per prezzo fiorini settemila d’oro, e ’l comune si fermò a sei, e ’l conte non vi si volle arrecare, e però si mise alla difesa, ed il comune, come contro a suo sbandito, a dì 21 di maggio vi pose l’assedio. Il conte vedendosi ribellato il fratello carnale, e collegato co’ Fiorentini e fattosi loro accomandato, vedendosi mal parato, l’ultimo dì di maggio diede il castello liberamente a’ Fiorentini, e rimisesi alla misericordia del comune: il comune lo ribandì, e fecelo suo popolare, e per via di diritta compera solennemente fattone le carte per ser Piero di ser Grifo notaio delle riformagioni, glie ne diè contanti fiorini seimiladugento d’oro, e fu descritto il castello di Cerbaia in possessione e contado del comune di Firenze, e tutti i fedeli dalla fedeltà furono liberati, e fatti contadini di Firenze. CAP. LIII. _Come il capitano già di Forlì, e messer Giovanni Manfredi si puosono tra Imola e Faenza._ Come messer Francesco Ordelaffi fu fatto capitano di messer Bernabò, e messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi collegato con lui s’intesono insieme, e puosonsi a campo tra Imola e Faenza per attendere l’avvenimento di quello ch’aveano trattato con uno più stretto e confidente famiglio ch’avesse messer Ramberto signore d’Imola, il quale per grandi promesse ricevute avea promesso d’uccidere il suo signore, ma come a Dio piacque il trattato si scoperse, e il famiglio fu preso, e negli occhi de’ nemici impiccato a’ merli delle mura della città; e incontanente l’oste ch’attendea l’omicidio si partì e tornò a Lugo: e poco appresso del detto mese di maggio cavalcarono sopra Forlì, e guastarono e predarono intorno e nel paese quello che poterono senza trovare contasto. CAP. LIV. _D’un gran fuoco che s’apprese nella città di Bruggia._ In questo mese di maggio del detto anno, nella città di Bruggia in Fiandra s’apprese il fuoco in alcuna casa, il quale cominciò ad ardere quelle ch’erano vicine, e a forte a montare con l’aiuto del vento, e delle case di legname ch’erano atte e disposte a riceverlo, e avvalorò per sì fatto modo, che niuno rimedio mettere vi si potea per operazione o ingegno d’uomini, che nella città non consumasse oltre a quattromila case, con grandissimo danno de’ cittadini: e in questi giorni medesimi il fuoco gran danno fece nella villa di Ganto e di Melina in Brabante. CAP. LV. _Delle compagnie d’oltramonti._ Appare che la penna non si possa passare senza fare memoria delle compagnie, che maravigliosa cosa è il vederne e udirne tante creare l’una appresso dell’altra in flagello de’ cristiani, poco osservatori di loro legge o fede. La moglie che fu del siri di Ricorti accolse da millecinquecento cavalieri di diverse lingue per volere fare guerra in suo paese, poi fu tirata dalla compagnia, e in persona con la sua gente venne in servigio della Chiesa e del marchese di Monferrato in Piemonte, e quivi lasciò con gli altri la sua compagnia a guerreggiare. E appresso a questa scese in Provenza un’altra gran compagnia d’Inghilesi, Guasconi e Normandi, e un’altra se n’adunò in questi tempi medesimi presso Avignone di Spagnuoli, Navarresi e altra gente, e questa venne sopra la città d’Arli, e corse voce che venia a petizione del Delfino, che si dicea che volea essere re d’Arli, ma non fu vero, per loro procaccio venne la compagnia, e una seguiva il Petetto Meschino Alvernazzo, che poi crebbe, e fece grave danno al re di Francia. Il paese di Provenza di là da Rodano e di qua, e ’l Venisì e la corte di Roma ne stava in continova tribolazione. CAP. LVI. _Come Francesco Ordelaffi si levò da Forlì, e andonne a oste a Rimini._ Essendo Francesco Ordelaffi stato d’intorno a Forlì, e fatto il guasto come a lui piacque, del mese di giugno del detto anno si levò da Forlì, e con duemila barbute e cinquecento Ungari si puose presso alle porti di Rimini, e fermò il campo a Santa Giustina, ardendo e guastando le ville d’intorno, e facendo gran preda, e poi si rivolse dall’altra parte e valicò il fiume, e cavalcò infino agli antiporti di Rimini, e tutto menò a fiamma il paese, facendo oltraggio e onta a’ Malatesti volontariamente, senza trovare chi gli facesse resistenza alcuna. CAP. LVII. _Come i Fiorentini manteneano Bologna per la strada dell’Alpe._ I Fiorentini erano stati molto sollecitati dal legato, poichè perdè la speranza del re d’Ungheria, che prendessono la difesa di Bologna, e non pure il legato, ma i signori di Lombardia, e i guelfi di Romagna e della Marca continovamente per loro segreti ambasciadori glie ne sollecitavano, mostrando che Bologna non potea più durare, che convenia che venisse alle mani di messer Bernabò, perocchè ’l suo contado era tutto consumato, e in podere de’ nemici infino alle porte d’ogni lato. E mostravano, come che venuta ella fosse a messer Bernabò, che Firenze sarebbe in pericolo, e male da potersi difendere da lui, allegando il verso di Orazio, il quale dice: Nam tua res agitur, paries cum proximus ardet: in volgare suona: Quando il pariete prossimo a te arde il fatto tuo si fa: soggiugnendo, che la pace e la guerra stanno nella volontà del potente tiranno, che ben sa a tempo con trovare le cagioni; per la qual cosa molte volte ne fu grande controversia intra i nostri cittadini ne’ segreti consigli, ma al tutto si sostenne che si mantenesse la pace promessa fedelmente, non ostante il pericolo che se ne stimava, e ancora l’autorità di santa Chiesa, che d’ogni cosa liberava con giustizia il nostro comune. È vero che per i discreti cittadini si stimava, che fatta l’impresa tutto il carico sarebbe lasciato a’ Fiorentini, e non potendola i Fiorentini liberare, cadevano in maggiore pericolo, consumato l’avere alla loro difesa: non dimeno per savio e diritto consiglio, non facendo contro a’ capitoli e ordine della pace, il comune intese con sollecitudine a sostenere la vita a’ cittadini di Bologna aprendo la strada dell’Alpe, e levando ogni divieto, per la qual cosa tanto grano, biada, olio e carne andavano di continovo in Bologna, ch’ella se ne reggea, e mantenea assai convenevolemente senza grande carestia. E gli Ubaldini non aveano ardire d’impedire i Fiorentini, e i Bolognesi per loro distretto facevano campo a Caburaccio; e per questo modo avendo Bologna perdute tutte le strade e canali, per questa strada si nutricò lungamente. E tanto era l’abbondanza a quel tempo ch’avea il contado di Firenze che poco rincarò ogni cosa, e se questo spaccio non fosse occorso, a niente sarebbe stato il grano e ’l biado e l’olio in quell’anno. Se non fossono nati quattro leoni, due maschi e due femmine, il dì di san Barnaba, passato mi sarei del non iscriverlo. CAP. LVIII. _Come l’oste di messer Bernabò volle rompere la strada da Firenze, e ricevette danno._ Messer Giovanni da Bileggio, valoroso e savio cavaliere milanese, e molto amato da messer Bernabò, era in quel tempo capitano generale della gente del Biscione sopra Bologna e di quella di Romagna, il quale avendo alla città tolte tutte le strade, e vedendo che rimaso non gli era altro sostegno che la strada dell’Alpe che venia a Firenze, si pensò di romperla, e ordinò una cavalcata a Pianoro. Il capitano di Bologna, che era Malatesta Ungaro, sentì il fatto, e mise la notte gente fuori, i quali si misono in aguato, e venendo i nemici uscirono loro addosso, ed ebbono vittoria di quella gente, ch’erano dugento barbute, che pochi ne camparono che non fossono o morti o presi, per la qual cosa il capitano dell’oste prese sdegno, e ordinò di strignersi più alla terra, e di fare correre fino alle porte d’ogni parte, e a mezzo il mese di giugno lasciate fornite l’altre bastite si mise innanzi con l’oste, e puosesi al Ponte maiore in sulla strada tra Bologna e Imola, e ivi fermò il campo presso alla città un miglio. CAP. LIX. _Come fu sconfitto l’oste di messer Bernabò al Ponte a san Ruffello._ Vedendo il capitano messer Giovanni da Bileggio avere recata la città di Bologna a grandi stremi, che rimasa non l’era via d’aiuto altro che la strada da Firenze, avendo animo di trarre quella guerra al suo desiderato fine, sentendo che nella città non avea oltre a trecento uomini d’arme a cavallo, e che ’l capitano che fu di Forlì era sopra d’Arimini, e correa senza contasto con millecinquecento cavalieri tutto il paese, pensò di porre una grossa e forte bastita al Ponte a San Ruffello presso a Bologna in sulla strada da Pianoro, acciocchè al tutto si levasse alla città ogni soccorso, e questo mise in opera, e mossesi con tutta la sua oste, ch’erano più di millecinquecento cavalieri, e duemila masnadieri, e molti altri fedeli degli Ubaldini, e con lui nel vero era tutto il fiore della gente di messer Bernabò, avendo mandati trecento altri cavalieri per scorta alla vittuaglia che venia di verso Ferrara, con grande apparecchio di vittuaglia e d’altro arnese, e a dì 16 di luglio del detto anno si misono per lo fiume della Savena, e senza trovare contasto furono al Ponte a san Ruffello, e quivi fermarono il campo per edificare la bastita, e con grande sollecitudine attendeano a fare i fossi, e conducere il legname d’ogni parte. In questo stante, come fu volontà di Dio, messer Galeotto de’ Malatesti da Rimini, cavaliere di grande ardire e maestro di guerra, avea ricolti in Faenza cinquecento barbute e trecento Ungari per danneggiare la gente di messer Francesco degli Ordelaffi, ch’era sopra Arimini, come detto è, il quale sentendo l’oste da Bologna messa in mal passo, di presente cavalcò a Imola, e da Imola la sera a dì 19 di luglio improvviso a’ nemici cavalcò per modo, ch’alle cinque ore di notte fu a Bologna, non sapendo i Bolognesi alcuna cosa. Messer Malatesta Unghero suo nipote capitano in Bologna il ricevette la notte sì contamente, che i nemici non lo sentirono, nè eziandio i Bolognesi che erano a dormire, pensando fossono gente di guardia, e in quel resto della notte agiarono le persone e’ cavalli come poterono il meglio: la mattina per tempo serrate le porte della città fece assentire a’ cittadini, come volea assalire i nemici, i quali inanimati e confortati dalla grazia la quale Dio mandava loro, tutti di volontà, con piena speranza di vittoria presono l’arme, e gran parte i falcioni in mano, e dato il segno d’uscire fuori al suono della campana della giustizia, la domenica mattina a dì 20 di luglio, ordinate le battaglie, e dato il nome, messer Galeotto col potestà di Bologna, ch’era pro’ e valente cavaliere, e messer Malatesta Ungaro con settecento barbute, e con trecento Ungari, e con quattromila Bolognesi i più bene armati, feciono aprire le porti, e uscirono della terra, e non tennono per la diritta strada, anzi si misono maestrevolmente per lo piano del fiume della Savena onde erano entrati i nemici, acciocchè quindi non potessono tornare, e alcuna parte del popolo misono per le ripe a traverso sopra dove erano i nemici. Il cammino fu corto, sicchè si veddono prima quelli del campo la gente addosso da due parti, che sapessono che gente d’arme fosse venuta in Bologna, nondimeno come uomini esperti in arme e di gran cuore, benché ’l subito caso gli smarrisse, presono ardire e feciono testa, ordinandosi alla battaglia in fretta come poterono il meglio, e di presente misono gente in su un colle sopra il ponte per riparare a quelli che scendevano per la valle; ma vedendo venire quelli della città baldanzosi e con gran cuore, abbandonarono il colle, e tornarsi all’altra oste. Messer Galeotto e i suoi gli assalirono molto arditamente innanzi alla venuta del popolo co’ falcioni, e i nemici francamente gli ricevettono, combattendo con loro aspramente; ma sopraggiugnendo il popolo, e cominciandosi a mescolare tra’ nemici con loro falcioni, dopo lunga difesa gl’invilirono e ruppono, e molti n’uccisono, e perchè erano in parte da non potere fuggire, quasi tutti s’arrenderono a prigioni, che pochi ne camparono. Il podestà di Bologna fu fedito a morte in quella battaglia, e poco appresso morì in Bologna. Trovarsi morti in picciolo spazio di campo dove porre si dovea la bastita quattrocentocinquantasei uomini, i quali tutti furono sotterrati nel fosso che fatto aveano, e per l’altro campo qua e là più d’altrettanti; in tutto numerati furono i morti novecentosettanta, e quattrocento cavalli. I presi furono oltre a milletrecento: a’ forestieri tolte furono l’armi e’ cavalli e lasciati alla fede, che furono più d’ottocento; gl’Italiani furono ritenuti, sì per lo scambiare, sì per porre loro la taglia. De’ caporali fu preso messer Giovanni da Bileggio capitano generale dell’oste, e Guasparre e Giovanni di Nanni da Susinana, e Andrea delle Piaggiuole tutti degli Ubaldini, e più altri; costoro furono rassegnati al legato, e imprigionati in Ancona. La vittuaglia che nell’oste trovarono fu grande quantità, e gli arnesi che presono furono di gran valuta, perocchè molto adorna era la cavalleria e i masnadieri d’arnesi d’argento, d’armadure e robe, e aveano danari assai, e venticinque migliaia di fiorini d’oro ch’erano giunti nel campo per fare la paga a’ soldati. La vittoria fu grande e singolare, che essendo Bologna abbandonata dall’aiuto della Chiesa, dall’imperadore, da’ signori di Lombardia e da’ comuni di Toscana, e posta negli estremi, per occulta via fu liberata, perocchè molti affermarono, e per intendimenti si tenne essere il vero, che veggendo il legato di Spagna, il quale era in Ancona tornato dal re d’Ungheria senza aiuto e senza consiglio, che Bologna era in termine che senza riparo dovea venire nelle mani di messer Bernabò, e per tanto temendo, e non osando di tornare a Bologna per non venire nel cruccio del popolo, o nelle mani del tiranno, che per le sue virtù e grande animo forte l’odiava, stando in forti pensieri, mandò per il vecchio messer Malatesta da Rimini, col quale più giorni stato in segreto sopra i fatti di Bologna, e per loro tirato in considerazione, che la forza del tiranno era tale, alla quale unita resistenza non era, e che messer Giovanni da Bileggio era voglioso al terminare dell’impresa per riportarne l’onore, e gli parea che il suo desiderio ritardasse la strada ch’era aperta a’ Bolognesi di verso Firenze; da questi luoghi il savio messer Malatesta prese il sottile avviso, che fatto gli venne, e con coscienza del legato mandò suo segreto ambasciadore nel campo a messer Giovanni da Bileggio con verisimili argomenti avvisandolo, che nel segreto amico non era del legato per le terre che tolte gli avea, e che di lui fidare non si potea, che venendo nel colmo di quello che appetia non gli togliesse il resto, e che però volentieri attenderebbe ad abbassare il legato e il suo orgoglio; ma perchè il legato gli avea sopra capo il castello di sant’Arcangiolo, non osava levare il dito, nel quale fermava avere trattato per torlo al legato se avesse spalle e forza di gente d’arme, la quale dicea non potere essere meno di millecinquecento barbute: giugnendo al fatto, che come messer Galeotto, ch’era in Bologna con messer Malatesta vicario, fosse da lui avvisato, sotto colore di soccorrere a Rimini, come verso là sentisse cavalcato la gente del signore di Milano, trarrebbe di Bologna tutta la buona gente d’arme, lasciando la trista sott’ombra di guardia della terra, e il simile farebbe dell’altre terre della Chiesa, e che venendo il pensiere ad effetto, come ragionevolmente dovea, esso messer Giovanni liberamente e senza contasto veruno potea porre bastite e rompere la strada fiorentina. A messer Giovanni piacque il trattato, e diede piena fede all’ambasciadore, lettera, suggelli, e carte a lui presentate da parte di messer Malatesta, e di presente elesse capitano di millecinquecento barbute, come detto è di sopra, messer Francesco degli Ordelaffi, e lo fè cavalcare sopra Rimini, come avvisò del tutto messer Galeotto avvisato della baratta di messer Malatesta, onde fè gli atti e le mostre dette di sopra, il perchè ne seguì la sconfitta al ponte a san Ruffello. Non so se più sagace e malizioso trattato s’avesse saputo ordinare Ulisse o il conte Guido da Montefeltro. Cesare non lasciava ragunare la gente di Pompeo, temendo il numero e la bontà de’ cavalieri; costui con astuzia la raunata divise, e indusse il savio capitano in folle impresa, della quale seguì la più notabile sconfitta di morte d’uomini pregiati d’arme che fosse in Italia di nostro ricordo di cento anni addietro. CAP. LX. _Come seguì appresso alla sconfitta di san Ruffello._ I trecento cavalieri che conduceano per loro scorta la vittuaglia nel campo, essendo in sul Bolognese, sentendo la novella della sconfitta abbandonaro la roba, e camparono le persone. Quelli delle bastite le lasciarono prima fossono assaliti, e salvaronsi in Pimaccio, e’ Bolognesi l’arsono, e la roba recarono alla città. Per questa vittoria i Bolognesi alquanto ne stettono in festa e in riposamento: il legato ne prese cuore di potere la città aiutare e sostenere: mostra ne fè, ma poca operazione ne fè in que’ tempi, perocchè sopra modo era la possanza del suo avversario e la volontà pertinace. Messer Bernabò quando questa novella sentì ne mostrò dolore singolare rodendosi dentro a guisa di cane arrabbiato, e vestissene a nero, e molti giorni stette che niuno gli potè parlare. Sentissi che di ciò contro a’ Fiorentini prese grave sdegno, affermando ch’erano cagione del suo danno e vergogna per lo mantenere della strada, ma non se ne scoperse, perocchè tutto che irato fosse ben conosceva che a’ Fiorentini era lecito di così fare senza corruzione di pace. Messer Francesco Ordelaffi come seppe la novella scorse la Marca, e di notte con sua brigata prese il congio per la via della marina, e in ventiquattro ore cavalcò cinquantasei miglia, e con la gente a lui accomandata si ricolse in Lugo. CAP. LXI. _Come messer Bernabò si credette prendere Correggio per trattato, e sua gente vi rimase presa._ L’animo che è insaziabile del tiranno, che sempre è con desiderio di sottomettere i popoli liberi, e gli altri tirannelli che sono minori, tenea messer Bernabò oltre alla presa di Bologna trattato di torre Correggio, nè la gastigatura di san Ruffello l’avea rimosso dal seguirlo; onde all’uscita di giugno detto anno, credendosi avere il castello di Correggio, messer Ghiberto che n’era signore, e da esso aveano il titolo di loro casa e famiglia, sentito il fatto, senza farne mostra procurò aiuto da’ signori di Mantova, i quali segretamente gli mandarono quindici bandiere di cavalieri, i quali di notte entrarono in Correggio: venuta la cavalleria di messer Bernabò nel fare del giorno, come era dato l’ordine, che furono diciassette bandiere, furono lasciati entrare nelle barre che erano davanti al castello, e fatto vista di volerli mettere nella terra, secondo l’ordine dato apersono le porti della terra, e calarono i ponti, e la gente da cavallo ch’era nel castello con molta fanteria si strinsono loro addosso con grandi grida, e rinchiusi tra le barre, e storditi per lo subito e non pensato assalto perderono il cuore alla difesa, e però gli ebbono tutti a prigioni, e guadagnate l’arme e’ cavalli liberaro il castello dall’aguato del tiranno. CAP. LXII. _Dell’armata del re di Cipro, e il conquisto di Setalia e del Candeloro._ Dando alcuna parte agli avvenimenti d’oltremare, lo re di Cipro avendo fatta sua armata, e non sapendo dove si dovesse andare, a dì 24 di luglio 1361 con ventiquattro galee armate, con l’aiuto di tre galee dello Spedale armate di franchi e valorosi frieri, e con altri legni e armati e di carico in numero di cento vele si partì di Cipro, e del mese seguente d’agosto percosse sopra la città di Setalia, la quale era d’un signore di Turchi di gran possanza, e avendo sua gente posta in terra, e combattendo la terra, che avea tre procinti di mura, de’ quali nel primo stavano mercatanti e Giudei, nel secondo i saracini, e nel terzo i Turchi ch’erano signori della terra, ed essendo tutta gente sprovveduta e poco atta alla difesa, il perchè i cristiani entrarono dentro per forza, onde il signore che v’era con poca gente se n’uscì, e la terra fu presa. Ma poco stante il Turco tornò con più di tremila Turchi tra a cavallo e a piè, e senza dubbio arebbe ripresa la terra, se non fosse la provveduta guardia che feciono li frieri, i quali sapendo loro costumi del continovo stavano apparecchiati: e ciò venne a gran bisogno, perocchè ritennono l’empito e subito assalto de’ Turchi, tanto che l’altra gente s’armò, e venne alla difesa. I Turchi veggendo che loro impresa venia stolta, con loro vergogna e dannaggio si partirono. Lo re di Cipro avuta questa vittoria montò in galea, e con sua armata se n’andò al Candeloro, il quale era al governo e signoria d’un altro Turco, il quale senza volere fare difesa s’acconciò con il re, e riconobbe la terra da lui, e li promise certo censo e tributo d’anno in anno: e il re lasciata fornita Setalia si tornò nell’isola di Cipro. CAP. LXIII. _Come i Turchi di Sinopoli assalirono Caffa, e furono vinti da’ Genovesi._ In questa state i Turchi di Sinopoli armarono quattordici galee nel Mare maggiore, e assalirono il Caffa terra e porto di Genovesi, e fecionvi danno assai e per mare e per terra, perchè i Genovesi di ciò non si guardavano; ma tantosto in Caffa e in Pera armarono quattordici galee come in fretta il meglio poterono per seguitare i Turchi nel ritorno che fare doveano a Sinopoli, e trovatili, li seguirono, fuggendo i Turchi, tanto che per forza li feciono dare a terra colle balestra loro, avendone molti e morti e fediti, onde i Turchi per forza costretti furono a disarmare, e disarmati i Turchi, i Genovesi lasciarono in que’ mari due galee armate, e l’altre disarmarono. I Turchi veggendo queste due galee rimase tra loro, di subito cinque n’armarono, e vennono contro quelle de’ Genovesi, le quali cominciarono a fuggire, e’ Turchi a seguitare, tanto che essi si trovarono insieme in alto mare. Come i Genovesi si vidono dilungati da terra, girarono le loro galee contro le cinque de’ Turchi, e misonsi tra loro, essendo bene ordinati, e colle loro balestra non gettavano verrettone in vano, ma fedivano soprassaglienti e galeotti senza rimedio, onde i Turchi si misono alla fuga, e i Genovesi li seguitarono tanto che si diedono a terra, e salvarono i corpi delle loro galee, mortine assai di loro, e fediti e magagnati. CAP. LXIV. _Come le compagnie condotte in Piemonte cominciarono a guerreggiare._ Le compagnie tratte per lo marchese e per la Chiesa di Provenza, condotte in Piemonte in questi tempi della moria cominciata in Milano del mese d’agosto, cominciarono a guerreggiare nel Piemonte, dove acquistarono al marchese sette castella le più loro arrendute. Messer Galeazzo si ridusse a Moncia fuggendo di Milano la morìa che asprissimamente li perseguitava, avendo le sue terre fornite di buona guardia, e in campo non mise persona: ben tentò di trarne al suo soldo di quelli della compagnia, e d’alcuna parte li venne fatto per la forza del fiorino d’oro, non dimanco il resto rimase sì grande, che corse insino al Tesino senza contasto. Messer Bernabò veggendo la pestilenza sformata in Milano, che per giorno fu che levò ottocento, e mille e milledugento, e tal fu dì de’ millequattrocento, e ben parea volesse ristorare i Milanesi, cui per l’altre moríe non avea assaggiati, si partì di Milano con tutta sua famiglia, e andonne al suo nobile castello di Marignano, il quale è verso Lodi, il luogo foresto e di sana aria, facendo gran guardia che nessuno non gli andasse a parlare, avendo ordinato col campanaro della torre, che per ogni uomo che venisse a cavallo desse un tocco. Occorse che certi gentili e ricchi uomini di Milano andarono a Marignano, ed entrarono dentro; il signore li ricevette bene, ma turbato contro il campanaro mandò su la torre suoi sergenti, e comandò lo gettassono della torre; i quali andati su, trovarono il campanaio morto appiè della campana: per la qual cagione messer Bernabò terribilmente spaventato di presente senza arresto abbandonò il castello, e si mise nel più salvatico e foresto luogo, ove più di due miglia da lunga fece rizzare pilastri con forche ne’ quali era scritto, che chi li passasse su vi sarebbe appeso. Per allora in avanti sua vita fu tanto remota e solitaria, che voce corse, e durò lungamente, ch’egli era morto, ed egli n’era contento per farne a tempo suo vantaggio. Giugneremo a questo, per non fare nuovo capitolo, che in questi tempi della moria, che anche requistava in Vinegia, morì il doge loro, e funne fatto un giovane di quarantasei anni, il quale non era di gran famiglia, nomato Lorenzo Celso: costui per la maturità de’ suoi costumi e virtù montò a questo onore, e innanzi ai più antichi e più nobili cittadini oltre a loro consuetudine: e pertanto notato l’avemo, e per la sequela del fatto. CAP. LXV. _Di grandi terremoti che furono in Puglia, e assai guastarono della città d’Ascoli._ A dì 27 di luglio del detto anno, in su l’ora del vespero, furono in Puglia grandissimi terremuoti, e apersono la città d’Ascoli di Puglia, e quasi tutta la subissarono con morte d’oltre a quattromila cristiani. A Canossa caddono parte delle mura della terra, e molti dificii puose in ruina; in altre parti fece poco danno. Furono ancora in questo anno grandine molte e sfoggiate, le quali ai grani e agli ulivi feciono danno assai più che nell’altre stati. CAP. LXVI. _Delle rivolture del paese di Fiandra in questa state._ Del mese di luglio del detto anno, nella città di Bruggia fu grande battaglia tra’ tesserandoli e folloni dall’una parte, e da’ borgesi dall’altra per assai lieve e subita cagione, e non senza molti morti e magagnati da catuna delle parti: e poco appresso seguitò ch’e’ tesserandoli e folloni della città depuosono il balio del conte senza colpa apponendoli tradigione. E in que’ giorni il conte Audinarda facea la festa della figliuola, la quale avea data per moglie al duca di Borgogna, il quale ciò sentendo mandò pregando li Schiavini e gli altri ch’elli attendessono tanto che egli avesse sua festa fornita, dicendo, che poi terrebbe giudizio del balio suo, e che se lo trovasse colpevole si rendessono certi che ne farebbe a loro sodisfazione rilevata giustizia e vendetta. I bestiali e arroganti di quei mestieri recando a vile la preghiera del conte, in vergogna e dispetto suo appendere lo feciono alle finestre del suo palagio: onde il conte con tutto suo seguito forte ne furono turbati, ma assisesi al mostrare di non calere, nè mostrare di sua onta. CAP. LXVII. _Come fu decapitato messer Bocchino de’ Belfredotti signore di Volterra, e come la città venne alla guardia de’ Fiorentini._ E’ ne pare di necessità per più brevità della nostra opera, e per meglio dare ad intendere il fatto di che dire intendiamo, raccogliere alquante cose, le quali in piccolo trapassamento di tempo hanno fine straboccato. Messer Francesco de’ Belfredotti da Volterra sopra il ciglio di Volterra tenea la forte rocca di Montefeltrano, e messer Bocchino di messer Ottaviano suo consorto era signore della terra, il quale cupido d’aumentare sua tirannia, con solleciti aguati cercava di torre a messer Francesco detta fortezza, e dopo la morte di messer Francesco, messer Bocchino non lasciava stare i figliuoli in Volterra. Il perchè il comune di Firenze sentendo la detta dissensione, perchè non terminasse a peggio, s’interpose tra loro, e li ridusse a concordia, e obbligaronsi insieme a pena, la quale per l’uno e per l’altro promise il comune di Firenze per osservanza di pace; per la quale i figliuoli di messer Francesco tornarono in Volterra sotto l’ubbidienza di messer Bocchino. E stando senza alcuno sospetto, all’uscita d’agosto del detto anno, il tiranno a un Volterrano, a cui nella guerra era stato morto un suo congiunto da un altro Volterrano amico e servidore de’ figliuoli di messer Francesco, con segreta licenza di messer Bocchino, trovando il suo nemico a dormire lo fece uccidere, e colui che morto l’avea con suoi parenti e amici fece testa, perchè la terra si commosse a cittadinesca battaglia, e alquanti degli amici de’ figliuoli di messer Francesco vi furono morti traendo al romore, e i detti figliuoli di messer Francesco, come era per lo tiranno ordinato, furono presi contro le convenenze per le quali il comune di Firenze era mallevadore; il perchè il comune per suoi ambasciadori mandò ricordando al tiranno li dovesse piacere non farli questa vergogna, dicendo, come a richiesta e preghiera di lui avea promessa sua fede. Il tiranno con simulate parole tenea gli ambasciadori a parole, e dal malvagio proponimento non si toglieva. I Fiorentini veggendo che le parole non ammollavano le parole finte e mal disposte del tiranno, e sentendo che ciò che fatto avea era contro alla comune volontà de’ Volterrani, e temendo che la cosa non avesse mal fine e pericoloso per lo comune, non furono lenti, ma prestamente mandarono gente d’arme, e fornirono la rocca de’ figliuoli di messer Francesco, minacciando di guerra se non si facesse ammenda. Il tiranno veggendo l’animo de’ Fiorentini contro a lui giustamente irato si forniva di gente di sua amistà, e spezialmente de’ Pisani, per riparare alla forza e mantenere sua fellonia, perseverando nel detto malvagio proponimento. Certi cittadini di Firenze per trattato che dentro aveano d’avere il torrione del monte, che è fuori delle mura, domenica mattina a dì 24 d’agosto vi cavalcarono, e dalla gente de’ Pisani vi furono scoperti, e ributtati con vergogna senza altro danno, il perchè il comune v’ingrossò gente, e pose oste a Volterra. La quale essendo in sul Volterrano, messer Bocchino per dispetto de’ Fiorentini trattò di dare la signoria a’ Pisani per trentadue migliaia di fiorini d’oro. Il popolo di Volterra sentendo ch’e’ si trattava di venderlo, e farli schiavi de’ Pisani, tutti d’uno volere presono l’arme, e corsono all’ostiere dove erano i cavalieri de’ Pisani, a’ quali incauti e sprovveduti tolsono le selle e’ freni de’ cavalli, e ciò fatto, senza far loro altra villania li misono fuori della terra, e loro renderono freni, selle, cavalli e armadure, e i fanti forestieri accomiatarono, e si partirono. Ciò fatto, appresso furono al palagio del tiranno, il quale con lunga e composta diceria volendo tiranneggiare li animava a mantenere loro libertà e franchigia, e quinci li credette dal loro proponimento levare, ma i terrazzani trafitti dalle sue crudeli operazioni a suo dire non prestarono orecchie, ma sdegnosamente rispuosono, che bene saprebbono usare loro libertà, e che per ciò fare voleano in guardia lui, e sua famiglia, e certi suoi congiunti, e a Firenze mandarono per capitano di guardia, e a Siena per podestà. Il capitano prestamente vi fu mandato un popolano, e dietro ad esso mandati furono quattro ambasciadori, e simile feciono i Sanesi. I Fiorentini temendo i movimenti de’ popoli vari, e vani e instabili, al continovo vi facevano cavalcare gente d’arme, e a cavallo e a piè, ancora perchè a loro parea che i Volterrani volessono col braccio de’ Sanesi raffrenare il nostro comune: il perchè alla gente de’ Fiorentini segretamente fu comandato, che procacciassono delle castella de’ Volterrani, i quali cavalcarono a Montegemmoli, ed ebbonlo per forza, ed a il loro Montecatino, e anche l’ebbono, e così più altre castellette. I Volterrani mandarono a Firenze loro ambasciadori per i quali domandavano libertà con l’ammenda de’ loro dannaggi, eleggendo capitano di guardia di Firenze: la cosa per più giorni stette in controversia e in dibattimento. I Fiorentini che in Volterra aveano i loro ambasciadori, e il capitano, e gran parte de’ nove, e di buoni popolani la maggior parte a loro segno feciono strignere la gente dell’arme vicino alle mura di Volterra, avendo presentito che la setta che voleva i Sanesi la notte vi doveano mettere gente d’arme, e così di vero seguiva, che la notte cinquanta cavalieri e centocinquanta fanti alla condotta d’alcuno de’ Malavolti, giugnendo con la gente alla fonte presso alla terra, cadde nell’aguato de’ Fiorentini, e fu preso con tutta la gente, e facendo vista di non conoscerli, loro fu tolta l’arme e’ cavalli, ma poichè per lingua e nome si furono palesati, ripresi da’ capitani dell’impresa facevano contro al comune di Firenze, assai cortesemente fu loro renduta l’arme e’ cavalli, e rivolti per la via ond’erano venuti, con assai vergogna di loro matta arroganza e presunzione. Il popolo di Volterra di suo errore ravveduto la guardia del cassero della città diedono a’ Fiorentini. I Sanesi ch’erano in Volterra senza aspettare comiato si partirono, e’ Fiorentini del tutto rimasono signori, con certe convegne, che i Volterrani promisono in perpetuo d’avere gli amici del comune di Firenze per amici, e i nemici per nemici, e che la rocca dieci anni si guardasse per i Fiorentini, e del continovo debbino prendere capitano di popolo di Firenze; e per loro ordine hanno fatto, che da Pisa, nè nella città nè nel contado loro non possa venire uficiali nè alcuno altro d’alcuna città o terra presso a Volterra a trenta miglia; e passato il tempo di quelli nove uficiali ne furono altri. E il popolo di Volterra al tutto volle che ’l capitano di Firenze che v’era facesse tagliare la testa a messer Bocchino, e così fece una domenica mattina a dì 10 d’ottobre del detto anno, messo prima nella terra la cavalleria de’ Fiorentini con volontà del popolo, il quale la ricevette a grande onore. CAP. LXVIII. _Come il patriarca d’Aquilea fu a tradimento preso dal doge d’Osteric._ Fama era per tutta Italia per lungo tempo, la quale si trovò in fine non vera, che ’l doge d’Osteric era dall’imperadore fatto re di Lombardia, ma quale la cagione si fosse, mosse di suo paese con grande compagnia di gente d’arme, e passò nel patriarcato d’Aquilea del mese detto, dove confidentemente fu ricevuto. Il patriarca avea ripresi di sue ragioni certi paesi d’entrata di fiorini cinquemila per anno o più al patriarcato, i quali dal duca vecchio erano stati occupati al tempo della vacazione del patriarcato. Questo duca movendo questione al patriarca di queste terre, vennono a concordia di stare di ciò alla sentenza dell’imperadore suocero del detto duca: e per trarre la cosa a pacifico fine di concordia si mossono di là, e in compagnia andavano all’imperadore, ed entrati nelle terre del duca nella città di Vienna, sotto colore di fare onore al patriarca il duca li fece apparecchiare un grande ostiere, e credendo il patriarca l’altro dì con lui seguire il suo viaggio, vi si trovò arrestato e preso; e domandandoli delle terre del patriarcato, il valente patriarca, messo sua persona a non calere, fece per suo segreto e fidato messo, e con sua lettera e suggello comandamento a tutti i sudditi suoi, che per niuno caso che gli avvenisse niuna glie ne dessono. Il patriarca era messer.... della Torre di Milano, prelato antico e di buona fama. Questa fu la riuscita della grande fama del detto duca per lo reame d’Arli, la quale per più riprese fece ristrignere a parlamento i signori di Lombardia per provvedere a loro difesa. CAP. LXIX. _Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san Giovanni Laterano._ Egli è da dolere a tutti i cristiani quello che ora sono per narrare della nobile e venerabile chiesa di san Giovanni Laterano di Roma, e ciò pare piuttosto ammirabile che degno di fede. Uno maestro ricopriva il tetto della nave maggiore della detta chiesa, la quale essendo coperta di piombo conveniva che con ferri roventi le congiunture delle piastre si congiugnessero per ammendare i difetti, ed avendo il maestro il fuoco acceso di carboni sopra il tetto, per sinistro avvenimento un poco di carbone cadde, e come che si entrasse, senza avvedersene il maestro si posò sopra una trave, e quella incese, e appresso con quella tutto l’altro edifizio senza potere essere atato a spegnere, non che grande popolo non vi traesse con ogni argomento, ma quasi come fosse volontà di Dio tutta la nave della chiesa, e tutte l’altre parti di quella, e tutte le cappelle con quella di Sancta Sanctorum arse, che nulla vi restò fuori che le mura, con danno inestimabile del costo di tale e tanto edificio: è vero che le reliquie di Sancta Sanctorum si camparono; e ciò avvenne del mese d’agosto del detto anno. Giugnendo fuoco a fuoco, in questo medesimo tempo nelle contrade di Bossina fuoco cadde da cielo, e arse gran paese senza riparo nessuno. CAP. LXX. _Del maritaggio del duca di Guales primogenito del re d’Inghilterra._ Contato avemo addietro le prodezze e grandi valentrie del duca di Guales primogenito del famoso re Adoardo d’Inghilterra, a cui vivendo la corona succedè. Costui in questi giorni si tolse per moglie una sua consobrina contessa di Chienne, la quale era di tempo, e vedova di due mariti di piccoli baronaggi, e aveva fatti più figliuoli. La maraviglia che di ciò prese chiunque sapea suo alto stato, vita e condizione, ce n’ha fatto qui fare nota, forse con iscusa alcuna. CAP. LXXI. _Come papa Innocenzio riformò santa Chiesa de’ cardinali morti per la morìa._ Erano morti in pochi dì nella corte di Roma il vicecancelliere di Preneste, il cardinale Bianco, quello d’Ostia e di Velletri, quello di Calamagna, messer Andrea da Todi detto il cardinale di Firenze, il cardinale della Torre, e quello che fu generale de’ frati minori, e un altro. Il papa volendo riformare santa Chiesa di cardinali, nel tempo delle digiune del mese di settembre dello anno ne fece altri otto: il cancelliere di Francia, l’arcivescovo di Ravenna assente, che poi morì in cammino, ed era Caorsino, l’abate di Clugnì Borgognone, il vescovo di Nemorsi Francesco, l’arcivescovo di Carcassone nipote del papa, messer Guglielmo suo referendario ch’era di Limosi, il figliuolo di messer Pietro da san Marcello, e l’arcivescovo d’Aques in Guascogna, tutti oltramontani, e niuno ne fece Italiano, dimostrando che di visitare la cattedra di san Piero a Roma era strano al tutto del desiderio e appetito degl’Italiani. CAP. LXXII. _Come il re Buscialim della Bellamarina fu morto, e delle rivolture di Granata._ Regnando Buscialim in Fessa, ed essendo tornato al regno con l’aiuto del re di Castella, certi caporali cristiani e mori del detto re si levarono senza cagione debita contro al re, e uccisonlo, dicendo, che loro non dava loro soldi, ma il vero fu, che morire lo feciono perchè egli era troppo amico del re di Castella, e la cagione si prese, perocchè avendo il re di Castella guerra col re di Granata, mosse Maomet cacciato dal detto re di Granata, che dovea essere re egli, a ritornare nel paese, e il re Buscialim a petizione di quello di Castella avea scritto a tutti i rettori delle sue terre ch’avea in Ispagna, che ubbidissono il detto Maomet come la sua persona, della qual cosa turbati i Mori uccisono il loro re Buscialim; e morto costui, feciono re un Busciente, ch’era in prigione fratello del detto re, ma non era di sana mente, e però altri governava il reame, e costoro incontanente contramandarono a’ balii delle terre di Spagna, che non lasciassono entrare Maomet in loro terre. E poco appresso, del mese di novembre del detto anno, quelli di Fessa, vedendosi avere il re smemoriato, mandarono ambasciadori a Sibilia a un giovane della casa reale di Bellamarina, il quale si stava a Sibilia con un altro suo fratello minore assai poveramente: gli ambasciadori lo addomandarono, il re di Castella li fece armare una galea e menarlo a Setta, e di là per terra il condussono a Fessa, e in ogni parte fu ricevuto per loro re, e l’altro ch’era mentecatto fu rimesso in prigione: e allora il re di Castella fece pace co’ Mori, e con il loro novello re ritenne grande amistà, e da lui ricevette ricchi doni. CAP. LXXIII. _Come la compagnia spagnuola ch’era nel vescovado d’Arli prese Vascona, e poi ne furono cacciati._ In questi dì la compagnia degli Spagnuoli ch’era in Provenza per una notte feciono una lunga cavalcata ed entrarono in Venisì, e improvviso a quelli di Vascona entrarono nella città, e uomini e femmine con arnesi con grandissimo danno e di cittadini e di forestieri recarono in preda; e intendendo così fornito a volersi partire, ma i paesani d’ogni parte sopravvennono prestamente loro addosso, e furono tanti, che per forza vinsono la compagnia, e con gran danno d’essa racquistarono la preda, e cacciaronli del paese. CAP. LXXIV. _Come si scoperse che messer Bernabò era vivo, e ’l trattato tenea del castello di Bologna._ Essendo tanto stata la fama di non sapere novelle di messer Bernabò, che li più affermavano che morto fosse per molti indizi e congetture che ciò parevano mostrare, esso in questi giorni lavorava alla coperta colla lima sorda, nulla dimostranza dando di sè, ma piuttosto ampiando la fama della morte sua, e cercava trattato, lo quale ordinato avea con uno Spagnuolo e due suoi famigli, a’ quali in grande confidanza il legato di Spagna avea accomandato la guardia del castello della porta che va verso Modena di Bologna: costui per ingordo boccone di danari per tornarsi ricco a casa l’avea promesso a messer Bernabò, e di ciò era stato il motore a messer Bernabò messer Giovanni da Bileggio mentre che là era in prigione, anzi che mandato fosse ad Ancona, e dovea averlo la notte di san Bartolommeo d’agosto: e scopersesi questo trattato per un ragazzino che venne al castellano di notte, e fu preso. Per questa cagione messer Bernabò venne in persona a Parma con duemila barbute non sapendosi la cagione nè il perchè, se non che scoperto il tradimento si tornò alla caccia, e il castellano con gli altri che gli erano consenzienti in Bologna furono attanagliati e impiccati. CAP. LXXV. _Come si scoperse in Perugia una gran congiura di notabili cittadini per mutare stato e reggimento._ Erano nella città di Perugia in questi tempi molti e molti cittadini, e gentili uomini e popolari di buone e antiche famiglie d’animo guelfo, le quali quasi del tutto erano schiusi dagli ufici e governo della città, reggendosi la terra per popolani mezzani e minuti, sotto la guida e consiglio della famiglia de’ Michelotti e di Leggieri d’Andreotto, il quale a quel tempo era il da più, e il maggiore cittadino di Perugia, e il più creduto dal popolo, e molte altre famiglie di buoni popolari e uomini singolari da molto che teneano con loro sotto il nome e titolo di Raspanti. Quelli ch’allora s’appellavano i mali contenti, e mossi e sollecitati con ammirabile astuzia da uno Tribaldino di Manfredino spirito malizioso, sagacissimo e inquieto, le cui operazioni dipoi scoperte li feciono dai suoi cittadini meritare il nome del secondo Catilina; e forse non indegnamente, perocchè facendo comparazione da città a città, non era minore quella di Tribaldino verso di sè, che quella di Catilina verso di sè. La congiura fu per lui lungamente guidata tanto copertamente e cautamente, che niuno segno se ne potè vedere nè scorgere per i reggenti, e infra l’altre sagaci cautele, che ne usò molte, fu questa, che per li parenti e amici ch’avea intra i reggenti sovente facea falsamente muovere che trattato v’era nella terra, il quale criato era, e trovato non vero, il perchè spesseggiando ai priori e a’ camarlinghi di Perugia in cui stava il tutto del reggimento, era venuto a rincrescimento e a niente che si ragionasse di trattato, nè prestavano orecchi nè davano fede: e ciò fece il malvagio traditore, perchè quando il vero trattato venisse in campo senza prendere avviso il governo della città, più certamente e più liberamente avesse l’effetto suo. Quelli cui ’l malvagio uomo trasse in congiura furono questi: messer Averardo di...... da Montesperello, messer Guido dalla Cornia, messer Alessandro....... messer Giovanni di....... da Montemellino, messer Niccolò di...... delle Mecche, messer Tivieri di...... da Montemellino, tutti cavalieri, Colaccio di Cucco de’ Baglioni, Francesco di messer Rinuccio da...... detto il Zeppa, Francesco di messer Andrea e Iacopo di messer Guido da Montemellino, Piero di Neri delle Mecche, Erculano di........ Mattiolo di....... e....... detto lo Squatrano, con altri simili in numero di più di quarantacinque gentili uomini e popolani, con seguito d’altri novantaquattro che ne furono condannati, ed oltre a quattrocento altri cittadini, i quali per non fare troppo gran fascio furono lasciati addietro. Costoro aveano fatto loro capitani Colaccio di Cucco de’ Baglioni, il Zeppa di messer Rinuccio e Mattiolo di...... e nelle loro mani aveano giurato. Costoro a un giorno preso doveano correre la piazza, e pigliare il palagio de’ priori e delle signorie, perocchè come detto è pensavano per le beffe de’ trattati non veri trovare i priori addormentati: per la città a’ loro seguaci dispersi in vari luoghi deveano fare infocare case per tenere alla bada de’ fuochi i cittadini, doveano uccidere i priori e’ camarlinghi, e qualunque innanzi loro si parasse senza riguardo d’amico o di parente. Messer Averardo dovea stare di fuori a sollecitare i loro lavoratori, e amici del contado e le loro amistà, e a ribellare delle castella. E per certo il sollecito reo uomo seguendo lo stile di Catilina avea dato ordine, che se Dio non avesse posto il rimedio a tanto pericolo, per certo la città ne venia in desolazione e tirannia. Esso Signore che tutto vede puose nel cuore a messer Tivieri da Montemellino, uno de’ principali congiurati, che lo revelasse, acciocchè tanto pericolo e male non fosse; il quale essendo quasi vicino a Leggieri d’Andreotto, sotto sicurtà della sua persona senza domandare altro merito gli rivelò il fatto, il quale di presente n’andò in palagio de’ signori, e quivi con loro, e co’ camarlinghi, e con gli altri dello stato si mise a’ ripari. Fu preso messer Niccolò delle Mecche, e Ceccherello de’ Boccoli con quattro loro masnadieri di nome, e con sette altri mascalzoni, gli altri congiurati tutti si dierono alla fuga. Seguette, che il dì di santo Michel Agnolo si fece l’adunanza generale, che noi diciamo parlamento, nella quale si determinò, che i detti cavalieri, gentili uomini e popolani, insino nel numero di quarantacinque, fossono condannati per traditori e rubelli del comune di Perugia infino...... e che altri novanta secondo loro gravezze di loro colpe fossono condannati di danari, e alcuni a stare a’ confini; gli altri per meno male passati furono sotto silenzio. Più vi si provvide, che Tribaldino guidatore e ordinatore del male, con messer Averardo, e con alquanti degli altri più focosi principali fossono dipinti _ad eternam rei memoriam_ colle mitere in capo in piè della piazza nella faccia del casamento del maggior sindaco: e così seguitò, che messer Niccola delle Mecche, e Ceccherello de’ Boccoli con i quattro masnadieri furono decapitati, e i sette mascalzoni furono appesi; gli altri tutti ebbono bando come nell’adunanza era ordinato, e così furono dipinti quelli che doveano esser dipinti. Bollendo e ribollendo ragionevolmente la città in questo stato dubbioso e sospetto, come il male venne agli orecchi del nostro comune tantosto vi mandò ambasciadori con cento uomini di cavallo. I Pisani domandato licenza di mandarvi cento cavalieri per lo nostro contado, e liberamente ottenuto, anche vi mandarono loro ambasciadori con la detta gente, i quali co’ nostri insieme assai temperarono l’animo voglioso e crucciato debitamente de’ Perugini. CAP. LXXVI. _Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di loro stato, e della difensione che saviamente ne presono._ In questi medesimi dì all’entrata d’ottobre, essendo Piero Gambacorti in Firenze, rotti i confini i quali avea a Vinegia, alquanti artefici e certi mercatanti pisani, che per lo partimento che i Fiorentini aveano fatto di Pisa e per loro cagioni, anzi quasi tutti i mercatanti forestieri che trafficavano co’ Fiorentini, e i reggenti che n’erano stati cagione udivano e sentivano costoro e molti altri di ciò rammaricare, dicendo, come al tempo de’ Gambacorti godeano la pace co’ Fiorentini, e’ guadagni del porto, e delle mercatanzie e dell’arti, e che loro era faltato e il procaccio e ’l guadagno; o che questa fosse la cagione, o che di loro sentissono alcuno trattato con Piero Gambacorti, ventidue ne presono, e a quattro de’ mercatanti feciono tagliare la testa; li altri si riserbarono in prigione, e a molti diedono i confini. CAP. LXXVII. _Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono la signoria di Montalcino._ In questo mese d’ottobre del detto anno, Giovanni d’Agnolino Bottoni con centocinquanta cavalieri e ottocento pedoni cavalcò improvviso sopra Montalcino per rimettervi gli usciti ch’erano suoi amici, e questo fece con ordine d’alcuno trattato ch’avea nella terra, ma i terrazzani presti alla difesa tolsono ardire di muoversi dentro a chi n’avea sentimento. Vedendo Giovanni che ’l trattato ordinato non gli venia fatto, per ricoprire sua intenzione si stava loro intorno. I terrazzani, che erano ubbidienti e in pace co’ Sanesi, maravigliandosi di questa novità mandarono a Giovanni di fuori a sapere perchè facea questo, e quello volea da loro: il savio e accorto disse, che volea che fossono in accordo col comune di Siena: i semplici terrazzani, sentendosi amici e ubbidienti al comune di Siena, elessono ventiquattro della loro terra i maggiori e più potenti che v’erano, e mandaronli per ambasciadori a Siena. Giovanni avvisò l’uficio de’ signori, come era tempo d’avere libera la signoria di quella terra, avendo appo loro li ventiquattro ambasciadori ch’erano il tutto della terra, ed egli essendo là con forza d’arme, la quale si fè accrescere, diceva di strignerli e tenerli in paura. Gli ambasciadori giunti a Siena, e fatta la riverenza, e sposta la loro ambasciata, ebbono per risposta, che non si partirebbono da Siena, che Montalcino sarebbe libero alla guardia de’ Sanesi; la cosa non potè avere contradizione, e però convenne ch’avessono libero Montalcino, e avuto, rimandarono indietro i ventiquattro ambasciadori sani e salvi, e smisurata festa in Siena se ne fece. CAP. LXXVIII. _Come i Turchi presono la città di Dometico ch’era dell’imperadore di Costantinopoli._ Del mese di novembre del detto anno, un grande signore de’ Turchi di Boccadave, sentendo l’imperadore di Costantinopoli giovane, e in discordia co’ suoi per la ragione già detta di Mega Domestico cui egli perseguitava, e altre volte essendo suo balio avea occupato l’imperio, accolse di suoi Turchi grande esercito, e vennesene ad assedio alla nobile e antica città oggi chiamata Dometico, la quale siede tra Costantinopoli e Salonicco, presso a quattro giornate a Costantinopoli, la quale appresso Costantinopoli solea essere sedia imperiale. I cittadini sentendo che Orcam con grande quantità di Turchi venia loro addosso, e non vedendo onde potesse a loro venire soccorso, inviliti (come è la volontà di Dio per la loro contumacia contro a santa Chiesa) abbandonarono la città forte e difendevole per lungo tempo, e abbondevole a sostenere sua vita. Orcam trovandola abbandonata v’entrò dentro co’ suoi Turchi, e misevi gente ad abitare e alla guardia con vittoria senza fatica, e si ritornò in suo paese con gran vergogna e vitupero e abbassamento dell’imperio di Romania. CAP. LXXIX. _Come il re di Castella mosse guerra a’ Mori di Granata, e al loro re Vermiglio._ Fermata la pace dal re di Castella a quello d’Araona del mese di settembre del detto anno, e tornato il re di Spagna in Sibilia con sua cavalleria, Maometto già stato re di Granata e cacciato dal re Vermiglio, come di sopra dicemmo, esso re di Spagna col detto Maometto cavalcò in Granata, e nel paese fece danno assai e d’arsione e di preda, e lasciato Maometto alle frontiere con sue genti e co’ cavalieri castellani a sufficienza a poter far guerra, del mese d’ottobre si tornò a Sibilia. Di poi a tempo ritornò a oste sopra il re di Granata, e stato sopra lui lungamente, in fine non avendo soccorso da’ suoi saracini del Garbo e di Bellamarina, perchè erano collegati col re di Spagna, disperato s’arrendè a quello di Spagna, il quale avuto e lui e suo reame ne fè che al re Vermiglio fece tagliare la testa, e fece re uno de’ reali della Bellamarina suo confidente, il quale da lui riconobbe il reame, e gli promesse suo aiuto e di suoi saracini in tutte sue guerre, e appresso li promesse ogni anno certo tributo. CAP. LXXX. _Come gli usciti Perugini presono per furto Civitella de’ Benazzoni, e poi l’abbandonarono._ I nuovi usciti di Perugia avendo per viltà abbandonate le loro forti tenute al comune di Perugia, in una cavalcata di due bandiere di cavalieri per furto entrarono poco appresso in Civitella de’ Benazzoni, assai forte castello e ben guernito. I Perugini di presente vi mandarono quaranta bandiere di cavalieri e con popolo grande, e puosonvisi ad oste. Gli usciti veggendosi male ordinati da potere attendere soccorso, per lo mene reo, come per furto l’aveano preso, così per furto se n’uscirono, avendo il nome la notte di quelli del campo, e ridussonsi a un castello ivi presso ch’era degli Spuletini, e quindi se ne vennono ad abitare ad Arezzo, cercando rimedii a loro fortuna. CAP. LXXXI. _Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare sopra gli Ubaldini._ Essendo in Bologna speranza della pace, la quale parea ferma dal legato a messer Bernabò, e per tanto avendo alcuna speranza di potere sollevare le fatiche, sentendo che gli Ubaldini per tutta la boce della pace non si rimaneano di far danno e noia alla strada, cavalcarono sopra di loro, e raccolsono preda, e feciono danno nel paese. Gli Ubaldini gli lasciarono cavalcare, e ridussonsi a’ passi, e alla ritratta assalirono i Bolognesi, e rupponli, e racquistarono la preda, e vendicarono loro ingiuria. I Bolognesi all’uscita di novembre detto anno ricavalcarono con più ordine e forza sopra loro, e arsono e guastarono più e più villate, e senza contasto si tornarono a casa. CAP. LXXXII. _Del trattato delle compagnie che doveano entrare in Avignone._ La compagnia spagnuola accozzata con un’altra in Provenza aveano trattato con certi forestieri di più lingue ch’erano in Avignone come di furto potessono entrare nella città, dove speravano fare il sacco, ma non fuori di misura, con l’aiuto di quelli d’entro, che prometteano dare l’entrata, e per questa cagione di subito cavalcarono, e vennono infino presso alla città. La cosa si scoperse perchè era vogliosa, e con poco ordine e meno forza: dentro furono presi circa a trenta; alcuni ne furono decapitati, e alcuni impiccati, e la compagnia si tornò addietro senza fare altro danno, e per l’innanzi in Avignone si fè più sollecita guardia, e ciò fu all’uscita del mese di novembre del detto anno. CAP. LXXXIII. _Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi puosono l’assedio, dove stando vollono torre Sommacolonna per incitare i Fiorentini a guerra._ Fu di sopra a suo luogo narrato, come i Pisani per soperchio d’astuzia aveano costretto i Fiorentini levare il porto da Pisa e recarlo a Talamone, e tutto ch’a’ Fiorentini sconcio e spesa fosse, tutto lietamente si comportava, mostrando a’ Pisani che poteano fare senza loro. E del fatto a littera ne seguiva quello che Piero Gambacorti detto n’avea a quelli mercatanti che al detto tempo si trovarono su il Rialto in Vinegia, dove il detto Piero era confinato quando la novella vi venne, che fu in questa maniera: Fiorentini, Fiorentini, se state fermi in vostro proponimento, Pisa in piccolo tempo diventerà un bosco: e veramente così ne seguia, perocchè essendo partiti i Fiorentini da Pisa, tutti coloro che con loro mercatavano e trafficavano, con quelli ch’a’ loro servigi rispondeano aveano fatto il simigliante, il perchè le case, i fondachi, e la terra tutti rimaneano oltre a mezza vota, e i mestieri degli artefici in gran dannaggio, onde il soprassenno de’ Pisani raccortosi di suo errore cercò per molte vie oneste e piacevoli, e a’ Fiorentini vantaggiose e onorate, di ritornarli a Pisa, e ciò non potendo ottenere, e seguendo del fatto, che quelli che teneano lo stato e governo della città n’erano caduti nell’odio e mal volere del popolo e de’ mercatanti, e stavano in paura del perderlo, avendo del continovo alla coda gli aderenti, seguaci e amici de’ Gambacorti, i quali erano di fuori e li sollecitavano; onde essi sottilmente pensarono di fare disfare due chiovi a uno caldo col fuoco della guerra, l’uno, di unire il popolo consueto nemico de’ Fiorentini e sopra modo parziale con la guerra, l’altro, che seguendo pace della guerra, come suole, patteggiare nella pace la tornata del porto: e per dette cagioni con le loro vie coperte e sagaci, per non parere d’essere i motori al rompere della pace, presono questa cautela, che una volta e più fittizziamente e simulatamente bandeggiarono di loro cittadini, contadini e distrettuali, uomini atti a cercare mutazioni e riotte, nominati e di seguito, disposti a fare piuttosto il male che ’l bene, e questi in diversi luoghi e tempi tolsono certe tenutelle del distretto del comune di Firenze di poca importanza; onde il comune secondo i tempi più volte ne mandò ambasciadori a’ Pisani, e quello ne rapportavano era: E’ ce ne pesa, sono nostri forbannuti, e loro appresso di voi semo acconci a perseguitare infino a morte e desolazione. Il comune di Firenze per non essere abominato di corrompere la pace se la portava pazientemente, e con infignere di non se n’avvedere; nè pertanto si rimaneano i Pisani di seguire la mala regola presa, cercando al continovo per questa via di torre delle terre a’ Fiorentini, e non delle peggiori, il perchè a’ Fiorentini fu forza a prendere loro costume, e con un Giovanni da Sasso famoso caporale e atto all’arme feciono tentare segreto trattato, che togliesse a’ Pisani il castello di Pietrabuona, il quale è vicino a Pescia, e così seguì, avendo prima per colorati misfatti ricevuto bando a Firenze della persona. A’ Pisani parendo loro avere ottenuto loro talento subitamente con grande ordine e sforzo assediarono il castello per forma, che niuna forza d’arme glie ne arebbe potuti levare, nè tor loro non lo racquistassono. Stando al detto assedio, veggendo non bastavano l’occulte a incitare e muovere i Fiorentini alla guerra, vennero alle aperte, e del mese di gennaio preso loro tempo si credettono furare Sommacolonna, e cavalcaronvi sforzatamente, ma non venne loro fatto. E per arrogere all’ingiuria, avendo i Fiorentini loro gente alla guardia di Pescia e dell’altre terre della Valdinievole, certi conestabili de’ loro a loro diletto usavano d’andare il dì sul poggio della Romita sopra a Pietrabuona, il quale era terreno de’ Fiorentini, e ivi si stavano a vedere badaluccare e gittare i trabocchi; i Pisani posto loro aguati li assalirono e uccisonne sette, e gli altri ne menarono a prigioni, e diedono palese e aperto principio della guerra. CAP. LXXXIV. _Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla compagnia bianca co’ suoi baroni, e ricomperaronsi con gran quantità di moneta._ In questo medesimo tempo, essendo venuto il conte di Savoia di qua da’ monti a una sua terra che si chiama...... con molti baroni e cavalieri di sua contea, non prendendosi guardia, la compagnia bianca, la quale era vicina a quelli paesi, si mosse una notte facendo molto lungo e disordinato cammino, e sorprese il conte e’ baroni alla terra senza alcuna resistenza, salvo che ’l conte con pochi si rifuggì nel castello, gli altri tutti furono prigioni: e il conte assediato e sprovveduto, veggendosi a mal partito, trasse accordo, e tra di sè e di suoi baroni, e de’ cittadini della terra e delle cose loro, che tutto era in preda, venne a composizione di dare alla compagnia in diversi termini fiorini centottantamila d’oro, parte allora, e del resto fermezza, sicchè tutto lasciarono, e tornarsi in Piemonte. CAP. LXXXV. _La cavalcata che Piero Gambacorti fè sopra i Pisani._ Essendo Piero Gambacorti in Firenze, e avendo da’ suoi amici di Pisa sollecito conforto, che procacciasse d’appressarsi alla terra con alcuna forza, dicendo, che dove i cittadini il sentissono farebbono novità contro i reggenti, ch’erano comunemente mal voluti. Avvenendoli per caso che all’uscita di gennaio a Firenze erano col conte Niccola Unghero settecento Ungari usciti del Regno, i quali doveano andare in Piemonte in servigio del re Luigi, ma non avendo loro paga ordinata per lo re cercavano condotta, e i Fiorentini non li voleano, perchè non n’aveano bisogno, e non voleano un capo con tanta gente d’una lingua; in questo a Piero Gambacorti crebbe l’animo per lo conforto de’ suoi amici, e condusse questo conte co’ suoi Ungari, ed ebbe alcuno aiuto da certi usciti di Lucca, e seguito di più di dodici centinaia di fanti, niente essendoli contradetto dal comune di Firenze, e a dì 27 di gennaio uscirono di Firenze, e a dì 28 furono in Valdera, e certe terricciuole l’ubbidirono, e non volea far guasto nè lasciare fare preda, di che gli Ungari e i briganti n’erano assai malcontenti. I Pisani di presente mandarono a Firenze per sapere se il comune movea questo, e fu risposto di no; e per abbondante mandarono bando l’avere e la persona che niuno Fiorentino contadino o distrettuale non dovesse andare contra i Pisani, e chi andato vi fosse, sotto la detta pena se ne dovesse partire. I briganti non potendo guadagnare se ne partirono per lo disagio più che per lo bando, e rimase Piero con gli Ungari e con gli altri forestieri. Gli astuti e maliziosi Pisani vedendo che altri che Piero non era a guidare questa gente, costrinsono per forza i più intimi amici ch’avesse in Pisa, e fecionli scrivere da più parti a un modo, che si dovesse guardare la persona, perocchè gli Ungari aveano trattato di darlo preso a’ Pisani, e d’averne fiorini ventimila d’oro. Egli era a Peccioli quando le lettere di più parti li vennono, cominciò a dubitare, e a stare a riguardo, e vedendo l’adunanze degli Ungari parlare insieme, e non intendendoli, pensò che eglino il dovessono pigliare, e vedendosi presso a Volterra, senza congio con sua gente diè degli sproni al cavallo, e partissi dagli Ungari. Fu detto che alcuni il seguitarono, ma il vero fu poi certo che tutto fu fatto a mano per l’astuzia de’ Pisani. Gli Ungari il primo dì di febbraio senza far danno in alcuna parte si ritornarono a santa Gonda, e poi a Firenze. CAP. LXXXVI. _Come il re Luigi prese le terre di messer Luigi di Durazzo e lui mise in prigione, e trasse del Regno la compagnia._ Era Anichino di Bongardo stato lungamente stretto dagli Ungari in certe terre che teneano di messer Luigi di Durazzo, e non avendo potuto guadagnare erano in male stato, e cominciando a perdere delle terre vennono a patti d’avere sicurtà dal re, e uscirsi del Regno sotto la sua guardia e sotto la sua bandiera, e così fu promesso, e fatto a ciò fine. A messer Luigi dopo questo si rubellò sant’Angiolo, ed egli vedendosi povero e mal parato si rendè al re Luigi suo cugino, e venuto a Napoli, rendute tutte sue terre, fu messo in prigione nel castello dell’Uovo, sperandosi per molti che il re li dovesse perdonare, ma la sua fortuna dopo la morte del detto lo fece morire in prigione. Anichino con la sua compagnia assai male in arnese, alla condotta di certi baroni del re, com’era promesso, del mese di gennaio del detto anno uscì del Regno. CAP. LXXXVII. _Come le compagnie si partirono di Provenza._ In questo medesimo mese di gennaio, le due compagnie ch’erano in Provenza presono accordo co’ paesani per certa quantità di danari, e l’una se n’andò verso la Francia, e l’altra tenne in Borgogna, chiamata da certi baroni di Borgogna, perocchè era morto il loro duca, e temeano del re di Francia. CAP. LXXXVIII. _Come fu sconfitta la gente del re di Castella dal re di Granata._ Avendo lasciato il re di Castella in Granata lo re Maometto che n’era stato cacciato, e con lui il maestro di Ialatrenu, il detto maestro avendo quattromila cavalieri spagnuoli e gran popolo seco, badaluccando con la gente del re Vermiglio di Granata, con mala provvisione ringrossò il badalucco: il re mise loro addosso subitamente molta gente a cavallo e a piè, e combattendo insieme lungamente, in fine i Mori sconfissono quelli di Castella, e presono il capitano e più altri caporali, e de’ Castellani vi rimasono morti in sul campo tra cavalieri e pedoni più di tremila, li milleottocento cavalieri; e avuto il re Vermiglio questa vittoria, del mese di gennaio 1361, prese baldanza, e corse colle sue genti in sulle terre del reame di Castella, facendo spesso danno e vergogna al re di Spagna. CAP. LXXXIX. _Come per vendicare sua onta il re di Spagna andò sopra il re di Granata._ Del mese di febbraio del detto anno, il re di Castella sdegnato e infellonito contro al re Vermiglio, e contro ai suoi Mori, in furore dell’animo suo uscì di Sibilia a dì 20 del mese, avendo prima fatto comandamento di cuore e d’avere che catuno che potesse portare arme il dovesse seguire in sul terreno di Granata, e subito vi si trovò con diecimila cavalieri e trentamila pedoni in arme da combattere, e oltre a duemila carrette con vittuaglia e dificii da combattere le terre: e combattendo le castella, per infino a dì 22 d’aprile 1362 prese dieci forti castella piene e ubertuose, e molte altre ville di minore fortezza, e gli uomini tutti fece servi e schiavi, e quelli si difendevano erano morti, e quelli si rendevano salvi: per questo avvedendosi i Mori di Malica e di Saletta che lo re di Castella era per divenire loro signore, per non essere sottoposti a’ cristiani deliberarono di rimettere Maometto, ch’era con il re di Castella, in re di Granata, e incontanente lo misono in Malica, e poco appresso in Granata, e lo re di Spagna contento di questo, avendo fornite le terre prese, e ritenendole in sua guardia, si partì di Granata, e tornossi in Sibilia. CAP. XC. _Come messer Bernabò si credette avere Reggio per trattato._ Messer Bernabò mostrandosi poco contento della pace promessa a santa Chiesa, e usando parole contro il fratello messer Galeazzo, dicendo, che egli avea fatto più che da lui non avea avuto in mandato intorno alla pace, dando intendimento di volere fare maggior guerra a Bologna, accolse molta cavalleria di sua gente, e in persona con essa ne venne a Parma del mese di febbraio del detto anno, avvisandosi per tutto che dovesse andare sopra Bologna, ed egli avea trattato d’avere Reggio, ed entrarono dentro nella città circa a cinquemila masnadieri. Messer Feltrino avvedendosi della baratta, avendo grande ardire e gente poca, si fedì francamente fra loro; i masnadieri inviliti per tema di maggior forza vedendo l’ardire pensarono a campare, e molti ve ne furono morti e presi: sentitosi la novella, messer Bernabò si ritornò addietro. Appreso messer Bernabò che ’l verno era già passato, e che il tempo atto alla guerra ne venia, e che la mortalità era a lui riuscita con grande acquisto per quelli che morti erano senza eredi, i beni de’ quali erano incorporati alla camera del comune la quale era sua, e sentendo che la Chiesa era in poco podere di gente d’arme, e Bologna mal fornita, cominciò a domandare cose che mai non erano state, non che addomandate, ma nè pensate, e perciò mandò a corte di Roma suoi ambasciadori per terminare le dette domande; e infra l’altre arroganti domande fece chiedere che voleva il figliuolo arcivescovo di Milano, e volea che per decreto e rescritto papale l’elezione dell’arcivescovo fosse di elezione della casa de’ Visconti di Milano, e voleva il vicariato dell’imperadore, ed essere da lui restituito in tutte le sue dignitadi, e che lecito li fosse potere guerreggiare ogni terra e signore, fuori le terre della Chiesa, con patto che la Chiesa non se ne travagliasse, e non desse a quelle le quali egli guerreggiasse nè favore nè aiuto in alcuno modo, mettendo per sospetti i signori e comuni nominati per la guardia di Bologna, tanto ch’egli fosse pagato, e volea che la città di Bologna si guardasse per i Pisani; e domandando queste, e altre cose sconce e villane, al continovo non cessava di crescere la gente dell’arme sopra la città, e di guerreggiarla scorrendo tutto giorno fino alle porte. La Chiesa i patti che domandava con suo onore accettare non potea, e non si potea difendere dalla forza del tiranno nè dalla superbia sua, ricorse a Dio con singolare orazione comandata per tutta la cristianità, e la misericordia sua tosto vi provvedè di salutevole consiglio, come seguendo nostra leggenda trovare si potrà. CAP. XCI. _Come i Pisani feciono cosa da incitare i Fiorentini._ All’entrata del mese di marzo 1361, i Pisani feciono cavalcare lor gente a piè e a cavallo nella Cerbaia distretto de’ Fiorentini, e levarono preda di bestiame minuto, e condussonlo al Cerruglio. I Fiorentini di ciò sdegnati feciono della lor gente di Valdinievole cavalcare infino alle porti di Montecarlo, e la notte misono gente in aguato in Pietrabuona, ma i Pisani se n’accorsono, e ritennonsi dentro al battifolle, onde la gente de’ Fiorentini si ritornò in Pescia. Queste furono assai picciole cose, e poco degne di memoria, ma per quello che per questi inzigamenti dipoi ne seguì, che furono grandi cose, l’animo nostro ha patito di porre questi lievi principii. CAP. XCII. _Dell’operazioni delle compagnie in questi tempi._ Tornando a’ tormenti delle compagnie, in questi giorni del verno avanti alla primavera, la Compagnia bianca col marchese di Monferrato acquistate più castella le quali si teneano per messer Galeazzo nel Piemonte, e più feciono loro cavalcate infino a Pavia passando il Tesino, e quivi stati più giorni si ritornarono in Piemonte. La compagnia la quale era in Borgogna capitanata dal Pitetto Meschino, uomo alvernazzo e di niente, e per sua prodezza e maestria di guerra montato in grande stato e pregio d’arme, prese in Borgogna più terre, dove s’adagiò con la sua brigata, conturbando forte tutta la parte del re di Francia, riguardando sempre tutti quelli che al re erano contrari, il perchè il re condusse la compagnia delli Spagnuoli per cacciare il Pitetto Meschino di Borgogna, i quali Spagnuoli ne’ detti giorni erano in Berrì, e condotti, così faceano di male ad amici come a nemici, dove stendere potessono le mani senza guastare il paese o uccidere. La compagnia d’Anichino di Bongardo uscita del Regno, e condotta da messer Bernabò, in questi giorni se ne venne in Toscana per andare sopra Bologna. Così e molto più era intrigata e avviluppata la cristianità dalle maladette compagnie in questi tempi. CAP. XCIII. _D’una cometa ch’apparve di marzo nel segno del Pesce._ Del mese di marzo del detto anno, apparve tra ’l levante e ’l mezzodì sul mattutino una cometa nel segno del Pesce Con la coda lunga di colore cenerognolo, la quale alcuni astrolaghi dissono ch’era chiamata Ascone. Quello che di sua influenza si vidde fu, che il verno, fu bellissimo e asciutto, e non troppo freddo, atto molto alla sementa e coltivamento della terra; la primavera fu fresca e umida, e la state temperata d’acque, onde ne seguì grande abbondanza. E a dì 8 d’aprile l’anno 1362, alle due ore del dì, essendo l’aria serena e chiara uno grande tuono si sentì in aire, lo quale molto fece maravigliare la gente, e innanzi li venne un baleno con vapori incesi, che caddono in Firenze sopra il fiume d’Arno e da santa Maria in Campo senza fare alcuno danno, e l’aria rimase serena e chiara che era. CAP. XCIV. _Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo Tortonese._ Del mese di marzo la Compagnia bianca essendo di lungi al contado di Tortona per tanto di spazio, che i paesani non aveano riguardo, partendosi di giorno, e cavalcando verso la notte, feciono a gente d’arme smisurato viaggio, e in sul dì seppono sì fare, che la mattina entrarono anzi dì di furto in Castelnuovo Tortonese, e come furono dentro, chi si volle difendere uccisono, il perchè i morti si trovarono sopra a trecento: il castello era bene di milledugento uomini. Sentito ciò messer Galeazzo v’andò con più di tremila cavalieri e bene quindicimila pedoni, e tutto che li paresse essere bene in apparecchio da combattere co’ nemici non s’attentò di mettersi a partito, ma fornì le castella d’attorno, e tornossi a Milano. CAP. XCV. _Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse l’oste del re di Francia a Brignai._ Lo re di Francia infiammato d’onta contro la compagnia del Pitetto Meschino d’Alvernia suo picciolo servo fuggito, nonostante che avesse condotta la Compagnia spagnuola contro a loro, la quale ancora non era giunta in Borgogna, radunò prestamente del mese di marzo un’oste di bene seimila cavalieri franceschi, e tedeschi e di altre lingue che erano in Francia, e fattone capitano messer Giacche di Borbona della casa di Francia con quattromila sergenti gli mandò in Borgogna. E in que’ giorni la compagnia del Pitetto Meschino avea preso un castello del re che si chiama Brignai, e lasciatovi alla guardia trecento di sua compagnia, ed egli con tremila barbute e duemila masnadieri i più Italiani ch’erano in sua compagnia era cavalcato nel contado di Forese, facendo loro procaccio: in questo il duca di Borbona con l’oste sua giunse e puosesi a campo a Brignai, credendolosi in pochi giorni racquistare: e così standosi all’assedio baldanzosamente, e senza debita provvisione e con poco ordine, avendo con l’animo grande a vile il loro avversario, il Pitetto Meschino maestro e pratico di arme con la brigata sua vogliosa di zuffa, e ardita e bene in punto, essendo lontano da Brignai giornata e mezzo, avendo lingua come i Franceschi con molto disordine si reggevano a campo, confortata sua brigata, e animata della gran preda, con sollecito studio di cavalcare raccorciando i cammini, avanti al giorno di più ore giunse al campo sopra gli sprovveduti Franceschi, e senza alcuno arresto gli assalì con grande tempesta e romore; onde tra per le terribili grida, e per lo subito e sprovveduto assalto i Franceschi bairono, e mancarono di cuore, e non di manco ciascuno come meglio poteo ricorreva all’armi per difendersi, ma quelli della compagnia gli percoteano, e gli sollecitavano sì con l’arme, che non gli lasciavano far testa; e così quell’oste ove avea tanti baroni e valenti cavalieri sventuratamente fu rotta e sbarattata, con molti di loro morti e magagnati: quelli che camparono con loro cavalli e arnesi quasi tutti vennono in preda del vassallo del re di Francia Pitetto Meschino. Messer Giacche duca di Borbona fu a morte fedito di più fedite, ed essendo preso, vedendo che era per morire fu lasciato alla fede, e portato a Lione sopra a Rodano in pochi giorni passò di questa vita. Preso rimase il conte di Trinciaville, il conte di Forese, il maliscalco di Dunan, l’arciprete di Guascogna altra volta stato capo di compagnia, messer Broccardo di Finistagion Tedesco capitano di millequattrocento barbute, messer Amelio del Balzo, e il conte di Clugnì, tutti signori e gran baroni, e assai d’altri signori e cavalieri banderesi de’ quali uscì grande tesoro a riscatto. I soldati furono lasciati alla fede, e quelli che in sul campo furono morti o fediti lasciarono portar via. La valuta della preda fu tanta, che la compagnia se ne fè ricca: e per questa vittoria presono tanto d’audacia e d’ardire, che in grande tremore stette la corte di Roma, usa di essere pettinata dalle compagnie, che non corressono sopra Avignone, ma tanto dimorò la compagnia in Borgogna ch’ebbono i danari che si riscattarono i baroni e’ cavalieri. Lo re di Francia sentita questa novella sopra modo si turbò di cuore, e osò dire, che mai non ristarebbe, ed eziandio con porre la sua persona al pari d’un soldato, che dell’onta ricevuta si vendicherebbe. E per non avere più a tornare sopra la presente materia per infino che altra gran cosa non seguisse, il Pitetto Meschino e quelli di sua compagnia udite le minacce del re, per accrescere il dispetto e l’onta, mostrando d’avere il re e le sue parole a vile, del mese di giugno appresso se n’andarono vicini a Parigi, facendo gran preda e danni a’ paesani d’intorno alla città. Io non mi posso tenere, che io non dica qui per gl’intendenti ragionatori si misuri la gloria vana e fallace degli stati mondani; ma nella presente materia quelli massimamente che hanno avuto notizia della eccellenza del reale sangue di Francia, per cui al presente è tanto vilmente calcata: e certo il Pitetto Meschino è di sì oscuro luogo nato, che fuori del sapere che egli è Alvernazzo, non si sa chi fosse nè madre nè padre: e questo basti. CAP. XCVI. _Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori di Lombardia contro a messer Bernabò._ Veggendo gli altri signori della Lombardia la pertinacia di messer Bernabò intorno al racquisto di Bologna, e che per averla di sua fede e promessa mancava a santa Chiesa, nelle loro menti presono concetto, che se vincesse Bologna a loro non perdonerebbe, stimando che con cagioni controvate contro a loro volgesse la guerra con assai più vicino e possente braccio. Il perchè entrati in sospetto e paura, con loro segreti ambasciadori cercarono di far lega e tra loro insieme con la Chiesa di Roma; e nel trattato occorse che il signore di Verona diede la sorella per moglie al marchese di Ferrara; e fornito il parentado per modo che non potea tornare addietro, il signore di Verona come a stretto parente il fè con festa a sentire a messer Bernabò, il quale udito il fatto a maraviglia se ne turbò, dicendo: Io son fatto cognato di uno sterpone. Il marchese con tutto che di ciò avesse obria era d’animo nobile e valente uomo, magnanimo e di grande cuore, e compare di messer Bernabò, e molto l’avea servito contro alla Chiesa nella guerra di Bologna, dando libero il passo a sua gente d’arme, el a suo piacere vittuaglia e per acqua e per terra. Fermato il parentado intra i detti due signori, del seguente mese d’aprile lega e compagnia si fermò tra il legato di Spagna in nome di santa Chiesa e il signore della Scala, e il signore di Padova, e il marchese di Ferrara; e la taglia della gente della lega fu in nome di tremila cavalieri, de’ quali la Chiesa dovea pagare i millecinquecento cavalieri, e ciascuno degli altri cinquecento per uno: e oltre a ciò ne’ patti della lega promesse ciascuno a loro difesa, e della città di Bologna, e all’offesa di messer Bernabò, e d’ogni qualunque che contro alla lega facesse. E stando le cose in questi termini, messer Bernabò mandò al Finale navilio grande con molta vittuaglia per fornire le castella ch’avea sul Bolognese, e il marchese la fece volgere indietro. E appresso i detti signori di concordia per loro ambasciadori mandarono a dire a messer Bernabò, ch’a lui piacesse non volere fare più guerra alle terre di santa Chiesa, con ciò fosse cosa che d’allora innanzi con tutto loro sforzo si porrebbono alla difesa di questa lega: il superbo tiranno ebbe singolare e altero sdegno, e nelle sue rilevate parole molto gli avvilì, usando queste parole: Essi sono matti fantisini: e seguendo col fatto l’altero parlare, a catuno di loro per derisione mandò dono di vasellamento d’argento, de’ quali nello smalto di quelli da Verona era una scala appesa a un paio di forche, in quelli del signore di Padova erano colombi volanti, in quelli del signore di Ferrara una ferza, giusta la considerazione della sua vana e superbia fantasia; ma in picciolo tempo le cose seguirono in forma, che per opera vedere si potè che non avea a fare con fantisini, ma con valenti e savi signori, come seguendo nostro trattato racconteremo. CAP. XCVII. _Come fu morto il re Vermiglio di Granata._ E’ ne pare venire a scrivere cosa assai disusata e sconvenevole non che a re cristiano, ma a qualunque barbaro, ma quale è scriver la ci conviene. Sentendo il re Vermiglio di Granata come i Mori aveano sopra sè per loro re esaltato Maometto, cui egli avea altra volta del reame cacciato, conobbe che non potea resistere a Maometto avendo seco il re di Castella, e però mandò al re di Castella in Sibilia, e gli domandò sua sicurtà e fidanza, con dire di volere venire a sua ubbidienza. La sicurtà data gli fu libera e piena; ma chi il re volle scusare del gran tradimento disse, non seppe che per parte del re domandato fosse il salvocondotto, nè che per lui dato non gli fu. Costui, quanto che fosse Saracino, lasciato il reame a Maometto, con quattrocento tra di suo sangue, e amici e di suo seguito, con molta ricchezza, sotto la fidanza del salvocondotto, se ne venne a Sibilia là dove era Pietro di Castella re, e a dì 20 del mese d’aprile, gli anni Domini 1362, venne davanti al re, e gli si gittò a’ piedi con grande reverenza e umiltà. Il re con buono viso il vide e ricevette, e nella Giudecca, che è luogo di grandi abituri e d’intorno murato, lo mise, e quello luogo assegnò a lui e sua compagnia, e in quel giorno gli mandò e doni e presenti amichevolmente: dipoi venuta la notte lo detto re Pietro fece prendere lo re Vermiglio e sua compagnia, e rubare tutto loro tesoro, e arme, e cavalli e arnese, e loro tutti mettere in buone prigioni con buone catene: loro tesoro recò tutto a sè, che passò la stima di ottocento migliaia di fiorini d’oro. E il sabato appresso a dì 24 d’aprile, il re Pietro fece menare davanti da sè il detto re Vermiglio in Tavolata, che è un campo fuori della città di Sibilla forse una balestrata, in su un asino, e con lui appresso tre de’ suoi maggiori baroni, gli altri, ch’erano quarantuno, tutti grandi Saracini, tutti legati a una fune; lo re Pietro a cavallo con molti suoi baroni e cavalieri con lance in mano, e colle spade a lato, avendo i Saracini al campo legati, lo re in prima lanciò e fedì in prima lo re Vermiglio, e gli altri appresso gli altri, e in poco d’ora tutti furono tagliati a pezzi in sul campo, e le teste loro fece a Maometto presentare; tutti gli altri ch’erano con lui fè servi. Questo re Vermiglio fu colui che cacciò e volle uccidere il re Maometto, e fatto re un giovane fratello del detto re Maometto il fè morire. È fama che tutti quelli che morti furono in Tavolata erano stati al re Vermiglio aiutatori, consigliatori e favoreggiatori. CAP. XCVIII. _Come il re Maometto di Granata si fece uomo del re di Castella._ Avendo il re Maometto ricevuto il ricco e famoso presente della testa del re Vermiglio suo nemico, e de’ quarantaquattro suoi seguaci i quali aveano morto il fratello, riconoscendo come per operazione del re Piero di Spagna egli era ritornato nel suo reame di Granata, di presente mandò suoi ambasciadori con pieno mandato al re Piero, i quali li sommisono il reame di Granata, e da lui in vece e nome del re Maometto come da superiore lo riconobbono, e lo re Maometto ne feciono suo uomo, e omaggio glie ne fece, e in segno della sommissione del reame a loro usanza li mandò pennoni di tutte le sue buone città e terre; e oltre a questo li presentò ricchi doni, e con essi tutti i cristiani ch’erano in suo reame fu donato loro libertà per amore del detto re. CAP. XCIX. _Principio di guerra dai collegati a messer Bernabò._ Fermata la lega tra santa Chiesa e’ signori di Lombardia, come scritto è di sopra, anzi che altro movimento per i collegati si facesse, messer Bernabò mandò sue genti sopra il signore di Verona verso il Lago di Garda, il perchè i collegati in questo tempo del mese di maggio con duemila cinquecento cavalieri della lega, e con assai gente da piè, mossono da Modena per occupare il passo a messer Bernabò, sicchè non potesse mandare a fornire le castella che tenea sul Bolognese; e stando questa gente a campo, quella di messer Bernabò venne sul terreno di Modena, e puosesi dove già fu un castello che si chiamò Solaro, il quale era sopra il canale di Modena, e perchè era nelle valli in luogo infermo era abbandonato, e in su quello castellare fè porre una forte bastita, e quindi avea balía da potere ire alle castella del Bolognese. La cavalleria della lega si pinse innanzi verso Reggio, e puosonsi a un altro castello abbandonato similmente detto la Massa, che anche è sul passo, essendovi ancora gli antichi fossi pieni d’acqua gli afforzarono; onde Anichino di Bongardo, ch’era a Solaro con l’oste di messer Bernabò, avendo vittuaglia per fornire Castelfranco, e l’altre castella del Bolognese, la si ritenne per l’oste sua, non sperando poterne avere stando ferma la bastita della lega. Vedendo messer Bernabò che la lega era contro a lui ben fornita, e potente di gente e di danari, si pentè d’avere sconcia la pace colla Chiesa, e di presente mandò lettere a’ suoi amici e protettori in corte, e appresso ambasciata con cercare si fermasse la pace, levando via tutti gli articoli ed eccezioni che posti avea, e l’altre disoneste dimande, rimettendo Bologna nelle mani de’ Fiorentini, o di cui il papa volesse. Il papa era contento, non avendo ancora che fosse ferma la lega, ma in quello stante le lettere del legato vennero al papa, come la lega era ferma e possente a resistere al tiranno, e avute queste novelle, il papa e’ cardinali al tutto rinunziarono di fare la volontà di messer Bernabò, e seguirono loro processo, e feciono lui e chi gli desse aiuto o favore scomunicato, e nominatamente gli Ubaldini, i quali tennono con lui contro alla città di Bologna. Avendo messer Bernabò mandato a corte, anche scrisse al comune di Firenze scusandosi, che per lui non rimanea il seguire della pace, e che la guerra non venia da lui. CAP. C. _Come e quando morì Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme._ Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme, signore d’assai sconcia e dissoluta vita secondo che richiede la reale maestà, tocco da divina spirazione, quasi consapevole di sua morte vicina, lasciando l’usate vanitadi, punto dal giudicio di sua coscienza, per penitenza e ammenda de’ suoi misfatti e difetti si mise umilmente in pellegrinaggio, e andò a visitare i corpi de’ gloriosi apostoli, di messer san Bartolommeo il quale è a Benevento, quello di san Matteo lo quale giace a Salerno, e quello di sant’Andrea il quale sta ad Amalfi, secondo che nel paese certamente si tiene per antica e indubitata credenza: e di tale viaggio tornato a Napoli cadde in malattia, e come piacque a Dio, senza disporre altrimenti de’ suoi fatti, dicendo che niente avea di suo da testare, ma che tutto era della reina Giovanna, anzi il principio del dì a dì 26 di maggio, il giorno della santa Ascensione, rendè l’anima a Dio, e in quel dì fu sepolto con reali esequi a....... avendo tenuto il regno dieci anni forniti dal giorno di sua coronazione. Signore fu di poca gravezza e meno d’autorità, e in aspetto e fatto senza scienza alcuna, e in fatti d’arme poi fu re poco si travagliò. Poco amore portò al suo sangue; il fratello aggrandì più per paura che per carità, i cugini trattò male, e per forza li si fece rubelli. Fu di sue promesse mendace e di ciò come di virtù si vantava sovente. Coloro ch’erano più scellerati peccatori de’ suoi baroni appresso di lui erano del più segreto consiglio e di maggior potenza, e con loro non avea onorevole conversazione di vita. Mobile fu, timido e pauroso ne’ casi dell’avversa fortuna, perocchè appresso di sè non volea uomini virtudiosi nè d’autorità. Molto era cupido di fare moneta, e la giustizia mollemente mantenea, e poco si facea temere a’ suoi baroni. Con il suo balio messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco, e da cui a’ suoi bisogni avea aiuto e consiglio alle grandi cose, molte volte per punzellamenti e malvagi conforti de’ suddetti suoi baroni venne in sospetto, e quando la virtù di colui s’allungava dalla corte i fatti del re andavano male. Alla reina facea poco onore, e o per suo difetto, ch’assai n’avea, o per fallo della reina, molte volte come una vil femmina in grande vituperio della corona la battea, e di quello ch’era suo non le lasciava fare nè a sè nè ad altrui il debito onore. Delle magnifiche cose che a lui parea aver fatto a tempo di guerra e di pace tanto si lodava e vantava, che ogni uomo che l’udia tediando facea maravigliare; e di tali frasche fece comporre scritture d’alto dittato, compiacendosi nelle proprie lusinghe. CAP. CI. _Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona, e non poterono._ Nel 1362 a dì 18 di maggio, i priori di Firenze raccolsono un parlamento d’oltre a seicento cittadini, nel quale spuosono i termini in che stava Pietrabuona, e come quelli che la teneano data l’aveano al comune di Firenze, e come i signori l’aveano presa a parole, pensando se si difendesse dalla forza de’ Pisani per quella riavere o Sovrana o Coriglia, terre da’ Pisani nel vero copertamente e maliziosamente tolte al comune di Firenze; non ostante che poco dinanzi per i detti signori fosse stato risposto agli ambasciadori pisani, che ’l comune non se ne travagliava, e più come ne’ prossimi giorni i Pisani aveano cavalcato sopra il terreno di Barga terra accomandata al comune di Firenze, e dandovi il guasto arando i seminati con più di cento paia di buoi, e tagliando loro gli alberi dimestichi, e le vigne e’ castagni, e come a undici soldati del comune di Firenze in sul distretto del comune di Firenze, i più conestabili, stando senza arme a vedere gittare i trabocchi in Pietrabuona, rabbiosamente ai più aveano tolta la vita e gli altri fatti prigioni; e recando alla mente le altre più gravi ingiurie per lo comune pazientemente passate con infignersi di non vederle, nonostante che poco dinanzi al detto parlamento per i signori di Firenze risposto fosse agli ambasciadori di Pisa, che de’ fatti di Pietrabuona il comune di Firenze non s’intendea di travagliare, si diliberò di concordia di tutto il detto consiglio che Pietrabuona e sua difesa si prendesse. In questi giorni avvedendosi i Pisani che i masnadieri di Pietrabuona erano caldeggiati dalla gente de’ Fiorentini, con molta più sollecitudine e studio procurarono di racquistarla, e combattendo con dodici trabocchi per dì e per notte tutta la macinavano. Dopo il partito preso della difesa, secondo il giudicio di molti intendenti, la difesa era presta dove il comune avesse fatto afforzare il poggio della Remita, che soprastava i battifolli de’ Pisani, ed era del distretto del comune di Firenze, ma nel tardare preso fu e guardato per i Pisani; e i Fiorentini in sul loro terreno dirimpetto a Pietrabuona, la Pescia in mezzo, puosono un battifolle che dava l’entrata e l’uscita libera agli assediati, il perchè molto se ne renderono sicuri quelli d’entro, ma dalli dificii i quali continovo il dì e la notte gettavano non poteano essere atati, e all’uscita di maggio vi cominciarono a gittare fuoco temperato, che eziandio offendeva alle pietre, e tanto spesso l’una pietra su l’altra venia disfacendo il castello, e offendeano alle persone, che ai pochi difenditori che stare vi poteano toglieva il vigore alla difesa. Oltre a queste continove battaglie i Pisani levarono un castello di legname sotto la guardia di loro battifolli, un’arcata vicino alla torre della rocca, contro al quale i Fiorentini feciono dirizzare un trabocco che l’avrebbe spezzato, se ’l maestro che ’l conducea fosse ito con fede a’ Fiorentini, ma era Aretino, e d’animo ghibellino, e però non adoperò quello ch’avrebbe potuto; i maestri dal lato pisano avendo alli quattro dificii giuntone uno più grosso, quello de’ Fiorentini sconciarono. In questi dì messer Bonifazio Lupo da Parma, chiamato da’ Fiorentini per tenere luogo di capitano, giunse a Firenze, e di presente andò a vedere il sito di Pietrabuona, e il modo e forma di suo assedio, e veduto ed esaminato tutto, scrisse a’ signori di Firenze che impossibile gli parea la difesa, e ciò fu a dì 4 di giugno; e a dì 5 del mese, il dì della Pentecoste, i Pisani, ch’erano presso al trarre delle balestra, con loro battifolli, con tutta loro forza di gente d’arme, e d’assai buoni balestrieri, movendo loro castello il condussono fino alla rocca. Quivi secondo il suo essere fu l’aspra battaglia a petto a petto, e non di manco li dificii de’ Pisani traevano sì temperati che loro genti non offendeano, e quelli del castello non lasciavano scoprire alla difesa; vollono gittare il ponte del castello del legname in su la torre di là, ch’era più bassa che il castello, e il ponte fu corto, e la difesa grande per l’operazione de’ buoni balestrieri d’entro, e durata questa pugna per spazio di parecchie ore, i Pisani si ritrassono addietro col castello del legname; quelli di Pietrabuona affannatisi ritrassono a rinfrescare, e non pensando per quello rimanente del giorno avere più battaglia, non di meno al soccorso loro erano tratti i cavalieri e’ masnadieri, quelli che stare vi poteano coperti da’ trabocchi. I Pisani in questo riposamento rallungarono il ponte al castello, e con più asprezza ritornarono alla battaglia, e condotto il castello lungo la rocca, gettarono il ponte in su la torre, ma per questo non si curavano quelli d’entro, che ben poteano tre a tre combattere; ma quale che si fosse la cagione quelli d’entro invilirono, e quelli ch’erano venuti al soccorso incominciarono a abbandonare il castello, e quelli ch’erano di que’ d’entro i caporali pensarono a volere salvare danari e altre cose sottili ch’aveano nella rocca, e però affocarono la torre e abbandonarono la difesa, onde i Pisani francamente presono la terra, e cui giugnere vi poterono misono al taglio delle spade, intra i quali fu Nieri da Montegarulli antico e pregiato masnadiere, il quale essendo arrenduto alla fede vi fu morto, e altri presi e feriti: coloro che l’altro dì v’andarono pe’ morti, e per ricogliere i prigioni, sopra i corpi de’ morti prendendoli furono morti, e simile i ricomperatori. La gente de’ Fiorentini abbandonato il battifolle e arso con non poca vergogna si tornarono a Pescia. Di questa vittoria la gloria e la burbanza de’ Pisani troppo fu sopra modo, e la befferia smisurata, e la festa tanto grande, che dove avessono acquistato una provincia non l’avrebbono potuta fare maggiore, dispettando e avvilendo i Fiorentini, e per loro lettere, e oltre a ciò aprendo quelle de’ mercatanti fiorentini di loro mano v’aggiugneano villane e ontose parole del nostro comune. I loro anziani e governatori posto il senno dall’uno lato osarono dire, che se i Fiorentini avessono cuore a muovere guerra, che i loro soldati ne legherebbe tre uno di loro, e se v’andassono i cittadini, li vincerebbono e legherebbono le femmine loro, e molte altre altere e brutte parole con la testa levata usarono contro il comune di Firenze per muoverli a cruccio e impresa di guerra, ignoranti delle rivoluzioni della fortuna, la quale per guerra assai loro apparecchiò di male. CAP. CII. _Come quelli della valle di Caprese furono traditi dagli Aretini._ Del mese di maggio, quelli della valle di Caprese con l’aiuto di loro vicini e amici tanto seppeno adoperare, che presono la Rocca cinghiata la quale era de’ Tarlati, e teneano questa e la rocca del Caprese, e con gli Aretini s’erano accordati di torre da loro potestà, e di dare loro ogn’anno certo censo riconoscendoli per maggiori, e doveano i nemici degli Aretini avere per nemici, e gli amici per amici, e li Aretini li doveano in loro stato conservare e difendere. Stando così gli Aretini infintamente feciono l’oste bandire sopra un castello di quelli da Pietramala, e richiesono quelli della valle di Caprese d’aiuto, i quali liberamente di buona voglia elessono di loro fanti dugento più eletti e pregiati, e uscito il podestà d’Arezzo coll’oste quelli della valle Caprese s’aggiunsono con lui, ed egli vedendosi costoro tra le mani ne presono centoventi, gli altri fuggendo camparono. Presi gli amici gli amici per questa via, e mandati ad Arezzo, la gente degli Aretini col podestà entrò nella valle di Caprese, e menarono a tondo guastando e consumando ciò ch’era in quella; rifuggiti i paesani alla rocca, la quale era da guatarla e lasciarla stare. Gli Aretini avendo i prigioni domandavano la rocca; i Caprigiani con franchi animi si dispuosono di volere innanzi morire, e di vedere i loro prigioni morire, che volessono le rocche dare agli Aretini, e di presente mandarono sindaco con pieno mandato per darsi al comune di Firenze, il quale stette sopra quindici dì in Firenze per ciò fare: gli Aretini con loro ambasciadori storpiarono che il comune non fece l’impresa, dicendo che le rocche erano in punto che contra loro non si poteano tenere, e che il loro comune era amico e fedele del comune di Firenze, e che avendo essi le rocche l’aveano i Fiorentini, e in breve tanto seppono dire e operare con gli amici loro, che ’l comune non li tolse, il perchè di poi si dierono a’ Perugini, e da loro si trovarono ingannati, come appresso a suo tempo diviseremo. CAP. CIII. _Della mortalità dell’anguinaia._ In questi tempi, del mese di giugno e luglio, l’usata pestilenza dell’anguinaia con danno grandissimo percosse la città di Bologna, e tutto il Casentino occupò, salvo che certe ville alle quali perdonò, procedendo quasi in similitudine di grandine, la quale e questo e quel campo pericola, e quello del mezzo quasi perdonando trapassa; e se similitudine di suo effetto dare si può, se ciò procede dal cielo per mezzo dell’aria corrotta, simile pare alle nuvole rade e spesse, per le quali passa il raggio del sole, e dove fa splendore e dove no. Or come che il fatto si vada, nel Casentino infino a Dicomano nelle terre del conte Ruberto fè grande dannaggio d’ogni maniera di gente: toccò Modona e Verona assai, e la città di Pisa e di Lucca, e in certe parti del contado di Firenze vicine all’Alpi, e nell’Alpi degli Ubaldini: a’ Pisani tolse molti cittadini, ma più soldati. Nell’Isola di Rodi in questi tempi ha fatti danni incredibili: e nel 1362 del mese di luglio e d’agosto assalì l’oste de’ collegati di Lombardia sopra la città di Brescia per modo convenne se ne partisse, e nella città fece danno assai. Nella città di Napoli e in molte terre dei Regno, ove assai, e dove poco facea, ove niente. Nelle case vicine a Figghine cominciò d’ottobre in una ruga, e l’altre vie non toccò. In Firenze ove in una casa ove in un’altra di rado e poco per infino a calen di dicembre. LIBRO UNDECIMO CAPITOLO PRIMO. _Il Prologo._ Sogliono naturalmente le cose opposte e contrarie insieme avvicinate più le loro contrarietà dimostrare. Questo pertanto al presente diciamo, perocchè la pace rotta al nostro comune per i Pisani, e la guerra per loro e mossa e cercata con molta astuzia sollecitamente per riavere il porto, ne presta materia di proemio all’undecimo libro di nostro trattato, prendendo principio dalla natura e condizione della pace fedelmente osservata, la quale è certo fermo e indubitato fondamento e grado delle mondane ricchezze, e della mondana felicità secondo il mondo. Ella è madre di unità e cittadinesca concordia; ella non solo alle piccole, ma eziandio alle menome cose partorisce accrescimento e esaltazione. I re del mondo loro reami in pace mansuetamente governano; i popoli liberi intenti a loro arti e mercatanzie moltiplicano in ricchezze, magnificando la faccia di loro cittadi con ricchi e nobili edificii, e per li sicuri matrimoni cresce e moltiplica il numero de’ cittadini con aspetto lieto e pieno di festa. E non solo i popoli che vivono in libertà, ma quelli che sottoposti sono al crudelissimo giogo della tirannia, la quale per sua malvagia natura e corrotta d’usanza a’ buoni e valorosi cittadini è del tutto e sempre nemica, e in palese e in occulto avversa, per la paura fitta nelle menti loro di perdere loro stato, maculati dalla coscienza delle loro crudeli e sanguinose operazioni; d’onde surge, che senza niuna pietà o discrezione ti disfanno e scacciano senza misericordia alcuna, affermando meglio essere terra guasta che terra perduta. Nè contenta loro perversa iniquità alle occupazioni delle loro cittadi, per cupidigia d’ampliare signoria le nazioni vicine tormentano, e massimamente i popoli che vivono in libertà, con continove guerre gradimenti e trattati. E per potere fornire loro empio proponimento, e mandare a esecuzione loro volontadi, i sudditi loro disfanno, moltiplicando gabelle e collette, ma con gravi imposte. Costoro spento il seme de’ buoni danno alquanto di respitto e triegua alle servili fatiche, un poco in pace patiscono ai loro sudditi respirare. Male dunque conosce e molto poco pregia la dolcezza della libertà chi per cupidigia di mortale vita la perde, se vita dirittamente ponderando appellare si può il servaggio. È dunque la pace bene considerata madre di letizia e d’ubertà, corona e nobiltà di potentissimi re e signori, protezione e scudo de’ liberi popoli, del tutto e per tutto avversa e nimica alla spaventosa, sterile e sanguinosa guerra, per la quale l’altissime cose caggiono e vengono meno. Quanti famosissimi re e signori nelle passate etadi ha ella straboccato in estrema miseria, con vilissimo e vituperabile uscimento di vita! Quante nobili famose e gloriose cittadi ha ella dai fondamenti sovverse, lo cui specchio è ai mortali manifestissimo argomento d’incredibili mali! Quante provincie ha ella lasciate disolate e povere d’abitatori in pauroso e spaventevole aspetto! Quanti e innumerabili popoli ha tagliati con ferro, e sommersi nel domestico e nel pellegrino sangue, i quali hanno lasciato di loro calamità, miseria, e avversa fortuna agl’ignobili luoghi famosi titoli! Chi potrebbe in piccolo numero di carte comprendere le incredibili e maravigliose cose che ne’ passati secoli il furore e la rabbia della guerra ha prodotte? Essa è occulto e malvagio seme, e ricettacolo della tirannia, la quale nel letume suo a guisa del fungo s’ingenera e surge, e nella sua pertinacia si nutrica e allieva. Dunque bene è d’abominare, e da recare dai buoni in persecuzione colui lo quale per ambizione, ovvero per propria malizia o disdegno, o per utilità privata, o per vendetta o per vanagloria la sua patria sospigne in guerra; e se noi amiamo il vero, io non conosco qual grazia trovare si possa nel cospetto di Dio per suo pentere, tutto che quasi stimi che impossibile sia il pentere tale uomo. Come può egli restituire le morti degl’innocenti e semplici? come gli omicidi? come gl’incendii? come le prede? come le violenze fatte alle oneste donne e alle pure vergini? come gli scacciamenti? come le povertadi? come le necessarie peregrinazioni? come il perdimento della libertà che tutte cose sormonta? Di quello che poco dire non si può è meglio il tacere: e qui far fine si dee, e dar luogo a chi molto può, e poco sa, e a molti offende. Anime tribolate, se potete, datevi in viaggio pace e buon piacere. CAP. II. _Degli apparecchi fatti da’ Fiorentini per la guerra contro a’ Pisani._ Il comune di Firenze per natura nell’imprese grave è e tardo, ma nel seguirle avveduto e sollecito, poichè deliberato avea di seguire l’inviluppata impresa incominciata contro a’ Pisani per Pietrabuona, e venia in aperta e palese guerra per vendicare sua onta, essendo i suoi governatori svegliati come da grave sonno, e infiammati per la vergogna prossimamente ricevuta, animosamente seguendo il consiglio di messer Bonifazio Lupo da Parma loro capitano, uomo quasi solitario e di poche parole, ma di gran cuore, e di buono e savio consiglio, e maestro di guerra, all’entrare del mese di giugno 1362 cominciarono a provvedersi intorno alle bisogne della guerra. E per coprire la tostana e sperata vendetta cominciarono a fabbricare a un’otta sedici trabocchi, nel lavorio de’ quali pigramente si procedea, per mostrare che l’assalimento avesse lungo tratto, e continovo sollecitamente si provvedeano di gente d’arme, e da cavallo e da piè. E per non mandare in arme la viltà delle vicherie, le quali senza lunghezza di tempo e lunga dimoranza, la quale è sempre nemica e nociva alla guerra, non si possono raccogliere, e perchè l’amistà e grazia de’ possenti sottrae dal comune servigio i buoni e’ valenti, e lascia i cattivi, mandarono i signori per tutti quelli gentili uomini e popolari di città e del contado, i quali sentirono abili e sofficienti a fare prestamente brigate di fanti e gente sperta in arme, e loro imposono e comandarono quanto più tosto potessono facessono il più gente potessono, i quali il comandamento senza dilazione mandarono ad esecuzione; sicchè il dì 15 di giugno il comune, che di gente di soldo e che di gente col detto ordine ricolta, si trovò millecinquecento uomini di cavallo, e quattromila pedoni, fra’ quali furono millecinquecento e più balestrieri. Ancora infra i detti giorni richiesono loro amistà, e infra gli altri richiesti furono i Perugini e’ Sanesi: i Perugini risposono, che per le novità aveano di loro usciti non aveano destro di potere sovvenire, e che bene sapeano che ’l comune di Firenze era tale e tanto, e di tanta forza e podere, che non che si potesse atare dal comune di Pisa, ma che agevolmente il dovea potere sormontare: i Sanesi senza altra scusa risposono, che non aveano gente da poterne loro servire: le quali risposte non sono da porre in oblio dalla liberalità del nostro comune, lo quale ne’ loro bisogni richiesto, di ciò che potuto ha non ha detto di no. Pistoiesi, Aretini, il conte Ruberto, e altri vicini vennono a servire il comune con quella gente da cavallo e da piè che fare poterono, onde il comune infra li 20 di giugno si trovò d’avere tra di soldo e d’amistà milleseicento cavalieri e cinquemila pedoni. I Pisani sentendo il fabbricare degl’ingegni, e la raunata di gente d’arme che si facea in Firenze, tutto ch’avessono certa la guerra per le cagioni dette di sopra, non di manco cominciarono a dubitare e temere, e cominciarono a fare sgombrare loro contado, e specialmente la Valdera, e afforzare e guarnire loro tenute verso le frontiere il meglio e il più pronto poterono, conducendo gente di soldo e da cavallo e da piè quanto poterono il più, con dare ordine a’ loro contadini e alle difese e a guardie di loro tenute. CAP. III. _Come seguendo gli antichi Romani gentili i Fiorentini nel dare dell’insegne al capitano presono punto per astrologia._ I nostri padri Romani prima che venissono al segno dell’imperio, in loro imprese di nuove guerre niente mai avrebbono incominciato, che prima felici augurii non avessono cerchi e veduti: pertanto ne’ sacrificii che facevano agl’idoli loro nelle interiora degli animali vittimati cercavano la sorte e l’avvenimento della fortuna; questo accecamento diabolico ed è ed esser dee in abominazione come avverso alla fede cristiana. Vicino e quasi consorte alla stoltezza degli augurii è quella parte dell’astrologia la quale predice i futuri avvenimenti delle cose nominate e singolari, e’ loro propri casi, e massimamente di riuscimenti di guerre, i quali sono nelle mani del signore Dio Sabaoth, che interpretato è Dio degli eserciti. I Fiorentini stratti del sangue romano, per vizio ereditario seguono i giudicii delle stelle, e altre ombre d’augurii sovente, e al presente avendo accolto l’esercito, di che avemo detto nel precedente capitolo, e volendo dare l’insegne, vollono il punto felice dall’astrologo, il quale fu lunedì mattina a dì 20 di giugno sonato terza, alla duodecima ora del dì; e ricevute l’insegne, avacciando il viaggio come cacciati, giunsono errore ad errore, perocchè sempre che insegne si dierono per guerra contro a’ Pisani, date volgeano al canto di Porta santa Maria, e poi per Borgo santo Apostolo; i governatori del fatto avendo sospetta la via di Borgo santo Apostolo, come al nostro comune male augurata contro a’ Pisani, le feciono volgere per Mercato nuovo, e per Porta rossa, e come poco avvisati non feciono prima levare i castagnuoli delle tende de’ fondachi, onde convenne s’abbassassono l’insegne. Il corso fu ratto, perchè non passasse l’ora data per l’astrologo al posarle fuori della terra a santa Maria a Verzaia, secondo l’antica usanza del nostro comune. Avemo arato il foglio con lungo sermone di lieve materia, ma fatto l’avemo per ricordo di quelli che dietro verranno, che non voglino sapere le cose future, nè porre speranza negl’indovinatori, perocchè solo Iddio è il giudicatore delle giuste e inique battaglie. Per alloggiare ne’ tempi loro le forestiere cose, lasceremo il processo della guerra di Pisa, e a suo tempo lo ripiglieremo. CAP. IV. _Della prospera fortuna de’ collegati lombardi._ E’ ne piace di fare un fascio di molte avvolture di santa Chiesa co’ suoi collegati lombardi, mescolando i tempi passati con quei di dietro, per non occupare troppi fogli con cose che non sieno rilevate. Del passato mese di maggio quelli della lega dopo la presura di Castelnuovo hanno tolto a’ nemici la terra di Salaro sita sopra il Po di Pavia, e la terra di Ligaria di qua dal Po, la quale è posta a otto miglia presso a Tortona, e più altre castella e ville del tenitorio di Pavia, e di giugno il castello d’Erbitra, il quale era del Saliratuo de’ Buiardi d’Elbiera, il quale per piacere a messer Bernabò, ritenendo il cassero a sè, gli avea prestata la terra per i bisogni di sua guerra: e il tiranno non osservata sua fede v’avea per sè fatta fare altra fortezza. Elbiera è vicina a Modena a otto miglia, ond’era camera a messer Bernabò d’onde forniva tutte le sue bisogne nella guerra co’ Bolognesi; il Saliratuo come fidato al tiranno praticava nel cassero ch’egli avea fatto, onde preso suo tempo, morte le guardie prese il cassero, e di presente con modi diede la terra al marchese di Ferrara. Appresso quelli della lega puosono l’oste a Brescia, e messer Bernabò che dentro v’era se ne fuggì. Qui lecito mi sia gridare e dire, che Dio confonde e avvilisce le arroganti parole che detto avea il tiranno che gastigherebbe i Lombardi venuti in lega come putti, ed eglino hanno gastigato lui. Giugnamo alle predette fortune, che essendo grande quantità d’Inghilesi infino a Basignano avvenne, che la gente di messer Galeazzo ch’era alla guardia del castello volendo fare del gagliardo si fè loro incontro, e di presente fu rotta, e alquanti ne furono morti, tutti gli altri rimasono prigioni. Sopra le dette baratte di guerra i collegati presono Gheda in sul Bresciano a dì 20 di luglio, terra che fa oltre a ottomila uomini: e quelli che teneano Basignano in sul Po per messer Bernabò, e per guardarla aveano spesi molti danari, e da lui altro che minacce non poteano ritrarre, la ribellarono, e la dierono a’ collegati, ricevuti da loro circa a diecimila fiorini d’oro, che aveano spesi in guardarla. Oltre alle predette cose i collegati hanno corso il Novarese e assediata Novara. Volgendo un poco il mantello a uso di guerra, avendo i collegati preso il castello del ponte a Vico in su l’Oglio, quelli della rocca si patteggiarono d’arrendersi se fra certi giorni non fossono soccorsi; i collegati aveano nel castello messe ventotto bandiere di cavalieri e soldati a piè assai, i quali non pensando che soccorso potesse venire stavano sciolti e con poco ordine; il castellano intendente compreso loro cattivo reggimento lo significò a messer Bernabò, il quale di notte con gran quantità di gente, e la mattina davanti il fare del giorno messo in ordine, per gli alberghi e per le case tutta la detta gente prese; e così va di guerra. Più la pestilenza dell’anguinaia avendo aspramente assalito la città di Brescia, e l’oste de’ collegati ch’era di fuori, li strinse a partire, e si tornarono a Verona, e quindi ciascuno alla terra sua. CAP. V. _Della morte di Leggieri d’Andreotto di Perugia._ Leggieri di Andreotto popolare di Perugia fu uomo di grande animo, e al suo tempo Tullio, perocchè fu il più bello dicitore si trovasse, e senza appello il maggiore cittadino ch’avesse città d’Italia che si reggesse a popolo e libertà, e il più amato e il più careggiato e dal popolo e da’ Raspanti, ma a’ gentili uomini li cui trattati avea scoperti forte era in crepore e malavoglienza. Avvenne che una domenica a dì 19 di giugno, essendo egli quasi all’incontro delle case sue nella via, e leggea una lettera, un figliuolo bastardo di Ceccherello de’ Boccoli, cui il detto Leggieri avea per lo trattato di Tribaldino di Manfredino fatto decapitare, il quale il tenea in continovo aguato cautamente per offenderlo, si trovò in una casa del Monte di Porta soli, la cui finestra a piombo venia sopra il capo di Leggieri; costui non trovando altro più presto prese una macinetta da savori la quale trovò vicina alla finestra, e presola a due mani l’assestò sopra il capo di Leggieri, e l’abbattè in terra morto, che mai non fè parola. Della sua morte non fu piccolo danno a’ Perugini, e per così lo riputarono, perocchè fare lo feciono cavaliere, e li feciono l’esequie regali e pompose col danaio del comune, per allettare gli altri che venissono poi a bene operare per la repubblica sua. CAP. VI. _Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e presono Ghiazzano._ Tornando alle fatiche nostre, manifestato ha sovente l’esperienza, che la disordinata e sfacciata baldanza de’ presuntuosi e alteri cittadini i quali sono suti per loro procacci dati, non dirò consiglieri, ma piuttosto balii e tutori a’ capitani nelle guerre del nostro comune, e a’ capitani e al comune hanno fatti vituperii assai, e notabili e gravi danni, e inrimediabili vergogne, talvolta per non conoscere e volere mostrare di sapere, talora con malizioso procaccio di loro private utilitadi e onori. Così essendo dati al capitano messer Bonifazio consiglieri assai vie più presuntuosi che savi, e coloro ritrovandosi in Pescia con l’oste de’ Fiorentini, avendo a cavalcare i nemici, non solo lo consigliavano, ma eziandio con parole e arroganti segni lo sforzavano, sotto la baldanza dello stato cittadinesco che usurpato aveano, che cavalcassono in quello di Lucca, dove fortuna quasi sempre al nostro comune era stata avversa; ma il valente capitano certificato già de’ vecchi errori in simili atti commessi, poco pregiando nel segreto suo e loro voglie e consigli, e non avendo loro autorità nè grandigia in dottanza, di fuori mostrava volere seguire loro talento, e nel petto tenea raccolto il suo; e contro all’opinione d’ogni qualunque il giovedì mattina a dì 23 di giugno partì da Pescia con tutta l’oste, e tenne verso Fucecchio e Castelfranco, e il seguente dì, il giorno di san Giovanni, si mise per lo stretto di Valdera a piè di Marti, certo dell’impotenza de’ nemici, e corse infino a Peccioli, e la sera combattè il castello di Ghiazzano, e per la moltitudine delle buone balestra tanto impaurirono quelli d’entro, che a dì 26 del mese dierono il castello salve le persone, il quale fu per camera del nostro comune infino alla presa di Peccioli, che poco appresso seguì. CAP. VII. _Come i Fiorentini soldarono galee contra i Pisani._ Non contenti i Fiorentini co’ Pisani alla guerra di terra con loro, vollono tentare la fortuna del mare, e del mese di giugno condussono a soldo Perino Grimaldi con due galee e un legno, e uno Bartolommeo di...... con altre due galee, i quali promisono con detti legni bene armati essere per tutto il mese d’agosto nella riviera di Pisa, e fare guerra a’ Pisani a loro possanza. CAP. VIII. _Come i Perugini presono la Rocca cinghiata e quella del Caprese._ Essendo gli ambasciadori e’ sindachi degli uomini e comunità di Val di Caprese stati a Firenze a sollecitare il comune che per suoi li prendesse, e con loro quelli della Rocca cinghiata, per la molta forza d’amici che si trovarono gli Aretini tra le fave, si sostenne che accettati non fossono, in danno e disonore del nostro comune: ond’essi dileggiati presa disperazione s’avventarono e dieronsi a’ Perugini, i quali li ricevettono graziosamente; e di presente del mese di luglio vi mandarono quattrocento fanti e centocinquanta uomini da cavallo, e presonsi le tenute di quelle due notabili rocche. CAP. IX. _Come novecento cavalieri di quelli di messer Bernabò furono sconfitti da seicento di quelli di messer Cane Signore._ Era la gente di messer Cane Signore e di Polo Albuino in numero di seicento cavalieri del mese di luglio 1362, essendo messer Bernabò in Brescia con gente molta più assai di cavallo, la detta gente di messer Cane in passaggio albergò dinanzi delle porte della città, e una domenica mattina partendosi di quindi per ridursi a Pescara e coll’altra gente della lega, lasciato fornite Ganardo e Pandegoli castella di nuovo per loro acquistate in sul Bresciano, ed essendo già intra ’l detto Pandegoli e Smaccano, la gente di messer Bernabò in numero di novecento barbute e oltra, che in que’ giorni s’era ricolta nel castello di Lenado, parendo loro avere mercato della gente di messer Cane, s’apparecchiarono ad assalirla. La gente di messer Cane sapendo che i nemici avanzavano il terzo e più, e che nel luogo dov’erano aveano il disavvantaggio del terreno, e che si metteano in punto per assalirli, non aspettarono, e il detto giorno nell’ora del vespro nella disperazione presono cuore, e assalirono francamente i nemici in su l’ordinarsi, e col favore di Dio li misono in rotta, e assai ne furono morti e magagnati e assai presi, intra’ quali di nome furono messer Mascetto Rasa da Como loro capitano, con venticinque conestabili assai pregiati in arme, e altri assai che non si nominano; e quindi a non molti giorni trecento barbute della gente di messer Bernabò in sul Bresciano dalla gente della lega furono sconfitti. CAP. X. _Disordine nato tra’ Genovesi per la guerra de’ Fiorentini e’ Pisani._ Messer Simone Boccanera primo doge di Genova, quando privato fu di sua dignità e cacciato di Genova si ridusse a Pisa, e da’ Pisani cortesemente fu ricevuto, e secondo il suo grado assai onorato; onde per la detta cagione essendo ritornato in Genova, e nello stato suo con la forza di suoi amici e seguaci, a tutto suo podere cercò che il comune di Genova desse il suo favore a’ Pisani, e già essendo entrati in lega con loro, quando il traffico de’ Fiorentini fu levato da Pisa, contro a qualunque navilio con mercatanzia ch’entrasse o uscisse dal porto di Talamone, e da quella a istanza de’ Fiorentini per lo suo consiglio e comune levato, quando vidde il fuoco della guerra appreso, con ogni sua forza e sottigliezza cercava che i Genovesi dessono loro favore a’ Pisani, ma i mercatanti ed altri cittadini a tutti suoi avvisi e sforzamenti s’oppuosono, pure tanto fè, che per deliberazione del comune s’ottenne e statuì che il comune di Genova si stesse di mezzo, e nullo aiuto o favore si desse nè all’uno nè all’altro. Occorse in istanza di tempo, che i signori priori di Firenze e gli otto della guerra scrissono a Francesco di Buonaccorso Alderotti mercatante stato lungamente in Genova, pratico con tutti i cittadini e da loro ben veduto, che conducesse quattrocento de’ migliori balestrieri i più pratichi in guerra che avere potesse a soldo, con un buono capitano o due. Ciò venne agli orecchi del doge, e sotto il protesto della deliberazione fatta per lo comune, che a’ Fiorentini nè a’ Pisani si desse favore, come è detto di sopra, prestamente fè fare personale bando, che niuno potesse conducere nè in Genova nè nella Riviera alcuno balestriere, e simile pena puose al balestriere se si conducesse. Il valente mercatante alle sue spese, sponendosi ad ogni pericolo per zelo di suo comune, se n’andò a Nizza ch’è della contea di Provenza, e qui s’accozzò con messer Riccieri Grimaldi, uomo valoroso e stato in più battaglie campali, e lui solo condusse capitano di quattrocento balestrieri a fiorini sette per balestro il mese, i quali furono tutti uomini scelti e usi in guerra. E per mostrare messer Riccieri che con amore e affezione venia a servire il comune di Firenze, volle che intra il numero de’ balestrieri fossono due suoi figliuoli, e due di Perino Grimaldi, i quali venuti a Firenze, e non trovando verrettoni a loro modo, anche fu scritto per gli otto al detto Francesco, che da Genova ne mandasse dugento casse. Ed essendo per lo detto doge posto grave pena a chi ne traesse del Genovese, il detto Francesco compostosi co’ doganieri, ne mandò subito centosettanta, le quali legate a quattro casse per balla con paglia, e invogliate a guisa di zucchero, e per zucchero si spacciarono alla dogana. Emmi giovato di così scrivere, perchè se onorato fosse chi bene fa per lo suo comune, gli animi degli altri s’accenderebbono a fare il simigliante. CAP. XI. _Come il re di Castella con quello di Navarra ruppono pace a quello d’Aragona, e lo cavalcaro._ Essendo legati insieme, come addietro è detto, lo re di Spagna, con quello di Navarra, con quello di Portogallo, e con quello di Granata, e col conte di Foscì, e con quello d’Armignacca contro il re d’Aragona, del mese di giugno il re di Castella con quello di Navarra, amendue in persona, con cinquemila cavalieri si misono sopra le terre di quello d’Aragona, la quale è lontana a Sibilia per otto giornate, e con sedici galee l’assalirono per mare, avendosi la pace lasciata dopo spalle, facendo grandi e disonesti danni. E avendo il re Piero di Spagna lungo tempo tenuta assediata la città di Calatau, e quelli della città difendendosi coraggiosamente, e non volendosi arrendere loro, lo re con giuramento promise, che se non si arrendessono, ed egli li prendesse per forza, che tutti li farebbe morire: quelli poco pregiando le sue minacce sollecitamente attendeano a loro difesa; infine del mese d’agosto il re per battaglia prese la città e non ricordandosi che i vinti fossono cristiani, incrudelito contro loro a guisa di fiera salvaggia, oltre a seimila cittadini disarmati e vinti fè mettere al taglio delle spade senza misericordia alcuna. CAP. XII. _Come per sospetto in Siena a due dell’ordine de’ nove fu tagliata la testa._ In questo tempo e mese di giugno, Giovanni d’Angiolino Bottoni della casa de’ Salimbeni con altri gentili uomini di Siena, e con certi dell’ordine de’ nove, il quale era posto a sedere, tennono trattato di dovere rimettere l’ordine de’ nove nello stato. Il popolo avendo di ciò odore, e pertanto in sospetto, corse all’arme, e nel furore furono presi un Tavernozzo d’Ugo de’ Cirighi, e uno Niccolò di Mignanello, ch’erano stati dell’ordine de’ nove, e furono decapitati. Il capitano della guardia, ch’era de’ Pigli di Modena, fece tagliare il capo a un frate e a certi altri: e furono posti in bando per traditori Giovanni d’Agnolino Bottoni, e messer Giovanni di messer Francesco Malavolti, e Andrea di Pietro di messer Spinello Piccoluomini, e Cinque di messer Arrigo Saracini, e Francesco di messer Branca Accherigi dell’ordine de’ nove. Poi a dì 3 di novembre il detto Giovanni co’ sopraddetti furono ribanditi, e riposti nel primo stato e onore. CAP. XIII. _Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo in su quello di Pisa._ Avendo messer Bonifazio Lupo preso Ghiazzano, e predata e arsa la Valdera tutta fuori delle fortezze, volendo più in avanti cavalcare per suo onore e del comune di Firenze, vietato gli fu da’ consiglieri che dati gli erano per lo comune senza mostrarli il perchè. Il valente capitano pregiando più suo onore che la grazia e amore de’ privati cittadini, e non curando i volti turbati, si mise in viaggio con l’oste ordinata per fornire sua intenzione. L’uno de’ consiglieri ito più là nello stato che non portava il dovere scrisse al fratello, ch’era degli otto della guerra, come il capitano nullo loro consiglio volea seguire, e che era uomo di sua volontà, e di mettere il comune in pericolosi luoghi, con dire procurasse fosse onorato com’egli onorava loro. Il che ne seguì, che per operazione del detto degli otto fu eletto per capitano messer Ridolfo da Camerino, e mandato per lui, e che prestamente venisse, mostrando che per le stranezze di messer Bonifazio il comune n’avesse gran bisogno: e tutto che di ciò ne sdegnasse messer Bonifazio nol dimostrò, ma come magnanimo ne fece di meglio. Tornando a nostro processo, messer Bonifazio spregiato il voglioso e poco savio consiglio, e forse malizioso e venduto de’ suoi consiglieri, lasciato Ghiazzano ben fornito e guarnito alla difesa, l’ultimo dì di giugno, arsa e predata la Valdera, con molto ordine cavalcò a Padule, villa ricca e fornita di belli abituri, e predata e arsa la villa prese Castello san Piero, e il mercato a Forcole, e per tre dì soggiornò in quei paesi correndo vicino a Pisa: e in quel tempo presono, arsono e guastarono trentadue tra castella, e fortezze e villate, nelle quali arsono oltre a seicento case, che fu danno quasi inestimabile; e intra l’altre fortezze presono Contro, e dieronlo in guardia a’ Volterrani. Ed essendo la gente grossa de’ Pisani a Castello del Fosso, i nostri vi mandarono e richiesonli a battaglia, ed eglino non s’attentarono d’uscirli a vedere: fu in animo del capitano di combatterlo, ma fallandoli gli ingegni di combattere castella, e vittuaglia, si partì quindi, e puosesi nel borgo di Petriolo, quivi aspettando il nuovo capitano; dove stando, per non tenere la sua gente oziosa, e per non dare respitto a’ nemici, quattrocento tra barbute e Ungari con cinquecento masnadieri, sotto la guardia e condotta di Leoncino de’ Pannocchieschi de’ conti da Trivalle di Maremma soldato del comune di Firenze, fece cavalcare nella Maremma, lunga dal luogo dov’era cinquanta miglia, verso Montescudaio e per que’ paesi, dove trovarono gran preda di bestiame e grosso e minuto, che per l’asprezza del luogo ivi s’era ridotto. I nostri non trovando contasto, fatto gran danno e arsione nel paese, a dì 9 di luglio menarono al campo dodici centinaia di bufole e novecento vacche, vitelle assai, e oltre a mille porci, e altro bestiame minuto assai, il quale sortito tra i predatori, solo messer Bonifazio per sua cortesia fu senza parte di preda, lasciandola a chi l’avea faticata. CAP. XIV. _Del processo della guerra da’ collegati a messer Bernabò._ Di questo mese di giugno, quelli della lega ripuosono il castello di Massa presso alla Mirandola, e lasciatolo ben fornito di vittuaglia e di gente alla guardia contendeano a guerreggiare sollecitamente. Dall’altra parte Anichino di Bongardo con la gente di messer Bernabò ha riposto il castello di Solaro in sul canaletto, che esce del canale di Modena, e fornitolo s’è accampato ivi presso nel bosco facendovisi forte. Il conte di Lando con messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di messer Bernabò corsono infino alla Mirandola ingaggiati di battaglia con la gente della lega, ma in que’ tempi che combattere doveano grave malattia prese messer Galeazzo, e, o che così fosse, o che fosse simulata per non si mettere alla fortuna della battaglia, il conte di Lando e messer Ambrogiuolo si tornarono addietro. Il marchese di Ferrara di questo mese tolse Voghera, terra d’oltre a dugento uomini, e Guarlasco e più altre terre. Cane Signore tolse la valle di Sale in sul lago di Garda, e più altre terre e fortezze. Alquanti vollono dire questa essere la cagione perchè il conte di Lando e Ambrogiuolo si tornarono addietro. In queste baratte e volture per operazione del conte di Lando certi conestabili tedeschi ch’erano al soldo della lega, loro caporale messer..... del Pellegrino, in numero tutti di undici, fatta congiura doveano tradire la lega, i quali furono presi, e trovando che ciò era vero furono decapitati. CAP. XV. _Come messer Ridolfo prese il bastone da messer Bonifazio._ Giunse a dì 6 di luglio messer Ridolfo al campo, che era fra Peccioli e Ghiazzano, dove dalla gente dell’arme ch’aveano posto amore alla cortesia e valore di messer Bonifazio con niuno rallegramento fu ricevuto; e dal vecchio capitano prese l’insegne, onorandolo in questa forma di parole, che la bacchetta e il reggimento dell’oste bene stava nelle sue mani, ma per ubbidire il comune di Firenze di chi era soldato la prendea: e presa, di presente lo fè maliscalco, ed egli ogni sdegno deposto in servigio del comune di Firenze l’accettò come era ordinato. CAP. XVI. _Della crudeltà che i Pisani usarono contra i Lucchesi per gelosia._ Mentre che l’oste del comune di Firenze pigra e malcontenta sotto il nuovo capitano dimorava tra Peccioli, e Ghiazzano in Valdera, aspettando il gran fornimento che ’l capitano avea domandato, i Pisani per non dimenticare la loro usata crudeltà, tutti i forestieri che al loro soldo erano in Lucca feciono ritrarre nell’Agosta, e segretamente avvisarono da cento cittadini ghibellini e loro confidati che per grida che elli udissono andare non si partissono, ma facessono vista di volere partire, acciocchè gli altri veggendo apparecchiare loro prendessono viaggio; e ciò fatto, feciono bandire che sotto pena dell’avere e della persona, che uomini e femmine, cittadini e forestieri, dovessono sgombrare la città e ’l contado presso alla città a mille canne, afin che compiesse d’ardere una candela che posta era alle porte. Fu miserabile e cordoglioso riguardo e aspetto di gran crudeltà vedere i vecchi pieni d’anni, le donne, le fanciulle lagrimose con sospiri e guai, e i piccoli fanciulli con strida lasciare loro case, loro masserizie e loro città, e ire e non sapere dove: i gentili e antichi cittadini, e nobili mercatanti e artefici in fretta e sprovveduti fuggire, come avessono spietati nemici alle spalle loro, e la terra loro lasciassono in preda. L’orribile bando fu al tempo dato ubbidito, e la terra lasciata fu vuota, e in sommo silenzio: di questo prestamente seguì, che i Pisani ch’erano alla guardia di Lucca co’ loro soldati e a piè e a cavallo furiosamente uscirono dell’Agosta colle spade nude in mano, e corsono l’abbandonata terra senza essere veduti da’ Lucchesi, gridando; Muoiano i guelfi; a Firenze, a Firenze: e non aveano potestà di cacciare la gente de’ Fiorentini ch’erano loro in su le ciglia. CAP. XVII. _Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra i Pisani, e del gran danno che ricevettono._ Continovando nostro trattato della guerra tra i Fiorentini e’ Pisani, con poca intramessa di cose di forestieri, perchè delle occorse in questi giorni, se occorse ne sono degne di memoria, poche ne avemo, e raccresciuta la forza del comune di Firenze, perchè il conte Niccola degli Orsini prima offertosi, e accettato, era venuto con cento uomini di cavallo, e così più altri gentili uomini, il perchè il capitano si trovò con duemila barbute e con cinquemila pedoni nel campo tra Peccioli e Ghiazzano, dove pigramente con molta sua infamia dimorava; il perchè messer Bonifazio Lupo infignendosi poco sano se ne venne a Firenze. Alla fine empiuto il gran fornimento che domandava, sotto il cui adempimento si scusava di sua pigrizia, più non potendo fuggire sue scuse, a dì 16 del mese di luglio con l’oste si partì da Peccioli, e la notte albergò a Ponte di Sacco, e ’l dì seguente passarono il fosso a malgrado della forza de’ Pisani che v’era alla guardia, con loro danno e vergogna, ed entrarono nel borgo di Cascina, dove preda e vittuaglia trovarono assai. La cagione fu, ch’essendo alla guardia del fosso un quartiere di Pisa con soldati e contadini assai, non pensarono che i Fiorentini vi potessono passare, e per tanto poco o niente v’era sgombrato. Gli Ungari de’ Fiorentini, come per natura sono desiderosi di guadagnare, e atti a scorrere, passarono insino alla Badia a Sansavino, e presono intorno di cinquanta prigioni. Il capitano tutto il giorno e ’l seguente stette col campo fermo a Cascina, dove intorno correndo le gualdane per spazio di più miglia, e di prede e d’arsioni danni inestimabili furono fatti. Il martedì mattina a dì 19 di luglio partiti da Cascina s’accamparono a Sansavino, e ’l fiore della gente da cavallo e da piè cavalcarono infino alla volta dell’Arno presso a Pisa a cinquecento passi, ed ivi alla Bessa con l’usate muccerie, ad eterna rinoma del comune di Firenze, e infamia de’ Pisani, feciono correre un ricco palio di veluto in grana foderato di vaio, il quale ebbe il conte Niccola degli Orsini, e lo mandò a Roma per onore della sua cavalleria. I corridori con assai di buona gente sotto il bastone di messer Niccola Orsini passarono Pisa facendo assai di male e vergogna a’ nemici. Fatte le dette cose si tornarono al campo: e quel giorno medesimo passata nona, ritornati al detto luogo, con assai meno gente per dirisione feciono correre palii l’uno ad asini, l’altro a barattieri, e ’l terzo alle puttane; onde i Pisani di tanta ingiuria aontati, seicento a piè con dugento cavalieri con molti balestrieri, con la imperiale levata, uscirono di Pisa per vendicare o in tutto o in parte loro oltraggio. La gente de’ Fiorentini, ch’era a fare correre detti palii, ed era in punto e vogliosa aspettando il detto caso, francamente s’addirizzò a loro, e li ruppono e li rimisono infino nelle porte con tanto ardire, che alquanti con loro mescolati entrarono in Pisa, e alquanti balestrieri saettarono nella terra, e ciò fatto si tornarono al campo: e quivi stando, il mercoledì arsono tutto ciò che poterono intorno a Pisa infino al borgo di san Marco a san Casciano, e Valdicaprona e molte altre ville, con molte belle e ricche possessioni nobilmente accasate. Il danno come incredibile piuttosto è da tacere che da scrivere: e per giunta a’ detti mali, i villani de’ piani ch’erano rifugiati in Pisa, e stavansi sotto loro carra lungo le mura, furono assaliti dalla pestilenza dell’anguinaia, e assai ne perirono. E ciò somigliava agl’intendenti giudicio di Dio, che dentro e di fuori così gastigasse i corrompitori della pace e della fede data per soperchio d’astuta malizia. CAP. XVIII. _Come messer Ridolfo assediò Peccioli, e prese stadichi se non fosse soccorso._ Poichè a messer Ridolfo parve avere fornito il dovere di suo onore, potendo molto più fare, mercoledì a dì 20 di luglio ripassò il fosso, e ritornossi a Ponte di Sacco; dove stando, casualmente fu preso un fante che portava una lettera per parte del castellano di Peccioli al capitano del fosso, la quale in sostanza diceva, che i soldati da cavallo e da piè con molti terrazzani, sentendo che ’l capitano de’ Fiorentini era a Sansavino occupato in molte faccende, erano usciti di Peccioli, e cavalcati in su quello di Volterra per guadagnare, e che tornati non erano, e la cagione non sapea, e che la terra non era in stato di potersi difendere se fossono combattuti o stretti per assedio, e che a ciò riparasse, e gli mandasse presto soccorso; ed era vero, che essendo la detta gente de’ Pisani cavalcata in su quello di Volterra, certa gente da piè e da cavallo del comune di Firenze, la quale era in Volterra, avendo boce della detta gente de’ Pisani loro si feciono incontro, e colla forza de’ contadini volterrani gli incalciarono e strinsono in forma, che non possendo fuggire nè ritornare per la via ond’erano venuti, lasciata la preda che fatta aveano, in sul fare della sera per loro scampo si ridussono in su un colle, e la notte si misono per la Maremma. Il capitano vista la detta lettera mandò prestamente gli Ungari e’ cavalieri innanzi per impedire la tornata della detta gente in Peccioli, e senza dimoro con tutto l’oste seguì, e quella medesima sera con l’oste attorneò tutta la terra, e il seguente dì la cominciò a cignere di steccato facendo sollecita guardia, e la sera in sul tramontare del sole, per conoscere se la lettera che egli avea trovata gli dicea vero, fece dare alla terra una battaglia per scorgere la gente che v’era alla difesa, e per quello comprendere si potè forse sessanta uomini con femmine assai si vidono, che diedono a intendere che vi mancava difesa; il procinto della terra era grande, ma forte e di muro e di ripe. Il capitano scorto il fatto pigramente procedea nell’assedio, dormendo la mattina insino a terza col letto fornito di disonesta compagnia, e menando vita di corte quieta; il perchè messer Bonifazio, uomo d’onesta vita e di vergogna pauroso, veggendo la sciolta vita del capitano e suo mal reggimento, infignendosi d’essere malato se ne venne a Firenze, e mostrando a’ signori che poco era loro onore e necessario, chiese licenza di tornarsi in Lombardia; i signori con loro consiglio considerando quanto era di bisogno al comune, lo pregarono e lo gravarono, che a tanto bisogno non abbandonasse il servigio per lui fedelmente cominciato, e che tornasse al campo a perseguire le buone opere sue, le quali bene erano conosciute e gradite da’ savi e buoni cittadini, e così conosciute quelle del suo successore; il perchè vinto per servire il comune tornò al campo. Il capitano corse in voce di poco leale per i suoi molti falli, e per non volere seguire la volontà del comune, e di ciò mostrò segni, perocchè la cavalcata che fatta avea sopra i Pisani non era stata volontaria ma sforzata, riprendendo sua tardezza, e potendo con suo onore stare dodici dì col fornimento che menò in su le porte di Pisa, e guastare gran parte di loro contado, il terzo dì se ne partì, e potendo per battaglia avere Peccioli, tanto soprastette, che le femmine armate le mura presono cuore alla difesa veggendo la viltà del capitano: ma infamato dalla partita di messer Bonifazio Lupo e da’ Fiorentini ch’erano nel campo, tutto che i suoi protettori lo difendessono, ed esso sè medesimo mostrando a molti le lettere ch’avea da Firenze, che si portasse cortesemente, pur mosso dal grido strinse la terra prima con battaglia tiepida e con poco ordine, e tanto debilmente si portò in detto e in fatto, che con vergogna da pochi di quelli d’entro, che pochi ve n’erano, vituperosamente fu ributtato, i quali intendendo loro fortuna aveano smisurata paura, e mostravano gran cuore per invilire quelli di fuori. Ritratto il capitano dalla poca favorata battaglia, ne’ fossi rimasono scale e grilli che infino alle mura erano condotti, di gran dispiacimento dei nostri cittadini che erano a vedere. Tra i rettori del comune, tutto ch’e’ conoscano il difetto, per la forza di medici radissime volte vi pongono rimedio obliando l’onore del comune. La fama della viltà e disonesta vita del capitano, o calunniosa o vera che fosse o falsa, pure lo stimolò alquanto; onde veggendo egli che i Pecciolesi erano spigottiti, cominciò a cignere la terra di steccato senza contasto, perocchè stracchi erano sotto le battaglie e sotto la continova guardia quelli che rimasi erano nella terra per più vili, perocchè tutti i gagliardi s’erano messi nella cavalcata sopra Volterra. Alla fine quelli d’entro veggendosi stretti, e senza speranza di soccorso, a dì 30 di luglio il vicario di Peccioli con più compagni senza niuna arme a sicurtà dal capitano vennono a lui, e patteggiarsi, che se per infino a dì 10 d’agosto non avessono da Pisa soccorso li renderebbe la terra salve le persone e l’avere, e per la fermezza di ciò dierono otto stadichi de’ più sufficienti uomini della terra, e due Pisani, i quali il capitano ricevette, e li mandò a Firenze. I Fiorentini ricevuti li stadichi, quasi certi d’avere la terra, perchè loro speranza non cadesse in fallo rafforzarono l’assedio, e mandaronvi mille balestrieri e dugento uomini da cavallo, e fornimento assai necessario alla bisogna; e come l’intento de’ Pisani tutto si dirizzò ad avere Pietrabuona, così lasciando stare ogni altra cosa, tutto quello de’ Fiorentini s’addirizzò ad avere Peccioli. Come per gli ambasciadori del comune di Peccioli si sentì il fatto in Pisa, subitamente nel Duomo radunarono il parlamento, dove per molti apertamente fu detto, che per loro governatori erano traditi, i quali affermavano che tanta gente avrebbono di Lombardia, che non che fossono cavalcati, ma che si cavalcherebbono i Fiorentini, di che gran borboglio si sparse per lo parlamento, e tale, che fè concitamento a civile romore. Essendo in Pisa questo tremore e sospetto, e dovendo succedere l’altro quartiere di Pisa a quello ch’era alla guardia del fosso, non vi volle andare, onde quelli che v’erano lo arsono e abbandonarono. CAP. XIX. _Come non essendo il castellano contento del patto messer Ridolfo fè gittare una delle torri di Peccioli in terra._ Perseverando a Peccioli l’assedio, il castellano che tenea le due forti torri che Castruccio v’avea fatte fare quando era signore di Pisa, non contento al patto che fatto era co’ terrazzani, combattea i nostri, e li villaneggiava di parole, stimando perduta la terra potere tenere la fortezza lungamente. Il capitano veggendo suo proponimento fece dirizzare alle torri, intra le quali era un ponte, una cava, e l’una d’esse fè mettere in puntelli, e il decimo dì d’agosto, il dì di san Lorenzo, ch’era l’ultimo del termine dato a’ Pecciolesi, il capitano fè dire al castellano il suo pericolo pregandolo s’arrendesse, e non volesse perire per soverchia baldanza. Il castellano e i fanti che con lui erano se ne feciono beffe, moltiplicandole villanie, e rimproverando al comune di Firenze la Ghiaia, il perchè il capitano fè affocare i puntelli, onde il fumo e il crepare della torre fè segno al castellano e a’ compagni che per lo ponte si rifuggissono nell’altra, e così feciono, e appena aveano tratti i piè del ponte, che la torre e ’l ponte cadde, onde cominciò a frenare la lingua: la torre cadde in sulle mura della terra, e di quelle abbattè bene quaranta braccia. I briganti dell’oste cupidi e vogliosi di preda ciò veduto s’apparecchiarono quindi a entrare nella terra per rubare; i terrazzani uomini e femmine senza arme corsono alla rottura, e gridarono, viva il comune di Firenze, ricordando la fede loro data, e la promessa fatta per lo comune; e il leale e buono cavaliere messer Bonifazio Lupo sotto la sua insegna con la sua gente si mise alla guardia del luogo, e non lasciò nè il dì nè la notte, che tutta era del termine, alcuno entrare dentro, affermando che ’l comune di Firenze era e sempre era stato leale osservatore di sue promesse. Il seguente dì, giovedì mattina a dì 11 d’agosto 1362, in su l’ora della terza, secondo i patti e le convenenze che fatte erano, il conte Aldobrandino degli Orsini con la brigata sua, appresso tre cittadini di Firenze con parte di gente fidata, presono la tenuta della terra pacificamente senza offesa niuna o di fatti o di parole, e nella terra con li stadichi insieme, che gli avea rimandati il comune, furono ricevuti allegramente e a grande onore. Dell’acquisto del detto castello e di giorno e di notte si fece gran festa, perocchè tenendolo pensavano essere i sovrani della guerra, perocchè dal detto castello ha sedici miglia di piano, rimiriglio alla città di Pisa. Il castellano vedendo che la terra era venuta nelle mani de’ Fiorentini, e considerando che la torre che gli era rimasa agevolmente si potea mettere in puntelli, si rendè, ma per i suoi dispetti non fu ricevuto se non alla misericordia del comune di Firenze, dove mandato fu per lo capitano con i suoi compagni. Venuto, fu tenuto consiglio di farli morire, che fu disonesta e abominevole cosa, e di malo esempio di volere fare morire coloro che per lo comune francamente e fedelmente s’erano portati: il parlarne, non che tenerne consiglio per i savi e buoni cittadini, fu ripreso; assai loro fu la prigione. In questi medesimi giorni i gentili uomini e signori del castello di Pava, il quale è situato e posto in sul passo da ire di Valdera in Maremma, ed è forte e bella tenuta, la dierono al comune di Firenze in prestanza mentre la guerra durasse, e il comune di Firenze con la grazia de’ detti gentili uomini lo faceva guardare. CAP. XX. _Come il capitano de’ Fiorentini prese Montecchio, Laiatico e Toiano._ Tolta la terra di Peccioli, come di sopra è detto, il seguente dì 12 d’agosto il capitano pose assedio al castello di Montecchio, dove erano ridotti dugento masnadieri per tenere a freno e guerreggiare la gente del comune di Firenze, i quali assai danno aveano fatto loro nell’assedio di Peccioli, e il detto castello di Montecchio circondarono intorno intorno strettamente, dove stati più giorni, alquante volte con battaglie gli tentarono; il perchè quelli d’entro inviliti intorno di sessanta di loro di notte si gittarono per uno dirupato d’altezza paurosa a vedere, e di loro ne morirono alquanti, e’ loro compagni al campare ebbono affanni assai. Quelli ch’aveano avuto paura di rovinare per quelle coste renderono il castello e le persone alla misericordia del comune di Firenze, e di loro centoquarantaquattro ne vennono a Firenze, i quali messi in prigione, dagli uomini e pietose donne fiorentine e di vivanda e di ciò che a loro bisognava abbondantemente furono provveduti. Il seguente dì, tornando al processo del capitano, cavalcò a Laiatico, e quello ebbe per battaglia; e il dì medesimo si posono a Toiano, e da’ terrazzani ebbono il castello, e pochi dì appresso la rocca, d’onde venne a Firenze la campana che è posta in sul ballatoio del palagio de’ priori, la quale ai mercatanti dà l’ora del mangiare. Dipoi il capitano cavalcò a Montefoscoli e a Marti per porvi assedio: ciò vietò il non trovarvi acqua, onde si tornò a Fabbrica; dove stando, il capitano cupido del guadagno mandò quattrocento cavalieri e masnadieri assai nella Maremma dove sentì esser fuggito molto bestiame. I mandati in pochi giorni, tornarono con gran preda di bestiame, preso il vicario di Piombino, grande popolare di Pisa il quale novellamente andava all’uficio, e per sua mala ventura si scontrò co’ suddetti, e con tutta sua famiglia rimase preso. La preda messer Ridolfo divise, non come fatto avea messer Bonifazio, ma capo soldo, e più che parte ne volle, di che forte ne fu biasimato, e dell’amore cadde di tutta gente d’arme ch’erano a sua ubbidienza. CAP. XXI. _Dell’aiuto che i Perugini in questi dì mandarono a’ Fiorentini._ Sentendo i Perugini che i Fiorentini aveano avuto la terra di Peccioli, e che loro fortuna sormontava, volendo ammendare il vecchio errore, commisono il nuovo maggiore, e mandarono a’ Fiorentini sessanta barbute e venticinque stambecchini, i quali come meritavano con torto viso e rimbrotti del popolo furono ricevuti. CAP. XXII. _Come il conte Aldobrandino degli Orsini si partì onorato da Firenze._ Il conte Aldobrandino degli Orsini, il quale era venuto al servigio del comune di Firenze, preso Peccioli si tornò a Firenze per tornarsi in suo paese. Il comune di Firenze avendo a grato il servigio per lui liberamente fatto, e ciò riputandosi a onore, lo provvidde largamente, e a dì 29 del mese d’agosto con rilevato onore lo feciono fare cavaliere del popolo di Firenze, e messer Bonifazio Lupo procuratore a ciò del comune: ed esso conte Aldobrandino fece il suo fratello minore cavaliere. E amendue d’arme e cavalli e d’altri doni cavallereschi riccamente furono provveduti e onorati; e per loro fece il comune un nobile e ricco corredo: e fornita la festa si partì di Firenze, accompagnato da tutti i cittadini ch’aveano cavalcature. CAP. XXIII. _Come e perchè si creò la compagnia del Cappelletto._ La Presura di Peccioli fu materia di scandolo tra ’l comune di Firenze e’ soldati, perocchè certi di loro, ciò fu il conte Niccolò da Urbino, Ugolino de’ Sabatini di Bologna, e Marcolfo de’ Rossi da Rimini, uomini di grande animo e seguito, con la maggior parte de’ conestabili tedeschi, a instigamento de’ procuratori di loro paghe, a dì 30 d’agosto detto anno 1362 mossono lite al comune, dicendo, che per la presura di Peccioli doveano avere paga doppia e mese compiuto, e che avendola in mano contro a loro volere il capitano prese li stadichi, dicendo, che se non avessono il debito loro non cavalcherebbono; e sopra ciò stando pertinaci mandarono loro ambasciadore a Firenze, e ciò feciono noto a’ priori il perchè avuto per i priori sopra ciò consiglio da chi di ciò s’intendea, determinarono che loro domanda non era ragionevole; onde tornato al campo l’ambasciadore con questa risposta, furiosamente il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo puosono un cappello in su una lancia, dicendo, che chi voleva paga doppia e mese compiuto si mettesse sotto il detto segno fatto, i quali in poca d’ora si ricolsono il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo con loro brigate, e molti caporali tedeschi e borgognoni, tanto che passarono il numero di mille uomini da cavallo, di che il capitano dubitò di tradimento, non possendoli con parole rattemperare, richieggendoli per loro saramento, e per la fede promessa al comune di Firenze, che loro indebito proponimento dovessono lasciare, e tutto era niente, che quanto più li pregava e richiedea più levavano il capo, e più li trovava duri e pertinaci. Onde per più sano consiglio essendo con tutta l’oste intra Marti e Castello del Bosco all’entrata del mese di settembre, levò il campo, e tornossi a san Miniato lasciando le tenute che prese avea fornite e di vittuaglia e di gente. Come ciò fu noto a Firenze, il detto conte Niccolò, Ugolino, e Marcolfo, e’ conistabili tedeschi di presente furono cassi, ed essi si radunarono all’Orsaia in quello d’Arezzo, e crearono compagnia, la quale per lo caso detto di sopra del cappello posto in sulla lancia titolarono la compagnia del Cappelletto, e quivi fatto il capo a’ ladroni, in piccolo tempo molto ingrossarono. I Pisani sentendo la dissensione della gente del comune di Firenze, rassicurati non poco, con l’arte loro ritolsono Laiatico, dove senza volere alcuno a prigione, uccisono venticinque fanti che v’erano dentro alla guardia, intra i quali furono cinque di nome; per la qual cagione i Fiorentini sdegnati trassono di Peccioli quasi tutti i migliori terrazzani, de’ quali parte ne vennero a Firenze, e per loro vita dal comune ebbono provvisione: gli altri terrazzani veggendo la gelosia presa per i Fiorentini, tutti quelli ch’avessono forma d’uomo se n’uscirono, onde la terra rimase a’ soldati. Il simile feciono quelli di Ghiazzano, e di Toiano, e dell’altre tenute prese pe’ Fiorentini. Nei detti dì essendo il capitano venuto a Firenze, i Pisani con seicento cavalieri e molti pedoni corsono in su quello di Volterra, e levarono preda di trecento bestie grosse, e uccisono alquanti uomini, e alquanti ne presono. La gente del comune ch’era in Peccioli non stava oziosa, ma sovente cavalcavano, sino sulle porte di Pisa, mettendo aguati, e prendendo prigioni, e facendo aspra e sollecita guerra, tanto feciono che ’l contado di Pisa verso le parti dove poteano cavalcare non s’abitava, nè si poneva a seme. CAP. XXIV. _Comincia la guerra che i Fiorentini feciono in mare a’ Pisani._ Del mese d’agosto le galee di Perino e quelle di Bartolommeo condotte al soldo dal comune di Firenze furono nella riviera di Pisa verso Piombino, facendo in quelle riviere gran danni, e in quelli giorni messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del regno di Puglia, alle sue spese mandò due galee a servire il nostro comune per tempo di due mesi, le quali detto tempo assai affannarono i Pisani, non lasciando nel porto di Pisa legno che non pigliassono, rubassono e ardessono: e all’isola della Capraia scesono in terra, e levarono preda di mille capi di bestie, e il simile feciono al Giglio e a Vada per tutta quella marina dove danni di preda o d’arsioni poterono fare, a grande onore del comune di Firenze. Perino Grimaldi all’entrata di settembre per simile modo correva la detta marina facendo gran guerra, e per battaglia prese la Rocchetta, la quale è posta in su la marina intra Castiglione della Pescaia e Piombino in forte luogo; li terrazzani rifuggirono nella rocca, e’ Genovesi presono la terra, e forniti di vittuaglia la rubarono e arsono. Fu riputato per Italia in grande onore al nostro comune, e non senza ammirazione di chi l’intese, che i Fiorentini potessono in mare più che i Pisani, e che per acqua li tenessono assediati. CAP. XXV. _Come e perchè i Romani si dierono al papa._ In quel tempo lo stato di Roma e reggimento era tornato nelle mani del popolo minuto, del quale si facea capo, ed era il maggiore e quasi signore un Lello Pocadota, ovvero Bonadota calzolaio, il quale col favore del detto popolo avea cacciati di Roma i principi, e’ gentili uomini, e’ cavallerotti, ed essi di fuori accoglieano gente, e misono in grida che aveano al loro soldo condotta la compagnia del Cappelletto, la quale allora era in Campagna, di che per questa tema i governatori di Roma feciono seicento uomini a cavallo di soldo tra Tedeschi e Ungheri, e altrettanti de’ loro cittadini, e numerato il popolo romano a piè si trovarono essere ventidue migliaia d’uomini armati, e per temenza la notte faceano guardare le porte. Occorse in questi giorni, o per sagacità che fosse, o per errore de’ gentili uomini, che avendo i Romani mandato loro potestà a Velletri, fama uscì fuori che quelli di Velletri l’aveano morto, onde i rettori di Roma diffidati di loro stato accolsono consiglio, e coll’autorità d’esso dierono al papa il governo della città liberamente come a signore: ben vollono per patto che messer Guido cardinale di Spagna non vi potesse avere alcuno ufizio o giurisdizione. Tu che leggi ed hai letto le alte maravigliose cose che feciono i buoni Romani antichi, e tocchi queste in comparazione, non ti fia senza stupore d’animo. CAP. XXVI. _Come Dio chiamò a sè papa Innocenzio, e fu fatto papa Urbano quinto._ Fu papa Innocenzio sesto uomo di semplice ed onesta vita, e di buona fama, colla quale passò di questa vita a migliore a dì 11 di settembre 1362, e a’ tredici dì fu seppellito alla chiesa di nostra Dama d’Avignone. Sedette papa anni nove, mesi otto e dì sedici: vacò la Chiesa di Roma dì quarantotto. I cardinali essendo chiusi in conclavi in numero ventuno a dì 28 di settembre, si trovò che dato aveano quindici voci al cardinale...... che fu vescovo di...... monaco nero, e di nazione Limogino, uomo per età antico, e per vita di penitenza, e del tutto dato allo spirito, a cui essendo revelato lo squittino, avanti che pubblicato fosse papa con molto fervore d’amore e umiltà rinunziò. I cardinali, perchè per avventura non era chi arebbono voluto, accettarono la rifiutagione. Appresso il cardinale di Tolosa nipote del cardinale d’Aubruno ebbe undici voci delle ventuno, un altro dieci, un altro nove, onde a’ trenta di settembre gara entrò tra’ cardinali, ed erano in grande discordia, ch’una parte d’essi il volea Limogino, e l’altra no. In fine come piacque a Dio, da cui viene ogni bene e ogni grazia, il dì ultimo d’ottobre elessono in papa messer Guglielmo Grimonardi, nato della Siniscalchia di Belcari, il quale era abate di san Vittore di Marsilia, dell’ordine di san Benedetto, uomo d’età di sessanta anni, onesto e di religiosa vita, pratico e intendente assai. Costui di settembre era venuto con danari che la Chiesa mandò al legato ambasciadore alla reina Giovanna, passò per Firenze, e di convito de’ signori fu riccamente onorato; sentita per lui la morte d’Innocenzio si partì di Firenze, ed osò dire, che se per grazia di Dio vedesse papa che avesse in cura di venire in Italia, e alla vera sedia papale, e abbattesse i tiranni, e l’altro dì morisse, sarebbe contento. I cardinali perchè non era in Avignone, come scritto avemo, quando fu eletto, lo tennono celato, e mandarono per lui fingendo per certe cagioni averne prestamente bisogno, e segretamente a dì 30 d’ottobre entrò in Avignone, e a dì 31 fu pubblicato papa, e nomato Urbano quinto: prese il manto e la corona a dì 6 di novembre. CAP. XXVII. _Come al re Pietro di Castella morì un figliuolo che avea._ La novità del fatto ne dà materia di mettere in nota quello che passare con silenzio, essendo stato il caso in altrui, non era da ripigliare. Del mese d’aprile passato, Pietro re di Castella avendo un figliuolo di dama Maria sua femmina d’età di tre anni e mezzo, volle dare a intendere, e fare credere al suo reame, che fosse legittimo e naturale, e pubblicamente osò dire, che la detta dama Maria era sua legittima sposa; e per affermare a’ sudditi suoi quello dicea, volle e ordinò che tutti quelli che aveano a fare omaggio alla corona a certo giorno dato giurassono fedeltà nelle mani del fanciullo, e così feciono tutti i suoi baroni, chi per amore e chi per paura, e per reverenza d’omaggio tutti li baciarono la mano, e il simile feciono i sindachi di tutte le comunanze del suo reame. Nel detto anno del mese d’ottobre il fanciullo morì, di che il re duolo ne prese a dismisura, e vestissene a nero con tutti i suoi baroni. Dimostrò che a Dio sovente non piace quello che piace all’uomo, massimamente le burbanze. CAP. XXVIII. _Come Perino Grimaldi prese l’isoletta e castello del Giglio._ All’entrante del detto mese d’ottobre, Perino Grimaldi da Genova al soldo del comune di Firenze con due galee e un legno, giunte a lui l’altre due galee condotte per lo comune, si dirizzò all’isola del Giglio, e scesi in terra con molto ordine assalirono la terra con aspra battaglia. I terrazzani tutto che sprovveduti francamente si difesono, e per lo giorno la battaglia durò dalla terza al vespero, nella quale di quelli d’entro molti ne furono morti, molti magagnati dalle buone balestra de’ Genovesi. Partita la battaglia i Genovesi si tornarono a loro galee, e medicarono i loro fediti, e presono la notte riposo. Il seguente dì la mattina tornarono alla battaglia con molto più cuore e ordine, avendo scorta la paura e il male reggimento di quelli della terra: così disposti andando, si feciono loro incontro tre di quelli della terra senza arme gridando, pace pace, e giunti al capitano, lui ricevente per lo comune di Firenze dierono la terra salvo loro avere e le persone, e così per Perino furono graziosamente ricevuti, e nella terra i Genovesi entrarono, non come nemici, ma come terrazzani pacificamente, e’ terrazzani si trassono con loro a combattere la rocca, con minacciare il castellano, il quale, cominciata la battaglia, vile e impaurito, temendo non tagliassono la rocca da piè con le scuri, disse si volea arrendere salvo l’avere e le persone, e avendo dal comune di Firenze le paghe ch’avea servite, e così fu ricevuto. Perino avendo fatto tanto nobile acquisto al nostro comune, fornita la rocca di vittuaglia e di sufficienti guardie, e seguendo la felice fortuna prese viaggio verso l’Elba. Il comune di Firenze mandò castellano al Giglio; e perchè avea soperchiati i Pisani in mare fè disordinata festa e letizia e di dì e di notte. Questa ventura fu tenuta mirabile, e operazione di Dio piuttosto che umana, considerato che la terra e la rocca sono da guardarle e lasciarle stare, e nè la forza del comune di Genova, che più volte avea tentato la ventura dell’acquisto del Giglio, nè quella de’ Catalani, nè quella de’ Pugliesi, che più e più volte aveano cercato il simile, e con aspre e continove battaglie aveano combattuta la terra, e non potuto acquistarvi una pietra, facevano la cosa più ammirabile. Come a Pisa fu la novella sentita duri lamenti vi furono, parendo loro vilia di mala festa, poichè i Fiorentini li sormontavano in mare: e di certo loro intervenne il detto del savio, il quale dice: Extrema gaudii luctus occupat; che suona in volgare: Gli estremi della letizia sono occupati dal pianto; così occorse a’ Pisani, per la disonesta e pomposa festa e allegrezza che feciono per Pietrabuona, avvilendo in parole e in fatti a dismisura i Fiorentini, la quale in sì breve tempo fu soppresa da tante avversitadi. E ciò è chiaro esempio al nostro comune d’usare la vittoria onestamente, e non straboccare nelle vane e pompose feste per loro vittorie. CAP. XXIX. _Come messer Piero Gambacorti per trattato si credette tornare in Pisa._ Piero Gambacorti uscito di Pisa, il quale molto tempo innanzi che la guerra si cominciasse, avendo rotto i confini che per lo suo comune gli erano stati assegnati a Vinegia, si conducea in Firenze per essere più vicino di Pisa, se la fortuna gli avesse apparecchiato via da ricoverare suo stato. E stando in Firenze, del mese d’ottobre tenne segreto trattato co’ suoi fidati amici, che molti ancora n’avea, di ritornare in Pisa con la forza de’ Fiorentini, che di qui gli era promessa e doveali essere data la porta di san Marco; proseguendo suo trattato, ed essendo dato il giorno, a dì 10 d’ottobre, col capitano de’ Fiorentini, e con settecento cavalieri e trecento Ungari si partì di Peccioli, e giunsono a Pisa nella mezza notte, ed entrarono nel borgo di san Marco; ed essendo all’antiporto della terra, e non essendo loro risposto, cominciarono a volere rompere quella: dentro desto il fatto di subito furono all’arme, e la terra tutta impaurita e in tremore: due conestabili de’ nostri, ch’erano già in su l’antiporto vi furono morti: e non sapendo quelli d’entro se quelli di fuori erano assai o pochi, mandarono fuori tre bandiere d’uomini a cavallo, i quali per i nostri furono tutti tra presi e morti; onde i Pisani veggendo che il fatto era maggiore che non si stimavano, giugnendo paura a paura per la notte, si dierono a guardia delle mura sollecitamente. Veggendo il capitano e Piero che ’l fatto era scoperto, e la sollecita guardia, e non sentendo dentro dissensione di romore cittadinesco, arsono il borgo, e co’ prigioni e preda si tornarono a Peccioli. La cagione perchè non ebbe effetto il trattato fu, che la sera innanzi che i nostri cavalcassono presentendo i Pisani che trattato era nella terra, tutto non sapessono che, in caccia feciono tornare tutti i loro soldati a cavallo e a piè in Pisa; veggendo gli amici di Piero ciò non s’ardirono a scoprire per paura: se ciò non fosse stato, Pisa per quella volta venia alle mani del comune di Firenze. Credo nol volle Iddio per meno male, che tanto erano infiammati i Fiorentini, che rischio era della desolazione di quella città. Tornati i nostri a Peccioli, il seguente giorno cavalcarono al Bagno ad Acqua e arsonlo, e molte altre ville d’attorno. CAP. XXX. _Come Perino Grimaldi soldato del comune di Firenze prese Portopisano, e le catene del detto porto mandò a Firenze._ Nel detto anno del mese d’ottobre, Perino Grimaldi a soldo del comune di Firenze, con quattro galee e un legno bene armati e di buona gente, avendo fatto dannaggio assai per la riviera di Pisa, si mise in Portopisano, e giunti alle piagge, e con barche misono a terra una parte de’ loro balestrieri, i quali colle balestra francamente assalirono cinquanta cavalieri e molti fanti che per i Pisani erano posti alla guardia del porto, temendo che l’armata de’ Fiorentini non li danneggiasse nel seno del porto loro. La gente de’ Pisani non potendo sostenere l’oppressione della balestra abbandonarono il porto, onde i Genovesi presono il molo, e senza arresto giunti al palagio del ponte v’incominciarono colle balestra aspra battaglia: nel palagio erano venti masnadieri, i quali ben guerniti alla difesa non lasciavano i Genovesi appressare alla porta. Durando la detta battaglia per lungo spazio, il capitano delle galee saputo guerriere fece a due galee levare alto gli alberi, e miservi l’antenne, e nella vetta di ciascuna antenna mise una gabbia, e allogò due de’ migliori balestrieri ch’egli avesse nell’armata, e le galee condussono vicine al palagio, e l’antenne levavano alte a bassavano come domandavano i balestrieri ch’erano nelle gabbie, e talora erano al pari del palagio, e talora più alti, e ferendo i fanti ch’erano alla guardia sopra la porta non li lasciavano scoprire alla difesa, onde quelli ch’erano a piè del palagio sentendo allentata la difesa spezzarono le porte, e presono il palagio con quelli che dentro v’erano; poi si dirizzarono all’una delle mastre torri, e quella per simile modo ebbono e abbatterono, e nel cadere che fece uccise alcuni Genovesi che la tagliarono, l’altra torre ebbono a patti; e ciò fatto, prestamente rifeciono il ponte in su l’Arno, ch’era tagliato, e addirizzaronsi al palagio della mercatanzia e al borgo, e quelli per lungo spazio combatterono, ma per i cavalieri e masnadieri che quivi erano rifuggiti niente vi poterono acquistare, tutto che gran danno colle balestra facessono. Tornati al porto baldanzosi per la vittoria arsonvi una cocca che v’era carica di sale, e più altri legni che vi trovarono; e per dispetto de’ Pisani, e per rispetto della nuova vittoria de’ Fiorentini, velsono le grosse catene che serravano il porto, e quelle, carichi d’esse due carri, mandarono a Firenze, strascinandole per tutto per derisione, delle quali furono fatte più parti, e in tra l’altre quattro pezzi ne furono appesi sopra le colonne del profferito dinanzi alla porta di san Giovanni. E fu per chi il fè avuto rispetto alla perfidia de’ Pisani, i quali per i nobili servigi ricevuti loro donarono quelle colonne abbacinate, e coperte di scarlatto, e perchè l’uno esempio chiamasse l’altro. CAP. XXXI. _Come messer Bernabò mandò a papa Urbano a proseguire la pace._ Come messer Bernabò sentì la coronazione di papa Urbano quinto creò solenne e onorevole ambasciata, e mandogliele, i quali fatto la debita reverenza, e rallegratisi in persona di loro signore di sua coronazione, appresso gli esposono come messer Bernabò con reverenza domandava di volere seguire l’accordo già cercato tra la santa Chiesa e lui; il papa con grave aspetto avendo ricevuti gli ambasciadori, con quello medesimo rispose, che quando il signore loro avesse renduto a santa Chiesa le terre sue, le quali contra ogni giustizia tiene occupate, e volesse delle sue perverse operazioni tornare a penitenza e a obbedienza della Chiesa di Dio, come fedele cristiano che lo riceverebbe. Allora gli ambasciadori ricorsono al re di Francia che del detto mese di novembre era in Avignone, perchè si facesse trattatore e mezzano, il quale dal papa ebbe simigliante risposta, e di corte si partì mal contento; e per questo e per altre cagioni gli ambasciadori di messer Bernabò lo seguirono, pregandolo ritornasse in corte, e niente ne volle fare. Partito il re, indi a picciolo tempo il santo padre fermò gravissimi processi contro a messer Bernabò d’eresia e scisma, i quali si pubblicarono in Firenze domenica a dì 29 di gennaio 1362, ne’ quali erano molti articoli d’eresia, e intra gli altri, che egli tenea d’essere Iddio in terra, massimamente nel distretto suo, e assegnolli termine a irsi ad escusare per tutto il mese di febbraio 1362. CAP. XXXII. _Domande fatte per lo re di Francia al papa._ Quattro cose dopo la visitazione e rallegramento di sua coronazione domandò il re di Francia al santo padre; in prima, quattro cardinali de’ primi facesse: appresso sei anni le rendite di santa Chiesa in suo reame domandando di poterle in tre anni ricoglierle per aiuto a pagare il re d’Inghilterra, di quello che per i patti della pace fare li dovea: la terza domanda fu, che gli piacesse per mezzanità sua seguire il trattato della pace con messer Bernabò, promettendoli di fare stare contento messer Bernabò a quattrocento migliaia di fiorini, i quali dovesse pagare la Chiesa al re in otto anni, cinquantamila per anno, mostrando che ciò gli era in grande acconcio alle faccende che a fare avea con il re d’Inghilterra, affermando che messer Bernabò glie ne facea sovvenenza quel tempo che a lui piacesse: la quarta domanda fu, che piacesse a sua santità dare opera che la reina Giovanna fosse sposa del figliuolo. A questa ultima il papa prima rispose, che quanto per sè esso n’era molto contento, e gli piacea, quando il figliuolo dimorasse nel Regno, e prestasse il saramento e il debito censo a santa Chiesa, e dove fosse in piacere della reina cui ne conforterebbe. All’altre domande disse al re che n’arebbe suo consiglio, e che perciò non bisognava ch’egli stesse, che a tempo li risponderebbe; e per non avere materia di fare in dispiacenza del re, che avea chiesti quattro cardinali, per le digiune nullo ne volle fare. Il re passò il Rodano visitando le terre della Provenza, mal contento alle risposte del papa. CAP. XXXIII. _Di grande acquazzone che in Italia fè danno._ All’entrata di novembre per tutta Italia furono grandissime e continove piove; in Lombardia ruppono gli argini del Po in più luoghi, e tutto il paese allagarono con danno grandissimo de’ paesani; in Firenze ruppono la pescaia della Porta alla giustizia, e il muro fatto per lo comune per riparo della Piagentina, e stesonsi l’acque in essa profondandosi forte, e vennono insin presso alle mura sopra la Porta alla giustizia, a quelle tosto arebbono con la porta e colla torre del canto gittate in terra, se non fosse stato il presto argomento di buoni maestri, i quali con pali a castello e con altri ripari sollecitamente e di dì e di notte puosono riparo. CAP. XXXIV. _Come il re di Cipro andò ad Avignone con tre galee._ Il dì tre di dicembre 1362, lo re di Cipro con tre galee apportato andò ad Avignone al santo padre, per ordinare e dar modo con lui al passaggio oltremare non ancora maturo; il perchè i saracini sentendo suo cercamento, in Egitto, e in Damasco e in Soria presono molti cristiani, e forte gli afflissono: e per tanto questi accennamenti sono ai cristiani che di là praticano forte dannosi. CAP. XXXV. _Come morì Giovacchino degli Ubaldini e lasciò reda il comune di Firenze._ Del mese di dicembre di detto anno, per uno fedele di Giovacchino di Maghinardo degli Ubaldini rivelato gli fu, che Ottaviano suo fratello l’avea richiesto, e tenea trattato di torli Castelpagano; Giovacchino volle che il fedele seguisse il trattato, e procedendo a tanto venne al fatto, che Giovacchino essendosi dentro fornito in modo che non potea essere forzato, ordinò che il fedele al giorno dato mise i fedeli e’ fanti di Ottaviano; Giovacchino fece serrare le porte, e mettere al taglio delle spade quelli che dentro v’erano racchiusi. Occorse ch’uno fedele di Ottaviano veggendosi in luogo da non potere campare, disperando, come un verro accanato si dirizzò a Giovacchino, e lo fedì nella gamba, della quale fedita di spasimo indi a pochi giorni morì. Conoscendo Giovacchino il poco amore del fratello verso lui, e ch’era cagione di sua morte, fè testamento, e lasciò erede il comune di Firenze; il quale poi del mese di febbraio per suo sindaco, come giusto e legittimo erede prese la tenuta di Castelpagano, e d’altre terre e beni che s’apparteneano al detto Giovacchino. CAP. XXXVI. _Come il conte di Focì sconfisse e prese quello d’Armignacca._ Erano gare e questioni spiacevoli e gravi intra il conte di Focì e il conte d’Armignacca, il perchè in fine ciascuno fece suo sforzo sì di sua gente e sì d’amistà, e a dì 5 di dicembre ingaggiati di battaglia si trovarono in sul campo all’Isola presso di Tolosa, e commisono insieme aspra battaglia, la quale per la pertinacia della buona gente che temeva vergogna sì dall’una parte come dall’altra durò per lungo spazio di tempo, dove si trovò morti in sul campo tra dall’una e dall’altra parte oltre a tremila uomini da cavallo, che ve n’ebbe mille cavalieri e gentili uomini di rinomea, e a quello di Focì rimase il campo, e quello d’Armignacca fedito rimase prigione, e con lui il conte di Giagne, e il conte di Montelesori, e ’l signore di Libret con due suoi fratelli, e il conte di Cominga, e più altri signori e gentili uomini di nomea. CAP. XXXVII. _Come i Pisani vollono torre il campanile d’Altopascio._ I Pisani, come uso di guerra richiede, solleciti ad offendere loro avversari, tutto che ’l verno soglia prestare triegua alle guerre campali, a dì 8 di gennaio di detto anno con seicento cavalli e duemila buoni pedoni si strinsono al campanile d’Altopascio, che l’altro per loro era stato arso, come di sopra narrammo, e quello assediarono, ma assediati dalla durezza del verno finiti i cinque giorni lasciarono l’impresa, il perchè i Fiorentini a’ 17 dì del mese, il dì di santo Antonio, veggendo che i Pisani s’erano partiti dall’assedio, considerando che la fortezza era stecco nell’occhio al Pisano, vi mandarono il conte Francesco da Palagio con venticinque uomini a cavallo e dugento fanti, e con molti maestri per riporre il castello sotto la sicurtà del campanile: i Pisani, che vicini erano al luogo, sentendo il fatto, con seicento cavalieri e duemila masnadieri assalirono i nostri, i quali trovarono sospesi e attenti al lavorio, i quali per lungo spazio di tempo francamente si difesono come prod’uomini, ma il proverbio è pur vero che i più vincono, i Pisani per le rotture del muro si misono dentro, onde i nostri non potendo sofferire pensarono a ritrarsi a salvamento, de’ quali cento e più si fuggirono nel campanile, gli altri alle terre del comune di Firenze vicine ad Altopascio; e in tanta zuffa non vi furono morti che sei, uno dalla parte fiorentina e cinque dalla parte de’ Pisani, magagnati e fediti d’ogni parte ne furono assai. La nostra gente da cavallo che già sentito avea il romore traeva al soccorso, e traendo caddono ne’ guati che per i Pisani erano messi, e rimasonne otto presi, i quali agli altri scopersono i guati. I Pisani ciò fatto a dì 27 del mese si partirono e arsono quello che rimaso era da ardere fuori del campanile, e partiti di là si puosono a oste a Castelvecchio, e i Fiorentini armati, e ciascuno in distanza di piccolo tempo se ne partì senza fare frutto niuno. CAP. XXXVIII. _Come in Firenze s’ordinò tavola per lo comune per servire i soldati._ Gl’ingordi e disonesti usurieri, che sotto colore di prestanza sovvenieno i soldati di loro comune, portavansene i loro soldi, l’arme e’ cavalli, il perchè il comune ai suoi bisogni non li potea avere cavalcati; mosse il comune a fare banco, il quale con danari del comune potesse sovvenire a’ soldati, e del mese di febbraio 1362 fu ordinato co’ suoi ufiziali, i quali, nel detto anno in calen di marzo cominciarono l’ufizio, ed ebbono al cominciamento del banco dal comune quindicimila fiorini. CAP. XXXIX. _Come i Pisani vollono torre santa Maria a Monte._ A dì 26 del mese di gennaio, il capitano de’ Pisani Rinieri del Bussa da Baschi con ottocento cavalieri e tremila pedoni cavalcò a santa Maria a Monte, e considerando che per due ponti ch’erano sulla Gusciana i Fiorentini poteano soccorrere il castello, quelli prestamente tagliarono, e nel pieno della notte assalirono il castello da due parti, e con aspra battaglia e gran romore per molto spazio di tempo il combatterono, e per i soldati del comune e per i terrazzani furono villanamente ributtati, avendo già poste le scale alle mura del borgo, e assai ne furono morti e magagnati colle pietre e co’ balestri; e sopravvegnendo il giorno, veggendosi perduta la speranza della terra, cominciarono ad ardere e fare preda per lo paese: avendo di ciò boce messer Ridolfo da Camerino allora capitano de’ Fiorentini trasse al soccorso; i Pisani non lo attesono. CAP. XL. _Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato._ La sagacità de’ Pisani non trovava posa, ma con solleciti modi e occulti trattati per torre delle terre de’ Fiorentini, e avendo del mese di febbraio 1362 per danari corrotte certe guardie diputate a certa parte delle mura di Pescia, nella mezza notte con scale assai, e con cinquecento uomini di cavallo e con duemila fanti eletti, con molto ordine s’accostarono alle mura della terra che guardavano i traditori tacitamente, che quelli d’entro niente ne sentirono. I traditori come li sentirono, che stavano a orecchi levati, uccisono le guardie ch’erano con loro alle poste ignoranti del tradimento; onde i Pisani avendo poste le scale sicuramente salivano, e già assai n’erano in sulle mura. Occorse per fortuna, che quegli che andava rassegnando le guardie in quello stante vi sopraggiunse, e scoperta la baratta in istante levò il romore, e svegliata la terra, quelli ch’aveano prese le mura impauriti se ne fuggirono, e le guardie del trattato con loro insieme, e la gente de’ Pisani si ridusse a salvamento alle terre loro. CAP. XLI. _Come papa Urbano pubblicò in Avignone i processi fatti contro a messer Bernabò._ All’entrata del mese di marzo 1362, papa Urbano quinto in Avignone pubblicò il processo che fatto avea contro a messer Bernabò, e avanti che pronunziasse, gli ambasciadori di messer Bernabò e i suoi avvocati comparirono e dierono boce che v’era messer Bernabò, onde il papa prolungò il termine per infino a di 4 di marzo, e di nuovo lo fece citare, facendo cercare per suoi mazzieri tutta la corte, e il venerdì 4 di marzo mandò due cardinali in persona a fare cercare il palagio e l’udienza, e tutto per lo detto messer Bernabò; in fine fatto armare tutta sua famiglia e i Lombardi cortigiani a guardia della corte, fece consistoro e sermone sopra i fatti di messer Bernabò con alto e nobile parlare, dolendosi delle sue eresie e delle sue infedeltà, e appresso fè pubblicare il processo suo, nel quale il condannò come eretico e infedele in molti articoli, e lo pronunziò scismatico e maladetto di santa Chiesa, privandolo di tutti onori, dignitadi, titoli, e privilegi, e giurisdizioni, e assolvendo dal giuramento tutti i sudditi suoi, annullando tutti i privilegi imperiali che avesse per successione, e che gli fossono conceduti in persona, e ogni e qualunque avesse per altro modo, e privollo del matrimonio liberando la moglie come cristiana dal marito eretico e infedele: e nella sentenza involse chiunque li desse consiglio, aiuto e favore, e i sudditi se l’ubbidissono, e chi lo servisse in arme per soldo o in niuno altro modo, o contro alla Chiesa di Dio s’operasse; e concedette indulgenza di colpa e di pena a quelli che fossono confessi e pentuti a chi contra lui prendesse la croce quando fosse predicata, e in essa sentenza orribile involse i descendenti, come nati di sangue eretico e infedele. Pronunziata la sentenza il santo padre si levò ritto, e misesi in ginocchione colle mani giunte e levate al cielo, e come vicario di Gesù Cristo invocò l’aiuto suo, e di M. S. Piero e di M. S. Paolo, e di tutta la celestiale corte, pregando che come avea il tiranno infedele e crudele legato in terra con sua sentenza come vicario di Cristo e successore di san Pietro, così essi lo legassono in cielo. Lo re di Francia, ch’era in corte a procurare per lo tiranno, e ’l procurò in sua utilità si tornava, forte se ne scandalizzò, e molti cardinali i quali erano suoi protettori in corte e provvisionati nel segreto assai malcontenti ne furono, avendo più caro loro occulta prefenda che l’onore di santa Chiesa. CAP. XLII. _Come morì messer Simone Boccanera primo doge di Genova._ A dì 13 di marzo di detto anno, essendo gravemente malato messer Simone Boccanera doge di Genova, e correndo la boce ch’egli stava male, il popolo prese l’arme, e chiamò venti popolani, i quali domandarono in guardia il palagio del doge, e a dì 14 del mese v’entrarono e trassonne circa a trecento tra parenti, e famigli e amici del doge, e nel palagio lasciarono lui, e la moglie e’ figliuoli, e questi venti che teneano il palagio elessono altri sessanta popolani al consiglio loro, e con loro consiglio e favore crearono nuovo doge, lo quale fu messer Gabbriello Adorno mercatante di buona condizione e fama, il quale vollono, che campasse o morisse messer Simone Boccanera, fosse doge; e ciò fatto riposò il popolo, e puose giù l’arme, e i gentili uomini e gran case di tutto niente si travagliarono. Durando nella infermità il Boccanera, furono creati sei sindachi ch’avessono a ricercare le ragioni de’ suoi ufici, e infine tra per l’oppressione de’ sindachi, e chi disse, e forse non mentì, aiutato, assai miseramente passò di questa vita, e il corpo suo con due bastagi e un famiglio fu portato alla chiesa. E tale fu il fine del valente e famoso uomo della primizia de’ dogi di Genova. CAP. XLIII. _Come fu morto il conte di Lando._ Avendo del mese di marzo la Compagnia bianca tolto un castello a messer Galeazzo, ed egli vi mandò in soccorso il conte di Lando con quattrocento barbute; per scontrazzo s’abboccò con gl’Inghilesi e fu sconfitto, e morto d’una lancia di posto nel petto. E tale fine trovò colui che capo di compagnia famoso, più volte avea liberamente corsa gran parte dell’Italia con fare ogni uomo ricomperare. CAP. XLIV. _Come Bernabò Visconti fu dalla gente della lega sconfitto alla bastita a Modena, e come la perdè._ A dì 16 d’aprile 1363, Bernabò eretico per sentenza del santo padre, con duemilacinquecento cavalieri di sua gente eletta venne per fornire la bastita che tenea sul Modanese, la quale era assediata e forte stretta dalla gente della lega de’ Lombardi, e giugnendo la mattina, preso in prima agio, rinfrescamento e ordine, colle schiere fatte, anzi si strignesse alla bastita, ne fece subitamente rizzare un’altra non molto di lungi dalla Negra; la bastita era dificata in forma che non s’avea se non a conficcare: la gente de’ collegati bene capitanata e in punto, con due forti campi intorno alla bastita con due lati e profondi fossi, l’uno lungo il campo, e l’altro di fuori alla tratta del balestro, sicchè bene si potea la gente della lega tra’ due fossi schierare. Il tiranno colla forza di sue schiere passò il primo fosso, onde convenne a quelli ch’erano tra le barre per paura rifuggire ne’ due campi, e lasciarono fornire la bastita, dove mise il tiranno trentasei carra di fornimento; e ciò fatto Bernabò se n’andò a Crevalcuore per sollecitare il resto del fornimento, e a’ suoi impose che attendessono la notte prima si partissono, ma Anichino di Bongardo partito Bernabò disse, che poichè fatto avea il servigio per che era venuto quivi non intendea albergare, e si mosse con ottocento barbute. I capitani della lega imbaldanziti, veggendo i modi che teneano i nemici in sconcio e male ordinati, essendo in punto colle schiere fatte e bene capitanati, le brigate coraggiosamente percossono a loro. La battaglia per la eletta gente di Bernabò fu aspra, la quale durò infino all’ora di vespero, e allora, come fu il piacere di Dio, la gente de’ collegati vinse; assai furono i morti, e non de’ minori. Presivi furono messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di Bernabò, messer Lodovico dall’Occa da Pisa, messer Guglielmo de’ Pigli da Modena, messer Sinibaldo degli Ordelaffi da Forlì, messer Guglielmo Cavalcabò, messer Giovanni Penzoni da Cremona, messer Guido Savina, messer Ghiberto da Correggio, Antonio da Santovito figliuolo di messer Ghiberto da Fogliano, Beltramo de’ Rossi da Parma, Guglielmo Aldighieri da Parma, messer Andrea de’ Peppoli, messer Niccolò Pallavicini, messer Giovanni dalla Mirandola, messer Giovanni Bolzoni di Milano ricco di quattrocentomila fiorini, Antonio d’Ungheria, Luchino de Asalis da Milano, Piero da Correggio, Guido da Foiano, Mocolo dalli Pelagri, Alessandro da Verona, Giovanni Scipioni, Paolo Zuppa da Parma, Maffiuolo da Labro di Milano, Damulo Dusmago di Milano, Baroncio del maestro Manno, e altri nomati infino nel numero di trentotto: a bottino mille cavalli e molti prigioni. Quinci seguì, che quelli della bastita non essendo forniti, Bernabò non avendo possanza di soccorrerli, s’arrenderono salve le persone. CAP. XLV. _Come i Pisani vollono torre Barga._ Partito all’entrante di marzo 1362 messer Ridolfo da Camerino, venne in Firenze per capitano di guerra in suo luogo messer Piero da Farnese senza pompa, se non quanto a uso militare si richiede, e veduto e ricevuto fu con buono volto. I Pisani con sollecitudine seguendo giusta loro possa ogni atto di guerra, sentendo che messer Ridolfo avea fornito per tutto il mese di febbraio suo capitanato, e tutto che avesse francamente e come valente uomo lealmente esercitato suo uficio, con poco onore s’era partito, e mal contento, e con fama di poco leale cavaliere, e che messer Piero da Farnese uomo coraggioso e per lunga esperienza grande maestro di guerra era giunto in Firenze, immaginando che innanzi che messer Piero fosse informato della intenzione del comune, e innanzi che fosse in atto da poterli offendere che poteano usare il tempo della guerra a loro vantaggio. E pertanto domenica d’ulivo, dì 27 di marzo 1363, fatto tutto il loro sforzo con mille cavalieri e quattromila pedoni nel pieno della notte con molto ordine, con scale e altri ingegni s’accostarono a Barga senza niuno sentore de’ terrazzani, tanto fu netto e presto l’assalto, e presono gran parte delle mura, e lo spedale che è accostato ad esse, e già aveano rotte parte delle mura allato allo spedale per mettere dentro i cavalieri. I terrazzani svegliati al rompere del muro, non inviliti per l’improvviso assalto, presono l’arme, e per lo naturale odio tra loro e’ Pisani, per non venire alle loro mani, e gli uomini e le femmine raddoppiarono le forze, e francamente cominciarono la battaglia; ma tanti erano i nemici ch’erano montati sullo spedale e in sulle mura vicine allo spedale, che cacciare non li ne poteano, ma come uomini per lunga esperienza di guerra dotti, con presto e buono avviso affocarono di sotto lo spedale, onde fu necessità a’ nemici, tra per lo gran fumo, e per la vampa della paglia de’ letti dello spedale la quale subito aspettavano, abbandonare il muro, per il quale aveano la salita dello spedale, e lo spedale ancora. Di loro alquanti ne rimasono morti, molti ne furono fediti. I Pisani levati dal pensiero d’avere la terra per quella via si misono a porvi l’assedio, e puosonvi tre battifolli forti e bene apparecchiati a offesa e a difesa, pensando d’averla per lunghezza d’assedio, perchè molto era lontana dal soccorso de’ Fiorentini, il quale convenia che passasse per lo distretto loro. Sentissi che con tanta sollecitudine presa aveano questa per cambiarla con Peccioli, la quale teneano i Fiorentini in sulle ciglia di Pisa. CAP. XLVI. _Come messer Piero da Farnese credette torre Lucca a’ Pisani._ Poichè messer Piero da Farnese capitano de’ Fiorentini ebbe l’informazione dell’intenzione del comune, e dello stato della guerra, si partì di Firenze, e andò in Valdinievole dov’era il forte della gente dell’arme de’ Fiorentini, e da essa ricevuto fu a grande onore per le sue virtù conforme a gente d’arme, e di presente si dispose all’asercizio dell’arme: e avendo rispetto alla natura de’ Pisani sottratta e vaghi di trattati, per contrappesare a’ loro ingegni, e tenerli in paura, cercò trattato in Lucca, e quello menando sollecitamente, e con sollecitudine avendo la ferma la notte de’ 12 d’aprile, con duemila barbute e con cinquemila fanti si mosse da Fucecchio, e cavalcò sotto il Ceruglio dal Colle delle donne, e all’ora data giunse alle porte di Lucca. I Pisani, o che avessono presentito il fatto, o che per la buona guardia sentissono il romore della gente e de’ cavalli, erano pronti alla difesa, e aveano corsa la terra, e presi quarantadue cittadini e certi forestieri. Messer Piero sentendo scoperto il trattato, e la terra ben guarnita alla difesa, senza fare arsione o preda in sul Lucchese, che liberamente far lo potea, il giorno medesimo per la diritta via si tornò a Pescia. I Pisani assai de’ presi decapitarono, e assai degli altri mandarono a’ confini, stando con più sollecitudine alla guardia di quella, e dell’altre loro terre, e non di manco aveano l’assedio a Barga, alla terra di Gello, e a Castelvecchio, dove il capitano cavalcò, e fornillo per quattro mesi. CAP. XLVII. _Come i Pisani presono per forza il castello di Gello sul Volterrano._ Rinieri d’Ugolinuccio, detto Rinieri del Bussa da Baschi capitano de’ Pisani, uomo d’alto cuore e sollecito guerriere, a dì 12 del mese d’aprile si mosse da Pisa con cinquecento cavalieri e duemila pedoni eletti, intra i quali furono molti balestrieri di Gera, e si mosse per la Maremma, e con molto ordine assalì il castello di Gello non provveduto, e dibattuto assai per lo assedio. Il castello è di cento famiglie assai forte, e per luogo ben situato a difesa, e quello per lungo spazio di tempo combatterono, e quello per forza vinsono con assai morti e magagnati, e di quelli d’entro e di quelli di fuori. Vinta la terra si dirizzarono alla rocca, che era forte e ben guernita alla difesa, e la combatterono per lungo spazio, tanto che quasi non era fante nella rocca che dalle buone balestra non fosse fedito, i quali disperati di soccorso, il quale colla sollecitudine di messer Piero giugnea, s’arrenderono salve le persone. Rinieri fornito il castello di gente atti a tenerlo se ne tornò a Pisa. CAP. XLVIII. _Come i Pisani condussono la Compagnia bianca degl’Inghilesi._ Come narrato avemo nell’addietro, la Compagnia bianca degl’Inghilesi sotto il capitanato di messer Alberto Tedesco, in numero di tremilacinquecento uomini da cavallo e duemila a piè, erano al servigio del marchese di Monferrato contro a messer Galeazzo Visconti, il quale più tenere non li potea, e messer Galeazzo volentieri la si levava da dosso, e i Pisani che si vedeano nel fondo, e venire al disotto della guerra, loro ambasciadore aveano a messer Galeazzo, come a singolare amico e protettore, e per aiuto e soccorso contro alla forza de’ Fiorentini, e risposto avea che fare non potea servando sua fede contro i Fiorentini, ma che se voleano conducere la compagnia degl’Inghilesi, la quale di corto finia sua ferma, ed era per prendere viaggio, che loro ne sarebbe buono, e li dicea il cuore di poterlo fare: a questo gli ambasciadori ch’aveano il mandato larghissimo assentirono. I Fiorentini essendo di ciò avvisati, lentamente cercarono per uno Giovanni Buglietti Fiorentino, lungo tempo stato in Inghilterra, e guida della detta compagnia in Italia, la condotta di detti Inghilesi, e per l’amistà e usanza de’ Fiorentini che stavano e praticavano nell’isola d’Inghilterra, gl’Inghilesi si vollono alloggiare co’ Fiorentini per diecimila fiorini meno che non feciono co’ Pisani, e più tempo tennono sospesa la condotta de’ Pisani, aspettando conducersi co’ Fiorentini; nella quale sospensione, essendo messer Piero da Farnese in Firenze, per i governatori de nostro comune li fu sopra questa materia chiesto consiglio, il quale rispose: Io non credo che per altrettanta di gente Cesare la vedesse migliore, nata e allevata in guerra, argomentosa in maestria di guerra, e senza niuna paura; affermando senza dubbio, che chi li avesse e li potesse sostenere non lungo tempo senza fallo sarebbe il superiore della guerra. Ciò udito nel processo della condotta, quanto l’animo de’ collegi e degli altri governatori della città inclinassono a prenderli, il gonfaloniere della giustizia s’oppose, con dire, e chi pagherà? e fu l’autorità sua tanta, e di chi lo seguì dell’ordine suo, che sturbò la condotta. I Pisani savi e non lenti di presente la condussono in forma di compagnia per quattro mesi, a ragione di fiorini diecimila il mese di soldo. CAP. XLIX. _Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer Piero da Farnese avea mandati in Garfagnana._ Parendo a messer Piero da Farnese ragionevolmente non potere avere battaglia di campo co’ Pisani, la quale sommamente desiderava per mostrare sua virtù e provare sua ventura, avanti che la Compagnia bianca condotta per i Pisani giugnesse, contra i quali non sperava potere tenere campo, tenne trattato con certi di Garfagnana e fece loro rubellare Castiglione e certe altre castella, e avendo di ciò il certo, per fornirle di gente e di vittuaglia vi fece cavalcare Spinelloccio de’ Tolomei da Siena per capitano, e Currado di messer Stefano da Iesi, con certi altri conestabili, e con trecento uomini di cavallo, e dugento masnadieri di soldo. I Pisani sentendo della ribellione delle castella, e immaginando che per i Fiorentini si dovessono soccorrere per lo loro capitano, prestamente e con tutta loro forza misono uno aguato, dove vedeano che i nostri accampare si doveano. Passò in Garfagnana Spinelloccio con la detta gente senza contasto, e accamparonsi dove doveano, e come Rinieri s’era pensato per fornire le dette castella; Rinieri come li vidde infaccendati e occupati intorno all’accamparsi, e in atto di poterne avere il migliore, coll’aguato grosso e ordinato uscì loro addosso, e dopo lunga e fiera battaglia gli ruppe. La gente era buona, e veggendosi per lo soperchio de’ nemici in rotta, si ridussono in su un poggio vicino dove era stata la zuffa, e d’onde potea loro essere il passo sicuro per tornarsi a’ suoi: i Pisani francamente seguendoli si sforzavano a tor loro il passo, e fatto lo arebbono, ma i detti Spinelloccio e Currado seguitando l’orme degli antichi e buoni Romani, come franchi, leali e buoni uomini di subito si gittarono a piè, e si misono alla difesa del passo, e facendo maraviglie di loro persone, e tanto lo tennono, che per lo stretto la gente de’ Fiorentini si ricolse, in modo che pochi impediti ne furono. Spinelloccio e Currado, poi che vidono la brigata a loro commessa in luogo che non poteano ricevere offensione, s’arrenderono a prigioni. CAP. L. _Come Rinieri da Baschi colla gente de’ Pisani fu sconfitto e preso da messer Piero da Farnese._ Parendo a messer Piero da Farnese avere doppia vergogna, sì per le castella perdute, sì per la gente sbaragliata in Garfagnana, in forte pensiere, e come potesse sua onta vendicare, onde domenica mattina a dì 7 di maggio 1363, essendo cavalcati in verso il Bagno a Vena con ottocento tra Ungari e altra buona gente di cavallo, e con ottocento fanti eletti, il capitano de’ Pisani sentendo la cavalcata, non meno coraggioso e voglioso che messer Piero, i quali amendue si studiavano di fare innanzi la venuta degl’Inghilesi, raunò della gente da cavallo de’ Pisani circa a seicento, e pedoni assai, e continovamente da Pisa li cresceva forza, per torre alla detta gente de’ Fiorentini il passo a san Piero, e colle schiere fatte si pararono innanzi a messer Piero, perchè non potesse tornare, e di dietro e da lato da Pisa traeva gente senza numero alle spalle a messer Piero per combatterlo dinanzi e di dietro. Vedendo messer Piero davanti da sè i nemici schierati in sul campo, veggendo che quello che desiderato avea gli venia fornito, di presente ordinò le schiere sue, e perchè il luogo dove combattere doveano era pieno di solchi, impedì il ferire delle lance, onde confortati i suoi a ben fare colle spade in mano fieramente si percosse sopra i nemici, i quali non con meno cuore gli ricevettono. La battaglia fu dura e aspra, e la prima schiera de’ Fiorentini fu ributtata per difetto degli Ungari due volte, ma rannodati ruppono la prima schiera de’ Pisani, ma i rotti si ridussono alle spalle dell’altre loro schiere, e con la forza di molti pedoni tratti loro in aiuto percossono francamente sopra i Fiorentini. Messer Piero sgridati e confortati i suoi a ben fare con la sua schiera si mise sopra i nemici, lasciando l’insegne nel mezzo, ed egli dinanzi con i più eletti cavalieri. Indurando la battaglia, messer Piero fè a dugento cavalieri fedire i nemici per costa, i quali non avendo resistenza, ne vennono alle insegne de’ Pisani, e le presono e abbatterono; e ciò veggendo messer Piero urtò forte sopra i nemici, e li strinse a fuggire. Rinieri come ardito e pro’, fu preso colla spada in mano, e molti altri valenti uomini. E per certo e messer Piero e Rinieri si portarono come valenti capitani, e come arditi e pro’ cavalieri, perocchè per spazio di due ore e mezzo si combatterono pertinacemente sotto l’incerto della vittoria. Rotte le schiere de’ Pisani, gli Ungari con degli altri contesono a prendere de’ prigioni, massimamente di quelli che a piè v’erano venuti da Pisa. Molta gente da piè e da cavallo vi morì, tanto odio lor menti occupava, e molti cavalli vi furono guasti per i pedoni fiorentini che con le lance in mano fedirono di costa: il capitano messer Piero co’ prigioni si tornò alla gente sua, e in quel dì medesimo ne fu novelle in Firenze, di che si fè grande allegrezza e festa. CAP. LI. _Come messer Piero da Farnese entrò in Firenze, e il capitano de’ Pisani colle insegne e’ prigioni rassegnarono a’ priori._ A dì 11 di maggio, messer Piero da Farnese col capitano, bandiere e prigioni de’ nemici entrò in Firenze, dove ricevuto con grande letizia e allegrezza di popolo, e consegnati furono per lui a’ priori col capitano e bandiere de’ Pisani centocinquanta prigioni, essendoli per lo comune offerto una ghirlanda d’alloro umilemente la ricusò, e non la volle prendere, dicendo, che tale ghirlanda si convenia con altro trionfo e maggiore vittoria, siccome per il senato di Roma era diputato; furonli donati quattro destrieri nobili coverti dell’arme sua. Con lui venne messer Simone da Camerino fatto cavaliere nella battaglia, il quale fu lietamente veduto, e onorato di doni cavallereschi; e di poi a dì quattordici di maggio colle solennità usate furono al capitano date per messer Niccolaio degli Alberti gonfaloniere di giustizia l’insegne, e per lo capitano accomandate furono a’ Tedeschi a guardia, dando la reale a un messer Amerigone soldato del nostro comune, il quale la ricevette in nome di messer Giovanni di..... Tedesco, il quale era al campo. Non vi mancò augurio, perocchè subitamente come messer Piero l’ebbe in mano surse una lieve aura che le dirizzò verso Pisa, di che il capitano prese baldanza. CAP. LII. _Come i Pisani tolsono a’ Fiorentini Altopascio._ Sabato a dì 20 di maggio, Guelfo di messer Dante degli Scali, il quale era castellano d’Altopascio, diede il detto castello a’ Pisani per fiorini tremila d’oro che ne ricevette, il perchè domenica mattina il dì di Pasqua rugiada i priori mossono l’esecutore colla famiglia sua per andare a guastare le case sue; il popolo il quale era raunato in sulla piazza de’ priori seguì l’esecutore, ed entrò nelle case degli Scali e rubolle, e appresso vi mise il fuoco e arsonle, non potendo a ciò riparare quelli che mosso l’aveano: dopo nona detto dì mandarono il cavaliere dell’eseguitore a guastare i beni di contado. CAP. LIII. _Come i Pisani elessono per loro capitano Ghisello degli Ubaldini._ I Pisani elessono loro capitano di guerra Ghisello degli Ubaldini in lungo di Rinieri d’Ugolinuccio da Baschi, il quale era preso nelle carcere del comune di Firenze. Il detto Ghisello era coraggioso e di grande animo, dotto di guerra, e corale nemico del comune di Firenze, il quale di presente fu in Pisa, e prese la bacchetta del capitanato; e ciò fu del detto mese di maggio. CAP. LIV. _Come messer Piero cavalcò sino sulle porte di Pisa battendovi moneta d’oro e d’argento._ A dì 17 del mese di maggio, messer Piero da Farnese capitano de’ Fiorentini con duemilacinquecento cavalieri, e molti balestrieri e altra fanteria si partì dal castello d’Empoli, e dirizzossi verso Pisa, e il detto dì s’alloggiò sopra la Cecina intra Marti e Castel del Bosco, il seguente passarono il fosso, a malgrado di trecento uomini da cavallo che erano nel detto Castello del Bosco, e per la sera s’accamparono a Ponte di Sacco, e valicarono di loro in Valdicalci e a Caprone, facendo gran danni d’arsioni di ville e manieri. Proseguendo il capitano sue giornate verso Pisa arse il resto del borgo di Cascina, e tutto insin presso a Rignone e Borgo delle Campane ardendo tutto, e quivi fermato mandò a’ Pisani il guanto della battaglia, di poi lo giorno di Pasqua novella il capitano colle schiere fatte si mosse verso le porte di Pisa. Messer Amerigone Tedesco con sessanta barbute si mise innanzi a tutti gli altri, e cavalcò verso le porte di Pisa, e trovò cento barbute de’ nemici con assai gente da piè, e loro fedì addosso arditamente e li ruppe, in soccorso de’ quali uscirono di Pisa dugento uomini da cavallo, i quali volsono indietro messer Amerigone, al cui soccorso si mise messer Otto Tedesco con cento barbute e rivolse messer Amerigone, e fatta aspra zuffa i Pisani furono rotti; allora uscì di Pisa il potestà con seicento barbute e molto popolo, e ruppono i nostri, e presono i detti due conestabili con alquanta loro brigata. Messer Piero ciò veggendo come di soperchio ardito, con trecento barbute di gente eletta, lasciandosi al soccorso la sua gente grossa presso colle bandiere, con tanto animo si mise sopra i Pisani che li ruppe e fè volgere, i quali per la gran calca non potendo entrare per la porta molti se ne misono per l’Arno, de’ quali assai n’annegarono. Molti presi ne furono, e tanti e tali che i soldati più tosto vollono i prigioni, che paga doppia e mese compiuto, e assai ve ne furono morti di quelli del baldanzoso e scondito popolo. Ciò fatto il capitano a Rignone e allo Spedaluzzo fè battere moneta dell’oro, e d’argento, e di quattrini: in quella d’argento sotto i piè di san Giovanni sta una volpe a rovescio. E in quell’ora per i Pisani alla richiesta della battaglia fatta per messer Piero risposto fu, che alla battaglia verrebbono a tempo e a luogo; onde fatti per lo capitano due cavalieri, messer Guglielmo di Bolsi, e messer Giovanni di...... sonate le trombe si fè dipartenza; e mentre che la gente che rimasa era alla retroguardia, mandati dinanzi a sè gl’impedimenti da Rignone e dal Borgo delle Campane si partia, gente da piè e da cavallo de’ Pisani vi sopraggiunse, e perchè quivi erano cavalieri novellamente fatti non vollono fuggire. Nello strettissimo luogo della via, il quale quivi la natura del luogo leva in alto, quindi l’Arno colle sue ripe fortifica, furono i nemici da’ nostri aspettati, e subito con gran grida s’abboccarono insieme con fiera e ontosa battaglia. I nostri nel principio dubitarono, e crollaronsi: messer Guglielmo cavaliere novello con la lancia uno levò da cavallo, onde premendo lui co’ nostri sopra i nemici, quelli che in qua e in là scorreano ripresi furono, e da capo facendo resistenza lungo tempo si combatterono con dubbiosa vittoria. Alla fine la virtù de’ nostri crebbe, e soprastette, de’ quali l’Arno molti ne prese, e inghiottì molti pedoni nello stretto da piè, di cavalli guasti e magagnati: molti ne furono presi, molti morti, nè prima fu fine alla fuga, che giunsono sulla porta di Pisa. Quivi fu il grande scalpitamento, ed ivi li scorridori mescolati con i nemici quasi si metteano nella porta, intra i quali era un trombettino del nostro comune, il quale sonando, fu di saetta che venne dalle mura ferito, e cadde da cavallo, allora i nostri per studio d’avere il giglio del trombettino, perchè il segno non venisse alle mani de’ Pisani, agrissimamente si combatterono, ove oltre a venti dei nemici furono morti e molti fediti, e la tromba col segno del trombettino fu ricoverato: de’ nostri ne furono morti..... e otto presi, intra i quali furono i detti due cavalieri novelli. Alla fine divisa la zuffa i nostri a salvamento si ritornarono al campo, il quale era fermo a san Sevino dalla parte sinistra sopra la riva dell’Arno, che san Sevino era bene guardato; ed essendo molto del dì nelle dette cose consumato, levate le schiere i nostri s’alloggiarono la sera nella villa di Peccioli, e per la fatica del giorno stettono senza guardia, solo che delle spie: il dì seguente il capitano rimandò della gente a cavallo e a piè verso Pisa a fare quel danno poterono. CAP. LV. _Sagacità usata per i Pisani per non perdere Montecalvoli._ I Pisani ch’aspettavano la Compagnia bianca degl’Inghilesi, temendo di Montecalvoli, il quale pochi giorni si potea tenere, usarono questa malizia, che di notte segretamente facevano uscire di Pisa loro gente d’arme, e la mattina polverosi li faceano ritornare, e li riceveano a gran festa, sotto nome di gente della Compagnia bianca, stimando ne seguisse quello ne seguì: e loro venne fatto, che i priori di Firenze avendo la falsa novella per vera, subito con poco onore e del comune e del capitano li feciono partire dall’assedio di Montecalvoli, il perchè i Pisani il poterono liberamente fornire e rinfrescare: e ciò fu del mese di giugno. CAP. LVI. _Come il re di Francia per paura della compagnia non osò per terra tornare nel reame, ma tornò per acqua._ In questi giorni i pessimi uomini detti latronculi, noi in volgare diciamo ladroncelli, nel reame di Francia tanto erano multiplicati all’appoggio delle compagnie dell’arciprete di Pelagorga e del Pitetto Meschino, che il re di Francia essendo ad Avignone non si assicurò tornare per terra a Parigi, per loro danno si mise ad entrare in Borgogna. Puossi assai aperto comprendere i vestigi del santo Evangelio, ove dice: Saranno pestilenzie e fame per luoghi, e leverassi gente contro a gente: e soggiugne: E gli uomini saranno amatori di sè medesimi: e certo ogni radice di carità pare dispenta. CAP. LVII. _Della mortalità dell’anguinaia._ Nel presente mese di giugno, per vere lettere de’ mercatanti fu in Firenze come in Egitto, e in Soria, e nell’altre parti di Levante la pestilenza dell’anguinaia; gravissimamente offendea e in Vinegia, e in Padova, e nell’Istria, e in Ischiavonia, non ostante che i detti luoghi altra volta toccasse. Anche gravemente ritoccò nelle terre di Toscana, e quasi tutte comprese, e in Firenze, già stata generale tre mesi per tutto giugno con fracasso d’ogni maniera di gente. CAP. LVIII. _Come i Barghigiani colla forza de’ Fiorentini presono i battifolli._ Nel detto mese di giugno, essendo stata assediata Barga da’ Pisani lungamente con tre battifolli, e Sommacolonna con due, e assai strette, il capitano de’ Fiorentini essendo a oste a Montecalvoli trasse dal campo cinquecento barbute con alquanti masnadieri, e diè boce ch’andassono in Maremma per preda, e feceli conducere a Volterra, onde i Pisani mandarono la loro gente in Maremma alla difesa, e costoro furono condotti a Barga improvviso a’ Pisani; e sentendolisi presso quelli di Barga, che n’aveano l’avviso, uscirono fuori a combattere l’uno de’ battifolli. Avvenne che quelli degli altri due battifolli, lasciando pochi di loro alla guardia de’ battifolli, trassono al soccorso di quello ch’era combattuto. Aspra battaglia era tra loro quando sopraggiunse la gente de’ Fiorentini; e trovò i due battifolli sforniti, e presonlisi, e appresso percossono alle reni de’ nemici, e con loro entrati nell’altro battifolle lo presono, e perseguitando i nemici, pochi ne camparono, che non fossono morti o presi. Quello che trovarono ne’ battifolli sì di vittuaglia come d’armadura misono in Barga, e arsono le bastite, e il simile feciono di quelli di Sommacolonna, e ciò fatto, la gente de’ Fiorentini si tornarono al campo senza niuno impaccio. CAP. LIX. _Come morì messer Piero da Farnese._ Essendo entratala furia della pestilenza dell’anguinaia nell’oste de’ Fiorentini, molti n’uccise, molti ne indebolì, molti ne avvilì. Il perchè essendo levato l’assedio da Montecalvoli, per comandamento de’ signori di Firenze, il capitano era in Castello Fiorentino, e quivi lo prese il male dell’anguinaia a dì 19 di giugno, e il detto dì n’andò a san Miniato del Tedesco, e quivi in sulla mezza notte passò di questa vita, e il corpo suo in una cassa alle spese del comune fu recato in Firenze, e posato a Verzaia, aspettando Ranuccio suo fratello per cui era mandato; poi a dì venticinque del mese il corpo suo fu recato in Firenze alle spese del comune con mirabile pompe d’esequie, le quali furono di questa maniera _Qui manca._ Poi seppellito fu nella chiesa di santa Reparata con intenzione di farli ricca sepoltura di marmo. Valente uomo fu in arme, e saputo e accorto con grande ardire, e leale cavaliere, e in fatti d’arme avventuroso, e per certo ogni onore che fatto li fosse e per lo innanzi gli si facesse lo merita. CAP. LX. _Dell’ammirabile passaggio de’ grilli._ Il dì primo di luglio, un vento schiavo temperato per dieci ore continove del dì nelle parti di Pesaro, Fano e Ancona condusse incredibile moltitudine di grilli, quasi come in passaggio per l’aire, tanto stretti che ’l sole non rendea la luce se non come per una nuvola non troppo serrata, e trovossi per quelli che la notte sopraggiunse che molti l’uno portava l’altro. Dove presono albergo, cavoli, lattughe, bietole, lappoloni, e ogni erba da camangiare la mattina si trovarono tutte colle costole e’ nerbolini tutti bianchi, che a vedere era cosa nuova. Perchè per lo freddo della notte non si poteano levare, i fanciulli ne portavano le cannuccie coperte dal capo a piè, tanto stretto l’uno sotto l’altro che non vi si sarebbe messo la punta dell’ago. I grilli erano di lunghezza d’un dito colle gambe lunghe e rosse, e l’alie grandi, col dosso ombreggiava in verde chiaro. Molti o la maggior parte annegarono in mare, che ’l fiotto gittò alla marina, i quali ammassati gittarono orribile puzzo, e trovossi che i pesci non presono cibo di loro, e gli uccelli e gli altri animali insino alle galline se ne guardarono. PROEMIO DELLA CRONICA di FILIPPO VILLANI _Nel quale racconta la morte di Matteo suo padre, e la cagione che lo mosse a seguitare di scrivere._ In questi giorni la pestilenza dell’anguinaia prese il componitore di quest’opera Matteo, e trovandolo di sobria e temperata natura e vita il dibattè cinque giorni, in fine il duodecimo dì del mese di luglio divotamente rendè l’anima a Dio. Il quale in tanto possiamo dire meritevolmente essere da laudare, in quanto esso con lo stile che a lui fu possibile non sofferse, che perissono le cose occorse nel mondo per lo tempo che scrive degne di memoria, quindi apparecchiando materia a’ più delicati e alti ingegni di riducere sue ricordanze in più felice e rilevato stile, qui a me Filippo suo figliuolo lasciando il pensiere di seguitare su per infino alla pace fatta con i Pisani, per non lasciare la materia intracisa, e così m’ingegnerò di fare la storia di tempo in tempo, con l’altre cose occorse nell’altre parti del mondo le quali a mia notizia perverranno. CAP. LXI. _Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese loro capitano di guerra._ Seguendo quanto mi sarà possibile lo scrivere di Matteo Villani mio padre, per principio di mia perseguitazione ne tocca a scrivere, che per lo grande amore che ’l comune di Firenze ebbe a messer Piero da Farnese, senza rispetto de’ grandi pericoli che vedeano sopraggiugnere, senza lunghezza di tempo puosono Ranuccio suo fratello, non perchè ’l conoscessono sufficiente e atto a tanto peso, ma per donarli quel titolo per grazia dell’anima di messer Piero. Uomo era pro’ della persona, e ardito e leale, ma poco sperto in guidare gente d’arme, e nelli pronti avvisi che la guerra richiede. CAP. LXII. _Come gl’Inghilesi giunsono in Pisa._ Gl’Inghilesi ch’erano in Monferrato al soldo del marchese, col procaccio di messer Galeazzo Visconti ebbono il passo per lo Genovese, e col loro capitano messer Alberto Tedesco giunsono in Pisa il dì 18 di luglio. Honne fatta menzione, perchè dal non averli condotti come messer Piero da Farnese consigliava molto di danno e di vergogna si ricevette per lo nostro comune, come per l’innanzi leggendo apparirà. CAP. LXIII. _Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in sulle porte._ Nel detto anno a dì 25 di luglio, Ghisello degli Ubaldini capitano di guerra de’ Pisani, con ottocento cavalieri di soldo, e con quattromila pedoni tra di soldo e di volontà, e con molti gentili uomini e popolani a cavallo che vogliosamente il seguirono, e messer Alberto Tedesco capitano degl’Inghilesi, con duemila cinquecento uomini a cavallo e duemila a piè si partirono di Pisa, e andarono a Lucca, e a dì 26 di detto mese passarono per le montagne di Montaquilano, e scesono nel piano di Pistoia nel dì di santo Iacopo; e a’ Pistoiesi non lasciarono correre loro palio. Ben furono di tanto animo i Pistoiesi, che dissono, in modo fu inteso dal capitano de’ Pisani, che mai il detto palio non si correrebbe se non si corresse sulle porte di Pisa, e così addivenne, come si troverà nella scrittura che per i tempi segue. Temettesi forte non si strignessono alla terra, che senza dubbio a gran pericolo era, sì per lo subito assalto, al quale niuna provvisione o riparo era fatto, sì per la pestilenza dell’anguinaia, che assai cittadini tolti avea, molti ne tenea in sul letto, e quelli ch’avea tocchi in vita erano fieboli: la troppa voglia ch’ebbono d’impiccare gli asinini, e fare le beffe muccerie, loro tolse il consiglio. Il seguente dì senza prendere arresto se ne vennono a Campi e a Peretola, e quivi fermarono il campo, poi colle schiere ordinate vennono insino al ponte a Rifredi; e sentendo sonare le campane dal comune a stormo, gl’Inghilesi, che secondo l’uso di loro paese pensarono che ’l popolo uscisse a battaglia, temettono un poco, e rincularono, il perchè i Pisani feciono correre il palio per traverso a Rifredi e tra le schiere. Più feciono battere moneta, e al ponte a Rifredi impiccarono tre asini, e per derisione loro puosono al collo il nome di tre cittadini, a ciascuno il suo. Ecco in che i savi comuni di Firenze e di Pisa spendono i milioni di fiorini, rinnovellando spesso queste villanie. Adunque impiccati gli asini volsono le schiere, e tornaronsi a Campi e a Peretola. Ben fece innanzi messer Alberto cavaliere Ghisello degli Ubaldini, messer Giovanni de’ Guazzoni da Pescia con più altri, con grande gavazza di gridare di stromenti, in parole altamente villaneggiando e dispettando il comune di Firenze. Arsioni i Pisani che v’erano feciono assai, ma non fuori di strada, lasciando le possessioni d’alcuno notabile uomo popolare per far dire male di lui. Il seguente giorno, arso ciò ch’aveano potuto fuori di Firenze e di Prato, passarono Arno, e arsono il borgo alla Lastra, e per i monti di verso Valdipesa di notte si partirono, e arrivarono nel piano d’Empoli, scorrendolo tutto con fare quel male poterono, quindi per lo Valdarno con grande preda e copia di prigioni senza essere loro a niente risposto si tornarono a Pisa. Da indi a pochi giorni messer Ghisello passò di questa vita, e onorato fu di sepoltura assai per i Pisani. CAP. LXIV. _Come si fermò pace dalla Chiesa a messer Bernabò._ Del detto anno del mese d’aprile si fermò la pace tra papa Urbano quinto (che tanto vogliosamente, e tanto aspramente e vituperosamente avea fulminate le sentenze contro a messer Bernabò) e il detto messer Bernabò, per la Chiesa di Roma assai vituperevole, e onesta: vituperevole, perchè si ricomperò dal tiranno ancora scomunicato, e perchè a petizione del tiranno divise la legazione, dando Bologna e Romagna in sua legazione all’abate di Clugnì, e togliendo a colui che con tanto onore di santa Chiesa l’avea acquistata: onesta, perchè egli come padre spirituale dee amare la pace e riconciliazione, e aprire le braccia a chi vuole tornare alla misericordia, verificando in buona parte il detto del poeta che dice: O tu che sol per cancellare scrivi: nè per essa pace si ruppe a’ collegati promessa, e in loro potestà rimase l’accettare. Poi appresso messer Bernabò rendè a santa Chiesa Castelfranco, Pimaccio e Crevalcuore che tenea in sul Bolognese, e ciò fatto i collegati con santa Chiesa accettarono la pace. L’abate passò per Milano, e più giorni vi stette, dove fu alla reale in tutto onorato, quindi ne venne a Bologna, ove col caroccio con molto onore e festa fu ricevuto. CAP. LXV. _Dello stato della città di Firenze in que’ giorni._ E’ ne pare necessario dire in questo luogo, per quello che seguirà di messer Pandolfo de’ Malatesti, il reggimento e governo della città di Firenze in que’ tempi, il quale era venuto in parte e non piccola in uomini novellamente venuti del contado e distretto di Firenze, poco pratichi delle bisogne civili, e di gente venuta assai più da lunga, i quali nella città s’erano alloggiati, e colle ricchezze fatte d’arti, e di mercatanzie e usure in dilazione di tempo trovandosi grassi di danari, ogni parentado faceano che a loro fosse di piacere, e con doni, mangiari e preghiere occulte e palesi tanto si metteano innanzi, ch’erano tirati agli ufici e messi allo squittino. Le grandi case de’ popolari aveano i divieti; molti antichi e cari cittadini saggi e intendenti erano schiusi dagli ufici, e quello che ne risultava di peggio di loro governo era, che temendo di non essere ingannati e consigliati per lo contradio da’ savi e pratichi cittadini che con loro si trovavano agli ufici, essendo bene e utilmente consigliati, e con amore e fede alla repubblica, sovente prendeano il contrario in danno e vituperio del comune. Molti gioventù che non passava l’adolescenza, si trovarono negli ufici per procuro de’ padri loro ch’erano nel reggimento; e occorse, che facendosi lo squittino in que’ tempi si trovò che de’ quattro i tre non passavano i venti anni, e per tali furono portati allo squittino che giaceano nelle fascie. Le ammonizioni sboglientavano, e gli odii pertanto e occulti e pregni teneano l’animo de’ cittadini. Più, l’avarizia tanto tenea occupato l’animo di molti, che con novi modi e ufici non necessari, e per altre coperte vie, faceano al comune spendere i suoi danari. Le sette non quietavano, e l’una all’altra per paura tenea l’occhio addosso: e così la repubblica si trovava nelle mani del giovanile consiglio, negli occulti odii, e ne’ desiderii delle private ricchezze. Se queste controversie e confusioni non avessono allettato e sollevato l’animo del tiranno a speranza di signoria assai sarebbe più da maravigliare, che tenendolo in ciò occupato. Quelli che conduceano la guerra cassarono i soldati, pensando a primo tempo riconducere a sofficienza, e cercavano d’avere la Compagnia della stella, che di numero si ragionava passasse le seimila barbute. Della Magna speravano trarre duemila barbute, delle quali non n’ebbono che cinquecento, sotto il capitanato del conte Arrigo di Monforte, e del conte Giovanni, e del conte Ridolfo suo fratello, il quale era sfoggiato di grandezza, e menno, e però era chiamato il conte Menno, e questi due si diceano stratti della casa di Soavia. Non pensando trarre dalla Magna più gente, nè avere la Compagnia della stella, e correndovi giorni, condussono messer Ugo Tedesco valente uomo con mille uomini di cavallo, i quali, erano giovani e prod’uomini, ma male armati e peggio a cavallo; fu a ciascuno quando entrarono per lo comune donato una lancia nuova, perchè non entrassono così brulli. Appresso condussono il conte Artimanno con mille ragazzi, verificando il proverbio, a tempo di guerra ogni cavallo ha soldo: vennono a mezzo il mese di febbraio in Firenze a rifarsi. CAP. LXVI. _Come i Perugini, per tema che la compagnia degl’Inghilesi non soccorressono i loro rubelli assediati in Montecontigiano, condussono la Compagnia del cappelletto._ Nel detto anno del mese di novembre, i Perugini, i quali aveano condotta la Compagnia del cappelletto per venti dì, temendo che gl’Inghilesi non soccorressono i loro usciti i quali erano assediati in Montecontigiano, rafforzarono l’assedio, e in pochi giorni appresso ebbono il castello. Il modo fu nuovo, che i detti usciti con i fanti masnadieri che aveano seco feciono vista d’essere fuggiti, e tutti si nascosono per le case, di che quelli dell’oste maravigliandosi, non veggendo alle poste le guardie, mandarono alquanti infino alle porti, e guatando per gli spiragli non viddono per la terra persona, di che tornati al campo e detto il fatto, il campo a romore si mosse colle scale a ire a prendere la terra: li usciti ch’erano pro’ come leoni, insieme co’ loro fanti masnadieri lasciarono salire i loro nemici in sulle mura, e quando li vidono in sulle mura uscirono delle case francamente, e con raffi a ciò ordinati tirarono delle mura a terra assai conestabili e valenti uomini che v’erano montati, e montarono in sulle mura essi, e per forza ne levarono coloro che su v’erano saliti con aspra e fiera battaglia, di che i Perugini si tornarono al campo. Infra quelli che rimasono presi fu un cavaliere tedesco, che lungo tempo era stato al soldo de’ Perugini, e fatto gli era grande onore; costui andando un dì a sollazzo per lo castello con certi caporali masnadieri, e’ fu da loro dimandato, che aveano di loro diliberato i Perugini; il sagace cavaliere rispose, di mai non partirsi finchè arebbono il castello, e d’impiccarli tutti; ma che s’elli voleano campare, che poteano, dando loro gli usciti a’ Perugini, di che i fanti per paura a ciò s’accordarono; e il seguente dì cominciarono questioni con gli usciti, domandandoli se di niuno luogo aspettavano soccorso, i quali risposono di niuno, onde i masnadieri loro dissono che piglierebbono partito per sè, ed ebbono tra loro oltraggiose parole; veggendo ciò messer Alessandro de’ Vocioli con sette de’ migliori ch’erano con lui deliberarono di ricorrere alla misericordia, e con li capestri in gola uscirono del castello e andarono al campo gridando misericordia, e’ furono ricevuti: i signori di Perugia per fuggire le preghiere mandarono quattro camarlinghi a Montecontigiano, i quali il detto messer Alessandro con altri sedici cittadini di Perugia suoi compagni e di buone famiglie quivi feciono decapitare. CAP. LXVII. _Come messer Pandolfo Malatesti venne con cento uomini di cavallo e con cento fanti a servire il comune di Firenze per due mesi._ Conoscendosi per i Fiorentini che nell’impresa della guerra il comune era senza capo e senza consiglio, e con gente d’arme di poco valore, forte si cominciò a dubitare, e massimamente per coloro a cui potea meritamente la perdita tornare nella testa; costoro co’ loro seguaci furono a’ signori, pregandoli che provvedessono di capitano di guerra, e loro puosono innanzi messer Pandolfo de’ Malatesti, il quale per le sue savie e franche operazioni, contra il conte di Lando e sua compagnia, come Matteo mio padre scrive di sopra, in Firenze avea buona fama, e la grazia di tutti i cittadini, il quale di presente fu eletto senza sospezione alcuna, e fatti gli ambasciadori ch’andassono a portare l’elezione, e patteggiarsi con lui, e scritto gli fu in segreto dagl’intimi suoi che venisse, che ciò che domandasse al comune arebbe, ed esso ben sapeva la condizione della città, e l’infermità di essa gli era negli occhi; onde ricevuti gli ambasciadori colla elezione li lasciò a Pesero, ed egli n’andò dove era messer Malatesta, vecchio e messer Malatesta giovane, e con loro più giorni stette in segreto consiglio. Quali fossero i ragionamenti, l’opere di messer Pandolfo il manifestarono. Tornato agli ambasciadori a Pesero, per meglio coprire suo segreto mostrava per molte vie poca voglia di volere venire, e con cautela disse non potea senza la licenza di messer di Spagna legato di papa, ed esso medesimo per suo segreto messo infra pochi giorni l’ottenne; e ciò fatto, venne alla pratica con gli ambasciadori di quello volea, e le sue domande erano in gran parte sì spiacevoli e disoneste, che gli ambasciadori del tutto si partirono da lui; ed essendo per mettere i piè nella staffa, parendo a messer Pandolfo avere mal fatto, li fè richiamare, e loro disse non intendea di venire come capitano, ma come amico del comune volea venire a servirlo due mesi, e così per gli ambasciadori fu accettato, e così venne ed entrò in Firenze a dì 15 del mese d’agosto con cento uomini di cavallo e cento fanti a piè, e con grande allegrezza fu da tutti universalmente ricevuto, parendo a ciascuno essere in viaggio d’onorato fine alla guerra. Il seguente dì furono creati otto cittadini, due per quartiere, e per termine d’un anno e con balìa assai, in uficiali del comune sopra la guerra, i quali di presente preso l’uficio incominciarono ad intendersi con messer Pandolfo sopra i modi che intorno a’ fatti della guerra s’avessono a tenere; nelle lunghezze delle parlanze messer Pandolfo non mostrò cruccio di perdere tempo. CAP. LXVIII. _Come i Pisani co’ loro Inghilesi presono Figghine._ Messer Manetto di messer Lomodaiesi capitano generale della gente d’arme de’ Pisani, e messer Alberto Tedesco capitano degl’Inghilesi, con tutte loro brigate continuando loro viaggio senza contradizione per li stretti passi del Chianti valicarono nel Valdarno di sopra, e nella loro prima giunta presono il borgo di Figghine a dì 16 di settembre di detto anno, dove trovarono molta roba e prigioni assai d’ogni maniera: è vero che la maggior parte degli uomini e donne da bene si fuggirono nel castello, ch’era assai forte: e perchè quelli del castello non prendessono consiglio, il seguente dì gl’Inghilesi si strinsono ad esso, onde quelli d’entro spaventati si rendeano; e mentre che i patti si compilavano, la cattività di quelli d’entro fu tanta che si lasciarono torre la fortezza agl’Inghilesi; il perchè ebbono assai prigioni da bene uomini e donne, i quali Dio sa come furono ricevuti nelle mani degl’Inghilesi uomini crudeli e bestiali, i quali con la miseria de’ nostri arricchirono. Preso il castello il guastarono e afforzaronsi ne’ borghi, dove stettono per alquanto di tempo. La presura di Figghine assai diè di pensiero e di maninconia a’ governatori del nostro comune, tutto che i cittadini ch’aveano i palagi e abituro d’intorno e appresso la città paressono contenti che la guerra si facesse da lungo, ma poco loro valse, come appresso diviseremo. CAP. LXIX. _Come messer Pandolfo puose il campo all’Ancisa, e come il detto campo fu preso dagl’Inghilesi con messer Rinuccio capitano, e appresso il borgo all’Ancisa, e come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra._ Preso Figghine per i Pisani, col consiglio di messer Pandolfo tutta la gente dell’arme de’ Fiorenti con molti pedoni che ’l comune avea n’andò all’Ancisa, e di presente messer Pandolfo andò dietro loro, e come giunse all’Ancisa ordinò di porre campo dirimpetto all’Ancisa, il quale ad arte il prese di sfoggiata grandezza, prendendo dal poggio infino all’Arno, contra il volere e consiglio di messer Rinuccio capitano, e di messer Amerigone Tedesco e di tutti gli altri buoni uomini d’arme che v’erano, eccetto il conte Artimanno, il quale si scoperse traditore, i quali tutti diceano essere abbastanza e più utile fare una bastita intorno alla torre Bandinelli, la quale diceano potersi difendere insieme col borgo dell’Ancisa, e che tanta larghezza di campo, traendo lui cinquecento cavalieri della migliore gente, nè eziandio se vi fossono alla difesa, non era possibile da difendere dalla forza de’ nemici, e che stolta cosa era commettersi a quella fortuna. Messer Pandolfo fè orecchie di mercatante a lasciare dire chi volle, e fè pure a suo senno, avendo dato a intendere prima a quelli della guerra e al comune che la Compagnia del cappelletto la quale era in Maremma condotta per i Fiorentini, e con cinquecento barbute di quelli erano all’Ancisa cavalcherebbono i Pisani, i quali arebbono necessità rivocare loro gente al soccorso, e sotto questo colore trasse del campo messer Amerigone e altri caporali con cinquecento uomini di cavallo della miglior gente fosse nel campo, lasciando al capitano il forte ragazzaglia e vile gente, eccetto alquanti Italiani, e ciò fatto se ne venne a Firenze. Gl’Inghilesi sentendolo partito, e che messer Rinuccio era semplice, feciono ingaggiare di battaglia uno di loro con uno di quelli d’entro, e molti saggi Inghilesi vennono nel campo senza arme, dove si combatterono, e considerando il campo e chi v’era alla difesa, il seguente dì 3 d’ottobre colle schiere fatte assalirono il campo da molte parti, acciocchè la poca gente che v’era e debole si spargesse in più parti alla difesa. Il capitano confortando i suoi a ben fare, e della sua persona, con quelli pochi uomini che v’erano buoni fè maraviglie, e per lungo spazio di tempo sostenne l’assalto con danno assai de’ nemici; in fine non potendo resistere a tanta gente, nè a tanti luoghi quant’erano combattuti, il capitano insieme col campo fu preso, con assai degli altri che mostrarono il volto. Il conte Artimanno traditore, possendo atare e soccorrere il campo, lasciando parte della sua gente a guardia del borgo dell’Ancisa co’ terrazzani, si stette a vedere. Molti de’ nostri ch’erano usciti di fuori, tale per badaluccare tale per vedere, furono presi, più di disarmati vogliosi troppo ch’erano corsi a vedere. Quelli valenti uomini che erano usciti fuori virilmente a battaglia furono presi colle spade in mano, intra’ quali fu messer Giovanni degli Obizzi e messer Giovanni Mangiadori, alquanti se ne gittarono per l’Arno che vi annegarono, intra i quali fu messer Bartolommeo de’ Portigiani da san Miniato. La preda de’ cavalli, fornimenti da campo e armadura fu grande. Avuta la vittoria gl’Inghilesi, con la preda e co’ prigioni si tornarono a Figghine. Ricerchi i nostri, tra presi e morti si trovarono passati i quattrocento. Conosciuto per gl’Inghilesi il male e viziato ordine dato per messer Pandolfo, e la viltà di nostra gente, e il corrotto animo del conte Artimanno, il dì seguente dì 4 d’ottobre ne vennono all’Ancisa colle schiere fatte per combattere il borgo; il traditore del conte Artimanno come li vidde venire, colla sua brigata se n’uscì per la porta che viene verso Firenze e misesi a cammino, che se avesse avute altrettante femmine come avea uomini d’arme arebbe difeso quel luogo; i nemici senza contesa entrarono nel borgo e presonlo, rubaronlo e arsonlo, per avere la via spedita volendo venire verso Firenze. Messer Pandolfo sentendo la rotta del campo, con cinquecento uomini ch’avea scelti e altra gente d’arme, in vista mostrava gran fretta d’andare a soccorrere l’Ancisa, e già avea passato san Donato in Collina, veggendo venire il conte Artimanno in fuga, possendosi allo stretto di san Donato sostenere per non mostrare tanta viltà, subito si volse e diessi alla fuga come uomo rotto. I nostri veggendo fuggire il capitano seguitarono, il quale come spaventato, come giunse in Firenze fè segno come fosse di necessità provvedere alla guardia della città trista e lagrimosa, e che mal volentieri lo vedea, ma la necessità la quale fa vecchia trottare strinse il nostro comune ad eleggerlo per capitano di guerra in luogo di messer Rinuccio preso colla spada in mano. Il quale essendo eletto nella forma che sogliono capitani di guerra, volle ai governatori del nostro comune con belle e artificiose parole e con sottili argomenti mostrare, che a perfezione del capitano, pace e bene della città, necessario era che nella città e di fuori avesse giurisdizione di sangue con pieno arbitrio, e fu sì sfacciato, che la domandò agli uficiali della guerra, quasi dando intesa altamente non accettare il capitanato, e più domandò, che i soldati da cavallo e da piè giurassono nelle sue mani. Udendo i governatori della città le sconce e le mal colorate domande vollono un grande consiglio di richiesti, dove si proposono le domande di messer Pandolfo, e tanto era il bisogno che aveano di lui, che niuno osava contradire, e il concedere parea pericoloso, il perchè stavano sospesi e muti. Simone di Rinieri Peruzzi si levò in consiglio, e disse francamente che nulla di ciò gli si concedesse, che questo era un domandare d’essere fatto signore, e che ciascuno si recasse alla mente il tempo del duca d’Atene, e come da lui erano stati trattati, e che conoscessono la dolcezza della libertà, e che volessono vivere e morire in essa. Piacque a tutti il consiglio, e così s’ottenne; e i signori priori mandarono di presente per tutti i soldati, e in loro mani feciono giurare, e un Baldo dalla Città di Castello elessono per difensore del popolo con larga e piena balía nella città. Messer Pandolfo veggendo ciò s’infinse di non lo intendere, e accettò il capitanato al modo usato a capitano di guerra, senza lasciare il pensiere di venire per altra via al suo intento, come per effetto si vide. Presa la bacchetta del capitanato fè cassare il conte Artimanno con ottocento uomini di cavallo, perchè non rimase il comune se non con altri ottocento, e ciò fatto, mostrando smisurata paura, fece sopra certa parte delle mura della città levare bertesche e merlate armate di ventiere, armando la nostra città d’eterna vergogna, più, che per le vie mastre non molto di lungo alle porte fè fare serragli e antiserragli infino a Ricorboli. CAP. LXX. _Come certa parte degl’Inghilesi da Figghine cavalcarono a Ricorboli._ Gl’Inghilesi e gente de’ Pisani imbaldanzita sopra modo della rotta del campo e della presa del borgo all’Ancisa, posati alcuni dì a Figghine, avendo le spie dello spavento ch’era in Firenze, e de’ modi del capitano, feciono sentire al comune con minaccevole superbia e altre parlanze, come a dì 22 d’ottobre verrebbono in sulle porte, e arderebbono il borgo di san Niccolò, e che a questo il comune mettesse ogni suo sforzo a riparo, il perchè i governatori della città perduto il cuore e il senno, e poco di concordia e rimprocciosi gettando il carico l’uno all’altro con mormorio, parendo a loro essere certi che quello che gl’Inghilesi prometteano l’atterrebbono, feciono afforzare san Miniato a monte, e misonvi quattrocento fanti pistoiesi e gli sbanditi, a’ quali promisono di ribandirli, poichè certo tempo ivi e altrove avessono servito il comune, de’ quali fu capitano messer Niccolò Buondelmonti, e Sinibaldo di messer Amerigo Donati, i quali allora erano in bando della persona: il numero loro passava i cinquecento. La città stava e quelli che di fuori erano alle poste in tanta sollecitudine e tremore, che alcuna volta sentendo pur un uomo dall’Apparita sonavano le campane del comune a martello, e invano la guardia si faceva la notte co’ pennoni. Essendo per più giorni stati grandi acquazzoni, a dì 22 del mese d’ottobre la detta brigata degl’Inghilesi in numero di millecinquecento a cavallo e cinquecento pedoni prima fu nel Piano di Ripoli, che per lo capitano o per i governatori del comune niente se ne sentisse, e se niente se ne sentì per lo capitano, che verisimile parea del sì, fece vista di non saperne: molti cittadini in sulle letta furono presi, perchè vennono di notte, e ucciso fu chi si contese. La preda che feciono fu di quattrocento prigioni, e di più di mille tra asini e buoi: molti fuggendo annegarono in Arno. La notte si stettono nel Piano di Ripoli e nelle coste d’intorno: il loro segno levarono alla pieve a Ripoli facendo gran trombata; la mattina, ardendo molti palagi, alberghi, e case da lavoratori vicino alla strada circa d’un miglio, si partirono senza trovare chi li andasse a vedere, e con la preda e’ prigioni si tornarono a Figghine. Messer Pandolfo sapendo che erano partiti, per vedere la tratta de’ Fiorentini, ch’era vogliosa e senza ordine niuno, con ottocento uomini a cavallo ch’erano rimasi al comune e con gran popolo si stette alle sbarre a Ricorboli; esso vedea i nemici sparti, e girsene per le coste, e ne’ suoi occhi ardere molti palagi di cittadini, e senza dubbio avendo le spalle del popolo e de’ contadini, ch’erano oltre a diecimila bene armati, e che volentieri l’arebbono seguitato, per lo danno e vergogna che fare si vedeano, li potea offendere, e nol volle fare, ma si ritenne al primo serraglio lasciandosene tre innanzi, a’ quali era il popolo e la gente da piè. Dissesi, e vero fu, che non sapendo l’aspro cammino gl’Inghilesi si mossono, e non giunsono in Pian di Ripoli che a pochi loro cavalli non crocchiassono i ferri, e se fossono stati assaggiati erano perduti, come essi poi confessarono aperto, ma la viltà affettata del nostro capitano, che traeva al fine che è detto di sopra, e de’ nostri cittadini e contadini, che gl’Inghilesi fossono leoni fu la salvezza loro. Speranza fu di messer Pandolfo, che rimaso messer Lomodaiesi co’ soldati de’ Pisani alla guardia di Figghine, gl’Inghilesi fossono tutti, e che s’alloggiassono nelle belle e ricche possessioni presso alla terra, le quali erano piene d’ogni bene, e che ’l comune per allora vario d’animo e povero di consiglio inclinasse a volerlo per suo governatore e maestro; questa speranza li faltò per la subita partita degl’Inghilesi, e fecelo entrare in altro pensiere. CAP. LXXI. _Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del cappelletto, la quale era condotta al soldo de’ Fiorentini._ Non ci pare da lasciare in silenzio, che essendo la gente de’ Pisani con gl’Inghilesi afforzati in Figghine, ed essendo condotta per i Fiorentini la Compagnia del cappelletto, la quale era in Maremma, e co’ Sanesi avea presa convegna, e veniano al servigio del comune di Firenze, e senza riguardo d’offesa e come fidati da’ Sanesi, per la via da Torrita furono da loro assaliti con ottocento uomini da cavallo, fra i quali ve ne furono quattrocento e più de’ Pisani, e loro ordine e trattato fu per rompere le provvisioni di messer Pandolfo, le quali aveano sentite. La zuffa dopo l’assalto de’ Sanesi non ebbe molto contasto, perchè quelli della compagnia venendo senza sospetto come per terre d’amici veniano in filo e sparti, il perchè di leggiere furono sconfitti e preda de’ nemici. Presi vi furono oltre a trecento uomini di cavallo e più di mille pedoni, e intra i presi fu il conte Niccolò da Urbino, che era il capitano, il conte da Sarteano, Marcolfo da’ Rimini; con altri assai buoni uomini d’arme, e morti ne furono assai più di cento. Della quale vittoria, ovvero tradimento fatto in dispetto, danno e vergogna del comune di Firenze, i Sanesi ne feciono beffa festa, dicendo sè a un’ora avere sconfitto il comune di Firenze e la compagnia la quale tanto affannati gli avea; e prosontuosamente oltre a modo alzando il capo, per derisione e scherno mandarono due messi a Firenze con lettere, l’uno al comune l’altro a’ capitani della parte guelfa, contenenti con alte e ornate parole la detta vittoria. Il comune dissimulando l’oltraggio, il fante che a lui venne vestì di scarlatto fino foderato d’indisia, la parte vestì il suo di cardinalesco. CAP. LXXII. _Di cavalcate e combattimenti di terre feciono gl’Inghilesi mentre stettono a Figghine._ Soggiornando gl’Inghilesi a Figghine, come guerrieri senza riposo tentarono per più riprese assai delle castella e tenute del nostro comune che d’intorno loro erano vicine, e al castello di Tre Vigne in due diversi giorni dierono ordinata battaglia, dove rimasono morti alquanti di loro, e assai ne furono e dalle balestra e dalle pietre magagnati senza acquisto niuno, lasciando le fosse piene di scale e la terra di saettamento, e per simile modo combatterono più altre tenute indarno. Il castelluccio de’ Benzi e la Foresta si tennono. Vero fu che uno Andrea di Belmonte Inghilese, gentile uomo e grande caporale nella compagnia, udita la fama della bellezza e gentilezza di costumi di Monna Tancia donna di Guido della Foresta, di buono e cavalleresco amore fu preso di lei, e la volle vedere, e da Guido come da uomo d’animo gentile cortesemente fu ricevuto e onorato; seguinne, che per l’amore di costui per tutto il tempo che stettono a Figghine niuna novità fu fatta alla Foresta. Combatterono per tutto un giorno il castello di Cintoia, e nol poterono avere. La notte quelli di Cintoia per la bussa del dì tormentati, e perchè assai di loro n’erano fediti, mandarono a Firenze a’ signori pregando per Dio li sovvenissono d’aiuto almeno di venti fanti, perocchè attendeano d’essere il seguente dì combattuti, e temeano della perdita; la provvisione all’usato modo fu fredda, il perchè gl’Inghilesi il seguente dì tornarono alla battaglia. Quelli del castello facendo loro possanza lungamente si tennono danneggiando forte i nemici, in fine gl’Inghilesi presono il castello, e ’l misono a sacco e l’arsono, e con la preda e’ prigioni si tornarono a Figghine. Nel detto tempo tremila uomini di cavallo con pedoni assai cavalcarono verso Arezzo, e poi volsono nel Casentino, dove levarono gran preda sì di persone sì di bestiame, e senza impedimento con essa si tornarono a Figghine. CAP. LXXIII. _Esempio e ammaestramento de’ popoli che vivono a libertà i quali si conducono nella fortuna della guerra di non torre capitano uso a tirannia._ Tornando al processo di nostra materia, gl’Inghilesi da Ricorboli venuti a Figghine essendo ad abbondanza grassi e di prigioni e di preda, nel consiglio de’ loro maggiori cominciarono ad entrare in pensiero, come l’uno e l’altro potessono conducere in Pisa per li stretti passi di Valdipesa: e per ciò potere fare, parendo loro come a gente dotti di guerra del Chianti sentire l’intenza di messer Pandolfo, e che pertanto era occupato intorno a’ fatti della città, poichè alquanti giorni furono riposati feciono sentire al comune di Firenze, che a dì undici del mese di novembre intendeano di fare consegrare un prete novello nella badia di san Salvi, e che i signori di Firenze e gli altri gentiluomini dovessono venire a fare onore al detto prete, e a loro in persona di lui. Ciò indubitatamente credette messer Pandolfo, e per le sue spie l’ebbe di certo, perocchè vidono il campo armare il detto dì 11 la mattina per tempo, e per lo campo sentirono divolgare come si dirizzavano verso Firenze; e certo a ciò avvisati cautamente presono il viaggio verso Firenze, il perchè le spie non attendendo più oltre vennono a Firenze ad informare messer Pandolfo. Stando la terra sotto l’arme in gran tremore, scendendo all’Apparita pur un fante a piè credeano fossono della brigata degl’Inghilesi, le campane sonavano a stormo, il popolo sbalordito correa in qua e in là senza ordine e senza capo, lasciando quasi ciascuno il suo gonfalone per ire a vedere, e di largo avanti che messer Pandolfo giugnesse alla Porta alla croce usciti erano della città ottomila uomini bene armati; quelli ch’erano più gagliardi erano nel piano di san Salvi, e ordinatisi il meglio aveano saputo, aspettando a ricevere i nemici, gli altri erano per le coste sopra san Salvi. Il falso grido sonava per la terra che già parte di loro n’era a Rovezzano: la gente da cavallo tutta era nella piazza de’ signori, e aspettava il capitano, il quale per la malizia soprastette al mangiare tanto, ch’era quando se ne levò più vicino alla nona che alla terza, e ciò fè perchè il popolo satollo uscisse fuori, e pensando che a quell’ora ragionevolmente i nemici dovessono esser giunti a san Salvi, e alle mani col popolo voglioso e con poco senno. Uscito il capitano fuori coll’insegna di sua arme levata, seguendolo i soldati e molti cittadini da bene a cavallo, come giunse alla Porta alla croce la fece serrare, e così quella della giustizia, ed esso si stava dentro a guardarla, lasciando il popolo di Firenze senza rifugio al taglio delle spade e in preda de’ nemici, che bene conoscea chi era il popolo, e chi gl’Inghilesi. Di fuori della porta era il tumulto grande delle strida delle femmine che fuggivano co’ figliuoli in collo e a mano, e voleano entrare dentro e non poteano, e quelle grida confermavano nella testa a messer Pandolfo che i nemici fossono giunti, e a zuffa, e ripreso da molti buoni cittadini che non lasciava entrare le femmine e’ fanciulli, fatto per alquanto di tempo orecchie di mercatante, quasi come temesse che per lo sportello entrassono i nemici e corressono la terra, alla fine udendo il mormorio del popolo e de’ buoni uomini fece aprire lo sportello: e io scrittore che era in quel luogo vidi molti cittadini grandi e da bene, e a cui era cara la libertà della città, piagnere e lagrimare vedendo il caso pericoloso, e ricordando il tempo del duca d’Atene, e come si fece signore, e alquanti di loro n’andarono a’ signori, e li consigliarono che provvedessono di vittuaglia il palagio, e facessono mettere le balestra grosse e le bombarde in punto sicchè il palagio avesse difesa, e tale, che di fatto, come al tempo del duca d’Atene, occupato non fosse. E stando nel tumulto del fornire e armare il palagio alla difesa, un messo giunse loro da Figghine, e disse come i nemici aveano arso il campo e il borgo di Figghine, e come s’erano partiti co’ prigioni e colla preda, e fatta la via per lo Chianti; onde i signori mandarono a dire a messer Pandolfo che facesse aprire le porte, e tornassesi allo stallo suo, il quale ciò udito, caduto della speranza, con gli occhi bassi e mal volto di tutti si tornò a casa sua. Quetato il popolo, e lasciata l’arme, i signori ebbono gran consiglio di richiesti, e veduto il pessimo animo di messer Pandolfo, e come pure intendea a volere essere signore di Firenze a dispetto del popolo, determinarono li fosse tenuto mente alle mani sicchè non li venisse fatto, e da quell’ora innanzi cominciò a essere in dispetto di tutti: e perchè il popolo non traesse più mattamente, feciono che ciascuno dovesse trarre al suo gonfalone alla pena di lire sei, la quale pensando si dovesse risquotere ciascuno sarebbe sollecito a seguire il suo gonfalone. Per messer Pandolfo mandarono, e lo ripresono forte de’ modi tenuti per lui, e dicendoli che stesse dove li paresse alle frontiere a guerreggiare i nemici, che il popolo di Firenze ben saprebbe guardare la città. Se non fosse stato della casa de’ Malatesti, per lo nome e titolo di parte guelfa amata e onorata dal comune di Firenze, per certo si tenne n’arebbono preso altra via. Avemo tritamente narrato questo caso per esempio, se potesse profittare, a quelli che verranno, di non tor mai a capitano di guerra tiranno di terra notabile, perocchè l’avvenimento della guerra è vario, e la fortuna or quinci or quindi presta il favore suo, e sovente il tiranno la fa essere ria per usurpare la sua libertà. E nullo ammiri perchè io dissi se potesse profittare, perocché ’l governo allora del nostro comune, avendo novellamente sì aspra ed evidente battitura ricevuta da messer Pandolfo, e lui partito con disonore e vergogna, sotto titolo e colore di ricoverare l’onore della casa de’ Malatesti, con la forza degli amici loro fu chiamato capitano di guerra messer Galeotto Malatesti; quello ne seguì nel seguente trattato a suo luogo e tempo si potrà trovare. CAP. LXXIV. _I modi teneano gl’Inghilesi tornati in Pisa._ Con grande festa e trionfo gl’Inghilesi tornati da Figghine per i Pisani furono ricevuti, e loro quasi come a cittadini fu consegnata certa parte della terra, e dell’altre furono abbarrate le vie perchè non noiassono a’ cittadini; ciò veggendo gl’Inghilesi lor parve che i Pisani li avessono accettati per loro cittadini participando la terra con loro, e modi teneano che pareano che intendessono così; i Pisani veggendo per segni e parole l’intento loro più volte cercarono per ingegno e astuzia di trarlisi di casa, infignendo d’essere cavalcati da’ nemici, e facendo venire molte lettere di diverse parti che loro annunziavano soprastare a gran pericoli, ma per allora fu nulla, che gl’Inghilesi che s’erano molto affannati, e bisogno aveano di riposo, ed erano caldi di danari di prigioni e di preda, se ne feciono beffe, il perchè i Pisani vernano in gran gelosia. CAP. LXXV. _Come i Pisani furono sconfitti a Barga._ Avendo i Pisani la lor gente dell’arme e gl’Inghilesi nella città, non potendo, come detto è di sopra, nè in parte nè in tutto trarre gl’Inghilesi di Pisa, per non perdere il tempo gran parte di loro soldati con grande ordine e apparecchio mandarono a Barga all’entrare di dicembre, per porre sopra gli altri battifolli che vi aveano un altro battifolle dalla parte del monte. In Barga era capitano per i Fiorentini Benghi del Tegghia Bondelmonti, a cui i Fiorentini, poichè gl’lnghilesi aveano abbandonato Figghine, aveano mandati centocinquanta degli sbanditi ch’erano stati in san Miniato a monte, i quali doveane certo tempo servire il comune nella guerra alle loro spese, e poi essere ribanditi; la gente de’ Pisani portando fornimenti assai, sì per porre detto battifolle, e sì per fornire e quello e gli altri ad abbondanza, non parea che desse cuore di fare quello ch’era stato loro commesso senza altro aiuto, forte temendo la brigata di Barga, il perchè quelli ch’erano negli altri battifolli lasciandoli male a difesa forniti si dirizzarono con loro in viaggio. Benghi, sentendo che i battifolli erano sforniti e quasi come abbandonati, con i Barghigiani, che v’andarono uomini e femmine vogliosamente, e co’ detti centocinquanta sbanditi assalì i detti battifolli, e tantosto li vinse. Quelli de’ battifolli ch’erano iti coll’altra gente a porre la bastita sentendo le grida e lo stormire di quelli che combatteano le bastite, subito colla detta gente de’ Pisani si volsono indietro per soccorrere a’ battifolli. Benghi capitano co’ Barghigiani e sbanditi suddetti li ricevettono francamente, e dopo lunga battaglia e aspra li sconfissono, dove de’ nemici furono morti oltre a centocinquanta, e assai fediti e magagnati, e molti ne furono presi; lo stendardo del comune di Pisa con altre tredici bandiere rimasono prese, le quali i Barghigiani ne mandarono a Firenze, e’ battifolli furono arsi, e quello che dentro v’era con quello che recato v’aveano per porre l’altro sì di vittuaglia come d’arnesi fu messo in Barga, e loro a gran bisogno sovvenne. Benghi perchè s’era fedelmente e francamente portato fu fatto di popolo, e rifermo in capitano di Barga per diciotto mesi. CAP. LXXVI. _Come il re Giovanni di Francia passò in Inghilterra e là morì._ Uscendo un poco del bosco delle nostre speziali riotte, facendo intramessa di cose forestiere, torneremo alquanto addietro a quello che scritto fu per Matteo nostro padre della pace intra i due re di Francia e d’Inghilterra, dove il re di Francia s’obbligò a pagare al re d’Inghilterra gran quantità di moneta per la sua diliveranza; e per osservare sua promessa lasciò per stadico il fratello duca d’Orliens, e messer Giovanni duca di Berrì suo figliuolo, e più altri duchi, conti e banderesi; onde in quest’anno 1363 a dì 3 di gennaio, il detto messer Giovanni figliuolo del re che stadico era a Calese, villanamente, essendo largheggiato d’andare a cacciare e uccellare a sua volontà, si fuggì da Calese senza tornarvi con gran sua vergogna, e fè rubellare agl’Inghilesi più terre teneano in Normandia per gaggi della pace. Onde il re Giovanni, come franco e nobile signore, per lo detto misfatto del figliuolo e rompimento della pace, e per trattare patto e grazia di sua redenzione, di sua volontà a dì 3 di gennaio 1363 entrò in mare a Bologna sul mare per ire e si rassegnare prigione in Inghilterra, e il giovedì appresso giunse a Dovero, e dipoi a dì 24 di gennaio giunse a Londra, e incontro gli andarono oltre a mille a cavallo gente nobile, e tutti vestiti di variate assise, e dismontò a una casa detta Saona per lui riccamente e alla reale apparecchiata. Della quale andata il detto re da tutti i cristiani fu molto lodato, ed eziandio gl’Inghilesi l’ebbono molto a bene e feciongliene ogni grazia. Nel raccozzamento de’ due re, e nella pratica, il perchè v’era ito, il detto re di Francia era passato nell’isola. Potrei far fine qui e riserbare al mese suo la morte del re di Francia, ma per non interrompere la materia la porremo qui. Seguì, che poco appresso poi all’entrata di marzo prese al re di Francia una malattia, e dipoi a dì 8 del mese d’aprile 1364 la notte passò di questa vita. Onorato fu di sepoltura largamente alla reale, riservando in una cassa il corpo suo per recarlo a tempo a Parigi. Il reame succedette a Carlo primogenito del detto re Giovanni, duca di Normandia e delfino di Vienna. CAP. LXXVII. _Come messer Niccolò del Pecora fu cacciato di Montepulciano._ In questi giorni per trattato fatto per i Sanesi colla forza de’ fanti d’Agnolino Bottoni, contra i patti della pace fatta tra’ Perugini e’ Sanesi, messer Niccolò del Pecora per i conforti suoi fu cacciato di Montepulciano, e ridussesi a Perugia in assai debole stato, e da’ Perugini mal provveduto, i quali per non ricominciare guerra passarono la vergogna a chiusi occhi. CAP. LXXVIII. _Della morte del giovane marchese di Brandisborgo, conte di Tirolo, e quello ch’appresso ne seguì._ Ancora ne piace un poco passare per le pellegrine storie; e per fondarne una che in questi tempi occorse assai abominevole, alquanto ne conviene addietro tirare per dare meglio a intendere il gran male: e venendo al proposito, la contea di Tirolo situata è negli estremi di terra tedesca sopra il Lago di Garda, e nel paese di Trento, e possente, nobile e famosa, la quale, morta tutta la progenia masculina, per successione era caduta in una fanciulla nome contessa......., la quale per la nobiltà della dota da tutti i signori e baroni della Magna era in matrimonio sollecitata, per avere in dota il gioiello della detta contea di Tirolo; in fine la contessa prese in isposo.... figliuolo del re Giovanni di Boemia, e fratello di Carlo che poi fu imperadore de’ Romani; e chiamatolo al matrimonio, e alla contea di Tirolo, dopo alquanto tempo la contessa cortesemente lo ne rimandò in suo paese, affermando che all’uso del matrimonio era impotente, e che la contea desiderava erede. Carlo fratello del detto..... recandosi in dispetto i modi della contessa, prestamente fè grande esercito, ed entrò nel contado di Tirolo, il quale è aspro e per sito fortissimo, e fece gran danni d’arsioni e di preda, e infra d’altre terre arse Buzzano, e ciò fatto si tornò in suo paese minacciando di fare peggio a tempo. Il perchè la contessa impaurita e spaventata cercò sollecitamente possente in Alamagna a cui si potesse appoggiare, e in quei tempi v’era grande Lodovico duca di Baviera della progenia del duca Namo, l’uno de’ dodici conti Paladini che seguitarono Carlo Magno a cacciare i saracini della Spagna, e pertanto poi quelli di sua schiatta hanno una boce de’ dodici peri alla boce dell’imperio; il quale Lodovico essendo creato imperadore de’ Romani contro volontà di santa Chiesa passò in Italia, e gran cose fece, come scrive Giovanni Villani nostro zio, e senza acquistare si tornò in Alamagna col titolo del Bavaro. Costui in questi dì avea quattro figliuoli, Lodovico, Stefano, Otto, e Romeo: Lodovico primogenito era marchese di Brandisborgo. Costui la contessa al padre segretamente fè domandare in marito, e il Bavaro vi diè l’orecchie, e volendo che ’l figliuolo la prendesse, egli con orrore d’animo la ricusava, dicendo al padre che ella avea altro marito, come noto era a tutta la Magna, e che secondo i decreti di santa Chiesa ella non potea avere altro marito: il padre lo sgridò, e gli osò dire ch’egli era un ribaldo, e che ’l contado di Tirolo non era boccone da rifiutare, il perchè per riverenza del padre Lodovico la prese per donna, velando il matrimonio con colore che il primo era impotente a generare. Della detta contessa assai tosto Lodovico ebbe un figliuolo maschio; ma perseverando il matrimonio, la contessa per soverchia lussuria trascorse in errore di disonesta vita, e in singolarità con un messer...... di Fraunberghe, che in latino suona, dal Colle delle donne, ed era sì venuto il giuoco in palese, che ogni uomo si maravigliava come il marchese la comportasse, stimando molti che per forza di malia lo facesse. Occorse, che partendo il marchese con lei e con tutta sua corte da Monaco di Baviera per andare a Tirolo, esso marchese sotto boce osò dire: Se noi torniamo a Monaco mai, noi ci vendicheremo di chi ne fa vergogna; ciò venne agli orrecchi alla contessa, e al cavaliere che usava con lei, il quale era de’ maggiori della corte, e conoscendo amendue che il marchese era di grande animo e vendicativo, e che già fatto aveva aspre e rilevate vendette a chi l’avesse fallato, strettosi al consiglio la donna e ’l cavaliere, temendo che il marchese non attenesse loro la promessa, nel cammino l’avvelenarono in una terra che si dice Rotimberga. Morto il marchese, rimase al figliuolo il paese ch’a lui s’appartenea in grande confusione, perchè molti voleano il governo del fanciullo, e così stette il paese rotto per spazio di mesi diciotto. Alla fine Stefano e Otto zii del garzone si recarono il governo alle mani, e dirizzati i paesi, e passati cinque anni, il giovane era cresciuto di bello aspetto, e facevasi valente, e per sua dibonarità e dolcezza avea la grazia di tutti i sudditi suoi, ed essendo a Tirolo si volea reggere e governare a suo piacere; e dispiacendoli assai i pochi onesti costumi della madre, e un giorno venendo con lei in contesa, per sua sciagura nell’irate parole uscì al giovane di bocca: Noi sapemo bene quello che voi faceste a nostro padre. La crudel donna crudelmente raccolse le semplici parlanze del giovane, e cominciò a pensare della morte sua: il perchè un giorno il giovane avendo con gentili giovani di sua età molto danzato, e per sè e per i compagni domandò da bere, e fugliene dato, ma con veleno, del quale con quattro valenti giovani suoi compagni si morì; gli altri che meno aveano bevuto si pelarono tutti, e rimasono infermi. Il giovane marchese poco avventurato di madre fu seppellito in Tirolo nel 1363 del mese di febbraio. Ciò si dice che fè la dispietata madre per potere più liberamente lussuriare e perseguire sua scellerata vita. Stefano e Otto figliuoli di Lodovico, e zii del giovinetto morto, udito l’orribile malificio, e compreso l’imperversato e fiero animo della femmina, la quale per uccidere il figliuolo non guardò all’innocenza de’ giovinetti che ballavano con lui (il quale recato con lei in comparazione a Medea, che fu gentile, e questa cristiana, non è da porre in dubbio che questa non fosse assai più spietata e crudele, verificandosi in lei il verso di Giovenale, il quale delle femmine dice: Fortem animum praestant rebus quas turpiter audent, che in volgare suona; Forte animo danno alle cose le quali sozzamente ardiscono, cioè presumono di fare) richiesono tutti i loro vassalli e feudatari, e accolsono d’amistà quanta gente poterono fare, e grande oste apparecchiarono contro alla contessa per vendicare la morte del fratello e del nipote, la quale spaventata e impaurita, perseguitandola la coscienza degli orribili peccati, stava in gran tremore, e non sapeva che si fare. In questa confusione Ridolfo duca d’Osterich, uomo sagace e astuto, e cupido di nuovo acquisto, inteso della morte del giovane, e dell’apparecchio che facevano Stefano e Otto di Baviera, sconosciuto di presente se n’andò a Tirolo, e fu colla contessa, e le disse dell’apparecchio di quelli di Baviera, e li mostrò ch’erano atti e sofficienti a disfarla, e s’ella avea concetta paura nell’animo la raddoppiò. Appresso le disse, ch’avea ritrovate scritture antiche che conteneano, come gli antichi duchi d’Osterich s’erano patteggiati e convenzionati con gli antichi conti di Tirolo, che quale casa o famiglia di loro faltasse d’ereda legittimo l’altra dovesse succedere, con offerirsi alla difesa della donna; e da lei posta in tanta confusione, e credula, ottenne ch’ella il fè capitano del contado di Tirolo, e nelle sue mani fè giurare tutto il paese. Proseguendo il proposito loro quelli di Baviera cominciarono la guerra, e corsono il contado di Tirolo, e presono e rubarono una terra che si chiama Sterburgh, e più in avanti non poterono passare per l’asprezza de’ luoghi e de’ forti passi provveduti alla difesa. Ciò non ostante il duca d’Osterich cominciò a mettere nel capo alla femmina che nel paese non stava sicura, e ch’era il suo migliore se n’andasse in Osterich, tanto che le cose pigliassono assetto, e tanto le seppe dire ch’ella v’andò. Dopo non molto tempo il duca la mise in un munistero, dove miseramente morì. Alcuni dissono fu fatta morire, e questo comunemente s’accettò per vero. Morta la contessa, il duca Ridolfo con gran quantità di gente d’arme corse per lo contado di Tirolo, e prese quattro nobili e gentili uomini, i quali come baroni aveano giurisdizione di per sè, i quali non erano stati pronti ad ubbidire, perch’aveano giurato alla casa di Baviera, e come tiranno, e contro alla natura e la costuma degli Alamanni, di presente li fè decapitare, onde in infamia e odio ne venne di tutta lingua tedesca. Per tema di questa impresa del duca d’Osterich non lasciò la casa di Baviera di non volere riscattare sua giurisdizione, e di loro forza e amistà ragunarono oltre a quattromila barbute di gente eletta, e con molto ordine si mossono contro il duca d’Osterich, come contro usurpatore delle loro ragioni. Il duca d’Osterich d’altra parte fè adunata non di meno gente nè valorosa meno che quella degli avversari, e amendue i detti eserciti assai vicini s’assembrarono insieme: e per caso un giorno avvenne, che sopra il numero di duemila barbute di quelle del duca d’Osterich dilungandosi dal campo casualmente si scontrarono in altrettante o circa della gente del duca di Baviera, e vennono alla battaglia, la quale fu fiera e pertinace, la quale durò per spazio di più di sei ore, e nella fine quelli d’Osterich furono sconfitti. I morti dall’una parte e d’altra in sul campo s’annumerarono si trovarono più di cinquecento, e i feriti e magagnati furono assai, e molti di quelli d’Osterich rimasono prigioni, e ciò avvenne nel 1364 d’ottobre, e qui l’ho posto per non rompere la storia. Il verno in quelle parti duro e incorportabile a campeggiere l’una parte e l’altra costrinse a tornarsi a sua magione, ma tutto che quietassono l’armi non quitarono gli animi, perocchè l’una parte e l’altra eziandio con spendio faceva sollecitamente ogni sforzo suo, e scritto e comandato aveano a tutti i sudditi loro ch’erano in Italia al soldo che a loro aiuto dovessono tornare, e tutti s’apparecchiarono a ubbidire, e così grande apparecchio faceano per trovarsi in campo come prima potessero. Carlo imperadore e Lodovico re d’Ungheria veggendo che ciò era di grandissimo pericolo e guasto di tutta Alamagna s’intesono insieme, e interposonsi per mezzani, e colla persona del savio e venerabile messer Piero Corsini vescovo di Firenze, il quale per gravi faccende di santa Chiesa allora era legato in Alamagna, il quale ricevendo sopra di sè il peso di tanta faccenda, come ambasciadore di detti imperadore e re, e mezzano e trattatore tra i detti signori cercò la concordia loro; e sì saviamente seppe la cosa guidare, che di detto anno e mese di gennaio pace si concluse tra loro, e per patto al duca d’Osterich rimase libera la contea di Tirolo, e in compensarne di ciò il duca di Baviera ebbe un’altra contea del duca d’Osterich, tutto che non a valore eguale assai a quella di Tirolo. E così ebbe fine la diabolica vita e processo dell’empia e spietata contessa di Tirolo, e la guerra che per le sue prave operazioni era suta tra la nobiltà de’ baroni e signori della Magna. CAP. LXXIX. _Come i Pisani ricondussono gl’Inghilesi._ Lasciando le forestiere storie, e tornando alle scaramucce e badalucchi della tediosa guerra intra i Fiorentini e’ Pisani ci occorre, che essendo gl’Inghilesi per fornire loro condotta, per due rispetti, l’una perchè i Fiorentini non li conducessono, l’altra per trarlisi di casa, e per li tempi che richiedesse la guerra, i Pisani del mese di gennaio li ricondussono per sei mesi con soldo di centocinquanta migliaia di fiorini, con patti che potessono fare cavalcate dove a loro piacesse, salvo che alle terre loro sottoposte, raccomandate e collegate, tutti gli altri loro soldati cassarono, e feciono loro capitano di guerra Vanni Aguto Inghilese gran maestro di guerra, di natura a loro modo volpigna e astuta, il suo soprannome in lingua inghilese era Hawkwood, che in latino dice, Falcone di bosco, ovvero in bosco, perocchè essendo la madre a un suo maniere per partorire, e non possendo, si fè portare in uno suo boschetto, e quivi lui di presente partorì, e tutto che non fosse di schiatta di nobili con dignità, il padre era gentiluomo mercatante e antico borgese, e così i suoi antenati, e come Giovanni venne in età di potere arme, essendo d’aspetto e di stificanza di farsi in essa valente uomo, fu dato a un suo zio gran maestro di guerra, il quale nelle guerre di Francia e d’Inghilterra avea fatto in arme e pratiche di guerra belle e rilevate cose. I detti Inghilesi vernarono in Pisa con gran danno e disagio de’ cittadini i quali a loro faceano oltraggio, e intra gli altri delle donne loro, il perchè molti di loro le ne mandarono a Genova e altrove in luoghi dove potessono onestamente dormire. CAP. LXXX. _D’una saetta che cadde sul campanile di santa Maria Novella._ Nel detto anno a dì primo di febbraio, essendo il tempo sereno e bello, e senza avere o da lunga o da presso alcuno segno di nuvole, tonò smisurato più volte, e caddono in Firenze più saette, fra le quali una ne percosse nel campanile de’ frati predicatori, e quello in più parti sdrucì, e più segni fè per la cappella maggiore d’inarsicciati. Di ciò è fatta menzione per la disgrazia del detto campanile spesso tocco dalle saette, appresso per la novità del tonare sì spossatamente al sereno nel pieno del verno. CAP. LXXXI. _Cavalcate fatte per gl’Inghilesi nel pieno del verno._ Poichè gl’Inghilesi si viddono ricondotti, come uomini vaghi di preda e vogliosi di zuffa, a dì 2 di febbraio in numero di mille lance, i quali si facevano tre per lancia di gente a cavallo (ed eglino furono i primi che recarono in Italia il conducere la gente di cavallo sotto nome di lance, che in prima si conduceano sotto nome di barbute e a bandiere) e in numero di duemila a piè, essendo il freddo fuori di misura, e venute più nevi sopra nevi, si partirono dalle frontiere dove pochi dì dinanzi s’erano ridotti, e passando la notte per Valdinievole se ne vennono a Vinci e Lampolecchio, luoghi fertili e abbondevoli di vittuaglia per gli uomini e per i cavalli, e trovarono il paese non sgombro per la pertinacia de’ nostri contadini, che non vogliono per bando o per minacce a’ loro signori ubbidire. Giugnendo nel pieno della notte molti paesani presono nelle letta, e posono il campo fermo nelle villate di Vinci stendendosi in più di mille case, e il seguente dì cavalcarono infino a Signa e Carmignano. Il tempo disusato e sconcio a cavalcare gente d’arme, e massimamente di notte, ne presta materia di scrivere de’ modi e reggimenti de’ detti Inghilesi nel presente capitolo senza farne altra distinzione: e in prima, essi aveano in consuetudine di guerreggiare così il verno come di state, che a’ Romani, di cui è scritto, Fortia agere, et pati, Romanum, che in volgare suona, forti cose fare, e patire, romana cosa è, non fu in uso, e sempre il verno faceano feria dando alla guerra riposo, se per forza non fussono tratti a battaglia. E come si trova ne’ veraci storiografi, Annibale uomo di ferro nel mezzo del verno passò gli altissimi gioghi delle montagne che surgono per lo mezzo d’Italia, e passano da monte Veso infino sopra il faro di Messina, le quali alpi poi per la detta cagione sempre nominate furono le Alpi pennine, perocchè gli Affricani sono chiamati Penni, e sceso il verno si combattè a Pavia con Scipione e lo vinse, poi dirizzandosi verso Roma con un solo elefante che rimaso gli era, per lo freddo perdè un occhio, e procedendo sopra il Lago di Perugia tra Montegeti e Passignano si combattè con Flaminio consolo e lo vinse, usando astuzia, perocchè essendo per lo gran freddo le membra de’ cavalieri arrudate e spossate, avanti che venisse alla battaglia Annibale fè fare gran fuochi, e scaldare i suoi cavalieri, e ugnere con olio. Tornando a nostra materia, per antico ricordo non era che fosse stato il freddo sì aspro e pungente, che quasi per tutto dicembre fino al marzo non erano cessate le nevi, e il ghiaccio per i venti freddi fu grosso, e a passare per i cavalli quasi impossibile, e massimamente in certi pendenti di vie che non si poteano schifare. Costoro tutti giovani, e per la maggior parte nati e accresciuti nelle lunghe guerre tra’ Franceschi e Inghilesi, caldi e vogliosi, usi agli omicidii e alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo loro persone in calere, ma nell’ordine della guerra erano presti, e ubbidienti ai loro maestri, tutto che nell’alloggiarsi a campo per la disordinata baldanza e ardire poco cauti si ponessono sparti e male ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa dannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni, e davanti al petto un’anima d’acciaio, bracciali di ferro, cosciali e gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lance da posta, le quali scesi a piè volentieri usavano, e ciascuno di loro avea uno o due paggetti, e tali più secondo ch’era possente, e come s’aveano cavate l’armi di dosso i detti paggetti di presente intendeano a tenerle pulite, sicchè quando compariano a zuffe loro armi pareano specchi, e per tanto erano più spaventevoli. Altri di loro erano arcieri, e loro archi erano di nasso, e lunghi, e con essi erano presti e ubbidienti, e faceano buona prova. Il modo del loro combattere in campo quasi sempre era a piede, assegnando i cavalli a’ paggi loro, legandosi in schiera quasi tonda, e i due prendeano una lancia, a quello modo che con li spiedi s’aspetta il cinghiaro, e così legati e stretti, colle lance basse a lenti passi si faceano contro a’ nemici con terribili strida: a duro era il poterli snodare, e per quello se ne vidde per la sperienza, gente più atta a cavalcare di notte e furare terre ch’a tenere campo felici, più per la codardia della nostra gente che per loro virtù. Scale aveano artificiose, che il maggiore pezzo era di tre scaglioni, e l’uno pezzo prendea l’altro a modo della tromba, e con esse sarebbono montati in su ogni alta torre. I detti Inghilesi, tornando alla nostra materia, combatterono il castello di Vinci, fidandosi ne’ tardi e lenti provvedimenti di quelli ch’allora guardavano la nostra repubblica, e pensando che fossono poco atti alla difesa, ma furono con franco animo e fronte senza paura ricevuti, e assai di loro di soperchio baldanzosi furono morti e assai fediti, senza altro acquistare che onta e vergogna; e per simile modo per due volte tornarono a Carmignano, dove con più sicuro volto e loro dannaggio furono veduti, il perchè si partirono di quindi, e andarsene al Montale sopra Montemurlo, con intenzione di passare per lo stretto di Valdimarina nel Mugello, ma sentendo che per quella volta da mille cinquecento pedoni de’ paesani e del Mugello s’erano a passi recati, e loro con allegrezza aspettavano, pensando con loro più tosto guadagnare che perdere, perchè tutto era sgombro e ridotto alle fortezze si tornarono per lo passo di Seravalle verso Pistoia nel contado di Pisa con loro gran danno, perocchè di loro tra morti e presi nella detta cavalcata si trovarono assai più di trecento, che da’ nostri contadini che da soldati che li tramezzarono a Seravalle, e sì da’ Pistoiesi che vi trassono al grido. I prigioni ch’aveano avuti a Vinci su le letta non passarono i quindici, nè i morti i cinque: la preda che feciono a pena gli potè nutricare: ne’ giorni che stettono non arsono case, molti de’ loro cavalli perderono per lo gran disagio e freddo soffersono, nevicando loro addosso il dì e la notte; il perchè tornati a loro stallo molti uomini se ne morirono; e così a poco a poco si logoravano gl’Inghilesi. CAP. LXXXII. _Come Anichino di Bongardo con tremila barbute venne al servigio de’ Pisani, e come sagacemente cercarono avvantaggiosa pace._ Nel detto anno 1363, a dì 15 del mese di marzo, Anichino di Bongardo Tedesco, il quale era stato in Lombardia al soldo di messer Galeazzo Visconti nella guerra del marchese di Monferrato, con tremila barbute venne in favore de’ Pisani mandato per lo detto messer Galeazzo sotto colore e titolo di soldo, sicchè in quel tempo i Pisani si trovarono avere più di seimilacinquecento buoni uomini di cavallo, il perchè loro parendo, e così era il vero, loro avere il migliore, ed essere di loro onta vendicati, con segreto e cauto modo cercarono d’avere pace onorata e vantaggiosa per le mani di santa Chiesa, e ordinarono che papa Urbano quinto mandò per suo legato in Toscana per cercare detta pace un frate Marco da Viterbo generale de’ frati minori, il quale essendo stato in Pisa venne a Firenze, e onoratamente fu ricevuto, e in fine dicendo, che al santo padre era in calere che della guerra da’ Fiorentini a’ Pisani la quale era il guasto di Toscana si venisse alla pace, e che tanto era fatto quinci e quindi che bene vi cadea, ebbe questa risposta: che i Fiorentini erano stati tirati a loro malgrado nella guerra dalla soperchia astuzia de’ Pisani, e che avanti li facessono risposta di pace e volessono udire domande de’ Pisani, considerato che il fatto non era pur loro, ma dell’università, sopra ciò ne voleano tenere consiglio; e licenziato il generale, il seguente dì feciono un consiglio di richiesti dove furono oltre a mille cittadini; e ciò fu fatto per richiudere la bocca a’ mormoratori della pace, e per schifare la pace che parea vituperosa, presentendosi segretamente le disoneste e sconce cose domandavano i Pisani. Adunque si tenne quest’ordine, che anzi che volessono i signori e’ collegi udire le domande, vollono che ’l detto generale le sponesse nel detto consiglio; e prima che mandassono per lui, uno de’ signori si levò nel consiglio e assai oscuramente disse, che ciò che nel consiglio venia non era loro movimento, ma che i priori passati n’aveano di corte avuto alcuno odore, e che gli otto della guerra di ciò niente sapeano, e che gli otto gli avviserebbono degli ordini presi per loro nella prosecuzione della guerra e di loro possanza, e appresso Spinello della Camera, il quale era pienamente informato dell’entrata e uscita del comune e del debito suo, loro farebbe chiaro di quanto il comune fosse possente a danari. Posato quello de’ signori si levò uno di quelli della guerra, e distesamente e apertamente disse, che l’ordine dato per loro era questo, cioè, che per settantamila fiorini aveano condotto per sei mesi quattromila barbute di quelli della Compagnia della stella, la quale era in Provenza, intra i quali erano più di cinquecento gentili uomini, e più nella Magna duemila barbute intra i quali era il conte Giovanni, il conte Guido, il conte Ridolfo stratti della casa di Soavia, e che al presente n’aveano scritte al soldo tremila, e che le dette brigate si doveano rassegnare in Firenze innanzi l’uscita del mese, e altre molte cose disse le quali poteano sollevare gli animi degli uditori alla guerra, soggiugnendo, che tale spesa per la pace schifare non si potea. Appresso si levò Spinello della Camera mostrando l’entrata e l’uscita del comune, e che pagate le dette brigate per tutto il mese d’ottobre il comune rimanea in debito di centossessantasei migliaia di fiorini, di che udite le sopraddette cose gli animi degli uditori accesi e sollevati inclinarono alla guerra; e ciò fatto, i signori feciono chiamare il generale, e sporre le domande de’ Pisani, le quali erano superbe troppo e fastidiose, e tali, che se avessono avuto il comune di Firenze in prigione sarebbono state sconvenevoli, sconce e disoneste, sopra le quali levati molti dicitori in fine di concordia di tutti si prese, che dove pace avere si potesse ragionevole, e quale comportare si potesse, col nome di Dio si prendesse, quanto che no, che francamente si seguitasse la guerra, e avvenisse ciò che avvenire ne potesse; vero che non si facesse pace s’avessono fatto lega con messer Galeazzo, per la quale si dicea essere ito per ambasciadore de’ Pisani in Lombardia Giovanni dell’Agnello. CAP. LXXXIII. _Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes per lo re di Francia a quello di Navarra._ Nel detto anno 1364 a dì 8 d’aprile, messer Beltramo di Craiche cavaliere Brettone Galese, il quale era nelle parti di Normandia, capitano per parte del duca di Normandia prese la villa di Nantes che si tenea per lo re di Navarra, e poco appresso prese la villa di Mellavit, e tutte le fortezze per la gente del detto duca, e furono prese più gente di Pag, e tali che teneano la parte del re di Navarra contro al re di Francia, e fu d’alcuni fatta giustizia. CAP. LXXXIV. _Come rotto il trattato della pace i Pisani cavalcarono i Fiorentini._ Mentre che il venerabile frate Marco per commissione di papa Urbano quinto cercava la pace tra’ Fiorentini e’ Pisani, i Genovesi, Perugini e Sanesi mandarono loro ambasciadori per cercare la detta pace insieme col detto frate Marco, il quale ricevuta la risposta dal comune di Firenze, che voleva pace dove fosse sopportabile e onesta, si tornò a Pisa, e trovando i Pisani per lo caldo della molta buona gente d’arme ch’aveano montati in più altere domande con minacce, tutto che la speranza della pace avessono gittata indietro alle spalle, non di manco i detti ambasciadori seguiano la cerca innanzi che le cose inzotichissino più, minacciando i Pisani che se la pace prestamente non si prendesse nella forma che l’aveano domandata, che farebbono la lor gente cavalcare a desolazione e distruzione del contado di Firenze. A’ Fiorentini parea al di dietro avere ricevuto soperchio oltraggio, e aspettavano in corti giorni l’avvenimento della Compagnia della stella, la quale per sagacità e sollecitudine di messer Galeazzo corrotta per danari ritardava sua venuta, dipoi levata ne fu, e le duemila barbute soldate nella Magna, fidandosi in questa speranza, e ne’ valenti uomini ch’aveano a provvisione, ch’erano messer Bonifazio Lupo da Parma, messer Tommaso da Spuleto, messer Manno Donati, messer Ricciardo Cancellieri, e Giovanni Malatacca da Reggio, i quali erano pregiati maestri di guerra, e stato ciascuno di per sè capitano di grande esercito e avutone onore, e già in Firenze era venuto il conte Arrigo di Monforte, e in sua compagnia il conte Giovanni e il conte Ridolfo stratti della casa di Soavia con cinquecento uomini di cavallo tutti giovani, e per la maggior parte gentili uomini, grandi e belli del corpo, e quanto per un fiotto di tanta gente a giudizio di tutti non era ricordo che entrasse in Firenze più bella nè meglio in punto d’arme e di cavalli, ed esso conte era di bello e gentile aspetto. Per le dette cagioni i Fiorentini con più cuore rifiutarono la pace, e le minacce misono a non calere; onde i Pisani posta giù la speranza della pace, avendo seimilacinquecento uomini di cavallo tra Tedeschi e Inghilesi capitanati da Anichino di Bongardo e Giovanni Aguto in forma di compagnie, e giunti loro oltre a mille cittadini e contadini i più guastatori, licenziarono che intendessono a fare aspra guerra, il perchè a dì 13 del mese d’aprile si mossono e passarono per la Valdinievole, e posarsi nel piano di Pistoia, e in due luoghi puosono campo, e il seguente dì gl’Inghilesi a schiere fatte si dirizzarono a Prato, e in su la porta di Prato combatterono i Pratesi, e con mano presono il ponte levatoio con maravigliosa sicurtà vietando che non si levasse, la quale audacia a’ nostri fu in grande terrore, e a dì 15 d’aprile circa a mille uomini a cavallo della brigata degl’Inghilesi nel mezzo della notte si partirono del campo, e vennono infino alla Porta al prato, onde la terra si scommosse tutta ad arme, e di loro quattro gagliardi toccarono la porta, de’ quali l’uno ne rimase, e senza arrestare si partirono con parecchi che trovarono nelle letta, e con alquanti buoi, e tornarono al campo. E il seguente dì gl’Inghilesi per lo stretto di Valdimarina passarono nel Mugello, non senza vergogna de’ provveditori del nostro comune, a cui parea che per le civili dissensioni Iddio avesse tolto il cuore e ’l senno; l’intenzione degl’Inghilesi fu di passare per lo Mugello, e venirsene nel piano di san Salvi, e ivi porre campo, e attenere a’ Fiorentini la promessa di fare il prete novello: Anichino dovea tenere campo a Peretola. Passati adunque la notte gl’Inghilesi la Valdimarina in sul fare del giorno giunsono a Latera e a Barberino, e trovarono i villani non avvisati e male provveduti, onde ebbono da cento prigioni, e da cento paia di buoi e assai bestiame minuto, e trovarono pieno di biada e di vino e d’altra roba da vivere, e la cagione fu per allora, che dove i governatori della città doveano levare le gabelle acciocchè la roba venisse alla terra, le raddoppiarono, il perchè niuno volea recare, volendo innanzi stare a rischio del perderla: e ciò fu riputato a’ signori in singulare fallo, levando l’abbondanza alla città e lasciando a’ nemici pastura. CAP. LXXXV. _Come messer Pandolfo passò nel Mugello colla gente da cavallo per tenere stretti gl’Inghilesi._ Essendo gl’Inghilesi passati nel Mugello per mala provvedenza di chi potea riparare, messer Pandolfo fu fermo nell’usato pensiero di farsi signore, e disse di volere cavalcare nel Mugello con la gente dell’arme che era nella città, ch’era nel torno di dodici centinaia di barbute; gli otto della guerra gliele interdiceano facendogliene espressa proibizione, e non senza cagione, avendo rispetto a’ modi per lui altra volta tenuti, e veggendo la città in grave pericolo: egli per pertinacia seguendo sua intenzione disse, o che cavalcherebbe, o che rifiuterebbe l’uficio del capitanato. Gli otto stando pur fermi, per la città ne surse mormorio e sollevamento di scandalo; onde stando il popolo insollito sotto ombra di cittadinesca riotta, gli otto temendo gli concedettono l’andata, e cavalcò con circa a mille barbute, e in compagnia del conte Arrigo di Monforte, a cui imposto fu per gli otto che cura all’operazioni di messer Pandolfo poco fidato al comune avesse; giunti nel Mugello, il conte s’alloggiò nella Scarperia, e messer Pandolfo nel borgo a san Lorenzo. Occorse in quei giorni, che circa a trenta della brigata del conte per avventura si scontrarono in cento o più Inghilesi, e per spazio di due ore insieme si combatterono: un gentiluomo della brigata del conte nome Arrigo veggendo il soperchio degl’Inghilesi discese a piede, e con una lancia in mano di sua persona fè maraviglie, perocchè, secondo che avemmo da persona degna di fede che si trovò al fatto, con la detta lancia spuose da cavallo da dieci Inghilesi de’ quali due morirono, e per lo detto atto e per li compagni che francamente lo seguirono gl’Inghilesi inviliti dierono le reni, e di loro, massimamente di quelli ch’erano rimasi a piede, alquanti ne furono presi, alquanti ne rimasono morti nella battaglia. Avemo con piacere per tanto di ciò fatto ricordo, perchè ne’ nostri dì tanta prodezza di rado è stata veduta, e per mostrare quanto di valore e di cuore a un esercito presta non solo il valente capitano, ma eziandio il valente cavaliere, e così il vile viltà. L’opere d’arme per tenere gl’Inghilesi stretti erano del conte Arrigo e del conte Ridolfo, ch’era chiamato il conte Menno, e di loro brigate, ch’altri poco se ne dava travaglio. CAP. LXXXVI. _Come gl’Inghilesi si partirono del Mugello e tornarsi nel piano di Pistoia._ Gl’Inghilesi essendosi assaggiati co’ Tedeschi e co’ paesani che aveano cominciato a mostrare loro il volto e a volere de’ loro cavalli, sentendo che il passare per lo Mugello a san Salvi per i molti stretti passi era loro pericoloso, e quasi impossibile, e veggendo il luogo dove s’erano condotti, incominciarono forte a dubitare, ed era loro di mestiere, se avessono avuto chi avesse voluto attendere a provvedere contro a loro, come dovea e potea, e tale ne portò mala fama, massimamente perchè loro faltava la vita e per le bestie e per le persone, onde loro convenne fuggire alle usate malizie, onde con sollecitudine mostrarono di volersi alloggiare a san Michele del bosco, afforzandosi di sbarre e palancati, con mettere pure in loro boce che riposati alquanto farebbono il cammino di che aveano minacciato a malgrado di chi non volesse, e ciò faceano per levare le poste alle vie ond’erano venuti quelli che v’erano tratti a guardare, mostrando d’ire innanzi non di tornare addietro, e così avvenne, che essendo quelle vie non guardate, la notte di san Giorgio presono loro via per la valle di Bisenzio e tornarsi nel piano di Pistoia. CAP. LXXXVII. _Come messer Pandolfo Malatesti si partì dal servigio del comune di Firenze._ Stando messer Pandolfo al Borgo involto in su gli usati pensieri favorati dal male stato de’ Fiorentini, li cadde nell’animo, ch’essendo Firenze nel dubbioso e forte partito dove per allora parea che fosse lo dovesse gareggiare e tenerlo per idolo; onde volendo tentare se il suo pensiere rispondea col fatto, e per sua parte fè dire a’ signori di Firenze e agli otto della guerra, che casi gravissimi e poderosi gli erano occorsi nel suo paese pericolosi allo stato suo, e che a riparare necessario era che sua persona vi fosse, e li fece pregare che loro piacesse in tanto bisogno non doverli mancare per dodici o quindici dì licenziarlo: i signori con gli otto ne tennono consiglio di richiesti, nel quale muto di dicitori, Bindo di Bonaccio Guasconi disse, che pensava che ’l gentiluomo, amico egli e sua casa del nostro comune, dicesse il vero, e che essendo le cose gravi come ponea, non gli andava per animo che in così breve spazio di tempo come domandava le potesse spacciare, e che non solo per dodici o quindici dì si licenziasse, ma per tutto il tempo che sua condotta durava, e che in suo luogo fosse posto il conte Arrigo di Monforte, e così nel consiglio s’ottenne, e fu eletto il detto Bindo a ire a messer Pandolfo con piacevole commiato. Bindo v’andò, e da sè a lui aperto li mostrò tutti i suoi errori, i quali dal popolo erano stati bene conosciuti, e che agevolmente potea avvenire, che perseverando in cotali pensieri con opera, forse che un giorno il popolo li farebbe un sozzo scherzo, al quale non potrebbono porre riparo nè i signori nè gli otto. Veggendo messer Pandolfo che questo avviso come gli altri gli era venuto fallito, e tornato in vergogna, se ne venne a Firenze, e fu a’ signori, e loro disse, che non ostante che ’l suo bisogno fosse grande, per lo presente vedea quello del comune di Firenze era maggiore e pertanto e sè e la sua brigata alle sue spese offeria al comune: di ciò fu ringraziato, e dettoli, che ’l comune non avea nè di lui nè di sua brigata bisogno, onde si partì a sua posta senza onore di comune, o di privati cittadini. CAP. LXXXVIII. _Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi co’ guastatori de’ Pisani s’accamparono a Sesto, e Colonnata, e santo Stefano in pane._ Gl’Inghilesi usciti del Mugello a salvamento insieme co’ Tedeschi e guastatori s’accamparono a Sesto e Colonnata, e per le coste di Montemorello, prendendo santo Stefano in pane, e tutte le pianure d’intorno, dove soprastettono per alquanti giorni, sicchè i guastatori de’ Pisani ebbono destro a fare male, e arsono palagi e ricchi abituri e altri casamenti per lo piano, e per le coste di Montemorello per lo spazio di tre miglia o circa intorno al campo, e riservando a levare del campo i luoghi che per loro necessità aveano riserbati, e stando quivi gualdane di loro passarono l’Uccellatoio e Starniano, ed entrarono in Pescia luogo aspro e riposto, ove trovarono molta roba rifuggita, oltre n’andarono infino a Calicarza, Montile, e Curliano, paesi malagevoli assai a cavalcare, senza trovare alcuna contesa. Ancora infra questo tempo combatterono la Petraia, ch’era loro sopra capo, e aveanla armata e fornita alla difesa i figliuoli di Boccaccio Brunelleschi: e nel vero fortemente sdegnavano che sopra tante migliaia di gente d’arme pregiata e famosa signoreggiasse quella piccola fortezza in dispregio loro, il perchè si deliberarono di vincerla, e la prima battaglia colle schiere ordinate fu degl’Inghilesi, dove con acquisto di vergogna alquanti ne furono morti e molti magagnati, la seconda de’ Tedeschi in simile acquisto; ultimamente essendo cresciuta l’onta e ’l dispetto, anzi il levare del campo Tedeschi e Inghilesi insieme con aspro assalto la combatterono, e niente poterono acquistare, se non al modo usato danno e vergogna. Di questo avemo fatta memoria per mostrare, che i privati cittadini in que’ tempi più erano accorti e valorosi a difendere loro fortezze, che i governatori del comune quelle della città, e massimamente perchè confortati, che nel rispetto ch’aveano da’ nemici, e poteanlo fare assai leggermente nol vollono fare, onde ne risultò gran vergogna al comune. L’invidia e ’l mal talento col poco senno che allora occupava il governamento ogni virtuoso operare impedia. In sul levare del campo i guastatori pisani arsono tutti i casamenti che per loro ostellaggi aveano riserbati. CAP. LXXXIX. _Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi coi guastatori pisani presono il colle di Montughi e di Fiesole, e combatterono i Fiorentini alla porta a san Gallo, e fessi Anichino di Bongardo cavaliere._ L’ultimo dì d’aprile i nemici mutando campo presono il colle di Montughi e di Fiesole, spargendosi per tutte le circostanze infino a Rovezzano, e il primo dì di maggio per giorno nomato colle schiere fatte se ne vennono sopra la costa della via di san Gallo di sotto al podere d’Altopascio, dove erano fatti tre serragli, il primo sopra la via che va a santo Antonio, l’altro sopra la via che va a san Gallo, il terzo sopra le case poste sopra via che ne va lungo le mura, e questo era di carri, dove era il conte Arrigo di Monforte con tutta la gente da cavallo; a’ primi due serragli erano molti Fiorentini usciti di volontà, i quali impedivano la buona gente dell’arme ch’erano alla difesa, e ammoniti da messer Manno Donati, e da messer Bonifazio Lupo, e da messer Giovanni Malatacca, e dagli altri valenti uomini, che si tirassono addietro, e lasciassono fare la gente dell’arme, nol vollono fare, il perchè furono cagione della perdita de’ serragli con morte e presura di molti di loro. Nello scendere delle schiere un poco davanti due notabili uomini e pregiati in arme, Averardo Tedesco e Cocco Inghilese, a lento passo l’uno dall’un lato della via l’altro dall’altra si calarono giù a’ serragli facendo rilevate prodezze; seguendo appresso le schiere vinsono e gettarono in terra i detti due serragli, con danni assai e di morti e di prigioni de’ vogliosi e disordinati Fiorentini, che s’erano voluti mettere alla difesa contro a’ buoni uomini d’arme, e contra loro volontà. Averardo passò in sulla piazza di san Gallo, e con molti che appresso il seguivano infino al piè delle case a fronte si fè al conte di Monforte, il quale stando come una massa di ferro mai da’ nemici non fu tentato, tutto che le frecce degli arcieri inghilesi che scendeano sopra l’altra brigata sembrassono gragnuola. Dalla porta e antiporta e mura scoccavano le balestra, e a tornio e a staffa, che il tuono del romore piuttosto cresceano che facessono danno. Scese le schiere, fuoco fu messo in sant’Antonio del vescovo, e per simile in molti altri casamenti. In quel fuoco, in quel tumulto, in quelle grida Anichino di Bongardo si fè cavaliere in sulla costa della via che vede la porta, con tanti suoni, con tante grida, che parea che ’l cielo tonasse, ed egli fè cavaliere messer Averardo e più altri, come se fatti fossero in battaglia campale: e ciò fatto, fu sonato a ricolta, e tutti, accortamente senza impaccio si ritrassono addietro chi a Montughi e chi a Fiesole, e la notte con l’ordine dato tra loro feciono la festa de’ cavalieri novelli, la quale fu in questa forma: che le brigate a cento i più a venticinque i meno con fiaccole in mano si vedeano danzare, e l’una brigata si scontrava con l’altra gittando talora le fiaccole, e ricevendole in mano, e talora mettendole a giro, e a modo d’armeggiatori seguendo l’un l’altro ordinatamente, e queste fiaccole passavano le duemila, con gran gavazze di grida e stromenti; e per quello che s’intese dalle brigate ch’erano nel piano vicino alle mura dispettose parole usavano contra il comune di Firenze, e intra l’altre, Guardia studia i collegi, manda pe’ richiesti, e simili parole usate nel palagio de’ priori, le quali erano intese e da quelli che erano in sulle mura e da quelli ch’erano da piè. E per dileggiare il popolo di Firenze in sulle tre ore di notte quetamente mandarono un loro trombettino e un tamburino in sul fosso delle mura della Porta alla croce, i quali sonando come a stormo, il popolo di Firenze tutto si commosse a romore, correndo boci per la terra che i nemici aveano prese le mura dove le bertesche erano fatte, e che parte di loro n’erano dentro discesi. La paura fu sopra modo, e i cittadini come smemoriati correvano qua e là per la terra, e le femmine poneano le lucerne alle finestre, e con lamenti l’armavano di pietre. La cosa nel suo aspetto a vedere orribile era, ma saputo il vero, subitamente si racchetò il bollore fatto in danno e vergogna come detto è. Il seguente dì 2 di maggio schierati tutti passarono Arno di sotto alla Sardigna assai presso alla città, e puosono campo a Verzaia stendendosi infino a Giogoli e Pozzolatico e per Arcetri, ardendo tutto infino presso alle mura; e sopra questo con le schiere fatte, e con le loro barbare strida e suoni di stromenti da battaglia vennono verso la porta di san Friano per combattere nella forma che fatto aveano a quella di san Gallo. I nostri che ne’ giorni passati s’erano assaggiati con loro, e trovato aveano ch’erano uomini e non leoni, aveano armato il casamento delle monache da Verzaia, e quivi fatte le sbarre ricevettono francamente il baldanzoso assalto, rispondendo loro co’ ferri in mano in modo e forma che li ributtarono indietro con molti fediti e alcuni morti, il perchè niente avanzando se non danno e vergogna si ritrassono al campo: bene arsono allora sopra il ciglio della città Bellosguardo e molte altre belle e ricche possessioni e palagi, e soprastati per alquanti giorni, per dare agio ai fediti loro i quali passavano il numero di duemila, veggendo che i Fiorentini s’ausavano all’arme, e andavano a riguardo, sicchè poco con loro poteano avanzare, e che le brigate che uscivano di notte sì de’ cittadini come de’ contadini, che erano trafitti e aveano bisogno di ristorarsi, stando essi sparti baldanzosi, e per dispetto quasi senza guardia veruna, e di prigioni e di cavalli e d’uccisioni li danneggiavano forte, si partirono. Il lor viaggio fu sopra san Miniato a monte, e sopra l’Ancisa passando per lo Valdarno, e loro albergheria fu al Tartagliese, e il seguente dì feciono vista di combattere la Terranuova, dove trovato la risposta, con alquanti di loro morti e magagnati si partirono, e così mollemente tentarono dell’altre terre del Valdarno, il perchè aperto s’intese che per quella via gli avea volti il danaio: che usciti del contado di Firenze in su quello d’Arezzo, e trovandolo sgombro, passarono su quello di Cortona, e quindi in su quello di Siena facendo danno assai d’arsioni prigioni e prede, infine voltisi per la Valdelsa e per la Valdinievole si fermarono in su quello di Pisa a san Piero in campo. Quivi vollono vedere la rassegna delle loro brigate, dal tempo ch’entrati erano in sul Fiorentino, e trovarono che più di seicento buoni uomini d’arme aveano perduti, e oltre a duemila n’erano fediti, de’ quali assai poscia perirono. CAP. XC. _Come il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini prese e arse Livorno._ Nel paesare e nel raggiramento che messer Anichino di Bongardo faceano in su quello d’Arezzo insieme con gl’Inghilesi, come abbiamo detto, il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini, e con lui il conte Giovanni e il conte Ridolfo colle brigate loro de’ Tedeschi, ch’erano con quelli del conte Arrigo millecinquecento barbute, e con l’altra gente di cavallo de’ Fiorentini ch’erano per le castella alle frontiere, la quale fè adunare in san Miniato del Tedesco, e con cinquecento balestrieri scelti, e più con assai Fiorentini a cavallo e a piè che di volontà l’aveano voluto seguire, e col consiglio di messer Manno Donati, e di certi degli altri provvisionati, de’ quali di sopra facemmo menzione, fatto fornimento da vivere per quindici giorni, venerdì mattina a dì 21 di Maggio 1364 si partì di san Miniato del Tedesco, e la sera prese albergo su l’Era vicino al castello di Gello, e il sabato mattina passando vicino di Pisa, e facendo quel danno che fare si potea s’accampò a san Piero in Grado. E in quel giorno vennono a Pisa di Lombardia millequattrocento uomini di cavallo sotto nome di compagnia, i quali veniano per pigliare inviamento di loro mestiere in Toscana. I Pisani vedendosi improvviso giugnere questa ventura loro donarono duemila fiorini d’oro, ed elli coll’altra gente loro che rimasa era in Pisa, come soperchio a’ Tedeschi e Inghilesi che cavalcati erano in sul Fiorentino, e con parte del popolo andassono a combattere co’ Fiorentini ch’erano accampati a san Piero in Grado, e così promisono di fare, e preso rinfrescamento, con la gente e col popolo uscirono di Pisa schierati, e a pian passo contro i nemici. Il conte di Monforte sollecitato era molto da messer Manno che passasse il ponte allo Stagno contro Livorno, ed egli dubitando forte stava sospeso, e per conforto che fatto gli fosse non si attentava a passare quello lagume, e non sapere dove, se non quando vidde il gran polverio della gente ch’usciva di Pisa, quindi mosse passo, e di presente messer Manno chiamò Filippone di Giachinotto Tanaglia, che quivi appresso di lui era, e prese due scuri in mano tagliarono due pali in su che si posava il ponte, e lo feciono nello stagno cadere, e a pena aveano fornito il servigio che i Pisani sopraggiunsono e per acqua e per terra. Messer Manno conoscea tutti i soldati che praticavano in Lombardia, e pertanto domandò di volere parlare con alcuno di loro caporali, e tantosto vennono parecchi, e con lieta accoglienza lo viddono, rallegrandosi ch’aveano cessato materia di zuffa, e a lui dissono, che aveano ricevuto duemila fiorini d’oro perchè commettessono battaglia con loro, e che credeano che i Pisani attenderebbono a loro persecuzione, ma che essi per suo amore lentamente procederebbono, e da lui preso congio, a passi scarsi si tornarono verso Pisa. E in ciò cadde perdimento di tempo a’ Pisani, utile e necessario alla gente de’ Fiorentini, come può qualunque intendente udendo il fatto comprendere, perocchè deliberarono i Pisani che la detta gente cavalcasse a Montescudaio, e togliesse il passo a’ Fiorentini, e se ciò fosse per mala fortuna avvenuto, senza dubbio tutta la gente ch’era in quella cavalcata era perduta. La detta gente la sera soprastette in Pisa, e la mattina seguente persono tempo tra nell’armarsi e mettersi in ordine. I Fiorentini in quel giorno che passarono il ponte allo Stagno presono Porto pisano e Livorno, e trovaronlo sgombro, perocchè quelli che dentro v’erano diffidandosi di poterlo tenere da tanto sforzo, prestamente si diedono allo sgombrare fuggendo loro famiglie e cose, e così le mercatanzie in mare in su le navi, che solo una balla di panni e una ricca cortina nel fondaco trovato non fu, or non di manco messo in preda quello che trovato vi fu, il conte fece ardere la terra. Messer Manno udito il generale avviso della gente dell’arme che s’era data a servire a’ Pisani, come uomo avvisato e pratico de’ casi che sogliono ne’ fatti dell’arme avvenire, subito gli corse in pensiero, che i Pisani non rivolgessono quella gente in Maremma a tor loro il passo di Montescudaio, e cominciò forte a dubitare, e avvisonne il capitano, e vennono presto a’ rimedi, perocchè messasi innanzi la gente da piè, perchè del camminare avessono più agio, e rinfrescato alquanto i loro cavalli, alle tre ore di notte presono viaggio, e dirizzaronsi verso Montescudaio per vie montuose e aspre e malagevoli, e tutta quella notte senza arresto cavalcarono, e il seguente dì con dare poco d’agio alle bestie e a loro misono in cavalcare come fossono in fuga, e alle tre ore di notte uscirono del passo di Montescudaio, e ridussonsi in su quello di Volterra in luogo sicuro, trovandosi avere camminato in ventiquattro ore miglia trentotto di pessima via. E in quella medesima notte circa alle sette ore la gente de’ Pisani giunse a Montescudaio per torre il passo, e trovando che i Fiorentini erano passati, dello scorno che loro parea avere ricevuto presono cordoglio. Emmi stato piacere particolarmente narrare questa particella di storia per dimostrare quello che può e fa la fortuna nelle maledette confusioni delle guerre. Ben furono di quelli che vollono dire, che la cavalcata era stata di coscienza de’ Pisani, perchè pace si potesse cercare, e se vero fu, alla Pisanesca bel tratto faceano, avendo il caso fortuito loro prestato la gente dell’arme, colla quale stimarono poterlo fare, e assai presso vi furono. CAP. XCI. _Come il corpo del re Giovanni di Francia fu trasportato di Londra a Parigi, e come onorato._ Per tramezzare alquanto la continuanza delle scritture nella guerra tra’ Fiorentini e’ Pisani ne occorre di scrivere, che ’l dì primo di maggio il corpo del re Giovanni di Francia di Londra ne fu portato a santo Antonio presso a Parigi la sera, e quivi per onorarlo e farne l’esequie reale stette quattro giorni, e a dì 5 detto mese ne fu portato a nostra Donna di Parigi accompagnato da tutte le processioni delle chiese e regole di Parigi, e da tre suoi figliuoli, ciò furono, Carlo primogenito delfino di Vienna e duca di Normandia, Luigi duca d’Angiò, Filippo duca di Torenna lo più giovane di tutti, e fuvvi lo re di Cipri, Giovanni duca di Berrì era in Inghilterra: e portarono il corpo del detto re quelli di parlamento secondo loro uso; e ciò è di ragione, perchè elli rappresentano la giustizia in luogo del re: e a dì 6 si disse la messa, e subito il corpo ne fu portato a santo Dionigi, seguendo appresso d’esso i suoi tre figliuoli Carlo Luigi e Filippo, e il re di Cipro, e sopra i franchi della villa, poi montati a cavallo infino a santo Dionigi, e a dì 7 si fè l’esequio a santo Dionigi. E seppellito il detto corpo con grande onore, tantosto appresso Carlo suo primogenito se n’andò in un pratello, e appoggiato ad un fico ricevette più omaggi da’ peri di Francia e da’ grandi baroni, e a dì 9 si partì per andare a Rems a prendere la corona. CAP. XCII. _Come messer Beltramo de Cloachin sconfisse il luogotenente del re di Navarra in Normandia._ Nel detto anno a dì 16 dì Maggio, messer Beltramo de Cloachin si combattè davanti Choncel presso alla Croce di san Leffon contra al Captal del Comuff luogotenente del re di Navarra in Normandia, e fu il detto Captal sconfitto e preso, e la maggior parte di sua gente morta e presa; e per avere il detto Captal lo re di Francia diede al detto messer Beltramo tutta la Longavilla e la Giusfort ch’erano state del re di Navarra. E lo re di Francia ec. _Qui manca il fine di questo capitolo con tre altri capitoli delle rubriche che erano così intitolati._ CAP. XCIII. _Come Carlo primogenito del re di Francia fu consegrato a Rems a re di Francia._ CAP. XCIV. _Come si combatterono messer Carlo di Bos duca di Brettagna, e messer Gianni di Monforte._ CAP. XCV. _Come i Fiorentini con la forza del danaio ruppono la compagnia de’ Tedeschi e Inghilesi, e levaronla da provvisione de’ Pisani._ _Per supplire in parte a ciò che manca in questo luogo nel codice Ricci, ecco ciò che ne fornisce l’Epitome dell’Istorie dei tre Villani di Domenico Boninsegni, che poco addietro ho citato._ «Essendo le genti de’ Pisani a san Piero in campo, e i Fiorentini vedendosi mancare la speranza della Compagnia della Stella, per operazione di messer Galeazzo, e della gente della Magna, cercarono accordo con gl’Inghilesi e’ Tedeschi ch’erano presso alla fine di loro condotta, e i Pisani cercavano di riconducerli, pure vinsero l’opere de’ Fiorentini, che già segretamente avevano dato ad Anichino novemila fiorini quando erano in sul contado di Firenze, e alla sua brigata ne donarono trentacinque migliaia, e agl’Inghilesi settantamila, e tutti si partirono dal servigio de’ Pisani, eccetto Giovanni Aguto con milledugento Inghilesi: e anche in segreto feciono patto con messer Ugo della Zucca e altri Inghilesi. I patti con queste compagnie in sostanza furono, che per cinque mesi non sarebbono contro il nostro comune, o suoi sudditi o accomandati in alcun modo; anzi tutti n’andarono in su quello di Siena a predare e ardere, per merito di quello feciono alla Compagnia del cappelletto soldati nostri.» CAP. XCVI. _Come i Fiorentini presono in capitano di guerra messer Galeotto Malatesti._ «Fatto l’accordo che di sopra è detto, parve a’ governatori di Firenze necessario d’avere un capitano italiano, e procacciando messer Galeotto Malatesti, secondo si disse, per cancellare la disgrazia con la quale s’era partito il suo nipote, infine l’ottenne, e fu eletto nostro capitano, con assai ammirazione di molti agli scherni ricevuti dal nipote, e venne in Firenze a dì 17 di luglio a ore ventuna per i consigli d’astrolagi. E innanzi che scendesse da cavallo appiè della porta del palagio de’ priori con le usate solennità prese il bastone e l’insegne, e lui diè quella de’ feditori al conte Arrigo di Monforte, e fecelo vece capitano; la reale diè a messer Andrea de’ Bardi, e altre ad altri cittadini, e senza arresto uscì di Firenze, e posate l’insegne in Verzaia tornò in Firenze, e per intendersi co’ signori e altri uficiali dell’informazione della guerra, e soprastette alcuni dì, perchè voleva piena balìa di potere dare a sua volontà a’ soldati paga doppia e mese compiuto.» Alla fine essendo fuori le insegne, ed egli stando pertinace, per lo meno male e meno vergogna di comune la sua domanda fu messa a esecuzione, la quale i sottili venditori non ebbono per meno che domandare giurisdizione di sangue. Avuto suo intendimento, mosse a dì 23 del mese di giugno, accompagnato infra gli altri da trecento cittadini ben montati e riccamente armati, i quali spontaneamente vi cavalcavano per vendicare l’ingiurie de’ Pisani novellamente fatte al loro comune. CAP. XCVII. _Battaglia tra’ Fiorentini e’ Pisani fatta nel borgo di Cascina, nella quale i Fiorentini furono vincitori._ Domenica, a dì 29 di luglio anni 1364, rivolto l’anno che nel medesimo giorno i Pisani aveano corso il palio al ponte a Rifredi, fatti cavalieri, battuta moneta, impiccati asini, e fatte molte altre derisioni e scherne a’ Fiorentini, messer Galeotto Malatesti capitano de’ Fiorentini, movendo la notte dinanzi campo da Peccioli, la mattina s’accampò ne’ borghi di Cascina presso di Pisa a sei grosse miglia, ma di via piana e spedita, e infra il giorno per lo smisurato caldo le tre parti e più dell’oste, che erano oltre di quattromila uomini di cavallo che di soldo, che d’amistà, e che de’ Fiorentini, che per onorare loro patria di volontà erano cavalcati, e di undicimila pedoni, s’era disarmata, e quale si bagnava in Arno, quale si sciorinava al meriggio, e chi disarmandosi in altro modo prendea rinfrescamento. E il capitano, sì perchè molto era attempato, sì perchè del tutto ancora libero non era della terzana, se n’era ito nel letto a riposare senza avere considerazione quanto fosse vicino all’astuta volpe, e al volpone vecchio Giovanni dell’Aguto, e tutto che al campo fossono fatti serragli, deboli erano, e cura sufficiente non era data a chi li guardasse; il perchè avvenne, che il valente cavaliere messer Manno Donati, come colui a cui toccava la faccenda nell’onore, andando provveggendo il campo e i modi che la gente dell’arme tenea, conosciuto il gran pericolo in che il campo stava, e temendo che nel fatto non giocasse malizia, e dove no, quello che ragionevolmente secondo uso e costume di guerra ne dovea e potea avvenire, e tantosto n’avvenne, mosso da fervente zelo incominciò a destare il campo, e dire, noi siamo perduti, e con queste parole se n’andò al capitano, e lo mosse a commettere in messer Bonifazio Lupo e in altri tre e in lui la cura del campo; ciò fatto messer Manno di subito corse al più pericoloso luogo, e donde l’offesa più grave e più pronta potea venire, cioè alla bocca della strada che si dirizzava a san Savino e quindi a Pisa, e il serraglio il quale era debole fece fortificare, e alloggiovvi alla guardia i fanti aretini con alquanti pregiati Fiorentini, e con loro i fanti de’ Conti di Casentino; e perchè nel capo li bolliva per diversi e ragionevoli rispetti quello che di presente ne seguì, aggiunse alla guardia messer Riccieri Grimaldi con quattrocento balestrieri genovesi. I Pisani avendo per loro spie e dai luoghi vicini al campo, e massimamente da san Savino, dello sciolto e traccurato reggimento del campo, ma non della provvisione fatta per messer Manno, perchè al fatto fu troppo vicino, conferito con Giovanni dell’Aguto sopra la materia, infine in lui commisono il tutto dell’impresa, e il popolo animoso e voglioso a furore presa l’arme nelle braccia sue si pose con lieta speranza di vittoria, quasi siccome non dovesse potere perdere. Giovanni Aguto preso il carico senza perdere punto di tempo diede ordine a quanto fu di mestiere, e uscì col popolo di Pisa, e fè capo a san Savino, e come mastro di guerra fè il campo de’ Fiorentini per tre riprese assalire da gente che prima era fuggita che giunta, affinchè i nemici attediati non conoscessono il vero assalto quando venisse, e venneli fatto, che ’l campo fu tre volte mosso ad arme dal campanaro indarno, e il capitano turbato di suo riposo fè comandare al campanaro alla pena del piè, che che che si vedesse non sonasse senza licenza sua. Appresso il detto Giovanni aspettò la volta del sole, perchè i raggi fedissono nel volto de’ nemici, e a’ suoi nelle spalle. Ancora per la pratica ch’avea del paese conobbe, che a tale ora surgea un’aura che la polvere venia a portare negli occhi de’ nemici. Solo in uno per gl’intendenti giudicato fu che egli errasse, che non misurando le miglia da san Savino a Cascina, che sono quattro di polveroso e rincrescevole piano, nè avendo rispetto alla fiamma del sole che divampava il mondo, nè al grave peso dell’arme, fidandosi nella gioventù e prodezza de’ suoi Inghilesi nati e cresciuti nelle guerre di Francia, a’ quali per animarli e soperchiare ogni fatica e ogni paura avea messo che nel campo erano quattrocento Fiorentini, tal buono prigione per mille, tale per duemila fiorini, e del tutto ignoranti dell’arme, esso fè tutta gente scendere a piè, il perchè lassi e mezzi stanchi giunsono al campo. Mosselo a ciò fare due ragioni, l’una perchè la gente a piè più chetamente cavalca, l’altra perchè leva meno polverio, immaginando, come avvenne, che prima fossono al campo che sentiti, e così prendere il campo di furto prima che si potesse ordinare: e tutte le dette cose fatte furono per Giovanni Aguto, che niente ne sentì messer Galeotto, o per difetto di spie, o perchè poco curasse ciò che potessono fare i nemici, e questo è più da credere. Adunque messi nella prima fronte delle schiere quelli aspri e duri Inghilesi cui tirava la voglia della preda, tutto l’esercito fè muovere quando gli parve, e prima i suoi Inghilesi furono vicini alle sbarre che da’ nostri fossono sentiti. Il romore e le strida del subito assalto a’ nostri furono le spie. I fanti che posti erano alla guardia del luogo, i quali per lo giorno furono assai più che uomini, francamente presono l’arme non curando le spaventevoli strida, ma ordinati di subito alla resistenza non si lasciarono torre una spanna di terra. E il valente messer Riccieri Grimaldi compartiti i suoi balestrieri dove necessario gli parve, e allogatine gran parte nelle ruine delle case, le quali erano di mattoni, e pertugiate e di costa a’ nemici, confortandoli a ben fare, e sollecitandoli dolcemente e qui e quivi a rinterzare colla forza de’ verrettoni rintuzzò la fiera rabbia de’ baldanzosi nemici. Mentre che la battaglia era e quinci e quindi animosamente attizzata alle sbarre, il vero grido del fatto come era senza suono di campana o altro sollecitamento di capitano corse per lo campo e lo strinse ad armare, e il primo che giunse al soccorso alle sbarre, come quelli che temendo sempre stava in punto, fu messer Manno Donati, il quale veggendo quivi soprabbondare gente da cavallo, per non stare indarno uscì con tutta sua brigata del campo, e percosse i nemici ne’ fianchi, conturbando gli ordini loro, e facendo loro danno assai; e in poca d’ora vennono alle sbarre il conte Arrigo di Monforte colla insegna de’ feditori, e con lui il conte Giovanni e il conte Ridolfo chiamato dal volgo il conte Menno, e costui come giunse alle sbarre le fè gettare in terra, e si avventò sopra i nemici facendo colla spada cose da tacerle, perchè hanno faccia di menzogna. Per simile il conte Arrigo co’ suoi Tedeschi sollecitando i cavalli colli sproni senza averne riguardo contro a’ nemici gli ruppono, passando tutte loro schiere infino alle carra che da Pisa recavano e veniano con vino per rinfrescare loro brigata. Il sagace messer Giovanni dell’Aguto, il quale era nell’ultima schiera co’ suoi caporali e altri pregiati Inghilesi, avendo compreso che la testa delle sue schiere non era di fatto entrata nel campo come si credette, e che la resistenza era dura, si giudicò vinto, e senza aspettare colpo di spada di buon passo co’ detti caporali si ricolse a san Savino, dove aveano lasciati i loro cavalli, lasciando nelle peste il popolo de’ Pisani faticato, e poco uso e accorto negli atti dell’arme. I Genovesi Aretini e’ fanti dell’Alpe come vidono rotte le schiere de’ Pisani, e mettersi in fuga, seguitando la caccia ne presono assai. Essendo adunque per gli Aretini Fiorentini e’ fanti del Casentino alle sbarre ben sostenuta la puntaglia de’ nemici, e mezza vinta loro pugna, per i balestrieri genovesi e per i Tedeschi in poco tempo recati a fine, il capitano fè muovere l’insegna reale, la quale per spazio d’un miglio o poco più si dilungò dal campo, sotto il cui riguardo assai d’ogni maniera si misono a perseguitare i nemici, e trovandoli sparti in qua e in là, lassi e spaventati, ne presono assai. Stando la cosa in estrema confusione per i Pisani, per alcuni valenti e pratichi d’arme, parendo loro conoscere il vantaggio, consigliato fu messer Galeotto che seguitasse la buona fortuna, la quale li promettea la città di Pisa: rispose, che non intendea il giuoco vinto mettere a partito, e più fè, che tantosto fè sonare alla ricolta, sotto il dire che temea degli aguati de’ sottrattori e sagaci nemici; onde molti che sarebbono stati presi ebbono la via libera a fuggirsi, e massimamente gl’Inghilesi ch’erano fediti e rifuggiti in san Savino, nè osavano sferrarsi de’ verrettoni che giunti in Pisa, dov’ebbono solenni medici, e in pochi giorni gran numero ne perì. Tornato il capitano al campo, e cercato il luogo dove fu la battaglia, assai vi si trovarono morti, ma molti più il seguente dì per le fosse e per le vigne, quale per stracco, quale di ferite, e molti colla sete in Arno mettendovisi dentro vi annegarono. Stimossi che i morti per detta cagione passassono i mille: i presi furono vicini a duemila, de’ quali tutti i forestieri furono lasciati, e i Pisani presi da quelli ch’erano venuti al servigio del comune si furono loro. Tutta gente di soldo fu per messer Galeotto in segreto istigata e sollecitata a domandare a lui paga doppia e mese compiuto, ed egli per la balìa presa dal comune la promesse loro, che montò a dannaggio del comune circa a centosettantamila fiorini e più, perchè presa la speranza della detta promessa gran quantità di ricchi e buoni prigioni i soldati trabaldarono, e feciono con poca di cortesia riscuotere. Forte e molto diè che pensare a quelli savi e valenti cittadini, che in que’ giorni si trovarono nel numero de’ reggenti, messer Galeotto, il più famoso uomo allora d’Italia in cose militari e in podere d’arme, meritasse d’essere in tal forma assalito nel campo da uomo non meno famoso nè meno saggio in simili atti di lui, e che esso fosse l’autore, che i soldati per difendere il campo contro buono uso di gente d’arme pertinacemente volessono eziandio e con minacce e atti disonesti paga doppia e mese compiuto, le quali cose diligentemente ponderate furono cagione d’affrettare il trattato della pace, dando di ciò pensiere ad alquanti discreti e intendenti cittadini. Ma noi tornando al processo della guerra, il dì seguente, che fu l’ultimo di luglio, messer Galeotto, con tutto l’esercito e con i prigioni, girandosi pure vicino a Pisa per tornarsene a san Miniato del Tedesco assai bene in ordine e colle schiere fatte, in quello cavalcare fè cavaliere Lotto di Vanni da Castello Altafronte, giovane di gentile aspetto, e degli accomandati al comune di Firenze, Piero de’ Ciaccioni di san Miniato, e Bostolino de’ Bostoli d’Arezzo. CAP. XCVIII. _Come furono assegnati i prigioni al comune da’ soldati, ed entrarono in Firenze in sulle carra._ Essendo condotti i prigioni pisani in Monticelli fuori della porta a san Frediano di Firenze, alquanta di resistenza in parole feciono i soldati di non darli se certi non fossono di paga doppia e mese compiuto, e conobbesi essere moto altrui e a mal fine; il perchè ricevuta speranza d’averla da quelli savi cittadini che con loro ne parlarono, diedono liberamente i prigioni, i quali ricevuti con dispettoso e vile spettacolo, col capitano, con l’insegne, e con la gente dell’arme furono messi in città, perocchè i popolani di basso stato con alquanti d’un poco meno che mezzano furono allogati in sulle carra, e furono quarantaquattro carrate; a’ nobili e gente da bene fu conceduto il venire a cavallo. E innanzi che questa pompa entrasse nella città, tutte le campane del comune cominciarono a sonare alla distesa acciocchè tutto il popolo traesse a vedere, e dinanzi alle carra tutti gli stromenti e suoni del comune, e così quelli della parte guelfa, vista certamente esemplare di diversa e varia fortuna, verificante quello disse David, che disse: Vario è l’avvenimento della guerra, e quinci e quindi consuma il coltello. I prigioni furono allogati nelle prigioni del comune il più abilmente che si potè, e dalle buone e pietose donne fiorentine a gara furono abbondantemente provveduti di tutto ciò che loro bisognava. CAP. XCIX. _Come la parte guelfa di Firenze prese a far festa di san Vittore, e perchè._ In questa vittoria universale che s’ebbe del popolo di Pisa, la quale non pensata nè cercata fu, ma piuttosto recata, perchè singulare, e fu nel giorno che la santa Chiesa fa festa di san Vittore papa e martire glorioso, la parte guelfa di Firenze ad eterna memoria di tanto fatto prese di fare festa in Firenze ogni anno di san Vittore divotamente, come a patrone de’ guelfi, a similitudine come san Barnaba: e feciono in santa Reparata fare una cappella in reverenza del detto santo, con intenzione di migliorarla, perchè venendo la chiesa a sua perfezione stare non può quivi dov’è, e ogni anno vi fanno solennemente celebrare la sua festa con bella offerta della parte, e poi nel giorno fanno correre un ricco palio di drappo a figure foderato di drappo vergato: e vollono e tennono che l’arti guardassono il giorno, e così l’altro popolo. CAP. C. _Come la gente dell’arme del comune di Firenze prese tira di non cavalcare, e quello ne seguì._ Fatta la festa de’ prigioni, per contentamento del popolo, che non si potea vedere sazio di vendetta dell’ingiuria in ultimo fatta per i Pisani con la forza d’Anichino di Bongardo e degl’Inghilesi, tutta la gente del comune col capitano uscì fuori per cavalcare in su quello di Lucca, ma imbizzarrita sopra volere paga doppia e mese compiuto, come da altrui erano nel segreto inzigati, si fermò fra Montetopoli e Marti, e quivi stettono infino a dì 18 d’agosto assai in atti e in parole turbata contro al nostro comune: in fine vinta la gara e conseguito loro intento per meno male, cavalcarono i nemici afflitti e tribolati oltre a modo, e a dì 28 del mese messer Galeotto fermò l’oste a san Piero in campo. Bene avvenne infra il tempo, che essendo condotti gl’Inghilesi dal comune di Firenze, andarono per ubbidire il capitano, e puosono di per sè campo, e, o che i Tedeschi sollevati da sagace ingegno per vedere peggio, o pur perchè la gloria dell’arme non potessono patire di vedere gl’Inghilesi, il seguente dì vennono a riotta con loro, e ordinati e provveduti gli assalirono al campo di ciò niente pensati. La zuffa fu aspra e pericolosa assai, e quinci e quindi ne morirono, e molti ne furono magagnati. Gl’Inghilesi loro campo francamente difesono, tutto che predati e soperchiati fossono da’ Tedeschi, come sprovveduti: e quel giorno il capitano con gli altri caporali del campo loro feciono fare triegua per tre dì, e il seguente dì poi per quindici. E in quello inviluppamento il capitano con tutta la gente dell’arme, eccetto gl’Inghilesi che si rimasono al campo loro, cavalcarono in su quello di Lucca, e feciono campo nel borgo di Moriano, facendo danni e prede assai. I Fiorentini per dilungare gl’Inghilesi da’ Tedeschi glie ne mandarono nel Valdarno di sopra. In queste tenebre e confusioni i governatori del comune di Firenze per fuggire la grande e incomportabile spesa dell’arme, e’ loro dangieri e pericoli, come fu tocco in parte di sopra, e ne’ segreti e pubblici consigli determinarono che a pace si venisse, e cura ne dierono a dieci buoni e discreti cittadini; e infra il tempo l’ambasciadore del santo padre col favore degli ambasciadori de’ comuni di Toscana duplicando essa sollecitudine, perchè vedeano le cose de’ Pisani per ire in fascio, e in mala parte e tosto, tanto sollecitarono, che i Pisani mandarono loro solenni ambasciadori alla terra di Pescia con mandato pieno a conchiudere la pace. Il comune di Firenze appresso vi mandò messer Amerigo Cavalcanti, messer Pazzino degli Strozzi, messer Filippo Corsini, messer Luigi Gianfigliazzi, e Gucciozzo de’ Ricci per simil modo col mandato larghissimo, nè però tanto, che li quinci e li quindi disposti alla pace tanto seppono e poterono onestamente avacciare, che Giovanni dell’Agnello, tutto sollevato e disposto dal consiglio e caldo di messer Bernabò a farsi signore di Pisa, più non avacciasse a farsi signore, prevenendo la pace la quale gli tagliava ogni suo pensiero e rendevalo vano. CAP. CI. _Come Giovanni dell’Agnello si fece signore di Pisa sotto titolo di doge._ Giovanni dell’Agnello cittadino di Pisa di gesta popolare, per antichità di sangue non chiaro e per ordine mercatante, piuttosto scaltrito e astuto che saggio, presuntuoso a maraviglia e vago di cose nuove, e sopra tutto sollecito, questi era in questi giorni tornato da messer Bernabò dove ito era per ambasciadore del suo comune, e col tiranno avea tenuto trattato che i Pisani fossono suoi accomandati, ed egli gli atasse con darli delle terre loro, e per detta cagione da lui ebbe in prestanza trentamila fiorini. Di questo trattato nacque il baldanzoso parlare e pensiero di Giovanni dell’Agnello di farsi signore di Pisa, immaginando che venendo Pisa e le membra sue a tiranno, i Fiorentini fossono più contenti di lui che di messer Bernabò. Essendo adunque Pisa sospesa, in tremore e spavento, e più volte abbandonati dalla speranza della pace, feciono un gran consiglio di più gravi e notabili cittadini della terra, nel quale fu messer Piero di messer Albizzo da Vico, avanti che andasse per ambasciadore di Pisa alla terra di Pescia per conchiudere la pace, e il consiglio fu di provvedere a loro stato: e intra gli altri vi fu il detto Giovanni dell’Agnello, il quale era reputato buono mercatante e fedele cittadino; costui levato in consiglio osò dire, che necessario li parea che si venisse a signore per un anno, dirizzando il suo parere che quel fosse messer Piero di messer Albizzo da Vico dottore di legge, il quale con ogni istanza che seppe quel carico rifiutò, e fulli cagione di affrettare sua gita a Pescia ad accozzarsi con gli ambasciadori fiorentini. Veggendo Giovanni contradire a messer Piero, come stimò, si rimise a consigliare che pure convenia a uno degli altri pigliare quella sollecitudine, cura e gravezza: e allora ser Vanni Botticella, anticamente per genia di beccaio, s’offerse di prendere quel carico. Giovanni dell’Agnello disse, che buono e sufficiente era, ma che gli bisognava d’avere trentamila fiorini al presente per pagare la gente dell’arme: a questo rispose ser Vanni non si sentire sofficiente, e per quel giorno rimasono, che ogni uno si pensasse d’uno che a ciò fosse sofficiente, e altra volta tornasse il consiglio. Di questo strano ragionamento e spaventevole consiglio surse, che uno de’ seguenti dì in sul fare della sera molti buoni e cari cittadini, avendo presa sospezione e gelosia del dire del detto Giovanni così affettatamente in consiglio e con fronte pertinace, e perchè nel mormorio del popolo voce correa che esso facea ragunata di fanti, s’andarono ad armare, e armati insieme se n’andarono al palagio degli anziani, e questo tantosto venne a notizia di Giovanni dell’Agnello, che continovo stava in sentore, ed egli pensando che farebbono quello che feciono, sagacemente e prestamente si mise a’ ripari, e i fanti che egli avea stribuì per le case di certi suoi fidati e singolarissimi amici, e alla moglie e alla famiglia di casa ordinò tutto ciò che dovessono fare, ed egli con l’arme celata ond’era vestito con una fonda cappellina in capo se n’andò nel letto, e la moglie fece ire allato appresso di lui. Come fu venuta la notte, i cittadini con la volontà degli anziani e con la famiglia loro se n’andarono a casa Giovanni dell’Agnello, e come ordinato era per lui, di presente fu aperta la porta, ed essi di subito presono viaggio alla camera d’esso Giovanni, e l’udirono russare e sembrare veramente dormire, come uomo che gran bisogno n’avesse. La donna, come ammaestrata era, con tutto il petto nudo si levò in sul letto a sedere, dicendo a’ cittadini che bisogno avea di posare, ma se voleano lo svegliasse che lo farebbe; i cittadini preso vergogna della veduta della donna, e fede della libera dimostrazione della camera e della casa, togliendo il parlare della donna, per semplice, si partirono della camera e della casa, e si tornarono agli anziani, e riferirono loro tutto ciò che aveano trovato, onde posto giù il sospetto, ciascuno si tornò a casa sua, e posta giù l’arme diede suo pensiere a dormire. Giovanni dell’Agnello, che con Giovanni dell’Aguto avea temperato la cetera, temendo che la dilazione del tempo nel quale il fatto si potea palesare non li fosse nociva, pieno di sollecitudine, quella notte medesima la quale avea assicurati e gli anziani e’ cittadini, con Giovanni dell’Aguto e con gli amici e’ fanti che avea ragunati se ne venne in piazza, e senza niuno romore ebbe l’entrata del palagio degli anziani con quella brigata che a lui era abbastanza, l’altra lasciò a guardia della piazza, ed entrato nel luogo dove sedeano gli anziani si mise a sedere nel seggio del proposto, e ad uno ad uno fece destare gli anziani, e venire dinanzi da sè, e per dire a che fine, così dicesse in forma come disse egli, che è semplice detto, se non fosse congiunto alla forza di Giovanni dell’Aguto, che la Vergine Maria gli avea revelato, che per bene e riposo della città di Pisa dovesse prendere sotto titolo e nome di doge la signoria e ’l governo della città di Pisa per un anno, e così avea preso, e avea de’ trentamila fiorini contenta la gente dell’arme che seco erano in palagio e in piazza, e così si fè confermare agli anziani, e sotto lo splendore delle spade li fece in sua mano giurare; e senza intervallo di tempo e per parte degli anziani mandò per quelli cittadini pensò li potessono essere avversi, e come ciascuno giugnea li significava come e perchè avea presa la signoria, e accomandati cortesemente in forma non si sarebbono potuti partire all’uno promettea il vicariato di Lucca, all’altro di Piombino, e così agli altri secondo i gradi loro, o per amore o per paura tutti l’indusse a giurare nelle sue mani, e in questo servigio consumò tutta la notte. Alla dimane con gli anziani, con costoro e con la gente dell’arme titolatosi doge, cavalcò per la terra, e a grido di popolo fu fatto signore, nè vi fu chi ricevesse un buffetto, prese il palagio in possessione, e tutta la gente dell’arme fè giurare nelle sue mani. E per mostrare che mansuetamente veniva al governo, e preso avea il nome e quello che il nome importava non come tiranno, quel medesimo giorno elesse sedici famiglie di popolari di comune stato, e gli si fece a consorti, e prese con tutti arme novella d’un leopardo d’oro rampante nel campo rosso, con dare a intendere che d’anno in anno uno di loro, qual più boce avesse, fosse fatto doge: e in fine, seguitando il consiglio del conte Guido da Montefeltro a papa Bonifazio, le promesse fur larghe e lunghe, ma lo attendere stretto e corto, che di cosa che promettesse niente osservò, ma pigliando la signoria a giornate come tiranno, lasciato il titolo del doge, si facea chiamare signore. E se mai fu signoria fastidiosa piena di burbanza quella fu dessa, e negli ornamenti e nel cavalcare con verga d’oro in mano; e quando tornato era al palagio si mettea alle finestre a mostrarsi al popolo come fanno le reliquie, con drappo a oro pendente tenendo le gomita sopra guanciali di drappo ad oro, e patìa e volea che come al papa o all’imperadore le cose che gli s’avessono a esporre innanzi gli si esponessono ginocchione, e altre simili cose molto più vane. CAP. CII. _Come si fece pace tra’ Fiorentini e’ Pisani._ Parendo a messer Piero di messer Albizzo ambasciadore de’ Pisani, in cui giacea il tutto della pace per la parte loro, che lo stato di Pisa intorno alle condizioni di sua libertà vacillasse, forte sollecitava la conclusione della pace, e per Carlo degli Strozzi, uno dell’uficio de’ signori priori di Firenze, a cui per lo volgo ignorante del segreto posto era carico di volere che la pace si facesse al tempo dell’uficio suo, e per i suoi compagni, sentendosi il segreto del trattato che Giovanni dell’Agnello tenea con messer Bernabò Visconti, il quale in effetto era che i Pisani fossono accomandati del tiranno, e ch’egli avesse di loro terre, e ch’egli li difendesse, e prendesse la guerra contro a’ Fiorentini, ed era già tanto innanzi, che avendo messer Bernabò addomandato Lucca e Pietrasanta, i Pisani già gli aveano consentito Pietrasanta, e per loro disperazione si temea non passassono più oltre; per la libertà di Toscana in segreto consiglio fu preso, che si venisse alla pace per lo migliore modo e più onorevole che si potesse, e scritto fu agli ambasciadori del comune ch’erano a Pescia, che il più tosto che potessono onestamente ne venissono al fine. Onde seguì, che a dì 28 del mese d’agosto, non sapendo l’una parte dell’altra che ciascuna voglia n’avesse, si fermò la pace con pubblichi e solenni stromenti, la quale in Firenze si pubblicò e bandì il primo dì di settembre, nell’ora ch’entrarono i nuovi priori, la quale dall’ignorante popolo de’ segreti del comune mal conosciuta forte fu biasimata, pensando che Carlo per troppa baldanza e della famiglia e dello stato fosse stato l’autore. Onde il popolo vittorioso, a cui parea essere al di sopra della guerra, incominciò in piazza non solamente a mormorare, ma con altere parole e atti forte a sparlare contro a Carlo. Onde i priori e i vecchi e i novi temettono di commozione, e che Carlo nel tornare a casa o alla casa in su quel furore non ricevesse villania, e pertanto dai loro mazzieri e da’ fanti lo feciono accompagnare, e tanto stare loro famiglia con lui che l’ira fosse passata. La pace fu onorevole, e da’ savi e buoni cittadini assai commendata, e nelle parlanze per la città sostenuta per le sue condizioni e circostanze laudabili, che furono di questa maniera: la prima, perchè fatta fu essendo messer Galeotto capitano de’ Fiorentini con loro gente sopra il terreno de’ nemici: la seconda, che tanto si dichinarono i nemici che la vennono a conchiudere nelle terre del comune di Firenze: la terza, perchè Pietrabuona, la quale era del contado di Pisa, origine in grido e cagione della guerra, in premio di vittoria per patto rimase al comune di Firenze, confessando per questo essere ricreduti e vinti: la quarta, perchè Castel del Bosco, e certe altre loro tenute e fortezze per patto si vennono a disfare: la quinta, perchè confermarono tutte le franchigie che il comune di Firenze o suoi mercatanti mai avessono avuto in Pisa: la sesta, perchè per dieci anni si feciono tributari del comune di Firenze, dando ogni anno nella vigilia di san Giovanni Battista pubblicamente diecimila fiorini d’oro. Gli stromenti della pace in sustanza contennono prima la remissione delle offese, e promettere di non offendere per l’avvenire, come è di costume in somiglianti atti e contratti; appresso confermate e di nuovo per patto concesse furono tutte le franchigie che avesse per l’addietro avute il comune di Firenze o suoi mercatanti in Pisa o nelle terre loro. Obbligossi il comune di Pisa per ammenda di danni a dare ai comune di Firenze centomila fiorini d’oro in dieci anni seguenti, diecimila ogni anno in Firenze nella vigilia della natività di san Giovanni Battista: e più a dare al comune Pietrabuona, che era stata cagione della guerra, e tutte altre terre del comune di Firenze, o a esso comune accomandate, che ’l comune di Pisa o nella guerra o innanzi la guerra per eccitarla, o direttamente o per indiretto avesse prese, ed e converso facesse così il comune di Firenze, e così si fè. Spianare Castel del Bosco, e certe altre tenute de’ Pisani, che per i patti si disfeciono. La detta pace fu confermata in nome di papa Urbano quinto, colle solennità della Chiesa e colle pene ecclesiastiche, per messer Piero Cini arcivescovo di Ravenna, e per frate Marco di Viterbo generale de’ frati minori, il quale poco appresso fu fatto cardinale. Il popolo di Firenze a giornate conoscendo il frutto e il bene della pace riconobbe suo errore, e rimase per contento, e il comune dolcemente si levò da dosso la spesa di messer Anichino di Bongardo e degl’Inghilesi. Messer Anichino co’ suoi Tedeschi e con molti mascalzoni che non sapeano nè poteano vivere se non di rapina, nel mese di novembre in forma di compagnia cavalcò in terra di Roma, e presono prima Sabina e poi Sutri, e quivi vernarono. La compagnia degl’Inghilesi arso e predato in parte il contado di Siena se n’andò all’Aquila, e quindi passò in Puglia a vernare. E per non avere più a capitolare giugnerò a questa gente famosa la morte di messer Malatesta il vecchio, il quale lungo tempo fece gran segno in Italia di savio guerriere, di uomo e d’alto consiglio e pratico in tutte cose, il quale passò di questa vita del mese d’agosto 1364. E gli Aretini presono e disfeciono la Serra. FINE DELLA CRONICA DI MATTEO E FILIPPO VILLANI. TAVOLA DEI CAPITOLI LIBRO DECIMO _Qui comincia il decimo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo_ Pag. 5 _CAP. II. Dell’alto e rilevato stato della casa de’ Visconti di Milano_ 7 _CAP. III. Del pauroso e vile partimento dell’oste di messer Bernabò da Bologna_ 8 _CAP. IV. Come i Bolognesi assalirono e presono tre bastite_ 9 _CAP. V. Certo trattato fatto a corte tra il papa e gli ambasciadori del re d’Ungheria_ 10 _CAP. VI. Dell’avvenimento del legato a Bologna_ 10 _CAP. VII. Cominciamento della nuova compagnia d’Anichino di Bongardo Tedesco_ 11 _CAP. VIII. La rivoltura d’Ascoli della Marca_ 12 _CAP. IX. Come a petizione del legato fu preso messer Ridolfo da Camerino_ 13 _CAP. X. Del maestrevole processo del legato co’ suoi Ungari in questo tempo_ 14 _CAP. XI. Come s’ebbe per i Bolognesi la bastita di Casalecchio sopra il Reno_ 15 _CAP. XII. La venuta a Giadra del re d’Ungheria e della moglie_ 16 _CAP. XIII. La presa di Gello fatta per quelli di Bibbiena, e la compera ne fece poi il comune_ 17 _CAP. XIV. Come il comune di Firenze mandò ambasciadori al legato e a messer Bernabò per trattare accordo_ 18 _CAP. XV. Come il legato mandò gli Ungari sopra la città di Parma_ 19 _CAP. XVI. Della presura del conte da Riano_ 20 _CAP. XVII. Come la compagnia d’Anichino sostenne fame all’entrata del Regno_ 21 _CAP. XVIII. Come messer Cane Signore rimandò la moglie che fu di messer Cane Grande al marchese di Brandisborgo_ 21 _CAP. XIX. Come la compagnia d’Anichino di Bongardo prese Castello san Martino_ 22 _CAP. XX. Come il re d’Araona diè per moglie la figliuola a don Federigo di Cicilia_ 23 _CAP. XXI. Come messer Bernabò si provvedde per avere gente nuova per guerreggiare Bologna_ 24 _CAP. XXII. Come messer Niccola Acciaiuoli gran siniscalco del Regno venne in Firenze, e della novità che per sua venuta ne seguio_ 25 _CAP. XXIII. Come per sospetto nato nella città di Firenze di messer Niccola indegnamente egli ne ricevette vergogna_ 26 _CAP. XXIV. Come si scoperse congiura di certi cittadini di Firenze e trattato per sovvertere lo stato che reggea_ 28 _CAP. XXV. Come si scoperse il trattato che era in Firenze, e certi ne furono puniti_ 32 _CAP. XXVI. Come si comperò Montecolloreto, e la giurisdizione di Montegemmoli dell’Alpe per lo comune di Firenze_ 37 _CAP. XXVII. Come una compagnia creata novellamente prese Santo Spirito_ 38 _CAP. XXVIII. Come tornati gli Ungari e messer Galeotto da Parma si misono a Lugo_ 41 _CAP. XXIX. D’alquanti trattati tenuti in diverse parti che tutti si scopersono_ 42 _CAP. XXX. Come il grande siniscalco fu ricevuto nel Regno, e quello ne seguì_ 43 _CAP. XXXI. D’un segno nuovo ch’apparse in cielo sopra la città di Firenze_ 44 _CAP. XXXII. Dimostramento di smisurato amore di padre a figliuolo_ 45 _CAP. XXXIII. Contrario esempio d’incredibile crudeltà di madre_ 46 _CAP. XXXIV. Delle compagnie ch’entrarono in Provenza per conturbare i paesani e la corte di Roma_ 49 _CAP. XXXV. Come per comperare gli onori del comune alquanti che li venderono ne furono condannati_ 51 _CAP. XXXVI. Come i fatti di Francia verso il primo tempo procedeano_ 52 _CAP. XXXVII. Come fu guasta la bastita che il cardinale di Spagna facea fare in sul canale della Pegola_ 53 _CAP. XXXVIII. Della grande pestilenza che percosse i saracini_ 54 _CAP. XXXIX. Come fu morto il soldano di Babilonia, e rifattone un altro, il quale uccise molti de’ suoi baroni_ 54 _CAP. XL. Come un signore de’ Turchi trattò di fare uccidere l’imperadore di Costantinopoli_ 55 _CAP. XLI. Come il legato si partì di Bologna per andare al re d’Ungheria_ 56 _CAP. XLII. Della ribellione fatta per messer Giovanni di messer Riccardo Manfredi al legato_ 57 _CAP. XLIII. Come il marchese di Monferrato trasse delle compagnie da Avignone per conducere in Piemonte_ 59 _CAP. XLIV. Della morte del duca di Lancastro cugino del re d’Inghilterra_ 60 _CAP. XLV. Come riuscì l’impresa del re d’Ungheria dove la speranza del legato di Spagna si riposava_ 61 _CAP. XLVI. Della pestilenza dell’anguinaia ricominciata in diversi paesi del mondo, e di sua operazione_ 62 _CAP. XLVII. Come per la fama delle compagnie che scendevano in Piemonte i signori di Milano si provvidono alla difesa_ 64 _CAP. XLVIII. Come messer Bernabò venne sopra Bologna, e assediò e prese Pimaccio_ 65 _CAP. XLIX. Come il legato procurava aiuto contro messer Bernabò_ 66 _CAP. L. Come la compagnia d’Anichino di Bongardo ch’era nel Regno si rassottigliò e venne al niente_ 67 _CAP. LI. Come i Sanesi ebbono Santafiore_ 67 _CAP. LII. Come i Fiorentini comperarono il castello di Cerbaia_ 68 _CAP. LIII. Come il capitano già di Forlì e messer Giovanni Manfredi si puosono tra Imola e Faenza_ 69 _CAP. LIV. D’un gran fuoco che s’apprese nella città di Bruggia_ 70 _CAP. LV. Delle compagnie d’oltramonti_ 70 _CAP. LVI. Come Francesco Ordelaffi si levò da Forlì, e andonne a oste a Rimini_ 71 _CAP. LVII. Come i Fiorentini manteneano Bologna per la strada dell’Alpe_ 72 _CAP. LVIII. Come l’oste di messer Bernabò volle rompere la strada da Firenze, e ricevette danno_ 73 _CAP. LIX. Come fu sconfitto l’oste di messer Bernabò al Ponte a san Ruffello_ 74 _CAP. LX. Come seguì appresso alla sconfitta di san Ruffello_ 80 _CAP. LXI. Come messer Bernabò si credette prendere Correggio per trattato, e sua gente vi rimase presa_ 81 _CAP. LXII. Dell’armata del re di Cipro, e il conquisto di Setalia e del Candeloro_ 82 _CAP. LXIII. Come i Turchi di Sinopoli assalirono Coffa, e furono vinti da’ Genovesi_ 83 _CAP. LXIV. Come le compagnie condotte in Piemonte cominciarono a guerreggiare_ 84 _CAP. LXV. Di grandi terremuoti che furono in Puglia, e assai guastarono della città d’Ascoli_ 86 _CAP. LXVI. Delle rivolture del paese di Fiandra in questa state_ 86 _CAP. LXVII. Come fu decapitato messer Bocchino de’ Belfredotti signore di Volterra, e come la città venne alla guardia de’ Fiorentini_ 87 _CAP. LXVIII. Come il patriarca d’Aquilea fu a tradimento preso dal doge d’Osteric_ 92 _CAP. LXIX. Di fuoco che senza rimedio arse in Roma san Giovanni Laterano_ 93 _CAP. LXX. Del maritaggio del duca di Guales primogenito del re d’Inghilterra_ 94 _CAP. LXXI. Come papa Innocenzio riformò santa Chiesa de’ cardinali morti per la morìa_ 94 _CAP. LXXII. Come il re Buscialim della Bellamarina fu morto, e delle rivolture di Granata_ 95 _CAP. LXXIII. Come la compagnia spagnuola ch’era nel vescovado d’Arli prese Vascona, e poi ne furono cacciati_ 96 _CAP. LXXIV. Come si scoperse che messer Bernabò era vivo, e ’l trattato tenea del castello di Bologna_ 97 _CAP. LXXV. Come si scoperse in Perugia una gran congiura di notabili cittadini per mutare stato e reggimento_ 98 _CAP. LXXVI. Come in questi giorni in Pisa ebbe gelosia di loro stato, e della difensione che saviamente ne presono_ 102 _CAP. LXXVII. Come i Sanesi sotto la rotta fede ebbono la signoria di Montalcino_ 102 _CAP. LXXVIII. Come i Turchi presono la città di Dometico ch’era dell’imperadore di Costantinopoli_ 104 _CAP. LXXIX. Come il re di Castella mosse guerra a’ Mori di Granata, e al loro re Vermiglio_ 105 _CAP. LXXX. Come gli usciti Perugini presono per furto Civitella de’ Benazzoni, e poi l’abbandonarono_ 106 _CAP. LXXXI. Come i Bolognesi cominciarono a cavalcare sopra gli Ubaldini_ 106 _CAP. LXXXII. Del trattato delle compagnie che doveano entrare in Avignone_ 107 _CAP. LXXXIII. Come i Pisani perderono Pietrabuona e vi puosono l’assedio dove stando vollono torre Sommacolonna per incitare i Fiorentini a guerra_ 108 _CAP. LXXXIV. Come fu sorpreso il conte di Savoia dalla compagnia bianca co’ suoi baroni, e ricomperaronsi con gran quantità di moneta_ 111 _CAP. LXXXV. La cavalcata che Piero Gambacorti fè sopra i Pisani_ 111 _CAP. LXXXVI. Come il re Luigi prese le terre di messer Luigi di Durazzo e lui mise in prigione, e trasse del Regno la compagnia_ 113 _CAP. LXXXVII. Come le compagnie si partirono di Provenza_ 114 _CAP. LXXXVIII. Come fu sconfitta la gente del re di Castella dal re di Granata_ 114 _CAP. LXXXIX. Come per vendicare sua onta il re di Spagna andò sopra il re di Granata_ 115 _CAP. XC. Come messer Bernabò si credette avere Reggio per trattato_ 116 _CAP. XCI. Come i Pisani feciono cosa da incitare i Fiorentini_ 118 _CAP. XCII. Dell’operazioni delle compagnie in questi tempi_ 118 _CAP. XCIII. D’una cometa ch’apparve di marzo nel segno del Pesce_ 119 _CAP. XCIV. Come la Compagnia bianca prese Castelnuovo Tortonese_ 120 _CAP. XCV. Come la compagnia del Pitetto Meschino sconfisse l’oste del re di Francia a Brignai_ 121 _CAP. XCVI. Come fu fermo lega dalla Chiesa e i signori di Lombardia contro a messer Bernabò_ 124 _CAP. XCVII. Come fu morto il re Vermiglio di Granata_ 126 _CAP. XCVIII. Come il re Maometto di Granata si fece uomo del re di Castella_ 127 _CAP. XCIX. Principio di guerra dai collegati a messer Bernabò_ 128 _CAP. C. Come e quando morì Luigi re di Cicilia e di Gerusalemme_ 130 _CAP. CI. Come i Fiorentini vollono difendere Pietrabuona, e non poterono_ 132 _CAP. CII. Come quelli della valle di Caprese furono traditi dagli Aretini_ 136 _CAP. CIII. Della mortalità dell’anguinaia_ 137 LIBRO UNDECIMO _CAP. I. Il Prologo_ 139 _CAP. II. Degli apparecchi fatti da’ Fiorentini per la guerra contro a’ Pisani_ 142 _CAP. III. Come seguendo gli antichi Romani gentili i Fiorentini nel dare dell’insegne al capitano presono punto per astrologia_ 144 _CAP. IV. Della prospera fortuna de’ collegati lombardi_ 146 _CAP. V. Della morte di Leggieri d’Andreotto di Perugia_ 148 _CAP. VI. Come i Fiorentini cavalcarono in Valdera e presono Ghiazzano_ 149 _CAP. VII. Come i Fiorentini soldarono galee contra i Pisani_ 150 _CAP. VIII. Come i Perugini presono la Rocca Cinghiata e quella del Caprese_ 151 _CAP. IX. Come novecento cavalieri di quelli di messer Bernabò furono sconfitti da seicento di quelli di messer Cane Signore_ 151 _CAP. X. Disordine nato tra’ Genovesi per la guerra de’ Fiorentini e’ Pisani_ 152 _CAP. XI. Come il re di Castella con quello di Navarra ruppono pace a quello d’Aragona, e lo cavalcaro_ 155 _CAP. XII. Come per sospetto in Siena a due dell’ordine de’ nove fu tagliata la testa_ 156 _CAP. XIII. Cavalcate fatte per messer Bonifazio Lupo in su quello di Pisa_ 157 _CAP. XIV. Del processo della guerra da’ collegati a messer Bernabò_ 159 _CAP. XV. Come messer Ridolfo prese il bastone da messer Bonifazio_ 160 _CAP. XVI. Della crudeltà che i Pisani usarono contra i Lucchesi per gelosia_ 160 _CAP. XVII. Delle cavalcate fatte per messer Ridolfo sopra i Pisani, e del gran danno che ricevettono_ 162 _CAP. XVIII. Come messer Ridolfo assediò Peccioli, e prese stadichi se non fosse soccorso_ 164 _CAP. XIX. Come non essendo il castellano contento del patto messer Ridolfo fè gittare una delle torri di Peccioli in terra_ 168 _CAP. XX. Come il capitano de’ Fiorentini prese Montecchio, Laiatico e Toiano_ 171 _CAP. XXI. Dell’aiuto che i Perugini in questi dì mandarono a’ Fiorentini_ 172 _CAP. XXII. Come il conte Aldobrandino degli Orsini si partì onorato da Firenze_ 173 _CAP. XXIII. Come e perché si creò la compagnia del Cappelletto_ 173 _CAP. XXIV. Comincia la guerra che i Fiorentini feciono in mare a’ Pisani_ 176 _CAP. XXV. Come e perchè i Romani si dierono al papa_ 177 _CAP. XXVI. Come Dio chiamò a sè papa Innocenzio, e fu fatto papa Urbano quinto_ 178 _CAP. XXVII. Come al re Pietro di Castella morì un figliuolo che avea_ 179 _CAP. XXVIII. Come Perino Grimaldi prese l’isoletta e castello del Giglio_ 180 _CAP. XXIX. Come messer Piero Gambacorti per trattato si credette tornare in Pisa_ 182 _CAP. XXX. Come Perino Grimaldi soldato del comune di Firenze prese Porto pisano, e le catene del detto porto mandò a Firenze_ 184 _CAP. XXXI. Come messer Bernabò mandò a papa Urbano a proseguire la pace_ 186 _CAP. XXXII. Domande fatte per lo re di Francia al papa_ 187 _CAP. XXXIII. Di grande acquazzone che in Italia fè danno_ 188 _CAP. XXXIV. Come il re di Cipro andò ad Avignone con tre galee_ 189 _CAP. XXXV. Come morì Giovacchino degli Ubaldini e lasciò reda il comune di Firenze_ 189 _CAP. XXXVI. Come il conte di Focì sconfisse e prese quello d’Armignacca_ 190 _CAP. XXXVII. Come i Pisani vollono torre il campanile d’Altopascio_ 191 _CAP. XXXVIII. Come in Firenze s’ordinò tavola per lo comune per servire i soldati_ 192 _CAP. XXXIX. Come i Pisani vollono torre santa Maria a Monte_ 193 _CAP. XL. Come i Pisani vollono torre Pescia per trattato_ 193 _CAP. XLI. Come papa Urbano pubblicò in Avignone i processi fatti contro a messer Bernabò_ 194 _CAP. XLII. Come morì messer Simone Boccanera primo doge di Genova_ 196 _CAP. XLIII. Come fu morto il conte di Lando_ 197 _CAP. XLIV. Come Bernabò Visconti fu dalla gente della lega sconfitto alla bastita di Modena, e come la perdè_ 197 _CAP. XLV. Come i Pisani vollono torre Barga_ 199 _CAP. XLVI. Come messer Piero da Farnese credette torre Lucca a’ Pisani_ 201 _CAP. XLVII. Come i Pisani presono per forza il castello di Gello sul Volterrano_ 202 _CAP. XLVIII. Come i Pisani condussono la Compagnia bianca degl’Inghilesi_ 203 _CAP. XLIX. Come Rinieri da Baschi ruppe gente che messer Piero da Farnese avea mandati in Garfagnana_ 205 _CAP. L. Come Rinieri da Baschi colla gente de’ Pisani fu sconfitto e preso da messer Piero da Farnese_ 206 _CAP. LI. Come messer Piero da Farnese entrò in Firenze, e il capitano de’ Pisani colle insegne e’ prigioni rassegnarono a’ priori_ 208 _CAP. LII. Come i Pisani tolsono a’ Fiorentini Altopascio_ 209 _CAP. LIII. Come i Pisani elessono per loro capitano Ghisello degli Ubaldini_ 210 _CAP. LIV. Come messer Piero cavalcò sino sulle porte di Pisa battendovi moneta d’oro e d’argento_ 210 _CAP. LV. Sagacità usata per i Pisani per non perdere Montecalvoli_ 213 _CAP. LVI. Come il re di Francia per paura della compagnia non osò per terra tornare nel reame, ma tornò per acqua_ 214 _CAP. LVII. Della mortalità dell’anguinaia_ 215 _CAP. LVIII. Come i Barghigiani colla forza de’ Fiorentini presono i battifolli_ 215 _CAP. LIX. Come morì messer Piero da Farnese_ 216 _CAP. LX. Dell’ammirabile passaggio de’ grilli_ 217 _Proemio della Cronica di Filippo Villani_ 219 _CAP. LXI. Come i Fiorentini feciono Ranuccio da Farnese loro capitano di guerra_ 220 _CAP. LXII. Come gl’Inghilesi giunsono in Pisa_ 220 _CAP. LXIII. Come i Pisani cavalcarono i Fiorentini in sulle porte_ 221 _CAP. LXIV. Come si fermò pace dalla Chiesa a messer Bernabò_ 223 _CAP. LXV. Dello stato della città di Firenze in que’ giorni_ 224 _CAP. LXVI. Come i Perugini, per tema che la compagnia degl’Inghilesi non soccorressono i loro rubelli assediati in Montecontigiano, condussono la Compagnia del cappelletto_ 226 _CAP. LXVII. Come messer Pandolfo Malatesti venne con cento uomini di cavallo e con cento fanti a servire il comune di Firenze per due mesi_ 228 _CAP. LXVIII. Come i Pisani co’ loro Inghilesi presono Figghine_ 230 _CAP. LXIX. Come messer Pandolfo puose il campo all’Ancisa, e come il detto campo fu preso dagl’Inghilesi con messer Rinuccio capitano, e appresso il borgo all’Ancisa, e come messer Pandolfo fu fatto capitano di guerra_ 231 _CAP. LXX. Come certa parte degl’Inghilesi da Figghine cavalcarono a Ricorboli_ 235 _CAP. LXXI. Come i Sanesi sconfissono la Compagnia del cappelletto, la quale era condotta al soldo de’ Fiorentini_ 238 _CAP. LXXII. Di cavalcate e combattimenti di terre feciono gl’Inghilesi mentre stettono a Figghine_ 239 _CAP. LXXIII. Esempio e ammaestramento de’ popoli che vivono a libertà i quali si conducono nella fortuna della guerra di non torre capitano uso a tirannia_ 241 _CAP. LXXIV. I modi teneano gl’Inghilesi tornati in Pisa_ 245 _CAP. LXXV. Come i Pisani furono sconfiti a Barga_ 245 _CAP. LXXVI. Come il re Giovanni di Francia passò in Inghilterra e là morì_ 247 _CAP. LXXVII. Come messer Niccolò del Pecora fu cacciato di Montepulciano_ 249 _CAP. LXXVIII. Della morte del giovane marchese di Brandisborgo, conte di Tirolo, e quello ch’appresso ne seguì_ 249 _CAP. LXXIX. Come i Pisani ricondussono gl’Inghilesi_ 256 _CAP. LXXX. D’una saetta che cadde sul campanile di santa Maria Novella_ 257 _CAP. LXXXI. Cavalcate fatte per gl’Inghilesi nel pieno verno_ 258 _CAP. LXXXII. Come Anichino di Bongardo con tremila barbute venne al servigio de’ Pisani, e come sagacemente cercarono avvantaggiosa pace_ 262 _CAP. LXXXIII. Come messer Beltramo Craiche tolse Nantes per lo re di Francia a quello di Navarra_ 265 _CAP. LXXXIV. Come rotto il trattato della pace i Pisani cavalcarono i Fiorentini_ 265 _CAP. LXXXV. Come messer Pandolfo passò nel Mugello colla gente da cavallo per tenere stretti gl’Inghilesi_ 268 _CAP. LXXXVI. Come gl’Inghilesi si partirono del Mugello e tornarsi nel piano di Pistoia_ 270 _CAP. LXXXVII. Come messer Pandolfo Malatesti si partì dal servigio del comune di Firenze_ 271 _CAP. LXXXVIII. Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi co’ guastatori de’ Pisani s’accamparono a Sesto, e Colonnata, e santo Stefano in pane_ 272 _CAP. LXXXIX. Come gl’Inghilesi e’ Tedeschi coi guastatori pisani presono il colle di Montughi e di Fiesole, e combatterono i Fiorentini alla porta a san Gallo, e fessi Anichino di Bongardo cavaliere_ 274 _CAP. XC. Come il conte Arrigo di Monforte capitano de’ Fiorentini prese e arse Livorno_ 278 _CAP. XCI. Come il corpo del re Giovanni di Francia fu trasportato di Londra a Parigi, e come onorato_ 282 _CAP. XCII. Come messer Beltramo di Cloachin sconfisse il luogotenente del re di Navarra in Normandia_ 283 _CAP. XCIII. Come Carlo primogenito del re di Francia fu consegrato a Rems a re di Francia_ 283 _CAP. XCIV. Come si combatterono messer Carlo di Bos duca di Brettagna, e messer Gianni di Monforte_ 283 _CAP. XCV. Come i Fiorentini con la forza del danaio ruppono la compagnia de’ Tedeschi e Inghilesi, e levaronla da provvisione de’ Pisani_ 284 _CAP. XCVI. Come i Fiorentini presono in capitano di guerra messer Galeotto Malatesti_ 285 _CAP. XCVII. Battaglia tra’ Fiorentini e’ Pisani fatta nel borgo di Cascina, nella quale i Fiorentini furono vincitori_ 286 _CAP. XCVIII. Come furono assegnati i prigioni al comune da’ soldati, ed entrarono in Firenze in sulle carra._ 293 _CAP. XCIX. Come la parte guelfa di Firenze prese a far festa di san Vittore, e perchè_ 294 _CAP. C. Come la gente dell’arme del comune di Firenze prese tira di non cavalcare, e quello ne seguì_ 295 _CAP. CI. Come Giovanni dell’Agnello si fece signore di Pisa sotto titolo di doge_ 297 _CAP. CII. Come si fece pace tra’ Fiorentini e’ Pisani_ 301 ERRORI CORREZIONI TOMO V. — 19 — 1 tratto trattò — 34 — 14 Sumiera ringhiera Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 5 *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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