The Project Gutenberg eBook of Cronica di Matteo Villani, vol. 1

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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. 1

Author: Matteo Villani

Editor: Ignazio Moutier

Release date: January 29, 2023 [eBook #69898]

Language: Italian

Original publication: Italy: Magheri, 1825

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the Bayerische Staatsbibliothek)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CRONICA DI MATTEO VILLANI, VOL. 1 ***

CRONICA
DI
MATTEO VILLANI

TOMO I.


CRONICA

DI

MATTEO
VILLANI

A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
COLL’AIUTO
DE’ TESTI A PENNA

TOMO I.

FIRENZE
PER IL MAGHERI
1825


INDICE


[v]

AI LETTORI L’EDITORE
IGNAZIO MOUTIER.

Matteo Villani continuatore della Cronica di Giovanni è reputato inferiore all’ultimo e per la lingua e per lo stile: ma quanto sia ingiusto un giudizio sì decisivo emesso in vari tempi da accreditati scrittori, e sempre ciecamente ripetuto, lo dimostra la medesima opera sua, a coloro che si dilettassero di farne uno studio più diligente. L’accusa datagli di diffuso scrittore è tanto essenzialmente falsa, che sembra pronunziata da uomo mal prevenuto, o che non abbia mai conosciuta l’opera che li piacque di condannare. Ma la cagione primaria per cui pochi fino ad ora si dedicarono a studiare la Cronica di Matteo, è stata certamente la pessima forma con la quale fu sempre pubblicata nelle poche edizioni che ne furon fatte fino a questo giorno. La buona volontà d’un lettore paziente si stanca facilmente alla lettura d’un’opera condotta senz’ombra d’ortografia, [vi] e che trovi ad ogni passo periodi intralciati, voci fuor di luogo, omissioni d’ogni genere, e dei versi ancora ripetuti, e in tale stato sono le tre edizioni eseguite dai Giunti in epoche differenti, e che tutte si trovan citate nel Vocabolario degli Accademici della Crusca. È cosa veramente da deplorarsi con quanta negligenza siano state impresse nel secolo decimosesto molte opere classiche di nostra lingua. L’esperienza di fatto mi fece conoscere, che molti editori di opere di classici antichi scrittori, cominciando poco avanti la metà del secolo decimosesto fino verso la fine di esso, avevano adottato un certo loro particolar sistema di variare a capriccio la lezione dei codici antichi, in quei luoghi che discordavano dalla loro maniera di vedere e d’intendere, sostituendo e togliendo a vicenda voci e talvolta interi periodi, senza altra ragione che il loro singolarissimo sistema. Questo intollerabile abuso di torta critica guastò talmente gli scritti di molte opere classiche, che i giudizi che ne furon fatti di esse da chi s’affidò ciecamente alle stampe del cinquecento senza ricorrere ai manoscritti son da tenersi per inesatti e non veri. Quanta verità possa avere l’accusa che io do agli editori del cinquecento lo mostrerebbero abbastanza l’edizioni di Giovanni e di Matteo Villani eseguite in quel secolo, ma più luminosamente potrò dimostrarlo fra qualche tempo, se la fortuna mi concede il mezzo di dare al pubblico l’opere tutte d’un sommo scrittore, che già da qualche anno m’occupo con paziente studio alla loro emendazione.

[vii]

Lorenzo Torrentino fu il primo a pubblicare in un volumetto, in Firenze nel 1554, i soli primi quattro libri della Cronica di Matteo Villani, corretti quanto poteva ottenersi in quel tempo da una prima edizione di un’opera che si traeva da antico manoscritto. Filippo e Iacopo Giunti stampatori in Firenze, commessero nel 1562 a Domenico Guerra e Giovan Battista suo fratello stampatori in Venezia l’impressione della Cronica di Matteo, la quale non giunse oltre il cap. 85 del libro nono. Nella dedica che fanno i Giunti al principe don Francesco de’ Medici in data del medesimo anno, vi si leggono lusinghiere promesse di dare l’opera in quel modo appunto ch’ella fu scritta dall’autore, avendone affidata la revisione ad uomini eccellentissimi, che ogni particella e ogni parola accomodarono al luogo suo, ch’ella non uscì forse di mano a Matteo altramente disposta: ma ad onta di sì belle parole, quest’impressione fu reputata scorretta dai medesimi Giunti, i quali nel 1581 la riprodussero più emendata col soccorso d’un codice che allora esisteva presso Giuliano de’ Ricci, premettendovi la medesima prefazione al principe don Francesco senza mutar data. Quest’edizione benchè conti un capitolo di più della prima in fine del libro nono contiene precisamente la stessa materia, non variando che la materiale numerazione dei capitoli. Col soccorso pure del codice di Giuliano de’ Ricci pubblicarono i Giunti nel 1577 in Firenze i tre ultimi libri della Cronica di Matteo, così da loro intitolati, ma [viii] che essenzialmente non sono che ventisette capitoli che compiscono il nono libro, e il libro decimo e undecimo; di questi ultimi libri ne fecero un’esatta ristampa nel 1596. La giunta di Filippo comprende gli ultimi quarantadue capitoli dell’undecimo ed ultimo libro. L’ultima edizione, e certamente la migliore della Cronica di Matteo, fu pubblicata nel 1729 in Milano nel decimoquarto volume della celebre collezione degli scrittori delle cose d’Italia di Lodovico Antonio Muratori, procurata ed illustrata da Filippo Argelati. In quest’edizione fu seguitata la stampa dei Giunti del 1581, e il seguito impresso nel 1577; vi furono per altro aggiunte a piè della pagina le varianti lezioni che furono tratte dal cavalier Marmi dal codice Ricci, e da un altro manoscritto esistente allora presso il prior Francesco Covoni; ma queste varie lezioni si trovano per la maggior parte sì inutilmente abbondanti in principio dell’opera, come scarseggianti dopo l’ottavo libro, da muovere ragionevolmente sospetto che il cavalier Marmi si stancasse alla metà del suo faticoso lavoro. In questa edizione fu con tanto scrupolo seguitata la lezione giuntina che vi fu lasciata stare la medesima viziosa ortografia, a danno dei poveri lettori, a’ quali è troppo grave nello studio degli antichi classici questo barbaro sistema, che non è ancora spento del tutto.

Da questo esatto ragguaglio dell’edizioni della Cronica di Matteo e Filippo Villani fino ad ora pubblicate, è facile persuadersi del bisogno [ix] di farne una nuova più accurata edizione, ma tal pensiero venuto più volte in mente a uomini di molta dottrina, e amantissimi della lingua italiana, svanì e venne meno allorchè cominciarono a sentire il peso di questa spinosa fatica. Colui che sia nuovo affatto di simili studi non può con approssimazione calcolare il lungo tedio che richiedono i confronti d’opere stampate con i manoscritti, che quasi sempre si trovano tra loro discordi nella lezione, o mancanti, o inintelligibili, e quel che è peggio variati sovente dall’arbitrio d’ignoranti copisti. Abituato com’io sono da molti anni a simili studi, da me intrapresi con vero desiderio di recare con l’opera mia qualche vantaggio agli amatori dei classici nostri, che sì deturpati per la maggior parte erano stati impressi in antico, pubblicai già è un anno la Cronica di Giovanni Villani (alla cui emendazione ebbi l’assistenza un mio carissimo amico) e fin da quell’epoca contrassi verso il pubblico l’obbligazione di dare alla luce ricorretta ed emendata l’opera di Matteo e Filippo Villani, servendomi della lezione del famoso codice Ricci. Questo codice cartaceo in foglio, di non elegante ma buona forma di lettere, è scritto tutto d’una medesima mano; ha in principio una breve nota che ci fa conoscere l’anno in cui fu trascritto, così concepita: Questo libro fu scritto l’anno 1378 da Ardingo di Corso de’ Ricci, e continuamente si conserva in questa casa: e oggi, che siamo alli 6 di maggio 1608, è posseduto da Ruberto di Giuliano de’ Ricci. Su qual documento asserisca [x] questo Ruberto de’ Ricci che il codice sia stato scritto nel 1378 non è da conoscersi tanto facilmente, ma di certo la scrittura è del secolo in cui si vuole che sia stato copiato. Comincia il manoscritto con la tavola delle rubriche o capitoli con le prime voci e i numeri dei capitoli scritti in rosso, che occupano le prime diciotto carte; ne segue poi la Cronica, che comprende carte trecentosettanta, con i titoli de’ capitoli e la serie della loro numerazione in rosso. Questo codice di buona conservazione, non va per altro esente dalla sorte che hanno incontrato la maggior parte dei manoscritti, che per incuria o ignoranza di chi gli ha avuti a mano si trovano oggi mutilati e mal conci, poichè si hanno in esso mancanti le carte 299, e 384; mancava pure la carta 108, che fu sostituita fino dall’anno 1573 da ignota mano. La buonissima lezione che ha questo manoscritto fa chiara testimonianza della diligenza del suo copista, che non deve essere stato di que’ prezzolati emanuensi che in quel secolo flagellarono ogni maniera di scritture, ma uomo al certo di qualche dottrina. E qui mi sia lecito dar tributo d’obbligazione e di riconoscenza all’egregio signor Commendatore Lapo de’ Ricci, che con tanta amorevolezza si compiacque accordarmi l’uso per la presente edizione di questo prezioso codice di Matteo Villani, scritto come parla l’antica tradizione da Ardingo di Corso de’ Ricci, già di sopra menzionato, e che tuttavia si conserva nella biblioteca di quest’illustre famiglia.

Di questo codice adunque mi sono quasi interamente [xi] giovato nella presente ristampa di Matteo Villani, come il più corretto e copioso di quanti n’abbia veduti, ed ho solamente avuto ricorso alle varianti del codice Covoni che esistono nell’accennata edizione dell’opera di Matteo eseguita in Milano nel 1729, in quei pochissimi luoghi che manifestamente erano errati. Due codici della libreria Riccardiana e uno della Magliabechiana mi hanno fornito di qualche variante nel corso dell’opera, la poca importanza delle quali mi disobbliga dal far di essi un circostanziato ragguaglio.

La presente edizione della Cronica di Matteo Villani potrebbe ragionevolmente chiamarsi un’esatta copia del codice Ricci, se i pochi luoghi che in esso si trovano errati non avessero domandato il soccorso d’altri codici antichi per rettificarne gli errori. Così avess’io potuto supplire con altri manoscritti alle lagune vistose del codice Ricci, specialmente a quelle che s’incontrano ne’ tre ultimi libri, ma il fatto mi ha dimostrato non esser questo un errore da attribuirsi al copista, ma bensì all’autore medesimo, l’immatura morte del quale gli tolse il modo di dar l’ultima mano all’opera sua, giacchè tutti i manoscritti da me riscontrati, e non in piccol numero, hanno sventuratamente lo stesso difetto, da toglier la speranza a ogni accurato investigatore di rinvenire un giorno ciò che ora invano si desidera. Quei passi per altro, che nell’edizioni eseguite dai Giunti furono tolti per cagione de’ tempi, si troveranno [xii] in quest’edizione restituiti al loro luogo, cioè al Cap. 93 del libro nono, e al Prologo del libro undecimo.

Il sistema che ho creduto dover seguitare in quest’edizione è stato il medesimo che servì di norma alla pubblicazione del primo Villani, meno che più libertà mi son preso intorno a’ nomi propri, avendone del tutto banditi gl’idiotismi del tempo, che nulla han che fare con la lingua, e che ad altro non servono che ad essere inciampo e noia al maggior numero dei lettori. L’ortografia ho avuto cura che si presti totalmente all’intelligenza del testo senz’altra regola speciale, semplicizzando più che ho saputo l’andamento del periodo. Finalmente all’ultimo volume vi ho posto l’indice generale, indispensabile ad un’opera di tal natura, e un elenco di voci mancanti nel Vocabolario degli Accademici della Crusca. In un volume di supplemento riprodurrò le vite degli uomini illustri Fiorentini scritte da Filippo Villani, giovandomi dell’edizione procurata dall’erudito Giammaria Mazzuchelli nel 1747 in Venezia; e così mi compiacerò d’essere stato il primo a riunire in un sol corpo tutte l’opere toscane de’ tre Villani, impresa molte volte progettata e mai condotta a buon termine, per gl’infiniti ostacoli ch’era d’uopo sormontare con lungo e pazientissimo studio.

Il dovere mi obbligherebbe a premettere all’opera alcune notizie intorno alla vita pubblica e privata di Matteo Villani, ma tanto scarsi sono i documenti che lo riguardano, quanto [xiii] inutili e infruttuose sono state fino ad ora le ricerche di diligenti biografi. Il suo figliuolo Filippo continuatore dell’opera del padre ci ha tramandata l’epoca della di lui morte, la quale avvenne a dì 12 di luglio del 1363, anch’egli come il fratello Giovanni colpito dalla peste che da molti anni lacerava quasi tutta Europa, ma specialmente la misera Italia, senza che gli uomini riparassero a tanto loro esterminio. Il Manni (Sig. Ant. T. 4. p. 75) ci addita due mogli ch’egli ebbe, Lisa de’ Buondelmonti e Monna de’ Pazzi, e alcune altre notizie ci riferisce illustrando l’albero di casa Villani, la più importante è quella che Matteo come ghibellino fu da’ capitani di parte guelfa ammonito. Di Filippo assai ne ragiona il diligentissimo Mazzuchelli nella sua prefazione alle Vite degli Uomini illustri Fiorentini, la quale pubblicherò nel settimo volume di quest’opera, premettendola alle medesime Vite scritte da Filippo, procurando pure d’emendarle con l’aiuto de’ manoscritti, benchè fino ad ora quelli che m’è avvenuto riscontrare non meritano nessuna fiducia per essere troppo moderni, e notoriamente variati dal capriccio de’ loro copiatori.

Se questa mia non lieve fatica d’aver cercato di ridurre a miglior lezione la Cronica di Matteo Villani non incontrerà in particolare l’approvazione dei dotti, riscuoterà certamente il suffragio da tutti quelli che s’esercitano nello studio dei nostri classici antichi, che da un fonte più puro potranno trarre, con minor [xiv] noia e fatica di quel che far si potesse in addietro, preziosi documenti per l’istoria e per l’incremento della lingua italiana. Così piaccia alla fortuna d’accordare tal’ozio tranquillo ai dotti accademici della Crusca, a’ quali è commesso l’incarico di nostra lingua, che applicar si possano con vero studio all’emendazione di tanti classici, che ripieni d’infiniti errori e mancanze, attendono ancora dalla critica di questo secolo d’essere riprodotti nella loro vera e primitiva forma. Ad alcuni onorevoli Accademici è debitrice la repubblica delle lettere di alcune opere riprodotte nella loro originalità, e di altri se ne desiderano tuttavia le studiose fatiche, ma troppe opere ancora rimangono da emendarsi, e dell’inedite da pubblicarsi, che il loro numero e la loro importanza può giustificare qualunque lamento che se ne faccia. Sia loro di massimo incitamento l’esempio dell’ottimo nostro Sovrano, che da qualche anno si compiacque di farsi membro di quell’illustre Accademia, il quale con munificenza degna di tanto Principe ha pubblicato in quest’anno le opere di Lorenzo il Magnifico, con grandissimo studio da Lui emendate e illustrate.


[1]

LIBRO PRIMO

Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima il prologo, e primo libro.

Esaminando nell’animo la vostra esortazione, carissimi amici, di mettere opera a scrivere le storie e le novità che a’ nostri tempi avverranno, pensai la mia piccola facultà essere debole a cotanta e tale opera seguire. Ma perocchè la vostra richesta mi rende per debito pronto a ubbidire, e il vostro consiglio aggiugne vigore alla stanca mente; e pensando che per la macchia del peccato la generazione umana tutta è sottoposta alle temporali calamità, e a molta miseria, e a innumerabili mali, i quali avvengono nel mondo per varie maniere, e per diversi e strani movimenti, [2] e tempi; come sono inquietazioni di guerre, movimenti di battaglie, furore di popoli, mutamenti di reami, occupazioni di tiranni, pestilenzie, mortalità e fame, diluvi, incendi, naufragi e altre gravi cose, delle quali gli uomini, ne’ cui tempi avvengono, quasi da ignoranza soppresi, più forte si maravigliano, e meno comprendono il divino giudicio, e poco conoscono il consiglio e ’l rimedio dell’avversità, se per memoria di simiglianti casi avvenuti ne’ tempi passati non hanno alcuno ammaestramento: e in quelle che la chiara faccia della prosperità rapporta non sanno usare il debito temperamento; rischiudendo sotto lo scuro velo della ignoranza l’uscimento cadevole, e il fine dubbioso delle mortali cose. Onde pensando che l’opera puote essere fruttuosa, e debba piacere per li naturali desideri degli uomini, mi mossi a cominciare, per esempio di me uomo di leggieri scienza, ad apparecchiar materia a’ savi di concedere del loro tempo alcuna parte, per lasciare agli altri memoria delle cose appariranno di ciò degne a’ loro temporali, e a’ meno sperti speranza con fatica e studio da poter venire a operazioni virtudiose, e a coloro che avranno più alto ingegno, materia di ristrignere su brevità, e con più piacere degli uditori, le nostre storie. Ma perocchè ogni cosa è imperfetta e vana senza l’aiuto della divina grazia, chiamiamo in nostro aiuto la carità divina, Cristo benedetto; il quale è in unità col Padre e con lo Spirito Santo, vive e regna per tutti i secoli, e dà cominciamento e mezzo e termine perfetto a ogni buona operazione.

[3]

CAP. I. Della inaudita mortalità.

Trovasi nella santa Scrittura, che avendo il peccato corrotto ogni via della umana carne, Iddio mandò il diluvio sopra la terra: e riservando per la sua misericordia l’umana carne in otto anime, di Noè, e di tre suoi figliuoli e delle loro mogli nell’arca, tutta l’altra generazione nel diluvio sommerse. Dappoi per li tempi multiplicando la gente, sono stati alquanti diluvi particolari, mortalità, corruzioni e pistolenze, fami e molti altri mali, che Iddio ha permesso venire sopra gli uomini per li loro peccati. Tra le quali mortalità troviamo venute le più gravi l’una al tempo di Marco Aurelio, Antonio e Lucio Aurelio Commodo imperadori, gli anni di Cristo 171, la quale cominciò in Babilonia d’Egitto, e comprese molte provincie del mondo. E tornando L. Commodo colle legioni de’ Romani delle parti d’Asia, parea combattesse ostilemente per la loro infezione gli uomini delle provincie ond’elli passavano: e a Roma fece grave sterminio de’ suoi abitanti. E l’altra venne al tempo di Gallo Ostilio Augusto, e Bolusseno suo figliuolo, occupatori dello imperio, e gravi persecutori de’ cristiani, la quale cominciò gli anni di Cristo 254, e durò, ritornando di tempo in tempo, intorno di quindici anni: e fu di diverse e incredibili infermitadi, e comprese molte provincie del mondo. Ma per quello che trovar si [4] possa per le scritture, dal generale diluvio in qua, non fu universale giudicio di mortalità che tanto comprendesse l’universo, come quella che ne’ nostri dì avvenne. Nella quale mortalità, considerando la moltitudine che allora vivea, in comparazione di coloro che erano in vita al tempo del generale diluvio, assai più ne morirono in questa che in quello, secondo la estimazione di molti discreti. Nella quale mortalità avendo renduta l’anima a Dio l’autore della cronica nominata la Cronica di Giovanni Villani cittadino di Firenze, al quale per sangue e per dilezione fui strettamente congiunto, dopo molte gravi fortune, con più conoscimento della calamità del mondo che la prosperità di quello non m’avea dimostrato, propuosi nell’animo mio fare alla nostra varia e calamitosa materia cominciamento a questo tempo, come a uno rinnovellamento di tempo e secolo, comprendendo annualmente le novità che appariranno di memoria degne, giusta la possa del debole ingegno, come più certa fede per li tempi avvenire ne potremo avere.

CAP. II. Quanto durava il tempo della moría in catuno paese.

Avendo per cominciamento nel nostro principio a raccontare lo sterminio della generazione umana, e convenendone divisare il tempo e il modo, la qualità e la quantità di quella, stupidisce la mente appressandosi a scrivere la sentenzia, [5] che la divina giustizia con molta misericordia mandò sopra gli uomini, degni per la corruzione del peccato di final giudizio. Ma pensando l’utilità salutevole che di questa memoria puote addivenire alle nazioni che dopo noi seguiranno, con più sicurtà del nostro animo così cominciamo. Videsi negli anni di Cristo, dalla sua salutevole incarnazione 1346, la congiunzione di tre superiori pianeti nel segno dell’Aquario, della quale congiunzione si disse per gli astrolaghi che Saturno fu signore: onde pronosticarono al mondo grandi e gravi novitadi; ma simile congiunzione per li tempi passati molte altre volte stata e mostrata, la influenzia per altri particulari accidenti non parve cagione di questa, ma piuttosto divino giudicio secondo la disposizione dell’assoluta volontà di Dio. Cominciossi nelle parti d’Oriente, nel detto anno, inverso il Cattai e l’India superiore, e nelle altre provincie circustanti a quelle marine dell’oceano, una pestilenzia tra gli uomini d’ogni condizione di catuna età e sesso, che cominciavano a sputare sangue, e morivano chi di subito, chi in due o in tre dì, e alquanti sostenevano più al morire. E avveniva, che chi era a servire questi malati, appiccandosi quella malattia, o infetti, di quella medesima corruzione incontanente malavano, e morivano per somigliante modo; e a’ più ingrossava l’anguinaia, e a molti sotto le ditella delle braccia a destra e a sinistra, e altri in altre parti del corpo, che quasi generalmente alcuna enfiatura singulare nel corpo infetto si dimostrava. Questa pestilenzia si venne di tempo in tempo, e di gente in [6] gente apprendendo, comprese infra il termine d’uno anno la terza parte del mondo che si chiama Asia. E nell’ultimo di questo tempo s’aggiunse alle nazioni del Mare maggiore, e alle ripe del Mare tirreno, nella Soria e Turchia, e in verso lo Egitto e la riviera del Mar rosso, e dalla parte settentrionale la Rossia e la Grecia, e l’Erminia e l’altre conseguenti provincie. E in quello tempo galee d’Italiani si partirono del Mare maggiore, e della Soria e di Romania per fuggire la morte, e recare le loro mercatanzie in Italia: e’ non poterono cansare, che gran parte di loro non morisse in mare di quella infermità. E arrivati in Cicilia conversaro co’ paesani, e lasciarvi di loro malati, onde incontanente si cominciò quella pestilenzia ne’ Ciciliani. E venendo le dette galee a Pisa, e poi a Genova, per la conversazione di quegli uomini cominciò la mortalità ne’ detti luoghi, ma non generale. Poi conseguendo il tempo ordinato da Dio a’ paesi, la Cicilia tutta fu involta in questa mortale pestilenzia. E l’Affrica nelle marine, e nelle sue provincie di verso levante, e le rive del nostro Mare tirreno. E venendo di tempo in tempo verso il ponente, comprese la Sardigna, e la Corsica, e l’altre isole di questo mare; e dall’altra parte, ch’è detta Europa, per simigliante modo aggiunse alle parti vicine verso il ponente, volgendosi verso il mezzogiorno con più aspro assalimento che sotto le parti settentrionali. E negli anni di Cristo 1348 ebbe infetta tutta Italia, salvo che la città di Milano, e certi circustanti all’Alpi, che dividono l’Italia dall’Alamagna, ove [7] gravò poco. E in questo medesimo anno cominciò a passare le montagne, e stendersi in Proenza, e in Savoia, e nel Dalfinato, e in Borgogna, e per la marina di Marsilia e d’Acquamorta, e per la Catalogna, e nell’isola di Maiolica, e in Ispagna e in Granata. E nel 1349 ebbe compreso fino nel ponente, le rive del Mare oceano, d’Europa e d’Affrica e d’Irlanda, e l’isola d’Inghilterra e di Scozia, e l’altre isole di ponente, e tutto infra terra con quasi eguale mortalità, salvo in Brabante ove poco offese. E nel 1350 premette gli Alamanni, e gli Ungheri, Frigia, Danesmarche, Gotti, e Vandali, e gli altri popoli e nazioni settentrionali. E la successione di questa pestilenzia durava nel paese ove s’apprendeva cinque mesi continovi, ovvero cinque lunari: e questo avemmo per isperienza certa di molti paesi. Avvenne, perchè parea che questa pestifera infezione s’appiccasse per la veduta e per lo toccamento, che come l’uomo, o la femmina o i fanciulli si conoscevano malati di quella enfiatura, molti n’abbandonavano, e innumerabile quantità ne morirono, che sarebbono campati se fossono stati aiutati delle cose bisognevoli. Tra gl’infedeli cominciò questa inumanità crudele, che le madri e’ padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti, cosa crudele e maravigliosa, e molto strana dalla umana natura, detestata tra i fedeli cristiani, nei quali, seguendo le nazioni barbare, questa crudeltà si trovò. Essendo cominciata nella nostra città di Firenze, fu biasimata da’ discreti [8] la sperienza veduta di molti, i quali si provvidono, e rinchiusono in luoghi solitari, e di sana aria, forniti, d’ogni buona cosa da vivere, ove non era sospetto di gente infetta; in diverse contrade il divino giudicio (a cui non si può serrare le porti) gli abbattè come gli altri che non s’erano provveduti. E molti altri, i quali si dispuosono alla morte per servire i loro parenti e amici malati, camparono avendo male, e assai non l’ebbono continovando quello servigio; per la qual cosa ciascuno si ravvide, e cominciarono senza sospetto ad aiutare e servire l’uno l’altro; onde molti guarirono, ed erano più sicuri a servire gli altri. Nella nostra città cominciò generale all’entrare del mese d’aprile gli anni Domini 1348, e durò fino al cominciamento del mese di settembre del detto anno. E morì tra nella città, contado e distretto di Firenze, d’ogni sesso e di catuna età de’ cinque i tre, e più, compensando il minuto popolo e i mezzani e’ maggiori, perchè alquanto fu più menomato, perchè cominciò prima, ed ebbe meno aiuto, e più disagi e difetti. E nel generale per tutto il mondo mancò la generazione umana per simigliante numero e modo, secondo le novelle che avemmo di molti paesi strani, e di molte provincie del mondo. Ben furono provincie nel Levante dove vie più ne moriro. Di questa pestifera infermità i medici in catuna parte del mondo, per filosofia naturale, o per fisica, o per arte d’astrologia non ebbono argomento nè vera cura. Alquanti per guadagnare andarono visitando e dando loro argomenti, li quali per la loro morte [9] mostrarono l’arte essere fitta, e non vera: e assai per coscienza lasciarono a ristituire i danari che di ciò aveano presi indebitamente.

Avemmo da mercatanti genovesi, uomini degni di fede, che aveano avute novelle di que’ paesi, che alquanto tempo innanzi a questa pestilenzia, nelle parti dell’Asia superiore, uscì della terra, ovvero cadde da cielo un fuoco grandissimo, il quale stendendosi verso il ponente, arse e consumò grandissimo paese senza alcuno riparo. E alquanti dissono, che del puzzo di questo fuoco si generò la materia corruttibile della generale pestilenzia: ma questo non possiamo accertare. Appresso sapemmo da uno venerabile frate minore di Firenze vescovo di .... del Regno, uomo degno di fede, che s’era trovato in quelle parti dov’è la città di Lamech ne’ tempi della mortalità, che tre dì e tre notti piovvono in quello paese biscie con sangue che appuzzarono e corruppono tutte le contrade: e in quella tempesta fu abbattuto parte del tempio di Maometto, e alquanto della sua sepoltura.

CAP. III. Della indulgenzia diede il papa per la detta pistolenza.

In questi tempi della mortale pestilenzia, papa Clemente sesto fece grande indulgenza generale della pena di tutti i peccati a coloro che pentuti e confessi la domandavano a’ loro confessori, e morivano: e in quella certa mortalità catuno cristiano [10] credendosi morire si disponea bene, e con molta contrizione e pazienzia rendevano l’anima a Dio.

CAP. IV. Come gli uomini furono peggiori che prima.

Stimossi per quelli pochi discreti che rimasono in vita molte cose, che per la corruzione del peccato tutte fallirono agli avvisi degli uomini, seguendo nel contradio maravigliosamente. Credetesi che gli uomini, i quali Iddio per grazia avea riserbati in vita, avendo veduto lo sterminio dei loro prossimi, e di tutte le nazioni del mondo, udito il simigliante, che divenissono di migliore condizione, umili, virtudiosi e cattolici, guardassonsi dall’iniquità e dai peccati, e fossono pieni d’amore e di carità l’uno contra l’altro. Ma di presente restata la mortalità apparve il contradio; che gli uomini trovandosi pochi, e abbondanti per l’eredità e successioni dei beni terreni, dimenticando le cose passate come state non fossono, si dierono alla più sconcia e disonesta vita che prima non aveano usata. Perocchè vacando in ozio, usavano dissolutamente il peccato della gola, i conviti, taverne e delizie con dilicate vivande, e’ giuochi, scorrendo senza freno alla lussuria, trovando nei vestimenti strane e disusate fogge e disoneste maniere, mutando nuove forme a tutti gli arredi. E il minuto popolo, uomini e femmine, per la soperchia abbondanza che si trovarono delle cose, non voleano lavorare agli usati mestieri; e le più care e dilicate vivande [11] voleano per loro vita, e allibito si maritavano, vestendo le fanti e le vili femmine tutte le belle e care robe delle orrevoli donne morte. E senza alcuno ritegno quasi tutta la nostra città scorse alla disonesta vita; e così, e peggio, l’altre città e provincie del mondo. E secondo le novelle che sentire potemmo, niuna parte fu, in cui vivente in continenzia si riserbasse, campati dal divino furore, stimando la mano di Dio essere stanca. Ma secondo il profeta Isaia, non è abbreviato il furore d’Iddio, nè la sua mano stanca, ma molto si compiace nella sua misericordia, e però lavora sostenendo, per ritrarre i peccatori a conversione e penitenzia, e punisce temperatamente.

CAP. V. Come si stimò dovizia, e seguì carestia.

Stimossi per il mancamento della gente dovere essere dovizia di tutte le cose che la terra produce, e in contradio per l’ingratitudine degli uomini ogni cosa venne in disusata carestia, e continovò lungo tempo: ma in certi paesi, come narreremo, furono gravi e disusate fami. E ancora si pensò essere dovizia e abbondanza di vestimenti, e di tutte l’altre cose che al corpo umano sono di bisogno oltre alla vita, e il contrario apparve in fatto lungamente; che due cotanti o più valsono la maggior parte delle cose che valere non soleano innanzi alla detta mortalità. E il lavorio, e le manifatture d’ogni arte e mestiero montò oltre al doppio consueto disordinatamente. Piati, [12] quistioni, contraversie e riotte sursono da ogni parte tra’ cittadini di catuna terra, per cagione dell’eredità e successioni. E la nostra città di Firenze lungamente ne riempiè le sue corti con grandi spendii e disusate gravezze. Guerre, e diversi scandali si mossono per tutto l’universo, contro alle opinioni degli uomini.

CAP. VI. Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso.

In questo anno, del mese d’agosto, nacque in Prato uno fanciullo mostruoso di maravigliosa figura, perocchè a uno capo e a uno collo furono partiti e stesi due imbusti umani con tutte le membra distinte e partite dal collo in giuso, senza niuna diminuzione che natura dia a corpo umano: e catuno imbusto fu colle membra e natura masculina. Ma l’uno corpo era maggiore che l’altro: e vivette questo corpo mostruoso e maraviglioso quindici giorni, dando pronosticazione forse di loro futuri danni, come leggendo appresso si potrà trovare.

CAP. VII. Come alla compagnia d’Orto san Michele fu lasciato gran tesoro.

Nella nostra città di Firenze, l’anno della detta mortalità, avvenne mirabile cosa: che venendo a morte gli uomini, per la fede che i cittadini di Firenze [13] aveano all’ordine e all’esperienza che veduta era della chiara, e buona e ordinata limosina che s’era fatta lungo tempo, e facea per li capitani della compagnia di Madonna santa Maria d’Orto san Michele, senza alcuno umano procaccio, si trovò per testamenti fatti (i quali testamenti nella mortalità, e poco appresso, si poterono trovare e avere) che i cittadini di Firenze lasciarono a stribuire a’ poveri per li capitani di quella compagnia più di trecentocinquanta migliaia di fiorini d’oro. Che vedendosi la gente morire, e morire i loro figliuoli e i loro congiunti, ordinavano i testamenti, e chi avea reda che vivesse, legava la reda, e se la reda morisse, volea la detta compagnia fosse reda; e molti che non avevano alcuna reda, per divozione dell’usata e santa limosina che questa compagnia solea fare, acciocchè il suo si stribuisse a’ poveri com’era usato, lasciavano di ciò ch’aveano reda la detta compagnia: e molti altri non volendo che per successione il suo venisse a’ suoi congiunti, o a’ suoi consorti, legavano alla detta compagnia tutti i loro beni. Per questa cagione, restata la mortalità in Firenze, si trovò improvviso quella compagnia in sì grande tesoro, senza quello che ancora non potea sapere. E i mendichi poveri erano quasi tutti morti, e ogni femminella era piena e abbondevole delle cose, sicchè non cercavano limosina. Sentendosi questo fatto per cittadini, procacciarono molti con sollecitudine d’essere capitani per potere amministrare questo tesoro, e cominciarono a ragunare le masserizie e’ danari; ch’avendo a vendere le masserizie [14] nobili de’ grandi cittadini e mercatanti, tutte le migliori e le più belle voleano per loro a grande mercato, e l’altre più vili faceano vendere in pubblico, e i danari cominciarono a serbare, e chi ne tenea una parte, e chi un’altra a loro utilità. E non essendo in quel tempo poveri bisognosi, facevano le limosine grandi ciascuno capitano ove più gli piaceva, poco a grado a Dio e alla sua madre. E per questo indebito modo si consumò in poco tempo molto tesoro. E quando veniva il tempo di rifare i nuovi capitani, i cittadini amici de’ vecchi si facevano fare capitani nuovi da loro che avevano la balía, con molte preghiere, e altre promessioni, intendendosi insieme per poco onesta intenzione. Le possessioni della compagnia allogavano per amistà e buon mercato, e le vendite faceano disonestamente. I cittadini ch’erano avviluppati nelle mani de’ detti capitani per li lasci, e per le dote, e per li debiti, e per le participazioni di quelli beni, e per l’altre successioni non si poteano per lunghi tempi spacciare da loro: e ogni cosa sosteneano in lunga contumacia senza sciogliere, se per speziale servigio non si facea. E fu tre anni continovi più grande la loro corte che quella del nostro comune. E avvedendosi i cittadini della ipocrisia de’ capitani, acciocchè più non seguitasse la elezione, che l’uno facesse l’altro, ordinarono che i capitani si chiamassono per lo consiglio. In processo di tempo il comune prese de’ danari del mobile della detta compagnia alcuna parte, vedendo che male si stribuivano per li capitani. E per le dette cagioni [15] la fede di quella compagnia tra’ cittadini e’ contadini cominciò molto a mancare, avvelenata per lo disordinato tesoro, e per gli avari guidatori di quello. E per lo simigliante modo fu lasciato a una nuova compagnia chiamata la compagnia della Misericordia, tra in mobile e in possessioni, il valore di più di venticinquemila fiorini d’oro, i quali si stribuirono poco bene per lo difetto de’ capitani che gli aveano a stribuire. E allo spedale di santa Maria Nuova di san Gilio fu anche lasciato in quella mortalità il valore di venticinquemila fiorini d’oro. Questi lasci di questo spedale si stribuirono assai bene, perocchè lo spedale è di grande elemosina, e sempre abbonda di molti infermi uomini e femmine, i quali sono serviti e curati con molta diligenza e abbondanza di buone cose da vivere, e da sovvenire a’ malati, governandosi per uomini e femmine di santa vita.

CAP. VIII. Come in Firenze da prima si cominciò lo Studio.

Rallentata la mortalità, e assicurati alquanto i cittadini che aveano a governare il comune di Firenze, volendo attrarre gente alla nostra città, e dilatarla in fama e in onore, e dare materia a’ suoi cittadini d’essere scienziati e virtudiosi, con buono consiglio, il comune provvide e mise in opera che in Firenze fosse generale studio di catuna scienzia, e in legge canonica e civile, e di teologia. E a ciò fare ordinarono uficiali, e [16] la moneta che bisognava per avere i dottori delle scienze: stanziò si pagassono annualmente dalla camera del comune; e feciono acconciare i luoghi dello Studio in su la via che traversa da casa i Donati a casa i Visdomini, in su i casolari de’ Tedaldini. E piuvicarono lo studio per tutta Italia; e avuti dottori assai famosi in tutte le facultà delle leggi e dell’altre scienze, cominciarono a leggere a dì 6 del mese di novembre, gli anni di Cristo 1348. E mandato il comune al papa e a’ cardinali a impetrare privilegio di potere conventare in Firenze in catuna facultà di scienza, ed avere le immunità e onori che hanno gli altri studi generali di santa Chiesa, papa Clemente sesto, con suoi cardinali, ricevuta graziosamente la domanda del nostro comune, e considerando che la città di Firenze era braccio destro in favore di santa Chiesa, e copiosa d’ogni arte e mestiere, e che questo che s’addomandava era onore virtudioso, acciocchè ’l buono cominciamento potesse crescere successivamente in frutto di virtudi, di comune concordia di tutto il collegio, e del papa, concedettono al nostro comune privilegio, che nella città di Firenze si potesse dottorare, e ammaestrare in teologia, e in tutte l’altre facultadi delle scienze generalmente. E attribuì tutte le franchigie e onori al detto Studio che più pienamente avesse da santa Chiesa Parigi o Bologna, o alcuna altra città de’ cristiani. Il privilegio bollato della papale bolla venne a Firenze, dato in Avignone dì 31 di maggio, gli anni Domini 1349, l’ottavo anno del suo pontificato.

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CAP. IX. Raggiugnimento di principii che furono cagione di grandi novitadi nel Regno.

Avvegnachè nella cronica del nostro anticessore sia trattato della novità sopravvenuta nel regno di Cicilia e di qua dal faro, insino al tempo vicino alla nominata mortalità, nondimeno la nostra materia richiede (acciocchè meglio s’intendano le cose che nel nostro tempo poi seguiranno) che qui s’accolgano alquanti principii che furono materia e cagioni di gravi movimenti. Il re Ruberto rimorso da buona coscienza, avendo con Carlo Umberto di suo lignaggio re d’Ungheria trattato la restituzione del suo reame dopo la sua morte a’ figliuoli del detto Carlo, nipoti di Carlo Martello primogenito di Carlo secondo, a cui di ragione succedea il detto reame di Cicilia, e fermata la detta restituzione con promissione di matrimonio, sotto certe condizioni de’ figliuoli del detto Carlo Umberto, e delle due figliuole di M. Carlo duca di Calavra, figliuolo che fu del detto re Ruberto. E avendo già accresciuto appresso di se il re Ruberto Andreasso figliuolo di Carlo Umberto, e fattolo duca di Calavra, a cui si dovea dare per moglie Giovanna primagenita del detto Carlo, nipote del re Ruberto, acciocchè fosse successore del reame dopo la sua morte; e la detta Giovanna reina, con condizioni ordinate per li casi che avvenire poteano, che l’una succedesse all’altra in caso di [18] mancamento di figliuoli, acciocchè la successione del Regno non uscisse delle nipoti. Vedendosi appressare alla morte, tanto fu stretto dallo amore della propria carne, ch’egli commise errori i quali furono cagione di molti mali. Perocchè innanzi la sua morte fece consumare il matrimonio del detto duca Andreasso alla detta Giovanna sua nipote, e lei intolò reina. E a tutti i baroni, reali, e feudatari e uficiali del Regno fece fare il saramento alla detta reina Giovanna, lasciando per testamento, che quando Andreasso duca di Calavra, e marito della detta reina Giovanna, fosse in età di ventidue anni, dovesse essere coronato re del suo reame di Cicilia. Onde avvenne che ’l senno di cotanto principe accecato del proprio amore della carne, morendo lasciò la giovane reina ricca di grande tesoro, e governatora del suo reame, e povera di maturo consiglio, e maestra e donna del suo barone, il quale come marito dovea essere suo signore. E così verificando la parola di Salomone, il quale disse, se la moglie avrà il principato, diventerà contraria al suo marito. La detta Giovanna vedendosi nel dominio, avendo giovanile e vano consiglio, rendeva poco onore al suo marito, e reggeva e governava tutto il Regno con più lasciva e vana che virtudiosa larghezza: e l’amore matrimoniale per l’ambizione della signoria, e per inzigamento di perversi e malvagi consigli, non conseguiva le sue ragioni, ma piuttosto declinava nell’altra parte. E però si disse che per fattura malefica la reina parea strana dall’amore del suo marito. Per la qual cagione de’ reali e assai giovani baroni presono [19] sozza baldanza, e poco onoravano colui che attendevano per loro signore. Onde l’animo nobile del giovane, vedendosi offendere, e tenere a vile a’ suoi sudditi, lievemente prendeva sdegni. E moltiplicando le ingiurie per diversi modi, dalla parte della sua donna e de’ suoi baroni, per giovanile incostanza, alcuna volta con la reina, alcuna volta con i baroni usò parole di minacce, per le quali, coll’altra materia che qui abbiamo detta, appressandosi il tempo della sua coronazione, s’avacciò la crudele e violente sua morte. Onde avvenne, che per fare la vendetta Lodovico re d’Ungheria, fratello anzinato del detto Andreasso, con forte braccio venne nel Regno non contastato da niuno de’ reali, o da altro barone, se non solo da M. Luigi di Taranto, il quale dopo la morte del duca Andreasso, per operazione della imperadrice sua madre, di M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio, avea tolta la detta reina Giovanna per sua moglie. E innanzi la dispensagione, ch’era sua nipote in terzo grado, temendo il giovane d’entrare nella camera alla reina, confortatolo, e presolo per lo braccio dal detto suo balio, in segreto sposò la detta donna: e in palese fu dispensato il detto matrimonio da santa Chiesa. Il quale M. Luigi si mise a contastare alcuno tempo alla gente del detto re d’Ungheria, venuta innanzi che la persona del detto re. Ma sopravvenendo il re, la reina Giovanna in prima, e appresso M. Luigi, con certe galee in fretta, e male provveduti fuori che dello scampo delle persone, fuggirono in Toscana, e poi passarono in Proenza.

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CAP. X. Come il re d’Ungheria fece ad Aversa uccidere il duca di Durazzo.

Lodovico re d’Ungheria giunto ad Aversa, fece suo dimoro in quel luogo ove fu morto il fratello. E ivi tutti i baroni del Regno l’andarono a vicitare, e fare la reverenza come zio, e governatore di Carlo Martello infante, figliuolo del detto duca Andreasso, e della reina Giovanna, a cui succedeva il reame. I reali, ciò furono M. Ruberto prenze di Taranto, M. Filippo suo fratello, M. Carlo duca di Durazzo, che avea per moglie donna Maria sirocchia della reina Giovanna, e M. Luigi e M. Ruberto suoi fratelli andarono ad Aversa confidentemente a fare la reverenza al detto re d’Ungheria; e ricevuti da lui con infinta e simulata festa, stettono con lui infino al quarto giorno. E mosso per andare da Aversa a Napoli con grande comitiva, oltre alla sua gente, di quella de’ reali e del Regno, rimaso addietro, e cavalcando con lui il duca di Durazzo, il re gli disse: menatemi dove fu morto mio fratello. E senza accettare scusa condotto al luogo, il detto duca di Durazzo sceso del palafreno, già conoscendo il suo mortale caso, disse il re: traditore del sangue tuo, che farai? E tirato per forza, come era ordinato, infino ove fu strangolato il duca Andreasso, tagliatali la testa da un infedele Cumino, in sul sabbione dal Gafo fu in due pezzi gittato, in quell’orto e in quello luogo dove fu gittato il duca Andreasso. E in quello stante furono presi [21] gli altri reali, e ordinata la condotta sotto buona guardia, e con loro il piccolo infante Carlo Martello, furono mandati in Ungheria. Il quale Carlo poco appresso giunto in Ungheria morì. E M. Ruberto prenze di Taranto, e ’l fratello e’ cugini furono messi in prigione, e insieme ritenuti sotto buona guardia.

CAP. XI. La cagione della morte del duca di Durazzo.

Questo duca di Durazzo non si trovò che fosse autore della morte del duca Andreasso, ma però ch’egli come molto astuto, avea, non senza alcuna espettazione di speranza del Regno, coll’aiuto del zio cardinale di Pelagorga, procacciato dispensazione dal papa, colla quale ruppe quattro grandi misteri. Ciò furono, violando il testamento e l’ordine e la concordia presa dal re Ruberto, e Umberto Martello re d’Ungheria, ove era disposto che il matrimonio di dama Maria sirocchia della reina Giovanna si dovesse fare, a conservagione della successione del regno colla casa di Carlo Umberto, discendenti di Carlo Martello, in certo caso di morte, o di mancamento di figliuoli alla reina. La quale Maria il detto duca si prese per moglie. E il saramento di ciò prestato per lo detto duca, e per altri reali in sul corpo di Cristo; e la dispensagione di potere prendere la nipote per moglie, la quale si prese e menò di quaresima. E bene che col duca Andreasso si ritenesse mostrandoli amore, nondimeno lungo tempo segretamente fece [22] impedire a corte la diliberazione della sua coronazione. Onde per questo soprastare fu fatto l’ordine e messo a esecuzione il detestabile e patricida della sua morte: e questa fu la cagione perchè il re d’Ungheria il fece morire. Di questa morte, e della carceragione de’ reali nacque grande tremore a tutto il regno. E fu il re reputato crudele non meno per la carceragione degl’innocenti giovani reali, che per la morte del duca di Durazzo.

CAP. XII. Come il re d’Ungheria entrò in Napoli.

Fatta il re d’Ungheria parte della sua vendetta, e ricevuto in Napoli come signore, e ordinato i magistrati, e comandato giustizia per tutto il regno, cominciò ad andare vicitando le città e le provincie. E da tutti i baroni prese saramento per Carlo Martello suo nipote. E nell’anno 1348 quasi tutto il regno l’ubbidia, salvo che in Puglia era contra lui il forte castello d’Amalfi della montagna, il quale si teneva per la reina, e per M. Luigi di Taranto. E questo guardavano masnade italiane con cento cavalieri tedeschi, capitano della gente e del castello M. Lorenzo figliuolo di M. Niccola degli Acciaiuoli di Firenze, giovane cavaliere, e di grande cuore, e di buono aspetto. Non avendo ancora mandato il detto re in terra d’Otranto, nè in Calavra, i giustizieri che v’erano per la reina faceano l’uficio per lei, e non ubbidivano al re d’Ungheria, ed egli non strignea il paese, e però non vi si mostrava ribellione.

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CAP. XIII. Come il re d’Ungheria vicitava il regno di Puglia.

In questi dì essendo la mortalità già cominciata nel Regno per tutto, nondimeno il re cavalcava vicitando le terre del Regno. Ed essendo stato in Abruzzi, in Puglia, e in Principato, tornò a Napoli del mese d’aprile del detto anno: e trovati già morti alquanti de’ suoi baroni, sentì che certi conti e baroni del Regno faceano cospirazione contro a lui. E impaurito in se medesimo per la morte de’ suoi, e per la generale mortalità, avegnachè fosse di molto franco cuore, non gli parve tempo da ricercare quelle cose con alcuno sospetto: anzi con savia continenza mostrava a’ baroni piena confidenza. E copertamente (eziandio al suo privato consiglio) intendea a fornire tutte le buone terre e castella del Regno di gente d’arme e di vittuaglia. E con seco aveva uno barone della Magna che avea nome Currado Lupo. Costui aveva il re provato fedele e ardito in molti suoi servigi, e a lui accomandò milledugento cavalieri tedeschi che aveva nel Regno. E un suo fratello, ch’avea nome Guelforte, mise nel castello nuovo di Napoli dove era l’abitazione reale, con buona compagnia, e bene fornito d’ogni cosa da vivere, e d’arme e di vestimento e calzamento, e gli accomandò la guardia di quello castello; e fornì il castello di Capovana, e quello di Santermo sopra la città di Napoli, e il castello dell’Uovo. E [24] tratto del Regno il doge Guernieri Tedesco, cui egli avea soldato con millecinquecento barbute quando entrò nel Regno, non fidandosi di lui, lasciò suo vicario alla guardia del detto reame il detto Currado Lupo; e ’l doge Guernieri malcontento del re, con sue masnade di Tedeschi si ridusse in Campagna.

CAP. XIV. Come il re d’Ungheria partitosi del Regno tornò in Ungheria.

Avendo il detto re ordinata la sua gente e le sue terre in tutte le parti del Regno, le quali e’ possedeva: e ammaestrati in segreto i suoi vicari e castellani di buona guardia, non mostrando a’ baroni del Regno, nè eziandio a’ suoi, che del Regno si dovesse partire, si mosse da Napoli, dove avea fatto poco dimoro, e andonne in Puglia; e ordinata la guardia delle terre e delle castella di là in mano di suoi Ungheri, avendo fatto armare nel porto di Barletta una sottile galea, subitamente, improvviso a tutti quelli del Regno, all’uscita di Maggio l’anno 1348, vi montò suso con poca compagnia, e fece dare de’ remi in acqua, e senza arresto valicò sano e salvo in Ischiavonia, e di là con pochi compagni a cavallo se n’andò in Ungheria. Questa subita partita di cotanto re fu tenuta follemente fatta da molti, e da lieve e non savio movimento d’animo, e molti il ne biasimarono. Altri dissono che provvedutamente e con molto senno l’avea fatto, avendo diliberato il partire nell’animo suo per tema della mortalità, e non vedendo [25] tempo da potersi scoprire contra i baroni, i quali sentiva male disposti alla sua fede, come detto è, e commendaronlo di segreto e provveduto partimento.

CAP. XV. Novità del reame di Tunisi, e più rivolgimenti di quello.

In questo mese di maggio avendo Balase re del Garbo e della Bella Marina prima conquistato il reame di Trenusi, e montatone in superbia ambizione, trattò con Alesbi fratello del re di Tunisi: e fatta sua armata per mare, e grande oste per terra, improvviso al re di Tunisi fu addosso, e senza contasto, avendo il ricetto d’Alesbi, entrò nella città, e prese il re, e di presente il fece morire. E avendo la signoria, non attenne i patti ad Alesbi, il quale partito di Tunisi, e aggiuntosi grande copia d’Arabi del reame, venne verso Tunisi. Il re Balase accolta grande oste andò contro a lui, e commissono insieme mortale battaglia, nella quale morì la maggiore parte della gente del re Balase, ed egli sconfitto si fuggì in Carvano, suo forte castello; e assediato in quello dagli Arabi, per danari s’acconciò con loro, e tornossi a Tunisi. Alesbi da capo co’ gli Arabi tornò sopra Tunisi: ma Balase si tenea la guardia delle terre, sicchè gli Arabi non potendo combattere si tornarono in loro pasture. Avea Balase quando si partì di suo reame lasciato nella città reale di Fessa Maumetto suo nipote, e in Tremus [26] Buevem suo figliuolo. Costoro avendo sentito come Balase era sconfitto e assediato dagli Arabi, senza sapere l’uno dell’altro, catuno si rubellò e fecionsi fare re: il figliuolo in Tremus, e il nipote in Fessa. E sentendo Buevem che Maumetto s’era levato re in Fessa, parendogli ch’egli avesse occupata la sua eredità, propose nell’animo suo d’abbatterlo, e così gli venne fatto, come innanzi al suo debito tempo racconteremo.

CAP. XVI. Come per la partita del re d’Ungheria del Regno i baroni e’ popoli si dolsono.

Sentendo gli uomini e i baroni del Regno la subita partita del re d’Ungheria si maravigliarono forte, non ne avendo di ciò conosciuto alcuno indizio. E molte comunanze e baroni ch’amavano il riposo del Regno, e portavano fede alla sua signoria ne furono dolenti; perocchè non ostante che fosse nato e nutricato in Ungheria, e avesse con seco assai di quella gente barbara, molto mantenea grande giustizia, e non sofferia che sua gente facesse oltraggio o noia a’ paesani, anzi gli puniva più gravemente: e fece de’ suoi Ungheri per non troppo gravi falli aspre e spaventevoli giustizie. E le strade e i cammini facea per tutto il Regno sicure. E avea spente le brigate de’ paesani, delle quali per antica consuetudine soleano grandi congregazioni di ladroni fare, i quali sotto loro capitani conturbavano le contrade e’ cammini: e per questo [27] pareva a’ paesani essere in istato tranquillo e fermo da dovere bene posare. E alquanti altri baroni che male si contentavano, e gentili uomini di Napoli, per la morte del duca di Durazzo, e per la presura de’ reali a cui e’ portavano grande amore, e perchè il re non facea loro troppo onore, gli volevano male, e furono contenti della sua partita. Gli altri se ne dolsono assai, e parve loro che il Regno rimanesse in fortuna e in male stato, e che il peccato commesso della morte del re Andreasso, e l’aggravamento de’ peccati commessi per la troppa quiete de’ paesani, e per la soperchia abbondanza in che si sconoscevano a Dio, non fosse punita, e meritasse maggior disciplina e spogliamento di que’ beni, dai quali procedeva la viziosa ingratitudine, come avvenne, e seguendo nostra materia diviseremo.

CAP. XVII. Come si reggeva la sua gente nel Regno partito il re.

Partito il re d’Ungheria del Regno, la cavalleria dei Tedeschi e degli Ungheri, governata per buoni capitani, con le masnade de’ fanti a piè toscani che aveano con loro, si manteneano chetamente senza villaneggiare i paesani. E rispondea l’una gente all’altra tutti ubbedendo a M. Currado Lupo, cui il re avea lasciato vicario, il quale manteneva giustizia ov’egli distrignea. E gli uomini del Regno benchè si vedessono in debole signoria, non si ardivano a muovere contro ai forestieri, [28] e non parea però loro bene stare. Ma i baroni che non amavano il re d’Ungheria, volevano che la reina e M. Luigi tornassono nel Regno; e l’università di Napoli, co’ gentiluomini di Capovana e di Nido, d’un animo deliberarono il simigliante; e mandarono in Proenza, dicendo che di presente dovessono tornare nel Regno, e fare capo a Napoli ove sarebbono ricevuti onorevolemente, mostrando come i paesani si contentavano male della signoria de’ Tedeschi e degli Ungheri, e che in brieve tempo col loro aiuto sarebbono signori del reame. Aggiugnendo che i soldati Ungheri e Tedeschi si rammaricavano forte, che il re d’Ungheria non mandava danari per le loro paghe, ond’eglino erano di lui malcontenti; e il doge Guernieri colla sua compagnia de’ Tedeschi ch’era in Campagna s’offeria d’essere colla reina e con M. Luigi contro alla gente del re d’Ungheria, in quanto il volesse conducere al suo soldo: promettendo fedelmente per se e per le sue masnade d’aiutarli riacquistare il Regno.

CAP. XVIII. Come messer Luigi si fe’ titolare re al papa, e mandò nel Regno.

Messer Luigi trovandosi in corte di papa marito della regina Giovanna, e non re, gli parve, avendo diliberato di tornare nel Regno, che li fosse di necessità avere titolo di re: acciocchè avendo a governare colla reina le cose del reame, e a fare lettere da sua parte e della reina, il titolo [29] non disformasse, perocchè ancora la santa Chiesa non avea diliberato di farlo re di Cicilia, si fece titolare il re Luigi d’altro reame, il quale non avea, nè era per poter avere. E d’allora innanzi cominciarono a scrivere le lettere intitolandole in questo modo: Ludovicus et Ioanna Dei gratia rex et regina Hierusalem et Ciciliae. E d’allora innanzi M. Luigi fu chiamato re. Il detto re Luigi e la reina Giovanna avendo il conforto del ritornare nel Regno, come detto è, senza soggiorno procacciarono di ciò fare. E trovandosi poveri di moneta, richiesono d’aiuto il papa e i cardinali, il quale non impetrarono. Allora per necessità venderono alla Chiesa la giurisdizione che la reina avea nella città di Vignone per fiorini trentamila d’oro. E nondimeno richiesono baroni, e comunanze, e prelati, limosinando d’ogni parte per lo stretto bisogno. E con molta fatica feciono armare dieci galee di Genovesi, e pagaronle per quattro mesi. E in questo mezzo il re Luigi mandò innanzi a se nel Regno M. Niccola Acciaiuoli di Firenze suo balio con pieno mandato, il quale trovando la materia disposta al proponimento del suo signore, incontanente condusse il doge Guernieri, ch’era in Campagna con milledugento barbute di Tedeschi, ch’erano in sua compagnia. E ordinato le cose prestamente, mandò sollecitando il re e la reina che senza indugio venissono a Napoli con le loro galee: che essendo nel Regno le loro persone, con l’aiuto di Dio e de’ baroni del Regno, che desideravano la loro tornata, e de’ Napolitani, e del doge Guernieri, cui egli avea condotto con buone [30] masnade, e con le sue galee e’ sarebbono a queto signori del Regno, e non conoscea che la gente del re d’Ungheria a questo potesse riparare, sicchè in brieve al tutto sarebbono signori.

CAP. XIX. Come il re e la reina ritornarono nel Regno.

Avendo il re e la reina queste novelle, incontanente con quei baroni che poterono accogliere di Proenza, e con la loro famiglia, si raccolsono a Marsilia in su le dette dieci galee de’ Genovesi: ed avendo il tempo acconcio al loro viaggio, sani e salvi in pochi giorni arrivarono a Napoli, all’uscita del mese d’agosto del detto anno. E perocchè le castella di Napoli, e quello dell’Uovo, e il castello di Santermo, e ’l porto e la Tenzana erano nella signoria e guardia della gente del re d’Ungheria, non si poterono mettere nel porto, nè in quelle parti; anzi arrivarono fuori di Napoli sopra santa Maria del Carmino, di verso ponte Guicciardi, e ivi scesono in terra; e il re e la reina entrarono nella chiesa di Nostra Donna per aspettare i baroni e l’università di Napoli, che gli conducessono nella città.

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CAP. XX. Come il re e la reina Giovanna entrarono in Napoli a gran festa.

I baroni ch’erano accolti a Napoli, aspettando la venuta del re e della reina con la loro cavalleria, de’ quali erano caporali quegli di san Severino, e della casa del Balzo, l’ammiraglio conte di Montescheggioso, quelli dello Stendardo, il conte di Santo Agnolo, que’ della casa della Raonessa, e di Catanzano, e molti altri. I quali forniti di molti cavalli e di ricchi arredi e di nobili robe e arnesi, con loro scudieri vestiti d’assise, e’ gentili uomini di Napoli con loro proprio, apparecchiati pomposamente a cavallo e a piè con molta festa si misono ad andare al Carmino per conducere il re e la reina in Napoli con molta allegrezza; e da parte i Fiorentini e Sanesi e Lucchesi mercatanti che allora erano in Napoli, e Genovesi e Provenzali e altri forestieri, catuna gente per se, vestiti di ricche robe di velluti e di drappi di seta e di lana, con molti stormenti d’ogni ragione, sforzando la dissimulata festa, andarono incontro al re e alla reina. E giunti a loro, e fatta catuna compagnia la riverenza, apparecchiati nobilissimi destrieri, montati a cavallo, addestrati da’ baroni, sotto ricchi palii d’oro e di seta con molte compagnie d’armeggiatori innanzi, in prima il re, a cui andava in fronte il duca Guernieri co’ suoi Tedeschi, smovendo il popolo, e dicendo: gridate viva [32] il signore: e così gridando, fu la parola da molti notata, perchè era a loro nuovo titolo, non dicendosi viva il re, e con ragione dire non lo potevano a quella stagione. E con questa festa il condussono a Napoli; e perchè l’abitazioni reali erano tutte nella forza de’ nemici, il collocarono ad Arco, sopra Capovana, nelle case che furono di messere Aiutorio. E appresso di lui con somigliante festa vi condussono la reina. La gente, benchè sforzata si fosse di fare festa, pure s’avvedea per le molte città e castella che il re d’Ungheria avea nel Regno, e per la buona gente che v’era alla guardia, che questa tornata del re Luigi e della reina Giovanna era piuttosto aspetto di guerra e di grande spesa, e sconcio del paese e della mercanzia e de’ forestieri, che cominciamento di riposo, come poi n’avvenne.

CAP. XXI. Come il re Luigi si fe’ fare cavaliere, e da cui.

Vedendosi il re Luigi, e conoscendo il bisogno che avea di buono aiuto, e veggendo che la maggiore forza de’ suoi cavalieri era nel duca Guernieri, acciocchè per onorevole beneficio più lo traesse alla sua fede e amore, ordinò di farsi fare cavaliere per le sue mani, della qual cosa avvilì se, per onorare altrui. E ordinata gran festa per la sua cavalleria, del mese di settembre del detto anno, si fece fare cavaliere al detto doge Guernieri, ed egli in quello stante fece appresso ottanta altri cavalieri della città di Napoli, [33] e d’altri paesi del Regno. La libertà grande che ’l re dimostrò nel tedesco duca Guernieri tosto trovò vana in colui, come per la sua corrotta fede nel processo della nostra materia al suo tempo racconteremo.

CAP. XXII. Brieve raccontamento di cose fatte per il re d’Inghilterra contra quello di Francia.

Richiede il nostro proponimento, per le cose che avremo a scrivere de’ fatti del re di Francia e di quello d’Inghilterra per la loro guerra, che noi ci traiamo un poco addietro alle cose occorse più vicine, acciocchè quelle che seguiranno abbiano più chiaro intendimento. Essendo il valoroso re Adoardo d’Inghilterra passato in Normandia, del mese d’agosto, gli anni di Cristo 1347, e avendo preso Camoboroso e Saulu e più altre ville, venendo verso Parigi con quattromila cavalieri e quarantamila sergenti, tra’ quali avea molti arcieri, e fatto d’arsioni e di preda gravi danni al paese, s’accampò a Pussì e a San Germano, presso a Parigi a due leghe. Il re di Francia era andato colla sua forza verso Camo per farlisi incontro, e non trovandolo nel paese, si tornò addietro, e accolta molta baronia e cavalieri e sergenti di suo vassallaggio, s’accampò fuori di Parigi con più di settemila cavalieri e sessantamila sergenti: il re d’Inghilterra, sentendo la tornata del re di Francia, si levò da campo scostandosi da Parigi. Il re di Francia con grande baldanza [34] il seguitò con la sua gente, tanto che sopraggiunse il re d’Inghilterra, che andava assai a lenti passi per non mostrare paura: e aggiugnendosi l’una oste all’altra, il re d’Inghilterra vedendosi presso il re di Francia, e quello di Boemia e quello di Maiolica con molti baroni, e con più di due tanti cavalieri che non avea egli, come signore di grande cuore e ardire, di presente s’apparecchiò alla battaglia, intra Crescì e Albevilla. E ordinò tutto il suo carreaggio alla fronte a modo d’una schiera, e di sopra alle carra mise i cavalieri armati, e a piè d’ogni parte i suoi arcieri. E sopravvenendo l’assalto de’ Franceschi, baldanzosi, con grande empito cominciarono la battaglia. Gl’Inglesi fermi al loro carreaggio, con l’ordine dato agli arcieri, senza perdere colpo, di loro saette fedivano i cavalli e’ cavalieri de’ Franceschi. E vedendo gl’Inglesi fediti molti de’ cavalli e de’ cavalieri de’ loro avversari, a uno segno dato ordinate le guardie de’ sergenti sopra il carreaggio, corsono i cavalieri a’ loro cavalli che aveano a destro dietro al carriaggio, e montati e assettati sopra i loro cavalli, con savia condotta vennono alle spalle de’ nimici, ed assalirono i Franceschi con dura battaglia. I Franceschi che erano re e baroni d’alto pregio manteneano la battaglia vigorosamente, la quale durò da mezza nona alle due ore di notte; ove si dimostrarono di grandi operazioni d’armi di valorosi baroni e cavalieri da catuna parte. Ma perocchè i Franceschi e i loro cavalli erano più stanchi e magagnati dalle saette degl’Inglesi, e molti conducitori di loro morti, come fu la volontà d’Iddio la vittoria [35] rimase al re d’Inghilterra, con grande e grave danno de’ Franceschi. Morto vi fu il valente re di Boemia, figliuolo dello imperatore Arrigo di Luzimborgo, e il duca di Loreno, il conte di Lanzone fratello del re di Francia, e sei altri conti, con milleseicento cavalieri grande parte baroni e banderesi, e morironvi ventimila pedoni; fra i quali furono i Genovesi che erano andati là con dodici galee, che pochi ne camparono. Ed il re Filippo di Francia di notte, con sei tra prelati e baroni, e sessanta sergenti a piè, uscì della battaglia, e campò per grazia della notte. Sul campo si trovarono molti cavalli morti e bene quattromila fediti. E fatta questa battaglia a dì 26 d’agosto nel 1347, il re d’Inghilterra poco appresso pose assedio al forte castello di Calese sulla marina, e per assedio il vinse: e fattolo più forte, per avere porto nel reame e nella marina di Francia, lasciato nel paese il conte d’Erbi duca di Lancastro, suo cugino, a guerreggiare, con duemila cavalieri e ventimila pedoni i più arcieri, con grande onore si tornò in Inghilterra. Il conte d’Erbi entrò in Guascogna l’anno appresso, e conquistò più terre di quelle che vi tenea il re di Francia; e rotti in più abboccamenti i cavalieri franceschi, se ne venne cavalcando e predando il paese infino alla città di Tolosa; ma aggravando la mortalità quei paesi, si tornò addietro con grande preda. E fatta tregua dall’uno re all’altro, con grande onore del re d’Inghilterra, posò la guerra per alcuno tempo.

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CAP. XXIII. Come gli Ubaldini furo cominciatori della guerra che il comune di Firenze ebbe con loro.

Avendo narrato de’ fatti de’ due reami, cominciano le novità della nostra città di Firenze. Negli anni di Cristo 1348, essendo gli Ubaldini in pace, ma in corrotta fede col nostro comune, fidandosi nelle loro alpigiane fortezze, cominciarono a ricettare sbanditi del comune di Firenze: e insieme con loro entravano di notte nel Mugello, rubando le case e uccidendo gli uomini, e ricoglieansi nell’alpe con le ruberie. E avendo fatto questo più volte di notte, il cominciarono a fare di dì. E tornando d’Avignone uno Maghinardo da Firenze con duemila fiorini d’oro, gli Ubaldini il seguirono e uccisono, rubandolo sul contado di Firenze. E non volendone fare ammenda alla richesta del comune, i Fiorentini mandarono nell’alpe suoi soldati a piè e a cavallo col capitano della guardia. E stati più dì sopra le terre e sopra i fedeli degli Ubaldini feciono loro gran danno, e senza alcuno contasto si tornarono a Firenze.

CAP. XXIV. Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono da lui e dieronsi al comune di Firenze.

In questo anno, i fedeli del conte Galeotto de’ conti Guidi si rubellarono da lui, perocchè lungamente [37] gli avea male trattati, per sua crudeltà e dissoluta vita: e all’entrata del mese di marzo del detto anno gli tolsono il forte castello di san Niccolò, e tutte le sue terre e tenute intorno a quello, e ’l suo tesoro e arnesi, che n’era fornito nobilmente, e di presente si diedono al comune di Firenze. Il quale, perocchè il detto conte sempre avea nimicato il nostro comune, perocchè era ghibellino, ricevette la fortezza e gli uomini in sua giurisdizione e libera signoria, con quelle solenni cautele che i detti uomini poterono fare; e fecionli popolani e contadini, dando loro per alcuno tempo certe immunità. E ordinata la guardia delle castella nelle mani de’ cittadini, a’ popoli diede podestà che gli reggesse, e messe le castella e gli uomini ne’ suoi registri. Dinominò e intitolò l’acquisto, il contado di san Niccolò del comune di Firenze.

CAP. XXV. Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini, e presero Montegemmoli e loro castella.

Vedendo i Fiorentini che la latrocina superbia degli Ubaldini non si gastigava per una battitura, feciono decreto, che ogni anno si dovesse tornare sopra di loro, tanto che fossono privati delle alpigiane spelonche. E per questa cagione, il verno furono chiamati otto cittadini uficiali sopra provvedere e fornire la guerra: i quali, del mese di giugno 1349, mandarono l’oste del comune nell’alpe, la quale si dirizzò a Montegemmoli, [38] una rocca quasi inespugnabile: nella quale era Maghinardo da Susinana e due suoi figliuoli, con parecchie masnade di franchi masnadieri, i più usciti di Firenze. Era fuori della rocca in su la stretta schiena del poggio, alla guardia della via ch’andava al castello, una torre forte e bene armata: innanzi alla torre una tagliata in su la schiena del poggio, con forte steccato: e a questa guardia, per voglia di fare d’arme, i caporali de’ masnadieri del castello erano scesi co’ loro compagni: e la gente del comune di Firenze avendo fermo il loro campo, a intendimento di vincere il castello per assedio, e molestarlo con dificii i quali vi faceano conducere, alquanti masnadieri s’appressarono verso la guardia della torre per badaluccare. I valenti masnadieri d’entro, per troppa baldanza, uscirono fuori della tagliata incontro alla gente de’ Fiorentini, badaluccando e facendo gran cose d’arme per lo vantaggio che aveano del terreno. In questo stante i cavalieri de’ Fiorentini montando il poggio per dare vigore a’ loro masnadieri, cominciarono a scendere de’ cavalli, e a pignersi innanzi con fanti e a’ nemici, i quali per non perdere il terreno, con folle prodezza attesono tanto, che i cavalieri e’ masnadieri de’ Fiorentini co’ balestrieri furono mischiati tra loro, innanzi che si potessono ritrarre alla fortezza. E volendosi ritrarre, per lo soperchio de’ loro avversari non poterono fare, che a un’ora con loro insieme non entrassono dentro alli steccati i masnadieri fiorentini, e a loro aiuto erano tratti tanti balestrieri, che non lasciarono a’ nemici riprendere la fortezza della torre: anzi la [39] presono per loro. E ritraendosi i masnadieri degli Ubaldini per loro scampo nella rocca, continuando la battaglia stretta alle mani, entrarono i Fiorentini cacciando gli avversari nel primo procinto. E crescendo della gente dell’oste la loro forza, presono tutto, fuori de’ palagi e torri dell’ultima fortezza, ov’era racchiuso Maghinardo e la moglie, e due suoi figliuoli con loro compagnia: i quali si difenderono vigorosamente. Essendo il dì e la notte combattuti dalla gente de’ Fiorentini, Maghinardo e’ figliuoli, benchè fossero in fortezza da potersi difendere lungamente, conobbono il loro pericolo. E sentendosi male d’accordo per loro quistioni con gli altri Ubaldini loro consorti, si deliberarono di dare la rocca a’ Fiorentini, e di volere essere contro a’ suoi consorti co’ Fiorentini. E fatti i patti, e fermi a Firenze, diedono la rocca libera al comune di Firenze: e il comune prese il saramento della fede promessa, li ricevette in amicizia e cittadinanza, e ordinarono loro la provvigione promessa: e dati loro cavalieri e pedoni si mossono a guerreggiare gli altri Ubaldini. E innanzi che l’oste de’ Fiorentini tornasse, assediò Montecolloreto, e presonlo; e misonvi fornimento e buona guardia. Andarono a Roccabruna ed ebbonla: ed entrarono nel Podere e presono Lozzole per trattato. E per trattato fu dato loro la signoria di Vigiano e di più altre tenute, che appartenevano al detto Maghinardo e a certi altri degli Ubaldini che feciono il comandamento del comune. E andarono intorno a Susinana, guastando le case e’ campi di fuori; e tentando di volerlo combattere, trovarono il castello sì forte e sì bene [40] fornito alla difesa, che lasciarono stare, e andarono a Valdagnello, e dieronvi una battaglia, senza potervi acquistare per la fortezza del sito, e perchè era bene provveduto alla difesa: e però guastarono i campi e le ville d’intorno. E fornito che ebbono tutte le castella che aveano acquistate di vittuaglia e d’arme e di buona guardia, avendo fatto agli Ubaldini e a’ loro fedeli gran danno, del mese d’agosto, gli anni di Cristo 1349, senza alcuno impedimento, sani e salvi con vittoria si tornarono alla città di Firenze.

CAP. XXVI. Come il re di Francia comperò il Dalfinato.

Il re di Francia posandosi nella tregua col re d’Inghilterra, avendo papa Clemente sesto, suo protettore ne’ fatti temporali, perocchè per lui si teneva essere al papato, e amava sopra modo d’accrescere i suoi congiunti, i quali erano uomini del re di Francia, e però il re traeva in sussidio della guerra danari al bisogno; e le decime del reame e tutte grazie che volea domandare il papa senza mezzo l’otriava, trapassando l’onestà del suo pontificato: e perocchè i cardinali erano la maggior parte di suo reame, non si ardivano a contrapporre a cosa che volesse. Era in que’ dì il Dalfino di Vienna uomo molle, e di poca virtù e fermezza. Costui alcuno tempo tenne vita femminile e lasciva, vivendo in mollizie: ed appresso volle usare l’arme: e andò capitano per la Chiesa alle Smirne in Turchia, e dove poteva acquistare [41] onore e pregio, tornò con poca buona fama: e per bisogno impegnò alla Chiesa il Dalfinato per fiorini centomila d’oro: ed essendo morta la moglie, credendo prosperare in abito chericile, sperando in quello divenire cardinale, vendè al re Filippo di Francia il Dalfinato, contro alla volontà de’ suoi paesani, e pagò la Chiesa: e fatto cherico fu dal papa promosso in patriarca.... nel quale finì sua vita spegnendo la fama della casa sua. E il re di Francia, perdendo per la guerra d’Inghilterra in ponente, accresceva senza guerra in levante i confini al suo reame.

CAP. XXVII. La cagione perchè il re d’Araona tolse Maiolica al re.

Vera cosa fu, che il re di Maiolica nella sua infanzia si nutricò co’ reali di Francia, e poi che fu re di Maiolica, essendo dissimigliante a’ Catalani onde traeva suo origine, mostrò d’essere molto scienziato e adorno di bei costumi. Disdegnò di rendere al re d’Araona l’omaggio debito, il quale si pagava con la reverenzia d’un bacio: e schifo della vita catalanesca e di loro costumi, seguiva i Franceschi; la qual cosa il fece sospetto al suo legnaggio. Cugino era del re d’Araona, e la sirocchia carnale avea per moglie, della quale avea figliuoli. Nondimeno il re d’Araona fece apparecchiamento d’arme contro a lui, e trattato occulto co’ cittadini di Maiolica. Per lo quale, essendo egli a Perpignano, e venendo sopra [42] loro il re d’Araona, volendo mostrare di volersi difendere, il feciono venire in Maiolica, mostrando di volerlo atare fedelmente. Venuta la gente col re d’Araona, e scesa nell’isola, accogliendo il consiglio in Maiolica per volere dare ordine alla difesa, essendo tempo da potere scoprire il loro tradimento, feciono dire al loro re, o che facesse la volontà del re d’Araona, o che se n’andasse. Vedendosi tradito da’ suoi cittadini, i quali aveano già abbarrata la città contro a lui, si ricolse in fretta, per campare la persona, in una galea. E partendosi dell’isola, le porte della città furono aperte alla gente del re d’Araona: e data loro la signoria di tutta l’isola, con patto che ella non dovesse tornare per alcuno tempo al loro re nè a’ suoi discendenti.

CAP. XXVIII. Come il re di Maiolica vendè la sua parte di Mompelieri al re di Francia.

Il re di Maiolica essendo cacciato dell’isola da’ suoi sudditi, venuta l’isola nella signoria del re d’Araona, e avendo poco di quello che il suo titolo reale richiedea, disiderando d’accogliere moneta, e d’avere aiuto dal re di Francia, al cui servigio era stato lungamente nelle sue guerre e battaglie personalmente, il richiese con grande istanza d’aiuto, acciocchè potesse ricoverare lo suo, ma da lui non potè avere alcuno aiuto. E stretto da grave bisogno, vendè al detto re di Francia la propietà e giurisdizione ch’avea in comune [43] consorteria col detto re nella metà di Mompelieri, per quello pregio che il re di Francia volle, a buono mercato. E come povero e sventurato re venia cercando modo di riacquistare l’isola di Maiolica. La qual cosa fu cagione della sua finale morte, come innanzi al suo tempo racconteremo.

CAP. XXIX. Come s’ordinò il generale perdono a Roma nel 1349.

Essendo stato il giudicio della generale mortalità nell’universo per giusta cagione, fu supplicato al papa che nel prossimo futuro cinquantesimo anno la Chiesa rinnovellasse generale perdono in Roma. Il papa Clemente sesto, col consiglio de’ suoi cardinali, e di molti altri prelati e maestri in teologia, trovando che per lo dicreto fatto per papa Bonifazio, ogni capo di cento anni dalla natività di Cristo fosse ordinato generale perdono a Roma, per comune consiglio parve più convenevole, considerando l’età umana che è brieve, che il perdono fosse di cinquanta in cinquanta anni. Avendo ancora alcuno rispetto all’anno Iubileo della santa Scrittura, nel quale catuno ritornava ne’ suoi propri beni: e i propri beni de’ cristiani sono i meriti della passione di Cristo, per li quali ci seguita indulgenzia e remissione dei peccati. E per questa cagione la santa madre Chiesa fece decreto e ordine: che nel prossimo futuro cinquantesimo anno, per la natività di Cristo, cominciasse a Roma generale [44] perdono di colpa e di pena di tutti i peccati a’ fedeli cristiani i quali andassono a Roma, dal detto termine a uno anno, i quali fossono confessi e contriti de’ loro peccati, e vicitassono ogni dì la chiesa di santo Pietro e di santo Paolo e di santo Giovanni Laterano. E le dette visitazioni furono stribuite a’ Romani trenta dì continovi, salvo che quello si omettesse si potesse con un altro ristorare; ed agl’Italiani quindici dì, e agli oltramontani a tali dieci, a tali cinque dì, e meno, secondo la distanza de’ paesi. E nondimeno la Chiesa discretamente provvide, per molti e diversi casi e cagioni che possono avvenire, ch’e’ cardinali e gli altri legati che andarono per lo mondo, e stettono a Roma, avessono autorità di potere dispensare del tempo come a loro paresse. E le lettere furono fatte e mandate per corrieri sotto le bolle papali. In prima per tutta la cristianità, e appresso per suoi legati a predicare per tutto le sante indulgenze, acciocchè ciascuno s’apparecchiasse e disponesse a potere ricevere il santo perdono. In Italia furono mandati due cardinali, quello di Bologna sopra lo Mare, messer Annibaldo di Ceccano, e messer Ponzo di Perotto di Linguadoca vescovo d’Orbivieto, uomo onesto, e di grande autorità, il quale era vicario di Roma per lo papa: fu commessa piena e generale legazione a potere a tutti dispensare il tempo delle dette visitazioni come a lui paresse, ch’era presente continuo nella città di Roma. Lasciando alquanto la santa disposizione del perdono, ci occorrono meno piacevoli, e più gravi cose al presente a raccontare.

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CAP. XXX. Come il re di Maiolica andò per racquistare l’isola, e fuvvi morto.

Lo sventurato re di Maiolica non trovando aiuto dal re di Francia, cui egli avea lungamente servito nelle sue guerre, nè dal papa, nè da alcuno altro signore, strignendolo la volontà e ’l bisogno di racquistare l’isola, come disperato d’ogni aiuto, avendo venduta la sua parte di Mompelieri, accattò danari dal re di Francia sopra la villa di Perpignano, ch’altro non gli era rimaso, e condusse cavalieri e pedoni, e dodici galee di Genovesi fece armare al suo soldo, e alcuno navilio di carico; sperando, quando fosse con forza d’arme nell’isola, gli uomini del suo regno tornassono a lui, come forse a inganno gli era dato intendimento, perocchè con alquanti era in trattato. Apparecchiata l’oste, e ’l navilio con le dodici galee armate, del mese di... del detto anno si mise in mare; e senza impedimento arrivò nell’isola di Maiolica, presso alla città a dieci miglia; e ivi scesi in terra, s’accampò con quattrocento cavalieri e cinquecento masnadieri, aspettando che coloro della città con cui avea trattato, e il popolo della terra il volessono come loro benigno e natural signore. Le dodici galee de’ Genovesi avendo messo in terra il re, o che fosse di suo comandamento, per mostrarsi più forte agli uomini dell’isola, o per altre cagioni, si partirono da quella parte ove [46] il re avea posto il campo, e girarono da un’altra parte del’isola; e rimaso il re, e ’l figliuolo, e l’altra gente senza il favore delle dodici galee, della città di Maiolica subitamente uscirono più di seicento cavalieri con grandissimo popolo, e vennero contro all’oste del re per combattere con lui. Il re vedendosi i nimici appresso, potea stare alle difese tanto che tornassero le sue galee: ma con vana confidanza de’ suoi regnicoli, che non dovessero resistere contro a lui, senza attendere punto, si volle mettere alla battaglia, per trarre a fine la sua impresa come la fortuna il menava. E ordinata la sua gente, e confortata a ben fare, mostrando che quivi non era altro rimedio che nel bene operare la virtù delle loro persone, sì fedì tra i nemici, i quali erano cavalieri catalani, maggiore quantità e migliore gente che i suoi soldati, e guidati da buoni capitani, i quali ricevettono il re e i suoi cavalieri francamente, per modo, che in poca d’ora furono sconfitti, e il re morto. Il quale se avessono voluto potieno ritener prigione, ma rade volte in fatti d’arme tra’ Catalani si trova mansuetudine: il figliuolo fu preso, e rappresentato al zio re d’Araona, l’altra gente fu rotta e sbarattata, e l’isola rimase libera al re d’Araona, e Mompelieri e Perpignano al re di Francia.

CAP. XXXI. Come i baroni italiani e catalani per loro discordie guastarono l’isola di Cicilia.

Avendo detto dell’isola di Maiolica, quella di [47] Cicilia ci s’offera con dissimigliante fortuna. Essendo per la mortalità morto il valoroso duca Giovanni, balio e governatore dell’isola di Cicilia, rimaso picciolo fanciullo di dieci anni messer Luigi figliuolo che fu di don Pietro, il quale si fece appellare re di Cicilia, a cui aspettava l’eredità del detto reame. Costui avea due fratelli minori di se, l’uno chiamato Giovanni, l’altro Federigo. E non essendo della casa reale nessuno in età che governasse l’isola per lo fanciullo, discordia nacque tra i baroni: e dall’una parte erano i Palizzi caporali, e con loro teneano quelli di Chiaramonte, e’ conti di Vintimiglia, e i discendenti conti della casa degli Uberti di Firenze, de’ quali era capo il conte Scalore, e con costoro teneano quasi la maggiore parte degl’Italiani dell’isola. E questi si faceano chiamare la parte del re, e a loro segno rispondeano le migliori città della marina dell’isola, Messina, Siracusa, Melazzo, Cefalu, Palermo, Trapani, Mazzara, Sciacca, Girgenti, Taormina, e gran parte delle buone terre e castella fra la terra dell’isola. E dall’altra parte era don Brasco d’Araona caporale con gli altri Catalani dell’isola, e il figliuolo di Giovanni Barresi colla sua casa, genero di don Brasco, e molti altri di Catania, i quali aveano a loro segno alla marina la città di Catania, Iaci, Alicata, Tose, la Catona, e il capo d’Orlando; e fra terra grande numero di città e di castella. E per simigliante modo si faceano costoro chiamare la parte del re. E per le loro divisioni cominciarono a far guerra l’uno contra l’altro. E catuna parte s’armava, e afforzava d’avere seguito di gente dell’isola: e catuno [48] volea governare il reame per lo re, e non potendosi trovare via d’accordo tra loro, cominciarono a cavalcare l’uno sopra l’altro; e dove si scontravano si combatteano mortalmente. E spesso rompea e sconfiggea l’una gente l’altra, e senza misericordia a tenere prigione s’uccidevano insieme, e montando la loro sfrenata mala volontà, cominciarono ad ardere le loro possessioni e le biade ne’ campi, come fossono in terra di nimici; e facendo questo guasto, oggi in una contrada, e domani nell’altra, consumarono il paese senza alcuna misericordia. E seguitando l’uno dì appresso dell’altro questa pestilente furia tra loro, in poco tempo fu tanta tribolazione tra’ paesani, e tanta disfidanza, che lasciarono il coltivamento delle terre, e il nutricamento del bestiame: onde avvenne che quello paese, il quale per antico era fontana viva di grano, e di biade, e d’ogni vittuaglia, a spandere per lo mondo tra i cristiani e tra i saracini, che solo tra loro nell’isola non avea che manicare; e il bestiame per simigliante modo fu consumato e disperso. Per la quale cosa avvenne che l’anno 1349 a Palermo, e a più altre città, per inopia convenne si provvedesse per comune consiglio grano mescolato con orzo, e dare ogni settimana certa piccola distribuizione per testa d’uomo, acciocchè potessono miserevolmente mantenere la loro vita. E non potendosi sostentare i popoli con questa misera provvisione, convenne che il popolo minuto in gran parte per nicistà abbandonasse l’isola, e molti ne fuggirono in Calavra e nel’isola di Sardigna per scampare dalla fame la loro vita. E questa [49] pestilenzia non avvenne a’ Ciciliani per sterilità di tempo avverso, che i campi aveano da Dio la loro stagione fertile, e abbondevole della grazia del cielo. E non era tolto loro il coltivamento da nimici strani, nè per rubellione di loro signorie, nè per odio del paese, ch’era patria de’ suoi abitanti a catuna parte e reame d’uno medesimo re: ma stimasi avvenisse per dimostrazione del peccato della ingratitudine dell’abbondanza di troppi beni, e a dimostrare come è divoratrice senza rimedio d’ogni buono stato la cittadinesca discordia, e il divoratore fuoco della laida invidia.

CAP. XXXII. Come il re Filippo di Francia e ’l figliuolo tolsono moglie.

Era nella mortalità morta la moglie del re Filippo di Francia, madre di messer Giovanni primogenito, Dalfino di Vienna, la quale fu sirocchia del duca di Borgogna, e la moglie di messer Giovanni suo figliuolo, figliuola che fu del re Giovanni di Boemia della casa di Luzimborgo, della quale rimasono quattro figliuoli maschi, che ’l primo nomato Carlo fu duca di Normandia, e il secondo messer Luigi conte d’Angiò, e il terzo messer Giovanni conte di Pittieri, e il quarto minore messer Filippo: e tre figliuole, che la maggiore fu reina di Navarra, la seconda monaca del grande monasterio di Puscì, e un’altra piccola nominata Lisabetta. Ed essendo catuno senza moglie, il duca Giovanni trattava di torre per moglie [50] la sirocchia del re di Navarra, ch’era delle più belle giovani e di maggiore pregio di virtù che niun’altra di que’ paesi, e tenevane bargagno. Il re Filippo suo padre sapendo che il figliuolo trattava d’avere questa damigella per moglie, un dì che ’l duca suo figliuolo era cavalcato fuori del paese, mandò per questa giovane: e come fu venuta, senza fare altro trattato la tolse per moglie, perocchè ’l piacere della sua bellezza non gli lasciò considerare più innanzi. Tornato il figliuolo se ne indegnò forte, e alla festa delle nozze del padre non volle essere. Ma passato alcuno tempo, richiamato dal padre, venne a lui. E riprendendolo il re dolcemente, gli disse: caro figliuolo, se voi amavate avere a donna questa damigella, voi non dovevate tener bargagno. Onde egli conoscendo suo difetto, rimase contento. E allora il padre gli diè per moglie un’altra nobile dama della casa di Bologna su lo mare, ch’era stata moglie del duca di Borgogna: della qual cosa i Borgognoni furono mal contenti, essendo rimaso un picciolo fanciullo della detta donna, il quale dovea essere loro duca. E per lo detto maritaggio vendè la donna il governamento del figliuolo con la forza del re, e il re occupò parte della giuridizione di Borgogna, onde i baroni e’ paesani forte si sdegnarono contro al loro re. Ma perocchè il re di Francia per troppa giovinile vaghezza avea offeso il figliuolo e se, poco tempo stette con la sua giovane e vaga donna, che sforzando la natura già senile nella bellezza della damigella, raccorciò il tempo della sua vita, come [51] appresso al debito tempo racconteremo, narrando prima com’egli fu ingannato dagl’Inghilesi.

CAP. XXXIII. Come il re di Francia fu ingannato del trattato di Calese con gran danno.

Il re Filippo avendo l’animo curioso di trarre del suo reame la forza del re d’Inghilterra, il quale teneva il forte castello di Calese in su la marina, non potendo per forza farlo, pensava fornirlo per danari con trattato. Alla guardia di Calese era uno gentile uomo d’Inghilterra, con sue masnade di cavalieri e di sergenti. Il re di Francia il fece tentare se per danari gli rendesse il castello. L’Inghilese avveduto diede orecchie al fatto, e senza indugio il fece segretamente sentire al suo signore; il quale confidandosi nella fede di costui, gli diede per comandamento che menasse saviamente il trattato infino al fatto. Costui seguitò con molta astuzia, tanto, che per la sfrenata volontà che il re di Francia avea di racquistarlo, s’indusse a dare i danari innanzi, attenendosi alla fede del castellano, e dielli, come era il patto, seimila scudi d’oro, di ventimila che per lo patto gli dovea dare, e del rimanente gli fece quelle fermezze che volle, che mettendo dentro nel castello quella gente che il re volesse, in sul ponte compierebbe il pagamento. E così data la fede da catuna parte, il re di Francia commise la bisogna ad alquanti suoi baroni: i quali incontanente [52] forniti di cavalieri e di sergenti d’arme in grande quantità, cavalcarono al castello; e come ordinato era per lo castellano, aperta la porta, e calato il ponte, mise dentro nel castello coloro cui i Franceschi vollono, perchè vedessero a loro sicurtà che dentro non vi fosse altra gente che la sua alla guardia, acciocchè si assicurassono a fare il rimanente del pagamento; e a costoro, com’egli avea provveduto, fece sì vedere, che del nascoso aguato non si avvidono. Onde i Franceschi vinti dalla sprovveduta baldanza, s’affrettarono a fare sul ponte il pagamento del rimanente fino ne’ ventimila scudi d’oro al castellano, ed egli mise dentro nel castello una parte de’ Franceschi, mostrando di volere assegnare loro la fortezza del castello, e l’altra oste s’attendea di fuori. Il re d’Inghilterra, che avea fatto menare questo trattato, era di notte venuto nel castello egli e il figliuolo con buona compagnia di gente eletta e fidata, come a quello affare gli parve competente, i quali si stettono riposti per modo, ch’e’ Franceschi non se ne poterono avvedere. I Franceschi che si credettono senza inganno essere signori del castello, da più parti furono subitamente assaliti dal re e da sue genti. E bene che gl’Inghilesi fossono pochi a rispetto de’ Franceschi, per lo improvviso e subito assalto i Franceschi ch’erano nel castello sbigottirono, e temettono, vedendosi a stretta, e non essendo usi di cotali baratti, per sì fatto modo, che poco feciono resistenza. Gl’Inghilesi di presente, come ordinato fu, presono le vie e le porti, e ’l castellano che si mischiava al cominciamento [53] co’ Franceschi d’entro si rivolse contro a loro. E vedendo i Franceschi che non aveano l’uscita libera della terra, lasciarono l’arme, e arrenderonsi prigioni al re d’Inghilterra. E fatto questo, a’ Franceschi di fuori fu la cosa sì maravigliosa, che fortemente spaventarono. E sentendo questo il re e’ suoi presono ardire, e uscirono fuori addosso agli spaventati, con grandi strida e ardire. E non ostante che i Franceschi fossono presso a dieci per uno degl’Inghilesi, tanta paura gli vinse, che si misono in fuga, e abbandonarono il campo. Ed essendo seguitati alquanto dagl’Inghilesi, che non gli poterono troppo seguitare perchè aveano pochi cavalli, presine e morti alquanti, con doppia vittoria si ritornarono nel castello.

CAP. XXXIV. Come messer Carlo eletto imperadore fu presso che morto di veleno.

Nella cronica del nostro anticessore è fatta memoria, come la santa Chiesa di Roma, sappiendo come Carlo figliuolo del re Giovanni di Boemia era di virtù e di senno e di prodezza il più eccellente prenze della Magna, morto il Bavaro, che lungo tempo in discordia colla Chiesa avea occupato lo ’mperio, non ostante che il re Giovanni vivesse, ordinò di farlo eleggere allo ’mperio. Ed essendo in discordia gli elettori, perocchè l’arcivescovo di Maganza non gli volea dare la boce sua, papa Clemente trovando [54] ch’egli era stato de’ fautori del Bavaro, il privò dell’arcivescovado, ed elessene un altro; il quale avendo il titolo, non ostante non avesse la possessione, come il papa volle diede la sua boce al detto Carlo, e così ebbe piena la sua elezione. Costui eletto era impotente di cavalleria e di moneta a potere mantenere campo ad Aia la Cappella quaranta dì, a rispondere con la forza dell’arme a chi lo volesse contastare, secondo la consuetudine degli eletti imperadori: e però santa Chiesa dispensò con lui questa ceremonia, e levollo dal pericolo e dalla spesa. E in questo servigio la Chiesa prese saramento da lui, che venendo alla corona egli perdonerebbe a’ comuni di Toscana ogni offesa fatta all’imperadore Arrigo suo avolo e agli altri imperadori, e tratterebbegli come amici senza alcuna oppressione. Dopo questo, morto il padre nella battaglia del re di Francia, come detto è, a costui succedette, e fu chiamato re di Boemia. E cercando d’accogliere forza per potere venire alla corona dello imperio, ed essendo poco pregiato e meno ubbidito dagli Alamanni, tenendosi gravati della sua elezione, egli umile si stava chetamente in Boemia aspettando suo tempo. La reina con femminile consiglio volendo attrarre l’amore del marito dall’altre donne, ch’era giovane, avvegnachè assai onesta, gli fece dare a mangiare certa cosa, la quale mangiata dovea crescere l’amore alla sua donna. Nella qual cosa, o erba o altro che mescolato vi fosse che tenesse veleno, come presa l’ebbe, ne venne a pericolo di morte; e per aiuto di grandi e subiti [55] argomenti, pelato de’ suoi peli, ricoverò la salute del suo corpo. Della qual cosa facendo condannare a morte due suoi siniscalchi per giustizia, la reina, parendo che per sua semplice operazione, più che per colpa che avessono, i famigli del loro eletto imperadore fossono per morire innocenti, s’inginocchiò dinanzi al re dicendo, come que’ cavalieri non aveano colpa di quello accidente, ma se colpa c’era, era sua: perocchè per femminile consiglio, volendo più attrarre a se il suo amore, non credendo far cosa che offendere il dovesse, li fece dare quella cosa a bere, ovvero a mangiare: e però, se giustizia se n’avea a fare, ella era degna per la sua ignoranza d’ogni pena, e non coloro ch’erano innocenti. Il discreto signore udite queste parole, considerò la fragilità e la natura delle femmine, e colla sua mansuetudine inchinò l’animo all’errore dell’amore femminile, e con molta benignità perdonò alla reina dolcemente, e liberò i suoi siniscalchi, rimettendogli ne’ loro ufici e onori. Alcuni dissono, che messer Luchino de’ Visconti di Milano il fece avvelenare per tema di perdere la sua tirannia. Ed essendo lo eletto imperadore nel pericolo della morte, si disse che promise a Dio se campasse, che perdonerebbe a chi l’avesse offeso e non ne farebbe alcuna vendetta; e quale che fosse la cagione, l’effetto seguitò, che vendetta nessuna fece.

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CAP. XXXV. Come il re Luigi prese più castella.

Tornando a’ fatti d’Italia, il re Luigi fatto cavaliere, e dato alcuno ordine a’ fatti del Regno che l’ubbidia, avvedutosi de’ baroni che teneano col re d’Ungheria, innanzi che volesse procedere a fare altra impresa attese a volere racquistare le castella di Napoli. E prima cominciò al castello di Santermo sopra la detta città, e quello per viltà di coloro che l’aveano a guardia, temendo delle minacce più che della forza della battaglia ch’era loro cominciata, essendo da potersi bene difendere, s’arrenderono al re. E avendo vittoriosamente acquistato questo castello, se ne venne a quello di Capovana, che è all’entrata della città, fortissimo, da non potersi vincere per battaglia. Coloro che dentro v’erano alla difesa cominciarono a resistere al primo assalto; ma inviliti per la presura di quello di Santermo, e più perchè non vedeano apparecchiato loro soccorso, trattaron la loro salvezza, e renderono il castello al re. Avuto il re questi due forti castelli con poca fatica, s’addirizzò al castello dell’Uovo fuori di Napoli sopra il mare, il quale per battaglia non si potea avere, ma era agevole ad assediare, che tutto era in mare, salvo d’una parte si congiungeva con una cresta del poggio, in sul quale il re fece fare un battifolle. Que’ del castello sappiendo che il loro soccorso non potea essere d’altra parte che [57] per mare, e in quello mare non era alcuna forza del re d’Ungheria, innanzi che si volessono recare allo stremo patteggiarono col re, e renderongli il castello. Avute il re prosperamente queste tre castella in poco tempo, fece molto rinvigorire gli animi de’ Napoletani. E vedendo che non v’era rimaso altro che il castello Nuovo a capo alla città, dove era l’abitazione reale, il quale era sopra modo forte e bene fornito, tanto era cresciuta la baldanza, che nel fervore del loro animo con molto apparecchiamento si misono a combatterlo da ogni parte, con aspra e fiera battaglia. Ma dentro v’era Gulforte fratello di Currado Lupo, cui il re d’Ungheria avea lasciato vicario suo, ed era accompagnato di buona masnada, e bene fornito alla difesa, sicchè per niente si travagliarono della battaglia. E certificati che per forza non lo potevano avere, e che Gulforte era fedele al suo signore, presono consiglio d’abbarrare tra il castello e la città, e così fu fatto, e misonvi buona guardia; sicchè fuori che dalla marina il castello era assediato. E poi senza combattere o assalirlo, l’una gente e l’altra si stettono lungamente.

CAP. XXXVI. Come il re Luigi prese il conte d’Apici.

Avendo il re Luigi vittoriosamente racquistato tre così forti castelli, e lasciando il quarto assediato per terra e per mare, con la sua cavalleria, e con le masnade del doge Guernieri [58] si mise a cavalcare sopra i baroni che teneano col re d’Ungheria, e in prima andò sopra il conte d’Apici, figliuolo del conte d’Ariano. Il conte vedendosi venire il re addosso con gran forza d’uomini d’arme, si racchiuse in Apici, e ivi s’afforzò alla difesa come potè il meglio. Il re faceva spesso assalire la terra. Vedendo il conte che non attendea soccorso, e che il castello non era forte da poter fare lunga difesa, s’arrendè alla misericordia del re: il quale trattò d’avere di suoi danari trentamila fiorini d’oro, e rimiselo nel suo stato, riconciliato alla sua grazia.

CAP. XXXVII. Come il re Luigi assediò Nocera.

Prosperando la fortuna il re Luigi nelle lievi cose, gli dava speranza di prendere le maggiori, e però si mise di presente con tutta sua gente nel piano di Puglia, e dirizzossi a Nocera de’ saracini, che si guardava per la gente del re d’Ungheria. Ma perocchè la città era grande, e guasta e male acconcia a potersi difendere, sentendo gli Ungheri che dentro v’erano l’avvenimento del re con la sua gente, abbandonarono la terra, e ridussonsi nella rocca di sopra, ch’era larga, e molto forte alla difesa, e ivi ridussono tutte le loro cose. E sopravvenendo il re Luigi, senza contasto con tutta sua gente entrarono nella città: e trovando il castello sopra la terra forte e bene guernito alla difesa, conobbono che non era da potersi vincere per forza di battaglie, e però non [59] tentarono di combatterlo: ma avendo la città in loro balía, afforzarono in ogni parte intorno alla rocca, e puosonvi l’assedio, sperando d’averla, poichè gli Ungheri e i Tedeschi erano per la mortalità malati e mancati, e molti se n’erano iti per lo mancamento del soldo, e non era loro avviso che a tempo potessono avere soccorso; e però tenendo que’ del castello di Nocera assediati, cavalcarono tutto il piano di Puglia infino presso a Barletta; e avendo cominciato a prendere ardire, trovando che Currado Lupo vicario del re d’Ungheria non avea forza d’entrare in campo col re Luigi, nè di soccorrere gli assediati di Nocera, era assai possibile al re di mantenere l’assedio, e di fare tornare l’altre terre di Puglia a sua volontà, cavalcando con la sua forza il paese. Ma il fallace duca Guernieri, ch’avea milledugento cavalieri tedeschi in sua compagnia, conoscendo il tempo che far lo potea signore e trarlo di guerra, si mise a fargli quistione, e non lo lasciò muovere dall’assedio, nè andare all’altre terre per lungo tempo: dando luogo a Currado Lupo avversario del re di potersi provvedere al soccorso, e il re non era potente da se di cavalleria nè di moneta che senza il doge potesse fornire le sue bisogne, e però convenia che seguisse più la volontà corrotta del doge Guernieri che la sua. E non avea ardimento di mostrare sospetto di lui, per paura che peggio non gli facesse, e da se nol potea partire senza peggiorare sua condizione, e crescere la forza e ’l vigore a’ suoi nimici. Ed essendo così intrigato e male condotto, per avere un capo a [60] tutti i suoi soldati, perdè tempo più di cinque mesi al disutile assedio, e diede tempo a’ nimici di procacciare aiuto e soccorso, come fatto venne loro, come appresso racconteremo.

CAP. XXXVIII. Come Currado Lupo liberò Nocera.

Mentre che l’assedio si manteneva per lo re Luigi a Nocera, Currado Lupo, ch’era rimaso alla guardia del reame per lo re d’Ungheria, intese a sollicitare il re, tanto che gli mandò una quantità di danari per ristorare la gente che per la mortalità gli era mancata: il quale di presente cavalcò in Abruzzi, e condusse de’ cavalieri tedeschi ch’erano in Toscana e nella Marca, tanti, che co’ suoi si trovò con duemila barbute: e lasciatine una parte alla guardia delle terre che per lui si teneano, e eletti milledugento cavalieri in sua compagnia, si propose di soccorrere gli assediati del castello di Nocera. Il re Luigi avendo sentito come Currado Lupo avea accolta gente per venire contra lui, di presente mandò il conte di Minerbino, e il conte di Sprech Tedesco, con ottocento cavalieri a impedire i passi, che Currado Lupo co’ suoi cavalieri non potesse entrare nel piano di Puglia. Ma il detto Currado, come franco capitano e sollecito, la notte si mise a cammino, e fu prima, partendosi da Guglionese, valicato i passi ed entrato nel piano di Puglia, che la gente del re fosse a impedirlo, e senza arresto, co’ suoi [61] cavalieri in quello dì cavalcarono quaranta miglia, e la sera giunsono a Nocera in sul tramontare del sole; e perocchè erano molto affaticati della lunga giornata, e i cavalli stanchi e l’ora tarda, se n’entrarono nel castello senza fare altro assalto, o riceverlo dalla gente del re Luigi. E questo avvenne, imperciocchè del subito avvenimento sbigottì forte la gente del re, e specialmente essendo assottigliato l’oste, e non sappiendo che della loro gente andata a’ passi si fosse avvenuto. Il re veggendo la sua gente sbigottita, prese l’arme e montò a cavallo, e confortò francamente i suoi: e sopravvenendo la notte, in persona ordinò buona e sollecita guardia, attendendo il ritorno de’ suoi cavalieri. I nimici ch’erano stanchi intesono a mangiare, e a confortare la loro gente, e dare riposo a’ loro cavalli, per essere la mattina alla battaglia.

CAP. XXXIX. Come il re Luigi rifiutò la battaglia con Currado Lupo.

La mattina seguente, Currado Lupo innanzi che scendessono del castello nel piano, mandò a richiedere il re Luigi di battaglia, e per segno di ciò gli mandò il guanto per lo suo trombetta; il re ricevette il guanto, e con dimostramento di franco cuore e d’ardire, senza tenere altro consiglio promise la battaglia: perocchè la notte medesima il conte di Minerbino e ’l conte di Sprech erano tornati con la loro gente al soccorso [62] del re. Currado avendo la risposta dal re, come accettava di venire alla battaglia, non ostante che il re avesse assai più gente di lui, confidandosi nella buona gente che avere gli pareva, e conoscendo la condizione del doge Guernieri, e forse intendendosi con lui, scese del castello con tutta sua cavalleria, e ancora con gli Ungheri ch’erano nel castello a cavallo, e valicato per una parte della città ch’era in loro signoria, con dimostramento di grande ardire si schierò nel piano dirimpetto alla città, aspettando che il re venisse con la sua gente alla battaglia. E vedendo che non venia, un’altra volta il mandò a richiedere di battaglia. Il re avendo volontà di combattere sommovea i suoi baroni e gli altri cavalieri a ciò fare, con grande istanzia: il doge Guernieri, quale che cagione il movesse, che dubbia era la sua fede, vedendo il re acceso alla battaglia, fu a lui, e con dimostramento di savio e buono consiglio, e con belle parole il ritenne, mostrandogli che folle partito era a quel punto prendere battaglia, allegando che per due cose sole si dovea combattere, l’una per necessità, e l’altra per grande avvantaggio, e quivi non era nè l’una nè l’altra. E forse che il consiglio suo fu più salutevole che malvagio a quel punto, il re vedendo il consiglio del duca, e temendo di non essere seguito nella battaglia da lui nè da’ suoi cavalieri, si ritenne in Nocera, ontosamente schernito da’ suoi avversari, i quali schierati in sul campo faceano vergogna al re, perchè non usciva alla battaglia come promesso avea; e avendo aspettato infino [63] al mezzodì, e trombato e ritrombato per attrarre la gente del re alla battaglia, e veggendo non erano acconci a uscire della terra, si partì di là ordinatamente con le schiere fatte, e dirizzossi verso la città di Foggia, ch’era ivi presso nello piano di Puglia, e in quella, ch’era senza guardia e senza sospetto, s’entrò di cheto, senza trovare alcuno riparo. E trovandola piena d’ogni bene, quivi s’alloggiarono, facendo delle case, e delle masserizie, e della vittuaglia, e delle donne maritate e delle pulzelle la loro sfrenata volontà, e ogni sustanza di quella terra si recarono prima in uso, e poscia in preda. E quivi in prima si cominciò ad assaggiare la preda dello avere del Regno da’ Tedeschi e dagli Ungari, la quale assaggiata vi attrasse da ogni parte i soldati, come gli uccelli alla carogna, in grave danno di tutto il paese, come procedendo per li tempi in nostra materia dimostreremo.

CAP. XL. Della materia medesima.

Essendo Currado Lupo con la sua gente in Foggia, con grande baldanza presa contro al re Luigi, intendendosi col duca Guernieri, afforzò la città di Foggia, per potere contastare al re il ritorno per la via del piano in Terra di Lavoro. E così fece lungamente, crescendo continuamente la sua gente di cavalleria e masnadieri, perchè viveano di prede, e avanzavano sopra i paesani non usi di guerra, nè provveduti alla loro [64] difesa. Il re avendo scoperto come dal duca Guernieri non potea avere servigio che utile gli fosse, e che fidare non se ne potea, stato due mesi a Nocera senza alcuno frutto, con grande abbassamento di suo stato e onore, poichè Currado Lupo entrò in Puglia, prese suo tempo, e girando la Puglia, dilungandosi da’ nimici ch’erano in Foggia, entrò in Ascoli, e ivi stato pochi dì se ne venne a Troia, e di là per Terra beneventana si tornò a Napoli senza contasto.

CAP. XLI. Come morì il re Alfonso di Castella.

In questo anno, del mese di marzo, morì il re Alfonso di Castella, lasciando Pietro suo figliuolo legittimo, nato della reina sirocchia del re di Portogallo, d’età di quindici anni, e sette suoi fratelli nati di donna Dianora, grande e gentile donna di Castella, la quale il detto re amò sopra la reina, e tennela ventiquattro anni. Morto il re, don Pietro fu coronato del reame, ed essendo troppo giovane, i maggiori baroni per tre anni ebbono a governare il reame. E venuto il re Pietro in età di diciotto anni, con malizia, e con senno e con ardire, di gran cuore prese il governamento di suo reame, e trassene i baroni, e cominciò aspramente a farsi ubbidire; perocchè temendo de’ suoi baroni, trovò modo di fare infamare l’uno l’altro, e prendendo cagione, gli cominciò a uccidere colle sue mani, e in breve tempo ne fece morire venticinque: e [65] tre suoi fratelli fece morire e la loro madre, e gli altri perseguitò: ed eglino valenti e di gran seguito e ardire si ridussono in loro castella, e feciono al re aspra guerra. E ora fu, che l’uno di loro, ch’era conte di... in uno abboccamento ebbe prigione il re, e consentì che si fuggisse per grande benignità, e in fine si partì di Spagna, e tornossene col fratello in Araona.

CAP. XLII. Come il doge Guernieri fu preso in Corneto dagli Ungheri.

Tornato il re Luigi a Napoli, non avendo potuto acquistare in Puglia alcuna cosa, ma peggiorata la sua condizione, acciocchè le terre e’ baroni di sua parte non prendessono troppo sconforto della sua partita, mandò in Puglia il doge Guernieri con quattrocento cavalieri, e commisegli la guardia di coloro che teneano con esso lui, e che raffrenasse la baldanza de’ suoi avversari. Il duca si mosse con sua compagnia, e con lui mandò il re alquanti confidenti toscani, tra’ quali fu messer Iacopo de’ Cavalcanti di Firenze, pro’ e valente cavaliere. Costoro entrati in Puglia si ridussono in Corneto. Il fallace duca pensava, che stando dalla parte del re non potea predare nè avanzare come l’animo suo desiderava, e vedendo la materia acconcia, e già cominciata per Currado Lupo e per gli Ungheri, trovò modo, volendo coprire il suo tradimento, come fatto gli venisse senza sua palese infamia. E per venire a questo, [66] essendo presso a nimici più possenti di lui, si stava senza alcuno ordine e senza fare guardia il dì e la notte, anzi non lasciava serrare le porti della città, e andavasi a dormire con tutta la sua masnada. Onde avvenne, come si crede ch’egli avesse ordinato, che Currado Lupo con parte di sua gente una notte vi cavalcò, e trovate le porte aperte, e senza difesa e guardia, s’entrò nella città: e trovando il doge e’ suoi cavalieri dormire ne’ loro alberghi, tutti senza dare colpo di lancia o di spada ebbe a prigione, loro e’ loro cavalli e arnesi, senza che niuno ne fuggisse; e avuti i forestieri a prigioni furono signori della terra, e fecionne, come di Foggia, la loro volontà: e il dì seguente con grande gazzarra ne menarono i prigioni e la preda a Foggia, dove faceano loro residenza. Ed essendo il duca Guernieri prigione in Foggia, si fece porre di taglia trentamila fiorini d’oro; e mandò al re che ’l dovesse ricomperare in fra certo tempo, e dove questo non facesse, disse gli conveniva essere contro a lui in aiuto del re d’Ungheria: e però gli protestava, che se il riscatto non facesse, non gli farebbe tradimento venendo contro a lui dal termine innanzi. Il re Luigi avendo conosciuto per opere i suoi baratti, avvegnachè conoscesse che per cupidità di preda e’ sarebbe contro a’ suoi agro nimico, innanzi il volle suo avversario, potendo contro a lui scoprirsi alla sua difesa, che averlo traditore dalla sua parte, e però nol volle riscuotere. Onde egli trasse a se tutti i Tedeschi di sua condotta, e da Currado Lupo fu fatto il terzo conducitore della sua oste, renduto a lui e a’ suoi l’armi e’ [67] cavalli e gli arnesi. Messer Iacopo de’ Cavalcanti, perocchè altra volta era stato preso, e lasciato alla fede, fu ritenuto, e ultimamente per mandato del re d’Ungheria, per corrotto saramento, vituperevolemente fu impiccato.

CAP. XLIII. Come i Fiorentini presono Colle.

I Colligiani avendo ripreso in loro giuridizione il reggimento libero della loro terra, poichè ’l duca d’Atene fu cacciato di Firenze, che per lo detto comune n’era signore, volendo mantenere la loro libertà, non lo seppono fare, anzi cominciarono a setteggiare, e volere cacciare l’uno l’altro, e alcuna parte trattava coll’aiuto di grandi e possenti vicini d’esserne tiranni. E scoperto tra loro il trattato, si condussono all’arme: e stando in combattimento dentro, il comune di Firenze per paura che tirannia non vi si accogliesse, subitamente vi mandò il capitano della guardia che allora tenea in Firenze, con trecento cavalieri e con assai fanti a piè, e improvviso vennono a’ Colligiani in su le porti e intorno alla Prateria, del mese d’aprile gli anni 1349. E sentendo i Colligiani la gente de’ Fiorentini alle porti, e tra loro grave discordia dentro, viddono, che volere a’ cittadini di Firenze, che ivi erano mandati per loro bene, fare resistenza era impossibile, e il loro peggiore, perocchè se l’una setta si fosse messa alla difesa, l’altra si sarebbe fatta forte col comune di Firenze, e arebbono abbattuta [68] la setta contraria, sicchè per lo loro migliore, di comune concordia apersono le porti, e misono dentro la gente del comune di Firenze. E come dentro vi furono, i terrazzani lasciarono l’arme che aveano prese per la loro divisione, e ragunati al consiglio, conobbono, che il comune beneficio della loro comunità era di dare la guardia di quella terra al comune di Firenze, e altrimenti non vedeano di potere vivere in pace e in riposo senza sospetto l’uno dell’altro. E però diliberarono solennemente tutti d’uno animo e d’una concordia, che ’l comune di Firenze avesse in perpetuo la guardia di quella terra; e il comune la prese, e ordinò dentro senza quistione i loro ufici, comunicandoli discretamente tra’ loro terrazzani, a contentamento di catuna parte; e appresso di tempo in tempo v’ordinò il comune di Firenze la guardia de’ suoi cittadini, e i rettori di quella, mandandovegli da Firenze ogni sei mesi successivamente.

CAP. XLIV. Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a tempo.

Nel detto anno e mese d’aprile, recata la terra di Colle a guardia del comune di Firenze prosperamente, innanzi che il detto capitano con sua gente a piè e a cavallo tornasse a Firenze, essendo il comune di Sangimignano per simile modo in grande divisione per cagione del loro reggimento, onde forte si temea non pervenisse [69] a tiranno, il comune di Firenze vegghiando con sollecitudine a mantenere la libertà di Toscana, fece comandamento al capitano e a’ cittadini consiglieri ch’erano con lui ch’andassono a Sangimignano, e senza fare alcuno danno, o atto di guerra, domandassono per lo comune di Firenze la guardia di quella terra, acciocchè il comune loro e ’l nostro vivessono di ciò più sicuri, che non si potea vivere vedendogli in setta e in divisioni. Il capitano con quella gente se n’andò a Sangimignano, e fece il comandamento del comune di Firenze, standosi fuori della terra senza fare danno niuno. E fatta la richesta, quegli di Sangimignano ebbono sopra ciò diversi consigli, e dibattutosi fra loro più giorni, che l’uno volea e l’altro no, in fine avvedendosi che le loro discordie erano pericolose, e che non erano potenti a mantenere libertà; vedendo il pericolo delle divisioni e sette che aveano tra loro, e che lo sdegno del comune di Firenze potea risultare in loro maggiore pericolo, per comune consiglio diedono per tre anni a venire il governamento e la guardia di quella terra al comune di Firenze, con patto che il comune vi mandasse di sei mesi in sei mesi uno cittadino popolano di Firenze per capitano della guardia, e un altro per podestà alle loro spese; e così deliberato, misono di gran concordia dentro la gente del comune di Firenze. E ricevuti i rettori, cominciarono a vivere tra loro in molta concordia e pace, e catuno intendeva a fare i fatti suoi, dimenticando le cittadine contenzioni e gli altri sospetti [70] che gli conturbavano, e il capitano co’ suoi cavalieri e col popolo tornò a Firenze ricevuto a onore, del detto mese d’aprile.

CAP. XLV. Di tremuoti furono in Italia.

In questo anno, a dì 10 di settembre, si cominciarono in Italia tremuoti disusati e maravigliosi, i quali in molte parti del mondo durarono più dì, e a Roma feciono cadere il campanile della chiesa grande di san Paolo, con parte delle loggi di quella chiesa, e una parte della nobile torre delle milizie, e la torre del conte, lasciando in molte altre parti di Roma memoria delle sue rovine. Nella città di Napoli fece cadere il campanile, e la faccia della chiesa del vescovado e di santo Giovanni maggiore, e in assai altre parti della città fece grandi rovine, con poco danno degli uomini. Nella città d’Aversa, essendo i caporali de’ Tedeschi e degli Ungheri, con molti conestabili e cavalieri, a consiglio nella chiesa maggiore, non determinato il loro consiglio uscirono della chiesa, e come furono fuori, la chiesa cadde, e per volontà di Dio a niuno fece male. La città dell’Aquila ne fu quasi distrutta, che tutte le chiese e’ grandi difici della città caddono, con grande mortalità d’uomini e di femmine; e durando per più dì i detti tremuoti, tutti i cittadini, ed eziandio i forestieri, si misono a stare il dì e la notte su per le piazze e di fuori a campo, mentre che [71] quello movimento della terra fu, che durò otto dì e più. Ed erano sì grandi, che in piana terra avea l’uomo fatica di potersi tenere in piede. A san Germano e a monte Cassino fece incredibili ruine di grandi difici, e dell’antico monistero di santo Benedetto sopra il monte del poggio medesimo, che pare tutto sasso, abbattè buona parte; il castello di Valzorano del poggio rovinò nella valle, con morte quasi di tutti i suoi abitanti. Nella città di Sora fece degli edifici grandissime ruine, e così in molte altre parti di Campagna e di terra di Roma, e del Regno e di molte altre parti d’Italia, che sarebbono lunghe e tediose a raccontare. Per li quali terremuoti si potea per li savi stimare le future novità e rivolgimenti di que’ paesi, le quali poi seguitarono, come il nostro trattato seguendo si potrà vedere.

CAP. XLVI. Come sommerse Villacco in Alamagna.

In questo medesimo tempo, essendo all’entrare della Magna sopra una valle una città che ha nome Villacco, in sul passo, con alquante villate e castella che teneano bene dodici miglia, a’ confini della Schiavonia, questa terra con le sue ville e castella per gli terremuoti s’attuffò nella valle, con grande danno di morte de’ suoi abitanti. E perocchè il luogo è sul passo del Friuli e Schiavonia, e paese ubertuoso, e i suoi alberghi tutti si fanno di legname, che ve n’ha grande [72] abbondanza, fu tosto rifatto e abitato. Innanzi che l’anno fusse compiuto dal suo rifacimento, per fuoco arse tutta la terra, che fu a pensare non piccolo giudicio de’ suoi abitanti. Ma per lo fertile luogo e utile per lo passo, in brieve tempo fu redificata la terra più bella che prima.

CAP. XLVII. De’ fatti del Regno.

Del mese di maggio del detto anno, sentendo il re Luigi crescere fortemente nel Regno la forza del re d’Ungheria, fece comandamento a tutti i suoi baroni che teneano con lui che si sforzassono d’arme e di cavalli, e ragunassonsi in Napoli per resistere a’ loro avversari, che aveano per la presa di Foggia e di Corneto presa superchia baldanza in Puglia, e accolti molti Tedeschi d’Italia, per vaghezza delle prede del Regno, più che per soldo ch’elli avessono. I baroni vedendo il comune pericolo di loro stato e di tutto il Regno, feciono gente d’arme, e ragunaronsi a Napoli più di tremila cavalieri ben montati e bene armati; e ancora non era venuto il conte di Minerbino, che avea con seco trecento barbute. Currado Lupo, che avea con seco il duca Guernieri, e ’l conte di Lando, e messer Giovanni d’Arnicchi, Tedeschi grandi maestri di guerra, e con grande seguito di soldati tedeschi, avieno accolti tutti gli Ungheri del Regno, ch’erano più di settecento, in grande fede al loro signore: e ancora erano ragunati con loro masnadieri italiani [73] assai, tratti per guadagnare, sentendo che la forza del re era ragunata a Napoli, di presente fornì di guardia tutte le terre sue, e co’ sopraddetti caporali, e co’ loro cavalieri tedeschi e ungheri, milleseicento o più, e con briganti a piè, acconci a guadagnare, sperando abboccarsi co’ ricchi baroni del Regno, si partirono di Foggia, e senza fare soggiorno o trovare resistenza se ne vennero infino ad Aversa, città di Terra di Lavoro, presso a Napoli a otto miglia, la quale in quel tempo non era murata: e per mala provvedenza non era guardata, avvegnachè malagevole fosse a guardare, perchè era molto sparta, ma avea il castello molto grande e forte. Currado Lupo con la sua cavalleria senza contasto s’entrò nella terra, la quale era doviziosa e piena d’ogni bene. Ed essendo altra volta stata all’ubbidienza del re d’Ungheria, non si pensarono essere trattati in ruberia e in preda dal vicario del re, e però si trovarono ingannati. I Tedeschi e gli Ungheri come furono dentro cominciarono a fare delle cose, vi trovarono da vivere a comune con i cittadini, con più temperanza e ordine che fatto non aveano in Foggia, perocchè vi aveano più a stare. E incontanente cavalcarono per lo paese e per li casali dintorno per farsi ubbidire, e recare il mercato derrata per danaio; e chi non gli ubbidia di recare della roba ad Aversa sì la rubavano e ardevano. E in fine, ora per una cagione, ora per un’altra, tutti erano rubati, e cominciarono a cavalcare fino presso a Napoli, ed a non lasciare a’ foresi portare alcuna roba in quella terra, che [74] a giornata solea abbondare della molta roba delle terre e casali di fuori, ed ora niuno v’andava, che d’ogni parte erano rotte le strade e i cammini, onde la città cominciò ad avere carestia, e convenia che per mare si fornisse. Il re Luigi avea baroni e cavalieri assai in Napoli, ma per buono consiglio riteneva i suoi baroni con il volonteroso popolo che non uscissono contro a’ nimici a loro stanza, e attendea maggiore forza di sua gente di dì in dì, e pensava che i nimici per le ruberie fatte a’ paesani venissono in soffratta, e volea a sua stanza e a suo tempo andare sopra i suoi nimici e a suo vantaggio, e non alla loro richiesta, e questo era salutevole e buono consiglio. Ma dove la fortuna giuoca più che ’l senno, la gente vi corre.

CAP. XLVIII. Come la gente del re d’Ungheria sconfisse i baroni del Regno.

Vedendo i capitani della gente del re d’Ungheria che la baronia del Regno era accolta a Napoli contro a loro, e non si movea nè mostrava in campo per le loro cavalcate, si feciono loro più presso a Meleto quattro miglia presso a Napoli; e quivi stando, cominciarono a dare voce che discordia fosse tra’ Tedeschi e gli Ungheri, e seguendo loro malizia s’armarono, e acconciarono il campo come se dovessero combattere insieme; e avendo tra loro mezzani gli Ungheri, come malcontenti d’essere con Currado Lupo, dierono voce di volersene tornare in Puglia. [75] I giovani baroni che sentivano di presso le novelle de’ loro nimici, e’ baldanzosi cavalieri napoletani credendo che la discordia fosse tra gli Ungheri e’ Tedeschi come la boce correa, non accorgendosi del baratto, e parendo loro che per difetto di vittuaglia e’ non potessono più stare nel paese, quasi come la preda uscisse loro tra le mani aspettando, fremivano nell’animo d’uscire fuori, e correre sopra i nimici; e contradicendo il re e ’l suo consiglio la furiosa presunzione de’ giovani baroni e de’ pomposi Napoletani, in furia s’apparecchiarono dell’arme. E montati sopra i loro destrieri e buoni cavalli, che n’erano bene forniti, e con ricchi arredi e nobili sopransegne, colle cinture dell’oro e dell’argento cinte, in grande pompa, avendo fatto loro capitani messer Ruberto di Sanseverino, e messer Ramondo del Balzo, valenti baroni, e il conte di Sprech Tedesco, e messer Guiglielmo da Fogliano, ordinate loro battaglie, contradicendolo il re in persona, uscirono di Napoli, e addirizzaronsi a’ nimici. Il cammino era corto, e il paese piano, sicchè in poca d’ora furono giunti al campo, ove trovarono di costa a Meleto nella spianata schierati i nemici, i quali aveano sentito il furioso movimento de’ ricchi baroni e cavalieri del Regno, e aveano con savio provvedimento fatte tre schiere. Vedendo la folle condotta de’ loro avversari, s’allegrarono, e’ baldanzosi regnicoli sì diedono francamente nella prima schiera, la quale, per ordine fatto a maestria, s’aperse, e lasciò valicare, e mescolare tra loro la cavalleria del Regno, non ostante che assai fussono più di loro; e reggendo [76] a testa la seconda schiera e intrigata la battaglia, il conte di Lando, ch’era da parte colla sua schiera, tornò un poco di campo, e venne loro alle reni, e combattendoli dinanzi e didietro, avvegnachè v’avesse di valorosi cavalieri, per la loro mala provvedenza in poca d’ora con non troppa asprezza di battaglia gli ebbono vinti, e sbarattati e richiusi tra loro per modo, che la maggior parte co’ loro capitani furono presi, e pochi ne morirono. Quelli che poterono fuggire ne fuggirono, e non furono incalciati, perchè erano presso alla città, e i loro nemici n’aveano assai tra le mani a guardare, sicchè non si curarono d’incalciare gli altri. Questa propriamente non si potè dire battaglia, ma uno irretamento da pigliare baroni e cavalieri di grandi ricchezze. I presi furono tra conti e baroni venticinque de’ maggiori del Regno, con molti ricchi cavalieri napoletani di Capovana e di Nido, e nobili scudieri e grandi borgesi e baroncelli del Regno, i quali erano tutti bene montati. E come i capitani de’ Tedeschi e degli Ungheri ebbono raccolti insieme i prigioni e la preda, con grande festa e sollazzo d’avere acquistato grande tesoro senza fatica, gli condussono ad Aversa; e messi i baroni e’ cavalieri in sicure prigioni, l’altra preda divisono tra loro. E questo fu a dì sei di giugno 1349.

CAP. XLIX. Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia da’ nimici.

Dopo la detta sconfitta la gente del re d’Ungheria [77] avendo presa grande baldanza, cavalcavano ogni dì infino a Napoli per tutte le contrade circostanti alla città, senza trovare alcuno contasto. Ch’e’ cavalieri ch’erano in Napoli, e quelli che scamparono della sconfitta, tutti tornarono in loro paese, e i Napoletani non ebbono più ardire di montare a cavallo contra i nimici; per la qual cosa assai picciola gente spesso entravano con grande ardire tra santa Maria del Carmino e il Santolo, rubando e facendo preda in sul mercato; e per questo avvenne che per terra non v’entrava alcuna vittuaglia, e però convenne che per mare vi venisse d’altre parti, e montasse ogni cosa, fuori del vino, in grande carestia. Vedendo i Napoletani nella forza de’ loro nemici tutto il loro contado, temendo delle loro vendemmie, e per avere alcuna posa, diedono a Currado Lupo e a’ suoi compagni ventimila fiorini d’oro, e messer Ramondo del Balzo, e messer Ruberto da Sanseverino, e il conte di Tricario anche della casa di Sanseverino, e il conte di santo Angiolo, e un altro barone, ch’erano presi, si ricomperarono fiorini centomila d’oro, e gli altri baroni del Regno e cavalieri si ricomperarono fiorini cinquantamila, e’ cavalieri e scudieri di Napoli si ricomperarono altri cinquantamila fiorini: e il conte di Sprech Tedesco, e M. Guiglielmo da Fogliano e’ soldati forestieri, tolto loro l’arme e’ cavalli, furono lasciati alla fede. E trovandosi questa gente del re d’Ungheria fornita d’arme e di cavalli, e pieni d’arnesi, e abbondante d’ogni bene, questi danari, e molti gioielli d’oro e d’ariento, riposono nel castello d’Aversa senza partire, [78] acciocchè niuno avesse cagione di partirsi del paese. E per accogliere maggiore tesoro, i danari del riscatto, e del tempo della vendemmia, furono pagati, e queto il paese mentre che le vendemmie durarono, secondo la loro promessa, e passato il tempo ricominciarono la guerra come prima, aspettando danari freschi dal re e da’ Napoletani, come appresso seguendo si potrà trovare.

CAP. L. Come si fe’ triegua nel Regno.

Il papa e’ cardinali avendo sentita la rotta de’ baroni del Regno, e che ’l paese si guastava, mandarono nel Regno M. Annibaldo da Ceccano cardinale legato di santa Chiesa, a procacciare di conservare il reame, acciocchè la discordia de’ due re non guastasse quello ch’era di santa Chiesa. Il cardinale giunto a Napoli trovò il re e’ Napoletani in male stato, e i paesi di Terra di Lavoro guasti, rubate le castella, le ville, i casali, e vedendo che la forza de’ Tedeschi e degli Ungheri guastava tutto, si mise a cercare via d’accordo, e andava dall’una parte all’altra, ma poco frutto di concordia seppe fare. Onde il re e’ Napoletani avvedendosi che il cardinale non facea loro profitto, si condussono a cercare eglino con loro confidenti. E mandarono a Currado Lupo e agli altri caporali ad Aversa, e in fine vennono con loro a concordia, che dovessono lasciare in mano del cardinale Aversa e Capova, e tutte le [79] terre e castella che teneano dal Volturno di Tuliverno in verso Napoli, per tutta Terra di Lavoro e di Principato, e facendo questo avessono contanti centoventimila fiorini d’oro. Le terre furono lasciate nella guardia del cardinale, e i danari furono pagati del mese di gennaio 1349. Allora vidono il conto de’ danari che aveano raunati, e trovaronsi in contanti più di cinquecento migliaia di fiorini d’oro, i quali di molta concordia si divisono a bottino. E’ caporali dividitori furono, Currado Lupo, e il doge Guernieri, e il conte di Lando, e M. Gianni d’Ornicchi, e alcuni altri. E oltre a questo tesoro, e oltre a molti destrieri, e ricchi arnesi e armadure che catuno avea, ebbono parte di molte vasellamenta d’argento, e di croci e di calici e d’altri ornamenti delle chiese che avieno spogliate, e ornamenti delle donne, e drappi e vestimenta di grandissima valuta, de’ quali erano pieni, avendone spogliate parecchie città, come detto abbiamo. Costoro sopra modo ricchi, passato il Volturno, si diliberarono di partirsi del Regno, e tutti, fuori che Currado Lupo, e fra Moriale e gli Ungheri, che si ritennono per lo re d’Ungheria nel Regno, si partirono e menandone molte donne rapite a’ loro mariti, e molte altre che non aveano marito, cosa strana e disusata tra’ fedeli cristiani; e ricchi delle loro rapine, quali si tornarono in Alamagna, e altri si sparsono nell’italiane guerre: e per questo modo il Regno ebbe alcuno sollevamento dalle ruberie e dalla guerra, che catuno si posava volentieri. E dandoci alquanto triegua le novità dello sviato Regno, ci [80] s’apparecchia nuova e lieve cagione, della quale surse come di picciola favilla fuoco di smisurata grandezza.

CAP. LI. Di novità di barbari di Bella Marina.

Tornando alquanto nostra materia a’ fatti de’ barbari, in questo tempo Buevem figliuolo di Balese della Bella Marina, a cui come addietro è narrato, il detto Buevem avea rubellato il regno di Tremusi, sentendo che Maometto suo cugino gli avea rubellato Fessa e il suo reame, liberò di servaggio mille cristiani, e misegli a cavallo e in arme, e accolse suo oste di quindicimila cavalieri, e di gran popolo di Mori a piè, e andonne verso Fessa, contro a Maometto, il quale trovò provveduto con venticinquemila cavalieri e di grande popolo, e fecelisi incontro fuori della città di Fessa, e non troppo lungi della città commisono aspra battaglia, nella quale morirono grandissima quantità di saracini da catuna parte; in fine, come piacque a Dio, per virtù de’ cristiani Maometto fu sconfitto, colla sua gente morta e sbarattata, ed egli si rifuggì nel castello di Villanuova, ove Buevem il tenne assediato sei mesi senza speranza di poterlo avere per la grande fortezza; e però argomentò di fare fuggire da se un grande caporale de’ cristiani con sua masnada, e mostrando di perseguirlo per uccidere, si fuggì a Maometto nel castello, il quale conoscendo la prodezza e senno de’ cristiani, pensò di difendersi meglio, avendo [81] costui dal suo lato, e però gli fece onore e grandi promesse, perchè avesse materia d’aiutarlo e d’esser leale. Costui mostrandosi agro nimico di Buevem, alcuna volta uscì fuori percotendo il campo, e ritornando con onore. Il re Buevem mostrando che onta gli fosse cresciuta per la fuggita del malvagio cristiano, ordinò di volere combattere il castello. Maometto sentendo ciò s’ordinò alla difesa: e avendo presa confidenza nel conestabile cristiano, gli accomandò la guardia d’una porta del castello. E venendo il re alla battaglia, il traditore gli aperse la porta, ed entrato dentro con grande sforzo, preso Maometto, e incarcerato, in pochi dì il fece morire. E andato a Fessa, fu ricevuto come re e loro signore, e fu coronato re di Morocco, e della Bella Marina e di Tremusi in poco tempo, essendo il padre a Tunisi, il quale tornando poi contro al figliuolo per lo regno, gli avvenne quello che a suo tempo diremo.

CAP. LII. Come Balase tornando per lo suo reame contro al figliuolo ebbe grande fortuna, e poi fu avvelenato.

Balase avendo acquistato il reame di Tunisi, e perduto quello di Bella Marina e di Tremusi, di che Buevem suo figliuolo s’avea fatto coronare, fece in Tunisi re un altro suo figliuolo, e con sei galee armate, e una nave di Genovesi carica di grande tesoro ch’avea tratto di Tunisi, [82] del mese d’ottobre del detto anno, si mise in mare per tornare nel suo reame: confidandosi, che essendo con sua persona nel paese, i suoi sudditi l’ubbidirebbono, non ostante che il figliuolo avesse la signoria. E avendo lasciato il suo nuovo re in Tunisi, poco appresso la sua partita gli Arabi entrarono in Tunisi, e uccisono questo figliuolo rimaso, e fecionne re il nipote del re di Tunisi, cui Balase avea morto; e ’l detto Balase essendo in mare, una fortuna il percosse, e tutte e sei le sue galee ruppe, e tutti gli uomini perirono, salvo il re con alquanti compagni che camparono in su uno scoglio: e indi levato da certi pescatori fu portato a Morocco, ove riconosciuto, fu ricevuto come loro signore. La nave col suo tesoro messasi in alto pelago arrivò in Ispagna, e il re Pietro s’appropiò il tesoro. Balase essendo ubbidito in Morocco e nel paese, di presente accolse di suoi baroni, e con grande oste andò contro a Buevem suo figliuolo, inverso Fessa; e cominciato a guerreggiare, veggendo Buevem che i suoi baroni cominciavano a ubbidire al padre, disperandosi della difesa, argomentò con incredibile tradimento. Egli avea seco una sua sirocchia giovane fanciulla figliuola di Balase, costei ammaestrò di quello ch’egli volle ch’ella facesse: la quale si partì da lui, mostrando mal suo volere, e tornò al padre, il quale la vide allegramente, ed ella lui, come caro padre, e commendatola della sua venuta, la tenea intorno a se come figliuola. Ma la corrotta fanciulla osservando la malizia del fratello, ivi a pochi dì avvelenò il padre. Finito Balase [83] il corso della sua vita, e delle sue grandi fortune prospere e avverse, Buevem suo figliuolo rimase re della Bella Marina, e di Morocco e di Tremusi; ma poco appresso i Mori gli rubellarono Tremusi, ma egli di presente vi mandò grande oste, e racquistò tutto. E montato in grande potenzia, per forza si sottomise il reame di Buggea e quello di Costantina, e’ loro re mise in prigione. E incrudelito, per ambizione di reggere la signoria con meno paura, in brieve tempo fece morire venticinque suoi fratelli di diverse madri. Ed esaltato sopra tutti i Barberi, cominciò a usare senza freno la sua lussuria, e gli altri diletti carnali, ove si riposa la gloria di quelli saracini; e a un’otta avea trecento mogli e grande novero di vergini, le più nobili e le più belle de’ suoi reami: e quando gli piaceva, usava con quella che l’appetito della sua concupiscenza richiedeva, e quella mettea nel numero delle sue mogli. Uomo fu ridottato sopra gli altri signori, e aspro punitore di giustizia; e con grande guardia e con molto ordine governava i suoi reami. A’ cristiani mercatanti facea grande onore, e volentieri gli ricettava in suo reame.

CAP. LIII. Come per lievi cagioni suscitò novità in Romagna.

Essendo conte di Romagna messer Astorgio di Duraforte di Proenza, il quale avea per moglie una nipote di papa Clemente sesto, o che più vero [84] fosse sua figliuola, il papa l’amava, e intendeva a farlo grande. Costui il dì della Pasqua di Natale del detto anno, mostrando familiarità co’ gentiluomini di Faenza, gli fece invitare a pasquare seco. Ed essendo a desinare, riscaldati dalla vivanda e dal vino, messer Giovanni de’ Manfredi dimestico del conte gli disse: in cotale mattina per cagione di padronatico, ci è debitore il vescovo di Faenza di mandare una gallina con dodici pulcini di pasta, e con carne cotta: e quando questo e’ non fa, a noi è lecito mandare alla sua cucina, e trarne la vivanda, e ciò che in quella si trova. La gallina non è venuta, e però piacciavi che con vostra licenza noi possiamo usare la ragione del nostro padronatico. La domanda fu indiscreta, essendo in casa altrui, che non era certo che il vescovo avesse fallato; e il conte con poco sentimento, non considerando il pericolo della novità, concedette quella licenza follemente. Il vescovo avea fatto suo dovere, e avea mandata a casa messer Giovanni d’Alberghettino la gallina e i pulcini, a cui l’anno toccava quello onore, e la donna per un suo scudiere l’avea mandata al marito al palagio del conte; ma per comandamento fatto a’ portieri per lo conte che alcuno non vi lasciassero entrare, se n’era tornato a casa. Nondimeno messer Giovanni, ch’avea avuta la licenzia dal conte, disse a’ suoi famigli: andate, e chiamate de’ nostri amici, e dite loro rechino le scuri, ed entrate nel vescovado: e se le porti non vi sono aperte, colle scuri l’aprite, e della cucina del vescovo gittate fuori vivanda, e ciò che vi trovate dentro. Costoro andando agli amici di messer Giovanni [85] diceano: togliete le scuri, e venite con noi. Coloro ch’erano invitati che togliessono le scuri non sapendo la cagione, pigliarono anche l’altre armi, e l’uno confortava l’altro: e così armati traevano a casa messer Giovanni. Le masnade del conte a piè e a cavallo che il dì avieno la guardia, temendo di questa novità, trassono a casa messer Giovanni, e cominciarono mischia contro a coloro vi trovarono armati. I terrazzani si difendeano non sappiendo la cagione del fatto: la gente traeva da ogni parte a romore. Sentendosi la novità al palagio dov’erano i convitati, facendosi il conte alle finestre, vidde a piè del palagio uno Franceschino di Valle, grande amico di messer Giovanni Manfredi, a cui commise che andasse da sua parte a comandare alla sua gente e a’ cittadini che lasciassono la zuffa e non contendessono insieme. Costui disarmato andò a fare il comandamento da parte del conte. La gente del conte, che conosceano costui amico di messer Giovanni, presono maggiore sospetto, e rivolsonsi contro a lui, e volendogli uno dare della spada in sulla testa, parando la mano al colpo gli fu tagliata: e seguendo i colpi contro a lui, fu morto, e in quello stante tre altri amici di messer Giovanni vi furono tagliati e morti. Per la qual cosa, al matto movimento aggiunto la vergogna e il danno, generò fellonia e sdegno in messer Giovanni, e conceputo nel petto, propose nella mente di tentare cose quasi incredibili a poterli venire fatte, secondo il suo piccolo e povero stato, le quali per molto studio copertamente, come vedere si potrà appresso, condusse al suo intendimento.

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CAP. LIV. Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenza alla Chiesa.

Messer Giovanni Ricciardi de’ Manfredi avendo conceputo il tradimento ch’egli intendea fare, cominciò segretamente a dare ordine al fatto: e avvennegli bene, che il conte sopraddetto andò a corte a Vignone. E per alcuno sentimento di gelosia, per sicurtà menò con seco messer Guglielmo fratello carnale del detto messer Giovanni, come per grande confidenza di sua compagnia, e lasciò vececonte un Provenzale di poca virtù, con trecento cavalieri a sua compagnia. E oltre a ciò, lasciò fornite le fortezze della città e le castella di fuori. Messer Giovanni de’ Manfredi con molta stanzia tenea grande familiarità col vececonte, e con singulare studio traeva a se l’amore e la benivoglienza de’ cittadini. E come gli parve tempo, cominciò a mettere copertamente fanti in Faenza a pochi insieme, e feceli ricettare a’ suoi confidenti. E seppe sì fare, che in poco tempo ebbe nella città cinquecento fanti forestieri a sua petizione, innanzi che il vececonte o alcuno se ne fosse accorto. Ma discordandosi da lui messer Giovanni dello Argentino suo consorto, per via di setta, sentì come in certa contrada nel contado, gli amici di messer Giovanni di messer Ricciardo non si trovavano, e non si sapea dove fossono. E per questo sospettando di tradimento, [87] fece sentire al vececonte, com’egli sapea che gli amici di messer Giovanni di messer Ricciardo in cotale e in cotale parte non si ritrovavano, perchè temea che in Faenza non apparisse novità; il visconte avendo con messer Giovanni singolare amicizia e confidenza, non volea intendere di lui alcuno sospetto, ma provvedea al riparo. E appressandosi il tempo che il fatto si dovea muovere, la cosa si venia più scoprendo. Allora il visconte ingelosito mandò a fare richiedere degli amici di messer Giovanni: costoro andarono prima a messer Giovanni a sapere quello ch’avessono a fare. Messer Giovanni disse loro: tornatevi a casa, e armatevi co’ vostri parenti e amici, e levate il romore. Ed egli co’ cittadini con cui egli si confidava, e co’ fanti che avea messi in Faenza s’andò ad armare, e accolto il suo aiuto, uscì delle case armato, e fecesi forte a’ suoi palagi. Levato il romore, il visconte fu a cavallo co’ suoi cavalieri e con fanti appiè soldati, e dirizzossi alle case di messer Giovanni, ove sentiva la gente armata. E giunto al luogo, trovando messer Giovanni co’ suoi armati cominciò a combattere con loro fortemente. Messer Giovanni co’ suoi si difendeva virtudiosamente, sostenendo il dì e la notte, senza perdere della piazza. La mattina messer Giovanni prese una parte della sua gente, e misesi sul fosso della città, onde attendea soccorso da alcuni suoi amici di fuori, e sforzandosi il visconte di levarlo di quel luogo, non ebbe podere. La gente venne, e misono un ponte, ch’aveano fatto però, sopra il fosso, e atati da quelli d’entro valicarono [88] senza contrasto, e furono trecento fanti di Valdilamone, e altri amici di messer Giovanni, e due bandiere di quaranta cavalieri che vi mandò il signore di Ravenna. Il Provenzale sbigottito per codardia, avendo la maggior parte de’ cittadini in suo aiuto, e tutte le fortezze della città in sua guardia, e l’aiuto delle masnade di santa Chiesa a cavallo e a piè, ed essendo vincitore, standosi fermo, tanta viltà gli occupò la mente, ch’egli abbandonò le fortezze della terra, e la libera signoria ch’egli avea nelle sue mani, e tutto il suo onore, e non stato cacciato, abbandonò la città, e fuggissi a Imola colla sua gente, ove per reverenzia di santa Chiesa fu ricevuto, e raccettato mansuetamente. E abbandonata per costoro la città di Faenza e le sue fortezze, messer Giovanni di messer Ricciardo de’ Manfredi ne rimase libero signore. E incontanente si collegò col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e co’ signori di Bologna, che temeano della Chiesa, perchè per tirannia teneano le città contro al volere della Chiesa, e segretamente davano aiuto e consiglio a messer Giovanni, acciocchè Faenza e Romagna non rimanesse all’ubbidienza della Chiesa. Questo appresso si dimostrò manifestamente, come leggendo nostro trattato si potrà trovare. E questo rubellamento avvenne a dì 27 di febbraio del detto anno.

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CAP. LV. Come il capitano di Forlì prese Brettinoro per assedio.

Del mese di maggio seguente, gli anni Domini 1350, il capitano di Forlì vedendo che la Chiesa avea perduta Faenza, essendosi collegato co’ tiranni di Bologna, con quello di Ravenna e di Faenza, che desideravano al tutto svegliere la Chiesa di Romagna e la sua forza; conoscendo il tempo fece suo sforzo, e andò ad assedio al castello di Brettinoro, ch’era molto forte e bene fornito. E ivi stando lungamente, la Chiesa non lo soccorreva per avarizia, ma scrivea a’ signori di Bologna, i quali amavano che si perdesse, e ai comuni di Toscana, che aiutassono al conte di Romagna a soccorrerlo senza darli forza di gente d’arme. E stando d’oggi in domane a speranza dell’aiuto degl’Italiani, non avendo alcuna forza da se, il conte si trovò ingannato. Il capitano stringeva gli assediati con ogni argomento, i quali disperati di soccorso, in prima i terrazzani s’arrenderono al capitano, e appresso quelli della rocca la dierono per danari, che bene la poteano lungamente difendere. Ma la viltà del non sentire apparecchiare soccorso gli fece affrettare a trarre il loro vantaggio.

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CAP. LVI. Come i cristiani d’Europa cominciarono a venire al perdono.

Negli anni di Cristo della sua natività 1350, il dì di Natale, cominciò la santa indulgenza a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, facendo le vicitazioni ordinate per la santa Chiesa alla basilica di santo Pietro, e di san Giovanni Laterano, e di santo Paolo fuori di Roma: al quale perdono uomini e femmine d’ogni stato e dignità concorse di cristiani, con maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo innanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli cristiani; e con tanta devozione e umilità seguivano il romeaggio, che con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era uno smisurato freddo, e ghiacci e nevi e acquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte: e i cammini pieni di dì e di notte d’alberghi, e le case sopra i cammini non erano sofficienti a tenere i cavalli e gli uomini al coperto. Ma i Tedeschi e gli Ungheri in gregge, e a turme grandissime, stavano la notte a campo stretti insieme per lo freddo, atandosi con grandi fuochi. E per gli ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane il vino e la biada, ma di prendere i danari. E molte volte avvenne, che i romei volendo seguire il loro cammino, lasciavano i danari del loro scotto sopra le mense, loro viaggio [91] seguendo: e non era de’ viandanti chi gli togliesse, infino che dell’ostelliere venia chi gli togliesse.

Nel cammino non si facea riotte nè romori, ma comportava e aiutava l’uno all’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni in Terra di Roma a rubare e a uccidere, dai romei medesimi erano morti e presi, aiutando a soccorrere l’uno l’altro. I paesani faceano guardare i cammini, e spaventavano i ladroni: sicchè secondo il fatto, assai furono sicure le strade e’ cammini tutto quell’anno. La moltitudine de’ cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a numerare: ma per stima di coloro ch’erano risedenti nella città, che il dì di Natale, e de’ dì solenni appresso, e nella quaresima fino alla pasqua della santa Resurrezione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaia alle dodici centinaia di migliaia. E poi per l’Ascensione e per la Pentecoste più di ottocento migliaia; essendo pieni i cammini il dì e la notte, come detto è. Ma venendo la state cominciò a mancare la gente per l’occupazione delle ricolte, e per lo disordinato caldo; ma non sì, che quando v’ebbe meno romei, non vi fossono continovamente ogni dì più di dugento migliaia d’uomini forestieri. Le vicitazioni delle tre chiese, movendosi d’onde era albergato catuno, e tornando a casa, furono undici miglia di via. Le vie erano sì piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piede e a cavallo, che poco si poteva avanzare; e per tanto era più malagevole. I romei ogni dì della visitazione offerivano a catuna chiesa, chi poco, e chi assai, come [92] gli parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di san Pietro, per consolazione de’ romei, ogni domenica, e ogni dì di festa solenne; sicchè la maggior parte de’ romei il poterono vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta. Perchè più volte avvenne, che quando due, quando quattro, quando sei, e tal’ora fu che dodici vi si trovarono morti dalla stretta, e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dì uno tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo; avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa il romeo, fuori che il cattivo letto. I Romani per guadagnare disordinatamente, potendo lasciare avere abbondanza e buono mercato d’ogni cosa da vivere a’ romei, mantennero carestia di pane, e di vino e di carne tutto l’anno, facendo divieto, che i mercatanti non vi conducessono vino forestiere, nè grano nè biada, per vendere più cara la loro. Valsevi al continovo uno pane grande di dodici o diciotto once a peso, danari dodici. E il vino soldi tre, quattro, e cinque il pitetto, secondo ch’era migliore. Il biado costava il rugghio, ch’era dodici profende comunali, a comperarlo in grosso, quasi tutto l’anno, da lire quattro e soldi dieci in lire cinque: il fieno, la paglia, le legne, il pesce, e l’erbaggio vi furono in grande carestia. Della carne v’ebbe convenevole mercato, ma frodavano il macello, mescolando e vendendo insieme, con sottili inganni, la mala carne colla buona. Il fiorino dell’oro valeva soldi quaranta [93] di quella moneta. Nell’ultimo dell’anno, come nel cominciamento, v’abbondò la gente e poco meno. Ma allora vi concorsono più signori, e grandi dame, e orrevoli uomini, e femmine d’oltre a’ monti e di lontani paesi, ed eziandio d’Italia, che nel cominciamento o nel mezzo del tempo: e ogni dì presso alla fine si faceano delle dispensagioni, del vicitare le chiese, maggiori grazie. E nell’ultimo, acciocchè niuno che fosse a Roma, e non avesse tempo a potere fornire le visitazioni, rimanesse, senza la grazia, senza indulgenzia de’ meriti della passione di Cristo, fu dispensato infino all’ultimo dì, che catuno avesse pienamente la detta indulgenzia. E così fu celebrato questo anno del santo giubbileo la dispensagione de’ meriti della passione di Cristo, e di quelli della santa Chiesa, e remissione de’ peccati de’ fedeli cristiani.

CAP. LVII. Perchè s’intramesse il dificio d’Orto san Michele.

Era cominciato innanzi alla mortalità il nobile edificio del palagio sopra dodici pilastri nella piazza d’Orto san Michele, per farvi granai per lo comune, acciocchè si stesse in continua provvisione di grano e di biada, per sovvenire il popolo al tempo della carestia. Ma avvedendosi il comune, che il minuto popolo era ingrassato e impoltronito dopo la mortalità, e non volea servire agli usati mestieri, e voleano per loro vita [94] le più care e le più dilicate cose che gli altri antichi cittadini, e con questo disordinavano tutta la città, volendo di salario le fanti, femmine rozze e senza essere ausate a servigio, e i ragazzi della stalla, il meno fiorini dodici l’anno, e i più sperti diciotto e ventiquattro l’anno: e così le balie, e gli artefici minuti manuali, volevano tre cotanti o appresso che l’usato, e i lavoratori delle terre voleano tutti buoi e tutto seme, e lavorare le migliori terre, e lasciare l’altre: pensarono i nostri rettori con buono consiglio, di mettere ordine alle cose, e raffrenare i soperchi con certe leggi, ma per cosa che fare sapessono, a questa volta non vi poterono porre rimedio, e convenne che a Dio si lasciasse il corso e l’addirizzamento di quelli soperchi, i quali ancora nel 1362 durano, poco corretti, o mancati. Perocchè l’abbondanza del guadagno corrompeva il comune corso del ben vivere, pensarono che più utile era raffrenare lo ingrato e sconoscente popolo la carestia, che la dovizia. E allora si rimase coperto d’un basso tetto l’edificio del palagio d’Orto san Michele. E il comune avendo bisogno, raddoppiò la gabella del vino alle porte, e dove pagava soldi trenta il cogno, lo recò in soldi sessanta. E chi vendesse vino a minuto, dovesse pagare de’ due danari l’uno al comune. E dinuovo puosono soldi due a ogni staio di farina che si logorasse nella città, e danari quattro alla libbra della carne, e che lo staio del sale si vendesse per lo comune lire cinque e soldi otto. E non vollono che provvisione di grano o di biada si facesse per lo comune, ma in contradio ordinarono, che tutto [95] il pane vendereccio si facesse per lo comune, e vendessesi caro: e quale fornaio ne volesse fare per vendere, pagasse d’ogni staio soldi otto di gabella al comune. Queste furono cose di grande gravezza; ma tanto era l’utile che traeva d’ogni cosa il minuto popolo, che meno se ne curavano che i maggiori cittadini.

CAP. LVIII. Come la Chiesa mandò il conte per racquistare la contea di Romagna.

In questo anno 1350, parendo al papa e a’ cardinali, con vergogna di santa Chiesa avere perduta la signoria e la propietà di Romagna, ordinarono di volerla racquistare per forza; e avendo papa Clemente sesto volontà d’accrescere onore e stato a messer Astorgio di Duraforte, conte di Romagna, suo parente, il fece capitano della gente che la Chiesa intendea di mettere in arme a questo servigio. Il quale accolse quattrocento cavalieri gentiluomini in Proenza, e fece suo maliscalco messer Rostagno da Vignone della casa de’ Cavalierri, pro’ e ardito e valoroso cavaliere. E la Chiesa gli ordinò uno tesoriere, che ricogliesse i danari, e convertissegli ne’ soldi e negli altri bisogni che occorressono alla guerra, a volontà del conte. E innanzi che il conte si movesse di Proenza, fece a Firenze e a Perugia soldare ottocento cavalieri e mille masnadieri di buona gente d’arme. E oltre a ciò, il papa con molta istanza fece richiedere i tiranni di Lombardia, catuno per se, e i comuni di Toscana, che dovessono aiutare al [96] conte racquistare Romagna. L’arcivescovo di Milano gli mandò cinquecento barbute: messer Mastino della Scala glie ne mandò dugento: i tiranni di Bologna glie ne mandarono dugento: il marchese di Ferrara cento; i comuni di Toscana non vi mandarono loro gente. Il conte di Romagna avendo i suoi cavalieri e masnadieri, e questo aiuto, a dì 13 di maggio del detto anno si partì d’Imola, e addirizzossi al ponte san Brocolo; ed essendo il ponte molto afforzato e bene guernito di gente alla difesa per lo signore di Faenza, a dì 15 del detto mese, con aspra e dura battaglia combatterono la fortezza e vinsonla, che fu assai prospero cominciamento. E rafforzata la bastita del ponte, e messovi le guardie per difendere il passo, con tutta sua cavalleria s’addirizzò a Salervolo, uno castello presso a Faenza a cinque miglia, il quale non era murato, nè fortezza, nel luogo, che avendolo vinto fosse grande acquisto. E ivi puose l’assedio, lasciando per mala provvisione di porsi a Faenza, ch’era male fornita e poco intera alla difesa, e i cittadini non amavano la signoria del nuovo tiranno, e però fu reputato pe’ savi follemente fatto. Il tiranno di Faenza, messer Giovanni di messer Ricciardo Manfredi, che stava in grande paura della città, sentendo posta l’oste a Salervolo, fu molto contento, e prese cuore alla difesa; e di subito mise masnadieri in Salervolo, che avea soldati in Toscana, sperti a sapere guardare le castella, i quali francamente difesono la terra di molte battaglie che ’l conte vi fece dare, durandovi l’assedio dal dì 17 di maggio, fino a dì 6 del prossimo [97] mese di luglio, senza lasciarsi avanzare alcuna cosa.

CAP. LIX. Processo de’ traditori di Romagna, e di certi Provenzali.

Seguita il processo de’ traditori, che si provvedeano con molta sagacità a ingannare l’uno l’altro, e catuno infine con la sua parte dell’impresa rimase disfatto e ingannato. E dell’attizzamento di questa maladetta favilla crebbe fuoco, il cui fumo corruppe tutta Italia, e offuscò gli occhi a’ liberi popoli, e ottenebrò la vista de’ sacri pastori, e fu cagione di nuovi avvenimenti di signori, e di grandi e gravi revoluzioni di stati, come seguendo a’ loro tempi racconteremo. Per questa impresa della Chiesa, i tiranni di Bologna, che allora erano messer Giovanni e messer Iacopo di messer Taddeo di Romeo de’ Peppoli di Bologna, avendo occupata la città alla Chiesa di Roma sotto certo censo, ed essendo in grande stato e pompa nella signoria, temeano che la Chiesa non racquistasse la signoria di Romagna; e dall’altra parte si tenea dissimulando per lo conte, che per lo loro caldo e favore messer Giovanni Manfredi avesse rubellata Faenza alla Chiesa, e che segretamente atassono a mantenere la difesa. E però il conte, che era più sperto in coperta malizia, che in aperta prodezza o virtù, continovo attendeva a tendere suoi lacci, come i tiranni i loro, e mostravansi [98] insieme con molta confidanza e grande amistà, e davansi aiuto e consiglio l’uno all’altro, coperto di frode e di dolo.

CAP. LX. Come messer Giovanni de’ Peppoli cercò accordo dal conte a messer Giovanni.

In fra ’l tempo già detto dell’assedio di Salervolo, crescendo continuo la forza del conte per lo sussidio de’ danari della Chiesa, e dell’amistà che giugnea in aiuto al conte, messer Giovanni de’ Peppoli, per tenere in tranquillo il conte e farli perdere tempo, cominciò un trattato, di voler riducere messer Giovanni Manfredi di Faenza all’ubbidienza di santa Chiesa: e mandò a dire al conte che volea essere in ciò mezzano, facendo a santa Chiesa riavere suo diritto e suo onore. Il conte, ch’era di natura e di studio malizioso, si mostrò molto contento di voler seguire questo trattato, mostrando in questo, e nell’altre cose, volersi reggere per suo consiglio, dicendo, che così aveva in mandato dal santo padre: e nondimeno sapea al certo, che per operazione de’ signori di Bologna, e del capitano di Forlì, e co’ loro danari, al presente era entrato il doge Guernieri con cinquecento barbute alla difesa di Faenza. E dato lo intendimento a messer Giovanni, acciocchè seguisse il trattato, egli con sollecitudine mandava in Faenza suoi ambasciadori, e nell’oste al conte, e mostravasi già il trattato venire a concordia. Allora il conte mandò a dire a [99] messer Giovanni a Bologna per li suoi medesimi ambasciadori, che innanzi che fermasse la concordia, volea essere personalmente con lui in Bologna, o dovunque gli piacesse, per dare compimento a questo, e ragionargli d’altre segrete cose, che dal santo padre avea in commissione di conferire con lui: e però mandasse a dire dove e’ volea ch’egli venisse, che avuta la risposta, con piccola compagnia subito sarebbe a lui.

CAP. LXI. Come messer Giovanni de’ Peppoli andò nell’oste, e fu preso.

Messer Giovanni de’ Peppoli signore di Bologna, avendo dal conte dimostramento di tanta libertà, e sentendo che il papa l’amava e davali molta fede, prese sicurtà per lo trattato ch’egli menava, e perchè aveva nell’oste del conte dugento suoi cavalieri, e avea grande amistà con molti altri conestabili dell’oste. E volendo mostrare al conte com’egli era fedele di santa Chiesa, per ricoprire le sue coperte operazioni fatte contro a quella, secondo la malizia del conte, pervenne a sua volontà: e contro al consiglio di messer Iacopo suo fratello, di presente prese in sua compagnia de’ maggiori cittadini di Bologna, e di suoi soldati trecento cavalieri, e promettendo al fratello che non passerebbe Castel san Pietro, si mise a cammino. Ed essendo giunti la mattina a buon ora a Castel san Pietro, come il [100] peccato conduce, e le fini de’ tiranni s’apparecchiano per non pensato sentiere, come si vide a Castel san Pietro non attese la promessa al fratello, ma volendo improvviso e tosto giugnere al conte, cavalcò senza arresto: e prima fu giunto al padiglione del conte, che sapesse che vi dovesse venire; e scavalcato, il conte il ricevette con grande festa, mostrandogli ne’ sembianti amore fraternale; e molto s’allegrava con lui della sua cortese venuta. E questo fu a dì 6 di luglio in sulla nona, che ’l caldo era grande. Innanzi fece venire vini, frutte e confetti, per fare rinfrescare lui e la sua brigata ch’erano ivi; e in questo soggiorno, veggendosi il conte tra le mani il tiranno di Bologna, o ch’egli avesse prima pensato il tradimento, o che subitamente l’animo il tirasse all’inganno, bevendo e mangiando insieme in grande sollazzo, mandò il suo maliscalco a fare armare cavalieri e masnadieri cui egli volle, dando voce di fare assalto a quelli di Salervolo. E come furono armati, fece promettere a’ conestabili paga doppia e mese compiuto, acciocchè non si mettessono alla difesa del signore di Bologna. Messer Giovanni che avea bevuto e mangiato, e preso rinfrescamento a volontà del conte, attendea che il conte gli parlasse: e non vedendo che ne facesse sembiante, disse a quelli ambasciadori che quella ambasciata gli aveano portata, che dicessono al conte che si dovea diliberare; e già cominciava a dubitare. Il conte rispuose, che attendeva il suo maliscalco, che di presente vi sarebbe, e fornirebbono loro parlamento. Ancora erano le parole, quando messer Rostagno [101] maliscalco dell’oste giunse colla gente armata al padiglione del conte ove messer Giovanni attendea, e fugli intorno: e apparecchiatogli uno cavallo de’ suoi, disse: messer Giovanni, montate qui su: e immantinente vi fu posto più tosto che non vi sarebbe montato, e senza contesa o difesa, di salto fu menato prigione a Imola. Uno suo famiglio cominciò a gridare e a piagnere, dicendo: oimè, signore mio: e di presente gli fu morto a’ piedi. E giunto in Imola, fu messo nella rocca, e ordinatogli buona guardia. I cittadini di Bologna, e tutta la compagnia che avea menata di Bologna, e i dugento cavalieri che avea tenuti nell’oste in servigio del conte, in quella medesima ora, come preda di nimici vinta in battaglia, furono presi, e rubato loro l’arme, e’ cavalli, e arnesi, e i soldati così rubati furono cacciati del campo; e i cittadini di Bologna furono tenuti prigioni alquanti dì, e manifestato per tutto il grande tradimento, furono lasciati. E messer Giovanni rimase in prigione: il quale, dappoichè pervenne alla tirannia di Bologna, non tenne fede a parte guelfa, nè a’ suoi cittadini, nè a’ Fiorentini, nè all’altre città di sua vicinanza: e però forse degnamente con tradimento fu punito della sua corrotta fede.

CAP. LXII. Come il conte scoperse l’altro trattato che avea con messer Mastino.

Non ostante che il conte tenesse trattato con [102] messer Giovanni de’ Peppoli, avea trattato con messer Mastino della Scala, che venendo egli sopra la città di Bologna gli darebbe mille cavalieri in aiuto infino a guerra finita. Onde essendo venuto fatto al conte d’avere messer Giovanni a prigione, prese grande speranza d’avere Bologna con l’aiuto di messer Mastino. E significatoli il fatto, e domandatoli l’aiuto promesso, a dì 10 di luglio, del detto anno 1350, si levò da Salervolo, e venne a Imola con tutta l’oste. E come uomo di poca discrezione e provvedenza promise un’altra volta paga doppia e mese compiuto a’ suoi cavalieri, se per forza pigliassono Castel san Pietro. I quali cavalieri di presente andarono al detto castello, che non era fornito di gente nè provveduto alla difesa, e senza trovarvi resistenza in poca d’ora l’ebbono preso, che non vi morirono quattro persone. E così in meno di dieci dì i soldati del conte ebbono per vituperose cagioni guadagnate due paghe doppie e due mesi compiuti, che montarono un grande tesoro: e non parea che il conte se ne curasse, se non come avesse a distribuire il tesoro di santa Chiesa. Le quali promesse follemente fatte, con l’altre follie della sua pazza condotta, al fine rendè il merito a santa Chiesa della provvisione di sì fatto capitano, chente la disciplina della guerra richiede. Ed essendo il conte con l’oste a Castel san Pietro, messer Mastino gli mandò ottocento cavalieri, per compiere i mille che promesso gli avea, ov’egli venisse all’assedio di Bologna, come detto è addietro.

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CAP. LXIII. Come messer Iacopo Peppoli rimaso in Bologna si provvidde alla difesa.

Infra queste sopraddette tempeste, messer Iacopo de’ Peppoli ch’era rimaso in Bologna sentendo preso il fratello, e che l’oste del conte avea preso Castel san Pietro, e venia sopra lui a Bologna: e come messer Mastino signore di Verona e di Vicenza s’era scoperto suo nimico, non sapea che si fare; ma come la necessità intrigata dalla paura argomenta, mandò per soccorso al signore di Milano, e al marchese di Ferrara, e al comune di Firenze, e in ogni parte onde sperava avere alcuno aiuto o consiglio; e mandate le lettere e’ messaggi, richiese con grande istanza i cittadini di Bologna, che a questo punto soccorressono al suo e al loro pericolo. I quali già domati dal servile giogo della tirannia, essendo venuto il tempo della franchezza, per povertà d’animo, e per li loro peccati, non furono degni di cotale beneficio, che senza contasto a quel punto era in loro potenzia di tornare in libertà. E aveano il comune di Firenze vicino nimico della tirannia, il quale per la libertà di quel popolo avrebbe prestato loro aiuto e favore, e riparato allo assalto del conte, con giusta cagione di pace e di concordia con la santa Chiesa, disposto che il tiranno fosse della tirannia. Ma perocchè ne’ popoli più regna corso di fortuna che libertà d’arbitrio, per apparecchiarsi alle debite [104] pene de’ peccati, per li quali l’empio tiranno regna, fu accecato il loro intendimento: e mollemente s’apparecchiarono alla difesa per paura del tiranno, combattuti nell’animo dall’apparecchiata libertà. In questo stante l’arcivescovo signore di Milano sentì la presura di messer Giovanni, e scoperto l’animo di messer Mastino, mandò al conte suoi ambasciadori dolendosi dell’ingiuria fatta a messer Giovanni suo amico, e di sua lega e compagnia, dimandando che di presente il dovesse liberare: e quando questo non facesse, mandò comandamento a’ suoi capitani e a’ suoi cavalieri che erano al servigio del conte, che di presente si dovessono partire da lui. Il conte rispuose di non volerlo lasciare perocchè sapea al certo ch’egli avea fatta rubellare, la città di Faenza alla Chiesa di Roma, e come tenea trattato col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e con quello di Faenza, di rompergli l’oste a un dì nominato, e di prendere lui a grande tradimento: e però avea preso il traditore, e intendea tenerlo a volontà del papa e di santa Chiesa. E però fu comandato a’ cavalieri dell’arcivescovo si dovessono partire. Ma i cavalieri, e’ loro capitani, che aveano promesse dal conte di due paghe doppie e di due mesi compiuti, non si vollono partire, e rimasono cassi dal soldo dell’arcivescovo; e il conte con lo sfrenato animo, non guardandosi innanzi, gli condusse al soldo della Chiesa, facendo debito sopra debito. E riveduta sua gente, si trovò a Castel san Pietro con tremila barbute e con grande popolo di soldo.

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CAP. LXIV. L’aiuto che messer Iacopo accolse per guardare Bologna.

Stando il conte colla sua oste a Castel san Pietro, e cavalcando il contado di Bologna, l’arcivescovo di Milano mandò di presente trecento cavalieri in Bologna, per aiuto della guardia d’entro. E cominciò a pensare, che mantenendo messer Iacopo nella città, a poco insieme conducerebbe lui e la terra in tali stremi, che agevolemente all’ultimo ne diverrebbe signore, come in fine fatto gli venne. Messer Malatesta d’Arimino, ch’era allora nemico di santa Chiesa, vi venne in persona, e dato conforto a messer Iacopo, gli lasciò dugento cavalieri de’ suoi, e tornossene in Romagna. I Fiorentini per niuno modo vi vollono mandare alcuna gente per riverenzia della Chiesa, ma incontanente vi mandarono ambasciadori a cercare se tra loro e il conte potessero metter pace o accordo; e più volte andarono da Bologna al conte senza fare alcuno frutto tra le parti. Messer Iacopo vedendosi più l’uno dì che l’altro infiebolire, condusse il doge Guernieri ch’era in Faenza con cinquecento barbute; il quale volendo andare a Bologna, convenne che valicasse per lo distretto del comune di Firenze nell’alpi, ove lieve era a impedire per li stretti passi, ed egli era nimico del comune, e andava contro a santa Chiesa. Trovossi che fu fattura de’ priori che allora erano all’uficio [106] senza sentimento degli altri cittadini; della qual cosa in Firenze ne fu grande ripitio, ma fatta la cosa si rimase a tanto, e il doge passò senza impedimento, e con tutta sua compagnia se n’entrò in Bologna.

CAP. LXV. Del male stato che si condusse la città di Bologna, e di certi trattati che allora si tennono.

Come il duca Guernieri co’ suoi cavalieri fu in Bologna, prese per suo abituro una contrada, e in quella volle le case, e le masserizie, e quello che in esse trovò da vivere, come se egli avesse presa la terra per forza: e non era chi osasse parlare contro a suo volere. Gli altri soldati all’esempio di costui cominciarono a fare il simigliante. I nimici di fuori cavalcavano ogni dì intorno alla terra, pigliando gli uomini, e predando le ville del contado, venendo spesso fino alle porti. Per la qual cosa la città cominciò a sentire grandissimi disagi e carestia d’ogni bene, e i cittadini oppressati dentro e di fuori, non sapendo che si fare, e non trovando accordo col conte per ambiziosa superbia, messer Iacopo e’ cittadini di Bologna, di grande concordia, e d’uno consentimento, vollono dare la guardia di Bologna libera al comune di Firenze, disponendosi al tutto di volere lasciare la signoria messer Iacopo, sperando che ciò fatto, colla Chiesa non mancherebbe accordo. E nel vero questa era salutevole [107] via: ma certi cittadini popolani di Firenze della casa ... che aveano in quel tempo stato in Firenze, ed erano per la Chiesa al servigio del conte e del tesoriere, per loro spezialità avvisandosi, che venendo Bologna alle mani della Chiesa, come speravano, e’ ne sarebbono governatori, e farebbonsene ricchi e grandi; e per questa cagione smossono i loro amici cittadini grandi e popolani: ed eglino medesimi essendo a consigliare quello ch’era grandezza e stato del loro comune, e riposo di tutta Italia, si opposono al contradio, dicendo, che il comune n’offenderebbe troppo il papa, e’ cardinali e la santa Chiesa. Ed essendo favoreggiati da’ loro amici, ebbono podere di non lasciare imprendere al comune di Firenze questo servigio, e commisono grande materia di molto male a tutta Italia, e non pervennono alla loro corrotta intenzione. I Bolognesi disperati di questo, ove riposava tutta la loro speranza, e ’l conte montato nella cima della sua superbia, coloro non sapevano più che si fare, e il conte credendo senza contasto venire al suo intendimento d’avere la città per forza, essendo stato infino al settembre a Castel san Pietro, volle muovere l’oste, e porsi su le porti di Bologna; e sarebbegli venuto fatto, tanto erano i cittadini oppressati da’ soldati d’entro, e in disagio di tutte le cose da vivere, le quali al continuo montavano in disordinata carestia, e non aveano capo a cui i cittadini e’ forestieri ubbidissono, ma come la mala provvedenza del conte meritò, i soldati mossono quistione come appresso diviseremo.

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CAP. LXVI. Come i soldati mossono quistione al conte, e fu loro assegnato messer Giovanni Peppoli.

La mala provvedenza del conte di Romagna avendo moltiplicata gente d’arme al suo soldo, e promesse paghe doppie e mesi compiuti per niente, e dalla Chiesa non aveva i danari, come la sua follia avea stimato: i soldati conoscendo loro tempo, essendo a pagare di parecchi mesi di loro propi soldi, senza le promesse del conte, dissono, che di quel luogo non si partirebbono, se prima non fossono pagati de’ loro soldi serviti, e delle paghe doppie e mesi compiuti che promessi avea loro. Il quale soldo, colle promesse fatte, montava centocinquanta migliaia di fiorini d’oro. Il conte vedendo che la Chiesa non gli mandava danari, se non a stento, e a pochi insieme, temette che i soldati, ch’erano tutti di concordia, a uno volere non lo pigliassono, trattò con loro d’avere termine da fare venire loro danari, e diede loro in pegno messer Giovanni de’ Peppoli, e certi Bolognesi che avea prigioni a Imola, e Castel san Pietro, e quello di Luco, e quello di Doccia, ch’egli avea acquistati in sul Bolognese: e fu con loro in accordo, come avessono la possessione di tutto, allora cavalcherebbono, e porrebbonsi a campo stretto alla città di Bologna. Il conte fece dare loro i prigioni e la guardia delle castella, e avutole, volea che cavalcassono. I soldati colla corrotta fede, usati [109] de’ baratti, dissono che ’l pegno non era buono, e non voleano cavalcare nè partirsi da Castel san Pietro. Messer Giovanni de’ Peppoli sentendo questo, di presente ebbe de’ conestabili, e trattò con loro di dare contanti fiorini ventimila d’oro, e per stadichi i suoi figliuoli e quelli di messer Iacopo suo fratello, e certi cittadini di Bologna per lo rimanente, ed elli li liberassono di prigione. L’accordo fu fatto con assentimento del conte, se infra certo tempo la Chiesa non avesse mandati i danari. Venuto il termine, e non i danari, i soldati presono fiorini ventimila contanti, e gli stadichi promessi, e lasciarono messer Giovanni, il quale tornò in Bologna, e il fratello e la parte loro furono più forti, e signori di potere fare della città a loro senno, senza la volontà e consiglio de’ loro cittadini, perocchè messer Giovanni era molto temuto, e sapeva bene essere co’ soldati ne’ fatti della guerra.

CAP. LXVII. Come messer Giovanni tenne suoi trattati della città di Bologna.

Tornando messer Giovanni in Bologna, e lasciati a’ soldati della Chiesa gli stadichi promessi, trovò la città in molto male stato per le cagioni già dette, e non vide modo come difendere si potesse, e conobbe che perdere gli convenia la signoria di Bologna in breve tempo. I cittadini di Firenze, che desideravano l’accordo di quella città colla Chiesa, sentendo tornato in Bologna [110] messer Giovanni, vi mandarono de’ loro cittadini più solenne ambasciata, i quali da’ tiranni furono ricevuti a onore, e di loro volontà trattarono accordo col conte, e condussono il trattato a questo punto. Che i tiranni lasciassono al tutto la signoria della città e contado, e renderla alla Chiesa di Roma per lo modo usato: ch’ella tornasse al governamento del popolo, e avere continuo i rettori della Chiesa, e pagare il censo consueto; e al presente voleano ricevere nella città il conte con cinquecento cavalieri, e riformare doveano loro stato al popolo, per quelli cittadini che ’l comune di Firenze vi mandasse a ciò fare. Il conte che avea provati i rimprocci de’ soldati, e il pericolo che correa con loro, dichinava le corna della sua superbia, e acconciavasi alla detta concordia. Ma come pomposo e vano, si strinse al consiglio di questo partito che potea pigliare con messer Guglielmo da Fogliano, e con messer Frignano, figliuolo bastardo di messer Mastino, e altri conestabili che v’erano per messer Mastino, i quali non v’erano tanto per onore di santa Chiesa, quanto per loro vantaggio, per cui faceva la guerra, e speravano con loro malizia conducere la città di Bologna piuttosto in mano del loro signore, che del conte e della Chiesa di Roma, i quali dissono al conte: tu vedi che i signori di Bologna non possono più, e la città è condotta a tanta stremità dentro, che delle mani tue non puote uscire: e però non pensare a questi patti, che noi te ne faremo libero signore colla spada in mano. Il conte pomposo, pieno di vanagloria, con lieve testa, non pensò i casi che occorrono nelle [111] guerre, e per le vane promesse de’ fallaci adulatori ruppe il trattato menato per gli ambasciadori del comune di Firenze fedelmente, a onore e a beneficio di santa Chiesa, e a ricoveramento di riposo al fortunoso stato di quella città. Vedendo i tiranni la sconcia volontà del conte, si pensarono con tradimento de’ loro cittadini e della loro patria venire a un altro loro intendimento, già mosso per la malizia e per lo sdegno di messer Giovanni; e però, acciocchè più copertamente a’ loro cittadini potessono fare l’inganno, dissono che al tutto erano diliberati mettere Bologna nella guardia del comune di Firenze. E a questo i Bolognesi e grandi e piccoli di buona voglia s’accordarono, e sotto questa concordia elessono tre de’ maggiori cittadini di cui il popolo faceva maggiore capo, e quasti tre con altri compagni, e con pieno mandato, mandarono a Firenze con diversi intendimenti. Il popolo credendosi racquistare libertà e pace sotto la protezione del comune di Firenze, e i tiranni avendone tratti i caporali del popolo, pensarono senza contasto, come fatto venne loro, di venire a loro intendimento, di potere vendere la città e i suoi cittadini all’arcivescovo di Milano. Gli ambasciadori in fede e con grandissima affezione vennono a Firenze, e spuosono la loro ambasciata, solennemente dinanzi a’ signori, e a’ loro collegi, e a molti altri grandi e buoni cittadini di Firenze, richiesti e adunati per la detta cagione. E il dicitore fu messer Ricciardo da Saliceto, famoso dottore di legge, e la sua proposta fu: Ad Dominum cum tribularer clamavi, ec. E con nobile ed eccellente orazione, e [112] con efficaci ragioni e induttivi argomenti, conchiuse la sua dimanda, a inducere il comune di Firenze a prendere la guardia della città e de’ cittadini di Bologna. I governatori del comune di Firenze già aveano alcuna spirazione del trattato ch’e’ tiranni di Bologna aveano col signore di Milano, e comprendevano che questi ambasciadori fossono mandati a inganno: nondimeno per non aversi a riprendere, in quello consiglio deliberarono di mandare solenni ambasciadori di presente a corte per trovare accordo col papa, e in questo mezzo di mandare cavalieri, e de’ suoi cittadini alla guardia di Bologna, per contentare il popolo. Ma l’altro dì vegnente fu manifesto a’ signori di Firenze e agli ambasciadori di Bologna, che i tiranni l’aveano per danari venduta all’arcivescovo di Milano; e fu per lettera de’ tiranni detti comandato agli ambasciadori, che non si dovessono partire di Firenze senza loro comandamento; allora fu al tutto la cosa palese, e seguitò il fatto come appresso racconteremo.

CAP. LXVIII. Secondo trattato di Bologna.

Messer Giovanni de’ Peppoli avvelenato di sdegno della sua presura, vedendo che però perdea la tirannia di Bologna, avendo con non piccola fatica recato Messer Iacopo al suo volere, e vota la terra de’ caporali di cui temea, e fortificata la guardia nella città, avendo segretamente tenuto trattato coll’arcivescovo di Milano, coll’impeto [113] del suo dispettoso cuore, ebbe podere di vendere la città e’ suoi cittadini della sua propria patria, e da cui avea ricevuto esaltamento della sua signoria e onore, e niente per loro difetto del suo caso, cosa molto detestabile a udire. Costui vedendo che ’l suo trattato era scoperto, cavalcò di presente a Milano, e fermò la maledetta vendita per dugentomila fiorini, de’ quali si dovea dare certa parte a’ soldati della Chiesa per riavere gli stadichi che avea loro lasciati per liberare la sua persona, e a lui e al fratello dovea rimanere in loro libertà il castello di san Giovanni in Percesena, e Nonandola e Crevalcuore. E tornato lui, manifestata la vendita, i Bolognesi grandi e piccoli si tennono soggiogati di giogo d’incomportabile servaggio, e molto si doleano palesemente e in occulto l’uno coll’altro; e innanzi che la terra si pigliasse per lo signore di Milano grande gelosia ebbono i traditori della patria, e molto vegghiarono e di dì e di notte alla guardia della città. Ma i vili e codardi cittadini non ardirono di levarsi contra a’ tiranni, nè a muovere romore nella terra: che se fatto l’avessono, leggiermente coll’aiuto del comune di Firenze, a cui dispiaceva la vicinanza di sì potente tiranno, sarebbe venuto fatto di tornare in libertà. Alcuna trista vista ne feciono mollemente, e in fine si lasciarono vendere e sottoporre al duro giogo, del mese d’ottobre gli anni di Cristo 1350.

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CAP. LXIX. Come l’arcivescovo di Milano mandò a prendere la possessione di Bologna.

Come l’arcivescovo di Milano ebbe fermo il patto della compera di Bologna con messer Giovanni, non guardò con alcuna reverenzia o debito di ragione che la città fosse di santa Chiesa, ma cresciuto nella tirannesca superbia subitamente fece apparecchiare messer Bernabò suo nipote, figliuolo di messer Stefano, valente uomo e di grande ardire, e con millecinquecento barbute di soldati eletti il mise a cammino, e mandollo a pigliare la tenuta di Bologna. Sentendo questa venuta il doge Guernieri, ch’era in bando dell’arcivescovo di Milano, con tutta sua masnada si partì di Bologna; e standosi fuori della città, accogliea gente senza soldo per fare una compagna. Messer Bernabò giunto alla città entrò dentro senza alcuno contasto co’ suoi cavalieri, e con trecento che prima avea alla guardia di Bologna vi si trovò con millecinquecento barbute: e prese la tenuta e la guardia della città e delle castella di fuori, e appresso convocò i cittadini a parlamento, e per forza fece loro ratificare la vendita fatta per i tiranni, e dinuovo aggiudicarsi fedeli dell’arcivescovo e de’ suoi successori. E l’obbligazioni e le carte e il saramento fece fare il meglio seppe divisare; e questo fu fatto all’uscita del mese d’ottobre 1350. E così ebbe fine la tirannia della casa di Romeo de’ [115] Peppoli, grandi ed antichi cittadini di Bologna, i quali erano stati onorati e fatti signori da’ loro cittadini, dalla cacciata del cardinale del Poggetto legato del papa, i quali aveano loro signoria mantenuta assai dolcemente co’ cittadini. Essendo di natura guelfi, per la tirannia erano quasi alienati dalla parte, e i Fiorentini, amicissimi di quello comune, trattavano in molte cose con dissimulata e corrotta fede; e perocchè a’ traditori della patria tosto pare che Iddio apparecchi la vendetta, in breve tempo seguitò a messer Iacopo e a messer Giovanni, per addietro tiranni di Bologna, pena del peccato commesso, come seguendo nostra materia racconteremo.

CAP. LXX. Come capitò il conte di Romagna e l’oste della Chiesa.

Il conte di Romagna ventoso di superbia, e incostante per poco senno, il quale cotante volte potè avere con grande sua gloria e onore di santa Chiesa la città di Bologna, e non volutola se non colla spada in mano, secondo il consiglio de’ malvagi compagni, vedendola nelle mani del potente tiranno, vorrebbe avere creduto al consiglio de’ Fiorentini. Non però dimeno, perocchè per tutto questo la città non era allargata di vittuaglia, ma piuttosto aggravata, e’ soldati erano per gli stadichi che aveano, per li ventimila fiorini ricevuti, allargati di speranza, e messer Mastino che dell’impresa dell’arcivescovo era [116] dolente a cuore, offerendo al conte tutto suo sforzo di gente e di prestare danari alla Chiesa, confortò il conte a seguitare l’impresa. Il conte per questo si recò a conducere il doge Guernieri con milledugento barbute, uscito di Bologna, e raccolta gente come detto è. Messer Mastino anche vi mandò di nuovo de’ suoi cavalieri, e danari per comportare i soldati. E il conte fatte grandi impromesse a’ soldati mosse il campo da Castel san Pietro e venne con l’oste a Budri, in mezzo tra Bologna e Ferrara, e di là valicarono ad Argellata e a san Giovanni in Percesena, e ivi stettono dieci dì aspettando danari, con intenzione di porsi presso a Bologna dalla parte di Modena, per levare ogni soccorso a messer Bernabò: il quale era dentro in grande soffratta di vittuaglia e di strame, e male veduto da’ cittadini, e però stava in paura e non s’ardiva a muovere. Onde la città era a partito da non poter durare: e per forza convenia che tornasse alle mani della Chiesa, se il pagamento o in tutto o in parte fosse venuto a’ soldati. Ma chi si fida ne’ fatti della guerra alla vista delle prime imprese de’ prelati, e non considera come la Chiesa è usata a non mantenere le imprese, spesso se ne truova ingannato. E’ non valse al conte scrivere al papa, nè mandare ambasciadori, nè tanto mostrare come Bologna si racquistava con grande onore di santa Chiesa, assai potè dolere la vergogna, che l’arcivescovo di Milano facea d’avere tolta Bologna, che danari debiti a’ soldati, per vincere così onorevole punga, venissero da corte. Per tanto i soldati non si vollono [117] strignere a Bologna, anzi di loro arbitrio mossero il campo e tornarono a Budri, e ivi ch’era luogo ubertuoso, e che ’l marchese dava copioso, si misono ad attendere se i danari de’ loro soldi e dell’altre promesse venissero: e ivi dimorarono infino a dì 28 di gennaio del detto anno, e però i danari non vennono. Per la qual cosa al conte parea male stare, e per paura di se consentì a’ soldati che trattassero d’avere le paghe sostenute e le paghe doppie promesse per lui da messer Bernabò, condotto in parte per la sua mala provvedenza, che altro non poteva fare; rimanendogli alcuna vana speranza, che se messer Bernabò non si accordasse con loro, che gli farebbono più aspra guerra, ma il tiranno s’accordò di presente ad accordarli e pagarli, e riavere le castella e li stadichi; e questo fornì de’ danari della compra che avea fatta di Bologna. In questo medesimo trattato, condusse settanta bandiere di Tedeschi e Borgognoni soldati della Chiesa al suo soldo. Ed essendo assediato, in cotanto pericolo ricolse gli stadichi, riebbe le castella, ruppe l’oste de’ nimici, liberò la città dell’assedio, e in uno dì mise in Bologna in suo aiuto de’ cavalieri della Chiesa millecinquecento barbute; e tutto gli avvenne per l’avarizia de’ prelati di santa Chiesa, e per la forza e larghezza della sua pecunia. Il doge Guernieri colla sua compagna si ridusse in Doccia, e la gente di messer Mastino e del marchese di Ferrara si tornarono a’ loro signori: e il conte povero e vituperato del fine della sua impresa si tornò co’ suoi Provenzali in Imola, e Bologna si rimase [118] sotto il giogo del potente tiranno, mettendo in paura tutta Italia, e spezialmente la parte guelfa. Abbiamo stesamente narrato il processo di questa guerra per esempio del pericolo che corre de’ folli e ambiziosi capitani: e come per troppa superbia spesse volte volendo tutto si perde ogni cosa: e a dimostrare come è folle chi ha fidanza de’ danari della Chiesa far le imprese della guerra. Ancora questa rivoltura di Bologna fu cagione d’apparecchiare a tutta Italia, per lunghi tempi, grandi e gravi novità di guerre, come seguendo nostro trattato si potrà vedere.

CAP. LXXI. Come i Guazzalotri di Prato cominciarono a scoprire loro tirannia.

Tornando a’ fatti della nostra città di Firenze, il nobile castello di Prato ci dà cagione di cominciare da lui, nel quale la famiglia de’ Guazzalotri erano i migliori e più potenti, e la loro grandezza procedeva perocchè erano amati sopra gli altri di quella terra dal comune di Firenze: ed essendo guelfi, portavano fede e ubbidienza grande al nostro comune. Vero è che quello comune vedendosi in libertà e in vicinanza de’ Fiorentini, per tema che alcuna volta non si sommettessono al comune di Firenze aveano provveduto, come si racconta nella cronica del nostro antecessore, di darsi a messer Carlo duca di Calavra, figliuolo del re Ruberto, e a’ suoi discendenti [119] in perpetuo, con misto e mero imperio, ed egli così gli prese. Nondimeno si manteneano in fede e amore del comune di Firenze. Avvenne che morti gli antichi e savi cavalieri della casa de’ Guazzalotri, i quali conoscevano la loro grandezza procedere dal comune di Firenze, rimasonvi giovani donzelli: i quali trovandosi nella signoria di quella terra, mancando allora il governamento della casa reale per le fortune del Regno, cominciarono i giovani a trapassare l’ordine e il modo de’ loro antecessori nel governamento di quel castello, conducendolo a modo tirannesco. Della quale tirannia spesso veniva richiamo a’ priori di Firenze, e il comune per lo antico amore che portava a quelli di quella casa mandava pe’ caporali, tra’ quali il maggiore e il più ardito e riverito da tutti a quelle stagioni era Iacopo di Zarino, e riprendevanli e ammonivano parentevolemente per riducerli alla regola de’ loro maggiori. Ma i giovani caldi nella signoria e poco savi, e inzigati da mal consiglio, non seguendo il consiglio de’ Fiorentini, l’un dì appresso all’altro più dimostravano atto tirannesco per tenere in paura più che in amore i loro terrazzani. E per dimostrare in fatto quello che aveano nella mente, feciono di subito pigliare due Pratesi, l’uno era uno buono uomo ricco, vecchio e gottoso, l’altro era un giovane notaio ricco, onesto e di leggiadra conversazione a cui i Guazzalotri a altro tempo aveano fatto uccidere il padre, e a questi due appuosono, che voleano tradire Prato, e darlo a’ Cancellieri di Pistoia. Sentendo questo il comune di Firenze mandò per Iacopo di Zarino, e per gli [120] altri caporali de’ Guazzalotri, e pregarongli che non seguissono questa novità, e che i presi dovessono lasciare: perocchè manifestamente sapieno ch’elli erano innocenti: tornarono a Prato, e contro alla preghiera del comune di Firenze strussono gl’innocenti al giudicio: e sentendosi in Firenze, il comune vi mandò ambasciadori e lettere; ed essendovi gli ambasciadori del comune, e avute le lettere che gli richiedeano che non giudicassono a torto g’innocenti, i tirannelli per male consiglio s’affrettarono, e feciongli morire in vergogna del comune di Firenze, nella presenza de’ suoi ambasciadori. E fatto a catuno tagliare la testa, occuparono i loro beni indebitamente.

CAP. LXXII. Come i Fiorentini andarono a oste a Prato, ed ebbonne la signoria.

I Fiorentini vedendo la novità delle guerre d’Italia che da ogni parte s’apparecchiavano con tiranneschi aguati, e come avieno la nuova vicinanza del potente tiranno di Milano che teneva Bologna, e così messer Mastino, e vedeano che i Guazzalotri, congiunti per sito alle porti della città di Firenze, cominciavano a usare tirannia, pensarono che se possanza di grande tiranno s’appressasse loro, come s’apparecchiava, che della terra di Prato poco si poteano fidare. E però con buono consiglio, subitamente e improvviso a’ Pratesi, del mese di settembre gli [121] anni Domini 1350, feciono cavalcare le masnade de’ cavalieri soldati del comune, con alquanti cittadini e pedoni delle leghe del contado, e d’ogni parte si puosono a campo intorno a Prato, e senza fare preda o guasto, domandarono di volere la guardia di quella terra. I Pratesi smarriti del subito avvenimento, e non provveduti alla difesa, e avendo nella terra molti a cui la novella tirannia de’ Guazzalotri dispiaceva, senza troppo contasto furono contenti di fare la volontà del comune di Firenze. E sicurati da’ cittadini che danno non si farebbe, dierono al comune di Firenze liberamente la guardia di Prato, rimanendo a’ terrazzani la loro usata giurisdizione. E il comune prese il castello dello imperadore e misevi castellano, e fece la terra guardare solennemente.

CAP. LXXIII. Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronlo al loro contado.

Avendo il nostro comune la guardia di Prato presa contro la comune volontà de’ terrazzani, pensò che se mai tornasse in libertà, che i giovani in cui mano era rimasa la signoria con provvedenza la guarderebbono e la recherebbono a tirannia lievemente: e però sentendo il re Luigi e la reina Giovanna ereda del duca di Calavra, tornati di nuovo nel Regno, e che erano in fortuna e in grande bisogno, e governavansi per consiglio di messer Niccola Acciaiuoli nostro cittadino, [122] feciono segretamente trattare di comperare la giurisdizione ch’aveano in Prato. E trovando la materia disposta per lo bisogno del re e della reina, e bene favoreggiata da messer Niccola detto, il mercato fu fatto, e pagati per lo comune fiorini diciassettemila e cinquecento alla reina, come fu la convegna, per solenni privilegi e stipulazioni pubbliche dierono al comune di Firenze ogni ragione e misto e mero imperio ch’aveano nella terra di Prato e nel suo contado. E come il comune ebbe la ragione di questa compera, improvviso a’ Pratesi mandò alcuna forza a Prato e prese la tenuta di nuovo, e fece manifestare a’ Pratesi come la terra e il contado e gli uomini di quel comune erano liberi del nostro comune per la detta compera, e mostrar loro i privilegi e le carte; e questo fu del mese di... nel detto anno. E presa la tenuta, incontanente levò le signorie, gli ordini e gli statuti de’ Pratesi, e recò la terra e il contado a contado di Firenze, e diede l’estimo e le gabelle a quello comune come a’ suoi contadini, e diede loro quelli beneficii della cittadinanza e degli altri privilegi ch’hanno i contadini di Firenze: e ordinovvi rettori cittadini con certa limitata giurisdizione, recando il sangue e l’altre cose più gravi alla corte del podestà del comune di Firenze. Della qual cosa i Pratesi vedendosi avere perduta la loro franchigia, generalmente si tennono mal contenti, ma poterono conoscere per non sapere usare libertà divenire suggetti: e per la provvisione fatta di non venire alla signoria de’ Fiorentini, con quella in perpetuo furono legati alla sua giurisdizione.

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CAP. LXXIV. Come i guelfi furono cacciati dalla Città di Castello.

In questo anno, essendo ne’ collegi del reggimento di Perugia insaccati per segreti squittini gran parte de’ ghibellini, de’ quali a quel tempo n’erano i più all’ufficio, per operazione di Vanni da Susinana e degli altri Ubaldini della Carda, ch’erano cittadini della Città di Castello, fu messo in sospetto de’ Perugini la casa de’ Guelfucci, antichi cittadini e guelfi, ed altri guelfi, apponendo loro che trattavano di dare la Città di Castello a’ Fiorentini, e aggiungendovi alcuna altra cagione, mossono il reggimento di Perugia, senza cercare la verità del fatto, a fare cavalcare a Castello tutti i loro soldati, e per forza cacciarono i Guelfucci di Castello e certi altri, i quali di queste cose non erano colpevoli, e non si guardavano. Come gli Ubaldini ebbono fornita la loro intenzione, tutti si vestirono di bianche robe, e andarono a Perugia colle carte bianche in mano, offerendo al comune di fare tutta la sua volontà: scrivessono, ed elli affermerebbono. Ma poco stante, entrato a reggimento il nuovo uficio del loro priorato, uomini i più guelfi, s’avvidono dello inganno che il loro comune avea ricevuto, di cacciare i caporali di parte guelfa di Castello per malo ingegno degli Ubaldini, e in furia arsono e ruppono i sacchi de’ loro ufici, e di nuovo riformarono la città, mettendo ne’ sacchi [124] per loro squittini cittadini guelfi, e ischiusonne i ghibellini; e di presente rimisono i Guelfucci nella Città di Castello, e confinaronne gli Ubaldini.

CAP. LXXV. Come morì il re Filippo di Francia.

Stando la tregua, rinnovellata più volte tra il re di Francia e il re d’Inghilterra, poche notabili cose degne di memoria furono in que’ paesi. Ma il detto re Filippo di Francia, avendo per troppa vaghezza tolta per moglie la nobile e sopra bella dama figliuola del re di Navarra, e levatala al figliuolo come abbiamo narrato, tanto disordinatamente usò il diletto della sua bellezza, che cadendo malato, la natura infiebolita non potè sostenere, e in pochi dì diede fine colla sua morte alla sollecitudine della guerra, e a’ pensieri del regno e ai diletti della carne. E morto in Sanlisi, fu recato il corpo in Parigi, e fatto il reale esequio solennemente nella presenzia de’ figliuoli e de’ baroni del reame, e sepolto co’ suoi antecessori alla mastra chiesa di san Dionigi, a dì... gli anni Domini 1350. Immantinente appresso nella città di Rems fu coronato del reame di Francia messer Giovanni suo figliuolo primogenito, e la moglie in reina, e ricevette il saramento e l’omaggio da tutti i baroni e da tutti gli altri feudatari del suo reame e dell’altro acquisto. Questo Filippo re di Francia fu figliuolo di messer Carlo Sanzaterra, e fu uomo [125] di bella statura, composto e savio delle cose del mondo, e molto astuto a trovar modo d’accogliere moneta, e in ciò non seppe conservare nè fede nè legge. E sentendosi molto in grazia e temuto da papa Giovanni ventiduesimo, per l’openione che sparta avea disputando della visione dell’anime beate in Dio, la cui openione per li teologi del reame di Francia era riprovata, e perchè il collegio de’ cardinali erano tutti quasi fuori de’ Catalani, di suo reame, e per questa baldanza ebbe animo d’ingannar santa Chiesa, sotto la promessa di mostrare di volere fare passaggio oltre mare per racquistare la Terra santa: e per questo domandò per cinque anni le decime del suo reame a ricogliere in breve tempo, non avendo l’animo al passaggio, come appresso l’opere dimostrarono. E nel suo reame mutò spesso e improvviso monete d’oro, peggiorandole molto e di peso e d’oro: per le quali mutazioni disertò e fece tornare i mercatanti di suo reame di ricchezza in povertà: e’ suoi baroni e borgesi assottigliò d’avere per modo, che poco era amato da loro per questa cagione. Onde apparve quasi come sentenzia di Dio, che avendo egli cotanta baronia e moltitudine di buoni cavalieri, i quali solieno essere pregiati sopra gli altri del mondo in fatti d’arme, non s’abboccavano in alcuna parte con gl’Inghilesi, che non facessono disonore al loro signore: ove per antico gli aveano in fatti d’arme sopra modo a vile. E molte singulari gravezze sopra la mercatanzia e sopra uomini singulari mise, onde molti mercatanti forestieri n’abbandonarono il reame; [126] e non ostante che spesso fosse percosso dal bastone degl’Inghilesi, al continovo il re accrescea il suo reame per le infortune degli altri circustanti baroni, e per l’aiuto de’ suoi danari. Lasciò due figliuoli il re: messer Giovanni e messer Luigi duca d’Orliens: e quattro nipoti figliuoli del re Giovanni: il maggiore nominato messer Carlo Dalfino di Vienna e duca di Normandia, l’altro nominato Luigi duca d’Angiò, il terzo messer Giovanni conte di Pittieri, e il quarto messer Filippo piccolo fanciullo: e tre femmine: la prima moglie del re di Navarra, la seconda monaca del grande monistero di Puscì, e la terza nominata Caterina, picciola fanciulla, la quale fu poi moglie di messer Giovan Galeazzo de’ Visconti di Milano, come a suo tempo diviseremo.

CAP. LXXVI. Come la Chiesa rinnovò processo contra l’arcivescovo di Milano.

In questo anno, avendo saputo il papa e’ cardinali come l’arcivescovo di Milano per loro mandato non s’era voluto rimuovere dell’impresa di Bologna, ma contro a loro volontà, e in vitupero della Chiesa, avea presa la città e rotta l’oste della Chiesa e del conte, furono molto turbati. E ricordandosi come l’arcivescovo era stato infedele, e rinvoltosi nella resia dell’antipapa e fattosi suo cardinale, e poi tornato all’ubbidienza di santa Chiesa era ricevuto a misericordia da papa Giovanni ventesimosecondo, e riconciliato, [127] il fece vescovo di Novara, e poi per Clemente sesto promosso e fatto arcivescovo di Milano, e ora ingrato era tornato nella prima eresia, di non volere avere riverenzia nè ubbidire a santa Chiesa: rinnovellarono contro a lui e contro a’ suoi nipoti i processi altre volte fatti per papa Giovanni predetto, e feciono richiedere l’arcivescovo, e messer Galeazzo, e messer Bernabò, e messer Maffiuolo di messer Stefano Visconti, e assegnarono loro i termini debiti che s’andassono a scusare, e gli ultimi termini perentori furono a dì 8 d’aprile 1351. Infra il termine del detto processo vedendo il papa e’ cardinali per la loro avarizia, in vituperio, delle loro persone e in contento di santa Chiesa, tolta tutta la Romagna e la città di Bologna, volendo con ingegno unire in lega e compagnia gli altri tiranni lombardi, col comune di Firenze e di Perugia e di Siena, e colla Chiesa medesima, per potere con maggiore forza resistere al potente tiranno, mandò in Italia il vescovo di Ferrara, cittadino di Firenze della casa degli Antellesi, con pieno mandato a ciò ordinare e fermare: il quale giunto in Toscana, mandò a’ signori di Lombardia e a’ comuni predetti, che a certo termine catuno mandasse suoi ambasciadori alla città d’Arezzo a parlamento. E innanzi che il termine venisse, il detto legato andò in persona a messer Mastino e al marchese di Ferrara, e al comune di Perugia e di Siena a sporre la sua ambasciata, e tornò a Firenze, avendo sommossi i detti comuni e signori a venire in loro servigio e di santa Chiesa alla detta lega, perocchè catuno si temeva [128] della gran potenza del’arcivescovo. E messer Mastino, che gli era più vicino, con sollecitudine confortava i Lombardi e’ comuni di Toscana che venissono alla lega e a fare sì fatta taglia, che all’arcivescovo si potesse resistere francamente. E del mese d’ottobre vegnente gli ambasciadori d’ogni parte furono ragunati ad Arezzo; quelli di messer Mastino e de’ Fiorentini v’andarono con pieno mandato; i Perugini mostravano di volere lega e taglia, ma d’ogni punto voleano prima risposta dal loro comune, e i Sanesi faceano il somigliante, per li quali intervalli, gli ambasciadori stettono lungamente ad Arezzo senza poter prendere partito. E questo avveniva perocchè a’ Perugini e a’ Sanesi parea che la forza dell’arcivescovo non potesse giugnere a’ loro confini, e volevano mostrare di non volersi partire dal volere di santa Chiesa e de’ Fiorentini. E in questo soggiorno, l’arcivescovo di Milano temendo che la Chiesa non si facesse forte coll’aiuto de’ Toscani e de’ Lombardi, mandò a messer Mastino messer Bernabò suo genero, pregandolo che si ritraesse da questa impresa: e grandi impromesse al comune di Firenze faceva d’ogni patto e vantaggio che volesse da lui: e con queste suasioni cercava disturbare la detta lega: ma invano s’affaticava con questi tentamenti, che di presente tutti si piovicavano nel parlamento, e’ Sanesi s’erano ridotti al segno de’ Fiorentini, ed era preso, che se i Perugini non volessono essere alla lega, che si facesse senza loro. E avendo questo protestato loro, attendendo l’ultima risposta, la quale dilungavano con nuove cagioni [129] di dì in dì, andandovi in persona oggi l’uno ambasciadore e domane l’altro, essendo gli altri ambasciadori per fermare la lega e la taglia senza loro, come a Dio piacque, sopravvenne la novella della morte di messer Mastino, per la quale cosa si ruppe il parlamento senza fermare lega, e catuno ambasciadore si tornò a suo comune e signore; della qual cosa tornò grande ripetio a’ comuni di Toscana. E benchè i Fiorentini e i Sanesi non fossono cagione di questo scordo, nondimeno peccarono in tanto aspettare i Perugini: che grande utilità era al comune di Firenze, che confinava col tiranno, avere in suo aiuto il braccio di santa Chiesa e del signore di Verona, e di Ferrara e di Siena. Ma quando i falli si prendono ne’ fatti della guerra sempre hanno uscimento di privato pericolo: e però gli antichi maestri della disciplina militare punivano con aspre pene i mali consigliatori, eziandio che del male consiglio conseguisse prospero fine. Ma ne’ nostri tempi, i falli della guerra si puniscono non per giustizia, ma per esperienza del male che ne seguita, come tosto avvenne a’ detti comuni di Toscana, come seguendo appresso ne’ suoi tempi dimostreremo.

CAP. LXXVII. Come il tiranno di Milano si collegò con tutti i ghibellini d’Italia.

Avvenne in questo anno, come l’arcivescovo di Milano sentì rotto il trattato della lega mosso [130] per lo papa, e morto messer Mastino di cui più temea, gli parve che fortuna al tutto fosse con lui, e prese speranza di sottomettersi Toscana, e appresso tutta l’Italia. E però procacciò di recare a se il gran Cane della Scala cognato di messer Bernabò, e vennegli fatto per la confidenza del parentado. E perchè essendo giovane e nuovo nella signoria non facea per lui la guerra di sì fatto vicino, e però lievemente venne a concordia e legossi con lui, e promise d’aiutare l’uno l’altro nelle loro guerre. Sentita questa lega gli altri tiranni lombardi tutti si legarono coll’arcivescovo, non guardando il marchese di Ferrara perchè avesse antico amore e singolare affetto col comune di Firenze; e così tutti i tirannelli di Romagna feciono il simigliante, e que’ della Marca. E il comune di Pisa per patto li promisono dugento cavalieri, e non volendo rompere patto di pace a’ Fiorentini l’intitolarono alla guardia di Milano. E in Toscana s’aggiunse i Tarlati d’Arezzo, non ostante che fossono in pace e in protezione del comune di Firenze, e il somigliante di Cortona: e gli Ubaldini, e’ Pazzi di Valdarno, e gli Ubertini, e de’ conti Guidi tutti i ghibellini, e quei di Santafiore, e molti altri tirannelli ghibellini, i quali segretamente s’intesono coll’arcivescovo, non volendosi mostrare innanzi al tempo, per paura che i comuni guelfi loro vicini nol sapessono. Questa lega fu fatta e giurata tosto e molto segretamente, perocchè vedendo i ghibellini la gran potenza dell’arcivescovo, e sappiendo che la Chiesa non avea potuto fare la lega, e che i tiranni tutti di Lombardia s’erano accostati a dare [131] aiuto all’arcivescovo, pensarono che venuto fosse il tempo di spegnere parte guelfa in Italia, e però senza tenere pace o fede promessa catuno s’accostò col Biscione, e vennesi provvedendo d’arme e di cavalli per essere alla stagione apparecchiati. In questo mezzo l’arcivescovo per meglio coprire l’intenzione sua amichevolemente mandava al comune di Firenze sue lettere, congratulandosi de’ suoi onori, e profferendosi come ad amici, e con questa dissimulazione passò tutto il verno, e mostrava d’avere l’animo a stendersi nella Romagna. E il comune di Firenze per non mostrare in sospetto l’amicizia che dimostrava a’ Fiorentini, non si provvedeva di capitano di guerra nè di gente d’arme, e le strade di Bologna e di Lombardia usava sicuramente colle mercatanzie de’ suoi cittadini; e i Milanesi e’ Bolognesi e gli altri Lombardi faceano a Firenze il somigliante senza alcuno sospetto: perocchè il malvagio concetto del tiranno e de’ suoi congiunti si racchiudea ne’ loro petti, e di fuori non si dimostrava, per meglio potere adempiere loro intenzione.

CAP. LXXVIII. Come fu assediata Imola dal Biscione e altri.

In questo medesimo verno, messer Bernabò, ch’era in Bologna vicario per l’arcivescovo, costrinse i Bolognesi, e mandò a porre l’oste a Imola i due quartieri della città: ed egli v’andò in persona con ottocento cavalieri, e fecevi venire il capitano di Forlì colla sua gente a piè e a cavallo, [132] e vennevi messer Giovanni Manfredi tiranno di Faenza colla sua forza, e il signore di Ravenna e gli Ubaldini, e assediarono Imola intorno con più campi. Guido degli Alidogi signore d’Imola, guelfo e fedele a santa Chiesa, avendo sentito questo fatto dinanzi, e richiesto i Fiorentini e gli altri comuni e amici di santa Chiesa d’aiuto, e non avendolo trovato, per la paura che catuno avea d’offendere al Biscione, come uomo franco e di gran cuore s’era provveduto dinanzi che l’assedio vi venisse di molta vittuaglia; e per non moltiplicare spesa di soldati elesse centocinquanta cavalieri di buona gente d’arme e trecento masnadieri nomati, tutti di Toscana, e con questi si rinchiuse in Imola; e fece intorno alla città due miglia abbattere case chiese e quanti difici v’erano, perchè i nimici non potessono avere ridotto intorno alla terra; e così francamente ricevette l’assedio, acquistando onore di franca difesa, insino all’uscita di maggio gli anni Domini 1351. In questo stante al continovo si mettea in ordine sotto questa coverta d’Imola di potere improvviso a’ cittadini di Firenze assalire la città: e approssimandosi al tempo, di subito fece levare l’oste da Imola e lasciarvi certi battifolli, i quali in poco tempo straccati, senza potere tenere assediata la città, se ne levarono e lasciaronla libera.

[133]

CAP. LXXIX. Come il capitano di Forlì tolse al conticino da Ghiaggiuolo e al conte Carlo da Doadola loro terre.

In questo medesimo tempo, il capitano di Forlì disideroso d’accrescere sua signoria, e avventurato nell’imprese, non vedendosi avere in Romagna di cui e’ dovesse temere, co’ suoi cavalieri venne subitamente sopra le terre del conticino da Ghiaggiuolo, di cui non si guardava, e con lui venne l’abate di Galeata, da cui il conticino tenea certe terre, e non gli rispondea com’era tenuto. E parve che fosse una maraviglia, che avendo buone e forti castella e bene guernite a grande difesa, tutte l’ebbe in pochi dì. E con questa foga se n’andò sopra le terre di Carlo conte di Doadola, e quasi senza trovar contasto tutte le recò sotto la sua signoria. Egli era a quel tempo in lega col signore di Milano, e però non trovò il comune di Firenze, benchè il conticino fosse stato suo cittadino, ch’aiutare lo volesse contro al capitano.

CAP. LXXX. Come nella città d’Orbivieto si cominciò materia di grande scandalo.

In questo anno 1350, reggendosi la città d’Orbivieto a comune appo il popolo, erano i maggiori [134] governatori di quello stato Monaldo di messer Ormanno, e Monaldo di messer Bernardo della casa de’ Monaldeschi; Benedetto di messer Bonconte loro consorto, per invidia e per setta recati a se due altri suoi consorti, trattò con loro il malificio, che poco appresso gli venne fatto; perocchè del mese di marzo del detto anno, uscendo amendue i Monaldi sopraddetti del palagio del comune dal consiglio, Benedetto co’ suoi due consorti s’aggiunsono con loro, e senza alcuno sospetto, i due Monaldi, che al continovo il dì e la notte usavano con Benedetto, s’avviarono con lui ragionando; e avendo il traditore l’uno di loro per mano, nel ragionamento, in sulla piazza, il fedì d’uno stocco, e cadde morto; l’altro Monaldo vedendo questo cominciò a fuggire: Benedetto sgridò i compagni, i quali il seguirono, e innanzi che potesse entrare in casa sua il giunsono e uccisonlo. Morti che furono costoro, Benedetto corse a casa sua e armossi; e accolti certi suoi amici, co’ suoi due consorti corsono la terra: e non trovando contasto, entrarono nel palagio del comune; e aggiuntasi forza di cittadini di sua setta, Benedetto si fece fare signore, e cominciò a perseguitare tutti coloro ch’erano stati amici de’ suoi consorti morti; e montò in tanta crudeltà la sua tirannia coll’audacia de’ suoi seguaci, che cacciati molti cittadini, in piccolo tempo, innanzi che l’anno fosse compiuto, più di dugento tra dell’una setta e dell’altra se ne trovarono morti di ferro. Onde il contado e il paese d’intorno se ne ruppe in sì fatto modo, che in niuno cammino del loro distretto si potea andare sicuro.

[135]

CAP. LXXXI. Come la città d’Agobbio venne a tirannia di Giovanni Gabbrielli.

Avendo narrato delle nuove tirannie che si cominciarono in Toscana, ci occorre a fare memoria d’un’altra che si creò nella Marca in questo medesimo anno, la città d’Agobbio, la quale in quel tempo avea sparti per l’Italia quasi tutti i suoi maggiori cittadini in ufici e rettorie. Giovanni di Cantuccio de’ Gabbrielli d’Agobbio, essendo co’ suoi consorti in discordia per una badia di Santacroce, si pensò che agevolemente si potea fare signore e della badia e d’Agobbio, trovandosi nella città il maggiore, e non guardandosi i suoi consorti nè gli altri cittadini di lui. E non ostante che fosse guelfo di nazione, considerò che tutti i comuni e signori di parte guelfa di Romagna, e di Toscana e della Marca temeano forte del signore di Milano, ch’avea presa di novello la città di Bologna, e provvidde, che dove i Perugini o altra forza si movesse contro a lui, che l’aiuto dell’arcivescovo non gli mancherebbe. E avendo così pensato, senza indugio accolse cento fanti masnadieri, e con alquanti cittadini disperati e acconci a mal fare, i quali accolse a questo tradimento della patria, subitamente corse in prima alle case de’ suoi consorti, e affocate e rotte le porti, prese messer Belo di messer Cante, e messer Bino e Rinuccio suoi figliuoli, e Petruccio di messer Bino e quattro altri piccioli fanciulli, e [136] tutti gli mise in prigione; e rubate le case, vi mise il fuoco e arsele. E fatto questo, corse al palagio de’ consoli rettori di quello comune: e non volendo il gonfaloniere darli il palagio, corse alle case sue e arsele in sua vista. E tornato al palagio, disse agli altri consoli, che se non gli dessono il palagio altrettale farebbe delle loro; onde per paura gli aprirono; e preso il palagio, vi lasciò sue guardie, e corse la terra. I cittadini sentendo presi i consorti di Giovanni, di cui avrebbono potuto fare capo, si stettono per paura, e niuno si mise a contastarlo. E così disventuratamente coll’aiuto di meno di centocinquanta fanti fu occupata in tirannia la città d’Agobbio in una notte, la quale avea seimila uomini d’arme. Ma i peccati loro, e massimamente le ree cose commesse per le città d’Italia per le continove rettorie ch’aveano gli uomini di quella città, li condusse in quelle, e nella disciplina della nuova e disusata tirannia. E per le discordie della casa de’ Gabbrielli a quell’ora non avea la città podestà, nè capitano nè altro rettore. Avevavi alcune masnade de’ Perugini, i quali Giovanni ne cacciò fuori; e ’l dì seguente, avendo cresciuta la sua forza dentro, se ne fece fare signore; e di presente, come potè il meglio, si fornì di gente, e di notte facea sollecita guardia, e fortificava la sua signoria.

[137]

CAP. LXXXII. Come il comune di Perugia e il capitano del Patrimonio andarono a oste ad Agobbio.

Sparta per lo paese la nuova signoria d’Agobbio, messer Iacopo, ch’era capo della casa de’ Gabbrielli, e allora era capitano del Patrimonio per la Chiesa, co’ suoi cavalieri, e con aiuto d’alquanti suoi amici, di subito cavalcò a Perugia; e il comune di Perugia, che si sentiva offeso per lo cacciare della sua gente d’Agobbio, a furore di popolo si mosse a cavalcare popolo e cavalieri con messer Iacopo, e puosonsi a oste intorno alla città d’Agobbio. Vedendo Giovanni di Cantuccio, nuovo tiranno, che il comune di Perugia, e messer Iacopo e altri suoi consorti con forte braccio l’avieno assediato, e che da se era male fornito a potere resistere, e de’ suoi cittadini d’entro non si potea fidare, sagacemente mandò nel campo a’ Perugini suoi ambasciadori, i quali da parte di Giovanni dissono: Signori Perugini, Giovanni di Cantuccio ci manda a voi a farvi assapere, com’egli è di quella casa de’ Gabbrielli, che sempre furono amatori e fedeli del vostro comune, e così intende d’essere egli; e intende che ’l comune di Perugia abbia in Agobbio ogni onore e ogni giurisdizione che da qui addietro avere vi solea, e maggiore, e vuole rendere i prigioni; ed e’ si partissono dall’assedio, e mandassono in Agobbio que’ savi cittadini di Perugia cui elli volessono, a mettere in ordine e riformare il governamento [138] del comune, e ricevere i prigioni. La profferta fu larga, e’ Perugini più baldanzosi che discreti, confidandosi follemente alla promessa del tiranno, elessono ambasciadori ch’andassono a ricevere i prigioni e riformare la città, e misongli in Agobbio: e di presente si levarono da campo della terra e tornaronsi in Perugia, e lasciarono messer Iacopo a campo colla gente d’arme ch’avea della Chiesa, il quale rimase all’assedio più dì partiti i Perugini; pensando coll’aiuto de’ suoi cittadini d’entro potere da se alcuna cosa, o se la fede di Giovanni fosse intera co’ Perugini, potere tornare in Agobbio. Gli ambasciadori de’ Perugini entrati in Agobbio, con grandissima festa, e dimostramento di grande amore e confidanza furono ricevuti da Giovanni. E cominciolli prima a convitare e tenerli in desinari e in cene, e tranquillarli d’oggi in domane; e strignendolo gli ambasciadori, disse che volea prima vedere partito messer Iacopo dall’assedio. Messer Iacopo s’avvide bene dell’inganno, ma stretto dagli ambasciadori perugini, acciocchè a lui non si potesse imputare cagione che per lui seguitasse la discordia, si partì dall’assedio e tornossi nel Patrimonio. Gli ambasciadori di Perugia, partitosi messer Iacopo, con più baldanza strigneano Giovanni, di rivolere i prigioni, e ordinare il reggimento della guardia della terra, com’egli avea promesso. Il tiranno vedendosi levato l’assedio, tenea con più fidanza gli ambasciadori in parole, e trovando nuove cagioni a dilungare il tempo, gli tenea sospesi. Ma vedendo che oltre al debito modo gli menava per parole, [139] per sdegno si partirono d’Agobbio, e rapportarono al loro comune l’inganno che Giovanni avea fatto. A’ Perugini ne parve male: ma non trovarono tra loro concordia di ritornarvi ad oste. Nondimeno il nuovo tiranno, pensandosi più gravemente avere offeso il comune di Perugia, non ostante che fosse per nazione e per patria guelfo, si pensò d’aiutare co’ ghibellini. E mandò ambasciadori a messer Bernabò ch’era a Bologna, dicendo: che volea tenere la città d’Agobbio dal suo signore messer l’arcivescovo: e pregollo che gli mandasse gente d’arme alla guardia sua e della terra; il quale senza indugio vi mandò dugentocinquanta cavalieri, e appresso ve ne mandò maggiore quantità, parendoli avere fatto grande acquisto alla sua intenzione. Giovanni da se sforzò i suoi cittadini per avere danari, e fornissi di gente d’arme a piè e a cavallo; e vedendosi fornito alla difesa si dimostrò palesemente nimico de’ Perugini, come appresso seguendo nostro trattato racconteremo.

CAP. LXXXIII. Come cominciò l’izza da’ Genovesi a’ Veneziani.

Essendo cresciuto scandalo nato d’invidia di stato tra il comune di Genova e quello di Vinegia, tenendosi ciascuno il maggiore, cominciamento fu di grave e grande guerra di mare. E la prima cagione che mosse fu, che avendo avuto i Genovesi guerra e briga con Giannisbec imperadore nelle provincie del Mare maggiore, [140] a cui i Genovesi aveano arsa la Tana e fatto danno grande alla gente sua, per la qual cosa i Genovesi non potieno colle loro galee andare al mercato della Tana, anzi facevano a Caffa porto, e per terra vi faceano venire la spezieria e altre mercatanzie, con più costo e avarie che quando usavano la Tana. I Veneziani dopo la detta briga s’acconciarono coll’imperadore, e alla Tana andavano con loro navili e colle loro galee per la mercatanzia, e traevanla a migliore mercato, la qual cosa mettea male a’ Genovesi. Per la qual cosa richiesono i Veneziani, e pregaronli che si dovessono accordare con loro a fare porto a Caffa, e darebbono loro quella immunità e fondaco e franchigia ch’avieno per loro: e facendo questo, l’arebbono in grande servigio; ed essendo in concordia, non dottavano che Giannisbec si recherebbe a far loro ogni vantaggio che volessono, per ritornarli al mercato della Tana: e questo tornerebbe in loro profitto, e in onore di tutta la cristianità. I Veneziani non vi si poterono per alcun modo recare, anzi dissono, che intendeano d’andare con loro legni e galee alla Tana e dove più loro piacesse, che della briga che i Genovesi aveano coll’imperadore non si curavano. Per la quale risposta i Genovesi sdegnarono, e dispuosonsi dove si vedessono il bello, di fare danno a’ Veneziani in mare, e i Veneziani a loro; e d’allora innanzi, dove si trovarono in mare si combatteano insieme, e in trapasso di non gran tempo feciono danno l’uno all’altro assai. E sentendo catuno comune come la guerra era cominciata in mare tra’ loro cittadini, ordinarono [141] di mandare a maggiore riguardo e più armati i loro navili grossi che non solieno. E per non mostrare paura nè viltà l’uno dell’altro non si ristrinsono del navicare.

CAP. LXXXIV. Come quattordici galee di Veneziani presono in Romania nove de’ Genovesi.

Avvenne che andando in questo anno alla Tana quattordici galee di Veneziani bene armate, come furono in Romania s’abboccarono in undici galee de’ Genovesi ch’andavano a Caffa, sopra l’Isola di Negroponte, e incontanente si dirizzano colle vele e co’ remi in verso loro. I Genovesi vedendole venire, l’attesono arditamente, e acconciaronsi alla battaglia. E sopraggiungendo le galee de’ Veneziani, combatterono insieme. E dopo la lunga battaglia, i Veneziani sconfissono i Genovesi: e seguitando la fuga, delle undici galee ne presono nove, e le due camparono, e fuggirono in Pera. I Veneziani avendo questa vittoria, trovandosi presso all’isola di Negroponte, acciocchè non impedissono per tornare a Vinegia il loro viaggio della Tana, tornarono a Candia, e ivi scaricarono la mercatanzia presa delle nove galee de’ Genovesi, e misonla nel loro fondaco, e tutti i prigioni incarcerarono: e i corpi delle galee de’ Genovesi lasciarono nel porto, pensando d’avere ogni cosa in salvo alla loro tornata, e allora menar la preda della loro vittoria a Vinegia con grande gazzarra; e fatto [142] questo seguirono il loro viaggio. Ma le cose ebbono tutto altro fine che non si pensarono, come appresso diviseremo.

CAP. LXXXV. Come i Genovesi di Pera presono Negroponte, e riebbono loro mercatanzia.

Le due galee di Genovesi campate dalla sconfitta, e venute a Pera, narrarono a’ Genovesi di Pera la loro fortuna. E sentito per quelli di Pera come le quattordici galee di Veneziani erano passate nel Mare maggiore, e come i Genovesi prigioni, e la mercatanzia e i corpi delle loro galee erano in Candia; non inviliti per la rotta de’ loro cittadini, ma come uomini di franco cuore e ardire, di presente avendo in Pera sette corpi di galee le misono in mare, e quelle e le due de’ Genovesi della sconfitta, e quanti legni aveano armarono di loro medesimi, e montaronvi suso a gara chi meglio potè, fornendosi d’arme e di balestra doppiamente; e senza soggiorno, improvviso a’ Veneziani di Candia, i quali non sapieno che galee di Genovesi fossono in quel mare, furono nel porto. I Veneziani co’ paesani, volendo contastare la scesa a’ Genovesi in terra nel loro porto, tratti alla marina, per forza d’arme e dalle balestra de’ Genovesi furono ributtati; e scesi in terra i Genovesi di Pera, e romore levato per la città, tutti trassono i cittadini alla difesa, per ritenere i Genovesi che non si mettessono più innanzi verso la terra. Ma poco valse [143] loro, che con tanto empito di loro coraggioso ardire i Genovesi si misono innanzi, che coll’aiuto delle loro balestra rotti que’ della terra, e fuggendo nella città, con loro insieme v’entrarono. Come si vidono dentro, affocando le case, e dilungando da loro i cittadini co’ verrettoni, gli strinsono per modo, che già erano signori della terra; ma pervenuti alla prigione la ruppono, e trassonne tutti i loro cittadini presi; ed entrarono nel fondaco, e tutta la mercatanzia presa delle nove galee de’ Genovesi, e quella che dentro v’era de’ Veneziani presono, e caricarono ne’ corpi delle loro nove galee prese nel porto, e su le loro; e rimessi i prigioni in su le galee, pensarono che tanto erano rotti e sbigottiti gli abitatori di Candia, che agevole parea loro vincere la terra, ma vincendola e convenendola guardare, convenia loro abbandonare Pera, e però si ricolsono alle galee, e con piena vittoria si ritornarono a Pera. E a Genova rimandarono le nove galee racquistate per loro, e gli uomini e la mercatanzia, con notabile fama di loro prodezza e di varia fortuna.

CAP. LXXXVI. Come fu morto il patriarca d’Aquilea, e fattane vendetta.

In questo anno, del mese di giugno, messer Beltramo di san Guinigi patriarca d’Aquilea, cavalcando per lo patriarcato, da certi terrieri suoi sudditi, con aiuto di cavalieri del conte d’Aquilizia, ch’era male di lui, fu nel cammino [144] assalito e morto con tutta sua compagnia, e senza essere conosciuti allora, coloro che feciono il malificio si ricolsono in loro paese. Per la qual cosa rimaso il patriarcato senza capo, i comuni smossono il duca d’Osterich, il quale con duemila barbute venne, e fu ricevuto da tutti i paesani senza contasto, e onorato da loro. E vicitato il paese infino nel Friuli, sentendo che ’l papa avea fatto patriarca il figliuolo del re Giovanni di Boemia, non illigittimo ma ligittimo, si tornò in suo paese. E poco appresso, il detto patriarca venne nel paese, e fu con pace ricevuto e ubbidito da tutti i comuni e terrieri del patriarcato. E statovi poco tempo, certi castellani il vollono fare avvelenare, e furono coloro ch’avieno morto l’altro patriarca, avendo a ciò corrotto due confidenti famigliari. Onde egli scoperto il tradimento, messer Francesco Giovanni grande terriere, capo di questi malfattori, con certi altri castellani che ’l seguitavano, furono da lui perseguitati senza arresto, tanto che si ridussono a guardia nelle loro fortezze, e ivi furono assediati per modo, che s’arrenderono al patriarca. Il quale prima abbattè tutte loro castella, le quali erano cagione della loro sfrenata superbia, e al detto messer Francesco, con otto de’ maggiori castellani fece tagliare le teste, e un’altra parte ne fece impendere per la gola. Per la qual cosa tutto il paese rimase cheto e sicuro, e il patriarca temuto e ubbidito da tutti senza sospetto o contasto.

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CAP. LXXXVII. Come il legato del papa si partì del Regno, e il re riprese Aversa.

Tornando alle novità del regno di Cicilia di qua dal Faro, come è narrato, fatto l’accordo dal re Luigi a Currado Lupo e agli altri caporali ch’erano sotto il titolo del re d’Ungheria in Terra di Lavoro, le città e le castella che teneano in quella furono assegnate alla guardia del cardinale messer Annibaldo da Ceccano, salvo le torri di Capova. Il cardinale non trovando tra le parti accordo, per dare materia al re Luigi che si potesse riprendere le città e le castella che a lui erano accomandate, si partì del Regno e andossene a Roma, ove da’ Romani fu male veduto; perocchè dispensava e accorciava i termini della vicitazione a’ romei, contro all’appetito della loro avarizia, onde più volte standosi nel suo ostiere fu saettato da loro, e alla sua famiglia fatta vergogna, e assaliti e fediti cavalcando per Roma. Onde egli sdegnoso si partì, e andossone in Campagna; e nel cammino morì di veleno con assai suoi famigliari. Dissesi che ad Aquino era stato avvelenato vino nelle botti, del quale non ebbono guardia, e bevvonsene: se per altro modo fu non si potè sapere. Rimasta la città d’Aversa e la guardia del castello a certi famigliari del cardinale in nome di santa Chiesa, il re Luigi vi cavalcò con poca gente, e fecesi aprire le porte del castello senza contasto, e misevi fornimento o [146] gente d’arme alla guardia. E incontanente la città, ch’era troppo larga e sparta da non potersi bene difendere, ristrinse, facendo disfare tutte le case e’ palagi che fuori del cerchio che prese rimanieno; e delle pietre fece cominciare a cignere quella di buone e grosse mura: e a ciò fare mise grande sollecitudine, sicchè in poco tempo, innanzi l’avvenimento del re d’Ungheria nel Regno, le mura erano alzate per tutto sei braccia intorno alla terra. E fatto capitano messer Iacopo Pignattaro di Gaeta, valente barone, di trecento cavalieri e di seicento pedoni masnadieri, gli accomandò la guardia della città d’Aversa e del castello; e nella terra fece mettere abbondanza di vittuaglia, perocchè di quella terra, più che dell’altre, si dubitava alla tornata del re d’Ungheria. In quel tempo Currado Lupo non sentendosi forte di cavalieri, che s’erano partiti del Regno, s’era ridotto a Viglionese in Abruzzi, e gli Ungheri in Puglia, e guardavano il passo delle torri di Capova, aspettando il loro signore.

CAP. LXXXVIII. Come il re d’Ungheria ritornò in Puglia conquistando molte terre.

In questo anno, Lodovico re d’Ungheria sentendo che la sua gente avea sconfitto a Meleto i baroni del re Luigi e i Napoletani, e aveano molti a prigioni: essendo sollecitato per lettere e per ambasciadori da’ comuni e da’ baroni che teneano nel Regno la sua parte che ritornasse, diliberò [147] di farlo. E di presente mandò innanzi de’ suoi cavalieri ungheri con certi capitani in Ischiavonia, perchè di là passassero in Puglia. E quando gli sentì passati, subitamente con certi suoi eletti baroni, con piccola compagnia, si mise a cammino, e prima fu alla marina di Schiavonia che sapere si potesse della sua partita: e trovando al porto le galee e i legni apparecchiati, vi montò suso; e avendo il tempo buono, valicò in Puglia a salvamento, assai più tosto che per i paesani non si stimava. E sentita la partita sua in Ungheria, grande moltitudine d’Ungheri il seguitarono, valicando di Schiavonia in Puglia in barche e in piccoli legni armati sì disordinatamente, che se il re Luigi avesse avute due galee armate senza fallo gli avrebbono rotti e impediti per modo, che non sarebbono potuti passare: ma come furono passati, il re Luigi vi mandò tre galee armate che vi giunsono invano. Ed essendo il re d’Ungheria in Puglia, ragunò la sua gente insieme, e trovossi con diecimila cavalieri. In que’ dì il conte di Minerbino, il quale s’era ribellato dal detto re, si racchiuse nella città di Trani, alla quale il re andò ad assedio. E vedendosi il conte senza speranza di soccorso e disperato di salute, col capestro in collo e in camicia uscì della città, e gittossi ginocchione in terra a piè del re domandandoli misericordia. Il re d’Ungheria dimenticati i baratti e’ falli del conte benignamente gli perdonò, e rimiselo nel suo stato: e lasciato nelle città e castella di Puglia quella gente che volle, venne in Principato. La città di Salerno essendo in cittadinesche discordie gli apersono le [148] porte, e ricevettonlo a onore: e ivi si riposò alquanti dì; e messo suo vicario nella città e castellano nel castello, se ne venne a Nocera de’ cristiani; e in quella se n’entrò senza contasto. Il castello era forte e bene fornito alla difesa, ma invilito il castellano, per codardia l’abbandonò. Il re il fece prendere e guardare alla sua gente. E partito di là venne a Matalona, nella quale entrò senza contasto. E tutte le città e castella di Terra di Lavoro feciono il suo comandamento, salvo la città di Napoli ed Aversa. E poi il detto re con tutto suo sforzo se ne venne ad Aversa, del mese di maggio nel detto anno, e credettelasi avere alla prima giunta, ma trovossi ingannato, perocchè era città di mura cinta, e bene che fossero basse, era imbertescata e fornita di legname alla difesa; e dentro v’erano i cavalieri e i masnadieri che la difendevano virtuosamente; e assaggiata per più volte dall’assalto degli Ungheri, con loro dannaggio, il re conobbe che non la potea vincere per forza, e però vi mise assedio, e strinsela con più campi per modo, che da niuna parte vi si poteva entrare.

CAP. LXXXIX. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia.

In questo tempo dell’assedio d’Aversa, il doge di Genova e il suo consiglio, conosciuto loro tempo, armarono dodici galee e mandaronle nel porto di Napoli, e diedono il partito a prendere al re e a alla reina, dicendo in questo modo: il doge [149] di Genova e il suo consiglio ci hanno mandati qui a essere in vostro aiuto, in quanto voi rendiate liberamente al nostro comune la città di Ventimiglia, la quale è di nostra riviera, avvegnachè di ragione fosse della contea di Provenza. E se questo non fate, di presente abbiamo comandamento d’essere contro a voi, e di servire il re d’Ungheria. Il re e la reina vedendosi assediati per terra dalla grande cavalleria del re d’Ungheria, a cui ubbidia tutta la Terra di Lavoro, e di mare convenia che venisse tutta loro vittuaglia, e da loro non aveano solo una galea: pensarono che se i Genovesi gli nimicassono in mare erano perduti, e però stretti dalla necessità deliberarono di fare la volontà del doge e del comune di Genova, avendo speranza dell’aiuto di quelle galee molto migliorasse la loro condizione. E incontanente mandarono a far dare la tenuta della città di Ventimiglia al comune di Genova. E le dodici galee non si vollono muovere del porto di Napoli, nè fare alcuna novità infino a tanto che la risposta non venne dal loro doge, come avessono la tenuta della detta città. Avuta la novella, non tennono fede al re Luigi nè alla reina di volere nimicare le terre che ubbidivano al re d’Ungheria, nè essere contro a lui; anzi si partirono da Napoli, e presono altro loro viaggio.

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CAP. XC. Come fu data l’ultima battaglia ad Aversa dal re d’Ungheria.

Stando l’assedio ad Aversa, il re d’Ungheria facea scorrere continovo la sua gente fino a Napoli e per lo paese d’intorno d’ogni parte, e tutti i casali e le vicinanze l’ubbidivano, e mandavano il mercato all’oste. A Napoli per terra non entrava alcuna cosa da vivere, e però avea soffratta d’ogni bene, salvo che di grechi e di vini latini. E se il re d’Ungheria avesse avute galee in mare, avrebbe vinta la città di Napoli per assedio più tosto che Aversa: perocchè non aveano d’onde vivere, se per mare non veniva da Gaeta e di Roma con grande costo. Nel cominciamento, l’oste del re d’Ungheria fu abbondevole d’ogni grascia, per l’ubbidienza de’ paesani: ma soprastando l’assedio, il servigio cominciò a rincrescere, e l’oste ad avere mancamento di molte cose, e spezialmente di ferri di cavalli e di chiovi. E i nobili regnicoli vedendo che il re in persona con diecimila cavalieri non poteva prendere Aversa, debole di mura e di fortezza e con poca gente alla difesa, cominciarono ad avere a vile gli Ungheri, e trarre le cose loro de’ casali, e la vittuaglia non portavano al campo come erano usati. E per questo le masnade degli Ungheri andavano a rubare oggi l’uno casale e domane l’altro, e spaventati i paesani, la carestia e il disagio montava nell’oste. [151] Il re temendo che la vittuaglia non fallasse nel soggiorno, deliberò di combattere la città con più ordine e con più forza ch’altra volta non avea fatto, come appresso diviseremo.

CAP. XCI. Della materia medesima.

Vedendo il re d’Ungheria mancare la vittuaglia all’oste, ebbe i capitani e’ conestabili de’ suoi Ungheri e Tedeschi che v’erano a parlamento: e disse come grande vergogna era a lui e a loro essere stati tanto tempo intorno a quella terra, abbandonata di soccorso e imperfetta di mura, e non averla potuta prendere; e ora conoscea che per lo mancamento della vittuaglia il soggiorno non gli tornasse a vergogna; e però gli richiedeva e pregava ch’elli confortassono loro e i loro cavalieri, ch’elli adoperassono per loro virtù, che combattendo la terra si vincesse: ch’egli intendea di volere che la battaglia da ogni parte vi si desse aspra e forte, sicch’ella si vincesse. I capitani e’ conestabili di grande animo e di buono volere s’offersono al re, e il re in persona disse loro d’essere alla detta battaglia. Quelli d’entro che sentirono come doveano essere combattuti con tutta la forza di quella gente barbara, non si sbigottirono, anzi presono cuore e ardire e argomento alla loro difesa. Gli Ungheri e i Tedeschi sprovveduti d’ingegni da coprirsi e da prendere aiuto all’assalto delle mura, fidandosi negli archi e nelle saette, da ogni [152] parte a uno segno fatto assalirono le mura. E il re in persona fu all’assalto, per fare da se, e per dare vigore agli altri. E data la battaglia, e rinfrescata spesso, per stancare i difenditori, e fatto di loro saettamento ogni prova, ed essendo da quelli della terra in ogni parte ribattuti, coll’aiuto de’ balestrieri e delle pietre e della calcina gittata sopra loro, e delle lanci e pali e d’altri argomenti, non ebbono podere di prendere alcuna parte delle mura, ma molti di loro morti e più fediti, e infino fedito il re, con acquisto d’onta e di vergogna si ritrassono dalla battaglia. Que’ d’entro avendo combattuto francamente, confortati e medicati di loro fedite, presono delle fatiche riposo.

CAP. XCII. Come il conte d’Avellino con dieci galee stette a Napoli, e Aversa s’arrendè al re.

Stando l’assedio ad Aversa, la reina Giovanna non essendo bene del re Luigi, perchè volea essere da lui più riverita che non le parea, perocchè era donna e reina del reame, e il marito non era ancora re, a sua ’stanza fece in Proenza al conte d’Avellino, capo e maggiore della casa del Balzo, armare dieci galee, e all’uscita di giugno nel detto anno giunse nel porto di Napoli colla detta armata, atteso per soccorso, del quale aveano gran bisogno. Ma il conte pieno di malizia, conoscendo il bisogno del re Luigi, e poco curandosi della reina, mostrandosi di volere trattare suo vantaggio, [153] colle sue galee si teneva in alto sopra il porto di Napoli. E per trarre vantaggio e mantenere l’armata, ordinò che ogni legno o barca che nel porto volesse entrare o uscire pagasse certa quantità di danari, e per questo modo aggravava i Napoletani, e faceva loro più grande la carestia della vittuaglia. E stando in questo modo, trattava domandando vantaggio al re Luigi, e il re gliel’otriava quanto sapea domandare, per avere l’aiuto di quelle galee, aggiugnendo i prieghi della reina, mostrando come con quelle galee poteano racquistare le terre di quella marina, onde seguirebbe loro grande soccorso. Ma per cosa che fare sapesse non potè smuovere il conte a dargli l’aiuto di quell’armata, anzi si partì di là, e per potere agiare la ciurma in terra s’apportò al castello dell’Uovo: e cominciò a trattare col re d’Ungheria di volergli dare per moglie la sirocchia della reina, che fu moglie del duca di Durazzo, e il re avvisato gli dava intendimento, per volere quelle galee tenere in contumace de’ suoi avversari. E stando il conte in trattati e di là e di qua, non si potea conoscere che facesse la volontà della reina, nè che fosse ribello al re Luigi, o in che modo si potesse giudicare essere col re d’Ungheria, tenendo colla sua malizia ogni parte sospesa. Al re Luigi e ai Napoletani fece danno, alla reina non accrebbe baldanza: ma al re d’Ungheria, per lo suo trattare, fece piuttosto avere Aversa: che sentendo gli assediati i trattati del conte, affaticati lungamente alla difesa d’Aversa, pensando che il re d’Ungheria rimanesse nel Regno, benchè ancora si potessono difendere alcun tempo, [154] presono partito di trattare per loro. E messer Iacopo Pignattaro loro capitano, essendo regnicolo, e di natura mobile alla nuova signoria, tosto s’accordò col re, ed ebbe sotto titolo di loro soldi moneta dal re d’Ungheria, e rendégli la città d’Aversa: il quale incontanente v’entrò dentro con tutta sua cavalleria, e non lasciò fare a’ cittadini alcuna violenza o ruberia. E questo fu del mese di settembre del detto anno. Manifesto fu che questa vittoria venne agli Ungheri a gran bisogno, perocchè già era sì stracca la gente, per lungo disagio e per la carestia, che poco più vi poteano stare, e il partire senza averla vinta tornava al re e alla sua grande cavalleria ontosa vergogna.

CAP. XCIII. Come il re d’Ungheria e il re Luigi vennono a certa tregua.

Avendo non ispedite guerre, ma piuttosto avviluppamenti di quelle narrate de’ fatti del regno di Cicilia, seguita non meno incognito e avviluppato processo nelle seguenti successioni di que’ fatti; ma cotali chenti alla nostra materia s’offeriranno, con nostra scusa gli racconteremo. Avuta il re d’Ungheria la città d’Aversa, alla quale lungo tempo s’era dibattuto con tutta la sua grande oste, e non l’avea potuta nè per forza nè per assedio acquistare, essendo debole città di mura e da poca gente difesa, si pensò che l’altre maggiori e più forti città che si teneano contro [155] a lui sarebbono più malagevoli a conquistare, e per esempio d’Aversa troverebbe maggiore resistenza; e i suoi baroni aveano già compiuto con lui il termine del debito servigio, e a volerli ritenere al conquisto del Regno bisognava che desse loro danaro, che n’avea pochi, e del Regno non ne potea trarre, essendo in guerra: vide che il re Luigi, i baroni, e quelli che si teneano dal suo lato erano disposti di stare alla difesa delle mura: e però mutò l’animo agevolmente disposto a trovare accordo, col quale con meno sua vergogna si potesse partire del Regno. E dall’altra parte il re Luigi era a tanto condotto, che non che potesse con arme resistere al nimico, ma di mantenere bisognose e necessarie spese di sua vita era impotente; e se non fosse che l’animo de’ Napoletani concorrea a lui e alla reina alla loro difesa, non arebbono potuto sostenere. E per questa cagione era atta la materia da catuna parte a venire alla concordia con piccolo aiuto d’alcuni mezzani. Onde alcuno prelato di santa Chiesa, il quale era dal papa mandato nel Regno, e il conte d’Avellino, che avea da ogni parte puttaneggiato, coll’aiuto d’alcuno altro barone, movendosi a cercare se potessono trovare via d’accordo, con piccola fatica vi pervennono alla cavalleresca, in questo modo. Che triegue fossono fatte infino a calen di aprile, gli anni Domini 1351, con patto, che chi avesse nel Regno dovesse sicuramente tenere sue città, castella e ville in pace tutto il tempo detto. Che la questione che si faceva contro alla reina Giovanna della morte del re Andreasso, [156] si dovesse commettere nel papa e ne’ cardinali: e dove fosse trovata colpevole, dovesse perdere il reame, e tornasse libero al re d’Ungheria: e dove ella non fosse giudicata colpevole della morte del marito, ma liberatane per sentenza del papa e del collegio de’ cardinali dovesse rimanere reina del detto regno. E il re d’Ungheria le dovea rendere tutte le città, castella e baronaggi che vi tenea, riavendo da lei per le spese fatte per lui fiorini trecentomila d’oro, per quello modo e termine competente che ordinato fosse per la santa Chiesa; e per patto catuno re si dovea partire personalmente, e la reina del reame. Per la fermezza d’attenere l’uno all’altro questi patti non ebbe altro legame, che la fe e la scrittura e la testimonianza de’ mezzani. Il re d’Ungheria che avea d’uscire del reame maggior voglia, prese l’onesta cagione d’andare in romeaggio a Roma al santo perdono; e in Puglia alle terre della marina lasciò de’ suoi Ungheri alla guardia con loro capitani, e fornì di buona guardia tutte le sue tenute in Terra di Lavoro; e a Capova e Aversa, e per l’altre terre e castella circustanti lasciò suo vicario messer fra Moriale cavaliere friere di san Giovanni di Provenza, valente e ridottato cavaliere, con buone masnade di Provenzali, di cui il detto re molto si confidava; e a Viglionese e a Lanciano e nell’altre terre che tenea in Abruzzi lasciò vicario messer Currado Lupo, franco cavaliere, con sue masnade di Tedeschi a quella guardia. E ordinato ch’ebbe la guardia delle sue terre nel Regno si mise a cammino per andare a Roma: [157] e incontanente il re Luigi per mostrare di volere uscire del Regno, e tenere i patti, si partì da Napoli colla reina, e venne alla città di Gaeta in su’ confini del reame, e ivi attendeva che il re d’Ungheria si partisse d’Italia e tornasse in suo reame, com’era in convegna; e ciò fatto, il re Luigi e la reina Giovanna doveano fuori del reame attendere la sentenza di santa Chiesa. I Gaetani ricevettono il re Luigi e la reina Giovanna in Gaeta con grande onore: e provviddongli di loro danari per aiuto alle spese, che n’aveano grande bisogno. Ed ivi si fermarono con animo e intenzione di non uscire del Regno, bene che promesso l’avessono, parendo loro che il dilungamento da quello, al bisognoso e lieve stato ch’aveano, fosse pericoloso al fatto loro. Il re d’Ungheria seguì a Roma suo viaggio, e avuto il santo perdono senza soggiorno se ne tornò in Ungheria.

CAP. XCIV. Come il conte d’Avellino diè al suo figliuolo per moglie la duchessa di Durazzo.

Il conte d’Avellino, il quale colle sue galee era rimaso sopra Napoli al castello dell’Uovo, vedendo i fatti del Regno rimasi intrigati per lungo tempo, essendo rimasa la duchessa di Durazzo sirocchia della reina, vedova, nel castello dell’Uovo, chiamata Maria, non ostante che ’l detto conte fosse suo compare, ma per quello mostrando più familiarità, con piccola compagnia andò al castello per vicitarla, innanzi alla sua [158] partita; la duchessa con buona confidanza gli fece aprire liberamente il castello, ed egli con due suoi figliuoli e colla sua famiglia armata v’entrarono: e entrati, fece prendere la guardia delle porti e delle fortezze d’entro. Ed essendo colla duchessa, disse che volea ch’ella fosse moglie di Ruberto suo figliuolo, e per forza le fece consumare il matrimonio: e di presente la trasse del castello con tutti i suoi arnesi, e misela nella sua galea, per menarla in Proenza. Il re Luigi ch’era in Gaeta sentì di presente questo fatto, e egli e la reina ne furono molto turbati. E seguendo il conte suo viaggio per tornare in Proenza con tutte le galee, quando furono sopra a Gaeta l’otto entrarono nel porto, e i padroni e’ nocchieri e le ciurme scesono in terra per pigliare rinfrescamento. Il conte colla duchessa e co’ figliuoli rimasono fuori del porto in due galee, e attendevano l’altre che prendevano rinfrescamento per seguire loro viaggio. Il re Luigi cautamente fece venire a se i padroni e’ nocchieri dell’otto galee, e fece segretamente armare de’ Gaetani e stare alla guardia, che non potessono senza sua volontà tornare alle galee. E fatto questo, disse: pensate di morire se non fate che le due galee dov’è il conte, e i figliuoli e la duchessa, venghino dentro nel porto a terra; e alle minacce aggiunse amore e preghiere: e ritenuti de’ caporali cui egli volle per sicurtà del fatto, lasciò gli altri tornare alle galee: i quali di presente s’accostarono alle due galee del conte, che di questo fatto, come il peccato l’accecava, non s’era avveduto, e di presente l’ebbono condotte a terra [159] dentro al porto. Allora il re mandò a dire al conte che venisse a lui. Il conte si scusò che non potea perocch’era forte stretto dalle gotte. Il re acceso di furore e infiammato d’ira, per l’ingiuria ricevuta della vergogna fatta al sangue reale, e de’ suoi gravi e pericolosi baratti, non si potè temperare nè raffrenare il conceputo sdegno: ma prese certi compagni di sua famiglia, e armati, in persona si mosse: e giunto al porto, montò in su la galea dov’era il conte. Venuto a lui, in brieve sermone gli raccontò tutti i suoi tradimenti, e la folle baldanza che lo avea condotto a vituperare il sangue reale: e detto questo, senza attendere risposta, con uno stocco il fedì del primo colpo; e incontanente n’ebbe tanti, che senza potere fare parola rimase morto in su la galea. La duchessa di presente fu tratta di galea, e collocata colla sua famiglia e co’ suoi arnesi in uno ostieri in Gaeta, e i due figliuoli del conte furono messi in prigione. Lasceremo ora de’ fatti del Regno, che stando le triegue non v’ebbe cosa degna di memoria, e ritorneremo alla nostra materia degli altri fatti d’Italia, e della nostra città di Firenze.

CAP. XCV. Della grande potenza dell’arcivescovo di Milano, e come i Fiorentini temeano di Pistoia, e quello che ne seguì.

In questo medesimo tempo, tra il fine del cinquantesimo ed il cominciamento del milletrecentocinquantuno, [160] i Fiorentini cominciarono forte a temere della città di Pistoia, la quale per cittadinesche sette era divisa e in male stato. E la casa de’ Panciatichi, che non erano originali guelfi, in que’ dì aveano cacciato della città messer Riccardo Cancellieri e i suoi naturali, guelfi, di quella terra, e antichi servidori del comune di Firenze: e messer Giovanni Panciatichi s’avea recato in mano il governamento di quella terra, e per sembianti mostrava d’essere amico del comune di Firenze. I Fiorentini sentendo l’arcivescovo di Milano, il quale in quel tempo avea sotto la sua tirannia ventidue città, tra in Lombardia e in Piemonte, e di nuovo avea contro la volontà di santa Chiesa presa la città di Bologna, la quale confinava col loro comune, temeano forte che Pistoia per le cittadinesche discordie non pervenisse nelle sue mani, e però voleano la guardia di quella terra. E quanto che messer Giovanni si mostrasse amico del comune di Firenze, con diverse e nuove cagioni tranquillava e metteva indugio col seguito de’ cittadini della sua setta, che il comune di Firenze non avesse la guardia, raffrenando l’appetito de’ Fiorentini, col sospetto del potente vicino. Nondimeno i Pistolesi guelfi pur vollono che il comune di Firenze v’avesse dentro alcuna sua sicurtà, e consentirono che i Fiorentini mettessono in Pistoia messer Andrea Salamoncelli, uscito di Lucca loro soldato, con cento cavalieri e con centocinquanta masnadieri alla guardia di Pistoia, alle spese del comune di Firenze, con patto espresso, che il detto capitano co’ suoi cavalieri e fanti giurassono di mantenere quello [161] stato che allora reggeva Pistoia, contro il comune di Firenze, e ogni altro che offendere o mutare il volesse. I Fiorentini vedendo che meglio non si poteva fare senza grave pericolo, benchè conoscessono che questa non era la guardia che bisognava, acconsentirono, e misonvi il capitano e la gente d’arme sotto il detto saramento: e con molte dissimulazioni e lusinghe manteneano quella città, ritenendo i cavalieri in Firenze senza mutazione infino al primo tempo.

CAP. XCVI. Come certi rettori di Firenze vollono prendere Pistoia per inganno.

Era per successione de’ rettori di Firenze di priorato in priorato la sollecitudine di mettere rimedio alla guardia di quella città, e non trovandosi da potere fare altro che fatto si fosse, alcuni allora rettori del nostro comune, con più presunzione che il loro consiglio non permettea, provvidono di fare tra loro segretamente d’avere per non leale ingegno la signoria di quella terra; e com’ebbono conceputo il non debito fatto, così per non discreto nè savio modo il vollono mettere a esecuzione, e sotto altro titolo accolsono i soldati del comune a piedi e a cavallo, e mossonne delle leghe del contado: e avendo a questa gente dato ordine alla notte che si doveano muovere, vollono provvedere di mutare di Pistoia il capitano ch’avea giurato a’ Pistolesi, ch’era troppo diritto e leale cavaliere di sua promessa, [162] e scambiare le masnade sotto il titolo della condotta, acciocchè potessono senza contasto dentro meglio fornire la loro intenzione: e a ciò fare mattamente si confidarono a uno ser Piero Gucci, soprannomato Mucini, allora notaro della condotta, il quale era paraboloso e di grande vista, e poco veritiere ne’ fatti. Questi promise di fornire la bisogna chiaramente, e d’avvisare del fatto alcuni conestabili confidenti: e preso a fornire il servigio, i poco discreti rettori del comune ebbono la promessa di colui come se la cosa fosse ferma e certa; e per questo la notte ordinata, a dì 26 di marzo gli anni Domini 1351, feciono cavalcare i cavalieri e’ pedoni ch’aveano apparecchiati, e con loro messer Ricciardo Cancellieri, colle scale provvedute alla misura delle mura, e a Pistoia furono la mattina innanzi dì, ed ebbono messe le scale, e montati de’ cavalieri e de’ pedoni in su le mura, e scesine dentro una parte, avvisando d’avere l’aiuto de’ soldati del comune di Firenze che v’erano dentro, come era loro dato a divedere, pensavano a dare la via agli altri e farsi forti, e tutto era senza contasto, perocchè i cittadini si dormivano senza sospetto. E i soldati del comune che dentro v’erano non aveano sentimento nè avviso alcuno, perocchè il notaio, a cui la bisogna fu commessa, fu trovato in Prato nell’albergo a dormire. Messer Ricciardo essendo co’ suoi in sulle mura si scoperse innanzi tempo, facendo gridare viva il comune di Firenze e messer Ricciardo. I Pistolesi sentendo il rumore credettono fosse opera di messer Ricciardo loro sbandito, il quale aveano in gran sospetto; [163] e però co’ soldati de’ Fiorentini insieme furono all’arme, e trassono alle mura francamente ad assalire coloro che dentro erano scesi: e feditine alquanti, tutti gli presono, e allora di prima seppono che questa era fattura de’ Fiorentini; e tutti co’ soldati de’ Fiorentini insieme intesono sollecitamente a guardare la terra il dì e la notte. E la folle impresa, mattamente condotta per li rettori di Firenze, generò in Pistoia grave e pericoloso sospetto, e in Firenze molta riprensione. Il notaio, a cui i signori aveano commessa la bisogna, fu preso a furore di popolo e menato alla podestà, e avrebbe perduta la persona, se non che il grande fallo ch’aveano commesso i suoi comandatori, perchè non gravasse loro difesono lui. E di questo seguì quello che appresso diviseremo.

CAP. XCVII. Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonla a’ comandamenti loro.

Quando i Fiorentini s’avvidono del pericolo, ove l’indebita impresa de’ loro rettori gli aveva messi, di recare a partito i Pistolesi, per la nuova ingiuria ricevuta, d’aiutarsi colla forza del vicino tiranno: temendo che questo non avvenisse, non per animo di volere di quella città alcuna giurisdizione fuori che la guardia, per gelosia che al tiranno non pervenisse, di presente diliberarono che la città si strignesse per forza e per amore tanto che la guardia solo se ne avesse, [164] per loro sicurtà, e del nostro comune, e altro non volea; e senza indugio alla gente che andata v’era s’aggiunse cavalieri, quanti allora il comune ne aveva, e fanti a piè. E per decreto del comune si diè parola agli sbanditi che catuno facesse suo sforzo, e alle sue spese menasse gente nell’oste in aiuto al comune di Firenze secondo suo stato, e dopo il servigio fatto sarebbe ribandito d’ogni bando. Per la qual cosa in tre dì furono intorno a Pistoia ottocento cavalieri e dodicimila pedoni, e ristrinsonla d’ogni parte con più campi, sicchè di loro contado nè da altra amistà dentro non poterono avere alcuno soccorso o aiuto. E di Firenze vi s’aggiunse sedici pennoni, uno per gonfalone, co’ quali andarono duemila cittadini quasi tutti armati come cavalieri, e molti ve n’andarono a cavallo; e giunti nell’oste con loro capitani, feciono dirizzare intorno alla città otto battifolli. In Pistoia aveva a questo tempo millecinquecento cittadini, o poco più, da potere con arme difendere la terra, oltre alle masnade a cavallo e a piè che dentro v’erano a soldo de’ Fiorentini, i quali si stavano senza fare novità dentro o guerra di fuori: per la qual cosa al gran giro della città parea che così pochi cittadini non la dovessono potere difendere. E per questa cagione i Fiorentini aveano speranza di vincerla per forza, quando con loro non si potesse trovare accordo. I Pistolesi d’entro, uomini coraggiosi e altieri, con dura faccia intendeano dì e notte alla loro difesa: e perch’erano pochi a tanta guardia quanta il dì e la notte convenia loro fare, uscirono delle loro case, [165] e vennono ad abitare intorno alle mura: e le mura armarono di bertesche e di ventiere, e dentro uno largo corridore di legname, e fornironlo di pietre e di legname e di pali da gittare, e di travi sopra i merli: e feciono a piè delle mura intorno intorno molti fornelli con caldaie, per apparecchiare acqua bollita per gittare sopra coloro che combattessono: e apparecchiarono calcina viva in polvere per gittare, e con ferma e aspra fronte mostravano volere difendere la loro franchigia; la qual cosa era degna di molta lode, se per antichi e nuovi e continovi esempli, della loro cittadinesca discordia non fosse contaminata. E addurandosi di non volere prendere accordo col comune di Firenze, soffersono il guasto di fuori de’ loro campi; e vedendo i Fiorentini che più s’adduravano, diliberarono che la terra si combattesse; e per levare loro la speranza del contradio, comandarono a messer Andrea Salamoncelli, capitano e conestabile de’ cavalieri e de’ pedoni che dentro v’erano a soldo del nostro comune, che ne dovesse uscire, e così fu fatto; per la qual cosa la nostra oste s’accrebbe, e a loro mancò la speranza: e ordinati di fuori ponti e grilli, e castella di legname e altri fornimenti da combattere le mura, acciocchè con più sicurtà si potesse intendere alla battaglia, cinsono di buono steccato dall’uno battifolle all’altro. I Pistolesi vedendo la disposizione de’ Fiorentini, e pensando, eziandio che si difendessono, non poteano bene rimanere, cominciarono più a temere. In questo mezzo ambasciadori da Siena v’entrarono, mandati dal loro comune per trovare accordo, [166] e come che s’aoperassono conferendo colle parti, manifesto fu che peggiorarono la condizione, e inacerbirono gli animi e dentro e di fuori. E dato il dì della battaglia, e da ogni parte apparecchiata, i guelfi di Pistoia, ch’erano la maggiore forza della città, s’accolsono insieme con pochi ghibellini, ed essendo al consiglio, ricercarono con l’animo più riposato il pericolo a che si conducevano, per contrastare a’ padri loro, il comune di Firenze, la guardia loro e della città, la quale doveano con istanza domandare a’ Fiorentini che la prendessono, volendo mantenere la città a parte guelfa, e in più sicuro e pacifico stato che non erano. E così parlato, misono il partito a segreto squittino, e vinsero che la guardia della città fosse messa liberamente nel comune di Firenze, e che dentro vi mettesse gente e capitano alla guardia quanto al detto comune piacesse; e che dentro alla città in su le mura si facesse un castello alle spese de’ Fiorentini, per più sicura guardia, e che oltre a ciò avessono la guardia di Seravalle e quella della Sambuca. E messi dentro de’ cittadini di Firenze in quel dì, ogni cosa di grande concordia si recò in buona pace; e dentro vi misono il capitano e’ cavalieri e’ pedoni che i nostri cittadini vollono, e presono la tenuta, e ordinarono la guardia di Seravalle: e per fretta e mala provvidenza indugiarono di mandare per la tenuta della Sambuca nel passo dell’alpe, la quale quando poi vollono, senza difetto de’ Pistolesi, non poterono avere: onde poi ne seguì cagione di grande pericolo a’ Pistoiesi e al nostro comune, come leggendo per innanzi si [167] potrà trovare. Fatta la detta concordia, i Fiorentini levarono il campo e arsono i battifolli, e ordinatamente con gran festa tornò tutta la bene avventurata oste nella nostra città, all’uscita d’aprile, gli anni di Cristo 1351. E pochi dì appresso vi mandò il comune di Firenze de’ suoi grandi cittadini con pieno mandato, i quali riformassono al piacere de’ cittadini di Pistoia lo stato e il reggimento di quello comune; e rimisonvi messer Ricciardo Cancellieri e’ suoi, con pace de’ Panciatichi, fortificata e ferma con più matrimoni dall’una famiglia all’altra.

CAP. XCVIII. Come il re d’Inghilterra sconfisse in mare gli Spagnuoli.

Nel tempo delle tregue del re di Francia e di quello d’Inghilterra, gli Spagnuoli, i quali usavano colle loro cocche e navili di navicare il mare di Fiandra, cominciarono a danneggiare i navili d’Inghilterra, e a rubare in corso le loro mercatanzie; e seguitando con più forza la loro guerra, per più riprese feciono agl’Inghilesi onta e danno assai. Il re d’Inghilterra non potè dissimulare questa ingiuria, che senza cagione di guerra gli Spagnuoli gli aveano fatta, e però accolse suo navilio, e in persona con due suoi figliuoli assai giovani si mise in mare per andare in Spagna. Il re di Castella che sentì l’armata del re d’Inghilterra, fece suo sforzo d’armare molte navi, e abboccaronsi coll’armata d’Inghilterra nella [168] vicinanza delle loro marine, e commisono aspra e fiera battaglia, della quale il re d’Inghilterra ebbe la vittoria, con grande danno degli Spagnuoli e delle loro navi. E fatta la sua vendetta, con piena vittoria si tornò in Inghilterra. E qui finisce il nostro primo libro, anni di Cristo 1351.

[169]

LIBRO SECONDO

CAPITOLO PRIMO Prolago.

Perocchè anticamente gl’infedeli e i pagani e le barbare nazioni, compiacendosi alla reverenza delle virtù morali, i cominciamenti della guerra alle ragioni della giustizia congiugneano, non senza debita ammirazione ne’ nostri tempi, ne’ quali i cristiani, non solamente dalle morali, ma dalle virtù divine ammaestrati nella perfetta fede di Cristo nostro redentore, molti trapassano con disordinato appetito la via eguale della vera giustizia, e seguitando la sfrenata volontà della tirannesca ambizione, non colle debite ragioni, ma con perverse cagioni, con subiti e sprovveduti assalti gli sprovveduti popoli assaliscono, le città e le terre, confidandosi nella loro quiete, per furti, per tradimenti, e per inganni rapiscono, sforzandosi con ogni generazione d’inganni quelle soggiogare, e sottomettere al giogo della loro tirannia; e non meno la cristianità, che le infedeli nazioni, di queste malizie e inganni spesso si conturba. E avvegnachè queste cose senza vergogna de’ laici secolari raccontare non si possono, [170] ne’ cherici, e massimamente ne’ prelati, i quali, invece di Cristo fatti spirituali pastori della sua greggia, diventando rapaci lupi, nelle predette cose sono con ogni abominazione da detestare. E però venendo al cominciamento del secondo libro del nostro trattato, diverse e varie cagioni di questa materia prima ci s’apparecchiano, vinti da onesta necessità, la verità del fatto, con seguire nostra materia, racconteremo.

CAP. II. Come il comune di Firenze usava la pace coll’arcivescovo di Milano.

I Fiorentini avendo per gelosia presa la guardia del castello di Prato e della città di Pistoia, usciti della paura di quelle, si stavano in pace, riputandosi essere in amistà dell’arcivescovo di Milano, perocchè guerra non v’era, e contro a sua impresa i Fiorentini non s’erano voluti travagliare. Con Bologna tenea le strade e i cammini aperti, e le mercatanzie d’ogni parte andavano e venivano sicure. E spesso il tiranno scrivea al comune de’ suoi onori e de’ singulari servigi, come accade ad amici, e il comune a lui, come a reverente signore e caro amico. E con folle ignoranza stava il nostro comune senza sospetto, e per non dare materia di sospetto al vicino tiranno, si guardava di fornirsi di capitano di guerra e di gente d’arme, e appena aveano fornite di guardie le loro castella. Il tiranno, ch’avea fatta la lega con gli altri tiranni d’Italia e con tutti i [171] ghibellini, si venia fornendo di gente d’arme al suo soldo a piè e a cavallo, e vegghiava al continovo contro al nostro comune nella conceputa malizia, attendendo il tempo che a ciò avea divisato. E in questo mezzo carezzava con doni e con servigi i suoi vicini tiranni, per averli più pronti al suo servigio al tempo del bisogno. E si pensava, che ingannando i Fiorentini, e venendo della città al suo intendimento, essere appresso al tutto signore d’Italia. E i rettori della città di Firenze avendo a’ suoi confini il tiranno potente, viveano improvvisi, sotto confidenza degna di biasimo e di grave punizione. Ma così avviene spesso alla nostra città: perocchè ogni vile artefice della comunanza vuole pervenire al grado del priorato e de’ maggiori ufici del comune, ove s’hanno a provvedere le grandi e gravi cose di quello, e per forza delle loro capitudini vi pervengono; e così gli altri cittadini di leggiere intendimento e di novella cittadinanza, i quali per grande procaccio, e doni e spesa si fanno a’ temporali di tre in tre anni agli squittini del comune insaccare: è questa tanta moltitudine, che i buoni e gli antichi, e’ savi e discreti cittadini di rado possono provvedere a’ fatti del comune, e in niuno tempo patrocinare quelli, che è cosa molto strana dall’antico governamento de’ nostri antecessori, e dalla loro sollecita provvisione. E per questo avviene, che in fretta e in furia spesso conviene che si soccorra il nostro comune, e che più l’antico ordine, e il gran fascio della nostra comunanza, e la fortuna, governi e regga la città di Firenze, che il senno o la provvidenza [172] de’ suoi rettori. Catuno intende i due mesi c’ha a stare al sommo uficio al comodo della sua utilità, a servire gli amici, o a diservire i nimici col favore del comune, e non lasciano usare libertà di consiglio a’ cittadini: e questo è spesso cagione di vergogna e di grave danno del nostro comune, ricevuto da’ suoi minori e impotenti vicini.

CAP. III. Come l’arcivescovo di Milano appuose tradimento e condannò messer Iacopo Peppoli.

Era in questo tempo rimaso in Bologna messer Iacopo de’ Peppoli, il quale fu traditore con messer Giovanni suo fratello della propria patria, vendendo la città e i suoi cittadini all’arcivescovo, come detto abbiamo, al quale la sua malizia, e il commesso peccato, tosto apparecchiò alcuna penitenza alle sue male operazioni. Che trattando egli con certi tiranni lombardi di fare rivolgere la città di Bologna, l’arcivescovo, o vero o bugia che fosse, sentì che trattato si tenea per lui e per alcuni altri cittadini di Bologna: e la boce corse che trattavano co’ Fiorentini: e questo non ebbe sostanza alcuna di verità. Il tiranno avea voglia di trarlo di Bologna, sicchè ogni lieve ragionamento o materia gli fu assai: e però di presente fece prendere lui e’ figliuoli e alcuni altri cittadini, e condannati gli altri a morte, messer Iacopo per grande servigio condannato a perpetua [173] carcere, e pubblicati i suoi beni alla sua camera, come di traditore, e tolsegli i danari che gli restavano della vendita di Bologna, e le castella che dato gli avea, e il proprio patrimonio: e fattolo venire co’ figliuoli a Milano, incarcerò lui nel castello di... e i figliuoli a Cremona. L’altro fratello che a quello tempo era in Milano non involse in questa sentenza, il quale dissimulando suo dolore rimase in Milano in lieve stato, per passare il tempo alla provvigione del signore, con amaro cuore. Assai tosto ha fatto manifesto qui il divino giudicio la miseria a che sono condotti i traditori della loro patria, i quali per disperato consiglio, i cittadini i quali gli aveano con grande onore esaltati e fatti signori sottopuosono per avarizia al giogo del crudele tiranno: e ora spogliati de’ propri beni, e privati d’ogni amore de’ loro cittadini, in calamitosa prigione danno esemplo agli altri di più intera fede a’ loro comuni.

CAP. IV. Come l’arcivescovo fermò d’assalire improvviso la città di Firenze.

Nel mese di luglio del detto anno, l’arcivescovo di Milano, avendo purgato di sospetto la città di Bologna, per la morte d’alquanti cittadini e per l’incarcerazione di messer Iacopo de’ Peppoli e de’ figliuoli, e accolti e fatti accogliere quasi tutti i soldati oltramontani d’Italia, parendoli venuto il tempo di scoprire a’ suoi collegati ghibellini d’Italia la sua intenzione, ebbe in [174] Milano i caporali di parte ghibellina d’Italia, e conferì con loro di volere sottomettersi il comune di Firenze, e con molte ragioni dimostrò com’era venuto il tempo da poterlo fare col loro aiuto: e ciò fatto, era spento in Italia il nome di parte guelfa. La proposta fu in piacere di tutti. Eranvi caporali, oltre a’ Lombardi, gli Ubaldini, i figliuoli di Castruccio Interminelli e messer Francesco Castracani da Lucca, messer Carlino di Pistoia e’ suoi, il conte Nolfo d’Urbino, i conti di Santafiore e il conte Guglielmo Spadalunga, e de’ ribelli del comune di Firenze alquanti di quelli da Cigliano, e messer Tassino e il fratello discesi della casa de’ Donati. E non volendosi scoprire d’esservi in persona i Tarlati d’Arezzo, il vescovo co’ suoi Ubertini, e’ Pazzi di Valdarno, e il conte Tano da Montecarelli, ch’erano allora in pace e in amore col comune di Firenze, in segreto vi mandarono catuno segreti ambasciadori con pieno mandato. I quali tutti udita l’intenzione del potente tiranno furono molto allegri, e confortarono l’arcivescovo dell’impresa: aggiugnendo che sentivano i cittadini di Firenze in tanta discordia per le loro sette, e per lo male contentamento del reggimento della città, e Arezzo e Pistoia in sì male stato, che se la sua potenza improvviso a quelli comuni col loro aiuto si stenderà sopra loro, non vedeano che di tutto in breve tempo e’ non fosse signore: e la signoria di Firenze il facea signore d’Italia. E così d’un animo rimasono in accordo col tiranno di fare l’impresa ordinata; e data la fede della loro credenza e di loro [175] aiuto, con grandi promesse lieti si ritornarono in loro contrade, e intesono d’apparecchiarsi di cavalli e d’arme al loro podere. L’ordine fu preso, che quando l’oste dell’arcivescovo fosse sopra i Fiorentini, che gli Ubaldini co’ Romagnuoli assalissono nel’alpe, e i Tarlati Ubertini e Pazzi si rubellassono e assalissono il Valdarno: e il conte Tano da Montecarelli movesse guerra in Mugello. A’ Pisani intendea l’arcivescovo co’ suoi confidenti ambasciadori fare rompere pace a’ Fiorentini, e muovere guerra dalla loro parte: cercando muoverli con sue coperte suasioni, non dimostrando il perchè, in suo aiuto. Ma i Pisani accorgendosi del fatto, nutricavano il tiranno con parole di speranza, e mandarono a lui loro ambasciadori per potere sentire più il vero da che movea quella inchiesta, e per avere più tempo a deliberare. E questo avvenne, perocchè allora la città di Pisa signoreggiava per li Gambacorti, uomini mercatanti e amici de’ Fiorentini. Ma i governatori del comune di Firenze, addormentati e fuori della mente, non procuravano di sentire queste cose, e quello che sentivano mettevano al non calere, e provvisione alla loro guardia non faceano, sentendo che molta gente d’arme s’accogliea in Lombardia, e che Lombardia non era in guerra, ma in lega coll’arcivescovo di Milano. I quali rettori del nostro comune non erano degni di governare il fascio di tanta città, ma di grandi pene delle loro persone, commettendo contro al loro comune pericolo d’irreparabile fallo.

[176]

CAP. V. Come si mise in ordine il consiglio preso.

L’arcivescovo di Milano, la gente d’arme che avea in diverse parti in Lombardia, in pochi dì la fece venire a Bologna: e fatto capitano messer Giovanni de’ Visconti da Oleggio, il quale per fama si tenea essere suo figliuolo, per addietro capitano de’ Pisani, e prigione de’ Fiorentini nella battaglia che feciono per soccorrere Lucca alla Ghiaia, animoso contro a’ Fiorentini, singularmente per quell’onta, uomo di grande animo, e accompagnato da’ caporali ghibellini lombardi toscani e marchigiani, maestrevoli conducitori di guerra, si pensò prosperamente fornire la commissione a lui fatta per lo suo signore. Il castello della Sambuca, nel passo della montagna tra Bologna e Pistoia, era allora per difetto de’ Fiorentini nelle sue mani, al quale avea di vittuaglia per l’oste grande apparecchiamento; e di questo non s’erano accorti i Fiorentini: e così provveduto, subitamente a dì 28 del mese di luglio, gli anni Domini 1351, mosse colla sua oste da Bologna, e prima fu valicato la Sambuca, e accampatosi presso a Pistoia a quattro miglia, per attendere il rimanente del suo esercito, che i Fiorentini sapessono alcuna cosa, o che avessono avuto pensiero che la forza del tiranno si stendesse sopra loro: ma sentendo questo, subitamente, in que’ due dì ch’e’ nimici attesono la loro gente, i Fiorentini misono gente d’arme a piè [177] e a cavallo in Pistoia, sicchè dentro vi si trovò alla guardia da cinquecento cavalieri e seicento fanti alla venuta dell’oste, messer Giovanni raunata tutta la sua oste e la vittuaglia, a dì 30 di luglio predetto si strinse alla città di Pistoia, credendolasi avere per vane promesse, ma non essendogli risposto come s’avvisava, vi si strinse e posevisi ad assedio. La gente de’ Fiorentini che dentro v’era, faceano di dì e di notte sofficiente e buona guardia, e per questo, se trattato niuno v’era non s’ardì a scoprire, ma tutti i cittadini colla gente de’ Fiorentini insieme attesono alla difesa della città.

CAP. VI. Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presono Montecolloreto.

Gli Ubaldini, ch’erano in pace col comune di Firenze, sentendo l’oste dell’arcivescovo sopra Pistoia, avendo fatto loro sforzo, e avuto cavalieri del tiranno, improvviso a’ Fiorentini apparirono nell’alpe, e corsono a Firenzuola, che si redificava pe’ Fiorentini, ma non era ancora cinta di mura, nè di fossi nè di steccati, ma incominciata, e dentro v’erano capanne per alberghi, e lieve guardia per tener sicuro il cammino, sicchè senza contrasto la presono e arsono: e andaronsene a oste a Montecolloreto, nel quale era castellano per lo comune di Firenze uno popolano de’ Ciuriani di Firenze, giovane poco scorto degl’inganni delle guerre. Costui [178] vedendosi assediato, e dando fede alle parole de’ nimici, i quali diceano come Firenze era per arrendersi al signore di Milano, si condusse mattamente a patteggiar con loro: che se in fra ’l terzo dì non fosse soccorso, darebbe la rocca: e per istadico diede un suo fratello. I Fiorentini ch’aveano l’animo a guardare quella fortezza, cercarono di soccorrerla, e trovato uno conestabile valente con venticinque masnadieri, promise d’entrare innanzi al termine nel castello; e di presente si mise in cammino: e tanto procacciò per suo ingegno e virtù, che innanzi il termine fu nel castello, ma non potè entrare nella mastra fortezza, che si guardava per lo castellano, e ’l castellano avendo questo soccorso si potea difendere per lungo tempo da tutta la forza ch’avessono potuta fare gli Ubaldini, perocchè il luogo era fortissimo e bene fornito: ma essendo (come egli follemente avea messo il fratello nelle mani de’ nimici, i quali minacciavano d’impiccarlo se non rendesse la rocca) vinto dall’amore della carne, non volle ricevere il soccorso, anzi diede la rocca a’ nimici. E salvate le persone da’ nimici, condotto a Firenze, e giudicato traditore del comune, per la sua dicollazione e di due suoi compagni diede esemplo agli altri castellani di più intera fede al loro comune. I mallevadori che dati avea di rassegnare la rocca al comune convenne che pagassono lire ottomila com’erano obbligati.

[179]

CAP. VII. Come gli Ubertini, e’ Tarlati, e i Pazzi assalirono il contado di Firenze.

Messer Piero Sacconi co’ suoi Tarlati usciti d’Arezzo, e il vescovo d’Arezzo degli Ubertini co’ suoi consorti, e Bustaccio co’ Pazzi di Valdarno, per lungo tempo stati in pace e in protezione col comune di Firenze, sentendo l’avvenimento di messer Giovanni Visconti da Oleggio con grande forza d’arme sopra Pistoia, si ragunarono con tutto loro sforzo di gente d’arme a piè e a cavallo a Bibbiena; e dall’arcivescovo aveano avuto dugentocinquanta barbute, acciocchè potessono fare maggiore guerra. Di presente, improvviso a’ Fiorentini, cominciarono a cavalcare sopra loro, e sopra i conti Guidi, amici e fedeli del comune di Firenze, e oggi correvano in una contrada e domane in un’altra, uccidendo e predando, e facendo aspra guerra. I Fiorentini vedendo d’ogni parte le subite e sprovvedute tempeste venire sopra loro, e sentendo gli amici diventati nimici, ebbono paura non piccola, mescolata di grande sospetto, e i provveduti rettori del comune non sapeano che si fare. E così era la città di forza e di consiglio spaventata, e molto piena di paura e di sospetto per modo, che non veggendo nè per atto nè per consiglio alcuna cagione di sospetto cittadinesco, non si fidava l’uno del’altro, e non si provvedea al comune riparo per via di consiglio in que’ primi cominciamenti.

[180]

CAP. VIII. Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al capitano dell’oste.

Vedendosi i Fiorentini con tanta forza e da cotante parti assalire dal signore di Milano, senza avere con lui alcuna guerra o conturbagione di pace, elessono alquanti cittadini, e mandaronli ambasciadori nel campo a messer Giovanni da Oleggio, capitano dell’oste sopra a Pistoia, i quali essendo giunti nel campo, furono ricevuti dal capitano assai cortesemente. E secondo la commissione a loro fatta da’ priori e da’ collegi del nostro comune, domandarono messer Giovanni, con ciò fosse cosa che tra l’arcivescovo suo signore e ’l comune di Firenze fosse pace e niuno sospetto di guerra, perchè venuto era ostilmente come contra suoi nimici sopra il comune di Firenze, non avendo prima annunziato al comune la sua guerra secondo i patti della pace, salvo che per una breve lettera, mandata per lui poichè fu sopra Pistoia: la quale senza precedente cagione di nostro fallo, disse: non avete voi voluto osservare la pace, e però vi facciamo la guerra: la quale non era nè onesta nè debita cagione; e però siamo mandati dal nostro comune a sapere la verità di questo movimento. Udito il capitano la loro ambasciata, raccolse il suo consiglio, e appresso rispose altieramente in questo modo. Il nostro signore, messer l’arcivescovo di Milano, è potente, benigno e grazioso [181] signore, e non fa volentieri male ad alcuna gente, anzi mette pace e accordo in ogni luogo ove la sua potenza si stende; è amatore di giustizia, e sopra gli altri signori la difende e mantiene: e qui non ci ha mandati per mal fare, ma per volere tutta la Toscana riducere e mettere in accordo e in pace, e levare le divisoni e le gravezze che sono tra’ popoli e’ comuni di questi paesi. E perchè a lui è pervenuto e sente le divisioni discordie e sette, e le gravezze che sono in Firenze, le quali conturbano e aggravano la vostra città e tutti i comuni di Toscana, ci ha mandati qui affinchè voi vi governiate e reggiate in pace e in giustizia per lo suo consiglio, e sotto la sua protezione e guardia; e così intende volere addirizzare tutte le terre di Toscana. E dove questo non si possa fare con dolcezza e con amore, intende farlo colla forza della sua potenza e degli amici suoi. E a noi ha commesso, ove per voi non si ubbidisca al suo buono e giusto proponimento, che mettiamo la sua oste in sulle vostre porti e intorno alla vostra città, e che ivi tanto manterrà quella, accrescendola e fortificandola, continuamente combattendo d’ogni parte il contado e il distretto del vostro comune col fuoco e col ferro, e colle prede de’ vostri beni, che tornerete per vostro bene alla volontà sua. Udendo gli ambasciadori la superba risposta del capitano e del suo consiglio, non parve che luogo e tempo fosse di quivi stendere più loro sermone: e però domandarono sicurtà fino a Bologna per potere andare al signore di Milano, come aveano in commissione dal loro comune, la quale il capitano [182] non volle dare. E però si tornarono a Firenze, e spuosono a’ signori e al consiglio quello ch’aveano avuto dal capitano dell’oste per risposta della loro ambasciata, per la quale l’animo de’ cittadini di Firenze crebbe più in disdegno che in paura.

CAP. IX. Come l’oste si levò da Pistoia e puosesi a Campi.

Essendo stata l’oste del tiranno otto dì sopra la città di Pistoia, e mancata la speranza d’avere la terra, per la buona guardia e sollecita che ’l dì e la notte vi faceano i Fiorentini: e il somigliante di Prato, nelle quali terre erano le tre parti della gente d’arme che allora aveano i Fiorentini, essendo la città di Firenze quasi rimasa senza aiuto di soldati forestieri, e non avendo capitano di guerra: messer Giovanni da Oleggio col consiglio de’ caporali ghibellini ch’avea con seco, i quali stavano solleciti a sentire il fatto del nostro comune, e sentivano essere dentro grande sospetto e poco consiglio, e minore forza d’arme che in Pistoia e in Prato, con molte verisimili suasioni mossono il capitano subitamente a stringersi sopra Firenze colla sua oste: il quale essendo uomo di grande ardire, e animoso contro a’ Fiorentini, sentendosi accompagnato da molti buoni capitani di guerra, e da cinquemila barbute, e da duemila altri cavalieri, e seimila masnadieri a piede, non bene provveduto [183] di vittuaglia, sperando nel contado di Firenze farsene abbondevole, come mostrato gli era, a dì 4 d’agosto del detto anno subitamente levò il campo da Pistoia, e per la strada dritta e piana senza arresto valicata la terra di Prato, condusse la sua oste in sull’ora del vespero a Campi, Brozzi e Peretola, improvviso, non che a’ Fiorentini, ma agli uomini di quelle ville e contrade, per la qual cosa non poterono campare alcuna cosa, fuori che le persone, e di quelle vi rimasono assai. Il capitano per non conducersi al tardi, e perchè il luogo era albergato e pieno d’ogni bene, fermò il campo a Campi. Della villa di Campi e d’altre d’intorno raccolsono grano e biada e carnagione assai, e molte masserizie e letta de’ paesani: e intesono a starsi ad agio e a rinfrescare la gente di vivanda, della quale intorno a Pistoia aveano avuto disagio. E dato l’ordine al campo di buona guardia di dì e di notte, provviddono che ogni cavalcata che si facesse verso la città di Firenze avesse riscossa di mille cavalieri il meno. E incontanente cominciarono a cavalcare per lo piano, prendendo e raccogliendo il bestiame e la roba che rimasa v’era senza trovare riparo, e alcuna volta si stesono infino alle mura della città di Firenze. I Fiorentini sentendo questa subita venuta dell’oste sopra la città, e la baldanza presa d’aversi lasciato dietro Pistoia e Prato, sbigottirono disordinatamente, non trovandosi forniti nè provveduti al riparo. E i rettori del comune per lo fallo commesso dell’abbandonata provvisione non sapeano che si fare; e molto temeano che fossono venuti così [184] baldanzosi a istanza de’ loro cittadini d’entro. E in questa contumacia e sospetto si stette insino che manifesto apparve per l’operazione de’ cittadini grandi e popolani grassi, che catuno era in fede al suo comune: e levata la nebbia che teneva intenebrata la mente del popolo e del comune, presono più ardire, e feciono trarre fuori i gonfaloni, e andarono coll’arme alle porti, e fecionle serrare di verso la parte d’ond’erano i nimici; e ordinarono guardie di buoni cittadini, facendo il dì e la notte fare buona guardia. E armarono le mura di ventiere, e le più deboli parti feciono afforzare per difendere la città, che di mettere gente in campo a quell’ora non aveano podere.

CAP. X. Come l’oste ebbe gran difetti a Campi e a Calenzano.

Avvenne, che stando l’oste a Campi, per mala provvisione, tutto il bestiame ch’avrebbe dato con ordine lungamente carne all’oste, in pochi dì si straziò e consumò. E in quello tempo era sformato caldo e secco grande, e tutte mulina di quelle contrade erano state sferrate e guaste; per la qual cosa, benchè l’oste avesse del grano, non potea fare farine, ed erano in grande soffratta di sale. E la vittuaglia di quel piano cominciò a mancare, e quella che venia da Bologna per scorta era spesso in preda de’ cavalieri ch’erano in Pistoia. E per questo avvenne, che in pochi dì [185] all’oste mancò il pane e il sale: e non aveano che manicare, se non carne, e di quella poca, e cocevanla col grano, che farina non aveano. Da niuna parte del contado di Firenze aveano mercato, e cavalcate non poteano stendere in parte onde recare potessono fornimento al campo, perocchè tutte le circustanze aveano sgombrato e ridotto nella città. Onde cominciarono a sentire fame, e il caldo li consumava e affliggeva forte i corpi degli uomini; e il maggiore sussidio ch’avessono era l’agresto e le frutta non mature: e poco tempo v’aveano a stare, che senza essere contastati da’ Fiorentini veniano in ultima disperazione. I loro capitani e conducitori vedendosi a questo pericolo, diedono voce di volersi strignere alla città, e per forza valicare nel piano di san Salvi. I Fiorentini temettono di questo: e non trovandosi gente d’arme da potere contradiare il passo a’ nimici, feciono una tagliata dal ponte della porta a san Gallo infino alla costa di Montughi: e ivi misono molti balestrieri e popolo alla guardia, con ordine di soccorso se bisogno fosse. L’altra voce diedono di tornarsene per lo piano d’ond’erano venuti verso Pistoia; i Pistolesi per questa tema ruppono i passi, e abbarrarono i cammini con fossi e con alberi. E per questo i Fiorentini più temeano che non valicassono nel piano di san Salvi, e per questa cagione afforzarono di bertesche e di steccati la rocca di Fiesole, e fecionla guardare; e nondimeno tutto il contado da lunge e d’appresso feciono sgombrare da quella parte. I capitani dell’oste vedendosi a cotanto disagio, non ardirono di strignersi più alla città, anzi levarono [186] il campo, a dì 11 d’agosto del detto anno, e traendosi addietro si puosono a Calenzano. I Fiorentini stimando che se n’andassono, sonarono le campane del comune a stormo; e il popolo volonteroso a cacciare chi fuggisse s’armò, e alquanti mattamente senza ordine e senza capitano uscirono della città: ma sentendo che i nimici non fuggivano, tosto ritornarono dentro dalle mura. Ma di questo nacque la voce per lo contado e scorse per tutto, che se n’andavano per la Valdimarina; e di stormo in stormo si mossono i contadini senza ordine o comandamento del comune, e occuparono le montagne sopra la Valdimarina d’ogni parte, e furono loro tanto innanzi all’ora del vespero, che forte feciono temere e maravigliare i nimici, ch’aveano intenzione di valicare nel Mugello per quella via. Come i capitani ebbono fermo il loro campo sotto Calenzano in sulla Marina, feciono combattere la pieve e certa fortezza ov’era raccolta la vittuaglia de’ paesani, e presonle a patti, salve le persone: e anche presono il castello di Calenzano, che non era murato nè difeso, e in questa tenuta trovarono alcuno rinfrescamento. Fino a quell’ora non aveano fatta alcuna arsione: stando ivi, uno grande conestabile tedesco si stese a Pizzidimonte, e fuvvi morto da’ villani; e per questa cagione vi cavalcarono e arsonlo, e appresso alcuna altra villa intorno a Calenzano. E feciono provvedere i passi per valicare in Mugello, ch’ogni altro viaggio era loro, in stremità del pane, più pericoloso a pigliare.

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CAP. XI. Come i rettori di Firenze abbandonarono il passo di Valdimarina.

La necessità delle cose da vivere, l’un dì appresso l’altro già tornata in fame, strignea l’oste del Biscione, che così si chiamava allora, a partirsi del piano, ove senza speranza di potersi allargare, di pane erano affamati. I cittadini di Firenze, a cui era commessa la provvisione della guerra, ch’erano oltre a’ priori e a’ collegi diciotto tra grandi e popolani, sapeano bene il difetto ch’aveano i nemici, ma non aveano capitano, e da loro non sapeano la maestria della guerra, conobbono per lo comune grido, che agevole era a tenere loro il passo che non entrassono nel Mugello per la Valdimarina, che per natura il luogo era stretto, e’ passi aspri e forti, da tenergli poca gente con loro sicurtà da tutta l’oste: e vidono manifesto, che dove questa via s’impedisse loro, convenia che si partissono, tornando addietro da Pistoia sconciamente. Ma la tema della boce che non passassono a san Salvi, ch’era quasi impossibile, fece al comune non riparare a quel passo. Ma un gentile scudiere alamanno, il quale in quel tempo per lo comune era capitano in Mugello, da se medesimo commise a uno della casa de’ Medici, il quale era in sua compagnia, ch’andasse a provvedere al passo, e diegli dugento fanti e cinquanta cavalieri. La commissione fu debole a cotanto fatto: [188] nondimeno se il cittadino fosse stato valoroso, e avesse voluto acquistare onore, molto agevole gli era a guardare quel passo, perocchè i Mugellesi sentendo che il capitano mandava a guardare quel passo, con grande animo di ben fare trassono da ogni parte allo stretto ov’era venuto il provveditore. Ed essendo nel luogo, viddono che il passo si difendea senza dubbio, a grande sicurtà de’ difenditori, per la fortezza naturale di quelle valli, onde conveniva l’oste de’ nemici valicare a piede, e uomo innanzi uomo, che a cavallo insieme non v’era modo da poter valicare. Ma il cittadino deputato a quel servigio disse a’ Mugellesi che gli conveniva essere altrove, e quivi per niuno modo si potea ritenere. Onde i Mugellesi ch’erano tratti coraggiosi alla difesa, vedendo come colui cui doveano avere per capitano a quella guardia si partiva, perderono ogni vigore: e partito il capitano, tornarono a casa, e cominciarono a fuggire il loro bestiame, e le loro famiglie e masserizie, maledicendo il comune di Firenze e’ suoi governatori, con giusta cagione della loro fortuna.

CAP. XII. Come l’oste del Biscione valicò il passo, e andò in Mugello.

I capitani dell’oste che si vedeano in gran bisogno d’uscire del luogo dov’erano stretti dalla fame, seppono di presente come il passo era abbandonato da’ Mugellesi, e però incontanente [189] mandarono innanzi masnadieri eletti, e buoni balestrieri a prendere il passo: e senza arresto levarono il campo, a dì 12 d’agosto del detto anno, e misonsi loro appresso. In sul passo erano rimasi alquanti fanti del paese, i quali di loro volontà attesono i masnadieri de’ nemici; e alle mani con loro, li ributtarono indietro. Ma vedendosi pochi e senza soccorso, e vedendo i nemici che riempieano le coste de’ poggi e le valli d’ogni parte, abbandonarono il passo, e i nemici di presente il presono, e l’oste senza contrasto o pericolo valicò, facendosi grandi beffe del comune di Firenze, parendo a catuno di servo essere divenuto signore. E pensando alla viltà ch’avevano trovata ne’ Fiorentini, a non avere fatto tenere e difendere quel passo, e al poco provvedimento che mostravano ne’ fatti della guerra, crebbe la loro superbia. E poichè si viddono essere valicati senza contrasto nel piano di Mugello, presono fidanza d’essere signori di tutto il paese senza contrasto, e quel dì medesimo cavalcarono a Barberino, e a Villanuova. Barberino era forte e bene fornito alla difesa, e molta roba v’era dentro raccolta delle vicinanze, ad intendimento di difendersi, tanto ch’avessono soccorso da’ Fiorentini. Ma Niccolò da Barberino, antico castellano e de’ nobili di quella terra, avendo la fede corta al comune di Firenze, se n’andò al capitano dell’oste, e senza consiglio de’ suoi castellani, a suo vantaggio trasse patto, e rendè il castello a’ nemici, e misonvi la loro guardia, e la vittovaglia che v’era fece dare all’oste. Villanuova, e Gagliano, e [190] Latera, e altre terre circustanti, che non erano di gran fortezza, nè guardate da gente d’arme del comune di Firenze, feciono il comandamento del capitano dell’oste, e dieronli il mercato. Trovandosi la gente affamata in paese largo e dovizioso e pieno d’ogni bene, soggiornarono volontieri più dì, per prendere conforto delle loro persone, e a’ loro animali, che tutti n’avevano gran bisogno. Ma chi ha ne’ fatti della guerra il tempo da avanzare, e per riposo lo indugia, tardi il racquista; e così avvenne a costoro per lo detto soggiorno, come appresso diviseremo.

CAP. XIII. Come il conte di Montecarelli si rubellò a’ Fiorentini e venne al capitano.

Il conte Tano di Montecarelli rompendo la pace ch’avea col comune di Firenze, essendo con gli altri ghibellini collegato coll’arcivescovo, avendo in prima per inganno, per mala provvedenza del castellano, ritolta a’ Fiorentini la rocca di Montevivagni, nella quale era a guardia uno popolare figliuolo di Piero del Papa, il quale fu però condannato per traditore, come sentì l’oste del Biscione nel Mugello, fece suo sforzo di cavalieri in piccolo numero, e in persona con i suoi compagni a cavallo e con dugento fanti venne nell’oste, e in Montecarelli mise la guardia per l’arcivescovo e le sue insegne; e mentre che l’oste stette in Mugello fu a nimicare il comune [191] di Firenze, e a dare il mercato all’oste, e ricetto in Montecarelli a’ nemici del comune.

CAP. XIV. Come si fornì la Scarparia e il Borgo.

Avvenne come l’oste del tiranno fu valicata nel Mugello, e dilungata dalla città, a’ Fiorentini parve al tutto essere fuori di sospetto, e ritornò loro il vigore e la virtù dell’animo a consigliare e a provvedere a’ rimedi. E in quello stante che l’oste si riposava a Barberino, misono nella Scarperia Iacopo di Fiore conestabile tedesco, uomo leale e valoroso, il qual era capitano del Mugello. A costui dierono dugento cavalieri eletti di buona gente, e trecento masnadieri esperti in arme, de’ quali quasi tutti i conestabili furono Fiorentini, uomini di grande pregio in fatti d’arme. E fornirono la terra di molta vittuaglia, e d’arme, di balestra, e di saettamento, e di lagname e di ferramenti, e di buoni maestri da fare ogni dificio da offendere e da difendere; e fornita d’ogni cosa bisognevole per un anno, al detto capitano e conestabile accomandarono la guardia e la difesa di quello castello. E per simigliante modo e forma fornirono il Borgo a san Lorenzo, e Pulicciano, e altre fortezze. E mandarono armadure, saettamento e balestra, e ammonirongli di buona guardia, confortandogli che a ogni bisogno avrebbono aiuto e soccorso presto dal comune. E gli uficiali deputati alla provvigione di quella guerra si cominciarono [192] a provvedere, e accogliere gente di soldo a cavallo e a piè quanti avere ne poteano, per attendere alla difesa.

CAP. XV. Come l’oste assediò la Scarperia.

Messer Giovanni da Oleggio capitano dell’oste, e il Conte Nolfo da Urbino maliscalco, veduto la gente rinfrescata, e presa forza e baldanza per lo abbondante paese dove si trovarono, con le spalle di Bologna, onde potevano avere prestamente aiuto e favore quando bisogno fosse, pensavano senza contrasto essere signori di tutto. E con questa baldanza, a dì 20 del mese d’Agosto del detto anno vennero colle schiere fatte sopra il castello della Scarperia, e con loro s’aggiunsono gli Ubaldini, ch’erano con tutto loro sforzo nell’alpe, e più altri ghibellini nemici del comune di Firenze. La Scarperia era a quell’ora debole terra di piccolo compreso, e non era murata se non dall’una delle parti, ma in quello stare di Barberino, in molta fretta s’era rimesso il fosso vecchio e trattone la terra, e innanzi a quello fattone un’altro piccolo, e racconciato lo steccato assai debole. I nimici vi furono intorno con tanta moltitudine di cavalieri e di pedoni, che copriano tutto il piano, e avendo da ogni parte circondato il piccolo castello, e fermi i campi loro, domandarono il castello a coloro che ’l guardavano, dicendo come i Fiorentini non lo potevano soccorrere nè difendere, [193] ma perocchè sentivano che dentro v’erano di prod’uomini e virtudiosi d’arme, voleano far loro grazia d’avergli per amici, dove rendessono la terra senza contasto: e che quando questo non facessono nel breve termine loro assegnato, gli vincerebbono per battaglia, e la vita non perdonerebbono ad alcuno: e così era deliberato per lo capitano e per tutti i guidatori dell’oste. Gli assediati risposono che voleano termine a rispondere, e che dopo il termine farebbono quello che la fortuna concedesse con loro onore. Furono domandati da’ capitani quanto termine voleano. Gli assediati risposono, che con loro onore non vedeano che potesse essere meno di tre anni: e dopo il detto termine intendeano prima morire in su i merli, che di quelli dessono uno a’ nimici: e di così franca risposta molto feciono maravigliare i capitani dell’oste, parendo che si mettessono a grande pericolo a volere difendere così debole castello, e da cotanta forza. E fatta la risposta, di presente s’ordinarono e di dì e di notte a molta sollecita guardia, e a buona e a franca difesa; e cominciarono a regolare la vita di tutti, come se l’oste vi dovesse stare due anni. I nimici cominciarono prima ad assalirli con grossi badalucchi, per tentare il loro reggimento, il quale trovarono sollecito, e maestrevolmente provveduto alla difesa.

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CAP. XVI. Come i Fiorentini afforzarono Spugnole.

I Fiorentini ch’al continovo raccoglievano gente d’arme a cavallo e a piè al loro soldo, e sollecitavano gli amici d’aiuto, avendo già accolto un poco di gente, deliberarono d’afforzare Spugnole e Montegiovi per guardare le contrade di qua da Sieve, e per dare alcuna speranza agli assediati della Scarperia, e ivi misono de’ cavalieri ch’aveano, e parecchie masnade di buoni e valorosi masnadieri. E al Borgo a san Lorenzo crebbono gente d’arme: e come crescea al comune gente d’arme per soldo o per amistà gli mandavano alle frontiere de’ nemici in Mugello. Onde avvenne più volte, che per gli aguati da catuna parte, e per le cavalcate de’ nimici v’ebbe di belli e di grossi assalti, ove si mostrarono operazioni di buoni cavalieri e di franchi masnadieri. Per questo avvenne che i nemici non ardirono a valicare la Sieve colle loro cavalcate inverso Firenze. E tutte loro cavalcate di là da Sieve faceano grosse di mille cavalieri, o di millecinquecento, o di duemila per volta, e nondimeno erano continuamente percossi alla ritratta, e assaliti d’aguati che si metteano loro. E in questo modo si venne domesticando la guerra, e gli uomini del paese cominciarono a prendere cuore e ardire, per modo che i villani si raccoglieano insieme e nascondevansi a’ passi, e come i cavalieri si stendevano alle ville gli uccidevano; e avvezzi [195] a questo guadagno dell’arme e de’ cavalli, con molta sollecitudine intendevano a tendere i loro aguati in ogni luogo. E per questo modo uccisono de’ nemici grande quantità nel tempo che durò la detta guerra.

CAP. XVII. Come si difese Pulicciano di grave battaglia.

Al castello di Pulicciano furono condotti per certi ghibellini della terra in una cavalcata cinquecento cavalieri e quattrocento fanti, e non essendo se non pochi terrazzani nella fortezza di sopra, appena la difesono. I borghi di fuori arsono e rubarono, e mandaronne il bestiame e la preda nel campo. Sentito questo a Firenze, subito vi mandò il comune cento fanti masnadieri alla guardia: i quali vi furono tosto a gran bisogno, perocchè quelli dell’oste per seducimento di traditori del castello, e per conforto de’ soldati ch’erano stati in quella cavalcata, si pensarono vincere la fortezza, che non era chiusa di mura, ma da uno vile steccato, e avendo quella, signoreggerebbono un paese forte e pieno d’ogni bene da vivere: e però una mattina per tempo vi feciono cavalcare duemila barbute, e mille fanti e più balestrieri. E giunti a piè del castello, i cavalieri scesono de’ cavalli, e con gli elmi e colle barbute in testa si legarono con le braccia insieme, tenendo l’uno ’altro, e tra loro ordinarono i balestrieri, e cominciarono da ogni parte a un’ora a montare verso gli steccati. I terrazzani [196] arditi e fieri, co’ soldati che v’erano, si misono francamente alla difesa colle balestra ch’aveano e co’ sassi maneschi. La forza de’ nemici era grande tanto, che per forza condussono un loro conestabile con la sua bandiera quasi al pari dello steccato. Come si fermò con l’insegna per dare favore agli altri, tra con le balestra e con le pietre lo traboccarono morto giù per la ripa. Nondimeno i nimici con grave battaglia gli stringeano forte, e quelli del castello molto vivamente senza riposo difendeano gli steccati per modo, che da mezza terza fino a mezzo dì, che la battaglia era durata senza arresto, i nimici non aveano potuto abbattere un legno del loro steccato. Per la qual cosa vedendo i cavalieri la franca difesa di que’ villani, e già morti alquanti di loro, e che il giorno era nel calare, disperati di quell’impresa, con loro vergogna si ritrassono della battaglia e tornarono nel campo, e più non tentarono di ritornarvi.

CAP. XVIII. Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini vennono in sul contado di Firenze, e furonne cacciati per forza da’ Fiorentini.

Dall’altra parte messer Piero de’ Tarlati d’Arezzo in prospera vecchiezza, valicati i novanta anni della sua età, e il vescovo d’Arezzo della casa degli Ubertini, e i Pazzi di Valdarno, non ostante che fossono in pace col comune di Firenze, avendo [197] dugentocinquanta cavalieri di quelli dell’arcivescovo, e aggiuntosi de’ conti d’Urbino e altri ghibellini, mentre che l’oste era in Mugello, con trecentocinquanta cavalieri e con duemila pedoni si misono da capo predando il contado di Firenze, e vennono all’Ambra, e di là intendeano entrare nel Valdarno e venire a Fegghine. I Fiorentini sdegnosi di questi traditori, subitamente trassono dalle loro frontiere cinquecento cavalieri, e commisono a centocinquanta cavalieri ch’aveano in Arezzo che dovessono venire a raccozzarsi co’ nostri; e mossono il popolo del Valdarno, che con grande animo e di buona voglia andavano in quello servigio. Il comune di Firenze si confidò al tutto in questa cavalcata di Albertaccio di messer Bindaccio da Ricasoli, uomo savio, pro’ e ardito e buono capitano, se fosse stato in fede nel servigio del comune: e benchè altri buoni cittadini fossono mandati in detto servigio, a costui fu dato il mandato che in tutto fosse ubbidito. La gente a piè e a cavallo che cavalcavano di volontà, sopraggiunsono i nimici in sul vespero all’Ambra, in parte, che avendo voluto fare quello si poteva per la nostra gente, non ne campava testa che non fossono morti o presi: perocchè la gente del comune di Firenze era due cotanti, e migliore gente d’arme, e erano nel loro terreno intorniati dagli amici. Questo Albertaccio avendo parentado e amistà co’ detti nimici, portò infamia di non avere servito il comune lealmente. In prima d’avere sostenuta la gente del comune a Montevarchi, che potea più infra ’l dì avere occupati i nimici: appresso, che [198] quando fu a loro non gli lasciò per la nostra gente badaluccare, per tenerli corti e ristretti che non si potessono provvedere: e perocchè non lasciò porre la sera la cavalleria de’ Fiorentini nel luogo dove si poteva torre la via a’ nimici che andare non se ne potessono quella notte. Per li savi che v’erano con lui si provvedeva, nondimeno per lo pieno mandato ch’aveva dal comune fu ubbidito; ed egli mostrava di fare buona e franca capitaneria, e di volere vincere i nimici senza pericolo della sua gente: e però puose quella sera il campo in luogo sicuro a’ suoi, e utile a’ nimici. O vero o bugia che fosse, infamato fu d’avere dato il tempo e fatto assapere a’ nimici che si dovessono partire in quella notte. I nimici traditori del nostro comune, vedendosi sorpresi a loro gran pericolo, intesono con ogni sollecitudine, senza dormire, a campare le persone: e non tennono per una via, ma per diverse parti per lo scuro della notte presono la fuga molto chetamente. La nostra gente non fu ordinata a quella guardia, e poi innanzi che il capitano facesse armare il campo, i nimici erano più di sei miglia dilungati; allora si strinsono ove la sera aveano lasciati i loro avversari, e niuno ve ne trovarono: onde la infamia crebbe al capitano per lo fatto, e il ripitio fu grande tra i cavalieri soldati e il conducitore, ch’avea tolto loro quella preda per mala condotta. La gente che v’era d’Arezzo, forte sdegnata di questo tradimento che parve loro avere ricevuto, si partirono senza licenza del capitano con centocinquanta cavalieri ch’aveano per loro guardia da’ Fiorentini, e tornaronsi in Arezzo.

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CAP. XIX. Come Bustaccio entrò e rendè la Badia a Agnano.

In quella notte Bustaccio degli Ubertini si ridusse con parte di quella gente a piede e a cavallo nella Badia a Agnano, la quale era molto forte e bene guernita. La cavalleria de’ Fiorentini rimasa con vergogna della partita de’ nimici, sentendo come Bustaccio era ricoverato in quella Badia, cavalcarono là, e trovaronli racchiusi, e ordinati alla difesa di quella tenuta. Il capitano per volere ricoprire sua infamia volea combattere la fortezza; i conestabili de’ cavalieri, stretti insieme, dissono ch’erano stati ingannati, e per baratto aveano perduta la preda de’ nimici fuggiti, e però non intendeano combattere se prima non fossono sicuri della preda, se per patto si lasciassono i nimici partire: e in fine ne furono in concordia d’avere fiorini cinquecento d’oro, come che i nimici si capitassono. E di presente combattendo certo borgo il vinsono. Poi combattendo la Badia furono ributtati a dietro, e perderono tre bandiere, ch’erano in sulle case, le quali i nimici presono, e per paura del passo ove si trovavano le locaro ritte in sull’altare maggiore della badia. I cavalieri aontati delle loro bandiere prese, d’un animo si disponeano per forza a vincere la Badia, e sarebbe venuto fatto loro, ma non senza grande danno, perchè dentro v’erano buoni guerrieri; e però innanzi che alla grave battaglia [200] si venisse, il Roba da Ricasoli, allora discordante per setta d’Albertaccio, volle parlare con quelli d’entro, i quali stavano in gran paura: e parlato loro, di presente s’acconciarono a rendere la Badia, potendosene andare salve le persone, e i cavalli e l’arme. E presa per lo meno reo partito la detta concordia, e data la fede, i nimici si partirono, e la fortezza e le bandiere s’ebbono senza vergogna del comune, e i conestabili vollono i fiorini cinquecento d’oro loro promessi.

CAP. XX. Come l’arcivescovo tentò i Pisani di guerra contro a’ Fiorentini.

Stando l’oste intorno alla Scarperia, e dando opera i capitani a far fare dificii da traboccare nella terra per rompere le torri e mura, e gatti e altri ingegni di legname per vincere la terra per battaglia, e i Fiorentini d’accogliere gente d’arme, e d’avere capitano per poterla soccorrere, l’arcivescovo non restava di tentare i Pisani dalla sua parte in comune e in diviso che rompessono pace a’ Fiorentini, con intenzione di mandare messer Bernabò da quella parte con duemila cavalieri ad assalire co’ Pisani insieme il nostro comune, e faceva loro grandi promesse. I Gambacorti, a cui segno Pisa si governava, non vollono rompere la pace: nondimeno l’arcivescovo avendo favore dentro, e’ consigliò del modo che avesse a tenere di muovere il popolo naturale nemico de’ Fiorentini, ed elesse una solenne [201] ambasciata, fornita d’autorità di savi uomini, e mandògli a Pisa: e giunti là, e sposta la loro ambasciata con molte suadevoli ragioni, i Pisani astuti, per pigliare consiglio nel tempo, dissono di rispondere all’arcivescovo per loro ambasciadori, e incontanente gli mandarono a Milano, imponendo loro, che della volontà dell’arcivescovo non si rompessono, ma tranquillassono il fatto. E in questo mezzo provvidono più riposatamente sopra il partito, e conobbono che rompere pace al comune di Firenze non tornava in loro utile: che se l’arcivescovo prendea signoria in Toscana, era loro suggezione e danno; e segretamente feciono quello sentire a tutti i confidenti di quello stato, buoni cittadini. L’arcivescovo avvedendosi del modo che con lui tenevano coloro che governavano la terra, li credette ingannare, e per lo favore ch’avea nel popolo e in molti altri cittadini, e non ostante che avesse gli ambasciadori pisani in Milano, fece maggiore e più solenne ambasciata a’ Pisani; e commise loro, che in parlamento esponessono la sua domanda, come detto gli era, sperando che a grido di popolo avrebbe la sua intenzione contro a’ Fiorentini. E come giunti furono in Pisa, senza sporre alcuna cosa a’ rettori del comune, addomandarono loro di volere il parlamento, e risposto fu loro di farlo adunare volentieri a certo giorno, onde gli ambasciadori furono contenti; e incontanente feciono a tutti i cittadini, con cui aveano conferito loro consiglio, dire che venissono al parlamento; e bandito e sonato a parlamento, come ordinato fu si ragunò il popolo [202] nella chiesa maggiore in gran numero, ove furono tutti i cittadini che temeano di perdere loro libertà e il loro stato. Gli ambasciadori ammaestrati in udienza di tutto il parlamento, con molto ornato sermone, ricordando i servigi grandi per la casa de’ Visconti fatti al comune di Pisa, e come gli aveano onorati e aggranditi sopra gli altri cittadini di Toscana, e’ raccontarono per ordine la mala volontà che i Fiorentini aveano verso di loro, e l’ingiurie che altro tempo inimichevolmente aveano loro fatte, e intendeano di fare quando si vedessono il destro, mostrando loro come ora era venuto tempo nel quale il loro signore intendea d’abbattere in tutto lo stato e l’arroganza de’ Fiorentini loro antichi nemici, e spegnere parte guelfa in Italia, e a ciò fare avea mossi tutti i ghibellini di Lombardia e di Toscana, e di Romagna e della Marca, come per opera era loro manifesto. La qual cosa conosciuta per loro, ch’erano capo di parte ghibellina in Toscana, molto doveano essere contenti di poter fare in cotanta loro esaltazione la volontà del loro signore, la quale e’ domandava con tanta istanza a quello popolo. Essendo uditi attentamente, si pensarono a grida di popolo avere impetrata la loro dimanda, ma la cosa andò tutt’altrimenti, per la provvisione de’ savi cittadini, li quali si ritennero in silenzio in quello parlamento, come per loro fu provveduto. E quando gli ambasciadori l’uno dopo l’altro ebbono detto e confermato loro sermone, pregarono gli ambasciadori che si attendessono alquanto, e tosto risponderebbono di comune consentimento [203] alla loro ambasciata, e così si trassono del parlamento. E usciti gli ambasciadori, gli anziani feciono la proposta che si consigliasse se il comune di Pisa dovesse rompere pace a’ Fiorentini, oggi loro amici e loro vicini, o no: e levatosi alcuno a dire in servigio dell’arcivescovo, molti più, i maggiori cittadini, si levarono a dire come grande male e vergogna del loro comune sarebbe, avendo ferma e buona pace col comune di Firenze, a romperla contro a ragione, in perpetua infamia del loro comune. E fatto il partito, fu vinto che pace non si rompesse a’ Fiorentini. Gli ambasciadori, già preso sdegno per l’uscita del parlamento, avvedendosi dove la cosa riuscirebbe, senza attendere se n’erano andati all’ostiere. E quando gli anziani mandarono per loro per fare la risposta del parlamento, sentendo che non sarebbe quella ch’e’ voleano, non vi vollono andare, e senza prendere comiato montarono a cavallo e tornaronsene a Milano. I Pisani si scusarono saviamente all’arcivescovo, perchè non stesse indegnato, e mandarongli dugento cavalieri, che mandar gli doveano per loro convenenza alla guardia di Milano. Allora venne meno all’arcivescovo la maggiore speranza che avesse di potere vincere i Fiorentini. Il comune di Firenze cercava in questo tempo d’avere capitano di guerra che guidasse la sua gente, che al continuo la cresceva, e avendo mandato a molti l’elezione con grande salario, tutti la rifiutavano per paura del potente tiranno: nondimeno il comune pensava d’atarsi con la capitaneria de’ suoi cittadini. E avendo l’oste [204] così grande in Mugello, non pareva se ne curasse, e nella città catuno faceva la sua mercatanzia e sua arte senza portare alcuna arme; e continovo facea rendere a’ cittadini i danari del monte: e sapendo questo i nemici forte se ne maravigliavano, e molto n’abbassarono la loro superbia.

CAP. XXI. Come l’oste deliberò combattere la Scarperia.

Quando i conduttori dell’oste seppono che il comune di Pisa non voleva rompere pace a’ Fiorentini, e come alcuno trattato ch’aveano in Pistoia era scoperto, con tutta la loro intenzione si rivolsono alla Scarperia, e quella cominciarono a tormentare con percosse di grandissimi dificii, che il dì e la notte gettavano nel piccolo castello grossissime pietre, le quali rompeano le case d’entro, e le mura e le bertesche gettavano a terra. E ogni dì faceano assalto loro alla terra: onde gli assediati per la continova guerra, e per la sollecita guardia che conveniva loro fare il dì e la notte alla difesa, erano infieboliti, e pensarono che senza soccorso di fuori, o aiuto di masnadieri freschi poco potrebbono sostenere: e però scriveano a’ Fiorentini per loro fanti tedeschi, che si mescolavano con gli altri Tedeschi di fuori, che avacciassono il loro soccorso. I Fiorentini erano in ciò assai solleciti, e già avevano al loro soldo accolti milleottocento cavalieri, e tremilacinquecento masnadieri a piede de’ buoni [205] d’Italia, e dugento cavalieri aveano da’ Sanesi, e seicento n’attendeano da Perugia, i quali erano a cammino; e avendo ordinato d’uscire a campo con questi cavalieri, e con grande popolo, a petto a’ nemici sopra il Borgo a san Lorenzo luogo detto a san Donnino, ove erano forti per lo sito, e con le spalle al Borgo a san Lorenzo da potere strignere e danneggiare i nemici, ch’erano assai di presso, e dare vigore e baldanza agli assediati della Scarperia: ed essendo ogni cosa provveduta, attendendo i cavalieri perugini per uscire fuori, n’avvenne la fortuna che appresso diviseremo.

CAP. XXII. Come i Tarlati sconfissono i cavalieri de’ Perugini.

In questi dì, del mese di settembre del detto anno, era giunto a messer Piero Saccone de’ Tarlati in Bibbiena, mandato dal tiranno, il doge Rinaldo Tedesco con quattrocento cavalieri per incominciare più forte guerra a’ Fiorentini nel Valdarno. In questo stante, messer Piero molto avveduto, sentì che seicento cavalieri buona gente d’arme, che ’l comune di Perugia mandava in aiuto a’ Fiorentini, erano in cammino, e venivano baldanzosi senza sospetto, e la sera doveano albergare all’Olmo fuori d’Arezzo a due miglia. Avendo messer Piero il certo del fatto, col doge Rinaldo insieme con quattrocento cavalieri e con duemila fanti cavalcò la notte, e chetamente [206] ripose i fanti nella montagna sopra l’Olmo, per averli al suo soccorso nel fatto; e la mattina per tempo co’ suoi cavalieri e col doge Rinaldo assalì la cavalleria di Perugia, che la maggior parte era ancora per gli alberghi, ma quelli ch’erano montati a cavallo si cominciarono francamente a difendere. E già aveano tra loro messer Piero, che s’era messo molto innanzi nella via ov’era la battaglia, prigione, con più altri de’ caporali in sua compagnia. E se in quello assalto gli Aretini fossono stati favorevoli ad aiutare gli amici del comune di Firenze, come doveano, tutta la gente di messer Piero rimaneva presa per lo stretto luogo dove s’erano messi. Ma usciti d’Arezzo i Brandagli con loro seguito, che allora erano i maggiori cittadini, intesono a campare Messer Piero con gli altri prigioni che i cavalieri di Perugia aveano ritenuti, come gente che aveano l’animo corrotto alla tirannia della loro città, come poco appresso dimostrerò. Campato messer Piero e’ suoi, gli Aretini si tornarono dentro senza aiutare que’ di Perugia, o dar loro la raccolta nella città. In questo, messer Piero e’ suoi ripresono ardire, e feciono scendere della montagna i fanti loro, traboccando addosso a’ Perugini con smisurato romore: i quali non vedendo essere soccorsi, nè avere ricolta, non poterono sostenere, ma chi potè fuggire campò, e gli altri tutti furono presi nelle vie e negli alberghi. Messer Piero raccolta la preda dell’arme, e de’ cavalli, e de’ prigioni, senza esser contastato dagli Aretini, si raccolse colla sua gente a salvamento, menandone più di trecento [207] cavalieri prigioni, ventisette bandiere cavalleresche, e trecento cavalli; e giunto in Bibbiena con questa vittoria i cavalli e l’armi e l’altra roba partì a bottino, e i cavalieri prigioni poveri e mendichi lasciò alla fede. A’ Fiorentini levò l’aiuto e la speranza d’uscire a campo al soccorso della Scarperia, come ordinato era, e a’ nimici diede maggiore baldanza di vincere il castello.

CAP. XXIII. Come i Fiorentini procuraro di mettere gente nella Scarperia.

Veggendo i Fiorentini mancato disavventuratamente l’aiuto de’ Perugini, e cresciuta baldanza a’ nimici per quella vittoria di messer Piero Tarlati, perderono al tutto la speranza del campeggiare, e quelli ch’erano assediati addomandavano soccorso più sollecitamente. Avvenne che uno valente conestabile della casa de’ Visdomini di Firenze, che aveva nome Giovanni, con grande ardire elesse trenta compagni sperti in arme, buoni masnadieri, e una notte si mise nel campo de’ nimici, e per mezzo delle guardie, non pensando che gente de’ Fiorentini si mettessono tra loro, virtuosamente si misono nella Scarperia; la qual cosa fu agli assediati alcuno conforto, e più per la persona del valente conestabile, che per la sua piccola compagnia, a cotanto bisogno quanto aveano dì e notte, per gli assalti continovi de’ loro nimici. E i conducitori [208] dell’oste avendo sentito l’entrata di que’ masnadieri nella Scarperia, la feciono più strignere e più guardare il dì e la notte. E tentato i Fiorentini per più riprese di mettervi anche gente, e non trovando per niuno prezzo il modo, un altro conestabile cittadino di Firenze della casa de’ Medici, di grande fama tra gli uomini d’arme, per accrescere suo onore si fece dare cento fanti masnadieri a sua eletta, e avendo con seco uno della Scarperia che sapeva l’ore delle vegghie delle guardie, e le loro vie, presono il cammino di notte per l’alpe di verso quella parte donde meno si potea temere per quelli dell’oste, con la insegna levata co’ suoi compagni stretti si mise arditamente per lo campo, dirizzandosi verso la Scarperia. E in su l’entrata del campo le guardie s’avviddono, e levato il romore, venti di quelli fanti rimasono addietro, e non poterono ristrignersi co’ compagni, e tornaronsi nell’alpe, e camparono: e il conestabile con ottanta compagni sanza fare arresto, innanzi che i nimici il potessono occupare con la loro forza, sano e salvo co’ suoi compagni entrò nella Scarperia; e così per virtù di due conestabili fu fornito quello castello di quello che aveva maggiore bisogno. E per questo soccorso gli assediati presono cuore e speranza ferma della loro difesa; e tra capitani dell’oste n’ebbe ripitio e grande sospetto, temendo che gli Ubaldini non gli avessono condotti, ma niuna colpa v’ebbono. E soprastando alquanto allo infestamento de’ nimici sopra questo castello, ci occorre alcune altre materie a cui ci conviene [209] dare luogo per debito del nostro trattato, e appresso ritorneremo con più onestà alla presente materia.

CAP. XXIV. Come la reina Giovanna si fece scusare in corte di Roma.

Come addietro abbiamo narrato, quando l’accordo si fece dal re d’Ungheria al re Luigi, ne’ patti venne fatta la commissione nel papa e ne’ cardinali per catuna parte: che se la reina Giovanna si trovasse colpevole della morte d’Andreasso suo marito, fratello del re d’Ungheria, ch’ella dovesse essere privata del reame, e dove colpevole non si trovasse, dovesse essere reina. A questo patto acconsentì il re d’Ungheria, più per l’animo che avea di tornare in suo paese, che per altra buona volontà che di ciò avesse, e però la commissione fu avviluppata più che ordinato o spedito libello, e non vedendo i pastori della Chiesa come onestamente potessono diliberare questa cosa, la dilungarono. Essendo lungamente gli ambasciatori di catuna parte stati in corte senza alcuno frutto dell’altre cose commesse per li detti re nella Chiesa, vedendo che questo articolo non terminandosi portava infamia e pericolo alla reina, con ogni studio vollono che il suo processo si terminasse. E perocchè assoluta verità del fatto non poteva scusare la regina, levare il luogo della dubbiosa fama proposono; che se alcuno sospetto di non perfetto [210] amore matrimoniale si potesse proporre o provare, che ciò non era avvenuto per corrotta intenzione o volontà della reina, ma per forza di malíe o fatture che le erano state fatte, alle quali la sua fragile natura femminile non avea saputo nè potuto riparare. E fatta prova per più testimoni come ciò era stato vero, avendo discreti e favorevoli uditori, fu giudicata innocente di quello malificio, e assoluta d’ogni cagione che di ciò per alcun tempo le fosse apposto, o che per innanzi le si potesse apporre di quella cagione: e la detta sentenza fece divulgare per la sua innocenza ovunque la fede giunse della detta scusa.

CAP. XXV. Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono guerra in mare.

Seguita di dar parte intra le italiane tempeste della terra a quelle che in que’ tempi concepute ne’ nostri mari Tirreno e Adriatico da superbe presunzioni di due comuni, in Grecia e poi nelli stremi d’Europa partorirono gravi cose, come seguendo nostro trattato si potrà trovare. I Genovesi infestati dalla loro alterezza, ricordandosi che i Veneziani l’anno passato aveano soperchiato in mare le undici loro galee, avvegnachè per l’aiuto de’ loro di Pera si fossono felicemente vendicati, vollono per opera mostrare loro potenza a’ Veneziani, e per comune consiglio, essendo a quel tempo catuna casa de’ loro maggiori [211] cittadini tornata con pace in Genova, ordinarono di fare armata, la quale fosse fornita per più eccellente modo che mai avessono armato. E comandarono a’ grandi e a’ popolani mercatanti, e agli artefici minori e ad ogni maniera di gente, che di due l’uno s’acconciassono ad andare in quell’armata, e simigliante comandamento feciono fare per tutta la loro riviera, e certo la volontà vinse il comandamento, che più volentieri s’acconciavano d’andare che di rimanere: i corpi delle galee furono per numero sessantaquattro, e ammiraglio fu fatto messer Paganino Doria; i soprassaglienti furono sopra ogni galea doppi, armati nobilmente, e doppi i balestrieri e i galeotti, tutti forniti d’arme, e tutti si vestirono per compagne chi d’un’assisa e chi d’un’altra, e comandamento ebbono dal loro comune d’abbattere la forza de’ Veneziani in mare e in terra giusta loro podere: e fornite le galee di panatica e di ciò ch’aveano bisogno, e pagati per ordine di mercatanzia e’ dazii, senza trarre danari di comune, per sei mesi, del mese di luglio, gli anni di Cristo 1351, si partirono da Genova, ed entrarono nel golfo di Vinegia facendo danno assai a’ navili e alle terre de’ Veneziani, e senza lungo soggiorno si partirono di là e andaronne all’isola di Negroponte. I Veneziani non provveduti della subita armata de’ Genovesi, aveano mandate venti loro galee armate in Romania, le quali erano nell’Arcipelago, delle quali i Genovesi ebbono lingua, e seguitandole, le sopraggiunsono all’isola di Scio: le quali vedendosi di presso l’armata de’ Genovesi, con la paura aggiunsono [212] forza a’ remi, e avendo aiuto d’alcuno vento alle loro vele, essendo seguitate da’ Genovesi, fuggendo le diciassette ricoverarono nel porto di Candia, e le tre presono alto mare per loro scampo.

CAP. XXVI. Come l’armata genovese andò a Negroponte e assediò Candia, e quello che ne seguì.

L’armata de’ Genovesi seguendo quella de’ Veneziani giunsono a Negroponte, ove i Veneziani con grande studio e paura erano arrivati, e avendo da’ terrazzani aiuto, appena aveano compiuto di tirare le loro diciassette galee in terra, lasciando le poppe in mare per poterle difendere, e in aringo l’aveano messe l’una a lato all’altra a modo di bertesca per poterle meglio di terra difendere, ove giunta l’armata de’ Genovesi, senza arresto l’assalirono con aspra e folta battaglia, e prese l’avrebbono, se non fosse che tutti gli uomini d’arme di quella terra furono alla loro difesa, e a guardare la marina che i Genovesi non potessono scendere in terra: e in quello assalto la feciono sì bene, che i Genovesi s’avvidono per forza non poterle guadagnare nè scendere in terra nel porto: e però presono loro consiglio d’assediare la città di Candia per mare e per terra, e procacciare di Pera e dell’altre parti di loro amici legni grossi, e gente e dificii di legname per combattere e vincere la terra, se per loro virtù e forza fortuna l’assentisse. E allora lasciarono guardia delle loro galee sopra il porto, e con [213] l’altre girarono alquanto, e misono in terra loro campo, attendendo gente e fornimenti che procacciavano per combattere la terra, e que’ d’entro s’afforzavano alla difesa, e dì e notte intendeano a fare buona guardia, avendo mandato a’ Veneziani per loro soccorso.

CAP. XXVII. Come i Veneziani feciono lega co’ Catalani, e di nuovo armarono cinquanta galee.

Stando l’armata de’ Genovesi per mare e per terra all’assedio della città di Candia, il comune di Vinegia ebbe le novelle, ed essendo tanti loro grandi e buoni cittadini, e le loro galee e la loro città assediata, ebbono grande dolore, nondimeno con franco animo deliberarono di fare ogni loro sforzo per soccorrerli: e ricercando la gente che allora poteano fare di loro distretto, non trovarono che bastasse a potere fornire loro armata, tanto era mancata per la passata mortalità, e però elessono di loro cari cittadini solenni ambasciadori, i quali mandarono prima a Pisa, e appresso in Catalogna, per recarli a loro lega, e averli in loro aiuto, con ogni largo patto che volessono: e di ciò diedono agli ambasciadori piena libertà e balìa, con ispendio di grande somma di moneta. I Pisani essendo in pace co’ Genovesi, avvegnachè poco s’amassono, per promesse o patto che fosse offerto loro non si vollono muovere contro a’ Genovesi, ma alquanto più che ’l consueto s’inamicarono con loro, ricevendo grazie da’ Genovesi [214] per la fede mantenuta a quel punto. I Catalani per grande odio che aveano a’ Genovesi, per ingiurie e danni ricevuti da loro in mare, di presente s’allegarono co’ Veneziani, e promisono di dare armate di loro uomini quelle galee che i Veneziani volessono, dando i Veneziani loro i corpi delle galee e i debiti soldi a’ Catalani. E ferma la lega, i Veneziani incontanente misono il banco, e cominciarono a scrivere e a soldare la gente, e mandarono a Venezia che vi mandassono i corpi delle galee e’ danari, i quali senza indugio vi mandarono ventitrè corpi di galee, e danari assai, e fecionle armare di buona gente. I Veneziani a Venezia prestamente n’armarono ventisette, e mentre che l’armata si facea in Catalogna e a Venezia, i Veneziani mandarono una galea sottile bene armata a portare novelle del loro grande soccorso, e mandarono in quella danari per fare apparecchiare le galee ch’erano là, che di presente al tempo della venuta della loro armata fossono apparecchiate, sicchè contra a’ loro nimici fossono più possenti. Questa galea per scontro di fortuna s’abbattè in una galea di Genovesi, e combattendo insieme, la veneziana fu vinta e presa in segno del futuro danno. I Genovesi ebbono i danari, e le lettere e l’avviso dell’armata de’ Veneziani e de’ Catalani per potersi provvedere; il corpo della galea aggiunsono alle loro, e gli uomini ritennono a prigioni, con gran festa di questa avventura.

[215]

CAP. XXVIII. Come la imperatrice di Costantinopoli col figliuolo si fuggì in Salonicco.

Avvenne che in questi medesimi tempi che l’armata de’ Genovesi era a Negroponte, che Mega Domestico del lignaggio imperiale, il quale si faceva dire Cantacuzeno, cioè imperadore, essendo rimaso balio del figliuolo dell’imperadore di Costantinopoli a cui succedea l’imperio, governava tutto per lui, gli diè la figliuola per moglie, ingannando la giovanezza del suo pupillo, senza consentimento della madre. L’imperatrice sentendo quello che Mega Domestico avea fatto, prese sospetto, e fatto le fu vedere che ’l figliuolo sarebbe avvelenato, perchè l’imperio come era in guardia rimanesse libero al detto Mega, balio dell’imperio e del giovane, onde l’imperadrice col figliuolo, di furto e improvviso a Mega s’erano fuggiti di Costantinopoli, e andati nel loro reame di Salonicco, ivi mostrando manifesto sospetto del balio dell’imperio, si dimorarono in grande guardia. E Mega Domestico, come è detto, vedendosi rimaso nella forza dell’imperio, si fece dinominare imperadore: e senza fare guerra al giovane, si fortificava nell’imperio, e aveasi confederato l’amistà de’ Veneziani. L’imperadrice avendo sentita l’armata de’ Genovesi a Negroponte, mossa da femminile furia e sprovveduto consiglio, mandò a trattare co’ Genovesi, in cui prendeva confidanza, perocchè era figliuola del conte di Savoia, [216] assai presso di vicinanza a’ Genovesi, e sapea ch’elli erano nimici de’ Veneziani, amici di Mega Domestico suo avversario; il trattato fu fermo co’ Genovesi, e le promesse furono grandi ove rimettessono il figliuolo in signoria dell’imperio di Costantinopoli. I Genovesi per questo si pensarono di passare il verno alle spese del’imperadrice, e abbattere molto della forza degli amici de’ Veneziani, e d’essere più agresti e più forti contro alla loro armata, e però si dispuosono a lasciar l’assedio con loro onore, ove poco profittavano, e a prendere il servigio dell’imperadrice. Lasceremo al presente questa materia per riprenderla al suo debito tempo, e torneremo a’ fatti di Firenze.

CAP. XXIX. Come la Scarperia sostenne la prima battaglia dal Biscione.

Tornando all’assedio della Scarperia, il capitano dell’oste col suo consiglio vedendo che la Scarperia era fornita per la sua difesa di valorosi masnadieri, e che dentro era bene fornita di vittuaglia, e sentendo che i Fiorentini non si curavano di loro, e continovo accresceva loro forza, ed essendo mancata la ferma de’ loro soldati: per non partirsi con vergogna di non avere vinto per forza uno piccolo castello, rifermarono i loro cavalieri, e avuti danari dall’arcivescovo tutti gli pagarono, e promisono paga doppia e mese compiuto a coloro che combattendo vincessono la [217] Scarperia. Il tempo era già all’entrata d’ottobre, e la vittuaglia cominciava a rincarare, e questo più gli spronava a volere vincere la punga. I dificii da combattere la terra erano apparecchiati, scale assai, e grilli e gatti e torri di legname, le quali aveano condotte presso al castello al tirare della balestra, o poco più. E così apparecchiati, una domenica mattina, ordinati i combattitori, da più parti con molti balestrieri assalirono il castello, e conduceano i dificii e le scale alle mura con gran tempesta di loro grida. Quelli del castello ordinati dentro alla difesa co’ loro capitani, si teneano coperti e cheti, e lasciarono valicare i nimici il primo fosso e entrare nel secondo, che non v’avea acqua, e accostare molte scale alle mura innanzi che si movessono: allora dato il segno da’ loro conestabili, con grande romore sollecitamente cominciarono dalle mura a percuotere sopra i nimici colle pietre, lance e pali, e a traboccare loro legname addosso, e i balestrieri saettare da presso e da lungi senza perdere in vano i loro verrettoni. In questo primo assalto fediti e magagnati assai di quelli che s’erano accostati alle mura e agli steccati per forza ne furono dilungati: nondimeno i capitani per straccare di fatica quelli delle mura, rimutavano spesso la loro gente dalla battaglia, rinfrescando gente nuova, e non lasciando prendere lena nè riposo a que’ delle mura e della guardia degli steccati, ma i franchi masnadieri si difendeano virtudiosamente, avendo in dispregio il riposo, e confortando l’uno l’altro per modo, che per forza nè per rinfrescamento di loro battaglia, da [218] innanzi terza all’ora di nona, per molte riprese di battaglie non ebbono podere d’accostarsi alle mura, nè agli steccati ove le mura non erano. Nel primo fosso condussono sessantaquattro scale, e nel secondo accosta del muro tre, le quali abbandonarono, non potendo avanzare; e con poco onore di questa prima battaglia, e con alquanti morti rimasi nel fosso, e con molti fediti e magagnati, si ritrassono dalla battaglia, e que’ d’entro intesono al riposo e a medicare i loro fediti, che ne aveano gran bisogno.

CAP. XXX. Come la Scarperia riparò alla cava de’ nimici.

Nonostante l’ordine delle battaglie, i conducitori dell’oste con gran costo e con molto studio conducevano una cava sotterra per abbattere le mura della Scarperia, e molto grande speranza aveano in quella di vincere la terra. Que’ d’entro pensando e temendo che così dovessono fare i loro avversari, provvidono al rimedio, e feciono un fosso dentro intorno alle mura, il quale era braccia quattro e mezzo largo in bocca, e braccia tre largo in fondo, e andava di sotto al fondamento delle mura braccio uno e mezzo, acciocchè se le mura cadessono, si trovassono l’aiuto del detto fosso alla loro difesa. E nondimeno provvidono di cavare di fuori de’ fossi per ritrovare la cava de’ nimici innanzi che giugnesse alle mura. E a fornire questo misono grande sollecitudine, ma i loro avversari adoperarono grande [219] forza per ritrarli da quello lavorio: e condussono un castello di legname in sul primo fosso, sì presso, che con le pietre combatteano coloro ch’erano tra l’uno fosso e l’altro alla guardia de’ loro cavatori, e avvenne che a questa si rivolse grande parte dell’oste, e tutta la forza di quelli d’entro. Quelli di fuori combattendo con le pietre e con le balestre, e rinnovando d’ora in ora i freschi combattitori, quelli del fosso colle fosse delle parate e co’ palvesi francamente s’atavano, con le loro balestra e con quelle del loro aiuto dalle mura, e diputati a questa punga trecento di que’ d’entro, sostennono l’assalto de’ nimici il lunedì e ’l martedì molto francamente, non lasciando impedire i loro cavatori: i quali lavorando con grande sollecitudine pervennero alla cava de’ nimici, la quale era venuta innanzi centottanta braccia, e presso alle mura a venti braccia: la quale di presente affocarono, e cacciarono i cavatori, e guastarono loro la cava. Essendo da catuna parte molti fediti, que’ del campo abbandonarono l’assalto con loro vergogna; e i valenti masnadieri alla ritratta de’ nimici presono e arsono il castello del legname ch’era sopra il fosso, e stesonsi ad assalire un altro ch’era più di lungi, e per forza l’affocarono, e tornaronsi sani e salvi nel castello, avendo presa grande baldanza della loro difesa, per la vittoriosa punga di quella cava.

[220]

CAP. XXXI. Del secondo assalto dato alla Scarperia.

Vedendo il capitano dell’oste e il suo consiglio essere di ogni assalto fatto con vergogna ributtato da que’ della Scarperia, e vedendosi venire addosso il verno e non avere vinto il castello, e che lo strame mancava, pensavano che la partita sarebbe con loro grande vergogna: però vollono ancora da capo cercare la fortuna, innanzi che da quello assedio si partissono. E per avere apparecchiato da riempiere i fossi, feciono tutto il legname e’ frascati che aveano ne’ loro campi conducere presso a’ fossi: e il giovedì mattina innanzi dì, essendo l’oste armata, e le battaglie ordinate, e più torri di legnami condotte presso a’ fossi, con ordine di palvesari e di loro balestrieri, senza contasto riempierono di frascati il primo fosso, e le torri condussono sopr’esso fornite di molti balestrieri. I cavalieri smontarono de’ cavalli con gli elmi in testa, e cominciata la battaglia a un’ora da ogni parte, i cavalieri si sforzarono di conducere gatti, grilli e scale alle mura. Que’ d’entro che aveano preso maggiore ardire per gli altri assalti, lasciarono fare molte cose innanzi che alla battaglia si scoprissono, ma ordinato da’ loro conestabili, al segno dato si mostrarono alla difesa, e con tanto impeto cominciarono a caricare di pietre, e di pali aguti e di legname i loro assalitori, con l’aiuto de’ loro buoni balestrieri, che per forza gli ributtarono addietro [221] del primo fosso. E avendo a quelli ch’erano nelle torri ordinato di loro i migliori balestrieri, gli strinsono per modo, che non si poteano scoprire, nè dare a loro utile aiutorio. E in questo assalto alcuni conestabili d’entro ebbono ardire con certi loro compagni eletti d’uscire fuori della terra, e con le lance e con le spade in mano fediano per costa i combattitori, e incontanente si ritraevano: e questo feciono più volte danneggiando i nimici, e ritraendoli dalla battaglia dov’erano ordinati, senza ricevere impedimento. Ed essendo durata la battaglia infino a nona, senza avere que’ dell’oste fatto alcuno acquisto, feciono sonare la ritratta. E di presente quei del castello misono fuori de’ loro masnadieri, i quali presono le torri e’ dificii e arsonli, che i nimici aveano condotti, e dato opera infino alla notte a mettere dentro il legname utile, tutto l’altro co’ frascati arsono nel fosso. E intesono a medicare i loro fediti, e a farsi ad agio d’alcuno riposo, del quale aveano gran bisogno per quella giornata.

CAP. XXXII. Del terzo assalto dato.

Avendo i capitani dell’oste quasi perduta ogni speranza di potere vincere la Scarperia, vollono tentare l’ultimo rimedio con danari e con ingegno; e in quello rimanente del dì feciono venire a loro tutti i conestabili tedeschi con i più nomati cavalieri di loro lingua, i quali nelle battaglie date al castello poco s’erano travagliati altro che [222] di vedere, e dissono loro: se a voi desse il cuore di vincere con forza e con ingegno questa terra, l’onore sarebbe vostro, e oltre alla paga doppia e mese compiuto, a catuno daremo grandi doni. I conestabili e i loro baccellieri si strinsono insieme, e mossi da presuntuosa vanagloria e da avarizia, rispuosono: che dove e’ fossono sicuri d’avere di dono sopra le cose promesse fiorini diecimila d’oro, che darebbono presa la Scarperia: e questo dava loro il cuore di fornire con l’aiuto dell’altra oste, ove fosse fatto quello che direbbono in quella notte. I capitani promisono tutto senza indugio, sicchè rimasono contenti, e di presente feciono fare comandamento a tutti i conestabili delle masnade da cavallo e da piè, che colà da mezza notte fossono apparecchiati dell’arme e de’ cavalli; e fatto questo, andarono a cenare e a prendere alcuno riposo. Venuta la mezza notte, e armata l’oste chetamente, il tempo era sereno e bello, e la luna faceva ombra in quella parte della Scarperia che i Tedeschi aveano pensato d’assalire: e fatto tra loro elezione di trecento baccellieri, a loro commisono tutto il fascio della loro intenzione; i quali bene armati, separati dall’altra gente, con le scale a ciò diputate e con altri utili argomenti, senza alcuno lume, s’addirizzarono verso quella parte della terra ove l’ombra gli copriva. Tutta l’altra oste con innumerabili luminarie, e con ismisurato romore e suoni di tutti gli stromenti dell’oste, colle schiere fatte e colle battaglie ordinate si cominciarono a dirizzare dall’altre parti verso la Scarperia. I fanti della Scarperia, che appena aveano ancora dell’affanno [223] del dì preso alcuno riposo, sentendo lo stormo, e vedendo l’esercito venire con ordine di loro battaglie a combattere la terra, cacciata la paura e invilito il riposo, di presente furono all’arme: e con l’ardire delle loro difese apparecchiati, andò catuno alla sua guardia delle mura e de’ palancati; e stando cheti e senza mostrare i loro lumi attesono tanto, che le schiere e le battaglie s’appressarono alle mura, e cominciato fu l’assalto con suoni di tanti stromenti e con grida d’uomini, che riempieva il cielo e tutto il paese molto di lungi. Quest’asprezza delle grida era maggiore che dell’arme, per attrarre l’aiuto da quella parte di que’ d’entro, e mancarlo ov’era l’aguato. Quelli della terra maestri di cotali cose delle grida non si curavano, e quelli che si appressavano, francamente colla balestra e colle pietre gli faceano risentire e allungare, e niuno non si partiva o mosse dalla sua guardia. I trecento baccellieri riposti presso della terra sentendo il romore e l’infestamento di quelli dell’oste, chetamente colle scale in collo passarono il primo e il secondo fosso, che non v’avea acqua, e condussono e dirizzarono alle mura più e più scale, vedendolo e sentendolo que’ della terra ch’erano a quella guardia, e lasciandogli fare, finchè cominciarono a salire sopra esse, e aveano già i loro aiutori a piede; allora quelli della guardia cominciarono a gridare, e a mandare sopra loro grandi pietre e legname e pali, percotendoli e facendoli traboccare delle scale nel fosso l’uno sopra l’altro. E in un punto gli ebbono sì storditi e fediti e magagnati, che in caccia si partirono da [224] quello assalto, e tornaronsi all’altra oste. Dall’altra parte fu maggiore il grido che l’assalto, ma per li buoni balestrieri molti ve ne furono fediti in quella notte. E facendosi dì, in sulla ritratta uscirono della terra un fiotto di buoni briganti, e dieronsi tra’ nimici, e per forza ne presono e ne menarono tre di loro cavalieri nella Scarperia, e gli altri ritornarono al campo perduta ogni speranza d’avere la Scarperia. Que’ di dentro uscirono fuori un’altra volta quella mattina, e arsono più dificii di legname ch’erano presso, e uno castello ch’era più di lungi, e contamente senza impedimento sani e salvi si ritornarono nella Scarperia.

CAP. XXXIII. La partita dell’oste dalla Scarperia.

Vedendo il capitano dell’oste e i suoi consiglieri aver fatta la loro oste ogni prova per vincere la Scarperia, ed esserne con vergogna ributtati per la virtù de’ buoni masnadieri che dentro v’erano, e tornando l’oste piena di molti fediti, e che la vittuaglia venia mancando l’un dì appresso l’altro fortemente, e che già lo strame per i cavalli al tutto venia loro meno, e il tempo ch’era stato fermo e bello lungamente s’apparecchiava di corrompere all’acqua, prese per partito d’andarsene a Bologna; e al segno dato d’una lumiera alzata sopra ogni lume molto, il sabato notte, a dì 16 d’ottobre, l’oste si dovesse partire, e ogni uomo si dovesse riducere verso l’alpe [225] di Bologna, i cui passi erano tutti in loro signoria, e il cammino era corto e il passo aperto, e la gente volonterosa di levarsi da campo, per la qual cosa subito ebbono passato il giogo dell’alpe. I Fiorentini avendo sentito che i nimici erano per partirsi dall’assedio, aveano mandati in Mugello i cavalieri che aveano per danneggiarli, se potessono, alla levata: ma gli avvisati capitani dell’oste la domenica mattina innanzi che la loro gente s’avviasse feciono una schiera di duemila buoni cavalieri, i quali tennero ferma in sul piano, insino che seppono che tutta la loro gente e la salmeria erano valicati il giogo e passati in luogo salvo; la schiera della guardia passò, non vedendo apparire alcuno nimico, girò e prese il suo cammino verso la montata dell’alpe, ch’era presso a due miglia di piano: ed ebbono passato prima il giogo, che la cavalleria de’ Fiorentini si assicurasse di stendere per lo piano, temendo d’aguato: e così sani e salvi si ricolsono a Bologna senza impedimento per lo senno de’ loro capitani. Quest’oste mossa con tanto ordine e aiuto di tutti i ghibellini d’Italia, venuta di subito sopra la nostra città sprovveduta d’ogni aiuto, stette ottantadue dì sopra il nostro contado senza potere vincere per forza niuno castello, e de’ quali, sessantuno dì consumarono all’assedio del piccolo castello della Scarperia. E come fu piacer di Dio, la sfrenata potenza di cotanto signore, aggiunta con tutta la forza de’ ghibellini d’Italia, guidata da buoni capitani, credendosi soggiogare la città di Firenze e’ popoli circustanti, non ebbono podere di vincere la Scarperia, da [226] qui addietro vilissimo castello, non murato per tutto e di piccola fortezza per sito, ma difeso da piccolo numero di valorosi masnadieri: essendovi a oste con più di cinquemila barbute, e duemila cavalieri, e seimila pedoni di soldo, senza la forza degli Ubaldini e degli altri ghibellini con loro sforzo; per la qual cosa il tiranno che avea l’animo levato a inghiottire le italiane provincie, potè conoscere che un piccolo e vile castello domò e fece ricredente tutta la sua forza. E come era venuto a guisa di leone con la testa alzata, spaventevole a tutte le città di Toscana, chinate le corna dell’ambiziosa superbia, tornò pieno di vergogna e di vituperio, non avendo per sua potenza potuto acquistare un debole castello, e diede materia a’ popoli di grande confidenza della loro difesa. Lasceremo ora finita questa materia, e torneremo all’altre tempeste italiane, che non bastando in terra conturbano l’altrui mare.

CAP. XXXIV. Come l’armata de’ Genovesi si partì da Negroponte e andò a Salonicco.

In questo tempo cominciando aspro e fortunoso verno, i Genovesi che con la loro armata di sessantaquattro galee erano stati all’assedio della città di Candia nell’isola di Negroponte, sentendo l’apparecchiamento delle cinquanta galee de’ Veneziani e de’ Catalani che doveano venire contro a loro al soccorso; e vedendo che lo stare [227] ivi per speranza d’avere la terra era invano, e non minor danno a loro che a’ Veneziani, e avendo promesso il loro aiuto all’imperadrice di Costantinopoli, ch’era fuggita col figliuolo nel reame di Salonicco, parendo per questa cagione la loro levata dall’assedio fosse con meno vergogna, ed entrando nell’imperio aveano più sicuro vernare, si partirono di là e dirizzarono loro viaggio verso Salonicco; e giunti a Malvagia, intendeano levare l’imperadrice e ’l figliuolo, e fare loro podere di rimetterli in Costantinopoli con la loro forza e della parte che amava il loro vero signore. L’imperadrice sentendo l’armata di presso, come femmina mutevole, non avendo piena confidenza del figliuolo, cominciò a sospettare: e il giovane medesimo non avendo avuto più maturo consiglio all’impresa, convenendo la sua persona mettere nelle mani dell’altrui forza, dubitò, e non lo volle fare, e forse fu più da biasimare il cominciamento della folle impresa che ’l cambiamento del femminile e giovanile animo, i quali non si vollono abbandonare alla non provata fede de’ Genovesi; per la qual cosa l’ammiraglio col suo consiglio presono sdegno, e rivolta la loro armata, desiderosi di rapina e di preda, vennero all’isola di Tenedo, piena di gente e d’avere, sottoposta all’imperio, i quali de’ Genovesi non prendeano alcuna guardia, ed elli la presono e rubarono d’ogni sustanza. E quivi feciono dimoro gran parte del verno prendendo rinfrescamento, e ragunando la preda di quella e dell’altre terre di Grecia, della quale data a catuno la parte sua, si trovarono pieni di roba e di danari, sicchè a loro non fece bisogno [228] altro soldo, e la loro vita tutta ebbero per niente delle ruberie del paese. E ivi stettono fino al Natale senza mutare porto.

CAP. XXXV. Come i Veneziani e’ Catalani s’accozzarono in Romania con l’altra armata.

I Veneziani, come addietro abbiamo narrato, avendo fatta compagnia e lega co’ Catalani contro a’ Genovesi, armarono in Venezia ventisette galee molto nobilmente, ove si ricolsono quasi tutti i maggiori e migliori cittadini di Venezia per governatori e soprassaglienti, forniti a doppio di ciò che a guerra faccia mestiero, e ventitrè galee armarono i Catalani. E tanto bolliva negli animi loro lo infocamento dell’izza ch’aveano presa contro a’ loro avversari genovesi, che nel tempo che l’armate sogliono abbandonare il mare e vernare in terra, si mossono da Venezia e di Catalogna, domando le tempeste del mare, ad andare contro a’ loro nimici in Romania. Del mese di novembre s’accozzarono insieme in Cicilia, e di là senza soggiorno si dirizzarono verso l’Arcipelago, e con grandi e aspre fortune, avendo per quelle perdute sette galee veneziane e due catalane, non senza danno della loro gente, pervennero in Turchia, e posono alla Palatia e a Altoloco; e ivi, del mese di dicembre del detto anno, avendo raccolte le galee che aveano a Negroponte e nelle contrade si trovarono con settanta galee: e in Turchia stettono gran parte del [229] più fortunoso verno per rivedere i loro legni e avere novelle di loro nimici. In questo travalicamento del tempo delle due armate ci occorre a raccontare altre cose rimase addietro, e in prima una pazzia di corrotta mente dell’ambizione umana, la quale alcuna volta combattendo, contro al suo prospero e buono stato abbatte e rovina se medesimo con debito e degno traboccamento.

CAP. XXXVI. Come i Brandagli si vollono fare signori d’Arezzo.

Dappoich’e’ Bostoli per loro superbia furono cacciati della terra d’Arezzo, una famiglia che si chiamarono i Brandagli, loro nimici, cominciarono di nuovo ad avere stato in comune, e montando l’un dì appresso all’altro vennono in maggiori, ed erano al tutto governatori del reggimento di quello comune, e per questo montati in grandi ricchezze: e della loro famiglia Martino e Guido di Messer Brandaglia erano i caporali. Costoro ingrati del loro buono stato cercarono di farsene signori con tradimento, non perchè fossono da tanto, ma per farne loro mercatanzia, come nel fine del fatto si scoperse. Costoro trattarono col nuovo tiranno d’Agobbio d’avere da lui al tempo ordinato centocinquanta cavalieri, e da quello di Cortona dugento cavalieri, non che da se gli avesse, ma per servire costoro n’accattò centocinquanta dal prefetto da Vico, e cinquanta dal conte Nolfo [230] da Urbino, e feceli venire e soggiornare all’Orsaia, come gente di passaggio che attendessono d’essere condotti e oltre a questa gente a cavallo, di quello che non era richiesto, mise in ordine d’avere apparecchiati undicimila fanti a piede, con intenzione, che se fortuna il mettesse in Arezzo di volerlo per se. E ancora richiese messer Piero Tarlati, che aveva in Bibbiena il doge Rinaldo con trecento cavalieri, benchè fosse ghibellino e nimico del loro comune richieselo non manifestandogli il fatto. Ma la volpe vecchia che conobbe la magagna, si offerse loro molto liberamente, sperando altro fine del fatto che non pensavano i traditori, accecati nella cupidigia della sperata tirannia. A conducere questa gente aveano fuori d’Arezzo Brandaglia loro nipote, e Guido intendeva a raccogliere i masnadieri che gli capitavano segretamente, e a nasconderli ne’ loro palagi, e Martino stava nel palagio co’ priori della terra a tutti i segreti del comune. In quel tempo si dava in guardia a confidenti cittadini una porta della città che si chiamava la porta di messer Alberto, la quale era a modo d’un cassero, e dava l’entrata tra le due castella. Questa guardia per procaccio di Brandaglia era ne’ figliuoli di messer Agnolo loro confidenti, con cui elli si teneano in questo tradimento. E messe le cose d’ogni parte in assetto, a’ signori d’Arezzo fu scritto per lo comune di Firenze e per quello di Siena ch’avessono buona guardia, perocchè sentivano che una terra si cercava di furare, ma non sapeano come nè quale; Martino Brandagli ch’era nel consiglio, co’ suoi [231] argomenti levava i sospetti. E venuto il dì che la notte si dava il segno a que’ di fuora, un conestabile fiorentino ch’era in Arezzo, uomo guelfo e fedele, fu richiesto da’ Brandagli per la notte. Costui per amore della sua città e di parte non potè sostenere per promesse che avesse avute che non manifestasse a’ priori il tradimento di quella notte. Incontanente i priori mandarono per Martino, il quale confidandosi nel suo grande stato e ne’ molti amici, andò dinanzi a’ priori, e negava scusandosi che niente sapeva di quelle cose; e in quello stante Guido suo fratello corse a’ loro palagi, e colla gente che avea nascosa levò il romore, e tennesi co’ suoi masnadieri forte. I cittadini in furia armati corsono alla porta di messer Alberto, che poteva dare l’entrata a’ forestieri, per fornire di guardia per lo comune, ma trovarono ch’ella si tenea per i traditori. E così la città intrigata nel nuovo pericolo, e non provveduta, fu in grande paura. La porta era forte e bene guernita alla difesa da non poter vincersi per battaglia, e già era venuta la notte, e quei della torre della porta d’entro feciono i cenni ordinati alla gente di fuori, che venire doveano a loro aiuto per vincere la terra.

CAP. XXXVII. Di quello medesimo.

I cittadini vedendo i cenni, temendo di non essere sorpresi dall’aiuto provveduto da’ traditori, tempestando nell’animo, intrigati dalle tenebre [232] della notte e dalla paura, intendendo a combattere quei della porta e mettere gente in su le mura, ma per questo non poteano conoscere riparo che i forestieri non entrassono per forza nella città, e però s’avvisarono di rompere le mura della città appresso a quella porta: e fattane la rotta che vollono, avendo per loro guardia cento cavalieri di Fiorentini e alcuni di loro, li misono fuori in uno borgo fuori di quella porta, ove dovea essere l’entrata de’ nemici, e accompagnaronli di cittadini e d’altri fanti alla difesa con buone balestra; e di subito tagliarono alberi, e abbarrarono e impedirono le vie al corso de’ cavalli, e le mura guarentirono di gente e di saettamento: e nondimeno facevano dal lato d’entro combattere di continovo quelli della porta e della torre, ma e’ si difendevano, e di quella battaglia poco si curavano, e continovo manteneano cenni a loro soccorso: e dentro i Brandagli difendeano i loro palazzi e la loro contrada co’ masnadieri che aveano accolti, e attendendo Brandaglia con la gente invitata, con la quale non dottavano d’essere signori della terra s’ella v’entrasse. I segni della torre furono veduti dal principio della notte, e il signore di Cortona che stava attento fu in sul mattutino con dugento cavalieri e duemila pedoni giunto ad Arezzo, e Brandaglia con altri dugento cavalieri. La gente di messer Piero Saccone tardò più a venire, per riotta che mosse il doge Rinaldo in sul fatto; gli altri ch’erano venuti baldanzosi, credendosi senza contasto entrare nella città, come furono presso alla terra, mandarono innanzi cento [233] cavalieri che prendessono e guardassono l’entrata della porta, e quella trovarono imbarrata dagli alberi e le vie innanzi al borgo: ed essendo là venuti, e saettati da quelli ch’erano alla guardia del borgo, e scorgendo in su l’aurora le mura piene di cittadini armati alla difesa, e già morti due di loro compagni da quei del borgo, si tornarono addietro, e feciono assapere a quelli dell’oste che attendeano come stava il fatto: di che spaventati s’arrestarono senza strignersi più alla terra, e già per segni e ammattamento che que’ della torre e della porta facessono, e eziandio chiamandoli ad alte voci, non si attentarono di venire più innanzi, ma ivi presso si fermarono attendendo come i fatti dentro procedessono, e così stettono schierati dalla mattina sino presso a nona. E in verso la nona messer Piero Sacconi giunse co’ suoi cavalieri e pedoni, il quale sentendo la cosa scoperta e i cittadini alla difesa, senza attendere punto co’ suoi cavalieri diè volta e co’ suoi pedoni, e tornossene a Bibbiena; e veduto questo, tutti gli altri si partirono, e i traditori rimasono senza speranza di soccorso. Questa novità sentita nel contado e distretto de’ Fiorentini, mosse senza arresto i cavalieri e’ masnadieri che allora avea in quelle circustanze, e i Valdarnesi per venire al soccorso degli Aretini: i quali non bene confidenti del comune di Firenze parte ne ritennono per loro sicurtà, e agli altri diedono commiato onestamente, senza riceverli nella città, e dolcemente fu sostenuto. Nondimeno i traditori teneano i palagi, e la torre e la porta: e tanta miseria occupò l’animo di [234] que’ pochi cittadini in cui era rimaso il reggimento, per tema di non volere fare parte agli altri da cui e’ potessono avere aiuto, che si misono a trattare con Martino cui eglino aveano prigione, dicendo di lasciare andare e lui e’ suoi, e i figliuoli di messer Agnolo e le loro cose liberamente, ed e’ rendessono la porta. E innanzi che questo venisse alla loro intenzione, convenne che i figliuoli di messer Agnolo fossono sicuri a loro modo d’avere contanti fiorini tremila d’oro, e avuta la sicurtà renderono la porta e la torre al comune; e facendosi loro il pagamento per coloro che aveano fatta la promessa, i danari furono staggiti per coloro che aveano per loro sodo al comune, che eglino renderebbono quella fortezza al detto comune: e così s’uscirono della città co’ Brandagli insieme; e il seguente dì furono tutti condannati per traditori, e i loro beni disfatti e pubblicati al comune. Trovossi poi di vero, che i traditori aveano trattato come avessono presa la signoria, con ciò sia cosa che non erano d’aiuto per loro lignaggio da poterla tenere, di venderla all’arcivescovo di Milano, a gravamento della loro detestabile malizia, la quale prese non il debito fine, ma alcuno segno della loro rovina, per la viltà di coloro che non degni rimasono al governamento di quella terra.

CAP. XXXVIII. Come il re Luigi mandò il gran siniscalco ad accogliere gente in Romagna.

Tanto imbrigamento di guerra sboglientava gli animi degl’Italiani per terra e per mare in questi [235] tempi, che volendo cercare delle novità degli strani, non ci lasciano da loro partire. Il re Luigi valicata la tregua dal re d’Ungheria a lui, non ostante che rimesso avessono le loro questioni al giudicio del papa e de’ cardinali, tentava con preghiere e impromesse di recare dalla sua parte fra Moriale, friere di san Giovanni, il quale teneva Aversa e Capua dal re di Ungheria, e questo fra Moriale, astuto e malizioso, mostrava di voler piacere al re Luigi; e dandogli speranza, cominciò ad allargare il passo alla gente del re e a’ paesani d’Aversa e di Capua, sicchè andavano e venivano sicuramente, e non faceva guerra, ma nondimeno guardava le città e le fortezze di quelle, e per questo corse la voce che la concordia era fatta: ma però il re di lui, o egli del re si fidava. Ma in questo tranquillo, il re mandò il grande siniscalco nella Marca ad accogliere gente d’arme, il quale con grandi promesse mosse messer Galeotto da Rimini a venire al servigio del re con trecento cavalieri, e messer Ridolfo da Camerino con cento, a tutte loro spese, e ’l grande siniscalco messer Niccola Acciaiuoli di Firenze ne condusse e menò quattrocento al soldo del re, e con tutta questa cavalleria entrò in Abruzzi. E mandò al re, che con la sua forza e con quella de’ baroni del Regno, i quali il re avea richiesti e ragunati a Napoli, venisse là, come era ordinato, per vincere messer Currado Lupo, e racquistare le terre d’Abruzzi che di là si teneano per lo re d’Ungheria.

[236]

CAP. XXXIX. Come il re Luigi accolse i baroni del Regno e andò in Abruzzi.

Il re Luigi sentendo come il gran siniscalco avea con seco in Abruzzi que’ due buoni capitani con ottocento cavalieri di buona gente, fu molto contento, e avendo presa sicurtà che fra Moriale per la concordia ch’aveano non moverebbe guerra in Terra di Lavoro, si mosse da Napoli per mare, e capitò incontanente a Castello a mare del Volturno, e tutta sua gente a piè e a cavallo fece andare per terra da Pozzuolo e per lo Gualdo al detto Castello a mare, non fidando la gente sua per gli stretti passi d’Aversa e di Capua ch’erano in guardia di fra Moriale: e seguendo di là loro cammino, del mese d’ottobre del detto anno s’accozzò in Abruzzi con la cavalleria accolta per lo gran siniscalco: e fatta fare la mostra, si trovò con undicimila cavalieri e con grande popolo. Messer Currado Lupo avendo sentito l’oste che gli veniva addosso, e non avendo gente da potere uscire a campo, mise guardia nelle terre che teneva in Abruzzi e ordinolle alla difesa, e con cinquecento cavalieri tedeschi bene montati e buoni dell’arme si mise in Lanciano. Il re poco provveduto di quello che a mantenere oste bisognava, e povero di moneta, volendo usare l’aiuto degli amici che quivi avea si mise a oste a Lanciano; e dopo non molti dì, cavalcando messer Galeotto co’ suoi cavalieri intorno alla terra, messer Currado [237] Lupo uscì fuori con parte de’ suoi cavalieri e percosse i nimici, e danneggiò molto la masnada di messer Galeotto, e innanzi che dall’altra oste fosse soccorso si ritrasse in Lanciano a salvamento. Per questa cagione spaventato l’oste, considerando l’ardimento preso per li cavalieri di messer Currado, e che la terra di Lanciano era forte e bene guernita, e il verno veniva loro addosso, per lo migliore presono consiglio e levaronsi dall’assedio: e stando in dubbio di quello dovessono fare più dì, a messer Galeotto e a messer Ridolfo, non vedendo di poter fare utile servigio al re, rincrebbe lo stallo, presono congiò dal re e tornaronsi nella Marca, e i baroni del Regno feciono il simigliante. Il re con la sua gente invilito e quasi disperato avendo animo di volere entrare nell’Aquila, gli fu detto non se ne mettesse a pruova, perocchè non vi sarebbe lasciato entrare, e scoprirebbe nimico messer Lallo che gli si mostrava fedele; e così rimaso il re pieno di sdegno e voto di forza e d’avere, si tornò a Sulmona a mezzo dicembre del detto anno, e ivi s’arrestò per trarre da’ paesani alcuno sussidio, e per fare in quella terra la festa del Natale.

CAP. XL. Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che pasquavano con lui.

Vedendosi il re Luigi rotto da’ suoi intendimenti, e abbandonato del servigio degli amici, trovandosi a Sulmona povero, si ristrinse nell’animo, [238] e diede opera di volere fare in Sulmona gran festa per lo Natale, e fece a quella invitare quei gentiluomini e baroni circostanti che potè avere. I Sulmontini il providono di moneta e d’altri doni per aiuto alla festa. Ciascuno si sforzò di comparire bene a quella festa, e intra gli altri principali fu invitato messer Lallo, il quale governava il reggimento dell’Aquila, e conoscendo la sua coperta tirannia si dubitò d’andare al re, e infinsesi d’essere malato, e sotto questa scusa ricusò l’andare alla festa. Per fare più accetta la sua scusa al re elesse quindici de’ maggiori cittadini d’Aquila col suo fratello carnale, i quali portarono al re per dono da parte del comune dell’Aquila fiorini quattromila d’oro, e costoro mandò a festeggiare col re: e giunti a Sulmona furono ricevuti dal re graziosamente, nonostante che si turbasse perchè messer Lallo non v’era venuto. E fatto il corredo reale con piena festa, i cittadini dell’Aquila volendo prendere licenza dal re per tornare a casa furono ritenuti prigioni, della qual cosa il re fu forte biasimato di mal consiglio, parendo a tutti più opera tirannesca che reale. La novella corse in Aquila: il tiranno molto savio e buono parlatore raccolse il popolo, e con argomenti di sua savia diceria infiammò il popolo all’ingiuria, e mosselo all’arme e corse la terra, e ordinò la guardia come se il re con l’oste vi dovesse venire, ma il re non era atto a poterlo fare, e però si rimase, e messer Lallo più s’afforzò nella signoria.

[239]

CAP. XLI. Come papa Clemente sesto fe’ la pace de’ due re.

Stando il re Luigi in Sulmona maninconoso e quasi in disperazione di suo stato, considerando come in tutte cose la fortuna gli era avversa, e come con abbassamento di suo onore gli avea fatte fare cose non reali, ma di vile e mendace tiranno, e vedendosi povero e mal ubbidito, non sapeva che si fare, e parevagli per la baldanza presa pe’ suoi avversari ch’elli dovessono ristrignerlo o cacciare del Regno, e de’ suoi fatti da corte non avea potuto avere alcuna speranza o novella che buona fosse. Il papa Clemente in questo tempo era stato in una grande e grave malattia, nella quale rimorso da coscienza di non avere capitato il fatto tra i due re che gli era commesso, e di questo sostenere era seguito danno e confusione di molti, propuose nell’animo come fosse guarito di capitare quella questione senza indugio, e come fu sollevato mise opera al fatto; e per più acconcio di quello reame, vedendo che il re d’Ungheria avea l’animo al suo reame, ed era appagato della vendetta fatta del suo fratello, deliberò, poichè avea deliberato la reina, che messer Luigi fosse re: e questo pubblicò co’ suoi cardinali, e poi il mise a esecuzione, come appresso nel suo tempo racconteremo. La novella venne improvviso al re Luigi a Sulmona, della qual cosa fu molto allegro: e confortato nel fondo della sua fortuna da questa prosperità, di presente conobbe il suo [240] esaltamento per opera, che i baroni e’ comuni il cominciarono ad onorare e a vicitare con doni e grandi profferte come a loro signore: e tornato a Napoli con grandi onori, stette in festa più dì tutta la terra delle buone novelle. Lasceremo al presente alquanto de’ fatti del Regno sollecitandoci le novità di Toscana, delle quali prima ci conviene fare memoria, per non travalicare il debito tempo della nostra materia.

CAP. XLII. Come messer Piero Saccone prese il Borgo a san Sepolcro.

Avendo messer Piero Saccone de’ Tarlati a Bibbiena il conte Pallavicino con quattrocento cavalieri dell’arcivescovo di Milano, e cento di suo sforzo per fare guerra, e standosi e non facendola, faceva maravigliare la gente, ma egli nel soggiorno lavorava copertamente quello che prosperamente gli venne fatto. Il Borgo a san Sepolcro, terra forte e piena di popolo e di ricchi cittadini, e fornita copiosamente d’ogni bene da vivere, era nella guardia de’ Perugini con due casseri forniti alla guardia de’ castellani perugini e di gente d’arme. Messer Piero aveva appo se uno suo fedele che aveva nome Arrighetto di san Polo, questi era grande e maraviglioso ladro, e facea grandi e belli furti di bestiame, traendo i buoi delle tenute murate e guardate, e rompeva tanto chetamente le mura, che niuno il sentiva, e di quelle pietre rimurava le porti a’ villani [241] di fuori sì contamente, che prima aveva dilungate le turme de’ buoi, e tratte per lo rotto del muro due o tre miglia, che i villani trovandosi murate le porti, e impacciati dalle tenebre della notte e dalla novità del fatto, le potessono soccorrere; così n’avea fatte molte beffe, e accusatone di furto, messer Piero il difendea, e davagli ricetto in tutta sua giurisdizione. Questi saliva su per li cauti delle mura e delle torri co’ suoi lievi argomenti incredibilmente, e quanto che fossono alte non se ne curava, ed era dell’altezza maraviglioso avvisatore. Per costui fece messer Piero furare la forte e alta torre del castello di Chiusi alla moglie che fu di messer Tarlato. A costui scoperse messer Piero come volea furare il Borgo a Sansepolcro, e mandollo a provvedere l’altezza della torre della porta: il quale tornato disse, che gli dava il cuore di montare in su la più alta torre che vi fosse; e avuta messer Piero questa risposta, s’intese con uno de’ Boccognani del Borgo e grande ghibellino, il quale odiava la signoria de’ Perugini, e da lui ebbe, che se la porta e la torre fosse presa, e di fuori fosse forza di gente a cavallo e a piè grande, ch’egli con gli altri ghibellini d’entro verrebbono in loro aiuto a metterli dentro. E dato l’ordine tra loro, messer Piero con cinquecento cavalieri e duemila pedoni un sabato notte, a dì 20 del mese di novembre del detto anno, improvviso a’ Borghigiani, innanzi il dì fu presso al Borgo; e mandato Arrighetto con certi masnadieri eletti in sua compagnia a prendere la torre e la porta, il detto Arrighetto con suoi incredibili argomenti in quello servigio, cintosi corde, [242] e aiutato di non esser sentito per uno grande vento che allora soffiava, e avea ristrette le guardie sotto il coperto, montò in su la torre della porta, ed essendovi due sole guardie, si recò il coltello ignudo in mano, e mostrò d’avere compagnia, minacciandoli d’uccidere. Eglino storditi per la novità, non sapendo che si fare, stettono cheti per paura, e Arrighetto data la corda a’ masnadieri ch’erano a piè del muro, con una scala leggieri di funi tirò su l’uno de’ capi e accomandollo a uno de’ merli, e incontanente montati suso per quella l’uno appresso l’altro dodici masnadieri, e quando si vidono signori della porta, feciono a quelli traditori d’entro certo segno ordinato. Quello de’ Boccognani veduto il segno come la porta era presa, fece sonare a stormo una campana d’una chiesa, al cui suono, come ordinato avea, tutti i ghibellini del Borgo furono all’arme e traevano verso la porta. I guelfi che non sapeano il tradimento traevano storditi alla piazza senza niuno capo; e schiarito il dì, vedendo aperta e presa la porta per i ghibellini, e sentendo come messer Piero era di fuori con molta gente, non vedevano da potere riparare; ma i ghibellini non volendo guastare la terra sicurarono i guelfi che ruberia non vi si farebbe, e senza contasto vi lasciarono entrare messer Piero con tutta la sua gente e del conte Pallavicino, e non vi si diè colpo e non vi si fece alcuna ruberia: e così messer Piero ne fu signore; ma le due rocche che erano forti e guardate per li Perugini si misono alla difesa, per attendere il soccorso de’ Perugini. Messer Piero e il conte senza prendere soggiorno con tutta la sua gente [243] a cavallo e a piè uscirono del Borgo, e accamparonsi di fuori dirimpetto alle rocche per torre la via a’ Perugini, e fecionsi innanzi al loro campo fare un fosso di subito e uno steccato, e mandarono a tutte le terre dov’avea gente d’arme del signore di Milano che mandassero loro aiuto, e in pochi dì vi si trovarono con ottocento cavalieri e popolo assai. E per impedire a’ Perugini, Giovanni di Cantuccio d’Agobbio con la cavalleria che avea del Biscione cavalcò sopra loro: nondimeno i Perugini turbati di questa perdita, procacciarono da ogni parte aiuto per racquistare la terra, tenendosi i casseri, e di presente ebbono cinquecento cavalieri da’ Fiorentini: e con millequattrocento cavalieri e con grande popolo se ne vennono alla Città di Castello: e acconciandosi per soccorrere quelli de’ casseri, tanta viltà fu in coloro che gli aveano in guardia, che senza attendere il soccorso così vicino s’arrenderono a messer Piero; e incontanente quelli del castello d’Anghiari cacciarono la guardia che v’era de’ Perugini, e dieronsi al vicario dell’arcivescovo, ed egli lo rendè a messer Maso de’ Tarlati. In que’ dì il castello della Pieve a santo Stefano, e ’l Castello perugino, tenendosi mal contenti de’ Perugini, anche si rubellarono da loro.

CAP. XLIII. Come i Perugini arsono intorno al Borgo e sconfissono de’ nimici.

I Perugini avendo perduta la speranza di soccorrere le rocche, cavalcarono al Borgo, e arsonlo [244] intorno guastando tutte le possessioni, e già messer Piero e ’l conte Pallavicino non ebbono ardire d’uscire della terra contro a loro: e fatto il guasto, si tornarono alla Città di Castello. Messer Piero preso suo tempo, con tutta la cavalleria ch’avea nel Borgo cavalcò fino alle porti della Città di Castello: i cavalieri che v’erano dentro de’ Perugini, e singolarmente quelli de’ Fiorentini, ch’erano buona gente d’arme e bene montati, uscirono fuori perchè i nimici aveano a fare lunga ritratta, e seguitando i nimici quasi a mezzo il cammino, s’abbatterono in un grosso aguato: e ivi cominciò l’assalto aspro e forte, ove s’accolse la maggiore parte della gente di catuna parte senza fanti a piede; e ivi dando e ricevendo si fece aspra battaglia, e durò lungamente, perocchè catuno voleva mantenere l’onore del campo; e non avendo pedoni che l’impedissono, feciono i buoni cavalieri grande punga, e in fine per virtù di certi conestabili della masnada de’ Fiorentini, ristringendosi insieme, con impetuoso assalto ruppono la cavalleria di messer Piero, e a forza in isconfitta gli cacciarono del campo, e rimasono morti sessanta de’ loro cavalieri in sul campo e più cavalli, e presi sei de’ loro conestabili da’ cavalieri de’ Fiorentini, e messer Manfredi de’ Pazzi di Valdarno, e più altri cavalieri tedeschi e borgognoni, a’ quali tolsono l’arme e’ cavalli secondo l’usanza, e lasciaronli alla fede: e questo fu del mese di dicembre del detto anno.

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CAP. XLIV. D’una cometa ch’apparve in oriente.

In questo anno 1351, del detto mese di dicembre, si vide in prima in cielo a noi verso levante una cometa, la quale per li più fu giudicata Nigra, la quale è di natura saturnina. Il suo apparimento fu a noi all’uscita del segno del Cancro, e alcuni dissono ch’ella entrò nel Leone: ma innanzi che per noi si vedesse fuori del Cancro, fu fuori del verno, sicchè approssimandosi il Sole al Cancro se ne perdè la vista. Alcuni pronosticarono morte di grandi signori, ovvero per decollazione, e avvenimento di signorie. Noi stemmo quell’anno a vedere le novità che più singolari e grandi apparissono onde avere potessimo novelle, e in Italia e nel patriarcato d’Aquilea furono molte dicollazioni di grandi terrieri e cittadini, che lungo sarebbe a riducere qui i singulari tagliamenti. E mortalità di comune morte in questo anno non avvenne: ma per la guerra de’ Genovesi, e Veneziani e Catalani avvennono naufragii grandi, e mortalità di ferro grandissima in quelle genti e ne’ loro seguaci, e per i difetti sostenuti in mare non meno ne morirono tornando che combattendo. Avvenne in Italia singolare accidente al grano, vino e olio e frutti degli alberi, che essendo ogni cosa in speranza di grande ubertà, subitamente del mese di luglio si mosse una sformata tempesta di vento, che tutti gli [246] alberi pericolò de’ loro frutti, e i grani e le biade ch’erano mature battè e mise per terra con smisurato danno. Dappoi a pochi dì fu il caldo sì disordinato, che tutte le biade verdi inaridì e seccò. Per questo accidente avvenne, che dove s’aspettava ricolta fertile e ubertosa, fu generalmente per tutta Italia arida e cattiva. E avvennono in questi anni singulari diluvi d’acque, che feciono in molte parti gran danni, e gittò per tutta Italia generale carestia di pane e sformata di vino. In questo medesimo mese di dicembre apparve la mattina anzi giorno, a dì 17, un grande bordone di fuoco, il quale corse di verso tramontana in mezzodì. E in questo medesimo anno all’entrare di dicembre morì papa Clemente sesto, e alcuno de’ cardinali. Al nostro lieve intendimento basta di questi segni del cielo e delle cose occorse averne raccontato parte, lasciando agli astrolaghi l’influenza di quello che s’appartiene alla loro scienza, e noi ritorneremo alla più rozza materia.

CAP. XLV. Come fu preso il castello della Badia de’ Perugini, e come si racquistò.

Essendo i Perugini imbrigati nelle rubellioni delle loro terre per gli assalti de’ loro vicini, con la forza dell’arcivescovo di Milano, la quale di prima, come addietro narrammo, nel tempo che si cercò di fare lega con la Chiesa e co’ Lombardi, dicevano che non si potea stendere a [247] loro, due conestabili di fanti a piè cittadini sbanditi di Firenze, partendosi dal soldo del tiranno d’Agobbio co’ loro compagni, di furto entrarono nel castello della Badia, grosso castello, il quale era de’ Perugini, e cominciarono a correre e predare le villate vicine con l’aiuto di Giovanni di Cantuccio signore d’Agobbio. I Perugini vi mandaro certe masnade di cavalieri che aveano di Fiorentini e altra gente a piè: costoro vi si puosono a oste del mese di gennaio. Giovanni di Cantuccio con la cavalleria ch’avea dell’arcivescovo di Milano e co’ suoi fanti a piè, essendo tre cotanti di cavalieri e di fanti che quelli de’ Perugini, andarono per levarli da campo e fornire il castello. Un conestabile tedesco delle masnade de’ Fiorentini valente cavaliere, ch’avea nome M... si fece incontro a’ nimici a un ponte onde conveniva ch’e’ nimici venissono, e francamente li ritenne, tanto che l’altra cavalleria de’ Perugini ch’era alla Città di Castello venne al soccorso del passo: e giunti, valicarono il ponte, e per forza cacciarono l’oste di Giovanni di Cantuccio in rotta, e presono cento e più de’ cavalieri del Biscione: e tornati al castello, i masnadieri che ’l teneano, vedendosi fuori di speranza di avere soccorso, il renderono a’ Perugini, salvo le persone e l’arme, a dì 6 del detto mese di gennaio.

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CAP. XLVI. Come i Fiorentini cercarono lega co’ comuni di Toscana, e accrebbono loro entrata.

Temendo il comune di Firenze la gran potenza del signore di Milano, fornito della compagnia de’ ghibellini d’Italia, con suoi ambasciadori smosse i Perugini Sanesi e Aretini a parlamento alla città di Siena, del mese di dicembre del detto anno, e ivi composono lega e compagnia di tremila cavalieri e di mille masnadieri, contra qualunque volesse fare guerra a’ detti comuni o ad alcuno di quelli; e incontanente il comune di Firenze si fornì di cavalieri e di masnadieri di più assai che in parte della lega non li toccava. E per avere l’entrata ordinata a mantenere la spesa elessono venti cittadini, con balìa a crescere l’entrata e le rendite del comune, i quali commutarono il disutile e dannoso servigio de’ contadini personale in danari, compensandoli che pagassono per servigio di cinque pedoni per centinaio del loro estimo per rinnovata dell’anno, a soldi dieci il dì per fante: e questo pagassono in tre paghe l’anno, e fossono liberi dell’antico servigio personale: o quando per necessità occorresse il bisogno del servigio personale, scontassono di questo. E questa entrata secondo l’estimo nuovo montò l’anno cinquantaduemila fiorini d’oro, e fu grande contentamento de’ condannati. E a’ cherici ordinarono certa taglia per aiuto e guardia e alla difesa della città e del contado, la quale stribuirono [249] e raccolsono i loro prelati, e montò fiorini ... d’oro; e raddoppiarono e crebbono più gabelle, per le quali entrate il comune potè spendere l’anno trecentosessantamila fiorini d’oro. E oltre a ciò ordinarono e distribuirono tra’ cittadini la gabella de’ fumanti, la quale nel fatto fu per modo di sega, che catuno capo di famiglia fu tassato in certi danari il dì per modo, che raccogliendosi il numero montava fiorini d’oro centoquaranta il dì: poi per ogni danaro che l’uomo avea di sega, fu recato in estimo di soldi trenta; e questa gabella montava l’anno fiorini cinquantamila d’oro: e quando il comune aveva necessità, riscoteva questa gabella per avere i danari presti, e assegnavali alla restituzione di certe gabelle. Per queste sformate gravezze, avendo carestia generale delle cose da vivere, era la città e il contado in assai disagio, forse meritevolmente per la dissoluta vita, e’ disordinati e non leciti guadagni de’ suoi cittadini.

CAP. XLVII. Come i Romani feciono rettore del popolo.

In questo anno essendo per lo corso stato a Roma del general perdono arricchito il popolo, i loro principi e gli altri gentilotti cominciarono a ricettare i malandrini nelle loro tenute, che facevano assai di male, rubando, e uccidendo, e conturbando tutto il paese. Senatore fu fatto Giordano dal Monte degli Orsini, il quale reggeva l’uficio con poco contentamento de’ Romani. E [250] per questa cagione gli fu mossa guerra a un suo castello, per la quale abbandonò il senato. Il vicario del papa ch’era in Roma, messer Ponzo di Perotto vescovo d’Orvieto, uomo di grande autorità, vedendo abbandonato il senato, con la famiglia che aveva, in nome del papa entrò in Campidoglio per guardare, tanto che la Chiesa provvedesse di senatore. Iacopo Savelli della parte di quelli della Colonna accolse gente d’arme, e per forza entrò in Campidoglio e trassene il vicario del papa, e Stefano della Colonna occupò la torre del conte, e la città rimase senza governatore, e catuno facea male a suo senno perocchè non v’era luogo di giustizia. E per questo il popolo era in male stato, la città dentro piena di malfattori, e fuori per tutto si rubava. I forestieri e i romei erano in terra di Roma come le pecore tra’ lupi: ogni cosa in rapina e in preda. A’ buoni uomini del popolo pareva stare male, ma l’uno s’era accomandato all’una parte, e l’altro all’altra di loro maggiori, e però i pensieri di mettervi consiglio erano prima rotti che cominciati: e la cosa procedeva di male in peggio di dì in dì. Ultimamente non trovando altro modo come a consiglio il popolo si potesse radunare, il dì dopo la natività di Cristo, per consuetudine d’una compagnia degli accomandati di Madonna santa Maria, s’accolsono avvisatamente molti buoni popolani in santa Maria Maggiore, e ivi consigliarono di volere avere capo di popolo: e di concordia in quello stante elessono Giovanni Cerroni antico popolare de’ Cerroni di Roma, uomo pieno d’età, e famoso di buona vita. E così fatto, tutti [251] insieme uscirono della chiesa e andarono per lui, e smosso parte del popolo, il menarono al Campidoglio ov’era Luca Savelli. Il quale vedendo questo subito movimento non ebbe ardire di contastare il popolo, ma dimandò di loro volere: ed e’ dissono che voleano Campidoglio, il quale liberamente diè loro; ed entrati dentro sonarono la campana: il popolo trasse al Campidoglio d’ogni parte della città senza arme, e i principi con le loro famiglie armati, ed essendo là, domandarono la cagione di questo movimento e quello che ’l popolo volea: il popolo d’una voce risposono che voleano Giovanni Cerroni per rettore, con piena balía di reggere e governare in giustizia il popolo e comune di Roma. E consentendo i principi all’ordinazione del popolo, di comune volontà fu fatto rettore; e mandato per lo vicario del papa che lo confermasse, come savio e discreto volle che prima giurasse la fede a santa Chiesa, e d’ubbidire i comandamenti del papa, e ricevuto di volontà del popolo il saramento dal rettore, il confermò per quell’autorità che aveva: e tutto fu fatto in quella mattina di santo Stefano, innanzi ch’e’ Romani andassono a desinare. E lasciato il rettore in Campidoglio, catuno si tornò a casa con assai allegrezza di quello ch’era loro venuto fatto così prosperamente.

[252]

CAP. XLVIII. Di una lettera fu trovata in concistoro di papa.

Essendo per lo papa e per i cardinali molto tratto innanzi il processo contro al’arcivescovo di Milano, una lettera fu trovata in concistoro, la quale non si potè sapere chi la vi recasse, ma uno de’ cardinali la si lasciò cadere avvisatamente in occulto: la lettera venne alle mani del papa, e la fece leggere in concistoro. La lettera era d’alto dittato, simulata da parte del principe delle tenebre al suo vicario papa Clemente e a’ suoi consiglieri cardinali: ricordando i privati e comuni peccati di catuno, ne’ quali li commendava altamente nel suo cospetto, e confortavali in quelle operazioni, acciocchè pienamente meritassono la grazia del suo regno: avvilendo e vituperando la vita povera e la dottrina apostolica, la quale come suoi fedeli vicari eglino aveano in odio e ripugnavano, ma non ferventemente ne’ loro ammaestramenti come nell’opere, per la qual cosa li riprendeva e ammoniva che se ne correggessono, acciocchè li ponesse per loro merito in maggiore stato nel suo regno. La lettera toccò molto e bene i vizi de’ nostri pastori di santa Chiesa, e per questo molte copie se ne sparsono tra’ cristiani. Per molti fu tenuto fosse operazione dell’arcivescovo di Milano allora ribello di santa Chiesa, potentissimo tiranno, acciocchè manifestati i vizi de’ pastori si dovessono più tollerare i suoi difetti, manifesti [253] a tutti i cristiani. Ma il papa e i cardinali poco se ne curarono, come per innanzi l’operazioni si dimostreranno.

CAP. XLIX. Come il re d’Inghilterra essendo in tregua col re di Francia acquistò la contea di Guinisi.

Avvenne in questo anno, che un Inghilese prigione nella forte rocca di Guinisi, la quale era del re di Francia, essendo per ricomperarsi, avea larghezza d’andare per la rocca, e così andando, provvide l’ordine delle guardie e l’altezza d’alcuna parte della rocca ond’ella si potesse furare. E pagati i danari della sua taglia, fu lasciato; e trovatosi con alquanti sergenti d’arme, suoi confidenti, disse ove potesse avere il loro aiuto gli farebbe ricchi. E presa fede da loro manifestò come intendea furare la rocca di Guinisi, e avea provveduto come fare il poteva, i quali arditi e volonterosi di guadagnare promisono il servigio: ed essendo tra tutti cinquanta sergenti bene armati, avendo scale fatte alla misura del primo procinto, una notte in su l’ora che l’Inghilese sapea che la guardia della mastra fortezza vi si rinchiudea dentro, condotte le scale al muro chetamente montarono sopra il primo procinto: e sorprese le guardie, per non lasciarsi uccidere si lasciarono legare, e così legati gli faceano rispondere all’altre guardie della rocca. Quando venne in sul fare del dì gl’Inghilesi feciono alle [254] guardie muovere riotta, e fare romore tra loro in modo di mischia. Il castellano sentendo questo tra le guardie, mostrando non avere sospetto scese della rocca, e aprendo l’uscio per venire a correggere le guardie, gl’Inghilesi apparecchiati nell’aguato, immantinente con l’armi ignude in mano furono sopra lui, e presono l’uscio ed entrarono nella rocca, e presono il castello e le guardie. E incontanente mandarono al re d’Inghilterra come aveano presa la forte rocca di Guinisi, la quale il re molto desiderava. E di presente vi mandò gente d’arme e fecela prendere e guardare, e commendata la valenza e l’industria del suo fedele e degli altri scudieri fece loro onore e provvidegli magnificamente. E per questa rocca fu il re d’Inghilterra in tutto signore della contea di Guinisi, e il re di Francia forte conturbato. E avvegnachè questa presura andasse per la forma che è detto, e’ si trovò poi che il castellano avea consentito al tradimento, e tornato di prigione, essendo lasciato, in Francia fu squartato.

CAP. L. Il piato fu in corte tra’ due re per la contea di Guinisi.

Essendo furata la contea di Guinisi al re di Francia sotto la confidanza delle triegue, trasse in giudicio il re d’Inghilterra a corte di Roma per suoi ambasciadori, dicendo che sotto la fede delle triegue prestata il re d’Inghilterra gli avea tolto per furto la rocca, e la contea occupata per forza. [255] Per la parte del re d’Inghilterra fu risposto, che avendo per suo prigione il conte di Guinisi conestabile di Francia preso in battaglia, e dovendosi riscattare per lo patto fatto della sua taglia scudi ottantamila d’oro, o in luogo di danari la detta contea di Guinisi, e lasciato alla fede acciocchè procacciare potesse la moneta, il re di Francia appellandolo traditore, per non averlo a ricomperare, o acconsentirgli la contea di Guinisi il fece dicollare: e così contro a giustizia privò il re d’Inghilterra delle sue ragioni, le quali giustamente avea racquistate. La quistione fu grande in concistoro, e pendeva la causa in favore del re di Francia, e però innanzi che sentenza se ne desse, il re fece restituire la terra di Guinisi a quell’Inghilese che data glie l’avea; e seguendo la morte di papa Clemente non ne seguì altra sentenza.

CAP. LI. Come l’arcivescovo di Milano ragunò i suoi soldati per rifare guerra a’ Fiorentini.

In questo tempo del verno, avendo l’arcivescovo di Milano fatte rivedere e rassegnare le sue masnade tornate da Firenze, trovò ch’aveva a fare ammenda di bene milledugento cavalli. E turbato forte nel suo furore, propose di fare al primo tempo maggiore e più aspra guerra a’ Fiorentini. E trovando che avea consumato senza acquisto grande tesoro, volendolo rifare senza mancare la sua generale entrata, fece nuova colta in Milano e in tutte [256] le sue terre per sì grave modo, che tutti i mercatanti si ritrassono delle loro mercatanzie nelle sue terre: nondimeno a catuno convenne portare la soma che gli fu imposta; per la quale gravezza accrebbe cinquecento migliaia di fiorini d’oro sopra le sue rendite ordinarie in piccolo tempo. In queste oppressioni molti parlavano biasimando l’impresa contro al comune di Firenze, e rimproveravano quello che avea fatto loro il vile castelletto della Scarperia per provvisione del comune di Firenze, essendovi intorno la forza de’ Lombardi e de’ ghibellini di Toscana. E in tra gli altri un cavaliere bresciano di grande età, amico e fedele alla casa de’ Visconti, biasimò l’impresa, dicendo semplicemente il vero, come aveva ricordo di lungo tempo, che qualunque signore avea impreso di far guerra al comune di Firenze n’era mal capitato, però per amore che aveva al suo signore non lodava l’impresa. Le parole del cavaliere furono rapportate all’arcivescovo; il tiranno inacerbito, non considerando la fede dell’antico cavaliere, seguitando l’impetuoso furore del suo animo, mandò per lui. E venuto nella sua presenza, il domandò s’egli aveva usate quelle parole. Il cavaliere disse, che dette l’avea per grande amore e fede ch’avea alla sua signoria, ricordandosi dell’imperadore Arrigo, e dell’impresa di messer Cane della Scala e degli altri che non erano bene capitati. Il tiranno infiammato nel suo disordinato appetito, di presente fece armare un suo conestibile con la sua masnada, e accomandogli il cavaliere, e disse il rimenasse in Brescia, e in su l’uscio della sua casa gli facesse tagliare la testa, [257] e così fu fatto. Costui per la sua fede degno di premio e per l’utile consiglio ricevette pena, la quale soddisfece colla sua testa all’appetito del turbato tiranno.

CAP. LII. Come i Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi mandarono ambasciadori a corte.

Stando le città di Toscana in gran tema di futura guerra, i comuni della lega di parte guelfa mandarono al papa e a’ cardinali solenne ambasciata, a inducere la Chiesa contro alla grande tirannia dell’arcivescovo di Milano per aggravare il processo che contro a lui si faceva, e procurare l’aiuto e il favore di santa Chiesa alla loro difesa. Gli ambasciadori furono ricevuti dal papa e da’ cardinali graziosamente. Ma innanzi che questi ambasciadori fossono a corte, l’arcivescovo v’avea mandati i suoi, per riconciliarsi colla Chiesa, e fare annullare il processo fatto contro a lui per l’impresa di Bologna, i quali ambasciadori erano forniti di molti danari contanti per spendere e donare largamente; e facendolo con molta larghezza aveano il favore del re di Francia, che faceva parlare per lui, e quello di molti cardinali, e de’ parenti del papa e della contessa di Torenna, per cui il papa si movea molto alle gran cose. E il papa medesimo avea già l’ingiuria fatta a santa Chiesa per l’arcivescovo della tolta di Bologna temperata, ed era disposto a prendere accordo coll’arcivescovo: e [258] per questo fu molto più contento della venuta degli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana, credendo fare l’accordo dell’arcivescovo di loro volontà; perocchè nel primo parlamento disse agli ambasciadori: eleggete delle tre cose che io vi proporrò l’una, quale più vi piace, o volete pace coll’arcivescovo, o volete lega colla Chiesa, o volete la venuta dell’imperadore in Italia per vostra difesa. L’offerte furono larghe per conchiudere alla pace che parea più abile e migliore. Gli ambasciadori savi e discreti di concordia rimisono la detta elezione nel papa, a fine di farlo più pensare nel fatto dandoli gravezza, dimostrando grande confidanza nella deliberazione. E così cominciata la cosa a praticare ebbono tempo e cagione gli ambasciadori d’avvisare i loro comuni, e in questo si soggiornò la maggior parte del verno senza uscirne alcun frutto. Lasceremo alquanto gli ambasciadori e ’l processo del papa, e torneremo agli altri fatti che occorsono in questo soggiorno, rendendo a catuno suo diritto.

CAP. LIII. Come l’ammiraglio di Damasco fece novità a’ cristiani.

In questo tempo l’ammiraglio del soldano che reggeva la gran città di Damasco si pensò di trarre un gran tesoro da’ cristiani di Damasco per sua malizia, e una notte fece segretamente mettere fuoco in due parti della città, il quale fece in Damasco grave danno. Spento il fuoco, l’ammiraglio [259] fece apporre che questo era stato avvistatamente messo pe’ cristiani, e richiese i più ricchi cristiani della città, che ve n’avea assai, e feceli martoriare, e per martorio confessarono che fatto l’aveano a fine di cacciare i saracini: e coloro che di questo pericolo vollono campare la vita gli dierono danari assai; e tanti furono coloro che si ricomperarono, che l’ammiraglio ne trasse gran tesoro: agli altri diede partito o che rinnegassono la fede di Cristo o che morissono in croce. Una gran parte di loro per corrotta fede rinnegò per campare; rimasonne ventidue, i quali diliberarono di morire in croce, innanzi che la perfetta fede di Cristo volessono rinnegare. E però il crudele ammiraglio li fece mettere in sulle croci, e ordinolli in suso i cammelli che li conducessono per la terra, e in questo tormento vivettono tre dì. Ed era menato il padre crocifisso innanzi al figliuolo, e il figliuolo innanzi al padre rinnegato; e i rinnegati con pianto e con preghiere pregavano i crocifissi che volessono campare la crudele morte e tornare alla fede di Maometto; ma i costanti fedeli, il padre spregiava il figliuolo rinnegato, dicendo che non era suo figliuolo, e il figliuolo il padre rinnegato, dicendo che non era suo padre, ma del nimico che ’l volea tentare e torli i beni di vita eterna: e molto biasimavano a’ rinnegati la loro incostanza per la paura della pena temporale, dicendo che a loro era diletto e gran grazia potere seguitare Cristo loro redentore. E così consumate le loro temporali vite in grave tormento e in grandissima costanza, nella veduta per tre dì de’ saracini e de’ cristiani, renderono l’anime a Dio. [260] Il soldano sentì il movimento reo del suo ammiraglio, mandò incontanente per lui, e fecelo tagliare per mezzo.

CAP. LIV. Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello.

In questo medesimo tempo, di verno, i Fiorentini mandarono certi loro cittadini per lo contado a provvedere le loro castella e terre, a fine di afforzare le parti deboli, e fornire le terre di ciò ch’alla difesa mancasse per averle guernite, sopravvenendo la guerra che s’aspettava del Biscione. Avvenne, come è usanza del nostro comune, acciocchè il buon consiglio non fosse senza difetto di singolare ovvero cittadinesco odio, che nel Mugello furono per loro fatte disfare alquante tenute forti e utili alla difesa di quello contado per modo, che dove state non vi fossono, era utile consiglio a porlevi di nuovo. E feciono abbattere Barberino, Latera, Gagliano e Marcoiano, ch’erano al Mugello mura contra i nimici di verso Montecarelli, e di Montevivagni e delle terre degli Ubaldini, ove in que’ tempi si faceva capo pe’ nimici a fare guerra al nostro comune, le quali tenute con piccola spesa d’afforzamento erano gran sicurtà a tutto il Mugello, per le cui rovine s’accrebbe campo a’ nimici senza contasto di più di sei miglia di nostro contado, il quale tutto s’abbandonò, a danno e vergogna del nostro comune. Riprensione comune ne seguitò a coloro che così [261] mala provvisione feciono, altro gastigamento no, per la corrotta usanza del comune di Firenze di non punire le cose mal fatte, nè meritare le buone.

CAP. LV. Come la Scarperia fu furata e racquistata.

Facendo il comune di Firenze con molta sollecitudine afforzare il castello della Scarperia di grandi fossi e di forti palancati, il tiranno e gli Ubaldini con ogni sottigliezza d’inganno tentavano di procacciare ridotto nel Mugello, e sopra tutto di levarsi l’onta della Scarperia, e continovo cercavano come la potessono furare: per la qual cosa corruppono più loro fedeli mandandoli per essere manovali, come se fossono Mugellesi, e alcuno maestro. E messi al lavorio del votare il fosso, del quale si portava la terra al palancato per alzare la parte dentro, costoro provvidono la via onde la terra si portava: e segretamente tra le due terre segarono alcuni legni del palancato, e dierono la posta agli Ubaldini: i quali di presente feciono scendere gente a cavallo e a piè a Montecarelli, e alla Sambuca, e a Pietramala, e nell’alpe e nel Podere, per dare diversi riguardi a’ Fiorentini, e seppono come pochi dì innanzi i soldati che guardavano la Scarperia aveano fatto mischia co’ terrazzani, e mortine parecchi, onde tra’ terrazzani e’ forestieri era sconfidanza grande. La notte che ordinata fu a questo servigio scesono dell’alpe e da Montecarelli nel piano di Mugello duemilacinquecento fanti, e quattro bandiere [262] di cento cavalieri a guida degli Ubaldini. Costoro elessono dugentocinquanta i più pregiati briganti di tutta quella gente con dieci bandiere, e conestabili molto famosi d’arme, e lasciati gli altri fanti e cavalieri riposti ivi presso per loro soccorso, chetamente guidati per la via provveduta del fosso dalla parte di Sant’Agata, e senza esser sentiti, entrarono tutti nella Scarperia a dì 17 di gennaio del detto anno: e stretti insieme si condussono in su la piazza, gridando, muoiano i forestieri, e vivano i terrazzani. E in quella notte non avea nella Scarperia tra forestieri e terrazzani centocinquanta uomini d’arme, sicchè al tutto n’erano signori i nimici. Sentendo questo romore nella scurità della notte i soldati forestieri, credettono che i terrazzani li volessono offendere, e non ardivano d’uscire delle case, e i terrazzani temeano de’ soldati, pensando che fosse in su la piazza inganno, e non voleano uscire fuori, e così i nimici non aveano contasto; e dove Iddio per singolar grazia non avesse liberato quella terra, senza speranza di soccorso umano era perduta. Ma la volontà di Dio fu, che la grande potenza del tiranno non avesse quello ridotto a consumazione del nostro paese; onde a coloro ch’aveano presa la terra, e che aveano presso a un miglio tutta la loro gente tolse l’accorgimento, che non lasciassono guardia al passo ond’erano entrati, e non feciono il segno ordinato a quelli di fuori; e diede Iddio baldanza manifesta a que’ d’entro e accorgimento, perocchè per la vista scura i terrazzani conobbono all’insegne che coloro dalla piazza erano nemici: e incontanente assicurarono [263] i conestabili de’ forestieri che v’erano, per paura che quella gente nè quelle grida non erano per loro fattura, ma de’ nimici ch’erano nella terra. Come i valenti masnadieri sentirono la verità del fatto, ragunati insieme meno di cinquanta tra terrazzani e forestieri, gridando alla morte alla morte, sì fedirono tra’ nimici, che lungamente erano stati ammassati in su la piazza, e nel primo assalto senza fare resistenza li ruppono, cacciandoli come se fossono stati altrettanti montoni; e senza attendere l’uno l’altro, affrettando d’uscire per lo luogo stretto ond’erano entrati, e’ cadeano nel fosso, e voltolavansi per quelle ripe. Que’ d’entro erano pochi, e però non ve ne poterono uccidere più di cinque, e dodici ne ritennono a prigioni, tra’ quali furono conestabili di pregio, che ’l signore avrebbe ricomperati molti danari, ma tutti furono impiccati. Que’ di fuori che attendeano il segno per entrare dentro sentendo la tornata in rotta, senza attendere il giorno chiaro, innanzi che la novella si spandesse per il Mugello, si ricolsono nell’alpe a salvamento; e così in una notte fu presa e liberata la Scarperia con dubbia e maravigliosa fortuna.

CAP. LVI. Come messer Piero Sacconi cavalcò con mille barbute infino in su le porte di Perugia.

Del mese di febbraio del detto anno, cresciuta gente d’arme a messer Piero Sacconi de’ Tarlati dall’arcivescovo di Milano, trovandosi baldanzoso [264] per la presa del Borgo a san Sepolcro e delle terre vicine, e trovando i signori di Cortona ch’aveano rotta pace a’ Perugini, ed eransi collegati col Biscione, se n’andò a Cortona con mille cavalieri, e da’ Cortonesi ebbono il mercato e gente d’arme, con la quale cavalcò sopra il contado di Perugia, ardendo e predando le ville d’intorno al lago; e per forza presono Vagliano e arsonlo, e combatterono Castiglione del Lago e non lo poterono avere; e partiti di là se n’andarono fino presso a Perugia facendo grandissimi danni. E non essendo i Perugini in concio da potere riparare a’ nemici, fatta grande preda, senza contasto si ritornarono a Cortona sani e salvi, e di là al Borgo a san Sepolcro, onde partirono e venderono la loro preda. Per questa cagione grande sdegno presono i Perugini contro a’ signori di Cortona, ma la baldanza dell’arcivescovo gli aveva sì gonfiati di superbia, che non si curavano rompere pace nè fare ingiuria a’ loro vicini, per la qual cosa poco appresso ricevettono quello che aveano meritato per la loro follia, come ne’ suoi tempi racconteremo.

CAP. LVII. Come i Chiaravallesi di Todi vollono ribellare la terra e furono cacciati.

Questa sfrenata baldanza de’ ghibellini di Toscana e della Marca per la forza del Biscione facea gravi movimenti, tra’ quali, mentre che messer Piero Sacconi guastava e predava il contado [265] di Perugia, i Chiaravallesi grandi cittadini di Todi, d’animo ghibellino, feciono venire il prefetto di Vico con trecento cavalieri subitamente per metterlo in Todi, e cacciarne i caporali guelfi che s’intendeano co’ Perugini; ed essendo il prefetto con la detta cavalleria già presso alla città di Todi, il popolo e’ guelfi scoperto il trattato de’ Chiaravallesi, di subito presono l’arme e corsono sopra i traditori: i quali essendosi più fidati alla venuta del prefetto che provveduti d’aiuto dentro all’assalto del popolo, non ebbono forza a ributtarlo, ma francamente sostennono la battaglia, consumando il rimanente del dì nella loro difensione. I Perugini che tosto sentirono la novella vi cavalcarono prestamente, sicchè la notte furono alla porta. Il popolo per metterli nella terra spezzarono una porta, che già non erano signori d’aprirla, ed entrati i Perugini in Todi, e fatto giorno, i Chiaravallesi furono costretti d’uscire della città co’ loro seguaci, e fuggendo trovarono assai di presso il prefetto colla sua gente che veniva a loro stanza, i quali co’ cacciati insieme vituperosamente si tornarono indietro, e la città rimase a più fermo stato di popolo e di parte guelfa col favore de’ Perugini in suo riposo.

CAP. LVIII. Come que’ da Ricasoli rubellarono Vertine a’ Fiorentini.

Era in questi dì questione non piccola tra’ consorti della casa da Ricasoli per cagione della pieve [266] di san Polo di Chianti, che essendo il piovano in decrepita età ammalato, temendo i figliuoli d’Arrigo e il Roba da Ricasoli, che per maggioranza dello stato messer Bindaccio da Ricasoli e’ figliuoli non occupassono la detta pieve, pervennono ad accuparla contro la riformagione del comune di Firenze, onde furono condannati nella persona a condizione; il Roba ubbidì, e fu prosciolto: i figliuoli d’Arrigo, avvegnachè restituissono al comune la possessione, non essendo loro attenuto quello che però fu loro promesso dal comune, rimasono in bando; e sdegnati di questa ingiuria, sapendo che molta roba de’ loro consorti era ridotta nel castello di Vertine, accolsono centocinquanta fanti masnadieri, ed entrarono nel castello, che non si guardava, e di presente l’afforzarono: e corsono per le villate d’attorno, e misono nel castello molta roba, e gli abituri e case de’ loro consorti arsono e guastarono. Il comune di Firenze vi feciono cavalcare il podestà con certe masnade di cavalieri e di pedoni, stimando che contro al comune non facessono resistenza: ma i giovani trovandosi in luogo forte e bene guerniti, e la forza del Biscione di presso, di cui il comune forte temeva, e favoreggiati da Giovanni d’Ottolino Bottoni de’ Salimbeni di Siena, pensarono di tenere il castello per forza, tanto che il comune di Firenze per riaverlo farebbono la loro volontà: e però si misono a ribellione. E alla loro follia aggiunse il tempo aiuto, che all’entrata di febbraio caddono nevi grandissime l’una dopo l’altra, che stettono sopra la terra oltre all’usato modo tutto il detto mese per tale maniera, [267] che tale era a cavalcare il contado di Firenze come le più serrate alpi. Lasceremo Vertine tra le nevi nella sua ribellione, traendoci altra maggiore materia in prima a raccontare.

CAP. LIX. Come i Veneziani e’ Catalani furono sconfitti in Romania da’ Genovesi.

Avendo in parte narrato lo sboglientamento delle guerre e delle seduzioni italiane, benchè ci partiamo del paese, ci accade a raccontare le marine battaglie che gl’Italiani medesimi feciono in Romania tra loro. Era l’armata de’ Genovesi di sessantaquattro galee presso a Pera sopra il passo di Turchia, e ivi stavano per riguardo che l’armata de’ Veneziani e Catalani non passassono in Costantinopoli, acciocchè non si aggiugnessono forza dall’imperadore ch’era in lega con loro. I Veneziani e’ Catalani avendo soggiornato gran parte del verno a Modone e Corone in Turchia, e riparate loro galee, si trovarono con sessantasette galee bene armate, e con aiuto di molti legni e barche armate di loro sudditi e di certi Turchi, avendo volontà d’essere a Costantinopoli, dove s’accrescerebbe la loro forza e per mare e per terra, senza attendere che il verno valicasse si misono a navicare verso Costantinopoli, a intenzione di combattere co’ Genovesi se impedire gli volessono. I Genovesi con le sessantaquattro galee armate, avendo per ammiraglio messer Paganino Doria, e stando solleciti alla guardia per [268] attendere i loro nemici, mandarono a dì 7 di febbraio due galee a Gallipoli per avere lingua di loro nemici, e quel dì trovarono che l’armata de’ Veneziani e Catalani entravano all’isola de’ Principi. Come i Genovesi ebbono questa novella si mossono per andare loro incontro, e per forza d’impetuoso vento furono portati indietro al porto di san Dimitrum verso Peschiera, dove stettono fino al lunedì, a dì 13 di febbraio. E partiti di là con grande fatica, tornarono al passo di Turchia. In questo mezzo tornarono le due galee con festa ch’aveano seguita una galea de’ Veneziani e aveanla fatta dare in terra, e campati gli uomini, la galea aveano arsa e profondata; allora tutte le galee insieme si misono da capo per andare contro a’ nemici, e poco avanzato di mare per lo contrario tempo, scopersono alla uscita di Principi l’armata de’ Veneziani e Catalani che facevano la via verso Grecia con grosso mare e molto vento in poppa. I Catalani e’ Veneziani com’ebbono scoperti i loro nimici genovesi, si dirizzarono verso loro colle vele piene per combattere, conoscendo il vantaggio che aveano per l’aiuto del vento e del mare, e passare in Costantinopoli a loro contradio. I Genovesi veggendosi venire addosso i nimici con le vele piene si ristrinsono insieme sopra la Turchia, e ritennonsi da parte a modo d’una schiera, per cessare e lasciare passare l’impeto de’ nimici, temendo della percossa delle loro galee aiutate dalla forza del vento e del mare. E come le galee veneziane e catalane passando vennono al pari delle poppe delle galee de’ Genovesi, i Genovesi si sforzarono [269] per ingegni e per forza d’arme traversarne e ritenerne alcuna, ma non ebbono podere, tanto era forte il corso di quelle. E così i Veneziani e’ Catalani con le loro galee e co’ loro navili armati valicarono a Valanca lasciandosi addietro l’armata de’ Genovesi, e aggiuntosi otto galee armate di gente greca dell’imperadore di Costantinopoli, si trovarono settantacinque galee e molti legni armati. Le sessantaquattro galee de’ Genovesi per lo traversare che aveano voluto fare, avendo i marosi e ’l vento contrario, erano scerrate e sparte, e vedendosi disordinati, e con gli avversari passati, intendeano a raccogliersi insieme senza seguire i nimici per riducersi nel porto di san Dimitrum. I Veneziani e’ Catalani che si trovarono valicati per forza, e accresciuta la loro potenza, vedendo che i Genovesi non veniano verso di loro, e ch’aveano le galee sparte e male ordinate a potere sostenere la battaglia, presono subitamente partito di tornare loro addosso sperando avere piena vittoria. E dato il segno a tutta l’oste, si dirizzarono per forza di remi, avendo il mare contradio, a venire sopra le galee de’ Genovesi, le quali non erano ancora potute raccogliersi insieme. Ma vedendo che tutto lo stuolo de’ Veneziani, e Catalani e Greci erano rivolti per venire loro addosso, catuna parte della loro armata, secondo che le galee genovesi si trovarono insieme, non potendosi ristrignere nè raccozzarsi al loro ammiraglio, come uomini di grande cuore e ardire s’ordinarono alla loro difesa, sempre avendo riguardo e dando opera d’accostarsi al loro capitano, ma la traversa del mare [270] e la fortuna forte l’impediva. L’ammiraglio a tutte le galee che avea appresso di se fece trarre l’ancore, e ritrarsi alquanto fuori delle grosse maree, e dirizzossi contro a’ suoi nimici con la sua galea grossa e con sette altre che avea in sua compagnia; e date le prode contro a’ nimici, feciono testa. Il capitano delle galee veneziane e quello delle catalane, con seguito di gran parte della loro armata, si trassono innanzi, avendo contrario il mare, per assalire i loro nimici. I Genovesi vedendoli venire, mandarono loro incontro due delle loro galee sottili per assaggiarle con le loro balestra, e cominciare lo stormo a modo di badalucco. Il capitano de’ Catalani s’avanzò innanzi, e quello de’ Veneziani appresso, per investire la galea dell’ammiraglio de’ Genovesi, ma trovandole serrate e bene in concio, non le investirono, e non si afferrarono con loro, o per codardia, o per maestria di tramezzare l’altre galee de’ Genovesi innanzi che si raccogliessono al loro ammiraglio: ma dietro a loro tre grosse de’ Veneziani si misono a combattere la galea dell’ammiraglio di Genova, e l’altre galee contro quelle ch’erano in diverse parti del mare; e cominciata da ogni parte l’aspra battaglia tra l’una armata e l’altra, le due grosse de’ Veneziani si misono per proda e una per banda a combattere la sopra galea dell’ammiraglio de’ Genovesi. Quivi fu lunga e aspra e grande battaglia, perocchè d’ogni parte s’aggiunsono galee a quello stormo, e quivi furono molti fediti e morti da catuna parte; e valicato l’ora del vespero, per lo grande aiuto delle galee de’ Genovesi che soccorsono [271] il loro ammiraglio, le tre de’ Veneziani che s’erano afferrate con quella rimasono sbarattate e prese; e l’altre galee de’ Veneziani e Catalani, ch’erano passate e divise tra l’ammiraglio e l’altre galee genovesi, combattendo in diverse parti cacciarono delle galee de’ Genovesi: in prima dieci galee, che per campare le persone diedono in terra verso sant’Agnolo, abbandonati i corpi delle galee a’ nimici, morti e perduti assai de’ compagni, il rimanente si fuggì a Pera; e dopo queste altre tre galee de’ Genovesi fuggendo innanzi a’ Veneziani feciono il simigliante, e abbandonati i corpi delle galee si fuggirono a Pera. I Veneziani e’ Catalani misono fuoco in quelle galee, e tutte le profondarono; e oltre a queste altre sei galee de’ Genovesi si fuggirono nel Mare maggiore per campare. Dall’altra parte i Genovesi combattendo per forza d’arme delle galee de’ Veneziani e Catalani e Greci in diversi abboccamenti, con grande uccisione di catuna parte, ne vinsono e presono assai: ma però non sapea l’uno dell’altro chi avesse il migliore. La tempesta del mare era grande, e non lasciava riconoscere nè raccogliere insieme alcuna delle parti. E avendo per questo modo disordinato e fortunoso combattuto fino alla notte senza sapere chi avesse vinto o perduto, l’uno residuo dell’armata e l’altro si ridussono a terra alle Colonne al porto di Sanfoca; e dividendoli la notte, dilungata l’una parte dall’altra il più che si potè, nel detto porto cercarono per quella notte alcuno sollevamento dalle fatiche agli affannati corpi.

[272]

CAP. LX. Di quello medesimo.

La mattina vegnente, a dì 14 di febbraio, i Veneziani, Catalani e Greci che si conobbono essere maltrattati in quella battaglia da’ Genovesi, innanzi che ’l sole alzasse sopra la terra, per paura che i Genovesi, ravveduti del danno che aveano fatto loro, non li sorprendessono in quel luogo, si partirono, e andarsene a un porto che si chiama Trapenon, ch’è nella forza de’ Greci, ove poterono stare più sicuri. I Genovesi venuto il giorno, ricercarono la loro armata, e trovarono meno le tredici galee profondate, e le sei ch’erano andate fuggendo i nimici nel Mare maggiore: e della loro gente si trovarono molto scemati, tra morti e annegati e fuggiti. Dall’altra parte trovarono, che aveano prese quattordici galee de’ Veneziani, e dieci de’ Catalani e due de’ Greci, e allora conobbono che i nimici come rotti s’erano partiti e fuggiti a Trapenon. E trovandosi avere morti di loro nimici intorno di duemila, e presine milleottocento, ebbono certezza della loro poco allegra vittoria, e incontanente de’ loro prigioni fediti e magagnati lasciarono quattrocento, acciocchè non corrompessono la loro gente, e per fare alcuna misericordia della loro vittoria. Ma tanto fu il loro danno de’ morti e fediti, e d’avere perdute le loro galee, che della detta vittoria non poterono far festa. Questa battaglia non ebbe ordine nè modo, anzi fu avviluppata e sparta come la tempesta [273] marina: e però com’ella fu varia e non potuta bene cernere nè vedere, non l’abbiamo potuta con più certo e chiaro ordine recitare.

CAP. LXI. Come per le discordie de’ paesani la Sicilia era in grave stato.

Partendoci dalle battaglie fatte per gl’Italiani negli strani paesi, ci occorre l’intestino male dell’isola di Sicilia: la quale non avendo nemico strano, tanto mortalmente crebbe il furore delle loro parti, che senza alcuna misericordia, come salvatiche fiere, ovunque s’abboccavano s’uccidevano, per aguati, per tradimenti, e per furti di loro tenute continovo adoperavano il fuoco e il ferro, onde molti gentiluomini, e altre genti del paese perderono la materia delle paesane divisioni per le loro violenti morti; e ancora per questo tanto si disusarono i campi della cultura, tanto si consumarono i frutti ricolti, che l’isola per addietro fontana d’ogni vittuaglia, per inopia e per fame faceva le famiglie de’ suoi popoli in grande numero pellegrinare negli altri paesi. E per partirci un poco da tanta crudele infamia, la seguente ferina crudelezza, con vergogna degli uomini di quella lingua, sia per ora termine a questa materia. Un Catalano, il quale teneva una rocca nella Valle di... fece a’ suoi compagni tenere trattato col conte di Ventimiglia, il quale avendo voglia d’avere quella rocca, con troppa baldanzosa fidanza sotto il trattato [274] entrò nel castello con centoquattro compagni, benchè più ve ne credesse mettere: ma come con questi fu dentro, per l’ordine preso pe’ traditori furono chiuse le porti, e ’l conte e i compagni presi; e avendovi uomini i quali si volevano ricomperare grande moneta, ed erano da riserbare per i casi fortunevoli della guerra, tanto incrudelì l’animo feroce de’ Catalani, che senza arresto spogliati ignudi i miseri prigioni, e legati colle mani di dietro, l’uno dopo l’altro posto a’ merli della maggiore torre della rocca, sopra uno dirupinato grandissimo furono dirupinati senza niuna misericordia, lacerando i miseri corpi con l’impeto della loro caduta a’ crudeli sassi. Il conte solo fu riserbato, non per movimento d’alcuna umanità, ma per cupidigia di avere per la sua testa alcuno suo castello vicino a’ crudi nemici. Chi crederebbe questa sevizia trovare tra’ fieri popoli delle barbare nazioni, la quale tra i cristiani, tra i consorti d’uno reame, tra i vicini passò le crudeltà de’ tigri, e la fierezza de’ più salvatichi animali che la terra produca? E perocchè trovare non si potrebbe maggiore, trapassiamo a un’altra di minore numero, ma forse non di minore infamia.

CAP. LXII. Come fu in Firenze tagliate le teste a più de’ Guazzalotri di Prato.

Avendo narrata la grande crudeltà de’ Catalani, un’altra sotto ombra di non vera scusa, non [275] senza biasimo dell’abbandonata mansuetudine del nostro comune, ci s’offera a raccontare. I Guazzalotri di Prato, come è detto addietro, innanzi che il comune il comperasse, usando la tirannia di quello tirannescamente, ne furono abbattuti: per questo l’animo di Iacopo di Zarino caporale di quella casa era mal contento, avvegnachè assai onestamente sel comportasse. Avvenne che alquanti cittadini di Firenze, animosi di setta, calunniarono lui e alquanti cittadini di Firenze di trattato contro al comune, della qual cosa convenne che in giudicio si scusassono, e non trovandosi colpevoli, fu infamia a quella gente che quello aveano loro apposto, ed egli con gli altri infamati furono prosciolti. Avvenne appresso, o per fuggire il pericolo degl’infamatori, o per sdegno conceputo, andando per podestà a Ferrara, fu ritenuto dal tiranno di Bologna e poi lasciato, rimanendo per stadico il figliuolo; e tornato a Firenze, e preso sospetto di lui, fu confinato a Montepulciano: i quali confini, qual che si fosse la cagione, e’ non seppe comportare, e fece suo trattato col signore di Bologna per ritornare in Prato; per la qual cosa venne a Vaiano in Valdibisenzio, e fece richiedere de’ suoi amici, e da Siena vennono lettere al comune di Firenze di questo fatto: per le quali il nostro comune di presente vi mise gente d’arme alla guardia, per modo che non se ne potea dottare. Nondimeno i cittadini che reggevano allora il comune, animosi per setta, volendo aggravare l’infamia, in su la mezza notte feciono chiamare delle letta e armare i cittadini, e trarre fuori i [276] gonfaloni, come se i nimici fossono alle porti, di che i reggenti ne furono forte biasimati. Nondimeno seguendo loro intendimento, aveano fatto venire da Prato tutti gli uomini di casa i Guazzalotri, i quali per numero furono sette; e incontanente, come uomini guelfi e innocenti, e che dell’imprese di Iacopo di Zarino erano ignoranti, vennono a Firenze: ed essendo tutti in su la porta del palagio de’ priori, un fante giunse il dì medesimo, che le guardie erano rinforzate in Prato, il quale disse loro da parte di Iacopo, com’egli intendea d’essere quella notte in Prato. Costoro di presente furono a’ signori e a’ loro collegi, e dissono quello che in quell’ora Iacopo avea loro mandato a dire, scusando la loro innocenza. I priori co’ loro collegi non dimostrando di loro alcuno sospetto, gli licenziarono per quel giorno: l’altra mattina gli feciono chiamare, e tutti senza sospetto andarono a’ signori, fuori d’un giovane, il quale quanto che non fosse colpevole, temette di venire in esaminazione; gli altri furono ritenuti, e messi nelle mani del capitano del popolo, uomo di poca virtù, e fatti pigliare certi Pratesi, e un Fiorentino de’ Galigai, e due fabbri di contado, tutti per gravi martori confessarono, come coloro che questo feciono fare vollono, e subitamente, improvviso agli altri cittadini, il detto capitano, del mese di marzo 1351, fece decapitare i nove, e i fabbri impiccare; la qual cosa fu tenuta crudele e ingiusta sentenza, e molto dispiacque a’ cittadini, perocchè manifesto fu che non erano colpevoli. Abbiamone detto steso per due cagioni, l’una per manifestare di quanto pericolo [277] sono le sette cittadinesche, che i giusti spesso com’e’ colpevoli involgono in capitale sentenza; la seconda per dimostrare quanto a Dio dispiace quando si spande l’innocente sangue: che per quello che i Guazzalotri poco innanzi sparsero per tirannia nella loro terra, il loro per simigliante modo fu sparto nella città di Firenze.

CAP. LXIII. Come il tiranno d’Orvieto fu morto.

In questo anno, del mese di marzo, essendo tiranno d’Orvieto Benedetto di messer Bonconte de’ Monaldeschi, il quale poco dinanzi aveva morti due suoi consorti per venire alla tirannia, e stando in quella per operazione de’ suoi consorti, da uno fante nel suo palagio fu morto. Per la morte di costui la città fu in grave divisione; ma coll’aiuto di gente e d’ambasciadori perugini s’acquetò alquanto il popolo con alcuno lieve e non fermo stato, perocchè tutta la terra era insanguinata per la divisione della casa de’ Monaldeschi, e avendo dentro poca concordia, e di fuori sparti per lo contado e distretto i cittadini cacciati, rimase lo stato dubbioso a potere sostenere; e per la cavalleria che l’arcivescovo di Milano aveva in Toscana e nella Marca, i comuni di parte guelfa poco consiglio vi misono, onde ne seguì la rivoltura che appresso seguendo nostro trattato nel suo tempo racconteremo.

[278]

CAP. LXIV. Come i Fiorentini assediarono Vertine.

Nel predetto mese di marzo i Fiorentini feciono porre l’oste al castello di Vertine, e strignerlo con due campi al trarre delle balestra, e rizzaronvi due mangani che tutto dì gittavano, abbattendo e guastando le case della terra. Nell’oste avea seicento cavalieri, e millecinquecento masnadieri di soldo, i quali deliberarono di combattere il castello e vincerlo per battaglia: ma avvenne mirabile cosa, che quasi pareva fatta per arte magica, che il tempo si corruppe all’acqua, che dì e notte non ristò infino alla Pasqua; e impedì tanto l’oste, che alla battaglia non si potè venire per niun modo, e quelli del castello ebbono agio di farlo più forte alla difesa; e per questa cagione, e perchè dentro avea franca masnada di buoni briganti, poco parea si curassono de’ Fiorentini, e minacciavano di darlo al Biscione; e così francamente il tennono in fino all’uscita d’aprile, come appresso diviseremo.

CAP. LXV. Come in corte fu fermata la pace dal re d’Ungheria a’ reali di Puglia.

Essendo per lungo tempo trattata in corte di Roma a Vignone la pace tra il re d’Ungheria e i [279] reali del regno di Cicilia di qua dal Faro, papa Clemente essendo guarito della sua infermità, nella quale aveva avuta grave riprensione di coscienza, perchè aveva sostenuta la detta causa in contumacia, potendola acconciare, con singulare sollecitudine mise opera che la pace si facesse. Ed essendo il re d’Ungheria con un solo fratello re di Pollonia, senza avere altri consorti fuori de’ reali del regno di Cicilia, e già soddisfatto in parte non piccola della vendetta del fratello, agevolmente si dispose a volere la pace, gradendola al papa e a’ cardinali che con istanza ne pregavano, e però mandò a corte suoi ambasciadori con pieno mandato, informati di sua intenzione, lo eletto di cinque chiese, e un vescovo d’Ungheria, e Gulforte Tedesco fratello di messer Currado Lupo vicario nel Regno del detto re; e del mese di gennaio 1351, i detti ambasciadori in presenza del papa e de’ cardinali, come ordinato fu per lo detto papa, si fece la pace con gli ambasciadori del re Luigi e della reina Giovanna in nome di tutti i reali di quella casa. E per parte del re Luigi e della reina furono fatte l’obbliganze, per le quali, secondo che ’l papa e i cardinali aveano trattato, il re e la reina doveano dare e restituire al re d’Ungheria trecentomila fiorini d’oro in diversi termini, per sodisfacimento delle spese che il re d’Ungheria avea fatte in quell’impresa del Regno. E fatte le dette cautele e la detta pace, il papa per l’autorità sua e del consiglio de’ suoi cardinali per decreto confermò ogni cosa, confermando la pace, e consentendo all’obbligagione pecuniaria del reame. E fornito ogni [280] cosa solennemente, innanzi che della casa si partissono le parti, gli ambasciadori del re d’Ungheria, improvviso a tutti, seguendo il mandato segreto che aveano dal loro signore, di grazia spontaneamente, per propria volontà del re d’Ungheria, finirono e quetarono al re, e alla reina, e a’ reali di Puglia, e al Regno, e alla Chiesa di Roma, di cui è il detto reame, i detti trecentomila fiorini d’oro, dicendo, come il loro signore non avea fatta quell’impresa per avarizia, ma per vendicare la morte del suo fratello. E incontanente si partì Gulforte, e tornò in Ungheria a fare assapere al re come fatto era quanto egli avea comandato, a grande grado e piacere di santa Chiesa. E i sopraddetti prelati andarono nel Regno a trarne gli Ungheri che v’erano salvamente, e a fare per comandamento del loro signore restituire al re Luigi e alla reina tutte le città, e terre e castella che la sua gente vi tenea. E fatto questo accordo, quale che si fosse la cagione, il re d’Ungheria non lasciò incontanente i reali ch’aveva prigioni in Ungheria, anzi gli tenne insino al settembre prossimo, come al suo tempo si dirà, occorrendoci altre cose che prima richieggono il debito alla nostra penna.

CAP. LXVI. Come l’arcivescovo trattava pace colla Chiesa.

In questo tempo, del verno, l’arcivescovo di Milano continovo mantenea a corte solenni ambasciadori [281] a procurare la sua riconciliazione con santa Chiesa, e a ciò movea il re di Francia con forza di grandi doni che gli faceva, e al continovo pregava per sue lettere il papa e’ cardinali che perdonassono all’arcivescovo, ed egli per essere più favoreggiato domandava pace. I parenti del papa e certi cardinali erano sì altamente provveduti, e sì spesso, che continovo pregavano per lui il papa, e la contessa di Torenna non finava, per la qual cosa il papa dimenticava l’onore e l’ingiurie di santa Chiesa. E non ostante che tenesse sospesi gli ambasciatori de’ comuni di Toscana delle cose che aveano proposto loro, gli ambasciadori continovo ricordavano in concistoro l’offese fatte per l’arcivescovo e pe’ suoi antecessori, e l’ingiurie e violenze che fatte avea, e continovo faceva a’ comuni di Toscana fedeli e divoti di santa Chiesa. Il papa non ostante ciò favoreggiava oltre al modo onesto la causa del tiranno, onde per alcuno cardinale ne fu cortesemente ripreso; a costui e agli altri cardinali che mostravano in concistoro di essere zelanti dell’onore di santa Chiesa, procedendo il tempo, coll’ingegno e coll’arte e co’ doni del tiranno furono racchiuse le bocche, e aperte le lingue in suo favore, sicchè ultimamente pervenne alla sua intenzione, come seguendo al suo tempo dimostreremo.

[282]

CAP. LXVII. Della gran fame ch’ebbono i barbari di Morocco.

Avvenne in quest’anno nel reame di Morocco e nel reame della Bella Marina un’inopinata fame per sterilità del paese, la qual fame gittò gran carestia in Granata e nella Spagna, e stesesi per la Navarra, e appresso in Francia infino a Parigi: che per portare il grano a’ barbari, per disordinato guadagno che se ne facea, venne lo staio di libbre cinquanta di peso in Parigi in valuta di due fiorini d’oro, e per lo paese non molto meno. E i barbari saracini per sostentare la vita s’ordinarono continovo digiuno, il quale sodisfacevano con tre once di pane dato loro, e con un poco d’olio quanto teneva la palma della mano, nel quale intignevano il detto pane, e con questo mantenevano la loro vita: nondimeno gran quantità ne morirono di fame in quell’anno.

CAP. LXVIII. Come i rettori di Firenze cominciarono segretamente a trattare accordo con l’eletto imperadore.

Mentre che il comune di Firenze e di Siena aveano gli ambasciadori a corte di papa contro all’arcivescovo di Milano, avvedendosi che la Chiesa per le preghiere del re di Francia e d’altri baroni, [283] e per la grande quantità di moneta che il tiranno spendea in corte, colla quale avea recato in suo favore tutta la corte, ed era per essere riconciliato e fatto assai maggiore che non era in prima, diffidandosi di non potere per loro resistere alla sua potenza, ordinarono molto segretamente di volere far muovere della Magna messer Carlo re de’ Romani eletto imperadore, e però mandarono e feciono venire d’Alemagna a Firenze segretamente un suo cancelliere con grande mandato: il quale fu collocato e stette tutto il verno racchiuso in san Lorenzo per modo, che i Fiorentini non sapeano chi si fosse, e di notte andavano a lui segretari del comune, i quali trattavano il modo della venuta del detto eletto, col favore e aiuto grande del detto comune, per abbattere la tirannia dell’arcivescovo: e in fine vennono col detto cancelliere a piena concordia, tanto che, nonostante l’antico odio del nome imperiale a’ detti comuni, fu loro lecito di piuvicare la detta concordia accetta a’ detti popoli, come a suo tempo racconteremo.

CAP. LXIX. Come la gente de’ Fiorentini che andavano a fornire Lozzole furono rotti dagli Ubaldini.

Entrando nel mese d’aprile 1352, essendo commesso per lo comune di Firenze al capitano del Mugello che fornisse Lozzole che i Fiorentini tenevano nel Podere, acciocchè più chiusamente si facesse, si mise a farlo con sì poca provvisione, [284] che più dì innanzi fu palese agli Ubaldini la cavalcata che fare si doveva. I quali in que’ dì aveano colla gente dell’arcivescovo di Milano preso il Monte della Fine a’ confini di Romagna, il quale era stato accomandato, ma non difeso da’ Fiorentini. E avendo la gente apparecchiata, si misono in più aguati nell’alpe, ove stettono più dì aspettando la scorta de’ Fiorentini per fornire Lozzole. Il folle capitano di Mugello con quattrocento cavalieri e con pedoni del Mugello, non avendo prima presi i passi più forti dell’alpe, nè fatto provvedere se aguato vi fosse, si mise per la via del Rezzuolo con la salmeria e con la sua gente ad entrare nell’alpe, e lasciossi uno degli aguati de’ nimici addietro; quando ebbono valicato Rezzuolo furono assaliti da’ nimici dinanzi, e da lato e didietro per modo, che piccola difesa v’ebbe, altro che di fuggire chi potè. Rimasonvi morti cinquanta uomini tra a cavallo e a piede, e ottanta presi con tutta la salmeria; e di questo fallo non fu altra vendetta in Firenze, se non che chi fu morto o preso per la mala condotta s’ebbe il danno. Il capitano fu Rosso di Ricciardo de’ Ricci di Firenze.

CAP. LXX. Come s’ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca.

Essendo stato il castello di Vertine lungamente assediato e traboccato da’ dificii, e non volendosi arrendere, i Fiorentini diliberarono di farlo combattere: e a dì 20 d’Aprile, gli anni Domini 1352, con molta baldanza e con poco ordine si [285] strinsono al castello assalendolo da più parti; e in alcuno luogo furono infino al rompere delle mura, ma per non avere dificii da coprire, nè le scale che bisognavano a assalire, condotti alle mura, con danno e con vergogna, mortine alquanti, e fediti e magagnati assai degli assalitori, si ritrassono della battaglia, la quale aveano mantenuta tre ore del dì. L’assedio vi si fortificò, e strinsono il castello più di presso, e ordinavano di combatterlo con più ordine e con maggiore forza. Que’ d’entro vedendosi senza speranza di soccorso, per fuggire il pericolo della battaglia trattarono di rendere la terra, salve le persone e l’armi, e che potessono trarre tutto il grano che aveano nel castello di Vertine di que’ della casa da Ricasoli, infra quindici dì prossimi. Il trattato fu fermo, e il primo dì di Maggio del detto anno n’uscirono que’ da Ricasoli con centocinquantotto masnadieri, molto bella gente d’arme; e il comune prese la terra, e incontanente fece abbattere due fortezze che v’erano a modo di rocche, l’una di que’ da Ricasoli, e l’altra di que’ da Vertine, acciocchè più per quelle tenute non si potesse rubellare.

CAP. LXXI. Esempio di cittadinesca varietà di fortuna.

In questo tempo avvenne una cosa notevole in Firenze, la quale per se non era degna di memoria, ma concedelesi luogo per esempio delle cose avvenire. Un giudice di legge di grande fama nella pratica de’ piati criminali e civili, di assai [286] nuova progenie, e di piccolo stato ne’ suoi principii, venne per suo guadagno in ricchezza, e con prospera fortuna, il dì di calen di maggio del detto anno, dottorato un suo figliuolo e menata moglie, con dote di fiorini millecinquecento d’oro, e con eredità di patrimonio di fiorini tremilacinquecento d’oro in possessioni a lui pervenute, celebrò solenne festa in più dì in grande allegrezza. E verificandosi la parola detta per santo Gregorio sopra il Giobbe, il quale disse: Praenuntia tribulationis est laetitia satietatis: poco appresso avvenne, che essendo ingrati della non debita e sformata dote e successione ereditaria della detta donna, vollono alla madre della fanciulla per male ingegno della loro arte sottrarre altri certi beni, la quale turbata si difendea a ragione. I legisti ordinarono un piato tacito, e avendo avuta per altri fatti una procura dalla detta donna, si sforzarono, non avendo avversario, di venire alla sentenza. Ma come Iddio volle, la corte s’avvide del baratto; e scoperto l’inganno, il figliuolo fu condannato nel fuoco con un suo nipote; e il padre confidandosi di difendere a ragione si rappresentò in giudicio. Ed essendo per essere arso un suo nipote ch’avea nome Lotto del maestro Cambio de’ Salviati, uomo di buona condizione e amato da’ cittadini, accadde essere de’ priori di Firenze, il quale per onore della sua casa operò tanto, che fu condannato nel fuoco per falsità, a condizione, che se infra dieci dì non pagasse al comune lire quattromila, e stesse a Perugia un anno a’ confini; ed essendo già stato da dieci mesi a’ confini, tanto seppe adoperare con un altro podestà, che rivocò i suoi [287] confini, e tornò a Firenze innanzi al tempo, e mostrossi palese più d’un mese. Volendosi fare cancellare del detto bando, e restituire alla matricola ov’era stato raso, e non trovandosi modo come di ragione fare si potesse, rimase in bando del fuoco per avere rotti i confini, i quali aveva poco tempo a ubbidire ed era libero. Costui fu il primo che mise in pratica nella nostra città di conducere i civili piati in criminali, e per quella medesima cagione fu infamato e condannato egli e ’l suo figliuolo; il quale poi dopo l’esilio di presso a otto anni morì in bando, avendo prima il padre ricomperato dal comune per grandi riformagioni il suo fallo d’avere rotti i confini lire milledugento. E dopo la morte del figliuolo la donna ritrasse della casa la dote e ’l patrimonio in grande abbassamento di quella famiglia, lasciando esempio a’ suoi cittadini, che come la scienza convertita in pratica di male suasioni, e le disordinate dote fanno gli uomini arricchire e montare in stato, così quelle medesime operazioni e dote spesso sono materia e cagioni di gravi ruine: questo ci scusi averne fatto qui la detta memoria.

CAP. LXXII. Come un gran re de’ Tartari venne sopra il re di Proslavia.

Avvenne in quest’anno, che un re del lignaggio de’ Tartari, avendo avuta la sua gente briga col re di Proslavia infedele, avegnachè suddito al re d’Ungheria, e fatto danno l’una gente all’altra, [288] il detto re de’ Tartari sentendosi di grande potenza, per prosunzione della sua grandezza, ovvero per trarre la gente del suo paese che aveano a quel tempo grandissima fame, uscì del suo reame con infinito numero di gente a piè e a cavallo, ed entrò nel regno de’ Proslavi. Il re de’ Proslavi colla sua gente si fece incontro a quella moltitudine per ritenerli a certe frontiere, tanto che avesse il soccorso dal re d’Ungheria, il quale di presente vi mandò quarantamila arceri a cavallo: e aggiuntosi colla gente del re de’ Proslavi, di presente commisono la battaglia co’ Tartari, de’ quali tanti n’uccisono, che la lena mancò agli uomini, e lo taglio alle spade, e le saette agli archi. Ma per la soprabbondante moltitudine de’ Tartari, non potendoli gli Ungheri e i Proslavi più tagliare, convenne ch’abbandonassono il campo, non senza grande danno della loro gente. I Tartari vinti rimasono vincitori: ma per disagio di vivande, e per la corruzione dell’aria, costretti prima a manicare de’ corpi morti, sentendo che per li due re si faceva apparecchiamento di ritornare in campo con maggiore e più potente esercito, per paura, e per lo gran difetto che i Tartari aveano di vittuaglia, si tornarono addietro in loro paese. Questa novella avemmo da più e diverse parti in Firenze del mese d’aprile 1352.

[289]

CAP. LXXIII. Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio.

Ritornando all’italiane tempeste, essendo rimasa la città d’Orvieto con grande dissensione tra’ cittadini dopo la morte di Benedetto di messer Bonconte loro tiranno, i cittadini da capo si cominciarono a insanguinare insieme, e uccidea l’uno l’altro nella città e di fuori, come s’uccidono le bestie al macello. Ed era sì corrotta la città ed il contado, che in niuna parte si poteva andare o stare sicuro, e i Perugini e gli altri comuni di Toscana erano sì oppressati dalla gente del Biscione, che appena poteano intendere alla loro difesa, sicchè de’ fatti d’Orvieto non si potevano intramettere come a quel tempo bisognava. Avvenne che Petruccio di Peppo Monaldeschi, come che d’animo e di nazione fosse guelfo, avendo rispetto a pigliare la tirannia d’Orvieto, per suo trattato fece venire a condotta degli Ubaldini a Cetona dugento cavalieri, e procacciò d’avere gente dal prefetto da Vico: e quando si vide il bello, avendo raunato nella terra assai fanti, levò il romore e corse la terra, e mise dentro i dugento cavalieri ch’avea in Cetona, e uccise Bonconte suo consorto, nipote di Benedetto, e più altri, e ridusse la città nella forza de’ ghibellini, credendo poterla tiranneggiare per se; ma in fine, come al suo tempo racconteremo, la signoria rimase al prefetto da Vico e a parte ghibellina, tradita la patria e i consorti per singolare invidia de’ suoi congiunti.

[290]

CAP. LXXIV. Come l’armata de’ Genovesi andò a Trapenon per danneggiare i nemici.

Dopo la battaglia fatta in Romania tra’ Genovesi, Veneziani e Catalani, avendo i Genovesi preso riposo per alcuno tempo, e ritornate le sei galee fuggite nel Mare maggiore, riconoscerono la loro amara vittoria, presono cuore dimenticando il danno loro per l’animosità ch’aveano contro a’ loro nemici ch’erano rifuggiti a Trapenon, e procacciarono aiuto da Pera, e mandarono per rinfrescamento di galee armate, strignendo che quante più ne potessono mandare armate il facessono senza indugio, a fine di disfare affatto l’armata de’ Veneziani e Catalani, avendo anche speranza di vincere Costantinopoli. E racconce le loro galee, e rifornite le ciurme e’ soprassaglienti se n’andarono a Trapenon, ove i Veneziani e’ Catalani s’erano rifuggiti; e assai volte tentarono d’assalirli, ma gli avversari aveano la forza della terra, e l’avvantaggio della guardia del porto, sicchè poco li curavano; e quando vidono un tempo al loro viaggio fatto e fermo, e che era contradio a’ loro nemici a poterli impedire, con trentotto galee racconce e rifornite si misono in mare, e atandosi con le vele e co’ remi, avendo il vento in poppa, a contradio de’ Genovesi valicarono in Candia: e giunti in Candia misono in terra, e disarmarono. E stando nell’isola, per la corruzione di loro fediti e de’ disagi sostenuti [291] infermarono e corruppono molto la terra, e mandarono due loro galee per avere aiuto da Vinegia, le quali s’abbatterono in dieci galee ch’e’ Genovesi mandavano in aiuto alla loro armata, ma l’una per forza di remi campò, l’altra diede a terra, e abbandonato il corpo della galea salvarono le persone.

CAP. LXXV. Come i Genovesi assediarono Costantinopoli.

L’armata de’ Genovesi non avendo potuto impedire l’armata de’ Veneziani e Catalani che non fossono passati all’isola di Negroponte, non attesono a seguirli, ma attesono ad assediare Costantinopoli per mare, e fermarono di fare ogni loro podere per abbattere l’aiuto che i Veneziani aveano dall’imperatore. E stando ivi, giunse in loro aiuto sessanta legni armati di Turchi, e le dieci galee che il comune di Genova avea mandate loro. Mega Domestico che allora governava l’imperio come tiranno, vedendo i Veneziani rotti e soperchiati in quella guerra da’ Genovesi, e che la loro forza cresceva, e sentendosi il vero imperatore, il quale s’avea fatto a genero, nemico, per non venire a peggio trattò pace co’ Genovesi, e fermossi la detta pace a dì 6 maggio del detto anno: e fu in patto, ch’e’ Veneziani del paese fossono salvi in avere e in persona, e che i Genovesi non dovessono pagare in Costantinopoli commercio, e che vi potessono fare porto, e andare e stare come amici: e che d’allora innanzi l’imperadore [292] non dovesse ricettare i Veneziani nè i Catalani, nè dare loro alcuno aiuto. E ferma la pace, i Genovesi con tutta loro armata se ne vennono in Candia per vincere il paese; e volendo porre in terra, ebbono incontro i paesani con trecento cavalieri, e le ciurme delle galee, e contradissono la prima scesa. I Genovesi si provvidono di fare parate, e dietro a quelle misono i balestrieri, e messe le scale in terra, a contradio de’ nemici presono campo; e stando in terra trovarono il paese corrotto, e avvelenata l’aria e la terra dalla corruzione sparta dalle galee de’ Veneziani e Catalani, e anche tra loro avea de’ fediti e degl’infermi, e per questa cagione, e per i molti disagi sostenuti lungamente, pensarono che il soprastare era pestilenzioso e mortale, si ricolsono a galea, e misonsi in mare per tornarsi a Genova; e innanzi pervenissono alla patria più di mille cinquecento uomini morti gettarono in mare: e nondimeno lasciarono nel golfo di Vinegia dieci galee per danneggiare i Veneziani. E del mese d’agosto del detto anno con trentadue galee tornarono a Genova col loro ammiraglio, e con settecento prigioni veneziani, e con molta preda dell’acquisto fatto sopra i nemici e sopra le spoglie de’ Greci. Della qual vittoria, avvengnachè molto ne montasse in fama il comune di Genova, più tristizia che allegrezza, più pianto e dolore che festa tornò alla loro patria; e trovossi all’ultimo di questa maladetta guerra di queste armate, che tra morti in battaglia, e annegati in mare, e periti di pestilenza, tra l’una parte e l’altra vi morirono più d’ottomila Italiani in quell’anno. [293] E questo avvenne solo per attizzamento d’invidia di pari stato di due popoli Genovesi e Veneziani, che catuno si volea tenere il maggiore.

CAP. LXXVI. Concordia fatta dall’imperadore a’ comuni di Toscana.

Tornando al lungo trattato menato in Firenze per li Fiorentini e Perugini e Sanesi, molto segretamente con messer Arrigo proposto d’Esdria dell’ordine di certi frieri, vececancelliere di messer Carlo eletto imperadore re di Boemia e re de’ Romani, il quale con molto senno e gran diligenza avendo il mandato dal suo signore, e per mezzano tra lui e gli ambasciadori de’ sopraddetti comuni messer Ramondo l’uno degli usciti guelfi di Parma marchese di Soraga, capitano di guerra del comune di Firenze, scritte le convenenze e’ patti di concordia, si sostenne la piuvicazione di quelli per lo detto vececancelliere e per li detti comuni, tanto ch’ebbono la fermezza da corte come il papa avea riconciliato per sentenza l’arcivescovo di Milano, e fatto la concordia con lui, come nel principio del nostro terzo libro si potrà trovare; e questa concordia fu ferma del detto mese d’aprile del detto anno.

[294]

CAP. LXXVII. Come si levò una compagnia nel Regno, e fu rotta dal re Luigi.

Avvenne non ostante che la pace fosse fatta tra il re d’Ungheria e i reali di Puglia, e deliberato fosse per lo papa la coronazione del re Luigi, per la baldanza che i soldati forestieri aveano presa nel Regno, uno Beltramo della Motta nipote di fra Moriale, che ancora teneva la città d’Aversa, fece raccolta di cavalieri di sua lingua, e di Tedeschi e d’Italiani ch’erano nel Regno senza soldo, ed ebbe quattrocento barbute e cinquecento masnadieri: e cominciò a correre per Terra di Lavoro, di consiglio e consentimento di Fra Moriale, secondo il suono, benchè secondo la vista dimostrava il contradio, e prendea i casali, e facea rimedire la gente, e molto conturbava il paese: e i baroni e’ cavalieri regnicoli che voleano venire a Napoli alla coronazione del re erano da costoro forte impediti, e i cammini erano rotti per loro, e spesso assaliti, e per soperchia baldanza s’erano ridotti a Cesa, tra la città d’Aversa e l’Acerra. E stando ivi, in gran vergogna del futuro re Luigi, il re infiammato di questa ingiuria, subitamente e improvviso a’ ladroni accolse de’ baroni ch’erano venuti a lui, e di Napoletani da mille cavalieri, e montò a cavallo in persona, e seguitato da’ suoi, a dì 28 d’aprile del detto anno occupò Beltramo della Motta e la sua compagnia, i quali per lo [295] subito assalto non feciono retta, ma chi potè fuggire non attese il compagno: e così fuggendo molti ne furono morti e presi, che pochi ne camparono. Beltramo della Motta con venti compagni fuggì a Alife e campò. In Napoli furono giudicati a morte venticinque paesani ch’erano in quella compagnia, gli altri rimasono prigioni: e la detta compagnia fu al tutto consumata e spenta con onore del re Luigi, e con più lieta festa della sua coronazione, che appresso seguitò, come tosto diviseremo.

CAP. LXXVIII. Come i Perugini guastarono intorno a Cortona.

In questo mese d’aprile del detto anno, i cavalieri dell’arcivescovo di Milano ch’erano stati lungamente al servigio del signore di Cortona all’Orsaia, si partirono di là, e lasciarono dugentocinquanta cavalieri. I Perugini aontati dell’ingiuria fatta loro da’ Cortonesi, di presente, avuto trecento cavalieri da’ Fiorentini, con settecento barbute e con gran popolo cavalcarono sopra Cortona, ardendo e guastando le case, e le vigne e’ campi, e tagliando gli alberi, aoperando il fuoco e il ferro, e guastarla intorno per molti giorni, senza potere i Cortonesi difendere in niuna parte, di fuori che dall’Orsaia a Cortona, per la guardia vi fecero i dugentocinquanta cavalieri del Biscione: ma senza arsione, così consumarono que’ cavalieri quella parte [296] difendendo, come i Perugini l’altre parti per loro vendetta.

CAP. LXXIX. Come i Fiorentini fornirono Lozzole.

I Fiorentini poco tempo innanzi per mala condotta rotti dagli Ubaldini nell’alpe, volendo fornire Lozzole, provvidono di fornirlo con più avviso e provvedenza; che senza fare apparecchiamento nel Mugello, avendo in Firenze cavalieri e pedoni, e la vittuaglia apparecchiata, senza alcuna vista mandarono improvviso agli Ubaldini, e feciono pigliare a buoni masnadieri i passi e i poggi dell’alpe. E presi i passi la notte, la mattina vi mandarono cento cavalieri, e quattrocento balestrieri eletti, e seicento buoni masnadieri di soldo e tutta la salmeria con loro, i quali andarono senza contasto. E furono sopra il battifolle degli Ubaldini, il quale era sopra Lozzole, innanzi che potessono avere soccorso; e vedendosi sorprendere alla gente de’ Fiorentini, abbandonaro la bastita e l’arme, e gittaronsi per le ripe per salvare le persone; i Fiorentini presono l’arme e la roba ch’era nella bastita, e aggiunsonla alla loro salmeria, e misono ogni cosa nel castello di Lozzole, e arsono il battifolle de’ nimici, e sani e salvi senza trovare contasto si tornarono a Firenze del mese di maggio del detto anno.


[297]

TAVOLA DEI CAPITOLI

Prefazione. Pag. V
Qui comincia la Cronica di Matteo Villani, e prima il prologo, e primo libro. 1
Cap. I. Dell’inaudita mortalità 3
Cap. II. Quanto durava il tempo della moria in catuno paese 4
Cap. III. Della indulgenzia diede il papa per la detta pistolenza 9
Cap. IV. Come gli uomini furono peggiori che prima 10
Cap. V. Come si stimò dovizia, e seguì carestia 11
Cap. VI. Come nacque in Prato un fanciullo mostruoso 12
Cap. VII. Come alla compagnia d’Orto san Michele fu lasciato gran tesoro 12
Cap. VIII. Come in Firenze da prima si cominciò lo Studio 15
Cap. IX. Raggiugnimento di principi che furono cagione di grandi novitadi nel Regno 17
Cap. X. Come il re d’Ungheria fece ad Aversa uccidere il duca di Durazzo 20
Cap. XI. La cagione della morte del duca di Durazzo 21
Cap. XII. Come il re d’Ungheria entrò in Napoli 22
[298] Cap. XIII. Come il re d’Ungheria vicitava il regno di Puglia 23
Cap. XIV. Come il re d’Ungheria partitosi del Regno tornò in Ungheria 24
Cap. XV. Novità del reame di Tunisi, e più rivolgimenti di quello 25
Cap. XVI. Come per la partita del re d’Ungheria del Regno i baroni e’ popoli si dolsono 26
Cap. XVII. Come si reggeva la sua gente nel Regno partito il re 27
Cap. XVIII. Come messer Luigi si fe’ titolare re al papa, e mandò nel Regno 28
Cap. XIX. Come il re e la reina ritornarono nel Regno 30
Cap. XX. Come il re e la reina Giovanna entrarono in Napoli a gran festa 31
Cap. XXI. Come il re Luigi si fe’ fare cavaliere, e da cui 32
Cap. XXII. Brieve raccontamento di cose fatte per il re d’Inghilterra contra quello di Francia 33
Cap. XXIII. Come gli Ubaldini furo cominiciatori della guerra che il comune di Firenze ebbe con loro 36
Cap. XXIV. Come i fedeli del conte Galeotto si rubellarono da lui e dieronsi al comune di Firenze 36
Cap. XXV. Come i Fiorentini feciono guerra agli Ubaldini, e presero Montegemmoli e loro castella 37
Cap. XXVI. Come il re di Francia comperò il Delfinato 40
Cap. XXVII. La cagione perchè il re d’Araona tolse Maiolica al re 41
Cap. XXVIII. Come il re di Maiolica vendè la sua parte di Mompelieri al re di Francia 42
Cap. XXIX. Come s’ordinò il generale perdono a Roma nel 1349 43
Cap. XXX. Come il re di Maiolica andò per racquistare l’isola e fuvvi morto 45
Cap. XXXI. Come i baroni italiani e catalani per loro discordie guastarono l’isola di Cicilia 46
Cap. XXXII. Come il re Filippo di Francia e ’l figliuolo tolsono moglie 49
[299]
Cap. XXXIII. Come il re di Francia fu ingannato del trattato di Calese con gran danno 51
Cap. XXXIV. Come messer Carlo eletto imperadore fu preso e morto di veleno 53
Cap. XXXV. Come il re Luigi prese più castella 56
Cap. XXXVI. Come il re Luigi prese il conte d’Apici 57
Cap. XXXVII. Come il re Luigi Assediò Nocera 58
Cap. XXXVIII. Come Currado Lupo liberò Nocera 60
Cap. XXXIX. Come il re Luigi rifiutò la battaglia con Currado Lupo 61
Cap. XL. Della materia medesima 63
Cap. XLI. Come morì il re Alfonso di Castella 64
Cap. XLII. Come il doge Guernieri fu preso in Corneto dagli Ungheri 65
Cap. XLIII. Come i Fiorentini presero Colle 67
Cap. XLIV. Come i Fiorentini ebbono Sangimignano a tempo 68
Cap. XLV. Di tremuoti furono in Italia 70
Cap. XLVI. Come sommerse Villacco in Alamagna 71
Cap. XLVII. De’ fatti del Regno 72
Cap. XLVIII. Come la gente del re d’Ungheria sconfisse i baroni del Regno 74
Cap. XLIX. Come i Napoletani ricomperarono la vendemmia da’ nimici 76
Cap. L. Come si fe’ triegua nel Regno 78
Cap. LI. Di novità di barbari di Bella Marina 80
Cap. LII. Come Balese tornando per lo suo reame contro al figliuolo ebbe grande fortuna, e poi fu avvelenato 81
Cap. LIII. Come per lievi cagioni suscitò novità in Romagna 83
Cap. LIV. Come messer Giovanni Manfredi rubellò Faenza alla Chiesa 86
Cap. LV. Come il capitano di Forlì prese Brettinoro per assedio 89
Cap. LVI. Come i cristiani d’Europa cominciarono a venire al perdono 90
Cap. LVII. Perchè s’intramesse il dificio d’Orto san Michele 93
[300]
Cap. LVIII. Come la Chiesa mandò il conte per racquistare la contea di Romagna 95
Cap. LIX. Processo de’ traditori di Romagna, e di certi Provenzali 97
Cap. LX. Come messer Giovanni de’ Peppoli cercò accordo dal conte a messer Giovanni 98
Cap. LXI. Come messer Giovanni de’ Peppoli andò nell’oste, e fu preso 99
Cap. LXII. Come il conte scoperse l’altro trattato che avea con messer Mastino 101
Cap. LXIII. Come messer Iacopo Peppoli rimaso in Bologna si provvidde alla difesa 103
Cap. LXIV. L’aiuto che messer Iacopo accolse per guardare Bologna 105
Cap. LXV. Del male stato che si condusse la città di Bologna, e di certi trattati che allora si tennono 106
Cap. LXVI. Come i soldati mossono quistione al conte, e fu loro assegnato messer Giovanni Peppoli 108
Cap. LXVII. Come messer Giovanni tenne suoi trattati della città di Bologna 109
Cap. LXVIII. Secondo trattato di Bologna 112
Cap. LXIX. Come l’arcivescovo di Milano mandò a prendere la possesione di Bologna 114
Cap. LXX. Come capitò il conte di Romagna e l’oste della Chiesa 115
Cap. LXXI. Come i Guazzalotri di Prato cominciarono a scoprire loro tirannia 118
Cap. LXXII. Come i Fiorentini andarono a oste a Prato, ed ebbonne la signoria 120
Cap. LXXIII. Come i Fiorentini comperarono Prato, e recaronlo al loro contado 121
Cap. LXXIV. Come i guelfi forono cacciati dalla Città di Castello 123
Cap. LXXV. Come morì il re Filippo di Francia 124
Cap. LXXVI. Come la Chiesa rinnovò processo contra l’arcivescovo di Milano 126
Cap. LXXVII. Come il tiranno di Milano si collegò con tutti i ghibellini d’Italia 129
[301]
Cap. LXXVIII. Come fu assediata Imola dal Biscione e altri 131
Cap LXXIX. Come il capitano di Forlì tolse al conticino da Ghiaggiuolo e al conte Carlo da Doadola loro terre 133
Cap. LXXX. Come nella città d’Orbivieto si cominciò materia di grande scandalo ivi
Cap. LXXXI. Come la città d’Agobbio venne a tirannia di Giovanni Gabbrielli 135
Cap. LXXXII. Come il comune di Perugia e il capitano del Patrimonio andarono a oste ad Agobbio 137
Cap. LXXXIII. Come cominciò l’izza da’ Genovesi a’ Veneziani 139
Cap. LXXXIV. Come quattordici galee di Veneziani presono in Romania nove de’ Genovesi 141
Cap. LXXXV. Come i Genovesi di Pera presono Negroponte, e riebbono loro mercatanzia 142
Cap. LXXXVI. Come fu morto il patriarca d’Aquilea, e fattane vendetta 143
Cap. LXXXVII. Come il legato del papa si partì del Regno, e il re riprese Aversa 145
Cap. LXXXVIII. Come il re d’Ungheria ritornò in Puglia conquistando molte terre 146
Cap. LXXXIX. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia 148
Cap. XC. Come fu data l’ultima battaglia ad Aversa dal re d’Ungheria 150
Cap. XCI. Della materia medesima 151
Cap. XCII. Come il conte d’Avellino con dieci galee stette a Napoli, e Aversa s’arrendè al re 152
Cap. XCIII. Come il re d’Ungheria e il re Luigi vennono a certa tregua 154
Cap. XCIV. Come il conte d’Avellino diè al suo figliuolo per moglie la duchessa di Durazzo 157
Cap. XCV. Della grande potenza dell’arcivescovo di Milano, e come i Fiorentini temeano di Pistoia, e quello che ne seguì 159
Cap. XCVI. Come certi rettori di Firenze vollono prendere Pistoia per inganno 161
Cap. XCVII. Come i Fiorentini assediarono Pistoia ed ebbonla a’ comandamenti loro 163
[302]
Cap. XCVIII. Come il re d’Inghilterra sconfisse in mare gli Spagnuoli 167
 
LIBRO SECONDO
 
Cap. I. Prologo 169
Cap. II. Come il comune di Firenze usava la pace coll’arcivescovo di Milano 170
Cap. III. Come l’arcivescovo di Milano appuose tradimento e condannò messer Iacopo Peppoli 172
Cap. IV. Come l’arcivescovo fermò d’assalire improvviso la città di Firenze 173
Cap. V. Come si mise in ordine il consiglio preso 176
Cap. VI. Come gli Ubaldini arsono Firenzuola, e presono Montecolloreto 177
Cap. VII. Come gli Ubertini, e’ Tarlati, e i Pazzi assalirono il contado di Firenze 179
Cap. VIII. Come i Fiorentini mandaro ambasciadori al capitano dell’oste 180
Cap. IX. Come l’oste si levò da Pistoia e puosesi a Campi 182
Cap. X. Come l’oste ebbe gran difetti a Campi e a Calenzano 184
Cap. XI. Come i rettori di Firenze abbandonarono il passo di Valdimarina 187
Cap. XII. Come l’oste del Biscione valicò il passo, e andò in Mugello 188
Cap. XIII. Come il conte di Montecarelli si rubellò a’ Fiorentini e venne al capitano 190
Cap. XIV. Come si fornì la Scarperia e il Borgo 191
Cap. XV. Come l’oste assediò la Scarperia 192
Cap. XVI. Come i Fiorentini afforzarono Spugnole 194
Cap. XVII. Come si difese Pulicciano di grave battaglia 195
Cap. XVIII. Come i Tarlati, e i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini vennono in sul contado di Firenze, e furonne cacciati per forza da’ Fiorentini 196
Cap. XIX. Come Bustaccio entrò e rendè la Badia a Agnano 199
[303]
Cap. XX. Come l’arcivescovo tentò i Pisani di guerra contro a’ Fiorentini 200
Cap. XXI. Come l’oste deliberò combattere la Scarperia 204
Cap. XXII. Come i Tarlati sconfissono i cavalieri de’ Perugini 205
Cap. XXIII. Come i Fiorentini procuraro di mettere gente nella Scarperia 207
Cap. XXIV. Come la reina Giovanna si fece scusare in corte di Roma 209
Cap. XXV. Come i Genovesi e i Veneziani ricominciarono guerra in mare 210
Cap. XXVI. Come l’armata genovese andò a Negroponte e assediò Candia, e quello che ne seguì 212
Cap. XXVII. Come i Veneziani feciono lega co’ Catalani, e di nuovo armarono cinquanta galee 213
Cap. XXVIII. Come la imperatrice di Costantinopoli col figliuolo si fuggì in Salonicco 215
Cap. XXIX. Come la Scarperia sostenne la prima battaglia dal Biscione 216
Cap. XXX. Come la Scarperia riparò alla cava de’ nimici 218
Cap. XXXI. Del secondo assalto dato alla Scarperia 220
Cap. XXXII. Del terzo assalto dato 221
Cap. XXXIII. La partita dell’oste dalla Scarperia 224
Cap. XXXIV. Come l’armata de’ Genovesi si partì da Negroponte e andò a Salonicco 226
Cap. XXXV. Come i Veneziani e’ Catalani s’accozzarono in Romania con l’altra armata 228
Cap. XXXVI. Come i Brandagli si vollono fare signori d’Arezzo 229
Cap. XXXVII. Di quello medesimo 231
Cap. XXXVIII. Come il re Luigi mandò il gran siniscalco ad accogliere gente in Romagna 234
Cap. XXXIX. Come il re Luigi accolse i baroni del Regno e andò in Abruzzi 236
Cap. XL. Come il re Luigi sostenne gli Aquilani che pasquavano con lui 237
Cap. XLI. Come papa Clemente sesto fe’ la pace de’ due re 239
[304]
Cap. XLII. Come messer Piero Saccone prese il Borgo a san Sepolcro 240
Cap. XLIII. Come i Perugini arsono intorno al Borgo e sconfissono de’ nimici 243
Cap. XLIV. D’una cometa ch’apparve in oriente 245
Cap. XLV. Come fu preso il castello della Badia de’ Perugini, e come si racquistò 246
Cap. XLVI. Come i Fiorentini cercarono lega co’ comuni di Toscana, e accrebbono loro entrata 248
Cap. XLVII. Come i Romani feciono rettore del popolo 249
Cap. XLVIII. Di una lettera fu trovata in concistoro di papa 252
Cap. XLIX. Come il re d’Inghilterra essendo in tregua col re di Francia acquistò la contea di Guinisi 253
Cap. L. Il piato fu in corte tra’ due re per la contea di Guinisi 254
Cap. LI. Come l’arcivescovo di Milano ragunò i suoi soldati per rifare guerra a’ Fiorentini 255
Cap. LII. Come i Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi mandarono ambasciadori a corte 257
Cap. LIII. Come l’ammiraglio di Damasco fece novità a’ cristiani 258
Cap. LIV. Come i Fiorentini disfeciono terre di Mugello 260
Cap. LV. Come la Scarperia fu furata e racquistata 261
Cap. LVI. Come messer Piero Sacconi cavalcò con mille barbute infino in su le porte di Perugia 263
Cap. LVII. Come i Chiaravallesi di Todi vollono rubellare la terra e furono cacciati 264
Cap. LVIII. Come que’ da Ricasoli rubellarono Vertine a’ Fiorentini 265
Cap. LIX. Come i Veneziani e’ Catalani furono sconfitti in Romania da’ Genovesi 267
Cap. LX. Di quello medesimo 272
Cap. LXI. Come per le discordie de’ paesani la Sicilia era in grave stato 273
Cap. LXII. Come fu in Firenze tagliate le teste a più de’ Guazzalotri di Prato 274
[305]
Cap. LXIII. Come il tiranno d’Orvieto fu morto 277
Cap. LXIV. Come i Fiorentini assediarono Vertine 278
Cap. LXV. Come in corte fu fermata la pace dal re d’Ungheria a’ reali di Puglia 278
Cap. LXVI. Come l’arcivescovo trattava pace colla Chiesa 280
Cap. LXVII. Della gran fame ch’ebbono i barbari di Marrocco 282
Cap. LXVIII. Come i rettori di Firenze cominciarono segretamente a trattare accordo con l’eletto imperadore 282
Cap. LXIX. Come la gente de’ Fiorentini che andavano a fornire Lozzole furono rotti dagli Ubaldini 283
Cap. LXX. Come s’ebbe Vertine a patti e disfecesi la rocca 284
Cap. LXXI. Esempio di cittadinesca varietà di fortuna 285
Cap. LXXII. Come un gran re de’ Tartari venne sopra il re di Proslavia 287
Cap. LXXIII. Come in Orvieto ebbe mutamento e micidio 289
Cap. LXXIV. Come l’armata de’ Genovesi andò a Trapenon per danneggiare i nemici 290
Cap. LXXV. Come i Genovesi assediarono Costantinopoli 291
Cap. LXXVI. Concordia fatta dall’imperadore a’ comuni di Toscana 293
Cap. LXXVII. Come si levò una compagnia nel Regno, e fu rotta dal re Luigi 294
Cap. LXXVIII. Come i Perugini guastarono intorno a Cortona 295
Cap. LXXIX. Come i Fiorentini fornirono Lozzole 296

        ERRORI CORREZIONI
 
TOMO PRIMO
 
p. 7 v. 28 li ro (in alcuna copia) libro
11 26 volsono valsono
17 2 e 10 principi principii
20 25 traditore, del sangue tuo che farai? traditore del sangue tuo, che farai?
44 13 ch’ cardinali ch’e’ cardinali
100 15 o ch’gli o ch’egli
118 14 cominciorono cominciarono
123 10 in sopetto in sospetto
177 2, e 3 fanti. Alla venuta dell’oste messer Giovanni fanti alla venuta dell’oste, messer Giovanni
202 12 il destro il destro,
236 7 ch’fra che fra
259 3 che v’ n’avea che ve n’avea
268 24 o passare e passare

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.