The Project Gutenberg eBook of Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3

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Title: Storia della Repubblica di Firenze v. 3/3

Author: Gino Capponi

Release date: February 1, 2022 [eBook #67297]

Language: Italian

Original publication: Italy: Barbèra, 1876

Credits: Barbara Magni, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

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STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE. TOMO TERZO.


STORIA
DELLA
REPUBBLICA DI FIRENZE

DI
GINO CAPPONI.

SECONDA EDIZIONE RIVISTA DALL’AUTORE

Tomo Terzo.

FIRENZE,
G. BARBÈRA, EDITORE.

1876.


Depositata al Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio per godere i diritti accordati dalla legge sulla proprietà letteraria.

G. Barbèra.

Gennaio 1875.


[v]

SOMMARI DEL TOMO TERZO.

Libro Sesto.
 
Capitolo I. — Impresa di Carlo VIII in Italia. — Ribellione di Pisa, cacciata de’ Medici. [An. 1492-1495.]. Pag. 1
 
Grande mutazione di cose avvenuta nel mondo in quell’anno 1492. — Natura e governo di Piero dei Medici. — Alessandro VI creato papa. — Primi accenni dello scomporsi l’equilibrio che era tra’ principi italiani. — Lodovico Sforza, che governava Milano, chiama in Italia Carlo VIII re di Francia. — Apparecchi di questo Re; esercito raccolto da lui in Lione. — Suoi ambasciatori a Firenze; ambasciate in Francia dei Fiorentini. — Morte in Napoli di Ferrando. — Apparecchi d’Alfonso per la difesa del Regno. Carlo giunge in Asti ai 9 settembre 1494. — Paragone tra le armi francesi e le italiane. — Carlo in Pavia visita l’infermo Giovanni Galeazzo duca di Milano, cugino suo. Isabella di Aragona. Morte improvvisa di Giovanni Galeazzo mentre Carlo giungeva in Piacenza. — Questi entra in Toscana come nemico. Piero de’ Medici, andato segretamente al Re in Pontremoli, gli cede il dominio di Sarzana e d’altri castelli. Tumulto in Firenze; ambasceria al Re. — Piero de’ Medici in quel mentre tornato in Firenze è impedito d’entrare in Palagio. Fuggono egli e i suoi due fratelli. La Casa Medici va a sacco. — Carlo in Pisa, alle preghiere dei Pisani dona ad essi la libertà. — Muovendo verso Firenze, si ferma a Signa. Dopo alcuni giorni fa ingresso solenne nella città armato con la lancia sulla coscia. — Negoziati: rumori di popolo; infine è stretto un accordo per cui rimase libera. Piero Capponi. — Carlo entra in Roma: il Papa si chiude in Castel Sant’Angelo, poi fa lega col Re: questi procede senza ostacoli fino a Napoli, dove entra ai 21 di febbraio 1495. — Alfonso cede il regno al figlio Ferdinando e fugge in Sicilia: il giovane Re si pone in salvo con la sua famiglia nell’isola d’Ischia. — Incuria e malgoverno dei Francesi in Napoli. — Una lega possente di Principi si forma contro essi. — Carlo dopo tre mesi parte da Napoli con la maggior parte delle sue forze. — Traversa la Toscana, trattenendo con parole ambigue i Fiorentini e i Pisani. Questi per ogni modo attendono a munirsi. — Battaglia del Taro, dove i Francesi si aprono il passo a traverso [vi] l’esercito unito dei Veneziani e dello Sforza. Assediano lungamente Novara; il Re, fatta pace con lo Sforza, torna in Francia. — Insurrezione generale dei Napoletani. Un’armata veneta scende in Puglia. Ferdinando passa in Calabria, avendo seco Consalvo di Cordova sopraggiunto con poca forza di Spagnuoli. — Ributtato il Re si presenta in Napoli, donde il popolo armato caccia i Francesi. — Grossa guerra in Puglia e in Basilicata; vittoria di Consalvo; le ultime reliquie dei Francesi ottengono tornare in Francia.
 
Capitolo II. — Nuova forma di Repubblica. — Fra Girolamo Savonarola. [An. 1495-1498.] 23
 
Lo Stato da principio torna qual’era avanti i Medici. L’elezione agli uffici data per un anno a venti Accoppiatori. — Nuova forma di Governo. La sovranità risedesse in un Consiglio di mille le cui famiglie avessero seduto nei tre maggiori uffici. Da questi uscisse un Senato di quaranta, per l’esame delle Provvisioni vinte dai Signori e Collegi, che poi andassero al Consiglio Grande. — Fra Girolamo Savonarola ferrarese. Autorità somma da lui acquistata con le predicazioni: suo zelo acceso per la forma dei costumi e contro ai vizi del clero; sua indole popolare. — Qualità della sua predicazione: la previdenza dei gastighi in lui era fede. — Sua vita precedente. Forti studi introdotti nel suo Convento insieme a una scuola di pittura. Suoi scritti filosofici e sue poesie. — All’appressarsi di Carlo VIII annunzia i flagelli. — Fin dove s’ingerisse in cose civili. — Come il popolo si esaltasse alle predicazioni del Frate: pigliò Firenze aspetto d’una città penitente: arsioni in Piazza di cose oscene e di strumenti di giuoco. — Favore ai Pisani non che dei Francesi, di molti in Italia. — Nella guerra contro Pisa muore Piero Capponi. — Massimiliano imperatore scende in Maremma, assedia Livorno, poi torna in Germania. — Edificazione di una sala per il Gran Consiglio: divisioni in seno di questo. — Piero de’ Medici con soldati Veneziani s’accosta a Firenze, ma tosto poi se ne ritira. — Cinque cittadini sospettati di congiura pei Medici sono dannati a morte; è negato ad essi l’appello al Consiglio generale. — Il Savonarola in tutto questo si tacque. Non era più il capo effettivo della sua Parte, venuta in mano ai politici: Francesco Valori. — Il Frate ebbe veementi passioni civili, ma era sempre frate. Inalzato dal grande seguito ch’egli aveva, passò dalle minaccie dell’ira di Dio alle affermazioni di profeta. — Avea devoti e partigiani, ma non aveva una parte da sè ordinata e che egli guidasse a un fine pratico e pensato. — Fra Girolamo è chiamato in Roma dal Papa. La Signoria di Firenze s’interpone, ma ingrossano i nemici contro lui: tumulti alle sue prediche. Infine ai 22 giugno 1497 è pubblicata una scomunica non contro alle dottrine sue ma contro lui per disubbidienza. — La Signoria era amica a lui, devoti i Piagnoni, nemicissimi i Compagnacci e gli Arrabbiati. — Fra Girolamo si astiene dal predicare, poi ricomincia nei primi del 98; il che fu occasione di gravi tumulti. — Il Papa ne chiede la consegna, minacciando l’interdetto sulla città; in questa incerti i Consigli. — Ultima predica di commiato. — Nelle precedenti aveva messo innanzi l’idea di un Concilio, ma non fece pratiche per esso. — Il convento di San Marco e il Clero in Firenze. — Fra Domenico da Pescia, predicando, offre la prova del fuoco; un Francescano accetta la sfida. La Signoria favorisce quell’esperimento, per il quale assegna [vii] il giorno settimo d’aprile. — Grande e solenne apparato in Piazza. Contegno provocatore del frati. Vertenze e difficoltà sul modo di fare la prova. Tumulto in Piazza; una grande pioggia costringe tutti a tornare a casa. — Il giorno seguente la città in arme: i Piagnoni percossi o insultati; i più arditi si raccolgono armati in Convento, che viene assalito e infine sforzato non senza uccisioni. La Signoria fa da’ suoi mazzieri porre le mani addosso a Fra Girolamo e a Fra Domenico, i quali sono condotti nelle carceri del Palagio. — Francesco Valori ucciso per via. — Fra Silvestro terzo carcerato: la Signoria nega consegnarli al Papa. Elegge una Commissione d’esaminatori tra’ più avversi ai frati. — Atti e modi del processo. — Fra Girolamo, non reggendo alla tortura, confessa cose che indi subito contradice; la reputazione di lui è abbattuta. — Nuovo esame e nuovi martori: Atti del processo falsificati. — Esami di Fra Domenico e di Fra Silvestro e di altri. — Lettera dei frati di San Marco al Papa. — La Signoria accetta che mandasse questi in Firenze due Commissari a rinnovare il processo. — Meditazioni del Savonarola scritte in carcere e pubblicate subito dopo. — Nuovo esame fatto dai Commissari, i quali cercano per via di tormenti se il Savonarola avesse aderenti alla proposta del Concilio, ma nulla si trova. — Il giorno dopo esce la condanna dei tre Frati a essere impiccati e poi arsi. — La sentenza si eseguisce sulla Piazza ai 23 maggio 1498, presente una grande e varia moltitudine: le ceneri gettate in Arno. — Vittoria in Firenze della parte più mondana, che si scatena contro al Frate. Prime impressioni sul conto suo, poi grandi testimonianze che a lui fecero i più gravi uomini. Dalla scuola del Savonarola uscivano quelli che poi difesero la libertà o la piansero. — Culto del Frate continuato nei conventi Domenicani. — Cercò la riforma, ma dentro al sono della Chiesa.
 
Capitolo III. — Guerra di Pisa. — I Francesi a Milano, gli Spagnoli a Napoli — Il Duca Valentino. — Piero Soderini Gonfaloniere a vita. [An. 1498-1503.]. 63
 
Lega tra ’l Papa e Luigi XII nuovo re di Francia. Il Duca Valentino. — Disegni dei Veneziani sopra Pisa, oppugnati da Lodovico il Moro. — Piero dei Medici in Casentino: assalti a Pisa: sospetti contro a Paolo Vitelli Capitano dei Fiorentini; questi è imprigionato, poi messo a morte. — [1499]. Luigi XII in Milano; Lodovico Sforza fugge in Allemagna, poi torna indietro e i Francesi si chiudono in Novara. [1500]. Lo Sforza tradito dagli Svizzeri, va prigioniero a finire la vita in Francia. — Soldati francesi chiamati dai Fiorentini, parteggiano co’ Pisani. — Il Valentino con l’aiuto dei Francesi conquista la Romagna della quale è dal Papa creato Duca: entrato in Toscana, si pone presso a Firenze; quivi il Governo è senza forza; stragi in Pistoia. — Piero de’ Medici seguita il Borgia, che si fa dare segretamente la signoria di Pisa, poi tratta co’ Fiorentini, e andando a Roma investe Piombino. — Federigo d’Aragona, nuovo re in Napoli. Trattato segreto tra Ferdinando di Spagna e Luigi XII per la divisione di quel Reame. Consalvo di Cordova ne piglia possesso in nome di Spagna. Federigo si rifugia in Francia. — Piero de’ Medici in Arezzo, recuperata poi dalla Repubblica di Firenze con l’aiuto del re Luigi. — Il Valentino soggioga le Marche, poi viene a porsi in Imola. I condottieri che seguivano il Valentino, si erano dichiarati [viii] contro lui; poi si conciliano seco, ed egli venuto sotto Sinigaglia, con inganno gli fa pigliare, 31 dicembre 1502. Orsini e altri strangolati o ritenuti; il Borgia torna in Roma, dopo aver sottomesso Città di Castello e Perugia. — La guerra si rompe tra Spagnoli e Francesi. Consalvo si chiude in Barletta; disfida tra’ cavalieri francesi e italiani, questi rimanendo superiori. — Consalvo, ottenuta grande vittoria alla Cerignola, entra in Napoli a’ 14 di maggio 1503. — Consiglio Grande, sua composizione; popolarmente bene accetto. Difetto d’uomini nei quali fossero scienza e tradizioni, e che intendessero le cose di fuori. Le scelte agli uffici cadevano sopra gli uomini più mediocri. — Infine consentono a una riforma, purchè non si andasse a un governo stretto e che il Consiglio Grande si mantenesse. — Proposta di fare un Gonfaloniere a vita, che viene approvata, ma negato mettergli intorno un Consiglio stretto. È commessa l’elezione della persona al Gran Consiglio, dove intervennero più di duemila cittadini. Fu quivi eletto Piero Soderini, ch’entrò in ufficio il 1º novembre 1502. Sue qualità e sua natura. — Il giorno stesso cessò l’ufficio del Potestà, essendo a quello sostituita una Ruota di cinque Giudici forestieri.
 
Capitolo IV. — Giulio II. — Riacquisto di Pisa. — Grande Lega contro a’ Veneziani. — Guerre in Italia; ritorno de’ Medici in Firenze. [An. 1503-1512.] 94
 
Morte d’Alessandro VI; tumulti in Roma. — Il Valentino raccolto in Napoli da Consalvo, indi prigione in Ispagna, d’onde fuggito, muore combattendo pe’ suoi parenti re di Navarra. — [1503]. Giulio II. — Nuovo esercito francese al Garigliano, distrutto per opera di Consalvo. Morte di Piero dei Medici. — Guerra di Pisa; costanza dei Pisani. Disegni di vari Principi sopra Pisa. L’Alviano per proprio suo conto muovendo al soccorso di Pisa, è vinto alla torre di San Vincenzio in Maremma. Assalto a Pisa, ributtato. — Governo di Piero Soderini. Milizie paesane in tutto lo Stato di Firenze, create per consiglio e con l’opera di Niccolò Machiavelli: loro buoni ordini. — [1506]. Giulio II venuto a Perugia, toglie ai Baglioni la signoria di quella città; va in Urbino, poi entra in Bologna con l’aiuto dei Francesi, ordina il governo di questa città; poi torna a Roma. — Ferdinando il Cattolico viene a Napoli, poi s’abbocca in Savona con Luigi XII; questi recupera Genova, che gli si era ribellata. — Massimiliano imperatore muove guerra ai Veneziani, nella quale perde gli Stati limitrofi all’Adriatico. — [Dicembre 1508]. Lega di Cambray, già preparata in Savona: Spagna, Francia e Germania si uniscono alla distruzione della Repubblica di Venezia; il Papa entra di mala voglia in quella Lega. — I Fiorentini stringono Pisa; vari trattati, dopo i quali i Fiorentini entrano in Pisa [9 giugno 1509]. — Rotta dei Veneziani alla Ghiaradadda; assedio di Padova; Massimiliano si ritira a Verona. — Conferma per danaro i privilegi alla Repubblica di Firenze. — Il Papa si distacca dalla Lega: viene di persona all’assedio della Mirandola e assolda Svizzeri. Spagnoli in Italia contro Francia. — Il re Luigi promuove un Concilio contro a Papa Giulio; il Soderini concede radunarlo in Pisa, dove pochi intervengono. — Nuovo esercito francese in Italia con Gastone di Foix: ribellione e stragi di Brescia: battaglia di Ravenna, dove muore il Foix vincitore [aprile 1512]. — Ma in breve essendo scesi altri Svizzeri, i Francesi [ix] sono cacciati d’Italia; gli Sforza tornano a Milano. — Un Congresso tenuto in Mantova delibera la restituzione dei Medici in Firenze. — Il cardinale Giovanni de’ Medici, e suoi accorgimenti. Stato della città. Bernardo Rucellai. — Filippo Strozzi seniore, suo palazzo. Filippo suo figlio prende in moglie Clarice nata da Piero dei Medici. La Quarantía. — Il vicerè Cardona, entrato con gli Spagnoli in Toscana, intima ai Fiorentini la mutazione dello Stato. Sincero contegno del gonfaloniere Soderini: sollevamento degli animi in Firenze. — Saccheggio di Prato, cittadini prigioni e venduti [29 agosto 1512]. — Terrore in Firenze. Il Gonfaloniere deposto dal magistrato, quindi accompagnato fino al porto di Ancona, d’onde egli passa in Ragusi. — Il Cardinale si ferma in Campi. Gli Spagnoli abbandonano la Toscana. Gian Battista Ridolfi Gonfaloniere. Il Cardinale e Giuliano tornano alle loro case devastate. Chiamano con la forza dei soldati una Balía, per la quale mutato il Governo, è abolito il Gran Consiglio. — Debolezza del governo dei Medici e male contentezze; inimicizia contro ai Medici dei seguaci del Savonarola. — Cospirazione di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi contro alla vita del Cardinale: ultime ore del Boscoli narrate da Luca della Robbia.
 
Capitolo V. — Pontificato di Leone X. [An. 1513-1521.] 127
 
Morte di Giulio II. Leone X fatto Papa [11 marzo 1513]; allegrezze, magnificenze. — Nature di Giulio II e di Leone X. — In Firenze tutti gli animi si volgono al nuovo Papa. — Famiglia dei Medici, governo della città e vari umori del popolo. — Giulio dei Medici; il Cardinale da Bibbiena. — I Francesi avendo la peggio in Lombardia, Venezia ed il Papa ad essi si accostano; pericoli e fermezza dei Veneziani. — [1º gennaio 1515] morte di Luigi XII. Francesco I, giovane re, entra in Italia, distrugge le bande Svizzere a Marignano, ed acquista la signoria di Milano. — Trattato di Leone X con Francesco I. — Leone X in Firenze. Congresso e Concordato di Bologna. — Morte di Giuliano dei Medici. Leone X priva del ducato d’Urbino Francesco Maria della Rovere, e ne fa la conquista in nome del suo nipote Lorenzo [1516]. — Morto Ferdinando di Aragona, il nipote Carlo diviene re di tutte le Spagne. — Venezia, riavuto l’intero stato di Terraferma si mette in pace. — Francesco Maria cerca di ripigliare lo Stato: guerra d’otto mesi, dopo la quale il Della Rovere abbandona e cede il ducato. — Pensieri d’alcuni Cardinali per uccidere Leone X. Il Papa fa in un sol giorno promozione di 31 Cardinali. — Cerca spogliare il Duca di Ferrara. Chiamato in Roma Paolo Baglioni, lo fa morire. — Contegno principesco di Lorenzo de’ Medici in Firenze: nuovi costumi e abiti cortigiani. Il Duca, da un pezzo infermo, muore [4 maggio 1519]: pochi giorni prima gli era nata Caterina che fu regina di Francia. — Il cardinale Giulio dei Medici viene a reggere lo Stato in Firenze. — Carlo V eletto Imperatore [28 giugno 1519]. — Negoziati vari del Papa con Francia e Spagna. — Lega tra ’l Papa e l’Imperatore [1521]. — Grande guerra in Lombardia: l’esercito della Lega entra in Milano. — Morte di Leone X [1º dicembre 1521].
 
[x]
Capitolo VI. — Firenze sotto il governo del cardinale Giulio de’ Medici, poi Clemente VII. — Battaglia di Pavia. — Sacco di Roma. [An. 1521-1527.]. 152
 
Elezione di Adriano VI. — Francesco Maria della Rovere racquista lo Stato: movimenti di guerra nel Senese. — Governo del cardinale Giulio dei Medici in Firenze. Pareri scritti per una riforma dello Stato. — Orti Oricellari: congiura per la quale un Diacceto e alcuni altri sono decapitati, fuggendo il poeta Luigi Alamanni. — In Lombardia gli Svizzeri, che andavano co’ Francesi, sono sconfitti alla Bicocca; Lautrech abbandona la Lombardia: Prospero Colonna entra in Genova con gli Spagnoli, che vi danno il sacco. — Adriano giunge in Roma dove, uomo semplice e severo, è male accetto. — Prepotenze spagnole in Italia. — Disegno di Francesco I interrotto per il tradimento del Borbone. — Adriano stringe lega con Carlo V: muore, [1523]. — [19 novembre] Giulio dei Medici è fatto Papa col nome di Clemente VII. — Stato della città di Firenze: ondeggia tra i Medici e la libertà. Cauto procedere di Clemente. Iacopo Salviati, Filippo Strozzi. Giovanni dell’altro ramo della Casa Medici, già chiaro nelle armi. — Ma la successione della famiglia si riduce nei due bastardi Ippolito e Alessandro: da principio Ippolito è messo innanzi per il governo di Firenze. Il cardinale Silvio Passerini governatore per il Papa. — Carlo V dalla Spagna governa e dirige le cose d’Italia; suoi Generali. — Malo stato della Lombardia. — Guerra in Provenza, fallita. Francesco I scende in Lombardia. — Antonio da Leyva si chiude in Pavia dal Re assediata. Battaglia di Pavia, dove il re Francesco è fatto prigione [24 febbraio 1525]. — Irresolutezze di Clemente. Fra Niccolò Schomberg arcivescovo di Capua. I Fiorentini tutti francesi. — Francesco I condotto in Ispagna, stipula un trattato per cui torna in libertà [18 marzo 1526]. — Sottili disegni del Morone per la liberazione d’Italia: morte del Pescara. Il Morone va con gli Imperiali. — Lega di Cognac. Giovanni Medici dalle Bande Nere. Francesco Guicciardini. — Il Papa mette in difesa Firenze; è tradito dal Moncada e dai Colonna, i quali invadono e saccheggiano il palazzo stesso di San Pietro; il Papa in Castel Sant’Angelo fa un trattato con gli Spagnoli, subito violato. — Morte di Giovanni delle Bande Nere. — I Lanzichenecchi varcano il Po: gli Spagnoli si uniscono a loro. Dubbia fede di Francesco Maria della Rovere: consigli del luogotenente Guicciardini. — Volteggiamenti del Papa. L’esercito del Borbone entra in Toscana e quindi avanza fino ai prati di Roma. — Combattimento in Trastevere con la morte del Borbone. Sacco di Roma [6 maggio 1527]: Clemente prigioniero in Castel Sant’Angelo.
 
Capitolo VII. — Niccolò Machiavelli. — Francesco Guicciardini — Michelangelo Buonarroti. Descrizione della Città e Stato di Firenze. 183
 
Capitolo VIII. — Cacciata de’ Medici e Governo popolare. — Carlo V in Italia e suo accordo col Papa. [An. 1527-1529.] 208
 
Mala disposizione contro alla Casa Medici dei maggiori tra gli Ottimati. — In Firenze i giovani chiedono le armi; quindi all’appressarsi [xi] dei due eserciti la città insorge e si dichiara contro ai Medici. Ma essendovi entrati i Capitani della Lega, si fa un compromesso. — Pel caso di Roma i moti crescono in Firenze. Filippo Strozzi e madonna Clarice sua moglie. I due giovani Medici obbligati a partirsi di Firenze. — I popolani armati impongono la riapertura del Consiglio Grande e un Governo com’era nel dodici. — Niccolò Capponi eletto Gonfaloniere per tredici mesi. — La città è divisa tra chi voleva e chi non voleva romperla affatto co’ Medici. — Evasione del Papa. — Feste in Firenze. Rigori contro ai partigiani dei Medici; guardia di giovani al Palagio. — [1528]. Distruzione dell’esercito francese sotto Napoli: finiscono le Bande Nere, che erano al soldo dei Fiorentini. — Andrea Doria, fattosi amico a Carlo V, costituisce in Genova una forma nuova di governo. — I Francesi dopo altre sconfitte abbandonano anche la Lombardia. — Istituzione in Firenze d’una milizia per cui si danno le armi in mano al popolo. Solennità; orazioni che furono recitate. — Sedizione dei giovani che avevano preso la guardia del Palagio. Condanna di Iacopo Alamanni e sua decapitazione. — Ingrossa la parte avversa al Capponi. — Ippolito dei Medici è fatto Cardinale. — Pratiche di Clemente per fare tornare i suoi in Firenze come semplici cittadini. Il Gonfaloniere ascolta queste pratiche. — Una lettera caduta di mano a lui è occasione a destituirlo dal magistrato e farlo mettere in accusa. Viene assoluto in quel giudizio, e torna a casa onorato. Francesco Carducci eletto in sua vece. — Pratiche di pace tra ’l Papa e Cesare. In Firenze i più esperti consigliavano accostarsi a questo. Andrea Doria ne faceva formale proposta e mandava qui a tal fine, ma inutilmente, Luigi Alamanni. — Trattato di Barcellona, pel quale il Papa e Cesare si obbligano a rimettere i Medici in Firenze. — Pace di Cambray: Francesco I promette l’abbandono dei suoi alleati, intanto che egli e la Corte addormentavano l’ambasciatore Baldassarre Carducci di vane promesse. — Moti diversi degli animi in Firenze. — Carlo V a Genova [12 agosto 1529]: nuovo assetto allora dato da lui all’Italia. — Quattro ambasciatori mandati a Cesare, dal quale sono rinviati al Papa. I quattro sono divisi tra loro. È ad essi vietato seguirlo in Piacenza. — L’ambasceria si discioglie, e Niccolò Capponi muore in Castelnuovo di Garfagnana.
 
Capitolo IX. — Apparecchi di guerra e negoziati. — Stato della Città. — Primi sei mesi dell’Assedio. [An. 1529-1530.] 238
 
Carlo V fa muovere contro Firenze il Principe d’Orange; come si componesse l’esercito da lui condotto. — Alfonso da Este abbandona i Fiorentini, ai quali Venezia ricusa mandare aiuto di soldati. — Clemente invia contro Perugia il Principe d’Orange. — Malatesta Baglioni soccorso dai Fiorentini, si accorda col Papa di loro consentimento. — L’Orange [14 settembre] assale Cortona che resiste, poi s’arrende. — Castiglione Fiorentino saccheggiato. — I nemici investono Arezzo, di dove il Commissario fiorentino si ritira. — L’Orange pone il campo a Figline, e intanto fa dai suoi occupare il Casentino. — In Firenze si delibera mandare al Papa quattro ambasciatori: andò innanzi agli altri Pier Francesco Portinari a fare istanza perchè il Papa fermasse l’esercito: parole del Papa che invia l’Arcivescovo [xii] di Capua. — Questi giunto in Firenze, non vi è ascoltato. Mandano all’Orange ambasciatori. I tre che raggiungono in Roma il Portinari trovano il Papa sulla partenza: sono ascoltati da lui in Cesena, ed hanno risposte che in Firenze non sono accolte. — Il Gonfaloniere aveva chiamato una Pratica generale dove da tutti i Gonfaloni, eccetto uno solo, viene deliberata la resistenza. — Fautori dei Medici fuggiti e banditi o ritenuti o condannati. Arsioni delle loro ville. — Arsioni e guastamenti per decreto pubblico degli edifizi e giardini a un miglio dalla città. — Fortificazioni alla città. Fanti assoldati e milizie cittadine; Malatesta Baglioni e Stefano Colonna. Balzelli, vendita di beni. — Fuga e poi ritorno di Michelangelo Buonarroti che dirigeva le fortificazioni. — Stato degli animi in Firenze. — Devastazione del Val d’Arno. Lucrezia Mazzanti. L’Orange si conduce fino ad un miglio dalla città [14 settembre]. — Descrizione del campo dei Fiorentini. — Descrizione del campo degli assedianti, Italiani, Tedeschi e Spagnoli. — Malatesta disfida i nemici: questi la notte degli 11 novembre danno l’assalto alla città, che si difende popolarmente. — Gli assediati assalgono il campo nemico, da cui si ritraggono onoratamente. — Morte di Mario Orsini e di Giorgio Santa Croce. — Un nuovo esercito scende di Lombardia: la città chiusa da ogni parte; perdita di Signa, di Pistoia e d’altri luoghi. — Francesco Ferrucci Commissario d’Empoli, ripiglia Castel Fiorentino, assale ed espugna San Miniato; distrugge una banda di Spagnoli presso Palaia. — Francesco Carducci esce di Gonfaloniere, a cui succede Raffaello Girolami [1º gennaio 1530]. — Il Gonfaloniere, convocato un grande Consiglio, lo interroga circa al mandare ambasciatori al Papa; il che fu approvato, ma poi annullano il voto e mettono condizioni che sono respinte duramente. — Leggi spietate per fare danari sopra i beni dei ribelli; ori e argenti dei luoghi sacri mandati alla Zecca. — Predicatori popolari che promettevano liberazione: Fra Benedetto da Foiano. — Caterina dei Medici: disegni attribuiti al Principe d’Orange. — Malatesta Baglioni fatto Capitano generale. Suo concetto sopra i pericoli dell’impresa; di qual sorta fosse il suo intendersi con Clemente. Propositi forti delle milizie cittadine. Scaramuccie continue, disfide. — Combattimento particolare con la morte di Lodovico Martelli. — Carlo Capello ambasciatore veneziano. — Valore di Lorenzo Carnesecchi nella difesa della Romagna. — Proposte vane di Francia; pensieri del Vescovo di Tarbes Oratore francese a Roma: parole di Clemente e suo infelice stato dell’animo.
 
Capitolo X. — Impresa di Francesco Ferrucci e sua morte. — La Città si rende a patti. [Dall’aprile all’agosto 1530.] 277
 
Il territorio della Repubblica per grandissima parte occupato dai nemici. Francesco Ferrucci da Empoli sostiene la guerra nelle provincie circostanti. — Ribellione di Volterra. — Il Ferrucci, rinforzato di genti, assale Volterra, che dopo fiera battaglia nelle strade si dà a discrezione. — Fabbrizio Maramaldo, entrato nei borghi di Volterra, vi si fortifica. Il Marchese del Vasto, venuto dal campo sotto Firenze, assalta Volterra, dalla quale è cacciato indietro dopo replicati combattimenti. — Perdita d’Empoli per assalti e tradimenti. — Malatesta in persona fa una mossa contro al campo Imperiale. — Assalto notturno [xiii] e sanguinoso di Stefano Colonna contro al quartiere degli Imperiali a Sant’Iacopo in Polverosa. Penuria di viveri e di danaro. — Milizie accresciute, disegni temerari, male intelligenze con Malatesta. — Il Ferrucci muove da Volterra. S’ammala in Pisa, indi procede fino a Pescia d’onde per la via dei monti aveva disegno scendere al soccorso di Firenze. — Pratiche di Malatesta con l’Orange. — Deliberazione del Grande Consiglio di dare l’assalto; al che Malatesta e il Colonna si oppongono. — Intelligenze del Malatesta con l’Orange: la Signoria invia sul campo Bernardo da Castiglione, che torna avendo rotta ogni pratica. — In città i soldati in arme, la gioventù in arme. — Grande mossa dell’Orange contro al Ferrucci: si scontrano in Gavinana. [3 agosto]; battaglia lunga e diversa, morte del Principe. Sopraggiunge il Maramaldo, dal quale è preso e ucciso il Ferrucci. — In Firenze altri chiedono armi, altri s’accostano a Malatesta. Egli e il Colonna mandano a fare accordo col Gonzaga. Zanobi Bartolini. Baccio Valori. Bozza di Capitoli. — Malatesta propone si accettino; la Signoria manda invece licenza a lui ed al Colonna. Malatesta ferisce un Niccolini che gliela aveva recata, e minaccia di fare entrare i nemici. — Quattrocento giovani e ricchi e uomini di più sorte si radunano nella piazza di Santo Spirito, facendo dire alla Signoria che non riconoscono più altri che Malatesta. — La Signoria manda al campo quattro ambasciatori per capitolare. Pochi in arme si raccolgono intorno al Palazzo. — Articoli della Capitolazione [12 agosto].
 
Capitolo XI. — Fine della Repubblica. [An. 1530-1532.] Firenze dopo la Repubblica 301
 
Entrano i soldati: Malatesta padrone della città: balzelli, carestia e morti per tutto lo Stato. — Parlamento in Piazza, guardata dai soldati; Baccio Valori fa eleggere una Balía, per cui rimangono con nuovi uomini le antiche forme. — Avarizia dei Capitani dell’esercito, che non lasciano entrare i viveri; fame, timori e nuovi carichi sulla parte vinta. — Grande zuffa degli Italiani del campo contro agli Spagnoli ed ai Tedeschi: partenza di tutto l’esercito. — Malatesta, dopo qualche difficoltà col Papa, torna a Perugia e indi muore. — Ritorno degli usciti. Condanne a morte, e in grandissimo numero a confine. I beni dati al Fisco; restituiti ai proprietari i già tolti e le vendite annullate; riduzione dei frutti del Monte. — Colonie d’esuli a Venezia e sul fiume Rodano. — Stato miserabile della Toscana: le città e le minori terre bene inclinate verso i Medici. — Baccio Valori Governatore in Firenze. — Non bene contenti i grandi amici e i parenti di Casa Medici. — Il Cardinale Ippolito. — Ambasceria e discorso di Palla Rucellai a Carlo V. La Balía conferisce al Duca Alessandro un alto grado in Firenze. — Lodo pronunziato dall’Imperatore, che istituisce capo della Repubblica di Firenze il Duca Alessandro, al quale aveva sposata Margherita sua figlia naturale. Questi al suo giungere riceve l’investitura solenne per mano di Antonio Muscettola, e riceve il giuramento dei Magistrati [6 luglio 1531]. — Pareri presentati al Papa circa il governo di Firenze. — Ricerca delle armi per tutte le case. — Condanne ad arbitrio; terrore; sevizie d’un Bargello. — Filippo Strozzi promotore presso Clemente di un governo assoluto e del fabbricare in Firenze una fortezza. Clemente risoluto fare da sè, manda Filippo dei Nerli in Firenze: parole del Papa. — Comandi del Papa comunicati in Firenze all’Arcivescovo di Capua ed ai principali [xiv] cittadini. — Nuova forma dello Stato, dove il principe era tutto. — [1º maggio 1532]. L’ultimo Gonfaloniere esce di Palazzo: Alessandro dei Medici ne piglia il possesso come Duca della Repubblica fiorentina: cominciò allora il Principato. — Firenze dopo la Repubblica.
 
Appendice di Documenti.
 
I. Lettera dei Dieci di Balìa a Guidantonio Vespucci e Pier Capponi oratori presso il Re di Francia, dei 7 maggio 1494. 343
 
II. Litteræ Credititiæ et Mandata quinque Oratorum, fratris Hieronymi de Savonarola predicatoris, Tanai Neroli, Pandolfi Rucellarii, Petri Caponii et Ioannis Cavalcantis, deliberata die V novembris MCCCCLXXXXIIII. — Carolo Regi Gallorum. Mandata quinque Oratorum ad Carolum Regem Francorum 346
 
III. Trattato segreto di Confederazione tra Leone X e Carlo V, de’ 17 gennaio 1519.
Capitoli segreti tra Leone X e Francesco I, de’ 20 gennaio 1519 348
 
IV. Quindici lettere di Rosso Buondelmonti e compagni, oratori presso al Principe d’Orange; dal 13 al 30 settembre 1529 361
 
V. Cinque lettere di Ferrante Gonzaga al Marchese di Mantova suo fratello, date dal Campo Cesareo sotto Firenze; dal dì 16 luglio al 4 agosto 1530. 377
 
VI. Orazione di Palla Rucellaio recitata nel cospetto di Carlo V imperatore per nome dell’Eccelsa Repubblica Fiorentina 385
 
Tavola dei nomi e delle materie 389

[1]

STORIA DELLA REPUBBLICA DI FIRENZE.

LIBRO SESTO.

Capitolo I. IMPRESA DI CARLO VIII IN ITALIA. — RIBELLIONE DI PISA, CACCIATA DE’ MEDICI. [AN. 1492-1495.]

Se vi ebbe mai tempo in cui si veggano ad un tratto mutare aspetto le umane cose come per iscena di teatro, e nuovi uomini atteggiarsi diversamente da quei di prima, e un altro ordine prodursi di fatti e d’idee; tale fu quello al quale è giunta l’Istoria nostra, talchè gli scrittori sogliono quivi fermare il punto dove si chiude l’età di mezzo, e ha suo principio la moderna. Composte allora le grandi nazioni nella unità di monarchie possenti, cominciarono a mescolarsi tra loro per grandi imprese, cui dava il segno quella di Carlo VIII per la conquista del Regno di Napoli; i grossi eserciti permanenti e l’armi da fuoco in mano ai soldati mutavano gli ordini e le condizioni della guerra; intantochè l’uso già universale della stampa rendeva più agevoli a tutti gli uomini, e continui tra gente e gente i commerci del pensiero. In questo anno 1492 del quale scriviamo, Cristoforo Colombo scuopriva l’America; e poco dopo Vasco di Gama portoghese, girando l’Affrica, navigò alle Indie: l’Italia ebbe doppia cagione d’abbassamento dall’essersi ai [2] traffici aperte altre vie da quelle di prima. In quello stesso 1492, il conquisto di Granata compieva l’unificazione della Spagna sgombrata dai Mori; ed era compiuta già quella di Francia. Nell’anno medesimo il pontificato di Alessandro VI inaugurava quei tristi tempi, di mezzo ai quali uscì la Riforma protestante che scisse l’Europa, e fu vendetta delle nazioni consumata col Sacco di Roma e con l’avvilire non che la potenza, ma il genio stesso e le tradizioni del nome latino.

Le guerre d’Italia diedero cagione allo incontrarsi la prima volta insieme Francesi, Spagnuoli, Tedeschi; e l’antica terra fu il campo di quelle battaglie dalle quali usciva l’Europa moderna. Fino alla prova di quelle guerre l’Italia tenevasi (nè senza ragione) in più alto grado delle altre genti: discesero queste, e ritrovandola disarmata, divisa, impotente; allora pigliarono maggiore fiducia di sè medesime, e si rallegrarono: ma nell’Italia cessò ad un tratto la vita esultante degli ultimi anni; falliva il pensiero nutrito più secoli, le arti politiche si vedeano fatte ludibrio a sè stesse. Fra queste ruine Firenze rinvenne la popolare libertà sua e fiorì per uomini rimasti famosi; felice a confronto delle altre Provincie, finchè tutto il peso delle armi straniere non cadde sovr’essa per quivi estinguere la vita d’Italia.

In quella sorta di potenza che per sessant’anni i Medici tennero nella Repubblica di Firenze, questo era di debole, che nulla avendo in sè di legale, dipendeva tutta dalle qualità dell’uomo cui era duopo mantenersela ogni giorno con arti minute: per il difetto di queste cose il figlio di Cosimo era stato a grande repentaglio di vedersi tôrre di mano lo Stato; e come il figlio di Lorenzo lo perdesse, bentosto vedremo. Piero dei Medici, valente del corpo, aveva dura la fibra, l’animo leggero, scarso l’ingegno e presontuoso, il consiglio subitaneo e temerario: toccava appena [3] ventidue anni quando suo padre moriva. Ebbe a maestro il Poliziano e da lui buona coltura di lettere; ciò non ostante alla madre sua, specchiata donna, non piaceva tenersi per casa quest’uomo d’animo poco buono e di costumi non pari all’ingegno.[1] Gaj e fastosi erano quegli anni, e al giovane Piero sopra ogni cosa piaceva mostrarsi eccellente negli esercizi del corpo: era vissuto fino allora come figlio di principe, e quando i più qualificati cittadini vennero ad offrirgli, com’era consueto, il grado del padre, si tenne egli subito naturalmente Principe, non pensando nè quali fatiche avesse a Lorenzo costato fermare io direi quasi uomo per uomo i cittadini nell’ubbidienza sua, nè come i tempi ora volgessero a Casa Medici più difficili e a tutta Italia pericolosi. Le ragioni commerciali di quella famiglia erano si può dire in fallimento, e tutto l’ingegno e le seduzioni di Lorenzo appena bastavano ad abbagliare siffattamente gli occhi dei più spensierati che non vedessero divorate per lui solo, non che molta parte del pubblico erario, le stesse private ricchezze e le doti fidate nei Monti di credito alla università dei cittadini, finchè la Repubblica fu libera di sè stessa. Molti che avevano temuto Lorenzo o che erano da lui tenuti a bada con gli onori e con gli adescamenti dei quali era maestro, disprezzavano la inesperienza, o erano offesi dalla superbia di Piero. Questi volentieri si ristringeva coi più servili che l’odio pubblico non temessero. Primo tra questi era un ser Piero Dovizzi, fratello maggiore di più anni a quel Bernardo da Bibbiena, che poi fu Cardinale e chiaro per franco ingegno. Quegli era stato sotto a Lorenzo grande strumento al fare danari; ma Piero gli messe in mano ogni cosa, e tirò alla Cancelleria di casa sua tutte le faccende che prima solevano stare negli Otto della Pratica.[2] [4] Erano in Firenze due molto ricchi e gentili giovani di Casa Medici, Lorenzo e Giovanni, del ramo che discendeva dal fratello del vecchio Cosimo. Giovanni una sera a un ballo di donne essendo venuto con Piero a contesa per giovanili rivalità e forse per altri sospetti, ebbe da lui una ceffata; del che risentitosi, fu egli insieme col fratello suo messo in custodia, e forse avrebbe corso pericolo della vita: ma infine Piero si contentava di una sentenza che gli mandava a confine nelle loro ville, contenuto dal favore che ad essi mostrava il popolo di Firenze.[3] Tale fu Piero, secondo i fatti mostrarono e tutti concordemente giudicarono gli scrittori. Non erano spente in lui però le tradizioni della famiglia, per le quali aveano fermo i Medici d’essere in fatto principi, ma con le apparenze di uomini privati; sapeano gli umori della città, e aborrivano sopra ogni cosa dall’ingerirsi di signorie baronali. Quando una volta il re Alfonso offriva donare a Piero alcuni Stati nel Reame, il che era farlo suo feudatario; questi rendeva umili grazie, ma rifiutava d’accettare il dono perchè non voleva essere Barone; usando parole che hanno del risentito, e in lui mostrerebbero nobiltà d’animo degna forse d’accoppiarsi a mente più salda, o a meno avversa fortuna.[4]

Al di fuori l’equilibrio tra’ potentati d’Italia riusciva ogni giorno più difficile a mantenere. Svolgeasi il disegno che di lunga mano aveva covato Lodovico Sforza detto il Moro d’usurpare il Ducato di Milano, [5] del quale era egli reggente in nome dell’infelice suo nipote Giovanni Galeazzo; ma questo essendo marito a una figlia di Alfonso duca di Calabria, tutti si aspettavano che ne uscirebbe una guerra tra’ due potentati, massime che il vecchio re Ferrando di Napoli male poteva opporsi con la prudenza agli ardimenti del figlio. Al che si aggiunse più grave caso, che tre mesi dopo la morte di Lorenzo, al papa Innocenzio VIII, che soleva molto a lui essere deferente, era succeduto col nome di Alessandro VI Roderigo Borgia spagnuolo e nipote di Callisto III; per il che avendo egli vissuto nel Cardinalato trentacinque anni, aveva potuto con l’ingegno, ch’era in lui molto, studiare le vie, oltre all’avere acquistate ricchezze grandissime. Divenne il papato d’Alessandro VI come una leggenda di delitti e di nefandezze, nè crediamo noi che i fatti spacciati sul conto di lui e della famiglia Borgia siano tutti veri, ma tutti parvero cosa naturale in chi mostrava non essere frenato nè dalla coscienza nè dalla vergogna dove il suo utile apparisse. Il vecchio Ferrando di Napoli, udita la creazione d’Alessandro, disse; quel Papa sarebbe ruina d’Italia.[5] Lodovico il Moro, anch’egli tenendo pericolosa l’elevazione di un uomo tale, ebbe un bel pensiero: voleva che tutti gli Ambasciatori dei Principi italiani andassero insieme a fare omaggio, com’era usanza, al nuovo Pontefice, e che uno facesse l’orazione in nome di tutti: ma il disegno fu sventato per l’opera (dissero) di Piero de’ Medici, da un lato istigato dai principi Aragonesi di Napoli cui molto aderiva, dall’altro bramoso di non confondersi egli, ch’era tra gli Ambasciatori di Firenze, con gli altri d’Italia, e fare spiccare meglio da sè solo la magnificenza delle sue livree. Un altro fatto, sebbene anch’esso [6] di poco momento, servì ad accrescere i sospetti. Si era da principio molto accostato Alessandro VI ai principi Aragonesi, cercando inalzare uno dei figli suoi col matrimonio di una bastarda di Alfonso; ma perchè la pratica allora si ruppe e il Papa mostrava altri disegni, si pensò il Re porgli sul collo come una briglia col fare che Virginio Orsini, a lui devoto, comprasse da Franceschetto Cibo alcune piccole castella che Innocenzio VIII gli aveva donate vicine a Roma; il re Ferrando sborsò i denari, ed il contratto si fece per l’intromessa di Piero dei Medici, parente stretto e grande amico dell’Orsini. I quali indizi, comunque piccoli, bastarono alla sagacità di Lodovico perchè egli scorgesse come all’occorrenza Toscana e Napoli si volgerebbero contro a lui: nè si fidava in certa lega stretta da lui col Papa e co’ Veneziani; ma era di quelle che tra’ Principi d’Italia un giorno faceva ed un altro disfaceva, e i tempi frattanto divenivano più grossi.[6]

Lodovico allora, che aveva l’ingegno sottile e pronto alle cupidità vicine quanto era l’animo troppo angusto ai vasti pensieri che in sè comprendono l’avvenire, si volse a chiamare in Italia Carlo VIII re di Francia. Aveva questi ereditato le ragioni sul regno di Napoli dei Duchi d’Angiò; ma insieme aveva sotto alla corona sua non più quella Francia debole e divisa che per gran tempo era stata, ma intera dentro a quei confini che essa ha da natura, così già essendo il più possente tra gli Stati che avesse l’Europa. Lorenzo de’ Medici, veduta ch’egli ebbe con l’annessione della Brettagna compita essere quella unione, aveva predetto i mali che verrebbero all’Italia dai Re francesi. Ma Carlo esultava in quella grandezza giovanilmente, e con lui molti di quella nazione fra tutte guerriera, ma poco considerata: lo Stato nuovo per anche non [7] aveva bene composte le forze sue, mancava il danaro; e Carlo, smanioso d’acquistare gloria, non era capace a condurre sè medesimo, non che un reame di quella mole e una tale impresa. Facea Lodovico prima tentare segretamente l’animo suo e de’ suoi ministri, uomini nuovi e molto cedevoli a private cupidigie. Mandava dipoi con ambasciata solenne Carlo da Barbiano conte di Belgioioso che offrisse al Re per la riconquista del reame di Napoli tutte le forze di Lombardia: già erano ai fianchi del giovane Carlo eccitatori all’impresa i Principi di Salerno e di Bisignano, ambo di Casa Sanseverina, fiera nemica degli Aragonesi. Ma in Francia gli uomini di maggior prudenza, nè al Re si fidavano nè a’ suoi consiglieri nè alle forze stesse del reame per anche immature: facile il vincere, dicevano, pericoloso il rimanere nei luoghi occupati; degli Italiani le armi disprezzavano, le arti temevano. Carlo stesso vacillava, com’era proprio della natura sua; ma sempre poi la temerità vincendo in lui la prudenza, si era pacificato con tutti i Principi a lui vicini, a quello di Spagna cedendo la provincia del Rossiglione, perchè da niuno dei grandi potentati fosse impedito quel suo disegno che vaneggiando si allargava da Napoli fino alla cacciata dei Turchi e alla corona del greco Impero. Da tali stimoli agitato, ordinava s’accogliessero da tutta la Francia le armi in Lione, dove il Re stesso poneva stanza nei primi mesi del fatale anno 1494.[7]

All’appressarsi di tali eventi, che ciascuno in sè presentiva dovere essere formidabili, grande fu in Italia il moto degli animi, nei Principi incerto ed instabile il consiglio. Piero dei Medici agli oratori venuti in nome del Re di Francia perchè la Repubblica si dichiarasse per lui, rispose ambiguo tra le inclinazioni dei Fiorentini amici antichi di quella Casa, e le sue [8] proprie che s’era legato con tutto l’animo agli Aragonesi. Questa città, che i suoi commerci e i capitali avea in gran parte fuori di casa, era costretta in ogni guerra temere per sè; in Francia avevano banchi fiorentissimi, ne avevano a Napoli: i due Re minacciavano rappresaglie; ed infine Piero avendo mostrato apertamente l’inclinazione sua verso la parte degli Aragonesi, Carlo scacciò di Lione i soli ministri del Banco dei Medici, così mostrando di riconoscere l’ingiuria da lui e porlo in odio ai Fiorentini.[8] Già erano appresso al Re ambasciatori di questa Repubblica; uno dei quali Piero Capponi, bramoso in segreto della caduta di Piero dei Medici, aggravava le commissioni perchè il Re più s’inasprisse contro a lui, secondo parve a Filippo de Comines scrittore insigne di questi fatti.[9] Degli altri Principi, Venezia se ne stava chiusa nella fiducia della potenza sua; l’inerzia piaceva a una Repubblica d’ottimati, molti dei quali non voleano credere alla discesa di Carlo VIII.[10] Papa Alessandro, seguendo le sue private passioni, aveva più volte nel corso di pochi mesi mutato amicizie; stringevasi infine con Alfonso che era succeduto nella corona al vecchio Ferdinando, e che mandava buon numero di soldati a cacciare dalla rôcca d’Ostia il fiero ed al Papa nemicissimo Giuliano della Rovere cardinale di San Pietro in Vincula; il quale fuggitosi per mare una notte, si recò a Vienna nel Delfinato, dov’era già il Re con tutto l’esercito.

Grandi erano intanto gli apparecchi d’Alfonso, il quale sapendo le guerre di Napoli doversi vincere fuori del Reame, aveva mandato per mare il fratello Federigo [9] con forte armata contro a Genova, sperando con l’aiuto de’ fuorusciti ribellarla dalla signoria di Lodovico: ma la spedizione mosse troppo tardi, e questi inviativi da Milano soldati in gran fretta contenne Genova, e indi con l’aiuto di Luigi duca d’Orléans, cugino del Re, battute le forze nemiche a Rapallo, costrinse Federigo con tutte le navi a ricovrarsi nel porto di Livorno, aperto a lui dall’amicizia di Piero dei Medici. Da un’altra parte muoveva il giovane Ferdinando duca di Calabria con buono esercito inverso Romagna, sperando procedere insino a Parma, città male affetta ai Duchi di Milano, e che gli avrebbe aperto l’entrata nel cuore di Lombardia. Ma convenivagli amicarsi prima quei Signorotti della Romagna; al che fu ostacolo principale Caterina Sforza che in nome del piccolo figlio teneva Forlì. A questo modo le due imprese, le quali dovevano cuoprire il Reame, del pari fallivano; e Carlo, cedendo ai nuovi stimoli che egli ebbe dall’impetuoso Cardinale, e valicate pel Monginevra le Alpi, giungeva in Asti ai 9 settembre.[11]

Aveva seco oltre a dugento gentiluomini della guardia sua, mille seicento lance composte, tra uomini d’arme, arcieri e valletti, di sei cavalli ciascuna; cui s’aggiungevano, con sempre incerta numerazione, ottomila fanti guasconi con archibuso e spada a due mani; dodicimila balestrieri di altre parti della Francia, e ottomila Svizzeri con picche e alabarde: fu creduto che attraversassero la Toscana sessantamila soldati francesi.[12] Grande era il numero delle artiglierie, tali che Italia non aveva mai veduto le somiglianti; perchè le antiche bombarde per la pesantezza loro, e per essere le palle di pietra, si trascinavano lentamente tirate da buoi, ed era il piantarle lungo e difficile, ed i colpi di ciascuna molto radi; laddove i Francesi avendo i cannoni loro più spediti, gli tiravano a cavalli [10] e gli piantavano e muovevano facilmente, essendone oltreciò i colpi assai più frequenti e gli effetti più gagliardi. Ma troppo inferiori in Italia erano per valore e fede i soldati, mercenari essi ed i condottieri loro, che per guadagno, mutando spesso padroni, tutti gli frodavano e poi gli tradivano: in Francia invece le milizie pagate dal Re si componevano di gentili uomini, che oltre agli stimoli dell’onore aveano certezza, con mostrarsi valorosi, di avanzare nei gradi, i quali salivano infino a quello di capitano; le compagnie inoltre non si rinnovavano a capriccio, nè si mutavano per diserzioni e arruolamenti, ma erano d’uomini per lo più della provincia stessa insieme avvezzi a combattere e a emularsi: il che si vuol dire anche dei fanti, che nelle battaglie tenevano il fermo, laddove in Italia si sbandavano al primo scontro: così la milizia, che era qui un mestiere, in Francia tenevasi il più decoroso degli uffici. Scendevano lieti in paese dovizioso, di dolce clima e di dolce vivere, al mondo famoso, da dover essere onorata preda.

In Asti veniva Lodovico Sforza con la moglie Beatrice d’Este e splendido accompagnamento di dame e signori: grandi le onoranze, ma sospetti rinascenti sempre rendevano Carlo dubbioso al muoversi, perchè a ogni passo temeva una frode. Nè senza motivo, Lodovico tenendo in riserva già l’altro disegno, quello di chiudere in Italia l’oste francese ed opprimerla, nè avendo cessato mai dal praticare segretamente con Piero de’ Medici, di cui fu detto che lo avesse denunziato a Carlo.[13] Il quale in Asti côlto dal vaiuolo, dovè indugiare più settimane; dipoi visitata in Casale la [11] Reggente del marchesato di Monferrato, che gli imprestò gioie da farne denari, venne il Re a Pavia, dov’era tenuto sotto la guardia dello zio il duca Giovanni Galeazzo cugino del Re per esser nati da due sorelle della casa di Savoia. Lodovico avrebbe voluto nascondere a Carlo quel misero giovane infermo e insidiato dalle male arti dello zio, e chiuso, perchè fosse obliato, in quel castello insieme alla moglie Isabella d’Aragona figlia d’Alfonso, e ad un bambino di pochi anni. Andava Carlo a visitare il cugino giacente nel letto, cui non disse altro che poche parole di conforto, essendo presente Lodovico; quando entrava Isabella che gettandosi a’ piedi del Re, bella, infelice ed animosa, gli raccomandava il padre e il fratello e la casa d’Aragona: ma Carlo rispose, ch’era troppo tardi; e si levò tosto commosso, e impacciato, dal tristo colloquio. Venne a Piacenza, dove allo Sforza giunse avviso della morte del nipote, che tutti crederono da lui medesimo affrettata; ond’egli recatosi a Milano, e quasi cedesse alle preghiere di molti, pigliava il governo in proprio suo nome, sebbene tenesse nascosta per allora l’investitura che già con danari aveva ottenuta da Massimiliano imperatore.[14]

Carlo da Piacenza muoveva diritto alla volta di Toscana per la via di Pontremoli, ed aveva campeggiando in Lunigiana prese alcune castella suddite o raccomandate ai Fiorentini e saccheggiato Fivizzano. Per il che in Firenze dai governatori dello Stato si cominciò a temere, e dalla parte avversa a questo si cominciò a sperare ed a sparlare senza rispetto di Piero de’ Medici. Il quale cercando provvedere alla difesa, quando si venne in Firenze a fare danaro trovò inaspettata difficoltà nell’universale, e duri e male disposti allo spendere gli amici più facoltosi a cui ne aveva fatta richiesta. Onde egli senza fare altra prova [12] sulla fede dei cittadini, e male imitando l’esempio del padre quando si recò a Napoli, prese consiglio di andare al Re e rimettersi nelle sue braccia lasciando la Lega degli Aragonesi con le condizioni migliori d’accordo, che a lui fossero possibili. Uscì di Firenze subitamente una sera con pochi amici, e venuto al Re, gli offriva quasi che spontaneamente Sarzana e Pietrasanta, luoghi ben muniti, poi Mutrone e Ripafratta ed altri castelli, egli come libero padrone e senza averne autorità dalla Signoria. A queste cose non è da dire se gli animi si alterassero in Firenze, di già sollevati per la partenza di Piero. Nelle Pratiche e nello stesso ufficio dei Settanta dove Casa Medici aveva i suoi più sviscerati, non mancavano parole di fiero concetto, ma spesso timidamente proferite, e poi annacquate, perchè dopo sessant’anni la dominazione di quella famiglia si era in Firenze connaturata. I più disposti a cose nuove facevano capo a Piero Capponi, e fra tutti si metteva innanzi un messer Luca Corsini, il quale una notte andò per suonare a martello la campana grossa; ma ritenuto, non potè suonare che due o tre tocchi, dal che la città fu più che mai turbata e confusa. In Palagio avevano co’ modi regolari eletta una Ambasceria di cinque cittadini che andassero a Carlo, dei quali era primo Fra Girolamo Savonarola. Si appresentarono questi al Re, ma senza venire a sorta alcuna di conclusione.[15]

Piero de’ Medici in quel mezzo tornava in Firenze, e aveva dato ordine a Paolo Orsino, che era agli stipendi della Repubblica e suo congiunto, di fare soldati nel contado e riunirli seco in città; donde gli avversari suoi si risolverono infine a mostrarsi. La maggior parte della Signoria s’era volta contra a Piero; Iacopo de’ Nerli, armato con altri che lo seguitavano, venne in Palagio, e fattolo serrare, stava a guardia [13] della porta. Era la mattina de’ 9 novembre, e Piero co’ suoi staffieri e gran numero d’armati, armato anch’egli, ma sotto il mantello, venne al Palagio, dove trovò la porta chiusa, e fugli risposto che se voleva entrare entrasse solo e per lo sportello. S’avvide allora che avea perduto lo Stato, e tornò a casa; dove bentosto udì che il popolo si levava; ed essendogli da un mazziere della Signoria notificato il bando di rubello, montò a cavallo e prese la via di Bologna. Il Cardinale Giovanni suo fratello, ch’era in Firenze, avea tentato venire in Piazza con seguito d’armati; ma visto che il popolo moltiplicava, se ne fuggì anch’egli vestito da frate per la stessa via, e seco Giuliano minore fratello, e degli amici della famiglia taluni che erano dei più odiati. La splendida e ornata magione di Cosimo e di Lorenzo andava a sacco; involate a questa molte ricche suppellettili e preziosità dell’arte, e libri e anticaglie. Correva la plebe alle case d’altri dei più noti partigiani, ma uomini savi raffrenarono il tumulto; e intanto i Signori chiamato il popolo in Piazza, annunziarono essere abolito l’ufficio degli Otto di Pratica, e l’ordine dei Settanta, dov’era la forza di parte Medicea, e tolto il corso ai quattrini bianchi che erano stati mezzo a rincarare il prezzo del sale. Francesco Valori, che tornava da Pisa, perch’era tenuto uomo netto che ai Medici aveva resistito, fu ricevuto con sommo gaudio ed in Palagio portato di peso sopra le spalle dei cittadini.[16]

Il giorno stesso in cui Firenze recuperava la libertà, perdeva Pisa. Quivi era entrato il Re con l’esercito suo che sfilava alla volta del Reame; e andato al Duomo ad offerire, uomini del popolo e donne e fanciulli gli si fecero incontro al ritorno, e gridando Libertà, chiedevano uscire di sotto al giogo dei Fiorentini. Pigliarono animo vedendo benigna la faccia [14] del Re, o fosse in lui compassione, o desiderio di gratificarsi i popoli: quindi la sera stessa co’ primari della città consentì che Pisa fosse libera sotto alla Regia bandiera, avendo molti cittadini a lui giurato fedeltà; occupava con le armi sue la fortezza nuova, la vecchia tennero soldati armati in fretta dai Pisani. I quali frattanto con indicibile allegrezza si diedero a cancellare da per tutto le armi e a disfare quanti rinvenivano Marzocchi o altre insegne dei Fiorentini: di questi in Pisa erano tanti, che nella città deserta si dicevano essere in maggior numero dei Pisani: uscirono molti sotto la guardia dei Francesi, e i principali insieme col Re. Nè questi al partire era in sè ben certo qual forma volesse dare alle cose dei Pisani, tirato, com’era suo costume, da vari consigli. Aveva in quei moti grande mano Lodovico duca di Milano, il quale bruciava di voglia d’avere Pisa perchè una volta ella era stata dei Visconti, che la venderono, e il vedersela torre di mano fu prima causa dell’alienazione sua dai Francesi.[17]

Il Re da Pisa muoveva tosto verso Firenze, avendo parte delle sue genti mandato a Siena per altre vie. Ma perchè sapeva essere il popolo Fiorentino in armi e in fermentazione per la cacciata di Piero, soprastette a Signa alcuni giorni; e intanto andavano e venivano ambasciatori della Repubblica, i quali togliendo al Re i sospetti, regolassero l’ingresso suo nella città e pigliassero sicurezza contro ai disegni che si agitavano intorno a lui, dei quali era grande il timore. Imperocchè aveva egli mandato a invitare che tornasse Piero de’ Medici; non che si fidasse più in lui che nelle inclinazione dei Fiorentini verso Francia, ma perchè sperava con questa paura condurli ai patti che a lui piacessero. Piero da Venezia ricusò tornare, per consiglio [15] (siccome fu detto) di quella Repubblica. A Signa proseguivano le pratiche ed i festevoli apparecchi; e il Re, avendo detto che si aggiusterebbe ogni cosa nella gran villa, faceva il giorno 17 di novembre il suo solenne ingresso in Firenze. Ricevuto alla porta dai Magistrati, venne alla chiesa di Santa Maria del Fiore per un largo giro, egli tutto armato e con la lancia sulla coscia, sotto a un baldacchino, che poi finita la cerimonia fu abbandonato alla rapina della plebe, com’era usanza. Destavano ammirazione grande le ricche vesti e le armi e le bardature e il portamento dei Baroni e Cavalieri che in grande numero seguivano il Re: gridava il popolo Francia, Francia. Carlo ebbe alloggio nella Casa dei Medici prestamente raddobbata: qui furono lunghi e difficili i negoziati, chiedendo i Francesi prima il dominio della città, dove il Re lasciasse un suo luogotenente; poi scendendo tortuosamente ad altre intollerabili pretensioni, secondo che, in mezzo a quel viluppo di cose, l’avarizia o l’ambizione o la paura gli sollecitavano.[18] Imperocchè è certo che il popolo aveva paura di loro, ed essi del popolo, in Italia, ed in Firenze massimamente, dove era una vita del tutto ignota agli oltramontani, e la potenza di una coltura dai sommi agli infimi equabilmente diffusa. Poi le vie strette impedivano i soldati, ed in questi era fama terribile del subitaneo levarsi in arme di tutto un popolo al suono d’una campana e dell’accorrere dal contado. Certa zuffa che nel Borgo d’Ognissanti destata per lieve cagione divenne un tumulto, parve essere indizio di moti più gravi. Ma sopra ogni cosa potè l’ardimento di Piero Capponi, il quale con gli altri ambasciatori venuto per conchiudere gli accordi nella presenza del Re, all’udire certe [16] condizioni esorbitanti che un segretario leggeva, strappatagli a un tratto di mano la carta, la fece in brani e gettò a terra; al quale atto il Re gridando: noi suoneremo le trombe; replicava Piero, e noi le campane; uscendo impetuosamente co’ suoi compagni dalla sala. Non era già Carlo troppo male inclinato, e avea col Capponi avuta in Francia dimestichezza; laonde richiamatolo e sorridendogli familiarmente, quel giorno stesso fu sottoscritto l’accordo, pel quale Firenze rimase libera e da quella escluso Piero dei Medici: per le cose della guerra dovevano due ambasciatori seguire il Re, che ne terrebbe due in Firenze, che intervenissero quando si trattasse cose che importassero alla Lega; i Fiorentini pagare in sei mesi cento venti mila fiorini d’oro; le fortezze cedute dal Medici rimanessero ai Francesi finchè durasse la guerra, e le terre di Lunigiana fossero rese alla Repubblica: rimanevano in sospeso le cose di Pisa. Fatto l’accordo e dal Re giurato solennemente nel Duomo, questi che aveva in Firenze dimorato dieci giorni, progrediva per la via di Siena.[19]

Non si appartiene al nostro assunto raccontare l’impresa di Carlo VIII in Italia, nè le altre guerre che da questa ebbero causa e principio infelicissimo: diremo i fatti solo a mostrare come si producessero, e quali effetti ne seguitassero. Andato il Re a Siena, vi si trattenne alcun poco e vi lasciò guardia, continuando il cammino direttamente inverso Roma. Avea Ferdinando duca di Calabria, che tornava di Romagna, avuta intenzione di fare testa in Viterbo; ma perchè il paese tumultuava, ed i Colonnesi minacciavano da Ostia e dalle terre ch’erano loro, indietreggiò fino a Roma, dove il Pontefice lo lasciò entrare, sebbene [17] con l’animo incerto e agitato da varie paure, massimamente poi da quella che volesse Carlo insieme ai Prelati che lo seguitavano promuovere nella Chiesa una riforma; pensiero a lui molto terribile. Cercava pertanto rassicurarsi per via di negoziati, che furono lunghi mentre avanzavano i Francesi; i quali essendo per un primo accordo entrati in Roma mentre ne usciva il Duca di Calabria, si chiuse il Papa in Castel Sant’Angelo; e i negoziati continuavano, infinchè avendo conchiusa una lega col Re, lo accolse molto solennemente in San Pietro, da lui ricevendo le dimostrazioni consuete. Ferdinando tornato in Napoli, trovò gli animi in fermento per la memoria delle crudeltà d’Alfonso e degli inganni da lui consigliati al padre suo, come teneasi da molti: nè bastò ad Alfonso che gli avanzi della fazione Angioina fossero distrutti, mostrandosi i popoli per odio di lui disposti ad accogliere i Francesi: ond’egli agitato da questi terrori e dai tormenti della coscienza, i quali abbatterono quell’animo tanto superbo e feroce, non trovava requie nè il dì nè la notte, appresentandosegli nel sonno le ombre di quei signori morti, e il popolo concitato che cercasse il suo supplizio; fuggiva pertanto come forsennato dallo spavento, e ricoverandosi con pochi legni in Sicilia, cedeva la corona a Ferdinando: questi con l’esercito si raccoglieva in San Germano, sperando vietare il passo ai nemici. Ma già i soldati impauriti e i Capitani per salvare gli Stati propri, vacillavano di fede e d’animo; e dietro alle spalle era il Reame in grandissima sollevazione. Levatisi quindi vergognosamente da San Germano, si ridussero in Capua; nè in questa potè fermarsi il nuovo Re, perchè Giovan Giacomo Trivulzio, che aveva la guardia di quella città, facea con iniquo tradimento segreto accordo co’ Francesi, ai quali rimase poi sempre fedele. Lo stesso Virginio Orsini, che tanto fu innalzato dagli Aragonesi, mandava prima agli stipendi di Carlo il figlio suo, e quindi da Nola [18] chiedeva ritrarsi con le sue genti. Così da tutti abbandonato il giovane Re, avendo prima radunati sulla piazza del Castelnuovo, abitazione reale, quanti potè dei Napoletani, gli discioglieva da ogni giuramento, bruciava o affondava le galere che erano nel Porto perchè non venissero in mano ai nemici, si opponeva con animo regio alla irrompente cupidità o all’iniqua levità degli uomini che tutto sperano dalle cose nuove, ed egli con la famiglia sua passava nell’isola d’Ischia. Carlo entrava in Napoli a’ 21 di febbraio 1495.

Ma tosto s’avviddero i Francesi quanto poco fondamento avesse la troppo facile conquista. Più attendevano a godersela che a darle fermezza, insolentivano con la presunzione cresciuta in essi per l’altrui viltà; il Re, intento ai suoi piaceri, non badava nè a fare giustizia nè a mettere ordine nel governo: bentosto il falso amore dei popoli si mutò in odio contro allo straniero. E intanto i Principi, non d’Italia solamente ma d’oltremonte, si commovevano, quelli impauriti e questi sollevati a nuovi pensieri dall’essersi accorti, l’Italia essere un paese che in sè medesimo non aveva la propria difesa. Lodovico Sforza, poichè ebbe veduto procedere innanzi rapidamente i Francesi, e che gli ostacoli da lui sperati all’impresa loro cadevano tosto, entrò in discorsi col Senato Veneziano, uscito al fine dalla ponderata inerzia sua, e col Pontefice già disposto a entrare in quella Lega; la quale però non ebbe effetto sin ch’ell’era di soli italiani: ma fu in Venezia per ambasciatori solennemente conchiusa nel mese d’aprile, essendovi entrato Massimiliano imperatore, allora col titolo di re de’ Romani, e Ferdinando e Isabella che insieme tenevano il regno di Spagna. Questi più volonterosi degli altri avevano mandata una loro armata in Sicilia, di là preparandosi a portare la guerra in Calabria. Non era in Italia più da soprastare pei Francesi dopo una Lega tanto formidabile; e divenendo pericoloso l’indugio, [19] il Re con la maggior parte dell’esercito partiva da Napoli dopo tre mesi dacchè vi era entrato, lasciati a guardia del Reame sotto Gilberto di Montpensier parte degli Svizzeri e dei Francesi, e cinquecento uomini d’arme italiani che aveva egli a soldo. Traversò Roma, donde il Papa ed il Collegio de’ Cardinali si erano ritratti in Orvieto; e in Siena fermatosi alcuni giorni, senza toccare Firenze, per la via più breve s’incamminò a Pisa.[20]

Le cose di questa città procedevano allora in tal modo; le dubbie parole del Re ai Fiorentini e la grande propensione dei Capitani francesi davano animo ai Pisani, che usciti al tutto dall’antica suggezione, intendevano a fortificare di genti e d’armi lo Stato loro, avendo a sè amiche le due città vicine di Siena e di Lucca, e giovandosi del favore e degli aiuti che ad essi dava, benchè in segreto, lo Sforza, ma scopertamente in nome proprio i Genovesi: attendevano anche a liberare tutto il contado; e già cominciavano le offese quando in Roma, essendo al Re venuti ambasciatori delle due città nemiche, mandava questi il Cardinale di San Malò suo principale ministro a comporre, come si diceva, le cose di Pisa; il quale avuto con tale esca il rimanente dei danari al Re promessi dai Fiorentini, e andato a Pisa, nulla fece, dando così ai Pisani del loro proposito maggior conferma. Non è da dire se queste cose dispiacessero a Firenze, dov’era grandissimo sospetto del Re che nel ritorno conduceva seco Piero de’ Medici, e non si spiegava quanto alla via che piglierebbe per traversare la Toscana.[21] Si aggiungeva che i Senesi aveano in quel tempo fatto ribellare [20] Montepulciano; talchè la Repubblica scoperta da più lati e minacciata, si diede a mettere in città soldati rafforzando le difese, intantochè a Poggibonsi gli mandavano per la seconda volta ambasciatore il Savonarola, che bene accolto, ne riportava benigne parole. Ma quanto a Pisa le incertezze duravano sempre, anche dopo esservi entrato il Re, perchè i consigli erano divisi, potendo in alcuni l’idea d’un diritto che stava pei Fiorentini, e l’oro sparso da questi in Corte, ma nel maggior numero quel sentimento che è molto vivo nei Francesi di farsi liberatori degli oppressi: muovevano Carlo i pianti delle donne e dei fanciulli che udiva sotto alla sua casa, e le supplicazioni delle più belle tra le Pisane che si raccoglievano a mesto ballo intorno a lui.[22] Partiva da Pisa contuttociò in fretta per la imminente guerra, nulla ivi mutando e con le solite promesse ambigue alle due parti.[23]

Di già si formava innanzi a lui nelle gole dell’Appennino l’esercito della Lega per chiuderne il passo: erano i Francesi in numero forse meno che di ventimila, il Re avendone separate alcune squadre per la conquista di Genova che i Fieschi e gli altri fuorusciti a lui promettevano, ma inutilmente, come avean fatto con gli Aragonesi: quindi traversava Pontremoli che si rese a patti, ma una vendetta dei suoi soldati lo mandò a sacco e a filo di spada. Giunto il Re a Fornovo sul fiume Taro, si trovò a fronte l’esercito veneziano che si ordinava, e non molta parte di quello del Duca di Milano che aveva in casa un’altra guerra, come bentosto diremo: insieme superavano di gran lunga il numero dei Francesi. Era il 6 luglio quando i due eserciti sul greto del fiume vennero a battaglia fiera e memorabile, sebbene fosse di breve durata; un solo urto della cavalleria francese avendo sbaragliati [21] gli Italiani che attorno a quel punto già erano vincitori, e che non seppero poi rannodarsi, massimamente perchè gli Stradioti, milizie greche o albanesi al servigio dei Veneziani, veduto i bagagli del Re abbandonati, uscirono dalla mischia per darsi al saccheggio. Il Re combattendo animosamente corse due volte pericolo d’esser preso; Francesco Gonzaga capitano dei Veneziani condusse quanto era in lui virtuosamente la battaglia: ma la vittoria fu pei Francesi, che si apersero la via con perdita assai minore di quella dei nemici. Non osarono però assalirli di nuovo nel campo dove si erano raccolti; nè dall’altra parte il conte Niccola Orsini di Pitigliano potè ai suoi persuadere di tornare indietro contro ai Francesi disordinati, e restaurare la battaglia. Il Re non senza difficoltà grande pervenne in Asti dopo alcuni giorni. Questa città, era di pertinenza del Duca d’Orléans, rimasta a lui dalla eredità di Valentina Visconti ava sua: credeasi per questa avere un titolo su tutto il ducato di Milano, che fino d’allora ambiva togliere allo Sforza; ed essendo lasciato dal Re ivi a guardare la Lombardia, occupò Novara per sorpresa, e vi si era fortificato. Lodovico Sforza, quando si fu riavuto dal primo spavento ch’era sempre in lui grandissimo, arruolò in grande numero soldati Tedeschi e Svizzeri, buoni a resistere ai Francesi più che non fossero gli Italiani. Fu l’assedio lungo e vario di casi, avendo Carlo cercato da Asti di liberare l’Orléans; crudele la guerra, la fame in Novara miserabile oltre ogni dire. Già da Fornovo, Carlo aveva mandato il Comines a trattare della pace separatamente con Lodovico, la quale ebbe finalmente conclusione ai 10 di ottobre; e sciolto l’assedio, il re Carlo VIII tornava in Francia.[24]

Mentre accadevano queste cose, i popoli delle provincie [22] napoletane si levavano per Ferdinando. Gaeta, che fu prima ad insorgere ne soffriva pena crudele, i Francesi avendo fatta dei paesani orribile strage. Ma le ribellioni moltiplicavano da per tutto; le quali a viepiù eccitare ed a farsi un piede sulle coste dell’Adriatico, il Senato di Venezia aveva mandato Antonio Grimani con ventiquattro galere; cui essendosi unito con altre poche Federigo d’Aragona fratello d’Alfonso, occuparono Monopoli in Puglia, che dagli Stradioti fu messo a sacco. Frattanto il giovane Ferdinando passato in Sicilia, scendeva da Messina in Reggio con gli Spagnuoli, pochi e poco buoni, ma condotti da quel Consalvo di Cordova, a cui rimase nella posterità il nome di Gran Capitano che aveva dal grado. Questi allora costretto dall’appassionata volontà del Re ad avanzare fino a Seminara, ed ivi incontrato il d’Aubigny che teneva la Calabria nel nome di Francia, furono sconfitti. Ferdinando, tornato in Sicilia, formò un ardito e savio divisamento: avendo raccolte quante navi potè rinvenire (ed erano ottanta male armate e senza numero bastante di marinari), entrò con esse nel golfo di Salerno, certo di empirle degli uomini che accorrerebbero a lui da ogni parte. Nè s’ingannava, poichè essendosi accostato a Napoli, vi entrava chiamato dal popolo in arme, che in città e fuori avendo assaliti i Francesi sosteneva lungo e animoso combattimento: ciò fu ai 7 luglio, giorno susseguente a quello del Taro. Giungeva notizia d’altre città che si liberavano; e dentro a Napoli essendo i Francesi chiusi nei Castelli, il Montpensier per inopia di vettovaglia era sul punto di capitolare, quando altre schiere Francesi muovendo di Puglia rinfrescarono la guerra intorno a Napoli.

Qui, anticipando i tempi, diremo come variamente si combattesse in più parti del Reame, i Veneziani avendo al Re mandato il Marchese di Mantova e seco una grossa schiera di soldati, a patto che Ferdinando [23] cedesse loro sull’Adriatico cinque delle città principali che gli avrebbero fatti padroni di quel mare fin dove il suo nome si tramuta in quello di Ionio. Fu lunga e aspra guerra, le due parti contendendosi il grosso provento della dogana di Manfredonia su’ bestiami che in grandissimo numero dalla pianura di Puglia risalivano ai monti d’Abruzzo. Una grossa mano di Tedeschi ai soldi di Ferdinando resisterono fino a che tutti non fossero uccisi: gli Orsini e i Vitelli si posero al soldo dei Francesi, i Colonna stando per Ferdinando, contro al quale insieme raccolti facevano testa gli antichi Baroni angiovini: e il Montpensier accorreva per dare forza ai suoi, quando per mancanza di soldo essendo abbandonato dagli Svizzeri, dovette chiudersi in Atella di Basilicata; ma crescendo le diserzioni e la fame, e avendo Consalvo di Cordova con la prima e migliore tra le grandi vittorie sue rotti a Laino i Baroni che andavano al soccorso d’Atella, s’arrenderono i Francesi a patti, e la guerra cessava: tornarono al Re le fortezze presso che tutte, ed i Baroni a lui facevano ubbidienza: le ultime reliquie dell’esercito francese, ridotte a numero piccolissimo nelle micidiali paludi di Baja, ottennero grazia di tornare in Francia.[25]

Capitolo II. NUOVA FORMA DI REPUBBLICA. — FRA GIROLAMO SAVONAROLA. [AN. 1495-1498.]

Poichè fu partito da Firenze Carlo Ottavo, la città libera da ogni servitù si trovò addosso vario e molteplice e mal definito il peso della insolita libertà. [24] Nel giorno stesso in cui si erano fuggiti Piero de’ Medici e i fratelli suoi, i loro contrari correndo alla facile e pronta opera dell’abbattere, aveano abolito l’ufficio degli Otto e l’ordine dei Settanta ed il Consiglio del Cento, nei quali pareva che stesse la forza del caduto Governo, e avevano rivocati dall’esiglio quanti erano stati banditi dal 1434 in poi come avversi a parte Medicea. Sarebbono cominciate le vendette, ed un esattore di gravezze odiato dall’infima plebe fu tratto a morte; ma gli altri più invisi, per l’interposta di savi uomini, ebbero campo di fuggire. Quando poi si venne a ordinare il nuovo Governo, non seppero altro da principio che tornare sulle antiche orme, e decretarono si facesse un generale squittinio di tutti coloro tra’ quali dovrebbonsi tirare a sorte i magistrati; e per il primo anno, finchè lo squittinio non fosse compiuto, gli uffici si dessero a mano da Venti Accoppiatori, nome di già usato nel maneggio delle elezioni. Risuscitarono anche l’ufficio dei Dieci, che prima si chiamavano di Balía ed ora di Libertà e Pace, sebbene attendessero alla guerra: quindi si fecero anche gli Otto. Ma i Venti che in fatto venivano ad essere padroni della città, non però avevano in sè nemmeno quella potenza che si appartiene ad una fazione: insieme ad uomini di gran conto, v’erano di quelli che in qualunque modo si trovarono a galla in quel giorno o seppero imporsi alla città sopraffatta; scarso il numero di coloro che ai Medici avessero in qualcosa resistito; taluni ve n’era persino dei loro più sviscerati che ora si mostravano, come avvien sempre, i più zelanti. Quindi erano varie e male accorte le scelte; non potean fare senza coloro nei quali da tanti anni era la scuola delle pubbliche faccende, nè avrebbero voluto, temendo le vecchie passioni dei ritornati, o il nuovo scatenarsi di gente avida e corrotta: tra questi timori spesso eleggevano agli uffici uomini inetti a camminare per le [25] vie scabre della libertà, e non di rado la Signoria usciva fuori per pochi voti, essendo divisi gli animi e le voglie ed il pensare degli Accoppiatori.

Ma intanto al di sopra delle private insufficienze e delle passioni, si alzavano quelli antichi spiriti popolari che a un tratto risorti, a sè cercavano una forma: quella delle Arti avea perduto la virtù sua, ed oggi l’ammirazione degli uomini si voltava alla Repubblica di Venezia. Conoscevano essere fondata sul vero quella sovranità che ivi risedeva nel Maggior Consiglio, dove i nobili rappresentavano i cittadini qualificati: poteva dirsi che il governo di Venezia per tale rispetto fosse un governo popolare. A questo miravano astrattamente i voti dei più assennati, sebbene gli ambiziosi lo avversassero e i più veggenti poco ne sperassero; ma quella sola via possibile si trovava essere anche la migliore, ed il sentire del maggior numero spingeva a tal fine. Poichè non avevano come a Venezia la nobiltà che segnasse il grado, erano costretti cercare per la formazione del Generale Consiglio quelli tra’ beneficiati o aggravezzati che avessero essi o il padre, o l’avo, o il bisavo loro, seduto nei tre maggiori uffici: questo era in Firenze il solo titolo d’aristocrazia, dentro alla quale si raccoglievano uomini di varie qualità e colore, andando sino alle famiglie di quelli che avevano tenuto lo Stato avanti al 1434. Per entrarvi era necessario avere compiti ventinove anni, ed essere netti di specchio: il numero incerto variava, essendo da principio di ottocento, e poi volendosi che fosse composto di sopra mille cittadini. A questo Consiglio si apparteneva l’autorità del fare leggi e la elezione a tutti gli uffici, pe’ quali traevasi a sorte un certo numero di proponenti, e i nominati da questi doveano poi essere approvati nel Consiglio per la metà almeno dei voti più uno: perchè le prime nominazioni fossero migliori, si dava un certo premio a chi avesse proposto uomini [26] che indi pe’ voti fossero vinti. Questo Consiglio era il sovrano, come a Venezia, della città: spettava quindi a lui di eleggere ottanta uomini da quarant’anni in su, che si scambiassero di sei in sei mesi, potendo essere indefinitamente raffermati; l’ufficio de’ quali fosse consigliare la Signoria ed eleggere gli Ambasciatori e Commissari; le provvisioni vinte dai Signori e Collegi passassero per le mani di questo Senato, per quindi avere la finale perfezione nel Consiglio Grande. Avevano prima lasciato ai Venti l’elezione della Signoria; ma questi essendo venuti a disciogliersi, andava pur essa nel Consiglio Grande.[26]

Questa nuova forma di Repubblica, a tutti ignota e a molti spiacente, fu accettata per la grandissima autorità di cui godeva allora in Firenze Fra Girolamo Savonarola. Questi nato in Ferrara l’anno 1452, vestiva in Bologna l’abito dei Domenicani riformati essendo nell’anno suo ventitreesimo; e forse avendo un poco assaggiato le tempeste della vita secolare; ma perch’egli s’era fuggito dal padre occultamente, scusavasi a lui del fatto proposito, al quale gli erano stati motivi, «la grande miseria del mondo, l’iniquità degli uomini che più non si trova chi faccia bene;» ond’egli soleva dire con Virgilio: heu fuge crudeles terras, fuge litus avarum: «e questo perchè io non potea patire la gran malitia dei ciechati popoli d’Italia e tanto più quanto i’ vedea le virtù essere spente al fondo, e i vizii sollevati; questa era la maggior passione che io potessi avere in questo mondo.[27]» Per la qual cosa pregava Dio che gli mostrasse la via d’uscire da questo fango; e Dio l’aveva ora a lui mostrata degnandosi farlo suo militante cavaliero. In questa lettera pare a noi che sia già tutto intero il Savonarola. Vestiva [27] quell’abito per farsi riformatore religioso, riformatore dei costumi e della disciplina; appassionato, ardito e ripieno della coscienza di sè stesso.

Aveva di lettere buona tintura: della filosofia sapeva molto, ed in questa la precisione del suo linguaggio, l’elevatezza dei pensieri e la franchezza dei giudizi, mostrano ch’egli avrebbe potuto esercitare in Italia un apostolato di alte dottrine, se le tranquille meditazioni dell’ingegno in lui non erano impedite dal cuore bollente e non di rado anche dai sogni della fantasia. Ma innanzi tutto il Savonarola era uomo religioso, mistico a un tempo e moralista: la scienza sua era la Bibbia, dalla quale uscivano come da fonte viva e perenne i molti suoi scritti editi e inediti intesi a dichiarare le Sacre Scritture, o applicarle ad uso ascetico e morale. Il suo predicare tutto era nutrito di bibliche ricordanze: pare a me che nella povertà nostra sia egli il solo predicatore che noi possiamo ammirare anche oggi, tanto egli si mostra efficace non per arte tribunizia e non per impeti inconsulti, ma grave, ordinato, potente di quella che a lui era sola scienza; severo altamente e ad un tempo familiare tra quanti mai fossero oratori, l’indole sua ed i propositi a lui insegnando un certo suo fare per cui sembra volgersi parlando agli ascoltatori suoi, uomo per uomo, e ad ognuno era come se dicesse particolarmente a lui medesimo.

Fin da principio della sua predicazione fu riprenditore franco dei vizi del Clero e più che mai di quelli più in alto locati; con quest’animo era entrato in convento, ed era questa la sua milizia; tanto più acerbo e veemente quanto più crescesse in lui l’alterezza di sè medesimo: non poteva un forte sentire in cose di religione andare disgiunto dalle acri riprensioni, nè vivere senza quella brama di riforme che tutti i migliori aveano comune. In lui era fede che Dio vorrebbe torre via le brutture della sua Chiesa e gastigare quelli [28] che n’erano autori. Per questa fede le sue parole pigliarono tosto affermazione di profezia, nella quale tanto più s’incaloriva quanto più i tempi ingrossavano: già un terrore cupo regnava negli animi degli Italiani ed agitava gli uomini religiosi dopo ai principii del papato d’Alessandro VI e pe’ disegni di Carlo VIII. Gli eventi sembrarono verificare le profezie; dipoi la guerra che a lui era mossa dai politici del Clero, e d’altra parte l’assenso fanatico dei suoi più devoti, facevano che egli ardente di fede, ma con l’animo in tempesta, cercasse rifugio a sè medesimo nella sicurezza dell’uomo ispirato, allora sentendosi potente a quella opera cui Dio lo chiamava. In fine a questa vedeva in mente il sacrifizio della vita sua, non la grandezza; e se le passioni sue e le altrui lo fecero qualche volta minore a sè stesso, nessuno lo accusi d’artifizi calcolati. Abbattere il male con la potenza della parola, ciò solo voleva, non alzare in contro all’altare profanato un suo altare; ma co’ soli uomini corrotti e malvagi avendo battaglia, non mai si trova ch’egli cercasse d’alterare in nulla non che le dottrine ma nemmeno gli ordini della gerarchia. L’intera sua vita e l’esame ch’ebbero i libri suoi da chi più l’odiava, fanno di ciò fede certissima; era egli uomo essenzialmente italiano, e la natura e le tradizioni nostre negano a noi la facoltà e la voglia d’alzare i trovati del nostro intelletto fuori del sentire universale, di confidarsi troppo in una dottrina da noi vista nascere, e d’inventare noi stessi una forma per quindi adorarla.

Da più anni era il Savonarola venuto a Firenze nel convento di San Marco, e predicava con grande fama di santità e dottrina, minacciando flagelli grandissimi e tribolazioni; tantochè Lorenzo de’ Medici, al quale lo stato presente pareva essere molto buono, lo fece ammonire che parlasse poco de futuris.[28] Nell’intervallo [29] era dimorato qualche tempo in Brescia, la Provincia di Lombardia facendo allora tutt’uno con quella di Toscana, finchè lo stesso frate Girolamo non ottenne da Papa Alessandro che la Congregazione dei Frati Predicatori di Toscana si reggesse come Provincia da sè; la quale cosa lo fermò in Firenze. Si diede allora tutto alla riforma del Convento del quale fu Priore. Ai Domenicani stretti era vietato il possedere, ma da un cinquant’anni trascorsa la disciplina, avevano terre e case di molta rendita: il Savonarola in poco tempo vendè ogni cosa; ma tanta era la devozione che per lui ne venne al Convento da bastare a un numero sempre crescente di Frati; i quali di cinquanta ch’erano prima, si moltiplicarono fin oltre a dugento. Aveva comprato la Casa in Via della Sapienza, dove per lascito di Niccolò da Uzzano dovea risiedere lo Studio, e che venne unita a San Marco per via d’un passare sotterraneo a traverso la via del Maglio. Quivi erano scuole di greco e d’ebraico, di scienze sacre e di profane, a formare uomini capaci ad un voto che gli stava nella mente, quello di predicare il Vangelo ai Turchi. Faceva tutto questo col ritratto dei beni venduti; comprava dal Fisco per tremila fiorini d’oro la Biblioteca Medicea, che aggiunta all’antica di San Marco, eredità di Niccolò Niccoli, era quivi messa a pubblico uso; ed intanto sovveniva alle strettezze della Repubblica inabile a soddisfare i creditori di casa Medici, tra’ quali era Filippo de Comines, per mille fiorini dei quali il Frate si accollò il pagamento. Aprì anche una scuola di Pittura nel Convento, prezioso pei dipinti di Fra Giovanni Angelico, ed ora per quelli di Fra Bartolommeo, tanto devoto al Savonarola che dopo la morte di questi lasciava per due anni da banda i pennelli. Fra Girolamo sentiva l’arte come filosofo non di cuore arido, ed il Bello definiva con alti concetti, semplici ed evidenti, nei quali credo sia la sostanza di quante dottrine mai si facessero intorno [30] all’Arte.[29] Fu inoltre poeta e non dei volgari, la sua mente a prodursi intera avendo bisogno d’espandersi anche per via della poetica espressione.

Lorenzo de’ Medici lo aveva chiamato al suo letto di morte;[30] ma non appena mancato questi, si era Fra Girolamo sentito più libero nel predicare, dov’era tutta la forza sua. L’Avvento del 1493 in Santa Maria del Fiore espose intera la sua dottrina intorno alla fede e alla virtù delle opere; mostrò il Vangelo essere da tutti abbandonato; accusò le Corti dei Principi e il mondano fasto dei grandi Prelati; annunziò il flagello che si avvicinava. Assiduo sul pergamo, di là svolgeva i suoi concetti sempre più alto e più incalzante nel seguente anno 1494, mentre Carlo VIII scendeva in Italia. Questi giunse in Asti ai 9 settembre, e ai 21 di quel mese avendo il gran Frate, che predicava sulla Genesi, discorso più giorni dell’Arca mistica di Noè, doveva esporre le parole intorno al Diluvio. Sotto alle vôlte del Duomo la folla si accalcava da più ore oltre al consueto; la trepidazione grande; e quando la voce del Savonarola si udì ad un tratto tuonare dal pulpito queste parole: «Ecco, io manderò le acque sulla terra,» per tutta la chiesa furono grida e pianti di terrore e di spavento: raccontava Pico della Mirandola che un brivido gli era corso per le ossa, e i capelli gli stavano ritti sulla fronte; confessa Fra Girolamo ch’egli era commosso quel giorno al pari degli ascoltatori suoi.[31]

La potenza del Frate in Firenze non aveva chi la [31] pareggiasse; e quando si venne a riformare lo Stato, la voce di lui era la sola che dominasse i voleri incerti o divisi, e che mettesse unità in questo popolo servo da tanti anni e disgregato, ricomponendo, quanto allora si potesse, quel grande fascio della comunanza, dov’era stata la forza in antico della città di Firenze. «O popolo mio, tu sai che io non sono mai voluto entrare in cose di Stato (predicava egli quando si venne alle Riforme): credi tu che ci verrei al presente, se io non vedessi che ciò è necessario alla salute delle anime? — le mie parole vengono dal Signore — purificate il vostro animo; e se in tale disposizione voi riformate la città vostra, tu, popolo di Firenze, incomincierai in questo modo la riforma di tutta Italia....» Il Savonarola era di popolo come uomo e come frate e come santo; i vizi scendevano allora dall’alto, ed il popolo si manteneva pio e costumato al confronto della corruttela dei suoi capi, sia laici, sia cherici: nè altro governo qui era possibile a impedire la tirannia d’un solo. Il Frate in mezzo a tutti apparve temperato nei consigli, conoscitore degli uomini e degli ordini civili. Chiamato in Palagio, approvò la nuova forma con savie parole, mostrando che era allora assai fermare un modo che fosse buono in universale, e che i disordini si correggerebbero col tempo. Dopo questo volle raccogliere in Duomo i Magistrati ed il Popolo, escludendone le donne e i fanciulli. Propose e raccomandò un Governo popolare fondato sul timore di Dio e sulla riforma dei costumi, non guasto dal tarlo dei fini privati, eguale per tutti, non facendo distinzione tra gli uomini del vecchio e del nuovo Stato, perdonando le passate colpe, di modochè fosse pace universale. In seguito ebbe mano egli stesso nell’abolire il modo tirannico per cui si distribuivano le gravezze, volendo che una decima sulle possessioni, dipendente dal valore dei fondi, togliesse via le personalità che si usavano nell’imporre. Il tribunale della [32] Mercatanzia, che aveva perduto l’antico credito mentre sotto ai Medici era in mano dei loro amici, fu rialzato con nuovi Statuti, i quali divennero un vero Codice di commercio. Il Monte di Pietà, predicato più anni prima da uomini religiosi, non si era mai potuto fondare; ma ciò venne fatto al Savonarola, ed una Legge tutta di carità si venne a porre contro all’usura praticata iniquamente dagli Ebrei. Raccomandava egli queste cose dal pergamo, e prima già erano accolte dai Capi dello Stato. Ma ciò che sopra ogni altra cosa diede carattere al nuovo governo, fu l’abolizione del tirannico diritto che, prima concesso ad altri magistrati, risedeva ora negli Otto di Guardia e Balía, potendo questi con sei voti condannare alla perdita della vita o della patria o degli averi quale si fosse cittadino. Per una legge, che indi ebbe nome di Legge delle sei fave, fu data l’appellazione da quelle condanne al Consiglio Generale. Aveva il Savonarola opinato bene, che la revisione di que’ giudizi dovesse farsi da Ottanta o Cento uomini principali. Ma i partigiani d’un Governo stretto con grande calore si opponevano a quella legge; da ultimo accettarono che l’appellazione si facesse al Consiglio Grande, più esposto alle brighe e alle seduzioni di quello che fosse un Consiglio stretto e scelto tra i sommi.[32] Vedremo da questo errore prodursi gravi disordini e fatali.

Queste alienazioni dal Savonarola già si mostravano in seno ai Consigli; tra lui e il popolo bene s’intendevano, e aveva su questo un ascendente che nessun altri mai. Lo esercitava perchè ubbidiva egli medesimo a un dovere; per tal conto a lui non pareva mai fare di troppo. Firenze non era più la città del Magnifico, ma universale una professione di costumi severi, e frequenza d’atti religiosi; nelle chiese [33] ufficii, ed un pregare di donne ai tabernacoli per le vie; Laudi composte in linguaggio familiare dal Frate e da’ suoi più devoti, si udivano invece dei sozzi Canti carnascialeschi. Tal era Firenze gli anni 95 e 96; nei primi di questo, gli ultimi giorni del Carnevale, tacquero le pazze feste consuete; uomini e donne e fanciulli, comunicatisi la mattina, andarono dopo desinare in numero grandissimo a processione per la città. Nei giorni prima erano molti fanciulli andati a frotte con certi ordinati modi a chiedere, o piuttosto a imporre limosina ai passanti per le vie, e per le case a farsi consegnare quello che appellavano le vanità, o gli anatemi; erano disegni e libri osceni, arnesi di giuoco e abiti da maschera: di questi aveano adunata grande piramide sulla Piazza della Signoria con entro materie combustibili, alle quali fu dato fuoco tra le grida e l’esultanza del popolo ond’era gremita la Piazza. Ai tempi nostri si cominciò a dire che erano allora state distrutte molte preziosità e capolavori dell’Arte, fu molto gridato contro alla barbarie del Savonarola: ma che un barbaro non fosse egli abbiamo mostrato, e oggi tutti sanno; e che per le cose bruciate le Arti non facessero iattura grande, prova il silenzio dei contemporanei, sebbene a lui poco amici, che non gli fecero tale accusa. D’opere che avessero pregio dall’arte non trovo ricordato che un tavoliere di ricco lavoro.[33]

Mentre in Firenze si facevano queste cose, quelle di Pisa divenivano sempre più dure ai Fiorentini. Tostochè il Re fu tornato in Asti, gli Ambasciatori della Repubblica aveano fatto seco un trattato per [34] cui dovesse restituire le fortezze, ed ebbe a tal fine certa somma di danari. Di Francia venivano Ambasciatori per l’esecuzione del Trattato; ma il fatto non seguiva, contrapponendosi o per segrete istruzioni, o per cagioni private, o per danari avuti, l’Entraigues che n’era castellano. Anzi una volta i Commissari della Repubblica avendo raccozzate genti e mandatele fin dentro la città di Pisa, il Castellano francese cominciò a trarre addosso a loro con le artiglierie, per il che dovettono tornare indietro: e male potendosi tenere le terre in quella provincia, che ad ogni occasione che ne avessero si ribellavano, la guerra posava per allora. Il solo acquisto che facesse la Repubblica fu di Livorno, restituito poco dopo secondo i patti, che in tutto il resto erano violati: Pietrasanta venne in mano dei Lucchesi, Sarzana dei Genovesi, e la Repubblica vedeva dissiparsi l’antico suo Stato. Nemici i Senesi tenevano sempre Montepulciano, per il che una volta fu da Firenze tentata un’impresa contro Siena, la quale andò a vuoto perchè la città divisa si levò tutta, quando alle sue porte vidde la minaccia delle armi Fiorentine.[34] Scriveva Fra Girolamo a Carlo lettere di ammonizione in nome di Dio; gli Oratori in Francia continuavano le lagnanze, inutili sempre:[35] allegavano i Fiorentini che il Re avea giurato, ed essi, oltre al debito gli erano stati fedeli; per lui si avevano nimicata l’Italia intera. Ma quando faceano segno d’accostarsi alla confederazione contro lui, sapeva il Re che non l’avrebbono mai fatto, offesi dall’avere il duca Lodovico e i Veneziani pigliato la protezione di Pisa, che da questi ultimi fu occupata nel nome della Lega. L’unione d’Italia non faceva pei Fiorentini se non riavessero Pisa, e brutta parte era [35] quella loro quando chiamavano essi soli il re Carlo VIII a una nuova spedizione, della quale rimasero vane non che le promesse anche le preparazioni che una volta ne aveva il Re fatte.[36]

Qualunque si fossero le azioni e i consigli della Repubblica di Firenze, mettevano capo al Savonarola: continuava questi a predicare in Santa Reparata con maggiore udienza che mai avesse predicatore alcuno, e apertamente cominciò a dire che egli era mandato da Dio ad annunziare le cose future. Dal che nascevano divisioni e mali umori nella città, dove molti non credevano naturalmente a queste cose, e dispiaceva a molti il Governo popolare, che da lui era tenuto fondamento di ogni cosa che fosse salute alla città e all’Italia ed alla Chiesa. Qualche segreta macchinazione fu tosto repressa; ma la divisione cresceva, alienandosi non pochi da lui secondo che il Frate andasse più innanzi e i tempi divenissero più difficili. Tutti i seguaci di lui favorivano la parte di Francia, avrebbono gli altri voluto accordarsi colla Lega; gli uomini più autorevoli, o erano seco o si tenevano in disparte. Francesco Valori era tutto col Savonarola; Pagol’Antonio Soderini teneva la stessa parte, ma nell’animo altro non cercava che una forma somigliante a quella della Repubblica di Venezia, dove era egli stato lungamente ambasciatore e s’era formato a quella scuola. Guid’Antonio Vespucci, giureconsulto di autorità grande, molto adoperato nelle ambascerie, aveva servito i Medici, e nulla amava fuori dei governi stretti, benchè si sapesse molto bene destreggiare nei Consigli. Piero Capponi per forza d’animo soprastava, ma era tenuto vario e subitaneo; uomo di fatti più che di parole, nelle Consulte s’impazientiva, co’ popolani sviscerati [36] male s’intendeva, e poco al Frate credeva. La vita dei campi si confaceva alla natura sua, talchè mandato a governare come Commissario la guerra di Pisa, riusciva meglio di quanti v’erano prima di lui stati; ma in guerra del pari odiosa e meschina, ebbe fine miserando. Soiana è castello delle colline Pisane dove guardano a Volterra, o piuttosto corte rettangolare, poco vasta, ma cinta di grosse mura. Il Commissario per abbatterlo attendeva a piantare una bombarda, quando dalle mura la palla di un falconetto lo colse in fronte: così moriva, toccati appena i cinquant’anni, Piero Capponi, e benchè non da tutti amato, lasciava di sè grandissimo desiderio nella città ed un nome anche dai posteri onorato.

La fortuna dei Pisani in quei giorni prosperava molto, avendo efficaci aiuti dai Veneziani che aveano abbracciato con ardore quella impresa. Del che insospettito Lodovico il Moro, si pensò accrescere la reputazione sua chiamando in Italia l’imperatore Massimiliano che gli era parente, ma del quale conosceva la levità dei consigli e l’inopia di moneta, per cui non sarebbe altro che un nome da usare in suo pro. I Veneziani dall’altra parte, che temeano allora un’altra spedizione di Francesi e un altro voltarsi del Moro, prestarono anch’essi danari a questo Imperatore vendereccio: pareano tornati sotto al predecessore di Carlo V i tempi nei quali veniano in Italia i Cesari a fare parte di mendichi. Nè Massimiliano aveva potuto raccogliere altro che trecento soldati a cavallo e mille cinquecento a piedi; del che vergognandosi, scansava le grandi città, e si condusse così fino a Genova. Aveva mandato ambasciatori ai Fiorentini e questi ne aveano mandati a lui; ai quali non volendo dare risposta, disse che l’avrebbono dal Legato del Papa, che gli rimandò al Duca di Milano. Gli ambasciatori, ch’erano Cosimo de’ Pazzi vescovo di Arezzo e Francesco Pepi, di ciò indignati, presentandosi [37] al Duca che gli aveva ricevuti con molta pompa ed apprestava solenne discorso come grande arbitro dell’Italia, dissero non avere altro mandato che solamente di fargli reverenza; nè in altra materia volendo entrare, se ne andarono con grande sdegno del Duca. Massimiliano da Genova essendo sceso innanzi Livorno, l’assediava. Una parte delle sue genti entrate in Maremma trattarono crudelmente Bolgheri e Castagneto, terre dei Gherardesca: fu questa la sola impresa in Italia di Massimiliano imperatore; il quale guidando pessimamente la guerra, e le sue navi essendo malmenate dalle tempeste autunnali e per la sopravvenienza di navi Francesi, ritrattosi dopo un mese appena dacch’era disceso, tornò in Allemagna.[37]

La Repubblica pareva in questi tempi fortificarsi, essendo la somma d’ogni cosa nel Consiglio Grande, che i Frateschi amavano come cosa loro, e molti favorivano come imitazione della Repubblica di Venezia; gli uomini stessi dello Stato vecchio temevano meno da un Governo largo che da uno Stato più ristretto in cui dominassero i più implacabili dei nemici loro. A questo Consiglio aveano in Palagio edificato una grande Sala, che aprirono allora in modo solenne, e il Savonarola vi predicava: questa Sala, più tardi ornata dai Medici per cancellarne la prima origine, tacque più secoli; ai giorni nostri si diede in essa un primo passo alla unità nazionale. Accade in ogni grande mutazione, che da principio la naturale sua bontà si creda che basti a farla procedere chiamando a tal fine gli uomini semplici e tenendo addietro i più ambiziosi. Ma questi, che sono anche i più forti, non soffrendo starsi inoperosi, empiono tosto il nuovo Stato dei vizi loro; perchè gli Stati, qualunque sia la loro forma, dipendono infine dalle qualità degli uomini, e queste per niuno rivolgimento vengono a mutarsi. [38] Così in Firenze, dopo avere nei primi tempi dato i magistrati a cittadini di poco valore, dovettero infine venire ai sommi; i quali recarono dentro ai Consigli, oltre alla scienza loro, gli astii e le cupidità e le divisioni. Francesco Valori, che prima era stato sempre ributtato, fu a calen di gennaio 1497 (st. com.) creato Gonfaloniere. Scrive di lui un contemporaneo, che «fu di presenza grande, ed il volto lungo e rosso, d’animo vastissimo, di grande gravità, di poche parole, altiero, severo, visse parcamente, vestiva modestissimo; e delle pecunie pubbliche nettissimo, ma cupidissimo dell’onore: in servire gli amici ardente, ma con loro superbo.[38]» Portato dal favore dei Frateschi, ne divenne capo: attese a crescere autorità al Consiglio purgandolo di taluni che v’erano entrati nella confusione del primo scrutinio; e perchè il numero rimaneva scarso, abbassò fino ai 24 anni l’età che rendesse abile ad entrarvi. Erano i Frati di San Francesco avversi a quelli di San Domenico per antica rivalità; il Valori ne fece cacciare di Firenze alcuni che predicando contradicevano al Savonarola. La parte dei Medici si risentiva, e molti preti e cortigiani Fiorentini erano iti a stare a Roma col Cardinale: contr’essi uscirono leggi asprissime, che gli richiamavano e proibivano di praticarli. Ma ebbero queste leggi forte contrasto; e i nemici al Savonarola facendo causa co’ partigiani dei Medici, trassero a Gonfaloniere dopo al Valori Bernardo del Nero, uomo fra tutti autorevole per la pratica delle maggiori faccende che spesso il Magnifico gli aveva fidate.

Era il Consiglio assai migliorato d’autorità e di credito, le scelte agli uffici della città e fuori essendo generalmente ragionevoli. Nondimeno perchè il favore stava pe’ Frateschi, gli altri s’adopravano indefessamente a screditare il Consiglio per via d’astuzie, allargando [39] il numero dei voti perchè s’empisse d’inetti e malvagi; ed essi poi o astenendosi dall’intervenire, o a tutti dando le fave bianche, s’ingegnavano perchè il Consiglio disordinandosi venisse a noia agli uomini dabbene. Le proposizioni per gli uffici, che prima giravano tra pochi, abolirono, sostituendovi le tratte, in modo però che i sortiti fossero poi squittinati da tutto il Consiglio: il che riuscì contro alla volontà dei cospiranti, perchè il Consiglio tutto intero avendo finalmente in mano le scelte agli uffici, ne acquistò grazia e autorità nell’universale.[39]

Cotesti maneggi avevano a capo lo stesso Gonfaloniere, Bernardo del Nero, del quale però non era intenzione richiamare Piero dei Medici in Firenze, ma formare uno Stato stretto, mettendo innanzi Lorenzo e Giovanni di Pier Francesco, i quali si erano, come vedemmo, fatti chiamare Popolani, ed aspettavano da quelle bassezze ottenere il principato. Favoriva queste loro pratiche il Duca di Milano, che odiava forte quei governi larghi coi quali è impossibile tenere segreti e non si ha di nulla sicurezza.[40] Giovanni, bello della persona, si era fatta moglie la bella vedova Caterina Sforza che reggeva pei figli lo Stato di Forlì. Ma intanto che andava questa congiura, altri che bramavano il ritorno di Piero, animati dallo sparlare che si faceva pubblicamente nella città, cominciarono a tenere pratica seco. Ed egli a disporre meglio la materia, mandò in Firenze maestro Mariano da Ghinazzano generale dell’Ordine di Sant’Agostino, che aveva qui avuto grande fama di predicatore al tempo di Lorenzo, ed era appresso a lui stato in grande favore. Il quale dal pulpito apertamente dichiarandosi contrario a Fra Girolamo, promuoveva destramente [40] l’accordarsi della città colla Lega. Le quali cose perchè non aveano punizione alcuna, Piero ingagliardito e confidandosi al modo che i fuorusciti sogliono, che al solo mostrarsi, i cittadini stanchi, affamati e malcontenti, gli aprirebbero le porte; negli ultimi giorni del mese d’aprile, quando Bernardo del Nero era al termine dell’ufficio, venne a Siena con molti soldati condotti da Bartolommeo d’Alviano, per opera dei Veneziani che si credevano, rimettendo Piero in Firenze, assicurarsi l’acquisto di Pisa: a questa impresa era naturale che Lodovico Sforza non desse favore. Ma Piero venuto il primo giorno a Tavarnelle, s’accostò il secondo fin presso alle mura della città; dove chiamato in fretta Pagolo Vitelli che a lui s’opponesse, fecero Signoria nuova di amici allo Stato, e sostennero in Palagio circa dugento cittadini dei più sospetti. Piero, essendo stato più ore alla porta, veduto non farsi nella città rumore alcuno, se ne tornò a Siena.[41]

Rimasero nella città i sospetti grandi, a molti parendo che Piero dovesse avere intelligenze dentro, sulla cui fede si fosse egli mosso. Questi ed altri mali umori bollivano, quando tre mesi dopo al fatto una improvvisa rivelazione fece divampare quei sospetti in fiere passioni e in atti che furono, come vedremo, perniciosissimi. Un Dell’Antella, malvagio uomo ch’era in bando a Roma, cercando il ritorno e non so quale guadagno, scrisse avere cose di grande momento da denunziare quando gli dessero salvocondotto. Venuto in Firenze, accusava cinque primarii cittadini di pratiche in vario modo tenute a favore di Casa Medici. Erano questi Lorenzo Tornabuoni cugino di Piero, Niccolò Ridolfi suocero a una figlia di Lorenzo, Giannozzo Pucci di quella Casa che aveva innalzato il vecchio Cosimo, e un Giovanni Cambi; primo fra tutti [41] d’autorità e di grado Bernardo del Nero, vecchio di settantacinque anni, convinto non esser egli autore, ma consapevole di quei fatti. A giudicare i cinque rei fu eletta una Pratica, nella quale oltre alla Signoria ed ai Collegi sederono molti principali cittadini: doveano essere dugento, ma intervennero soli centotrentasei. Le passioni erano furibonde, e la sentenza riusciva dubbia, se nuove lettere venute allora, e messe fuori, non aggravavano gli accusati mostrando imminente il pericolo della Repubblica. La Signoria ed i Collegi che intervenivano nelle Pratiche e avevano ciascuno (come allora si diceva) la loro pancata, pronunziarono l’assoluzione: ma vinse la morte pel maggior numero degli aggiunti, che dietro agli altri sedevano. Allora messer Guid’Antonio Vespucci levatosi, chiese pei condannati l’appello al Gran Consiglio, secondo la legge. La Pratica fu rimessa ad un altro giorno, e il disordine dalla Sala passò grandissimo nella Piazza. Era costume che nelle Pratiche dicessero in nome della loro pancata quelli che in testa sedevano, senza però che agli altri fosse vietato parlare. In questa seconda consulta vollero che ciascuno desse il suo voto personalmente: ma tali erano le grida per tutta la Sala, che non si sarebbe venuto a capo della risoluzione (il che era cercato dai difensori degli accusati), se Francesco Valori non avesse imposta una sentenza di morte immediata, destando negli altri con le minaccie una paura che meglio avrebbe egli per sè stesso dovuta sentire. In questo modo rimaneva escluso l’appello al Consiglio Generale, ultimo scampo ai cinque miseri, ai quali in mezzo ad un tumulto feroce fu quella notte stessa mozzo il capo: pochi altri ebbero il confine, altri si assentarono.[42]

Di quelle morti furono autori gli amici del Savonarola, ed egli si tacque: nell’esame di lui che abbiamo [42] a stampa si legge avere egli detto che di quel giudizio non s’era impacciato, ma che Lorenzo Tornabuoni aveva raccomandato al Valori. Inoltre non era egli arbitro di quelle vite, nè allora padrone per modo alcuno della Repubblica; questa era già in mano d’uomini politici, e la legge che ai rei concedeva l’appello al popolo uscì diversa da quella che aveva Fra Girolamo consigliata. Poteva ben egli con verità dichiarare, che in cose di Stato non gli era piaciuto d’ingerirsi mai, e che nel fondare il Governo popolare non ebbe altro fine che il bene delle anime e la riforma dei costumi. Predicatore d’una idea, non fu egli mai ordinatore di un disegno: il guardare gli uomini dall’alto gli aveva educato il senso pratico delle cose; grande si mostrava nell’ordinare lo Stato di Firenze, ma di condurlo non si brigava; era il profeta di quello Stato, ma non avrebbe voluto esserne il ministro; di queste ambizioni non ebbe egli mai, sebbene avesse in sè le passioni dell’uomo di parte e a quelle servisse. Vietò da principio si perseguitassero gli amici di Casa Medici; ma l’adoprarsi a ricondurne la dominazione era col promuovere una tirannide contrastare alla grande opera che stava in cima di ogni suo pensiero, e alla quale si sentiva egli chiamato da Dio; era delitto cui non poteva essere indulgente. Quando sul pulpito veniva a dire dei provvedimenti che via via occorrevano per lo Stato, ciò a lui era farsi banditore del Vangelo in tutta quanta l’ampiezza sua, nè al predicatore credeva bastasse ripetere sempre come a stampo certi temi della vita spirituale; ma le sue prediche volea pigliassero tutto l’uomo direttamente, svelatamente, l’uomo in famiglia, l’uomo nella vita civile, secondo che i tempi e i costumi volessero certe più specificate riprensioni e più immediate, o certi consigli che a cose pubbliche riguardassero.

Intanto però benchè il Savonarola propriamente [43] non fosse capo di quella Parte, ne aveva in sè l’anima e la forza pei tanti che a lui erano devoti con cieca credenza. In lui certamente la sicurezza ch’egli ponea nell’affermare le cose future derivava dalla fede che Dio non potesse a lungo restarsi permettitore del male; e chiunque ignori quel che sia fede e non la creda capace a muovere di per sè sola le azioni umane, non potrà intendere il Savonarola. Ma quando agli uomini manifestava e persuadeva con tanta efficacia quel ch’egli sentiva dentro dell’anima esaltata, era impossibile non si credesse dotato fra tutti di un superiore conoscimento, e quindi in lui non si destasse di quella superbia che suole isterilire i nostri più alti pensieri. Bene credo fosse inconsapevole di sè stessa, poichè si mesceva alla umiltà religiosa; ma era in lui nutrita dalla potenza di una parola capace a trarre dietro sè le moltitudini, che spesso inebria chi la possiede e quasi fa l’uomo seduttore di sè stesso; vedeva il Frate dalle sue labbra pendere il popolo allora più colto che fosse nel mondo.

La dottrina del Savonarola si era formata in profezia pigliando certezza dalla sua propria rettitudine e dalle promesse d’un forte animo ed appassionato. Usava dialogizzare nelle prediche con gli uditori a questo modo: «Oh Padre, ma se tutto il mondo ti venisse contro, che faresti tu? — Io starei saldo, perchè la mia dottrina è la dottrina del ben vivere, e quindi viene da Dio.» La parte che aveva in ciò la superbia era di continuo fomentata dal grande numero dei seguaci e dalla fede ardente dei semplici, in faccia ai quali a lui pareva essere da meno, se una qualche volta l’intelletto dubitasse. Si aggiunga poi l’urto delle fazioni che si raccendono l’una l’altra, pigliando credenza in cose impossibili; ed in quel caso, l’essere tutta la purità dalla parte sua contro ad uomini sacrileghi, malvagi e rotti ad ogni vizio. Gli eventi più volte aveano data ragione a lui: quando [44] i saggi del mondo temevano, il Frate affermava che nulla sarebbe; e in modi affatto inopinati erano i pericoli più volte svaniti. Il Frate diceva: «la Chiesa di Dio ha bisogno di riforma e di rinnovazione; sarà flagellata, e dopo i flagelli riformata e rinnovata: gli infedeli si convertiranno a Cristo ed alla sua fede. Sarà flagellata e rinnovata Firenze, e verrà quindi a prospero Stato: avverranno queste cose ai giorni nostri.» In tutto ciò nulla era che sapesse d’eresia, o che in sè avesse rivolta o scisma. Nel Trionfo della Croce, ch’è la maggiore delle sue opere, affermava con parole amplissime l’unità della Chiesa e la supremazia del Pontefice Romano. Ma Roma batteva di continuo pei molti suoi vizi, le profane sommità del Clero metteva nel fango, a preti nè a frati non faceva grazia; e perchè incontro a tutti questi poneva sè stesso, veniva a farsi senza volerlo autore e capo d’una Riforma. La quale a promuovere e ad effettuare nulla aveva in pronto, nulla preparava; sincero del pari come imprudente, non aveva compagni nè gli cercava, per nulla pensava ad usare mezzi i quali andassero a quel fine. Dentro era la fede e fuori usciva la parola; Iddio farebbe il resto da sè. In chiesa dal pulpito s’acquistava egli i partigiani, e quindi tornato in cella scriveva postille sui libri della Bibbia, e trattati filosofici o ascetici, quando non lo venivano a cercare. Ma erano troppi quei suoi partigiani, troppo lo innalzavano agli occhi suoi stessi, e come fanatici nutrivano quella sua fede altiera; intanto che rimanendo in sè disgregati, nè a lui nè all’opera sua portavano aiuto bastante, e molti tra essi erano facili a voltare. Così nel fatto egli come solo si tirava addosso la forte compagine dell’ecclesiastica Gerarchia e Roma e i grandi Prelati e tanta potenza e ricchezza, e tutto può dirsi il Clero e tutti gli altri ordini religiosi, e i potentati d’Italia e gli uomini politici, e quelli che scuoteano il capo increduli in faccia a un Profeta disarmato.

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Ma intanto queste cose destavano gli animi a nuovi pensieri, per tutta Italia se ne parlava e dalla Germania veniano lettere di consentimento: Roma non poteva lasciare quei semi pigliare radici. Si cominciò prima con le blandizie; Alessandro VI scriveva lettera tutta laudatoria a Fra Girolamo, per il molto bene che egli facea nella Chiesa, confortandolo a recarsi a Roma con parole nelle quali era una intimazione. Questo fu nel luglio del 1495. Il Frate era infermo, e i Magistrati amici a lui s’interposero tanto che il Papa gli concesse rimanere; intanto pratiche si faceano intorno a lui ed offerte di onori e di gradi fino al cappello di Cardinale. Come le offerte disdegnasse non occorre dire, ma si conobbe da un Breve per via obliqua diretto ai Frati di Santa Croce, dove al comando si aggiungevano minaccie, chiamando lui seminatore di falsa dottrina. Il Savonarola si era quei mesi taciuto; ma tornò in pulpito nella Quaresima del 96 più fiero di prima, rigido ai suoi, a tutti severo, mantenendo la suprema potestà del Papa e in ciò diffondendosi con calde parole, ma dichiarando che a lui quando erra manifestamente non deve ubbidirsi. A contenere gli uditori avevano in questa Quaresima alzato gradini in Duomo fino all’altezza delle finestre; la folla seguiva il predicatore quando usciva, ed uomini armati gli stavano appresso, temendosi oltre ai nemici di dentro, sicarii che si dicevano appostati contro lui dal Duca di Milano. In quelle Prediche ogni cosa è vivo; e quivi sono ampiamente svolti gli eterni precetti della morale e della fede, le cose presenti ed i propri suoi pericoli. Nell’ultima diceva: «Qual sarà la fine della guerra che tu sostieni? — Se tu mi domandi in universale, ti rispondo che sarà la vittoria; se tu mi domandi in particolare, ti dico invece, morire ed essere tagliato a pezzi.» Scrivendo alla madre sua, cercava che avesse l’animo preparato a sentirlo morto.

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Continuarono anche dopo Pasqua le Prediche: il Papa si teneva chiuso, e aveva commesso a una Congregazione l’esame della dottrina e del procedere di Fra Girolamo, senza che ne uscisse accusa: tentava nel tempo stesso di ricondurre la Congregazione toscana di San Marco sotto alla lombarda, o sottoporla ad un Vicario che avesse in Roma la residenza. Fine d’ogni cosa era levare il Savonarola di Firenze, o con l’escluderlo dal pergamo tôrre a lui ogni forza. Fu a lui vietato il predicare: al che taceva egli per alcun tempo, ma le gravi condizioni in cui la Repubblica versava fecero sì che i Magistrati a lui devoti lo richiedessero di fare udire la sua voce, da cui attingevano potenza e aiuto contro agli avversari che già si cominciavano a mostrare. Come si è detto, Piero de’ Medici era alle porte, la fame e la peste dentro la città e fuori. Fra Girolamo tornato in pulpito, avea predicato la Quaresima sopra Ezechiele; faceva sovente nella Bibbia suo tema i Profeti che nella antica legge tenevano il grado da lui più ambito nella Chiesa. Ma tosto che Piero si fu allontanato, le parti nemiche più si voltarono contro al Frate: questi, malgrado il divieto, aveva annunziata in Duomo una predica pel giorno della Ascensione, che già da molti si antivedeva sarebbe occasione di tumulti. Nella mattina si trovò il pergamo imbrattato d’ogni sozzura; pareva minacciata la vita del Frate, ed egli entrava circondato da molti de’ suoi che armati stettero intorno al pulpito. A un punto dato, ecco farsi un grande strepito nella chiesa dov’erano gli animi già preparati allo spavento: chi fuggiva e chi si armava: in mezzo a un infernale disordine, Fra Girolamo fu ricondotto al suo Convento, ed in quel giorno si trova scritto che a lui medesimo fallisse l’animo. La Signoria di maggio e giugno 1497 era in grande parte contro a lui; uscì bando che proibiva generalmente ad ogni frate il predicare: una Pratica [47] si tenne sulla proposta di dare esiglio al Savonarola, ma non si vinse. Il Papa infine mandò fuori la scomunica, indirizzata col solito modo questa volta ai Frati Serviti, grandi affezionati di Casa Medici. La scomunica non condannava dottrine di lui, ma solamente la disubbidienza che si andò a cercare nei fatti circa alla Congregazione Domenicana. Grande era lo sdegno di Papa Alessandro; ma nulla infine potè trovare, nè tutto il misero poteva dire; era la condanna atto politico e non religioso. A 22 giugno fu la scomunica pubblicata in Duomo con le solennità consuete; donde un insorgere contro ai Frateschi, e nella festa del San Giovanni, grande lo sfoggio d’ogni mondanità che più riuscisse d’ingiuria ai Piagnoni: così appellavano i devoti al Frate. Incontro ad essi erano i Compagnacci, i quali professando un vivere sciolto, davano mano agli Arrabbiati, sotto il quale nome si raccoglievano gli amici d’un Governo stretto e i non avversi a Casa Medici. Un Ridolfo Spini, giovane ricco e licenzioso, immaginò un convito dove ogni delicatura ed ogni lautezza fossero profuse, lo sfoggio facendosi la notte a vista di popolo, e i convitati girando per la città con torchi accesi e musica, in onta manifesta del Frate e dei suoi.

La Signoria entrata il primo di luglio e la seguente, furono amiche al Savonarola, cercando col mezzo dell’Ambasciatore in Roma d’ammansire le ire del Papa, il quale percosso da un colpo crudele aveva sembrato volersi riscotere. Era nel Borgia una bontà sola, ma che a un Pontefice stava poco bene, l’amore ai figli; di questi il maggiore fu trovato ucciso una notte per domestica tragedia, secondo fu detto. Scrivea Fra Girolamo al padre afflitto lettera di conforto, ma insieme di ammonizione benevola, grave e prudentemente dignitosa. Ma il Papa, essendo tornato bentosto ai modi soliti, chiedea la consegna del Savonarola; e questi, dopo essersi più mesi tenuto in silenzio, cedendo [48] a sè stesso e forse ai conforti di quei dello Stato, riavutisi dopo alle turbazioni pel caso dei Cinque, tornò a predicare. Cominciava l’anno 1498: il popolo radunato sulla piazza di San Marco (perchè la chiesa non bastava) era chiamato a una solenne preghiera: usciva il Frate col Sacramento in mano, e da un pergamo alzato fuori della porta della chiesa, benediceva il popolo e diceva: «Signore, se io non opero con sincerità d’animo, se le mie parole non sono da te, gastigami.» Il volto del Savonarola oltre al solito esprimeva la fede dell’animo, ed il popolo pregava. In Duomo le prediche andavano più che mai direttamente contro a Roma ed al Papa; il quale personalmente offeso ed impaurito del grande rumore che se ne faceva, minacciava sulla città l’interdetto, se a lui non dessero il Savonarola nelle mani: al che lo spingeva Lodovico il Moro, allora grande amico al Papa.[43] Mandar via il Frate sarebbe piaciuto alla Signoria nuova per marzo ed aprile; la quale non appena entrata in ufizio radunò una Pratica, dove però tale si mostrava la propensione verso il Frate, che fu costretta la Signoria stessa mandare al Papa lettera in difesa di lui con espresso rifiuto di fargli offesa o divieto. Abbiamo gli atti di queste Pratiche, dove nei pareri degli intervenuti si trova espresso mirabilmente lo stato dei partiti con le varietà loro: guidava i seguaci del Frate la fede in lui ed il sentimento della indipendenza cittadina; degli altri, chi temeva l’autorità del Papa e chi la potenza. Avevano chiesta a Roma una Decima, senza cui la Repubblica non poteva reggere alle spese; e quando venisse un interdetto, vedevano disertati i banchi di fuori e i commerci guasti.[44] Fu quindi scelta una via di mezzo, vietando le Prediche in Duomo; le quali continuavano [49] in San Marco: finchè ad un’altra lettera del Papa la Signoria ordinava, fosse tolto a Fra Girolamo il predicare dovunque fosse. Questi, radunato prima come soleva le donne in San Lorenzo, le accomiatava con addio pietoso, e il giorno dopo agli uomini in San Marco faceva l’ultima sua predica.

In alcune delle precedenti avea messo innanzi l’idea d’un Concilio, sebbene dovesse accorgersi quanto differente caso fosse da quel di Costanza, ed egli medesimo dicesse che il tempo non era venuto, ma che si doveva pregare il Signore perchè si potesse una volta radunare. Adombrava questo suo pensiero sovente col dire, che avrebbe fatto girare la chiavetta, cioè propalato le cose ch’egli aveva in serbo circa l’indegnità d’Alessandro Borgia; e credo ne avesse delle più sostanziose ed accertate che non gli scandali del Burcardo o gli aneddoti dell’Infessura: «Ma Concilio (predicava egli) vuol dire congregare la Chiesa, e non si domanda propriamente Chiesa se non dov’è la grazia dello Spirito Santo; ed oggi dove si trova essa? Forse solamente in qualche buono omiciattolo. Nel Concilio si gastigano i cattivi cherici, si depone il vescovo ch’è stato simoniaco o scismatico. Oh quanti ne sarebber deposti! forse non ne rimarrebbe nessuno.» L’Italia non era capace nè degna di operare una riforma, la quale salisse di basso in alto, nè le altre nazioni l’avrebbero seguitata. Ma il Savonarola in quella sua troppo elevata solitudine aveva in sè la necessità d’andare innanzi, e quando era in pulpito, dice egli stesso che non potea frenarsi dal dire cose le quali aveva fatto proposito di tacere. Scriveva ben egli al Papa lettera dolorosa più che minacciosa; per sè aspettava con desiderio la morte; a lui chiedeva che senza indugio volesse provvedere alla sua salute. Faceva intanto per mezzo d’amici qualche pratica nelle Corti straniere, e si rinvennero presso a lui, quando fu preso, bozze di lettere all’Imperatore, e ai [50] Re di Spagna e d’Inghilterra e d’Ungheria, perchè adunassero un Concilio. Ne aveva già scritto al re Carlo VIII, cui era solito di riprendere per non avere compita l’opera alla quale era chiamato da Dio; e questo Re n’ebbe più volte il disegno, cui la Sorbona lo esortava, e più d’ogni altro a ciò lo spingeva Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincula, che allora in Francia dimorava. Ma nè Carlo era uomo da tanto, nè in Francia materia a ciò sufficiente: fra tutti profano era il Cardinale, che nel Pontefice non guardava che al principato furiosamente ambito da lui. Andava la lettera del Savonarola in Francia per un corriere, che essendo fatto svaligiare dal Moro, facea questi pervenire la lettera al Papa, del quale s’accese più che mai lo sdegno; talchè nuovi assalti sovrastavano a Fra Girolamo. E questi frattanto da una fiducia presuntuosa era condotto a quel punto estremo dov’egli vedevasi mancare innanzi la via e cadere l’opera sua: dovette allora più che mai sentire nell’animo crudeli battaglie; e come affranto ne rimanesse, vedremo dai fatti che a lui precipitarono la ruina.

Era nel convento di San Marco un Fra Domenico Buonvicini da Pescia, uomo semplice, fanatico, tutto devoto a Fra Girolamo, che lo faceva spesso predicare in vece sua quand’era costretto al silenzio. Un giorno il pio Frate si lasciò andare dal pulpito a dire che la dottrina del suo Maestro sosterrebbe anche la prova del fuoco: il giorno dipoi un Francescano, predicando in Santa Croce, raccolse la sfida, offrendosi pronto a fare l’esperimento: le forme ed i modi tra le due parti furono dibattuti, e i Magistrati della Repubblica v’intervennero. Da quel momento il Savonarola fu spacciato, e fu da indi in poi minore a sè stesso. Non avea fede in quei giudizi, nè approvava tentare Dio a quei miracoli; ma contrapporsi, era confessare vinta la causa e la dottrina sua, levare in alto gli uomini del [51] peccato e dare scandalo ai suoi devoti: vedevasi innanzi Roma fulminante, ed il trionfo dei Francescani, ed il beffardo insulto dei Compagnacci: nè oso affermare che a lui medesimo non balenasse in qualche momento la speranza d’un prodigio; fu incerto, e non sempre quanto bisognava decoroso. La fibra sua era singolarmente delicata e sensitiva: nei tumulti si perdeva d’animo; alle brighe riusciva inetto; aveva bisogno di essere solo in faccia a un popolo e a Dio. Sarebbe lungo e tedioso esporre le tante dispute che nacquero circa al fermare le condizioni: molti dalle due parti campioni s’offersero; rimasero all’ultimo Fra Domenico da Pescia e un frate Andrea Rondinelli. E intanto le fazioni civili, i disegni, le macchinazioni dei politici di dentro e di fuori, e i dolori degli uomini virtuosi, e i pii affetti delle donne popolane, ogni cosa era in fermentazione durante quei giorni. Diceano i nemici del Frate: «O egli morrà, o del tutto perderà credito.» Poi veduto che egli per sè rifiutava, di lui si beffavano. In Palazzo la Signoria stava contro lui, sparsi negli altri Magistrati i suoi partigiani: da Roma, dov’era Piero dei Medici, non è da dire se venisse esca all’incendio: il Duca di Milano vi soffiava dentro notoriamente, e degli emissarii suoi abbiamo lettere.[45] Fu adunata una Consulta, dove con poche differenze tutti opinarono fosse bene di lasciare correre le prove, che sarebbe stato a ogni modo finirla con le divisioni, e la città ne avrebbe quiete.[46] Assegnava quindi la Signoria per l’esperimento il 7 aprile, vigilia della domenica dell’Ulivo.

Dall’angolo del Palazzo della Signoria verso il tetto dei Pisani si distendeva un palco formato di materie combustibili con sopra per tutta la lunghezza fascine dai due lati, e in mezzo a queste libero un andare della larghezza di due braccia. La Loggia dei Signori [52] aveano divisa in due spazi, che uno pei Frati Minori e l’altra pei Domenicani; la Piazza guardata da molto numero di soldati a cavallo e a piedi, le armature dei Capitani splendide come a un tornèo. I Compagnacci che si mettevano innanzi a tutti, uomini nobili e ricchi la maggior parte, facevano anch’essi un bel vedere con la loro compagnia che s’andò a porre vicina al palco. All’ora data mossero da San Marco Fra Domenico innanzi in piviale e tutto animoso nella faccia; dopo a lui Fra Girolamo col Sacramento in mano, a lato uomini della nobiltà con torchi accesi; indi lunghissimo ordine di Frati, e grande popolo degli amici loro in arme. Entrati sulla Piazza, intuonarono il Salmo: Exurgat Deus et dissipentur inimici ejus: quindi le due parti pigliarono posto sotto alla Loggia. Qui nacque la prima contesa circa al fare entrare Fra Domenico nel rogo con l’Ostia in mano, come il Savonarola pretendeva; gridavano molti che ciò sarebbe profanazione, e peggio ancora se l’Ostia bruciasse: tutti s’accorgevano che il Savonarola questo faceva perchè l’esperimento non andasse innanzi. Sorgevano altri punti di controversia tra le due parti, e le ore passavano, ed il popolo aspettando tumultuava; discorsi d’ogni sorta si facevano, e Fra Girolamo non ne aveva la parte migliore. Sotto alla Loggia i frati suoi non cessavano dal cantare ad alta voce Laudi e Salmi; gli altri serbavano un pio silenzio e dignitoso. Nulla si faceva: dal Palazzo alla Loggia era un andare ed un venire continuo di messi della Signoria; ma il giorno declinava, quando una subitanea e grossa pioggia, o interruppe la foga degli animi, o diede occasione al disperdersi. Non senza grande pericolo Fra Girolamo e i suoi tornarono al Convento, peggio che vinti, perchè il pensare del maggior numero si voltava contro a loro.

La mattina del giorno dipoi nella città era un muoversi di persone che si osservavano a vicenda, ciascuno [53] cercando raccogliere intorno a sè i suoi: ma già si vedeva la parte del Frate essere grandemente assottigliata. Stava il Palazzo per gli Arrabbiati, che già si ordinavano come a guerra regolare; i Compagnacci tenevano armati la piazza del Duomo; le strade si empievano dei vecchi e nuovi avversari dei Piagnoni; questi venivano insultati, e due poveretti che pregavano furono scelleratamente uccisi. A San Marco erano accorsi i fidi a tutta prova, ed armi vi furono recate che taluni dei frati indossavano, intantochè altri, secondo le varie nature d’ognuno, si nascondevano o fuggivano, o stavano intorno a Fra Girolamo, che nel coro pregando vietava si spargesse sangue dai suoi: diede un mesto e solenne addio in poche parole ai circostanti; null’altro a lui era da fare; l’affetto dell’animo andava diritto ad alto segno, ed egli in quel giorno rinvenne sè stesso. Francesco Valori, che era in Convento, aveva impedita ogni temerità dalla parte sua: cominciarono le offese intorno al Duomo all’ora di vespro; gli assalitori gridarono a San Marco! e a sera il Convento fu investito. Di dentro non mancarono le difese; vi ebbero morti, taluni vennero a cadere su’ gradini dell’altare maggiore, dietro al quale stava il Savonarola inginocchiato. Questi, poichè dalla chiesa bisognò uscire, andò a porsi col Sacramento in mano nella Biblioteca greca, come la chiamavano, perch’ivi era stato il primo deposito di libri dai quali uscirono grandi le antiche lettere. Intanto la Signoria, che ogni cosa dirigeva, mandò i suoi messaggieri con l’ordine di porre le mani addosso a Fra Girolamo e a Fra Domenico, i quali non fecero resistenza, e a notte avanzata furono condotti legati e in mezzo a crudeli insulti nella prigione assegnata dentro al Palagio a ciascuno d’essi; toccò al Savonarola quella detta l’Alberghettino, dov’era stato Cosimo de’ Medici. Ora è da dire la trista fine di Francesco Valori. Avendo questi scavalcato il muro dell’orto, usciva libero dal [54] Convento, e in casa cercava radunare partigiani, quando la Signoria gli mandava ordine di recarsi tosto al Palagio: andava fidente in mezzo ai mazzieri, ma intorno fremeva la turba, e due parenti dei mandati a morte da lui che gli venivano incontro, datogli d’un’arme sul capo, l’uccisero. La moglie sua che tratta dal rumore s’era prima fatta alla finestra, moriva percossa da un colpo di balestra.[47]

Il giorno dopo la Signoria mandò avviso al Papa e al Duca di Milano della presura dei due Frati; ai quali aggiunse un Fra Silvestro Maruffi, uomo dubbio, procacciante, di molto seguito in città. Deliberarono che i rei qui fossero giudicati, negando consegnarli al Papa; rinnovarono gli ufizi degli Otto e dei Dieci, ai quali spettavano le cause di Stato; elessero una commissione d’esaminatori a fare il processo, usando la tortura od ogni altro mezzo: furono eletti dei più nemici al Savonarola, tra’ quali ne basti nominare quel Ridolfo Spini, che noi conosciamo e che più volte avea minacciato la vita del Frate; v’entrarono due Canonici fiorentini, con mandato venuto da Roma. Nei giudizi di Stato la sentenza, come tra vinti e vincitori, precorre all’esame; e i fatti essendo generalmente palesi, ma contrario tra le due parti l’apprezzamento del bene e del male, l’istoria impara da quei processi a giudicare più spesso i giudici che i rei. Gli atti che abbiamo di questo accrescono le dubbiezze anzichè cessarle, questo solo rimanendo certo, che da chi scriveva furono alterati; ripresi tre volte per successiva inquisizione, tra loro s’intralciano; e qui l’empietà della tortura mostrò, più che altrove, quanto ella fosse crudelmente menzognera. Si aggiunga poi sopra [55] ogni cosa, che da cima a fondo materia all’esame non furono altro che i fatti della coscienza: il resto era nulla, e un solo punto si giudicava: se il Savonarola fosse o si credesse o si fingesse da Dio ispirato; da questo pendeva la vita di lui. Ma intorno a ciò nè avrebbe saputo egli rispondere giustamente, nè a quel che dicesse poteva concedersi valore giuridico. Credeva buona la sua dottrina, e la mantenne anche negli esami; alla divina ispirazione correva incontro, e da molti anni vi s’immergeva con tutto il pensiero; la fede viva poi gli mancava, com’egli medesimo si lagna più volte: allora cercava ricostruire quel ch’era in lui come il sostentamento della vita, e allora l’orgoglio veniva a soccorso, e alla credenza del sentimento sostituiva una credenza quasi manufatta, finchè la preghiera non raccendeva la fede o il predicare non la rianimava.

Che negli esami il Savonarola si contraddicesse non fu mai negato. Sotto ai tratti della fune che lo martoriava si dichiarò mentitore; poi rinnegava quel che aveva detto; cedeva ai tormenti fino al vaneggiare; aveva il cuore di martire, ma non la fibra: di questa causa di vacillamenti non sarebbe da tener conto. Chiamato poi a definire a sè medesimo la propria sua ispirazione, si profondava in dottrine astruse; e queste pure non è meraviglia che spesso fossero incoerenti. Ma io per me credo che alla medesima sua coscienza, in quelli strazi del corpo e dell’animo, si appresentasse quanto avea potuto in lui l’orgoglio, perchè il pensiero accusatore in quelle tristezze più vivo e pungente rimaneva solo; forse anche a sè stesso dava riprensione di avere cercato turbare la Chiesa, quando non poteva sanarne le piaghe. I giudici allora afferrando quelle confessioni, le traducevano in parole che lui dichiarassero impostore, che tutto facesse per ambizione mondana, e a solo fine di primeggiare: avvezzi a guardare la coscienza grossamente, più in [56] là non capivano, e allora credevano di averlo colto. Ma in lui l’ambizione propriamente detta mai non si era manifestata per fatti esteriori; non v’era materia d’accusa giuridica: ma pure lo spargersi di quelle contradizioni gettava dubbiezze che abbattevano la reputazione, in molti già scossa, di Fra Girolamo.

Abbiamo un primo Esame fatto dai Commissari, ma che non parve soddisfacesse. Fu allora chiamato certo Ser Ceccone notaio, che molto prometteva: si tornò da capo, ed il misero per altro Esame più altre volte fu martoriato: ma nemmeno questo secondo processo ottenne il fine che i suoi nemici desideravano. Dovettero quindi nel pubblicare i Processi farvisi manifeste alterazioni, e attribuirsi al Savonarola confessioni di tale abiettezza, quali niun malvagio uomo di sè farebbe giammai. Spesso un articolo dell’Esame finisce col dire: che ogni cosa aveva egli fatta o simulata agli occhi degli uomini per ambizione di farsi grande. Tali dichiarazioni è da notare che non si accordano per la materia nè per l’intonazione con quel che precede: e qui la menzogna si vede anche essere grossolana, tantochè fu confessata da quei medesimi ch’erano stati a fare il Processo.[48] Subivano esame nel tempo stesso i due suoi compagni; l’uno dei quali Fra Domenico, si mantenne incrollabile nell’amore e nella fede al Maestro: nè Fra Silvestro lo aggravava, non tenendo conto delle conclusioni, dove spesso avviene che dopo averlo il testimone lodato o scusato gli si faccia dire: infine conchiudo che fu traditore. Invece si vede Fra Silvestro farsi accusatore di molti e molti cittadini Fiorentini che praticavano il Convento, e a quali si vengono a imputare brighe d’ogni maniera. Fra Domenico aveva nominati molti di quei medesimi cittadini, ma come amici del Convento e senza per nulla nella sua Esamina aggravarli. Fra Silvestro si trova essere [57] stato principale in quelle pratiche sediziose, nelle quali Fra Girolamo non apparisce essere entrato menomamente. Dal suo deposto, non che da quelli di altri o frati o cittadini, chiaro ne apparve, dopo allo studio molto accurato che ne abbiamo fatto, fra tutti essere Fra Silvestro stato grande mestatore, ed essersi imposto con le arti sue a Fra Girolamo, che in lui credeva come a lui credevano o s’impacciavano seco altri cittadini dei maggiori e fino di quelli che certo non erano da quella parte.[49]

Andava intanto al Papa una lettera in nome dei Frati di San Marco: in essa dichiarano ingannatore Fra Girolamo perch’egli medesimo nel ritrattarsi lo avea confessato, ma insieme attestano ampiamente le virtù sue, la santità della vita, i frutti delle predicazioni, e gli eventi che avevano dato alle sue parole tale conferma che grandi ingegni ne furono presi. È lettera scritta con singolare accorgimento, perchè nel domandare l’assoluzione riducono a nulla il loro peccato: sopra ogni altra cosa (com’è nello spirito di tali corporazioni) pensavano alla vita e alla grandezza del Convento di San Marco; chiedeano pertanto che si mantenesse separato dalla Congregazione di Lombardia, e che rimanessero in quello tanti uomini insigni e incolpabili che vi si erano aggregati. Rispose il Papa benignamente; alla Signoria scriveva lettera molto graziosa, ed assolveva con altro Breve le colpe commesse fino all’omicidio, a procurare la caduta del Savonarola. Entrò dipoi la Signoria nuova, e persistendo nel rifiuto di mandare i Frati a Roma, accettò che venissero [58] in Firenze due Commissarii a rinnovare il Processo per conto del Papa.

Rimasto in carcere il Savonarola solo con sè stesso, ritrovava (come a lui sempre avvenne) sè stesso. Compose allora due Meditazioni, che furono insigni testimonianze del suo animo in quelli estremi giorni della vita. Bentosto ebbero quelle due scritture celebrità grande e vennero in più luoghi pubblicate. Quivi nulla del Processo, nulla dei suoi Giudici; è solo con Dio, e a lui raccomanda l’anima sua quando non possa la vita. «A chi rivolgermi io peccatore? Al Signore, la cui misericordia è infinita: non è chi si possa gloriare in sè stesso. — Confermami nel tuo spirito, o Signore; ed allora solamente potrò insegnare agli iniqui le vie tue. — Io desidero con ardore che tutti gli uomini sieno salvi, perchè le opere dei buoni grandemente mi solleverebbero. Io ti prego perciò, che tu volga lo sguardo alla Chiesa tua, e veda come più sono gli infedeli che i cristiani, ed ognuno ha fatto Dio del suo ventre. Manda fuori il tuo spirito, e rinnoverassi la faccia della terra. L’inferno si empie, la tua Chiesa manca, levati su; perchè dormi, o Signore? — Allora tutto lieto esclamai: Io non mi confido negli uomini, ma solo nel Signore: e renderò i miei voti dinanzi a tutto il popolo, perchè preziosa è nel cospetto di Dio la morte dei Santi.» Poco dopo gli fu tolta la carta, e dovette cessare di scrivere: ma quelle sue parole sono di grande momento a far giudizio del Savonarola. Sul pergamo stesso e prima che fuori tuonasse la riprensione degli altrui vizi, in fondo al cuor suo gemeva il dolore: e qui troviamo la riprensione mantenersi rigida sempre, ma più devota, dopo agli strazi degli esami e alla vigilia del supplizio. Giudichi ognuno se chi sentiva allora in tal modo avrebbe potuto mentire tanti anni freddamente a fine ambizioso.

Ai 19 di maggio entrarono solennemente in Firenze i due Commissari apostolici, che erano il Generale dei [59] Domenicani e il Vescovo quindi Cardinale Romolino: ricominciava il Processo il giorno dipoi. Ci asterremo qui dal riprodurre le crudeli parole che furono attribuite al Romolino, perchè non vogliamo tutto accettare dai Biografi. Il fine cercato dai Commissari più specialmente era scuoprire quali aderenti avesse il Frate alla proposta del Concilio. Disse: «Risponderò chiaro; le cose del Concilio non mi furono consigliate da nessuno; co’ Principi d’Italia non ne tenni pratiche, perchè gli stimavo tutti miei nemici; speravo nei Principi stranieri; i Cardinali e Prelati sapevo essermi tutti avversi.» Il Romolino cercava scuoprire se in nulla vi fosse implicato il Cardinale di Napoli. Si venne quindi ai tormenti, in mezzo ai quali gridò il torturato d’avere avuto pratiche seco; poi si disdisse: quel Cardinale faceva stima del Savonarola, ma tra essi non fu altra corrispondenza che in termini generali. Il terzo Esame finì come gli altri, nè fu pubblicato. Si venne il giorno dopo al dare sentenza, e tra i Giudici fu discorso di salvare Frate Domenico, ma poi lo condannarono insieme con gli altri: presenti al Processo erano Magistrati della Repubblica, la quale in una Pratica molto stretta, negando uno solo, decretò eseguirsi la sentenza. Questa fu letta la sera stessa ai tre condannati, portando che fossero prima impiccati e quindi arsi.

La notte il Savonarola assistito dal confortatore con la cappa nera, ch’era per la Confraternita a ciò destinata un Niccolini, e da un monaco di san Benedetto che gli fu dato per confessore, ottenne rivedere i suoi due Compagni, che da lui furono comunicati la mattina: era il 23 maggio, vigilia dell’Ascensione. Giunsero gli sbirri che gli condussero nella Piazza, dove sulla ringhiera aveano alzato il tribunale pel Vescovo che gli dovea degradare, e un altro pei Commissari apostolici, ed un terzo pel Gonfaloniere e gli Otto, ai quali spettava mandarli al patibolo. Questo era formato [60] di un’asta che in alto avea una traversa, dove i tre Frati dovevano essere appesi; ma perchè troppo presentava la forma di croce, le sue braccia furono scorciate: sotto si alzava un palco di legna e materie facili a bruciare. In Piazza era grande la moltitudine: vi erano uomini amici al Frate, tra’ quali il buono Iacopo Nardi che a noi lasciava memoria del fatto: intorno ad essi altri esultavano, intanto che molti e fin dei più avversi erano compresi di terrore. Aveano lasciato che passassero vicino al rogo, e lo circondassero, di quelli uomini che senza vergogna o insultano al vinto o sul misero inferociscono. I tre Frati salirono il palco: Fra Domenico sereno e come andasse a festa; Fra Girolamo, che della croce teneva il mezzo, fu l’ultimo al quale il boia desse la spinta fatale; poi subito in mezzo ad urla feroci fu appiccato il fuoco, che arse i tre corpi legati da una catena perchè non cadessero: di essi e del palco e d’ogni cosa le ceneri furono gettate in Arno dal Ponte Vecchio; ma donne pietose travestite spingendosi nella folla, raccolsero quante reliquie potessero, e alcune ne rimangono tuttavia.[50]

La morte del Savonarola fu vittoria di tutto quanto era in Firenze di più guasto; il vizio montato in superbia si gloriava di sè stesso; e il ben vivere pareva che fosse dispregio:[51] entrava il secolo corrottissimo del cinquecento, ed in Repubblica sempre popolare, i [61] costumi erano già tornati peggio che medicei. Uomini di conto, che avevano prima notoriamente creduto al Frate, ora come lieti d’averlo scoperto traditore, lo aggravavano gettandogli addosso le ingiurie più odiose; lo chiamavano un diavolo, anzi una intera legione d’inferno. Erano oltre agli Arrabbiati, gli astuti e i paurosi ed il volgo dei prudenti, e l’altro volgo più innocente che aspettava da lui un miracolo; e quelli che cercano mostrarsi furbi ai danni altrui, ed i pentiti o vergognosi d’avergli creduto.[52] Cessate però bentosto le ire e le paure, più non si leggono di tali accuse, ma in Firenze e fuori troviamo invece uomini gravissimi averlo in onore: il Guicciardini e il Machiavelli di lui parlano con rispetto; Filippo de Comines, che aveva praticato seco, lo tenne per santo.[53] Le arti nella loro maggiore eccellenza riprodussero più volte l’effigie del Savonarola, e fin nelle stanze del Vaticano Raffaele Sanzio a lui dava luogo tra’ grandi Teologi e tra’ Padri della Chiesa.

Quanti in Firenze rimanevano capaci di libertà, e coloro che più tardi o la difesero o la piansero, uscivano dalla scuola del Savonarola, o ne seguivano le [62] traccie via via cancellate nel corso dei secoli. Il culto del Frate durò più che il regno della Casa Medici; ed a memoria dei padri nostri, la mattina del 23 maggio trovavano fiori sparsi in quel punto della Piazza, sul quale era stato piantato il rogo. Il Convento di San Marco, già essendo fondato il governo principesco, dava ombra ai Regnanti; e i frati ne furono per qualche tempo cacciati. In molti conventi d’uomini e donne di san Domenico il Savonarola aveva culto e ufficio suo proprio, che fu pubblicato per le stampe ai giorni nostri. Ma sul cadere del cinquecento un Medici arcivescovo ed un Medici granduca si accordarono insieme a proibire l’ufficio ed il culto; nondimeno vi ebbero Santi e vi ebbero Papi suoi lodatori, e la dottrina di lui posta in Roma sotto ad esame rigoroso, ne usciva incolpata.[54]

Com’era da credere, i protestanti hanno preteso che il Savonarola fosse uno dei loro; ma egli veramente in nulla precorse ai tedeschi novatori, perchè nulla volea s’innovasse, nè mai gli cadde nemmeno in pensiero mutare, com’essi fecero, il principio della fede. In religione non ambì farsi capo di parte o fondatore d’una scuoia nuova, nè avrebbe saputo, non essendo altro che un predicatore il quale si ardiva percuotere i vizi palesi nei sommi della gerarchia; per questo fu arso. Non era la sua di quelle nature che sieno atte a fare nel mondo le novità grandi, perchè in tali uomini la volontà forte è necessario che sia anche fredda e che adoperi le arti capaci ad ottenere il fine voluto: ma egli era fidente nella sua propria ispirazione, e questa seguiva. Nessuno dei maestri della Riforma lo pareggiava per alto sentire; avendo incontro tale battaglia, rimase qual’era: era cattolico, era frate; e grande anima con forte ingegno.

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Capitolo III. GUERRA DI PISA. — I FRANCESI A MILANO, GLI SPAGNOLI A NAPOLI — IL DUCA VALENTINO. — PIERO SODERINI GONFALONIERE A VITA. [AN. 1498-1503.]

In Francia essendo morto Carlo VIII senza figli, andò la corona in Luigi duca d’Orléans che fu duodecimo re di quel nome; aveva in proprio la signoria d’Asti, si teneva personalmente investito dell’eredità dei Visconti; e ora succeduto come re nelle ragioni degli Angiovini, vedendo i Francesi bramosi di guerra e sè in forze e in età da farla, si diede tutto a quella impresa: già era l’Italia pei re stranieri come una terra che aspettasse di fuora i padroni, ond’egli con nuovo esempio pigliava titolo di Re delle Due Sicilie e Duca di Milano. Era disciolta la Lega poderosa che aveva cacciato fuori d’Italia Carlo VIII, rinate le grandi gelosie tra lo Sforza e i Veneziani, aggiuntasi un’altra esca terribile all’incendio. Alessandro VI, poichè fu morto il Savonarola ed egli conobbe non avere fondamento l’idea di un Concilio, credette sè stesso libero ad ogni cupidità più sfrenata, intantochè a lui s’aggiunse uno stimolo ed uno strumento capace alle opere che si preparavano. Per la uccisione avvenuta del Duca di Gandia erano andati tutti gli affetti e le ambizioni di Alessandro nel figlio secondo, che fino allora aveva dovuto dispettosamente chiudersi nelle ecclesiastiche dignità. Cesare Borgia, lasciato il manto di cardinale, non pensò ad altro che a farsi uno stato, usando a tal fine la tenerezza del padre e la potenza della Chiesa e gli sconvolgimenti d’Italia, ai quali convennero di dare la mano il Papa e il Re con volontà pari; e Cesare Borgia, andato in Francia, ebbe una moglie di sangue reale di Navarra, che fu Isabella degli Albret, e in dote il ducato di Valenza nel Delfinato, col promettersi [64] le due parti aiuto scambievole alle grandi opere di sovversione, che noi vedremo bentosto seguire.

Lodovico il Moro, tardo a riscuotersi, e fidando col tempo e con le arti rimuovere da sè la tempesta, dopo avere condotto egli stesso a Pisa le forze dei Veneziani; poichè gli ebbe veduti andare con molto ardore a quella guerra, temè non trovarsi posto a discrezion loro, quando con la possessione di Pisa gli stessero incontro dall’uno all’altro mare. Vedeva inoltre, dopo la tanto da lui bramata ruina del Savonarola, passato il governo della città di Firenze in mano a quegli uomini co’ quali a lui era più facile intendersi: deliberò quindi fin dai primi giorni dell’avvenuta mutazione mandare soccorsi ai Fiorentini contro alle armi Veneziane che da più parti discendevano verso a Pisa. Già fino dal maggio del 1498 aveva l’aiuto di queste rialzato le fortune dei Pisani a Santo Regolo, dove poichè i soldati di Firenze furono rotti, parve la colpa essere stata del Capitano: quindi fu chiamato a governare tutta la guerra contro Pisa Paolo Vitelli, condottiero allora di molta reputazione e di possanza per avere quella famiglia la signoria della Città di Castello. Questi, dopo essersi avanzato alquanto in quelle infelici terre dei Pisani tante volte calpestate, sapendo che per la Lombardia scendevano in molto numero altre genti dei Veneziani, fu d’accordo con i soldati del Duca di munire i passi dell’Appennino così da impedire ad esse l’entrata nella Toscana; che fu consiglio prudente, sebbene male gradito in Firenze e sospettato di pravi disegni. Tentava allora la Signoria di Venezia altre vie contro ai Fiorentini; e prima cercava di avere il passo dai Senesi, dei quali era poco meno che signore Pandolfo Petrucci; ma questi per concessioni avute nelle cose di Valdichiana si mantenne in pace con la Repubblica di Firenze. Esclusi da questa banda i Veneziani, si provarono in Romagna ad occupare Marradi; ma non poterono pei soccorsi [65] che vi mandò il Duca di Milano e, a sua richiesta, Caterina Sforza signora in Forlì, ultimamente lasciata vedova da Giovanni dei Medici mentre portava in seno un altro Giovanni che poi fu in arme tanto famoso.

Voltarono allora in Casentino la guerra, dove sulla fine d’ottobre occuparono furtivamente Bibbiena col favore di Ser Piero Dovizi da noi già mentovato: Piero de’ Medici e Giuliano suo minor fratello seguivano le armi dei Veneziani governate dal Duca d’Urbino e da Bartolommeo d’Alviano. Talchè la Signoria di Firenze richiamava di sotto Pisa in grande fretta Paolo Vitelli; e seco le genti dello Sforza entrate in Casentino sostentavano quivi la guerra, sebbene fosse in luoghi aspri nel cuore del verno: i villani di quei monti, sotto la condotta dell’abate di Camaldoli, molto infestavano i nemici. Ma Bibbiena non si racquistava; del che il popolo in Firenze dava cagione al Vitelli e al Duca di Milano come fossero insieme d’accordo per allungare la guerra. Pagava lo Sforza, col non trovare chi a lui credesse, la pena dei vecchi peccati suoi; ma veramente questa volta, di già odorando che i Veneziani tenevano pratiche con Francia, andava sincero nel desiderare che i Fiorentini, reintegrati di Pisa, gli fossero aiuto valido: bramava inoltre avere a’ suoi soldi Paolo Vitelli, molto in lui fidando. I Veneziani vedeva già stracchi di quella guerra; e poichè il cessarla credeva sarebbe tenuto comune beneficio, confidava così meglio unire le forze d’Italia contro all’assalto di oltremonti. Volgeasi pertanto al Duca di Ferrara perchè praticasse, come uomo di mezzo, un accordo sopra il fatto di Pisa: al che avendo le due parti consentito, fu nel mese d’aprile del 1499 pronunziato un lodo in Ferrara, ma tale che a niuno potè soddisfare, perchè ai Fiorentini concedeva in Pisa una signoria mezzana, come se in tanti odi e in tanto invecchiata sete di vendette potessero avervi libertà i Pisani e i Fiorentini sicurezza. Il compromesso non fu [66] accettato da nessuno; ma i Veneziani di cheto ritrassero le genti loro dalla Toscana, e in quel mezzo pubblicavano la lega stretta già prima segretamente col Papa e col Re di Francia, che si obbligava dopo l’acquisto di Milano cedere ad essi Cremona con la Ghiaradadda. Così era imminente il pericolo del Duca, e molto in Firenze la città divisa, potendo in alcuni il pensiero del recente benefizio e in altri l’antico amore per Francia; ma indugiavano a scuoprirsi mentre pendeva tuttora dubbioso l’evento.

Contro a Pisa invece andavano allegri di nuova baldanza, poichè i Pisani più non avevano chi gli soccorresse; duello di popoli fiero e terribile sopra ogni altro. Pigliate a soldo altre milizie, le posero tutte sotto al comando di Paolo Vitelli, che richiamato dal Casentino, e dopo l’espugnazione di alcuni di quei castelli tante volte perduti e ripresi, poneva il campo sotto Pisa; dove accadde che mentre ai 10 d’agosto piantava le artiglierie, una mano di soldati suoi trovando male difesa la rôcca forte di Stampàce, che è sopra le mura, v’entrassero dentro: del che nei Pisani fu grande sbigottimento, e per alcune ore la città fu detto che stesse a discrezione del Vitelli; ma questi cauto per natura, e non avendo a ordine le milizie, temette cacciarsi dentro vie mal note, in mezzo ad uomini disperati, e suonò a ritratta: i Pisani rincorati fecero altri ripari.[55] Pochi dì poi il Capitano aveva con le artiglierie gittato a terra tanta parte di muro ch’era possibile entrarvi, ma, come diceva, con molta uccisione dei suoi; ond’era meglio aspettare pochi giorni perchè fosse aperta più larga entrata. Ma in questo mezzo cominciarono per la stagione a regnare in campo certe febbri pestilenziali per cui le compagnie [67] de’ soldati molto diradavano, e gli stessi Commissari tutti ammalarono; talchè a due per volta quattro volte rinnovati, quattro di essi perirono, e tra questi Paol’Antonio Soderini, ch’era sempre dei primi nella città, ma poco amato: cadeva su’ Fiorentini l’abbandono crudele nel quale aveano tanti anni lasciato gli scoli della provincia Pisana. Convenne bentosto al Capitano levare il campo di sotto Pisa, dov’erano anche entrati trecento fanti mandati dai Lucchesi. Di ciò in Firenze fu grande lo sdegno ed alte le grida, che il Vitelli accusavano traditore. Contro lui erano antichi sospetti: egli superbo e rozzo ed avaro, riusciva male atto dove una moltitudine richiamata subitamente a libertà credeva spiegare la forza sua nell’avere sempre per nemici coloro che stavano più in alto di lei. Nè mancavano uomini ai quali paresse rinnalzare il nome di una Repubblica popolare con l’abbattere senza rispetti un Capitano che aveva in Italia fama di possente: credeano agguagliarsi alla Repubblica di Venezia se tagliassero il capo al Vitelli, come aveano fatto in simile caso i Veneziani al Carmagnola. La forza in quei tempi, qualora sapesse un po’ di delitto, cresceva agli Stati quel che appellavano reputazione. Fu il Vitelli da un Commissario della Repubblica, sotto specie di conferir seco, fatto venire a Cascina e ritenuto quivi in custodia: Vitellozzo suo minor fratello, riuscendo a salvarsi tra’ suoi, fuggiva, serbato più tardi a morte peggiore. Paolo Vitelli, condotto a Firenze e messo ai tormenti, benchè non trovassero per molti esami contro a lui cosa di sostanza, ebbe nel seguente giorno mozzata la testa: gli uomini della piazza lodarono il fatto.[56]

In questo tempo era il re Luigi entrato in Italia. Qui niuna alleanza fortificava lo Sforza, e quella di Massimiliano imperatore gli tornò vana, sebbene questo [68] principe fosse legato a lui di parentela, e bramasse molto difendere i diritti della imperiale investitura, chiudendo ai Francesi la via d’Italia: ma i suoi disegni cadevano a vuoto per la leggerezza dell’animo e per l’inopia di danaro. Non avea lo Sforza temuto chiamare contro alla Repubblica di Venezia i Turchi; e questi gli furono migliori amici, poichè mentre assalivano la Morea, invasero il Friuli fino alla Livenza, devastarono ogni cosa, uccisero o trassero in schiavitù gli abitanti. Comandava l’esercito milanese Galeazzo da Sanseverino, guerriero da mostra più che da campo, il quale al primo urto dei Francesi abbandonata vilmente Alessandria, apriva ad essi la via di Milano; e i popoli erano mal disposti: al che sbigottito il Duca, insieme col cardinale Ascanio suo fratello e col tesoro e co’ figliuoli si fuggiva in Allemagna. Del Castello di Milano aveva fidata la guardia a Bernardino da Corte suo allevato, ma questi corrotto dal Re con danaro gli aperse il Castello. Così tutto lo Stato del Duca venne in mano dei Francesi, eccetto Cremona e la Ghiaradadda; le quali sebbene facessero istanza che il Re le accettasse, andarono ai Veneziani secondo le convenzioni. Ciò fu nel settembre del 1499, dopodichè il re Luigi tornò in Francia, lasciato il Trivulzio governatore in Milano. Lodovico fuggiasco attendeva con la sola potenza che a lui rimanesse, la moneta, a farsi un altro esercito assoldando Svizzeri e Lanzichenecchi; e quando poi seppe rimasti in poco numero i Francesi ed essere i popoli già infastiditi di loro, tornava indietro nel mese di febbraio del 1500, e agevolmente rientrato in Milano, cercava munirsi per quando i Francesi, come n’era certo, scendessero un’altra volta giù dalle Alpi. S’era il Trivulzio rinchiuso in Novara, dove assaltato cedè al valore degli Svizzeri di Lodovico; ma intanto venivano con singolare prestezza in Lombardia tra le genti del Re altri Svizzeri al soldo di questo. Lodovico di già s’apprestava [69] a dare battaglia; ma quei suoi Svizzeri medesimi tumultuavano per le paghe, e poi ben tosto venuti ad intendersi con quelli del Re, insieme convennero di abbandonare Lodovico: nè ai preghi di lui cedendo nè alle lacrime, gli permisero solamente uscire travestito in mezzo alle file come uno di loro; ma non gli valse, perchè riconosciuto e forse tradito, cadeva ben tosto in mano ai Francesi. Non sia permesso ad altra nazione levare accusa contro agli Italiani perchè mancassero alla fede: i grandi principi e i liberi uomini del pari tradivano; i semplici alpigiani dell’Elvezia venderono lo Sforza ad un Re. Lodovico andò prigioniero nel castello di Loches in Turena, dove finiva la vita.[57]

I Fiorentini godevano poco favore alla Corte e nei consigli del Re francese per essere stati tardi a dichiararsi, e ultimamente per l’uccisione di Paolo Vitelli ch’era stato soldato di Carlo VIII, e perchè sempre mettendo innanzi la recuperazione di Pisa, andavano contro ai disegni del Trivulzio al quale i Pisani aveano offerta la signoria. Purnondimeno prima che il Re partisse da Milano aveva firmato una carta, della quale la sostanza era pe’ Fiorentini riavere Pisa con le armi francesi, promettendo poi d’essere insieme col Re nell’impresa che egli disegnava contro Napoli.[58] Nè appena spedite le cose di Lombardia, scendevano per la via di Pontremoli soldati Guasconi e Svizzeri sotto la condotta di Ugo di Beaumont, che i Fiorentini aveano al Re chiesto come loro bene affetto. Chiudeano i Pisani le porte all’esercito, dichiarando che al Re si darebbero con allegrezza, ma sotto promessa di non essere mai ceduti ai Fiorentini: ricevevano nella città i soldati quanti venissero alla spicciolata, e gli servivano di viveri e d’ogni cosa domandassero. Il Beaumont con [70] l’artiglierie batteva le mura; ma quando i Francesi ebbero aperta una larga breccia, trovarono che i Pisani, uomini e donne, erano lì a munire una fossa scavata in fretta dietro alle mura. Questo fu il termine dell’impresa: le vettovaglie scarseggiavano all’esercito, e i Commissari della Repubblica ne aveano carico, tantochè si venne a non più intendersi; i soldati predavano i carri degli approvvigionamenti, e in Pisa praticavano come amici. L’onore del pari e la compassione gli muovevano; Pisa era stata a quelle miserie condotta da Francia. Si legge che a due Francesi d’alto grado mandati ad intimare la resa, le fanciulle pisane andate incontro abbracciassero le ginocchia, e poi menatigli davanti a un’immagine della Vergine e cantando preci da spezzare il core, chiedessero almeno che si unissero con loro a invocare dal cielo pietà, se dagli uomini non l’ottenevano.[59] Il disordine entrò nel campo, e si avvicinavano i tempi delle febbri; era discordia tra Guasconi e Svizzeri, e tutti sgombrando, questi condussero prigioniero il Commissario Luca degli Albizzi che pel riscatto pagò grossa taglia.[60]

Luigi XII per le convenzioni con papa Alessandro si era obbligato dargli aiuto alla conquista di Romagna che il Papa agognava. Già nei Pontefici era antico desiderio finirla una volta con quel grande numero di tirannetti e di terre libere che di nome ubbidivano alla Chiesa, ma in fatto nè pagavano tributi, nè si astenevano dall’entrare in guerra tra loro e con altri, e di frequente contro a Papi stessi. Nel Borgia, che era uomo di vasti concetti, le ambizioni di pontefice si univano alla brama di fare uno stato al figlio e spingerlo alle grandi cose: col nome e con le armi di Francia avean essi deliberato abbattere e distruggere [71] i Vicari che già da più secoli tenevano la Romagna. Contava il Re molto sull’amicizia d’Alessandro pel grado e per la moneta, e perchè vedeva nel padre e nel figlio uomini da non lasciare a mezzo le cose; la Lega pertanto avea saldi vincoli, perchè utile a entrambi. Andava il Papa franco all’impresa, che nessun altri oppugnerebbe; poichè i Veneziani avendo addosso la guerra col Turco, e a condizione che non se gli toccasse Ravenna e Cervia, ritiravano la protezione sotto la quale erano usi tenere i Signori della Romagna; nè i Fiorentini poteano allora prestare a questi valido aiuto.

Cesare Borgia, chiamato generalmente il Duca Valentino, era di Francia venuto col Re, che non appena entrato in Milano gli aveva dato trecento lance sotto Ivo d’Allegri, e col Balì di Dijon quattromila Svizzeri da essere mantenuti a spese del Papa. E questi intanto con la paura aveva costretto a seguitare le armi della Chiesa gli Orsini, i Vitelli, i Baglioni di Perugia e gli altri Signori i quali erano più vicini a Roma e che di solito faceano vita di condottieri. Altre forze erano già in pronto, e il Valentino espugnata Imola, condusse la guerra contro a Forlì dove risedeva quella valorosa Caterina Sforza, la quale mandati i figli a Firenze con tutto il mobile, perchè non poteva difendere la città, si chiuse nella cittadella; e a questa essendo dalle artiglierie aperta una breccia, poi nella rôcca, dove animosamente si difendeva; ma quivi pure entrati con molto sangue i nemici, andò essa in Roma prigioniera. Allora essendo Lodovico Sforza tornato in Milano ed i Francesi richiamati in Lombardia, fu costretto il Valentino per qualche mese interrompere la conquista; ma sul finire dell’anno 1500 reintegrata la guerra, ed avendo già il Malatesti abbandonata Rimini, e Giovanni Sforza lasciatogli Pesaro senza contrasto, poneva il campo sotto a Faenza. Qui era signore il giovinetto Astorre Manfredi, che aveva [72] appena diciotto anni e poca guardia di soldati; ma i Faentini avvezzi a quella domestica signoria, e per lo spavento che metteva il nome del Borgia, chiusero le porte, sostennero un primo assalto e quindi un altro ed un altro. Correva l’inverno rigidissimo, ed ai soldati era impossibile alloggiare a cielo scoperto, sempre infestati ferocemente da quei di dentro: il Valentino si rodeva, ma gli convenne fino a primavera distribuire le sue genti nei luoghi all’intorno. Tornato a battere la città, ne fu respinto un’altra volta con grave perdita; ma i Faentini allora vedendosi essere all’estremo si arresero, salvi gli averi e le persone, e con che Astorre andasse libero conservando le sue possessioni. Il Valentino, grande maestro d’una politica scellerata, ai Faentini mantenne i patti; ma perchè l’arte di spegnere le persone valeva qualcosa in tempi nei quali pareva la forza degli Stati e delle parti essere tutta in certi uomini ed in certi nomi, aveva già in sè deliberato la distruzione di tutte intere le famiglie dei Signori da lui spossessati: amava condire col tradimento la crudeltà; e più che vi fosse infamia, più gli piaceva. Ritenne appresso di sè il bello e misero giovinetto, poi di notte tempo lo mandò a Roma, dove in modo oscuro fu messo a morte insieme a un fratello suo naturale. Dopo di che il Valentino ebbe dal Papa e dal Concistoro titolo e investitura di Duca di Romagna.[61]

Voleva andare contro a Bologna, ma perchè Giovanni Bentivoglio era in protezione del Re di Francia, s’accordò con lui che intanto insanguinava Bologna con la uccisione della famiglia e della parte dei Marescotti a lui nemica. Ferrara fu salva perchè Alfonso d’Este consentì a farsi quarto marito di Lucrezia Borgia; lo costrinse la paura e lo attirò il molto danaro e l’inestimabile ricchezza d’arredi e di gioie che la [73] sposa portò seco da Roma a quelle ducali nozze, che i Fiorentini molto onorarono con presenti.[62] Il Valentino, cui non bastava la Romagna, prese la via di Toscana; dimandò il passo alla Repubblica di Firenze, dicendo ch’era per andare a Roma; poi non appena ebbe valicati gli Appennini e investito Firenzuola, scese difilato giù per la via di Mugello presso alla città fino a Campi, dove giunse nei primi del maggio 1501. Firenze a quel tempo era in molto basse condizioni: la guerra di Pisa l’avea logorata, le città vicine la nimicavano; poca guardia di soldati, perchè i cittadini erano stracchi dall’averne pagati tanti con tanto mal frutto; debole il Governo e dalle moltitudini sospettato. Il che s’era veduto in Pistoia: qui da oltre due secoli si mantenevano le parti dei Cancellieri e dei Panciatichi, fomentate anche dalla Repubblica di Firenze, dove era antica regola tenere Pisa con le fortezze e Pistoia con le parti. Le due famiglie che davano il nome a quella discordia potevano meno, perchè essendo ambedue dei Grandi, erano escluse da ogni partecipazione nello Stato; ma i loro aderenti, che aveano gli uffici, in quelli si urtavano. Erano i Panciatichi fautori de’ Medici e parenti dei Vitelli: Giovanni Bentivoglio favoriva i Cancellieri: questi un giorno, e sotto agli occhi degli Ufficiali e dei Commissari di Firenze, levatisi in arme, cacciarono i Panciatichi di Pistoia e arsero le case dei capi di quella parte. La guerra s’accese per il contado e per la montagna; nè la Repubblica vi poteva nulla, divise le voglie e le opinioni dei governanti. Un contadino di parte Panciatica, giovane di grande animo e di senno, mostratosi prode nella difesa di casa sua e fatto capo dei suoi, gli guidava contro ai Cancellieri; dei quali molti, mutate le sorti erano uccisi e arse e devastate le possessioni: durò quella peste continua [74] più mesi. Così in Italia si viveva quando gli stranieri vi furono entrati.[63]

Intanto per opera del Valentino Piero de’ Medici era venuto fino a Loiano; Giuliano era andato in Francia, sperando favore dal Re; Vitellozzo, mandato in Pisa con le sue genti, faceva ogni danno ai Fiorentini; e una segreta convenzione tra il Duca e i Pisani, a questo dava la signoria, con che dovesse recuperare tutto l’antico stato di Pisa, escludendone tutti e per sempre i Fiorentini. A questi il Borgia si protestava sempre amico: domandava però il ritorno dei Medici, o almeno la formazione d’un Governo stretto con altre condizioni; quindi soprastette un poco, sperando che nella città divisa ed agitata potesse nascere qualche movimento. Qui era tumulto ed in alcuni volontà incauta di uscire popolarmente e assalire il campo nemico: prevalse il consiglio degli uomini più autorevoli benchè sospetti, ed il Vescovo d’Arezzo con altri oratori fu mandato a trattare con Valentino. Questi dal canto suo vedeva intanto che mutare lo stato in Firenze non sarebbe facile opera nè sollecita, ed a lui tardava fare cammino per gli avvisi ricevuti di Roma e di Francia. Prima lentamente di luogo in luogo si condusse infino ad Empoli, e per via conchiuse con la città un trattato pel quale, mettendo da parte ogni altra pretensione, veniva egli nominato Capitano generale della Repubblica per tre anni, con certo numero d’uomini d’arme, e con condotta di trentaseimila fiorini l’anno; trattato che dava a lui grandezza di nome piuttosto che forza effettiva: ma nè questo, nè l’altro che aveva fatto in contrario co’ Pisani, ebbero mai sorta alcuna d’esecuzione. Da Empoli il Duca accompagnato dai Commissari della Repubblica, ma non senza fare alle campagne grandissimi danni, lasciata da banda Volterra e occupata [75] con qualche difficoltà Ripomarance, scese in Maremma e pose il campo sotto a Piombino. Iacopo d’Appiano qui era signore; il quale veduta la mala parata, si condusse per mare in Genova; ma i Capitani suoi continuavano la difesa, nè Piombino cadde sotto all’obbedienza di Cesare Borgia se non quando questi era già in Napoli co’ Francesi.[64]

Abbiamo alla fine del primo Capitolo di questo Libro, lasciato il giovane Ferdinando aragonese padrone del regno che egli si aveva recuperato con le armi. Ma nelle gioie della vittoria e d’un matrimonio troppo da lui desiderato, quel nobile giovane moriva nel settembre del 1496; onde la corona andò in Federigo suo zio, di mite animo ed immune dalle colpe del fratello Alfonso e del padre. Il nuovo Re, scorato al primo avanzarsi dei Francesi, offrì a Luigi XII di rimanere in Napoli come suo vassallo; partito invero nè da proporre nè da accettare, perchè ad entrambi era impossibile mantenerlo. Ma iniquo fu quello che accettò Luigi. Il regno di Napoli conquistato dal primo Alfonso, era stato da lui trasmesso a Ferdinando suo figlio naturale; il che pareva essere contro alle ragioni della famiglia d’Aragona, sebbene con astuzia e pazienza spagnuola (scrive il Guicciardini) non mai le avessero messe innanzi, e invece prestassero a quei di Napoli buono ufficio di parenti sempre, e da ultimo al re Federigo. Ma parve essere buona l’occasione al re Cattolico ora che il Francese consentì seco venire a patti per la divisione del reame. Bene potè Ferdinando vantarsi d’avere un’altra volta ingannato suo fratello Luigi, il quale veniva con quel trattato a porsi a fronte un re possente e di lui più accorto, che aveva piede in Sicilia e sempre aperte le vie del mare. Tale convenzione rimase più mesi segretissima, e si svelò quando già essendo i Francesi venuti innanzi, papa [76] Alessandro improvvisamente concedeva l’investitura a quei due Re, ciascuno per la parte che gli spettava. Del che Federigo essendo ignaro, sollecitava Consalvo di Cordova, che di Sicilia era venuto in Calabria come a soccorrerlo, si affrettasse, non potendo ancora credere all’inganno, che lo spagnuolo negava fin quando si ebbe la prima notizia dell’investitura. Intanto i Francesi avanzavano condotti dall’Aubigny; ciò fu nell’agosto 1501. Federigo, la cui maggior forza era nei due valenti capitani di casa Colonna, Fabbrizio e Prospero; poichè ebbe scoperto il tradimento, fidò al primo la difesa di Capua; e questi dopo avere ributtati nel primo assalto con grave perdita i Francesi, era costretto venire a patti, quando rallentate le guardie entravano i nemici dentro alle porte inferociti del danno sofferto. Fabbrizio rimase prigioniero; la città fu saccheggiata con grande uccisione, molti presi e poi venduti, massime le donne, con empietà efferata. Così perduta ogni speranza, Federigo convenne con l’Aubigny cedergli Napoli e tutta la parte superiore del reame, andando libero co’ suoi nell’isola d’Ischia, dove stavano raccolti miseramente gli avanzi di quell’antica Casa d’Aragona che fu in Italia tanto possente. Dipoi Federigo si cercò un asilo in Francia, piuttosto che averlo in Ispagna da quel parente che gli era stato traditore.

Il Valentino, poichè fu terminata l’impresa di Napoli, avuta frattanto la possessione di Piombino con l’isola d’Elba, venne ad accogliere nel nuovo Stato il Papa con grande pompa di solennità guerresche;[65] andava poi seco a Roma, intantochè i Capitani suoi risalivano per la Toscana, chiamati a nuovi e a vari disegni che allora si ordivano. Era in quel tempo il re Luigi male disposto verso i Fiorentini dai quali non era stato servito, nonostante i patti, nè di soldati [77] nè di danari; e per la poca fermezza loro non si fidando a quel governo, dava ascolto ai Medici e si era vôlto a rimetterli in Firenze. Questo volevano con passione Vitellozzo e gli Orsini soldati del Duca; Pisani e Lucchesi a ciò inclinavano, sperando che Piero dei Medici sarebbe contento rientrare con lo Stato dimezzato; Pandolfo Petrucci in Siena ordiva trame diverse contro i Fiorentini. Da costui fu mosso Arezzo un giorno a ribellarsi: non vi credevano a Firenze da principio, e non provviddero; il Capitano della terra Guglielmo de’ Pazzi e il Vescovo, ch’era figliolo suo, rifuggiti nella rôcca, furono costretti a renderla. Piero de’ Medici e il Cardinale suo fratello vennero in Arezzo; gli Orsini stavano tutti per loro, Vitellozzo ed il Baglioni ciascuno seguivano privati disegni: il Valentino, che aveva messo le sue genti in quel di Viterbo, guardava incerto quale a lui sarebbe preda più facile. Ma subitamente l’animo del Re s’era mutato: aveva questi cercato rimuovere per mezzo di parentadi Massimiliano imperatore da ogni pensiero circa le cose di Lombardia; ma quell’accordo essendosi rotto, e perchè ambasciatori di Massimiliano venuti a Firenze annunziavano che presto scenderebbe egli in Italia per la corona; Luigi XII a cui parevano già troppo grandi le ambizioni e la fortuna del Papa e del Duca, si credè fermarle col dare soccorso ai Fiorentini. Già Cortona e la Valdichiana, Anghiari e Borgo San Sepolcro in Valle Tiberina, avevano ceduto alle armi di Vitellozzo, credendo quei popoli che fosse per conto di Piero de’ Medici. Luigi allora, che aveva fatto della persona sua una comparsa fino a Milano, consentì alle istanze degli Ambasciatori fiorentini, inviando alla recuperazione d’Arezzo quattrocento lance sotto a Carlo di Chaumont nipote del Cardinale d’Amboise, il quale era arbitro dei consigli del Re francese. Vitellozzo, che già era venuto fino presso a Montevarchi, lasciò l’impresa; e così Arezzo tornò al dominio della Repubblica, [78] alla quale era tornata nel giorno stesso Pistoia, per una forzata concordia che si fece allora tra le due Parti.[66]

Il Valentino in queste cose non s’ingeriva; ma da Viterbo, lasciata stare la Toscana, si era condotto verso le Marche; e diceva andare contro al Signore di Camerino; e a quel d’Urbino mostrando intanto ogni amicizia, fece trattato con lui d’avere seco le genti sue e le artiglierie; le quali non prima ebbe tratte fuori dallo Stato, entrò in Urbino, e presane possessione, costrinse a fuggirsene il duca Guidobaldo.[67] Poi subitamente voltatosi a Camerino, l’ebbe per sorpresa, facendo morire Giulio da Varano che n’era signore, e i suoi due figli. Ma perchè intanto a lui premeva sopra ogni cosa purgarsi col Re, ed il momento vedea propizio perchè tra Francia e Spagna già era minaccia d’offese, andò a Milano in poste avanti che il Re ne uscisse; col quale ebbe tosto ristretta la Lega ed ottenute da lui dugento lance che gli fossero aiuto al riacquisto degli Stati della Chiesa. Presentiva radunarsi contro lui una gagliarda tempesta, e venne ad Imola guardando gli eventi. Quei condottieri che aveva tratti seco, sapevano bene che sarebbero alla volta loro spogliati anch’essi in nome del Papa, del quale erano vassalli; odiavano quindi in segreto il Valentino, odiati da lui; e ora trovandosi molti in questo pensiero e nella speranza d’un qualche aiuto in Italia o fuori, e perchè il pericolo intanto stringeva; si unirono insieme ad un comune intendimento Vitellozzo e gli Orsini ed i Baglioni ed un Oliverotto, valente soldato che per iniquo tradimento era divenuto signore di Fermo; anima d’ogni più astuto consiglio Pandolfo Petrucci: col Bentivoglio erano d’intesa, poichè il Valentino avea già l’animo a Bologna. Fatta [79] tra loro una Dieta alla Magione in quel di Perugia, scopertamente si dichiararono nemici al Valentino; e procedendo, restituirono lo Stato d’Urbino al Montefeltro. Il Valentino pazientava fermato in Imola, e aspettando l’aiuto di Francia: co’ negoziati che si tenevano allora in Roma si era accertato che avrebbe favore dai Veneziani, e l’ottenne anche dai Fiorentini, che più di lui temevano Vitellozzo e gli altri che avrebbero rimessi i Medici in Firenze. Abbandonava intanto l’impresa di Bologna, e diede al Bentivoglio sicurezza; radunava genti da ogni parte, e in quell’indugiare si sentì forte ad ogni evento. Del che fatti accorti i collegati della Magione, e veduto essersi arrischiati troppo e messi in grande paura, cercarono accordo: il Valentino gli accoglieva benigno e facile. Ricacciarono essi d’Urbino il Duca; e il Valentino licenziate le genti francesi col dire che non ne aveva più bisogno, e avanzando a bell’agio per la Romagna, si rafforzava segretamente di lance spezzate e di gentiluomini di campagna soliti a vivere delle armi. Accostatosi a Sinigaglia, chiamò i suoi riconciliati Condottieri a convenir seco le cose comuni. Vennero a colloquio Vitellozzo e gli altri fuori della porta della città, ed egli intrattenutigli con discorsi, quando ebbe cenno che le genti sue gli attorniavano da ogni parte, fece mettere le mani addosso a Vitellozzo e ad Oliverotto e a Paolo Orsini e al Duca di Gravina, i quali essendo portati nell’alloggiamento suo, due furono strangolati la notte medesima e gli altri poco dopo: era la notte che principiava l’anno 1503. Di che pervenuta segretamente al Papa la notizia, questi fece subito chiamare in palazzo il Cardinale degli Orsini, che ivi dopo alcuni giorni moriva; altri quattro di quella famiglia, uno dei quali era Arcivescovo di Firenze, nel tempo stesso furono ritenuti. Non mai si vidde tale scelleratezza nè più meditata, nè condotta con tale maestria: io mi confondo al pensare quanto malvagio [80] spreco si facesse allora in Italia di fiere indoli e d’ingegni, di scienza di cose e d’esperienza accumulata, in mezzo a un vivere elegante ed alla cultura delle arti gentili; nè so più intendere ciò che sia quel che oggi chiamiamo civiltà.

Da Sinigaglia il Valentino, senza perder tempo, s’indirizzò a Città di Castello che trovò abbandonata dai Vitelli, e quindi a Perugia, d’onde medesimamente Gian Paolo Baglioni s’era fuggito. Prese la possessione dell’una e dell’altra città come Gonfaloniere della Chiesa; e quindi avviatosi ai confini dei Senesi, ma non osando pigliare quell’impresa, mandò ambasciatori a Siena perchè fosse cacciato Pandolfo Petrucci, dichiarando che fatto ciò, continuerebbe la sua strada in terra di Roma. Il Re di Francia gli avea mandato intimazione di non recare molestia ai Senesi: bene bramava fossero battuti quegli armigeri Baroni, reputando essere utile a conservazione del suo Stato che la milizia d’Italia si spegnesse.[68] Pandolfo, lasciata la città in guardia dei suoi, andò a Pisa per breve tempo. Gli Orsini e i Savelli correvano la campagna intorno a Roma; onde il Valentino andatigli a cercare nei loro castelli, espugnò Ceri rôcca fortissima degli Orsini; per tal modo avendo fiaccate le forze di quelle famiglie che più non riebbero l’antica grandezza. Ma in questo tempo il Re s’alienava dal Papa, temendo che non divenisse troppo forte, ora che le cose di Francia vedeva già messe in pericolo nel regno di Napoli.[69]

Nella divisione tra i Re di Spagna e di Francia non era espresso bene a chi andasse la provincia di Capitanata che è parte della Puglia, ma senza la quale i bestiami degli Abruzzi non avrebbero dove svernare; mutando luogo, dovevano ogni volta pagare una gabella [81] che dava provento ricchissimo. I Francesi, più forti e più baldi, aveano occupata quella provincia, e quindi essendo bandita la guerra, venuti innanzi per le altre che erano tenute dagli Spagnuoli, non lasciarono a questi rifugio se non poche città poste sul mare Adriatico, obbligando Consalvo di Cordova a rinchiudersi dentro Barletta; alla quale il vicerè di Napoli Duca di Nemours poneva assedio, intantochè l’Aubigny campeggiando la Calabria rompeva altre genti di Spagnuoli venute a soccorso dalla Sicilia. In Barletta era somma carestia d’ogni cosa, e la peste vi regnava; ma Consalvo, il gran Capitano, con mirabile fermezza faceva durare ai suoi quelle crudeli strettezze, dandone egli stesso il primo esempio; ottenuto anche con le uscite che egli faceva dalla città sugli assedianti qualche vantaggio non piccolo. Avvenne che in quelle lunghezze d’assedio nascesse disfida tra’ cavalieri Francesi e quelli Italiani che seguitavano gli Spagnuoli: dal che si venne, col consenso dei due Capitani, a fermare le condizioni d’un combattimento fuori delle mura di Barletta, dove tredici Francesi doveano affrontarsi con tredici Italiani, primo dei quali Ettore Fieramosca capuano. Al giorno dato fu la battaglia ferocissima con le picche e con le spade; gli Italiani rimasti superiori conducevano in Barletta con grande trionfo i Francesi prigionieri: nobile tema di romanzo in quella miseria di storia. Avendo i due Re in questo tempo fatta una pace tra loro per mezzo di Filippo arciduca d’Austria, marito alla erede del trono di Spagna; fu ai Capitani dei due eserciti mandato ordine si fermassero. Il che da Consalvo non fu voluto consentire, ed egli di suo proprio moto continuava la guerra nella quale già vedeva essere superiore. Imperocchè nuove genti di Spagna essendo venute per mare, assaltarono in Calabria l’Aubigny che aveva raccolto in Seminara il grosso delle sue forze, e che ivi fu rotto e fatto prigione insieme ad altri Capitani [82] e Baroni del Regno di parte francese. Allora Consalvo uscì di Barletta; ed erano seco Fabbrizio e Prospero Colonna: si affrontarono i due eserciti alla Cerignola, dove fu battaglia grandissima e memorabile; il Nemours vi cadde morto, e i Francesi andarono in fuga avendo perduto i carriaggi e le artiglierie: si raccolsero le reliquie dell’esercito sotto Ivo d’Allegri e il Principe di Salerno, ma Consalvo procedendo entrava in Napoli a’ 14 di maggio 1503.

Abbiamo voluto finora descrivere sommariamente i grandi fatti, i quali nei primi tre anni di quel secolo aveano mutato le sorti d’Italia col mettere in essa le Signorie forestiere e dare la possessione effettiva dello stato secolare ai Papi, che prima non l’avevano goduta che a brani ed incerta. Diremo adesso d’una alterazione che avvenne allora dentro allo stato della Repubblica di Firenze, rifacendoci un poco più indietro a dire le cause che la produssero. Dopo alla morte del Savonarola nulla fu innovato quanto al Governo della città, contentandosi di mutare le persone di quei magistrati che troppo sembrassero ligi alla setta; ma non appena era scorso un anno, che uomini di parte fratesca con gli altri entravano negli uffici. Una repubblica popolare col Consiglio Grande si può quasi dire che tutti volessero; e chi non amava di per sè quel modo, lo accettava temendo peggio. Era una forma ampia e solenne di libertà, e sarebbe stata come un’idea astratta, sorta in un popolo disavvezzo, se l’esempio della Repubblica di Venezia non avesse prestato ad essa un’autorità somma: tenevasi allora in Italia e fuori, Venezia essere quello Stato che avesse fra tutti migliore governo. Ivi però il nome di Maggior Consiglio significava la generale assemblea dei nobili, i quali erano quel che altrove i cittadini aventi parte nella sovranità; e sotto a quello era l’altro popolo, e sopra un certo numero di famiglie che aveano la forza e in sè custodivano le tradizioni e la scienza [83] dello Stato. Ma in questa nostra città popolana il Gran Consiglio rappresentava l’intero popolo senza distinzioni di ceto nè d’ordine; lo aveano formato di tutti coloro le cui famiglie fossero state nei maggiori uffici o sotto il governo dei Medici, o sotto il precedente Stato libero: il qual modo, sebbene vizioso perchè derivava dalla formazione sempre arbitraria delle borse, pure con l’andare tanto indietro comprendeva tutte le parti della cittadinanza, o come dicevano i benefiziati: le famiglie delle Arti maggiori ivi entravano per tre quarti, e le minori per l’altro quarto; il che alla forza univa la libertà con proporzioni che erano abbastanza giuste. Veramente del Consiglio Grande, com’era formato, nessuno può dirsi fosse malcontento; questo mantenevano tenacemente quanti volevano la libertà, che in esso aveva tutto il fondamento suo; era una difesa contro al ritorno dei Medici, e gli stessi partigiani di questa Famiglia gradivano meglio confondersi tra la universalità dei cittadini, che avere sul capo la signoria di pochi, nemici antichi e più inclinati alle oppressioni e alle vendette.

Nella Repubblica veramente le antiche parti si urtavano poco per essere ognuna d’esse divenuta molle e cedevole. Viveva qui pure, come da per tutto, la perpetua guerra tra’ pochi ed i molti; ma più non aveva l’antica sostanza, nè più serbava le antiche forme: il nome di guelfi o di ghibellini nulla più valeva, i grandi si erano venuti a confondere co’ grossi mercanti, il Consiglio Grande aveva finito d’uccidere i Collegi delle Arti, nè più era guerra degli Artefici della bottega contro a’ loro capi; nei cittadini più facoltosi la terra formava il minor cespite di ricchezza, ed in Firenze tra’ patrimoni di molte famiglie poco era l’eccesso. Tuttociò avrebbe dato buone condizioni a quell’Assemblea la quale doveva qui essere sovrana come a Venezia; nè il male era in quella, ma nella mancanza di chi preparasse le cose che in essa erano [84] poi da decretare, o in altri termini, di chi governasse la Repubblica sotto il freno dei sì e dei no che l’Assemblea pronunzierebbe. Negare o approvare ma non discutere si potevano le grandi e le piccole faccende là dove sedevano intorno a mille cittadini, ed erano oltre a due mila i nomi scritti di coloro nei quali il diritto propriamente risedeva. Spettavano quasi tutte le elezioni a quel Consiglio, ma per non esservi chi le avesse avviate prima e procacciato ad esse i voti, non si vincevano senza difficoltà grande o andavano a caso. La libertà era antica in Firenze, ma il congegno del governo già logoro dopo essere stato per sessant’anni coperta facile alla servitù, era d’impaccio più che di guida oggi a questa Repubblica nuova, nella quale entravano idee dottrinali o ch’aveano pregio dall’imitazione. Ricondurre le cose ai loro principii sarebbe stato qui pure intempestivo com’era impossibile, essendo invece mestieri dedurre principii nuovi dai nuovi fatti che il corso del tempo avea generati.

Fin da principio avea la Repubblica avuto qui sempre migliore il popolo delle istituzioni; alle grandi cose non era formata, ma nell’istoria di Firenze confrontata a quella del resto d’Italia ritrovò il Balbo maggiore bontà. Sugli antichi ordini poco fondamento era da fare: i Collegi che formavano il Consiglio stretto della Signoria, perchè si traevano come prima dalle borse con la sola aggiunta del dovere essere approvati, oggi godevano poca stima. Dovevano gli Ottanta in questa nuova costituzione essere la mente della Repubblica o il Senato; ma eletti come alla rinfusa da un grande numero di persone, pareva togliessero al popolo parte di quello che al solo popolo spettava; quindi erano sempre guardati con gelosia, benchè scelti a breve tempo: sopra ad ogni cosa temevano divenisse quel Consiglio il patrimonio di poche famiglie, e ad esso chiamavano uomini spesso di qualità mediocri. Aveano voluto farne un Senato a imitazione [85] di quello di Venezia, ma era il contrario; perchè ivi il Senato, benchè ogni anno sembrasse dal popolo riattingere la potestà, si manteneva continuo negli stessi uomini e in quelle famiglie dove era la forza delle tradizioni e della scienza, e che in sè avevano la sovranità effettiva. Inoltre gli Ottanta erano impediti dalla ingerenza degli altri uffici, attraverso dei quali come per vagli stretti doveano passare le cose, e che avevano arbitrio ciascuno nella specialità sua. Le Provvisioni, per essere vinte, aveano bisogno di seicentosettantasette volontà, come dicevano; oggi più modestamente le chiamiamo voci. Il Magistrato dei Dieci, creato nei tempi di guerra, diveniva tirannico, avendo facoltà di ogni cosa la quale servisse alla difesa dello Stato: regolavano le condotte e quindi le spese, imponendosi alla Signoria; donde si tiravano addosso grande odio. Gli chiamavano i Dieci spendenti; imputavano ad essi le imprese male riuscite e le gravezze: aveano cercato di limitarne le facoltà, ma era peggio ora che le cose volevano azione tanto più spedita quanto più vasti e subitanei erano i pericoli: infine lasciarono per qualche tempo di creare quel Magistrato.

La città era in basso stato, e la plebe malcontenta per la mancanza dei lavori; gli anni aveano dato una mezza carestia. Le gravezze, che molto divenivano frequenti, passavano a stento nel Consiglio Grande, nel quale dovevano avere i due terzi: i poveri e i mediocri ne facevano accusa agli uomini di maggior potenza. Volevano far legge di quella gravezza che aveva nome di Decima Scalata, e per la quale dove i meno agiati pagavano il terzo, la tassa pei ricchi era in quel tempo alle volte più dell’entrata; il che riusciva tanto più gravoso che le ricchezze in danaro essendo facili a nascondere, il peso cadeva su’ pochi che vivevano delle possessioni: ritenevano alle volte i cittadini più ricchi, e gli facevano per forza prestare al Comune. Ma [86] tali violenze sempre avevano scarso effetto; e il peggior male stava in questo, che i malcontenti, seguendo il modo usato del dire di no a ogni cosa, faceano che spesso nel Consiglio Grande nessun partito potesse vincersi, e nessuno uomo avesse voti per la Signoria per gli Ottanta, fuorchè i dappoco e meno sospetti. Frattanto le varie parti s’ingegnavano a speculare intorno al numero dei voti richiesti: con l’obbligo della metà più uno le provvisioni passavano con difficoltà; e quindi le fecero vincere con le più fave, cioè col maggior numero relativo: in ambo i modi è da vedere quanto sottili calcoli facessero affinchè i partiti riuscissero dominati dall’una o dall’altra delle varie condizioni di cittadini.[70] I meno agiati, col portare i carichi, volevano anche avere una larga distribuzione degli uffici; e ottennero quindi che fossero tratti a sorte i minori, dei quali era il maggior numero nel Contado.

Così alla macchina del Governo erano intoppi le antiche forme, nè questo popolo rinveniva più sè medesimo nei tempi nuovi. Grande fu quando la sua politica per le cose di fuori si racchiudeva in un’idea sola, ampliare e svolgere il principio guelfo; questa era compresa da tutti del pari, ed in quel semplice andamento il fascio intero della cittadinanza spesso facea meglio dei suoi reggitori. Ma i tempi avevano spenta in Italia ogni idea comune; la forza era in pochi, gli stranieri prevalevano; era un difendersi per sottili astuzie cercando vivere, o i meglio accorti strappare qualcosa in quelle rovine alle spese d’un vicino che fosse più incauto. Era una scacchiera sulla quale il gioco voleva uomini molto esercitati che sapessero odorare le cose da lungi, e che pure ingannando l’uno l’altro, avessero modo tra loro d’intendersi: in ciascuna [87] trattazione tra Stato e Stato bisogna pure che l’una parte possa contare sull’altra, perchè altrimenti non si va innanzi. Era oggimai la politica un mestiere che bisognava con l’abitudine aver fatto suo; e non poteva essere in uomini tratti fuori a caso, i quali restando in ufficio poche settimane, rigettavano poi l’uno sull’altro il carico delle cose male consigliate o male condotte. Al che in Firenze si aggiugnevano i lunghi divieti che le leggi davano alla casa e alla persona del Magistrato da una volta all’altra, i quali accrescevano i vizi di quello spesso variare, fatto peggiore dai sospetti pei quali temevano che i primari cittadini non volessero mutare lo Stato. «Concorrevaci tutti i disordini che fanno i numeri grandi, quando hanno innanzi le cose non punto digerite; la lunghezza al deliberare, tantochè spesso vengono tardi; il non tenere secreto nulla, che è causa di molti mali. Da questi difetti nasceva che non pensando nessuno di continuo alla città, si viveva al buio degli andamenti e moti d’Italia; non si conoscevano i mali nostri prima che fossero venuti; non era alcuno che avvisassi di nulla, perchè ogni cosa subito si pubblicava; i principi e potentati di fuora non tenevano intelligenza o amicizia alcuna colla città, per non avere con chi confidare nè di chi valersi pel frequente mutare dei Magistrati.» Era il filo delle trattazioni tenuto solamente dal Cancelliere della Signoria, Marcello Virgilio Adriani, uomo dotto come la Repubblica gli sceglieva. «I danari andando per molte mani e per molte spezialità, e senza diligenza di chi gli amministrava, erano prima spesi che fossino posti; e si penava il più delle volte tanto a conoscere i mali nostri e dipoi a fare provvisioni di danari, che e’ giungevano tardi: in modo che e’ si gittavano via senza frutto, e quello che si sarebbe prima potuto fare con cento ducati, non si faceva poi con centomila. Nasceva da questo, che non si potendo fare provvisioni di danari, erano costretti [88] da ultimo lasciare trascorrere ogni cosa, stare senza soldati, tenere senza guardia e munizione alcuna le terre e le fortezze nostre. E però i savi cittadini e di reputazione, vedute queste cattive cagioni, nè vi potendo riparare perchè subito si gridava che volevano mutare il Governo, stavano male contenti e disperati, e si erano in tutto alienati dallo Stato, ed erano il più di loro la maggior parte a specchio, nè volevano esercitare commissarie o legazioni se non per forza, perchè sendo necessario pe’ nostri disordini che di ogni cosa seguitassi cattivo effetto, non volevano avere addosso il carico e grido del popolo senza loro colpa. Non volendo gli uomini savi e di reputazione andare commissari o ambasciatori, bisognava ricorrere a quelli che andavano volentieri: non andavano se non quando non potevano far altro un messer Guid’Antonio Vespucci, un Giovan Battista Ridolfi, un Bernardo Rucellai, un Piero Guicciardini,» padre dello Storico di cui trascriviamo qui molte parole.

«Questi modi dispiacevano ai cittadini savi e che solevano avere autorità, perchè vedevano la città ruinare ed essere spogliati d’ogni riputazione e potere. Aggiungevasi che ogni volta che nasceva qualche scompiglio, il popolo pigliava sospetto di loro, e portavano pericolo che non corressi loro a casa; e però desideravano che il Governo presente si mutassi, o almeno si riformassi. Era il medesimo appetito in quegli che si erano scoperti nemici di Piero de’ Medici, perchè per i disordini della città avevano a stare in continuo sospetto che i Medici non tornassino, e così reputavano avere a sbaraglio l’essere loro. Così gli uomini ricchi e che non attendevano allo Stato, dolendosi di essere ogni dì sostenuti e taglieggiati a servire di danari il Comune, desideravano un vivere nel quale, governasse chi si volesse, non fossero molestati nelle loro facoltà. Agli uomini invece di case basse, e che conoscevano che negli Stati stretti le case loro [89] non avrebbono condizione; ed agli uomini di buone case, ma che avevano consorti di più autorità e qualità di loro, e però vedevano che in un vivere stretto rimarrebbono addietro: a tutti costoro, che erano in fatto molto maggior numero, piaceva il presente Governo nel quale si faceva poca distinzione da uomo a uomo e da casa a casa; e con tutto intendessero che vi era qualche difetto, pure ne erano tanto gelosi e tanto dubbio avevano che non fossi loro tolto, che come si ragionava di mutare ed emendare nulla, vi si opponevano.[71]» Una volta che il vecchio Guid’Antonio Vespucci, essendo Gonfaloniere, si era lasciato innanzi al Consiglio uscire tra’ denti e tra i labbri questa conclusione, che non essendo essi cittadini contenti dei modi e della qualità del presente governo, non si volessero astenere di farlo intendere alla Signoria, la quale non mancherebbe ai loro desideri; fu tale il romore nella Sala del Consiglio per la frequenza degli spurgamenti e dello stropicciare per terra i piedi, che egli tutto perturbato si ripose a sedere. Il Proposto subito diede licenza al Consiglio, ed il Gonfaloniere se n’andò la sera medesima a casa con la febbre, dove gli cantavano la notte: «Zucchetta, Zucchetta, e’ ti sarà tolta la forma della berretta.[72]» Ma in seguito stracchi dalle grandi e spesse gravezze e dal non rendere il Monte le paghe a’ cittadini, e in ultimo mossi dai casi d’Arezzo e di Pistoia, divennero facili ad acconsentire che si pigliasse qualche modo di riformare il Governo, purchè il Consiglio non si levasse, nè lo Stato si ristringesse in pochi.

Aveano a tal fine chiamata una Pratica di Quaranta dei principali cittadini, ma si trovarono le opinioni varie: taluni volevano per mezzo d’una Balía mutare ad un tratto lo Stato del popolo; ad altri pareva senza toccare il Gran Consiglio, mettere invece di quello [90] degli ottanta come un Senato dei più qualificati cittadini che fossero stati nei grandi uffici; i quali fossero a vita, ed avessero le facoltà maggiori, come quella di creare i Dieci ed altre cose. Giudicavano altri che il fare tali alterazioni sarebbe con troppo scandalo e pericolo, contentandosi di correggere quei difetti dai quali venisse il peggior male, soprattutto quanto alle provvisioni dei danari, le quali volevano che si vincessero alla metà più uno, senza bisogno di avere i due terzi. Ma riscaldando i dispareri, dopo essere stati in Pratica più giorni, cominciarono quando uno e quando un altro a non volere più radunarsi; talchè per allora cotesta Pratica andò in fumo. Ma il popolo a queste cose dubitando che non volessero i primi cittadini mutare lo Stato, quando si venne a eleggere la Signoria nuova pe’ mesi di luglio e agosto 1502, si accordarono nel Consiglio Grande a eleggere un Gonfaloniere di piccola qualità e dappoco. Il caso fece che al Priorato portassero uomini qualificati, come un Acciaiuoli ed un Morelli, e primo tra tutti per vigore d’animo, Alamanno Salviati; i quali avendo scorto che ogni altro partito dispiaceva troppo, s’accordarono a proporre la creazione d’un Gonfaloniere a vita.

Avrebbono intorno a questo supremo Magistrato voluto porre una deputazione di cittadini, i quali avessero più facoltà che gli Ottanta e a lui servissero di freno, cosicchè lo Stato venisse di fatto, come a Venezia, in mano di pochi. Ma quel disegno dovette essere abbandonato, perchè il popolo, anzichè il consiglio di pochi, soffriva la potestà d’uno: gli uomini intendono a questo modo la libertà; la sanno cedere ma non confinare. Venne in consulta se invece del Gonfaloniere a vita dovessero farne uno a tempo lungo; ma vinse l’altro modo, considerando che un Gonfaloniere a vita, avendo il maggior grado che potesse desiderare, l’animo suo si quieterebbe; dove se [91] fosse a tempo, avrebbe in cuore il desiderio di perpetuarsi procedendo con più rispetti, massime in quanto a fare giustizia, che era uno di quelli effetti principali pel quale s’introduceva questo nuovo modo. Vollero che l’autorità sua fosse quella medesima che solevano avere pel passato i Gonfalonieri di Giustizia, nè accresciuta nè diminuita in alcuna parte, eccetto che potesse, come Proposto, sedere e rendere il partito in tutti i Magistrati della città nelle cause criminali. Si aggiunse che avesse cinquant’anni, non potesse avere altri uffici; i suoi figliuoli e fratelli avessero divieto nei tre maggiori; fosse loro proibito fare traffico, perchè ne’ conti del dare e avere non avessero a sopraffare altri; avesse, oltre alle spese di Palazzo e quartiere per la moglie e famiglia sua, cento ducati al mese pagati dal Camarlingo del Monte; potesse, portandosi male, esser deposto e punito sino alla morte da’ Signori e Collegi, Dieci, Capitani di Parte guelfa, e Otto, congregati insieme pe’ tre quarti delle fave: potesse ognuno essere eletto sebbene fosse inabile per conto di divieto o di specchio, e coloro anche i quali andavano per le Arti minori; il che si fece perchè gli artefici vi concorressero più volentieri: la Signoria continuasse ogni due mesi a farsi come per l’addietro. Questa Provvisione portata agli Ottanta e quindi al Consiglio generale, si vinse, ma non senza difficoltà, nei due luoghi. Quanto all’elezione poi della persona che fosse Gonfaloniere a vita, decretarono si facesse dal Consiglio grande, togliendo via ogni esclusione di chi era a specchio, perchè si estendesse a maggior numero. Ma non si vincesse però alla prima, e quelli che avessero la metà più uno dovessero andare insieme a un secondo squittinio, nel quale chi rimanesse al modo medesimo, andasse al terzo che fosse poi definitivo. La Provvisione fu vinta in agosto, ed ai 22 settembre radunato il Consiglio generale, al quale intervennero più di 2000 persone, riuscì eletto [92] Piero Soderini, rimasto solo già nel secondo squittinio, cosicchè il terzo fu di mera forma. Entrò in ufficio il primo di novembre 1502.

Era figlio di Tommaso Soderini che fu come balio al Magnifico Lorenzo, e fratello di Paolo Antonio: «ricco e senza figlioli, di casa non piena di molti uomini nè copiosa di molti parenti. Aveva cinquant’anni, di mezza statura, viso largo e di color giallo, gran capo, capelli neri e radi; grave, eloquente, ingegnoso, di poco animo e d’intendimento poco forte, e non di molte lettere; vano, parco, religioso, pietoso e senza vizi; aveva per donna la figlia del marchese Gabbriello Malaspini di Fosdinovo, bellissima benchè attempata e savia con modi regi.[73]» Spesso adoprato anche da Lorenzo, si diede poi tutto al governo popolare; e dove gli altri cittadini reputati come lui, avevano fuggite le brighe e le commissioni, lui solo l’aveva sempre accettate e tante volte esercitate quante era stato eletto; del che gli era grata la moltitudine, e teneva che egli fosse più valente uomo degli altri e più amatore della Repubblica. La sua natura lo inclinava a stare coi più, e quando l’anno innanzi fu per due mesi Gonfaloniere, non chiamò pratiche nè cercò il parere dei cittadini più qualificati, comunicando le cose più volentieri ai Collegi dov’erano popolani di poco valore. Fu eletto mentre era in Arezzo Commissario, donde poi tornò a Firenze standosi in casa fino al giorno che fu pubblicato; entrò con molta grazia dell’universale e molta speranza. Pochi mesi dopo, Francesco suo fratello, vescovo di Volterra, allora ambasciatore in Francia, fu creato Cardinale insieme con altri da papa Alessandro.

Il giorno stesso in cui fu istallato il Gonfaloniere a vita, cessò l’ufizio del Potestà, che era da principio come la figura del sovrano, ma ora non doveva [93] essere più altro che un giudice. Finattantochè in Italia dominava il solo pensiero d’essere o guelfi o ghibellini, andavano i nobili per le città della parte amica a fare ufficio di Potestà, recando seco legisti che erano sufficienti in quel destarsi della giurisprudenza, seguace allora della politica; era questo come un segno d’unione e un vincolo tra le città sparse che professavano l’una o l’altra parte. Ma ora i nobili da per tutto altro avevano da pensare; guelfi e ghibellini valeva lo stesso, e la scienza delle leggi stava in alto da sè. Già da molti anni le signorie cittadine, rassicurate nella coscienza del loro diritto, aveano abbassato l’uffizio del Potestà caduto in mano di molti bisognosi che seco menavano dei cattivi Giudici. Una provvisione vinta nel Consiglio Generale, dove intervennero 1180 cittadini, ordinava la formazione d’un Consiglio di Giustizia, o Ruota di cinque dottori forestieri con salario di ducati cinquecento per uno, i quali dovessero stare tre anni e avessero tutti insieme a giudicare le cause civili, e che non potessero dar sentenza se non erano quattro almeno d’accordo, e che ogni causa fosse udita almeno una volta; dalle sentenze loro non si potessi appellare che a loro medesimi, avendo abolito anche l’ufficio del Capitano del Popolo. Dapprincipio volendo continuasse l’antico nome, non che per dare più lustro a quel Magistrato, decretarono che uno dei cinque tratto a sorte per sei mesi, avesse titolo di Potestà con accrescimento di stipendio; da ultimo stessero al sindacato di otto cittadini, tratti dal Consiglio Grande. La Ruota in seguito ebbe variazioni, finchè ne fu tolto il nome del Potestà, disceso indi nei minori giusdicenti del Contado.[74]

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Capitolo IV. GIULIO II. — RIACQUISTO DI PISA. — GRANDE LEGA CONTRO A’ VENEZIANI. — GUERRE IN ITALIA; RITORNO DE’ MEDICI IN FIRENZE. [AN. 1503-1512.]

Le vittorie di Consalvo rendeano perplessa la mente del Papa, il quale venuto in somma potenza con l’aiuto dei Francesi, vedeva le sorti loro declinare; e già sapeva che il re Luigi, temendo le armi e le ambizioni dei Borgia, cercava opporre ad essi una Lega, nella quale entrassero Firenze, Bologna e Siena, avendo in questa città fatto ritornare Pandolfo Petrucci. Vedeva all’incontro che dagli Spagnoli potrebbe avere partiti larghi; e benchè il volgersi dalla parte loro gli paresse cosa di molto pericolo ora che un altro esercito di Francesi già era in Italia, tenendosi pure in tanta grandezza quasi che arbitro della scelta, era opinione sarebbe andato dove lo tirava la sete d’impero in lui più accesa dalla fortuna. Ma in quel mentre avendo il Papa e il Valentino dato una cena ad alcuni Cardinali in una vigna presso al Vaticano, il Papa sorpreso da morbo improvviso moriva nel giorno seguente, che fu il 18 di agosto 1503, e il Valentino era portato a casa in grande pericolo della vita. Corre un’istoria, e fu creduta generalmente, che per lo sbaglio di certi fiaschi bevessero entrambi il veleno da essi apparecchiato a quei Cardinali per averne le ricchezze: ma noi ricordiamo che a molti Principi riuscì fatale in quella stagione dell’anno l’aria appestata della campagna di Roma, che poi si dissero morti di veleno; ed all’istoria della Casa Borgia teniamo per fermo che si aggiunga una leggenda d’infami delitti e poco credibili; gastigo dei veri.

Morto Alessandro, fu grande tumulto in Roma; già [95] quasi era sulle porte un esercito di Francesi avviato a Napoli, e seco il Cardinale di Roano che si confidava per tal mezzo salire al papato. Gli Orsini correvano al sangue del Valentino; e questi in mezzo alla infermità, raccolte nei prati di Roma le genti sue e guadagnatisi i Colonna con rendere ad essi le tolte castella, faceva testa e si confidava di fare eleggere un Papa a suo modo. Ma nel Conclave la divisione essendo grandissima tra’ Cardinali spagnoli o francesi e tra gli amici o nemici della Casa Borgia, portò la minaccia dei pericoli vicini che si accordassero ad eleggere in pochi dì un Papa vecchio ed infermo e di qualità buona, ch’era Francesco Piccolomini arcivescovo di Siena, nipote di Pio II, per la cui memoria si fece chiamare Pio III. I Francesi continuarono la via loro; il Valentino un poco riavuto dalla infermità sua, perchè dentro a Roma stessa gli Orsini e i Baglioni erano più forti, ottenne ritrarsi in Castel Sant’Angelo; e intanto moriva Pio III dopo 26 giorni di pontificato: al quale successe, con mirabile consenso, il più temuto e ricco e potente dei Cardinali, Giuliano della Rovere, che pigliò il nome di Giulio II; agli uni amico, agli altri largo promettitore, e tenuto uomo di franca e veridica natura; capace fra tutti a non si smarrire in mezzo a quella tempesta di cose. Tornavano nelle città di Romagna gli antichi Signori, ma il Valentino teneva le fortezze, nè a lui male affetti erano i popoli. I Veneziani che aveano piede in quelle Provincie ed erano avidi d’ampliarsi, facendosi innanzi, investirono Faenza, città ch’era solita di avere guardia dai Fiorentini; ma questi sebbene temessero molto quella prossimità dei Veneziani, non furono abili a impedire che dopo Faenza avessero anche Rimini e Pesaro, per l’abbandono che fece di quella l’ultimo dei Malatesta, di questa lo Sforza. Giulio II in quei principii del pontificato credendosi forse avere bisogno del Valentino, lo raccoglieva onoratamente nel [96] Palagio per averne i contrassegni delle fortezze, che in altro modo i Castellani negavano cedere; avevagli anche dato licenza di recarsi per mare da Ostia a Napoli, ma poi nata qualche differenza, lo ritenne; finchè il Valentino, dopo lunghe pratiche, avuto in mano un salvocondotto di Consalvo, si fuggiva, da questi accolto e accarezzato molto familiarmente. Nè il Borgia cessava dai vasti disegni: il nome suo, che era terrore a molti, sapeva che avrebbe tuttora sèguito dei più audaci; gli sparsi soldati a lui anderebbero volentieri; teneva in deposito per conto suo dugentomila ducati nei banchi di Genova. Ed ora pensando a far valere quell’antico titolo di signoria che aveva sulla città di Pisa, ed accordatosi con l’Alviano, il quale voltato a parte spagnola cercava rimettere Piero de’ Medici in Firenze; avea di consentimento e con l’aiuto di Consalvo ordito un disegno per cui si sarebbe gettato in Toscana. Ma lo Spagnolo aveva scritto al suo Re aspettando quel che gli ordinasse circa il Valentino, e fu la risposta di farlo prigione: quindi preso all’uscire dalle stanze di Consalvo, fu con solo un paggio sopra una galera condotto nella fortezza di Medina del Campo, ed ivi rinchiuso; due anni dopo riuscito a fuggire per l’opera del suo cognato Re di Navarra, fece morte da soldato, combattendo per conto di questo alcuni castelli.

Da Roma i Francesi avevano continuata la via per Napoli sotto la condotta del Marchese di Mantova: era già cominciato l’inverno aspro e difficile oltre il consueto, ed essi pigliarono la via più breve; ma dove il Garigliano, alto e profondo presso alla foce, poneva ad essi maggiore ostacolo. Avea Consalvo più scarso il numero dei soldati, ma duri al disagio e pazienti per la fede che aveano grandissima nel gran Capitano, laddove i Francesi malvolentieri ubbidivano al Marchese che si dovette come straniero partire dal campo, lasciando il governo a tre Capitani tra loro discordi. [97] Tentarono invano il passo del fiume dove Consalvo si tenne fermo, e tenne i suoi con mirabile costanza cinquanta giorni. Ma quando a lui fu sopraggiunto l’Alviano recando seco le forze di Casa Orsina, Consalvo allora spingendosi ardito di là dal fiume, ruppe i Francesi con grande vittoria e memorabile per gli effetti, essendo gran numero di essi perito in quelle paludi, e gli altri dispersi e spenti in più modi per la diligenza di Consalvo: Gaeta si arrese il primo dell’anno 1504, e da quell’ora la possessione di Napoli, come di Sicilia, stettero per bene due secoli sicure in mano degli Spagnoli. Piero dei Medici, che seguitava l’esercito francese, avendo nella levata del campo cercato con altri gentiluomini condurre pel fiume a Gaeta alcuni pezzi d’artiglieria, si annegò insieme con essi pel troppo peso della barca e i venti contrari: più tardi il fratello, divenuto Papa, gli fece inalzare un monumento nella chiesa del monastero di Montecassino.[75]

Dopo la rotta al Garigliano si fece tregua e indi pace tra i due Re che nella Italia si adagiarono; ma continuava sempre in Toscana quella sciagurata guerra contro Pisa, la quale parve migliore consiglio terminare lentamente col dare il guasto alle terre dei Pisani e chiudere i passi alle vettovaglie per terra e per mare, avendo a tal fine condotto Francesco Albertinelli fiorentino con alcune galere; intantochè l’esercito di terra campeggiava sotto Ercole Bentivoglio, ed era Commissario quel celebrato Antonio Giacomini, buon cittadino, uomo risoluto e franco ed esperto nelle cose della guerra. Avevano anche dato ascolto ad un disegno di volgere il corso dell’Arno e mettere Pisa in secco; ma quell’opera falliva, e una fortuna di mare ruppe le galere. Pensarono allora di lasciare libera l’uscita a quanti Pisani volessero e ad essi restituire [98] le terre: non credevano al fermo animo di quel popolo, e aveano speranza di vuotare così la città; ma pochi uscirono, bocche inutili; e i tornati nel possesso delle terre nascostamente sovvenivano alla penuria di quei di dentro. Ne mancò loro anche questa volta soccorso di Principi ch’aveano disegni sopra a Pisa. Nel seguente anno 1505 credendosi generalmente che il re Luigi XII fosse per malattia vicino a morte, il cardinale Ascanio Sforza, che stava in Roma, formò con l’intelligenza di Consalvo, e come si disse dei Veneziani e del Papa, un disegno per cui l’Alviano entrando in Toscana per la via di Pisa riconducesse il Cardinale e Giuliano dei Medici in Firenze, i quali poi dessero aiuto allo Sforza per la recuperazione di Milano. Ma il Re tornò sano contro all’opinione di ciascuno, e invece Ascanio venne a morte: l’Alviano, che era già in sull’arme, non avendo come impiegare i suoi soldati e molto eccitato da Pandolfo Petrucci, deliberava per suo conto seguire l’impresa contro a’ Fiorentini. Da Siena pigliando la via per la Maremma di Volterra si condusse fino alla Torre di San Vincenzio, dove incontrato a’ 17 d’agosto dalle schiere Fiorentine che lo avanzavano per il numero delle fanterie, quel grande ma sempre infelice Capitano fu rotto, e presi molti de’ suoi e tutti i carriaggi e le bandiere; scampato egli stesso a mala pena con dietro la caccia dei vincitori. Questa vittoria diede tanto animo al Gonfaloniere Soderini, che egli si credette di avere Pisa: ma perchè Consalvo, sapendo lui essere di parte Francese, aveva pigliato la protezione dei Pisani, gli mandò in Napoli ambasciatore Roberto Acciaioli. Consalvo allegava una promessa che in Roma il Cardinale Soderini aveva fatta in nome del fratello di non offendere i Pisani; e benchè Roberto dicesse non essere la città obbligata per le promesse del Gonfaloniere, dichiarò l’altro che in otto giorni avrebbe mandato a Pisa delle sue genti. Al che il Gonfaloniere affrettò l’impresa; la quale però ebbe l’effetto consueto, essendo [99] l’assalto dei Fiorentini ributtato, intanto che in Pisa entrava una mano di genti Spagnole.[76]

Piero Soderini, poco arrischiato per sè medesimo, aveva natura da stare co’ molti; il che a lui tenne luogo di forza in quella Repubblica ed in quei tempi a mantenere il grado suo e a non eccederlo. Seguiva il pensare comune dei Fiorentini, dando poco ascolto agli uomini principali dai quali avrebbe avuto alle volte migliori consigli, ma gli conosceva divisi e diversi di voglie e di fede. Pei quali modi teneva contenta la moltitudine, cui bastava che fosse in Palagio un timone fermo: dava a lui poi sommo favore che avendo trovato quando entrò molto disordinata l’amministrazione, e le gravezze grandissime, e il Monte che non rendeva le paghe; egli con la diligenza sua, ed usando quella parsimonia che soleva anche nelle cose private, limitò le spese, scemò le gravezze e rinnalzò il credito del Monte con molta sua lode.

Quanto alla guerra, diveniva in tutta Italia necessario opporre altri ordini e altri modi ai grossi eserciti e alle fanterie, ch’erano ai loro paesi una milizia cittadina e parte essenziale delle istituzioni d’ogni Stato. L’Italia non ebbe fanterie paesane perchè nessun principe o città voleva dare le armi in mano ai propri suoi sudditi; ma poichè il tristo mestiere dei Condottieri veniva meno e si mostrava insufficiente ai nuovi casi, era necessità il provvedere. Venezia tirava senza suo pericolo soldati propri d’oltremare e aveva il Friuli provincia belligera; nondimeno cominciò a fare, col nome di cerne, qualche leva tra’ popoli sudditi di Terraferma: anche il Duca di Ferrara, che teneva nello Stato radice profonda, le aveva tentate. Firenze in quegli anni fece la prova; e benchè ne uscissero effetti deboli, fu concetto forte di Niccolò Machiavelli che lo persuase al Gonfaloniere Soderini, essendosi [100] in quello poi molto adoprato. Divenne egli Cancelliere di un ufficio di Nove creato per l’Ordinanza o Milizia fiorentina, che negletta per due secoli, fu a quel tempo istituita con nuovi ordini i quali abbiamo di mano sua. Doveano essere dieci mila almeno gli uomini scritti a quella milizia nel contado e distretto, escluse però Firenze e le città murate delle quali non si fidavano, e perchè non fosse armare in ogni città le discordie. Le Compagnie dovean essere di trecento almeno, sotto un capitano e una bandiera, tutti dimoranti nello stesso Vicariato; armati di picche o altre armi da taglio con poco numero di scoppietti. Erano esercitati nei giorni di festa; ed un Conestabile, che aveva il comando di più compagnie, faceva riviste molto solenni due volte all’anno, nelle quali dopo avere udita la messa in luogo aperto, si facevano discorsi che rammemorassero ai militi i loro doveri verso Dio e la Patria; le pene gravi per ogni trascorso, fino alla bestemmia e al giuoco. A mantenere una forte disciplina condussero per Capitano di Guardia del contado e distretto don Michele Coriglia spagnolo, uomo terribile, che era stato col Valentino; ed a lui diedero trenta balestrieri a cavallo e cinquanta fanti perchè facesse eseguire le sentenze o condannasse i trasgressori nelle rassegne, che ordinava nei luoghi diversi dov’erano battaglioni. I Conestabili per la maggior parte erano presi fuori dello Stato; gli esercizi a modo svizzero o tedesco. Il Machiavelli andava spesso in nome dei Nove a fare le mostre; il Giacomini avea la cura delle milizie nei luoghi che guardavano verso a Pisa. Più tardi fu aggiunta l’Ordinanza d’una milizia a cavallo, che doveano essere cinquecento, presi e descritti nel modo stesso.[77]

Ora cominciano le imprese di Giulio II. Raffaello d’Urbino lui dipingeva portato in sedia nel tempio d’onde un angelo con la spada in mano cacciava gli [101] spogliatori. Questo voleva Giulio II, ma come uomo a cui piaceva il fare da sè; non però al modo di Alessandro VI e non pe’ suoi, recando egli con maggior decoro nel seggio papale pensieri grandiosi di principe e mente d’uomo di Stato, quando però la sua indole fiera e impaziente non lo traportasse. Nel mese di settembre 1506 uscito da Roma con l’accompagnamento di oltre a venti Cardinali, venne a Perugia; dove occupate le fortezze e tolta a Gian Paolo Baglioni la signoria, lo condusse co’ suoi soldati a servigi della Chiesa per l’impresa contro a Bologna, alla quale il Papa s’accingeva con la promessa anche di soccorso dal Re di Francia. Recavasi Giulio quindi in Urbino, dove il nipote suo Francesco Maria della Rovere per adozione dell’ultimo dei Montefeltro era divenuto Duca: di là volgendosi, e per evitare Faenza che era tenuta dai Veneziani, entrato di Romagna dentro allo Stato dei Fiorentini, e avuto da essi cento uomini d’arme, s’appressò a Bologna, contro alla quale veniva dall’altra parte con l’esercito Francese Chaumont Governatore di Milano. La famiglia dei Bentivoglio cedeva lo Stato, Giovanni essendosi dato prigione al Re di Francia con buoni patti: il Pontefice ordinava sotto il dominio della Chiesa il governo di Bologna, che fosse quanto alla pubblica amministrazione dato a quaranta dei principali della città, i quali avendo a capo un Senatore presentassero forma di Stato indipendente: questa forma durava in Bologna fino al tempo dei padri nostri. Papa Giulio, dopo essersi ivi trattenuto poco tempo, tornava in Roma subitamente contro all’opinione di tutti: il fine di quella concordia tra lui e Francia, sebbene per anche non manifesto, era contro a’ Veneziani; ma nuove cose intanto nacquero in Italia.[78]

Il re cattolico Ferdinando, che dopo la morte d’Isabella di Castiglia sua consorte portava nome di re [102] d’Aragona, era venuto in quel tempo stesso a visitare l’altro suo regno di Napoli. Qui lo avea chiamato, oltre alla voglia di abbassare la troppa grandezza di Consalvo, forse qualche altro maggiore disegno intorno alle cose d’Italia: molti da lui speravano l’abbassamento dei Veneziani, speravano oltreciò i Fiorentini riavere Pisa. Ma prima di scendere in Napoli aveva il Re saputo la morte improvvisa del giovane arciduca Filippo suo genero, che seco divideva la monarchia di Spagna. Rimase in Napoli Ferdinando pure quell’inverno; e poichè per la pace con Francia doveva ai Baroni Angiovini la restituzione dei feudi che prima erano stati loro tolti, acconciò alla meglio le cose tra essi e i Baroni Aragonesi: partiva poi, conducendo seco il Gran Capitano ornato da lui col titolo di Grande Conestabile di quel regno, dal quale veniva intanto rimosso.[79] Genova in quel tempo si era ribellata contro al re Luigi, che la teneva in protezione da quando ebbe tolto lo Stato allo Sforza, sebbene ciò fosse con le apparenze di governo libero e serbando le antiche forme. Ora i popolani teneano lo Stato, avendo cacciato l’ordine dei nobili devoto al Re; il quale disceso in Italia nel mese d’aprile 1507 con forte esercito di Francesi, nè senza battaglia entrato in Genova, rimetteva gli ordini antichi ma più stretti, aggravando su quella città il peso della soggezione.

Dopo ciò ebbero i due Re in Savona un molto segreto e molto familiare abboccamento, essendo stati insieme tre giorni a conferire personalmente comuni disegni; e la sostanza fu di assalire lo Stato dei Veneziani appena che a loro ne venisse il destro. Ma entrambi convennero che fosse ogni cosa da differire per gli apparecchi i quali vedevano farsi dall’imperatore Massimiliano, che aveva in Costanza chiamato una Dieta, ed annunziava scendere in Italia con le armi [103] dell’Impero a pigliare la corona ed a rivendicarne gli antichi diritti. A fine pertanto di togliere ogni sospetto delle intenzioni loro, Ferdinando tornava in Ispagna, e Luigi XII ritirava d’Italia gran parte dell’esercito.[80] I Fiorentini stavano in due, come erano consueti, non bene sapendo da quale delle contrarie parti avrebbono avuto con minore sborso di danaro partiti migliori. Il Soderini era per conto proprio e del fratello Cardinale che aveva in Francia grandi benefizi, tutto francese, come per uso antico era il popolo di Firenze. Fu nelle Pratiche disputato molto; gli Ottimati volendo che a Cesare andasse un’ambasceria solenne; ma il Gonfaloniere gli mandò invece Francesco Vettori, senza facoltà di trattare; nè di lui troppo fidandosi, poco tempo dopo gli pose accanto il Machiavelli ch’era tutto cosa del Gonfaloniere.[81] In questo tempo Massimiliano, perchè l’aiuto dei Tedeschi gli mancava sotto, leggiero com’era di consigli e di moneta, per fare qualcosa, mosse ai Veneziani un poco di guerra; nella quale ributtato dai villani delle Alpi affezionati al nome veneziano, soffrì gravi perdite dal lato del Friuli; dove la bandiera di San Marco fu condotta da Bartolommeo d’Alviano fino a Trieste e Gorizia e Fiume, venendo a chiudere sotto il suo dominio tutto l’Adriatico. Ma qui ebbe termine l’ingrandirsi di quella Repubblica: a dieci dicembre 1508 il Cardinale d’Amboise e Margherita, figlia di Massimiliano e governatrice della Fiandra, conchiusero essi due soli in Cambray un segreto accordo, pel quale lo Stato dei Veneziani doveva dividersi tra l’Impero e Francia e Spagna e il Papa, se Giulio accettasse quella convenzione. Il che egli non fece senza qualche repugnanza, ma vinse lo sdegno contro alla Repubblica; e peggio era forse rimanere [104] solo, quando i tre maggiori sovrani d’Europa tra loro partivano a brani l’Italia: così fu conchiusa la Lega celebre di Cambray.

Quella concordia tra’ due Re gli rendeva arbitri dei minori Stati, e innanzi di porsi ad un maggiore cimento bramavano entrambi avere fermate le cose in Toscana. Luigi XII, trattando in nome anche del Re di Spagna, mandava in Firenze un Ambasciatore il quale facesse mostra di vietare ai Fiorentini la recuperazione di Pisa, per essere quella città in protezione di Francia e di Spagna, mandando pure a quella volta uomini d’arme; e levò dai soldi della Repubblica un corsaro genovese il quale chiudeva con le sue navi le bocche dell’Arno. Ma erano lustre, e in quanto a Pisa null’altro cercavano che venderne a caro prezzo l’abbandono, bisognosi com’erano entrambi di danaro per la grande guerra che allora imprendevano. Infine convennero di non difendere i Pisani e d’impedire che i Genovesi gli soccorressero, la Repubblica obbligandosi di pagare centomila ducati a Francia e farsi debitrice di cinquanta mila al Re di Spagna. Rimanevano i Lucchesi, dai quali andavano soccorsi a Pisa d’ogni maniera: prima i Fiorentini cercarono di costringerli facendo una mossa contro Viareggio, ma poi vennero agli accordi, i Lucchesi promettendo, quando non fossero molestati nella possessione di Pietrasanta, non lasciare entrare nella città assediata soldati nè viveri. A Firenze voleano finirla con Pisa, la quale sapevano essere agli estremi. Aveano cessato di tentare assalti, che ogni volta erano riusciti a male per la disperata virtù dei Pisani, persino le donne facendo la parte che in guerra potevano. Ma ogni anno si dava il guasto alle terre che i Pisani avessero seminate, riuscendo utilissime alla crudele opera le milizie di nuovo formate, per essere meglio disciplinate e più obbedienti e più atte a spargersi in piccole compagnie. Formavano questi nuovi battaglioni le due terze [105] parti dell’oste dei Fiorentini divisa in tre campi, che uno a San Piero in Grado, l’altro a Ripafratta e l’ultimo nella Valle sotto Calci; dei quali erano Commissari Alamanno Salviati, Antonio da Filicaia e Niccolò figlio di Piero Capponi; comunicavano i tre campi tra loro per via di ponti allora edificati sull’Arno e sul fiume morto. Dentro la città si viveva a questo modo: la governavano quelli stessi che avevano in mano le armi, e vi potevano molto i contadini, fieri per natura in quei luoghi bassi, e che avendo perduta ogni cosa, tuttavia sostenevano la città col farvi entrare un poco di viveri dai luoghi vicini: costoro essendosi vedute ogni anno guastare le terre, più inclinavano alla resa. Aveano sèguito nella più affamata plebe della città, dentro alla quale molti si erano rifugiati; e capi autorevoli ai quali era necessità soddisfare sino a fare entrare alcuni di loro nelle ambasciate o commissioni che si mandavano fuori. Quelli del Governo erano accusati di farsi ricchi nella penuria pubblica e di rompere ogni accordo per non essere costretti a rendere le robe tolte ai Fiorentini, le quali erano nelle mani loro. Nutrivano sempre qualche speranza di fuori, aspettando che la Lega di Cambray venisse a sciogliersi; e in quello Stato incerto d’Italia piovevano in Pisa emissari d’ogni sorta con nuovi disegni. Oltreciò i popoli all’intorno gli aiutavano quanto più potessero segretamente; a quei di Lucca bastava di notte scavalcare il monte Pisano; Genova mandava soccorsi e incentivi contro alla potenza di Francia, che aveva per sè i Fiorentini. Intanto alcuni Signori in Toscana si adoperavano per l’accordo; quello di Piombino faceva istanze perchè da Firenze mandassero un uomo loro a sentire quel che dicessero alcuni venuti da Pisa a quello effetto; la Repubblica vi mandava il Machiavelli che era in campo: ma perchè i Pisani facevano strane proposte, e dicevano di essere senza mandato a conchiudere, il [106] che mostrava d’avere voluto solamente guadagnar tempo; il Machiavelli si licenziava con parole crude, e quella pratica andò a vuoto.[82] Ma nel mese di maggio essendo la città stretta con tale rigore che i Commissari facevano morire chiunque si provasse a mettervi dentro cose da mangiare; un contadino con seguito di molti uomini entrato per forza in Palazzo, disse: «Qui bisogna pigliare partito, noi siamo deliberati di non morire di fame.» Due dei loro capi, che da Piombino non erano voluti rientrare in Pisa, faceano pratiche al di fuori, tantochè infine si deliberarono mandare uomini in campo ad Alamanno Salviati, dicendo volere andare in Firenze a fare sottomissione, ma che egli venisse con loro a trattare. Andarono insieme, e dopo molte difficoltà si sarebbero accordati; ma in Pisa, ecco altri indugi per la ratificazione secondo gli avvisi che venivano di fuori; ed in Firenze nascevano tumulti, col dire che erano ingannati. Due o tre volte fu da Firenze e Pisa un andare ed un venire: intanto a Pisa mancava ogni ultima speranza d’aiuto: i contadini con que’ loro capi ch’erano in mezzo a queste pratiche stringevano forte: gli altri infine cederono, avendo avuta promessa che loro sarebbero lasciate le cose tolte ai Fiorentini, senza ricercare quelle che avessero ad altri vendute. Il giorno dopo era il Corpus Domini, e i Pisani vollero poter fare la processione; il che fu concesso dai Commissari, purchè cedessero alle armi dei Fiorentini subito le porte della città e la torre della Spina. A’ 9 di giugno di quell’anno 1509 i Commissari con tutto l’esercito entrarono in Pisa: le date promesse furono attenute, usando anche poi governo più mite. Questa fu [107] l’ultima guerra tra città e città che nell’Italia si combattesse: erano tempi nei quali ogni cosa fino agli odii era meno viva; sopra all’antica idea di Città, che soleva essere tanto stretta e tanto forte, sorgeva più ampia l’idea di Stato, dimodochè Pisa godendo favore sotto al Principato alquanto risorse.[83]

Fin dal principio della primavera Luigi XII era nuovamente disceso in Italia con forte esercito, e rapidamente procedeva sino al fiume dell’Adda, dove i Veneziani con dubbio consiglio si erano deliberati d’aspettarlo. Si venne alle mani per la virtù impetuosa di Bartolommeo d’Alviano, che non soffrendo starsi fermo alle difese, ben tosto impegnava su quelle ghiare dell’Adda grande battaglia, nella quale dopo lunghe prove di ferocia da ambe le parti, l’esercito Veneziano fu rotto, essendovi rimasto ucciso grandissimo numero massimamente di fanti, e prigione l’Alviano stesso. Dopo di che tutta quella parte dello Stato di Venezia ch’era al di là del Mincio venne in potere dei Francesi; e indi poi subito Verona, Vicenza e Padova, delle quali ultime città il re Luigi, secondo i patti, faceva pigliar possesso nel nome dell’Imperatore. Grande fu in Venezia la costernazione; il Senato proscioglieva dall’ubbidienza i sudditi della Terraferma, e n’ebbe aiuto più valido. Massimiliano scendeva dalle Alpi, e per allora provvisto di denari aveva un numero grandissimo di soldati di ogni nazione; seco andavano settecento uomini d’arme francesi e numero allora insolito di artiglierie. Frattanto i contadini delle vicine provincie ch’erano in arme per la Repubblica, avendo saputo in Padova essere poca guardia di nemici, vi entrarono e portando seco gran copia di viveri, insieme coi cittadini rafforzarono le difese. Da Venezia dugento giovani di famiglie nobili vennero a chiudersi con molti aderenti loro dentro alle mura di Padova, [108] e primi due figli del doge Leonardo Loredano. Gli assalti a Padova continuarono sedici giorni, dopo i quali Massimiliano cedendo all’indomita costanza dei difensori, nè senza avere intorno ad essa tentato altre prove, dovette ritirarsi fino a Verona, e da quel giorno Venezia fu salva.

A quell’assedio erano presenti due oratori della Repubblica di Firenze, Piero Guicciardini e Giovan Vittorio Soderini. Mandare a Cesare ambasciate soleva ogni volta produrre dissensi, perchè si venivano in tale caso a risuscitare necessariamente gli antichi diritti Imperiali non mai cancellati dal fatto de’ secoli, e in quei negoziati si avevano incontro i curialisti, pei quali Firenze aveva di libertà quanto ella avesse di privilegi. Massimiliano chiedeva danari, dei quali aveva bisogno grande contro a Veneziani; ma nelle formule degli atti i suoi volevano apparisse che imponeva un censo il quale a Cesare occorreva per andare in Roma a prendere la corona e poi fare guerra contro agli Infedeli. Quando la prima volta gli Ambasciatori chiesero udienza a lui per mezzo del Cancelliere, Massimiliano domandò prima se portavano danari; e udito che no, rispose: «Qua non si vive senza danari;» e negò l’udienza. Venuti allo stringere, chiedeano i Ministri Cesarei sessantamila ducati e altri diecimila in drappi di seta e d’oro per rivestire la Corte: ma gli Oratori fiorentini fecero bene; avevano il mandato per somma maggiore, ma si accordarono per quaranta mila. Nel Trattato, che abbiamo a stampa, la Maestà dell’Imperatore assolve Firenze da ogni debito di censi o d’altra qualsiasi natura, e concede a quella città, oltre all’uso delle libertà sue, la possessione di tutto lo Stato che attualmente gode: in queste parole si comprendeva anche il dominio di Pisa, che sempre gli Imperatori avevano impugnato, ma intorno al quale ora non fu controversia. È da notare che la Maestà Sua dichiara farsi quella confermazione delle libertà e del [109] dominio della Repubblica fiorentina, ad omnem cautelam et quemlibet juris effectum. Diceano a Firenze che non ve n’era bisogno, ed i Tedeschi sapevano bene che erano diritti ora impossibili a rivendicare.[84]

Massimiliano con le prime mosse avea facilmente recuperato Gorizia, Trieste e Fiume, ch’erano d’Imperiale giurisdizione. Ferdinando come re di Napoli era venuto in possesso di tutti i porti sull’Adriatico prima occupati dai Veneziani; Giulio II avea ricondotto sotto al dominio della Chiesa Ravenna e le altre città di Romagna. Per questi fatti le ire del Papa s’erano placate, e in quei disastri dovette Venezia mostrarsegli forte ed all’Italia necessaria; nè a Giulio mancavano pensieri di principe, nè amava i Francesi egli che aveva sofferto di vivere ad essi cliente nei tristi suoi giorni. Sospetti ed offese antiche e recenti vie più accendevano quella fibra sanguigna e focosa; quindi si distaccò dalla Lega, e il rimanente della sua vita fu tutto ravvolto in un feroce pensiero, quello di cacciare d’Italia i Francesi. Quindi seguitarono tre anni di guerre, delle quali non è ufficio nostro raccontare tutti i fatti vari e crudeli. Battaglie di terra, battaglie di navi sul fiume del Po; Venezia e il Papa insieme cercavano la distruzione del Duca di Ferrara amico ai Francesi e feudatario della Chiesa; e intanto altre armi tedesche insanguinare le città Venete, e altre armi francesi scendere in Romagna. Giulio II, venuto in Bologna con tutta la Corte, comandava quella guerra nella quale pigliata Modena, la riuniva al Patrimonio della Chiesa; e andato contro alla Mirandola, dove una donna tutrice di piccoli figli della casa Pico seguiva gli Estensi, il vecchio Giulio, nel cuore del verno, tra fanghi e geli e sotto alla neve con gli stivali in piede e tutto armato piantava egli [110] stesso e dirizzava le batterie, correva pericoli dagli agguati dei Francesi[85] e dalle artiglierie della terra, dentro alla quale finalmente entrò per la breccia: allora Giulio non si ricordava d’essere pontefice. Ma il Trivulzio, venuto al comando per il re Luigi, vinceva in Romagna, e sgominate le genti del Papa, faceva rientrare i Bentivogli in Bologna. Non cessò la guerra, ma Giulio tornava in Roma. Aveva cercato di muovere contro a Francia il nuovo re d’Inghilterra Arrigo VIII; faceva poi scendere in Lombardia una grossa mano di Svizzeri sotto il guerriero Vescovo poi Cardinale di Sion: aveva con maggiore effetto, ma da principio segretamente, fatta lega col re Ferdinando, il quale non appena assicurato di governare la Spagna intera per la tutela ch’egli ebbe del piccolo nipote Carlo, si volse tutto contro a Luigi XII che più anni aveva tenuto a bada con false amicizie. Mandava pertanto egli in Italia un grosso esercito di Spagnoli, donde poi nacquero eventi maggiori.[86]

Dalle due parti si adopravano anche le armi spirituali. Il re Luigi aveva chiamato un’Assemblea del Clero francese, la quale fermando certi punti della disciplina, citava il Papa dinanzi a un Concilio, qualora avesse ai loro decreti negato l’assenso. Concorreva in questi propositi il Re de’ Romani, il quale per mezzo del suo Cancelliere vescovo di Gurck cercava farsi arbitro di quella contesa: quanto al Concilio lo avrebbe egli molto desiderato, ma purchè fosse in qualche città dell’Allemagna; al che i Francesi per modo alcuno non consentivano. Si era fermato Luigi XII nel pensiero di radunarlo nella città di Pisa, e a questo fine aveva segretamente richiesto in Firenze se la Repubblica vi consentirebbe. Qui erano due parti: chi amava il popolo e la libertà, voleva anche una riforma nelle [111] cose della Chiesa; e questi essendo francesi d’animo ed avendo seco il Gonfaloniere Soderini, si vinse di permettere in Pisa la radunata del Concilio con tanto maggiore favore che l’altra parte in quel tempo era molto sospetta di stare co’ Medici: quel voto, sebbene dato da centocinquanta cittadini, rimase segreto. Il Papa intanto, volendo egli stesso preoccupare il campo, aveva chiamato in Laterano un Concilio, al quale intervennero la parte maggiore dei Cardinali, e vi si tennero alcune sessioni, dove subito fu condannato quell’altro Concilio e dichiarati eretici quelli che v’intervenissero. Avrebbe Luigi voluto a questo Concilio Pisano dare un carattere molto solenne, com’ebbe l’altro che cento anni prima nella città stessa depose due Papi e ne creò un terzo; per suo ordine doveva la Chiesa francese esservi rappresentata dalla presenza di ventiquattro Vescovi; ma quando si venne al punto di radunarlo, i più si ritrassero, chi in qua chi in là. Cesare non mandò nessuno, e il Re d’Aragona avea col Pontefice segreta alleanza, sebbene in questo che ebbe nome di Conciliabolo, rimanessero due Cardinali spagnoli; uno dei quali essendo morto, la radunanza venne a comporsi d’uno Spagnolo e d’un Francese, nè d’Italiani v’era altri che il solo Cardinale Sanseverino. Cotesti essendo percossi dalle scomuniche, e stando il Clero di Pisa contr’essi, ed anche il popolo dileggiandoli, si tenevano poco sicuri. Aveva offerto il Re di mandare a guardia loro trecento lance di Francesi: ma il Soderini temendo per la stessa città di Pisa, e non volendo troppo manifestamente offendere il Papa, negò di ricevere un tale soccorso; e i Cardinali, pigliando occasione da una rissa sanguinosa la quale era nata tra i Francesi di loro seguito ed i popolani di Pisa, trasferirono il Concilio nella città di Milano, accolti qui pure con poco favore. Il Papa, che aveva pronunziato contro a’ Fiorentini un interdetto molto feroce, non diede in fatto esecuzione alla sentenza; [112] e, come a lui spesso accadeva, rimettendosi dal primo impeto, gli tornò in grazia con modi benigni.[87]

Salivano per la Romagna le genti Spagnole condotte da Raimondo da Cardona vicerè in Napoli, e unite a quelle del Papa mettevano assedio a Bologna; il Cardinale de’ Medici andava Legato all’esercito. Erano i Francesi molto ingrossati al Finale, con l’esservi giunto Gastone di Foix duca di Nemours, giovane di ventidue anni, mandato allora Luogotenente del Re in Italia. Questi avendo inteso Bologna essere investita, guidava, in una nottata d’inverno e sotto alla neve, a quella volta i suoi soldati con tanto improvvisa rapidità, che gli venne fatto di mettersi dentro alla città prima che il campo degli Spagnoli ne avesse sentore. I quali poi tosto, perchè erano ivi male disposti a una battaglia, si levarono da Bologna pigliando la strada inverso Romagna. Giungeva frattanto avviso al Foix che Brescia si era ribellata, essendovi entrato Andrea Gritti Provveditore veneziano: quindi, lasciate in Bologna genti che bastassero, correva con la rapidità medesima contro alla misera Brescia, ed entratovi per la cittadella e fatta lunga battaglia dentro alla città istessa, con grandissima uccisione di soldati e strage di cittadini, che insieme furono più migliaia di corpi, domava nel sangue la ribellione, avendo fatta dal boia sul palco tagliare la testa a Luigi Avogadro che n’era stato capo. Molti dei Veneziani furono in più scontri dispersi o morti avanti e dopo l’espugnazione di Brescia;[88] dalla quale partendosi dopo quattro o cinque giorni il Foix, riprese la via di Romagna, perchè l’esercito della Lega che si chiamò Santa, dopo essersi [113] appressato di nuovo a Bologna, tornava ora indietro e sfilava per Forlì, cercando un luogo adatto da farvi testa. Il Foix soprastette un poco, e avendo tutti raccolti i suoi, che erano mille ottocento lance e quindici mila fanti, seguiva le péste degl’inimici ed anelava fare con essi giornata. Pervenuto fin sotto a Ravenna, dava l’assalto alla città, e ne fu respinto: venivano innanzi gli Spagnoli lungo il fiume del Ronco, il quale essendo passato a guado dai Francesi, appiccavano grande e sopra tutte le precedenti fiera battaglia [11 aprile 1512]. Le artiglierie di ambe le parti facevano vuoti nei due eserciti, ma senza romperli; il Francese allora per una svolta maestrevole si gettava contro il fianco degli Spagnoli: erano col Foix sei mila lanzichenecchi, nome corrotto dalla lingua tedesca e da quel giorno troppo famoso in Italia. Tra essi ed i fanti spagnoli fu lungo il combattersi, mescolati con grande ferocia per la tenacità connaturale a quelle nazioni, e allora per certa rivalità nella gloria militare: sopravvenne dipoi l’impeto dei Francesi, e fu la rotta degli altri e la strage tale, che si disse tra le due parti esservi rimasti quattordici mila o più soldati. La fiera contesa era presso che finita quando il Foix, che andava sempre innanzi agli altri, essendogli sotto caduto il cavallo, moriva trafitto da un colpo di picca nel fianco, lasciando fama grandissima del suo nome, vittorie inutili per la sua nazione, e nella Italia barbari esterminii. Da ambe le parti perirono molti Signori di grande nome nelle guerre; il Cardinale Legato rimase prigioniero de’ Francesi; Fabrizio Colonna si diede ad Alfonso duca di Ferrara, che fu a quella pugna insieme coi vincitori.

Ma qui mutarono le fortune dei Francesi, che dopo avere dato il sacco a Ravenna ed invasa la Romagna, furono richiamati in Lombardia sull’avviso che gli Svizzeri si preparavano ad assalirli con maggiori forze di quelle che i Francesi teneano disperse nei luoghi [114] acquistati. Rimase con poche genti il Cardinale Sanseverino in quelle città di Romagna, che egli diceva tenere in nome del Concilio, ma quindi dovette bentosto ritrarsi; e le fortezze dello Stato veneziano essere anch’esse abbandonate dai Francesi per l’avanzarsi dei venti mila Svizzeri che aveano ottenuto da Massimiliano il passo, ed erano già in Verona. Avevano prima cercato i Francesi di fare testa in Pavia, ma i Tedeschi gli abbandonarono per avere Massimiliano rotta con inganno l’alleanza col re Luigi; e gli Svizzeri più avanzavano, e Milano si era già dato ad essi, che ne pigliarono possesso in nome del duca Massimiliano Sforza primogenito del Moro. Intanto Arrigo VIII d’Inghilterra dava seimila fanti in aiuto del Re d’Aragona contro alla Francia dal lato dei Pirenei; Genova che il Papa, come nativo della Liguria, più volte aveva cercato di liberare, mutava Governo cacciando il presidio che Luigi XII vi teneva: così due mesi dopo alla vittoria di Ravenna erano i Francesi usciti d’Italia, e questa caduta in mano di Svizzeri e di Tedeschi e di Spagnoli. Ma Giulio, perchè era stato l’anima di quella Lega, aveva al dominio della Chiesa aggiunto dopo a Modena anche Parma e Piacenza; i Veneziani riebbero tosto gli antichi Stati di terraferma, tra potentati stranieri rimanendo semi di discordie e guerre su questo campo disputato ch’era oggimai fatta l’Italia. Un Congresso riunito in Mantova nulla conciliava; sola una cosa fu ivi risoluta di comune consentimento, rimettere in Firenze i Medici con la forza: qui era il Governo popolare tutto cosa francese, e quindi unanime nei Collegati il desiderio di mutarlo. Il Cardinale Legato, Giovanni dei Medici, capo di questa famiglia, sottrattosi alla prigionia francese, andava con gli Spagnoli; e il suo minor fratello Giuliano era in Mantova onoratamente accolto. Fu quivi pertanto fatta deliberazione, che il Vicerè spagnolo muovesse in compagnia dei due fratelli contro allo Stato di Firenze; ed essi [115] con mille uomini d’arme e sei mila fanti nel mese d’agosto valicarono l’Appennino.[89]

Da quasi dieci anni Firenze si governava sotto al Gonfaloniere Soderini con migliore costituzione che avesse mai, senza travagli di fuori, nè dentro alla città contrasto di parti civili che l’una con l’altra fosse necessario contenere. Il Soderini con quella sua mediocrità prudente, e l’essersi anche abbattuto in tempi non troppo difficili, avea mantenuto bene la reputazione dello Stato e la sua propria, senza che il lungo governo gli avesse destato contro inimicizie grandi, e non senza onore pei fatti che aveva saputo condurre. Sopra ogni cosa la recuperazione di Pisa tanti anni bramata, poneva in alto il suo nome: si aggiunse l’avere saputo cavare di mano a Pandolfo Petrucci, con l’opera di Giulio II, Montepulciano che da più anni si era ribellata. Pandolfo vi si era lungamente rifiutato, dicendo sarebbe crocifisso dai Senesi, e il Papa cercava tutt’altro che avvantaggiare la Repubblica amica ai Francesi; ma vinse in Pandolfo il grande bisogno che aveva di ristringere la lega co’ Fiorentini, e in Giulio II l’opinione che una tale lega fosse togliere occasione alle armi di Francia d’entrare in Toscana.[90] Tale fino allora si era mostrato il Gonfaloniere: uomo di faccende, non ebbe caldezza d’amici che fossero a lui devoti personalmente, nè con gli artisti e co’ letterati si trova che fosse in molto favore. Aveva egli antica familiarità con Amerigo Vespucci che a lui indirizzava la relazione d’uno de’ suoi viaggi, talchè per decreto della Repubblica si mandarono lumiere a Casa dei Vespucci in Borgo Ognissanti, che stessero accese dì e notte tre giorni; il quale onore fu raramente ad altri concesso.[91]

Quando l’esercito della Lega girando attorno i confini [116] della Toscana venne a Bologna, il Soderini eleggeva tre Commissari per la difesa di quei vicariati i quali fossero più esposti. Nel tempo medesimo andava in Spagna ambasciatore Francesco Guicciardini, che per non avere compito i 30 anni sarebbe per legge stato inabile agli uffici; ma per la divisione che era ne’ Consigli andò il Guicciardini senza istruzioni, e vi rimase mentre che in Firenze mutava lo Stato; egli acutissimo scrutatore di quella buia politica della quale Ferdinando d’Aragona a tutti era maestro.[92] Questi diceva al Guicciardini, che il Vicerè aveva pieno mandato circa alle cose d’Italia; ma in questo mezzo Lorenzo Pucci, Datario inviato dal Papa in Firenze, chiedeva in suo nome e in quello di Spagna che la Repubblica entrasse nella Lega contro a Francesi. Il che fu negato da una Pratica molto larga raccolta a quest’uopo, sebbene Roberto Acciaioli ambasciatore in Francia scrivesse che il Re, non potendo a quel tempo soccorrere la città, gradiva che da sè medesima si salvasse per via dell’accordo. Tuttora in Mantova sedeva il Congresso che aveva decretato di assalire Firenze con le armi; e gli Oratori fiorentini che andavano a Mantova furono a Bologna trattenuti, nè altri Oratori ebbero ascolto dal Vicerè quando era già in via.

Importa qui ora esporre lo stato della città di Firenze. I Medici veramente non vi avevano quel che oggi chiamasi un partito; ma vi era peggio che un partito, vi era una opinione fatta più debole contro ad essi, e intanto l’amore della libertà più stracco, gli animi più incerti, e molto rallentata l’antica compagine del popolo di Firenze. Il fascio delle Arti si era disciolto, le industrie in gran parte vivevano della splendidezza delle Corti, le lettere avevano bisogno di [117] protezione. Bene i Fiorentini amavano sempre l’andare a sedersi nei Consigli e dare il voto, ma la libertà non era più come in antico una necessità prepotente; non la sentivano in sè stessi quanto si credevano avere obbligo di professarla; era come un fregio, che ognuno a sè stesso cercava di mantenere. Ai Nobili molto sarebbe piaciuto dominare una libera repubblica; ma poichè in Firenze la parte degli Ottimati non era mai venuta a capo di mettersi insieme, ora malcontenti del popolo e del Consiglio grande e di un Gonfaloniere a vita che ad essi chiudeva la via, si persuadevano che sotto un principe avrebbero avuta maggior condizione, e molti ai Medici inclinavano. Il basso popolo ricordava che sotto a Lorenzo era un vivere più grasso e più in festa: una volta che fu carestia, le donne di plebe andarono in piazza gridando palle e pane.[93] Le città suddite e le terre grosse tutt’altro amavano che la libertà in Firenze: la libertà in una città dominante voleva nutrirsi della servitù delle altre, talchè il politico abbassamento di quella recava in tutte le parti dello Stato una inferiore egualità, che a molti era un benefizio.

Piero de’ Medici nell’esiglio non aveva saputo altro che rendersi viepiù odioso, talchè la sua morte giovò alla grandezza di quella famiglia. Nei vari assalti da lui tentati contro a Firenze aveva speso tutto il mobile avanzato a Casa Medici dalla ribellione; ma il Cardinale, com’ebbe altro ingegno, tenne altra via. Nulla vi era stato da dire di lui per tutto il regno d’Alessandro, ma nei tumulti dopo alla morte di questo Papa essendo a lui stata commessa la cura di Roma, si aveva guadagnata lode di prudenza, ed era tenuto di buona natura: compieva ora appena trentasette anni, ma già i venti di cardinalato e il corpo malsano lo facevano contare tra vecchi. Dacchè in Firenze [118] era un governo fermo, pareva egli poco avere l’animo a tornarvi, e senza cercare di farsi una parte, accoglieva quanti Fiorentini andassero in Roma, che era la fontana delle grazie per la spedizione de’ benefizi o per altre loro faccende; amorevole a tutti del pari e a quelli ancora che più erano stati contrari al fratello. Per questi suoi modi il nome dei Medici tornava in favore senza che facesse paura; e bastava ciò, tante essendo le radici poste in Firenze da quella famiglia. Il buon giudizio di Cosimo e di Lorenzo aveva co’ matrimoni legate a quella molte parentele di case potenti, come i Salviati, i Ridolfi, i Pazzi, i Tornabuoni, i Rucellai. Di questo casato era Bernardo, stato marito d’una sorella di Lorenzo, uomo di molto ingegno e chiaro in lettere pei libri di storia e d’antiquaria da lui composti in lingua latina: edificò i celebri Orti de’ Rucellai, dove l’Accademia Platonica venne a trasferirsi quando fu chiusa nel novantaquattro la casa dei Medici. Bernardo poteva molto per eloquenza nei Consigli; ma o fosse egli di coloro che troppo avvezzi alla compagnia dei libri, sanno meglio giudicare le idee altrui che non fermarsi le proprie nell’animo, o troppa in lui fosse superbia o ambizione, di nessun governo si contentò mai, ebbe a disdegno i più alti onori e il vivere della città sua, dov’era caduto infine dall’antica stima.[94]

Veniva in questi tempi un grande maritaggio a mettere innanzi un nome, famoso poi variamente nelle istorie nostre. Erano gli Strozzi alquanto caduti dall’antica potenza loro, quando un Filippo di quella famiglia andato in Napoli a esercitarvi la mercatura, e divenuto in breve ricchissimo, tornò a Firenze verso al 1480. Avea la splendida ambizione di farsi un Palazzo che fosse il più bello della città; ma temendo la gelosia di Lorenzo, del quale era amico, prima cominciò [119] a dire che un bel disegno glielo avrebbe fatto Simone del Pollaiolo, detto il Cronaca, insigne architetto, ma che era una troppo grande spesa; e così aguzzando il gusto artistico di Lorenzo, si fece da lui medesimo condurre a tirar su quell’edifizio che lasciava addietro il Palazzo mediceo, e sarebbe in qualsiasi luogo da pochi agguagliato qualora ne fosse terminato il cornicione fra tutti bellissimo.[95] Questo Filippo lasciava un figlio che fu anch’egli chiamato Filippo, ed era nel primo fiore della gioventù, quando agli amici dei Medici venne in mente di farlo marito a Clarice, figlia giovanetta lasciata da Piero. Del che in città fu rumore grande; chi temeva di mettersi i Medici in casa, chi avrebbe per sè voluto la fanciulla: se ne fece caso di Stato, e il garzone capitava male, se il Gonfaloniere temporeggiando non avesse lasciato il giudizio in mano degli Otto, che essendo uomini temperati si contentarono di condannare Filippo in cinquecento ducati d’oro ed al confine per tre anni in Napoli; rinforzarono il bando di ribelli contro a tutti i maschi della casa Medici.[96] Pei quali intanto si cospirava in Firenze: un giovane Prinzivalle della Stufa, testa leggera, confidò un giorno a Filippo Strozzi, che egli voleva ammazzare il Gonfaloniere, che aveva intelligenza di soldati, e che a Bologna imbacuccato, ne aveva una notte tenuto discorso col Cardinale. Filippo gli disse che era matto, ma promise di non denunziarlo: quegli fuggiva, e allora il padre di lui andato da sè medesimo a costituirsi, mostrò di saperne qualcosa. Fu lungo l’agitarsi nei Consigli per questo caso, e la città era tutta sottosopra: i nemici del Soderini levavano accuse contro lui, ed egli avendo con nobile schiettezza un giorno fatto recare innanzi ai Consigli i libri dell’amministrazione sua, disse guardassero, [120] e che egli poteva rendere conto d’ogni suo atto e d’ogni fiorino ch’egli avesse speso: ne usciva lodato, e contro agli uomini sospettati fu mite giudizio. Per questo caso e per quello di Filippo era stato più volte discorso di radunare la Quarantia, ch’era un giudizio straordinario di cittadini tratti a sorte in grande numero per casi di Stato senza appellazione, talchè agli accusati poteva riuscire molto terribile secondo gli umori che dominassero in quel giorno. Questa forma di giudizio, che in Venezia era molto solenne, negli Ottanta non passò mai, nè il Soderini mai volle adoprarla; tanto che la Quarantia rimase null’altro che un nome nella Repubblica di Firenze.[97]

Entrava in Toscana il Vicerè spagnolo Raimondo da Cardona rapidamente per la bontà dei soldati che avea tra migliori di quell’esercito valoroso; mandava ben tosto intimazione alla Repubblica di mutar Governo, e accogliere nella città i Medici fuorusciti. Qui erano vari e dubbi pareri, gli animi incerti e sollevati; scarso l’apparecchio di uomini d’arme, e deboli contro a tale impeto le Ordinanze. Gli aveva nutriti di qualche speranza sapere che il Papa nel fondo dell’animo non aveva altro che una cosa sola, cacciare d’Italia tutti gli stranieri, nè si potevano figurare che volesse lasciarvi pigliare tanto gran piede agli Spagnoli. Raccolsero intorno alle mura di Firenze quanti più soldati potessero, perchè fossero difesa contro a nemici di fuori e guardia dentro contro ai partigiani dei Medici, i quali poco fino allora si erano mostrati. Nè il Vicerè progredendo aveva trovato aiuti o favore quanto gli aveano promesso alcuni già congiurati pei Medici; e i viveri difettavano, ed essendo sceso dal Mugello incontro a Prato, avea trovato quivi sufficiente guardia di quattro mila armati con Luca [121] Savello, vecchio capitano. Era un momento che se avessero i Fiorentini saputo coglierlo, poteano ottenere con qualche somma di denaro e col mutare Gonfaloniere che gli Spagnoli tornassero indietro, e forse i Medici non si rimettessero. Ma quel momento fuggiva tosto; e veramente nei casi estremi pare che un segreto istinto ammonisca del pari ciascuna delle due parti, che niun temperamento varrebbe a tenere sospese le sorti quando è necessità trabocchino.

In mezzo a quella trepidazione il Soderini, avvezzo dal popolo a trarre i consigli, radunava per modo di Pratica il Consiglio grande, al quale con molto bella orazione avendo esposto quello che da parte della Lega fosse domandato alla città, disse: quanto a sè essere egli pronto a deporre il grado suo qualora il popolo se ne contentasse. Poi fece dividere il Consiglio per Gonfaloni, perchè ognuno dentro al suo Gonfalone liberamente dicesse l’animo suo. Tutti affermarono gagliardamente, che voleano mettere il sangue e la roba per la difesa di quel Governo: così ogni accordo fu rifiutato.[98] Aveva il Cardona chiesto cento some di pane pel vitto delle sue genti; si adunò Consiglio e i pani gli furono negati, confidando i popolani di costringerlo a fuggirsi, ed i segreti macchinatori godendo in tal modo fare prevalere partiti che fossero di poca prudenza. Ond’egli, astretto dalla penuria, si gettava con tutto l’impeto contro a Prato, e tra ’l valore de’ suoi e la fortuna e il poco animo dei soldati che v’erano dentro, rotte le mura, faceva ai suoi affamati invadere quella misera terra. Crudelissime sopra tutte furono in Italia le invasioni delle armi Spagnole, che mai non pagate dal regio erario, viveano sul sacco e sulla ruina dei luoghi acquistati. Abbiamo più narrazioni del Sacco di Prato, dove per la ferità degl’invasori è certo che barbaramente perirono uomini e donne e fanciulli in [122] più centinaia; non perdonato alla pudicizia delle vergini chiuse nei chiostri; le robe sanguinose dei Pratesi portate a vendere in Firenze; i cittadini anche mezzanamente facoltosi fatti prigioni e menati attorno finchè non pagassero le ingorde taglie, venduti anche a uomini peggiori dei soldati stessi, che speculavano sulla crudeltà dei trattamenti per cavarne lucro più ingordo: quel miserando giorno fu il ventinovesimo d’agosto.[99]

A quell’annunzio un terrore grande occupò gli animi in Firenze; svaniti ad un tratto quei diciott’anni di libertà goduta, nessun consiglio che fosse buono, ridotta a nulla l’autorità del Gonfaloniere. Aveva questi chiamati in Palagio e ivi fatti sostenere circa venticinque amici e parenti di Casa Medici. Ma dovea la libertà cadere per mano di quelli che più aveano obbligo d’esserne difensori: alcuni giovani di famiglie nobili, di quelle medesime che aveano fondato il Governo popolare, perduti pei debiti, audaci d’animo e insofferenti di vivere in quella libertà dimessa, entrati in Palagio, salirono fino alle camere dove il Soderini stava come uomo abbandonato: primi e più arditi furono Paolo Vettori e Baccio Valori, nome infelice alla sua patria e infine a sè stesso. Costoro da prima chiesero al Gonfaloniere che rilasciassero i venticinque; il che ottenuto con le minaccie, se ne andarono per allora: ma poi tornarono in maggior numero, ed in arme, ed era con essi Francesco Vettori fratello di Paolo, il quale ai Magistrati e al Gonfaloniere impaurito offerse, purchè egli uscisse dal Palagio, condurlo alle case sue proprie facendo a lui sicurezza della vita. Il che accettato dal Soderini, mantennero a lui amorevolmente le promesse, tanto rispettavano la innocenza e integrità sua; ma nel Palagio ai Magistrati [123] imposero fosse egli privato dell’ufficio con la osservanza delle forme che a un tale caso erano prescritte. Dipoi con buona guardia di soldati condussero il Soderini verso Siena; poi temendo qualcosa dal Papa, celatamente l’accompagnarono al porto d’Ancona, dond’egli passò a Ragusi.

Il cardinale Giovanni de’ Medici avea tristamente inaugurato le felicità sue; fu presente al Sacco di Prato, ed era nel campo del Vicerè quando si fece accordo con gli Oratori fiorentini, mandati ivi appena mutato lo Stato. Fu convenuto che gli Spagnoli uscissero di Toscana, promettendo la Repubblica pagare al Vicerè centoquaranta mila ducati e rimettere in Firenze la famiglia dei Medici come cittadini privati, e con la facoltà di ricomprare i beni ch’avevano innanzi l’esiglio. Era l’ultimo d’agosto, nel quale giorno doveva farsi la Signoria nuova; a questa aggiunsero un Gonfaloniere che sedesse un anno: al quale ufficio il Consiglio grande, dove intervennero oltre a 1500 cittadini, con molto consenso elesse Gian Battista Ridolfi parente del Cardinale, ma che si era mostrato amatore di libertà e capace più che altri al governo d’una Repubblica ordinata. Fatto ciò, entrava Giuliano a Firenze in abito civile, che allora dicevano lucco, in compagnia d’Anton Francesco degli Albizzi ch’era stato dei più ardenti tra’ congiurati: era il palazzo Medici spogliato di mobili e in devastazione, per il che il giovane smontò alle case degli Albizzi, dalle quali il bisavo di lui aveva cacciato Rinaldo. Tenne il Ridolfi con dignità e fermezza nei primi giorni l’ufficio suo; vedevano i Palleschi la parte loro scarsa di numero e più che mai d’autorità, i cittadini volonterosi di mantenere le forme libere a cui si erano avvezzati; Giuliano essere uomo nato alla quiete più che alle fatiche dei governi, e facile a essere aggirato. Andarono quindi al Cardinale, che era in Campi, dicendogli che non avevano sicurtà in quel modo, e che [124] egli sarebbe di nuovo cacciato quando gli Spagnoli fossero partiti.

La Casa Medici tornando in patria con le armi straniere, chiamata da pochi, non poteva starvi al pari con gli altri, nè a ripigliare in mano lo Stato poteva usare quei modi stessi che aveva da prima tenuti a fondarlo. Oggi era in Firenze una Repubblica ordinata, dove l’università dei cittadini avea larga parte, nè incontro ad essa vi era maniera di chiamarsi popolari, ma era invece necessità disfarla con atti che sempre avrebbono del tirannico. Lo Stato voleva ristringersi in pochi i quali ai Medici ubbidissero; ma per allora non aveano altro che uomini spicciolati, di scarso credito, e i quali era necessità ingrassare, perchè l’avarizia, come in città guasta, era il movente delle ambizioni: la Casa Medici, logorata dall’esiglio, aveva ella stessa necessità di rifarsi il capitale, usando a pro suo le rendite dello Stato. Queste cose teneva già in mente il Cardinale, il quale frattanto entrato in Firenze con quattrocento lance sotto colore di magnificenza, e andato a smontare nel suo Palazzo, deliberava co’ suoi più accosti fare una Balía co’ modi soliti ma con più scoperta violenza, per essere oggimai tolto anche il mentire le forme legali. Venuti pertanto a’ 16 di settembre in Piazza Rinieri della Sassetta e Ramazzotto bolognese, Condottieri di qualche nome, e alcuni dei Vitelli e degli Orsini, con mille armati, fecero alcuni di loro salire in Palagio, dove gli Ottanta sedevano. Trovo scritto anche in vari modi, che vi entrasse lo stesso Raimondo da Cardona o alcuni che travestiti da Capitani di Spagnoli chiedessero in nome di questi un governo dal quale avessero sicurtà. Ma certo vi entrava Giuliano; e tutti insieme costrinsero la Signoria, in poca parte consenziente, a fare co’ modi usati un Parlamento che desse a un certo numero di cittadini balía quanta la città intera. Furono cinquanta, ai quali pochi altri [125] dipoi si aggiunsero; e da questi fu abolito il Consiglio grande, ch’era la somma d’ogni cosa, e i Dieci di Balìa, e molte leggi o divieti, e l’Ordinanza della Milizia. Fu il Gonfaloniere ridotto a stare i soliti due mesi, e che poi gli altri, con tutta la Signoria e i Collegi, si facessero a mano per mezzo degli Accoppiatori. Rifecero anche gli Otto di Pratica: ma quel che importava, messero al Palagio ed alla Piazza una grossa guardia di soldati forestieri sotto al comando di Paolo Vettori. Fatto il Parlamento, e ricevuto che ebbe il Vicerè la somma di oltre centocinquanta mila fiorini, computando i donativi a lui ed altri principali personaggi, partiva da Prato con l’esercito degli Spagnoli alla volta della Lombardia.[100]

Ma in Firenze era mala contentezza, non solamente nell’universale per vedersi privati del Consiglio grande, ma nei più ambiziosi cittadini; i quali se prima credevano aver troppo poca parte nel Governo popolare, vedevano ora tutto il corso rivolto alle case dei Medici; quindi da ciascuno sperarsi ogni bene, quindi temersi ogni male. Cercavano quelli del Governo di tenere stretti gli squittini, ma i nuovi congegni per fare le tratte rimanevano insufficienti, nè bene i Medici poteano lasciare da banda i più qualificati cittadini, e quelli stessi che amici alla Casa, odiavano pure uno Stato in mano di pochi e che in sè avesse del tirannesco.[101] Tra questi era Iacopo Salviati, marito a una figlia di Lorenzo, e assai potente pel grado che egli teneva in città: piacque levarlo di qui e fu mandato Ambasciatore in Roma, fidandosi che egli avrebbe a ogni modo cercato impedire qualunque disegno facesse il Papa contro a quello Stato. Gian Battista [126] Ridolfi Gonfaloniere avendo cessato col fine d’ottobre, fu scelto pei successivi due mesi Filippo dei Buondelmonti di casa Grande, che riammessa dal vecchio Cosimo agli uffici dopo al 1434, non aveva per anche avuto il supremo magistrato. Guglielmo de’ Pazzi, che a lui venne dopo, era parente stretto dei Medici; pure dominato dall’Arcivescovo suo figliuolo, predicava dovere essi stare nella Repubblica come cittadini, secondo i patti; e avea messa fuori alla finestra del Palagio la bandiera vecchia turchina con l’iscrizione della Libertà. Gli amatori d’un Governo largo, potenti pel numero, si aiutavano fra di loro con le fave nel dare gli uffici: nascevano anche sètte più segrete; quanti rimanevano seguaci del Savonarola più ardenti degli altri, vedevano in ciascun Medici un tiranno. Due giovani aveano cospirato insieme per uccidere il Cardinale ed il suo fratello; scoperti a caso per una cedola che fu da uno d’essi lasciata cadere, e messi in carcere e condannati a morte, furono argomento ad una scrittura che molto innalzava i nomi loro nella posterità. Si chiamarono Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi; ma l’affetto di chi legge si ferma sul primo, il quale essendo di molto ingegno e di buone lettere, spiegava nelle ultime sue ore una tempra d’animo dove l’errore della mente veniva coperto dalla squisitezza del sentire. Descrisse quelle ore e quei discorsi Luca della Robbia, uno della famiglia di quei tanto gentili Artisti, e che essendo uomo fortemente religioso e letterato, confortava il Boscoli e ne riferiva poi le parole con tale dolcezza di scrivere che in tutta la lingua nostra non è chi l’agguagli: con essi era un Frate di San Marco, che il condannato ottenne di avere confessore. Il povero giovane, cristiano sincero, aveva la mente pure invasata delle idee classiche e pagane, onde a que’suoi cari chiedeva che gli cavassero dalla testa Bruto, perchè egli voleva morire da cristiano. Grande e vivo insegnamento circa [127] alla vita interiore ed al sentire degli uomini in quella età singolare può trarre l’istoria dal mesto racconto e dalle parole di quei giovani infelici.[102] Quando essi andarono al supplizio, il Cardinale già era in via che si recava in Roma al Conclave.

Capitolo V. PONTIFICATO DI LEONE X. [AN. 1513-1521.]

Giulio II era morto a 21 febbraio 1513; agli 11 marzo Giovanni dei Medici fu eletto Papa, e assunse il nome di Leone X. Non fu mai creazione la quale destasse tanta allegrezza nè sì universale, in Roma non solo, ma nella Cristianità, per le speranze che in lui si ponevano: eletto senza macchia di simonia, giovane di trentasette anni, ma bene esperto; caro e onorato pel grande nome del padre suo, ed egli tenuto di buoni costumi, benigno e mansueto, magnifico nella vita, liberale nelle grazie e nello spendere eccessivo; di animo regio fin anche in certa incuranza signorile per cui mostrava della grandezza volere i godimenti, ma non le fatiche: un gaio vivere e fastoso regnò intorno a lui; l’Italia versava in Roma sè stessa con tutta la copia dei suoi belli ingegni. Piacque a Leone che il giorno nel quale pigliava possesso del Pontificato fosse un mese dopo alla creazione, l’undecimo d’aprile, anniversario di quel giorno nel quale era egli rimasto prigione per la rotta di Ravenna. Le arti, le lettere, l’opulenza renderono splendida e memorabile quella cerimonia; il Papa vi spese centomila scudi; profana [128] ogni cosa; encomiavano Leone con mitologiche allusioni, ed accennando ai due precedenti regni, dicevano in versi di latinità elegante avere avuto i tempi loro Ciprigna e Marte, ora essere venuto il regno di Pallade. Non avea mai veduto Roma dopo alla devastazione dei Barbari un giorno più magnifico nè più superbo. Alle fortune del nuovo Papa si aggiungeva l’avere trovato gli animi stanchi intorno a lui per essere stati tenuti da Giulio in continua fatica, oppressi da quella volontà subita, dalle ire, dall’animo infaticabile, irrequieto, e dagli impeti del pensiero corrivo ai disegni vasti e smisurati. Nè a lui piacevano altro che le cose grandi, nè si abbassava nei disegni privati e proprii; due concetti soli ebbe egli costanti infino all’ultimo suo respiro, ampliare lo stato temporale della Chiesa e liberare (com’egli diceva) l’Italia dai Barbari. Nato alle imprese ed alle grandezze di principe secolare, nella Chiesa ebbe la sua famiglia, nè si curò molto dei suoi congiunti: avendo a Francesco Maria della Rovere suo nipote consentita l’adozione dei Montefeltri, non cercò ampliare lo Stato d’Urbino, e solamente negli estremi della vita domandò in grazia dal Collegio dei Cardinali che lo accrescessero con l’investitura di Pesaro, senza la quale i Duchi d’Urbino avevano sede troppo arida e ingrata. Ma egli si teneva certo nel principio della primavera, che poscia non vidde, costringere sotto alla potestà immediata della Chiesa Ferrara cacciandone gli Estensi, e opprimere con le armi d’Inghilterra il Re francese a cui vietava prestare ubbidienza, fidandosi molto nella virtù militare degli Svizzeri e nella rozzezza dei loro costumi e in quel tenere che essi facevano per signore chiunque gli pagasse, siccome coloro che altro principe non riconoscevano; contava col nome di Pontefice e col danaro tenergli sotto alla dipendenza sua, compiendo con le armi loro il finale voto del suo regno, cacciare d’Italia dopo a’ Francesi anche gli Spagnoli. I quali disegni che s’incalzavano [129] nella mente sua, per essere troppi, se stessi impedivano; e prorompendo per via di collere e di un comandare concitato, gli avevano tolta con l’affezione anche la fiducia di quelli medesimi che egli era solito adoprare.[103] Natura potente ma troppo diversa, non che dall’ufficio che a lui si spettava, dai tempi e dagli uomini in mezzo ai quali gli toccò a vivere e regnare. Non ebbe Leone di tali concetti; ma per le magnificenze del suo regno soleva quel secolo chiamarsi da lui. Ai letterati ed agli artisti la reggia del figlio di Lorenzo Medici pareva essere casa loro; intorno a lui tutti sapeano di lettere o ne facevano professione. Appena pontefice, chiamò in Roma ad essergli segretari Giovanni Sadoleto e Pietro Bembo, scrittori celebratissimi di lingua latina; la stampa fioriva in quella città, e il nome di Leone X si ritrova da per tutto. Avevano le Arti prima di lui toccato il colmo, e Giulio II lasciava in esse più forte impronta di vera grandezza: fu suo pensiero che la chiesa di San Pietro vincesse d’ampiezza e di magnificenza tutti gli edifizi antichi e moderni; al Buonarroti faceva dipingere la vôlta della Cappella Sistina e gettare in bronzo la propria sua effigie colossale, che dai Bolognesi fu poi distrutta; nelle stanze del Vaticano, le prime storie che vi facesse Raffaello da Urbino, e le più belle, sono del tempo di Giulio II. Da Leone X fu il Buonarroti mandato in Firenze per ivi servire a Casa Medici con la costruzione della facciata di San Lorenzo, che non fu mai fatta, e con la Cappella o Sagrestia di quella chiesa per le sepolture di due congiunti del Papa, che il grande uomo non condusse a fine e che a lui furono sempre mal gradite. Ma i sommi onori ch’ebbe Raffaello nei suoi ultimi anni come signore [130] dell’Arte, furono decoro di Roma e del Papa; nè quante opere ivi si facessero di pregio insigne è possibile numerare. In ogni cosa Leone X amava la vita splendida, e tenere intorno a sè allegro il mondo; le feste in Roma si succedevano alle feste, e ad esse le Arti davano bellezza. Voleva il tempo queste allegrie, che sono accusa di spensieratezza; si viddero sempre venire innanzi alle calamità ultime, e prepararle con quella molle scioperataggine ch’esse inducono in fondo agli animi già di prima guasti e avviliti. Leone X partecipava egli medesimo a quella smania di godimenti frettolosi, non che la sua mente fosse incapace d’antivedere i mali e nemmeno di prevenirli con l’accortezza dei partiti e con l’indirizzo che bene sapeva dare ai consigli; ma presto s’annoiava dei lunghi pensieri, e male soffriva pigliarsi affanni prima del tempo. Quando da principio gli facevano un gran dire delle predicazioni e degli scritti che certo Lutero spargeva in Germania, gli parvero cose da non vi badare.[104] In quel piacere che si pigliava dei Letterati e degli Artisti, oltre allo spendere troppa parte di sè stesso, non tenne sempre cura bastante dei doveri che gli imponevano gravità di vita: faceva lui presente recitare nel Palazzo del Vaticano la Calandra del Cardinale Bibbiena, commedia che oggi non si rappresenterebbe sulle scene. Poco era severo quanto al pensare e al vivere di coloro che avea per amici; baciava l’Ariosto sovra ambo le gote,[105] e avrebbe voluto fare Cardinale Raffaello da Urbino. Ma quello che è peggio, si dilettava nelle cene di buffoni e di parasiti, sè stesso abbassando infino a riderne, e pigliandosi alle volte crudele sollazzo di aggirare con le celie la testa dei semplici sino a farli divenire mentecatti.[106] Io credo la fibra molle e cagionosa fosse a lui scusa e gli facesse [131] cercare piuttosto siffatti piaceri che le fatiche dell’intelletto: era grande della persona e corpulento con gambe sottili; e la sua faccia, chi la vede espressa al vivo di mano di Raffaello, costretto a guardarla, non fa pensare altro che l’arte mirabile del gran dipintore.

In Firenze la novella di questa elezione recata, forse per segnali, la sera stessa «messe tutta la città per allegria sottosopra, pazzeggiando ciascuno di qualunque etade e sesso. Si festeggiò in pubblico e in privato: rupponsi le Stinche, e tutte le altre carceri della città; liberarono gli Otto e la Balia tutti i confinati per la congiura.» Aveva il Cardinale Soderini, sagacissimo come egli era nell’antivedere i suoi privati vantaggi, favorita sino dal principio l’elezione del Medici; e questi avendola tosto con Breve onorevolissima annunziata a Piero Soderini che per sospetto de’ Ragusèi si era sottratto in terra de’ Turchi, gli fece invito che si recasse a vivere in Roma: il che essendo da questi accettato, dimorò l’antico Gonfaloniere della Repubblica all’ombra del Papa, sinchè non moriva in Roma stessa più anni dopo:[107] tutti i Soderini furono in patria restituiti. «Tali benefizi ricevuti da tali famiglie, le speranze concepite da’ mercatanti, dagli artefici, dai negoziatori, al guadagno; le dignità, le utilità già rapite col pensiero dai parenti e dagli amici dei Medici; facevano un’armonia di tanta satisfazione universale, che il pensiero della Repubblica pareva sparito dagli animi di ciascuno: però rivoltisi universalmente alla osservanza dei Medici, s’ingegnava ciascuno di guadagnarsi la grazia loro, o almanco di non essere per avversario notato.[108]»

Della famiglia dei Medici allora molto numerosa chi ponga insieme le affinità e le aderenze, Giuliano [132] era dopo alla esaltazione del fratello andato in Roma con cento cavalli, separatamente dalla grande ambasceria che in nome della città doveva fare ubbidienza al nuovo Pontefice. Giuliano ben tosto creato Gonfaloniere della Chiesa rimase in Roma, nè delle cose di Firenze s’impacciò mai, come poco atto alle difficili brighe di quel Governo. Il Papa ordiva cose maggiori per il fratello che, vivo ancora Luigi XII, divenne marito a Filiberta di Savoia, della quale una maggiore sorella, di nome Luisa, era madre di Francesco duca d’Angouleme, che poco dopo fu re in Francia. Il primo nato dei figli del magnifico Lorenzo, Piero che affogò nel Garigliano, avea lasciato dall’Alfonsina degli Orsini un figlio, anch’esso di nome Lorenzo, in età allora di venti anni. Questi, già con gli zii tornato in patria, fu per accordi passati in famiglia destinato dal Papa a tenere lo Stato di Firenze. La forma fu quella stessa che, dall’avo istituita, lasciò di sè molto gloriosa memoria: un Consiglio di Settanta aveva la somma di tutto il Governo; da quello si andava ad un altro Consiglio chiamato dei Cento, ma che per le molte aggiunte saliva a maggior numero, e cui spettava decretare le spese e le leggi: questo Consiglio era scelto anch’esso tra gli amici della Casa Medici e tra quelli che poco temuti si volevano onorare, o che si cercava di guadagnare: il Gonfaloniere a due mesi; la Signoria e i Collegi si traevano dalle borse formate con ogni studio per cotesti Magistrati: rimase in piedi la Balia con la potestà sua di rinnovare le borse e provvedere ai casi più straordinari. Il giovane Lorenzo usava da principio modi civili; facile alle udienze, andava in Piazza la mattina di buon’ora con accompagnamento di staffieri e intorno giovani che a lui più erano familiari; udiva i casi che nascevano, raccomandava ai Magistrati fare a tutti eguale giustizia. Con questa figura di capo della Repubblica, e sopra ogni cosa con la grande potenza del Papa cui Firenze era come un [133] privato suo patrimonio, stavano aperte larghe le vie agli ambiziosi, che sono i principi dei paesi liberi. Nel libro pubblico del Priorista è scritto con quella nuova forma di Governo la nobiltà essersi vendicata e ridotta in libertà, riformando lo Stato secondo la volontà degli ottimati e dei patrizi.[109] Ciò propriamente non era vero, ma veniva al fine stesso quando in Roma alle dignità e alle grandi faccende civili o ecclesiastiche erano chiamati gli uomini più ingegnosi, che molti ne aveva Firenze, e un Papa fiorentino volentieri gli adoperava portandoli alle dignità maggiori, o ad essi fidando le cose più gravi. In questo muoversi e salire che allora si fece, gran parte del popolo era tirata o dai guadagni o da quella sorta d’allucinamento che dà la grandezza; nel fondo amavano la Repubblica, ma con pensieri disuniti, e ciascuno andando per vie diverse, ed i pensieri personali avendo più forza dei pubblici: vi erano uomini incorrotti, vi era una plebe ingenua e temprata sulle dottrine del Frate, la quale aveva spavento dei vizi levati in alto, e si atterriva pensando ai gastighi che pure una volta doveano scendere. Un predicatore in Santa Croce gli annunziava con tanto tremendi colori che tutta la città ne fu compresa. I cortigiani ed i gaudenti corsero al riparo; ed oltre all’avere proibito siffatte prediche e devozioni, empirono la città di mascherate, trionfi e giostre, formandosi in compagnie, che l’una si chiamava del Diamante, l’altra del Broncone, imprese dei Medici: rappresentavano que’ trionfi il secolo d’oro, che ad essi pareva tornato al mondo; si fecero cavalieri con gran pompa e da lunghi anni disusata: le feste disordinate o scandalose dispiacevano ai più severi.[110]

Apparteneva alla famiglia dei Medici Giulio, figlio naturale del primo Giuliano, e nato dopo all’essere [134] ucciso il padre suo nella Congiura dei Pazzi, l’anno 1478. Fu egli educato insieme co’ figli di Lorenzo, e visse dopo all’esiglio nella corte del Cardinale con le insegne di cavaliere di Rodi. Quando le pratiche pel ritorno di Casa Medici cominciarono, fu egli di queste principale autore: andò col Bibbiena travestito a conferire nella villa di Nipozzano con Anton Francesco degli Albizzi; e seco e con gli altri congiurati mantenne dipoi segreto carteggio. Tornato in patria, fu sostituito a Paolo Vettori nel comando di quelle milizie che aveano la guardia del Palazzo pubblico; fatto Papa il cugino, fu egli suo principale strumento e lo dicevano consigliero dei maggiori negozi. Quando fu nominata l’ambasceria dei Fiorentini al nuovo Pontefice, dovea presiederla Cosimo dei Pazzi arcivescovo di Firenze. Ma questi moriva subitamente; e perchè intanto si dissero fatte rivelazioni di aderenze che il Pazzi avesse nel fatto del Boscoli, sospetti allora troppo frequenti nacquero intorno a quella morte. Leone bentosto dava l’arcivescovado a Giulio dei Medici, che indi a non molto fu Cardinale. Quattro erano in quella prima promozione, dei quali tre fiorentini, Giulio dei Medici e Lorenzo Pucci Datario e Bernardo da Bibbiena, che con l’ingegno e la destrezza molto avea fatto per la elezione del suo gran patrono, del quale era stato Segretario nel Conclave. Giulio divenne Vicecancelliere, ed era ogni cosa nel papato del cugino, avendo in sue mani la direzione anche del governo della Repubblica di Firenze.

Le cose intanto di Lombardia erano oltremodo travagliate, sebbene già negli ultimi giorni del precedente anno Massimiliano Sforza per le convenzioni di Mantova fosse venuto al possesso del ducato di Milano. Seco erano il Vicerè spagnolo e in nome di Cesare il Vescovo Gurgense e i rozzi deputati dei Cantoni degli Svizzeri, temuti allora sopra ogni altro: avevano forma di governo regolare, tantochè andavano alle loro Diete [135] ambasciatori di alto grado mandati dai Principi, ciascuno bramosi d’avere seco le armi loro. A discrezione di tutti questi regnava in Milano il nuovo Duca giovinetto di venti anni, misero d’animo e di corpo: i Milanesi questo guadagno aveano fatto, d’avere a pagare oltre ai soldati forestieri anche una Corte fastosa e impotente.[111] Quando poi scese un altro esercito di Francesi condotti da La Tremouille e dal Trivulzio marescialli, ai quali si era già stretta in lega la Repubblica di Venezia; ribellandosi Milano ed altre città lombarde contro a quel falso governo del Duca, non rimase a questi altro scampo che rinchiudersi in Novara, dove l’esercito degli Svizzeri in grande numero si fortificava; talchè i Francesi, tiratisi un poco indietro, aspettarono la battaglia. Fu questa oltre modo feroce: gli Svizzeri avendo con infinito sangue conquistate le artiglierie dei Francesi, le voltarono contro ad essi, facendo strage massimamente dei lanzichenecchi odiati da loro quasi con odio di consanguinei; periva la nobile gendarmeria francese o si disperse in fuga vilissima. Il vinto esercito ripassava le Alpi, e frattanto aveano i Francesi perduto anche Genova; ed altri Svizzeri, uniti questa volta con altri Tedeschi, assediavano in Digione l’avanzo francese condotto dal La Tremouille, il quale scampava per grossa somma di danari e promettendo l’abbandono delle fortezze che in Italia si tenevano tuttavia nel nome di Francia. Luigi XII aveva nel tempo stesso con gli Inglesi guerra infelice presso alle coste della Manica; il re Scozzese Giacomo IV, venuto a recare aiuto ai Francesi, periva in una di quelle battaglie. Venezia rimasta sola, non però cedeva dalla consueta sua fermezza: si era l’Alviano rinchiuso in Padova; Treviso e Crema si tenevano per la Repubblica; ma fuori di queste, le città e campagne erano devastate barbaramente da Spagnoli [136] e da Tedeschi infino all’orlo della laguna; le palle spagnole aveano una volta cercato l’antico palazzo dei Dogi. Usciva l’Alviano, e campeggiando felicemente sosteneva la guerra ineguale, tantochè l’Imperatore dovette ritrarsi, e Raimondo da Cardona faceva svernare i suoi soldati nei colli Euganei presso a Padova. Il Papa in questo abbassamento dei Francesi si raccostò ad essi, tra Spagna ed Austria già preparandosi quella terribile congiunzione che fu all’Italia servitù: cercò pertanto di rappacificare co’ Veneziani l’Imperatore; ma più efficace delle sue pratiche fu la virtù del Senato di Venezia, che non atterrito nemmen da un incendio che avea consumato la miglior parte e la più ricca della città, ripigliava con l’anno nuovo la guerra con buoni successi, avendo l’Alviano disperso le armi Spagnole e vinto nel Friuli quelle dei Tedeschi: Renzo da Ceri, anch’egli di Casa Orsina, teneva fortemente Crema e con essa quel lembo estremo della Repubblica.

Essendo morto Luigi XII il primo giorno del 1515, succede al regno Francesco I, il quale per essere anch’egli del ramo degli Orléans aggiunse al titolo di Re di Francia quello di Duca di Milano; giovane ch’era nel ventunesimo anno, del corpo bellissimo, nutrito di spiriti cavallereschi da trarsi dietro gli animi dei Francesi. Deliberò tosto scendere in Italia; e già nell’estate varcava le Alpi, conducendo con ammirazione di tutti l’esercito per valli insolite ed inospite, perchè gli Svizzeri occupando fortemente Susa gli aveano impedito le vie consuete del Monginevra e del Cenisio. Avendo colto all’improvviso Prospero Colonna ch’aveva il comando pel duca Massimiliano, lo facea prigione; ed occupata la Lombardia fino alle porte di Milano, si affrontarono i due eserciti presso Marignano, con tanto valore da ambe le parti, che al Trivulzio parve diciotto battaglie che aveva vedute essere state appresso a questa giuochi da fanciulli. Fu la vittoria [137] due giorni disputata; ma infine l’avanzo degli Svizzeri, la maggior parte uccisi, non fuggitivo ma con virtù che non si crederebbe in uomini avvezzi a fare ogni cosa per moneta, si ritrasse. Milano fu sgombro, e Massimiliano Sforza, ceduto il castello e rinunciando allo Stato suo, patteggiò vivere oscuro in Francia con la provvisione di settantadue mila lire tornesi all’anno: ne’ primi d’ottobre il re Francesco entrava in Milano.[112]

Al cominciare di questa guerra Leone era stato ambiguo e sospeso a quale parte volgersi: avea lega col Re Cattolico, ma lo intimoriva quel forte esercito dei Francesi e quell’ardore. Teneva inoltre col re Francesco segrete pratiche, disegnando con armi unite conquistare sugli Spagnoli il regno di Napoli e darne a Giuliano suo fratello la corona. Ma perchè il Re si era mostrato risolutamente avverso a quel partito,[113] creando Giuliano solamente duca di Nemours; teneva il Papa in mano altre fila per fargli uno Stato di qualche importanza di qua dal Po, mettendo insieme quelli di Parma e Modena e Ferrara, la quale anelava torre agli Estensi. Gli conveniva da un altro lato avere qualche rispetto alle cose di Firenze, dove l’appressarsi del Re francese destava gli animi a nuovi pensieri, perchè all’antica inclinazione dei Fiorentini si aggiungeva il gran capitale che avevano in Francia sulla piazza di Lione e per le rive del Rodano: quivi gli antichi traffici s’erano accresciuti per le molte case di fuorusciti che mantennero in Lione allora e per lungo tempo una colonia divenuta francese, ma sempre avversa ai Medici e speranza di quanti in Firenze fossero amatori di libertà. Leone infine deliberato di osservare la lega con Spagna, mandava col gonfalone e coi soldati della Chiesa Giuliano a Piacenza, della quale aveva fatto Governatore Goro Gheri [138] pistoiese:[114] ma intanto Lorenzo anch’egli voleva essere qualcosa, nè a lui bastando avere in Firenze il nome di Capitano, convenne anche dargli soldati da condurre. Il Papa era tirato in più parti dalle ambizioni dei suoi parenti; ma bentosto Giuliano essendo da inferma salute costretto partirsi, lasciava il campo libero al nipote, cui s’aggiungeva, in qualità di Commissario de’ Fiorentini, Francesco Vettori. Doveano essi fare mostra di guerra senza venire a effetti: chiedeva istantemente il Cardona passassero il Po, ma il Vettori accortamente cavava Lorenzo d’impaccio negandogli il soccorso delle genti fiorentine. Seguita la grande vittoria di Marignano, Lorenzo mandava al Trivulzio Benedetto Buondelmonti, già essendo presso al Re nunzio per il Papa Lodovico Canossa vescovo di Tricarico. Si venne quindi a un trattato pel quale Parma e Piacenza erano date al Re come facenti parte del ducato di Milano, con più altri accordi che, ratificati dal Papa, condussero ad una amicizia tra lui e Francesco, promettendo questi di recarsi a fare ossequio al Papa in Bologna, dove Leone intendeva condursi a riceverlo. Pei Fiorentini al Re andavano ambasciatori in Milano Francesco Vettori e Filippo Strozzi.[115]

Leone X, che si recava per la via di Toscana ad aspettare il re Francesco, rimase tre giorni presso a Firenze nella villa dei Gianfigliazzi a Marignolle, sinchè gli apparecchi nella città fossero compiuti. Aveano all’entrare abbattuto l’antiporto perchè vi capissero il Papa ed il seguito, nel quale erano diciotto Cardinali; per tutte le strade archi trionfali con ornati, emblemi e figure, opere dei grandi Artisti che aveva Firenze.[116] Leone discese nell’alloggiamento solito dei [139] Papi a Santa Maria Novella; poi continuava la via per Bologna. Quivi stettero più giorni il Papa e il Re nella stessa casa, con segni scambievoli di grande fiducia e conferendo tra loro due soli: pensava Francesco a ripigliare i suoi diritti sul regno di Napoli; e quanti disegni si facessero tra loro, e quanto palleggio di città e di Stati cosicchè potessero trovarvi entrambi il conto loro, non è possibile indovinare. Convenuti di abolire la così detta prammatica sanzione per cui si reggeva la Chiesa di Francia, fecero accordi nei quali il Papa e il Re avevano i guadagni loro, ma parve ingiuria a quella Chiesa. Quando si furono dipartiti, il Re, licenziato l’esercito e stato poco a Milano, tornò in Francia: il Papa, venuto a Firenze pei giorni del Natale, vi dimorò qualche settimana nel Palazzo dei Medici, ed era già in Roma nel febbraio del 1516. Pochi giorni dopo moriva nella Badia di Fiesole senza figli Giuliano de’ Medici: era il migliore della famiglia, di vita placida, grande spenditore, tenendo intorno a sè uomini ingegnosi, ed ogni nuova cosa voleva provare. Leone in quel tempo aveva già fermo nell’animo di privare del ducato d’Urbino Francesco Maria della Rovere, al che Giuliano si opponeva per la memoria del grazioso rifugio ch’egli ebbe in quella Corte, dov’era il seggio d’ogni eleganza[117]. Ma in casa Medici assai poteva l’Alfonsina degli Orsini, vedova di Piero, donna imperiosa, cui non bastava pel figlio Lorenzo il grado tenuto da lui in Firenze. Usciva condanna contro al Della Rovere, che lo spogliava per fellonia del feudo d’Urbino; e il Papa ne dava a Lorenzo dei Medici l’investitura, commettendo a lui di farne l’acquisto con le armi: il che non fu cosa di molta fatica, e il duca Francesco Maria con la moglie e figli si ridusse in Mantova presso al marchese Francesco suo suocero.

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In Lombardia, dopo che il Re fu partito, Massimiliano imperatore continuava quella sua guerra contro i Veneziani, ai quali prestavano aiuto debole i Francesi. Aveva il Cardona sgombrato la Lombardia, quando la morte di Ferdinando d’Aragona faceva re unico di tutte le Spagne Carlo suo nipote, giovinetto che per gli anni andava col secolo e aveva dal padre la signoria delle Fiandre. Il Cardinale Ximenes reggeva lo Stato, e conchiuse con Francia una tregua che divenne pace, cui aderiva a contro genio l’Imperatore. Per questa pace i Veneziani, che prima avevano riacquistata Brescia, riebbero ai primi dell’anno 1517 anche Verona: dopo bene otto anni di guerre crudeli e di costanza, l’antico Stato di Terraferma tornava intero alla Repubblica di Venezia, ma guasto, misero, devastato, e mentre i commerci pigliando altre vie mancavano a quella regina dei mari. D’allora in poi la veneta sapienza non ebbe più altro che un solo pensiero, protrarsi la vita; e fu grandissima sua lode averla condotta fino all’estrema decrepitezza, dopo alla quale non è che la morte.

La pace tra’ grossi potentati che si disputavano l’Italia, lasciava oziosi molti soldati spagnoli, guasconi, tedesche, svizzeri, italiani, soliti a vivere della guerra. Vi erano poi gentiluomini delle più illustri famiglie italiane, i quali faceano loro mestiere le armi, seguendo chi l’uno chi l’altro principe; condottieri che differivano dagli antichi, perchè non avevano compagnia stabile di soldati che gli seguitasse: di essi taluni s’erano acquistata insigne fama di capitani. Tra questi era in Mantova Federigo da Bozzolo, di Casa Gonzaga, il quale diede animo a Francesco Maria Della Rovere di ricuperare lo Stato d’Urbino: entrambi fecero aggradire cotesto disegno a Odetto di Foix, signore di Lautrech, preposto allora dal re Francesco al governo di Milano. A lui pareva che fosse bene indebolire le forze del Papa, il quale tenendo tanto [141] grande Stato e posto nel cuore d’Italia in mezzo tra i Francesi e gli Spagnoli, poteva, se l’occasione gliene venisse, intendere l’animo a cose maggiori: avea mostrato poco rispetto al Re col negare al Duca di Ferrara la restituzione di Modena e Reggio, e fare contro alle istanze sue l’impresa d’Urbino. Per queste ragioni Lautrech diede mano a Francesco Maria ed a Federigo, i quali con grande numero di quei soldati d’ogni nazione invasero la Romagna, e quindi entrati su quello d’Urbino, recuperarono facilmente lo Stato intero pel grande amore che aveano quei popoli alla casa Montefeltra, solita reggerli con mansuetudine. Leone a quell’improvviso assalto richiese d’aiuto i Re che si erano a lui collegati, e si mostrarono molto freddi; assoldò i migliori di quei Capitani, Renzo da Ceri, Vitello Vitelli, Guido Rangone, parte in nome suo, parte dei Fiorentini, obbligando a seguitarlo Gian Paolo Baglioni per la dipendenza che avea dalla Chiesa; ma le paghe non si facevano perchè il danaro andava profuso dal Papa e dai suoi. Lorenzo dei Medici guidava l’impresa, poco ubbidito dai Capitani, i quali cercavano tirarla in lungo, perchè dallo stare sull’armi ottenevano oltre ai guadagni anche reputazione. Vi furono scontri e assalti vari di castelli; in uno dei quali Lorenzo ferito gravemente nella testa, dovette lasciare il campo e farsi curare in Ancona: invece sua era mandato dal Papa il Cardinale Bibbiena, ingegno pronto a ogni cosa, ma di guerra non s’intendeva. Dopo alcune settimane Lorenzo venuto a Firenze dove lo dicevano già morto, ritornò al campo: Francesco Maria, rinvigorito d’altri soldati che per non essere pagati lasciarono il Papa, gli conduceva per le città della Marca, dalle quali aveva danari in via di riscatto. Entrato nell’Umbria e avendo trovato a lui connivente Gian Paolo Baglioni, assaltò Anghiari nella Toscana, e avrebbe condotte le cose del Papa a mal partito, se avesse avuto soldati che da lui veramente [142] dipendessero. I due Re uniti per la difesa di Leone, avevano entrambi sospetto di lui, e l’uno dell’altro gelosia grandissima, ond’è che cercarono finire la guerra. Dalle due parti erano Spagnoli, i quali Francesco Maria temette non s’accordassero a tradirlo: costretto pertanto abbandonò al Medici il ducato, avendo ottenuto con l’interposta dei due Re portare seco le artiglierie e tutte le robe sue, e nominatamente la Libreria che Federigo da Montefeltro suo avolo aveva raccolta in Urbino. Quella guerra continuata per otto mesi aveva costato al Papa ottocentomila ducati d’oro, pagati la maggior parte dai Fiorentini, ai quali più tardi Leone cedeva in via di compenso la Fortezza di San Leo col Montefeltro e il Piviere di Sestino.[118]

In quella pace tra’ Principi cristiani, e poichè vana riusciva ogni pratica di fare lega contro al Turco, due cose cercava Leone ogni volta che l’occasione gli se ne offrisse; domare l’avanzo degli antichi feudatari della Chiesa, ed in Toscana fondare alla Casa dei Medici un principato. Nei primi tempi che fu Papa, col minacciare di guerra i Lucchesi ottenne restituissero ai Fiorentini Pietrasanta. Volendo inoltre assicurarsi di Siena, cacciava con le armi Borghese Petrucci figlio di Pandolfo che la teneva come in signoria, facendo lo Stato passare in un altro di quella famiglia discaro ai Senesi, ma che era tutto sua creatura. Del che pigliò tanta indignazione il cardinale Alfonso Petrucci fratello di Borghese, che minacciava con parole furiose la vita stessa del Papa, fino a dire che lo avrebbe un giorno ucciso di sua mano in mezzo del Concistoro. Essendosi inoltre offerto a Leone di fare venire da Firenze certo famoso chirurgo perchè lo curasse di una fistola che lo molestava, fu detto avesse pagato [143] il chirurgo che lo avvelenasse. Temendo il Petrucci quindi per sè stesso, fuggiva di Roma; dove tornato poi con salvocondotto, e imprigionato e sottoposto ad un processo, moriva in carcere: altro cardinale Bandinello Sauli, amico d’Alfonso, e condannato come lui, ebbe poi grazia della vita. Raffaello Riario, dei più vecchi nel Cardinalato, e soprattutti magnifico, il quale confessò avere conosciuti i propositi del Petrucci, fu privato del grado, che riebbe quindi per danaro, ma senza voce nel Concistoro: per somigliante motivo Adriano da Corneto fuggiva, e nulla di poi se ne seppe: il Cardinale Soderini si ricovrò fuori dello Stato della Chiesa: furono in Siena squartati alcuni minori complici.[119] Dopo ciò il Papa fece un atto di molta risolutezza, il quale può dirsi venisse a mutare sostanzialmente le condizioni del Sacro Collegio; facea promozione di trentun Cardinali, contro all’usanza, tutti in un solo giorno. Prima il Collegio era di pochi e a lui poco amici, ma ora il molto numero abbassava la soverchia potenza d’alcuni. Tra’ nuovi eletti erano uomini di qualità varie; insieme ai parenti del Papa e agli amici, v’erano ecclesiastici dei più autorevoli per bontà e dottrina, e alcuni nobili delle antiche famiglie romane lasciate in disparte quando erano più temute: raccolse il Papa dai promossi, com’era consueto, forte somma di danaro. Frattanto, e finchè gli bastò la vita, seguiva Leone gli antichi disegni di Giulio e suoi contro al Duca di Ferrara, cercando in più modi torgli lo Stato. Contro a Gian Paolo Baglioni aveva più accuse in pronto: lo chiamò in Roma a purgarsene con gran promessa di sicurezza; ma fattolo chiudere in Castel Sant’Angelo, e ricercati per via di processo i molti e grandi peccati che aveva, gli fece mozzare il capo: d’allora in poi Perugia fu sottoposta al Governo immediato della Chiesa. La sorte medesima, o poco dissimile, [144] avvenne ad altri tirannucci; e quindi il seme di questi spegnevasi in tutta l’Umbria e nelle Marche.[120] Il duca Lorenzo dei Medici teneva lo Stato in Firenze.[121] Dal re Francesco ebbe in moglie una fanciulla di sangue congiunto al sangue reale, Maddalena dei Conti di Boulogne e dell’Alvergna: si celebrarono con gran pompa le nozze in Parigi, dove Lorenzo tenne a battesimo un figlio del Re. Tornato in patria, fra tante grandezze mutava contegno: viveva da principe, aveva una corte, non soffriva l’eguaglianza cittadina, male si appagava di quella mezzana signoria; si consigliava con Filippo Strozzi suo cognato e con Francesco Vettori, uomini più da corte che da repubblica. Ma vietava il Papa a lui di scuoprirsi, e di quel vivere gli faceva colpa: Goro Gheri, segretario del Duca ed uomo di grande maneggio, molto intendente delle faccende, tutto devoto a Casa Medici, dipendeva dal Papa e dai suoi più autorevoli consiglieri, tenendo carteggio con essi continuo.[122] Imposto al Duca dalla volontà del Papa, gli era necessario quando i piaceri e quindi la malattia lo distraevano dal governo. Ma intanto in Firenze mutavano i costumi, andavano i giovani a quella parte dove era vita più gaia e più sciolta; molti disdegnando gli antichi cappucci, portavano barbe alla francese, divenuti gentiluomini della Corte, o lancie spezzate. Piacevasi il Duca di avere attorno soldati, [145] massime poi quando la presenza in Italia dei Francesi temeva potesse ridestare le speranze dei molti ch’erano a lui contrari. In quel tempo il Papa e Giulio cardinale, non si tenendo ben fermi nella città, domandavano pareri intorno al modo che fosse migliore a governarla: ne abbiamo a stampa uno di Francesco Guicciardini, dove lodando il confidarsi a uno Stato largo, descriveva i modi che fossero atti a tenerlo stretto in mano di pochi.[123] Ma bentosto, per vecchi morbi e continui vizi, Lorenzo infermava; divenuto d’altiero salvatico, non tollerava compagnia d’altri che del cognato Filippo Strozzi e di un buffone che gli era conforto nelle ultime ore. Si moriva egli a’ 4 maggio 1519; e sei giorni prima era morta la moglie sua, dopo avere partorito una figliola di nome Caterina che fu poi famosa regina di Francia:[124] — con lui si spense la stirpe maschile del vecchio Cosimo e di Lorenzo. Il Cardinale, venuto da Roma, pigliava lo Stato in mano sua, ma con modi tutti differenti: nel Palazzo dei Medici era un fare più semplice, una compagnia più grave, ai Magistrati mostrava riverenza; fece andare per tratte non pochi uffici ch’era invalso creare a mano e ad arbitrio. Quando il cardinal Giulio de’ Medici stava in Roma, sia per l’ufizio della Vicecancelleria, o perchè il Papa si era avvezzo averlo vicino, reggeva invece di lui lo Stato il cardinale Silvio Passerini di Cortona.[125]

In questi tempi era una grande contesa in Europa. Vacato l’Impero per la morte di Massimiliano nei primi giorni dell’anno 1519, facevano forza per esservi eletti Carlo di Spagna e Francesco I, giovani [146] entrambi e potentissimi; quello dei due che fosse asceso all’Impero, avrebbe grandezza da molti secoli non mai veduta. La scelta era in mano dei sette Elettori, i quali mettevano i voti loro a caro prezzo; nel che avea posta la sua speranza il Re francese, che intanto si era con le armi accostato al luogo della elezione. Ma gli era contraria nella opinione degli Alemanni quella stessa contiguità tra le due nazioni, cagione di guerre tra Francia e Germania; gli Spagnoli erano più lontani, e Carlo Arciduca, tedesco di nascita e di famiglia, era destinato dall’avo ad essergli successore per mezzo di pratiche aperte già prima da Massimiliano; tantochè al giorno della elezione facendo concorso con le armi i principi e le città libere, ai 28 giugno il nuovo eletto Imperatore pigliava nome di Carlo Quinto.

È ragionevole figurarsi che a Leone riuscisse molesto che tanta grandezza di Carlo venisse a rompere quella bilancia la quale s’era egli creduto tenere in Italia tra’ due Re stranieri. Aveva favorito con modi palesi l’elezione di Francesco, non che molto si credesse o che bramasse di farla riuscire, ma perchè essendo la parte più debole, sperava, cercando che l’una con l’altra si pareggiassero, fare che la scelta venisse a cadere, com’era da molti bramato, su qualche piccolo principe d’Allemagna. Fallito il disegno, e poichè da tutti già si vedeva tra’ due gran rivali inevitabile una guerra, Leone mostrava tuttavia sempre di tenere la parte medesima; offriva però d’entrare in lega co’ Francesi, qualora ottenesse la restituzione di Parma e Piacenza e l’abbandono del Duca di Ferrara, che il Re teneva come suo protetto. Tra queste pratiche si consumò l’anno 1520, in fine del quale e quando la guerra già era imminente, Leone fermava in Roma un Trattato, dov’era espressa con altri patti una promessa di aiutare con le armi Francesco alla recuperazione di Napoli. Andava cotesto Trattato in Francia [147] per la ratificazione, che il Re indugiava temendo che sotto vi fosse un inganno, e che una volta che egli fosse con le armi sue nel fondo d’Italia, le forze del Papa se gli voltassero contro d’intesa con Carlo. Dopo di che tosto Leone rompendo con Francia ogni pratica, stringeva con Cesare solenne Lega, cui seguitarono pronti gli effetti. Era stipulato che fosse tra loro confederazione a difesa comune ed eziandio della Casa Medici e dei Fiorentini; s’obbligassero insieme con le armi alla recuperazione del ducato di Milano, il quale acquistandosi, ne fosse messo in possessione Francesco Maria, figlio superstite di Lodovico Sforza; Piacenza e Parma tornassero sotto al dominio della Chiesa, Carlo promettendo dare al Pontefice, oltre ciò, aiuti contro al Duca di Ferrara. In questa Lega, dove ogni cosa era per il Papa, non dimenticava questi nemmeno i suoi congiunti; e il Cardinal Giulio ebbe una pensione di diecimila ducati sull’arcivescovado di Toledo, e uno stato di eguale entrata nel reame di Napoli fu dato a un fanciullo di nome Alessandro, bastardo lasciato dal Duca Lorenzo.

Fuori anche di questi vantaggi privati, più altre ragioni doveano tirare l’animo del Papa. E prima di tutte quella grandissima di cercare che l’Imperatore pigliasse in Germania con mano potente la difesa della Chiesa, contro alla quale Martino Lutero già si era ribellato scopertamente, avendo seco alcuni Principi e non poco favore nei popoli. Ma quanto spetta poi alle cose d’Italia, è da pensare che i Francesi da venticinque anni con le invasioni frequenti n’erano il terrore, che degli Spagnoli più cauti e più lenti meno si temeva: che la possessione del regno di Napoli in mano di Principi che dimoravano in Ispagna andava quieta e umiliava poco gli Italiani, avvezzi da un secolo a vedere su quel trono re Aragonesi, ch’erano stati cagione all’Italia di continui turbamenti. Pensava il Papa come le possessioni di questo Carlo, in tanti luoghi [148] sparse, dovevano essergli di tanto più difficili a tenere; laddove le forze compatte di Francia, e il non mancare a quei Re il danaro e il genio guerriero di quella nazione, portavano a noi vicino pericolo, se mano valida non le contenesse. Per ultimo, un Papa di Casa Medici non poteva sentire in sè amore verso i Francesi che erano amati da’ popolani fiorentini e da essi invocati come propugnatori di libertà. Per queste ragioni crederono allora molti che il volersi collegare con Francia non fosse per il Papa altro che una mostra, e che egli covasse nel fondo dell’animo il pensiero più gradito d’unirsi invece all’Imperatore.

Abbiamo una Lega o Confederazione segretissima tra’l Papa e Carlo re in Ispagna: è del 17 gennaio 1519, sei giorni dopo alla morte di Massimiliano. Già era un pezzo che i politici dei grandi Stati si preparavano alle conseguenze di questa morte, tra le quali era massima quella della creazione d’un nuovo Cesare: Leone aveva intorno a sè uomini devoti a Spagna e volentieri gli ascoltava. Di qui la Lega, che era tutta personale, da durare quanto la vita d’entrambi: dovea rimanere segreta e avere per documento due soli esemplari da scambiarsi tra’ due Principi che la giuravano; e il Papa nella sottoscrizione promette osservarla verbo romani pontificis. Non poteva essere infermata per qualsiasi altro trattato; doveva estendersi allo Stato d’Urbino e a quello della Repubblica di Firenze, che nelle presenti sue condizioni formava come una cosa sola insieme ai dominii della Sedia pontificale. Carlo nominava come alleati suoi gli Elettori del sacro romano Impero: ne sembra qui stare da parte di Carlo tutto il motivo di quel Trattato, dove Leone con l’accettare per alleati quei sette Principi faceva come se gli esortasse a eleggere Carlo dopo la morte di Massimiliano. Aveva il Papa dal canto suo buone ragioni di procacciarsi l’aiuto di Spagna, ma di ciò fare celatamente, perchè una Confederazione [149] vigeva tra lui e il re Francesco, e in Firenze era una principessa di sangue francese, moglie di Lorenzo dei Medici. Questi però travagliato da non curabile malattia, sapeva il Papa che morrebbe presto, e dubitava se la prole già concetta di quel matrimonio nascerebbe sana; così il legame di parentela col Re francese verrebbe a sciogliersi. Era usuale cosa, non appena formata una Lega, cercarne un’altra con la contraria parte; ma qui si voleva tenere il segreto con ogni cautela, tantochè di questo Trattato non ebbero notizia gli storici, ed uscì a stampa solo nei giorni nostri.[126]

Ma dai successi di quella guerra che non appena dichiarata fu mossa nel giugno del 1521, sperava Leone grandi e (come allora taluni crederono) arcane cose. Il Ceremoniere pontificio Paride de’ Grassi racconta nei suoi Diari, che in Roma si diceva esservi altra secreta intelligenza, per la quale Francesco Maria Sforza cederebbe a Giulio de’ Medici il ducato di Milano, e questi a lui darebbe in compenso il cardinalato e la cancelleria e i benefizi che allora godeva per l’entrata di cinquanta mila ducati.[127] Ma checchessia di queste cose, certo è che il Papa faceva la guerra a spese sue per la maggior parte: aveva seicento uomini d’arme suoi e dei Fiorentini, ed altrettanti ne avea recati da Napoli con duemila fanti il Marchese di Pescara; v’erano duemila fanti Spagnoli, quattromila Italiani ed altrettanti Tedeschi e Grigioni, soldati a spese comuni: duemila Svizzeri rimanevano al Papa dei seimila che aveva pagati, e che ora cercava [150] di recuperare. Tenevano pratiche in Lombardia con Girolamo Morone, per sollevarla contro ai Francesi; e Girolamo Adorno avea tentato, ma inutilmente, mettere in Genova gli Spagnoli. Di qua dal Po erano i Francesi venuti innanzi fino alle porte di Reggio, donde furono respinti, essendo in quella città Governatore Francesco Guicciardini; quindi l’esercito della Lega, già insieme raccolto, andò alla sua volta sino al fiume della Lenza, per indi porre l’assedio a Parma. Il quale però andando in lungo, deliberava Prospero Colonna, che aveva il governo di tutta la guerra, portare questa senza indugio di là dal Po; che fu consiglio d’Antonio da Leyva spagnolo, il quale di piccola condizione asceso nelle guerre d’Italia per tutti i gradi della milizia, divenne famoso e ai nostri danni ferocissimo capitano.

Varcato il Po a Casalmaggiore, andava pertanto l’esercito della Lega direttamente alla volta di Milano. Al buono effetto di quella guerra molto importava sollecitare la venuta di quelli Svizzeri che il Cardinale Sedunense conduceva, ed ai quali era andato incontro Antonio Pucci vescovo di Pistoia con gli altri Svizzeri che già erano ai soldi del Papa. Si opposero a quella congiunzione debolmente i Veneziani, e con peggior sorte il duca Alfonso di Ferrara, ch’erano in lega col re Francesco. Aveva il Papa fatto Capitano di tutto l’esercito il Marchese di Mantova, e Commissario generale Francesco Guicciardini con molto ampia autorità; quindi, per emulazioni sopravvenute tra ’l Colonna ed il Pescara, mandava Legato il Cardinale Giulio, che si partiva da Firenze a questo effetto. Così l’esercito si condusse con forze congiunte al fiume dell’Adda, sul quale Lautrech avea concentrato il maggior nerbo della sua difesa; ma vinsero l’impeto e l’arte degli Spagnoli che si condussero al di là dal fiume, essendo in quel giorno apparso mirabile agli occhi di tutti il valore di Giovanni dei Medici, [151] il quale sopra un cavallo turco nuotando per la profondità dell’acqua passò all’altra ripa: un altro Giovanni, a noi già noto, lo ebbe in Forlì da quell’animosa donna che fu Caterina figlia di Francesco Sforza; non aveva compiuti per anche ventitrè anni, e già in più altri fatti minori si era mostrato fra tutti ardito e felicissimo capitano. Ma questa passata dell’Adda gettava grandissimo scoramento negli animi dei Francesi e soprattutto di Lautrech, il quale tosto fuggitosi di Milano, lasciava quella città in mano dei vincitori. In pochi giorni ebbero questi altre città della Lombardia; Parma e Piacenza ritornavano sotto al dominio della Chiesa.[128]

In Roma si succedevano gli avvisi di tante vittorie, nella felicità delle quali il Papa si era recato a diporto alla villa della Magliana. Ordinava rendimenti pubblici di grazie, e aveva intimato per un giorno prossimo il Concistoro dei Cardinali, cui si proponeva comunicare tutto il fatto. A questo fine tornò in Roma: e qui Paride de Grassi racconta, aver egli chiesto al Papa se da quei fatti alcun beneficio verrebbe alla Chiesa, la quale altrimenti non usava rendere pubbliche grazie per le vittorie che un Principe cristiano avesse ai danni d’un altro. Il Papa rispose festivo e ridente, che grandi ve n’era; per il che, e per la somma letizia di quelli eventi mostrata con segni affatto insoliti, si confermò il Grassi in quel suo supposto circa la cessione del Ducato. Discorrevano tra loro le cose da fare, quando il Papa avendogli detto che voleva riposare qualche ora solo, fu côlto la sera da una piccola febbre che da principio compariva cosa da nulla. Passarono due giorni, dopo i quali a un tratto la mattina del primo dicembre si seppe che il Papa stava male, e poco dopo, che il Papa era morto. Leone moriva nelle esultanze della vittoria e per gli [152] svaghi d’una villeggiatura. Fu detto, secondo il solito, essere egli morto di veleno a lui fatto apprestare dal re Francesco per mezzo d’un Barnabò Malaspina coppiere del Papa; ma costui preso, bentosto fu liberato senza che nulla si scuoprisse. Espone il nostro Ceremoniere gli argomenti del veleno, dei quali sembra egli però dubitare,[129] intantochè gli Storici più insigni senz’altro corrono all’affermazione: cotali accuse, troppo allora facilmente credute e spacciate sul conto degli altri, ricadevano sopra di noi.

Capitolo VI. FIRENZE SOTTO IL GOVERNO DEL CARDINALE GIULIO DE’ MEDICI, POI CLEMENTE VII. — BATTAGLIA DI PAVIA. — SACCO DI ROMA. [AN. 1521-1527.]

La morte del Papa rompeva la Lega, nè più si vedeva a quali comandi ubbidissero le armi della Chiesa. I Cardinali Medici e di Sion in poste andavano al Conclave, lasciando l’esercito; il che bastò perchè il Colonna ed il Pescara, che a stento pagavano i loro Spagnoli, fossero costretti a licenziare i fanti tedeschi e il maggior numero degli Svizzeri. Le quali cose rialzando gli animi di tutti gli oppressi, dal morto Pontefice, Francesco Maria col solo mostrarsi recuperava lo Stato di Urbino e Pesaro ed il Montefeltro; racquistava più tardi San Leo, essendo rimasto alla Repubblica di Firenze il vicariato di Sestino. L’antico Signore di Casa Varano rientrò in Camerino, cacciatone un altro di quella famiglia che Leone X avea fatto duca. Lo Stato intero di Ferrara tornava in mano del duca Alfonso; ma rimanevano [153] alla Chiesa Modena e Reggio; e il Guicciardini Governatore difendeva con molta sua lode la città di Parma da un forte assalto dei Francesi durato più giorni.

Tardi arrivavano in Roma i Cardinali, dei quali trentanove si chiusero in Conclave, numero insolito, non preparati al grande atto ed imprevisto, nè bene intesi ciascuno co’ suoi. Giulio dei Medici, che aveva poca speranza per sè medesimo, bastava però col molto seguito a impedire l’elezione del Soderini che sopra ogni altro manifestamente ambiva il papato. Nei primi giorni, a fine di prova, si metteano innanzi, com’è consueto, diversi nomi; quando ai 9 di gennaio trovatosi avere il Cardinale di Tortosa quindici voti, si levò il Gaetano, e molto lodandolo esortava gli altri Cardinali a eleggerlo in quella mattina istessa per via di accessione: il che da uno essendo fatto, gli altri seguitarono, ed il cardinale Adriano Florenzio riescì eletto Papa,[130] quando niuno a lui pensava e niuno forse lo conosceva: ma temendo ciascuno un nemico più che non avesse per sè fiducia, fu come un riposo eleggere un uomo ignoto e lontano. Era di piccola estrazione, fiammingo di nascita; e stato educatore del giovane Carlo, governava la Spagna dopo il Ximenes in assenza dell’Imperatore: uomo pio e dotto, di costumi semplici; e grande dovette in lui essere la maraviglia quando gli giunse il primo nunzio che lo salutava Papa. Non volle mutare nome, perchè in tale usanza soleva egli forse vedere qualcosa di troppo fastoso, e si chiamò Adriano VI. Andava più tardi al nuovo Pontefice una solenne Legazione di tre Cardinali, conducendo le galere della Chiesa quel Paolo Vettori che fu principale nella caduta di Piero Soderini e poi sollevato da Leone X al comando generale delle armi di mare.

[154]

Francesco Maria della Rovere nel riacquisto di Urbino aveva seco Malatesta e Orazio figli dell’ucciso Gian Paolo Baglioni, bramosi questi di recuperare Perugia: Ad essa muovendo insieme, e dato battaglia contro alle genti dei Fiorentini che vi erano dentro, espugnarono la città cacciando un altro Baglioni che Leone X vi aveva posto. Continuarono verso Siena, della quale se ad essi riusciva mutare lo Stato, si confidavano che Firenze vorrebbe togliersi di sotto al giogo di Casa Medici. Era il Cardinale accorso già incontro a questi pericoli; e avendo assoldati Svizzeri e Tedeschi e fatto di Lombardia venire Giovanni de’ Medici, potè oltre a fermare le cose di Siena, minacciare anche Perugia: ma in Roma il Collegio de’ Cardinali, dov’erano molti avversi al Medici, vietò a quelle genti di andar oltre sulle terre della Chiesa, e confermò lo stato al Duca d’Urbino. Intanto un altro disegno si ordiva per simile effetto dal Cardinale Soderini, con l’intesa dei Francesi e con le armi di Renzo da Ceri che stava disoccupato nella campagna di Roma. Questi era già entrato nel territorio di Siena, dove però gli riusciva male ogni cosa, il Cardinale avendo condotti a’ suoi stipendi il Duca d’Urbino ed i Baglioni che prima gli erano stati tanto fieri nemici, e fatto Governatore generale di tutta la guerra il conte Guido Rangone; del che molto essendosi adontato Giovanni de’ Medici, andò coi Francesi: ma di nuovo il Collegio de’ Cardinali faceva posare le armi alle due parti; Giulio dei Medici rimaneva signore in Firenze.[131]

Teneva lo Stato in modo pressochè assoluto, ma senza forme che lo assicurassero e non avendo a chi trasmetterlo: rimaneva ultimo della Casa di Lorenzo e non legittimo, e quanto a sè avendo l’animo sempre avvinto al desiderio del papato, senza del quale s’accorgeva che non avrebbe potuto nemmeno tenere Firenze. [155] Era invecchiata oramai quella bugia di governo che doveva parere repubblica ed essere principato; laonde Giulio si propose ringiovanire cotesta forma slentando i freni, perchè riuscisse più effettiva la libertà. Parco allo spendere, al donare scarso, vivea sulle entrate dei suoi benefizi, nulla costando alla città, con molto mala contentezza de’ suoi partigiani. S’intratteneva co’ cittadini migliori e più degni, ai quali s’apriva dicendo volere d’accordo con essi trovare una forma per cui la città potesse vivere con soddisfazione di tutti e senza mutare Stato; che in quanto a sè aveva in Roma la stanza sua, rispetto al grado ch’egli teneva. Andavano oltre questi discorsi, e non è a dire quanto gli animi se ne accendessero; il Cardinale chiedeva pareri a ognuno, e molte sorte di modelli di nuova repubblica a lui erano presentati. Quello che aveva il Machiavelli scritto ad istanza di Leone X, parve non praticabile come insolito e stravagante; un altro di Alessandro dei Pazzi, che pure abbiamo a stampa, lasciava le cose in aria senza impegnarsi contro al volere dei governanti.[132] A questo modo non era disegno che non si facesse; perchè alle diverse parti civili si aggiungevano anche le dottrine, in città di molto sapere, e che aveva fatto tante esperienze di libertà e di servitù nel corso vario di tre secoli. Vi fu chi avrebbe voluto comporre un governo di Ottimati, vano sogno nella città di Firenze; chi ristringerlo in pochi arbitri d’ogni cosa sotto all’ombra del nome dei Medici: i più chiedevano si riaprisse il Consiglio grande con un Senato eletto a vita, dove i Settanta della Costituzione di Lorenzo facessero anche le parti che erano degli Ottanta nel governo popolare. A questo parvero una volta fermarsi i pareri, e già si parlava d’un Gonfaloniere ad anno e di chi scegliere a quel grado; le opinioni essendo divise [156] tra Francesco Vettori come più aderente ai Medici, e un uomo di molta autorità e nome, Roberto Acciaioli, che era stato da papa Leone tenuto in Francia ambasciatore: il Varchi scrive di lui, che egli e il Guicciardini erano le due più savie teste d’Italia. Nè il Cardinale respingeva gli antichi seguaci del Savonarola, che in tanto rumore venivano innanzi anch’essi con le speranze loro; e si giovava della familiarità di Girolamo Benivieni per la riverenza in che era tenuta la bontà e fede di cotest’uomo. A così fatte dimostrazioni furono molti che non crederono.

Era in Firenze una conversazione di nobili giovani e letterati, soliti convenire insieme negli Orti che Bernardo e Cosimo Rucellai aveano adornati signorilmente in via della Scala, svariati di alberi stranieri, e viali e grotte artisticamente lavorate: gli uomini più insigni per nome o per grado che capitassero in Firenze, vi erano convitati. Si venne a formare qui una sorta d’Accademia, dove la scuola del Ficino ebbe qualche parte; ma i giovani attendevano più volentieri a esercitarsi nelle antiche storie e negli studi che più risguardano cose di Stato: il Machiavelli scriveva per quella radunanza i Libri sull’Arte della guerra e i Discorsi sopra le Deche di Tito Livio. Zanobi Buondelmonti e Luigi Alamanni conducevano quella scuola a dei pensieri di libertà: il primo nella gioventù si estinse; l’altro debole poeta, ma copioso ed elegante scrittore di versi, ebbe più lunghe la vita e la fama. Con essi andavano Jacopo di quella dotta famiglia da Diacceto continuatrice della scuola Platonica, e Antonio Brucioli che in Venezia fuoruscito tradusse la Bibbia. Questi nella spedizione di Renzo da Ceri si erano confidati avere occasione di mutare lo Stato in Firenze, tenendo pratiche a tale effetto in Roma col Cardinale e con gli altri Soderini che furono autori di quella impresa; e non cessavano, svanita questa, di macchinare cose nuove. Nelle quali essendosi accorti [157] quei giovani Fiorentini d’essersi oramai troppo avanzati, deliberarono venire al fatto con l’ammazzare il Cardinale; non che avessero odio seco, a quel che dissero, ma per liberare la patria loro. Fu scoperta la congiura per lettere prese addosso a un cavallaro che andava da Firenze a Siena, e tosto il Diacceto e un altro Luigi Alamanni, che era soldato in Arezzo, fatti pigliare ed esaminati, e avendo per mezzo loro saputa i ogni cosa, furono decapitati. Fuggirono il Brucioli e il Buondelmonti in diversi luoghi; l’altro Alamanni, di nome celebre, si condusse nelle terre degli Estensi in Garfagnana, dove ebbe rifugio da Lodovico Ariosto che n’era Governatore: essi e tutti i Soderini furono fatti ribelli, tra’ quali il vecchio Piero essendo morto in quei giorni, fu dannata la sua memoria. Concorsero alla Casa Medici i principali cittadini; ai quali raccolti insieme, il Cardinale con amorevole maestà, invocando in testimonio Iddio e gli uomini, affermava l’ottima sua mente verso la patria comune; la quale dolendosi che i malvagi gli impedissero dimostrare, sperava un giorno soddisfare alla sua pietà e al desiderio popolare. Cessarono per allora i discorsi della riforma: il Cardinale adoperandosi a frenare le prepotenze dei partigiani suoi, temporeggiava; ma per assicurarsi da ora innanzi meglio la vita, chiamò alla guardia della sua persona Alessandro Vitelli con un numero di fanti.[133]

In questo tempo l’esercito dei Francesi, rinforzato di diecimila Svizzeri, combatteva sotto agli ordini di Lautrech in Lombardia, contro agli Spagnoli e a un egual numero di Tedeschi mercenari che aveva assoldati Prospero Colonna: difendeva questi Milano e altre città, dove gli Svizzeri agognavano trovare col sacco le paghe sottratte ad essi in Francia per lo scialacquo di danaro che il Re faceva. Disubbidienti ad ogni disciplina, [158] aveano forzato Lautrech a impegnarsi in luogo svantaggioso alla Bicocca presso Milano, e per cupidità prodighi della vita, si lanciarono temerariamente innanzi contro l’ordine dato; nè la gendarmeria francese, nè Giovanni dei Medici con le sue di già famose Bande Nere poterono restaurare la battaglia da quel folle impeto disordinata: gli Svizzeri mezzo distrutti tornarono alle montagne loro, e indi a poco Lautrech fu costretto evacuare la Lombardia per via d’un accordo. Dopodichè Prospero Colonna andato rapidamente contro Genova che i Francesi con piccole forze tuttora occupavano, già era sul punto d’averla a patti, quando i soldati suoi accortisi nelle mura essere una breccia che niuno guardava, entrarono senza comando, nè freno, dentro alla città opulente, che da quelli avidi mal pagati fu messa a sacco, deposto il Doge di Casa Fregosa ed il suo luogo dato a un Adorno che seguitava la parte spagnola.

Frattanto il Collegio dei Cardinali governava lo Stato in Roma, dove Adriano tardò a recarsi. Col solenne avviso della elezione, per via d’una carta minutamente specificata gli avevano posto innanzi le norme ed i confini della sovranità che risedeva nel Papa insieme e nel Collegio;[134] nè quanto a lui, era uomo da invasarsi del sommo grado ch’egli assunse non senza una vera trepidazione: si direbbe anzi, che prima cercasse in sè medesimo d’assuefare la mente e l’animo al pontificato. Percorse alcune città della Spagna prima di muoversi per la Italia, nè altro fece se non esortare con lettere i due grandi avversari a pacificarsi. Carlo V nel tornare di Fiandra in Ispagna lo aveva richiesto d’una conferenza in Barcellona, ma il Papa sollecitò la partenza, deliberato mostrarsi eguale tra’ contendenti, e forse temendo qualcosa concedere [159] all’affetto pel discepolo o all’ossequio per l’Imperatore. Giungeva in Roma nel mese d’agosto in compagnia di molti Cardinali che gli erano andati incontro a Livorno. Nuovo e straniero entrava in mezzo a quella politica nella quale erano prima stati immersi con lunga pratica i predecessori suoi; gli usi ed i modi e il linguaggio non conosceva, e degli uomini si fidava poco: ai Cardinali dal canto loro tornava male avere a parlare latino con lui. Da principio avea saputo entrargli in grazia il Soderini, tra i Cardinali il più intramettente; avere tolto a suo ministro chi tutto era dedito a parte francese, mostrava l’animo d’un Pontefice che voleva essere comune padre. Badava in quanto a sè a correggere i vizi e a rettamente governare quella parte che spetta all’ordine ecclesiastico; e se era in lui tempra più forte e più capace alle grandi cose, o se avesse egli intorno a sè trovato altri di egual volere, forse che un papa non italiano era più atto ad impedire quella infelice separazione che avvenne allora dentro alla Chiesa. Ma le sue stesse virtù lo rendevano odioso ai Romani, avvezzi al fare secolaresco e alla incurante prodigalità di Leone X, che aveva consunto il tesoro di Giulio II, e lasciato dopo sè l’erario vuoto e gravato di molti carichi delle guerre. Adriano invece severo e stretto nel cercare l’economia dello Stato, era anche più rigido e guardingo nelle grazie che sono d’ordine ecclesiastico: a un suo nipote, al quale avea dato un mediocre benefizio, negò il secondo. Parco e dimesso nel suo privato vivere e contento di piccola Corte, dei cento palafrenieri che aveva Leone, dodici ne ritenne a mala voglia; si perdeva negli alti palagi, dei ricchi arredi non sapea che fare, condannava i gai passatempi e fino agli studi che in Roma fiorivano. Irto di teologia scolastica e di feudale giurisprudenza, odiava le lettere, profane com’erano allora molto e licenziose, il bello delle arti al suo animo non diceva [160] nulla; dal gruppo antico del Laocoonte di poco scoperto, rivolse gli occhi dicendo ch’erano idoli dei pagani. Quindi era tenuto come zotico e selvaggio, e Roma al suo tempo pareva deserta; i letterati fuggivano spauriti, andavano i Vescovi alle loro diocesi che prima non avevano mai vedute, maledicevano i poeti a un Papa barbaro e frugale:[135] in quella Roma il miser uomo avea trista vita.

In quell’autunno la peste afflisse Roma e si venne a dilatare nella Toscana. Intanto Rodi, baluardo della cristianità, cadeva in potestà degli Ottomanni, difesa con lungo valore dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, i quali avevano sede in quell’isola; il giovane Solimano, che vi era in persona, concesse loro di uscirne liberi portando seco quanta più roba potevano. In favor loro niuno si mosse dei Principi cristiani, i quali ordivano leghe che di nome erano sempre contro al Turco; ma in Italia vinceva ogni cosa il desiderio d’impedire in Lombardia un’altra invasione di Francesi che il Re minacciava. Non che fosse dolce quella dominazione degli Spagnoli, nè decorosa, nè da riposarvisi volentieri guardando al piede che vi pigliavano; Carlo V mescolava con molta destrezza qui tra noi le parti di conquistatore a quelle di Cesare, dimodochè insieme si confondessero e aiutassero: imponeva ora a Milano ventimila ducati al mese, a Firenze quindicimila, a Genova ottomila, e minori somme a Siena, a Lucca ed ai Marchesi di Monferrato e di Saluzzo, come Stati che rilevavano dall’Impero per via d’un diritto non mai abolito comunque in oggi poco espresso. Confermava alla Repubblica e allo Stato di Firenze i privilegi di libertà e di possessi, dati per ultimo da Massimiliano: Leone X gli avea chiesti al nuovo eletto Imperatore, in nome del quale don Giovanni Manuel ambasciatore di Cesare [161] in Roma ne fece promessa con una cedola di sua mano, la quale ebbe ora spedizione per Bolla imperiale. Grandi erano in Roma l’autorità e la potenza di cotesti Ambasciatori; la esercitavano con altura spagnola, che molto bene s’investiva del nome imperiale da essi rappresentato, ma senza però che rifuggissero dalle astuzie, o si astenessero dalle violenze.

Che da principio fosse il Papa sinceramente neutrale, parve anche agli occhi sospettosi degli ambasciatori Veneziani.[136] Ma indi al vedere l’ostinazione di Francesco I per la recuperazione di Milano, al quale effetto si preparava con grandi armamenti, e perchè intanto per tutta Italia si era contenti d’avere in Milano quell’ombra di Duca e mantenere la pace, Adriano credette potersi onestamente avvicinare a quella parte che più gli era accetta. Giulio cardinale dei Medici allora venne da Firenze in Roma, dov’egli entrò con grande numero di cavalli, incontrato da Cardinali e sommi personaggi; al suo palazzo era più frequenza di corteggiatori che in corte del Papa. Il che molto accrebbe la parte Spagnola; e il Duca di Sessa, che succede al Manuel, faceva al di fuori delle porte di Roma fermare i corrieri e togliere ad essi le lettere, il ch’era avvenuto anche agli ambasciatori Veneziani.[137] In tale modo se n’ebbero in mano del cardinale Soderini, per le quali esortava il re Francesco a fare scendere in Sicilia soldati che avrebbero dato mano a una grande ribellione ordita in quell’isola: dopo di che il Papa imprigionava e chiudeva nel Castello il Soderini come perturbatore della pace tra’ Cristiani, privandolo delle sue grandissime ricchezze. Una Lega fu allora conchiusa tra il Papa e Cesare e il Re d’Inghilterra e Ferdinando arciduca d’Austria minore fratello [162] di Carlo V, e il Duca di Milano e i Genovesi e il Cardinale dei Medici e lo Stato di Firenze, congiunti insieme; che in Milano fu sottoscritta da Paolo Vettori. I Veneziani si erano prima legati a Cesare, ma non vollero impegnarsi a entrare in guerra col Turco, sapendo che in quella sarebbero i primi esposti e poi da tutti abbandonati. E già il Re di Francia, venuto a Lione con esercito grandissimo, stava per muoversi verso l’Italia, quando si scoperse lo scellerato ed inaudito tradimento che il Duca di Borbone suo primo congiunto preparava non contro al Re solo, ma contro allo Stato di Francia, del quale aveva patteggiato co’ nemici la divisione. Il Re in tanto caso non si volle partire di Francia, ma inviava con molta parte dell’esercito in Italia l’ammiraglio Bonnivet, che entrato in Lombardia stava già presso a Milano, quando giunse nuova della morte di papa Adriano, dopo un anno e pochi giorni dacch’egli era venuto in Italia: lo tolse di vita in una villa presso Roma una di quelle febbri autunnali ch’erano state fatali a tanti Papi ed a Principi forestieri in quella regione.[138]

Si venne quindi all’elezione del nuovo pontefice, innanzi a tutti stando il nome del cardinale Giulio de’ Medici; talchè per cinquanta giorni che durò il Conclave si dibattè sempre sostanzialmente se egli dovesse o no essere papa. Sicuri aveva dodici voti, ma il numero de’ suoi non bastava a fare i due terzi che sono richiesti dalle costituzioni; e contro di lui stavano i più vecchi Cardinali, ricusando eleggere un papa di quarantasei anni, che a loro avrebbe tolta ogni speranza. Gli conduceva Pompeo Colonna, giovane fra tutti, ma nemico aperto dei Medici e cardinale di grande seguito per l’ingegno e il nome e i costumi signorili.[139] Nulla si faceva, i vecchi adoperandosi per sè ciascuno, e Giulio essendo uomo ostinato [163] nelle ambizioni e che si teneva all’alta cattedra come necessario. Di tanto indugio grave era lo scandalo; i letterati ricordavano la contesa che fu nell’antica Roma tra un altro Giulio e un altro Pompeo, ed imprecavano ai presenti la fine istessa.[140] Infine il Colonna tediato si offerse all’avversario, patteggiando per sè la Vicecancelleria col sontuoso palazzo che il cardinale Raffaele Riario aveva fatto terminare da Bramante: così a’ 19 novembre 1523 Giulio de’ Medici ottenne col nome di Clemente VII il papato, infelicissimo a lui stesso ed alla Italia ed alla Chiesa.[141]

In Firenze per quella esaltazione si fecero feste con poca allegrezza, la quale fu anche turbata subito da un atroce fatto. Era usanza nelle sedi vacanti scommettere calcolando con diverse proporzioni quanto fosse probabile il caso all’uno o all’altro cardinale di essere papa. Un Piero Orlandini aveva scommesso che il Medici non sarebbe; e chiamato a pagare i cento scudi i quali erano la sua posta, disse che voleva prima vedere se la elezione, attesa la nascita illegittima di Giulio, fosse tenuta valida; talchè il vincitore per essere pagato andò agli Otto, e questi giudicando tali dubbi non essere da lasciarsi correre, chiamato a sè l’Orlandini, gli fecero senz’altro discorso la sera stessa mozzare la testa. In quel giudizio un Antonio Bonsi dottore di leggi, ch’era degli Otto, solo aveva dato scopertamente la fava bianca; del che andò in Roma a giustificarsi presso il Papa: questi, per levarlo di Firenze, lo ritenne presso di sè, avendogli conferito un vescovado e quindi altri uffici di conto. Agli avversari di Clemente parevano queste tutte essere simulazioni; ma vero è poi che in così fare seguiva l’antico suo costume, avendone [164] forti ragioni in quel giudizio che si era dovuto fare egli stesso della città.

Quivi era in odio sopra ogni cosa la tirannia dei pochi; ed il favore che in molti uomini sparsamente si aveva acquistato la Casa dei Medici con quelle sue arti di semiregia popolarità, formava la principale forza di quella famiglia. I suoi più ardenti seguaci temeva, perchè non erano veramente suoi, bramosi molti di soddisfare private vendette; intantochè altri, ed erano questi i più autorevoli e qualificati, cercavano imporsi ai Medici, usando per sè il governo sotto al nome d’un Papa lontano, e pronti a volgersi dove conseguissero il fine loro ultimo, che era di farsi grandi e ricchi. Sogno di molti sarebbe stato ridurre Firenze sotto un governo di Ottimati; ma qui era troppo alto il livello popolare, perchè fosse luogo a un altro grado che lo sopravanzasse; nè le differenze potevano essere ben distinte qui, dove i nobili non avevano in mano le armi, nè come a Venezia il comando delle navi: aggiugni poi l’essere divisi tra loro e in vario modo pregiudicati, da non si potere insieme comporre a forma stabile di repubblica. Di qui avveniva che in mezzo alle opinioni mal ferme dei molti fosse da scegliere tra due partiti; o dare ai Medici senza mistura il principato, ovvero al popolo restituire nei modi antichi la libertà: se non che al primo si opponeva, mancare i Medici di una soldatesca loro; ed al secondo, essere nel popolo venuta meno la sua forza vera, o direi quasi la sua milizia, la quale consiste nella prontezza all’operare uniti in fascio da un sentir comune, persuasi che il bene pubblico e privato facciano insieme una cosa sola. Erano andati da Firenze ambasciatori al nuovo Papa, com’era usanza, ai quali Clemente, avendoli un giorno congregati intorno a sè, richiese dicesse ciascuno liberamente il suo parere circa lo Stato della città. Il maggior numero, che era degli sviscerati, lo supplicavano non abbandonasse i [165] suoi devoti e dèsse loro un capo di sua famiglia; osarono altri dare consigli di libertà, magnificando l’eterna gratitudine e la gloria che a lui ne verrebbe. Di tali parole si proferivano dagli aderenti di Casa Medici, e alle volte il Papa stesso pareva inclinare verso quel partito, secondo che avesse sulle varietà delle alleanze o delle guerre più da sperare dai Fiorentini o più da temere: si trova inclusive che fosse disceso fino ad ammettere la riapertura del Consiglio grande.

Promovitore presso a lui delle più libere opinioni era sempre Iacopo Salviati, che stava in Roma insieme alla moglie madonna Lucrezia, sola rimasta viva dei figli di Lorenzo de’ Medici ed ultimo avanzo di quella famiglia che era tanto numerosa, e tanto lieta di alte speranze, quel giorno in cui Leone fu assunto al papato.[142] I figli di Lucrezia e delle due sorelle morte, Giovanni Salviati, Niccolò Ridolfi e Innocenzio Cibo, furono in età giovane innalzati al cardinalato. Questi poi furono adoprati da Clemente, di già essendosi alienate da Casa Medici le altre famiglie che seco avevano parentela, com’erano i Pazzi e i Rucellai. Un assai stretto congiunto di quella Casa, Filippo Strozzi, perchè era uomo da potersi anche da sè levare in alto, dava sospetti così a Leone come a Clemente che lo avevano sempre accosto. Marito a una figlia di Piero dei Medici, e in età giovane capo di una casa ricca e magnifica oltremodo, viveva da principe; ingegno franco e variamente colto, di grande ambizione, di grande maneggio, scopertamente licenzioso nella vita [166] e nei pensieri, sapeva in età corrotta rendersi universalmente grato, perchè nei vizi e nelle virtù ogni cosa eragli come naturale: la moglie Clarice, cresciuta nelle alterezze della madre Alfonsina degli Orsini, vedeva di poco buon grado la Casa de’ Medici cadere in bastardi. Aveva la sorte dato a questa Casa un uomo capace a innalzarla con la prodezza nelle armi, che agli altri era mancata sempre: Giovanni dei Medici in età giovanissima non aveva chi lo agguagliasse come soldato nè come capitano, sempre innanzi a tutti nelle battaglie; e col sangue degli Sforza, che ebbe dalla madre, avendo in sè come naturale l’arte della guerra, lo seguitavano con amore e fede incredibile i più audaci nelle armi, nè si vedeva a quale altezza non potesse egli salire, qualora avessero gli anni in lui mitigata una ferocia tutta soldatesca. Clemente amava poco e cercava tenersi lontano questo suo congiunto uscito dal ramo collaterale di quei Medici, i quali abbiamo veduti mutare l’antico cognome in quello di Popolani; mai non avrebbe voluto in essi trasferire la grandezza della Casa, e solo com’era rimasto, e avendo necessità d’un erede, andò a cercarlo con poco suo decoro, non aiutato nè dalla prudenza nè dalla fortuna che a lui parvero mancar sempre.

Due giovinetti erano tenuti come di Casa Medici, nonostantechè d’entrambi fosse la nascita poco certa. Ippolito, in età forse di sedici anni, passava per figlio del morto Giuliano, avuto da una gentildonna pesarese; Giuliano istesso, che lo teneva in casa sua, diceva però dubitare non fosse opera di un suo rivale. Raccolto poi e avuto caro da papa Leone, cresceva bello della persona, grazioso di modi e nelle lettere ingegnoso; Goro Gheri avea consigliato dopo alla morte di Lorenzo mandare Ippolito a Firenze, e sopra di lui fondare la grandezza della famiglia. Era pensiero anche di Clemente, ma questi però aveva pure da provvedere a un altro bastardo, a cui vedemmo [167] nella Capitolazione con Carlo V promesso uno Stato nel Reame, che fu il ducato di città di Penne.[143] Aveva questi nome Alessandro, minore all’altro di due anni, ed era nato da una schiava mora o mulatta, mentre Lorenzo e Giulio vivevano in protezione dei Duchi di Urbino. Lorenzo aveva per suo quel fanciullo che fiero e robusto riteneva della madre la pelle scura, le labbra grosse e i capelli crespi. Clemente nei primi tempi del pontificato mandava Ippolito a Firenze, dove egli viveva civilmente nel palazzo dei Medici sotto alla tutela d’un confidente della casa: l’anno dipoi veniva pure Alessandro, che fu mandato a stare nella villa del Poggio a Caiano. Il cardinale Silvio Passerini teneva il governo della città; uomo di poca mente, di modi aspri, e male accetto ai Fiorentini.[144]

Quando Clemente divenne papa trovò la guerra tra Francia e Spagna essersi rianimata in Lombardia, dove i primi successi aveano condotto l’ammiraglio Bonnivet fino alle porte di Milano. Qui era il vecchio Prospero Colonna infermo, che bentosto venne a morte, ma illustrò gli ultimi suoi giorni rialzando la fortuna delle armi spagnole per via di una bene sostenuta guerra di difesa, nella quale era egli eccellente. Carlo V, benchè lontano, sapeva imprimere nelle cose una fermezza che mai non era nel governo del suo nemico, nè si creava i generali per favori di Corte o di donne; ebbe in Italia capitani insigni, Antonio da Leyva ed il Marchese di Pescara, nato di gente spagnola ma divenuta oramai napoletana: molto autorevole presso a Carlo era il Signore di Lannoy fiammingo, vicerè di Napoli. Una crudel guerra di piccoli fatti conduceva. [168] infine i Francesi a evacuare la Lombardia; mancò la scienza militare a quella nazione che tutte vinceva per valentìa: moriva in mezzo a quelle distrette Francesco Baiardo, esempio nobile di soldato virtuoso, nè io del suo nome vorrei fraudare l’Istoria nostra. Intanto l’inverno correva terribile ai vincitori come ai vinti; sopravvenne la peste, e mieteva oltre ai soldati gli abitatori miseri e affranti ed affamati di quelle Provincie: Antonio da Leyva, spietatamente devoto alla causa del suo Re, vessava la ricca Milano con crudelissime estorsioni.[145]

A questo tempo già gli Spagnoli con l’avere tante volte respinti d’Italia quei brevi impeti dei Francesi, parevano qui essere divenuti come inevitabili. E già la guerra che Leone aveva mossa e pagata, era grandissimo peso a Clemente che si sentiva del tutto inabile a fermarla. Il Duca di Sessa gli andava mostrando che egli era stato eletto pontefice col favore di Cesare; onde questi non poteva contentarsi con lui dei patti che aveva promessi Adriano, ma intendeva che la spesa dovesse cadere sopra di lui, come Leone l’aveva da principio consentita. Stringeva il Papa tanto più arrogantemente quanto più vedeva questi essere debole per ogni rispetto; ed alla scusa del vuoto erario, minacciando rispondeva facesse pagare i Fiorentini: il che era al Papa toccare un tasto molto spiacente. Questi ebbe natura capace al maneggio di cose dubbie nella città sua, più che al governo di tanta gran mole qual era il papato; la sua reputazione cadde quando egli dovette da sè risolvere quelle cose delle quali era stato ministro sotto al cugino e pareva esserne egli autore. Leone a lui dava il primo concetto e le ultime risoluzioni; poi, tra incuranza e accortezza, si nascondeva. Clemente, rimasto senza quella guida, fu incerto e infelice; quella stessa conoscenza [169] delle cose, che aveva grandissima, gli era cagione di più intricarsi: in sè medesimo non fidando, cercò afforzarsi di consiglieri e trovò padroni, i quali, quando erano discordi tra loro, tiravano il Papa in contrari versi; ed egli poi credeva migliore il partito che prima era stato condotto ad abbandonare.[146] Poteva Leone credersi al suo tempo, con l’ampio Stato e il molto danaro, capace a inclinare le sorti pendenti tra Francia e Spagna; Clemente invece trovò lo Stato consumato dalle guerre e dalla smodata prodigalità di Leone; trovò il rispetto al pontificato distrutto dai vizi e dai disordini dei precedenti regni, l’Italia piena d’eserciti, e la Cristianità indebolita per la perdita di Rodi e per la preparazione che faceva il Re de’ Turchi contro all’Ungheria; trovò che la sètta Luterana aveva già tolto alla Chiesa gran parte d’Allemagna, e del continuo andava:[147] talchè si può dire, che se Leone moriva in tempo per il suo nome e pei suoi piaceri, Clemente invece saliva al regno appunto allora quando le cose tutte volgevano a ruina.

Sgombrata l’Italia il Conestabile di Borbone, a cui doveva essere prezzo del tradimento un regno in Francia, ebbe permesso da Carlo V d’invadere con le armi vittoriose la Provenza: egli medesimo e il Marchese di Pescara conducevano con forte esercito quella impresa, che da principio fortunata, dovette fermarsi innanzi Marsilia cui avevano posto assedio. La difendevano, oltre a un nerbo di Francesi, cinque mila soldati italiani con Renzo da Ceri, intanto che altri italiani fuorusciti stavano sotto alle bandiere del re Francesco, il quale a grandi passi discendeva per la liberazione di Marsilia. Ottenne allora grandissima lode il Marchese di Pescara persuadendo, contro al volere del Borbone, la ritirata, ed egli stesso poi conducendola per quelli aspri luoghi delle basse Alpi, dove la molta [170] sua scienza di guerra salvò l’esercito. Questo usciva dalle Alpi nelle pendici di Lombardia, il giorno stesso che il re Francesco, tiratosi indietro alla sua volta e ripigliate le vie solite verso Italia, entrava in Vercelli. Non s’appartiene all’assunto nostro narrare i fatti per cui si venne a quella battaglia di Pavia fra tutte celebre pei grandi effetti che ne seguitarono. Essendo i Francesi entrati in Milano, Antonio da Leyva si gettò in Pavia tosto assediata dal re Francesco con tutto il fiore della nobiltà francese e un forte esercito che egli da se stesso ambiva condurre: andava come ad un tornèo, dispiegando il regio suo grado in lui congiunto alla prodezza del cavaliero. Incontro aveva la costanza d’Antonio da Leyva, e intorno era offeso con guerra incessante dalla perizia del Marchese di Pescara che fu in quei fatti grande capitano. La città essendo fortificata contro ogni assalto, durò l’assedio quattro mesi, nè parve al Re di sua dignità levarlo quando il Pescara gli si voltò addosso rinforzato da più migliaia di Tedeschi discesi allora dalla Germania. Francesco si era fortificato dentro al Parco di Mirabello, luogo da caccia degli Sforza, quando ai 24 di febbraio del 1525 il Pescara avendo rotti a forza i muri del Parco, si fece là dentro orrenda battaglia e strage grandissima, dove perirono molti principi e signori e capitani dei più rinomati nelle armi di Francia; il Re, combattendo in mezzo a’ suoi, cadde prigioniero. Gli Spagnoli col ricco bottino si compensarono delle paghe ad essi mancate per tutto l’assedio: il Re condotto nella fortezza di Pizzighettone, fu ivi ritenuto con grande ossequio e buona guardia.

Io non so quale fosse maggiore ed all’Italia più nociva, se la debolezza prodotta in essa dai vizi antichi, o la presente ignavia dei consigli; prudenza ultima che, prostrando gli animi, rende impossibili i rimedi. La Francia si era più risentita che abbattuta per la sconfitta e la prigionia del Re: la governava [171] allora una donna di stirpe italiana, Luisa di Savoia, madre di Francesco; e perchè i popoli anelavano ad una riscossa, faceva istanze ai Principi dell’Italia per averli uniti seco in un grande sforzo ch’entrambi salvasse. Agli eserciti Spagnoli mancava il danaro, se non lo traessero dai luoghi stessi e da quei Principi astretti a comprarsi per tale modo una trista vita; non erano ancora usciti d’Italia poche migliaia di Francesi mandati prima contro a Napoli sotto al Duca d’Albania con le amicizie di Casa Orsina; i Veneziani, sebbene prudenti per animo e per necessità, faceano pratiche presso al Pontefice perchè si unisse a loro cercando un riscatto per via d’una lega comune d’Italia. Clemente, legato dalla sua propria irresolutezza, metteva indugi. Lo avrebbe chiamato ai forti consigli la molta ampiezza dello Stato che egli possedeva tra suo e della Chiesa dal Po fino al Tronto e al Garigliano; lo rattenevano il poco fidarsi dei Veneziani che al maggior uopo non lo abbandonassero, e l’erario della Chiesa vuoto, e i popoli stanchi e male affetti. Ma venne a rompere le dubbiezze un uomo che molto sopra lui poteva. Fra Niccolò Schomberg, arcivescovo di Capua, tedesco ma stato frate di San Marco nei tempi del Savonarola. Tornato da Cesare, persuase al Papa la conclusione d’un trattato di Lega, nel quale venivano inchiusi i Fiorentini e la Casa Medici, con lo sborso di centomila ducati rimasti indietro dai pagamenti a cui si erano obbligati. Del che in Firenze fu qualche rumore; e perchè nell’Arte della Mercanzia taluni dei Consoli facevano segno di resistenza, ne furono cinque privati d’ufficio, o come tuttora dicevano, ammoniti e messi a confino dentro al contado.[148] I Fiorentini, di cuore più che mai francesi, senza gridare avrebbero pagato quando fosse per unirsi a loro: ed è anche poi vero che i Francesi per [172] tutta Italia destavano sdegni subiti, ma il mescolarsi con essi aveva le agevolezze sue, che mai non furono co’ Tedeschi nè con gli Spagnoli. Rubavano, e il tolto poi si godevano co’ derubati; da noi pigliavano le mode, il lusso e molte colture della vita; Francesco I chiamava in Francia gli Artisti italiani e gli teneva in grande onore. Ma per contrario gli Spagnoli sapevano meglio dare fiducia di sè stessi ai Principi e agli uomini che s’intendevano di governo, perchè avendo essi maggior sodezza di consigli, avveniva che nel trattare con loro si andasse con più sicurezza.

Per questi modi avevano prima l’avo Ferdinando e ora Carlo V fondato in Italia la signoria spagnola. Spiegava il giovane Imperatore di tanti Stati una prudenza e un’arte consumata nel governare la guerra in Italia e la politica, per via di ministri e di generali spagnoli e stranieri. Ma la fortuna gli era stata oggi sì larga da soverchiare nel vincitore le forze dell’animo; la prigionia del suo rivale gli fu tal dono, che a rispondervi non bastavano gli accorgimenti che bene stanno nei casi ordinari. Usò egli male quella sua vittoria, che a lui fruttava una sequela di lunghe guerre e spendere tutta la vita sua per mantenere quello che il caso di Pavia gli aveva già dato: se avesse avuto la forza d’alzarsi ad un atto generoso, avrebbe egli vinto davvero e ad un tratto Francesco I ed i suoi Francesi. Ma protestando non rallegrarsi della vittoria se non al fine di tutte volgere contro al Turco le armi cristiane pacificate, chiedeva la Provenza e la Borgogna, Provincie grandi e nobilissime, come taglia per la liberazione della persona del Re: se si fosse contentato d’una forte somma di danaro, che a lui mancò sempre, e della cessione di qualche fortezza o di un confine controverso, la Francia con gioia pagava il riscatto. Francesco intanto, contro al volere del Pescara e del Borbone, quasi di furto era per mare condotto in Ispagna dal vicerè Lannoy che aveva il [173] segreto del suo Signore. Chiuso nel castello di Madrid, non fu da Carlo mai visitato, infinchè il tedio della prigionia non ebbe ridotto quella gioventù impaziente di Francesco in tale stato di languore che venne a Carlo grande paura non morisse; il ch’era lasciarsi fuggire il pegno di mano. D’allora in poi adoperando seco le seduzioni dell’amorevolezza, condusse quell’animo leggero e molle fino alla conchiusione di un trattato pel quale Francesco dava l’Italia a Carlo V, e si obbligava alla cessione della Borgogna pel solo fine d’ottenere egli la libertà della persona sua, con che però andassero in Ispagna prigioni in sua vece due suoi figli. Lo scambio avvenne a’ 18 marzo 1526: Francesco tornò allegro ai piaceri della sua Corte, ma d’allora in poi avendo perduto insieme col fiore della giovinezza prima le gioie superbe dei combattimenti, non ebbe più altro che il fasto dei vizi, e fu re povero di consigli e senza fede; perdè in Pavia per questo modo anche l’onore.

Quell’anno che scorse durante la prigionia di Francesco I fu in Italia senza guerre. Ma intanto l’imperatore Carlo V non ratificava la Lega col Papa, tenendo parte delle sue genti a vivere sulle terre della Chiesa, poichè non bastavano i campi Lombardi alla sempre avida penuria degli Spagnoli; e crudelissimo fra tutti Antonio da Leyva spremeva danari dalla città di Milano con ogni maniera d’estorsioni.[149] Il duca Francesco Maria Sforza, chiuso nel Castello, aveva intorno come un assedio di soldati dell’Imperatore, il quale alzando già l’animo alla signoria d’Italia, disegnava levarsi d’intorno quell’ombra di Duca. Ma ecco formarsi nel nome di questo un fino disegno: ne fu inventore il suo principal ministro Girolamo Morone, ingegno grandissimo di uomo politico, per quello che i tempi allora ne davano; il che vuol dire ardito e [174] scaltro ma senza fede, macchinatore da un giorno all’altro di vari disegni, pronto a voltarsi dovunque il caso e la fortuna lo attirasse, rendendosi accetto al nuovo padrone col farsi egli stesso accusatore dei tradimenti che aveva orditi il giorno innanzi. Doveva una Lega sottrarre l’Italia al giogo spagnolo; vi entravano Francia, Venezia e il Papa: i modi già fermi, le parti assegnate. Ma il forte stava nell’ottenere che il Marchese di Pescara consentisse, alzando bandiera di ribellione a Carlo V, farsi re in Napoli che egli avrebbe conquistata con le armi comuni. Svelava il Morone a lui quel disegno; ma qui l’istoria si aggira tra inestricabili incertezze, non essendo ben chiaro se l’ambizione tentasse il Pescara, o se da principio volesse mandare innanzi le pratiche infinchè non ne avesse tutte in mano le fila, o se piuttosto non si tenesse aperte due vie, non bene sapendo chi poi da ultimo avrebbe tradito. S’appigliò infine a quel partito che al suo nome era il più onorato e che dalla moglie Vittoria Colonna gli era come imposto con alte parole: ma pure seguendo la trista usanza di quei tempi, avendo in Novara chiamato il Morone, lo dava in mano d’Antonio da Leyva. L’Italia non ebbe salute da quegli uomini: il Pescara, già infermo, moriva tuttora giovane poco tempo dopo; divenne il Morone, di prigioniero, ministro e guida e caldo amico degli Imperiali.

Francesco I, quando per la libertà sua cedeva una parte della Francia, donava quello che suo non era; ed un’Assemblea di Grandi del regno, da lui radunata nella città di Cognac, annullava quella capitolazione che egli in Madrid avea sottoscritta: si tornò in guerra, ed una Lega fu tosto conchiusa tra ’l Papa, il Re, i Veneziani e il Duca di Milano, ai quali si offriva il Re d’Inghilterra prestare soccorso. Aveva Francesco promesso mandare un esercito in Lombardia, che mai non venne; già le fortezze di tutto il [175] Ducato erano in mano degli Imperiali sotto la condotta d’Antonio da Leyva e di Alfonso D’Avalos marchese del Vasto cugino al Pescara; il duca Francesco Maria Sforza era chiuso nel Castello di Milano, e la città spesso in ribellione contro agli Spagnoli che la trattavano crudelmente. Dalla parte della Lega comandavano alle genti pontificie Guido Rangone, alle fiorentine Vitello Vitelli; Giovanni dei Medici era capitano generale delle fanterie italiane, Francesco Guicciardini luogotenente del Papa con autorità presso che assoluta. L’esercito Veneziano, cui era commesso fare l’impresa di Milano sotto al comando del Duca d’Urbino, procedeva con tali cautele che apparivano soverchie, sebbene consuete a quel Capitano, e già da più anni alla Repubblica di Venezia. La Francia, che si era obbligata per la Lega a fare a sue spese scendere Svizzeri in Italia, non pagò il danaro; e quell’aiuto sempre aspettato non giunse mai. Lo Sforza, costretto dalla lunga fame, cedeva il Castello; nè il Duca d’Urbino fece mossa per soccorrerlo, nè altra impresa che l’espugnazione di Cremona. Invano era egli sollecitato di assalire Genova per terra, contro alla quale muoveano le navi di Francia con Pietro Navarro, e quelle del Papa che Andrea Doria conduceva, e quelle dei Veneziani; ma non bastava l’assalto dal mare, e già si sapeva che il vicerè Lannoy salpava dalla Spagna con molte navi. Questi però, nel passare dinanzi a Genova per andare a Napoli, non avrebbe osato impegnarsi contro a tale armata e a capitani tanto eccellenti; i quali essendo usciti fuori ad infestare la sua via, gli presero alcune navi della retroguardia e gli arrecarono molti danni prima ch’egli giungesse a Gaeta dov’era diretto.[150]

Il Papa intanto non si teneva bene sicuro quanto alle cose di Roma stessa e di Firenze; gli dava sospetto [176] l’avere tramezzo alle due parti del suo dominio la città di Siena che allora viveva nella ubbidienza degli Spagnoli: mandava soldati in compagnia di fuorusciti, che ne mutassero il governo; ma erano delle novelle Ordinanze, e per la viltà loro falliva il disegno. Volle anche il Papa assicurarsi nella città di Firenze contro ai nemici di fuori e di dentro, fortificando alcuni luoghi del contado e tutto il giro delle mura dal lato d’oltrarno, con l’aggiungervi baluardi che andassero dalla porta San Miniato su nel Poggio di Giramonte. Condusse i lavori Antonio da San Gallo, insigne architetto, ma sotto alla direzione del Navarro chiamato a tal fine, uomo di molta scienza ed invenzione, che aveva può dirsi creata l’arte delle mine, dalla quale ottenne effetti mirabili; per suo consiglio furono abbattute le altissime torri che erano a Firenze come una ghirlanda, e n’ebbe il popolo forte sdegno.[151]

Era in Italia per Carlo V Ugo di Moncada, il quale adopratosi molto a dissolvere quella Lega, perchè trovò saldo essere quella volta l’animo di Clemente, dopo avere usato in Roma superbi dispregi, pigliò altre vie. Si vantava egli essere discepolo del Valentino, e ordì una trama con la famiglia dei Colonna, i quali potenti intorno a Roma di castelli e di vassalli, si armarono: il Papa s’armò anch’egli, ma Vespasiano di quella famiglia, molto in favore presso Clemente, lo condusse ad un trattato per cui promettevano i Colonna ritrarsi nelle altre loro terre fuori dello Stato della Chiesa: il Papa licenziò i soldati. Quando ecco una notte, Pompeo cardinale ed altri Colonna e lo stesso Vespasiano con alcune migliaia d’armati tornati indietro, entrano per la porta di San Giovanni Laterano, e traversate quelle parti deserte di Roma si raccolgono al palazzo dei Colonna, donde continuarono per le vie più abitate della città; nè il [177] popolo si mosse. Diritto andarono al Palazzo del Vaticano, donde il Papa si era fuggito in Castel Sant’Angelo; e allora quelle orde, per tre ore abbandonatesi al saccheggio del tempio stesso di San Pietro e degli appartamenti pontificali, rapivano i mobili più preziosi, i vasi e gli ornamenti sacri, spogliavano all’intorno le abitazioni dei Cardinali; finchè dai cannoni di Castel Sant’Angelo furono costretti raccogliersi carichi di bottino alle case dei Colonna. La notte medesima in Castel Sant’Angelo Clemente sottoscriveva un accordo col Moncada, per cui s’obbligava a richiamare i soldati della Chiesa di qua dal Po, e le navi d’Andrea Doria dall’assedio di Genova, dare assoluzione ai Colonna e ostaggi di sua famiglia nelle mani degli Spagnoli. Per quell’accordo svanirono i sogni ambiziosi di Pompeo, al quale il Moncada avea fatto balenare dinanzi agli occhi la deposizione di Clemente e forse il papato: al Papa stesso era un preludio vergognoso di giorno più tristo.

Appena fu principiato ad eseguire quell’accordo che si chiamò Lega, tutti furono addosso a Clemente mostrando a lui ch’egli sarebbe l’uomo il più vituperato che fosse al mondo se lo avesse mantenuto. E da Firenze gli Otto di Pratica, che avevano il pondo di tutto il governo, mandarono Francesco Vettori molto suo confidente a dirgli che male poteano reggere la città.[152] Fu molto lungo l’andare e venire tra ’l Papa e il Moncada, che romperla seco apertamente non voleva; e già il luogotenente Guicciardini era venuto indietro fino a Parma; e il Duca d’Urbino, che volentieri si riposava, standosi in Mantova non faceva nulla. Giovanni de’ Medici solo continuava quant’era in lui la guerra per fato d’Italia. Imperocchè in quei giorni stessi Alfonso da Este, per la promessa di riavere Modena e Reggio, s’era accordato con l’Imperatore, [178] non che si volesse troppo dimostrare, ma intanto aveva mandato al campo degli Spagnoli quattro falconetti, che a loro furono troppo grande aiuto. Giovanni de’ Medici non lo sapeva, e nella credenza che i nemici non avessero artiglierie combattendo presso a Borgoforte, si avanzò troppo sino a che la palla d’uno di quei falconetti non lo feriva in una gamba, la quale convenne gli fosse tagliata; ed egli moriva in Mantova dopo quattro giorni. Grande uomo di guerra, che non avendo ancora ventinove anni, già si mostrava oltrechè prode sopra ogni altro soldato d’Italia, capace a condurre qualunque esercito: combatteva per allora con quelle sue Bande, che dopo lui tennero il colore nero e il nome onorato. Pareva egli mettere l’anima sua nelle battaglie: della sconfitta di Pavia fu creduto essere stata causa non ultima che Giovanni vi mancasse, perchè ferito poco innanzi, aveva dovuto farsi trasportare fuori del campo. Il Machiavelli scrivendo al Guicciardini consigliava bene Clemente, facesse al signor Giovanni rizzare una bandiera di ventura per fare guerra dove gli venisse meglio:[153] era un partito capace a salvare (se modo v’era) l’Italia e Roma. Dalla moglie Maria Salviati, figlia d’una figlia di Lorenzo de’ Medici, lasciava Giovanni un fanciullo di sette anni, di nome Cosimo, che in Toscana fu primo Granduca.

Allora senz’altro le bande fatali dei Lanzichenecchi varcarono il Po, cui agognavano da gran tempo. [179] Ne aveva condotti un qualche numero di Germania il Contestabile di Borbone insieme a un soccorso di soldati dell’Impero, e fecero molto in quelle fazioni che ebbero termine a Pavia. Poi si disciolsero mentre i Turchi devastavano l’Ungheria, dove fu morto in grande battaglia l’ultimo Re della stirpe nazionale di Santo Stefano. Ma Solimano, dopo avere conquistata Buda, tornava indietro all’improvviso; il che diede agio all’arciduca Ferdinando di aggiungere alla Casa d’Austria il regno d’Ungheria, com’egli aveva già per la moglie quello di Boemia. Quando la guerra in Italia si raccese, il vecchio Giorgio Frunsdberg, uomo principale tra’ Lanzichenecchi, fattane in Trento una chiamata, ne raccolse intorno a sè quattordici mila, i quali formarono un corpo franco, senz’altro soldo che di uno scudo pagato una volta, ma in Italia tirati dalla sete delle rapine e dei piaceri. Si componevano di borghesi delle città e di quella nobiltà inferiore che viveva nei Castelli co’ suoi vassalli e dipendeva direttamente dall’Impero; dura e fiera gente a cui la guerra era ogni cosa, e dove Lutero trovò la sua forza: l’Italia odiavano d’odio antico, e Roma odiavano come Luterani. Giorgio Frundsberg andava innanzi co’ suoi minacciando la vita stessa del Papa; nè avrebbero disdegnato di saccheggiare Firenze co’ ricchi suoi drappi di seta e il molto oro dei suoi mercanti e col grande nome che aveva nel mondo questa città. Molto si temeva che i Lanzichenecchi volessero per la via di Pontremoli entrare in Toscana; ma indugiarono lungamente, devastando le provincie di Modena e Parma, senza fare imprese dove la fatica fosse troppa rispetto al guadagno. Aspettavano il Borbone che a loro si unisse con gli Spagnoli ch’erano in Milano; ma questi negavano ostinatamente di abbandonare il grasso vivere che ivi facevano con l’oppressione esorbitante dei poveri cittadini, e non si mossero finchè il Leyva con altre estorsioni e più inique non avesse spremuto [180] danari, dei quali potessero i soldati contentarsi. Tedeschi e Spagnoli si univano allora di qua dal Po sotto al Borbone, ma era incerto da quale parte anderebbe à volgersi la tempesta. Bene potevano a stornarla bastare le forze che aveva il Papa in Lombardia, perchè oltre ai soldati suoi propri e che erano condotti da Guido Rangone, combattevano per la Lega gli uomini d’arme francesi e svizzeri, i quali ubbidivano al Marchese di Saluzzo; e il Duca d’Urbino con tutto l’esercito dei Veneziani. Francesco Guicciardini luogotenente generale aveva ottenuto che i due primi passassero il Po; e da Bologna, dove si era trasferito, sollecitava con lunghe istanze il Duca d’Urbino si unisse con gli altri alla difesa del Papa; ma il Duca aveva un suo disegno di cauta lentezza, dal quale in nessun modo si voleva dipartire: un altro pericolo aveva frattanto commosso l’animo di Clemente. Gli Spagnoli che abbiamo veduti passare dinanzi a Genova col Signore di Lannoy, discesi al porto di Santo Stefano in Toscana, potevano tosto condursi a Roma, dove le difese erano scarse, poichè un assalto dal Papa tentato sul Reame finiva col guasto dei luoghi forti e delle ville dei Colonnesi. Clemente allora, com’era consueto, si diede a cercare accordi, ai quali trovò inclinato il Vicerè per le istruzioni che seco aveva recato di Spagna, di non procedere troppo innanzi contro al Papa, nè troppo commettersi al Borbone ed ai Tedeschi, i quali facevano le cose di proprio loro capo, senza molto dipendere dall’Imperatore. Il Vicerè della persona sua veniva in Roma ed a Firenze, donde era bisogno cavare il danaro che al Papa mancava: non era questi solito abusare le cose sacre, quanto Leone ed altri avevano fatto, nè mai si ridusse a creare Cardinali per moneta, sebbene potesse averne oltre a cento mila ducati; gli stava appresso Matteo Giberti vescovo di Verona, uomo da bene, da lui molto amato. L’accordo si fece, ma perchè avesse esecuzione bisognava fermare [181] il Borbone, al quale i danari sempre erano pochi, per la grande voglia che avevano egli ed i suoi soldati d’andare innanzi. Il Guicciardini scriveva in Roma, che senza un forte provvedimento sarebbero stati una mattina presi nel letto: il Papa invece fidandosi, licenziava in quelli estremi Renzo da Ceri e le Bande Nere chiamate alla guardia di Roma stessa; e il Borbone procedeva, e traversati gli Appennini era entrato in Toscana. Guido Rangone e il Marchese di Saluzzo e il Duca d’Urbino lo seguitavano disuniti fra loro e lontani. I nemici erano in Val d’Arno, entrativi dalla parte d’Arezzo, e guastavano il paese; ma intorno a Firenze giungevano in tempo i soldati della Lega: la città fu salva, ma poi vedremo da quale tumulto fosse agitata. Prometteva il Duca d’Urbino al Guicciardini pigliare un qualche forte alloggiamento quanto più potesse accosto ai nemici, donde vessare quelle sbandate soldatesche, tanto da impedire ad esse il raccogliersi e andare innanzi; ma nulla fece allora nè poi: e il Borbone, camminando spedito senza artiglierie, apparve a’ 4 di maggio 1527 su’ prati di Roma da quella parte che è tra ’l Gianicolo e San Pietro.[154]

Ai 5 il Borbone ordinò le genti sue, e la mattina del 6 appresentò la battaglia dove il Borgo non aveva muro continuo, ma ben vi era fatto qualche riparo di terra. Sul primo mattino la nebbia era grande, la quale impediva ai difensori dirizzare le artiglierie; dentro erano poche milizie di conto e servitori armati del Papa e dei Cardinali, ma combatterono gagliardamente e al primo assalto ributtarono i nemici. Voleva il Borbone fargli tornare ai ripari, e andando innanzi agli altri fu morto da un colpo d’archibuso: il traditore non giunse al premio del suo delitto. La mischia divenne più fiera e confusa; il Cardinale dei [182] Pucci, vecchio e debole, stette sempre in mezzo, confortando i difensori e ingiuriando di parole gli avversari, finchè mezzo morto non fu tirato nel Castello, dove il Papa si era fuggito a gran fatica nel corridore; e vi si ridussero molti Signori e Cardinali. Fu preso il Borgo, dove i soldati non trovando molto da rubare dopo il sacco che avevano fatto quivi e in palazzo i Colonnesi, andarono per la via di Trastevere, benchè rimasti senza capo, ma uniti alla preda; e perchè ai ponti non era guardia, entrarono nella parte di Roma abitata e ricca. «Ammazzarono chi vollero; predarono le piccole case, le mediocri, le botteghe, i palazzi, i monasteri d’uomini e donne, le chiese: feciono prigioni tutti gli uomini e donne ed insino ai piccoli fanciulli, non avendo rispetto a età, nè a sacramenti, nè a cosa alcuna. L’uccisione non fu molta, perchè rari uccidono quelli che non si vogliono difendere; ma la preda fu inestimabile di danari contanti, di gioie, d’oro e d’argento lavorato, di vestiti, d’arazzi, paramenti di case, mercanzie d’ogni sorte; ed oltre a tutte queste cose, le taglie che montarono tanti danari, che chi lo scrivesse sarebbe tenuto mentitore. Ma chi discorrerà per quanti anni era durato a venirvi del continuo danari di tutta la cristianità, e la maggior parte d’essi restava; chi considererà i cardinali, i vescovi, i prelati, gli ufficiali che erano in Roma; chi penserà quanti ricchi mercanti forestieri, quanti romani, i quali vendevano tutte le loro entrate care, ed affittavano le loro case a gran pregio nè pagavano alcuna tassa o gabella; chi si metterà innanzi agli occhi gli artigiani, il popolo minuto, le meretrici; giudicherà che mai per tempo alcuno andassi città a sacco di quelle che s’abbi memoria, donde si dovesse trarre maggiore preda.[155]» Alle rapine si aggiungeva lo scherno; prelati seminudi condotti per Roma o esposti all’insulto nei [183] quartieri dei soldati. Era una vendetta covata nei secoli, e Roma e l’Italia in quel giorno ebbero punizione: le ingiustizie d’allora in poi mutarono sede, avendo sostegno da una forza più ordinata, ma insieme più dura e più materiale. Il sacco più giorni continuato cessava, quando il Papa ebbe consentito rimanere prigioniero degl’Imperiali con asprissime condizioni: lo Stato intero della Chiesa venne a dissolversi, quello di Firenze già era caduto di mano a Clemente.

Capitolo VII. NICCOLÒ MACHIAVELLI — FRANCESCO GUICCIARDINI MICHELANGELO BUONARROTI. DESCRIZIONE DELLA CITTÀ E STATO DI FIRENZE.

Pochi giorni dopo a che erano avvenuti questi fatti, moriva Niccolò Machiavelli. «L’universale per conto del suo Principe l’odiava: ai ricchi pareva che quel libro fosse stato un documento da insegnare al duca Lorenzo tor loro tutta la roba, e a’ poveri tutta la libertà. Ai Piagnoni pareva ch’ei fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più tristo o più valente di loro; talchè ognuno l’odiava.» Queste cose scrive del Machiavelli Giovan Battista Busini. E il Varchi dice di Niccolò, che «se all’intelligenza che in lui era de’ governi degli Stati ed alla pratica delle cose del mondo, avesse la gravità della vita e la sincerità de’ costumi aggiunto, si poteva per mio giudicio piuttosto con gli antichi ingegni paragonare, che preferire ai moderni.» Dal Cerretani suo contemporaneo è detto «uomo da servir bene la voglia di pochi;» al che risponde il soprannome di mannerino, che a lui diede in altro luogo. Il Machiavelli, nato di antica stirpe, non ottenne [184] grado per cui s’innalzasse nella Repubblica; ebbe commissioni piuttostochè uffici; e segretario dell’uffizio dei Dieci non vuole confondersi con quei segretari cancellieri della Signoria i quali tenevano il filo delle faccende perchè non mutavano co’ magistrati. Alle maggiori ambascerie andava nel secondo grado, e di quel mirabile suo osservare e giudicare le cose del mondo, allora in Firenze si accorgevano poco, tenendolo come persona ambigua e che fosse mandato a rincalzo oppure a guardia degli ambasciatori. Piero Soderini lo adoprò molto dentro e fuori, avendo in lui fede sino all’ultimo; il che non tolse a questi di mettere subito dopo in canzone il suo patrono che si era lasciato cavare di seggio con la innocenza d’un bambino. Mai non si trova che il Machiavelli tradisse chi egli serviva, ma dei caduti più non sapeva che farsi e gli obliava. Nemmeno ebbe accusa di essere avido di guadagni, egli che nacque e visse povero, tanto che appena gli fu tolto servire lo Stato, temè «divenire per povertà contemnendo.» I Rucellai amici suoi lo sovvenivano, dilettandosi molto della sua conversazione: in quegli Orti loro viveva famigliarmente coi più ingegnosi giovani che allora fossero in Firenze; il Guicciardini, lo Strozzi, il Vettori avevano seco frequenza di lettere, amando giovarsi delle argute cose ch’egli notava, ma più di rado de’ suoi pareri: quando venivano a Roma di queste lettere, Clemente VII voleva gli fossero lette, ma poi dell’uomo non si fidava.

Pure Niccolò da quella sua povera villa presso San Casciano scriveva al Vettori, nei primi mesi di Leone, quanto egli bramasse uscire di lì «e dire, eccomi!» — «Vorrei che questi Signori Medici mi cominciassero adoprare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perchè se io poi non me li guadagnassi, io mi dorrei di me. — Della fede mia non si dovrebbe dubitare, perchè avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi [185] è stato fedele e buono quarantatrè anni che io ho, non debbe poter mutar natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia.» Passarono gli anni, e i Signori Medici non l’adoprarono, nè il Governo popolare nei primi suoi giorni mostrò fare caso di lui. Solo una volta sugli ultimi della vita di Leone gli Otto di Pratica lo mandarono in Carpi al Capitolo dei Frati Minori per cose che importavano al governo della provincia di quell’Ordine, e per cercarvi un predicatore: del che nelle scambievoli lettere egli e il Guicciardini, fanno i grandi motteggi. Quattr’anni dopo andò a Venezia, mandato dai Consoli dell’Arte della Lana per la recuperazione di certi danari. Più tardi il Guicciardini Luogotenente all’esercito della Lega lo mandava in proprio suo nome al Campo sotto Cremona perchè sollecitasse il Duca d’Urbino a torsi di là, dov’era un perdere l’opportunità di prender Genova. Da ultimo andava, mandato dagli Otto, a stare presso al Guicciardini nella infelice guerra la quale condusse al Sacco di Roma, e rimase presso lui sempre sino a che non fu mutato lo Stato in Firenze.

Per tal modo passarono gli ultimi quindici anni del Machiavelli, che nella stessa famosa lettera da noi citata racconta la vita che egli faceva standosi in villa. Usciva innanzi giorno ad uccellare mettendo le panie da sè; poi badava ai tagliatori di certe sue legne e alla vendita delle cataste; di lì con un libro sotto il braccio andato ad un fonte, leggeva gli Amori dei Poeti Latini, si ricordava de’ suoi e godeva un pezzo in questo pensiero. Stava un poco sull’osteria; dopo mangiato vi ritornava, dove con l’oste ed un beccaio ed un mugnaio e due fornaciai giuocava a cricca infino a sera, gridando con loro e combattendosi un quattrino, sì che gli sentivano da San Casciano. «Così rinvolto (continua) in questa viltà traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se [186] ne vergognasse. Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull’uscio mi spoglio quella veste contadina, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono: e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro.»

Tale era quell’uomo. A lui non si disdiceva esercitarsi tutte le ore della giornata nella conversazione degli uomini abietti, nè molto mi pare gli costasse farsi triviale con essi. La sera poi, solo nel suo scrittoio alzava il pensiero fino a quei grandi antichi uomini che avevano fatto le grandi cose: da quell’insieme di vita uscirono i libri del Machiavelli. Vestiva egli panni reali e curiali quando gli accadeva di chiudersi nella solitudine del suo pensiero, ma nel comune abito del conversare a lui mancavano la gravità e il decoro che pure ci vogliono a condurre gli altri e farsi autorevole; nè lo tenevano come uomo di Governo coloro medesimi che più gli erano familiari. Da questo non essere egli mai stato a capo di molti in grandi faccende proviene, a mio credere, che nonostante quel mirabile suo acume, gli scritti di lui non siano pratici abbastanza, come di chi avesse fatto le cose da sè, le avesse fatte più che guardate, e nel contendere giornaliero avesse dovuto gli altri saggiare sotto ogni aspetto. Dice egli stesso, che «a conoscere bene la natura de’ popoli bisogna esser principe, ed a conoscer bene quella de’ principi bisogna essere popolare.[156]» Parve a me sempre che il Machiavelli conoscesse [187] gli uomini meglio che l’uomo, gli conoscesse per quello che fanno essi in comune e che importa direttamente alla vita pubblica; ma non gli guardasse o intendesse per quello che sono, ciascuno in sè stesso, e in casa e in famiglia; le quali cose fanno ostacoli ai quali non pensano gli ingegni speculativi, ma bene gli sentono i veri pratici del Governo. Inoltre non ebbe il Machiavelli scienza bastante nemmeno dai libri; fu meno dotto di molti in Italia nell’età sua, di greco non sapeva, e tra i latini solo agli storici avea posto mente; nè la scienza intera dell’uomo gli avevano data gli antichi scrittori. Innanzi gli stava il popolo della Repubblica di Firenze ed al suo tempo le disperate sorti d’Italia come esempi del male; il buono e il grande nell’antichità cercava, e quindi a lui venne l’abito di tenere gli occhi volti indietro, professando quella sentenza, che sia mestieri gli Stati corrotti ricondurre ai loro principii; il che è un cercare rimedio alle cose fuori di loro medesime, cioè in quel loro essere che è svanito. Molte sentenze del Machiavelli, che sono frutto di quel suo ingegno essenzialmente speculativo, riescono in fatto meno applicabili ai singoli casi; donde hanno falsato il pensiero di coloro che troppo seguirono la scuola del Machiavelli.

Non ha egli, nè credo la lingua italiana, pagina che agguagli quella Esortazione a liberare l’Italia dai barbari, la quale sta in fondo al libro del Principe. Qui vanno del pari e fanno tutt’uno l’affetto e il pensiero; qui è l’espressione di un ideale che ha fonte nel vero. Un intelletto qual era il suo, doveva bene farsi capace come nessun rimedio fosse bastante finchè l’Italia non avesse grandezza e forza da stare appetto delle altre nazioni; era un’idea senza possibile attuazione, ma una idea che allora nasceva e già cominciava per molti ad essere un affetto. L’avevano destata i nostri danni e le vergogne, la prova fatta della impotenza nostra e il soprastare di quelle nazioni che [188] da noi erano appellate barbare perchè più rozze, ma nelle quali era più forte compagine, e più attitudine al comando perchè meglio di noi sapevano ubbidire. Finchè a tal prova non si venisse, un Duca in Milano e una Repubblica in Firenze avevano bene potuto contare qual cosa nel mondo: oggi era intristito e pieno di scoramento il vivere delle città italiane prima lussureggianti; e questa Italia da un capo all’altro sentì ad un tratto la sua miseria. Il Machiavelli avea veduto le altre nazioni farsi potenti nella unità, e perchè avevano armi proprie; conobbe la forza delle Fanterie che ubbidiscono ad un capo solo e vanno insieme come un popolo ordinato, costrette da un vincolo e da una necessità comune. Scriveva pertanto i libri sull’Arte della Guerra, i quali formassero a disciplina questo scorretto popolo italiano; volendo, quanto era in lui, che fosse esercitato nelle armi per via di quelle milizie provinciali intorno alle quali poneva egli stesso quelle molte cure che abbiamo già detto. Aveva egli colto sul vivo le cause della debolezza nostra; nè fu sua colpa se il pensiero di lui rimase, quanto alla pratica, di nessun effetto.

Quel fine solo che egli ebbe sempre dinanzi agli occhi, cercare la forza, era lo stesso a cui tendevano già tutte al suo tempo le cose del mondo, ed era la prima forma del pensiero politico in quella età che noi siamo costretti chiamare di risorgimento. Abbisognava innanzi tutto frenare il disordine del Medio evo, il che si fece spianando le buone cose e le cattive sotto al regolo del Principato. Vi guadagnarono le nazioni grandi maggior sicurezza di loro medesime, e più attitudine ai grandi fatti e alle grandi opere; la libertà crebbe quant’all’esercizio della vita giornaliera, donde sparirono molte disuguaglianze secondo i luoghi e soverchierie private le quali impedivano al corpo intiero delle nazioni l’unirsi all’acquisto dei loro diritti. I mezzi usati in quella età dai grandi [189] Principi per tirare a sè ogni cosa, furono ingiustizie e frodi e violenze; ma dove una monarchia forte avea fatto una nazione grande, il fine poteva cuoprire le colpe state ministre ad un tale effetto. Fra noi la frequenza dei peccati gli aveva ridotti in canoni di politica: qui era un contendersi tirannie brevi, angusto il campo, l’urtarsi continuo; i nuovi Signori non aveano tempo di farsi un popolo che gli sostenesse; pensieri di Stato non si poteva pretendere che allignassero tra quei Principi dai quali traeva i suoi esempi il Machiavelli. Studiava egli i modi atti all’acquisto di un principato, e non s’accorgeva quei modi stessi poi divenire impedimento a che avesse mai buono e stabile fondamento. Di tali modi fu maestro sommo sotto ai suoi occhi il Valentino: costui fece prova di grande accortezza quando egli seppe tutti in un giorno levare di mezzo i Condottieri che egli temeva; ma che un tale atto e più altri somiglianti dovessero poi farlo guardare universalmente come peste pubblica ond’egli da tutti fu abbandonato, questo nè il Valentino nè il Machiavelli suo lodatore aveano saputo antivedere. Al Machiavelli mancò la scienza ch’io dissi dell’uomo, la quale comprende in sè la scienza della umanità mostrando certi uffici scambievoli ch’è necessario mantenere, e certi limiti delle umane cose, i quali ogni volta che sieno oltrepassati, si cade nel vuoto. L’arte politica in Italia fu per due secoli l’arte propria dei venturieri; a quella scuola si formò il genio del Machiavelli, e quelli erano i suoi rozzi panni dei quali mai non potè spogliarsi. Nè quel suo Principe educò ad altro, nè l’idea di Stato come oggi s’intende e dove il Principe fosse un magistrato, idea che al suo tempo cominciò a spuntare, fu mai pensata nè antiveduta dal Machiavelli.

Ma fu egli tenuto malvagio al di sopra dell’uso che era comune in Italia così tra i popoli come nelle corti, ond’è che da lui pigliassero nome le arti peggiori. [190] Che avesse egli malvagio il pensiero si scorge ad ogni tratto nei suoi libri: nelle commedie mette innanzi personaggi malvagi tutti, come se quella fosse l’essenza dell’uomo; dice in un luogo, che «gli uomini non operano mai nulla bene, se non per necessità:» il che è vero nei popoli, quando non sia la forza delle leggi freno ai disordini; ma non è poi vero sempre dell’uomo in sè stesso e in tutta la vita. In quella crudezza di sentenze disperate quali era egli solito adoperare, calunniava perfino sè stesso, perchè nella vita di lui non troviamo scelleratezze nè tradimenti, nè atti nei quali per utile proprio fosse egli autore del male degli altri. Malvagio cred’io avesse l’ingegno, l’anima corrotta da quella medesima disperazione del bene che pare cogliesse tutti in quel secolo gli Italiani. Loda «la fraude, la quale è meno vituperevole, quanto è più coperta.» Vero è che sono altri scrittori politici di nome grandissimo e non italiani, che dicono essere cosa lodevole ingannare; ma se nel vivere e nel sentenziare riciso e sicuro del grande scrittore mancò la vergogna, non è maraviglia se i tristi lo tennero peggiore di loro. Alla fierezza, alla potenza inarrivabile del suo scrivere, alto e popolare nel tempo medesimo, che ha del solenne e dello sprezzato e sotto alla toga romana conserva l’ardito atteggiarsi dell’uomo di San Casciano; a quelli effetti i quali vengono dallo scrittore, si deve, io credo, non rare volte certa sovrana autorità che ai suoi dettami venne concessa.

Nel Machiavelli però mi sembra scorgere l’immagine e la espressione di quello che era l’Italia al suo tempo. D’ingegno elegante e fecondissimo, di costumi sciolto; acuto mirabilmente nell’intendere, ma senza che i fatti corrispondessero al pensiero; vestendosi a un tratto la toga curiale, ma la vera sua grandezza chiudendo in sè stesso e ingallioffandosi poscia tra plebee sozzure ed infamie principesche; [191] rinvolto nella muffa della viltà per isbizzarrire la fortuna e vedere se la se ne vergognasse; e dopo lungo esercizio in cose di Stato, ambizioso di servire a chi reggeva: ammirato e vilipeso, usato e negletto; posto a segnale di colpe perchè maestro e perchè infelice; e nei maneggi politici mescolato a’ Principi egli maggiore d’ognuno di loro, senza solennità di carattere e senza forza che lo munisse; sopportando superbie indebite, e con indebiti dispregi e odii vendicandosi. E della politica sentiva come sentiva l’Italia: ad alto fine intendeva, alti concetti agitava; ma erano forze abusate, grandezze corrotte, che nella inopia de’ mezzi e nella disperazione, come le aquile romane i giorni della sconfitta nel fango giacevano. Nè spenta era la religione più nel pensiero di lui che in quello d’Italia: come alta cosa la riveriva, come italiana l’amava; poi per isdegno del malgoverno da cui la vedeva deturpata, con ischerni l’assaliva; e con i vizi la cancellava dal core suo. Tale fu il Machiavelli e tale l’Italia.


Se in quegli anni era tra noi chi potesse mostrarsi co’ fatti grande uomo di Stato, io credo che innanzi a tutti starebbe il nome di Francesco Guicciardini. Nato quattordici anni dopo al Machiavelli, non ebbe egli tempo di fare suo proprio l’antico vivere di Firenze; ma uscito appena dalla puerizia vidde altre genti ed altre scuole regnare in Italia, e in quell’età quando ciaschedun uomo si forma l’abito del pensiero, dovette la mente di lui allargarsi a cose maggiori, sebbene costretta guardarle dal basso. Compieva l’educazione sua fuori di Firenze, avendo tre anni studiato in Padova la ragion civile; donde tornato in patria, fu a ventidue anni condotto a leggere l’Istituta, esercitando anche con molto suo frutto e molto onore l’avvocheria. Prima di trent’anni e fuor d’ogni esempio andò in Ispagna, come si è visto, Ambasciatore per [192] la Repubblica. Dalla disciplina del padre avea attinto costumi gravi, oltre all’usanza dei pari suoi; la professione di giureconsulto poi gli mantenne, siccome quella che sta nel cercare dentro al viluppo dei fatti umani la relazione ad un principio alto e immutabile che è il diritto, a cui s’accompagna per necessaria congiunzione l’idea del dovere: per questo i veri giurisperiti quando sien messi a governare, vi recano sempre qualcosa insieme di più elevato e di più pratico. In quanto all’arte politica, io non dirò già che il Guicciardini ne avesse in Ispagna una molto virtuosa scuola, ma trovò uno Stato allora sul colmo, e dimorò un anno presso ad un Re che a tutti era reputato maestro; nè avrebbe di meglio appreso in Italia.

Sebbene fosse egli alieno da ogni concetto speculativo e sempre vivesse in grandi faccende, pochi altri scrissero quanto lui; ma era lo scrivere a lui una parte di quel lavoro d’osservazione che egli cercava ridurre a scienza, per quindi usarla nei pubblici fatti. Abbiamo oggi a stampa molti suoi scritti che prima giacevano negli archivi della famiglia: la storia di Firenze, opera giovanile, a noi è già nota; e vi è un trattato su questa Repubblica in forma di dialogo; poi vari discorsi intorno al Governo della città nelle tante mutazioni allora patite, ma il maggior numero scritti per assicurare lo Stato ai Medici; poi oltre al carteggio di Spagna, quello da lui tenuto nei vari governi ch’egli ebbe in Romagna ed altrove per la Chiesa, ed il carteggio dei Commissariati e della Luogotenenza generale nella guerra del Papa con Cesare. Le lettere a noi sono esemplare di bello scrivere signorile; per la materia l’importanza loro riesce grandissima, ed esse onorano generalmente il Guicciardini. Quelle dell’ultima guerra che finì col Sacco, mostrano con quale alto esercizio d’autorità facesse quanto era in lui per tenere fedeli all’obbligo e all’onore loro il Duca d’Urbino e il conte Guido Rangoni, al quale [193] aveva diritto di comandare. Dipoi lo troviamo con appassionata sollecitudine adoperarsi, ma invano, a cavare il Pontefice di prigione, dispiegando egli solo in tanta ruina virtù e consiglio che nulla lasciano da desiderare.

In altri scritti, o riandando le cose a bell’agio o anche pigliando a esaminare punti difficili a risolvere in vari tempi e in vari luoghi, discuteva egli il pro e il contra dei partiti da pigliare, a fine di studio; al quale fine altri lavori si trovano fatti per uso suo proprio. Vi hanno per ultimo un grande numero di pensieri politici: in questi mostra egli volere come tirare una quintessenza delle cose da lui osservate o fatte da lui, non senza pigliare a esame sè stesso, quasi egli volesse formarsi una dottrina politica in tutte le varie sue parti quanto più fosse possibile sufficiente. Imperocchè dalle date che sono apposte a questi ricordi, si vede com’egli nei tempi d’ozio ne scrivesse molti insieme, richiamando nel suo pensiero le cose fatte e le vedute in quell’intervallo, perchè servissero a lui come canoni al giudicare e norme all’oprare. Di tale ostinato lavoro di riflessione che in lui si faceva, è prova solenne l’Istoria d’Italia: niun’altra l’agguaglia quanto alla moltiplicità dei fatti che dentro vi stanno, ciascuno al posto che gli si appartiene, con le cause che gli produssero e con gli effetti che ne seguirono, essi stessi divenendo cause di altri eventi. Pregio sommo di quello storico è la comprensione dei fatti minuti, che per legami sovente oscuri si uniscono a rendere inevitabili quelle conseguenze d’onde poi si muta la sorte dei popoli. Fu proverbiale contro al Guicciardini l’accusa d’averci descritto le guerre di Urbino e di Pisa con troppo minuta e spesso noiosa diligenza; ma non poteva egli narrare un fatto senza fermarsi a porre in chiaro le circostanze della riuscita, non che gli errori per cui falliscono i disegni. Voleva con quella sua Istoria dare insegnamenti a [194] chiunque abbia mano in cose di Stato o in cose di guerra.

Quanto a sè, non ebbe egli mai le mani libere come chi governa la patria sua o la sua parte, facendo le cose che ama e che vuole e in quelle ponendo tutto sè medesimo: si lagna invece come di sua sventura l’avere dovuto ne’ più alti gradi servire a due Papi, egli che odiava i vizi dei chierici. Ma era comune sorte ai politici italiani, servire cause che niuno di essi poteva amare se non per proprio suo guadagno, ed alle quali non avrebbe in fondo dell’animo bramato vittoria. Quando in Italia sorse la coltura, cominciò gigante, perchè una grande contesa occupava di sè tutti gli animi e tutti i pensieri; molti papi furono grandi politici, e nell’opposto campo Matteo da Sessa e Pier delle Vigne poteano esser tali, perchè seguivano una parte che aveva in sè un vero e che era comune a un grande numero d’Italiani. Ma questa coltura progredì ornandosi mentre si fiaccava, nè il Guicciardini ebbe una bandiera cui seguitare con alto animo e volontà forte, più che non l’avessero quei condottieri delle milizie pei quali divenne la guerra una scienza, intanto che ogni virtù militare veniva a spegnersi in Italia. Tale in politica fu il Guicciardini; e finchè basti ad onorare il nome suo l’avere servito con fede e nel governare mantenuto non che il decoro delle apparenze ma un sentimento dei suoi doveri, potrebbe essere egli tra’ nostri politici tenuto il migliore. Il che non vuol dire che fosse buono; era accusato d’animo duro, superbo ed avaro. Quest’ultima accusa credo gli venisse dai rigidi modi nell’amministrare; in quanto a sè, netto fino al non sapere come procacciarsi danaro alle doti da maritare le sue figliole. Duro e superbo era egli; inclinava piuttosto al crudele che al fraudolento; a chi governa giudicava essere buona ogni cosa pure di riuscire, ma dentro a sè stesso la regola d’una legge parea che sentisse. A [195] lui non andavano le massime scellerate, come si vede ne’ suoi Ricordi; che gli uomini fossero tutti malvagi necessariamente e sempre, dichiara sentenza bestiale ed assurda. Ai Principi (dice) torna gran conto apparire buoni; ma tosto aggiunge che la necessità di mantenere coteste apparenze dovrebbe nel fatto mostrare ad essi come il più sicuro modo sia essere tali. Si scorge in più tratti come egli intravegga il vuoto delle grandezze, e in certi appunti della sua vita scritti a trent’anni, e per lui solo, confessa a Dio la vita mondana, la quale non s’era per anche indurita in colpe maggiori.

Era il governo per lui un fatto, nè alla libertà credeva, nè alla virtù delle forme. Di genio andava con gli Ottimati, pel grande dispregio in che ebbe i Consigli e i voti popolari; non si vede però che cercasse, come altri al suo tempo, fondare un governo sull’esemplare dei Veneziani; ma costretto stare co’ Medici, che egli non amava, questo solo avrebbe voluto, che sotto a quell’ombra governassero i più capaci, primo egli fra tutti. Non gli repugnava dare al Papa il consiglio di porre lo Stato di Firenze in mano a pochi senza temerne pericolo; perchè (diceva egli) quei pochi avendo il campo libero agli arbitrii, saprebbero anche d’essere in odio all’universale; il che gli terrebbe più stretti a quella Casa il cui nome era una forza. Cotesti consigli non erano buoni: ma peggio fu quando i Medici essendo tornati principi, si trovò a questi sospetto, come uomo troppo alto locato, intanto che a lui rodevano il cuore le ire superbe contro agli uomini popolari che avevano osato sì a lungo resistere. Allora i consigli da lui dati al Papa, che sono impressi in più discorsi, mostrano ch’egli nè avrebbe voluto un principe effettivo, nè altro saputo raccomandare se non quel suo solito governo di pochi. Ma era troppo tardi; e già Clemente, si era sentito le mani libere quando ebbe visto l’Italia tutta ammutolita dalle armi straniere; [196] e il Guicciardini, che ad ogni modo era costretto a volere lo Stato de’ Medici, sfoggiando in durezza e inacerbito dalle private sue passioni, fu crudele nel confinare chiunque avesse potuto dare ombra. Ma pure temeva si potesse dire che aveva fatto poco; del che si scusava col mettere fuori la necessità «di mantenere viva la città a fine che questo non sia uno Stato senza entrate, che non vuol dir altro che un corpo senz’anima.» Il Guicciardini lasciava di sè memoria odiata nella patria sua.


Mi è caro questa rassegna d’ingegni pei quali ha grandezza l’istoria nostra, finire col nome di Michelangelo Buonarroti. Sugli ultimi due che abbiamo notati pesarono gravi le colpe del secolo a cui appartennero; ma il Buonarroti ebbe natura e ingegno che sembrano del tempo dell’Alighieri e si direbbero come usciti seco dal masso medesimo. Che se il Poeta si può inalzare più in su dell’Artista, ciò viene in lui non che dalla qualità del fine, dalla eccellenza dei mezzi che ad esso conducono; l’ingegno suo vive nell’esercizio d’un pensiero più alto e più vario e senza confine, contempla continuo gli aspetti e le forme e le imagini delle cose guardandole dentro all’anima sua, e fuori nella universalità del mondo; adopra incessantemente di sè stesso la parte più degna. Ma invece l’artista, perchè delle cose non può altro rendere che le parvenze, esprime con l’uso di mezzi meccanici quella imagine che egli ha concetta; lo studio tecnico, a lui necessario, gli porta via troppa gran parte di sè, non dice intera la sua parola. Nessuno mai ebbe nè tanto facili come il Buonarroti nè tanto possenti i mezzi dell’Arte, ond’è che niuno mai lo agguagliasse in quanto all’esprimere gli alti concetti per via d’imagini figurate. Continuò fino alla vecchiezza lo studio paziente ed ostinato dell’anatomia del corpo umano; vivea su’ cadaveri quell’uomo di [197] tanta autorità e fama le intere giornate, cercando nel morto come si muovessero i muscoli, e in essi dipoi col pensiero suo divinatore mettendo la vita. Di questa sua scienza faceva uno sfoggio che può alcune volte parere soverchio; ma intanto fu egli il più ideale degli Artisti antichi e moderni. In questo amore, in questo sentimento dell’ideale stava il movente della forza per cui fu creatore il genio del Buonarroti: andava sempre più in là dei mezzi che l’arte gli dava, sebbene avesse la facoltà di trarre da un marmo alla prima l’ingombro del masso informe nel quale vedea la figura che avea concetta nel suo pensiero, e a farla uscire fuori mandasse giù colpi del fiero scalpello.

Sentiva altamente la bellezza; ma questa mi pare facesse consistere piuttostochè nella assoluta squisitezza delle forme, in quella imagine che a lui raffigurasse meglio l’idea della mente, e che non di rado cercava esprimere con la poesia scritta. A questa però non aveva egli avuto scuola nè fattosi abito sufficiente, ond’è che fallisse molte volte a lui lo strumento, sebbene adoprato con grande fatica. Quel ch’egli aveva immaginato, fidava sicuro all’opera della mano; e quanto più andava in là per tal modo, tanto più lontano poneva quel segno al quale avrebbe voluto condursi col mezzo della parola. Sono di lui molte poesie, che più tardi andarono a stampa non so s’io mi dica rifatte o disfatte da uno della famiglia sua. Ora ne abbiamo, grazie al signor Guasti, il primo getto qual era uscito dalla penna del Poeta: io non mi perito di chiamarlo tale, sebbene a lui mancasse l’arte di fare i bei versi, e desse alcune volte nell’astruso o in quei troppo arguti concetti ai quali il secolo già inclinava: sono spesso embrioni di liriche, a cui l’Editore ben fece d’aggiungere una interpretazione. Ma in tutti i luoghi dove al Buonarroti riesca in parole scolpire il pensiero, e dove il concetto abbia intera e limpida espressione, ogni volta insomma che trovi egli modo a scrivere la sua [198] poesia come già dentro a se stesso l’aveva sentita, è grande poeta.

Come nell’arte Michelangelo tenne un luogo dove egli era solo, così mi pare lo tenesse in tutta la vita, che a lui durava lunghissimi anni. Accolto all’uscire dalla fanciullezza nella casa ed alla mensa di Lorenzo de’ Medici, e avendo fino dalla gioventù destata di sè maraviglia, fu tosto chiamato alle grandi opere del principio del pontificato di Giulio II, che volle di lui fare una gloria del suo regno. Il Papa lo amava, nè poteva stare senza lui; ma impetuosi com’erano entrambi, facilmente si guastavano tra loro e tosto venivano alle rotte. Il Papa una volta discorrendo di lui e dell’eccellenza sua diceva: «ma è terribile, come tu vedi; non si puol praticar con lui.» Si direbbe che l’uno dell’altro avesse paura: essendo Michelangelo una volta fuggito da Roma, dovette il Papa quasi pregando e con intromessa d’altri farlo andare a Bologna perchè gli facesse in bronzo la statua, che poi fu distrutta dal popolo bolognese. Sentiva altamente di sè e dell’arte, superbo non era: abbiamo di quel tempo le lettere di Michelangelo alla sua famiglia, soccorsa da lui e quasi governata con cure paterne; ma per la modesta gravità delle sue parole non si direbbe fosse egli nè tanto giovane nè tanto grande: una volta che un suo fratello aveva voglia di andare a Bologna, scrisse non lo lasciassero andare perchè (aggiungeva) «Son qua in una cattiva stanza e ho comperato un letto solo nel quale stiamo quattro persone, e non arei il modo raccettarlo come si richiede.» In Roma gli Artisti grandi vivevano lautamente: Raffaello aveva ornata una sua casa, usciva con grande accompagnamento, e per poco non fu cardinale. Michelangelo ebbe altre glorie, nè fu chi ne avesse al pari di lui: era invalso chiamarlo il divino; due suoi discepoli ne scrissero e pubblicarono la vita mentre era ancor vivo: i Principi stessi a lui facevano di berretta.

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Molto aveva guadagnato, ma non mutò quella sua semplice vita: aveva ottant’anni quando gli moriva un suo carissimo servitore chiamato l’Urbino, e scrisse di quella morte al Vasari con sì profonda verità d’affetto, che non può egli tanto essere ammirato da noi per l’ingegno che più non sia amato per quelle parole: respira in esse quell’alto sentire in fatto di religione, che fu tanta parte della sua natura di uomo e di artista. Il secolo declinava, e il sommo ideale già si era abbassato per due contrari versi nel mondo diviso. Pare a me che il Buonarroti rimanesse ultimo nell’antica altezza; non si abbassò mai fino alla critica che tutto distrugge, nè avrebbe sofferto sentirsi nell’animo turbata la fede. Non rinnegava però l’umanità, ma suo studio era torne via il troppo (ha questa imagine nelle sue rime), come faceva del rozzo marmo perchè di dentro a quello uscisse una divina figura. In questi pensieri gli era compagna Vittoria Colonna, che amò avendo egli settant’anni e fu amato condegnamente da lei, bella, illustre, onorata sopra quante donne allora fossero in Italia. Nè per essere ella figlia di Fabbrizio Colonna e stata moglie del Marchese di Pescara, cadde a lui nella mente di essere egli a lei disuguale. Diresse a lei molte delle sue rime, e sono quelle dove più forte spira quel senso di religione a cui diceva di sentirsi da lei innalzare: potevano questo in essa l’ingegno, gli studi, le poesie e le opere virtuose. I loro due nomi rimasero segno a gran riverenza in mezzo ad un secolo nel quale erano come soli; ma se molti avessero seguito quelle orme, nè il misero sbrano sarebbe avvenuto, e meglio sarebbe stato all’Italia e a tutto il mondo.

Si narra che Michelangelo, al vedere la corniola che ha incisa l’effigie del Savonarola, dicesse che l’Arte avendo toccato il colmo doveva necessariamente declinare. Da Giotto insino a Raffaello era stato un progredire, dove si direbbe che l’arte mettesse appena piede innanzi piede, perchè ad ogni passo era [200] una fermata, e copia d’ingegni avevano occupato ciascuno dei gradi. Compieronsi i tempi, e il Sanzio venne a porsi in sulla cima portato da quelli che lo precederono; ed egli avendo così acquistata pienissima scienza di tutte le parti onde si compone la pittura, in sè le congiunse con armonia maravigliosa. Per questo nelle opere di lui si può dire perfetta ogni cosa, perchè ogni cosa risponde in esse a quello che forma il fine dell’arte, ritrarre l’ideale dalla bellezza del vero. Cotesto ideale temprato e diffuso per tutto il dipinto riesce, egli è vero, a farsi quasi una negazione del sublime ch’è sopra ogni legge e che non può fare a meno di avere in sè qualche sorta di disarmonia; ma io non vorrei che fosse Raffaello uscito da quella pacata e sempre uguale perfezione ch’è tutta sua propria. Alquanto più vecchio degli altri due sommi, Leonardo da Vinci cominciò pittore; ma poi trasportato dal genio suo speculativo, cercò il sublime per via di assidue meditazioni dell’intelletto e fece l’arte essere una forma della scienza. Poneva uno studio insaziabile in ogni parte di quello che avesse in mente di fare, dal volto del Cristo fino alla vernice dei suoi quadri, talchè distendendosi per tutta l’ampiezza del sapere, lasciò poche opere, che pure a lui valsero altissimo luogo.

Nel Buonarroti insieme con l’idea nasceva intera la forma, nè in ciò altri credo che lo arrivasse: di lui non abbiamo bozzetti nè studi pe’ quali salisse gradatamente alla espressione del suo concetto; e molte statue si direbbe lasciasse imperfette perchè alla vita di quegli abbozzi null’altro credesse potere aggiungere con la finitezza. Nelle prime opere di scultura si attenne al semplice dell’antica scuola, mostrando appagarsi di quello ch’è umano; e questa io credo che fosse in lui timidità giovanile. Ma nella figura tranquilla del David giunse al perfetto, e in quella e nel Bacco di Galleria vedi le membra in sè avere [201] la necessità del moto, com’è nella vita. Michelangelo non fece mai professione che di scultore, tenendo quest’arte da più delle altre: chiamato da Papa Giulio a dipingere la grande volta della Cappella Sistina, ignorava le pratiche dell’affresco; ma tosto pervenne a fare l’opera più difficoltosa e la maggiore che abbiano vista i moderni secoli, e che gli antichi nemmeno avrebbero potuta sognare. Per lui dal perfetto si andò al sublime: dipinse le opere della Creazione, e il genio biblico mai non ebbe più alta espressione. Dio che scorrendo pei cieli divide la luce dalle tenebre, poi col tocco del dito suo infonde la vita nell’uomo che sorge: poi quelle severe figure dei Profeti in ampie vesti, dentro alle quali si vede la travatura di membra potenti: tutto questo insieme di alti concetti fatti palesi con la magnificenza di forme solenni, destava nel mondo nuova maraviglia. Non che altri Raffaello, allora sul colmo della gloria e della fama, si diede a seguire le orme del Buonarroti; e da quel giorno la pittura mutò le sue vie.

Avea Michelangelo trasceso il bello ed era andato più in là del perfetto, il che non può l’arte fare impunemente; quanto a sè aveva toccato il suo colmo. Le Sepolture in San Lorenzo dei congiunti di Leone X, perchè non traevano maestà dal subietto, non mostrano a noi che statue bellissime, nè altro egli voleva. Le figure di quei due giovani trattò in modo affatto generico, e forse con qualche segreto dispetto pose quattro nudi di non ben chiara significanza a stare a disagio sulle due grandi arche. Ma chiunque voglia da un marmo solo conoscere quale fosse il Buonarroti, guardi più volte il suo Mosè, poi vi pensi sopra, poi si dia ragione di quel che ha pensato. Non vi ha opera d’arte che presti alla critica più facile appiglio, nè altra ve n’è che ti lasci sì forte impressione: quel braccio dentro a cui tu vedi correre tanta e tale vita, quelle ginocchia potenti a salire il monte [202] del Sinai ed a scenderne gravate di quelle tavole che saranno sempre divina legge alla umanità; quella lunga e strana barba, capriccio d’un genio fuor di ogni misura; quella faccia istessa dove all’uomo si aggiunge la vigoria d’un leone, ma dentro alla quale siede un pensiero più che umano; queste cose il Buonarroti avea trovate fuori dei confini che sogliono essere quei dell’arte. A lui non bastava quel che l’uomo vede, ma fuor ne traeva un’altra imagine con la mente, che aveva in sè stessa la verità sua; nè la figura del suo Mosè avrebbe cercata tra gli uomini. Dove anche si fosse dentro ai confini naturali, faceva lo stesso; nè credo che mai potesse un ritratto copiare dal vivo.

Già vecchio dipinse il Giudizio Universale nella parete della sua stessa Cappella Sistina, ch’è sopra all’altare; opera fra tutte vastissima per le innumerabili figure che vanno dal cielo fino all’inferno, ciascuna facendo parte d’un insieme e poste dentro a quello stesso ambito di luce per cui tutto il quadro si abbraccia in una veduta: nè Michelangelo fu mai tanto mirabile per la scienza dei nudi e per la novità e per l’ardire delle invenzioni. Volentieri egli dal sublime andava al terribile; i tempi nell’animo gli ponevano una tristezza da lui medesimo espressa più volte. In quella grandissima composizione, piuttostochè il giudizio della umanità risorta al bene ed al male, fece la condanna dei reprobi: in cima il Giudice irato e la Vergine spaurita, e gli Angeli con le loro terribili trombe, e pochi Santi: poi sotto subito il precipizio dei malvagi, e più sotto i loro tormenti già in esercizio, come nell’Inferno di Dante, dal quale gli piacque di trarre perfino Caronte con la sua barca; nè a lui fu vietato. Quest’opera, in mezzo a tante bellezze, mostrò che l’arte aveva passata la sua perfezione; l’aveva passata, ma pure spiegando potenza insolita fino allora. Quindi è che l’impronta lasciata da lui riuscì troppo forte; ma io per me credo giovasse [203] alle arti infondere nella scuola dei quattrocentisti un nuovo fermento; e bene sarebbe stato alle lettere, se ad esse pure lo stesso avveniva.

Come architetto il Buonarroti fece i disegni di molti edifizi, fu consultato per grandissimi lavori, diresse le fortificazioni della città di Firenze. Nell’arte del costruire valentissimo sopra tutti, seguiva il suo genio quanto alle forme ed agli ornamenti, d’esempi classici si curava poco. Andava il pensiero suo alle opere smisurate: nelle dimore che fece in Carrara ed in Serravezza per attendere alla cava dei marmi, aveva immaginato di tagliare uno di quei monti con un suo disegno, per cui a guardarlo di lontano dal mare offrisse figura di un grandissimo Gigante accovacciato in quelle sommità. Nei venti estremi anni della sua vita fece la Cupola di San Pietro. Non che però si conducesse egli ad alzarla su quel fondamento che egli medesimo le aveva posto a tanto nuova e maravigliosa altezza; ma tutta l’opera del voltarla e del munirla fu condotta sopra i suoi modelli e con le misure da lui lasciate. Chi stando in terra nel centro del grande spazio, alzi su gli occhi girandoli per tutta la Cupola all’intorno, poi giunga a fermarli nel sommo punto dov’ella si chiude, crede il pensiero avere cedute le sue ragioni alla fantasia o crede esser egli nell’infinito. Quella Cupola fortunatamente rimase all’interno sobria d’ornamenti, e non perdè la sua grandiosità sublime. Volea il Buonarroti che tutta la Chiesa fosse a croce greca, chiudendo le tre grandi navate con una quarta d’eguale misura. Quella più lunga che venne fabbricata dopo alla sua morte, disturba non che l’economia di tutta la pianta, l’effetto ancora per cui la chiesa, com’è ingombrata di ornamenti costosi e importuni, appare d’assai minore grandezza pei molti inciampi e per gli inganni che incontra la vista. Se il primo disegno fosse stato mantenuto e che il nobile e grandioso vestibulo avesse introdotto [204] a quella bene ragionata e sopra tutte magnifica base che il Buonarroti voleva dare alla sua Cupola, la chiesa accorciata sarebbe agli occhi apparsa più grande; e il pensiero religioso di tutto il tempio, che oggi ha perduto l’unità sua ed è interrotto da tanto incongrua varietà d’oggetti, sarebbe asceso riposatamente verso il cielo. Michelangelo Buonarroti moriva di presso che novant’anni a’ 18 febbraio del 1564; nel giorno medesimo (come ora è accertato) nacque Galileo.


Alla fine del Libro Nono dell’Istoria di Benedetto Varchi è una descrizione della città e stato di Firenze, la quale si rannesta in qualche modo all’altra che aveva scritta della città stessa Giovanni Villani due secoli prima. A tutti è ovvio quanta incertezza regni nelle descrizioni o statistiche di tal sorta, ai tempi antichi per saperne poco e ai nostri per volerne sapere troppo. Sembra però a me che la statistica del Villani abbia maggior chiarezza e precisione, quanto ai fatti, di quella del Varchi. Noi trascrivemmo più ampiamente quella, ed ora di questa poco trarremo e sparsamente, pigliando le cose che sembrano a noi più certe e più chiare. Sulle origini di Firenze molto si distende quel dotto uomo che fu il Varchi, nè senza un qualche acume di critica; vorremmo che egli avesse speso più tempo a cercare le cose quali erano in quelli estremi della Repubblica. Non possiamo a buon conto accettare i calcoli suoi quanto alla popolazione della città; ma perchè scrive più sotto, che «circa due mila settecento erano i battezzati annualmente in San Giovanni,» possiamo noi così all’ingrosso opinare che circa novantamila fossero gli abitatori di Firenze, non contando i forestieri, nè quella crescita che veniva dal molto numero dei religiosi pei quali si altera la proporzione dei vivi sul numero dei nati. Più di cento [205] erano tra conventi di frati e monache e chiese collegiate; di sole donne quarantanove monasteri; settantacinque le confraternite di varie sorte, dalle più ricche e più fastose fino alle più chiuse e più devote che attendevano a pietà rigida o ad uffici di carità. L’antico e celebre Spedale di Santa Maria Nuova era opinione ai tempi del Varchi che avrebbe posseduto, pei molti lasciti che in diversi tempi gli erano stati fatti, la maggior parte delle possessioni della città, se per varie cause molte non ne fossero state alienate. Spendeva ogni anno per la cura degli infermi venticinque mila scudi, dei quali traeva diciottomila dalle possessioni e il rimanente da limosine; più altri Spedali erano in Firenze, molti nel contado. Lo Spedale degli esposti, detto degli Innocenti, spendeva ogni anno undici mila scudi, che settemila cinquecento da beni stabili, e ogni di più dal pubblico in limosine.

Oltre ai pubblici edifizi, erano un centinaio di case private che avevano nome di palazzi; delle quali trenta, scrisse un contemporaneo essere state edificate tra ’l mille quattrocento cinquanta e il settantotto; molte più belle e di più ornata architettura avea Firenze vedute sorgere in quei tempi splendidi, che furono dalla creazione di Leone X fino all’Assedio. Era magnificenza delle più antiche famiglie avere presso alle case loro una loggia ad uso pubblico: se ne vede tuttora qualcuna, e ai tempi del Varchi n’erano aperte più che una ventina. Le antiche torri, forza e superbia della città, scapezzate per la maggior parte, di rado si alzavano più in su del pari delle case che appartengono al primo cerchio: grande era il numero e la estensione dentro alle mura di orti e giardini, sia di privati sia di religiosi. Ma poichè le arti ebbero sparsa in questo popolo la ricchezza, chiunque poteva ebbe desiderio di farsi una villa; talchè all’intorno dei castelli disarmati si fabbricarono le casette pacifiche, dove il lanaiolo ed il setaiolo amavano lietamente riposarsi [206] con le famiglie loro; si adornavano ciascuna secondo le facoltà, improntandosi di quel bello che vi mettevano i grandi artisti. Scrivono esserne state ottocento dentro le venti miglia, murate di pietra e di scalpello, cui davano nome di palazzi: presso a Firenze erano frequenti così, che alla vista la città si prolungava lungo spazio fuori delle mura; e l’Ariosto scriveva in sua lode:

«Se dentro un mur, sotto un medesmo nome

Fosser raccolti i tuoi palazzi sparsi,

Non ti sarian da pareggiar due Rome.»

Il piccolo Stato aveva oltre a cinque città, Pisa, Volterra, Pistoia, Arezzo, Cortona; quattrocento terre murate, le quali si serravano ogni sera e si riaprivano la mattina: le terre che in segno di tributo la mattina di San Giovanni offrivano ciascuna un palio, erano cento; e circa trenta Comunità offrivano un cero ciascuna. La Repubblica mandava col nome generico di Rettori a governare le varie parti dello Stato diciassette Capitani, dodici Vicari, ed altri minori col nome di Potestà, oltre ai Castellani delle Fortezze, Consoli di mare a Pisa e camarlinghi e provveditori e doganieri. Dicevano essere d’intorno a ottomila gli uomini chiamati alla milizia delle Ordinanze col nome di volontari. Il Varchi scrive, che le entrate della Repubblica non passavano quei medesimi trecentomila fiorini d’oro che erano ai tempi di Giovanni Villani: registra come titoli di maggior conto, dalla gabella delle porte, settantatremila; dalla dogana di Firenze, settantamila; dal camarlingo del sale, vino e macello, cinquantatremila; dalle decime ordinarie e straordinarie e arbitri della città, cinquantamila; dalla gabella dei contratti, dodicimila novecento trentanove; dalle gravezze del Contado, quattordicimila; dalle città, castella e comunanze tassate, dodicimila; dal camarlingo d’Arezzo, quattromila; dall’accatto de’ contadini e non sopportanti, [207] duemila trecento trentotto; dalle gravezze de’ sobborghi, quattrocento cinquanta; con altre minori fino agli avanzi dei pegni venduti al giudeo. Maggiori d’assai erano in ogni tempo le entrate straordinarie di balzelli ed accatti posti ai cittadini: dal 1377 al 1406 le sole guerre costarono undici milioni e cinquecentomila fiorini d’oro: nei primi venti anni della dominazione repubblicana di Casa Medici, settantasette case di Firenze pagarono di straordinari imposti ad arbitrio quattro milioni e ottocentomila fiorini, che sono in detto tempo più che cento some d’oro. Lo stato popolare dal 1527 al 30 cavò di straordinari in tre anni un milione e quattrocento diciannovemila cinquecento fiorini d’oro. Questi erano debiti scritti sul Monte, a cui pagava la Repubblica innanzi quel tempo, per interessi e paghe d’ogni sorta, novantaquattro mila fiorini all’anno; e sedicimila per terzi delle doti delle fanciulle che hanno la dote sul Monte e si maritano. Ricchezze erano principali alla città le arti della Seta e della Lana, la quale sola «lavorava ogni anno da venti a ventitremila pezze di panni, come si può vedere dai libri dell’Arte, dove dette pezze si marchiano giornalmente tutte quante.» Correvano molte sorte di moneta, delle quali era il Fiorino la più antica e principale, e monete forestiere d’oro e d’argento, il maggior numero francesi.

Nel vitto erano i Fiorentini tenuti frugali, ma di grande pulitezza; si nominavano poche case che fossero use a mettere tavola ed a vivere splendidamente. I cittadini si appellavano col proprio nome o col soprannome, questi essendo qui frequentissimi; ciascuno dava all’altro del tu, fuorchè ai dottori, ai cavalieri ed ai canonici, i quali avevano del messere; e i frati, del padre. Quanto al vestire, il cappuccio repubblicano, con quella striscia lunga che si avvolgeva intorno al collo, non era per anche affatto dismesso; non si cavava che al Gonfaloniere di giustizia o a grandi prelati: [208] ma sottentravano altre nuove foggie, ciascuno cercando mostrarsi gentile quanto era più fiacco; le avevano recate le Corti che si erano in Firenze succedute dal dodici in poi, e massime quella del Cardinale di Cortona. Ma nondimeno sempre le usanze ritennero qui assai più che altrove del mercatantesco, del che i Fiorentini venivano proverbiati da quanti in Italia più avessero accolto i nuovi costumi.

Capitolo VIII. CACCIATA DEI MEDICI E GOVERNO POPOLARE. — CARLO V IN ITALIA E SUO ACCORDO COL PAPA. [AN. 1527-1529.]

L’avere Clemente perduto da papa quella fiducia di sè stesso e fuori quel credito che prima godeva, ebbe il suo effetto anche in Firenze, dov’era incerto e sempre mal fermo lo stato degli animi. Qui tutti sentivano l’amore di libertà; ma nè il popolo si dimenticava d’avere goduto più grasso vivere e più lieto all’ombra dei Medici, nè i cittadini più eminenti di essere stati depressi ogni volta che il popolo governasse. Tra questi ve n’era dei più affezionati o più servili, i quali amavano, o ai quali era necessario lo stato dei Medici; agli altri bastava di comandare essi co’ Medici, o senza, secondo avvenisse. A questi il Papa non avea saputo nè ispirare fede nè farli contenti di quello splendore che ad essi veniva da Roma; ivi era un tristo vivere pei Fiorentini, odiati come inventori di balzelli e maestri del farvi guadagno. In Firenze avevano sopra il capo il duro governo di un Cardinale da Cortona, chiamandosi offesi che il Papa mettesse tutta la sua fiducia in uomini delle città suddite, dai quali sapeva di avere più cieca ubbidienza, e che si lascerebbero gravare dell’odio pubblico. Io per me tengo [209] ancora per fermo, che brutta cosa paresse a molti l’avere a servire a quei due bastardi tirati su a forza quando altri non v’era, e perchè Firenze a ogni modo avesse un padrone. Del che si adontava molto la superbia di Filippo Strozzi e della moglie Clarice, nei quali fiorenti di bella e maschia famiglia più degnamente potea rivivere la Casa dei Medici. Nel modo stesso anche i Salviati, per tenersi in alto, si erano sempre mostrati avversi al principato; essi e i Ridolfi, altri cugini di Leone, sebbene ciascuno di loro avesse un Cardinale, volevano pure una repubblica in Firenze, massimamente da che un giovane Ridolfi si fu agli Strozzi unito per parentado. Francesco Vettori, nel vario suo ingegno, voleva lo stesso. Luigi fratello di Francesco Guicciardini, ma uomo dappoco, stava con gli altri sopraddetti, che insieme formavano una molto vasta parentela. Ad essi per grado e per età soprastava Niccolò Capponi cognato a Filippo, nella città onorato per la memoria di Piero suo padre e per la parte che egli stesso ebbe nei maggiori fatti della Repubblica; uomo di onesta e decorosa vita, molto facoltoso e buon massaio, nel quale ognuno poneva fiducia che volesse il bene della città e fosse disposto a promuoverlo con temperanza. Non era egli stato da principio avverso ai Medici, ma gradatamente venne a dichiararsi contro a loro, ed era da ultimo tenuto il capo di quella fazione molto autorevole di Ottimati che li combatteva.[157]

Nel popolo aveva il nome dei Medici perduto favore pei modi spiacevoli e il genio avaro del Cardinale Passerini, costretto servire alle necessità ognora crescenti dell’erario di Papa Clemente e ai gravi carichi delle guerre. In nove mesi avea Firenze dovuto pagare per via d’accatti straordinari dugento venti mila fiorini [210] d’oro;[158] del che si faceva un grande sparlare, la gioventù essendo in ciò divenuta molto licenziosa. Dipoi sopravvenne con la morte di Giovanni de’ Medici il terrore dei Lanzichenecchi, pel quale i giovani cominciarono a chiedere le armi, covando in quella domanda un disegno sotto alla condotta di quegli uomini principali che a ciò gli spingevano. Ma tosto dipoi avendo il Borbone pigliato altra via, cessò per un qualche tempo la paura e il chiedere le armi. Nel mese d’aprile, come si è narrato, entrava in Toscana tutto l’esercito del Borbone dal lato d’Arezzo; e vi era sceso quello della Lega col luogotenente Guicciardini per la via più breve della Romagna; talchè il Borbone, che già si era spinto fin oltre a Montevarchi, tornava indietro. Firenze per quella mossa fu salvata dal sacco; ma i nemici devastavano il Val d’Arno, gli amici il Mugello: nella città era scompiglio, chiedevano i giovani le armi tumultuosamente pel vicino pericolo. Aveva il Papa mandato da Roma i due suoi cugini Cardinali Ridolfi e Cibo a rinfiancare il Passerini, ma fu senza frutto; e già nelle Pratiche il Capponi e gli altri avversi al governo più si venivano a scuoprire: intanto l’esercito del Papa si avvicinava alle porte di Firenze.[159]

Era il giorno 26 aprile quando i tre Cardinali e il giovinetto Ippolito e il conte Noferi da Montedoglio che aveva la guardia del Palazzo, uscirono incontro al Duca d’Urbino ed agli altri Capitani. Quale disegno avessero non si vede, ma per Firenze si cominciò a dire che i Medici abbandonavano la città; e fu da per tutto un radunarsi di giovani armati che si avviavano al Palazzo. Qui andavano intanto uomini di [211] tutti i gradi, e primi coloro che sopra dicemmo, a consultare, a provvedere, a osservare quello che il caso portasse. Era Gonfaloniere Luigi Guicciardini, che disceso giù alla porta del Palazzo e avute parole oneste dai primi che erano accorsi, disse volere egli pure quel ch’essi volevano. Dentro cresceva il vario tumultuare, molti si offrivano alla Signoria, temevano i più savi quel moto incomposto; avrebbono accolto volentieri una qualche sorta di compromesso, che non ebbe però mai una proposta formale. E intanto i più ardenti stavano intorno alla Signoria: Iacopo Alamanni, giovane feroce, andò contro alla persona dello stesso Gonfaloniere, e feriva uno dei Priori tenuto aderente ai Medici: il bando di questa famiglia fu messo ai voti e decretato. In quel mentre i Cardinali e gli altri usciti tornavano indietro e con essi veniva l’esercito: avevano quelli di dentro mandato a chiudere le porte, ma l’ordine non fu eseguito, e i Capitani entrati nella città, sfilavano i soldati che erano innanzi, verso la Piazza, della quale occuparono gli sbocchi; e intanto quelli di dentro al Palagio facevano mostra di volerlo difendere; armi non mancavano. Iacopo Nardi, che era stato chiamato come uno dei Gonfalonieri di Compagnia, del pari onesto che animoso, mostrava su alto, lungo il Ballatoio, un certo muricciolo a secco, fatto ivi apposta per cavarne alla occorrenza pietre a difesa del Palagio. Era cominciato l’assalto e poteva riuscire terribile; in quello colpiva una pietra il braccio del David del Buonarroti, che tuttora si vede rappezzato.[160] Allora un rinomato Capitano, Federigo Gonzaga da Bozzolo, che era nelle armi dei Francesi, entrato in Palagio e orando caldamente alla Signoria, e pregando quanti erano dentro stornassero dalla città un grande e a tutti inutile infortunio, persuase alla fine venire a un accordo pel quale tornasse lo Stato com’era, e [212] del fatto di quel giorno non si tenesse memoria: Francesco Guicciardini, come dottore di leggi, distese quell’atto.[161]

Si allontanarono i soldati della Lega, seguendo la strada loro inverso Roma. Lo Stato in Firenze rimaneva senza genti che lo difendessero e senza danari, non bene sapendo chi avesse amici o nemici, per essere gli animi incerti e inquieti e quindi facili a ogni mutazione; piena la città di uomini del contado, che vi si erano rifuggiti con le robe loro; donde un alternarsi di subiti sbalzi tra le paure di carestia e la sovrabbondanza di derrate, cagioni ai tumulti.[162] Quegli dello Stato pigliavano scarsi e odiosi provvedimenti; condannarono in moneta alcuni che s’erano mostrati più vivi nel fatto del 26: ma per il primo di maggio fecero che entrasse Gonfaloniere Anton Francesco Nori, del quale non era nè il più capace nè che più fosse appassionatamente devoto alla Casa dei Medici. Intorno ai casi di Roma correvano incerte notizie perchè le alterate dicerie celavano il vero, che in Firenze fu recato agli 11 maggio da Filippo Strozzi. Veniva questi molto irato contro al Papa che non gli aveva pagato il riscatto quando fu mandato in Napoli ostaggio dopo all’insulto dei Colonnesi; aveva però guadagnato coi due Papi suoi parenti cento cinquanta mila scudi,[163] ed era in Firenze depositario del Comune. Al quale avendo il Vicerè Lannoy onestamente rimandato gli ottanta mila scudi dal Papa offerti perchè il Borbone tornasse indietro, Filippo non volle che andassero in mano di quei dello Stato, avendogli invece fatti restituire ai cittadini, secondo la posta di accatto che avesse pagata ciascuno.[164] Madonna Clarice, venuta in Firenze [213] avanti al marito e dato animo a quei primi che la visitarono, si fece essa stessa portare in lettiga a Casa de’ Medici, dove rinfacciando con fiere parole al giovane Ippolito la bassezza dei natali e al Passerini quella dell’animo, dava essa come il primo segnale ai fatti che indi avvennero. Giunse Filippo, e già in Palazzo si era una Pratica radunata, dalla quale usciva e fu poscia in nome dei Medici consentita una deliberazione, per la quale mettendosi innanzi la promessa di adunare con certe limitazioni il Consiglio generale, si ordinavano intanto dei nuovi Consigli non molto numerosi che avessero in mano il Governo; i Medici rimanessero in Firenze liberi e sicuri con tutti gli averi loro, e onorati al pari degli altri cittadini. Del che fu letizia grande nel popolo al primo annunzio; ma poi bentosto molti cominciando a mormorare e a fare capannelli per le piazze, e minacciando volere andare a casa i Medici, questi furono esortati a partirsi per sicurezza loro dalla città: uscirono pubblicamente per la via Larga calcata di gente Ippolito e Alessandro e il Cardinale Passerini, fermandosi al Poggio a Caiano, donde passarono a Lucca. Gli accompagnava Filippo Strozzi come a guardia delle persone loro e con la commissione di recuperare la Fortezza di Livorno e quella di Pisa: ma queste allora non si ottennero, i Medici avendo con vari pretesti negato i segnali per cui venissero i Castellani disciolti dalla fede che avevano data. Filippo ebbe accusa d’avere aiutata la frode, poichè si fu accorto che il rivolgimento procedeva diverso da quello che avrebbe voluto; dal che a lui venne un grande odio nella città.

Era cosiffatto il popolo di Firenze, e per antico uso e antico diritto aveva sì caro il nome di libertà, che al primo suono di questa parola tutti si destavano; e questo popolo era allora tutto unito e concorde in quel sentimento, perchè di quel tanto che ognuno ne avesse impresso nell’animo veniva nel primo sorgere a comporsi [214] un volere solo: talchè gli pareva d’essere tornato ai primi suoi tempi, e a sè faceva di quelle leggi che dipoi era sovente inabile a portare. Sopra ogni cosa, come si è più volte detto, odiava il Governo dei pochi; ed ora viepiù l’odiava poichè si era accorto che i Nobili, i quali aveano fatto quel mutamento, stavano in due tra ’l porre sè stessi nel luogo de’ Medici, o accettare questi, s’era necessario, e quando vi fosse il conto loro. Il che era vero: ma vero è ancora che ai più savi, guardando alle cose d’Italia com’erano e volgere il mondo a principati ed a signorie, pareva di questi Medici non fosse da fare a meno; e quanto a un Governo largo e popolare, lo avrebbero contradetto a ogni modo come impossibile a mantenere. Da questi pensieri mi pare che fosse tirato tra gli altri Niccolò Capponi, uomo sincero; quanto a sè i Medici poco amando, non poteva uscirgli dal capo come essi alla fine sarebbero ritornati, e cercò sempre ingenuamente venire a un accordo tra essi e la libertà. Giammai non si era del tutto da essi alienato, ed ora madonna Clarice e la piccola Duchessina stando nel Palazzo dei Medici e poi nel convento di Santa Lucia, Niccolò andava pubblicamente a visitarle. Per le quali cose crescendo il romore nella città, e molta gioventù in arme intorno al Palagio di già minacciando fare Parlamento; gli uomini delle botteghe, che già si chiudevano, e molti d’ogni sorta accorsi al Palagio, imposero alla Signoria ed ai maggiori cittadini e più restii la convocazione pronta del Consiglio grande, senza esclusione di quelli che erano a specchio ed abbassando di un anno l’età per entrarvi, col solo divieto di quelli che avevano tenuti co’ Medici gli uffizi maggiori. Fecero scambiare gli Otto di Guardia e quelli di Pratica, abolirono i Consigli creati di nuovo, e riposero ogni cosa com’era nel 1512; restaurarono il Senato degli Ottanta e l’uffizio dei Dieci di guerra. Nella impaziente letizia di convocare il Gran Consiglio, perchè la Sala era stata [215] negli ultimi anni guasta da’ soldati e ingombra e bruttata, i primi giovani di Firenze lavorando giorno e notte l’ebbero riposta in poche ore al punto come l’aveva fatta il Savonarola, del quale il nome stava sempre in alto a quanti amassero libertà onesta. Si radunò infine il Grande Consiglio, e v’intervennero duemila cinquecento cittadini, che non potendo tutti capire nella Sala, stavano calcati fin lungo le scale. Ordinarono che la presente Signoria cessasse a tempo rotto e che la nuova durasse tre mesi: per ultimo si pensò ad eleggere il Gonfaloniere, uffizio che Anton Francesco Nori avea sostenuto e infine deposto con pari decoro. Sedesse il nuovo tredici mesi, dal primo giugno 1527 al primo luglio del 28, e alla conferma non fosse divieto. Al giorno dato, sopra un partito al quale intervennero due mila dugento cittadini, si trassero fuori nel modo consueto i sei che avessero maggior numero di fave, tra’ quali doveva poi farsi la scelta. I voti si dividevano tra uomini avversi più dichiaratamente ai Medici, e Niccolò Capponi che, tenuto mediceo da molti, pure ottenne voti da ambe le parti. A Tommaso Soderini, che a lui fece maggiore contrasto, nocque il timore che non paresse la città divisa tra due famiglie, com’era Genova tra gli Adorni ed i Fregosi. Fu eletto il Capponi con ampio consenso, perchè nella bontà e integrità sua fidavano tutti.

I voti pei quali prevalse non erano nè d’una parte a lui devota, nè d’una stessa qualità d’uomini. Allora i cittadini propriamente non si dividevano per sètte, perchè non sapevano legarsi tra loro per vincoli d’amicizia e fede scambievole. Di quei che cercavano fare un governo di Ottimati, ciascuno tirava le cose a sè con diverse voglie e fini diversi: tra questi era pure Niccolò, sebbene con migliore animo, come quegli che voleva la libertà quanto si mantenesse onesta e possibile: così nella parte che si disse del Capponi, benchè prevalessero gli Ottimati, erano molti mezzani [216] uomini di nature temperate, i quali volevano il nome di libertà, ma non ne amavano i tumulti. Imperocchè nella città di Firenze fu questo di proprio, che i più veri amici di libertà fossero ad un tempo i migliori uomini e più virtuosi, la parte più quieta e più casalinga. Vero è però che da questa parte si avevano i Medici guadagnati molti co’ benefizi e col mantenere i modi civili e le usate forme di governo popolare; talchè i buoni uomini di Firenze non tolleravano le persecuzioni contro al nome dei Medici, nè le vendette contro gli aderenti loro, per fini privati. Da quei migliori e più discreti fu eletto il Capponi; andarono insieme gli antichi Piagnoni con molto numero degli affezionati al nome dei Medici: in questi ultimi si può dire che fosse una vera unione di parte, perchè nel Consiglio avevano, come dicevasi allora, quattrocento fave ferme o voti sicuri. Divisi tra loro, ma di maggior nerbo e di più ardenti passioni, erano gli Arrabbiati, nome dato agli antichi nemici del Frate; ma quelle medesime nature d’uomini ambiziosi ed appassionati volevano oggi formare una parte che tenesse in mano lo Stato come vittoriosa, con la oppressione di chiunque negasse ai Medici dichiararsi scoperto nemico, infino a vendere le sostanze loro, spianare il palazzo e spegnere il nome di quella famiglia. Ai quali si accostava tutta la parte più viva della città, e i giovani più generosi che, nell’abbassamento dov’erano scese le sorti d’Italia, sentivano oggi più vivo che mai l’amore di libertà; cotesti andavano sotto il nome di Libertini, e alquanti ve n’era che avevano corso la loro fortuna nella sorte delle armi.[165]

Il nuovo Stato fin da principio confermava nel proprio suo nome la Lega con Francia, com’era stata in quello dei Medici. Al che si opponeva la parte de’ pochi, i quali avrebbero con più antiveggenza voluto [217] unirsi cogl’Imperiali, dove si accorgevano infine dei conti essere la forza, e bene sapendo che solamente per questa via poteva Firenze andare a un governo fermo e ordinato. Ma vinse l’antico genio guelfo e popolare, certo in sè stesso che mai non troverebbe grazia presso a Carlo V, nè avrebbe voluto guadagnarsela col mezzo d’odiose e insolite istituzioni, che non avevano in questo terreno radice alcuna o fondamento. Così appena si restaurò la guerra, levarono un balzello che molto gravava la parte medicea; e questi più volte si rinnovarono, sempre però in modo che soddisfacesse alla passione di aggravare i più facoltosi: quella ingiustizia dello scalare la Decima, cosicchè sopra alla stessa quota di rendita s’imponesse a chi più aveva maggiore tassa, fu ora condotta fino a far pagare a chi oltrepassasse una mezzana entrata, sulla medesima unità estimale, il triplo di quello che ai meno agiati s’imponeva.[166] Mandarono al campo della Lega con altri soldati le famose Bande Nere, di nuovo accresciute e riordinate sotto al governo di Orazio Baglioni, capitano bene adatto a quelle milizie feroci e temute tra quante fossero in Italia. A mezza l’estate Lautrech era sceso un’altra volta in Lombardia; seco era un grosso esercito di Francesi, scopo (si diceva) la liberazione del Papa: felice nei primi successi, riconquistò in nome di Francesco Sforza le città d’Alessandria e di Pavia, la quale andò a sacco; mentre Antonio da Leyva, costretto in Milano, faceva di questa crudele governo. E intanto Genova, assediata per terra e per mare dalle armi Francesi e dalle galere di Andrea Doria, tornò in ubbidienza del re Francesco. Il Papa rimaneva prigione in Castello, dove la peste, che era entrata in Roma e in Toscana, gli aveva mietuto dei suoi medesimi familiari: smunto e vessato dalla ingordigia dei soldati, potè solamente dopo sette mesi [218] nella notte dei 9 dicembre solo e travestito fuggire in Orvieto, ma forse per connivenza dello stesso Carlo V, a cui non piaceva d’averlo nemico.

Fu grave la peste in quella estate anche in Firenze, dove perirono molti, e molti fuggirono; talchè si fece una Provvisione perchè il numero dei presenti bastante a vincere una legge, che era d’ottocento, fosse ridotto a quattrocento. Le fortezze di Pisa e Livorno si riebbero per lunghi accordi e molto danaro ai Castellani. Era in quel tempo grande la potenza dell’ufficio dei Dieci, al quale (con l’esclusione del Machiavelli) fu eletto segretario Donato Giannotti, uomo grave, costumato, di buone lettere, intendentissimo delle cose civili e amatore della libertà, sebbene troppo gli piacesse stare nelle case dei grandi signori. Il tempo inclinava alla severità delle riforme, così nelle spese come per la rettitudine dei giudizi criminali, intorno ai quali erano abusi bruttissimi. Fu quindi ampliata e rinnovata la Quarantìa, perchè divenisse un magistrato di revisione e giudicasse ella nei casi più gravi. Si componeva di quaranta tirati a sorte dal Consiglio degli Ottanta, e di alcuni dei magistrati: la presiedeva il Gonfaloniere e si poteva dai giudizi di quella ricorrere al Consiglio Grande.[167] Per una sentenza data con queste forme andò a morte Pandolfo Puccini, valente soldato, che aveva fatta sedizione nel campo e ucciso un suo compagno d’arme; ma la condanna dispiacque a molti di quelli stessi che l’avevano pronunziata.[168] In seguito, i casi di Stato, che importassero la morte, furono sottoposti a un Magistrato formato dalla Signoria, dai Dieci e dagli Otto, senza ricorso. Finita la peste e maggiormente quando il Papa fu tornato in libertà, crescevano i sospetti popolari contro ai partigiani dei Medici: era già stato [219] posto un sindacato a chi al tempo loro avesse amministrato i danari del Comune; pel quale titolo due molto principali di quella parte, Benedetto Buondelmonti e Roberto Acciaioli furono menati prigioni in Firenze; e il primo, perchè i suoi contadini di Val di Pesa avevano mostrato volerlo difendere, corse pericolo della vita; poi fu condannato a stare quattro anni nel fondo della torre di Volterra. Degli altri uomini più eminenti, Filippo Strozzi andò a’ suoi Banchi di Lione in Francia; Francesco Vettori si teneva oscuro in Pistoia; Francesco Guicciardini prese a dimorare per lo più in villa, quivi attendendo a scrivere l’istoria. Nel tempo medesimo avvenne che alcuni giovani arditi, tra’ quali Dante da Castiglione sempre era primo, andati una mattina alla Chiesa dei Servi, abbatterono le immagini di cera che ivi erano di Papa Leone e di Clemente; dopo di che la Signoria ordinò per il meglio, che tutte le armi dei Medici ch’erano dipinte o scolpite in molte case della città, fossero cancellate o abbattute. Ma nondimeno quei giovani, poco fidando nel Gonfaloniere e nella Signoria, vollero avere la guardia del Palazzo, che erano trecento, dei quali cinquanta per volta vi stavano armati; ma questo ottenne la Signoria, che ogni giorno mutassero il capo loro, nè altro continuo ne avessero, nè bandiera, salvo una appesa ad una colonna nel cortile del Palazzo. Per le quali cose avvenne che il Gonfaloniere si ristringesse con quei popolani, i quali dicemmo che a lui somigliavano; faceva leggi contro al vizio del praticare le osterie, dove gli artigiani andavano a consumare nei bagordi le grosse mercedi.[169] S’intratteneva molto co’ frati di San Marco, e nel mese di febbraio, quando era la peste riapparsa in Firenze, una mattina orando in Consiglio con le parole e co’ terrori del Savonarola uscì a proporre che Cristo Redentore fosse [220] dichiarato Re di Firenze; al che non mancarono diciotto voti contrari. Una lapide fu posta sopra alla porta principale del Palazzo, la quale attestasse la solennità dell’atto.

Intanto le cose della guerra procedevano a questo modo. Era il Duca di Ferrara tornato alla Lega con Francia, per le cui armi aveva racquistato Modena e Reggio; i Fiorentini, nei quali era entrato più che non solesse il pensiero delle cose militari, formavano colle loro Bande Nere la forza più salda che fosse nell’esercito di Lautrech, il quale entrato nel Regno, avanzava per la via degli Abruzzi con molto favore dei popoli. Nella opposta parte essendo morto il vicerè Lannoy, il comando dell’esercito Cesareo andò a Filiberto di Châlons, principe d’Oranges, il quale però male riusciva a staccare dalla rapina di Roma e di tutto il paese circostante gli avanzi dispersi dei suoi Tedeschi e degli Spagnoli. Pervenne con molta fatica a fare una qualche testa nei confini che sono fra gli Abruzzi e la Puglia: ma tosto dipoi, e avendo le Bande Nere saccheggiata l’Aquila e i Francesi Melfi, egli abbandonata la Terra di Lavoro, si chiuse in Napoli, alla quale tutto l’esercito di Lautrech s’accampò intorno.

Fino a questo termine andò la fortuna delle armi Francesi. Una battaglia per la quale Filippino Doria, nipote d’Andrea, distrusse le navi spagnole dentro al golfo di Salerno, e la comparsa avanti a Napoli, ma troppo tarda, delle galere veneziane con Pietro Lando, e oltre ciò l’essere gli assediati afflitti dalla fame e dalla peste, parevano certe promesse a Lautrech di pronta vittoria. Ma come dentro alla città, così e peggiori per tutto il campo degli assedianti, venuta l’estate, i morbi infuriavano prodotti dalla mal’aria; le compagnie assottigliavano, e i superstiti affranti e sfiniti nulla facevano per la guerra: quel forte esercito si struggeva. Morirono il Nunzio del Papa e il Provveditore veneziano, [221] moriva Lautrech: passò il Comando al Marchese di Saluzzo, il quale in Aversa capitolava, e dopo brevi giorni anch’egli moriva.[170] Pietro Navarro prigioniero, e come traditore degli Spagnoli chiuso in quel Castello che molti anni prima aveva per essi egli medesimo conquistato, fu dentro al carcere messo a morte. Moriva per guerra Orazio Baglioni, e per malattia Ugo de’ Pepoli a lui successo nel comando delle Bande Nere, delle quali perite o sbandate si perdè il nome. Il Commissario fiorentino al campo Gian Battista Soderini e l’Oratore a Lautrech Marco del Nero, condotti a Napoli prigionieri, e il primo con due ferite, morirono quivi. In tanta vittoria non aveva il Principe d’Orange di che pagare i suoi soldati; al che providde con l’uccisione e la confisca de’ beni di quei Baroni che aveano tenuto la parte Francese, con la rapina delle sostanze dei Napoletani e con la devastazione di quelle Provincie. Ma continuarono contro ai Baroni e di essi tra loro le guerre intestine, che sotto più forme d’età in età per lunghi secoli si perpetuarono.

Le sorti d’Italia, fermate con pessimo assetto in Napoli e in Sicilia, poterono in Genova ne’ giorni medesimi per altre vie ma con migliori effetti accomodarsi in modo stabile alle condizioni nuove che già lo straniero dominio imponeva. Da per tutto nelle Provincie d’Italia di già maturava quel vivere nuovo a cui si dovette ben tosto ridurre l’intera nazione. Genova, da molti anni o serva o divisa, ottenne un governo molto strettamente aristocratico, ma che a lei diede un lungo periodo di pace in casa e d’indipendenza. Questo a lei fece Andrea Doria, il quale voltandosi a Carlo V in tempo da rendergli un grande servigio, impedì che Genova gli fosse mai suddita, a questo modo ben meritando di tutta l’Italia; fu quasi principe nella patria sua, e pure ottenne e serbò fama [222] di gran cittadino. Quello che in Firenze pochi sognavano, potè il Doria facilmente per essere egli e con lui altre maggiori famiglie, potenti di navi e d’armi proprie. Non s’appartiene a questo luogo dire quei fatti come avvenissero, nè quale riscontro avessero con quei di Napoli, nè con altri moti di guerra ultimamente sopravvenuti in Lombardia.[171] Qui era sceso il Duca di Brunswig con diecimila Lanzichenecchi senza paga venuti al saccheggio; ma perchè trovarono esausta ogni cosa dalla povertà spagnola, come ingannati e per solo gusto di vendetta mettendo le case a fuoco ed a sangue, tornarono addietro dopo alcune settimane. Verso lo stesso tempo Francesco I aveva mandato sotto al Conte di Saint-Paul una grande accozzaglia d’uomini d’arme e di venturieri perchè rinforzassero l’impresa di Napoli. Caduta quella, e dopo essere più mesi rimasti a desolare inutilmente le terre lombarde, avvenne che un giorno il Saint-Paul, sorpreso dalla infaticabile vigilanza di Antonio da Leyva, restasse prigione, andando dispersi quei pochi soldati che gli rimanevano.

In quest’anno 1528 le cose di fuori tenevano pensosi gli animi dei Fiorentini. Il Governo di Niccolò Capponi procedeva equo e temperato; cosicchè venuto il primo di luglio, fu egli confermato, non senza contrasto, Gonfaloniere per un altro anno. Intanto le guerre per la signoria d’Italia continuate trentacinque anni, finivano quasi nel tempo medesimo co’ fatti di Genova e quelli di Napoli. Clemente VII tornato in Roma subito dopo, nel mese d’ottobre, più non vedeva innanzi a sè due contendenti tra’ quali stesse in lui di scegliersi l’alleato; e benchè tenesse pratiche aperte col re Francesco, mostravano alcuni indizi piccoli, ma sicuri, come egli cercasse d’unirsi a Cesare, e questi avesse pe’ suoi disegni bisogno del Papa. Ai Fiorentini, [223] che gli avevano entrambi nemici, pareva già correre un grande pericolo, essendo le forze della Repubblica trattenute in Puglia con Renzo da Ceri a una inutile spedizione. Si era molto tempo ragionato e fatto intendere ai Magistrati, che per difesa della città era necessità dare le armi ai cittadini: del che erano molti che non soffrivano per modo alcuno sentire discorrere; i vecchi per essere vissuti nell’ozio sicuro delle botteghe loro, altri perchè dare le armi al popolo temevano fosse l’ultimo esterminio di Firenze, altri perchè in un capo militare vedevano un Cesare che opprimesse la libertà. Era il Gonfaloniere da principio molto avverso a quel partito, ma poichè vidde la gioventù essersi usata nelle armi fuori del consueto, e pel timore di quella guardia che pareva guardasse piuttosto lui che il Palazzo; si diede infine tutto a promuovere questa milizia universale fino a mandare egli medesimo a sollecitare le donne che incannavano la seta nei suoi filatoi. Fu l’ordinanza vinta in Consiglio ai 6 novembre; dopodichè avendo descritti i sedici Gonfaloni secondo i Quartieri e fatto prestare il giuramento, diedero a tutti le armi, benchè il maggior numero da sè le portasse. Ciascun Quartiere aveva un cittadino per Commissario ed un sergente maggiore, al quale ufizio si scelsero uomini di tutta Italia che meglio si fossero fatti conoscere nelle guerre. Furono i descritti da tre in quattro mila, che mille settecento archibusieri, mille picche ed il restante da alabarde o spade a due mani, e in tutto avevano oltre a mille corsaletti. Parve cosa magnifica quando il Gonfaloniere, seduto avanti la porta del Duomo con la Signoria, fece la mostra dei nuovi soldati vestiti e addobbati decorosamente con aspetto guerriero e buona disciplina e segni d’unione tra loro. In ogni Quartiere fu recitata una Orazione: abbiamo a stampa quella di Bartolommeo Cavalcanti, fredda come di un retore: altra, scritta da un giovane di buone lettere [224] ma irrequieto, che fu Pier Filippo Pandolfini, parve che andasse a ferire quei dello Stato; e già Pier Filippo aveva sofferto un’altra volta accusa per essere egli de’ più accesi verso il popolo e la libertà.[172]

Ma da principio la Provvisione sulla Milizia parve a quei della guardia del Palazzo fatta contro a loro ch’erano giovani dei più animosi. Costoro, se fossero stati nei tempi quando la libertà era in Firenze un comun sentire e quasi una necessità comune, se avessero avuto intorno a sè nelle sue varie gradazioni il fascio intero della cittadinanza, sarebbero stati la forza d’un popolo unito e concorde; ma oggi trovandosi come solitari ciascuno in sè stesso e poco sicuri nei loro voleri, sebbene capaci più degli altri ad illustrare i loro nomi e la patria loro con gli esempi generosi, facevano spesso più male che bene. Iacopo Alamanni che noi conosciamo tra quei giovani il più audace, essendo lì quando la Provvisione passò nel Consiglio e più degli altri facendo rumore, si prese a parole con uno dei Capponi e uscirono insieme; sopravvenne uno dei Ginori, il quale unitosi al Capponi ebbe in quella collera e in quella calca una ferita dall’Alamanni, che si credette averlo morto: cominciò allora a gridare popolo e a chiamare quei della guardia che lo difendessero; ma niuno si mosse, ed i famigli degli Otto, preso l’Alamanni, lo condussero prigione dentro al Palazzo. Qui erano, oltre alla Signoria, gli Otto e i Dieci chiamati a formare insieme quel terribile tribunale dal quale era stato tolto via il ricorso al popolo nel Consiglio Grande: il Gonfaloniere intimidito gli radunò perchè dessero sentenza intorno a quel fatto. Nello Statuto è un’antica legge la quale dichiara casi di Stato le aggressioni commesse in Piazza o intorno al Palagio: allora quei giudici erano chiamati a giudicare un uomo già inviso a loro, in quella febbre di passioni [225] e di paure, e dentro il tempo che è necessario a far girare tra pochi un partito. Andò che fosse l’Alamanni esaminato e non si vinse; andò che fosse condannato a morte, e si vinse; nella sera stessa fu l’Alamanni decapitato, cinque ore dopo commesso il misfatto. Si trova che egli in sul morire, senza che gli uscisse parola vile, dicesse: «Se il popolo di Firenze farà così aspramente giustizia a ciascuno, io sono certo che e’ manterrà la libertà sua.[173]» L’Alamanni era giovanissimo; e se veramente disse quelle parole, avrebbe la condanna privato Firenze d’un gran cittadino.

Per questo fatto parve agli autori di quel tempo (e forse a taluni parrebbe del nostro) che fosse cresciuta reputazione a Niccolò e alla sua parte, poichè avevano potuto quello che a tanti spiaceva, senza che persona si muovesse, ed i contrari mostrandosi deboli o male uniti. Nè io dubito che nel primo caldo paresse questo a Niccolò; ma tosto poi si vidde egli le inimicizie diventare odii, e molti amici essergli più freddi, e la cittadinanza quieta da lui alienarsi. Agli uomini che sappiano di essere tenuti generalmente buoni, è inciampo l’uso continuo del potere, perchè il mantenerselo ad essi pare che sia un obbligo com’è un impegno; e il solo attraversarsi ai loro pensieri, si credono essere un atto malvagio. La parte che seguitava il Gonfaloniere già era chiamata la parte dei pochi, mentre la contraria molto ingrossata, diveniva più forte ogni giorno. In questa si era fra tutti innalzato un uomo di piccola e oscura famiglia, Baldassarre Carducci, dottore in Padova di leggi, sincero amatore di libertà e nemico ai Medici, tanto che il Papa col mezzo del doge Andrea Gritti lo fece mandare prigione in Venezia. Tornato in patria Baldassarre e in somma grazia del popolo, era stato le due [226] volte vicino a ottenere il supremo Magistrato: infine il Capponi, che lui temeva sovra ogni altro, riuscì a farlo eleggere ambasciatore in Francia, dove al Carducci, sebbene vecchio di settant’anni, convenne andare senza ottenere per grazia il rifiuto ch’era vietato dalla legge. Rimase in Firenze uno di quella stessa famiglia, ma più valente e fresco d’animo[174] e più risoluto, di nome Francesco, il quale fino allora poco noto, ebbe grande parte nei fatti ultimi di questa Istoria.

Dacchè fu il Papa tornato in Roma avea nell’animo un pensiero solo, quello di rimettere la Casa Medici in Firenze; il che in altri termini importava racquistarne il principato così da trasmetterlo a quelli dei quali si aveva fatto la sua famiglia. Intorno a questi le cose mutarono su’ primi dell’anno 1529: il Papa infermava, e nel pericolo della vita questa passione lo tormentava, che morto lui non avrebbe più la sua Casa fondamento nella Chiesa: con questo pensiero creò Ippolito cardinale. Io per me credo che ne avesse prima fatto il disegno, ma nella sottile malizia dei Fiorentini l’avere ad un tratto chiamato al futuro governo dei popoli il figliuolo della schiava, dava occasione alle dicerie fino a credere che Alessandro nascesse da lui. Guarito il Papa, erano continue fra Roma e Firenze le pratiche, allora bastando a Clemente che i suoi potessero tornare in patria e al possesso delle robe loro, senza altro grado che di cittadini. Nel quale partito molti vedevano un inganno; ma pure in quella natura timida di Clemente, ora abbassato dalla fortuna, e che spesso compariva simulatore quando era dubbioso, poteva alle volte per davvero entrare il concetto di un cosiffatto accomodamento ed egli contentarsene per allora. Nel nome di lui trattava in Roma queste cose Iacopo Salviati, che sempre ai due Papi suoi parenti aveva consigliato i larghi partiti; [227] ed in Firenze il Gonfaloniere senza molto celarsene le ascoltava. Forse al Capponi cotesto modo non pareva del tutto impossibile, o forse credevano egli e Clemente di addormentare l’uno l’altro con questi discorsi. Ma intanto in Firenze del solo tenere in Roma pratiche si faceva un grande carico al Gonfaloniere, al quale una volta ne fu dato formale divieto; ma egli nonostante continuava, sebbene allora con più segretezza. Veramente al solo pensare come Carlo V oggimai fosse non disputato padrone d’Italia, ed al vedere come egli ed il Papa già dessero segni tanto manifesti quanto credibili d’accostarsi; è naturale che Niccolò con quel suo animo e quella sua natura tenesse i Medici come inevitabili, nè altro cercasse alla patria sua che un qualche onesto nè troppo duro temperamento. Avrebbe egli pure bramato fare gli Ottanta a vita, e ridurre il Consiglio Grande a cinquecento, perchè deliberasse le cose di meno importanza.

Avvenne che un giorno del mese d’aprile cadesse di mano a Niccolò una lettera, e che fosse questa nell’andito dei Signori trovata da Iacopo Gherardi il quale era Proposto quel giorno. La lettera scritta in Roma da un Giachinotto Serragli, del quale soleva molto valersi Iacopo Salviati, diceva avere egli da parlargli di cose importanti, e che mandasse Piero suo figliuolo ai confini dove l’aspettava. Era il Gherardi fra tutti i nemici di Niccolò il più fiero; laonde senz’altro chiamati gli altri Signori a consulta, e fatto prima empire il Palazzo d’amici suoi, mostrò la lettera, e in quella parendo fosse tradimento, deliberarono convocare in forma di Pratica gli Ottanta insieme coi principali Magistrati. Aveano già messo il Gonfaloniere sotto guardia; il quale venuto innanzi alla Pratica parlò umilmente, accusò sè stesso, ma dichiarando che Piero suo figliuolo non aveva colpa. Fu quindi deposto, e si cominciò a ragionare del gastigo; già nella Piazza era gran rumore e gente in arme e un gran contrasto di [228] amici e nemici di Niccolò. Dentro al Palazzo quella parte d’Ottimati i quali, sebbene avversi a lui, pure non volevano mandare le cose tant’oltre, ottennero che al giudizio si soprassedesse, venendo intanto a fare lo scambio del Gonfaloniere: rimase eletto Francesco Carducci da continuare fino alla fine di quell’anno. Ma intanto gli amici di Niccolò e tutta la miglior parte si adopravano caldamente in suo favore. Fu il giudizio rimesso ai Magistrati ordinari che erano in quel caso, per una più antica legge, la Signoria e gli Otto e i Dieci e i Collegi: dovea la sentenza essere vinta per i due terzi. Comparve innanzi a questi il Capponi, e parlò allora con maggiore animo: fu quindi assoluto, con molto contento degli uni perchè lo avevano deposto, degli altri perchè non lo avevano condannato. Uscì di Palagio accompagnato da’ parenti e dagli amici tra molto popolo, tantochè pareva che tutto Firenze gli fosse dietro: così tornò a casa.[175]

In questi giorni erano molto innanzi le pratiche tra ’l Papa e Cesare facilmente convenuti quanto a ricondurre, se fosse bisogno, la Casa Medici in Firenze. Ma sopra ogni cosa Clemente bramava tornasse chiamata dalla città stessa: questa passione lo tormentava, pensando inoltre quanto importasse ai negoziati trattare egli come principe in Toscana, e non come esule che implorasse in patria il ritorno dalle armi Imperiali. A questi pensieri doveva servire l’abboccamento che Iacopo Salviati offriva in Roma e dove mi tengo certo che avrebbe offerto larghissimi patti; ma ora Clemente si vedeva chiuso qualsiasi adito in Firenze, dove la parte a lui più nemica teneva lo Stato. Perciò si affrettava molto a collegarsi con l’Imperatore, già male disposto verso un popolo tutto guelfo e tutto francese come era quello dei Fiorentini che nulla avean [229] fatto per conciliarselo, nonostante che taluni a ciò gli avessero esortati, e primo fra tutti Luigi Alamanni, gentile anima di cittadino e di poeta, che nell’esilio avea praticato le cose del mondo ed era in Genova con Andrea Doria in molta amicizia. Quando negli ultimi giorni del 1528 Baldassarre Carducci passava per quella città nell’andare ambasciatore in Francia, recatosi a visitare la nuova Signoria formata dal Doria, il grande uomo gli si era aperto con tale consiglio. Lasciamo parlare lo stesso Carducci in una lettera scritta ai Dieci: «Finita l’udienza, tirandomi a sè e discostandosi alquanto da’ circostanti, mi disse che non mediocre pericolo soprastava non solamente sopra l’una e l’altra Repubblica ma sopra tutta Italia: continuava, potere egli affermare certissimamente come il Re, non cercando altro che la pace e la recuperazione dei figliuoli, aveva dato il foglio bianco perchè si potesse l’Imperatore insignorire di tutta Italia senza riservo nè distinzione di amici. Al che si vedeva poco rimedio, considerate le operazioni sinistre e poco a proposito di questi Franzesi: non di manco ne confortava le VV. SS. a pensar bene ai casi vostri, che sotto la speranza loro non vi depauperassi e estenuassi tanto di forze, che nei casi di necessità non vi potessi prevalere.» Alle quali parole il Carducci contrapponendo come «sarebbe possibile che, unite insieme tutte le forze Italiche, si potesse sperare qualche refugio; e quando questo non seguisse, a noi è necessario di persistere nella solita fede del Cristianissimo, con l’aiuto del quale e con le forze de’ collegati probabilmente si potrebbe evitare tanta jattura;» il Doria, che aveva altro intelletto ed esperienza, noiato rispose, che al presente bastava questo, ma che «se le VV. SS. volessono intendere più oltre, mandassero un uomo loro, ed egli gli aprirebbe interamente il suo concetto.[176]» [230] Era il disegno di Andrea Doria più che la speranza, mantenere in forze gli Stati d’Italia perchè, senza logorarsi in vani conati, potesse ciascuno, con qualche fiducia l’uno dell’altro, fare argine alla nuova e inevitabile prepotenza. In questo concetto mandava più tardi Luigi Alamanni alla Signoria di Firenze, dove nelle Pratiche quella proposta ebbe difensori, ma popolarmente l’Alamanni non trovò ascolto e cadde in sospetto.[177] Non fu mai proprio di questa Repubblica governarsi dietro alle norme di quei concetti lunghi e complessi che sono di pochi e che hanno bisogno di stare tra pochi; ma era popolo, cosicchè poteva in esso più che altra cosa il sentimento.

L’imperatore Carlo V in Barcellona venuto per indi passare in Italia, avea sottoscritto l’accordo col Papa il giorno 29 del mese di giugno 1529, festa di San Pietro. Di questo Trattato fu primo punto, che la Casa dei Medici dovesse a spese comuni essere rimessa, nel grado che prima teneva in Firenze, promettendo inoltre la Maestà Cesarea di maritare ad Alessandro dei Medici una sua figlia naturale avuta in Fiandra di nome Margherita, tuttora impubere. Altresì prometteva dare mano perchè la Chiesa riavesse dagli attuali detentori i luoghi ch’erano di sua pertinenza: cominciò allora lo stato ecclesiastico ad essere effettivamente posseduto e governato dai Pontefici. In tutto questo Clemente aveva i primi vantaggi; ma otteneva Carlo di togliere via lo scandalo d’uno Stato popolare in mezzo all’Italia, e aggiungere qualche cosa d’austriaco alla sovranità che in Firenze sarebbe venuta nel nome del Papa: questi era per quel trattato medesimo tenuto in briglia dal lato di Napoli, allora essendosi annullato anche l’antico divieto di porre sul capo stesso oltre alla Corona imperiale quella delle Sicilie. Come [231] Re spagnolo, premeva a Carlo di cancellare la recente ingiuria fatta al Pontefice; come Cesare, voleva rialzarne l’autorità in faccia ai Luterani, e contrapporre l’unità cristiana alle armi del Turco, le quali andavano contro a Vienna stessa. Voleva dal Papa l’incoronazione, la quale però non fosse più quella investitura che i Cesari avevano da prima obbligo di cercare sopra alle tombe degli Apostoli, ma come una semplice consacrazione a lui recata dal Papa medesimo fuori di Roma. Tale effetto ebbe quel Trattato per cui cessava tutto il diritto che aveva governato l’età di mezzo; cosicchè in faccia al mondo cristiano nè Papa nè Imperatore furono più quello che erano stati oltre a settecento anni, venendo allora sotto un principio meno ideale a separarsi quella mistura di Chiesa e di Stato, che all’Impero dava quasi un sacerdozio e al sacerdozio attribuiva universalmente gli uffici del regno. D’allora in poi nessun altro Imperatore venne in Italia per la corona.

Francesco I re di Francia, stanco delle guerre che sempre gli erano riuscite male, bramoso di attendere unicamente ai suoi piaceri e molto poi di ricuperare i figli, i quali erano da tre anni come pegno tenuti in Ispagna, cercava la pace che in modo diverso il fortunato suo rivale anch’egli cercava. A questo la troppa e sformata vastità d’impero creava ogni giorno la necessità d’imprese a cui, se null’altra cosa gli mancasse, mancava il danaro; quindi è che rendere per moneta il pegno che aveva nelle mani fu la prima condizione da lui accettata, poichè l’esperienza gli ebbe insegnato non essere calcolo egualmente buono smembrare la Francia. Ai 7 di luglio due donne convennero in Cambray, Luisa di Savoia madre di Francesco e Margherita d’Austria zia di Carlo V governatrice dei Paesi Bassi, quella che aveva nel luogo stesso venti anni prima trattato la Lega contro a’ Veneziani; tra quelle due donne sole furono messi insieme i capitoli della [232] pace. Pagò la Francia per la restituzione dei figli del Re in breve tempo un milione e dugento mila ducati, e per l’Imperatore al Re d’Inghilterra dugento mila; il Re prometteva non travagliarsi più nelle cose d’Italia, con la restituzione di tutto quello che ivi possedeva: la quale astinenza a lui e a’ Francesi sarebbe riuscita un grosso guadagno, ma vi era inchiuso il tradimento dei patti giurati e l’abbandono delle provincie per lui devastate e dei popoli che si erano in lui confidati e degli uomini che avevano a lui servito: i Baroni Angiovini delle Sicilie vivevano in Francia esuli e pezzenti. A tale vergogna discese il Re, che egli prometteva con le sue forze d’obbligare i Veneziani alla restituzione di quelle città le quali avevano essi acquistate combattendo in lega con lui. Per quanto durarono Francesco I e la sua schiatta, rimase avvilita la reputazione della Francia, e fu essa più debole.

Ma non avevano però mai cessato fino all’ultimo le grandi promesse da parte del Re ai Collegati, e massimamente ai Fiorentini che stavano peggio di tutti gli altri e che si erano più abbandonatamente in lui confidati. Nel mese di giugno il Re affermava: «non essere mai per fare alcuna composizione senza totale beneficio e conservazione di cotesta città, la quale reputa non manco che sua, e voler mettere la vita e abbandonare l’impresa de’ figliuoli per la conservazione e mantenimento degli Stati di ciascuno dei Collegati.» Ed il Gran Mastro: «Se voi trovate mai che questa Maestà faccia conclusione alcuna con Cesare, che voi non siate in precipuo luogo nominati e compresi, dite che io non sia uomo d’onore, anzi che io sia un traditore.» Quando il Congresso si riuniva, il Re mandato a interrogare, dichiarava il suo proposito fermissimo di spingere giù tutte le forze a lui possibili, e scriveva a Cambray, «che si faccia conclusione in tre o quattro giorni: parlavano in Corte della qualità dei soldati da mandare e della venuta del Re a [233] Lione.[178]» Ma intanto giungeva a Cambray il tedesco Arcivescovo di Capua, il quale era l’anima del Papa e di Cesare nel tempo medesimo: allora il modo fu trovato dai Cancellieri fiamminghi che maneggiavano quella pace; ed un articolo del Trattato comprendeva i Veneziani e i Fiorentini, purchè dentro quattro mesi avessero data soddisfazione circa ai loro obblighi verso l’Impero. Il che per Firenze importava fare Cesare solo giudice intorno a quei diritti, i quali abbiamo veduto non essere mai stati deposti dalla Curia Imperiale; talchè il modo come Firenze era nominata equivaleva ad una esclusione. Allora si diedero i Francesi a dire che il Re poi nel fatto avrebbe difesa la causa degli amici suoi, che avuti i figlioli non terrebbe conto di quel ch’avea scritto, che almeno avrebbe sovvenuto di danaro i Fiorentini; ma quando poi si venne a chiederli, il Gran Mastro diceva che il Regno troppo aveva da pagare, e che le cose grandi dovevano andare innanzi alle piccole: da ultimo disse, che certi quaranta mila scudi da pagare ad essi occultamente erano in pronto; ma poi si vidde che andavano a Renzo da Ceri perchè sgombrasse da un resto d’armi Francesi la Puglia. A questa serie d’inganni il Re si prestava stando egli lontano da Cambray a caccia con le dame, e per le ville con dietro gli Ambasciatori costretti seguire chi fuggiva la presenza e il commercio loro.[179] Sentiva il Re la sua vergogna, ma era facile a dimenticarla, svagato e leggiero e prono per indole alle seduzioni della Corte, che in Francia erano più che altrove atte a guastare allora e poi sempre l’animo dei Re.

Non è vero che Baldassarre Carducci con le sue lettere fomentasse le speranze le quali in Firenze si [234] mantenevano ostinate; grande politico non era egli nè grande scrittore, ma riferisce le cose udite, spesso aggiugnendo che non vi credeva; da ultimo consiglia con ogni istanza, «procurare qualche buona composizione con Cesare, atteso massime che il Re stesso non vi si opponeva.[180]» Baldassarre moriva in Francia pochi giorni dopo. Scrivevano lettere, secondo il pensare diverso d’ognuno, molti Fiorentini che ivi risiedevano, e tra gli altri Bartolommeo Cavalcanti, quel della Rettorica, che vi era mandato dalla Signoria; promesse, dai più non credute, venivano dal cardinale Giovanni Salviati, legato in Francia, dopo essere stato prima in Spagna pel matrimonio di Carlo V, nel quale avea fatto, come allora dicevano, le parole delle sponsalizie. Ma era in Firenze un solo pensiero, la difesa: non pochi avrebbero di buon grado seguito consigli più quieti e sicuri, ma di questi erano le volontà incerte, divisi i pareri; e gli animi disgregati non si univano a comporre nemmeno una setta. Il nuovo Gonfaloniere Francesco Carducci, portato dal popolo e uomo di parte, amava il popolo e la libertà; come uomo nuovo, si comportava modestamente coi cittadini di maggior grado, e nelle Pratiche gli ascoltava, cercando però di farsi forte nei Collegi, nei quali entravano per la sorte gli uomini più schietti e meno intendenti. Molto si era fatto amico ai Piagnoni, ed a volontà di questi elesse una seconda volta Cristo a Re di Firenze, con altre leggi intorno al costume e alla civile onoratezza: sotto a quello strano nome di Piagnoni si nascondevano allora gli uomini che riuscirono in arme più prodi, nè il Carducci mancò al suo debito in quelli estremi.

Non era peranche sottoscritta ma era sicura, perchè oramai fatta necessaria, la pace in Cambray tra Francia e Spagna, quando l’imperatore Carlo V salpato dal porto di Barcellona sulle navi che Andrea [235] Doria gli aveva condotte, discese in Genova a’ 12 agosto: lo accompagnava un’armata numerosa con nove mila fanti e mille cavalli: di Puglia salivano altri soldati Spagnoli e quattro mila venturieri Calabresi; alcune migliaia di Tedeschi venivano a rinforzo dell’esercito Spagnolo ch’era in Lombardia. Scendeva in Italia non contrastato arbitro e moderatore di nuove sorti: era l’Italia fino allora stata fucina dove gli ingredienti della vita morale dei popoli, prodotti o attratti in copia maggiore, facevano quasi una continua combustione; ma in questa l’Italia si era consunta, e oggi era espediente alle altre nazioni ch’ella si tacesse, che lasciasse fare, che non turbasse e non attraversasse quel moto interiore per cui ciascuno Stato compieva la sua speciale e propria formazione. L’Impero non era più altro oramai che cosa tedesca; ma Carlo V era spagnolo di genio, di educazione, di potenza e parte di sangue, fiammingo nel resto; l’ultima parte della sua vita non fu che una lotta contro alla Germania che lo respingeva. Discese in Italia dopo averla conquistata come re spagnolo, nè avrebbe voluto mai farla essere parte dell’Impero; col gius imperiale avrebbe l’Italia avuto una sorta d’unità servile; divisa com’era, si prestava bene a una spagnola dominazione. Carlo V, già signore in Napoli e nella Sicilia e nella Sardegna, aveva il possesso di quella mezza parte d’Italia che per il sito e per le nature dei popoli e per le comodità che dava l’accesso dal mare, la Spagna poteva tenere più facile e meglio difendere. Aveva Milano in sua balìa non per anco certa, ma sopra vi stavano i suoi soldati e le fortezze e Antonio da Leyva, al quale avea dato Pavia in appannaggio. A lui era Genova legata dai vincoli d’uno scambievole beneficio; Venezia con la restituzione degli acquisti fatti oltre ai confini del Po, abbandonava ogni altro pensiero il quale non fosse della sua propria conservazione. Rimanevano due repubbliche popolari, Siena [236] e Lucca: la prima cadde, ma generosamente, più anni dopo; l’altra col dare al popolo nome di Straccioni, rendeva legittimo un governo di Signori, che a lei fu permesso. Il Papa ritenne, ma più soggetti e più sicuri gli antichi suoi Stati, col restituire al Duca di Ferrara Modena e Reggio; l’Imperatore pigliava in protezione quello d’Urbino, e il marchesato di Mantova promosse a ducato. Faceva egli queste cose per trattati, o, come arbitro, per sentenze o lodi, pubblicati mentre era in Italia o poco più tardi. I Principi e i feudatari dell’Impero ed altri Signori con le donne e le famiglie loro a lui accorrevano in Bologna, dov’era col Papa: vi andò Carlo III duca di Savoia, ridotto allora in bassa fortuna; ma quella Casa dipoi si apriva con le armi il cammino ad altra grandezza. Tale assetto ebbe l’Italia in quell’anno, tale fu la sorte nella quale scese; per ultimo rimaneva da eseguire la condanna che il Papa e Cesare insieme avevano pronunziata contro alla Repubblica di Firenze.

Qui tutti frattanto pareva cercassero di fare inganno a sè medesimi col non credere agli accordi nè alla venuta di Carlo in Italia; poi confidavano che dovesse questi andare a soccorrere Vienna dai Turchi, e che allora il re Francesco, riavuti i figliuoli, cominciasse un’altra guerra pel bene d’Italia. Ma sotto agli inganni facili della mente stava un proposito, che si avvalorava molto in quei giorni anche dal sapersi che il Papa era stato più volte in pericolo di vita per mali di stomaco dai quali non s’era mai bene rimesso; e s’egli venisse a morte, nessuno a Casa Medici più non baderebbe. Ma importava sempre alla Repubblica di acconciarsi con l’Imperatore e averlo propizio comunque volgessero i casi avvenire: per questi motivi fu nella Pratica vinto di mandare a Genova quattro ambasciatori, e il Gonfaloniere fece che nei Consigli fossero scelti a quell’uffizio anche uomini tenuti amici a Clemente, Niccolò Capponi e Matteo Strozzi, a questi [237] mettendo a contrappeso due principali della contraria parte, Raffaello Girolami e Tommaso Soderini: ai quattro vollero che si unisse Luigi Alamanni come sotto ambasciatore. In Genova tosto si appresentarono al Doria, che gli accolse dicendo: «Tardi veniste e in mala ora.» Nè avevano mandato se non di prestare omaggio a Cesare e implorare il suo favore per la conservazione dello Stato e della libertà loro. Del Papa non fecero menzione alcuna in quel discorso solenne; al quale rispose Carlo freddamente, che al Papa solo doveano rivolgersi quanto all’aggiustare le loro faccende. Il Gran Cancelliere parlò dell’antico diritto imperiale nella Toscana, come i curiali di Massimiliano venti anni innanzi; ma ora più che il diritto, il fatto valeva. Nuove istruzioni erano da chiedere, ma impossibile accordarsi tra gli Ambasciatori sul modo e sulle cose da scrivere a Firenze; composero a grande stento una lettera comune, intorno alla quale si disputò molto quando ella fu giunta: se fuori una grande necessità stringeva, una contraria premeva dentro sovra i consigli dei governanti. Sapevano bene essere vano ogni temperamento, dacchè i Medici e la libertà più non potevano stare insieme: qui era la somma di tutto il negozio; ed in quella Commissione, senza nominare il Papa, erano parole contro a chi faceva guerra a Firenze col solo fine di opprimere questa libertà stessa. Non credo che molto queste parole commovessero Carlo V, che prima di uscire di Spagna ebbe cura di mettere a morte gli ultimi difensori di quegli antichi solenni diritti su’ quali aveva base il regno dell’Aragona.[181]

[238]

Carlo dipoi si recò a Piacenza, per ivi dettare le condizioni sotto alle quali si adattò a riporre lo Sforza in Milano; lo seguivano gli Ambasciatori fiorentini, ma giunti alle porte di Piacenza, fu ad essi vietato l’entrarvi: stavano appresso all’Imperatore come Legati pontificii il decano del Sacro Collegio Alessandro Farnese che poi fu Paolo III, e il giovane cardinale Ippolito de’ Medici.[182] A quel rifiuto l’Ambasceria fiorentina si disciolse: Tommaso Soderini si recò in Lucca, Matteo Strozzi andò in Venezia ai suoi Banchi; Raffaello Girolami, uomo ambizioso di popolarità, venne solo in Firenze, dove appena giunto e con gli stivali in piede andò in Palazzo a dire novelle che più accendessero le speranze. Niccolò Capponi scriveva in contrario lettere e consigli appassionati perchè s’accordassero; venne fino a Castelnuovo di Garfagnana, dove s’incontrava con Michelangiolo Buonarroti, che tristo e temendo il peggio si era partito da Firenze. Ma Niccolò, trattenuto in quel luogo stesso da febbre, moriva dopo alcuni giorni; e le ultime sue parole furono: «Dove abbiamo noi condotto questa misera patria?[183]»

Capitolo IX. APPARECCHI DI GUERRA E NEGOZIATI. — STATO DELLA CITTÀ. PRIMI SEI MESI DELL’ASSEDIO. [AN. 1529-1530.]

Tanto era l’Imperatore frettoloso di compiacere a papa Clemente, che appena fermato in Barcellona l’accordo aveva dato commissione al Principe d’Orange, vicerè in Napoli, di mettere insieme le genti e condurle [239] dovunque il Pontefice imposto gli avesse. Le quali nel mentre che si congregavano, giungeva l’Orange il giorno ultimo del luglio in Roma con cento cavalli e forse mille archibusieri per conferire col Papa; nè senza difficoltà essendo convenuti, il Vicerè ai 19 d’agosto era in Terni, dove l’esercito si doveva raccogliere. «In questo tempo non si vedeva altro per Roma che spennacchi, altro non si sentiva che tamburi;» ed erano tanto grandi la cupidigia e la certezza di saccheggiare Firenze, e massime negli Spagnoli, che vi ebbero di quelli i quali, dubitando non giungere in tempo, a chi gli aveva trattenuti protestarono danni e interessi sopra il sacco di Firenze. Si fece la massa tra Fuligno e Spello nei confini di Perugia: i Tedeschi non arrivavano a tremila cinquecento, ma tutti erano di quelli i quali condotti in Italia da Giorgio Frundsberg, erano alla peste di Roma e alla fame di Napoli avanzati, e per conseguenza veterani e valentissimi. Cinque mila erano gli Spagnoli rimasti in Puglia un poco indietro col loro capitano marchese Alfonso del Vasto: più tardi Ferrante Gonzaga, giovane ancora, conduceva trecento uomini d’arme e ottocento cavalli leggieri; più tardi ancora, di Lombardia scesero quei famosi Bisogni Spagnoli, terribile nome di gente lacera e affamata. Man mano arrivavano con le genti loro i colonnelli; Pier Luigi Farnese, che fu il primo a comparire, quattro dei Colonnesi, un Savelli, uno dei Rossi conti di San Secondo, e Alessandro Vitelli che menò tremila buonissimi fanti. Altri raggiunsero l’esercito presso a Firenze, altri più tardi. Giovanni da Sassatello scese da Bologna con tremila soldati; Ramazzotto, gran capo di Parte in quelle montagne, avendo occupate Firenzuola e Scarperia, di là predava tutto il Mugello ed impediva le vettovaglie; Fabrizio Maramaldo, con forse tremila de’ suoi Calabresi non pagati e nemmeno essendo condotto, come altri che non tiravano soldo, se ne andò a predare prima in [240] sul Senese e poi in quel di Volterra, senza consentimento del Papa. Nel forte di quella guerra si può dire che sotto alla città di Firenze e nel suo dominio si trovassero più di quaranta mila uomini da guerra, senza i venturieri che disordinati seguitavano il campo in un gran numero sulla speranza del saccheggio e delle prede. Con tale apparecchio Clemente da principio si era fatto a credere che l’impresa di Firenze gli riuscirebbe agevole cosa; tanto che avendogli Carlo profferto di fare sbarcare alla Spezia un certo numero di soldati, non volle, perchè non gli parevano necessari, e perchè fosse almeno salvata dal guasto quella bella parte di Toscana.[184]

Contro alla piena di tanti nemici, quali apparecchi si facessero dai Fiorentini diremo tra poco. Sapevano bene di essere derelitti dai Veneziani e dal Duca di Ferrara, ultimi avanzi di quella Lega la quale non era più che un nome vano. Avevano sulla fine del precedente anno fatto Capitano generale di tutte le genti loro Ercole da Este, figlio primogenito del duca Alfonso, con patti gravosi ma effetto nessuno; finchè alla venuta di Carlo in Italia, il Duca cercando propiziarselo, disdisse ai Fiorentini la condotta del figlio, e indi si pose coi loro nemici. Pei Veneziani stava in Firenze un ambasciatore, che era in quel tempo Carlo Capello, dalle cui lettere si apprende come fino dal mese di giugno nè i Fiorentini mai cessassero dal chiedere aiuti secondo i patti, nè i Veneziani dal rispondere che avevano troppo da fare e da spendere in Lombardia; ivi erano i confini ch’essi volevano mantenere, il Senato avendo fermato nell’animo già l’abbandono di ogni possesso nel resto d’Italia. Più volte da Firenze avevano chiesto facesse almeno la Signoria di Venezia muovere i soldati, i quali stavano in Ravenna e in Cervia, e altri in Urbino: questo consigliava lo [241] stesso Capello, mettendo innanzi che se i Fiorentini per disperazione cedessero, non sarebbe ai Veneziani buona cosa rimanere soli e ultimi quando convenisse loro di fare la pace.[185] Ma intorno a ciò nulla rispondeva quella Signoria, tenendo il cuore già occupato da un solo pensiero, salvare sè stessa; che pure all’Italia fu gran benefizio.

Come principio della guerra, Clemente ordinò al Principe d’Orange di farsi innanzi contro a Perugia. Teneva quello Stato come signore Malatesta Baglioni, capitano di qualche nome, venuto ai soldi della Repubblica fiorentina, com’era stato il fratello Orazio; entrambo figli di Gian Paolo, fatto morire da Leone X. Fu qualche disputa in Firenze circa al soccorrere Malatesta, il ch’era un mettersi apertamente in guerra col Papa: ma vinse il consiglio ch’era più animoso, e tosto mandarono tre mila buoni fanti a difesa di quella città. L’Orange aveva, dopo a una molto viva battaglia, già occupata Spello, ed era fin sotto alle porte di Perugia, quando Malatesta dopo lunghe pratiche, nè senza il consentimento dei Fiorentini, venne seco agli accordi. Le condizioni furono, che Malatesta dovesse lasciare Perugia libera ai ministri del Papa, uscendone egli con le genti pagate dai Fiorentini, e ritenendo tutte le possessioni sue e le castella che aveva nello Stato, senza che vi entrassero altri dei Baglioni, i quali erano suoi nemici. Queste allora parvero condizioni eque anche a Firenze; dove sebbene fosse grande il desiderio di tenere la guerra lontana, pareva non essere consiglio prudente lasciare esposto un tal numero delle loro genti alle armi nemiche, non che alla fede sempre dubbia di un condottiero. Quanto a Malatesta, è verisimile che, oltre all’avere egli tutta la casa e la roba sua come pegno in mano del Papa, sperasse meglio da un accordo che dalla sorte delle [242] armi per sè e per la stessa città di Firenze. Aveva seco in questa opinione allora i politici tutti d’Italia: ai Fiorentini era trista sorte fidare sè stessi in mano d’un uomo a cui non bastava la morte del padre perch’egli potesse mai tutto essere cosa loro.[186]

Usciti di Perugia i soldati fiorentini, vennero fino ad Arezzo per la via de’ monti, sicura da ogni assalto nemico. L’Orange entrato ai 14 settembre nello Stato della Repubblica, pose il campo sotto a Cortona, dentro alla quale essendo alcuni buoni capitani con le loro bande, convenne ai nemici andare all’assalto scalando le mura, che tutto quel giorno fecero gagliarda difesa con la morte di non pochi soldati di conto; guidava l’assalto il Marchese del Vasto, che vi ebbe una leggera ferita. Ma il giorno dopo i terrazzani, temendo il saccheggio, vennero a patti, e con lo sborso di ventimila ducati aprirono le porte, lasciatine uscire liberi i soldati. Proseguì l’Orange più innanzi; e perchè Castiglione Aretino, o Fiorentino che lo chiamassero, avea fatto qualche cenno di difendersi, vi entrò a forza; e la terra fu saccheggiata, e molti uomini e donne fatti prigioni. In Arezzo era commissario Anton Francesco degli Albizzi, uomo di vario ingegno, il quale al primo accostarsi dei nemici d’accordo col Malatesta, e come alcuni dissero col Carducci, lasciata con pochi armati la rôcca, abbandonò Arezzo, condottosi fino a Montevarchi. Era pensiero del Gonfaloniere, che Arezzo male potesse tenersi, massime con quelli ardenti spiriti degli abitanti, e che più savio consiglio fosse difendere il cuore (come dicevano), riducendo tutte le forze intorno alla città di Firenze. Il che si vidde anche alla prova, gli Aretini avendo accolto i nemici, dai quali con vana gioia si credevano avere licenza di governarsi da sè stessi. Intanto si erano i nostri ritirati sino a Figline; di dove, parendo ai Capitani [243] di avere mal fatto, rimandarono verso Arezzo, con Francesco dei marchesi del Monte, mille soldati; i quali trovando la città perduta, tornarono indietro, quando già gli altri alla sfilata, e facendo guasti per tutta la via, si continuavano a ritirare fin sopra a Firenze: cosicchè l’Orange, venuto innanzi, poneva egli stesso il campo in Figline ai 27 di settembre. Si fece intanto padrone del Casentino, dove quei di Bibbiena cedevano tosto al nome dei Medici; e Poppi si arrese dopo avere sostenuto non piccola guerra, patteggiando che uscissero libere le genti che vi erano della Repubblica.[187]

In Firenze da principio le lettere degli Ambasciatori a Carlo V e la guerra immediatamente mossa, avevano prodotto grande travaglio e confusione; in mezzo alla quale si fece una Pratica di settantadue cittadini scelti d’ogni colore, dove erano dei più noti amici dei Medici e molti prudenti consigliatori delle vie di mezzo, per deliberare se quelli Ambasciatori dovessero avere mandato libero. Dopo molto disputare, la Signoria fece andare il partito, il quale fu vinto con tutte le fave nere, eccetto quattro. Di questa risoluzione volle farsi un qualche mistero, ma trapelò in Piazza; onde quei che uscivano dalla Pratica ebbero a patire ingiurie e minaccie da uomini armati: fu tutto quel giorno un andare e venire di cittadini in Palazzo e intorno alla Signoria. Infine il Gonfaloniere licenziò tutti, e dietro al mandato andarono le commissioni, dove era spiegato che la libertà si mantenesse ad ogni modo. Tuttociò rimase inutile dopochè l’Ambascerìa si era disciolta.[188]

Ma poichè Cesare aveva espressamente ingiunto rivolgersi al Papa, nominarono quattro Ambasciatori i quali andassero a Roma; e perchè taluni dei nominati rifiutarono, e molte difficoltà nacquero prima di allestire le commissioni, mandarono in poste il solo [244] Pier Francesco Portinari che era stato per la Lega ambasciatore in Inghilterra, ed ora aveva incarico di fare istanze presso al Pontefice perchè intanto fermasse l’esercito. Andò il Portinari, e subito ammesso, fece la commissione; a cui rispose Clemente: «Avere grandissimo dispiacere che li modi nostri avessino causato tanto tristo effetto; dicendo non avere manco affetto alla patria sua che qualunque altro cittadino. — Quanto all’esercito, rispose non essere al tutto in suo potere ritenerlo, massime quando fossi tanto vicino alla preda, che appena fossi in potere dei Capi il farlo: il che si doveva avere previsto, e non indugiare che le cose fossino in questo termine; dolendosi, oltre molte altre cose, e dello essere stato infamato e vilipeso, ancora di questo, che non si fossi mai voluto mandarli oratori. Il che excusai con la difficoltà del condursi tale opera per il consenso di molti: e alle querele che faceva, dissi non essere tempo di giustificare molte cose, essendo necessario più presto riparare al futuro che dolersi del passato. E perchè il tempo era breve, avvicinandosi l’esercito alla città, pregai Sua Santità che dovessi senza intermissione di tempo provvedere a tanti danni, dei quali potevano patire ancora gli innocenti, e che a quella, come uomo e come Vicario di Cristo, grandemente dispiacerebbono. Domandommi se le commissioni che avevo erano libere come il mandato; a che dicendo avere autorità di poter trattare e concludere tutto, salva la libertà e il presente popular governo; disse, questo non bastare, non potendo alterare i Capitoli aveva con Cesare, delli quali uno in fra gli altri, come volle leggessi, contiene che li suoi abbino a esser rimessi nella città con la medesima autorità che avevano avanti al 26. Al che risposi: Cesare essere per contentarsi in questo di quello che volessi Sua Santità, la quale non doveva volere altro che il giusto. Disse, voleva prima recuperare l’onor suo; dipoi faria che cotesta città [245] conoscerebbe che lui vuole conservare la sua libertà. Al che risposi: che io vedevo grandissima difficoltà in far capace alle menti di molti, che Sua Santità fosse di tale buon animo; e sebbene alcuni gli presteriano fede, molti altri, per la grande gelosia che hanno, non sariano di tale animo. Ed essendo gli uomini di costì disposti al conservare al tutto la libertà, ne seguirebbe che gli nemici non spugnando la città, rovinerebbero tutto il contado; al che poteva Sua Santità facilmente riparare con il far fermare l’esercito, ed io intanto farei noto l’animo suo a Vostre Signorie. Circa a che ha promesso questo giorno spedire uno al Principe d’Orange, significandogli che non venga avanti; e se fossi venuto, fermi le offese; e per poter trattare più efficacemente in tal cosa, dice domani mandare monsignore Arcivescovo di Capua al prefato Principe per far tale opera; il che il tutto ha voluto fare con partecipazione e con consenso dell’Oratore Cesareo. Avrà il detto Arcivescovo, come dice Sua Santità, libero mandato e commissione di poter comporre con Vostre Signorie, le quali potranno riconoscere per la prudenza loro quello sia da operare e come sia da governarsi con il prefato Arcivescovo. Mostra Sua Santità aver preso tale spediente di mandare l’Arcivescovo, non manco per essere ottimo istrumento con il Principe, e poter facilitare la cosa, che per potere comodamente costì trattare quello che non aspetta lunghezza di tempo, nè risposte che vadino di qui. Ha Sua Santità molto confortato che costì non si manchi delle debite provvisioni per resistere a questi impeti, e non manco all’essere uniti; circa a che gli ho fatto intendere, che e dell’uno e dell’altro è da stare di buon animo. — In che m’ingegnai confermarlo, mostrando in tanta buona opera non essere altra difficoltà che il far noto a cotesto popolo Sua Santità non volessi dominarlo; e con affetto d’amore, e non per timore, li sarebbe d’aiuto in ogni buona [246] azione. Sua Santità mostra con le parole e con li gesti avere buona mente circa questo: e Iacopo Salviati molto asseverantemente lo conferma, dicendomi tener per certo Sua Santità non impedire mai la libertà nostra. — Francesco Nasi, il quale è stato sempre alla presenza e intervenuto in tutti i ragionamenti, farà noto a Vostre Signorie il tutto, acciò quelle per la prudenza loro discorrino quanto sia da operare a benefizio della città e libertà di essa pregando Iddio che le inspiri alla salute di essa; ricordando a quelle con la debita reverenza, che non manchino della cominciata provvisione per resistere a questi primi impeti.» Questo scriveva il Portinari;[189] pochi giorni dopo andavano in Roma gli altri tre ambasciatori, che furono Iacopo Guicciardini, Andreolo Niccolini e Francesco Vettori; ma non poterono che più tardi alquanto esporre il mandato.

Avevano ancora inviato all’Orange Rosso Buondelmonti, che trovatolo sotto Cortona e tenendosi, come gli era imposto, sulle generali, non ebbe ascolto; ed una volta gli disse il Principe, non sapere quello che si facesse lì: ma pure avendo continuato a seguitarlo sino a Figline, conversava seco nel suo privato amicamente, e lui e gli altri maggiori Capitani manteneva di vino e di altre lautezze in nome della Signoria: la quale mandava poi altri nunzi ed oratori, uno Strozzi, un Ginori, un Marucelli, e da ultimo Bernardo da Castiglione, uomo di maggior conto, che raggiunse il Principe a Figline. Quivi era giunto l’Arcivescovo di Capua, col quale i negoziati furono più stretti, ma senza uscire dai soliti termini. Ve n’ebbero pure con l’Orange e con Antonio Muscettola che ivi stava per l’Imperatore, ed era quello che governava il tutto: nè pare mancassero discorsi di riscattarsi per danaro con modi segreti; ma in Firenze la povertà stessa del Gonfaloniere [247] induceva molti a dubitare della integrità. Era prima l’Arcivescovo stato in Firenze; ma perchè diceva non avere espresso mandato, e che solamente s’intrometterebbe volentieri tra la Città e Sua Beatitudine, riuscendo la sua presenza odiosa a molti, ebbe onesto commiato, e come per fargli onore, fu in arme fatto accompagnare fuori della porta San Niccolò, sicchè non potesse favellare con alcuno.[190] Ma pure i negoziati non cessavano; ed a suggerimento dell’Orange, andava un messo a Cesare, che non volle riceverlo. Dagli amici del Papa o dai prudenti d’ogni gradazione si facevano intanto proposte di varie sorte d’accomodamenti, che tutti avrebbero in fine condotto per vie più torte e meno decorose al principato di Casa Medici, quando ella una volta fosse tornata in Firenze. Ma i quattro Oratori, pervenuti non senza qualche difficoltà in Roma, udivano sempre le stesse ingiunzioni di rimettersi al Pontefice e in lui confidare. Non però ebbero da Clemente udienza, essendo già questi sul partire per Bologna, dov’egli recavasi a ricevere l’Imperatore; lo seguitarono, e in Cesena finalmente uditi, anche lì ebbero, ma privatamente, di quelle proposte le quali in Firenze nemmeno si volle che fossero riferite. Qui era la guerra già solennemente decretata quando vi tornarono gli Ambasciatori, dei quali il solo Francesco Vettori rimase col Papa.[191]

Imperocchè mentre il Principe d’Orange stava in Figline e con lui tuttora continuavano i ragionamenti, Francesco Carducci Gonfaloniere chiamava nel Consiglio degli Ottanta una Pratica larga nella quale potessero intervenire tutti i Benefiziati.[192] In essa lette le [248] lettere degli Oratori, il Gonfaloniere si alzò dicendo: ciascuno esponesse quello che sentiva liberamente perchè egli, quanto a lui si spettava, tutto quello che da loro determinato fosse, era non solamente per approvare come utile, ed eseguire come onorevole, ma eziandio commendare come onesto: che se a loro paresse, a lui bastava la vista di difendere la libertà di Firenze. Ricordassero la promessa fatta in nome di tutto il popolo fiorentino a Gesù Cristo figliuolo di Dio, di non volere mai altro re accettare che lui solo: il quale pareva che della promessa loro si ricordasse, poichè aveva mandato Solimano imperatore dei Turchi con trecento mila uomini e infinita cavalleria fino alla reggia stessa Imperiale. Le forze dei Fiorentini essere di quello che si stimava maggiori assai, e quelle del Papa e dell’Imperatore molto minori; le mura della città gagliarde; la terra fornita d’artiglieria d’ogni sorta; ed oltre ai soldati forestieri, la loro milizia di tale virtù che potevano, purchè fussono d’accordo a volersi difendere, stare sicurissimi contro ogni sebbene fortissimo esercito: non essere per mancare loro le vettovaglie nè i danari, essendo la città ricca e i cittadini pronti a dare ogni cosa volentieri per salvare l’onore e la libertà della patria loro. Si tacque dopo queste parole il Carducci; e i cittadini ristretti tra loro a dare il voto, dopo avere lungamente consultato, tutti i sedici Gonfaloni, eccetto uno, quello del Drago Verde nel Quartiere di San Giovanni, deliberarono: «anzichè perdere la libertà loro, sostenere non solamente la ruina del contado e la jattura delle facoltà, ma eziandio porvi la propria vita, offerendo ognuno volontariamente quella quantità di danari che comportavano le forze sue.» Il giorno dopo decretarono di non tardare più, e che all’indomani si rovinassero e si abbruciassero tutti i borghi della città, non avendo rispetto a molti bellissimi palazzi e luoghi religiosi. Trascriviamo le parole che l’Ambasciatore di Venezia [249] scriveva in quei giorni ai suoi Signori. Ivi non si era usi fare grande stima della Repubblica di Firenze; ma il Capello reca testimonianza «del grande animo e dell’abbandono che tutti facevano, e fino ai vecchi, della vita e della roba loro, e degli apparecchi bene ordinati alla difesa, cui davano mano popolarmente con grande amore e grande concordia.[193]»

Il che però non poteva essere senza che gli odii antichi e i sospetti contro ai partigiani di Casa Medici si manifestassero per via d’ingiurie e di minaccie, più spesso contro uomini dei più qualificati. Di questi non pochi si erano posti in salvo fuggendo; i quali citati per editto pubblico a tornare dentro un termine assegnato, a chi non comparve si diè bando di ribello, e i beni furono confiscati: erano in quel numero i parenti del Papa, Iacopo Salviati, Giovanni Tornabuoni, Luigi Ridolfi, Alessandro dei Pazzi; e vi erano i suoi più insigni fautori, Francesco Guicciardini, Francesco Vettori, Roberto Acciaioli. Filippo Strozzi era venuto di Francia in Genova, dove favellò in segreto con Alessandro dei Medici; quindi ritenuto da infermità in Lucca, dove lo visitarono i suoi tre figli Piero, Roberto e Leone, passò in Roma. Più ardito degli altri e cupido e scaltro e pronto a ogni cosa, Baccio Valori, venuto in molta grazia di Clemente, stava con l’Orange nella qualità di Commissario generale; egli, oltre all’essere fatto rubello, ebbe taglia di mille fiorini, e come traditore della Patria gli fu sfregiata e sdrucita una lista della casa sua da capo a piè, secondo l’ordine di una antica legge. Chiamata una Giunta di sei uomini a ricercare quali cittadini fossero giudicati più pericolosi tra quegli che non si erano mossi dalla città, furono per tal modo notati diciannove; i quali presi e ritenuti nel Palazzo, vi rimasero tutto il tempo che durò l’Assedio; tra’ quali tre notabili [250] personaggi, Ottaviano de’ Medici, Anton Francesco Nori e Filippo dei Nerli, stato per il Papa governatore in Modena, autore dei Commentari. In questo tempo tre altri uomini per avere sparlato pubblicamente, in segreto macchinato cose contro allo Stato, ebbero condanna del capo: dei quali uno era dei Ficini nipote a Marsilio, un altro de’ Cocchi e il terzo un Frate. In questi bollori andò una brigata di giovani, e diede fuoco alla Villa magnifica d’Iacopo Salviati presso il Ponte alla Badia, e a quelle dei Medici a Careggi e a Castello; e se non erano impediti, facevano lo stesso a quella del Poggio a Caiano di già sontuosa per opere d’arte.

Intanto però si affrettavano le demolizioni decretate intorno a Firenze, mosse da nobile carità di patria e quasi risposte a chi diceva che i Fiorentini anzichè vedersi bruciare le Ville tanto a loro care, avriano cessato da ogni resistenza. Andavano attorno frotte di giovani agli altrui ed ai propri loro poderi oltre a un miglio dalla città, guastando con gran furia le case e gli orti e i giardini, per ivi distruggere ogni cosa che potesse recare ai nemici comodità o impedimento alla difesa. Altri portavano una macchina a foggia d’ariete, con la quale abbattevano le muraglie: sul quale proposito si narra che avendo fatto cadere un muro interno nel Monastero di San Salvi presso a Firenze, quando si viddero innanzi lo stupendo Cenacolo che ivi Andrea Del Sarto aveva dipinto, presi d’ammirazione desisterono dall’abbattere, attenti a salvare da ingiurie nemiche tanto bella opera. Fortificavano intanto da ogni parte la città, inalzando difese alle porte e bastioni e baluardi e ripari di vario artifizio; il che prima essendo stato cominciato da Clemente, fu sino dai primi mesi di quest’anno ripreso con più vigore, dappoichè Michelangelo Buonarroti, fatto dei Nove della Milizia e Commissario generale delle Fortificazioni, attese a quelle opere che egli medesimo [251] dirigeva. Fu suo consiglio inchiudere nella cinta di difesa il Poggio sul quale stanno le chiese di San Miniato e di San Francesco, per essere tanto prossimo e imminente alla città che ogni difesa era impossibile se i nemici potessero batterla da quelle alture. Dentro avevano otto mila buoni fanti, la miglior parte avanzati dalle Bande Nere, con altri di varie armi e paesi, nè tutti Italiani: la milizia cittadina era di circa duemila cinquecento uomini dai 18 ai 36 anni ed altrettanti da 36 a 50, senza contare gli artefici che a un bisogno potevano essere più di ottomila, divisi tutti per Compagnie con ufiziali, che in parte erano cittadini ma tutti nelle armi bene esercitati.[194] Avevano per capo supremo il signor Stefano Colonna da Palestrina, stato ai servigi del re Francesco e da lui volentieri conceduto quando per la pace gli era d’aggravio. Le genti assoldate ubbidivano a Malatesta Baglioni, che aveva supremo comando; per la Repubblica Commissari generali furono Anton Francesco degli Albizzi, Raffaello Girolami e Zanobi Bartolini, non senza l’aggiunta di Magistrati e di Consigli, impaccio alle imprese nei popoli liberi. Mandarono Commissari in quei punti del dominio che intendevano mantenere, sebbene la guerra poi si ristringesse tutta in quel tratto ch’è tra Firenze e Pisa; tanto importava salvare Firenze non che dall’assalto nemico, da ogni commozione dentro di chi volentieri avrebbe ceduto. Fra questi erano i più ricchi, o aderenti alla Casa Medici, o male disposti verso quel governo tanto popolare e tanto vivo che non badava nè a roba, nè a case, nè alle dolcezze di un lauto vivere. Aveva già questo Governo due anni prima ed in vari modi battuto gli avversi allo Stato popolare con balzelli e accatti o imprestiti sottilmente congegnati, dei quali è minuto ragguaglio nei nostri scrittori: la somma [252] fu trarre ottanta mila fiorini dentro pochi mesi da un certo numero di cittadini designati con un’apparenza di voto pubblico o di sorte, che poi nel fatto era l’arbitrio d’una parte. Venderono quindi per fare moneta i beni immobili delle Arti; istituzioni oramai cadute da ogni valore politico e fatte in oggi o inutili sospette. Venderono i beni dei ribelli, ed obbligarono i loro amici rimasti dentro a farne la compra, sborsando il prezzo a brevi termini con penali e soprattasse da dirsi crudeli piuttosto che dure. Posero in vendita, non che tutti i beni delle Confraternite o Compagnie laicali ma erette a fine di devozione, un terzo ancora dei patrimoni delle Chiese, per la necessità che doveva in tutti essere di sottrarre il luogo nativo da uno stato di servitù comune a tutti.[195] Andavano intanto agli esercizi militari congiunte le pubbliche preci e gli atti di privata devozione. L’immagine della Nostra Donna che dal santuario allora solenne dell’Impruneta soleva trarsi in città nei tempi di universali calamità o pericoli, vi fu condotta, e nel maggior tempio custodita perchè non cadesse in mano ai nemici: quivi ella rimase per tutto l’Assedio.[196]

In mezzo a questi provvedimenti abbiamo veduto la Repubblica cercare con messi e con doni di arrestare l’Orange dacchè egli fu entrato dentro a’ confini della Toscana. Grande in quei giorni era il terrore della città di Firenze. Continuavano a fuggire molti, fuggiva Michelangelo Buonarroti. Un capitano dei principali, suo grande amico, Mario Orsini, ed [253] altri con esso gli andavano dicendo, che Malatesta era traditore, e che entrerebbero i nemici, e che Firenze anderebbe a sacco senza dare spazio a compire le fortificazioni: poca fede avea nel Carducci Gonfaloniere che, avvertito, non pareva temere abbastanza; nè prima si era potuto intendere col Capponi che, troppo guardingo e pronto a cedere, nulla provvedeva.[197] Quell’anima tanto impetuosa del Buonarroti, fu vinta di subito dalla impazienza propria di un artista che odia gli impacci di quelle minute fila di cui s’intesse la vita pubblica. Per la via di Garfagnana andò a Ferrara, quindi a Venezia; e qui avrebbe bramato vivere sconosciuto, ma quella Signoria coi molti onori gli attristò l’animo più che mai. Tornò a Ferrara, dove quel Duca cercò ritenerlo; ma quivi apprese come egli avesse dalla sua patria bando di rubello insieme con altri ch’erano fuggiti nei giorni stessi. Ebbe però anche certezza non essere egli compreso nella condanna se non per la forma, e che era da tutti desiderato: fu tolto il bando, e tornò alle opere della difesa, alle quali, assente lui, attese Francesco da San Gallo, egregio architetto.[198] Tornarono altri di quei fuggiti; altri si dispersero, aspettando dove il vento piegasse; passarono altri nel campo nemico. «Ma come [254] prima tutta la città era in somma trepidazione ed attendevano con la fuga a salvarsi, così ora partiti non pochi e purgata la città dalla maggior parte di quelli i quali o con la timidità o col desiderio delle cose nuove attiravano le menti degli altri,» nota il Capello «come gli animi si venissero a riunire ed a confermare di sorta, che molti oramai desideravano di vedere il nemico alle mura, non dubitando di averne grandissimo onore.[199]» Al che aggiungendosi la crudeltà dei nemici nel Valdarno, e quelle usate dal Ramazzotto nel Mugello, entrò in questo popolo insieme tutto quella disperazione feconda e nobile che infiamma gli animi degli uomini, i quali non sieno ancora prostrati. Se in qualche parte l’Istoria nostra avesse saputo mostrare quante onorate gioie in mezzo ai dolori provasse, nel corso di trecento anni, questo popolo tutto intero, potrebbe ora farsi ragione di quello che allora sentisse, vedendosi innanzi agli occhi una servitù continua e come i tedii e gli ozii oscuri di una vecchiezza. Se questa cogliesse la vita ad un tratto, non vi sarebbe uomo che la sopportasse; nè volle entrarvi il popolo di Firenze senza illustrare la fine sua. Dio ha concesso alla libertà questo onore, che mai si spegnesse senza levare di sè una fiamma, quasi a mostrare più tristi quei tempi che sopravvengono quando ella è oppressa.

L’esercito dei nemici, soprastato quasi venti giorni in quella ricca sebbene angusta Valle dell’Arno che si prolunga dai poggi aretini infino a quelli che la separano da Firenze, andava in quel tempo devastando quella misera contrada più miglia all’intorno. Il ricolto era stato abbondante oltre all’usato, e servì al nemico; si erano i contadini rifuggiti e sparsi nei boschi e nei luoghi circostanti, dove cercati e scoperti, andavano essi e le robe e le donne loro in preda ai [255] soldati.[200] Tra queste fu molto celebrata la virtù d’una Lucrezia Mazzanti di gente povera all’Incisa, la quale venuta alle mani d’un soldato e questi adescandola con promesse, trovò non so quale ragione di andare di là dall’Arno, ed in mezzo al ponte avviluppatasi con le vesti il capo, si gettò nel fiume ch’era molto grosso, ed ivi annegò. A’ 6 d’ottobre era il nemico a nove miglia da Firenze; ai 10 l’Orange muovendo con tutto l’esercito, si venne ai 14 ad alloggiare nel Piano di Ripoli alla villa dei Bandini, un miglio presso alla città. È fama che gli Spagnoli, allorchè giunti all’Apparita videro innanzi tutta la città di Firenze col suo piano, vibrando le armi gridassero allegri nella lingua loro: Signora Fiorenza, apparecchia i broccati, che noi veniamo per comprarli a misura di picche. Intanto avvenivano scaramuccie tra cavalli leggieri dell’una e dell’altra parte, nelle quali sempre i Fiorentini accadde che avessero la meglio; il che aggiunse ad essi animo e la fiducia della sicurezza. Gli incendi moltiplicavano all’intorno, «nè si distingueva quali per opera dei nemici, quali dei cittadini stessi, confondendosi l’inumanità di quelli con la generosa costanza di questi, e la grandezza degli animi e la prontezza d’ognuno in sostenere ogni danno, ogni pericolo per conservazione della libertà.[201]» Il danaro diveniva ognora più copioso, e continuamente ognuno si rendeva più pronto ad offrirlo volontariamente.

L’indugio che fece l’Orange in Valdarno dicono tutti che provenisse dalla necessità di aspettare otto cannoni che a lui mandavano i Senesi, perchè, non potevano negare nè questi nè altri soccorsi all’Imperatore, male inclinati egualmente verso il Papa e verso i Fiorentini: dovettero inoltre gli otto pezzi fare verso [256] Arezzo un lungo circuito di strade cattive.[202] Io credo però vi entrasse anche un aspettare di Clemente, che sempre sperava ricevere Firenze per vie pacifiche; e vi entrasse pure il dubbio in cui erano i Cesarei per le cose di Vienna, innanzi che il Turco si fosse di là ritirato. Convengono tutti però, che l’indugio fosse causa di mandare a lungo l’impresa, la città essendosi in quei giorni fortificata da ogni banda per lo zelo meraviglioso dei Fiorentini e per l’intelligente direzione di chiari architetti e grandi artisti d’ogni maniera che vi abbondavano.[203]

Dei grossi bastioni con fianchi e fossi e bombardiere, fasciati da una corteccia di mattoni crudi composti di terra pesta e capecchio trito, si distendevano dalla porta a San Miniato per tutto il Poggio di questo nome, dov’era il forte della difesa: un altro argine scendeva dall’alto verso oriente, fino all’Arno da San Niccolò; continuava un altro all’occidente, fuori della porta a San Giorgio e San Piero in Gattolino, finchè non trovasse l’Arno a San Frediano. Dall’altro lato di questo fiume le porte avevano baluardi e argini, e a luoghi, torri da starvi soldati. Guardava il Poggio di San Miniato e di San Francesco verso oriente Stefano Colonna; e dall’opposto lato, Mario Orsini; con più di tremila fanti fra tutti due, sotto ventiquattro Capitani. Alloggiava Malatesta su’ Renai nelle case de’ Serristori. Altri Capitani aveano la guardia delle altre porte: Giorgio Santa Croce stava co’ suoi cavalli nel prato d’Ognissanti; Pasquino Côrso col suo colonnello era in arme nel mezzo della città, pronto a soccorrere dovunque ne fosse bisogno. Della milizia fiorentina ciascuna banda stava il giorno al suo Gonfalone; la notte andavano, parte al Poggio e al Bastione di San Giorgio insieme ai soldati; parte stavano [257] alla guardia della città, dov’era proibito a questi mostrarsi la notte.

Incontro a queste fortificazioni l’assedio nemico circondava quasi, a guisa di un mezzo cerchio, tutta la parte di là d’Arno; cioè da oriente fino alla porta San Niccolò, e all’occidente di nuovo fino all’Arno presso alla porta di San Frediano, cominciando dal palazzo di Rusciano, che Brunellesco disegnava per la famiglia dei Pitti: qui alloggiava Gian Battista Savelli; alla Torre del Gallo, il conte Pier Maria da San Secondo; a Giramonte, Alessandro Vitelli; a Santa Margherita a Montici, Sciarra Colonna: il Principe d’Orange risiedeva nel pian di Giullari, dov’erano le case dei Guicciardini: lì presso erano la piazza del Mercato e le Forche. Più sotto abitava Baccio Valori, Commissario generale del Papa: il Marchese del Vasto con altri stavano verso la porta di San Giorgio, più vicino a San Leonardo. Questi erano gli alloggiamenti degli Italiani. I Lanzi si erano accampati, alcuni nell’alto, vicino al Principe; altri presso alla villa dei Baroncelli, che oggi ha nome di Poggio Imperiale. Gli Spagnoli, sparsi in più luoghi, si distendevano dalle Campora fin sotto Marignolle e a Bellosguardo: cresciuti poi di numero, occupavano tutto il Monte Oliveto presso occidente, e le loro bagaglie arrivavano fino a Scandicci. Tale era il campo degli Imperiali.

Nella città quando fu pronta ogni cosa, una mattina a levata di sole, Malatesta si appresentò in persona sul bastione di San Miniato con trombe e strumenti, come salutando i nemici e invitandoli a battaglia: poi mandò un trombetta nel Campo a sfidarli; e poichè vidde che niuno si muoveva, fece ad un tratto scaricare tutte le artiglierie, che molte erano, e i tamburi suonare, con tale rumore che rimbombandone i vicini colli empiè la città insieme di letizia e di paura. Nè per molti giorni fu dalle due parti altro che uno spesso cannoneggiarsi; quando la notte di [258] San Martino, che era buia e piovosa, fece il Principe accostare tutte le genti alle mura, muniti di scale, deliberato di assaltare sprovvedutamente Firenze. Ma trovò le guardie vigili e gagliarde, e la milizia si armò in un attimo; e nella città furono i ponti e le strade calcate di gente con torce e lampioni e lumi alle finestre: l’istorico Varchi vidde un fanciullino condotto da un vecchio a dividere seco il pericolo. Tutti andavano verso i bastioni, donde le artiglierie traendo alla cieca nelle masse degli assalitori là dove udissero più grande il rumore, facevano ad essi non piccoli danni; per il che l’Orange fece suonare a raccolta, e andò a Bologna il giorno dopo a cercare nuove genti, ivi essendo giunto l’Imperatore. Nel Campo intanto era la carestia grande per la necessità di condurre le grascie a schiena di mulo o d’asino, e le strade rotte e fangosissime: per le case di fuori e per le ville i saccomanni non trovarono più nulla; fuggivano alcuni in Firenze, e ivi si mettevano con gli assediati. Questi avrebbero i nemici voluto fiaccare con le scaramuccie, nelle quali mai non vollero fare buona guerra co’ giovani della milizia, dicendo ch’erano gentiluomini e non soldati, ma in fatto per poterli come danarosi taglieggiare. Ad essi pertanto era con pene rigorosissime vietato l’uscire; ma pure tenere non si potevano, avendo a male quel trattamento a segno, che alcuni uccidevano a ricambio i prigionieri fuor d’ogni usanza.

Tanto era l’ardire di quella milizia, che il signor Stefano Colonna col solo aiuto di cinquecento fanti spediti in corsaletto si fidò condurla, girando attorno al Campo nemico, fin quasi alla coda verso alla chiesa di Santa Margherita a Montici. Era una notte oscurissima e le cose ordinate in modo che allo sbaraglio prodotto dai primi assalitori, altri uscissero per tre porte della città e attaccassero di fronte il nemico; il che si fece con grande impeto, ed il Principe [259] d’Orange, il quale già era tornato in campo, credette, assaltato così all’impensata da due lati opposti, di essere tradito. Perivano molti dei suoi; ma era esercito condotto da uomini sperimentati, i quali seppero anche in mezzo allo sbalordimento fare che tosto con l’ordine tornasse il valore: il Principe stesso combatteva nelle prime file, soldato insieme e capitano. Sforzare il Campo era oggimai reso impossibile a quei notturni assalitori, tantochè Malatesta dalla città fece dare il segno prima convenuto, per cui si ritrasse ciascuno ma in modo lento e decoroso, le cannonate dai bastioni tenendo indietro le genti nemiche. Non mutò quel fatto le condizioni della guerra, ma rialzò gli animi e servì a temprarli più fortemente: a quelli assalti in quel modo al buio davano nome d’incamiciate, perchè sopra all’armi ponevano una camicia bianca che gli distinguesse dai nemici. Ebbe gran parte in quell’abbattimento Mario Orsini, Capitano amatissimo in Firenze: questi e seco un altro nobile romano, Giorgio Santa Croce, mentre stavano pochi giorni dopo nell’orto di San Miniato a ragionare con Malatesta e i Commissari di cose pertinenti alla difesa, una palla di colubrina tirata in quel mucchio percuotendo il pilastro di una pergola, fece che i rottami cadendo addosso a quei due gli uccidessero in un colpo insieme con altri soldati e cittadini; di che in Firenze fu grande il rammarico, ed all’Orsini ed al Santa Croce fu data dal pubblico onorata sepoltura. Nel giorno istesso moriva nel campo subitamente Girolamo Morone, che nella varia sua vita dopo avere tradito molti, fermatosi nella ubbidienza dell’Imperatore ed ora del Papa, serviva a questo con grande passione, come infaticabile che egli era ed atto a ogni cosa. Per quella morte parve a Clemente di avere fatto una grave perdita, ed ai Fiorentini parve non lieve guadagno.

Ma questi aveano poco innanzi perduto il castello [260] della Lastra a Signa, luogo importante per la vicinanza e perchè posto sulla strada verso Pisa, la quale però infino al tempo dei padri nostri, non bene essendo aperto il passo della Golfolina, saliva su’ poggi dov’è Malmantile. Di già incominciava a comparire nel Mugello la testa del nuovo esercito che di Lombardia scendeva tostochè si furono i Turchi levati d’intorno a Vienna: erano poco meno che ottomila tra Spagnoli, Tedeschi e Italiani, che tutti spargendosi nel piano e pei colli prossimi alla città, pervenne l’assedio a cingerla da ogni banda, che prima non era se non dalla parte sinistra dell’Arno. Portavano seco venticinque pezzi d’artiglieria grossa, che molto indugiarono a passare nel cuore del verno le strade pei monti da Bologna sino a Firenze; quivi intanto si radunavano a gran fretta grasce e vettovaglie quante potessero maggiormente. Da prima si era nei Consigli fatto proposito di tenere Pistoia e Prato, d’onde a molti parve gravissimo errore averle dipoi abbandonate; il che avvenne a questo modo. Erano in Pistoia, come si è veduto, da oltre a due secoli ferocissime le parti dei Panciatichi e dei Cancellieri; stava la prima ora per le Palle, l’altra per Marzocco. In Firenze erano ritenuti ostaggi di ambe le parti: mandavano a Pistoia Commissari, spesso eleggendo lì ed altrove (come accade dove gli elettori sono in troppo gran numero) uomini contro dei quali non fossero accuse nè sospetti, ma nemmeno prove di sufficienza. Un Bracciolini di parte Panciatica, la prima volta che in Consiglio ebbe a conoscere la pochezza del Commissario Agostino Dini, levato rumore, prima uccise per le scale un suo nemico di Casa dei Tonti, poi altri diciotto della parte Cancelliera. Aveva Clemente da Bologna mandato a Pistoia uno dei Cellesi con gran numero di fanti, pei quali la terra perduta affatto dai Fiorentini pervenne in sue mani. Con la medesima imprudenza fu Prato abbandonata nè saputa [261] mai recuperare. Pietrasanta con la sua Rôcca e con quella di Mutrone male difese e pel timore del sacco, mandarono in Lucca cercando qualcuno a cui darsi; e vi andò Palla Rucellai, che ne pigliò il possesso nel nome del Papa.[204]

Era in Empoli Commissario Francesco Ferrucci, nel quale siccome può dirsi che fosse d’allora in poi tutta la difesa della città di Firenze, così è notabile che innanzi quel tempo, o nulla sappiamo di lui, o ciò solo che non era uscito dal comun livello, ed ebbe fino ai quarant’anni oscura la vita: ma pare vi sieno degli uomini nati a essere Capitani, che se ne stanno perchè incapaci di farsi innanzi con la pazienza del soldato. Il Ferrucci era di antica gente e buona cittadinanza, che aveva spesso goduto in Firenze i sommi uffici. Attese alla mercatura per necessità di vita, ma come se fosse (il che non appare) vissuto a lungo nella milizia, aveva costumi rissosi e maneschi; di scarsa coltura, leggeva tradotte le storie antiche, e uomo solitario, fermava il pensiero nei fatti di guerra. Di questa ebbe egli esperienza quando Gian Battista Soderini lo menò seco sotto Napoli dove andava ambasciatore presso a Lautrech: tenendolo appresso di sè, lo aveva fatto pagatore delle genti mandate da Firenze a quella impresa: erano in gran parte delle antiche Bande Nere; ed il Ferrucci, com’era suo genio, esercitandosi nella guerra, cadde prigioniero. Finita poi questa e morto il Soderini, Donato Giannotti, ch’era Segretario dei Dieci, metteva innanzi Francesco Ferrucci come uomo da farne capitale. Così andò Commissario a Prato, ma insieme ad uno antico cittadino che voleva fare da sè ogni cosa e nulla sapeva: di questo s’accorsero i Dieci, e mandarono il Ferrucci in Empoli con balìa piena ed assoluta in tutte le cose che importassero alla guerra.[205]

[262]

Il Ferrucci arrivato in Empoli, attese a maggiormente fortificare quel castello e a munirlo d’ogni sorta di provvigioni, da non poter essere sforzato dentro, e così avere le mani più libere contro al nemico; nel che era egli vigilantissimo. Una volta fece tornare all’ubbidienza Castel Fiorentino, del quale gli uomini si erano ribellati a istigazione di certi giovani, i quali andavano per quelle contrade dicendosi Commissari del Papa; e Girolamo Morone tantochè visse era infaticabile in tali maneggi. Per questo fatto pigliò il Ferruccio maggiore animo; e da Pisa gli rispondeva bene Ceccotto Tosinghi, antico soldato fiorentino di antica famiglia, insieme facendo prede all’intorno di bestiame e di soldati prigionieri. Ma il Ferruccio non appena ebbe dai Dieci l’aggiunta di un altro centinaio d’uomini a cavallo, di subito una mattina di buon’ora conducendo seco guastatori e artiglierie e strumenti da espugnare terre, andò all’assalto di quella di San Miniato, dove gli Spagnoli appena giunti avevano messo dugento soldati. Il Commissario fu il primo a porre ed a salire le scale, e combatteva insieme agli altri, facendo passare a fil di spada oltre ai soldati, anche molti uomini della terra, che a lui avevano resistito; imperocchè San Miniato, anticamente soprannominato dal Tedesco che vi risedeva, non fu mai gran fatto amico a Marzocco. Al quale terrore, ma non però senza battaglia, cedette nel giorno stesso anche la rôcca, salve le robe e le persone: già i soldati correvano la terra facendo sacco, ma il Commissario fece restituire la roba, e sotto pena della forca [263] salvò alle donne l’onore. Più tardi, con una marcia rapidissima di notte, colse tra Palaia e Montopoli una banda numerosa di Spagnoli, che fu distrutta rimanendo in mano sua cinque dei loro Capitani ed altri essendo uccisi. Per questi fatti già era il nome del Ferrucci mirabile a molti, e segno d’invidia.[206]

Finiva con l’anno il gonfalonierato di Francesco Carducci, ed era decretato che il Gonfaloniere nuovo appena eletto andasse a stare in Palazzo ed assistesse a tutti i Consigli, ma senza dar voto. Poteva il Carducci con buone ragioni sperare d’esser rieletto, come colui che si era mostrato uomo di governo e uomo di parte, nemico ai Medici, schietto popolano per tutto l’abito della vita; nè altri aveva più efficacemente promosso la guerra. Ma uomo nuovo, era senza seguito e senza clientele, tenuto a vile dai potenti, temuto dagli uomini mezzani e pacifici; a molti del popolo pareva esser egli salito tropp’alto. Quando si venne a trattare della elezione, aveva il Carducci con maggior sincerità che accortezza designato apertamente sè stesso in un’arringa da lui recitata nel grande Consiglio, così scatenando vie più le invidie. Fu eletto in sua vece Raffaello Girolami, al quale aveva dato grande favore l’essere egli solo dei quattro Ambasciatori tornato da Genova in Firenze, dove riaccese le buone speranze: uomo d’antichissima famiglia [264] che si diceva essere quella del Santo Zanobi, destro, vario, intramettente ed oggi tutto cosa del popolo; ma in lui concorsero i voti ancora d’alcuni Medicei che ricordavano essere egli stato insieme con essi alla cacciata del Soderini, e lo credevano uomo di non troppo difficile composizione.

Entrò il fatale anno 1530, nei primi giorni del quale il Gonfaloniere nuovo radunato il Consiglio grande, dopo i consueti ringraziamenti, espose cercarsi in nome del Papa un qualche termine d’accomodamento, al quale effetto era in Firenze Rodolfo Pio vescovo di Carpi che stava in casa di Malatesta e trattava seco di consentimento dei Dieci; interrogò il Consiglio, principe sovrano della Città, se a lui piacesse di mandare al Papa oratori. Divisi i pareri, fu grande la confusione; parole veementi si pronunziarono, e fra tutte notabili in favore dell’invio quelle di Filippo del Migliore, lo stesso che aveva prima posto in salvo la Libreria dei Medici, alla quale nessuno più era che badasse. Ristretti, secondo l’usanza, ciascuno nei suoi Gonfaloni e nei Collegi, fu a quel modo tra pochi più aspro il contendere e più lungo; stava talvolta il figlio contro al padre ed un fratello contro all’altro. Si venne a raccogliere i voti, e di 1300 che erano radunati, sommando insieme le deliberazioni dei vari Gonfaloni e dei Collegi, intorno a mille furono per l’invio al Papa, che soli trecento avevano negato. Potè sugli animi forse lo spavento dei nuovi soldati che tratto tratto Cesare inviava e la penuria del danaro e il caro dei viveri e i presagi disperati di chiunque si mettesse a ragionare. Lo stesso Girolami lasciava le vie aperte a un accordo; ma in molti di quelli che lo avevano votato era un sentire a cui la prudenza pareva vergogna, e dentro sè incerti, in Piazza stavano co’ più arditi, laonde fecero che la deliberazione presa avesse a rimanere inefficace. Andarono due Ambasciatori e un sottoambasciatore, ma senza mandato, [265] e solo a udire la mente del Papa ancora una volta, prima si partisse da Bologna. Qui era un diverso ordine d’uomini ed altri pensieri; muovevano a riso quegli inutili ambasciatori, e quando interrogati da Clemente che cosa volessero, tre cose dissero: la conservazione del dominio, la libertà di Firenze e il mantenimento dei presenti Ordini popolari; questi rispose, che in quanto al dominio aveva egli più di loro brama d’accrescerlo, che una vera libertà darebbe quanta essi nemmeno sapeano pensare, ma circa poi al Governo popolare non ebbe parole bastanti a dannarlo come servitù di tutti, vituperando quello che si faceva contro a lui personalmente e contro alla Chiesa e ad ogni giustizia. Così tornarono gli Ambasciatori; e in quanto al voto del Gran Consiglio, senza cassarlo, fu annullato dichiarando quella essere stata solo una Pratica o Consultazione dove nulla si era potuto in via formale deliberare.[207]

Allora si fecero leggi crudeli perchè chi avesse votato l’accordo pagasse la guerra. Contro ai ribelli si procedeva spietatamente per annullare non che ogni contratto simulato, ma qualunque azione la quale per forza di legge potesse in nome loro esercitarsi sopra i loro beni che andavano al fisco; pena la morte a chi presentasse di tali azioni, con multe e gastighi a quel giudice che non lo avesse condannato dentro due giorni. Per tutti quei mesi la città aveva spesa incredibile di soldati e di capitani. Nè il buon volere dei molti bastava, se gli altri non fossero costretti per via d’arbitrii, come la necessità stringeva e a sfogo di parte. Sottili trovati servivano alle forzate vendite di quella gran massa di beni che si era messa sul mercato; al quale fine inventarono anche certa lotteria per gli averi dei ribelli a un ducato per polizza, che buttò assai dentro pochi giorni, per togliere con la [266] fretta i sospetti della frode. Mandarono alla Zecca tutti gli ori e gli argenti non coniati che si trovarono nelle case di chiunque abitasse in Firenze, eccetto i soldati, e quelli ancora dei luoghi sacri, lasciatine solo i più necessari. Tolsero quindi e per via d’esperti gioiellieri venderono tutte le gioie ch’erano intorno alla Croce d’oro del tempio di San Giovanni e quelle di una mitra donata da papa Leone al Capitolo di Santa Maria del Fiore: il ritratto tra ogni cosa furono cinquanta tre mila ducati, dei quali batterono monete d’argento che da uno dei lati avevano il Giglio e dall’altro la Croce con una corona di spine.

Tali spogliazioni, non che la vendita d’una parte dei beni ecclesiastici, ed altre offese contro al Papa, si facevano a quel tempo senza rispetto, benchè il popolo di Firenze, religiosissimo sempre ed allora più che mai per l’educazione di Frate Girolamo, sperasse molto negli aiuti divini e nelle solenni preci, e in una liberazione prodigiosa che a lui promettevano alcuni Predicatori, massime di San Marco. Era fra questi un Fra Bartolommeo da Faenza savio e virtuoso, e un Fra Zaccaria; ma sopra gli altri Fra Benedetto da Foiano, che in sè aveva tutte le doti richieste ad un oratore popolare, non senza una dose di vanità o d’ambizione poi gastigata troppo crudelmente. Mostra il linguaggio dei Cronisti come questo popolo quanto era più acceso di fede ardita e speranzosa andasse franco nel vilipendere Papa e Cardinali senza alcun ritegno:[208] furono un giorno messi in accusa Clemente e i quattro Cardinali fiorentini che seco erano in Bologna, per una sorta di delazione segreta che appellavano tamburazione; vinse a mala pena la prudenza di soprassedere prima di portare i nomi dei cinque avanti al giudizio della Quarantia. Nè mancò pure chi proponesse atterrare il Palazzo [267] Medici nella Via Larga, e farvi una piazza la quale avesse nome di Piazza dei Muli. Ma se nella infima plebe un Pieruccio con la scempiezza delle parole, che a taluni parevano misteriose, faceva che dietro molti gli corressero come a profeta di buoni eventi; un altro anch’egli piacevole mentecatto, di soprannome il Carafulla, stava pei Medici. Questa parte comprendeva molti cauti e timorati e sempre devoti al nome del Papa: una Suor Domenica del Paradiso (così appellata dal nome del luogo dove nacque nel piano di Ripoli), era in molta stima tra gli uomini pii come buona e avveduta e ben parlante; la quale stima poi mantenne sotto il Principato per avere essa consigliato sempre l’accordo col Papa.[209]

Era nel monastero delle Murate la Caterina dei Medici, figlia di Lorenzo che fu duca d’Urbino, onde la chiamavano la Duchessina. Aveva allora undici anni, e per la nascita e per una entrata che aveva di dieci mila ducati all’anno, molti disegni si erano fatti sul conto suo: il re Francesco cercava d’averla in custodia come sua parente dal lato di madre; il Papa faceva la restituzione della Duchessina primo articolo d’ogni accordo co’ Fiorentini, i quali tanto più si studiavano ritenerla e bene guardarla. Dalla età prima fu essa palleggiata dalle ambizioni altrui o dalle passioni civili; il che divenne a lei forse poi scuola di regno, che buona non era. Nel monastero la sua presenza fomentava la divisione che era entrata fin tra le monache; si pregava per il Papa, e si pregava contro di lui per la libertà. Credette la Signoria essere prudente cosa trasferirla dalle Murate nel monastero Domenicano di Santa Lucia, dov’era stata altra volta; e a questo fine andò alle Murate Silvestro Aldobrandini, uomo atto a ogni cosa e pronto a ogni cosa: dopo qualche indugio Caterina venne al parlatorio [268] in mezzo a due monache, vestita da monaca, e protestando volere essa rimanere in quel santo luogo e ivi consacrarsi. Tornò Silvestro il giorno dopo, e condusse via la fanciulla che piangeva temendo la volessero ammazzare; ma dipoi stette tranquilla nel nuovo ricovero, sebbene proposte crudeli e infami si facessero contro a lei da taluni di quella schiuma che sempre galleggia nei moti civili. Fu detto che il Principe d’Orange avesse un qualche disegno di sposare egli la Duchessina, caso che il Papa morisse o fosse abbandonato da Carlo V per la lunga resistenza dei Fiorentini: certo è che l’Orange nei suoi discorsi diceva, che la ragione stava dal lato di questi, ma che egli soldato dell’Imperatore ubbidirebbe al suo giuramento.[210]

Malatesta Baglioni cercava da qualche tempo con grande istanza d’essere fatto Capitano generale e che gli fosse dato il bastone: al che sebbene molti sentissero certa repugnanza, non era motivo di contrastare in modo espresso; talchè negli Ottanta trovò il partito assai favore, venendosi poi con molto solenne cerimonia a conferirgli quel grado supremo. Era il Baglioni oltre che astutissimo, che sapeva co’ discorsi andare a versi di tutti, verace in questo che egli faceva di quella guerra un retto giudizio, conforme a quello del maggior numero dei prudenti, come si è più volte potuto vedere: gli stessi più duri e più ostinati avevano fede nella scienza di guerra ch’era in lui non poca, senza per allora espresso motivo di averlo in sospetto. Diceva aperto, che la città si difenderebbe, ma che venire a un qualche onesto accordo sarebbe stato buon consiglio; mandare in lungo la difesa non era per anche vincere la guerra, essendo al tutto speranza vana rompere il Campo dei nemici, munito com’era con ogni artifizio e in luogo [269] fortissimo e con buoni capitani e vecchi soldati da non si lasciare sorprendere mai; tentare un assalto e avere la peggio avrebbe aperto Firenze al saccheggio, cui tanto anelavano stranieri soldati; la stessa vittoria sul campo nemico, se gli assediati una volta l’ottenessero, verrebbe in fine dei conti allo stesso, perchè in tal caso l’Imperatore non se ne starebbe dal vendicare con altre genti sulla città di Firenze l’offeso onor suo. Tuttociò era vero; ma come nell’animo di quanti credevano in Firenze le cose medesime stava il ritorno inevitabile della Casa Medici; così nel consiglio di Malatesta era un aderire nel fatto ai pensieri che più giovavano a Clemente e il Capitano dei Fiorentini si trovava essere un uomo del Papa; senza contare la dipendenza in che lo metteva personalmente il volersi mantenere lo stato in Perugia. Queste cose erano fino da principio; e che tra ’l Baglioni e i messi del Papa non fossero dette, che non fossero discorse tra lui e un uomo di tale importanza qual era il vescovo Rodolfo Pio, lo creda chi può. Infino all’ultimo dell’Assedio fece Malatesta quanto egli doveva perchè i nemici per via d’assalto non entrassero in Firenze; il che non voleva nemmeno Clemente: ma questi contava sopra Malatesta per avere o prima o poi la città per via d’accordo e senza saccheggio; e ciò era il voto supremo del Papa.

Tradire Firenze con farvi entrare gli assedianti sarebbe poi sempre stato impedito dalla milizia cittadina, la quale faceva con volontà forte la guardia interna della città. Era stata riordinata e ricomposta nella fine dell’anno; discorsi vani erano stati pronunziati in cerimonia dal solito Bartolommeo Cavalcanti. Ma in questa nuova milizia scesero fino ad un maggior numero d’artefici, e in quella descrissero altresì con buoni ordini e cautele gli uomini del contado che in numero di settemila si ritrovavano in [270] Firenze;[211] nè fu da meno della prima, perchè in lei stava quel popolo vero il quale ogni volta si trovasse unito ed armato, voleva difendersi e altro non udiva. Stefano Colonna la comandava con fede di soldato; ma egli diceva essere uomo del Re di Francia al quale ubbidiva, nè di governo s’impacciava. Dalle due parti nei primi quattro mesi di quell’anno quasi ogni giorno si combatteva; non che l’Orange tentasse mai sul serio un assalto contro alla città, ma con le artiglierie cercava buttar giù le torri e le opere di difesa, senza contare le scaramuccie le quali nascevano dall’incontrarsi le squadre nemiche, secondo i disegni che ognuna avesse delle due parti.

Anguillotto da Pisa, capitano di molto valore, passato dal campo nemico sotto alla bandiera di Marzocco, diede occasione forse alla più fiera di queste battaglie, essendo incredibile nel Conte di San Secondo, del quale Anguillotto era fuggitivo, e nello stesso Principe d’Orange la smania d’ucciderlo: il che alla fine venne loro fatto non senza fatica, e con la morte di assai gente, presso a San Gervasio. Tre altri Capitani (che due degli Orsini) aveano all’incontro condotto fuori della città con tradimento trecento soldati perchè si unissero ai nemici: ma questi tornarono la maggior parte, e i traditori, secondo l’usanza, furono dipinti appesi alle forche col capo all’ingiù, dal principe della Scuola toscana, Andrea del Sarto. Un altro Orsino, l’Abate di Farfa, si era messo a favorire gli Imperiali, intanto che un figlio di Renzo da Ceri di quella famiglia pigliava soldo co’ Fiorentini; essendo allora quell’assedio, comune ritrovo ai capitani mercenari, poichè era mancato l’esercizio di quell’arte nel resto d’Italia. Più spesso avveniva che gli assediati uscendo a foraggiare s’incontrassero col nemico: non era in Firenze grande per anche la carestia, sebbene [271] mancasse il companatico e un asino si mangiasse come cosa rara per farne convito il giorno di Pasqua. Ma spesso entravano in città bestiami e altri soccorsi; Francesco Ferrucci mandava da Empoli buoi e salnitro, che in Firenze si cercava con grande paura non venisse meno. La città era piena di allegro coraggio, tanto che nel Carnevale non vollero fosse omesso l’antico gioco del Calcio, del quale diedero un simulacro, com’era usanza, sulla piazza di Santa Croce, che fu salutato, ma senza danno, dalle artiglierie nemiche. Nè mancavano le sfide da un Campo all’altro, da una delle quali uscì con vantaggio contro a un cavaliere tedesco Iacopo Bichi, soldato valorosissimo dei Fiorentini.

Un’altra disfida solenne fra tutte ottenne per l’opera degli scrittori durevole fama sino ai giorni nostri, come avvenne spesso di fatti anche piccoli in questa storia di Firenze. Lodovico Martelli, giovane di gran cuore, mandò un cartello a Giovanni Bandini come a traditore della patria, perchè stava nel campo nemico; e se cercò lui, fu detto essere perchè il Bandini aveva usato parole di spregio contro alla milizia fiorentina: ma era tra loro cagione d’odio più segreto l’amore che entrambi portavano a una gentildonna fiorentina, Manetta de’ Ricci, moglie di Niccolò Benintendi. Giovanni, che a molto valore accoppiava grande accortezza, era più avanti nell’animo della piacente donna. La sfida fu accettata, con che ciascuno dei due avesse seco un compagno; al che il Martelli elesse Dante da Castiglione, la più famosa spada che fosse in Firenze: il Bandini menò seco Bertino Aldobrandi, giovanetto di valore temerario. Doveva il Principe d’Orange tenere il campo e avere la guardia dello steccato, che fu costrutto sul poggio dei Baroncelli. Uscirono al giorno dato i due nostri dalla città con pompa grandissima e con quello sfoggio di prodezza di cui potesse chiamarsi pago l’onor militare, combattendo i [272] quattro campioni in vesti leggiere senz’alcuna arme di difesa. Fu lungo lo scontro come tra valorosi; ma infine Dante, dopo avute più ferite dall’Aldobrandi, gliene diede una per cui dovette il giovane arrendersi e morì nella seguente notte. Contro al Martelli era il Bandini, ottimo schermitore, che senza quasi ferite ne diede molte al Martelli, ed infine lo ridusse in tal condizione che egli dovette darsi per vinto. Ebbe quell’infelice giovane malattia lunga; una visita che gli fece la Manetta, quale tumulto di passioni destasse nell’animo di lui non so dire: dopo molti giorni moriva, per quello che fu creduto, più del dispiacere che delle ferite.[212]

Fino dal gennaio aveva la Repubblica di Venezia fatto pace con l’Imperatore; ma tuttavia Carlo Capello rimase in Firenze come oratore, malgrado che il Papa facesse ogni sforzo perchè fosse richiamato.[213] Ne’ suoi dispacci apparisce sempre grande amico ai Fiorentini, che da lui sono lodati a cielo; nè alla sua Repubblica dispiaceva mostrarsi, com’era sempre, di animo italiano; a lui però nulla rispondeva per non s’impegnare con parole scritte delle quali altri pigliasse offesa. Riebbe la Chiesa per quella pace Ravenna e Cervia; il che lasciava Firenze scoperta dal lato delle Romagne, alle quali era guardia la presenza delle armi veneziane. Ma bastò quella che fece Lorenzo Carnesecchi, Commissario generale della Romagna fiorentina; il quale con poca gente e meno danari, ma pel valore che era in lui molto, gastigò prima la ribellione di Marradi, fugò in più scontri le genti nemiche, teneva infestati i confini della Chiesa, e resistè [273] a un grande assalto che alle mura di Castrocaro diede ripetutamente Leonello da Carpi, presidente della Romagna ecclesiastica, rinforzato allora da Cesare da Napoli che venne dal Campo, e dai propri cavalli della guardia del Papa mandati da Roma: tantochè poi si fece tra le due parti una molto onorata tregua, per cui rimasero da quel lato frenate le armi.[214]

Ai Fiorentini, lasciati soli, nemmeno restava la vieta speranza d’essere una volta soccorsi da Francia; imperocchè un Signore di Clermont, venuto a bella posta in Firenze, portò consiglio alla Signoria di pigliar tosto qualche partito nè di aspettare più gravi mali; offrendosi egli di farsi mediatore tra la Città e il Papa, col quale aveva più volte discorso e che sapeva essere di buon volere. A questo effetto andò in Bologna, dicendo sarebbe tornato subito, ma poi non si ebbe di lui più notizia.[215] Proposte consimili recava più tardi al Papa in Roma il Vescovo di Tarbes, del quale abbiamo una lunga lettera al re Francesco. L’ambasciatore aveva dei suoi occhi veduto le forze dei Fiorentini, che erano città ben fortificata, soldati che bastavano, vettovaglie per più mesi, e il cuore buono e risoluto a mantenere la libertà loro.[216] Forte all’incontro l’esercito nemico da non dissolversi (come a Firenze avevano sperato) dopo alla partenza dell’Imperatore, il quale invece, contro all’usanza sua, mandò più volte danari al Campo. A dare la battaglia non si pensava, e il lento assedio, come era secondo la mente del Papa, così anche pareva che all’Imperatore convenisse; al [274] che i più accorti assegnavano questo motivo. Quell’infelice Francesco Maria Sforza duca di Milano pareva che fosse vicino a morte, e tutti sapevano essere proposito di Carlo V occupare tosto quello Stato: giovava a tal fine mantenersi intanto un esercito pronto e raccolto in vicinanza. Ma un tale indugio perchè a Clemente portava molta difficoltà e pericoli; e al re Francesco, ricevuti i figlioli, era buona ogni occasione a ricondurre la guerra in Italia; l’Ambasciatore mette al Re innanzi un suo disegno, del quale aveva già tenuto discorso col Papa. Fatti persuasi prima i Fiorentini della convenienza d’un onesto accordo sotto all’ombra di Francia, bastava che il Re mandasse inverso questa città due migliaia di fanti, e tosto il Papa, separando le genti sue dalle imperiali, verrebbe ad occupare Firenze in unione col re Francesco, potendo disporre per la spesa dei soldati di tutto lo Stato fiorentino ricongiunto sotto alle sue mani. Per l’avvenire, fino d’allora si pensava al matrimonio della piccola Caterina con un figlio del re Francesco, il quale dovesse avere lo Stato di Milano. A tutto questo maneggio avrebbe dovuto proporsi il conte Alberto Pio di Carpi, ch’era forse l’autore ardito ed ingegnoso di questo alquanto fantastico disegno, come erano in Francia consueti formarne. L’Ambasciatore promette al Re non solamente la conservazione della città di Firenze, «che è cosa sua, ma che in Italia comanderebbe a bacchetta in tutto e per tutto.[217]»

Ma pure da questa lettera non poche cose s’imparano, ed un’altra parte di essa riscatta quel ch’era di vano in tali pensieri. Viveva Clemente in grandi angustie [275] per questo assedio che durava da oltre sei mesi, nè ancora se ne vedeva la fine. Dell’Imperatore si teneva certo quanto al volere egli farla in Italia finita con questo popolo che resisteva quando i Principi ubbidivano; sapeva che il duca Alessandro era tenuto in corte onoratamente come fidanzato alla giovinetta Margherita. Ma Carlo V stava ora in Germania, dove molte novità potevano attraversarsi; e le amicizie co’ Papi essendo fondate sopra a vite brevi, cedevano facilmente al cospetto di vantaggi più sicuri: Clemente aveva per malo indizio quel grande sparlare che si faceva di lui nel Campo. Sentiva essere egli esposto all’odio dei suoi stessi amici, ma non gli poteva capire nell’animo che la Città non si desse a lui spontaneamente, ed aspettava di giorno in giorno una sommossa: contava sul grande numero dei beneficati da Casa Medici e degli avversi a questo governo popolare; non però aveva messo in conto quel fascio antico della cittadinanza, di già logorato, ma che non poteva se non dalla forza lasciarsi disfare. Stringevalo poi l’essere affatto venuto al secco di danari e il non sapersi quanti in seguito ne occorrerebbero; e perchè il credito gli mancava, ed erano esauste le fonti a nutrirlo con altri proventi, gli stavano attorno perchè facesse una creazione di Cardinali, al che aveva egli grande repugnanza; già si diceva che ne avrebbe ad un tratto nominati fino a ventisei, dai quali aveva le offerte in mano per cinque o seicento mila scudi. Contro ad un tale pensiero l’Ambasciatore andò e parlò alto, non come ministro del Re, secondo egli stesso dice, ma come cristiano e prete e vescovo. Causa d’ogni male dichiarò essere questa impresa di Firenze e quella che tutti a voce comune appellavano ostinazione, fino agli stessi suoi soldati, i quali dicevano ogni cosa essere loro lecita, quando il Capo della Chiesa ne dava ad essi autorità; l’onore suo non essere impegnato nè punto nè poco a tale impresa. [276] Dei Cardinali disse, che sarebbe mettere una peste nella Chiesa, di cui le reliquie rimarrebbero per cento anni, e che darebbe troppo bel gioco ai Luterani. Allora dal petto di Clemente usciva una tremenda parola: «Vorrei che Firenze non fosse mai stata;[218]» parola ripiena di disperazione, dove orgogli umiliati e rancori spesso provocati da offese pungenti si mescolavano con altri affetti che nacquero buoni, ma oggi mettevano anch’essi veleno dentro a quell’anima infelice. I Fiorentini erano intanto sulle bocche degli uomini come pregio ed onore di tutta Italia, per avere essi [277] soli voluto e saputo resistere alle genti oltramontane, mostrando esempio di costanza, che a tutti del pari sarebbe riuscita prudenza e via di salute: com’era costume in quella età, versi latini e italiani si facevano in molti luoghi a encomio della città e in biasimo del Pontefice.

Capitolo X. IMPRESA DI FRANCESCO FERRUCCI E SUA MORTE. LA CITTÀ SI RENDE A PATTI. [Dall’aprile all’agosto 1530.]

Ora comincia la guerra in Toscana a farsi grossa, dopo che vi ebbe posto mano Francesco Ferrucci. Tutto quell’inverno bande di soldati mercenari sotto a Capi di varia importanza entrati in Toscana successivamente da più lati, si spargevano per le terre mettendo in alto la parte Medicea, che dappertutto aveva non pochi seguaci, e impiantandovi un governo nel nome del Papa, talchè oramai alla Repubblica di Firenze poco rimaneva del suo territorio. Ma nel Valdarno inferiore e nella Valdelsa e per le Colline di Pisa, dovunque il Ferruccio potesse arrivare con la vigilanza e la prontezza e insieme con quella minuta e sagace previsione d’ogni caso, che è dote essenziale negli uomini di guerra; gli assalti nemici erano impediti da piccoli scontri sempre fortunati, le ribellioni dei castelli contenute; continue prede facevano un largo vivere ai soldati che stavano in Empoli, o erano in Firenze mandate a sollievo degli assediati. Nè temeva egli disseminare le genti sue in piccoli drappelli, perchè di coloro che gli guidavano, il Ferruccio si era bene assicurata l’ubbidienza per via di una rigidissima disciplina, ma che sapeva largheggiare anche nelle ricompense. Quello che è il sommo, dominava [278] egli in tutti gli animi dei soldati, i quali ponevano tanta fiducia nell’ubbidirgli, quanta era la paura se mai facessero il contrario. Francesco Ferrucci ebbe taccia di superbo e di troppo arrisicato e di collerico e crudele; ma era uomo giusto e considerato, che ardiva molto per la necessità di rialzare il nome avvilito delle armi italiane; e se nei gastighi parve aspro e implacabile, ciò era per l’insolenza licenziosa divenuta abito nei soldati, e per essere egli salito a quel grado da semplice pagatore, tenuto da molti in piccola stima. Quell’alto luogo ch’egli prese in tempo sì breve da tanto umili principii, e quel che è di grande nei fatti da lui condotti, pone il nome suo accanto a quelli d’altri più famosi e più di lui fortunati Capitani.

Insino agli ultimi del febbraio si era Volterra mantenuta in fede della Repubblica di Firenze; ma verso quel tempo Alfonso Piccolomini, duca d’Amalfi e Capitano generale dei Senesi,[219] distendendosi pei confini dei Volterrani, questi vietarono a lui di entrarvi; ma fecero poi lo stesso a una mano di soldati fiorentini i quali volevano entrare a guardia della città, dove era intanto venuta come ad annullarsi l’autorità del Commissario che vi stava per la Repubblica. Nelle quali dubbiezze si accostò a Volterra altro più forte capitano, Alessandro Vitelli, il quale disceso in Toscana dalla parte di Borgo San Sepolcro, prese questa e altre terre fino a Montepulciano, da dove per l’amicizia dei Senesi venuto innanzi, andava mutando lo Stato in tutti i luoghi del Volterrano. Talchè diveniva insufficiente il soccorso mandato a Volterra con Bartolo Tedaldi che ebbe grado di Commissario. Si venne a patti, e dopo molte esitazioni un accordo fu conchiuso, pel quale le genti Fiorentine si rinchiusero nella Fortezza, la Città essendosi data al Papa. Era quivi confinato Roberto Acciaioli che ne divenne Commissario, [279] finchè non gli parve uscire di là e andarsene in Roma nei consigli di Clemente, che molto l’udiva; sottentrò a lui Taddeo Guiducci con grande autorità. Tra la Città intanto e la Fortezza era uno offendersi d’ogni giorno: si fece una tregua che non fu tenuta; ed Alessandro Vitelli, ch’era trascorso più oltre, venne egli stesso in Volterra, dove ordinava le difese, rinforzate ancora per l’invio che i Genovesi avevano fatto di artiglierie nella città; per il che parve correre un qualche pericolo la Fortezza che da quelle parti era di grandissimo momento alla Repubblica di Firenze.

Aveva il Ferrucci scritto ai Dieci, che se gli mandassero altri cinquecento fanti, crederebbe fare opera degna verso Volterra; ed aggiungeva: «vi pensino bene, chè adesso è il tempo.» Non indugiarono; e cinque compagnie, uscite dalla porta San Pier Gattolini a mezza la notte dei 25 aprile, poterono senza notabile offesa passare la Greve, e quindi condursi fino alla Pesa, dove incontrarono resistenza che veniva dalla torre dei Frescobaldi e poi cessava pel soccorso dei soldati che aveva loro incontro mandato il Ferrucci. Il quale con mille quattrocento fanti e dugento cavalli uscito subito d’Empoli, pervenne la sera medesima sotto alla Fortezza di Volterra e messe dentro le sue genti. Bene gli fu avere provveduto che ogni soldato si portasse pane per due giorni, perchè in Fortezza non ve n’era che a tanti bastasse: aveva seco anche picconi e scale e marraiuoli e polvere. La mattina fece a un tratto aprire la porta e a bandiere spiegate assaltare da tre luoghi i Volterrani in tutta fretta. Trovato intoppo di trincee, prese le prime e le seconde con molto sangue; perchè i Volterrani, avendo traforate le case, passavano dall’una nell’altra, ed offendevano i nemici senza potere essere offesi, intantochè in faccia stavano sulla piazza di Sant’Agostino due cannoni che spararono due volte ciascuno con assai danno degli assalitori. Allora il Ferruccio fu [280] costretto a fare quello che non sarebbe stato del suo ufficio, ed imbracciata una rotella, dava coltellate a chi tornava indietro. Finalmente egli con una testa di cavalleggieri armati di tutt’arme e alcune sue lancie spezzate, essendo saltati su quel riparo, s’insignorirono di tutta la piazza: poi combatterono casa per casa con molta uccisione, finchè assaliti dalla notte cessarono; chè nessuno di loro poteva stare più in piedi. La mattina i Volterrani accennarono di volere parlamentare; e avuta la fede, il Commissario venuto innanzi domandò al Ferrucci quel ch’egli desiderasse. Rispose questi, che voleva la terra per forza o per amore, e che voleva fosse rimesso nel petto suo quel bene o quel male che facesse ai Volterrani. Chiesero a rispondere due ore; le quali essendo negate e avuto solo un quarto d’ora, tornarono al tempo dato, ed in tutto si rimisero alla discrezione del vincitore. Furono accettati da lui con promessa di salvare la vita al Commissario e a tutti i fanti pagati; ma perchè Taddeo Guiducci gli parve a lasciarlo di troppa importanza, lo ritenne presso di sè, con animo di non fargli dispiacere avendogli data la fede, la quale si aveva ancora guadagnata col fare qualcosa di notabile; in tal modo era piaciuto al Ferruccio. Di questo abbiamo trascritto parole che hanno conferma dagli storici.[220]

Volterra però fu dal Tedaldi e dal Ferrucci trattata come paese nemico; perchè avendo tolte ai Volterrani le armi, e pena la vita a chiunque avesse sulla persona arnesi da offendere, obbligarono infine i cittadini a uscire senza cappa o altra veste di sopra; vietarono suonare la notte nè ore nè campane, ed ogni casa mettesse fuori i lumi accesi: costrinsero i molti benestanti ch’erano assenti a rientrare nella città, per non essere fatti rubelli; i quali tornarono il maggior numero. A tutto questo era principal motivo il trarre [281] danari, perchè il Ferrucci voleva dai Volterrani seimila fiorini per cui potesse pagare i soldati che si erano uditi chiedere il sacco della città di Volterra; forse anche promesso da lui nel caldo della battaglia. Ma stentò molto a raccogliere il numerario che era nascosto, e fece mettere in fondo di torre dodici dei più facoltosi di Volterra finchè non avessero pagato del loro; il che taluni si ostinavano a negare prima che vedessero imminente su’ loro occhi la minaccia del capestro: dipoi radunati i principali cittadini, fece loro confessare a viva voce la ribellione; questa volta pure trovandosi due i quali non vollero, prima di avere certezza che sarebbero impiccati. Della quale confessione fece il Tedaldi stendere un atto per mano di notaro; e ai Volterrani dichiarò, essere eglino caduti da ogni privilegio ed esenzione che prima godessero, preponendo alla città un Magistrato di uomini scelti che a lui ubbidissero.

Era sulle terre dei Senesi Fabbrizio Maramaldo, e seco un forte numero di quei feroci e disperati ai quali era stata mestiere la guerra, e che egli nutriva di estorsioni e di saccheggi, cercando una impresa che più inalzasse il nome suo e la fortuna: con questo pensiero faceva impeto nei Borghi di Volterra ai 17 maggio. Quivi attese a fortificarsi col fare trincee e ripari da piantare le artiglierie che aveva seco, intantochè altre ne aspettava del campo d’intorno a Firenze. Tra le due parti si combatteva quasi ogni giorno, uscendo il Ferrucci spesso a impedire le opere dei nemici; e intorno a una mina scavata da questi sotto alle mura da San Dalmazio perì molta gente, tra’ quali anche uomini di conto. Riusciva però al Maramaldo di espugnare il convento di Sant’Andrea presso alle mura di fuori: aveva mandato al Ferrucci un suo trombetta con l’intimazione di sgombrare la città; ma questi minacciò il trombetta di farlo impiccare, e un’altra volta che gli tornò innanzi, lo fece davvero [282] mettere alla forca, contro alle leggi della guerra; il che dovette egli sentire più tardi. La mattina dei 12 giugno comparve poi sotto Volterra il Marchese del Vasto con quattro mila Spagnoli e dieci cannoni: veniva da Empoli, avuta nel modo che sotto diremo; e subito ai 13 sul fare del giorno si presentò dove il Ferrucci aveva costrutto ripari grandissimi, e dietro alle mura fossi larghi e cupi, ne’ fondi dei quali giacevano tavole confitte di aguti con le punte volte all’insù. Delle quali cose avendo avuto notizia il Marchese, la mattina dei 14 andò a fare la batteria in altro luogo più debole, talchè in pochi colpi gettarono a terra oltre a una torre, quaranta braccia di muro. Sopraggiunse allora col nerbo dei suoi soldati il Ferruccio; e molti cadendo da ambe le parti, egli stesso ebbe due ferite, che una al ginocchio e l’altra alla gamba per la caduta d’un cavallo, sicchè dovette farsi portare sopra una seggiola alla batteria, dove fu lungo e fiero l’assalto, finchè i nemici con la morte di molti di loro non furono costretti a ritrarsi. Allora il Marchese, deliberato di assaltare la città da un’altra banda, tornò a’ 21 la mattina; e durò a batterla fin dopo mezzogiorno, avendo gettate a terra più altre braccia di muro. Il Ferrucci per le ferite e per una febbre sopraggiunta portato sempre in seggiola, comandava le difese. Continuò l’assalto due ore, ma senza che i nemici potessero vincere le batterie; dove alcuni di loro essendo saliti, furono ributtati; quei di dentro, oltre all’usare le armi, gettando addosso a loro sassi e olio bollente, molti ne uccidevano, dimodochè il Marchese del Vasto e Fabrizio, vedendo i loro soldati essere malmenati e nulla potere pel disavvantaggio del sito e per la gagliarda resistenza, si ritirarono ai loro alloggiamenti, e la notte si partirono da Volterra disperati di più acquistarla.[221]

[283]

La perdita d’Empoli avvenne in tal modo. Avendo il Principe d’Orange saputo che il Ferruccio per la difesa di Volterra contro al Maramaldo era stato costretto lasciare Empoli con minori forze, mandò a questa volta don Diego Sarmiento capitano dei Bisogni, e vi chiamò Alessandro Vitelli e altri Capitani, ai quali soprastava il Marchese del Vasto. Assalirono da due lati le mura fortissime e bene guardate; si combattè molto dove il Sarmiento comandava, cadendo le mura a pezzi con molta strage, infinchè la notte avendo fermati gli assalti, parte degli Empolesi mandarono offrendo ai nemici un accordo: e fu detto che nel tempo stesso Andrea Giugni, nuovo Commissario con Piero Orlandini Capitano di milizie, vendessero Empoli perfidamente agli Spagnoli. Fatto è che poi nella mattina questi vi entrarono, nè fu la terra interamente salvata dal sacco. Rimasero infami i nomi del Giugni e dell’Orlandini, che furono anche dipinti in Firenze come traditori, secondo l’usanza. Giovanni Bandini, maestro di corruttele, avrebbe condotto la pratica essendo lì presso al Marchese del Vasto e da lui tenuto in gran conto: lo stesso Andrea Giugni per la vita licenziosa non poteva essere alla patria sicuro amico al pari d’altri che avevano costumi dei suoi più severi.[222]

Fino da quando il Ferrucci ebbe recuperato Volterra, molto in Firenze si bisbigliava contro a Malatesta, dicendosi che egli non voleva vincere, e che la città si consumava dopo tanta lunghezza d’assedio; doversi ora fare un ultimo sforzo, al quale il tempo era [284] opportuno, perchè i soldati nemici male contenti abbandonavano il Campo, spargendosi dovunque trovassero da saccheggiare o da predare, come quelli che solo cercavano per tutte le vie ciascuno tornarsene a casa ricco. Ai quali rumori parve a Malatesta, per fare qualcosa, di riconoscere, come ora si direbbe, le forze nemiche per via d’una mossa di qualche importanza. Mutava egli stesso alloggio, recandosi alle case dei Bini oltr’Arno, le quali stando alla ridossa del Poggio di Boboli, era egli quivi sotto alla guardia delle sue genti e massimamente delle più fidate, che erano i Côrsi e i Perugini; laddove all’Orto dei Serristori gli pareva essere a discrezione della Città e delle milizie, avendo come sul capo i bastioni dei quali Stefano Colonna teneva il comando. Fu anche poi detto che egli volesse aprirsi l’uscita da Porta Romana, o fare da quella entrare i nemici. Ai 5 maggio mandava egli fuori da tre lati due colonnelli e trenta delle più forti compagnie di Firenze: quelli che dalla Porta Romana andarono all’assalto di un Convento diruto sull’imminente Poggio di Colombaia, lo espugnarono con la uccisione di molti Spagnoli che vi erano a guardia; se non che il Principe d’Orange, corso al rumore, vi mandò le fanterie italiane con Andrea Castaldo. Si combatteva in più luoghi, essendo comparso di verso Marignolle Ferrante Gonzaga con la cavalleria: Malatesta, che aveva animo di soldato, chiamati fuori altri colonnelli, si era gettato nella mischia, sebbene infermo sopra un muletto, tantochè convenne a trarnelo indietro usare la forza. Il Vicerè aveva fatto all’incontro condurre innanzi i suoi Tedeschi, tuttavia comandando che rimanessero in ordinanza: Malatesta fece allora suonare a raccolta, essendogli anche mancato il concorso di Amico da Venafro che doveva uscire dal cavaliere di San Miniato. La stessa mattina Stefano Colonna, sdegnato con lui per certa disubbidienza, lo aveva ferito e poi [285] fatto da’ suoi uccidere barbaramente; selvaggio diritto che si arrogavano quei condottieri fuori d’ogni legge. Morirono in questo fatto d’arme Ottaviano Signorelli, grande amico al Baglioni, e un Piero de’ Pazzi, e Vico figliuolo di Niccolò Machiavelli: pochi giorni dopo in una piccola avvisaglia rimase ucciso Iacopo Bichi, valente uomo che ebbe in Firenze grande compianto e lutti, esequie solenni e onorata sepoltura.

Un poco più tardi Stefano Colonna, per fare anch’egli qualcosa e purgarsi di quel suo delitto, formò il disegno di sforzare per via di un assalto notturno il campo dei Tedeschi a San Donato in Polverosa, che era sotto il comando allora del Conte di Lodrone. Avrebbe in tal modo aperto a Firenze la via di Prato e di Pistoia: per il che fu la sua proposta molto aggradita, e Malatesta si offerse di stare sulla sponda dell’Arno a guardia dei nemici i quali tenevano l’opposta riva. Uscì dalla porta al Prato il Colonna gettandosi addosso al Campo tedesco, immerso nel sonno. Un altro assalto conduceva da porta Faenza Pasquino Côrso; ma questo in gran parte falliva, e i soldati del Colonna penetrati nel mezzo del Campo, e quivi datisi al predare fuor d’ogni ordinanza, molti uccidevano al buio, e persino di quelle donne delle quali erano pieni a quel tempo i quartieri dei soldati. Frattanto il Conte di Lodrone metteva in ordine i suoi fanti con tale prestezza, che dopo uno scontro più fiero che lungo, ai nostri convenne lasciare l’impresa; e già Malatesta si era tirato indietro dal fiume. Pure nell’assalto perirono molti. Stefano Colonna riportò due non molto gravi ma sconcie ferite: rifulse, com’era solito, il valore d’Ivo Biliotti capitano fiorentino. Ma intanto le condizioni degli assediati venivano a farsi più tristi ogni giorno; imperocchè tutti gli antichi amici o raccomandati della Repubblica, i Malespini, i Signori di Vernio, i Fabbroni di Marradi e altri tenevano la contraria parte: le città e le terre del dominio generalmente [286] si adattavan a stare soggette piuttosto ai Medici che a tutt’un popolo, dove erano troppi padroni da saziare e spesso più avidi. Nella città si era venuti allo stremo di molte cose, ridotti spesso a fare cibo degli animali più immondi; se non che ogni tanto la diligenza e il valore delle milizie riuscivano a condurre dentro qualche branco di bovi o montoni, dei quali facevasi allegrezza molta. Si aggiunse la peste, che si era mostrata nel Campo degli assediatori e qualche poco nella città stessa. Ma non veniva qui però meno la costanza degli animi, ed anzi parevano crescere i fieri propositi, mantenuti vivi dalla speranza che dava il Ferrucci: quei molti che avrebbero bramato un accordo, non si ardivano a mostrarsi: scoperto un Lorenzo Soderini che teneva segreta corrispondenza col nemico, fu appiccato sulla forca e quasi dall’ira popolare dilaniato. Si volle mandare fuori le bocche inutili delle donne e dei bambini; ma la pietà vinse, nè altro se ne fece. Stringeva sopra ogni cosa la mancanza del danaro, invano chiesto alla Repubblica Veneziana che aveva largheggiato in vane profferte; e invano anche ai mercanti fiorentini che erano a Venezia e che temerono d’affrontare le ire del Papa: ma i fuorusciti di Lione mandarono ventimila scudi, messi insieme per lo zelo di Luigi Alamanni. Il primo di luglio entrò la Signoria nuova, che doveva sedere per luglio e agosto; mutandosi ogni due mesi, nonostante che il Gonfaloniere rimanesse; e perchè fu l’ultima fatta dal popolo, a noi pare debito di registrare quartiere per quartiere i nomi degli otto Priori, che furono: Tommaso di Lorenzo Bartoli e Andrea di Francesco Petrini, per San Spirito; Alessandro di Francesco del Caccia e Simone di Giovanni Battista Gondi, per Santa Croce; messer Niccolò di Giovanni Acciaiuoli e Marco di Giovanni Cambi, per Santa Maria Novella; Agnolo d’Ottaviano della Casa e Manno di Bernardo degli Albizzi, per San Giovanni; [287] ed il loro Notaio fu ser Domenico di ser Francesco da Catignano.[223]

Accade sul fine dei movimenti popolari, che molti essendosi a poco a poco tirati indietro, i più eccessivi rimasti soli promuovano spesso di quei partiti che hanno in sè del generoso, mancando però di consistenza. Il gran fine era dare un assalto al Campo degli assedianti, avendo accresciuto di quattro mila il numero delle milizie nelle quali entrassero tutti dai sedici anni in su, e fosse vietato andare per la città in altro abito che militare. Doveva innanzi a tutti uscire il Gonfaloniere, e primo essere al combattimento: il che fu accettato con allegrezza da Raffaello Girolami, uomo che aveva del leggiero. Questo proposito annunziarono a Malatesta che prima in Consiglio lo aveva combattuto, essendo anche venuto a parole molto vive con Francesco Carducci: nè dopo quel giorno andò in Palagio senza buona guardia; poi cessò d’andarvi. Intorno aveva o con lui s’intendevano in segreto molti che temevano il saccheggio più che non amassero la libertà; o credevano quel Governo essere troppo licenzioso e non potere a lungo durare. Venivano tali pensieri a dividere persino la parte più amica agli ordini popolari; e per suggestione dei Frati di San Marco stava per vincersi una pratica, la quale con altre cose importava fermare la vendita dei beni di Chiesa e fare un atto d’umiliazione al Pontefice; se non che il Carducci, che sempre era innanzi a tutti, fece cadere il partito.

Ma tra gli amici di libertà era un voto e un pensiero solo: chiamare il Ferruccio. La via d’Empoli era fatalmente chiusa, nè mai avrebbe potuto egli con la poca gente che aveva sforzarla sugli occhi di tutto il Campo degli assedianti. Eletto il Ferrucci Commissario generale, con facoltà amplissime e affatto insolite, [288] di tutta la campagna del dominio fiorentino; deliberarono che egli da Volterra andasse a Pisa, e quivi raccolto quel maggior numero di soldati che potesse, voltando inverso Pistoia, o cercasse di recuperarla, o per la via dei monti si conducesse insino a Fiesole, donde potrebbe facilmente senza offesa entrare in Firenze, costringendo Malatesta con quella aggiunta di forze ad assaltare il Campo nemico. Lasciava il Ferrucci non bene assicurata Volterra: nelle sue lettere avea tempestato sempre perchè gli mandassero un soccorso di gente da Pisa, e almeno polvere o salnitro. Il Tedaldi era, sebbene d’animo vigoroso, in là con gli anni, e scriveva non potere sulle sue spalle portare il carico della difesa; onde a lui fu dato lo scambio, e i due nuovi Commissari, Marco Strozzi e Gian Battista Gondi, usciti a piedi da Firenze, non senza molta difficoltà poterono entrare in Volterra. Pigliando il Ferrucci con un migliaio e mezzo di soldati la via di Livorno, giungeva in Pisa ai 18 luglio: ma qui, oltre alla ferita del ginocchio non bene guarita, gli si scoperse una febbre che lo tenne in letto per tutto quel mese. Fu danno gravissimo, e forse cagione che rovinasse l’impresa sua, perchè i nemici ebbero tempo di prepararsi e di offenderlo nel modo che tosto vedremo. In Pisa era stato Commissario Iacopo Corsi, il quale insieme con un suo figliuolo essendo venuto in sospetto d’intelligenza col nemico, fu per sentenza della Quarantia mozzata la testa ad entrambi, e Pier Adovardo Giachinotti mandato in sua vece.[224] Attendevano egli e un suo compagno diligentemente alle provvisioni e al far danaro, e a procacciare che Giovan Paolo Orsini da Ceri si unisse al Ferruccio di buona voglia e andasse seco, siccome avvenne,[225] essendo entrati insieme in Pescia il primo d’agosto.

[289]

Fino dal giorno in cui dovette sapersi in Firenze la mossa del Ferruccio e il disegno pel quale era egli uscito da Volterra; Malatesta, che se lo vedeva (se il fatto riuscisse) venire sul capo, appiccò pratiche in segreto col Vicerè, avendo mandato a lui un Perugino molto suo fidato, di soprannome Cencio Guercio. Sperava Malatesta fare un accordo che a lui dovesse fruttare la grazia del Papa insieme e dei Fiorentini: se non che avendo il Vicerè posta come prima condizione che i Medici fossero rimessi in patria con l’autorità che prima avevano, fu impossibile accordarsi, Malatesta dicendo che si andava in tal modo incontro a un certissimo rifiuto. Propose allora che il Principe mandasse don Ferrante Gonzaga, il quale appresentandosi in forma solenne al Grande Consiglio, mettesse spavento negli animi dei cittadini con la esposizione delle forze di quell’esercito e dei duri propositi ai quali avrebbe suo malgrado dovuto condurlo; e che ne uscirebbe inevitabile il saccheggio, qualora si fosse la città ostinata in quell’inutile resistenza. Queste cose suggeriva Malatesta che si dicessero, ma non però dava sicura fede nè si assumeva egli impegno quanto al primo punto, che era di rimettere i Medici in Firenze. Nel che Malatesta rimase fermissimo tanto, che il Principe e il Gonzaga, i quali credevano Firenze essere agli estremi, maravigliati sospettarono che in quel punto fosse venuto avviso di un qualche aiuto di Francia; e intorno a questo dubbio cercavano di sapere meglio.[226]

Pochi giorni dopo, mentre il Ferrucci era infermo [290] in Pisa, i Capitani andarono in Palagio sull’invito del Gonfaloniere; il quale annunziando l’intenzione di combattere, Malatesta e il Colonna si dichiararono con parole generiche pronti a morire in servigio della città. Nell’indomani si fece rassegna delle milizie, che erano ottomila, e poi dei soldati, che si trovarono seimiladugentosettanta pagati e numerati, con ventidue pezzi d’artiglieria da campo. Dato il sacramento a tutti i Capitani, l’ultimo del mese, dopo lunga processione a piè nudi, comunicatisi il Gonfaloniere, i Magistrati e buona parte della Città, fattosi eziandio da molti testamento e ordinate le cose loro, si preparavano all’assalto pel giorno vegnente. Aveva già il Gonfaloniere nel Consiglio Grande annunziata la venuta del Ferruccio; ma il primo d’agosto nulla si fece, che dare le armi: ai 2, Malatesta e Stefano, interrogati sul luogo più acconcio a dare l’assalto, con lunga lettera e specificata dimostrarono alla Signoria essere follia tentare l’assalto del Campo da quale si sia luogo; e perchè il giorno seguente molti andavano a Malatesta dicendo che volevano a ogni modo; dichiarò questi con altra lettera, che avendo egli chiamati a consiglio i suoi Capitani, tutti erano stati contrari al combattere, salvo quelli che tra essi erano fiorentini. Aggiunse che avrebbe in conto proprio e del Colonna mandato al Principe per accertarsi dell’animo suo; e se avesse questi voluto che la città se gli rendesse a discrezione, sarebbono essi pronti ad escire, nulla curando le proprie vite, ma sempre fermi in quel consiglio che dato avevano dell’accordo.

Nel Campo si aspettavano ogni giorno d’avere l’assalto. Ma già fino dal 24 luglio uscito di Firenze un Signorelli, parente al Baglioni, aveva col Vicerè appiccato altre pratiche d’accordo, e in nome di questo aveva fatta a Malatesta la proposta di abboccarsi seco in certo luogo fuori delle mura; a questo invito Malatesta [291] non diede risposta.[227] Scriveva intanto alla Signoria come abbiamo narrato; ma nel tempo stesso mandava nel Campo il solito Cencio Guercio chiedendo di nuovo andasse nella città il Gonzaga: prometteva però questa volta, nel caso che la Signoria non accettasse il partito, d’uscire egli dalla città con tutta la sua gente da guerra; il ch’era un privarla della più valida sua difesa. Noi sappiamo queste cose dallo stesso Gonzaga, al quale e al Vicerè parve con ragione che Malatesta si fosse allora con essi legato. Mandò l’Orange in Firenze a chiedere un salvocondotto pel Gonzaga; ma come di tutte queste cose la Signoria nulla aveva saputo, rispose voleva intendere prima di che si trattasse; e mandò a questo effetto Bernardo da Castiglione, il quale inteso dall’Orange a quali patti avrebbe questi concesso un accordo, senz’altro disse che del ritorno dei Medici era vano il discorrere: su di che si ruppe la pratica, essendo tosto il Castiglione tornato in Firenze.[228]

Qui nell’indomani si venne a sapere l’Orange col nerbo dell’esercito essersi partito la notte innanzi per andare incontro al Ferrucci. Su di che i Signori e gli altri del Governo di nuovo tornarono a Malatesta, facendogli maggior forza perchè non lasciasse cadere tanto comoda occasione di vincere. Questi, sebbene allegasse non essere vero che avesse l’Orange sfornito il Campo, disse che egli era pronto a combattere; ma in apparecchi e in riconoscimenti lasciò passare tutto quel giorno, avendo ancora impedito che mandassero due mila fanti al Montale in soccorso del Ferruccio. [292] Venuta la sera, i Côrsi e i Perugini, fatto fardello e segregandosi dagli altri, andarono a porsi dov’era la stanza del Capitano; talchè in Firenze di già sospettandosi ogni più trista cosa, i giovani stettero tutta la notte vigilantissimi facendo la guardia alla Piazza, intantochè di là dal fiume i soldati stavano in arme con pericolo che venute le due parti tra loro alle mani, entrassero quelli di fuori portando l’estrema rovina. Ma niuno del Campo si mosse: abbiamo autore credibile, che tale era l’ordine del Principe per non essere rimasti più di quattromila; ed anzi in caso di difficoltà, ridursi tutti nella piazza in cima del Campo, abbandonando lì presso e all’intorno gli altri luoghi forti. Se fosse possibile in quel giorno espugnare il Campo, noi non possiamo determinare, nè chi era in mezzo a quelle passioni poteva con libero e sicuro animo giudicare. Che fosse trovata addosso all’Orange una cedola di Malatesta con la promessa di non fare alcuna mossa mentre egli era assente, scrissero taluni, ma senza affermarlo, e noi a crederlo non abbiamo bastanti motivi.[229]

Da più giorni prima, col mezzo di spie e di lettere intercette, aveva il Principe saputo il disegno dei Fiorentini, e giudicandolo di quell’importanza ch’egli era, risolvè andare egli in persona a impedirlo, radunando contro al Ferruccio da ogni banda quelle maggiori forze che in fretta potesse. Scrisse in Pistoia ad Alessandro Vitelli, che facesse di avere seco certi Spagnoli ammutinati, che alloggiavano all’Altopascio vivendo di ratto. Comandò a Fabbrizio Maramaldo che, facendo punta da San Gemignano dove egli era, cercasse impedire il passo al Ferrucci verso Pisa; e non gli riuscendo, gli fosse alle spalle seguitandolo infinchè lo stesso Principe non giungesse. Il quale avendo lasciato in suo luogo Ferrante Gonzaga, e avvisato il [293] Conte di Lodrone che stesse avvertito, muoveva la notte con mille Tedeschi veterani e mille Spagnoli, che rimandò poi, ed altrettanti degli Italiani con Giovan Battista Savello e Marzio Colonna e il Conte di San Secondo e Monsignore Ascalino, ai quali aveva ordinato di alloggiare in Prato la gente d’arme; ed egli seco menò trecento archibusieri e tutti i cavalli leggeri e gli Stradioti. Passato Arno a guazzo e avendo camminato tutta la notte, si fermò nella mattina a riposare ed a mangiare poche miglia distante da San Marcello, dove il Ferrucci si era condotto in quella stessa ora.

Da Pisa il Ferrucci era venuto a Pescia con tremila fanti e intorno a quattrocento cavalli; piccolo esercito, ma ottimamente provveduto di viveri per tre giorni e polvere e scale e ogni sorta di ferramenti e fuochi lavorati e moschetti da campagna che stessero invece di artiglierie: nemico il paese, in Lucca stavano il Cardinal Cibo e genti assai del Papa. Intendimento del Ferruccio era far capo al Montale, castello dei Cancellieri, posto allora in alto, e di là sempre per la via dei monti condursi a Firenze. Si fermò la notte del primo agosto in Calamecca, donde piuttostochè seguitare l’Appennino, i Cancellieri lo fecero volgere a San Marcello; il quale, perchè era della parte Panciatica, fu crudelmente da quelli arso e quasi disfatto. Quivi egli fece riposare alcune ore la mattina del 3 agosto i suoi soldati; poi gli condusse verso Gavinana, piccola terra a cui s’avviavano da un lato Alessandro Vitelli e dall’altro lato il Maramaldo; intantochè il Principe d’Orange, mandati prima innanzi i cavalli leggieri e gli Stradioti, egli medesimo si avanzava per occuparla con le genti d’arme: in tutto erano gli Imperiali da sette a otto mila, senza contare la parte Panciatica. Dai tocchi a martello delle campane di Gavinana, e dalla gente che fuggiva, conobbe il Ferrucci che dentro già entravano i nemici. Entrò il [294] Ferrucci dall’opposto lato, combattendosi lungamente con pari ferocia da ambe le parti dentro la terra stessa, che fu più volte presa e perduta; ed in quel mentre avendo al di fuori Alessandro Vitelli urtato la retroguardia, che il Ferruccio aveva commesso a Gian Paolo Orsini, fu varia la mischia finchè le due parti non si separarono per soccorrere ciascuna i suoi. Imperocchè la cavalleria del Principe mentre girava intorno alle mura, ebbe da quella del Ferruccio tale percossa che dopo essersi mescolate insieme con strage grandissima, l’Orange, veduto i suoi sbaragliati, si cacciò innanzi con impeto di Francese dove più fioccavano le archibusate, delle quali due nel tempo istesso lo fecero cadere a terra morto. Anche oggi i paesani mostrano il luogo dove è il crocicchio di una stradella molto ripidosa che sale sul monte. Avvenne che uno spagnolo uscito dalla battaglia corse annunziando la morte del Principe e la vittoria del Ferruccio, che fu creduta per qualche ora a Pistoia ed a Firenze, e sino in Roma dal Papa stesso. Ma in questo mentre il Maramaldo abbattendo un muro, già era nella terra, e mille Lanzi freschi discesi dal monte, diedero per fianco e alla coda di quei del Ferruccio, assai ammazzandone e facendo molti prigionieri. Il piccolo esercito, stanco e consunto nei vari scontri, fu quasi distrutto. Lo stesso Ferrucci continuando il combattere di sua mano, e già in più luoghi ferito, andò con Gian Paolo a porsi dentro a un casotto dove furono attorniati e presi dagli uomini del Maramaldo; il quale avendo comandato che il Ferruccio gli fosse condotto innanzi sulla piazzetta di Gavinana, prima di sua mano lo feriva nella gola, mentre questi gli diceva: «Fabrizio, tu ammazzi un uomo morto;» poi lo diede a finire ai soldati. Così moriva Francesco Ferrucci: vissuto fino ai quarant’anni semplice cittadino, era egli ad un tratto divenuto grande uomo di guerra, amando del pari la libertà e la gloria, le quali entrambe nella patria [295] sua perirono seco. Fu egli sotterrato nella piazza stessa lungo la chiesa di Gavinana. Giovan Paolo Orsini si riscattò pagando quattro mila ducati di taglia; Amico d’Arsoli, vecchio e rinomato capitano di quei del Ferrucci, fu comprato seicento ducati da Marzio Colonna, che a sfogo scellerato d’una privata vendetta l’uccideva di sua mano. Potè riscattarsi, tra molti, anche uno degli Strozzi, soldato di conto, ma cui troppo bene stava il soprannome di Cattivanza che tutti gli davano. Il corpo di Filiberto Principe d’Orange, portato fuori penzoloni attraverso un mulo, fu messo in deposito per essere quindi recato ai suoi. In quella battaglia, che aveva durato dalle diciannove alle ventidue ore, si trova che il numero dei morti e feriti andasse a duemila.[230]

La notizia della morte del Ferrucci e della rotta produsse in Firenze un generale sgomento, di mezzo al quale molti però sempre uscivano disperatamente a chiedere le armi, sorretti non poco dalla fede incrollabile dei Piagnoni. La Signoria stava sempre co’ più arditi; chiamò il giorno stesso i settantadue Capitani stipendiati che erano in Firenze, promettendo loro se difendessero la città il soldo a vita e altri benefizi; la quale promessa accolta con plauso, non però in essi potè ispirare fiducia durevole. A Malatesta pareva intanto d’avere alla fine toccato il segno: si era egli levata d’addosso la gloria importuna del Ferrucci e dall’animo la gelosia d’un uomo che non era nemmeno soldato; poteva ora offrire al Papa Firenze salvata dal sacco. Mandò chi dicesse al Gonfaloniere e alla Signoria che la guerra era perduta, e che era da porre giù l’ostinazione: Stefano Colonna, al quale il Giannotti era andato per tentare d’indurlo a uscir fuori, rispose non essere più tempo, e domandò licenza. [296] Già era d’assai cresciuto il numero di coloro che apertamente s’intendevano con Malatesta, oltre ai Palleschi andando a lui molti di quei ricchi cittadini i quali sognavano un Governo stretto, e si credevano volere egli condurli a tal fine; primo dei quali era Zanobi Bartolini anticamente beneficato da Casa Medici, e che ora cercava un Governo dove a lui come a uomo capace toccasse una parte in qualunque modo prominente. Era egli uno dei quattro Commissari della milizia, nel quale grado e già da un pezzo fomentava gli andamenti di Malatesta; laonde la Pratica fece un passo molto ardito, cassando lui co’ tre suoi compagni, uomini da poco, ed eleggendo nei luoghi loro quattro più sicuri, dei quali era l’anima Francesco Carducci. Il che era un rompere le fila in mano a Malatesta, a cui aderiva in oggi il Colonna; onde il giorno stesso in nome di questi due andarono messaggeri a don Ferrante Gonzaga, il quale, per essere il Principe d’Orange morto e il Marchese del Vasto assente, aveva il comando di tutto l’esercito. Questi, non appena udito il messaggio, mandò per Baccio Valori Commissario generale del Papa, ed insieme formarono una bozza di Capitoli, i quali portavano che la Città rimanesse libera ancorchè il Papa vi ritornasse, e che nello spazio di quattro mesi all’Imperatore spettasse dare forma al governo; salvo però sempre a tali proposte il consentimento di Clemente.

Fermata la bozza, mandò Malatesta a confortare la Signoria che non dubitasse di accettare quel partito di rimettere i Medici; perchè opererebbe egli sì, che fosse mantenuta quella condizione di conservare la libertà: risposero, ingiungendo a lui di combattere come era suo obbligo. Aveva Malatesta non solamente oltrepassato ma tradito il suo mandato, quando chiamato ad essere Capitano della Repubblica, non aveva fatto in dieci mesi altro che sempre negoziare coll’inimico, e ora disponeva della città come di sua roba, [297] e di suo arbitrio ne regolava le sorti avvenire. Ma egli esclamando, essere qui a difendere Firenze non a distruggerla, e che non soffriva farsi autore della desolazione d’una tanto nobile e ricca e tanto da lui amata città, diceva pubblicamente avere proposito di chiedere buona licenza e partirsene: al che uniformandosi il Colonna, scrissero insieme alla Signoria con parole molto ossequiose, chiedendo licenza quando il partito di combattere si volesse mandare ad effetto. Rispose la Signoria col dare ad essi onorevolmente per iscritto la chiesta licenza; la quale essendo a Malatesta recata da un Andreolo Niccolini, quegli, infermo com’era di male francioso, gli tirò parecchie pugnalate, dopo alle quali gli fu a stento levato di mano. In questa ira che accecava Malatesta è tutto l’arcano delle intenzioni sue, potendo rimanere dubbio se egli o temesse perdere il grado che lo faceva innanzi a Clemente comparire arbitro di Firenze, o se piuttosto non vedesse cadere a terra un suo disegno per cui la Città con l’intervento dell’Imperatore venisse ad un qualche ragionevole componimento. Al quale effetto avrebbe egli condotto le fila che furono rotte dalla morte dell’Orange, e forse andavano ad un qualche più segreto pensiero di questo: certo è che in mezzo a quei tumulti, Malatesta si fece da molti udire dicendo come tra sè, «non essere Firenze stalla da muli, ma che l’avrebbe egli salvata ad ogni modo.» Di questo accenno ai due bastardi di Casa Medici pensi ognuno come più gli aggrada, e a quelle parole in apparenza tra sè borbottate potrebbono darsi molte e molto varie spiegazioni.

Ma ciò in qualunque modo sia, Malatesta da questo punto, senza più cercare coperta nè scusa, dovette mutare non so bene se io dica l’animo o le apparenze. La Signoria, udita l’ingiuria a lei fatta nella persona del Niccolini, comandò a tutti l’armarsi e andare contro alle case di Malatesta e contro ai nemici. A questo [298] effetto chiamò in Piazza i Gonfaloni; ma tali erano di già il tumulto e la confusione d’ogni cosa, tanto a un ardire male consigliato si era già in molti mescolata la paura, che dei sedici Gonfaloni, otto soli comparvero nella Piazza. Dentro al Palagio, Ceccotto Tosinghi dimostrò in Consiglio per la vecchia sua esperienza militare, che nulla poteva tentarsi oramai: per le cui parole lo stesso Gonfaloniere, che si era armato, tornò indietro. E già Firenze pigliando aspetto di città sforzata, non si vedeva e non si udiva più che un gridare per l’imminenza dei mali estremi, un ricoverarsi nelle chiese, un aspettarsi l’esterminio della sua casa ciascuno e della sua famiglia. Imperocchè Malatesta in quel tempo aveva mandato Margutte da Perugia a rompere la Porta a San Pier Gattolini, e a Caccia Altoviti che v’era a guardia comandato da parte del Generale che se ne partisse; aveva già fatto entrare Pirro Colonna dentro ai Bastioni e rivolte le artiglierie contro alla città stessa, minacciando che metterebbe dentro gli Imperiali, se le bande della Milizia venissero avanti.

Ma intorno a lui già molti erano accorsi o antichi Palleschi, o nuovi e pentiti adoratori di Casa Medici, o stanchi o prudenti o paurosi; di quelli insomma che fanno ad un tratto mutare l’aspetto alle città in trambusto, mettendo col numero negli altri paura. Non pochi vi erano disertori della stessa milizia e uomini già provetti in gran parte delle famiglie maggiori e più ricche, i quali tutti insieme ed armati si andarono a raccogliere sulla Piazza di Santo Spirito, da essi scelta per la vicinità del nuovo alloggio di Malatesta. Figurava in capo agli altri un Alamanno de’ Pazzi; vi erano Giovan Francesco degli Antinori detto il Morticino, stato dei primi e dei più feroci per la libertà, e tra gli altri molto rumoroso Pier Vettori che nelle lettere poi acquistò fama; vi erano alcuni della famiglia e della parentela di Niccolò Capponi, il quale non [299] si era creduto condurre le cose a tal fine. Giungevano essi al numero forse di quattrocento, tra loro essendo antichi odiatori dello stato popolare e molti di quei leggiadri giovani che sono il fiore delle città doviziose, i quali in Firenze anelavano da cittadini salire al grado e al titolo di cavaliere, presentendo in sè già quei tempi che hanno nome di giocondi perchè nulla è in essi di serio e di forte. Ma questi già erano la parte che dominava: Bernardo da Terrazzano, Commissario della milizia di quel Quartiere, vi corse subito a pregarli tornasse ciascuno al suo Gonfalone; ma fu ributtato con aspre parole, e fin della vita dai più temerari minacciato. La Signoria vi mandò Rosso dei Buondelmonti, chiedendo ciò solo che mostrando la città divisa non disturbassero gli accordi; al quale dissero, che non conoscevano altra Signoria nè altro Signore che Malatesta: e questi, a casa del quale era andato il Terrazzano, alla sua volta gli disse, che stava con quei giovani e che non conosceva altra Signoria. Bene entrambi avevano giudicato; e la libertà Fiorentina, come se allora si fosse guardata in seno, conobbe giunta la sua fine.

La sera medesima il Consiglio e la Pratica, radunati in fretta, rendettero per minor male il bastone a Malatesta, e al solo Zanobi Bartolini l’autorità del commissariato. Era il Governo già tutto in mano di questi due; Zanobi andava chiamato in Palazzo, dove non senza qualche difficoltà gli Ottanta crearono quattro Ambasciatori i quali andassero nel Campo a trattare con don Ferrante e col Valori, intesi già prima di queste cose con Malatesta: erano essi Bardo Altoviti, Iacopo Morelli, Lorenzo Strozzi e Pier Francesco Portinari, quello che fu ambasciatore in Roma a Clemente; i quali ebbero autorità di capitolare con la condizione che la Città rimanesse libera e che dei fatti di questi mesi non si tenesse memoria alcuna. In Piazza rimanevano alcuni armati, ma i più risoluti; tra’ quali [300] Giovacchino Guasconi che vi condusse tutta intera la sua Compagnia, ed il Busini che di queste cose diede minuto ragguaglio. Questi essendosi raccolti sotto alla Ringhiera dei Signori, mentre di quelli di Santo Spirito alcuni venivano in arme nella Piazza, poteva una zuffa tra essi appiccarsi, e i soldati entrati dentro parteciparvi con grave pericolo della città. Nulla però avvenne; ed al tornare dei Commissari con la Capitolazione, già era in Firenze Baccio Valori divenuto con Malatesta signore ed arbitro d’ogni cosa.

I Capitoli furono questi: «In primis: Che la forma del Governo abbia da ordinarsi e stabilirsi dalla Maestà Cesarea fra quattro mesi prossimi avvenire, intendendosi sempre che sia conservata la libertà; che i sostenuti dentro Firenze o in altre parti del Dominio per amicizia con la Casa dei Medici, si abbiano immediatamente a liberare, e i fuorusciti e banditi sieno ipso facto restituiti alla patria e beni loro; che la città paghi all’Esercito ottanta mila scudi a brevi scadenze; che sieno dati in potere di don Ferrante, per sicurtà dei pagamenti da farsi, quelle persone che saranno nominate da lui medesimo fino al numero di cinquanta o di quel manco che piacesse alla Santità di Nostro Signore; e che le fortezze di tutto il dominio sieno ridotte in potere del Governo che si avrà a stabilire da Sua Maestà; che il signor Malatesta ed il signor Stefano Colonna, rinunziato il loro impegno con la Città, giurino in mano del Commissario Cesareo di restare con quelle genti che a loro Signorie parranno nella città, infino a che siano adempiute tutte le presenti convenzioni dentro al termine de’ quattro mesi soprascritti; che qualunque cittadino fiorentino, di che grado o condizione si sia, volendo, possa andare ad abitare a Roma o in qualsivoglia luogo liberamente e senza esser molestato in conto alcuno, nè in roba nè in persona; che tutto il Dominio e Terre acquistate dal felicissimo esercito abbiano a tornare [301] in potere della Città di Firenze; che l’Esercito, pagato che sia, abbia ad uscire dal Dominio al possibile dentro il termine di otto giorni; che sia fatta generale remissione di tutte le pene, e che dal canto di Nostro Signore e suoi parenti ed amici sieno dimenticate tutte le ingiurie ricevute da qualsivoglia cittadino, usando con loro come buoni cittadini e fratelli; del che personalmente fanno promessa don Ferrante Gonzaga per conto dell’Imperatore, e Bartolommeo Valori per conto del Pontefice; che sotto la stessa promessa, ai sudditi e vassalli di Sua Maestà o della Santità Sua che si fossero fatti rei di disobbedienza per avere portato le armi contro ai loro Signori, sia fatta generale remissione e restituzione dei beni e della patria loro.» Queste cose furono stipulate nel Campo Cesareo ai 12 agosto; ma quanto valessero accordi siffatti, ben tosto si vidde.[231]

Capitolo XI. FINE DELLA REPUBBLICA. [AN. 1530-1532.] FIRENZE DOPO LA REPUBBLICA.

Ma fino all’ultimo la Città mantenne almeno il suo onore, avendo nel nome del Papa e di Cesare avuto promessa di rimanere libera e signora nell’antico dominio, e che i Medici non vi entrassero come vincitori. Le quali cose ai loro amici dispiacquero; e parve il danaro scarso, e quell’arbitrio dato a Carlo V riusciva sospetto. Ma dentro Firenze già erano i soldati; per [302] le strade i Côrsi di Malatesta, ai quali era prima vietato mostrarsi, facevano guardia la notte, nè alcuno della città ardiva uscire di casa. Non erano ancora tornati dal Campo gli Ambasciatori, che una mano di quelli da Santo Spirito venuti in Piazza, comandarono alla Signoria che rilasciasse coloro che per essere tenuti amici dei Medici erano in più tempi stati rinchiusi in vari luoghi, taluni essendovi da oltre a dieci mesi, dei primi e più nobili della città. Il Busini, che gli vide uscire, dice che parevano con certi barboni, romiti allevati nella Falterona; veramente non credo avessero troppo dolce vita in tutti quei mesi. Furono poi rotte le Stinche, dov’erano gli ostaggi d’Arezzo e di Pisa. In breve, il grido mediceo di Palle si cominciò a udire in vari luoghi, e la città mostrava già una nuova faccia.

I primi giorni era ogni cosa governata da Malatesta; il Palagio fu serrato, ed i Signori facevano quello che era ordinato da lui: diedero essi pubblicamente licenza ad ognuno di deporre le armi e di andare ad attendere alle botteghe e case loro; Malatesta prese a poco a poco l’ubbidienza di tutti i soldati ch’erano in Firenze; quell’atteggiarsi da vincitore bastò a mostrarlo anche traditore. Baccio Valori stava in casa seco, e le parole di ambedue suonavano sempre che volevano libertà, e che l’Imperatore acconciasse lo Stato egli. Avevano a lui da principio nominati Ambasciatori che poi non andarono: al Pontefice fu mandato in poste Bartolommeo Cavalcanti per ottenere che il numero di cinquanta ostaggi, dato per sicurtà delle paghe, fosse ridotto a venticinque. Si radunava per l’ultima volta il Gran Consiglio, da cui fu commesso alla Signoria di nominare cinque cittadini che provvedessero il Governo di centomila ducati per essere tra sei mesi rimborsati da cento cittadini, e i cento poi da trecento; questi ultimi essendo fatti creditori sopra le prime angherie che si porrebbero. Dovevano [303] i cento e i trecento essere anch’essi nominati dalla Signoria, come al Pontefice, cioè (scrive il Capello) come al signor Malatesta, parrà: ed un’altra Provvisione avevano fatta di quaranta mila ducati per fare subito entrare nella città vettovaglie. Qui era estrema la carestia; le carni mancavano, delle altre derrate il prezzo eccessivo. Molti in città e nel distretto furono i morti di fame, di peste e di stento; per tutto il Dominio i saccheggi e i guasti fatti dai soldati amici e nemici non lasciarono immune alcun luogo. Ai morti in guerra si aggiunsero le uccisioni dei contadini; sommava il numero dell’une e delle altre a molte migliaia, ma troppo incerte sono le cifre che danno gli storici, le quali noi crediamo inutile registrare.

Ai 20 d’agosto Baccio Valori accordatosi con Malatesta, senza del quale nulla si faceva, mandò in Piazza quattro bande di soldati Côrsi con l’arme e fece, preso che ebbero i canti, suonare la campana grossa di Palazzo a Parlamento. Al quale convennero io non so quanti; che poco importava, non essendo i Parlamenti per tutto il corso della Repubblica altro che bugìe di libertà finta a benefizio della forza. La Signoria scese contro voglia in ringhiera, e con le forme consuete e con le solite acclamazioni fu eletta una Balìa di dodici cittadini i quali avessero facoltà quanta l’intero Popolo di Firenze. Allora scoppiava il grido di Palle Palle; e Baccio Valori con seguito di parenti e amici dei Medici, a cavallo, andò come trionfalmente alla Nunziata, d’onde, udito messa, tornò a casa di Malatesta. La Balìa, dopo avere la sera stessa rimesso i Medici, depose tutta l’antica Signoria, creando al modo solito per due mesi nuovo Gonfaloniere un Giovanni Corsi venuto da Roma. Privò delle usate facoltà l’ufizio dei Dieci e mutò quello degli Otto, nel quale entrarono i più nemici all’antico Stato. Mandava un bando, che niuno andasse per la città in arme, e niuno [304] potesse uscire fuori delle porte, essendo queste guardate altresì da soldati, da famigli de’ nuovi Otto e da birri del Bargello. Uscì poi bando severissimo, che tutte le armi fossero consegnate; che furono grande numero, essendo tutta in Firenze la gioventù armata. Posero un altro accatto, con la dichiarazione che non dovesse cadere sopra gli amici dei Medici, e che non fosse nè meno di uno scudo per testa, nè più di cento: andavano gli eletti a ciò casa per casa, e a discrezione loro imponevano da un fiorino d’oro infino a dodici. Nella Balìa furono messi Raffaello Girolami e Zanobi Bartolini; che era vecchia arte, perchè non paresse che il nuovo Stato volesse in tutto disfare l’antico.[232]

Era inteso per la Capitolazione, che assicurati i Capitani del pagamento degli ottantamila scudi promessi all’esercito, lascerebbero entrare in Firenze liberamente la vettovaglia; ma invece l’assedio continuava peggiore di prima, imperocchè soldati e capitani per avarizia e per superbia volevano subito essere pagati, e intanto impedivano l’entrata dei viveri; talchè alla Città stavano innanzi due pericoli, morirsi di fame e andare a sacco; nè il Papa stesso da Roma sapeva come provvedere. I cittadini più facoltosi non si ardivano per anche tornare in Firenze da Lucca o da altri luoghi, dov’erano fuorusciti. Poi si voleva che tutto il carico venisse a cadere sui vinti, ma il modo riusciva lento; cosicchè avendo imposto ai più ricchi tra questi la somma di cinque o settecento o mille scudi, andassero questi ostaggi nel campo finchè non l’avessero pagata: prima gli tennero in Palagio chiusi in quelle stanze dalle quali erano usciti i Palleschi, poi si mandavano all’esercito perchè ivi distribuiti come prigionieri tra’ Capitani, si riscattassero ciascuno del proprio; questi anche accettavano in pagamento drappi [305] e oro filato stimati a vil prezzo. La Balìa inoltre pose un carico ad altri quaranta cittadini di mille scudi per ognuno, e sempre tra quelli che erano stati dei più ardenti a voler la guerra.

Avvenne allora che nel Campo nascesse una zuffa tra Spagnoli e Italiani, cresciuta bentosto in una vera battaglia, nella quale dalle due parti morì grande numero: l’odio era nel fondo dei cuori degli Italiani, che troppe avevano ingiurie da vendicare e ai quali doveva cadere sul capo la stessa vittoria. Ma Ferrante Gonzaga che vedeva gli Spagnoli avere la peggio, e che ad ogni modo voleva finirla, chiamò i Tedeschi in aiuto agli uomini della nazione del suo Signore, e quelli vi andarono di grande animo: in breve ora Tedeschi e Spagnoli con la superiorità del numero assaltarono il campo degli Italiani, e postili in fuga li saccheggiarono. Malatesta e Baccio Valori vedevano dalle mura e dagli orti dove insieme alloggiavano quello spettacolo; onde fatto mettere in armi tutti i soldati, si trova che avessero prurito di fare dar dentro anch’essi, e rompere tutto il campo degli stranieri: se non che Baccio Valori si oppose, pensando che la rovina di quell’esercito sarebbe rovina dello Stato dei Medici. Quindi i Colonnelli degli Italiani, passato Arno, si ritrassero sotto i monti di Fiesole dove erano alloggiati gli Spagnoli chiamati Bisogni; i quali senza aspettargli si ricovrarono al campo dei loro. Il che portò che gli Italiani lasciassero entrare tutti i viveri che da quella parte venivano dentro nella città affamata, e furono essi i più facili a pigliare il pagamento e i primi che licenziati si dipartissero.[233]

Per gli articoli dell’accordo, Malatesta doveva rimanere con tremila fanti due mesi alla guardia della città ed a sicurezza degli impegni presi da ambe le [306] parti. Il Papa gli aveva con due Brevi reso grazie dell’operato da lui a conservazione della Città e a proprio benefizio del Papa istesso, che gli mandava uomini a trattare intorno alcune difficoltà insorte. Ma tosto di poi gli fece sapere essere sua mente che egli sgombrasse con tutte le sue genti la città due giorni dopo a che fosse partito l’esercito dei Tedeschi e degli Spagnoli, che il Commissario Baccio Valori confidava saldare al più presto. Il che non piacendo a Malatesta, scrisse una lettera a Clemente, nella quale mostrava il pericolo di lasciare senza guardia la città prima che i soldati stranieri, sempre avidi del sacco e male ubbidienti ai loro capi, si fossero allontanati; e che fuori anche di questo potevano gli Italiani rimasti, per essere pagati ultimi, unirsi al Maramaldo che intanto disertava le terre vicine guardando a Firenze. Per questi motivi pregava volesse la Sua Santità lasciarlo in Firenze tutto il tempo dei due mesi che era stabilito per sicurezza di tutte le cose convenute, nonostante che egli Malatesta, quanto a sè, non bramasse altro che andarsi a riposare nella città sua e quivi attendere a guarirsi. Ma il Papa gli fece di nuovo significare che vuotasse la città; per il che ai 12 di settembre (Stefano Colonna già essendosi prima tornato in Francia) Malatesta si partiva co’ suoi Perugini, portando seco molto danaro per il lauto trattamento che la Città gli aveva fatto, e alcuni cannoni avuti in dono dal nuovo Stato. In Perugia era nelle sue mani tutta la potenza dei Baglioni; ma il Papa frattanto aveva mandato legato in quella città il Cardinale Ippolito dei Medici, il quale attendendo ivi a esercitare la potestà pontificia, Malatesta così male affetto com’era del corpo e dell’animo si viveva in una sua villa, nella quale moriva negli ultimi giorni del seguente anno. Aveva mandato per le Città e nelle Corti chi lo scusasse o si chiamasse anche pronto a difenderlo con la spada in mano dalla taccia di traditore: [307] della quale chi volesse interamente purgarlo dovrebbe mostrare che sia lecito a chi ha giurato e sempre fa mostra di difendere una parte, servire a quell’altra.[234] Prima che egli avesse lasciato Firenze, convenne pagare in fretta i suoi Côrsi: ma intanto gli eserciti si allontanavano, e Baccio Valori fece venire nella città il Conte di Lodrone con duemila Lanzi che ivi fecero buona guardia.[235]

Allora tornarono in grande numero gli usciti che stavano in Roma o che per mostrarsi neutrali si erano trattenuti in Lucca o altrove; e allora si pose mano alle persecuzioni e alle vendette. Ne aveva già dato il primo segnale Malatesta non appena fermato l’accordo: imperocchè Frate Benedetto da Foiano che predicando la libertà sapeva d’avere anche offeso la persona stessa del Papa, essendo fuggito in quei primi giorni ma poi scoperto da Malatesta, fu da lui mandato a Roma in dono a Clemente, che lo fece morire per lunghi stenti nel Castel Sant’Angelo, secondo che scrivono i suoi medesimi partigiani. I quali è vero che sogliono spesso primi commettere gli atti odiosi, e poi gettarli addosso ai loro padroni: ma pure nessuno potrebbe assolvere Papa Clemente, a cui l’uso della potenza e del comando aveva l’animo indurito; e i lunghi strazi d’irose passioni, e quelli stessi male compresi della coscienza, [308] si erano tradotti in desiderii di vendetta nemmeno placati dopo la vittoria. Gli Otto, che avevano il carico d’inquisire e il diritto di giudicare in cose di Stato, fecero pigliare Francesco Carducci, Iacopo Gherardi e Bernardo da Castiglione, e subito poi Luigi Soderini e Giovan Battista Cei; i primi come autori principali della ribellione e della guerra, gli altri due per ingiurie pubbliche al Papa ed alla Casa dei Medici: furono tutti cinque esaminati con la tortura, poi decapitati; il che sarebbe pure avvenuto a Raffaello Girolami, anch’egli preso e accusato d’avere impedito gli accordi, se ai preghi di Ferrante Gonzaga non gli fosse stata mutata la pena in una prigione perpetua nel fondo della Torre di Pisa dove egli moriva e, come al solito fu detto, di morte affrettata. Era come si è veduto Commissario in Pisa Pier Adovardo Giachinotti, che fino all’ultimo non voleva credere alla Capitolazione:[236] mandato a scambiarlo Luigi Guicciardini, lo fece alla lesta dannare e uccidere. Tutti questi avrebbono potuto fuggire, ma tale avevano essi una fede che si credevano coperti, oltrechè dalla Capitolazione, dalla bontà stessa della causa loro e dal diritto. Nei Medici era entrato per contrario il sentimento d’essere in Firenze signori legittimi; e quindi osarono fare condannare a morte come rei quei loro nemici che più temevano; il che nelle altre mutazioni non si era mai fatto, bastando allora di togliere ai vinti la patria.

Ma in quanto pure al confinare si andò questa volta più in là che fosse mai per l’addietro, perchè alla crudele ragione di Stato si aggiunsero in maggior copia i motivi personali e gli odii privati. Chiedevano per favore i confinati come si chiede gli uffici,[237] o gli patteggiavano abbandonandosi l’uno all’altro gli amici e i parenti. Francesco Guicciardini, tornato da Roma, [309] riusciva fra tutti spietato in quest’opera del confinare; perchè odiando gli Stati popolari, aveva egli in mente una sua forma di Governo a cui si credeva spianare la via: in Firenze lo chiamavano Ser Cerrettieri, che fu il Bargello del Duca d’Atene. Primi andarono a confine cinquantasei dei più scoperti in favore della libertà o che avessero insultato il Papa. Tra i più eminenti erano Iacopo Nardi, Donato Giannotti, Dante da Castiglione, Anton Francesco degli Albizzi, Silvestro Aldobrandini. Zanobi Bartolini, per avere prima disertato la parte dei Medici, corse pericolo anche della vita, ma gli giovò l’essersi poi accostato a Malatesta, per lui adoperandosi Baccio Valori, natura incerta, che per amicizia o per danari fu a molti benigno; talchè il Bartolini, ottenuto allora di andare a Roma, tornò quindi in grazia. Michelangelo Buonarroti da principio si tenne nascosto, ma fatto poi rassicurare da Clemente, tornò all’opera delle sepolture nella Sagrestia di San Lorenzo. In seguito e dentro gli ultimi mesi di quell’anno crebbe il numero dei confinati fin’oltre a centocinquanta, fermatosi allora per l’interposizione di Cesare stesso. Durava il confine tre anni la prima volta, e fu osservato dal maggior numero per la speranza del ritorno; ma dopo i tre anni, a pochi o a nessuno fu tolto, mutando a molti i luoghi; i quali variavano, taluni dovendo rimanere in villa, tra essi non pochi per tutta la vita loro; ma i più condannati a stare in luoghi insalubri o disagiati e sparsi e lontani, fuori anche d’Italia; talchè non avendo curato il confine, furono ribelli. I beni di questi andarono al Fisco; tornarono agli antichi proprietarii i beni de’ ribelli fatti dal passato Governo, e quelli delle Arti e degli Spedali o luoghi pubblici e quegli degli ecclesiastici, dovendo i compratori restituirgli senza compenso alcuno delle somme per essi pagate. Grande era il bisogno che aveva di danaro il nuovo Stato, per il che i debitori del Comune furono angariati a pagare subito: [310] coloro invece che avessero crediti accesi per danni ricevuti o per altro titolo pertinente alla difesa, perderono il credito essendo notati come libertini o come Piagnoni. I frutti del Monte furono ridotti ai due quinti, con la rovina di molte famiglie e di vedove e pupilli che avevano su quello il loro sostentamento.[238]

Così per gran parte nella città di Firenze mutarono gli uomini, mutarono le ricchezze; talchè, a guardarla nella istoria pare che a un tratto la città intera mutasse carattere. Lo stesso avviene a chi oggi guardi tutta insieme l’istoria d’Italia, nella quale ai tempi oscuri suol darsi principio dalla caduta di Firenze. Venezia, che essendo presso che sola rimasta libera, divenne allora più italiana, raccettò e fece sicuri poi molti degli esuli fiorentini. Abbiamo gli Statuti d’una Confraternita di questa nazione, fondata prima da coloro che pei commerci abitavano Venezia, ma poi cresciuta pel grande numero dei fuorusciti e riformata nel 1556: quel santo vecchio d’Iacopo Nardi era Governatore della Confraternita e forse autore dei nuovi Statuti.[239] Di maggior tempo era la colonia dei Fiorentini sulle rive del Rodano, dove i nuovi esuli trovarono molti antichi avversari della Casa Medici e altri esuli andati prima che sorgesse questa Casa; non poche famiglie piantate in Avignone pel soggiorno dei Papi o che in Lione tenevano banchi e industrie fiorenti, diedero ai loro casati desinenza francese e vi acquistarono qualche lustro.[240]

Fuori di Firenze non venne fatto al nuovo Stato [311] di usare rigori perchè in nessun luogo aveva trovato resistenza, salvo in Arezzo, città dove sono le volontà subite e dove un atto inconsiderato aveva data occasione ad altri disegni. Dappoichè Arezzo, come dicemmo, si fu ribellata, un certo da Bivigliano soprannominato il Conte Rosso la teneva in custodia ed ai voleri del Principe d’Orange, il quale sperava d’averla in premio delle sue fatiche e farsene un feudo: questi essendo morto, v’entrarono gli Spagnoli per conto del Papa, il quale alle suppliche degli Aretini per la indipendenza, rispose essere egli fiorentino e amare la gloria della sua patria; dipoi avendo avuto in mano il Conte Rosso, lo fece impiccare in Firenze come ribelle e traditore. In Pisa non venne certo dal popolo dei Pisani il breve ostacolo che ivi trovarono il Vitelli e il Maramaldo, ma dalla virtù di un Capitano Michele da Montopoli che vi restò ucciso. Nelle altre Provincie, le terre minori quasi da per tutto avevano accolto i Commissari pontifici per affezione al nome dei Medici. La dominazione d’un popolo libero è sempre dura sopra le terre suddite, perchè fu prodotta dagli odii scambievoli e ha più moltiplici le oppressioni: ma un Principe guarda più all’intero Stato, dove a lui giova che sia eguaglianza. Inoltre i popoli del dominio, soliti a portare il peso e il danno delle tante mutazioni e delle guerre, senza il beneficio della libertà, desideravano un governo che sopra ogni cosa cercasse la quiete. Grande era il bisogno che ne avevano le città smunte e vessate dal succedersi delle soldatesche; tra le altre Volterra, presso che deserta. I campi rimasti senza cultura e senza braccia soffersero anche dalla intemperie delle stagioni, le quali andarono contrarie due anni; alle miserie della fame si aggiunsero i morbi. Un Magistrato che si chiamò dell’Abbondanza, fu istituito a provvedere d’allora in poi affinchè i viveri non mancassero per tutto lo Stato.

Baccio Valori col grado di Commissario generale [312] aveva il governo della città e da principio la mente del Papa; era venuto a risiedere in casa Medici, dove tutte le faccende facevano capo, ivi radunandosi un nuovo Magistrato degli Otto di Pratica, dove Clemente aveva posto i suoi più stretti e confidenti. Questa come reggia era guardata da soldati tedeschi, i quali per maggior sicurezza occupavano anche la chiesa vicina di San Giovannino: il Commissario quando usciva fuori aveva una guardia. Anche il Palagio pubblico era ben guardato da’ Tedeschi per impedire ogni tumulto popolare, e perchè dalla Signoria non si pensasse nè praticasse alcuna cosa contro al Governo, dovendo questa essere ivi a ornamento e per apparenza. La Balìa, che era prima di dodici, fu accresciuta in più tempi, nominando essa medesima Aggiunti o Arroti che si accostarono ben tosto ai centocinquanta, dalla confermazione dei quali avevano forza tutte le leggi; e queste da essi erano ratificate sulla parola d’un Cancelliere che le poneva loro innanzi. Il Cancelliere Francesco Campana, letterato di qualche nome, scriveva poi nel libro chiamato il Cronista di Palazzo, quello che più occorresse o che piacesse ai reggitori. Si fece ancora uno squittinio, al quale avendo chiamato un numero di dugento, lasciarono imborsare tutti quei nomi che tra essi avendo vinto il partito, potessero quindi essere estratti agli uffici di dentro e di fuori, eccetto però a quelli di più importanza che si davano a mano e a piacimento del Papa e di chi per la Casa dei Medici teneva il grado in Firenze.[241] Tali ordini soddisfacevano bene all’ambizione di molti cittadini minori, ma non empievano l’ingordigia di pochi maggiori.

Oltre al Guicciardini erano in Firenze, venuti da Roma, i due altri capi di parte Medicea, Roberto Acciaioli e Francesco Vettori: di questi tre, nessuno era [313] interamente devoto a Clemente, nè a lui bene accetto, vagheggiando essi un governo d’ottimati piuttosto che il regno d’un Giovane spurio a cui dovessero ubbidire. Già si adontavano di sottostare a Baccio Valori e del recare che egli faceva tutta la somma dei negozi in Casa i Medici, levando credito al Palagio. Questi dissidii erano in Firenze, e altri disgusti incontrava il Papa dentro alla stessa sua famiglia, dove il vecchio Iacopo Salviati difendeva le forme libere nella patria sua; e quanto madonna Clarice tenesse a vile quei due intrusi Giovani, si è già veduto. Il loro figlio Giovanni e gli altri due Cardinali Ridolfi e Cibo, nati anch’essi da una figlia di Lorenzo, si mostrarono poi sempre poco aderenti al principato. Era un altro parente stretto di Casa Medici, Filippo Strozzi, amico incerto e al Papa sospetto, ma che per sè amando le ricchezze e i piaceri della vita e le culture d’un felice ingegno, voleva piuttosto avere amici che partigiani e godersi gli splendori di un alto grado senza i pericoli; nè quanto a sè, avrebbe mai altro cercato.

Col fine dell’anno 1530 parve a Clemente che la Città, quasi rinnovata, fosse ridotta in termini da non si potere muovere altrimenti; al quale effetto era stata seco tutta la parte Medicea. Rimaneva ora che egli si spiegasse quanto alla forma da dare al Governo intorno a che aveva tutti quei mesi tenuto chiuso il volere suo, meno fidando negli altrui pareri e più sicuro dei suoi propositi dacchè a lui erano entrati nell’animo più forti passioni. Della famiglia sua non diede licenza ad alcuno di andare a Firenze; la piccola Caterina ordinò subito che gli fosse mandata in Roma; il che lungamente aveva desiderato, e già pensando come avviarla a sorti maggiori. I grandi amici della sua Casa, nei quali pareva da principio che stesse il governo, col trarre a sè gli odii avevano fatta la parte loro; non rimaneva oggi che dare ad essi un premio e fare che si allontanassero da Firenze. [314] Ebbe il Guicciardini la luogotenenza di Bologna, e Baccio Valori andò presidente della Romagna; i quali gradi tennero entrambi per tutta la vita di Papa Clemente. Mandò in Firenze come suo rappresentante lo Schomberg, Arcivescovo di Capua, tedesco a lui tutto devoto e senza passioni nè ambizioni cittadine, sebbene pratico di Firenze fino da quando il Savonarola lo aveva vestito frate in San Marco, e grato abbastanza perchè facile alle udienze, diligentissimo nel curare le private faccende e nel fare che tutti avessero eguale giustizia. In questo mentre giunse ad un tratto il Cardinale Ippolito dei Medici, partito da Roma senza saputa del Papa. Non si poteva egli dar pace di avere scambiato con un cappello di cardinale il principato, al quale si era creduto prescelto; e venne a tentare se una qualche dimostrazione di cittadini fermasse in quelle dubbiezze l’animo di Clemente. Ma questi subito mandò dietro al giovane incauto Baccio Valori che gli tolse ogni speranza, nè alcuno in Firenze per lui si era mosso: quell’atto però fu contro ad Ippolito principio degli odii implacabili che lo perderono, essendo egli più atto a destare gli altrui sospetti che a stare in guardia dalle insidie. Ma come quegli che era liberalissimo e di dolce indole e leggiera, si contentò quando per la morte di Pompeo Colonna potè avere dal Papa il vicecancellierato ed altri molto ricchi benefizi.[242]

Era da un pezzo scaduto il termine dei quattro mesi dentro ai quali, secondo l’accordo, doveva l’Imperatore pronunziare il Lodo intorno al Governo della città di Firenze: nè forse il Papa lo aveva sollecitato, non volendo egli che il suo diritto paresse muoversi da una Capitolazione, ma invece che fosse chiesto Alessandro per signore con voto solenne dalla città istessa. La Balìa frattanto fece una provvisione per la [315] quale aggregò a sè il Duca Alessandro de’ Medici, che avesse inoltre la facoltà di risedere con il grado di Proposto in tutti i Magistrati, compreso quello dei Priori: in quel partito, nel numero di ottantaquattro cittadini radunati, furono dodici fave bianche del no. In seguito, per deliberazione degli Otto di Pratica, fu assegnato al Duca un Piatto di ventimila ducati l’anno, avendo egli ai suoi ordini e a suo carico i soldati di Alessandro Vitelli e di Rodolfo Baglioni figlio di Malatesta, i quali avevano la guardia della città.[243]

Nel mese di maggio 1531 Carlo V pubblicò il Lodo che dava lo Stato di Firenze ad Alessandro dei Medici allora Duca di Città di Penne, al quale aveva sposata per quando fosse fuori della pubertà Margherita sua figlia naturale: la data era del 27 ottobre 1530, perchè fosse dentro ai quattro mesi, termine assegnato dalla Capitolazione, a cui si riferisce l’atto imperiale, riconoscendo Ferrante Gonzaga avere in quella tenuto le parti dello stesso Imperatore. Il quale altresì richiama quello che fu da lui promesso al Pontefice nello accordo di Barcellona; e quindi statuisce che in avvenire i Magistrati della Repubblica sieno eletti ed istituiti nel modo stesso come solevano prima che fosse da Firenze cacciata la Famiglia dei Medici; che il Duca stesso ed i successori suoi per linea primogenita mascolina in perpetuo, ed estinta questa, altri della Famiglia dei Medici, nell’ordine istesso, abbiano facoltà e obbligo d’intervenire in quei magistrati, talchè la forma sia di Repubblica della quale il detto Alessandro dei Medici debba esser capo, mantenitore e protettore. Annunzia Carlo essere egli venuto in Italia col fine di restituire ad essa la pace, rialzare i diritti manomessi dell’Impero, e togliere di mano alle plebi la cosa pubblica perchè fosse governata da uomini nobili e più degni. Ma in quella scrittura la [316] forma è sempre di una concessione, talchè pei Curiali tedeschi ha essa il titolo d’Investitura data di proprio moto e con la pienezza della imperiale potestà. Le stesse differenze tra la sostanza e la forma abbiamo scôrto nei Trattati che la Repubblica fiorentina ebbe con l’Imperatore Carlo IV e poi con Roberto, e ultimamente con Massimiliano, e che non avevano avuto altro effetto che lo sborso di poche migliaia di ducati a quei Cesari bisognosi; ma sempre portavano titolo di Privilegi pei quali in perpetuo i Magistrati della Repubblica erano dichiarati vicari imperiali. Di queste finzioni legali in Italia erano solite di appagarsi le imperiali Cancellerie fino dalla pace di Costanza, e come allora i Potestà, così erano quindi eletti dal popolo i Magistrati a governare sovranamente senza ingerenza nè saputa dell’Imperatore. Medesimamente il Duca Alessandro, eletto una volta, trasmetteva la sovranità nei discendenti suoi e in tutta la Casa dei Medici, non era feudatario dell’Impero, nè ad esso legato per titolo alcuno. Questo era il vero, e per tal modo si reggevano d’allora in poi generalmente gli Stati d’Italia in faccia all’Impero, sebbene libertà o principati, stando alle formule imperiali, non fossero altro che privilegi o concessioni da perdersi per fellonia, e muniti di penalità contro a chi negasse di riconoscerli e prestare a quelli ubbidienza.[244]

[317]

Nei giorni istessi il Duca Alessandro, con licenza dell’Imperatore, lasciata la Corte, venne in Italia lentamente, e si trattenne in Pisa ed in Prato avanti di fare l’entrata in Firenze. Quivi giunse quasi ad un tempo Giovanni Antonio Muscettola, oratore Cesareo in Roma e portatore dell’imperiale rescritto: alla solenne promulgazione del quale essendosi prima fermato il giorno e la cerimonia, si radunava la Signoria il dì 6 luglio 1531 nella Sala che poi fu chiamata dei Dugento, dove entrati il Duca, il Muscettola e il Nunzio del Papa andarono a sedersi, avendo in mezzo il Gonfaloniere, dai due lati i Priori e tutti a destra e a sinistra poi gli altri Magistrati. Parlò il Muscettola, richiamando le colpe commesse dalla Repubblica fiorentina contro l’imperiale Maestà, che irata giustamente contro alla città di Firenze avrebbe ad essa dato condegno gastigo, se la Santità del Papa, interponendosi, non avesse placato l’animo dell’Imperatore infino al punto di ottenere per la patria sua non che il perdono di Cesare, ogni più eccelso favore. Letta quindi la Bolla o Breve, così lo chiamavano, baciò l’imperiale Sigillo d’oro, il quale poi fu fatto girare fra tutti i Magistrati che nel modo stesso giurarono obbedienza a quel decreto. Il Gonfaloniere Benedetto Buondelmonti rispondeva al Commissario parole di grazie mescolate con lacrime d’allegrezza, come quegli che tutto devoto ai Medici usciva dalla torre di Volterra dove il Governo popolare lo aveva rinchiuso. [318] In mezzo a questi non tutti sinceri tripudii si trovò pronto sotto alle finestre del Palagio un altro popolo a gridare Palle Palle, viva i Medici, viva il Duca. Questi, tornato alle sue case, fu visitato nel giorno istesso dalla Signoria; nel quale atto d’ossequio era l’abbandono dell’autorità sovrana la quale spettava a quel Magistrato. Il Duca però con l’andare tratto tratto a sedere in mezzo ad esso manteneva quelle apparenze di libertà che l’imperiale Rescritto aveva espressamente confermate, ma che non potevano, come ingannevoli e contradittorie, a lungo durare.[245]

Andavano quindi a Carlo V, che dimorava allora in Brusselles, ambasciatori per la città di Firenze Palla Rucellai e Francesco Valori, il primo dei quali orando in latino dinanzi all’Imperatore, disse: eglino essere inviati a lui dal Senato della Città loro a rendere grazie per gli innumerevoli beneficii da lui recati alla città istessa, come sempre per l’addietro aveva essa avuto in costume verso i di lui predecessori. Averla egli tolta dalle mani di artefici e di uomini di bassa lega e scellerati, avere ai Nobili restituito il grado e gli averi, e ai buoni la patria, ponendo questa sotto al Governo di quei più degni ed onorati, nei quali è giusto che risieda e sia mantenuto. Rendeva grazie all’Imperatore sopra ogni cosa dell’aver egli costituito il Duca Alessandro, Genero suo, perchè avesse questi e in perpetuo i successori suoi il sommo grado e la tutela della città, come lo avevano avuto i suoi maggiori. Non accennò alla Capitolazione tenendosi cauto nel tempo medesimo di non riconoscere un diritto dell’Impero sulla città di Firenze. Lodò a cielo Carlo V per la pace fatta co’ Veneziani e con lo Sforza, e per l’assetto dato all’Italia da lui rialzata e ordinata quando era essa in fondo d’ogni miseria. Ma fin dal principio della orazione il Rucellai richiama sempre [319] le antiche usanze, facendo a Carlo intendere che la Signoria del Duca non dovesse portare alla distruzione delle antiche immunità, che il Lodo stesso dell’Imperatore voleva mantenute.[246] Questo era il concetto di Palla Rucellai, e tale sarebbe stato il desiderio di molti. In quanto a lui quando ebbe veduto farsi Alessandro, principe assoluto, e dopo chiamarsi un altro Principe nello stesso modo, contrastò solo e virilmente con atti magnanimi alla più accorta politica d’altri, per sè dichiarando che non voleva più nella Repubblica nè duchi, nè principi, nè signori.

Ma invece Clemente VII indugiava sempre aspettando gli fosse chiesto quel ch’egli bramava, fare Alessandro signore libero in Firenze. Con questo pensiero aveva cercato il parere degli uomini più eminenti; ma era una scherma nella quale essi con fargli paura diversamente s’ingegnavano di condurlo ad una forma di governo misto, dove un consiglio di pochi Ottimati, sostegno al Duca, potesse anche servirgli di freno. «Abbiamo per inimico un popolo intero,» scriveva Francesco Guicciardini; ed il Vettori afferma che «al nuovo Stato erano avversi da non potersi mai conciliare, novanta su cento dei giovani usati con le armi indosso a essere padroni della città, e in casa comandare al padre ed a tutti e avere licenza d’ogni cosa: poi v’erano gli uomini avvezzi a sedere nel Gran Consiglio, e a’ quali pareva troppo bella cosa disporre col loro voto dei sommi magistrati: vi erano gli ambiziosi di tutti i colori, i quali vorrebbero i primi gradi, nè si poteva tanto in là fidarsene. In tale città più non valevano i modi usati da Cosimo e da Lorenzo, perchè essi poterono tirare su uomini nuovi che gli aiutassero a conservare lo Stato; ma oggi il Gran Consiglio era la città intera, contro alla quale la parte dei Medici non [320] può difendersi, una volta che il Papa sia costretto dai patti a serbare questo nome vano di libertà. Quindi se alcuni magistrati hanno a restare, è necessario tôrre via quelli ai quali l’universale era più solito ubbidire, com’è in primo luogo la Signoria: questa sopra ogni cosa bisognerebbe levare di Palazzo, e con essa anche le campane per disusarne il popolo affatto. Poi tenere una buona guardia e bene pagata, benchè altri dicesse più che una guardia d’armati valere un Bargello; poi levare le armi ai cittadini e non lasciarle portare a persona, ma ridurre gli uomini alle arti ed ai piaceri; e Lorenzo non studiò in altro. Questi fu maestro anche nell’artifizio di maneggiare gli squittinii, i quali (se dovessero continuare) bisognerebbe affidare ad uomini segreti, che non la guardassero per il sottile; ma, chiunque avesse vinto il partito, non imborsassero se non quelli i quali giovano allo Stato: lasciando però qualche speranza al maggior numero che senza questo non pagherebbero le imposizioni.» Ma tutto ciò non bastava, se non si aggravasse la mano sopra altri sospetti, massime dei più giovani; il che andando contro alle intenzioni di Carlo V, Roberto Acciaioli consiglia che il Papa, scrivendo in Corte ad Alessandro, faccia motto di congiure che si tramassero in Firenze, perchè la notizia spargendosi preparasse l’animo di Cesare a tali violenze. Intanto però non mancare mai di camminare destramente al fine ultimo, che è d’impoverire chi ci può far male, ed a chi non è dei nostri non fossi fatto beneficio alcuno, eccetto quelli sono necessari per trarre da loro più utile e più frutto si potesse: avendo rispetto però a tenere la Città viva per potersene servire e che le industrie non si allontanassero. Questi consigli sono di Francesco Guicciardini, il quale poi sempre cerca di legare a Casa Medici alcuni uomini e famiglie tanto strettamente che lei senza loro, nè loro senza lei, non possino vivere: al che gioverebbe rendergli [321] odiosi all’universale con le Provvisioni, le quali fossero a pro loro aggravio pubblico. Luigi, fratello di Francesco, con l’andare in tutto ai versi del Papa, cercava riscattarsi dell’essergli dispiaciuto nel 1527.[247]

Poteva Clemente andare al suo fine se il Duca recasse una imperiale investitura; ma scrive il Vettori non l’otterrebbe, «perchè l’Imperatore è uomo giusto, e nella Capitolazione che fece Don Ferrando con la città, promise conservare la libertà.» Aggiunge poi, che «il Papa ne sarebbe biasimato da tutti gli uomini, e soprastandoli un Concilio, non credo fossi a proposito di Sua Santità incorrere in questa nota; perchè quello è seguito insino al presente si può molto ben difendere e scusare per molte ragioni, ma il pigliarne il titolo non si potrebbe escusare.[248]» Nè il Papa stesso avrebbe gradito che in mano sua il Principato di Firenze divenisse un Feudo imperiale; ma col pigliare sopra di sè tutto il carico della mancata fede sapeva bene d’andare a genio di Carlo V, e ciò gli bastava. Quanto a uno Stato dove gli Ottimati avessero parte, niun altro poteva essere più odioso nè in sè più discorde; nulla in Firenze lo preparava; ed è un governo fra tutti difficile a congegnare, laddove invece ai popoli stanchi degli eccessi popolari è ovvio passare sotto al principato di un uomo solo. Queste cose Clemente sapeva; i principi hanno sui loro ministri questo vantaggio, che posti al centro, distendono sopra le cose all’intorno più ampio lo sguardo e in sè più sicuro, perchè sempre vôlto a un solo pensiero. Sapeva poi che i Fiorentini poco erano atti a mantenere i forti propositi incontro agli agii d’una vita ornata e tranquilla,[249] e che un Medici con le cittadine tradizioni della Casa aveva in sè forza bastante [322] a penetrare, quasi uomo per uomo, dentro a questo popolo per discioglierlo e farne sua cosa. Per queste ragioni deliberò il Papa d’imporre egli stesso quella forma di governo che dare voleva alla città di Firenze.

Ma prima importava bene assicurarsi d’averla spogliata di tutte le armi, delle quali per l’innanzi non era casa che non fosse piena; al quale effetto erano usciti ripetutamente bandi severissimi, e le armi consegnate furono senza numero. Ma perchè dalle spie, che erano a ogni passo, fu rapportato che molti avevano nascosto in luoghi occultissimi i migliori giachi, o altre più care armature, andavano i birri a cercare nelle case insino a quelle dei più dichiarati amici dei Medici, e ivi facevano da padroni: materia di colpa erano gli stessi arnesi domestici, quando potessero divenire armi da offendere; avendone ad alcuni gettate la notte per le buche delle cantine, entravano il giorno dopo e gli accusavano. Le condanne andavano fino all’essere posti in fondo di Torre a carcere perpetua, finoattantochè poi per grazia del Principe n’erano liberati. Donde era grandissimo nella città il terrore: comandava le esecuzioni un ser Maurizio da Milano, cancelliere degli Otto, e usava tanta asprezza di parole e tanta crudeltà di fatti nell’esaminare e nel dare i martori, e così brusca cera aveva, che solo il vederlo metteva spavento, nè chi per le vie lo riscontrasse aveva più bene quel giorno.[250] Vi era poi la forza dei soldati, i quali in mano di Alessandro Vitelli pronti ad ogni cosa, tenevano questa come una città nemica, ma bene costretta in sè a ricevere ogni forma che il Papa volesse.

Stavano in Roma, con molti altri affezionati della Casa Medici, Iacopo Salviati, parente del Papa, e Benedetto Buondelmonti ambasciatore fiorentino: vi andò, chiamato, Filippo Strozzi; e questi e i due Cardinali [323] Salviati e Ridolfi quella vernata si ritrovavano a ristretto quasi ogni sera in camera del Papa a ragionare sulla forma da dare al Governo; tra’ quali Filippo metteva innanzi l’assoluto principato, solo capace a rassicurare la Casa dei Medici ed i più scoperti amici di essa, dicendo essere da levare la Signoria di Palazzo e tutti gli ordini civili ed insegne pubbliche, dove potessero in tempi pericolosi ricorrere e avere autorità i malcontenti; essere ancora più onesta cosa darsi un Principe assoluto di nome e di fatto, che vederselo di fatto ma senza nome comandare ai Magistrati ed alle leggi più da tiranno che da legittimo signore. Andava Filippo sino a promuovere ed instare che si fabbricasse una Fortezza, la quale fosse un freno in bocca alla città e la costringesse in ogni tempo all’ubbidienza. Ma in contrario Iacopo Salviati, grande lodatore dei modi tenuti dal suo suocero Lorenzo, ricordava come dopo alla morte di Leone lo stato ai Medici fosse mantenuto dal solo amore dei cittadini senza soldati nè fortezze le quali mettevano in cuore dei sudditi maggiore sospetto di quello che dessero ai principi sicurezza; e di Filippo soleva dire con voce presaga: voglia Iddio che egli non disegni la fossa che a lui sia sepoltura. A questi discorsi molti da Iacopo si allontanavano, intendendo la voglia del Papa; il quale infine, poichè nessuno voleva scuoprirsi temendo la pubblica indignazione, risoluto a comandare quello che invano sperava gli fosse chiesto; una volta che circa a mezza quaresima Filippo de’ Nerli andò a chiederli licenza per dover tornare a Firenze, gli disse queste proprie e formali parole da questo medesimo riferite: «Dirai per nostra parte a que’ cittadini che più giudicherai a proposito di dirlo, che noi siamo ormai condotti col tempo pressochè a ventitrè ore, e che noi intendiamo e abbiamo deliberato di lasciare dopo noi lo stato di Casa nostra in Firenze sicuro. Però di’ a quei cittadini che pensino a un tal modo [324] di governo che eglino corrano in esso i medesimi pericoli che la Casa nostra, e che lo disegnino di tal maniera che alla Casa nostra non possa più avvenire quello che nel 1494 e nel 1527 avvenne, che noi soli ne fossimo cacciati e quelli che con noi godevano i comodi dello Stato restassero in casa loro come restarono. Però bisogna che le cose s’acconcino in modo e di tal maniera che dovendosi perdere lo Stato, noi ed essi ne andiamo tutti di compagnia. E dirai a quei cittadini apertamente e in modo che l’intendano, questa essere l’intenzione e volontà nostra fermissima: dell’altre cose ci contenteremo com’è giusto e ragionevole, e ch’elle s’acconcino in modo che gli amici nostri, che vogliono correre la fortuna di Casa nostra, tirino de’ comodi dello Stato quella ragionevole parte che a ciascheduno ragionevolmente si convenga.» Andò Filippo, e dal maggior numero di quei cittadini gli fu risposto, che le cose della città erano ridotte in luogo che essi non potevano nè manco volevano opporsi a quello che il Papa volesse; dovere egli considerare come dopo le cose seguite non potrebbono essi senza la grandezza di Casa Medici, non che avere luogo nel governo, nè manco godere le facoltà loro e stare sicuri in Firenze: bene raccomandavano alla Santità Sua la città e loro stessi, qualunque altra forma piacesse a lui di dare allo Stato; ma lo pregavano che egli si facesse meglio intendere e meglio dichiarasse la mente sua.[251]

Quindi cessata ogni pratica, mandava Clemente all’Arcivescovo di Capua dei suoi più fidati i quali gli aprissero tutta la mente sua; e poco appresso tornato Filippo Strozzi, persuadeva facilmente Francesco Vettori suo amicissimo. Furono anche fatti venire Francesco Guicciardini e Baccio Valori; e tutti questi essendo ridotti in Firenze, si radunò la Balìa, dove si vinse una Provvisione per cui fu data autorità alla [325] Signoria d’eleggere Dodici cittadini, i quali insieme col Gonfaloniere di giustizia avessero per la riforma dello Stato e del Governo facoltà amplissima; non però accennando nel Proemio altro che a riforme da essere grate all’universale, come sui giudizi della Ruota e sulle Decime. Indi a pochi giorni, nel nome di questi Riformatori, usciva una Provvisione dove, per dare fermezza al presente Governo e posare gli animi, era una serie di articoli i quali mutavano a un tratto il governo in principato d’un uomo solo; benchè mostrassero, con sottile ma inutile studio, che agli aboliti Magistrati dovessero altri sostituirsi per voti o a sorte, com’era costume in Firenze.

Il primo articolo provvede e ordina questo modo: «Che per l’avvenire in alcun tempo non si crei nè creare si debba più il magistrato della Signoria nè il Gonfaloniere di Giustizia, ma s’intenda dopo il presente mese d’aprile in tutto annullato ed estinto tal magistrato.»

Col secondo articolo, la Balìa viene trasformata in un consiglio che si chiamò dei Dugento, sebbene il numero fosse maggiore.

Dipoi gli stessi Riformatori del Consiglio dei Dugento traggono e istituiscono un Consiglio di Quarantotto cittadini, col nome anche di Senato, i quali abbiano autorità di vincere tutte le provvisioni di danaro ed altre spettanti al Comune, e di eleggere ai principali ufizi e magistrati di dentro e di fuori. La Provvisione contiene i nomi dei primi chiamati a formare il Senato dei Quarantotto.

In luogo e in vece della Signoria ordinano che abbiano ad essere Quattro Consiglieri, eletti di tre mesi in tre mesi dal numero dei Quarantotto, i quali rappresentino i Signori, e abbiano per Capo, con tutta l’autorità che era del Gonfaloniere, il Duca Alessandro dei Medici col nome di Duca della Repubblica Fiorentina, e dopo lui i suoi legittimi discendenti maschi, [326] e quindi i più prossimi nella famiglia Medici, sempre per via di primogenitura.

Il Duca in perpetuo abbia grado di Proposto nel Magistrato dei Quattro Consiglieri, i quali nulla possano fare senza di lui o di persona da lui medesimo delegata, ed ogni cosa che facessero senza lui sia irrita e nulla.

Al Consiglio dei Dugento spetti di vincere le provvisioni attinenti a particolari persone o a Comunità del Dominio, e di eleggere agli ufizi minori.

Nè i Quarantotto nè i Dugento, nè altri Magistrati, possano adunarsi senza la presenza del Duca o suo sostituto, a cui spetti di proporre tutti i partiti; nè ad altri sia lecito.

I Quarantotto e i Dugento sieno a vita, e si rinnuovino per via d’Accoppiatori con certe forme, le quali è inutile qui descrivere.

Non abbiano assegna di provvisione, ma di essi un certo determinato numero debba entrare nei principali Magistrati o ufizi salariati.

Le pubbliche cerimonie sacre o profane dipendano in tutto dal Duca e suoi Quattro Consiglieri, i quali abbiano i patronati delle chiese o benefizi che prima spettavano alla Signoria.

Cessi la distinzione tra le Arti maggiori e minori, e la divisione dei Quartieri che prima concorrevano partitamente alle elezioni.

Fu questo un molto ingegnoso modo che manteneva, fuori del sommo, gli antichi magistrati collegiali con l’aggiunta sola d’un Principe di cui fossero Ministri, perchè egli di tutti diveniva anima con l’arbitrio: poi si fece un passo, ed anche il nome della Repubblica fu abolito. Nel tempo medesimo i Dodici Riformatori davano a Cesare annunzio della nuova forma di Governo da loro stessi deliberata, dove tolta via per sempre la dominazione di quel Magistrato creato dal popolo ad opprimere la nobiltà, sia oggi [327] ristretto il Governo nel Duca ed in Quattro suoi nobilissimi Consiglieri.[252] Il primo di maggio 1532 cessava l’antica Signoria, che ebbe ultimo Gonfaloniere Giovan Francesco de’ Nobili.[253] Quel giorno avrebbesi dovuto installare solennemente la Signoria nuova; ma invece l’antica, uscita di Palazzo la mattina presto, se ne andò a casa privatamente. Il Duca ed i Quattro Consiglieri, udita prima una Messa piana in San Giovanni, andarono con accompagnamento di guardie al Palazzo, dove rogato e sottoscritto l’atto della presa di possesso, e avendo costituito il Magistrato degli Otto e gli altri che ivi dovevano rimanere, tornava il Duca collo stesso seguito alla Casa Medici, divenuta sede dello Stato. In questo giorno ed in tale modo finì la Repubblica.[254]


Nè poi alcun moto civile in Firenze turbò la quiete del Principato. Il quale però fu tirannesco sotto Alessandro, come volevano la natura di lui e l’odio di molti e in tanta penuria pubblica non sapere o non potere usare larghezza. Non che però fosse egli senza ingegno, nè da principio senza cura della privata giustizia; [328] ma un breve regno bastò a mostrarlo sfrenato e violento e pronto ai delitti. Moriva, secondo ogni credere, per suo comando di veleno il giovane Cardinale Ippolito dei Medici, nel quale pigliavano speranza grande i fuorusciti. Questi facevano per l’Italia un popolo sparso di Fiorentini, operosi nelle industrie, e molti di essi autorevoli per grado o per loro valore proprio: era imminente un’altra guerra di Francia in Italia; Paolo III, che succede a Clemente, aveva in odio i Medici; Andrea Doria favoriva presso a Cesare un governo che in Firenze si accostasse a quello di Genova. Furono quindi i principali dei fuorusciti accolti onoratamente ed ascoltati dall’Imperatore quando egli venne a Napoli, e vi era il Duca Alessandro andato con molti dei suoi cortigiani e consiglieri. Quelli chiedevano l’osservanza della Capitolazione e della Sentenza imperiale, e il Duca gravavano di molte accuse: ordinava quindi Carlo V che fosse la causa dibattuta per iscritto più volte, ma infine uscita sentenza che ogni cosa rimetteva in mano del Duca, i fuorusciti si partirono, lasciata una molto nobile protesta nel nome di tutta la loro patria. Indi a poco morì Alessandro: un suo congiunto, dopo averlo vilmente servito, chiamato un sicario, tra loro due lo uccisero crudelmente; nè si può ben dire se lo muovesse gelosia di famiglia, dissennato amore di gloria, o forse per ultimo qualche pensiero di libertà e la vergogna dell’abiettezza in che era vissuto: dopo il fatto, Lorenzino fuggì da Firenze.

Al morto Alessandro succede Cosimo, figlio di Giovanni dalle Bande Nere, giovane che non compiva diciotto anni; il che a taluni dei Quarantotto che lo elessero parve occasione di porre un freno al principato come l’avevano i Dogi a Venezia; ma egli che sapeva già da sè volere, e aveva natura tutta di principe, sgominati facilmente gli ostacoli dentro, si voltò contro agli avversari che stavano fuori. Non erano [329] solamente i confinati e gli sbanditi del 1530, nè uomini appassionati pe’ governi popolari; ma in cima stavano di coloro che avendo prima data la mano ai Medici per salire, non ne raccolsero che sospetti per avere potuto credersi una volta più forti di loro. Filippo Strozzi primeggiava tra questi pel nome e per il seguito; due suoi figli, migliori di lui, Piero e Leone, sfuggiti alle trame d’Alessandro, poi s’acquistarono dalle armi bella fama e morte onorata: Baccio Valori, che si teneva male dei Medici soddisfatto, s’era anch’egli posto co’ fuorusciti. I due cardinali Salviati e Ridolfi, come nipoti legittimi del vecchio Lorenzo, avevano prima fatto malviso ad Alessandro: nè potendo accomodarsi oggi a che la grandezza della famiglia fosse andata nell’altro ramo di Casa Medici, erano in gran fretta venuti a Firenze credendosi farvi qualcosa a pro loro; ma Cosimo tosto gli fece andar via per bella paura, nè più altro tentarono. Gli Strozzi attendevano a far genti, e Piero co’ primi assoldati si era mosso da Bologna dove intorno a Filippo stavano i più dei fuorusciti. Pareva la guerra farsi per lui, tanto grandi erano il nome suo e le ricchezze; ma egli uomo nuovo agli ardimenti di tali imprese ed alle cautele, andava innanzi come prediletto infino allora dalla fortuna, ed ebbe fiducia di farsi con pochi forte in Montemurlo, antica rôcca e allora piuttosto villa dei Nerli, a poche miglia da Firenze: era venuto anche Piero Strozzi di fianco al Poggio di Montemurlo. Cosimo intanto fatto sicuro del favore di Carlo V, e avuti due mila soldati Spagnoli, gli fece andare per vie torte con Alessandro Vitelli addosso al debole campo di Piero che non se gli aspettava e che potè a stento salvare la vita: di là il Vitelli si voltò contro a Montemurlo, dove con piccola resistenza ebbe prigioni Filippo e il Valori e quanti vi erano fuorusciti, i quali furono in quel giorno istesso condotti a Firenze come a trionfo; Filippo e Baccio sopra due vili ronzini, [330] quegli fino allora tenuto il maggiore uomo privato che fosse in Italia, e Baccio dopo essere stato più mesi come principe nella patria sua. Filippo solo, che si era dato prigione al Vitelli, andò in Fortezza; gli altri tutti menati al Bargello, ne furono tratti per essere in piazza, a pochi per giorno, secondo il grado o decollati o impiccati. Un anno durarono le pratiche e le ambascerie di Cosimo a Carlo V per avere nelle mani lo Strozzi, essendo la Fortezza allora tenuta nel nome di Cesare. Il quale infine avendolo poi ceduto, fu sparso lo Strozzi essersi ucciso di sua mano, lasciando anche scritte intorno a quella sua determinazione parole solenni. Ma è più verisimile che egli avesse la morte in segreto, forse per una sorta di compromesso tra lo Spagnolo Castellano che rifuggiva dal consegnare un tale uomo in mano del boia, e Cosimo stesso a cui non piaceva mandarlo al patibolo in mezzo a Firenze.

Non fu da quel tempo la professione repubblicana che una memoria e un sentimento: la città frattanto, «prostesa e stanca per le tante mutazioni, si era riempita di tale diffidenza di sè stessa, che i cittadini levando l’animo dai negozi pubblici, si rivolgevano a stimare e procurare solamente non senza sospetto la salute delle cose private.[255]» Cosimo I ciò non ostante esercitava scopertamente una inquisizione minuta e severa contro ad ogni atto che sapesse di libertà, e questi reprimeva con leggi fierissime da spaventare fino al pensiero. Curava anche i pubblici costumi, e faceva esercitare sopra gli stessi fatti privati una sorta d’ispezione per mezzo d’uomini reputati onesti, i quali ciascuno nel suo vicinato vigilassero sopra ogni azione scorretta o eccessiva, il tutto dovendo al Principe riferire. Ordinava l’amministrazione della Giustizia, e ogni parte del Governo con savie leggi e istituzioni, chiamando a tal fine anche di fuori uomini dotti dei [331] quali tuttora è viva la fama. Benchè non fosse egli soldato, pose grande studio a bene armarsi di fortezze e di milizie sotto a buoni capi del resto d’Italia: fondò anche un Ordine cavalleresco sull’esemplare di quello di Malta. Fu ricchissimo di possessioni avute per via di confische; promosse i commerci a pro suo ed a pubblico guadagno; favorì le Arti belle, ed ebbe amicizie di uomini letterati; ornò la città di pubblici edifizi; fondò quasi a nuovo l’Università di Pisa, molto provvide a pro di questa città e del negletto suo territorio; fece col suo denaro e sotto alla direzione sua la guerra contro a Siena, la quale ottenne dagli Spagnoli con fina politica di aggiungere allo Stato di Toscana, dove egli fu primo Granduca.

Ma tutto un popolo educato nei pensieri di libertà era impossibile che di subito si addottrinasse alla ubbidienza: mutò la vita, ma l’uomo antico qualche rifugio lo trovava sempre. Ai letterati si aprì allora un nuovo arringo nelle Accademie, le quali si andavano moltiplicando per tutta Italia, cercando in esse anche i signori l’indipendenza che danno le lettere. Spesso pigliavano strani nomi, e alcune volte per bizzarria, altre per genio pedantesco, ma non di rado anche per un qualche più arcano pensiero si ricuoprivano d’uno strano gergo. N’era in Firenze di questa sorta; e una col titolo d’Accademia del Piano aveva intenti politici, ai quali allora se ne mischiava dei religiosi per la brama ch’era in molti d’una riforma. Iacopo Pitti, che era uno di quell’Accademia, racconta averne in Inghilterra dato notizia alla regina Elisabetta, la quale un giorno per udirne maggiori ragguagli lo fece andare in un suo giardino e gli ascoltò con diletto grande. Era in Firenze un’altra Accademia che non essendo piaciuta a Cosimo, si voltava quindi tutta allo studio della lingua. Vi erano poi le Confraternite di devozione o Compagnie, molte e diverse dai primi gradi insino agli infimi; regnava in esse l’antico spirito, e [332] si governavano come altrettante repubblichette a porte chiuse, talchè i regnanti cercarono spesso di porvi la mano, in quelle incontrando le ultime e minute e non di rado anche risibili resistenze. Ma ivi ed in tutta la città il genio popolare fu sempre il più forte, nè in alcun tempo alla nobiltà venne fatto d’esercitarvi l’ascendente che altrove godeva: non erano veramente tra’ due ceti cagioni d’odio, perchè il popolo non era qui oppresso, ma usando osservanza meno rispettosa, pigliava licenza di dare la berta alla cortigianesca servilità che a lui pareva essere nei signori: del che abbiamo esempio curioso in certe memorie scritte nella prima metà del passato secolo e che sono appresso di noi. Ma pure tra’ nobili viveva qualcuna delle tradizioni che erano guerre molto accanite tra’ loro antichi; vi erano famiglie le quali si davano cento anni fa nome di guelfe ed altre di ghibelline, secondo che ognuna di esse guardasse più a Roma o a Vienna.

I Principi stessi di Casa Medici e le Corti loro qualcosa mantennero del vivere popolano e mercantile, sebbene a Cosimo I, che ebbe indole da tutti diversa, piacesse mostrarsi altero e terribile come lo ha ritratto in bronzo il Cellini. Sarebbero anche scene di sangue avvenute nella figliolanza di Cosimo e alcune di sua mano stessa; non abbiamo noi di nessuno di quei vari casi intera certezza, ma duro sarebbe negare ogni fede a quanto fu scritto segretamente dai nemici di quella Famiglia e che dagli storici fu poi ripetuto. Coteste ferocie ben tosto finirono, e spenta quella generazione della quale molti erano vissuti dentro alla Repubblica, sviati gli animi dalle cose gravi, si diedero alle più facili e allegre, promosse dai Principi non tanto oramai per arte di regno, quanto per gli umori di quella famiglia: soleva questa essere assai numerosa di figli e fratelli bene provvisti di appannaggi, e che amando conversare familiarmente co’ belli ingegni, portavano in Corte i costumi popolari [333] e molta licenza di vita e di lingua. Ma lode migliore venne ai Medici dall’avere favorito molto le scienze e gli scienziati di tutta l’Europa, tenendo con essi carteggio frequente. Come per mezzo dei residenti loro aveano continua e molto specificata informazione degli eventi e dello stato dei vari paesi (del che fa fede il nostro Archivio), così anche volevano sapere i fatti scientifici, e d’ogni bella invenzione avere un saggio; raccomandavano che a loro fosse mandata ogni cosa nuova o rara, che fosse possibile di rinvenire. Quest’era un genio antico della famiglia, comune a tutti quei principi che avevano empite di curiosità preziose le camere e le guardarobe di Palazzo Pitti; infinchè un giorno Pietro Leopoldo, in quel fastidio d’ogni vecchia cosa che allora correva, le vendè a prezzo vile come uomo che non le curava, e oggi varrebbero un tesoro. La Corte dei Medici, sempre magnifica nella sontuosità elegante delle Case e delle Ville e dei Giardini, ebbe anche fama per gli spettacoli e le feste, nelle quali andavano insieme al bello delle Arti le nuove invenzioni; qui si udirono per la prima volta le Opere in musica.

Dacchè il governare divenne facile in Toscana, mostrò a paragone del resto d’Italia sempre qualcosa di più franco e di più largo, che era il prodotto di una cultura molto diffusa e dell’esperienza di tante cose e tanto varie che questo popolo avea fatta, e del non essere stato mai condotto da pochi nei quali ogni azione venisse a rinchiudersi. I dolci tempi ebbero principio dal terzo Granduca, e si protrassero due altre generazioni. Ferdinando I, tra molti buoni suoi provvedimenti, fondò la città e il porto di Livorno, per lui divenuto emporio comune anche agli Stati circonvicini, dove i commerci assai languivano: fece suo studio attirare mercanti in Livorno di ogni nazione, usando con essi larghezze insolite fino a quella del libero e pubblico esercizio dei vari culti: avendo in [334] proprio grandi ricchezze, si mescolava egli medesimo in quei commerci, com’era costume della sua famiglia; ma fu dopo lui dismesso affatto. La nuova città crebbe in modo che parve sproporzionato alla Toscana, cui se da un lato diede guadagni, innestò pure la mala usanza di vivere sopra i capitali e le industrie forestiere con meno fatica, e disusandosi al lavoro. Nel tempo stesso fu anche ampliata la marineria da guerra, comandata dai Cavalieri di Santo Stefano, che si acquistarono qualche gloria con l’espugnazione d’Ippona, oggi Bona, sulla costa d’Affrica. Male inclinato verso gli Spagnoli, Ferdinando I fu grande amico e spesso utile ad Enrico IV, cui diede in moglie una sua nipote che fu la regina Maria de’ Medici.

Quanto alle lettere, il decadimento scopertosi a un tratto continuava finchè Galileo non ebbe destato gli ingegni a studi più seri; la Scuola sua diede anche in seconda e in terza generazione uomini di vaglia in fatto di scienze. Le case private dei Medici erano state sede all’Accademia platonica, ed ora la reggia di quella famiglia fortunata trovò modo in tempi più duri, nè senza una qualche sorta di ardimento, d’accogliere in sè dopo gli studi delle idee quello ancora delle materiali cose, che è a dire i due capi del pensiero umano. Si radunava l’Accademia del Cimento nel Palazzo de’ Pitti, come fondata da un Principe di Casa Medici. Essendo al tempo di Galileo meno spiccata che oggi non sia la separazione tra le varie scienze, la fisica era tenuta un ramo della filosofia, nè i suoi cultori mai tanto avrebbono potuto chiudersi nell’esperimento, che non si trovassero involti in un mondo più vasto, e dove a farsi la via non era bastante un filo solo della intelligenza e sempre lo stesso. Quindi erano essi condotti ad imbattersi in altri studi; e siccome tutti si danno la mano, nello scienziato era anche spesso il pensatore e lo scrittore, e l’uomo più intiero. Galileo mi sembra per molti rispetti tenere il sommo nella [335] nostra lingua, avendo egli insegnata l’arte di fare i periodi con maggiore ordine e pienezza, il ch’è un comporre insieme più idee e tutte rendere evidenti. La forma che egli diede al pensiero lasciò un’impronta per bene un secolo dopo lui ne’ letterati e fin tra i poeti; nè qui allignarono, o meno che altrove, i falsi concetti, nè vi ebbe l’Arcadia impero assoluto.

Sotto i due ultimi Granduchi di stirpe medicea, decaddero le sorti della Toscana. Un piccolo Stato dopo lunghi anni di pace stagnante ridotto a vivere di tradizioni, sente ogni cosa addormentarsi e si compiace del sonno stesso. Ma peggio avvenne alla Toscana: dal principiare del settecento prevedendosi l’estinzione di Casa Medici, i ministri de’ grandi Stati gelosi di quello che appellavano equilibrio d’Europa, si studiavano regolare tra loro per via di negoziati e di Congressi a chi anderebbe la possessione di un terreno vacante e d’un popolo senza padrone. Mutò più volte la designazione dell’erede, secondo i casi i quali nascevano in quel frattempo, senza che fossero interrogati nè ascoltati quei due Principi delle cui spoglie si disponeva. Ma benchè in tanto e inaudito abbassamento, vero è che non mai fallirono essi al decoro del loro nome, nè ai doveri verso il paese da cui ebbero il Principato e a cui dicevano essere in obbligo di restituirlo. Si volsero per aiuto all’Olanda e all’Inghilterra, come ai soli due Stati liberi che allora fossero in Europa; ma infine costretti accettare i patti iniqui, l’ultimo di loro Giovanni Gastone protestava contro alla violenza, sebbene in segreto, ma pure con molta solennità e cura per la custodia di quell’Atto nel quale, inerendo a quelle massime di diritto che sempre anche il padre avea professate; dichiarava lo Stato essere oggi libero di sè stesso e padrone di regolare le proprie sorti col mezzo del Senato che n’era in quel tempo il solo rappresentante e presso cui rimase quella protesta: nè molto dopo moriva Giovanni Gastone, [336] in lui spegnendosi la dinastia Medicea nell’anno 1737.

Dipoi fino al 1765 la Toscana fu governata da una Reggenza in nome del nuovo Granduca Francesco di Lorena, marito a quella che fu poi l’imperatrice Maria Teresa. Firenze si empieva di Lorenesi bisognosi e male graditi agli uomini del paese che tuttavia desideravano i loro principi cittadini: ma vero è poi che alla Toscana giovò il commercio di nuovi uomini e d’idee nuove, che buone leggi fondamentali furono a quel tempo almeno iniziate, che dai Lorenesi si apprese qui a meglio tenere i conti pubblici e a ordinare alcune pratiche del Governo. Dei nostri non pochi vissuti infino allora disanimati e solitari, sentirono a quella scossa il principio di una vita nuova, si fecero innanzi, e prepararono le riforme dipoi condotte con più ardire. Sallustio Bandini senese, mostrando le cause prime del male stato in cui giaceva tenuta in ceppi l’economia, metteva innanzi praticamente principii nuovi, che poi divennero solenni canoni alla scienza. È chiaro il nome di Pompeo Neri pei nuovi ordini amministrativi dei quali fu autore in Lombardia; nè vorrebbe essere obliato quello del padre suo, che lasciò scritto, che il Principe deve essere il primo galantuomo del suo Stato. Negli altri studi fu decadenza, sebbene in quanto alla cultura che appariva nelle conversazioni, Firenze avesse lode a quel tempo da insigni stranieri.

Fino a qui null’altro volemmo noi se non cercare se una qualche traccia della Repubblica rimanesse o nei popoli o nei Principi usciti da quella. Col regno di Pietro Leopoldo la Toscana entrò in un nuovo corso di tempi che ai nostri furono almeno preparazione, donde è che riesca intorno ad essi più disputato il giudizio. Il nuovo Granduca, venuto in età di diciotto anni dalla Germania, trovò nelle campagne miseria grande, l’agricoltura oppressa o prostrata, l’attività [337] spenta. Un nuovo principio fu professato ed applicato con pari coraggio quando alla carestia si oppose il libero scambio: delle altre riforme lo rese capace la vocazione ch’era in lui somma per il governo e l’amministrazione d’un piccolo Stato, guardando le cose da sè a minuto e ordinandole per via di pratici regolamenti. In egual modo l’esperienza d’un popolo mite, tranquillo e informato a gentilezza, gli permise con l’abolire la pena di morte e la tortura e le confische, di giungere a quella dolcezza e umanità di leggi di cui Leopoldo lasciò unico esempio.

Andava il pensiero di lui fino a porre in cima allo Stato un’Assemblea di rappresentanti le varie Provincie, i quali dovessero votare le leggi. Pel quale effetto si confidava nell’avere qui posto freno da un lato ai soprusi, dall’altro alle invidie, essendo per quello che spetta alla terra diffusi tra molti godimenti del possedere e bene accertato il premio al lavoro; le altre industrie scarse, poca la ricchezza, ma quanto è possibile bene abbastanza distribuita; e quindi prospere le campagne, le città tranquille e fatta comune la scienza del contentarsi, che è madre al benessere, e da cui deriva l’unione degli animi; donde era in Toscana come una sorta d’egualità, e Leopoldo potè dire di non avere nel suo Stato altro che due ceti, uomini e donne.

Ma pure, a malgrado i molti vantaggi recati da lui, non fu egli mentre visse amato in Toscana. Qui erano inclinazioni tutte casalinghe, una gran voglia d’essere lasciati stare, allegro il vivere in campo angusto ma lumeggiato d’antichi splendori, scarso lo stimolo del bisogno, il genio incredulo a nuove promesse. Le buone leggi erano imposte con atti dispotici; quanto più andavano sin giù al fondo e alla pratica delle cose per ivi produrre effetti sicuri, tanto più avveniva che offendessero le vecchie abitudini. Pochi erano i consiglieri di Leopoldo, e i più tra essi, forte imbevuti [338] delle idee nuove, andavano in queste più là che al popolo non piacesse. I Nobili furono da lui negletti e a lui avversi; quei Principi austriaci avevano inclinazioni democratiche: negli avanzamenti che ebbe da lui l’economia dei campi, la miglior parte fu dei coloni. Leopoldo, come uomo tutto di faccende, badava poco alla sua Corte; cessarono affatto per la nobiltà le occasioni di militare o di viaggiare nei grandi Stati; non si andò più nemmeno a Vienna, e la Toscana si chiuse in sè stessa. Meno d’ogni altro poteva il Clero amare Leopoldo, il quale intendeva che il Principe avesse e praticasse una censura in cose che attengono alle ecclesiastiche istituzioni; nel che sebbene procedesse egli sinceramente, era sempre un capovolgere il diritto col dare ai Principi nella Chiesa stessa la cura e il governo di quello che spetta all’ordine materiale. Di qui molto vivo e lungo il contrasto, a cui prese parte in molti luoghi della Toscana il popolo quando si volle por mano perfino alle esteriorità del culto. Vi ebbero sulla fine di quel regno moti popolari contro alle Riforme: questi erano moti per la libertà, secondo che allora in Toscana il maggior numero la intendeva; dal che fu condotto il successore di Leopoldo, giovane principe a cui piaceva di stare co’ molti a seguitare nei primi giorni pedate opposte a quelle del Padre.

Si era nel colmo della Rivoluzione francese. Nè molto però se ne commossero i Toscani che già possedevano, senza delitti e senza sangue, anche più in là dei materiali benefizi sperati da essa; nè molto all’incontro potevano le passioni, qui sempre deboli, dei privilegiati. Guardando all’indole che tra noi ebbe il Principato, noi lo trovammo più liberale (come oggi dicono) o più civile d’ogni altro in Italia; di tratto in tratto lo vedemmo anche precorrere ai tempi. Questo allora fece osando primo in Europa, stringere amichevoli relazioni con la Repubblica Francese, contro [339] alla quale aveva guerra tutto il vecchio mondo: un Inviato del Granduca fu accolto dalla Convenzione Nazionale con le cerimonie di fratellanza usate a quel tempo; ne usciva un Trattato di neutralità, la quale era in Toscana già una regola e quasi come una legge politica dello Stato. Ciò non ostante la Toscana poco dipoi venuta in mano dei Francesi mutò più governi, ma tutti egualmente stranieri al genio ed agli affetti di questo popolo; a cui nel 1814 il tornare dei suoi Principi fu come una festa di famiglia ed un’allegrezza senza contradittori.

Seguitò un corso di trent’anni quieto e facile ai governanti. Da parte di questi nessuna guerra contro alle opinioni, e quasi può dirsi nessuna esclusione d’idee nè d’uomini nè di libri: la Toscana era come una terra a tutti d’asilo, Firenze un albergo comodo e lieto ai forestieri di tutti i colori. Da questa sorta di neutralità cercò il Governo ed ottenne lode presso le altre genti; lasciare entrare e lasciar fare gli uomini e le cose, che fu anche il perno della economia toscana, fruttò al paese una mediocrità contenta. Sotto Leopoldo Primo si era il livello del sapere alquanto abbassato, nè dopo lui crebbe ardire agli ingegni: per ogni rispetto male potevano allignare le idee superlative in questo popolo che tra gli abusi di molte cose e i disinganni, aveva percorso l’orbita sua, e quindi era atto più a conoscere che a fare. Si tenne fermo quando l’Italia s’agitava per moti inconsulti sebbene presaghi; ma non appena vidde alzata una bandiera che si poteva seguire con fede, accorse al segno anche la Toscana e dava un sangue nè scarso nè inutile. Caddero a terra i primi sforzi, ma già del riscatto non era dubbio altro che il tempo: fuori d’una cerchia ognora più angusta, nessuno avrebbe osato dire che non lo bramava; sperarlo non era più sogno di pochi, i fatti andavano a quel fine per una interiore necessità. E un nuovo fatto [340] si maturava nella opinione d’un grande numero d’Italiani: nè antichi titoli, nè benemerenze, nè la bontà istessa dei Principi erano bastanti più a togliere ad essi di fronte quasi una macchia di usurpatori, in quanto facevano impedimento ad un avvenire di vita più ampia che agli Italiani era una giustizia. Questo apparve più assai che altrove nella Toscana, dov’era benessere e tradizioni di buon governo e amministrazione migliorata negli ultimi anni; ma dove un principio vitale stava contro all’essenza stessa d’una signoria che avea perduto il suo fondamento e che non poteva più altro essere che una negazione. La vita chiusa d’una provincia che ornò l’Italia, o aveva consumato la virtù sua, o più non bastava; la parte giovane e valente odiava già i troppo angusti confini. Si era veduto gli antichi governi per vivere farsi stranieri al paese; la Toscana quando riconobbe col resto d’Italia d’avere in sè un suo diritto più antico e maggiore, compiè un dovere volonterosamente, nè giunse ultima, nè a formare la Nazione si può dire che nulla facesse. Nè mai a’ suoi obblighi sarà per fallire; noi solamente facciamo voti perchè adagiandosi nelle sue molte felicità con troppo inerte compiacimento, non manchi a sè stessa.

[341]

APPENDICE DI DOCUMENTI

[343]

Nº I. (Vedi pag. 8.)

Oratoribus apud Regem Francorum d. Guidantonio Vespuccio et Petro Capponio, vii mai 1494.

(Dal Registro di Lettere dei Dieci, ad an., nell’Archivio di Firenze.)

Poi che, a dì XXVI del passato, vi scrivemo ultimamente quello ci occorreva, et vi mandamo copia della legha habbiamo con il Re di Napoli, come ci richiedesti, habbiamo ricevute due vostre, de’ dì XXVIII et XXIX del passato; per le quali particularmente restiamo advisati di quanto per insino allhora havessi ritracto del successo delle cose di costà: in che restiamo satisfacti assai della diligentia vostra. Aspectiamo adviso da voi habbiate havuto di poi audientia dalla Cristianissima Maestà et a quella exposto le commissioni iniunctevi li nostri Signori, et di tucto ci harete dato particularmente notitia.

Da Roma, a dì passati, fumo advisati come il Cardinale di San Piero ad Vincula, clandestine et noctis tempore, si era partito da Hostia, in su uno brighantino armato, la persona sua con uno suo solo scudiere, con argenti assai, et per quanto si dicessi, con buona somma di danari. Della qual cosa il Papa et tucta la Corte ha preso admiratione et dispiacere assai; et presertim essendosi per conclusa in buona forma la causa sua con il Papa, et nel modo che lui medesimo havea saputo domandare. Donde il Papa havea determinato expugnare Hostia, et a questo effecto vi havea mandato buon numero di provigionati et di cavalli leggieri socto il ghoverno del Conte di Pitigliano; il quale di già havea havuto la terra, et ordinava piantare le bombarde che vi havevono condocte alla rocha: et aspectavono ad ogni hora lo aiuto che ’l Re Alphonso havea promesso molto liberamente mandarli per mare et per terra, di navili, di gente et d’artiglierie; il quale venuto speravamo in brevi di havere Hostia nelle mani.

[344]

Domenica passata, entrorono li ambasciadori del Christianissimo Re di Francia et furono Monsignore Dubignì, il Generale di Francia, Presidente di Provenza, et Peron di Baccé, con circa cento chavalli in loro compagnia. Furono et nello entrare et nello alloggiare honorati convenientemente, secondo la consuetudine della città. Lunedì appresso, accompagnati da buon numero de’ principali de’ nostri cittadini, vennono in Palazo ad visitare li nostri Signori, et exposono la loro commissione latina, et fu lo expositore il Presidente di Provenza; et fu quasi nella infrascripta sententia. In primis, che quella Christianissima Maestà molto amorevolmente mandava salutando questa Signoria et universalmente tucta la Comunità, come suoi antichissimi amici et collegati; offerendo appresso, molto liberamente et ampiamente, le facultà sua et di gente d’arme et di qualunche altra cosa oportuna, per aiuto et defensione di questa Signoria et della nostra libertà da qualunche la volessi offendere et molestare, quocunque modo. Sobgiugnendo come, per esser pervenuto il Regno di Napoli, iure hereditario, nella Maestà di quello Christianissimo Re (come era suto declarato et deciso da molti de’ loro doctori et altre persone pratiche, le quali havevono tritamente intese et examinate le sua ragioni); per questo la Sua Maestà havea al tucto deliberato voler recuperare nelle man sue quel Regno di Napoli, come cosa che legitimamente se li aspectava et apparteneva. Et volendo a questo effecto fare la impresa conveniente, et mandare li exerciti delle sua genti d’arme per mare et per terra, havendo di già dalla parte sua et in suo favore alchune delle potentie di Italia; desiderava la Sua Maestà d’intendere da noi da qual parte volessimo essere et declararci, dalla parte sua (come quella certamente si persuadeva, respecto all’amicitia et observantia etc, per molti benifici havuti questa città dalla Casa loro), o veramente dalla parte del Re Alphonso. Et appresso, che disponendo del tutto la Sua Maestà prosequire la impresa, ci richiedeva di consiglio, favore et aiuto; et oltre acciò, di passo, commeato et vettovaglia per lo exercito suo, con li loro danari. Pregando che a questi capi et effecti principali dovessimo bene declarare l’animo nostro et darne loro aperta et resoluta risposta. Parse a’ nostri Signori, per allora, rispondere generalmente secondo le cerimonie et termini consueti, et pigliar tempo ad rispondere; significhando a epsi oratori che, per essere la expositione loro di momento assai et importantissima, questa Signoria la volea comunichare et consultare secondo la consuetudine della città, servata sempre in rebus gravissimis, con buon numero de’ primi cittadini della città, con consiglio de’ quali sarebbe loro facta conveniente risposta. Et così la Signoria, convocati hieri in Palagio il Consiglio de’ LXX et oltre acciò tucti li veduti et seduti Gonfalonieri di iustitia, da XXXIIII anni in su, che fu copiosissimo numero, a’ quali proposta la sententia della expositione et requisitione [345] de’ prefati oratori di Francia; la Signoria richiese parere et consiglio, da’ convenienti cittadini, di quello che fussi da rispondere a epsi oratori, circa le requisitioni facte. I quali cittadini, dopo matura examine et consultatione fra loro, tucti unanimiter et concorditer, nemine discrepante, concorsono et si conformorono, dover far tale risposta in scriptis, in questa formale sententia, come vedrete per l’alligata copia vi se ne manda. La quale consultatione et resolutione, la Signoria, mandati buon numero di cittadini per epsi oratori, i quali, condocti in Palagio, alla presentia di tucti li sopranominati cittadini; la Signoria, dopo alchune brevi et accomodate parole, rimettendosi alla risposta in scriptis, la fece loro leggere per il Cancelliere; et dipoi, soscripta et suggellata l’assegnorono a’ decti oratori. I quali, dopo lo essersi alquanto ristrecti insieme, dimostrando non restare satisfacti di tale risposta, per non corrispondere a quello che il loro Christianissimo Re si persuadeva di questa città, per molti rispecti etc.; dixono che ne adviserebbono la Sua Maestà, mandandoli la decta risposta, della quale loro erano certissimi che epsa non rimarrebbe punto nè bene contenta nè satisfacta. Et così, presa buona licentia, se ne tornorono al loro alloggiamento; et hoggi dopo mangiare disegnono partirsi per verso Roma. Sonsi partiti li oratori et ne vanno stasera ad San Casciano.

Scrivendo, habbiamo le vostre del primo dì, per le quali intendiamo come non havevi havuto ancora audientia dalla Christianissima Maestà et le cagioni perchè. Così habbiamo inteso quello scrivete del successo di costà, et come non affermate nulla di certo, per non ne potere fare alchuno vero iudicio con buon fondamento.

Per questa cagione et non havere voi havuto audientia, a noi non occorre significarvi altro; et la copia della risposta facta vi mandiamo. Non s’è mandata perchè la comunichiate altrimenti, ma solamente per vostra informatione, et ad fine che (essendone domandati o essendo interpretata a diverso senso) possiate, come bene informati della intention nostra, rispondere et iustifichare secondo occorressi; perchè, come vedrete, la risposta non è punto difforme alle Commissioni vostre.

[346]

Nº II. (Vedi pag. 12.)

Littere Credititiæ et Mandata quinque Oratorum, fratris Hieronymi de Savonarola predicatoris, Tanai Neroli, Pandolfi Rucellarii, Petri Caponii et Ioannis Cavalcantis, deliberata die V novembris MCCCCLXXXXIIII.

(Dal Registro di Legazioni e Commissioni ec., ad an., nell’Archivio di Firenze.)

Carolo Regi Gallorum.

Serenissime etc. Etiam hos quinque legatos mittimus ad te, fratrem Hieronymum Savonarolam predicatorem insignem, Tanai Nerolum, Pandolfum Rucellarium, Petrum Caponium et Ioannem Cavalcantem, nobiles cives nostros. Ex his mandata quæ a nobis ad te habeant melius coram intelliges quam nos scriberemus. Commendamus tibi urbem et populum nostrum tui observantissimum virtutisque et fælicitatis admiratorem. Ex Palatio nostro etc.

Mandata quinque suprascriptorum Oratorum ad Carolum Regem Francorum.

Anderete a ritrovare la Maestà del Christianissimo Re di Francia con ogni possibile celerità; et giunti, intenderete dagli altri nostri ambasciadori, che si trovano appresso alla Sua Maestà, in che termine sieno le cose nostre colla Maestà sua, maximamente circa le domande facte da lui et delle forteze et della gente d’arme et del danaio che ne ha domandato; et trovandone facta conclusione ferma, non harete in questo adoperarvi altrimenti. Ma giugnendo a tempo che ancora non fussene facta conclusione, sarete colla Maestà del Re, insieme con quelli che si truovano quivi o senza loro, come o a loro o ad voi fusse paruto meglio; et presentato la lettera della credentia harete con questa, et facto le prime convenienti cerimonie et parole che parranno alla prudentia vostra, interrete in questa materia et ingegneretevi fare tucte queste sue petitioni migliori che vi sarà possibile per la città nostra: dandovi in questa parte libera auctorità et absoluta di fare et dire tucto quello che vi occorrerà, per la salute di questa città. Habbiamo in Dio principalmente, da chi viene ogni salute et ogni bene, grandissima speranza, et nella nostra opera; la quale stimiamo [347] che ci habbi ad liberare da ogni pericolo et dare tranquillità ad questa città.

Quella parte che diciamo di sopra che, trovato facto ferma conclusione delle petitioni della Maestà del Re, non intendiamo per quello che è sopradecto diminuire in alcuna parte la vostra auctorità: ma potendo anchora in tal caso opera alcuna colla Sua Maestà, come habbiamo fede nella prudentia et bontà vostra; ne farete ogni opera. Et in questo ancora saranno maggiori e vostri meriti inverso la vostra patria.

Et harete ad mente, come cosa molto importante che, se le offese non fussino levate in ogni luogo et ancora in Romagna, che per clementia della Maestà Sua et vostra intercessione sieno levate et tolto a questo popolo divotissimo di Sua Maestà questo tumulto dell’arme et renduto alla sua consueta quiete, sotto l’antiquissima protectione di Sua clementissima Maestà, et naturale observantia et culto nostro in verso della Christianissima Maestà Sua.

Harete ad mente alla porta fare rogare la partita vostra etc.

Non sapevano se Piero dei Medici fosse tuttora presso al Re, nè se gli Ambasciatori troverebbero le cose fatte. Quindi erano incerte le Istruzioni, rimettendo alla prudenza degli Ambasciatori stessi tutta la condotta dell’arduo negozio: ma nondimeno usano un linguaggio netto e dignitoso che fa onore alla Cancelleria della Repubblica.

[348]

Nº III. (Vedi pag. 149.)

TRATTATO SEGRETO DI CONFEDERAZIONE TRA PAPA LEONE X E CARLO RE DI SPAGNA, SOTTOSCRITTO IN ROMA A’ DÌ 17 GENNAIO 1519.

(ha la firma di Pietro Ardinghelli, e sono di sua mano anche le parole che Leone X avrebbe aggiunte alla sottoscrizione.)

CAPITOLI SEGRETI FRA LEONE X E FRANCESCO I RE DI FRANCIA, DEI 20 GENNAIO 1519.

(Ciò che è scritto dopo la data è di mano propria del Re.)

Il primo di questi due Trattati fu da noi pubblicato nel primo volume dell’Archivio Storico Italiano (pag. 379); l’altro, ignoto anch’esso agli storici, per quanto noi sappiamo, sta nel proprio originale fra i manoscritti donati al nostro Archivio di Stato dai Marchesi Torrigiani, che gli ebbero dai Del Nero già eredi degli Ardinghelli.

I motivi pe’ quali ebbe il Papa a desiderare più stretta lega con Carlo di Spagna, si trovano esposti in questo terzo tomo, pag. 149, nè più si ha dai Copialettere che, di pugno dell’Ardinghelli, stanno fra’ manoscritti Torrigiani; dove neppure è cenno delle trattative che naturalmente precedettero quella Lega: che non passassero per la mediazione del cardinale Egidio, ch’era Legato presso il Re Cattolico, ma per le mani di qualche altro negoziatore; o piuttosto, che l’ambasciatore di Carlo ne trattasse in Roma personalmente col Papa. Ben altrimenti andò la cosa per la Lega col Cristianissimo. Stava presso di lui, come Legato pontificio, il cardinale Dovizi da Bibbiena: a lui scriveva da parte del Papa, e anche in nome proprio, il cardinale Giulio de’ Medici.

[349]

Leone X, e come papa e come Medici, aveva molto da sperare per parte del Cattolico, alla Corte del quale disegnava mandare il giovinetto Ippolito, e «darglielo in perpetuo per servitore;» tanto più quando ebbe inteso che, vivente ancora Massimiliano, gli Elettori pensavano di dare a Carlo il titolo di re de’ Romani, e così agevolargli la via all’Impero. Questo confortava il Papa a carezzare lo Spagnolo; di che Francesco si mostrava geloso. Luisa di Savoia, madre di lui, non ne taceva al Bibbiena; al quale commetteva di scrivere a Leone X, che «avvertisse a tutte le pratiche che tiene con gli altri Principi,» perchè la corte di Francia era bene avvisata «delle cose che si trattano in tutte le bande.» Rispondevano da Roma: non avere il Cristianissimo cagione di sospettare del Papa; al quale pur conveniva non scoprirsi tutto francese, e anzi intrattenere «con qualche amorevolezza gli altri Principi:» essere gli Elettori disposti a nominare Carlo in re de’ Romani, e alla dieta di marzo 1519 si pubblicherebbe: avere Carlo scritto al Papa fino dal settembre del 1518 dandogli parte della futura elezione, e domandandogli la conferma dell’investitura di Napoli, dalla quale, per antico patto, l’eletto re de’ Romani verrebbe a decadere: essergli stata finalmente dall’Imperatore domandata la corona senz’obbligo di venire a prenderla in Roma; e avere il Cattolico unite le proprie alle istanze di Cesare. Aggiungevasi, che il Papa non aveva promesso nè l’investitura nè la corona; pur vedendo il pericolo che porterebbe il rifiuto. E poichè dalla parte di Francia si esortava il Papa a non compiacere nè il Cattolico nè Cesare; Leone faceva domandare al Cristianissimo quali aiuti sarebbe disposto a dargli, quando quei potentissimi volessero vendicarsi del suo rifiuto.

«Nostro Signore (scriveva a’ 3 dicembre 1518 il Vicecancelliere Cardinale de’ Medici al Bibbiena) ha molto bene da pensare et misurare più d’una volta [350] come si metta ad negare queste domande et offendere queste due Maestà tanto nel vivo, provocandoseli imperpetuo inimici, senza sapere al certo dove possi ricorrere per adiuto quando da loro fussi sforzato o infestato, havendo maxime el Catholico molti modi facili da offendere la Chiesa et Sua Santità, sanza che se li possi reprobare che da lui vengha tala offesa; perchè la vicinanza del Regno di Napoli et la parte grande che hanno in questi Baroni di Roma, et maxime ne li Colonnesi, possono in un punto con piccola cosa molestare Sua Santità et le terre di Roma: et quando più copertamente anchora volessino farlo, non manca travagliare lo Stato di Siena sotto colore et protectione di Borghese, et apiccare il foco in Toscana, et nel transito di qua con le loro gente fare qualche disordine. La S. V. mi potria respondere, che il Cristianissimo sarà quello lui, che, quanto a le forze, è potente ad removere ogni iniuria, et desposto ad farlo, et lo desidera, et di già lo ha promesso. A questo l’ultima mia lettera potria replicare ad sufficentia, che se Nostro Signore vede li Franzesi procedere con sì poco respecto de lo honore et dignità di Sua Beatitudine in un tempo che epsa ha poco bisogno di loro; che coniectura si può fare che habbino ad essere poi quando Sua Santità si troverà in necessità, et havere offeso tucti questi altri ad petitione di Francia? Non voglio anchor tacere, ad ciò che V. S. non creda che questo punto si sia passato senza considerarlo, che se Nostro Signore col negare la corona a Cesare et col non potere S. M. venire per epsa a Roma, et con qualch’altro impedimento si interrompessi et variassi questa electione del Catholico; forse quelli Electori potrieno fare novi pensieri, et volgersi con la fantasia al Cristianissimo con quelli mezi che si sono usati per il Catholico, et con maggiori et più potenti anchora, quanto Francia ha più che dare et [351] più che promettere che Spagna: et se oltre a la auctorità et grandeza ordinaria che si trova ne la corona di Francia, vi si adiungessi questa altra extraordinaria de lo Imperio, Nostro Signore conosce molto bene che il Cristianissimo andrebbe in cielo, et in tucto Sua Santità resterebbe a discretione ec. Nondimeno, con tucte queste considerationi che, come ho decto, non si passano per ignorantia; poi che una volta si è inclinato et unito con S. M., et così si starà constantemente; et quando trovassi riscontro, di novo si unirebbe et colligherebbe più strectamente, riposandosi in su la fede et iuramento di S. M., et in su una certa ragione naturale, che per exaltarlo et farli bene non havessi ad patire et ad ricevere danno o vergogna; et quando di novo si capitulassi con honore et commodo de l’uno et de l’altro, et si levassi via materia di generare diffidentia et mala contenteza, si potrebbe confidare che la capitulatione havessi ad durare et essere observata. Verbigratia, chiarire lo articulo di Milano, che di queste cose spirituali o simili, che domandano, non si parlassi et la Sede Apostolica vi havessi quella auctorità che si conviene: che li ribelli non si racceptassino nè da le parte, nè da subditi o feudatarii ec.: che la cosa dei Sali si observassi in tucto: che le cose di Ferrara si stessino come le stanno; et che il Re si obbligassi ad defendere in facto tucto quello che tiene et possiede hoggi Nostro Signore, et non solo con 500 lance et XII.M ducati el mese, ma con tucto quello che fussi di bisogno, et si facessi in tempo et in modo che giovassi; che sapete nel subsidio di Urbino come passorono le cose; et che Sua Santità non sia molestata poi con domande extraordinarie ec. In tal caso Nostro Signore parteciperebbe sempre tucto quello che intendessi da ogni parte, et non piglierebbe alcuno partito sanza consiglio del Cristianissimo, [352] et in queste cose di Cesare et del Catholico si governerebbe come paressi a Sua Maestà; penserebbe di continuo a la exaltatione del Re, indicando che in epsa fussi coniuncta quella de la Sede Apostolica et de la Casa sua. A Nostro Signore è parso aprirvi tucto el suo secreto, et chiarirvi meglio la ultima mia lettera.»

A questa lettera, che racchiudeva la sostanza dei Capitoli da stipulare, ne tenne dietro una del cardinal Giulio, più aperta e alle cose temporali più accomodata. Esagerando il pericolo in cui si metteva il Papa col negare a Cesare di mandar la corona, e di confermare l’investitura al Re di Spagna quando fosse eletto Re de’ Romani, non s’astiene di parlare col Bibbiena del danno che potrebbe venirne a Casa Medici; perchè il Cattolico offeriva un Ducato di quindici o ventimila ducati liberi a Lorenzo de’ Medici, e a Ippolito uno Stato della rendita di seimila; occasioni (scriveva Giulio) che, «non che a la vita di un papa, ma non tornano in mille anni; et chi non le sa pigliare al tempo, invano si sforza poi di andare lor dreto.» Questa lettera è de’ 21 dicembre. Ai 30 poi dello stesso mese «Sua Santità (scriveva il Vicecancelliere al Legato) va di mano in mano togliendo la speranza a li Spagnoli del mandar la corona a Cesare, per esser cosa extraordinaria, et havendo compreso quanto questo prema al Cristianissimo: ma quella Maestà ha bene ad pensare che Nostro Signore non può in su le spalle sue reggere questo peso, et ha da fare dal canto di S. M. in modo che il Papa intenda potere securamente negare, et restare con lo animo quieto.»

Così tutto il mese si andò stringendo il trattato. A’ 19 gennaio scriveva il Cardinale Giulio al Bibbiena, confortandolo «a non perder tempo di redurre a particulari quel tanto che vole fare S. M. circa al novo restringimento di Nostro Signore col Cristianissimo.» [353] Ma lo spaccio non era ancora partito, che il Cristianissimo consegnava al Bibbiena la Capitolazione da lui sottoscritta il 20. Al Papa giunse il documento autentico con le lettere del 4 di febbraio, mentre si trovava alla Magliana. Non gli parve che i Capitoli contenessero quanto avrebbe desiderato; ma fidando nelle buone disposizioni del Re, ratificò i Capitoli, e ne mandò al Bibbiena un esemplare sottoscritto di sua propria mano e suggellato coll’anello del Pescatore.

Queste notizie tanto precise e tanto chiare intorno alla Capitolazione col re Francesco I, destano in noi un grave dubbio quanto al Trattato con Carlo di Spagna. Abbiamo voluto qui a ogni modo ripubblicarlo, perchè nel buio di quei viluppi e in quei giorni tanto decisivi, giova sottoporre agli storici ogni documento atto a recare una qualche luce. Ma noi crediamo che qualche cosa dovesse nascere tra ’l 17 e il 19 gennaio perchè il Trattato a cui l’Ardinghelli aveva già ogni cosa preparato e fino alle parole che Leone X doveva aggiungere al suo nome, cotesto Trattato non avesse altro seguito e non andasse in Ispagna mai per la sottoscrizione del Re. Nè pare a noi che altro motivo si debba cercarne fuori della morte istessa di Massimiliano, avvenuta l’11 di quel mese, la quale saputa in Roma tra ’l 17 e il 19 facesse rompere il Trattato con Spagna, perchè nell’imminenza d’una elezione all’Impero, nè il Papa voleva troppo impegnarsi, nè fare troppo; nè si fidava che il Trattato restasse segreto, nè avrebbe sofferto di romperla in modo scoperto e irrevocabile con Francia. Qui frattanto la morte medesima saputa in quei medesimi giorni persuase a rompere ogni indugio che ritardasse la Capitolazione; e al re Francesco fece scrivere di propria mano, come si vedrà più sotto, quelle parole tanto sviscerate verso il Papa, del quale Francesco aveva bisogno o che poteva assai giovargli nella elezione ora imminente di un imperatore. S’aggiunsero gli stimoli del Bibbiena, che tutto [354] Francese, appena udita la morte di Massimiliano, si affrettò a stringere quell’accordo prima che da Roma gliene fossero pervenute le istruzioni; allora, cred’io, cominciò a perdere il Bibbiena la grazia del Papa. Gli altri negoziati dovevano essere corsi personalmente tra l’Ardinghelli e lo Spagnolo Ambasciatore in Roma: rotti una volta, non ne rimase alcuna traccia, e ai 19 l’Ardinghelli potè scrivere in Francia con nuove istanze per la Capitolazione, la quale poi giunta innanzi tempo e non come il Papa l’aveva voluta, fu da Leone ratificata per la meglio e per non rimanere solo, trovandosi avere offeso ad un tempo i due possenti competitori. Queste cose delle quali ora solamente abbiamo notizia, ci spiegano per quale motivo il Trattato con Carlo di Spagna rimanesse tra le carte dei ministri di Leone X come Atto che mai per circostanze sopravvenute non giunse ad avere la sua perfezione.

I.

Cum inter Sanctissimum Dominum nostrum Leonem, divina providentia Papam Decimum, et claræ memoriæ Ferdinandum, Aragonum atque utriusque Siciliæ Regem Catholicum, dum viveret, fuerit bona et sincera intelligentia, cupiantque eandem tam Sanctissimus Dominus noster, sua in Carolum, Castellæ, Legionis, Granatæ, Aragonum et utriusque Siciliæ Regem charitate, quam præfatus Serenissimus Carolus regnorum præfati Ferdinandi non solum successor sed illius in Sedem Apostolicam ac Sanctissimum Dominum nostrum devotionis imitator, inter ipsos conservare, et in dies augere; præfati Sanctissimus Dominus noster et Serenissimus Carolus Rex, ad laudem omnipotentis Dei, eiusque Matris gloriosissimæ Virginis Mariæ, ac beatorum Apostolorum Petri et Pauli, totiusque Curiæ cœlestis, ad infrascriptam capitulationem sive ligam et confœderationem devenerunt.

1. Imprimis, quod inter præfatum Sanctissimum Dominum nostrum et Serenissimum Regem sit bona firma perpetua et inviolabilis liga, confœderatio et intelligentia, ad vitam utriusque duratura, et ad mutuam defensionem.

2. Item conventum est, quod præsens liga et confœderatio sit principaliter ad defensionem personæ, dignitatis et auctoritatis Sanctissimi Domini nostri et Sanctæ Sedis apostolicæ.

[355]

3. Item, quod ad invicem sint obligati, tam Sanctissimus Dominus noster quam Rex Serenissimus, defendere ac tueri personam, dignitatem et singula regna, status et loca quæ tam Sua Sanctitas quam Rex præfatus tenent et possident de præsenti in Italia; et si qua alia recuperarent nunc per alios occupata seu possessa, omni auctoritate Consilio et favore et auxiliis, videlicet lanceis quingentis, peditibus vero tribus mille vel eorum loco, singulo quoquo mense ducatos decem mille. Hoc autem intelligatur, cum altera pars bello proprio non vexaretur: quo casu, si ita occupata esset in rebus propriis defendendis; quod non sufficeret præstare præfata auxilia, non teneatur ad prædictam taxationem, sed tantum ad ea quæ prestare aut tribuere posset, procedendo sincere, omni remota fraude et dolo. Et ex abundantia paternæ charitatis qua præfatum Serenissimum Regem complectitur promittit etiam Sua Sanctitas, quod, si contigeret Maiestatem suam gravissimo bello vexari in regnis quæ de præsenti extra Italiam obtinet, ita quod ad ea defendenda ipsius Regis vires sufficere non viderentur; se non denegaturam Maiestati suæ decimas ecclesiasticas in regnis suis Hispaniarum, ad illud bellum sustinendum.

4. Item, quod neuter eorum possit tractare aut concludere aliquid cum aliquo alio rege, principe, potentatu, comunitate aut populo, in alterius præiudicium et quod præsenti capitulationi contraveniret.

5. Item, quod præsens confœderatio sive liga inter Sanctissimum Dominum nostrum et Serenissimum Regem, per quascumque alias confœderationes et ligas non intelligatur quoquo modo labefactata seu aliquantulum diminuta, sed semper in suo robore et vigore permaneat, ad vitam utriusque duratura, ut præfertur.

6. Item, quod præsens capitulatio sit secreta et nemini publicetur, nisi in eventum contraventionis, quod Deus avertat.

7. Item conventum est, ad tollendam omnem occasionem dissensionis vel scandali, ut neutri parti liceat assummere aut retinere in protectione aut tutela, absque permissione expressa et consensu alterius partis, aliquem subditum vel vassallum, mediate aut immediate, alterius; et hoc ut subditi et vassalli magis obedientes et fideles sint proprio Domino. Immo, si contingeret alteram partium velle punire aut castigare aliquem rebellem et inobedientem subditum vel vassallum, egeretque auxilio alterius ad id commodius faciendum, peteretque id sibi praestari, teneatur ab altera ea auxilia vel medietas eorum tribui, quæ superius pro utriusque defensione sunt expressa.

8. Item, quia præsens status Reipublicæ Florentinæ ita unitus est Sanctissimo Domino nostro, ut merito arbitrari possit unum et idem esse cum statu et dominio proprio Suæ Beatitudinis; conventum est, illam Rempublicam et eius præsentem statum eodem modo contentum et comprehensum esse in dicta confœderatione quo et status et dominium ecclesiasticum.

[356]

9. Item conventum, ut neutri parti liceat recipere aut permittere habitare in regnis aut in dominiis suis aliquem hostem alterius, sine consensu et permissione alterius partis, excepta Urbe quæ semper communis patria est habita. Pariter nec licebit, aliquem offendere aut oppugnare aliquem confœderatum aut protectum ab altera parte, dummodo non sint ex his qui supra excepti sunt.

10. Item conventum, ut utraque pars accipiat et pro accepto habeat protectionem et defensionem illustrissimi domini Ducis Urbini, Sanctissimi Domini nostri nepotis, personæ videlicet, loci et præminentiæ quam obtinet in Republica Fiorentina, et statuum tam quos nunc habet quam habere contingeret; defendendo ipsum iisdem viribus, si opus esset, quibus utraque pars se defendere tenetur.

11. Item, quia magnifici domini confœderati Helvetiorum sunt devotissimi et observantissimi filii Sanctos Sedis Apostolicæ et Sanctissimi Domini nostri, confœderatique Suæ Beatitudinis, et boni amici etiam Serenissimi Regis Hispaniarum; conventum est, ut ipsi sint contenti et expresse nominati in præsenti confœderatione: ita quod non liceat ulli parti aliquid moliri aut agere adversus ipsos, sed ab utraque parte foveri ac defendi debeant, si ab alio quopiam lacesserentur, omni authoritate, gratia et favore prout eorum necessitas exigeret, ut bonos filios, amicos, et confœderatos decet: quos ut confœderatos peculiares et devotissimos filios, ex nunc, Sanctitas Sua et Rex Catholicus nominant et exprimunt; et pariter Catholicus Rex Electores Sacri Romani Imperii nominat.

12. Item, cum ad dignitatem Sanctæ Romanæ Sedis faciat, rem et auctoritatem Catholici Regis quam amplam esse, ut, cum sors tulerit (ut quandoque tulit) et ortam in Sancta Ecclesia seditionem et bellorum motus compescere possit, multaque officia Sanctæ Romanæ Sedis iure merito in Catholicum Regem collata fuerint, neque ab aliquo magis servari debeant quam ab eo qui haec contulerit; pollicetur Sanctitas Sua, in verbo Romani Pontificis, se omnia quæ nunc tenentur a Catholico Rege, sive possidentur, tam in Italia quam extra Italiam, tempore modo et forma quibus supra dictum est, sine exceptione aliqua, defensuram.

13. Item conventum, quod ob præsentem confœderationem et conventiones in ipsa contentas, superius expressas, non intelligatur præiudicatum esse aliquo pacto, ullis conventionibus aut obligationibus quæ inter prædictas partes, aliis de causis vel rationibus, sunt aut esse possent; similiter nec cæteris confœderationibus et conventionibus quas prædictæ partes habere possent cum aliis regibus, principibus aut potentatibus, nisi in quantum illæ aut conventiones in illis contentæ præsenti confœderationi et conventionibus contravenirent.

14. Item, quod de capitulis præsentis confœderationis fiant duo exemplaria, manu propria, apud præfatum Sanctissimum Dominum [357] nostrum, Regis Serenissimi oratoris subscripta; quorum unum, manu Sanctitatis Suæ ac sigilli sui sub annulo piscatoris impressione munitum, Regi Serenissimo tradatur; alterum vero manu præfati Regis subscribatur et sigilli sui impressione muniatur, ac Sanctitati Suæ consignetur; quibus indubia fides cum omnimoda aucthoritate adhibeatur. Et præfatus Sanctissimus Dominus noster sub verbo Romani Pontificis, et Serenissimus Rex sub fide regia iurabunt, et Deo vovebunt, ad unguem observare, et adimplere omnia et singula capitula praedicta et in eis contenta, absque aliqua verborum interpretatione, sed sempliciter et de plano prout iacent.


Nos Leo, divina providentia Papa Decimus, omnia et singula capitula suprascripta et in eis contenta acceptamus, confirmamus, approbamus ac observare, in verbo Romani Pontificis promittimus. Et in fidem præfatorum omnium etiam manu nostra propria subscripsimus. Datum Romæ, apud Sanctum Petrum, sub annulo piscatoris die xvii ianuarii 1519, Pontificatus nostri anno sexto. Ita promittimus.

P. Ardinghellus.

II.

Quamvis amicitiæ et intelligentiæ, quæ bona voluntate ac sincero animo fiunt, nullis aliis vinculis egent, cum ex se ipsæ immotæ integræque perdurent, ne tamen aliquid nasci possit quod eas turbet aut interrumpat, magnæ prudentiæ est illas quam arctissime uniri astringique, ita ut nullo unquam casu variare possint. Atque illæ precipue strictius uniri ac ligari debent, quæ non tantum ad utriusque partis sed ad universæ etiam Reipublicæ Christianæ beneficium et commodum faciunt, ut hæc est Sanctissimi D. N. Leonis Decimi, excelsorum Dominorum Florentinorum, illustris Domini Laurentii Ducis Urbini et nobilissimæ familiæ de Medicis ex una, et serenissimi ac potentissimi Francisci Francorum Regis Christianissimi ex altera partibus: quæ unio, amicitia atque intelligentia, aliquanto ante, magno utrorumque assensu confirmata est et conclusa, ea animorum sinceritate quæ maior esse vix posset. Verum Sanctissimus D. N. ac Rex Christianissimus predicti, cupientes illam indissolubilem esse unumque ex ipsis corpus fieri, ut optimi patris atque obedientissimi filii esse debet et ut una atque eadem sit amborum fortuna; volunt, deliberant concluduntque, se nullo unquam tempore, nec factis nec cogitatione, ab hac sancta unione atque amicitia discessuros. Ideoque nedum denuo approbant, ratificant et confirmant tractatum capitulationemque alias inter se factam, sed etiam addunt infrascriptas res, ad maiorem corroborationem ac firmitudinem dictæ amicitiæ et ligæ. Quam quidem, ut rem Deo acceptissimam Reique publicæ Christianæ ac [358] sibi ipsis maxime salutarem, Sanctissimus D. N. ac Rex predicti, se inviolabiliter custoditurus observaturosque, pontificiis ac regalibus verbis promittunt, seque data acceptaque fide obligant ac non tantum ipsi sibi invicem sed etiam Redemptori nostro Iesu Christo, gloriosissimæque semper Virgini matri eius hoc se prestaturos pollicentur.

Et quoniam strictiores et efficaciores amicitiæ seu colligationes et intelligentiæ redduntur ac melius et sincerius conservantur diuturnioresque efficiuntur, cum ipsi confederati et amici fraterne et caritative omnia suorum pectorum intima et secreta invicem aperiunt et comunicant; Sanctissimus D. N. ac Rex Christianissimus id summopere cupientes et volentes, ut unanimiter ab utraque parte omnia ad Statum spectantia agantur, pacta et capitula sequentia inierunt, firmaverunt et concluserunt et omnino rata esse volunt.

Videlicet, quod quelibet partium predictarum deinceps debet amanter et confidenter comunicare cum altera omnia et singula negocia Statum concernentia, quæ maxime erunt et videbuntur importantiæ. Et pari modo omnia consilia cogitationesque suas in rebus arduis inter se propalabunt et manifestabunt; ita tamen quod satis erit, predictos Sanctissimum D. N. et Regem Christianissimum sibi invicem supradicta comunicare tamquam principales contrahentes et auctores huius strictæ colligationis.

Item, quod talis unio, amicitia seu intelligentia inter predictos Sanctissimum D. N. et Regem Christianissimum erit perpetua et eiusdem vel similis affectionis, prout esse debet inter optimum patrem et obedientem et devotum filium; et ab omnibus inviolabiliter observabitur.

Item, quod quelibet dictarum partium obnoxia erit et tenebitur cum omnibus viribus suis, auctoritate potestate et consilio, pro conductione et directione negociorum in beneficium, honorem et utilitatem ipsarum utrarumque partium vel alterius partis prestare auxilium, proviso tamen, quod talia negocia non sint aliqua in parte contra auctoritatem, et in damnum aut preiudicium partis auxilium prestantis directe vel indirecte verti minime possint.

Item, quoniam vires Sanctissimi D. N. minime pares sunt summæ eius dignitati atque auctoritati, multæque ac magnæ eius Beatitudini inferri possent iniuriæ, Christianissimus Rex, cuius est magna potentia, hoc considerans, ut obedientissimus filius et qui maxime desiderat Statum Ecclesiæ et auctoritatem Sanctitatis Suæ et Sanctæ Sedis Apostolicæ non solum tutari et conservare, verum etiam quantum in ipso est, pro viribus procurare et eniti ut in dies augeantur; promittit seque obligat non tantum quingentis gravis et mille levis armaturæ equitibus ac duodecim aureorum milibus quolibet mense, ut in alio tractatu tenetur, sed totis etiam viribus, pecunia, regno, dominiisque suis omnibus, ac personaliter quando opus fuerit et a Sanctissimo D. N. requiretur terra marique, [359] et tandem omnibus viis, formis et modis defendere conservare ac manutenere omnem Statum quem Sanctissimus D. N. in presentia possidet aut in posterum possidebit, honorem, dignitatem, præminentiam atque auctoritatem Sanctitatis Suæ, Sedis Apostolicæ ac Sanctæ matris Ecclesiæ, contra quemlibet principem seu potentatum vel quoslibet principes seu potentatus, qui vel armis vel quavis alia via directe vel indirecte contra Statum atque auctoritatem dicti Sanctissimi D. N. aliquid tentarent aut inferrent vel tentari aut inferri facerent. Atque hoc se cum effectu absque exceptione aut excusatione aliqua facturum et observaturum pollicetur. Salvo tamen, si ipse Rex Christianissimus aliquo maximo et evidenti bello infestaretur et premeretur, ut ad periculum proprium evitandum necesse esset omnes Maiestatis eius vires convertere. Et similiter idem Christianissimus Rex promittit se exhortaturum ac pro viribus impulsurum confederatos suos et præsertim illustrissimos Dominos Venetos ut secum una idem faciant ad defensionem, conservationemque Sanctissimi D. N. ac rerum Sanctitatis Suæ quod illos facturos sibi persuadet et fere pollicetur. Nec ad hunc effectum Maiestas Sua petet a Sanctissimo D. N. pecunias, sed omnia suis sumptibus et expensis faciet, mittendo aut conducendo illum peditum atque equitum numerum quando et ad quem locum opus fuerit, et sub illis ductoribus seu capitaneis qui Sanctitati Suæ magis placebunt.

Item, Rex Christianissimus promittit et tenetur conservare et manutenere inclytam Rempublicam Florentinam dulcissimam patriam Sanctissimi D. N., illustrem D. Laurentium Ducem Urbini Sanctitatis Suæ secundum carnem nepotem, in omni eius statu presenti et in quolibet alio quem fortasse habiturus esset, et Magnificam totam familiam de Medicis, prout in alio tractatu plenius continetur; et eisdem auxilium et favorem prestare non minus quam si de negociis, rebus, honore et auctoritate Sanctissimi D. N. ipsiusque Regis Cristianissimi rebus et negociis propriis ageretur.

Item, versa vice, Sanctissimus D. N., excelsa Florentinorum Respublica et illustris D. Laurentius Dux Urbini, qui non minori affectu Regem Christianissimum quam se ipsos prosequuntur, nec minus desiderant conservationem atque amplitudinem Status ac rerum Maiestatis Suæ quam suorum, præter id auxilium quod in alio tractatu prestare tenentur, promittunt se pro viribus quicquid etiam amplius poterunt effecturos, ad tuendas et conservandas res Maiestatis Suæ.

Item, quo ad materias beneficiales Ducatus Mediolanensis, cuius rei causa, superioribus mensibus, missus est Romam dominus Leo Bellus; Christianissimus Rex contentus est quod dictæ materiæ remaneant in illo statu in quo nunc sunt, donec Sanctitas Sua ac Maiestas eius conveniant se ac videant et simul colloquantur: ita tamen ut si utraque pars deliberaret aptiorem aliquam et commodiorem [360] formam invenire, ea res in reverendissimo domino Iulio de Medicis Vicecancellario et illustrissimo Domino de Boysi magno Franciæ Magistro reponatur, eorumque ordinationi ac conclusioni Pontifex et Rex predicti stare et acquiescere tenebuntur.

Item, promittit Rex Christianissimus seque obligat effecturum, ut in rebus beneficialibus dicti Ducatus Mediolanensis ministri eius ac reliqui omnes Sedem Apostolicam, in omnibus et quibuscumque rebus ad eam spectantibus, revereantur magnoque in honore atque æstimatione habeant. Quæ res tum cuivis Principi Christiane tum ipsi Christianissimo Regi precipue, qui Ecclesiæ primogenitus et Sanctissimi D. N. obediens filius est, maxime convenit.

Item, predicti Sanctissimus D. N. et Rex Christianissimus iterum promittunt, tenentur et se obligant, negocium salis, quod Maiestas Sua de terris Ecclesiæ pro convenienti precio capi facere tenetur, in omnibus et per omnia observare et manutenere et observari et manuteneri facere, iuxta capitula concordata et conclusa in alia capitulatione, et præsertim in particulari tractatu super hoc facto; in dictoque negocio et in omnibus ipsum concernentibus, officiales et ministros hinc inde, bene, legaliter et realiter per omnia et singula sese habituros.

Item, quod rebelles et fuorusciti seu expulsi, pro causa Status vel delictis enormibus, de terris partium Sanctissimi D. N., non modo a Ducatu Mediolani expellantur, verum etiam captivi seu presionarii Bononiam vel Florentiam respective, prout ad eorum Status spectabit, remittantur. Et pari modo fiet in Statu Ecclesiæ et Dominorum Florentinorum, de rebellibus et criminosis enormium criminum Ducatus Mediolani; excepta tamen Urbe Romana quæ semper fuit libera et comunis patria.

Item, Christianissimus Rex promittit se, æstatis tempore, duas triremes seu galeras instructas atque armatas ex pecuniis Cruciatæ ac Decimarum sibi hactenus concessarum habiturum; et si opus erit et a Sanctissimo D. N. requiretur, Maiestas Sua habebit et dabit plures, pro ut necesse fuerit. Quæ, illis quas Pontifex in præsentia habet adiunctæ, ab Infidelium excursionibus Tirrhenum et Ligusticum mare tutari possint.

Nos Franciscus Francorum Rex suprascrista omnia et singula Capitula et in eis contenta acceptamus, confirmamus et approbamus ac observari promittimus et iuramus; et in fidem predictorum omnium, etiam manu nostra propria subscripsimus sigillique nostri fecimus impressione communiri.

Datum Parisiis, in palatio nostro, vulgariter nuncupato le Torneles, die vigesima mensis ianuarii MDXIX.


Nous ferons pour noutre Saynt Pere et le saynt Syege plus de fayt que par parole.

Françoys.

[361]

Nº IV. (Vedi pag. 247.)

L’Archivio di Stato ha in originale queste Lettere che Rosso Buondelmonti scriveva ai Dieci durante la legazione al Principe d’Orange, della quale abbiamo tenuto discorso nel testo. Il Buondelmonti trovò il Principe sotto Cortona, dipoi l’accompagnò fino a Figline, essendo tornato a Firenze quando la guerra fu divenuta irrevocabile, contro alla voglia si può dire di coloro che vi ebbero parte. Era un destino che si compieva, e come a questo si andasse incontro, le parole giornaliere, scambiate nel campo, lo esprimono alle volte meglio che un istorico non farebbe. Si aggiunge che Rosso è abbastanza piacevole scrittore, e noi possiamo qui dare compita come una piccola scena di quella catastrofe. Le lettere IV, V e XV, che nell’Archivio mancano, si ebbe la fortuna di supplire sopra una copia, della quale andiamo obbligati alla cortesia del signor cav. Alberto Ricasoli, da noi più volte esperimentata.

I. Magnificis Dominis dominis Decemviris Libertatis et Pacis Reipublice Fiorentine, dominis observandissimis.

Magnifici Domini domini observandissimi. — Questa per far noto a Vostre Signorie che questo giorno sono arrivato qui, et subito andai a trovare el signor Commissario Antonio Francesco delli Albiti, per intendere se il salvocondocto era obtenuto dallo illustrissimo Principe di Oranges; il quale m’ha decto haver mandato per epso, et che sarà qui domani. Subito hauto decto salvocondocto, monterò a cavallo et anderò verso sua illustrissima Signoria, con più diligentia a me sarà possibile; che senza epso salvocondocto non è da andare, respecto che qualche cavallo scorre [362] sempre in qua et in là. Se l’havessi trovato qui, mi sarei spinto più avanti per fare più diligentia a me fussi suta possibile. Qui è arrivato questa sera el signor Malatesta et la maggior parte delle gente, come più ampiamente dal prefato signor Commissario Vostre Signorie a pieno saranno raguagliate. Nè altro. A Vostre Signorie humilmente mi raccomando. Bene valete. Da Arezo, a’ dì XIII di septembre MDXXIX.

Servitor
Rossus de Buondelmontis orator.

Mandata per mano del signor Commissario Anton Francesco degli Albizzi.[256]

II.[257]

Magnifici Domini etc. — Iersera, sotto lettere del signor Commissario Generale, scripsi a Vostre Signorie quello occorreva. Et questa mattina si è partito el signor Commissario e ’l signor Malatesta con tutte le gente, per venire a cotesta volta; et qui hanno lasciati alchuni capitani che hanno circa mille cento paghe. Et questo giorno li ho hauti a me, nè trovo che in facti habbino più che, vel circa, homini septecento, e quali sono molto poco numero a volere guardare la ciptà; et per la consulta facta con il Capitano Santa Croce, Giorgio cioè e ’l signor Francesco dal Monte et altri Capitani, dicano harieno anchor di bisognio di secento homini, et con facilità la guarderieno dalli inimici. Però, Vostre Signorie examinino quello è da fare, perchè ogni volta ci fussi mille cinquecento homini, sono certi non si metterieno a venirci; et intendendo ci sia sì pochi, saria facil cosa farli venire a questa volta. Et non ci venendo, questi signori Capitani si conforterebbeno, ogni volta havessino passate dieci miglia avanti, venire alla ciptà sì presto o prima a loro. Et però Vostre Signorie advisino quando li inimici passassino senza dare altro impedimento qui, se queste fanterie s’hanno da mandare a cotesta volta, o quello si ha da fare; che è bene che il signor Capitano et Commissario habbi la commissione quello habbi da fare, perchè in questi casi, quattro, sei hore prima o poi importano assai.

Li cavalli delli inimici s’intende questa sera alloggiare a Castiglione Aretino, e ’l resto dello exercito a piè di Cortona, et haver [363] mandato trombetto a chieder la terra. Dispiacemi che quelli po’ de fanti vi sono non sieno qui che servirieno più che esser là.

El trombetto andò per il mio salvocondocto non è anchor tornato. Dicemi el Capitano Giorgio Sancta Croce, dubitare non lo ritenghino, perchè l’huomo non sia advisato de’ casi loro. Subito haverò decto salvocondocto, anderò alla volta dello illustrissimo Principe di Oranges. La più parte di queste fanterie et al simile li cavalli sono alla fine della paga, et Vostre Signorie sanno che a questi tempi non si possono tenere senza denari. Nè altro. A Vostre Signorie mi raccomando. Da Arezo, a’ dì XIIII di septembre MDXXIX.

Rosso de Buon del Monte orator.

Portò un fante del signor Francesco del Monte. Partì a hore 23.

III.

Magnifici Domini etc. — Questo giorno scripsi a Vostre Signorie et mandale al signor Commissario Generale, con ordine che subito le mandassi a Vostre Signorie, perchè qui non è rimasto nè cavallari nè cavalli di poste nè nissuno da mandare, salvo che pedoni. Però mando questa per uno diritto al prefato signor Commissario con ordine le mandi a Vostre Signorie, per far intendere a quelle che questa sera, che siamo a hore tre di nocte, è tornato il trombetto dallo illustrissimo Principe di Orange, et ha portato il mio salvocondocto. Però domattina, con più diligentia a me sarà possibile mi transferirò verso Sua illustrissima Signoria, la quale si trova a piè di Cortona; et, secondo di bocca referiscie el decto trombetto, facevano conto di tirare l’artiglieria alla terra, deliberati a fare la batteria per pigliar quella; et pare che quelli della terra fussino d’animo di tenersi. Tamen pare non habbi gente in corpo a suffitientia, che si fa iuditio se havessino fino a mille fanti, che senza dubio non sarieno per sforzarla. Però saria suto bene si fussi deliberato di guardare qualchuno di questi lochi, visto che li inimici non par sien volti a passar avanti, lasciandosi nessuna di queste terre indreto. Però, quando a Vostre Signorie paressi di far provisione qui di cinque o secento fanti da vantaggio, si fa iuditio per questi signori Capitani gagliardemente defendere questa terra. Però V. S. pensino bene quello è da fare et dieno commissione qui al signor Capitano et Commissario quello habbi da fare. Ricordando a Vostre Signorie che buona parte di queste gente sono al fine della paga, et malvolentieri si posson tenere. Et sempre che quelli li vorran tirare alla ciptà, questi Capitani si confortano di tirarsi a buon salvamento. Nè altro per la presente, [364] salvo che di continuo a Vostre Signorie mi raccomando. Di Arezo, a’ dì XIIII di septembre MDXXIX.

Delle V. S.

Servitore
Rosso de Buon del Monte oratore.

Mandossi per un fante a posta di Arezzo diritto al signor Commissario Generale Anton Francesco.

IV.

Magnifici Domini etc. — Hieri scrissi d’Arezzo a VV. SS. quello occorreva. Di poi sono arrivato qui in campo dell’illustrissimo signor Principe d’Orange; e subito arrivato scavalcai al suo alloggiamento, e fatto le debite cerimonie e presentata la lettera di VV. SS., esposi quel tanto da quelle mi fu imposto. E fatti molti discorsi, per ultima conclusione dice, non voler essere intrattenuto di parole, perchè lui ha commessione dalla Cesarea Maestà di appuntare e fare quel tanto che sua persona; e non havendo altra commissione, che non scade più parlare, e che io mandi per potere e pien mandato, per convenire et accordare le cose del Papa e suoi Nepoti; i quali domanda volere essere restituiti in casa loro, com’erano per l’avanti l’arrivata o vero passata del Duca di Borbone. Io ho replicato molte cose, e rimostro che tutte le differenze si potessino havere con la Santità di Nostro Signore, gli ambasciatori che sono verso la Cesarea Maestà hanno più potere di accordare il tutto. Al che lui sempre ha risposto: non volendo trattar seco, non accadeva venire verso Sua illustrissima Signoria. Io non ho mancato di rispondere ad ogni sua proposta gagliardamente, con rimostrargli che ogni cosa si ha a patire per il mantenimento della nostra libertà; e quando lui mi ha domandato dovere egli rendere la città e tutto il dominio a devozione della Cesarea Maestà, gli ho fatto intendere la Città essere benissimo provista et avere 12 o 14 mila uomini da guerra et di sorte fortificata, che quando Sua illustrissima Signoria la vederà non parlerà sì gagliardamente così come fa. Hammi detto che abruceranno il tutto e guasteranno fino alle porte, e molte braverie ch’io ho ributtate gagliardamente, con dire che a noi basta salvare la nostra libertà, e salvata quella, è salvato il tutto; la quale io ho speranza in Dio non ci abbi a mancare. VV. SS. ne adviseranno quel tanto habbi da seguire. Io ho trovato tutto l’esercito qui a piè di Cortona; il quale per quello ho possuto vedere è bellissimo esercito, benchè ancora non l’abbi potuto bene esaminare; e per quanto sono suto raguagliato da qualcuno di questi Italiani sono vel circa 8 mila fanti tra Lanzichenecchi, Spagnoli et Italiani, dipoi la venuta [365] del Marchese del Guasto, che ha condotto circa 2000 Spagnoli, e cavalli, per quello posso giudicare, vel circa, 1000. Et dicono aver dato in preda a l’esercito la città di Cortona, e domani fanno conto dargli l’assalto da tutte le bande per haver notitia non esservi dentro più che 400 huomini vel circa, i quali sino a qui si sono difesi gagliardamente, et hanno ferito e morto qualche decina di fanti. Certificando a VV. SS. che se ci fosse dentro 2000 fanti, io fo giuditio che non la piglierebbono di questo mese, e con gravissimo loro danno. Dispiacemi le cose sieno così exarrutamente lassate con sì poco numero di gente. E perchè come per altre mie ho scritto a VV. SS., in Arezzo ancora ci è mancamento di 6 o 700 fanti, i quali giudicheria quando ci fossino e volessin fare il debito loro gagliardamente, difenderiano quella città; però VV. SS. pensino a quel tanto par loro necessario, e provedere in tempo che le cose possino servire.

Le gente di Ramazzotto e di Città di Castello per anco non sono venute. Secondo dicono, saranno vel circa 2000 fanti: quando venghino aviserò VV. SS.

Alla presenza di tutti questi ragionamenti hauti con l’illustrissimo signor Principe si trovò il Marchese del Guasto e il signor Don Ferrante di Gonzaga e ’l Commissario generale dell’esercito, messer Giovan Antonio Muscettola napoletano. Il Nunzio del Papa et ser Agnolo Marzi, che dicono ci è, per ancora non ho visto; quando accaggi trovarmi dove loro, non mancherò di quello occorrerà, dando aviso di tutto a VV. SS. Conforto quelle con ogni diligentia a fortificare la città, e provedersi di tutte le cose necessarie per la salvazione della nostra libertà; certificandole che quando altro esercito che questo non venghi a’ danni nostri, facilissimamente quelle si difenderanno et salveranno il tutto. Ancora che minacciano guastare il tutto, salvata la libertà è salvare il tutto. Perciò conforto VV. SS. con gagliardissimo animo a volerlo fare senza rispetto alcuno. Così a Dio piaccia concederlo. Nè altro. A VV. SS. del continuo mi raccomando. Sotto Cortona, nel campo Cesareo, a’ 15 settembre 1529.

Rosso Buondelmonti ambasciatore.

Portò un trombetto del signor Malatesta.

V.

Magnifici Domini etc. — Hiersera scrissi a VV. SS. quello occorreva, e le mandai ad Arezzo al signor Capitano per un trombetto del signor Malatesta, al quale detti uno ducato a fine facessi buona diligentia; et ordinai al detto signor Capitano che subito con diligentia le mandassi alle VV. SS., dalle quali dopo mia partita [366] non ho hauto lettere. È questa per far loro intendere che siamo qui a piè di Cortona; et hieri questo Principe si sforzò con quattro pezzi d’artiglieria di far battere la terra quanto a loro fu possibile, e questa mattina dovevano dare l’assalto, et hanno trovato quei di dentro assai gagliardamente riparati, dimodochè hanno rimossa l’artiglieria di dove era per piantarla altrove; e per ancora non è seguito cosa veruna, nè per questo giorno si vede abbi a seguire altro progresso. E se faranno per l’avvenire come hanno fatto sino a qui, che hanno guadagnate molte archibusate e lassatevi qualche diecina di huomini, faranno poco acquisto: pure si fanno di grande animo, e sperano ottenere la vittoria. Il che a Dio non piaccia, nè voglia che questa povera città sia desolata. Stimo abbia ad essere cosa alquanto lunga. Certificando VV. SS. che l’intenzione di questo esercito non fu mai di fermarsi qui, anzi di andare alla volta di Siena e venire con più diligentia fosse possibile verso la città; et è parso miracolo si sieno abutati qui, per dare tanto più spazio a VV. SS. per provedersi di sorte che gagliardamente si difenda la nostra libertà; che così Iddio ce ne dia la gratia. Lo illustrissimo Principe questa mattina è stato su alto alla terra, et altrimenti non ho parlato a Sua illustrissima Signoria. E come per l’ultima mia scrissi a VV. SS., è tutto resoluto non volere trattare di nulla, se prima non ho mandato da VV. SS. di poter trattare delle cose del Papa e suoi Nepoti; et quando gli ho rimostro gli Oratori di VV. SS. essere a presso la Cesarea Maestà et havere potere di tutto, lui dice non bisognava venir qua verso S. S. illustrissima, non volendo trattar di quello che principalmente mostra esser la cagione di venir a’ danni di VV. SS. Io non ho mancato nè mancherò di tutte le cose necessarie et che saranno a benefizio della nostra libertà. In questo mezzo VV. SS. mi advertiranno di quel tanto habbia a seguire. Io sono stato, dipoi l’arrivo mio, qui di continuo a presso messer Gio. Antonio Muscettola napoletano, Commissario generale di questo esercito, il quale mi pare a presso lo illustrissimo Principe essere il tutto, et hauto seco molte dispute et ragionamenti. In conclusione mi risolvei qui non si habbi a far nulla senza trattare di queste cose del Papa, et che il meglio mezzo ci fossi, sarebbe mandare verso Sua Santità, il quale mostra molto haver havuto con quella lunghi ragionamenti; volendomi persuadere che, quando si facessi, si troveria qualche buono espediente; dicendo lui non si curare salvo dell’honor suo, e che altrimenti non pretende al governo di cotesta città. Hogli rabbattuto ogni e qualunque cosa col rimostrargli il seguito de’ tempi passati, et per lo avvenire andrebbono peggiorando; e che non pensino, quando mai habbi a seguire, che noi habbiamo acconsentire di perdere la nostra libertà. E quando questo illustrissimo Principe ci vorrà ricevere in buona amicitia, ci troverà di tanta fedeltà, che non fece mai cosa [367] di chi fossi più contento, e ne acquistassi più honore et utile di questo. Essendo a dormire, questa mattina venne a me ser Agnolo Marzi molto submissamente et con grate offerte e parole, volendomi dimostrare quanti benefizi habbi fatto et è per fare nella ritardanza della venuta di questo esercito a’ danni di VV. SS., e quanto la mente del Papa sia buona verso la Città, con molte ragioni. Al che con brevi parole risposi che gli effetti seguivano in contrario, e quando vedessi ci levassi questo impeto da dosso, il che lui fa il contrario, nè altri che lui ce lo manda, che sono tutti segni che non rispondono alle parole;[258] ma che con la gratia di Dio ci difenderemo da ogni ingiusta querela.

Questo esercito fino a qui ha havuto gran penuria di vettovaglie, et se non havessino trovati strami, era impossibile ci potessi stare; pure è cominciato a venire di verso Siena quantità di pane et carne che sopperisce: biade, si servono di frumenti, che hanno trovati: de’ vini non ce n’è, la più parte beve la miglior acqua può trovare.

Scritto sin qui, questa mattina son suto al levare dell’illustrissimo Principe, col quale sono andato spasseggiando lungamente per questo campo, et havuti molti ragionamenti con Sua illustrissima Signoria; et in conclusione mostra esser mal contento di VV. SS., non mandassino prima verso lui che accordassi col Papa; perchè adesso mal può mancare della fede che Sua illustrissima Signoria gli ha promessa, e ’l simile alla Cesarea Maestà, il qual dice volerla osservare in tutto e per tutto; ma che VV. SS. trovino mezzo a farlo con più salvamento della nostra libertà che è possibile: e l’ho trovato gratioso e benigno quanto è suto possibile; et non ho mancato di rimostrargli che i benefitii che farà a cotesta città sempre la ne harà grandissimo obligo e ne farà buona ricognitione verso Sua illustrissima Signoria.

Sendo qui tanta necessità di vino, e visto che l’illustrissimo Principe non ne trova per denari, ho mandato ad Arezzo 6 muli di Sua Signoria per caricargli del meglio vi si trovi; e scritto al signor Capitano e Commissario, che subito me li rimandi indietro, e quello costa VV. SS. ne le faranno rimborsare. E mi parrebbe che quelle dovessino ordinare che ogni giorno, per la persona dell’illustrissimo Principe e del signor Marchese del Guasto, e ’l simile del signor Commissario generale dello esercito, fossi qua mandato 3 some di vino del meglio si trova, per distribuirne a ciascuno la parte sua; e quando si potesse havere una soma o 2 di trebbiano in fiaschi, sarebbe cosa molto grata. Però VV. SS. usino quella diligentia è possibile, perchè questi sono il tutto di questo esercito, e tali mezzi fanno bene spesso meglio che l’altre cose; et è da [368] sollecitare mentre sono in questa penuria, perchè poi non sarieno tanto accette. VV. SS. possono ordinare al Capitano di Montepulciano che ogni giorno me ne mandassino qualche soma, perchè è il meglio si possi havere in queste parti, et io ne farò la distributione in quelli luoghi dove vedrò sia necessario. Ricordando che quelli lo portano el portino in fiaschi, che è di meglio a distribuirlo che altrimenti.

Le cose di Cortona si stanno ancor così; e per non aver potuto l’artiglieria fare tanta rottura che basti hanno fatto venire qualche cento di guastatori verso Siena e di quello di Perugia, e sono a presso la muraglia per vedere di mandarne più in terra che possono. Quelli di dentro si difendono gagliardamente, et se avessino qualche numero di gente più et artiglieria da poter levare i loro ripari, giudicherei si avessino a salvare: pure, così così, credo che sarà loro sì facile come sperano. Per di qui domane se ne dovrà vedere che fine habbi da havere; e subito ne aviserò le SS. VV., alle quali del continuo mi raccomando. Dal campo a piè di Cortona, questa mattina, a hore 16 et a’ dì 17 di settembre 1529.

Postcritto: Sono venuti 2 huomini della terra per appuntare con l’illustrissimo Principe. Il quale mi ha detto voler perdonare alli huomini della terra e fare ogn’opera di salvarla, ma volere le genti da guerra a discretione. Non so quello seguirà; pure vanno difendendosi gagliardamente. Dio sia quello presti loro il suo aiuto: quello seguirà aviserò VV. SS.

Rosso Buondelmonti ambasciatore.

VI.

Magnifici Domini etc. — Havevo scripto questo giorno a lungo a Vostre Signorie. Egli è piaciuto a questo Principe ritener le lettere, et dice non volere scriva lettera nessuna in cifera et che Sua Excellentia non vegga. Holli facto intendere che non possendo negotiare non posso star qua. Però Vostre Signorie mi advertiranno quel tanto habbi da fare. Ho rimostro quello mi pareva fussi conveniente; tamen non ho potuto rihaver la mia lettera.

Come per l’utima scripsi a Vostre Signorie, questo Principe dice che se Vostre Signorie non mi mandano mandato di poter negotiare delle cose del Papa, come a lungo scripsi per l’ultima mia a quelle, posso tornarmene alla ciptà. Però Vostre Signorie mi adviseranno quel tanto habbi da seguire.

Per esser qui mancamento di vini ho mandato a Arezo per qualche soma per servire a questo illustrissimo Principe. Però Vostre Signorie doverebbeno provedere che ogni giorno ce ne fussi qualche soma, che sarebbe cosa grata a questi signior Capitani.

Questa sera che siamo a hore ventiquattro, la terra, di Cortona [369] cioè, si è resa a discretione del Principe. Pure stimo l’habbino a salvare per quanto intendo. Così a Dio piaccia.

Io havevo scripto tanto a lungo per la lettera mi ha ritenuto il signor Principe, che m’incresce non sia venuta nè potere advertire Vostre Signorie quello occorreva. Non so che camino si habbi ad pigliar questo exercito nel diloggiar di qui. Stimo che fra dua giorni sia per partire. Però, se non scrivo di continuo a Vostre Signorie quelle mi habbino per excusato, che tutto resta per non potere. Nè altro per la presente, salvo che di continuo a V. S. mi raccomando. Di Campo, a piè Cortona, a’ dì XVII di septembre a hore dua di notte, volanti calamo MDXXIX.

Di V. S.

Servitore
Rosso Dr Buondemonte oratore.

VII.

Magnifici Domini etc. — Hieri scripsi a Vostre Signorie per mano del Commissario di Arezo, et di poi son qua non ho hauta lettera alchuna da quelle; et questo Principe ogni hora mi dice quello fo qua senza haver commissione alchuna di tractare delle cose di Sanctità di Nostro Signore, che senza quelle dice non esser per appuntare. Però a Vostre Signorie piacerà ordinarmi quel tanto habbi da seguire.

Come Vostre Signorie haranno inteso, hiersera la ciptà di Cortona si rendè a discretione di questo illustrissimo Principe, el quale con ogni diligentia, per sua humanità ha salvata, senza che sia saccheggiata; et li fanti disarmati, usciti fuora, di poi sono suti ritenuti al servitio di Sua illustrissima Signoria; salvo e Capitani e quali ha ritenuti prigioni, e ’l simile el Capitano della terra Bernardo Bagniesi e ’l Castellano et il Proveditore. Parmi del tutto sia deliberato venir verso la ciptà, et per cosa habbi saputa mostrare a Sua illustrissima Signoria, non mi pare sia deliberato ritardare, perchè dice non volere essere trattenuto di parole, non volendo venire a qualche conclusione di appuntamento. Vostre Signorie sono prudentissime. Dio sia quello al meglio le spiri. Nè altro per la presente, salvo che del continuo a Vostre Signorie mi raccomando, que diu valeant. Di Castiglione Aretino, questa sera, a hore ventitre, a’ dì XVIII septembris MDXXIX.

Di V. S.

Servitore
Rosso de’ Buondelmonti oratore.

[370]

VIII.

Magnifici Domini etc. — Hieri per il vostro oratore Lionardo si scripse a Vostre Signorie, et per epso oratore harete inteso la risposta ne havemo da lo illustrissimo Principe di Oranges; et ne aspectiamo con desiderio el ritorno suo, per sapere come ci habbiamo a governare, chè senza nuova conmissione non si può negotiare più avanti. Et questa mattina siamo arrivati qui con questo felicissimo exercito in Monte Varchi, dove questo giorno riposeremo. Et saria facil cosa che domani non si partissi di qui mediante li homini da bene che sono in questo exercito et la supplicatione facta per noi allo illustrissimo Principe. Ne altro, salvo che di continuo a Vostre Signorie ci raccomandiamo. Da Monte Varchi, ai dì XXII di septembre MDXXIX.

Di V. S.

Servitori
Rosso de’ Buondelmonti e
Lorenzo Strozzi oratori.

El presente corriere è uno mandato dello illustrissimo Principe alla Cesarea Maestà, come Vostre Signorie vederanno, per la patente ne porta facta per noi.

IX.

Magnifici Domini etc. — Hieri, per uno corriere spacciato da questo illustrissimo Principe alla Cesarea Maestà, si scripse a V. Signorie, per dar notitia quanto sino a quel giorno si era seguito. Di poi è comparso lo oratore Lionardo Ginori et hauta la di Vostre Signorie de’ ventitre stante, et per essa et per il decto Lionardo si è intesa la intentione di quelle. Et siamo suti con questo illustrissimo Principe, et facte tutte quelle opere verso Sua illustrissima Signoria et il Nuntio del Papa et altri Signori. Et doppo molte dispute, Sua illustrissima Signoria si è contenta restar qui per domani et dipoi andare fino a Figline, dove dice quivi soprastarà duo giorni, come più ampiamente ne referirà il presente latore Lorenzo Strozi nostro collega, el quale è benissimo advertito del tutto. Vostre Signorie saranno contente fare resolutione con più presteza è possibile, perchè quanto più cavalcano verso la ciptà, tanto più è con danno di Vostre Signorie. Alle quale del continuo ci raccomandiamo: pregando Dio in felicità ne conservi. Nè altro. Da Monte Varchi, a’ dì XXIIII di septembre a meza nocte, MDXXIX.

Di V. S.

Servitori
Rosso de’ Buondelmonti et
Lionardo Ginori oratori.

[371]

X.

Magnifici Domini etc. — Questa mattina, per lo orator Lorenzo Strozzi si scripse a Vostre Signorie quello occorreva, et da lui a bocca saranno raguagliate ampiamente di quello occorre. Da poi, sono arrivate le dodici some della vettovaglia et cere, che V. S. hanno mandate, le quale non possetteno arrivare più a punto; et subito si sono distribuite allo illustrissimo signor Primo et al Marchese del Guasto et al signor don Fernando di Gonzaga et a tutti questi altri Signori, secondo le qualità loro; et quando fussino state tre volte tante, per la carestia hanno di vino et pan buono, non haverieno supplito. Però confortiamo Vostre Signorie continuare ogni giorno, per lo manco di tre some di vino, metà trebbiano et metà vermiglio: e ’l simile altrettanto di pane, el quale sia più bianco et miglior non è stato questo, per la bocca di questi principal signori; et fussi pan piccolo et sopratutto bianco, come sappiamo Vostre Signorie sapranno provedere.

Questo illustrissimo Principe ci ha molto ricerchi che desidereria havere uno paio di cavalli turchi delli meglio si potessi trovare; e ’l simile, el signor Marchese del Guasto ne vorria uno. Però conforteremmo Vostre Signorie facessino ogni diligentia di haverne delli meglio si potessi trovare et fare questo presente; che quelle non porrien fare cosa più grata, che son mezi che servono molto più che le cose grande, bene spesso. Antonio Francesco delli Albizi ne haveva uno molto bello, chè credo che fussi di Ottaviano de’ Medici, el quale anchora ne ha delli altri che sarieno a proposito.

Di poi la partita dello orator Lorenzo, non è rinovato altro, nè per anchora è arrivato fra Nicolò della Magnia. Aspettando questa sera; et allhora delibereranno se debbon diloggiar di qui per a Figline, dove questo illustrissimo Principe soprastarà duo giorni, come Vostre Signorie dal decto oratore saranno raguagliate. Siamo suti questa mattina con Sua Signoria, quale ne ha visto molto volentieri; et aspetta con desiderio grandissimo si habbi ad fare qualche appuntamento buono, per non haver a venir più avanti, a’ danni di Vostre Signorie, che Dio ne conceda gratia.

Quando Vostre Signorie rimandino in qua vettovaglie, a quelle piacci mandar duo some di biade, come che è vena e orzi, perchè questi Signor non ne hanno per li lor gran cavalli; et malvolentieri dan lor grani, chè certamente sarà cosa molto accepta. Nè altro, salvo che di continuo a Vostre Signorie ci raccomandiamo. Da Monte Varchi, a’ di xxv di septembre mdxxix.

Di V. S.

Servitori
Rosso de’ Buondelmonti et
Lionardo Ginori oratori.

[372]

XI.

Magnifici Signori Dieci. — La lettera delle Signorie Vostre delli venticinque haviamo ricevuto, et inteso le electione di Bernardo da Castiglione a questo illustrissimo Principe, per la venuta del reverendissimo Arcivescovo di Capua, che si aspecta con desiderio; et perchè venga sicuro, si manda il salvocondocto con il trombetto. Però le Signorie Vostre accelerino la venuta sua, et con qualche resolutione; perchè Sua Excellentia non vuol più parole, nè si è possuto obtenere che non marci innanzi, che ad ogni modo vuole andar domane a Figline. Et pensiamo che la cavalleria scorrerà ben presso alla ciptà. Et il danno che questo povero paese riceve non si potria credere; et molto più lo riceverà hora che si aproxima, perchè e soldati, vedendo marciare, pensano che l’accordo non segua; li quali stanno tanto desiderosi di venire quanto noi di mandarneli; et ogni giorno ce ne compariscie di nuovo, et tutti hanno ricapito.

Non voliamo mancare di significare alle Signorie Vostre che, subito venuto l’Arciveschovo di Capua, referì alla Excellentia del Principe, havere trovati li oratori mandati dalle Signorie Vostre al Papa; et inteso che non portavano auctorità nissuna di convenire, secondo quello che Sua Sanctità domanda. Sua Excellentia si alterò molto, dicendo che noi li haviamo mostro una cosa per un’altra, et che non vuole più intendere altro. Noi ci ristrigniemmo con la Excellentia Sua, et di nuovo efficacemente li mostrammo quanto cotesta Republica era desiderosa di convenire con la Maestà Cesarea et esser sua devotissima, et al Papa dare le cose ragionevole; et che lui non ha che fare della ciptà più che ciaschuno altro partichulare, ma che l’è libera ec. Et che se Sua Maestà Cesarea consentirà che la ciptà sia occupata, mancherà di quella somma iustitia, per il che dice esser venuta in Italia. Et che Sua Maestà Cesarea se ne servirebbe assai più havendola amica et devota in questo presente stato che altrimenti, perchè mai mancò della fede nè mancherà. Et in conclusione non si è per noi mancato con ogni diligentia di svolgerlo da questa fantasia del Papa et tirarlo al convenir fra noi et la Maestà Cesarea. A che, per assai si sia battuto, non ci è stato ordine che habbi voluto udirne niente, allegando che conoscie bene che il servitio della Maestà Cesarea saria haver la ciptà amica più in questo presente vivere che altrimenti; ma che havendoli Sua Maestà Cesarea promesso, prima consentirebbe di perdere tutto l’imperio suo che manchare di sua parola. Et che Sua Excellentia non ha mancato mostrare a questi Nuntii del Papa et prima alla Sanctità Sua, quanto iniustamente questa guerra ci sia facta, dovendoli assai bastare se lui era restituito in le cose sua legiptimamente: a che Sua Sanctità ha risposto [373] che, hauto che egli harà un certo honore, che in questa cosa stima, dimostrerà a tutto il mondo, che lui non vuole occupare per modo alchuno la ciptà, nè vuole se non le cose iuste, ma esserli buon padre et protectore. Alle qual parole dando Sua Excellentia molta fede, ci consigliava a mandare di nuovo al Papa et rimetterci in le braccia sua; et che interim lui fermeria lo exercito, con questo che le Signorie Vostre fermassino le difese, sì come da Lorenzo Strozi quelle saranno state raguagliate. Mostra Sua Excellentia tenere tanta buona voluntà inverso cotesta ciptà quanto sia possibile, et che dei danni che la riceve et che la potria ricevere dolerli quanto se nel suo stato fusse. Et anche consigliava le S. V. nuovamente mandare allo Imperatore in diligentia, supplicando che volessi contentarsi di voler lassar la ciptà in questo presente stato; et se non altro ne potessi cavare da Sua Maestà, almanco ne cavassi una buona lettera per il Papa che lo confortassi a contentarsi de l’iusto. Hora le S. V. possono secondo noi risolversi, da questo illustrissimo Principe non cavare altra resolutione che questa, et in su questo fondarsi, et mandare questo nuovo oratore con l’ultima loro voluntà, et con nuovo mandato di poter convenire con questo illustrissimo Principe in nome della Maestà; et con commissione (quando occorressi convenire ne’ casi del denaro) che, se pure lo potessimo in modo alchuno volgere con larghi partiti che se li facessino, noi lo possiamo fare. Benchè, come è detto, non crediamo cavarne altra resolutione; perchè, sendo stati lungamente in secreto con Sua Signoria illustrissima et con il signor Marchese del Guasto, habbiamo largamente mostroli la intentione delle Signorie Vostre et il benefitio della ciptà et il dover della iustitia; et ci pare haverne cavato quello che cavar se ne può. Per il che si manda alle S. V. il presente Bernardo Capponi, perchè l’habbino questa salva. Il quale piacerà alle S. V. rimandarci, perchè ce ne serviamo.

Siamo stati con il reverendissimo Arciveschovo di Capua, et inteso che qui non è venuto con altra commissione che secondo l’appuntamento che Sua Sanctità ha con Cesare, che è il sopranarrato, et che assai miglior pacti haria la ciptà, gittandosi nelle braccia di Sua Sanctità che altrimenti. Nè altro ci occorre, salvo che di continuo a V. Signorie ci raccomandiamo. Da Monte Varchi, a’ dì XXVI di septembre MDXXIX.

Di V. S.

Servitori
Rosso de’ Buondelmonti et
Lionardo Ginori oratori.

[374]

XII.

Magnifici signori Dieci. — Hiersera per Bernardo Capponi mandato a posta alle S. V. quanto ne occorse scrivemo a quelle, et altro di nuovo non habbiamo che dir loro. Fummo di poi con messer Giovannantonio Muciettola, che è quello che governa il tutto, et havemo alchuni ragionamenti, de’ quali le Signorie Vostre saranno raguagliate da Francesco Marucelli presente latore, il quale viene costì per provedere di certe cose per la persona di questo illustrissimo Principe, et ha conmissione portargliele in qua. Pertanto piacerà a V. S. lasciarlo tornare subito che haverà expedito, perchè così ci ha imposto Sua Signoria illustrissima. Siamo arrivati qui questa mattina, dove staremo questo giorno, nè sappiamo quando diloggieremo di qua, che par pure debbino aspectare l’artiglieria di Siena. Nè altro, salvo che del continuo a V. S. ci raccomandiamo. Da Figline, a’ dì XXVII di septembre MDXXIX.

Di V. S.

Servitori
Rosso de’ Buondelmonti et
Lionardo Ginori oratori.

Postscripta. — Questo illustrissimo Principe manda uno homo suo in Genova o vero allo Imperatore che viene con il prefato Francesco Marucelli et ne ha ricercho Sua Signoria illustrissima che li facciano havere dalle S. V. salvocondocto per passare innanzi et tornare indreto. Però piaccia alle S. V. fargliene tanto largo quanto sia possibile, et farli tutti quelli favori et benefitii che si può, che giovano assai etc.

XIII.

Magnifici domini etc. — Hieri, circa di XX hore, arrivò qui l’orator Bernardo et subito tutti e tre ci transferimo allo illustrissimo signor Principe, dove era el Marchese del Guasto e ’l signor Aschanio Colonna, e ’l Nuntio del Papa, l’Arciveschovo di Capua, messer Giovannantonio Muciettola Neapoletano et molti altri; alla presentia de’ quali presentamo la lettera credentiale allo illustrissimo signor Principe. Di poi Bernardo expose come era mandato da V. S., perchè insieme li altri oratori si tractassi di fare l’accordo con la Sanctità di Nostro Signore, havendo mandato qui Sua Beatitudine l’Arciveschovo per tale effecto; et che quando Sua Sanctità voglia della ciptà quel tanto che sia honesto et iusto, V. S. non sono per mancare. La illustrissima signoria del Principe rispose come la Cristianissima Maestà havea promesso a Sua Beatitudine, secondo la loro capitulatione, di rimetterli nella ciptà; di che Sua Maestà [375] non era per mancare, et per fare tutto el possibile che tale effecto segua, promettendosi la victoria certa; tante forze li pare havere. Per noi si replicò, come tale domanda non era iusta, et che se Cesare havessi inteso le ragioni della ciptà, eravamo certissimi non harebbe facte tale promesse; perchè sappiamo Sua Cesarea Maestà è venuta in Italia per ridurre et rassettare li stati di epsa, in quella forma et modi che dalla iustitia è permesso. Et molte altre cose dicemo et replicamo che non fumo loro capace.

Mostrammo che la ciptà era munita, armata et unita di sorte, che la si prometteva di non potere essere sforzata, et che tutti li ciptadini di quella volevano prima morire che perdere la loro libertà. E quali agenti risposeno la volevano conservare in quella; ma che la Sanctità di Nostro Signore ci voleva solo l’honore et dipoi mostrerebbe a tutto el mondo che voleva fussi libera, et che da Sua Beatitudine dependessi tale libertà. A che si replicò non eravamo per consentirlo, atteso quello era seguito l’anno MDXII. Et veduta questa nostra opinione, fumo certo modo licentiati. Et per non rompere el filo, deferimo d’esser di nuovo questa mattina insieme; et così faremo, ma non crediamo cavarne altro.

Di poi pregamo lo illustrissimo Principe che ci desse questa mattina audientia secreta. Promisse farlo. Saremo con Sua illustrissima Signoria, e tracteremo l’accordo con la Cesarea Maestà, secondo la conmissione dataci, et quello ritrarremo ne daremo notitia a V. S.; ma non speriamo cavarne altro che quello ci ha decto da principio sino a qui.

Ritiratici tutti in una stanza da parte, dove stemmo più d’una grossa hora a fare tale disputa, et da loro et da noi fu detto tutto quello era possibile, mostrando loro con ragioni promptissime che se Sua Sanctità sarà bene consigliata, non insisterà in tale opinione, ma adopererà che questo exercito non molesti le Signorie Vostre nè il dominio di quelle; et in fine non ne potemo mai cavare altro, se non che ci rimettessimo liberamente in Sua Beatitudine etc.

Noi haviamo qua Giovambatista di Lorenzo Strozi et Antonio di Vectorio Landi, de’ quali continuamente ci serviamo, et di loro non s’è dato notitia alli signori Octo che per respecto del bando non vorremo cascassino in contumacia. Piaccia alle S. V. farlo loro intendere, parendolo.

Sarà di questa apportatore Bartholomeo Marucelli, che di quello che per noi si mancassi sopplirà. Le Signorie Vostre ce lo rimandino e accelerinlo, perchè ce ne serviamo.

Postscripta. — Siamo a hore diciassepte, et andati per parlare con lo illustrissimo signor Principe, trovamo Sua Excellentia, che cavalcava, et per aspectare che tornassi andamo a trovare messer Giovannantonio Muciettola, col quale siamo stati in lunghe dispute per venire a uno modo di conventione, et finalmente nulla si è [376] facto. È ben vero che ci ha mosso uno certo ragionamento, al quale sendo stato presente el prefato Bartholomeo Marucelli, ne informerà le S. V. Et come Sua illustrissima Signoria sia tornata, anderemo da quella; dove pensiamo che di questo medesimo ragionamento si habbi a tractare; et se ne ritrarremo cosa che vi si possa prestare li orecchi, subito per uno di noi ne saranno le Signorie Vostre raguagliate. Nè altro. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.

Di V. S.

Servitori
Bernardo da Castiglione
Rosso de’ Buondelmonti et
Lionardo Ginori oratori.

XIV.

Magnifici domini etc. — Questa mattina per Bartholomeo Marucelli scrivemo a V. S. quanto sino a quell’hora era seguito, et inoltre conmectemmo a dicto Bartholomeo, che di bocca dicessi a quelle più cose. Vostra non haviamo, et di questa sarà apportatore l’oratore Lionardo Ginori nostro collega, el quale viene per dirvi certa pratica mossaci da questi Cesarei. V. S. intenderanno et piglieranno quella deliberatione che iudicheranno sia a benefitio della ciptà. Noi non haviamo interamente potuto discostarcene per non rompere il filo et per scoprir meglio le loro voluntà. Raccomandianci alle Signorie Vostre, quale Dio conservi in felice stato. Da Figline, a’ dì XXIX di septembre MDXXIX.

Et io, oratore Rosso, me ne verrò domani a cotesta volta; poi che così le SS. VV. mi commettono.[259]

Di V. S.

Servitori
Bernardo da Castiglione et
Rosso de’ Buondelmonti oratori.

XV. Alli magnifici Ambasciatori a presso al Papa.

Magnifici Domini etc. — Hiersera ci fu mandato dal reverendissimo Arcivescovo di Capua un piego di vostre lettere, quali andavano alli Magnifici Dieci; e trovandoci noi qui a negotiare accordi fra la Santità di Nostro Signore e la nostra Repubblica, le leggemmo per intendere quello che VV. SS. trattavano di costà [377] con Sua Beatitudine; e veduto che quelle dicono che Sua Santità ha dato mandato libero al prefato reverendissimo Arcivescovo, per essere più facile il negotiare rispetto alla vicinità. A che vi dichiamo che Sua Signoria reverendissima dice, il suo mandato non si estendere ad alterare in parte alcuna la Capitolazione fatta fra Sua Santità e la Maestà Cesarea; il che non è a proposito di Sua Beatitudine nè della nostra Città; e sarebbe meglio trattare con Sua Santità. Però confortiamo VV. SS. a fare ogni opera ridurla costì, che all’arrivar di questa saranno comparsi gli altri Oratori vostri colleghi e forse la potrebbono disporre.

Noi habbiamo le medesime commessioni che hanno le SS. VV. e crediamo fare poco frutto. E questo esercito si fa innanzi predando e bruciando tutto il Paese; il che non passa senza carico di Sua Beatitudine, essendo sua patria. Le allegate lettere di VV. SS. le mandammo stamani di buon’hora alli signori Dieci. Nè altro, salvo che del continuo a VV. SS. ci raccomandiamo. Di Feghine, a’ 30 di settembre 1529.

Portò il Selbastrella cavallaro del Papa.

Nº V. (Vedi pag. 291.)

Le cinque Lettere che seguono, scritte da Ferrante Gonzaga al Marchese di Mantova suo fratello, contengono un ragguaglio circostanziato della battaglia di Gavinana e della morte del Ferrucci. Le pubblicò il signor Eugenio Albèri, e noi le riproduciamo con qualche maggiore esattezza di lezione sopra il codice 595, classe XXV, della Magliabechiana, già Strozziano, c. 117 e segg. La prima, la terza e la quarta erano state già riferite dal Varchi; ma due di queste (la prima e la quarta) mancanti di una parte molto importante, che il grave Storico dell’assedio credè forse potere omettere come quella che nulla aggiungeva a dimostrare le intelligenze di Malatesta col campo nemico, unico fine pel quale egli le produceva. La seconda e la quinta con i suoi due allegati, mancano [378] affatto nel Varchi: e questi tre ultimi documenti sono forse i più autentici che ci rimangano intorno agli estremi momenti del Ferruccio e alla battaglia di Gavinana.

All’Eccellentissimo Signor Federigo Gonzaga Duca di Mantova don Ferrante Gonzaga suo fratello.

I.

Per dar parte a V. E. del successo delle cose, di questi giorni passati nacque un certo maneggio d’accordo, il quale sino a quest’ora si era ristretto di sorte, che credevamo per cosa certa che dovessi seguire; del che poi è successo il contrario, ed oggi la pratica si è rotta in tutto, di sorte che avemo perso ogni speranza di venire più in futuro a parlamento alcuno d’accordo. La pratica ebbe principio in questo modo. Un capitano di quelli della terra, nominato Cencio Guercio amico del signor Pirro da Castelpiero, venendo a parlamento con alcuno de’ nostri, gli ricercò che volessero fare intendere da sua parte al signor Pirro, che volesse venirgli a parlare, e che aveva da dirgli cose d’importanza. Il quale signor Pirro essendovi andato, con licenza del signor Principe, trovò costui aver commissione dal signor Malatesta di procurare col mezzo del signor Pirro, che ’l prefato signor Principe volesse mandare un uomo drento col quale potesse trattare d’accordo, che sperava che dovesse venire a qualche buona conclusione. Il signor Principe inteso questo, fece venire a sè questo Cencio Guercio, dal quale avendo inteso il medesimo di sopra, lo rimandò drento con ordine di rispondere al signor Malatesta, che sarebbe stato contento di mandare drento un uomo che lui ricercava, ogni volta che da Sua Signoria gli fusse data prima la fede, che il partito di tor drento le Palle fusse accettato in forma, come stavano prima. Fu risposto dal signor Malatesta, che S. E. volessi contentarsi di mandar drento la persona mia, con ordine di parlare a quel popolo nella forma che da lui mi fusse detto, e con minacciarlo che, se in quel punto non si fusse ridotto a concordia, che non isperasse più rimedio alcuno alla sua rovina, atteso che da quel punto innanzi non saria stato in potere di S. E. il salvarli, nè di tenere i soldati che non saccheggiassino la terra; con altre cose pensate da lui a proposito di questo; dando intenzione che, facendo S. E. questo, saria per seguire l’accordo nel modo che da lui era ricerco, senza però volere promettere la fede del patto che dal signor Principe fu nel primo capitolo addimandato, nè dare altra chiarezza dell’esito del maneggio, che è quanto V. E. intende. [379] Onde, considerato il signor Principe di quanta importanza saria a S. E. ed a tutto l’esercito l’avermi mandato per questo maneggio, quando poi non fusse seguìto l’effetto, si risolvette in questo, di ritornare a rispondergli con questo argomento: che non era per farlo, se prima Sua Signoria non gli chiariva il punto di torre drento le Palle; promettendo che, poichè di questo fosse certificato, in ogn’altra cosa si saria mostrato tanto favorevole a quella città, quanto per lui si fusse potuto. E con questa risoluzione avendo mandato drento il signor Pirro prefato, dopo due giorni, oggi, è ritornato disconcluso in tutto, che di ciò il signor Malatesta non vuole fare niente, nè intendere più cosa alcuna in maneggio d’accordo. La qual risposta, così risoluta e gagliarda, è discrepante molto dall’impressione e indizio fatto da noi dell’inclinazione di quel popolo a quest’accordo. Per questo motivo fatto dal signor Malatesta, e per quello che ci detta la ragione dell’estrema necessità che drento si pate, la quale nei progressi di questo maneggio avevo scoperta, per relazione di loro medesimi, essere intollerabile, ci fa molto maravigliare, e pensare che tal risposta non possa da altro procedere, che da qualche fresca speranza, che abbiano per transito di Francia in Italia per loro soccorso; il che essendo così, et avendone V. E. notizia alcuna, come ragionevolmente deve avere, la supplico, per quanto gli è cara la mia servitù, a volermene dare avviso.

P. S. — Mi era scordato di dare notizia a V. E. di certe lettere che nuovamente sono state intercette di questi signori Fiorentini, indiritte al Commissario Ferrucci residente in Volterra, per le quali se li ordinava che con quelle genti che aveva, lasciati 400 fanti per guardia della terra, si spignesse alla volta di Pisa per il cammino di Livorno, e si unissi con le genti che quivi si trovavano, lasciate nella terra otto compagnie per guardia; dipoi tutta la massa, la quale facevano conto che dovesse compire il numero di 4000 fanti a piedi et a cavallo....[260] dovesse marciare alla volta di Pistoia e di Prato verso Firenze, con avvertenza di fare ogni opera se per transito avesse potuto occupare una di dette terre, e quivi si dovessi fermare con le genti; in caso che no, seguitassi il cammino alla volta di Fiesole, con disegno poi di quindi condursi drento Firenze. Il qual disegno apreso dal Principe, mandò subito a Fabbrizio Maramaldo, il quale si trovava alloggiato con il suo colonnello per quei luoghi intorno a Volterra, che fusse avvertito, che quando quella gente uscisse fuori di là, ei si transferissi subito con quella gente ad alloggiare a Prato e Pistoia, con disegno poi, quando s’intendesse venire la massa di verso Pisa, esserli alle spalle con tanto numero d’altra gente dell’esercito che bastasse ad espugnare quella dei nemici.

[380]

Questa sera, 16 del presente, ha avuto nuova il signor Principe, che detta gente di Volterra è uscita fuori marciando alla volta di Pisa, e che il Maramaldo se gli è messo alla coda con animo di venir seco alle mani, e di romperla prima che sia congiunta con quella di Pisa. Nondimeno, pensando che tal disegno non possa riuscire, gli ha mandato ordine che, fatto ch’egli abbia prova d’impedire l’unione di detta gente, non venendogli fatto, si debba mettere in Vico Pisano su la fiumara, lontano da Pisa dieci miglia, dove detta gente bisogna che passi; e quivi, unitamente con il colonnello del signor Alessandro Vitelli, il quale si trova di presente alloggiato con quei fanti Spagnuoli ammuttinati che si trovavano pur quivi intorno, faccia prova di negare loro il passo, e non potendo, gli sia alle spalle sino che venghino ad incontrare S. E., la quale ha fatto disegno d’aspettarli in quei confini di Pistoia con 3000 fanti eletti, 500 cavalli leggieri, e la gente d’arme, alla quale ha mandato subito ordine che senza indugio debba andare ad alloggiare a Prato, per togliere detta gente de’ nemici in mezzo, e rompere loro la testa, come ho speranza che venga fatto, accadendo che essi seguitino il detto disegno, notato per lettere intercetto. Di quello che seguirà alla giornata V. E. sarà di mano in mano ragguagliata.

Sono di poi state intercette altre infinite lettere in cifra mandate di Francia a Firenze, le quali subito il signor Principe ha mandate alla Santità di Nostro Signore, non avendo potuto di quelle ritrarre altro senso, se non che il Cristianissimo doveva mandare un uomo a quella Signoria per comporre seco loro le cose di questa città; la qual cosa avendo S. E. mostrato d’avere molto per male, se n’è risentito qui aspramente con questi agenti del Papa, dicendo che, quando Sua Santità voglia intendere in questo, faria un grandissimo torto alla Maestà Cesarea, e mostreria una grande ingratitudine, che delle fatiche e dispendi di quella volesse ora dare il tratto ad altri, e che ciò non saria comportato. Per detti agenti gli è stato risposto, che di ciò S. E. stia sicura, che il Papa non mancherà di quello che è conveniente al debito verso l’Imperatore. E questo è quanto mi occorre per notizia di V. E., alla quale bacio le mani.

Di sotto Firenze, 16 luglio 1530.

II.

Tutta questa notte siamo stati in aspettazione che gl’inimici dovessero escire fuori di Firenze per darci un assalto, come fummo avvisati che si apparecchiavano di fare, per quattro spie uscite ieri fuori l’una dopo l’altra. Certa cosa è che tutto il dì di ieri non attesero ad altro che a fare dimostrazione dentro, con dare l’armi [381] al popolo e le tratte delle munizioni, e andare intorno alla terra ieri sera con infiniti lumi fuori dell’usato, cose tutte che ci facevano indizio di quanto riportorno le spie; ma non essendo poi seguito effetto alcuno di ciò, non sappiamo indovinare a che fine fussero fatte. Dentro patono all’usato, crescendo ogni dì tanto la necessità di tutte le cose, che alfine saranno sforzati a soccombere, e ben presto, poichè da tutte le bande si vedono derelitti. Da Napoli ci son nuove che il Marchese del Vasto si trova indisposto, ed il Conte di Nugolara si trovava presso a morte.

Dal campo sotto Firenze, alli 23 di luglio 1530.

III.

Ier mattina uscì di Firenze un Bino Signorello, parente del signor Malatesta, sotto pretesto di volere andare a Perugia, e per il transito si lasciò uscire di bocca parole che furono principio al maneggio d’accordo; e dopo molte pratiche fatte, essendo intrattenuta la cosa fin ad oggi, fu concluso che il prefato Bino scrivesse al signor Malatesta avere operato col Principe, che l’uno e l’altro di loro s’avessero ad abboccare insieme in certo luogo fuori delle mura poco lontano dalla terra, e così fu fatto. Questa sera s’aspettava il trombetta fuori colla risposta del signor Malatesta, se si contentava di questa conclusione, o sì o no, il qual trombetta non è venuto. Oggi abbiamo avviso da Napoli, che il Conte di Nugolara per grazia di Dio è fuori di pericolo, e che presto egli è per ricuperare la sanità. Del signor Marchese dicono che il male sarà un poco lungo.

Di sotto Firenze, alli 25 luglio 1530.

IV.

In questo mezzo è successo, che avanti ieri fu al signor Principe quel Cencio Guercio mandato dal signor Malatesta Baglioni, il quale altre volte è usato uscire fuori per queste pratiche d’accordo, ed ha fatto intendere a S. E, che il signor Malatesta era tornato a ricercare quel che altre volte era stato per lui ricercato, di mandare la persona mia a parlare a quelli eccelsi Signori nella forma che di quivi mi fussi ordinato, promettendo, in luogo di quella condizione che domandava S. E. (di prometterli che il punto di tor drento le Palle sarebbe accettato), una delle cose seguenti; o che essi Signori di buona voglia accetterebbono le Palle, o che uscirebbe di Firenze esso con tutta la gente da guerra, che sariano in numero di 5000 uomini. Fu a questa risposta detto che si contenteria di farlo, e tornato drento con tal conchiusione el prefato [382] Guercio, mandò S. E. un trombetta a domandare il salvocondotto a quelli Signori per la mia sicurtà; li quali (come coloro che di tal materia non avevano notizia alcuna) risposero che prima che concedessero detto salvocondotto, volevano mandar fuori un loro cittadino per intendere quello che S. E. intendeva fare proporre a quella città; ed essendo stato concesso detto salvocondotto, con consulta e licenza del signor Malatesta, uscì fuori detto cittadino nominato Bernardo da Castiglione. Al quale fatto intendere S. E. che l’intenzione di voler mandare non era altro che per volere esortare quel popolo a volere ridursi all’accordo, prima che il volerlo vedere rovinare in tutto; fu in questa sentenza da lui dichiarato e risposto apertamente, che se questo accordo seguisse, di venire a condizione alcuna d’accettare drento le Palle, non ne parlasse più oltre, perchè quella città aveva determinato non volere di ciò intendere parola; ma in ogni altra cosa che si fusse addomandata a servizio dell’Imperatore, si disporrebbono di buonissima voglia; e senz’altra conclusione ritornato drento, non s’è di poi inteso altro. Stassi aspettando che risolva il signor Malatesta, parendo già si sia legato, per quello che ho detto di sopra, di quanto è passato per il detto Cencio col signor Principe.

Partito il presente cittadino dal campo, poco di poi vennero avvisi che il Commissario Ferrucci era uscito con la gente di Pisa e marciava verso Pescia, e che drento in Firenze si faceva apparecchio d’uscir fuori ad assalire il campo con tutta la forza di quella città. Per il che S. E. concluse d’andare in persona contra il Ferruccio, e lasciare il contrasto a me con quelli della terra; ed essi quello partito iersera con mille lanzichenech, mille spagnuoli, e altri tanti italiani. Restai io qui, dove tutta la notte siamo stati in espettazione che detti nemici dovessero uscire, e mai è uscito uomo. Questa notte il signor Principe ha rimandato mille spagnuoli a tempo, con avviso, che gli pare avere gente a bastanza con quelli di Fabbrizio Maramaldo, per combattere detto Ferruccio; il quale dicono avere circa 4000 fanti e 300 cavalli leggieri, e che marcia verso la Valle di Nievole. Di quello succederà ne darò avviso a V. E.

Data nel campo Cesareo sotto Firenze, 2 agosto 1530.

V.

L’E. V. intenderà quello che nelle qui allegate[261] si contiene, le quali ho intrattenute fino a quest’ora per potere dare notizia dell’esercito di questo Ferruccio; del quale questa mattina avemmo [383] avviso essere stato alle mani con li nostri, in un castello non molto lontano da Pistoia, detto Cavinana; il quale essendo parimente occupato dall’una parte e l’altra, durò la pugna ivi dalle 19 ore fino passate le 22; e dopo molto contrasto fatto quivi, con poco vantaggio d’alcuna delle parti, essendo ridotta la pugna fuori della terra, quivi li nostri restorno in breve superiori, fatto tanta strage delli nemici che pochi restorno che non fossero morti o prigioni, fra’ quali fu il signor Giovanpaolo da Ceri, il signor Amico d’Arsoli; il commessario Ferruccio fu morto. Ma per grande che questa vittoria sia stata (importando indubitatamente il fine dell’impresa), ha recato più cordoglio che allegrezza, per la perdita del signor Principe, il quale per aversi voluto trovare ne’ primi combattimenti restò morto; cosa che universalmente a tutto questo esercito è dispiaciuta molto; specialmente a me per aver perduto un buon amico e signore, e tanto servitore quant’era a S. M., e non meno buon fratello di V. E., alla quale non dubito che a essa ancora ne peserà per tutti questi rispetti. Di quello che seguirà da qui innanzi farò che quella sarà avvisata, restando a me il carico di questo esercito, pure per ordine del prefato signor Principe quando partì di qua. Si manda il presente gentiluomo a S. M., che provveda di detto esercito come gli pare.

Del campo Cesareo sotto Firenze, 5 agosto 1530.

6 agosto 1530.

Questa è per darvi avviso della fazione fatta per il Ferruccio contro al Principe d’Oranges, Fabbrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli, e tutta la fazione Panciatica, cioè la città e la montagna di Pistoia, et un numero di circa sette o otto mila fanti e 1500 cavalli; e quelli del capitano Ferruccio non aggiungnevono a 3000 fanti e 400 cavalli. E’ partirono di Pisa il dì primo d’agosto e arrivorno al Ponte a Squarciabocconi, e dipoi a Collodi e Medicina e Calamecca, et a dì 3 detto partitisi, arrivorno a San Marcello e presonlo per forza ed abbrucioronlo, e dimororno lì circa un’ora e mezzo e non più, non pensando che tanti eserciti fossero loro contro, per non avere gente a piè e non stimare il nemico, credendo fosse solo Fabbrizio Maramaldo e Alessandro Vitelli e la parte Panciatica. Et in quello stante arrivò il Principe con li cavalli, e prese Cavinana e abbruciolla. Inteso che ebbe questo il Ferruccio, messe in battaglia tutti i suoi a 7 per fila et andò alla volta di Cavinana, e giunto lì, gagliardamente si affrontò smontando a piè con l’arme bianca indosso e una stradiotta in mano, combattendo valorosamente, et il Principe, il medesimo; entrorno drento per forza, ma furno ributtati due o tre volte. Dipoi mille lanzichenech, che erano fuori di Cavinana in sul monte, e quelli di Fabbrizio nel fiume, i quali lanzichenech dettono per fianco alla coda di quelli del Ferruccio, [384] e subito li roppono e ne feciono assai prigioni, quelli del Maramaldo e lanzichenech n’ammazzorno assai. Vero è che il Ferruccio roppe tutti i cavalli del Principe. E morì il Principe et il Ferruccio. Il signor Paolo è prigione del signor Alessandro Vitelli, et il capitano Cattivanza è ferito d’una archibugiata in una gamba, ed è prigione con di molti altri capitani e uomini da bene. Et è stato ammazzato Pier Antonio Tonti da Pistoia e molt’altri, e fattine prigioni assai della fazione Cancelliera. Intendesi che il Ferruccio aveva cento trombe di fuoco lavorato; ma tanto fu la cosa presta che non le poterono adoperare, perchè erano sui muli ne’ corbelli, e le mozzore legate.

Lucca, 4 agosto 1530.

Prima vi sarà pervenuto agli orrecchi, come il Ferruccio, domenica notte a tre ore, partì di Pisa con 3000 fanti e 300 cavalli e 12 moschetti e vettovaglia per tre giorni, e 4 muli carichi di polvere e tre some o quattro di scale, e benissimo in ordine. Il giorno seguente si avvicinò la sera a Pescia, a due miglia, dove mandò a domandare passo e vettovaglie, il che gli fu denegato; e la notte andò ad alloggiare ad un castello de’ Lucchesi detto Medicina, e di là si partì l’altra mattina per la via del monte, che potea condursi al Montale et ancora a Vernio, per passare in Mugello. Questi imperiali, subito che ebbono notizia della sua uscita, ciascuno fece l’uffizio suo. Il signor Principe dal campo venne a Pistoia con 2000 fanti e 1000 cavalli, così Fabbrizio Maramaldo, Alessandro Vitelli ed il conte Pier Maria di San Secondo, che in tutto si trovorno gl’imperiali 7000 fanti ridotti in Pistoia; e si deliberorno d’andare ad impedirli la via, e gli messono alla coda il Bracciolino con mille fanti. E ieri, ad ore 19, il Principe dette drento, dov’egli restò morto e la sua banda quasi rovinata, insieme con la cavalleria. E dipoi si mosse Fabbrizio insieme con gli altri, i quali messono in rotta il Ferruccio e le sue genti, la maggiore parte delle quali è destrutta. E Fabbrizio di sua mano ammazzò il Ferruccio, che avevono a saldare insieme qualche conto vecchio. Il signor Gio. Paolo e Cattivanza prigioni; et insomma quello che mancassi, i villani faranno adesso loro offizio. Pare a questi uomini savi, che a Firenze abbino ad avere così grandissimo dispiacere della morte del Principe come della rovina delle genti loro e del Ferruccio; perchè, come sapete, il Principe aveva la pratica dell’accordo, che ad esso saria stato facile cosa conchiuderlo in breve tempo.

[385]

Nº VI. (Vedi pag. 319.)

ORAZIONE DI PALLA RUCELLAIO RECITATA NEL COSPETTO DI CARLO V IMPERATORE PER NOME DELL’ECCELSA REPUBBLICA FIORENTINA.

(Codice nº 102, manoscritto appresso di noi.)

Per vetustus mos fuit apud Maiores nostros Florentinos, Carole Caesar Imperator Auguste, summos atque optimos Imperatores et colere semper et summopere venerari. Quod si quis unquam magnus Rex fuit, si quis virtute praeditus Imperator, ea claritudo est parentum avorum proavorum maiorumque tuorum, qui omnes aut Reges maximi aut Imperatores optimi fuerunt, is splendor celsitudinis tuae, ea perspicua argumenta divini favoris fidem omnibus facientia, te a deo optimo maximo electum ac de coelo missum ad resarciendas labentis orbis terrarum ruinas, ut nemini dubium sit Florentinum Senatum in te colendo numquam pro more suo agere posse, numquam animo ac voluntati suae satisfacturum. Accedunt ingentia beneficia peculiariter in Civitatem Civesque nostros collata atque eos Cives dicimus qui se ac patriam suam in tutelam tuam collocarant, qui sine te, invictissime Imperator Carole, salvi esse non poterant: quibus tu post annuam obsidionem, post multos bellorum casus, post indignam fortissimorum tuorum Ducum in ipsa victoria caedem, patriam, parentes, liberos vitam denique ipsam restituisti. Ob haec igitur et alia multa a te accepta beneficia quae sigillatim explicare hujus loci ac temporis non est, acturi gratias Florentini Senatus nomine Celsitudini tuae, Carole Caesar Imperator Auguste; si pro immortalibus in patriam nostram meritis parum cumulate munus nostrum impleverimus, quaesumus obtestamurque Celsitudinem tuam, ne solum imbecillitati ingenii nostri, quod pertenue esse cognoscimus et dolemus, verum multo magis magnitudini beneficiorum tuorum tribuendum putes. Quid nam sapientius aut rebus christianis armorum ac temporum iniuria afflictis conducibilius salubriusque excogitari poterit, quam illud divinum consilium, quo nobis Christianis omnibus consuluisti. Nam post plurimas insignesque de hostibus tuis victorias quibus tu numquam animo elatior factus, Italiae pacem et Principum Christianorum concordiam totis viribus procurasti; cum omnis adhuc Italia armorum terrore quateretur, neque ullus calamitatum finis appareret, consociatis repente Consiliis cum Clemente VII Pontifice [386] Maximo, utroque foedere, ac renovata amicitia, inita et cum eo affinitate, ex Hyspania in Italiam navigasti: quo eodem tempore compositis rebus cum Francisco Gallorum Duce in Cameracensi conventu per illas numquam satis laudatas heroinas quae ambae in Coelum receptae tum praeclari facinoris nunc debitam mercedem recipiunt; Ianuam appulsus nihil animo potius habuisti quam reliquas Civitates et Principes Italiae pacatissimos reddere. Ad quam rem perficiendam cum Pontificis Maximi praesentia multum conferre visa esset, protinus relicta urbe Bononiam accessit exardens desiderio videndi Celsitudinem tuam, teque in tuo optimo proposito, nullo sane negocio confirmans, magnamque oneris huiusmodi partem in se suscipiens, primum sacris Imperii insignibus voluit exornare, imposita Augusto capiti tuo sacratissimis suis manibus aurea corona. Sequuta est interea Viennensis obsidionis solutio faedaque Turcarum strages et turpis fuga potiusquam discessus, quae victoria opportune divinitus tibi a Deo optimo maximo concessa, Venetos statim Pontifice Maximo, tuaeque Caesareae Maiestati coniunctissimos fecit. Receptus est etiam in tutelam et amicitiam tuam Franciscus Sforzia Insubrum Dux magna cum spe et populorum illorum letitia quod essent in pace et ocio rebus suis aliquando facituri. Reliqui erant Florentini apud quos pauci factiosi et scelerati parricidae aliquorum animos fictis vaticiniis superstitionibusque imbuerant quasi popularis status in ea Civitate superis gratissimus esset, alios opifices ac mechanicos artifices fecem impiam plebis Florentinae collatis Magistratibus ipsisque insolitis honoribus illexerant, iuventutem omnem armaverunt, ex legem quaecumque libuissent facere permiserunt, cunctorum denique animos rapinarum ac latrociniorum maxima spe impleverant, proscriptis nobilium bonis, ipsisque expulsis aut in carcere ad ultimum supplicium reservatis. Ita cum pretextu religionis ac libertatis in superstitiosam impietatem et execrabilem populi Thyrannidem induxissent coniecissentque, spreta ea obedientia obmissisque obsequiis, quibus Civitas Florentina solita est Sanctissimos Pontifices atque optimos Imperatores perpetuo prosequi, omnia prius extrema pati decreverant, quam in illo modo ad sanitatem redirent. Taceo quod aequas conditiones multoties propositus et a Pontifice et a te Caesar Invictissime, repudiaverint. Id nam manifestum ac luce clarius apparuit ex his quos postremo armis ac fame coacti accepère. Cum itaque rerum omnium nostrarum tuum esset arbitrium cumque propter arma in te tuumque Neapolitanum Regnum suscepta obstinatamque popularis illius status erga Pontificem Maximum, tuamque Caesaream Maiestatem contumaciam, omni ditione nostra jure privati essemus; restitutos in pristinam gratiam tuae Celsitudinis, ab omni noxa gratuito liberatos esse voluisti, solitisque immunitatibus frui omnibus permisisti, cives civitati, civitatem civibus, reddidisti, eamque formam Reipublicae nostrae [387] comprobasti quae cunctis bonis esset optabilis; in qua Alexander Medices Dux cui filiam tuam Margaritam altae indolis puellam in uxorem dedisti, primas partes veluti majores sui fecerant esset habiturus, tuoque e sanguine, divina favente clementia liberos procreaturus, qui Civitati nostrae summa cum laude in posterum praesint. Quamobrem tantum tibi Carole Caesar Imperator Auguste nos debere profitemur, ut parentes, liberos, patriam, vitam ipsam atque immortalitatis spem, nostraque omnia. Celsitudini tuae accepta referamus. Porge itaque Invictissime Imperator Carole, sanare reliqua christiani corporis vulnera, id quod assidue facis, ut post tuum ex Italia discessum, una cum fratre tuo Ferdinando iam Caesare declarato, validissimis Thurcarum viribus facilius, obsistere possis, ultimamque de his victoriam reportare. Ad haec procul dubio missus es vocatusque a Deo optimo maximo, ad haec te hortatur qui ejus in Terris vices gerit Sanctissimus Pater Clemens, nihil obmissurus cum reliquis Principibus Christianis quod in tanta re tuae Celsitudini opportunum esse videatur. Nos autem Florentini quamquam facultatibus spoliati ad nihilumque reducti, nihil praeter nuda corpora et animas polliceri possumus, nihilominus imperata facere parati erimus. In primis autem Alexander, gener tuus, ipse Dux, se ducem nobilium ac bonorum omnium prestabit ad retinendam in officio atque obsequio Civitatem erga Celsitudinem tuam, in cujus Tutelam, urbem, agros, Cives, nostraque omnia, id quod in mandatis habuimus, maximopere comendamus.

In ultimo è scritto nel Codice stesso:

Furono mandati Ambasciatori a Carlo Quinto Imperatore Palla di Bernardo Rucellajo et Francesco di Niccolò Valori da poi che l’Illmo Sig.e Duca Alessandro de’ Medici fu tornato da S. Maestà, et fatta la declaratione del Governo della Città, come si dimostra in questo libro de verbo ad verbum: e quali andorno a render gratie a Sua Maestà Cesarea et fargli reverentia come per la preallegata Orazione si dimostra composta et recitata per il prefato Palla.

Fine del Tomo Terzo ed ultimo.

[389]

TAVOLA DEI NOMI E DELLE MATERIE.

[La lettera A indica il tomo Primo; la lettera B il Secondo; la C il Terzo.]

A.

Abati. Uno di quella famiglia muore a Campaldino, A 87. Distruzione delle loro case, 130.

Abati Bocca. Taglia la mano a Iacopo de’ Pazzi che teneva l’insegna de’ guelfi a Montaperti, A 49.

Abati Migliore. Ambasciatore a Clemente IV, A 374-377.

Abati Neri. Suo maleficio nella persona di alcuni de’ Cerchi, A 109. Appicca il fuoco alle case di altri della sua famiglia, 130.

Abbondanza (Magistrato della), C 311.

Abbondanza (Ufficiali della), B 528.

Accademia del Cimento, B 431, C 334.

Accademia del Piano, C 331.

Accademia Platonica, B 427, 431. Trasferita dalla Casa de’ Medici negli Orti de’ Rucellai, C 118.

Accatti. — Ved. Gravezze.

Acciaiuoli. Seguono la parte dei Donati, A 107; e dei guelfi neri, 126. Hanno ducato nella Morea, B 142; e principato in Cefalonia, 218.

Acciaiuoli Agnolo, vescovo di Firenze. Commenda pubblicamente il Duca d’Atene, A 226. Capo della congiura dei grandi contro di lui, 231. Congrega il popolo in Santa Reparata, 235. Presso di lui s’adoprano i popolani affinchè i grandi non abbiano il Priorato, 238. Assolve di certe colpe Donato Velluti, 261.

Acciaiuoli Agnolo, cardinale. Con lui si scusa la Signoria del bando dato a Donato suo fratello, B 80.

Acciaiuoli Agnolo. Confinato, B 218. Restituito, 225. Sottoscrive la pace tra i Fiorentini e il Duca di Milano, 278. Ambasciatore a Niccolò V, 290. Gonfaloniere, 301. Oratore in Francia, 308. Sdegnato contro Cosimo de’ Medici, 331. Risoluto di abbattere Piero suo figliuolo, 332. Sue pratiche a tale effetto, 339. Confinato con i figliuoli, 342. Domanda a Piero de’ Medici d’esser rimesso in patria, 343. Questi vorrebbe richiamarlo, trovandosi all’estremo della vita, 351.

Acciaiuoli Alamanno. De’ Priori, nel tumulto de’ Ciompi, B 25. Si ostina a non voler lasciare il Palagio, poi cede, ivi.

Acciaiuoli Donato. Sua grande autorità in Firenze, e uffici da lui esercitati, B 78, 79. Pratica per riformare lo Stato, ivi. Confinato, 80. — Ved. Donato (San).

Acciaiuoli Donato. Oratore a Milano, B 363; a Roma, 380, 381, 389; in Francia, 390. Muore per via; onori resigli dalla Repubblica, ivi.

Acciaiuoli Francesco, ultimo duca d’Atene. Sua morte, B 325.

Acciaiuoli Margherita. Assegno dotale fattole dalla Repubblica, B 390.

[390]

Acciaiuoli Niccolò, gran siniscalco del Regno di Napoli. Mezzano nella compra di Prato fatta dai Fiorentini, A 260. Manda al loro servigio due galere armate a sue spese, 304. Viene in Firenze, 311. Sospetti che si destano contro di lui, e legge che si fa per ciò, ivi. — Ved. Certosa. Villani Matteo.

Acciaiuoli Niccolò. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Acciaiuoli Roberto. Oratore al Gran Capitano, C 98; al Re di Francia, 116. Egli e Francesco Guicciardini detti dal Varchi le due più savie teste d’Italia, 156. Imprigionato, 219. Sta fuori di Firenze e gli è intimato il ritorno, 249. Confinato a Volterra, ne diventa Commissario per il Papa, 278. Va a Roma, 279. Torna in Firenze, 312. Si adonta di sottostare a Baccio Valori, 313. Di un suo Discorso intorno alla riforma dello Stato, 321.

Accolti Benedetto, cancelliere della Repubblica, B 434.

Accolti Francesco, giureconsulto, B 434.

Accoppiatori, B 213, 225, 283, C 24, 25.

Accorso. — Ved. Bagnolo (da) Accorso.

Acquasparta (d’) Matteo. Legato del Papa in Firenze, A 109, 110, 111, 122. Protettore dei guelfi neri, poi li avversa, 123.

Adda. Sulle sue sponde celebrano i Fiorentini la festa di San Giovanni, B 67.

Adimari. Vanno in esilio, A 52. Loro brighe coi Tosinghi, 73. Seguono la parte dei Cerchi, 106. Traggono in aiuto della Signoria, 120. Due di loro cercati a morte; alcuni sbanditi e confinati, 124, 125. Arsione delle loro case, 130. La loro loggia ha nome la Neghittosa, B 80. È dato bando a un altro di loro, 81.

Adimari Antonio. Capo della congiura dei popolani contro il Duca d’Atene, A 231. Sostenuto in Palagio, 232. Fatto cavaliere dal Duca, 234. S’adopra affinchè i grandi non abbiano il Priorato, 238.

Adimari Bindo. Si sposa a una degli Ubaldini, A 61.

Adimari Buonaccorso. Dà per moglie a un suo figliuolo la figlia del conte Guido Novello, A 61.

Adimari Cavicciuli. Le loro case e torri, assalite dai popolani, si arrendono, A 240.

Adimari Cavicciuli Talano. Sostenuto in Palagio, n’è tratto da’ suoi consorti, A 138.

Adimari Forese. Capo dei fuorusciti guelfi di Toscana, A 55; e uno dei capi de’ grandi, 104.

Adimari Francesco. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Adimari Tegghiaio Aldobrandi. Consiglia di non muovere l’oste contro Siena, A 46. — Ved. Spedito.

Adriani Marcello Virgilio, cancelliere della Signoria, C 87.

Adriano VI. Fa lega con la Repubblica, C 161, 162.

Aguglione (d’) Baldo. Dichiara irrevocabile l’esilio di Dante, A 155.

Aguto (Hawkwood) Giovanni. Con lui patteggiano i Fiorentini, A 322. È ai loro stipendi, 331, 332, B 43. Caccia del contado di Firenze una compagnia di mercenari, 50. Sta a guardia della Piazza dei Signori, 53. Ottiene licenza, 57. Richiamato, 67. Sue imprese, ivi-71. Muore ed è grandemente onorato, 82. — Ved. Vettori Andrea.

Aiuti Mattia, notaro, B 558.

Alamanni Boccaccino. Ambasciatore a Francesco Sforza, B 193.

Alamanni Iacopo. Affronta Luigi Guicciardini gonfaloniere, e ferisce uno dei Priori, C 211. Ferisce un Ginori, 224. Decapitato, 225. Sue ultime parole, ivi.

Alamanni Luigi, poeta, C 156. Congiura contro Giulio de’ Medici, 157. Fugge ed è fatto ribelle, ivi. Gli è dato rifugio da Lodovico Ariosto in Garfagnana, ivi. È in Genova, 229. Esorta i Fiorentini a conciliarsi l’imperatore Carlo V, ivi. Viene in Firenze per commissione d’Andrea Doria, 230. Va con gli ambasciatori Fiorentini a Carlo V, 237. Raccoglie danari in aiuto di Firenze assediata, 286.

[391]

Alamanni Luigi, soldato. Congiura contro Giulio de’ Medici, ed è decapitato, C 157.

Albergati Niccolò, cardinale. Tratta la pace tra la Repubblica e il Duca di Milano, B 176.

Alberghettino. Nome di una prigione in Palagio, B 212. V’è rinchiuso Cosimo de’ Medici, da cui è detta la Barbería, ivi. V’è poi rinchiuso il Savonarola, C 53.

Albergotti Giovanni, vescovo di Arezzo. Vuol tradire alla Chiesa quella città, A 331.

Albergotti Lodovico. Ambasciatore della Repubblica a Milano, B 86.

Alberti (Conti). — Ved. Conti Alberti.

Alberti. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Si guadagnano il favore del popolo, B 60. Fanno grande apparato di feste per l’avvenimento di Carlo di Napoli al trono d’Ungheria, ivi. Privati degli uffici, 61. Accusati di congiura, 75. Banditi, 76. Altre condanne contro di loro, 81, 82, 147. Riabilitati agli uffici, 225.

Alberti Benedetto. Parte che ebbe nei moti del 1378, B 12, 19, 20, 24, 26, 34; dopo i quali resta dei capi dello Stato, 39. Sollecita l’esecuzione capitale di Piero degli Albizzi, 41. Si allontana da quelli della sua parte, 46. Oratore a Siena, 60. Fa parte della Balìa da cui vien confinato, 61. Sua fine, ivi.

Alberti Cipriano. Gonfaloniere, B 61. Accusato di congiura, 75.

Alberti Leon Battista, B 352, 432, 433.

Alberti Niccolò. Parla nelle Consulte, A 271. Sua ricchezza, e magnificenza delle sue esequie, B 60. I suoi figliuoli e discendenti sono esclusi da una condanna pronunziata contro quella famiglia, 505, 506.

Alberti Spinello di Luca. Privilegio a lui concesso, B 476. Suo ufficio ricordato, 485.

Albertinelli Francesco. Capitano al soldo della Repubblica, C 97.

Albigesi. — Ved. Paterini.

Albizzi. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Si adoprano perchè le Arti, già ridotte a quattordici, siano riportate a ventuna, 282. Loro contese coi Ricci, 286 e segg. Sono oriundi d’Arezzo, 287. Capi della Parte Guelfa, ivi. Di nuovo delle loro contese coi Ricci, 311. Segno della loro setta, 315. Le due sette si avvicinano, ivi. Non è vera amicizia tra le due famiglie, 317. Tre di loro e altrettanti dei Ricci esclusi a tempo da’ maggiori uffici, 318. Favoriscono gli Ubaldini, 320. Alcuni di loro mutano l’arme e il cognome, chiamandosi degli Alessandri, B 10. Potentissimi nell’Arte della lana, 77. Restituiti agli uffici, 498.

Albizzi Antonfrancesco. Partigiano de’ Medici, C 123. Commissario in Arezzo, 242. In campo contro l’Orange, 251, 361-364, 371. Confinato, 309.

Albizzi Bellincione. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Albizzi Luca. Segue la parte di Cosimo Medici, B 223, 224.

Albizzi Luca. Commissario in campo contro Pisa, C 70. Fatto prigione, si riscatta, ivi.

Albizzi Manno. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Albizzi Maso. Suo gonfalonierato, B 74-76. Si tenta d’ucciderlo, 80. Ambasciatore a Parigi, 85; a Roma, 93. Commissario in campo contro Pisa, 104. Torna, 105. Persegue gli Alberti, 147. Uno dei capi dello Stato, 150. Muore, ivi. Ricordato, 203, 204. Paragone tra lui e Rinaldo suo figliuolo, 204. Degli Accoppiatori, 516. — Ved. Visconti Gabriele Maria.

Albizzi Ormanno. Viene in Firenze, B 189. Brani di lettere scritte a lui da Rinaldo suo padre, 205, 206. Vuol manomettere Cosimo de’ Medici, 216. Confinato, 225.

Albizzi Piero. Capo della Parte Guelfa, con tutta la sua famiglia, A 287. Parla nelle Consulte, 290. Promotore della lega con Urbano V, 315; a cui va ambasciatore, ivi. Perde il Palagio dei Signori, ma gli rimane quello della Parte Guelfa, 318. Prevale la sua sentenza in un consiglio della Parte, B 10. Gli sono [392] arse le case, 13. È confinato, 14. Decapitato, 41, 42.

Albizzi Rinaldo. Dà il luogo per fabbricare lo Spedale degl’Innocenti, B 145. Discorso a lui attribuito, 161, 166. Tenta di trarre alla sua parte Giovanni de’ Medici, 167; poi gli si scuopre nemico, 169. Oratore al Papa, e a Venezia, 172. Commissario a Volterra, 184, 185. Dei Dieci della guerra, 188. Commissario in campo contro Lucca, 189, 191, 192. Paragone tra esso e Maso suo padre, 203, 204. Potestà di Prato, 205. Sue lettere ricordate, ivi. Vuole allargare nei Consigli il numero dei Richiesti, ivi. Avverso a Neri Capponi, ivi. Senatore di Roma, 206. Siede con Cosimo de’ Medici in una pratica eletta dalla Signoria, 212. Viene armato in Piazza, ivi. Quel ch’egli faccia e pensi dopo l’esilio di Cosimo, 217, 218, 221, 224. Confinato, 225. Sua risposta ad Eugenio IV, ivi. Elenco delle sue ambascerie, 535-542. Suoi sforzi per tornare in patria, 263-270. Muore, 270. Caso pietoso di una sua figliuola, 324. — Ved. Catasto. Gambacorti. Guadagni Bernardo. Parentucelli Tommaso. Scandalosi (Legge degli).

Albornoz (d’) Egidio. Manda il Vescovo di Narni a Firenze, A 294. Accenna a una congiura che quivi era per sovvertire lo Stato, 311. — Ved. Ricci Guglielmo.

Alderotti Buonaccorso. Sua lettera a Gino Capponi, ricordata, B 97.

Aldighieri Donato. Restituito, B 474.

Aldobrandi Bertino. Suo duello con Dante da Castiglione, C 271.

Aldobrandi Tegghiaio. — Ved. Adimari Tegghiaio.

Aldobrandini. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126.

Aldobrandini Silvestro. Confinato, C 309. — Ved. Medici Caterina.

Alessandri. Nelle loro case andava la Signoria a vedere il palio di San Giovanni, B 10.

Alessandri Alessandro. Stipite della sua casata, B 25.

Alessandri Alessandro. Oratore a Niccolò V, B 290.

Alessandri Ginevra. Moglie di Giovanni di Cosimo de’ Medici, B 326.

Alessandria d’Egitto. Vi va la prima galea mercantile dei Fiorentini, B 141; e privilegi ch’essi vi ottengono, ivi.

Alessandro IV. Gli duole la sconfitta dei Fiorentini a Montaperti, A 52.

Alessandro V. Con lui sono in lega i Fiorentini, B 127. È in Prato e in Pistoia, ivi. I Fiorentini sollecitano la sua andata a Roma, 128.

Alessandro VI. Sue relazioni coi Fiorentini, concernenti il Savonarola, C 45-49, 54-58.

Alfonso I e II re di Napoli. — Ved. Aragona (d’) Alfonso I e II.

Alidosi. Raccomandati della Repubblica, B 156.

Alidosi Obizzo. Capitano del Popolo in Firenze, B 47.

Alidosi Taddeo. Manda gente in aiuto della Repubblica, B 345.

Alighieri Dante. Si trova a Campaldino, A 85. È de’ Priori, 110. Oratore al papa Bonifazio VIII, 114. Suo odio contro il medesimo, 123, 124. Sentenze contro di lui, 125. Sottoscrive il trattato dei fuorusciti bianchi con gli Ubaldini di Mugello, 133. Biasima la mossa dei fuorusciti contro Firenze, 136. Sua vita e opere, 165-171. Ambasciatore a San Gimignano, 166, 391. Prime edizioni del suo poema, ricordate, B 458. — Ved. Arrigo VII. Aguglione (d’) Baldo. Niccoli Niccolò. Romena (da) Alessandro.

Alpi. Riforme di quel Vicariato, B 484, 493.

Altafronte (Castello di). Rovina, A 210.

Altopascio. Si arrende ai Fiorentini, A 193; che vi son rotti da Castruccio, ivi. Preso dai Pisani, 304.

Altoviti. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Uno di loro è fatto decapitare dal Duca d’Atene, 224.

Altoviti Bardo. Va a capitolare nel Campo Cesareo sotto Firenze, C 299.

[393]

Altoviti Bindo. Bandito, B 81.

Altoviti Caccia. Sta a guardia della Porta a San Pier Gattolini, nell’Assedio, C 298.

Altoviti Palmieri. Ambasciatore a Milano, B 86.

Altoviti Stoldo. Devoto di Caterina da Siena, A 337.

Alvernia. Ricca d’opere dei Della Robbia, B 239.

Alviano (d’) Bartolommeo. Vuol rimettere i Medici in Firenze, C 40. Rotto dai Fiorentini, 98.

Ambasciatori. Loro elezione, ufficio, salario, A 388, 389. Riforma, B 494, 495.

Ambrogio (Sant’). Consacra la basilica di San Lorenzo, A 3.

Amidei. Loro vendetta contro Buondelmonte dei Buondelmonti, A 26, 27. Si ricovrano in Siena, 41. Non possono tornare in Firenze, 76. Arsione delle loro case, 131.

Amidei Lambertuccio. Prende parte all’uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti, A 27.

Amieri. Arsione delle loro case, A 131. Falliscono, 190.

Ammannati Iacopo. Sue lettere a Lorenzo de’ Medici, e a Sisto IV, ricordate, B 361, 391.

Ammirato Scipione. Accusa il Machiavelli di molti errori e alterazioni nelle sue Storie, B 343.

Ammonizioni. Che cosa fossero, A 286. S’accrescono grandemente, 338, 339. — Ved. Capitani di Parte Guelfa.

Andalò Lotteringo, frate Gaudente. Potestà ghibellino di Firenze, A 57-61. — Ved. Malavolti Catalano.

Angeli (Frati degli). Il loro convento è messo a ruba dal popolo, B 13.

Angelico frate Giovanni, B 238, 239.

Angelo di ser Andrea, notaro, A 399.

Anghiari. Occupato da Vitellozzo Vitelli, C 77. Assalito da Francesco Maria della Rovere, 141. — Ved. Tarlati Marco.

Anghiari (d’) Baldaccio. Al soldo dei Fiorentini, B 201. Mandato da essi in aiuto dei Genovesi, 252. Sua morte, 275, 276. S’indagano le cagioni di essa, 276-278.

Angiò (d’) Carlo I. I Fiorentini gli danno la signoria della città, A 62. Suo ordine circa i beni dei ghibellini ribelli, 64. Espugna Poggibonsi, 67. Suo soggiorno in Firenze, ivi. Privato dell’ufficio di Vicario imperiale in Toscana, 73. I Fiorentini gli mandano aiuti per ricuperare la Sicilia, 75. — Ved. Monforte (di) Guido.

Angiò (d’) Carlo II. Dà alla Repubblica cento de’ suoi cavalieri, A 84.

Angiò (d’) Giovanni. Dimora a lungo in Firenze, B 309. Parte, e gli son fatti gran doni, 312. Richiede di lega i Fiorentini, 323. La parte avversa ai Medici vuol richiamarlo, 339.

Angiò (d’) Lodovico. Ordina rappresaglie contro i Fiorentini, B 57.

Angiò (d’) Luigi. Chiamato in Italia dai Fiorentini, B 127. Riceve in Prato i loro ambasciatori, 130.

Angiò (d’) Renato. Viene in Firenze, B 285. Torna in Italia a istanza della Repubblica, 309. — Ved. Pazzi Andrea.

Angiolo (Insegna dell’), data dal Duca d’Atene ai mestieri soggetti all’Arte della lana, B 16, 30.

Antellesi. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126.

Antinori Giovanfrancesco. S’arma contro la Signoria, C 298.

Antonino (Sant’). — Ved. Pierozzi Antonio.

Antonio di Domenico, monaco in Cestello, B 556.

Anziani. Loro governo, A 35 e segg. — Ved. Buonuomini.

Apparita, luogo presso Firenze. Vi giunge il Principe d’Orange, C 255.

Appiano. Quella famiglia è in tutela della Repubblica, B 104, 156.

Appollonia (Madonna). Bandita da Firenze, B 247.

Approvatori dei bandi, B 485.

[394]

Approvatori degli Statuti delle Arti. Loro riforma, B 482.

Aquileia (Patriarca d’). Con lui praticano gli oratori fiorentini mandati a Carlo IV, A 266.

Aragona (d’) Alfonso I re di Napoli. Fa guerra alla Repubblica, B 288, 291-294, 307.

Aragona (d’) Alfonso II duca di Calabria poi re di Napoli. Viene in aiuto dei Fiorentini, B 346. Li combatte, 385 e segg. Vieta loro la ricuperazione dì Sarzana, 400. È in buone relazioni con Lorenzo de’ Medici, 401. Offre alcuni Stati nel Regno a Piero de’ Medici che li ricusa, C 4.

Aragona (d’) Ferdinando I duca di Calabria poi re di Napoli. Fa guerra alla Repubblica, B 307. La ricerca di lega, 323. Fa elogio di Lorenzo de’ Medici, 352. Con lui rinnovan lega i Fiorentini, 362. Promette aiuto alla Congiura de’ Pazzi, 371. Conforta la Repubblica a rendere al Papa il Cardinale Riario, 381. Le fa guerra, 385 e segg. Manda due galere per condurre a Napoli Lorenzo de’ Medici, 396. Fa pace con lui e con la Repubblica, 399. Soccorso dalla Repubblica nella guerra contro i Baroni, 416, 417.

Aragona (d’) Ferdinando il Cattolico. Legazione della Repubblica a lui, ricordata, C 102. Si accorda con essa, 104. Va oratore a lui Francesco Guicciardini, 116.

Aragona (re d’) Iacopo. Stimolato dai Fiorentini a occupare la Sardegna, A 143.

Aragonesi Niccolò di Pisa. Caso occorso in sua casa, B 523.

Ardinghelli famiglia, A 393, 394.

Ardinghelli Pietro, segretario di Leone X. Suoi copialettere, ricordati, C 348. Prepara e sottoscrive l’atto di un trattato tra il Papa e Carlo V, 353, 357. Sollecita la sottoscrizione di un altro trattato col Re di Francia, 354.

Aretini. Collegati coi Conti Guidi, A 15. In guerra con la Repubblica, 84 e segg. Sconfitti a Campaldino, 87. Vengono contro Firenze, 134. Mandano aiuti ad Arrigo VII, 158. Si danno al Duca d’Atene, 227. Mandano a regalarlo, 230. Tornano a libertà, 237. Loro indipendenza mantenuta da un articolo del trattato tra i Fiorentini e Carlo IV, 270. Fanno lega con la Repubblica, 324. Brano di una lettera dei Fiorentini a loro, 331. Si ribellano, C 77. Tornano all’obbedienza, ivi. Accolgono il principe d’Orange, 242. Altre notizie di essi durante e dopo l’assedio di Firenze, 311.

Arezzo. Vi si raccolgono i fuorusciti fiorentini, A 133. Sua fortezza e bastia, 214; poi distrutte, 237. Tentato dal re Ladislao di Napoli, B 124, 125. In pericolo d’essere occupato da Niccolò Piccinino, 198. — Ved. Albergotti Giovanni. Coucy (di) Enguerramo. Donato (San). Tarlati Pier Saccone.

Arezzo (Vescovo di). — Ved. Pazzi Cosimo, Ubertini Buoso.

Arezzo (d’) Leonardo. — Ved. Bruni Leonardo.

Argiropulo. Maestro di Lorenzo dei Medici, B 352.

Armagnac (d’) Bernardo. Chiamato dai Fiorentini in Italia, B 85.

Armagnac (d’) Giovanni. Denari datigli dalla Repubblica, B 68.

Arnolfi Onofrio. Oratore al Papa e al Re di Napoli, B 84.

Arnolfo, architetto. Sue opere, A 178, 179.

Arrabbiati. Chi fossero, C 47. Trionfano sui loro avversari, 53 e segg. Come volessero ordinare lo Stato, 216.

Arrighetti Azzo. Esule in Francia, A 65. Da lui deriva la famiglia dei Mirabeau, ivi.

Arrigo IV. Assedia Firenze, A 8, 9.

Arrigo VI. Crea duca di Toscana Filippo suo fratello, A 18.

Arrigo VII. Opinione ch’ebbero di lui Dante, Dino Compagni e il Villani, A 145, 146. Manda oratori a Firenze, 146. Lettere di Dante a lui, ricordate, 149. I Fiorentini gli suscitano dei nemici, 150. Egli fa processi contro di loro, 153. Assedia [395] Firenze, 157. Si leva, 158. Pone l’oste a San Casciano, indi a Poggibonsi, 159. Dichiara ribelli all’Impero i Fiorentini, ivi

Arrigo duca di Baviera. Assedia e prende Firenze, in compagnia d’uno de’ Conti Guidi, A 12, 13.

Arsoli (d’) Amico. Sua morte, C 295.

Arti (Corporazioni delle), A 22, 23. Loro nomi e insegne, 58, 59, 138. Il Duca d’Atene ne disfà gli ordinamenti, 228. Resta ad esse il governo, cacciati i grandi, 242, 275. Riportate da quattordici a ventuna, 282. Notizie di esse durante i moti del 1378, B 12 e segg. Distribuzione degli uffici tra esse, 35, 36. Prevalenza delle minori, 37 e segg. Nuova distribuzione degli uffici; prevalenza delle maggiori, 49 e segg. Diventano un nome vano nei congegni dello Stato, 148. Si vuol ridurne il numero, 357. Loro ordine, 524. Fanno la mostra per la festa di San Giovanni, 531. Se ne vendono gl’immobili, C 252; ch’esse poi ricuperano, 309. — Ved. Consoli o Capitudini delle Arti. — Ved. anche per le principali i loro rispettivi nomi.

Ascoli. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Ascoli (d’) Francesco. — Ved. Stabili Francesco.

Assisi (Vescovo d’). È del Consiglio del Duca d’Atene in Firenze, A 230.

Assisi (d’) Guglielmo. Conservatore in Firenze per il Duca d’Atene, A 230. Ucciso lui e un suo figliuolo, 235.

Atene (Duca d’). — Ved. Brienne (di) Gualtieri.

Attendolo Micheletto. Al soldo dei Fiorentini, B 197, 198, 200, 207, 268, 269.

Attendolo Sforza. Al soldo dei Fiorentini, B 103 e segg. — Ved. Tartaglia.

Aubigny (Monsignore d’). Oratore del Re di Francia in Firenze, C 344.

Aurispa Giovanni. Insegna nello Studio Fiorentino, B 235.

Avignone. Vi sono case di mercanti fiorentini, A 252; che ne sono cacciati, 328.

B.

Bacherelli Rosso. Dei primi Priori delle Arti, A 78.

Badia (Monaci di), A 139.

Baglioni Baglione. Potestà in Firenze per il Duca d’Atene, A 230.

Baglioni Gian Paolo. Al soldo di Leone X, C 141.

Baglioni Malatesta. Minaccia Firenze, C 154. È al soldo della Repubblica, 241. Soccorso da essa contro il Principe d’Orange, ivi Ha il comando delle genti assoldate dalla Repubblica, 251. Primi sospetti contro di lui, 253. Alloggia nelle case dei Serristori, 256. Sfida i nemici, 257. Tratta con un inviato di Clemente VII, 264. Fatto dalla Repubblica Capitano generale, 268. Si bisbiglia contro di lui, 283. Cambia d’alloggio, 284. Esce contro i nemici, ivi Si oppone al proposito di assaltare il Campo nemico, 287. Pratica segretamente coll’Orange, 289-291. Di nuovo si oppone al disegno di assaltare il Campo, 290. Impedisce di soccorrere il Ferruccio, 291. Accusa contro di lui non provata, 292. Come si comportasse dopo la morte del Ferruccio, 295-300. Articolo relativo a lui nella Capitolazione della città, 300. Ha in mano il governo di Firenze, 302-305. Il Papa lo ringrazia del suo operato, 306; poi vuole che parta, ivi Parte, e manda a scusarsi e a difendersi dalla taccia di traditore, ivi, 307.

Baglioni Orazio. Ricupera Perugia, dov’erano a guardia i Fiorentini, C 154. Capitano delle Bande Nere, 217.

Baglioni Ridolfo. È alla guardia di Firenze, C 315.

Bagnesi Bernardo. Capitano di Cortona, fatto prigione dal Principe d’Orange, C 369.

Bagno (Contea di). Tenuta in vicariato dalla Repubblica, B 307.

Bagno (Conti di). Ribelli della Repubblica, B 81. Loro distruzione, 93.

[396]

Bagno a Vena. Battaglia ivi successa tra i Fiorentini e i Pisani, A 305.

Bagnolo (da) Accorso, A 31.

Bagnone (da) Stefano. Parte che ebbe nella Congiura de’ Pazzi, B 372, 373. Sua fine, 377.

Baldovinetti Mariotto. Ricordato nelle Storie del Cavalcanti, B 218.

Baldovino imperatore. Sua venuta e dimora in Firenze, A 70, 71.

Balducci Pegolotti Francesco. Sue scritture, citate, B 141.

Balestrieri, milizia del Comune. Sua formazione, A 295.

Balìa. Dell’anno 1341, A 223, 225. Del 1342, 235. Due del 1378, B 12, 13,26 e segg. Tre del 1382, 48, 52, 53, 55. Del 1387, 61. Tre del 1393, 75, ivi, 81. Del 1433, 213, 214. Del seguente anno, 224, B 245, 246, 279. Del 1444, 282, 283. Del 1453 e 54, 312. Del 1458, 320, 321. Del 1466, 342. Del 1471, 356, 357. Del 1490, 421. Del 1512, C 125, 132. Del 1530, 303, 305, 312, 314; trasformata nel Consiglio dei Dugento, 325.

Balzelli. — Ved. Gravezze.

Bambelli Pace, notaro. B 557.

Bande Nere. Condotte da Giovanni de’ Medici, C 178. Nel campo contro Carlo V, 217, 220. Stanno a guardia di Firenze, 251.

Banderesi di Roma. Esortati dai Fiorentini ad opporsi a Gregorio XI, A 332, 334.

Bandiera Guido, scardassiere. Fatto cavaliere da’ Ciompi e datigli danari, B 22.

Bandini (Villa dei). — Ved. Ripoli (Piano di).

Bandini Bernardo. Sua parte nella Congiura de’ Pazzi, B 371-374. Sua fine, 377, 378. Condannati anche i suoi fratelli, 378.

Bandini Domenico. Ammonito, poi decapitato, A 312.

Bandini Giovanni. Suo duello con Lodovico Martelli, C 271, 272. Accusato d’aver trattata la vendita d’Empoli, 283.

Bandini Sallustio, C 336.

Barbadori. Uno di quella famiglia è decapitato, B 320.

Barbadori Donato. Ambasciatore a Gregorio XI, A 327, 328. Lettore nello Studio Fiorentino, 368. Oratore a Carlo di Durazzo, B 42. Messo a morte, ivi.

Barbadori Niccolò. Uno degli avversari di Cosimo de’ Medici, B 202. Viene armato in Piazza, 222. Confinato, 225.

Barberìa. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Barberìa. — Ved. Alberghettino.

Barberino (da) Francesco, poeta, A 173.

Barbiano (da) Alberico. Viene sotto le mura di Firenze a Signa e a Pozzolatico, B 86. Condotto ai suoi stipendi dalla Repubblica, 93.

Barbolani di Montaguto. Raccomandati della Repubblica, A 214, 215.

Bardi (Conti). — Ved. Mangona. Vernio.

Bardi. Vanno in esilio, A 52. In guerra coi Mozzi, 92. Parte di loro sta coi Cerchi, 106. Si pacificano co’ Mozzi, 119. Tengono la parte dei guelfi neri, 126. Un loro castello si arrende ad Arrigo VII, 159. Loro fallimento, 211, 212. Congiurano contro gli ordini popolari, 222; contro il Duca d’Atene, 231. Assaliti dal popolo, 241, 242. Vengono armati in Piazza, B 222. Rimossi dagli uffici, 246. Caso d’una loro fanciulla sposata in casa Acciaiuoli, 332. Due di essi, capi di gente armata in Piazza, 342.

Bardi Alessandro. Fatto di popolo, B 475.

Bardi Bartolo. Dei tre primi Priori delle Arti, A 78.

Bardi Contessina. Moglie di Cosimo de’ Medici, B 209.

Bardi Roberto, teologo, A 367.

Barga. Assalita dalle armi del Duca di Milano, B 254.

Bargellini. Moneta falsa, A 162.

Bargello. Ufficio creato dai Medici per il contado, B 357, 358. — Ved. Capitano della guardia.

[397]

Baroccio (Il). Uno dei Ciompi, cassato dall’ufficio di gonfaloniere, B 36.

Baroncelli. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Posti a sedere, B 283. — Ved. Poggio Imperiale.

Bartoli Matteo. Gonfaloniere, B 319.

Bartoli Tommaso. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Bartolini Zanobi. Commissario in campo contro l’Orange, C 251. Uno dei Commissari della milizia cittadina, 296. Cassato, ivi. poi riassunto all’ufficio, 299. È nella Balia creata dopo la resa della città, 304. Torna in grazia de’ Medici, 309.

Bartolommeo (Fra) di San Marco, B 440. Devotissimo del Savonarola, C 29.

Barucci Sandro. I suoi consorti e discendenti vengon restituiti agli uffici, B 473.

Baschi (da) Ranieri. Fatto prigione dai Fiorentini, A 305.

Basilea. — Ved. Ugolini Baccio.

Bastari Filippo. Parla nelle Consulte, A 317.

Battifolle (da) Francesco Conte di Poppi. Suoi rapporti con la Repubblica, B 266, 267. Favorisce i fuorusciti venuti contro Firenze, 267. S’arrende ai Fiorentini, 271, 272.

Battifolle (da) conte Guido. Capitano dei cavalieri mandati dalla Repubblica a Carlo I d’Angiò, A 75. S’accosta in arme a Firenze, 112. Vi viene per Vicario del re Roberto, 162.

Battifolle (da) conte Simone. Viene in aiuto dei Fiorentini contro il Duca d’Atene, A 234. Accompagna il Duca fuor di città, 236.

Battista d’Antonio, priore di San Marco, B 555.

Beaumont (di) Ugo. Mandato da Luigi XII in aiuto dei Fiorentini, C 69.

Beccanugi. Uno di quella famiglia si fa capo di tumulti, B 55.

Beccaria (da). — Ved. Vallombrosa (Abate di).

Becchi Stefano. Privilegio a lui concesso, B 476.

Belcari Feo, B 441.

Belcaro, notaio, A 442.

Belforti o Belfredotti. Congiurano coi grandi di Firenze, A 222. Ricuperano Volterra, 237.

Belforti Bocchino. Decapitato, A 302.

Belforti Ottaviano. È del consiglio del Duca d’Atene, A 230.

Belli e Buoni. Nomi di parte, B 210.

Bellosguardo. — Ved. Spagnoli.

Bembo Bernardo. Oratore veneto in Firenze, B 392.

Benci. Come diventino ricchi, B 315.

Benedetto XI. Manda in Firenze il cardinale Niccolò da Prato, A 128. Cita a comparirgli dinanzi la parte dei neri, 134.

Benedetto antipapa. Va a lui oratore Iacopo Salviati, B 124.

Benedetto Cieco. Predice quali saranno i Gonfalonieri di Firenze, B 211.

Benintendi Niccolò, C 271.

Benivieni Girolamo, poeta, B 444, C 156.

Bentivoglio. Amici dei Fiorentini, B 339.

Bentivoglio Ercole. Al soldo dei Fiorentini, C 97.

Bentivoglio Giovanni I. Collegato dei Fiorentini, B 90.

Bentivoglio Giovanni II. Avvisa Piero de’ Medici del pericolo che corre lo Stato suo, B 340. Manda gente in suo aiuto, 345.

Bentivoglio Santi. — Ved. Cascese (da) Santi.

Bernardo, notaro. Roga un atto di promissione tra i Fiorentini e gli uomini di Pogna, A 441.

Bernardone. — Ved. Delle Serre Bernardo.

Biada (Ufficiali della), A 386.

Bianchi penitenti (Compagnie de’), B 88.

Bianchi e Neri, A 106 e segg. Esilio dei Bianchi, 125.

Bianco, Cardinale. Profetizza il ritorno de’ guelfi in Firenze, A 53.

[398]

Bibbiena. Presa dai Fiorentini, A 88; dal Piccinino, B 267; dai Veneziani, col favore di ser Piero da Bibbiena, C 65. Si dà al Principe d’Orange, 243.

Bibbiena (da) Bernardo. Sua Calandra, ricordata, C 130. Conferisce con Antonfrancesco degli Albizzi, 134. Fatto cardinale, ivi. Governatore della guerra contro Francesco Maria della Rovere, 141. Legato presso il Re di Francia, 348-353.

Bibbiena (da) ser Piero, cancelliere di Lorenzo il Magnifico, B 424; e di Piero suo figliuolo, C 3. — Ved. Bibbiena.

Bichi Iacopo. Suo duello, C 271. Sua morte, 285.

Bigallo (Confraternita del), A 179.

Biliotti Ivo. Si porta valorosamente all’assedio di Firenze, C 285.

Bini. Nelle loro case alloggia Malatesta Baglioni, C 284.

Bisticci (da) Vespasiano, B 301.

Boccaccio Giovanni. Oratore al Papa, A 268; e di nuovo, 308. Scrittore, 363-366. Chiamato a spiegar Dante, 368.

Bolgheri, terra de’ Gherardesca. Crudelmente trattata dall’imperatore Massimiliano, C 37.

Bolognesi. Mandan gente in soccorso della Repubblica, A 47. Soccorrono i fuorusciti di Firenze, 134, 135. Rinnuovano la lega co’ Fiorentini, 150. Li soccorrono, 157, 186. Soccorsi da loro, 196. Si ribellano dalla Chiesa col loro aiuto, 327. Rifanno lega coi Fiorentini, B 72.

Bolsena. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 332.

Bonaccorsi Filippo, soprannominato Callimaco Esperiente, letterato, B 434.

Bonaccorso, giudice. Oratore a Clemente IV, A 374, 375.

Bonaccorso di Lapo. Rivela al Conte di Virtù alcuni segreti della Repubblica, B 66. Bandito, ivi.

Bonaccorso (di) Domenico, notaro, B 557.

Bonciani Guido. Imprigionato, B 342.

Bonifazio VIII. Suo breve contro a Giano della Bella, ricordato, A 101. Sue ingerenze nelle cose della Repubblica, 102, 108, 109, 113 e segg. — Ved. Alighieri Dante.

Bonifazio IX. Promuove la pace tra Giangaleazzo Visconti e i Fiorentini, B 71. Oratori fiorentini presso di lui, 84, 85, 93.

Bonifazio (Spedale di). Fondato da Bonifazio Lapo, A 304.

Boninsegna (di) Bonaguida, notaro, A 377.

Boninsegni Domenico e Piero. Loro Istoria, ricordata, B 232.

Bonsi Antonio. Gli è conferito un vescovado, C 163.

Borbone (Contestabile di). Entra ostilmente nel dominio della Repubblica, C 181, 210.

Bordoni. Sono dei guelfi neri, A 126. Capi della fazione dei Serraglini, 187. Sbanditi, 189. — Ved. Mangioni.

Bordoni Niccolò. Si piglia beffe di un ordine degli Otto ed è condannato, B 249.

Borghini Borghino. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Borgia Cesare. Viene ostilmente in quel di Firenze, C 73. A lui si danno i Pisani, 74. Chiede il ritorno dei Medici in Firenze, ivi. Ferma un trattato con la Repubblica, ivi. Occupa Ripomarance, Piombino e l’Elba, 75. Favorito dai Fiorentini, 79. — Ved. Pazzi Cosimo.

Borgia Lucrezia. — Ved. Este (d’) Alfonso.

Borgo Allegri (Via). Donde abbia tal nome, A 177.

Borgogna (di) Maria imperatrice. — Ved. Da Rabatta e Cambi.

Borgo San Sepolcro. Occupato dai Fiorentini, B 270; da Vitellozzo Vitelli, C 77.

Borromei Carlo. Aderente dei Medici, B 369.

Borromei Giovanni. — Ved. Pazzi Giovanni.

Borsellino (Priori del), B 62, 515, 516.

Boscoli Pietro Paolo e Capponi [399] Agostino. Loro congiura, C 126. Dannati a morto, ivi, 127.

Bostichi. Loro scelleratezze, A 122. — Ved. Mercato Nuovo.

Bossolo della libertà, B 486.

Botticelli Sandro, B 439, 440.

Bouciquaut. — Ved. Le Maingre Giovanni.

Bozzolo (da) Federigo. — Ved. Gonzaga Federigo da Bozzolo.

Bracciolini Iacopo. Qual parte avesse nella Congiura de’ Pazzi, B 372, 374. Impiccato, 375.

Bracciolini Poggio, B 236, 237. Condanna di due suoi figliuoli, 378.

Brandini Ciuto, scardassiere. Impiccato, A 277.

Brescia. Nega ubbidienza ad Arrigo VII, a istigazione dei Fiorentini, A 149.

Brescia (di) Martinengo. Al soldo della Repubblica, B 387.

Brettoni (Compagnia de’). Promettono di pigliar Firenze, A 331.

Brienne (di) Gualtieri, duca di Atene. Viene in Firenze, A 197. Ritorna, 224. Sua nascita e sue qualità, ivi. Conservatore del popolo e Capitano della guardia, ivi. Gridato Signore a vita, 226. Storia del suo governo, ivi e segg. Congiure contro di lui, 231 e segg. Assalito in Palagio, 234. S’arrende e parte, 236. Dipinto vituperosamente, ivi. — Ved. Altoviti. Angiolo (Insegna dell’).

Brisighella (da) Francesco. Tenta di occupare la rocca di Castiglionchio, spalleggiato da Pino degli Ordelaffi e da Galeotto Manfredi, B 350.

Brolio. Principal sede dei Ricasoli, B 250. I Fiorentini l’hanno a patti, ivi. Tentato da Ferdinando d’Aragona, 307. Preso e abbruciato, 388.

Broncone (Compagnia del). C 133.

Brucioli Antonio, fuoruscito. Traduce la Bibbia, C 156. Congiura contro i Medici, 157.

Bruggia in Fiandra. Vi sono case di mercanti fiorentini, A 252.

Brunelleschi. Seguono la parte dei Donati, A 107. Capi, con altri, della parte dei guelfi neri, 126. Uno di essi rivela al Duca d’Atene una congiura ordita contro di lui, 232.

Brunelleschi Betto. Va al papa Benedetto XI, A 134. Con lui tratta il cardinale Napoleone degli Orsini, 139. Suo consiglio circa al rispondere agli oratori di Arrigo VII, 146. Muore, 154.

Brunelleschi Filippo. Architetta lo Spedale degl’Innocenti, B 145. Suo disegno di allagare Lucca, mal riuscito, 191. Notizie della sua vita e opere, 240, 241. — Ved. Rusciano (Palazzo di).

Brunelleschi Gabriele. Ambasciatore del re Ladislao a’ Fiorentini, e di questi al Re, B 129.

Bruni Francesco. Oratore a Urbano V, A 308.

Bruni Leonardo. Cancelliere della Repubblica, B 229, 233, 234. Suoi scritti, 234.

Bucicaldo. — Ved. Le Maingre Giovanni.

Buffalmacco, A 177.

Bugigatto. — Ved. Simoncino.

Bulsingi Giunta, notaro, A 377.

Buonaguisi. Magnificati nella Cronaca di Ricordano Malespini, A 429, 430.

Buonarroti Michelangiolo. L’artista e il poeta, e della vita sua, C 196-204. Suo incontro con Niccolò Capponi, 238. È dei Nove della Milizia e Commissario generale delle fortificazioni, 250. Fugge, poi ritorna, 252, 253. Si tien nascosto dopo la resa della città, 309; finchè è rassicurato dal Papa, ivi. — Ved. Salviati Francesco.

Buondelmonti. Vengono ad abitare in Firenze, A 12. Contrari agli Uberti, 27. Vanno in esilio, 52. Riconciliati con gli Uberti, 73. In guerra coi Cavalcanti, 92. Disfatte le case a un di loro, 97, Parteggiano pei Donati, 107. Fanno pace coi Gherardini, 119. Seguono la parte dei guelfi neri, 126. Arsione delle loro case, B 13. Partigiani dei Medici, 209. — Ved. Montebuoni. Scolari.

[400]

Buondelmonti Andrea. Oratore al Re d’Ungheria, B 84.

Buondelmonti Benedetto. Mandato a Gian Iacopo Trivulzio, C 138. Imprigionato, 219. Sua raccolta di documenti ricordata, 319. Suo colloquio col Papa, 322, 323.

Buondelmonti Benghi. Si dà alla setta dei Capitani di Parte Guelfa, A 316. Gonfaloniere della Parte, B 2.

Buondelmonti Buondelmonte, A 26, 27.

Buondelmonti Cece. — Ved. Uberti Piero.

Buondelmonti Filippo. Gonfaloniere, C 126.

Buondelmonti Rosso. Oratore al Principe d’Orange, C 246. Altro mandato che riceve dalla Signoria, 299. Sue lettere ai Dieci, 361-376.

Buondelmonti Uguccione. Va coi consorti in aiuto del Duca d’Atene, A 233.

Buondelmonti Zanobi. Muore, C 156. Congiura contro i Medici, 157.

Buonomini. Succedono agli Anziani, A 63, 64. Portati da dodici a quattordici, 74. Scema la durata del loro ufficio, ivi. Aboliti, 78. Costituzione del loro ufficio, 382 e segg. — Ved. Priori delle Arti.

Buonomini. — Ved. Dodici Buonomini.

Buonvicini fra Domenico. Predica in vece del Savonarola, C 50. Dice che la dottrina del suo maestro sosterrebbe la prova del fuoco, ivi. È scelto a sostenere quella prova, 51. Chiuso in Palagio, 53. Esaminato, 56. Condannato e sua morte, 59, 60.

Burchiello, barbiere e poeta, B 441.

Busini Giambatista. Suo giudizio del Machiavelli, C 183. Dei Gonfalonieri di Compagnia, 300. Notizia che ci dà circa i partigiani dei Medici, 302.

Butronto (Vescovo di) Niccolò. Sua relazione del viaggio di Arrigo VII in Italia, ricordata, A 150. — Ved. Savelli Pandolfo.

C.

Cacciaguida. Va coll’imperatore Corrado in Terrasanta, A 13.

Cadolingi (Conti) di Fucecchio. — Ved. Monte Orlandi. Mangona. Vernio.

Cafaggio, presso Firenze. Vi si schierano i fuorusciti bianchi, A 135. — Ved. Servi (Chiesa dei).

Cafaggiolo (Villa di). Alienata da Lorenzo de’ Medici, B 407.

Calabria (Duca di). — Ved. Aragona (d’) Alfonso II e Ferdinando I.

Calabria (Duca di) Carlo. I Fiorentini gli danno la Signoria della città, A 196. Viene in Firenze, 197. Parte e vi lascia un Vicario, 200.

Calabria (Duchessa di). Viene in Firenze, e vi fa abolire le leggi contro gli adornamenti delle donne, A 197.

Calamecca. Vi pernotta il Ferruccio, C 293.

Calboli (da) Folcieri. Potestà di Firenze, A 126.

Calcagnino, tavernaio, B 19.

Calci. Perso e ricuperato dai Fiorentini, B 197.

Calcio (Giuoco del). Solito farsi in Piazza di Santa Croce, C 271.

Calenzano, A 194.

Calimala (Arte di). Nella sua bottega si aduna l’ufficio dei Trentasei, A 58. Ne sono arse le scritture, 234. Numero grande dei suoi fondachi, 251. Sua grande autorità in Firenze e fuori, 318. Decade, B 8. — Ved. Fiorino d’oro. Sant’Eusebio (Spedale di).

Calimala (Via). Vi hanno le case i Lamberti, A 59. Le botteghe di drappi che v’erano son distrutte dalle fiamme, 130.

Callimaco Esperiente. — Ved. Bonaccorsi Filippo.

Camaiore. Vi sono a campo i Fiorentini, B 192. La prendono, 255.

Camaldoli (Abate di). Si oppone alle armi dei Veneziani nel Casentino, C 65.

[401]

Camaldoli di San Lorenzo. — Ved. Ciardo.

Camarlinghi della Camera del Comune. Loro ufficio, A 386. Riforma, B 482. — Ved. Settimo e Ognissanti (Frati di).

Camarlingo delle cinque cose, B 474.

Cambi. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. — Ved. Da Rabatta e Cambi.

Cambi Giovanni. Dei Gonfalonieri di compagnia, B 19, 46. Accusato a torto di congiura, 46. Cavalca per la città con l’insegna della Parte Guelfa, 48.

Cambi Giovanni. Decapitato, C 40, 41.

Cambi Giovanni, lo storico. Racconta il fatto dell’ammonizione di suo padre, B 424.

Cambi Marco. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Cambini Andrea. Amicissimo di Francesco Valori, C 57.

Cambio (Arte del). Numero grande dei suoi banchi, A 251.

Camera dell’Armi. Spese per il suo fornimento, A 257.

Camera del Comune. Rotta dal popolo e arsene le scritture, A 234. Salvata da Piero di Fronte, uno de’ Priori, B 13.

Campaldino. Battaglia ivi successa, A 86, 87.

Campana Francesco. Tiene un libro detto il Cronista di Palazzo, C 312.

Campora, luogo presso Firenze. — Ved. Spagnoli.

Cancellieri famiglia. Venuti a confine in Firenze, vi recano le parti bianca e nera, A 106. Rimessi in Pistoia dai Fiorentini, 261. Loro guerra coi Panciatichi, C 73. Favoriscono la libertà di Firenze contro i Medici, 260. Sono col Ferruccio alla battaglia di Gavinana, contro i Panciatichi, 293.

Candia. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Canigiani. Vanno in esilio, A 52. Sono arse loro le case, B 13.

Canigiani Giovanni. In grande stima presso Lorenzo de’ Medici, B 354. Degli Accoppiatori, 357.

Canigiani Piero. Devoto di Caterina da Siena, A 337.

Cantelmo Iacopo. Vicario del re Roberto in Firenze, A 160.

Capalle, castello. Assalito dal conte Guido Novello, A 61.

Capello Carlo, oratore veneto in Firenze. Sue lettere ricordate, C 240, 249, 252, 272. Loda a cielo i Fiorentini, ivi. Fa seppellire un suo cavallo in Firenze, ivi.

Capitani di guerra. Loro elezione ed ufficio, A 386, 387.

Capitani di Parte Guelfa. Giano della Bella cerca frenare la loro potenza, A 98. S’interpongono per la concordia tra bianchi e neri, 115. Loro costituzioni e atti, 277 e segg. Inventano le ammonizioni, 286. Riforme del loro ufficio, 313, 314. Attraversano la stipulazione di una lega tra la Repubblica e Bernabò Visconti, 324. Infieriscono nelle ammonizioni, 339, B 1, 2. Cercano impedire il gonfalonierato di Salvestro de’ Medici, 10. Riforme del loro ufficio e degli altri uffici della Parte, 36, 49, 75. I loro ordinamenti durano anche dopo la riforma degli Statuti, 146. Scadono d’autorità, 148, 149. Testo di due loro petizioni, A 415-418, B 502-504; e di due riformagioni relative alle loro leggi, A 418-420, B 499-501. È tolto loro il gonfalone, 475. Vanno ad offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 533. Mutano le loro attribuzioni, 357. — Ved. Consoli de’ Cavalieri. Parte Guelfa.

Capitano del Popolo. Sua istituzione e suo gonfalone, A 35. Gli è aggiunto il titolo di Difensore dell’Arti, 78. Sua primitiva dimora, 79. Il suo palagio è distrutto da un incendio, 131. Cessa durante la signoria del re Roberto, 162; dopo la quale vien rieletto, 184. Si ristringe la sua autorità, 189. Capo del Consiglio del Popolo, 203. Suo salario, 257. Cassato e poi rimesso, 312. Costituzione del suo ufficio, [402] 379 e segg., B 529, 530. È accresciuta la sua autorità, 213. Decade, 321. Tolto via, 364, 365. Va ad offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 533. — Ved. Tizzoni.

Capitano della guardia o Bargello. N’è uno in città e uno in contado, A 223.

Capitudini delle Arti. — Ved. Consoli.

Caponsacchi. Uno di essi è potestà di Firenze, A 24. Esuli, non posson tornare in città, 76. Arsione delle loro case, 130.

Cappiano (Ponte a). Espugnato dai Fiorentini, A 192.

Capponi. Aprono il passo al popolo contro alle case dei Frescobaldi, A 241. Consorti dei Vettori, B 101. Uno di quella famiglia è bandito, 350. Alcuni di loro s’armano contro la Signoria, C 298. Il loro castello di Feugerolles in Francia passa nei Conti di quel nome, 310.

Capponi Agostino. — Ved. Boscoli Pietro Paolo.

Capponi Bastiano. Partecipe in una congiura contro Eugenio IV, B 250.

Capponi Bernardo. È al servigio degli oratori fiorentini presso il Principe d’Orange, C 374.

Capponi Gino. Sue pratiche col Bucicaldo per l’acquisto di Pisa, B 97-99. Piglia la tenuta di quella cittadella, 99. Commissario in campo contro Pisa, 104-112. Viene in Firenze a proporre i patti della resa, 110. Torna a Pisa a ratificare l’accordo, 111. Ricusa d’esser fatto cavaliere, ivi. Sua parlata in quel Palagio de’ Priori, e risposta fattagli da un Bartolo da Piombino, 113-115. Capitano di Pisa, 115. Oratore a Gregorio XII, 122; a Venezia, 135. Uno dei capi dello Stato, 150. Muore, 151. Gonfaloniere, 186. Suoi scritti ricordati, 232. Lettere della Signoria a lui, 519-523. — Ved. Alderotti Buonaccorso. Tartaglia.

Capponi Neri di Gino. Si trova alla resa di Pisa, B 112. Accusato di avere spinto Niccolò Fortebracci a far preda nel territorio di Lucca, 187, 188. De’ Dieci della guerra, 188. In campo contro Lucca, 189-192, 196, 197. Avversato da Rinaldo degli Albizzi e dai Medici, 205. Confinato, 206. Suo atteggiamento quando si volle richiamare dall’esilio Cosimo de’ Medici, 223, 224. Suoi scritti ricordati, 232. Oratore a Siena e a Venezia, 250, 251; a Genova, 253. Va alla guardia di Pisa, 254. Suo fatto d’arme contro Niccolò Piccinino, ivi. Commissario in campo contro Lucca, 255-257. Oratore a Francesco Sforza e a Venezia, 261, 265. Commissario in campo contro Niccolò Piccinino, 268-272; contro il Conte di Poppi, 272. Altra sua commissione ricordata, 276. Amico a Baldaccio di Anghiari, 277, 278. Oratore a Venezia, 278. Degli otto cittadini eletti a rivedere i libri delle Riformagioni, 284. Uno degli arbitri nelle differenze tra Eugenio IV e Francesco Sforza, 287. Due altre volte oratore a Venezia, 288, 289. Oratore a Niccolò V, 290. Commissario in campo contro Alfonso I di Aragona, 292, 293. Gli spiace il torsi la Repubblica dall’amicizia di Venezia per favorire lo Sforza, 298, 299. Si oppone al mandare in esilio molti cittadini, 301. Oratore allo Sforza fatto signore di Milano, 303; e di nuovo a Venezia, 304. Muore, 317. Tre lettere scrittegli dalla Signoria, 542, 544. — Ved. Cascese (da) Santi. Pistoia (Montagna di).

Capponi Neri di Gino di Neri. Accompagna Carlo VIII nell’andata e nel ritorno da Napoli, C 19. Oratore a lui, in Francia, 34.

Capponi Niccolò. Commissario in campo contro Pisa, C 105. Tenuto capo della fazione avversa ai Medici, 209. Suo vero animo, 214, 215. Suo gonfalonierato, 215-227. Deposto, 227, 228. Oratore a Carlo V, 236, 237. Tornando, s’incontra con Michelangiolo Buonarroti, 238. Sue parole morendo, ivi.

Capponi Piero. Sua legazione a Lucca, B 392. Oratore a Carlo VIII, s’adopra contro Piero de’ Medici, C 8. A lui fanno capo gli amatori di novità, 12. Straccia i capitoli dell’accordo con Carlo VIII, 15, 16. [403] Sua natura, 35, 36. Commissario in campo contro Pisa, 36. Vi muore, ivi. Lettere dei Dieci di balia a lui e a Guidantonio Vespucci, 343-345. Istruzioni date a lui e a quattro suoi compagni oratori al Re di Francia, 346, 347. — Ved. Maruffi fra Silvestro.

Capponi Piero di Niccolò, C 227.

Capraia. È dei Conti Alberti, A 21. Vi si ricovrano i guelfi di Firenze, 33. Espugnata dai ghibellini, 34.

Capua (Arcivescovo di). — Ved. Schomberg Niccolò.

Capua (da) Luigi. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 70.

Caracciolo Iacopo. Cede ai Fiorentini la rôcca d’Arezzo, B 58.

Carafulla, C 267.

Cardona (da) Raimondo. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 192, 193.

Cardona (da) Raimondo. Viene contro Firenze, C 120. Giunge a Prato e lo pone a sacco, 121, 122. Si accorda con la Repubblica, 123.

Carducci Baldassarre. Oratore in Francia, C 226. S’abbocca in Genova con Andrea Doria, 229. Sue lettere ricordate, 233, 234. Muore, 234.

Carducci Filippo. Privilegi concessigli dall’imperatore Paleologo, B 259.

Carducci Francesco, C 226. Suo gonfalonierato, 228, 234, 243, 247, 248, 253, 263. Ha che dire con Malatesta Baglioni, 287. Sua grande autorità, ivi, 296. Decapitato, 308.

Careggi, A 194.

Careggi (Villa di). Vi muore Lorenzo de’ Medici, B 427. Incendiata, C 250.

Carestia in Firenze, A 205, 206, 219, 247, 321, C 303, 304.

Carlo Magno. Creduto riedificatore di Firenze, A 4, 5.

Carlo IV. Chiamato dai Fiorentini in Italia, pratica con essi un accordo, A 263-266. Viene a Pisa, 268. Capitoli dell’accordo, 269, 270, 398-404. Richiede i Fiorentini di lega, 272. Altre notizie di lui, ivi, 273. Torna in Germania, 273. Dà in pegno la sua corona a un mercante fiorentino, 309. Abbandona per denari certe sue pretese contro i Fiorentini, 310. Suo privilegio a favore dello Studio Fiorentino, 368. — Ved. Strada (da) Zanobi.

Carlo V imperatore. Impone danari alla Repubblica e le conferma dei privilegi, C 160. Fa lega con essa e con Giulio de’ Medici, 161, 162. Come accolga in Genova gli oratori della Repubblica, 236-238. I Fiorentini gli si arrendono, e Capitoli della resa, 300, 301. Per sua interposizione si cessa in Firenze dal confinare cittadini, 309. Lodo da esso pubblicato circa il governo di Firenze, 315. Sua ingerenza in esso, 328. — Ved. Clemente VII. Leone X. Orange (d’) Filiberto. Rucellai Palla.

Carlo V re di Francia. Manda oratori al trattato di pace tra Gregorio XI e la Repubblica, A 339.

Carlo VI re di Francia. Con lui fanno lega i Fiorentini, B 85. Lettera di essi a lui, ricordata, 96.

Carlo VII. Pressato dai Fiorentini a scendere in Italia, B 308.

Carlo VIII. I Fiorentini si rifiutano di favorirlo nell’impresa del Regno, C 7, 8. Egli caccia di Lione i ministri del banco dei Medici, 8. Gli mandano oratori, 12. Pone in libertà Pisa, 14. Suo ingresso e dimora in Firenze, 15, 16. Incerto del restituir Pisa, 19, 20. Suo trattato con la Repubblica, 33, 34. Restituisce Livorno, 34. Suoi ambasciatori in Firenze, 344. — Ved. Capponi Piero. Savonarola.

Carlone (di) Benedetto. Parte da lui presa nel Tumulto dei Ciompi, B 19, 34.

Carmagnola Francesco. — Ved. Foscari Francesco.

Carmignano. Preso e fortificato da Castruccio, A 194, 196.

Carmine (Chiesa del), A 179.

Carnesecchi Lorenzo. Commissario della Romagna fiorentina, C 272.

Carpi (Signori di). — Ved. Pio signori ec.

[404]

Carrara (da) Francesco. Viene in Firenze, B 63, 64. Con lui si collegano i Fiorentini, 72, 73.

Carroccio, A 43, 50, 67.

Casalecchio. Vi sono sconfitti i Fiorentini, B 90.

Casali signori di Cortona. Con essi fanno lega i Fiorentini, A 213. — Ved. Cortona (Signore di).

Cascese (da) Santi bastardo d’Ercole Bentivoglio. Esercita in Firenze l’arte della lana, B 302. Raccomandato a Neri Capponi, ivi. Va al governo di Bologna, 303.

Casentino. Posseduto dai Conti Guidi, B 266. Vi vengono i fuorusciti di Firenze, 267. Lo acquista la Repubblica, 272. Occupato dal Principe d’Orange, C 243. — Ved. Camaldoli (Abate di). Cortona (Signore di).

Casole. Conquistato dai Fiorentini, B 394.

Castagneto. Crudelmente trattato dall’imperatore Massimiliano, C 37.

Castel del Bosco. Vi avviene un fatto d’arme tra i Fiorentini e i Pisani, A 31. Un altro tra le genti della Repubblica e quelle del Duca di Milano avviene tra quel castello e la rocca di San Romano, B 200.

Castel della Pieve. Vi vanno a confine alcuni cittadini, A 110, 111.

Castelfiorentino. Ribellato, indi ridotto all’ubbidienza della Repubblica, C 262.

Castelfiorentino (da) Domenico. Degli Accoppiatori, B 283.

Castelfranco, nel Valdarno di sopra. Edificato dai Fiorentini, A 104.

Castel San Niccolò. Assediato da Niccolò Piccinino, B 267.

Castella (Ufficiali delle), B 528.

Castellani. A uno di quella famiglia è arsa la casa, B 19. Vengono armati in Piazza, 222. Privati degli uffici, 246.

Castellani Grazia. Ambasciatore in Ungheria, B 84.

Castellani Matteo. Nel campo dei Fiorentini contro Pisa, B 105, 107. È tra i maggiori dello Stato, 150.

Castellina nel Chianti, B 201. Assediata dalle armi d’Alfonso I di Aragona, 307. Tolta ai Fiorentini, 388.

Castello (Villa di). Le è dato fuoco, C 250.

Castiglia (re di) Alfonso. — Ved. Latini Brunetto.

Castiglionchio (da) Bernardo. Lettera a Lapo suo padre, ricordata, A 317.

Castiglionchio (da) Lapo. Sua opera ricordata, A 279. Autore di una legge in favore della Parte Guelfa, 317. Pratica contro gli Albizzi e Ricci, ivi. Lettore nello Studio Fiorentino, 368. Capo della setta dei Capitani di Parte, B 2. Suo consiglio non seguito, 10. Sua fuga, 13. Gli è posta addosso una taglia, 36. Dà al Petrarca le Istituzioni di Quintiliano, 228, 229. Articolo di una provvisione contro di lui, 472.

Castiglionchio (Rocca di). — Ved. Brisighella (da) Francesco.

Castiglione (da) Bernardo. Oratore con altri al Principe d’Orange, C 246; loro lettere, 375, 376. Nuovamente oratore a quel Principe, 291. Decapitato, 308.

Castiglione (da) Dante. Abbatte, con altri, le immagini di Leone X e Clemente VII, nella chiesa dei Servi, C 219. Confinato, 309. — Ved. Aldobrandi Bertino.

Castiglione Aretino. Saccheggiato dal Principe d’Orange, C 242.

Castiglione della Pescaia. Acquistato dalla Repubblica, B 93. Viene in potere d’Alfonso I d’Aragona, 292, 304, 310.

Castracani Castruccio. — Ved. Interminelli.

Castro (da) Paolo. Riforma gli Statuti del Comune, A 93, B 145, 234. Lettore nello Studio Fiorentino, 234.

Castrocaro. Acquistato dai Fiorentini, B 93. Difeso contro le armi di Carlo V, C 273.

Catasto o Tavola. La sua formazione è avversata dai più ricchi, B 3. Non fu invenzione di Giovanni de’ Medici, ma piuttosto di Rinaldo [405] degli Albizzi e di Niccolò da Uzzano, 179. Come fosse ordinato, 180, 181. Annullato, 279. Rinnovato, 318, 319. — Ved. Gravezze.

Caterina (Santa) da Siena. Suo consiglio a Gregorio XI, A 328. Sua dimora in Firenze, 335-337. Delle sue Lettere, 366, 367.

Catignano (da) ser Domenico. Notaro degli ultimi Priori, C 287.

Cattani Francesco. — Ved. Diacceto (da) Francesco.

Cattivanza. — Ved. Strozzi Bernardo.

Cavalca fra Domenico, A 175, 362, B 458.

Cavalcanti. Vanno in esilio, A 52. In guerra coi Buondelmonti, 92. Seguono la parte dei Cerchi, 106. Sbanditi, 125. Tornano in potenza, 129. Arsione delle loro case, 131. Presi nel loro castello delle Stinche e chiusi in carcere a Firenze, 132, 133. Quarantotto di loro condannati nell’avere e nella persona, 154. Vengono in aiuto del Duca di Atene, 233. Assaliti dal popolo, si arrendono, 240, 241. Imparentati coi Medici, B 209.

Cavalcanti Bartolommeo. Sua orazione ricordata, C 223. È in Francia, 234. Oratore a Clemente VII, 302.

Cavalcanti Cavalcante. Dà in moglie al suo figliuolo Guido una figliuola di Farinata degli Uberti, A 61.

Cavalcanti Giannozzo. Si adopra in favore del Duca d’Atene, A 233.

Cavalcanti Giovanni. Descrive un Consiglio di Richiesti, B 152. Si corregge un errore delle sue Storie, 179. Parole che mette in bocca a Niccolò da Uzzano, trascritte poi dal Machiavelli, 202, 204. Cenni critici sulle Storie, 210, 447.

Cavalcanti Giovanni. Istruzioni date a lui e a quattro suoi compagni, oratori a Carlo VIII, C 346, 347.

Cavalcanti Guido. Suo scontro coi Donati, A 108, 109. Confinato, 111. Torna e muore, ivi. È condannato un suo figliuolo, 132. Poeta, 173. — Ved. Cavalcanti Cavalcante.

Cavallate, A 83, 387, 388.

Cavicciuli. Arsione delle loro case, B 13.

Ceccone (ser), notaio. Esamina fra Girolamo Savonarola, C 56.

Cefalonia. — Ved. Acciaiuoli.

Cei Giovan Battista. Decapitato, C 308.

Celestino III. Manda suoi legati in Toscana, A 18. Ricordato, 74.

Cella di Ciardo. — Ved. Ciardo.

Celona (di) Giovanni, A 104.

Cencio Guercio. Va a trattare nel campo degl’imperiali sotto Firenze, C 289, 378, 381, 382.

Cerbaia, sulla Pesa. Vi muoiono alcuni cavalieri fiorentini, A 159.

Cerbaia (Conti di). Mandano doni al Duca d’Atene, A 230.

Cerchi. Loro stato e condizione, A 105. Comprano il palazzo dei Conti Guidi in Firenze, ivi. Capi dei bianchi, 106. Loro mischie coi Donati, ivi, 107. Confinati, 111, 125. Salgono in grande potenza, 129. Congiurano contro il Duca d’Atene, 231.

Cerchi Bindaccio. Sua Cronichetta di famiglia, ricordata, A 122.

Cerchi Cerchio. Uno de’ maggiori cittadini in Firenze, A 60.

Cerchi Giano. Imprigionato, A 124.

Cerchi Niccolò. — Ved. Donati Simone.

Cerchi Vieri. È a Campaldino, A 85. Capo della sua famiglia, 105, 111, 112, 122. Va ad Arezzo, 129.

Ceri (da) Renzo, C 141. Un suo figliuolo è al soldo dei Fiorentini, 270.

Cerretani Bartolommeo. Che scriva di Francesco Valori, C 38; e che del Machiavelli, nelle sue Storie, 183.

Cerreto (da) Iacopo. Ambasciatore a Clemente IV, A 374-377.

Certaldo. Fa lega coi Fiorentini, A 20. Torna sotto la loro giurisdizione, 97. — Ved. Conti Alberti.

Certomondo, A 85.

Certosa presso Firenze. Vi sono inalzati splendidi edifizi da Niccolò Acciaiuoli, A 369.

[406]

Chaumont (di) Carlo. Mandato da Luigi XII in aiuto dei Fiorentini, C 77.

Chianti. — Ved. Cortona (Signore di).

Ciardo, vinattiere. Decapitato, B 54. È arsa la sua casa nei Camaldoli di San Lorenzo e rimane a quel luogo il nome di Cella di Ciardo, ivi.

Cibo Franceschetto. Gli è data in moglie Maddalena figliuola di Lorenzo il Magnifico, B 420.

Cibo Innocenzio, cardinale. Viene in Firenze, C 210. Poco aderente al Principato dei Medici, 313.

Cimabue Giovanni, A 177.

Ciompi, B 16, 17. Tumultuano, 18 e segg. Vanno in rotta, 35. Congiurano, 41, 42, 43, 51, 52, 59. Duemila di loro son mandati a guardia delle castella, 91.

Cipro. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Città di Castello. Soccorre i Fiorentini, A 157. Col loro aiuto si ribella dalla Chiesa, 326. Rammentata, 327.

Civitavecchia. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, 326.

Clemente IV. Dà a’ guelfi di Toscana la sua propria insegna, che poi rimane alla Parte Guelfa di Firenze, A 56, 57. Sua ingerenza nel governo della Repubblica, 62-64. — Ved. Abati Migliore. Ubaldini Ottaviano.

Clemente V. Manda suoi legati a Firenze, A 137.

Clemente VI. Concede privilegi allo Studio Fiorentino, A 368.

Clemente VII (Giulio de’ Medici). Che pensi circa lo Stato di Firenze, C 164, 165. Fa una lega con Cesare, in cui vengono inclusi i Fiorentini e la Casa sua, 171. Vuol mutare lo Stato in Siena, 175, 176. Fortifica Firenze, 176. I Fiorentini gli mandano Francesco Vettori, 177. Pratica per il ritorno de’ Medici in Firenze, 226-228. Suo trattato con Cesare, 230. Sue risposte ad alcuni oratori della Repubblica, 244-247. Spera di aver Firenze per vie pacifiche, 256. Racquista varie terre del suo dominio, 261. Altra sua risposta ad altri oratori, 265. Vive in angustie per l’assedio di Firenze, 275, 276. Questa gli s’arrende, 300, 301. Sua risposta agli Aretini, 311. Manda oratori fiorentini a Carlo V, 318, 319. Vuol fare Alessandro dei Medici signore libero di Firenze, 319, 321-324. — Ved. Baglioni Malatesta. Buonarroti Michelangiolo. Cavalcanti Bartolommeo. Conte Rosso. Foiano (da) fra Benedetto. Gorini. Orange. Volterra.

Clermont (Signore di). S’offre mediatore tra la Repubblica e Clemente VII, C 273.

Cocchi Niccolò. Gonfaloniere, B 221.

Colle di Valdelsa. Afforzato, A 15. Fa lega con la Repubblica, 47, 67. Sua dedizione, 214. Si dà al Duca d’Atene, 227. Gli manda doni, 230. Torna in potere della Repubblica, 259. Occupato dalle armi del Papa e del Re di Napoli, 395. Riforme di quella Potesteria e Capitanato, B 484, 493.

Collegi della Signoria. Così detti i Gonfalonieri di compagnie e i Dodici Buonuomini, B 527.

Colleoni Bartolommeo. Con lui praticano gli avversari di Casa Medici, B 339. Fa guerra alla Repubblica, 344-319.

Collodi. Espugnato dai Fiorentini, B 189.

Colombaia (Poggio di), A 194, C 284.

Colonna Sciarra. — Ved. Santa Margherita a Montici.

Colonna Stefano. S’interpone a favore dei figliuoli di Dino Compagni, A 155.

Colonna Stefano di Palestrina. Capo della milizia cittadina nell’assedio di Firenze, C 251. Dove alloggi, 256. Assale il campo nemico, 258, 259, 285. Disapprova il disegno di riassaltarlo, 290. Chiede licenza, 295. Articolo relativo a lui nella resa della città, 300.

Combiata. Disfatta dai Fiorentini, A 21.

Comines (di) Filippo. Ambasciatore del Re di Francia in Firenze, B [407] 390. Creditore di Casa Medici, C 29. Tiene in concetto di santo il Savonarola, 61.

Compagnacci. Così detti gli avversari del Savonarola, C 47. Trionfano sui loro avversari, 52 e segg.

Compagni Dino. Gonfaloniere, A 97. Prende parte a un Consiglio di cittadini, 110. Fatti in cui la sua Cronaca discorda da quella del Villani, ivi, 117. Parla in un altro Consiglio, 112. È de’ Priori, 14. Raduna i cittadini in San Giovanni, 116. Di lui come scrittore, 175. Nota intorno alla Storia, 433-442. — Ved. Arrigo VII. Colonna Stefano.

Compagnia Bianca. Sue imprese a danno dei Fiorentini, A 306, 307.

Compagnie. — Ved. Confraternite.

Compagnie del Popolo. Loro primitiva formazione, A 35. Rinnovate, 128. Ottengono gonfaloni loro propri, d’onde i Gonfalonieri di compagnie, 138.

Concilio Ecumenico in Firenze, B 258, 259.

Condotta (Ufficiali della), B 529.

Confraternite o Compagnie, B 160, 161, C 59, 205, 252, 331, 332.

Consalvo. Sue relazioni colla Repubblica relative alla guerra di Pisa, C 98.

Consegne (Uffici delle). Loro riforma, B 484.

Conservatori delle leggi, B 206.

Consiglio del Capitano o di Credenza della Massa de’ guelfi. Sua istituzione, A 64. Notizie di esso, 383-385.

Consiglio del Cento. La parte dei Medici impedisce che sia annullato, B 334, 335. Ogni cosa si riduce in esso dopo l’abolizione dei Consigli del Popolo e del Comune, 356. Abolito, C 24. Rifatto, 132.

Consiglio del Comune. Sua istituzione e distinzione dall’altro del Popolo, A 203. Sue riforme, B 36, 49, 213. Annullato, 356. Sua costituzione, 527.

Consiglio dei Dugento. — Ved. Balia del 1530.

Consiglio del Dugento, B 154.

Consiglio di Giustizia, C 93.

Consiglio Grande o Generale. Sua istituzione e ordinamento, C 25, 26, 82 e segg. Abolito, 125. Restaurato, 214, 215. Si aduna per l’ultima volta, 302.

Consiglio degli Ottanta. — Ved. Ottanta.

Consiglio del Popolo. Sua istituzione e distinzione dall’altro del Comune, A 203. Sue riforme, 239, B 36, 49, 213. Sua costituzione, 527. Annullato, 356.

Consiglio dei Settanta. — Ved. Settanta.

Consiglio dei Trecento e altri Consigli del Comune. Loro istituzione, A 64; e altre notizie di essi, 383-385.

Consoli. Loro governo, A 16, 22-25.

Consoli o Capitudini delle Arti, A 22-24. Manomessi da alcuni grandi, 110. Loro costituzione, 385, 386, 527. Son rifatte le borse del loro ufficio, B 213. — Ved. Arti.

Consoli de’ cavalieri, poi Capitani di Parte Guelfa. Loro creazione e costituzione, A 65. — Ved. Capitani ec.

Consoli del mare, B 141 e segg.

Conte Novello. — Ved. Del Balzo Bertramo.

Conte di Poppi. — Ved. Battifolle (da) conte Francesco.

Conte Rosso. Fatto impiccare da Clemente VII, C 311.

Conte di Virtù. — Ved. Visconti Giangaleazzo.

Contessa Matilde, A 8-11. Fondatrice di badie, 25, 26. Ricordata, 344.

Conti Alberti. Fanno trattati con la Repubblica, A 17. Antichi atti tra essi e i Fiorentini, relativi a Fogna, Semifonte e Certaldo, ricordati, A 441. — Ved. Capraia. Mangona. Vernio.

Conti Guidi. Collegati cogli Aretini, A 15. Loro palagio in Firenze, 105. Giurano fedeltà ad Arrigo VII, 152. Amici della Repubblica, 215. Mandano doni al Duca d’Atene, 230. Richiesti d’aiuti dalla Repubblica, B 18. Cacciati del loro Stato, 271. — Ved. [408] Arrigo duca di Baviera. Battifolle. Casentino. Dovadola. Ingelberto. Monte Croce. Montemurlo.

Contratti. N’è ordinata la registrazione, A 162.

Corbinelli Bartolommeo. Commissario in campo contro Pisa, B 108-112. Potestà di Pisa, 115, 116. Lettere della Signoria a lui, 519, 520.

Corbonischi Niccola. Potestà di Firenze, B 505.

Coriglia Michele. Capitano di guardia del contado e distretto, C 100.

Corno (da) Gian di Lucino. Potestà di Firenze, A 100, 101.

Corrado imperatore. — Ved. Cacciaguida.

Correggio (da) Giberto. Al soldo della Repubblica, B 387.

Còrsi soldati, in Firenze, C 302, 303, 307.

Corsi famiglia. Rimossi dagli uffici, B 246. Nuove condanne contro alcuni di loro, 378.

Corsi Bardo. Tenuto fuori da ogni grado nella Repubblica, B 363, 364.

Corsi Giovanni. Gonfaloniere, C 303.

Corsi Iacopo. Decapitato egli e un suo figliuolo, C 288.

Corsini. A uno di quella famiglia è arsa la casa dai Ciompi, B 19.

Corsini Luca. Avverso ai Medici, C 12.

Corsini Piero. Fatto cardinale, A 315. Gran personaggio ai suoi tempi, 367.

Corsini Tommaso. Lettore nello Studio Fiorentino, A 368.

Còrso Pasquino. Al soldo dei Fiorentini, C 256.

Cortese Paolo, B 434, 435.

Cortona. Venduta ai Fiorentini dal re Ladislao, B 130. Occupata da Vitellozzo Vitelli, C 77. Si arrende al Principe d’Orange, 242, 362-366, 368, 369. — Ved. Casali.

Cortona (Signore di). Vassallo della Repubblica, B 64. Fa scorrerie nel Casentino e nel Chianti, 88.

Costantinopoli (Patriarca di). Viene in Firenze, B 259. Sepolto in Santa Maria Novella, ivi.

Coucy (di) Enguerramo. Occupa Arezzo, B 57. Lo vende ai Fiorentini, ivi.

Covoni. Privati degli uffici, B 61.

Cremona. Soccorsa dai Fiorentini, A 149.

Cresci Bartolommeo. Sua morte, B 225.

Crisolora Emanuele. Lettore nello Studio Fiorentino, B 234.

Cristiano, arcivescovo e arcicancelliere dell’Impero. Suoi atti in Firenze, A 14.

Cristo. Eletto re di Firenze, C 219, 220, 234.

Crociate. In esse intervengono cavalieri fiorentini, A 13, 28.

Cronaca (Il). — Ved. Pollaiolo (del) Simone.

Cronista di Palazzo. — Ved. Campana Francesco.

D.

Dagomari (dell’Abbaco) Paolo, B 435.

Damiata. — Ved. Della Pressa Buonaguisa.

Da Panzano famiglia. Si mettono col popolo in un assalto contro i grandi, A 241.

Da Panzano Luca. Sua Cronaca, ricordata, A 260. Si vendica contro uno dei Gherardini, B 29, 30. Cavaliere dei Ciompi, 30. Parte da esso presa in quel tumulto, 30, 31.

Da Rabatta e Cambi, compagnia mercantile. Fa un imprestito a Maria di Borgogna, B 407. Fallisce, ivi.

Dati Goro. Della sua Storia, B 232, 233.

Dati fra Leonardo. Ambasciatore a Martino V, B 136, 137. Sua fama ed autorità, 234.

Davanzati. Uno di quella famiglia creato cavaliere da Eugenio IV, B 253.

Davanzati Manetto, B 25.

Davanzati Niccolò. In campo contro Pisa, B 105.

Decima Scalata, B 406, C 85, 217.

[409]

Del Balzo Bertramo detto il Conte Novello. Vicario del re Roberto in Firenze, A 162. Capitano dei Fiorentini, 191, 192.

Del Bene Sennuccio, A 367.

Del Buono Niccolò. Decapitato, A 312.

Del Caccia Alessandro. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Del Chiaro Girolami Salvi. Dei primi Priori dell’Arti, A 78.

Del Fiesco famiglia. Raccomandati della Repubblica, B 142.

Del Fiesco Gian Luigi. Fatto prigione dai Fiorentini, B 418.

Del Fiesco Luca. Capitano di guerra della Repubblica, B 111, 519.

Del Garbo Dino. Principale autore della morte di Cecco d’Ascoli, A 205.

Del Melano Biagio. — Ved. Monte Petroso.

Del Migliore Filippo. Consiglia di mandare oratori a Clemente VII, C 264. Pone in salvo la Libreria Medicea, ivi.

Del Nero Bernardo. Commissario in campo sotto Pietrasanta, B 414. Gonfaloniere, C 39. Fautore dei Medici, ivi, 40. Gli è mozzo il capo, 41.

Del Nero Marco. Sua morte, C 221. Lodato dal Basini, 262.

Del Nero Canacci Niccolò. De’ Priori nel Tumulto de’ Ciompi, B 25. Si ostina a non voler lasciare il Palagio, poi cede, ivi.

Del Sarto Andrea, B 440. — Ved. San Salvi (Monastero di).

Del Verme Iacopo. Entra ostilmente nel dominio della Repubblica, B 70, 71.

Del Verme Luigi. Mandato dal Duca di Milano contro i Fiorentini, B 253.

Del Verme Taddeo. Fatto prigione dall’Aguto capitano della Repubblica, B 71.

Del Verrocchio Andrea, B 439.

Dell’Abbaco Paolo. — Ved. Dagomari Paolo.

Dell’Agnello Giovanni. Promuove la pace tra i Fiorentini e i Pisani, A 307.

Dell’Anguillara Deifebo. Viene contro lo Stato di Firenze, B 345. Al soldo della Repubblica, 394.

Dell’Anguillara Rosso. Ha in guardia alcuni ostaggi della Repubblica, A 71.

Dell’Antella. Uno di quella famiglia accusa alcuni cittadini di congiura, C 40.

Dell’Antella Alessandro. Ambasciatore a Gregorio XI, A 327.

Dell’Antella Simone. Ambasciatore a Carlo IV, A 398.

Dell’Aquila fra Piero. Inquisitore in Firenze, A 323.

Della Bella Giano. Nuovi ordinamenti da lui promossi nella Repubblica; leggi contro ai Grandi; finisce la vita in esilio, A 92-102. — Ved. Magalotti.

Della Carda Bernardino. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 171. Rompe le genti del Duca di Milano, 177. È a guardia di Poggibonsi, 197. Passa ai servigi dei Senesi, 200.

Della Casa Agnolo. Degli ultimi Priori fatti dal popolo, C 286.

Della Faggiola. — Ved. Faggiola.

Della Gherardesca (Conti). — Ved. Montescudaio.

Della Gherardesca Ugolino. Rimesso in Pisa dai Fiorentini, A 72. Sue relazioni con essi e sua morte, 81, 82.

Della Luna Francesco. Privato degli uffici, B 283.

Della Mirandola. — Ved. Pico.

Della Mirandola Franceschino. Al soldo della Repubblica, B 110.

Della Pressa Buonaguisa. Suo atto di valore all’assedio di Damiata, A 28.

Della Robbia Andrea, B 239.

Della Robbia Luca, B 239.

Della Robbia Luca. Descrive il caso di Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, C 126.

Della Robbia fra Luca, C 57.

Della Rovere Francesco. Eletto generale dei Minori Osservanti in Santa Croce di Firenze, B 360. Assunto al pontificato, prende nome di Sisto IV, ivi.

[410]

Della Rovere Francesco Maria. Spogliato del ducato d’Urbino da Leone X, che ne investe Lorenzo de’ Medici suo nipote, C 139. Lo ricupera e lo perde di nuovo, 141, 142. Capitano della Lega del 1527, 180 e segg. — Ved. Medici Lorenzo di Piero.

Della Scala signori di Verona. Fanno lega coi Fiorentini, A 208.

Della Scala Mastino. Fa guerra alla Repubblica, A 218, 219. Le vende Lucca, 219. Il Duca d’Atene gli ferma lo paghe della compra, 229. Fa lega col Duca, 231.

Della Stufa Giovenco. Dei Gonfalonieri di compagnia, B 19.

Della Stufa Prinzivalle. Vuole ammazzare il gonfaloniere Soderini. C 119.

Della Tosa. Capi, con altri, della parte dei guelfi neri, A 126. — Ved. Tosinghi.

Della Tosa Giovanni. Onore reso da lui e dai suoi consorti al Duca d’Atene, A 226. Si adopra affinchè i grandi non abbiano il Priorato, 238.

Della Tosa Lottieri, vescovo di Firenze. Tiene la parte di Corso Donati, ond’essa è detta del Vescovo, A 127.

Della Tosa Pino. Spedisce un messo ad Arrigo VII in Cortona, A 156. Capo di una setta di guelfi, opposta a un’altra che ha per capo Simone della Tosa, 161.

Della Tosa Rosso. Segue la parte de’ Donati, A 107. Confinato, 110. Avverso a Lottieri della Tosa, 127. Va al papa Benedetto XI, 134.

Della Tosa Simone. — Ved. Della Tosa Pino.

Delle Brache Bindo. Viene a trattare coi Commissari fiorentini in campo contro Pisa, B 108, 109.

Delle Celle fra Giovanni, A 367.

Delle Serre Bernardo, detto Bernardone. Capitano delle genti fiorentine e bolognesi contro il Conte di Virtù, B 90.

Diacceto (da) Filippo, B 181.

Diacceto (da) Francesco. Tiene la cattedra di filosofia Platonica in Firenze, B 432.

Diacceto (da) Iacopo, C 156. Decapitato, 157.

Diamante (Compagnia del), C 133.

Dicomano. Vi alberga la Gran Compagnia, A 298, 299.

Dieci di Balìa. Loro costituzione, B 527, 528. Sono aboliti e poi rifatti col nome di Dieci di Libertà e Pace, C 24. Nuova abolizione e nuova restaurazione, 125, 214. Definitiva abolizione, 303.

Dieci di Libertà. Loro istituzione, A 318. Riforme, B 49, 496. Importanza e attribuzioni del loro ufficio, 528.

Dieci di Libertà e Pace. — Ved. Dieci di Balìa.

Dieci del mare. Loro istituzione, A 301.

Dieci di Pisa. Loro elezione, B 116.

Difetti (Ufficiali dei). Loro riforma, B 483.

Dini Agostino. Commissario di Pistoia, C 260.

Dini Giovanni. Ammonito, A 338. Restituito, B 473, 474.

Dodici Buonuomini. Consiglio aggiunto alla Signoria, A 164. Riforme del loro ufficio, 188, 238, 239. B 49; e sua costituzione, 527. Vanno ad offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 533. Nuove riforme, 315, 320, 334, 364, 404, C 24, 125, 132.

Dodici Procuratori. Loro ufficio, B 405.

Dodici Riformatori. Loro elezione e loro provvisioni, C 325, 326.

Domenico di Silvestro. Oratore a Gregorio XI, A 327.

Dominici fra Giovanni. Di grande autorità presso Gregorio XII, B 122. Fatto cardinale, ivi, 233. Altre notizie di lui, 233.

Donatello, B 139, 242, 243.

Donati famiglia. Hanno briga coi Pazzi, A 78. In guerra tra loro, 92. Loro stato e condizione, 105. Capi dei Neri, 106. Mischie coi Cerchi, 107, 108, 109. Si muovono i Lucchesi [411] per venire in loro aiuto, 111. Congiurano contro il Duca d’Atene, 231. Assaliti dal popolo, si arrendono, 240, 241.

Donati Aldruda, A 26.

Donati Amerigo. Sentenza proferita contro di lui, A 187. Assale con altri le Stinche e ne libera i prigioni, 233.

Donati Corso. Capitano dei Lucchesi e Pistoiesi a Campaldino, A 85. Accusato al Potestà e assoluto, 100. Il popolo minuto si leva contro di lui, ivi. Capo della sua famiglia, 105. Suo stato e qualità, 107. Suo scontro con Guido Cavalcanti, 109. Confinato, 110. Rientra a forza in Firenze, 120. Sua grande potenza, 121. Suo lutto per la morte di un figliuolo, 123. Assalta il Palagio, 126, 127. Infermo di gotta, 130. Va in compagnia dei cittadini citati a comparire dinanzi a Benedetto XI, 134. Creduto d’intesa col cardinale Napoleone degli Orsini, 140. Condannato come ribello e traditore, 141. Sua morte e sepoltura, 142. Sue esequie, ivi. — Ved. Della Tosa Lottieri. Faggiola (della) Uguccione.

Donati Gemma. Moglie a Dante Alighieri, A 167.

Donati Manno, A 238. Ambasciatore presso la Gran Compagnia, 298. Per sua opera è arso Livorno, 307. Muore, 312.

Donati Simone. Suo scontro con Niccolò de’ Cerchi, A 122, 123. Sua morte, 123.

Donati Sinibaldo. Confinato, A 110.

Donato (San). Donato Acciaiuoli reca in Firenze da Arezzo una sua reliquia, B 117.

Doni famiglia. Mercanti in Lione, C 310.

Doria Andrea. Sue esortazioni alla Repubblica, C 229.

Dovadola. Presa da Bartolommeo Colleoni, B 348.

Dovadola (Conti Guidi di). Si danno in protezione alla Repubblica, B 156.

Duchessina. — Ved. Medici Caterina.

Durazzo (di) Carlo. Favorisce i fuorusciti di Firenze, B 40. Suo accordo con la Repubblica, 43. Le chiede aiuti, 56. In Firenze si festeggia il suo avvenimento al trono d’Ungheria, 60. — Ved. Barbadori Donato.

E.

Ebrei. — Ved. Usura.

Eduardo IV re d’Inghilterra. I denari di Cosimo de’ Medici gli sono d’aiuto a sostenersi nel regno, B 327.

Egitto. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Elba. I Fiorentini vi mandano un governatore, B 104.

Elisabetta regina d’Inghilterra. — Ved. Pitti Iacopo.

Empolesi. Censuari de’ Fiorentini, A 17.

Empoli. Vi si fa parlamento dei ghibellini di Toscana, A 53. Cade in mano degli Spagnuoli, C 282, 283. — Ved. Ferrucci Francesco.

Entraigues. Castellano delle fortezze tolte alla Repubblica da Carlo VIII, C 34.

Esattori (Ufficio degli), B 485.

Esecutore degli Ordinamenti di giustizia. Sua istituzione, A 139. Si ristringe la sua autorità, 189. Suo salario, 256. Ridotto alla condizione di Bargello, B 321, 365. Disposizione circa al suo stare a sindacato, 496. Suo ufficio, 529. Va ad offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 533.

Este (d’) Alberto. In lega colla Repubblica, B 67, 72.

Este (d’) Aldovrandino. Impegna i suoi allodiali ai prestatori fiorentini, A 31.

Este (d’) Alfonso. Pronunzia un lodo tra i Fiorentini e i Pisani, C 65. I Fiorentini onorano le sue nozze con Lucrezia Borgia, 73.

Este (d’) Borso. Promette e manda soccorsi alla parte avversa ai Medici, B 339, 340. Si adopra per la pace tra i Veneziani e i Fiorentini, 348.

[412]

Este (d’) Ercole I. Mandato dal duca Borso suo fratello in aiuto della parte avversa ai Medici, B 340, 345. Capitano generale dei Fiorentini e del Duca di Milano, 389 e segg. Soccorso dai Fiorentini, 409-413.

Este (d’) Ercole II. Capitano generale delle genti della Repubblica, C 240.

Este (d’) Niccolò II. A lui fu voce che i Ciompi volessero vender Firenze, B 31.

Este (d’) Niccolò III. Soccorso dalla Repubblica, B 83. Ladislao re di Napoli vuol tirarlo ai danni di lei coll’intermezzo di Francesco Sforza, 132. È al soldo dei Fiorentini, 175. S’interpone per la pace tra essi e il Duca di Milano, 202. Si adopera per la salvezza di Cosimo de’ Medici, 215.

Estimo, A 229, B 3.

Eugenio IV. Viene in Firenze, B 219. Sua ingerenza nei fatti concernenti il ritorno in patria di Cosimo de’ Medici, 223, 224. Sue proteste a Rinaldo degli Albizzi, e risposta che ne ottiene, 225. S’interpone a favore d’alcuni cittadini presi dal Potestà, 249. In lega coi Fiorentini, 250. Consacra Santa Maria del Fiore, 253. Parte da Firenze, ivi. S’adopra per la pace tra’ Fiorentini e i Lucchesi, 257. Torna in Firenze a tenervi il Concilio, 259. Manda gente a difesa della Toscana, 264. Si sdegna coi Fiorentini, 277. Parte da Firenze, 285, 286. Fa pace con Francesco Sforza, a istanza della Repubblica, 287. È in guerra con essa, 288.

F.

Fabbroni di Marradi. Fautori dei Medici, C 285.

Fabriano. Il suo dominio è sottoposto a un lodo della Repubblica, che vi manda a governarla Bartolommeo Orlandini, B 287.

Faenza (da) fra Bartolommeo. Predica in Firenze, C 266.

Faggiola (della) famiglia. È loro vietato accostarsi ad Arezzo, A 215. Si danno in accomandigia ai Fiorentini, B 58.

Faggiola (della) Uguccione. Dà per moglie una sua figliuola a Corso Donati, A 140. Gli manda aiuti, ivi. — Ved. Montecatini.

Falconieri famiglia. Seguono la parte dei Cerchi, A 106. Uno di essi è giustiziato, 162.

Farganaccio, B 214, 215.

Farnese Piero. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 304, 305. Muore ed è splendidamente onorato, 305.

Farnese Rinuccio. Al soldo dei Fiorentini, B 415.

Federigo I. Toglie il contado a’ Fiorentini, che poi lo ricuperano, A 18.

Federigo II. Mena in Puglia i capi guelfi di Firenze, A 34.

Federigo III. Viene in Firenze due volte, B 305, 306.

Federigo principe d’Antiochia. Mandato da Federigo II suo padre contro la parte guelfa in Toscana, A 33.

Ferdinando I re di Napoli. — Ved. Aragona (d’) Ferdinando.

Ferdinando il Cattolico. — Ved. Aragona (d’) Ferdinando il Cattolico.

Fermo. Si ribella alla Chiesa con l’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Ferrucci Francesco. Notizie di lui anteriori al suo commissariato di Empoli, C 261. Commissario d’Empoli, ivi, 277 e segg. Sua impresa di Volterra, 279-281. Generale commissario di tutta la campagna del Dominio, 287, 288. Va a Pisa, 288; a Pescia, ivi; e a Gavinana, 293; dove combatte ed è morto, 294, 295, 382-384. — Ved. Santa Croce Giorgio.

Feugerolles, castello. — Ved. Capponi.

Fiamminghi. Quattro di quella nazione impiccati in Firenze, B 14.

Fiandra. Vi fanno viaggi le galee mercantili della Repubblica, B 142. — Ved. Bruggia.

Ficino Marsilio. Doni fattigli da Cosimo de’ Medici, B 330. Maestro a Lorenzo nipote di lui, 352. Muore, [413] 428. Sue opere e qualità dell’animo, 431, 432. Canonico del Duomo, C 61. Rinnega il Savonarola, ivi. Un suo nipote è decapitato, 250.

Fiesole, A 1 e segg. La sua rôcca è presa da’ Fiorentini, 12.

Fiesole (Badia di). Edificata da Cosimo de’ Medici, B 328; che vi fonda una biblioteca, 329.

Fiesole (da) Mino, B 439.

Fifanti. Si ricovrano a Siena, A 41. Mettono a rumore Firenze, 59. Alcuni di loro morti o presi, 66. Esuli, non posson tornare in Firenze, 76.

Fifanti Oderigo. Uccide Buondelmonte dei Buondelmonti, A 27.

Figline. Si dà alla Repubblica, A 20. Occupata da Arrigo VII, 156; dalla Compagnia Bianca, 306. Tentata dai fuorusciti di Firenze, B 41. Vi si raccolgono le Compagnie dei Bianchi penitenti, 89. Vi si accampa il Principe d’Orange, C 243.

Figline (da) Grifone. Decapitato, A 70.

Filelfo Francesco. Insegna nello Studio Fiorentino, B 235. Sue invettive contro Sisto IV, ricordate, 385.

Filicaia (da) Antonio. Commissario in campo contro Pisa, C 105.

Filippo VI re di Francia. Suo detto relativo al Duca d’Atene, A 227.

Filippo despoto di Romania. Viene in Firenze, A 197.

Filippo fratello dell’imperatore Arrigo VI. — Ved. Arrigo VI.

Finiguerra Maso, incisore, B 440.

Fiorentini. Ricordati da Tacito negli Annali, A 1. Loro diverse origini, 3-7. Loro antica arme e come la riformassero, 7. Termine del loro contado, 13. Origine e primi progressi delle loro discordie, 15, 16. S’amplia il loro commercio, 16. Fanno giurare tutto il contado alla signoria del Comune, 28, 29. Estendono la loro azione oltre i confini di Toscana, 30. Loro nuova arme, 37. Scomunicati, 41. Capi del nome guelfo in Toscana e fuori, 65. I loro storici son tutti guelfi, 76. Loro feste nel maggio, 89. Loro stato alla fine del secolo XIII, 90. Pongono una gravezza ai chierici, 139. Loro commercio e industrie, 180, 181. Riordinano il governo, 202-205. Scema il loro credito nella mercanzia e nelle arti, 212. Prendono nuove fogge di vestire, 227. Loro antico proverbio, 231. Loro stato, entrate e spese, 249-258. Mandano ad armar galere in Provenza, onde ha principio la loro armata di mare, 301. Quando comincino a usare il volgare nelle scritture pubbliche, 352, 353. Loro antico governo, 378-389. Si discorre del libro intitolato: De libertate civitatis Florentiæ ejusque dominii, 411; e della risposta ad esso, ivi, 412. Quando cominciarono gli studi intorno ad essi e allo Stato della Repubblica, 438. Quando creassero il primo debito, B 4. Loro spese disordinate nel comun vivere, 7. Gran numero di ambascerie da essi mandate l’anno 1396, 84. A quanto ammontassero le loro possessioni e i capitali sul Monte dopo l’acquisto di Pisa, 119. Perdono una nave carica di lane e altre merci, 125. Loro grandi commerci, 139-142. Somme da essi spese in varie guerre, 144. Paragone tra essi e i Veneziani, 149, 150. Loro stato, usi e costumi, C 204, 208. Alcuni andati in Francia mutano desinenza al loro cognome, 310.

Fiorino d’oro. Fatto coniare dall’Arte di Calimala, A 38. Quanti se ne battessero l’anno, 251. Ridotto al peso di quello di Venezia e detto Fiorino largo di galea, B 142.

Firenze. Sua origine, A 1 e segg. Sede di un vescovo, 3. Primo e secondo cerchio, 8. Sue torri, 36. Colle pietre delle case dei ghibellini disfatte si edificano le sue nuove mura, 125. Principio del terzo cerchio, 180. Divisa in Quartieri, 237, B 524. Sua statistica dell’anno 1336, A 249-253. Divisa in Sestieri; loro nomi e insegne, 383, 384. Inalzata a sede arcivescovile, B 138. Fortificazioni e abbattimento delle sue torri, C 176. Suoi edifici ai primi del secolo XVI, 205, 206. Nuove fortificazioni, 250, 251, 256.

[414]

Firenze (da) Benedetto d’Amerigo, priore della Badia di Firenze, B 555, 556.

Firenze (da) fra Benedetto, scrittore della vita del Savonarola, C 54.

Firenze (da) Miniato di Francesco d’Andrea, monaco di Badia, B 556.

Firenze (da) Nofri d’Andrea, dei Predicatori, B 556.

Firenzuola. Edificata dai Fiorentini, A 216. — Ved. Ramazzotto.

Fivizzano. È posto a sacco dalla gente di Carlo VIII, C 11.

Flagellanti (Processione dei). Viene in Firenze, A 211.

Foiano, in Val di Chiana. Assediato dal re Ferdinando d’Aragona, A 307.

Foiano (da) fra Benedetto, domenicano. Predica in Firenze, C 266. Fatto morire da Clemente VII, 307.

Foraboschi Razzante. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Forlì. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326; che poi tentano liberarlo dalle mani del Duca di Milano, B 158.

Fornai (Arte dei). Si oppone alla venuta in Firenze di Carlo di Valois, A 116.

Fortebracci Niccolò. Al soldo dei Fiorentini, B 185; e poi dei loro nemici, 198. Amico a Neri Capponi, 205.

Fortini Bartolommeo. Privato degli uffici, poi restituito, B 283.

Fortini Benedetto. Privilegio a lui concesso, B 476.

Fortini Paolo. Rimosso dall’ufficio di cancelliere della Repubblica, B. 169.

Foscari Francesco doge di Venezia. Dà opera con Francesco Carmagnola a formare la lega tra quella Repubblica e i Fiorentini, B 173-174.

Foscari Francesco. Ambasciatore veneto in Firenze, C. 228.

Fossi (Porta de’), A 157.

Francesco I re di Francia. Gli sono inviati oratori dalla Repubblica, C 138. È in lega con lei, 216. Le fa gran promesse, ma non le attiene, 232, 233. Capitoli tra esso e Leone X in cui viene inclusa la Repubblica, 357-360. — Ved. Leone X.

Francesco di Lorena granduca di Toscana, C. 336.

Francesi. Alcuni di quella nazione vengono assoldati dalla Repubblica, A 191.

Franco Matteo, B 443.

Franzesi famiglia. Condannati dopo la Congiura de’ Pazzi, B 378.

Franzesi Musciatto. Potentissimo presso i guelfi neri, A 126.

Franzesi Napoleone. È a parte della Congiura de’ Pazzi, B 371. Sua fine 377.

Fraticelli, setta, A 335.

Fregosi o Da Campo Fregoso. — Ved. Sarzana e Sarzanello.

Frescobaldi. In guerra tra loro, A 92. Stanno co’ Cerchi, 106. A casa loro smonta, venendo in Firenze, Carlo di Valois, 117. Alcuni di essi sono dei guelfi neri, 126. Congiurano con gli altri grandi e coi fuorusciti contro gli ordini popolari, 222. Congiurano contro il Duca d’Atene, 231. Assaliti dal popolo, si arrendono, 241. Rimossi dagli uffici, B 246,

Frescobaldi (Piazza dei), A 108.

Frescobaldi Battista. Attenta alla vita di Lorenzo de’ Medici ed è impiccato, B 407.

Frescobaldi Leonardo. Ambasciatore a Bonifazio IX, B 85.

Frescobaldi Tegghia. Sentenza pronunziata contro di lui, A 187.

Frescobaldi Tommaso. Sua morte, B 176.

Fronte (di) Piero. — Ved. Camera del Comune. Santo Spirito (Convento di).

Fucecchio. Difeso dai fuorusciti guelfi, A 54. Vi viene a oste Castruccio, 164. Vi vanno a campo i Fiorentini, 186. — Ved. Cadolingi (Conti).

[415]

G.

Gabbrielli Cante. Potestà di Firenze, A 124, 125.

Gabbrielli Francesco. Capitano del popolo di Firenze, B 75. Testo della sua elezione, 507-510.

Gabelle diverse, A 253, 256. Loro ufficiali, B 485, 528.

Gaddi Gaddo, A 178.

Gaddi Taddeo, A 178.

Gaetani Piero. Vende Laiatico e altre castella ai Fiorentini, B 102. Gli sono tolte certe robe dai Gambacorti, 520-521.

Gagliano (da) fra Roberto. — Ved. Ubaldini da Gagliano.

Galigai famiglia. Son disfatte le loro case, A 97. Ricordati, 430.

Galilei Galileo, B 467. Nasce il giorno che muore Michelangiolo, C 204.

Gallura (Giudice di) Nino, A 143.

Gambacorti. Grandi amici della Repubblica, A 272-273. Tre di essi fatti decapitare dall’imperatore Carlo IV, 273. A uno di loro si marita una figliuola di Rinaldo degli Albizzi, B 270. — Ved. Gaetani Piero.

Gambacorti Giovanni. Chiede un salvacondotto alla Repubblica per gli oratori pisani, B 102. Assediata Pisa, vuol cacciarne le bocche inutili, 106. Tratta di accordo coi Commissari fiorentini, e lo ferma, 107-109. Consegna la città, 111.

Gambacorti Piero. Conferma ai Fiorentini i loro privilegi in Pisa e ne aggiunge dei nuovi, A 309. Cerca schermirsi col Papa e i Fiorentini in guerra tra loro, 328. Viene in Firenze a procurare un accordo, 338. Nelle sue case si stipulano alcune convenzioni tra l’imperatore Carlo IV e la Repubblica, 399. Mediatore di una lega tra il Conte di Virtù e i Fiorentini, B 65. Desidera metter pace tra quei due Stati, 71. Ucciso, 73.

Gambassi. Quel castello torna in potere dei Fiorentini, A 97.

Gangalandi (da) famiglia. Sono esuli da Firenze e non posson tornarvi, A 76.

Garfagnana. Vi si combatte tra Fiorentini e Pisani, A 305. Quei castelli son ricuperati dalla Repubblica, B 197.

Gargiolli Andrea. Ha il comando delle navi della Repubblica, B 125.

Gasparre. Uno di questo nome scrive le petizioni dei Ciompi, B 29.

Gaudenti (Frati). — Vedi Andalò Lotteringo. Malavolti Catalano.

Gavinana. Battaglia ivi successa, C 293, 294, 383, 384.

Genova. Vi sono sequestrate robe dei Fiorentini, B 96.

Genovesi. Sconfitti dai Fiorentini, B 199; indi soccorsi, 252. Hanno guerra con essi, 418. Tolgono loro Sarzana, C 34. Fanno lega con la Repubblica, 161-162. — Ved. Livorno.

Gerusalemme. Cosimo de’ Medici vi apre e dota uno spedale per i pellegrini, B 328.

Gherardi Iacopo. Oratore a Siena, A 42.

Gherardi Iacopo. Nimicissimo di Niccolò Capponi, C 227. Decapitato, 308.

Gherardini. Vanno in esilio, A 52. In guerra coi Manieri, 92. Fanno pace coi Buondelmonti, 119. Arsione delle loro case, 131. Di gran potenza in contado, 132.

Gherardini Cece. Non è voluto ascoltare un suo consiglio, A 46.

Gherardini Lotteringo. Sentenza pronunziata contro di lui, A 187.

Gheri Goro. Segretario di Lorenzo de’ Medici Duca d’Urbino, C 144, 145.

Ghibellina (Via), A 52.

Ghibellini. Primo principio di quella fazione in Firenze, A 16. Quando vi si cominci a pronunziare un tal nome, 26. Cavalieri di questa e della contraria parte vanno insieme in Terra Santa, 28. Entrano vittoriosi in Firenze dopo la battaglia di Montaperti, 52. Mettono a rumore la [416] terra, 59. Si rifugiano a Siena ed a Pisa per le loro castella, 62. Sentenze contro di loro, 65. Danno principio alla colonia dei Fiorentini in Francia, ivi. Sconfitti, 66, 67. Colle pietre delle loro case si edificano le mura della città, 125.

Ghiberti Lorenzo. Delle sue porte di San Giovanni e di altre opere, B 243, 244.

Ghinazzano (da) fra Mariano. Predica in Firenze contro il Savonarola, C 39.

Ghirlandaio Domenico, B 439.

Giachinotti Pier Adovardo. Commissario in Pisa, C 288. Dannato a morte, 308.

Giacomini Antonio. Commissario in campo contro Pisa, C 97.

Giamboni Bono, A 175.

Giandonati. Vanno in esilio, A 52.

Gianfigliazzi. Seguono la parte dei Donati, A 107; e quella dei guelfi neri, 126. Un loro castello cade in forza d’Arrigo VII, 159. Vengono armati in Piazza, B 212, 222. — Ved. Marignolle.

Gianfigliazzi Bongianni. Commissario in campo sotto Pietrasanta, B 414. Muore, 415.

Gianfigliazzi Iacopo. In campo contro Pisa, B 105. Armato cavaliere, 111.

Gianfigliazzi Luigi. Ambasciatore a Carlo IV, A 398.

Gianfigliazzi Rinaldo. Gonfaloniere, B 54. Gli è consegnata dalla Signoria l’insegna del Popolo, 77. Disfà il parentado dì una sua figliuola con un Alberti che poi si sposano, 78. Suo discorso nelle Consulte, 159-160. Ha per nuora una figliuola di Rinaldo degli Albizzi, 324.

Gianni famiglia. Posti a sedere, B 283.

Gianni Astorre. Commissario in campo contro Lucca, B 189 e segg.

Gianni (Fra), familiare del Cardinale Ottaviano degli Ubaldini, A 377.

Giannotti Donato. Segretario dei Dieci della guerra, C 218, 261. Porta innanzi il Ferruccio, 261. Durante l’Assedio, tenta d’indurre Stefano Colonna a fare una sortita, 295. Confinato, 309.

Ginesio, giudice, Oratore a Clemente IV, A 374, 375.

Ginori Giorgio. Assale in Prato Bernardo e Silvestro Nardi che aveano occupata quella terra, B 351.

Ginori Lionardo. Oratore con altri al Principe d’Orange; loro lettere, C 246, 370-376. Viene a Firenze, 560.

Giogoli presso Firenze, A 194.

Giordano (Conte). Capitano di guerra e Vicario del re Manfredi in Firenze, A 52. Richiamato, 53.

Giordano (Frate), A 362.

Giotto, A 177, 178, 212. — Ved. Inondazione.

Giovanna figliuola di Nino giudice di Gallura, A 143.

Giovanna regina di Napoli. Vende Prato ai Fiorentini, A 260. S’interpone per la pace tra essi e Gregorio XI, 332, 339.

Giovanna sorella del re Ladislao. I Fiorentini procurano il suo matrimonio con Sigismondo re d’Ungheria, B 84.

Giovanni XXIII. S’accorda col re Ladislao per intramessa de’ Fiorentini, B 131. Alloggia in Firenze, fuor della porta a San Gallo, 131-132. Suo detto a Bartolommeo Valori, 136. Fa atto di sottomissione a Martino V in Firenze, 138. Ha la sepoltura e un monumento nella chiesa di San Giovanni, 139. Suoi esecutori testamentari, ivi.

Giovanni principe della Morea. Viene in Firenze, A 197.

Giovanni re di Boemia. Lega fatta dai Fiorentini contro di lui, A 208.

Giovanni re di Portogallo. Deposita denari sul Monte di Firenze, B 144.

Giovanni (ser) Fiorentino, B 231.

Giovanni Gualberto. Fonda il monastero della Vallombrosa, A 26. — Ved. Petroio (Signori di).

[417]

Giovanni di Mone, biadaiuolo. Fatto cavaliere dai Ciompi e assegnatagli la rendita della piazza di Mercato Vecchio, B 22, 36, 474. Sua morte, 43.

Giovannini Carlo, notaro, B 557.

Giraldi. Uno di quella famiglia è ammonito, B 11.

Giramonte, presso Firenze. Vi alloggiano gl’Imperiali condotti da Alessandro Vitelli, G 257.

Girolami. Loro torre, A 60.

Girolami Raffaello. Ambasciatore a Carlo V, C 236, 237. Torna in Firenze, 238. Commissario in campo contro l’Orange, 251. Gonfaloniere, 263, 264. Uomo leggiero, 287. Entra nella Balìa creata dopo la resa della città, 304. Sua morte, 308.

Giudice delle Appellagioni. Suo salario ed ufficio, A 256, 381, 382.

Giudici (Collegio dei). Numero dei suoi componenti, A 251.

Giugni. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Assalgono i bianchi, 130. Imparentati con Cosimo dei Medici, B 209.

Giugni Andrea. Egli e Piero Orlandini, accusati di aver venduto Empoli agli Spagnoli, sono dipinti in Firenze per traditori, C 283.

Giugni Bernardo. Oratore a Venezia, B 289; a Milano, 336, 337.

Giulio II. Soccorso dai Fiorentini C 101. Li interdice, poi li assolve, 111, 112. Li invita a una lega contro Luigi XII re di Francia, 115, 116.

Giullari (Pian di). Vi alloggia il Principe d’Orange, presso le case dei Guicciardini, C 257; e Baccio Valori, ivi.

Giustino luogotenente dell’imperatore Giustiniano. Difende Firenze contro Totila, A 2.

Gofo (di) Ghigo, A 191.

Golfolina, A 196.

Gondi Gian Battista. — Ved. Strozzi Marco.

Gondi Simone. Degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Gonfaloniere di giustizia. Aggiunto ai Priori, A 95. Tolto dal Duca di Atene, 227. Rifatto, 239. Altre notizie intorno ad esso, 421, 422. Riforme del suo ufficio, B 36, 37, 49, 53. Si determina l’età necessaria per esercitarlo, 75. È fatto a mano, 213. Costituzione del suo ufficio, B 525-530. Si ricomincia a trarlo a sorte, 315. Gli è data la mano sul Potestà, 321. Eletto a vita, C 90, 91. Ridotto di nuovo a due mesi, 125, 132. Nuova riforma, 215. Si decreta che non possa dar voto nei Consigli, 263. Rifatto per due mesi, 303. Abolito, 325. — Ved. Signoria.

Gonfalonieri di compagnie. Quando istituiti, A 138. Tratti a sorte, 188. Cassati dal Duca d’Atene, 228. I grandi, fatti di popolo, hanno divieto temporaneo a quell’ufficio, 244. Loro riforme, B 49, 480, 492, 516, 517. Costituzione del loro ufficio, 527. Vanno ad offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 532. Nuove riforme, 315, 321, 334, 364, C 24, 125, 132.

Gonzaga Federico marchese di Mantova. Al soldo dei Signori di Milano collegati con la Repubblica nella guerra con Sisto IV, B 394.

Gonzaga Federigo da Bozzolo. Capitano nell’esercito Francese in Firenze. Persuade alla Signoria venire a un accordo, di cui stende l’atto Francesco Guicciardini, C 211, 212.

Gonzaga Ferrante. Nel campo degli Imperiali sotto Firenze, C 289. Invitato da Malatesta Baglioni a venire in città, ivi. I Fiorentini gli negano il salvocondotto, 291. Forma con Baccio Valori i capitoli di un accordo colla città, 296. Sue lettere dal campo al marchese Federigo suo fratello, 377-384.

Gonzaga Ridolfo. Al soldo della Repubblica, B 387.

Gorini. Da una donna di quella famiglia nasce Clemente VII, B 379.

Gozzoli Benozzo, B 439.

Gran Compagnia. Si compone coi Fiorentini per danari, A 293. Il Conte Corrado di Lando le ottiene [418] il passo pel territorio della Repubblica, 296. Sbaragliata, e ferito il Conte, 297. Minaccia il contado di Firenze, 299. — Ved. Donati Manno.

Grandi. Privati degli uffici, indi riabilitati con certi divieti, A 243-245, 496. Tamburo ordinato contro di loro, 497.

Grascia (Ufficiali della). I Ciompi ardono le loro scritture, B 21. Loro riforme, 483, 493. Loro attribuzioni, 528.

Grasselli di Milano. Uno di quella famiglia è potestà di Firenze, A 24.

Gravezze. (Accatti, balzelli, prestanze.) Imposte dopo annullato il Catasto, B 279 e segg., 299, 300, 312, 313; e dopo rinnovato, 349. Il Savonarola si adopra a riformarne la distribuzione, C 31. Imposte per la guerra con Carlo V, 217. Altre dopo la resa della città, 303-305. — Ved. Catasto. Decima Scalata. Graziosa.

Gravina (Duca di) Piero. Mandato dal re Roberto suo fratello in aiuto dei Fiorentini, A 161. Muore a Montecatini, ivi.

Graziani. Sì corregge un errore della sua Cronaca di Perugia, A 271.

Graziosa. Nome di una gravezza, B 280.

Grazzini Simone, notaro, B 557.

Gregorio X. Sua dimora in Firenze, A 70, 71. Interdice la città, poi la ribenedice e la scomunica di nuovo, 71, 72. Ricordato, 123. — Ved. Niccolò III.

Gregorio XI. Sua guerra coi Fiorentini, A 319, 320.

Gregorio XII. Chiede di venire in Firenze e non gli è concesso, B 121. I Fiorentini gli mandano Gino Capponi e lo fanno scortare da Lucca a Siena, 122, 123.

Gregorio di Lorenzo, ufficiale della gabella del vino, B 485.

Grimaldi signori di Monaco. Loro patti con la Repubblica, B 142, 143.

Grimaldi Perino. Capitano di galere condotto dai Fiorentini, A 304.

Guadagni. Uno di quella famiglia è decapitato, B 320. Mercanti in Lione, C 310.

Guadagni Bernardo. Rinaldo degli Albizzi favorisce la sua tratta a gonfaloniere, B 211. Favorisce la liberazione di Cosimo de’ Medici dalla prigione, 215, 216. Capitano di Pisa, 216. Sua morte e d’un suo figliuolo, 249.

Guadagni Francesco. Condannato al carcere perpetuo, B 248.

Guadagni Migliore. Gli sono arse le case, B 13. Sono abolite alcune riforme fatte in un suo gonfalonierato, 473.

Guadagni Vieri. In campo contro Pisa, B 105. Uno degli esecutori testamentari di Giovanni XXIII, 139.

Gualandi Giovanni. Tenta indurre i Pisani a scuotere il giogo dei Fiorentini, B 117, 197.

Gualdo (da) Antonio, vicario della Curia fiorentina. Autentica la copia della Confessione del Montesecco, B 558.

Gualterotti Francesco. Ambasciatore a Napoli, C 102.

Guardamorto (Torre del). Abbattuta, A 33.

Guarino Giambatista. Insegna nello Studio Fiorentino, B 235.

Guasconi famiglia. Vengono armati in Piazza, B 222. Rimossi dagli uffici, 246.

Guasconi Giovacchino. Sta a guardia della Piazza mentre si capitola coi Cesarei che assediavan Firenze, C 300.

Guazzalotri famiglia. Congiurano coi grandi di Firenze, A 222. Sette di loro decapitati in Firenze, 260.

Gubbio. Manda aiuti ai Fiorentini contro Arrigo VII, A 157. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, 326.

Gubbio (da) Lando. Bargello in Firenze, A 162.

Guelfi. Primo principio di questa fazione in Firenze, A 16. Quando vi s’incominci a pronunziare un tal nome, 26. Cavalieri di questa e della contraria parte vanno insieme in Terrasanta, 28. Si ritirano a Lucca dopo la sconfitta di Montaperti 53. Ne son cacciati, 55. Si [419] rifugiano in Bologna e altrove, 55. — Ved. Clemente IV.

Guelfo marchese di Toscana, A 13.

Guicciardini. — Ved. Giullari (Pian di).

Guicciardini Francesco. Suoi giudizi di Lorenzo de’ Medici, B 425, 429. Oratore in Ispagna, C 116. Suo parere intorno al governar Firenze, ricordato, 145. Uffici che sostiene per il Papa, 150, 153. Lui e Roberto Acciaiuoli detti dal Varchi le più savie teste d’Italia, 156. Luogotenente del Papa nella guerra con Carlo V, 175 e segg. Dell’uomo e de’ suoi scritti, 191-196. Scrive contro la Decima Scalata, 217. Sta in villa dove scrive la Storia, 219. Gli è intimato di tornare a Firenze, 249. Torna, 308. Come lo chiamassero in Firenze, 309. Si adonta di sottostare a Baccio Valori, 312, 313. Luogotenente per il Papa in Bologna, 314. Di un suo Discorso sulla Riforma dello Stato, 320, 321. Pratica per farne assoluto signore Alessandro de’ Medici, 324. — Ved. Gonzaga Federigo da Bozzolo.

Guicciardini Giovanni. Commissario in campo contro Lucca, B 192. — Ved. Guicciardini Piero.

Guicciardini Iacopo. Commissario in campo nella guerra contro Sisto IV e Ferdinando di Napoli, B 388.

Guicciardini Iacopo. Ambasciatore a Clemente VII, C 246, 247.

Guicciardini Luigi. Gonfaloniere, B 14. Gli è arsa la casa, ed è creato cavaliere dai Ciompi, 19, 20.

Guicciardini Luigi. Ambasciatore a Milano, B 236; e al Papa, 402.

Guicciardini Luigi. Avverso al Principato, C 209. Gonfaloniere, 211. Commissario di Pisa, 308. Di un suo Discorso circa la riforma dello Stato, 321.

Guicciardini Piero. Ritiene il fratello Giovanni dall’andare in aiuto di Rinaldo degli Albizzi, B 223.

Guicciardini Piero. Va nelle ambascerie, C 88. Oratore all’imperatore Massimiliano, 108.

Guidi (Conti). — Ved. Conti Guidi.

Guido Guerra (Conte). Capitano di guerra dei Fiorentini, A 38. Consiglia non doversi muovere l’oste contro Siena, 46.

Guido Novello (Conte). Potestà in Firenze per il re Manfredi, A 52; poi suo capitano di guerra e Vicario generale in Toscana, 53. Sconfigge i fuorusciti guelfi, di Firenze, 54. Combatte coi guelfi in città, n’esce e va a Prato, 60, 61. I Fiorentini guastano le sue terre nel Casentino, 84. — Ved. Adimari Bonaccorso.

Guiducci Taddeo. Commissario in Volterra per Clemente VII, C 279, 280.

Guinicelli Guido, A 172.

Guinigi Ladislao. La Repubblica rifiuta di prenderlo ai suoi stipendi, B 186.

Guinigi Paolo signore di Lucca. Disposto a favorire i Pisani assediati dalla Repubblica, B 106. A lui ricorrono per aiuto i Volterrani ribellatisi ai Fiorentini, 184. Guerra mossagli dalla Repubblica, 187 e segg. Tratta di venderle Lucca, 104.

Gusciana (Fosso della), A 192.

H.

Habsburgo (di) Giovanni e Rinaldo. Al soldo dei Fiorentini, A 303.

Hawkwood. — Ved. Aguto Giovanni.

I.

Iacopo, chierico, A 376, 377.

Iacopo, notaro. Trascrive un antico atto fatto tra la Repubblica e gli uomini di Pogna, e ne sbaglia la data, A 442.

Imborsazioni e Tratte. Quando cominciassero, A 188, 189.

Imola. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326. Cagione delle prime inimicizie tra Lorenzo de’ Medici e Sisto IV, B 361-362.

[420]

Impruneta (Tavola della Madonna dell’). Custodita in Santa Maria del Fiore, durante l’Assedio, C 252.

Incisa. Quivi presso avviene un fatto d’arme tra i Fiorentini e i tedeschi d’Arrigo VII, A 157. I Fiorentini vi son rotti dalla Compagnia Bianca, 306.

Infangati Mangia. Decapitato, A 41.

Ingelberto marchese di Toscana. Cacciato del suo Stato dai Conti Guidi, A 12.

Inghilterra. Ne son cacciati i Fiorentini, A 328. Vi fanno viaggi le galee mercantili della Repubblica, B 142.

Inghilterra (Re d’). Sovvenuto di grandi somme di denari da’ Bardi e Peruzzi, ond’essi falliscono, A 211, 212.

Innocenti (Spedale degli). — Ved. Santa Maria degl’Innocenti.

Innocenzio III. Sua lettera al Priore e ai Rettori della Lega guelfa di Toscana, A 19. Ricordato, 74.

Innocenzio VIII. Gli è fatta guerra dai Fiorentini e da Lorenzo de’ Medici, B 416, 417; che poi gli diventano amici, 420.

Inondazione dell’anno 1333, dopo la quale vien chiamato Giotto a dirigere i lavori di riparazione, A 209-210.

Inquisizione in Firenze, A 205.

Interminelli (degli) Castracani Castruccio. Guerra da esso fatta alla Repubblica, A 185-186,191-197.

Istria. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

L.

Ladislao re di Napoli. I Fiorentini tentano amicarlo col Papa, B 84. Ricusa di prendere in protezione i Pisani contro la Repubblica, 102-103. Sue relazioni coi Fiorentini circa al Concilio di Pisa, 123, 124. In guerra con loro, 124-125, 127. Fa la pace, 129. S’accorda col Papa per intramessa della Repubblica, 131. Fa nuova guerra alla Repubblica, 132. Conchiude con essa una lega, 133.

Laiatico. — Ved. Gaetani Piero.

Lamberti. Uno di quella famiglia stipula, in nome dei ghibellini usciti di Firenze, un atto di lega coi Senesi, A 37. Fuggono da Firenze, 41. Mettono a rumore la città, 59. Esuli, non posson tornare a Firenze, 76. Sono arse loro le case, 130. Origine attribuita loro dal Villani, 431. Uno di essi tien grado in Ungheria, B 134. — Ved. Calimala (Via).

Lamberti Mosca. Prende parte all’uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti, A 27.

Lamberto (di) Tignoso. Uno dei Consoli di Firenze, A 22.

Lana (Arte della). Le è dato la cura di proseguire la fabbrica di Santa Maria del Fiore, A 212. Numero grande delle sue botteghe, 250. Sua preminenza sulle altre Arti, B 8, 9. I Ciompi n’ardono il Palagio e le scritture, 19, 21. Riforma dell’ufficio de’ suoi Consoli, 49. Si oppone a una sollevazione delle Arti minori, 49-50. A sua richiesta, s’interdice per cinque anni l’entrata dei panni forestieri in Firenze, 77. Continua il suo splendore, 140. Testo di alcune disposizioni intorno ad essa, 491, 499. Essa e quella della Seta sono le principali ricchezze di Firenze, C 207.

Landi Antonio. È ai servigi degli oratori fiorentini presso il Principe d’Orange, C 375.

Landino Cristoforo. Sue opere, B 352, 432, 458. Sua sentenza intorno la Lingua, 446.

Lando (di) Conte Corrado. — Ved. Gran Compagnia.

Lando (di) Conte Luzzo o Lucio. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 331, 332.

Lanzi. — Ved. Poggio Imperiale, già Villa de’ Baroncelli.

Lastra a Signa. Persa dai Fiorentini nell’Assedio, C 260. — Ved. Magalotti.

Latini Brunetto. Ambasciatore ad Alfonso re di Castiglia, A 52. Ha bando da Firenze, ivi. Si tocca delle sue opere, 174, 175.

[421]

Latino (Cardinale). — Ved. Malabranca.

Laurenziana (Biblioteca). Ha origine da quella di Cosimo de’ Medici, B 329.

Lavaiano (da) Gasparre. Viene a trattare coi Commissari fiorentini in campo contro Pisa, B 107.

Lavello (da) Cristoforo. Mandato dal Duca di Milano contro Firenze, B 253.

Lecce (Giudice di). È del consiglio del Duca d’Atene in Firenze, A 230.

Leccia o Monteluco nel Chianti, B 250.

Lega guelfa in Toscana, A 19, 21.

Leghe del contado e distretto, A 36, 95, 96.

Le Maingre (Bouciquaut e Bucicaldo) Giovanni, governatore in Genova pel Re di Francia. Intima ai Fiorentini di cessare le offese contro Pisa, B 95. Fa sequestrare in Genova le loro robe, che poi vengono restituite, 95-96. Sue pratiche con Gino Capponi, 98-101. Non contrasta più ai Fiorentini l’impresa di Pisa, 108.

Lemmo (di) ser Giovanni. Sua Cronaca ricordata, A 163.

Lenzi Simone, Biadaiuolo. Suo Diario ricordato, A 206.

Leone X (Giovanni de’ Medici). Sua magnificenza e suo carattere, C 129-131. Festa in Firenze per la sua elezione, 131. Sue incertezze tra Francia e Spagna, 137. Viene in Firenze, 138, 139. Vi torna, 139. Chiede pareri sul governarla, 145. Suoi trattati con l’Imperatore e col Re di Francia, e parte che prende nella guerra tra i due Monarchi, 147-151. Sua morte, 151-152. Testo dei trattati, 348-360. — Ved. Della Rovere Francesco Maria. Marignolle. Medici Ippolito. Santa Maria del Fiore (Capitolo di).

Leoni. Ve n’era un serraglio in Firenze, A 42. Spese per il loro pasto, 257.

Leoni Piero, medico. Sua morte, B 428.

Leonzio Pilato. Chiamato a insegnare nello Studio Fiorentino, B 229.

Libertini. Nome di parte, C 216.

Linari, castello. Ricuperato dai Fiorentini, B 200.

Linguadoca (di) Pier Ferrante. Congiura in Firenze colla parte dei bianchi, A 124.

Lione. Vi sono case di mercanti fiorentini, A 252; i cui traffici si accrescono per il concorso dei fuorusciti, C 137. Questi mandano denari in patria durante l’Assedio, 286. Vi cresce il numero degli esuli dopo la resa della città, 310.

Lioni Ruberto. Gonfaloniere, B 342.

Lippi fra Filippo. B 439.

Lippo (di) Neri. Dei primi priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Livorno. Arso dai Fiorentini, A 307. Venduto loro dai Genovesi, B 143, 144. Restituito da Carlo VIII, C 34. Assediato dall’imperatore Massimiliano, 37. La sua fortezza torna in mano dei Fiorentini, 218. — Ved. Medici (de’) Ferdinando I.

Lodovico il Bavaro, A 198 e segg.

Lodrone (Conte di). Ha la guardia di Firenze, partitone Malatesta Baglioni, C 307.

Loro. Ricuperato dalla Repubblica, A 97.

Lucardo. Occupato da Arrigo VII, A 159.

Lucca. Offerta ai Fiorentini dai tedeschi ribellatisi da Lodovico il Bavaro, A 207. I Fiorentini tentano occuparla ma ne sono impediti dai Pisani, 304. — Ved. Guinigi Paolo.

Lucca (da) Uberto. Primo capitano del popolo di Firenze, A 35.

Lucchesi. Atto di una loro promissione ai Fiorentini, ricordato, A 24. Soccorrono i Fiorentini contro Siena, 47. Danno ricetto ai fuorusciti di Firenze e di altri luoghi di Toscana, 51, 53; poi li cacciano, 55. Fanno lega con la Repubblica, 67. Intervengono alla pace da essa fatta coi Pisani, 96. Si muovono per venire in aiuto dei Donati, 111. Vengono in aiuto della Repubblica, 127. [422] Stando in Firenze, mandano i bandi da parte del Comune di Lucca, ivi. Spartiscono coi Fiorentini la signoria di Pistoia, 137. Li soccorrono contro Arrigo VII, 157. Fanno lega con essi in guerra con Gregorio XI, 324. Si ristringono sempre più, B 83. Imprese dei Fiorentini contro di loro, 187 e segg., 255. Collegati della Repubblica, inclinano ai nemici di lei, 392, 393. Le tolgono Pietrasanta, C 34. Aiutano i Pisani osteggiati dalle sue armi, 67, 104. Vengono agli accordi, 104.

Lucignano. Viene in potere della Repubblica, B 58. Le è ritolto, 65.

Luigi XI. Concede a Piero de’ Medici di fregiare dei gigli di Francia l’arme sua, B 362. Sua lettera a Lorenzo de’ Medici dopo la Congiura de’ Pazzi, e risposta di Lorenzo, ricordate, 385. Sua interposizione per la pace tra la Repubblica e Sisto IV, 390, 391.

Luigi XII. Aiuta i Fiorentini contro Pisa, C 69, 70, 77. Vuol rimettere i Medici in Firenze, 77. Suo accordo con la Repubblica intorno alle cose di Pisa, 104. Ottiene da essa di adunare un Concilio in quella città, 110, 111. Non potendo aiutare Firenze contro Spagna ed il Papa, desidera ch’ella si salvi per accordi, 116. — Ved. Chaumont (di) Carlo.

Lupo Bonifazio. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 302. Deposto, 304. — Ved. Bonifazio (Spedale di).

Lupo Ramondino. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 265.

M.

Macerata. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Machiavelli. Vanno in esilio, A 52.

Machiavelli Girolamo. È posto alla tortura e muore in carcere, B 320.

Machiavelli Niccolò. Sua Vita di Castruccio, ricordata, A 184. Si cita la sua Storia a proposito delle contese tra Albizzi e Ricci, 287, 288. Scrive erroneamente essere stato autore e trovatore del Catasto Giovanni de’ Medici, B 179. Cancelliere dei Nove dell’Ordinanza e Milizia, C 99, 100. Sue legazioni a Bologna e all’imperatore Massimiliano, ricordate, 101, 103. Sua fiera risposta agl’inviati di Pisa assediata dai Fiorentini, 106. Sue legazioni in Francia, 110; e legazione in Pisa al Concilio, ricordate, 112. Suo parere circa il governo di Firenze, ricordato, 155. Brano di una sua lettera relativa a Giovanni delle Bande nere, 178. Muore, 183. Notizie e pensieri intorno all’uomo ed alle sue opere, ivi-191. — Ved. Ammirato Scipione. Cavalcanti Giovanni.

Machiavelli Vico. Sua morte, C 285.

Magalotti. Parenti di Giano della Bella, A 101. Tengono la parte dei guelfi neri, 126. Uno di essi assale con altri, alla Lastra a Signa, la casa dove erano i messi d’Arrigo VII, 151.

Magalotti Filippo. È tratto gonfaloniere, ma non prende l’ufficio, B 61. Governatore di Piombino e dell’Elba, 104.

Magalotti Giovanni. Pratica contro gli Albizzi e Ricci, A 317. È degli Otto creati per la guerra con Gregorio XI, 338. Tenta di porre un freno alle violenze della Parte Guelfa, ivi.

Magra. Termine del dominio della Repubblica, B 157.

Maiano (da) Dante, A 173, 174.

Maiorca. Vi va un’ambasceria della Repubblica, B 142.

Malabranca (de’) Cardinale Latino. Paciaro in Firenze, A 73.

Malaspina famiglia. Alcuni di essi si danno alla Repubblica, B 104, 157. Imparentati con Cosimo dei Medici, 209.

Malaspina Gabbriello. Una sua figliuola è moglie a Piero Soderini, C 92.

Malatesta famiglia. È in lega coi Fiorentini, B 265.

Malatesta Annalena. Moglie di Baldaccio d’Anghiari, B 276.

Malatesta Carlo. Al soldo dei Fiorentini, B 86, 87, 158.

[423]

Malatesta Gismondo. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 292.

Malatesta Malatesta. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 127, 128.

Malatesta Pandolfo. Capitano di guerra dei Fiorentini, A 306.

Malatesta Pandolfo. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 158.

Malatesta Roberto. I Fiorentini gli mandano aiuti, B 349, 350. Stipendiano due suoi figliuoli, 387. Anche egli milita in servigio della Repubblica, 394.

Malavolti Catalano, frate Gaudente. Potestà guelfo di Firenze, A 57-61.

Malavolti Federigo. Capitano dei fanti del Palagio, si rifiuta di uccidere Cosimo de’ Medici, B 214.

Malespini. Signori in contado, A 29. Partigiani dei Cerchi, 106; dei Medici, C 285. — Ved. Buonaguisi.

Malespini Giachetto. — Ved. Malespini Ricordano.

Malespini Ricordano. Erra, scrivendo che Arrigo IV venisse a Firenze da Siena, A 8. Magnate fiorentino e guelfo, 28. Con la Cronaca che va sotto il nome di lui, continuata da Giachetto suo nipote, comincia la serie degli Storici fiorentini, 175. Nota intorno alla medesima, 425-432.

Mancini. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Posti a sedere, B 283.

Mancini Bardo. Gonfaloniere; sue leggi, B 61, 62.

Manetti Giannozzo. Fa opera di riconciliare con la Repubblica papa Eugenio IV, B 277. Sua lettera a Niccolò Piccinino, citata, 287. Vuol mantenere l’antica lega coi Veneziani, 299. Oratore a Venezia, 304. Gli sono imposte gravezze esorbitanti, 313. Altre notizie di lui e delle sue opere, 314, 433, 434.

Manfredi re di Sicilia. Manda aiuti ai fuorusciti ghibellini di Firenze, A 43, 45. — Ved. Ubaldini Ottaviano.

Manfredi famiglia. — Ved. Marradi.

Manfredi Astorre III. Capitano di guerra della Repubblica, B 307. Viene contro di lei, 345.

Manfredi Astorre IV. In tutela della Repubblica, B 419.

Manfredi Galeotto. — Ved. Brisighella (da) Francesco.

Manfredi Taddeo. Al soldo dei Fiorentini, B 293.

Mangiadori. Uno di loro uccide il Commissario fiorentino in San Miniato, B 86.

Mangioni famiglia. Aggrediti dai Bordoni, A 288.

Mangona (Contea di). Passa dai Cadolingi nei Conti Alberti e poi nei Bardi, e da questi nella Repubblica, A 215. Manda doni al Duca d’Atene, 230.

Mangona (di) conte Alberto. Liberato da alcuni bandi e condanne, A 401.

Mannelli. Seguono la parte de’ Cerchi, A 106. Assaliti dal popolo, si arrendono, 241. Privati degli uffici, B 61.

Mannelli Francesco. Ferito per cagione di un debito che ha col Comune, B 160.

Mannelli Raimondo. Comanda una galeazza dei Fiorentini a Portofino, B 199.

Mannelli Zanobi. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Mansueto (fra), de’ Minori, A 376, 377.

Mantova. Soccorsa dai Fiorentini, B 86. Quivi, in un Congresso, si delibera di rimettere i Medici in Firenze, C 114-116. — Ved. Strozzi Tommaso.

Manzuoli fra Luca, B 122.

Maramaldo Fabrizio. Pone assedio a Volterra, poi se ne ritrae, C 281, 282. Combatte contro il Ferruccio a Gavinana, 294. Lo ferisce e fa uccidere da’ suoi, ivi.

Marchi Marco. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Marciano (da) Antonio. Capitano di guerra dei Fiorentini, B 415.

Marco (don) di Benedetto, monaco di Cestello, B 556.

Margherita figlia naturale di Carlo V. Fidanzata ad Alessandro dei Medici, C 275.

[424]

Marignolle presso Firenze, A 194. Vi alloggia Leone X in una villa dei Gianfigliazzi, C 138. — Ved. Spagnoli.

Marignolli Guerriante. De’ Priori nel Tumulto de’ Ciompi, B 19. Esce di Palagio, 24. Congiura contro lo Stato, 40.

Marignolli Rustico. Ha una lapida in San Lorenzo, A 33.

Marina (Valle di), A 262.

Maringhi Piero. Suo atto di valore, B 103.

Marradi. L’acquistano i Fiorentini cacciandone uno de’ Manfredi di Faenza, B 178. N’è domata una ribellione, C 272.

Marsili fra Luigi, A 367.

Marsuppini Carlo. Va con Cosimo de’ Medici a Verona, B 221. Cancelliere della Repubblica, 434.

Martelli Lodovico. Suo duello con Giovanni Bandini, C 271, 272.

Martelli Ugolino. Suo traffico in Pisa, B 209.

Martinella. Campana solita portarsi dai Fiorentini nell’oste, A 44. Presa dai Senesi a Montaperti, 50.

Martini Martino di Luca, cancelliere della Repubblica. Tiene la parte de’ Medici, B 169. Rimosso dall’ufficio, ivi. È in grande intrinsechezza con Rinaldo degli Albizzi, 188. De’ Dieci della guerra, ivi. Ricordato in una lettera di Rinaldo, 205.

Martino Polono. Si tocca della sua Cronaca, A 428.

Martino V. A lui manda una solenne ambasciata la Repubblica, B 136. Sua venuta e dimora in Firenze, 137, 138. Ne parte sdegnato, 138. Innalza la Sede Fiorentina a titolo Arcivescovile, ivi. A lui va due volte ambasciatore Rinaldo degli Albizzi, 172. Cerca indurre i Fiorentini alla pace col Duca di Milano, ivi, 176. — Ved. Santa Maria Novella (Chiesa di).

Marucelli Bartolommeo e Francesco. Sono ai servigi degli oratori fiorentini presso il Principe d’Orange, C 374-376.

Maruffi fra Silvestro. Imprigionato, C 54. Esaminato, 56, 57. Confessore di Pier Capponi, 57. Sentenza pronunziata contro di lui e sua morte, 59, 60.

Marzocco. Impresa de’ Fiorentini, A 42, 257.

Masaccio, B 238.

Massimiliano imperatore. Manda oratori alla Repubblica, C 36, 77. Ne riceve da lei, 36, 103, 108. Fa un trattato con essa, 108. — Ved. Bolgheri. Castagneto.

Mastino. — Ved. Siminetti Bartolo.

Matharon (de) Jean. Oratore del Re di Francia in Firenze, C 344.

Matilde. — Ved. Contessa Matilde.

Mattia Corvino re d’Ungheria. Ha relazioni di studi con Lorenzo dei Medici, B 422.

Mazzanti Lucrezia. Sua morte, C 255.

Medicea (Biblioteca). Messa insieme da Cosimo il vecchio, B 329. Suo catalogo, ricordato, 330. È unita a quella di San Marco, C 29. — Ved. Del Migliore Filippo. Laurenziana.

Medici famiglia. Feriscono a morte un popolano, A 118. Seguono la parte dei Guelfi neri, 126. Assalgono i bianchi, 130. Uno di essi è decapitato, 224. Congiurano contro il Duca d’Atene, 231. Assalgono alcune case di grandi, 240. Due di essi banditi, e gli altri privati degli uffici, B 81. Loro commercio in Ungheria, 134. Temono Neri Capponi, 205. Avversano l’impresa contro Lucca, 207. Fatti dei grandi, 215-216. Riabilitati, 225. La loro casa è posta a sacco. C 13. Come risorgessero, 124, 125. Di nuovo perdon grazia nel popolo, 209. Deliberazione in loro favore, 213. Le loro armi vengono cancellate e abbattute, 219. Si propone d’atterrarne il Palagio, 266-267. — Ved. Carlo VIII.

Medici Alamanno. Confinato, B 80.

Medici Alessandro. Ottiene uno Stato nel Regno di Napoli, C 147. Viene in Firenze, 167. Si accenna alla falsa voce ch’egli fosse figliuolo di [425] Clemente VII, 226. Onori fattigli in Firenze, 316. Gli è conferito lo Stato con diploma dell’Imperatore, ivi. Assiste alla promulgazione del diploma, 318. Visitato dalla Signoria, ivi. Fatto signore assoluto di Firenze, 325-327. Suo governo, 327. Sua morte, 328. — Ved. Margherita ec. Medici Ippolito.

Medici Antonio, B 377.

Medici Averardo, B 168. Oratore a Ferrara, 177. Fautore dell’impresa contro Lucca, 188. Fa richiamare dal campo Astorre Gianni, 191. Ricordato in una lettera di Rinaldo degli Albizzi, 205. Brano di una di Cosimo de’ Medici a lui, 208. Confinato, 213, 214. Muore, 248.

Medici Bartolommeo. Rivelatore di una congiura, A 312.

Medici Bernardetto. Commissario in campo contro Niccolò Piccinino, B 268-269. Premiato dalla Repubblica, 272. Fatto sostenere da Eugenio IV, 288. Commissario in campo contro Alfonso I d’Aragona, 292, 293.

Medici Bianca. — Ved. Pazzi Guglielmo.

Medici Caterina. Data certa della sua nascita, C 145. È nel monastero delle Murate, 267; donde è trasferita in quello di Santa Lucia, da Salvestro Aldobrandini, ivi, 268. Clemente VII ordina gli sia mandata in Roma, 313.

Medici Clarice, C 119. Moglie di Filippo Strozzi, 166. Sue fiere parole a Ippolito de’ Medici e al Cardinal Passerini, 212-213.

Medici Contessina. — Ved. Ridolfi Piero.

Medici Cosimo. Rimprovera a Giovanni suo padre di non farsi più vivo nei negozi della Repubblica, B 168. Dei Dieci della guerra, 188. Oratore a Venezia, 207. Pratiche appostegli contrarie all’impresa di Lucca, ivi. Sue lettere ricordate, 208 e segg. Posta del suo capitale in commercio, 208, 209. Favore da lui goduto in Firenze; suoi viaggi e sue parentele e aderenze; suo carattere e sue vedute, 208-210. Siede con Rinaldo degli Albizzi in una Pratica eletta dalla Signoria, 211, 212. È imprigionato, poi confinato a Padova, 212-216. Onori che riceve nell’esilio, 220, 221. Gli è tolto il bando, 225. Suo ritorno in patria, 226, 227. Suoi detti, 246, 247. Suoi Ricordi citati, 248. Arde di voglia di acquistar Lucca alla Repubblica, 255. Ambasciatore a Venezia, 256. Comincia a alienarsi dai Veneziani, 257. Gonfaloniere, 259. Sue risposte a Rinaldo degli Albizzi e agli altri fuorusciti, 263. Promette di maritare Piero suo figliuolo a una figliuola del Conte di Poppi, poi rompe le pratiche, 267. Consapevole della trama ordita contro Baldaccio d’Anghiari, 377. Teme la riputazione di Neri Capponi e s’adopra ad abbassarlo, 278. Gonfaloniere, 284. Arbitro nelle differenze tra Eugenio IV e Francesco Sforza, 287. Gran fautore di quest’ultimo, 297, 298. Mezzi ch’egli adopera per somministrargli denari, 300. Va oratore a lui, 303. Percuote con le gravezze i suoi avversari, 312-313. Che vie tenesse a farsi capo della Repubblica, 315, 316. Come vivesse con Neri Capponi, 317. Muore, e onori resigli, 326. Sue doti, vita e costumi e sua magnificenza, 326-328. Il suo tempo, e protezione da lui accordata agli studi, 329-331. — Ved. Eduardo IV. Gerusalemme. Medici Lorenzo di Giovanni. Niccolò V. Sforza Galeazzo Maria Venezia.

Medici (de’) Cosimo I. Nasce di Giovanni delle Bande nere e di Maria Salviati, C 178. Succede al duca Alessandro, 328. Come si assicuri lo Stato, e suo governo, 330-331.

Medici (de’) Ferdinando I. Fonda la città e il porto di Livorno, C 333. Dà in moglie a Enrico IV Maria sua nipote, 334.

Medici Filippo. Arcivescovo di Pisa, B 232. Muore, 369.

Medici fra Francesco, domenicano, C 57.

Medici Giovanni detto Bicci. Paga una somma di denari all’imperatore Roberto in nome della Repubblica, [426] B 89-90. Fa un imprestito a papa Giovanni XXIII, e sborsa altri denari per la sua liberazione dal carcere, 139. È uno dei suoi esecutori testamentari, ivi. Gonfaloniere di giustizia; sue qualità e stato, 152-153. Biasima la guerra contro Filippo Maria Visconti, 158. Rifiuta di prender parte alla riforma dello Stato, 167, 168. Contento della sua vita di mercante, 168-169. Sua afflizione per la remozione di ser Martino Martini dall’ufficio di Cancelliere, 169. Ambasciatore a Venezia, 172. Ottiene che sia respinta la domanda del popolo circa al far pagare i ricchi più di quello che aveano pagato d’imposta innanzi alla formazione del Catasto, 183. Muore, e suoi ricordi ai figliuoli, 187. — Ved. Catasto.

Medici Giovanni di Cosimo. Suo traffico di lana, B 209. Muore, 326. — Ved. Alessandri Ginevra.

Medici Giovanni detto delle Bande nere. Sue prime armi, C 150-151. Chiamato dal cardinal Giulio de’ Medici in suo aiuto, 154. Va co’ Francesi, ivi. Si trova alla battaglia della Bicocca, 158. Poco amato e tenuto lontano da Clemente VII, 166. Capitano generale delle fanterie italiane nella guerra tra Francia e Spagna, 175. Sua morte, ed elogio, 177, 178.

Medici Giovanni di Lorenzo. Protonotario apostolico; beneficii da lui ottenuti, B 420. Fatto Cardinale, 421. Fugge da Firenze, C 13. Va ad Arezzo, 77. Divenuto papa, fa inalzare un monumento al fratello Piero, 97. Va legato nell’esercito di Giulio II, 112. Fatto prigione dai Francesi, 113. Muove contro lo Stato di Firenze in compagnia del fratello Giuliano, 114, 115. Come si fosse riacquistato favore in Firenze, 117-118. Presente al sacco dato a Prato dagli Spagnoli, 123. È a Campi, dove lo vanno a trovare i Palleschi, 123. Entra in Firenze, e vi riforma il governo, 124. Congiura ordita contro di lui e il fratello Giuliano, 126. Eletto papa, prende il nome di Leone X, 127. Istruzione e consigli datigli dal padre quando andava a Roma cardinale, 564-566.

Medici Giovanni di Pierfrancesco, B 425. Confinato insieme con Lorenzo suo fratello, C 4; e favore che trovano in città e fuori dopo la cacciata di Piero, 39. Sposa Caterina Sforza, ivi; da cui ha Giovanni, detto poi delle Bande nere, 151. — Ved. Popolani.

Medici (de’) Giovanni Gastone. Con lui si spenge la Dinastia Medicea, C 335, 336.

Medici Giuliano di Lorenzo. Fugge di Firenze, C 13. Viene ostilmente nel Casentino, 65. Muove contro lo Stato di Firenze in compagnia del fratello Giovanni, 114, 115. Rientra in città, 124. Congiura ordita contro di lui e il fratello, 126. Gonfaloniere della Chiesa, 132. Sposa Filiberta di Savoia, ivi. Creato duca di Nemours, 137. Mandato dal Papa a Piacenza coi soldati della Chiesa, è costretto ritrarsene per infermità, 137, 138. Si oppone alla volontà del Papa di privare Francesco Maria della Rovere del Ducato d’Urbino, 139. Muore, ivi.

Medici Giuliano di Piero, B 326, 340. Sua natura dedita ai piaceri, 354. Per lui domanda il cardinalato Lorenzo suo fratello, 360. Combatte una giostra, 364. Si duole con Lorenzo di un’ingiuria recata ai Pazzi, 369. Sua morte, 373. Sue esequie, 379. — Ved. Gorini.

Medici Giulio. Brevi notizie di lui fino all’elezione di Leon X, C 133-134. Arcivescovo di Firenze, 134. Cardinale e Vicecancelliere apostolico, ivi. Chiede pareri, circa al governar Firenze, 145. Piglia lo Stato in mano sua dopo la morte di Lorenzo duca d’Urbino, ivi. Ottiene una pensione sull’arcivescovado di Toledo, 147. Legato apostolico nella guerra col Re di Francia, 150. Va al Conclave dopo la morte di Leone X, 152. Signore di Firenze, 154-157. Va a Roma, 161; e fa lega col Papa e coll’Imperatore, 161-162. Eletto papa, prende il nome di Clemente VII, 163. Scrive da parte del Papa e in nome proprio [427] al Legato in Francia, 348. Brani di alcune sue lettere, 349-352. Il Papa e il Cristianissimo propongono di poter rimettere in lui e nel Gran Maestro di Francia alcune loro differenze, 359.

Medici Ippolito, C 166. Viene in Firenze, 167. Parte, 213. Fatto Cardinale, 226. Legato presso Carlo V, 238; a Perugia, 306. Torna in Firenze a insaputa del Papa, che gli manda dietro Baccio Valori, 314. Ottiene il Vicecancellierato e altri ricchi benefici, ivi. Fatto morire di veleno da Alessandro de’ Medici, 328. Leone X disegna mandarlo al Re Cattolico, 349. Gli è offerto dal Re uno Stato, 352.

Medici Lorenzino. Uccide il duca Alessandro de’ Medici, C 328.

Medici Lorenzo detto il magnifico, B 324, 326, 340. Mandato dal padre alle principali corti d’Italia, 351. Quale egli fosse alla morte del padre, 352, 353. Sue prime arti per conservarsi lo Stato, 353-354. Suo viaggio a Milano, 354. Suoi uffici in città e fuori, 357-360. Come cominciasse l’inimicizia tra lui e Sisto IV, 362. Tratta un parentado tra il Re di Francia e Ferdinando di Napoli, 363. Gli è tolto l’ufficio di Depositario del Papa, 369. Come scampi alla Congiura de’ Pazzi, 373, 374. Scomunicato, 383, 384. Sua parlata in una grande adunanza di cittadini, 386-387. Gli sono dati uomini per guardia della sua persona, 387. Si mormora contro di lui in Firenze, per cagione della guerra col Papa, 396. Sua andata e dimora in Napoli, 396-399. Negligente nei traffici, 407. Brano di una sua lettera, 411. Interviene alla dieta tenuta per la guerra tra i Veneziani e il Duca di Ferrara, 412. Brano d’un’altra lettera al Re di Napoli, 417. Va al campo contro Sarzana, 418. Procura e ottiene il cardinalato per Giovanni suo figliuolo, 420, 421. Fa eleggere una Balia, 421. Sue relazioni cogli altri Stati d’Italia e fuori, 422. Brano di alcune sue istruzioni al figliuolo Piero, 422-423. Suo stato e autorità in Firenze; sue qualità dell’animo e dell’ingegno, 423 e segg. Muore, 427. Sue Lettere ricordate, 429. Sua Vita scritta dal barone Alfredo di Reumont, ivi. Di lui come scrittore, 444. Sue istruzioni e consigli a Giovanni suo figliuolo quando andava a Roma cardinale, 564-566. Sue relazioni col Savonarola, C 28. Lo chiama al suo letto di morte, 30. — Ved. Aragona (d’) Alfonso II. Aragona (d’) Ferdinando I. Cafaggiolo. Frescobaldi Battista. Luigi XI. Medici Giuliano di Piero. Montefeltro (di) Federigo. Poggio a Caiano. Riario Girolamo. Sforza Galeazzo Maria.

Medici Lorenzo di Giovanni. Rimprovera a Giovanni suo padre di non mostrarsi più vivo nei negozi della Repubblica, B 168. De’ Dieci della guerra, 188. Oratore al Duca di Milano, 193. Pratiche appostegli contrarie all’impresa di Lucca, 206, 207. Ha per moglie una Cavalcanti, 209. Raduna gente per liberare Cosimo suo fratello rinchiuso in Palagio, 212. Va a Venezia coi figliuoli di lui, ivi. Confinato, 214-216. Egli e Cosimo prestano duemila fiorini d’oro alla nazione Germanica rappresentata al Concilio di Costanza, B 258. Muore, 326.

Medici Lorenzo di Pierfrancesco, C 39. — Ved. Medici Giovanni di Pierfrancesco.

Medici Lorenzo di Piero di Lorenzo. Tiene lo Stato di Firenze, C 132. Comandante delle genti della Chiesa, 138. Torna in Firenze e si comporta altrimenti che per il passato, 144. Muore, 145. Gli è offerto uno Stato dal Re Cattolico, 352. — Ved. Della Rovere Francesco Maria.

Medici Lucrezia moglie di Iacopo Salviati, B 423, C 165.

Medici Maddalena. — Ved. Cibo Franceschetto.

Medici Maria. — Ved. Medici (de’) Ferdinando I.

Medici Michele, B 77.

Medici Orlando. Tesoriere della Marca, B 249.

Medici Ottaviano. Sostenuto in Palagio durante l’Assedio, C 250. Possessore di bei cavalli, 371.

[428]

Medici Pierfrancesco. Suo traffico in Venezia, B 209. Ricordato, B 425.

Medici Piero di Cosimo. Suo traffico di seta, ricordato, B 209. Ambasciatore a Niccolò V, B 290; a Francesco Sforza e a Venezia, 303, 304. Richiamato, 304. Sue note delle spese fatte per la morte del padre, 326. Consiglio dato a lui da Dietisalvi Neroni e sue conseguenze, 332, 333. Sue arti e provvedimenti per assicurarsi dello Stato, 340 e segg. Piglia coscienza e abitudine quasi di principe, 351. Muore, 353. — Ved. Acciaiuoli Agnolo. Bentivoglio Giovanni II. Luigi XI. Sforza Galeazzo Maria. Tornabuoni Lucrezia. Tranchedini Nicodemo.

Medici Piero di Lorenzo, C 2-4. Favorisce gli Aragonesi contro Carlo VIII, 8, 9. Offre a Carlo alcuni luoghi del dominio della Repubblica, 12. Bandito, 13. Ricusa di tornare a Firenze, 14, 15. N’è escluso, nell’accordo fatto dalla Repubblica con Carlo VIII, 16. Accompagna il Re nel suo ritorno da Napoli, 19. Pratica per tornare in Firenze, 40. Viene ostilmente nel Casentino, 65; a Loiano, 74; e ad Arezzo, 77. Muore, 97. Ricordato, 347. — Ved. Aragona (d’) Alfonso II. Montecassino. Orsini Alfonsina, Paolo e Virginio.

Medici Salvestro, A 312. Pratica contro gli Albizzi e Ricci, 317. Gonfaloniere, B 10. Notizie di lui relativamente ai moti del 1378, 11-14, 18-20, 26, 36. Confinato, 52.

Medici Vieri. Ricusa di farsi capo delle Arti minute, B 77-78. I suoi discendenti sono eccettuati dalla condanna che faceva dei grandi gli altri di quella schiatta, 216.

Medici e Cerusichi in Firenze, A 251.

Mercanzia (Arte della). — Ved. Calimala.

Mercanzia (Consiglieri di). Gli atti di quel Magistrato sono arsi dal popolo, A 234. Gli è diminuita la giurisdizione, 365. Sue riforme, B 483, 494, 497. Sua costituzione, 529. La riacquista, e se ne formano nuovi Statuti, C 32.

Mercato Nuovo. Vi avevano le case i Bostichi, A 122; e i Cavalcanti, 131. Arsione di tutte le case d’intorno, ivi.

Mercato Vecchio. Arsione delle case intorno ad esso, A 130, 131. Vi accade una zuffa, 287. — Ved. Giovanni di Mone. Tosinghi.

Messi (Ufficio dei), B 485.

Michele di Lando, B 25. Gridato Gonfaloniere, ivi. Suo governo, 26, 33-35. Rimane in disparte nel nuovo Stato, 39. Degli Otto di guardia, 41. Confinato, 55. Torna in Firenze ove muore, ivi.

Michelozzi Michelozzo. — Ved. Venezia.

Migliorati Lodovico. Fa un’impresa a danno dei Pisani per denari avuti dalla Repubblica, B 103.

Milano (da) Maurizio. Cancelliere degli Otto di guardia, C 322.

Milizia fatta per difesa della città, C 223, 224. Riordinata, 269. — Ved. Colonna Stefano di Palestrina.

Minerbetti Giovanni. Gonfaloniere, B 245.

Minerbetti Piero. Sua Cronaca, ricordata, B 232.

Minucci Paolo, B 234.

Mirabeau famiglia. — Ved. Arrighetti Azzo.

Misericordia (Confraternita della), A 179. Lasciti fattile, 248.

Modigliana (Conti di). Ribelli della Repubblica, B 81.

Monaco (Signori di). — Ved. Grimaldi.

Monaldeschi Ormanno. Potestà di Firenze, A 61.

Moncada (di) Ugo. Viene in Firenze, C 180.

Monforte (di) Arrigo. Al soldo della Repubblica, A 306.

Monforte (di) Guido. Mandato da Carlo d’Angiò in Firenze con ottocento cavalieri, A 62.

Montaguto. — Ved. Barbolani.

[429]

Montalcino. Protetto dai Fiorentini, A 21. Cagione di guerra tra essi e i Senesi, 30. Questi vi vanno a oste, 45. — Ved. Orvietani.

Montale. Edificato dai Pistoiesi, A 21.

Montalpruno. Vi si accampa l’esercito dei Fiorentini, A 84.

Montano Cola. Accende gli animi dei Lucchesi contro la Repubblica, B 392. Preso e condotto a Firenze, 393.

Montaperti. Vi si accampa l’oste dei Fiorentini andata contro Siena, e vi è sconfitta, A 48-50.

Monte del debito del Comune, A 4-6, 21, 28, 36, 45, 54, 72, 119, 144, 211, 312, 364, 407, C 99, 207, 310.

Monte delle Doti, B 159, 282, 359, 422, C 207.

Monte di Pietà. Sua istituzione, C 32.

Monte Accianico. Ruinato dai Fiorentini, A 137.

Monteagutello. Acquistato dalla Repubblica, B 271.

Montebuoni. Dà il nome ai Buondelmonti, ed è abbattuto dai Fiorentini, A 12.

Montecarelli (Conti di). Mandano doni al Duca d’Atene, A 230.

Montecarlo. Tolto dai Fiorentini ai Lucchesi, B 255, 257.

Montecassino. Leone X fa innalzare in quella chiesa un monumento a Piero de’ Medici suo fratello, C 97.

Montecatini. I Fiorentini vi sono sconfitti da Uguccione della Faggiola, A 161. Espugnato dai Fiorentini, 207.

Montecatini (da) Giovanni, medico. È impiccato e poi arso, B 317.

Monte Croce. Tolto dai Fiorentini ai Conti Guidi, A 13.

Montedoglio (Conti di). È loro vietato d’accostarsi ad Arezzo, A 215. Si danno in accomandigia alla Repubblica, B 58.

Montedoglio (di) Alfonsina o Eufrosina. — Ved. Monterchi.

Montedoglio (di) conte Noferi. Ha la guardia del Palagio, C 210.

Montefalcone. Occupato dai Fiorentini, A 193. Vi ha una villa Rinaldo degli Albizzi, B 189.

Montefeltro (Conti di). È loro vietato d’accostarsi ad Arezzo, A 215.

Montefeltro (di) Antonio conte d’Urbino. Con lui hanno guerra i Fiorentini, B 58.

Montefeltro (di) Federigo. Capitano di guerra della Repubblica in varie imprese, B 292, 345 e segg., 359. Onori e doni che ne riceve, 359, 360. Combatte contro di lei nella guerra mossale da Sisto IV e dal Re di Napoli, 385 e segg. Nemico personale di Lorenzo de’ Medici, 388.

Montefeltro (di) Guidantonio conte d’Urbino. Raccomandato della Repubblica, B 156. È al soldo di lei, 196.

Montefeltro (di) Guido, A 76, 96.

Montefiascone. Si ribella alla Chiesa con l’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Montefiore (da) Gentile, cardinale. Chiesto da alcuni della Signoria al Papa per pacificare la città, A 118.

Montegrossoli. Ruinato dai Fiorentini, A 17.

Monteluco. — Ved. Leccia.

Montelupo. Edificato dai Fiorentini, A 21.

Montemagno (da) Buonaccorso, A 367.

Montemurlo. Lo comprano i Fiorentini dai Conti Guidi, A 21. Assediato da Castruccio, 195. Villa de’ Nerli, C 329. Vi sono disfatti e presi i fuorusciti di Firenze, sotto Cosimo primo granduca, ivi.

Monte Oliveto presso Firenze. — Ved. Spagnoli.

Monte Orlandi. È tolto dai Fiorentini ai Conti Cadolingi e abbattuto, A 9.

Monte Petroso. Eroicamente difeso per la Repubblica da Biagio del Melano, B 171.

Montepulciano. Lo tengono in accomandigia i Fiorentini, A 21. Cagione di guerra tra essi e i Senesi, 30. Occupato dalla Repubblica, B [430] 64. Le si ribella per opera dei Senesi, C 19, 20. Ricuperato, 115. Occupato dagl’Imperiali durante l’Assedio, 278.

Monterchi. Ceduto alla Repubblica da Alfonsina di Montedoglio, B 271.

Monte San Savino. Viene in potere dei Fiorentini, B 58. Occupato dalle armi di Sisto IV e del Re di Napoli, 389.

Monte San Savino (da) Andrea, scultore e architetto, B 439.

Monte Santa Maria (Marchesi del). Raccomandati della Repubblica, B 156.

Monte Santa Maria (del) Francesco. Al soldo della Repubblica, C 243.

Montescudaio (Conti Gherardesca di). Si danno alla Repubblica, B 104.

Montesecco (da) Giovan Battista. Parte da esso presa nella Congiura de’ Pazzi, B 370-373. Sua fine, 377. Testo della sua Confessione, 547-558.

Montesenario. — Ved. Servi (Ordine dei).

Montevarchi. Vi si ricovrano i guelfi di Firenze, A 33. Battuto da Arrigo VII, gli s’arrende, 156.

Monticelli presso Firenze, A 195.

Montone (da) Braccio. Al soldo della Repubblica, B 129. Viene in Firenze, 137.

Montone (da) Carlo. Gli ordina la Repubblica di non molestare i Senesi, B 366. Condotto ai suoi stipendi dalla Repubblica, 394. Muore, ivi.

Montone (da) Oddo. Al soldo dei Fiorentini, B 170. È ucciso, 171.

Montopoli. È stretto dalle genti del Duca di Milano e liberato da Niccolò da Tolentino, B 200.

Montopoli (da) Michele. Difende Pisa dalle armi di Carlo V ed evvi morto, C 311.

Montughi presso Firenze. Vi ha una villa Iacopo de’ Pazzi, B 372.

Morea. Vi si consumano panni fiorentini, B 140. La Repubblica vi manda suoi oratori, 142. — Ved. Acciaiuoli.

Morelli Giovanni. Della sua Cronaca, B 232.

Morelli Girolamo. Ha gran favore in Firenze, B 398.

Morelli Iacopo. Va a capitolare nel Campo Cesareo sotto Firenze, C 299.

Morone Girolamo. Muore nel campo degl’Imperiali sotto Firenze, C 259.

Mortennana. È degli Squarcialupi, A 30.

Mozzi. Vanno in esilio, A 52. Albergano Gregorio X, 71. Sono in guerra coi Bardi, 92. Seguono la parte dei Cerchi, 106. Alloggiano il Cardinale d’Acquasparta, 111. Con loro si pacificano i Bardi, 119. Alcuni di essi confinati, 125. Alloggiano alcuni fuorusciti bianchi e ghibellini, 128. Si mettono col popolo in un assalto da esso dato alle case dei grandi, 241. — Ved. San Gregorio (Chiesa di).

Mozzi Luigi. Oratore a Carlo IV, A 398.

Mozzi Vanni. Uno de’ capi de’ grandi, A 104.

Mugello. V’entrano i fuorusciti fiorentini con Scarpetta degli Ordelaffi, A 133. Vi viene ostilmente Giovanni da Oleggio, 262. Sua Descrizione, ricordata, B 232. Vi edifica una villa e un Convento pei Frati Minori Cosimo de’ Medici, 328.

Muscettola Giovanni Antonio, C 317.

Mutrone. Dato da Piero de’ Medici a Carlo VIII, C 12. Viene alle mani di Clemente VII, 261. — Ved. Ottoboni Aldobrandino.

N.

Narbona o Nerbona (di) Amerigo. Nell’oste dei Fiorentini a Campaldino, A 85.

Nardi Bernardo e Silvestro. Ribellano Prato alla Repubblica, B 350. Il primo di essi è preso e decapitato, 351.

Nardi Iacopo. Amico al Savonarola, C 60. Suo atto animoso, 211. Confinato, [431] 309. Governatore della Confraternita dei Fiorentini in Venezia, 310.

Narni (Vescovo di). Viene in Firenze, A 294.

Narsi (di) Piero. Combatte pei Fiorentini ad Altopascio, A 193, 194. Sua fine, 196.

Nasi Francesco, C 246.

Nasi Piero. Ambasciatore a Sisto IV, B 402.

Navarro. Dirige alcune opere di fortificazione in Firenze, C 176.

Neghittosa. Così è chiamata la Loggia degli Adimari, B 80.

Neri Pompeo, C 336.

Nerli famiglia. Alcuni di loro seguono la parte dei Cerchi, A 106. Tengono quella dei guelfi neri, 126. Assaliti dal popolo, s’arrendono, 241. — Ved. Montemurlo.

Nerli Bernardo. Fa a sue spese la prima edizione dei poemi d’Omero, B 441.

Nerli Filippo. Suoi Commentari, ricordati, B 192. Imprigionato, C 250. Istruzioni dategli da Clemente VII, venendo egli in Firenze, 323, 324.

Nerli Tanai. Istruzioni date a lui e a quattro suoi compagni oratori a Carlo VIII, C 346, 347.

Neroni. Uno di quella famiglia è fatto ribelle, B 350.

Neroni Dietisalvi. Degli accoppiatori, B 283. Fautore di Francesco Sforza, 299. Va oratore a lui, 303. Uomo di grande ingegno ma dubbio, 331. Consigliere di Piero dei Medici, 332. Sue pratiche contro ai Medici, 339. Si oppone al consiglio di muovere a rumore la plebe, 341. Studia di salvarsi in qualunque evento, 342. Confinato, ivi. Sono presi tutti i suoi parenti, ivi. Sue arti per tornare in patria, 343.

Neroni Giovanni. Arcivescovo di Firenze, va in esilio volontario a Roma, B 342, 343.

Neroni Nerone. È tra i maggiori dello Stato, B 150. Dei Dieci della Guerra, 188. Suo atteggiamento nelle contese tra Cosimo de’ Medici e Rinaldo degli Albizzi, 223.

Niccoli Niccolò. Va con Cosimo dei Medici a Verona, B 221. Insigne copiatore di Codici, 236. Suo giudizio di Dante, 446. — Ved. San Marco (Biblioteca di).

Niccolini Andreolo. Ambasciatore a Clemente VII, C 246, 247. Ferito a tradimento da Malatesta Baglioni, 297.

Niccolini Lapo. È dei maggiori dello Stato, B 150.

Niccolò II. Muore in Firenze, A 8.

Niccolò III. Conferma la sentenza di pace di Gregorio X tra i guelfi e i ghibellini, e manda in Firenze il cardinal Latino de’ Malabranca, A 73. Ricordato, 123.

Niccolò V. Ambasceria mandatagli dalla Repubblica, B 290. S’adopra a metter pace in Italia, 291. Fa depositario della Chiesa Cosimo dei Medici, 328. — Ved. Parentucelli Tommaso.

Nipozzano. Vi hanno poderi i Cerchi, A 109.

Nobili Giovan Francesco. Ultimo Gonfaloniere di giustizia, C 327.

Norcia (da) Simone. Giudice per il Duca di Atene sopra il rivedere le ragioni del Comune, A 230.

Nori Anton Francesco. Devoto dei Medici, C 212. Sostenuto in Palagio durante l’Assedio, 249, 250.

Nori Francesco. Ucciso nella Congiura de’ Pazzi, B 373.

Notari. Loro numero in Firenze, A 251.

Novara (Vescovo di). Ha mano in una Congiura contro Eugenio IV, in Firenze, B 250.

Nove d’Ordinanza e Milizia. — Ved. Ordinanza e Milizia.

Novellet, cardinale legato in Bologna. Richiesto di grano dai Fiorentini si rifiuta, e fa che scenda in Toscana la Compagnia degl’Inglesi, A 321.

Nuto (ser). Bargello in Firenze, impiccato e straziato nel tumulto dei Ciompi, B 21.

[432]

O.

Obizzi Lodovico. Al soldo della Repubblica, muore alla battaglia di Zagonara, B 158.

Ognissanti. In quel giorno il popolo minuto faceva festa coi vini nuovi, A 116.

Ognissanti (Frati d’). Camarlinghi del Comune, A 64.

Ognissanti (Prato d’). — Ved. Santa Croce Giorgio.

Oleggio (da) Giovanni. — Ved. Visconti Giovanni da Oleggio.

Oltrarno. È in potere de’ Grandi, A 221. Il popolo forza una parte di quel Sesto, 222. Paga con quello di San Piero Scheraggio la metà e più di tutte le gravezze, 237.

Omodeo, speziale, A 376, 377.

Orange (d’) Filiberto. Posto da Carlo V a disposizione di Clemente VII, C 238, 239. Suo esercito, 239, 240. Sue imprese nel dominio della Repubblica, 241, 242. Negoziati dei Fiorentini con lui, 246, 247. Si appressa alla città, 254. Vi pone l’assedio, 255, 257. Vuol darle la scalata, ma è ributtato, 258. Assaltato nel suo accampamento, 258, 259. Cerca con le artiglierie atterrare le torri e le opere di difesa, 270. Come acquisti Empoli, 283. Respinge una sortita degli assediati, 284. Sue pratiche con Malatesta Baglioni, 289. Va contro al Ferruccio, 291-293. Combatte con esso a Gavinana e vi muore, 293, 294, 382, 384. Vedute ch’egli aveva sopra Arezzo, 311. — Ved. Castiglione (da) Bernardo. Medici Caterina.

Orcagna Andrea. Sua statua equestre di Piero da Farnese, A 305. Architetto d’Orsanmichele, 369.

Ordelaffi. Vengono contro lo Stato di Firenze, B 345.

Ordelaffi Pino. — Ved. Brisighella (da) Francesco.

Ordelaffi Scarpetta. A lui fanno capo i fuorusciti ghibellini di Firenze, A 133.

Ordinamenti di giustizia. Loro formazione, A 92-95. Tolti dal Duca d’Atene, 226. Rinnovati, 243.

Ordinanza e Milizia. Sua istituzione, C 100. Abolita, 125.

Oricellai. Perchè così chiamati i Rucellai, A 224, 225.

Orivoli (degli) Niccolò. Scuopre ai Ciompi la cattura di un loro compagno, B 18.

Orlandi. Uno di quella famiglia vuol tradir Pescia ai fuorusciti della Repubblica, e gli è mozzo il capo, B 350.

Orlandi Tommaso, notaro, B 557.

Orlandini Bartolommeo. Fautore dei Medici, B 225. Posto alla guardia di Marradi, fugge vilmente, 265. Fa uccidere Baldaccio d’Anghiari, 275, 276. — Ved. Fabriano.

Orlandini Piero. Decapitato, C 163.

Orlandini Piero. — Ved. Giugni Andrea.

Orsammichele. In quella loggia stavano appese immagini di cera alla Vergine, A 130. Quando edificata, 179. Festa che vi si fa il giorno di Sant’Anna, 236. Lasciti fatti a quella Compagnia, 247. Si cessa dal lavoro di quell’edifizio, ivi. Vi si depositavano i grani dai cittadini; gabella che questi ne pagavano al Comune, 255. Salario dell’Ufficiale addetto a quella piazza, 256. Quella loggia è ridotta a chiesa, 369. Di alcune statue che vi stanno intorno, B 242, 244.

Orsammichele (Capitani di). Riforma del loro ufficio, B 482.

Orsini. Favoriscono il ritorno dei Medici in Firenze, C 77. Due di loro dipinti come traditori da Andrea del Sarto, 270.

Orsini Alfonsina. Sposa Piero di Lorenzo de’ Medici, B 423. S’adopra a inalzare il figliuolo Lorenzo, C 139.

Orsini Clarice. Data in moglie a Lorenzo de’ Medici, B 353. Non le piace tenersi in casa il Poliziano, C 3.

Orsini Currado. Al soldo della Repubblica, B 387.

[433]

Orsini Giovan Paolo. Si unisce col Ferruccio, C 288. Combatte a Gavinana, 294. Fatto prigione, si riscatta, ivi, 295.

Orsini Mario. Grande amico a Michelangiolo, C 252. Al soldo dei Fiorentini nell’Assedio, ivi, 256, 259. Muore, e onori resigli, 259. Parole del Ferruccio a proposito della sua morte, 263.

Orsini Napoleone, cardinale, A 137. Sua vana impresa contro Firenze, 139.

Orsini Niccola. Al soldo dei Fiorentini, B 387, 415, 416, 418.

Orsini Orso. Guida e consigliere ad Alfonso d’Aragona, mandato dal Re di Napoli in aiuto dei Fiorentini, B 346.

Orsini Paolo. Al soldo dei Fiorentini, B 127, 128.

Orsini Paolo. Gli è ordinato da Piero de’ Medici di far soldati e riunirli in città, C 12.

Orsini Pier Giampaolo. Al soldo della Repubblica, B 265, 266.

Orsini Rinaldo. Al soldo della Repubblica, B 67.

Orsini Rinaldo, signore di Piombino, B 292. Preso in accomandigia dalla Repubblica, 293.

Orsini Rinaldo, arcivescovo di Firenze, B 369. Ritenuto prigione dal Papa in Roma, C 79.

Orsini Virginio. Parente e grande amico di Piero de’ Medici, C 6.

Orso (d’) Antonio. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Orvietani. Si collegano coi Senesi contro la Repubblica, A 30. Si offrono ai Fiorentini di fornire Montalcino, 46. Rinforzano il campo dei Fiorentini a Montaperti, 47. I loro fanti vengono alle mani dei nemici dopo la sconfitta, 50. Mandano soccorsi a Firenze, 61. Si ribellano alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, 326.

Osimo (da) Boccolino, B 419.

Ostale, passo delle Alpi. Vi vanno a guardia gli Ubaldini a istanza della Repubblica, A 295.

Ostia (Vescovo di). Sua lettera a Lorenzo de’ Medici per confortarlo a porre in libertà il cardinale Raffaello Riario, B 381, 382.

Ottanta (Consiglio o Senato degli), C 32, 84, 85, 90, 91. Abolito, 125. Restaurato, 214.

Otto di Balia creati per la guerra con Gregorio XI, A 322. Denominati gli Otto Santi, 326. Citati dal Papa alla sua corte, ivi. Loro provvedimenti, 330 e segg. Relegati dal Comune, 339. Rimangono in Palagio anche dopo fatta la pace, B 15. Intenzione attribuita loro da Gino Capponi, nella sua narrazione del Tumulto dei Ciompi, 26. Cercano mantenersi lo Stato, 27. Depongono l’ufficio, 37. Rimangono a parte dello Stato, caduti i Ciompi, 39.

Otto di Guardia. Loro creazione, B 36. Riforma, 49. Sono fatti a mano dalla Signoria, ed è loro concessa autorità d’inquisire in cose di Stato, 213. È data loro balìa di sangue, 245. Facoltà speciali a loro concesse, 498, 510, 512. Riforma, 511, 512. Loro attribuzioni, 528.

Otto di Guardia e Balia. B 245. È reso permanente il loro ufficio, 320. Loro grande autorità, 365. Pronunziano grandi condanne dopo la Congiura de’ Pazzi, 378. Sono scomunicati, 383. Le loro sentenze sono soggette all’approvazione del Consiglio Grande, C 32. Riformati, 303. — Ved. Pazzi Francesco.

Otto di Pratica. Istituzione di quell’ufficio, B 405. Cassato, C 13. Rifatto, 125. Rinnovato di tutti confidenti di Clemente VII, 312.

Otto di Santa Maria Novella creati dai Ciompi, B 32-34, 37.

Otto Santi. — Ved. Otto di Balìa ec.

Ottoboni Aldobrandino. Ottiene che non si abbatta la rôcca del Mutrone venuta in potere della Repubblica, e altre notizie intorno a lui, A 40, 41.

P.

Pacioli fra Luca, B 438.

Padova (da) Monfiorito. Potestà di Firenze, A 103, 104.

Pagnini Giovanfrancesco. Suo libro sulla Decima, ricordato, B 141.

[434]

Palagio del Popolo, residenza della Signoria. Sua fondazione, A 104. Edificato da Arnolfo, 179. Allagato da una piena d’Arno, 209. Rifornito di vasellami e d’arazzi, e sgombratone il cortile, B 321. Lapide postavi sulla porta, C 220. Guardato da soldati tedeschi dopo l’Assedio e la resa della città, 312.

Paleologo Giovanni. Viene al Concilio di Firenze, B 258, 259. Privilegi da lui concessi ai Priori e alla Repubblica, 259. — Ved. Peruzzi.

Palmieri Matteo. Sue opere, B 434.

Panciatichi famiglia. Fautori de’ Medici, C 73, 260 — Ved. Cancellieri.

Panciatichi Gualtieri. Confinato, B 342.

Pandette. Quando recate in Firenze, B 116, 117.

Pandolfini Agnolo. Firma un atto di lega tra la Repubblica e Ladislao re di Napoli, B 133. Si oppone al consiglio di muover guerra al Signore di Lucca, 186. Dei Dieci della guerra, 188. Dissuade Palla Strozzi dal recarsi armato in aiuto di Rinaldo degli Albizzi, 222. Si ritira in villa, 247, 248.

Pandolfini Pandolfo. Si oppone al mandare in esilio molti cittadini, B 301.

Pandolfini Pierfilippo. Sua orazione, ricordata, C 223, 224.

Paolo II. Amico della Repubblica, poi si aliena da lei, B 338. S’adopra a metter pace tra essa e i Veneziani, 348, 349.

Paolo III. Ha in odio i Medici, C 328.

Paperini. Così è appellata la setta degli Albizzi opposta a quella dei Ricci, A 315.

Paradiso (del) suor Domenica, C 267.

Parentucelli Tommaso. Ripetitore dei figliuoli di Rinaldo degli Albizzi e di Palla Strozzi, B 290. Papa col nome di Niccolò V, ivi.

Parigi (Università di). Frequentata dai Fiorentini, A 252.

Parte Guelfa. Testo della forma di giuramento dei cittadini per essere ammessi come veri guelfi, A 418. Suoi uffici e loro riforme, B 477-481, 495. — Ved. Capitani di Parte Guelfa. Clemente IV.

Passavanti frate Iacopo, A 356, 362.

Passerini Silvio, cardinale. Nell’assenza di Giulio de’ Medici regge lo Stato di Firenze, C 145, 167. Suo malgoverno, 167, 209. Parte, 213. — Ved. Medici Clarice.

Paterini o Albigesi, in Firenze, A 32.

Pazzi. Vanno in esilio, A 52. Non posson tornare, 76. Seguon la parte dei Donati, 107. Due di loro confinati, 110. Capi, con altri, della parte dei guelfi neri, 126. Congiurano contro il Duca d’Atene, 231. Assaliti dal popolo, si arrendono, 240. Privati dei beni stati loro donati per antichi servigi resi al Comune, 244. Arsione del loro palagio, B 13. Aggravati dalle imposizioni, 313. Ingiurie fatte loro dai Medici di cui pensano vendicarsi, 369, 370. Loro congiura, 370 e segg. Molti di loro son uccisi, e gli altri rinchiusi nella torre di Volterra, 378. Dipinti per traditori, e altre condanne contro di loro, ivi, 379. È pattuita la loro liberazione dalla torre di Volterra, 400. — Ved. Porta San Piero (Sesto di). Strozzi Filippo.

Pazzi (Canto de’), B 379.

Pazzi Alamanno. Capo dei cittadini armatisi contro la Signoria negli ultimi giorni dell’Assedio, C 298.

Pazzi Alessandro. Brano di un suo discorso intorno a Lorenzo de’ Medici, B 423. Suo parere circa alla riforma del governo, ricordato, C 155. Sta fuori di Firenze e gli è intimato il ritorno, 249.

Pazzi Andrea. Alloggia Renato d’Angiò, B 368. Condanna contro i suoi discendenti, 378, 379.

Pazzi Antonio, B 368.

Pazzi Cosimo, vescovo d’Arezzo. Ambasciatore all’imperatore Massimiliano, C 36, 37. Oratore al Duca Valentino, 74. Ribellatosi Arezzo, rifugge nella rôcca, 77. Arcivescovo di Firenze, 126.

[435]

Pazzi Francesco. Sua natura, B 367-368. Tesoriere del Papa, 369. Congiura contro i Medici, 369-374. Impiccato, 376.

Pazzi Galeotto, B 376.

Pazzi Gaspare, B 103.

Pazzi Geri. Si adopra affinchè i grandi non abbiano il Priorato, A 238. Sua intromissione nelle contese tra Ricci e Albizzi, 287.

Pazzi Giovanni. Ha per moglie una figliuola di Giovanni Borromei, B 369. Condotto in Palagio dopo la Congiura de’ Pazzi, 376.

Pazzi Guglielmino. Muore a Campaldino, A 87.

Pazzi Guglielmo. Marito di Bianca sorella di Lorenzo de’ Medici, B 368. Non è noto se prendesse parte alla Congiura della sua famiglia, 371. Confinato, 378. Capitano d’Arezzo, C 77. Gonfaloniere, 126.

Pazzi Iacopo. — Ved. Abati Bocca.

Pazzi Iacopo. Capo della sua famiglia, B 368. Congiura contro i Medici, 370, 371, 375. Fugge, ed è ricondotto a Firenze ed ucciso, 377. Strazio che ne fa il popolo, ivi.

Pazzi Pazzino. Ucciso da uno dei Cavalcanti, A 154.

Pazzi Piero. Fa copiare libri antichi, B 235. Ricordato, B 368.

Pazzi Piero. Sua morte, C 285.

Pazzi Renato. Biasima la Congiura della sua famiglia, B 371. È impiccato, 376.

Pazzi di Valdarno. È loro vietato d’accostarsi ad Arezzo, A 215. Congiurano coi grandi di Firenze, dove tengono case e amistà, 222.

Peccioli. Assediato e preso dai Fiorentini, A 304. Torna di nuovo nelle loro mani, B 104.

Pecora, beccaio. Sua prepotenza, A 99, 103.

Pennonieri. Loro istituzione, A 188.

Pepi Francesco. Ambasciatore all’imperatore Massimiliano, C 36.

Pepoli Taddeo. Con lui fa lega il Duca d’Atene, A 231. Manda gente in suo aiuto, 232.

Pepoli Ugo. Comandante delle Bande nere, C 221.

Péron de Basche. Oratore del Re di Francia in Firenze, C 344.

Perugia. Ne son cacciati i soldati della Repubblica che v’erano a guardia, C 154. I Fiorentini mandano a difenderla contro il Principe d’Orange, 241.

Perugia (Vescovo di). Inviato dal Papa in Firenze per ottenere la liberazione del cardinale Raffaello Riario, B 381.

Perugia (da) Margutte, C 298.

Perugini. Loro brighe con la Repubblica, A 29. Rinforzano il campo dei Fiorentini a Montaperti, 47. Mandano aiuti a Firenze, 240. Fanno lega con la Repubblica, 293. Col suo aiuto si ribellano alla Chiesa, 326. Accolgono in città Urbano VI e cacciano la parte aderente ai Fiorentini, B 64. Collegati col Conte di Virtù contro della Repubblica, 72. — Ved. Scarperia.

Peruzzi. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Albergano Roberto re di Napoli, 147. Falliscono, 211-212. Nella loro compagnia di commercio era Giovanni Villani, 212. Vengono armati in Piazza, B 212. Rimossi dagli uffici, 26. Alloggiano l’imperatore Paleologo, 259.

Peruzzi Ridolfo. Viene armato in Piazza, B 222. Va in Palagio a trattare un accordo, 223. Confinato, 225.

Peruzzi Simone. Pratica contro gli Albizzi e Ricci, A 317. Ambasciatore a Gregorio XI, 338. Degli Otto creati per la guerra contro di lui, ivi. Gli è arsa la casa dai Ciompi, B 19.

Pescia. Vi è firmata una pace tra i Fiorentini e i Pisani, A 307. — Ved. Orlandi.

Peste in Firenze, A 219, 246 e segg., 305, 321, B 59, 88, 208, 317, C 218, 286.

Petracco (ser) dall’Incisa, cancelliere della Repubblica e notaio delle Riformagioni. Sbandito, A 125.

Petrarca Francesco. Sua nascita, A 125. Dello scrittore e dell’uomo e [436] del suo secolo, 357-361. Ricercatore e copiatore di antichi codici, B 228, 229.

Petrini Andrea. Uno degli ultimi Priori fatti dal Popolo, C 286.

Petroio (Signori di). È di quella famiglia Giovanni Gualberto fondatore dell’Ordine di Valombrosa, A 26.

Petrucci Antonio. Oratore dei Senesi alla Repubblica, B 193. Munisce Lucca assediata dai Fiorentini, ivi. Tende insidie ai loro oratori andati a Niccolò V, B 290-291. Lettere della Repubblica ai Senesi relative a lui, 542-544.

Petrucci Cesare. Potestà di Prato, B 250. Gonfaloniere al tempo della Congiura de’ Pazzi, 374, 375.

Petrucci Pandolfo. Amico dei Fiorentini, C 64, poi trama contro di loro, 77.

Piagnoni. Così detti i devoti del Savonarola, C 47. Sopraffatti dai loro avversari, 53. Parteggiano dopo la cacciata d’Ippolito e Alessandro de’ Medici, 216. Prodi nell’armi, 234. Loro fede incrollabile nella libertà della patria, 295.

Piano (del). Così è chiamata la parte dei Medici, opposta a quella del Poggio, loro nemica, B 333.

Picchena (Signori di). Il loro castello è smantellato, A 395.

Piccinino Niccolò. Al soldo della Repubblica, B 170, 171. Lascia i suoi servigi, 171, 172. Rompe il campo dei Fiorentini, 196. Espugna alcune castella del loro dominio, 198. Congiura contro lo Stato della Repubblica e contro Eugenio IV, mentre era in Firenze, B 249. Sconfitto da Francesco Sforza e Neri Capponi, 254. Sua vana impresa contro Firenze, 265-268. È di nuovo sconfitto, 269-270. Sua risposta a una lettera di Giannozzo Manetti, 287.

Piccolomini Enea Silvio. Viene in Firenze, B 306. — Ved. Pio II.

Pico Galeotto, signore della Mirandola. Al soldo dei Fiorentini, B 418.

Pico Giovanni della Mirandola, B 427. Sepolto in San Marco di Firenze, 443. Suo giudizio di Lorenzo de’ Medici come scrittore, 444; di Dante e del Petrarca, 446. Impressione che riceve da una predica del Savonarola, C 30.

Piero (ser) di ser Grifo, notaio delle Riformagioni, B 6. Gli è arsa la casa dai Ciompi, 19.

Pierozzi Antonio e Antonino, arcivescovo di Firenze. Muore, B 324. Suo carattere e sue opere, ivi, 325.

Pieruccio, C 267.

Pieruzzi ser Filippo, notaio delle Riformagioni. Chiama le Balìe del 1433 e 1434, B 212, 224. Cassato, B 283.

Pietrabuona. Tolta dai Fiorentini ai Pisani, e da questi ricuperata, A 303.

Pietramala. Viene in potere dei Fiorentini, B 58.

Pietrasanta. Ivi presso è il campo dei Fiorentini contro Lucca, B 189-191. Presa dai Fiorentini, B 415. Data da Piero de’ Medici a Carlo VIII, C 12. Cade in mano dei Lucchesi, 34. Restituita da essi alla Repubblica, 142. Viene alle mani di Clemente VII, 261.

Pietro Leopoldo granduca di Toscana. Vende tutti gli oggetti di curiosità raccolti dai Medici nel Palazzo Pitti, C 333. Stato della Toscana sotto di lui e del suo successore, C 336-339.

Pio II (Enea Silvio Piccolomini). Viene in Firenze, B 323. Sua vita ed opere, 435.

Pio signori di Carpi. Vengono contro lo Stato di Firenze, B 345.

Pio Rodolfo. Oratore di Clemente VII in Firenze, C 264. Tratta con Malatesta Baglioni, ivi, 269.

Piombino. Vi è per governatore un fiorentino, B 104, 156, 157. Assediato da Alfonso I d’Aragona e difeso dai Fiorentini, B 292, 293. Vi convengono a trattare Niccolò Machiavelli e alcuni inviati di Pisa assediata dalla Repubblica, C 106.

Piombino (Signore di). Fa lega coi Senesi contro la Repubblica, B 197.

[437]

Piombino (da) Bartolo. Sua risposta a un Discorso fatto da Gino Capponi in Pisa, conquistata dalla Repubblica, B 115.

Pippo Spano. — Ved. Scolari Filippo.

Pisa. Vi vanno a guardia i Fiorentini, A 11. In quel Duomo si celebra un trattato tra essi e l’imperatore Carlo IV, 271. Vi si aduna il Concilio per la cessazione dello scisma, B 125. È sede del commercio dei Fiorentini e vi risiedono due dei loro Consoli di mare, 143. Turpi atti che vi commettono i soldati della Repubblica, 523. Vi si aduna un altro Concilio detto il Conciliabolo, C 111. — Ved. Pisani.

Pisa (da) Anguillotto. Passa dal campo Imperiale sotto Firenze in quello de’ Fiorentini, ed è morto, C 270.

Pisa (da) Giovanni, scultore, A 176.

Pisa (da) Giunta, scultore, A 177.

Pisa (da) Niccolò, scultore, A 31, 176.

Pisa (da) Niccolò, capitano di ventura, B 265. Va con Neri Capponi contro il Conte di Poppi, 271.

Pisani. Regalano ai Fiorentini due colonne di porfido tratte dall’isola di Maiolica, A 12. Insieme con loro fanno guerra ai Lucchesi e Senesi, 13. Si collegano con la Repubblica, 14. In guerra con essa, 30, 31. Patti imposti loro dai Fiorentini, 39. Pace tra le due Repubbliche, 96. Nuova pace, 207. Rompono loro la guerra per toglierli dal possesso di Lucca, 220. Mandano aiuti in Firenze contro il Duca d’Atene, che vengono rimandati, 234. Nuova guerra tra essi e i Fiorentini, 300 e segg. Fanno lega con loro, 324. Sottoposti all’interdetto per cagione dei Fiorentini in guerra col Papa, 328. Pratiche e imprese dei Fiorentini contro di loro, B 95 e segg. Vengono in potere della Repubblica, 111, 112. Feste che si fanno in Firenze per tale acquisto, 116. Molti di loro con le famiglie costretti a venire in Firenze, 117. Loro condizione sotto il dominio della Repubblica, ivi, 118. Loro inutili sforzi per ridursi in libertà, 197. Quello che facesse per essi Lorenzo de’ Medici, B 426. Scuotono il giogo della Repubblica col favore di Carlo VIII, C 13, 14. Donde abbiano aiuti e loro provvedimenti, 19. Guerra tra essi e la Repubblica, 34-36, 64-70, 73-74, 97, 98, 104-106. Si arrendono, 106. Anche la loro fortezza torna in mano dei Fiorentini, 218. Non oppongono resistenza alle armi di Carlo V, 311.

Pistoia. Segue parte ghibellina, A 37. È in lega coi Fiorentini, 47, 67. Vi è potestà Giano della Bella, 102. Ne prendono la signoria i Fiorentini, 106. Ne son cacciati i neri, 112. Difesa da uno degli Uberti contro i Fiorentini e i Lucchesi, 125. Ferocissima nelle parti cittadine, 128. Fiorentini e Lucchesi se ne spartiscono la signoria, 137. Taglieggiata dai Fiorentini, 150. Si dà al re Roberto di Napoli, 160. Tributaria di Castruccio, 185. Signoreggiata da Filippo Tedici, 192. Occupata da Castruccio, ivi. Se ne impadroniscono i Fiorentini, poi è ricuperata da Castruccio, 200, 201. Liberata, fa pace coi Fiorentini, 207. Questi vi mandano un Capitano, 213; poi l’occupano a forza, ivi. Si dà al Duca d’Atene, 227. Gli manda doni, 230. Torna a libertà, 237. I Fiorentini l’hanno per accordi, 261. Manda oratori a Carlo IV, 269. Vi viene papa Alessandro V, B 127. Suo capitanato, ricordato, 484, 493. I Fiorentini vi fomentano le parti de’ Cancellieri e dei Panciatichi, che vengono a guerra tra loro, C 73. Torna all’ubbidienza della Repubblica, 78. Viene alle mani di Clemente VII, 260.

Pistoia (Montagna di). Vi ha gran seguito Neri Capponi, B 205. Suo capitanato, ricordato, 484, 493.

Pistoia (Vescovo di). È del Consiglio del Duca d’Atene in Firenze, A 230.

Pistoia (da) Cino, A 173. Condotto a leggere nello Studio di Firenze, 368.

Pistoiesi. — Ved. Pistoia.

[438]

Pitti. Uno di quella famiglia è mandato in bando, B 350.

Pitti Bonaccorso. Imprigionato in Avignone, A 328. Oratore al Re di Francia, B 85. Ha grande familiarità in quella corte, ivi. Oratore all’imperator Roberto, 89; a Genova, 96. Ha grandi aderenze in Francia, 127. Sua Cronaca, e altre notizie di lui, 233.

Pitti Giannozzo, B 223. Ambasciatore a Niccolò V, 290. Fautore di Francesco Sforza, 299.

Pitti Iacopo. È dell’Accademia del Piano, di cui dà ragguagli alla Regina d’Inghilterra, C 331.

Pitti Luca. De’ Priori, B 221. Figliuolo di Bonaccorso, 233. Sua commissione a Roma, 264. Oratore a Francesco Sforza, 303. Autore di gravezze imposte ai cittadini, 314. Neri Capponi lo oppone nei Consigli a Cosimo de’ Medici, 317. Quello che operasse in un suo gonfalonierato, 319-322. Premi ed onori che ne riceve, 322. Edifizi da lui innalzati, e sua impresa gentilizia, ivi. Uomo vano e fastoso, 331. Si fa capo della fazione contraria ai Medici, 333. Congiura contro Piero, poi se gli accosta, 341. Sua oscura fine, 313. Dei Venti creati per la ricuperazione di Volterra, 360. — Ved. Pitti (Palazzo dei). Scarampi.

Pitti (Palazzo dei). Edificato da Luca Pitti, B 242, 322.

Pittori (Compagnia o Confraternita dei) in Firenze, A 369.

Podere (Vicariato del), B 484, 493.

Poggibonsi. Quelli uomini stanno contro ai Fiorentini, A 15. Confine tra i dominii di Siena e di Firenze, 30. Espugnato dai Fiorentini, 70. Si regge da sè, poi torna sotto la loro giurisdizione, 97. Vi viene ostilmente Iacopo dal Verme, B 71, — Ved. Della Carda Bernardino. Poggio Imperiale.

Poggibonsi (da) Cecco d’Iacopo. Parte da esso presa nel Tumulto de’ Ciompi, B 16.

Poggio a Caiano (Villa del). In quel salone è dipinto il ritorno in patria di Cosimo de’ Medici, B 226. Edificata da Lorenzo il Magnifico, col disegno di Giuliano da San Gallo, 426. Si vuol darle fuoco, C 250.

Poggio Imperiale, castello di Poggibonsi, restaurato e così appellato da Arrigo VII, A 159. Tolto ai Fiorentini nella guerra contro Sisto IV, B 395.

Poggio Imperiale, già villa de’ Baroncelli presso Firenze. Vi alloggiano i Lanzi di Carlo V, C 257. Vi segue il duello tra Lodovico Martelli e Giovanni Bandini, 271.

Poggio (del). Nome di fazione. — Ved. Piano (del).

Pogna. Intorno a un antico trattato tra gli Uomini di quel castello e i Consoli di Firenze, A 10. Abbattuta dai Fiorentini, 17. Di nuovo del predetto trattato, 441, 442.

Poliziano Angelo. Osservazione sul tempo in cui scrisse il poemetto sulla giostra combattuta da Giuliano de’ Medici, B 364. Descrive la Congiura de’ Pazzi, 374. Muore, 428. Altre notizie di lui e delle sue opere, 443, 447, 459. Maestro a Piero di Lorenzo de’ Medici, C 3.

Pollaiolo (del) Simone detto il Cronaca, scultore e architetto. Autore del palazzo degli Strozzi, B 439, C 118,119.

Pontadera. Perso e ricuperato dai Fiorentini, B 200.

Pontadera (da) Antonio. S’adopra invano per sottrarre Pisa al dominio della Repubblica, B 196, 197.

Ponte alla Carraia. Sua fondazione, A 31. Ivi presso era una porta, C 1. Rovina, 129; e di nuovo, 210.

Ponte a Rubaconte. Sua fondazione, A 31. Danneggiato da una piena, 210.

Ponte a Santa Trinita. Rovina, A 210.

Ponte Vecchio. Era il solo ponte in Firenze, nel primo cerchio, A 8. Vi è ucciso il Buondelmonti, 27. Ricordato, 131. Rovina, 210. Il Duca d’Atene ne interrompe la riedificazione, 228. Le pigioni di quelle botteghe vengono assegnate a Salvestro de’ Medici, B 22.

[439]

Ponte Carali (da) Maffeo, potestà di Firenze. Persuade i grandi, congiurati tra loro, a partirsi dalla città, A 222.

Pontetetto. Espugnato dai Fiorentini, B 189.

Pontormo (Conti di). Mandano doni al Duca d’Atene, A 230.

Popolani. Cognome assunto da Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, C 39, 166.

Popolo di Dio e Popolo Santo. Così chiamato il popolo minuto nel Tumulto dei Ciompi, B 30.

Poppi. Il Duca d’Atene vi ratifica l’atto di rinunzia alla signoria di Firenze, A 236. Si arrende al Principe di Orange, C 243.

Poppi (Conte di). — Ved. Battifolle (da) Francesco.

Porcari. Uno di quella famiglia è potestà di Firenze, A 24.

Por Santa Maria (Via di), A 131.

Porta San Piero (Sesto di), detto degli Scandali. Vi hanno le case i Pazzi e i Donati, A 105.

Portinari. Mercanti in Ungheria, B 134. Come divengano ricchi, 315.

Portinari Beatrice, A 167, 179.

Portinari Folco padre di Beatrice. Fondatore dello Spedale di Santa Maria Nuova, A 179.

Portinari Giovanni. Compra una schiava per conto di Cosimo dei Medici, B 326.

Portinari Pier Francesco. Ambasciatore a Clemente VII, C 244. Va a capitolare nel Campo Cesareo sotto Firenze, 299.

Portofino. Vittoria ivi ottenuta dai Fiorentini, B 199.

Portogallo (di) don Pietro. Viene in Firenze, B 144.

Porto Pisano. Occupato dai Fiorentini, che ne recano le catene in Firenze e le appendono alle colonne dinanzi alla porta di San Giovanni, A 304. — Ved. Talamone.

Potestà. Prime notizie di quel magistrato, A 23-25. Dà annualmente le insegne al popolo, 36. Ne sono eletti due, uno guelfo e l’altro ghibellino, 57; poi mandati via, 61. Scema la sua autorità, 138. Cessa durante la signoria del re Roberto, 160. Edificazione del suo Palagio, 179. Rieletto, 184. Ridotto a mero giudice salariato, 189. Capo del Consiglio del Comune, 203. Il suo Palagio è allagato da una piena d’Arno, 209. Le sue scritture sono arse dal popolo, 234. Suo salario, 256. Costituzione del suo ufficio, 379 e segg., B 529, 530. Nuova arsione delle sue scritture, 21. Scade d’autorità, 321, 365. Va a offerta a San Giovanni il giorno di quel Santo, 533. Abolito, C 92, 93.

Pozzolatico, presso Firenze. — Ved. Barbiano (da) Alberico.

Pratesi. — Ved. Prato.

Pratica Segreta. Nome di un Magistrato eletto dai Fiorentini per il governo di Pistoia, A 213.

Pratiche che si tenevano dalla Repubblica, descritte dal Varchi, C 247.

Prato. Disfatto dai Fiorentini, A 9. In lega con essi, 47, 67. Multato da loro in una somma di danari, 97. Gli è bandita la croce addosso dal Cardinale Niccolò, 128. Rinnova lega con la Repubblica, 150. Vi cavalcano i Fiorentini in guerra con Castruccio, 185. Si dà a Carlo duca di Calabria, 198. Manda aiuti a Firenze contro il Duca d’Atene, 234. Comprato dai Fiorentini, 260. Di un trattato per ribellarlo alla Repubblica, 322. Vi viene papa Alessandro V, B 127. Riforme della sua potesteria, 484, 493. — Ved. Cardona (da) Raimondo. Nardi Bernardo.

Prato (da) Niccolò, cardinale. Paciere in Firenze, A 128. Danna i Fiorentini all’interdetto, ivi. Persuade Clemente V a mandare due suoi Legati in Firenze, 137. Da lui riconoscono i cronisti l’elezione all’Impero del conte Arrigo di Lucemburgo, 156; che egli poi, insieme con altri due Cardinali, incorona in Roma, 156.

Prestanze. — Ved. Gravezze.

[440]

Priori delle Arti poi di Libertà. Succedono ai Buonuomini, A 78. È aggiunto ad essi un Gonfaloniere di giustizia, 95, 204. È tolto loro ogni ufficio e autorità dal Duca di Atene, 226. Creati senza il Gonfaloniere, 227, 228. Sono di nome e non di fatto, 230. Portati al numero di dodici, di cui quattro de’ grandi, 238. Restano otto, cacciati i grandi, e rifanno il Gonfaloniere, 239. Riforme del loro ufficio, 242, B 26, 36, 49, 54, 213, 514-518. Altre notizie, e costituzione del loro ufficio, A 379-389, 420-423, 524 e segg. Cominciano a esser chiamati Priori di Libertà, 321. — Ved. Signoria.

Proconsolo. Era sopra ai Consoli dell’Arte dei Giudici e notari, B 524.

Procuratori. — Ved. Dodici Procuratori.

Provenza. I Fiorentini vi mandano ad armar galere, A 301.

Pucci Antonio. Della sua destrezza ed ingegno fa suo pro Lorenzo dei Medici, B 354. Degli Accoppiatori, 357. Commissario in campo sotto Pietrasanta ove muore, 414-415.

Pucci Antonio, vescovo di Pistoia. Condottiero di Svizzeri al soldo del Papa, C 150.

Pucci Dionigi. Oratore a Napoli, C 4.

Pucci Giannozzo. Decapitato, C 40, 41.

Pucci Giovanni. Ricordato in lettere di Rinaldo degli Albizzi, B 205. Confinato, 216. Restituito, 225.

Pucci Lorenzo. Oratore del Papa in Firenze, C 116. Creato cardinale, 134. Si comporta eroicamente nell’assalto dato a Roma dal Contestabile di Borbone, 181-182.

Pucci Puccio. De’ Dieci della guerra, B 188. Amico a Cosimo de’ Medici, 210. Confinato, 216. Restituito, 225. Suo consiglio intorno agli antichi ordini contro i nobili, 246. Come divenga ricco, 281.

Puccini. Nome della parte dei Medici, B 209, 210.

Puccini Pandolfo, soldato. Messo a morte, C 218.

Pulci. Vanno in esilio, A 52. Tengono la parte dei guelfi neri, 126. Arsione delle loro case, 131.

Pulci Bernardo, B 442.

Pulci Luca, B 442.

Pulci Luigi. Legge il suo Morgante Maggiore in casa i Medici, B 427. Si parla di quel poema, e per incidenza dell’autore e dell’età in cui scrisse, 442.

Pulci Uberto. Uno dei maggiori cittadini di Firenze, A 60.

Puliciano nel Mugello. Assalito dai fuorusciti ghibellini di Firenze, A 133.

Pupilli (Ufficiali dei), B 528.

Q.

Quarantia. Che fosse, C 120. Ampliata e rinnovata, 218.

Quarantotto (Senato o Consiglio dei). Sua istituzione, C 325, 326.

Quarata (da) Sandro. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Quaratesi. Si mettono col popolo, in un assalto da esso dato alle case dei grandi, A 241.

Quartieri della città. Loro nomi, B 524.

Quattordici. — Ved. Buonomini.

Quattordici eletti a riformare lo Stato, scoppiata appena la congiura contro il Duca d’Atene. — Ved. Balìa del 1342.

Quattro Consiglieri eletti invece della Signoria, sotto il duca Alessandro de’ Medici, C 326, 327.

R.

Radagasio. — Ved. Stilicone.

Radda. Tolta ai Fiorentini nella guerra contro Sisto IV, B 388.

Raffacani. Uno di quella famiglia ha la guardia della cittadella di Pisa, B 101.

Ragionieri. — Ved. Scrivani.

Ragusa. Vi fanno viaggi le galee mercantili della Repubblica, B 142.

[441]

Ramazzotto, condottiero di gente d’arme. È in Firenze, C 124. Occupa Firenzuola e la Scarperia, 239. Ricordato, 365.

Rangone Guido, condottiero di gente d’arme, C 141, 175.

Rappresaglie, A 386.

Rassina, nel Casentino. Viene in potere dei Fiorentini, B 271.

Ravenna. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Ravenna (da) Giovanni. Illustra pubblicamente in Firenze la Divina Commedia, B 234.

Razzante. Popolano fiorentino al campo di Montaperti, A 48.

Reggio. Vi si rifugiano alcuni dei fuorusciti guelfi di Toscana, A 55.

Regolatori (Ufficio dei), B 528.

Remole. Castello dei Donati, A 109. Vi pone il campo Niccolò Piccinino, B 265.

Renai (Via de’). — Ved. Serristori.

Rencine. Castello espugnato da Ferdinando d’Aragona, B 307.

Reparata (Santa). Sua festa e tempio in Firenze, A 2. — Ved. Santa Reparata.

Retz (de), cardinale. È d’origine fiorentina, C 310.

Riario Girolamo. Vuol mutare lo Stato di Firenze, B 367, 370. Invita Lorenzo de’ Medici a andare a Roma, mentre congiura contro di lui, 372. Riscalda il Papa contro la Repubblica dopo la Congiura dei Pazzi, 380. Da lui muovono altre trame contro la vita del Magnifico, 407-408. I Fiorentini attraversano altri suoi disegni, 410.

Riario Raffaello, cardinale. Viene in Firenze, B 372. Convitato dai Medici, ivi. Ritenuto in Palagio, 374. La Repubblica promette di rilasciarlo, 381. Lo rilascia, 384. — Ved. Ostia (Vescovo di). Perugia (Vescovo di).

Ribelli (Ufficiali de’). Sono arsi i libri del loro ufficio, A 244.

Ricasoli (da) famiglia. Non posson venire in Firenze, A 76. Rimossi dagli uffici, B 246. Riabilitati, 388. — Ved. Brolio.

Ricasoli (da) Bettino. Dei Capitani di Parte, e violenza da esso usata in un’ammonizione, B 11. Fatto de’ grandi, 76.

Ricasoli (da) Egidio, B 250.

Ricasoli (da) Galeotto, B 250.

Ricci. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Uno di essi dannato a morte dal Duca d’Atene, 224-225. Sei di loro banditi, e gli altri privati degli uffici, B 81. Uno di essi decapitato, 317. Restituiti, 498. — Ved. Albizzi.

Ricci Giovanni. Fatto ritenere e maltrattato dal Conte di Virtù, B 66.

Ricci Guglielmo. Mandato da Uguccione suo padre in corte del Cardinale Albornoz legato a Bologna, A 315.

Ricci Marietta, C 271.

Ricci Ricciardo, B 473.

Ricci Rosso. Capitano della lega tra i Fiorentini ed il Papa contro i Visconti, A 315. Si unisce cogli Albizzi, ivi. Restituito agli uffici, B 472-473.

Ricci Uguccione. Capo della sua famiglia, A 290. Va oratore a Carlo IV, ivi. Procura e sottoscrive un accordo tra esso e la Repubblica, ivi. De’ Priori, 313, 314. Oratore a Urbano V, 315. Si unisce con gli Albizzi, ivi. Restituito agli uffici, B 472-473.

Riccio. Principale autore di una congiura contro Eugenio IV, in Firenze, B 250.

Richiesti o Savi, A 382, 383, B 205.

Ricorboli presso Firenze. Vi viene ostilmente la Compagnia Bianca, A 306.

Ricoveri Niccolò. Gonfaloniere, B 79.

Ridolfi. A due di quella famiglia è arsa la casa dai Ciompi, B 19. Avversi ai Medici e al Principato, C 209.

Ridolfi Antonio. Ambasciatore a Sisto IV, B 402.

[442]

Ridolfi Giovan Battista. Va nelle ambascerie, C 88. Gonfaloniere, 123.

Ridolfi Lorenzo. Oratore a Roma ed a Napoli, B 84. De’ maggiori dello Stato, 150. Gonfaloniere, 161. Oratore a Venezia, 172, 173. Dei Dieci della guerra, 188. Vuol ristringere nei Consigli il numero dei Richiesti, 205. Dottore di leggi nello Studio Fiorentino, 234.

Ridolfi Luigi. Sta fuor di Firenze e gli è intimato il ritorno, C 249.

Ridolfi Niccolò. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Ridolfi Niccolò. Decapitato, C 40-41.

Ridolfi Niccolò. Fatto Cardinale, C 165. Viene in Firenze, C 210. Poco aderente al Principato, 313. Ragiona col Papa della forma da dare al governo di Firenze, 322, 323. Tiene in Firenze regnante Cosimo I; poi se ne va per paura, 329.

Ridolfi Piero. Sposa Contessina figliuola di Lorenzo il Magnifico, B 423.

Riformagioni. Loro notari, A 385. Si creano otto cittadini a rivederne i libri, B 284.

Riformatori. — Ved. Dodici Riformatori.

Rifredi (Ponte a). Vi fa correre un palio Azzo Visconti, A 194-195.

Rinucci famiglia. Vanno in esilio, A 52.

Rinuccini. Privati degli uffici, B 61.

Rinuccini Alamanno. Benevolo alla famiglia de’ Pazzi, B 367; e acerbo giudice di Lorenzo de’ Medici, 424.

Rinuccini Filippo. Accompagna Bartolommeo Valori, oratore a Martino V, B 136-137.

Ripafratta. Vi si ritrae il campo dei Fiorentini, cacciato da Francesco Sforza, B 194. Data da Piero de’ Medici a Carlo VIII, C 12.

Ripoli (Piano di). Vi si accampa il Principe d’Orange, alla villa dei Bandini, C 255.

Ripomarance. Tolta dalla Repubblica alla soggezione dei Volterrani, B 185. Occupata da Alfonso I d’Aragona, B 291; dal Duca Valentino, C 74-75.

Rivalta (da) frate Giordano. A 175.

Roberto imperatore. Conferma ed accresce, per danari, i privilegi concessi alla Repubblica da Carlo IV, B 89.

Roberto duca di Calabria poi re di Napoli. Capitano di guerra dei Fiorentini e Lucchesi, A 136, 137. Succede al padre nel regno, 142. Manda trecento cavalieri in aiuto della Repubblica, 146. Fa lega con essa, 147. Le manda altri aiuti, 153, 159. Fatto signore di Firenze, 160. Cessa la sua signoria, 184. Con lui fanno lega i Fiorentini, 208. Scrive al Duca d’Atene in Firenze, 227. — Ved. Gravina (di) Piero. Peruzzi. Taranto (Principe di).

Rodi. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Rodolfo re dei Romani. Un suo luogotenente tenta inutilmente le città guelfe di Toscana, A 75.

Romagna. I Fiorentini perdono tutte le fortezze e terre che vi possedevano, B 171.

Romagnoli. Mandano aiuti ai Fiorentini contro Arrigo VII, A 157.

Romania. Vi si consumano panni fiorentini, B 140. Vi fanno viaggi le galee mercantili della Repubblica, 142.

Romena (da) Alessandro dei Conti Guidi. Eletto per loro capitano dai fuorusciti ghibellini, A 133. Tra i suoi consiglieri è Dante, ivi.

Romolino, cardinale. Fa il processo del Savonarola, C 59.

Romolo (di) Andrea, notaro, B 558.

Ronco, luogo ove si radunarono i Ciompi, B 16.

Ronco (del) Lodovico. Capitano di guardia in Firenze, B 215.

Rondinelli. Assalgono le case dei grandi, A 240. Vengono armati in Piazza, B 222. Rimossi dagli uffici, B 246.

Rondinelli fra Andrea. Scelto a sostenere la prova del fuoco contro i seguaci del Savonarola, C 51.

[443]

Rossi. Vanno in esilio, A 52. In guerra co’ Tornaquinci, 92. Seguono la parte de’ Cerchi, 106. Fanno gran mali in Firenze, 122. Tengono la parte dei guelfi neri, 126. Assaliti dal popolo, si arrendono, 241. Cacciati di Firenze, stanno nelle loro possessioni presso a San Gimignano, 395.

Rossi Barna. Ambasciatore a Carlo IV, A 398.

Rossi Pino. Ha bando e confisca degli averi, A 312.

Rozzo Bernardo, milanese. Rivela una congiura ordita in Firenze, A 311-312.

Rucellai. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Uno di loro dannato a morte dal Duca d’Atene, poi graziato, 224-225; indi fatto impiccare, 229. Il Duca confisca a sè i loro beni, ivi. Congiurano contro il Duca, 231. — Ved. Oricellai.

Rucellai (Orti). C 118, 156.

Rucellai Bernardo. Notizie di lui, C 88, 118, 156.

Rucellai Cosimo. Adorna gli Orti Rucellai, C 156.

Rucellai Francesco. Ambasciatore al Papa e al Re di Napoli, B 84.

Rucellai Palla. Prende il possesso di Pietrasanta e del Mutrone per Clemente VII, C 261. Ambasciatore a Carlo V, 318; presso del quale difende le forme libere della Repubblica, ivi. 319. Testo dell’orazione da lui recitata in detta ambasceria, 385.

Rucellai Pandolfo. Istruzioni date ad esso e a quattro suoi compagni oratori a Carlo VIII, C 346, 347.

Rucellai Paolo. Ha il comando di alcuni legni sottili della Repubblica, B 199.

Ruffoli Baldo. Primo gonfaloniere, A 95.

Rusciano (Palazzo di) in Pian di Ripoli. Edificato da Luca Pitti, B 322. Comprato dalla Repubblica e da essa donato a Federigo conte d’Urbino, 360. Disegnato dal Brunellesco, C 257. Vi alloggiano gl’Imperiali con Gian Battista Savelli, ivi.

S.

Sacchetti Franco e le sue Novelle, B 231.

Sacchetti Giannozzo: Messo a morte e Apologia di lui, ricordata, B 40.

Sacromoro Malatesta, frate in San Marco, C 57.

Saggio (Ufficio del), B 485.

Salamoncelli Andrea. Respinge un assalto dato dai Fiorentini a Pistoia, A 260.

Salari degli ufficiali, A 256, 257.

Salutati Coluccio, cancelliere della Repubblica. Sue Lettere, ricordate, A 331. Astuzia da esso usata nel Caso dei Ciompi, B 53. Le sue lettere temute dal Conte di Virtù, 83, 230. Sue lodi, 229, 230.

Saluzzo (di) Tommaso. Al soldo dei Fiorentini, B 387.

Salviati. S’imparentano co’ Medici, B 378. Avversi al Principato, C 209.

Salviati Alamanno. De’ Dieci eletti ad amministrare la guerra di Lucca, B 188. Va in campo, 189. Ricordato in lettera di Rinaldo degli Albizzi, 205. Degli Accoppiatori, B 283. Fautore di Francesco Sforza, 299.

Salviati Alamanno. De’ Priori, C 90. Commissario in campo contra Pisa, 105.

Salviati Andrea. Degli Otto di balìa creati per la guerra con Gregorio XI. B 39; poi Gonfaloniere, ivi.

Salviati Francesco. Arcivescovo di Pisa, B 269. Sua parte nella Congiura de’ Pazzi, ivi-374. Impiccato, 375.

Salviati Francesco. Egli e Giorgio Vasari raccolgono i pezzi di un braccio rotto al David di Michelangiolo, C 211.

Salviati Giovanni, cardinale, C 165. Legato in Francia, 234. Poco aderente al Principato, 313. Ragiona col Papa della forma da dare al governo di Firenze, 322, 323. Viene a Firenze, regnante Cosimo I; poi se ne va, per paura, 329.

[444]

Salviati Iacopo. Ambasciatore a Roma, B 85, 93. Capitano delle genti mandate contro gli Ubertini e i Conti di Bagno, 93. Ambasciatore in Francia, 96. Nel campo dei Fiorentini contro Pisa, 105. Ambasciatore al re Ladislao e a Benedetto antipapa, 124. Sue Memorie, ricordate, ivi, 232. Consapevole della Congiura de’ Pazzi, B 374.

Salviati Iacopo. Sua legazione a Napoli, ricordata, C 102. Ambasciatore residente in Roma, 125, 165, 226, 228, 246. Gli è intimato il ritorno in Firenze, 249. È posto fuoco a una sua villa, 250. Difende le forme libere di Firenze, 313. Ragiona col Papa delle forme di governo da darle, e sua proposta, 322, 323. — Ved. Medici Lucrezia.

Salviati Maria, moglie di Giovanni de’ Medici detto delle Bande nere, C 178.

Salvini Anton Maria. Sue postille marginali all’opera Notizie della vera libertà fiorentina, ec., A 412-415.

Salvucci. Odii e inimicizie tra essi e gli Ardinghelli, A 395.

Sambuca, A 262. Sua castellaneria, ricordata, 484.

San Barnaba. Costo del palio che si correva per quella festa, A 257.

San Casciano presso Firenze. Vi mena il guasto Castruccio dell’Interminelli, A 196. Vi sta in villa Niccolò Machiavelli, C 184, 185.

San Concordio (da) Bartolommeo, A 176.

San Donato in Collina. Vi fanno una scorreria gli Aretini, A 84.

Sant’Ellero. In quel castello son morti o presi i capi dei ghibellini di Firenze, B 66.

Sant’Eusebio (Spedale di). Il Comune lo ricupera dalle mani dei grandi, A 97. È alla guardia dell’Arte di Calimala, 228. Tolto ai poveri dal Duca d’Atene, ivi.

San Firenze (Chiesa di). Vi si aduna a folla il popolo l’anno 1250, A 35.

San Frediano (Borgo di) in Firenze. Giuoco inventato da quegli uomini nella venuta del Cardinale da Prato, A 129.

San Gallo (Piazza di). Vi sono impiccati molti fuorusciti bianchi, A 136.

San Gallo (da) Antonio. Suoi lavori di fortificazione in Firenze, C 176.

San Gallo (da) Francesco. Attende alle fortificazioni della città, nell’assenza di Michelangiolo, C 253.

San Gallo (da) Giuliano. — Ved. Poggio a Caiano.

San Genesio. In quella terra tiene un parlamento l’imperatore Federico I e un altro l’Arcivescovo di Magonza, A 13, 14. Vi è fermata una lega tra i Fiorentini e altre città di Toscana, 19.

San Gervasio presso Firenze, C 270.

San Gimignano. In lega coi Fiorentini, A 47. Sgombrato dai guelfi, 53. Torna in lega coi Fiorentini, 67. Vi va ambasciatore Dante Alighieri, 166. Si dà al Duca d’Atene, 227. Gli manda doni, 230. Viene in potere dei Fiorentini, 259. Atti della sua dedizione ricordati, ivi. Sua istoria compendiata, 389-398. Non vuole assoggettarsi al Catasto, B 183-184.

San Giorgio (Compagnia di). Viene contro lo Stato di Firenze, B 42-43.

San Giorgio (Porta di). — Ved. Vasto (Marchese del).

San Giovanni Battista. Costo del palio che si correva in quel giorno, A 257. Descrizione delle feste, B 531-534.

San Giovanni Battista (Chiesa di). Colonne di porfido che vi stanno dinanzi, A 12. Già tempio di Marte, 31. Incrostata di marmi al di fuori, 179. Allagata da una piena d’Arno, 209. Si vendono le gioie della sua Croce d’oro, C 266. — Ved. Ghiberti Lorenzo. Giovanni XXIII. Porto Pisano.

San Giovanni, terra nel Valdarno. Edificata dai Fiorentini, A 104. Occupata da Arrigo VII, 156.

[445]

San Giovannino (Chiesa di). Occupata dai soldati tedeschi che stavano a guardia di casa Medici, C 312.

San Girolamo (Convento di), a Fiesole. Edificato da Cosimo de’ Medici, B 328.

San Giusto alle Monache, castello nel Chianti. Bloccato dalle genti del Signore di Milano, B 65.

San Gregorio (Chiesa di). Fatta edificare dai Mozzi e fondata da Gregorio X, A 71.

San Lorenzo (Basilica di). Quivi presso si aduna il popolo in arme, A 35. Vi si pratica l’accordo tra la Repubblica e l’imperatore Carlo IV, 265. Ne dirige il lavoro il Brunelleschi, B 242. — Ved. Ambrogio (Sant’) Marignolli Rustico.

San Malò (Cardinale di). Viene a Pisa, C 19.

San Malò (Monsignore di). Oratore del Re di Francia in Firenze, C 344.

San Marcello. Vi passa coll’esercito il Ferruccio, C 293. Arso e quasi disfatto dai Cancellieri di Pistoia, ivi.

San Marco (Biblioteca di). Fondata coi libri di Niccolò Niccoli, B 236. Vi è aggiunta la biblioteca Medicea, C 29.

San Marco (Chiesa di). Quando edificata, A 179. Ampliata, B 328. Vi predica il Savonarola, C 48, 49.

San Marco (Convento di). Vi si adunano i Ciompi, B 29. Ampliato, 328. V’è aperta una scuola di Pittura, C 29. Assalito dai nemici del Savonarola, 53.

San Marco (Frati di). Crescono di numero, essendo priore del convento il Savonarola, C 29. Tenore di una loro lettera al Papa relativa ad esso, 57.

San Marino (Comune di). La sua libertà è protetta dai Fiorentini, A 217.

San Martino (Congregazione di). Sua istituzione e scopo, B 324, 325.

San Miniato (Chiesa di) fuor delle porte di Firenze, A 31.

San Miniato. Sede dei Vicari dell’imperatore onde fu detto al Tedesco, A 9, 17. In lega coi Fiorentini, 47. Sgombrato dai guelfi, 53. Viene in potere della Repubblica, 207. Manda aiuti a Firenze contro il Duca d’Atene, 234. Si dà a Carlo IV, 269. Riacquistato dalla Repubblica, 310. Giangaleazzo Visconti cerca di ribellarglielo, B 66. Vi si accampa l’Aguto capitano della Repubblica, 70. Vi si scopre un trattato contro di essa, 201. Riforme di quella potesteria e vicariato, 484, 493. Occupato dagli Spagnoli e ricuperato dal Ferruccio, C 262, 263. — Ved. Mangiadori.

San Miniato (da) Recupero. Condotto a leggere nello Studio Fiorentino, A 368.

San Pier Gattolino (Porta di), B 17.

San Pier Maggiore (Chiesa e Piazza di). Occupate da Corso Donati, A 120.

San Pier Martire. Ha una statua in Firenze, A 32.

San Piero in Grado. V’è il campo dei Fiorentini contro Pisa, B 105.

San Piero Scheraggio (Chiesa di). Vi si radunano i Consigli, A 383, 384.

San Piero Scheraggio (Sesto di). — Ved. Oltrarno.

San Romano. — Ved. Castel del Bosco.

San Salvi (Monastero di). Vi pone il campo Arrigo VII, A 157. Fatto relativo al Cenacolo ivi dipinto da Andrea del Sarto, C 250.

San Secondo (da) Pier Maria. — Ved. Torre del Gallo.

San Severino (da) Ruberto. Capitano di guerra della Repubblica, B 351. Viene ostilmente in quel di Pisa, 393.

San Vincenzio (Chiesa di), A 376.

Sant’Ambrogio (Porta di), A 157.

Sant’Anna. Sua festa in Firenze, A 236.

Sant’Antonio del Vescovo (Monastero di) fuor della porta a San [446] Gallo. Vi alloggia Giovanni XXIII, B 131, 132. Quivi è aspettato, per ucciderlo, Piero de’ Medici, 340.

Santa Croce (Chiesa di). Vi si raduna il popolo in armi, A 35. Quando cominciata a edificare, 104, 179. Vi stavano le borse degli squittini, 202. In quel convento prende stanza il Duca d’Atene, 224. Questi vi fa grande festa, 226.

Santa Croce (Frati di). Hanno l’ufficio dell’Inquisizione, A 323.

Santa Croce (Piazza di). Vi tiene giostre il Duca d’Atene, A 230. Giostre e altre feste celebratevi, per l’acquisto di Pisa, B 116; per la venuta di Francesco Sforza, 254; e di Pio II, 323; per il matrimonio di Lorenzo de’ Medici, 353. Una ve ne combatte Giuliano suo fratello, 364. Vi si fa il giuoco del Calcio, C 271.

Santa Croce Giorgio. Al soldo dei Fiorentini nell’Assedio, C 256. Sta co’ suoi cavalli nel prato d’Ognissanti, ivi. Sua morte e onori resigli in Firenze, 259. Parole del Ferruccio a proposito della sua morte, 263. Ricordato in lettera di Rosso Buondelmonte oratore all’Orange, 363.

Santa Gonda. Vi pone il campo Francesco Sforza, B 254.

Santa Margherita a Montici presso Firenze. Vi alloggiano gl’Imperiali con Sciarra Colonna, C 257.

Santa Maria del Fiore (Capitolo di). Gli è donata una mitra da Leon X, le cui gioie poi si vendono durante l’Assedio, C 266.

Santa Maria del Fiore (Chiesa di). Quando fondata, A 104, 178, 179. Si prosegue, e Giotto n’edifica il campanile, 212. Procede lentamente, 369. Sua cupola, B 240-242. Consacrata da Eugenio IV, 253. Cade un fulmine sulla cupola, 428.

Santa Maria degl’Innocenti (Spedale di). Sua edificazione, B 145. Sua entrata e uscita annua, C 205.

Santa Maria in Monte. Viene in potere dei Fiorentini, A 199.

Santa Maria Novella (Chiesa di). Ne pone la prima pietra il cardinal Latino de’ Malabranca, A 73. Quivi si dà balía a Carlo di Valois di pacificare i guelfi, 117. Data della sua edificazione, 179. Vi si radunano i Ciompi, B 31 e segg. Martino V ne consacra l’altar maggiore e altre parti, 138. Vi è sepolto il Patriarca di Costantinopoli, venuto al Concilio di Firenze, 259.

Santa Maria Novella (Convento di). Vi alloggia papa Eugenio IV, B 253, 259. Vi si tiene il Concilio Ecumenico, 259. Vi alloggia Leon X, C 138, 139.

Santa Maria Novella, castello in Val di Pesa. Cade in forza d’Arrigo VII, A 159.

Santa Maria Nuova (Spedale di). Sua fondazione, A 179. Lasciti ad esso fatti, 248. Aveva gran numero di possessioni, e ciò che spendesse annualmente, C 205.

Santa Maria sopra Porta (Chiesa di). Vi si radunava il magistrato di Parte Guelfa, A 66.

Santa Petronella (Monastero di). Vi si accampa l’oste dei Fiorentini contro Siena, A 44.

Santa Reparata. Costo del palio che si correva in quel giorno, A 257.

Santa Reparata (Chiesa di). Vi si erige un monumento ad Aldobrandino Ottoboni; poi abbattuto dai ghibellini, A 41. Vi si radunano i Consigli e le Capitudini, 385.

Santa Trinita. In quella chiesa si raduna un consiglio dei neri coi Capitani di Parte e altri cittadini, A 112. Nel Convento fonda una pubblica biblioteca Palla Strozzi, B 235.

Santo Spirito (Chiesa di). Quando edificata, A 179. Ne dirige il lavoro Filippo Brunelleschi, B 242. Arde ed è tosto riedificata, 355.

Santo Spirito (Convento di). Vi va il popolo per rubare, ed è ributtato da Piero di Fronte uno dei Priori, B 13.

Santo Spirito (Piazza di). Vi si radunano in arme molti cittadini, C 298.

[447]

Santo Stefano (Chiesa di). Vi si raduna un consiglio dei più eminenti cittadini, B 161.

Sanzanome, giudice. Sua Cronaca latina, citata, A 6.

Sapienza (Via della). Donde abbia un tal nome, B 235.

Sarzana. V’è confinato Guido Cavalcanti, A 111. Vi si tratta la pace tra Gregorio XI e i Fiorentini, 339, 340. Questi la comprano da Lodovico Fregoso, B 350. I Fregosi se ne impossessano, 400. Ricuperata dalla Repubblica, 418. Viene alle mani di Carlo VIII, C 12; dei Genovesi, 34.

Sarzanello. I Fiorentini lo comprano da Lodovico Fregoso, B 350. Occupato dai Genovesi, 418.

Sassetta (della) Rinieri, condottiero di gente d’arme. È in Firenze, C 124.

Sassetti. Come divengano ricchi, B 315.

Savelli Gian Battista. — Ved. Rusciano (Palazzo di).

Savelli Pandolfo e Butronto (di) Niccolò. Messi d’Arrigo VII in Toscana, A 150, 151. Citano e condannano in contumacia i Fiorentini, 152.

Savello Luca. È alla guardia di Prato pei Fiorentini, C 120, 121.

Savi. — Ved. Richiesti.

Savoia (di) Bona. — Ved. Sforza Galeazzo Maria.

Savoia (di) Filiberta. Moglie a Giuliano di Lorenzo dei Medici, C 132.

Savoia (di) Luigi. Oratore di Arrigo VII a Firenze, A 146.

Savonarola Girolamo. Linguaggio delle sue prediche, B 461. Ambasciatore a Carlo VIII, C 12; istruzioni date a lui e ai suoi compagni d’ambasciata, 346, 347. Di nuovo ambasciatore a quel Re, 20. Notizie della sua vita in Firenze, 26 e segg. Sue lettere a Carlo VIII, ricordate, 34. Rinchiuso in Palagio, 53. Suoi esami, 54 e segg. Meditazioni da lui composte in carcere, 58. Sentenza contro di lui e sua morte, 59, 60. Si annoverano i principali che di lui scrissero, 60. Tenuto in onore dopo morte da uomini gravissimi, 61. Falso ch’ei precorresse ai novatori tedeschi, 62. — Ved. Ghinazzano (da) Mariano.

Savorigi Guidingo. Uno dei maggiori cittadini di Firenze, A 60.

Scala Bartolommeo, cancelliere della Signoria. Risponde a un Breve di scomunica di Sisto IV contro la Repubblica, B 384. Ricordato, 434.

Scali famiglia. Vanno in esilio, A 52. Seguono la parte dei Cerchi, 106. Sbanditi e confinati, 125. Falliscono, 190. Privati degli uffici, B 61. Tre di essi banditi, 81.

Scali Giorgio. Parte che ebbe nei moti del 1378, B 19, 20, 26, 27, 34. Ammonito, 27; restituito, 474. De’ Priori, 378. Uno dei capi dello Stato dopo la caduta dei Ciompi, 39, 46. Decapitato, 47.

Scali Manetto. Tiene la parte dei bianchi, A 119. Cercato a morte, 124.

Scandali (Sesto degli). — Ved. Porta San Piero.

Scandalosi (Legge degli). Rinaldo degli Albizzi teme sia fatta contro di lui, B 206.

Scandicci presso Firenze. — Ved. Spagnoli.

Scarampi. Parenti a Luca Pitti, che li favorisce in una differenza con papa Paolo II, B 338.

Scarampi Lodovico, cardinale. Legato del Papa nel campo della Repubblica contro Niccolò Piccinino, B 268.

Scarperia. Fabbricata dai Fiorentini, A 137, 138. Assediata da Giovanni da Oleggio, 262. Pier Saccone Tarlati disperde la gente dei Perugini andati a soccorrerla, ivi. I Senesi la soccorrono in favore dei Fiorentini, ivi. Occupata dalle genti di Carlo V, C 239.

Scatizza. Imprigionato poi liberato a forza dal popolo, B 46, 47.

Schomberg Niccolò, arcivescovo di Capua e frate di San Marco, C 171. Persuade a Clemente VII una lega [448] coll’Imperatore, ivi. Viene in Firenze, poi va al campo del Principe d’Orange, 246, 247; suoi negoziati, 372-377. Rappresentante del Papa in Firenze, 314.

Scolari famiglia. Fuggono e si ricovrano a Siena, A 41. Mettono a romore Firenze, 59. Esclusi dal tornarvi, 76. Erano in antico dei Buondelmonti, B 134.

Scolari Andrea, vescovo in Ungheria, B 134.

Scolari Filippo detto Pippo Spano. Inviato dall’imperatore Sigismondo in Firenze, B 134. Notizie di lui, ivi, 135.

Scolari Matteo, B 134. Ha un palagio sontuoso in Firenze, 135; dove alberga don Pietro di Portogallo, 144.

Scrivani e Ragionieri della Camera del Comune, B 485.

Secciano (da) Ghiotto. Dichiarato abile agli uffici di Comune, B 35.

Semifonte, A 10. Abbattuto dai Fiorentini, 20. — Ved. Conti Alberti.

Senesi. Fanno lega con la Repubblica, A 19. In guerra con essa, 21, 30. Si collegano cogli usciti ghibellini di Firenze, 37. Oratori mandati loro dalla Repubblica, 42. Sconfitti dai Fiorentini, 70. Creano i Nove a imitazione dei Priori dell’Arti di Firenze, 79, 80. Soccorrono i Fiorentini contro Arezzo, 83. Intervengono alla pace tra essi e i Pisani, 96. Rinnovan lega con la Repubblica, 150. Le mandano aiuti di gente contro Arrigo VII, 157; contro Castruccio, 186, 191; contro il Duca d’Atene, 234, 236; e dopo la sua cacciata, 240. Altre leghe coi Fiorentini, 293. Tornano dal governo del basso popolo a quello de’ Nove, di che si fa in Firenze gran festa, B 59, 60. Soccorsi da Giangaleazzo Visconti contro la Repubblica, 64. Fanno pace coi Fiorentini, 93, 94. Sono loro avversari nella guerra per l’acquisto di Lucca, 197; ed in quella contro il Re di Napoli e Sisto IV, 388. Respingono un loro assalto, C 34. Clemente VII tenta mutare il loro governo, 175, 176. Soccorrono contro i Fiorentini, gl’Imperiali di Carlo V, 255, 278. Uffici e preghiere della Repubblica presso di loro, B 542-544. — Ved. Montepulciano. Scarperia. Toppo (Pieve al).

Seravezza, B 190.

Serragli famiglia. Arsione delle loro case, B 13. Privati degli uffici, 283.

Serragli Belcaro da Pogna. Chiede esser fatto di popolo, A 244.

Serragli Giachinotto. Sua lettera a Niccolò Capponi, ricordata, C 227.

Serraglini. — Ved. Bordoni.

Serravalle. Vi pone il campo Castruccio, A 185.

Serristori. Mandano gente da Figline in aiuto di Piero de’ Medici, B 341. Nelle loro case, su’ Renai, alloggia Malatesta Baglioni a guardia della città, C 256.

Serristori Giovanni. Ambasciatore a Ladislao re di Napoli, B 129.

Servi (Chiesa dei). È nel luogo anticamente detto Cafaggio, A 8. Vi depongono i loro segreti i Capitani di Parte Guelfa, 66. — Ved. Castiglione (da) Dante.

Servi (Ordine dei). Viene in Firenze da Montesenario, A 33. Ad essi indirizza Alessandro VI il Breve di scomunica contro il Savonarola, C 47.

Sestieri. Loro nomi e insegne, A 382, 383.

Sesto presso Firenze, A 194.

Seta (Arte della). Antichissima in Firenze, A 251. Ha grande incremento, B 59, 140. Fonda lo Spedale degl’Innocenti, 145. È fonte principale di ricchezza in Firenze, 330, C 207.

Settanta (Ordine e Consiglio dei). Sua istituzione, B 404-406. Ne scema l’autorità, 421. Abolito alla cacciata di Piero de’ Medici, C 13. Ha la somma del governo, al ritorno di quella famiglia, nel 1512, 132.

Settignano (da) Desiderio, B 439.

[449]

Settimo (Frati di). Camarlinghi del Comune, A 64. Tenevano una delle chiavi del forziere ov’erano le borse degli squittini, 202.

Settine. Che cosa fossero, B 4.

Sforza Alessandro. Viene contro lo Stato di Firenze, B 345.

Sforza Caterina. Soccorsa dai Fiorentini, B 419. Sposa Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, C 39. Favorisce la Repubblica nella guerra per la ricuperazione di Pisa, 65. Manda i figliuoli a Firenze, 71.

Sforza Costanzo. Al soldo della Repubblica, B 394, 409.

Sforza Francesco. Fa guerra ai Fiorentini per il Duca di Milano, B 194. S’accorda con loro per denari, 194, 195. Scuopre ai Senesi l’animo ostile della Repubblica, 195. Capitano generale della lega dei Fiorentini coi Veneziani e col Papa, 250. Viene in Firenze, e suoi fatti in servigio della Repubblica, 254, 255. Per sua cagione sono costretti i Fiorentini a lasciare l’impresa di Lucca, 257. Va a soccorrere Venezia contro il Duca di Milano per intromessa dei Fiorentini, 262. Neri Capponi appiana alcune differenze insorte tra lui e i Veneziani, 265. Sovvenuto di denari dai Fiorentini, 285, 286. Viene a Firenze, 288. Brani della corrispondenza tra esso e il suo oratore in Firenze, 299. La Repubblica gli manda oratori, 303. — Ved. Este (d’) Niccolò III.

Sforza Francesco Maria. Fa lega con l’Imperatore, col Papa e con lo Stato di Firenze, e con altri, C 161, 162.

Sforza Galeazzo Maria duca di Milano. Viene in Firenze ed è ospitato da Cosimo de’ Medici, B 323. Oratori mandatigli dalla Repubblica, 336. Questa si rifiuta a fargli un imprestito di denari, ivi, 337. Manda gente in aiuto di Piero de’ Medici, 340. Torna in Firenze, 345; e di nuovo con Bona di Savoia sua moglie, e sono alloggiati nelle case di Lorenzo de’ Medici, 355. Questi tiene a battesimo alcuni suoi figliuoli, ivi. Con lui rinnovan lega i Fiorentini, 362, 363. Va a lui oratore della Repubblica Donato Acciaiuoli, 363.

Sforza Giangaleazzo. Suoi aiuti ai Fiorentini in guerra con Sisto IV, B 387.

Sforza Lodovico detto il Moro. Viene in Lunigiana, B 393. Piglia la protezione di Pisa contro i Fiorentini, C 34. Favorisce Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco de’ Medici, 39. Aiuta i Fiorentini nella guerra contro Pisa, 65.

Siena. Vi si ricovrano i ghibellini di Firenze, A 41; indi i Ciompi e altri usciti Fiorentini, B 41, 42. Battuta dai Fiorentini, 70. Nuova impresa da essi tentata contro di lei, C 34.

Sigillo del Comune, A 138.

Sigismondo re d’Ungheria poi imperatore. La Repubblica gli manda ambasciatori, B 84, 132. Implora l’aiuto di lui contro il Duca di Milano, 172. Differenze ed accordi con esso, 201, 202. — Ved. Scolari Filippo.

Signa. È invasa da Castruccio, che vi fa battere moneta d’oro, A 194, 195; poi la smantella, 196. Vi soggiorna Carlo VIII, C 14, 15. — Ved. Barbiano (da) Alberico.

Signorelli Bino. Appicca pratiche d’accordo col Principe d’Orange, C 290, 381.

Signorelli Ottaviano. Amico a Malatesta Baglioni, muore nell’Assedio, C 285.

Signoria (Priori e Gonfaloniere di giustizia). Si fonda il palagio del Popolo per sua abitazione, A 104. Si comincia a trarla a sorte, 188. Come fosse costituita, 203, 204. Spese annue per il mantenimento suo e della sua famiglia, 256. Sua Loggia, 369. È fatta a mano poi si ricomincia a trarla a sorte, B 315. Se ne rialza la dignità; suo Proposto, 321. Si torna a rifarla a mano, 320; e di nuovo a trarla a sorte, 334. Nuovamente a mano, 342, 364. È scelta dall’Ordine dei Settanta, 404; poi non più, 421. Va a offerta alla chiesa di San Giovanni il giorno di quel Santo, 533. [450] Nuove riforme, C 26, 125, 132. Si ordina ch’ella segga tre mesi, 215. Abolita, 325. Giorno in cui cessa, 327.

Signoria (Piazza della). S’apre sulle rovine delle case degli Uberti, A 179. È sgombrata d’ogni impedimento, B 321. Come fosse addobbata e ciò che vi si facesse il giorno di San Giovanni, 532.

Siminetti. Arsione delle loro case, B 13.

Siminetti Bartolo detto Mastino. Dà nome a una legge fatta in favore della Parte Guelfa, A 316, 317. Messo a morte, B 41.

Simoncino detto Bugigatto, uno dei Ciompi. Preso e torturato, poi messo in libertà, B 17-19.

Simone di Biagio, corazzaio. Egli ed un suo figliuolo son morti e straziati dal popolo, B 48.

Sindaci dei cessanti e fuggitivi. B 485.

Sisto IV (Francesco della Rovere). Come cominciassero le nimicizie tra esso e Lorenzo de’ Medici, B 360, 361. Qual parte avesse nella Congiura de’ Pazzi, 370. Suoi atti dopo scoppiata la Congiura, 380-384. Dichiara la guerra alla Repubblica ove non cacci Lorenzo, 385, 386. Condizioni che offre per la pace, rifiutate, 389-391. Assolve la Repubblica, 402. Questa cerca promuovere un Concilio contro di lui, 410, 411. Lascia i Veneziani e passa alla parte dei Fiorentini nella guerra col Duca di Ferrara, 412. Istruzioni a un suo ambasciatore al Re di Napoli, trovandosi a quella corte Lorenzo de’ Medici, 559-563.

Smeducci Bartolommeo. A lui fu voce che i Ciompi volessero vender Firenze, B 31.

Soderini. Vanno in esilio, A 52. Arsione delle loro case, B 13. Restituiti in patria, C 131. Fatti ribelli, 157.

Soderini Francesco. Ambasciatore a Sisto IV, B 402. Accompagna Carlo VIII nell’impresa del Regno, C 19. Fatto Cardinale, 92. Ha grandi benefizi in Francia, 103. Favorisce l’elezione del cardinale Giovanni de’ Medici al pontificato, 131. Cerca mutare lo Stato di Firenze, 154. Chiuso in Castel Sant’Angelo, 161.

Soderini Gian Battista. Sua morte, C 221. Ricordato con lode, 261, 262.

Soderini Giovan Vittorio. Oratore all’imperatore Massimiliano, C 108.

Soderini Lorenzo. Impiccato, C 286.

Soderini Luigi. Decapitato, C 308.

Soderini Niccolò. Devoto di Caterina da Siena, A 337.

Soderini Niccolò. Cerca l’abbassamento dei Medici per restaurare la libertà, B 333. Suo gonfalonierato, 334, 335. Accende gli animi della parte avversa ai Medici, 340. Vuol muovere a rumore la plebe, 341. Confinato, 342. Assegno fattogli dalla repubblica di Venezia, 343.

Soderini Paolantonio. Commissario in campo contro Pisa, C 67. Vi muore, ivi.

Soderini Paolantonio, C 92.

Soderini Piero. Gonfaloniere a vita, C 91, 92, 99, 103, 111, 115, 119-123. Va in Ragusi, 123; indi a Roma e vi muore, 131. È dannata la sua memoria, 157.

Soderini Tommaso. Amico a Piero de’ Medici, B 335. Oratore a Venezia, 348. Un suo figliuolo è sbandito, 350. Dell’esperienza e del nome di lui si vale Lorenzo de’ Medici, 354. Due altre volte oratore a Venezia, 363, 392.

Soderini Tommaso. Contrasta il gonfalonierato a Niccolò Capponi, C 215. Ambasciatore a Carlo V, 236-237. Va a Lucca, 238.

Soldanieri. Fuorusciti di Firenze, è loro inibito il ritorno, A 76.

Soldanieri Gianni. Tradisce i grandi, accostandosi col popolo, A 59.

Soiana. All’assedio di quel castello muore Pier Capponi, C 36.

Soria. Vi si consumano panni fiorentini, B 140.

Spadai (Porta degli). Rotta dai fuorusciti bianchi, A 135.

Spagnoli all’assedio di Firenze. Si distendono dalle Campora fin sotto [451] Marignolle e a Bellosguardo, e da Monte Olivato a Scandicci, C 257. Una loro banda è distrutta dal Ferruccio, 262.

Specchio del libro dei debitori del Comune, B 207, 208.

Spedito. Degli Anziani, A 45. Consiglia di muover l’oste contro Siena, 46. Gli è rinfacciato il consiglio da Tegghiaio Aldobrandi, ivi.

Speziali. Numero delle loro botteghe in Firenze, A 251.

Spini. Vanno in esilio, A 52. Banchieri del Papa in Roma, 109, 113. Seguono la parte dei neri, 119. Creditori di papa Giovanni XXIII, B 139.

Spini Geri. Uno dei capi de’ grandi, A 104. Segue la parte dei Donati, 107. Confinato, 110. Uno de’ capi della parte dei guelfi neri, 126. Va a papa Benedetto XI, 134. Con lui tratta il Cardinale degli Orsini venuto contro Firenze, 139. Spedisce un messo ad Arrigo VII, 156.

Spini Ridolfo. Dà un convito in onta del Savonarola e suoi seguaci, C 47. Degli Otto di guardia e balìa, 54.

Spini Ugo. Dei primi Priori cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Spinola Francesco. Capitano dei Genovesi, fatto prigione dai Fiorentini, B 199.

Spinola Gherardino. Ha guerra con la Repubblica, A 207.

Spoleto. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Squarcialapi. — Ved. Mortennana.

Squittinio. Dell’anno 1328, A 202, 203. Del 1342, 237, 238. Del 1343, 242. Del 1378, B 27. Del 1381, 515, 516. Del 1382, 52. Del 1385, 514. Del 1391, 515, 516. Del 1396, 516-518. Del 1444, detto del fiordaliso, 282. Del 1465, 334. Del 1495, C 24. Del 1530, 312.

Stabili Francesco. Arso in Firenze; cenni della sua vita e opere, A 174, 204-205.

Stampàce, Rocca di Pisa. Presa dai Fiorentini, C 66.

Statuti. Loro riforma, B 145.

Stefani Marchionne. Dei Dieci di Libertà, A 318. Uno dei commissari fiorentini in Bologna, nella guerra con Gregorio XI, 330. Suo dubbio animo verso Caterina da Siena, 337. Si mostra acerbo a Giannozzo Sacchetti, B 40. È a parte dello Stato dopo la cacciata dei Ciompi, 45. Della sua Cronaca, 231-232. Ascritto alle Arti minori, 232.

Stefano IX. Muore in Firenze, A 8.

Stefano duca di Baviera. Ha denari dalla Repubblica per scendere in Italia contro il Conte di Virtù, B 67.

Stilicone. Rompe le genti di Radagasio presso Fiesole, A 2.

Stinche (Carcere delle). Donde avesse un tal nome, A 132-133. Data della sua edificazione, 179. Entrata che ne veniva in Comune, 255. Rotto dal popolo, C 131, 132.

Stinche (Soprastanti delle). Ordine ad essi dato, B 490.

Strada (da) Zanobi, poeta. Coronato dall’imperatore Carlo IV, A 368.

Strinati Neri. Sua Cronichetta, ricordata, A 191.

Strozzi. Tengono la parte dei guelfi neri, A 126. Uno di essi congiura contro lo Stato, B 40. Un altro è giustiziato, 42. Due sbanditi, 81. Imparentati con Cosimo dei Medici, 209. Bando dato a un altro di loro, B 350.

Strozzi (Palazzo degli). — Ved. Pollaiolo (del) Simone.

Strozzi Andrea. Suo attentato per farsi signore di Firenze, A 239.

Strozzi Bernardo detto Cattivanza. Fatto prigione a Gavinana, C 295.

Strozzi Carlo. È tra i maggiori della Parte Guelfa, B 12. Manomesso da un popolano, ivi. Gli sono arse le case, 13. Tumultua coi compagni tornato in patria dal bando del 1378, 52-53. — Ved. Strozzi Maddalena.

Strozzi Filippo. Va a Napoli a chiedere un salvacondotto per Lorenzo de’ Medici, B 396. Altre notizie di lui, C 118, 119.

Strozzi Filippo di Filippo. Condannato in denari e confinato, C 119. [452] Oratore a Francesco I di Francia, 138. Con lui si consiglia Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino, 144. Altre notizie di lui e sue qualità, 155, 166. Si adonta di servire a Ippolito e Alessandro de’ Medici, 209. Si adira con Clemente VII, 212. Accompagna Ippolito e Alessandro nella loro partenza da Firenze, e accusa che gli vien fatta, 213. Va ai suoi banchi di Lione, 219. È infermo in Lucca, poi va a Roma, 249. Sospetto al Papa, 313. Ragiona con lui della forma da dare al governo di Firenze, 322, 323. Viene a Firenze e si adopra a favore del Principato, 324. Brevi notizie di lui sotto Cosimo I, 329, 330.

Strozzi Giovambatista. È ai servigi degli oratori fiorentini presso il Principe d’Orange, C 375.

Strozzi Leone. Visita Filippo suo padre infermo in Lucca, C 249. S’acquista fama nelle armi, 239.

Strozzi Lorenzo. Sua Vita di Palla Strozzi, ricordata, B 223.

Strozzi Lorenzo. Oratore al Principe d’Orango in compagnia di Rosso Buondelmonte e loro lettere ai Dieci, C 246, 370. Torna a Firenze, 370. Va a capitolare nel Campo Cesareo sotto Firenze, 299.

Strozzi Maddalena di Carlo. Si marita a Luchino Novello dei Visconti, B 53.

Strozzi Marcello. Oratore a Venezia, B 186. Insegna leggi nello Studio Fiorentino, 234.

Strozzi Marco. Commissario di Volterra con Gian Battista Gondi, C 288.

Strozzi Matteo. Oratore a Carlo V, C 236, 237. Va in Venezia ai suoi banchi, 238.

Strozzi Palla. È dei maggiori dello Stato, B 150. Oratore a Venezia, 172; a Ferrara, 177. Commissario a Volterra, 184. De’ Dieci della guerra, 188. Sua ricchezza, 222. Sua Vita scritta da Lorenzo Strozzi, ricordata, 222-223. Bandito, 248. Muore, ivi. — Ved. Parentucelli Tommaso. Pandolfini Agnolo, Santa Trinità.

Strozzi Pazzino. Oratore a Carlo IV, A 398.

Strozzi Piero. Visita Filippo suo padre infermo in Lucca, C 249. Impresa di lui e degli altri fuorusciti contro Cosimo I de’ Medici, 329.

Strozzi Roberto. Visita Filippo suo padre infermo in Lucca, C 249.

Strozzi Smeraldo. Eccettuato da una sentenza di remozione dagli uffici, B 472.

Strozzi Tommaso. Parte che ebbe nei moti del 1378, B 19, 20, 24, 25. Uno dei capi dello Stato dopo la caduta dei Ciompi, 39, 46. Va a Mantova ove trapianta un ramo della sua famiglia, 48.

Studio Fiorentino. Sua istituzione, A 368; e altre notizie del medesimo, ivi. B 234, 235, C 29.

Suriano Antonio. Oratore Veneto in Firenze, C 228.

Susinana (da) Maghinardo. Prende in moglie una dei Tosinghi, A 77.

T.

Tafi Andrea, A 177.

Talamone. A quel porto avviano i commerci i Fiorentini per levarli da Porto Pisano, A 300-302; poi si rimuovono da tal proposito, 309.

Tamburo de’ Grandi. — Ved. Grandi.

Taranto (Principe di), fratello del re Roberto di Napoli, mandato da lui in aiuto dei Fiorentini, A 161. Un suo figliuolo muore alla battaglia di Montecatini, ivi.

Tarlati di Pietramala. Congiurano coi grandi di Firenze, A 222. Uno di quella famiglia è del Consiglio del Duca d’Atene in Firenze, 230. Tentano rientrare in Arezzo, ma vi si oppongono i Fiorentini, 331. Si mettono in protezione della Repubblica, B 156.

Tarlati Giantedesco. Va in aiuto dei Senesi contro i Fiorentini, B 65.

Tarlati Guido, vescovo d’Arezzo. Reca danni a’ Fiorentini durante la guerra tra essi e Castruccio, A 196. Nasce da una donna de’ Frescobaldi, 222.

[453]

Tarlati Marco. Cede a’ Fiorentini Anghiari e altre castella di Val di Tevere, B 58.

Tarlati Pier Saccone. Cede Arezzo ai Fiorentini, A 213, 214. Nasce da una donna de’ Frescobaldi, 222. — Ved. Scarperia.

Tartaglia. Sue differenze con Sforza Attendolo, composte da Gino Capponi, B 106, 109, 110.

Tavola. — Ved. Catasto.

Tedaldi Bartolo. Commissario in Volterra, C 278. Gli è dato lo scambio, 288.

Tenedo. Per la distruzione di quell’isola fanno un deposito i Veneziani in mano dei Fiorentini, B 58, 59.

Terranuova nel Valdarno. Fondata dai Fiorentini, A 215.

Tessa serva della famiglia Portinari. Alla sua pietà si deve la prima origine dello Spedale di Santa Maria Nuova, A 179, 180.

Tessa o Contessa. Nome proprio di donna, comune in Firenze, e perchè, A 11.

Tharbes (Vescovo di). Ambasciatore del Re di Francia a Clemente VII, durante l’assedio di Firenze, C 273-276.

Tincherari Matteo. Esecutore degli Ordinamenti di Giustizia, B 507.

Tinucci Niccolò. Sua Esamina citata, B 188. Non è da porre in essa gran fede, 207.

Tira (Il). Uno dei Ciompi, cassato dall’ufficio dei Priori, B 36.

Tizzana. Vi pone il campo Giovanni Aguto capitano dei Fiorentini, B 71.

Tizzoni. Nelle case di quella famiglia abitava il Capitano del Popolo, A 79.

Todi. Si ribella alla Chiesa coll’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Tolentino (da) Niccolò. Al soldo dei Fiorentini, B 177, 199, 200. Grande amico a Cosimo de’ Medici, 207. Rinchiuso questi in Palagio, vorrebbe venire a liberarlo, 212. Sua morte ed esequie fattegli in Firenze, 219, 220.

Tolosini Nastasio. Dei primi Priori, cacciato il Duca d’Atene, A 422.

Tomacelli Marino. Oratore del Re di Napoli in Firenze, B 338.

Tonti Pierantonio da Pistoia. Muore a Gavinana, C 384.

Toppo (Pieve al). Gli Aretini vi sconfiggono i Senesi collegati della Repubblica, A 84.

Tornabuoni. Come divengano ricchi, B 315.

Tornabuoni Giovanni zio di Lorenzo de’ Medici. Cura in Roma le ragioni di quella Casa, B 360.

Tornabuoni Giovanni. Sta fuori di Firenze e gli è intimato il ritorno, C 249.

Tornabuoni Lorenzo. Decapitato, C 40, 41.

Tornabuoni Lucrezia, moglie di Piero di Cosimo de’ Medici, B 327. Ricordata in una lettera di Dietisalvi Neroni, 344. Suoi componimenti poetici ricordati, 352.

Tornaquinci. Vanno in esilio, A 52. Loro case ricordate, 60. Sono in guerra coi Rossi, 92. Seguono la parte dei Donati, 107. Fanno grandissimi mali essendo in Firenze Carlo di Valois, 122. Tengono la parte dei guelfi neri, 126.

Tornaquinci Giovanni. Muore con un figliuolo e altri di quella famiglia a Montaperti, A 50.

Tornaquinci Ugolino. Suo consiglio circa al rispondere agli oratori di Arrigo VII, A 146.

Torre (Ufficiali di), B 529.

Torre del Gallo presso Firenze. Vi alloggiano gl’Imperiali col conte Pier Maria da San Secondo, C 25.

Toscana. Soggetta ai Goti, A 2. Viene in retaggio alla Contessa Matilde, 8. Qual fosse l’autorità dei suoi Duchi e Marchesi, 17. Forma una Lega guelfa, 19. Torna ghibellina, 55. Formazione della sua lingua, e vita che vi pigliano le lettere, 341-345. Governata da una Reggenza dopo l’estinzione della Dinastia Medicea, C 336. Suo stato sotto i Lorenesi, ivi-339. Parte da essa presa nei moti per il riscatto nazionale, 339, 340.

[454]

Toscanelli Paolo. Notizie di lui e delle sue opere, B 435, 436.

Toscani Matteo. Potestà di Firenze, B 378, 555.

Toschi famiglia. Arsione delle loro case, A 130.

Tosinghi. È abbattuto il loro edifizio detto il Palazzo, in Mercato Vecchio, A 33. Vanno in esilio, 52. Loro brighe con gli Adimari, 73. Mercanti in Ungheria, B 134. — Ved. Della Tosa. Susinana (da) Maghinardo.

Tosinghi Baschiera. Tenta con gli altri fuorusciti bianchi un’impresa contro Firenze, A 134, 135.

Tosinghi Ceccotto. Sue imprese in compagnia del Ferruccio, C 262. Parere da esso reso in Consiglio negli ultimi giorni dell’Assedio, 298.

Totila. Non è vero che fosse sconfitto a Fiesole, A 2. Assedia Firenze, ivi.

Tranchedini Nicodemo. Oratore del Duca di Milano in Firenze e consigliere di Piero de’ Medici, B 338.

Trasimeno (Lago). Cagione di brighe tra i Fiorentini e i Perugini, A 29.

Tratte. — Ved. Imborsazioni.

Traversari Ambrogio. Notizie di lui e de’ suoi scritti, B 235, 236.

Trentasei (Ufficio dei), A 59.

Trinci di Foligno. Raccomandati della Repubblica, B 156.

Trinciavegli Albizzo. Ambasciatore a Siena, A 42.

Trivulzio Giovan Giacomo. — Ved. Buondelmonti Benedetto.

U.

Ubaldini. Favoriscono i fuorusciti bianchi di Firenze, A 133. Imprese della Repubblica contro di loro, 137, 216. Congiurano coi grandi di Firenze, 222. Mandano doni al Duca d’Atene, 230. I Fiorentini finiscono di abbattere la loro potenza, 320. Rialzano il capo, B 91. — Ved. Adimari Bindo. Ostale.

Ubaldini Giovanni. Viene in aiuto de’ Senesi contro i Fiorentini, B 65. Muore, ivi.

Ubaldini Ottaviano, cardinale. È dei capi di parte ghibellina, A 32. Fa gran festa della sconfitta dei Fiorentini a Montaperti, 53. Sua predizione circa i ghibellini di Firenze, 65. Uno dei primi poeti toscani, 173. Atto col quale, in forza d’un Breve di Clemente IV, che ivi si riporta, assolve la Repubblica dalle censure incorse essendo ella in dipendenza del Re Manfredi, 373-377.

Ubaldini da Gagliano (degli) fra Roberto, C 57.

Uberti. Suscitano le discordie civili, A 15, 16. Nemici ai Buondelmonti, 27. Insolentiscono contro il popolo; questo si leva contro di loro e gli altri nobili, 34, 35. Si ricovrano a Siena, 41. Mettono a rumore Firenze, 59. Alcuni di loro morti o presi; atto eroico d’uno di loro, 66, 67. Condotti a Firenze e chiusi nella torre del Palagio, 67. Si riconciliano coi Buondelmonti, 73. Esclusi dal tornare in Firenze, 76. Tre di loro muoiono a Campaldino, 87. Uno difende Pistoia contro i Fiorentini e i Lucchesi, 125. La plebe bacia le loro armi in Firenze, 128. Uno di loro è tra i quattordici caporali bianchi richiamati dal Cardinale da Prato, 130. Tengono grande stato fuor di Firenze, 134. Magnificati nelle Cronache del Malespini e del Villani, 429, 430. — Ved. Signoria (Piazza della).

Uberti Azzolino. Decapitato, A 70.

Uberti Farinata. È dei capi di parte ghibellina, A 32. Capo dell’ambasceria dei fuorusciti al Re Manfredi, 43. Inganno teso da lui ai Fiorentini, 45. S’oppone agli altri ghibellini che volean distrugger Firenze, 53, 54. Rammentato per l’ultima volta nelle Storie, 54. I suoi figliuoli e congiunti sono esclusi dal tornare in Firenze, 74. — Ved. Cavalcanti Cavalcante.

Uberti Fazio, A 368.

Uberti Lapo, poeta, A 173.

[455]

Uberti Neracozzo. Decapitato, A 70.

Uberti Piero, soprannominato l’Asino. Uccide Cece de’ Buondelmonti, A 54, 55.

Uberti Schiatta. Prende parte alla uccisione di Buondelmonte dei Buondelmonti, A 27.

Uberti Schiattuzzo. Ucciso a furia di popolo, A 41.

Uberti Tolosato. Capitano di Pistoia, A 134. Tenta cogli altri fuorusciti bianchi un’impresa contro Firenze, ivi-136.

Uberti Uberto. Ha mozzo il capo, A 41.

Ubertini (Conti). È loro vietato di accostarsi ad Arezzo, A 215. Mandano doni al Duca d’Atene, 230. Si danno in accomandigia ai Fiorentini, B 58. Fatti ribelli, 81. La Repubblica manda gente contro di loro, 93.

Ubertini Buoso, vescovo d’Arezzo. È del Consiglio del Duca d’Atene in Firenze, A 230.

Ubertini Guglielmo o Guglielmino, vescovo d’Arezzo. Capo di parte ghibellina, A 82, 83. È nell’oste dei ghibellini a Campaldino e vi è morto, 84, 85, 87.

Uccello Paolo. Dipinge l’effigie di Giovanni Aguto nel Duomo di Firenze, B 82.

Uffici estrinseci. Loro nomi, ordine e attribuzioni, B 530, 531. Riforma d’alcuni di essi. — Ved. ai respettivi nomi.

Uffici intrinseci. — Ved. ai respettivi nomi.

Ugo marchese di Toscana. Fondatore di badie, A 26.

Ugolini Baccio. Oratore a Basilea, B 411.

Ugolino, lanaiuolo. I Ciompi gli ardono le case, B 19.

Ulrico marchese di Toscana, A 13.

Ungheria. Vi hanno grande commercio i Fiorentini, B 134. Vi edifica chiese e altri luoghi per il culto Filippo Scolari, 135.

Uomini da bene. Parte politica in Firenze, B 210.

Urbano V. S’intromette per una pace tra i Fiorentini e i Pisani, A 307. Stringe lega con la Repubblica contro le compagnie di ventura, 308, 310. Oratori della Repubblica a lui, 315.

Urbano VI. Gli sono inviati oratori dai Fiorentini, A 340. Pace tra esso e la Repubblica, B 15.

Urbino (Conte d’). — Ved. Montefeltro (di) Antonio e Guidantonio.

Urbino (Vescovo d’). Mandato da Gregorio XI in Firenze a praticare la pace tra lui e i Fiorentini, A 339.

Urbino (da) Gentile. Maestro di Lorenzo de’ Medici, B 352. Vescovo d’Arezzo, 354, 355.

Urlimbacca tedesco. Soldato caro ai Fiorentini; preso nella battaglia dell’Altopascio, A 193.

Usura. Vizio usuale in Firenze, B 6. Si fa una legge contro gli Ebrei che la esercitano, C 32.

Uzzano, castello dei Lucchesi. Viene in potere dei Fiorentini, B 257.

Uzzano (da) Giovanni. Sue Antiche scritture sul commercio dei Fiorentini, citate, B 141.

Uzzano (da) Niccolò. Gonfaloniere, B 78. Oratore a Venezia, 85. Prigione del Duca di Milano, 90. Riscattato, ivi. Tiene agenti di commercio in Ungheria, 134. Esecutore testamentario di Giovanni XXIII, 139. De’ Consoli di mare, 141. Uno dei capi dello Stato, 150. Sua grande autorità nei Consigli, 151 e segg. De’ Dieci della guerra, 158. Suoi concetti circa a una riforma dello Stato, 167-169. Mette innanzi la formazione del Catasto, e in che somma venga tassato, 179, 182. Si oppone al consiglio di muover guerra al Signore di Lucca, 186. Compiange la morte di Giovanni de’ Medici, 187. Muore, ivi. De’ Dieci della guerra, 188. Voce ch’ei si opponesse alla compra di Lucca da Francesco Sforza, 195. Lascia una parte d’eredità per la fabbrica di un Collegio da unirsi allo Studio, 235. — Ved. Cavalcanti Giovanni.

[456]

V.

Vacchereccia (Via). Incendio ivi successo, A 131.

Vada. Fortezza tolta da Ferdinando I d’Aragona ai Fiorentini e da essi recuperata, B 307.

Vaiai e Pellicciai (Arte dei), B 494.

Valacchi. Parte politica in Firenze, B 210.

Valdarno. Quegli uomini sono posti in libertà dalla Repubblica, A 216.

Valdarno inferiore. Riforme del suo vicariato, B 484, 493.

Val di Chiana. Occupata da Vitellozzo Vitelli, C 77.

Val di Lamone. Quegli uomini si oppongono al passaggio della Gran Compagnia per l’Appennino, A 296 e segg.

Val di Nievole. I Fiorentini n’ordinano il governo, A 261. Riforma del suo vicariato, B 484, 493.

Val di Pesa. Le dà il guasto Castruccio degli Interminelli, A 196.

Val di Tevere. — Ved. Tarlati Marco.

Valialla. Viene in potere della Repubblica, B 271.

Vallombrosa. — Ved. Giovanni Gualberto.

Vallombrosa (Abate di) della famiglia da Beccaria. Giustiziato, A 41.

Vallombrosani (Monaci). Cinque di loro fanno parte della famiglia del Palagio, A 204.

Valois (di) Carlo, A 113 e segg.

Valori, famiglia. Mercanti in Lione, C 310,

Valori Baccio. Commissario generale del Papa presso il Principe d’Orange, è dichiarato ribelle e traditore della patria, C 249. Arbitro del governo di Firenze con Malatesta Baglioni, 300. Ferma i capitoli di resa della città in nome del Papa, ivi, 301. Sua autorità dopo la capitolazione, 302-306. Resta solo a comandare, partito il Baglioni, 307 e segg. Va presidente della Romagna, 314. Viene in Firenze e pratica per farne assoluto signore Alessandro de’ Medici, 324, 325. Si tiene mal sodisfatto da quella famiglia e si mette tra i fuorusciti, 329. Sua fine, 330. — Ved. Giullari (Pian di). Gonzaga Ferrante. Medici Ippolito. Vettori Paolo.

Valori Bartolommeo. Sua risposta al re Ladislao, B 124. Oratore a Martino V, 137. Uno degli esecutori testamentari di Giovanni XXIII, 139. È tra i maggiori dello Stato, 150. — Ved. Giovanni XXIII.

Valori Francesco. Avverso ai Medici, C 13. Sta tutto col Savonarola, 35. Gonfaloniere, 38. Fa condannare a morte cinque dei primari cittadini, 41. Sua trista fine, 53-54. — Ved. Cambini Andrea.

Valori Francesco. Ambasciatore a Carlo V, C 318.

Varano (da) signori di Camerino. Vengono contro lo Stato di Firenze, B 345.

Varano (da) Ridolfo. Capitano di guerra della Repubblica nella guerra contro i Pisani, A 304; e in quella con Gregorio XI, 330. Si volta alla parte della Chiesa, 331.

Varchi Benedetto. Del suo Ercolano, B 466. Suo giudizio del Machiavelli, C 183; di Malatesta Baglioni, 291.

Vasari Giorgio. — Ved. Salviati Francesco.

Vasto (Marchese del). S’accampa sotto Firenze presso la porta a San Giorgio, C 257. Si mette intorno a Volterra, l’assalta e n’è respinto, 282.

Velluti Donato. Dei Priori creati dal Duca d’Atene, A 230. Ha mano in un’impresa contro Pistoia, 261. Ambasciatore a Siena, 263. Altre notizie di lui; sua Cronaca, ricordata, 271, 314.

Velluti Donato. Chiuso in carcere, B 222.

Venezia. Commercio che vi fanno i Fiorentini, B 140. Cosimo de’ Medici vi fa edificare la biblioteca dei Monaci Benedettini in San Giorgio, col disegno del Michelozzi, B 221. [457] I Fiorentini vi hanno una Confraternita, C 310.

Veneziani. S’interpongono per la pace tra i Fiorentini e il re Ladislao di Napoli, B 125. Vogliono che i Fiorentini abbandonino i commerci d’Alessandria, 142. Paragone tra le due Repubbliche, 149, 150. Ambasciatori mandati ad essi dai Fiorentini, 172; e lega tra i due Stati, 173, 174. In compagnia dei Fiorentini sconfiggono i Genovesi, 199. Va oratore a loro Cosimo dei Medici, 207. Mandano oratori a Firenze a favore di lui, 215. Oratori mandati loro dalla Repubblica, B 249, 250, 256, 257. Rinnovan lega coi Fiorentini, 261, 262. Nuove legazioni dei Fiorentini a loro, 288, 304. Comincia la divisione aperta tra le due Repubbliche, 305. Non vorrebbero che i Fiorentini mandassero le loro galee in Levante, 335. Con essi cerca di far lega la parte avversa ai Medici, 339. Prendono alcune navi cariche di robe dei Fiorentini, 356; poi le rendono, 348. Fanno pace con loro, 349. Favoriscono la ribellione di Volterra, 358, 359. Nova lega tra essi e i Fiorentini, 363. Confortano i Fiorentini a rendere al Papa il Cardinale Riario, 382. Come li soccorressero nella guerra col Papa, 387, 392. Non entrano nella pace fatta tra i Fiorentini e il re Ferdinando di Napoli, 400. Pigliano la protezione dei Pisani contro della Repubblica, C 34, 36. Favoriscono il ritorno di Piero de’ Medici in Firenze, 40. Continuano ad aiutar Pisa, 64. Ritirano le loro genti dalla Toscana, 66. Sordi alle istanze dei Fiorentini che li richiedevano d’aiuti contro Carlo V ed il Papa, 240. Raccettano gli esuli Fiorentini dopo la caduta della Repubblica, 310. — Ved. Soderini Niccolò. Soderini Tommaso. Strozzi Marcello. Tenedo.

Ventiquattro cittadini creati a rivedere le sentenze di ammonizione proferite dai Capitani di Parte, A 314, B 1, 11.

Vergerio Pier Paolo. Insegna nello Studio Fiorentino, B 234.

Vernio (Contea di). Passa dai Cadolingi nei Conti Alberti e poi nei Bardi, A 215; che tengono la parte dei Medici contro la Repubblica, C 285.

Vernio (di) conte Nerone. Si cassano alcuni bandi e condanne fatte contro di lui, A 401.

Verrazzano (da) Bernardo. Uno dei Commissari della milizia cittadina in Firenze, C 299.

Verrazzano (da) Lodovico. Oratore a Venezia, B 249.

Verrucola. Viene alle mani dei Fiorentini, B 104.

Vescovo. L’aveva Firenze nel quarto secolo, A 3. Cacciato poi rimesso, 13. Donazioni fattegli dai nobili del contado, 29. Suo palazzo nuovo, ricordato, 376.

Vespucci Amerigo. Onore insolito reso a lui dalla Repubblica, C 115.

Vespucci Giovanni. Due volte rinchiuso nelle Stinche, B 283.

Vespucci Guidantonio. Ambasciatore a Luigi XI, B 390. Conchiude un trattato con Carlo VIII, C 34. Sta col Savonarola, 35. Tenta sottrarre a morte cinque dei primari cittadini, 41. Va nelle ambascerie, 88. Sua proposta nel Consiglio Grande, e che gliene avvenga, 89. Lettere dei Dieci di Balìa a lui e a Piero Capponi oratori in Francia, 343-345.

Vespucci Piero. Rinchiuso nelle Stinche, B 378.

Vettori. Consorti dei Capponi, B 101.

Vettori Andrea. Corre pericolo di una condanna capitale, B 101. Motteggiato dall’Aguto, 197.

Vettori Francesco. Oratore all’imperatore Massimiliano, C 103. Commissario in campo contro Francesco I, poi oratore a quel Re, 138. Consigliere di Lorenzo de’ Medici duca d’Urbino, ivi. Oratore a Clemente VII, 177. Si riporta il fine della sua Storia dove parla del Sacco di Roma, 182. Avverso al Principato, 209. Vive oscuro in Pistoia, 219. Di nuovo oratore al Pontefice, 246, 247. Gli è intimato il [458] ritorno, 249. Torna dopo l’Assedio e la resa della città, 312-313. Si adonta di sottostare a Baccio Valori, 313. Di un suo Discorso intorno alla riforma dello Stato di Firenze, 321. Si accorda a farne assoluto signore Alessandro de’ Medici, 324. — Ved. Vettori Paolo.

Vettori Paolo. Egli e Francesco suo fratello e Baccio Valori costringono il gonfaloniere Soderini a uscire di Palagio, C 122. Deputato dai Medici alla guardia della Piazza e del Palagio, 125. Capitano dell’armata della Chiesa, 153. Sottoscrive una lega dello Stato di Firenze col Papa, con l’Imperatore e con altri, 161-162.

Vettori Piero. È tra i cittadini armatisi contro la Signoria negli ultimi giorni dell’Assedio, C 298.

Viareggio. Tolto dai Fiorentini ai Lucchesi, B 255.

Vicchio. Vi va ad albergo la Gran Compagnia, A 299.

Vico Pisano. Sostiene a lungo l’assedio dei Fiorentini, B 104.

Villani Giovanni. Erra, scrivendo che Arrigo IV venisse a Firenze da Siena, A 8. Sua prima età, 89, 90, 117. Si tocca della sua Cronaca, 172. Fa parte di una compagnia mercantile che tratta di comprar Lucca dai tedeschi ribellatisi a Lodovico il Bavaro, 207. Muore di peste, 248. Dimora più anni in Bruggia di Fiandra, 252. Confronto della sua Cronaca con quella del Malespini, 427, 432. Come chiamasse Marin Sanudo la lingua da lui adoperata, 465. — Ved. Compagni Dino.

Villani Filippo. Continuatore della Storia di Matteo suo padre, A 305. Illustra pubblicamente la Divina Commedia, B 234.

Villani Matteo. È il solo degli storici che parli largamente delle prime relazioni dei Fiorentini con l’imperatore Carlo IV, A 273-275. Avverso al magistrato di Parte Guelfa, 289. Muore, 305. Devoto a Niccolò Acciaiuoli gran siniscalco, 312. Ammonito, 313. Sua Cronaca citata, B 7, 8.

Vinci (da) Leonardo, B 436-438.

Visconti. Con loro fanno lega i Fiorentini, A 208.

Visconti Azzo. Viene in aiuto di Castruccio contro la Repubblica, A 193 e segg.

Visconti Bernabò. Manda aiuti ai Fiorentini contro la Gran Compagnia, A 300; poi a’ Samminiatesi contro i Fiorentini, 310. Ricordato a proposito di una congiura contro lo Stato di Firenze, 311. Con lui si collegano i Fiorentini, 324. Un suo ambasciatore offre di trattare la pace tra essi e Gregorio XI, 334. Entra egli mediatore per detta pace, 339.

Visconti Filippo Maria. Richiede i Fiorentini di pace, B 155. Manda oratori a Firenze, 157. Non vuol ricevere quelli inviatigli dalla Repubblica, ivi. Come conduca la guerra contro di essa, 175. Fa pace, 177. Manda oratori a Firenze, 192. Va oratore a lui Lorenzo di Giovanni de’ Medici, 193. Attraversa l’impresa dei Fiorentini contro Lucca, 195. Guerra tra lui e i Veneziani collegati dei Fiorentini, 198-202. Tien mano in una congiura contro di loro, 249. Fa pace e lega con essi, 251; rotta indi a poco, 252. Nuova guerra tra lui e i Fiorentini, 253, 263 e segg. Nuova pace, 274. Nuove ostilità tra i due Stati, 288, 289. Muore e sue qualità, 289, 290.

Visconti Gabriele Maria signore di Pisa. Ha un colloquio con Maso degli Albizzi, B 98. Suo accordo circa alla vendita di Pisa ai Fiorentini, 99.

Visconti Giangaleazzo, Conte di Virtù. Fa guerra alla Repubblica, B 64 e segg. Lodo pronunziato tra le due parti, 71, 72. Oratori inviatigli dalla Repubblica, 83. Muore, 91. — Ved. Ricci Giovanni. Salutati Coluccio.

Visconti Giovanni, arcivescovo di Milano. Sua guerra coi Fiorentini, A 261-266.

Visconti Giovanni da Oleggio. Sue imprese contro i Fiorentini, A 262, 263. Ricordato a proposito di una congiura contro lo Stato di Firenze, 311.

[459]

Visconti Luchino Novello. — Ved. Strozzi Maddalena.

Visconti Marco. Viene in Firenze a trattare la vendita di Lucca alla Repubblica, A 207.

Visconti Matteo. I Fiorentini soccorrono la Chiesa in guerra contro di lui, A 184.

Visdomini. Seguono la parte de’ Donati, A 107.

Visdomini Cerrettieri. Intimo del Duca d’Atene, A 230. Scampa al furore del popolo, 236.

Vitelleschi Giovanni, legato d’Eugenio IV in Firenze. Pratica un accordo tra Rinaldo degli Albizzi e la Signoria, B 228. Messo dai Fiorentini in disgrazia del Papa, 264.

Vitelli Alessandro. Chiamato dal cardinale Giulio de’ Medici alla guardia della sua persona, C 157. Sue imprese nel dominio della Repubblica, 278, 279. Parte da lui presa alla battaglia di Gavinana, 294. È alla guardia di Firenze, 315, 322. Vince i fuorusciti fiorentini a Montemurlo, 329. — Ved. Giramonte.

Vitelli Niccolò. Soccorso dalla Repubblica contro Sisto IV, B 362. Rimesso in Città di Castello, 409.

Vitelli Paolo. Mandato dai Fiorentini contro a Piero de’ Medici che volea tornare in Firenze, C 40. Governa la guerra contro Pisa, 64-67. Decapitato, 67.

Vitelli Vitello, C 141. Al soldo dei Fiorentini, 175.

Vitelli Vitellozzo. Scampa alla sorte toccata a Paolo suo fratello, C 67. Reca danni ai Fiorentini in Pisa, 74. Occupa alcuni luoghi del loro dominio, 77.

Viterbo. Si ribella alla Chiesa con l’aiuto dei Fiorentini, A 326.

Vittore II. Tiene un Concilio in Firenze, ove muore, A 8.

Viviano (ser). Un suo figliuolo è privato degli uffici, B 283. Notaro delle Riformagioni, 506.

Volognano (Signori di), A 130.

Volpi Bartolommeo. Riforma con Paolo da Castro gli Statuti del Comune, B 145.

Volterra. Invasa dai Fiorentini che vi riformano il governo, A 39. In lega con essi, 47, 67, 150. Si dà al Duca d’Atene, 227. Gli manda doni, 230. Torna in signoria dei Belforti, 237. Si dà a Carlo IV, 269. Viene in potere della Repubblica, 302. Le si ribella per cagione del Catasto, B 183, 184. Torna all’ubbidienza, 185. Vi si scuopre un trattato, 201. Di nuovo ribellatasi, è risottomessa e posta a sacco, 358, 359. Si dà a Clemente VII durante l’assedio di Firenze, C 278. Ricuperata e difesa dal Ferruccio, 279-282. Presso che deserta al cadere della Repubblica, 311.

Volterra (Vescovo di). È del Consiglio del Duca d’Atene in Firenze, A 230.

Volterra (da) Antonio. Entra nella Congiura de’ Pazzi e parte che vi prende, B 372, 373. Sua fine, 377.

Volterra (da) Giusto. Ribella quella città ai Fiorentini, B 184. Sua morte, 185.

Z.

Zabarella Francesco. Lettore di teologia nello Studio Fiorentino, B 234. Vescovo di Firenze e Cardinale, ivi.

Zaccaria (fra), domenicano. Predica in Firenze, C 266.

Zagonara. Vi è disfatto l’esercito della Repubblica, B 158.

Zanobi (San). Vescovo di Firenze, A 3. Sua arca in Santa Maria del Fiore, B 244.

Zecca (Signori della). Loro ufficio, A 385. Vanno a offerta a San Giovanni, il giorno di quel Santo, B 533.

NOTE:

1.  Fabroni, Vita di Lorenzo.

2.  Istorie della città di Firenze di Iacopo Nardi. — Guicciardini, Storia di Firenze.

3.  Guicciardini, Del Reggimento di Firenze, Discorso I, pag. 46.

4.  «La Regia Maestà sa quale è stata la vita de’ miei passati, che civilmente sono vissuti delli loro traffichi e possessioni, nè mai hanno cerco avere stato altro che privato. Io non sono per degenerare in questo dalli modi loro. — Mi perdoni se io non accetto quello che Lei mi dà; — e se pure Lei vuole beneficarmi, degni farlo ordinariamente in quel che li pare costì, con gli miei del Banco, ec. — Gli Stati dia la Maestà sua a quelli che ne sono più degni. — Io non sono degno di sì gran cose, nè voglio esser Barone; nè mi pare il bisogno di sua Maestà, perchè così privato li sarò più onorevole e più utile servitore.» (Lettera di Piero dei Medici a Dionigi Pucci, oratore a Napoli. Archivio Storico Ital., tomo I, pag. 347.)

5.  Un politico di dozzina, dopo di avere tacciata di simonia quella elezione, aggiunge: «era uomo di animo grande e borioso e liberale, e fu reputata buona elezione per onore e reputazione della Chiesa romana.» (Ricordi di Alamanno Rinuccini, pag. 150.)

6.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. I.

7.  Mémoires de Comines, lib. V.

8.  Nardi, Storie. — Guicciardini, Storia Fiorentina. — Cerretani, Storie, manoscritto.

9.  Mémoires de Comines, lib. VII, cap. 5. — Abbiamo manoscritte l’Istruzione e le Missive dei Dieci di Balìa in questa Legazione di Piero Capponi in Francia. Pubblichiamo (Appendice, Nº I) quella sola lettera che abbia qualche istorica importanza.

10.  Malipiero, Annali Veneti, Archivio Storico Italiano, tomo VII, part. I, pag. 328.

11.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. I.

12.  Nardi, Storie, lib. I.

13.  La sopraccitata lettera di Piero de’ Medici, ch’è dei 6 maggio 1494, contiene tra le altre queste parole: «Nè per mia cagione toglia Sua Maestà al Conte di Caiazzo lo stato suo: perchè questo deserviria a quel fine che intendiamo, di fare prova di riducere in fede il signor Lodovico: donde noi abbiamo lettere che sono alquanto migliori che l’usato, e contengono in substantia, che in queste cose di Francia opererà quanto bene saprà.»

14.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. I.

15.  Abbiamo copia dell’Istruzione e lettera di credenza a questi Ambasciatori. — Vedi Appendice Nº II.

16.  Guicciardini, Storia d’Italia. — Nardi, Storie Fiorentine. — Cerretani, manoscritto.

17.  Guicciardini, Storie. — Memoriale di Giovanni Portoveneri e Ricordi di Ser Perizzolo da Pisa. (Archivio Storico Ital., vol. VI, part. II, Sez. 2.)

18.  Il Re aveva chiesto desinare una mattina in Palazzo, e che per questo se ne portassero via le armi: del che si turbarono le menti dei cittadini; e le armi tratte fuori della Porta, rimisero poi la notte per le finestre. Il Re fece intendere non voler più ire a Palazzo a desinare. (Cerretani, Storie manoscritte.)

19.  Nardi, Storie Fiorentine. — Guicciardini, Storia di Firenze e d’Italia. — Cerretani, manoscritto. — Machiavelli, Decennali. — I capitoli d’accordo, abbiamo pubblicati nel tomo I dell’Archivio Storico Italiano, pag. 348.

20.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. II.

21.  Questo apparisce anche dalle lettere dei Dieci a Francesco Soderini vescovo di Volterra, e a Neri Capponi fratello di Piero, i quali com’era stipulato accompagnarono il Re nell’andata e nel ritorno da Napoli. In queste lettere sono lagnanze continue e pratiche circa le cose di Pisa; ma perchè negli Archivi non sono altro che le missive dei Dieci, poco vi ha di concernente la guerra di Napoli.

22.  Cronache Pisane (Archivio Storico ec.).

23.  Nardi, Storie. — Guicciardini, Storie, lib. II. — Ammirato.

24.  Guicciardini, lib. II. — Mémoires de Comines.

25.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. II.

26.  Guicciardini, Storia Fiorentina, cap. XII. — Nardi, Storia Fior., lib. I. — Ricordi di Alamanno Rinuccini.

27.  Lettera di Fra Girolamo al padre, del 25 aprile 1475, pubblicata da molti.

28.  Guicciardini, Storia Fiorentina, cap. XII.

29.  Savonarola, In poeticen apologeticus, nel Libro De divisione omnium scientiarum; e molte sue Prediche. — Villari, Storia di Girolamo Savonarola, lib. III, cap. 6. — Notizie tratte dall’Archivio delle Riformagioni. — P. Vincenzio Marchese, Storia del Convento di San Marco; ed altre pubblicazioni relative a Fra Girolamo.

30.  Lettera latina del Poliziano intorno alla morte di Lorenzo (Fabroni dentro al testo della Vita di questo). Ma le parole che, stando al Burlamacchi, sarebbero corse tra essi due, non teniamo noi per vere.

31.  Cerretani, Storie manoscritte. — Villari, Storia di Girolamo Savonarola, lib. I, cap. X.

32.  Giannotti, Della Repubblica Fiorentina. — Guicciardini, Storia Fiorentina. — Villari, Storia di Girolamo Savonarola, lib. II, cap. 5. — Documenti dell’Archivio delle Riformagioni, e luoghi vari di Prediche.

33.  Burlamacchi, Vita di Fra Girolamo Savonarola. — Nardi, Storie Fiorentine. — Cerretani, Storie MS. — Aquarone, Vita del Savonarola. — Canzone di un Piagnone sul Bruciamento delle Vanità: aggiuntavi la descrizione del Bruciamento, scrittura di Girolamo Benivieni (edizione procurata dal conte Carlo Capponi, Firenze). Parla il Carnevale cacciato da Firenze e caramente accolto in Roma. — Intorno ai fatti del Savonarola molti Documenti stanno nella pregevole Vita di lui che ne scrisse in Francia il professor Perrens, 1853.

34.  Machiavelli, Frammenti Storici.

35.  Abbiamo le Missive della Repubblica a Neri Capponi, fratello di Piero, che andato col Re a Napoli, rimase seco ambasciatore quando egli fu tornato in Francia: ma il trattato col Re fu conchiuso da Guid’Antonio Vespucci, che fu inviato a questo fine.

36.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. II. — Nardi, Stor. Fior., lib. I. — La lunga guerra dei Fiorentini contro Pisa viene minutamente narrata nel Memoriale di Giovanni Portoveneri e nei Ricordi di Ser Perizzolo, pisani. (Archiv. Stor. Ital., tomo VI.)

37.  Guicciardini, Stor. d’Ital., lib. III. — Stor. Fior., cap. XIV. — Nardi, Stor. di Fir., lib. II.

38.  Cerretani, Storie manoscritte.

39.  Guicciardini, Stor. Fior., cap. XV.

40.  Abbiamo per tutti questi anni le lettere dei residenti pel Duca di Milano qui ed a Bologna, piene di animosità feroce contro quel Governo e contro il Frate, del quale si ordiva per ogni modo la perdizione. (Archiv. Stor. Ital., tomo XVIII.)

41.  Guicciardini. — Machiavelli, Frammenti Storici. — Nardi. — Ammirato.

42.  Iacopo Pitti, Stor. Fior. (Archiv. Stor. Ital., tomo I.) — Cerretani. — Nardi.Istorie di Giovanni Cambi (Deliz. Erud., tomo XXI).

43.  Lettere citate dei Residenti Milanesi.

44.  Nuovi Documenti intorno a Fra Girolamo. (Arch. St. It., tomo III, 1866.)

45.  Lettere sopraccitate dei Residenti Milanesi.

46.  Audientia dei 30 marzo 1498. (Archiv. Stor., tomo III, 1866.)

47.  Tutti gli Storici; ed altre Scritture citate dal Villari. — Cedrus Libani, Vita del Savonarola in terza rima di Fra Benedetto da Firenze. (Archiv. Stor. Ital., 1849). L’autore, giovane di fantasia calda, entrò in Convento per devozione a Fra Girolamo; scrisse più tardi in prigione quello ed altri libri; aveva sull’anima l’avere forse commesso omicidio combattendo la notte in San Marco.

48.  Nardi, Storia, in fine del lib. II.

49.  Esami di Fra Girolamo, di Fra Domenico e di Fra Silvestro: questi si trova essere stato confessore di Piero Capponi, intorno a cui nella Esamina stampata di Fra Girolamo sono alcune oscure parole. Si aggiungano gli esami di Fra Roberto degli Ubaldini da Gagliano, di Fra Francesco dei Medici e di Fra Luca della Robbia. Non fu esaminato Fra Malatesta Sacromoro, che nel Convento scrivono facesse la parte di Giuda. Le deposizioni d’Andrea Cambini più ch’altro risguardano Francesco Valori, di cui fu amicissimo.

50.  La Vita di Fra Girolamo fu scritta dai suoi molto devoti Giovan Francesco Pico della Mirandola e Fra Pacifico Burlamacchi, lucchese, che aveva avuto da lui l’abito di san Domenico: queste e le scritture di Fra Benedetto da Firenze talvolta s’assomigliano a leggenda. In Francia il Padre Quétif pubblicava con illustrazioni l’opera del Pico, e in Italia due altri Domenicani Barsanti e Di Poggio ampliarono la notizia della Vita del Savonarola, intorno a cui pubblicarono documenti. Questi oggi crebbero in assai gran numero, facendo seguito alle Vite che ne scrissero, in Francia il professor Perrens, ed in Italia con maggior pienezza d’ogni altro il professor Pasquale Villari, — Molti documenti abbiamo pure nelle pregevoli scritture del Padre Vincenzio Marchese e nei volumi già da noi citati dell’Archivio Storico Italiano.

51.  Cambi, Storie, pag. 128. (Deliz. Erud., tomo XXI.)

52.  Fra questi ne duole dovere contare il buon Marsilio Ficino, antico seguace del Savonarola; ma era canonico del Duomo, ed ora vicino al termine della vita dovette purgarsi in faccia al Capitolo.

53.  «D’un tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza,» (Machiavelli, Discorsi.) — Mémoires de Comines in più luoghi. — Il Guicciardini nell’Istoria di Firenze, cap. XVII, esalta in Fra Girolamo la virtù, l’ingegno, il grande possesso della filosofia e della Bibbia, e l’eccellenza nella predicazione; lo chiama nettissimo nella dottrina e nella vita, riformatore efficacissimo dei costumi, benemerito soprattutto della città che da lui può dirsi che fosse salvata quando ebbe a farsi lo Stato nuovo. Propone il dubbio se fosse Profeta mandato da Dio, e in lui non trovando nè vizio nè colpa, tranne l’orgoglio, conchiude infine: «S’egli fu buono, abbiamo veduto ai tempi nostri un grande profeta; se fu cattivo, un uomo grandissimo che seppe tanti anni simulare una tanta cosa senza essere mai scoperto in una falsità.» Questo nella prima opera giovanile: in quella scritta più anni dopo non pone quanto a sè il caso della simulazione, non ha contro lui parola severa; dice, avere il processo rimosso via ogni calunnia che egli si muovesse per fine maligno: aggiungendo solamente, che molti lo reputarono ingannatore, molti lo assolverono, e la confessione di lui credettero fabbricata. — Guicciardini, Storia d’Italia, lib. III, cap. VI.

54.  Officio pel Savonarola, con Prefazione di Cesare Guasti; Firenze, 1863.

55.  Il Memoriale del Portoveneri (Archivio Storico Italiano, tomo VI) contiene ragguagli molto circostanziati dello spavento dei Pisani, e poi della difesa popolare, e dei guadagni da essi fatti per la fuga dei Fiorentini. — Vedi anche la Cronica che segue di Scrittore anonimo.

56.  Guicciardini, Storia di Firenze, tomo III, cap. 18, 19, 20. — Nardi, Storie, lib. III, in fine.

57.  Corio, Storia di Milano, in fine. — Guicciardini, Storia d’Italia, lib. IV.

58.  Documenti di Storia italiana editi dal Molini, tomo I, pag. 32.

59.  Cronaca francese citata dal Sismondi, Repub. Ital., cap. 160. — Memoriale del Portoveneri, pag. 350 e seg.

60.  Legazione di Francesco Della Casa e Niccolò Machiavelli in Francia l’anno 1500.

61.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. IV.

62.  Nardi. — Cambi. — Gregorovius, Vita di Lucrezia Borgia.

63.  Guicciardini, Storia di Firenze. — Storie di Giovanni Cambi. — Cerretani, Storie manoscritte.

64.  Guicciardini. — Nardi.

65.  Cambi, Storie, pag. 169.

66.  Guicciardini. — Cerretani, Storie manoscritte. — Dispacci di Pietro Ardinghelli, Archivio Storico Italiano, tomo XIX.

67.  Ardinghelli, Dispacci sopracitati.

68.  Guicciardini, Storia di Firenze, cap. 26.

69.  Guicciardini, Storia d’Italia. — Machiavelli, Legazione al Duca Valentino.

70.  Guicciardini, Due discorsi circa il mantenere la legge delle più fave, o fare vincere i partiti per la metà più uno. (Op. ined., tomo II, pag. 237.)

71.  Guicciardini, Stor. Fior., cap. 25.

72.  Nardi, Storie.

73.  Cerretani, Storie manoscritte.

74.  Guicciardini, Dialogo Del Reggimento di Firenze. (Op. ined., tomo II.) — Giannotti, Della Repub. Fior., lib. III. — Cambi, Storie. — Rinuccini, Ricordi. — Ammirato, Storie.

75.  Guicciardini, Storia di Firenze e Storia d’Italia.

76.  Guicciardini. — Nardi. — Cerretani.

77.  Guicciardini, Storia di Firenze. — Archivio Storico Italiano, tomo XV. — Scritti inediti del Machiavelli, stampati dal Canestrini, 1857.

78.  Machiavelli, Legazione a Bologna.

79.  Guicciardini. — Legazione di Francesco Gualterotti e Iacopo Salviati ambasciatori fiorentini a Napoli; manoscritta appresso di noi.

80.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. VII.

81.  Guicciardini, Storia di Firenze. — Nardi. — Cerretani. — Legazione in Allemagna di Francesco Vettori e Niccolò Machiavelli. — Storia Fiorentina di Iacopo Pitti.

82.  «Dissero che quel popolo Pisano era contento fare tutto quello che volevano Vostre Signorie, purchè avessero sicurtà della vita, della roba e dell’onor loro. — Risposi, che avevano a dire che sicurtà, se volevano che io rispondessi; perchè Vostre Signorie volevano da loro ubbidienza, nè si curavano di loro vita, nè di loro roba, nè di loro onore.» (Lettera del Machiavelli, tomo VII delle Opere, pag. 249.)

83.  Cerretani, Storie manoscritte. — Fine dell’Istoria Fiorentina di Francesco Guicciardini e delle Cronache Pisane.

84.  Cerretani, Storie manoscritte. — De Libertate Civitatis Florentiæ ejusque Dominii, pag. 94 (s. d., 1722). — Notizia della vera Libertà Fiorentina (s. d., 1724), in-folio, tomo II, c. XVI.

85.  Vedi le Memorie di Bayard che ordinò l’agguato.

86.  Guicciardini, Storia d’Italia. — Terza e quarta Legazione del Machiavelli in Francia, e ragguagli da Mantova e da Verona.

87.  Cerretani, Storie manoscritte. — Guicciardini. — Nardi. — Commissione del Machiavelli in Pisa al Concilio.

88.  Racconto del fatto di Brescia, scritto da Gian Giacomo Martinengo che vi fu dentro, pubblicato da Carlo Rosmini con la Storia di Milano.

89.  Guicciardini, Storia d’Italia. — Diario di Biagio Bonaccorsi.

90.  Nardi. — Cerretani. — Ammirato, an. 1510.

91.  Migliore, Firenze Illustrata, pag. 466.

92.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. VIII, e sua Legazione in Spagna, di molto valore per le cose di quel regno. È da vedere come Ferdinando si destreggiasse col gran Capitano, che egli diceva sempre fintamente volere rinviare con un altro esercito in Italia.

93.  Cerretani, Storie manoscritte.

94.  Guicciardini, Storia Fiorentina, cap. 29. — Nardi, Storia Fiorentina.

95.  Vita di Filippo Strozzi il Seniore, scritta da Lorenzo suo secondo figlio.

96.  Guicciardini, Storia Fiorentina, cap. 32. — Cambi, Storie, pag. 223.

97.  Cerretani, Storie manoscritte. — Nardi. — Storia di Iacopo Pitti, lib. II.

98.  Filippo de’ Nerli, Commentarii dei Fatti civili di Firenze.

99.  Tre Relazioni del Sacco di Prato. (Archivio Storico Italiano, tomo I.) — Ricordi di Andrea Bocchineri di Prato. (Archivio Storico Italiano, Appendice I.)

100.  Nardi, lib. V. — Storia d’Italia dal 1511 al 1527 di Francesco Vettori. (Archivio Storico, Appendice VI.) — Guicciardini, Storia d’Italia, lib. X. — Storia Fiorentina di Iacopo Pitti. — Ammirato, lib. XXVIII.

101.  Tre Pareri di Francesco Guicciardini intorno al Governo di Firenze; an. 1512 e 1516. (Opere Inedite, tomo II.)

102.  Narrazione del Caso di Pietro Paolo Boscoli e di Agostino Capponi scritta da Luca della Robbia l’anno 1513. (Archivio Storico Italiano, tomo I; e poi ristampata.)

103.  Fu celebre il fatto di quell’agente traditore di Giulio II in Inghilterra, narrato da Erasmo e dal Montaigne. Di cotest’uomo è una lettera tra’ Documenti del Molini (tomo I, pag. 57); e a lui dall’Hume nelle Istorie d’Inghilterra è dato il nome di Buonaviso, che io credo non bene trascritto.

104.  Bandello, Lettera premessa alla Novella X, Parte terza.

105.  Ariosto, Satire.

106.  Giovio, Vita di Leone X. — Tiraboschi, tomo VII in più luoghi.

107.  Razzi, Vita di Pier Soderini, con Documenti, a pag. 127 (Padova, 1737).

108.  Abbiamo trascritto qui molte parole dell’Istoria di Jacopo Pitti, severo amatore della Repubblica, che non aveva egli veduta presente.

109.  Nardi, Storie Fiorentine, lib. VI.

110.  Cambi, an. 1513. — Nardi, Storia. — Nerli, Commentari. — Storia d’Jacopo Pitti.

111.  Prato, Storia di Milano. (Archivio Storico Italiano, tomo III.)

112.  Documenti editi dal Molini, tomo I, pag. 66.

113.  Ved. Lettere del Vescovo di Tricarico. (Archivio Storico Italiano, Appendice I, pag. 306.)

114.  La parte del Copialettere di Goro Gheri che riguarda il governo di Piacenza è pubblicata nell’Archivio Storico Italiano, Appendice VI.

115.  Storia di Francesco Vettori.

116.  Vasari, Vita di Andrea del Sarto.

117.  Galliano col titolo di Magnifico è tra’ personaggi del supposto Dialogo nel libro del Cortegiano di Baldassarre Castiglione.

118.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. XIII. — Storia di Francesco Vettori. (Archivio Storico Italiano, Appendice VI.) Copialettere manoscritto di Goro Gheri.

119.  Malavolti, Storia di Siena.

120.  Questi fatti, che si hanno dal Giovio, sono ampiamente descritti nelle Cronache della Città di Fermo per quello risguarda i casi e la morte di Lodovico nipote di Oliverotto, stato tiranno di quella città. (Cronache della città di Fermo, di Paolo Montani e di un Anonimo, pubblicate da Gaetano de Minicis. Documenti di Storia Italiana, tomo IV.)

121.  Intorno al Duca Lorenzo e allo Stato della Repubblica di Firenze è da vedere il Sommario della Relazione di Marino Giorgi ambasciatore a Roma, an. 1517. (Relazioni Venete, Serie II, vol. III.)

122.  Possediamo il suo Copialettere in quattro molto grossi volumi dall’anno 1515 a subito dopo la morte del Duca Lorenzo nel maggio 1519. Vi sono trattate giorno per giorno e molto a minuto le cose di quegli anni ed i pensieri più intimi dei ministri del Papa. Di quei volumi si potrebbe fare un estratto di qualche lume, oltrechè per l’istoria generale, per quella interiore della città di Firenze e della Casa dei Medici, anche per cose private non di rado risguardanti la Storia delle Arti.

123.  Guicciardini, Opere Inedite, vol. II, pag. 325.

124.  Nelle lettere del Gheri abbiamo la data certa della nascita di Caterina de’ Medici, che fu a’ 13 aprile, essendo poi la madre morta il 28 dello stesso mese.

125.  Nardi, Gambi, Nerli, Pitti, Ammirato. — Ved. anche le Istruzioni date in nome del Papa a Lorenzo de’ Medici quando venne al governo di Firenze. (Archivio Storico Italiano, Appendice I, pag. 299.)

126.  Lo abbiamo noi primi pubblicato nel primo volume dell’Archivio Storico Italiano, da una copia di antica scrittura ch’era tra le carte di Goro Gheri, uomo del Papa: riproduciamo il documento in questo volume (Appendice Nº III). Ma il bello si è che in questo nostro Archivio di Stato è una Capitolazione tra il Re di Francia e il Papa, originale de’ 20 gennaio 1519, tre giorni dopo alla data del Trattato con Carlo V. Daremo i documenti e la storia di tutto questo doppio e strano giuoco nella stessa Appendice Nº III.

127.  Diario di Paride de Grassi, manoscritto appresso di noi.

128.  Gucciardini, tomo III, lib. XIV.

129.  Diario di Paride de Grassi.

130.  Atti del Conclave di Adriano VI. Manoscritto presso di noi.

131.  Ammirato, lib. XXIX.

132.  Machiavelli, Opere. — Archivio Storico Italiano, tomo I.

133.  Storia d’Jacopo Pitti. — Nerli, Commentari. — Nardi. — Giornale storico degli Archivi Toscani, vol. III.

134.  È sotto forma d’Istruzione ai tre Cardinali che a lui andavano in Ispagna: noi l’abbiamo manoscritta, ed è atto di molta importanza nella Storia del Pontificato.

135.  Vedi il Capitolo del Berni contro a Papa Adriano.

136.  Relazione di Luigi Gradenigo, ambasciatore a Papa Adriano, (Relazioni Venete, Serie II, vol. III, pag. 65.)

137.  Viaggio degli Oratori Veneti a Roma (1523). Relazioni Venete, Serie II, vol. III, pag. 74.

138.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. XV.

139.  Giovio, Vita di Pompeo Colonna.

140.  

«Ecce iterum e summo dilapsam culmine Romam

Pompeii et Julii mens furiosa premit.

Brute pium, Photine pium nunc stringite ferrum etc.»

141.  Conclave di Clemente VII, Manoscritto presso di noi.

142.  

«. . . . . . . . . . Chi avesse

Detto a Lorenzo e al Duca di Nemorse,

Al Cardinal de’ Rossi et al Bibiena,

A cui meglio era esser rimaso a Torse;

E detto a Contessina e a Maddalena,

Alla Nuora, alla Suocera et a tutta

Quella famiglia d’allegrezza piena:

Tutti morrete ec.» — Ariosto, Satira VII.

Il cardinale de’ Rossi era figlio d’una sorella non legittima di Lorenzo.

143.  Goro Gheri nel Memoriale mandato al Papa e che sta in fine del Copialettere, voleva persino maritare Ippolito alla Duchessina Caterina, allora in fascie, ma che aveva diecimila scudi d’entrata all’anno.

144.  Nerli, Commentari. — Nardi, Storie, lib. VII. — Cambi, Storie. — Pitti Iacopo, lib. II. — Ammirato, lib. XXIX.

145.  Burigozzo, Storia di Milano. (Archiv. Stor. Italiano, tomo III.)

146.  Guicciardini, lib. XVI.

147.  Vettori, Storia d’Italia.

148.  Cambi, Storie.

149.  Vedi in molti luoghi la Cronaca del Burigozzo milanese.

150.  Guicciardini, Storia d’Italia, lib. XVI.

151.  Varchi. — Nardi. — Vedi anche le Lettere del Machiavelli che fu adoprato nella direzione di quelle opere.

152.  Francesco Vettori, Storia d’Italia.

153.  «Pochi dì fa si diceva per Firenze che il signor Giovanni de’ Medici rizzava una bandiera di ventura per far guerra dove gli venisse meglio. Questa voce mi destò l’animo in pensare che il popolo dicesse quello che si dovrebbe fare. Ciascuno credo che pensi che fra gli Italiani non ci sia capo a chi i soldati vadano più volentieri dietro, nè di chi gli Spagnuoli più dubitino, e stimino più. Ciascuno tiene ancora il signor Giovanni audace, impetuoso, di gran concetti, pigliatore di gran partiti ec.» (Lettera del Machiavelli al Guicciardini, 15 marzo 1526.) — Giovanni è sepolto ne’ sotterranei di San Lorenzo con gli altri di Casa Medici; ma in San Giorgio di Mantova è questa bella iscrizione: Johannes Medicee — Qui ad Mincium tormento ictus — Italiae fato magis quam suo cecidit anno 1526.

154.  Guicciardini, Storia d’Italia, e Lettere scritte in quella Luogotenenza, che formano il tomo IV e V delle Opere inedite; è come un giornale di somma importanza.

155.  Fine dell’Istoria di Francesco Vettori.

156.  Lettera dedicatoria al libro del Principe.

157.  Varchi, Storia, lib. II. — Nardi, Storia, lib. VIII. — Nerli, Commentarii, lib. VII. — Segni, Vita di Niccolò Capponi. — Pitti, Storia.

158.  «Si ebbe a pagare in 9 mesi 220 mila fiorini d’oro in oro, e toccò a pagare a forse circa poste 1200, e le poste che sopportano le gravezze sono poste 9000 o più; che non si fece mai a Firenze una simile crudeltà.» (Cambi, Stor. Fior., tomo II, pag. 294, 301.)

159.  Lettere del Guicciardini, Opere inedite.

160.  Il Vasari e Francesco Salviati (Vita di questo, scritta dal primo), giovani pittori, raccolsero i pezzi di quel braccio e gli custodirono.

161.  Varchi, Storie. — Nerli. — Ammirato, lib. XXX. — Busini, Lettera II.

162.  Ved. Cambi, in più luoghi del tomo XXIII.

163.  Lettera del Machiavelli al Guicciardini, anno 1525.

164.  Busini, Lettera II.

165.  Varchi. — Pitti. — Busini.

166.  Nerli, pag. 166. — Varchi, lib. VIII. — Abbiamo uno scritto di Francesco Guicciardini contro la Decima Scalata, Opere inedite, tomo X.

167.  Intorno alla Legge intricatissima della Quarantìa, vedi quello che scrissero lungamente il Varchi e il Pitti.

168.  Busini, Lettera VI, pag. 54.

169.  Cambi, Storie.

170.  Documenti di Storia Italiana editi dal Molini, tomo II, pag. 84.

171.  Documenti di Storia Italiana editi dal Molini, tomo II, pag. 26-60.

172.  Pitti, Storie, 172. — Segni, Vita di Niccolò Capponi.

173.  Busini, Lettera V.

174.  Busini, Lettera III. — Cambi, pag. 41.

175.  Varchi.Nardi.Busini, Lettera VI e VII. — Segni, Stor. Fior., lib. II. — Relazioni di Francesco Foscari e Antonio Suriano ambasciatori Veneti in Firenze. (Relaz. Ambasc. Ven., tomo II e XI.)

176.  Lettera da Genova dei 17 dicembre 1528, nella Legazione di Baldassarre Carducci; manoscritto sincrono appresso di noi. — Le stesse cose affermò il Doria al Portinari quando tornava d’Inghilterra. — Busini, Lettera X, pag. 93.

177.  Varchi, lib. IV. — Segni, Storia, lib. II.

178.  Lettere di Baldassarre Carducci ai Dieci, dei 17 e 23 giugno; 9 e 10 luglio.

179.  Lettere del Carducci, 8, 2, 16, 19, 27 agosto, ultima 2 settembre da Parigi. — Guicciardini, Stor. d’Ital., lib. XVII. — Varchi. — Nerli. — Pitti.

180.  Lettera 16 agosto e 2 settembre.

181.  Istruzioni e Lettere agli Ambasciatori che andarono a Genova (Archiv. di Stato, e in copia presso di noi). «Nostra intenzione è di non avere a trattare cosa alcuna col Papa; ma vogliamo che Sua Maestà sia quella che ascolti e giudichi ogni nostra differenza, pensando che Ella sia venuta per conservare i popoli e non per distruggerli, come farebbe se cercasse di ridurre le città d’Italia sotto le tiranniche servitù.» (Lettera dei 26 agosto.)

182.  Varchi. — Pitti. — Nerli. Sono da vedere ancora le Lettere dì Carlo Capello ambasciatore in Firenze. (Relaz. Ven., tomo II, pag. 214.)

183.  Varchi, lib. IX. — Nerli, lib. IX. — Busini, Lettere. — Segni, Storia, lib. III, e Vita di Niccolò Capponi. — Ammirato, lib. XXIX.

184.  Varchi, Storie, lib. IX e X.

185.  Capello, Lettere dei 14 e 16 luglio, 4, 13, 17 settembre, ed altre.

186.  Guicciardini, Stor. d’Ital., lib. XIX, cap. 6. — Varchi, lib. X.

187.  Varchi, lib. X.

188.  Segni, Storia. — Capello, Lettere.

189.  Abbiamo di questa lettera, che il Portinari scrisse ai 22 di settembre, la copia nel Codice 313 appresso di noi.

190.  Varchi, lib. X. — Lettere di Rosso Buondelmonti dal 13 al 30 settembre 1529. Vedi Appendice Nº IV.

191.  Varchi, lib. X. — Segni, lib. III.

192.  Il Varchi descrive minutamente come si componessero questa sorta di Pratiche, nelle quali s’intendeva raccogliere i voti liberi della intera cittadinanza fiorentina.

193.  Capello, Lettera de’ 29 settembre, e altrove. — Varchi, lib. X. — Fine dell’Istoria d’Iacopo Pitti.

194.  Varchi, e con altri il Paoli, il quale scriveva sul suo Priorista, in ogni bimestre, i fatti avvenuti dentro quel tempo.

195.  Varchi, lib. IX e X. — Segni, lib. III. — Nerli, lib. IX. — Capello, Lettera 26 dicembre.

196.  «Nè minore diligenza si usa di acquistarsi col divin culto il favore di nostro Signore Iddio, con digiuni, comunioni, processioni generalmente di ognuno e di quelli della milizia istessa; cosa certamente a questi tempi meravigliosa da udire non che da vedere, le armi congiunte con la pietà e timor di Dio. Nella terra non si sente mancamento rumore, nè disordine alcuno. Il danaro si mantiene abbondante, ed a questi giorni fu per il pubblico, tra gli altri, venduto il palazzo e podere nel quale alloggia ora il Principe, e ne fu ritrovato la valuta come si sarìa fatto nei tempi felici.» (Capello, Lettera de’ 29 ottobre.)

197.  Busini, Lettera XIII.

198.  Commentari nella Vita di Michelangelo Buonarroti (Vasari, tomo XII). — Nardi, Storie, lib. VIII. — Mentre era in torchio questa seconda edizione, venne in luce la Vita di Michelangelo Buonarroti, opera dell’amico nostro signor Aurelio Gotti, corredata di lettere e documenti, tra’ quali ve n’ha che risguardano a questa fuga di Michelangelo. È notabile una lettera di questi a Giovanni Battista Della Palla dove egli racconta misteriosamente di un tale che venne a esercitare sopra di lui qualcosa più della persuasione perchè egli fuggisse, giugnendo perfino a una sorta di violenza. Chi fosse l’ignoto Michelangelo non volle dire; infine aggiugne: «o Dio o il diavolo, quello che si sia stato non lo so.» Intorno a questo mistero faccia ognuno le congetture che vuole, noi dichiariamo non averne alcuna che sia probabile più d’un’altra. Questo medesimo Giovanni Battista dipoi faceva con un’altra lettera a Michelangelo grande pressa perchè egli tornasse, e gli andò incontro fino a Lucca per assicurarsi che non mutasse pensiero; scriveva in nome anche d’altri cittadini, e tale certo era il desiderio dei migliori e dei più autorevoli. — Vedi altre Lettere.

199.  Lettere alla Signoria di Venezia, 24, 25, 29 settembre, e 6 ottobre.

200.  Priorista del Paoli. Continuazione dei Ricordi Rinuccini; Firenze, 1840.

201.  Capello, Lettera de’ 15 ottobre. — Varchi, lib. X. — Paoli, Priorista.

202.  Malavolti, Storia di Siena.

203.  Guicciardini, Stor. d’Ital., lib. LIX, cap. 6. — Paoli, ed altri.

204.  Varchi. — Ammirato, lib. XXX.

205.  Sassetti, Vita di Francesco Ferrucci, e Lettere di questo ai Dieci, da Prato (Archiv. Stor., tomo IV, parte 2). — Il Busini (Lettera V), dopo avere lodato molto Giovan Battista Soderini, segue a questo modo: «Nè mai Firenze ebbe sì bella coppia, com’erano egli e Marco Del Nero; ma il Soderini di più cuore. Di Giovan Battista ne nacque un ramo, che fu il Ferruccio glorioso, che quanto seppe ebbe da Giovan Battista, perchè cominciò a praticar seco quando era giovine di 15 anni, e lo seguitò sempre fuori, e fu pagatore a Napoli.» — V. Giannotti, Lettera intorno al Ferrucci (tomo I delle Opere; Firenze, 1850).

206.  Vedi le Lettere degli 11 novembre e 13 dicembre ed altre. Nella prima narra il fatto di San Miniato così brevemente: «Ieri mattina un’ora avanti giorno si andò alla volta di San Miniato, e giunti lì, si dette l’assalto da due bande e vi si entrò. E riducendosi gli uomini della terra nella Fortezza, difendendosi gagliardamente, finalmente combattendo un pezzo, domandarono patti. I patti furono: ch’e’ dovessino rendere la terra libera e la Fortezza alla Signoria di Firenze; e io promessi loro di salvare la roba e le persone, e così si osservò.....» In altre lettere domanda che il Commissario Spagnolo preso, gli sia lasciato come suo prigione, per averne compenso ai 350 ducati che gli era costato nella guerra di Napoli il proprio suo riscatto. Altrove, a proposito della morte dell’Orsini e del Santacroce, scrive: «Alla guerra non ne nasce, nè bisogna per questo sbigottirsi; che quando i tre quarti di noi morissimo per non tornare in servitù, il quarto che resterà sarà tanto glorioso che il resto vi sarà bene speso.»

207.  Nerli, lib. X. — Varchi, lib. XI. — Segni, lib. IV. — Busini, Lettera XVI. — Capello, Lettere 3, 12 gennaio e 9 febbraio.

208.  Cambi.Paoli.Capello, Lettere. — Busini.Varchi.

209.  Segni, lib. III. — Ammirato, lib. XXX. — Busini, Lettere.

210.  Nardi, lib. IX. — Busini, Lett. XVI.

211.  Capello, Lettera, ultimo di febbraio.

212.  Vedi intorno a questo Abbattimento una pubblicazione di Carlo Milanesi (Archivio Storico Italiano, Nuova Serie, tomo IV). E le Note del signor Passerini al Romanzo di Marietta de’ Ricci.

213.  Essendo al Capello morto un Cavallo a lui carissimo, lo faceva seppellire nei parapetti dell’Arno, fra il Ponte delle Grazie e il Ponte Vecchio, con una iscrizione latina che ivi si legge tuttora scolpita nel marmo.

214.  Varchi, lib. XI. — Busini, Lettere XI, XVIII.

215.  Capello, Lettere 28 gennaio e ultimo di febbraio.

216.  «Venant de Boullogne icy, j’ay entendu la force et la foiblesse des Fleurentins: la premiere pour avoir leur ville bien reparée, assez gens de guerre, victuailles de pain et chair sallèe pour d’icy à la fin d’aoust et davantage pour sucres pour satisfaire à leur boire; le coeur bon et resolus de maintenir leur libertè; la seconde, la puissance du Camp qu’est à leur porte, avec determinacion de n’en partir sans les avoir par force a la longue ou par composicion.» — (Lettera del Vescovo di Tarbes al re Francesco I; da Roma, aprile 1530. Archivio Storico Ital., Appendice, vol. I, pag. 473.)

217.  «Majs le tout fut si avant debatu qu’il y vint à la fin (il Papa) et est contant que le tout ainsi se face (così almeno credeva l’Ambasciatore); dont j’ay esté aussi aise qu’il est possible, tant pour la conservacion de la ville qui est de tous pointz à vous, que pour rendre l’Italie necte de telles maniere de gens, et pour la commodité que vous aurez de faire ce qu’il vous plaira par ce moyen; car vous serez non seulement comme arbitre, may commanderez à baguette tant au principal que aux accessoires qui en peuvent deppendre.» (Lettera citata.)

218.  «Je lui dys que je no veoys point de necessité de faire gros ne petit nombre (di Cardinali) en son endroit non voluntaire, luy disant que supplieroys Sa dicte Sainctété de n’estre mal contente si je luys en disoys mon advis, non comme vostre ambassadeur ou ministre, mays comme chrestien, prebstre et evesque, et pur consequent son subget; ce qu’il me accorda. Et lors je luy dys, que pour l’envye que j’avoys de luy faire service et que son nom feust perpetué par bienfaictz comme le lieu qu’il tient le requiert, j’avoys esté merveilleusement marry de l’entreprinse de Florence et encore plus de la continuacion, laquelle tout le monde de commune voix appelle obstinacion, et mesmes les gens de guerre qui sont au camp, les quels publiquement disent que toutes choses leur sont loysibles puis que le Chef de l’Eglise leur donne autorité de mal faire; joinct aussi que delà ne luy pouvait venir sinon despence, fascherye, melencolye, peine et ennuy. Bien luy confessoys je, qu’il pourroit tirer quatre ou cinq cens mil escuz faisant la creation surdite des dictz cardinaulx, mays qu’il falloit qu’il pensast que ce faisant il ruyneroit de tous poinctz l’Eglise; car oultre ce qu’il donneroit à parler aux lutheriens, il mectroit une si grande peste au College, que les relicques en seroient d’icy à cent ans; d’autant que ceulx qui y pretendent sont assez congneuz. Il me dit que je savoys bien que la chose de ce monde qu’il fesoit le plus envys estoit de crèer cardinaulx, encores gens de bien, pour la moltitude qu’y est, et qu’il cognoissoit que ce que luy disoys estoit toute verité, mays qu’il estoit constrainct pour son honneur de le faire. Je luy dys qu’il n’y avait honneur ny prouffit, car posé ores qu’il eust Florence, il l’auroit gastée et du tout ruynée, voyre de sorte que d’icy a vingt ans il n’en sauroit tirer ung escut, et qu’il y despendroit tout l’argent que dessus, et davantage, s’il en avoit: que estoit son estrème oncion, car ce fait il n’avoit plus aucun moyen de faire argent et seroit homme pour non estre puis après obey comme pape, ainsi par adventure vilipendé de tous les princes chrestiens et donné en proye des ses ennemys, despoilleroient l’Eglise de tout ce qu’elle a maintenant; et que je congnoissoys son sens et son coueur estre telz, que s’il se veoit là, il seroit contraint de mourir de faim et ennuy maulgré luy. Il me dist qu’il estoit contant que Florence n’eust jamais esté, et qu’il ne savoit qu’ilz y pouroient faire; et si je seroys d’advis qu’il cedast a sept ou huit des plus pouvres de la ville de Florence qui avoient conduit le peuple à consentir d’estre destrouictz, etc.» (Lettera citata.)

219.  Malavolti, Storia di Siena.

220.  Ferrucci, Lettere ai Dieci dai 21 ai 27 aprile.

221.  Varchi, Storia; e Lettere del Ferrucci e del Tedaldi, dai 17 maggio ai 22 giugno, e quella pure dei 6 luglio.

222.  Il Ferrucci nelle prime lettere mostrava fare molta stima di Piero Orlandini. Pure il suo nome è tra quelli di cittadini da provare et guadagnare a Casa Medici fin dall’anno 1519 (Archiv. Stor., tomo I, pag. 320). In quanto a Empoli, scriveva il Ferruccio a’ 21 aprile: «Qui si lascierà munito di sorte, che se la vigliaccheria non piglia gli uomini del tutto, ve ne potete rendere sicuri.» E da Volterra, a’ 26 aprile: «Nè mancherò di rimandare a Empoli una banda acciò si renda più sicuro; ancorchè si truova assettato di sorte, che le donne con le rocche lo potrien guardare.»

223.  Varchi, Storie. — Capello, Lettere dei 11 e 20 luglio. — Ammirato, lib. XXX.

224.  Nardi.

225.  «Il signor Paolo viene a questa impresa molto volentieri e aiutaci in tutte le cose gagliardamente; ed è migliorato da qualche dì in qua in tutti i conti con essi noi: andiamo incatenandolo col Ferruccio per tutti i versi, e speriamo abbiano a fare buonissimo composto.» (Lettera dei Commissari di Pisa dei 21 luglio, con quelle del Ferrucci, pag. 674.)

226.  Lettera di Ferrante Gonzaga al Marchese di Mantova suo fratello, dei 16 luglio, pubblicata con altre che seguono dal signor Eugenio Albèri; e noi le riproduciamo, con sua licenza, nell’Appendice Nº V.

227.  Benedetto Varchi, letterato insigne, ma poco buon critico ed istorico disordinato, avendo in mente un pensiero solo, quello di mostrare Malatesta essere stato sempre traditore, scrive, contro all’evidenza della lettera del Gonzaga da lui medesimo pubblicata, l’Orange e Malatesta essersi abboccati effettivamente in segreto, dando anche ad intendere le cose tra loro discorse. Nè questo è il solo luogo del Varchi dove i fatti siano tirati oltre alla propria loro significazione, come resulta dai molti documenti certi venuti in luce ai giorni nostri.

228.  Lettere del Gonzaga de’ 23, 25 luglio e 4 agosto. Appendice Nº V.

229.  Varchi; Capello, Lettera 13 agosto.

230.  Lettera ultima del Ferrucci da Pescia, 1º agosto, con poscritto del due da Calamecca. — Varchi, Storia. — Gonzaga, Lettere del 5 agosto con allegati. — Ammirato, lib. XXX.

231.  Lünig, Codex Italiæ Diplomaticus, tomo I. — Varchi, lib. XI. — Busini, Lettere 16, 17. — Capello, Lettera de’ 13 agosto. — Nardi, Segni, Nerli, Cambi, Ammirato, lib. XXX. — Pitti, Apologia de’ Cappucci (Archiv. Stor., tom. IV, pag. 27).

232.  Varchi, lib. IX. — Busini, Lettera 17 e Lettera 21, pag. 221.

233.  Segni, Storia, lib. V.

234.  Carlo Capello, Ambasciatore veneziano, lasciando Firenze, scriveva con l’ultima sua lettera dei 13 agosto: «Il signor Malatesta mi ha due fiate richiesto che io offerisca alla Serenità Vostra ad ogni servizio suo la persona sua e cinque o seimila fanti eletti. E veramente come non si può negare che non sieno gente valorose quelle che si trovano con Sua Signoria, così mi pare superfluo dire del chiarissimo valore di quella, e quanto sia accorta ed avveduta.» — Giov. Battista Vermiglioli, uomo benemerito della città sua per molti suoi studi archeologici e storici, scrisse anche una Vita di Malatesta Baglioni (Perugia, 1839). In quella si studia difenderlo a spada tratta, ma veramente nulla aggiunge a cose già note.

235.  Varchi, lib. XII. — Abbiamo il rendiconto e il benestare delle spese passate per mano di Baccio Valori, dal principio della guerra fino alla partenza degli Spagnoli, che ammontano a ducati 553,286, soldi sette e due danari, d’oro di Camera, valutati a dieci giuli il ducato. (Giornale Storico degli Archivi ec., An. 1857, pag. 106.)

236.  Ultima lettera del Commissario da Pisa, con poscritto dei 14 agosto, pubblicata con quelle del Ferrucci.

237.  Busini, Lettera 17.

238.  Segni, lib. V, e Varchi, lib. XII.

239.  Stanno nell’Appendice dell’Archivio Storico Italiano, vol. IV. App. Ivi, nota 2, anno 1853; pubblicati dal compianto Agostino Sagredo, che vi aggiungeva una pregevole Prefazione.

240.  Fra questi i Doni, i Cambi, i Valori e i Guadagni ch’erano ricchissimi: il castello di Feugerolles, prima posseduto dai Capponi, passò per eredità nei Conti di questo titolo. Nè occorre dire come due famosi tribuni francesi, Mirabeau e il Cardinale de Retz, fossero d’origine fiorentina.

241.  Segni, lib. V.

242.  Varchi, Segni.

243.  Nerli, Commentari.

244.  «Cupientes ejusdem Reipublicæ saluti libertati quieti et tranquillitati optime consultum esse, atque universali Italiae pacem stabilire nostramque et Romani imperii dignitatem et authoritatem, ut tenemus, conservare, ne res iterum ad popularem factionem devenire, et propterea dominium atque libertas dictæ Reipublicæ periclitari et opprimi valeat; eisdem motu, scientia, animo, consilio, et auctoritate prædictis, tenore præsentium statuimus, decernimus et declaramus, volumus et jubemus, ut deinceps perpetuis futuris temporibus magistratus dictæ reipublicæ eisdem modis et formis eligantur, disponantur et instituantur quibus ante ejectam ipsam Mediceorum familiam eligebantur atque instituebantur, utque eadem illustris ipsa Mediceorum familia et in primis illustris Alexander de Medicis Dux Civitatis Pennæ, cui nuper illustrem Margaritham filiam nostram naturalem despondimus; quamdiu vixerit, atque eo e vivis sublato, ejus filii, hæredes et successores ex suo corpore descendentes masculi, ordine primogenituræ semper servato; et illis deficientibus, qui proximior masculus ex ipsa Mediceorum famiilia erit, et sic successive usque in infinitum, jure primogenituræ servato, sit atque esse debeat dictas Reipublicæ Florentinæ gubernii, status atque regiminis caput, et sub ejus præcipua cura et protectione ipsa civitas et Respublica cum universo ejus Statu et dominio regatur, manuteneatur et conservetur, et tam ipse illustris Alexander, quam sui prædicti possint et valeant ac debeant in omnibus supradictis magistratibus qui in præsentia sunt, et pro tempore, modo quo supra, aut aliis quomodocumque disponentur, interesse, iisque præesse, ac si his qui pro tempore juxta ordinem, ut supra, dispositum præesse debebit ad singulos ipsos magistratus publicis suffragiis tamquam caput electus et designatus foret.» (Lünig, Codex Italiæ Diplomaticus, tomo I.)

245.  Nerli, Varchi.

246.  Abbiamo in bella copia manoscritta, fatta fare per uso proprio da Benedetto Buondelmonti, con gli altri Atti risguardanti quella mutazione anche il discorso di Palla Rucellai a Carlo V. Vedi Appendice Nº VI.

247.  Discorsi intorno alla Riforma dello Stato di Firenze. Sono di Francesco Vettori, di Roberto Acciaiuoli, di Francesco e di Luigi Guicciardini. (Archivio Storico, tomo I.)

248.  Vettori, ivi, pag. 738.

249.  Vettori, (Archivio Storico, tomo I), pag. 437.

250.  Varchi, Segni.

251.  Nerli, pag. 261-62.

252.  Manoscritto citato di Benedetto Buondelmonti.

253.  Furono infino a lui 1372 Gonfalonieri, il quale ufficio mutandosi ogni due mesi a cominciare dal 1293, non mancò mai che nel solo anno del Duca d’Atene. Un solo Gonfaloniere creato a vita governò dieci anni, uno poco meno di due anni, uno otto mesi, e un altro sette.

254.  Varchi, lib. XII. — Segni, lib. V. — Nerli, lib. XI. — Ammirato, lib. XXXI. — Il capitano Enrico Napier della regia marina inglese lasciava una Storia della città di Firenze sino ai giorni nostri, in sei grossi volumi in-8º; Londra 1846. Deliberò scriverla perchè a lui parve di non avere altro modo a reggere la vita, dopo perduto in poche ore di cholèra, in una villa qui presso Firenze, una moglie fiorente di bellezza straordinaria e di salute, madre di tre bambini, se io non erro. Rimasto più anni in quella medesima villa, mantenne il proposito con la costanza che è dote propria di quella nazione, usando nella composizione del libro una incredibile diligenza. Ne usciva un’opera forse troppo voluminosa per gli Inglesi e anche se vuolsi per gli Italiani. Ma per l’Autore tutto il fine stava nel tempo lungo, finchè egli si fosse con l’abitudine indurito a tanta miseria.

255.  Pitti.

256.  Questo e gli altri consimili ricordi, in fine delle lettere, vengono, naturalmente, dalle copie, e gli abbiamo conservati.

257.  Anche questa e tutte le altre hanno fuori l’indirizzo Magnificis Dominis dominis Decemviris etc., come la precedente.

258.  Così il MS., dove senza dubbio manca lo crederìa o altra parola equivalente.

259.  Quest’aggiunta è nella copia, dove altresì la data è 30 e non 29 di settembre.

260.  Questo vuoto è nel Codice Strozziano.

261.  Questi allegati erano forse lettere intercette, o direttamente scritte a qualcheduno del Campo.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.