The Project Gutenberg eBook of Cronica di Matteo Villani, vol. 4

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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. 4

Author: Matteo Villani

Editor: Ignazio Moutier

Release date: January 29, 2023 [eBook #69901]

Language: Italian

Original publication: Italy: Magheri, 1825

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the Bayerische Staatsbibliothek)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 4 ***

CRONICA
DI
MATTEO VILLANI

TOMO IV.


CRONICA

DI

MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
coll’aiuto
DE’ TESTI A PENNA

TOMO IV.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


INDICE


[5]

LIBRO OTTAVO

CAPITOLO PRIMO. Il Prologo.

Avvegnachè antica questione sia stata tra’ savi, nondimeno la mente nostra s’è affaticata in ricercare gli esempi degli autori d’ogni tempo per avere più chiarezza, quale sia al mondo di maggiore operazione, o la potenza dell’armi nelle mani de’ potentissimi duchi e signori senza la virtù dell’eloquenza, o la nobile eloquenza diffusa per la bocca de’ principi con assai minore potenza; e parne trovare, avvegnachè il mio sia lieve e non fermo giudicio, che l’eloquenza abbi soperchiata la potenza, e fatte al mondo maggiori cose; e l’eloquenza di Nembrot, ammaestrato da Gioniton suo maestro, raunò d’oriente tutta la generazione umana in un campo a edificare la torre di Babel; la confusione della lingua mise la loro forza e la loro opera in distruzione. Serse volendo occupare la Grecia coprì il mare di navi, e il piano e le montagne d’innumerabili popoli; la leggiere forza di Leonida, con cinquecento compagni inanimati dall’ammaestramento dell’eloquenza di quello [6] uomo, fece sì incredibile resistenza a quello sformato esercito, che a’ Greci diede speranza di vincerlo, e al re volontà con pochi de’ suoi di ritornare indietro. Alessandro di Macedonia con piccolo numero di cavalieri infiammati dall’informazione della compiacevole lingua di colui, vinse le infinite forze di Dario e’ suoi tesori. I nobili principi romani più per savio ammaestramento della disciplina militare, che per arme o per forza di loro cavalieri domarono l’universo. E cominciando a Tullio Ostilio re de’ Romani, condotto in campo per combattere co’ Toscani, vedendosi in su gli estremi abbandonato e tradito da’ compagni, e preda de’ nemici, tanta virtù ebbe la sua provveduta ed efficace eloquenza nel confortare i suoi con fitte suasioni, ch’e’ li fece vincitori. E che fece il nobile Scipione affricano? Non rimoss’egli con la virtù della sua lingua il malvagio consiglio de’ senatori, che per paura voleano ardere e abbandonare la città di Roma, e per questo vinse e soggiogò Affrica al romano imperio? Il magnifico Cesare con poca compagnia, a rispetto della moltitudine de’ suoi nemici, potendosi arbitrare in Francia, in Borgogna, in Sassonia e in Inghilterra molte volte preda de’ suoi avversari, per l’ammaestramento e conforto della sua voce tante volte vinse i nemici forti e potenti, che li ridusse sotto la sua libera signoria. Che si può dire di questo, quando con un pugno di piccolo fiotto di cavalieri, per lo suo conforto domò e sottomise tutte le nazioni del mondo in un campo a Tessaglia? Ma tornando alle minori cose, Zenone filosofo vecchio, [7] posto in croce miserabilmente a gran tormento, usando la forza della sua magnifica eloquenza, fece abbattere la sfrenata e gran potenza del tiranno siracusano. Dunque chi commuove i popoli chi apparecchia le grandi schiere, se non la eloquenza risonante negli orecchi degli uditori? E però senza comparazione pare, che l’eloquenza ordinata al bene più giovi che l’armi, e indotta al male più nuoce che altra cosa. E perocchè il nostro trattato per debito ci apparecchia di fare comincia mento all’ottavo libro, uno lieve e piccolo esempio per lo fatto, ma assai strano e maraviglioso per lo modo, prima ci s’offera a raccontare.

CAP. II. Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come procedette il suo nome, e le sue prediche in Pavia.

Era in questi tempi nato in Pavia un giovane figliuolo d’un picciolo artefice che facea i bossoli, il quale nella sua giovinezza entrò nella via della penitenza, e abbandonato il secolo, traeva vita solitaria in alcuno romitorio nel deserto. È vero, che per essere a ubbidienza prese l’abito de’ frati romitani, e chiamavasi frate Iacopo Bossolaro. E avendo costui gran fama di santità e di scienza, fu costretto dal suo ministro di ritornare in Pavia, e di stare nella religione, e ivi tenea vita più solitaria e di maggiore astinenza che gli altri del convento. Avvenne, che venendo il tempo della quaresima, ed essendo [8] consuetudine di fare il primo mercoledì della quaresima nella sala del vescovo uno sermone al popolo, fu commesso a questo frate Iacopo, il quale il fece in tanto piacere del popolo, che fu costretto a predicare tutta la quaresima. E come fu piacere di Dio, questo religioso facea le sue prediche tanto piacere a ogni maniera di gente, che la fama e la devozione cresceva maravigliosamente per modo, che molti circustanti delle terre e delle castella traevano a udire le prediche di frate Iacopo. Ed egli vedendo il concorso della gente, e la fede che gli era data, cominciò a detestare i vizi, e massimamente l’usura, e l’endiche, e le disoneste portature delle donne, e appresso cominciò a dire molto contro la disordinata signoria de’ tiranni; e in poco tempo ridusse le donne in genero a onesto abito e portamento, e gli uomini a rimanersi dell’usure e dell’endiche. E continovando le sue prediche contro alla sfrenata tirannia, e avendo, come addietro è detto, per lo suo conforto fatto pigliare l’arme al popolo a sconfiggere quelli delle bastite, per la qual cosa le sue parole aveano tanta efficacia, che i signori da Beccheria, ch’erano allora signori di Pavia, cominciarono a ingrossire delle parole ch’egli usava in genero contro a tutti i tiranni. E allora erano signori messer Castellano e messer Milano. Costoro cercarono segretamente di farlo morire per più riprese, tanto che la cosa gli venne palese, e’ cittadini ne cominciarono ad avere guardia, e dovunque andava l’accompagnavano, per modo che i signori nol poteano offendere, ed egli per questo più apertamente contro [9] alle crudeltà già fatte per costoro predicava, e incitava il popolo alla loro franchigia.

CAP. III. Come frate Iacopo fece tribuni di popolo nelle sue prediche in Pavia.

Il valente frate, sentendo il popolo disposto a seguire il suo consiglio, avendo alcuno consentimento dal marchese di Monferrato vicario dell’imperadore in Pavia, raunato un dì il popolo alla sua predica, avendo molto detto contro alle scellerate cose, e’ vizi che regnano nelle tirannie, e aperto l’aguato che alla sua persona più volte era fatto per li tiranni da Beccheria per torgli la vita, disse, che la salute di quel popolo era che si reggessono a comune, e sopra ciò ordinò molto bene le sue parole. E stando in sul pergamo, nominò venti buoni uomini di diverse contrade della città, e a catuno disse, che volea ch’avesse cento uomini al suo seguito; e de’ detti venti fece quattro capitani di tutti. E com’egli gli ebbe pronunziati nella predica, così il popolo li confermò con viva boce, ed eglino accettarono l’uficio. Sentendo questo i signori, furono sopra modo turbati, e cercarono con forza d’arme d’uccidere il frate, ma il popolo gli ordinò sessanta cittadini armati alla guardia; e per tanto que’ da Beccheria, temendo più la commozione del popolo che degli armati, non si vollono mettere a berzaglio. In questi dì messer Castellano era col marchese, e volendo per questa novità tornare [10] a Pavia, non potè avere la licenza da lui. E questo manifesta assai, che ’l marchese fosse consenziente a quello ch’era fatto per lo Bossolaro.

CAP. IV. Come frate Iacopo cacciò i signori da Beccheria di Pavia.

Dopo questi centurioni fatti in Pavia, del mese di settembre anno detto, messer Milano, ch’era in Pavia, con assentimento del fratello, vedendosi tolta la signoria, cercava segretamente di dare la città a’ signori di Milano. Frate Iacopo, che stava attento, sentì il fatto, e di presente raunò il popolo alla sua predica, e in quella disse molto contro il malvagio peccato del tradimento. Ed essendo già di ciò sospetti al popolo i signori, e chiariti per la predica del Bossolaro, il detto frate comandò d’in sul pergamo a uno de’ centurioni, ch’andasse a messer Milano, e comandassegli, che di presente si partisse della città e del contado di Pavia. Il signore temendo il furore del popolo ubbidì, e spacciò la città della sua persona e di tutta sua famiglia in quel giorno, e andossene a loro castella. Avvenne poco appresso, che essendo morta la moglie del marchese, ed egli imbrigato nell’esequio, messer Castellano prese suo tempo, e partissi senza licenza, e vennesene al fratello; e come furono insieme, diedono le castella a’ signori di Milano, e ricevettono quella gente d’arme ch’e’ vollono, e rifeciono trattato co’ loro amici della città, [11] pensando colla forza de’ signori di Milano rientrare in Pavia; il trattato si scoperse, e tutto il rimanente di que’ da Beccheria furono cacciati della città, e furono presi cento cittadini degli amici de’ signori, e di loro quelli che più furono trovati colpevoli ne furono dodici decapitati, tra’ quali furono cinque giudici e avvocati servidori de’ signori, gli altri furono liberi a volontà del popolo e di frate Iacopo, e la terra riformata a popolo, e ribanditi tutti gli usciti guelfi, e nominatamente il conte Giovanni e ’l conte Filippo, e’ loro figliuoli e discendenti, che quarantasei anni erano stati di fuori cacciati da’ tiranni da Beccheria. E come che ’l reggimento fosse a popolo assai bene ordinato, niente si facea che montasse senza il consiglio di frate Iacopo; e nondimeno il frate osservava onestamente la sua religione, e infino allora l’avea trenta anni usata con laudevole vita. Chi può stimare il fine delle cose, e la varietà delle vie della volubile fortuna? La signoria da Beccheria non potuta sottomettere dalla gran potenza de’ signori di Milano, nè da molte guerre sostenute, prese fine per le parole d’un piccolo fraticello: ma che più? quella città credendosi essere sciolta dalla servitù de’ suoi cittadini e tornata in libertà, poco appresso fu sottoposta a più aspro giogo di tirannia, come leggendo innanzi si potrà trovare.

[12]

CAP. V. Della materia medesima.

Erano in questo tempo i signori di Milano intenti con tutto loro sforzo e studio sopra l’assedio della città di Mantova, e però il marchese di Monferrato andò a Pavia con milledugento barbute e quattromila fanti, i quali improvviso a’ signori di Milano cavalcarono il Milanese; e posono loro campo presso alle porte di Milano; e questo feciono avvisatamente, sapendo che gente d’arme non era nella città, e acciocchè quelli di Pavia ch’aveano perduto il vino, per l’assedio e per le bastite ch’aveano avuto addosso, il ricoverassono sopra il contado di Milano, e così fu fatto; che stando quella gente a campo come detto è, frate Iacopo Bossolaro in persona uscì di Pavia con tutta la moltitudine del popolo, uomini, e femmine, e fanciulli con tutto il carreggio della città e del contado, e con tutti i somieri e vasella da vendemmiare, e misonsi nelle vigne de’ Milanesi, e in un dì vendemmiarono e misono in Pavia diecimila vegge di vino senza alcuno contasto, e catuno n’andò carico d’uve; e questo avvenne, ch’e’ tiranni sentendosi poche genti temettono di loro persone, e però non vollono uscire della città. Il marchese con la sua gente veduta fatta la vendemmia, e ’l popolo raccolto a salvamento, saviamente levò il campo, e messosi innanzi il popolo e la salmeria, del mese d’ottobre del detto anno, sano e salvo si tornò [13] in Pavia, con grande vergogna de’ superbi tiranni.

CAP. VI. Come per più riprese in diversi tempi fu messo fuoco nelle case della Badia di Firenze.

Avvegnachè vergogna sia mettere in nota quello che seguita, tuttavia può essere utile per l’esempio il male che seguita della discordia de’ religiosi. La Badia di Firenze avea undici monaci in questo tempo senza abate, perocchè l’insaziabile avarizia de’ prelati avea questo monistero conferito alla mensa del cardinale che fu vescovo di Firenze, messer Andrea da Todi; costui traeva il frutto, e’ monaci rimanevano senza pastore; e presono a fitto dal cardinale la rendita, che ne fece loro buono mercato, per fiorini mille d’oro l’anno, acciocchè il monastero si mantenesse a onore. I monaci erano uomini senza scienza e di lievi nazioni, e intendea catuno alla propria utilità, e del monistero non si curavano, e ’l nimico co’ suoi beveraggi gl’inebriava per modo, che tra loro era tanta invidia e tanta discordia, che nè dì nè notte vi si potea posare. E come che s’andasse, cominciando di questo mese d’ottobre, in sei mesi appresso quattro volte fu messo fuoco nelle case della Badia, e non si potè sapere certamente per cui, ma da’ monaci della casa per la loro dissensione si tenne per tutti che fatto fosse. Il primo dì d’ottobre arse la sagrestia e le case del dormentorio infino [14] alla volta della via del Garbo; e un altro ve ne fu messo poco appresso, che avvedendosene tosto fu spento senza troppo danno, e così un altro dopo quello. E la notte di nostra Donna di marzo ne fu messo uno nella casa di costa al palagio, il quale l’arse tutta, e avrebbe arse quelle di san Martino, che l’erano congiunte, se non fosse il gran soccorso, ma molto danneggiò le case e’ mercatanti lanaiuoli ch’ebbono a sgombrare. Questa malizia benchè movesse da singulare persona, tutta si può dire che procedesse dalla sopraddetta avarizia de’ maggiori prelati, che per empiere le loro disordinate mense levano i pastori alle chiese cattedrali, e per questo le gregge si dispergono, e diventano pasto de’ rapaci lupi.

CAP. VII. Come la terra di Romena si comperò per lo comune di Firenze.

Era lungo tempo stata questione tra ’l conte Bandino di monte Granelli e Pietro conte di Romena della terra e della rocca di Romena, e in questi dì era per compromesso la questione in mano del conte Ruberto da Battifolle, il quale si dicea ch’avea aggiudicata, o ch’era per aggiudicare Romena al conte Bandino contro alla volontà del conte Piero; per la qual cosa Piero ricorse al comune di Firenze, e con molta sollecitudine e grandi preghiere indusse i collegi, che ’l comune comperasse la sua parte di Romena [15] per fiorini tremilacinquecento d’oro; e diliberato questo per li collegi, si mise al consiglio del popolo, e per due volte si combattè la detta proposta nel consiglio, e perocchè ai popolo non piacea l’impresa furono in discordia; in fine i priori e’ collegi aoperarono tanto che la proposta si vinse, e fu diliberato pe’ consigli ch’a Piero conte fossono dati tremilacinquecento fiorini d’oro delle ragioni ch’avea in Romena. Ed essendo la terra e la rocca nelle mani del conte Bandino, ed egli allora in bando del comune di Firenze, il qual bando falsamente gli diede un suo nemico da Calvoli quand’era podestà di Firenze, ed egli per isdegno, o per altro, non s’era procacciato a farlo rivocare, e per questo il comune diliberò, o per amore o per forza di volere avere la tenuta delle sue ragioni. Sentendo Bandino conte l’impresa determinata per lo comune di Firenze de’ fatti di Romena, mandò per sicurtà di potere venire a’ signori, e avutala, fece co’ signori raunare i collegi, e in loro presenza disse, come Romena era sua per chiara sentenza, e quella tenea e possedea; e sentendo che ’l comune avea l’animo di volerla, niuno la potea meglio dare di lui, e in grande grazia si tenea di donarla al comune di Firenze, di cui si riputava figliuolo e servidore; e non tanto Romena, ma tutte l’altre sue terre volea dare liberamente al comune di Firenze, e per lo comune l’avea tenute, e intendea di tenere sempre. Le profferte furono tanto libere e graziose, che di presente impetrò grazia d’essere ribandito, e messo in protezione del comune, e d’essere fatto [16] suo cittadino. E non volendo il comune le sue ragioni in dono, non potè essere recato a porvi alcuno pregio. Infine i signori con discreto consiglio ordinarono, che al detto Bandino fossono dati contanti cinquemila fiorini d’oro, de’ quali e’ si tenne molto contento, e di presente fece liberamente la carta della vendita della terra di Romena, e de’ fedeli e di tutta la giurisdizione ch’avea in quella, come pochi dì innanzi avea fatto Piero conte della sua parte, e a dì 23 d’ottobre anno detto, per li consigli del comune fu ribandito, e fatto cittadino di Firenze, e a dì 28 del detto mese ebbe contanti fiorini cinquemila d’oro, avendo il dì dinanzi fatta dare la tenuta della terra e della rocca al comune di Firenze. E le carte della detta compera di Romena si feciono per ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio notaio. Da’ detti conti il comune liberò i fedeli e feceli contadini, e diè loro l’estimo e le gabelle come agli altri e la cittadinanza, e feceli popolari; onde molto furono allegri e contenti, e ripararono i difetti del castello.

CAP. VIII. Come la compagnia di Provenza si sparse per vernare.

La compagnia dell’arciprete di Pelagorga, stata lungamente in Provenza, era cresciuta in più di quattromila barbute. Il papa e’ cardinali aveano cerco con preghiere di farli partire del paese; e non avea avuto luogo. Ma sapendo come [17] la maggiore parte di quella gente era del reame di Francia, impetrarono lettere e comandamento da parte del re di Francia, come si dovessono partire delle terre di Provenza ch’erano del re Luigi, il qual’era di suo lignaggio, e congiunto parente. Le lettere e ’l comandamento furono ubbidite come da prigione, e di presente si ridussono in più parti di Provenza per vernare; e così tribolarono il verno come la state tutta la provincia. E per questo i Provenzali mandarono al re loro signore, che li venisse a soccorrere con forte braccio, altrimenti e’ non potrebbono sostenere.

CAP. IX. Come la compagnia del conte di Lando fu condotta per i collegati di Lombardia.

L’altra compagnia in Italia dimorando in sul terreno di Bologna, ricettati da messer Giovanni da Oleggio ch’allora era signore, e per sicurtà di sè s’era fatto amico del conte di Lando e degli altri caporali di quella; e com’è narrato poco addietro, i signori di Milano aveano presa la Serraia di Mantova, e fortemente stretta la città d’assedio, e quivi faceano ogni punga per vincerla. Gli allegati lombardi contro a loro cercavano la difesa, la quale non si potea fare senza gran forza, che lungamente si potesse mantenere: e però diedono ordine alla moneta che catuno dovesse pagare ogni mese, e fu stribuita per questo modo: che Bologna pagasse come detto è fiorini dodicimila, e ’l marchese di Ferrara fiorini ottomila, [18] e’ signori di Mantova fiorini tremila, il comune di Pavia fiorini duemila, quelli di Novara duemila, i Genovesi coll’aiuto segreto ch’avea il doge loro da’ Pisani fiorini quattromila; il signore di Verona allora si stava di mezzo e quello di Padova; il marchese di Monferrato non ebbe a conferire moneta, perocch’era capitano in Piemonte, e là facea guerra colla sua gente; e trovata la moneta, di presente soldarono la compagnia del conte di Lando, e del mese d’ottobre sopraddetto la feciono partire d’in sul Bolognese con più di tremila barbute e con tutta l’altra ciurma, e parte ne misono sul Mantovano, e parte ne mandarono in Vercellese, accozzati coll’altra loro masnada. Quello che di ciò seguì appresso al suo tempo racconteremo.

CAP. X. Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana d’aiuto.

Il re Luigi, vedendo a mal partito il contado di Provenza, diliberò col suo consiglio d’andare in persona al primo tempo in Provenza con tutto suo sforzo e degli amici, per liberarla dalla compagnia, e però richiese tutti i suoi baroni del debito servigio, e ordinò d’avere moneta e di fare alcuna armata; e del mese di novembre anno detto mandò per suoi ambasciadori a richiedere i Fiorentini d’aiuto, e tutti gli altri comuni di Toscana. Il nostro comune diliberò di darli l’insegna del comune con [19] trecento buoni cavalieri in fino ch’avesse cacciata la compagnia di Provenza, gli altri comuni feciono la loro profferta più lieve, e chi se ne diliberò con altra scusa.

CAP. XI. Come i Pisani feciono armata per rompere il porto di Talamone.

Avvedendosi i Pisani ch’e’ Fiorentini per preghiere, nè per promesse larghe, nè per minacce, nè per armata ch’avessono fatta in lega col doge di Genova per impedire la mercatanzia che non andasse a Talamone, non si moveano, e che pertinacemente ne portavano ogni sconcio e ogni gravezza, pensarono di volere vincere Talamone per forza, e ardere la terra e guastare il porto, e mandaronvi subitamente e per terra e per mare a fare quel servigio, avendo armate otto galee e uno legno alla guardia che mercatanzia non andasse a Talamone; ed essendo apparecchiati in mare, s’apparecchiarono di cavalieri e di masnadieri e d’argomenti per combattere la terra, e di vittuaglia. I Fiorentini sentendo questo, avvisarono i Sanesi, e di presente mandarono per terra assai gente da cavallo e da piè e di molti balestrieri a Talamone, per potere difendere la terra per mare e dall’oste per terra; i Sanesi anche vi mandarono loro sforzo. I Pisani vi mandarono l’otto galee e un legno per mare, e mosso la cavalleria e ’l popolo pisano per terra, sentirono come il loro aguato era scoperto, e [20] come gente d’arme da Firenze e da Siena erano andati a Talamone per azzuffarsi con loro, sicchè per lo migliore si tornarono addietro; e le galee vedendo fornito il porto di cavalieri e di balestrieri, non ardirono d’accostarsi alla terra, e stati alquanti dì sopra il porto, del mese di novembre anno detto lasciarono a Gilio due galee, che ogni navilio che venisse a Talamone fosse menato a scaricare a Porto pisano. Per questa cagione i Fiorentini più accesi contro a’ Pisani per li loro oltraggi, ordinarono di fare armata in mare, per fare ricredenti i Pisani della loro arroganza; onde seguitarono assai gran cose, come appresso nel suo tempo racconteremo.

CAP. XII. Come essendo l’oste de’ Visconti a Mantova, parte della compagnia si mise in Castro.

Essendo l’oste de’ signori di Milano stretta a Mantova, e non movendosi per la venuta della compagnia, nè per la guerra del Piemonte, i collegati mandarono mille barbute e cinquecento masnadieri in sul contado di Milano a un grosso casale che si chiama Castro, sedici miglia di piano presso a Milano, ed entrativi dentro, lo trovarono bene fornito da vivere, e di là cavalcarono il paese sino presso a Milano, facendo a’ contadini gran danno, e a’ signori maggior vergogna. L’altra parte della compagnia s’accostò in Vercellese colla gente del marchese, e tolsono a’ signori di Milano parecchi castella: e per questo [21] modo, non potendo levare l’oste da Mantova, guereggiavano i tiranni dove potevano. I signori di Milano aontati da’ cavalieri di Castro, ch’erano pochi, e in su gli occhi loro, di subito gli feciono assediare con intenzione che niuno ne campasse, ma d’avergli a man salva, e di fargli tutti impendere per la gola, e però non li lasciavano partire. Ma la cosa ebbe tutto altro fine, come nel suo tempo innanzi si potrà trovare.

CAP. XIII. Come la Chiesa di Roma fe’ gravezza a’ cortigiani.

Avvegnachè lieve cosa sia per lo fatto, la disusata e strana materia ci strigne a fare memoria, come il papa e’ cardinali contro all’usata franchigia della corte di Roma, rompendo quella, per volere riparare le città d’Avignone, e fare guardare la terra per tema della compagnia di Provenza, non volendo toccare i danari di camera, feciono imposta a’ mercatanti e agli artefici ben grave, e di presente l’esazione. E misono la gabella al vino, e un’altra più grave di fiorini uno per testa d’uomo, e ordinarono gli esattori, e riscossonne parte, ma era sì incomportabile alla minuta gente, che poco andò innanzi. L’avarizia de’ prelati, e la franchigia rotta a’ cortigiani, fece di questo molto maravigliare ovunque se ne seppe le novelle, e maggiormente, perchè la città è della Chiesa. La gabella del vino e altre gravezze rimasono in piè, in poco onore de’ guidatori della città di Roma

[22]

CAP. XIV. Cominciamento di guerra tra certi comuni in Toscana.

Era stata, dopo la partita dell’imperadore da Pisa, tutta Toscana in tranquillo stato, e alcuna volta in lega tutti e quattro i maggiori comuni, e non si dimostrava alcuna apparenza di cagione di guerra. E’ Fiorentini erano fermi di mantenere il porto a Talamone senza cominciare guerra, o mostrare che rotta fosse loro da’ Pisani. I Perugini trovandosi in prosperità, e forti di gente d’armi, non ostante ch’avessono doppia pace col comune e col signore di Cortona, la prima fatta per proprio movimento del loro comune, innanzi a quella generale che si fece coll’arcivescovo di Milano, e co’ suoi collegati e aderenti, alla quale prima richiesono il comune di Firenze, che entrasse loro mallevadore al comune e al signore di Cortona di diecimila marche d’oro, che manterrebbono la pace lealmente, e ’l comune fece un sindaco a potere fare il sodamento e la promessa, e così fece; e’ Perugini, istigati da Leggiere d’Andreotto loro grande cittadino, il quale promettea di dare loro la terra per trattato ch’egli avea dentro, di subito del mese di dicembre anno detto, con quattrocento cavalieri e con gran popolo vennero a Cortona, e guastaronla intorno, e poi si posono all’Orsaia, e non si trovò che trattato vi fosse dentro. L’impresa fu rea, e mossa da gran malizia per animo [23] di setta, e non ebbe il fine che s’aspettava per i Perugini, ma fu cagione di gravi cose in Toscana, come seguendo nostro trattato diviseremo.

CAP. XV. Di certe novità apparenti contro il soldano d’Egitto.

Aspettandoci alquanto le novità de’ cristiani, ci occorrono di quelle de’ saracini; e per meglio intendere le presenti, ci conviene alquanto trarre addietro la nostra materia. Quando morì il Saladino, uomo valoroso di virtù e di prodezza, e molto temuto e ridottato signore, e accrebbe la sua signoria, quando venne a morte lasciò quattordici figliuoli maschi, e ’l maggiore fu fatto soldano; ma i suoi ammiragli avendo provato la signoria del padre dura e ridottabile, volendosi maliziosamente provvedere, s’intesono insieme; e come il soldano non faceva a loro senno, l’avvilivano di parole nel cospetto del secondo fratello, e prometteano di farlo soldano se consentisse la morte sua; e tanto procedettono nella loro malizia, con inducere la vaghezza della signoria ora all’uno fratello e ora all’altro, che in spazio di venti anni già otto soldani di quelli fratelli avean fatti morire l’uno appresso l’altro; e per questo gli ammiragli aveano accresciuto loro stato e loro baronie, e abbassato quello del soldano, per modo che poco era ubbidito; e nel 1357 de’ quattordici figliuoli del Saladino ve n’erano rimasi due, l’uno soldano male ubbidito. [24] E per questo abbassamento della signoria in questi dì s’era sommosso un signore de’ Tartari, il quale si disse che s’era convertito alla fede di Cristo per certi frati minori, il quale s’apparecchiò con grande esercito di sua gente, e con molti cristiani giorgiani, per volere venire a racquistare la terra santa; e innanzi mandò lettere al soldano comandandoli, che dovesse a’ suo saracini fare sgombrare la terra santa. Il soldano e’ suoi ammiragli di queste lettere si feciono beffe, e ordinarsi dov’e’ venisse di mettersi alla difesa. L’impresa dilatò la fama, ma il signore, o ch’e’ non fosse in perfetta fede, o in tanta potenza, raffreddato dell’impresa non seguì suo viaggio.

CAP. XVI. Come il re di Navarra fu tratto di prigione.

Essendo i trattati della pace e le triegue dal re d’Inghilterra a’ Franceschi, non ostante ciò, messer Filippo di Navarra, mostrando d’avere accolta gente da sè, e avea molti Inghilesi in sua compagnia, era entrato in Normandia, e facea là e in altre parti del reame più aspra guerra che mai non aveano fatto gl’Inghilesi, e molto tormentava i Franceschi, dicendo, ch’a torto teneano il re suo fratello in prigione. E per questa tribolazione del paese, e perchè il re avea amici tra i tre stati che governavano il reame, i prelati, i baroni, e’ borgesi ch’erano al governo, feciono sopra ciò loro consiglio, e mostrarono [25] al popolo come messer Filippo si movea a ragione, perchè il re di Navarra riceveva torto: e in parlamento di gran concordia, a dì 28 di novembre anno detto, il trassono di prigione: e in quello parlamento e’ si scusò, e mostrossi innocente, e mostrò, come ciò che gli era stato fatto era stata operazione del cancelliere, ch’oggi era cardinale; e ringraziò il popolo e i tre stati, e seguì d’essere fedele, e fu fatto capitano di guerra.

CAP. XVII. Come i Perugini dall’una parte e i Cortonesi dall’altra mandarono per aiuto a Firenze.

Incontanente ch’e’ Perugini s’avvidono che ’l trattato d’avere Cortona era stato bugiardo, e pur l’impresa era fatta, mandarono ambasciadori a’ Fiorentini significando, ch’aveano trovati i Cortonesi in trattato di furare certe loro terre contro a’ patti della pace, e però erano venuti sopra Cortona, e intendeano non partirsene d’assedio, ch’eglino avrebbono la città ai loro comandamenti. E molto sfacciatamente, e con grande arroganza, sapendo che ’l nostro comune avea promessa e sicurata la pace per loro, e’ domandarono aiuto di gente d’arme a quello assedio. Dall’altra parte in que’ medesimi dì, con più giustizia e ragione, erano a’ signori gli ambasciadori de’ Cortonesi e del loro signore, i quali si lamentavano forte de’ Perugini, che senza alcuna cagione di subito aveano loro rotta la pace, [26] della quale il comune di Firenze era mallevadore, e domandavano al comune che desse loro solamente l’insegna con cento cavalieri alla guardia della città, facendo chiaro il comune ch’e’ Perugini non aveano ragione, e che trattato per i Cortonesi contro a’ Perugini, o contro alle loro terre, non era pensato non che fatto; e di questo s’offeriano a fare ogni chiarezza. Il comune di Firenze, che di natura e d’antica consuetudine è tardo alle cose, per avere a diliberare con molti consigli, in fine ordinò e mandò suoi ambasciadori a Perugia, riprendendo il comune di quella impresa non giusta, e pregandoli per l’onore loro medesimo, e appresso del comune di Firenze ch’era obbligato, a loro stanza che se ne dovessono partire; e di ciò furono male ubbiditi.

CAP. XVIII. Come la gente de’ signori di Milano furono sconfitti in Bresciana.

Essendo tra’ signori di Milano e’ collegati di Lombardia contro a loro stretto trattato di concordia, avvenne che duemila barbute della compagnia valicavano per lo Milanese. Messer Bernabò Visconti sentendo questo, e temendo d’alcuna sua terra, di presente fece cavalcare messer Giovanni da Biseggio suo capitano con millecinquecento cavalieri, e appresso lo seguivano mille barbute per soccorso. Messer Giovanni, franco e coraggioso capitano, si mise innanzi senza attendere gli altri mille cavalieri, e colla sua brigata [27] s’aggiunse co’ nemici in sul Bresciano, e ivi si fedì tra loro aspramente. Quivi avea di buoni cavalieri, che li riceverono allegramente, ove fu aspra e fiera battaglia. In fine i cavalieri di messer Bernabò furono sconfitti, e preso il capitano con venti conestabili, e bene quattrocento altri cavalieri, e lasciati alla fede, all’usanza tedesca. Trovaronsi morti in sul campo tra dell’una parte e dell’altra trecento uomini, i più de’ vinti; e questo fu del mese di dicembre anno detto.

CAP. XIX. Come l’oste del re d’Ungheria prese la città di Giadra.

Nel settimo libro addietro è narrato l’assedio del re d’Ungheria posto a Giadra, il quale stato lungamente, del mese di dicembre anno detto, coll’aiuto d’alcuno trattato d’entro, si menò una cava di fuori in certa parte ov’era l’aiuto d’entro, e in pochi dì furono fatte cadere quaranta braccia di muro; e atati da coloro con cui s’intendeano dentro, ebbono l’entrata della città, ed entrati gli Ungheri dentro, senza gran contasto vinsono la terra, e tutta la gente de’ Veneziani ch’erano alla guardia si raccolsono nel castello, ch’era alla marina alquanto scostato dalla terra, fortissimo e ben fornito a ogni gran difesa, e da potere avere soccorso di mare. Questa è quella città che tanta guerra ha fatto fare tra ’l re d’Ungheria e’ Veneziani, e alla quale [28] il re d’Ungheria in persona alcuna volta con centomila cavalieri è stato all’assedio, e partito se n’è con vergogna, e ora così vilmente è stata vinta. Credo che l’ambiziosa superbia de’ Veneziani per gravi discipline sia umiliata nel cospetto di Dio, per la qual cosa si può comprendere che Iddio per grazia gli traesse con lieve danno di gran pericolo e di gravi spese; e bench’elli avessono grande appetito di pace, tenendo Giadra non la sapeano lasciare, ma ogni omaggio, ogni gran quantità di pecunia offeriano per quella; ma il magnanimo re volea innanzi il suo onore, che la pecunia e l’amistà de’ Veneziani. Come i Veneziani sentirono che la città di Giadra era tolta loro sbigottirono forte, non ostante che tenessono il castello, ch’era di gran fortezza, e da poterlo tenere e fornire per mare; ma consideravansi consumati dalle spese, e la potenza del re essere sopra le forze loro, e però subitamente gli mandarono ambasciadori per volere trattare della pace con lui. Il re essendo cresciuto in vittoria sopra loro, per farli più accendere nell’appetito della pace, a questa non li volle udire, mostrando animo grave contro al comune di Vinegia per le grandi ingiurie ricevute da quello, e scrisse in Puglia all’imperadore per volere fare armare galee, e in Lombardia a’ signori suoi amici perchè s’apparecchiassono al suo servigio, ch’egli intendea di venire ad assediare Trevigi, e far guerra per terra e per mare a’ suoi nemici veneziani. Per questa risposta i Veneziani temettono più forte, e conobbonsi disfatti dentro alle incomportabili gravezze, e di fuori dalla gran potenza del re. E [29] per questo diliberarono tra loro ch’ogni altra posa era accrescimento a’ loro guai, salvo che la pace, e questa procacciarono, come innanzi a loro tempo racconteremo.

CAP. XX. Come messer Bernabò fece combattere Castro.

Come poco innanzi narrammo, messer Bernabò signore di Milano avea lungamente tenuti assediati nel castello di Castro in sul Milanese mille cavalieri, e cinquecento masnadieri di quelli della compagnia, con speranza d’averli per forza e di farli impiccare. E avendo fatto ordinare sua gente alla battaglia, non essendo il castello forte, da ogni parte il fece assalire con aspra e stretta battaglia; e avvegnachè ’l luogo fosse debole alla loro difesa, la necessità di difendere catuno la vita, diede loro smisurata sollecitudine e forza alla difesa, e combatterono sì aspramente contro alla moltitudine de’ loro nemici, che per forza gli ributtarono addietro della battaglia, e con danno di molti morti e d’assai magagnati si ritornarono addietro al campo loro, ch’era intorno al casale. Avendo l’altra parte della compagnia ch’era in Vercelli sentito il pericolo de’ loro compagni, mandarono ad avvisarli della giornata, che verrebbeno col loro sforzo per levarli di là, acciocch’elli stessono apparecchiati. E incontanente, improvviso alla gente de’ signori di Milano, del mese di dicembre anno detto, con duemila barbute bene [30] in concio se ne vennero in sul contado di Milano dall’una delle parti del casale: e trovando in concio i loro compagni ch’erano in Castro, con bella schiera fatta s’uscirono del casale, e aggiunsonsi co’ loro compagni, per modo che la gente del tiranno non ebbe ardire di muoversi contro a loro. E in questo modo senza niuno assalto si ridussono, con vergogna de’ signori di Milano, sani e salvi in Vercellese.

CAP. XXI. Come si cominciò a trattare pace da’ collegati a’ Visconti.

Dibattuta lungamente la guerra tra’ signori di Milano e gli altri Lombardi collegati, e le cose molto imbarrate da ogni parte, non ostante che in molte cose la fortuna avesse prosperato gli allegati, e vergognata l’altra parte, tant’era la forza de’ signori di Milano di danari e di gente d’arme, che solo sostenendo consumava gli allegati, e della perdita delle genti e delle terre piccole non si curavano, e continovo ogni mese aveano fornite e ricresciute le loro masnade, mostrando maggiore forza l’un dì che l’altro, tenendo l’oste sopra Mantova, e facendo cavalcare sopra i Lombardi, tormentandoli dopo le sconfitte ricevute più che prima. Il signore di Mantova, toccandogli la guerra più nel vivo, mandò messer Feltrino da Gonzaga a’ collegati per riprendere il trattato della pace co’ signori di Milano, e fece dare speranza a’ signori di Milano [31] di dar loro la città di Reggio, e per questo diedono udienza al trattato del mese di gennaio del detto anno. Ma innanzi che ’l trattato avesse effetto, altre cose avvennono tra loro, le quali prima ci verranno a raccontare.

CAP. XXII. Come i Perugini puosono cinque battifolli a Cortona.

Tornando a’ fatti di Cortona, trovando coloro ch’allora reggevano il comune di Perugia, che l’impresa non era stata ben fatta, e ch’e’ Fiorentini glie ne riprendeano, e molti altri loro buoni cittadini, per non avere vergogna dell’impresa, poichè fatta l’aveano, e il popolo minuto, che allora reggea la città, se ne mostrò tanto infocato, che incontanente crebbono gente d’arme da piè e da cavallo, per fornire il contradio di quello che erano pregati da’ Fiorentini. E già però i Fiorentini per troppo amore che portavano a quel comune, e per vergogna che ricevessono di loro promessa non vollono tramettersi contro a’ Perugini per difesa de’ Cortonesi, com’e’ poteano a loro vantaggio, altro che con parole, onde da’ savi uomini furono assai biasimati. E’ Perugini vedendo che ’l comune di Firenze non volea prendere la guardia di Cortona, come e’ dovea e potea fare, presono più baldanza, e rinforzarono l’oste di molta gente, e chiusono la città d’assedio con cinque battifolli, per modo che non vi si poteva entrare nè uscire senza [32] grande pericolo; e questo fu all’entrata del mese di gennaio del detto anno. Gli assediati erano male forniti di gente forestiera alla difesa, e a’ cittadini convenia fare la guardia grande di dì e di notte che gli affliggea molto, e questo dava grande speranza a’ Perugini di venire a’ loro intendimenti; e ’l signore ne stava in grande gelosia, temendo de’ suoi cittadini, ma i cittadini per singolare odio che portavano a’ Perugini, temendo di venire alla loro suggezione, rassicurarono il signore, e strinsonsi con lui, e ordinarono la guardia volontaria e buona alla difesa della città, e cominciarono a trattare de’ loro rimedi.

CAP. XXIII. Come i Trevigiani furono rotti dagli Ungheri.

Lavorandosi il terreno de’ Trevigiani per gli Ungheri, come già è detto, trovandosi in Trevigi una franca masnada di cavalieri e di masnadieri, avendo pensato di fare una grande e utile preda, ed essendo i lavoratori pe’ campi sotto la guardia degli Ungheri operando la terra senza paura, non temendo de’ Trevigiani, i cavalieri ch’erano in Trevigi, con certi Veneziani e Trevigiani a cavallo, e con tutti i masnadieri a piè, una mattina innanzi al dì uscirono della terra cinquecento cavalieri, e altrettanti masnadieri e gran popolo, e cavalcarono il paese, e raccolsono grandissima preda di bestiame grosso e minuto, e d’uomini. Gli Ungheri sentirono il romore, e come gente apparecchiata di loro cavalli [33] e che non s’hanno a vestire arme, di tutte le castella d’attorno trassono a pochi e ad assai insieme, e cominciarono da ogni parte a impedire colle loro saette i nemici, e non gli lasciavano cavalcare innanzi alla loro ritratta. E tenendoli per questo modo, l’altra moltitudine degli Ungheri traeva e cresceva loro addosso sempre saettando, uccidendo e fedendo de’ cavalli e degli uomini; e perchè contro a loro si movessono i cavalieri, e’ si voltavano, e fuggivano, e ritornavano prestamente. E non valendo a’ Trevigiani il combattere e ’l lanciare, che a mano a mano n’aveano più addosso, convenne loro per forza abbandonare la preda, e intendere a campare le persone; ma non lo poterono fare sì interamente, che de’ loro non rimanessono trecento tra morti e presi, a cavallo e a piè. E d’allora innanzi di Trevigi non uscì più gente per vantaggio che fosse loro mostrato di fuori, e’ Veneziani con più appetito procacciavano l’accordo della pace col re d’Ungheria.

CAP. XXIV. Cominciamenti di nuovi scandali nella città di Firenze.

Era la città di Firenze in questi tempi in grande tranquillità e pace dentro, e di fuori non avea nemici, e con tutti i comuni e signori d’Italia era in amicizia, non avendo contro ad alcuno voluto pigliare parte, e con tutti quelli ch’aveano guerra travagliatosi della pace, e la [34] novità del porto di Talamone non inducea guerra. La città dentro per l’ordine de’ divieti delle famiglie de’ popolani, quando alcuno era tratto agli ufici de’ collegi, aveva fatto venire il reggimento del comune in molte genti d’ogni ragione, e ’l più in artefici minuti, e in singulari e nuovi cittadini, e a costoro quasi non toccava divieto perchè non erano di consorteria, sicchè frequentemente ritornavano agli ufici, e’ grandi e potenti cittadini delle gran famiglie vi tornavano di rado. Ancora poca distinzione si faceva per uno comune buono stato degli uomini: e chi era senza vergogna, a’ tempi che s’insaccavano per squittino generale gli uomini all’uficio del priorato, si provvedea dinanzi con gli amici, e colle preghiere, e con doni, e con spessi conviti; e per questo modo più indegni e illiciti uomini si ritrovavano agli ufici, che virtuosi e degni. Nondimeno la cittadinanza era più unita al comune bene, e le sette aveano meno luogo, e i nuovi e piccoli cittadini negli ufici non aveano ardire di far male nella infanzia de’ loro magistrati. Nondimeno in grande fallo e pericoloso correa la repubblica di non riparare a’ manifesti falli che si commettevano negli squittini, come detto è. Ma certi uomini grandi e popolari avvedendosi dell’errore del comune, con grave e sagace malizia, e a fine reo di divenire tirannelli, s’avvisarono insieme, e quello che si dovea, e potea racconciare con ordine di buona legge e onesta al fare degli squittini, convertirono sotto il titolo della parte guelfa, dicendo, ch’e’ ghibellini occupavano gli ufici, e che se i guelfi non riparassono [35] a questo, poteano pensare di perdere tosto loro stato e la franchigia del comune, la cui franchigia mantenea la libertà in Italia. E di vero la parte guelfa è fondamento e rocca ferma e stabile della libertà d’Italia, e contraria a tutte le tirannie, per modo che se alcuno guelfo divien tiranno, convien per forza ch’e’ diventi ghibellino, e di ciò spesso s’è veduta la sperienza; sicchè grande beneficio del nostro comune è a mantenere e accrescere la parte guelfa. Costoro, avendo conceputa la malizia, e conferita con certi delle grandi famiglie, dicendo, che quello che intendeano fare sarebbe materia al comune d’abbreviare i divieti, presono conforto e favore di venire alla loro intenzione. E succedendo all’uficio del capitanato della parte de’ caporali che la coperta iniquità aveano conceputa, per potere con loro seguito avere a tutti i cittadini guelfi e ghibellini il bastone sopra capo, e potere le loro spezialità sotto il detto bastone in comune e in diviso adempiere; ed essendo allora per consueto ordine due cavalieri de’ grandi e due popolani capitani, raccozzò la fortuna certi cittadini grandi e popolari di pessima e iniqua condizione, messer Guelfo Gherardini, messer Geri de’ Pazzi, Tommaso di Serontino Brancacci, Simone di ser Giovanni Siminetti, cittadini grandi e popolari di pessima e iniqua condizione. I grandi astuti e cupidi d’uficio, e d’avere poveri, dispetti e detratti degli onori del comune per non sapere usare la virtù col senno; gli altri popolari erano conferenti a’ grandi nelle predette cose, fuori che negli ufici usurpati più per [36] procaccio che per virtù. Costoro tutti in concordia traendo non al bisogno, o al beneficio del comune o della parte, ma a quel fine che già è detto, ordinarono una petizione, che in sustanza contenne, che quale cittadino o contadino di Firenze, ghibellino o non vero guelfo, avesse avuto per addietro, o avesse per innanzi alcuno uficio del comune di Firenze, potesse essere accusato palesemente e occultamente, non nominando eziandio l’accusatore; e che approvandosi l’accusa per sei testimoni di pubblica fama, che l’accusato fesse ghibellino o non vero guelfo, essendo i testimoni approvati per uomini degni da potere portare testimonianza, per li capitani della parte, e per li consoli delle loro arti, dovesse l’accusato e provato, com’è detto, essere condannato ad arbitrio della signoria ch’avesse l’accusa innanzi, nella testa o in quantità di moneta, ch’almeno fosse libbre cinquecento di fiorini piccioli, e rimosso da ogni uficio e onore del comune; e ch’e’ testimoni non potessono essere riprovati di falso. E portata l’iniqua petizione per li detti capitani a’ signori e a’ collegi, ed esaminata, parendo loro ch’ella fosse iniqua e ingiusta, non la vollono ammettere nè diliberare tra loro. Per la qual cosa i capitani gli abominavano contro alla parte, e di loro seguaci raunarono più di dugento cittadini scelti a loro modo, e con essi sotto il titolo della difensione di parte guelfa, a cui niuno s’opponeva, andarono con grande baldanza a’ priori e al consiglio, e dissono, ch’e’ non si partirebbono di là, che la petizione sarebbe diliberata, e così convenne [37] che si facesse; e vinta fu a dì 15 di gennaio anno detto. E avuta la petizione alla loro malvagia intenzione, di presente si racchiusono insieme nel palagio della parte, e per loro squittini feciono capitani, e priori, e consiglieri di parte di loro seguito per molti anni, con assai pubblica, sfacciata, e disonesta spezialtà, e sotto falso nome di parte guelfa trovando modo di distruggere e d’abbassare il giusto e santo nome di quella, ebbono podere di fare ogni cosa secondo il loro disordinato appetito. Della qual cosa seguitò subitamente grande inquietazione del tranquillo e buono stato del comune, e tutti i cittadini disposti a volere fare i fatti loro, e non concorrenti alla sconcia setta, stavano sospesi di loro stato e di loro onore: e comune turbazione ne cadde tra’ cittadini, e appresso ne seguitarono sconce ingiurie e gravi pericoli alla nostra città, come leggendo innanzi pe’ tempi si potrà comprendere.

CAP. XXV. D’un singolare accidente ch’avvenne in questi paesi.

Essendo dal cominciamento del verno continovato fino al gennaio un’aria sottilissima, chiara e serena, e mantenuta senza ravvolgimento di nuvoli o di venti, oltre all’usato natural modo, per sperienza del fatto si conobbe, che da questa aria venne un’influenza, che poco meno che tutti i corpi umani della città, e del contado e distretto di Firenze, e delle circustanti vicinanze [38] fece infreddare, e durare il freddo avvelenato ne’ corpi assai più lungamente che l’usato modo. E per dieta o per altri argomenti ch’e’ medici facessono o sapessono trovare, non poteano avacciare la liberagione, nè da quello liberare le loro persone, e molti dopo la lunga malattia ne morivano; e vegnendo appresso la primavera, molti morirono di subitana morte. Dissesi per gli astrolaghi, che fu per influenza di costellazioni, altri per troppa sottigliezza d’aria nel tempo della vernata.

CAP. XXVI. Come in Firenze nacque una fanciulla mostruosa.

A dì 4 di febbraio anno detto nacque in Firenze al Poggio de’ Magnoli una fanciulla portata sette mesi nel ventre della madre, la quale avea sei dita in ciascuna mano e in catuno piede, e i piedi rivolti in su verso le gambe, senza naso, e senza il labbro di sopra, e con quattro denti canini lunghi da ogni parte della bocca due, uno di sopra e uno di sotto; il viso avea tutto piano, e gli occhi senza ciglia: e vivette dalla domenica a vespro al lunedì vegnente alla detta ora, e più sarebbe vivuta se avesse potuto prendere il latte.

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CAP. XXVII. Come i Sanesi si scopersono nemici de’ Perugini.

Il comune di Siena aspettando, e vedendo ch’e’ Fiorentini non rimoveano i Perugini della impresa di Cortona, avendo il signore di Cortona singulare amistà co’ Sanesi, gli avea richiesti d’aiuto; e i Sanesi gravandosi de’ Perugini ch’atavano contro a loro quelli di Montepulciano, furono contenti d’avere cagione di atare i Cortonesi. E in prima cercarono per più riprese di mettere masnadieri di furto nella città, e per la sollecita e buona guardia de’ Perugini non venne fatto, anzi ne furon presi e morti, ch’aggiunse a’ Sanesi maggiore sdegno. E trovandosi già scoperti da’ Perugini per queste cavalcate, conobbono che in palese conveniva fare l’impresa incominciata, se non ne volevano rimanere vituperati. Cercarono in prima avanzare, se fare il potessono, e tennero in prima due trattati, l’uno in Chiusi, e l’altro in Sarteano; e accolta gente a cavallo e a piè cavalcarono prima a Chiusi, credendovisi entrare, ma la guardia v’era buona, sicchè i loro amici non ebbono ardire di muoversi, e con vergogna si tornarono addietro. Appresso cavalcarono a Sarteano, e anche con disonore, scoperti al tutto nemici de’ Perugini, si tornarono in Siena.

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CAP. XXVIII. Come i Sanesi misono cavalieri in Cortona alla guardia.

Fatto questo cominciamento per li Sanesi senza alcuno acquisto, intendendosi con gli assediati, sentirono da loro, come tra la bastita della Pieve a quella dall’Orsaia avea gran campo voto in mezzo, per lo quale avvisatamente si potea fare passare della gente; incontanente i Sanesi elessono cento cavalieri ben montati, e cinquanta Ungheri con alquanti masnadieri scorti e destri, e con buona condotta li feciono cavalcare una notte per modo, che giunti la mattina per tempo al luogo tra le due bastite, senz’essere scoperti, stretti insieme si misono a passare, e senza ricevere impedimento entrarono in Cortona, ricevuti dal signore e da tutti i cittadini a gran festa, come gente ch’aveano gran bisogno d’aiuto e di soccorso; e immantinente misono l’insegna del comune di Siena nel cospetto de’ Perugini in sulla torre della porta maestra, e appresso cominciarono a uscire fuori a loro posta, e dare noia e danno a quelli del campo, e a ricevere e a mettere roba nella città, di che eglino aveano bisogno, e massimamente strame e legne, che di vittuaglia erano assai bene abbondanti. Per questa novità i Perugini si vidono al tutto entrati in guerra co’ Sanesi, e’ Sanesi co’ Perugini, e però catuno si mise in provvisione; e’ Sanesi con maggiore sollecitudine feciono provvisione [41] d’avere danari in comune; ed essendo uno Anichino di Bongardo Tedesco fatto capo d’una nuova compagnia che si levava, ed erano già accolti insieme più di milledugento barbute, mandaronlo a conducere con tutta sua cavalleria. Lasceremo alquanto al presente le novità di Toscana per dare parte a quelle di Francia, che prima ci offrono con non minore ammirazione di lieve materia sformato avvenimento.

CAP. XXIX. La cagione che mosse i borgesi di Parigi a nuovo stato.

Essendo in alcuna cospirazione segreta di trattato il proposto de’ mercatanti di Parigi col re di Navarra, favoreggiato occultamente dal re d’Inghilterra, prese ardire, e ’l caso gli apparecchiò la materia acconcia al suo proponimento. Uno borgese di Parigi vendè al Delfino di Vienna, primogenito del re di Francia, due suoi destrieri, e ’l Delfino comandò a un suo tesoriere che ’l pagasse: il borgese andò molte volte al tesoriere per farsi pagare; il tesoriere il menava per parole; e parendo essere al borgese disperato de’ suoi danari, si turbò col tesoriere, e dissegli, che s’e’ non pagasse, che ’l comperrebbe di suo corpo: il tesoriere altiero e presuntuoso non si curò del pagamento nè delle minacce del borgese. Avvenne, che valicando del mese di febbraio anno detto il tesoriere per una ruga di Parigi, si scontrò nel borgese, il quale gli attenne la [42] promessa; e ucciselo; e fuggissi in franchigia. La novella corse al Delfino e al suo consiglio; i quali di presente a forza il feciono trarre di franchigia; e impenderlo per la gola. Per questo il proposto di Parigi montato in furore per lo male reggimento del consiglio del Delfino, prese compagnia di certi borgesi di suo seguito, e crebbegli ardimento del favore si sentiva in segreto del re di Navarra, e che comunemente il Delfino e ’l suo consiglio erano odiati da tutta maniera di gente; e con meno di ottanta borgesi armati copertamente, in quel furore se n’andò al palagio reale ov’era il Delfino e’ suoi consiglieri; e innanzi vi giugnessono, trovarono nella via un avvocato ch’era del consiglio del Delfino, e di presente l’uccisono; e seguendo loro viaggio, giunsono al palagio; il portiere non volea lasciare entrare altro che ’l proposto con pochi, ma entrato dentro il proposto con alcuni compagni, costrinsono i portieri, e misono dentro gli altri compagni, e di brigata se n’andarono dov’era il Delfino con due de’ suoi consiglieri, per cui più si reggea e governava, e l’uno era il conestabile di Chiaramonte, e l’altro il conestabile di Campagna; il proposto nella presenza del Delfino li fece uccidere a ghiado. Il Delfino impaurito si gittò ginocchione innanzi al proposto, pregandolo che nol facesse morire; il proposto non sostenne che egli stesse a basso, ma levollo su facendoli reverenza, e dicendo, come l’aveano per loro signore, ma aveano in odio coloro che per loro malizia gli davano consigli; e acciocchè non fosse offeso nel furore della gente [43] già commossa, li misono in capo un cappuccio di loro assisa, e menaronlo con loro in una parte di Parigi che si chiama Grieve, e ivi lo feciono giurare che di questo fatto non renderebbe loro per alcuno tempo mal merito, e che si reggerebbe per consiglio de’ borgesi; e fatta la promessa, e fermata col suo saramento, il rimisono nel suo primo stato. Divolgata questa cosa per tutta la città di Parigi, i borgesi lieti s’allegrarono insieme in gran parte, sommovendo l’uno l’altro, e prestavano il saramento come s’ordinò per lo rettore, a mantenere il loro novello stato e la loro usurpata franchigia.

CAP. XXX. Della pace del re d’Ungheria a’ Veneziani.

Avendo i Veneziani consumato il tempo della matta follía, la quale a torto aveano sostenuta per molti anni contro al re d’Ungheria con molto loro danno, si disposono di comune consentimento che dal re si procacciasse buona e fedele pace; e per poterla avere, liberamente il comune si rimesse in lui, acconci di fare tutti i suoi comandamenti delle terre d’Istria, e di Schiavonia e di Dalmazia, che per loro si possedeano, e che oltre a questo gli fosse offerto ogni ammenda di danari e d’altre cose ch’alla sua signoria piacesse di volere da’ Veneziani; e fatti de’ maggiori della loro città solenni ambasciadori, con pieno mandato alle predette cose li mandarono al re; il quale sentendo la liberalità di quel [44] comune, graziosamente li ricevette; e udita l’ambasciata, come magnanimo signore, disse, ch’era contento di riavere tutte le terre del suo reame, e che quelle si levassono al tutto del titolo del loro doge, sicchè mai per innanzi nè ’l doge nè ’l comune se ne titolasse; e quando questo fosse fatto, intendea co’ Veneziani avere buona pace. Ammenda di danari, disse, che non volea, perocch’e’ non era cupido nè bisognoso di pecunia, ma volea per ammenda e per titolo d’amicizia, che quando e’ richiedesse il comune di Vinegia, fosse tenuto di darli armate a sua volontà ogni volta che le domandasse infino in ventiquattro galee alle spese del re. E come egli divisò, di buona volontà tutto fu accettato, e promesso di fare fedelmente per autorità degli ambasciadori, e ferma la pace; e incontanente feciono rendere il castello di Giadra, e tutte le terre che teneano in Schiavonia, e in Dalmazia e in Istria che al re s’apparteneano, e dentro vi misono la gente del re d’Ungheria, e del titolo del doge le levarono tutte; e il re, del mese di febbraio anno detto, mandò suoi ambasciadori, i quali restituirono al comune di Vinegia Colligrano, e tutte le castella che gli Ungheri teneano in Trevigiana, e con grande allegrezza e festa de’ Veneziani feciono pubblicare e bandire la pace; e fu in patto, che tutti i gentili uomini di Trevigiana rimanessono in pace col comune di Vinegia, e liberi possessori delle loro tenute e castella. E fatto solenne onore agli ambasciadori del re, feciono per loro decreto in consiglio che di niuna materia di guerra si dovesse [45] ragionare, e che catuno si dirizzasse al navicare e a fare mercatanzia. Costoro straccati della guerra conobbono il beneficio della pace; il nostro comune infastidito di troppo tranquillo stato, cercò materia di grande turbamento della cittadinanza, come appresso racconteremo.

CAP. XXXI. Come da prima in città di Firenze furono accusati certi cittadini per ghibellini.

Essendo entrati nuovi capitani di parte guelfa, messer Simone de’ Bardi, e messer Uguccione Buondelmonti, Migliore Guadagni, e Massaiozzo Raffacani, e de’ quali non v’era ma’ ma’ uno ch’avesse stato in comune, e tutti erano animosi ad accendere e suscitare lo scandalo incominciato pe’ loro precessori; e però furono in concordia di cominciare l’esecuzione dell’iniqua legge, e accolsono al palagio della parte certi eletti d’industria, uomini affocati nella volontà d’abbattere i cittadini de’ loro ufici, e de’ loro stati e onori per invidia, sotto titolo di dichiararli ghibellini o non veri guelfi. E per adempire la sfrenata volontà, misono e nominarono per ghibellini catuno cui e’ voleano a’ loro segreti squittini, e ivi furono nominati grandi e popolari di molte case e famiglie delle maggiori, e migliori e più stanti della città di Firenze, antichi cittadini e amatori del loro comune e di parte guelfa: e recati al partito tra così discreto collegio, chiunque aveva più boci di essere ghibellino, [46] o non vero guelfo, insaccavano in cedole, per trarli fuori a parte a parte, e accusarli e farli condannare, eziandio che di nazione e d’operazione si trovassono nella verità essere veri e diritti guelfi; e nel primo squittino insaccarono da settanta cittadini di nome e di stato, come detto è. Dopo questi levato il saggio dell’accuse, dovevano insaccare degli altri, perocchè lungamente vi si penava a farli; e bollendo già tutta la città di questa perversa operazione, e parendo a catuno buono cittadino male stare, si cominciarono a destare, e a richiedere gli amici, e a pregare i capitani; e i capitani vedendo la commozione, cominciarono a tentare, e a reprimersi della loro opinione contro a’ potenti, cui già avevano insaccati per accusare. Ma per dare cominciamento al fatto, elessono cinque cittadini, de’ quali pensarono avere minore resistenza; nondimeno accolsono prima alla parte d’auzzetti di loro seguito più di dugento uomini: e formata loro accusa di quattro, di cui si poteva alcuna cosa sospicciare ne’ libri della parte, benchè certo non fosse, acciocchè ’l loro cominciamento con alcuno verisimile atasse la corrotta intenzione, a dì otto di marzo andarono i capitani in persona colla compagnia de’ sopraddetti richiesti al potestà, e disonestamente, e fuori d’ogni consuetudine, accusarono per ghibellino Neri di Giuntino Alamanni, e Mannetto Mazzetti, Giovanni di Lapaccio Girolami di porta santa Maria, e Giovanni Bianciardi cambiatore: catuno aveva avuti lievi ufici per lo tempo passato; ex abrutto gli feciono condannare, e certi altri feciono rinunziare [47] all’uficio, in che erano de’ cinque della mercatanzia. A niuno potè valere alcuna scusa. E avendo i capitani cominciata in parte la loro esecuzione, cominciarono a essere temuti e ridottati da tutti i cittadini, e chi non si sentiva ben forte, dava opera con preghiere e con servigi, con doni e con danari di riparare alla sua fortuna, ch’era nelle mani de’ capitani della parte guelfa. E per seguire i detti capitani il loro prospero cominciamento, e sventurato e reo alla comunanza, a dì 5 d’aprile anni 1358, avendo animo di fare più e maggiore fascio, ma ristretti dal mormorio del popolo, e della infamia che già correa di loro, si ristrinsono, e fedirono nel molle, lasciando degli squittinati, e facendo ad arbitrio, n’accusarono altri otto; ciò furono, Domenico di Lapo Bandini, Mazza Ramaglianti, Cambio Nucci speziale, Giovanni Rizza, Piero di Lippo Bonagrazia, Iacopo del Vigna, Christofano di Francesco Cosi, e Michele Lapi; e tutti gli feciono condannare, senz’essere uditi a ragione, in libbre cinquecento per uno. E a dì 21 del detto mese, avendo fatto nuovo squittino, e avvolti ne’ loro sacelli grandissima quantità di buoni e di cari cittadini, e di quelli delle maggiori case popolari di Firenze di catuno quartiere, ch’a nominarle non sarebbe onesto, ed essendo per rivelazione del loro segreto squittino già noto a tutti, la città tutta si doleva, e grave infamia si spandea diversamente, non senza scandalo, che l’uno biasimava, e l’altro lodava la mala operazione, ma in genero tutti i buoni uomini guelfi biasimavano la legge sopra ciò fatta, e la esecuzione [48] che ne seguitava; e per questo abbassarono ancora la loro furia i capitani. Ma volendo pur fare male, anche rifedirono nel molle: e lasciandoli squittinati, ciascuno accusò il suo cui e’ volle: ed essendo senza colpa d’aver preso uficio, e da potersi con giustizia difendere, feciono condannare Niccolò di Bartolo del Buono, Simone Bertini, Sandro de’ Portinari, e Giovanni Mattei. Lasceremo ora addietro alcune altre cose che prima occorsono che quello ch’al presente seguita, per congiugnere a questa materia alcuna temperanza di rimedio fatto per bene, che poi s’usò in male, com’è usanza, non del comune, ma degl’iniqui cittadini.

CAP. XXXII. Come a’ capitani della parte furono aggiunti due compagnia

Al presente occorre a scrivere cosa incredibile e vera. Questa nuova seduzione dell’iniqua legge fatta sotto il titolo della parte, generalmente spiacea a tutti i buoni e cari cittadini, veri e diritti guelfi, e più la sconcia esecuzione che se ne facea, e tutti diceano, che a ciò si mettesse consiglio e rimedio, ch’e’ cittadini non vivessono in tanta sospiccione di loro stato. Molti consigli se ne teneano, e niuno modo vi sapeano trovare, per non dirogare al nome della parte; e coloro che entravano agli ufici de’ collegi, e agli altri maggiori, ch’erano più sospetti, coloro erano quelli che più parlavano, e che più [49] si mostravano zelanti a mantenere la legge e la sua esecuzione insino che la pietra cadeva sopra loro. Ma vedendo il genero de’ cittadini essere caduti sprovvedutamente sotto il giogo della malvagia legge, e non potendovi per via diretta riparare, e vedendo così i guelfi come i ghibellini, ma troppo più i guelfi, che l’onore e lo stato potea essere tolto a catuno, quando a tre uomini capitani di parte paresse, e conoscendo che tutti i più malivoli uomini di Firenze erano poco dinanzi stati insaccati per capitani, priori e consiglieri di parte senza alcuno divieto, per riparare in parte, ove non si potea riparare in tutto, a tanto male, i priori ch’erano allora, di subito e segretamente ordinarono co’ loro collegi una petizione, e fu di presente vinta in consiglio, che a’ capitani di parte guelfa s’aggiugnessono due popolani, e che niuna cosa si potesse diliberare per li capitani, se tre popolari non fossono in concordia; e dove i grandi doveano essere cavalieri, s’allargò ad ogni grande, acciocchè l’uficio non continovasse in pochi grandi; e misono a tutti divieto un anno, e che gli squittini della parte si dovessono rifare di nuovo, e annullare tutti i fatti; e questa riformagione fu ferma per li consigli a dì 24 d’aprile 1358. E avvegnachè questo non fosse opportuno rimedio, fu alcuno freno all’ordinato male, e molti per questo intervallo ebbono tempo da potere rimediare a’ fatti loro; nondimeno coloro ch’aveano l’animo e la mente sollicita a rimanere col bastone della parte, per potere premere gli altri cittadini, argomentarono a nuovi squittinì, e in questo e [50] in altre cose feciono tanto, ch’ogni uficio accresceva nuovo scandalo nella cittadinanza, come leggendo per li tempi si potrà trovare.

CAP. XXXIII. Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere Cortona.

Tornando a’ fatti di Cortona, i Sanesi ch’aveano presa la difesa, e soldata la compagnia d’Anichino in Lombardia, e fattala valicare a Siena, e con alquanti loro soldati, a dì 18 del mese di marzo 1357, uscirono fuori con milleottocento barbute, e con gran popolo di soldo e del loro contado per andare a soccorrere Cortona, ch’era al tutto circondata e stretta da’ battifolli de’ Perugini; e andaronsene in su quello di Montepulciano, e ivi stettono quattro dì. E in questo tempo i Perugini per recarsi più al sicuro, sentendosi presso l’oste de’ Sanesi, arsono il battifolle da Camuccia; e quelli di Cortona, sentendosi presso il soccorso, e ch’e’ Perugini per tema aveano arsa la bastita da Camuccia, presono ardire, e subitamente popolo e cavalieri uscirono di Cortona, e assalirono il battifolle ch’era ad Alti sopra la città, e quello combatterono sì aspramente, che per forza il vinsono, e molti de’ difenditori uccisono e presono, gli altri si salvarono fuggendo al battifolle di Mezzacosta, e all’Orsaia. In questi medesimi dì messer Andrea Salimbeni, che guardava la rocca di Castiglioncello oltre al Noro, avea promesso di darla [51] a’ Perugini per fiorini tredicimila d’oro, i Perugini vi cavalcarono, e per lo trattato entrarono nel castello; il traditore per paura de’ consorti, o per altra provvisione de’ Sanesi, non volle dare la rocca a’ Perugini, onde poco appresso se ne partirono, e’ Sanesi ne presono la guardia, e trassonla di mano a messer Andrea.

CAP. XXXIV. Come si levò l’oste da Cortona.

I capitani dell’oste de’ Sanesi avendo fatto vista di valicare a Cortona contro all’oste de’ Perugini per la via dall’Olmo d’Arezzo, avendo innanzi segretamente provveduto loro cammino, subitamente si misono per lo contado d’Orvieto, e cavalcando sollecitamente, prima furono al ponte Cavaliere in sulle Chiane di là dal Castello della Pieve ed ebbonlo passato, ch’e’ Perugini se n’avvedessono; ed entrati in su quello di Perugia, entrarono senza contasto in uno castelletto de’ Perugini chiamato Piegaia; e nel borgo arsono alquante case, e valicarono innanzi alle taverne di Bertuccio, e di là se ne vennono a Panicale sopra il lago; e benchè potessono fare assai danno per lo paese, se ne temperarono, per non accrescere materia di maggiore odio co’ Perugini. Essendo l’oste de’ Sanesi appressata, senza mezzo delle Chiane o di fiumari, e bene in concio per combattere, e’ Perugini mal provveduti da riceverli alla battaglia e alla loro difensione, presono partito di partirsi dall’assedio [52] di Cortona per lo meno reo; e in quella notte fortificarono il battifolle da Mezzacosta, e arrosonvi gente alla guardia, e tutti gli altri battifolli abbandonarono, e partironsi da campo popolo e cavalieri assai vergognosamente, e ridussonsi in certe loro castella più vicine. La gente de’ Sanesi scesono la mattina in sul piano del lago, e colle schiere fatte se ne vennono all’Orsaia, e non trovandovi i nemici, si posarono quivi il sabato santo a dì 30 di marzo 1358, e in Cortona misono quella gente a cavallo e a piè che vollono con ogni altro fornimento compiutamente; e appresso il dì della Pasqua si tornarono all’Olmo, e appresso se ne vennero a Torrita in su il loro terreno, sani e salvi senza alcuno contasto. E per questo modo fu libera Cortona dall’arroganza de’ Perugini per le mani de’ Sanesi.

CAP. XXXV. Di novità di Perugia per detta cagione.

Venuta la novella a Perugia come la loro oste con vergogna s’era levata, e Cortona s’era fornita, il popolo si levò a romore e presono l’arme, e averebbono morto Leggiere d’Andreotto loro cittadino, e motore di questa guerra e capitano dell’oste, perch’egli avea abbandonato a’ Sanesi il campo dall’Orsaia, se non ch’e’ si partì, e cessò il furore; e racquetato il bollore, egli, come molto pratico e astuto, fece mostrare a’ rettori del comune, come per lo migliore s’erano [53] ridotti in più salvo luogo; e andando di notte ad alcuni suoi confidenti de’ rettori, tanto adornò sue parole, che le sapea ben dire, e tanta suasione fece di larghe promesse da sè e da’ conestabili de’ cavalieri di far tosto la vendetta, e di recare onore al comune de’ loro nemici, che fu rimandato nell’oste da capo con più cavalieri, e con maggiore forza di masnadieri e d’altro popolo. E per fornire questo, atandoli lo sdegno già conceputo de’ Perugini contro a’ Sanesi, catuno si sforzò a servire il comune di danari, e accolta gente d’arme, chiamarono per capitano di guerra Smeduccio da Sanseverino, con grande animo di volersi vendicare de’ Sanesi. Lasceremo alquanto questa materia de’ due comuni, che catuno si provvede, e diremo dell’altre cose che prima ci occorrono a raccontare.

CAP. XXXVI. Di una gran festa fe’ bandire il re d’Inghilterra.

Il re Adoardo d’Inghilterra avendo fatta concordia, e lasciato di prigione il re David di Scozia suo cognato, si pensò di volere fare pace col re di Francia, la quale avesse principale movimento dalla sua persona. E per fare questo, fece bandire in Francia, in Fiandra, in Brabante, in Irlanda, nella Magna, in Iscozia e altri reami, una solenne festa di cavalieri della Tavola rotonda alla Sangiorgio d’aprile del detto anno; facendo ogni maniera di gente sicura in suo reame, [54] e offerendo arme, cavalli, e arnesi a ogni cavaliere che alla festa venisse, e appresso le spese a chi fare non le potesse; e ancora a tutta gente d’arme per loro, e chi per loro servigi venisse, ogni cosa che loro bisognasse per loro vita, e per far prove di loro cavallerie. Perchè molta gente, udito il bando, si mise in assetto per esservi al tempo, chi per mostrare di sua virtù, chi per vedere.

CAP. XXXVII. Come l’armata del comune di Firenze venne a Porto pisano.

Addietro narrato avemo il malvagio movimento de’ Pisani per levare la franchigia a’ Fiorentini di loro mercatanzie, e come per la detta cagione i Fiorentini del tutto partirono da Pisa, e gli altri mercatanti forestieri che con loro trafficavano, aveano fatto porto e Talamone; e come i Pisani per levare il detto porto, con favore di messer Simone Boccanegra doge di Genova amico de’ Pisani, perchè l’aveano ricevuto e favoreggiato quando fu sposto doge, con otto galee impedivano il mare, il perchè mercatanzie nè uscire nè entrare poteano in Talamone. I Fiorentini di ciò aontati pativano disagio e dannaggio, piuttosto che riconciliarsi co’ Pisani, essendo di ciò richiesti e per li Pisani e per lo detto doge di Genova a loro richiesta, offerendo ogni franchigia e ogni vantaggio ch’e’ Fiorentini volessono domandare. Onde seguitò, che i Fiorentini pertinacemente [55] seguitando, e perseverando nel loro proponimento, non avendo al gran costo rispetto ma all’onore del comune, segretamente feciono armare in Provenza dieci galee, e quattro nel Regno, le quali dieci galee, a dì 18 del mese di marzo detto anno, si mossono di Provenza cariche, e se ne vennono levate l’insegne del comune di Firenze in Porto pisano, e ivi stettono per alquanti giorni, facendo fare la grida sotto piccolo nolo, che chi volesse mandare mercatanzie a Talamone in sulle galee del comune di Firenze le potesse sicuramente caricare, e ’l simile feciono in Foce; e d’indi si partirono, e scaricarono a Talamone; onde molte barche e legni v’apportarono con roba d’ogni parte, vedendo il mare sicuro. Le quattro galee del Regno in questi medesimi dì vennono da Napoli, e incontrarono una galea e uno legno di Pisani cariche di mercatanzia ch’andavano a Corneto, e presonle, e fecionle scaricare a Talamone senza fare loro altro danno; d’indi se n’andarono a Porto pisano per lo modo dell’altre, e appresso in Provenza a caricare. Appresso di questo i Fiorentini lungamente ritennero cinque galee provenzali, che stettono a guardia del mare il più sopra Porto pisano, sicchè ogni legno e ogni barca liberamente caricava a Talamone. I Pisani avendo fatta la loro pruova, e rimasi beffati di loro pensiero, con loro usata astuzia mandarono il bando, che ogni uomo potesse liberamente navicare a Talamone colle sue mercatanzie; nè già per questo i Fiorentini non lasciarono le loro galee della guardia. Avemo questa materia forse più stesa che non [56] richieda al fatto del nostro trattato, ma la novità del fatto ci scusi; sì perchè è la prima armata che mai nostro comune facesse in mare, e sì per mostrare il fermo proponimento del nostro comune; il quale nè la disordinata spesa, che in poco tempo passò i sessantamila fiorini, nè danno, nè sconcio di mercatanti, nè le grandi profferte de’ Pisani e d’altri per loro, muovere di sua perseveranza poterono. L’animo del nostro comune si vide netto e intero per fare de’ loro errori ricredenti i Pisani, dimostrando, che senza loro e il loro porto i Fiorentini potevano fare; e appresso conobbono, che niuna altra guerra tanto danno e abbassamento poteva loro fare, quanto quella che si cominciava a praticare: ancora perchè sottilmente cercando, quanto allo stato de’ detti due comuni, la materia ha più dentro che non mostra di fuori, e però pensiamo d’essere scusati se di ciò avessimo soperchio parlato.

CAP. XXXVIII. Come il popolo di Parigi cominciò scandalo.

Il governamento del reame di Francia, come è detto addietro, era ridotto a tre stati, cioè prelati, baroni, e borgesi, i quali tenevano il consiglio, e diliberavano quello voleano che nel reame si facesse, e il Delfino vi consentiva. Durando il detto ordine, del mese di marzo detto anno, avendo il proposto di Parigi con suoi confidenti presa baldanza dell’abbacinato popolo per lo tagliamento [57] fatto de’ consiglieri del Delfino, avendo nel suo segreto il trattato col re di Navarra, si sforzava con astuzia mostrare a’ borgesi di Parigi, che per questi fatti s’intendea più a singulare profitto che a comune bene, e che la pace e l’accordo del re d’Inghilterra se ne dilungava, e che il re loro signore n’era tradito. E sotto questo dimostramento col favore del popolo ruppe quell’ordine, e recò il governamento di Parigi alle mani de’ borgesi, schiudendone prima i baroni, e poscia i prelati. E per esempio di costoro così feciono l’altre ville di Piccardia, ed altre provincie del reame. E qui cominciò l’odio da’ gentili uomini al popolo, che poi fece grande novità nel reame, come appresso si potrà trovare. Il Delfino di ciò mal contento, e non potendo riparare, si partì da Parigi, e andossene ad Orliense.

CAP. XXXIX. Come i Perugini tornarono a oste a Cortona.

Tornando alla nuova guerra de’ Perugini e’ Sanesi, ed essendo molto faticato il comune di Firenze per suoi ambasciadori a Perugia per mettere accordo e pace tra loro, disponendosi i Sanesi liberamente alla volontà del comune di Firenze, i Perugini per loro alterigia mai si vollono dichinare ad alcuno accordo, parendo loro ch’e’ Sanesi gli avessono troppo oltraggiati; non volendosi ricordare dell’ingiuria loro fatta di Montepulciano, e d’altre cose ond’eglino aveano [58] assai villaneggiati i Sanesi, e però ne’ loro consigli usarono atti e parole non belle contro gli ambasciadori del comune di Firenze, non lasciandogli dire, sufolando, e picchiando le panche quando faceano loro diceria; e nella città i loro famigli udivano ontose e vituperose parole sovente dall’indiscreto popolo minuto. Ma per l’affezione ch’aveva il nostro comune a quello, e al mettere pace tra’ suoi vicini, ogni cosa faceva dolcemente comportare. E stando ne’ detti ragionamenti male intesi, i Perugini accolsono gente d’arme e tornarono a Cortona, e fortificato ch’ebbono e rinfrescato l’assedio, a dì 8 d’aprile valicarono in su quello di Montepulciano con milleottocento barbute e grande popolo, e posono loro campo a Greggiano. I Sanesi con loro cavalleria si stavano in Torrita con milleseicento barbute, e masnadieri e popolo assai, e nella terra e nelle circustanze assai erano sicuri, se poca provvedenza e matta baldanza non li avesse sconci, come appresso diviseremo.

CAP. XL. Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia.

Parendo, come detto è, a’ Perugini avere ricevuto vergogna e oltraggio da’ Sanesi, per vendicare loro onta li mandarono a richiedere di battaglia: e per avventura Anichino di Bongardo capitano de’ Tedeschi fu il primo richiesto, il quale allora era nel borgo di Torrita. Esso vanaglorioso [59] prosuntuosamente fe’ tantosto sonare li stromenti, e con gran festa prese il guanto della battaglia di suo proprio, facendo doni al messaggio. Ma dopo il fatto s’avvide che troppo avea fallato di non avere di sì gran fatto preso consiglio co’ cittadini di Siena, ch’erano conducitori dell’oste e suoi consiglieri, e però ritenne il messo, ed entrò nella terra dov’erano i suoi compagni, e loro disse quello ch’avea fatto. Ai Sanesi molto dispiacque, conoscendo il pericolo; e per ricoprire il fallo del loro capitano, feciono aggiugnere alla risposta, che il giorno fosse fra gli otto dì che seguivano. I Perugini avendo questa risposta, e sapendo il modo che per lo capitano prima era stato tenuto, e appresso per lo consiglio, compresono chiaramente ch’elli non erano acconci a torre battaglia, onde diliberarono di trarsi innanzi, e richiederli colle schiere fatte in vergogna di loro avversari: e ciò facendo, senza prendere battaglia, pensavano avere purgata loro vergogna, e tornarsene addietro; stimando, che con loro onore poi, mediante il comune di Firenze, si potesse venire a concordia e a pace. Ma forse la superbia dell’uno popolo, e l’arroganza dell’altro e presunzione, non avea merito d’avere riposo; uscì l’impresa ad altra fine che per loro non si stimava.

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CAP. XLI. Come furono sconfitti i Sanesi da’ Perugini.

Come detto è, il seguente dì a di 10 del mese d’aprile detto anno, i Perugini, come saviamente aveano diliberato e provveduto, si partirono da Greggiano, dirizzandosi con tre schiere fatte di loro verso Turrita, e strinsonsi infino a piè della terra nel piano, e cominciarono a trombare e richiedere i nemici di battaglia. I Sanesi vedendo i loro nemici venire baldanzosi colle schiere fatte n’ebbono sospetto, e per non avere quella vergogna, presono consiglio d’armarsi, e d’uscire fuori del castello a loro vantaggio in luogo ch’e’ non potessono essere sforzati, e ivi starsi, e rendere suono per suono, e per parole parole senza combattere, non pensando potere essere tratti a battaglia per la fortezza del luogo, e per le spalle della terra. Ma non sono nell’uomo le vie sue, ma nella provvidenza di Dio, la quale sovente dispone oltre agl’ingegni e consigli degli uomini; e così avvenne a questi due popoli, e a ciascuno fuori di sua opinione o pensiero. Perocch’e’ Sanesi fidandosi, come è detto, della fortezza del luogo e delle spalle della terra, uscirono fuori all’inviluppata, e con poco ordine, e senza il loro capitano Anichino di Bongardo, il quale, o per sdegno preso della folle accettagione da’ Sanesi non esaudita, o per altra pazzia, o malizia, co’ suoi Tedeschi non prendea arme. Intanto da quaranta cavalieri scorridori di quelli de’ Sanesi [61] si misono di costa in su un collicello, ch’era in mezzo tra l’una e l’altra oste, per vedere con loro sicurtà il reggimento de’ nemici loro; e ciò veduto per li Perugini, si mossono di loro schiera circa a cento cavalieri, e per traverso giunsono sopra i detti scorridori de’ Sanesi, e loro quasi improvviso assalirono; perchè non potendo sostenere il soperchio, si ritrassono alla schiera. Gli Ungheri arditi e vogliosi gli seguitarono, e tanto avanti trascorsono, che a salvamento ritrarre non si poterono; e’ Perugini non vedendo senza grande pericolo poterli soccorere, gli avevano posti per abbandonati, ma il loro capitano disse: Facciamci innanzi colle schiere, sicchè s’e’ si vogliono raccogliere noi li possiamo più da presso ricevere; e così seguette. I Sanesi vedendo muovere le schiere verso loro, non avendo pensiere di combattere, e temendo di non esservi recati per forza, non essendo con loro Anichino colla sua gente, volsono le insegne, e tornaronsi in Torrita. I Perugini veggendo che sconciamente e per viltà si partivano, montarono in ardire, e misonsi innanzi; e non trovando contasto, in fino alle barre del borgo di Torrita giunsono baldanzosi, e cominciarono con grande romore ad assalire il borgo. Veggendo ciò Anichino, colla sua gente disordinatamente si mise di fuori tra’ nemici, e di presente fu preso col maliscalco dell’oste e con cinquanta altri cavalieri, perchè di tradimento mala boce li corse. Preso il capitano e la sua gente fuori del borgo, e rotta, i Perugini assalirono il borgo; e scesi molti cavalieri de’ loro a piede, e trovando al riparo [62] lieve contasto, per forza lo presono; e più avanti passando messer Cagnuolo da Coreggio soldato de’ Perugini con sessanta cavalieri per entrare nel castello, i Sanesi uscirono per costa, e tutti a man salva li presono. Allora si ritrassono i Perugini e rubarono e arsono il borgo, e tornaronsi co’ prigioni, e colla preda e colla non pensata vittoria a Greggiano, portandone bandiere assai de’ conestabili ch’aveano trovate negli alberghi. Nella detta battaglia non ebbe oltre a cento uomini morti tra dall’una parte e dall’altra, ma assai cavalli morti e fediti, e più di quelli de’ Perugini. I Sanesi rotti vilissimamente, venendo la notte, distribuirono i cavalieri alla guardia delle loro terre, e scrissono al comune loro, che se di subito non s’avesse gente nuova al riparo, che il loro contado sarebbe arso e guasto da’ Perugini.

CAP. XLII. Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta.

I Sanesi udita la mala novella gran dolore ne presono, sì per la vergogna, e sì perchè credendosi avere pace co’ novelli nemici loro, per l’arroto oltraggiati, si vedevano nella guerra rifermi, e sentivano ch’e’ Perugini per loro crescere vergogna erano per venire infino alle loro porte, e non vedeano ciò potere vietare; che perchè il comune di Firenze avesse d’ogni parte suoi ambasciadori, misurato mezzo trovare non vi poteano, per la disordinata superbia e dell’uno e [63] dell’altro comune, onde si disposono di fare danari per diversi modi, quanti più ne potessono ragunare, e feciono ambasciadori a’ signori di Milano, e mandarono alla compagnia ch’era in Lombardia per conducerla contro a’ Perugini, e aspettando questo, si ritennono alla guardia delle loro terre murate, e sgombrarono il contado. I Fiorentini non poterono ritenere i Perugini, ch’e’ non volessono per loro arroganza, sentendosi il favore della fortuna, ed essendo nel caldo della vittoria, andare infino alle porte di Siena, come appresso racconteremo.

CAP. XLIII. Come i conti da Montedoglio presono e perderono il Borgo.

Sentendo i conti di Montedoglio, che la maggior parte degli uomini del Borgo a Sansepolcro erano andati in aiuto de’ Perugini, e che per tanto, la terra era rimasa sfornita di gente da guardia, avvisato loro tempo, nel quale si credettono agevolmente prendere la terra e recarla alla loro signoria, a dì 5 del mese d’aprile detto anno, dato ordine d’avere gente di soccorso alla loro impresa, cominciarono con numero di seicento fanti, co’ quali si misono nella terra, e la corsono senza contasto, e in parte rubarono. I terrazzani spauriti per lo subito assalto si ridussono nel cassero, e prestamente a’ loro amici e vicini il fatto feciono assapere, domandando soccorso, e nell’oste de’ Perugini loro stato feciono [64] sentire; onde i castellani v’andarono di presente per comune con tutta loro possa, ed ebbono l’entrata per lo cassero. I conti conoscendosi impotenti a potere tenere la terra contro a tanti e tali nemici già venuti al soccorso, e a quello che speravano che tosto dovesse potere venire, senza indugio di tempo, non s’affidarono di fare lunga dimoranza nella terra, ma l’abbandonarono il secondo dì che presa l’aveano, portandosene quelle cose sottili che poterono, e ciò non senza danno della codazza di loro gente, che ne fu morta e presa.

CAP. XLIV. Come il re d’Inghilterra andò a vicitare il re di Francia, e annunziarli la pace.

A dì 14 d’aprile, essendo bandita la gran festa che il re d’Inghilterra dovea fare alla Sangiorgio, il re mandò innanzi a Guindifora, ov’era prigione il re di Francia, e ’l figliuolo, e altri baroni di Francia, messer Lionello suo figliuolo a dirli, che il re suo padre volea venire a fare con lui colezione. Il re di Francia il ricevette a gran festa, e tennelo la mattina con seco a desinare; appresso mangiare il re d’Inghilterra fu là, e il re di Francia gli si fece incontro, e ricevettonsi insieme con molta reverenza, e dopo molta contesa di mettere innanzi, e onorare l’uno l’altro, il re di Francia lo prese di pari, e andarono a bere insieme con gran festa e allegrezza; di che uno ministriere festeggiando [65] disse: Mala morte possa fare chi di voi sturba la pace: il re d’Inghilterra rispose al motto, che già per lui non rimarrebbe, e che coll’aiuto di Dio tra loro sarebbe buona pace; e invitò il re di Francia alla festa ch’avea ordinata alla Sangiorgio, e il re di Francia accettò, e fece suo sforzo per potervi comparire magnificamente come a lui s’appartenea; dopo ciò il re d’Inghilterra preso il congio si tornò al suo ostiere.

CAP. XLV. Come i Tarlati si feciono accomandati de’ Perugini.

Montata la pompa de’ Perugini per la nuova vittoria, segretamente teneano trattato co’ Tarlati d’Arezzo, e ricevutigli in loro protezione e accomandigia con mala intenzione, pensando coll’aiuto de’ segreti amici, e per furto e per ingegno rimetterli in Arezzo per averne la signoria, senza scoprirsi contro a’ Fiorentini, cadendo il bisogno del borgo come è detto, e richiesti furono i Tarlati da’ Perugini, ed elli s’apparecchiarono prestamente con tutta loro forza d’andare a soccorrere la terra: non fu bisogno; perocchè i castellani, come di sopra dicemmo, aveano fatto il servigio, e liberata la terra. Allora si scoperse, e fu palese che i Perugini senza richiesta de’ guelfi di Toscana, o consiglio, s’erano collegati co’ Tarlati, e gli aveano ricevuti loro accomandati, e promesso di rimetterli in Arezzo, [66] onde i Fiorentini e gli Aretini forte se ne turbarono, e cominciossi a fare in Arezzo di dì e di notte buona e sollecita guardia coll’aiuto e consiglio de’ Fiorentini, sicchè cortesemente fu rotta la speranza a’ Perugini e a’ Tarlati di rivolgere lo stato d’Arezzo. Nel quale trattato non si trovò messer Luzzi figliuolo naturale di messer Piero Saccone, il quale per sdegno ch’avea co’ suoi consorti s’accostò a’ Sanesi, e non volle essere co’ Perugini, e apertamente si mescolò nella guerra contro a loro.

CAP. XLVI. D’una folgore percosse il campanile de’ frati predicatori di Firenze.

Nel detto anno, a dì 20 d’aprile, nell’ora quasi di mezza notte, il tempo ch’era sereno si turbò con disordinata e subita pioggia, e una folgore percosse nella punta del campanile de’ frati predicatori, dov’era un agnolo di marmo di statura in altezza di quattro braccia con grandi alie di ferro, il quale volgea sopra una grossa stanga di ferro, mostrando col braccio steso il segno de’ venti, la quale figura in molte parti spezzò, e la stanga volta in arco volse con una gran corteccia del campanile, e assai di lontano gittò le pietre, spargendole: e discesa nella maggiore cappella in più parti la incese, e abbronzò le figure, e il simile fè nel dormentorio senza far danno a persona, vituperando le cose pompose. Stimossi per molti che ciò non fosse senza singolare dimostramento [67] d’occulto giudicio, considerato che i frati del detto luogo disordinatamente passando l’umiltà della regola loro data da san Domenico, i loro chiostri e’ dormentori sono pomposi, vezzosamente intendendo alle delicatezze e piaceri temporali. E di ciò accorgendosi il venerabile maestro Piero degli Strozzi del detto ordine, uomo di santa vita, considerando che ne’ suoi giorni tre volte il detto caso era avvenuto, non volle che figura niuna più si ponesse nel detto luogo, ma armò la vetta del campanile contro la forza delle folgori con reliquie sante. Continovando alla predetta materia, le simili cose ne’ detti giorni occorsero infino al mese di luglio, che spesso cadde grandine sformata nel nostro contado, e nell’altre parti della Toscana e della Romagna con grandissimi danni di frutti, e di bestiame e d’alquante persone: nel nostro contado cadde in grandezza di due tanti d’un uovo di gallina: altrove udimmo che cadde vie maggiore.

CAP. XLVII. Della pomposa festa che si fè in Inghilterra in Londra.

Avendo il valoroso Adoardo re d’Inghilterra promessa pace al re di Francia, come di sopra dicemmo, e ordinato alla Sangiorgio d’aprile la solenne e vana festa de’ cavalieri erranti alla città di Londra, grandissima quantità di baroni, e di cavalieri, e di nobili uomini d’arme del reame s’accolsono per essere alla festa. I baroni [68] come meglio poterono, ciascuno bene montato, e con nobili armadure e sopravveste, e insegne vaghe e maravigliose, e le donne vestite di ricchi drappi, e ornate di ghirlande, fermagli e cinture di perle e d’altre pietre preziose di gran valuta, ciascuna come meglio potè. Nella città di Londra era per tutto apparecchiato a ricevere i forestieri onoratamente, ciascuno secondo il grado suo. Quivi rinnovellandosi l’antiche favole della Tavola rotonda, furono fatti ventiquattro cavalieri erranti, i quali seguendo i fallaci romanzi che della vecchia parlano, richiedeano, ed erano richiesti di giostra e battaglia per amore di donna. E intorno alla piazza erano levati incastellamenti di legname con panche da sedere, coperti di ricchi drappi a oro, e forniti di dietro di ricche spalliere, dove il re e le reine e altre nobili dame stavano a vedere; e davanti al re veniano dame e cavalieri con finti e composti richiami di gravi oltraggi, e differenti l’uno dall’altro, domandando l’ammenda del misfatto, o battaglia, e il re discernea la giostra, e quale era vinto perdeva sua dama: le quali facevano alle loro giostre cavalcare, quasi come presente premio di colui che vincesse: le conquistate erano di presente menate a corte, e assegnate alla reina come gaggio del vincitore: e altre molte cose simili a queste vane e pompose, e piene di tante inveccerie, che forse a Dio ne dispiacque. Le mense furono poste ornatissime, vezzose e dilicate, con molte e varie vivande. Alle prime mense fu posto sopra tutte quella della reina vecchia d’Inghilterra, appresso quella del re di [69] Francia, alla quale cinque figliuoli del re d’Inghilterra servirono in su grandi destrieri; e il re d’Inghilterra medesimo, ch’era all’altra tavola con quello di Scozia, alcuna volta si levò dalla mensa, e andò a vicitare quella del re di Francia. Questa solennità di festa si coprì sotto il titolo della pace, e per tanto alcuna scusa ricevette della disordinata burbanza e vanità. E nota lettore, che le parole del savio che dicono, gli estremi dell’allegrezza sono occupati dal pianto, si verificarono nel re d’Inghilterra, a cui la moria, che poco appresso seguette, tolse i figliuoli con molto dolore e tristizia.

CAP. XLVIII. Come i Perugini cavalcarono i Sanesi fino alle porti di Siena.

Smeduccio da Sanseverino della Marca, nuovo capitano di guerra de’ Perugini, come giunse nell’oste, di presente con duemila cavalieri e con gran numero di gente da piè si dirizzò verso Chianciano, e lo combatterono, e arsone i borghi. Appresso entrarono in Valdorcia, e arsono Bonconvento, e corsono infino al Bagno a Vignoni, facendo danni assai maggiori in vista che in fatto, ardendo di rado allora capanne e altre vili e disutili cose, e a dì 29 di aprile cavalcarono verso Siena, e passate le forche assai di presso a Siena fermarono il campo; e coll’usate burbanze toscane alquanti cittadini di Perugia ivi si feciono cavalieri, e’ loro scorridori passarono infino a porta nuova: nella [70] quale per matta baldanza entrarono due di loro, de’ quali l’uno vi fu morto, e l’altro rimase prigione. Sopraggiugnendo la sera, co’ prigioni che presi aveano in numero di centocinquanta si ritrassono a Isola, e il seguente dì ripigliarono la via d’Asciano, e si ritornarono a Perugia: per la qual cavalcata lo sdegno oltre a modo a’ Sanesi crebbe, di che ne seguì quanto appresso diviseremo. È vero, che come uso di guerra sovente dimostra, i Perugini non ebbono netta del tutto l’avventurosa vittoria, perocchè sentendo il signore di Cortona che tutto lo sforzo da cavallo e da piè era cavalcato a oltraggiare i Sanesi, veggendosi libero il tempo da potere danneggiare i nemici, nol volle perdere, e con dugento cavalieri mandò il popolo di Cortona, e assai danno feciono intorno a Castiglionaretino e a Montecchio, e arsono presso al lago la Valdecchio; e correndo infino all’Orsaia, presono due de’ cavalieri novelli de’ Perugini, che per quella via poco accortamente si tornavano a casa, e a salvamento si tornarono a Cortona con molta preda, e circa a dugento prigioni. La preda e il danno fu grande, perchè avendo a vile i Cortonesi, con baldanzosa sicurtà sprovveduti furono sopraggiunti.

CAP. XLIX. Come il legato del papa ripuose l’assedio a Forlì.

L’ultimo dì del detto mese d’aprile, l’abate di Clugnì legato del papa, avendo accolta molta [71] gente d’arme, fece bandire, che qualunque cittadino o forestiere volesse uscire di Forlì, sarebbe ricevuto benignamente da lui e dalla sua gente, e perdonatogli l’offesa di santa Chiesa, e ricomunicato. Per la qual cosa molti per più riprese se ne fuggirono al legato, e assai volte quelli che v’erano messi alle guardie delle mura se ne collavano a terra, e fuggivansi la notte a’ nemici. Il legato vi si ripuose ad assedio con grandissimo popolo, e con mille cavalieri al cominciamento. Il capitano e’ suoi cittadini pazzi di lui disperatamente, senza volere prendere accordo, attaccarsi alla pertinacia e alla durezza, disponendo di tenersi alle difese con grandissimo loro affanno e disagio.

CAP. L. Come i Provenzali feciono compagnia per vendicarsi di quelli dal Balzo.

Essendo molto assottigliata la compagnia di Provenza, i gentili uomini, ch’aveano lungamente ricevuto danno ne’ loro paesi, avendo preso sdegno sopra la casa del Balzo, e sopra quelli del Delfinato che l’aveano mantenuta loro addosso, si raunarono insieme più di ottocento cavalieri, e corsono sopra le terre di quelli del Balzo, e guastarono di fuori, e nel Delfinato feciono alcuno danno. E se il re Luigi avesse valicato di là, com’avea promesso loro, avrebbono fatte assai maggiori cose.

[72]

CAP. LI. Come si pubblicò la pace de’ due re.

Finita la pomposa e vana festa del re d’Inghilterra fatta a Londra, della quale di sopra abbiamo fatta menzione, poco appresso, a dì 8 del mese di maggio, il re di Francia e quello d’Inghilterra in pubblico parlamento feciono pace insieme, e abbracciaronsi e baciarono in bocca: e dissesi, che per buona concordia e buona pace il re di Francia lasciava al re d’Inghilterra la contea di Aghemme, e la Normandia, e la contea di Guinisi, con Galese e le terre che ’l re d’Inghilterra avea acquistate, e che il re di Francia, in fra la festa di tutti i Santi milletrecentosessantotto, dovea avere dati al re d’Inghilterra seicento migliaia di scudi vecchi, e il re Adoardo dovea con tutto suo sforzo riporre il re di Francia in signoria di suo reame. Onde ciò seguendo per fornire l’impresa, il re di Francia mandò messer Giovanni conte di Pittieri suo minore figliuolo, il quale era stato preso con lui in Linguadoca, a procacciare la moneta, con patto ch’alla festa di santo Dionigi dovesse tornare, e rimanere per stadico a Bologna sul mare, tanto che l’altre promessioni e convegne fossono fornite.

[73]

CAP. LII. Come il legato del papa pose due bastite a Forlì.

Di questo mese di maggio, vedendo il legato la durezza del capitano di Forlì e del popolo di quella città, che per niuno modo si disviava dal volere del capitano di Forlì, acciocch’e’ s’avvedessono, che senza abbandonare l’assedio la state e ’l verno, il legato era fermo di vincerli per forza, pose tra Faenza e Forlì una grande e forte bastita, ove mise quella gente a cavallo e a piè che bisognava, per tenere da quella parte stretta e assediata la città di Forlì; e appresso ne pose un’altra tra Forlì e Cesena al ponte a Ronco; e nondimeno il campo suo con l’altra oste pose presso alla città, e continovamente cercava d’assalire la terra il dì e la notte. E di tutto questo non parea che ’l capitano e’ Forlivesi si curassono niente, ma spesso il capitano colla giovanaglia di Forlì usciva della terra, e assaliva il campo, e ritornavasi contamente a salvamento.

CAP. LIII. Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo.

Lungamente era durato lo sdegno che il duca di Durazzo avea portato contro al re Luigi, parendoli male essere trattato da lui; e per questo modo guerra si nutricò nel Regno per la compagnia, [74] e poi per lo conte Paladino, e per gli altri baroni che teneano la parte del duca, di che il Regno era per tutto mal disposto, e’ ladroni multiplicavano, e non v’era paese nè strada che sicura fosse. Avvenne, che morto il conte Paladino e ’l fratello, i baroni cercarono di fare la pace tra’ reali, e il gran siniscalco sopra tutti v’adoperò tanto, che gli recò a buona pace. E del mese di maggio 1358 con gran festa, con tutti i baroni e gentili uomini di Napoli, desinarono insieme al vescovado, e cavalcarono per tutta la terra insieme. E incontanente s’ordinò e bandì, che tutti i forestieri uomini d’arme si dovessono partire del reame, e cominciossi a venire rassicurando il paese.

CAP. LIV. Come si partì la compagnia di Provenza.

Abbiamo innanzi narrato, come il re Luigi era costretto d’andare in Provenza per difenderla dalla compagnia che lungamente l’avea tribolata, e avea richiesti i baroni d’aiuto e i comuni di Toscana, e catuno s’apparecchiava di servirlo ove andasse la sua persona. Avvenne, che per le ribellioni che le comuni di Francia avevano fatte contro al Delfino duca di Normandia, primogenito del re di Francia, e contro agli altri baroni e gentili uomini del paese, i baroni col Delfino furono costretti di fare gente d’arme per la loro difesa, e per offendere le comunanze. E perocchè la compagnia era nutricata [75] e creata al suo caldo e degli altri baroni, per averli presti al bisogno, e mantenerli alle spese de’ Provenzali di qua dal Rodano; a questo bisogno chi mandò per l’una parte e chi per l’altra: e così si partì di Provenza una parte della detta compagnia. E il re Luigi per questa cagione, e perchè mal volentieri si partiva del Regno, sostenne l’andata di Provenza.

CAP. LV. Come i signori di Milano posono l’assedio a Pavia.

I signori di Milano, per la grande entrata ch’aveano di loro terre in que’ tempi erano di gran podere, sicchè perchè alcuna volta perdessono loro gente d’arme, di presente per la forza del danaro erano riforniti di nuovo, e possenti a tornare in campo meglio che prima. E però non ostante ch’avessono l’oste grande sopra Mantova, e fornissono contro al marchese di Monferrato la guerra di Novara e di Vercelli, essendo la compagnia del conte di Lando, come detto avemo, in aiuto a’ Lombardi collegati, feciono di nuovo grande oste, e andarono a porre l’assedio alla città di Pavia del mese di maggio, ove aveano più di duemila cavalieri e pedoni, e popolo assai per questi assedi. E per mantenere le grandi spese consumavano le forze de’ collegati, non ostante che spesso negli assalti la loro gente ricevessono danno e vergogna; e ciò addiveniva, perchè i loro soldati tedeschi aveano [76] ricetto, e parte di loro cavalcatori nella compagnia, sicchè contro a loro non si combatteano lealmente, per non disfare la detta compagnia; e avvedutisi i signori di Milano per più volte di questo, e trovatisi con diecimila cavalieri a loro soldo, e mille di quelli della compagnia gli cavalcavano presso a Milano, non ostante ch’avessono vantaggio contro a’ loro avversari, per questa cagione cominciarono a dare gli orecchi al trattato della pace, la quale poi si fornì, come al suo tempo racconteremo.

CAP. LVI. Come i Perugini afforzarono l’Orsaia.

Di questo mese d’agosto, i Perugini per potere con meno gente d’arme e con minore spesa mantenere l’assedio a Cortona, cominciarono ad afforzare di mura e di fossi l’Orsaia per farvi una terra nuova, sicchè il verno come la state potessono tenere assediati i Cortonesi dal lato del piano. I Cortonesi per questo poco si curavano, perocchè la montagna era in loro balía, e aveano gente a cavallo e a piè che spesso faceano risentire i loro nemici.

CAP. LVII. Come si fece la pace da’ signori di Milano a’ collegati.

Quasi per spazio di tre anni era continovata la guerra da’ signori di Milano a’ collegati Lombardi, [77] nella quale erano i signori di Mantova, di Ferrara, e di Bologna, e il marchese di Monferrato, Genova, e Pavia; nelle quali battaglie, ribellioni e presure d’assai città e castella erano fatte, com’addietro abbiamo narrato, con vari avvenimenti di guerra e di fortuna e d’una e d’altra parte; e come che la possanza de’ signori di Milano fosse grandissima, pure aveano perdute la maggior parte delle terre che tenere soleano nel Piemonte, e Novara, Como, Pavia, e Genova, e Savona, e con la Riviera e di levante e di ponente, e molte altre castella in quelli paesi; ma tutto che queste terre fossono loro tolte, per loro entrata e potenza conduceano gente d’arme, e nuove osti faceano, avendo più forza l’un dì che l’altro, almeno in apparenza. Per le quali cose i collegati straccati dalle gravezze delle spese incomportabili a loro, con gran pericolo e pena sosteneano la guerra, avendo nel segreto grande appetito di pace; dall’altra parte i signori di Milano s’erano trovati più volte ingannati dalla gente d’arme di lingua tedesca, che avendo essi forza di novemila in diecimila cavalieri, mille o duemila barbute della compagnia per più riprese, come mostrato abbiamo, correano infino alle porte di Milano, e stavano a oste nel loro contado, e non trovavano Tedeschi che contro a loro facessono resistenza, che tutti teneano parte nella compagnia, e i cassi da’ soldi entravano in quella, e per questa cagione s’aveano vedute rubellare molte terre; per la qual cosa anche eglino desideravano concordia. Onde essendo mezzano e sollicitatore della [78] pace messer Feltrino da Gonzaga de’ signori di Mantova, la pace si fornì, e palesossi per tutto all’uscita del mese di maggio, gli anni 1358, con certi patti e convegne che poco vennono a dire, come appresso si dimostrò per lo fine.

CAP. LVIII. Come s’abbattè i palazzi di quelli di Beccheria.

Essendo cacciati da Pavia quelli della casa di Beccheria, come a verno addietro narrato, frate Iacopo Bossolaro fece sua predicazione, alla quale s’adunò tutto il popolo di Pavia uomini e donne; e con belle e ornate parole mostrò, che non era bastevole avere cacciati di Pavia i tiranni, se a loro non si togliesse la speranza del tornare, la quale loro durerebbe mentre che le loro case e’ palagi fossono in piè; e che per tanto a lui necessario parea d’abbatterli, e fare piazza del sito dov’erano. Fornita la predica, tutto il popolo si mosse, e volonterosamente corse ad abbattere le dette case e palagi: e in picciolo tempo non vi lasciarono pietra sopra pietra, che non portassono via; e il luogo recarono a piazza, secondo che il frate predicando avea consigliato. E fu ciò cosa mirabile, che tutti, maschi e femmine, piccoli e grandi vi furono per maestri e manovali, e a modo delle formiche ciascuno ne portò via la parte sua.

[79]

CAP. LIX. Di molte paci e altre cose notevoli fatte.

Gli antichi Romani al tempo del popolo gentile aveano un tempio nella città consacrato a Giano, il quale nel loro errore faceano Iddio dell’anno. E per tanto il primo mese dell’anno a questo loro Iddio era consacrato, e da lui era denominato Gianuaro, che noi volgarmente appelliamo Gennaio. Questo tempio di Giano, quando stava aperto era segno di guerra, e quando stava chiuso era segno di pace. Di che tornando alle favole antiche, e all’usanze antiche della magnificenza romana, questo nostro anno dire si potrebbe quello della pace: perchè in esso fu fatta e fermata la pace dal re d’Inghilterra al re di Scozia, e lasciato fu di prigione il re David, che carcerato il tenea quello d’Inghilterra. Ancora si fè la concordia dal re di Spagna al re d’Araona, e quella dal re d’Inghilterra al re di Francia, il quale era suo prigione, benchè per li patti rimanesse sospesa. E fecesi la pace dal comune di Vinegia al re d’Ungheria; e quella de’ signori e tiranni di Lombardia, che di sopra avemo raccontata; e quella dal re Luigi al duca di Durazzo; e quella da’ Perugini a’ Sanesi. E più ad aumento di pace in questo anno fu abbondanza di tutti i frutti della terra. È vero, che furono nel verno malattie di freddo, e nella state molte febbri terzane, e semplici e doppie, sicchè se gli uomini fer pace delle loro guerre, non dimanco gli elementi per [80] li peccati sconci degli uomini loro fecero guerra. Nella quale fu da notare, che come l’anno passato la Valdelsa, e il Chianti, e il Valdarno furono di molte infermitadi gravate e morie, che così nel presente, che fu mirabile cosa. E perchè per queste paci fossono liete molte provincie, il reame di Francia in questi giorni ebbe grandi e gravi commozioni di popoli contro a’ gentili uomini, che molto guastarono il paese, e tre gran compagnie di gente d’arme settentrionali conturbarono forte Italia e la Provenza. Il perchè appare, che universale pace non può essere nel mondo, come fu al tempo che ’l figliuolo di Dio umana carne della Vergine prese.

CAP. LX. Come la compagnia del conte di Lando venne in Romagna.

Incontanente che la pace de’ Lombardi fu fatta, la compagnia del conte di Lando, ch’era stata contro a’ signori di Milano per condotta de’ collegati, com’addietro abbiamo narrato, si partì di quei paesi; e all’uscita del mese di giugno, avendo per tutto il passo aperto, e la vittuaglia da’ paesani, con licenza del signore di Bologna se ne vennono a Budrio in sul Bolognese; e ivi stettono alquanto di tempo prendendo loro rinfrescamento, dando di loro usati aguati e improvvisi assalti assai di tema a tutti i Toscani, e al legato del papa in Romagna, e così al Regno, aspettando in quel luogo civanza di condotta, e [81] danari da chi con loro si volesse patteggiare e comporre.

CAP. LXI. Come il re Luigi riebbe il castello di Parma.

Narreremo in questo capitolo cosa che non pare degna di memoria, nè certo è, se non in, tanto per quanto per essa si può dimostrare la debolezza in que’ giorni del famoso reame di Puglia. Certi ladroni e rubatori di strade nel detto regno in questi giorni faceano compagnia, e aveano preso per loro ridotto un castelletto tra Serni e Castello da mare che si chiama Parma: e ivi s’erano adunati, e rubavano le strade e’ paesi che da loro non si volieno rimedire. E aveano già tanto fatto, che circa a centoventi di loro erano montati a cavallo, e armati a guisa di cavalieri, e spesso correano fino a Napoli, e per Terra di Lavoro; e maggiore guerra e danno faceano a’ paesani, che quelli della gran compagnia quand’erano nel Regno, perocch’e’ sapeano i passi e le vie del paese, e conoscevano i massari e’ paesani da cui si poteva trarre il danaro. E così teneano in mala ventura e angoscia tutto il paese, che niuno osava andare per cammini senza buona scorta. E per questa cagione il re fece gente d’arme, e ristrinseli nel detto castello, e assediolli: e in fine vedendo i detti ladroni che non poteano tenere il castello, l’abbandonarono, e fuggirsi del paese, e il re riprese la terra, e la fornì di sua gente; perchè alquanto ne migliorò la sicurtà delle strade e de’ cammini.

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CAP. LXII. De’ fatti di Siena della loro guerra.

Li Sanesi avendo veduto non rotte le loro forze, nè con ordine di battaglia, essere così sventuratamente sconfitti e cavalcati da’ Perugini infino alle porti, essendo di natura sdegnosa e altiera e di voglioso consiglio, di comune assentimento deliberarono di fare ogni loro sforzo e podere per qualunque modo potessono, per vendicare loro vergogna; non ostante che per lo comune di Firenze oltre all’usato amore consueto di faticarsi a pacificare loro vicini, ingelosito che per loro riotte non surgesse allettamento di signore forestiere, di continovo sollecitamente cercasse modo comportevole a sgravare il soperchio dell’onta fatta a’ Sanesi, e a questo per forza d’amistà de’ reggenti e maggiori di Perugia avessono condotto ad assentire i Perugini, nè modo nè verso co’ Sanesi trovare non potè, i quali nel furore di loro lieve animo, non guardando a stato di parte guelfa, nè a’ pericoli che seguire ne potesse alla libertà de’ comuni di Toscana, malcontenti di ciò che per l’uno comune e per l’altro si facea, cercando sempre concordia tra loro senza favorare in segreto o in palese eziandio in parole nessuno di loro contro all’altro, solenni ambasciadori con pieno mandato e larghe promesse mandarono a’ signori di Milano per impetrare loro aiuto e favore; ma poco loro valse, tutto che in niente montasse per loro mal volere e pravo [83] concetto, perocchè per la pace tra detti signori e comuni di Toscana fatta, per non romperla non se ne vollono travagliare. Il perchè veggendosi i Sanesi mancare la detta speranza, in sulla quale stavano ventosamente a cavallo, cercarono convegna colla compagnia che di Lombardia era venuta a Budrio, e si patteggiarono ch’andasse al loro soldo per certa quantità di moneta: e nel patto inchiusono, che la compagnia un mese e più con altra loro gente dovesse stare in sul contado di Perugia; e per lo detto servigio diedono caparra e la ferma, all’entrata del mese di giugno 1358. Semoci un poco allargati in parlanza sopra questa materia, per fare ricordanza a coloro che per li tempi verranno al reggimento del nostro comune, che stieno avvisati a’ rimedi della straboccata e ventosa volontà de’ Sanesi, i quali sovente per levità d’animo hanno tentata la loro sovversione e degli altri comuni di Toscana, che vogliono e amano di vivere in libertà.

CAP. LXIII. Come i Pisani abbandonarono la gara di Talamone.

I Pisani avendo provato e riprovato per molte riprese, che nè per loro armate, nè per impedimenti di mare, nè per lega che tacitamente avessono col doge di Genova, nè per qualunque altri loro argomenti o sagacità, usando larghe promesse di nuove franchigie e più utile a’ Fiorentini, non aveano potuto rimuovere il comune di [84] Firenze dal suo fermo proponimento del non tornare a fare porto a Pisa, ma piuttosto coll’aizzamento gli aveano fatti indurare; e veggendo ch’esso comune di Firenze s’era messo in armare galee, e cercare ventura di mare contro a loro; colla usata astuzia, del mese di giugno detto anno, con segreta deliberazione fatta tra loro mandarono la grida, che i Pisani e’ loro distrettuali, e ogni altra maniera di gente liberamente potesse andare a Talamone co’ suoi legni e mercatanzie, e di là recare e portare mercatanzia salvi e sicuri da tutta loro gente. E incontanente cominciarono a mandarvi della roba loro con fare porto a Talamone; e nondimeno i Fiorentini continovo le loro galee teneano alla guardia del mare.

CAP. LXIV. Come i Sanesi chiamarono capitano, e uscirono a oste.

Avendo i Sanesi l’animo infiammato contro al comune di Perugia, elessono per loro capitano di guerra il prefetto da Vico con gran balìa nella città e di fuori sopra la gente d’arme, il quale accettò: ma non venendo presto come il furore de’ Sanesi cercava; a dì 21 di giugno uscirono fuori a oste sopra il Monte a Sansavino colla loro gente d’arme, e con settecento barbute che avea Anichino di Bongardo capitano della nuova compagnia, e ivi sforzandosi di vincere la terra, senza frutto stettono aspettando il loro capitano e [85] l’altra gran compagnia che aveano condotta in Lombardia. I Perugini temeano forte l’avvenimento della compagnia, e acconciavansi bene a lasciare trovare modo a’ Fiorentini d’avere la pace; nondimeno afforzavano l’Orsaia per potersi tenere più forti e provveduti alla loro difesa.

CAP. LXV. Come si fece certa arrota al palio di san Giovanni.

Di questo mese i Fiorentini arrosono al palio di san Giovanni, ch’era di due finissimi velluti chermesi, con uno nastro d’oro largo quattro dita coll’arme del popolo e del comune, riccamente ricamate di seta d’otto braccia di lunghezza, quanto le dette due pezze erano larghe, di vaio sgrigiato; cosa molto orrevole e bella alla nostra festa.

CAP. LXVI. Come il Delfino mandò per lo proposto di Parigi.

Tornando a’ fatti di Francia che occorsono in que’ tempi, il Delfino di Vienna, e ’l duca d’Orleans, come addietro avemo fatta menzione, per disdegno, o forse per paura piuttosto, che più verisimile parve, s’era partito di Parigi, e l’amministrazione e governo del tutto avea lasciato al proposto de’ mercatanti e a’ borgesi di Parigi; [86] perchè essendo ripreso di codardia, si mosse, e appressossi alla città, stimando che il proposto li portasse reverenza, e come reale lo ridottasse, e a lui mandò a dire, che con trenta compagni li venisse a parlare. Il proposto rispose di farlo; e di presente tutto il popolo commosse, il quale in numero di trentamila o più il seguirono per ire seco infino al luogo dove stava il Delfino. Il quale udendo in che forma venia, non lo attese, ma si partì in fretta, per non attendere la piena del popolo ignorante e mal consigliato, e tornossene ad Orliens. E ciò fu all’entrata di giugno.

CAP. LXVII. Di novità fatte per lo popolo di Parigi.

I borgesi e ’l popolo minuto di Parigi vedendosi armati, che n’erano poco usi, e che ’l Delfino non attendendo loro furia s’era partito, montarono in baldanza; e come suole avvenire, e per sperienza si vede, che i vili, che prendono ardire contro a chi fugge, vantandosi di loro cuore e ardire, col fumo della vittoria senza contasto si fermarono, aspettando se loro fosse mosso niente. Il proposto con quelli che lui seguivano nel malvagio proponimento e consiglio, veggendo lo stolto popolo armato, e per levità d’animo nimicato contro la casa reale, pensarono con esso, avanti che giù ponessono l’arme, a maggiori fatti procedere. E per tanto confortato il popolo, e inanimatolo a speranza di migliore fortuna, quasi come gente furiosa e irata la condussono [87] spartamente come vedeano che richiedesse la faccenda, e ogni parte d’essa sotto guida a’ palagi e a’ manieri de’ gentili uomini ch’erano vicini a Parigi, i quali non prendendo guardia di loro, e non avendo alcuno avviso di loro iniquo e reo proponimento, nè del movimento di chi li guidava, molti ne furono sorpresi. Il furioso popolo incrudelito, quanti ne giugnea tanti ne mettea al taglio delle spade, non perdonando a fanciulli o a donne; e a’ micidi aggiugneano l’arsioni, diroccando fortezze e manieri a costuma di fiere selvagge. E intra gli altri nobili e ricchi dificii guastarono il bello castello di Montmorensì, e altre molte castella notabili. E con questa rabbiosa vittoria, con spargimento di cittadinesco sangue, si tornarono in Parigi, avendosi fatti nemici i gentili uomini e i baroni del reame.

CAP. LXVIII. Come l’altre ville seguirono di fare come Parigi.

Sentendosi per lo paese quanto inumanamente, e con quanta bestiale fierezza il popolo di Parigi s’era portato contro a’ baroni e a’ gentili uomini circustanti e vicini a Parigi, l’altre buone ville di Piccardia e di Francia, prendendo esempio dal popolo di Parigi, tantosto s’adunarono in arme, e uscirono delle ville come se andassono contro a’ nemici, e ricercarono i gentili uomini e le famiglie loro per li manieri, e per [88] le castella, e per le tenute dove si riduceano, e quanti ne poterono giugnere senza misericordia n’uccisono, e i loro manieri e castella dove poterono entrare disfeciono. E fu sì subita e improvvisa questa tempesta, che molti tra le loro mani ne perirono, dando boce e cagione, ch’e’ gentili uomini e i baroni erano traditori del re loro signore; ma certo chi fu primo motore di tanto scellerato male fu il reo e il traditore di suo signore e di tutto il reame, come appresso leggendo si potrà trovare.

CAP. LXIX. Di novità di Forlì.

Bene che paia assai disonesto e fuori di ragione, che li prelati che dovrebbono essere correggitori de’ difetti e peccati de’ secolari s’inviluppino e rivolgano in quelli, e massimamente in quelli errori mondani che più paiono orribili e abominevoli, come sono tradimenti, o se volemo più onesto parlare, trattati, nondimeno per la corrotta usanza del malvagio tempo che corre, non pare si disdica a coloro che sono posti da santa Chiesa alla cura de’ suoi beni temporali, tutto che cherici sieno, usare arte di tradigione. Per questa larga e non dannata licenza, l’abate di Clugnì legato di papa in Romagna, avendo fatto tenere certo trattato con le guardie d’alquante bertesche della città di Forlì, le quali gli doveano essere date, mandò della sua gente una notte intorno di seicento tra a piè e a [89] cavallo, e presonle, ed entrarono nella terra; e se avessono avuto con loro più forte braccio n’erano signori. I cittadini, per l’improvviso e subito assalto non sbigottiti, insieme col capitano francamente si fedirono tra loro ch’erano entrati, e per forza gli ripinsono di fuori, avendone morti e presi una parte di quelli che più s’erano messi innanzi; intra gli altri rimase preso il figliuolo del conte Bandino di Montegranelli; e gli altri si fuggirono senza avere caccia fuori della terra, e tornarsi al legato beffati.

CAP. LXX. Come il legato ebbe Meldola.

Uno de’ terrazzani di Meldola capo di setta, essendo per più tempo stato con certi suoi congiunti sostenuto dal capitano di Forlì per sua sicurtà di quella terra, si collò dalle mura con suoi compagni di furto, e fuggissi nel campo al legato, e ivi segretamente stando più giorni s’intese con altri suoi terrazzani. E a dì 2 di luglio detto anno, il legato ordinata sua gente sott’ombra di combattere Meldola, si strinse alla terra. Lo Meldolese di cui avemo parlato, senza arme uscì della schiera, e innanzi si mise verso la terra, e fè certo segno a quelli delle mura, sicchè fu conosciuto; e sperando nell’ordine e nel favore di coloro che dentro avea temperati con belle e savie parole, ed efficaci alla materia, disse a’ suoi terrazzani, che non volessono essere morti e disfatti in contumacia di [90] santa Chiesa, che domandava con gran ragione la sua terra, e con beneficio, per servire al tiranno scomunicato, che contro a Dio e contro a ragione si tenea in ribellione del legato e di santa Chiesa, il quale era stretto per modo, che tosto dovea e potea essere disfatto; loro assicurando che dalla gente della Chiesa non riceverebbono offesa nè danno alcuno. I Meldolesi alla Romagnuola voltanti, e affannati dalla lunga guerra, udendo così parlare il loro terrazzano, ed essendo sospinti da’ consigli e conforti di quelli dentro che col detto loro terrazzano s’intendeano, di presente apersono le porte, e ricevettono liberamente con allegrezza e festa la gente del legato pacificamente. Li forestieri che v’erano ciò vedendo, bellamente si ricolsono al cassero, e quelli del legato di presente s’afforzarono nel castello, e assediarono la rocca dentro e di fuori, avendo dottanza che la compagnia ch’allora era di presso non li venisse a impedire; e strignendo forte con assedio, e ricercando spesso con trabocchi e con altre battaglie quelli della rocca, a dì 25 del detto mese s’arrenderono salve le persone.

CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono il monte nuovo per avere danari.

Per l’armata del mare essendo consumata molta moneta dell’usate rendite del comune, sopravvenendo le compagnie del conte di Lando e d’Anichino di Bongardo, e apparecchiandosi [91] molte altre novità in Italia, alle quali per conservare suo stato necessità era al nostro comune di provvedere; e non potendosi ciò fare senza danari, ed essendo l’entrate del comune indebitate, e porre di nuovo gravezze senza manifesta guerra incomportabile e pericoloso parea, massimamente per la nuova dissensione e sospetto nato tra’ cittadini per le accuse e persecuzioni, che sotto il titolo della parte guelfa si facea de’ buoni, e a’ buoni antichi cittadini che si voleano vivere in pace, sotto il segno della detta pace onorando il comune, e non poteano. Quelli che reggevano il comune cercavano nuovo modo, provvedendo per legge che chi spontaneamente prestasse al comune fosse scritto a suo creditore nuovamente nell’uno tre, cioè in fiorini trecento prestandone cento di quello che veramente prestavano, dando al detto monte nuovo e a’ suoi creditori tutti i privilegi e immunità del monte vecchio. Per questa via il comune senza altra gravezza ebbe al suo bisogno soccorso; e se bene si misura, non per carità o affezione ch’avessono i cittadini alla sua repubblica, ma per la cupidigia del largo profitto; il quale fuori del buono e antico costume de’ nostri maggiori molti n’ha tirati dalla mercatanzia in su l’usura, e sì ha ingrossate le coscienze, che le vedovelle poco si curano dell’anime, pur che il monte risponda bene loro.

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CAP. LXXII. Della gran compagnia.

La gran compagnia essendo nella Romagna a’ confini del Bolognese, sotto la condotta del conte Broccardo e di messer Amerigo del Cavalletto, in numero di tremilacinquecento cavalieri e grande quantità di pedoni, baldanzosamente del mese di luglio mandarono a domandare il passo in Toscana al nostro comune; il quale sorpreso dalla subita domanda, non avvedendosi de’ patti ch’aveano con loro, intra’ quali che non dovessono offendere nè passare per lo nostro terreno fra certo tempo, il quale ancora durava, e temendo della ricolta, che la maggiore parte era in su l’aia, di presente vi mandarono ambasciadore, concedendo che potessono passare a dieci bandiere insieme, togliendo derrata per danaio. Li conducitori e caporali di quella insuperbiti per la temenza che parea mostrasse il comune, tacendo i patti, risposono, che non voleano passare spartiti, nè per lo luogo loro assegnato, ma per quello più loro piacesse. Non volendosi per lo comune a ciò consentire, nel consigliare che se ne fè furono ricordate e ritrovate le convenienze il comune avea con loro, e furono creati ambasciadori ch’andassono a loro, i quali furono; messer Manno Donati, messer Giovanni de’ Medici, Amerigo di messer Giannozzo Cavalcanti, e Simone di Rinieri Peruzzi; i quali ebbono i punti di loro ambasciata, e portarono i patti giurati, [93] soscritti, e suggellati per li caporali e conducitori d’essa compagnia; i quali mostrati loro, come è usanza di gente d’arme di sì fatta maniera quando si sente podere, niente li pregiarono; e perseverando in loro sconce e disoneste domande, accennavano di passare a loro posta, e donde loro bene paresse, a mal grado di chi il volesse vietare. Perchè ciò sentendo il comune, sollicitamente s’apparecchiava alla difesa; e per chiudere loro i passi dell’alpe a suo podere richiesto avea gli Ubaldini, i conti Guidi e gli altri amici del comune ch’aveano podere ne’ luoghi onde si temea che potessono passare, e con poco ordine per la fretta, e senza capitanare, mandò la gente sua da cavallo e assai balestrieri nel Mugello e alla guardia de’ passi. Essendo i detti ambasciadori nel campo della compagnia, e segretamente rivocati dalla loro ambasciata, vi fu mandato di nuovo ambasciadore Filippo Machiavelli, a cui fu commesso in segreto, ch’aoperasse co’ caporali ch’e’ non venissono per lo nostro contado, e che in ciò spendesse da cinquemila in seimila fiorini: e avendosi da lui in risposta che ciò non si potea fare, il comune raddoppiando la sollicitudine a sua difesa intendea.

CAP. LXXIII. Come il conte di Lando tornò d’Alamagna alla compagnia.

Il famoso capo di ladroni conte di Lando era nella Magna passato, e portato n’avea il tesoro [94] ch’avea guadagnato, ovvero rubato delle prede degl’Italiani, e di là comperatone terre e castella, e riscosse di quelle ch’avea impegnate. Appresso era stato con l’imperadore, e mostratogli come e’ non era ubbidito da’ comuni di Toscana, e che dove egli avesse titolo da lui, per forza di sua compagnia per tutto il farebbe senza suo costo ubbidire: mostrandoli come la Toscana era piena di soldati di lingua tedesca, che tutti, dove che fossono a soldo, s’intenderebbono con lui. E per tanto non temea trovare in campo contasto; e dove con suo titolo entrasse in alcuna buona città di Toscana, l’altre domerebbe per modo, che di tutte il farebbe libero signore. L’imperadore, ch’era cupido di natura, e astuto, conobbe il partito, e per volere a ciò provvedere per modo indiretto e coperto, sicchè se avesse luogo il consiglio del conte l’esecuzione fosse pronta, e se non, almeno colorata; essendo consueto di tenere suo vicario in Pisa, ne intitolò suo vicario il predetto conte in palese, ma in occulto si disse li diè maggiore legazione. Costui giunto a Bologna, sentì la condotta fatta della sua compagnia da’ Sanesi contro a’ Perugini, la qual cosa molto andava a sua intenzione; e vedendo la discordia del passo col comune di Firenze, di presente cavalcò alla compagnia, e trovò che gli ambasciadori del nostro comune erano rivocati; e volendosi ritornare a Firenze, egli li ritenne, e disse, ch’a niuno partito volea che la compagnia valicasse contro a volontà del comune nè per lo suo contado; e con gli ambasciadori insieme trovarono questa via; che essendo la [95] compagnia in Valdilamone dovesse passare da Marradi, e dappoi passare tra Castiglione e Biforco, e ricidere da Belforte e Dicomano, e da indi a Vicorata, e poi a Isola, e da Isola a san Leolino, e quindi a Bibbiena; e i detti ambasciadori promisono, che ’l comune di Firenze per cinque di loro apparecchierebbe panatica, prendendo derrata per danaio, e in quelli luoghi donde dovea essere loro trapasso. Questa concordia fatta senza mandato a’ Fiorentini non dispiacque, perchè parea in parte conforme a’ patti che i Fiorentini aveano con loro. E per tanto con sollicitudine procedea il comune, che la vittuaglia fosse apparecchiata ne’ luoghi ragionati per li quali doveano passare, e già n’era cominciata a mandare a Dicomano. Gli ambasciadori erano rimasi nella compagnia come il conte avea voluto per più sicurtà di sua condotta, ma non per mandato ch’avessono dal loro comune.

CAP. LXXIV. Come la compagnia fu rotta nell’alpe.

Fermata per lo nostro comune la concordia colla compagnia, come è di sopra narrato, la compagnia di presente si mosse con bello ordine de’ suoi capitani, e a dì 24 del mese di luglio 1358 prese albergo nell’alpe tra Castiglione e Biforco: e come è d’uso di gente di sì fatta maniera che male si può temperare, che come il ferro alla calamita non corra alla preda, passando i patti e convegne si toglieano la vittuaglia loro apparecchiata senza pagare, e se trovavano [96] cose non bene riposte nè in luogo sicuro ne faceano danno, oltraggiando i paesani e di parole e di fatti. Perchè dolendosi gli offesi di ciò, ed essendo male uditi e peggio intesi, ne presono cruccio; e raccogliendosi insieme, nel mormorio alquanti di loro cominciarono ragionamento e di vendetta e di ristoro di loro dannaggio, e senza perdere tempo, s’intesono insieme quelli di Biforco fedeli de’ conti da Battifolle, e quelli di Castiglione fedeli di quello d’Alberghettino, e con loro s’aggiunsono alquanti di quelli della Valdilamone, e disposonsi a loro vantaggio a luogo e tempo nel trapasso d’assalire la compagnia, o parte d’essa, e cercare loro ventura per rifarsi di loro danni, e vendicarsi degli oltraggi che aveano ricevuti. Quella sera medesima che questo per li villani si cercava ciò fu detto al conte di Lando, e avvisato che la seguente mattina gli s’apparecchiava novità: poco mostrò averlo a calere, sapendo che poco numero essere potea, e di gente alpigiana, e male in arnese quella che il cercasse d’offendere; nondimanco avanti al fare del giorno avacciò sua cavalcata, e mise sua gente in cammino, e ne fece più parti, nella prima fè cavalcare messer Amerigo del Cavalletto, e con lui gli ambasciadori fiorentini, fuori d’uno che ne tenne con seco, colla maggior parte di sua gente armata e disarmata con tutta la salmeria.

I conestabili con gente d’arme avvantaggiata con loro arnese sottile e di valuta, in numero d’ottocento a cavallo e cinquecento pedoni, col conte Broccardo lasciò alla retroguardia e riscossa. Il [97] cammino ch’eglino aveano a fare, tutto che non fosse lungo, era aspro e malagevole, perocchè venendo da Biforco a Belforte presso alle due miglia della valle, quinci e quindi fasciata dalle ripe e stretta nel fondo, do v’era la via, la quale si leva dopo alquanto di piano repente ed erta a maraviglia, inviluppata di pietre e di torcimenti, e tale passo è detto alle Scalelle, che bene concorda il nome col fatto. Il detto luogo passò liberamente messer Amerigo con tutta sua brigata, perchè ancora non erano giunti i villani, i quali poco appresso vi vennono in numero d’ottanta, o in quel torno, disponendosi partitamente ne’ luoghi dove pensarono a vantaggio e loro sicurtà potere meglio offendere i loro nemici: e volendo uno de’ maliscalchi della compagnia con sua brigata il detto luogo passare, fu da’ villani assalito, e con le pietre indietro ripinto. Il conte di Lando s’avea tratto la barbuta di testa, e mangiava a cavallo, e sentendo ciò ch’era cominciato, subito si rimise la barbuta, e fece gridare arme; onde i villani, che come detto è, s’erano riposti per le creste de’ colli, e nelle ripe e balzi che soprastavano le vie, sentendo il passo impedito, si cominciarono a mostrare per le ripe dintorno, e a voltare gran sassi, e a gittare con mano sopra la gente del conte ch’erano nel basso del fossato, quasi come in prigione chiusi da altissime ripe. Il conte non spaventato nè invilito per lo subito assalto, come uomo d’alto cuore e maestro di guerre, di subito fece smontare da cavallo circa a cento Ungheri, e li fece montare per le ripe per cacciare i [98] villani dalle ripe ov’erano posti colle frecce e colle grida: ma poco li valse, perocchè i villani ch’erano ne’ luoghi avvantaggiati e sicuri, e soprastanti assai a quelli dove gli Ungheri in uosa, e gravi di loro armi e giubboni non poteano salire, colle pietre n’uccisono alquanti, e gli altri cacciarono a valle. E stando il conte e’ suoi nel romore e travaglio, colle difese che le sue genti poteano fare nel luogo stretto e malagevole, dove poco poteano mostrare loro virtù, una gran pietra mossa nella sommità del monte da parecchi villani, scendendo rovinosamente percosse il conte Broccardo, e lui e ’l cavallo ne portò nel fossato, e uccise; e per simile modo molti e morti e magagnati ne furono. Veggendo i villani che già erano scesi alle spalle de’ cavalieri in luogo che li poteano fedire colle lance manesche, che i cavalieri per la morte di molti di loro erano inviliti, e per la strettezza di loro da non si potere ordinare a difesa, nè per niuno modo abile atare, scesono con loro alle mani; e uno fedele del conte Guido con dodici compagni arditamente si dirizzò al conte di Lando, e valentemente l’assalì. Il conte colla spada fè bella difesa: alla fine non potendo alle forze resistere, s’arrendè prigione, porgendo la spada per la punta; ed essendo ricevuto, come s’ebbe tratta la barbuta, uno villano d’una lancia il fedì nella testa, della quale ferita lungo tempo dopo stette in pericolo di morte. Arrenduto il conte di Lando, tutti i cavalieri smontarono da cavallo, e come il più presto poterono, spogliate l’armi per essere leggieri, si diedono alla fuga, e come [99] ciascuno meglio potea saliano per le ripe, e per li boschi e burrati fuggendo. Allora non solo gli uomini, ma le femmine ch’erano corse al romore, e atare i loro mariti almeno con voltare delle pietre, gli spogliavano, e loro toglieano le cinture d’argento, e’ danari e gli altri arnesi: e avvegnachè assai ne fuggissono per questo modo, molti morti ne furono, e pure de’ migliori, e assai presi, e così de’ fanti a piè. In questo baratto si trovarono morti più di trecento cavalieri e assai presi, e più di mille cavalli e bene trecento ronzini, e molto arnese sottile, e robe e danari vi perderono; e benchè fossono usciti del passo, errando molti presi ne furono nelle circostanze dagli altri paesani che non s’erano trovati alla zuffa.

CAP. LXXV. Come il conte di Lando scampò di prigione.

Come volle fortuna, che per li peccati de’ popoli sovente favoreggia coloro che a loro sono flagello di Dio, essendo il conte di Lando preso da uno fedele e uficiale del conte Guido, il detto valente uomo per acquistare maggior preda, essendo il conte fedito, come dicemmo, l’accomandò a due suoi compagni: il conte vedendosi nelle mani di due villani, temendo forte che non lo menassono a Biforco, per l’offese di sua coscienza fatte la sera dinanzi a quelli della villa, disse a coloro che ’l guardavano, di dare loro fiorini duemila d’oro, ed elli lo menassono [100] altrove ovunque a loro piacesse, e che se in questo il servissono, li farebbe ricchi uomini. I villani conoscendo che se il conte venisse alle mani del loro signore, che della preda e riscatto del conte avrebbono piccola parte, si disposono a servire il conte; e ’l menarono alla donna di messer Giovanni d’Alberghettino. La donna, non essendo ivi il marito, il fece menare a Giovacchino di Maghinardo degli Ubaldini suo fratello a Castelpagano. Ciò sentendo il signore di Bologna, ch’era suo intimo amico e compare, di presente vi mandò medici e guernimenti, e lo fè medicare, e per sua operazione tanto fece, che liberamente li fu mandato a Bologna: il quale essendo bene provveduto e curato alla Tedesca, poco regolando sua vita, e massimamente non prendendo guardia del vino, come fu da Bologna partito cadde in grave infermità, nella quale più volte fu a pericolo di morte, e liberato del male rimase in assai povero stato.

CAP. LXXVI. Come l’altra parte della compagnia si ridusse in Dicomano.

Essendo rotta e sbarattata la retroguardia della compagnia, come detto avemo, messer Amerigo del Cavalletto che guidava la parte dinanzi avendo ciò inteso, ed essendo ne’ prati verso Belforte, e sentendosi dintorno alcuno romore sì di coloro che fuggivano come di coloro che li seguitavano, di subito prese grande sbigottimento: [101] e certo e’ li bisognava, perocchè ’l conte Guido e gli altri paesani conosceano che venuto era il tempo di potersi vendicare della compagnia, e d’arricchire della preda loro. Ma il peccato volle che gli ambasciadori del comune di Firenze si trovarono con loro, a’ quali, temendo di tradimento, si ristrinsono e messer Amerigo e’ suoi caporali con minacce di tor loro la vita, se a loro fosse faltata la promessa. Gli ambasciadori che si sentivano in lealtà, e sapeano che ciò ch’era fatto non era stato operazione del loro comune, gli assicurarono colle parole: e per non mostrarsi ne’ fatti dissonanti alle parole, cominciarono a usare autorità che non era loro commessa, e ferono comandamento a’ fedeli del conte Guido, e a molti altri ch’erano tratti a’ passi, per parte del loro comune ch’e’ non dovessono offendere nè danneggiare coloro cui aveano fidati il comune di Firenze, a cui salvocondotto elli erano diputati, e ch’e’ si dovessono de’ passi levare: i quali tutti, contro a loro intenzione e volere, per reverenza del nostro comune si levarono dall’impresa. Perchè quelli della compagnia ch’erano vogliosamente avanti passati affrettarono di tornare alla schiera, e tutti insieme stretti avacciarono il cammino, e per le strette vie delle piagge in quel dì si ridussono in Dicomano, e ivi con botti e altro legname senza perdere tempo s’abbarrarono il meglio poterono: e conoscendo il pericolo dove erano ridotti, stavano tutti muti e smarriti alla speranza degli ambasciadori. E nel vero elli aveano da temere per l’avviso che loro subitamente fu [102] fatto, che ’l nostro comune avea in quelli stretti passi più di dodicimila pedoni, de’ quali i quattromila erano balestrieri scelti tra gli altri, e circa a quattrocento cavalieri, che tutto che temessono il nostro comune, più ridottavano i villani dell’alpe che li aveano assaggiati.

CAP. LXXVII. Come il comune di Firenze procedette ne’ fatti della compagnia.

I rettori del nostro comune avuta la novella della detta rotta, e di coloro ch’erano rinchiusi in Dicomano, e inteso come contro a’ patti i loro dinanzi aveano scorso infino a Vicchio, e le some del pane ch’erano a Dicomano aveano rubate, e tolti i muli, e fediti de’ vetturali; avendo mescolatamente queste novelle senza altro avviso de’ loro ambasciadori, conoscendo che la materia richiedea tostano consiglio e partito, di presente feciono consigli di numero di richiesti in gran quantità, nel quale furono molti notabili e savi cittadini, e consigliato sopra la materia, di grande concordia diliberarono, che i passi si tenessono per modo ch’e’ non entrassono sul nostro contado, e che non si desse loro niuno fornimento, nè si vietasse ad alcuno la loro offesa: e di presente si mandò per tutto il contado, che là si traesse d’ogni parte per non lasciarli passare. Il comandamento fu per li contadini subito adempiuto, perocchè gran voglia avea il popolo di levare di terra quella maladetta compagnia; [103] ma benchè traesse il contado di gran volontà, mancaronli per mala provvisione capitani e conducitori, e nondimeno presono i passi, e stavano con grande appetito di cominciare la zuffa. E se fatto si fosse, come fare si potea e dovea, in Dicomano senza rimedio si spegnea il nome della compagnia per lungo tempo in Italia.

CAP. LXXVIII. Il fine ch’ebbe l’impresa de’ Fiorentini.

Se necessità non fosse imposta, poichè preso abbiamo la cura di scrivere, volentieri taceremmo per onore del nostro comune quello ch’al presente n’occorre a narrare; ma considerato che per li simili accidenti che nel futuro possono occorrere, quelli che per li tempi saranno a provvedere allo stato e onore del nostro comune possano prendere avviso, e riparare alle disordinate baldanze de’ suoi cittadini, che passano talora e gli ordini e quello ch’è loro imposto per lo nostro comune, ci conduciamo a scrivere. Noi dicemmo poco appresso di sopra l’utile e savia diliberazione che prese il nostro comune contro al resto della compagnia ch’era in Dicomano, la quale ebbe vere e giuste cagioni, della quale erano uscite lettere a’ conti Guidi e agli altri circustanti a que’ luoghi amici del nostro comune, e per lo contado molte n’erano andate, e più per segno di nostro comune. Il podestà era in que’ paesi stato mandato uomo bolognese, e di sì poca virtù, che non pensiamo [104] che meriti d’essere qui nominato. Gli ambasciadori ch’erano con messer Amerigo, di subito mandarono in Firenze l’uno di loro per volere liberare la compagnia di coscienza del nostro comune; il perchè di nuovo e di maggiore numero si fece consiglio di cittadini, nel quale l’ambasciadore con belle dimostrazioni s’ingegnò di ottenere che la compagnia fosse posta in luogo sicuro, non facendo ricordo che per gli ambasciadori fosse preso partito di così fare; nel detto consiglio si prese e fermò quello ch’era stato ne’ primi. L’ambasciadore era di tanta autorità e podere, che a richiesta sua i priori ebbono tre altri consigli, cercando in essi il consentimento di quello ch’egli e’ compagni suoi presontuosamente aveano diliberato; in effetto in tutti si prese di concordia quello che dinanzi negli altri era stato fermato; e ciò fatto, si cominciò a dare ordine all’offesa di coloro cui il comune avea diliberato che fossono nimici, e ciò fu pubblicato per tutto. La compagnia era stretta in Dicomano in forma e per modo che tre dì vivere non vi poteano, e circondata era intorno in maniera, che se non volassono, partire non si poteano. I colli sopra la Sieve erano presi pe’ balestrieri fiorentini, e fatte erano grandi tagliate a’ passi dove l’uscite erano più larghe, ed erano bene guardate; e oltre al grande numero de’ pedoni ch’erano nel paese mandati per lo comune, e che per volontà v’erano tratti, v’avea quattrocento cavalieri, de’ quali era capitano uno broccardo Tedesco antico conestabile del nostro comune, il quale conoscendo il pericolo dov’era [105] la compagnia, non servando suo giuramento, con alcuno caporale andò in Dicomano, e ristrettosi con messer Amerigo e’ suoi caporali presero insieme consiglio, il quale fu segreto, ma per effetti s’intese, al quale si credette che participassono gli ambasciadori, per avere di loro concetto e promessa la scusa, di presente gravi minacce fur fatte agli ambasciadori, e intra l’altre di torre loro vita se si trovassono di loro promessa gabbati; appresso delle quali fu detto, e offerto di largo, che voleano fare ciò che volesse il comune, e per osservanza voleano dare stadichi; fu riputato malizioso e sagace consiglio. Gli ambasciadori udito questo si strinsono insieme con fare vista d’avere gran paura, e diliberarono quello, che come è detto, altra volta aveano diliberato, ciò fu di trarli di Dicomano a salvamento, e di metterli a Vicchio in quello di Firenze, ch’era proibito loro, e farli signori del piano di Mugello con abbondanza di vittuaglia. In questo comprendere si può quanta baldanza era in que’ tempi ne’ cittadini dello stato, e quanta poca reverenza si portava per loro alla maestà del comune; e meritevolmente, perocchè nè premio delle virtù, nè pena de’ falli per lo comune si rendea in que’ giorni, ma le spezialità e le sette de’ cittadini faceano comportare ogni grande ingiuria del comune con grande pazienza, la quale talora è vicina di crudeltà per la remissione delle debite pene. Avendo preso questo partito, come detto è, non degnarono di manifestarlo per lo loro compagno al comune, e il comune avea provveduto alla gente sua di capitani, i [106] quali sapendo l’intenzione del comune, più credettono agli ambasciadori ch’al comune, e consentirono a’ comandamenti che gli ambasciadori feciono a’ balestrieri e agli altri soldati del comune; ebbono gli ambasciadori in sul vespero Broccardo Tedesco con tutti i soldati a cavallo che volentieri feciono quel servigio, e ordinarli alla retroguardia, per tema de’ fedeli de’ conti che non si poteano raffrenare, e il passo ch’era preso per li pedoni e balestrieri fiorentini feciono allargare, e rappianare le tagliate e le fosse, e abbattere tutte l’altre insegne con una d’un trombadore da Firenze posta in su un’asta; e avendo fasciata dall’una parte e dall’altra quella compagnia de’ balestrieri del comune di Firenze li condussono a Vicchio, e feciono loro dare del pane che mandato era là per l’oste de’ Fiorentini. E avvenne, che non potendosi raffrenare i fedeli de’ conti dalla mischia, che i balestrieri del comune di Firenze furono costretti dagli ambasciadori di saettarli. I cittadini, e i contadini di Firenze, e i balestrieri, che di grande animo erano tratti per combattere la compagnia, udendo ch’elli erano condotti in signoria del Mugello, perderono il vigore, e grande dolore n’ebbono, più che se fossono stati sconfitti, e ben conobbono che ’l comune era stato beffato, e pubblicamente, e dentro e di fuori, appellavano gli ambasciadori per poco fedeli e diritti al loro comune.

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CAP. LXXIX. Come la compagnia andò in Romagna.

Sentito a Firenze che contro alla diliberazione del comune la compagnia sotto la condotta de’ suoi cittadini s’era partita da Dicomano e ridottasi a Vicchio, e che era nella signoria del piano di Mugello, la città per comune se ne dolse, e li rettori d’essa non sapeano che fatto s’avessono, nè che fare s’avessono; e la grande moltitudine di gente a piè ch’era sparta per li poggi del Mugello non essendo capitanata, e non sapendo cui ubbidire nè offendere, non si partia dalle poste. Quelli della compagnia, che sentivano quello ch’era diliberato a Firenze, avendo preso riposo per un giorno e una notte in Vicchio, veggendo i poggi intorno a loro carichi di fanti, e massimamente di balestrieri, i quali per li vantaggi de’ luoghi onde aveano a passare più ridottavano, temendo che crescendo la forza del comune eziandio il piano loro non fosse impedito, la mattina raccolti insieme da Vicchio scesono nel piano, avendo per loro conducitore ritenuto messer Manno Donati, e come uomini usi nell’arme, vedendo che la gente del comune, che loro era vicina, era volonterosa senza ordine o capitano, lasciato nel piano addietro uno aguato di cento Ungheri, s’arrestarono nel piano; e ciò feciono non per guadagno che sperassono di fare, ma perchè vidono che i balestrieri aveano passata la Sieve, o per vedere, [108] come folli, o per guadagnare, stimando, che se agramente ne gastigassono alquanti, gli altri intimidirebbono e darebbono loro meno affanno; e così venne loro fatto. Perocchè caduti nell’aguato, gli Ungheri gli assalirono da due parti, e non avendo i balestrieri soccorso, di presente furono rotti e sbarattati; e come dicemmo non attendendo a’ prigioni, ne uccisono più di sessanta; e ciò fatto, gli Ungheri si ritrassono alla massa de’ loro, e senza niuno arresto tutti si diviarono al cammino per lo passo dello Stale sotto la guida di Ghisello degli Ubaldini, e quel dì cavalcarono quarantadue miglia, fino ch’e’ giunsono in su quello d’Imola dove erano sicuri, malcontenti e palesi nemici del nostro comune. La cagione di così lunga giornata fu perchè Ghisello non volea s’arrestassono nell’alpe, per tema non facessono danno a’ suoi fedeli, mostrando, se s’arrestassono, ch’e’ sarebbono in gravi pericoli. E per tanto senza niuno indugio feciono il detto cammino; nel quale i masnadieri, per non rimanere addietro, lasciarono loro arme per l’alpe per essere più leggieri al cammino. Gli ambasciadori, fornito il servigio, tornarono a Firenze, e di loro falli presono scusa a’ governatori del comune con quelle belle ragioni che seppono meglio divisare; e conoscendo di quanta autorità erano coloro ch’erano a quel tempo all’uficio de’ signori, detto fu per alcuno de’ detti ambasciadori: Non cercate più questi fatti, ma dite che noi siamo i ben tornati.

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CAP. LXXX. Come i signori di Francia vennono sopra Parigi in arme.

Tornando alle travaglie del reame di Francia, nell’addietro narrammo il subito e sfrenato movimento del popolo minuto, e de’ borgesi di Parigi e d’altre ville di Francia contro a’ baroni e gentili uomini del paese, sotto il mal consiglio e condotta del proposto de’ mercatanti e suoi seguaci; per la qual cosa il Delfino di Vienna mosso e sospinto da’ gentili uomini ch’erano stati dall’indiscreto popolo agramente offesi e malmenati, per repremere la sua trascotata e furiosa baldanza d’ogni parte si raccolsono insieme, e all’entrare del mese di luglio del detto anno vennono sopra Parigi in numero di cinquemila cavalieri, o in quel torno, avendo per loro capo il sopraddetto Delfino, e accamparonsi a sant’Antonio, presso a Parigi a due leghe; e ivi si dimoravano senza fare asprezza di guerra, perocchè ben sapeano che la comune di Parigi era sommossa, e ingannata dal proposto e da’ suoi seguaci per malvagio ingegno. Ed essendo nel paese il re di Navarra, che celatamente s’intendea col proposto e con certi suoi confidenti che guidavano il popolo, per mostrare di volere atare il popolo e’ borgesi dalla forza de’ baroni e gentili uomini ch’erano venuti sopra loro, s’accampò a san Dionigi con millecinquecento cavalieri ch’avea accolti di suo seguito, e che segretamente [110] avea dal re d’Inghilterra, e con assai sergenti e arcieri inghilesi e guasconi; e stando quivi, dava ardire a coloro che con lui s’intendeano in Parigi, dicendo di volere combattere a petizione del popolo di Parigi col Delfino, e per tutto corse la boce che la battaglia era ingaggiata, e datole il giorno.

CAP. LXXXI. Come il re di Spagna uccise molti de’ suoi baroni.

Secondo che vogliono i savi, il parlare e lo scrivere debbe essere conveniente alla materia di che si tratta, e da questo principio procede l’arte del dire ch’è chiamata rettorica, la quale giunta al nobile ingegno, meglio mostra e fa più piacere quello di che si ragiona; di questa scienza niente sapemo, come nostra scrittura dimostra; e per tanto del nostro scrivere rozzo, ma vero, non diletto, ma frutto potranno prendere i belli parlatori. Questo per tanto n’è piaciuto di dire, perchè le bestiali crudeltà remote da ogni umanità le quali appresso scrivere dovemo, a bene dimostrarle meriterieno l’eloquenza di Tullio, ma noi le metteremo in nota col nostro usato volgare, fuggendo i vocaboli i quali per la prossimità della grammatica dalli volgari a cui scrivemo sono poco intesi. Il crudelissimo e bestiale re di Spagna, avendo contro al volere e consiglio de’ suoi baroni palesemente ritolta la sua concubina, o più volgarmente [111] dicendo, bagascia, e quella sopra modo disonestamente magnificando nel suo reame, trascorse in tanto disordinata e sconcia vita, che tutto l’animo reale cambiò in crudele tirannia. Il forsennato re, per torsi dinanzi i riprensori de’ suoi modi sozzi e sfrenati, e coloro di cui potea temere che a tempo i suoi errori dovessono potere correggere, maliziatamente trasse fuori boce ch’e’ si cercava contro a lui ribellione, e di Burgos in Ispagna e d’altre sue terre, e sotto questo colore, come fiera crucciato, di sua mano uccise due suoi fratelli bastardi e il zio del re d’Araona, a cui per certa convegna s’appartenea la successione del reame di Spagna; appresso intra lo spazio di due mesi, o in quel torno, ancora di sua propria mano uccise venticinque de’ suoi baroni, con trovando cagioni, e prendendo ora dell’uno ora dell’altro infinte e simulate infamazioni. Mirabile certo e abominevole cosa, che un re cristiano di suoi baroni innocenti e fedeli senza giudicio di corte, almeno colorato, facesse morire, e che di sua malvagia e rabbiosa sentenza egli fosse il manigoldo e vile esecutore. Queste iniquitadi occorsono del mese d’agosto e di settembre detto anno.

CAP. LXXXII. Della detta materia di Spagna.

Il movimento del perverso tiranno di Spagna, non degno d’essere nominato re, ma bestia selvaggia, [112] venne in questi dì in tanta furiosa pazzia, che costrignea i baroni che gli erano rimasi e campati di sua crudeltà, e i comuni, a giurare fedeltà e omaggio alla bagascia sua, essendo in addietro per tutti prestato il saramento alla reina vecchia madre del detto re; e facendo a ciò richiedere quelli di Sibilla, i cittadini, fatto sopra ciò loro consiglio, elessono dodici uomini de’ più savi e discreti, i quali per parte del comune andassono al re, e con savie parole gli mostrassono, com’elli erano per saramento d’omaggio obbligati alla reina vecchia, e che non poteano il nuovo saramento fare se prima non fossono assoluti del vecchio; e che cercassono dal suo disonesto proponimento levare il re, cortesemente mostrandoli che quello volea nè suo bene era nè suo onore. I valenti uomini seguendo il mandato del loro comune furono al re, e reverentissimamente li sposono quello ch’era loro imposto dal consiglio del comune di Sibilia. Il re chetamente, e senza mostrare atto niuno di turbazione, gli udì, e quando ebbono detto modestissimamente quello che vollono, credendo per loro dolce e savio parlare avere ritratto il re dalla folle e sconcia dimanda, il re loro non fece altra risposta, se non che si toccò la barba, e disse: Per questa barba, che male così avete parlato; e con tale breve e sospettosa risposta gli ambasciadori impauriti si tornarono a Sibilia. Il re infellonito poco appresso n’andò a Sibilia, e in una notte andando alle case loro tutti i detti ambasciadori senza niuna misericordia fece tagliare; nè contento a tanto male, in pochi [113] giorni circa a quaranta buoni cittadini fece uccidere nelle loro case. Io non mi posso tenere ch’io non morda con dente di perpetua infamia la memoria di quello iniquo tiranno, e ch’io non passi a vituperarlo la semplicità del mio usato stile dello scrivere. Io ho letto e riletto nelle antiche scritture quello che in esse si pone degli iniqui e scellerati pagani, massimamente de’ barbari, e di simili cose ho trovate, ma che tanta ingiustizia, tanta empietà e crudeltà fosse in alcuno re cristiano, non mi ricordo d’avere letto giammai.

CAP. LXXXIII. Come la compagnia cavalcò a Cervia.

Come di sopra dicemmo, il resto della gran compagnia del conte di Lando sotto la condotta di messer Amerigo del Cavalletto s’era ridotta in Romagna, e ad essa tutti quelli ch’erano campati della rotta dell’alpe s’erano ricolti con assai gente sviata e atta a mal fare, che fuggendo l’oneste fatiche cercavano di vivere di preda, e a richiesta del capitano di Forlì cavalcarono su quello di Ravenna, e ’l sale che trovarono alle saline di Cervia insaccato, come fosse per caricarsi, e non piccola quantità, e simile di grano e bestiame, senza alcuno contasto levarono e portarono in Forlì: perchè si credette che fosse baratto del signore di Ravenna per fornire la città di Forlì, e non tanto per amore del capitano, quanto per tema di sè, stimando, che se il [114] legato avesse Forlì la guerra si volgerebbe addosso a lui.

CAP. LXXXIV. Come il capitano di Forlì mise la compagnia in Forlì.

Il capitano, come uomo disperato, e con poca fede e legge, non avendo riguardo a’ suoi cittadini ch’erano stati a ogni martiro per sostenere lo stato suo, segretamente si convenne co’ caporali della compagnia di dar loro venticinquemila fiorini e il ricetto in Forlì, ed elli impromisono a lui di levare le bastite che gli erano intorno, e che per alcuno tempo starebbono in Romagna al servigio suo; di che seguitò, che all’entrante d’agosto e’ li mise in Forlì senza assentimento de’ suoi cittadini: i quali essendo stati rotti, come dicemmo, avendo patiti molti disagi, e per tanto essendo in gran bisogno di ricetto, per prendere riposo cominciarono a torre le case de’ cittadini, e loro masserizie e arnesi, e accomunare e abitare familiarmente con loro, e torsi delle cose da vivere oltre a bastanza, pigliando dimestichezze disoneste e spiacevoli colle famiglie de’ cittadini, che per non uscire di loro case e masserizie dimoravano con loro. Il perchè assai cittadini, a cui era più caro l’onore che la roba, si partirono di loro abituri, e ristrignensi in piccoli luoghi, lasciando in abbandono, per non contendere con gente bestiale, tutte loro cose. Nel quale avviluppamento manifesto [115] si vide gli errori degli erranti e servili popoli, che per matta stoltizia disordinato amore portano a’ loro signori e tiranni. Di ciò il popolo molto si dolse, e nel segreto ricordava con mormorio la gran fede male meritata che portata aveano al loro capitano, sofferendo il lungo assedio in contumacia di santa Chiesa col perdimento di tutti i loro beni, con grandi disagi e affanni di loro e di loro famiglie. Onde meritevolmente in loro fu verificato quel proverbio che dice, chi contro a Dio getta pietra, in capo li ritorna.

CAP. LXXXV. D’una nuova compagnia di Tedeschi.

I Tedeschi di soldo che in que’ tempi erano in Italia, vedendo e conoscendo che altra gente d’arme che venisse a dire nulla, fuori di loro lingua, ne’ paesi di qua da’ monti non era, follemente pensarono di farsene signori: e vedendo che la compagnia del conte di Lando era in parte mancata per la rotta da Biforco, di presente s’intesono insieme i Tedeschi ch’erano al servigio de’ Sanesi, e quelli ch’erano al servigio de’ Perugini, con quelli ch’erano nella provincia della Romagna; perchè compiuta la ferma che Anichino di Bongardo avea co’ Sanesi, si ritrasse con sua gente in forma di compagnia, alla quale il conte Luffo con settecento barbute ch’erano al soldo de’ Perugini, e più altri conestabili tedeschi ch’erano in loro vicinanza, s’aggiunsono, sicchè furono circa a duemila barbute; [116] e assai gente da piè atta a rubare trassono a loro, e andarsene su quello di Perugia, e co’ Perugini si patteggiarono in atto di ricompera per fiorini quattromila, e con avere il passo da Fossato per andare nella Marca: e d’indi passarono verso Fabriano, dove trovarono che i passi erano presi e guardati, onde si rivolsono per la Ravignana verso Fano, e in pochi dì, all’uscita d’agosto detto anno, s’aggiunsono a Forlì coll’altra compagnia, e posonsi di fuori della terra, entrando e uscendo a loro posta della città, e avendo vittuaglia dal signore. E per non disfare il gentile uomo ch’era assediato, mangiando quello di che vivere dovea insieme colla compagnia ch’era in Forlì, feciono cavalcate e da lunga e da presso, e ciò che poteano predare metteano in Forlì, facendo vendemmiare innanzi tempo le vigne vicine a’ loro saccomanni colle sacca, il perchè assai vino e altra roba da vivere assai misono nella città.

CAP. LXXXVI. Come si levò l’oste da molte terre.

Per la partita della gente d’arme di Toscana i Sanesi ch’erano a oste al Montesansavino se ne levarono e tornaronsi a Siena, e i Perugini che manteneano oste a Cortona anche se ne partirono; per la qual cosa in poco tempo quelli di Cortona con meno di cento cavalieri, e con alquanta gente da piè, feciono più cavalcate sul contado di Perugia, dilungandosi da [117] Cortona le dieci e le dodici miglia, e trovando i contadini per li campi alle loro faccende, e il bestiame non ridotto in luogo sicuro, feciono prede assai e di uomini e di bestiame grosso e minuto. Ed era a tanto condotto il comune di Perugia per straccamento della guerra, che così pochi nemici cavalcavano ne’ loro più cari luoghi, e si tornavano colle prede a salvamento, quasi senza trovare alcuno contasto in niuna parte. Il dì che avvenne ultimamente, che cinquanta cavalieri e pochi pedoni corsono e girarono il lago dintorno, e colla preda senza niuno impedimento si tornarono a Cortona, che pare cosa incredibile a dire. Quinci si può notare quanto sono da fuggire, e quanto sono pericolose le imprese de’ comuni con soperchia voglia baldanzosamente cominciate, perocchè le più volte hanno altri fini che gli orgogliosi popoli, e pronti alle imprese maggiori che non possono portare, non istimano. Però non si può avere troppa temperanza per li savi governatori de’ comuni, nè troppa cura a raffrenare gli appetiti de’ popoli, a cui sovente dire si può: Signore, perdona loro, che non sanno che si fanno. È vero che al nostro comune spesso avviene il contrario, che o voglia il popolo o no, egli è tirato, e per forza sospinto nelle grandi e pericolose imprese da coloro che le dovrebbono vietare. Corsa la piena della gente dell’arme nella Romagna, il legato fece fortificare e fornire le bastite ch’avea intorno a Forlì di vittuaglia e di gente, e partissi da campo, e tornossi coll’oste a Faenza, e a Cesena, e per le castella dintorno, per stare a [118] vedere quello che la compagnia facesse: e tutte queste cose fur fatte del mese d’agosto detto anno. E rinnovato fu il processo, e pubblicata la sentenza di santa Chiesa contro alla detta compagnia, come eretici e favoreggiatori dello scismatico capitano di Forlì, e che ogni uomo li potesse offendere, e contro a loro prendere la croce; ma tal fu la riuscita dell’altro legato quando li ricomunicò, e loro fè tributaria la Chiesa di Roma e’ comuni di Toscana, come addietro dicemmo, che a vile s’ebbe la sentenza e il processo, e sua esecuzione, eziandio da tutti gli amici e fedeli di santa Chiesa.

CAP. LXXXVII. Come si fè accordo dal Delfino a quelli di Parigi.

Come addietro facemmo menzione, il duca d’Orliens, e il Delfino di Vienna, e i gentili uomini aveano posto campo a Parigi, di che poco appresso seguente, che parendo a quelli d’entro e a quelli di fuori stare in molti disagi e pericoli assai, avendo ciascuno desiderio di concio, che per mezzani assai di lieve vi si trovò accordo; ma per tanto non vollono i borgesi che il Delfino o sua gente d’arme entrasse in Parigi, ma pacificamente e quelli d’entro e quelli di fuori praticavano insieme: nel quale accordo per operazione del proposto e de’ seguaci suoi s’inchiuse il re di Navarra con tutta sua gente; sotto la quale fidanza, o per vedere la terra, o per [119] loro rinfrescamento, certi Inghilesi entrarono in Parigi, i quali come veduti furono da certi borgesi, loro levato fu il grido addosso in vendetta di loro signore ch’era in Londra in prigione, e tanto procedette avanti la cosa, che in quel furore in diversi luoghi in Parigi, come furono per avventura trovati, furono morti circa a cento Inghilesi. Ciò sentito nel campo del re di Navarra, tutto si mosse verso Parigi con animo di prendere del misfatto vendetta; il perchè il re a consiglio de’ suoi caporali mise un aguato, e con corridori fatti sottrarre i Parigini, e addirizzarli per tirarli nell’aguato, i folli borgesi inbaldanziti per quelli disarmati che aveano uccisi dentro uscirono fuori, e correndo alla scapestrata e senza ordine niuno caddono nell’aguato, ove ne fu morti oltre a trecento. La cosa fu rappaciata dentro e di fuori per operazione del proposto, che avea l’animo dirizzato a maggiori fatti, come appresso diremo.

CAP. LXXXVIII. Di detta materia, e come fu morto il proposto.

Seguendo suo iniquo e malvagio proponimento il proposto con certi suoi segretari con cui s’intendea, e che con lui teneano mano a tradire la corona, volendo trarre a fine il tradimento che lungo tempo avea menato e fermo col re di Navarra, vedendo che ’l popolo di Parigi si venia riconoscendo del fallo suo contro al Delfino [120] e’ baroni, e temendo che l’indugio al suo maligno concetto non fosse dannoso, affrettò l’esecuzione del trattato e la morte sua; perocchè con certi borgesi del seguito suo, senza diliberazione o consiglio degli altri borgesi, bene apparecchiati in arme uscì di Parigi, e andonne a una delle bastite la quale aveano bene guernita e d’arme e di vittuaglia, e di gente per sicurtà della terra, e quella in gran parte sfornì d’armadura atta a difesa, e tolse le chiavi a colui a cui era stata accomandata di volere e consiglio di tutti i borgesi, e le diede a uno borgese di Parigi sospetto assai, perchè era stato tesoriere del re di Navarra; e come fece a questa bastita, così fece a tutte l’altre. Veggendo gli altri borgesi questa affrettata novità che si faceva senza niuno loro consiglio, nè cagione vedeano perchè ciò fare si dovesse, nè che pensiere a ciò fare avesse il proposto, cominciarono ad ammirare e a insospettire, ed in piccola ora col mormorio del popolo tanto crebbe il sospetto, che mandarono prestamente al Delfino, con cui novellamente aveano preso l’accordo, a sapere se ciò fosse di suo assentimento e volere; e avendo risposta del nò, tutto il popolo si levò a romore, gridando: Viva il Delfino, e muoiano i traditori; e in quella furia giunsono il proposto, e tagliarono a pezzi con certi suoi confidenti ch’erano con lui, e nel detto furore corsono alle porte, e uccisono tutti coloro che ’l proposto v’avea a guardare diputati, e alle bastite rinnovellarono e guardie e serrami.

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CAP. LXXXIX. Come furono impesi que’ borgesi a cui erano state accomandate le chiavi delle bastite.

Il giorno dopo la morte del proposto, i borgesi di Parigi, riconosciuti del fallo loro, di comune consiglio mandarono nel campo al Delfino, che li piacesse, poichè morto era il traditore della corona co’ seguaci suoi, di volere dimenticare l’offesa che ignorantemente era fatta loro, come persone ingannate da coloro che falsamente li conducevano, e che in Parigi dovesse venire, e reggere e governare la città e il popolo come loro signore naturale, che presti e apparecchiati erano tutti a ubbidire e fare i suoi comandamenti. Il Delfino avuto suo consiglio rispose molto benignamenente agli ambasciadori, dicendo, che bene conoscea onde era mosso l’inganno del popolo, e che molto era contento che la comune di Parigi avea scoperti i loro traditori e della corona, e che per loro se n’era presa vendetta, ma ancora non a pieno: e però, innanzi ch’e’ volesse entrare nella città, volea che del tesoriere del re di Navarra e del compagno, a cui erano state date le chiavi delle bastite, fosse fatta giustizia, e poi lietamente e con pieno amore de’ suoi borgesi v’entrerebbe. Tornati gli ambasciadori nella terra, furono presi il tesoriere e ’l compagno, e tranati per la terra, e impesi al castelletto; e fatto ciò, il Delfino con tutta sua gente con grande festa entrarono [122] in Parigi, ricevuti da tutti i cittadini con singolare allegrezza.

CAP. XC. Come si scoperse il trattato tenea il re di Navarra.

Il Delfino ordinato in Parigi generale parlamento, nel quale fece con savie e ornate parole mostrare al popolo la buona voglia ch’egli e’ baroni e’ gentili uomini aveano a’ borgesi di Parigi, e in quello fece nuovo proposto di mercatanti come a lui piacque, uomo di cui bene si potea fidare: e oltre a ciò, rendendo onore al popolo, fece dire, che quando volontà de’ borgesi fosse, e’ sarebbe contento che sei borgesi, i quali e’ fece nominare, fossono nella guardia e giudicio del popolo, perocch’e’ sentiva ch’erano stati segretari del proposto cui eglino aveano giudicato per traditore della corona. Come questo fu detto, senza arresto i detti sei borgesi furono presi, e venuti in giudicio, senza alcuna molestia o tormento confessarono, che la notte che il giorno dinanzi era stato morto il proposto, il re di Navarra dovea prendere le bastite, ed entrare in Parigi con tutta sua forza, e coll’aiuto del proposto e di suo seguito dovea correre Parigi; e che venendo prestamente fatto e al re e al proposto loro intenzione, il re si dovea fare coronare del reame di Francia per mano del vescovo di.... il quale allora era in Parigi, e si partì di presente come vide morto il proposto; e che il detto [123] re di Navarra dovea riconoscere il reame di Francia da quello d’Inghilterra e fargliene omaggio, e restituirgli la contea d’Alighiero e altre terre, ed egli lo dovea atare a racquistare il reame con tutta sua forza; e che se ciò venisse fatto, com’era ordinato, il re d’Inghilterra dovea fare tagliare la testa al re Giovanni di Francia, cui egli avea in prigione, e che i Lombardi e’ Giudei ch’erano in Parigi doveano essere preda degli Inghilesi. Fatta la detta confessione, senza arresto i detti sei borgesi furono giustiziati; per li savi scoprire il processo fu poco senno tenuto, essendo il re di Francia e ’l figliuolo in prigione, perchè essendone il re d’Inghilterra infamato, si dovea potere muovere a cruccio, e mal trattare il re e ’l figliuolo.

CAP. XCI. Come il re di Navarra guastò intorno a Parigi.

Avendo avuto il re di Navarra dal proposto come avea cambiate le guardie, e dato ordine presto alla esecuzione del trattato, non sapendo ciò ch’era occorso al proposto, venne per prendere la prima bastita, la quale trovando fornita di gente nuova e bene in punto alla difesa, comprese che ’l trattato fosse scoperto: perchè mettendosi più innanzi in sentore, intese come il proposto co’ suoi consiglieri erano stati morti dal popolo; perchè vedendo in tutto suo pensiero annullato, d’ira e di mal talento incrudelito [124] nell’animo suo, non ostante concordia nè pace ch’avesse co’ borgesi, tentò se per forza potesse vincere la bastita: e lavorando invano, partito da quella, scorse intorno a Parigi ardendo, e guastando, e predando ciò che potè. E poichè così ebbe fatto alquanti giorni, non trovando in campo contasto, se ne tornò a Monleone grosso castello, posto presso a Parigi a... leghe, e ivi si pose ad assedio. E come che ’l fatto s’andasse, al detto re cresceva gente d’arme da cavallo e da piè, la quale si movea d’Inghilterra non per manifesta operazione del re, ch’era nel trattato della pace, ma i cavalieri si mostravano muovere da loro e per loro volontà, come andare in compagnia. Ed essendo per li cardinali mezzani della pace detto al re che questo non era ben fatto, e che li piacesse mettervi rimedio, scusossi, dicendo, che ciò molto gli dispiaceva, ma che quella era gente disperata e di mala condizione, cui egli per suoi comandamenti non potea nè correggere nè arrestare. E con questa gente il re di Navarra cavalcava per tutto, e ardeva, e predava, e conduceva male il reame di Francia, non ostante l’ordine della pace preso; nel quale s’adattò il proverbio che dice, tra la pace e la triegua, guai a chi la lieva.

CAP. XCII. Come il marchese non volle dare Asti a’ Visconti.

Essendo per l’imperadore, per li patti della pace tra’ collegati e i signori di Milano, dichiarato [125] che Pavia rimanesse a popolo e in libertà, e che Asti fosse renduto a’ signori di Milano, i signori di Milano della dichiarazione non contenti pertinacemente domandavano Pavia, e non che loro fosse ciò conceduto pe’ collegati, ma il marchese di Monferrato, che tenea Asti, nol volea rendere loro. Così ciascuna delle parti della pace fatta rimanevano malcontenti; e cominciarsi i collegati a temersi de’ signori di Milano, e quelli di Milano feciono loro sforzo, e mandarono a oste nel Piemonte contro ad Asti e all’altre terre che ’l marchese tenea in Piemonte, e ordinarono di riporre le bastite a Pavia, e ciò in piccolo tempo fornirono. Il marchese rimasto povero e di danari e d’aiuto per li Lombardi, che non si ardivano a scoprire per la pace fatta contro a’ signori di Milano, francamente s’apparecchiava alla difesa e alla guerra come meglio potea.

CAP. XCIII. Come la compagnia assalì Faenza.

Lasciando i fatti di Francia e di Lombardia e tornando ai più vicini, la compagnia, ch’era in Romagna tra Forlì e Faenza, sentendo male fornita di gente d’arme la città di Faenza, la quale si tenea per la Chiesa, dove non era che uno capitano con meno di cento uomini da cavallo, si strinsono alla terra, ed entrarono in uno dei borghi. Il detto capitano allora era di fuori, e volendo tornare dentro, fu abbattuto e [126] ferito, e de’ suoi compagni assai magagnati. Per ventura erano in quel punto in Faenza trecento cavalieri del comune di Firenze all’ubbidienza d’uno cavaliere fiorentino, il quale vedendo il subito e improvviso assalto prestamente si mise alla difesa colla brigata sua, e riscosse il capitano, e i nemici fuori del borgo sospinse con loro assai danno, e ricoverato il capitano e l’onore della Chiesa si tornò in Faenza. Per lo detto assalimento baldanzoso e non provveduto si temette che non fosse nella terra trattato, ma se v’era, non si trovò. E ciò fu del mese d’agosto del detto anno. Appresso a pochi dì la compagnia de’ Tedeschi della bassa Magna sotto il capitanato d’Anichino di Bongardo s’accostò con quella ch’era in Romagna, e molti altri Tedeschi che spontaneamente si partivano da’ soldi degli Italiani s’aggiunsono con loro, e come ebbono fatta una massa, vedendosi forti cominciarono a gridare a Firenze, tenendosi per fermo e per lo consiglio e da tutti che da’ Fiorentini fossono stati traditi, e nell’alpe sconfitti. Di questa adunata e di sua mala parlanza gran sospetto si prese a Firenze, perchè si prese argomento di guardare i passi, come appresso diremo.

CAP. XCIV. Come i Fiorentini mandarono a Bologna per la quistione dello Stale.

Temendosi per lo nostro comune che la compagnia per lo passo dello Stale, che assai era [127] largo e aperto, non li venisse addosso, in certa parte di quello luogo avea fatto fare e tagliare i palizzati, i quali erano abbandonati, perocchè per li patti fatti colla compagnia doveano passare da Biforco, come addietro dicemmo. E vedendo il comune che la compagnia partita da Vicchio di quindi era passata in Romagna, e considerando che quello era il più agevole passo che potesse fare gente d’arme che da quella parte venisse in offesa di nostro paese, prese ragionamento di farvi fortezza. Sentendo ciò gli Ubaldini e i conti da Mangona, a cui a tempo la fortezza potea essere nociva, di presente furono al signore di Bologna, e gli diedono a intendere che quello luogo era del comune di Bologna; perchè per la mala informazione turbato scrisse al nostro comune assai altieramente. Di che il nostro comune fè ritrovare l’antiche ragioni che ’l monistero di Settimo ha nello Stale e ne’ luoghi circostanti, colle quali per ambasciadori e difendere delle dette ragioni mandò a Bologna messer Francesco di messer Bico degli Albergotti d’Arezzo cittadino di Firenze, eccellentissimo e famoso dottore in ragione civile, il quale allora leggeva in Firenze. Questi circa lo spazio d’un mese stette a disputare co’ dottori bolognesi sopra la materia, e in fine in presenza del detto signore di Bologna fu determinato, che ’l nostro comune aveva ragione, tutto che gran punga fosse fatta per li detti Ubaldini e’ conti in contrario. E a fede di ciò, il signore scrisse appieno al nostro comune, e le lettere e cautela furono registrate del mese di settembre 1358.

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CAP. XCV. Qui si fa menzione delle ragioni che ’l monistero di Settimo ha nello Stale.

E’ n’è di piacere, poichè nel precedente capitolo detto avemo dei modi tenuti per gli Ubaldini e’ conti di Mangona intorno alla quistione dello Stale, di fare in sostanza alcuna memoria delle ragioni che la badia di Settimo ha nel detto Stale, più per reverenza della buona e fedele antichità che per vaghezza di scrivere. Trovato fu nel monistero di Settimo una carta rogata negli anni dell’incarnazione del nostro Signore 1040 a dì 13 di dicembre, nel quale si celebra la festa della graziosa santa Lucia, e nell’anno secondo dell’imperio d’Arrigo, del cui tenore in parte togliemo questo. Guglielmo conte, figliuolo di messer Lottieri conte e di madonna Adalagia contessa, diede per rimedio dell’anima sua e de’ suoi genitori, alla Chiesa e al monistero di san Salvadore, nel luogo che si dice Gallano, ove si dice lo Spedale, con ogni ragione, e aggiacenza, e pertinenza sua, e qualunque e quanto a quel luogo s’appartiene, in perpetuo a noi Ugo, e agli Abati che per li tempi saranno; e appresso quello che concede confina così. Da oriente, dal Nespolo infino al Pero lupo, e infino alla Stradicciuola, e siccome corre la detta Stradicciuola infino alla collina; da mezzogiorno dalla detta collina infino a Ferimibaldi, e da Ferimibaldi infino a Feumicarboni, e da Feumicarboni [129] infino a Collina de’ monti propio.... e infino a Fontegrosna, e siccome trae il vado d’Astronico. Dalla parte d’occidente, dal guado Astronico infino a Montetoroni, e infino a Ronco di Palestra, ritorna fino al Nespolo di Briga. E sono tutte le predette terre e cose, e tutti i piani, e alpi, e le loro pertinenze, secondo che si dice nella detta carta, infra ’l contado di Bologna e di Firenze. Nel 1292, a dì 19 di dicembre, il popolo di santo Iacopo a Montale e di san Martino di Castro per sentenza di lodo poterono usare i detti beni quattordici anni, dando la decima di tutto il frutto e certo censo al detto monistero. E perchè semo entrati in ragionamenti di confini, diremo de’ confini tra il nostro comune e quello di Bologna, per bene e pace dell’uno e dell’altro comune, i quali furono terminati per messer Alderighi da Siena arbitro in tra i detti comuni, e furono questi. Il Mulinello a piè di Pietramala è del nostro comune, e Baragazzo, e il Poggio del fuoco, e delle valli, e mezzo Montebene, e Sassocorvaro, e il prato di Baragazzo.

CAP. XCVI. Come la compagnia della Rosa di Provenza si spartì e disfecesi.

In questi dì, sentendosi le novità di Francia che narrate sono, e come il paese s’apparecchiava a nuova guerra per l’operazioni del re di Navarra, la compagnia, che lungamente era stata [130] in Provenza, e avevanvi assai terre acquistate, vedendo che poco avanzavano stando quivi, ed essendo parte di loro richiesti dal Delfino, sperandosi più avanzare nelle guerre di Francia che nella povertà di Provenza, premono per partito di partirsi, e trattarono co’ paesani d’andare, e di rendere le terre e le castella che aveano prese; e venuti a concordia, ebbono ventimila fiorini d’oro, e catuno se n’andò dove li piacque, e lasciarono il paese di Provenza, ove erano stati predando i paesani e affliggendo più di diciassette mesi continui in guastamento del paese.

CAP. XCVII. Come s’afforzò e guardò i passi dell’alpe perchè la compagnia non passasse.

Poichè fu terminata la quistione dello Stale, sentendo il nostro comune che la compagnia s’apparecchiava a quello luogo, avendo posto campo tra Bologna e Imola, e temendo non prendesse indi suo vantaggio in Toscana, senza perdere tempo vi mandò provveditori e maestri per afforzare sì quel passo, che togliesse speranza alla compagnia, e a qualunque altra gente volesse offendere il comune, di quindi passare. E perchè a sicurtà i maestri e’ paesani potessono intorno a ciò lavorare, vi mandò il comune balestrieri assai e altra gente d’arme quale pensò alla difesa essere bastevole, con fare comandamento a tutti i paesani e vicini a quello luogo che vi dovessono essere e colle persone e colle [131] bestie loro ad atare, tanto che ’l luogo fosse abbastanza afforzato, i quali vi mandarono volentieri per tema di non essere sorpresi incautamente dalla compagnia, che da quelli dell’alpe si tenea offesa, e avea appetito di vendicarsi. L’opera fu di volontà affrettata perchè il pericolo era vicino, e in piccolo tempo fu tutto fornito, cominciando dalla vetta de’ colli e passando per lo tramezzo delle valli, li fossi e li steccati, colle torri di legname e bertesche spesse a guisa di mura di terra, con tre belle e forti bastite in su i poggi per dare favore a quelli che difendessono i palizzati, e perchè, se caso di rotta avvenisse, si potessono ricogliere a salvamento. La chiusa per lungo fu intorno di passi ottomila, stendendosi insino presso a Montevivagni. Quelli della compagnia, che s’erano alloggiati in su quello d’Imola, più volte tentarono e per diverse parti passare in sul nostro contado, ma sentendo ch’e’ passi dell’alpe erano bene guardati (che più di dodicimila pedoni, la maggiore parte balestrieri, talora fu che si trovarono allo Stale, senza quelli ch’erano all’altre poste) mutarono proponimento, e rivolsonsi indietro nella Romagna, e massimamente sentendo venuto in Firenze messer Pandolfo di messer Malatesta da Rimini per capitano di guerra, non lasciando però le minacce contro al nostro comune.

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CAP. XCVIII. Come l’imperatore fece il duca d’Osteric re de’ Lombardi.

Carlo imperadore de’ Romani, essendo nel detto anno 1358 del mese di settembre morto il duca vecchio d’Osteric, il giovane duca ch’era rimaso signore si fece a parente, e gli diè una sua figliuola per moglie; e lui volendo aggrandire, vedendo che la forza del genero giunta alla sua era grandissima, e per l’avviso del conte di Lando e degli altri caporali di lingua tedesca avea sentito, come le parti d’Italia, massimamente Romagna e Toscana, erano male disposte, e atte a potere venire sotto signore, si pensò ciò potere di lieve seguire con titolo di signore naturale, perocchè il nome del tiranno a’ liberi popoli, massimamente di Toscana, era terribile, e non potea essere accetto, e per tanto il detto duca fece e pronunziò re de’ Lombardi. Il duca, come giovane, e vago di crescere suo nome e signoria, accettò il titolo del reame: ciò sentito in Italia, non fu senza gran temenza; il perchè tantosto i signori e’ comuni s’intesono insieme, dando ordine a leghe e a tutto ciò che pensarono essere necessario e bastevole a impugnare l’impresa del nuovo signore.

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CAP. XCIX. De’ processi della compagnia in questi giorni.

Noi dicemmo addietro come il capitano di Forlì per patto promise quindicimila fiorini alla compagnia, e la cagione perchè, onde venendo il tempo che pagare li dovea, e non avendo il di che, eziandio affannando di presta i suoi cittadini, diede a’ caporali contanti fiorini duemila: ed essendo suoi prigioni il figliuolo del conte Bandino da Montegranelli, e due figliuoli del conte Lamberto della casa de’ Malatesti detto il conticino da Ghiaggiuolo, i quali erano stati presi nella guerra del cardinale di Spagna, loro assegnò alla detta compagnia in parte di pagamento per fiorini diecimila. Currado conte di Lando, sentendo l’impotenza del gentiluomo, coll’animo suo diritto e libero dove avesse avuto di che sadisfare, cortesemente li fece accettare, attendendosi dell’avanzo alla fede e promessa del capitano; e per non stare in bargagno, avendo il conte bisogno di danari, assentì il riscatto de’ detti prigioni per quattromila fiorini: e ciò fatto, con tutta sua brigata prese cammino, e si strinse verso quello d’Imola e di Faenza, cercando preda per vivere. E nei detti paesi ha una valle grassa e abbondante d’ogni cosa da vivere che detta è Limodiccio, la quale è circondata di poggi altissimi e aspri, e con assai stretti cammini all’entrare e all’uscire per grandi montate e scese: i villani di quel paese s’erano ridotti alle [134] guardie de’ poggi ov’erano l’entrate, non sperando che per lo grande disavvantaggio di chi venisse di sotto gente d’arme gli andasse ad assalire, poco avendo considerazione, che la fame fa cercare per lo cibo ogni luogo segreto, e assalire eziandio le impossibili cose. Quelli della compagnia assalirono le montagne con franchezza d’animo, facendo in fatti d’arme maraviglie; il perchè i villani impauriti e inviliti lasciarono i passi, e diersi alla fuga, onde la valle tutta venne in potestà de’ nemici, dove trovarono assai roba da vivere. E a loro fu bene bisogno di così trovare, per ristorare i disagi e la fame patita a Forlì: ed ivi adagiato e loro e loro bestie, vi dimorarono fino a dì 16 del mese di ottobre. E mentre che stavano a Limodiccio; più volte cercarono di passare in sul Fiorentino, ma ciò fu in vano; perocchè trovavano onde speravano passare sì forniti e ordinati al riparo, che non s’assicurarono di mettersi a partito. E andarono a Modigliana, e assaggiarono il castello con battaglia, e niente poterono acquistare. All’uscita del mese cavalcarono a Massa, che è del vescovo d’Imola, e come suole avvenire de’ beni de’ cherici, che non contendono se non a pelare, essendo il luogo male provveduto di guardia la presono, dove trovarono assai roba da vivere e arnese da preda. Alla rocca non feciono assalto, perocchè essendo nella guardia del signore d’Imola era bene guarnita e apparecchiata a difesa. I mascalzoni per la troppa roba vi trovarono vennono tra loro a discordia nel pigliare della roba, e per non venire a peggio tra loro misono [135] fuoco nella terra, e arse tutta colla maggiore parte di ciò che v’era dentro, perchè convenne che la brigata si partisse e accampasse di fuori; e quivi soggiornarono alquanto verso i confini di Bologna: e non avendo la vittuaglia che a loro bisognava, il signore di Bologna ne dava loro, e sostenneli quivi tutto il mese di novembre. Ciò disse che fece, perchè il legato Cardinale di Spagna era in cammino per passare in Romagna a ripigliare la guerra, e non sapea l’intenzione sua, sicchè per gelosia di suo stato era contento d’avere la compagnia di presso.

CAP. C. Come il re del Garbo fu morto.

Buevem re del Garbo, il quale volgarmente è detto il reame della Bellamarina e di Tremusi, avendo lungo tempo con ardire e con senno sostenuto l’onore di sua corona, e avendosi sottoposto, come nel primo libro narrammo, gli altri re de’ barbari che gli erano vicini, cioè quello di Costantina e quello di Buggea i quali tenea in prigione, cadde in malattia da tosto guarire; ma la rabbia e la cupidigia del signoreggiare accese gli animi de’ figliuoli, che per nobiltà doveano a lui a tempo succedere, e sì lo strangolarono. E morto lui, il maggiore di loro d’età di sedici anni nominato Bugale prese la signoria, e fessi coronare, ma non con volontà e amore di tutti i baroni. Per la qual cosa alquanti di loro, e non de’ minori, s’accostarono all’altro [136] fratello ch’era di meno giorni, cioè d’età di dieci anni, il quale era oltre a quello che tale età richiedea e intendente e astuto; e il suo nome era Bestiezti, e a lui dissono: Quando il padre tuo fu fatto re, per potere regnare senza sospetto de’ suoi fratelli, a venticinque fece tagliare la testa, e così pensa che tuo fratello farà a te: e però, se vogli seguire nostro consiglio, noi ti faremo re colla nostra potenza, se tu ci prometti di fare morire lui. La cagione di questo fu, ch’e’ dicea che i baroni non guidavano bene i fatti del reame. Il giovane per venire alla corona con tutto il suo consiglio a ciò s’accordò. Perchè essendo ancora il re giovane debole nella signoria nuova, e poco da sè accorto e meno avvisato, fu da’ baroni preso per comandamento del fratello, e come patricida saettato, sicchè in piccolo tempo spacciò il regno acquistato col micidio del padre, e sè di vita. Gli altri fratelli vedendo questo crudele principio fuggirono in Sibilia, e ’l minore fatto re, colla sua forza rimase nelle mani de’ baroni, perocchè non era in tempo da potere nè da sapere governare il reame. Con questa malizia fu il maggiore fratello abbattuto, onde molti de’ baroni avendo il re fanciullo a vile, occuparono assai delle giurisdizioni del reame. Di questo seguette, che uno antico barone e di grande seguito di fuori di Fessa si fece fare re alla setta sua, e cominciò a guerreggiare il giovane re. Sentendo Suscialim fratello del re Buevem morto, come dicemmo di sopra, il quale era fuggito in Sibilia, questa divisione de’ baroni, richiese il re Pietro di Sibilia d’aiuto, il [137] quale li fece armare due galee e valicò a Setta, e là fu ricevuto come re; e avendo aiuto da’ paesani se n’andò a Fessa, ove il giovane re era con poco aiuto e consiglio; e però giunto a Fessa fu ricevuto come re; e disposto il fratello, e messo in prigione, e accolte maggiori forze andò contro al barone che s’era fatto re, il quale brevemente fece morire, ed egli rimase libero signore del reame della Bellamarina: e questo avvenne nel detto anno 1358. È vero che quando morì il gran re Buevem, che i re che avea in prigione furono lasciati, e ripresonsi i loro reami di Buggea e di Costantina: e il reame di Tremusi si rubellò, e tornossi allo stocco de’ re usati.

CAP. CI. Come i cardinali ch’erano in Inghilterra si tornarono a corte.

Essendo il cardinale di Pelagorga e quello di Roma messer Iacopo Capocci in Inghilterra, per seguire l’accordo de’ due re della pace ordinata con titolo di santa Chiesa, e ’l cardinale il quale fu cancelliere del re di Francia, il quale stava di là in proprio servigio del detto re, avvedendosi l’uno dì dopo l’altro che l’operazioni del re d’Inghilterra erano a impedire, che la moneta che si dovea pagare per lo re di Francia, e li stadichi che si doveano dare non si fornissono; e vedendo che il detto re mantenea in arme e in preda, e in grave intrigamento de’ paesi di [138] Francia, il re di Navarra, e che di continovo li aggiugnea forza de’ suoi Inghilesi, per modo che i baroni colle comunanze di Francia non aveano destro d’accogliere la moneta nè di mandare li stadichi; e avendo di ciò per più riprese richiesto il re d’Inghilterra che vi mettesse ammenda, ed egli risposto loro, che nol potea fare; temendo che sotto l’ombra del dimoro non s’apparecchiasse loro più vergogna che onore, se ne partirono: e per la loro partita senza frutto feciono manifesto, che piuttosto guerra che pace dovesse seguitare; come poi n’addivenne, secondo che a suo tempo racconteremo. E questo fu del mese d’ottobre del detto anno.

CAP. CII. Della pace da Sanesi a’ Perugini.

Essendo dibattuti i Perugini e’ Sanesi nella loro guerra novella, come per noi addietro è fatta memoria, essendo continovo il comune di Firenze in sollicitudine di mettere tra loro pace co’ suoi ambasciadori, e inframettendosi anche il legato di Romagna di questa materia, all’ultimo l’uno comune e l’altro, avendo ciascuno voglia d’uscire di guerra e di spesa più onestamente che potesse, si rimisono negli ambasciadori del legato e de’ Fiorentini, i quali diligentemente praticarono con catuna parte, per vedere se modo convenevole si potesse trovare; e trovando che ’l dibattito era di potersi con alcuno mezzo terminare; vollono che da catuno comune [139] venissono sindacati, e la fermezza de’ Perugini di quello, che per loro s’avesse a ordinare di Montepulciano, e da’ Sanesi di Cortona: e avuti i sindacati e le cautele che domandarono, diedono la sentenza, e tennonla segreta, e feciono a catuno comune pubblicare la pace, e sicurare le strade e’ cammini, e feciono pubblicazione in catuna città, e in Firenze fu celebrata solennemente dì ultimo del mese d’ottobre del detto anno: dappoi si manifestò la sentenza, e fu in questo modo. Che tra i detti comuni dovesse essere ferma, e buona e perpetua pace, e che i Perugini dovessono lasciare libera la terra di Montepulciano a’ suoi terrazzani, e dovessono patere mettere in Cortona da indi a quattro anni di tempo in tempo podestà, e dove i Cortonesi non lo volessono, dovessono dare il salario al detto podestà, il quale era di lire quattrocento l’anno, e dovessono i detti Cortonesi ogni anno de’ detti quattro anni dare a’ Perugini un palio di seta e che i Sanesi infra cinque anni non potessono mettere podestà in Montepulciano, ma lasciare la terra libera, e da cinque anni in là vi dovessono mettere podestà, ed avere il censo usato. Quando dopo la pace predetta ne fu fatta pubblicazione, e l’uno e l’altro comune se ne mostrò in grande turbazione, e ciascuno mandò solenne ambasciata a Firenze per fare rivocare la detta sentenza. Il comune di Firenze sentendo, che nel praticare della cosa gli ambasciadori de’ detti comuni erano stati quasi in concordia di questo, e che di nuovo non vi s’era fatto fuori che ’l termine e ’l modo delle signorie, riprendendo onestamente i detti [140] comuni in persona de’ loro ambasciadori, rispose, che intendea che si osservasse la pace; ma però non rimasono in vista contenti i detti comuni, benchè novità di guerra non movessono insieme.

CAP. CIII. Come il cardinale tornò in Italia.

Io non posso fare ch’io non ripeta talora in alcuna parte le cose già dette, non per crescere scrittura (perocchè le cose notabili che occorrono continovamente tanto abbondano, che assai di spazio prendono nel libro) ma per giugnere insieme e le vecchie e le nuove cagioni, che ne’ principii non conosciute, o conosciute e non debitamente curate, o che peggio diremo, per grazia o potenza de’ cittadini con infiniti colori trapassate, hanno danni incredibili e pericoli gravissimi più volte giattato, e ridotta nostra città in temenza di non perdere sua libertà. E tutto che lo scrivere aperto in sì fatte materie, massimamente per lo pugnere cui tocca, dalli pochi intendenti paia ch’abbia in sè materia di cruccio e malevolenza, che nel vero appo li savi no; ma pure così fare si dee da qualunque per beneficio di sua città, e forse dell’altre prende la cura di scrivere; perocchè tacere il male, e solo il bene mettere in nota, toglie fede alla scrittura, e fa l’opera di meno piacere e profitto, e se sottilmente si guarda, forse è dannoso, perocchè li rei sentendo occultare le loro opere più [141] baldanzosamente procedono al male, e di sè fanno specchio a coloro che devono venire a invitarli per l’impunità del segreto peccato alle pessime cose, d’onde tema d’infama li suole talora ritrarre, e il comune, per non essere avvisato delle malizie passate, con meno cautela e meno consiglio procede in quelle che li sono apparecchiate dinuovo. Questo parlare a molti forse parrà di soperchio in questo luogo, ma se si recheranno alla mente, per li ricordi che sono fatti e nelle vecchie e nelle nuove scritture, i modi per li nostri cittadini per l’addietro alcuna volta tenuti, troveranno, che chi per ottenere beneficii ecclesiastici, chi per essere tesoriere e capitano nelle terre della Chiesa di Roma, non solo hanno consigliato che sia dato aiuto e favore non dico alla Chiesa di Dio, che si dee sempre fare, ma ai forestieri, che sotto nome di duchi, conti, e capitani, o legati di papa, o altri titoli onesti nel nome ma tiranneschi nel fatto, della povertà di Provenza sono passati a signoreggiare i nobili e famosi paesi d’Italia, ma hanno sforzato o in uno o in altro modo e sospinto il nostro comune disonestissimamente a ciò fare. Il di che è più volte seguito, che essendo il mondano e temporale stato della Chiesa di Roma colla forza del nostro comune in Italia ingrandito e montato in sommo grado di signoria, i governatori d’essa insuperbiti, posto giù ogni religione e ogni vergogna, come ingrati e sconoscenti de’ beneficii ricevuti, a leggi e costumi di malvagi tiranni, hanno cerco con trattati e tradimenti per occulte e coperte vie, infino a venire [142] in palese a volerci sottomettere a loro signoria, e torre nostra libertà; il perchè è stato di necessità al nostro comune, per difendere suo stato e giustizia, spendere milioni di fiorini, e che è stato peggio, operarsi contro alla Chiesa di Roma, che ne diè il segno di parte, sicchè si può dire quasi contro a sè stesso; e quanto che così suoni il grido, il vero è stato, che non contro a Chiesa, ma contro a malvagi pastori e mondani; e certo questo non è stato in pensiere a quelli che hanno fatto procaccio delle prefende e d’altre cose, che dicemmo di sopra. Or seguendo nostro trattato, conoscendosi per lo papa e per lo collegio de’ suoi cardinali, i quali aveano rivocato da sua legazione il legato di Spagna e posto in suo luogo l’abate di Clugnì, che esso abate era uomo molle, e poco pratico e sperto, e sì nell’arme e sì nelle baratte che richeggiono gli stati e le signorie temporali, e che per tanto era poco ridottato e meno ubbidito, parendo loro che suo semplice governo poco atto fosse ad acquisto, e pericoloso a sostenere le terre che la Chiesa avea racquistate nella Marca e nella Romagna, diliberarono di rimandare il cardinale di Spagna in Italia con più pieno e largo mandato che per lo addietro, e così seguette; il quale, tutto che fosse sagacissimo e astuto signore, non senza consiglio de’ nostri cittadini, di quella natura della quale avemo di sopra parlato, fè la via per Firenze, dove fu a costuma di papa pomposamente ricevuto con processione, e palio di drappo ad oro sopra capo, addestrato da’ cavalieri, e con altre ceremonie [143] usate in simili casi per lo nostro comune, che piuttosto in atto d’arme che d’uficio chericile era mandato; li donarono due grandi destrieri, l’uno tutto di ricca e reale armadura coverto, e tanti altri doni, che passarono i milledugento fiorini d’oro. Giunto a Firenze, scavalcò a casa gli Alberti; e sentendosi in Firenze che ’l paese ov’era destinato avea gran bisogno di lui, per tutto si credette che giunto prendesse viaggio, ma coll’usato consiglio de’ nostri cittadini rimase a Firenze per spazio d’un mese, segretamente cercando l’accordo della compagnia, e lega col nostro comune, nella quale offerea il signore di Bologna, e tutto facea a suo vantaggio, e a mal fine e dannaggio di nostro comune; la qual cosa conosciuta ruppe il ragionamento, e il legato ciò molto ebbe a male, e si mostrò di partire malcontento dal nostro comune, avendo al servigio di santa Chiesa del continovo dai cinquecento a’ settecento cavalieri di quelli del comune di Firenze.

CAP. CIV. Come messer Gilio di Spagna parlamentò col signore di Bologna.

Partito il legato di Firenze, a dì 26 di dicembre detto anno, cavalcò dalla Scarperia, e poi traversò per l’alpe, per non appressarsi a Bologna, acciocchè ’l signore di Bologna non prendesse gelosia, e andò a Castelsanpiero; e ivi il signore di Bologna messer Giovanni da Oleggio [144] gli si fece incontro bene accompagnato di gente d’arme, e ricevettelo onorevolmente in Castelsanpiero. E ivi essendo amendue, pochi giorni appresso feciono parlamento, ove furono ambasciadori del marchese di Ferrara, e della gran compagnia, e d’altri signori e comuni, nella quale in effetto nè de’ fatti della compagnia, nè del signore di Forlì niuna concordia pigliare si potè. Il conte di Lando venuto in Forlì per trovarsi di presso al legato s’arrestò ivi, e così niente fatto si partirono; il legato si tornò a Imola, e gli altri alle luogora loro.

CAP. CV. Come la compagnia si condusse per la Romagna.

Del mese di novembre sopraddetto la compagnia si partì dalla Massa e andonne a Savignano, dove per difetto di vittuaglia stette poco, e passò in quello d’Arimini, ove consumato in breve tempo quello che accogliere poterono, per forza di fame più giorni strettamente patita, come arrabbiati combatterono il castello di Sogliano, nel quale era assai roba da vivere, e quello vinsono, e uccisono senza misericordia niuna centoventitrè abitanti. E per la vittoria di quello sormontati in orgoglio combatterono il Poggio de’ Borghi, e vinsonlo, e uccisono centocinquantacinque uomini. Veggendo vinto le fortezze maggiori e più atte a difesa, per paura le castellette vicine tutte s’abbandonarono, nelle [145] quali senza contrasto entrarono i nemici, ciò furono Raggiano, Strigaro, Montecongiuzzo, Compiano, e Montemeleto, e più altre terre poste in fortissimi luoghi in sulla stinca della montagna, ove trovarono grande abbondanza di tutta la roba da vivere. E però quivi s’arrestarono lungamente, tenendo in continovo sospetto il comune di Firenze, che temeano non scendessono l’alpe dalla Faggiuola al Borgo a Sansepolcro, e per quella di Bagno, e per questa temenza il comune di Firenze vi pose quello riparo che si potè e di gente e d’amici.

CAP. CVI. Dello stato della Cicilia.

Se bene si cercheranno le nostre scritture, e metterassi incontro tra le ree e buone fortune, troppo avanzeranno le sinistre le felici e avventurose, che appena si troverà non dirò uno mese dall’anno, ma uno dì solo, che tra’ cristiani, in qualche parte della terra che per loro si possiede, qualche pessima cosa e degna di nota surta non sia. Noi avemo per più riprese poco addietro parlato delle travaglie de’ nostri paesi e parte di quelle de’ Franceschi, e se intra esse fosse stato punto di tempo quieto o tranquillo; quello medesimo è stato negli altri paesi pericoloso e turbato, perocchè ne’ detti tempi sono mescolate le volture della Cicilia, la quale quasi del tutto divisa, e piena di scandali e di riotte, in continove guerre sboglientate, l’una parte e l’altra [146] perseguitata con quello poco di gente che loro era rimasa, con guerra sanguinente e mortale, quelli di Messina si sono fatti capo di parte, e così hanno fatto quelli di Catania, senza redenzione offendendo l’uno l’altro, perchè n’è seguito gran danno di persone con piccolo vantaggio, e senza notabile acquisto o d’una o d’altra parte.

CAP. CVII. Del male stato del reame di Francia.

Il paese di Francia dopo la morte del proposto de’ mercatanti, e de’ suoi compagni e seguaci, non prese alcuna fermezza di buono stato, ma per contrario si ritrovò in grande confusione, che il Delfino non era amato nè ubbidito come signore nè dal popolo nè da’ baroni, e non ostante che lo tenessono per loro capo, poco era grazioso nel cospetto de’ grandi e de’ piccoli; e oltre a ciò per li trattati già scoperti stava in sospetto e paura, e per questa cagione poco potea provvedere, e meno atare il paese da’ suoi nemici. D’altra parte il re di Navarra si mantenea di fuori correndo e predando intorno a Parigi e altre ville circustanti senza trovare contasto fuori che delle mura, e continovamente sua gente cresceva d’Inghilesi, e sì di gente paesana pronta e disposta a mal fare; e per questo si scorse il paese, che fuori di Parigi e d’altre città e fortezze di Francia non si potea andare, che gli uomini non fossono presi. Il Delfino, come [147] detto è di sopra, non potendo a tanto male porre rimedio, e temendo di tradimento, il quale poco appresso si scoperse, stava a riguardo, e aspettava si mutasse fortuna.

CAP. CVIII. Di mortalità d’Alamagna e Brabante.

Essendo ancora il braccio di Dio disteso sopra i peccatori non corretti nè ammendati per li suoi terribili giudicii a tutto il mondo palesi, e per gastigarli e riducerli a migliore vita, nel detto anno nel tempo dell’autunno ricominciò coll’usata pestilenza dell’anguinaia a flagellare il ponente, e molto gravò in Borsella, che del mese d’ottobre e di novembre vi morirono più di millecinquecento borgesi, senza le femmine e’ fanciulli, che furono assai. Ad Anversa, e a Lovano, e nell’altre ville di Brabante il simile fè. Non toccò la Fiandra, poichè altra volta non era molto stata gravata, e però Brabante più ne sentì; e per simile modo avvenne nella Magna a Basola, e in altre città e castella infino a Boemia e Praga, le quali dalla prima mortalità non erano state gravate. In questi tempi fu ne’ nostri paesi in Valdelsa, e in Valdarno, di sotto, e nel Chianti, quasi come l’anno dinanzi passato, generali infermità di terzane, e di quartane, e altre febbri di lunga malattia, delle quali pochi morivano. Di ciò si maravigliarono le genti di Valdelsa e di Chianti, perchè sono in buone arie e purificate, perchè due anni l’uno appresso l’altro fossono maculati [148] di simili infermitadi, non conoscendo alcuna singulare cagione di quello accidente.

CAP. CIX. Di giustizia fatta in Parigi.

E’ non è da maravigliare della crudeltà de’ tiranni, a cui li savi e valorosi cittadini sempre furono paurosi e sospetti, s’e’ si dilettano nello spargimento del sangue innocente, per mantenere colla spaventevole rigidezza della infinta giustizia in sicurtà la gelosia del loro stato violento, e per tanto sospetti, e poco accetti a’ sudditi, e sottoposti a molti aguati e ruine. Ma di certo è da prendere singulare ammirazione, quando questo iniquo animo cade nel sangue reale per lo titolo della naturale signoria, la quale suole essere mansueta e benigna, e con umanità, eziandio offesa, trattare i sudditi suoi. Questo diciamo, perchè del mese di novembre detto anno, essendo il Delfino di Vienna nella città di Parigi, per sospetto d’alcuno trattato, del quale chiara verità non si potea sapere, fece pigliare il conte di Stampo parente del re di Navarra, e ’l conte di Rossì, e ventisette borgesi di Parigi, dicendo, che trattavano contro a lui col re di Navarra. Per questi borgesi l’università di Parigi turbata e commossa, mandarono il proposto de’ mercatanti con altri de’ maggiori borgesi al Delfino per riaverli, con dire che non erano in colpa. Il Delfino rispose, che dove non fossono in colpa, non bisognava loro di temere, e che [149] sopra ciò procederebbe temperatamente infino ch’avesse la verità del fatto. E per questo savio modo racquetato il primo bollore del popolo, poco appresso, dicendo che li trovava colpevoli, tutti i detti borgesi fè decapitare; i conti riserbò in prigione. Di ciò la comunanza fu mal contenta, e mormorava, ma per paura catuno, non avendo capo a loro modo, soffersono il nuovo gastigamento del vecchio peccato, comportandolo senza altra novità, più per servile pazienza che per onorare o piacere al loro signore.

CAP. CX. De’ dificii fatti a sant’Antonio di Firenze.

Io non so s’egli è da lodare o da biasimare il prelato che spende negli edificii magnifichi il danaio che trae del beneficio a lui conceduto, perocchè, secondo che dicono gli antichi decreti de’ santi padri, il prelato dee fare delle rendite sue tre parti; l’una dee spendere nelle sue bisogne, l’altra dee distribuire a’ poveri, e dell’altra dee racconciare la Chiesa, quanto si richiede a onestà di religione fuori di pompa mondana: ma considerato che tutti coloro che prendono frutti de’ beni della Chiesa delicatamente ne vivono, e quello che loro avanza ai loro congiunti dispensano, e poco si curano perchè rovinino le Chiese, o perchè i poveri di Dio si muoiano di fame, assai è da considerare intorno a quello che qui è nel principio proposto. E certo, se vento di fama mondano non levasse in [150] alto alquanti che hanno ne’ beneficii loro rilevatamente edificato, più sono da lodare che da biasimare, secondo il corso della Chiesa terrena lussuriosa e avara, al cui esempio assai disonesto e dannoso i secolari, che sono ghiotti de’ beni terreni, vivendo trascorrono in grandi e disordinati peccati. Questo tanto sia detto non per correzione, che non la vogliono udire, e nostro uficio non è predicare, ma per argomento alla materia che segue. Messer frate Giovanni Guidotti comandatore nella nostra provincia nell’ordine di sant’Antonio, nato nella città di Pistoia non di legnaggio gentile ma di meno che comune, uomo secondo suo stato d’animo grande e liberale, avendo de’ suoi beneficii accolta moneta assai, la quale secondo l’uso corrotto, del quale avemo parlato di sopra, poteane ne’ suoi prossimani convertire, la spese negli edificii magnifichi e nobili, i quali in questo anno fè cominciare al luogo dell’ordine suo posto presso alla porta a Faenza, ne’ quali convertì gran danaio. Avemone fatta memoria in rimprovero dell’avarizia di molti prelati, i quali spogliano le Chiese che ne’ paesi loro e ne’ forestieri a loro sono concedute, non curando nè l’ira di Dio nè l’infamia del mondo.

[151]

LIBRO NONO

CAPITOLO PRIMO. Il Prologo.

Volendo seguire il costume dello scrivere per noi cominciato, dovemo alcuno prologo fare al nono libro di nostra opera; e perchè di cose occorse in questi tempi niente degno di notabile fama ci si apparecchia d’onde torre principio atto a proemio, ci trarremo alquanto addietro a materia che assai maravigliosa ci pare: e per meglio dare a intendere quello che ci va per la mente, mescoleremo delle strane vecchie con le nuove. Trovasi nell’antiche ricordanze, e massimamente nelle romane, che per cupidigia di temporale signoria, sott’ombra d’acquisto d’onore mondano e di fama, i re, li principi, li tiranni, e, che meno pare credibile, i popoli liberi, sotto il governo de’ consoli, senatori, e tribuni, e altri rettori al tempo delli falsi iddei e mendaci, senza niuna giusta cagione, con grandi apparecchiamenti di legioni armate assalivano li reami, le provincie, e le cittadi che si voleano posare e vivere in libertà sotto loro leggi e costumi, [152] prendendo e distruggendo con ferro e con fuoco chi loro s’opponea, e per forza recavano tutti in servaggio. Ancora si trova che molte salvatiche e barbare nazioni, o per essere di soperchio ne’ luoghi di loro origine multiplicati, o per fuggire i loro luoghi poveri e bretti paesi, o per essere di quelli violentemente cacciati (come occorse al buono Enea Troiano, e a molti altri nobili e potenti signori) con loro donne e famiglie passarono in paesi forestieri, per acquistare sito dove si potessono alloggiare; e per ciò potere conseguire, cose grandi e pericolose in fatti d’arme, alte e rilevate feciono, come ne manifestano l’antiche scritture, e massimamente quelle de’ Gotti e de’ Longobardi. Queste cose inique e scellerate, tuttochè n’avessono alquante scusa di presa di necessità, la quale a niuna legge pare sottoposta, hanno alquanto di colorata giustizia; nondimeno da’ savi gentili assai è biasimata e ripresa: e certo a noi cristiani pare, che la giustizia di Dio debitamente per l’abominevole peccato della idolatria..... Ma chi difenderà il tempo della grazia? cioè il tempo cristiano; sozzamente maculato dalle orribili persecuzioni da’ micidii di.... predatori, e distruggitori, che già anni quarantasei, o in quel torno, sotto piacevoli nomi di compagnie in diverse parti della cristianità, sotto loro capitani e conducitori raunati, hanno tribolato e afflitto, ed usurpato e guasto i reami, le provincie, città e ville, rubando, ardendo, e uccidendo senza niuna misericordia ogni maniera di gente. Chi crederà che tanti signori nobili e gentili uomini, tanta buona gente d’arme si sia accozzata [153] co’ ribaldi, e ladroni, e vile gente, pronta e disposta allo spargimento del sangue umano, e a fare ogni male che pensare si possa per scellerata persona? Certo egli è cosa inenarrabile, e incredibile a pensare, che questa malvagia gente rinnovandosi di tempo in tempo sotto nuovo governo, e sotto diversi e varii titoli di compagnie, senza trovare contrasto o resistenza abbia corsi i paesi cristiani, e fatto ricomperare i signori e’ comuni, avendo ognuno per di grato a nemico, sostenendo e per fame e per freddo e per altre cagioni tormenti, martirii e affanni da loro fede a chi ne facesse memoria di questa pistolenza. Alquanti savi uomini vogliono dire, che il movimento del cielo, e la congiunzione di certe pianete ne sieno state cagione. Altri, a cui noi assentiamo come a più veritieri, affermano ciò avvenire per giusto giudicio di Dio, il quale dice: Io farò la vendetta de’ nemici miei co’ nemici miei; e l’empio regnerà per li peccati de’ popoli. Le cagioni dell’ira di Dio, come pubbliche e manifeste le tacemo, e se pure ne volessimo dire, basti sotto il fascio di poche parole di dire cotanto, che secondo il pensiere di molti discreti mai non fu il mondo peggiore, ne più contaminato d’ogni vizio, e maggiormente di quelli che più sono odiosi e dispiacevoli a Dio. Potrebbesi dire il mondo crudele, senza niuna carità o amore; e chi volesse questo testo chiosare, a suo modo e piacere lo si chiosi, che dire non potrà tanto male che assai peggio non sia.

[154]

CAP. II. Come la compagnia si partì da Sogliano e ricevettene danno.

Tornando a’ processi della compagnia e a’ suoi andamenti, avendo vinto per battaglia il castello di Sogliano, e alquante altre castellette della montagna, come addietro dicemmo, essendosi in quello alloggiati, per vernare o per sentore di nuova civanza, o perchè loro paresse stare oziosi non facendo qualche male, o per rigoglio, com’erano usati, tutta la roba che per lo paese poterono raccogliere raunarono, e arsono l’altre castella delle quali dubitavano che non offendessono Sogliano; e volendo mostrare una singulare confidanza de’ terrazzani di Sogliano, loro raccomandarono tutta la detta roba, e più di cento di loro compagni ch’erano malati, e de’ buoni e valenti che fossono nella brigata, facendo buone e larghe promesse a quelli di Sogliano, come se fare volessono quello luogo loro camera o ridotto, e fare certo chi dentro vi fosse; e ciò fatto presono viaggio, e si passarono sopra Rimini assai presso alla terra, e’ paesani d’intorno, ch’erano dalla compagnia stati rubati, e arsi e distrutti, e i loro congiunti e amici o morti o guasti delle persone, e però, come sentirono che la compagnia s’era allungata, prestamente e per forza si ritornarono in Sogliano tutti, e quanti vi trovarono di quelli della compagnia, sì de’ malati come di quelli che li servivano, [155] senza niuna misericordia gli tagliarono e uccisono, e ciò che trovarono nel castello rubarono e portarono via, lasciando in abbandono le mura; e questo occorse del mese di gennaio del detto anno. La compagnia essendo stata alquanti giorni sopra Forlì in molti disagi, sì per le nevi ch’erano grandi, e sì perchè trovarono nel paese poca roba a tanta brigata, si partirono di quindi, e appressaronsi a Forlì, e in Forlì dal popolo per comandamento del capitano ebbono ricetto, e rinfrescamento di pane e di quello, che dentro v’era riposto. Questo facea il capitano, perchè ogni altra speranza di difesa dal legato, fuori che di questa compagnia, del tutto gli era mancata; di che più curando di suo stato, che sè o ch’e’ suoi sottoposti e servidori, con loro mescolò molte fiate la scellerata compagnia, con danno e con vergogna e disagio grande de’ suoi cittadini.

CAP. III. Come il comune di Firenze diede balía a’ cittadini contro alla compagnia.

Vedendo il comune di Firenze che la mala brigata della compagnia sempre crescea, e che il verno passava, e appressavasi il principio della primavera, sicchè il tempo s’adattava alla guerra; e sentendo che il conte di Lando, come persona offesa, forte si dolea del nostro comune, e che esso e la compagnia per assentimento comune forte ne minacciavano, e che mai campo [156] non si mutava che tutti non gridassono a Firenze, a Firenze; e volendosi provvedere sicchè al tempo si trovasse sufficiente e in punto di potere rispondere alla potenza e al mal volere della detta compagnia, ed essendo perciò necessario di trovar modo come abbondanza di pecunia venisse in comune senza gravezza e offesa de’ cittadini, a dì 12 di gennaio gli anni 1358, provvidono per gli opportuni consigli che si facesse il quarto monte, ciò fu una prestanza generale di fiorini settantamila d’oro alle borse possenti, e chi prestasse per sè o per altrui, fosse scritto nel detto monte a creditore del comune nell’uno tre, e avesse di provvisione il danaio per lira il mese, che venia a ragione di cinque per cento degli scritti, e de’ prestati a ragione di quindici per centinaio, con le immunitadi e privilegi degli altri monti; e perchè la cosa avesse esecuzione prestamente, feciono sedici uficiali, quattro per quartiere, con larga e piena balía a potere accattare quanta moneta paresse loro; i quali uficiali senza perdere tempo di subito composono settantamila fiorini d’oro, e poco appresso ne posono cinquantamila fiorini d’oro, i quali tutti si ricolsono in piccolo tempo e interamente, e i risidui per tutto il mese di dicembre 1359, con tanta pace e buono volere, che a niuna persona non fu nè guastagli casa, nè eziandio mandatoli messo, l’uno per l’altro pagava prendendo vantaggio, e il comune rispondea del dono e interesso fedelmente a’ tempi ordinati.

[157]

CAP. IV. Come procedette la compagnia in Romagna.

Poichè preso ebbe la compagnia per alquanti giorni rinfrescamento in Forlì, per non consumare il gentile uomo, che era a stretti bisogni, e loro dava ricetto, non ostante il tempo fosse per le nevi e freddure a gente d’arme malagevole, si partì, e misesi sulla marina sopra Pesero e Fano, stendendosi fino alle coste di Montefeltro; e loro convenia così fare, perchè la gente era molta, e per lo disagio delle nevi non poteano stare insieme, e sufficiente vittuaglia per loro e per la brigata loro non poteano avere, e per lo piccolo luogo non poteano trovare bene loro agio ancora da quelli di Montefeltro pagando derrata per danaio, e il freddo pugnente e nevi sopra nevi loro facea portare grande penitenza de’ loro misfatti. Molti uomini d’arme, mai più de’ saccardi, per lo brusco tempo, e per lo disagio e mala vita, non provveduti si morirono; e grande parte de’ loro cavalli si guastarono per difetto di strame, e per lo mangiare del grano, ch’altra biada non aveano che dare loro; e perchè a loro li convenia tenere al sereno, e al ghiaccio e alla neve senza coverta; ben s’atavano quanto poteano con gran fuochi d’ogni legname, sicchè si poteano dire mezzi sconfitti dal tempo. Questo loro pessimo stato li fece fallire, che non ostante che da Montefeltro fossono di vittuaglia per li loro danari sovvenuti, per inganno [158] entrarono in Montedifabri, ove alquanto di roba trovarono che un poco rendè li spiriti loro, ma non potendo più nel luogo durare, si traslatarono intra Iesi e Sinigaglia, e in quel luogo ebbono trattato d’acconciarsi al soldo col duca d’Osteric, che, come addietro dicemmo, era stato titolato dall’imperadore re de’ Lombardi, ma non ebbe luogo, perchè domandavano soldo impossibile alla borsa del duca. Ma per dare a intendere se fu la verità se ’l verno fu freddissimo e aspro, in Bologna tanto alzò la neve, che comunemente giunse all’altezza di braccia dieci, onde per ricordanza in piazza si fece una grande volta sotto la neve, nella quale si fece convito e festa per certi giovani ricchi, per ricordanza della grande neve. Passando di luogo in luogo la detta compagnia con angoscia e con fatica, in su l’uscita di febbraio, tirando verso Fabriano, s’arrestò alla Roccacontratta, facendo secondo il loro uso, ma non trovando quivi vittuaglia che a loro fosse bastevole, eziandio per piccolo tempo, presono il passo della terra a Santagnolo, il quale avvisatamente fu loro conceduto, perchè avessono cagione di più tosto uscire del paese. E stando la compagnia in queste travaglie, il cardinale di Spagna legato del papa senza assento del nostro comune, continovo con la detta compagnia cercava convegna, e ’l nostro comune si provvedea e ordinava alla difesa, poco curando minacce, e con balestrieri e fanti intendeano alla guardia de’ passi, guardando i valichi e i luoghi che di Romagna poteano dar loro via a venire sul nostro terreno.

[159]

CAP. V. Di novità state tra’ signori di Cortona.

La signoria di Cortona, la quale lungo tempo è durata nella famiglia di quelli da Casale, per successione era venuta in due fratelli carnali, de’ quali l’uno avea nome Bartolommeo, e per senno e per età era il maggiore, in lui cantava il titolo della signoria, tutto che le rendite rispondessono egualmente a lui e al fratello che avea nome Iacopo, il quale avea per moglie la figliuola di messer Francesco Castracani di Lucca; la quale essendo di questa vita passata, Iacopo, come uomo di vita dileggiata e disonesta, si tolse per moglie una femmina mondana, la quale s’avea tenuta due anni innanzi la morte della donna sua fuori de’ loro casamenti, e ciò fatto procedette più oltre, e volea la femmina vituperosamente ne’ palagi abitare con la donna di Bartolommeo, ch’era di gentile legnaggio, e d’animo grande e di vita onesta e signorile, la quale in niuno modo il volle patire; onde intra’ fratelli nacque riotta, e della riotta col favore e consiglio de’ loro amici fu concordia, nella quale di comune assento dierono in guardia la rocca a uno che tutto era famiglio di Iacopo, e a Bartolommeo era confidente amico, con patto che per loro la dovesse tenere comunemente, e guardarla, e non darla all’uno senza l’altro. Segue, che a dì 8 di febbraio 1358, che vedendosi Iacopo per difetto di gotte impotente della [160] persona, e per tanto dal fratello trattato non bene, e poco avutolo a capitale, tolse il figliuolo piccolo di Bartolommeo, e lui menò alla rocca con due suoi figliuoli e trenta cittadini di suo intendimento colla signoria. Giunto alla porta, con ingannevoli e composte industrie condusse il castellano a farlo aprire, ed entrò dentro colla brigata, e pinse fuori il castellano, e come fece follemente l’impresa, così con poca provvedenza male la condusse, non avendo di fuori ordinato donde li venisse il soccorso. Sentendo il signore quello che ’l fratello avea fatto, come savio e coraggioso, col favore de’ suoi cittadini subito fece prendere il torrione che dava entrata alla rocca, e di fuori a campo si mise, fortificando di fossi e palancati il luogo che non poteano essere forzati; onde Iacopo, che s’era rinchiuso in prigione, mancandoli per la mala provvedenza la roba da vivere, all’uscita di febbraio cercò patti col fratello, il quale glie le fece volentieri, per levarsi da dosso i sospetti di fuori e dai pericoli che in simili casi possono occorrere; li patti furono, ch’e’ potesse abitare ne’ palagi che allora erano comuni, e avere certe provvisioni, e che i suoi seguaci e compagni fossono salvi delle persone, e in grazia di Bartolommeo; e in effetto gli fu ogni cosa promesso, ed egli rendè la rocca, e fu messo ne’ palagi, ma bene guardato, e tutta sua famiglia li fu levata; ma poi appresso a due dì, quelli che con lui erano entrati nel cassero furono morti dal figliuolo del signore, onde gli altri per lo migliore si cessarono; sicchè Bartolommeo si rimase libero del tutto signore. [161] Iacopo vedendosi mal trattare, furtivamente si partì e andossene a Siena, dove non avendo dal fratello alcuna provvisione, traeva sua vita assai miseramente.

CAP. VI. Dello inganno fatto per lo legato al comune di Firenze della compagnia.

Noi avemo per molte riprese fatta memoria nelle nostre scritture de’ notabili vizii de’ nostri cittadini, i quali vizii da avarizia per cupidigia di loro private ricchezze, e l’utile e l’onore del comune niente hanno in calere, non sotto speranza che per loro riconoscenza ammenda ne segua, tanto è l’usanza corrotta trascorsa e cresciuta per la baldanza de’ passati cittadini, che sempre straboccatamente è cresciuta per non essere de’ suoi falli corretta, ma perchè li diritti e fedeli cittadini che si ritrovano agli ufici li tengano a freno, se non colle parole almeno colle fave, non seguendo loro dissoluti consigli, vogliosi e non liberi, e alla repubblica dannosi. E certo la materia di che dovemo al presente fare nota è evidente, e buono esempio sopra quelli che verranno poi, se fia con buono zelo fedelmente ricolta. Il legato di Spagna, benchè di grande animo fosse, e uomo baldanzoso e di grandi imprese, era savio e discreto, come nel precedente libro dicemmo; ed essendo venuto a Firenze, coll’industria e consiglio de’ nostri cittadini ch’erano a sua provvisione, più volte tentò con sagaci e be’ modi, [162] che ’l nostro comune prendesse accordo con la compagnia, non tanto per affezione ch’avesse all’onore e bene del nostro comune, quanto per levarsi da dosso la forza loro co’ danari del nostro comune. E cerco e ricerco, trovato il nostro comune fermo e costante in volere piuttosto spendere in sua difesa ogni gran quantità di danari, che ricomperarsi qualunque piccola cosa dalla compagnia, per levare via il preso costume di sì fatta gente, che le città libere di Toscana e i possenti tiranni aveano recati sotto palese tributo, vituperio e vergogna de’ signori naturali, e della antica fama degl’Italiani, e massimamente del nome romano; seguendo il consiglio di cui avemo ragionato, all’uscita del mese di febbraio del detto anno, e per sè e per lo nostro comune, come avemmo mandato, fermò concordia colla compagnia, la quale in effetto fu in questa forma: che a loro darebbe fiorini quarantacinquemila d’oro per la Chiesa di Roma, il comune di Firenze fiorini ottantamila, ed eglino infra quattro anni seguenti non dovessono offendere la Chiesa nè sue terre, nè ’l detto comune di Firenze, nè suo distretto e contado; e soggiunse nel patto, che se infra cinque dì il comune di Firenze, ricevuta la lettera da lui, non accettasse liberamente la detta concordia, che ’l detto legato fosse tenuto loro dare fiorini diecimila. E questo mercato procedette da sagace consiglio; perchè li fu dato a intendere, che per la tema che ’l comune avea della compagnia, veggendosi dell’impresa abbandonare dal legato, e avendo poco rispetto e a consigliare e a provvedere per [163] lo favore de’ grandi cittadini, che per diversi rispetti, come detto avemo, accostavano il legato, che farebbono sua intenzione, aggiugnendo, che il nostro comune per reverenza di santa Chiesa, e di lui, di cosa fatta non gli farebbe vergogna, ma tutto avvenne altrimenti. Il legato per due fatti propri significò la detta concordia; la quale intesa in molti consigli de’ cittadini, quanto che fosse per alquanti confortata e lodata, in generale comunemente dispiacque, e fu in singolare abominazione, e coralmente, per quelli ch’amavano lo stato e l’onore del comune, perchè parea che ’l legato volesse guidare il nostro comune e prendere sua tutela, e più sottilmente pensando, ombra di tacita signoria; onde il popolo apertamente parlava in vergogna del legato, e di comune volere si prese, che la detta convegna non si accettasse; e risposto fu al legato, che questa, nè altra concordia con la compagnia il nostro comune non volea, mostrando l’animo grande in poco prezzare il nimico: e per non mostrare cruccio nè sdegno, e per rimuovere il legato dal proprio nemico (non buono e male consiglio) di presente crearono solenne ambasciata, e la mandarono al legato, e condussonlo a tanto, ch’e’ promise di non fare accordo, e di nimicare a suo podere la compagnia, avendo il braccio del nostro comune. Ciò nonostante operava o per malizia o per senno; e a dì 21 del mese di marzo si convenne con la compagnia per fiorini cinquantamila, i quali promise di pagare anzi che si partissono delle terre della Chiesa. E aspettando la compagnia prima la concordia, e appresso [164] la detta prebenda, quasi come se avesse a fare la sua vendemmia, sì s’allargava per lo paese studiosamente predando e facendo ogni male, e per quattro riprese combatterono un castello in su quello di Fermo, e non lo poterono avere; il perchè il legato s’affrettò di pagare. La compagnia vedendosi fuori del verno, e rincalzata de’ danari ricevuti dal cardinale, e nella speranza d’avere da’ comuni di Toscana, stava baldanzosa, e a giornate fortemente cresceva sì di gente a cavallo e di gente tedesca che cassare si faceva, e sì di gente a piè, che per rubare di volontà si mettea in brigata; e come per gli effetti di questa compagnia si vide, gente di sì fatta ragione poco si cura di fare vendetta di sua brigata, e molto meno di purgare sua vergogna pure ch’abbi danari, e chi è morto s’abbi il danno, e poi è la sua morte vendetta; il perchè seguendo loro costume, credendo con le grida spaventare il comune di Firenze e farlo ricomperare, a ogni piè sospinto con istrida e romore minacciavano il nostro comune.

CAP. VII. Il male seguì per l’accordo fatto dal legato con la compagnia.

Sentendo il comune di Firenze per la relazione de’ suoi ambasciadori che il legato avea fermo per sè l’accordo con la compagnia, e abbandonato nell’impresa grande e pericolosa il nostro comune, forte si dolse, recandosi dinanzi [165] dagli occhi gli onori fatti a’ prelati ch’erano passati di qua, e massimamente a costui, e i danari ch’avea speso per difendere la Chiesa di Roma in aggrandire suo stato in Italia, nel cui servigio avea per più anni quasi del continovo tenuti da quattrocento in cinquecento cavalieri, e da settecento in ottocento balestrieri, senza il grande aiuto de’ suoi singulari cittadini, e distrettuali, e contadini, i quali in meno di sei settimane di perdono, come s’elli combattessono con gl’infedeli, e in commessa del papa avea tratti altrui di borsa fiorini centomila. E quanto che questi servigi perduti conturbassono assai il nostro comune, quello che non si potea smaltire era, che ’l comune avea offerta tutta sua possa al legato a disfare la compagnia e cacciarla de’ terreni della Chiesa, ed egli l’avea accettata, e battendo la compagnia sotto questa profferta, avea fatto mercato, e venduto loro la parte del nostro comune. Aggiugnesi a questa novella non buona, ch’e’ Pisani, e’ Sanesi e’ Perugini per loro segreti ambasciadori cercavano accordo con la compagnia, e per ciò sturbare tenea il comune suoi cittadini a confortare i detti comuni all’unità e alla difesa, mostrando che la resistenza era la salute de’ comuni di Toscana che voleano vivere in libertà e in pace; perocchè levata la speranza del riscatto, quella gente perversa, che solo per ingordigia di ciò si ragunava a mal fare, non sarebbono sì pronti a farsi cassare per fare compagnia; le risposte erano fratellevoli e buone, e gli effetti in occulto del tutto contrari, come si manifestò per lo fine.

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CAP. VIII. Di molte fosse feciono i signori di Lombardia per difesa de’ loro terreni.

Veggendo i signori di Milano li scorrimenti delle compagnie, e che ’l paese d’Italia spesso affannato di guerre era, e non era per quotare, per più sicurtà e fortezza de’ paesi che teneano sotto loro signoria, con studio e diligenza feciono fare fossi ampi e profondi, uno in sul Bresciano, il quale si stendea infino al lago di Garda, e un altro nel Cremonese, e uno ne ferono fare in altro paese, i quali, tutto che l’opera fosse grande e maravigliosa, per lo terreno dolce furono in breve tempo forniti. E quanto che dalle cagioni di sopra fossono indotti, più gl’indusse il sospetto che aveano preso del duca d’Osteric novellamente titolato re de’ Lombardi, dubitando che se scendesse con la forza degli Alamanni, trovando i piani liberi e spediti e senza riparo, loro offesa non fosse più presta e maggiore; e di ciò loro aveano fatta l’esperienza la compagnia, che più volte per quelli luoghi aperti gli aveano assaliti improvviso, e assai danneggiati. E il simile fece il signore di Bologna in questi giorni, facendo fare una spaziosa e profonda fossa per simigliante temenza. E i Sanesi feciono fare una via e un ponte sopra le Chiane per avere libero il cammino d’andare a loro posta a Cortona. E...... per li signori di Milano, essendo contrario al signore di Bologna, per avere al bisogno [167] il passo e ’l foraggio di Lombardia, feciono fare via alzata in sulle valli con fossi d’ogni parte, del cui cavo era levata la via; e dove furono trovate le valli profonde vi si fè ponticelli, la quale stese per lungo cammino tanto che la congiunse col Po, la qual via per lo sito del luogo non potea essere impedita.

CAP. IX. Come il re d’Inghilterra dissimulando la pace cercava la guerra co’ Franceschi.

Poichè detto avemo, secondo che ’l corso del tempo richiede, delle fortune e travaglie de’ nostri paesi, diremo alquanto delle straniere; e cominciando a quelle di Francia, all’entrata di febbraio 1358, il re d’Inghilterra, quasi come tocco di cuore si mosse, e andò dov’era il re di Francia, e a lui disse onestissimamente s’egli attendea la pace; il re di Francia onestissimamente rispose di sì, e che la desiderava. Il re d’Inghilterra procedendo più oltre disse al re di Francia, ch’egli era in sua potestà, quando facesse quelle cose che dovea fare. Il re rispose, ch’era pronto e disposto, ma il che non sapea. Allora il re d’Inghilterra per convegna di buona pace chiese in sua domanda la contea di Bologna sul mare; e che il re pacificamente li lasciasse possedere la Guascogna, e certa parte della contea d’Anghiem, e la Normandia, senza farne omaggio niuno; e che il conte di Monforte delle terre che tiene in Brettagna ne facesse [168] omaggio al re d’Inghilterra, e togliesse la figliuola per moglie; e di quello che tiene nel detto paese messer Carlo di Brois duca di Brettagna ne facesse omaggio al re Giovanni di Francia, com’era usato, e che per ammenda desse fra certi termini cinquecento migliaia di marchi di sterlini, che montavano due milioni e mezzo di fiorini. Il re di Francia, ch’era prigione, consentiva a ogni cosa per sua diliberanza, ma troppo era di lungi il potere dal volere, e ciò bene conosceva il re d’Inghilterra, ma con usata astuzia inghilese, essendo certo nell’animo suo che quello ch’e’ domandava fare non si potea, per potere calunniare il re di Francia di rottura di pace e di fede, e per potere la sua non diritta intenzione antipensata adempiere, dovendo secondo i ragionamenti avuti tra loro passare in Francia, sotto colore di più presta e spedita esecuzione della pace, fece fare gride per tutte sue terre, che sotto la pena del cuore niuno Inghilese con arme passasse nel reame di Francia, promettendo di fare tornare tutta sua gente d’arme che fosse nel reame di Francia. E per mostrare della detta pace singulare allegrezza, i figliuoli del re feciono bandire in Londra una giostra, dove molti signori e gentili uomini dell’isola a loro richiesta s’appresentarono, con molta allegrezza e festa di tutto il reame, seguendo per questa cagione il contrario nel reame di Francia, come più innanzi del nostro trattato faremo menzione.

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CAP. X. Come il re di Navarra tribolava Francia.

Gli effetti della infinta e non vera pace tra i sopraddetti due re si cominciarono a scoprire del mese di marzo seguente, perocchè il re di Navarra, ch’era creatura del re d’Inghilterra, colla forza degl’Inghilesi entrò una notte di furto in Alsurro, e non potendo vincere la rocca, ch’era forte e bene guarnita alla difesa, fè la terra rubare, e mettere al taglio delle spade grandissimo numero di cittadini e paesani che quivi erano ridotti, e secondo che troviamo per vero, oltre a seimila vi furono morti. Fu riputata crudelissima cosa e disusata, perocchè simile cosa più occorsa non era nella lunga triegua e pertinacia della detta guerra. Partito il detto re di Navarra con sua gente d’Alsurro, se n’andarono al Tu, e stesonsi infino in Torì, e ivi combatterono e presono uno forte castello ove trovarono molta roba; e predato le cose sottili, fornirono il castello, e lasciaronvi sofficiente difesa, cercando dove potessono fare danno. E oltre a queste inique operazioni del re d’Inghilterra, e’ si copria sotto lo scudo del re di Navarra, la cui forza tutta era d’Inghilesi: e pertanto si potea dire pessima cosa, che era radice di tradimento, perocchè i paesani allegrandosi per lo grido della pace novella non attendeano alla guardia come erano usati, e pertanto ricevettono danno in molti luoghi grandissimo; onde essendo improvvisi fidati, [170] così malmenati, e senza capo o consiglio, si diruppono quasi tutti a mal fare; verificando l’antico proverbio che dice, tra pace e tregua guai a chi la lieva.

CAP. XI. Del male stato di Cicilia in questi tempi.

Le discordie continovate per lungo tempo tra’ Ciciliani aveano l’isola ridotta in somma impotenza e miseria, e in stato sì fievole, che poco degno pare di memoria per le sue opere inferme e di poco valore, pur seguendo quelle, tali quali furono racconteremo. In questo anno 1358 del mese di febbraio, uno bastardo della casa di Chiaramonte, detto per nome Manfredi, uomo assai valoroso e ardito, se n’andò a Messina, e sagacemente cercò se avesse potuto riducere i Messinesi al volere del duca, figliuolo che fu del re di Cicilia, a cui erano avversi e contrari tutti quelli di Chiaramonte, e per sua parlanza avea tanto operato, che i principali parziali de’ Messinesi inchinavano e davano orecchie. Ma messer Niccolò di Cesare, il quale per lo re Luigi avea la maggioranza e lo stato, sì s’oppose, e non volle assentire, mostrando, che se quella città perdesse l’aiuto e lo foraggio della vittuaglia che traeva di Calabria era in pericolo di fame, e di venire per tanto in desolazione e in miseria. Quelli di Chiaramonte veggendo i crolli che aveano per sostenere la parte del re Luigi, e che da lui non era favore bastevole a mantenere [171] loro stato, ripresono e ridussono a loro lega la Stella di Palermo, e molte altre fortezze e tenute, le quali aveano lasciate nella guardia del re Luigi, il quale per non potere resistere alla spesa non le potea guardare; e forte temeano che non le riprendessono i Catalani. E nondimeno mandarono il detto Manfredi a Napoli al re Luigi significando lo stato loro e del paese, e pregandolo che mandasse loro gente d’arme sofficiente a resistere alla potenza del duca e dei Catalani, la quale tutto che piccola fosse, pure era maggiore che la loro, e da sormontare in breve tempo se non trovasse contasto, che continovamente crescea, sì perchè li paesani volentieri tornavano alla grazia del signore naturale, e sì perchè d’Araona li venia soccorso. Sentendo ciò il re Luigi, e non potendosi come desiderava, per l’impossibilità fare prestamente quello che domandavano i suoi parziali, s’aiutò colle grandi e larghe impromesse, promettendo d’andarvi in persona senza lungo indugio di tempo. E di presente fè sua ambasciata, e mandò a richiedere d’aiuto il comune di Firenze, e gli altri comuni di Toscana per la sua andata in Cicilia. E per dare a’ suoi amici e servidori speranza, mandò innanzi da sè il conte da Riano con trecento cavalieri e con pedoni nell’isola, e operò sì che messer Niccolò di Cesaro per la detta cagione venne per suo ambasciadore in Toscana; e come ne seguì di questa materia a suo tempo racconteremo.

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CAP. XII. Del male stato di Puglia per ladroni.

Come detto avemo nel capitolo di sopra, il re Luigi promise di passare alla difesa e acquisto della Cicilia, e non era sufficiente, come appresso diremo, a purgare e a difendere suo reame delle continove ingiurie e ruberie de’ ladroni che correvano il Regno con disordinata baldanza. E ciò addivenne, perchè in questi dì i baroni non erano in pace e in concordia col re, e massimamente i reali, e il re aveva piccola entrata, e però tenea poca gente d’arme a gastigare col ferro e col capestro il gran numero de’ ladroni sparti quasi per tutto il reame, e caldeggiati da’ detti reali e baroni per odio del re. E pertanto in più parti del Regno si cominciarono a fare raunanze di gente malandrina disposta a rubare, e feceano loro capitano, e rompeano le strade, e correano per lo paese ora in una ora in un’altra parte, forte conturbando i forestieri e’ paesani con rapine, e violenze, e omicidii, fra i quali uno friere dello Spedale per trattato rubellò Alfi, e fecelo spilonca e ricetto di questi ladroni: e altri ladroni in Nieboli feciono il simigliante: e alcuna altra brigata di questa pessima gente ferono capo in Valle beneventana, e altri di loro ginea altrove in diverse contrade, tenendo i paesi affannati, perchè andare non si potea sicuro in niuna parte del Regno, se non con sicurtà de’ baroni del paese, i quali nel vero a loro davano ricetto [173] per essere temuti da’ paesani. Di tanti mali giustizia fare non si potea; ma i ladroni mancando la preda, e crescendo l’ira de’ paesani, e la paura de’ loro malificii, partendosi molti da compagnia, i caporali rimaneano con minore seguito, e meno poteano fare nocimento.

CAP. XIII. Della morte di messer Bernardino da Polenta signore di Ravenna.

Essendo stato lungo tempo malato messer Bernardino da Polenta tiranno e signore di Ravenna e di Cervia, a dì 13 di marzo 1358 lasciò insieme la signoria e la vita. Costui fu dissoluto e mondano, e di sfrenata lussuria; crudele e aspro signore, e nimico di tutti coloro che montassono in virtù e in ricchezza, e tutti gli antichi legnaggi dell’antica città e nobile di Ravenna spense e distrusse, non meno per cupidigia d’usurpare i loro beni, che per tema che per alcuno tempo non li fossono avversi; il perchè in Ravenna al suo tempo altro che artefici minuti e villani non si vedeano. Costui talora come censuario rispondea alla Chiesa di Roma, mostrandosi divoto e amico, ma copertamente l’era contrario, favoreggiando i rubelli della Chiesa in Romagna e nella Marca. E avendo ne’ dì suoi la fortuna benigna, di masserizia, di grano, e di bestiame, e di sale, e delle colte de’ cittadini e de’ contadini disordinatamente gravati fè grande tesoro; e quanto ch’all’anima poco fruttasse, pure nell’estremo [174] fè testamento, nel quale istituì sua reda messer Guido suo figliuolo, e sì della signoria come dell’avere; il quale, morto il padre, con la forza degli amici e della gente dell’arme al popolo si fè confermare per quella poca di giurisdizione che la Chiesa dice d’avere in Ravenna, e con provvedere al legato anche fortificò la detta confermazione. Costui mosso da benignità d’animo, e da buono e savio consiglio, tutti gli antichi e buoni cittadini che dispersi per lo mondo aveano fuggita la crudeltà e l’ira del padre richiamò e ridusse in Ravenna, e cacciò via tutti i malvagi e iniqui sergenti del padre; che fu cosa notabile assai, e atto non di tiranno, ma di giusto signore naturale.

CAP. XIV. Operazioni della moría.

In quest’anno l’usata moría dell’anguinaia, la quale nell’autunno passato avea nel Brabante e nelle circustanti parti del Reno fatti gran danni, nel verno si dilatò, e comprese e passò nel Friuli facendo l’uficio suo per infino al marzo, e parte della Schiavonia, ma non troppo agramente; perocchè enfiando sotto il ditello e l’anguinaia, chi passava il settimo giorno era sicuro; vero è che in sette dì assai ne morivano. Ancora non pigliava le città e le ville comunemente, ma al modo della gragnuola l’una lasciava stare e l’altra prendea; e durando dove cominciava dalle venti alle ventidue settimane, molta gente d’ogni generazione trasse a fine.

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CAP. XV. Di certa novità ch’ebbe in Perugia in questi tempi.

Chi vorrà con animo riposato recare alla mente quello che scritto si trova degli stati mondani dal tempo di Nembrotte primo tiranno infino ne’ giorni presenti, vedrà manifesto, che mai niuno tempo fu tanto pacifico nè tanto durato tranquillo che ne’ reami, e nelle città, e (che è più da maravigliare) nelle piccole e povere ville, non sieno stati di quelli che hanno cerco e a tutti i sentimenti del corpo e dell’animo di soprastare agli altri, e di farsi maggiori e governatori, usurpando le pubbliche e le private ricchezze; e senza recare esempi a prova di ciò, che sono infiniti, e notori e manifesti, cercate le note volgarmente hanno fatto quelli di nostra famiglia intorno alle cose che sono occorse ne’ tempi da farne memoria, troverà che non di Roma città in Italia, ma in tutto il mondo mai non fu in tanto riposo che per tutto non sentisse affanno di questa materia; onde li savi, che ricordano delle cose antiche, veggendo questi casi tutto giorno addivenire, non si dogliono nè si maravigliano, ma i semplici e idioti, che solo tengono gli occhi alle cose che sono loro davanti, si turbano e rammaricano, e mormorando stoltamente favellano, e non sapendo vedere nè dare riparo potendo si contristano. Essendo dunque questa vita comune, molte più e così ne sono state [176] maculate l’altre città di Toscana, come la nostra. E in questi tempi ne fece sperienza la città di Perugia, che essendo il popolo suo villanamente barattato per Leggieri d’Andreotto e per gli altri grandi cittadini appellati Raspanti, che con lui s’intendeano ne’ fatti dell’impresa della città di Cortona e della guerra de’ Sanesi ch’era seguita, quelli che voleano vivere mezzano e popolare senza fare danno o vergogna al suo comune ebbono tanto di podere, che feciono in Perugia venire per sindaco di comune messer Geri della casa de’ Pazzi di Firenze, cavaliere sagace e di grande cuore, voglioso e vago di novità come più volte mostrò per l’opere sue. L’uficio fu con gran podestà e balía, in ritrovare chi avesse male preso della pecunia del comune e’ beni, e punire agramente cui trovasse colpevole; il valente cavaliere, come giunse informato appieno per solenne investigagione di quelli che ne’ detti casi aveano errato, non prese gli uccellini, ma formò francamente suo processo contro al detto Leggieri, e altri maggiorenti di quelli dello stato, ad animo di farne giustizia, senza tenere in collo il processo. Gl’inquisiti non s’osavano rappresentare veggendo l’uficiale coraggioso e disposto a punire, per tema di non essere posti al tormento, e condannati personalmente e vituperosamente per barattieri e rubatori del loro comune: e colla forza de’ Raspanti, che li favoreggiavano, procuravano il dì e la notte come potessono impedire l’uficiale in forma ch’e’ non potesse procedere. I gentili uomini con tutto il seguito loro riscaldavano e francheggiavano [177] il sindaco perchè condannasse, stimando che se ciò fosse avvenuto rimaneano senza dubbio i maggiori, e volgeano lo stato. Onde avveggendosi di ciò i popolari, eziandio quelli ch’aveano cominciato la mena, si dierono a cercare de’ rimedi, e trovarono uno statuto, che essendo eletto per ambasciadore di comune, qualunque fosse e qualunque uficiale inquisito, mentre che durasse il tempo dell’ambasciata si sospendea il processo; onde operarono co’ signori, che gl’inquisiti fossono eletti per ambasciadori, e così seguette; perchè convenne che i processi cominciati fossono sospesi. Il perchè il valente cavaliere, veggendo che gli erano presi i dadi, e ch’e’ non potea fare niente di suo intendimento, lasciò l’uficio, e tornossi a Firenze. Il suo successore trovati i processi pendenti assolse i detti grandi cittadini, e per mostrare di fare uficio condannò i minori e gl’impotenti, onde a furore di popolo anzi ch’e’ finisse l’uficio fu messo in prigione e vituperosamente condannato fornì i giorni suoi in prigione.

CAP. XVI. Di sconfitta ebbono i Turchi da’ frieri.

Avendo i Turchi presa sopra i Greci disordinata e troppa baldanza, ne’ detti tempi armarono ventinove legni, e valicarono nella Romania bassa, e non trovando in pelago chi rispondesse loro si misono per la fiumara molto fra terra predando il paese, e pigliando a costuma di pecore, e [178] avendo accolti più di milledugento prigioni e altra roba assai, e ridotta tutta alla riva del fiume per caricare i navili; il maestro dello spedale che per sue spie avea della detta armata sentito, e fatto armare quattro galee e uno legno, e messovi quanti e’ potè de’ migliori e più franchi de’ suoi frieri, e altra buona gente d’arme, e nobilmente fornita e apparecchiata a battaglia, le fè senza perdere tempo dirizzare in Romania; li quali trovando come i Turchi avendo i Greci a vile s’erano messi per la fiumana, presono subitamente la bocca del fiume, e a lento passo tennono loro dietro; e non avendo rispetto perchè i Turchi molti più fossono a numero, li soprappresono quando intendeano a caricarei navili, e fidandosi nel nome di Cristo e nell’aiuto suo scesono in terra, e arditamente presono la battaglia con loro, la quale durò lungamente; e non ostante che i Turchi fossono male ordinati, erano tanti, e vedeansi in luogo che non poteano fuggire se non si facessono fare la via colle spade, però grande resistenza feciono e aspra zuffa: alla fine furono rotti e sbarattati, e la maggiore parte di loro morti e magagnati. Quelli che rimasono nella sconfitta furono tutti presi, e i loro legni e navili, che niuno non ne campò. I frieri liberata la preda e’ prigioni che i Turchi aveano presi, e con piena vittoria, si ritornarono salvi a Rodi.

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CAP. XVII. Di novità state in Provenza contro a quelli del Balzo.

I gentili uomini della Provenza che si chiamavano villanamente oltraggiati da’ signori e dalla casa del Balzo, i quali aveano tenuto e condotto gran tempo sopra loro la compagnia, desiderosi di vendicare gli oltraggi e’ danni loro fatti, del mese di marzo s’adunarono insieme con quella gente d’arme che più presto poterono accogliere senza fare segno di cui volessono offendere, e di furto presono l’Aguglia, nobilissima e bella fortezza di quelli del Balzo, e presa, senza arresto la gittarono in terra infino ne’ fondamenti. E ciò fatto, intendeano a tutto loro potere di seguire alla distruzione della casa del Balzo, se non che il papa e’ cardinali, veggendo che quella guerra tuttochè fosse tra private persone e non generale, nè con offesa altrui che di loro, per lo sturbo che di ciò seguiva alla corte di Roma vi s’interpose perchè non procedesse più oltre, e feciono racquetare i Provenzali, e por giù l’arme. In questi giorni i Borgognoni e’ Provenzali che erano nel reame di Francia stavano in pessima disposizione, perocchè chi volea mal fare non era punito, e di tali si trovavano assai, e aveano grande seguito; onde per la detta cagione i cammini d’ogni parte erano rotti, e’ mercatanti e l’altra gente rubati, ed erano sì stretti i cammini da questa mala gente, che appena i corrieri, [180] che andavano e venivano a Avignone, dalle loro mani poteano scampare; il perchè la corte stava in molto disagio, e ad altro non s’intendea che a trarre a fine le nuove mura d’Avignone: e per ciò fornire, il papa e’ cardinali aveano fatta l’imposta a tutti i cittadini e cortigiani, la quale era certa tassa in nome di capo censo, e per casa, e per famiglie e botteghe, le quali si ricoglievano ogni mese una volta, o più o meno, tre dì come il bisogno occorreva. E per seguire i fatti de’ corrieri, giugnendo insieme il caso che viene, il cardinale di Pelagorga e quello di Bologna, i quali erano stati in Francia e in Inghilterra a trattare la pace intra’ due re, come addietro facemmo menzione, tornando a corte, sentendosi, furono assaliti da gente d’arme, e nell’assalto furono morti dodici de’ famigli loro, intra’ quali v’ebbe sei cavalieri, e però fuggirono senza arrestarsi per spazio di quattro miglia, e’ buoni cavalli e gli sproni li camparono che non furono presi, e ridussonsi in Celano, non sapendo chi li cacciava. Bene si sparse la voce che i Franceschi si teneano mal contenti di loro per li trattati menati per loro in poco favore del loro re e signore; ma ciò non fu vero, ma piuttosto operazione di rubatori, che stimarono essere ricchi se gli avessono potuti pigliare, che atto di vendetta per sdegno ch’avessono preso i Franceschi.

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CAP. XVIII. Il consiglio si tenne in Francia sopra le domande degl’Inghilesi.

Essendo divulgata la non vera pace tra li due re d’Inghilterra e di Francia per vera, il duca d’Orliens, e il Delfino di Vienna figliuolo del re di Francia andò a Mompelieri dove si fè grande ragunanza de’ baroni di Francia, e con loro furono i due cardinali ch’erano stati altra volta al trattare della pace; quivi si fece parlamento per tutti, nel quale chiaramente per tutti si tenne e conobbe, che quello che domandava il re d’Inghilterra non era possibile, perchè non vedeano che si potesse per modo alcuno inducere i Franceschi al consentimento, tant’era la domanda ontosa e altiera, e a grande animo de’ Franceschi, per la vituperosa e sdegnosa cosa, onde senza prendere accordo si partì il parlamento. Il Delfino cavalcò ad Orliens con intenzione, che se ’l padre passasse in Francia col re d’Inghilterra, com’era ordinato, li prestasse il consentimento della corona per difesa del reame, e per tenere ciò che si potea; giunto in Orliens, mandò due baroni al re d’Inghilterra a cercare accordo con lui, e fatto per sue lettere ed ambasciate, a tutte le città e buone ville di Francia manifestò quello che chiedea il re d’Inghilterra in vergogna e abbassamento della corona e nome de’ Franceschi, e confortò li comuni che stessono [182] attenti e provveduti, e che si studiassono a fare buona guardia.

CAP. XIX. Come il re di Spagna e quello d’Araona s’affrontarono e non combatterono.

Seguendo le discordie e tribolazioni de’ cristiani, che a giornate per li loro peccati rovesciano i due re, quello d’Araona e quello di Spagna intra gli altri di nome cristiano, e grandi e famosi, s’erano ingaggiati di battaglia, e all’entrata del mese d’aprile 1359 ciascheduno di loro provveduto e avveduto, fatto tutto suo sforzo per essere alla battaglia, comparirono alla fine de’ loro reami assai di presso ciascheduno; quello di Spagna, che si noma quello di Castella, venne con settemila cavalieri tra di sua raunata e di gente barbara, i quali si chiamavano Mori, e con popolo assai; quello d’Araona venne con cinquemila cavalieri catalani e con grande quantità di popolo a piè, armati di lance e di dardi maneschi, i quali sono da loro chiamati mugaveri, e l’una e l’altra gente con le persone de’ loro re s’avvicinarono insieme per ordinarsi a battaglia: e non pertanto che il re d’Araona fosse con meno cavalieri che quello di Castella, molta sicurtà e baldanza prendea nella fede de’ suoi baroni, ma più in Dio, perchè avea seco giusta cagione, e ciò li dava speranza di vincere; ma quello di Spagna, tutto che si sentisse [183] la forza maggiore, non si fidava della fortuna della battaglia, per la coscienza di sua vita scellerata e crudele, perocchè tornandoli a memoria che l’anno dinanzi avea di sua mano morti venticinque de’ suoi baroni, come addietro contammo, invilì, temendo ch’e’ baroni che gli erano rimasi non li tenessero fede, e stornava con modi sagaci la zuffa; il perchè seguì, che stati più giorni affrontati senza muovere assalto, o aizzare l’uno l’altro, quasi come se avessono fatta convegna, si partirono del campo, e tornaronsi indietro ciascuno alla sua frontiera. Di ciò fu lodato il re d’Araona, che tutto che conoscesse che per la discordia de’ suoi nemici la vittoria fosse nelle sue mani, non volle mettere tanti cristiani a farli uccidere insieme.

CAP. XX. Come il comune di Firenze si provvide contro alla compagnia.

Bene che ’l nostro comune di Firenze sollicitamente e con molta provvedenza infra ’l tempo che la compagnia badava in Romagna aspettando il tributo dal cardinale si fosse messo in assetto e alla difesa, a all’offesa de’ suoi nemici, sentendo che ’l sabato santo a dì 20 d’aprile la pecunia promessa alla compagnia era pagata, raddoppiò la sollecitudine, facendo gente quanta ne trovava assoldare, e affrettando l’aiuto dell’amistadi, e rifermò per capitano di guerra messer Pandolfo de’ Malatesti, e a dì 29 [184] d’aprile 1359 fece la mostra della gente sua, la quale fu da duemila barbute, e da cinquecento Ungheri, e da duemilacinquecento balestrieri eletti tra gli altri e armati tutti a corazzine; e avendo in punto questa brigata, messer Bernabò signore di Milano, il quale da questa Compagnia più volte era stato oltraggiato e l’avea in odio, offerse aiuto di mille barbute e di mille masnadieri al nostro comune, e il comune l’accettò perocchè in quel tempo vivea in fede e in buona pace col detto signore; fatto l’accetto, il detto signore senza niuno intervallo di tempo ne cominciò a fare soldare in Toscana. E mentre si facea queste cose, messer Francesco da Carrara signore di Padova mandò in aiuto a’ Fiorentini dugento cavalieri, e i marchesi da Este signori di Ferrara mandarono trecento cavalieri; e fu cosa mirabile, che i tiranni che per natura sogliono essere nemici e oppressatori de’ popoli che vogliono vivere in libertà, il perchè le ragioni sono manifeste, si mettessono ad atare il nostro comune fedelmente, che sopra tutti gli altri d’Italia sempre s’è opposto a’ tiranni e disfattine molti, e i popoli di Toscana che sono vivuti lungamente a libertà cercassono il contrario quasi di assenso comune, bene che non apertamente, come appresso diremo. E cominciandoci a’ più antichi e intimi amici del nostro comune, e che mai da lui non furono offesi, ma sempre atati e difesi e esaltati ne’ loro onori, cioè da’ Perugini, contro al volere del comune di Firenze, e per suo abbassamento e desolazione, secondo loro credenza e speranza, presono accordo [185] colla compagnia per cinque anni, dando loro di censo ogni anno fiorini quattromila d’oro, e a tutta l’oste in dono tre dì vittuaglia, e da indi innanzi derrata per danaio, e il passo libero per lo loro contado e distretto a ogni tempo ch’e’ volessono passare, promettendo che non darebbono contro a loro aiuto a’ Fiorentini; la quale coralmente punse il nostro comune, e molto l’ebbe a grave. Vedendo i Sanesi e’ Pisani ch’e’ Perugini, che sempre erano stati un animo e un corpo co’ Fiorentini, aveano preso l’accordo nella forma ch’avemo detto di sopra, feciono il simigliante, e più i Pisani, come antichi e perfidi nemici del nostro comune, foraggio, e passo, e segreta promessa di dare loro aiuto della gente dell’arme loro; la qual cosa sagacemente feciono poi, come leggendo nostra opera al suo tempo si potrà trovare.

CAP. XXI. D’una folgore che cadde in sulla chiesa maggiore di Siena.

Tutto che i miracoli che noi veggiamo di poco ci muovano a lasciare i peccati e tornare a penitenza, pure li dovemo scrivere a terrore de’ mortali. In questi dì della Pasqua della resurrezione di Cristo, a dì 21 d’aprile in sull’ora della terza, essendo il tempo turbato e largo della piova, una folgore percosse l’agnolo ch’era nel colmo della chiesa del vescovado di Siena, e portollo via, e non lo fracassò, e scese nella [186] cappella, e arse i paramenti e il tavolato dell’altare maggiore; e avendo il prete consegrato il corpo di Cristo, non essendo ancora comunicato, cadde in terra tramortito, e cinque preti ch’erano d’intorno al servigio dell’altare percosse e ricise, e l’ostia e la croce dell’altare non si potè mai ritrovare.

CAP. XXII. Di una battaglia tra due baroni del re di Rascia.

Il re di Rascia il quale era sotto il tributo del re d’Ungheria cessava di fare l’omaggio, e ribellavasi al re; il perchè venuto in indegnazione della corona, e avendo il re d’Ungheria contro a lui conceputo e proposto nell’animo suo di farlo conoscente, duro e malagevole li parea di passare la Danoia, per mantenere la gente nel reame di Rascia, non avendo nel paese terra alcuna che li desse ricetto. E stando in questi pensieri, come suole apparecchiare la fortuna talora i non pensati acconci e’ rimedi, due baroni del reame di Rascia per loro gare e male venture riottavano insieme; il re s’era più volte travagliato di recarli a concordia, e nella fine in questi giorni avuto l’uno e l’altro, e cercando di porli in pace, e non li potendo recare, crucciato, come poco discreto, disse: Andate nella mal’ora, e l’uno faccia all’altro il peggio che può; la parola detta sopr’ira fu ricevuta per espressa licenza; onde partendosi amendue pieni d’odio e [187] di mal volere infiammati, quello di loro con alquanto meno podere avea le sue terre in sulla riviera della Danoia, l’altro ch’era di maggiore possanza accolta gente d’arme lo cavalcò, ardendo e guastando il suo paese, e infine al suo abboccamento lo sconfisse; nè a ciò contento, cercava sollicitamente di distruggerlo e trarlo a fine, e per ciò fare lo cavalcava spesso, facendo ogni male. Vedendo il detto barone ch’e’ non potea resistere, e nel suo re non avea speranza che levasse dall’impresa l’avversario suo, lasciò il meglio che potè le sue terre fornite a difesa, e segretamente valicò la Danoia, e ridussesi a uno de’ baroni d’Ungheria che l’aiutasse, promettendoli di farsi cristiano; il barone del re d’Ungheria li diè quella quantità d’Ungheri che li chiese, e ’l barone a parte a parte occultamente li mise nelle sue terre, e fece mettere la fama di volere fare di sua gente tutto suo sforzo per vendicare sua onta e dannaggio. Il suo nemico che poco il pregiava, per la vittoria avuta di lui era molto montato in baldanza, venne da capo con tutto suo sforzo in sulle terre del detto barone, e non avendo l’avviso degli Ungheri ch’erano venuti in aiuto de’ suoi nemici, e mescolato tra loro, con animosa battaglia durissima, per la virtù degli Ungheri fu sconfitto, e rimase morto in sul campo. E bene cadde nella sentenza dell’antico proverbio che dice, chi è povero di spie è ricco di vituperio, e fece fede che non si vuole avere tanto a vile il nemico che non creda che offendere lo possa. Di questa tenzone non curata ne’ principii, come si dovea, e lasciata passare [188] in malattia da non rimediare, nacque, che avuto il passo da questo barone il re d’Ungheria con grande esercito passò la Danoia, come a suo luogo e tempo diviseremo.

CAP. XXIII. Come sotto nome di falsa pace il re di Navarra tribolò Francia.

In questo medesimo tempo il sollecito re di Navarra, avendo in apparenza ridotti gl’Inghilesi in forma di compagnia, per non mostrare di volere fare contro alla volontà del re d’Inghilterra, e contro alla falsa pace che per lui era bandita, cominciò a cavalcare in Berrì, e tribolare quel paese con aspra e mortale guerra, stendendosi infino in Campagna, rubando le ville e’ cammini, e ardendo chi non si voleva rimedire. I legati del papa, ch’aveano preso cura della concordia tra’ due re, vedendo quello che il re di Navarra aveva fatto col braccio degl’Inghilesi, ne scrissono al re d’Inghilterra, pregandolo che per bene della pace senza più aizzare i Franceschi li piacesse porvi rimedio; e massimamente perchè il fatto pareva contro al suo comandamento, e non atto di pace com’era ita la grida. Il re rispose, che di ciò li pesava, e che non vedea come a quella mala gente, e del tutto disposta a mal fare, potesse rimediare nè mettervi riparo, che volentieri per suo onore il farebbe. Stando le cose di Francia mal disposte in questi baratti, nel mese d’aprile 1359, nella [189] città di Digiono in Borgogna, una parte del popolo minuto vago di preda si levò a romore, e corsono a furore alle case de’ maggiori e de’ più ricchi cittadini della terra, e rubaronli, e chi non fuggì loro dinanzi in quella tempesta fu morto. Il duca di Borgogna sentendo questa novità, e temendo di ribellione, mandò là di sua gente d’arme, e de’ malfattori ne fece assai bandeggiare, e presine nel numero di centoventi, per vendetta del misfatto gli fece appendere per la gola.

CAP. XXIV. Novità state a Montepulciano.

Tornando alle italiane tempeste, messer Niccolò della casa di quelli del Pecora di Montepulciano, il quale era stato egli e’ suoi altra volta signori di quella terra, essendo stato lungo tempo di fuori, e assai onorato dal comune di Perugia, il quale avendolo fatto cavaliere gli aveano donato una tenuta del comune, la quale era in sulle Chiane presso assai a Montepulciano, la quale si chiamava Valliano, luogo forte, e ubertuoso d’ogni cosa, e traevanne loro vita assai onorevolmente. Sentendo il cavaliere l’animo de’ suoi terrazzani mal contenti, e atti a fare novità per sdegno di male reggimento, e che mala volontà era in tra ’l comune di Siena e quello di Perugia, il perchè lo stato de’ Montepulcianesi vagillava, ed era senza riposo, si mise segretamente a cercare per mezzo degli amici co’ suoi [190] terrazzani di volere tornare in Montepulciano. E trovando la materia disposta all’intendimento suo, accolse segretamente brigata, e di maggio 1359, senza fare novità alcuna, s’entrò nella terra, e da’ terrazzani fu ricevuto lietamente, dicendo esso, che non temesse nessuno, perocchè liberamente e di buon cuore aveano perdonato a qualunque offeso gli avesse, e ch’elli intendeano tutti tenere e trattare per fratelli. E avendo ricordo che la riotta ch’era stata tra lui e messer Iacopo suo consorto era stata la cagione principale perchè avea perduta la signoria della terra, avendo provato che è il perdere lo stato con andare all’altrui mercede, mandò prestamente per lui, e feglisi incontro assai di spazio fuori della terra, e lo domandò, s’egli intendea a perdonare liberamente a qualunque offeso l’avesse, e con lui essere unito al beneficio e stato comune della terra loro, che quando l’animo suo intendesse al contrario, che amendue prendessono altro viaggio, e lasciassono in pace la terra al governo de’ suoi terrazzani; e avendo detto, messer Iacopo disse, che ’l suo animo era buono, e che liberamente a tutti avea perdonato, e promesso che mai non ne farebbe vendetta, si presono per mano, e con festa grande e buona volontà di quelli della terra entrarono nel castello, e furono fatti signori, e con molta concordia si dirizzarono a ben fare, e a mantenere amistà co’ Perugini, e a onorare i Sanesi.

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CAP. XXV. Di fanciulli mostruosi che nacquero in Firenze e nel contado.

Del mese d’aprile in questo anno, in Firenze e nel contado nacquero parecchi fanciulli contraffatti, mostruosi, e spaventevoli in vista, alcuno in figura di becco, e le braccia e il petto come membra femminili, e libere, e compiute; altri nacquero in altre forme mirabili, e assai differenti dall’umana natura. E appresso nell’autunno seguente seguì, che molte donne libere del partorire dopo più giorni morirono. E questo accidente si pensò per li savi che procedesse dal cielo, in breve tempo non avesse fornito suo grande sfogamento: e prendevano le donne tanta gran paura venendo all’atto del parto, che molte se ne morivano; e se ’l cielo di questo e de’ parti strani fè segno, ristorò ne’ leoni, che tre maschi ne nascerono la vigilia di santo Zanobi.

CAP. XXVI. Come la compagnia passò in Toscana, e cercò concordia con i Fiorentini.

Poichè la gran compagnia del conte di Lando, afflitta e consumata la Romagna e la Marca, aveano dal legato ricevuta la paga e la promessa che detta avemo da’ comuni di Toscana, superba e baldanzosa si mosse, e sotto la guida [192] de’ cittadini che dati l’erano a condotta dal comune di Perugia passò per lo distretto di Perugia, cioè per quello della Città di Castello e del Borgo a Sansepolcro, che allora erano a’ comandamenti e al seguo del comune di Perugia, e tutto che ne’ patti avessono promesso non fare danno, le rapaci mani non si poteano contenere che non predassono, e offendessono chi le facesse contesa; e ciò non passò senza querele de’ paesani, poco intese da’ loro signori Perugini. Loro passata ne’ detti luoghi fu nel detto anno 1359 entrando il mese di maggio; e nel detto stallo e trapasso, credendo ogni gente d’arme arricchire in sul nostro contado della preda e ricetto, e di quello che insieme pensavano fare rimedire il comune di Firenze, abbandonato nell’impresa, come detto avemo, dal legato e da’ comuni di Toscana, che per invidia e mal talento prendevano speranza che molto abbassasse nostro comune, tanto crebbe e multiplicò la detta compagnia sì di gente cassa dal legato, e da’ Perugini, e da’ Sanesi, e da altri comuni, che passava il numero di cinquemila cavalieri, e di mille Ungheri, e di più di duemila masnadieri di gente senza arme fornite, ch’erano assai più di dodicimila bocche senza le bestie. Il perchè avveniva, che dovunque s’alloggiavano, eziandio per pochi dì, secondo i loro patti e convegne tutto consumavano e guastavano in forma, che a’ paesani toglieano la fatica di fare la ricolta. Quando i conducitori della compagnia e i loro capitani si vidono in luogo che poteano per aperto cammino, venire in sul contado di Firenze, con sottile modo [193] e con molta sagacità e astuzia feciono da molte parti muovere amici del comune di Firenze, e alcuno scrivere, e alcuni venire infino a Firenze a cercare convegna, offerendo ogni concordia, lega e patto che sapessono o volessono domandare il comune. Stando in queste mene, e di continovo fortificandosi il comune, in processo di tempo arrivarono a Firenze ambasciadori del marchese di Monferrato, i quali erano stati nella compagnia per conducerla al soldo suo e de’ suoi collegati, i quali domandavano cortesemente al nostro comune per parte di loro signore solo il titolo della concordia senza pagare danari, e il passo sicuro per lo distretto del comune di Firenze, più offerendo per ammenda dare al comune nostro fiorini dodicimila d’oro: e oltre a costoro per simigliante cagione vennono segretamente certi cittadini di Perugia. Il comune che per suo onore avea presa la tira, nel proposito suo stette fermo e costante, e non intralasciava per ragionamenti che non intendesse continovamente alla difesa, cercando di mettersi a prova di spegnere la compagnia in Italia. E certo fu mirabile cosa, che ’l nostro comune si volesse mettere a partito e a fortuna con gente con cui non potea guadagnare altro che fama e onore; ma così era per quella volta disposto, e tanto pertinace al servigio, che minacce, nè offerta di larga e onorata concordia, nè altro qual’altro vantaggio lo potè ritrarre della pertinacia del suo proponimento; essendo tutto di combattuto da molti grandi e potenti suoi cittadini, i quali o che conoscessono il pericolo, o che temessono di [194] loro possessioni, o perchè fossono d’animo vile, apertamente ne’ pubblichi e aperti consigli aoperavano e consigliavano che si prendesse l’accordo; ma il desiderio di vivere in libertà vinse l’appetito de’ cittadini, che consigliavano e voleano per maggioranza che ’l comune facesse a loro modo, e la paura della compagnia, e ogni stimolo degli amici che si provarono di ciò. Questo addivenne per l’unità de’ cittadini mercatanti, e artefici, e di mezzano stato, che tutti concorsono in uno volere all’onore e bene del comune.

CAP. XXVII. Come la compagnia s’appressò a Firenze.

Mentre che questi ragionamenti si bargagnavano e menavano per lunga, la forza del comune di Firenze continovo cresceva sì per gente di soldo e sì per amistà, perocchè in questo venne del Regno mandato dal re Luigi il conte di Nola della casa degli Orsini con trecento cavalieri; e sentendo il conte di Lando sua venuta essendo a Bettona, con mille barbute a loro cavalcò incontro, credendolisi avere a man salva; ma ciò sentendo per sue spie il conte di Nola, il quale era molto loro presso, come gente del re per lo capitano furono ricevuti in Spoleto: la qual cosa a’ Perugini fu tanto grave, che al capitano predetto di Spoleto, che era loro cittadino, cercarono di fargli tagliare la testa; e per mandare ciò ad esecuzione, mandarono il loro conservadore [195] che cercasse di farlo; ma li Spoletani, che si contentavano d’avere fatto servigio al re nella persona della gente sua, nol vollono patire, e non lasciarono entrare il conservadore in Spoleto; per questa cagione furono vicini a ribellarsi al comune di Perugia. Il conte di Lando stando alla bada più dì di prendere questa gente, vedendo tornare in fummo il suo proponimento, per non perdere più tempo si ritornò alla sua compagnia, e il conte di Nola preso il suo tempo a salvamento se ne venne a Firenze. Anche avvenne, che fu bella cosa, che dodici cavalieri napoletani tra di Capovana e di Nido, facendo loro caporale un messer Francesco Galeotto, sì per servire nostro comune, e sì per fare prova di loro persone sentendo che con la compagnia si deliberava di prendere battaglia, con altrettanti scudieri a loro compagnia in numero in tutto di cinquanta barbute, nobilmente montati, e con ricche e reali transegne e armadure, alle loro spese vennono a Firenze, e tornarono in casa de’ cittadini, veduti lietamente e onorati da tutti, standosi dimesticamente co’ cittadini per la terra in pace e in sollazzo, aspettando che si facesse battaglia, e stettono tanto che si partì la compagnia: il comune veggendo la cortesia e l’amore ch’aveano mostrato, gli onorò di doni cavallereschi, cera e confetti. La compagnia essendo stata oltre al tempo promesso in sul contado di Perugia, e loro fatto gran danno e disagio, si dirizzarono a Todi, dove stettono sei dì, danneggiando e vivendo di preda, e’ Todini ricomperarono il guasto quelli danari che poterono fare; onde per patto [196] di loro terreno si partì la compagnia, e a dì 25 di giugno fu a Bonconvento e al Bagno a Vignoni, ricevuta con apparecchio di vittuaglia da’ Sanesi, e a guida di loro cittadini.

CAP. XXVIII. Come il comune di Firenze diè l’insegne, e mandò a campo la sua gente.

I Fiorentini essendo pieni di buona speranza sì per lo loro capitano, che a que’ tempi era riputato grande maestro di guerra e uomo di grande cuore, e sì per li molti gentili uomini pratichi in arme ch’erano mandati per capitani della gente ch’era venuta nell’aiuto del comune, e sì per gli altri paesani e forestieri ch’erano sentiti, e atti non che a seguitare ma a conducere e a governare ogni grand’oste, i quali erano tutti di buono volere, e desiderosi di prendere battaglia e per loro fama e onore, e per servire e accattare la grazia del comune di Firenze, e per spegnere quella mala brigata, e l’usanza del criare spesso compagnia per ingordigia di fare ricomperare signori e comuni; appresso si vedea il comune fornito di bella gente e bene armata e non di ribaldaglia; il perchè sabato a dì 29 di giugno, il dì di san Piero, coll’usato modo e stile di nostro comune, con allegrezza e festa si dierono l’insegne, e ’l capitano ricevuta la reale di mano del gonfaloniere di giustizia, l’accomandò a messer Niccolò de’ Tolomei da Siena, il quale era allora al soldo del comune di Firenze, uomo fedele e di grande animo; [197] e ciò fu fatto cautamente, prima per levare invidia tra’ cittadini, appresso perchè fu pensato che tale uomo dovesse essere più ubbidiente e riverente al capitano che se fosse stato cittadino, ancora per onorare la casa de’ Tolomei, che sempre era stata in fede e in divozione del comune di Firenze più ch’altra casa di città di Toscana; la qual cosa per quella volta fu poco a grado a’ Sanesi. L’insegna de’ feditori fu data a messer Orlando Tedesco antico soldato del nostro comune, fedele e provato in tutte maniere; e così si fè, per mostrare la fede che’ l nostro comune avea ne’ Tedeschi, e animarli a ben fare, che non ostante che la zuffa si dovesse principalmente pigliare co’ Tedeschi, volle fare palese il comune, che quelli di quella lingua erano leali, e che ciascuno di loro si dovea e potea fidare. Data l’insegna e piena libertà al capitano di combattere e di non combattere per l’esaltazione e onore del comune di Firenze, senza darli consiglieri o tutori cittadini che ’l potessono variare o impedire, cosa rade volte usata per lo comune, ma utilmente fatta, e nella detta impresa lodata, si partì di Firenze con l’esercito che allora avea apparecchiato nostro comune, che fu in questo numero: duemila barbute eletti e duemila masnadieri contadini di bello apparecchio, cinquecento Ungheri di soldo, milledugento barbute eletti e quattrocento cavalieri già venuti di quelli di messer Bernabò, dugento di quelli del Marchese di Ferrara, dugento di quelli del signore di Padova, trecento di quelli del re Luigi, trecento che n’avea mandati il legato non volontariamente, ma per virtù [198] de’ patti della pace, i quali era tenuto a osservare al nostro comune, cinquanta barbute di cavalieri napoletani, messer Lupo da Parma con trenta barbute, ottanta barbute degli Aretini e con fanti da piè gente eletta e pulita, dugento fanti del conte Ruberto, e da Pistoia messer Ricciardo Cancellieri con dodici a cavallo per sè proprio e trecento fanti del suo comune, d’altra amistà e vicinanza oltre a fanti trecento, sicchè questa prima mossa furono circa a quattromila cavalieri e altrettanti pedoni, e il dì se n’andarono e posonsi a campo in sulla Pesa e nelle contrade d’intorno, per ordinarsi e accogliere l’altra gente che si attendea de’ soldati di messer Bernabò.

CAP. XXIX. Come la compagnia girò il nostro contado, e la nostra a petto.

Essendo la compagnia stata più giorni al Bagno e a Bonconvento andonne a Isola, e avuto quivi da’ Sanesi la vittuaglia in abbondanza per portarne con seco, a dì 20 di giugno mossono campo a piccoli passi girando per non venire su quello di Firenze, e lasciandosi Siena alle reni feciono la via da Pratolino, e ivi dimorarono due dì di luglio, avendo la condotta e la panatica da’ Pisani sì se n’andarono a Ripamaraccia, e l’oste de’ Fiorentini si levò di Pesa e valicò Castelfiorentino, e a dì 5 di luglio mutò campo, e fermossi alla torre a Sanromano, comprendendo infino alle Celle sotto Montetopoli, per attendere [199] quivi la compagnia sotto verace e bello ordine e buona guardia, stando sempre avvisati; la compagnia da Rimamortoia se ne venne a Ponte di Sacco; e’ Pisani popolo e cavalieri con numero d’ottocento barbute o in quel torno, sotto colore di guardia, ma nel vero per dare alla compagnia caldo e favore, e in caso di zuffa aiuto e soccorso, si misono al Fosso arnonico, e venuta che fu la compagnia, la condussono al Pontadera, e come la vidono accampata, si ritornarono ad altre frontiere vicine a quel luogo; e se ’l fatto fosse seguito alle minacce della compagnia si trovò vicina all’oste de’ Fiorentini a due miglia, sicchè se voluto avessono fare d’arme l’aveano in balía; ma veggendo il conte di Lando e gli altri caporali ch’erano con lui che l’oste de’ Fiorentini si conduceva saviamente, e con ordine e maestria d’arme, e che di buona voglia arditamente contro a loro si metteano, non conoscendo nel luogo vantaggio, ma piuttosto il contrario, per migliore consiglio dopo a cinque dì che a fronte a fronte erano stati co’ nostri senza fare niuna mostra o atto di guerra, a dì 10 di luglio si partì bene la metà la mattina per tempo, e in sul mezzogiorno giunse a Sanpiero in Campo nel Lucchese, e accampossi quivi; il capitano de’ Fiorentini loro mandò alle coste messer Ricciardo Cancellieri con cinquecento uomini da cavallo per tenerli corti e stretti in cammino, e lasciato al passo di Sanromano bastevole guardia, a dì 21 di luglio mosse l’oste, e s’accampò alla Pieve a Nievole molto presso a’ nemici, in luogo, che tra l’uno oste e l’altro era il campo piano e aperto per fare d’arme chi avesse voluto.

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CAP. XXX. Come la compagnia mandò il guanto della battaglia al nostro capitano, e la risposta fatta.

Currado conte di Lando capitano e guida della compagnia, con gli altri caporali e conducitori, avendo da’ Pisani ferma promessa e dalla gente loro, ch’erano in numero di ottocento barbute e di duemila pedoni, la quale teneano in punto a Montechiaro sotto colore e nome di guardia, mischiandosi continovo con quella della compagnia, della quale cosa i Fiorentini n’erano crucciosi e male contenti, tutto che in vista accettassono le scuse de’ Pisani, e que’ della compagnia ne prendessono caldo e baldanza credendo spaventare col detto appoggio, a dì 12 del mese di luglio in persona loro trombetti mandarono con grande gazzarra trombando nel campo de’ Fiorentini con una frasca spinosa, sopra la quale era un guanto sanguinoso e in più parti tagliato con una lettera che chiedea battaglia, dicendo, che se accettassono l’invito togliessono il guanto sanguinoso di su la frasca pugnente; il capitano con molta festa e letizia di tutta l’oste prese il guanto ridendo; e ricordandosi che in Lombardia nel luogo detto la frasca era stata a sconfiggere il conte di Lando, con volto temperato e savio consiglio rispose in questa forma: Il campo è piano, libero e aperto in tra loro e noi, e pronti siamo e apparecchiati a nostro podere [201] a difendere ed esaltare il campo in nome e onore del comune di Firenze e la giustizia sua, e per niuna altra cagione qui siamo venuti, se non per mostrare con la spada in mano che i nemici del comune di Firenze hanno il torto, e muovonsi male senza niuna cagione di giustizia o ragione di guerra; e per tanto speriamo in Dio, e prendiamo fidanza e certezza d’avere vittoria di loro: e a chi manda il guanto direte, che tosto vedrà se l’intenzione sua risponderà alla fiera e aspra domanda: e fatta questa risposta, e onorati i trombetti di bere e di doni, il capitano fece sonare li stromenti per vedere il cambio de’ suoi; e tutto che dubbioso sia l’avvenimento della battaglia, e che vittoria stia nelle mani di Dio, e diela a cui e’ vuole, grande sicurtà e fidanza prendeva nostra gente, che in que’ giorni era fortificata di trecento soldati di cavallo nuovamente fatti per lo nostro comune, e della venuta di messer Ambrogiuolo figliuolo naturale di messer Bernabò che in que’ pochi dì venne con cinquecento cavalieri e con mille masnadieri, il quale giunto, a grande onore ricevuto da’ Fiorentini, e donatoli uno nobile destriere, di presente cavalcò nell’oste e con molti cittadini, i quali stimando che si facesse battaglia si misono in arme e andarono all’oste. E infra l’altre cose che occorsono in questa faccenda fu, che messer Biordo e ’l Farinata della casa degli Ubertini essendo in bando per ribelli del comune di Firenze, s’offersono in suo aiuto e onore, ed essendo graziosamente accettati, vennono con trenta a cavallo nobilmente montati e bene in arnese, e veduti [202] volentieri e lodati da tutti cavalcarono al campo, d’onde per tornare in grazia del nostro comune tanto si faticò messer Biordo, ch’era grande maestro di guerra, che ne prese infermità, e tornato a Firenze ne morì, e per lo nostro comune fu di sepoltura maravigliosamente onorato come a suo tempo diremo. E stando dopo la detta richiesta a petto l’un oste all’altro senza fare in arme atto nessuno, una notte di furto si partirono della compagnia trecento cavalieri con alquanti masnadieri, e cavalcarono verso Castelfranco, e ritraendosi senza, preda, si riscontrarono con tre cittadini di Firenze e altri Empolesi i quali alla mercatantesca tornavano da Fisa, i quali presono, e feciono ricomperare, e da indi innanzi più non s’attentarono di cavalcare in sul nostro contado e distretto. Stando le due osti vicine, parendo al conte di Lando, e agli altri caporali e a tutta la compagnia avere poco onore della invitata di giostra, a dì 16 del mese di luglio con le schiere fatte si misono innanzi verso l’oste de’ Fiorentini: il capitano saviamente consigliato, fatto della gente del nostro comune una massa, con maestria e bell’ordine di gente d’arme in tutte sue parti bene divisa e capitanata com’era mestiere, si dirizzarono verso i nemici, i quali veggendoli venire, si fermarono in un luogo che si chiama il Campo alle Mosche, il quale era cinto di burrati e aspre ripe, dove senza grande disavvantaggio di chi volesse offendere non poteano essere assaliti; i nostri gli aspettarono al piano, allettandoli alla battaglia il luogo il quale era comune; ma i grandi minacciatori, [203] e di poco cuore, se non contro a chi fugge, non s’attentarono di scendere al piano, e co’ palaiuoli e marraiuoli che assai n’aveano da’ Pisani non intesono a spianare il campo, ma ad afforzarsi con barre e steccati in quel luogo, e ivi alloggiatisi, e arso il campo ond’erano partiti, il capitano de’ Fiorentini si fermò coll’oste dov’era arso il Campo, a meno d’un miglio di piano presso a’ nemici, e quivi afforzossi per non essere improvviso assalito, e spesse fiate con gli Ungheri insino alle barre facea assalire i nemici, ma nulla era, che tutti o parte di loro si volessono mettere a zuffa; il perchè faceano pensare che ciò facessono per maestria di guerra per cogliere i nostri a partito preso e a vantaggio loro; ma il savio capitano col buono consiglio sempre stava a riguardo e provveduto in forma, che con inganno non li facessono vergogna. I Sanesi veggendo che contro la loro opinione e pensiero i Fiorentini prosperavano, per ricoprire il fallo loro ne feciono un’altro maggiore, perocchè per loro ambasciadori si mandarono a scusare al nostro comune, e offerendo aiuto trecento barbute; la scusa fu benignamente ricevuta, e accettata la promessa, la quale feciono, che si convertì in fumo, perchè non si facea nè procedea di diritto e buon cuore.

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CAP. XXXI. Come la compagnia vituperosamente si partì del Campo delle Mosche, e fuggissi.

Vedendo i conducitori della compagnia che l’oste de’ Fiorentini era loro appressata con molta allegrezza sotto il savio governo del buono capitano, e di molti altri valenti uomini d’arme famosi, e sofficienti ad essere ciascuno per sè capitano, e di tali v’erano ch’erano stati, e che la gente del comune di Firenze era fresca e bene armata, e la loro stanca, e la maggiore parte fiebole e male in arnese; e veggendo che al continovo a’ nemici forza cresceva, e temendo di non essere soppresi nel luogo dov’erano, e che i passi non fossono loro impediti; e sentendo, ch’e’ Fiorentini di ciò procacciavano, e presa esecuzione aveano mandati balestrieri e pedoni nelle montagne verso Lucca; e conoscendo che a loro convenia vivere di ratto spargendosi, e cercando da lunga la preda, o che essendo tenuti stretti a loro convenia o arrendersi o morire di fame; ed essendo stati a gravare i Pisani venti dì più che non era in patto con loro, soprastando quivi senza venire a battaglia temeano di soffratta di vittuaglia, aspettando il soperchio di non rincrescere ad altrui, e diffidandosi di vincere i Fiorentini per istracca, e tutto ch’avessono domandata battaglia la schifavano, e per tema di non esservi recati per forza s’erano afforzati con fossi e steccati, la vilia di santo Iacopo a dì 23 di luglio, [205] di notte, innanzi l’apparita del giorno, misono nel loro campo fuoco, e in fretta sconciamente si partirono, quasi come in fuga, non aspettando l’uno l’altro, valicando il colle delle Donne in su quello di Lucca, ch’era loro presso; sicchè prima furono in su quello di Lucca infra sei miglia, che l’oste de’ Fiorentini li potessono impedire. E ciò avvenne, perchè il nostro comune avea imposto al capitano che si guardasse di non rompere la pace a’ Pisani cavalcando in su quello di Pisa o di Lucca, che la teneano allora, e per la detta cagione il capitano non si mise a seguirli. E certo e’ si portò valentemente in tenere a ordine e bene in punto così grande oste, e farsi temere e ubbidire alla gente che gli era commessa, e alla forestiera che serviva per amore, procedendo con savia condotta, e buona e sollecita guardia, per modo che in pochi giorni ricise il pensiero dell’offesa de’ nemici, e a loro tolse ogni speranza che ’l conte di Lando avea e gli altri caporali di fare quel male che aveano promesso di fare al nostro comune. Questa utile impresa e degna di fama fece assai manifesto, e fece conoscere pienamente a tutti i comuni di Toscana e d’Italia, e a’ signori, che gente di compagnia, quantunque fosse in numero grande, e terribile per sua operazione scellerata e crudele, si potea vincere e annullare, perocchè la sperienza occorse, che tale gente somigliante furono per natura vile e codarda cacciare dietro a chi fugge, e dinanzi si dilegua a chi mostra i denti. Noi vedemo, che il ladro sorpreso nel fallo invilisce, e lasciasi [206] prendere a qualunque persona; e così addivenne di questa mala brigata, che solo per rubare si riducea in compagnia. E per non dimenticare il resto, quello di che giudichiamo degno di nota intorno a questa materia, pensiamo che fosse operazione di Dio, che in quel dì ch’elli erano stati sconfitti a piè delle Scalee nell’alpe, in quel medesimo dì rivolto l’anno e finito, essendo nel piano largo e aperto, si fuggirono del campo alle Mosche. Basti d’avere tanto detto, e faremo punto qui alle nostre fortune, per seguire delle straniere quante n’avvenne ne’ tramezzamenti di questi tempi, secondo che siamo usati di fare.

CAP. XXXII. Come il re d’Ungheria passò nel reame di Rascia.

Poco addietro di sopra scrivemmo i casi occorsi nel reame di Rascia, e come il re di Rascia s’era partito dall’omaggio del re d’Ungheria, ed erasi fatto rubello; e seguendo la detta materia, tenendo il re di Rascia parte della Schiavonia appartenere a dominio al re d’Ungheria, cessava fare il debito servigio, onde il re d’Ungheria n’era forte indegnato. Il perchè trovato che il passo della Danoia gli era sicuro, e ricetto di sua gente apparecchiato per lo barone del re di Rascia, che colla forza e aiuto degli Ungheri avea vinto e sconfitto il suo avversario, e fattosi uomo del re d’Ungheria, del mese di maggio 1359, il re d’Ungheria con più de’ suoi baroni [207] passarono la Rascia con grande quantità d’arcieri a cavallo e d’altra gente d’arme, colla quale si partirono dalla riva della Danoia, e passando per piani corsono infino alle grandi montagne di Rascia, e quivi trovarono nel piano molto di lungi dalle coste de’ monti gran gente del re di Rascia, quivi ragunata per difesa del regno. Gli Ungheri vogliosamente s’abboccarono con loro, e dopo lunga battaglia li ruppono, onde in fuga abbandonarono il piano, e ridussonsi alla montagna. E avendo la gente del re d’Ungheria fatto questo principio, il re in persona valicò la Danoia con grande esercito, e accozzato con l’altra sua oste, e seguendo la fortuna, si mise contra quella gente vile, e combattendo vinse gli aspri passi per forza, sicchè in breve tempo tutta la grande montagna fu tutta in sua balìa. Veggendosi il re prosperare, diliberò di valicare in persona la montagna, ma i baroni suoi non glie l’assentirono, perchè non parve loro che per questo la persona del re si mettesse a questa ventura, ma molti de’ baroni e molta di sua gente valicò per combattersi col re de’ Servi, che così è titolato il re di Rascia; il quale in campo non osò comparire, ma con tutta sua gente si ridusse, secondo loro costume, alle fortezze delle boscaglie, ove non poteano essere impediti, senza smisurato disavvantaggio di chi ne fosse messo alla punga. Gli Ungheri senza trovare contradizione o resistenza alcuna piccola o grande cavalcarono infra ’l reame più d’otto giornate per li piani aperti, non trovando niente che potessono predare, perchè tutto era ridotto [208] alle selve; alquanti cavalieri ungheri si misono il campo in una boscaglia, ed essendo assaliti d’alquanti villani, credendo avere trovato il grosso de’ nemici, assai di loro si ferono cavalieri, stimando di venire a battaglia, i quali appellati furono poi per diligione e scherno i cavalieri della Ciriegia, perocchè essendo abbattuti nel bosco a’ ciriegi, ne mangiavano quando da’ detti villani furono assaliti. Il re d’Ungheria, veggendo sua stanza senza profitto, non avendo trovato contasto, con tutta sua oste si ritornò in Ungheria.

CAP. XXXIII. Come messer Feltrino da Gonzaga tolse Reggio a’ fratelli.

Messer Guido da Gonzaga signore di Mantova, quando fermò la pace tra’ signori di Milano e la lega di Lombardia, segretamente promise a messer Bernabò, che per li suoi danari gli darebbe la città di Reggio. Questo segreto venne agli orecchi di messer Feltrino suo fratello innanzi che la detta promessa avesse effetto. Messer Feltrino prese suo tempo, e senza saputa di messer Guido entrò in Reggio, e con aiuto di gente e d’amici rubellò la città. Messer Guido credendo ricoverare la città per forza, del mese di maggio del detto anno ricolse grande gente d’arme, e impetrò ed ebbe aiuto da’ signori di Milano: e stando in Mantova, e ordinandosi per porre l’assedio, sentì che ’l signore di Bologna e ’l marchese [209] di Ferrara aveano alla difesa fornita la terra, onde si rimase dell’impresa, la quale faceva malvolentieri, per non appressarsi troppo la forza de’ signori di Milano.

CAP. XXXIV. Come il vescovo di Trievi sconfisse gl’Inghilesi.

Il vescovo di Trievi veggendo il reame di Francia in tanta rivoluzione e traverse, e che necessario era a’ cherici per difesa di loro franchigia prendere l’arme, come uomo valoroso, ricolse gente d’arme e d’amistà e di soldo, e abboccossi per avventura in un assalto con certi Inghilesi, ch’erano guidati per gente del re di Navarra, e combattè con loro e sconfisseli, i quali erano intorno di millecinquecento, de’ quali assai ne furono morti. In questo medesimo giorno il Delfino di Vienna si mise ad assedio a Monlione, il quale era venuto alle mani degl’Inghilesi, per racquistarlo, e forte lo strinse, perchè essendo il castello presso a dieci leghe a Parigi, gli parea gran vergogna fosse della corona e grande abbassamento che fosse in podestà de’ nemici, e ’l luogo era molto presso a Parigi, e forte offendea. Durante l’assedio avea il Delfino a suo soldo certi baroni alamanni, e non avendo di che pagarli, loro diede in gaggio due buoni castelli del reame. Puossi considerare in quanta soffratta e debolezza era in questi giorni il reame di Francia, che si stimò per li savi se non fosse stato, [210] com’era, antico e corale l’odio per lunghe riotte aveano avute i Franceschi e gl’Inghilesi, in dispetto innaturale convertito, il quale facea a’ Franceschi sostenere ogni affanno e ogni tormento, per certo il re d’Inghilterra era sovrano della guerra.

CAP. XXXV. Come fu soccorsa Pavia, e levatone l’oste de’ Visconti.

L’oste di messer Galeazzo signore di Milano lungamente era stato sopra Pavia con certe bastite, forte tenendo stretta la terra; il marchese di Monferrato preso suo tempo, con la più gente potè ragunare s’entrò cautamente in Pavia, e avuto per sue spie del reggimento dell’oste, e del poco ordine e guardie di quelli delle bastie, subitamente e aspramente li assalì improvviso, e li ruppe e sbarattò, e liberò dall’assedio, e menò in Pavia più di dugentocinquanta cavalieri e molti prigioni, e fornimento e arnese; e ciò fatto, si tornò alle terre sue. Messer Galeazzo per la sua gran potenza poco pregiando quella rottura rifornì subitamente le frontiere di Pavia di gente d’arme assai più che di prima, facendo tutto dì cavalcare in sulle porti di Pavia di gente d’arme assai più che di prima, sicchè senza tenervi bastia forte gli affliggea, e tenevagli sì stretti, che non s’ardivano d’uscir fuori persona, e di loro frutti non poteano avere bene. E del seguente mese di luglio il detto messer Galeazzo fece un’altra grande oste, e mandolla nel Monferrato addosso al marchese.

[211]

CAP. XXXVI. Come il capitano di Forlì s’arrendè al legato.

Avendo perduto il capitano di Forlì il caldo della compagnia, ed essendo per la lunga guerra molto battuto, e vedendo che più non potea sostenere, e che poco era in grazia e in amore de’ suoi cittadini per la messa che fatta avea della compagnia in Forlì, essendo tra il legato e lui per mezzani lungo trattato d’accordo, prese partito di arrendersi liberamente alla discrezione e misericordia del legato, con alcuna promessa d’essere bene trattato e del modo, che a dì 4 di luglio 1359, il legato in persona, avendo prima messa la gente sua e prese le fortezze, entrò in Forlì con grande festa e solennità e di sua gente e de’ cittadini di Forlì. Nella quale entrata Albertaccio da’ Ricasoli cittadino di Firenze, il quale al continovo era stato al consiglio segreto del cardinale, e delle sue guerre in gran parte conducitore e maestro, in sull’entrare del palagio fatto fu cavaliere. E ciò fatto, il legato ordinato la guardia della città e lasciatovi suo vicario se n’andò a Faenza, e ivi in piuvico parlamento, essendo dinanzi da lui messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forlì, riconobbe e confessò tutti i suoi falli ed errori che commessi avea contro la Chiesa di Roma e suoi pastori, i quali letti li furono nella faccia in presenza del popolo, domandando umilmente perdono e misericordia dalla Chiesa di [212] Roma. Il legato fatto ciò, e in lungo e bello sermone gravando in parole l’ingiurie e la pertinacia della resia, e le pene nelle quali era incorso il capitano, privollo d’ogni dignità e onore, e per penitenza gl’impose, ch’elli vicitasse certe chiese di Faenza in certa forma; e ciò fatto, il legato cavalcò a Imola, ove venne il signore di Bologna sotto la cui confidanza il capitano s’era arrenduto; e stati a parlamento insieme più giorni, a dì 17 di luglio, il cardinale ricomunicò nella mensa messer Francesco degli Ordelaffi, e nominatamente tutti i suoi aderenti e quelli che l’aveano favoreggiato, e ristituillo nell’onore della cavalleria, e perdonogli tutte l’offese per lui fatte alla Chiesa di Roma, e annullò ogni processo per lui fatto di resia contro a lui, e ridusselo nella grazia sua, e dichiarò che dieci anni fosse signore di Forlimpopoli e di Castrocaro, potendo stare in ciascuno de’ detti luoghi famigliarmente, e rimanendo le rocche in guardia d’amici comuni, e liberamente li ristituì la moglie, e’ figliuoli, e tutti quelli che tenea in prigione degli amici e seguaci del capitano; e così ebbe fine la lunga e pertinace guerra e ribellione del capitano di Forlì; e per la detta cagione la Romagna rimase in pace, e liberamente all’ubbidienza della Chiesa di Roma.

[213]

CAP. XXXVII. Di una compagnia creata d’Inghilesi in Francia.

Volendo il re d’Inghilterra mostrare osservazione di pace secondo l’ordine, infintamente in suo titolo o nome niuna guerra fatta nel reame di Francia, ma i molti Inghilesi ch’erano nel reame seguendo il segreto ordine dato per lui ora con uno ora con altro caporale s’accostavano che li guidasse a guerreggiare e sconciare il reame di Francia; in questi tempi della state uno sartore inghilese il quale avea nome Gianni della Guglia, essendo nella guerra dimostrato prode uomo con gran cuore in fatti d’arme cominciò a fare brigata di saccardi e assai Inghilesi che si dilettavano di mal fare, e che attendeano a vivere di rapine, e cercando e rubando ora una villa ora un’altra nel paese crebbe in tanto sua brigata, che da tutti i paesani era ridottato forte; e per questo senza i casali non murati cominciarono tutti a patteggiarsi con lui, e li davano pannaggio e danari, ed egli li faceva sicuri; e per questo modo montò tanto sua nomea che catuno si facea suo accomandato, onde in pochi mesi fece gran tesoro. Essendo moltiplicato di gente e d’avere, cominciò a passare di paese in paese, e sì andando venne insino al Pau, e ivi prese laici, e’ cherici rubò, e’ laici lasciò andare; onde la corte di Roma ne mostrò gran paura, e pensava a farsi forte per resistere [214] a quella brigata. Costui nell’avvenimento del Pau de’ signori d’Inghilterra lasciò il capitanato e la gente, e ridussesi all’ubbidienza del re, e de’ danari ch’avea accolti ne fè buona parte a’ reali; e così andavano in que’ tempi i fatti di Francia.

CAP. XXXVIII. D’una zuffa che fu tra gli artefici di Bruggia.

Noi avemo detto più volte, che ’l mondo per lo suo peccato non sa nè può stare in riposo, e le sue travaglie, le quali scrivemo, ne fanno la fede, che si può dire veramente l’opera nostra il libro della tribolazione, e nuove. In questi dì a dì 17 di luglio, avendo il conte di Fiandra ragunata la comune di Bruggia per alcuna sentenza che dare dovea per danno d’alcuno sopra certo misfatto, uno calzolaio prosuntuosamente si levò a dire nella ragunanza contro alla volontà del conte, il perchè due degli altri minuti mestieri parlando lo ributtarono, e dissono contro a lui. Il calzolaio trasse fuori la spada, e disse, che chi ’l volesse seguire con sua arme n’andasse alla piazza di Bruggia, il perchè molti de’ mestieri il seguirono; e ragunati in sul mercato con loro arme e transegne stavano in punto, e attenti per rispondere a chi gli volesse di quel luogo cacciare. Altri mestieri, che non erano contenti che costoro pigliassono nella villa maggioranza, de’ quali si feciono capo folloni e tesserandoli, [215] s’andarono ad armare, e in breve spazio di tempo in gran numero si ragunarono in sul mercato, e di subito senz’altro consiglio in fiotto si dirizzarono a coloro ch’erano schierati in sulla piazza, e percossonli, e rupponli, e nell’assalto n’uccisono cinquantasette, e molti ne magagnarono di fedite. E ciò fatto, co’ loro avversari di presente feciono la concordia, e di loro feciono tre capi, uno tesserandolo, e uno carpentiere, e uno calzolaio, e in questi tre fu riposto e commesso il fascio e tutto il pondo di loro governamento e reggimento; e al conte non feciono violenza alcuna, nè niuno mal sembiante. E racchetò la furia e il bollore del popolo in un batter d’occhio, questi tre mandarono la grida, che catuno andasse a fare suo mestiero, e ponesse giù l’arme, e così fu fatto. Che a pensare, ed è incredibile cosa e maravigliosa, che il tumulto di tanto popolo con cotante offensioni e tempeste s’acquetasse così lievemente, senza ricordo delle ingiurie sanguinose mescolate della pace, ciò si può dire, che in un punto fu la pace, e l’aspra e crudele guerra.

CAP. XXXIX. Come l’imperadore de’ Tartari fu morto.

In questo tempo il figliuolo di Giannisbec imperadore de’ Tartari, ch’abitava intorno alla marina del Mare oceano detto volgarmente il Mare maggiore, avendo pochi anni tenuto l’imperio, e in quello piccolo tempo fatto morire per [216] diversi modi quasi tutti quelli ch’erano di suo lignaggio, o per paura che non li togliessono la signoria, o per altro animo imperversato e tirannesco, ultimamente caduto in lieve malattia, affrettato fu di morire d’aprile 1359. E quanto che sua vita fosse con molta guardia e cautela, difendere non si seppe da morte violente, tanto era per sua iniquità mal voluto: e pur venne l’imperio dove con sollecitudine s’era sforzato che non pervenisse, a uno di sua gesta.

CAP. XL. Di novità de’ Turchi in Romania.

Nel medesimo tempo di sopra Ottoman Megi, il maggiore signore de’ Turchi, avendo riavuto il figliuolo il quale, come dicemmo, era stato preso da’ Greci, col detto suo figliuolo insieme con esercito grande di Turchi avea lungo tempo assediata Dommettica, nobile e bella città posta in Romania, la quale non essendo soccorsa dall’imperadore di Costantinopoli nè dagli altri, e non potendosi più tenere, s’arrendè, e venne in potestà de’ Turchi. E avendola Ottoman di sua gente di guardia fornita, con grandissima gente di Turchi si dirizzò a Costantinopoli, con speranza di prendere la terra, o per assedio, o per battaglia; e giunti, fermarono loro campo presso alla città, correndo spesso per tutti i paesi dintorno, e facendo a’ Greci grandissimo danno. E ivi stati lungamente senza fare acquisto di cosa che venisse a dire [217] niente, veggendo che poco potea adoprare, se ne tornò in Turchia.

CAP. XLI. Come il Delfino di Vienna fece pace col re di Navarra.

Quanto che la pace fatta tra’ due re d’Inghilterra e di Francia in sostanza fosse nonnulla, nondimanco per non potere per onestà offendere palesemente forte era allentata la guerra, e molti Inghilesi s’erano tornati nell’isola con quello ch’aveano potuto avanzare del nò e del sì. Al re di Navarra pochi Inghilesi erano rimasi, onde non potendo tanto male fare quanto per l’addietro era usato, questa tiepidezza di tempo diede materia a quei baroni di cercare pace tra ’l re e ’l Delfino, la quale per le dette cagioni assai tosto seguì. E accozzati il re e ’l Delfino, per buona e ferma pace si baciarono in bocca, e il re promise di stare in fede della corona di Francia, e d’atare il Delfino a suo potere contro all’oppressione degl’Inghilesi. Questa pace molto fu cara, e di gran contentamento a’ Franceschi, perocchè la loro divisione era stata materia del guasto di Francia. Ma come che ’l fatto si fosse, la pace i più pensarono che fosse con inganno e a mal fine per la viziata fede del re di Navarra, e corrotta per l’usanza delle scellerate cose in che egli era trascorso, immaginando che non meno potesse nuocere sotto fidanza di pace, che fatto s’avesse nella guerra palese. [218] E così ne seguette, come apparve poco appresso per segni aperti e manifesti.

CAP. XLII. Come l’oste de’ Fiorentini tornò a Firenze e la compagnia ne andò nella Riviera.

Fuggita la compagnia del campo delle Mosche dov’erano stati appetto dell’oste de’ Fiorentini per speranza venti giorni, com’è addietro narrato, ed essendo al ponte a San Quirico in sul fiume del Serchio, molti se ne partirono, e chi prese suo viaggio, e chi in uno e chi in altro paese; e la maggiore fortezza di loro, ch’era col conte di Lando, e con Anichino di Bongardo, quasi tutta di lingua tedesca, prese il soldo dal marchese di Monferrato: e ricevuto per loro condotta in parte di paga ventottomila fiorini d’oro, tutto loro arnese grosso con gran parte di loro gente misono in arme. E conducendoli sempre i Pisani, e avuto licenza dal doge e da’ Genovesi, e dato loro stadichi di non far danno per la Riviera, donde loro convenia passare, e di torre derrata per danaio, se n’andarono in sulla Magra; e s’affilarono uomo innanzi a uomo, e misonsi in cammino per li stretti e malagevoli passi, che alla via loro non era altra rimasa. Nè per ricordo si trova, che dal tempo d’Annibale in qua gente d’arme numero grande per que’ luoghi passasse, perchè sono vie malagevoli alle capre. E bene verifica la sentenza di Valerio Massimo, il quale dice, che la nicistà dell’umana [219] fiebolezza è sodo legame, la quale in questa forma è rivolta in verbo francesco. Necessità fa vecchia trottare. In questo cammino senza niuna offesa, solo che di male vivere, misono tempo assai. La compagnia, come detto avemo, preso suo viaggio, l’oste del comune di Firenze stette ferma in sul campo infino al giovedì a dì primo d’agosto 1359; a quel dì con grande festa levarono il campo molto ordinatamente, e passarono da Serravalle, e alloggiaronsi la sera alla Bertesca tra i confini di Firenze e di Pistoia, stendendosi fino a Prato; il venerdì mattina a dì 2 d’agosto di quindi si tornarono a Firenze. I Fiorentini per onorare il capitano li mandarono incontro alla porta due grandi destrieri coverti di scarlatto, e un ricco palio d’oro levato in asti con grandi drappelloni pendenti alla reale, sotto il quale vollono ch’egli entrasse nella terra a guida di cavalieri, e gentili uomini e popolari, ma il valente capitano prese e accettò cortesemente con savie parole i cavalli, ch’erano doni cavallereschi, e ricusò di venire sotto il palio; e fulli a maggiore onore riputato. E per rendere al comune l’insegne, con la gente ordinata come l’avea a campo tenuta, nella prima frontiera mise i balestrieri e gente a piè, e appresso la camera del comune, poi gli Ungheri, appresso i cavalieri, e in fine mise il palio innanzi per onore del comune alla sua persona, e senza niuna pompa in mezzo del conte di Nola e del figliuolo di messer Bernabò, e’ venne per la città al palagio de’ signori priori, e ivi con grande allegrezza rassegnò il bastone e l’insegne a’ signori priori, le quali accomandate [220] gli aveano, e da indi a pochi giorni fatto a grande numero di cittadini un nobile e solenne convito se ne tornò in Romagna.

CAP. XLIII. Della morte e sepoltura di messer Biordo degli Ubertini.

Messer Biordo degli Ubertini fu cavaliere gentilesco e di bella maniera, costumato e d’onesta vita, savio e pro’ della persona, e ornato d’ogni virtù, e per tanto in singolare grazia dell’imperadore, e molto amato dal legato di Spagna e da molti altri signori. Costui e’ suoi consorti in questi tempi forte s’inimicavano co’ Tarlati d’Arezzo, e molto erano da loro soperchiati; onde egli avendo provato che ’l caldo e il favore de’ detti signori era troppo di lontano di passaggio e di poco profitto, sopra tutto desiderava d’essere confidente e servidore del comune di Firenze, la cui amicizia vedea ch’era stabile e diritta, e che gratificava il servigio; perchè, come addietro dicemmo, per essere egli e’ suoi in bando e ribelli del comune di Firenze, offerse il servigio di sè e de’ suoi contro la compagnia, e accettato venne nell’oste, dove per mostrare quello ch’egli era s’affaticò sopra modo, che da tutti fu ricevuto da grande sentimento in opera d’arme, tornato col capitano a Firenze, subito cadde in malattia. Il comune avendo prima avuto a grado sua liberalità, e appresso l’opere sue, di presente lo ribandirono co’ consorti suoi, e per mostrare [221] verso lui tenerezza, con molti medici alle spese del comune lo feciono medicare; ma come a Dio piacque, potendo più l’infermità che le medicine, la mattina a dì 16 d’agosto divotamente rendè l’anima a Dio. Il corpo si serbò sino nel dì seguente, per attendere il vescovo d’Arezzo suo consorto e gli altri di casa sua; ed essendo venuti, per lo comune furono fatte l’esequie della sua sepoltura riccamente, e alla chiesa de’ frati minori ove si ripose, che tutte le cappelle, e ’l coro, e sopra una gran capanna fu fornita di cera e con molti doppieri, e sopra la bara un drappo a oro con drappelloni pendenti coll’arme del popolo e del comune, e di parte guelfa e degli Ubertini, e con vaio di sopra con sei cavalli a bandiere di sue armi, e uno pennone di quello del popolo e uno di parte guelfa, con molti fanti e donzelli vestiti a nero. Fu cosa notabile e bella in segno di gratitudine del nostro comune, il quale volentieri onora chi onora lui, dimettendo le vecchie ingiurie per lo nuovo bene, e non avendo a parte rispetto, ma alle operazioni fedeli e devote. Alle dette esequie fu il detto vescovo, e ’l Farinata e tutti gli altri consorti vestiti a nero, e’ signori priori, e’ collegi, e’ capitani della parte, e gli altri rettori e uficiali del comune, e tutti i cherici e buoni cittadini, e ’l chericato tutto e’ religiosi di Firenze. Morì in casa i Portinari; e la bara si pose in sul crocicchio di Porta san Piero dalla loggia de’ Pazzi, dove posta la mattina, tanto vi stette, che ’l vescovo venne: e intorno alla bara erano fanti vestiti di nero, e cavalli e bandiere, l’uno appresso l’altro, parte per la via, [222] che viene al palagio della podestà, e parte per quella che va a santa Reparata; fu cosa ricca e piatosa, e tutto il popolo piccoli e grandi trassono a vedere. Abbianne fatta più lunga scrittura che non si richiede, perchè ne parea fallire, se onorandolo tanto il nostro comune noi non l’avessimo con la penna onorato, e perchè pensiamo, che sia esempio a molti a tramettersi a ben fare, veggendo essere il bene operare premiato a coloro che ’l meritano.

CAP. XLIV. Come i Perugini mandarono ambasciata a Siena, e abominando i Fiorentini.

L’arbitrata sentenza data sopra la pace tra il comune di Perugia e quello di Siena, tutto che fosse comune utile e buona, all’uno e all’altro comune forte dispiacea, come addietro abbiamo narrato, e ciascheduno con sua ambasciata che piacesse al nostro comune per suo onore e grazia loro annullare; e ciò fare non volse, perchè quasi niente derivava da’ ragionamenti fatti con gli ambasciadori de’ detti comuni, se non ch’alquanto nel tempo e nel modo, onde la pace si rimase con le strade bandite, ma con gli animi pregni e pieni d’odio e di stizza, e vollonsi dirompere se l’impossibilità non gli avesse tenuti, perocchè tanto aveano speso, che premendo loro borse niente vi si potea trovare se non vento e rezzo. I Perugini pregni d’animo, alterosi e superbi, senza avere di loro possa riguardo, per mostrare [223] sdegno d’animo contro a’ Fiorentini, crearono otto ambasciadori di loro cittadini più nominati e più cari, e vestironli di scarlatto, e accompagnaronli di giovanaglia vestiti d’assisa dimezzata di scarlatto e di nero, e con molta pompa li mandarono a Siena, dove furono ricevuti con festa rilevatamente all’usanza sanese, recandosi in grande gloria questa mandata; e qui ritta in parlamento, cortesemente infamando il comune di Firenze, nella proposta dissono; l’uomo nimico nel campo del grano soprassemina la zizzania, cioè il loglio; e recando il processo del parlare a questa sentenza, copertamente la ridussono e rivolsono contro al nostro comune, conchiudendo ch’e’ s’erano ravveduti, e a loro veniano come a cari fratelli, per fermare e mantenere con gli animi buoni, e magni e liberali, perpetua e liberale e buona pace, posta giù ogni onta e dispetto, e ogni cruccio nel quale a stigazione altrui fidandosi poco avvedutamente erano incorsi; e infine uditi volentieri, presono co’ Sanesi di nuovo fermezza di pace. I Fiorentini molto si rallegrarono della pace per sospicione che li tenea sospesi di rottura per lo poco contentamento che l’uno comune e l’altro dimostrava in parole di quella ch’era fatta, come fu detto di sopra; vero è che molto punsono le villane e disoneste parole de’ Perugini, e molto furono notate e scritte ne’ cuori de’ cittadini. Tutto poi che i Perugini s’ingegnassono di scusare loro baldanzosa e poco consigliata diceria e proposta, per la detta cagione poco appresso seguette, che avendo i Perugini fatta ragunata di gente, per [224] fama si sparse che tentavano in Arezzo coll’appoggio degli amici di messer Gino da Castiglione. Onde per questo sospetto, a dì 12 d’agosto, il comune di Firenze vi mandò quattrocento cavalieri, e assai de’ suoi balestrieri: poi si trovò che nel vero i Perugini intendeano altrove, ma pure per l’odio che novellamente aveano in parole dimostrato, crebbe eziandio per questa non vera novella.

CAP. XLV. Come il comune di Firenze mandò aiuto di mille barbute a messer Bernabò contro alla compagnia.

Avendo la compagnia preso viaggio per la Riviera di Genova sotto titolo di soldo contro a’ signori di Milano, i Fiorentini il cui animo era a perseguitarla, e perseguire a loro podere il pericoloso nimico nome di compagnia in Italia, e avendo rispetto a questo volere, ma molto più al servigio ricevuto da messer Bernabò contro a essa compagnia; di tutta sua gente sceltane il fiore, e in numero di mille barbute, prestamente e senza resta, a dì 18 d’agosto la fece cavalcare verso Milano sotto la insegna del comune di Firenze, a guida di loro cavalieri popolari, i quali ricevuti graziosamente in Milano, cavalcarono nell’oste. Elli furono vincitori, come al suo tempo diviseremo, non tanto per lo numero loro, nè per la forza loro, quanto per la fama del favore del nostro comune, che grande era a quell’ora, per la viltà presa [225] per la compagnia della gente del comune e de’ Fiorentini per lo ributtamento che fatto n’aveano.

CAP. XLVI. Come il castello di Troco fu incorporato per la corona di Puglia.

Carlo Artù, com’è scritto addietro, fu incolpato della morte del re Andreasso, e per la detta cagione condannato per traditore della corona, e i suoi beni pubblicati, e incorporati alla camera della reina, tra’ quali era il castello di Troco; il quale dappoi era stato privilegiato al prenze di Taranto, e lui l’avea conceduto a messer Lionardo di Troco di Capovana: e avendolo lungo tempo tenuto, in questo il conte di Santagata figliuolo del detto Carlo lo fè furare a’ masnadieri, i quali nel segreto il teneano per lui; onde aontato di ciò il prenze accolse circa a mille uomini a cavallo, e misesi a oste a Santagata, e gran tempo vi stette, e non potendo avere la terra del detto conte contro alla volontà del re Luigi, infine se ne partì con poco frutto; e bene ch’avesse animo ad altri processi, e li cominciasse a seguire, e’ ci giova, di lasciarli, come cose lievi, e tornare alle cose più notabili de’ nostri paesi.

[226]

CAP. XLVII. Come il comune di Firenze assediò Bibbiena.

I Tarlati d’Arezzo, per che cagione il facessono, mai non aveano voluto ratificare, come aderenti de’ signori di Milano, alla pace fatta a Serezzana intra’ detti signori e comuni di Toscana, e stavansi maliziosamente intra due, attenendosi alle fortezze loro, che n’aveano molte in que’ tempi, e guerreggiando agli Ubertini, senza mostrarsi in atto veruno contro al nostro comune; e intra l’altre terre, Marco di messer Piero Saccone possedea liberamente la terra di Bibbiena, la quale di ragione era del vescovo d’Arezzo, colla quale ne’ tempi passati molta guerra avea fatta a’ Fiorentini. Ora tornando a nostro trattato, come avanti dicemmo, gli Ubertini, nemici di quelli da Pietramala, col senno e buono aoperare erano tornati nella grazia e amore del nostro comune, ed essendo messer Buoso degli Ubertini vescovo d’Arezzo venuto a Firenze per la cagione che di sopra dicemmo, si ristrinse co’ governatori del nostro comune segretamente animandoli all’impresa di Bibbiena, conferendo di dare le sue ragioni al comune di Firenze. Il suo ragionamento fu accettato; e aggiunta l’intenzione buona del vescovo all’operazione di messer Biordo, il comune per gareggiare la famiglia degli Ubertini, e mostrare che veramente gli avesse in amore, a dì 23 d’agosto per riformagione ribandì gli Ubertini; e per confermare la memoria [227] delle fedeli operazioni di messer Biordo, domenica mattina a dì 25 d’agosto fè cavaliere di popolo Azzo suo fratello, con onorarlo di corredi e di doni cavallereschi; e di presente lo feciono cavalcare a Bibbiena con gente d’arme a cavallo e a piè, e a dì 26 del detto mese con la detta gente prese il poggio al Monistero a lato a Bibbiena, e il borgo che si chiama Lotrina, e ivi s’afforzarono vicini alla terra al trarre del balestro. Era nella terra Marco e messer Leale fratello naturale di messer Piero Sacconi, attempato e savio, i quali per alcuno sentore di trattato aveano mandati di fuori della terra tutti coloro di cui sospettavano, e nel subito e non pensato caso si fornirono prestamente di loro confidenti e di molti masnadieri, il perchè convenia, ch’avendo la rocca e la forza i terrazzani stessono a posa e ubbidienti loro, e pensando che la cosa averebbe lungo trattato, s’ordinarono e afforzarono a fare resistenza e franca difesa, sperando nella lunghezza del tempo avere soccorso. Il comune di Firenze multiplicava a giornate l’assedio, e in servigio del comune v’andò il conte Ruberto con molti suoi fedeli in persona, e di presente pose suo campo, e simile feciono gli altri. E così in pochi dì la terra fu cerchiata d’assedio, e gli Ubertini in tutte loro rocche e castella vicine a Bibbiena misono gente del comune di Firenze, e per più fortezza e sicurtà di quelli ch’erano al campo. La guerra si cominciò aspra e ontosa secondo il grado suo, e que’ d’entro per mostrare franchezza aveano poco a pregio il comune di Firenze, uscivano spesso fuori [228] a badaluccare, e a dì 30 d’agosto in una zuffa stretta fu morto il conte Deo da Porciano, che v’era in servigio de’ Fiorentini.

CAP. XLVIII. Come il comune comperò Soci.

Marco di Galeotto, come vide assediata Bibbiena, e avendovi presso Soci a due miglia, con sano consiglio abbandonò la speranza de’ Perugini che l’aveano per loro accomandato, e avuto licenza, perchè era in bando, se ne venne a Firenze a’ signori; e ragunati i collegi, e richiestili, liberamente si rimise nelle mani del comune con dire, che de’ fatti del castello Sanniccolò e di Soci, e di ciò ch’egli avea nel mondo, ed eziandio della persona ne facessono loro volontà: il comune per questa sua liberalità e profferta spontaneamente e di buono volere, e non ostante ch’e’ terrazzani di Soci si volessono dare al comune, e ciò era fattevole senza contasto per forza che appresso al castello avea il comune, tanto legò l’animo de’ cittadini, per natura benigni a perdonare, che ’l comune si dispose a sopra comperare, per mostrare amore e giustizia; e perchè il valente uomo si mostrasse contento, e sopra ciò provveduto discretamente, adì 26 d’ottobre 1359 per li consigli ribandirono Marco, e dierongli contanti fiorini seimila d’oro; e fè carta di vendita di Soci e di tutte le terre che in que’ luoghi avea, e le ragioni ch’avea in castello Sanniccolò concedette al nostro comune, [229] e delle carte ne fu rogatore ser Piero di ser Grifo da Pratovecchio notaio delle riformagioni e altri notai, e così pervenne Soci a contado del comune di Firenze. Come per tema non giusta Marco di Galeotto si mise a venire a Firenze, e fece quello ch’avemo detto di sopra, e così vennono i conti da Montedoglio volendosi accomandare al comune, i quali non li vollono ricevere se prima non facessono guerra a’ Tarlati, e non volendo ciò fare, si partirono con poca grazia del nostro comune.

CAP. XLIX. Come il vescovo d’Arezzo diede le sue ragioni che avea in Bibbiena al comune di Firenze.

Messer Buoso degli Ubertini vescovo d’Arezzo, non potendo sotto altro titolo che d’allogagione a fitto, a dì 7 di settembre 1359 allogò al comune di Firenze per certo fitto annuale, facendo le carte dell’allogagione di sette anni in sette anni, e facendone molte, le quali insieme sono gran novero d’anni, e confessò il fitto per tutto il detto tempo, e largì al comune ogni ragione e giurisdizione e signoria che ’l vescovado d’Arezzo avea nella terra e distretto di Bibbiena, e le carte ne fece il detto ser Piero di ser Grifo; e con questa cautela fu giustificata l’impresa del nostro comune. Questa concessione fatta per lo vescovo fu approvata e confermata per lo comune d’Arezzo, il quale per fortificare le ragioni del nostro comune ogni ragione ch’appartenea [230] per qualunque ragione avea in Bibbiena gli diede liberamente. A queste giuste ragioni s’aggiugnea l’animo e buono volere de’ terrazzani di Bibbiena, che volentieri fuggivano la tirannia di quelli da Pietramala: ciò cominciarono a mostrare quelli ch’erano cacciati di fuori, ch’erano nel campo de’ Fiorentini guerreggiando i Tarlati, e di poi lo mostrarono quelli ch’erano dentro quando si vidono il tempo di poterlo fare, come seguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. L. Seguita la sequela della compagnia.

Seguendo i principii fatti per lo comune in mandare gente a messer Bernabò contro alla compagnia, il signore di Bologna, ch’allora era in pace con lui, li mandò cinquecento cavalieri, e quello di Padova, e quello di Mantova, e quello di Ferrara ancora li mandarono della gente loro; essendo il marchese di Monferrato fatto forte con la compagnia, uscì fuori a campo con molta baldanza, ma di subito i signori di Milano con loro oste li furono appetto, sicchè li convenia stare a riguardo, e per tenerlo a freno i detti signori posono l’oste a Pavia, e strinsonla forte. Il marchese avendo alla fronte il bello e grande esercito de’ detti signori, non si potea volgere indietro a dare soccorso a Pavia per non avere i nemici alla coda, e stando le due osti affrontati, non ebbono tra loro cosa notevole, se non d’uno abboccamento di [231] cinquecento cavalieri di que’ della compagnia, che per avventura s’abboccarono con altrettanti di quelli del comune di Firenze, intra’ quali per onta e per gara e per grande spazio fu dura e aspra battaglia, e infine i cavalieri de’ Fiorentini sconfissono quelli della compagnia. Nella quale rotta furono presi tre caporali de’ maggiorenti della compagnia con più di dugento cavalieri, e assai ve ne furono morti e magagnati; e ciò avvenne d’ottobre del detto anno. Nell’assedio della città di Pavia occorse un altro caso più spiacevole per lo fine suo; che essendo preso da quelli da Pavia uno Milanese d’assai orrevole luogo, fuori d’ordine di buona guerra fu impiccato; e venuta la novella a messer Bernabò, e infocato d’ira, comandò a messer Picchino nobile cavaliere, e di grande stato e autorità in Milano, che quattordici prigioni di Pavia ch’erano nell’oste li facesse impiccare, infra’ quali ve n’era uno di buona fama, e di gentile luogo, e d’assai pregio, non degno di quella morte, per lo quale molti Milanesi ch’erano nell’oste pregarono messer Picchino che cercasse suo scampo. Il quale mosso da pietà e dalle giuste preghiere di tali cittadini mandò a messer Bernabò di tali cittadini, e della sua umilità ferventemente pregò il signore che per loro grazia e amore dovesse perdonare la vita a quello nobile uomo; il signore per queste preghiere invelenito e aspramente turbato comandò a messer Picchino che colle sue mani il dovesse impiccare; il gentile uomo stepidito, e impaurito di tale comandamento, e non meno di lui tutti i suoi amici e [232] parenti, e molti buoni e cari cittadini, cercarono stantemente con sommessione e preghiera, che ’l nobile e gentile cavaliere, cui il signore avea fatto tanto d’onore, di sì vile e vituperoso servigio non fosse contaminato; il signore indurato alle preghiere, perseverando nella pertinacie sua, aggiunse al vecchio comandamento, che se nol facesse, primieramente farebbe impiccare lui. Il gentile cavaliere vedendo l’animo feroce del tiranno, che se non facesse quello che gli era comandato che li convenia vituperosamente morire, stretto da necessità, confuso e attristito, si spogliò i vestimenti e di tutti i segni di cavalleria, e rimaso in camicia, vestito di sacco con vile cappelluccio, e a maraviglia di dispetto, andò a mettere a esecuzione il comandamento del tiranno, con proponimento di non usare più onore di cavalleria, poichè era sforzato d’essere manigoldo; che assai diede per l’atto a intendere quanto fosse da prezzare il beneficio della libertà, da’ Lombardi non conosciuta.

CAP. LI. De’ fatti di Sicilia e del seguire l’ammonire in Firenze.

Per sperienza di natura vedemo, che l’uomo appetisce di vari cibi, e che di tale varietà lo stomaco piglia conforto, e fa digestione; e così quando l’orecchie con fatica pure d’un medesimo modo udire desidera intramesse d’altro parlare. Noi seguendo quello che natura per suo ricriamento [233] acchiede in quello luogo, accozzeremo molte novelle occorse in molti luoghi e in uno tempo diversi, nè del tutto degni di nota, nè da essere posti a oblio, e farenne una nuova vivanda in queste parti. Per lo poco polso, e per la poca forza e vigore ch’aveano le parti che governavano l’isola di Cicilia, loro guerre erano inferme e tediose; il duca e’ Catalani col seguito loro aveano assai poca potenza, e la parte del re Luigi molto minore; e le lievi guerre e continove straccavano e consumavano l’isola, e nè l’una parte nè l’altra poteano sue imprese fornire, e pure si guastavano insieme con fame e confusione de’ paesani, che a giornate correano in miseria. Il duca avea alquanto più seguito, e que’ di Chiaramonte speranza nell’aiuto del re Luigi, che promettea loro assai, e poco facea; onde i gentili uomini non tanto per amore del re, quanto per sostenere sè medesimi, e loro fama e grandigia, intendeano alla guardia di Palermo, e d’alcuno castello che il duca tenea debolmente assediato col braccio de’ Catalani, tra che gli assediatori erano fieboli e di poca possanza, e gli assediati poveri d’aiuto, niuna notevole cosa era stata a oste di quelle terre; e lieve era agli assediati a schernire i nemici, e fargli da oste levare, perchè oggi si poneano, e ’l dì seguente se ne levavano, e parea la cosa quasi nel fine suo, per impotenza dell’una parte e dell’altra. Ma quello che segue, tutto paia da’ principii suoi da poco curare e di piccola stificanza, più nel segreto del petto che non mostra in fronte, se Dio per sua pietà non provvede, chi sottilmente mira, [234] può generare divisione e scandalo nella nostra città. In questi giorni, colle febbri lente continove dell’isola di Cicilia, le nostre, civili mali, ne’ loro principii non curate, si perseguia l’ammonire chi prendesse o volesse prendere uficio, e non fosse vero guelfo, o alla casa della parte confidente. E certo in sè la legge era buona, come addietro dicemmo, ma era male praticata, e recata a fare vendetta, e altre poco oneste mercatanzie, perchè forte la cosa spiacea agli antichi e veri guelfi, e agli amatori di quella parte, e della pace e tranquillità del nostro comune. E scorto era per tutto, che ’l mal uso della riformagione tenea sospesi, e in tremore e in paura più i guelfi ch’e’ ghibellini, e sospettando di non ricevere senza colpa vergogna. A queste due travaglie aggiugneremo una novità d’altre maniere. I Romani, che già furono del mondo signori, e che diedono le leggi e’ costumi a tutti, erano stati gran tempo senza ordine o forza di stato popolare, onde loro contado e distretto si potea dire una spelonca di ladroni, e gente disposta a mal fare. Il perchè volendosi regolare, e recarsi a migliore disposizione, avendo rispetto al reggimento de’ Fiorentini, feciono de’ loro cittadini popolari alquanti rettori con certa podestà e balía assomiglianti a’ nostri priori, tutto che molto minore, e feciono capo di rioni sotto il titolo di banderesi: ivi rispondeano a ogni loro volontà duemilacinquecento cittadini giovani eletti e bene armati, i quali al bisogno uscivano fuori della città bene armati a fare l’esecuzione della giustizia contro a’ malfattori. Avvenne in questi [235] giorni, che conturbando con ruberie il paese uno Gaetano fratello del conte di Fondi, fu preso, e senza niuna redenzione fu impiccato, con molti suoi compagni che furono presi con lui di nome e di lieva. Il perchè da queste e da altre esecuzioni fatte contro a’ paesani e’ cittadini che ricettavano i malfattori, oggi il paese di Roma è assai libero e sicuro a ogni maniera di gente.

CAP. LII. Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto stretta.

La punga che ’l comune faceva per avere Bibbiena era grande, e la resistenza de’ Tarlati molto maggiore, e faceano forte maravigliare i governatori del nostro comune, veggendo la durezza e la pertinacie loro, non aspettando soccorso di luogo che venisse a dire nulla; e come che la cosa s’andasse, non fu senza infamia del capitano del popolo ch’era de’ marchesi da Ferrara, il quale era stato mandato per capitano di tutta l’oste, il quale vilmente e lentamente in tutte cose si portava, e d’alcuni cittadini che gli erano stati dati per consiglio. Onde il comune prese oneste cagioni e’ rivocarono il capitano e ’l suo consiglio, e in suo luogo mandarono il potestà con altri cittadini, il quale fu messer Ciappo da Narni, uomo d’arme valoroso, e sentito assai. Il quale avendo da Firenze molti maestri di legname e di cave, prestamente fece cignere la terra di fossi e di steccati, e imbertescando [236] i luoghi dov’era bisogno, e in più parti, e alla rocca e alla terra fè dirizzare cave, e simile faceano que’ d’entro per riscontrare. Appresso vi dirizzarono due dificii che gittavano gran pietre, e di dì e di notte secondo uso di guerra li molestavano, senza dare loro riposo. Que’ d’entro per rompere e impedire i mangani dirizzarono manganelle, colle quali assai danno facevano. Nè contento il capitano alla detta sollicitudine, cominciò a cavare l’altre torri de’ Tarlati per tenerle strette, e in esse cercava trattati, ne’ quali fu preso Corone, e Giunchereto, e Frassineto per battaglia, e all’uscita di settembre presono Faeto castelletto ch’era di messer Leale, nel quale trovarono assai roba, e predato il paese, si tornarono al campo. E perchè le castella prese erano del contado d’Arezzo, il comune liberamente le rendè agli Aretini, i quali molto le ebbono a grado, e tutto che nostro comune perseguitasse quelli da Pietramala a suo potere, gli Aretini seguendo il grido non stavano oziosi, facendo dal lato loro, quanto poteano e sapeano di guerra. E nel detto tempo in sul giogo ripresono un loro castello che ’l conte Riccardo dal Bagno lungo tempo avea loro occupato; e perseguendo l’assedio, nell’entrante d’ottobre furono tratti a fine e forniti tre battifolli intra’ campi erano posti, onde la terra fu per modo circondata d’assedio ch’entrare nè uscire non potea persona. Lasceremo assediata Bibbiena, e a suo tempo diremo come fu presa, e diremo alquanto delle cose straniere, che in questi tempi avvennono da fare menzione.

[237]

CAP. LIII. Come il re d’Inghilterra passò in Francia con smisurata forza.

Poichè al re d’Inghilterra fu manifesto, che la pace che fatta avea col re di Francia da’ Franceschi non era accettata, e che il re di Navarra avea fatta pace col Delfino di Vienna, la quale si stimava per li discreti essere proceduta d’assento e ordine di esso re d’Inghilterra, sotto speranza, che essendo il re di Navarra ne’ consigli de’ Franceschi e creduto da loro, più dentro potesse a tempo preso di male operare in sovversione della casa di Francia, che di fuori colla guerra, perocchè come il savio dice, che niuna pestilenza è al nocimento più efficace che il domestico e famigliare nemico, aggravando alle cagioni della guerra, con dare il carico di non volere la pace a’ suoi avversari, fece suo sforzo di suoi Inghilesi e di gente soldata maggiore che mai per l’addietro, e mandò in prima il duca di Lancastro con centoventitrè navi, nelle quali furono millecinquecento cavalieri e ventimila arcieri, all’entrata d’ottobre 1359, e posto in terra la gente, si mise infra il reame di Francia verso Parigi, e col navilio predetto tornato nell’isola, aggiunte molte altre navi, all’uscita del mese il re Adoardo col prenze di Gaules e con gli altri suoi figliuoli, con esercito innumerabile di suoi Inghilesi a piè, quasi tutti arcieri, anche passò a Calese. E secondo ch’avemmo [238] per vero, il numero di sua gente passò centomila. La detta mossa contro al tempo di guerra fa manifesto, che molto empito e smisurato volere movea il re Adoardo, e fermezza nell’animo suo ch’era grande e smisurato d’ottenere quello che lungo tempo avea desiderato, perchè principiò nell’entrata del verno, che suole dare triegua e riposo alle guerre. E perchè il tempo allora era dirotto alle piove, e il paese di Francia è pieno di riviere, molti stimarono che ciò facesse, per dimostrare a’ nemici quello che della guerra potesse seguire nella primavera e nella state, cominciando in sul brusco per spiacevole tempo, e per infiebolire gli animi loro sì con la possa smisurata, e sì con dare speranza di molta e tediosa lunghezza di guerra. Come procedette questa trionfale e terribile impresa, seguendo a suo tempo diremo.

CAP. LIV. La poca fede del conte di Lando.

Non è da lasciare in silenzio, oltre all’altre infamie, quello che della corrotta fede che in que’ giorni mosse il conte di Lando al marchese di Monferrato, il quale con molto spendio e fatica gli avea tratti di Toscana lui e sua compagnia, ove si potea dire veramente perduta, e fatti conducere a salvamento per la Riviera di Genova, e poi pel Piemonte nel piano di Lombardia, con patti giurati di tenerli fede infino a guerra finita contro a’ signori di Milano, con certo soldo [239] limitato da potersi passare con avanzo, il traditore, rotta ogni leanza e promessa al marchese predetto, del mese d’ottobre con millecinquecento barbute prese segretamente il soldo di messer Bernabò, e uscì dell’oste del marchese, e se n’andò in quello de’ nemici con l’insegne levate, rimanendo Anichino e gli altri caporali col resto della compagnia al marchese; i quali molto biasimarono il fallo enorme del conte, pubblicamente appellandolo traditore; ma poco tempo appresso, tirati dal suono della moneta de’ signori di Milano, feciono il simigliante, e tutti abbandonarono il marchese, verificando il verso del poeta: Nulla fides, pietas que viris qui castra sequntur; che recato in volgare viene a dire: Niuna fede nè niuna pietà è in quelli uomini che seguitano gli eserciti d’arme, cioè a dire in gualdana a predare, e a fare male. I signori di Milano dopo la venuta del conte fortissimamente strinsono la città di Pavia, togliendo a que’ d’entro ogni speranza di soccorso, perocchè vedendo il marchese i modi tenuti per lo conte di Lando, ed origliando i cercamenti che i Tedeschi che gli erano rimasi faceano, non osava e non si confidava mettere a bersaglio per soccorrere la terra.

CAP. LV. Come Pavia s’arrendè a messer Galeazzo.

Gli affannati e tribolati cittadini di Pavia e disperati d’ogni soccorso, e spezialmente di quello [240] del marchese, cui vedeano da’ Tedeschi gabbato e tradito, e altro capo non aveano che frate Iacopo del Bossolaro, col suo consiglio cercarono d’arrendersi a patti a messer Galeazzo il quale liberamente gli accettò con tutti que’ patti e convenienze che ’l detto frate Iacopo seppe divisare: e fermo tutto e’ ricevettono dentro messer Galeazzo con la sua gente del mese di novembre del detto anno; il quale entrato dentro con buona cera, si contenne senza fare novità, mostrandosi benigno e piacevole a’ cittadini e a frate Iacopo, e fecelo di suo consiglio, mostrandoli fede e amore, e avendolo quasi come santo e in grande reverenza; e con questa pratica e infinta sagacità ordinò con lui assai di quello che volle senza turbare i cittadini; e avendo recato in sua balía tutte le fortezze della terra e di fuori si tornò a Milano, mostrando a frate Iacopo affezione singulare, e lo menò seco, e come l’ebbe in Milano il fece prendere, e mettere in perpetua carcere, e condannato il mandò a Vercelli al luogo de’ frati dell’ordine suo, e ordinatoli quivi una forte e bella prigione, con poco lume e assai disagio, ponendo fine alle tempeste secolari che con la lingua sua ornata di ben parlare avea commesse. E ciò fatto, tenea all’opera più di seimila persone, e fece cominciare in Pavia una fortezza sotto nome di Cittadella, nella quale si ricogliesse tutta sua gente d’arme senza niuno cittadino; e ciò non fu senza lagrime e singhiozzi de’ cittadini, siccome di prima cominciarono a vedere il principio dello spiacevole giogo della tirannia, e sì per lo guasto [241] delle case loro che si conteneano nel luogo, ove s’edificava lo specchio della miseria loro, dove portavano gran danno e disagio; e per nominare quello che suole addivenire a chi cade in mala fortuna, frate Iacopo era infamato degli omicidi, che non furono pochi, i quali erano proceduti delle prediche sue, e de’ cacciamenti di molti cari e antichi cittadini di Pavia sotto maestrevole colore di battere e affrenare i tiranni; ma quello che più parea suo nome d’orrore nel cospetto di tutti erano le rovine de’ nobili edifici di que’ da Beccheria e d’altri notabili cittadini che li seguivano, mostrando che l’abbattere il nido agli uomini rei era meritorio, quasi come se peccassono le case, che è stolta cosa, tutto che per mala osservanza tutto giorno s’insegna queste cose, parea che l’accusassono di crudeltà; e quello costringono d’avarizia, perocchè sotto titolo di cattolica ubbidienza aveano fatto statuti, che chi non fosse la mattina alla messa e la sera al vespero pagasse certa quantità di danari; e avendo sopra ciò fatte le spie, cui trovassono in fallo il minacciavano d’accusare, e sotto questa tema li facevano ricomperare. E certo chi volesse stare nel servigio di Dio e nelle battaglie di vita riligiosa, e mescolandosi nelle cose del secolo e ne’ viluppi è spesso ingannato da colui che si trasfigura in vasello di luce per ingannare quelli col principio della santa operazione, favoreggiando col grido del popolo il santo l’indusse a vanagloria e in crudeltà, e, come dovemo stimare, Iddio con le pene della croce lo ridusse alla vita d’onde s’era per lusinghe del mondo partito.

[242]

CAP. LVI. Come i signori di Milano sfidarono il signore di Bologna.

Come la sete dell’avaro per acquisto d’oro non si può saziare, così la rabbia del tiranno non si può ammorzare per acquisto di signoria; per divorare tiene la gola aperta, e quanto più ha cui possa distruggere e consumare, più ne desidera. Questo per tanto dicemo, perchè in questi dì, avendo i signori di Milano con la forza della moneta e col tradimento del conte di Lando e d’Anichino vinto e vergognato il marchese di Monferrato, e aggiunta per forza alla loro signoria la nobile e antica città di Pavia, ringraziando con lettere il comune di Firenze del bello e buono servigio della sua gente ricevuto, di presente la rimandò; e cresciuto loro l’animo per lo felice riuscimento della città di Pavia, entrarono in pensiero e in sollicitudine di rivolere o per amore o per forza la città di Bologna, non ostante che da messer Giovanni da Oleggio loro consorto che allora la tenea avessono avuto aiuto alla loro guerra seicento barbute, le quali ritennono ad arte e con ingegno al soldo loro, pensando d’avere mercato nel subito loro movimento del signore di Bologna, trovandosi ignudo e sfornito di gente d’arme a difesa; e con trovare rottura di pace, scrissono al comune di Firenze che non si maravigliasse, perchè sì subito assalissono con la forza loro il signore di Bologna, [243] da cui erano stati traditi, e che a loro avea rotta la pace senza niuna giusta cagione; e nella lettera scritta di questa materia al comune era intramessa la copia di quella che mandarono al signore di Bologna, sfidandolo e appellandolo per traditore, la quale lettera fu appresentata al signore di Bologna come l’oste de’ signori di Milano giunse nel terreno di Bologna.

CAP. LVII. Come messer Bernabò mandò l’oste sua sopra Bologna.

Seguendo la materia del precedente capitolo, all’entrata di dicembre del detto anno, messer Bernabò fece capitano della gente che mandò nel Bolognese il marchese Francesco da Esti, il quale essendo cacciato di Ferrara era ridotto a messer Bernabò, ed era suo provvisionato, e senza niuno arresto con tremila cavalieri, e millecinquecento Ungheri, e quattromila pedoni e mille balestrieri lo fece cavalcare in su quello di Bologna, avendo il passo dal signore di Ferrara, allora in amicizia e compare di messer Bernabò, e oltre al passo, vittuaglia e aiuto; e come uscì del Modenese si pose a campo intorno al castello di Crevalcuore, e ciò fu infra dieci dì infra ’l mese di dicembre, e ivi stette più giorni; sollecitato con parecchie battaglie il castello, non avendo soccorso dal signore di Bologna, a dì 20 del detto mese s’arrendè a promissione di messer Giovanni de’ Peppoli, il quale era nell’oste al servigio di [244] messer Bernabò; e ricevuto il castello e le guardie del capitano dell’oste, essendo il castello abbondevole di vittuaglia, assai n’allargò l’oste. Avuto Crevalcuore, le villate ch’erano d’intorno da lunga e da presso per non essere predati ubbidirono il capitano, facendo il mercato sotto il caldo e baldanza di questo ricetto. Bene che la vernata fosse spiacevole e aspra per le molte piove, quelli dell’oste ogni dì cavalcavano insino presso a Bologna, levando prede e prigioni, e tribolando il paese; il signore di Bologna, ch’era savio e d’animo grande, non faltò di cuore per la non pensata e subita guerra, e veggendosi per l’astuzia di messer Bernabò che gli avea levati i soldati, come dicemmo di sopra, povero di gente d’arme e d’aiuto, senza indugio trasse delle terre di fuori que’ terrazzani che si sentì ch’erano sospetti, e le rifornì di soldati, perchè i terrazzani non avessono podere d’arrendersi sì prestamente come fatto aveano quelli di Crevalcuore; e attendea con sollicitudine allo sgombro, e ad apparecchiare la città a difesa, e a fare buona guardia. Il cardinale di Spagna li mandò di soccorso quattrocento barbute che li vennono a gran bisogno. Lo detto signore conoscendo la sua impotenza, e non essere sufficiente a potere rispondere a quella de’ signori di Milano, nondimeno cercò sottilmente con segreto trattato, offerendo di fare alto e basso quanto fosse piacere del comune di Firenze, di torlo in suo aiuto, ma la fede promessa per la pace vinse ogni vantaggio che potessono avere.

[245]

CAP. LVIII. Come fu maestrato da prima in Firenze in teologia.

Poco è da pregiare per onestà di fama che uno sia con le usate solennitadi, ne’ luoghi dove sono li studi generali delle scienze privilegiate dalla autorità del santo padre e dell’imperio di Roma, pubblicamente scolaio maestrato; ma essendo questo atto primo e nuovo, e più non veduto nelle città che hanno di nuovo privilegi di ciò potere fare, bello pare e scusabile d’alcuni farne memoria, non per nome dell’uomo, che per avventura non merita d’essere posto in ricordo di coloro che verranno, ma per accrescimento di tali cittadi, ove tale atto da prima è celebrato. In questi giorni per virtù de’ privilegi alla nostra città conceduti per lo nostro papa Clemente sesto, infra l’altre cose contenne di potere maestrare in teologia, a dì 9 di dicembre nella chiesa di santa Reparata pubblicamente e solennemente fu maestrato in divinità, e prese i segni di maestro in teologia frate Francesco di Biancozzo de’ Nerli dell’ordine de’ frati romitani; e il comune mostrandosi grato del beneficio ricevuto di potere questo fare, per lungo spazio di tempo fece sonare a parlamento sotto titolo di Dio lodiamo tutte le campane del comune, e’ signori priori co’ loro collegi, e con tutti gli uficiali del comune, con numero grandissimo di cittadini furono presenti [246] al detto atto di maestramento, che fu cosa notabile e bella.

CAP. LIX. Come fu morto il signore di Verona dal fratello.

Messer Cane della gesta di quelli della Scala signori di Verona, per morbidezze di nuova fortuna era divenuto dissoluto e crudele, e per tanto in odio de’ suoi cittadini grande, senza amore de’ suoi cortigiani, eziandio de’ suoi consorti e parenti; essendo per andare in questi tempi nella Magna a’ marchesi di Brandimborgo, ch’erano suoi cognati, e avendo i suoi fratelli carnali, messer Cane Signore e Polo Albuino, secondo il testamento di messer Mastino erano con lui consorti nella signoria, e non prendendo di niuno di loro confidanza, ma piuttosto sospetto, segretamente fè giurare i soldati nelle mani d’un suo figliuolo bastardo. Come questo sentirono i fratelli forte l’ebbono a male, e presonne sdegno: messer Cane Signore ne fece parlare dicendo al gran Cane, che tanta sconfidanza non dovea mostrare ne’ fratelli: le parole, quanto che assai fossono amorevoli, furono gravi e sospettose al tiranno, e con parole di minacce spaventò e impaurì il fratello, tutto che per avventura non fosse nell’animo suo quanto le minacce dicevano. Il giovane pensò che assai era lieve al fratello a fare quanto dicea in parole, perchè conoscea [247] che molta crudeltà regnava nell’animo suo, e che per tanto poco al signore arebbe riguardato; onde un sabato, a dì 14 di dicembre detto anno, essendo cavalcato Gran Cane per la terra con piccola compagnia, e Cane Signore accompagnato di due scudieri di cui tutto si confidava se n’andò alla stalla del signore, e tolse tre corsieri i più eletti e i migliori vi trovò, e montativi tutti e tre a cavallo, con l’armi celate si mosse per la terra a piccoli passi cercando del gran Cane, e come lo scontrarono, il gran Cane disse al fratello, ch’e’ non facea bene a cavalcare i suoi corsieri, e Cane Signore rispose; Voi fate bene sì che voi non volete ch’io cavalchi niuno buono cavallo: e tratto fuori uno stocco ch’avea a lato accortamente gli si ficcò addosso, e con esso il passò dall’un lato all’altro, e menatoli un altro colpo in sul capo l’abbattè del cavallo, e per tema di non essere sorpreso prese la fuga, avacciando in forma il cammino che in Padova giunse la sera; ed essendo come da parte del signore ricevuto, li manifestò quello ch’avea fatto al fratello, e le ragioni che mosso l’aveano: il signore mostrò per la spiacevolezza del caso ne’ sembianti doglienza, senza assolvere il fatto o condannare, confortato il giovane che a lui era fuggito, con speranza che la cosa che proceduta era da sdegno arebbe buono fine. In questa miserabile fortuna di tanto signore non si trovò chi traesse ferro fuori, nè chi perseguitasse il fratello, e quelli ch’erano con lui, tremando di sè ciascuno, per immaginazione che sì alta cosa essere non potesse senza ordine, si fuggirono di [248] presente, e lasciarono in terra il loro signore a morte fedito.

CAP. LX. Come Cane Signore fu fatto signore di Verona.

Sentito che fu per Verona il caso sinistro di loro signore, non si trovò nella terra persona che si levasse di cuore, tanto era odiato e mal voluto; e dopo alquanto spazio di tempo fu ricolto di terra senza avere conoscimento niuno, e spiritò poco, sicchè appena levato del luogo passò, e lasciò la tirannia e la vita. L’esequie per l’onore del titolo che tenea, e della casa, li furono fatte magnifiche, e più liete in vista che dolorose; perocchè riso e pianto, e l’altre forti passioni dell’animo coll’altro contrario male si possono coprire. Il popolo vile, e costumato in servaggio, trovandosi in sua libertà, perocchè non v’era capo di signoria, se non per Polo Albuino ch’era un piccolo garzone senza consiglio e senza gente d’arme, perocch’erano tutti in servigio di messer Bernabò nell’oste a Bologna, nè altro caldo o favore, non seppono usare la libertà e la franchigia che loro avea non pensatamente renduto fortuna. Radunati insieme i fratelli di Gran Cane, nel parlamento in segno di signoria diedono la bacchetta a Polo Albuino ricevendo per sè e per lo fratello, e di presente crearono ambasciadori, e mandaronli a Padova a Cane Signore, invitandolo che venisse a prendere la cura della sua città di Verona; il [249] quale accompagnato da dugento cavalieri del signore di Padova si partì, e giunto in Verona, con grande letizia e onore fu ricevuto, facendolisi incontro alla porta il fratello, e ivi li diede la bacchetta, e lo rinvestì della signoria che avea ricevuta per lui; e così per dimostranza di fede rimasono amendue nella signoria ch’avea ricevuta per lui, e la città si posò senza novità niuna in buona pace.

CAP. LXI. Come fu presa Bibbiena pe’ Fiorentini.

Essendo stato l’assedio a Bibbiena per spazio di due mesi e dodici dì, nel quale messer Leale e Marco, essendo senza triegue colle battaglie continue e con trabocchi che mai non ristavano in aperto e di fuori combattuti, e in occulto colle cave, e coll’animo grande e colla sollecitudine sofferivano tutto senza riposo, e con consiglio poneano a ogni cosa riparo; e indurati negli affanni e ne’ pericoli non si dichinavano a nulla, ma con fronte dura e pertinacia più si mostravano fieri che mai. I terrazzani per la disordinata fatica, e perchè vedeano guastare i beni loro dentro e di fuori, desideravano l’accordo, e vedendo che la cosa a lungo andare convenia che venisse a quello che volea il comune di Firenze, e pareva a loro che quanto più si stentava venire in maggiore indegnazione de’ Fiorentini, e maggiore distruggimento e consumazione di loro e di loro cose; e pertanto alcuna volta pregarono i Tarlati che prendessono partito a buon’ora, [250] ed ebbono da loro spiacevole e mala risposta. Onde seguì, che diciotto di loro segretamente si giurarono insieme, de’ quali si fece capo uno maestro Acciaio, uomo secondo suo grado intendente e coraggioso, i quali senza indugio o perdimento di tempo s’intesono con alcuni de’ terrazzani di Bibbiena, cui i Tarlati aveano per sospetto cacciati fuori e riduciensi nell’oste de’ Fiorentini, con offerire loro, che dove potessono avere sicurtà e fermezza che la terra non fosse rubata, che a loro dava il cuore di farla venire assai prestamente alle mani del comune di Firenze. E ciò avendo gli usciti sentito, se ne ristrinsono con Farinata degli Ubertini, il quale con loro entrò in ragionamento con due cittadini di quello uficio della guerra i quali erano nel campo, e li domandarono che fede, che sicurtà, e che patti voleano; e fu loro detto da’ cittadini. E ciò udito, lo conferirono a bocca a’ signori e a’ collegi, e da loro ebbono piena balía di potere prendere piena concordia, di promettere e sicurare come a loro paresse a beneficio e contentamento de’ terrazzani, salvando l’onore del comune; e tornati nel campo, feciono a quelli d’entro sentire che aveano mandato di convenirsi con loro. I congiurati per alquanti giorni attesono il tempo che a loro toccava la guardia in certa parte delle mura, e venuto, con una fune collarono un fante, e mandaronlo al Farinata, il quale fu co’ detti cittadini con cui conduceva il detto trattato, e di presente furono al capitano, e li manifestarono il fatto com’era. Il capitano, per coprire col senno suo segreto, diede a intendere [251] che avea sentito che la notte certa gente dovea entrare in Bibbiena, e che volea porre aguato a quel luogo, per lo quale avea sentore che doveano entrare, ed elesse sotto il detto nome quattrocento fanti de’ migliori e de’ più gagliardi ch’erano nell’oste, e ottanta uomini di cavallo a piè armati di tutte loro armi, e seco volle il Farinata con tutti gli usciti di Bibbiena, i quali con altri loro confidenti furono ottanta fanti; e avendo il capitano fatto provvedere delle scale, e ricevuto da quelli d’entro l’avviso dove le dovesse accostare, il dì della pasqua dell’Epifania, a dì 6 di gennaio 1359, in sulla mezza notte quetamente s’accostarono alle mura, e avendo avuto avviso di fuori da maestro Acciaio e da’ suoi congiurati ch’erano in sulle mura alla guardia di quel luogo, ve ne rizzarono cinque, e Farinata di prima co’ suoi, e appresso il capitano montarono in sulle mura, e discesono nella terra alla condotta de’ congiurati, non trovando chi gli impedisse. Mentre si faceano queste cose, uno masnadiere nominato, assai confidente di Marco, che andava cercando le mura, quando giunse in quella parte, ricevuto il nome da’ terrazzani e datoli la via, come fu in mezzo di loro fedito il traboccarono delle mura dentro; e ciò fatto, il romore si levò nella terra, al quale si destò tutta l’oste, che non sapeano che si fosse, e accostati alla terra quelli ch’erano entrati, levate l’insegne del comune di Firenze s’avvisarono insieme, attendendo che gli eletti per lo capitano di quelli che dicemmo di sopra fossono tutti dentro. Marco, ch’era nella rocca con la [252] sua brigata più fiorita, uscì fuori francamente, e percosse a quelli ch’erano entrati, ma da loro ricevuto senza paura con le spade villanamente fu ributtato; nel quale assalto il Farinata, ch’era di quelli dinanzi, fu fedito d’una lancia nell’arcale del petto sì gravemente, che gli fu necessità ritirarsi indietro, della quale fedita assai ne stette in pericolo di morte. Il capitano scendendo nell’entrata delle scale cadde, e sconciossi il piede in forma che non potè stare in su’ piedi, sicchè amendue i capitani in sull’entrata in quella notte furono impediti. I terrazzani che da’ nostri cittadini aveano ricevuta la fede, che non riceverebbono nè danno nè ingiuria, sfatavano nelle loro case senza offendere i Fiorentini, e alquanti di loro intimi amici di Marco e suoi servidori per tema si fuggirono nella rocca; e stando la terra in questi termini, da quelli d’entro a quelli di fuori fu l’una delle porti tagliata, sicchè la gente in fiotto entrò dentro, e furono signori della terra. I due Fiorentini, che in nome del comune aveano promesso che nè violenza nè ruberia non si farebbe, in quella notte s’adoperarono sollecitamente in forma e in modo che niuna ingiuria, o ruberia o danno nella terra si fece eziandio in parole. I terrazzani uomini e donne assicurati offeriano pane e vino, e altre cose abbondantemente, così a quelli ch’erano entrati come a quelli ch’entravano. Come a Dio piacque, e fu mirabile cosa, la terra si vinse senza spargimento di sangue, e senza ruberia o ingiuria o violenza niuna o piccola o grande, che a raccontare è cosa incredibile e vera.

[253]

CAP. LXII. Come la rocca di Bibbiena s’arrendè al comune di Firenze.

Vedendo Marco che la terra era presa, e ch’egli era con gente assai nella rocca e con poca vittuaglia, perocchè per tema delle cave l’avea sfornita, cercò di potersi patteggiare salvando le persone, ma non ebbe luogo, e dibattutosi sopra ciò per molte riprese, infine impetrò, che la sua donna ch’era figliuola del prefetto da Vico, la quale era gravida, con un suo piccolo fanciullo con tutti gli arnesi di lei se ne potesse andare, e che i terrazzani e alcuni sbanditi del comune di Firenze fossono salvi; e quanto s’appartenne agli sbanditi, non fu senza ombra d’infamia a’ nostri cittadini che si trovarono a questo servigio. Marco e Lodovico suo fratello, e messer Leale loro zio, Francesco della Faggiuola e altri masnadieri in numero di quaranta rimasono prigioni, tutto che poi appresso il detto Francesco ch’era garzone e infermo fosse lasciato, e a dì 7 di gennaio del detto anno renderono la rocca, e a dì 12 del detto mese vennono presi a Firenze i detti Tarlati, e furono messi spartitamente l’uno dall’altro nelle prigioni del comune di Firenze.

[254]

CAP. LXIII. Di novità state in Spagna.

Carlo fratello naturale dello scellerato re di Spagna, e da lui cacciato, si riducea col re d’Araona, conoscendo che la forza e bestiale vita del fratello nel reame per paura lo facea temere e odiare; e per tanto stimando che li fosse assai leggiere a fare movimento nel reame eziandio con piccola gente, avuto dal re ottocento cavalieri si mise in certa parte della Spagna, e correndo il paese ricolse gran preda. Il re com’ebbe del fatto sentore, sapendo il luogo dov’erano, e che loro era necessario volendo tornare in loro paese passare per un certo luogo malagevole e stretto, subito mandò duemila cavalieri ad occupare quel passo. Sentendo Carlo e’ Catalani che ’l passo ond’era la loro ritornata era preso, e la gente che v’era, volgendo la tema in disperazione, si deliberarono di mettersi alla fortuna della battaglia, che altro rimedio non v’era. Il valente giovane Carlo col volto fiero, come fosse certo della vittoria confortando i Catalani, e inanimandoli a ben fare, mostrava che tra la gente che gli attendea de’ nemici erano pochi buoni uomini, e che gli altri erano gente vile e dispettosa, e male armata e novizza, e dell’onore del re per sua crudeltà poco desiderosa, aggiugnendo, che se voleano a loro donne e famiglie tornare, necessità era loro fare la via con le spade in mano, e che certo si rendea, conoscendo la virtù loro, che arebbono [255] la via onoratamente. I Catalani vedendo l’animo ardito e sicuro dei giovane presono speranza di vittoria, e si misono alla battaglia, la quale fu fiera, e aspra e dura lungo tempo, ma i Catalani, come la necessità strignea, raddoppiate le forze e l’ardire, diportandosi valentemente, ruppono e sbarattarono gli Spagnuoli, e oltre a’ morti e a’ magagnati ne furono presi più di trecento cavalieri, e con la preda e con la vittuaglia non pensata si tornarono in Araona.

CAP. LXIV. Come i Pistoiesi ripresono il castello della Sambuca.

Durando la guerra dal signore di Milano a quello di Bologna, e tenendo quello di Bologna il castello della Sambuca, ch’era del contado di Pistoia, ed era la chiave di dare l’entrata e l’uscita per li paesi così all’offesa come alla difesa, veggendo i Pistoiesi che il signore di Bologna era forte impedito della detta guerra, e che messer Bernabò sormontava, presono tempo, e consiglio e favore, e il vescovo loro, il quale era Fiorentino, nella Sambuca trattò, e seppe tanto trattare e ordinare, che l’una delle guardie che guardava la torre della rocca uccise il capitano; e fermato l’uscio per modo che di sotto non poteano essere offesi, salì nella vetta, e colle pietre cominciò a combattere col castellano dal lato d’entro, e’ terrazzani, com’era ordinato, cominciarono a combattere di fuori; sicchè non [256] potendo stare alla difesa, che non lasciava, quei della torre vi cavalcarono. Il castellano, ch’era Lombardo, stordito per lo tradimento e per lo subito assalto, s’arrendè, salve le persone e l’avere, e all’uscita di gennaio del detto anno, e la terra rimase liberamente nelle mani de’ Pistolesi. Di questa cosa i Fiorentini furono molto contenti, sperando al bisogno potere avere la guardia di quello luogo a sua difesa.

CAP. LXV. Come messer Bernabò strignea Bologna.

L’oste di messer Bernabò in questi tempi continovamente cresceva, la quale avea fermato suo campo a Casalecchio, e il capitano del luogo faceva cavalcare le brigate or qua or là, rompendo le strade, e facendo assai danno a’ paesani. Gli Ubaldini ad arte si mostravano divisi, e parte ne teneano con messer Bernabò, e parte con messer Giovanni, il perchè le strade e l’alpi non si poteano usare. Il legato, che come il nibbio aspettava la preda, per trarre a sè l’animo di messer Giovanni, cui vedea dovere poco durare, l’aiutava con tutta la sua forza, mettendo al continovo in Bologna gente e vittuaglia. Messer Bernabò di ciò forte turbato, gli scrisse, che non faceva bene a impedirlo che non tornasse in casa sua, minacciandolo, che se non se ne rimanesse li farebbe novità nella Romagna e nella Marca. Per queste minacce il legato più si sforzava ad atare messer Giovanni, il quale [257] vedendosi male parato e poco atto alla difesa, durando la guerra guari di tempo, per più riprese mandava a Milano suoi ambasciadori per levare messer Bernabò dall’impresa, e nondimeno ricercava se potesse muovere i Fiorentini in suo aiuto; e non trovandovi modo, cominciò a trattare collegato il ragionamento: il quale dava gli orecchi a volere fare l’impresa, la quale nella fine venne fornita, come a suo tempo diremo. Ma in questi dì, la cosa tanto dubbiosa e avviluppata, che non si vedea dove la cosa ragionevolemente potesse passare, la guerra rinforzava a giornate. Il capitano di messer Bernabò per più strignere la terra e da lungi e da presso ponea bastie, e all’uscita di febbraio ebbe Castiglione per trattato, ch’è un forte castello posto tra Modena e Bologna. Il signore di Bologna, ch’era uomo al suo tempo riputato, astuto e di buona testa, e per molti anni pratico delle battaglie del mondo, bene conosceva che impossibile era sua difesa contro la forza di messer Bernabò, non avendo altro aiuto, e però sagacissimamente si sostenea, traendo delle castella quelli terrazzani che gli erano sospetti, e bene li conoscea, e in Bologna sotto solenne guardia tenea molti cittadini di cui non prendea confidanza; e del continovo pensava, come con suo vantaggio e onore potesse dare ad altrui i pensieri della guerra, e uscire di tante persecuzioni in luogo dove potesse il resto de’ suoi giorni in pace vivere.

[258]

CAP. LXVI. Come gli Aretini riebbono il castello della Pieve a santo Stefano.

Il castello della Pieve a santo Stefano lungo tempo era stato nelle mani de’ Tarlati; e’ terrazzani sentendo che Bibbiena era presa pe’ Fiorentini, temendo de’ mali che verisimilemente potevan loro avvenire, cercarono di volersi acconciare con li Aretini con volontà di quelli da Pietramala. Nella terra era uno figliuolo di messer Piero Sacconi male in concio a potere resistere al loro volere, e però venendo eglino a lui, loro consentì ciò che seppono divisare; e di presente fece il fatto a’ suoi consorti sentire, e ad altri amici caporali di loro stato, i quali senza indugio copertamente mandarono fanti al castello, e uno di loro con pochi compagni disarmati, come se andassono a sollazzo, entrò dentro con loro, e come si sentirono forti dentro mutarono sermone, e coloro che si voleano accordare, e tutti quelli che si faceano a ciò capo mandarono per stadichi ad altre loro tenute, e di gente forestiera fornirono la guardia della terra, il perchè la cosa, per allora si rimase. Ma i villani della terra loro intenzione, senza mostrare segno di fuori, serbarono nel petto, e a dì 8 di febbraio detto anno, non prendendone guardia i Tarlati che aveano la cosa per cheta, i terrazzani preso loro tempo tutti si levarono a romore, e presi i caporali de’ loro signori e de’ soldati, tenendoli [259] tanto che riebbono li stadichi loro, e liberaronsi della tirannia, racconciandosi col comune d’Arezzo, e tornando allo stato e costume antico di loro contadini, con certe immanità che domandarono, e loro furono concedute. Questo fu alla casa de’ Tarlati, dopo la perdita di Bibbiena, grande abbassamento di loro stato e signoria.

CAP. LXVII. Come il re d’Inghilterra si pose a oste alla città di Rems.

Il gennaio 1359 il re d’Inghilterra pose campo vicino alla città di Rems, usando cautela di non fare loro guasto di fuori, e per più fiate con belli modi cercò con impromesse di magnificare e d’esaltare quella villa sopra tutte quelle di Francia, che gli fosse prestato l’assento che in quella città potesse prendere la corona di Francia, promettendo a tutti di trattarli benignamente; ma poichè vide che non era udito, stimando che facessono ciò per vergogna d’arrendersi senza dominaggio, li cominciò a minacciare di lungo assedio e disolazione della terra se non facessono quello che domandava; ma lusinghe nè minacce approdarono niente, perocchè fu di comune assentimento risposto loro, che aveano loro diritto re, a cui intendeano mentre che durasse loro spirito in corpo stare leali, diritti e fedeli, e che facesse suo podere contro a loro che alla difesa intenderebbono a loro podere. Avendo il re d’Inghilterra dalla comune di Rems [260] questa finale risposta, diede boce, che forniti quaranta dì d’assedio, di fuori in campo prenderebbe la corona; ma non succedendo le cose a suo proponimento, convenne che prendesse per lo migliore altro consiglio. E ciò avvenne, perchè la stagione era forte contraria a tenere suo esercito insieme o a sicurtà, e dividere non lo potea; onde per fare maggiori danni per lo reame, e per stendersi con meno gravezza nel verno, prese e ordinò la sua cavalleria come appresso racconteremo.

CAP. LXVIII. Discordia del conte di Focì a quello d’Armignacca.

Vedendo il re, come poco davanti dicemmo, che il suo stallo a Rems era pericoloso e con poco profitto, all’entrare di febbraio divise suo oste, e una parte ne fece cavalcare per lo paese, la quale non trovando contrario s’arrestò a san Dionigi ch’è presso a Parigi a due leghe: e questa mandata secondo l’opinione di molti fu di consiglio del re di Navarra e con suo favore, sotto la scusa dello sdegno preso per lui per lo Delfino di sospetto de’ mali ch’e’ facea. Il Delfino, col consiglio di certi baroni fidati e fedeli alla corona, intendea a fornire le rocche e le terre, e a fare sollecita e buona guardia in ogni luogo, e lasciava correre e cavalcare il paese alla volontà degl’Inghilesi. E stando in queste tenebre il reame di Francia, e non senza pericolo, era per invidia [261] grave discordia cresciuta intra il conte di Focì e quello d’Armignacca, il quale solea essere assai di minore possa che quello di Focì, molto era cresciuto in tanto ch’avanzava assai quello di Focì; e la cagione di ciò era stato, perocchè per spazio di cinque anni quello d’Armignacca avea tenuto il vicariato del paese per lo Delfino, onde avea tratto grande tesoro; e per questo vizio d’invidia, il quale nelle corti de’ signori signoreggia, il conte di Focì, veggendo il reame in tanto pericolo, con segreto favore del re d’Inghilterra, secondo che per fama si disse, raunò gente d’arme a cavallo e cavalcò per lo paese, ed entrando nelle ville e nelle castella come barone fidato alla corona, e con questo modo mandò fino a Tolosa, dicea che volea altri cinque anni la vicheria del paese come avea avuto quello d’Armignacca, che domandando colta per guardare il paese, non senza tema di ribellione e per molto arbitrio s’appropriò senza l’assentimento dei Delfino; i paesani si portavano saviamente per non dare loro in parte a’ loro avversari, onde s’acquetò la nuova e paurosa fortuna, non che guerra non rimanesse tra’ due conti.

CAP. LXIX. Quello feciono gli osti del re d’Inghilterra in Francia.

Un’altra parte dell’oste del re d’Inghilterra, essendo il verno nel suo più grave tempo e ridotto alle piove, sotto la condotta del duca di [262] Guales, ch’era il primogenito del re d’Inghilterra, e del duca di Lancastro, che al detto re era cugino, si mise a passare in Brettagna per luoghi stretti e guazzosi, e per li freddi spiacevoli e rei; a quel tempo alla gloria degl’Inghilesi non era malagevole nulla, i quali faceano a loro senno e a loro voglia del reame di Francia quale aveano in piega, e così stimavano fare di Borgogna, dove solea essere il pregio e l’onore di gente d’arme, e così ferono, perocchè passarono per luoghi stretti e malagevoli senza contasto; e giunti nel paese, lo trovarono pieno di molto bene, onde molto s’adagiarono al vernare. Il duca di Borgogna era un giovinetto, ed egli e’ suoi baroni erano malcontenti del re di Francia, perchè avea la duchessa madre del detto duca tolta per moglie, e per la sua dote assai avea preso tutte giurisdizioni del paese; la quale cosa fu cagione di non prendere quella franca difesa contro agl’Inghilesi che si potea pigliare. Gl’Inghilesi per questo rispetto temperatamente si portarono co’ paesani, non prendendo più che a loro fosse mestiero; e perchè il paese era dovizioso, e i passi nella forza degl’Inghilesi, poco appresso del mese di marzo seguente, il re lasciate fornite in Normandia e in Pittieri e in Berrì certe castella afforzate che aveano acquistate, cavalcando liberamente il paese, col rimanente di sua oste se n’andò a Celona in Borgogna, e di là mandò al papa suoi messaggi domandando suo ricetto a Avignone; della qual cosa il papa e’ cardinali, e tutta la corte ne fu in gelosia e in paura. Il papa gli mandò per [263] la detta cagione due vescovi, li quali il pregarono e comandarono che non volesse per sua venuta turbare la Chiesa di Roma, e il re di ciò l’ubbidì; nondimeno con ogni studio facea il papa afforzare la città d’Avignone.

CAP. LXX. Come più castella si rubellarono a’ Tarlati.

Come per esperienza vedemo, e gli uomini e gli animali senza ragione per natura sono vaghi di libertà, e l’appetiscono come loro proprio bene; gli uccelletti in gabbia vezzosamente nudriti si rallegrano vedendo le selve, e se possono fuggire de’ luoghi dove sono incarcerati ritornano a’ boschi; gli uomini che sono stati in lungo servaggio avvezzi al giogo della tirannia, se sono continovi, e veggiono il tempo di ricoverare loro libertà, con tutti i sentimenti del corpo si studiano a ciò pervenire. E di ciò in questi dì ne vedemmo la prova ne’ suggetti de’ Tarlati, perocchè a dì 13 di febbraio 1359 la Serra si diede al comune di Firenze; la quale fortezza il nome concordia al fatto, perocchè serra il passo della montagna che è dal comune di Bibbiena in Romagna: e il detto dì Montecchio s’arrendè agli Aretini. Quelli della valle di Chiusi avendo mandato per gente al podestà di Bibbiena, e non potendola avere, se prima non ne facesse coscienza al comune di Firenze, e a loro troppo tardava, l’ebbono dagli Aretini, e rubellaronsi da’ Tarlati. Guido fratello di Marco si tenne alla [264] rocca, ch’era fortissima, e da non potersi mai vincere per forza, onde per gli Aretini fu cinta d’assedio in forma che poco potea sperare in soccorso di fuori. E per questa simigliante fortuna aveano considerato che i tiranni murano a secco, che bene che loro mura per altezza passino il cielo, come n’è tratta una pietra di sotto di quelle in su che è carica, l’altre senza niuno ritegno rovinano; il perchè se cotali che usurpano il dominio avessono buon sentimento, non piglierebbono fidanza delle maravigliose fortezze, ma de’ cuori de’ suggetti loro, trattandoli bene.

CAP. LXXI. Di un trattato di Bologna scoperto.

Non meno ne’ trattati che nella forza dell’arme si riposa e rivolge l’intenzione de’ tiranni; non meno acquistano con tradimento, e con corrompitori di baratteria che colle battaglie. E considerato le grandi, e le lunghe, e disordinate spese delle guerre, per meno spesa sono larghissimi ne’ trattati. Questa regola si scoperse in questi di ne’ caporali di messer Bernabò, i quali teneano trattati con certi soldati ch’erano in Bologna, i quali promisono, che approssimandosi l’oste a Bologna darebbono una porta. Per la detta cagione all’uscita di gennaio del detto anno il campo si mosse, e approssimossi alla terra; ma scoperto il trattato, e presi i traditori, e fattone degna giustizia, l’oste si ritrasse indietro, perchè stando dov’erano venuti stavano in disagio [265] è in pericolo, e tornaronsi a casa al luogo dov’era la loro bastita maggiore.

CAP. LXXII. Come le sette di Cicilia si divoravano insieme.

La parte del re Luigi in Cicilia, sì de’ Messinesi, come de’ Palermitani, in questo tempo era dal giovane duca di Cicilia e da’ suoi Catalani sopra modo tribolata e astretta, che ’l re Luigi altro che con parole non aiutava i suoi partigiani, il quale era cresciuto al duca il seguito suo, e di continovo cavalcavano sulle porte di Palermo e di Messina, e loro tenute e fortezze e con assedio e trattati toglieano; onde non potendo resistere alle continove e gravi oppressioni, da capo con grande istanza richiesono il re d’aiuto, significando loro stato e bisogno. Il re mandò a’ Fiorentini per trecento cavalieri che gli erano stati per tre mesi promessi. Il comune per fare più presto il servigio li mandò settemila fiorini d’oro, avendo sopra questo risposto, che avendo altra volta mandata gente, era stata soprattenuta i detti danari, perchè tanto montava il soldo di trecento cavalieri per tre mesi, acciocchè ’l re li conducesse a suo modo, e quando n’avesse bisogno. I danari presono luogo in altri servigi, e il soccorso de’ Ciciliani per quella volta furono lettere confortatorie, dando loro speranza per animarli alla sofferenza, aspettando se si cambiasse fortuna. Il di che di questo seguette, che i Catalani presono maggiore cuore, e condussono gli [266] amici del re a grande stretta, e con grandi pericoli e partiti, come si potrà al suo tempo provare.

CAP. LXXIII. Come la Chiesa deliberò l’impresa di Bologna.

Egli è vero, che come già detto avemo, messer Giovanni da Oleggio non veggendo sufficiente sua possa a resistere a messer Bernabò, nè speranza di soccorso bastevole, cercato e ricercato avea se con lui potesse avere convegna o pace fidata, e non di manco, come sagace e astuto, cercava col legato di rendere Bologna alla Chiesa con suo vantaggio e profitto. Il legato, ch’era d’animo grande, e desideroso di torre quell’impresa per crescere suo onore e nome, non si attentava, perchè non si vedea sufficiente a sostenere tanto fatto, e cominciare non volea senza l’assento del papa e de’ cardinali, per non avere riprensione nè vergogna. E avendo per questa cagione e con lettere e ambasciadori sollicitato il papa, mostrandogli quelle buone ragioni ch’erano a sua intenzione conformi, del mese di febbraio del detto anno, ebbe per diliberazione del santo padre e de’ suoi cardinali, che nel nome di Dio facesse l’impresa, tutto che in questo tempo messer Bernabò con grande spendìo cercasse con danari con suoi protettori in corte che ci ò non si facesse; e tanta fu la forza de’ danari e de’ doni, che ora sì ora no si dicea, con poco onore della Chiesa di Roma. Nè a questo contento il tiranno, sua oste cresceva [267] premendo d’imposte e di colte tutti i cherici ch’erano di terre a lui sottoposte; e credendo con parole altiere spaventare il legato ch’era uomo senza paura, forte lo minacciava. E così la città di Bologna era di fuori tribolata, e dentro stava in gelosia, e prima non sapendo a cui fosse venduta, e sapendo che di lei si facea tenere mercato, e non osava parlare; queste miserie si giugneano in loro gravi danni e le fatiche corporali. Queste pene, se da’ cittadini erano pazientemente portate, meritavano sollevamento, ma non era ancora il tempo che Iddio avea diliberato per fine delle fatiche loro.

CAP. LXXIV. Come messer Giovanni da Oleggio fermò suo accordo con il legato di Bologna.

Il legato poich’ebbe a suo proponimento l’assento di corte di Roma, d’onde a tempo sperava favore, ritenendo singulare amicizia con messer Giovanni da Oleggio, e gareggiandolo molto per avere da lui quello che cercava, riprese con lui ragionamento e trattato con animo di contentarlo, purchè Bologna venisse alle sue mani, e perchè non dava del suo era largo per promesse. La cosa era venuta in termine, che poco dibattito di lievi cose fra loro aveano. Messer Giovanni stava sospeso, perchè non li parea ben fare rimanendo nemico di messer Bernabò e della casa de’ Visconti, della quale era per gesta. E stando in questo intra due, sentendo messer Bernabò [268] che la convegna era per prendere tosto conclusione, e temendo forte che ciò non venisse fatto, mandò a messer Giovanni certi de’ Bonzoni da Crema, che gli erano cognati, e a loro commise che con ogn’istanza cercassono che Bologna non tornasse nelle mani della Chiesa, e che offerissono al loro cognato ogni patto e sicurtà ch’e’ volesse. Costoro col detto mandato di presente furono a Bologna, e trovarono come la concordia era in alto da potersi e doversi fornire con messer Giovanni; onde si strinsono con lui, e dissonli quanto aveano da loro signore, e lo confortarono con belle e indottive ragioni ch’e’ non volesse rimanere nimico del signore suo e in contumacia de’ suoi consorti, e di tanta possanza e grandezza, che potea con suo onore e vantaggio rimanere in buona pace con loro. Messer Giovanni rispose, ch’e’ volea fare certo e sicuro messer Bernabò che dopo sua morte Bologna gli verrebbe alle mani, mentre ch’e’ vivea la volea tenere per lui, e titolarsene suo vicario, e che volea fidanza che ciò li fosse osservato; e dove a questo messer Bernabò venisse realmente e facesse, disse d’abbandonare ogni altro trattato, affermando che sopra tutte le cose desiderava d’essere in grazia de’ suoi maggiori, e a loro ubbidiente e fedele. I cognati vollono la fede da lui, ed egli la diede loro, dicendo, ch’e’ non potea guari aspettare, e che la risposta prestamente volea; e con questo voltarsi indietro, e tornarsi a messer Bernabò, il quale avea sentito che l’accordo era fatto, e che il prendere stava a messer Giovanni; di che avendo da costoro chiara certezza [269] in consiglio disse, ch’era contento di fare quanto messer Giovanni avea domandato, e che così per sua parte fermassono con lui. I giovani poco sperti e poco accorti, non considerando il pondo del fatto, e quanto il caso portava o potea portare, rendendo la cosa per fatta, con matta baldanza, quasi se non dovesse nè potesse fallare nè uscire di loro mani, lieti e allegri, perchè pareva loro fare gran fatti, presono alquanto soggiorno, aspettando il tempo carissimo e pericoloso in vani diletti, nelle quali cose spesono tre giorni oltre all’aspetto che messer Giovanni attendea; il perchè ne seguì, che essendo in prima messer Giovanni in sospetto della fede di messer Bernabò, il sospetto gli crebbe, e la tema di non essere tenuto a parole a mal fine, e senza più attendere prese partito, e fermò l’accordo col legato, come nel seguente capitolo diviseremo. Fornito il fatto, i giovani che gli erano cognati li vennono il giorno seguente, e trovarono la pietra posta in calcina, sicchè il pieno mandato ch’aveano da messer Bernabò tornò in fumo. Per questo fallo seguette, che i giovani a furore e tutte le loro famiglie furono disperse, e i loro beni guasti e incorporati alla camera del signore come di suoi traditori, e ne rimasono in bando delle persone.

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CAP. LXXV. Patti da messer Giovanni da Oleggio alla Chiesa, e la tenuta di Bologna.

Per lo sospetto cresciuto a messer Giovanni di messer Bernabò, come poco avanti dicemmo, prese l’accordo, e concedette alla Chiesa Bologna con queste convegne: che il legato pagasse interamente i provvisionati e’ soldati di ciò che dovessono avere infino al dì ch’e’ rassegnasse Bologna, e che in cambio di Bologna avesse a sua vita liberamente la signoria della città di Fermo, e di suo contado e distretto, e che fosse titolato per lo detto marchese della Marca, e in sustanza succedette l’accordo: e per sicurtà di fermezza dell’una parte e dell’altra, il signore di Bologna mise nella città di Fermo messer Azzo degli Alidogi da Imola con gente d’arme come amico comune, e al capitano della gente che il legato avea messo in Bologna, ricevente per lo legato e per la Chiesa di Roma, in presenza del popolo diede la bacchetta della signoria, onde il popolo ne fece gran festa, perchè ciò desiderava e temeva di peggio, gridandosi per tutta la terra: Viva la santa Chiesa. Nondimeno il signore com’era ordinato nei patti, nelle sue mani fece giurare tutta gente d’arme da piè e da cavallo infino che li fosse attenuta l’impromessa; e così stette la città sotto titolo e forza di messer Giovanni, come della Chiesa di Roma, da mezzo il mese di marzo al primo dì d’aprile 1360. E in questo mezzo il [271] legato intendea a fare pagare i soldati, e’ cittadini avendo presa baldanza, e in fatti e in parole villaneggiavano messer Giovanni e la famiglia sua, ricordandosi dell’ingiurie ch’aveano ricevute da loro; e per questo avvenne, che un dì messer Giovanni mandò per prendere di sua gente uno de’ Bentivogli, il quale essendo bene accompagnato si contese, e non se ne lasciò menare, gridando, all’arme all’arme; onde la terra si levò tutta a romore, infiammata contro al vecchio tiranno: il quale per tema si ricolse in cittadella, e tutta la notte stette armato con la sua gente e della Chiesa sotto buona guardia. Il dì seguente giunse messer Gomise in Bologna nipote del cardinale, il quale era marchese della Marca, e racchetò il romore del popolo, e prese la guardia delle porti e della città, e accomandatola a’ cittadini, corse la terra col popolo insieme con grande allegrezza, e aperse a’ prigioni. Il perchè i cittadini si certificarono che la signoria non potea tornare nelle mani del tiranno, nonostante che ancora fosse in sua podestà la cittadella, e il giuramento de’ soldati in sua mano. E stando le cose in tale maniera, messer Giovanni fu certificato dalla moglie come liberamente avea in sua podestà il Girfalco e l’altre fortezze di Fermo, e come presa era per lui la signoria della terra; onde avendo ciò, secondo i patti li convenia partire di Bologna, ma forte temea l’ira del popolo che non l’offendesse in sulla partita, e per tanto si stava in cittadella, e come, savio e avveduto ordinò ora una boce ora un’altra, tenendo suo consiglio segreto nel [272] petto; e per meglio coprire l’animo suo pubblicamente facea cercare con gli Ubaldini che li dessono sicura la via, e a’ Fiorentini domandò il passo per loro terreno; i Bolognesi stavano a orecchi levati, e non faceano motto, aspettando di predarlo, e di fare strazio di lui gran voglia n’aveano. Il savio con maestria tranquillando i Bolognesi colse tempo, il martedì santo, a dì 31 di marzo nella mezza notte, dormendo i cittadini, chetamente e senza fare zitto con mille barbute, tra di suoi provvisionati e soldati di quelli della Chiesa, senza averne il dì fatta mostra uscì di Bologna, e andossene a Imola senza impedimento nessuno, e di là si partì, e andonne a Cesena a visitare il legato.

CAP. LXXVI. Come la città di Bologna fu libera dal tiranno in mano del legato e della Chiesa essendo assediata.

Il primo dì d’aprile, gli anni domini 1360, Bologna rimase libera dalla dura tirannia di messer Giovanni da Oleggio della casa de’ Visconti di Milano, il quale a dì 20 d’aprile 1355 l’avea rubata a’ suoi consorti per cui la tenea, come addietro facemmo menzione, e nello spazio di questi cinque anni avea decapitati oltre a cinquanta de’ maggiori e de’ migliori cittadini della terra, con trovando loro diverse cagioni, e dell’altro popolo n’avea morti e cacciati tanti, che pochi n’avea lasciati che avessono polso o forma d’uomo, [273] e con averli munti e premuti infino alle sangui; e avendo fatte tante crudeltadi, e tante storsioni e ruberie, come volpe vecchia seppe sì fare, che con grandissimo mobile di moneta e gioielli liberamente se n’andò, e ridussesi in Fermo; e levato s’era del giuoco, e ridotto in luogo di pace e di riposo, lasciando i Bolognesi e il legato nella guerra; e per certo, s’egli era tenuto savio, questa volta lo dimostrò.

CAP. LXXVII. Come la Chiesa riformò Bologna.

Messer Gomise da Albonatio Spagnuolo nipote del legato, il quale era stato marchese della Marca, e Niccola da Farnese capitano della gente del legato rimasi nella libera signoria di Bologna, e fatta grande allegrezza e festa co’ cittadini della partita di messer Giovanni da Oleggio, e mostrando di loro grande confidanza, ma per accattare loro benivolenza e favore, si cominciarono a ordinare alla guardia, e alleggiarono il popolo di molte gravezze, e massimamente delle soperchie, nelle quali li tenea il tiranno; e il popolo con loro coscienza prese consiglio co’ più cari e sentiti cittadini, ed elessono di comune concordia d’ogni stato e condizione, mescolando i gentili uomini e’ popolari, e’ dottori e artefici eziandio dell’arti minute, pure che ognuno fosse contento, certo numero di cittadini che intendessono con gli uficiali della Chiesa alla guardia e alla difesa della città; e ciò fatto, il capitano della [274] gente della Chiesa mandò comandando alla gente di messer Bernabò che si dovesse partire del terreno della Chiesa, significando loro come Bologna era tornata alle mani della Chiesa di Roma, com’essere dovea per ragione; la risposta fu questa, che innanzi si partissono voleano vedere per cui, e che s’e’ volessono se ne partissono glie n’andassono a cacciare. E preso sdegno del baldanzoso comandamento, ed essendo loro di nuovo giunto mille barbute, cavalcarono infino presso a Faenza, levando gran preda di bestiame e di gente, la quale condussono al luogo senza impedimento niuno; e com’aveano cominciato seguirono, facendo gran danno e spaventamento de’ paesani, e rompendo le strade, minacciando di peggio i Bolognesi e’ Romagnuoli; per le quali cose la letizia mostravano per parere loro essere fuori delle mani del tiranno, e posto giù il caldo voglioso si cominciò a raffreddare, e convertissi in paura di peggio, e ciò venne loro, come si potrà leggendo innanzi trovare.

CAP. LXXVIII. Di una congiura si scoperse in Pisa.

Gli artefici della città di Pisa, e massimamente quelli dell’arte minuta, vedendo loro mancare i guadagni per la partita de’ Fiorentini i quali il loro porto teneano in divieto, se ne doleano, e mormoravano e parlavano male; e perseverando nelle querele, una quantità di loro si giurarono [275] insieme molto occultamente, e presono ordine tra loro, il quale il venerdì santo a dì 3 d’aprile doveano uccidere gran parte de’ loro maggiorenti ch’erano al governo della città, dove e come trovar gli potessono insieme, o divisi; e ciò fatto, doveano mandare per li Gambacorti, che allora si riduceano a Firenze, e con loro riformare la terra, e pacificare co’ Fiorentini per riavere il porto. Infra’ congiurati erano religiosi alquanti, e preti e altri cherici assai, intra’ quali fu un prete il quale fu veduto parlare con certi de’ secolari della congiura assai sconciamente, e per disusata maniera, o che parola di suo ragionamento fosse intesa, o che per lo modo del parlare si facesse sospetto, fu mandato per lui, e stretto, e’ confessò tutto l’ordigno; onde subitamente furono presi quattro preti e sette frati, e nel torno di cento artefici d’arte minute. I governatori della terra procedendo nel fatto trovarono ch’erano tanti gli avviluppati in questa congiura che per lo migliore si fermarono, e non si stesono più oltre, e del numero ch’aveano presi dodici ne furono impiccati, i quali trovarono più colpevoli e caporali, e gli altri furono condannati a condizione in danari, i quali per ricomperare le persone tosto furono pagati. Questa novità molto conturbò e impoverì la città con guasto dello stato della setta che allora reggea, la quale ne rimase in grande gelosia, e il popolo minuto malcontento e peggio disposto.

[276]

CAP. LXXIX. Di un trattato menato in Forlì contro alla Chiesa.

Messer Bernabò per l’impresa ch’avea fatto il legato della città di Bologna era molto stizzito o infocato, e come signore animoso e vendicativo non posava, e senza riguardo di spesa del continovo suo oste cresceva, e sollecitava i suoi capitani a fare buona guerra a’ Bolognesi, e dovunque potessono ne’ terreni della Chiesa. Occorse in questi giorni, che la gente ch’era alla guardia di Forlì gran parte n’erano ad accompagnare infino a Fermo messer Giovanni da Oleggio; questo caso diede materia a un messer Stefano giudice, e a un nipote di messer Francesco degli Ordelaffi per addietro capitano di Forlì, nato d’una sua figliuola bastarda, di cercare trattato in Forlì; questi due matti baldanzosi, piuttosto per presuntuoso animo che per savio consiglio, tenuto trattato col capitano della gente di messer Bernabò, vedendo la terra sfornita di gente di soldo, sotto ombra di cavalcata gran parte della migliore gente da cavallo e da piè dell’oste del tiranno feciono appressare a Forlì, in luogo che per sua vicinanza non gittasse tanto sospetto che al popolo fosse necessità prendere l’arme, e d’onde partendosi la notte potessono entrare nella terra; e tanto aveano predetta la cosa, che avendo i detti di sopra con alquanti loro amici rotte in due parti le mura della città, ed essendo [277] condotti millenovecento barbute e fanti assai al tempo che loro era dato alle dette rotture, poco accorti i traditori abbagliati della voglia disordinata, tra gli steccati e le mura che fatti aveano ne condussono tra gli ortali dentro e a piè delle mura oltre a trecento cavalieri e dugento pedoni, anzi che dentro se ne sentisse niente, e non presono avviso che i detti ortali erano tutti affossati, e senza vie spedite che mettessono nelle strade mastre, il perchè ne seguì, che nel ravvilupparsi disordinatamente e poco chetamente in quel luogo, furono sentiti e scoperti; onde il popolo si levò a romore, e francamente corsono ove si sentivano i nemici, e gli assalirono col vantaggio del sito dov’erano, e non potendosi stendere nè campeggiare, e inviliti, tutto che facessono per loro onore mostra d’arme, in fine furono cacciati di fuori, ed essendone assai magagnati e fediti: e mentre ch’era attizzata la zuffa, poco anzi il fare del giorno la gente ch’avea accompagnato messer Giovanni da Oleggio tornò, onde quelli di fuori perduta la speranza si ritrassono indietro, e’ traditori furono presi e condannati alle forche. Parendo al capitano di messer Bernabò avere avuto dell’impresa vergogna, quasi come se la preda gli fosse uscita di mano, la seguente mattina con duemila barbute tentò di fare in aperto quello che non avea potuto fare in occulto, e venuto infino alle mura della città, la trovò sì bene ordinata e guernita a difesa, che intendimento che dato gli fosse dentro riputò a niente; onde diè la volta, e trovando il paese male fornito di roba da vivere, lasciò a Luco [278] quattrocento cavalieri, e tornossi nell’oste a Bologna.

CAP. LXXX. Come fu combattuta Cento dall’oste del tiranno.

Avendo i capitani di messer Bernabò perduta la speranza della città di Forlì, come di sopra dicemmo, la sollecitudine loro rivolsono altrove, e lasciando fornite le bastite d’intorno a Bologna, cavalcarono a Cento grossa terra de’ Bolognesi, posta in quella parte che guata Ferrara, e là si fermarono quasi in forma d’assedio, stimando che se potessono o per paura o per forza vincere la terra, per la bontà del sito attissimo loro per sicurare le strade verso Ferrara, e per fare al campo e alle bestie dovizia per la grande quantità di biada che dentro v’era raccolta, d’essere vincitori della guerra; e per tanto con molto ordine e apparecchio per più e più riprese in diversi giorni assalirono la terra con fiere battaglie di lunga bastanza, nelle quali e dall’una parte e dall’altra assai di buona gente vi fu morta e fedita, ma più assai di quelli di fuori; in fine trovando i capitani che la terra era bene guernita a difesa, e vedendo che il loro stallo poco approdava, con avere senza acquisto fatte prodezze si levarono quindi, e andarono a Budrio, dove trovarono più larghezza di vittuaglia, ove s’arrestarono per lunghezza di tempo.

[279]

CAP. LXXXI. Come gli Ubaldini si mostrarono tra loro divisi.

In questi tempi, maliziosamente per sagace consiglio la casa degli Ubaldini si divise, e quelli di Tano da Castello col seguito loro s’accostarono a messer Bernabò, e quelli di Maghinardo e d’Albizzo da Gagliano con loro amici tennono col legato in palese, tutto che in segreto, come ghibellini e antichi nemici della Chiesa di Roma, s’intendessono, e che con l’animo fossono quello ch’e’ consorti loro; litigavano per dare materia di rottura alle strade dell’alpe, sicchè per quelle vie niuno osasse andare a Bologna. Per questa divisa, o vera o infinta che fosse, l’una parte guerreggiava l’altra, e insieme si danneggiavano assai; per modo che l’alpe era tutta rotta, e i passi e le strade serrate in forma, che roba nè persona per que’ luoghi non poteva ire a Bologna senza gravi pericoli; il perchè grave danno e disagio ne tornava a’ Bolognesi assediati, che per quelli luoghi soleano andare e foraggio e aiuto. E parne che sia da notare in questa guerra lunga e pertinace, la maggiore parte di quello che bisognava per vita dell’oste sparta, e grande opera quasi venia per Lombardia per lo passo del Po, il quale il marchese da Ferrara compare di messer Bernabò gli avea conceduto, pagando la roba il dazio usato, di che gran danaio ne fece il marchese: e secondo ch’avemmo da persona degna [280] di fede, che di ciò ebbe degna notizia, tra soldo e vittuaglia e altri fornimenti l’oste costava al tiranno ogni mese oltre a’ fiorini settantamila d’oro, e tanto era la sua entrata che niente parea che ne curasse: è vero che grande tesoro trasse da’ cherici delle terre che gli erano suggetti, i quali con molti dispetti disordinatamente gravava.

CAP. LXXXII. Di portamenti degl’Inghilesi in Borgogna.

Per sperienza vedemo, che lo stomaco pure d’una vivanda prende fastidio, e delle variazioni d’esse ricreazione e piacere, e così gli orecchi d’uno suono continovo rincrescimento, e della mutazione di molti vaghezza. Da questa mostrazione naturale preso esempio, lasceremo stare alquanto i fatti d’Italia, le cui volture e travaglie continove senza in tramessa delle forestiere possono ingenerare tedio, e passeremo a quelle de’ Franceschi e degl’Inghilesi che in questi giorni apparirono. Essendo, come nel passato dicemmo, il re d’Inghilterra, e’ figliuoli e il duca di Lancastro in Borgogna, senza arrestare con attizzamento di guerra il paese i Borgognoni, che allora in occulto erano poco amici della casa di Francia, s’accordarono con loro, dando loro derrata per danaio abbondevolmente di ciò che loro fosse mestiero; e stando in tale maniera si cercava come il re per l’avvenire dovesse rimanere col duca, il perchè gl’Inghilesi li riguardavano forte, senza fare [281] ingiuria o danno niuno; e ciò avvedutamente, perchè sapeano lo sdegno nato tra’ Borgognoni e’ Franceschi, estimando d’attrarli a loro con piacevolezza e amore. Il duca era giovane e di grande animo, e di possanza il maggiore barone del reame di Francia, e de’ dodici peri, a cui stava la coronazione del reame di Francia, alla quale con tutti i sentimenti si dirizzava l’intenzione del re d’Inghilterra, la quale era freno che non lasciava trasandare gl’Inghilesi. Nondimeno i paesani delle castella, e sì delle ville, per essere più sicuri donavano al re argento secondo loro possibilità, e di buona voglia li prendea, e gli fidanzava. E per simile modo avea fatto negli altri paesi di Francia; prendea da cui gli s’era raccomandato ciò che dare gli voleano senza bargagnare, e avevali fatti sicuri di preda e di guasto; onde per questa via avea accolta tanta moneta, che di largo forniva i soldi ch’avea a pagare, e tutte altre spese occorrenti senza avere a trarre d’Inghilterra danaio. E per questo modo la sperienza fa manifesto quello che in fatto e’ parea quasi impossibile, ed era: e per certo all’acquisto del reame di Francia la fortuna e ’l senno furono del tutto dalla parte del re d’Inghilterra e solo gli fu in contrade l’odio e lo sdegno de’ Franceschi, i quali non poteano patire d’udire ricordare gl’Inghilesi, che sempre come vili genti aveano avuto in dispetto.

[282]

CAP. LXXXIII. Come i Normandi con loro armata passarono in Inghilterra.

I Normandi, che più volte aveano in loro terre dagl’Inghilesi ricevuto oltraggi e vergogna, vedendo che ’l re d’Inghilterra, e’ figliuoli è ’l duca di Lancastro, di cui ridottavano molto, erano occupati nell’impresa di Francia, e per ciò passati in Borgogna, pensarono che ’l tempo loro dava spazio di fare loro vendetta. E pertanto di loro movimento raunarono in piccolo tempo centocinque navili, e di loro gente gli armarono, e gli feciono passare nell’isola, e si posono a Sventona e in altri porti, dove arsono legni assai, e feciono quello danno che poterono il maggiore. Per, questo gl’Inghilesi sommossono tutti i porti dell’isola, e furiosamente armarono per andare a trovare i Normandi, i quali temendo i subiti movimenti e avvisi degl’Inghilesi, avanti che loro armata fosse fornita si partirono, e tornaronsi a salvamento in Normandia.

CAP. LXXXIV. Come il duca di Borgogna s’accordò con gl’Inghilesi.

Del mese di maggio 1360, il giovane duca di Borgogna, seguendo il consiglio de’ suoi baroni, prese accordo col re d’Inghilterra in questa forma. [283] Che il re si dovesse partire del paese, e il duca a lui dovesse dare in tre anni centoventi migliaia di montoni d’oro, come ne toccasse per anno; e oltre a ciò, ch’avendo il re d’Inghilterra a sua coronazione del reame di Francia per boce d’imperio, che la sua sarebbe la seconda. Sotto questa concordia assai grande al re d’Inghilterra, più per l’onore della promessa e della boce del duca che per altra cagione il re d’Inghilterra con tutta sua oste si partì di Borgogna, e dirizzò suo viaggio verso Parigi, non trovando, fuori delle terre murate, chi lo contastasse niente, e tutti i paesani e le villate che non si sentivano da poterli fare resistenza gli si feciono incontro, e per riscatto di loro dammaggi li portavano danari, ed egli per sua bonarità, ciò che gli era dato prendea, e della sicurtà era a tutti cortese.

CAP. LXXXV. Come il re d’Inghilterra assediò Parigi.

Poichè ’l re d’Inghilterra vide che la fortuna per la maggiore parte avea favoreggiati tutti i suoi consigli e ordigni, e che tutte le cose, secondo il suo proponimento necessario a fornire anzi prendere l’assedio di Parigi gli erano procedute prosperamente, eccetto che presure di ville o di fortezze notabili, le quali vedea avere riguardo a Parigi, e che quando la città ch’era capo del reame fosse a sua podestà l’altre agevolmente gli verrebbono alle mani; e pensò come ultimo fine d’ogni sua intenzione certo che la ventura gli concedesse [284] Parigi; e per tanto come trasse il piè di Borgogna, continovate sue giornate con tutta sua oste se ne venne a Parigi, e giunto e riposato alcuno dì, il sabato santo a dì 4 d’aprile 1360, la sua oste in tre parti divise, l’una a Corboglio, l’altra accomandò al duca di Guales, e lo fè porre in costa dall’altro lato della città, la terza diede al conte di Lancastro, il quale si fermò dall’altra banda, sicchè quasi in terzo a sesta fermarono l’assedio, e che questo fosse il deretano pensiero manifestarono. Il re di Navarra e il fratello, il quale avea formata pace col Delfino, come addietro dicemmo, a questo punto si scopersono amici e servidori del re d’Inghilterra, che la pace che fatta avea era stata infinta e a mal fine. Questa voltura del re di Navarra e del fratello assai diedono che pensare a’ Franceschi. Il Delfino avendo alcuno sentore della venuta del re d’Inghilterra e di suo intendimento, con molti baroni del reame e con grande cavalleria s’era ridotto in Parigi, e la città avea d’ogni cosa necessaria alla vita per grande tempo abbondevolmente fornita, e con provvedenza e sollicitudine attendeano alla guardia della città e di dì e di notte, e di fuori lasciava fare a’ nemici il loro volere, non lasciando uscire nè forestieri nè cittadini a fare d’arme, e tutto ciò per buono e savio consiglio: nè tanto poteano gl’Inghilesi con sollecitudine e scorrimenti strignere la città, che gente con vittuaglia non v’entrasse e uscisse, tutto che con pericolo assai. Il paese fuori di Parigi, eccetto città e terre di guardia, ubbidiano gl’Inghilesi e loro davano vittuaglia [285] e danari, come addietro dicemmo, sicchè l’oste ne stava doviziosa e ad agio, e senza fatica d’avere a predare per vivere, e senza riotta aveano la vita e i soldi loro, e i beni de’ Franceschi. Or qui mi piace d’un poco gridare: O superbi e altieri cristiani, dirizzate gli occhi del cuore, volgete un poco questi pensieri a considerare gli straboccamenti della potenza mondana, e vedrete la viltà e la miseria essere al fine delle pompe e miserie de’ mortali; ponetevi avanti gli occhi la nobile e famosa città di Parigi assediata dagli Scirei d’Inghilterra; ponetevi il glorioso sangue della reale casa di Francia in quanto abbassamento era in questi giorni venuto; ponetevi la magnanimità e il coraggio, la gentilezza e’ costumi della cavalleria de’ Franceschi, a tanto disprezzamento in questi tempi ridotta, che abbi lasciato in preda il reame a poca gente, e loro dispettosa e di poca nomea, tenendo chiusa nelle terre murate, e non ardite con le teste levate, e prendendo fidanza della violente fortuna: più è maraviglioso a pensare che gl’Inghilesi abbiano fatto in Francia a loro senno, che se Capalle vincesse Firenze. Il fine dunque dell’arrogante superbia, come per esperienza sovente si vede, è cadimento in luogo umile e pieno di miseria: e certo chi con animo temperato vorrà giudicare, altro non potrà dire, se non che manifesto giudicio di Dio abbi corrotto questo flagello il popolo sdegnoso, e animo rilevato e altiero de’ Franceschi, che tutto l’altro mondo aveano per niente. Or dunque posate mortali, e non siate troppo osi, e sievi freno il magnifico reame di Francia, il quale è stato tra’ [286] cristiani il maggiore già molte centinaia d’anni, e quando vi ritrovate nel più alto grado delle dignità temporali volgete gli occhi alla terra, e vedrete, che quanto il luogo è più alto e più rilevato, tanto è la ruina e la caduta maggiore, e forse poserete gli animi vostri alla sorte che v’ha conceduta la divina provvidenza, senza più oltre cercare che vi sia di mestiere.

CAP. LXXXVI. Come il re d’Inghilterra si strinse a Parigi, e combattè Corboglio.

Essendo l’oste del re d’Inghilterra alquanti dì soggiornata a Corboglio, e divisa, come di sopra dicemmo, in modo da potersi in piccolo tempo raccogliere insieme quando fosse bisogno, all’ottava della Pasqua di Resurrezione, il re con gran parte di sua oste si mosse e avvicinossi a Parigi con le schiere fatte, e tanto che gli scorridori si misono in sulle porti della città, facendo con parole e con atti assai oltraggio a’ Franceschi, ma però di Parigi non usciva persona: e ciò fu riputato gran senno, perchè uscendo, come suole il popolo voglioso e male ordinato, e in fatti d’arme poco uso, il pericolo era grandissimo, e il re con i suoi Inghilesi altro non desiderava, facendo sagacemente tutto ciò che poteano per attrarli di fuori. Veggendo il re dopo lungo stallo, che per aizzamento che fatto fosse a’ Franceschi nè gente usciva della terra nè porta s’apriva, [287] fatto danno d’arsione per più sdegnare i nemici e animare a vendetta, si trasse indietro: il prenze di Guales tornato al re senza frutto di suo pensiero, per non lasciare niente che secondo il sottile provvedimento del re per ottenere suo proponimento fare si dovesse, esso in persona colla gente fresca ch’era rimasa nel campo con bell’ordine si mise a combattere il castello di Corboglio. La battaglia fu aspra e animosa, perocchè gli Inghilesi che erano montati nell’onore e pregio dell’arme alla disperata senza curare la vita si metteano a ogni pericolo; i Franceschi che conosceano che essendo vinti vituperavano il nome loro, ed erano carne di beccheria, si difendeano francamente ributtando i nemici; molti e dall’una parte e dall’altra ne furono morti e fediti; in fine gl’Inghilesi non potendo niente approdare si levarono dall’impresa. Come il duca avea fatto a Corboglio, così il conte di Lancastro e poi la persona del re cercarono di più altre castella e fortezze, e nulla poterono ottenere, sì bene erano in apparecchio a difesa; e queste cose furono gran cagione di recare gl’Inghilesi a concordia, come a suo luogo e tempo diremo.

CAP. LXXXVII. Conta del reggimento de’ Romani, e d’alcuna giustizia fatta.

L’antico popolo e reggimento romano a tutto il mondo era specchio di costanza, e incredibile fermezza d’onesto e regolato vivere, e d’ogni [288] morale virtù, e quello ch’al presente possiede le ruine di quella famosa città è tutto per lo contrario mobile e incostante, e senza alcuna ombra di morali virtù. Loro stato sovente si muove con vogliosa e straboccata leggerezza, e cercando libertà l’hanno trovata, ma non l’hanno saputa ordinare nè tenere, com’addietro nell’opera nostra si può trovare. All’ultimo, dalla forma e costumi de’ reggimenti de’ popoli della Toscana che vivono in libertà, e massimamente de’ Fiorentini cui essi appellano figliuoli, hanno preso il modo, e fatti hanno loro cittadini in similitudine di priori e con simigliante balía, e riduconsi presso al Campidoglio, e per loro consiglio hanno i capi de’ Rioni, e a similitudine de’ gonfalonieri delle compagnie di Firenze fatti hanno banderesi con grande potestà e balía, li quali hanno altri sotto sè a cui danno i pennoni, e ciascuno de’ banderesi ha il seguito di millecinquecento popolari bene armati e in punto a seguirli a ogni loro posta; e così sono circa a tremila gli ubbidienti a’ banderesi. Questi hanno a fare l’esecuzione della giustizia di fuori contro i possenti e grandi cittadini che male facessono, o fossono inobbedienti al reggimento di Roma, o dessono alcuno ricetto ai mali fattori in loro fortezze o tenute; e contro a coloro che hanno trovato mal fare cominciato hanno così aspra giustizia, che passano i segni per troppa rigidezza, il perchè nè principe nè barone è nella giurisdizione del popolo di Roma che non stia spaventato, e che forte non gli ridotti, e che per paura non ubbidisca a’ governatori di Roma e’ loro rettori. E in questo anno [289] occorse, che il Bello Gaietani zio del conte di Fondi, e Matteo dalla Torre, famosi capi e ritenitori de’ ladroni del paese, furono presi da’ detti banderesi con più loro seguaci malandrini e rubatori di strade, e di fatto e senza alcuno soggiorno tutti furono impiccati, e le loro tenute disfatte e ragguagliate con la terra. Ed essendo la Campagna in ribellione de’ Romani, e spilonca di ladroni, e questo popolo infiammato a ben fare, ridottola all’ubbidienza de’ Romani.

CAP. LXXXVIII. Come parte degli Ubaldini presono Montebene.

I figliuoli di Tano da Castello della casa degli Ubaldini seguaci de’ signori di Milano, e pertanto ai loro consorti nimici, nel detto anno e mese d’aprile, di ciò non prendendo guardia que’ della casa loro, con numero di fanti a ciò bastevoli, una mattina innanzi il fare del giorno presono Montebene, e lo steccarono di steccati e fossi, e dentro vi feciono capanne, e lo fornirono di vittuaglia e guernimenti da difesa, aspettando secondo l’ordine dato gente d’arme da piè e da cavallo da’ signori di Milano per fare da quella parte guerra a’ Bolognesi rompendo le strade. E a dì 15 d’aprile con dugento Ungheri e con trecento barbute, e con loro fedeli cavalcarono infino presso a Bologna, e levarono gran preda di prigioni e bestiame, e altri danni feciono assai. Poi a dì 23 del mese i Bolognesi con loro forza, e con loro i figliuoli di Maghinardo degli Ubaldini [290] e loro fedeli, essendo partita la maggior parte della detta gente de’ signori di Milano, che male poteano nell’Alpe dimorare, cavalcarono alle valli, e quelli vi trovarono della detta gente misono al taglio delle spade, e in quelli paesi presono e uccisono e danneggiarono i fedeli dell’Alpe, e con quella preda maggiore che fare poteano si ridussono a salvamento: a quelli di Montebene non poterono noiare per la fortezza del luogo. Montebene per metà è del comune di Firenze, il perchè i Fiorentini mandarono ambasciadori agli Ubaldini, e gli ripresono dell’impresa, considerato che aveano occupato del contado di Firenze; da loro ebbono tanta umile e cortese risposta, a non volere far cosa dispiacesse al comune, che per non fare nuova impresa per allora loro risposta fu accettata, non che l’ingiuria con l’altre non fosse riposta, e riserbata a loro maggiore ruina.

CAP. LXXXIX. Di novità e morte del re di Granata, e loro esilio.

Nel mese d’aprile 1360 essendo Maometto re di Granata senza sospetto di suo stato uscito a cacciare, Raisalem suo barone, uomo di grande animo e seguito, postoli aguato lo volle uccidere, ma esso fuggì. Costui col seguito e forza sua coronò re un fratello di Maometto di piccola età, e perseguitava il detto Maometto, il quale per paura fuggì a Malica, e poi a Fessa, e quivi si ridusse al [291] servigio del re di Fessa e a sua provvisione, e ivi dimorando aspettava tempo di ricoverare sua corona. Guardando Raisalem il giovane re, volle che facesse morire certi de’ suoi baroni, e non volendo il giovane re consentire perchè non erano in colpa, Raisalem l’uccise, e col suo seguito e forza si fè coronare re, non essendo della schiatta e casa reale, e da tutti i regnicoli di Granata quasi spontaneamente fu ubbidito, e fecesi chiamare il re vermiglio, e con tutta sua forza e consiglio nimicava il re Maometto, cui egli avea del regno cacciato, e oltre nimicava il re di Castella.

CAP. XC. Come il legato richiese d’aiuto il re d’Ungheria alla difesa di Bologna.

Già era quasi certa e indubitata speranza a’ pastori della Chiesa di Dio, e a’ governatori d’essa, sì di là come di qua da’ monti, della difesa della città di Bologna, e il legato d’ogni parte in qualunque modo potea cercava aiuto sollecitamente: com’a Firenze avea mandato, così all’imperadore e al re d’Ungheria sommovendoli al soccorso dell’onore di santa Chiesa intorno a’ fatti di Bologna; per questo lo re d’Ungheria richiesto, e non volendo, se prima non sapeva il come e perchè, con più certo e diliberato consiglio fare l’impresa, come gonfaloniere e difensore di santa Chiesa, al cui bisogno dicea non potere senza soccorso passare, lettere fece e sua ambasciata mandò a’ signori di Milano, loro pregando si partissero [292] dall’offesa di santa Chiesa, e gli ammoniva sotto protesto d’aiuto che si partissono dall’impresa. I signori di Milano sentendo che suo movimento era pigro, e con lunga tratta di tempo, a’ suoi ambasciadori mostrarono, e a lui scrissono con assai apparenti ragioni che loro impresa era giusta e ragionevole, e che in corte di Roma palesemente se ne disputava, e che la ragione per loro parte rispondea, e così la sentenza attendeano; e però lo pregavano che contro a loro non prendesse il torto, che giusto il podere loro ne prenderebbono difesa, e gli ambasciadori di grande riverenza onorarono, e di molti e ricchi doni.

CAP. XCI. Come in corte si diè sentenza contro a quelli di Milano per i fatti di Bologna.

Dappoichè Bologna fu nelle mani del legato di Spagna, nonostante che i signori di Milano circondata l’avessono d’assedio, continovo in corte per loro ambasciadori avvocati protettori e procuratori il papa e’ cardinali intempellavano, mostrando in grido che la Chiesa loro faceva torto, perocchè l’aveano ancora per quattro anni a censo della Chiesa di Roma, e loro promesso era per bolle papali di consentimento del collegio de’ cardinali, ch’anzi il tempo loro non sarebbe tolta, e con l’usato modo di spendere e largamente donare alla disordinata cupidigia de’ cherici, assai de’ cardinali prelati e cortigiani aveano [293] che in occulto e in palese gli favoreggiavano, il perchè la questione venne in giudicio, e convenne che per sentenza si determinasse, la quale si credette che per lo grande aiuto e favore che in corte aveano i signori di Milano che venisse per loro, ma tanto non si potè nè seppe argomentare che la sentenza non venisse di ragione per la Chiesa di Roma, perocchè i signori di Milano per difetto loro n’aveano perduta la possessione, e non l’aveano potuta ricoverare, ed essendo la proprietà di santa Chiesa, giustamente avea potuto racquistare la possessione. Data la sentenza, il papa con i cardinali in concistoro deliberarono di prenderne per tutte vie la difesa; ma come per antica usanza e de’ prelati al sussidio della moneta la mano era pigra e remissa, e per questo mandarono e per lettere e per ambasceria a’ signori di Milano gravandoli si togliessono dall’impresa, contro a loro cominciando processo, e all’imperadore, a’ principi d’Alamagna, e al re d’Ungheria, e appresso a tutti i signori di Lombardia e a’ comuni di Toscana scrissono per sussidio per non toccare il tesoro della Chiesa di Roma, e in tre volte a grande stento per questo servigio di camera trassono centoventi migliaia di fiorini, li quali vennono a sì pochi insieme e sì tardi, che in fatti di guerra poco profitto fare se ne potè, pur fece speranza d’alcuno leggiere sostentamento.

[294]

CAP. XCII. Come messer Galeazzo Visconti si mandò scusando in corte di Roma dell’impresa di Bologna.

Seguendo messer Bernabò sollecitamente l’impresa di Bologna nonostante la deliberazione fatta in corte, e il processo contro a lui formato, lo quale l’avea più d’ira infiammato e stimolato alla guerra, messer Galeazzo, o che ’l facesse per cagione del parentado nuovamente fatto col re di Francia, per lo quale dava la figliuola del re al figliuolo, e temea che ’l processo di santa Chiesa contro a lui fatto non l’impedisse, o vero che fosse di consentimento di messer Bernabò, o per suo proprio movimento, mandò a corte suoi ambasciadori a scusarsi al papa e a’ cardinali con dire, non intendea nè in segreto, nè in palese aiutar o favoreggiare il fratello nell’impresa di Bologna, perocchè egli avea il torto, e che per lui gli era stato contradetto e vietato, e per tanto domandava d’essere levato de’ processi i quali contro a lui e messer Bernabò eran formati; affermando non essere colpevole, e che intendea essere all’ubbidienza di santa Chiesa, e operare quanto onestamente contro il fratello potesse. La sua scusa fu ammessa, ove non desse favore a messer Bernabò, e il processo contro a lui fu sospeso.

[295]

CAP. XCIII. Come papa Innocenzio levò le riservagioni.

Per lungo spazio di molti anni, cominciando al tempo di papa Giovanni ventiduesimo, in corte di Roma erano fatte le riserbazioni di tutti i beneficii cattedrali e collegiali i quali secondo la ragione canonica riformare si doveano e soleano per i capitoli e collegi delle dette chiese, e ciò diede ad intendere di fare il detto papa Giovanni per accogliere moneta e fare il passaggio all’acquisto della Terra santa; e come uomo sagacissimo e astuto in tutte sue cose, e massime in fare il danaio, usava questa cautela, che vacando un beneficio di grande entrata togliea un prelato di più basso beneficio e lo promovea al maggiore, e un altro di minore beneficio a quello di colui cui avea promosso al maggiore, e così d’un beneficio vacato in corte cinque o sei ne facea vacare, avendo i frutti dell’anno, e con grande spendio di quelli ch’erano promossi; e fece il detto papa tesoro di diciotto milioni di fiorini in moneta coniata, e più di sei milioni in gioielli. Il quale ben seppe secondo il mondo Clemente sesto colla contessa di Torenna, la quale tra le poppe portava le supplicazioni, e aprendo il seno le porgea al santo padre; il quale in cacciare, e uccellare, e altri diletti mondani la maggior parte de’ suoi giorni spese. Ed era la corte tanto corrotta di simonia, che il più per simonia o per grazia de’ signori temporali e cardinali gl’indegni [296] e scellerati cherici erano promossi, e i buoni e onesti ributtati, non senza loro vituperio e vergogna. Per le quali inconvenienze Innocenzio papa mosso da spirito diritto e buono zelo, in quest’anno 1360, per suo decreto fatto consiglio, e con volontà del collegio de’ cardinali, levò le riserbazioni, rilasciando le elezioni e postulazioni delle chiese cattedrali e collegiate alla grazia dello Spirito santo.

CAP. XCIV. Come il re Luigi fece guerra al duca di Durazzo, e ultimamente s’accordaro.

I processi del regno di Puglia in questi tempi di poca memoria son degni per i loro lievi movimenti. Il duca di Durazzo sentendosi nemico del re Luigi, per tema di suo stato accogliea in Puglia gente d’arme nelle terre sue, e molti gentili uomini napoletani, e di Nido e di Capovana s’erano ridotti con lui il maggior fratello del re titolato imperadore di Costantinopoli si tramettea di fare concordia tra loro, e lo re non volea consentire; e per mostrare quanto la cosa gli era grave, del mese d’aprile del detto anno con molta gente d’arme in persona cavalcò in Puglia per guerreggiare messer Luigi di Durazzo, il quale, com’è detto, apparecchiato s’era alla difesa a suo podere; il re, per levarli l’aiuto e favore de’ Napoletani, fece comandare a tutti, i cavalieri di Nido e di Capovana che con lui erano che partire se ne dovessono altrimenti per [297] ribelli gli avrebbe e traditori della corona; nè per tanto i gentili uomini non vollono abbandonare il duca, onde il re gli fece sbandire, e mando a Napoli a fare l’esecuzione con abbattere loro case; nè il re avrebbe questo potuto fornire, se non che la reina e pregò e comandò a quelli di Capovana e di Nido che lasciassono fare la volontà del re, e così fatto fu senza contasto per reverenza della reina; allora abbattuti furono molti palagi e case di gentili uomini in Capovana e in Nido, cosa di rado udita e avvenuta in quella città. Lo re passato il furore si lasciò consigliare, temendo che tale riotta non fosse cagione d’attrarre gente d’arme nel Regno, e per mano dell’imperadore fermò la pace col duca; nè pertanto il duca fidò sua persona nella forza del re, ma il figliuolo d’età di meno di sette anni mandò a fare l’omaggio al re, a tutto che per li capitoli della pace ordinato era alla città di Napoli.

CAP. XCV. Come messer Niccola gran siniscalco del Regno andò in corte di Roma per accordare il re con la Chiesa, e fattogli dal papa ciò gli domandò, e grand’onore, se ne tornò in Lombardia.

Essendo intorno al re Luigi il grande siniscalco il maggiore e il più ridottato barone, come operare suole l’invidia, comune morte e vizio delle corti, con false informazioni mosse il re a disdegno [298] contro messer Niccola. Esso ch’era alla corona fedele, con animo grande mostrava di non se n’avvedere, e prese cagioni oneste alle sue terre si riparava, massimamente a Nocea, e provvedeva i fatti suoi. Lo re povero di savio consiglio per le cose gli occorrevano sovente mandava per lui; esso preso scusabili cagioni per farlo conoscente ritardava l’andare: e certo essendo messer Niccola appresso del re niuno de’ baroni osava alzare il ciglio. E in que’ giorni occorso era che per lo censo debito alla Chiesa, e non pagato, il Regno era interdetto; il gran siniscalco avendo voglia d’essere a corte per levarsi dinanzi agl’invidiosi assalti de’ baroni, e per cercare maggiori cose, alle quali l’animo suo si dirizzava, e per fare prova di sè, con volontà del re andò a corte di Roma, ove e dal papa e da’ cardinali fu sopra modo onorato; e in prima la domenica della rosa il papa commendato di virtù, di nobiltà, e di valore messer Niccola li diede la Rosa, la quale osava dare al più nobile uomo che allora si trovasse in corte di Roma, appresso con lui s’accordò del censo del reame, e levò l’interdetto. Da indi a pochi giorni il papa di proprio movimento li diede per messer Giovanni figliuolo di Iacopo di Donato Acciaiuoli suo consorto l’arcivescovado di Patrasso, essendo i cardinali di più altri solliciti promotori, di costui nullo intendimento v’era: il papa mostrò come essendo uopo di braccio secolare al sostenimento di quello beneficio, costui più idoneo era che un altro per lo consiglio e favore del gran siniscalco, e senza attendere altra deliberazione, come domandavano i cardinali. [299] d’isso fatto lo elesse. Di poi di proprio moto del santo padre, l’uficio e dignità del senato di Roma e tutto esso uficio accomandato fu al detto messer Niccola a sua vita, e più la rettoria del Patrimonio, e la contea di Campagna; i quali ufici e rettorie esso messer Niccola per riverenza del suo signore messer lo re Luigi senza licenza non volle accettare. E oltre alle predette grazie spontaneamente fatte, molte petizioni di beneficii il papa liberamente gli segnò, mostrando a tutti la grande confidenza che nel nobile uomo avea. E avendo messer Niccola preso licenza del partire dal papa, il papa gli commise ch’andasse a’ signori di Milano, e con loro cercasse accordo sopra i fatti di Bologna. Il savio cavaliere per questa sua partita sostenne oneste cagioni simulando, e intanto ebbe da messer Bernabò perchè altrimenti nel secreto fare noi volea, pensando non doverne potere avere onore: partì adunque di corte, e dirizzossi a Milano; quello ne seguì a suo luogo diremo.

CAP. XCVI. Come gli Aretini per baratta ebbono Chiusi e la Rocca.

Essendo Marco di messer Piero Saccone de’ Tarlati in certo trattato col comune di Firenze di dare delle sue terre al comune per liberare di prigione e se e’ suoi, la moglie la madre e gli altri suoi fratelli, con sagacità di chi l’ebbe a conducere, furono messi in altro trattato, nel quale [300] mostrato fu loro, che se in concordia fossono con gli Aretini, ove stava il tutto, che i Fiorentini rimarrebbono per contenti; onde pensando la donna ben fare mossa da questo consiglio, e per conforto di certi frati minori i quali erano in questo ragionamento mezzani, non potendo di Chiusi fare a suo senno, che v’era dentro il figliuolo, si diliberò vogliosamente, come usanza è delle femmine, di dare Pietramala agli Aretini, con patto che come avessono Chiusi restituissono Pietramala; e dato Pietramala la donna fè dire al figliuolo, che se non desse la rocca di Chiusi, come data avea la rocca di Pietramala così darebbe quella del Caprese, e di tutte altre loro terre. Il giovane veggendo il male principio, e conoscendo la madre animosa e costante, diede la rocca di Chiusi agli Aretini, la quale con sicurtà di stadichi di renderla, se non facessono Marco e gli altri suoi trarre di prigione, e incontanente alla donna restituirono Pietramala. Di questa baratta il comune di Firenze concepette non piccolo sdegno contro agli Aretini, ma non lo dimostrò, aspettando che essi di loro errore ammendassero, e rendessero al comune di Firenze suo debito onore; la qual cosa nè vollono nè seppono fare, come col tempo seguendo nostra scrittura si potrà trovare.

[301]

CAP. XCVII. Come il conticino da Ghiaggiuolo fu da’ figliuoli propri preso e vituperevolmente tenuto.

Seguita cosa per sua natura non degna di memoria, ma piuttosto di perpetuo silenzio: l’esempio crudele, disonesto e abominevole ci forza a porlo intra gli altri nostri ricordi. Ramberto della casa de’ Malatesti da Rimini detto volgarmente il conticino da Ghìaggiuolo, uomo assai famoso, essendo nell’età di sessantacinque anni e oltre, avea della figliuola di Francesco della Faggiuola sua donna due figliuoli, l’uno per nome Francesco, l’altro Niccolò, giovani costumati e di gentile aspetto, e che in vista mostravano di più alto animo che non mostrarono per opera. Costoro essendo col padre in arme al servigio di santa Chiesa, eziandio contro i consorti loro allora nimici di santa Chiesa, e contro il capitano di Forlì, presono Santarcangiolo e altre terre, e le ridussono all’ubbidienza di santa Chiesa, e presono la guerra contro al capitano di Forlì. In un assalto amendue questi giovani furono presi; e avendo il conte di Lando con sua gente servito il capitano, e dovendo da lui avere danari assai, intra gli altri pagamenti questi due giovani gli furono assegnati in parte di pagamento per fiorini seimila, ed egli li si prese, seguendo il proverbio, dal male pagatore o aceto o cercone. Il padre sentendo ch’erano nelle mani del conte di Lando, [302] e fuori delle mani dell’antico e crudele nemico capitano di Forlì, con molta sollecitudine e arte cercò di riscuoterli, e infine pagati fiorini mille cinquecento gli riebbe. È vero che essendo la madre de’ detti Francesco e Niccolò attempata e datasi allo spirito, il detto conticino pubblicamente si tenea in casa un’amica, e di lei avea cinque figliuoli d’assai vezzoso e gentilesco aspetto, il maggiore d’età di dodici anni. Il conte, ch’era nell’età che detto avemo, grande affezione mostrava a questi bastardi, il perchè la loro madre prendea di baldanza più non si convenia; e pertanto era in uggia e crepore a’ detti Francesco e Niccolò, non di manco il conte i madornali e loro madre onorava quanto si convenia teneramente, lasciando a loro madre in dominio la rocca di Ghiaggiuolo e ’l castello, stimando in suo concetto lasciare di sua masserizia alcuna cosa a’ bastardi, e il retaggio a’ madornali. Lo giorno di Pasqua rosata, a dì 23 di maggio, avendo il conte e’ figliuoli desinato insieme di buona voglia, e stando gran pezza a sollazzare insieme, e ito il conte a dormire, e poi ritornato a festeggiare con loro, e stando a vedere loro giuochi, un fedele del conte, fante assai pregiato e fidatissimo a lui, lo prese di dietro; il conte pensando cianciasse, com’era usato, niuno riparo prese, e un altro intanto sopraggiunse che gli levò il coltello dal lato, e alandolo all’altro tenere lo gittarono in terra; i figliuoli con le funi nelle mani, ne’ piedi con tutta l’altra persona strettamente il legarono, come si suole di ladroni, e così legato lo feciono portare, e nella sua propria camera in un fondo [303] che v’era l’incarcerarono, e sotto buona e fidata guardia il teneano, e tanto per più giorni lo tennono legato facendolo imboccare e fare gli altri servigi, che feciono fare una stanga di ferro, e buove, le quali pesanti fuori d’ordine gli misono in gamba, mettendoli i piedi la notte ne’ ceppi. La sua femmina detta Rosina nel fiumicello di Chiusercole con un sasso al collo feciono annegare; i bastardi cacciarono tutti, i quali con vergogna de’ madornali in piccolo tempo presono cattivo viaggio. Lo padre facendo sovente di parole schernire, e rimprocciarli la Rosina e’ suoi bastardi; costui pazientemente tutto portando, e umilmente spesso domandando misericordia, con volere far ciò che i figliuoli sapessono divisare, i lor cuori più indurando a giornate, lungo tempo lo tennono in sì orribile vita. Io ho letto e riletto, mai tanta crudeltà non trovai ne’ cuori de’ salvatichi barbari, e non so a quali fiere selvaggie gli potessi assomigliare. I figliuoli sogliono essere teneri del padre, e di sua gloria e onore; fede ne fa Valerio Massimo per l’esempio di Manlio, il quale essendo dal padre villanamente trattato, sentendo che il padre volea essere accusato, andò alla casa dell’accusatore, il quale graziosamente lo ricevette pensando che volesse favorare l’accusa contro il padre, il giovane riduttolo in luogo segreto gli strinse il coltello sopra il capo, e si fece promettere e giurare si leverebbe dall’accusare: costoro bene trattati dal padre, senza cagione, che eziandio qualunque leve pena meritase, lo crucifissono; e pertanto in perpetua infamia di sì fatti figliuoli scritto l’avemo.

[304]

CAP. XCVIII. Come si fermò pace dal re d’Inghilterra a’ Franceschi, e’ patti e le convegne ebbono insieme.

Avendo come nell’addietro narrato avemo lo re d’Inghilterra il verno tutto e parte della primavera co’ figliuoli e col cugino cavalcato tutto il reame di Francia senza contasto alcuno, nè però potuto acquistare alcuna buona terra, ed essendo stati sopra Parigi ad assedio con niente profittare, standosi a Ciartres, il detto re come savio e pratico prencipe, pensando e conoscendo i difetti e i pericoli che sogliono e possono occorrere nelle continuanze delle guerre, vedendosi il sovrano in arme e nell’onore del reame di Francia, e in caso di poter prendere suo vantaggio nella pace, si dispose al tutto non volere più sua fortuna tentare: onde essendo presso a Ciartres a due leghe il cardinale di Pelagorga e l’abate di Clugnì legati del papa a cercare la pace tra’ detti due re, lo re d’Inghilterra loro fece sentire, ch’attenderebbe al trattato della pace cercato per loro dove per lo governamento e’ reggenti di Francia si dovesse mandare trattatori: li detti legati ciò inteso di presente mandarono al reggente significando, che s’attendere volea alla pace cercata per loro per avventura la potrebbe avere. In questo i detti legati col re d’Inghilterra elessono per luogo comune una villa detta Beeragnì, la quale è presso a Ciartres a una lega: lo reggente [305] di Francia per la sua parte mandò il vescovo di Brevagio, il conte di Trinciavilla, il quale era prigione degl’Inghilesi, il maliscalco di Francia e più altri signori e prelati, i quali partirono di Parigi a dì 17 d’aprile, e a dì primo di maggio quivi co’ detti legati e con loro per la parte del re d’Inghilterra s’accozzarono, il duca di biancastro, il conte di Norentona, il conte di Vervich, e ’l conte di Cosmoforte, e altri signori e cavalieri in numero di ventidue, e a dì 8 di maggio per la grazia di Dio furono d’accordo, fermando la pace in sostanza nell’infrascritto modo. In prima che ’l re d’Inghilterra con quello che tenea in Guascogna abbi per quel modo le tenea il re di Francia l’infrascritte città, contee e paesi, oltre a quelle che tenea in Ghienna e Guascogna, la città e castella di Poittiers, e tutta la terra e ’l paese di Poittu, e ’l fio di Tomers, e la terra di Bellavilla, la città e castello di san Reose di Santes, e tutte le terre e paesi d’Essa; la città e castella di Pelagorga con sue terre e paese, la città, castella, terre e paesi di Limogia, la città, e castella, terre, e paese di Caorsa, la città e castella, terre e paese di Tarbes; la terra e il paese e la contea di Bigorece, la città, terre, e paese di Gaure; la città terra e paesi di Goulogm la città terra e paesi di Rodes, la contrada e paese di Rovergne: e se v’è alcuno signore come il conte di Foci, il conte d’Armignacca, il conte dell’Isole, il conte di Pelagorga, il visconte di Limoggia, o altri che tenghino alcuna cosa de’ detti luoghi e paesi, fare debbino omaggio al re d’Inghilterra, e tutti altri servigi e doveri per cagione di loro [306] terre alla maniera che l’hanno fatto nel tempo passato, e più tutto ciò che il re d’Inghilterra o alcuno di loro tennono nella villa di Monstreul in sul mare, e più tutta la contea di Ponthieu, salvo lo alienato per lo re d’Inghilterra ad altri che nel re di Francia, e salvo se il re di Francia l’avesse in cambio per altre terre, nel quale caso lo re d’Inghilterra gli dee liberare la terra data in cambio: e se terre alienate per lo re d’Inghilterra ad altrui, le quali poi fossono venute nelle mani del re di Francia, lo re di Francia dare le dee a persone che ne facciano omaggio, e che rispondano a quello d’Inghilterra. E più deve avere il detto re d’Inghilterra la villa e castello di Galese, la villa castello e signoria della Marca, la villa castello e signoria di Sangato, Golognegi, Amegoie con tutte terre, vie, maresi, riviere, rendite, signorie, case, e chiese, e tutte appartenenze e luoghi intrachiusi con tutti i loro confini, e più la villa e tutta intera la contea di Ginis, con tutte le ville terre e fortezze e diritture di quelle come tenea il conte diretanamente morto, e come tenea il re di Francia, e di tutte le sopraddette città, castella e luoghi dee il re d’Inghilterra, e sue rede e successori liberamente avere tutti gli omaggi, obbedienze, sovranitadi, fii, diritti, saramenti, riconoscenze, fedeli, servigi, e mero e misto imperio, e tutte giurisdizioni e alte e basse, e padronaggi di chiese, e ogni signoria e ogni diritto che per qualunque cagione il re, la corona di Francia o i reali potessono per alcuna ragione o colore domandare, tutto s’intenda essere trasferito nel re, corona d’Inghilterra, e sue rede e successori [307] pienamente e perpetuamente: e tutti quelli che giurato avessono per dette cagioni nelle mani del re, o d’alcuno de’ reali, da’ detti saramenti s’intendessono essere liberi e quitati, rimanendo al re d’Inghilterra come e’ sono appresso del re di Francia. E tutte dette città, terre castella e luoghi, il re e la corona d’Inghilterra perpetualmente deve in loro franchigia tenere, e perpetuale libertà, come signore diritto e sovrano, e come buono vicino al re di Francia e reame, e senza fare riconoscenza alcuna alla corona di Francia. E deve il re di Francia dare e pagare al re d’Inghilterra tre milioni di scudi d’oro, di Filippo gli due, i quali vagliono un obole d’Inghilterra, de’ quali al re d’Inghilterra, o a’ suoi commessarii, secentomigliaia quattro mesi appresso che ’l re di Francia sarà in Calese, dove il pagamento far dee; e infra l’anno prossimo avvenire quattrocento migliaia nella città di Londra, e ciascuno anno appresso quattrocento migliaia, tanto che compiuti sieno di pagare i detti tre milioni di scudi. E per osservanza del detto trattato e predette e infrascritte cose, de’ prigioni presi alla battaglia di Poittiers devono rimanere per stadichi al re d’Inghilterra gl’infrascritti, e più ancora degli altri, ciò sono: messer Luigi conte d’Angiò, messer Gianni conte di Poittiers figliuoli del re di Francia, il duca d’Orliens fratello del re; e del numero de’ quaranta che ’l re di Francia dee dare, sedici de’ presi alla battaglia di Poittiers, i compagni del re di Francia de’ nuovi staggiai nomi sono: il duca di Borgogna, il conte di Broig o il fratello, il conte d’Alanson o messer Piero suo fratello, [308] il conte di san Polo, il conte di Ricorti, il conte di Pomeu, il conte di Valentinese, il conte di Brame, il conte di Baluldemonte, il visconte di Belmonte, il conte di Foreste, il sire da Iara, il sire di Fiene, il sire de’ Pratelli, il sire di san Venante, il signore de’ Culetiers, il Delfino di Daluyernia, il sire di Angestiem, il sire di Montener, e messer Guglielmo di Raon, messer Luigi di Ricorti, messer Gianni de’ Lagni. I nomi de’ sedici presi sono questi: messer Filippo di Francia, il conte d’Eia, il conte di Largavilla, il conte di Ponthieu, il conte di Trinciavilla, il conte di Logamb, il conte della Serra, il conte di don Martino, il conte di Ventado, il conte di Salisbruc, il conte di Vedasme, il signore di Truoy, il signore di.... il signore de Vali, il maliscalco di Donam, il sire d’Ambrignì. Dati li detti staggi, e venuto il re di Francia a Calese, e liberato di sua prigione, infra li tre mesi seguenti lo re d’Inghilterra dee lasciare libere al re di Francia la villa e la fortezza della Roccella, le castella e ville della contea d’Agenes e loro appartenenze, e il re di Francia tre mesi appresso che partito sarà da Calese dee rendere in Calese quattro persone della villa di Parigi, e due persone di ciascuna villa, ciò sono; Santo Omer, Aranzon, Amiens, Belvaggio, Lilla, Tornai, Doaggio, Long, Rems, Celona, Tors, Ciartres, Tolosa, Lione, Campigno, Roano, Camo, Trasiborgo de’ più sufficienti di dette ville per compimento del trattato. E dee il detto re di Francia e suo primogenito rinunziare ogni diritto e sovranità, e ogni ragione che sopra e nelle [309] città, castella e luoghi potessono usare come vicini, senza appello o quistione per sovranità per lo detto re e reame di Francia, o avere potesse, sopra le dette contee, città, castella, terre, e luoghi, o loro appartenenze, le cede e doni al re d’Inghilterra perpetualmente. E lo re d’Inghilterra e suo primogenito debbono rinunziare al nome e diritto della corona di Francia, e all’omaggio, sovranità e dominio della duchea di Normandia, della duchea di Torenna, della contea d’Arom, e al dominio, sovranità, e omaggio del ducato di Retognac, e alla sovranità e omaggio della contea di Fiandra, e di tutte altre cose appartenenti alla corona di Francia, salvo delle dette contee, città, castella, ville, e luoghi suddetti, che pervenire debbono al re e corona d’Inghilterra; e dee lo detto re d’Inghilterra cedere e trasportare nella corona di Francia ogni ragione somma ove potesse avere. E sì tosto il re d’Inghilterra e suo primogenito ciò debbono fare, come il re di Francia le città, ville, castella, e luoghi che il re di Francia tiene delle sue nominate sopra quelle tiene il re d’Inghilterra avrà date, e consegnate liberamente al detto re d’Inghilterra, o suoi commessarii, le quali son queste; la città di Poittiers, e tutta la terra e paese di Poittu, con essa il fio di Toraci, e la terra di Bellavilla, la città di Gem, la terra e’ paesi d’Agenes, la città di Pelagorga, la città di Caorsa, la città di Limoggia, tutta la contea di Gavera con tutte loro castella, terre e paese. E ciò far dee il re di Francia per infino alla festa di san Giovanni Batista; e ciò fatto, subitamente appresso, [310] davanti a quelli che per lo re di Francia a ciò saranno diputati, lo re d’Inghilterra e suo primogenito debbono rinunziare al reame di Francia, come detto è di sopra, e farne trasporto, cedizione e lasciamento per fede e saramento solennemente, e con lettere patenti aperte e suggellate del suggello reale, le quali lo detto re mandare dee nella natività di nostra Donna prossima avvenire nella chiesa degli agostini di Bruggia, le quali devono essere date a quelli i quali il re di Francia vi mandasse per riceverle. E se nel termine di san Giovanni Batista il detto re di Francia non potesse dare o consegnare al detto re d’Inghilterra, o suoi commessarii a ciò deputati, le sopraddette città, castella, ville i terre, e luoghi, le possa e debba dare e consegnare infra il termine di tutti i Santi prossimi avvenire a un anno, e fatto ciò, dee lo re d’Inghilterra infra il termine di sant’Andrea prossimo seguente fare le dette renunzie, mandare e presentare a Bruggia, come è detto di sopra. E per simile modo è tenuto e dee lo re di Francia e suo primogenito renunziare, trasportare e cedere ogni loro ragione della corona di Francia quali avessono sopra delle città, castella, ville, e terre, e luoghi, che per vigore del presente trattato aver dee lo re d’Inghilterra, e quelle mandare al suddetto termine al luogo degli agostini, dove dare si debbono al re d’Inghilterra, o a’ suoi commessarii a ciò deputati. Nè si dee il re di Francia nè sua gente armare contro al re d’Inghilterra infino a tanto che fornito sia, e mandato pienamente ad esecuzione ciò che nel trattato della pace si contiene [311] e specificato è: e più che durante il detto tempo e termine nel quale lo re di Francia dee dare e consegnare le suddette città, castella, ville, terre, e luoghi, il detto re di Francia e suo primogenito non possano nè debbano in essi usare sovranità o servigio, nè domandare alcuna soggezione, nè querele, nè appellagioni in loro corpi ricevere, nè lo re d’Inghilterra si dee nè procedere nè per altro modo in esse intromettere, nè niente travagliare. Si terminò, e tal fine ebbe la lunga guerra per spazio di ventiquattro anni o circa menata tra gli detti due re, con inestimabile e incredibile danno di persone e di avere degli detti due re e reami, e loro aderenti e seguaci, e sì de’ mercatanti che praticavano i detti due reami. So che mi potea con meno scrittura passare, ma fatto son lungo per mostrare alle genti a quanta viltà venne per allora la corona di Francia. E qui faremo piccolo tramezzamento d’alcune cose occorse fuori della presente materia, acciocchè l’animo e l’intelletto faticato sopra una materia, e quindi avendo preso fastidio, abbi per nuovo cibo ricreazione, e torneremo alle italiane fortune.

CAP. XCIX. D’un trattato si scoperse in Bologna, e quello ne seguì.

Essendo alcuni cittadini bolognesi con alquanti forestieri in trattato co’ capitani dell’oste del Biscione, con impromessa di dare loro una porta [312] se si appressassero alla città, l’oste subito si mosse, e venne a Panicale presso a Bologna a due miglia, il perchè i Bolognesi spaventati ebbono gran paura, onde dì e notte stando in sollecita guardia sagacemente de’ sospetti cercavano, i quali nel mormorio del popolo brogliavano. I traditori veggendo che loro malvagia intenzione ad esecuzione non poteano mandare, e che loro malizia si venia a scoprire, la notte i più presono consiglio, e si collarono a terra delle mura, massimamente i caporali; degli altri alquanti presi ne furono, e messi al macello. Vedendo caporali dell’oste che loro pensiere venia fallato, e che dov’erano gran soffratta di vittuaglia sentivano, del mese di giugno si ritrassono addietro, e tornarsi a Castelfranco; onde dilungati da Bologna miglia ventuno, essendo il tempo del mietere, tutti i Bolognesi, eziandio quelli che usi non erano di sì fatto servigio, sollecitamente puosono mano alla falce, e quello segavano, o grano o biada che fosse, con la paglia con sollecitudine a guisa delle formiche riponeano nella città. Gl’inimici in questi giorni soprastettono assai senza fare loro cavalcate, o per disagio che patito avessono, o perchè attendessono loro paghe, o perchè fossono contenti che i Bolognesi facessono la state perchè più si mantenesse la guerra, o perchè per pecunia fossono corrotti, che più credibile fu; e certo i Bolognesi non furono lenti, ma in pochi dì misono dentro roba da vivere per un anno, che gran conforto fu a’ poveri lavoratori, e a tutta la città.

[313]

CAP. C. Come il papa confortò gli ambasciadori bolognesi, e richiese d’aiuto i Fiorentini all’impresa di Bologna.

Il papa avea a grande onore e con paternale accoglienza ricevuti gli ambasciadori bolognesi, e inteso quello che esposto aveano, con amorevoli e persuasive parole riconfortò, con affermare che sarebbono dal tiranno di Milano difesi. È vero che mandato avea un piccolo sussidio di camera al legato, il quale fu prima logoro e stribuito che al legato giugnesse. A principi d’Alamagna, al re d’Ungheria, ai comuni di Toscana mandato avea per aiuto la Chiesa di Roma, e per lo generale de’ romitani, il quale il papa avea per ambasciadore mandato a Firenze, forte strinse esso comune che in servigio di santa Chiesa facesse l’impresa della difesa di Bologna, mostrando con colorate ragioni che atare santa Chiesa, quando seco ha la ragione e la giustizia, contro al tiranno usurpatore, occupatore della libertà di santa Chiesa e degli altri popoli che a libertà vogliono vivere, non era fare contro la pace, e che più utile e fidata vicino era al comune di Firenze la Chiesa di Dio che messer Bernabò, e più altre ragioni rettoricamente dicendo, per le quali dimostrava che ’l comune potea e dovea servire santa Chiesa, e massimamente per conservare in libertà i loro fratelli Bolognesi, ma poco gli valse a questa volta sonare la campanella, che ’l comune [314] di Firenze, usato di mantenere sua fede e lealtà, a questa volta chiuse gli orecchi. Così avesse fatto per l’addietro, e per l’innanzi facesse, perocchè quando per lo passato ha fatte l’alte e grandi imprese, per i governatori della Chiesa di Roma addosso gli sono rimase a strigare; e quando il comune ha avuto bisogno, la Chiesa l’ha al tutto abbandonato, in grave pericolo di suo stato; ora il comune a questa volta stette fermo e costante a non imprendere cose nè per diretto nè per indiretto, che la pace potessono maculare. I principi d’Alamagna e il re d’Ungheria non furono alla richiesta correnti, vogliendo con capo di ragione gravemente procedere sicchè la riuscita vergognosa non fosse, considerata la potenza del signore di Milano. Dipoi del mese di giugno passarono per Firenze gli ambasciadori del re d’Ungheria, i quali andavano al santo padre, e da loro s’ebbe che ’l re avea desti suoi baroni e gente, per averla in punto se bisognasse. Il legato per sodisfare alla guardia di Bologna ha premuto e preme di sussidio di pecunia la Marca, il Ducato e la Romagna, sicchè nè hanno potuto nè possono dormire; e in que’ giorni il legato mandò in Bologna messer Galeotto de’ Malatesti capitano della gente dell’arme, aspettando il gran siniscalco il quale in que’ dì tornare dovea dal signore di Milano con trattato d’accordo; e così i Bolognesi mal guidati e peggio trattati stavano in forse ora d’accordo ora di guerra: la gente del legato guardavano la terra, e i nimici di fuori aveano il campo in balía.

[315]

CAP. CI. Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi, e come furono rotti e presi.

I Chiaravallesi di Todi aveano menato trattato con certi loro amici d’entro per rientrare in casa loro, ed era il trattato, ch’e’ doveano avere il castello che si chiama la Pietra; e venuto il tempo, a dì 10 di giugno mandaro per lo castello, e loro dato fu. Fatto questo principio con quaranta uomini da cavallo e con gran popolo si dirizzarono a Todi, con speranza che i cittadini fossono intrigati e disordinati per la subita ribellione del castello, e che i loro amici d’entro avessono più baldanza a metterli dentro; avvenne, che desto il popolo per la perdita della Pietra di presente fu sotto l’arme, e quelli del cardinale, i quali allora governavano quella città, de’ quali era il sovrano messer Catalano, sentendo l’avvenimento de’ Chiaravallesi lasciarono le porti con buone guardie, e con loro seguaci a piè e a cavallo francamente si misono fuori a petto ai loro avversari, i quali veggendo la moltitudine del popolo venire con furia contro a loro, impauriti si misono alla fuga, e il popolo a seguitarli, uccidendo cui giugnere poteano; e rotti e straccati i Chiaravallesi, che mattamente s’erano messi innanzi, il popolo con quell’empito furioso se n’andò al castello e riebbelo, con gran danno di quelli che v’erano entrati; e tornati in Todi si riposavo, non trovando di loro cittadini d’entro alcuno sospetto.

[316]

CAP. CII. Come l’oste di messer Bernabò si strinse a Bologna, e fermaronvi bastite.

Essendo soggiornata la gente di messer Bernabò a Castelfranco, e preso suo rinfrescamento a utilità de’ Bolognesi come dinanzi è detto, inverso l’uscita di giugno cavalcaro verso Bologna facendo danno d’arsione più che non erano usati, e puosonsi presso a un miglio fuori della porta di santo Stefano, e feciono nuove bastite, e altrove per tenere più stretta la terra e d’intorno la cavalcarono, sicchè la gente si ritenne dell’andare fuori più che non solea, e quando uscivano da lunga dell’oste, ciò faceano con scorta de’ cavalieri d’entro, e recavano della roba, ma non al modo usato, nè senza grande pericolo delle persone.

CAP. CIII. Come la casa reale di Francia feciono parentado co’ Visconti per danari, con vituperio della corona.

La fortuna, maestra e donna delle mondane delizie, senza torre più lontano esempio de’ suoi straboccamenti, ce n’adduce nel presente a narrare uno, lo quale senza stupore di mente chi diritto vorrà giudicare nè porre si può in scrittura nè leggere. Chi arebbe per lo passato, considerato [317] la grandezza della corona di Francia, potuto immaginare, che per gli assalti del piccolo re d’Inghilterra in comparazione del re di Francia fosse a tanto ridotta, che quasi com’all’incanto la propria carne vendesse, la qual cosa è nel cospetto de’ cristiani ammirabile specchio e certissimo dell’infelicità degli stati mondani. E per più mostrare la grandezza di questa misera fortuna, torneremo un poco addietro all’origine del presente stocco regale della casa di Francia. Giovanni lo Sventurato re di Francia ebbe per moglie la figlia del re di Boemia nata d’Ottachero, e sorella carnale di Carlo imperadore de’ Romani, della quale avea tre figliuoli maschi e tre femmine, delle quali l’una era consegrata a Dio nel nobile e ricco monistero di Puscì, l’altra era donna del re di Navarra, la terza nome Elisabetta era la donna del re di Francia: ora esso Giovanni, per soddisfare ai secento migliaia di scudi promessi di pagare in Calese al re d’Inghilterra per i patti della pace, si condusse a vendere al tiranno di Milano messer Galeazzo Visconti per secento migliaia di fiorini la figliuola per giugnerla in matrimonio con messer Giovanni figliuolo di messer Galeazzo, allora d’età d’undici anni, lo quale per lo titolo della dote titolato fu conte di Virtù. Il modo fu questo, che essendo il re di Francia prigione in Inghilterra del mese di giugno detto anno, e occorrendoli spese molte, e più avere a pagare i detti secento migliaia di scudi, e trovandosi male in apparecchio a ciò potere fare, la detta sua figliuola consentì mogliera del detto messer Giovanni, [318] avendo in dono da messer Galeazzo trecento migliaia di fiorini d’oro, e comperando nel reame di Francia dal re baronaggi in nome di dota della detta fanciulla di valuta di trecento migliaia di fiorini: e ciò fu accecamento, che il re ricevuti i danari gli diè la piccolissima contea di Vergiù, tutto che di Virtù volgarmente si titolasse, per coprire la miseria della povera contea. Lo re di Francia per la detta convegna promise, che avuti i trecento migliaia di fiorini al mezzo di settembre di detto anno farebbe la figliuola conducere in Savoia, e ivi la farebbe assegnare al piacimento di messer Galeazzo. Fermate e stipulate solennemente le dette convegne tra il re e messer Galeazzo, parendo a’ signori di Milano avere fatto, quello ch’aveano fatto magnificandosi, mandarono per tutta Italia ambasciadori a significare il fatto, e a invitare baroni, signori e comuni che venissono e mandassono alla loro corte e festa; e cominciarono a ricogliere gioielli, pietre preziose, sciamiti, drappi, quanti in Italia avere ne poterono, facendo di tutto pomposo apparecchiamento. Giunta la fanciulla in Savoia, messer Galeazzo con l’ordine si convenia mandò per lei, e giunta in Milano a dì 8 del mese d’ottobre, la fanciulla in abito e atto regale si contenne, ricevendo riverenza e da’ signori e da loro donne, ma il drappo sopra capo non sofferse, e così stette infino che fu sposata; e da quel punto innanzi posto in oblio la reale dignità e nobiltà di sangue, reverenza fece e a messer Galeazzo, e a messer Bernabò, e alle donne loro. Il corredo cominciò la domenica a dì 11 d’ottobre. [319] con apparecchiamento di molte vivande alla lombarda, di per sè ordinate le donne in numero di secento riccamente ornate, e magnificamente servite, e gli uomini dall’altra parte, essendo gli ambasciadori de’ signori, de’ tiranni, e de’ comuni in numero di più di mille alle prime tavole servite di tre vivande copiosamente. La festa durò per tre giorni, facendo nel cortile di messer Galeazzo del continovo giostre a tre arringhi, e le donne ne’ casamenti d’intorno erano ordinate e alloggiate a vedere; le burbanze furono grandi di sopravveste e cimieri, tale venne in figura del re di Francia, tale del re d’Inghilterra, e così degli altri re, duchi e signori, perchè la festa più onorevole fosse, tutto che valentria d’arme poco o niente vi si facesse da doverlo pregiare; altre notabili cose non vi furono; nell’ultimo messer Bernabò fece il convito suo, e fu fornita la festa. È vero che lungamente dinanzi essendovi giunti gli ambasciadori italiani tutti onorati furono, e fatte loro larghe spese da’ signori con sollecita provvedenza. Messer Giovanni era d’età di dieci anni, il perchè il matrimonio non si potè consumare in questo. Alquanto avemo il tempo passato per ricogliere insieme la storia di questo matrimonio, ora torneremo addietro a più spaventevol volto delle miserie mondane in nostra materia.

[320]

CAP. CIV. Come messer Niccolò di Cesaro conte di ... e signore di Messina fu morto con quaranta compagni.

Nel mese di luglio detto anno, essendo messer Niccolò di Cesaro conte di .... tornato in Messina, e senza avere avuto dal re Luigi aiuto col quale potesse con la parte avversa campeggiare, perocchè i Catalani liberamente scorreano il piano tra Messina e Melazzo, e aveano prese parecchie castella, temendo messer Niccolò non prendessono il buono e forte castello di santa Lucia, vi cavalcò con quaranta compagni a cavallo per ordinare la guardia e la difesa che avessono a fare quelli del castello, e per confortarli del soccorso se bisogno loro fosse. Gli uomini del castello che vedeano l’altra parte poderosa e in campo, e che essendo ito messer Niccolò al re Luigi per aiuto non avea menato forza da poterli difendere, cominciarono a turbarsi contra lui, e tanto montò il bestial furore de’ villani, ch’egli co’ suoi compagni si rinchiuse nella rocca; i villani perseverando il loro mal talento mandarono per i Catalani che vi erano presso, e dieronsi a loro; e in esso stante i Catalani mandarono seicento cavalieri e popolo assai con quelli del castello, e assediarono la rocca, la quale per lo subito e sprovveduto caso male era fornita, in tanto che messer Niccolò fu costretto da cercare patti d’arrendersi, e così fè salve le persone: e [321] avendo renduta la rocca fu menato con i suoi compagni a Melazzo, e loro detto fu, che se voleano campare facessono sì, che quelli di Melazzo s’arrendessero loro. Messer Niccolò vedendo nelle mani di cui era, e il partito duro, giudicossi morto, non di manco come valente si mise a tentare se potesse la morte fuggire, e con umili e dolci parole quanto potè pregò quelli di Melazzo, che per lo scampo suo e de’ compagni volessero assentire alla volontà de’ Catalani, ma essi se ne feciono beffe, e la risposta feciono colle balestra; onde i Catalani intralasciata, loro promessa fè, senza alcuna pietà o misericordia davanti a Melazzo e messer Niccolò e tutti i suoi compagni tagliarono a pezzi. Tale fu il fine della breve tirannia di messer Niccola di Cesaro signore di Messina. I Messinesi per la morte di messer Niccolò e de’ compagni scorta la bestiale crudeltà de’ Catalani, e visto che non si poteano confidare, come meglio seppono e poterono s’ordinarono alla difesa, aspettando a tempo dal re Luigi qualche soccorso.

CAP. CV. Come fornito il trattato della pace tra i due re si fè triegua, e giurossi l’una e l’altra, e lo re d’Inghilterra si tornò nell’isola per mandare a esecuzione le cose ordinate.

Fermato a Briagnì il trattato della pace tra i due re di Francia e d’Inghilterra, perchè parea che l’esecuzione d’essa avesse lungo tratto di tempo, [322] feciono ivi medesimo una triegua, perchè ogni radice e materia di guerra cessasse. E ciò fatto, il re d’Inghilterra mandò a Parigi messer Rinaldo di Cubano, messer Bartolommeo Durvasso, messer Francesco Dalla, e messer Ricciardo della Vacca suoi baroni, nella cui presenza il Delfino di Vienna e duca di Normandia, primogenito del re di Francia e governatore del reame, in sul corpo di Cristo sagrato, e in su li santi Evangeli giurò d’attendere e osservare la detta triegua e la pace, e che la farebbe attendere e osservare; appresso lui simile fecero tutti i baroni di Francia che si trovarono in Parigi; e ciò fatto, i detti baroni del re d’Inghilterra si tornarono a Ciartres al re d’Inghilterra. I figliuoli del re d’Inghilterra e lo conte di Lancastro feciono simile giuramento a quello del Delfino di Vienna, e appresso i baroni del re d’Inghilterra che col re si trovarono giuraro come fatto aveano quelli di Francia: e ciò fatto fu a dì 11 del mese di maggio 1360. Le promesse fatte ne’ detti giuramenti furono, che li due re infra tre settimane dopo il prossimo san Giovanni giurerebbono la detta pace in Calese. La detta triegua bandita fu a dì 12 di maggio in Parigi, e appresso per tutto il reame. Fatto il saramento, agli 11 dì il re d’Inghilterra con tutto suo oste pacificamente si partì da Ciartres passando per Normandia, e prendendo derrata per danaio, e col prence suo figliuolo, e con gli altri suoi baroni entrò in mare a ......, e passò in Inghilterra, e tutta sua’ gente d’arme pacificamente si ridusse a Calese. Giunto il re d’Inghilterra, quello di Francia gli [323] diè desinare nella torre di Londra, e quivi per loro fede giurarono di tenere e osservare il trattato di pace; appresso a dì 8 di luglio il re di Francia venne a Calese, e a dì 9 detto il re d’Inghilterra il re di Francia lui e ’l figliuolo convitò a mangiare, e in quella mattina lo re di Francia fermò l’accordo tra il re d’Inghilterra e ’l conte di Fiandra, e il detto conte andò a Calese, e da ciascuno re lietamente fu ricevuto. Poi a dì 14 di luglio, Carlo primogenito del re di Francia, duca di Normandia, e Delfino di Vienna, e governatore di Francia, da Bologna sul mare andò a Calese a vedere il padre, e desinò col re d’Inghilterra, l’altra mattina si partì. È vero che perchè non dubitasse lo re d’Inghilterra mandò a Bologna due figliuoli come staggi; poi sabato mattina a dì 24 di luglio, l’abate di Clugnì nella Chiesa di san Niccolò in Calese, nella presenza de’ detti due re e di due figliuoli di ciascuno, e di più di sessanta baroni tra dell’uno e dell’altro re, disse messa, e consegrato il corpo di Cristo, quando venne al terzo Agnus Dei che dice, dona nobis pacem, li detti due re si inginocchiarono con molta reverenza; l’abate si rivolse a loro col corpo di Cristo sagrato in mano, sopra il quale i due re giurarono d’attendere e osservare il trattato della pace, poi di quella detta ostia si comunicarono insieme. Appresso l’abate loro porse li santi Evangeli, e ancora sopra essi giurarono; giurato che ebbono i due re, similemente giurarono i loro figliuoli, e tutti i loro baroni che erano quivi nel numero detto di sopra. Detta la messa, messer Filippo di Navarra con tre baroni [324] per parte del re di Navarra, e il duca d’Orliens fratello del re di Francia con tre altri baroni feciono e giurarono pace in vece e nome del re loro. Appresso il re d’Inghilterra fece pace col conte di Fiandra, e il duca di Lancastro cugino del re d’Inghilterra fece omaggio al re di Francia per le terre che da lui tenea in Campagna per retaggio della madre; e in questo stante la contea di Monforte fu renduta a messer Gianni di Brettagna. Lo re di Francia per mostrare sua magnificenza, sopra i patti della pace di grato donò al re d’Inghilterra la Roccella. Fu la detta pace gridata ne’ due reami a dì 24 d’ottobre 1360. Lo re d’Inghilterra dove in suo titolo dicea, re di Francia e d’Inghilterra, signore d’Irlanda e d’Aquitania, del detto titolo levò re di Francia, ma non rinunziò perciò alla signoria di Francia, perchè lo re di Francia non avea rinunziato alla sovranità e risorto delle città e castella, terre e cose le quali per l’osservanza della pace avea concedute al re d’Inghilterra, ma bene l’avea tratte della sorte della città, castella e luoghi al suo reame debiti e sottoposti; e certo per li patti rinunziare dovea, ricevute certe terre dal re d’Inghilterra: e ciò consentendo li due re, parvono per grandezza d’animo in tacito accordo. Lo re di Francia, lo quale era stato prigione d’Inghilterra anni quattro e dì venticinque, pagati li secento migliaia di scudi, e con la buona volontà del re d’Inghilterra se n’andò a Bologna sul mare, e di là poi a santo Dionigi. Lo re d’Inghilterra di poi a dì 31 di gennaio partì da Calese, e seco ne menò il duca d’Angiò [325] e quello di Berrì figliuoli del re di Francia, e il duca d’Orliens, e quello di Borbona, messer Piero di Lanzone, e ’l fratello del conte di Stapè, tutti de’ reali di Francia, con tutti gli altri baroni e quelli che scrivemo di sopra che dovea staggi tenere. Lo re di Francia essendo a san Dionigi, avanti ch’entrasse in Parigi, a dì 2 di dicembre mandò al re di Navarra che venisse a lui, e perchè sicuramente venisse, gli mandò sofficienti stadichi. Lo re di Navarra non gli parendo avere misfatto alla corona liberamente insieme con gli staggi che ’l re gli avea mandati venne a lui, e giuntò gli fè la debita riverenza, e dipoi appresso giurò in sul corpo di Cristo sagrato nella presenza del re, che da quel giorno innanzi gli sarebbe buono e leale figliuolo, e fedele suggetto. Lo re di Francia appresso giurò che a lui sarebbe buon padre e signore: seguendo appresso il duca di Normandia e messer Filippo di Navarra giurarono fedelmente diritta amistà e fratellanza; e più il detto re di Navarra promise e giurò di fare a suo podere che ’l re d’Inghilterra la pace conchiusa a Briagnì osserverebbe. Il seguente dì, che fu il tredecimo dì di dicembre, lo re di Francia entrò in Parigi, dove a grande onore fu ricevuto, e donato dalla comune vasellamento d’argento appresso di mille marchi. Lo re riposato, ordine diede a dirizzare e sè e il reame regolandosi a minori spese, e fè battere moneta a soldi sedici il franco.

[326]

CAP. CVI. Come tre castella si rubellarono nella Marca al legato.

Scritto avemo il fine della lunga guerra delli due re di Francia e d’Inghilterra, tornando alle italiane tempeste ne occorre, che essendo l’oste di messer Bernabò a Bologna, continovo facea tenere trattati in Romagna e nella Marca, e li paesani per le disordinate gravezze che il legato faceva loro si rammaricavano forte, onde a coloro ch’erano disposti a mal fare ne cresceva baldanza; e però a petizione di quelli da Boschereto, aspettando forza da messer Bernabò secondo la promessa, ribellarono in un dì all’uscita di luglio il loro castello di Boschereto, e Corinalto e Montenuovo, in loro vicinanza, terre forti e ubertuose d’ogni bene da vivere. Il legato sentendo questa ribellione, incontanente vi fece cavalcare messer Galeotto de’ Malatesti con gente assai a piè e a cavallo, e innanzi che quelli di Corinalto si potessono provvedere alla difesa furono soprappresi in pochi dì per modo s’arrenderono, e salvate le persone, il castello fu rubato e arso. L’altre due ch’erano più forti e meglio ordinate alla difesa ricevettono l’assedio, aspettando soccorso dall’oste di messer Bernabò.

[327]

CAP. CVII. Come mortalità dell’anguinaia ricominciò in diverse parti del mondo.

Non è da lasciare in obliazione la moría mirabile dell’anguinaia in quest’anno ricominciata, simile a quella che principio ebbe nel 1348 infino nel 1350, come narrammo nel cominciamento del primo libro di questo nostro trattato. Questa pestilenza ricominciò del mese di maggio in Fiandra, che di largo il terzo de’ cittadini e oltra morirono, offendendo più il minuto popolo e povera gente che a’ mezzani, maggiori e forestieri, che pochi ne perirono, e durovvi infino all’uscita d’ottobre del detto anno, e così seguitò per l’altra Fiandra. In Brabante toccò poco, e così in Piccardia, ma nel vescovado di Lieges fè spaventevole dammaggio, perocchè la metà de’ viventi periro. Di poi si venne stendendo nella bassa Alamagna toccando non generalmente ogni terra, ma quasi quelle dove prima non avea gravate, e valicò nel Frioli e nella Schiavonia; e fu di quella medesima infertà d’enfiatura d’anguinaia e sotto il ditello come la prima generale, e sì era passato dal tempo di quella e suo cominciamento a quello di questa per spazio di quattordici anni, e anni dieci della fine di quella a questa, essendo alcuna volta tra questo tempo ritocca ora in uno ora in altro luogo, ma non grande come questo anno, certificando gli uomini correnti nel male che la mano di Dio non [328] è stanca nè limitata da costellazioni nè da fisiche ragioni. Addivenne nel Frioli e in Ungheria, che la moría cominciata in enfiatura tornò in uscimento di sangue, e poi si convertì in febbre, e molti febbricosi farnetici, ballando e cantando morivano. E in questi tempi occorse cosa assai degna di nota, che in Pollonia, nelle parti confinanti con le terre dell’imperio, essendo in esse grandissima quantità di Giudei, i paesani cominciarono a mormorare, dicendo, che questa pestilenza loro venia per i Giudei; onde i Giudei temendo mandarono al re de’ loro anziani a chiederli misericordia, e fecionli gran doni di moneta, e d’una corona di smisurata valuta; lo re conservare gli volea, ma i popoli furiosi non si poterono quietare, ma correndo straboccatamente tra’ Giudei, e quasi a ultima consumazione, con ferro e fuoco oltre a diecimila Giudei spensono, e alla camera del re tutti i loro beni furono incorporati.

CAP. CVIII. Come il comune di Firenze prese Montecarelli e Montevivagni, e in essi preso il conte Tano, venuto a Firenze fu decapitato.

Essendo il conte Tano de’ conti Alberti per i suoi difetti e prave operazioni nemico al comune di Firenze, massimamente per l’accostarsi che fè con l’arcivescovo di Milano, in cui favore, (quando la gente del detto arcivescovo, essendone capitano messer Giovanni da Oleggio, passò in [329] Mugello, e assediò la Scarperia) ribellò il castello di Montecarelli, caldeggiando l’oste ch’era alla Scarperia, di questa impresa ne piace dire alcuna piacevole e notabile ricordanza; che essendo appresso del detto conte un matto giocolaro, un giorno si mise in un fossato che dividea il contado del conte da quello del comune di Firenze, e quivi come assalito ad alta boce cominciò a gridare per molte riprese, accorri uomo, alle cui grida trassono in breve tempo oltre a cinquecento fanti del contado del comune di Firenze, i quali per le malizie del conte stavano sempre ad orecchi levati, e simile vi trasse il conte, e riprese il matto, ed esso riprese lui, dicendoli: Conte, guarda che a un mio piccolo grido subito sono corsi cinquecento uomini di quello del comune di Firenze, e niuno tratto ce n’è di quelli dell’arcivescovo di Milano: in buona fè, conte, tu sonerai il corno d’Orlando, e in tuo aiuto e favore non trarranno cinque di quelli di Milano in un anno. Lo detto conte bestiale, o per paura ch’avesse del comune di Firenze, o per averlo a vile, gli sbanditi del detto comune ritenea, e coloro ch’erano più rei e famosi di mal fare; per questo avvenne, che a loro posta entravano nel Mugello, e gli uomini uccideano e rubavano, e rifuggeano in Montecarelli, e ciò feciono sconciamente più volte; il perchè il comune ciò fè noto all’arcivescovo di Milano, il quale rispuose ch’era contro a sua coscienza, e ch’esso non era favoreggiatore di ladroni, e che il comune di Firenze facesse quello volesse giustizia e pace del paese; il perchè il comune con ordinato processo fè sbandire [330] e condannare il detto conte e più altri nell’avere e nella persona, nonostante che per la pace dal comune di Firenze all’arcivescovo costui da’ Fiorentini non dovesse essere gravato. Quivi procedette, che a dì 12 d’agosto detto anno, il comune di Firenze mandò dugento uomini di cavallo e molti fanti del Mugello a Montecarelli, avendo trattato con fedeli del conte che il castello sarebbe dato. Il conte Tano veggendo gli atti de’ fedeli, e di quelli prendendo sospetto, s’era rifuggito co’ masnadieri che seco avea, e con gli sbanditi del comune di Firenze in Montevivagni. Come il castello di Montecarelli fu attorniato dalla gente del comune di Firenze, i fedeli del conte che l’aveano in guardia seguendo il trattato di subito s’arrenderono salvi, ricevuti furono nella protezione del comune. Il castello per diliberazione del comune infino alle fondamenta fu abbattuto, e il capitano di Firenze fatto capitano dell’oste si dirizzò all’assedio di Montevivagni; ed essendosi il conte provveduto alla difesa, per gli suoi sconci peccati perdè il senno a non prendere accordo col comune di Firenze, che ’l potè avere a vantaggio, solo dando le ragioni del detto Montevivagni al comune di Firenze, e prendendo danari, anzi si mise mattamente alla difesa; il capitano dell’oste gli tolse per forza un poggetto nomato l’Arcivescovo, e ciò avuto, d’intorno intorno l’assediò infino a dì 8 di settembre. Questo dì vi cominciò a dare la battaglia, e combattendosi forte, quelli ch’aveano la guardia della torre domandarono d’essere salvi come gli altri fedeli del conte, e fatto loro [331] la promessa, cominciarono a dare delle pietre a’ masnadieri e sbanditi ch’erano alla difesa delle mura col conte, e per forza gliene levarono; onde il conte con suoi malfattori fu costretto arrendersi alla misericordia del comune di Firenze. Fuvvi preso il conte con uno degli Ubaldini, e con quattordici caporali sbanditi del comune di Firenze, e lasciati liberi i fedeli. Il conte con i predetti vennono legati dinanzi al potestà e capitano, che con gran festa fu ricevuto, assai maggiore non si convenia a sì piccolo fatto. Poi a dì 14 di settembre, il dì di santa Croce, il detto conte Tano per lo bando che avea fu dicapitato, e seppellito in santa Croce dirimpetto alla cappella di santo Lodovico a piè delle scalee, quasi nel mezzo; quello degli Ubaldini a richiesta de’ suoi consorti fu loro renduto. Gli sbanditi furono tranati e appesi vilmente. Tale fu il fine della spelonca di Montecarelli, e del suo conte Tano e sua corrotta fede, in non lieve esempio degli altri vicini del comune di Firenze.

CAP. CIX. Come in Francia si cominciò compagnia denominata bianca.

Nella concordia presa degli due re di Francia e d’Inghilterra, della quale s’attendea certa fine di buona pace, essendo il re d’Inghilterra co’ figliuoli e con l’oste sua tornato nell’isola, molti cavalieri e arcieri inghilesi usati alle prede e ruberie si rimasono nel paese: e avendo messer [332] Beltramo di Crechì e l’arciprete di Pelagorga ordinato di fare compagnia, raccolsono ogni maniera di gente la quale trovarono disposta a mal fare, ed ebbono Franceschi, Tedeschi, Inghilesi, Guasconi, e Borgognoni, Normandi, e Provenzali, e crebbono in poco di tempo in grande numero, e nomarsi la compagnia bianca, e cominciarono a conturbare i paesi, e a trarre danari e roba d’ogni parte, e così stettono infino che la pace fu ferma, e il re di Francia lasciato di prigione; allora per comandamento de’ detti due re sotto pena di cuore e d’avere, e d’essere perseguitati da’ loro signori, s’uscirono del reame di Francia, e ridussonsi a Lingrè nell’impero, e ivi s’accolsono in numero di seimila barbute, essendo in paese grasso e ubertuoso da vivere: cercarono di valicare a Lione, i paesani s’adunarono a’ passi, e impedivanli per modo, che dove erano si ritennono lungamente con far danno assai con loro poco frutto.

CAP. CX. Della gravezza fatta per messer Bernabò ai cherici e laici, rotto il trattato della pace.

Vedendo messer Bernabò che la Chiesa si sforzava alla difesa di Bologna, e che l’intenzione sua non si empieva tosto come pensava, e che la spesa cresceva, fece stimare tutte le rendite e’ beni de’ prelati e cherici che erano sotto sua tirannia, e fatta la tassazione ebbe per nome e sopra nome tutti i secolari poderosi vicini alle prelature, [333] benefiche chiese, e comandamento fece, che qualunque vicinanza infra certo tempo avessono pagato alla camera sua quelli danari che il beneficio era tassato, e il beneficio rispondea alla tassazione, che pagassono, e così convenne che fatto fosse, per modo che in tre mesi, luglio, agosto e settembre, ebbe nella camera sua de’ beni de’ cherici per questa via oltre a trecento trenta migliaia di fiorini d’oro, e di secolari sudditi suoi oltre alle sue rendite ordinate in sussidio di trecentosettanta migliaia di fiorini d’oro, e ciò per sostenere e fornire l’impresa fatta, e che fare intendea dell’oste sua sopra la città di Bologna: e convenne che così fatto fosse perchè il volle, e nel tempo, stimandosi il superbo tiranno di vincere per stracca la città di Bologna, e la Chiesa che presa l’avea. Essendo messer Niccola Acciaiuoli grande siniscalco del regno di Puglia con messer Bernabò per trattare accordo da lui alla Chiesa de’ fatti di Bologna, e venuto al legato, e trovatolo con più animo fermo contro al tiranno che non si stimava, avendo il legato ordinato certe convegne da trattarsi nella pace, e per uno famigliare del gran siniscalco le fece mandare a messer Bernabò, il quale volle che a capitolo a capitolo gli fossero lette, e leggendosi, a catuno capitolo rispondea, e io voglio Bologna, e così al tutto rimase il trattato rotto, con arrota di più villane novelle di parole dal tiranno al legato. Ed era in questi giorni la città di Bologna molto stretta, e pativa disagi e gravezze assai, ma di fuori si procacciava il soccorso per il legato con molta sollicitudine, e messer [334] Bernabò continovo tenea un trattato d’impacciare il legato nella Marca e nella Romagna.

CAP. CXI. Come il capitano dell’oste di messer Bernabò mandò a soccorrere le castella ribellate al legato nella Marca.

Sentendo il capitano dell’oste da Bologna come delle tre castella rebellate al legato le due si teneano aspettando soccorso, mandò Anichino di Bongardo Tedesco con millecinquecento barbute e con mille masnadieri per soccorrerli, e per prendere luogo nella Marca, e impacciare il legato sì di là che non potesse soccorrere Bologna, e chiaramente gli venia fatto, se Anichino fosse stato leale, perocchè senza contasto entrò in Romagna, e fu a Rimini, e messer Pandolfo e l’oste del legato per paura si partì dall’assedio del castello: ma come che la cosa s’andasse, e’ non volle andare più oltre, e d’allora innanzi fece delle cose che tornarono a gran beneficio dell’impresa del legato, e a onta e vergogna di messer Bernabò, come seguendo nostra materia nel principio del decimo libro racconteremo. Tornossi addietro Anichino, e le castella s’arrenderono al legato e furono disfatte, all’uscita d’agosto detto anno.

[335]

CAP. CXII. Ancora dello stato del tempo e della moria dell’anguinaia.

Questo anno fu singolare di continovo sereno tutta la state e di notabile caldo, ed ebbe secondo il lungo tempo secco e caldo comunale ricolta di grano e di vino, e degli altri frutti della terra, ma la moría fu grandissima in molte parti occidentali, come narrato di sopra avemo, e l’Italia ebbe molti infermi di lunghe malattie, ed assai morti; e generale infermità di vaiuolo fu nella state di fanciulli e ne’ garzoni, ed eziandio negli uomini e femmine di maggiori etadi, ch’era cosa di stupore e fastidiosa a vedere.

CAP. CXIII. Come i Pisani arsono un castello de’ Pistoiesi.

In questi dì i Pisani con dugento barbute e mille fanti cavalcarono sopra i Pistoiesi, e presono e arsono un loro castello nella montagna, nel quale nella veritade si riparava gente di mala condizione, e che faceano danno ai loro distrettuali. Male ne parve ai Fiorentini, ma fu sì piccola cosa, che per lo meno male s’infinsono di non lo vedere.

[337]

TAVOLA DEI CAPITOLI

Qui comincia l’ottavo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo Pag. 5
Cap. II. Chi fu frate Iacopo del Bossolaro, e come procedette il suo nome e le sue prediche in Pavia 7
Cap. III. Come frate Iacopo fece tribuni di popolo nelle sue prediche in Pavia 9
Cap. IV. Come frate Iacopo cacciò i signori da Beccheria di Pavia 10
Cap. V. Della materia medesima 12
Cap. VI. Come per più riprese in diversi tempi fu messo fuoco nelle case della Badia di Firenze 13
Cap. VII. Come la terra di Romena si comperò per lo comune di Firenze 14
Cap. VIII. Come la compagnia di Provenza si sparse per vernare 16
Cap. IX. Come la compagnia del conte di Lando fu condotta per i collegati di Lombardia 17
Cap. X. Come il re Luigi richiese i comuni di Toscana d’aiuto 18
Cap. XI. Come i Pisani feciono armata per rompere il porto di Talamone 19
Cap. XII. Come essendo l’oste de’ Visconti a Mantova, parte della compagnia si mise in Castro 20
[338]
Cap. XIII. Come la Chiesa di Roma fe’ gravezza a’ cortigiani 21
Cap. XIV. Cominciamento di guerra tra certi comuni in Toscana 22
Cap. XV. Di certe novità apparenti contro il soldano d’Egitto 23
Cap. XVI. Come il re di Navarra fu tratto di prigione 24
Cap. XVII. Come i Perugini dall’una parte i Cortonesi dall’altra mandarono per aiuto a Firenze 25
Cap. XVIII. Come la gente de’ signori di Milano furono sconfitti in Bresciana 26
Cap. XIX. Come l’oste del re d’Ungheria prese la città di Giadra 27
Cap. XX. Come messer Bernabò fece combattere Castro 29
Cap. XXI. Come si cominciò a trattare pace da’ collegati a’ Visconti 30
Cap. XXII. Come i Perugini puosono cinque battifolli a Cortona 31
Cap. XXIII. Come i Trevigiani furono rotti dagli Ungheri 32
Cap. XXIV. Cominciamenti di nuovi scandali nella città di Firenze 33
Cap. XXV. D’un singolare accidente ch’avvenne in questi paesi 37
Cap. XXVI. Come in Firenze nacque una fanciulla mostruosa 38
Cap. XXVII. Come i Sanesi si scopersono nemici de’ Perugini 39
Cap. XXVIII. Come i Sanesi misono cavalieri in Cortona alla guardia 40
Cap. XXIX. La cagione che mosse i borgesi di Parigi a nuovo stato 41
Cap. XXX. Della pace dal re d’Ungheria a’ Veneziani 43
Cap. XXXI. Come da prima in città di Firenze furono accusati certi cittadini per ghibellini 45
[339]
Cap. XXXII. Come a’ capitani della parte furono aggiunti due compagni 48
Cap. XXXIII. Come i Sanesi uscirono fuori per soccorrere Cortona 50
Cap. XXXIV. Come si levò l’oste da Cortona 51
Cap. XXXV. Di novità di Perugia per detta cagione 52
Cap. XXXVI. Di una gran festa fe’ bandire il re d’Inghilterra 53
Cap. XXXVII. Come l’armata del comune di Firenze venne a Porto pisano 54
Cap. XXXVIII. Come il popolo di Parigi cominciò scandalo 56
Cap. XXXIX. Come i Perugini tornarono a oste a Cortona 57
Cap. XL. Come i Perugini richiesono i Sanesi di battaglia 56
Cap. XLI. Come furono sconfitti Sanesi da’ Perugini 60
Cap. XLII. Come si dispuosono i Sanesi dopo la sconfitta 62
Cap. XLIII. Come i conti da Montedoglio presono e perderono il Borgo 63
Cap. XLIV. Come il re d’Inghilterra andò a vicitare il re di Francia, e annunziarli la pace 64
Cap. XLV. Come i Tarlati si feciono accomandati de’ Perugini 65
Cap. XLVI. D’una folgore percosse il campanile de’ frati predicatori di Firenze 66
Cap. XLVII. Della pomposa festa che si fè in Inghilterra in Londra 67
Cap. XLVIII. Come i Perugini cavalcarono i Sanesi fino alle porti di Siena 69
Cap. XLIX. Come il legato del papa ripuose l’assedio a Forlì 70
Cap. L. Come i Provenzali feciono compagnia per vendicarsi di quelli dal Balzo 71
Cap. LI. Come si pubblicò la pace de’ due re 72
Cap. LII. Come il legato del papa pose due bastite a Forlì 73
[340]
Cap. LIII. Pace fatta dal re Luigi al duca di Durazzo 73
Cap. LIV. Come si partì la compagnia di Provenza 74
Cap. LV. Come i signori di Milano posono l’assedio a Pavia 75
Cap. LVI. Come i Perugini afforzarono l’Orsaia 76
Cap. LVII. Come si fece la pace da’ signori di Milano a’ collegati 76
Cap. LVIII. Come s’abbattè i palazzi di quelli da Beccheria 78
Cap. LIX. Di molte paci e altre cose notevoli fatte 79
Cap. LX. Come la compagnia del conte di Lando venne in Romagna 80
Cap. LXI. Come il re Luigi riebbe il castello di Parma 81
Cap. LXII. De’ fatti di Siena della loro guerra 82
Cap. LXIII. Come i Pisani abbandonarono la gara di Talamone 83
Cap. LXIV. Come i Sanesi chiamarono capitano, e uscirono a oste 84
Cap. LXV. Come si fece certa arrota al palio di san Giovanni 85
Cap. LXVI. Come il Delfino mandò per lo proposto di Parigi 85
Cap. LXVII. Di novità fatte per lo popolo di Parigi 86
Cap. LXVIII. Come l’altre ville seguirono di fare come Parigi 87
Cap. LXIX. Di novità di Forlì 88
Cap. LXX. Come il legato ebbe Meldola 89
Cap. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono il monte nuovo per avere danari 90
Cap. LXXII. Della gran compagnia 92
Cap. LXXIII. Come il conte di Lando tornò d’Alamagna alla compagnia 93
Cap. LXXIV. Come la compagnia fu rotta nell’alpe 95
Cap. LXXV. Come il conte di Lando scampò di prigione 99
Cap. LXXVI. Come l’altra parte della compagnia si ridusse in Dicomano 100
[341]
Cap. LXXVII. Come il comune di Firenze procedette ne’ fatti della compagnia 102
Cap. LXXVIII. Il fine ch’ebbe l’impresa de’ Fiorentini 103
Cap. LXXIX. Come la compagnia andò in Romagna 107
Cap. LXXX. Come i signori di Francia vennono sopra Parigi in arme 109
Cap. LXXXI. Come il re di Spagna uccise molti de’ suoi baroni 110
Cap. LXXXII. Della detta materia di Spagna 111
Cap. LXXXIII. Come la compagnia cavalcò a Cervia 113
Cap. LXXXIV. Come il capitano di Forlì mise la compagnia in Forlì 114
Cap. LXXXV. D’una nuova compagnia di Tedeschi 115
Cap. LXXXVI. Come si levò l’oste da molte terre 116
Cap. LXXXVII. Come si fè accordo dal Delfino a quelli di Parigi 118
Cap. LXXXVIII. Di detta materia, e come fu morto il proposto 119
Cap. LXXXIX. Come furono impesi que’ borgesi a cui erano state accomandate le chiavi delle bastite 121
Cap. XC. Come si scoperse il trattato tenea il re di Navarra 122
Cap. XCI. Come il re di Navarra guastò intorno a Parigi 123
Cap. XCII. Come il marchese non volle dare Asti a’ Visconti 124
Cap. XCIII. Come la compagnia assalì Faenza 125
Cap. XCIV. Come i Fiorentini mandarono a Bologna per la questione dello Stale 126
Cap. XCV. Qui si fa menzione delle ragioni che ’l monistero di Settimo ha nello Stale 128
Cap. XCVI. Come la compagnia della Rosa di Provenza si spartì e disfecesi 129
Cap. XCVII. Come s’afforzò e guardò i passi dell’alpe perchè la compagnia non passasse 130
[342]
Cap. XCVIII. Come l’imperadore fece il duca d’Osteric re de’ Lombardi 132
Cap. XCIX. De’ processi della compagnia in questi giorni 133
Cap. C. Come il re del Garbo fu morto 135
Cap. CI. Come i cardinali ch’erano in Inghilterra si tornarono a corte 137
Cap. CII. Della pace da’ Sanesi a’ Perugini 138
Cap. CIII. Come il cardinale tornò in Italia 140
Cap. CIV. Come messer Gilio di Spagna parlamentò col signore di Bologna 143
Cap. CV. Come la compagnia si condusse per la Romagna 144
Cap. CVI. Dello stato della Cicilia 145
Cap. CVII. Del male stato del reame di Francia 146
Cap. CVIII. Di mortalità d’Alamagna e Brabante 147
Cap. CIX. Di giustizia fatta in Parigi 148
Cap. CX. De’ dificii fatti a sant’Antonio di Firenze 149
 
LIBRO NONO
 
Qui comincia il quinto libro; e prima il prologo 151
Cap. II. Come la compagnia si partì da Sogliano e ricevettene danno 154
Cap. III. Come il comune di Firenze diede balia a’ cittadini contro alla compagnia 155
Cap. IV. Come precedette la compagnia in Romagna 157
Cap. V. Di novità state tra signori di Cortona 159
Cap. VI. Dello inganno fatto per lo legato al comune di Firenze della compagnia 161
Cap. VII. Il male seguì per l’accordo fatto dal legato con la compagnia 164
Cap. VIII. Di molte fosse feciono i signori di Lombardia per difesa de’ loro terreni 166
Cap. IX. Come il re d’Inghilterra dissimulando la pace cercava la guerra co’ Franceschi 167
Cap. X. Come il re di Navarra tribolava Francia 169
[343]
Cap. XI. Del male stato di Cicilia in questi tempi 170
Cap. XII. Del male stato di Puglia per ladroni 172
Cap. XIII. Della morte di messer Bernardino da Polenta signore di Ravenna 173
Cap. XIV. Operazioni della moría 174
Cap. XV. Di certa novità ch’ebbe in Perugia in questi tempi 173
Cap. XVI. Di sconfitta ebbono i Turchi da’ frieri 177
Cap. XVII. Di novità state in Provenza contro a quelli del Balzo 179
Cap. XVIII. Il consiglio si tenne in Francia sopra le domande degl’Inghilesi 181
Cap. XIX. Come il re di Spagna e quello d’Araona s’affrontarono e non combatterono 182
Cap. XX. Come il comune di Firenze si provvide contro alla compagnia 183
Cap. XXI. D’una folgore che cadde in sulla chiesa maggiore di Siena 185
Cap. XXII. D’una battaglia tra due baroni del re di Rascia 186
Cap. XXIII. Come sotto nome di falsa pace il re di Navarra tribolò Francia 188
Cap. XXIV. Novità state a Montepulciano 189
Cap. XXV. Di fanciulli mostruosi che nacquero in Firenze e nel contado 191
Cap. XXVI. Come la compagnia passò in Toscana, e cercò concordia con i Fiorentini 191
Cap. XXVII. Come la compagnia s’appressò a Firenze 194
Cap. XXVIII. Come il comune di Firenze diè l’insegne, e mandò a campo la sua gente 196
Cap. XXIX. Come la compagnia girò il nostro contado, e la nostra a petto 198
Cap. XXX. Come la compagnia mandò il guanto della battaglia al nostro capitano, e la risposta fatta 200
Cap. XXXI. Come la compagnia vituperosamente si partì del campo delle Mosche, e fuggissi 204
[344]
Cap. XXXII. Come il re d’Ungheria passò nel reame di Rascia 206
Cap. XXXIII. Come messer Feltrino da Gonzaga tolse Reggio a’ fratelli 208
Cap. XXXIV. Come il vescovo di Trievi sconfisse gl’Inghilesi 209
Cap. XXXV. Come fu soccorsa Pavia, e levatone l’oste de’ Visconti 210
Cap. XXXVI. Come il capitano di Forlì s’arrendè al legato 211
Cap. XXXVII. Di una compagnia creata d’Inghilesi in Francia 213
Cap. XXXVIII. D’una zuffa che fu tra gli artefici di Bruggia 214
Cap. XXXIX. Come l’imperadore de’ Tartari fu morto 215
Cap. XL. Di novità de’ Turchi in Romania 216
Cap. XLI. Come il Delfino di Vienna fece pace col re di Navarra 217
Cap. XLII. Come l’oste de’ Fiorentini tornò a Firenze e la compagnia ne andò nella Riviera 218
Cap. XLIII. Della morte e sepoltura di messer Biordo degli Ubertini 220
Cap. XLIV. Come i Perugini mandarono ambasciata a Siena, e abominando i Fiorentini 222
Cap. XLV. Come il comune di Firenze mandò aiuto di mille barbute a messer Bernabò contro alla compagnia 224
Cap. XLVI. Come il castello di Troco fu incorporato per la corona di Puglia 225
Cap. XLVII. Come il comune di Firenze assediò Bibbiena 226
Cap. XLVIII. Come il comune comperò Soci 228
Cap. XLIX. Come il vescovo d’Arezzo diede le sue ragioni che avea in Bibbiena al comune di Firenze 229
Cap. L. Seguita la sequela della compagnia 230
Cap. LI. De’ fatti di Sicilia, e del seguire l’ammonire in Firenze 232
[345]
Cap. LII. Come Bibbiena per nuovo capitano fu molto stretta 235
Cap. LIII. Come il re d’Inghilterra passò in Francia con smisurata forza 237
Cap. LIV. La poca fede del conte di Lando 238
Cap. LV. Come Pavia s’arrendè a messer Galeazzo 239
Cap. LVI. Come i signori di Milano sfidarono il signore di Bologna 242
Cap. LVII. Come messer Bernabò mandò l’oste sua sopra Bologna 243
Cap. LVIII. Come fu maestrato da prima in Firenze in teologia 245
Cap. LIX. Come fu morto il signore di Verona dal fratello 246
Cap. LX. Come Cane Signore fu fatto signore di Verona 248
Cap. LXI. Come fu presa Bibbiena pe’ Fiorentini 249
Cap. LXII. Come la rocca di Bibbiena s’arrendè al comune di Firenze 253
Cap. LXIII. Di novità state in Spagna 254
Cap. LXIV. Come i Pistoiesi ripresono il castello della Sambuca 255
Cap. LXV. Come messer Bernabò strignea Bologna 256
Cap. LXVI. Come gli Aretini riebbono il castello della Pieve a santo Stefano 258
Cap. LXVII. Come il re d’Inghilterra si pose a oste alla città di Rems 259
Cap. LXVIII. Discordia del conte di Foci a quello d’Armignacca 260
Cap. LXIX. Quello feciono gli osti del re d’Inghilterra in Francia 261
Cap. LXX. Come più castella si rubellarono a’ Tarlati 263
Cap. LXXI. Di un trattato di Bologna scoperto 264
Cap. LXXII. Come le sette di Cicilia si divorarono insieme 265
Cap. LXXIII. Come la Chiesa deliberò l’impresa di Bologna 266
[346]
Cap. LXXIV. Come messer Giovanni da Oleggio fermò suo accordo con il legato di Bologna 267
Cap. LXXV. Patti da messer Giovanni da Oleggio alla Chiesa, e la tenuta di Bologna 270
Cap. LXXVI. Come la città di Bologna fu libera dal tiranno in mano del legato e della Chiesa essendo assediata 272
Cap. LXXVII. Come la Chiesa riformò Bologna 273
Cap. LXXVIII. Di una congiura si scoperse in Pisa 274
Cap. LXXIX. Di un trattato menato in Forlì contro alla Chiesa 276
Cap. LXXX. Come fu combattuta Cento dall’oste del tiranno 278
Cap. LXXXI. Come gli Ubaldini si mostrarono tra loro divisi 279
Cap. LXXXII. Di portamenti degl’Inghilesi in Borgogna 280
Cap. LXXXIII. Come i Normandi con loro armata passarono in Inghilterra 282
Cap. LXXXIV. Come il duca di Borgogna, s’accordò con gl’Inghilesi 282
Cap. LXXXV. Come il re d’Inghilterra assediò Parigi 283
Cap. LXXXVI. Come il re d’Inghilterra si strinse a Parigi, e combattè Corboglio 286
Cap. LXXXVII. Conta del reggimento de’ Romani, e d’alcuna giustizia fatta 287
Cap. LXXXVIII. Come parte degli Ubaldini presono Montebene 289
Cap. LXXXIX. Di novità e morte del re di Granata, e loro esilio 290
Cap. XC. Come il legato richiese d’aiuto il re d’Ungheria alla difesa di Bologna 291
Cap. XCI. Come in corte si diè sentenza contro a quelli di Milano per i fatti di Bologna 292
Cap. XCII. Come messer Galeazzo Visconti si mandò scusando in corte di Roma dell’impresa di Bologna 294
[347]
Cap. XCIII. Come papa Innocenzio levò la riservagioni 295
Cap. XCIV. Come il re Luigi fece guerra al duca di Durazzo, e ultimamente s’accordaro 296
Cap. XCV. Come messer Niccola gran siniscalco del Regno andò in corte di Roma per accordare il re con la Chiesa, e fattogli dal papa ciò gli domandò, e grand’onore, se ne tornò in Lombardia 297
Cap. XCVI. Come gli Aretini per baratta ebbono Chiusi e la Rocca 299
Cap. XCVII. Come il conticino da Ghiaggiuolo fu da’ figliuoli propri preso e vituperosamente tenuto 301
Cap. XCVIII. Come si fermò pace dal re d’Inghilterra a’ Franceschi, e’ patti e le convegne ebbono insieme 304
Cap. XCIX. D’un trattato si scoperse in Bologna, e quello ne seguì 311
Cap. C. Come il papa confortò gli ambasciadori bolognesi, e richiese d’aiuto i Fiorentini all’impresa di Bologna 313
Cap. CI. Come i Chiaravallesi vennero contro a Todi, e come furono rotti e presi 315
Cap. CII. Come l’oste di messer Bernabò si strinse a Bologna, e fermaronvi bastite 316
Cap. CIII. Come la casa reale di Francia feciono parentado co’ Visconti per danari, con vituperio della corona 316
Cap. CIV. Come messer Niccolò di Cesaro conte di..... e signore di Messina fu morto con quaranta compagni 320
Cap. CV. Come fornito il trattato della pace tra i due re si fè triegua, e giurossi l’una e l’altra, e lo re d’Inghilterra si tornò nell’isola per mandare a esecuzione le cose ordinate 321
Cap. CVI. Come tre castella si rubellarono nella Marca al legato 326
Cap. CVII. Come mortalità dell’anguinaia ricominciò in diverse parti del mondo 327
[348]
Cap. CVIII. Come il comune di Firenze prese Montecarelli e Montevivagni, e in essi preso il conte Tano, venuto a Firenze fu decapitato 328
Cap. CIX. Come in Francia si cominciò compagnia denominata bianca 331
Cap. CX. Della gravezza fatta per messer Bernabò ai cherici e laici, rotto il trattato della pace 332
Cap. CXI. Come il capitano dell’oste di messer Bernabò mandò a soccorrere le castella ribellate al legato nella Marca 334
Cap. CXII. Ancora dello stato del tempo e della moria dell’anguinaia 335
Cap. CXIII. Come i Pisani arsono un castello de’ Pistolesi 335

        ERRORI CORREZIONI
 
TOMO IV.
 
p. 141 v. 30 e ogni ogni vergogna e ogni vergogna
154 8 per venire per vernare
152 4 fu ribattuto fu ributtato
290 25 cacciare cacciare,
325 23 osservebbe osserverebbe

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo.

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