The Project Gutenberg eBook of Viaggio al Capo Nord

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Title: Viaggio al Capo Nord

Author: Giuseppe Acerbi

Editor: Giuseppe Compagnoni

Release date: September 25, 2021 [eBook #66378]

Language: Italian

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VIAGGIO AL CAPO NORD ***

VIAGGIO AL CAPO NORD


RACCOLTA
DE’ VIAGGI

Più interessanti eseguiti nelle varie parti del mondo, tanto per terra quanto per mare, dopo quelli del celebre Cook.


Tav. I. — PASSAGGIO SUL GOLFO GELATO DI BOTNIA


VIAGGIO
AL CAPO-NORD

FATTO L’ANNO 1799
DAL SIG. CAVALIERE

GIUSEPPE ACERBI

ORA
I. R. CONSOLE GENERALE IN EGITTO

COMPENDIATO
E PER LA PRIMA VOLTA PUBBLICATO IN ITALIA
DA GIUSEPPE BELLONI
ANTICO MILITARE ITALIANO.

MILANO
PRESSO L’EDITORE LORENZO SONZOGNO
Libraio sulla corsia de’ Servi n. 602
1832.


Opera posta sotto la tutela delle Leggi.

COI TORCHI DI GIO. PIROTTA.



INDICE


[5]

INTRODUZIONE

Vivacità di gioventù, studiosa curiosità, desiderio di singolarizzarsi, trassero il sig. Acerbi all’ardita impresa di viaggiare sino alla estrema punta settentrionale d’Europa. Il Capo-Nord era cognito per le carte geografiche disegnate da’ Marinai, i quali avevano navigato il Mar-glaciale. Non sapendo che altri vi fosse andato per terra, io, disse adunque il sig. Acerbi, sarò il primo a dire con verità: ho veduto il Capo-Nord. I viaggi di Regnard, di Maupertuis, di Rudbech, di Linneo, riguardavano paesi di quelle lontane e fredde regioni; ma non comprendevano quel famoso e distintissimo punto del nostro Continente. Non è quindi meraviglia se quando il sig. Acerbi [6] pubblicò in Inghilterra il suo Viaggio al Capo-Nord, venne in giusta rinomanza; e l’incontro che il suo libro ebbe presso gli Inglesi, i viaggi de’ quali hanno tanto estesa la scienza geografica, la storia naturale, ed altri importantissimi rami dello scibile umano, ben presto fece che fosse riprodotto in francese. L’accoglimento che questo libro ebbe poscia in Francia, non fu pel sig. Acerbi meno onorevole di quello che avea avuto in Inghilterra.

Ma chi lo crederebbe? In Italia, ove pure si va in traccia da verso quaranta anni di ogni novità di questo genere, nissuno pensò a far conoscere questo viaggio del sig. Acerbi, forse perchè si aspettasse che ne desse un’autentica edizione egli medesimo nella lingua nostra. Il che se non ha fatto, ciò debbesi con molta probabilità attribuire ad altre occupazioni a cui ritornato in patria egli si dedicò, ed a quella ripugnanza che i migliori ingegni sovente hanno a ritornare sulle loro [7] cose già fatte, ed alla mutazione seguita nelle circostanze tanto sue proprie, quanto pubbliche.

Intanto non era giusto che la nostra letteratura fosse defraudata di questa bella ed interessante opera. Perciò ne adorniamo la nostra Raccolta, sicuri che la diligenza nostra verrà commendata.

Ma ciò facendo, d’accordo coll’illustre Autore, noi abbiamo data un’altra forma all’opera. Molte cose scritte da lui ne’ tre suoi volumi non sono più pel nostro tempo, altri avvenimenti essendo accaduti ne’ paesi de’ quali egli parlava. Molti uomini fiorivano allora ne’ luoghi da lui visitati, che meritavano particolare menzione, i quali al presente sono confusi nella massa della storia. Viaggiatori posteriori a lui hanno più di lui copiosamente parlato di ciò, che interessa varii rami della storia naturale, sicchè riuscirebbe ripetizione inutile in questi giorni ciò, ch’egli a quel tempo con tutto merito aveva scritto. Noi adunque, consultando [8] il genio dei più, abbiamo levato tutto il superfluo; ma abbiamo religiosamente conservato tutto quello che rende veramente preziosa l’opera sua, rimanendo d’altra parte libero a chi più particolarmente s’interessasse di certe notizie riguardanti piante, uccelli, insetti e tali altre cose, il consultare l’opera sua di tre volumi; e il compendio, che ne presentiamo in questo solo volume, non la farà riuscire meno grata; massimamente che vedute le diverse cose da altri scritte, vicendevolmente contraddicendosi intorno all’indole, agli usi ed ai costumi de’ Laponi, con esatti confronti e con giusta critica abbiamo potuto convincersi avere il sig. Acerbi con imparzialità pienissima, con esatta verità, e con diligenza singolare studiato ed espresso ciò che gli si è presentato. Ma ciò basti.


[9]

VIAGGIO AL CAPO-NORD

CAPO PRIMO.

Partenza da Helsinbourg. Gottembourg, e costumi de’ suoi abitanti. Canale di Trolhatta. Stockholm. Descrizione di questa città. Indole, ed usi degli Svedesi.

Il sig. Acerbi incominciando il racconto del suo Viaggio prende le mosse da Helsinbourg dirigendosi a Gottembourg. Questa è la seconda città della Svezia, assai mercantile. Conta 15 mil’anime; e nel suo interno si rassomiglia assai alle città olandesi. Giace poi sopra un suolo terribilmente sterile, coperto di piccole roccie simili al basalto. Dicesi, che vi si vive più piacevolmente che a Stockholm, trovando dappertutto urbanità, ospitalità, e niuno impaccio di formalità e di etichetta. Le donne sono belle, graziose, amabili, e di conversazione [10] piacevolissima. Quando una persona è in Gottembourg invitata a pranzo, l’uso porta, che si trattenga in quella casa tutta la sera, e goda di una buona cena. Ciò si pratica in tutta la Svezia. Un altro uso è che al momento che si siede a tavola, ognuno a bassa voce faccia devotamente una preghiera; e così pure un’altra nell’alzarsene. Ne’ pranzi di cerimonia gli Svedesi fanno girare una larga tazza d’argento piena di vino di Sciampagna, di cui ognuno gusta facendo un brindisi. Ciò si eseguisce con certe cerimonie, di cui i forestieri vengono precedentemente avvertiti. Chi per avventura non vi si conformasse, dovrebbe bere tutta la tazza.

A 50 miglia da Gottembourg, sulla strada che va a Stockholm, s’incontra il canale di Trolhatta, superbo capo d’opera dell’ardimento umano. Esso è aperto a forza di polvere da cannone in mezzo a scogli durissimi, per istabilire una comunicazione tra il mare del Nord e il lago Wennern, il maggior lago della Svezia, lungo 89 miglia, e largo 49. Questo canale è fatto per facilitare la navigazione fino alle cataratte del fiume Gotha; ed è lungo tre miglia, largo 36 piedi, e profondo in alcuni luoghi più di 50, con 9 chiuse, e parecchi bacini. La vista di questo canale, e l’aspetto [11] delle cataratte, che per mezzo del medesimo si sono evitate, formano uno spettacolo sorprendente; e con ragione si tiene in Trolhatta un gran libro, in cui i forestieri sono invitati a scrivere i loro nomi, e qualche frase allusiva alla impressione, che le cataratte, e gli altri oggetti del contorno hanno fatto sull’animo loro. Fra le tante iscrizioni, che il sig. Acerbi vi lesse, una fu questa: Iddio benedica questa buona, e valorosa Nazione! e v’era sottoscritto Kosciusco.

Da Gottembourg a Stockholm la campagna è coltivata, come pure in tutta la Svezia, a segala, ad avena, a piselli, a fave, e ad un poco d’orzo. Nella Scania, che chiamasi il paradiso della Svezia, si coltiva anche un poco di frumento. Il sig. Acerbi giunse a Stockholm la sera dei 19 di settembre del 1798.

Noi non dobbiamo tacere la sorpresa ond’egli e il suo compagno di viaggio furono colpiti, quando la mattina seguente andarono a presentare alcune lettere commendatizie, delle quali si erano proveduti. Essi trovarono, che le persone, a cui erano diretti, sapevano tutti i fatti loro, cioè il loro arrivo, il genere di vettura, di cui si eran serviti, la strada che aveano fatta, l’alloggio che aveano preso, i nomi, e la qualità de’ loro domestici, l’abito che portavano, [12] e tante e tante particolarità simili. La capitale della Svezia di questa maniera veniva ad annunciarsi loro coi pettegolezzi delle più piccole città.

Ma poche città intanto sono in Europa situate così bene come Stockholm, tanto per le occorrenze del commercio, quanto pel diletto che reca la varietà degli oggetti, che i suoi contorni presentano. Essa giace sopra sette, od otto isole, circondate tutte, quali da acque dolci discendenti dal lago Malar, quali da acque salse refluenti dal mare. Quasi tutte hanno il loro nome particolare; ed è famosa nella storia quella di Blasiiholmen, oggi attaccata al continente, per l’orribil fatto accaduto nel 1386 sotto il regno di Alberto. Due fazioni atrocemente perseguitavansi allora, quella de’ Cappelli, e quella delle Berrette; e la prima fece abbruciar vivi dugento patrioti svedesi della seconda!! — L’aspetto di Stockholm è superbo, spezialmente mirandosi dal ponte detto del Nord. Tutto ad un colpo si presenta allo sguardo una massa straordinaria di campanili, di palazzi, di rupi, d’alberi, di laghi, di canali, coronata poi dal castello che domina su tutta la città; e tutta la città da quel ponte si discopre quanto è lunga e larga, e tutta la facciata pur si vede minutamente di quel castello, la cui architettura è [13] semplice, nobile, maestosa, senza nissuno di quegl’inutili ornamenti, che sfigurano tante grandiose fabbriche simili. La immaginazione attonita a tale prospettiva può appena sostenere siffatto incanto; e mentre è sì vivamente colpita dall’immenso quadro, che ha d’innanzi, ove il lusso, le arti, il commercio, l’industria pajono essersi accordati insieme per sorprendere i sensi, il fracasso delle onde che si precipitano attraverso delle arcate del ponte suddetto, imprime a questo spettacolo un certo carattere selvaggio, che toglie ogni paragone.

Nell’inverno questo spettacolo cambia. I ghiacci fanno sparire tutte le barriere, che nella estate le acque frappongono tra gli abitanti. Non più isole: una sola pianura si presenta, senza ostacolo alcuno aperta a slitte, a carri, a carrozze, a vetture d’ogni specie, le quali corrono, volano per ogni verso, e s’incontrano, e s’incrociano senza mai toccarsi; tanta è la sveltezza, colla quale a vicenda si scansano; e tu le vedi aggirarsi intorno a vascelli, e navicelli d’ogni specie, immobili in mezzo al ghiaccio. Su quel ghiaccio poi v’ha un popolo immenso, che corre scivolando colla rapidità del baleno; che in un momento apparisce, e sfugge. Le acque che bagnano le scuderie del Re, e quelle che si precipitano sotto le arcate del [14] ponte del Nord, sono le sole che tolgansi al rigore dell’inverno. Esse bollono gorgogliando, e s’alzano in bianca spuma cangiandosi maestosamente nell’atmosfera in vapori, che poi condensati in una polvere di cristallo, presentano allo sguardo sorpreso una vera pioggia di diamanti, che i raggi solari tingono coi brillanti colori del topazzo, del rubino, e d’altre pietre preziose. Gli abitanti de’ paesi meridionali faranno fatica a credere che la bellezza di Stockholm riceva un lustro maggiore dall’inverno; e che le comodità, e i diletti della vita dell’inverno vi si accrescano. È difficile dire quanti scherzi, quante varietà di apparenze produca il ghiaccio, che dappertutto in sì diverse maniere si attacca a muraglie, a tetti, ad alberi, a carri, ad ogni cosa, che o sia immobile, o sia mossa.

Non meno singolare riesce il soggiorno di Stockholm in estate. Ne’ lunghi giorni di quella stagione, quando i crepuscoli facendo in certo modo sparire la notte, dispensano dal consumare olio, o cera, le persone agiate passano alla campagna, e vi si trattengono fino all’autunno. Allora via ogni economia; e vi si vive con più lusso, e grandezza che in città. Le abitazioni de’ signori in campagna, oltre l’amenità del sito, sono abbellite con tutti i mezzi [15] dell’arte, e fornite di tutti i comodi: tra i quali non mancano le serre, in cui fannosi maturare le pesche, gli ananassi, l’uva, ed altri frutti delicati, a dispetto del clima. I vini d’ogni specie, i liquori rari, ed altre simili pregiatissime cose vengono profuse alle tavole de’ gentiluomini, de’ ricchi fabbricatori e mercatanti. Ivi non hanno luogo nè le cerimonie, nè i formolarii che s’usano in città. — Questa bella libertà si gode spezialmente nelle case de’ commercianti: i nobili sono alquanto più contegnosi; e que’ moltissimi che stanno di piè fermo in campagna, tengono anch’essi assai alla vanità del loro grado.

Gli abitanti di Stockholm usano ancora di fare delle corse o in vettura, o per acqua ne’ contorni; principalmente al Parco reale, a Moiksdal, ad Haga, a Drottingholm, e a Carleberg. Drottingholm, cioè l’isola della Regina, è lontana da Stockholm sei miglia sul lago Malar: è un palazzo ben situato, fabbricato superbamente, magnifico, ed ornato di vasti giardini. Lo decorano varie statue d’uomini, e di animali, ed alcuni bei vasi, la più parte di stile della scuola di Firenze, portati via da Praga nella guerra famosa de’ XXX anni. In questo palazzo v’ha una ricca biblioteca, un gabinetto di storia naturale, uno di medaglie [16] antiche e moderne, ed una galleria di quadri originali delle scuole fiamminga, olandese e italiana. Ve n’ha un’altra piena di pitture rappresentanti le battaglie e le vittorie dei Re, e Principi svedesi. A proposito della biblioteca, tra varii MSS. curiosi ve n’ha uno della celebre regina Cristina, intitolato Mélanges de pensées, sopra una pagina del quale Carlo XII scrisse di mano propria, essendo ancora fanciullo, vincere, aut mori.

Si crederebbe che a Stockholm un Italiano l’inverno dovesse morir di freddo. Io, dice il sig. Acerbi, posso assicurare, che quantunque qualche volta il termometro di Celsio, fisico naturalista svedese, che accompagnò Maupertuis nel suo viaggio a Keugis, marcasse il freddo a 24 gradi al disotto del gelo, soffrii meno il rigore del freddo, di quello che tal volta lo abbia sofferto in Italia. Dappertutto si mettono stufe ingegnosamente costrutte a modo, che con pochissimo combustibile diffondano il calore quanto abbisogna. Di vestiti non si fa economia, che quelli che servono ad otto, o dieci svedesi, empirebbero un’anticamera. Ho veduto de’ Francesi, inimici delle pellicce, mettersi indosso fino a tre redingotti. Due paja di guanti, calosce, una canna, sono cose indispensabili quando s’esce a piedi.

[17]

In generale le Svedesi sono belle; ma belle all’uso del Nord: cioè di una fisonomia senza espressione. Essendo gli uomini del paese poco galanti, esse passano tutta la giornata o sole solette, o con altre donne; e la loro conversazione, qualunque sia la educazione loro, è senza interesse; e dandosi molta premura d’acconciarsi in ogni maniera, non fanno ciò che per superare le altre in eleganza, e in brio, anzichè per desiderio di piacere, o di fare conquiste. Amano però gli omaggi, e le lodi; e mettono molta importanza in essere dette le belle del Nord. La loro passione predominante è l’ottenere la distinzione, e i riguardi pubblici: ed è con questo mezzo che si giunge ad ispirar loro sentimenti di tenerezza, di amicizia, di amore, de’ quali infine sono capaci quanto quelle che vivono in climi più caldi.

La riserva però che si osserva tra le donne svedesi di alto grado, non si trova tra quelle di stato inferiore; e ciò nasce dall’essere queste in circostanze diverse. Non trovandosi a Stockholm donne di partito, come si trovano nelle altre grandi città d’Europa, gli uomini hanno favorite, le quali pretendono di avere un certo grado nella Società; e bisogna invero sospirare, e corteggiare del tempo tali donne per affezionarsele. Se non che malgrado il loro [18] contegno finiscono con avere due o tre amanti alla volta. E non è forza di temperamento, che a ciò le guidi: è avarizia. Ma insieme sono estremamente gelose delle esterne forme di considerazione; e dai loro amici, e favoriti richieggono un’attenzione, di cui un forestiere giustamente si meraviglia. Guai a quel loro amante che esitasse a salutarle in un luogo pubblico, o a loro baciar la mano! La facilità poi d’avere apertamente delle relazioni con questa sorte di donne senza che la morale pubblica rimanga offesa, fa che in Isvezia non si conosca gelosia.

In Isvezia tutta la giornata si consacra agli affari; e la sera al giuoco: rare volte si passa con donne. Il giuoco per gli Svedesi è una passione universale, e furiosa. Raccontasi il seguente caso. Uno de’ più distinti signori vide un giorno passata l’ora del pranzo senza che apparisse alcun principio de’ soliti preparativi; e discese verso la cucina per sapere onde ciò provenisse. Egli trovò tutta la sua gente occupata sì fortemente in una partita di giuoco, che nissuno s’era avveduto che l’ora dei pranzo fosse passata. Il maestro di casa teneva accordo cogli altri; e si mise di mezzo supplicando Sua Eccellenza a tollerare alcun poco, giacchè la partita era per finire. Il signore si arrese alla istanza: ma volle che il maestro di [19] casa andasse ad apparecchiare la tavola; e prese egli medesimo il posto di lui, continuando il giuoco cogli altri!!

I vicini degli Svedesi li chiamano i Guasconi della Scandinavia. Questa imputazione, effetto della gelosia, e dell’antipatia, che tante volte hanno disuniti popoli, che la natura, e il loro interesse volevano anzi intimamente uniti tra loro, non vuole dir altro, se non che gli Svedesi sono animati dal desiderio della gloria, e da quello di distinguersi al disopra delle altre qualità che predominano generalmente ne’ cuori di tutti i popoli valorosi, generosi, ed arditi. La Svezia è piena di stabilimenti scientifici e letterarii; ed ha avuti, ed ha uomini di merito distinto. Eccettuate poi l’Irlanda, la Scozia e Ginevra, non v’ha in Europa paese, in cui l’istruzione sia generalmente sparsa nel popolo quanto che nella Svezia. S’insegna a leggere, a scrivere, e far conti a tutti, sì nelle città e ne’ villaggi, sì in qualunque più piccolo gruppo di paesani, senza eccezione, o distinzione veruna. A questa generale istruzione i paesani svedesi debbono le belle qualità che li distinguono, la franchezza, la lealtà, l’umor lieto, l’ospitalità, il cuor buono, il coraggio, e lo spirito.

Oltre le accademie di scienze, di lettere e [20] d’arti, la Svezia ha eziandio parecchie università; ed è un problema difficile a sciogliersi questo, se altra nazione avesse mai fatto tanti progressi nelle scienze, e nelle arti liberali e meccaniche, quando avesse dovuto, come la Svezia, trionfare del suolo, del clima, delle discordie domestiche, e della gelosia di vicini orgogliosi e potenti.

[21]

CAPO II.

Partenza da Stockholm per Grisselhamn. Condizione di chi fa questo viaggio. Traversata sul ghiaccio del mare ed accidenti occorsi. Vitelli marini. Paesano svedese e suoi ragionamenti. Isole di Aland e loro abitanti.

Ai 16 di marzo del 1799 il sig. Acerbi partì sulle 7 ore da Stockholm, ben avviluppato egli e i suoi compagni in pellicce di pelli d’orso della Russia, colla testa, le mani e le gambe difese da berretta, da guanti e da stivali foderati di pelli, per difendersi dal freddo, accolti entro a slitte di paesani, la vettura meglio conveniente di ogni altra, e ch’erano sicuri di poter trovare ad ogni posta sino ad Abo. Essi giunsero la sera a Grisselhamn, villaggio distante da Stockholm 69 miglia all’incirca. Nulla di notabile trovarono in questa corsa per un suolo nè montuoso, nè piano totalmente, se non sia una quantità di volpi, le une ferme, le altre tranquillamente moventisi sulla superficie nevosa, senza paura, e senza diffidenza di sorte: solo che, mentre imperterrite guardavano le nostre slitte al momento [22] che queste passavano o si fermavano, davansi alla fuga. Per fare poi che si arrestassero, bastava trarre un fischio, chè allora volgevansi indietro; e fissavano gli occhi su chi avea fischiato.

Chi viaggia da Stockholm a Grisselhamn, dice il sig. Acerbi, non deve pensare nè a pranzo, nè a merenda, nè a dormire. La ragione è chiara: per tutta questa strada non v’è ombra d’osteria; e i paesani, le cui capanne s’incontrano, sono povera gente, che non ha più che del pane, del latte e de’ salumi: cose, che i viaggiatori non possono apprezzare gran fatto. Il pane è in forma di bracciatelle, fatto di segala e d’orzo, ed insipidissimo: rari poi sono i pomi di terra, non avendo costoro fino al presente imparato il modo pur tanto facile di preservarli dal gelo. La birra e l’acquavite sono per essi oggetti di lusso. Si contentano adunque, oltre quel pane e il latte, di carne salata, o di pesce salato od affumicato.

Grisselhamn è una piccola città di posta, ove tanto d’inverno, quanto di estate i viaggiatori si fermano nel loro cammino da Svezia in Finlandia. In inverno il passo per mare è pericoloso, se la stagione non sia mitissima; ed invece bisogna andare per terra a Tornea. Nulla di notabile è in Grisselhamn; non commercio, [23] non manifatture, non casa ove alloggiare; e la casa sola che sia fatta di mattoni, è quella del maestro di posta, circondata di casupole di legno.

Quando un viaggiatore vuol passare d’inverno in Finlandia, attraversando il golfo sul ghiaccio, i paesani l’obbligano a raddoppiare il numero de’ cavalli, che avea al giungere in Grisselhamn. Noi dovemmo dunque uniformarci all’uso, il quale non è altrimenti un’angheria, ma l’effetto di una precauzione prudente. Questa formidabile traversata sopra una immensa pianura di ghiaccio è di 43 miglia, 30 delle quali si fanno senza toccar terra. Un siffatto viaggio sopra tanto vasto spazio di mare gelato offre per un abitante de’ paesi meridionali un colpo d’occhio straordinario; e confesso che prima di conoscerlo, me n’avea fatto un’idea falsissima. M’aspettava semplicemente di avere a scorrere una pianura senz’altro limite che quello dell’orizzonte, il cui uniforme aspetto m’ispirerebbe una fastidiosa melanconia, e la cui superficie non mi presenterebbe nissun pericolo. Ma come e quanto la mia sorpresa, l’ammirazione, mista d’inquietezza, e dirò pur di terrore, ivano crescendo a mano a mano che ci andavamo allontanando dal luogo, da cui eravamo partiti! Questo mare gelato, dapprima [24] tutto liscio come un cristallo, insensibilmente diventava disuguale, aspro, ondeggiato, in quanto esprimeva i flutti, che ne aveano solcata la superficie. Vedevasi, per dir così, la mano dell’inverno, che toccata l’acqua schiumante, l’avea in un istante fermata, indurita, convertita in ghiaccio; e di ghiaccio fattine i cavalloni, che dianzi la procella alzava furiosamente: in varii siti que’ cavalloni ammucchiati gli uni sopra gli altri, presentavano l’aspetto di enormi rupi, le cui fronti scoscese, come sospese in aria, prendevano la somiglianza di piramidi e di guglie, e minacciavano di cadere al basso, e di coprir tutto sotto le loro ruine. Quindi per quanto l’occhio potesse discernere, non vedevansi che colossi di un cristallo trasparente, spezzati e dispersi, ove coperti di bianchissima neve, ove splendenti per la riflessa luce, ed ove mostrantisi tinti di azzurro: nel complesso loro formando un terribile spettacolo di spavento e di orrore.

Nè poche erano le difficoltà, poche le fatiche che i conduttori e i cavalli andavano incontrando per ritrovare la strada sovente perduta in mezzo ai tanti giri e alle tante diversioni, ch’erano obbligati di fare per iscansare que’ gruppi di ghiaccio, che qua e là sorgevano per attraversarci il cammino. A malgrado poi [25] di tutte le cure della prudenza, e di tutte le precauzioni della paura, ad ogn’istante le nostre slitte rovesciavansi; e servivano or l’una, or l’altra di segnale alla carovana perchè si arrestasse. Ma una circostanza impossibile a prevedersi venne ad accrescere i nostri pericoli. La vista delle nostre lunghe pellicce fatte di lupo o d’orso di Russia, e l’odore che n’esalava, spaventarono qualcuno de’ cavalli a tanto, che li trasse a furore. Accadde ciò singolarmente quando rovesciata la slitta, occorrendo di uscirne per drizzarla, venivamo ad avvicinarci a’ cavalli, i quali per cagione di quelle pellicce confondendoci cogli animali, da cui erano tratte, dibattevansi tra le stanghe e le redini, mordevano il freno, cercavano in ogni maniera di fuggire con immenso spavento de’ viaggiatori e de’ conduttori. In quel frangente il paesano per paura di perdere il suo cavallo in mezzo a tanto deserto, s’incatenava, dirò così, alla briglia; e piuttosto che separarsi dal cavallo, lasciavasi a costo della vita strascinare per que’ rottami di ghiaccio, le cui punte sovente gli aprivano larghe ferite sulle membra; e durava in quella funestissima condizione, fin tanto che stanco il cavallo pe’ suoi inutili sforzi, e scoraggiato dai crescenti [26] ostacoli, si fermasse. Allora noi rientravamo nelle slitte, mentre il conduttore istruito dalla esperienza prendeva in fine la precauzione di bendare gli occhi al cavallo. Uno però di questi animali, il più selvatico e focoso della carovana, spaventato scappò; e ci toccò vedere il povero suo conduttore, che dopo essersi lasciato strascinare attraverso de’ ghiacci per lunga corsa, non potendo più resistere ai dolori che lo laceravano, ne abbandonò la briglia. Fatto allora libero quel cavallo raddoppiò la rapidità della corsa; imperciocchè il rumore, che per rimbalzi fra que’ ghiacci faceva la slitta, che seco traeva, accrescendo il suo spavento, pareva che gli prestasse vere ali alla fuga. Noi lo seguimmo lungo tempo cogli occhi, a misura che andava internandosi nell’orizzonte; e lo vedevamo di tratto in tratto sulle sommità de’ flutti gelati come una macchia nera, la quale insensibilmente s’impiccioliva, finchè in ultimo disparve affatto. Allora poi conoscemmo come la prudenza voleva che si avesse qualche cavallo di più per siffatte occorrenze; e conoscemmo nel tempo stesso ne’ pericoli di quella traversata quanto una tale precauzione fosse stata negletta. Il padrone di quel cavallo montò sopra una slitta di riserva, sperando di ritrovarlo correndo sulle traccie di [27] esso; e noi continuammo il nostro viaggio verso le isole di Aland, prendendo, per quanto ci era possibile, il mezzo de’ passi più spianati, non però senza esserci rovesciati di nuovo, e senza essere ancora in pericolo di perdere l’uno o l’altro de’ nostri cavalli: cosa che ci avrebbe messi in un estremo imbarazzo.

Difficilmente può figurarsi la tristezza che infonde la solitudine di quell’immenso campo di ghiaccio. In sì vasto spazio niun essere vivente si presentò a’ nostri sguardi; non uomo, non quadrupede, non volatile: ivi la natura era morta. Che abbandono! che isolamento! che silenzio! Qualche volta venti in contrasto tra loro cozzando impetuosi su quelle rupi gelate, mettevano un fischio profondo, che propagavasi nello spazio, e vi si estingueva: qualche volta l’aria condensata in quelle masse gelate si apriva violenta una strada, e le spezzava con orribil rimbombo, che in un momento rompeva il cupo silenzio spaventosamente, e in un momento quel silenzio repristinavasi, e diventava più terribile. A tante cagioni di malinconia che opprimeva l’anima, a tanti pericoli che ad ogni passo moltiplicavansi, bisogna aggiungere l’incontro frequente di profonde crepature, che presentano all’occhio l’abisso delle acque coperte di ghiacci. Desolante [28] è l’apparizione di quelle crepature, massimamente perchè non aspettate; e talune obbligano a fare un ponte di tavole per valicarle.

Noi abbiam detto che in queste orribili solitudini tutta la natura presentasi come morta. Ciò non è esatto. V’hanno creature viventi, che ne amano il soggiorno; e queste sono le foche, o direm meglio, i vitelli marini. Nelle caverne de’ ghiacci depongono i frutti de’ loro amori; ed insegnano a’ loro piccoli a sopportare i rigori della più cruda stagione. Le madri ve li depongono nudi affatto, come sono nati; e i padri hanno cura di assicurarsi di qualche apertura, per la quale possano avere pronta comunicazione coll’acqua. Al comparire di un cacciatore corrono a salvare sè stessi, le loro femmine, la loro prole per quella via. Fuori di quel pericolo, per quell’apertura vanno a procacciar cibo per sè e per la famiglia; e questo cibo è pesce. La maniera con cui i maschi fanno quell’apertura, è singolare. Nè denti, nè zampe v’hanno parte: servonsi del solo loro alito caldo, che dirigono diligentemente e con intensa perseveranza sul medesimo punto, onde scioglierne il ghiaccio. I paesani delle isole vicine sono i più fieri nemici di queste bestie; perciocchè quando essi ne scuoprono qualcheduna, si mettono in imboscata a [29] qualche distanza, appiattati dietro ad un masso di ghiaccio; e muniti di fucile e di bastone ivi aspettano la foca veduta discendere nell’acqua, sapendo che deve ritornare di sopra per respirare. È allora che le tirano addosso, e l’ammazzano. E come qualche volta avviene che l’acqua del buco si geli subito che l’animale ne sia uscito, allora vi corrono sopra co’ bastoni, non dandogli tempo di aprirsi l’adito all’acqua impiegando il suo alito. In questo assalto sì pericoloso per lui, l’animale impiega tutto il coraggio, che la natura gli ha dato: morde co’ denti i bastoni degli aggressori, e talvolta ne attacca le persone medesime. Ma il cacciatore si ride della resistenza oppostagli; molto più che la foca è troppo lenta ne’ suoi movimenti; e la costituzione delle sue membra la rende poco atta ad operare sopra una superficie solida.

Dopo tante fatiche, ed alcune meno importanti avventure, noi facemmo riposare i nostri cavalli a metà del cammino; e finalmente abbordammo alla piccola isola detta Signilskar. Essa è nuda interamente, e non abitata che da qualche paesano e da un offiziale del telegrafo ivi posto per corrispondere con quello di Grisselhamn, il primo che fosse stabilito nella Svezia. Questa isoletta è una delle molte, [30] che sparpagliate in quella parte del golfo prendono collettivamente la denominazione di Aland. Signilskar è distante in linea retta da Grisselhamn 35 miglia all’incirca. Ma il giro che noi avevamo dovuto prendere nel nostro viaggio ce ne avea fatto impiegare forse dieci di più.

Eravamo per partire da Signilskar, quando vedemmo di ritorno il cavallo che era fuggito. Quell’animale faceva pietà per lo stato miserabile in cui dopo tanto strappazzo si trovava. Ma era fiero ancora come prima, e come prima intollerante della vista e dell’odore delle nostre pellicce. Dovemmo cercare di stargli lontani, onde non s’inquietasse di nuovo.

Attraversando le isole di Aland si trovano case, ove prendere nuovi cavalli; e si viaggia parte sul ghiaccio del mare, e parte sulla neve che cuopre il terreno. Tra le due poste di Heralsby e di Skorpas trovasi posta sopra una rupe la famosa fortezza di Castelholmen, tutta cinta dall’acqua fuorchè ove una lingua di terra l’attacca all’isola. Questa fortezza occupa parecchie pagine della storia di Svezia.

Tra le isole di Vergata e di Kumlinge noi avemmo per guida un paesano di circa 55 anni, il quale ci sorprese tanto per la decenza e giocondità del suo conversare, quanto pel buon [31] senso delle sue osservazioni. Egli, ben diverso da’ suoi compatrioti, costantemente taciturni ed incapaci di dare il minimo indizio di curiosità ai viaggiatori, con una civiltà rara per un uomo di sua condizione e di que’ climi, ci andava facendo molte domande sul nostro paese, sulla situazione di esso, sulla natura del governo, sul clima, sulle produzioni naturali e sopra altre interessanti materie. Il piacere da noi provato in udirlo uguagliava la sorpresa di tanta sua intelligenza. Ed avendo egli udito che noi eravamo d’Italia, mostrò qualche stupore, aggiungendo nello stesso tempo qualmente egli sapeva che l’Italia allora era involta in gran guerra; e che un guerriero che metteva spavento dappertutto, la scorreva vittorioso. Ognuno comprende di chi egli parlasse. Noi gli domandammo quante miglia credess’egli che l’Italia fosse lontana da Aland; ed egli confessò di non potercelo dire; ma credeva che l’Italia fosse assai più lontana che la Danimarca. E quando gli dicemmo che l’Italia era di là dalla Danimarca trecento buone leghe svedesi, ci guardò con grande sorpresa; e dopo un breve silenzio replicò che non concepiva che motivi ci conducessero a venire nel suo paese, e a spendere tanti risdalleri in poste. I suoi discorsi particolarmente battevano [32] sul clero, ch’egli si compiaceva di mettere in ridicolo con quella vena di buon umore che è il sintomo ordinario di un buon criterio. Egli era grande ammiratore di Gustavo III, con cui ci diceva aver discorso; e non v’è dubbio che non lo divertisse. Nè mai perdendo di vista il suo argomento favorito, cioè di satirizzare sul clero, vi ritornava sopra costantemente terminato che avesse alcuna digressione, che noi avevamo la compiacenza di ascoltare. Gustavo III, diceva egli, era un grand’uomo, un gran re; e nondimeno egli non pretendeva la metà del rispetto e della venerazione, che da noi richiede il nostro clero. Questo clero predica la umiltà; ma intanto egli spinge l’orgoglio al di là di quanto possa mai credersi. I nostri parrochi godono di buone prebende; vivonsi in una beata tranquillità; e per non avere disturbi prendono a giornata de’ preti poveri, che facciano per loro le domeniche quello che dovrebbero fare eglino medesimi. In quanto a loro non fanno altra cosa che starsi quietamente sdrajati sulle loro careghe, e ricevere gli omaggi de’ paesani che passano vicini ad essi. E sappiate bene che codesta oziosità loro non dee imputarsi a poca capacità e dottrina; perciocchè se sorga qualche quistione sul pagamento delle decime, imposta ch’essi [33] mettono sul prodotto de’ nostri sudori, si fanno presto conoscere pei più dotti e più sensati uomini del mondo. Nè sono eglino soltanto buoni aritmetici; ma sanno di più sulle dita tutte le leggi, tutti gli editti, e tutti gli statuti del regno.

Io ripeto qui parola per parola il discorso di codesto paesano per dare una idea del modo di pensare sopra una materia che interessa, come per tutto altrove, il popolo di queste contrade. Ma quello che ci rendeva più sorprendente la intelligenza di codest’uomo, egli è che non avea avuta alcuna educazione, nè letto alcun libro, di modo che quanto diceva, tutto era parto della sola sua testa. Il nostro filosofo della natura mesceva ne’ suoi discorsi qualche osservazione meteorologica. Così, p. e., prediceva una estate assai tarda dietro alcune macchie da lui osservate sulla da noi detta Via Lattea. Ci riferì pur anco alcuni aneddoti della guerra di Finlandia fatta da Gustavo III; e ci disse che la battaglia di Hogland sarebbe stata più decisiva in favore degli Svedesi, se tutti gli ordini fossero stati eseguiti convenientemente; ma che il principe Federico non potè mandare la flottiglia in soccorso della squadra, che mancava di munizioni. La quale circostanza veramente è una delle più notabili [34] in tutta la storia di quella guerra, confermatami da persone, ch’erano al fatto di ben sapere le cose, e sulle quali non può cadere sospetto di nissuna specie.

Le isole di Aland non sono meno di 80, e per la più parte piccole e deserte. Sono situate tra il golfo di Botnia e quello di Finlandia, e si stendono dal 59.º grado e 47 minuti di latitudine, fino al 60 e mezzo: la loro longitudine è dal 56.º grado e 57 minuti, al grado 39.º e minuti 47. Aland, che dà il nome a tutte, ha 20 miglia di lunghezza, e ne ha di larghezza 16. Il mare che circonda l’isola di Aland, gela rare volte; e gelava in addietro meno frequentemente che oggidì. Credesi da alcuni, che i forti agghiacciamenti, pe’ quali si può transitare a piedi e nelle slitte, succedano ogni dieci anni. In generale gli abitanti di queste isole vivono lungamente: coltivano frumento, segala, orzo, avena; fanno la pesca delle aringhe; e si alimentano di pane di frumento e di segala, di pesce fresco, o salato, di latte, di burro, di formaggio e di carne: usano molto la carne del vitello marino; ed è per essi un piatto squisitissimo quello che chiamano skarkroppe, fatto di fette di carne concie con farina e con lardo. È loro particolar costume il maritarsi verso la metà [35] della estate, con che pretendono di provare che non hanno bisogno di aspettare la raccolta delle messi per porsi in istato di mantenere la loro famiglia. Il vestito degli uomini consiste in un corto soprabito, il quale alla domenica per lo più è di panno turchino. I giovani portano calzette di cotone, ed alcuni di loro hanno un orologio: le donne hanno una gonella ed un grembiale di cambellotto, di cotone o di tela dipinta, e qualche volta di seta: di seta nera in generale è il loro abito da lutto e di cambellotto la gonnella. In testa portano de’ berretti; e si coprono il seno con parecchi fazzoletti di seta: stando poi in casa usano panni fabbricati nel paese; e ne hanno di varie sorti. Le maritate s’empiono le dita di anelli, essendo questa la loro più evidente passione. Ma in Aland si veggono meno cucchiai e nappi di argento che presso i contadini di Finlandia. Le abitazioni di quest’isolani sono comunemente di legname, coperte di scorza di betulla; e nell’interno ben illuminate e pulite. La mancanza d’acqua corrente fa che usino molini a vento.

In quanto al carattere degli Alandesi è giusto dire che sono ingegnosi, vivaci ed obbliganti: che sul mare spiegano molta destrezza ad ogni uopo, e coraggio: costumati poi e buoni [36] a segno, che si è osservato qualmente dal 1749 fino al 1793 sette sole persone furono convinte di delitto capitale; e non vi seguirono che sette omicidii. Questo popolo non è per nulla inclinato alla superstizione; ma viene accusato d’essere litigioso; il che non so su qual fondamento.

Queste isole non hanno nè orsi, nè scojattoli; e l’alce, che in addietro era comune, vi è scomparso affatto. Bensì vi sono lupi che vi provengono dalla Finlandia attraversando il mare quando è gelato. Noi non ne abbiamo incontrati, ma ne abbiamo vedute le traccia nelle foreste. Vi sono parimente volpi, martori, armellini, lepri, talpe, sorci di varie specie: rare sono le lontre; e frequenti sulle coste i vitelli marini. Di uccelli si contano più di cento specie, e molte specie di pesci. I naturalisti possono avere largo campo di esercitarsi sugl’insetti proprii di queste isole; e i botanici sulle piante. Ma pochi minerali trovansi nelle montagne d’Aland, le quali sono principalmente formate di una specie di granito rosso. Gli Alandesi curano poco le api, ed hanno torto.

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CAPO III.

Abo e cose notabili di questa città. Stato e vivere degli abitanti del paese. Incontro di un bardo moderno. Aurora boreale. Yervenkile. Sua cascata. Caccia. Stato economico dell’albergatore.

Non v’era gran che a quest’isole, perchè vi ci fermassimo. Noi dovevamo spingerci ad Abo; e per arrivarvi passammo presso il castello di Abo-Hus, situato alla foce del fiume Aura. Abo è una di quelle città, che nel paese si chiamano Stapestad, cioè che hanno il permesso di commerciare co’ forestieri. È situata al 60.º grado e 10 minuti di latitudine settentrionale, sopra un promontorio formato dal golfo di Finlandia e da quello di altrove Botnia. È distante da Stockholm 287 miglia; e siede in riva del fiume Aurajocki, ivi largo da 180 a 300 piedi, e le cui acque fangose poco o nulla servono agli usi domestici. La città, lunga 12,820 piedi e larga 7,250, è divisa in cinque quartieri, tre de’ quali sono situati al nord-est del fiume, e due al nord-ovest; e comunicano insieme per mezzo di un ponte di legno. Ha tre piazze. [38] La detta piazza grande è cinta di parecchi edifizii pubblici e privati, costrutti in pietra: la piazza nuova ha fabbriche d’ogni specie fatte di legname; e presso la piazza della chiesa è l’accademia. Questa chiesa è la cattedrale, detta di Sant’Enrico: bel fabbricato gotico, lungo 350 piedi e largo 190. Essa serve ai due cleri, lo svedese e il finlandese: il primo incomincia le sue funzioni alle sei ore della mattina; e il secondo alle ore nove. Abo non ha altra chiesa che questa.

L’accademia ha due piani, ed è fabbricata in pietra. Ha sale per le sedute degli accademici, per gli esercizii ginnastici, per la biblioteca e per altri usi. In questo fabbricato alloggia il vescovo d’Abo; e sta inoltre anche il seminario.

L’università ha molto credito, e singolarmente in grazia di uno statuto, il quale obbliga tutti quelli che hanno terreni o pensioni dalla corona, a lasciare i loro corpi, morti che sieno, ad uso del teatro anatomico. Questa università ha professori adunque di anatomia, che vi si sono distinti, e ne ha di chimica, di storia naturale e di economia. Recentemente si sono assegnati stipendii fissi e sicuri a’ professori che prima non ne avevano; e si è istituita una nuova cattedra di poesia unita a quella di [39] eloquenza. Il numero degli studenti si valuta a cinquecento cinquanta all’incirca. Questa università deve la sua fondazione alla famosa regina Cristina: essa ne formò pure la biblioteca, accresciuta poscia da diversi personaggi assai rispettabili; ed oggi è ricca di libri rari, di manoscritti, di medaglie, ecc. Tra varii oggetti di curiosità ci si mostrò un libro di orazioni incise da un paesano sopra tavolette di legno. V’è ancora una bella raccolta di medaglie svedesi antiche e moderne; e vi si contano più di dieci mila volumi, e si ha un fondo annuo di centocinquanta risdalleri per ampliarla.

A tre miglia di distanza da Abo verso il sud-ovest è Beckholmen, piccolo porto, ma sicuro, e per la profondità delle sue acque atto a ricevere le più grosse navi mercantili, provveduto inoltre di quanto occorre per caricare e scaricare. I legni che non hanno bisogno di oltre 8 o 10 piedi d’acqua, possono risalire quasi fino al ponte.

Abo ha varie manifatture di tabacco, di zucchero, di fettucce di seta, di tele, di corami, di carta, ecc., e le piantagioni di tabacco sono per essa un oggetto importantissimo, poichè ne producono ogni anno per lo meno 152,000 libbre grosse. Considerabile è [40] pure il commercio, ch’essa fa non solo nei porti del Baltico, o ne’ vicini, ma in quelli di Cadice, di Lisbona, di Bordeaux, di Genova e di Amsterdam. Ma è d’uopo partire da Abo.

Noi ne partimmo ai 20 di marzo, e ci dirigemmo verso il nord. Per risparmiarci la pena di scaricare e caricare le nostre cose ad ogni posta, avevamo comperate ad Abo delle slitte, affatto simili alle usate dai paesani. Ma come in quell’anno non era caduta moltissima quantità di neve, il cammino riusciva stentato; e il cavallo incontrando de’ tratti di terreno spoglio o in tutto, o in gran parte di neve, faceva una enorme fatica a strascinare la slitta, e ad ogni momento ci bisognava discendere, e andare a piedi finchè si trovasse neve, o qualche lago, o fiume gelato. Molte volte adunque la slitta si rovesciava; e com’era stretta e bassa, noi non correvamo per ciò gran pericolo.

Nulla di gran momento il viaggiatore incontra sul cammino da Abo a Yervenkile. Il paese è in gran parte piano; e solamente a qualche miglio da Yervenkile diventa un poco montuoso, senza presentare però punti di vista dilettevoli. In generale le case de’ paesani sono ben fatte; e il forestiere vi trova alloggiamento [41] e letto. Il paesano lo accoglie con buona ciera; e gli fa parte delle sue provvisioni, le quali comunemente consistono in latte rappreso, in aringhe salate, e in carne pure salata anch’essa. Questi paesani sarebbero poveri confrontati colla nostra maniera di vivere; ma confrontatisi tra loro sono ricchi, perchè hanno tutto quello, che secondo essi costituisce l’agiatezza. Potendo risparmiare qualche denaro, lo tengono pei loro bisogni impreveduti, o lo spendono in vasellami ed utensili necessarii alla famiglia. E in Finlandia non è cosa rara il vedere che in una casa di legname, ove non si trova che aringhe e latte, si porti acqua in una coppa di argento, che vale 50 o 60 risdalleri. Le donne sono vestite di abiti caldi; e sopra i loro abiti portano una specie di duglietta di tela, di modo che vedendole in tale figura si crederebbe che fossero miserabilmente coperte. L’interno della casa è sempre caldo ed anche molte volte troppo per que’ medesimi ch’entrano dall’aria aperta. Gli uomini rimangonsi costantemente in casa con una semplice camicia e un piccolo giubbettino sopra di essa; ed escono sovente anche fuori in quella maniera senza paura nè di febbri, nè di reumi. Ne troveremo la ragione quando ci avverrà di parlare [42] de’ loro bagni. I Finlandesi che accompagnano i viaggiatori per di dietro alle slitte, sono coperti di un piccolo sopratutto di pelle di vitello marino o di panno, chiuso alla metà del corpo con una cintura: essi mettonsi sopra gli stivali delle grosse calzette di lana, avendo così il doppio vantaggio di tenersi caldi e di non iscivolar camminando sul ghiaccio.

L’interno della famiglia di un paesano presenta all’uomo che non abbia il cuore corrotto, un quadro giocondissimo d’innocente costume. Le donne sono intese a cardare o a filare la lana; e badano bene a queste loro faccende mentre gli uomini fanno fascine o reti, o fabbricano od acconciano slitte. A Mamola noi incontrammo un cieco con un violino sotto il braccio, circondato da una folla di giovinetti e di ragazze. Era calvo sulla parte davanti della testa, avea una lunga barba che gli arrivava al petto e bianchissima come la neve, con che ispirava una certa venerazione. Sarebbesi preso per uno di que’ bardi, o poeti descritti con una specie di entusiasmo nella storia del Nord. Quella folla nol circondava invano, perciocchè cantava strofe graziose, e le alternava con istorielle di varie maniere. Al giunger nostro tutto tacque, e molti si sbandarono; e come i ragazzi sono ragazzi in ogni paese, [43] veggendo essi de’ forestieri, cosa per loro affatto nuova, dimenticando il bardo si misero a burlarsi, e a ridere di noi. Il povero bardo approfittando della occasione ci domandò in cattivo svedese qualche moneta in limosina.

La maniera nostra di viaggiare parte in islitta, e parte a piedi mi condusse a meditare sulla utilità di una slitta, il cui modello avea veduto nel deposito delle macchine di Stockholm. Era questa una slitta sospesa a’ due fianchi, la quale con una sorta di molla potevasi collocare sopra quattro ruote, e le molle l’alzavano dal terreno, e servivano a convertirla in una vettura. Ai 30 di marzo verso mezza notte eravamo ancora in istrada, con un freddo di 13 gradi sotto il gelo, secondo il termometro del Celsio, quando, molto a proposito per distrarci dalla nojosa monotonia del viaggio, ci si presentò lo spettacolo di un’aurora boreale. Il cielo nella parte del settentrione parve ad un tratto tutto infuocato; ed insensibilmente prese quel brillante colore del rubino, di cui il tramonto del sole arricchisce le belle serate d’Italia, felice presagio, al dir di Virgilio ed alla prova della esperienza, della bellezza del dì susseguente. Dal seno di questa porpora superba immantinente s’alzò verso il polo un arco splendentissimo di tutte le varietà dell’iride, [44] e tagliato da moltissimi altri archi non meno vivi, ma mobili, e con maestà ondeggianti, i quali disegnavansi sopra un immenso velo di un fosforo luminoso, le cui pieghe diafane, agitate continuamente si sviluppavano in lunghi solchi di fiamma, ed ognor più animati da come fiaccole ardentissime, colle quali sarebbesi detto, che il cielo ad ogn’istante le fulminava, prolungavano lungi l’incendio sotto la volta celeste. Tutta l’atmosfera veniva presa dal loro chiarore; e indoravano vivamente i contorni di tutte le nubi. Se queste meteore frequenti nelle contrade vicine al polo interessano per la loro magnificenza gli abitanti del Nord, accostumati pure a vederle, facil’è giudicare l’effetto che questo spettacolo produsse in noi, che ne godevamo la vista per la prima volta.

Finalmente giungemmo ad Yervenkile, piccolo distretto, il quale appartenendo alla università di Abo è affittato ad un onesto paesano. Questo galantuomo ci accolse eccellentemente, e ci diede una camera e de’ letti. L’ingenua sua ospitalità ci rendette giocondissimi i tre giorni di riposo che prendemmo in casa sua, e di cui avevamo gran bisogno. Quest’abitazione, vicina ad una bellissima cascata, offre un eguale interesse al pittore e al cacciatore. Non sarà grave udirne una breve descrizione [45] a chi ami più particolarmente conoscere codesta parte della Finlandia in cui ora siamo.

Yervenkile è un piccolo villaggio di tre o quattro famiglie situato sopra un lago. Noi prendemmo la strada di questo villaggio invece di quella di Wasa, perchè volevamo vedere la cascata che n’è distante un quarto di lega, e ch’è famosa per la sua elevazione. Essa è formata dal fiume Kyro, il quale uscendo del lago che porta lo stesso nome si precipita attraverso di scogli e rupi scoscesissime e disuguali per un’altezza di circa 210 piedi. È difficile dire in quante diverse forme si presenti l’acqua impetuosa e schiumante che si gitta giù da tante asperità enormi. Noi per meglio contemplarne lo spettacolo ci fermammo sopra un’altura, da cui si discopriva un paese mirabilmente variato, e quasi tutto coperto di pini, la cui verzura tetra, indorata dai raggi del sole faceva un contrasto pittorico colla bianchezza abbagliante della neve e colle masse de’ ghiacci sospesi sull’orlo della cataratta. L’aspetto della cascata è particolare affatto alle regioni del Nord; nè di simile se ne trova alcuna in Italia. Vedevasi l’acqua scagliarsi da enormi volte di ghiaccio cristallizzate in mille maniere; e come il vapore che s’alzava, ivasi congelando nell’aria in forma di polvere, percosso [46] dai raggi solari presentava iridi sorprendenti pe’ vivi e diversi colori, e per la loro ineffabile mobilità. Cadendo poi que’ vapori gelati sopra la discendente corrente, formavano de’ ponti di ghiaccio di tale solidità, che si potevano passare con tutta sicurezza; e siccome i flutti urtavansi e precipitavansi con somma violenza contro le pareti di que’ ponti, sovente accadeva che travasassero al di sopra de’ medesimi, e ne rendessero la superficie sì liscia e sdrucciolevole, che i paesani per passarvi erano obbligati a mettersi col ventre a terra e a camminare colle ginocchia e colle mani. Essendo stati a questa cascata più volte ne’ giorni che ci fermammo nel villaggio, ci prendemmo anche il piacere della caccia per tirare alle lepri, alle volpi e ai lupi, delle quali bestie vedevamo i segni nelle foreste; ma non avendo cani con noi, non ne potemmo snidare alcuna. Ci limitammo a tirare a piccoli uccelli, che osservammo di razza non veduta in Italia. I paesani vedendoci gittare la nostra polvere per sì poca cosa, ridevansi di noi; e come uno di loro credette di farci cosa grata ammazzandoci qualcuno di quegli uccelli, prese il suo archibugio, lo sparò, e ce ne portò uno, il quale avendo noi trovato senza testa, gli facemmo intendere che il dono non poteva [47] esserci grato: l’avremmo desiderato intero. Il suo archibugio avea una canna simile a quella di una carabina, ma di calibro piccolissimo; adoperava inoltre palle grosse quanto un pisello. Io gli mostrai la nostra minutissima munizione: egli ne fu meravigliato, non avendone mai veduta di simile; ma ricusò di adoperarla; e caricato di nuovo l’archibugio alla sua maniera, tirò, e mi recò un uccello della specie del primo, tutto intero, e non avente che una piccola contusione al petto. Non avea fatto che toccarlo leggierissimamente. Ammirammo la sua destrezza e la giustezza del suo colpo d’occhio; ed egli disse che tutti i paesani tiravano colla medesima abilità.

Prima di lasciare Yervenkile desideravamo informarci della maniera di vivere del nostro ospite, delle sue spese domestiche, e del prezzo delle derrate in quella parte di Finlandia. Il legname non costa che la fatica di tagliarlo e di trasportarlo; e la giornata di un lavoratore è cara, perchè costa dai 12 ai 16 soldi. Il nostro ospite avea tutta l’aria di un uomo comodo. Avea sei vacche, le quali gli avevano dati sei bei vitelli: avea sei capre, che ogni sera ritornando dal pascolo gli somministravano latte abbondante: avea di più otto agnelli e tre cavalli, de’ quali servivasi per le sue slitte: le [48] vacche gliene davano ogni mattina un secchio. Una vacca gli costava da cinque a sei risdalleri; un vitello due; e sedici soldi una capra e un capretto. Il cantone non dava frumento; e il prezzo della segala era di cinque risdalleri e mezzo il barile. Gli domandammo se fosse stato mai nella necessità di mangiare pane fatto colla scorza d’albero, e se mai si fosse trovato costretto a nudrire le sue vacche coi loro escrementi, conciandoli con un poco di sale, di farina e di paglia, conforme usano quelli della Dalecarlia; e rispose non essersi mai trovato in tali angustie. L’affittanza che avea era una casa, che abitava colla sua famiglia: a destra di essa era un piccolo alloggiamento pe’ forestieri, a sinistra le stalle per gli animali.

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CAPO IV.

Foresta famosa in Finlandia. Indole dei lupi che vi abitano. Incendii ed uragani che la devastano. Cammino pericoloso, e mal passo sul ghiaccio. Altro ghiaccio più spaventoso. Wasa: descrizione di questa città.

Abbandonando Yervenkil entrammo in una foresta famosa in Finlandia, tanto per l’altezza delle piante, quanto per la sua profondità, dicendosi che va oltre le 80 miglia inglesi. I lupi sono i soli animali, che ivi possano temersi: non assaltano mai l’uomo; ma non risparmierebbero mai il suo cavallo senza la presenza di lui; e quando sono veramente affamati si uniscono in truppe, e danno addosso furenti a quelli che strascinano le slitte. Guai se allora la slitta si rovescia! Scappato il cavallo, e rimasto l’uomo abbandonato sulla terra, essi precipitansi sopra di lui, e sel divorano. Noi non ne vedemmo alcuno.

Queste foreste sono scure a cagione dei fitti rami che s’intrecciano insieme sulle cime di quelle piante gigantesche; e la temperatura n’è [50] assai dolce. Ma tutto colà è muto; se non che tanto silenzio vien rotto dallo scoppio, che il gelo cagiona nel corpo de’ grossi fusti. E non è questo l’aspetto unico che presentano. Noi vedemmo gl’immensi guasti di uragani terribili, e d’incendii spaventosi. Montagne, valli, spazii di più miglia coperti di boschi, sono frequentemente esterminati dalle fiamme. Onde quest’incendii? La poca cura de’ paesani, che non abbandonano mai la pipa transitando per queste foreste; e una scintilla che cada sopra foglie secche, ajutata da leggiero venticello, può esserne una cagione. Oltre ciò i paesani soventi volte accendono de’ fuochi o per riscaldarsi, o per cuocere le loro vivande; e trascurano poi di estinguerli partendone. La seconda cagione è riposta nelle leggi del paese. In parecchi distretti i paesani traggono i legnami dalle foreste reali pagando una certa tassa: in altri hanno la facoltà di tagliarne; ma sono multati, se oltrepassano i limiti. Più: quando una foresta della Corona s’incendia i paesani hanno il diritto di abbattere, e di portar via gli alberi attaccati dal fuoco. Avviene adunque che se i paesani mancano di legname, o se la quantità loro assegnata non basta ai loro bisogni, l’interesse loro li spinge a metter fuoco ai boschi della loro vicinanza, essendo allora liberi ad [51] appropriarsi quanti alberi mai vogliono. Io vidi in questa foresta un esempio dei terribili guasti di uno di questi incendii. Le fiamme aveano divorato il bosco per una estensione di sei in sette miglia. Non può vedersi spettacolo più tristo. Non solo si tratta che presentinsi allo sguardo tronchi e rimasugli d’alberi confusamente giacenti sul suolo, e interamente ridotti in carboni; ma ve n’ha molti altri ancora ritti in piedi, che le fiamme hanno spogliati dei loro rami, e della loro scorza dalla cima fino alle radici. Alcuni sono stesi tutti interi sulle brage estinte: altri semplicemente inclinati appoggiano i loro neri scheletri ai vicini, morti anch’essi, ma senza essersi smossi dalla prima loro positura. In mezzo poi a tanta ruina se ne osservano de’ giovani pieni di sanità, di succhio, e di forza, i quali sembrano nudrirsi delle ceneri de’ loro padri, e vanno crescendo per rimpiazzare la generazione scomparsa. Ma eguale terribil guasto fanno anche gli uragani.

È impossibile concepire come i venti possano penetrare attraverso della fitta volta, che ad essi codesti boschi oppongono. Si sarebbe tentati a credere che questi uragani fossero tante di quelle formidabili trombe descritte da altri Viaggiatori, e che trionfano di ogni resistenza. Alberi di un volume enorme sono strappati [52] dalla terra, e mostrano nude le loro profonde radici: pini che tre uomini non potrebbero abbracciare, e i cui tronchi impunemente sfiderebbero le più furiose tempeste dell’Oceano, ivi sono piegati come un debole giunco; ed abbassano nella polvere la superba loro fronte. I colossi in apparenza più indomabili sono precisamente quelli, che i venti maltrattano con maggior violenza.

In estate si batte una strada praticata in mezzo della foresta; ma in inverno i paesani vanno più a dirittura che possono, attraversando fiumi e laghi sulle loro slitte. Ed usano poi, perchè nissuno si smarrisca in codeste profonde e tenebrose foreste, ove pei primi trovino una buona strada, marcarne tutti gli alberi con un colpo di accetta, come fanno i selvaggi di America. Codeste strade però sono cattive perchè sassose ed aspre: e le scosse che le slitte soffrivano, ci defatigavano non mediocremente; e dovevamo andar lenti. Fummo sollevati da questo flagello incontrandoci in un lago, che i nostri cavalli attraversarono colla rapidità di un uccello. Non senza pericolo però: perciocchè da ogni parte il ghiaccio scoppiava; e noi tremavamo all’aspetto delle crepature, che ad ogn’istante il peso delle slitte faceva divergere in raggi all’intorno di noi. Noi non ci saremmo [53] esposti a tante angustie, se andando per terra non avessimo sofferto mille volte di più.

Fu spezialmente tra Tuokola e Gumsila, che trovammo la strada sul fiume estremamente spaventosa; e saremmo periti senza dubbio senza il soccorso di due paesani, che ci servirono di guida spontaneamente, indicandoci i luoghi ove il ghiaccio era ancora forte per sostenerci. Tra que’ due villaggi il fiume è di una singolare rapidità; e la forza della corrente in alcuni siti rendea il ghiaccio di una tessitura più tenera. Bisognava per esser sicuri conoscer bene la direzione della corrente; e le nostre guide precedendoci nella loro slitta c’incoraggiavano. Giungemmo ad un sito ove noi credemmo somma imprudenza il tentare il passaggio: ma o ritornare per sei, o sette miglia indietro, e rimetterci su quella diabolica strada che non avevamo potuto proseguire, o andare avanti qui; e trattavasi di far saltare una barriera ai nostri cavalli, e di tirare la slitta sopra un mucchio di pietre finchè potessimo riguadagnare il ghiaccio di quel fiume. Preferimmo questo partito: i cavalli attraversarono la barriera: noi ci ajutammo ad alzare la slitta, e a portarla dall’altra parte; ed in appresso ci rimettemmo sul ghiaccio presso un mulino. Ma qual desolante sorpresa! Ci si presentò un pericolo cento volte [54] maggiore: il ghiaccio non era più attaccato alle sponde del fiume; e bisognava abbandonarci alla crosta rimasta in mezzo dello stesso, e sotto la quale sentivamo la corrente gorgogliare con fracasso. Le nostre guide si esposero le prime al pericolo; e superato che l’ebbero, ci dissero che l’avremmo con un poco di coraggio superato anche noi; e che quando avessimo passato il mal luogo, nulla più era a temere. Dicevano bene; ma il terrore non ci abbandonava. Ci risolvemmo di arrampicarci colle ginocchia sopra un monticello di ghiaccio, il quale pareva a noi che ne impedisse il cammino; e ci lasciammo scivolare dall’altra parte per giungere alla nostra slitta, che ci aspettava colà. Le nostre guide risero della nostra paura, e del partito che prendemmo; e riusciti in bene ridemmo di noi medesimi anche noi. Que’ buoni Finlandesi dissero che non avevamo più bisogno di loro, e congedaronsi: noi volevamo gratificarli con qualche moneta; e parvero stupefatti della esibizione.

Fin qui avevamo veduto il ghiaccio coperto di uno strato di neve piuttosto sporca, che ne nascondeva la trasparenza; e ci faceva quasi dimenticare che camminassimo sul liquido elemento. Che nuova paura quando dovemmo attraversare un fiume, il cui ghiaccio era talmente diafano, che vedevamo non solo la corrente [55] e profondità dell’acqua, ma fin anco i più piccoli pesci che vi guizzavano dentro? Nel primo momento, nuovo essendo per noi il fenomeno, ci credemmo perduti: vedevamo l’abisso che stava per ingojarci; e il cavallo medesimo atterrito anch’esso si fermò; e non voleva più muoversi. Se non che l’impulsione ricevuta nella sua corsa lo spinse avanti, e sdrucciolando sulle sue quattro gambe scorse lo spazio di ventiquattro in trenta piedi. La cosa non era per noi la più dilettevole. D’onde veniva mai questa singolare diafaneità? Dall’azione de’ raggi solari e del vento. Così almeno ho creduto io. Il vento avea spazzata la neve, e nettata la superficie del ghiaccio: il sole alla fine di marzo e al principio di aprile, avendo acquistata forza, avea fusa ed appianata la superficie, che da prima era alquanto scabra. Questa superficie fusa durante il giorno, tornando a congelarsi la notte formava allora uno specchio liscio perfettamente; ed era sì diafana, che se non avessimo vedute le crepature perpendicolari, che ci facevano vedere la spessezza del ghiaccio, non avremmo potuto distinguerlo dall’acqua che vi correva sotto. Non posso dire il terrore sofferto in quella circostanza; noi cercammo di liberarcene chiudendo gli occhi. Quando però il fiume non avea che [56] la profondità di pochi piedi, godemmo del piacere di considerare i ciottoli, di cui era coperto il suo letto, e di spaventare i pesci che ci stavano sotto i piedi.

Prima di arrivare a Wasa avemmo qualche altro incomodo; e fummo obbligati a fermarci ad un piccol luogo detto Sillampe, che serve di posta. Ivi facemmo buona stazione.

Wasa è la prima città che trovasi entrando nella Ostro-Botnia. Le case sono tutte di legno, e la più parte di un piano solo. Essa è situata al 64.º grado di latitudine, e lontana da Stockholm 1144 miglia. Gustavo III le diede un consiglio supremo di giustizia pel Nord della Finlandia; e costruì per residenza di questo consiglio un superbo edifizio di 210 piedi lungo, largo di 71, ed alto di 99: ha due piani, una facciata magnifica; ed è posto sul pendío di una collina presso la città; ed è un edifizio in pietra. Quel Re molte altre cose avea fatte per la prosperità e l’accrescimento di Wasa. Essa si estende attualmente per la lunghezza di 4,800 piedi, e di 3,000 in larghezza, con 17 strade tutte larghe e dritte. Ha bei viali d’alberi, una scuola, una chiesa, una farmacia, un orto botanico, una fabbrica di panni, una di tabacco, una d’olio di vitelli marini, tre di corami, due di tinture, e due per fondere [57] la pece. Ottimo è il nuovo porto sostituito all’antico; ed è considerabile il suo commercio co’ forestieri, esportando catrame, pece, tavole, e travicelli, e segala, e burro, e carne bovina, e sevo, e pelli, ed olio di pesce, ecc. Nelle sue vicinanze ha due sorgenti di acque minerali; ed ha infine una comoda strada aperta nel 1775 attraverso di varie parrocchie, la quale porta al Savolax[1].

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CAPO V.

Civiltà incontrata in Wasa. Aneddoti curiosi riguardanti Linneo. Gamla-Carleby. Nuovi motivi di spavento sul ghiaccio. Pescatori sul ghiaccio e loro industrie. Illusioni prodotte dal ghiaccio. Brachestad. Uleaborg. Avventura galante. Particolari riguardanti Uleaborg. Risoluzione di fermarsi in questa città.

Al nostro arrivo a Wasa eravamo stati a far visita al governatore e al presidente, i quali cortesemente c’invitarono a pranzo, e radunarono presso di sè la società migliore del luogo. Noi trovammo tutto sul piede di Stockholm. Ma parvemi un sogno l’avere in quelle adunanze trovata una dama di una somma amabilità, squisitamente educata e perfettamente intendente delle lingue e delle lettere sì francesi che italiane, e de’ migliori scrittori delle medesime. Essa era la moglie dei presidente. Vi trovai pure un ecclesiastico pieno di erudizione e di conversazione piacevolissima. Molte cose importanti imparai da lui riguardanti i Finlandesi e i loro poeti; e ragionandomi [59] del Linneo, da lui conosciuto in particolare in Upsal, del carattere di quel valentuomo assai cose mi disse, e molte compassionevoli in proposito della incredibile vanità che lo predominava. Fra gli altri aneddoti raccontatimi fu questo. Una dama della provincia di Upsal, che non era uscita mai del suo paese, domandò ad un amico del Linneo una commendatizia, desiderando di conoscere un uomo sì distinto, e di vedere le sue collezioni. Ebbe la lettera, andò a visitare il Linneo, vide il suo museo. Ma sbalordita da tante cose in esso raccolte, nel suo entusiasmo esclamò innocentemente: Ah! non mi meraviglio più che il Linneo sia conosciuto in tutta la provincia di Upsal! Il Linneo che si aspettava di udire nell’universo mondo, cessò sull’istante d’indicarle più altro; la condusse alla porta, e sgarbatamente la congedò. — Altro aneddoto. Un giorno in un accesso di melanconia diede ordine che non s’introducesse nissuno, e in veste da camera e in berretta da notte si sdrajò sopra un sofà per riposare. Intanto presentossi un uffiziale svedese che conosceva assai bene la debolezza di lui; ed era accompagnato da varie dame, venute espressamente per vedere la collezione del Linneo. Si negò l’ingresso all’uffiziale, che conoscendo l’umor del filosofo, [60] nulla badando al domestico, si spinse innanzi, ed entrò nella camera, ove il Linneo stava. Il Linneo da prima si mostrò molto sdegnato della inciviltà; ma l’uffiziale senza punto badarvi, introdusse le dame; e con molta gravità disse loro: Signore! vi presento all’illustre filosofo, l’oggetto solo del viaggio che avete fatto, all’uomo che tutto il mondo ammira meravigliato, e che mette al di sopra di tutti gli uomini grandi: a quello che ha messa la natura ai tormenti per istrapparle i suoi più cari secreti. — Il Linneo si spogliò in un lampo del suo cattivo umore, e diventò la più gentile e carezzevole persona.

In Wasa tutto è ad un infimo prezzo. Nel 1790 non contava che 2,166 anime.

Partendo da Wasa il governatore ci diede tutte le istruzioni opportune per viaggiare il meno male che fosse possibile, e ci accompagnò con un ordine, onde fino ai confini della sua giurisdizione fossimo assistiti in ogni nostro bisogno. Ma i paesani di quel paese non erano avvezzi a condur viaggiatori, e mancavano di una infinità delle cose necessarie. La strada da Wasa ad Uleaborg è di circa 190 miglia. Seguimmo nel nostro viaggio la costa attraversando fiumi, boschi e bracci di mare; e qualche volta non di poco allontanandoci anche [61] dalla costa. Il paese è piano ed abbondante di grossissimi pini. La costa è nuda e sassosa. Facemmo molta fatica per arrivare a Gamla-Carleby. Questa è un’assai bella città posta sopra un piccol golfo, e passabilmente commerciante. È lontana da Stockholm 1,023 miglia e 98 da Wasa; nel 1790 vi si contavano 1,367 abitanti. Ha molti bastimenti proprii pel suo commercio; molti ne fabbrica per venderli; e il suo commercio consiste in catrame, in pece, in tavole e in sevo, burro e frumento. Coltiva poi, e consuma per sè, segala, orzo, pomi di terra e tabacco; ed ha una fabbrica di tele di cotone dipinte.

Da Gamla-Carleby continuammo a viaggiare sul ghiaccio; e qui trovammo una novità che non mancò di sorprenderci e di farci piacere. Il gelo in quel paese è sì forte, che ferma nel loro moto i flutti del mare; e intanto il sole acquistando forza nel corso della giornata a misura che la stagione si avanza, squaglia notabilmente il gelo alla superficie; e l’acqua radunasi entro cavità o solchi, ne’ quali poi alla notte fa una crosta di gelo, rimanendone così una parte nel suo stato naturale tra questa crosta e il gelo inferiore. Ora nel procedere, questa crosta facilmente si rompe, e il cavallo e la slitta pescano entro l’acqua di [62] quelle cavità; e vuolsi tutta la fede di un buon cristiano per non temere che in quel momento non siasi per discendere ne’ gorghi del mare. Di sì fatte paure ne provammo molte. E chi poteva dirci che se in un luogo o nell’altro al di sotto il grosso ghiaccio ci sosteneva, in altri luoghi non fosse per mancarci? Ogni volta che il povero cavallo rotta la fragile crosta cadeva, non mancava il terrore; e cresceva infinitamente, se la crosta essendo larga vi cadeva dentro la slitta e noi con essa.

Camminando di questa maniera incontrammo alcuni pescatori, che pescavano sul ghiaccio. Ecco la loro industria: fanno un buco nel ghiaccio e vi gettano dentro un amo, approfondandolo circa venti piedi; e intanto perchè quel buco non si serri pel gelo, vanno continuamente movendo l’acqua che al medesimo corrisponde. Costoro usano camminando sul ghiaccio scivolatoi di legno assai lunghi; e per ispingerli innanzi servonsi de’ loro bastoni, sicchè per nissun conto muovono le gambe, e corrono intanto con mirabile celerità. Un’altra loro industria è quella di portar seco una piccola vela triangolare che distendono contro il vento, quando questo fortemente gl’incomoda; e mettonla tra il vento e le loro persone.

Altra cosa di queste contrade degna di menzione [63] è quella di certe illusioni prodotte sul ghiaccio. Accade spesso ne’ sommi freddi che l’acqua del mare cala, massimamente per la mancanza di quella che è solita venire dai fiumi. Allora il ghiaccio rimanendo abbandonato al proprio peso, si sfacella; e se n’alzano qua e là rottami infiniti, i quali pel disgelo alla superficie che succede il giorno, e pel gelo che si forma di nuovo la notte prendono diversissime forme agli occhi di chi li rimira; e par di vedere là un castello, qua torri, palazzi, altra sorte di edifizii in ogni maniera diroccati, e scogli pure, e rupi, e simili. E come questi rottami qua e là si estendono, il camminare di notte massimamente diventa di grave pericolo; e per iscansarli può anche avvenire che si perda la direzione; e si corra rischio di smarrirsi in quel deserto di ghiaccio, siccome a noi più di una volta è succeduto.

Noi andavamo adunque pieni di paura quanto mai possa dirsi; e intanto venimmo a passare da Brachestadt, piccola città distante da Uleaborg 56 miglia, di 763 abitanti, che fa commercio di pece, di sevo, di burro, di pellami grossi e fini, di sermoni e d’altri pesci, e di legnami: introduce poi sale, di cui usa avere sempre buona provvigione. Una volta vi si faceva commercio considerabile di carni e di [64] certe conserve di una bacca particolare alla Svezia e alla Finlandia. Arrivammo ad Uleaborg ai sette d’aprile, e andammo ad alloggiare in un albergo assai buono, prossimo al palazzo della città. Avevamo avute, siccome si è detto, tristi avventure nel viaggio: era giusto che ne avessimo qualcheduna meno spaventosa e più degna di giovani viaggiatori. Ho avuto sempre il vizio, andando a letto, di mettermi a leggere un qualche libro prima di pigliar sonno. Stava adunque dopo essermi coricato leggendo l’Ariosto, quando mi parve di sentire tre dolci battute alla finestra della nostra camera, la quale era a pian terreno. Nè per quella volta, nè per la seconda io vi feci grande attenzione. Alla quarta volta dovetti pur pensare che si trattasse di qualche cosa, e svegliai il mio compagno, il quale dormiva in un altro letto nella medesima camera; e gli dissi che badasse se gli paresse di udire qualche rumore alla finestra. Ed egli ed io sentimmo infatti quelle tre leggiere botte, che io avea udite da prima, ed insieme alcune parole, ma poco distinte. Allora mi alzo; mi metto indosso la pelliccia; prendo due pistole; e vado fuor della camera per vedere che fosse. Che v’immaginate che fosse in un paese di una sì alta latitudine?... Era una bella ragazza, che ci [65] domandava qualche momento di conversazione... Il fatto non mancò di sorprenderci. Sorprenderà forse egualmente il mio lettore.

Uleaborg è posta al 65.º grado di latitudine: conta da circa 3,800 anime: ha due piazze, e sedici strade, con un porto cattivo, ma ciò non ostante con faccende mercantili di molto suo utile. Il suo commercio è di catrame, di pece, di burro, di sevo, di sermoni, e di luccio secco, di aringhe, e di legnami. Introduce poi vino, olio, limoni, e sale. Uleaborg spedisce ogni anno quattro vascelli nel Mediterraneo, i quali tra le altre cose portano spezialmente sale nel paese. Ottimo regolamento è qui rispetto alla navigazione del fiume Ulea, sul quale la città è posta. Per discendere al mare i bastimenti non possono essere condotti che da piloti espressamente patentati, perchè tanto è rapida la corrente, che la nave fa sei miglia in venti minuti; e sommo è il pericolo del naufragio a cagione de’ troppi scogli, di cui il letto del fiume è sparso. I minerologi hanno di che molto occuparsi ne’ contorni di Uleaborg; e vi notano particolarità meritevoli della loro attenzione. In Uleaborg si ha due mesi d’inverno più che a Stockolm, e una primavera più breve di un terzo: l’autunno però è presso a poco eguale nell’uno, e nell’altro luogo. I geli notturni [66] nell’estate arrivano verso il fine di agosto, e qualche volta anche prima. Ma è giusto dire che in nissun luogo la vegetazione è più rapida, che in questo paese; perciocchè v’ha esempi di grani seminati, e mietuti nello spazio di sei settimane: effetto delle belle notti, o per dir meglio, della continua presenza del sole.

Noi intendevamo di non fermarci in Uleaborg più di cinque giorni per approfittare del comodo delle slitte fin tanto che v’era ancor neve e ghiaccio sulla strada che dovevamo battere: ci lusingava pure l’idea di barattare il servizio de’ cavalli in quello delle renne; e di conversare coi Laponi erranti. Ma le gentilezze del barone Silfverkielm, e del governatore Carpalan, la conoscenza che facemmo di parecchie persone della città amabilissime, l’incontro inaspettato di due dilettanti di musica capaci di suonare co’ nostri compagni e con me un quartetto, ci fecero dimenticare la nostra risoluzione, e fermarci in Uleaborg un pajo di mesi. Forse però più che tutte queste ragioni valse quella, che essendo alla metà di aprile, la stagione era troppo avanzata; il ghiaccio cominciava a sciogliersi; e i fiumi di giorno in giorno divenivano per l’abbondanza delle loro acque, e per gli straripamenti assai pericolosi. [67] Potevamo poi anche godere in Uleaborg de’ fenomeni, che accompagnano il cangiamento delle stagioni quando accade in paese di altezza maggiore; e nel mio particolare io poteva comodamente applicarmi a molti oggetti di storia naturale della Laponia, avendo fatta conoscenza con un bravo uomo, certo sig. Julin, farmacista della città, che avea e libri, e collezioni, come pur notizie, e dottrina, di cui avrei potuto approfittare. Eccoci dunque tutti d’accordo fermati in Uleaborg. Debbo quindi ricordare come vi passammo il tempo della nostra fermata.

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CAPO VI.

Magnatizzatore, e magnatismo. Partita di musica istromentale. Simpatia de’ Finlandesi per la musica. L’harpu. Caccia del gallo di brughiera, e qualità di questo uccello. Pregiudizii de’ Finlandesi per certe vivande. Faccende de’ Finlandesi nell’inverno. Loro pesche sul ghiaccio. Loro caccie di vitelli marini e dell’orso.

Ho nominato il barone Silfverkielm, uomo per tutti i versi amabilissimo. Era stato per una gran parte della sua vita ai fianchi del re Gustavo, avea viaggiato molto, e veduto il gran mondo. Sapeva bene di meccanica, si dilettava di chimica, e possedendo una eccellente macchina elettrica d’Inghilterra, faceva molte esperienze. Ma sopra tutto era grande magnetizzante, e il più caldo alunno di Mesmer. Io non credeva alle meraviglie mesmeriane, e meno di me vi credevano i due viaggiatori inglesi, i quali ho detto ch’eransi uniti a noi; ma il fatto è che vedendo i varii, e straordinariissimi effetti del magnetismo, e ad essi, e a me fa pur d’uopo infine confessare, che quello che vedevamo, [69] per se stesso meraviglioso, e inesplicabile, era verità reale. Il barone però non trovava in Uleaborg persone che dessero cura, o fede alle sue cose. In generale quegli abitanti non possono dirsi giunti a sufficiente grado di intelligibilità. Facemmo con essi più fortuna noi colla nostra musica.

Uno de’ due dilettanti sopraggiunti sonava il violoncello, l’altro il contrabbasso; Shioldebrand, mio compagno di viaggio, sonava il violino; io il clarinetto. Eravamo dunque in istato di sonare insieme passabilmente qualche quartetto; ed era questa sicuramente la prima volta, che si sarebbe udito in Uleaborg siffatta musica. Accorsero sino dalla prima volta, che ci mettemmo a suonare, in tanto numero uomini e donne, che dovemmo cercar la sala del palazzo di città per dar luogo a tutti. E dell’effetto di quella nostra musica sopra quegli Uleaborghesi chi può giustamente raccontare il vero? Non v’era modulazione, non tratto, non passo, che non facesse sui loro animi una impressione, la quale si dipingeva tosto vivissima sul loro volto, e sulle loro persone. Ho veduto in quell’incontro realizzate pienamente le esagerazioni de’ tempi più favolosi della Grecia. I Finlandesi hanno realmente un senso innato per la musica, e per la poesia. [70] E se non hanno fatto nella musica eguali progressi, che nella poesia, ciò debbesi attribuire al cattivo istrumento che hanno. Lo chiamano l’harpu: è una specie dell’antica cetra de’ Greci, di sole cinque corde di metallo, ma non tastate colle dita della mano sinistra: essi suonano, ballano, e recitano le loro poesie ristretti a cinque note sole. L’introduzione del violino va però producendo nella musica del paese un cangiamento. L’antica melodia finlandese è chiamata il runa.

Noi eravamo giunti all’epoca, in cui, cessato coll’inverno il sonno della Natura, essa ripigliava il senso della vita in tutti gli oggetti. Giungevano da tutte le parti gli uccelli di ogni specie animati dall’amore, e popolavano i boschi, i campi, le paludi, gli stagni, ogni luogo. Le notti belle, e chiare quanto il giorno, c’invitavano al piacer della caccia. Noi pranzavamo a casa, vi facevamo la nostra partita di musica, cenavamo; e a dieci ore uscivamo alla campagna divertendoci sino alle due della mattina. Nelle nostre escursioni la luce notturna ci serviva meglio che quella del giorno; e vedevamo abbastanza bene per pigliare la mira, mentre allora gli uccelli erano più tranquilli. Era affatto nuova per me la caccia del gallo di brughiera, detto da Linneo tetra urogallus. [71] È un uccello grosso quanto un gallinaccio, sulla schiena ha di un bruno cupo le penne, sul ventre le ha del colore dell’ardesia, ed è listato dappertutto di piccole macchie nere. Esso ama il freddo: si ciba di bacche, e di bottoni delle piante; e in questa stagione canta i suoi amori con tanta vivacità, che si direbbe convulso. Ma vuolsi molta industria ad avvicinarvisi; e bisogna sorprenderlo appunto ne’ momenti di quella convulsione, la quale non gli lascia allora nè vedere, nè udir niente. È cosa ordinaria in queste caccie fissare alcun luogo di sì vasti boschi, ove riunirsi; e a quest’effetto si accende un gran fuoco, affinchè si vegga il fumo a molta distanza; e vi si lascia sempre qualcheduno che lo conservi. In questa circostanza conobbi quanto sia facile cagionare un incendio, che consumi tutta una foresta. Imperciocchè il suolo è coperto di un musco fitto, alto, e secco, il quale, se mai si accende, porta irremissibilmente il fuoco per tutto lo spazio che occupa. Si può mettere tra le cagioni de’ grandi incendii delle foreste di Svezia e di Finlandia anche questa, mentre una minima negligenza di chi veglia al fuoco, che ho accennato, basta a tanto fatto.

Ho detto che pranzavamo e cenavamo in casa, e poi andavamo alla caccia. Conviene che dica [72] qualche cosa anche di quella nostra faccenda. Non era il minore oggetto de’ nostri piaceri in Uleaborg quello della tavola; e la nostra ostessa era sollecita di procurarci i migliori bocconi. Vitelli, majali di latte, buoi, non erano per lei risparmiati. Ciò che il mare, e i fiumi potevano fornire di più delicato, essa lo provvedeva senza badare alla economia. E per questo trattamento di lusso, per me, pel mio amico, e pel nostro domestico, comprendendo colezione, pranzo, cena, caffè, tè, ed alloggio, noi non ispendevamo più di due ghinee alla settimana: con che ognuno vede come in questo paese tutto è a buonissimo prezzo; nè v’ha proporzione alcuna con quanto le cose costano a Stockholm. Il nostro domestico era quello che faceva la cucina; e come seguiva l’uso d’Italia, ogni giorno la gente di casa metteva rumore non concependo qualmente avessimo da aver sempre minestra, e lesso. Più rumore s’alzò perchè mangiavamo cervella e fegato sì di vitello che di majale: cose per quella gente orribili a segno che avendo indotta una persona a gustarne, per l’avversione non potè mai inghiottirne. Similmente non potevano darsi pace veggendoci mangiare lodole, beccaccine, tordi, ed altri piccoli uccelli, che per noi erano deliziosissimi anche per averceli procacciati alla campagna coll’archibugio.

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Strani pregiudizii sono questi, difficili a sradicarsi in un popolo a metà incivilito. Ma non è per queste cose, che vogliono essere giudicati i Finlandesi: si domanderà come vivano essi in una stagione, in cui mari, fiumi, e laghi e stagni sono presi dal ghiaccio; in cui una crosta di ghiaccio copre il suolo, ed animali, e vegetabili sembrano tutti assorti senza vita in un sonno profondo. I popoli di sì aspro clima pressati da bisogni più forti, e più estesi, che quelli de’ paesi meridionali, sono e più svegliati, e più attivi, e più industriosi, onde provvedersi di quanto loro occorre. I Finlandesi adunque passano l’inverno fabbricandosi ogni sorta di vestimento, e d’istromenti, ed utensili loro necessarii, e reti, e slitte, e carrette; in tagliar legne, in abbattere alberi, e trasportarli, e segarli, e pulirli, secondo i varii usi, a cui debbon servire. Poi attendono alla pesca, nella quale ho accennata una delle loro pratiche; ma ne hanno altra più industriosa, e più ampia, e consiste in fare due aperture nel ghiaccio, per le quali con corde e lunghe pertiche fanno passare una rete. L’estrarre poi questa quando è piena di pesce forma una difficoltà, che la pazienza e destrezza loro soltanto li ajutano a superare. Usano un’altra maniera [74] più singolare nella pesca de’ fiumi. Quando il freddo comincia a farsi sentire, il pescatore costeggia il fiume, ed osservando un pesce sotto il ghiaccio nelle acque, gli dà un violentissimo colpo di martello, o di bastone, rompendovi il ghiaccio sopra, pel quale colpo rimanendo il pesce stordito, in pochi istanti s’alza alla superficie, ove il pescatore lo piglia con uno stromento fatto apposta.

Della caccia de’ vitelli marini si è detto qualche cosa. Si ha però da aggiungere che si fa più in grande in altra guisa, e che costa al Finlandese grande fatica. Il tempo di questa caccia è quello, in cui il ghiaccio si scioglie. Quattro o cinque paesani si mettono in un battello scoperto, e si espongono al mare, e a tutti gli accidenti, che l’urto de’ ghiacci distaccati, e la furia de’ venti, e de’ flutti possono produrre. Essi si arrampicano su quelle isole ondeggianti, e vi si strascinano sopra colla massima destrezza per mettersi al segno di tirare con sicurezza sulle foche, che riposano sui ghiacci. Raccontasi di due Finlandesi, che sette anni addietro si misero in un battello per simile caccia, i quali avendo veduto in una isoletta di ghiaccio alcuni di quegli animali, lasciarono il battello, e saliti sull’isola a forza di ginocchia e di mani, recaronsi senza essere [75] osservati in vicinanza de’ medesimi. Aveano attaccato il battello a qualche punta dell’isoletta; ma nel mentre ch’erano occupati della loro caccia, il battello si slegò; e nell’allontanarsi preso in mezzo da altre masse di ghiaccio rimase tra quelle stretto, e frantumato. Trovaronsi dunque abbandonati a se stessi; e in che luogo? niun mezzo di salvarsi; niun raggio minimo di speranza. Due settimane rimasero in sì miserabile stato, fidati ad una fragile tavola, che ogni giorno vedevano impicciolirsi pel fregamento sui ghiacci, in mezzo ai quali passavano. Agli orrori di quella situazione si aggiunse la fame, la quale li portò a divorare la carne delle proprie loro braccia. Stanchi di tanto soffrire, e a quella lenta e dolorosa agonia preferendo una pronta morte, risolvono di precipitarsi in seno del mare. Si abbracciano per l’ultima volta, e stanno per eseguire il disperato loro disegno, quando veggono a qualche distanza una vela. Oh! in qual momento? Uno d’essi si spoglia del vestito, e l’alza per segnale d’implorato ajuto. Fortunatamente il segnale fu distinto; quella vela era d’altri pescatori di foche; e furono salvati.

La caccia dell’orso non richiede minore presenza di spirito, e non minore coraggio; e veramente il Finlandese in quella occasione manifestamente [76] prova d’avere queste due qualità nel più alto grado. Non è che da poco tempo in qua che qualcheduno tra essi ha incominciato a far uso in questa caccia d’armi da fuoco; ma il maggior numero de’ paesani, massime nell’interno della contrada, non vorrebbe esporre la vita alla incertezza di un colpo, che spesso va perduto per cagione della umidità: d’altra parte un archibugio, od un fucile anche di qualità inferiore per essi costa troppo. Si attengono dunque all’arma loro favorita per questa caccia, che è una lancia di ferro piantata in un bastone, ed alla distanza di un piede dalla punta fornita da un traverso pure di ferro, espressamente posto perchè l’arma non penetri troppo in dentro nel corpo dell’animale. Adunque quando il cacciatore ha scoperto il sito, in cui l’orso sta appiattato, va alla bocca dell’antro, e fa rumore, onde irritar l’orso, e provocarlo ad uscire. L’orso esita, e sulle prime mostra di non volere uscire, ma continuando il cacciatore a molestarlo, irritato si slancia fuori, e veduto il suo nemico si drizza sulle gambe di dietro, e si appressa a sbranarlo. Il Finlandese allora impugna la sua lancia in modo però che la bestia non ne vegga tutta la lunghezza; ed avanzandosi presso di essa, quando trovansi entrambi faccia a faccia, le avventa il [77] colpo mortale al cuore. Senza quel traverso di ferro la lancia trapasserebbe alla spalla; nè ciò impedirebbe l’orso dal cadere sopra di lui; accidente, che potrebbe essergli fatale. Il traverso adunque fa che l’orso rimanga dritto, e che indi cada rovesciato al suolo. Singolar fatto, e che parrà straordinario è questo, che l’orso sentendosi ferito, invece dì cercar di levarsi colle sue zampe la lancia, la tien ferma, e la interna più profondamente nella piaga. Quindi dopo essersi agitato, e rivolto sulla neve, cede alla morte; e il paesano se ne impossessa, e chiama i compagni in ajuto per trasportarlo al suo casolare. Colà si termina il suo trionfo con una specie di festa, ove un poeta canta le imprese del cacciatore.

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CAPO VII.

Poesie improvvisate dai Finlandesi. Perchè dette runiche; loro carattere: modo con cui vengono recitate, o cantate. Esempii. Elegia per la morte di un fratello. Proverbii. — Il pasticcio di Paldamo. — Versi d’amore. Le più antiche poesie runiche sono formule di magia, d’incanti, di superstizioni, reliquie della religione dominante presso i Finlandesi prima del cristianesimo.

Ho detto che i Finlandesi hanno degl’improvvisatori. Ciò mi conduce a parlare della loro poesia. Tutte le nazioni settentrionali, Scozzesi, Danesi, Svedesi, Norvegi, fino dagli antichi tempi poetarono: e così fecero anche gli abitanti della Finlandia. Runica si chiamò la loro poesia, perchè runoot dicevasi l’antica lingua gotica, in che la espressero. I loro versi, composti di otto piedi trochei ciascuno, cioè di una sillaba lunga e di una breve, non erano rimati, ma incominciavano, almeno ogni due, colla stessa sillaba, oppure questa corrispondenza di sillabe simili veniva alternata. Ciò che importa dire si è, che codesta ripetizione [79] di sillabe simili non manca di riuscire gradita ad orecchi alla medesima avvezzi, ed oltre ciò serve eccellentemente ad ajutare la memoria. I paesani spezialmente coltivano questa poesia popolare, e l’applicano ad ogni argomento, che sia a loro portata: nè hanno meno facilità degl’improvvisatori nostri. Singolare poi è il modo, con cui la recitano, o la cantano. Il poeta ha un ajutante, il quale ripete a mano a mano il verso, che l’altro dice, tenendo lo stesso tuono, con questo di più che incominciando l’ajutante, o ripetitore, che vogliam dirlo, all’ultima, o penultima sillaba, finisce il verso coll’improvvisatore: indi lo ripete da solo, così dando riposo al poeta, onde preparare il verso seguente. Di questa maniera continuano entrambi sino al fine; ed entrambi vannosi confortando di tratto in tratto con birra, od acquavite. Di poemi, che noi diremmo epici, fatti per illustrare la memoria di antichi eroi, ed accennare punti di storia, non se n’è trovata traccia; ma egli è probabile che se ne trovino brani, forse presso i montanari, comunque per avventura o tronchi, od alterati, poichè tutto è stato affidato alla memoria; e nulla si è scritto. Altra cosa notabile si è, che di poesie runiche non se ne trova alcuna di data posteriore alla riforma di Martin Lutero.

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Checchè sia di queste due cose, giova avvertire, che i Finlandesi non fanno del ballo un genere guari ordinario di ricreazione: ma e alle fiere, e nelle loro adunanze dilettansi di certe specie di canzoni, o di racconti, che qualche volta accompagnano coll’harpu, se hanno questo istromento alle mani, e se chi lo suona può fare anche l’officio di ajutante, o ripetitore.

Ma i miei leggitori ameranno avere qualche saggio delle poesie finlandesi, il cui carattere in generale si è d’essere piene di espressioni ridondanti, e d’avere il senso compreso in due versi, ed anche più; ma questo senso ripetuto in giro diverso di parole, e di frasi all’uso orientale. Alle quali maniere naturalmente si adatta la lingua finlandese, in quanto è copiosa, ed abbonda di sinonimi. Per primo esempio ecco una elegia funebre composta da Paulo Remes, paesano, in occasione della morte di un suo fratello; elegia che fu stampata in Abo nel 1765.

«La parola viene dal cielo; da quello, nelle cui mani stanno tutte le cose».

«Vieni qui: ti farò il mio amico: appressati, poichè di qui innanzi sarai il mio compagno. Vieni dall’alto monte: lasciati alle spalle la sede del dolore: hai sofferto abbastanza: [81] cessino le lagrime che hai versate; tu hai sentito il dolore, e la malattia: l’ora d’esserne libero è giunta: sei salvo dai giorni di tristezza: la pace si è fatta sollecita di venire a trovarti; e dalla tristezza ti è venuta la consolazione».

«Così egli è ito verso il suo creatore: egli è entrato nella gloria; si è affrettato verso il sommo bene: è partito per godere della libertà: ha abbandonata la via del rammarico: ha lasciata l’abitazione della terra».

La lingua finlandese è ricca di proverbii di un senso profondo; e i versi runici ne comprendono molti, divisi in due emisticchi, l’ultimo rischiarativo del primo, non diversamente da quello che si osserva praticato dagli Ebrei. Eccone esempi.

«L’uomo buono fa risparmio di quello che ha: ma il cattivo non darà un pugno di ciò, che ha nel suo moggio».

«Il saggio sa cosa ha da fare: lo sciocco si accinge a far tutto».

«Col piangere non si rimedia all’afflizione; nè ai mali colla tristezza».

«Chi ha provato prima si mette francamente all’opera: colui che non ha esperienza si ferma titubante».

«L’uomo saggio impara da ogni cosa: egli approfitta anche dei discorsi dello sciocco».

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«La terra, che forma il patrimonio di un uomo, forma la sua principale delizia; e il più bel bosco, che conosca, è il suo».

«Il forestiero è fratello nostro; e l’uomo che viene da lontano è nostro parente».

«Quando l’aurora spunta, io so che le vien dietro il giorno: una persona buona si manifesta co’ suoi sguardi».

«È finita l’opera che è cominciata: ed è perduto il tempo quando si dice: che farò io?»

«L’istromento dell’uomo industrioso è aguzzo; ma il coro del pazzo ha sempre bisogno d’essere aguzzato».

Ma diamo l’esempio di più lunga composizione. Il seguente racconto è uno squarcio d’improvvisatura finlandese di un giovine poeta chiamato Vanoen, che vivea tra Wasa ed Uleaborg, regalatomi dal governatore di Wasa, il quale conosceva di persona il poeta. Questi era povero, perchè preferiva i piaceri della immaginazione ai lavori rustici, ne’ quali occupavansi gli altri paesani. Egli non sapeva nè leggere, nè scrivere; ma avea per natura un umore allegro; ed era di un carattere affatto singolare. Perciò era ben veduto da tutti, e volentieri accolto nelle case de’ paesani, i quali egli divertiva co’ suoi racconti, e le sue facezie. La traduzione, quantunque letterale, mentre riferisce [83] esattamente ii senso, comprende però poche di quelle bellezze, e singolarità, che consistono nella brevità, precisione, e forza dell’originale. Questa composizione, intitolata il Paldamo, è di circa dugento quarant’otto versi; e rappresenta un ricambio burlesco da un astuto paesano di Finlandia presosi sopra un officiale di dogana. Ho vedute persone ben istruite del significato, e dell’indole della lingua finlandese, leggendo questo poemetto, lodarlo a cielo, e ridere sgangheratamente a ciascun verso.

Il pasticcio di Paldamo.

«Il mio racconto sarà esposto in termini convenienti. Io canto il regalo che un abitante di Paldamo preparò da fare a un doganiere. Non si tratta di null’altro che di un gatto colla sua pelle, e il suo pelo, che cotto eccellentemente gli fu presentato per suo pasto».

«Era una domenica sera: gli abitanti della buona città di Paldamo trovavansi raccolti insieme; ed essendo tra loro caduto discorso sugli abitanti della città di Uleaborg, dicevano concordemente tutti, che coloro erano una massa di birbi, e spezialmente i doganieri. Erano pagati per mangiare, ed esitavano a pagare ciò che mangiavano: il loro vero mestiere consisteva [84] in dare il sacco alle slitte, e in rubare le provvigioni ai viaggiatori».

«A questo proposito, disse uno scherzoso vecchio della partita, farei volentieri un piccol viaggio, se potessi trovare un compagno di buon umore; perciocchè vorrei vedere almeno una volta la nostra grande città: ho un poco di sevo da vendere, e del burro, di cui posso disfarmi, quantunque la stagione mi sia stata avversa. I paesani gli risposero tutti d’accordo: anche noi quanti siam qui, desideriamo di fare una corsa ad Uleaborg; vi accompagneremo al più presto che vogliate nel basso paese».

«Così poi parlò un altro buon compagnone, famoso per le sue bizzarre storielle: nelle feste di Natale non si dee far nulla; ed io vi accompagnerò di tutto cuore. Ma mi ricordo di avere ultimamente servito uno di que’ doganieri; e temo d’essere riconosciuto. Voi dovete tutti sapere, che ultimamente andai ad Uleaborg, e che avea nella mia slitta un eccellente pasticcio di pesce, che i doganieri mi presero, sebbene io dicessi loro che non poteva privarmene trovandomi assai lontano da casa mia, ed avendolo portato meco per mangiarlo in città nel tempo, in cui mi vi fossi fermato. Nulla di quanto potei dire giovò: que’ ghiottoni aveano risoluto di avere il mio pasticcio, e me [85] lo rubarono senza che io me ne avvedessi. Cani veramente! cani tre volte, che rubano ai paesani le loro provvigioni nella maniera più detestabile».

«Quando fui di ritorno a casa, proseguì egli, dissi a mia moglie com’era stato servito; ed essa mi disse il ben di dio: come, sciocco, poltronaccio! e perchè non hai rotta la testa a quel briccone di doganiere? Bravo! dagli il tuo pasticcio. Dagli il diavolo che porti te, e lui».

«Così gridò mia moglie. — Ma chi mi mette in testa il bel pensiero? Ah! Ah! diss’io. Signorini miei! ve la farò bella; e mi rimpatterò: non dubitate; nè tarderò molto».

«Dicendo così, presi per le zampe di dietro la mia bella gattona; e in un istante le feci la festa. Ora, dissi a mia moglie, scalda il forno; ed io fo intanto la pasta: e vedrai il bel pasticcio di gatto. — Essa veramente avrebbe voluto ritenere la pelle per guarnirne la sua pelliccia. Come! le dissi io in collera, vorresti dare a codesti birbanti di doganieri una sì buona vivanda! Se levo la pelle alla gatta, codesti signorini prenderanno la gatta per un buon lepre; e saranno ben contenti di gozzovigliare co’ nostri buoni bocconi. Allora le slitte de’ nostri poveri borghesi saranno più che sicure [86] d’essere messe a sacco. No, no: avranno la gatta, pelle e zampe; ed infine vedranno, che noi possiamo pareggiarli in malizia».

«Mia moglie voleva a tutti i patti quella pelle della gatta; ma finalmente si ridusse a cederla; e la gatta con tutta la sua superba pelle fu messa nel pasticcio; e il pasticcio fu messo nel forno.

«Quando il pasticcio fu cotto; e non lo fu che verso la mattina, lo avviluppai in un sacco; ed allegramente mi posi in viaggio per Uleaborg. Si aggiustava il ponte di Uleaborg; e noi dovemmo attraversare il fiume sul ghiaccio. Giunti alla dogana, trassi fuori del sacco un piccolo pasticcio, e lo presentai all’officiale. — E che intendi con questo? diss’egli. Pretendi forse con siffatta miseria guadagnarti le buone grazie del primo officiale delle dogane? Via, via: voi altri paesani di Paldamo, vi conosco; non andate mai fuori di contado senza un buon pasticcio di merluzzo, o d’altro pesce eccellente; dà qua il più grosso che t’abbi, che questo darà credito alla tua città. — Questo era quello che io voleva. Trassi dunque fuori il grosso pasticcio, che conteneva la gatta; e lo diedi all’officiale, che ne fu contentissimo a segno che invitò l’altro paesano e me a bere con essolui. Egli ci diede [87] un bicchiere di punch, ed un altro di acquavite eccellente. Noi poscia ci congedammo; e seguitammo la nostra strada».

«Così terminò il suo racconto il paesano di Paldamo; ed io Vanoen l’ho messo in versi per divertimento di quelli, che vorranno udirlo: certo che per la mia composizione guadagnerò più di quello che per la sua civiltà guadagnasse l’official di dogana; voglio dire una delle zampe di dietro del gatto, perchè il doganiere mangiò l’altra, come presto udirete».

«L’officiale Ritzi, che così chiamavasi quel doganiere stato presentato di quel famoso pasticcio, sedutosi a tavola se l’avea posto d’innanzi. Da prima tagliò un pezzo della crosta, che assaggiò, e trovò buona. Poi tirò fuori una zampa di dietro; e nel mangiarsela si graffiò un poco la bocca colle unghie; ma credette che l’accidente provenisse da un dente del pesce, tenendo per fermo che in fondo del pasticcio si trovasse un grosso merluzzo; e la zampa di dietro, egli la credeva la testa del merluzzo. In fine aprì il pasticcio; e allora quale fu il suo stupore quando vi trovò dentro un gatto cotto col suo pelo, e col resto?»

«Pestò co’ piedi la terra per la rabbia: disse, giurò, bestemmiò; ed esalò la collera dicendo: chi avrebbe mai potuto credere che un paesano [88] di Paldamo avrebbe dato ad un commissario della dogana un gatto cotto dentro un pasticcio? Che bricconeria! Chi potrà mai sapere cosa campando gli può avvenir di mangiare, se io, giovine qual sono, era sul punto di mangiare un gatto colla pelle, e il pelo?»

«Così finì il racconto, che io, Vanoen suddetto, ho composto, e che tutti si accordano in dire essere finito bene, e in un modo ingegnosissimo».

Del rimanente v’hanno molte canzoni runiche composte da donne della classe de’ paesani, le quali non sono senza merito. Le donne che aveano un certo spirito le componevano, e le cantavano, applicate ai loro materali officii di famiglia, e segnatamente macinando il formento, od altre granaglie, quando non si usavano ancora nel paese molini ad acqua, o a vento: le altre ripetevano le imparate a memoria. Ve n’ha di soggetto grave, ve n’ha di soggetto satirico, o burlesco, e più spesso di argomento amoroso. Il sig. Frauzen in Abo mi fece vedere una canzone composta da una giovane paesana, nativa dell’Ostro-Botnia, e serva del maestro ecclesiastico del villaggio, dove essa avea costantemente dimorato. Questa piccola composizione considerata come il parto d’ingegno di una ragazza che non sapeva nè leggere, [89] nè scrivere, è cosa stupenda. Ecco tradotte letteralmente in prosa le produzioni di questa Saffo finlandese, la quale in mezzo alle nevi del suo tristo paese non mostra meno calore della musa di Lesbo.

I.

«Oh! perchè il mio diletto non è qui? Se almeno l’aspetto suo, che tanto conosco, mi fosse presente! come, come io volerei tra le sue braccia! Quanti baci le mie labbra non istamperebbero sul suo volto, fosse pur egli tutto imbrattato del sangue di un lupo da lui combattuto! Come stringerei la sua mano, fosse pur essa attortigliata da un serpente!»

II.

«Ah! perchè i venti non hanno intelligenza; perchè quello che ora spira, non può parlare? I venti potrebbero riferirci a vicenda i nostri sentimenti, comunicandone l’espressione del mio diletto a me! Questo venticello che sì spesso spira, potrebbe ad ogni istante recargli le mie parole, e riportarmi rapidamente le sue».

III.

«Oh! allora non penserei certamente ai piaceri della tavola del mio padrone; e poco mi presserei a vestir la sua figlia. Sì: dimenticherei tutto per non occuparmi che del mio amoroso, l’oggetto più caro de’ miei pensieri [90] nella estate, l’oggetto de’ miei più penosi affanni nella stagione cruda dell’inverno».

Ultimo esempio sia un tratto di più lunga canzone cantata dalle Finlandesi nel cullare i loro bambini. Ne cantano qualche volta anche le nostre nutrici: in breve queste rimarranno dimenticate, giacchè ormai generalmente si abbandona il cattivo uso di agitare la culla. Questo tratto di canzone finlandese dimostrerà nella semplicità sua come la tenerezza, la ingenuità, l’affetto materno parlano al cuore di quelle donne. Eccolo.

«Dormi, dormi, bell’uccellino del prato: prendi riposo, caro Pettorosso: prendi riposo. Dio ti risveglierà in buon tempo. Egli ti ha preparato un bel ramuscello, su cui fermarti; un ramuscello graziosamente piegato ad arco colle foglie di betulla. Il sonno è alla porta, e dice: Non è qui un bambinello, un caro bambinello addormentato nella sua culla? un bambinello fasciato, un bambinello giacentesi sotto una coperta di lana?»

I Finlandesi hanno anche un altro genere di versi, giustamente riguardati come monumenti inapprezzabili dell’antichità, e modelli perfetti della più pura poesia runica. Questi sono versi di magia, d’incanto, di stregonerie, di quello di simil sorte che volete, avanzo delle [91] vecchie superstizioni; e tenuti per efficaci massimamente in fatto di guarir malattie. Chi li possiede va cauto a comunicarli ad altri, molto più se si volesse scrivere; e ciò per paura che vengano denunciati ai magistrati, o ai ministri di religione. E ministri di religione, e magistrati fanno tutto il possibile per distruggere queste superstizioni, reliquie delle credenze di questi popolani prima che fosse loro predicato il cristianesimo.

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CAPO VIII.

Si parte da Uleaborg. Difficoltà supposte per andare al Capo-Nord attraverso della Laponia. Nuovi compagni e provvigioni. Addii. — Descrizione di un ballo finlandese. Divertimenti in Hutta. Arrivo a Kemi. Il curato, e la sua famiglia: bella chiesa, e bei contorni. Bagno a vapore. Passaggio a Tornea. Suo clima, e suo commercio. Fine del mondo incivilito. Curato dell’Alta-Tornea: sua ospitalità.

Ma era tempo di lasciare Uleaborg, e d’incamminarci alla nostra meta. Parlando di andare al Capo-Nord, tutti trovavano strano il nostro disegno, e ci dipingevano l’impresa impraticabile sì per le difficoltà della strada, sì per l’incontro pericoloso de’ Laponi, che ci si rappresentavano sotto spaventosissimo aspetto. Massimamente poi ostacolo immenso ci si diceva fare a tal viaggio la stagione estiva: che i missionarii, e mercanti, che andavano a quella razza d’uomini, approfittavano dell’inverno, e all’estate avvicinavansi ai luoghi di città. E tali furono anche i riscontri che io ebbi da Tornea, [93] d’onde cercai notizie. Erasi comunemente e in Uleaborg, e ne’ vicini paesi tanto persuasi, che la nostra idea fosse un delirio, che i più riguardavano come un oggetto di stravaganza. Noi, ad onta di tutto questo, fermi nel nostro proposito, deliberammo di andare per una strada tutta nuova, prendendo possibilmente la linea del meridiano di Tornea, e seguendola sino al Capo-Nord, chè speravamo per quel modo di giungervi. Il sig. Julin, buon naturalista, eccitato dal desiderio di acquistare nuove cognizioni, tentato dal nostro disegno, confidando in noi, e cedendo alle nostre istanze, acconsentì d’esserci compagno. Ci si aggiunse il sig. Castrein, ministro a Kemi, uomo istruttissimo, e versato assai nella botanica. Comprammo una tenda russa per metterci al coperto della pioggia, e d’ogni influsso d’intemperie; e ci provvedemmo di quanto potesse occorrerci di vettovaglia per 20 giorni; poi di un fucile a due canne, di un termometro di Celsius, di una carta d’Hermelin, e di una del Pontoppidano, di un compasso che indicasse anche l’ora, di una scatola per mettervi i nostr’insetti, di tabacco, di solfo, e di canfora per preparare uccelli, e pelli; nè ci dimenticammo i regali che volevamo fare ai Laponi, i quali doveano consistere in tabacco da [94] masticare, e da fumare, e in acquavite comune.

Saluti, abbracciamenti, lagrime ancora, augurii d’ogni sorta, accompagnarono la nostra partenza da Uleaborg. Passammo il fiume; e ci mettemmo in istrada sopra una carretta tirata da cavalli. Il primo luogo, ove li cambiammo, fu Sukurri, nove miglia lungi da Uleaborg; e li cambiammo tre, o quattro volte da Sukurri fino a Testile, luogo di due, o tre case di legno. Passato in barca un piccol fiume detto Lesvaniemi, udimmo il suono di un violino; e volgemmo all’abituro di un paesano, ove trovammo dieci, o dodici persone che ballavano. Al nostro arrivo tutti furono sconcertati, eccetto il suonatore, che continuò a maltrattare il suo istromento, come se niente fosse. E sapete perchè? per non altro che per essere orbo. A poco a poco però que’ paesani si riebbero dalla prima sorpresa; e ripigliarono i loro posti.

Il loro ballo non consisteva che in salti e capriole rustiche, di niuna grazia, ma di molta forza; e le donne ne mostravano quanto gli uomini. Nè varietà, nè passione ne’ loro atteggiamenti, nè espressione vedevasi ne’ loro volti: ma facevano tutto con aria grave, e con un’attenzione scrupolosa. Di lietezza non v’era su quelle fisonomie il minimo segno; e un vaso [95] di birra posto sopra la tavola, la conteneva mista ad acqua: ne bevevano per puro bisogno di estinguer la sete; e il suonatore non era meno sobrio degli altri. V’erano sei, o sette donne; e tutte goffe, mal fatte. Anche il loro vestito contribuiva a renderle sgraziate. Volli far nota della loro musica; e potei copiare qualche danza finlandese. Partendo dalla sala del ballo demmo qualche mancia al povero suonatore, che per gratitudine si fece accompagnare dalla sua guida per onorarci alcun tratto di strada della sua musica.

Da Testile andammo ad Hutta, villaggio di quattro, o cinque case di legno: una ve n’era, ove noi deliberammo di rimanere, essendo stanchi del viaggio. Alcuni paesani, e alcune ragazze entrarono senza cerimonie nella camera, ove, avendo alcuni stromenti di fisica, pensammo di dare qualche divertimento a quelle buone creature. La prima cosa che ferì gli occhi a que’ paesani, fu il fucile a due canne. Fu per essi una meraviglia: oh! con questo l’uom vecchio in pelliccia (intendevano l’orso) non troverebbe quartiere. Così dicevano concordemente; e per un tal fucile avrebbero dato e la casa, e che so io? Noi mostrammo loro il termometro, il cannocchiale, e per ultimo un microscopio. Ma prima di far loro conoscere [96] quest’ultimo stromento, dicemmo loro di trovarci un pulce. Tutti andarono a cercarlo. Una delle ragazze, ritiratasi un momento, presto ritornò col pulce. È impossibile esprimere i gesti, l’esclamazioni, le grida di meraviglia e di stupore di tutti, quando videro ingrandire quel piccolissimo animaletto, e ne osservarono la mostruosa figura. Non potevano saziarsi di guardarlo, e riguardarlo per ogni verso. — Senza dubbio che si ricorderanno per lungo tempo di quanto hanno veduto.

Da Hutta a Kemi vi sono 18 miglia; e noi vi fummo il lunedì 10 di giugno.

È ben naturale che a Kemi dovevamo alloggiare dal sig. Castrein, che avea da essere il nostro compagno di viaggio. Egli era un ecclesiastico d’irreprensibili costumi, di pulitissime maniere, di molte cognizioni: parlava assai bene il latino, un poco il francese, ed intendeva passabilmente il tedesco. La sua parrocchia, di cui era il ministro principale, non ha meno di 900 miglia quadrate di estensione. Oltre la moglie, e i figli, avea undici tra fratelli e sorelle, che mantiene; ed era riguardato il padre della famiglia. Stemmo in casa sua due giorni; e vedemmo quanto era in Kemi, e ne’ contorni. I contorni di Kemi paragonati a quelli di Uleaborg ci parvero il paradiso terrestre. [97] Grande è il fiume che dà il nome al villaggio, ed è abbondante di sermoni, la cui pesca assai lucrosa è una delle principali rendite del parroco. La chiesa può far sorpresa a qualunque forestiere. Collocata in mezzo ad un bosco di abeti, e circondata da tugurii miserabili, parrebbe qualche cosa di magnifico quand’anche non fosse bella, e maestosa, com’è. Ha una superba cupola, e tre ingressi principali, decorati di un colonnato d’ordine dorico. Peccato! che tanto lusso facesse contrasto colla miseria che vidi in qualche casa di paesani, e che tutto mi faceva con gran fondamento credere, che non si limitasse a quella casa. Le sorelle del parroco mi fecero vedere due campane destinate all’uso di quella chiesa. Erano quelle campane coperte di varie iscrizioni finlandesi, una delle quali incominciava con una parola, che in italiano è oscena, e che in lingua finlandese non significa che la parola innocentissima ecco. Noi c’eravam messi a ridere sgangheratamente; e come rendere la giusta ragione del tanto ridere alle signorine, che pur erano vogliose di saperla?

Intanto il sig. Castrein volle farci gustare il piacere del bagno all’uso di Finlandia. Si scaldarono le pietre; e quando tutto fu pronto, dietro [98] l’avviso di una ragazza di 18 anni, a cui le faccende del bagno erano commesse, entrammo nella camera, ove codesta ragazza ci spogliò, e ci presentò un bacino d’acqua fredda con alcuni rami di betulla perchè ci sferzassimo da noi, indi essa gittò dell’acqua sulla massa delle pietre infocate. Io debbo confessare l’imbarazzo, in cui mi trovai in tale situazione, tutta nuova per me. Per tenere a segno la testa cercai di fissare costantemente gli occhi sul mio compagno, e d’imitare la sua indifferenza esemplare. Ma trovai molto forte, e sul principio molto incomodo il calore del luogo. Pure mi ci avvezzai, sicchè lo sostenni a 65 gradi del termometro di Celsius. In una tale temperatura provai una deliziosissima sensazione quando la ragazza venne a buttarmi dell’acqua sul capo, e che questa mi calava giù per tutta la vita. Lo stesso pur fu quando bagnati nell’acqua que’ rami di betulla che ho accennati, mi misi a battermi il corpo. Stato così mezz’ora, il sig. Castrein, a cui aveva esposto il desiderio di vedere prima lui sottomettersi alla cerimonia d’uso, egli vi si prestò senza ritardo; e capii come avea da fare anch’io alla mia volta. La ragazza gli presentò uno scabelletto su cui egli si assise; essa gli gettò sulla testa dell’acqua fredda, ne spremette i capelli, e con sapone [99] ed acqua gli lavò tutto il corpo, e lo fregò sino alla cintura. In appresso passò ai piedi, gli fregò le gambe, e particolarmente il collo del piede, e il tallone. Io era stupefatto vedendo questa operazione; ma ciò che più mi colpiva, era la perfetta apatia del ministro. Non avendo avuto coraggio a tanta prova, presi i miei abiti, e saltai fuori del bagno. L’uso porta che si dia qualche mancia alla ragazza; e deve darla anche il padrone. Questa mancia si chiama in finlandese sauna raha.

Dopo avermi fatto erborizzare ne’ suoi contorni il sig. Castrein si mise in viaggio con noi. Nulla d’interessante presenta il paese da Kemi a Tornea, se non che l’aspetto della primavera dappertutto consolante sì per l’adornamento, in che si pone la natura, sì per la speranza de’ beni ch’essa prepara alla estate: ma qui è ben diverso. Lo squagliamento delle nevi e de’ ghiacci sulle montagne produce ne’ fiumi delle alluvioni, non d’acque solo, che pur ruinano le campagne, ma di masse affastellate di ghiacci, che rompono e distruggono ogni ostacolo che incontrano, non perdonando nè a ponti, nè ad abitazioni.

Nissuno sapeva che Tornea fosse al mondo prima della celebre spedizione di Maupertuis, e degli astronomi suoi compagni. Ora è cognita [100] a tutti. Egli ne fece una orribile descrizione perchè vi fu in inverno. In estate ha diverso aspetto. Veramente essa non conta più di 600 anime: le case sono quasi tutte di un solo piano, alto però da non soffrire la umidità. I mercanti abitano al mezzodì; e l’hanno abbellita con viali d’alberi, con un passeggio pubblico, con orti e giardini. Le lunghe tenebre dell’inverno sono compensate dalla quasi continua presenza del sole durante l’estate; e i 40 gradi di freddo dai 27 gradi di calore. Magnifico è il fiume che dà il nome alla città, e che quasi affatto la cinge; e superbo è l’aspetto delle sue sponde, sulle cui alture si veggono varii mulini da vento; e la chiesa col suo campanile, e con varie case si specchia vagamente sull’acque del fiume. Sopra alcuno di que’ mulini si va a vedere il sole a mezza notte nel mese di giugno. Meglio però si gode questo spettacolo alla chiesa di Bassa-Tornea nella vicina isola di Biorkon. I vascelli mercantili che battono le acque del golfo di Botnia possono abbordare presso la città: essa anticamente avea un buon porto; oggi è interrito. Burro, sevo, carni salate, o seccate, sermoni affumicati, o messi in sale, piccole aringhe, legnami da fabbrica, catrame, pelli di renne, di orsi, di lupi, di armellini, e d’altri animali [101] del paese, ed una gran quantità di uccelli, sono le merci che se n’estraggono. Vi s’introducono frumento, sale, farina, canepa, cera, panni, tele grosse, tabacco, e spezierie. In inverno i mercanti vanno colle loro slitte a diverse fiere, ove comprano dai Laponi belle pelliccerie, dando in cambio pesce, farina, sale, tabacco, ed acquavite. Alcuni vanno fino ad Arcangelo, ed altri ad Alten.

Tav. II. — VEDUTA DELLA CITTÀ DI TORNEA A MEZZANOTTE PRECISA

Le più distinte persone di Tornea ci hanno fatta un’accoglienza gentilissima. Tra queste più intimamente vivemmo col dottor Deutsch, giovine mollo istrutto, e grande amatore di storia naturale. Egli si aggiunse compagno a noi, ma solamente sino a Kengis-bruk, atteso che non poteva allontanarsi da Tornea più di 15 giorni. Avremmo facilmente avuto per altro compagno il segretario Swamberg, mandato in Laponia dall’Accademia delle scienze di Stockholm per verificare le operazioni di Maupertuis, se il ritardo del vascello, che portava i suoi istromenti astronomici non lo avesse obbligato ad arrestarsi a Tornea. Rimanemmo dunque in cinque, cioè il sig. Castrein, eccellente botanico, Julin minerologo, il colonnello Skioldebrand, pittore di paesaggi, Bellotti bresciano, ed io, che c’incaricammo degli articoli di ornitologia, e della compilazione di quanto a giorno per [102] giorno i nostri compagni avrebbero potuto osservare. Deutsch non sarebbe stato con noi che per un tratto di strada; ma non ci sarebbe per quel tratto mancata l’utile sua opera come entomologista. Partimmo adunque prendendo la direzione pel paese detto l’Alta-Tornea.

Ivi termina il mondo incivilito: non più cavalli, non più strade, non più alloggi pe’ viaggiatori, salvo una baracca stabilita dai mercanti di Tornea per loro uso ne’ viaggi che, come ho detto, fanno l’inverno per le varie fiere che frequentano. Però prima di giungere colà da Tornea, varii villaggi s’incontrano. Kukko è il primo, distante 7 miglia: 9 miglia oltre è Frankila, le cui donne ci parvero di fisonomia gradevole. Otto miglia più oltre è Kerpicula, ove il fiume fa un bacino d’acqua quieta e nera, proveniente da una strepitosa cascata; ed altrettante più oltre ancora è la chiesa di Kirkomeki, ove vedemmo l’industria, colla quale i pescatori di sermone ivi sanno piantar palizzate attraverso del fiume per assicurarsi pesca copiosa. Una forte pioggia ci obbligò a cercar ricovero in una casa, che vedevasi sopra un’altura. Vi andammo: in quella casa era una camera pel bagno; e noi ci divertimmo a vedere gli uomini e le donne a mano a mano che vi entravano. I primi si spogliavano nella [103] casa, e correvano al bagno situato 20 passi più oltre: le donne si spogliavano nella camera del bagno; ma perchè le loro gonnelle non prendessero umidità, le gittavano fuori; ed erano poi obbligate ad ire a pigliarsele affatto nude. Io volli entrare in quella camera per misurare il grado di calore, e mi si toglieva il respiro. Il nostro interprete potè sostenere sì alta temperatura; e seppe dirmi sulla osservazione del termometro, che saliva a 65 gradi. Di là da Kirkomeki 6 miglia è Niemis, 8 miglia distante dal quale è l’Alta-Tornea, ove giungemmo ai 18 di giugno.

Quest’Alta-Tornea è una parrocchia, il cui curato invigila sopra tutte le altre chiese di questa parte della Laponia. Quello che ivi trovammo, era uomo compitissimo. Volle che tutti otto (di tanti era la nostra brigata) alloggiassimo da lui. E ciò fu bene perchè troppo per noi sarebbe stato angusto il piccolo albergo pubblico di Mattarange. Bisogna poi sapere, che fuori che sulle grandi strade, l’uso in Isvezia porta, che il viaggiatore volgasi alla casa del curato, e vi domandi una camera, giacchè le case de’ paesani sono assai miserabili per ogni verso; ed al curato, persona comoda, in generale non pare vero di veder qualche persona di garbo, che rompa la monotonia della [104] vita triste ed uniforme, ch’egli è obbligato a menare sequestrato in codeste regioni remote da ogni società. Codesti curati parlano quasi tutti il latino, parecchi il tedesco, alcuni il francese. Con queste lingue ogni viaggiatore può farsi facilmente intendere. Aggiungasi che assai spesso in casa di questi ministri trovansi giovani belle e garbate, state in educazione nella capitale; e che mal si affanno alla solitudine, a cui nel seno della loro famiglia sono costrette ad accomodarsi. Se capita qualche giovine viaggiatore di buona maniera, non v’è cortesia che non gli si usi, nè cura, o pensiero che non s’impieghi per far che prolunghi il suo soggiorno; e il momento in cui egli dee partire, è un momento di tristezza per tutta la famiglia; poichè la cordialità de’ padroni si estende sino alla servitù. Così accadde a noi in casa del sig. Sandberg, le cui amabili figlie, giovinette vive di carattere, e per natura spiritose, nulla omisero per renderci gradevole il soggiorno che in casa loro facemmo.

Il sig. Sandberg ci condusse al monte Avasaxa, di cui parla Maupertuis, e sul quale questi fece le sue operazioni per l’oggetto, a cui mirava la sua spedizione. Noi tenemmo per andarvi la stessa strada, e trovammo dappertutto vera la descrizione, ch’egli ne ha lasciata. I nostri naturalisti [105] e botanici fecero osservazioni e raccolte. Ritornammo a casa morti di fatica, e di fame; e mad. Sandberg ci avea preparata una cena sontuosa, ove mangiai un arrosto di renna, la quale era stata tenuta otto mesi nella dispensa. Era stata ammazzata nel novembre del 1798, e la mangiavamo ai 19 di giugno del 1799. Ciò dimostra la lunghezza dell’inverno in quel paese; e come il gelo vi conserva bella e fresca la carne.

[106]

CAPO IX.

Faticoso viaggio dall’Alta-Tornea a Kardis. Kassila-Koski sul punto, su cui passa il circolo polare. Più faticoso è il viaggio da Kardis a Kengis. Graziosa accoglienza avuta in Kengis dall’ispettore delle miniere di quel luogo. Ragazze del contorno; e particolarità di una di Kollare. Separazione de’ viaggiatori. L’autore rimane solo con un compagno.

Ai 20 di giugno abbandonammo l’Alta Tornea non senza rincrescimento; e ce lo accrebbe la risoluzione dell’ottimo sig. Castrein, obbligato per urgenti motivi a lasciarci per ritornare alla propria famiglia. Nel paese, in cui entravamo, può viaggiarsi per cento miglia senza trovare un sentiero. Noi andavamo per acqua, e in un angusto battello, che doveva rompere la resistenza dell’acqua con molta forza scendente da cataratte: un venticello assai vivo in ciò ajutò i nostri rematori, e noi. Kaulimpe è il primo villaggio che incontrammo sulla sponda sinistra del fiume; ed ivi vedemmo una di quelle palizzate che ho detto usarsi nel paese per la pesca del sermone. Comprammo il più [107] grosso di que’ pesci; e in quella occasione imparai come si mangia crudo. Si taglia in piccole fette transversali; si pongono queste in sale umettato con un poco d’acqua, e vi si lascia tre giorni: così preparato si mangia con delizia.

Mutammo battello e rematori per la seconda volta a Toullis, otto miglia al di sopra di Kaulimpe. Il viaggio fu più faticoso, e di maggior pericolo, dovendo passare tra scogli e cascate. A Kassila-Koski, che è una lunga sequela di cascate, formata dal letto pietroso del fiume, e da grossi scogli, che s’alzano al di sopra dell’acqua, i nostri rematori ci fecero vedere tutta la loro bravura in risalire contro la corrente rapidissima delle cataratte. Queste cataratte poi sono famose sulle carte geografiche per essere il punto, che corrisponde alla divisione del globo, nota sotto il nome di circolo polare. Non vorrebbevi che il sangue freddo, e la imperturbabilità de’ Laponi finlandesi per azzardare con un battello sì fragile una navigazione di sì manifesto pericolo. Ebbero però i nostri la precauzione di farci smontare a terra; e noi fummo contentissimi di potere seguire a piedi la riva del fiume. Ma con che fatica! tutto è pieno di boschi, di ceppaje, e di un ruvido musco alto verso due piedi, ed in [108] fondi pantanosi. Noi tirammo di lungo per acqua sino a Pello. Pello è un piccolo villaggio di quattro, o cinque case di paesani dal quale si vede la montagna di Kittis, ove Maupertuis terminò le sue operazioni trigonometriche. Il dotto sig. Swamberg era venuto in queste parti della Laponia per esaminare, siccome ho già detto, le operazioni degli accademici francesi nel 1736. Le eccezioni ch’egli ha creduto di opporre, tendenti a dimostrare la necessità di nuove misure, furono lette da lui nella pubblica adunanza dell’Accademia di Stockholm nel 1799; e trovansi nel rapporto sul suo viaggio in Laponia.

Da Pello a Kardis v’ha 18 miglia; e bisogna farle sempre contr’acqua, e contr’acqua corrente da alto. Lungo il fiume vedemmo come si possono avere le uova dell’harle, uccello dal Linneo detto mergus mergunser, delle quali i nativi di questo paese sono assai ghiotti. Quest’uccello, sia per indolenza, sia per sottrarre le sue uova agli uccelli di rapina, invece di fare un piccol nido come le anitre sulle sponde dell’acqua, o tra i giunchi, o alle radici de’ cespugli, mette le sue uova ne’ vuoti tronchi d’alberi vecchi. Ora chi vuol godersene le uova, mette un tronco vuoto di un vecchio albero in mezzo ad uno di abete, o di [109] pino, e comunemente in riva al fiume: l’uccello ne approfitta, e vi depone le uova; ma il paesano gliele porta via, lasciandone però una, o due, e se le mangia. L’uccello ritorna, e non trovando che un uovo, o due, ne lascia due o tre di più, che sono portate via come le prime. L’uccello ritorna un’altra volta; e come se si fosse dimenticato del numero delle uova, che avea ivi deposte, continua a deporvene delle altre; e il paesano continua a portargliene via: cosicchè dopo averne goduto una ventina, finalmente ne lascia le ultime, onde la razza non si perda. Appena poi i piccoli escon dall’uovo, la madre li prende a un per uno nel suo becco, e li porta a piedi dell’albero per insegnar loro la maniera di correre all’acqua, ov’essi la sieguono con sorprendente agilità.

Da Kardis a Kengis corrono 15 miglia: viaggio sempre più faticoso, e pieno di pericoli. Qui i nostri servitori perdettero la pazienza, atterriti anche più dalla considerazione, che avevamo ancora 400 buone miglia da fare verso il Nord. Si calmarono però alquanto giunti che fummo a Kengis, ove trovammo un ispettore delle miniere, che ci trattò molto amichevolmente dandoci viveri ed alloggio. Era egli un bravo e buon uomo, che in quella solitudine [110] avea formata una specie di colonia, dando valore a miniere prima di lui neglette, e per esse aprendo un nuovo ramo di commercio utile alla Laponia. Quando Maupertuis volle inoltrarsi nel cuore della Laponia per vedere certi sfregi sopra una pietra, ch’egli chiamò caratteri, e disse la più antica scrittura del mondo, considerò Kengis come un luogo miserabile, non distinto da altri simili se non per avere qualche fucina di ferro; e come alloggiò in casa del parroco, convien dire che allora non vi fosse ispettore. Noi di quello, che vi trovammo, fummo ben contenti: del resto ci era venuta voglia di andare a vedere quella pietra; ma essa ci andò via udendo dagli abitanti di Kengis, ch’essi non ne hanno veruna cognizione. Dubitammo della fervida immaginazione dell’Accademico francese. Nel corso di questo viaggio raccogliemmo molte piante in fioritura.

Non vi fu cosa fattibile che l’ospite nostro non facesse per nostro piacere. Egli raccolse i paesani del luogo per farci conoscere il ballo dell’orso, e la loro musica. Tra i varii loro balli fissò la nostr’attenzione appunto quello che chiamano dell’orso. Fa da orso un paesano, che si mette a terra con quattro gambe, e fa salti e capriole, come fa l’orso, studiandosi [111] di seguire il tempo della musica, la quale è interamente gotica. Codesto ballo è faticosissimo, e continuato per soli tre o quattro minuti costa un immenso sudore. Ma un tale esercizio conforta mirabilmente i muscoli delle braccia; e l’abituarvisi giova, a chi ha da risalire le cataratte. Mentre godevamo di questo divertimento, vennero sul luogo, attratte dalla curiosità di vederci, parecchie ragazze del paese, le più belle delle quali invitammo ad avvicinarsi al nostro circolo, essendo noi sotto una tenda, che l’ispettore avea fatto alzare sopra una bella eminenza coronata di pioppi d’Italia. Offrimmo loro del vino, che ricusarono, non amandolo; del punch, che non mostrarono di gustar molto: della birra, che appena l’assaggiarono. Erano accostumate troppo a ber acqua e latte. Tra quelle ragazze una ve n’era nativa di Kollare che si distingueva dalle altre per l’alta statura, per l’umor lieto, per la risolutezza del suo contegno. Colei avea nelle braccia una tale forza, che quando vi ci accostavamo con qualche famigliarità, respingevasi a modo da farci fare quattro, o cinque passi indietro. Era insieme flessibile, ed agile in ogni suo membro, e poteva passare dappertutto per bellina. Siccome andavamo folleggiando intorno a codeste ragazze, il nostro interprete ci avvertì [112] di guardarci dal far cosa che potesse disgustare la giovine di Kollare, poichè essa dovea darci alloggio in casa sua nel nostro passaggio colà. Il che avendo essa inteso, ci promise che farebbe di tutto per riceverci alla meglio.

Partimmo infatti la mattina seguente da Kengis, e quanto eravamo stati lieti il dì precedente, altrettanto fummo tristi il susseguente, non solo per lasciare sì cordiale ospite, ma per dover perdere la compagnia del Bellotti, del Julin, e del Deutsch, i quali per particolari loro ragioni non poterono esporsi ai pericoli, che ci minacciavano in regioni più elevate. Quella loro risoluzione ci fece esitare sulla nostra. Ma un certo orgoglio la vinse: il colonnello Skioldebrand, e il suo domestico mi restarono fedeli. Eccomi dunque in viaggio per la Laponia.

[113]

CAPO X.

Primo trattamento di ospitalità in Kollare far piangere chi entra in casa, e perchè. Descrizione di questo villaggio, e de’ contorni. Simon, l’eroe delle cataratte. Pericoli sotto la sua direzione evitati. Digressione.

Da Kengis a Kollare, che vi è distante 22 miglia, non cambiammo battello. Impiegammo dodici ore nel viaggio; e i nostri rematori non ne presero di riposo che cinque. Avemmo per istrada una pioggia, simile alla quale, tanto era grossa e fitta, io non ne avea mai veduta alcuna dacchè n’era partito d’Italia. Non credeva che se ne desse di tale in sì elevate regioni; e fu anche l’unica volta, che colà udimmo il tuono. Navigando a Kollare incontrammo molte cataratte, che prima ci avrebbero messo terrore, e che allora ci erano cosa indifferente; ma però una volta andammo a dare sopra uno scoglio; e il caso solo ci salvò dall’annegarci.

La erculea ragazza, di cui ho parlato, ci avea preceduto; ed avea preparati buoni letti, e buon pasto di latte, di burro, e di carne di [114] renna. Noi la trovammo in casa con sua madre, e con una figlia di una sua vicina: gli uomini erano andati alla pesca. Il primo trattamento che codeste donne ci fecero, fu empier di fumo le camere a tanto da farci continuamente lagrimare. L’intenzione era buona, volendoci liberare dall’incomodo delle zenzale, che ivi è veramente orribile; ma il rimedio era molto penoso. Il fumo impediva che quegl’insetti entrassero in casa; e fuori un gran fuoco li cacciava a migliaja lontani. In questi paesi il conservare continuamente nelle camere il fumo è una specie di lusso; e noi nol considerammo che come un oggetto di prima necessità. Che terribil flagello per gli Europei sono in questo paese codesti insetti! Ci coprivano in ogni parte della persona; e se ci riparavamo dalle loro beccate, niun mezzo poi avevamo per liberarci dal loro continuo ronzìo, che non ci lasciava dormire. Fummo parecchie volte tentati a non andare più oltre.

Il villaggio di Kollare è abitato da paesani finlandesi, che ci parvero passabilmente comodi. Esso sta sopra una isoletta formata dal fiume Muonio: vi si coltiva dell’orzo; e v’hanno pascoli abbondanti di fieno eccellente. Il paese all’intorno dà belle viste, massime per le due rive del fiume coronate di betulle, albero [115] in più maniere utilissimo a questi popoli settentrionali. Della sua scorza si fanno calzari, corde, piatti, sporte, secchi, e vasi, ed utensili diversi, e per fino un certo manto, o copertojo per difendersi dalla pioggia. Del legno si fa tutto quello che vuolsi.

Noi per nostra buona fortuna trovammo in Kollare quattro rematori più esperimentati di quanti n’avessimo avuti mai; ed uno di questi fu da noi salutato per l’eroe delle cataratte, appunto perchè colla meravigliosa sua destrezza fece che il nostro viaggio non finisse tra Kollare e Muonionisca.

Del rimanente da Kollare a quest’ultimo luogo, che è di 66 miglia, si va sempre in mezzo alle cataratte; ed è inesprimibile la fatica, che i Finlandesi fanno per condurre il battello, vuoto de’ viaggiatori, tirandolo dalla riva per mezzo di corde, e cercando di liberarlo dalle strette degli scogli, e dall’impeto violento della corrente. Noi intanto, non potendo essere di nissun ajuto a’ nostri rematori, facevamo cammino lungo la riva come potevamo, seguendola, o dilungandocene conforme volevano le boscaglie, e i siti paludosi, che la contornano. Avevamo camminato di questa maniera un buon tratto, quando ci si disse che non era possibile condurre più oltre il battello. Per lo [116] che andar più innanzi senza di esso, non era cosa da pensarvi; nè potevamo arrivare a Muonionisca senza attraversare il fiume; ed in quel luogo la cosa era impossibile. L’unico ripiego era di chiamare e il battello, su cui stavamo noi, e l’altro, che portava il nostro convoglio, a terra, e strascinarli per circa due miglia attraverso delle boscaglie, onde guadagnare una parte del fiume, che fosse più facile a salire. Il nostro eroe delle cataratte non trovava niuna difficoltà insuperabile. Volle spingere la magnanimità sua sino a proporre che noi montassimo sul battello, ch’egli, e i suoi compagni l’avrebbero strascinato per lo spazio occorrente. Noi scegliemmo di fare le due miglia a piedi, domandando solamente di riposarci mentre la nostra gente andava a cercare il nostro bagaglio, e il battello, che n’era carico. Nel corso di questo viaggio, invitati dal rumore straordinario del fiume, vi ci accostammo per vedere la famosa cataratta di Muonio-Koski, la cui corrente rapidissima sopra ogni credere, quantunque ci paresse impossibile a sostenere volendo scendere per essa, pure al ritorno nostro avemmo la temerità di affrontare; e vi riuscimmo. Dirò qui il come, per non aver più da parlare di siffatto argomento.

Bisogna figurarsi prima di tutto il fiume chiuso [117] entro un letto estremamente stretto, ed imbarazzato da roccie, e massi a modo, che per superarli la corrente è forzata a raddoppiare la sua rapidità. Il canale intanto è per un miglio tutto pieno di scogli, le cui cime acute frangono l’acqua, e l’alzano in forma di bianca spuma. Come sperare che un piccol battello, portato attraverso di tanti ostacoli con una rapidità, per la quale in tre o quattro minuti fa un miglio, non abbia da andare in mille pezzi? E notisi che il battello non può passare per codeste strette seguendo semplicemente la corrente: bisogna che vada con una velocità accelerata per lo meno del doppio. A tal fine due rematori de’ più svelti e robusti hanno da vogare senza intermissione, mentre un altro uomo sta al timone per regolare la direzione secondo le circostanze; e quest’uomo intanto può appena vedere gli scogli e le rupi che deve evitare. Egli dirige la prora del battello verso la rupe che dee oltrepassare, e quando sta per toccarla dà un colpo al timone, con ciò facendo un angolo acuto per allontanarsene, e muovere al largo. Il passeggiero freme all’aspetto della manovra, che non si aspettava; crede che il battello vada a spezzarsi in mille schegge; ed un momento appresso rimane attonito vedendosi salvo; e vedendo quella rupe di dietro [118] a sè per una distanza prodigiosa. Ma non istà qui tutto l’imbarazzo e tutto il pericolo. I flutti bollenti, e accumolati intorno al battello, ora entrano dentro il medesimo, e lo riempiono; ora lo trapassano da una sponda all’altra quasi senza toccare i rematori; e in tante forme si presenta la morte, che si stenta ad aprir gli occhi, qualunque cosa dicano per darvi conforto e sicurezza le persone, che la sperienza ha addomesticate con questi pericoli. Parecchi uomini del contorno erano periti; e due soli del villaggio di Muonio rimanevano, nella capacità de’ quali si potesse confidare: erano questi un vecchio di 67 anni, e suo figlio di 26. Non saprei esprimere la impassibilità di quel vecchio nel corso di quel tragitto. Quando eravamo in un momento de’ più critici di codesti passaggi, ci bastava gittar gli occhi sopra di lui; e la nostra paura dileguavasi. — Chi legge s’immaginerà la contentezza nostra quando avemmo superato quel mal passo; ed allora finirono le fatiche, e i pericoli, che una vanità temeraria ci avea fatto incontrare. Ma noi dobbiamo ritornare, secondo il naturale ordine delle cose, al nostro primo racconto.

[119]

CAPO XI.

Povera colonia di Finlandesi. Muonionisca. Ministro di questa parrocchia, e suo singolare carattere. Costumi de’ paesani di questo villaggio, e de’ contorni.

Prima di giungere a Muonionisca ci fermammo ad una piccola colonia di Finlandesi, che ci parve estremamente povera, e la cui situazione vivamente c’interessò. Due sole famiglie la componevano, consistenti in tutto in sette persone, comprendendovi due donne, e un ragazzo. Il paese all’intorno era superbamente ridente. Un pittore non lo potrebbe disegnare più vago, ed ameno. Ma questa piccola comunità per cinque mesi dell’anno non poteva comunicare con nissun altro luogo: vivea, si può dire, solitaria anche il rimanente dell’anno, essendo caso fortuito, che colà capitasse qualcheduno, come vi capitammo noi. Essi dispongono di un territorio di sei miglia all’intorno, fiumi, peschiere, boschi, prati, sono loro: ma sì grande e ricco possedimento faceva un gran contrasto colla loro indigenza. Non aveano che quattro vacche, non seminavano che un barile d’orzo, [120] il quale nelle annate buone non ne dava che sette: in alcune cattive non dava nemmeno la semenza; ed era un anno, che sarebbero morti di fame, se non fosse capitato colà un mercante di Tornea, che provvide al loro bisogno. Queste due famiglie trovandosi per mala fortuna entrambe disperate, erano venute d’accordo a questo luogo, e vi si erano stabilite giovandosi dell’uso che in Laponia corre; ed è che chi vuole fissarvisi non ha che da scegliersi un cantone a piacimento, purchè sia discosto dal più vicino villaggio sei miglia; e quando vi ha piantata la sua baracca, tutto il terreno circondante per sei miglia all’intorno è cosa sua.

Muonionisca è un villaggio di 16, o 18 fuochi, posto sulla riva sinistra del fiume Muonio, che qui ha il suo principio. V’è una chiesa, e un ministro, come a Kengis: e questo ministro è suffraganeo del curato dell’Alta-Tornea. La sua parrocchia, come ho detto, non è estesa meno di 200 miglia quadrate; ed in lui non vedevasi segno alcuno che lo distinguesse dai suoi paesani, salvo un pajo di calzoni neri. Avea avuta la disgrazia di vedere abbruciarsi in un incendio tutti i suoi mobili, e tutti i suoi libri, compresa fin anco la bibbia. Forse codesta disgrazia avea contribuito a dargli una certa rusticità, che lo metteva a livello [121] de’ suoi parrocchiani. Però avea una gran dose di buon senso, ragionava con sagacità e giustezza in materie politiche: masticava male il latino; ma sapeva la lingua svedese, e finlandese e ci spiegò assai bene molte etimologie, che desideravamo intendere. Del rimanente com’egli era povero, declamava violentemente contro la maniera, colla quale l’alto clero usava delle ricchezze. Era dichiarato nemico d’ogni potere dispotico; e badando a’ suoi discorsi sarebbesi detto ch’egli avesse ferma speranza di vedere che il giovine Conquistatore giugnesse un giorno a Muonionisca, e lo facesse patriarca della Laponia. Egli odiava altissimamente la Russia, e il suo governo, dicendo che avviliva il popolo, e per ragione di Stato lo teneva nella più brutale ignoranza. Qualche volta discorreva sugli abusi della nascita, e della successione ereditaria di un tuono sicuramente notabile in un uomo, che nulla aveva al mondo salvo una camicia, un pajo di calzoni, e le scarpe che portava ai piedi. Udendolo ragionare così, congetturai che gli fosse capitato per le mani qualche libro moderno; ma quando mi fece il catalogo de’ libri della sua biblioteca abbruciata intesi che non avea posseduto che trattati di teologia, e libri [122] su materie di controversia, aggiungendo però che poco avea studiato gli uni, e gli altri. Non era poi uno di que’ Ministri, presso i quali i viaggiatori potessero trovare alloggio; ma egli avea piacere di vederne, perchè ne traeva qualche bicchiere di acquavite; e fece molto elogio di quella, che noi gli davamo ogni volta che veniva a trovarci.

Ecco le notizie che io mi procurai intorno a questo villaggio, e ai costumi de’ suoi abitanti. Tutta la parrocchia conta circa 400 anime, disperse sopra una superficie, siccome ho detto, di 200 miglia quadrate: gli abitanti sono tutti finlandesi emigrati. Tutti i viaggiatori venuti in queste contrade li chiamano Laponi, perchè è Laponia il paese, ove sono venuti a stabilirsi. I costumi e il modo di vivere sono gli stessi che quelli de’ nativi finlandesi, colla differenza però dell’alterazione prodotta dal clima, e dalla situazione topografica. Questi Laponi finlandesi, come i pastori laponi, nulla sanno nè di poesia, nè di musica; nè hanno veruno strumento musicale. Circondati da laghi e da fiumi, abbondanti di pesce, poco coltivano la terra, e vivono principalmente della pesca. Hanno comuni colle nazioni selvaggie la forza, e l’attività: conoscono l’amore, ma non le grazie che lo accompagnano [123] presso i popoli più inciviliti: hanno tutti i segni di una tristezza abituale: nè qui ho veduto mai un giovine lanciare uno sguardo d’interessamento sopra una ragazza. È uso generale che i due sessi dormano insieme, senza che tale intimità abbia alcuna delle conseguenze, che potrebbe avere, se fosse sofferta in un paese più meridionale. Il padre è quegli che trova la sposa al figlio; e le sole convenienze di famiglia dirigono il contratto. Il figlio è indifferente a prendere per moglie questa, o quella ragazza. Conviene però dire, che anche tra questo freddissimo popolo si sono dati tristissimi esempi di gelosia feroce; ed un caso veramente pietoso ne narrò il ministro. Nè furti, nè omicidii in questa alta regione d’Europa si odono; ma bensì suicidii, che non possono attribuirsi se non se a qualche genere di follia, o ad eccesso di abbattimento di spirito.

In estate il nudrimento principale di questi popoli è il pesce seccato al sole, se la pesca è buona: vendono il superfluo per aver farina, sale, e ferro, di cui abbisognano pei loro usi domestici. D’agricoltura poco sanno, e poco vogliono sapere; il loro Ministro ha predicato loro colle parole e coll’esempio l’uso dell’aratro; e non v’è stato verso che se ne sieno persuasi. Quando in autunno comincia a nevicare [124] fanno la posta all’orso; e si uniscono in tre, o quattro per dargli la caccia. Alla metà di agosto vanno alla caccia delle anitre selvatiche, e d’altri uccelli, i quali allora mutando le penne non possono volare, e ne ammazzano quanti vogliono.

Finito che abbiano di raccogliere i loro fieni, li mettono a coperto in trabacche erette sopra legni ben forti, e tenendo alto il palco, onde l’umidità delle alluvioni non lo guasti. Alcuni posseggono renne, che danno a custodire, e a pascere a qualche Lapone.

Somma è la sobrietà di questi popoli: non bevono liquori spiritosi che il dì delle nozze: nel qual giorno usano un desinare alla loro maniera, ed un ballo accompagnato da grida, e da sbattimenti di mani. Non amano punto la birra; e gustando del vino, che loro offrivamo, facevano mille smorfie, come se bevessero una medicina. Il Ministro ci assicurò che in tutta la sua parrocchia forse non v’era un solo bicchiere di acquavite; e che la ubbriachezza è riguardata da questo popolo come il vizio più scandaloso, a cui possa essere soggetto un uomo. Il che ci fece pensare, che questa fosse una delle cagioni per le quali egli era sì poco riverito e stimato dal suo gregge. Vivendo questi popoli di tale maniera non è meraviglia se [125] non soffrono le malattie, le quali affliggono gli abitanti de’ paesi più meridionali; e il Ministro ci disse aversi esempi di paesani, che hanno vissuto fino a cento dieci anni. La malattia unica, che faccia strage tra loro, si è una specie di febbre infiammatoria, che sbriga le persone in pochissimi giorni.

Nel breve tempo che noi stemmo in Muonionisca il ministro ci propose di fare qualche corsa all’intorno; e noi volentieri scegliemmo di visitare il monte Pallas, della cui denominazione il nostro conduttore non seppe darci conto. La gita fu faticosa in quanto al salir la montagna, alla cui cima non potemmo giungere. Da quelle alture, a cui salimmo, ci si presentarono superbi punti di vista, che meriterebbero la diligenza del pittore. Ci mettemmo a raccogliere insetti, e piante: il buon Ministro non sapeva comprendere a che pro tanta fatica per cose da nulla. Dacchè gli si era abbruciata la biblioteca, si era accostumato a far senza teologia. D’allora in poi avea capito che la cognizione dell’Esser supremo riguardata come scienza non era in generale buona a niente nel mondo, se non sia per divertir l’intelletto, e a togliere dal corso della vita la non curanza, in cui l’uomo pensante potrebbe cadere sugli avvenimenti futuri. In 20 ore avevamo [126] fatto trentasei miglia: il calore era eccessivo, poichè a mezzogiorno, ma all’ombra, il termometro di Celsius segnava 37 gradi. Ritornammo dunque a Muonionisca, ove dopo breve riposo ci mettemmo in ordine per tirare innanzi il nostro viaggio.

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CAPO XII.

Pallajovenso. Errori de’ viaggiatori e geografi circa la Laponia. Ciarlataneria di Maupertuis. Aspetto del paese tra Muonionisca e Pallajovenso. Musco delle renne. Arrivo a Lapajervi, e crudele persecuzione delle zenzale. Lago di Pallajervi: isola Kuntigari: fermata in essa deliziosissima. Rondinelle di mare come servizievoli ai pescatori. Laponi nomadi presi a guida, congedati i Finlandesi; e penoso viaggio fatto con coloro.

Partimmo adunque il dì 1 di luglio da Muonionisca circa le ore 10 della sera. La giornata era stata caldissima, perciocchè a mezzo giorno il termometro di Celsius segnava 29 gradi, e a mezzanotte discese ai 19, ond’è poi che deliberammo di viaggiare per l’avvenire la notte, e riposare il giorno. Noi risalimmo il Muonio sino alla imboccatura del piccol fiume chiamato Pallojoki, presso al quale trovasi una piccola colonia detta Pallajovenso. Parlo di questo villaggio perchè esso è propriamente il confine della Laponia dalla parte di Tornea; mentre è locuzione impropria quella di chiamar Laponia [128] il vasto paese, che comprende Lulea, Pitea, ed Umea sino a Tornea, il quale invece appartiene alla parte occidentale della Botnia. E ben fa meraviglia che Maupertuis, a cui le scienze sono obbligate di una topografia del luogo, ove fece le sue osservazioni, e sì celebre per le sue operazioni astronomiche in queste parti, abbia sì poco conosciuti i luoghi ove si è fermato, chiamando Laponia la Vestro-Botnia, e intitolato Viaggio in fondo alla Laponia quello ch’egli fece per visitare con Celsius la già rammentata rupe coperta di caratteri runici. Egli avea appena appena toccati i confini della Laponia. Ed egli, e gli accademici suoi compagni dissero una bella bugia, e furono veri ciarlatani, quando dissero a’ Parigini, che presentavano loro due donne lapone, che non lapone erano quelle miserabili, ma vere finlandesi; e non parlavano che la lingua di Finlandia.

Il paese da Tornea a Muonionisca, ed a Pallajovenso, comunque vada insensibilmente prendendo un carattere selvaggio, non varia gran fatto all’occhio: le montagne, i laghi, i boschi, le cateratte che lo coprono, non presentano molta differenza. Ma procedendo da Pallajovenso a Kantokeino pel fiumicello Pallojoki la differenza salta agli occhi: potrebbe [129] dirsi, che qui tutto comparisce nuovo. Pallajovenso è uno stabilimento finlandese di quattro, o cinque famiglie. I mercanti di Tornea vi hanno costruita una camera, ove fanno fuoco, e si ricoverano nel loro passaggio l’inverno; e gli abitanti vivonvi in migliore stato, che quelli d’altri luoghi vicini. La navigazione sul Pallojoki non fu meno faticosa delle sostenute dianzi, sebbene per altre cagioni. Siccome era lungo tempo dacchè non era piovuto, poca era l’acqua, di modo che spesso il battello toccava il fondo, e i rematori doveano spingerlo avanti a forza di andarlo alzando. Più: il fiume è sommamente tortuoso; e con tante fatiche sovente invece di andare innanzi si andava indietro allontanandosi dal punto, a cui tendevamo. Sudavano que’ poveri uomini; e noi ci annojavamo, c’inquietavamo, ci trovavamo male, perchè obbligati a camminare a piedi dietro la riva, ci toccava farci strada attraverso del bosco, ove i rami degli alberi, e i cespugli ad ogni passo ci arrestavano, lacerandoci inoltre il velo, che ciascheduno di noi portava intorno al volto per non essere divorati da quelle maladettissime zenzale, che a migliaja e migliaja ci erano continuamente addosso. Noi eravamo diretti a Lapajervi: intanto prima di giungervi facemmo alto per riposarci [130] sopra una rupe considerabile, che veniva a formare un isolotto. Ivi accendemmo un gran fuoco per cacciare da noi quegli eterni nemici di ogni creatura fatta di carne; e di là avemmo la veduta di una prospettiva tutta ancora nuova per noi. Il musco, di cui si nudrono le renne, copriva tutto il terreno del contorno, che appariva quasi affatto piano, e da lontano chiuso da alcuni monticelli egualmente coperti dello stesso musco, che, naturalmente di un giallo pallido, allora per la siccità era quasi bianco. Un sì vasto tappeto così colorato, faceva all’occhio un colpo singolarissimo: tanto più, che per le circostanze del suolo prendendo quel musco alcune gradazioni di colorito, presentava qua e là de’ pezzi di forme diverse, e prendeva a guardarlo in totale la figura di un gran mosaico a cagione de’ varii compartimenti, in che appariva diviso. Quel colore biancastro del musco poteva ricordare quello della neve; ma tale idea spariva per la verzura de’ piccoli boschetti qua e là sorgenti, e più ancora pel senso del calore, che qualche volta riusciva insopportabile. Essendo poi quel musco ben secco, faceva che ivi si potesse piantar la tenda, e godervi migliore e più grata stazione, che altrove: perciocchè altrove io avea bensì incontrati luoghi coperti di questa [131] pianta; ma nè mai tanto secca, nè in tanta copia: chè qui soltanto parea avere essa dalla natura il regno, essa sola dominando, senza che altra pianta possa prendervi posto; e non è che su que’ monticelli, che ho accennati, o sulla sponda del fiume, che si vegga disperso qualche abete, o qualche cespuglio. Qui dunque veramente vedemmo d’essere in un paese totalmente straniero, ove la superficie del terreno, e il genere delle sue produzioni dimostrano, che la natura l’ha destinato a razze d’uomini, e di animali interamente differenti da quelle, che sussistono in Europa.

La sera giungemmo a Lapajervi con grande contentezza de’ nostri rematori, i quali speravano di rifarsi ivi della fatica sostenuta in tutta la giornata. Abbordando alla sponda del lago, su cui è il villaggio, incontrammo due Laponi, che ritornavano dalla pesca, ed erano per passare la notte sul luogo. Una densa colonna di fumo che si alzava in aria voluminosa, ci guidò senza bisogno d’altra scorta al luogo, ov’essi trovavansi; ed avvicinandoci ad essi vedemmo che aveansi intonacata tutta la faccia con catrame, e coperta la testa, le spalle, e il corpo con un vestito di lana, per difendersi dalle morsicature delle zenzale. Uno d’essi pipava; e l’altro preparava il pesce preso [132] per farlo seccare al sole. La sporchezza loro, la loro magrezza, e bruttezza, erano una prova evidente della loro povertà. Erano assediati da capo a piedi da sciami immensi di zenzale, che li beccavano penetrando attraverso de’ loro abiti con quegli acuti loro pungiglioni: ond’è che non aveano cuore di spogliarsi, quantunque fossero inondati dal sudore; e meno ancora di allontanarsi dal fuoco ad onta della caldissima temperatura. L’arrivo nostro a quel luogo fu annunciato dai milioni di zenzale, che accompagnavano noi medesimi, e che tosto si unirono a quelle che tormentavano quelle buone creature. Non ci fu verso di avere un momento di calma: ad ogn’istante eravamo costretti a bagnarci, dirò, la testa nel più fitto del fumo, ed a saltare sulla fiamma, affine di liberarci da sì terribili persecutori.

Volemmo visitare le famiglie di que’ pescatori, che abitavano alla distanza di un miglio. Trovammo dappertutto fuochi accesi. Ve n’erano ove stavano i majali, e le vacche, e ve n’erano non solo nell’interno, ma anche di fuori, presso alla porta delle case. Queste case de’ Laponi non sono grandi come quelle de’ Finlandesi; e la porta di quella che noi visitammo, non era più alta di quattro piedi. Avevamo lasciate indietro le tende sperando di trovare [133] alloggio con codesti Laponi; ma facemmo i nostri conti assai male. Ci fu forza accettare l’offerta di quella famiglia; e quando venne l’ora di ritirarci fummo condotti in una cameruccia tutta piena di fumo, dove trovammo delle pelli di renne stese sopra foglie di betulla, delle quali era coperto il pavimento. Noi entrammo a tentone, poichè il fumo non ci lasciava vedere alcuna cosa. Quando stavamo per addormentarci io intesi una specie di respiro, procedente da un angolo della camera, e forte a maniera che poteva meritare attenzione, tanto più che noi ci eravamo immaginati d’essere le sole creature viventi, che si trovassero ivi. Io adunque pensai che quel respiro fosse di qualche cane, o d’altro animale venutovi per passare la notte vicino a noi. Ma ben presto distinsi un sordo sospiro, che mi parve più d’uomo, che di animale. Alzai pian piano la testa provandomi di vedere che cosa fosse; e come alcune crepature della muraglia facevano penetrare una debole luce, colle mani e colle ginocchie mi mossi per approfittare di quella luce; e non tardai a scoprire il luogo da cui veniva il rumore udito: erano due ragazzetti nudi, giacenti sopra pelli di renne, i quali vedendomi ebbero paura, credendoci animali feroci venuti per divorarli, onde gridando corsero [134] dalla loro madre cercando ajuto. La paura di que’ ragazzetti fece ridere noi, e servì a distrarci dalla tristezza, in che ci aveano gittati quelle faccie de’ Laponi impegolate di catrame, e quel tormento, che soffrivano quanti erano ivi uomini, ed animali da quei crudelissimi insetti. Le donne erano estremamente brutte, e sporche; e tutto indicava miseria.

A Lapajervi noi cercammo informazioni sul viaggio, che dovevamo fare verso Kantokeino, e nulla ci fu detto di confortante. Eppure non si trattava che della distanza di 70 miglia: ma bisognava attraversare parecchi laghi, risalire, e discendere varii fiumi, affrontar paludi, rinunciare a trovare abitazioni di sorta, e a vedere stampa di umana creatura per tutto il viaggio. Al più ci si diede ad intendere che avremmo potuto trovare qualche pescatore lapone sul lago di Pallajervi; e su questa speranza rimontammo il fiumicello Pallajoki, che viene da quel lago. Ho detto già la fatica occorsa in navigarlo: gli ostacoli furono i medesimi, ed anzi crebbero, perchè molte volte fummo obbligati a portare noi stessi le nostre robe per alleggerire il battello. Quando poi giungemmo al lago si alzò un sì fiero vento, che il battello corse gran pericolo di sommergersi, prima di giungere all’isoletta Kintasari. Posto piede [135] in essa, trovammo tre pescatori, i quali s’avean fatta una capannuccia con rami d’alberi, ed ivi aveano esposti al sole molti pesci per seccarli. In mezz’ora può farsi il giro di quell’isola, accanto alla quale ve n’ha un’altra più piccola. Da quella, in cui eravamo, vedevasi il circuito del lago, formato da piccole alture coperte di musco, con boschetti frammezzati di betulla e di abeti. Dappertutto poi avevamo d’innanzi il paesaggio, che ho già descritto; e la nostra immaginazione si esaltava a segno, che pareaci d’essere in un’isola incantata. Mai non avevamo veduta cosa simile: il sole non calava mai giù dell’orizzonte; non vedevamo altri colori che il bianco e il verde; e la forma delle casucce de’ pastori, e quella, novissima per noi, de’ fiori che smaltavano il suolo, la novità degli uccelli, che empivano i boschi, e facevano eccheggiar l’aria de’ loro canti: tutto ci riempiva di sorpresa, di ammirazione, di diletto. La nostra tenda quando fu piantata, pareva la reggia dell’isola dominante; e superava in lusso la capannuccia de’ nostri Laponi, come la residenza di un sultano dell’Asia supera le catapecchie de’ suoi schiavi. Ci mettemmo nel nostro battello per contemplare in distanza quel nostro regno chimerico; e n’andammo superbi. Avevamo fatto stendere [136] nell’interno della tenda foglie di betulla, e musco; ed olezzava il luogo di un grato profumo. I nostri pescatori erano incantati dello splendore di un tale stabilimento; e per la prima volta poterono farsi idea delle pompose abitazioni de’ popoli inciviliti!!!

Tre giorni ci fermammo ivi deliziandoci; e que’ tre giorni ci parvero corti. Ivi non avevamo il flagello delle zenzale, poichè un vento assai forte ne le avea cacciate lungi: quel vento avea anche rinfrescata l’aria. Noi andammo raccogliendo piante ed insetti, e cacciando quadrupedi, ed uccelli; ed un nuovo piacere ci recava il ritorno de’ nostri pescatori: ritorno che assai prima che li vedessimo, venivaci annunciato da una nube di rondinelle acquatiche, le quali nudrendosi di piccoli pesci non cessano di fare la loro corte a’ pescatori, trovando sempre di che guadagnarvi. Per lo che questi uccelli, pieni d’intelligenza, veggonsi regolarmente venir la mattina al luogo ove i pescatori hanno dormito, quasi avvertendoli qualmente è tempo di porsi all’opera; e partono coi battelli pescarecci, e servono a’ pescatori in luogo di bussola, volando innanzi a quelle parti del lago, ove veggono l’adunamento de’ pesci, perciocchè hanno vista acutissima. Le loro grida poi, e il loro immergersi nell’acqua [137] serve per non fallace segno, che con ottimo successo in quella parte saranno gittate le reti. Quelle rondinelle sono sì famigliari co’ loro amici, che vengono sul battello in presenza loro; e come lo scoppio delle nostre armi avrebbe potuto spaventarle, i nostri pescatori pregarono a non usarne; e così feci.

Mentre però così ci sollazzavamo in codesta isola incantata, non perdevamo di mira il nostro viaggio. Mancavaci qualche Lapone viaggiatore, che ci ajutasse ad attraversar le montagne colle sue renne, e ci aditasse i passaggi, pe’ quali potere inoltrarci alla nostra meta. Uno de’ nostri pescatori andò per cercare, ed accordare chi ci prestasse l’opera, della quale abbisognavamo; e trovò, ed appuntò tutto, e noi movemmo al luogo, ov’egli avea concertato che troveremmo que’ Laponi. Erano sei uomini, ed una ragazza di circa diciotto anni. Stavano sdrajati sotto una betulla, a’ rami della quale aveano appese lo loro provvigioni, consistenti in pesce seccato al sole, ed aveano in mezzo a loro un gran fuoco, a cui facevano arrostire pesce fresco, infilzato in una bacchetta, che andavano voltando di tratto in tratto, affinchè quel pesce prendesse il calor del fuoco per ogni verso. La ragazza fu la prima a vederci giungere; e n’avvertì i suoi; ma essi [138] nè si mossero allora, nè alcun’attenzione mostrarono per noi quando fummo smontati di battello. Erano costoro vestiti di una specie di camiciotto annerito dal fumo, e fatto di pelle di renna, con un collo alto di dietro, e ben dritto: aveano alle reni una cintura, che stringeva quel camiciotto, a modo che gli dava l’aria di un sacco, ove riponevano tutto quello, ch’era di loro uso: portavano inoltre de’ pantaloni, e degli stivaletti; cose fatte anch’esse di pelle di renna; e i piedi di quegli stivaletti erano molto larghi, e pieni di una sorta di fieno ch’essi pestano, e rendono morbido quanto la canapa. La ragazza avea de’ pantaloni anch’essa, e degli stivaletti come gli uomini; ma i suoi vestiti erano di lana, e di un panno verde era il suo berretto, che s’alzava dritto, e colla punta sulla cima della testa, a un di presso come il berretto degli antichi popoli della Scizia.

Que’ Laponi erano quasi tutti piccoli; e i tratti della loro fisonomia più caratteristici consistevano in avere le gote spianate, il mento aguzzo, e molto sporgenti gli ossi delle guancie. La ragazza era lontana dall’esser bella. Di sei uomini quattro aveano i capelli neri: cosa che mi fece presumere che tra i Laponi prevalesse questo colore, con che si distinguessero [139] dai Finlandesi, non ne avendo io tra questi trovato uno solo che avesse i capelli di questo colore. E le persone poi, e il vestito di codesti Laponi, erano di una sporcizia inesprimibile: tenevano nelle mani il pesce che doveano mangiare, e l’olio che ne colava, dalle loro braccia scendeva alle maniche del vestito, sicchè anche da lontano se ne poteva sentir l’odore. La ragazza era passabilmente netta; ed avea qualche cosa di quella decenza, che forma il più bell’ornamento del suo sesso: il che potemmo vedere dal modo di ricusare la bevanda che le si offeriva, e segnatamente l’acquavite, ch’essa pure amava quanto gli uomini. Onde dissi meco stesso: ve’ dunque, che anche in mezzo alla Laponia le donne hanno quell’affettazione di modestia, quell’aria di ricusare ciò che pure desiderano vivamente di avere!

Noi sbarcammo le nostre robe, e saldammo i nostri conti co’ buoni Finlandesi che sì fedelmente e sì bene ci aveano servito da Muonionisca fin lì. Avemmo per essi tutti i riguardi, che il loro buon procedere poteva aspettarsi; e vedemmo un sincero sentimento di affetto, e di riconoscenza destar loro le lagrime; e ci presero per le mani, e ci dissero le più toccanti cose. A modo che i Laponi, che furono testimoni di questa scena, a malgrado del [140] loro carattere flemmatico ne sembrarono commossi: cosa che a noi fece piacere, perchè potevano formarsi buona idea di noi.

La partenza da noi di que’ buoni Finlandesi fu un’epoca notabile nel nostro viaggio. A noi in quel momento parve di rimanere distaccati dal rimanente del mondo; e veramente la nostra situazione era critica. La sorte nostra stava tutta nelle mani di que’ Laponi; e da essi dipendeva non solo il compimento del nostro viaggio, ma la vita nostra medesima. Solamente ch’essi avessero creduta impossibile la continuazione del nostro viaggio, e ci avessero abbandonati a noi, come ritornare alla beata nostra isoletta di Kintasari? Non avevamo più battello, con cui attraversare il lago, sul quale essa giace. Questi tristi pensieri ci occupavano: se non che d’altra parte poi considerammo, che que’ Laponi non erano un popolo crudele; e quantunque fossero sette colla ragazza, noi, sebben quattro soli, eravamo bastantemente forti per farli stare al dovere. La ragione, per la quale erano venuti in tanti, dissero essere per dover portare le robe nostre, attesochè in quella stagione, in cui eravamo, le morditure delle zenzale rendevano intrattabili le renne, e talvolta pericolose, perchè sì forte è il tormento, che soffrono da quegl’insetti, che arrabbiano [141] disperatamente fuggendo. Caricaronsi dunque delle robe, spartendole tra loro colla discretezza di darne meno a chi era meno robusto. Per animarli a ben servirci, nell’atto che facevano gl’involti, noi demmo a ciascheduno un bicchiere di acquavite, e ne promettemmo un secondo al momento della partenza. Ma appena ebbero avuto questo secondo ne chiesero un terzo, giovandoci di un proverbio lapone, che dice: Prima di porti in viaggio bevi un bicchiere di acquavite per la salute del corpo; e partendo bevine un altro per trovar coraggio a terminarlo. In fine ci mettemmo in istrada: uno di loro andava innanzi a tutti: gli altri lo seguivano in fila ad uno ad uno; e noi facevamo la retroguardia per vegliare sulle cose nostre, e nissuna se ne perdesse: ma stando di dietro a coloro, rimanevamo ammorbati dal pestifero odore, che cominciarono a tramandare tosto che si posero in sudore: chè flagello di puzza simile non soffrii in vita mia giammai.

Estremo era il caldo, montando il termometro all’ombra a 29 gradi, e a 45 gradi esposto al sole. Il terreno ci abbruciava i piedi, e i pochi alberelli, che potevamo incontrare, non ci difendevano dai raggi del sole. Eravamo poco meno che soffocati; e per [142] giunta dovevamo portare abiti di panno ben fitto per salvarci possibilmente dalle punture delle zenzale; intanto che il velo, con cui tenevamo per la stessa ragione coperta la testa, c’impediva la libera respirazione. E questo gran caldo operava pure potentemente sui nostri Laponi, che aveano bevuto i tre bicchieri d’acquavite. Costoro si fermavano a prender riposo ad ogni momento, e domandavano altr’acquavite. Ben ci accorgemmo di non aver più a fare co’ Finlandesi, sobrii al pari che robusti, operosi ed arditi: costoro invece non pensavano che alla loro gola. In sei miglia che facemmo si fermarono cinquanta volte, e sempre chiedendo acquavite. Se non fossimo stati forti a ricusarla, non saremmo andati innanzi di più in quel giorno. Per fare sei miglia ci vollero sei ore: bisognava che li cacciassimo innanzi per forza, e ben guardare che non si allontanassero. Quando uno di loro cadeva, tutti gli altri fermavansi; e quello era il segnale di far alto: con che tutta la carovana si gittava per terra: e ci volevano suppliche d’ogni maniera per farli alzare. Finalmente arrivammo alle sponde di un picciol lago detto Kerijervi, sulla destra del quale stendesi una catena di montagne, che forma il confine del Finmark, ossia della Laponia norvegia e svedese. [143] Ivi trovammo due battelli interamente sdrusciti con remi mezzo rotti e disuguali in lunghezza, i quali erano stati tutto il lungo inverno sepolti nella neve, ed esposti alla inclemenza delle stagioni. Con questi dovevamo attraversare per due miglia quel lago. Due dei nostri Laponi si misero a remigare, e due altri a cacciar fuori continuamente l’acqua che entrava nel battello per le fessure: certo essendo che se non avessero posta in tale operazione la maggiore possibile attività, noi saremmo rimasti annegati. In sì gran frangente ci toccò eziandio di vedere i nostri remiganti andare con tanta flemma e indolenza, con quanta sarebbesi potuto andare in una partita di piacere; e se toccammo infine la riva sani e salvi, noi non ne fummo obbligati che al nostro gridare, pestare, minacciare, bastonare infine sì poltrona canaglia; e metterci all’opera noi medesimi tanto coi nostri cappelli cacciando fuori l’acqua, quanto colle nostre braccia vogando.

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CAPO XIII.

Erba angelica. Arrivo al Pepojovaivi. Incontro di pescatori laponi. Loro usi e sospetti sui viaggiatori. Cagioni di questi sospetti. Quantità immensa di pesce nel Pepojovaivi, ed acque adjacenti. Caccia su quel fiume. Altre particolarità sui Laponi nomadi. Arrivo a Kantokeino.

Usciti di quel lago ripigliammo il cammino a piedi; ma intanto una delle nostre guide avendo sulla riva del medesimo adocchiata una certa pianta, corse a strapparla, e se la divorò con incredibile avidità. Che pianta dunque era questa? Era un’angelica della miglior forza e vivacità. Cresce essa appunto in codeste parti polari; ed è il più eccellente antiscorbutico, che possa darsi. Mostrai a quell’uomo piacere di gustarla; e la trovai di sì buon sapore, che ne divenni avido quanto un lapone; e debbo dire ingenuamente che se mi sono mantenuto sano in codeste parti, fin che mi vi sono trattenuto, lo debbo all’angelica, di cui ho fatto uso continuo, potendo averne; ed essa mi servì a temperare i tristi effetti dei [145] troppo riscaldanti e poco sani cibi, de’ quali la necessità ci obbligava a far uso, com’erano il pesce o salato, o seccato al sole, la carne di renna di tal modo seccata, il formaggio secco, il biscotto e l’acquavite. Prova n’è, che il mio compagno, che non faceva uso di questa pianta benefica, spesso provava dolori di stomaco, accompagnati da indigestioni.

Quantunque fosse mezza notte le zenzale non lasciavano di tormentarci. L’aria era calma; e le zenzale moltiplicavansi attratte dall’odore esalato da que’ sporchi Laponi; defatigavaci inoltre il musco assai alto, e l’ingombro de’ cespugli. Facemmo tre miglia; e non avevamo più forza di andar oltre. Fortunatamente trovammo la sponda del fiume Pepojovaivi, ed alcuni pescatori sdrajati attorno ad un fuoco con due ragazzi di circa 5, o 6 anni. Deliberammo di passar ivi la notte accanto a loro, mentre essi facevano cuocere la loro cena. Ma le zenzale ci perseguitarono a segno che non ci fu possibile aprir bocca per mangiare, senza inghiottirne centinaja. L’aria era poco agitata: il fumo saliva in lunga colonna perpendicolare; e non ci era di verun soccorso. Dovevamo mangiando tenere i guanti, e prendere tutte le precauzioni ad ogni boccone, per introdurlo [146] sotto il velo che ci copriva la testa, onde non fosse accompagnato da veruna di quelle implacabili persecutrici. Ma quante e quante, ciò nondimeno ci dovevamo aver sotto i denti! Per evitare possibilmente tanta noja niun altro partito trovammo, che quello d’immergere la testa nel fumo ad ogni boccone che volevamo prendere. Era però insopportabile anche il calore, che così facendo dovevamo sostenere: ma almeno questo incomodo ci parve preferibile all’orrore d’inghiottire ad ogn’istante insetti sì disgustosi: d’altra parte non potevamo pensare ad alzare la nostra tenda, perchè l’opera voleva tempo e fatica; e i nostri Laponi aveano bisogno di riposo.

Finita che avemmo la trista cena, ci mettemmo ad osservare gli usi e le azioni di que’ Laponi ivi trovati, per incominciare a prendere un’idea de’ loro costumi e delle loro abitudini. I due ragazzi mentovati aveano e faccia e corpo estremamente grossi, così che parevano gonfii; ma però erano vivaci e robusti. La nostra presenza non fece loro sensazione veruna; nè punto si sconcertarono. Essi andavano al fiume, ne recavano acqua, e divertivansi gittandola ora su di noi, ed ora sulle nostre robe: guastavano insolentemente tutto quello, che cadeva sotto le loro mani; e disordinavano tutto [147] quello che fosse alla loro portata: nè i loro genitori s’imbarazzavano punto di ciò che facessero, come se niente fosse. E mentre i loro figli si esercitavano in fare a noi tutto il male, di che erano capaci, essi non badavano che a cucinare diverse sorte di pesci, che tagliati in varii pezzi facevano bollire in una pignatta con grasso secco di renna, e un poco di farina. Mentre poi la pignatta era ancora sul fuoco, tutti que’ Laponi vi si assisero intorno con un cucchiajo in mano; e quando credettero che la pietanza fosse cotta, incominciarono a dare dentro quella pignatta uno alla volta, adoperando quel loro cucchiajo. Chi n’avea preso abbastanza si poneva a dormire, e svegliato poscia tornava a mangiare; e così vicendevolmente finchè fossero satolli. In tutto questo niun’altra regola potemmo vedere da costoro osservata, se non quella dell’appetito e dell’istinto. Quando non erano occupati a mangiare, dormivano, o pipavano. Avendo due di costoro preferito il pipare al dormire, cercammo di legare con essi discorso. Ci domandarono se uno di noi fosse il re, o un commissario del re. Si mostrarono curiosi di sapere perchè fossimo penetrati nel loro paese, e cosa fossimo andati a farvi. Io pensai che sospettassero in noi degli emissarii mandati per prendere [148] cognizione di loro, del loro stato, delle loro ricchezze e della loro condotta; e da una folla di cose, che il nostro interprete non sempre facilmente intendeva, ci parve poter comprendere che cercavano di convincerci di loro estrema povertà. Nè le loro risposte alle nostre domande erano di quella franchezza, che potevamo attenderci dalla loro semplicità. Le passioni che sì spesso allontanano gli uomini dal buon senso, e dalla verità, danno della politica e della destrezza al più stupido; e non v’è passione più atta a produr questo effetto, quanto l’amor proprio e la cura interessata di conservare la propria roba. Ora bisogna sapere che quando i re del Nord mandarono missionarii in quelle deserte regioni per predicarvi l’evangelo, non solamente que’ zelanti apostoli fecero pagare ai miserabili indigeni le spese del loro viaggio, ma diedero inoltre a intender loro che dovevano ricompensarli delle pene che a riguardo d’essi s’aveano prese. Quel popolo errabondo fino allora era vissuto senza ministri di culto, e senza alcun peso a questo titolo. Invocava al bisogno, e quando così gli piaceva, un certo numero di Dei che non gli costavano niente fuori che il sacrifizio di una renna, la quale non veniva offerta che di tempo in tempo, e di cui agli Dei non toccavano [149] che le ossa e le corna, poichè la carne mangiavasi dall’offerente. Si può quindi presumere che non senza rincrescimento que’ poveri Laponi si vedessero sforzati a dividere i loro beni con gente straniera, che non capivano in che potesse loro essere utile. Ma deboli, indolenti, poltroni per carattere, e per fisica costituzione; d’altra parte dispersi e disuniti in virtù della loro maniera di vivere, attaccati puramente alle loro greggie ed incapaci di combinare alcun mezzo di resistenza al dispotismo, credettero con sommissione, e senza opposizione veruna, a tutto quello che a’ quei zelanti stranieri piacque di dare loro ad intendere; e per salvare il resto piegaronsi a dare a coloro una parte del loro avere. Il Lapone ignorante e povero pagò con rassegnazione le requisizioni de’ missionarii, i quali in ricambio gli promisero la felicità di un altro mondo, che senza dubbio per uomini sì limitati di mente non poteva consistere che in bere acquavite dalla mattina alla sera. Ma l’interesse apre gli occhi anche ai più rozzi uomini. I Laponi non potevano concepire per qual ragione, e meno poi per qual diritto dovessero essi dividere quanto aveano cogl’inviati di un governo, la cui polizia, le cui leggi, la cui giustizia non erano loro di alcuna utilità. Ed in fatti non [150] consideravano i riformatori ed altri inviati, che come ladroni, che preferivano di vivere agiatamente a spese altrui, piuttosto che correr dietro con tanta fatica alle renne, ed occuparsi nella caccia e nella pesca. Essi non potevano sperare nè protezione, nè profitto da persone, le quali infin de’ conti bevendo e mangiando, consumavano provvigioni bastanti a cento di loro per sussistere. Così la pensavano i veri Laponi, vale a dire quegli uomini erranti, i quali contenti dei deserti, ove sono nati, stannosi ne’ recinti delle loro montagne, e non si accostano mai abbastanza alle nazioni incivilite per acquistare qualche cognizione sulla forma delle loro costituzioni. Liberi per diritto imperscrittibile di natura, non concepiscono punto la necessità di leggi, atteso il modo con cui vivono. Il paese che abitano, non converrebbe ad alcun’altra razza d’uomini. Essi trovano nella carne delle renne, e in un vegetabile che ogni animale rigetta, il nudrimento ad essi adattato. Società? la trovano nella unione di alcune famiglie, avvicinate da bisogni comuni; e quando accade che due famiglie di questo genere si trovino sul medesimo suolo colle loro greggie, v’è spazio bastante perchè l’una si accosti all’altra, e le tenga il discorso che Abramo tenne a Lot: Se tu prendi a [151] mano manca, io andrò a mano dritta; e se tu andrai alla dritta, io andrò a manca.

Noi stentammo molto a persuadere que’ Laponi, che non eravamo nè re, nè inviati, nè missionari; ma persone da curiosità, e da bisogno d’istruirci, condotti in quelle loro contrade. Per essi anche queste erano idee astratte, pienamente incomprensibili. In tutti però i discorsi, che passarono fra essi e noi, non potemmo notare in essi il minimo indizio di una credenza religiosa. Nè quando mettevansi a mangiare, o aveano finito il loro pasto; nè quando andavano al riposo, o la mattina si alzavano, li vedemmo mai alzar gli occhi al cielo per ringraziare il Dio benefattore, che provvedeva ai loro bisogni.

Cercando noi di stabilire qual potess’essere il calore del sole a mezza notte, tempo in cui colà non è alto sull’orizzonte più di due o tre de’ suoi diametri, volemmo provare se potessimo accendere le nostre pipe con un cristallo. I Laponi meravigliaronsi fortemente, vedendo come tosto le nostre pipe fumarono; e noi tememmo che ci tenessero per tanti stregoni. Per lo che domandammo loro se pensassero che tra essi fossero uomini eccellenti in questo genere di cognizioni; ed avevamo infatti udito molto parlarsi di stregoni di Laponia. Il fatto [152] è però che codesti nostri Laponi ci dissero di no; aggiungendo che s’inquietavano poco assai se ve ne fossero, o non ve ne fossero. A tutte le ricerche che loro facevamo, rispondevano coll’aria della più grande indifferenza, e di un tuono da far credere che fossero stanchi della insipida nostra conversazione. Anzi quelle ricerche nostre non facevano che svegliare la loro diffidenza e inquietezza; e forse forse la persuasione che fossimo veramente commissarii mandati dal Governo. E quando loro domandammo ove fossero le loro renne, e quante ne avessero, ci risposero essere poverissimi; che ne aveano possedute ventiquattro, ma che loro non ne rimanevano più che sette, essendo le altre state divorate dai lupi. E ciò era vero; e di tale disastro de’ Laponi noi avevamo udito parlare in Uleaborg.

È un singolar fenomeno questo, che il numero de’ lupi in Laponia siasi aumentato successivamente ciascun anno dopo il cominciamento della guerra in Finlandia. Si sono allegate varie congetture per ispiegarlo: io credo che il miglior partito sia quello di aspettare lumi migliori, e sul presente sospendere ogni giudizio.

Intanto ripigliammo il viaggio per giungere a Kantokeino animati dal pensiero che non [153] avremmo più a sostenere i tanti ostacoli congiunti col risalire correnti di fiumi; perciocchè il fiume che avevamo d’avanti, guidava le sue acque verso il Mar-glaciale; e le cataratte del Pepojovaivi non erano tali, a cui non potessero bastare i nostri Laponi, ancorchè deboli, goffi, e facili ad imbrogliarsi per ogni minimo intoppo, che incontrassero.

All’atto d’imbarcarci sul Pepojovaivi lasciammo sulla sua sponda la ragazza, di cui ho già parlato. Avevamo due battelli, e tre Laponi stavano al servizio di ciascuno di questi: uno d’essi nuotava in avanti, un altro teneva il remo a foggia di timone, e il terzo era continuamente occupato a gittar fuori del battello l’acqua. Costoro, senza che noi ce ne accorgessimo fecero una diversione con animo di andar a vedere alcune reti da essi piantate un giorno o due prima. La diversione consisteva in avere lasciato il corso del fiume, e in essersi internati nell’alveo di uno minore, che in quello metteva foce. Per darci poi ragione della cosa, risposero d’aver fatto, e di fare ciò che conveniva; e che ci avrebbero in poco tempo condotti a Kantokeino. Non avendo nè pratica, nè carta, con cui regolarci, dovemmo starci al loro detto: ma non tardammo a vedere ch’era loro intenzione raccogliere il pesce [154] trovato nelle reti: le quali reti vedemmo in molte parti squarciate, ed il pesce uscitone: ma tanta era la quantità del pesce in quelle acque, ch’essi ne presero in gran copia in tutte le reti che si erano conservate intere. Usano i Laponi tenere sempre le reti in acqua, e quando hanno bisogno di una certa provvigione, vanno alle reti, e prendono quello, che sono già sicuri di trovarvi, e lo seccano all’aria, e al sole. Ma qual differenza tra questi pescatori, e quelli dell’isola Kintasari! I secondi tengono nel miglior ordine tutti gli utensili necessarii; e in quanto alle reti diligentemente le asciugano tratte che le abbiano dall’acqua: i primi le lasciano marcire nell’acqua. Ma que’ di Kintasari erano Finlandesi passati in Laponia; quelli, che di presente avevamo, erano Laponi in tutta l’estensione del termine.

Noi arrivammo finalmente a Kantokeino, situata al confluente del Pepojovaivi, e dell’Alten, dopo un viaggio di 40 miglia dal luogo, d’onde eravamo partiti. Nel corso seguito del Pepojovaivi incontrammo diversi laghi, o spazii di alluvioni di questo fiume, i quali presentano amenissime prospettive, per la quantità di belle betulle, che non solo s’alzano superbe sulle sponde, ma sorgono a gruppi anche dal seno stesso delle acque. E in queste acque veggonsi [155] guizzare i pesci in incredibile quantità, e molti fin anche gittarsi fuori per attrappare gl’insetti, che vi spaziano sopra. I nostri Laponi, sorpresi anch’essi di tanta fecondità, pensarono di approfittarne al loro ritorno. Le cataratte poi del Pepojovaivi non erano nè considerabili, nè guari pericolose: pe’ nostri Finlandesi sarebbero stati un giuoco, e massime per quel bravo Simone di Kollare; ma per codesti Laponi erano una grande cosa, non avendo nè pratica, nè talento per condursi a passarle colla facilità, colla quale potevansi superarle: ond’è che ci toccava assai spesso scendere di battello, e fare gran parte di strada a piedi lungo la riva. Allora due di coloro uscivano del battello, e uno solo rimaneva sopra ciascuno de’ due. Il primo procedeva innanzi, e rimorchiava il battello con una corda fatta di scorza di betulla, e l’altro con egual corda stava di dietro, fermandone, o moderandone il corso, quando la corrente era troppo forte. Ma se per caso costoro vedevano una pianta di angelica, vi saltavano addosso con una inesprimibile avidità; e quando le loro mani l’aveano abbrancata, addio corda! addio battello! non se ne rammentavano più; ed avrebbero lasciata andare la corda, e sofferto che il battello corresse a fracassarsi tra gli scogli, piuttosto che abbandonare [156] la loro preda. La più parte del tempo, in cui noi eravamo in battello, essi erano ben più occupati a ciarlar tra loro, o a pipare, che a stare attenti onde non incontrar pericolo. Tanta loro incuria teneva in continuo studio noi; e spesso dovevamo dar loro qualche avvertimento: ma credete voi che badassero? Essi amavano meglio lasciar correre il battello contro qualche scoglio, che interrompere la grave loro occupazione di mangiare angelica, e di fumare tabacco. Ed una volta accadde loro di prendere una falsa direzione sopra un sito del fiume basso d’acqua, e tutto pieno di scogli; cosicchè si trovarono impegnati in mezzo a larghe pietre per modo, che non potevano muoversi. In sì trista circostanza il Lapone che maneggiava i remi s’alzò dal suo sedile; e vedendolo prendere un’aria seria e risoluta, credemmo che volesse fare un grande sforzo per superare ogni ostacolo. No, signori. Il movimento fatto da costui con tanta importanza non avea altr’oggetto che di scaricare il ventre. Noi eravamo ad ogni momento lì lì per perdere la pazienza con questa razza di bestie; ma non conoscendo i luoghi, e non avendo con chi supplire, dovemmo accomodarci alla loro stupidità, alla loro poltroneria, e allo spettacolo della loro svergognatezza. Sono disceso a queste [157] minute particolarità per dare una idea de’ loro costumi, e delle loro abitudini.

Prima di arrivare a Kantokeino noi volemmo prenderci il divertimento della caccia sul fiume. I nostri Laponi aveano seco un cane, il quale fu obbligato a venirci sempre dietro per terra. Non saprei dire abbastanza l’attenzione, e il buon senso mostrato costantemente da questo povero animale per non perderci in mezzo a tante giravolte che noi dovevamo prendere navigando, e che dal canto suo dovea prender esso sfondando boschi, e cespugli, e deviando per paludi, e per terre coperte di fanghi profondi. Se gli si presentavano due strade, non mancava mai di scegliere la migliore. Se doveva attraversare de’ laghi, o delle isole, osservava prima, paragonava, e si risolveva: tre operazioni della mente, che i nostri Laponi non mostravano certamente di saper fare. Nel corso della sua strada, lungo il fiume, attraverso de’ cespugli, e de’ boschetti esso faceva alzare la selvaggina, la quale nella stagione, in cui eravamo allora, in que’ luoghi è abbondantissima. Noi tirammo ad alcune anitre di una specie particolare a codeste regioni, e particolarmente all’anitra nera, e ad un’altra anitra, distinta per la coda aguzza, come pure ad alcune razze d’oca, e massime a quella che [158] chiamasi anitra albifronte, e a’ tetrai, qui comuni. Altri uccelli curiosi io uccisi nel passare dal fiume a Kantokeino, che n’è distante da circa un miglio. Noi arrivammo a Kantokeino un’ora dopo la mezza notte, e fummo meravigliati trovando tutto il villaggio spaventato, e le donne in camicia agli uscii delle case, e gli uomini sulle strade. La scarica de’ nostri archibugii era stata il motivo del loro terrore, perchè è d’uopo ricordarsi che a mezza notte colà era giorno, sicchè avevamo potuto comodamente tirare agli uccelli a quell’ora; e la gente del paese misura le azioni della vita nelle due porzioni della giornata di 24 ore, come se una fosse il dì, e l’altra la notte.

[159]

CAPO XIV.

Isolamento di Kantokeino. Ragione del confine apparentemente irragionevole. Musica lapona. Maestro di scuola: sue imprese, e sua singolare incombenza. Notizie statistiche su questa parrocchia, e stato economico de’ suoi abitanti. Partenza, e cordiali addii delle donne del villaggio. Il bel fiume dell’Alten. Cataratta magnifica. Rapidità singolare della corrente. Chiesa pigmea. Montagne. Guerra colle zenzale. Incontro di un pescatore di sermoni. Laberinto. Arrivo ad Alten.

Fino all’epoca, in cui mettemmo piede in Kantokeino, questo villaggio era stato considerato come un’isola inaccessibile in questa stagione dell’anno ad ogni viaggiatore. Il paese che lo circonda, viene dai geografi danesi descritto come pieno di aspre montagne, separate le une dalle altre da paludi impraticabili. E la sicurezza, in cui questa opinione poneva gli abitanti, veniva ad essere stata turbata, siccome ho detto, dalla esplosione delle nostre armi da fuoco. Non sapevano a che attribuire quel rimbombo, ed erano ben lontani dal pensare [160] di poter avere una visita di alcuni stranieri curiosi.

Kantokeino è un villaggio di quattro famiglie, e di un ministro del culto che serve la chiesa. Il villaggio fu compreso nei domini del re di Danimarca nella linea di demarcazione stabilita, e riconosciuta da questo monarca, e da quello di Svezia. Osservando la carta non si sa comprendere come sia stato preso qui il confine, in luogo di seguire le creste delle montagne, separazione più naturale tra il mezzodì, e il settentrione, quando diversamente si è fatto voltare il territorio danese verso il mezzodì con un angolo verso la Laponia, che dovrebbe appartenere alla Svezia. Cercammo la ragione di un fatto contrario, per ciò che apparisce, alla ragione ed alla giustizia; e ci fu detto, che il commissario svedese si era lasciato corrompere dall’oro della Danimarca, quell’uomo dipingendoci come perduto tra le donne e il vino. Il mio colonnello svedese non mancò da buon patriota di rimaner colpito da tanto tradimento dell’interesse del suo paese; e facemmo insieme cento considerazioni, non solo sui differenti mezzi che la malizia umana può condurre gli uomini a corrompere, e a lasciarsi corrompere; ma eziandio sulla sottigliezza, e sui secondi fini, che i diplomatici possono avere [161] nelle transazioni politiche. Fatto è intanto che tutti que’ discorsi, e tutte le nostre investigazioni, e deduzioni reggevansi sopra un falso supposto. La vera ragione di quella eccentrica linea di demarcazione era cosa tutta naturale, e conforme al trattato del 1751 concluso tra le Corti di Stockholm, e di Copenaghen, nel qual trattato restò convenuto che i confini tra i due Stati sarebbero fissati dalla sorgente de’ fiumi: cioè, che tutta la estensione de’ paesi percorsi dai fiumi scendenti all’Oceano-glaciale sarebbe della Danimarca, e della Svezia quelli, i cui fiumi cadessero nel golfo della Botnia. Un anno incirca dopo il mio viaggio in Laponia conobbi a Drontheim, capitale della Norvegia settentrionale, il commissario danese, ch’era stato impiegato in quell’affare, uffizial bravo, ed uomo per ogni verso rispettabile, il quale mi diede conto del vero motivo della cosa, e rise della favola, che ne correva.

I miei leggitori s’immagineranno facilmente che io ho assai poche cose da dire di Kantokeino. Debbo dire però, che tra i suoi pochi abitanti uno ve n’era, il quale qualificavasi col titolo di maestro di scuola: denominazione che mi fece concepire un’alta idea de’ Kantokeinieni; e m’aspettava di trovare un simulacro [162] di curato, simile a quello di Muonionisca. Codesto personaggio, dissi tra me, verrà indubitatamente a gustare la nostr’acquavite, e ci parlerà un poco di latino misto a qualche parola lapona. Ma non ci era riserbata sì bella sorte. Il vero pastore era assente, andato in Norvegia a trovare i suoi parenti; e per ordinario i ministri e i missionarii durante l’estate non rimangonsi in Laponia: cosa che nella circostanza a noi fu giovevole, perchè trovammo vuota la sua abitazione, la quale però non consisteva che in una camera; e d’essa approfittammo. Ivi adunque riposammo rifacendoci delle fatiche sofferte; e ci trovammo poi meglio disposti a visitare il villaggio, ove vedemmo tutta la potenza delle leggi emanate dalla Danimarca.

Il nostro primo pensiero fu quello di pagare le nostre guide. Ma prima di licenziarle volemmo assicurarci da noi medesimi de’ loro talenti in un altro genere di cognizioni, distinto da quello, in cui ci aveano comprovata la loro industria. Noi desiderammo di udirli cantare; e così prender notizia della musica lapona. Per ottener questo feci giuocare denaro ed acquavite, senza alcun costrutto: perciocchè que’ miserabili non seppero infine far altro che qualche urlo spaventoso, a segno che mi vidi [163] obbligato a turarmi ben bene le orecchie. Laonde dovetti infine persuadermi che i Laponi erranti non hanno veruna idea della minima armonia; e che sono assolutamente incapaci di un piacere che la natura, per quanto ho potuto apprendere, non ha negato a nessuna orda, o nazione. La musica pratica sembra essere affatto sbandita in queste contrade isolate e deserte. In esse non v’è altra musica, che quella, la quale gli uccelli fanno sentire ne’ boschi; quella de’ ruscelli scorrenti sui loro letti ghiajosi; quella de’ venti che fischiano attraversando le folte foreste; quella infine delle acque di tanti fiumi, che precipitansi giù per le frequenti cataratte. Ho però voluto tener conto di quegli urli, che ho accennati. Poche sono le note da me registrate; più poche di quelle ch’essi urlando espressero; ma queste non erano altra cosa che una precisa ripetizione delle prime. Non mancai nemmeno di cercar ragione di certe parole, che articolavano in que’ loro suoni, domandandone il significato al nostro interprete, e sperando di udire che si trattasse di qualche tratto di un inno nazionale, o di cosa simile; ma quelle parole che gridavano, anzichè esprimere, non erano che una monotona e sciocca ripetizione delle stesse idee sulle quali ritornavano in maniera insopportabile. [164] P. e.: buon viaggio, miei buoni signori, signori, signori, signori, signori: buon viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, miei buoni signori, signori: un buon viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, viaggio, etc., così tirando innanzi fin che avessero fiato; e quando il fiato era mancato la canzone rimaneva finita.

Ho detto dei musici laponi: debbo dire del maestro di scuola lapone. Il titolo, quando lo intesi la prima volta, mi fece senso, considerando che si era in un paese enormemente lontano da ogni fonte d’istruzione; e se non altro per la singolarità del caso, colui che se ne qualificava, avea ragione di andarne superbo. Ed infatti n’era invanito come un cortigiano che nei nostri paesi arrivi ad avere un cordone, od una tracolla rossa o turchina. Ad osservarlo, gli si vedea in faccia l’uomo glorioso e beato. Ma costui non era in sostanza nè di persona, nè di maniere più che un vero lapone, come tutti quanti quelli, in mezzo ai quali viveva; se non che per un difetto di conformazione egli avea qualche cosa in proprio, per cui nel camminare faceva ridere; e questa qualche cosa era il tenere i piedi costantemente rivolti di fuori nella maniera che i nostri maestri di ballo chiamano di prima posizione.

[165]

Quest’uomo, stato qualche tempo in Norvegia, avea imparata la lingua danese, o più veramente il gergo che si parla in Norvegia; e questo era stato il gran capitale, che gli avea fruttato l’impiego più singolare che io m’abbia mai avuta occasione di osservare in alcun paese del mondo. Il ministro della parrocchia non sapendo una parola della lingua lapona non poteva comunicare i suoi pensieri al suo uditorio; e intanto voleva, o per dir meglio, doveva predicare. Per rimediare all’inconveniente, ecco il partito che si prese. Il maestro di scuola si metteva sotto la cattedra; e quando il ministro avea recitato un periodo del suo sermone, si fermava; e il maestro di scuola lo ripeteva a tutta l’adunanza in lingua lapona. Immaginate l’effetto che dovea produrre su que’ popolani la così interrotta e mutilata eloquenza del pastore; e confesso che avrei pagato qualche bella cosa per trovarmi testimonio di questa scena. Siccome poi il predicatore non sapeva una parola di lapone, e perciò non intendeva cosa il maestro di scuola gli facesse dire a quella povera gente, l’assurdità della scena evidentemente cresceva; e per certo voleavi in quel pastore la più gran buona fede del mondo per lusingarsi, che la sua predicazione facesse frutto.

[166]

Del resto importa assai al governo danese che la lingua sua si estenda possibilmente in tutte codeste contrade; e per questo esso ha stabilito in Kantokeino un maestro di scuola, che insegni il danese nelle vicinanze, ed istruisca tutti quelli, che possa tirare a sè. Ma non pareva che quel maestro avesse molto approfittato nella sua dimora in Norvegia, almeno per ciò che riguarda il buon gusto, perciocchè volendo prender moglie avea fatta una scelta, da cui Iddio guardi ogni fedel cristiano. La moglie di costui era una donna non alta più di tre piedi e mezzo, e la più sporca e brutta che potesse mai vedersi di là del circolo artico. Però ci parve che in ricambio il marito avesse acquistato in Norvegia l’arte astuta della persuasione; e che sapesse molto innanzi in fatto di galanteria; perciocchè s’avea acquistato il cuore di una giovinetta della parrocchia, la quale poco tempo dopo si trovò in uno stato, da cui la indiscrezione scoprì quanto il maestro di scuola fosse stato capace d’insegnarle. Questo fatto mise in un brutto imbroglio il pubblico funzionario tanto rispetto alla ragazza, quanto rispetto alla moglie, la quale era ben lontana dal doverlo tassare d’infedeltà. La cosa però finì bene, perchè la creatura nata morì dopo pochi giorni di vita; e [167] la moglie del maestro di scuola prese più vanità dai favori che suo marito avea ottenuti, di quello che rimanesse mortificata dalla prova che le era stato infedele.

Prima di abbandonare Kantokeino è giusto esporre alquante osservazioni di statistica, e di geografia riguardanti il paese. In tutto il distretto della parrocchia, che si estende per circa 200 miglia in lunghezza sopra 66 di larghezza, non vi sono che due luoghi occupati da stabilimenti di Laponi, i quali tutti insieme non contano più di dodici fuochi: gli altri abitanti sono tutti della classe de’ pastori erranti; e per questa ragione non si può additare il numero degl’individui. I Laponi erranti durante l’inverno abitano paesi montuosi; e vanno colle loro tende, e colle loro renne da un luogo all’altro. In estate poi si volgono alle coste, onde avere più facile la pescagione. Ne’ contorni di Kantokeino trovansi alcune belle praterie, e terre coltivabili, che danno orzo e segala, quanto per sei mesi possono gli abitanti consumarne. Qui non si hanno cavalli; e chi vuol viaggiare deve far uso delle sue gambe, o andare per acqua in battello, se è estate: in inverno si va colle slitte tirate dalle renne. Il fieno che si taglia serve per le vacche: le granaglie che si raccolgono, vengono [168] messe in farina, poichè la farina è diventata un articolo di sussistenza sì necessario agli abitanti, che chi non ne ha per tutto l’anno è stimato poverissimo. Ma i Kantokeinieni si ajutano anche più colla pescagione, e cacciagione; ed un popolo avvezzo a tutte le vicende di una vita errante, preferisce alle laboriose occupazioni dell’agricoltore questi mezzi, comunque incerti, onde provvedere a’ suoi bisogni. Il pesce che per loro è superfluo, lo cambiano in granaglia; e così fanno delle pelli d’orso, e d’altri animali. Bisogna però dire, che qui i fiumi, e i laghi sono tanto abbondanti di pesce, che vi si può fare sopra i conti con tutta sicurezza. Così un Lapone guadagna più sopra una pelle d’orso, che sul raccolto che potesse dargli un mezzo acro di terreno coltivato.

La maniera di dar la caccia all’orso in Laponia è la stessa che si usa in Finlandia; ma la caccia della renna selvatica esige sì violenta fatica, che non vi vuole che un Lapone per sostenerla. La renna selvatica non vive in compagnia, ama di star sola in mezzo de’ boschi e nelle montagne; ed ha un incredibile istinto per guardarsi da ogni pericolo. Quando un Lapone la scopre, e lo fa alla distanza di un mezzo miglio, fa un giro sotto vento, e va insensibilmente guadagnando terreno, a forza di [169] strascinarsi a quattro piedi, ed anche sul ventre, finchè possa giungere a tiro di fucile. Un Lapone mi ha assicurato d’essersi così strascinato attraverso del musco, e de’ cespugli per cinque miglia per giungere a luogo più conveniente, onde prendere di mira la sua preda.

Ogni anno in febbrajo si fa una fiera in Kantokeino, alla quale accorrono i Laponi del vicinato, e i mercatanti di Tornea. Questi prendono pelli di renne, di volpi, d’orsi, di lupi, e guanti e stivaletti; e danno invece flanelle comuni, acquavite, tabacco, farina e sale.

Gli abitanti hanno delle vacche, le quali somministrano loro del latte; ed hanno montoni, della cui lana si giovano pei loro bisogni. Quando per nudrire le vacche non hanno fieno sufficiente, raccolgono il musco, di cui le renne si nudrono; e la necessità fa che le vacche se ne contentino. Pe’ montoni v’ha sulle montagne una specie di musco, ch’essi mangiano volentieri; e come codesti animali non sono un oggetto di cambio, vengono generalmente venduti per poca cosa: per modo che noi, comprandone per nostro uso, non li pagammo più di 18 soldi l’uno.

Il popolo di questa contrada non è senza cognizione dell’uso della moneta; nè può dirsi [170] senza passione di averne: di che ci fu prova, quando ci disponemmo a partire, l’esserci stato domandato un piccolo scudo al giorno per ognuno degli uomini, che dovevano accompagnarci; somma enorme per quel paese, e considerabile per noi, che avevamo bisogno di cinque persone. E quando il nostro interprete volle dire che tale pretensione era stravagantissima, seppero rispondere che nella stagione andando alla pesca avrebbero guadagnato di più. Nè mancarono certamente di calcolare, che siccome ben di raro si veggono viaggiatori in quelle contrade, se ne capitano alcuni fuori di fiera, e senza straordinaria evidentissima ragione, si deve credere che abbiano molto denaro, o che sieno mandati dal governo per esaminare il paese; e conseguentemente che sieno ben pagati dal re. In quanto poi a noi non avevamo altri del cui servigio giovarci. Ci acconciammo dunque a que’ patti.

Il dì 9 di luglio fu quello della nostra partenza da Kantokeino. Il tempo era bello: il termometro di Celsius segnava all’ombra 25 gradi, e 40 esposto al sole: messo nell’acqua si abbassava ai 19. Le donne del villaggio vennero ad accompagnare i loro mariti sino al fiume; e ci diedero con molta cordialità il buon viaggio. Il viaggio che intraprendevamo era [171] lungo e penoso; e nissuno delle nostre genti lo avea fatto mai in estate. Eravamo nove persone in tutto; ed avevamo due battelli. La nostra partenza privò il villaggio di due terzi della sua popolazione; e lasciò in vedovanza per qualche tempo i cinque ottavi delle donne maritate. Queste donne ci seguirono cogli occhi finchè una svolta del fiume tolse alla loro vista la nostra flottiglia. E quella sì lercia, e sì piccola moglie del maestro di scuola non fu la meno cordiale ad attestarci l’interessamento sentito per noi, e il rincrescimento suo in separarsi da’ suoi amici, e da’ suoi ospiti. Addio, buon popolo! Addio, buona gente! queste furono le ultime parole che noi udimmo fino alla distanza, in cui esse poterono giungerci.

Era il fiume Alten quello che prendevamo a navigare; e ci parve uno de’ più belli, che fino allora avessimo veduto. Esso è formato nel suo principio da una successione di laghi, differenti per estensione, e per figura, con isolette varie, ornate di bei gruppi di betulle: onde lungi dall’avere un aspetto aspro, e selvaggio, il paese potrebbe piacere anche in un clima temperato. L’acqua poi era chiara come un cristallo, e le sponde coperte di una sabbia finissima.

Io debbo qui dire come, quantunque fossimo [172] sempre durante questo viaggio sull’acqua, noi eravamo tormentati da una sete continua. L’acquavite ce la faceva crescere, e quella de’ laghi, e de’ fiumi, essendo troppo esposta all’azione continua del sole, ci nauseava. Ma se trovavamo una fontana ombreggiata da alberi, od uscente da qualche secreto sbocco di monte, oh! allora che delizia! Ne trovammo alcune di queste fontane, la cui temperatura non andava oltre i quattro, o cinque gradi; facevamo gozzoviglia da epicureo.

Proseguendo il viaggio incontrammo una doppia cateratta in un sito ove le acque dell’Alten si uniscono tutte in un canale, che vien chiuso da un masso enorme di rupi. Ivi la velocità, colla quale la corrente si precipita, produce nel letto inferiore una tale agitazione, che vi si alza una nube di vapori, in cui la luce del sole rifrangendo forma il più maestoso arco baleno, che possa vedersi. Ma ivi non può passarsi per la lunghezza di un miglio: onde dovemmo strascinare per terra i nostri battelli fino al sito, in cui il fiume era praticabile. I Laponi che ci guidavano, aveano sul lembo della cascata stabilito un magazzino di pesci che facevano seccare al sole. Noi, dopo avere ammirato le selvaggie bellezze della cascata, accendemmo sulla riva un fuoco per preparare [173] di que’ pesci, lessandone alcuni, ed altri arrostendone. Mangiato poi che avemmo ci rimettemmo ancora in viaggio, ed a misura che procedevamo, sempre più ci colpiva la magnificenza di quella cataratta; e i numerosi suoi accidenti spiegavano ognora più a’ nostri sguardi l’ammirabile loro maestà. Noi cedemmo al piacere di disegnarla. Ma cosa è il disegno in confronto della realtà?

Noi prendemmo il cammino sopra un braccio del fiume, la cui corrente avea una tale rapidità, che al dire de’ nostri Laponi in un quarto d’ora facemmo circa otto miglia; e per provarci il fatto c’invitarono a tener l’occhio ai nostri orologi; e la prova ci mostrò che avevamo impiegati 20 minuti per fare un miglio di Norvegia, il quale appunto equivale ad otto de’ nostri. I nostri condottieri aveano allora bisogno di qualche riposo; e noi smontammo, ed alzammo le nostre tende presso la piccola chiesa di Massi alla dritta dell’Alten. Ivi accendemmo varii fuochi per difenderci da quegli eterni inimici, che trovavamo pronti da per tutto a succhiarci sino all’ultima stilla il nostro sangue. Intanto innanzi di riposare i nostri Laponi ci domandarono la permissione di andare a gittar la rete nel fiume, ove furono accompagnati dal nostro interprete. Un [174] quarto d’ora dopo ritornarono con più di 200 pesci di diverse sorti, e grandezza; ed alcuni erano lunghi più di un piede. Se ne preparò una parte per nostro pasto: gli altri furono sventrati, e attaccati agli alberi perchè si seccassero.

La mattina seguente prima di rimetterci in viaggio andammo a visitare la chiesa di Massi, situata in mezzo a boschi, e macchie a circa 300 passi dal fiume. Se non avessimo ancora veduto Laponi, vedendo questa chiesa avremmo dovuto concludere che i Laponi sono uomini pigmei; ma come avevamo già veduto che i Laponi non sono pigmei, osservando la singolare picciolezza delle dimensioni, nelle quali questa chiesa è fabbricata, io mi sentii obbligato in coscienza a credere che si fosse qui fabbricato il modello della chiesa, anzi che la chiesa. Immaginatevi ch’essa ha una porta non alta più di tre piedi, un tetto alto ai fianchi sei piedi; e che l’edifizio totale, compreso il vestibolo, la nave, e la sacristia, non eccede in lunghezza 120, o 130 piedi, e i 12 in larghezza. Più che penso a questa chiesa pigmea, e più mi perdo in mille fantasie, che non mi so spiegare. Che siasi voluto fare la satira delle colossali chiese che si ammirano in tutti gli altri paesi? Ma nè i Laponi s’imbarazzano a far [175] satire sui paesi che non conoscono; nè sono stati sicuramente i Laponi, che hanno disegnata, e fabbricata questa chiesa pigmea.

Avevamo navigato per venti miglia quando c’incontrammo in due Laponi di Kantokeino, venuti a cercar migliore pescagione. Nel sito, in cui eravamo giunti, dovevamo smontar di battello, e metterci a sgambettare sulla grande catena delle montagne, tra le quali l’Alten va serpeggiando, e ripiegandosi in mille giri. Esso presenta ivi varie cataratte, le quali rendono la navigazione impraticabile. I nostri cinque Laponi s’intesero con codesti due, onde si unissero loro ajutandoli a portare le robe nostre; e messi a terra i battelli, e bene assicurati ad alberi, ci ponemmo tutti a trottare per la montagna alla sinistra dell’Alten, vicinissimi ad un fiumicello chiamato Koinosjoki, il quale discende dal monte Kulli-tunduri. Questo fiumicello ha nel suo corso una cascata singolarissima in quanto che s’apre il passo attraverso di una rupe, che s’ha forata a modo di un ponte. Continuammo a salire per quattro buone miglia attraverso di betulle nane, e di un musco molto fitto: cosa che ci affaticava assai. Il cielo era coperto di nubi; ed il calore soffocante. Sarebbe bastato questo per una congrua penitenza della nostra temerità: ma, no [176] signore: voleasi una giunta peggiore. La temperatura, che correva, era favorevolissima per le zenzale, che ad ogni nostro passo tra que’ cespugli, e quel musco uscivano a sciami, e ci avviluppavano dalla testa sino ai piedi. Dopo le quattro miglia, che ho dette, la montagna cominciò a comparire arida e nuda: non più un albero, che potesse darci idea di distanze: tutto il suolo era coperto di musco ordinario, salvo dove quell’immenso tappeto veniva rotto da paludi, da bacini d’acqua, e da laghi, il complesso delle quali cose rendeva il paese malinconico e tristo oltre ogni dire. In quel deserto andavamo ogni momento a pericolo di perderci, mancando d’ogni segno d’indicazione. Alla cima della montagna attraversammo uno spazio di circa 15 miglia, ora smarriti tra le nubi, ora inceppati nelle nevi, quantunque fossimo nel cuor dell’estate; e là la temperatura era ben cambiata. Fortunatamente le zenzale non aveano ivi ospitalità favorevole; e se non avessimo dovuto passare fra cespugli, appena avremmo provato da que’ crudelissimi nemici qualche assalto. Ma quelli, che sul principio del nostro salire la montagna avevamo fatti alzare, ci accompagnavano fedelmente anche lassù; e ci perseguitavano ancora in mezzo alla neve; nè aveamo mai un filo di vento che ci soccorresse. [177] Nel passare per que’ tremendi luoghi vedemmo un lepre bianco, ed alcuni uccelli proprii di quelle alture, e ci venne in pensiero di far uso delle nostre armi. Ma que’ nemici ostinati c’impedivano anche questo piccol conforto per quanto stava in loro: imperciocchè dovendo noi cavarci i guanti per caricare, prender la mira, e toccare il punto, ci cadevano a migliaja sulla parte del corpo, che dovevamo lasciar nuda. Noi eravamo disperati, non avendo alla mano con che far fuoco, onde cacciare da noi quella peste. Andando in traccia di qualche albero ci abbattemmo fortunatamente in una capanna, che il più vecchio delle nostre guide ci disse essere stata eretta da alcuni mercadanti per luogo di loro riposo, e per iscaldarvisi in tempo d’inverno. Questa capanna non era più che un quadrato di otto, o dieci piedi, tutta di legno, e con in cima un’apertura per l’uscita del fumo. Noi facemmo chiudere quell’apertura per meglio conservare di dentro il fumo; e v’entrammo poscia quando accesovi il fuoco, fu piena di fumo tutta quanta. I malefici insetti allora furono obbligati ad abbandonarci. Noi eravamo lì stretti come le sardelle nel barile; ma così stretti, e così affumicati, non avendo per sedere, o giacerci che la nuda terra, dico apertamente che mi [178] pareva di stare assai meglio, che in qualunque buona locanda d’Inghilterra, o di Francia. Primo nostro pensiero, così ammonticchiati tutti l’uno sull’altro intorno al fuoco, fu di prepararci la cena colla selvaggina procacciataci cammin facendo; e tuttochè non cessassero gli occhi di sgocciolarci pel fumo, andavamo lietissimi tracannando grossi bicchieri d’acquavite alla distruzione dei nemici, che ci tenevano bloccati. Dopo avere ben bevuto, e ben mangiato, e bevuto ancora, attortigliati insieme come le biscie ci addormentammo. Il tempo intanto si era mutato; ed un vento gagliardissimo erasi alzato, il quale minacciava di rovesciarci addosso la capanna. Non era quella capanna molto forte; ma grande consolazione era per noi il pensare che quel vento procelloso cacciava al diavolo quelle zenzale pestifere; e ad ogni fischio del vento ci dicevamo l’un l’altro: ecco i nostri nemici in piena rotta: l’assedio è finito; ed essi sono a qualche miglio lontani; e così dicendo ci addormentavamo placidissimamente di bel nuovo. Ma non era già vero che i nostri nemici fossero andati via; e ben ne feci io trista prova. La mattina corsi fuori della capanna senza guanti, senza velo, e senza cappello, avido di respirare l’aria fresca; e mi fermai ad osservare tranquillamente [179] l’aspetto del paese, e volli anche fare un giro all’intorno della capanna per assicurarmi da me se noi fossimo in fine liberi dai nemici; quando eccoli uscire da una imboscata, e saltarmi addosso a sciami senza misericordia, e coprirmi in ogni parte. Come io mi dibattessi, come menassi e mani e piedi, lo lascio concepire a chi può farsi una giusta idea del flagello, sotto cui mi trovava. Corsi alla capanna, sperando nel fumo, che ivi avea lasciato; ma non ve n’era più ombra. Pare che il demonio avesse suggerito a que’ tristi insetti di accovacciarsi in tempo della procella nel di dietro di quella catapecchia per difendersi dalla violenza del vento, col proposito di ripigliare i loro assalti tosto che fosse ritornata la calma. Ed in fatti appena ci rimettemmo in viaggio, li vedemmo assalirci in maggior numero pur anche di prima.

Noi dovevamo fare ancora 40 miglia prima di arrivare al villaggio di Alten. Il temporale durato tutta la notte non avea purgata l’atmosfera a modo che il cielo fosse rimasto chiaro; e lo spazio che dovevamo percorrere in quella giornata ci presentava una prospettiva quasi trista al pari dell’antecedente. Qualche volta considerando la quantità di neve che incontravamo, ci pareva di dover essere alti più [180] che lo fossimo stati sulle montagne passate dianzi; e il nostro domestico in particolare non sapeva darsi pace vedendosi tanto vicino alle nubi, e parendogli d’essere lì lì per montare in cielo. Una volta, avendo voluto appressarsi ad una nube splendente di bei colori, tanto andò oltre, che si smarrì; e per qualche tempo lasciò noi incerti di sua sorte, poichè avendo sparati i nostri fucili per chiamarlo, tardò assai tempo a farcisi vedere. In fine incominciammo a discendere, e giungemmo come per incanto ad un paese ineffabilmente bello, e splendente, per la prospettiva maestosa che ne presentavano i monti, per la superba vegetazione, onde tutto era animato; e meraviglia, e contentezza ispirava agli animi nostri la confortatrice stupenda forma colossale, in che ogni cosa in quel nuovo mondo colpiva i nostri occhi. E crebbe ben presto il nostro piacere, singolarmente rivedendo di nuovo l’Alten, traente le sue acque fra ricchi prati, e con quella rapidità, che avevamo già ammirata nel nostro passaggio da Kantokeino a Koinosjoki. Da Kantokeino al bel luogo, ove allora ci trovavamo, spazio di 120 miglia, non avevamo incontrata mai altra faccia umana, che quelle dei due Laponi aggiuntisi alla nostra brigata. Qui trovammo un pescatore venutovi per cercar de’ [181] sermoni. Avea costui seco la sua donna, la quale quando sentì il calpestio nostro, fu così spaventata, che incominciò a persuadere al marito di prender la fuga insieme con lei per paura di rimaner preda di qualche bestia selvaggia, o di qualche incognito mostro. Ciò che dimostra come sia cosa assai straordinaria il trovare in que’ boschi deserti figure umane. Quando giugnemmo presso que’ due la donna non era rinvenuta ancora dalla paura. Quella donnetta era giovine; e il cangiamento che la paura avea portato nella sua fisonomia, la rendeva anche più interessante. Forse la solitudine, in cui eravamo, forse l’essere da tanto tempo privi del consorzio del bel sesso, contribuivano a destare in noi que’ dolci sentimenti. Ma era in lei anche qualche cosa, che poteva più direttamente contribuirvi: chè quella cara donnetta non era indegna d’aver posto tra le bellezze del Nord. Avea gli occhi neri, i tratti regolari, i capelli castagni......, ed io non poteva levarle gli occhi d’addosso; nè altro oggetto fuori di lei mi attraeva. Suo marito avea una buona provvigione di sermoni eccellenti; ed avea anche un vaso, in cui cuocerli. Incominciò a tagliarne due, o tre in sottilissime fette; le mise a bollire, e le conciò con alcune erbe, con sale, e con un pugno [182] di farina d’orzo, che portava in un sacco; e di questa vivanda quel buon uomo ci regalò. Non avevamo nè piatti, nè forchette, nè cucchiai: supplimmo con pezzetti di scorza di betulla; e facemmo un desinare eccellente.

Il battello di quel Lapone ci fu di grande utilità per discendere pel fiume, la cui corrente ci portò prestissimamente ad Alten, dopo tanta fatica fatta per quaranta miglia di sì aspra montagna. Ma altra giunta di fatica ci aspettava pur anco. Smontati del battello per entrare in un bosco, ove i sentieri che vedevamo, indicavano abbastanza che finalmente eravamo giunti in paese d’uomini, andavamo domandando alle nostre guide ad ogn’istante che andavamo innanzi, ove fosse Alten-Gaard; quante miglia avessimo fatte, e quante ci rimanessero da fare. Costoro non ne sapevano più di noi; e finimmo col riconoscere che ci eravamo intricati in un laberinto, sicchè dopo aver camminato un’ora e più ci trovammo precisamente sul luogo, in cui avevamo posto i piedi uscendo del battello. Ad onta però della fatica fatta, e di quella che dovevamo fare ancora, non potemmo trattenerci dal ridere, prendendo la cosa con filosofica disinvoltura; ma per non cadere di nuovo in errore, ricorremmo al nostro compasso, indicando alle guide il punto, [183] a cui meglio doveano dirigersi. Ciò produsse buon effetto; ma ci rimanevano otto miglia di strada; ed eravamo tutti non mediocremente stanchi. Ci rifuggimmo in una casa, che per gran ventura trovammo; ed ivi prendemmo riposo. All’indomani arrivammo alla abitazione di un mercante norvegio, il quale è il solo, che con alcuni suoi uomini costituisca il popolo di Alten-Gaard, tanto da noi desiderato.

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CAPO XV.

Situazione di Alten. Veduta dell’Oceano-glaciale. Abitanti di Alten, ed ospitalità avutane. Navigazione per l’Oceano-glaciale, e visita della costa. Monte Himelkar, e cascata che ne discende. Visita ad alcune abitazioni di Laponi. Stato de’ Laponi stabiliti sulla costa. Laponi erranti: loro tende, loro beni, e loro renne.

Andando all’abitazione del mercante norvegio osservammo in un vicino pascolo due o tre cavalli. Da 500 miglia in poi questa specie di animali era sparita dagli occhi nostri; e il vederne allora ci denotava qualmente eravamo giunti all’abitazione di una persona educata in un paese incivilito, e per conseguenza estranea a questa contrada. La casa era situata sopra una eminenza, e guardava da un canto montagne che vi eran di contro, e masse di neve, delle quali esse sono perpetuamente ricoperte: dall’altro canto essa avea la vista dell’Oceano-glaciale, che da questa parte s’avanzava verso la terra, e formava una specie di golfo, vicino al quale essa casa era fabbricata. Quale fu [185] mai la contentezza nostra trovandoci finalmente a sì poca distanza dall’oggetto che ci avea fatto risolvere ad intraprendere il nostro viaggio, e che metteva fine a tanti stenti! Il bel colore del mare, paragonato colla nudità delle masse che si vedevano da lontano; la brillante trasparenza delle azzurre sue acque, presentavano il più ridente spettacolo. Ma nulla più commoveaci, e ci dilettava, che la idea di essere ben riusciti nella sì pericolosa nostra intrapresa. La vista di quelle montagne coperte di neve, e il nome di Oceano-glaciale, o di Mar-gelato, in mezzo ad un calore grande come il maggiore che si senta in Italia, accrescevano il contrasto tra i due estremi, e distinguevano alla nostra immaginazione questo luogo come un fenomeno, che non può incontrarsi in nissun altro paese.

Per meglio approfittare de’ godimenti, che allora provavamo, ci risolvemmo a tuffarci nelle onde di questo mare, in questa regione sì ospitale, e rifocillare le nostre membra defatigate con un sì grato bagno. Ma il Mercante, con cui avevamo già legata conoscenza, ci consigliò a non farlo, poichè nissuno il faceva per la quantità de’ pesci cani, che frequentano in quella stagione le rive. Questa considerazione però, comunque di peso, nulla valse [186] sulla nostra vanità, preferendo a tutto il piacere di poter dire: mi sono bagnato nell’Oceano-glaciale. Ma entrati in quelle acque non istemmo guari ad uscirne per la singolare freddezza delle medesime, così che ci si erano di tal maniera intirizzite le gambe, che stentammo assai assai a recarci sul lido.

Di ritorno all’abitazione ci eravamo un po’ forbiti, e conciati, essendo sei giorni che non ci avevamo fatta la barba, quando ci si venne a dire, che la tavola era pronta. Fu per noi gratissima sorpresa il trovare ivi un lusso di apparecchio e di vivande, che non ci avevamo mai figurato in tali luoghi. Il piacere di essere giunti al Mar-gelato, che pur era grande, cedette a quello di vederci innanzi le tante buone e salubri cose, che per sì lungo tempo avevamo dovuto dimenticare, obbligati a contentarci di alimenti grossolani, mal condizionati, mal sani forse, e il più delle volte anche minori del bisogno. Ci parve d’essere stati trasferiti nel palazzo di una Fata. Aggiungevasi poi l’amenità della conversazione. La moglie del Mercante era una eccellente reggitrice di casa, e sapeva cucinar bene: un domestico assai intelligente serviva a tavola: tra’ convitati v’era il balì di quella parte di Laponia, il quale rimasto vedovo era venuto a convivere [187] con questa famiglia; codesto balì era una degna persona, generalmente stimato in tutto il cantone. Noi ci trovavamo qui tanto bene, che con vero rincrescimento incominciammo a parlare di continuare il nostro viaggio verso il Nord. Il tempo, e la stagione non permettevano che ritardassimo la gita. Secondo le informazioni prese, da Alten al Capo-Nord correvano circa 240 miglia, le quali era impossibile attraversare per la via di terra: bisognava dunque pigliare quella dell’Oceano. Ci si disse che tutta quella penisola era una catena di montagne rotte da laghi, che ci avrebbero interrotto ad ogni passo l’andar oltre; e ci si aggiunse, che quando pure fosse stato possibile per quella via il cammino vincendo ogni ostacolo, verisimilmente non potremmo arrivare al Capo-Nord in meno di 15 giorni. Ci si faceva in oltre osservare che un tal viaggio non era mai stato intrapreso da veruno in estate a cagione della sua lunghezza, e delle insormontabili difficoltà che presenta; e siccome il nostro tempo era limitato, e che avevamo una grande strada da fare per riportarci a Tornea, avremmo potuto perdere il vantaggio della stagione opportuna al ritorno. Che se per caso fossimo colti da qualche cattivo tempo, saremmo stati costretti a differire il ritorno fino a [188] che l’inverno fosse bene inoltrato per poterci servire di slitte. Per tutte queste considerazioni ci risolvemmo a fare il viaggio per acqua, non senza però il pensiero di fare anche qualche escursione per terra quando fossimo alla meta del cammino.

Il terzo giorno adunque, dacchè eravamo giunti ad Alten, il Mercante ci procurò un battello scoperto, con quattro remiganti, uno de’ quali avea già passato il Capo, e sapeva bene la strada: gli altri tre erano buoni marinai, usi a frequentare quel mare a cagione della pesca. Quegli, che faceva le funzioni di piloto, era di Norvegia; i tre altri parlavano la lingua finlandese, e la lapona. Con tutte le precauzioni e le intelligenze prese la nostra gita dovea essere interessante e dilettevole. Eravamo provveduti di cuscini, di materassi, di buoni vestiti, e di buone coperte: eccellente era tutto quello che portavamo con noi in vino bianco, in acquavite, in volatili, in sermoni, in vitello, in presciutto, in caffè, in tè, con tutti gli utensili necessarii per la cucina. Avevamo in somma con noi tutto quello che poteva risarcirci delle privazioni fino allora sofferte; e pareva che ci preparassimo piuttosto ad una partita di piacere, che a terminare un penoso viaggio sull’Oceano-glaciale. Il golfo, [189] in cui incominciammo ad internarci, penetrando in diverse gole delle montagne, presentava dappertutto un aspetto magnifico, e interessante.

Partimmo da Alten il lunedì, 15 luglio, a due ore dopo mezzogiorno, e non arrivammo al Capo se non se la notte del venerdì venendo al sabato. A 3 miglia da Alten passammo su la dritta di una montagna chiamata dai Norvegi Himelkar, che vuol dire Montagna dell’uomo celeste, dalla quale cadono cinque o sei cascate, alte da cinque in seicento piedi. Più lungi ne trovammo un’altra più notabile ancora, e della cui acqua ben bene ci empimmo. Fummo poi curiosi di salire quelle montagne per vedere d’onde questa cataratta prendesse la sua origine; ma quando fummo giunti alla cima, trovammo con nostra sorpresa una prateria magnifica, alla estremità della quale era un’altra cascata proveniente da una montagna più alta. Io credo che tutte queste cascate sieno prodotte dallo scioglimento delle nevi, che vedevamo coprire i monti più lontani, e le cui cime ignude formavano il fondo del quadro. Questa ultima cascata precipitavasi giù di una piccola montagna, ornata su tre de’ suoi fianchi di un bosco di betulle, che sorgeva in anfiteatro, e stando alla sua regolarità sarebbesi detto piantato da mano industriosa. [190] A piccola distanza da questa cascata, la cui presenza animava que’ luoghi, era una casetta di legno coperta di zolle di verdura, ed abitata da una famiglia di Laponi stazionarii. Io desiderava di visitarli; ma una delle nostre guide mi consigliò, nè senza ragione, a non presentarmivi a dirittura da me, e a farmi prima annunciare da qualcheduno, perchè quella famiglia sarebbe forse rimasta spaventata alla vista di un forestiere sì diverso da essi per la statura, e il vestito. Andò dunque egli stesso a quella casa; ma non vi trovò nessuno: la famiglia era ita a qualche spedizione di pesca, o tra le montagne a curare le renne. Gli architetti delle case di codeste coste sembrano stati alla scuola di quello che edificò la chiesa di Massi, quantunque codesti tugurii non possano stare in proporzione rispetto a quella chiesa, che in quanto le case nostre vogliansi mettere in proporzione colle nostre cattedrali: non so dire se ci contenessimo ne’ termini di civile discrezione in quella visita; quello ch’è vero, si è, che non vi fu nè angolo, nè buco, in cui non volessimo mettere il naso, ponendo le mani fino nelle saccoccie di quella gente, giacchè i Laponi sono sì beati, che non hanno bisogno nè di chiavi, nè di serrature. Non vi trovammo alcun oggetto di lusso, se [191] per avventura non fosse tale una scatola di resina, che cola da una specie di un abete proprio di quelle contrade, e che forse più che a senso di piacere essi usano a medicatura di ferite. Ritornammo non senza fatica al nostro battello dando un eterno addio a sì vago e piacente luogo, che non avremmo riveduto più, e che non invidia i luoghi più pittoreschi della Svizzera.

Perfetta calma regnava sul mare, e la violenza del caldo opprimeva tutti i remiganti nostri, che non potevano adoperare i remi senza disfarsi in sudore. Per dar loro un po’ di riposo, e nel tempo stesso soddisfare alla nostra curiosità, andammo a ricercare tutti i Laponi stabiliti sulla costa, e i quali viveano generalmente alla distanza di otto, o dodici miglia l’una famiglia dall’altra. In tutte le loro abitazioni regnava l’abbondanza e la contentezza: ogni Lapone è possidente all’intorno della sua abitazione di un terreno, che ha un circuito di otto miglia: tutti hanno vacche, dalle quali traggono un latte eccellente, ed hanno prati, che loro danno fieno pe’ loro bestiami l’inverno. Ciascuno ha poi provvigione di pesce secco, non solamente per proprio uso, ma ancora per barattarlo in oggetti di lusso, cioè in sale, in farina, in avena, e in qualche panno. Le loro case sono [192] costrutte in forma di tende, ed hanno un’apertura in alto per ricevere la luce, e dar passo nel tempo stesso al fumo. Il fuoco sta nel centro della camera; ed essi vi dormono attorno gli uni presso gli altri. In inverno, oltre il calore del fuoco, godono anche di quello, che loro procurano le loro vacche, colle quali dividono l’abitazione all’uso de’ montanari di Scozia, e degli abitanti delle isole settentrionali. In estate le porte delle loro case stanno sempre aperte; e quantunque in tale stagione non vi sia notte, essi sono accostumati a dormire alla medesima ora che gli altri Europei. Soventi volte siamo entrati ne’ loro abituri a un’ora, o due della mattina, se è permesso così esprimersi, parlando della stagione attuale, e sempre abbiamo trovata la famiglia a letto, e dormiente, senza che la presenza nostra, e la nostra conversazione turbasse per un buon quarto d’ora la dolcezza del loro riposo. Essi dormono in quella placida sicurezza che ispira il non avere a temer nulla. Le sole cagioni de’ loro timori sarebbero gli orsi, e i lupi; ma tali bestie non vanno mai verso le abitazioni de’ Laponi che hanno fissa dimora: bensì vanno dietro le traccie de’ Laponi nomadi, e delle loro greggie, così cercando di provvedere ai loro bisogni: d’altra parte niun animale velenoso [193] chiama in queste aspre contrade la vigilanza dell’uomo, affine di preservarsi da ogni pericolo.

Il governo non ha nulla a fare per amministrar la giustizia; e questo popolo, il quale non ha di che piatire co’ suoi vicini, non ha bisogno di una protezione, che gli riuscirebbe più onerosa che utile. Alcune orde di abitanti dispersi per una immensa estensione di terra hanno poche ragioni per darsi scambievoli assalti: l’eguaglianza di stato tra loro, il silenzio ordinario delle loro passioni, e la dolcezza del loro carattere, impediscono e l’occasione d’ingiurie, e i risentimenti, ch’esse alimentano. Vero è che i Laponi sono senza difesa; ma i rigori del loro clima, e più ancora la estrema loro povertà li rendono sicuri sul timore di una invasione. Vivono dunque senza protezione, e non hanno mai piegato servilmente il ginocchio d’innanzi ad un padrone. Nè è poi certamente in queste regioni boreali, che vengasi a cercare i tristi esempi delle tirannidi, de’ quali è piena la storia; o delle fallacie, e degli spergiuri, sì frequenti tra le nazioni che si vantano di civiltà, e che a malgrado dell’orgoglio, che loro ispirano i vantaggi che dalla civiltà ritraggono, non mancano di commettere [194] atti di barbarie ripugnanti ad ogni credenza.

In una delle famiglie visitate da noi fummo testimonii di una scena veramente toccante; e servì a convincerci che la sincera e viva cordialità non è estranea a queste latitudini gelate. Noi entrammo a tre ore dopo mezza notte in una casupola, ov’erano il marito, sua madre, una moglie giovine, e due piccoli ragazzi. Dormivano tutti, e noi aspettammo qualche tempo, onde potessero agiatamente svegliarsi. Aveano tutti il medesimo letto, cioè a dire il suolo coperto di frasche e foglie della odorosa betulla: le loro coperte erano pelli di renne. Dormivano alla maniera de’ Laponi vicini al mare: intendo dire vestiti de’ loro abiti, che erano larghissimi da ogni parte, e non nocivi per alcun modo alla circolazione del sangue. La giovine donna fu la prima a svegliarsi; e gettando gli occhi sopra uno de’ nostri battellanti, che riconobbe, gli testificò il suo piacer di rivederlo, ed entrò in discorso con esso lui nella lingua lapona. Poco dopo svegliaronsi e il marito di essa, e la suocera; ma i ragazzi continuarono a dormire profondamente. La vecchia vedendo il Lapone diede tosto in un pianto dirotto; la nuora ne seguì l’esempio; e così fece il nostro battellante: poco stemmo a piangere anche noi, ma per una di quelle simpatie, [195] che hanno per interprete il cuore, e non le labbra; quando entrato in casa il nostro interprete, e trovandoci piagnenti, ci domandò in finlandese la cagione della nostr’afflizione. Noi non potevamo dargliene alcuna; ma non così era della vecchia. Essa avea veduto quel battellante l’anno precedente; e allora essa godeva buona salute; ma da quel tempo in poi era stata colpita da apoplesia, che le avea tolto l’uso della favella. Dopo alcuni momenti dati a questa generale commozione, e quando ciascuno fu rimesso in calma, noi domandammo un po’ di latte, e di formaggio di renna: immantinente la reggitrice della casa uscì, e ci condusse alla dispensa, la quale era un piccol casotto di legno, piantato sopra alcuni piuoli ad una certa distanza da terra, perchè le provvisioni ivi tenute non rimanessero alterate dalla umidità della neve in inverno; e fummo sbalorditi veggendo la quantità delle cose, che quella brava reggitrice teneva nella piccola dispensa. Ivi era molto pesce secco, e carne di renna secca anch’essa; e formaggio, e lingue di renne, e farina di avena; poi pelli di renne, pelliccie, ed abiti di lana, ed altre cose. Tutto annunciava uno stato agiato, ed anche ricchezza; e ciò che merita d’essere particolarmente osservato si è, che quella buona donna [196] ci offrì tutto quello, di che avessimo bisogno nella più pulita e cordiale maniera, e senza mostrare che neppure per ombra pensasse a quanto potessimo noi darle in ricambio. Ben lontana da questo essa persistette a ricusare il denaro che le offrimmo per le cose da noi accettate. Io ho veduto pochi paesi, in cui gli uomini vivano in sì grande agiatezza, e in tanta beata semplicità, come sulle coste marittime della Laponia. Le loro casupole sono scure ed anguste: non hanno lettiere, non sedie, non tavola: assidonsi per terra; e in terra dormono sopra foglie di betulla. Ma che serve? essi in casa non mancano di alcuna cosa, che sia loro necessaria; e ciò loro basta. Quanto alla situazione, le loro case godono di un aspetto ridente, essendo per la più parte poste sulla riva del mare, fabbricate ora a’ piedi, ed ora a’ fianchi delle montagne, e sempre presso a luoghi, in cui la mano benefica della natura ha posto grassi pascoli, e fecondissimi, senza bisogno che alcuno li coltivi; ed è per certo sopra ogni cosa avventurosissima sorte, che possano dire qualmente il suolo che calcano co’ piedi, e la terra che provvede ai loro bisogni, sono veramente roba loro, senza temere che un despota venga a turbarli nel loro possesso. I soli nemici che abbiano da temere sono [197] alcuni mercanti, i quali vengono a stabilirsi sulle loro coste, e la cui avarizia e cupidità abusano di loro innocenza, e della loro inclinazione, per vender loro ad un prezzo eccessivo i liquori forti, ed altre cose, delle quali abbisognino.

Noi lasciammo quella casa per continuare la nostra navigazione. Ma fatte appena cinque, o sei miglia, la violenza del vento ci sforzò a ritornare a terra. Approfittammo adunque di questa nuova circostanza per fare una corsa nell’interno del paese, e cercare qualche oggetto capace di fissare la nostr’attenzione, come sarebbe stato l’incontro di Laponi nomadi colle loro greggie, e le loro tende. Facemmo da sette in otto miglia a piedi, e trovammo qua e là tra quelle montagne siti deliziosi, fresche vallate cinte da montagne coperte di betulle, e d’altri alberi. In mezzo alle nostre fatiche gustammo il piacere di riposarci all’ombra sulla riva di limpidi ruscelli, che serpeggiano per quelle vallate. In fine trovammo una tenda di montanari, ove la nostra curiosità trovò materia, su cui esercitarsi. Questa tenda avea forma conica, in ciò dissimile da quella che per ordinario hanno le altre tende. Ficcano in terra parecchi pali, o grossi rami d’albero tagliati di fresco, e li raffermano sopra un largo [198] cerchio fatto a terra, e a que’ pali, o rami, danno in alto una direzione diagonale in maniera che s’incontrano insieme nella loro estremità superiore. Foderano poi l’ossatura nel suo contorno di parecchie pezze di stoffa cucite le une colle altre. Il diametro di quella, in cui noi entrammo, avea alla sua base circa otto piedi: in mezzo era il fuoco, e presso questo era assisa la donna del padrone della tenda, suo figlio, ancor fanciullo, e alcuni cani poco ospitali, poichè non cessarono mai di abbajare finchè noi ci fermammo ivi. Presso la tenda era una catapecchia composta di cinque o sei pali obbliquamente disposti in modo che s’incrociavano alla cima, ove poi erano legati insieme tutti, e coperti, come la tenda, di pelli, e di pezze di stoffa. Sotto questa catapecchia que’ Laponi custodiscono le loro provvisioni; e quelle ch’erano ivi, consistevano in formaggio, in una piccola quantità di latte di renne, e in pesce secco. Più lungi una cattiva palizzata fatta in fretta serviva di parco alle renne quando le radunano per mungerle. Quegli animali non erano ancora ritornati allorchè noi arrivammo; e stavano pascolando alla montagna, d’onde non doveano ritornare che alla fine del giorno. Come noi non ci sentivamo in gambe per andare a trovarle con pericolo [199] di perderci per le strette de’ monti, giacchè la troppa uniformità poteva ingannarci, pensammo far meglio offrendo a que’ Laponi un poco d’acquavite perchè coi loro cani andassero a trovar le renne, ed a condurle al loro domicilio, o ad altro luogo che riuscisse a noi vicino. Appena que’ Laponi ebbero assaggiata l’acquavite, che loro data avevamo come pegno di maggior ricompensa, sentimmo l’abbajare de’ cani eccheggiare per le montagne; e i Laponi ci dissero quello essere il segnale dell’arrivo delle renne. Infatti un istante appresso vedemmo comparire e discendere dalle alture trecento renne per guadagnar le vallate, la cui erba fresca prometteva ad esse miglior pascolo. Noi insistemmo perchè le facessero entrare nel recinto della palizzata, onde osservare i loro andamenti, e gustare del loro latte munto al momento. Tutto si fece secondo il desiderio nostro; ma non era senza difficoltà, perchè quegli animali non avvezzi ad essere chiusi tanto presto resistettero per qualche tempo. Ma e gli uomini, e i cani la vinsero. Avemmo dunque tutto l’agio, posciachè le renne furono pel chiuso, di vedere quegli utili animali, che i primi nomadi estranei ad ogni civiltà seppero addomesticare e sottomettere. — Que’ poveri animali erano magri magri: [200] aveano un’aria di tristezza e di patimento: il loro pelo era basso, e il respiro, come lo mandavano fuori affannoso, dimostrava abbastanza, che una stagione sì calda gl’incomodava. La loro pelle inoltre qua e là era ulcerata per le morsicature di una specie di tafano, il quale cerca per tal maniera di aprirsi un luogo, in cui deporre le uova, con doppio tormento delle renne, sì per le piaghe che vi aprono sulle varie parti del corpo, sì pel rodimento che vi cagionano gl’insetti a mano a mano che in figura di vermi sbucciano da quelle uova. Io presi parecchi di quegli insetti, e molte di quelle uova colla intenzione di regalarne i miei amici entomologisti, che si dilettano di far raccolta di tali cose. In quanto al latte che assaporammo, era assai lontano da quello che le renne danno in inverno. In estate esso contrae un certo gusto di selvaticume e di forte, che si avvicina al rancido.

Ma le nostre guide ci avvertirono essere tempo di ridurci al battello, e di approfittare di un venticello fresco, che s’era alzato, e ch’era propizio alla nostr’andata. Prendemmo dunque congedo dai nostri Laponi, i quali ci testificarono il loro dispiacere per la sì presta nostra partenza, gittando uno sguardo di tutto cuore sul barilotto di acquavite che ci accompagnava.

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CAPO XVI.

Delle renne: dell’indole di questi animali: del governo che i Laponi ne fanno: delle varie sorti di slitte che usano, ecc.

Ma poichè ho fatto menzione e qui ed altrove delle renne de’ Laponi, è giusto che di questo sì interessante quadrupede dica qualche cosa di più particolare.

I più antichi naturalisti, che parlarono delle renne, le indicarono col nome di rangiferi. Il Linneo chiama la renna cervo dalle corna ramose, rotonde, colle sommità palmate; e i caratteri che danno alla renna un’aria di famiglia co’ cervi, sono la mancanza de’ primi denti incisivi alla mascella superiore, il modo con cui le sue corna crescono, le quali divenute dure cadono tutti gli anni, e ripullulano ogni anno, come quelle del cervo. La differenza però tra la renna e il cervo si è, che la renna femmina ha le corna meno ramose, è vero, meno larghe e meno grandi, che quelle del maschio.

L’autunno è il tempo degli amori delle renne; e le femmine partoriscono in maggio. Una [202] guerra sorge tra maschi quando s’incontra che desiderino la stessa femmina; ma il più attempato de’ maschi, che è anche il più forte, vince nella lotta, e rimane il signore del gregge. Alcune femmine partoriscono ogni anno, altre ogni due: ve n’ha anche delle sterili. Quando la renna ha partorito perde le sue corna: i loro piccoli pochi giorni dopo essere nati, sono agilissimi, e possono correre quanto la madre. Ogni renna conosce i suoi parti per quanto numerosa sia la greggia, nella quale si trova. Se la madre è di pelame grigio-cinericcio, il figlio è rosso di pelo, con una striscia lungo la schiena; e quel colore diventa poi più cupo quando verso l’autunno il pelo cade. Alcune renne diventano bianche con macchie cenericcie sul corpo; ed ogni piccolo di color bianco procede da una madre che avea questo colore.

Le renne femmine sono più alte, e più forti di statura de’ maschi. Molte hanno le corna ramosissime, ed alcune non ne hanno di nessuna sorta. Le corna cadono in autunno; le nuove sorgono da prima in figura di due piccoli tumori neri, che s’alzano sulla fronte. Quando le corna stanno per cadere, l’animale si mostra tristo; in questa circostanza le renne passano il loro tempo di riposo in mangiarsi [203] reciprocamente que’ pezzi di pelle, che al cader delle corna si sono distaccati, e che loro dà un aspetto schifoso. Questo è ciò che più volte ho avuto occasione di vedere, e che, per quanto io sappia, sono il primo a notare. Codeste corna sono di un tessuto al loro centro ben fitto, e molle alla loro radice: il tronco è rotondo; e si avanza insensibilmente in rami spianati. Soventi volte sono sì macchinose, che quando questi animali combattono insieme, si attaccano, e s’imbarazzano tanto, che bisogna che l’uomo accorra a liberarneli.

Le renne in estate sono tormentate da una mosca, la quale s’introduce pel naso, e penetra ne’ seni frontali; e non se ne liberano che per mezzo dello sternuto, o di un respirar violento correndo. Soffrono anche di una malattia contagiosa, alla quale non si è ancora trovato rimedio, e che fa terribile strage di questi animali. La malattia, di cui parlo, consiste in un’affezione di milza. Si è altrove parlato del male, che alla renna fa il tafano. Un altro malanno, di cui le renne soffrono, è un panereccio, che loro viene all’unghia, e che il Linneo crede procedere dal tafano. Le renne femmine hanno sulle mammelle alcune piccole eruzioni, simili alla vaccina. Quando la renna può salvarsi da queste [204] malattie, vive fino ai quattordici ed anche sedici anni: termine di sua longevità.

Il principal nudrimento delle renne in inverno è un musco biancastro, che i botanici chiamano licheno rangiferino: esse però se lo debbono guadagnare a forza di scoprirlo colle loro zampe di sotto alla neve. Guai, se la neve gelata l’indurasse tanto, che la renna non potesse giungere a penetrarla! Tutta la generazione delle renne perirebbe.

Le renne domestiche, le quali formano la ricchezza principale de’ Laponi, in inverno non istanno mai al coperto. In estate trovano erba facilmente.

In alcuni luoghi della Norvegia s’impiegano le renne agli usi stessi, a cui s’impiegano i cavalli; e si tengono in inverno nelle stalle.

La renna ama appassionatamente l’orina dell’uomo; e fa meraviglia il vedere con che ardore lecchi la neve che ne sia imbevuta. Forse vi è attratta pe’ sali, che l’orina contiene. Dicesi pure che faccia la caccia a que’ sorci chiamati lemmi, de’ quali però sembra non mangiare che la testa. La loro bibita è la neve, ch’esse vanno prendendo da mucchii, presso i quali passano quando sono attaccate alle slitte.

I più fieri nemici delle renne sono i lupi; [205] ed i custodi di quegli animali non invigilano mai abbastanza per proteggerli dalla strage, che i lupi ne fanno. La loro diligenza diventa vieppiù necessaria in tempo di procella, tempo che i lupi spezialmente scelgono ponendosi in agguato per assaltare con buon successo le renne. Le renne stesse concorrono al proprio danno in tale circostanza, perchè invece di rifugiarsi alle tende de’ pastori, ove sono chiamate, colte da terrore alla vista, od agli urli de’ lupi, si sbandano fuggendo; e i lupi allora più agevolmente così disperse le assaltano, e le ammazzano. Dico le ammazzano, e non le divorano, poichè il missionario che ci ha informati, attesta di averne vedute stese sulla neve sei alla volta morte, senza che sul loro corpo apparisse ferita alcuna: sì violento colpo il lupo sa dare ad esse. Il che fatto, le strascina poi alquanto lungi dal luogo, ove le ha ammazzate, e là esso le mette a brani, e le divora. È notabile un’altra particolarità in proposito; ed è questa, che quando i lupi mettonsi alla caccia delle renne, il più delle volte sono accompagnati da molti corvi e cornacchie, il cui gracchiamento serve di avviso al pastore lapone che l’inimico si approssima; e a quel segnale si mette in guardia. Un’altra particolarità si è, che le renne, le quali sono con una corda [206] raccomandate a qualche palo spessissimo vengono dai lupi risparmiate: laddove quelle che sono libere, soccombono.

I Laponi per distinguere le proprie renne da quelle degli altri, non ostante la confusione, in cui questi animali sono tenuti necessariamente in sì vaste solitudini, usano fare a ciascheduna un loro particolar segno all’orecchio mediante una incisione. Perchè poi ogni greggia possa esserne ben sorvegliata, e nissun animale si smarrisca, due volte al giorno conducono le renne al pascolo, e due volte le chiamano alle tende; e quest’uso sieguono anche nel cuor dell’inverno, quando le giornate sono brevissime, e le notti lunghe di sedici ore. A proposito di che chiunque abbia la più leggiera tintura del sistema solare, facilmente comprenderà perchè il sole in codesti climi rimanga per sette settimane sotto l’orizzonte; e perduto nella più bassa parte dell’emisfero non lascia che un debil luciore di alcune ore. Però per quanto rimanga allora l’atmosfera ottenebrata, non è mai nera tanto, che non si possa vedere quanto occorre per iscrivere, o per fare alcuna faccenda ordinaria, sempre che almeno il cielo non sia tutto coperto di nubi: il che s’intende dalle dieci ore della mattina sino all’un’ora dopo il mezzodì. Ciò succede [207] nel solstizio d’inverno. Nel qual tempo il lume della luna, che costantemente splende, e quello delle stelle compensano. Passate poi le sette settimane accennate il sole comincia di nuovo a farsi vedere con uno splendore, che agli occhi di ognuno comparisce più brillante. Ciò arriva al primo di aprile, tempo in cui le giornate si sono tanto allungate, che le tenebre della notte generale principiano a sparire; e come nell’inverno il sole avea cessato d’illuminare per sette settimane la terra, nel solstizio estivo ritorna a rallegrare l’abitante comparendo sull’orizzonte, e brillando notte e giorno per lo stesso spazio di tempo. È però da notare che il sole della notte pare più pallido e brillante meno che il sole del giorno. Ma ritorniamo alle renne.

Quando esse recansi verso le tende, formano intorno ad esse un circolo, e vi rimangono giacenti finchè ritornano al pascolo. In inverno non potendo sperare per alimento che il musco del vicinato, debbono estendersi molto pel paese, onde procacciarsene; e sia tempo bello o sia cattivo, sono condotte al pascolo ad un’ora regolare. Come poi sovente i pastori per mettersi al coperto di una burrasca nevosa sono obbligati a ritirarsi dietro a qualche ammasso di neve, e vi si addormentano, succede [208] qualche volta, che un lupo porta via una renna allontanatasi dalla greggia. La custodia di una greggia generalmente è affidata ai ragazzi, o ai servitori; e quando appartiene ad una famiglia formatasi di recente, e che non ha nè servitori, nè ragazzi, allora la cura rimane affidata alla moglie, la quale se per avventura ha un bambino, lo porta seco nella sua culla, e segue le renne, per quanto il tempo sia rigido. I cani, molti de’ quali i Laponi mantengono, sono loro di grande ajuto per contenere e dirigere le renne, secondo l’occorrenza; e le renne ubbidiscon loro, ed essi ogni cenno intendono del custode; e tengono in buon ordine tutta la greggia. Quando nell’inverno questa è ricondotta alla tenda, e prende riposo, il Lapone, o la sua donna, esce per contare le renne, e per sapere se ne manchi alcuna, rimasta preda de’ lupi; ed è raro il caso, che il Lapone a prima vista non iscopra la mancanza, se ve n’è, anche nel caso che la greggia sia composta di uno, o di due migliaja di teste.

Quantunque i Laponi delle montagne usino di condurre, come si è detto, due volte al giorno le renne al pascolo, in estate i maschi castrati e le femmine sovente si abbandonano ne’ boschi a loro talento senza alcun pastore. [209] In quella stagione le madri si lasciano allattare i loro piccoli, chiudendole in un parco fatto con rami d’alberi: parco che si costruisce a poca distanza dalla tenda. Ivi le donne hanno una facenda importante, ed è quella di sporcare le mammelle delle madri col loro sterco, onde quando sieno messi in libertà i loro piccoli non possano tettare. Dopo un certo tempo le femmine sono ricondotte a quel parco medesimo; e allora subitamente vengono le loro mammelle nettate; e come sono piene di un latte denso, si mungono. Ma le renne non soffrono molto pazientemente quella operazione; e bene spesso bisogna legarle per le corna con una corda. Una renna non dà più latte di una capra: contuttociò i Laponi ne hanno tante, che mai non mancano nè di latte, nè di burro, nè di formaggio.

Per la castratura de’ maschi i Laponi usano un mezzo singolarissimo. Non ricorrono al coltello, nè fanno l’incisione preliminare; ma ammaccano co’ denti le parti che altrove si tagliano. L’animale, che ha subita questa operazione, cresce di volume e di carne; ed è più forte de’ lasciati interi: diventano quindi di un gran valore per chi n’è il padrone, di modo che quando si tratta di cose di molto prezzo, sempre si paragona alla renna castrata.

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Un montanaro, le cui ricchezze in renne sono mediocri, spesso lascia le sue montagne, colla sua famiglia, e va a fissarsi presso la costa ove si occupa della pescagione, lasciando la cura delle sue renne a qualche persona che voglia incaricarsene.

Diciamo infine, che per quanto bene una greggia sia custodita, succede talora verso la stagione in cui diventano calde che vi si mescoli un maschio di razza selvaggia; e se sfuggendo il fucile del custode, ne copre una, dall’accoppiamento nasce un meticcio, che non si rassomiglia nè al maschio, nè alla femmina, ed è più piccolo della renna selvaggia, e più grosso della domestica.

Ho detto che i Norvegii servonsi delle renne come di cavalli. I Laponi non hanno cavalli; e suppliscono ai loro bisogni colle renne attaccandole alle loro slitte pel trasporto sì delle persone, che delle robe. Usano a quest’uopo de’ maschi castrati. Ma l’assuefarle al servizio costa loro gran pena e gran tempo; e ve n’ha di quelle, che in nissuna maniera voglionvisi adattare. È inutile spiegare come compongano, e maneggino le redini, colle quali le dirigono, e come le leghino alla slitta. Basterà dire, che fanno tutto questo con molta industria. Molta industria pure dimostrano i Laponi nella costruzione [211] delle slitte, le quali sono di quattro sorta. La prima è fatta per portare una persona, tutt’aperta, e breve tanto, che un Lapone assiso sulla parte di dietro tocca coi piedi il davanti, larga quanto basta per contenere le gambe e le cosce bene strette della persona, e sì poco alta, che il viaggiatore può toccare la neve che ha ad ognuno de’ lati. Questa slitta è leggierissima per modo che, occorrendo, si può alzare, ed anche trasportare sulle spalle agevolmente. Più lunga, più profonda e più larga è la seconda, che serve al trasporto delle mercanzie: essa è coperta di parecchie pelli bene assicurate, per preservarla dalla neve che cade. Allo stesso oggetto serve una terza incatramata di fuori, e provvista di una pelle di foca posta a modo di coprire le gambe e le ginocchia del conduttore, e di una grossa coperta che s’alza sul petto del medesimo per difenderlo dalla neve quando ne cada. La quarta, anch’essa incatramata di fuori, serve parimente al trasporto delle robe; ed è più larga della prima e della terza; ed ha un ponte che va da una estremità all’altra, ed alcuni ingegni ottimamente inservienti alle occorrenze. Prima di salire sulla slitta il Lapone si mette i guanti, poi monta su pigliando la briglia, che è attaccata alla testa della renna, e ch’egli [212] tiene raccomandata al suo pollice destro. In questo frattempo la renna si conserva quietissima: quando il viaggiatore è disposto a partire, scuote con violenza da un canto all’altro la briglia; e l’animale s’avvia colla maggiore velocità. S’egli vuole che la renna affretti di più, si mette sulle sue ginocchia, e con certi suoni, o parole le fa animo, e volendo che si fermi tira la briglia da dritta a manca, ed essa ubbidisce sull’istante. Quando la renna si ostina, o vuol fuggire, se il Lapone viaggia in compagnia d’altri, dà la sua briglia al conduttore della slitta che lo precede, il quale l’attacca alla slitta sua; e la renna è forzata così a procedere avanti. Mirabile poi singolarmente è l’industria de’ Laponi in dirigere le renne nella discesa de’ più scoscesi monti. Ove la discesa è tanto ripida da equivalere ad un precipizio, sicchè la slitta potrebbe correre sulle gambe della renna: per ovviare a tale inconveniente il viaggiatore attacca al di dietro della slitta una corda, la quale egli annoda alle corna dell’animale, che viene così a moderare la calata della slitta, la quale scivola pel proprio peso. Ingegni simili, variati, all’uopo usano i Laponi nel dirigere le renne, che attaccano alle altre tre sorti di slitte già mentovate. Del rimanente, se come molte volte [213] succede, la neve è sì alta, che la renna non può aprirsi la strada attraverso della medesima, o che vi si affonda sino alla pancia, il viaggio per necessità diventa lento e penoso. Ma comunemente quando la strada è buona e ben battuta, e che la slitta non ha da rompere la neve, ma puramente da scorrervi sopra, la renna fa cinque a sei leghe all’ora. Ma ciò basti.

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CAPO XVII.

Proseguimento della navigazione sul Mar-glaciale. Golfo delle Balene. Isola della Have-Sund, il più orribil sito, che possa vedersi. Isola Mageron. Arrivo al Capo-Nord. Descrizione di questo promontorio.

Entrati adunque nel nostro battello noi passammo il Whaal-Sund, ossia il golfo delle Balene. Esso era agitato da una violentissima correntia, e dal venticello gagliardo che soffiava in una direzione contraria alla nostra gita.

Le balene recansi in gran numero in quel golfo; e in que’ mari, per quanto ci si disse, sono comunissime. Ma quantunque le nostre genti ci assicurassero che non aveano mai passato quello stretto senza averne vedute otto o dieci, noi non ne incontrammo nessuna. Smontammo abbordando alla casa di un mercante posta in un’isola presso l’Have-Sund. Ardisco dire che quella era la più orrida abitazione di tutta quanta la contrada. Il terreno del contorno non avea un solo albero, nè un solo cespuglio, nè un filo d’erba: nè vi si vedeva che nude rupi. L’abitatore di quel luogo non avea [215] nulla, se non ne andava a cercare ben lungi; e così era persino della legna da scaldarsi. In quel luogo il sole stava assente dall’orizzonte per quasi tre mesi, di modo che senza le aurore boreali, che spargono una luce utilissima agl’indigeni, que’ miserabili rimarrebbonsi sepolti nelle tenebre più profonde. Che soggiorno d’orrore per un abitante della zona temperata, se fosse condannato a passarvi la vita! L’amor del guadagno, e quello della pescagione, vi fissano nondimeno alcuni individui.

Tav. III. — VEDUTA DEL CAPO NORD

Del rimanente più che si accosta al Capo-Nord, più la Natura sembra infoscarsi; la vegetazione debolissima, che fa ogni suo sforzo sulla superficie della terra, immantinente perisce, e non lascia presso di sè che rupi scarnate.

Continuando il nostro viaggio lasciammo alla sinistra lo stretto formato dall’isola deserta detta Mageron, e dal continente. Alla nostra destra aprivasi la vasta estensione dell’Oceano-glaciale; ed a mezza notte precisa arrivammo finalmente all’ultimo punto dell’Europa, cognito sotto il nome di Nord-Cap, o Capo-Nord.

Questo Capo-Nord, oggetto formidabile di una temerità vittoriosa di tanti ostacoli, di tanti pericoli, e di tante fatiche; scopo veramente colossale di un viaggio tanto lungo, intrapreso pel solo piacere di toccarlo, e perchè fosse detto [216] una volta senza impostura che gli uomini non si erano arrestati se non dove era loro mancata la terra; il Capo-Nord presentandosi a’ nostri sguardi s’impadronì di tutte le nostre facoltà. Al suo aspetto la nostra immaginazione si separò da tutto quello che la nostra vita si lasciava alle spalle; e il mondo non fu più per noi che in questo confine della terra. Il nostro orgoglio si fece grande per la riuscita avuta; ci trovammo spettatori della nostra propria audacia; e calpestando codesto suolo, che nissuno prima di noi avea calpestato, pareaci di camminarvi sopra, non da uomini, ma da creatori. — Ah! questo delirio ben presto svanì. La malinconia, la tristezza cupa e profonda succedettero al nobile entusiasmo del nostro trionfo. Le rupi senza ornamento, il terreno senza vegetazione, l’aria senz’abitanti ci dissero ben chiaramente che tanta costanza, tanti sudori, tante cure ed ansietà non aveano servito che a condurci ov’è la tomba della Natura.

Il Capo-Nord è una roccia, la cui fronte, ed i cui enormi fianchi spingonsi assai lungi nel mare. Gigantesco avversario de’ flutti e degli uragani sembra sulla sua profonda base sicuro di comandare alla loro agitazione; ma assalitori instancabili que’ flutti contro di esso sollevati, non gli lasciano altra tregua che quella, [217] la quale di tratto in tratto la calma del cielo impone a’ loro proprii furori; e terribili tosto che rimangano scatenati, tornano ad assalirlo, a batterlo, a minarlo. Ogni anno l’antica sua caducità si va vieppiù manifestando: i progressi di questa loro vittoria sono evidentissimi; e questo grande sostegno del globo si va distruggendo senza alcun testimonio della sua lunga e continua decadenza. Là tutto è solitario, tutto lugubre, tutto sterile: niuna foresta sulla cima di que’ monti, niuna verzura sulle grigie asperità di quegli scogli: non un uccello terrestre rompe col suo volo la pacatezza dell’aria: niuna voce vi si ode fuori del muggito dell’onde marine, e del fischio delle tempeste. Un Oceano immensurabile, un cielo senza orizzonte, un sole senza riposo, notti senza risvegliamento: la infecondità, il silenzio, la desolazione, ecco i tratti di questo quadro sublime e tremendo: ecco il Capo-Nord. Qui le occupazioni, l’industria, e le inquietudini degli uomini non si presentano alla memoria che come un sogno: l’energia della natura animata, le sue forme diverse, le innumerabili sue modificazioni cancellansi dalla ricordanza. Non si vede più il globo che ne’ suoi nudi elementi. Non è più il soggiorno della vita; è un punto del sistema dell’universo.

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CAPO XVIII.

Effetti prodotti nelle menti de’ viaggiatori dall’essere giunti al Capo-Nord. Visita del promontorio, ed osservazioni fatte nelle vicinanze. Angelica, e grotta. Roccie, licheni, alghe, crostacei, spugne, ecc. Uccelli di mare. Caldo e calma sofferti nel dare addietro dal Capo-Nord.

La ebbrietà, in che ci avea immersi la veduta del Capo-Nord; il vivo piacere d’essere giunti al termine de’ nostri desiderii, e quella inesprimibile impressione che sugli animi nostri avea fatto lo spettacolo di codesti luoghi incogniti al rimanente degli uomini, finalmente sedaronsi: noi incominciammo a pensare a noi; e la prima riflessione che occupò le menti nostre fu quella della gran distanza, che ci separava dalla nostra patria; ed alla idea dell’immenso paese, che avevamo attraversato, si unì naturalmente quella dell’altro che dovevamo scorrere per rivedere i nostri amici, e le nostre famiglie. Noi avevamo da salire di nuovo le stesse montagne, da arrischiarci al trapasso degli stessi deserti, da cimentarci colle stesse [219] cataratte, le quali cose tutte avendo per noi perduto il merito della novità, non ci si presentavano più che nel solo aspetto della fatica e dello stento. E come mai il desiderio solo di trovarci in sì abbandonato paese, ed a sì grave costo, avea potuto sedurci? In qualche momento saremmo stati tentati a condannarci giustamente di giovanil leggerezza, d’imprudenza, di temerità. Ma le parole hanno sulle menti degli uomini una forza, che difficilmente può calcolarsi: onde i nomi di Capo-Nord, di Mar-gelato, di estremità ultima della Europa riscaldavano ancora la nostra immaginazione, e ci davano nuove forze. Quindi la mano stendevasi alla matita per disegnare que’ massi enormi che sono altrettante pagine formidabili degli annali de’ secoli; ed allora tutti intenti all’opera gustavamo un genere nuovo di piacere, che ogni pensier tristo faceva fuggire da noi. Attraversando in idea la immensità del Mar-gelato, visitammo la Groelandia, e lo Spitzberg, e più lungi quelle montagne di ghiaccio, che rimarrannosi immobili in mezzo alle acque fin tanto che il globo si aggirerà sul suo asse invariabile. Allora concependo, dirò così, come cosa reale quel punto che si chiama Polo, ci godevamo di porvici sopra per ivi contemplare lo spettacolo dell’anno diviso in un solo giorno, ed [220] una notte sola, e quello non meno meraviglioso del giro immenso intorno a noi di tutti gli astri, che adornano la metà dell’universo.

Ma finalmente era d’uopo rinunziare a sì seducenti e vaghi delirii. Abbandonammo quelle cime, e scendemmo al lido. Ivi con legne, che il mare avea gittate sulle sponde, accendemmo il fuoco per prepararci il pasto; nè questo ci era stato mai più necessario, perciocchè la nostr’agitazione morale, le fatiche fisiche, la vivacità dell’aria aveano aguzzato il nostro appetito; e il buon umore succeduto alla gravità di tanti pensieri, e sensazioni triste, condì di delizioso sapore quanto avevamo per ristorarci; e ci pose in istato di far più di un brindisi da que’ confini ultimi della terra ai nostri amici de’ paesi meridionali.

Cercando sul lido un luogo ove comodamente trarci a prendere il ristoro accennato, scoprimmo una grotta formata da tre rupi, le cui superficie liscie e lucenti dimostravano com’erano state battute dai flutti. Nel mezzo d’essa era una pietra rotonda, sotto la quale usciva un sottil filo d’acqua, che scendendo da una montagna vicina formava un ruscelletto, sul corso del quale trovammo alcune piante di angelica. Questa scoperta fu per noi di un pregio inestimabile trattandosi di una contrada sì estranea [221] ad ogni specie di vegetazione, e dove per certo noi eravamo lontanissimi dal supporre che la natura volesse presentarci qualche cosa buona per la nostra tavola. Del rimanente la grotta era sì ben disposta, che sarebbesi facilmente creduta opera dell’arte, anzichè della natura. Il largo masso che vi si trovava in mezzo, ci servì di tavola; e vi ci sedemmo in modo che non avevamo se non da abbassarci per empiere i nostri bicchieri di un’acqua eccellentemente fresca, e dolce, quantunque fossimo a pochi passi dall’Oceano.

Dopo aver mangiato ci divertimmo a salire sul più alto sito della roccia, e di là a fare sdrucciolare al basso enormi pezzi di rupe, secondo che potevamo distaccarne: i quali precipitando facevano un rimbombo simile a quello del tuono, e rovesciavano quanto alla loro caduta si opponeva. Le roccie di quella costa sono quasi tutte di granito; e lo stesso Capo-Nord è un ammasso di roccie dello stesso genere, misto ad alcune vene di quarzo, e corrente da mezzodì a tramontana. In alcuni siti ci parve vedere della neve non ancora disciolta, i cui strati sulla riva erano quasi a livello del mare. Questa circostanza sarebbe in contraddizione colla opinione dei dotti, i quali hanno stabilito il sistema della regione della [222] neve perpetua ad una cert’altura dell’atmosfera.

Noi non trovammo nè basalto, nè produzioni vulcaniche per quel poco tempo, che potemmo dare alla visita de’ contorni. Le pietre più conosciute erano della natura del granito, delle pietre calcaree miste di mica, e di un marmo grisastro, attraversato da grandi vene di quarzo, il quale generalmente seguiva la direzione dal mezzodì a tramontana anch’esso.

I licheni coprono dappertutto la superficie delle roccie esposte all’aria: comunissimo vi è il licheno geografico del Linneo, e vi si trova pure quello che gl’Inglesi usano invece di cocciniglia per fare il loro bel rosso. Quest’ultimo è abbondantissimo su tutte le coste della Norvegia, di dove se ne trae ogni anno grande quantità.

Le alghe guarniscono il piede delle roccie, che il mare bagna. I Norvegii ne fanno soda abbruciandole; e la vendono cara agli Inglesi.

Al di sopra di queste alghe trovansi fitti prati di piccole conchiglie bivalve, e frantumi d’altri crostacei stretti talmente insieme per opera della natura, che si assomigliano ad un lavoro in mosaico. Innumerabili poi sono le ghiande di mare (lepades balani), le quali si attaccano, non solamente alle roccie, ai battelli, [223] e alle navi; ma di una specie particolarmente ve n’ha, che sì forte si attaccano alle balene, ch’esse non possono liberarsene. Abbiamo trovato ancora nelle nostre corse su questi lidi l’echinus esculentus, il buccinum glaciale, il dimidiatum, il pecten, qualche specie della venus meretrix, l’helix crepidularossa, ed altre, che il mare avea spezzate, e frantumate a modo da non essere più riconoscibili. Ma per la più parte aveano colori poco brillanti, e poco grati agli occhi.

Le spugne anch’esse trovansi qui, e ne vedemmo di gittate sulla riva dalla forza de’ flutti anche a grande distanza. Ma questi zoofiti si tengono ad una certa profondità nel mare, e i pescatori sono bene spesso quelli che le distaccano colle loro reti. Vi ho vedute spugne di somma bellezza, formanti ramificazioni dell’altezza di un metro e più; e ve n’ha di perfettamente bianche, ma le loro fibre sono meno tenaci, e più tenui di quelle, di cui ordinariamente si fa uso.

Madrepore, stelle di mare, millepore, e tali altre cose qui pure abbondano: ma non vi si trovano coralli.

Diverse specie di uccelli di mare chiamavano la nostr’attenzione, e la tanta loro quantità ci compensò della mancanza degli uccelli di terra. [224] Le alche fra gli altri, in que’ luoghi comunissime, e tra queste quella che si distingue col nome di artica, veniva di tempo in tempo presso il nostro battello più dell’alca, e della pica; e pareva che intendesse di provare quanto fossimo abili a tirare al volo. Essa ha due qualità, che possono farle perdonar tanta baldanza. Sa stancare il cacciatore coi mille giri, e rigiri, ch’egli è obbligato a fare inseguendola; ed ha sì fitta la piuma, che per ammazzarla bisogna averla ad una mediocrissima distanza. Del rimanente l’alca artica in aria rassomiglia molto al pappagallo per la figura del suo becco blù e rosso, ricurvo e spianato perpendicolarmente.

Anche le anitre, che ivi sono di molte specie, e numerosissime, furono un oggetto di nostro divertimento, e particolarmente quelle che portano alla coda due penne assai lunghe, e forcute come quelle della rondine. Codesta specie è indigena de’ paesi settentrionali; e il Linneo l’ha chiamata anitra iemale.

Ma essendosi levato un venticello settentrionale i nostri uomini ci persuasero ad approfittarne per avvicinarci ad Alten; e non avevamo fatto più di tre, o quattro miglia quando ci venne a sorprendere la calma, la quale obbligò i nostri battellanti a lavorare di remi, e [225] di braccia. Osserverò qui di passaggio, che nelle acque, in cui ci trovavamo, qualche volta la calma è oppressiva al pari di quella che ci viene descritta da chi ha navigato nel mare del Sud. Il calore del sole alza una specie di sottil nebbia a sei, o sette piedi sopra la superficie del mare, che rende l’aria sì grave, e soffocante, da non poter respirare che a stento. Senza ombrello adunque, e senza tenda, o coperta di sorte noi rimanevamo arrostiti dal sole, e tenendo la bocca aperta aspiravamo quel poco d’aria esteriore, che n’era presso. Il mio compagno di viaggio diceva di non avere provato mai un calore sì costante: però stando alle dimostrazioni del termometro trovavamo che quel grande soffocamento procedeva piuttosto da quella nebbia disossigenata, che dal calore.

Verso sera, o per parlare con più esattezza, quando il sole era nel punto, in cui più si avvicina all’orizzonte, in luogo del venticello rinfrescante, il calore crebbe, e il termometro che alla mattina indicava 12 gradi, allora ne segnava 20. I nostri remiganti non facevano che bere acquavite per rinfrescarsi, e non potevano lavorare. Il battello appena appena movevasi: e pareva che in quel momento la natura fosse sepolta in un tristo silenzio: il solo [226] colimbo artico, co’ suoi gridi lugubri, e di mal’augurio, empiva quelle acque solitarie de’ suoi tuoni funebri, e raddoppiava nei nostri cuori la noja.

[227]

CAPO XIX.

Ritorno ad Alten per diversa strada. Isola di Maaso: suoi abitanti, e loro ospitalità. Vantaggio di chi viaggiando è tenuto per un principe. Hammerfest. Penisola Hwalmysling. Fregata inglese. Arrivo in Alten. Corsa a Felwig: gran mercato di pesce.

Non ritornammo ad Alten per la strada tenuta dianzi: ma approfittando della occasione visitammo tutto quello che ci si era detto meritare attenzione nelle isole che sorgono presso la costa. La prima fu l’isola di Maaso, abitata da un ministro, da un mercante, e da una trentina di famiglie. Il mercante ci accolse colla più alta distinzione: ci offrì diverse qualità di liquori; ci regalò alcune delle spugne che trovansi sulle coste, di alcune conchiglie, e di un’alca, che suo figliuolo avea impagliata. Poscia ci fece vedere i contorni della sua abitazione, i quali non erano che semplici rupi, e caverne, ove andava a caccia di lontre. Alla nostra partenza alzò padiglione, e ci salutò con tre colpi di cannone. Questi segni di rispetto, e, se vuolsi, di sommissione, erano senza fallo [228] meno l’effetto della semplice ospitalità, che un omaggio ch’egli credeva di rendere a due principi, i quali per curiosità viaggiassero in codesto paese in incognito, per godere di maggior libertà. Questo errore era fondato sopra un avvenimento precedente. Un figlio dell’ultimo duca d’Orleans dopo avere attraversata tutta la Norvegia, venne di là su questa costa montato sopra un vascello: da quest’isola passò ad Alten, e da Alten continuò la sua strada a cavallo, accompagnato da un giovine chiamato Montjoye. Tutti e due seguivano a un di presso la stessa direzione, che tenemmo noi; e tutti e due viaggiavano sotto finti nomi; il primo sotto quello di Müller, e l’altro sotto quello di Fröberg, che in alemanno significa lo stesso che il nome francese. L’anno appresso i mercanti furono informati dai loro corrispondenti, che uno d’essi era il principe d’Orleans; e da quel tempo in poi tanto in Norvegia, quanto sulla costa di Laponia si credeva che ogni forestiere accompagnato da un amico, e da due domestici, dovess’essere un principe viaggiatore o per propria istruzione, o per piacere. Per formarsi poi una giusta idea della ospitalità da noi ricevuta a Maaso sarebbe necessario sapere, se i due personaggi accennati ricevessero le stesse dimostrazioni di rispetto, [229] che si usarono con noi. Io viaggiai in appresso col mio compatriota Bellotti attraverso della Norvegia, ove fummo trattati della stessa maniera, ricevendo i più distinti onori; e mi compiaccio di ricordare con viva riconoscenza l’ospitalità che in quel paese si praticò con noi. Se non che senza mancare alla verità non posso dispensarmi dal dire che dappertutto eravamo tolti per principi italiani venuti verso il Nord per passarvi il tempo delle turbolenze, che regnavano ne’ loro paesi; e cercavasi in tutti gli almanacchi che principi potessimo essere. Il mio compagno, di una complessione e di una ciera delicatissima, passava pel principe incognito; ed io, più forte e robusto, era il suo segretario, o il suo Mentore. Alcuni lo riguardavano come il figlio del duca di Parma; altri lo prendevano pel figlio di quello di Modena; ed alcuni più scrupolosi nelle loro ricerche, dicevano ne’ loro scrutinii genealogici, che confrontando la sua età con quella d’altri principi mentovati negli almanacchi, potevano con sicurezza asserire ciò che affermavasi della sua condizione. Voglio credere che questa opinione influisse sopra una certa classe di persone nelle principali città di Norvegia, ove passammo alquanti giorni.

Da Maaso andammo ad Hammerfest, luogo, [230] ove sono due, o tre mercanti, un ministro, ed alcune famiglie. Tutti questi stabilimenti sulla costa hanno molta somiglianza fra loro. Dappertutto si vede la stessa sterilità, la nudità stessa, e lo stesso taglio delle rupi. In quest’ultimo sito scorre un fiumicello, che passa attraverso di una bella stretta ombreggiata di betulle; e vi si pescano sermoni eccellenti. Alla riva direttamente posta all’incontro di Hammerfest v’è una penisola chiamata Hwalmysling, in cui trovansi molte lepri, le pelli delle quali fruttano al padrone ogni anno i dugento e trecento risdalleri. Uno de’ mercanti di Hammerfest ci disse vagamente, che al tempo de’ suoi predecessori una fregata inglese, sette od otto anni all’incirca indietro, era venuta sulla costa con due astronomi, uno de’ quali inalzò un osservatorio sopra una montagna vicina, mentre l’altro, per quanto egli credeva, era andato a fissare la sua residenza per alcun tempo sul Capo-Nord. Ma non si ricordava nè in quale anno quella fregata inglese fosse comparsa colà, nè i nomi degli astronomi: tutto quello che sapeva dire, si era, che l’apparizione di quella fregata avea fatta tale impressione sugli abitanti della costa, che andarono tutti per vederla, e ritornaronsi colla terribile apprensione, che non forse portasse la guerra, e la [231] distruzione in tutto il loro circondario. Il ministro era sì grosso di persona, sì robusto, e di una statura sì gigantesca, che se il suo ingegno avesse potuto sostenere un parallelo colla statura, egli sarebbe stato il più gran teologo della età nostra. Egli parlava latino e tedesco; e pareva molto sollecito per sapere tutto ciò che appartenesse a politica. Gran piacere ebbe in veder noi, persuaso che potremmo dargli delle nuove più fresche di quelle ch’egli aveva. E si può farsi una idea della lenta comunicazione di questa parte del globo col rimanente d’Europa, da questo, che eravamo ai 19 di luglio del 1799, e il ministro di Hammerfest non aveva ancora udito parlare de’ grandi affari politici seguiti dopo la battaglia navale di Aboukir, accaduta nell’agosto del 1798.

Noi trovammo in Alten una persona, che io avea incaricata di farci una raccolta di piante e d’insetti, ed un’altra per darci un saggio della sua abilità in sonare il violino, onde poter conoscere lo stato della musica in questa parte d’Europa. Ivi ci fermammo parecchi giorni per fare i preparativi necessarii pel nostro ritorno verso il golfo di Botnia. Durante questa fermata facemmo una piccola corsa a Felwig colla intenzione di vedervi i Laponi, i quali vi capitavano da tutte le parti per vendere [232] i loro pesci. Chiamasi Felwig un piccolo porto tre miglia distante da Alten; e vicinissimo a quel porto è un villaggio abitato da alcuni mercanti, e da un ministro: vi si vede pure una chiesiuola.

[233]

CAPO XX.

Imbarco, e navigazione sull’Alten. Tre singolari cataratte. Motivi di rimontarne una, e sforzi inutili. Viaggio per le montagne, e gran cambiamento di temperatura. Si ripiglia la navigazione dell’Alten. Arrivo a Kantokeino. Passaggio ad Enontékis. Viaggiatori inglesi, e loro memorie. Memoria di un emigrato francese. Estratto di un manoscritto del curato di Enontékis. Partenza da Enontékis per Tornea ed Uleaborg.

Io risparmierò al mio lettore le particolarità del nostro ritorno attraverso del deserto; e lo condurrò rapidamente a Tornea presentandogli in compendio la sostanza del mio giornale.

Noi rimontammo il fiume Alten in due battelli, avendo contro di noi tutte le cataratte, che con uno sforzo incredibile di perseveranza superammo in più lunga misura, che mai si fosse fatto. Il cammino pel fiume presenta vedute pittoresche quante, e quali la immaginazione di un pittore possa mai desiderare. Le sponde dell’Alten qualche volta sono graziosamente ornate di belle betulle, e qualche volta [234] presentano un orrido aspetto, la cui asprezza non si vede però senza un certo secreto diletto; ed è là che veggonsi masse di rupi a picco, ed inaccessibili, fra le quali apronsi precipizii profondi. Seguendo il fiume trovammo una cascata che veniva giù perpendicolarmente da una rupe, che sarebbesi presa per le ruine di una gran cattedrale. A’ piedi di quella rupe era un laghetto avente sulle sue sponde degli scaglioni tagliati naturalmente nello scoglio: il che dava ad un tale accidente della natura l’apparenza di un tempio antico. Qui noi vedemmo un orso venuto al fiume per bere; ma appena ci ravvisò, corse ad internarsi nel bosco. Anche una volpe venne sul sito medesimo per bere; e si tenne nel suo cammino direttamente in faccia alla tenda, sotto cui avevamo passata la notte: declinò però anch’essa a quella vista, ma senza mostrar paura.

Più lungi fummo colpiti dalla vista di due cascate opposte l’una all’altra, e tutte e due precipitantisi da un banco del fiume Alten, il quale a poca distanza forma anch’esso una cascata insormontabile. Tre cataratte tanto vicine l’una all’altra in sì piccolo spazio sono un fenomeno di tal genere, che non ne avea ancora veduto l’esempio; e se lo avessi veduto presentato in un quadro, io l’avrei preso più [235] per un capriccio ideato da pittore immaginoso, che operato realmente dalla mano della natura. Noi facemmo tutti gli sforzi possibili per rimontare la cataratta del fiume, sebbene mostrava di ridersi del nostro disegno; e dover essere il non plus ultra della nostra navigazione. Per riuscire nella impresa disponemmo i nostri Laponi in diverse maniere, facendo loro tenere in mano delle corde per fermare il battello, ed altre legando alle nostre reni pel caso, che il battello venisse a spezzarsi sopra uno scoglio, o cedendo al vortice si affondasse. E mancò poco infatti, che così non succedesse: se non che fortunatamente il Lapone, che teneva la corda ferma al di dietro d’esso battello, seppe tirarla a tempo. I pericoli da noi corsi su questa cataratta non sono qui presentati con esagerazione: essi furono reali; e noi non vi ci esponemmo, che per evitare la fatica de’ lunghi giri, che avremmo dovuto fare per terra.

Noi stavamo sufficientemente bene in quel nostro battello; ma se dopo tutte le pene sostenute la navigazione che rimaneva da farsi per quel fiume si fosse renduta impraticabile, non avremmo avuto altro partito che quello di attraversare la catena di montagne terribili, e di fare un lungo, e faticoso viaggio a piedi con [236] grande pericolo di perderci ne’ deserti. Al contrario più che noi ci fossimo internati nel paese seguitando il fiume, più la nostra strada per terra sarebbe riuscita breve. Superando poi questa cataratta era a presumere, che il fiume divenendo piano di più, e navigabile per un più lungo spazio di via, potrebbe permetterci l’uso de’ nostri remi; e queste presunzioni erano abbastanza fondate per impegnarci a fare qualche sforzo: noi facemmo tutti i possibili; ma inutilmente.

Ripigliammo adunque la strada delle montagne facendo nuove giravolte per evitare fiumi e laghi; e non passò gran tempo che ci trovammo in un’altra temperatura, poichè il termometro di Celsius cadde ai 4 gradi; e alcune nubi che passavano sulle nostre teste ci coprivano di fiocchi di neve. Camminammo dodici ore di seguito prima di riguadagnare l’Alten; nè ci fermammo che per qualche istante, necessitati a pigliare un po’ di fiato. Il timore di qualche mutazione di tempo, o di qualche temporale procelloso ci faceva menar le gambe ben bene: per questo non facemmo mai in questa traversata alcuna fermata vera; e il cammino non fu meno di cinquanta miglia. Finalmente giungemmo al sito, ove avevamo lasciati i Laponi di Kantokeino coi loro battelli: essi aspettavanci [237] per ricondurci a quel villaggio. Avevamo già spedito loro qualcuno per avvertirli del nostro ritorno, ed impegnarli a venirci incontro. Un venticello di settentrione alquanto forte risparmiò alla nostra gente la fatica di remigare contra la corrente; e alcune frasche di betulla in questa stagione tuttora verdi, piantate a poppa, ci tennero le veci di vela.

Arrivati a Kantokeino fummo costretti a fare un altro lungo viaggio a piedi fino ad Enontékis, luogo che volevamo conoscere per collocarlo nel nostro itinerario. Non si sapeva a quel tempo che ne fosse aperta la strada, nissuno avendola per l’addietro praticata. Le montagne, che separano Enontékis da Kantokeino, non sono della metà alte come quelle che separano Alten-Gaard da Massi; ma noi eravamo destinati ad incontrare qui difficoltà maggiori che le provate nella Laponia norvegia. Ci bisognò passare fiumi a guazzo: poi ci trovammo in mezzo a paludi estesissime, e in qualche sorta perduti in orrendi deserti. I nostri buoni Laponi non ne sapevano più di noi: erano in continui dispareri; e senza il soccorso del nostro compasso correvamo pericolo di errare in que’ boschi sino all’approssimarsi dell’inverno, o d’essere obbligati a ritornare a Kantokeino. Per fortuna finalmente [238] scoprimmo la punta del campanile di Enontékis dopo una strada di due giorni e mezzo, ed una corsa di quasi cento miglia. Vi arrivammo il dì appresso che n’erano partiti due Inglesi, i quali aveano intrapreso l’istesso viaggio, che noi: ma essendo uno d’essi stato preso da febbre, furono obbligati a dare addietro dopo essersi ivi fermati alcuni giorni. Erano questi il sig. Clook, e il sig. Cripps, due giovani molto bene istruiti, e studenti del collegio di Gesù in Cambridge. Il sig. Clook era stato in Italia, e sapendo che un italiano viaggiava verso il Nord, e che potrebbe prendere forse la strada verso questo luogo, avea scritto sul registro tenuto dal ministro quattro versi dell’Ariosto, che eccellentemente si appropriavano alla mia situazione, e che dipingevano al naturale le fatiche del mio viaggio. Eccoli.

Sei giorni me ne andai mattina e sera

Per balze e per pendii orride e strane,

Dove non via, dove cammin non era,

Dove nè segno, nè vestigia umane.

Questi due Inglesi aveano passata una settimana in casa del curato, ed erano stati trattati da tutta la famiglia colla più cordiale amicizia. Durante il tempo di malattia, che li obbligò a fermarsi, vollero dare uno spettacolo assai proprio per attirare i Laponi di tutti i [239] cantoni del vicinato, e capace di fare sulle anime di questo popolo semplice la più viva impressione: consisteva questo spettacolo in alzarsi in aria entro un pallone. Ignoro l’effetto che la vista di un tal prodigio avrebbe prodotto sopra questa gente; ma sarei tentato a credere che il concorso non sarebbe stato numeroso. Mancarono loro i mezzi materiali per eseguire il loro divisamento. Alla loro partenza scrissero i loro nomi sul registro coll’apostrofe seguente: Straniero, qualunque tu sii, che visiti queste contrade remote del Nord, ritornando al tuo paese nativo, di’ a’ tuoi, che la filantropia è insegnata presso le nazioni incivilite, ma che non si pratica se non là, dove la sua teoria non penetrò mai. Sulla pagina opposta del libro era il nome di M. Vesvroti, venuto ivi per far sapere ai Laponi, come lo avea annunciato ai Filandesi, in un latino infranciosato, ch’egli era stato in addietro presidente del Parlamento di Dijon. Ecco la sua nota: Libertatem querens, seditionisque theatrum fugiens, hic fuit die quindecimo martii anno millesimo nonagentesimo secundo Carolus Richard de Vesvroti, dijionensis, praeses in suprema rationum Curia Burgundiae.

Il ministro di Enontékis era persona istrutta: egl’impiegava il tempo dalle sue funzioni [240] lasciatogli libero in ricerche statistiche e filosofiche. Avea fatte molte raccolte in istoria naturale; avea anche scritto un picciol libro contenente le risposte a varie domande fattegli da un naturalista svedese che viaggiò in codeste contrade pei progressi della storia naturale. Avendo egli nella sua sposa una donna di molta intelligenza, ed assai bene educata, noi ad essa facemmo varie ricerche sulla popolazione, e sulle produzioni naturali di questa porzione di mondo; ed ella per dispensarsi dal lungo proloquio, che la materia richiedeva, per tutta risposta ci diede il libro di suo marito dicendoci che vi troveremmo quanto desideravamo di sapere da lei. Il manoscritto era diviso in cinque capitoli: il primo trattava della popolazione della parrocchia, il secondo degli affari ecclesiastici; il terzo delle colonie stabilite ne’ contorni; il quarto de’ Laponi nomadi, ossia pastori; e il quinto delle produzioni naturali del paese. Feci qualche transunto del manoscritto, che io inserisco qui più brevemente che mi sia possibile.

La popolazione del villaggio di Enontékis è di circa 930 abitanti: 258 sono coloni, Laponi fissi, e 662 sono nomadi, ossia famiglie erranti, che vivono nelle montagne, e che non si occupano che della cura delle loro renne. Il [241] manoscritto taceva sulla rendita che il ministro traeva da’ suoi parrocchiani; ma si estendeva molto sulla rinomanza della chiesa di Enontékis, della quale parlavasi fino alle estremità del Nord!!

I Norvegi, diceva il manoscritto, quando si dispongono a lungo e pericoloso viaggio sogliono mandare un cereo da bruciarsi in questa chiesa, ed altri piccoli doni votivi. Assicurava, che malgrado tutto ciò ch’egli avea potuto fare per recare la luce evangelica in mezzo alle montagne più lontane, i Laponi non conservavano meno un residuo di paganesimo. Trovansi qua e là, diceva egli, nel deserto delle pietre, le quali hanno qualche somiglianza colla figura umana; e quando mutando stazione colla loro famiglia e i loro armenti passano presso a codeste pietre, offrono ad esse un sacrifizio; e vi si veggono sempre messe all’intorno parecchie corna di renne. — I Laponi hanno tra le loro mani molte monete, che usano seppellire sotto terra: ond’è che centinaja di risdalleri vanno perdute quando chi le ha sepolte, sorpreso da malattie gravi ed acute muore prima d’aver potuto significare ad alcuno il luogo del suo tesoro.

In quanto al vestito de’ Laponi, il manoscritto [242] diceva, che appena v’è qualche differenza tra quello de’ Laponi erranti, e quello de’ Laponi che hanno domicilio stabile: eccetto che questi usano in estate di vestirsi con stoffe di lana in vece di pelli di renna, e che portano camicie; laddove i Laponi erranti di queste non ne hanno.

Il manoscritto parlava di una specie di mucilaggine, o colla, fatta col corno della renna, che ben preparata possiede grandi virtù. Vi si leggeva pure che la malattia più comune tra le renne era quella che attacca l’epiploon, contro della quale non v’ha rimedio che valga; e che l’animale che ne sia attaccato, forza è che muoja nello spazio di un anno. I mali di testa, di fegato, di cuore, e de’ piedi erano fra questi animali frequentissimi. Il manoscritto si estendeva ancora sul numero spaventoso dei lupi, i quali nel corso del 1798 aveano fatto un esterminio nelle renne: particolarità che il ministro attribuiva alla guerra di Finlandia.

Quanto a produzioni naturali vi si leggeva, che i pomi di terra riuscivano assai bene ne’ contorni; ma che con grande difficoltà le radiche, ed altre piante di cucina crescevano nella loro stagione; che l’orzo e l’avena potevano essere seminate con utilità. Del rimanente qui per lavorare la terra si usa un aratro [243] particolare al paese, ed appropriato a questo suolo, ove bisogna evitare nell’arare le grosse pietre.

Parlava in oltre il manoscritto del lampone artico, che ivi cresce naturalmente, ma non sì bene come quello che dà il così dai botanici detto rubus chamaemorus. Faceva pur menzione degli uccelli; ma non diceva nulla degli insetti, come sarebbe stato il desiderio nostro. Ne avea però il buon ministro fatta una raccolta, che avea mandata a Stockholm ad uno de’ suoi corrispondenti, come pure all’Accademia, dalla quale riceveva una pensione annua di sessanta risdalleri per ajutarlo a proseguire le sue ricerche statistiche, e scientifiche, a continuare le sue osservazioni, e ad occuparsi con buona riuscita delle cose appartenenti alla storia naturale.

Il nostro viaggio da Enontékis a Tornea si continuò lungo il fiume: arrivammo a Muonionisca, dove vedemmo il nostro amico, il curato, e l’eccellente nostro piloto, Simone. Facemmo visita a tutte le persone che avevamo conosciute ne’ diversi luoghi, ne’ quali eravamo stati accolti tanto bene; e spezialmente a Kengis, e ad Uper-Tornea, ove salutammo il ministro della parrocchia, e le sue amabili figlie. A Tornea non lasciammo di rivedere i nostri [244] amici, il rettore, e il mercante, che ci riguardarono con venerazione, meravigliati del viaggio, che avevamo fatto; e finalmente entrammo trionfanti in Uleaborg, dove esponemmo alla vista degl’increduli amici le conchiglie, gli uccelli, le spugne, e gli altri oggetti di storia naturale proprii del Mar-gelato: cose tutte raccolte da noi come prove autentiche del viaggio fatto al Capo-Nord, ultima e più remota estremità dell’Europa, a’ 71 gradi, e 10 minuti di latitudine settentrionale.

[245]

CAPO XXI.

Costituzione fisica de’ Laponi. Loro origine e loro lingua. Robustezza ed agilità de’ Laponi, e lavori. Loro religione e moralità; e cause di corruzione. Vestito: incombenze dei due sessi. Abitazioni, letti, cibi, cucina, e mobili di casa. Caccia delle renne selvaggie: caccia d’altri animali del paese. Alcuni particolari usi de’ Laponi. Loro nozze, e loro giuochi.

Molte cose nel decorso di questa relazione sono state dette riguardo ai Laponi; ma non quante possano interessare la curiosità di un lettore, che ami istruirsi. Si darà qui un compendio delle più importanti notizie, che finora hannosi di questa razza d’uomini.

Il complesso de’ tratti, che nella sua persona il Lapone presenta, lo fa vedere di una razza veramente particolare. Egli nasce, e nella sua prima età si mostra grosso, grasso, e direbbesi gonfio in tutto il corpo: cresciuto poi, rimane piccolo di corpo, e magro, con capelli neri, distesi, e corti, e coll’iride degli occhi tendente al nero. Bronzino n’è il color [246] della pelle e tendente al nero: larga è la sua bocca, scavate le gote, il mento alquanto lungo ed aguzzo. I suoi occhi sono deboli, e sgocciolano continuamente: il che facilmente può attribuirsi tanto al fumo, che ne riempie l’abitazione, quanto al riverbero della neve, che copre tutto il paese. Alcuni scrissero d’aver veduto Laponi coperti di pelo come gli animali: ne avrebbero avuto bisogno; ma egli è molto probabile che chi disse pelosi i Laponi confondesse coll’abito, di che erano vestiti, la loro pelle. Altri dissero che i Laponi aveano un occhio solo. Questi non videro mai Laponi; e si contentarono di ripetere favole udite.

Chi abbia dato il nome di Laponi a questa generazione d’uomini, è cosa da nissuno indicata; nè è indicato da qual tempo in qua tale denominazione si usi. Solo si nota che il nome di Lapone comprende tre etimologie della lingua svedese: lapp è la prima, che vuol dire lusso; la seconda è lappa, che significa pipistrello; la terza è lapa che significa correre. Si è creduto giustificata la prima dall’abito, la seconda dal brutto aspetto; e la terza dalla vita errante. Se ciò è, hanno ragione i popolani della Norvegia e della Finlandia, abitanti sui confini della Laponia, di sdegnarsi quando si sentono chiamare col nome di Laponi.

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Ma quale è l’origine di questo popolo? La storia anteriore per tre e più mil’anni all’era nostra volgare lo direbbe, s’essa fosse stata scritta ne’ debiti tempi. Tutto ciò, che la sana critica può permettere di credere, si è che per la famosa irruzione degl’Hiong-nu ne’ paesi meridionali della Siberia e Tartaria, tra le generazioni, che dovettero dar luogo a quella bellicosa moltitudine, vi fosse pur quella, da cui sono derivati i Laponi. Nel primo loro concetto adunque essi sono a modo nostro di dire Sciti o Tartari. I popoli per tale motivo profughi si spinsero avanti, accomodandosi come poterono; ma non è credibile, che scegliessero spontaneamente gli aspri climi, ne’ quali li vediamo stabiliti: nè uno fu l’urto, nè di un’epoca sola. Le stesse cagioni produssero gli stessi effetti più volte; e le orde più deboli furono costrette a ripararsi come poterono; e la necessità le portò a contentarsi del ricovero, che trovarono nella più settentrionale striscia del continente. Il tempo e il clima hanno poi operati in que’ popoli i caratteri, che ora li distinguono. Chi sapesse a fondo le lingue tartare, e coi debiti sussidii le potesse paragonare con quelle che parlansi dai Finlandesi, Norvegii, Samojedi, Laponi ed altri, troverebbe forse non poche traccie della origine comune. [248] È poi fuori di ogni dubbio, che i costumi e gli usi de’ Laponi conservano profondi indizii della loro provenienza scitica, o tartara che vogliam dire; e che le aspre contrade situate verso l’Oceano-glaciale dal Kamtschatka in qua, sono abitate da razze d’uomini simili in tutto ai Laponi.

Del rimanente parlando della lingua particolare de’ Laponi, essa è interamente distinta da qualunque altra, eccettuatane la finlandese, colla quale sembra avere qualche analogia, minore però di quella che si noti tra la lingua danese e la tedesca. Anzi è da dire, che quantunque la lingua lapona contenga molti termini somigliantissimi alla lingua della Finlandia e della Danimarca, o per dir meglio di quella di Norvegia, essa differisce tanto da queste lingue nella maniera generale di parlare, che pronunciando certi termini il Lapone, il Finlandese e il Danese o Norvegio non potrebbero intendersi, sempre che ciascuno usasse il proprio dialetto. La comunione poi di tali vocaboli presso codesti popoli altro infine non proverebbe che una origine comune. Questa induzione però cesserebbe d’essere giusta, se si applicasse a que’ termini notati nella lingua lapona che sanno di somiglianza a voci ebraiche. Tutto rispetto agli Ebrei è nuovo, se si [249] confronti coll’epoche precedentemente da noi indicate; e in meno remoti tempi che relazione si può egli sognare tra Laponi ed Ebrei? E coloro i quali si arrischiarono di pensare che i Laponi possono avere avuta origine dagli Ebrei, perchè hanno in quelli notati alcuni usi proprii di questi, non hanno fatto che abusare del senso comune.

La lingua lapona per attestazione del missionario Leemens, che ne ha scritta una gramatica, è commendabile per una elegante concisione, poichè esprime con una sola parola ciò che in altre lingue ne richiede parecchie. Una proprietà di questa lingua si è l’abbondanza di diminutivi: il che le dà grazia ed espressione. Un’altra proprietà sua è di annunciare in plurale i nomi de’ fluidi, de’ metalli, de’ grani, dell’erbe e de’ frutti.

Il Lapone, piccolo com’è di corpo, secondo che abbiamo notato, non è meno robusto e gagliardo di forza: il che deve e alla sua naturale costituzione, e al costante esercizio. Egli in ogni suo intraprendimento ha pazienza e coraggio meraviglioso. Ma quantunque dotato d’organi vigorosi e di membra esercitate alla fatica, non è meno degli altri Europei viventi in migliori climi esposto a malattie. Però in essolui codeste malattie hanno un certo carattere [250] di benignità, così che i rimedii più semplici le dissipano, e loro rendono la salute quando almeno la causa non sia acuta. Ciò è un gran compenso nella impossibilità, in cui sono di procurarsi grandi soccorsi. Per questo il più prezioso regalo, che possa farsi ad un Lapone è quello di pepe, di zenzero, di cannella, di noce moscata, di tabacco e di droghe simili, per quanto piccola ne sia la dose.

Uno de’ loro caratteri fisici assai notabile è la somma loro agilità. Le loro membra hanno una flessibilità stupenda. È sorprendente cosa il vedere in che numero sanno ammucchiarsi insieme in un luogo, che non potrebbe capirne che la metà, od un terzo. A questa loro agilità può riferirsi la maniera, con cui quando le montagne sono coperte di neve, discendono dalla cima delle medesime giù per un fianco scosceso e dirupato, armati di una specie di scivolatojo fatto di legno, e di una certa lunghezza, curvato in forma di un quarto di circolo, in mezzo del quale piantano il piede. Coll’ajuto di questo scivolatojo scansano di profondarsi nella neve, ed agevolano il cammino, venendo giù con tale velocità, che l’aria fischia nelle loro orecchie, e i loro capegli si sparpagliano al di dietro della testa. E sono sì valenti in conservar l’equilibrio, che per quanto [251] forte sia l’impulsione che hannosi data, possono senza fermarsi levare da terra il loro berretto, se per caso sia caduto, o tutt’altra cosa che trovino sul loro passaggio. Incominciano ad esercitarsi in questa facenda sin da fanciulli.

Quando i Laponi viaggiano sulle loro renne, la celerità del marciare di codeste bestie non può concepirsi, se non se n’è stati testimoni. Le renne giungono con tanta prestezza sia alla cima, sia a’ piedi delle montagne, che il moto delle reni del cavalcante può appena distinguersi. I Laponi della costa sono singolarmente svelti nel maneggio de’ loro battelli.

Alcuni Laponi sanno scolpire il legno e il corno, quantunque non abbiano altro stromento che un piccolo coltello ordinario; e con esso fanno piccoli mobili, come tavole, cucchiai e cose simili, come dirò qui appresso. Le loro slitte, nella maniera colla quale sono costruite, provano in essi sagacità e antiveggenza. Anche le donne sono industriosissime; e ne fanno una prova i begli ornamenti delle loro cinture. Questo popolo sì abile alla caccia in addietro non usava che l’arco e le freccie: oggi conosce l’uso delle armi da fuoco; e sono divenuti eccellenti nel tirare.

Tutto fa presumere, che fin verso la metà [252] del Seicento i Laponi vivessero nelle tenebre del paganesimo, e senza alcuna cognizione di lettere. Federico IV, re di Danimarca, salito al trono nel 1619, stabilì una missione religiosa, continuata poi da Cristiano VI, da Federico V e da Cristiano VII. Molti Laponi sanno a memoria non solamente il catechismo, ma parecchi salmi e parte degli Evangelii. Hanno poi in grande venerazione i loro missionarii e curati; e spesso li regalano di latte gelato, di lingue e di grasso delle loro renne. Sono attentissimi ad osservare le feste; e allora si guardano dallo spergiurare e dal maledire, vizii ordinarii tra i Norvegii; ed in generale è giusto dire che menano una vita veramente pia e regolata: raro è che commettano fornicazione ed adulterio; e il furto è un delitto poco o nulla cognito presso di loro: perciò sono per essi inutili spranghe, catenacci e serrature. In Norvegia v’ha qualche mendicante: in Laponia non ve n’ha; e quando per caso si trovi uno, che l’età, o la infermità riduca alla indigenza, egli è abbondantemente soccorso: ma non ha nulla, se la sua povertà non sia scusabile.

Il commercio, che i mercanti danesi, svedesi, olandesi hanno aperto, gli uni sulla costa, gli altri nell’interno, ha portata qualche [253] corruzione in alcuni Laponi. L’acquavite li ha talora indotti ad ubbriacarsi; e tante volte ingannati da chi viene a trafficare con loro, hanno imparato a diventare ingannatori. Per esempio: le pelli di renne valgono più, o meno, secondo che gli animali sieno stati uccisi piuttosto in una stagione, che in un’altra; ed alcuni, se non hanno paura d’essere scoperti, danno la scadente per l’ottima. Così, la pelle di primavera viene guasta da un insetto, che vi depone le uova; e il Lapone cerca di chiudere il buco; e dà questa pelle per buona, con aggiunte di quelle bugie, che usano tutti i merciai da noi.

Molte esagerazioni sono state scritte sui vestiti de’ Laponi. La verità si riduce a questi termini. Portano in testa un berretto della forma di un pane di zucchero, fatto di grosso panno per lo più rosso, con un fiocco alla punta, e con un orlo di pelliccia; i Laponi russi vi mettono l’armellino. Però v’ha famiglie che vanno a testa scoperta; e v’hanno altre che non usano se non se una calotta. Alla caccia, o alla guardia delle renne nella cattiva stagione adoperano un cappuccio, che vien giù sino al petto, coprendo le spalle; questo cappuccio ha una piccola apertura corrispondente agli occhi. I più tengono sempre il collo scoperto, e [254] se lo coprono, adoprano a tal effetto una stretta striscia di grosso panno con un giro solo intorno al collo. L’abito principale è una tunica, o camiciotto di pelle di montone, colla lana di dentro: questo camiciotto non ha altra apertura che al basso, e sul petto; e secondo la condizione, o il gusto della persona: ha qualche ornamento in alto, fatto di panno, ed una guarnizione di pelliccia. Un’altra guarnizione di panno, o di pelliccia, consistente in una piccola striscia, è apposta sul lato sinistro; e sul destro, spezialmente nella tunica delle donne, v’ha una piccola specie di nastro con qualche piastrella di stagno, o di argento. Simile guarnizione orna le maniche, e il petto. Il vestito sopra posto è fatto di un grosso panno, e qualche volta di una pelle di renna di un color grigio. Questo vestito ha un colletto duro, che s’alza sino al mento, ed abbraccia il collo. Anche questo ha ornamenti di ricamo; ed altri ornamenti sono sopra ambe le spalle, fatti di pezzetti di panno tagliati in diverse figure, e scelti di varii colori. Il basso dell’abito è pure ornato anch’esso con liste di diversi colori. I Laponi non hanno ai loro abiti scarselle: invece portano un sacchetto, che pende loro sul petto, e contiene il battifuoco, ed altre cosucce d’uso.

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Il gran freddo, che fa nel paese, freddo sì forte, che i fiumi, e i laghi gelano fino a sei, e sette piedi, obbliga i Laponi a ben coprirsi per ogni verso di pelliccie, e ad usare molte provvidenze per tenersi calde tutte le parti del corpo. Così non solo si fanno guanti, e stivaletti, e scarpe di pelli con pelo; ma mettono di più nelle scarpe e ne’ guanti uno stoppaccio molle al pari del cotone, fatto da una pianta, che raccolgono l’estate, detta dai botanici cavax vesicuria, la quale fanno con istropicciamento divenir morbida, ed in appresso cardano.

Nè uomini, nè donne usano calzette, ma pantaloni stretti alle cosce ed alle gambe, fatti di grosso panno, o di cuojo concio; e alcuna volta della pelle delle gambe delle renne.

Le scarpe de’ Laponi non hanno che una suola; per ordinario lasciano il pelo di fuori, con che le rendono più sdrucciolevoli, massime sul ghiaccio, finchè il pelo non sia consunto. Per questa, od altra maniera ridotte a superficie ineguale servono principalmente ai ragazzi, i quali altrimenti correrebbero pericolo di cadute funeste.

Gli uomini portano cinture guernite di ornamenti di stagno; e vi attaccano una borsa pel tabacco che masticano: d’altra parte a questa [256] cintura per mezzo di striscie di corame ornate di perlette di stagno, appendono il coltello. Le donne sono quelle che fanno ed adornano queste cinture.

In quanto al vestito delle donne, primieramente diremo ch’esse portano un berretto di stoffa di lana, e più spesso ancora di tela, orlato di stoffa di varii colori, e di laminette di stagno; talora vi attaccano un nastro di tela di colore d’oro, o di argento. Prima di mettersi il suo berretto la donna lapona vi aggiusta sulla cima un fiocco rotondo in figura di bottone; e messo che se l’ha in testa, lo assicura con una specie di fettuccia attaccata a quel fiocco. Se hanno bisogno di meglio garantire la testa, a tal uopo usano un berretto più grande, simile ad una corona più larga nella parte superiore, e restrignentesi al basso. Alla parte sinistra vi appongono un pezzo di panno di differenti colori, e qualche volta una correggia, la cui estremità è guernita di talco, e di una piccola palla di argento dorato. L’abito è di poco diverso da quello degli uomini, tunica cioè, e vestito soprapposto. Differisce la tunica delle donne da quella degli uomini in quanto ha delle pieghe d’avanti e di dietro, ed è più lunga, e serrata di più sul petto. In oltre ha un colletto, che s’alza dritto coprendo [257] il collo, e le orecchie, e trapassa l’abito sopra posto. Questo poi, che è di pelle di renna, simile in tutto a quello degli uomini, in ciò solo n’è diverso, che gli uomini lo hanno lungo sino al tallone, e le donne lo portano corto a segno, che appena arriva loro al ginocchio. Per gli ornamenti, poco più, poco meno, questo vestito è del pari simile; e poche sono le differenze sì de’ guanti, che de’ pantaloni, e delle cinture: solo che ognuno dee figurarsi, che le donne nelle cose loro mettono un poco più di eleganza alla loro maniera; ed usano nelle cinture, oltre le laminette di stagno, o di talco, degli anelli di rame, o d’argento, se sono ricche. In fine usano una specie di mantello di tela russa, o di cotone qualche volta bianco, e qualche volta stampato. Usano pure di piccoli grembiali di tela russa: i bianchi sono sempre guarniti di una frangia. Le lapone russe portano alle orecchie anelli, e qualche volta collane d’argento, che cingendone il collo sono con de’ cordoni attaccate alle orecchie. Non rimane da aggiungere se non che quando le donne lapone sono in viaggio, o quando vegliano di notte alla custodia delle loro renne, portano un doppio vestito, il primo de’ quali protegge loro la testa, il collo, le spalle, e il mento; e che in generale è sì [258] poca la differenza degli abiti degli uomini, e delle donne, che spesso è accaduto che un uomo ed una donna per errore avendoli cambiati, li hanno conservati ciascheduno tutta la giornata.

Del rimanente a cura delle donne è abbandonato quanto riguarda gli abiti, le pelliccie, le pelli, i guanti, le scarpe, ed ogni altr’oggetto di questo genere. Gli uomini badano al governo della casa, alla cucina, e a tutt’altro, che in altri paesi è commesso alle donne. Le donne fanno ancora diversi mobili; e sono opera loro le più belle scolture, di cui i mobili sono ornati.

Questo discorso ci conduce a parlare delle abitazioni de’ Laponi. Le capanne di quelli che abitano la costa sono fatte con quattro lunghi pali, che si uniscono curvati alquanto alla cima, ove si lascia un’apertura per la uscita del fumo. Scorze di betulla, e masse di terra la ricoprono. Bassissima è la porta, per la quale s’entra dentro, e bassa è la capanna medesima, in cui non si può star ritto in piedi, se non nel punto di mezzo, in cui però sta il focolare. La famiglia tutta siede all’intorno di quel focolare, su cui si mantiene vivo il fuoco, e che è formato di due massi di pietra paralleli l’un l’altro. Al di sopra del focolare per un [259] palo messo attraverso pende la marmitta. I Laponi prima di mettersi a dormire estinguono il fuoco, e cessato il fumo chiudono l’apertura superiore con una tavola. Varii piccoli compartimenti ha quella capanna per se stessa già piccola, i quali possono chiamarsi camerette, quali destinate a contenere le masserizie, e quali a dormitorio. Ed ecco come si preparano per dormire. Se nella capanna non istà che una famiglia, il marito e la moglie mettonsi in una di quelle camerette, e i figli e i domestici stanno nelle altre. Se capita un missionario, che abbia a dormire presso questa famiglia, se gli dà per onorarlo la cameretta de’ conjugi. Se nella stessa capanna abitano due famiglie, il focolare diventa comune, ed una delle famiglie sta da una parte, l’altra dall’altra, secondo i compartimenti accennati; nè mai succede contrasto, o querela tra quelle due famiglie, chè anzi sono un esempio di cordialità, e di fraternità. I montoni, e l’altro bestiame hanno un luogo espressamente ad essi assegnato accanto alla capanna, e vi entrano per la porta medesima, per la quale entra la famiglia, di cui fanno parte. I Laponi della costa hanno un altro luogo per conservare il fieno. Costruiscono questo luogo in modo, che sotto il tavolato, su cui posa il fieno, hanno la comodità [260] di conservare i loro vestiti, le pelli di renne, e molti loro utensili. Se finiscono presto il fieno, vanno a levare la scorza agli alberi per darla in pasto al loro bestiame; e se tanto è il freddo, che per la neve fortemente gelata le renne non possano procacciarsi il musco sepolto sotto la medesima, i Laponi vanno a tagliare grossi abeti, ed altri alberi per prenderne i licheni, e i muschi, che crescono sotto quelle piante. Con che si vede che esterminio essi fanno delle più belle piante così ridotte a imputridirsi. Spesso danno ai loro animali delle radici, e spesso pure fanno bollire teste, ossa, e viscere di pesci insieme con paglia, e con qualche pugno di varec (fucus serratus); e questa miscela è gustata eccellentemente dalle loro vacche.

Poco da codesta mentovata capanna differiscono le tende d’inverno de’ Laponi montanari, salvo che questi dispongono diversamente il luogo della cucina. Essi andando a dormire lasciano acceso il fuoco, che fa loro le veci di lampada. Questi Laponi usano costruire alcune tende ne’ boschi, ove ogni giorno vanno a cercar legna da scaldarsi. A poca distanza poi dalla tenda principale erigono una capannuccia, che serve di magazzino per tutte le loro robe e provvigioni. La tenda che usano in estate, è [261] simile a quella dell’inverno, con questo che l’alzano sulle montagne alla portata delle alture fredde, ove le renne possano andare al pascolo: essa non è coperta che con un pezzo di grossa saglia. Piccolissima è la tenda de’ cacciatori che vanno in cerca delle renne selvatiche. Per alzarla il Lapone leva dal suolo tutta la neve; e d’essa si fa intorno una specie di muraglia: raccoglie poi le pietre, che ivi trova, per farne il suo focolare; e si prepara il mangiare con una specie di pignatta, che si porta dietro con altri arnesi. Una tenda simile usa il Lapone della costa quando si mette in mare sul suo battello, di quella servendosi abbordando a terra, secondo che ne ha occasione.

Rimane a dire de’ letti de’ Laponi. Questi letti consistono in una pelle di renna stesa sul suolo sopra uno strato di foglie. Per capezzale usano il loro soprabito: per coperta hanno una pelle di montone, la cui lana tengono dalla parte della persona; e a quella coperta altra ne soprappongono di lana che ha lungo pelo. I letti non sono separati gli uni dagli altri che per un pezzo di legno posto da ciascun lato. L’uomo e la donna dormono alla estremità: i figli nella divisione seguente; e i domestici presso la porta, secondo i compartimenti già accennati, e che impropriamente abbiamo detti [262] camerette. Sono poi gli uni sì vicini agli altri, che l’uomo e la donna possono colle loro mani toccare i figli, e quasi i domestici. V’è però qualche eccezione da notarsi. In estate le zenzale, ed altri insetti volanti infestano orribilmente i Laponi montanari. Per difendersi da quel flagello, e non crepare di caldo sotto una coperta, che li soffocherebbe, hanno trovato il modo di tener alzata la coperta nel mezzo del letto mediante una corda, o cosa simile che da un capo è attaccata nel centro alla coperta, e dall’altro ad un legno della tenda perpendicolare al letto; e la coperta anche così elevata giugnendo colle sue tre estremità a terra, salva chi dorme dalle beccate di quegl’insetti. Essi sono di varie specie; ma una ve n’ha fra le altre più fiera di tutte, perchè penetra per le cuciture p. e. de’ guanti, e lascia tante beccate quanti ne sono i punti. La beccata produce un pizzicore incomodo, una leggiera gonfiezza, e tante piccole ulceri bianche, per le quali, quando una persona ritorna da di fuori, e ch’essa è stata attaccata da uno sciame di questi insetti, si stenta a riconoscerla: tanto il suo volto è pieno di pustole. Fuggono questi crudeli nemici di ogni vivente, se un vento viene a soffiare con forza; ma cessato appena, ritornano con un ronzìo fastidiosissimo [263] esso solo. Assaltano al pari degli uomini i bestiami tutti, e le renne; e lasciano la pelle di queste povere bestie tutte insanguinate per le tante morsicature. Finora non si è trovato altro rimedio che quello del fumo. Ed è crudele disgrazia de’ poveri Laponi, che mentre sono per ripigliar vita dopo il lungo inverno, che ha durato dal s. Michele sino al s. Pietro, incontrino colla bella luce di un giorno di tre mesi continui un sì desolante flagello. Ma passiamo a parlare de’ cibi de’ Laponi, e della loro cucina.

Il latte delle renne è la base del loro nudrimento. In due maniere i Laponi lo preparano secondo la stagione. In estate fanno bollire col loro latte finchè si quagli una specie d’uva spina che cresce nelle praterie interposte alle loro più alte montagne: agitandolo continuamente mentre bolle, ne separano il siero, e cuocono di nuovo il quagliato, che poi mettono entro vesciche, e queste seppelliscono sotto terra, usandone nella breve stagione corrente. In inverno tengono altro modo; essi mettono il latte in barili, o vasi simili: il freddo lo fa gelare; e con ciò si conserva più facilmente. Il latte munto in appresso si mesce a bacche dell’uva spina, detta de’ cervi, che sono nere; e lo ripongono in ventricoli di renna: [264] il latte si congela subito, e volendone far uso lo spezzano in fette con una scure. Non esponendosi al fuoco nel mangiarlo assidera i denti. L’ultimo latte munto l’inverno, che si ripone in piccoli vasi fatti con legni di betulla, si congela anch’esso subito, ma passa pel più delicato. Per usarne si mette appresso al fuoco, ed a misura che si fonde, si mangia col cucchiajo: ma bisogna tenerlo coperto; altrimente per poco che l’aria sia fredda ingiallisce e irrancidisce. — Il formaggio di renna si fa come siegue. Si mesce acqua col latte, perchè essendo questo troppo denso, stenterebbe a quagliarsi: e scaldato quindi sufficientemente vi si mette il presame: e separatone il siero, il latte quagliato si avviluppa in un pezzo di tela; e premuto gli si fa prendere una forma rotonda. Allora si mangia tanto freddo, quanto lessato, od arrostito: ma se si appressa troppo al fuoco, a cagione del molto burro che contiene, corre pericolo d’infiammarsi.

I Laponi della montagna fanno del burro col latte di renna, ma riesce meno buono di quello che i Laponi della costa fanno col latte di vacca, di pecora, e di capra.

Il desinare e il cenare de’ Laponi della montagna si fa costantemente con ciò che dà loro in inverno la caccia. Ogni settimana ammazzano [265] una o due renne selvaggie, più o meno, secondo il numero degl’individui componenti la famiglia. Ecco tutta la loro cucina. Il cacciatore che ha ammazzata la renna, la taglia in pezzi, e mette questi nella marmitta senza badare nè al sangue, nè ad altro imbratto. La bollitura fa alzare il grasso, che si schiuma e si mette in una conchiglia, la quale serve di piatto, e vi si getta un poco di sale. Cotta, o creduta cotta la carne si cava dalla marmitta con una forchetta di legno, e si depone sopra un piatto, lasciando nella marmitta il brodo. Tutti siedonsi intorno al piatto, e ciascuno bagna il pezzo di carne che ha tolto, colla punta del suo coltello nella conchiglia del grasso schiumato; e di tempo in tempo beve un cucchiajo di brodo rimasto nella marmitta; così que’ Laponi cominciano e finiscono il loro pasto. E sono essi tanto economi, che neppure degli ossi fanno grazia ai loro cani; perciocchè dopo averli ben bene piluccati li spezzano minutamente, e li fanno bollire di nuovo per trarne una gelatina. Ma i Laponi mangiano la carne anche arrostita; e in luogo di spiedo infilzano la loro selvaggina in un palo aguzzo, che piantano d’innanzi ad un gran fuoco, e di quando in quando lo rivoltano, onde per tutti gli aspetti [266] la carne sia penetrata dal calore; ma non usano poi percottarla col burro. Qualche volta per variare affumicano la carne; e perchè prenda bene il fumo le fanno qua e là molte incisioni: nel resto l’appendono all’alto della loro tenda. I Laponi viventi sulla costa mangiano bue, montone, orsi, volpi, e lontre, e vitelli marini, ed ogni altro animale, che lor riesca di uccidere, salvo però il porco, pel quale hanno un’avversione orribile. Que’ che si danno alla pescagione, mangiano sermoni, che fanno seccare al sole; e non vi fanno altra concia che quella dell’olio di balena. La madre ne dà de’ bocconi masticati al suo bambino, che ancora allatta; e così il Lapone contrae il gusto di quest’olio, che riguarda come la miglior cosa del mondo. Quando trovano finite le loro provvisioni, raccolgono le teste, e le spine, e gli ossi de’ pesci che abbiano ancora qualche bricciolo di carne; fanno arrostire queste cose; poi le mettono a bollire in una marmitta con fette di coscia del vitello marino: ma hanno la precauzione di porre questi ossami nel ventre di una foca, e di tenerveli, onde s’imbevano meglio dell’olio di quell’amfibio: quest’olio si serve poi come salsa. Arrostiscono parimente il pesce, come fanno della carne. Hanno una singolar passione pel pesce, che i naturalisti hanno [267] battezzato col nome di gadus eglesinus; e vivanda per essi squisitissima è il fegato del medesimo, pesto, e conciato con certe loro bacche. Il mangiare di queste genti con tant’abbondanza di grassume, e di olii, potrebbe far credere che loro cagionasse varie malattie: ma essi non soffrono nè malattie croniche, nè dissenterie, nè febbri, nè altri malanni del genere, che soffronsi nei nostri paesi: la sola, che singolarmente li affligga, è una colica spasmodica, che viene attribuita a’ vermi, della quale si parlerà, e che è più incomoda, che inquietante. Nè usano, nè conoscono il pane: al più fannosi con farina ed acqua alcune piccole focaccie, che cuocono sul focolare. Bensì hanno certe delicatezze di loro gusto per aguzzar l’appetito; e sono i soli ricchi, che le usano: una è la scorza più interna dell’abete presa di recente dall’albero, e tenuta per darle maggior sapore al fumo, e intinta nell’olio di balena. A compimento de’ loro pasti godonsi dell’angelica, di cui mangiano fusto, foglie, e radici fino che è fresca; e la mangiano pure bollita nel latte. Dopo il pasto è loro delizia il tabacco o fumato, o masticato. È inesprimibile la loro passione per questa pianta irritante.

La bevanda comune de’ Laponi è l’acqua, che l’inverno procacciansi facendo fondere la [268] neve al caldo. Se sono vicini ad un fiume, rompono il ghiaccio per provvedersene.

Rimane a far qualche cenno de’ mobili di casa, che i Laponi usano; e l’inventario di questi è corto. I Laponi erranti non potrebbero averne molti ancor che volessero, poichè oggi sono attendati qua, domani là, e le loro tende sono assai piccole. Nè, siccome si è già accennato, sono più ampiamente alloggiati quelli, che hanno ferma residenza, onde nemmeno quelli della costa s’imbarazzano di tavole, di scranne e di simili cose. Tutto adunque si riduce ad una marmitta, a qualche piatto, ad alcuni cucchiai di corno o di stagno; ed è un gran lusso de’ pochi più ricchi un qualche cucchiajo di argento. I montanari nella lunga notte di tanti mesi non hanno altro lume, che quello che si procacciano col fuoco continuo. L’abitante delle coste per veder lume empie un guscio di conchiglia d’olio di foca, vi pone uno stoppino fatto di giunco; e questo è il suo mobile più pregiato. Ma veramente il mobile più pregiato, in quanto il Lapone vi mette tutto il suo ingegno a farlo e ad ornarlo, si è la culla destinata a contenere il frutto del suo amore. Questa culla è fatta di un tronco d’albero ben incavato e fregiato di scolture. La madre l’attacca con alcune correggie alle sue [269] spalle quando viaggiando ha da portar seco il suo bambino; ed ha l’attenzione di fargli pendere sul davanti raccomandata ad un mezzo cerchio una filza di globetti, onde giacendo sulla schiena, ed avendo libere le mani e le braccia, il figliuoletto possa divertirsi.

Si è detto delle renne, del governo e dell’uso che i Laponi ne fanno; qui non occorre che accennar qualche cosa della caccia che danno alle selvaggie. Non vi si abbandonano però che accidentalmente, tutte le loro cure essendo intese alla custodia delle domestiche. È in inverno spezialmente che vanno in traccia delle selvaggie, correndo a piedi sulla neve con quelle loro scarpe, che abbiamo chiamate scivolatoi, medianti le quali vanno più spediti della renna medesima, al cui corso l’altezza della neve fa grande ostacolo. Raggiungendola adunque l’ammazzano con qualche colpo sulla testa: diversamente le tirano sopra con arma da fuoco: usano ancora, secondo la circostanza de’ luoghi, di un laccio, in cui l’animale imbarazza le sue corna. Hanno anche la destrezza di ridurle o a certi parchi, o in qualche stretta, da cui le renne, entrate che vi sieno, non possono più uscire.

Col fucile o con lacci i Laponi prendono le lepri che abbondano nel paese. Questi animali [270] in inverno hanno bianco il loro pelo. Abbondano pure nel paese le volpi; e ve n’ha di diverse specie, altre essendo rosse di colore, altre aventi sulla schiena, e su quel rosso una croce nera; alcune nette nere; altre nere, ma aventi sulle vertebre un lungo pelo di un grigio di cenere; e queste sono di gran prezzo in tutti i mercati d’Europa. Ve ne sono anche di bianche colle orecchie, e i piedi neri, e colle code bianche, e macchiate di peli neri. V’ha pure de’ martori. Quelli di montagna hanno il pelo corto, e nericcio, giallastra la coda, e grigio di cenere il petto: il martore detto di betulla, perchè spesso si trova dove quest’albero cresce, è giallo di pelo, ha la coda porporina, e bianco il petto. Più rara è la donnola, chiamata dai naturalisti mustella martri, la quale ha per proprietà di saltare sulla schiena della renna, ed a forza delle unghie e dei denti di ucciderla.

Anche la Laponia ha castori; e talora se ne sono veduti dei bianchi, i quali non sono, che una specie di mostruosità della natura. Troppo è nota l’indole singolare di questo animale perchè noi non commettiamo qui una superfluità parlandone. Diremo piuttosto dell’animale chiamato dai Laponi zhjestes del quale v’ha tre specie: quello di mare, il cui pelo è giallo pallido, e molto fitto; [271] ed una sua pelle costa ordinariamente in Danimarca uno scudo: il secondo è detto delle baje e delle paludi, più piccolo dell’altro, la cui pelle di un color nerastro è più brillante di quella dell’altro; e vale tre scudi e mezzo. Il terzo è quello d’acqua dolce, col petto bianco e la schiena nera come le penne del corvo; e vale cinque e più scudi.

Lo scojattolo e l’armellino sono altri animali preziosi per le loro pelli. Di questi e degli altri, che abbiamo accennati, i Laponi vendono le pelli ai Russi, che le adoperano quali nelle loro manifatture, quali facendone pelliccie, o per uso del paese, o per traffico con altri popoli. A tutti questi animali vanno unite alcune specie di sorci; e spezialmente quella, che i Laponi chiamano lemmick, che ivi sono in immenso numero. Va pure unito l’orso, di cui si è altrove già parlato abbastanza. Tocca a’ filosofi spiegare lo strano fenomeno, che in questa estrema parte del continente, in mezzo ai rigori di sì inclemente clima, gli animali tanto selvaggi, quanto domestici, sono di una singolare fecondità. Le stesse pecore danno due volte all’anno de’ gemelli; e le capre due gemelli costantemente, e qualche volta tre.

Nelle edizioni inglese, e francese di questo [272] viaggio si parla a lungo de’ pesci, degli uccelli, degl’insetti, de’ vegetabili, e de’ minerali della Laponia: quelli che di tali cose in particolare si dilettano, consulteranno quell’edizioni. Qui si parlerà piuttosto di alcuni usi proprii de’ Laponi, come argomento che può interessare i più de’ lettori.

I Laponi sono oggi quelli che erano nel secolo XII, in cui furono conosciuti sotto il nome di Skrit-Fiani. Quantunque posti sotto la zona boreale, hanno qualche costume degli abitanti dell’India: per esempio, dovendosi il Lapone presentare ad un magistrato, o al suo pastore, non lo fa mai senza regalarlo o di un formaggio, o di qualche pernice, o pesce, o di un agnello, o di alcune lingue di renne, ecc.; e ne riporta un po’ di tabacco, una bottiglia d’idromele, od un fiaschetta d’acquavite, o dello zenzero, del pepe, e simili droghe.

In addietro per dinotare le loro feste, ed i giorni lieti, o funesti, facevano uso di un bastone con tacche: questo era il loro almanacco. E sa di quel uso il complimento che incontrandosi praticano, abbracciandosi scambievolmente, e gridando eurist, che vuol dire: dio ti salvi da ogni pericolo. — L’isolamento, in cui vivono le famiglie lapone, non permette di aver ricorso alle mammane per ajutare [273] le partorienti: quest’officio è esercitato dagli uomini. Un altro uso è, che al neonato si assegna una renna, come una specie di patrimonio, la quale quando sarà grande sarà sua insieme con quanto potrà provenirne: che vuol dire ch’egli avrà un bell’armento; nè per alcun titolo, o pretesto vi si può mettere su le mani.

In Laponia il ministro del culto è maestro di scuola, è sacristano, è tutto, poichè pochissime sono le funzioni religiose. — Se la famiglia nell’andare a provvedersi per bisogni della giornata non può menarsi dietro i piccoli figliuoletti, lasciandoli nell’abitazione, capanna, o tenda che sia, i piccini lega nella culla, onde non cadano movendosi troppo, e que’ di due, o tre anni lega per una gamba ad una corda raccomandata ad un piuolo, onde salvarli dal pericolo di cadere sul fuoco. — Le donne lapone radono fino alla pelle la testa de’ loro figli, essendo inimicissime degl’insetti, che altrove divorano la pelle de’ ragazzi, e di chiunque non si tenga netto.

Quando un giovine ha deliberato di prender moglie, lo dice alla sua famiglia, la quale va in corpo alla famiglia della ragazza con provvisione d’acquavite, e con qualche regalo per la figlia, che si ricerca. Entra nella tenda, o [274] nella capanna quello che è destinato a parlare, e gli altri lo sieguono: il solo giovine rimansi fuori finchè non sia chiamato. L’oratore comincia dall’empiere un gran bicchiere d’acquavite, e l’offre al padre della ragazza, il quale, se lo accetta, è riputato acconsentire; e allora si dà acquavite in giro a tutti. È ammesso a questa libazione anche il futuro, il quale ottiene il permesso di parlare in proprio nome alla ragazza. L’oratore intanto dice quanto può, e sa dire in favore di lui; e quando i genitori della medesima hanno dato il loro assenso, il giovine mette fuori i regali destinati alla sposa, p. e. una cintura, un anello, o cosa simile; e ai genitori di lei promette abiti da nozze. Se per avventura si ritrattasse l’assenso dato, tutte le spese incontrate anche per quelle cose che rimasero consumate, restano a carico di chi ha data occasione alla novità intervenuta. Del resto quando le parti si sono accordate, il giovine ha il permesso di far la corte alla sua bella e si veste da festa andando a trovarla, e in lode di lei compone canzonette piene di affetto. Il che prova, che se i Laponi stimolati a cantare, fecero cattiva figura, o non ebbero conveniente eccitamento, od erano i più ignoranti Laponi del mondo. Chi non si trova abile a fare delle belle canzoni alla sua fidanzata, [275] supplisce regalandole tabacco, acquavite, o cose simili. Il dì delle nozze la sposa è vestita all’incirca coi soliti abiti; ma ha nuda la testa, e cinti sulla fronte i capelli con qualche striscia di stoffa di varii colori, e nel resto porta i capelli sparsi ed ondeggianti sulle spalle. Il Lapone è frugale anche nel pasto nuziale, e i convitati di qualche agiatezza regalano lo sposo di alcuna moneta, o suppliscono con una renna, od altro equivalente. In Laponia però nè suoni, nè canti, nè balli conosconsi, come segni del tripudio, che dappertutto accompagna le nozze. Lo sposo per un anno comunemente vive coi genitori della moglie: poscia va a piantar casa da sè; e ne ottiene qualche montone, una marmitta, e qualche altra di quelle piccole cosuccie, che sono necessarie in una famiglia lapona, e che si sono di sopra indicate.

La grande semplicità, in cui vivono i Laponi, fa che non abbiano altri giorni di riposo, e di festa, che quelli della stanchezza per le fatiche sostenute; e quando voglionsi ricreare, non fanno che passare da un esercizio ad un altro. Perciò i loro divertimenti non consistono, che in prove di forza, o di destrezza. Spesso usano tirare a segno, o giuocare alla palla, che uno getta, e l’altro deve respingere con un bastone. Hannosi un giuoco prediletto, [276] che chiamano della volpe, e delle oche, che si fa in due, ed è ingegnosissimo: ne hanno un altro, che chiamano del salto, proponendosi di saltare al di là di un palo posto orizzontalmente ad una certa altezza; un altro consiste in una lotta che due, o più sostengono, ma in numero pari per ogni parte; e la sostanza sta in questo, che tenendosi da ciascun lato un bastone attaccato alla stessa corda che l’altro, debbesi per le forze rompere la corda; e perde chi vacilla, o cade, od abbandona il bastone. Lottano ancora, o pigliandosi per la cintura, e cercando di alzare in aria l’emolo, o con esso maneggiandosi in altre maniere. Le scommesse in questi giuochi sono di qualche piccola moneta, o di un poco di tabacco, o d’altra cosa simile. Questi giuochi, ed altri di egual natura contribuiscono mirabilmente alla conservazione della robustezza, della destrezza e della sanità.

[277]

CAPO XXII.

Malattie de’ Laponi. Vajuolo. Colica spasmodica, oftalmia. Preservativo contro lo scorbuto. Rimedio pe’ geloni, per le ferite, per le fratture, e lussazioni. Affezioni inflammatorie, reumi, lombaggine. — Funerali de’ Laponi, sepolture, convito mortuario, anniversarii. Pietà verso i defunti. Giurisprudenza sulle eredità. — Religione degli antichi Laponi. Montagne Sante, tutt’ora in venerazione. Maghi. Affezione de’ Laponi al loro paese.

Abbiamo detto altrove, che ad onta del clima, delle fatiche, e de’ cibi, i Laponi generalmente sono esenti da quelle tante malattie, che regnano ne’ bei climi meridionali. Ma i Laponi hanno avuta la disgrazia degli Americani; quella di partecipare del vajuolo, dacchè un giovine Scozzese lo recò a Berg, dove fatalmente infettò chi per cagione di commercio era ito colà dal fondo delle terre settentrionali. I Laponi adunque furono alcune volte furiosamente minacciati di esterminio da questa malattia; e le invasioni della medesima formano [278] per loro un’epoca di loro età. Ma il vajuolo è venuto da di fuori: propria di loro dee ben dirsi quella colica spasmodica, di cui abbiamo fatto menzione, e che essi chiamano ossem, o helmé. Essa sembra avere i caratteri del cholera-morbus delle Indie: imperciocchè ha la sua sede nelle viscere verso la regione ombelicale: i dolori che cagiona, si estendono sino al basso ventre, facendosi sentire a riprese, come quelli del parto; e le angosce che reca, sono tali, che l’infelice il quale n’è preso, si dibatte, e rivolta per terra, ed ora non può espellere l’orina, ed ora la emette sanguigna, come se fosse attaccato da calcoli. L’accesso dopo qualche ora, e sovente dopo alcun giorno, termina con un ptialismo, che dura un quarto d’ora. I Laponi viventi nelle montagne non ne sono attaccati giammai; bensì quelli delle vallate, e spezialmente nella stagione estiva, quando loro avvenga di bere l’acqua corrotta delle paludi riscaldate dal sole. Fanno poi fronte a questa malattia con radici d’angelica, con ceneri, ed olio di tabacco, e con castoreo liquido. — Endemica malattia loro è l’oftalmia, che spesso precede la cecità. Il continuo fumo, in mezzo al quale vivono tutto l’anno, può esserne una cagione; un’altra la vivacità del fuoco, a cui sono sino dalla infanzia esposti, sicchè [279] vien loro a disseccarsi l’umidità della congiuntiva. Aggiungasi il riflesso de’ raggi solari sulla neve, e la sì lunga, ed universale presenza della neve. Si dice che soffrano anche di una cataratta imperfetta, o piuttosto di un’affezione della congiuntiva, se il singular modo che usano per guarirne abbia a tenersi per incontrastabilmente efficace. Il modo è questo: pigliano un pidocchio umano, e lo fanno entrare tra l’occhio e la pupilla; il fregamento che l’insetto eccita sul globo, basta, per quanto dicesi, a distruggere una membrana, la quale stesa sulla cornea è la prima cagione dell’affezione morbosa.

Parrebbe che i Laponi dovessero andar molto soggetti allo scorbuto, come tutti i popoli vicini ai mari del settentrione; ma poco ne soffrono; e dicesi ciò avvenire per l’uso copioso che fanno della fina pellicola che si trova sotto la scorza dell’abete, di cui fanno raccolta in maggio; la seccano, la riducono in polvere, e la mescolano colla farina, di cui fanno le piccole focacce, che stanno loro in luogo di pane. Se forse meglio non abbiasi ciò ad attribuire al siero acetoso che usano cotidianamente, e all’abitudine di piantare le tende sull’alto delle montagne ad un grado medio di temperatura, ove la umidità de’ fondi non [280] possa loro nuocere. Può contribuirvi fors’anco l’uso che fanno nell’inverno della carne fresca di loro cacciagione, e di quella delle loro renne; non meno che il continuo esercizio, in cui vivono; le pelliccie, di cui sono coperti, e l’aria poco umida, quantunque fredda, che respirano. I ragazzi soffrono i geloni: per questi, e per altri mali che procedono dalle stesse cagioni, usano l’applicazione del formaggio di renna. Per le ferite e contusioni applicano la gomma che spontaneamente cola dagli alberi resinosi. Per le fratture, e le lussazioni fasciano strettissimamente la parte offesa dopo aver rimesse bene le ossa al posto; ma prima fanno prendere alla persona una pozione, che dicono efficacissima per dissipare i dolori, e sollecitare la guarigione. Non è detto di che quella pozione sia composta; ma la giunta che vi mettono di limatura d’argento, o di rame, non sembra molto persuasiva; e forse sarà superflua; come superflua è da credere la cura che dannosi nella scelta de’ nervi, coi quali fasciano le lussazioni, e gli storcimenti; mentre prendono dalle renne femmine quelli che applicano agli uomini, e dalle renne maschie quelli che applicano alle donne.

Finalmente i Laponi sono soggetti ad affezioni infiammatorie di petto, a doglie reumatiche, [281] affini alla lombaggine. Dapprima ricorrono per guarire alle unzioni di grasso d’orso, e in appresso ai cauterii, procurando per mezzo dell’abbruciamento un’escara, alla caduta della quale la malattia cessa. Così i Laponi fanno per pratica ciò che il padre della medicina spiegava per teorica, e colla pratica consecrava. Ma bastino queste indicazioni in proposito delle loro malattie, e de’ loro rimedii; e diciamo piuttosto delle loro cerimonie funebri, giacchè i Laponi in fine muojono come tutti gli altri uomini; benchè quasi tutti, se particolar caso non intervenga, giungono alla età chi di settanta, chi di ottanta, chi di novant’anni; e v’hanno parecchi che passano i cento.

Quando un Lapone è gravemente ammalato, chiamasi un indovino, il quale dica se guarirà, o se morrà. Se il presagio è funesto, il primo capitato, che si trovi presso di lui, gli fa un sermoncino divoto; ma più sovente quelli che sperano qualche porzione della eredità, badano più a cominciare i funerali, ancorchè l’infermo sia ancora alle prese colla morte. Morto poi che l’infermo sia, e per qualunque genere di malattia, ognuno esce della capanna, in cui è il cadavere, credendo che ivi rimanga ancora qualche cosa dell’anima del defunto. Alcuni giorni poi dopo ritornano per seppellire il corpo, [282] e rendergli gli ultimi officii. Se fu persona pe’ fatti suoi commendevole, il corpo si avvolge in una tela, quanto può aversi più fina; se non lascia cosa di valore, si adopera un pezzo di tela grossa. Così si pratica con chi professa il cristianesimo. Alcuni però sono vestiti de’ loro abiti migliori, e collocati in una bara da una persona nominata, o pagata per quest’officio; e il parente prossimo del morto dà a quella un anello di tombacco, ch’essa subito si pone al braccio destro, come preservativo d’ogni male, che potesse volerle fare lo spirito del defunto, di cui non abbandona il cadavere fino a tanto che questo non rimanga sepolto. Prima che i Laponi fossero cristiani, ed anche molto tempo dopo, seppellivano i morti nel primo luogo, che credessero opportuno, e spezialmente ne’ boschi, come fanno anche oggi, se sono lontanissimi da una chiesa. Il modo del seppellimento è di rovesciar sulla bara, e sul cadavere deposto in una fossa la slitta, su cui n’è fatto il trasporto, e di gittarvi sopra delle zolle verdi e delle frasche. Se trovasi a portata una qualche caverna, in essa si depone il cadavere, e se ne chiude l’ingresso. Quelli che non sono attaccati al cristianesimo che assai debolmente, e sono i più, mettono col cadavere una scure, un battifuoco, [283] dicendo che il morto può trovarsi in luoghi oscuri, ed aver bisogno di lume: la scure poi gli gioverà per aprirsi la strada tra boscaglie, per le quali egli abbia a passare. Alle donne, invece della scure danno forbici, ed aghi. Si aggiunge poi una provvigione di viveri: il che renderebbe assai probabile l’opinione di alcuni, i quali dicono darsi dai Laponi ai loro morti la scure, le forbici, e gli aghi, perchè suppongono, che al mondo di là debbano lavorare come lavoravano in questo. Quando si può trasportare a qualche chiesa il cadavere, questo può seppellirsi o nel cimitero, o in chiesa, ottenendosene la permissione: ma v’è gran difficoltà a trovare chi voglia scavare la fossa, anche ben pagato. In questo caso si osservano le cerimonie del culto cristiano; e quelli che hanno accompagnato il morto, esprimono il lutto co’ più miseri abiti, che trovinsi avere. Quando il seppellimento è fatto nel cimitero, si lascia sulla fossa la slitta, e sotto di questa mettonsi i vestiti del morto, la sua coperta, e la pelle che gli serviva di letto. Tre giorni dopo le esequie la famiglia si unisce al banchetto funebre, in cui la vivanda principale si è la carne della renna, che ha condotto il morto alla sepoltura: le ossa della quale mettonsi in una specie di cassa, sulla quale scolpisconsi [284] i principali tratti del defunto; e vassi a seppellirla ove si è seppellito il cadavere. Quando si tratta di un ricco, all’anniversario suo si sacrifica una renna; e ciò si ripete per anni.

I Laponi conservano una lunga memoria di quelli che hanno perduti, massime se sono parenti; nè fanno ostentazione della loro tristezza con esterne espressioni e segni. Durano bensì degli anni ad andare al sepolcro, e forano de’ buchi sui fianchi della fossa, mettendovi un poco di tabacco, od altra cosa, di cui, mentre viveva, il defunto dilettavasi, immaginandosi che la felicità dell’altra vita non consista che in mangiare, bere, e fumare.

L’eredità de’ Laponi sta principalmente in bestiame, in denaro, in utensili di rame, o di ottone, in pelliccie, e in vestiti. Ma il forte della sostanza sta nelle renne, che qualche Lapone è giunto ad averne fino a tre mila, e forse più. Parlandosi della divisione della eredità è da avvertire, che quella che consiste in denaro, va per lo più perduta, per l’uso che abbiamo detto regnare fra Laponi di nasconderlo; e sono sì attaccati a quest’uso, che si ha l’esempio di uno, il quale sollecitato ne’ suoi ultimi momenti a rivelare il sito del suo tesoro, ostinatamente ricusò d’indicarlo, perchè, diss’egli, gli eredi se lo avrebbero appropriato, [285] mentre avrebbe potuto averne bisogno egli. Dunque trattandosi de’ beni ostensibili, il fratello ne prende due terzi, e la sorella uno, secondo che porta la legge svedese: ma in questo riparto non entrano le renne, che hanno fatto parte della sua dote; nè quelle che alla sua nascita furono donate al ragazzo, e che assai volte sonosi moltiplicate copiosamente: se si tratta di beni fondi, i due sessi trovansi a pari condizione; e questo è statuto di Carlo IX, il quale concedette ad ogni famiglia una porzione di terre, di laghi, di boschi, e di montagne, coll’obbligo di pagare un certo canone annuo.

Sarebbe facile confrontando varii usi, e varie opinioni, che abbiamo accennate dominare fra Laponi, cogli usi, e colle opinioni di generazioni o scandinave, o tartare, rilevare i varii gradi di affinità sussistenti tra questi popoli. Ma a ciò potrebbe contribuire forse più quanto si sa della religione de’ Laponi, non affatto dimenticata anche dopo che abbracciarono il cristianesimo. Eccone gli elementi principali.

Le divinità adorate da questo popolo possono dividersi in quattro classi. 1.º Le Sopra-Celesti; ed erano due. 2.º Le Celesti, due parimente. 3.º Le Sotto-Celesti. 4.º Le Sotterranee. [286] Quelle della terza classe erano anch’esse due; e tre quelle della quarta: tutte poi avevano il loro nome particolare.

La prima delle Sopra-Celesti, detta Radien-Atshic, era la divinità suprema, il cui potere estendevasi sopra tutte le altre; ed in virtù del nome venivasi ad intendere, che tutte le altre da questa traevano l’esistenza, e la forza. La seconda era detta Radien-Kiedde; e riputavasi il solo figlio della prima, la quale non creava nulla, ma trasferiva nel figlio la potenza creatrice: e queste due divinità dominavano sopra quelle della seconda, e terza classe, le quali erano in grande venerazione presso i Laponi, perchè inclinate per indole loro a fare il bene. — La prima delle Celesti, detta Beiwe-Ailekes, rappresentava il sole, fonte della luce e del calore, per beneficio delle quali cose le renne trovavano il loro nudrimento. A questa divinità offrivano canapa. La seconda dicevasi Alilekes-Olmak: pare che questa rappresentasse la luna, illuminatrice benigna delle lunghissime notti. — Le Sotto-Celesti occupavano la regione dell’aria. Alla prima davano il nome di Maderatje, residente più vicina al sole, e davano il nome di Madarakka, e di Oragalles ad altre, abitanti le regioni di sotto al sole: le più vicine alla terra erano distinte [287] coi nomi di Sarakka, e di Juks-Akka: le quali per la vicinanza potevano facilmente assistere chi loro chiedeva soccorso. Oragalles significava il tuono, il quale in tempo delle procelle sembra indicare una convulsione negli elementi che compongono l’atmosfera; e i Laponi adoravano questa divinità per placarne la collera, e fare che risparmiasse le loro persone, e le loro renne. Madarakka era la dea proteggitrice delle donne lapone, e la invocavano in tutte le circostanze particolari del loro sesso. Essa avea per isposo Radien-Kiedde, il potere di crear tutto. Sarakka era la figlia di Madarakka, adorata dalle donne lapone anch’essa insieme colla madre, Juks-Akka era un’altra figlia di Madarakka, la quale avea cura de’ bambini, che a lei erano votati fino dal momento della loro nascita.

I pericoli, a cui potevano essere esposti spezialmente i Laponi montanari nello scorrere co’ loro armenti vastità di paese pieno di precipizii, e d’acqua d’ogni maniera, fecero loro considerare per divinità Saiwo, e Saiwo-Olmak, invocati appunto in circostanze critiche; essi davano a chi li consultava le risposte in sogno. Un’altra divinità, che chiamavasi Saiwo-Guelle, era incaricata di guidare le anime in mezzo alle tenebre inferiori.

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I Laponi facevansi un dio della Morte, chiamata da essi Jabme-Aikko; e regione di Jabme-Abimo dicevasi la terra, in cui questo dio soggiornava; ed ivi le anime dei defunti vestivansi di nuovi corpi in luogo di quelli ch’erano rimasti ne’ sepolcri; e godevano di nuovo, e più ampiamente delle dignità e dei diritti, de’ quali erano stati distinti sulla terra. Anche l’inferno avea il suo dio; e le regioni soggette al suo impero chiamavansi Rota-Abimo: ivi erano mandate le anime de’ perversi per istarvi senza alcuna speranza; laddove i mandati a Jabme-Abimo avrebbero un giorno veduto Radien, e sarebbero stati con esso lui in luoghi beati. Ma quando dal raccomandarsi a tutte le altre divinità non aveano tratto alcun soccorso, volgevano l’ultima loro speranza a Rota. Lo aveano per un dio cattivo e potente insieme quanto gli altri: onde credendo che da lui venissero le malattie loro e de’ loro armenti, tentavano di placarne il mal talento.

Questa mitologia, qualunque sia il carattere, sotto il quale essa apparisce a noi, non può essere la creazione di uomini rozzi, come i Laponi a noi si presentano. Gli uomini rozzi possono soltanto averla in qualche parte alterata. Sembra adunque che siamo abilitati a supporne altrove l’origine, la quale non può essere stata [289] che in un paese ben lontano dalla Laponia, e presso una nazione, dalla quale gravi calamità e violenza insuperabile distaccarono i padri degli attuali Laponi. Nell’esame delle varie religioni, che o per intero o per rottami possono riscontrarsi ne’ paesi dell’Asia, s’avrebbe forse qualche elemento per meglio conoscere l’origine vera di questo popolo. Giusto è intanto osservare che le tenebre, in cui per sì lunga porzione dell’anno i Laponi vivono, e gli orrori del sì rigido loro clima, non hanno punto comunicato alla loro religione quel carattere di tristezza e di abbattimento, che in secoli di errori d’ogni genere accompagnò la più pura e santa delle credenze. Similmente i sacrifizii che facevano alle loro divinità, non erano punto dissimili da quelli, che usaronsi dai popoli più civili. Anzi tra questi qualche volta la divinità fu oltraggiata coll’offerta di sangue umano; nè di tale infamia i Laponi macchiarono mai il loro culto. Una renna, un montone, e qualche volta una foca, erano le vittime de’ loro sacrifizii; e più spesso non usarono che libazioni di siero e di latte, a cui si aggiungeva talora l’offerta di un formaggio.

I Laponi aveano anche i loro dei penati, che collocavano sotto il focolare: aveano montagne riguardate come luoghi santi; ed erano [290] delle più difficili da salire, e dove nondimeno andavano ad esercitare qualche atto religioso. Anche oggi giorno v’ha chi visita codesti luoghi vestito de’ migliori suoi abiti; e se non vi si offrono più sacrifizii, se n’ha però tanta venerazione, che per niun conto si ardirebbe piantarne in vicinanza le tende, nè in que’ contorni attaccare un orso, una volpe, un animale qualunque; e la donna, che viaggia, volta dall’altra parte la testa, e si copre la faccia colle mani così mostrando il suo rispetto alla santità del luogo.

Fenomeni, di cui rimaneva ignota la causa, poterono facilmente far nascere l’idea di potenze invisibili; e forse fatti che non doveansi che al caso, indussero uomini semplici a credere che qualche mezzo vi fosse per far muovere secondo il bisogno a pro nostro quelle potenze. Che il caso ancora, o la buona fede sostenuta da una immaginazione esaltata, abbia dato valore ad un’applicazione nulla in tutt’altre circostanze, questa non è cosa impossibile. Che qualche ardito ingegno, o ingannato da proprie prevenzioni, o da vanità, o d’altro interesse spinto a farsi impostore, abbia preteso di fondare una scienza occulta; questa è cosa possibile. La magia non ha dominato, siccome la superstizione, che presso [291] nazioni e uomini ignoranti. Che meraviglia se ciò sia seguito anche presso i Laponi? Si dice che Odino portò questa scienza nel nostro settentrione; i più antichi annali della Norvegia parlano di mirabili cose operate da alcuni re di quel paese. Strumento dell’arte è il tamburo runico, fatto come un cembalo con tanti anelli e sonagli intorno, che al più piccolo movimento fanno grande strepito, e pieno di figure e di emblemi misteriosi. Il tamburo runico gode tuttora presso i Laponi dell’antico credito; e più si stima quello che è più vecchio; e inapprezzabili sono quelli, i quali può provarsi che passarono di padre in figlio in una lunga serie di professori dell’arte. Si dissero dai Laponi questi maghi Noaaids, e naturalmente godevano di molta riputazione: ma oggi stannosi nascosti, perchè i curati li tengono troppo d’occhio. In generale le grandi famiglie hanno uno de’ tamburi runici, che tengono nella più segreta parte dell’abitazione, e se ne servono nelle circostanze più gravi, come di malattie, di mortalità del bestiame, e d’altre calamità: nè mancano di cercare l’opera di qualche Noaaid, poichè si suppone che questi abbiano la scienza e le tradizioni de’ loro antichi. Chiamato adunque uno di costoro incomincia dal fare un mondo di sberleffi [292] e di contorsioni spaventevoli, bevendo acquavite e fumando tabacco, quanto mai può. Ridotto per tali mezzi ad una specie di ubbriachezza cade in un profondo sonno, che tutti gli astanti prendono per estasi; e quando si sveglia, dice che la sua anima è stata trasportata in qualche montagna santa, di cui indica il nome; e prende a rivelare il discorso che ha avuto colla divinità, aggiungendo che ad onore della medesima si dee fare un sacrifizio; che per ordinario è di una delle più grosse e più grasse renne. Il sacrifizio si fa, di cui il Noaaid gode la parte migliore. Non succedendo quanto si vorrebbe, se ne chiama un altro, e poi un altro ancora; e molti consumano il fiore del loro armento senza costrutto. Oltre il tamburo runico in queste operazioni entrano le così dette mosche ganiche, sotto il qual nome s’intendono maligni spiriti, i quali sono interamente nella dipendenza del Noaaid, che si presume averne ereditato il comando per lunga successione da’ suoi maggiori. Questi spiriti, come ragion vuole, sono invisibili a tutti fuorchè al mago che li tiene chiusi in una scatola finchè abbia occasione di servirsene. Non debbesi poi tacere, che il Noaaid canta una certa sua canzone in mezzo alle sue operazioni, la quale i Laponi chiamano Juvige; [293] ma anzi che cantata dee dirsi urlata: chè di armonia non v’ha nulla.

Del rimanente più che ad altri propositi l’impostura di questi maghi può riuscire nel fatto di trovare cose perdute, o derubate. Ed ecco come il Noaaid procede quando possa immaginare il luogo ove trovare il detentore della cosa perduta, o il ladro. Egli va colà; versa dell’aceto in un piatto, d’onde vien riflessa la fisonomia della persona che vi si guarda. Ed è chiamata a guardarvisi la persona caduta sospetta; ed intanto il Noaaid le fa contro mille sberleffi, e mostra di fissarla e contemplarla ben bene: poscia chiaramente l’accusa del furto commesso; dice di averne la prova sul volto di lui ben figurato sul piatto, e la minaccia di farla coprire da uno sciame di mosche ganiche, le quali la tormenteranno finchè abbia restituito ciò che non le appartiene. Ognuno qui vede come la riuscita del Noaaid dipende tutta dalla paura della persona sospetta, la quale, se veramente è colpevole, non manca mai di rimettere quanto ritiene d’altrui, od ha rubato, ponendo però nel restituire la segretezza stessa, che avea usata nel furto. Del resto i Noaaids de’ Laponi hanno molta somiglianza cogli Angelochi de’ Groelandesi.

Terminiamo col dire, sempre sulla [294] scorta del missionario Leemens, dell’attaccamento, che i Laponi hanno pel loro paese. Cristiano VI, re di Danimarca, incaricò quel missionario a mandargli un qualche giovine Lapone: a cento, con cento proposizioni vantaggiosissime il missionario fece la proposta inutilmente: infine ne trovò uno che accettava il partito, ma la madre guastò tutto, la quale disse apertamente al missionario, che la maledizione di Dio, e la sua sarebbero cadute sulla testa di lui, se avesse continuato a volere separarla da quanto essa avea di più caro al mondo; aggiungendo, che se nel prossimo suo parto le fosse accaduta qualche disgrazia, l’avrebbe attribuita a lui come autore di tanto suo affanno. Questa espressione toccò il cuore al missionario, il quale non insistette di più.

Non ci si dice, come poi ciò non ostante quei giovine andasse a Copenaghen: bensì lo stesso missionario racconta, che quantunque eccellentemente per ogni verso trattato colà, nell’autunno seguente cadde ammalato, languì sino alla fine dell’anno, e poi morì: nè Leemens esita ad attribuirne la morte al subitaneo cangiamento d’aria, ed alla nuova maniera di vivere. Che può mai un Lapone sostituire in Copenaghen alle abitudini contratte nel suo paese? Fuori di questo per lui tutto il mondo [295] è una prigione; e fuori de’ suoi compatrioti e delle sue renne, tutto per lui è un complesso di barbarie. La Danimarca non ha potuto avvezzare al suo clima, a’ suoi modi, a’ suoi piaceri nè Laponi, nè Groelandesi.

[296]

CONCLUSIONE

«Così, dice Regnard, terminando la sua relazione del viaggio da lui fatto in Laponia, finì il penoso nostro viaggio, il più curioso che mai fosse intrapreso, il quale io non vorrei aver fatto per nessuna somma di denaro, e che però per nissun guadagno vorrei ricominciare».

Egli è a presumere, che al tempo di Regnard questo viaggio dovesse presentare maggiori difficoltà che al presente. Tuttavolta io credo di dover notare qualmente anche al presente non solo è difficile, ma eziandio in certe circostanze riesce impossibile. Se, p. e., avvenisse che l’estate fosse umida, che le pioggie fossero abbondanti, e per conseguenza che le paludi non avessero tempo di asciugarsi, non so vedere in che modo si potessero attraversare. Bisogna badare però che quando io parlo d’impossibilità presunta di questo viaggio, s’ha il mio discorso da intendere rispetto alla strada che noi abbiamo voluto tenere, e non a [297] quella che seguì Regnard. In quanto a questa, essa è sempre praticabile, ed anche facile. Il fiume Tornea, se si eccettuino alcune cataratte, è costantemente navigabile sino alla sua sorgente a Tornea-Treske.

Sono ben lontano dal cercare, esagerando le nostre fatiche, e gli ostacoli da noi superati, di distogliere gli altri dal seguire il nostro esempio per riservare a noi soli il merito straordinario della esecuzione di tale impresa. Al contrario debbo piuttosto temere che il poco interesse che i lettori avranno trovato nella mia opera, non sia il più efficace motivo di allontanarli dal fare un viaggio, che sembra prometter loro sì pochi mezzi di accrescere le loro cognizioni.

La Laponia non pertanto presenta all’osservatore un vastissimo campo d’istruzione. La mediocrità de’ miei talenti, e la rapidità colla quale mi è convenuto percorrere una tanto immensa estensione di paese, non mi hanno permesso, che di sfiorare le cose. Dico però, e lo dico con fondata persuasione, che in codeste regioni tutto è ancora vergine; i fiumi, i laghi hanno i loro popoli particolari; le montagne nascondono nelle loro viscere miniere sfuggite tuttora alla cupidigia dell’uomo, del pari che al suo studio. La renna, il ghiottone, [298] specie d’orso appartenente a codeste zone, il lemningo, razza di sorcio, sono animali incogniti nelle altre parti d’Europa. Gli Ornitologisti troveranno ivi uccelli particolari a quelle elevate regioni; e l’Entomologista, ad ogni passo che farà, potrà arricchire le sue raccolte d’insetti più rari e più preziosi. Per quanto numerosi sieno i luoghi, sui quali il Linneo portò le sue ricerche, e per quanto grandi sieno state le sue scoperte, egli nelle sue corse lasciò nondimeno molti punti da percorrere. Il Quenzel ed altri naturalisti non hanno eglino dopo di lui trovati molti, e molti insetti, singolarmente della classe delle farfalle, o come essi dicono lepidopteri, i quali attualmente formano articoli interessantissimi nelle collezioni di questo genere? E quantunque il Plinio svedese abbia portata un’attenzione, che potrebbe dirsi anche minuziosa, su tutti gli oggetti di botanica; quantunque abbia scrupolosamente vangato, dirò così, il suolo delle regioni che ha scorse, per iscoprire ogni pianta, che al dire di Goldsmit

Per non esser veduta s’era tratta

In que’ deserti, e si facea un velo

Dell’aria, d’onde solo il cupid’occhio

La potrebbe scoprir, se l’ali avesse;

[299]

i suoi successori troveranno ancora da impiegare il loro tempo in vantaggio della scienza vegetale, e di quelli che la coltivano: segnatamente nella criptogamia, alcuni individuali oggetti appartenenti alla quale sono stati sottomessi a processi chimici, e possono aprire una nuova sorgente d’industria nelle manifatture, e perciò nel commercio.

Un grande vantaggio poi pel viaggiatore, vantaggio che gli permetterebbe di aggiungere un interesse grande alla relazione del viaggio suo, sarebbe quello di possedere l’arte del disegno, e di potere coll’ajuto d’essa presentare agli occhi non solo dei dilettanti, ma eziandio de’ consumati artisti quelle scoscese montagne, quelle cascate maestose, que’ fiumi con tanto fracasso precipitanti le loro acque per que’ loro letti sì profondi, o menandole pacatamente per la larghezza delle vallate. Cotanta folla di siti, di paesaggi, di punti di vista infine o magnifici, o selvaggi, o romantici, ma tutti sì nuovi, sì incogniti in altri climi, sì veramente fatti per ingrandire il genio delle arti, e la cui rappresentazione con tanto diletto ricondurrebbe lui medesimo sopra i suoi trascorsi pericoli, sopra le fatiche sofferte e i gustati piaceri.

Se l’inverno non gli presentasse scene cotanto [300] variate, pienamente lo compenserebbero di sua pazienza mille oggetti degnissimi della sua attenzione. La sua immaginazione colpita dalla forza de’ quadri di questa natura insensibilmente si esalterebbe, e questo entusiasmo sì naturale sarebbe seguito da quella dolce, e viva malinconia, che l’Hume riguarda come il sintomo dell’anima umana tocca dall’amore, e dall’amicizia. Questa profonda malinconia, il cupo silenzio sparso sopra codeste contrade isolate, porteranno indubitatamente chi le percorrerà da filosofo, a domandare a se medesimo a che fine sieno entrati nell’ordine della creazione luoghi per così dire estranei alla vita. Con che disegno sono poste nella economia della natura quelle aurore boreali, quegli spettacoli sì brillanti dell’aria, e que’ laghi, e que’ fiumi, e quelle cataratte, se tale teatro magnifico, eternamente deserto, debb’essere perpetuamente estraneo all’uomo. Ebbene! L’uomo non iscioglierà mai codesta questione fin tanto che si terrà persuaso ch’egli è il re delle cose create, e si abbandonerà alla idea presuntuosa che tutte le cose poste su questo globo non per altri esistono che per essolui. E non hanno al pari di noi un egual diritto di moltiplicare le loro specie codesti uccelli, che fanno eccheggiare pe’ boschi i loro canti, che coprono a sciami le paludi, [301] i fiumi, il cielo; e che l’estate emigrano da tutte le parti d’Europa verso la Laponia per ivi costruire i loro nidi, ove debbono sbucciare i loro piccoli dalle uova, che vi deporranno? Esposti dappertutto alle insidie dell’uomo sì inclinato a crearsi de’ bisogni, che non gli diede la Natura, perchè questa madre comune, sì saggia e sì pia, non avrebbe riserbato loro degli asili, ove senza timore abbandonarsi all’amore, e alla dolcezza degli affetti, che la propria prole ispira ad ogni vivente?

La Laponia presenta dappertutto al filosofo bramoso di conoscere la natura nel suo stato di semplicità, soggetti degni della più profonda riflessione, e di una contemplazione tanto più seducente, quanto che essa è fatta per alimentare vie più il suo intelletto. È un importantissimo punto in istoria naturale quello di sapere quanto in fatto sia fondata l’opinione di Mairan, di Buffon, di Bailly, e d’altri filosofi su quello, ch’essi chiamano calore centrale. Si domanda se dopo la formazione della terra vi fosse mai un periodo, in cui le regioni artiche fossero più calde di quello che lo sieno al presente; se possa supporsi che sia avvenuto un cangiamento di clima, e che nel corso de’ secoli sia succeduta una differenza essenziale nella temperatura delle nostre zone. [302] Queste domande potrebbero naturalmente essere fatte da un filosofo, che viaggiasse in Laponia. Ma confesso che non ho veduto nulla, su cui fondare una passabile risposta. Tutto ciò che io posso dire si è, che durante il breve tempo, in cui sono stato in Laponia, non ho scoperta cosa che si possa considerare come atta a conservare sì sublime teoria. Non ho incontrate sorgenti calde, nè altra traccia di temperatura stata più calda, come non ho avuto nissuno indizio di popolazione più numerosa, non reliquie di antichi abitatori, o d’arti che possano riferirsi a tempi antichissimi. Ma ho io veduto tutto? Troppo vasto è il campo delle investigazioni occorrenti per risolvere con materiale elemento tanta quistione. Vuolsi adunque che altri e con grande zelo e con grande perseveranza si mettano alla prova. Perchè non potrà trovarsi in Laponia, ciò che hanno rivelato fin qui in Siberia e in America, paesi posti a latitudini eguali a quella della Laponia?

Finalmente, per continuare il primo discorso dirò vero essere che le arti non fioriscono in queste contrade; che non vi s’inalzano templi per isfidare il potere del tempo, e per pubblicare alle razze venture la vanità di coloro, che li fecero edificare: non si veggono palazzi, e case pompose, oltraggio altrove sì comune [303] alla miseria dell’uomo che ricco della sua coscienza, è inattaccabile da rimorsi, perchè nè sa, nè può prestarvi materia. Rottami adunque di colonne, avanzi di monumenti ivi non indicano al viaggiatore l’orgoglio di que’ potenti dell’antichità, che comparvero per qualche tempo sulla scena della vita per disgrazia di coloro che vissero sotto la loro dominazione. Che ne’ paesi nostri l’archeologo passeggi sulle sparse ruine degli edifizii rovesciati dalla successione de’ secoli; e che in mezzo a que’ frantumi cerchi a sbrogliare il caos della storia, onde ricco de’ fatti che ne avrà tratti, trovar materia di meravigliarsi sulle azioni de’ primi uomini. Il filosofo in mezzo della Laponia, più saggio forse ne’ suoi desiderii, non si fermerà meno dilettevolmente sullo stato attuale, in cui troverà codeste contrade, convinto, che possono abbastanza pascere il suo ingegno. Ivi egli studierà i primi elementi della vita sociale: ivi conoscerà la società umana sotto la forma più antica, la quale si può riguardare come la primitiva. Non andrà colà per ammirare le opere dell’uomo incivilito; ma bensì per contemplarvi la natura, l’ordine, l’armonia, prevalenti in tutte le produzioni della creazione, l’immutabil legame della catena delle cose, e la suprema Sapienza impressa su tutti gli oggetti [304] della prima formazione. Qua, e là verrà egli acquistando nuovi mezzi di estendere le sue cognizioni, di riscaldare il suo zelo, di stralciarsi una via più facile verso il ben essere, a cui egli medesimo aspira. Può egli ripromettersi tanto l’archeologo dagli oggetti, che scelga per le sue investigazioni? e l’oggetto di queste può stare in paragone di quello delle investigazioni del nostro filosofo?

Ah! come sarebbe ammirabile un viaggio fatto in Laponia collo spirito, che accenno, quando fosse intrapreso da un saggio delle regioni meridionali, coraggioso a segno di sfidare tutti gli accidenti, che potesse incontrare. Un viaggio in Laponia fatto così filosoficamente da un curioso che venisse dalle contrade del mezzogiorno! Quale altro, più capace di produrre in lui le più utili riflessioni, e le lezioni più salutari! Quanto non guadagnerebb’egli di più che quelli, i quali nati nel Nord si tolgono ai rigori del loro clima per recarsi tra noi, e farsi schiavi de’ piaceri che loro esso ricusa? Essi non portano seco ritornando ai loro paesi che il vano desiderio di godere del cielo, che debbono abbandonare. Non provano al loro ritorno che privazioni: con rincrescimento ricordansi dei diletti, che loro prodigalizzava per alcune ore un sole più dolce; sospirano dietro [305] il piacevol senso in essi eccitato dalle scienze, e dalla coltura delle belle arti; ed obbliano che il vero ben essere dovrebbe comporsi delle cognizioni acquistate, piuttosto che della reminiscenza de’ piaceri, che non hanno potuto trasportar seco. Al contrario il viaggiatore meridionale, che penetra nel Nord, presto è chiamato al confronto degli oggetti presenti, e di quelli che ha lasciati nel suo paese; e nella nuova scena, che gli si apre d’innanzi, una potente voce della sua coscienza gli svela tutte le illusioni, tutte le vanità, tutti gli errori degli uomini, che nella ebrietà di un esagerato incivilimento non avveggonsi come si sono lasciati allontanare dalla vera via della natura; e che seguendo le lusinghe di un perfezionamento non giustamente inteso, s’inabissano ognor più in un vortice seduttore, ove la natura è smentita, la virtù falsata, e la vera felicità ottenibile sulla terra è tanto più sospinta lungi da noi, quanto più ardentemente da noi è cercata. Egli sarebbe un predicatore fallito, se prendesse a voler disingannare una generazione troppo profondamente avanzata in una sì deplorabil carriera. Ma il suo spirito si è fortificato nella fede della verità. La verità ch’egli ha veduta nel suo più chiaro splendore, è divenuta la reggitrice delle sue morali abitudini. [306] So quanto è apprezzabile tutto ciò, che mette i suoi concittadini in delirio; e senza esporsi a predicare al deserto, colle sue opere e colla sapienza de’ suoi principii farà ancora qualche bene.

FINE DEL VIAGGIO.

[307]

INDICE DELLE MATERIE CONTENUTE IN QUESTO VIAGGIO

Introduzione Pag. 5
CAPO PRIMO.
Partenza da Helsinbourg. Gottembourg, e costumi de’ suoi abitanti. Canale di Trolhatta. Stockholm. Descrizione di questa città. Indole, ed usi degli Svedesi. 9
CAPO II.
Partenza da Stockholm per Grisselhamn. Condizione di chi fa questo viaggio. Traversata sul ghiaccio del mare ed accidenti occorsi. Vitelli marini. Paesano svedese e suoi ragionamenti. Isole di Aland e loro abitanti. 21
CAPO III.
Abo e cose notabili di questa città. Stato e vivere degli abitanti del paese. Incontro di un bardo moderno. Aurora boreale. Yervenkile. Sua cascata. Caccia. Stato economico dell’albergatore. 37
CAPO IV.
Foresta famosa in Finlandia. Indole dei lupi che vi abitano. Incendii ed uragani che la devastano. Cammino pericoloso, e mal passo sul ghiaccio. Altro ghiaccio più spaventoso. Wasa: descrizione di questa città. 49
CAPO V.
Civiltà incontrata in Wasa. Aneddoti curiosi riguardanti Linneo. Gamla-Carleby. Nuovi [308] motivi di spavento sul ghiaccio. Pescatori sul ghiaccio e loro industrie. Illusioni prodotte dal ghiaccio. Brachestad. Uleaborg. Avventura galante. Particolari riguardanti Uleaborg. Risoluzione di fermarsi in questa città. 58
CAPO VI.
Magnatizzatore, e magnatismo. Partita di musica istromentale. Simpatia de’ Finlandesi per la musica. L’harpu. Caccia del gallo di brughiera, e qualità di questo uccello. Pregiudizii de’ Finlandesi per certe vivande. Faccende de’ Finlandesi nell’inverno. Loro pesche sul ghiaccio. Loro caccie di vitelli marini e dell’orso. 68
CAPO VII.
Poesie improvvisate dai Finlandesi. Perchè dette runiche; loro carattere: modo con cui vengono recitate o cantate. Esempii. Elegia per la morte di un fratello. Proverbii. — Il pasticcio di Paldamo. — Versi d’amore. Le più antiche poesie runiche sono formule di magia, d’incanti, di superstizioni, reliquie della religione dominante presso i Finlandesi prima del cristianesimo. 78
CAPO VIII.
Si parte da Uleaborg. Difficoltà supposte per andare al Capo-Nord attraverso della Laponia. Nuovi compagni e provvigioni. Addii. — Descrizione di un ballo finlandese. Divertimenti in Hutta. Arrivo a Kemi. Il curato, e la sua famiglia: bella chiesa e bei contorni. Bagno a vapore. Passaggio a Tornea. Suo clima, e suo commercio. Fine del mondo incivilito. Curato dell’Alta-Tornea: sua ospitalità. 92
[309]
CAPO IX.
Faticoso viaggio dall’Alta-Tornea a Kardis. Kassila-Koski sul punto, su cui passa il circolo polare. Più faticoso è il viaggio da Kardis a Kengis. Graziosa accoglienza avuta in Kengis dall’ispettore delle miniere di quel luogo. Ragazze del contorno; e particolarità di una di Kollare. Separazione de’ viaggiatori. L’autore rimane solo con un compagno. 106
CAPO X.
Primo trattamento di ospitalità in Kollare far piangere chi entra in casa, e perchè. Descrizione di questo villaggio, e de’ contorni. Simon, l’eroe delle cataratte. Pericoli sotto la sua direzione evitati. Digressione. 115
CAPO XI.
Povera colonia di Finlandesi. Muonionisca. Ministro di questa parrocchia, e suo singolare carattere. Costumi de’ paesani di questo villaggio, e de’ contorni. 119
CAPO XII.
Pallajovenso. Errori de’ viaggiatori e geografi circa la Laponia. Ciarlataneria di Maupertuis. Aspetto del paese tra Muonionisca e Pallajovenso. Musco delle renne. Arrivo a Lapajervi, e crudele persecuzione delle zenzale. Lago di Pallajervi: isola Kuntigari: fermata in essa deliziosissima. Rondinelle di mare come servizievoli ai pescatori. Laponi nomadi presi a guida, congedati i Finlandesi; e penoso viaggio fatto con coloro. 127
CAPO XIII.
Erba angelica. Arrivo al Pepojovaivi. Incontro di pescatori laponi. Loro usi e sospetti sui [310] viaggiatori. Cagioni di questi sospetti. Quantità immensa di pesce nel Pepojovaivi, ed acque adjacenti. Caccia su quel fiume. Altre particolarità sui Laponi nomadi. Arrivo a Kantokeino. 144
CAPO XIV.
Isolamento di Kantokeino. Ragione del confine apparentemente irragionevole. Musica lapona. Maestro di scuola: sue imprese, e sua singolare incombenza. Notizie statistiche su questa parrocchia, e stato economico de’ suoi abitanti. Partenza, e cordiali addii delle donne del villaggio. Il bel fiume dell’Alten. Cataratta magnifica. Rapidità singolare della corrente. Chiesa pigmea. Montagne. Guerra colle zenzale. Incontro di un pescatore di sermoni. Laberinto. Arrivo ad Alten. 159
CAPO XV.
Situazione di Alten. Veduta dell’Oceano-glaciale. Abitanti di Alten, ed ospitalità avutane. Navigazione per l’Oceano-glaciale, e visita della costa. Monte Himelkar, e cascata che ne discende. Visita ad alcune abitazioni di Laponi. Stato de’ Laponi stabiliti sulla costa. Laponi erranti: loro tende, loro beni, e loro renne. 184
CAPO XVI.
Delle renne: dell’indole di questi animali: del governo che i Laponi ne fanno: delle varie sorti di slitte che usano, ecc. 201
CAPO XVII.
Proseguimento della navigazione sul Mar-glaciale. Golfo delle Balene. Isola della Have-Sund, il più orribil sito, che possa vedersi. Isola Mageron. Arrivo al Capo-Nord. Descrizione di questo promontorio. 214
[311]
CAPO XVIII.
Effetti prodotti nelle menti de’ viaggiatori dall’essere giunti al Capo-Nord. Visita del promontorio, ed osservazioni fatte nelle vicinanze. Angelica, e grotta. Roccie, licheni, alghe, crostacei, spugne, ecc. Uccelli di mare. Caldo e calma sofferti nel dare addietro dal Capo-Nord. 218
CAPO XIX.
Ritorno ad Alten per diversa strada. Isola di Maaso: suoi abitanti, e loro ospitalità. Vantaggio di chi viaggiando è tenuto per un principe. Hammerfest. Penisola Hwalmysling. Fregata inglese. Arrivo in Alten. Corsa a Felwig: gran mercato di pesce. 227
CAPO XX.
Imbarco, e navigazione sull’Alten. Tre singolari cataratte. Motivi di rimontarne una, e sforzi inutili. Viaggio per le montagne, e gran cambiamento di temperatura. Si ripiglia la navigazione dell’Alten. Arrivo a Kantokeino. Passaggio ad Enontékis. Viaggiatori inglesi, e loro memorie. Memoria di un emigrato francese. Estratto di un manoscritto del curato di Enontékis. Partenza da Enontékis per Tornea ed Uleaborg. 233
CAPO XXI.
Costituzione fisica de’ Laponi. Loro origine e loro lingua. Robustezza ed agilità de’ Laponi, e lavori. Loro religione e moralità; e cause di corruzione. Vestito: incombenze dei due sessi. Abitazioni, letti, cibi, cucina, e mobili di casa. Caccia delle renne selvaggie: caccia d’altri animali del paese. Alcuni particolari usi de’ Laponi. Loro nozze, e loro giuochi. 245
[312]
CAPO XXII.
Malattie de’ Laponi. Vajuolo. Colica spasmodica, oftalmia. Preservativo contro lo scorbuto. Rimedio pe’ geloni, per le ferite, per le fratture, e lussazioni. Affezioni infiammatorie, reumi, lombaggine. — Funerali de’ Laponi, sepolture, convito mortuario, anniversarii. Pietà verso i defunti. Giurisprudenza sulle eredità. — Religione degli antichi Laponi. Montagne Sante, tutt’ora in venerazione. Maghi. Affezione de’ Laponi al loro paese. 277
Conclusione 296

Registro per le Tavole.

Tav.
I. Passaggio sul golfo gelato di Botnia Pag. 3
II. Veduta della città di Tornea a mezzanotte precisa. Il sole sta alla maggior sua declinazione 100
III. Veduta del Capo-Nord 215

NOTE:

1.  I nostri leggitori si ricorderanno che la Finlandia è stata dopo il viaggio del sig. Acerbi aggiunta all’Impero russo, troppo necessaria per coprire Pietroburgo, altrimente esposta ad ogn’invasione degli Svedesi. La corona di Svezia ha avuto in compenso la Norvegia, tolta alla Danimarca. La circostanza di tale mutazione politica ci ha fatto omettere nel Viaggio che compendiamo quanto alla medesima è estraneo: toccando a viaggiatori più recenti dire ciò che da quell’epoca in poi intorno all’amministrazione delle cose pubbliche sia avvenuto in Finlandia.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.