The Project Gutenberg eBook of Verso il mistero: Novelle This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Verso il mistero: Novelle Author: Virginia Treves Release date: July 8, 2021 [eBook #65796] Language: Italian Credits: Gianfranco De Robertis, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VERSO IL MISTERO: NOVELLE *** Nota di Trascrizione: il testo in corsivo è denotato da _trattini bassi_. VERSO IL MISTERO OPERE DI CORDELIA. RACCONTI E BOZZETTI. _Il regno della donna_ (7.^o migliaio) 2 — _Dopo le nozze_ (3.^o migliaio) 3 — _I nostri figli_, in formato bijou a colori (2.^o migliaio) 3 — _Prime battaglie_ (4.^o migliaio) 2 — _Vita intima_ (9.^o migliaio) 1 — _Racconti di Natale_ (2.^o migliaio) 3 50 —— —— Edizione illustrata da Dalbono (5.^o migliaio) 4 — _Alla Ventura_, ill. da Amato (2.^o migliaio) 4 — _Casa altrui_, ill. da Matania (2.^o migliaio) 3 — —— —— Edizione economica (10.^o migliaio) 1 — _All'aperto_, ill. da Ferraguti e Amato (2.^o migliaio) 4 — _Nel Regno delle Chimere_, ill. da G. Amato, A. Ferraguti e E. Dalbono 5 — —— —— Edizione economica in‑16 3 — _Verso il mistero_ 3 50 ROMANZI. _Catene_ (8.^o migliaio) 1 — —— —— Edizione ill. da Bonamore (3.^o migliaio) 4 — _Per la gloria_ (2.^o migliaio) 3 50 _Forza irresistibile_ (2.^o migliaio) 3 50 _Il mio delitto_ (3.^o migliaio) 1 — —— —— Edizione illustrata da Colantoni 3 — _Per vendetta_ (3.^o migliaio) 1 — —— —— Ediz. ill. da Armenise e Ferraguti (2.^o migliaio) 4 — _L'Incomprensibile_ 3 — LIBRI PER I RAGAZZI. _Piccoli Eroi_ (43.^o migliaio) 2 — —— —— Ediz. in‑8 ill. da A. Ferraguti (3.^o migliaio) 4 — _Mondo Piccino_, illustrato (5.^o migliaio) 1 — _Mentre nevica_, illustrato (4.^o migliaio) 2 — _Nel regno delle Fate_, ill. da Dalbono (3.^o migliaio) 7 50 _Il Castello di Barbanera_, ill. da Paolocci (3.^o migliaio) 2 — _I nipoti di Barbabianca_, ill. da Matania (2.^o migliaio) 4 — _Teatro in famiglia_, commedie pei giovani, illustrate da G. Amato, Sophie Browne e A. Ferraguti 2 50 _Gringoire_, opera in un atto, musica di Scontrino 5 — CORDELIA VERSO IL MISTERO NOVELLE [Illustrazione] MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI 1905 PROPRIETÀ LETTERARIA. _Riservati tutti i diritti_ Published in Milan, October fifteenth, nineteen hundred and five. Privilege of copyright in the United States reserved under the Act approved March third, nineteen hundred and five, by Fratelli Treves. Milano. ― Tip. Fratelli Treves. UNA TRAGEDIA IN UN CERVELLO. I. Valentina seduta accanto alla finestra era immersa nella lettura della _Nevrosi e neurastenia_ del professor De Giovanni. Era laureata da un anno in medicina e amava la scienza coll'ardore della giovinezza, colla fede d'un credente. S'era dedicata alla specialità delle malattie del sistema nervoso, e studiava indefessamente coll'entusiasmo di un neofita. Fu scossa dalla voce della madre, la signora Paola Verganti, che le disse: —Valentina, ti prego, lascia per dieci minuti i tuoi libracci, e ascoltami. —Parla, mamma,—rispose Valentina chiudendo il libro. —Dà retta a me,—riprese la signora Verganti,—rinuncia al tuo matrimonio. Quando ti ho concesso di frequentare l'Università, lottando coi pregiudizi degli amici, fu per farti forte e capace di vivere anche senza maritarti, ed ecco che la tua scienza non serve che a renderti indipendente da me, e a farti scegliere uno sposo che non mi persuade. —Mamma, tu non sei ragionevole, io non ti riconosco più, non mi sembri più la donna superiore che mi permise di dedicarmi a studii severi e virili. Perchè vorresti togliermi ora quell'indipendenza di volontà che tu stessa m'hai insegnato ad apprezzare? È vero; la mia scienza avrebbe potuto consolarmi della mancanza della famiglia, e non avrei pensato a scegliermi un marito, nè accettato il primo venuto, se il caso non mi avesse fatto conoscere l'ingegnere Lodovico Arcelli. È un uomo superiore, ricco, simpatico, intelligente, e lo amo con tutta l'anima mia. —Tu che hai studiato medicina, sai meglio di me a qual pericolo ti esponi,—disse la signora Verganti,—tu sai bene che Lodovico è pazzo. —Mamma, non è vero, e mi meraviglio che tu raccolga questa vile calunnia dei suoi nemici. Una mente così equilibrata, che scioglie i problemi di matematica più difficili, che ora sta studiando un metodo nuovo e semplice per trasportare la energia a grandi distanze, via: non è possibile! Io, vedi, ho frequentato le case dove regna la pazzia e credo di saperne qualche cosa; se Lodovico è pazzo, lo siamo tutti! —Allora è ammalato,—soggiunse la signora Verganti;—hai udito quello che hanno detto di lui i tuoi colleghi; m'hanno fatta la descrizione di quel suo male misterioso, terribile, che fa tremare i più forti, pensa a quello che fai. —Io non ho paura. —Almeno, Valentina, fallo per la mia tranquillità, rinuncia a questo matrimonio. —No, mamma, sono decisa, e tu non inquietarti inutilmente, mostrati forte, come quando il babbo partiva per andare alla guerra, che lo salutavi colla faccia sorridente, per non togliergli il coraggio, e pure avevi il pianto nel cuore; io mi sento figlia del colonnello Verganti e non tremo. Mamma, su allegra; ti assicuro che non ci saranno nè morti, nè feriti, ed ora non parliamone più. Riprese il libro, ma il suo pensiero era molto lontano. Pensava alla decisione presa, all'uomo al quale era alla vigilia di legarsi indissolubilmente, contro il consiglio delle amiche, della madre, di tutti! Infatti una malattia incomprensibile, fatale, tramutava il più compito degli uomini in una belva furibonda; quel male lo coglieva sempre alla medesima ora, poi si dileguava improvvisamente senza lasciare alcuna traccia. I medici non erano riusciti a spiegarlo e nemmeno a dargli un nome. Chi diceva trattarsi di sonnambulismo, chi di epilessia, ma non sapevano nulla di preciso; avevano tentato molte cure, fra le altre, l'idroterapia, l'ipnotismo, l'elettricità; tutto inutilmente. Valentina conobbe l'ingegnere Arcelli quando faceva la cura elettrica nel gabinetto del suo professore. Sentì subito una viva simpatia pel giovine, e un forte desiderio di studiare quel male misterioso e tentarne la guarigione. Egli non ignorava il suo male, e ciò lo rendeva malinconico, avvilito, quasi umiliato; parlava poco, viveva solitario, tutto immerso negli studii, che avevano già fatto conoscere il suo nome nel mondo; era alto, pallido, aveva la voce melodiosa, i modi signorili, e un'espressione di dolcezza diffusa intorno agli occhi stanchi che lo rendeva simpatico. Valentina lo vide la prima volta seduto, isolato sulla poltrona elettrica, mentre il professore, toccandolo coll'elettroforo, faceva scattare scintille da tutto il suo corpo, ed essa era incaricata di regolare l'intensità della corrente. Pei primi giorni si scambiarono poche parole, poi la giovane medichessa gli chiese del suo male, tentò d'infondergli qualche speranza di guarigione. —È terribile,—egli diceva,—è come una morsa di ferro che mi soffoca e mi strazia, un incubo da cui non posso liberarmi. Sono molto ammalato.—E crollava il capo come chi non ha più speranza. Valentina incominciò a provare per lui una gran compassione, volle visitarlo minutamente e lo assicurò che nessuna lesione aveva nell'organismo, e si convinse che il male era legato a quei fili misteriosi che si chiamano nervi e che sarebbe guarito. Le parole della fanciulla erano per lui una musica soave che più della corrente elettrica faceva vibrare tutto il suo essere, e il pensiero che finita la cura non l'avrebbe più riveduta, era per lui altrettanto spaventoso, quanto l'idea della sua malattia. Valentina, senza essere una bellezza perfetta, era molto piacente, aveva il viso aperto, gli occhi vivi, intelligenti e un'aria di bontà e di energia in tutta la persona che la rendeva affascinante. Essa leggeva nel cuore di Lodovico come in un libro aperto, sentiva la di lui ammirazione crescente e aspettava che le rivelasse il suo amore. Egli sospirava, si faceva sempre più triste, ma non aveva coraggio di parlare. Solo un giorno egli disse che ogni gioia gli era negata, anche la speranza di formarsi una famiglia, perchè nessuna donna avrebbe voluto dividere la sua triste sorte. —Dite delle sciocchezze,—gli aveva risposto Valentina,—ne volete una prova? Io sarei pronta ad essere la vostra compagna. Il pallido volto del giovane s'illuminò a quelle parole, ebbe un lampo di gioia, poi crollò il capo, e porgendole la mano disse: —Grazie, le vostre parole m'hanno fatto un gran bene, ma è un sogno che non può realizzarsi. —Perchè? Vi amo, ammiro il vostro ingegno; se avete per me un po' di simpatia, perchè non si dovrebbe unire la nostra sorte e tentare di essere felici? —Ma la mia malattia non vi spaventa? Non mi maledirete di rattristare la vostra fiorente giovinezza, collo spettacolo del mio male? Voi non conoscete l'orrore delle mie notti, gli spasimi del mio corpo straziato, i sussulti del mio cervello infermo, non datemi un'illusione fallace, una speranza che non potrà realizzarsi; pensateci. Valentina, voi siete bella, sorridente, siete nata per la gioia e non per unire la vostra sorte a quella di un uomo che ignora per qual colpa è stato maledetto dal cielo. —Non dite così che mi fate pena,—rispose Valentina,—mi sono dedicata all'umanità sofferente, ho frugato nelle viscere dei cadaveri per scoprire il segreto della vita; anch'io, perchè ho fatto quello che poche donne hanno il coraggio di fare, in molti ispiro la ripugnanza, il ribrezzo. Veramente volevo dedicarmi soltanto alla scienza, ma vi ho conosciuto, vi amo, e mi offro a voi. —Voi siete un angelo, e mi è impossibile rifiutare il vostro dono generoso,—rispose Lodovico,—l'accetto come se mi venisse dal cielo e giuro che tutto tenterò per rendervi felice. —Come amerei la mia scienza se potessi darvi qualche sollievo!—esclamò Valentina. Lodovico crollò il capo come un incredulo, e disse: —Non è più il tempo dei miracoli; è vero, voi sapete molte cose, ma non potrete riuscire dove non sono riusciti i migliori medici. Temo d'esser condannato per tutta la vita ed ora ne sono più addolorato per voi, che mi sarete compagna. —Forse la scienza sarà più potente unita all'amore, ed ho la fede e la speranza. Lodovico era commosso, gli mancava la voce, ma da quel momento sentì che non avrebbe più potuto vivere senza Valentina. II. Un bellissimo sole d'aprile illuminava la città di Torino, e l'aria, piena di profumi nuovi, avvolgeva uomini e cose. Gli sposi, ritornati appena dal municipio, erano circondati dai parenti e dagli amici. Il convegno era tutt'altro che lieto. Pareva un funerale, la preoccupazione della malattia dello sposo stava nel pensiero di tutti. La signora Verganti tratteneva a stento le lagrime e si sentiva tanto triste, come non era stata mai, nemmeno il giorno in cui suo marito era partito per la guerra d'Africa, dove aveva trovato la morte. Lodovico sorrideva, ma si mostrava preoccupato. Valentina soltanto era allegra, raggiante, e si sforzava d'infondere in tutti il suo coraggio e la sua gioia. Essa sorrideva allo sposo e abbracciava la madre rassicurandola. Tutto sarebbe andato bene, diceva. Anche la natura in festa e il sole che entrava dalle finestre aperte rallegrava la casa piena di fiori e d'amici. Fu un momento solenne, quando vennero a dire che la carrozza attendeva gli sposi per condurli alla villa che Lodovico possedeva nei dintorni di Torino e doveva ospitarli in quei primi giorni del matrimonio. Valentina si staccò con uno sforzo dalle braccia di sua madre, che non avrebbe voluto lasciarla partire, salutò gli amici, e discese in fretta le scale seguita da Lodovico. Finalmente erano soli. La carrozza correva per le strade lunghe, dritte, popolate da una folla allegra, uscita per respirare la brezza della primavera nascente. Correva pei lunghi viali fiancheggiati dagli alberi che si vestivano di foglie novelle, avanti avanti per l'aperta campagna, salendo sui poggi che ridevano davanti al nuovo sole. Gli sposi si tenevano per mano in silenzio: si sentivano vivere e pensare, come sentivano il battito dei loro cuori che la gioia rendeva più rapido. Egli temeva che la sua felicità si dileguasse come in un sogno, e che l'amore di Valentina non avrebbe potuto resistere quando avesse assistito ad una delle crisi del suo male; tremava pensando a quello che gli preparava l'indomani e la stringeva a sè fortemente come per impedire che gli sfuggisse. Essa indovinava il pensiero di Lodovico, ma non temeva nulla, era sicura di sè stessa e del suo amore. Quasi desiderava affrontare la realtà di quel male sconosciuto, per conoscerlo e tentarne la guarigione; voleva studiarlo con tutta la forza della sua mente, colla divinazione del suo cuore innamorato, e forse sperava di comprendere quello che agli altri era rimasto incomprensibile. Sapeva quel male misterioso appartenere al genere di malattie alle quali essa specialmente si era dedicata; e il poter studiare il soggetto, sempre, tutti i giorni, con intelletto ed amore, le dava la speranza di riuscire. Già la sua fantasia andava andava, come la carrozza che correva per l'aperta campagna, e si vedeva felice e vittoriosa. Furono distolti dai loro pensieri dalla scossa della carrozza che si fermò davanti alla villa. Scesero in fretta sorridendo e, stanchi pel lungo silenzio, ripresero la conversazione interrotta. Il sole volgeva al tramonto e tingeva d'una tinta rosea le montagne ancora coperte di neve. La casa bianca risaltava sopra uno sfondo verde‑cupo, formato da un bosco di abeti; i rododendri in fiore mettevano una nota gaia sul verde. —Quanto è bello!—esclamò Valentina.—Come saremo felici in questo nido! —Ti piace?—chiese Lodovico col volto illuminato dalla gioia. —Ma è un incanto!... E come hai pensato a tutto; sei un vero mago. Fino la tavola preparata, e un bel fuoco nel caminetto. E quante belle rose! Eppure non siamo ancora di maggio; e queste violette! Che profumo! E sì dicendo si chinò ad odorare un bel mazzo di viole poste in un canestro sopra un tavolino. Lodovico ordinò ai domestici di servire il pranzo; la lunga corsa e le emozioni della giornata gli avevano eccitato l'appetito; poi, rivolto alla moglie, soggiunse: —Cara la mia dottoressa, mi pare che si potrebbe mettersi a tavola; dopo pranzo avrai tutto il tempo per ammirare la tua villa. —Nostra, vuoi dire. —No, sei tu la padrona, te ne faccio un dono; spero che non mi negherai l'ospitalità. Valentina si mise a ridere. —Hai voglia di scherzare,—disse. —Parlo seriamente; sono lieto di cederti lo scettro; da domani la padrona sarai tu, ed io sarò tuo schiavo. E chiacchierando allegramente si sedettero a tavola dove venne loro servito un buon pranzo, e gustarono per la prima volta il piacere di trovarsi soli, lontani dal mondo, seduti alla stessa mensa, avendo nel loro cervello pensieri spumeggianti come il vino di cui erano piene le coppe di cristallo. Dopo il pranzo, Valentina volle continuare il suo viaggio di scoperta e girare per la villa, divertendosi a toccare i ninnoli sparsi sulle mensole, ad osservare i mobili, i quadri, i tappeti. Nel piano superiore v'erano le camere da letto, una coi parati rosei per lei e l'altra più cupa e severa per Lodovico; accanto una sala spaziosa contornata da biblioteche piene di volumi. —Hai proprio pensato a tutto,—disse Valentina, avvicinandosi alle biblioteche per osservare i volumi ben rilegati.—Da una parte i libri di matematica per te, dall'altra quelli di medicina e di scienze naturali per me; mi par di ritrovare i miei amici, eccoli tutti schierati: Biswanger, _La neurastenia_; Beard, _Una malattia nuova_; _La neurastenia_ di Arndt; come sono difficili questi nomi russi! E che belle ore passeremo a studiare qui tutti e due, tu da una parte ed io dall'altra! Perchè da sposi moderni, da personaggi del secolo ventesimo, non ci si potrebbe contentare di star tutto il giorno a guardarci negli occhi ed a filare l'amore perfetto. Noi abbiamo bisogno anche del cibo dello spirito, e così il nostro amore non passerà come una meteora fuggente, ma durerà sempre, non è vero? —Ne ho speranza, dipende da te,—disse Lodovico, sedendosi sopra un divano accanto a Valentina. —Non temere,—rispose questa,—sono sicura di me stessa, i miei sentimenti non muteranno; ma, perchè ora una nube è passata nella tua mente?—chiese guardandolo negli occhi. —Tu mi leggi dunque nel pensiero? —È un po' la mia professione. Ma, dimmi, che cosa ti turba? —Penso che presto s'avvicina l'ora fatale e vorrei pregarti di non tentare di vedermi, nè di assistermi in quel momento. —Ma perchè? —Perchè la crisi passa come viene e tu ne soffriresti inutilmente; mi prometti dunque di allontanarti? —Non posso farti una promessa che non potrei mantenere. Desidero vedere di che cosa si tratta, e la mia non è una curiosità da femminuccia, ma una curiosità scientifica, e poi mi spinge la speranza di esserti di qualche sollievo. —Almeno, ti prego, non avvicinarti a me. Devo narrarti una cosa che ho sempre tenuta chiusa nel mio cuore, ed al pensarvi soltanto mi rinnova un dolore crudele. Mi rincresce evocare in questo giorno un ricordo così triste, ma vi sono costretto per difenderti da te stessa e impedire che avvenga un fatto al quale non potrei sopravvivere. Valentina lo guardò esterrefatta. Che cosa doveva dirle di tanto grave? Stette ad ascoltare tutta trepidante. —Una volta,—riprese Lodovico col pianto nella voce,—avevo un cagnolino, _Fedele_, il mio unico amico, il solo compagno della mia vita solitaria; ebbene, dopo una delle mie crisi lo trovai morto, soffocato, accanto a me. Che cosa era accaduto? Forse vedendomi soffrire si era avvicinato per recarmi soccorso, forse per farmi una carezza, mistero! Sono certo che l'uccisi colle mie mani, e non me ne so ancora dar pace; pensa se tu ti avvicinassi e ch'io ti facessi male, ti ucc.... Dio mio! sento che ne morrei. È terribile non poter dominare i proprii movimenti! —Non temere, Lodovico, veglierò su te, ad una certa distanza, e saprò difendermi. Ed ora non pensiamo a cose tristi. —Hai ragione,—disse Lodovico, abbracciandola,—godiamo di questi momenti di pace che ancora ci rimangono. E stettero vicini in quella stanza appena illuminata. I loro volti erano sereni, ma un velo di mestizia pareva fosse sceso su quelle cose che pochi momenti prima parevano tanto gaie ai due innamorati. III. Lodovico aveva accompagnato Valentina nella stanza dai parati color di rosa, e s'era indugiato a discorrere con lei di mille cose, e fatto progetti per l'avvenire. Dalla finestra spalancata entrava una brezza refrigerante e le stelle tremolavano come punti luminosi nella vôlta scura del cielo. Ad un tratto Lodovico abbracciò Valentina, e disse: —Devo andare, procura di riposare, e pensa a cose liete. —Dimmi almeno che cosa ti senti,—chiese Valentina.—Sai che devo essere la tua medichessa. —Ora non è nulla, soltanto un sonno invincibile, un peso che mi opprime il cervello. Devo coricarmi, non inquietarti, domani mi troverai bene come al solito. Va a dormire, non pensare a me; te ne prego,—e uscì in fretta, lasciando la sposa sola, in faccia alla notte profonda, in quella camera color di rosa dove i fiori impallidivano nei vasi, e il letto bianco adorno di merletti sembrava stendere le braccia e invitarla al riposo. Ebbe un momento di sgomento; il primo in tutta la giornata; l'opprimeva il silenzio che la circondava, il non udire più la voce di Lodovico, il trovarsi in quella stanza sconosciuta, che non aveva per lei alcun ricordo, e la sua situazione nuova, straordinaria, di esser sola, abbandonata nella prima notte del matrimonio. Si sedette sopra una poltrona e prese in mano un libro per togliersi dai pensieri che l'opprimevano; non potè leggere nemmeno una riga; lo chiuse; la stanchezza l'assalse, e parve assopirsi; ma tutto ad un tratto un urlo, che veniva dalla stanza vicina, la riscosse; s'alzò di scatto, aperse l'uscio e sollevò la portiera che la divideva dalla camera di Lodovico. Una lampada velata mandava dalla vôlta una luce tenue, quasi crepuscolare. Lodovico si dibatteva sul letto come un indemoniato, aveva la faccia sconvolta, e gli occhi che sembrava gli uscissero dall'orbita, pareva lottasse con un nemico formidabile, invisibile, i suoi muscoli erano tesi come per uno sforzo sovrumano, poi cessarono i movimenti convulsi e incominciò a gemere e ad urlare come una belva. Valentina stava ritta sulla soglia, incerta; avrebbe voluto avvicinarsi al letto per tentare di calmarlo, ma rammentò la proibizione avuta. Fremeva nel veder il suo Lodovico così trasfigurato, e di trovarsi impotente a recargli sollievo. Lo chiamò ad alta voce, non rispose, fece solo un movimento impercettibile. Ad un tratto la voce di Lodovico echeggiò nel silenzio della notte, disse parole interrotte, sconnesse, pareva che vaneggiasse, anche la sua voce pareva mutata. Valentina immobile stava attenta ad ascoltare. Dopo le prime frasi potè raccapezzarsi meglio in mezzo a quel torrente di parole paurose. —Aiuto!—egli gridava,—aiuto! ecco, viene col pugnale; uno, due, tre.... gli squarcia il seno: oh che rantolo, è morto; ancora, ancora! perchè? È terribile.... non voglio più sentire quel gemito.... anche lei.... salvala.... peccato, è così bella.... no? no? ah! offre il seno.... ah, l'uccide.... quanto sangue.... via, via.... assassino.... ed ora ecco le vittime; le avvolge nel lenzuolo.... è tutto rosso di sangue. Dove va? dove le trascina? giù in fondo.... sento il rumore delle loro teste che cozzano; tun, tun, tun.... pietà pei morti.... giù, giù ancora; perchè li trascini? Perchè li scuoti? aiuto!... aiuto!... La fossa è nera giù.... perchè le ossa scricchiolano? ahi, le sento qui.... aiuto.... aiuto!... E si voltava per il letto gettando via tutto quello che gli capitava in mano, contorcendosi in modo spaventoso; pareva che le sue ossa si spezzassero, agitava le braccia come se volesse scacciare una terribile visione. Lodovico continuava: —Ed ora dove mi conduci? Dove fuggiamo? Quanti soldati! C'inseguono.... via, via! Andiamo lontano.... lontano.... lontano.... Valentina tremava alla vista di quello spettacolo atroce, eppure non si sentiva la forza di fuggire, se ne stava là immobile, impetrita, come una statua. Ad un certo punto Lodovico parve calmarsi, respirò forte come uno che fosse fuggito da un pericolo, e fu colto da un sonno profondo, quasi letargico; soltanto il suo corpo di tanto in tanto sussultava. Valentina sentì risvegliar in sè, sotto l'involucro femmineo e sensibile, la missione del medico; si avvicinò al letto, e pose una mano sul cuore di Lodovico. Il cuore sussultava, batteva come se avesse fatto una corsa vertiginosa, poi gli posò la mano sulla fronte e la sentì madida di sudore. —Bisogna farlo guarire,—disse fra sè.—Impossibile che il suo cuore possa sopportare ogni notte una scossa così tremenda, e poi io lo amo e non potrei sopravvivere alla sua morte. La crisi era passata, e adagio Valentina si ritirò nella biblioteca per meditare su quello che aveva veduto. A che categoria apparteneva la malattia di Lodovico? A quelle che hanno sede principale nei centri nervosi, questo lo sapeva. Non era pazzo, e nemmeno sonnambulo; non ammetteva che si trattasse di epilessia come molti dei suoi colleghi avevano dubitato. Secondo lei, era un fenomeno di suggestione, e prodotto da un'influenza esteriore che aveva impressionato eccessivamente un cervello giovane e sensibile. Quale poteva essere quest'influenza, non si spiegava, ed era impaziente che suo marito si svegliasse per poterlo interrogare. Si rammentava che nella tesi di laurea aveva svolto il concetto delle influenze ataviche sui centri cerebrali, e s'era convinta da' suoi studii e da alcune esperienze fatte, che le impressioni ricevute dai nostri avi si possono ripercuotere nel nostro cervello e che, come l'imagine fotografata sopra una lastra sensibile, si rivela al primo raggio di sole, così alla prima occasione quelle possono uscire disordinate dalla mente. Doveva esser certo avvenuto così nel cervello di suo marito. O aveva avuto una forte impressione da bambino, oppure doveva cercare il fatto tragico nella vita dei suoi avi. Tutta la notte essa stette sfogliando libri e riviste; l'ansietà di sapere le aveva fatto dimenticare la stanchezza d'una giornata piena di emozioni. Il sole era già spuntato sull'orizzonte quando Lodovico entrò adagio nella libreria. Valentina stava leggendo attentamente l'_Eredità_ di Lucas e non si accorse del passo di lui. Le si avvicinò timido e trepidante e le posò dolcemente la mano sulla spalla. Ella lo guardò rassicurandolo. —Non ti faccio orrore?—le disse,—hai assistito a tutto, ti ho sentito vicino a me. —Mi hai sentito davvero? Allora il male non è tanto grave,—disse Valentina,—io voglio salvarti. Qui, vicino a me, devi raccontarmi tutto come ad un medico. —Interrogami. —Quando il male ti assale, perdi la coscienza? non senti nulla di quello che accade intorno a te? —Io sento tutto come in un sogno, ma una volontà più forte della mia mi spinge a fare dei movimenti involontari, a dire quello che non penso; è un incubo che m'assale col quale io lotto invano; è più forte di me; questa notte tu mi hai chiamato, ho udito la tua voce, ma mi era impossibile rispondere, mi parea che venisse da molto lontano; la scena di sangue che racconto, la vedo come in uno specchio, vorrei salvare le vittime, ma non posso; una mano di ferro mi trattiene, so che sono nella mia camera, e vedo un altro ambiente, mi par d'essere in un altro mondo, eppure mi sento vivo perchè soffro, e assai crudelmente soffro; guai se penso a quelle ore terribili. —Non temere,—disse Valentina,—ti guarirò; dimmi, hai mai assistito da bambino ad un fatto tragico come quello che vedi nella tua fantasia? —Mai! Ho vissuto sempre lontano dalle lotte del mondo, e la mia giovinezza fu calma. —E quando hai cominciato ad avere le terribili visioni? —Ero nervoso fin da bambino; la notte mi svegliavo di soprassalto e facevo sogni spaventosi. Dicevano che cogli anni sarei stato più forte, invece con me crebbe il mio male ed ora hai veduto tu stessa quanto io soffro. —Tutto s'accorda con quello che penso—disse Valentina.—La tragedia che ti travaglia deve averla vissuta qualche tuo genitore; cerchiamo nella loro vita, parlami di loro, dove sono nati? dove hanno vissuto? Pensa, pensa. E sì dicendo stava ansiosa coll'orecchio attento perchè nulla le sfuggisse. Lodovico pensò un poco per riordinare le idee, poi disse: —Il babbo era di Torino come me; nell'alta banca ha guadagnato molto danaro e mi lasciò ricco. Le lotte della vita l'avevano accasciato e morì di esaurimento; non credo ci siano state tragedie nella sua vita. —E tua madre?—chiese Valentina. —Essa venne a Torino bambina; nacque a Verona, dove il padre si trovò involto nella rivoluzione del 1848, dovette fuggire di notte quando era ancora bambina. Il nonno era brutale e iracondo, essa deve aver sofferto molto con lui, e divenne nervosa, e piuttosto malinconica; è morta giovane, forse tormentata di sapermi ammalato. —E la tua nonna?—chiese ansiosamente Valentina. —Nessuno l'ha conosciuta; il nonno non ne parlava mai. —Tua madre dunque è partita bambina, di notte, durante la rivoluzione. La sua infanzia non fu calma,—disse Valentina. —No, certo, e credo che dall'agitazione di quel tempo, la sua salute ne fosse scossa. —E tu non sei mai stato a Verona, nella patria della tua mamma? —Mai. Il mio male m'impedisce di viaggiare e non posso alloggiare in un albergo; poi il nonno non voleva sentire parlare della sua patria, e la mamma ci pensava con terrore. —E non avete alcun parente in quella città? —Una vecchia zia, sorella del nonno, che vive con una figlia. Non la conosco; ci scambiamo soltanto un augurio a capo d'anno. —Dunque hai l'indirizzo, tanto meglio; devi scriverle di trovarci un appartamento. Dobbiamo rivedere la patria della tua mamma, dove, ti confesso, spero di trovare l'origine della tua malattia. —Tu sei una sognatrice,—disse Lodovico;—che cosa vuoi scoprire? È passato mezzo secolo dacchè il nonno ha lasciato quella città, chi si ricorda più di lui? —Sarà un sogno,—disse Valentina,—ma voglio conoscere la città dei tuoi avi, ti rincresce? —È una bella città che desidero vedere anch'io; andremo, sarà il nostro viaggio di nozze,—disse Lodovico. —Nulla di più divertente di un viaggio di ricerche, e cercherò e troverò l'origine del tuo male, vedrai!—rispose contenta Valentina. —Se trovare l'origine d'un male volesse dire guarirlo, avrei qualche illusione, ma ho poca fede. —Sapere l'origine d'un male è già un bel passo verso la guarigione,—disse Valentina,—e poi io voglio guarirti, non permetto che tu sciupi la tua energia e la tua bella intelligenza lottando con dei fantasmi. Lasciami questa speranza che mi rende felice. —E sia; mi metto nelle tue mani: sei tanto bella, animata dall'entusiasmo e dalla fede nella tua scienza, che se, come temo, non riuscirai a fare il miracolo, ti benedirò sempre per il bene che mi fanno le tue parole, e per la gioia con cui hai voluto illuminare la mia povera vita. IV. Teresa Montalti, zia dell'ingegnere Arcelli, non era mai uscita da Verona, sua città nativa. Abitava, colla figlia Giulia, in piazza Erbe, un appartamento di quattro stanze, due con un grande balcone sopra la piazza e due dietro, sopra un cortile. Quella piccola casa di quattro piani, stretta ed alta come un campanile, l'aveva ereditata da suo fratello, nonno di Lodovico. Occupava colla figlia il primo piano, e affittava ammobiliati gli appartamenti superiori, ad impiegati, militari o artisti di passaggio; e coll'aggiunta di una pensione lasciatale dal marito le due donne vivevano bene conducendo una vita alquanto modesta. La signora Teresa aveva passati i settant'anni, e negli ultimi tempi era stata colpita da congestione cerebrale, che le aveva lasciato paralizzato il lato destro del corpo. Di carattere vivace, soffriva nel dover starsene inchiodata tutto il giorno su una poltrona, e la sua sola distrazione era osservare quello che accadeva nella piazza sottostante. Conosceva per nome i venditori e le venditrici, e quando la mattina collocavano sotto gli ampii e candidi ombrelli le ceste piene di erbaggi e di frutta, si rallegrava di poter assistere al risveglio della vita cittadina. Era come uno spettacolo che le si offriva spontaneo e la distraeva dai tristi pensieri. Conosceva le abitudini dei compratori, osservava certi incontri voluti perchè avvenivano sempre alla medesima ora, sorprendeva qualche idillio all'ombra dei bianchi ombrelloni, e gioiva quando qualche piccola cesta di fragole profumate compariva timidamente a rompere la monotonia delle frutta invernali; in seguito altre più grandi, unitamente alle ceste di ciliegie e di lamponi, venivano a rallegrare il mercato colla loro nota rossa fiammeggiante e attiravano gli sguardi, lasciando nell'ombra gli erbaggi e le altre frutta più modeste; godeva quando facevano la loro comparsa le belle pesche mature che le piacevano tanto, e i grappoli d'uva grossi come quelli della terra promessa; ogni nuovo frutto era una nuova gioia per lei, solo si sentiva triste quando le mele, le pere e le castagne occupavano il posto delle frutte estive, e pensava: —Vedrò ancora le piccole ceste di fragole? Tornerò qui al mio posto d'osservazione, quando il sole sarà più tiepido, e avrò l'illusione che nelle mie vene faccia scorrere un sangue più caldo e più giovane? E sospirava e si sentiva triste specialmente nelle ore nelle quali era sola. E restava spesso sola perchè, quando la figlia l'aveva collocata sulla poltrona accanto alla finestra, usciva per far le provviste e s'indugiava a chiacchierare coi conoscenti o colle vicine. La Giulia era una donna di quarant'anni, un po' fiacca e lenta nei movimenti, ingrassava a vista d'occhio, ma si lagnava sempre di tutto e con tutti, e aveva la voluttà di farsi compiangere. Si era maritata giovane e finchè ebbe il marito se ne lamentava perchè lo trovava troppo esigente; quando rimase vedova, si faceva compiangere per la sventura d'essere rimasta sola ancor giovane, e per giunta colla madre inferma; insomma non era mai contenta, quantunque facesse una vita abbastanza calma e serena. Quando l'appartamento sopra di loro rimase libero, non cessava di lamentarsi e raccomandarsi per trovar nuovi inquilini; era stato accettato dagli Arcelli, ed essa si mostrava annoiata per il disturbo che quei cugini sconosciuti le avrebbero recato e al pensiero di doversene occupare. La signora Teresa invece all'idea di conoscere i nipoti era contenta; tutto quello che veniva ad interrompere la monotonia della sua vita sempre uguale, le recava qualche consolazione, e quando entrò Giulia col telegramma in mano che ne annunciava l'arrivo per quello stesso giorno, dopo le quattro, ebbe un'esclamazione di gioia. —Tu dici bene, ma ora come faccio,—esclamò la Giulia,—volevo comperare un tappeto nuovo, qualche oggetto per rallegrare l'appartamento, e invece mi capitano qui, tutto ad un tratto, come una bomba. —Non borbottar sempre,—disse la signora Teresa,—se è quasi un mese che siamo in corrispondenza e che li aspettiamo; avevi il tempo di pensarci se volevi fare nuovi acquisti. —E poi, a che cosa servirebbe!—soggiunse Giulia.—Sono ricchi, abituati a vivere a Torino in un palazzo, potrei cambiare di pianta i mobili delle nostre povere stanze e le troverebbero sempre miserabili. Abbiamo fatto male ad offrirgliele. —Ma via, Giulia, un po' di calma, se non si troveranno bene andranno all'albergo, non siamo poi in un villaggio, infine sono nostri parenti e non è male mostrar un po' di buona volontà d'averli vicini. —Sì, ma intanto io devo pensare a tutto. —Vorrei poter muovermi io,—disse la vecchia,—e come sarei contenta di occuparmi di questi sposi! Ecco, per esempio, metterei un bel mazzo di rose in mezzo alla tavola. —È un'idea,—disse Giulia,—così aiuteranno a nascondere una macchia d'inchiostro che ho veduto sul tappeto; me ne occupo subito. E sì dicendo mandò a comperare i fiori e salì nell'appartamento per dar l'ultima mano e metterlo in assetto. Aveva disposto i mobili secondo la sua idea ed i suoi gusti; in una delle stanze che aveva un grande balcone verso la piazza, aveva fatto collocare due letti uguali di ferro molto semplici, un armadio e due cassettoni; nell'altra aveva formato una specie di salotto, con una tavola nel mezzo, un divano e qualche poltrona. I mobili erano semplici, anzi modesti, e avevano l'aspetto molto usato; essa fece il possibile di rallegrare gli ambienti con cuscini, tappeti e tovagliette guernite di trina, ma soltanto il mazzo di rose avea posto una nota allegra su quelle vecchie cose. Quando discese, trovò la madre in piedi che girava, eccitata dall'impazienza, trascinando dietro a sè la gamba inferma, attaccandosi ai mobili per non cadere, e tendendo l'orecchio ad ogni carrozza che si fermava. All'annuncio del prossimo arrivo dei nipoti le pareva di ringiovanire, si sentiva la mente più lucida come se l'arrivo degli sposi giovani fosse l'ultimo raggio di sole che venisse a rallegrare la sua vita che ormai volgeva al tramonto. —Ma che cosa hai, mamma, che sei tanto irrequieta?—chiese la Giulia.—Non possono essere ancora arrivati; è troppo presto. —E se non trovano la casa?—disse la vecchia. —Ho dato l'indirizzo giusto; sarebbe inutile andar ad incontrarli: non ci siamo mai veduti, non so nemmeno che faccia abbiano. Vedrai che ci troveranno. —Non avrei mai pensato di poterli conoscere,—disse la signora Teresa, ritornando al suo posto.—Mia nipote, la mamma di Lodovico, era una bimba quando è partita, aveva due begli occhioni azzurri intelligenti e una corona di riccioli biondi; deve aver sofferto col carattere di suo padre: meno male che poi è stata fortunata, ha fatto un buon matrimonio, e se fosse vissuta avrebbe ora la gioia di vedere suo figlio stimato e sposo felice; perchè, sai, Lodovico è un personaggio conosciuto, un grande ingegno, tutti i giornali ne parlano. —È quello che mi dà pensiero,—disse Giulia.—L'ingegnere Arcelli troverà miserabile l'alloggio che possiamo offrirgli. E la moglie, la dottoressa, sono certa che sarà antipatica, e poi chissà che superbia e come ci guarderà dall'alto in basso, noi misere mortali che non abbiamo studiato all'università. —Forse sarà meglio di tutte le pettegole che conosciamo,—disse la signora Teresa;—se poi trovasse un rimedio al mio male, benedirei la sua venuta e la sua scienza! Tanto i medici non hanno capito nulla, può darsi che una donna sia più intelligente. —Eccoli!—esclamò Giulia sentendo fermarsi una carrozza,—vado ad incontrarli. Ma non era ancora sulle scale che Lodovico e Valentina erano già presso all'uscio. —Sono vostra cugina,—disse la Giulia, stendendo loro le mani.—Ben arrivati, sono lieta di conoscervi. —E la zia Teresa come sta?—chiese Lodovico. —Vi aspetta! Non può camminare, ma è molto contenta che siate venuti; se volete entrare. —Sì, entriamo un momento,—disse Valentina,—dopo andremo a mettere in ordine le nostre camere. —È un appartamento molto modesto,—disse Giulia scusandosi,—non so se vi piacerà. —Abbiamo gusti semplici, e andrà tutto bene.... Ah, ecco la zia Teresa! E Lodovico s'avvicinò alla vecchia, dicendole: —Se mi permette le presento la mia sposa. —Siate benedetti,—disse la vecchia, tirandoli a sè colla mano sana.—Qui,—disse,—qui alla luce, Lodovico, voglio vederti bene, hai gli stessi occhi della tua mamma, sono contenta, e poi mi rallegro del tuo ingegno, e anche della tua sposa.—E sì dicendo la fece sedere vicino a lei e la baciò sulla fronte. —Mi dispiace,—disse poi con un sospiro,—che mi trovate in questo stato; qualche anno fa ero vispa come se avessi vent'anni. —Ma guarirà,—disse Valentina. —Dite davvero!—esclamò la vecchia con un lampo negli occhi.—Siete medichessa e dovete sapere se si può guarire da queste malattie. Valentina ebbe timore d'aver fatto sorgere una speranza fallace, e soggiunse: —Forse, migliorare certo, vedremo, non bisogna mai disperare; se permette, ora andiamo a prender possesso delle nostre stanze; ritorneremo questa sera. —Se voleste dividere il nostro pranzo modesto....—disse la vecchia. —Grazie,—rispose Lodovico,—ma abbiamo le nostre abitudini come voi avrete le vostre, e preferiamo esser liberi, anche per conoscere la città. Verremo dopo pranzo, staremo spesso insieme, e diventeremo amici, non è vero? Intanto se volete guidarci nel nostro appartamento! —È qui sopra,—disse Giulia,—vi accompagno. E salita una scala entrarono nelle stanze a loro destinate. Giulia mostrò come avea creduto bene di disporle. —Però,—disse,—voi potrete accomodarle secondo i vostri gusti e le vostre abitudini. —Sarà meglio fare due camere da letto,—disse Valentina,—qualche volta Lodovico è inquieto la notte e non mi lascia dormire.... Che belle rose!—soggiunse, vedendo il vaso di fiori nel mezzo della tavola,—come siete buona di aver pensato anche a questo! grazie. Poi affacciandosi al balcone esclamò: —Ma qui è un incanto! Che vista! guarda Lodovico questa piazza! Quanto è pittoresca! Giulia si scusava della povertà degli arredi. Lodovico ammirava la piazza in silenzio. —Questo spettacolo vale una reggia,—disse Valentina;—ci troveremo benissimo. Se mi potrete mandar un facchino che possa trasportare qualche mobile.... non abbiamo bisogno d'altro. —Vado a raggiungere la mamma,—disse Giulia,—se vi abbisogna qualche cosa, sono a vostra disposizione. Arrivederci. E sì dicendo scese nel suo appartamento, dove la madre l'attendeva con impazienza. Le chiese se gli sposi fossero rimasti contenti, e continuava a ripetere: —È una bella coppia, sembrano felici, ci porteranno un po' d'allegria. —Come sono questi sposi moderni!—disse Giulia,—io non li capisco; avevo fatto mettere due letti in una camera, e invece no.... vogliono stanze separate.... e sono ancora nella luna di miele; ai miei tempi non si usavano queste cose. —Sai, nell'alta società è sempre stato così,—disse la signora Teresa,—facciano loro; però mi sembrano semplici e alla mano. —Infine siamo parenti, della stessa razza, e non ci sarebbe una ragione che fossero superbi con noi. Intanto Valentina aveva incominciato a disfare i bauli e a mettere a posto un po' di roba negli armadi. —Non è un palazzo,—avea detto al marito,—ma ci si potrà accomodare, e poi basta guardare dalla finestra per vedere uno spettacolo che compensa di tutto quello che manca. Coll'aiuto d'un uomo aveva fatto trasportare gli armadi nella cucina dell'appartamento che doveva servirle da gabinetto di toeletta. Le due camere da letto accomodate bene, libere dai mobili inutili, riuscivano più godibili e spaziose; diede una disposizione piacevole e comoda alle sedie e ai tavolini, sui quali collocò qualche ninnolo portato seco, alcuni libri rilegati e parecchie fotografie incorniciate con gusto, e le stanze presero subito un aspetto più gaio e più piacevole. Lodovico stava estatico appoggiato alla ringhiera di ferro del balcone e guardava la piazza in silenzio. —Perchè sei così taciturno?—gli chiese Valentina.—Sei forse pentito d'esser venuto? —Oh, tutt'altro, ma non so come avvenga, che più guardo questa piazza, più mi persuado che è una mia vecchia conoscenza, eppure non ci sono mai venuto a Verona, ne sono certo. —Forse avrai veduto qualche fotografia. —È un'impressione differente da quella che si ha da un'imagine dipinta o fotografata, ma che non so spiegarmi; mi par di trovarmi in mezzo a vecchi amici, qualche cosa mi fa pensare, come se vedessi vecchie conoscenze con nuovi abbigliamenti. Basta, ho bisogno di concentrare le mie idee, di risvegliare come dei ricordi assopiti; ecco perchè sono silenzioso, però mi sento bene e mi par di vivere una vita anteriore; è un sentimento nuovo che non mi dispiace. Valentina, contenta d'essersi sistemata, s'avvicinò al marito, e anch'essa contemplò in silenzio la vasta piazza che s'andava spopolando, l'andirivieni dei venditori e delle venditrici, che mettevano le ceste nei fondachi e nelle cantine, chiudevano gli ombrelloni e dopo una giornata laboriosa erano contenti al pensiero delle ore di riposo che avevano davanti a sè. Stettero ad osservare in silenzio quel movimento che andava sempre diminuendo, poi scesero, traversarono la piazza, presero la via Nuova in quell'ora molto popolata, e si fermarono pieni di ammirazione in piazza Vittorio Emanuele, alla vista dell'Anfiteatro Romano che in quell'ora del tramonto faceva l'effetto d'una mole ancor più gigantesca del vero. —Pare d'essere a Roma,—disse Valentina,—non avrei creduto di trovare in questo luogo tanta impressione di grandezza; la credevo una delle solite città morte dove si conservano vestigia preziose del passato, ma siamo invece in una città ancor viva e grande; peccato che la gente borghese moderna abbia fabbricato da questa parte delle piccole case. —Forse i monumenti che dagli altri lati ci parlano del passato, spiccano di più per il contrasto;—disse Lodovico,—non vorrei vederla in altro modo. Passati gli archi che dividono la piazza dal corso di Porta Nuova, entrarono per pranzare in una trattoria, che, colle tavole preparate, invitava i passanti. Pranzarono allegramente come due sposi nel viaggio di nozze, poi Lodovico, impaziente di rivedere la zia Teresa, volle ritornare a casa, quantunque l'aria fresca della sera e la città nuova lo invitassero a passeggiare. La zia e la cugina li aspettavano sedute accanto alla tavola illuminata da una lampada a petrolio. Sulla tavola c'era un tappeto nuovo, sfoggiato in onore degli sposi, e un bel mazzo di fiori. —Prenderete il caffè con noi,—disse la zia Teresa,—vi abbiamo aspettato. Poi chiese come trovavano la città. —È un incanto,—disse Valentina,—come non m'aspettavo. —Non mi è nuova,—disse Lodovico,—mi pare di averci sempre vissuto. —Vi è nato tuo nonno, mio fratello, e prima di lui tutti i tuoi ascendenti,—disse la vecchia. —E appunto lo scopo del nostro viaggio è per saper notizie del nonno: mi è venuto il desiderio di conoscere i miei antenati. Diteci quello che sapete; ve ne rammentate? —Come se fosse partito ieri; tutte le cose vecchie rammento; solo non ho più memoria per quello che è accaduto dopo la mia malattia. —Diteci tutto quello che sapete del nonno,—supplicò Lodovico,—è per me una cosa molto importante, più di quello che pensate. —Si chiamava Lodovico anche lui,—rispose la vecchia,—avea un carattere impetuoso e una testa un po' esaltata. L'Italia era la sua idea fissa; tutto ha sacrificato per vederla libera. Anch'io ero italiana nell'anima e fremevo di vedere gli austriaci padroni della mia città, ma ero più ragionevole. Che cosa potevamo fare, se loro avevano soldati, fucili, cannoni, e noi nulla? Bisognava aspettare gli eventi e fidare nella nostra stella; ma mio fratello voleva agire, muoversi, era capo d'un comitato, andava in Piemonte continuamente a parlamentare coi capi, coi ministri; una volta fu anche ricevuto da Carlo Alberto, a cui portava messaggi; non poteva star mai tranquillo. Io vivevo sempre trepidante, temevo che lo scoprissero e lo fucilassero; che tempi erano quelli! Non avevo pace. —E la nonna che cosa faceva, ve la rammentate? —Se la rammento! Mi par di vederla, la piccola Elisa; era molto bellina, pareva una statuetta di Sassonia, e poi vispa, irrequieta come un uccello. Quella donna è stata il capriccio di Lodovico; volle sposarla ad ogni costo e non era donna per lui; nata a Venezia, qui si trovava a disagio, non capiva nulla di patriottismo e di politica; era giovane, bella e voleva godere la vita; forse non aveva torto; ora la vedo con occhi più indulgenti, allora, però, in quel tempo, non la potevo sopportare, così leggera, spensierata e così lontana dalle idee del marito, e non le perdonavo di renderlo infelice. Quando le nacque una bimba, che fu poi la tua mamma, speravo che si calmasse; era come pretendere che un fiume rimontasse alla sorgente: appena fu possibile, riprese la vita di prima, diceva che era veneziana nell'anima, ed aveva bisogno di feste, di maschere e di cavalieri serventi. —Ah, anche i cavalieri serventi?—chiese Valentina. —Che volete? s'annoiava. Mi ricordo che una volta mio fratello mandò un giovane veneziano con istruzioni di mandarlo in Piemonte ad arruolarsi come soldato. Era un suo amico d'infanzia ed Elisa, invece di seguire la volontà del marito, pensò bene di tenerlo presso di sè, dicendo:—_El xe un pecà che così belo el se fassa massar; el sarà el me cavalier servente!_ —E poi?—chiese Valentina. —Era un po' pazza, poveretta. —E come ha finito?—chiese Lodovico. —È morta, e molto giovane,—disse la vecchia;—come, non saprei, fu un mistero; mio fratello, sempre viaggiando per la causa italiana, stava dei mesi senza dar segno di vita, poi veniva in fretta a salutare la moglie e la bimba, e via di nuovo. Mia cognata aveva preso il suo partito, e si divertiva; si occupava del figurino della moda; aveva i cavalieri serventi come la sua mamma e la sua nonna, diceva lei; non pensava alla politica e alla guerra che per lagnarsi che non ci fossero spettacoli e divertimenti; non era certo un'eroina. Un giorno, verso la fine del '48, i piemontesi erano alle porte, tutto era pronto per fare la rivoluzione, non si aspettava che un segnale per agire, ma c'erano troppe spie, troppi soldati e si esitava; mio fratello venne in fretta, misteriosamente, poi scomparvero tutti: lui, mia cognata, la bimba e una vecchia fantesca. Non si sapeva dove se ne fossero andati, fui ansiosa per molto tempo, li ho creduti morti, poi ho saputo che soltanto Elisa era morta; poveretta! essa che amava tanto la vita.... —E non sapete in che modo morì.... così giovane? —Se ne dissero tante,—rispose la zia Teresa,—ma nessuno seppe nulla di preciso. Troppi avvenimenti tenevano trepidanti gli animi in quel tempo; i piemontesi vinti, le nostre speranze fallite, sempre in ansia pei nostri cari, una vita febbrile, ma ora sono contenta d'esser vissuta in quei giorni di ansia e trepidazione. —E il nonno?—chiese Valentina. —Ci scrisse da Torino dove s'era rifugiato; qui non poteva più ritornare, essendo compromesso negli affari politici; diede disposizioni per vendere la casa dove abitava e spedirgli i mobili migliori. Mio marito s'incaricò di tutto. —E dove abitava, vi ricordate? —Sul corso Santa Anastasia,—disse Giulia,—la mamma mi ha fatto tante volte vedere la casa; se volete, ve la mostrerò. —E vogliamo anche visitarla,—disse Lodovico. —Bisogna chiedere il permesso al proprietario; non so a chi appartenga ora; sarà tutto cambiato, non troverete più traccie del nonno. —Mi basta vedere i sotterranei.... credete che siano molto mutati? —Devono essere trasformati in cantine, c'è un'osteria al piano terreno. —Ma che idea vedere una casa che ha appartenuto a vostro nonno?—disse Giulia,—a che scopo? —È un nostro segreto che vi spiegheremo; intanto è ora di salire. —Ma a proposito,—disse Lodovico, indugiandosi sulla soglia,—la statua sopra la fontana? —Madonna Verona?—chiese la vecchia. —Sì; è sempre stata così colla corona d'oro sul capo? —No,—disse Giulia,—al tempo degli austriaci aveva il capo incoronato di ferro. Abbiamo ancora una fotografia di quel tempo.... Eccola,—disse dopo aver cercato in un cassetto. —Ah, bene!—esclamò Lodovico.—Precisamente come l'ho veduta in sogno, o in realtà non lo so, con quella posa identica, ritta, come a guardia della piazza, ma colla corona di ferro; quella corona d'oro m'imbarazzava; ora sono contento; buona notte. Salì alle sue stanze coll'animo sollevato. Valentina aveva indovinato; in qualche angolo del suo cervello stavano nascoste imagini ereditate dagli avi; quella corona era una rivelazione. Se prima era incredulo, ora si sentiva impaziente di continuare le indagini, di visitare la casa degli avi, di sapere la verità. Valentina invece esitava, temeva d'aver dato un'illusione che, rimanendo tale, avrebbe potuto peggiorare il male di Lodovico; è vero che esistevano fatti di persone, le quali potevano descriver paesi e cose che non avevano mai veduto, ma erano state famigliari ai loro genitori; aveva pure udito, colle sue orecchie, alcuni, sotto eccitamenti speciali, parlare una lingua ignota, ma conosciuta dai loro antenati. Però sapeva di aver troppa facilità di accettare certi fatti non provati scientificamente, aveva la fantasia molto fervida, glielo diceva anche il suo professore quando la chiamava la romanziera della scienza, ed ora, ch'essa temeva d'essersi spinta troppo innanzi, e avrebbe voluto aspettare e godere la città nuova, ecco che suo marito era impaziente e voleva subito incominciare le sue ricerche. Era strano quello che accadeva nelle loro anime; le parti erano mutate: essa esitava, e invece Lodovico era pieno di fede e voleva agire. Il timore di lei veniva anche dal fatto, che in quel tempo nessun mutamento era avvenuto nel male di Lodovico, eppure aveva tentato tutti i rimedi suggeriti dalla scienza in simili casi. Aveva preparato colle sue mani delle pozioni calmanti di diverse specie, aveva variato le dosi, tentato di distrarre lo spirito di lui con racconti e letture interessanti nell'ora fatale; tutto era stato inutile. In quel mese di matrimonio s'era abituata a quelle crisi, e le facevano meno impressione sapendo prima quello che doveva accadere; lo stava sempre ad assistere amorosamente, qualche volta lo copriva con un lenzuolo, che serviva a rendere i movimenti più calmi e gli urli meno sensibili, e in ogni caso non si udivano in lontananza, ed egli usciva meno stanco da quell'incubo. Essa era molto scoraggiata, e quasi avrebbe voluto stare inerte ad aspettare gli eventi nel timore di perdere anche quel filo di speranza che le rimaneva, era in un periodo nel quale non aveva più fede nè in sè stessa nè nella scienza, e pareva invece che avesse trasfusa quella fede nell'animo di Lodovico. Nemmeno il nuovo ambiente e le nuove cose avevano avuto influenza sul suo male. Anche in quella prima notte che si trovavano nella città degli avi, il male lo assalse nell'ora fatale, e per la prima volta Valentina pianse trovandosi impotente a strapparlo all'incubo spaventoso. V. Dopo un sonno riconfortante, Valentina fu destata da un mormorìo indistinto che andava aumentando e pareva come se delle onde marine andassero ad infrangersi sugli scogli del lido. Un raggio di sole entrava dalle persiane e si rifletteva sulla parete disegnando strisce dorate. Pensò che doveva esser tardi, scese dal letto, si vestì in fretta e aperse la finestra, impaziente di sapere da che cosa provenisse il rumore che l'aveva risvegliata dal sonno. Un vero spettacolo festoso si presentò allo sguardo ammirato. La piazza era piena di gente, come se fosse in aspettazione d'una festa. Sotto gli ombrelli giganteschi stavano disposte, con arte, le ceste di erbaggi tinte in tutte le sfumature di verde, da quello pallido e quasi latteo a quello forte come lo smeraldo; le carote, i pomidoro spiccavano nelle loro tinte calde, fra il verde; e i cavoli fiori giganteschi s'ammucchiavano negli angoli circondati da una corona di foglie protettrici. Le ceste di frutta estive invitavano i passanti a soffermarsi, i venditori si affaccendavano per attrarre l'attenzione dei compratori, e più di tutti le venditrici, belle, cogli occhi lampeggianti e la bocca sorridente, chiamavano la gente, si rubavano gli avventori e spesso litigavano fra loro. Madonna Verona, sul suo piedestallo di marmo, pareva proteggere la folla che formicolava in mezzo a quella massa di erbaggi e di frutta. Ai suoi piedi l'acqua usciva da una quantità di polle disposte a cerchio, in freschi e innumerevoli zampilli, che lambivano una tazza di marmo antico e cadevano in mille spruzzi, formando una corona fresca e viva intorno ai suoi piedi. Le venditrici facevano a gara nel portare le verdure ed i fiori sotto la pioggia refrigerante; andavano e venivano colle braccia cariche di ceste fiorite, parevano fanciulle che andassero a recare un'offerta votiva a qualche nume tutelare; andavano dai loro banchi alla fontana e dalla fontana ai banchi continuamente. Ai piedi intorno alla statua era come un tappeto fiorito; la pioggia spruzzava su quelle verdure e quei mazzi di fiori variopinti, gocce iridescenti che facevano rivivere le foglie avvizzite, e tutte s'affaccendavano onde trovare un posto per la loro merce ai piedi della fontana protettrice. E intanto i banchi erano riforniti di verdure sempre fresche; i compratori facevano cerchio, e qualche volta dovevano aspettare il loro turno per essere serviti. Anche Lodovico si svegliò pel rumore della folla e per lo scroscio della fontana, raggiunse Valentina sul balcone, e stette con lei ad ammirare lo spettacolo nuovo. —Pare una festa di carnevale,—disse Valentina.—Così dovevano essere le feste che in antico si facevano in onore di Cerere e Pomona, e non si crederebbe che questa festa ogni giorno si ripete e si rinnova. —Quanto è diverso da tutti i mercati che abbiamo veduto! Dove si trova un insieme più pittoresco?—disse Lodovico,—non è possibile confonderlo con altri perchè è unico. Quante volte l'ho veduto nei miei sogni!—E sì dicendo stava estatico e meravigliato ad ammirare il palazzo Maffei laggiù, incoronato di statue, severo, maestoso, che pareva osservare la folla plebea, quasi a distanza, e gli affreschi delle case de' Mazzanti, sorridenti ai raggi del sole che li illuminavano, e tutte quelle case di stile e forma diversa che mostravano il gusto e i bisogni di secoli differenti.—Quanto è bello!—esclamò,—e quanto mi pare più gaio della monotona linea delle nostre case di Torino. Poi sentirono il bisogno di muoversi, di scendere in mezzo a quella folla festosa, tanto più che Lodovico voleva uscire per andare a vedere la casa del nonno. Scesero, chiamarono Giulia che li aspettava per accompagnarli, e poi si cacciarono in quel labirinto di banchetti sotto gli ombrelloni, dove si divertirono nell'udire parlare un linguaggio quasi sconosciuto, ma molto espressivo. Giulia conosceva tutti i venditori e dava delle spiegazioni. Essa comperava sempre dalla signora Nene; aveva gli erbaggi più freschi e la frutta più scelta; altri, specialmente gli uomini, preferivano fermarsi dalla bella Rosina perchè aveva occhi che mandavano lampi. —Dov'è, dov'è?—chiese Valentina,—voglio vederla. —Eccola,—disse Giulia. E si soffermò sotto un ombrellone, dove una siepe di gente circondava una bella ragazza fresca e robusta con due occhi neri, luminosi, e riccioli di capelli che le scendevano sul collo, sulla fronte come serpentelli irrequieti. Serviva tutti premurosamente, rideva e pareva contenta di vivere. —A me piace più la Rossa dei fiori,—disse Giulia,—venite, vi ci conduco. E attraversando la folla riuscirono ad un posto dove su banchetti schierati in lunga fila, c'erano i fiori più profumati della primavera: viole, rose, garofani, gaggìe, e una schiera di belle fanciulle formavano mazzolini, riempivano con arte piccoli ed eleganti canestri e offrivano la loro merce profumata ai compratori. La Rossa dei fiori formava mazzolini di rose e viole mammole. Era alta, slanciata e intorno al capo aveva un'aureola di capelli fulvi, del colore tanto amato dal Tiziano, la carnagione candida un po' dorata, occhi castani, e in tutta la persona qualche cosa di fosforescente, di luminoso, che dava l'impressione che sarebbe bastata la sua presenza a rischiarare una stanza priva di luce. Offerse un mazzolino a Valentina, ma Lodovico ne comprò tanti e per la sposa e per la cugina e per mandare alla zia Teresa. Erano così profumati quei fiori! Gli sembrava che avessero un profumo più intenso di quello degli altri paesi. —È un fatto,—osservava Valentina,—qui c'è una natura esuberante, in tutto, nelle donne, nei fiori, nella frutta. Pare che in seno a questa terra si concentri un calore più intenso, come nelle viscere d'un vulcano. —Sono stanco della folla,—disse Lodovico che aveva la sua idea fissa in mente,—se Giulia volesse condurci sul corso di Santa Anastasia.... —Prima vi voglio mostrare la piazza dei Signori; è qui sulla nostra via. Vedete, ci siamo già. Qual contrasto passare dal frastuono di piazza Erbe a questa piazza tranquilla! —Quanto è bello! Che calma solenne,—disse Lodovico,—mi fa piacere vedere qui in mezzo il monumento di Dante, il nostro poeta più grande. Verona è una delle poche città che gli abbia eretto un ricordo di marmo. Poi si fermò estatico ad ammirare la loggia di fra Giocondo. —Quelle sono le statue degli illustri veronesi,—disse Giulia,—qui c'erano le case degli Scaligeri, e laggiù vi sono le tombe. Sì dicendo s'erano avvicinati alla chiesa di Santa Maria Antica e rimasero silenziosi davanti a quell'immortale lavoro di marmi e di ferro che racchiude le ceneri dei più munificenti signori di Verona. —La più grandiosa è la tomba di Can Signorio,—disse Giulia. —Quali artefici ebbe il nostro paese!—esclamò Valentina,—è un sogno di marmo e il cancello è meraviglioso, pare un merletto di ferro,—poi voltasi a Lodovico disse:—Non si potrebbe rinunciare oggi a far le nostre ricerche della casa degli avi? Sarebbe così bello tuffarsi in quest'onda di arte senza altri pensieri! —Sono impaziente di vedere la casa che mi sta fitta in capo, dopo farò quello che vorrai,—poi vedendo Valentina un po' turbata, soggiunse:—non temere, non è come pensi, sono preparato a tutto, anche a non trovar nulla, ma l'incertezza mi opprime. —Andiamo dunque,—disse Valentina. E Giulia li condusse sul corso di Santa Anastasia, davanti alla casa che aveva appartenuto all'avo di Lodovico. Non avea nulla di speciale dal lato esteriore. Al pianterreno c'era una bottega che portava un'insegna colla scritta: _Osteria delle due campane_. Lodovico non pensò se fosse conveniente far entrare in un luogo così volgare due signore; ma obbedendo all'impulso della sua idea fissa entrò nell'osteria. In quell'ora non era molto popolata. In un angolo due operai giuocavano a tre sette colle carte; dall'altra parte quattro uomini in maniche di camicia colla pipa in bocca e un boccale di vino sulla tavola giuocavano alla morra, e si sentiva ogni tanto fra le pareti affumicate della stanza risuonare un numero, come un razzo lanciato nell'aria. Nel vedere entrare quei visitatori tanto inusitati, sospesero i giochi, e l'oste si avanzò sorridendo, chiedendo in che cosa potesse servirli. Parlò Lodovico e gli disse lo scopo della sua visita. Quella casa aveva appartenuto a suo nonno; voleva visitare i sotterranei e vedere se ci fossero sepolte alcune carte importanti che dovevano esservi nascoste fino dal 1848. L'oste lo guardò come si fa con una persona, che si supponga non sia in sè. —Come? Per una storia così vecchia venire ad incomodarlo? Fosse almeno stato per un tesoro, avrebbe sperato anche lui di poterne avere una parte. —Il vostro disturbo vi sarà pagato e bene,—disse Lodovico.—Mi basta aver il permesso di poter far qualche scavo, vi farò rimettere tutto a posto e non avrete alcun danno. —Però mi permetterete di star presente a questi scavi; sapete, ho la mia merce nel sotterraneo. —Non ho nulla in contrario,—disse Lodovico,—e vi prometto che se troveremo un tesoro sarà tutto per voi. —Quand'è così, fate pure,—disse l'oste,—purchè sia tutto terminato prima di sera. Capite bene, la sera ho qui molti avventori e non vorrei.... —Ma anche subito,—rispose Lodovico,—fatemi, vi prego, chiamare degli uomini del mestiere. —È meglio intanto andare a colazione,—disse Valentina. —Se credono,—disse l'oste,—possono far colazione qui, mia moglie è una buona cuoca e vi preparerà vivande squisite, io poi ho un vino di Valpolicella che può far resuscitare i morti. —Volentieri,—disse Lodovico, coll'intenzione di tenersi buono l'oste, ed anche perchè si sentiva attratto da quei luoghi,—se avete una stanza appartata dove poter stare tranquilli, accetto, così dopo ci mettiamo all'opera. L'oste mostrò uno stanzino che apriva soltanto nelle grandi occasioni, quando venivano dei forestieri di riguardo, e serviva la sera ad una compagnia di signori che solevano riunirsi per fare la partita e bere qualche buona bottiglia di vino. —Va benissimo,—disse Lodovico,—anche tu, Giulia, dovresti restare con noi. —Vi ringrazio,—rispose la cugina,—ma la mamma starebbe in pensiero; ritornerò dopo per vedere se avete scoperto nulla; queste ricerche mi interessano, mi sembrano storie da romanzo. Sì dicendo uscì pensando a quei cugini tanto originali che si contentavano di mangiare in una volgare osteria e si erano certo fitti in capo di trovare un tesoro. Era impaziente di raccontare quel fatto alla madre e alle vicine; infine erano divertenti e davano argomento di discorrere, e poi molto alla buona, anzi troppo, e rideva in cuor suo all'idea che si era tanto sgomentata all'annunzio del loro arrivo, temendo fossero troppo esigenti. Valentina e Lodovico, seduti a tavola nel loro camerino, trovarono che in nessun grande albergo erano stati serviti con maggior premura, e da un pezzo non rammentavano d'aver mangiato con tanto piacere. L'oste e la moglie erano tutti affaccendati per servirli, pronti ad ogni piccolo cenno; essi avevano scelto cibi semplici: pollo, uova, salato, e avevano trovato tutto squisito. Il vino vecchio di Valpolicella, quello delle grandi occasioni, che l'oste aveva voluto far loro gustare, così frizzante e saporito, li aveva ristorati e messi di buon umore; e gli dissero: —È proprio vero; questo vostro vino rallegra e riscalda; ma sapete che vi ordinerò di mandarmene in Piemonte, nel paese del vino? L'oste a quegli elogi gongolava dalla gioia e non solo avrebbe fatto scoperchiare il sotterraneo, ma tutta la casa, per contentare un signore così compito. Egli stesso s'incaricò di far venire i muratori, e quando tutto fu pronto domandò a Lodovico da qual parte si dovesse incominciare a togliere le pietre del pavimento. Fosse il vino che avesse dato a Lodovico una specie di chiaroveggenza, o le vive imagini del suo cervello, parlò del luogo dove si trovava come se ci fosse sempre vissuto e disse: —Una volta ci doveva essere una scala che conduceva dall'appartamento della casa direttamente nel sotterraneo. —Me ne ricordo,—disse l'oste;—quella porta fu chiusa quando presi in affitto la bottega e la cantina. Venite,—continuò; e preso un lanternino lo condusse, attraverso ad una serie di cantine buie, in un ambiente un po' più vasto e più alto degli altri. Avvicinatosi ad una parete soggiunse:—Doveva esser qui la porta, c'è ancora qualche traccia. La cantina era fatta a vôlta, intorno alle pareti c'erano alcune botti di grandezze diverse, poste in fila, come schiere di soldati, in ordine di battaglia; in un angolo bottiglie, fiaschi vuoti un po' in disordine, nell'aria un odore di vino dava una specie di ebbrezza al cervello. Lodovico non s'accorse di nulla; disse soltanto: —È qui, ricordo benissimo, il luogo è un po' mutato, ma in terra a sinistra ci deve essere una pietra con infisso un anello di ferro per sollevarla. È là che dovranno cercare; soltanto ci vorrà un po' di illuminazione. —È presto fatto,—disse l'oste. Dopo averli lasciati un istante, ritornò con un pacco di candele, e incominciò ad infilarle nei colli delle bottiglie vuote. —Vedrete che illuminazione, lasciate fare.—Posò le candele accese sopra le botti; e sopra alcune tavole di legno; attaccò due lanterne alla vôlta, e quando gli parve che ci fosse abbastanza luce, andò a chiamare gli uomini affinchè si mettessero all'opera. Vennero, armati di zappe e di picche. —Prima in quell'angolo,—disse Lodovico;—cercate se trovate un anello di ferro. Mentre frugavano e picchiavano in tutti gli angoli, Valentina non fiatava, le pareva di sognare. Quell'illuminazione fantastica, quegli uomini intenti ad un lavoro rude, suo marito in piedi colla faccia accesa che dava ordini esatti e precisi, le faceva l'effetto di trovarsi sotto terra, in qualche miniera o nelle viscere d'un monte e che Lodovico fosse un capo da cui dipendesse l'esito d'una grande impresa. Quegli uomini picchiavano colle picche, cercavano carponi l'anello di ferro che Lodovico diceva esistere, come se l'avesse veduto, ma non trovavano nulla. —Cercate meglio,—diceva l'ingegnere,—ci dev'essere, almeno una traccia.... non trovate nulla? cercherò io,—e si mise carponi a toccare il terreno con crescente ansietà,—ah, ecco,—disse finalmente,—sentite qui, questo solco, questa specie d'incavo, qui era l'anello di ferro, ed ora alzate la pietra. Non era cosa facile; l'umidità e il tempo avevano formato intorno alla pietra una specie di cemento durissimo, che non cedeva facilmente ai colpi di piccone. Gli Arcelli erano impazienti, pareva che quegli uomini mettessero un tempo interminabile nella loro opera di distruzione. —Presto, presto,—diceva Lodovico,—come siete lenti! E quegli uomini picchiavano con maggior violenza, mettendo in quel lavoro tutto lo sforzo di cui erano capaci; avevano già fatto una fessura nella pietra ma procedevano lentamente come se si trattasse d'infrangere un masso di granito. —Coraggio, avanti, forza, provate a cacciare una leva nella fessura. —Bisogna picchiare ancora e molto, prima di sollevare la pietra,—dicevano gli operai. —Se vi riuscite, avrete una buona mercede. Quelle parole pareva avessero dato agli operai nuovo vigore e ripresero il lavoro con maggior lena. Come parevano eterne quelle ore ai due sposi impazienti! Finalmente la pietra si mosse e un urlo di gioia uscì dalle labbra di tutti. La pietra era pesante e, quantunque stanchi, fecero uno sforzo supremo per sollevarla; l'abisso era scoperchiato. Lodovico si avvicinò, ma dovette subito ritrarsi, un tanfo asfissiante usciva da quell'apertura. —Scoperchiate ancora, che l'aria entri, se vogliamo poi entrare noi pure. E levarono con maggior facilità un'altra pietra. —Io posso entrare,—disse un operaio,—noi siamo abituati a queste cose, in ogni caso legatemi ad una corda; se mi sentirò male vi darò uno strappo e mi solleverete. —Per carità, state attenti,—raccomandò Valentina,—si fa presto ad asfissiarsi. —Non c'è pericolo,—disse l'operaio più coraggioso,—tenete la corda, ecco, son pronto,—e sì dicendo scomparve nella buca. Gli altri, e più di tutti Lodovico e Valentina, stavano attenti, silenziosi, coll'ansietà di chi attende un avvenimento insolito. Ad un tratto si udì uscire un'esclamazione. —Avete trovato?—gridò Lodovico. —Sì, un involto.... c'è dentro qualche cosa, non capisco, è duro, pare di legno. —Su, su, vediamo. —Ecco, sento come una palla. —Su, su, presto,—diceva l'oste. Lodovico non parlava, aveva il cuore che pareva gli scoppiasse, teneva Valentina per mano, stretta come in una morsa di ferro. Valentina era trepidante. Nessun ricercatore di città sepolte avea mai provato il sentimento d'aspettazione ansiosa che essa provava in quel momento. L'operaio salì recando in mano un teschio. —Dio mio!—esclamò l'oste,—altro che tesori! —Ancora, ancora,—disse Lodovico,—scendete, portate il resto, ci dev'essere un altro teschio e poi altre ossa ancora, due scheletri ci devono essere. —Siete forse un mago?—disse l'oste,—ma che cosa avverrà? crederanno che qui sia stato assassinato qualcuno e la mia bottega ne scapiterà. —Non temete,—disse Lodovico,—questi scheletri son là sepolti da cinquant'anni; nè voi nè io eravamo nati in quel tempo. —E come fate a sapere? —Non so, mi son fatto un sogno. Altre ossa erano uscite dal sotterraneo, poi carte, pezzi di giornale e l'involto di tela ammuffito: erano due scheletri come aveva detto Lodovico, però gli operai dicevano di dover dichiarare all'autorità la scoperta fatta. —Fate pure, tanto io voglio chiedere il permesso di dar a quelle ossa degna sepoltura,—disse Lodovico. Intanto fece collocare le ossa in una cassa, in un angolo tranquillo che formava quasi una nicchia, per poter attendere il permesso del municipio prima di muoverle dal posto dove erano state trovate. L'oste era avvilito; s'aspettava di veder scintillare oro ed argento, e invece dovea tenersi chissà per quanti giorni quella funebre compagnia; si sentiva venire i brividi al pensarci, e si pentiva d'aver dato il permesso a Lodovico di far delle ricerche nella sua casa. Si consolò quando l'Arcelli gli mise in mano una bella somma di danaro, e gli promise di ritornare il giorno dopo. —E me li lascerete molto in deposito?—disse accennando agli scheletri. —No, li farò portar via al più presto possibile; vi raccomando intanto che non sieno profanati, chiudete a chiave il sotterraneo. L'oste rabbonito dal ricco dono promise ogni cosa, e Lodovico e Valentina uscirono e s'avviarono verso casa, colla testa piena d'idee che si confondevano, si accavallavano nel cervello e un bisogno di espandersi e di parlare e dar sfogo al cumulo di pensieri da cui erano oppressi. VI. Il salotto della zia Teresa non era mai stato così animato come in quella sera in cui gli Arcelli erano infervorati a raccontare le impressioni della giornata e la lugubre scoperta. Tutti insieme cercarono di ricostruire il dramma che si era svolto nella vecchia casa. Non dubitarono che i due scheletri avessero appartenuto alla piccola Elisa ed a qualche suo innamorato. Certo il marito, tornato a casa dopo una lunga assenza, forse irritato di non esser riuscito nella sua missione patriottica e col cuore d'italiano ferito vedendo che gli avvenimenti non erano favorevoli, trovando la moglie in stretto colloquio con uno dei giovani che egli aveva mandato dal Veneto, acciecato dall'ira, li aveva uccisi entrambi e poscia nascosti nel sotterraneo che serviva di ripostiglio alle carte politiche e compromettenti. La zia Teresa aggiungeva delle notizie preziose che mostravano la verità del fatto. Essa era entrata per la prima in casa del fratello dopo la partenza di lui; dal disordine trovato, da alcune macchie di sangue sul terreno, dalla scomparsa dei due giovani e dalla fuga del fratello, aveva intuito la verità; ma per non accusare nessuno, l'aveva tenuta sepolta nel cuore, come il sotterraneo aveva tenuto nascosti i cadaveri: ora non c'era più dubbio, doveva essere accaduto precisamente come pensavano; ma quello che imbarazzava la zia Teresa era che Lodovico avesse scoperto quel segreto custodito con tanta cura. Egli allora raccontò il male che fino dall'infanzia l'aveva travagliato, e come la sua medichessa, Valentina, con una divinazione quasi soprannaturale, fosse riuscita a colpire nel segno. —E vedete,—soggiunse tutto pieno d'entusiasmo per la giovane sposa,—i migliori medici avevano sbagliato, nessuno aveva trovato l'origine del mio male; ci voleva una medichessa per veder giusto, e poi ci sono ancora quelli che vorrebbero tener la donna rinchiusa fra le domestiche pareti, quando può adoperare l'intelligenza con tanto vantaggio dell'umanità! Anch'io, vedete, forse per atavismo, nel vedere il sesso gentile invadere il nostro campo, ero contrario alla donna indipendente; ma mi sono ricreduto; non so se essa potrà riuscire in ogni scienza, ma nella medicina potrà raggiungere delle altezze inesplorate; è una scienza nella quale ci vuole una specie di divinazione, e la donna la possiede meglio di noi, sicchè può far molto bene. Valentina ha questa qualità in sommo grado, e ne ho avuto la prova, sicchè io spero che vorrà esercitare la sua professione per il bene dell'umanità. Valentina era orgogliosa della stima e degli elogi del marito ma crollò il capo e disse: —Per ora regnano ancora i vecchi pregiudizi; non potrei esercitare la mia professione per mancanza di clienti! —Ma ci sono i poveri e quelli che hanno perduta la fede nel loro medico e amano le cose nuove, poi, quando sapranno il mio caso ch'io proclamerò al mondo intero, vedrai.... —In ogni modo verrà pubblicato questo fatto che prova una delle mie teorie,—disse Valentina,—è un trionfo per me, che chiamavano romanziera della scienza; sarà sempre un documento storico; soltanto non basta trovare una malattia, bisogna guarirla e ancora non possiamo cantar vittoria. —Tu sei più incontentabile di me,—disse Lodovico.—Ero talmente avvilito del mio male incomprensibile, che soltanto l'idea che ne conosco l'origine e che io espio una colpa del nonno mi fa più tranquillo. —Ma e come può aver conosciuto un fatto accaduto molti anni prima della sua nascita?—chiese Giulia. —È questa la prova della mia teoria,—disse Valentina,—i centri cerebrali impressionati da un fatto atavico. Egli non vide nè seppe nulla, ma sua madre bimba di quattro anni è stata testimone inconsapevole della scena, che non poteva comprendere, ma che s'è infissa nel cervello infantile incancellabilmente e forse sarà stata un'ossessione per tutta la sua esistenza; quell'immagine l'ha trasmessa nel cervello del figlio, dove non si sa in che modo si è mutata in incubo opprimente. —Quante cose sapete,—disse la zia Teresa.—Se poteste guarirmi! —Tenteremo un po' d'elettricità,—rispose Valentina,—insegnerò a Giulia a dare la corrente e potrà portare un po' di calore e di vita alle membra intorpidite: ciò vi recherà certo qualche sollievo. Poi parlarono del passato e del modo di ottenere il permesso per poter dare sepoltura alle ossa dissepolte. Giulia aveva molte conoscenze fra gl'impiegati del municipio e se ne sarebbe incaricata con tutto il piacere per essere utile ai cugini pei quali incominciava a sentire un po' di simpatia. Con quei discorsi era già passata l'ora in cui la zia Teresa soleva coricarsi, e Valentina si alzò per salire al suo appartamento affinchè la vecchia potesse riposare. Data la buona notte, raggiunsero le loro stanze, ma non avevano voglia di dormire; erano troppo eccitati dagli avvenimenti della giornata e avevano la mente infiammata e rigurgitante di pensieri e d'imagini. Apersero la finestra e uscirono sul balcone per respirare l'aria fresca della notte. La piazza era deserta e silenziosa; la colonna col leone di San Marco e Madonna Verona e il capitello veneziano s'ergevano in mezzo all'ombra come fantasmi. La luna presso al tramonto mandava una luce diafana e pallida, rischiarando un angolo della piazza. Nessun essere vivente rompeva quel silenzio solenne. La città vetusta era immersa in un sonno tranquillo. Valentina e Lodovico godevano quella tranquillità, riposavano da una giornata piena di avvenimenti e respiravano con voluttà l'aria fresca che pioveva come una carezza sulla loro faccia infocata. Parlavano del solito argomento di quella giornata memorabile e della tomba che dovevano erigere alle vittime della tragedia passata. Essi decisero per una semplice arca di marmo che racchiudesse tutti e due gli scheletri e sopra scolpire semplicemente il verso: _Amor condusse noi ad una morte_, senza nome e senz'altra indicazione. Forse avrebbe colpito l'imaginazione di qualche anima innamorata e sarebbero venuti a visitare la tomba misteriosa come ad un pellegrinaggio o come andavano a quella di Giulietta. Poi trovavano che come le frutta della terra, l'amore in quella città doveva essere più intenso; anche a loro pareva di amarsi meglio là in quella quiete, in quella piazza addormentata, vedendo disegnarsi nell'ombra la casa dei Capuleti. Si tenevano abbracciati come se fossero nel primo giorno del matrimonio e parlavano incessantemente facendo progetti per l'avvenire. Dovevano tutti e due lavorare con tutte le loro energie per inalzarsi sopra la moltitudine, lasciare una traccia luminosa nella scienza ed essere degni l'uno dell'altro. Egli avrebbe voluto coll'elettricità tramutare la faccia del mondo, e lei colla scienza sollevare l'umanità sofferente. Egli confessava che il suo per Valentina non era soltanto amore, ma ammirazione, dopo che essa era stata tanto chiaroveggente; gli pareva d'aver accanto un essere superiore e n'era orgoglioso e avrebbe voluto che tutti s'inchinassero ad adorare la sua Valentina. Erano in quello stato estatico che fa dimentichi di tutto e di tutti; furono scossi da un rintocco che partì dall'orologio della torre dei Lamberti e si sparse nel silenzio della notte come una sfida; tacquero, trattennero il fiato per contar l'ora. Uno, due, tre, quattro. I due giovani si guardarono in faccia esterrefatti. Un solo pensiero attraversò il loro cervello. Erano proprio le quattro, l'orologio dovette ribattere i rintocchi perchè ne fossero persuasi. Già da due ore l'ora fatale era passata e Lodovico per la prima volta non aveva avuto la crisi del male. Non trovarono la voce per esprimere il loro pensiero, tanta era la commozione che provavano nell'anima; ma si gettarono nelle braccia l'uno dell'altro colle lagrime agli occhi. La malattia era vinta inaspettatamente, la sorpresa era stata troppo imprevista e la gioia tanto grande che quasi la sua intensità diventava una sofferenza. Quando potè parlare, Lodovico chiese a Valentina: —E sarà vinta per sempre? Tu che sai tutto, dimmi che cosa succede dentro di me. —Quello che speravo, che la scienza mi suggeriva, ma, sai bene, in tutte le cose recondite che avvengono nel nostro organismo c'è la parte misteriosa, imprevista, e perciò non è così certo l'esito come quello dei vostri calcoli matematici. Una piccola parte del tuo cervello era piena della tragedia degli avi, e ad una cert'ora quell'imagine prendeva il sopravvento, e scoppiava come una bomba al contatto colla miccia infocata; oggi tutto il tuo cervello è stato riempito da quelle imagini, ed è avvenuto l'equilibrio; un masso compatto schiaccia, diviso in piccoli frammenti riesce leggero; ora non c'è alcuna ragione per cui il tuo male si rinnovi; è svelato il mistero e più non esiste. —È vero,—così deve essere,—rispose Lodovico,—mi sento mutato, mi pare che una vita nuova incominci per me; è strano, non mi sento stanco, non ho voglia di dormire, i pensieri lieti mi riscaldano il cervello. Valentina, restiamo qui per vedere spuntare l'alba d'un giorno che segnerà un'era nuova nella mia vita. La giovane medichessa, sorpresa del suo trionfo, che non s'aspettava, chinò il capo in segno di assentimento, e rispose: —Sì, restiamo pure, le ore felici bisogna viverle e non obliarle nel sonno. VIBRAZIONI IGNOTE. I. Il dottor Guido Sormani diede un'occhiata all'orologio e fece il gesto d'alzarsi. La signora Carlotta Ivaldi gli pose la mano sul braccio e gli disse con uno sguardo supplichevole: —Non mi lasci, dottore, non mi abbandoni con questa inquietudine nell'anima, mi conceda tutto il tempo di cui può disporre, l'accetterò come un dono. —Devo vedere un ammalato,—disse il dottore,—aspetterò, resterò ancora per farle piacere; ma creda a me, la sua inquietudine è irragionevole. —Se sapesse come soffro, non direbbe così e non chiamerebbe fantasticherie le mie sofferenze! È una cosa morbosa, ma sento le sventure come il barometro sente l'avvicinarsi della bufera. —Questa inquietudine che ci tormenta è il male del nostro secolo,—soggiunse il dottore,—il progresso della scienza ha fatto diminuire e sparire molti mali, ma la natura si è vendicata col rendere i nervi sensibili in modo che il nostro cervello ne crea d'immaginarii che ci fanno soffrire più di quelli reali. —Se sapesse quello che è accaduto nella mia vita, non direbbe così,—rispose la signora Ivaldi,—ma mi conosce da poco tempo e non può capire quello che avviene nel mio cervello. —La conosco abbastanza per comprendere che appartiene alla schiera fin troppo numerosa delle persone sulle quali l'imaginazione ha il sopravvento e che sono infelici più per quello che pensano, che per quello che realmente soffrono; credo che verrà un giorno in cui noi medici dovremo guarire più colla suggestione che coi farmachi, e chi saprà meglio persuadere, sarà il medico migliore. —Senta, dottore,—disse la signora Ivaldi,—credo piuttosto che col tempo si scopriranno nuovi fenomeni che sono ancora avvolti nel mistero, e si avrà la spiegazione di certe sofferenze sconosciute. Avrebbe mai imaginato che si potesse comunicare da un capo all'altro del mondo col mezzo delle onde eteree, vale a dire con una cosa invisibile quasi fantastica, come avviene col telegrafo Marconi? Ebbene, io credo che due esseri che si amano ed hanno nel loro organismo un senso raffinato e simpatico, siano uniti sempre da una specie di corrente elettrica e possano comunicare fra loro; e se ad uno accade qualche avvenimento straordinario, l'altro ne senta anche ad una grande distanza il contraccolpo. —È una teoria che non è ancora provata,—disse il dottore sorridendo,—e sa bene che la scienza non si contenta di chiacchiere ma chiede prove e riprove. —E la telepatia come la chiama?—disse la signora. —Non è ancora passata dal campo della superstizione a quello positivo della scienza. Vi sono delle coincidenze sulle quali la credulità umana vorrebbe stabilire fatti assoluti, ma non resistono ad una seconda prova; la credo una donna troppo superiore per prestar fede a presentimenti che nella maggior parte dei casi si mostrano fallaci. La signora Carlotta scosse il capo incredula e disse: —Le sue parole non possono togliermi la terribile ansietà che dilania l'anima mia; e mi domando per quale ingiustizia io debba essere diversa dagli altri e soffrire prima di sapere la sventura che mi ha colpito; perchè sono sicura, è avvenuto qualche cosa di terribile a mio marito; lo sento, e questo dubbio mi tormenta. —È possibile che sia tanto ostinata da non concepire che la sua imaginazione le fa un brutto scherzo?—esclamò il dottore,—vedrà che a suo marito non è accaduto nulla di male, ritornerà sano e salvo, e sarà la prima a ridere d'essersi tanto crucciata inutilmente. —Se fosse vero! ne sarei contenta anche per l'avvenire; in ogni modo, io la ringrazio delle sue parole, ma non valgono a farmi tranquilla, vede; l'altro giorno, quando Giorgio è partito allegro sulla sua nuova automobile, bella lucida, che colla tinta rossa fiammante risaltava fra il verde degli alberi, e l'ho veduto correre come il baleno, laggiù lungo la riva del lago e dileguarsi in distanza fra un nembo di polvere, non ho provato nessuna inquietudine, non l'ebbi ieri e nemmeno questa mattina; tutto ad un tratto ho sentito come una vibrazione dentro di me, qualche cosa d'indefinito come un colpo al cuore, mi parve d'udire un grido, e da quel momento non vivo più. —Eh via!—disse il dottore,—avrà letto nel suo giornale il racconto di qualche accidente automobilistico e n'è rimasta impressionata. —Ne leggo tutti i giorni e non mi commuovono; creda, dottore, non sono una donna d'imaginazione; io sento le sventure reali, e queste mi fanno soffrire. Voglio appunto raccontarle quello che mi è accaduto, e si persuaderà che la mia inquietudine è ragionevole; è una storia dolorosa, ma il ricordo del passato mi farà forse distrarre dal dolore presente. Stettero in silenzio qualche minuto, essa col capo chino, pensando, egli guardando il lago che si stendeva davanti ai suoi sguardi, leggermente increspato, e le colline dirimpetto che si coprivano d'ombra, mentre il sole tramontava fra un'aureola color d'oro. Dietro di loro, il villino sorrideva agli ultimi raggi del sole, e alcune nuvole bianche vagavano pel cielo come vele vagabonde; il dottore pensava che forse quelle nuvole si sarebbero moltiplicate e avrebbero offuscato il sole primaverile, e la signora Carlotta evocava un paesaggio lontano in riva al mare dove avea trascorso la giovinezza, e il suo cuore avea imparato ad amare, e per qualche momento, colla mente tutta intenta ai ricordi passati, dimenticava l'angoscia presente. II. Il dottore aspettava ansioso, punto dalla curiosità di conoscere qualche cosa della vita passata della signora Ivaldi. Quella signora, venuta da poco tempo ad abitare il villino delle rose, lo interessava; la conosceva poco, ma la trovava diversa dalle altre, e indovinava, nella vita di lei, qualche cosa di occulto e di misterioso da risvegliare in lui il desiderio di conoscerla più intimamente. Era stato accolto dai nuovi proprietarii del villino delle rose, più come amico che come medico. Del signor Ivaldi sapeva che aveva fatto fortuna in paesi lontani, e aveva acquistato quel villino per godervi un po' di pace e di riposo. La conversazione della signora Carlotta gli riusciva piacevolissima, e passare con lei qualche ora del pomeriggio, seduto sul terrazzo che dominava il lago, andava diventando per lui una delle consuetudini più gradite. —È una storia molto dolorosa la mia,—disse la signora Ivaldi,—se mi promette di ascoltarla senza annoiarsi troppo, gioverà forse a calmare il mio spirito molto turbato in questo momento. —Tutto m'interessa quello che la riguarda, racconti pure,—disse il dottore. La signora chinò la fronte e si coperse gli occhi colla mano come per concentrare le idee e incominciò: —Avevo vent'anni e la mia anima era piena di poesia e di fede nell'avvenire. Mio padre morì giovane e rimasi con mia madre quasi povera. Si viveva a stento d'una piccola pensione in una piccola casa posta presso alla riviera di Rapallo. La mamma si lagnava della sua triste sorte e di non potermi offrire una esistenza più agiata e più ridente. A me invece pareva d'esser ricca, la balda giovinezza mi gorgogliava nelle vene e avevo davanti a me il mare immenso che mi dava una specie d'ebbrezza e mi parlava un linguaggio che mi era famigliare e di cui io sola conoscevo il senso recondito. Mi pareva la voce d'un amico. Io ero una solitaria, una specie di selvaggia, e più che colle persone mi sentivo legata colle cose che mi circondavano. Uno dei miei più grandi godimenti era sull'ora del tramonto passeggiare in riva al mare ed ascoltare la voce delle onde che pareva mi recasse notizie di paesi lontani e sconosciuti, oppure guardare in alto le nuvole che spaziavano sul cielo infinito. Era uno spettacolo che si rinnovava ogni giorno e pel quale provavo un'attrazione invincibile. La spiaggia era spesso popolata, i monelli giocavano colla sabbia e coi sassi, i marinai e i pescatori fumavano la pipa discorrendo e guardando il cielo, facendo pronostici sul tempo, le donne formavano gruppi chiacchierando, io lasciavo dietro di me la parte popolata e seguendo la curva dove il mare forma un'insenatura, andavo verso Santa Margherita dove la spiaggia era più solitaria e il verde delle piante la rendeva più fresca e più ombrosa. Credevo esser sola a fuggire la gente, ma m'accorsi di un giovane che, come me, cercava la solitudine e contemplava il mare infinito. Non lo conoscevo e non potevo distinguerlo a quella luce crepuscolare, ma quasi involontariamente ci si trovava accanto e ci si sentiva attratti l'uno verso l'altro da una forza misteriosa. Non era uno dei soliti romanzi d'amore, ma una forza fatale irresistibile che avevamo nel nostro organismo e dominava i nostri movimenti; era come se una nota identica si ripercuotesse nel nostro cervello, come se ci unisse una corrente elettrica, una cosa invisibile ed impalpabile, che sfuggiva ai nostri sensi, al punto che sentimmo l'effetto di questa attrazione senza esserci nè veduti nè parlati. Non avevamo bisogno di parlare: i nostri pensieri si comunicavano direttamente e sentivamo le vibrazioni delle nostre anime. Un giorno, non so per qual ragione, ci scambiammo qualche parola, ma quasi inconsapevolmente, come se non fosse cosa nuova e ci fossimo sempre parlati. Seppi che anche a lui era morto il padre, aveva dovuto interrompere gli studi e viveva colla madre modestamente e quasi una vita di stenti; la rassomiglianza della nostra sorte, ci unì maggiormente e si divenne amici. Era un nuovo godimento per me ritrovarlo tutte le sere presso la spiaggia al posto consueto; si facevano lunghe passeggiate senza parlare, ci si sentiva vicini, legati dal filo invisibile che univa i nostri pensieri e non si chiedeva di più. Quando penso alla voluttà di quei lunghi silenzii pieni di gioia, più deliziosi di ogni conversazione, mi par di aver vissuto una vita anteriore assai diversa da quella in cui viviamo. Le nostre passeggiate continuarono in silenzio per qualche mese, ma era troppo grande la nostra felicità, non poteva durare; noi non ci curavamo di nessuno, invece la gente oziosa che stava sulla riva del mare si occupava di noi e incominciò a mormorare dei nostri ritrovi innocenti, e quelle chiacchiere giunsero all'orecchio della mamma, che mi proibì di avvicinarmi a Federico; era il nome del mio giovane amico. Sarei morta piuttosto che rinunciare alle mie passeggiate sulla spiaggia e sentiva di odiare quelle stupide persone dalle lingue venefiche che s'immischiavano nei fatti miei; per ubbidire alla mamma, tentai di sfuggire il mio amico e cambiar direzione alla passeggiata, ma il potere d'attrazione che avevamo in noi, era più forte, e ci si trovava vicini involontariamente. Senza parlarmi, egli indovinò tutto, e dopo un lungo silenzio mi prese la mano e mi disse: —È inutile rattristarci, perchè non ci sposiamo? È vero, non ci avevamo pensato; infatti, se fossimo stati sposi o semplicemente fidanzati, la gente non avrebbe trovato più a ridire e non v'era bisogno d'interrompere le nostre passeggiate. Quell'idea illuminò la nostra mente come un raggio di sole, ma ecco che la realtà della vita venne a guastare la nostra gioia. Per il momento non potevamo pensare al matrimonio; eravamo troppo giovani e troppo poveri, bisognava aspettare. Meno male che, essendo fidanzati, potevamo continuare a vederci. Non avevamo nulla cambiato al nostro sistema di vita, soltanto che qualche volta il pensiero del nostro avvenire ci rendeva loquaci. Erano discorsi strani i nostri, si trovava che il mondo era troppo stupido e l'uomo un essere incompleto; eravamo di primavera e l'aria era piena di fruscii d'ali, e gli alberi di nidi. Invidiavamo gli uccelli che fabbricavano la casa con poche pagliuzze, si nutrivano con pochi semi raccolti sui prati e la natura li provvedeva di vesti meravigliose, sottili e variopinte, li trovavamo assai più fortunati degli uomini che coi loro molteplici bisogni si rendono amara la vita. Ecco perchè gli uccelli erano creature allegre, cantavano sempre, volavano in mezzo ai fiori e trovavano la loro tavola imbandita dove rideva la primavera. Qualche volta ci si sognava di volare lontano da questo mondo pieno di esigenze, e andar lassù fra gli astri dove forse la vita sarebbe stata più facile e meno complicata. Ma non avevamo le ali come gli uccelli e bisognava occuparsi del nostro avvenire. Federico era pieno di speranza; voleva lavorare alacremente, fare delle economie per prepararsi il nido come gli uccelli che ci rallegravano tanto. Aveva trovato un impiego in una fabbrica di macchine, e gli pareva d'essere sulla via della fortuna. Ma passavano le settimane e i mesi e restava sempre a quel posto con una paga meschina e vedeva dileguarsi i sogni che aveva fatti. A me bastava vederlo tutte le sere e aspettavo pazientemente, egli invece non era contento, voleva correre e non avanzare a passi di lumaca; era impaziente di riuscire. Una sera, prima ancora che parlasse, avevo indovinato il suo pensiero, e tremavo che me lo comunicasse. Cercavo di distrarlo facendogli osservare l'effetto della luna che sorgeva dal mare e le onde che mandavano sul lido sprazzi lucenti, ma egli voleva dirmi quello che gli pesava sul cuore, era inevitabile. Disse che bisognava armarsi di coraggio e dividerci per qualche tempo se si voleva poi unirci per sempre. In Italia non v'era nulla da fare; avrebbe sciupate le sue energie in sforzi inutili, sarebbe riuscito a guadagnare a mala pena abbastanza per vivere da solo; suo fratello, partito per l'America in cerca di fortuna, era sulla via di trovarla, aveva molte imprese ben avviate e lo invitava a raggiungerlo e ad associarsi ai suoi affari. Questa proposta giungeva in buon punto: era deciso ad accettare, certo di poter in pochi anni guadagnare tanto da offrirmi una fortuna e vivere sempre con me. Mi sentivo un gruppo alla gola e non potevo rispondere. Egli mi teneva stretta per mano senza dir nulla, ma indovinavo l'ansietà del suo cuore. Era un silenzio pieno di dolore e lo ruppi per dirgli: —È giusto, non voglio essere d'ostacolo alla tua fortuna. Parti pure. —Staremo divisi soltanto qualche anno,—disse.—Che importa? noi saremo sempre uniti col pensiero, nemmeno la distanza riuscirà ad affievolirlo. Sapessi come lavorerò con coraggio, pensando che ogni giorno mi avvicinerà a te, diventerò avaro per accumulare ricchezze e farti felice. —No,—diss'io,—mi basta una piccola casa; la mia ricchezza sarà esser vicino a te, ti supplico solo di ritornare presto. Quando la partenza fu decisa, non mi pareva di viver più, pensando al giorno in cui mi avrebbe lasciata; non ne parlavamo mai, ma ci pensavo sempre e sentivo che si avvicinava troppo in fretta. Una sera ebbi come un presentimento e gli dissi: —È per domani, non è vero? —No,—rispose,—non crucciarti, ci vedremo ancora. Egli mentiva, ed io lo sapevo; ma non dicevo nulla; però quella sera non potevo staccarmi da lui e tutto mi serviva di pretesto per indugiare. Ci sono momenti che si vorrebbero eterni, eppure passano con una precisione inesorabile. Non l'ho più riveduto; aveva mentito per risparmiarmi lo strazio dell'ultimo saluto. Fu un vero schianto per il mio povero cuore; ma sentivo che una parte di me era sempre in comunicazione con lui, quella parte che vibrava nel nostro organismo come congiunta da un filo invisibile; era come se lo vedessi e lo seguivo nel lungo viaggio attraverso il mare, poi lo vedevo slanciarsi nella vita operosa, lavoratore instancabile, impaziente di riuscire. Mi scriveva spesso, ma le sue lettere non mi recavano nulla ch'io non indovinassi, solo mi assicuravano del suo amore costante. Continuavo ad andare la sera come al solito in riva al mare e imaginavo che l'onda che lambiva la riva, mi recasse il suo saluto e lo vedevo sulla riva d'un mare lontano pensando a me, poi seguivo il volo degli uccelli, il cammino delle nubi, avrei voluto anch'io volare, andar a trovarlo. I giorni passavano lenti nell'aspettativa ed egli intanto lavorava alacremente, non spendeva nulla e aveva già fatto qualche risparmio, ma egli voleva guadagnare ancora, e si mostrava incontentabile, avrebbe potuto partire, ma la febbre del lavoro lo invadeva, voleva offrirmi la ricchezza e s'indugiava ancora in quei paesi lontani per conquistarla. Io non ne potevo più. Non sapevo come passare il tempo; nelle mie passeggiate solitarie osservavo che le leggi che governavano gli uomini, erano molto ingiuste. Perchè nella società alla quale appartenevo, la donna doveva pesare sull'uomo e non le era concesso aiutarlo nella sua opera e guadagnare con lui il pane pei figliuoli? Forse, se io avessi avuto una professione, non ci sarebbe stato bisogno di separarci, e tutti e due si avrebbe potuto contribuire al benessere della famiglia. Era tornata la primavera ed osservavo le coppie di uccelli che facevano assieme il nido, portando ognuno nel becco la propria pagliuzza, e poi il padre e la madre recavano entrambi ai figli il grano che doveva nutrirli. Perchè nella società, la donna doveva esser da meno dell'uomo e restar neghittosa quando egli lavorava per tutti? Concludevo che il mondo era piantato male. Mi ribellavo alla mia vita inutile ed inoperosa e invidiavo le operaie che col loro lavoro aiutavano i mariti e il benessere della famiglia; alle volte mi veniva una voglia pazza di andar in qualche opificio a chiedere lavoro. Ne parlai un giorno ad un'operaia, ma la mia idea non la persuase. —Che cosa vuol fare lei colle sue piccole mani?—mi disse.—Faccia la signorina che è molto meglio, tanto non la prenderebbero alla fabbrica. Un'altra mi guardò come s'io volessi rubarle il pane; non c'era verso ch'io potessi occuparmi in qualche cosa di utile, e nell'ozio il tempo trascorreva lento e anche il mio carattere si mutava perchè divenivo tutti i giorni più irascibile e più nervosa. Era venuta l'estate, e una volta, all'ombra di alcune piante, vidi schiere di fanciulle sedute; col tombolo sulle ginocchia, facevano andare colle loro agili mani un mucchio di fuselli e formavano bellissime trine. Mi soffermai a guardarle e mi venne voglia d'imitarle; esse erano sotto la direzione d'una maestra ed erano pagate secondo la loro abilità; pregai la maestra di prendermi nella schiera delle lavoratrici, desiderando imparare quell'arte gentile. Essa acconsentì a patto che lavorassi un anno senza retribuzione in cambio dell'insegnamento che mi avrebbe dato. Io accettai perchè avevo bisogno di occuparmi, e speravo che un giorno il mio lavoro sarebbe utile almeno come adornamento della mia casa. Nei primi tempi ero avvilita; le fanciulle di dodici anni lavoravano meglio di me e con maggior sollecitudine; esse facevano andare i fuselli allegramente chiacchierando, come se le loro mani fossero macchine, io dovevo prestarvi tutta la mia attenzione e il lavoro non mi riusciva perfetto. Passati i primi tempi acquistai una certa destrezza di mano, e riuscii a combinare disegni fini e difficili. Copiai trine antiche e preziose, tanto che se non fossi stata legata alla mia maestra, avrei potuto venderle con profitto; intanto quell'occupazione mi riusciva piacevole, mi calmava i nervi, e il tempo sempre lento per il mio desiderio, mi era meno noioso. Il tempo passava e aspettavo, sicura che Federico sarebbe ritornato. Erano passati dieci anni quando incominciò a parlare di ritornare a Rapallo col fratello. Ormai erano ricchi, le loro imprese bene avviate potevano lasciarle ad un socio che le continuasse, ed essi contavano di ritornare in patria a godere il meritato riposo. Mancavano pochi mesi alla loro partenza, e quel fatto mi pareva una felicità, così grande come raramente è concesso provare su questa terra. Mano mano che si avvicinava quel tempo tanto desiderato, egli scriveva più spesso; le sue lettere parlavano del prossimo ritorno ed erano gioconde, come inni di gioia. Io mi struggevo nell'ansia dell'attesa e contavo i giorni che mancavano al suo ritorno. Mi pareva che in quel tempo i nostri pensieri s'incontrassero con maggior forza, ed erano così lieti, come se sul loro lungo cammino sprigionassero delle scintille. Fu un periodo d'orgasmo e di gioia intensa, e sentivo nel mio essere l'energia di cento vite. Una notte mi svegliai di soprassalto e mi parve che il mondo fosse precipitato in un abisso, tanto fu grande lo schianto che provai in tutta la mia persona. Ebbi una visione d'orrore e nel mio cuore si ripercosse un grido straziante. Mi alzai come una disperata e mi misi a gridare piangendo: è morto, è morto, Federico è morto! Lo vedevo davanti agli occhi insanguinato e morente, e fuggivo sperando togliermi alla vista di quello spettacolo raccapricciante. La mamma si svegliò a quei gridi e mi credette impazzita. Mi volea persuadere che il mio era un brutto sogno, ch'io era in preda ad allucinazione, ma non ci fu verso che riuscisse a calmarmi. —È accaduto una cosa grave,—gridavo fra le lagrime,—voglio sapere, voglio partire! Sembravo pazza, la mia povera mamma non sapeva come calmarmi; temeva sul serio ch'io avessi smarrita la ragione. Alla mattina mandai un telegramma chiedendo notizie. Mi rispose suo fratello Giorgio queste precise parole: «Morto vittima d'un accidente ferroviario». La signora Ivaldi, a questo punto del suo racconto, si sentì come un gruppo alla gola, ripensando l'angoscia passata; e dopo aver dato un sospirone per liberarsi dal peso che l'opprimeva, disse al dottore: —Che le pare? Non ho ragione d'essere inquieta? —Credo ad una fatale coincidenza,—disse il dottore,—vedrà che questa volta non è accaduto nulla. —Pur troppo lo sento, è accaduto qualche disgrazia,—disse la signora Carlotta. —Ma mi spieghi, ora che ha destata la mia curiosità,—disse il dottore, anche per distoglierla dal pensiero che l'opprimeva,—e come è avvenuto il suo matrimonio? —È presto detto,—soggiunse la signora Ivaldi.—Vittima dell'accidente ferroviario, Federico è vissuto qualche ora fra gli spasimi atroci, mutilato in un modo orribile. Giorgio, il fratello, corse ad assisterlo e raccolse le sue ultime volontà. Egli morì col mio nome sulle labbra, mi lasciò erede della sostanza che avea guadagnata per me, e pregò il fratello che mi proteggesse e facesse in modo ch'io almeno fossi felice. Giorgio ritornò poco tempo dopo; quando ci vedemmo si ebbe l'impressione d'esserci sempre conosciuti. Federico gli avea continuamente parlato di me, egli poi rassomigliava tanto al fratello, specialmente nella voce, che qualche volta avevo l'illusione che non fosse avvenuto il fatto orribile e ch'egli mi fosse ancora accanto. I nostri affari che avevamo in comune, ci riunivano spesso, ero rimasta sola al mondo, chiese la mia mano e accettai. Me ne trovai contenta; a lui devo questi anni di tranquillità e di pace, egli è ora tutto per me, mi trovo unita a lui come ero con Federico, non allo stesso grado, ma abbastanza per sentire che è vittima d'un accidente. —Non mi persuade, cara signora,—disse il dottore,—è la sua imaginazione che è ammalata, e perchè pensa all'altra coincidenza; vedrà, suo marito ritornerà sano e salvo, e questa volta ne uscirà guarita per sempre. —Fosse vero,—disse la signora Ivaldi.—Ma intanto chi mi toglie a questa inquietudine? —Ci metta un po' di forza di volontà. Tanto ora non può far nulla, ed io sono proprio costretto a lasciarla per vedere il mio ammalato; procuri d'esser ragionevole, si calmi, le prometto di ritornare domani mattina e vedrà che mi darà ragione. —Ne sarei lieta davvero! Ma intanto mi sgomenta la notte di ansie che ho a me davanti, dottore; mi scriva una ricetta, un forte sonnifero, oppio, morfina, tutto quello che vuole, ma qualche cosa che mi faccia dormire e mi tolga a questa inquietudine. Il dottore per contentarla le scrisse una pozione calmante e uscì compiangendo quella povera signora che secondo lui era seriamente ammalata di nervi. III. Quando i passi del dottor Sormani si furono dileguati in lontananza e la signora Ivaldi rimase sola, nel silenzio della notte, la sua inquietudine le parve ancor più insopportabile. L'oscurità era discesa sul lago e lo riempiva di ombre paurose; solo lontano lontano qualche lumicino scintillava nelle case e nelle ville, e la signora Carlotta pensava a quegli abitanti che vegliavano, come lei, ma che certo non avevano la sua inquietudine nell'anima, e ne provava un senso d'invidia. Come le parea triste in quel momento la sua villa ridente che aveva ordinata con tanto amore e nella quale avea passati giorni pieni di pace e serenità! La malinconia che avea nell'anima si trasfondeva in ogni cosa che la circondava e il mondo le pareva avvolto in un manto funereo. Un avvenimento doloroso era certo accaduto a turbare la sua pace; nessuno potea toglierle il dubbio fatale. Qualche momento pensava al marito come se non dovesse più rivederlo e ripensava ai sette anni trascorsi con lui, forse i migliori della sua esistenza. Il suo non era stato l'amore giovane entusiasta che avea provato per Federico, ma un sentimento calmo, che si era fatto sempre più forte colla convivenza fino al punto che le pareva impossibile poter vivere senza il marito, divenuto il solo scopo della sua vita. Meno idealista del fratello, ma di spirito superiore e di carattere più positivo, Giorgio Ivaldi le avea sempre parlato il linguaggio della ragione e cercato di infonderle la sua filosofia. Le diceva continuamente che non si doveva attaccarsi troppo alle cose del mondo, il quale non è che una piccola palla slanciata nello spazio immenso; ch'era inutile preoccuparsi degli avvenimenti che ci avvolgono fatalmente nelle loro spire; bisognava cercare di crearsi un ambiente simpatico, poter avere qualche godimento e accettare con rassegnazione le sofferenze inevitabili, e non crearsene d'imaginarie; avea voluto comperare la villa delle rose per aver un asilo tranquillo, dove probabilmente sarebbero invecchiati tutti e due uno accanto all'altro e sarebbero morti guardando il lago sereni e tranquilli d'aver compiuto il loro pellegrinaggio su questa terra. Era più vecchio, e certo se ne sarebbe andato prima di lei ad aspettarla nell'altro mondo. I morti sono pazienti; hanno davanti a sè l'eternità, e i vivi, o prima o poi, vanno a raggiungerli, ed è inutile che si disperino o affrettino la loro fine: ecco quello che le ripeteva continuamente. Quando pensava al marito non potea darsi pace come un uomo tanto tranquillo e ragionevole, si fosse preso d'una passione ardente per l'automobile. Questo sport moderno e pericoloso era la sua sola preoccupazione. Egli possedeva le automobili più belle, più perfette e più veloci; si teneva al corrente di ogni progresso, e, esperto nella meccanica, cercava di apportarvi qualche nuovo miglioramento. Era in continua corrispondenza cogli automobilisti più esperti, prendeva parte a tutte le corse più audaci e metteva in questo esercizio tutta l'energia che avea portato nelle sue imprese commerciali e che l'aveano condotto alla ricchezza. Forse egli non era nato per il riposo e si sentiva attratto ad un divertimento per cui il moto è una condizione necessaria. Essa avea tentato di seguire il marito nelle corse vertiginose, ma non provava nessun piacere nel divorare lo spazio e passare come una meteora per borghi e città; anzi il suo organismo ne soffriva ed era sempre ritornata a casa stanca e ammalata, tanto che avea finito col rinunciarvi e lasciar solo il marito, dispiacente di non averla compagna anche nelle sue corse. Però in quella notte d'ansietà essa fece il voto di accompagnarlo sempre, se fosse ritornato salvo; qualunque disagio avrebbe sopportato volentieri, piuttosto d'una inquietudine così terribile. Il giardino che contornava la villa, scendeva in un dolce pendìo sulla strada costeggiante il lago; per ben dieci volte la signora Ivaldi discese e risalì quel declivio, sperando calmare col movimento l'agitazione del suo spirito, ma invano; pareva che tutto facesse aumentare il suo orgasmo. A momenti pareva pazza; nella sua voglia di agire le venivano al cervello delle idee strane; avrebbe voluto far allestire una delle automobili che aveva nella rimessa e correre all'impazzata per raggiungerlo, ma dove? a Milano? a Torino? a Firenze? E intanto non sarebbe venuta a casa qualche notizia? Era meglio aspettare. Guardò l'ora; non era ancora mezzanotte; pensò al tempo che mancava prima dell'alba ed ebbe il sentimento dell'eternità. Eppure fino al mattino non avrebbe potuto far nulla per sapere; era una cosa terribile per la sua impazienza. Provò ad andare nella sua camera sperando di calmare i nervi nel fare i movimenti abituali; tentò di svestirsi lentamente, mettendo in ogni atto un tempo infinito per far passar l'ora; di tratto in tratto andava sulla terrazza che s'apriva davanti alla sua camera, e guardava il cielo tutto sparso di stelle, quasi implorando che quelle stelle che vedevano il mondo dall'alto, le mandassero qualche messaggio. Poi si coricò come di consueto, ma chiamò invano il sonno sulle sue palpebre stanche. Si rammentò il sonnifero scrittole dal dottore. Era una forte dose di trional; la prese d'un fiato, ma il sonno tanto desiderato si fece aspettare. Soltanto verso l'alba parve assopirsi, ma fu peggio; ebbe come un incubo, le pareva di vedere una schiera d'automobili d'ogni forma e colore scendere da un'alta montagna l'una dietro l'altra in una corsa vertiginosa; quelle dietro cozzavano impetuosamente con quelle che precedevano, nella fretta di correre non si vedevano più fino che ad un certo punto precipitarono tutte; alcune caddero nell'abisso profondo sbattendo nei macigni, altre rimasero sospese, aggrappate al monte come grappoli di ferrei congegni e le parve che una più pesante di tutte si staccasse dal masso, le fosse sopra e la schiacciasse togliendole il fiato. Dovette fare uno sforzo sovrumano per togliersi a quel peso, si guardò intorno cogli occhi imbambolati, e nel rivedere ai tenui bagliori dell'alba la propria camera e gli oggetti famigliari, si rammentò la sua inquietudine e l'orribile visione le parve come un triste presagio. Si alzò e aperse la finestra. La frescura del mattino le scese quale un refrigerio sulla fronte ardente; poi, dopo tanta tensione di nervi, ebbe quasi un momento di sollievo pensando che il giorno che spuntava l'avrebbe tolta alla sua terribile incertezza. Se era ancora turbata dall'orribile sogno, il sole che saliva lentamente sull'orizzonte e dileguava i vapori dell'alba, le pareva di buon augurio, ed il suo cuore rinasceva alla speranza. IV. La signora Ivaldi pensò che alle undici dovevano arrivare i giornali i quali avrebbero certo parlato della corsa automobilistica; intanto non si sentiva di aspettare inoperosa che il tempo passasse e mandò un telegramma al comitato promotore della corsa chiedendo notizie di Giorgio Ivaldi, con preghiera di rispondere subito al villino delle rose, presso Intra. Poi ricominciò a girare su e giù per il giardino, aspettando; una nuova ansietà s'impadroniva del suo essere; temeva di sapere e aver la notizia d'una disgrazia avvenuta, e nello stesso tempo voleva uscire da quell'incertezza. Guardava ogni tanto lungo la via per vedere se scopriva qualche cosa d'insolito; quasi senza volere uscì dal cancello e s'avviò verso l'approdo dei piroscafi; vide in distanza un punto nero e il cuore cominciò a palpitarle fortemente, quando s'accorse che quella cosa nera era un automobile; ma la macchina passò via rapidamente rumoreggiando fra un nuvolo di polvere, non potè conoscere le persone incappucciate che stavano dentro, ma non era suo marito, perchè passarono davanti al villino delle rose senza fermarsi; ogni punto nero che vedeva sulla strada maestra credeva che fosse un messaggio, e quando incontrò il fattorino telegrafico che le mise in mano un dispaccio, non volea credere che fosse diretto a lei, e quasi paralizzata e tremante, stette qualche secondo prima d'aprirlo. Portava la firma del marito e diceva queste precise parole: «Sfuggito miracolosamente a grave pericolo, leggermente ferito, ritorno in giornata; aspettami a casa.» Diede un sospirone di sollievo; era vivo, ritornava, e ciò le bastava. È vero che diceva d'essere ferito, ma se aveva potuto mettersi in viaggio, la ferita non dovea esser certo grave; dopo tante ore d'inquietudine si sentiva quasi contenta, però si confermava nell'idea d'aver una fibra sensibile nel suo organismo, che l'avvertiva di quello che accadeva alle persone lontane che aveano un senso in corrispondenza con lei, ed era impaziente di vedere il dottore incredulo per mostrargli come fosse stata ragionevole la sua inquietudine. Venne infatti come le avea promesso, ed essa gli mostrò il telegramma tutta trionfante. —Aveva ragione,—disse,—era successo qualche cosa, fortunatamente nulla di grave, si capisce. È un fatto che mi fa pensare; questa vibrazione che da un cervello corrisponde in distanza con un altro, come col telegrafo Marconi, è uno studio che voglio fare e forse mi aiuterà nella mia carriera. Intanto mi inchino alla sua superiorità. —Non ci tengo, anzi, chiedo la guarigione; il mio è un male terribile; basterebbero a provarlo le sofferenze della notte passata. —In ogni modo è una sensibilità raffinata di cui può andare orgogliosa, forse è un senso che tutti possediamo in embrione e colla civiltà e il progresso si educherà e diverrà più forte; ci si avvia, cara signora, ad essere degli strumenti elettrici; non so se sarà un bene o un male. —Un male, un male,—disse la signora Ivaldi,—è certo che le nostre sofferenze saranno moltiplicate, io ne so qualche cosa. —Ebbene, che cosa importa,—soggiunse il dottore,—se l'umanità potrà averne vantaggio? —Ed io sarò stata fra le prime? —Sì, fra gli eletti, come i profeti e i veggenti dell'antichità; anch'essi avevano qualche cosa di più raffinato, che forse avrà dato loro delle sofferenze ma di cui dovevano andare orgogliosi. —Senta, dottore,—rispose la signora Ivaldi,—quand'è così, la cosa dovrebbe essere più completa; questa vibrazione dovrebbe esser perfetta in modo da poter corrispondere come col telegrafo; io soffrivo perchè avevo la sensazione vaga che qualche accidente era avvenuto a mio marito e non sapevo quale; ora lo so e sono tranquilla. —Le ripeto,—disse il dottore,—bisognerà educar bene questo senso in modo che due persone che si amano possano corrispondere concentrando il pensiero e rendendolo più intenso, trasmetterlo a distanza; siamo nel secolo dei miracoli e ci arriveremo. La signora Ivaldi pregò il dottore di tenerle compagnia e far colazione con lei per aspettare l'arrivo del marito, che avrebbe avuto bisogno subito delle sue cure. Egli acconsentì e tutti e due si sedettero nel pomeriggio sul terrazzo aspettando. Sarebbe arrivato in carrozza, sul piroscafo, in automobile? Non sapevano, e guardavano il lago e la strada maestra passando il tempo chiacchierando di tutte le cose ignote, di tutti i misteri che sarebbero un giorno venuti alla luce. Una carrozza intanto salì lentamente il pendìo che conduceva alla villa e interruppero il discorso per incontrarla. Era il signor Giorgio Ivaldi che arrivava, ferito più di quello che la signora avesse creduto. Avea un braccio fratturato e stretto in un apparecchio; la testa contusa e bendata. —Giorgio!—esclamò la signora Carlotta, abbracciandolo colle lagrime agli occhi. —Calmati, non è nulla,—disse il signor Ivaldi, e volle fare uno sforzo e scendere dalla carrozza senza aiuto. Volea camminare, ma il dottore lo consigliò di mettersi a letto, dopo la fatica del viaggio e il colpo ricevuto. La signora Carlotta lo interrogava e gli diceva: —Lo sapevo prima del tuo dispaccio, sai; l'ho sentito, è stato ieri alle dieci: è tutta un'eterna giornata che soffro. Ma come è avvenuto? —Come avviene sempre in simili casi; si va avanti eccitati dalla corsa, non si vede la strada, è una vertigine, tutto andava a gonfie vele, ero sul punto di vincere, la mia macchina è andata contro un albero, si è sfasciata, quasi soffocandomi sotto il suo peso e slanciando lontano il macchinista. —È morto?—chiese la signora Carlotta. —No, è rimasto all'ospedale in cattivo stato, peggio di me, ma mi assicurano che guarirà bene; io ho preferito venire per non farti rimanere inquieta. —Hai fatto bene, ho sofferto tanto che avevo bisogno di vederti, ma io spero ti sarà passata la manìa automobilistica. —Tutt'altro! Sono impaziente di guarire per ricominciare; soltanto ti prometto d'essere più prudente la prossima volta, poi voglio una macchina più perfetta; ho già nella mia testa un congegno che avviserà quando si avvicina ad un ostacolo; mi farò dare il brevetto. —Ricordati però,—disse la signora Carlotta,—che non ti lascerò più andar solo; meglio sfracellarsi in un precipizio, che soffrire le torture di ieri; preferisco esser con te al momento del pericolo e non sentirlo a distanza. —Tanto meglio,—disse il signor Ivaldi,—fra un mese il mio braccio sarà guarito, la mia macchina sarà perfetta e avremo acquistata una nuova socia nel club degli automobilisti. —Senza contare,—disse il dottore,—che io avrò studiato un nuovo caso di telepatia che farà forse progredire la scienza e mi aprirà le porte dell'Università. —Allora se n'andrà lontano?—chiese la signora Carlotta. —Forse, ma spero che mi accoglieranno sempre come ospite al villino delle rose. —E diventerà nostro compagno di automobilismo,—disse il signor Ivaldi. —Tanto più,—soggiunse la signora Carlotta,—che con questo sport moderno, c'è spesso bisogno del medico. L'ANIMA DEL MONDO. I. Il cancello di casa Arlandi s'aperse con impeto e un carro carico di pietre, di colore e forme diverse, entrò con fracasso nell'ampio cortile. Una donna di mezza età, alta, dalle forme opulente, con una veste da camera color melanzana, comparve sulla porta della casa e, vedendo il carro, disse con modo dispettoso agli uomini che l'avevano guidato: —Chi vi manda? È certo un errore; noi non abbiamo ordinato nulla. —Scusi, signora Savina,—disse il conduttore del carro levandosi rispettosamente il cappello,—è un carico che viene dalla Germania ed è diretto al professor Ugo Arlandi. —Infatti mio figlio mi annuncia una spedizione d'un minerale prezioso per le sue indagini scientifiche,—disse un signore piccolo, tarchiato, coi baffi brizzolati, che udite le ultime parole era uscito nel cortile. —E dove dobbiamo mettere tutta quella roba?—chiese la signora Savina. —Naturalmente nella stanza accanto al laboratorio, come scrive nella sua lettera,—soggiunse il signor Carlo Arlandi. —Ma sai che è pazzo davvero quel tuo figliuolo!... tutto quel peso lassù, ti pare? cadrà la vôlta. —Via, non c'è pericolo, la casa ha solide fondamenta; ma tu che fai, Mario?—disse rivolto ad un ragazzo di undici anni, che era entrato improvvisamente nel cortile e si era impadronito d'un mucchio di quelle belle pietre variopinte e si preparava ad adoperarle per i suoi giuochi. —Faccio un castello per divertirmi,—disse il ragazzo,—vedi? uno scoglio alto alto, e poi, su, una torre ancora più alta. —Lascia quella roba che non è per te,—gli disse il padre dandogli uno scappellotto. —Poverino, ha più ragione di Ugo che compra delle pietre per nulla; almeno Mario si diverte. —Non deve toccare la roba degli altri,—soggiunse impazientito il signor Carlo. Quella scena coniugale sarebbe certo terminata in litigio, se in quel punto non fosse entrata dal cancello una donna ancor giovane, d'aspetto simpatico, colla faccia illuminata da un sorriso buono, tenendo una lettera aperta in mano. —Sapete,—disse,—Ugo arriva questa sera, mi raccomanda il suo minerale, ha dovuto raccoglierlo con gran fatica e pagarlo caro. —Bene spesi quei denari,—disse la signora Savina. —Pare sulla via d'una grande scoperta,—soggiunse la signorina, continuando il suo discorso. —Ecco un'altra allucinata,—borbottò Savina rivolta al marito,—tutti e due della medesima razza. La giovane finse di non udire quelle parole e, vedendo Mario che continuava a trastullarsi colle pietre, si rivolse all'Arlandi e gli disse: —Ma, Carlo, perchè permetti a tuo figlio di sciupare quel minerale? Sai bene a che alto scopo deve servire, e poi ha molto valore, lo ha scritto Ugo. Il signor Carlo andò tosto verso il figlio, lo prese per un braccio, e: —Via,—gli disse colla voce irritata,—va' a giuocare in giardino, ubbidisci, hai capito? Il fanciullo si mise a strillare come se l'avessero bastonato, e la signora Savina lo condusse fuori del cortile, dando un'occhiata feroce al marito e alla signorina Giulia, che, come sorella della prima moglie dell'Arlandi, era venuta ad intromettersi nelle loro faccende domestiche. Giulia crollò il capo in atto compassionevole e disse al cognato: —Quanto ti compiango! e come devi soffrire nell'assistere al dissidio che continua sempre fra tua moglie e il figlio della mia povera sorella; eppure Ugo è così buono, intelligente e fa onore alla nostra famiglia. —Tu hai un debole per quel figliuolo,—disse il signor Carlo,—e vai all'esagerazione; non nego che sia studioso, ma finora ha lavorato come un bue, si è sciupato la salute, ha speso una quantità di denaro, e non ha dato nessun risultato. Mia moglie non ha tutto il torto, è un po' provinciale e certe cose non riesce a comprenderle, ma non mi pare che Ugo sia del tutto equilibrato. —Voi non capite nulla nè l'uno nè l'altra,—disse Giulia.—Sapete che cosa devo dirvi? Che sono sola a comprendere quel figliuolo, e invidio quel suo amore alla scienza, quella sua costanza nel desiderio di riuscire, che se lo lascerete in pace gli apporterà gloria, quattrini e vi farà onore. —E se non riuscisse a far nulla?—disse il signor Arlandi. —Non è possibile, ogni fatica deve avere la sua ricompensa; in ogni caso non fa male a nessuno, mia sorella lo ha lasciato ricco e può spendere il suo denaro come gli piace; preferireste che lo spendesse al giuoco o in gozzoviglie? No certo; dunque dà retta a me, guarda le cose come sono e non lasciarti suggestionare da tua moglie, che per lui è una vera matrigna, specialmente dopo la nascita di Mario; ma tu devi proteggerlo, difenderlo, il tuo Ugo, almeno per la memoria della povera Ada che ti ha reso tanto felice.... Via, non commuoverti, ora, cerca di far mettere a posto quel minerale; io vado a casa perchè, se Savina ritorna, non posso tacere.... Verrò questa sera quando arriva Ugo. Appena Giulia si fu allontanata, il signor Carlo diede ordini ai suoi uomini di portare il minerale nel laboratorio del figlio, che occupava tutta l'ala destra della casa, e stette assorto ripensando alla sua vita passata. Dovea confessare a sè stesso che i più begli anni erano stati quelli che avea vissuto colla prima moglie. In quel momento, mentre collo sguardo seguiva gli uomini che salivano le scale carichi di minerale, egli ripensava a quei tempi, che gli sembravano tanto lontani ed erano passati per sempre. Egli rivedeva la sua dolce Ada, più mite e timida della sorella, colla faccia da madonnina, che quando la rievocava colla mente ancora gli si inumidivano gli occhi, rivedeva Giulia ch'era allora una bimba e gli riempiva la casa di allegre risate, e si divertiva a far giuocare il piccolo Ugo, minore di lei di pochi anni, che come un raggio luminoso era venuto a rallegrargli l'esistenza. Giulia era orgogliosa d'essere la zia di quel bimbo roseo e paffuto, dagli occhietti vispi e intelligenti. Essa abitava, col padre, il villino Giulia, diviso dalla casa grande, villa Ada, soltanto da un filare di ippocastani, ma ai tempi del suo primo matrimonio formavano quasi una sola famiglia ed erano sempre uniti ed in adorazione del bimbo. Quel tempo felice era durato dieci anni. Poi vennero i giorni tristi. Ada fu colta da una malattia che i medici non riuscirono a diagnosticare, ed egli ebbe lo strazio di vederla deperire tutti i giorni, finchè reclinò il capo stanco sulle sue spalle, come un povero fiore avvizzito, ed esalò l'ultimo respiro senza ch'egli potesse fare nulla per tenerla in vita. Poi passò un lungo tempo accasciato, colla mente senza pensieri, vivendo quasi in un sogno, facendosi forza per amore del suo Ugo, poi anche il suocero si ammalò e Giulia, per dedicarsi al padre, lo lasciò nell'isolamento. Ne approfittò la signora Savina che abitava in paese ed era irritata di veder passare gli anni senza trovar marito. Incominciò a frequentare la casa dell'Arlandi, ad esser prodiga di parole di conforto per lui, di premure e carezze per il bambino, e a poco a poco cercò di rendersi utile, quasi necessaria, con modi graziosi, insinuanti, come sapeva fare quando volea raggiungere uno scopo prefisso, ed egli quasi senza accorgersene s'era lasciato soggiogare da quella donna, al punto che, persuaso di non poter vivere nell'isolamento tutta la vita, che in casa era necessaria una persona che s'occupasse delle faccende domestiche e badasse al bambino, si decise a sposarla. S'accorse subito dello sbaglio fatto quando, divenuta signora e padrona, Savina si mostrò sotto il vero aspetto di donna imperiosa e senza cuore. Incominciò subito a tormentare con rimproveri ingiustificati il povero Ugo, al punto che l'Arlandi per aver pace fu costretto a metterlo in collegio. Terminati gli studî, il figlio ritornò a casa timido, modesto, tutto dedito alla scienza; ma la matrigna, che intanto aveva avuto un figlio, Mario, e non vedeva che per i suoi occhi, divenne per lui più acre e più ingiusta, il che dava origine continuamente a nuove questioni e la quiete era scomparsa dalla sua casa. A questo pensava il signor Carlo, egli che tutto avrebbe sagrificato per amore della pace e adorava Ugo che gli rammentava la sua dolce Ada, e desiderava rivederlo dopo la sua assenza; ma nello stesso tempo temeva che l'arrivo del figlio fosse causa di nuovi litigi ed inquietudini. Aveva in animo di proteggerlo e difenderlo dall'ingiustizia della moglie, si proponeva di uscire dalla sua apatia e far sentire la sua voce autorevole, ma quando vedeva davanti a sè Savina, coll'aspetto altero e la faccia arcigna, non osava più dir nulla, oppure parlava timidamente, a bassa voce, nel timore di esacerbarla, come uno scolaretto che teme le ire del professore. E in quel momento, quando dopo aver ricondotto Mario, la vide davanti a sè, ritta, colla faccia accesa e lo sguardo tagliente come una lama, non seppe dirle nulla e guardò verso la strada bianca fuori dal cancello come assorto ad osservare gli uomini che avevano portato il minerale e s'avviavano verso la stazione. Fu la signora Savina che incominciò a parlare, e: —Povero bambino,—disse,—se non ci fossi io a proteggerlo, lo faresti morire di noia.... Nemmeno giuocare gli si permette alla sua età. —Non c'è bisogno di toccare quello che non gli appartiene, può ben giuocare coi suoi giuocattoli; ne ha tanti! —Dio mio! Quanto chiasso per un po' di sassi. —Ma sono di valore; poi Ugo gli ha comprati per i suoi studî ed ha diritto di ritrovarli, quando arriva. —Ben spesi quei denari,—mormorò la signora. —Meglio spenderli per la scienza che in gozzoviglie,—disse il signor Carlo, ripetendo una frase della cognata. —Per conto mio, preferirei che spendesse il suo denaro per divertirsi; sarebbero cose più adatte alla sua età, invece quelle sono pazzie, e finirà per recare lo scompiglio nella nostra casa tranquilla. Perchè non l'hai lasciato andar ad abitare dalla zia Giulia? —Perchè un figlio deve stare col padre, e poi questa è casa sua. —È vero; lui è ricco e noi finiremo nella miseria, quando gli avrai lasciato sprecare la fortuna colle sue meravigliose invenzioni. —Basta!—disse l'Arlandi un po' irritato,—non voglio che tu dica male di Ugo, hai capito? Pensa piuttosto a fargli mettere in ordine le stanze e a dire a Vincenzo di andar questa sera alla stazione a mettersi agli ordini del suo padrone. Savina non fiatò più; non era abituata a veder il marito assumere quell'aria di comando e rimase sorpresa, e pensava di star zitta per poi ritornare alla carica in un momento più opportuno. Le dava anche noia doversi privare dei servigi di Vincenzo, che Ugo avea scelto come assistente e nello stesso tempo come suo domestico particolare, avendolo trovato un ragazzo intelligente che s'interessava alle sue scoperte e lo aiutava con amore. Essa però si mostrò premurosa di dar ordini, affinchè Ugo trovasse al suo arrivo ogni cosa al suo posto, e per rabbonire il marito disse: —Infine Ugo non dà noia a nessuno; basta che non si lasci montare il capo da quella pazza di sua zia; non sai che si è fitta in mente di dividere le rendite delle sue terre coi contadini che le coltivano e, dopo qualche anno, lasciargliele in proprietà? —Sono idee socialiste, ma delle sue terre può fare quello che vuole; sono cose che non mi riguardano. —Ma, è l'esempio per i nostri? —Lascia fare,—disse il signor Arlandi,—non occupiamoci degli affari altrui, pensiamo piuttosto a ricevere degnamente il nostro Ugo; mi raccomando che il laboratorio sia in ordine, perchè è impaziente di riprendere i suoi esperimenti. Sì dicendo, entrò in casa non volendo continuare un discorso che lo turbava; e la signora Savina lo seguì collo sguardo, crollando il capo e cantarellando a bassa voce. —Sono una razza di squilibrati, di pazzi! Basta, speriamo che Mario abbia giudizio per tutti e che finisca per esser lui il padrone. II. Il villino di Giulia era allegro, civettuolo, tutto inghirlandato di rose e circondato da un giardino non molto grande, ma pieno di ombra e di fiori. Giulia, dopo la morte del padre, rimasta assoluta padrona di quella villa, ne avea fatto oggetto di tutte le sue cure, e si compiaceva di renderla sempre più comoda e bella. L'idea dell'arrivo del nipote la rendeva irrequieta e girava su e giù pel giardino, cogliendo fiori che poi collocava nei vasi di cristallo lunghi e stretti secondo il nuovo stile; ora entrava portando i vasi pieni di fiori, ora usciva per coglierne di nuovi, ora si fermava pensosa a guardare la strada. L'aspettazione le dava un eccitamento piacevole che le impediva di star ferma e di dedicarsi alle consuete occupazioni. Le piaceva occuparsi continuamente per non pensare al passato pieno di tristi ricordi. —Il mio passato è un cimitero,—soleva dire,—non vedo che tombe. Infatti, ancora bambina, aveva perduta la madre, poi Ada, la sorella diletta che ne avea fatto le veci, poi il padre e il fidanzato, un giovane capitano caduto sul campo d'Adua. Questo fu pel suo cuore un colpo tanto crudele, da non poter più darsene pace, in modo che rifiutò tutti i partiti che le si presentarono. Di carattere fermo e risoluto, voleva serbare la fede e l'amore al di là della tomba e decise di combattere sola le battaglie della vita. Non si era lasciata abbattere dalla sventura e pensò di popolare la sua solitudine di opere buone e di crearsi una tal quantità di occupazioni per non lasciare tempo ai tristi pensieri di prendere il sopravvento. Erede di una metà dei vasti possedimenti del padre, aveva alla sua dipendenza una quantità di coloni e si era proposta di adoperare il suo ingegno e le sue ricchezze per renderli contenti. Studiava il modo migliore di aiutarli, adoperava le sue rendite a fabbricare per loro case sane e pulite, non badava a spese per migliorare le terre, affinchè potessero dare un raccolto copioso, visitava i casolari, prodiga di denaro e consigli salutari, soccorreva gli ammalati, spronava allo studio e al lavoro i neghittosi, e già studiava il modo di rialzare le sorti dei lavoratori dei campi, togliendoli dalla loro miseria per avviarli ad un migliore avvenire. Questo era uno dei suoi ideali: l'altro era quello di proteggere il nipote che amava come un figlio e riguardava come un retaggio lasciatole dalla sorella. Era attratta ad amarlo anche dalla propria inclinazione, ne condivideva le idee, prendeva interesse ai di lui studî e si sentiva della stessa stirpe. Avea qualche anno più del nipote, ma appariva più giovine in grazia della vivacità del suo spirito e della sveltezza dei movimenti, ed Ugo invece, per la vita dedicata allo studio, col volto serio e pensoso, sembrava più vecchio di quello che fosse realmente. In ogni modo era per Giulia come un compagno della stessa età e un amico col quale si può discorrere liberamente a cuore aperto; le pareva impossibile che un bimbo, che aveva veduto giocherellare per la campagna, si fosse mutato in breve tempo in un giovane serio, simpatico, che si andava acquistando un bel posto fra gli uomini dedicati alla scienza. Essa lo avrebbe voluto sempre al villino, ma egli non voleva abbandonare il padre, nè villa Ada, dove si era fatto il suo laboratorio e dove aveva i ricordi d'infanzia. Però, quando sentiva il bisogno d'un po' d'affetto e di simpatia, correva al villino Giulia, nella casa allegra e piena di sole, dove si sentiva come riscaldato da un affetto sincero e dove il sorriso della zia lo incoraggiava alle confidenze e lo agguerriva per le battaglie della vita; ed egli le apriva l'animo suo, le narrava le sue speranze e le sue aspirazioni; ed essa stava in ammirazione ad ascoltarlo e si riprometteva di aiutarlo, se avesse trovato degli ostacoli a impedirgli di percorrere il suo cammino luminoso. Pensando alle ore che le avrebbe dedicate, vere oasi della sua vita solitaria, cercava di render gaio il salottino arredato semplicemente con mobili di stile moderno, dalle linee corrette, severe e non tormentate da curve bizzarre. Erano di tinta verde‑chiaro, in gruppi di sedili e tavolini disposti sapientemente che invitavano al raccoglimento e alle intime conversazioni, e sui tavolini e sulle mensole erano disposti artisticamente vasi con bellissimi fiori, libri legati, giornali, riviste, e in un angolo una cesta piena di lavori femminili. Si compiaceva quando Ugo le lodava la disposizione dei mobili e, sdraiandosi sulle poltrone comode e soffici, diceva: —Come si sta bene in questa pace! Come si riposa in questa casa amica e ospitale! Essa pensava che, dopo tanti mesi di assenza, Ugo ritornava finalmente e sarebbe stata ancora orgogliosa di sentire ripetere quelle parole. Nella sua impazienza, le ore quel giorno le sembravano eterne; avea tentato di prendere in mano un lavoro, ma non poteva far nulla; prese un libro, ma il suo pensiero andava lontano, in uno scompartimento ferroviario che s'avanzava a tutto vapore verso la campagna lombarda; ogni tanto guardava l'orologio e contava le ore e i minuti che mancavano all'arrivo del treno. Per passare il tempo, si fece portare il pranzo, e così passò una mezz'ora; poi andò a ravviarsi i capelli e ad aggiungere qualche fronzolo al suo semplice vestito di lana; e finalmente si coperse le spalle con una mantellina e si avviò verso villa Ada, il palazzo, come lo chiamavano i contadini, perchè era grande, maestoso, formato da un corpo centrale e due ali ai lati che sporgevano come due braccia verso il cancello che chiudeva l'ampio cortile, un vero casolare di campagna; e lo chiamavano così, per distinguerlo dal villino elegante di Giulia. Quando la fanciulla fu davanti al cancello, la carrozza di casa Arlandi usciva per andare alla stazione; essa s'arrestò incerta se dovesse andare incontro al nipote, poi pensò che la signora Savina forse ci avrebbe trovato da ridire ed entrò in casa. Una lampada pendeva dalla vôlta e illuminava la tavola, in una vasta sala piena di ombre. Intorno alla tavola, il signor Carlo leggeva un giornale, Mario con una matita in mano riempiva di geroglifici un volume illustrato. La signora Savina, con una cesta da lavoro accanto, con tanto d'occhiali sul naso, accomodava una giacchetta del figlio. Da brava donna di casa, aveva in mano continuamente un lavoro utile, che quasi sempre faceva terminare dalla cameriera. Quando entrò Giulia, alzò gli occhi dal lavoro, e disse: —Brava, in tempo per accogliere il figliuol prodigo. Quella sera voleva essere amabile, ma si capiva che faceva uno sforzo. —Buona sera, Carlo,—disse Giulia al cognato,—pare che quel giornale sia molto interessante. —Leggo per passare il tempo, quantunque non vi sia nulla di nuovo: ma presto Ugo dovrebbe esser qui,—disse guardando l'orologio,—basta che non ci sia qualche ritardo. —Con queste ferrovie non si è mai sicuri,—disse sentenziando la signora Savina. Giulia fremeva nel veder Mario che continuava a riempire di sgorbi il volume illustrato, ma non osava dir nulla per non interrompere la pace che sembrava regnare in quel momento in casa Arlandi. Fu il signor Carlo che, data un'occhiata al figliuolo, gli disse: —Ma che cosa fai, piccolo vandalo? Perchè sciupi quel volume? Puoi ben prendere un pezzo di carta per i tuoi disegni. —Questo, sai, diverte di più, ci sono le figure e fingo d'averle fatte io. —Zitti,—disse Giulia,—una carrozza, è lui certo. Il signor Carlo fece per alzarsi, ma la signora Savina non lo lasciò uscire dalla stanza dicendo che avrebbe potuto prender freddo. Intanto la carrozza s'era fermata e in un minuto Ugo era fra le braccia del padre. Era un giovane alto, pallido, snello, colla fronte alta e il volto serio, illuminato da due occhi pensosi. Quando vide Giulia, le andò incontro colle braccia aperte e la faccia sorridente, poi stese la mano a Savina, che fu molto amabile, come non si sarebbe aspettato. Volle che mangiasse qualche cosa di caldo per ristorarsi e gli fece un caffè forte come piaceva a lui. Mario gli chiese se poteva regalargli qualcuno di quei sassi belli e lucenti arrivati la mattina, ma Ugo invece aperse la sacca da viaggio, tolse un automobile che montando una molla correva per la stanza con una velocità vertiginosa, lo regalò a Mario e per un momento formò la consolazione di quel bimbo irrequieto. Ugo s'informò appunto del suo minerale, se era stato messo a posto bene, poi raccontò i suoi viaggi, i suoi studî e parlò d'una scoperta che avrebbe portato la rivoluzione nel mondo. È vero che molti scienziati francesi se ne occupavano, ma sperava di arrivare prima di tutti e perciò calcolava di mettersi subito al lavoro. Raccontò d'esser andato sotterra nelle miniere, d'aver visitato grotte profonde e inesplorate, la sua gioia quando poteva trovare un minerale sconosciuto e i tentativi per andare negli abissi più profondi, là dove egli credeva dover esservi l'anima del mondo. —Perchè non possiamo vivere nelle profondità della terra?—diceva,—perchè vi è una temperatura che ci soffoca ed opprime? Affermava che il mondo era come un organismo che si mutava e trasformava continuamente, tanto nell'interno come sulla superficie. Egli avea sentito delle vibrazioni partire dagli abissi profondi e propagarsi per la terra come fremiti ignoti; anche sotterra c'era vita e movimento, le tenebre venivano interrotte da fosforescenze abbaglianti e nel centro della terra c'era non solo il fuoco che squarcia le viscere dei vulcani, ma numerose scintille sparse nei minerali ch'egli volea decomporre e ridurre agli elementi primitivi; avrebbe scoperto quantità infinitesime di nuovi elementi sfuggiti alle masse che dovevano trovarsi nel centro del mondo ed esserne la vita e il calore. —I popoli primitivi—disse—popolarono di tesori, guardati da esseri fantastici, le grotte e le caverne; noi vi troviamo altre ragioni di vita che forse getteranno nuova luce su fatti che ci sembrano avvolti nel mistero e, invece di gnomi e genietti fantastici, troveremo altri tesori più veri e reali. —Ah, bello!—interruppe Mario che era già annoiato dell'automobile,—pare un racconto di fate! —Vedete come è intelligente?—disse la signora Savina, contenta d'interrompere il discorso eloquente di Ugo che l'annoiava. Quelle parole furono come una doccia pel giovane scienziato, che ammutolì un momento, poi disse, cambiando tono: —Vi ho forse annoiato, ma quando mi lascio andare ai miei discorsi preferiti non ho misura; continuerò un'altra volta, ora sono stanco ed ho bisogno di riposo. —Ed io me ne vado,—disse Giulia alzandosi e avviandosi verso l'uscio. —Ti accompagno, ho bisogno di prendere una boccata d'aria,—disse Ugo,—poi ritorno e me ne vado a letto. Di fuori la notte era calma, e la luna nuova risplendeva nella vôlta cupa del cielo. Giulia ed Ugo si fermarono sulla soglia a contemplare la campagna silenziosa. —Che bella pace!—disse Ugo. —Raccontami ancora, svelami i segreti della natura, tu che hai studiato e sai tante cose,—disse la fanciulla supplicando. —No, ora non posso più, domani, un altro giorno; non profaniamo questo silenzio che ci avvolge come in una carezza e calma il nostro spirito. E silenziosi s'avviarono lungo il viale d'ippocastani, sentendosi uniti in quella notte calma e stellata come da un fluido di simpatia e come se gli stessi pensieri irrompessero nel loro cervello. Sostarono davanti al villino. —Vieni domani a colazione?—chiese Giulia. —A colazione no, non posso,—rispose il professore,—devo mettere in ordine il laboratorio, verrò la sera;... è sempre allegro il villino? Non hai mutato nulla nel salotto? —È sempre uguale. —Sono contento, mi fa piacere rivedere le cose famigliari al loro posto, come le ho lasciate e come le penso quando sono lontano. Buona notte, Giulia,—e sì dicendo le porse la mano. —E perchè non mi chiami zia?—gli chiese la signorina. —Non mi par giusto, abbiamo quasi la stessa età, penso a te come ad una sorella, e mi pare che tu sia sola a comprendermi.... Il babbo è tanto mutato. —Quella donna lo ha stregato, è una vipera. —È stata molto gentile con me, forse non è cattiva, ma non è la mia mamma e mi dispiace vederla a quel posto. Sarà colpa mia se non so farmi amare. —Sei troppo buono,—disse Giulia entrando in casa, e salutandolo,—a domani. Ugo rifece la strada contento al pensiero di poter nella quiete della campagna e della casa dove era nato ricominciare le sue esperienze scientifiche, sapendo di avere là accanto una dolce amica, una confidente, nella sorella della madre. —Ecco,—pensava, guardando la grande casa che si avvicinava come una massa nera in mezzo alle piante;—là il lavoro e qui al villino il riposo. E per un istante ebbe l'illusione di esser felice. III. Il laboratorio di Ugo Arlandi occupava all'ultimo piano un'ala della casa. Era una stanza chiara, spaziosa, illuminata da quattro grandi finestre che s'aprivano sull'aperta campagna e formavano quasi una parete trasparente, luminosa. Accanto alla parete di fronte alla porta d'ingresso, c'era un forno con un'immensa caldaia, poi una tavola sulla quale stavano sempre accatastate vaschette, ampolle di tutte le forme e dimensioni, tazze quadrate, cannelli di vetro, filtri e bilance di precisione. In un armadio chiuso c'erano schierate, in buon ordine, boccette con liquidi di colori diversi ed etichette sulle quali stava scritto la qualità del contenuto; intorno alle pareti scansie a varii palchi, con altri arnesi d'ogni forma e dimensione, di vetro, maiolica e metallo. Presso l'altra parete fornelli a gas, becchi bunsen, un acquaio con rubinetti pei lavaggi; accanto, una camera oscura per sviluppare fotografie e un ripostiglio destinato a contenere il materiale occorrente per le esperienze e tutto quello che sarebbe stato d'ingombro nel laboratorio. I primi giorni dopo il suo ritorno, il prof. Ugo dovette occuparsi di porre in ordine quella massa di oggetti disparati e assieme con Vincenzo fu infaticabile nel sistemare ogni cosa coll'entusiasmo di chi si prepara ad un lavoro interessante. Ed avea fretta di mettersi all'opera; quando si trovava nel suo laboratorio, gli oggetti famigliari gli davano la suggestione del lavoro ed era impaziente di potervisi dedicare senza interromperlo. Si compiaceva di toccare i diversi minerali che s'era procurato con grande fatica e faceva osservare a Vincenzo l'azzurro delicato della celestina, il grigio striato d'argento della pecblenda, il color grigio opaco del solfuro d'arancio, e godeva pensando che quelle pietre variopinte contenevano sostanze sconosciute ch'egli si riprometteva di liberare dalla loro prigione e far uscire agli onori del mondo in tutta la loro purezza primitiva. Vincenzo era figlio di contadini, ma d'ingegno pronto e svegliato; nelle scuole elementari era stato sempre il primo della classe e avea riportato un grande amore allo studio, e fu contento quando Ugo gli propose di servirlo ed aiutarlo nelle sue esperienze scientifiche. Egli in poco tempo si era tanto immedesimato nelle idee del suo padrone che lo aiutava con intelligenza ed amore, e parlava come un piccolo scienziato al punto che non si sarebbe più acconciato al lavoro dei campi! —Sono tanto contento che sia ritornato,—egli diceva,—mi piace imparar cose nuove; poi, quando è lontano, la signora Savina mi fa lavorare come un cane a lavare e ripulire la casa; mi tocca giuocare con Mario che è cattivo e mi batte quando non faccio a suo modo; dovrebbe condurmi con sè, quando va in viaggio, sarei tanto contento! —Sono viaggi pericolosi, in paesi selvaggi; poi dentro nelle caverne dove si muore di caldo, non è un divertimento. —Dove va il mio padrone, posso andare anch'io e sopportare quello ch'egli sopporta,—disse il ragazzo. L'affetto e la devozione di quell'essere semplice era un grande conforto per Ugo, e lo riguardava più un compagno che un domestico, e tutti e due, collo stesso entusiasmo, si adoperavano a metter tutto a posto per poter subito iniziare il lavoro. Dopo le giornate operose era un vero sollievo per Ugo, passare la sera al villino di Giulia e confidare alla zia i suoi pensieri e le sue aspirazioni. A lei narrava le occupazioni della giornata, come aveva riordinato il materiale e come avrebbe incominciato ad esaminarlo; quei primi giorni s'era limitato a fare semplicemente dei tentativi. Egli era un idealista della scienza, intuiva le grandi scoperte future, ma era incerto sul modo d'incominciare le nuove esperienze; un po' impaziente di riuscire, immaginava risultati più rapidi di quelli che conseguiva realmente. E Giulia stava attenta ad ascoltarlo, qualche volta esprimeva il desiderio di aiutarlo, approvava le sue idee e l'incoraggiava anche nei tentativi più arditi. —Voglio trovare l'anima del mondo,—egli diceva, seduto nel salottino allegro, vicino alla sua attenta ascoltatrice.—E riuscirò, perchè la intuisco, la sento, la vedo in tutto quello che è conosciuto. —Ma dove sta nascosta? Raccontami, mi piace tanto sentirti parlare di queste cose,—diceva Giulia. —Deve essere nel centro del nostro globo, è una forza ignota, un centro di vita che palpita e fa sentire la sua influenza fino alla superficie della terra; è lei che costituisce questa rete magnetica che ci avvolge e che è una forza per chi sa valersene opportunamente, come fece il nostro grande Marconi pel suo telegrafo senza fili. È una forza potente, imprigionata da chissà quali legami.... e vedi, qualche scintilla deve essere sfuggita, ed io la cerco in quei minerali che ho raccolto e, se riuscirò a trovare una traccia, avrò avuto dalle mie fatiche un compenso insperato. Quando egli era stanco di parlare, era lei che gli confidava le sue idee filantropiche e socialiste. Voleva assolutamente trovare il modo di migliorare le condizioni dei contadini. Vedeva con terrore i ragazzi più intelligenti disertare i campi per le officine, e s'era fitta in capo d'infondere nel loro cuore l'amore alla terra, d'insegnare a coltivarla con intelligenza, in modo da ricavarne frutti copiosi, voleva istituire scuole per insegnare la coltura dei campi in modo scientifico, interessare i lavoratori lasciando loro una parte delle rendite, o compensare i migliori, regalando loro qualche pezzo di terra. Mentre i giovani s'intrattenevano piacevolmente comunicandosi reciprocamente le proprie idee e aspirazioni, a Villa Ada si occupavano invece di loro e dicevano che erano pazzi. La signora Savina, il signor Carlo e il dottore, che era spesso invitato a pranzo e oggetto di grandi premure da parte della padrona di casa, non parlavano d'altro che dei discorsi che si sarebbero fatti al villino di Giulia. La signora Savina aveva un vero odio pel figlio di suo marito, ma procurava nasconderlo sotto una certa aria compassionevole di protezione. —Non le pare, dottore, che quel figliuolo sia un po' squilibrato?—chiedeva la signora Arlandi.—Se una persona qualunque, che non pretendesse di essere un genio, dicesse che vuol trovare l'anima del mondo, che cosa direbbe? —Veramente dubiterei che avesse il cervello a posto,—rispondeva il dottore. —Vedi, Carlo, non sono poi sola di questa opinione,—soggiungeva la signora rivolta al marito. —Ognuno ha la propria opinione come la propria fisonomia, a questo mondo bisogna vivere e lasciar vivere; io la penso così e mi pare d'essere più giusto di voi,—diceva il padre. Alla signora invece dava noia Ugo per molte ragioni: prima perchè era ricco e studioso, come il suo Mario non sarebbe stato mai, poi perchè, quando lui era a Villa Ada, non poteva più servirsi di Vincenzo, poi le sciupava una quantità di biancheria coi suoi pasticci, e finalmente perchè si accorgeva che il marito aveva una certa predilezione pel suo primogenito, e questa cosa la irritava e faceva sì ch'essa cercasse di mettere Ugo in cattiva vista. IV. Ugo Arlandi non viveva che nel suo laboratorio, sentendosi invadere dalla febbre del lavoro. Nella grande stanza era come se ci fosse penetrato un alito di vita. Il fuoco ardeva nel forno e nei fornelli; il liquido, in ebollizione, gorgogliava nelle caldaie e nelle autoclavi. Ugo aveva fatto la scelta del minerale e gli acidi che dovevano discioglierlo e rivelargli il segreto della sua composizione. —Vedi,—diceva a Vincenzo, del quale voleva fare un allievo,—questo è acido cloridrico che verso nella caldaia assieme con questo minerale che ne uscirà trasformato e sotto altra veste. E le caldaie bollivano incessantemente, il vapore saliva nell'alto fumaiuolo e si perdeva nell'aria. Ugo e Vincenzo sfidavano il calore che usciva dalle caldaie per vedere sciogliere nel liquido il minerale prezioso. Pareva che tutto fosse distrutto, Vincenzo sbarrava gli occhi, attonito. —Ed ora che cosa si fa?—chiedeva,—non v'è più nulla, soltanto liquido. —Attenti!—rispondeva Ugo,—è inutile star a vedere, l'operazione avviene lo stesso, prepariamo qualche altro ingrediente. E si diede a lavare ampolle, preparare acidi, depurare i liquidi coi filtri, verificare il peso dei metalli che voleva adoperare, intanto che la caldaia bolliva ed un vapore umido, oltre che nel fumaiuolo, si spargeva in una nebbia leggiera nel laboratorio. —Vediamo se è avvenuto qualche cosa di nuovo,—disse Ugo avvicinandosi alla caldaia, ciò che fece pure Vincenzo, lasciando la bacinella che stava ripulendo. Il liquido era quasi tutto evaporato e il minerale si era trasformato in cristallo trasparente, lucido come pietre preziose. —Oh bella,—disse Vincenzo,—pare una magìa! Ma Ugo, che in quella materia cristallizzata riusciva a scoprire tracce luminose, si sentiva battere il sangue dalla gioia come un generale sul punto di vincere una battaglia. Doveva aspettare ancora per poi trattare quella materia cristallizzata con nuovi reagenti, per liberare quelle particelle luminose che dovevano farlo vittorioso. Preparava intanto i filtri per i lavaggi, e i tubetti di vetro per raccogliere quei residui preziosi, raccomandando sempre a Vincenzo la prudenza nel maneggiare quegli acidi che potevano riescire pericolosi. Varie sostanze aveva ottenuto dalla decomposizione di quelle pietre, alcune erano riuscite come desiderava, altre avevano formato degli ossidi e avevano bisogno d'altre operazioni. Lavoratore infaticabile, finchè nel laboratorio ci si vedeva, i fuochi erano accesi e gli utensili preparati, non interrompeva il lavoro nemmeno se si sentiva stanco. Nel suo caso, poi, era impaziente di riuscire, perchè sapeva che molti scienziati facevano i suoi medesimi esperimenti, e voleva arrivare prima degli altri. Voleva trattare i sali ricavati dal minerale in modi diversi e si fece dare da Vincenzo dei tubi di metallo pieni di gas. Come avvenne, non avrebbe potuto dirlo, ma fosse un robinetto d'un tubo che non agiva bene, o inavvertenza di Vincenzo, che s'accostò ad una fiammella per vedere se ci fosse un guasto,—egli era immerso nella sua operazione, in quel momento, un po' distratto,—il fatto sta che tutto a un tratto uno scoppio formidabile fece tremare la casa, i vetri caddero infranti e schegge di metallo infuocato e pezzi di muro si sparsero per il laboratorio. Un grido uscì dal petto di Vincenzo, che cadde a terra colla faccia sanguinosa e privo di sensi. Ugo rimase atterrito; era paralizzato dal terrore, si sentiva senza forza e senza voce per chiamar soccorso; una scheggia l'aveva ferito ad una spalla, ma non sentiva alcun dolore nell'annientamento delle sue facoltà. Inebetito e come in un sogno, vide tutti gli abitanti della casa precipitarsi nel laboratorio. La signora Savina, innanzi agli altri, gridava come un'ossessa: —Che cosa avete fatto, colle vostre caldaie del diavolo? Ve l'ho sempre detto che avreste fatto crollare la casa. Il signor Carlo, più calmo, ma pallido e tremante, aveva rialzato Vincenzo che, ferito alla faccia, non poteva aprir gli occhi, e ordinò che si chiamasse subito il dottore. Ugo pareva una statua, non poteva nè moversi, nè parlare, come se la sua volontà fosse morta per sempre. Tutti i vetri erano rotti e l'aria entrava dai grandi finestroni; in terra si vedevano frantumi di stoviglie, pezzi di muro, di metalli, macchie di liquidi versati: una vera desolazione. Quando venne il dottore, medicò la faccia di Vincenzo; per buona sorte, aveva gli occhi salvi e soltanto una scheggia gli aveva tagliato la faccia senza penetrare troppo profondamente. La signora Savina era quasi trionfante, e diceva al marito che essa aveva predetto che Ugo sarebbe la rovina della casa, e, per impedire un danno peggiore, bisognava rinchiuderlo in una casa di salute. In quel momento di orgasmo e confusione, nessuno aveva la forza di contraddirla, nè di prendere una risoluzione; solo il dottore trovava quelle parole assennate, era della medesima opinione della signora Savina, la consigliava di farlo per sfuggire a guai maggiori. —È una pazzia,—diceva,—maneggiare strumenti pericolosi senza osservare le più elementari precauzioni: poi non vedete in che stato si trova? ha bisogno di esser curato. Ugo era immobile colla faccia stravolta; quando potè articolare qualche parola, non ebbe la forza di reagire. —Avete ragione,—diceva,—voglio andar via lontano, sono pazzo. Povero Vincenzo, è molto ferito, ed io ne fui la causa; ho bisogno di una punizione, sì, conducetemi via; perchè non mi sono ferito io solo? Perchè non sono morto? E piangeva come un bambino. Mentre alcuni uomini chiamati in fretta sgombravano la stanza, abbattevano un muro pericolante e toglievano i rottami sparsi per terra, ci fu un momento di silenzio; nessuno osava prendere una risoluzione definitiva. Il signor Carlo era accasciato e anche egli come il figlio si sentiva senza volontà. Fu la signora Savina che, come un generale sul campo di battaglia, prese il bastone del comando e disse al dottore: —Vi supplico, per la nostra vecchia amicizia, di aiutarci; ho ordinato di attaccare i cavalli alla carrozza e vi prego di condur subito Ugo in una casa di salute. Mi raccomando sia trattato bene, ma una buona cura gioverà a calmare le sue aberrazioni scientifiche, poi ritornate e vedete di medicare Vincenzo. È abbastanza coraggioso, quel ragazzo, e non si lagna, quantunque la sua ferita deva farlo soffrire; spero che anche a lui sarà passata la voglia di far lo scienziato. È una lezione che farà bene a tutti; mi dispiace per mio marito che se ne sta come una mummia,—e avvicinandosi a Carlo, gli disse, scotendolo per un braccio:—Via, non ti accasciare; è una disgrazia, ma pensiamo che poteva esser peggio; è un miracolo che non sia crollata la casa e non ci abbia sepolti tutti;—poi andò verso Ugo, dicendogli:—Va', va' col dottore, la carrozza è pronta, va' a meditare sulla tua scienza e a calmare i nervi, che ne hai bisogno; ti manderò poi la tua roba. Il dottore diede il braccio al professore come ad un convalescente, lo condusse giù dalle scale e lo mise in carrozza senza ch'egli avesse avuto la forza di fare la minima opposizione; diede un indirizzo al cocchiere e via se n'andarono lungo il viale verso la stazione. Il signor Carlo si riscosse come da un sogno, e disse alla moglie: —Che cosa hai fatto? —Quello che dovevo, e ancora puoi essere contento che non l'abbia fatto mettere in prigione. —Perchè hai fatto questo? Dopo quello che è accaduto, avrebbe forse rinunciato ai suoi esperimenti. —Tu non capisci nulla; se non ci fossi io, quel figliuolo ti condurrebbe alla rovina; non l'ho sempre detto che non aveva il cervello a posto, colla fissazione di trovar l'anima del mondo? Hai visto che bel risultato? —Ma mio figlio in mezzo ai pazzi; non voglio. —Non esagerare,—disse Savina,—è in una casa di salute, dove si curano le malattie nervose; starà meglio che nel suo laboratorio pieno di pericoli. Già io avevo predetto tutto, ti ricordi? Questo discorso venne interrotto dall'arrivo dei carabinieri, che avevano sentito lo scoppio ed erano venuti ad informarsi di quello che era accaduto. La signora Arlandi spiegò ogni cosa a modo suo, e compiangeva Ugo, che, poveretto, s'era montato il capo colla sua scienza, tanto che erano stati costretti a mandarlo a curare fuori di casa. V. Il giorno che in casa Arlandi era avvenuto tutto quello scompiglio, la signorina Giulia s'era recata in città per fare delle spese. Se ne tornava appunto nell'ora del tramonto a piedi dalla stazione verso il villino, lieta delle spese, delle persone incontrate e colla speranza di aver la sera la compagnia di Ugo che le avrebbe narrato i progressi fatti in quella lunga giornata di lavoro. Camminava lungo il viale con passo affrettato, colla mente piena di pensieri lieti e osservava i contadini che tornavano dal lavoro dei campi e si fermavano in crocchio a chiacchierare in modo insolito come se parlassero di qualche avvenimento importante. —Che è accaduto?—chiese fermandosi davanti ad un gruppo di contadine presso le prime case del villaggio. —Come! non sa nulla? —Vengo or ora dalla città. —Che disgrazia, signorina Giulia! Quel povero signor Arlandi! —Ma in nome del Cielo spiegatevi,—disse la signorina facendosi pallida come una morta.—Che è accaduto? —Uno scoppio nel laboratorio del professor Ugo. Avesse inteso, pareva una mina. Giulia si sentiva mancare, ma ebbe la forza di chiedere con un filo di voce: —Ci sono feriti? Voleva quasi fuggire nel timore di udire una risposta terribile, di provare un fiero colpo al cuore. —Pare che ci sia qualche ferito,—rispose una contadina. —Chi, il professore? —No, quel ragazzo che lo aiutava, il signor Ugo è partito. —Come? Con chi? —Non sappiamo, ma non si sgomenti, non sarà nulla di male. Giulia non rimase ad ascoltare di più, e via di corsa andò verso casa Arlandi. Andava come una pazza, il cuore le batteva forte forte, le pareva di soffocare e temeva di non aver forza di giungere alla meta; dovette chiamare a raccolta tutta la sua energia per non cadere esausta. La grande casa era là davanti a lei silenziosa, avvolta nell'ombra; per un momento ebbe l'illusione che non fosse accaduto nulla, tanto tutto le pareva tranquillo. Soltanto da un lato vide un mucchio di macerie e nella semioscurità di quell'ora potè distinguere una finestra del laboratorio mezza smantellata. Entrò in casa come una bomba e: —Che è accaduto?—chiese a Savina che stava come al solito seduta accanto alla tavola con un lavoro in mano. —Quello che doveva accadere,—rispose con calma la signora Arlandi.—È mancato poco che rovinasse la casa e noi fossimo sepolti sotto le macerie. —E Ugo dov'è? —Egli è in un posto tranquillo e sicuro, sta bene, meglio che nel suo laboratorio. —Ma dov'è? Voglio saperlo,—ripetè la signorina con voce irritata. —Non so, chiedilo a suo padre. Giulia si rivolse al signor Carlo che entrava nella stanza con passo lento e col volto abbattuto. —Ti prego,—gli disse,—dimmi dove è Ugo. —Non lo so ancora. Ma so che sarà curato bene e mi basta. Che disgrazia,—soggiunse sospirando. —È ferito? Perchè l'avete mandato via? Ditemi in nome del Cielo qualche cosa, non vedete quanto soffro? —Vincenzo è ferito,—disse l'Arlandi,—Ugo ha perduto la testa dal colpo, l'ho mandato in un luogo dove sarà ben curato. Giulia non capiva, guardò Savina e la vide tranquilla col lavoro in mano approvando col capo quello che avea detto il marito; ebbe come una visione, comprese tutto ed esclamò: —Rinchiuso in una casa di salute! Ah, capisco, è un'infamia, e tu hai permesso questo?—disse prendendo Carlo per un braccio,—lui pazzo, con quella mente, con quel sapere? Ma chi si è prestato ad un simile delitto? Io non posso permettere. —Ti prego di non alzar la voce e di non far scene,—disse Savina,—quello che ha fatto suo padre è a fin di bene e dietro il consiglio di persone saggie, se poi tu non ti calmi, correrai il rischio di andarlo a raggiungere. —Se non riesco a liberarlo vi farò mettere in prigione. Non sapete che il sequestro di persona è punito dalle leggi? Vedrete, sarete puniti. Sì dicendo uscì senza dir più nulla. —Un'altra degna compagna di tuo figlio,—disse Savina. —E se non avesse tutti i torti?—rispose Carlo.—Abbiamo fatto le cose troppo leggermente e senza riflettere; quasi me ne pento. —Ora lasciati influenzare anche da quella ragazza emancipata, si sa, essa protegge il professore, simili con simili, se non ci fossi io in questa casa se ne vedrebbero di belle. Giulia era andata a trovare Vincenzo che era a letto colla faccia tutta fasciata. —Povero ragazzo,—gli disse,—spiegami come è avvenuto, tu che eri presente. —Quanto è buona, signorina,—rispose,—sono stato io causa di tutto; il professore mi diceva sempre di badare a maneggiare i tubi pieni di gas che erano pericolosi, non so che cosa ho fatto, sono stato distratto, imprudente, ma non mi accadrà mai più. —E come stai? —Ho un po' di bruciore sulla faccia, mi hanno dato cinque punti, ma non è nulla, mi dispiace più di tutto per il professore, chissà se mi vorrà più al suo servizio! —E dove è andato il tuo padrone? —Non so, l'ha condotto via il dottore, ed era in uno stato! Non poteva parlare, faceva compassione, povero signore, e non sa che la colpa è stata mia. —Ma tu non sei scoraggiato?—chiese Giulia,—vuoi continuare ancora ad aiutarlo? —Ora più che mai, ho imparato a mie spese ad essere prudente e sono orgoglioso della mia ferita, mi par d'essere un martire della scienza. —Bravo Vincenzo, questi sentimenti ti onorano e il tuo padrone non ti abbandonerà. Salutò il ragazzo e andò dal dottore dimenticando che il pranzo e i suoi domestici l'aspettavano al villino, ma nemmeno dal dottore potè riuscire a sapere qualche cosa di positivo. Ugo era stato condotto in una casa di salute perchè aveva bisogno di cure, ma non volle dir di più trincerandosi sotto l'egida del segreto professionale. Così Giulia se ne andò al villino affranta dalla stanchezza, amareggiata e senza voglia di mettersi a tavola. Non si sapeva dar pace di quello che era accaduto, andava colla mente escogitando mille mezzi per liberare il nipote, ma pareva che tutto congiurasse contro di lui. Doveva proprio avvenire quello scoppio, per dar buon gioco alla matrigna che avrebbe voluto veder morto il professore affinchè il suo proprio figlio fosse ricco e potesse trionfare. E quel babbuino di Carlo che si lasciava infinocchiare dalla moglie e s'era lasciato persuadere a rinchiudere quel figliuolo pieno d'ingegno, come se fosse un pazzo! Quando pensava a tutto quello che era avvenuto durante la sua breve assenza le pareva proprio d'impazzire. Voleva a tutti i costi liberare il nipote, ma come poteva fare una donna, sola, contro tanta malvagità? Si trovava impotente e si sentiva invadere dallo scoraggiamento. Quella notte non potè chiuder occhio ma il suo cervello lavorava continuamente e pensando a quello che le convenisse di fare per ottenere il suo scopo. Era decisa di riuscire; soltanto, per non perdere il tempo e l'energia in vane divagazioni, prima di tutto dovea far in modo di conoscere il luogo dove il professore era stato rinchiuso; ma come riuscire? La congiura del silenzio s'era fatta intorno a lei; nella solitudine del suo spirito si trovava impotente ad agire, ma sperava in qualche aiuto imprevisto, perchè non era possibile che una simile ingiustizia potesse trionfare. VI. Nell'impossibilità di poter adoperarsi a vantaggio del nipote ignorando il luogo dove era stato condotto, Giulia sentiva almeno il bisogno di raccontare a tutti l'atto odioso dei signori Arlandi, e girava per il paese procurando di vedere i conoscenti per parlare di ciò che le stava a cuore. Se non avesse potuto sfogare in qualche modo la sua ira, avrebbe fatto certo una malattia. Andò dal sindaco sperando aiuto, ma egli crollò il capo e non le diede retta, aveva troppo da fare e non poteva pensare agli altri. Poi si rivolse al maestro di scuola, che era una persona ragionevole e le era amico sincero, ma la consigliò di non scalmanarsi troppo e di starsene tranquilla, che le cose si sarebbero poi accomodate secondo il suo desiderio. —Vuole,—le disse,—un consiglio da amico? Non si agiti, farà peggio; hanno sparso la voce che la pazzia è un male di famiglia e se s'infiamma troppo avrà qualche dispiacere anche lei. Capiva che quell'osservazione era giusta ma non poteva rimanere inoperosa, finchè avea l'illusione di far qualche cosa, il tempo le passava, altrimenti si agitava come se avesse la febbre. Tentò di vedere il cognato e colle belle maniere fargli dire dove fosse il figlio, ma egli era muto come un pesce e per non lasciarsi sfuggire qualche parola rivelatrice, la evitava; avea troppo timore delle ire della moglie. La povera Giulia non sapeva più a che santo votarsi, in paese ormai non si occupavano che degli avvenimenti di casa Arlandi, ognuno volea dire la sua, nessuno riusciva a sapere dove fosse ricoverato il professore Ugo, e parlando della signorina Giulia, dicevano che se non poteva liberare il nipote avrebbe finito col diventar pazza anche lei. Infatti le pareva di perdere la testa nella sua impossibilità di essergli utile, ma aveva nel cuore una speranza che la sosteneva, avea fede anche nelle cose soprannaturali, diveniva superstiziosa; si faceva mandare una quantità di giornali che leggeva avidamente sperando trovare una riga che la mettesse sulle traccie del nipote; non trovò nulla di quello che desiderava, ma vi lesse una notizia che le fece battere il cuore. Si parlava della scoperta del radio, fatta dai coniugi Currie, una sostanza che emanava luce e calore senza perdere nulla del suo peso, che produceva effetti meravigliosi e sconvolgeva tutte le idee che si avevano sulle scienze chimiche e fisiche. Era appunto quello che il professor Ugo stava studiando ed era in procinto di trovare, quando venne rinchiuso barbaramente; bisognava che quel tentativo non fosse ignorato, pensò ai giornali che portavano ai quattro venti la voce del pubblico, ad Ugo che era stato troppo sconosciuto e il cui nome bisognava far noto; ebbe un'ispirazione che le parve venuta dal cielo, prese la penna e scrisse un breve articolo al giornale che aveva parlato della nuova scoperta dicendo che, a proposito degli studii sul radio, l'onore di averlo trovato sarebbe toccato ad un italiano, al professor Ugo Arlandi che si era occupato seriamente di quel genere di studî e avea scritto una monografia sulle irradiazioni nascoste, ma era scomparso alla vigilia di cogliere il frutto delle sue fatiche, nessuno sapeva più dove fosse e si temeva vittima d'un delitto. Firmò l'articolo con un pseudonimo, accluse una somma per una sottoscrizione di beneficenza patrocinata dal giornale e mandò il suo scritto alla posta. Lo slanciò così alla ventura, non avea che una lontana speranza che il giornale se ne impadronisse, suscitasse uno scandalo, provocasse un'inchiesta che potesse riuscire utile al suo scopo. In ogni modo tutto era meglio di quel marasmo. L'aver fatto qualche cosa era un po' di sollievo per il suo spirito, quando entrò la cameriera portandole una lettera un po' sciupata e senza francobollo. Guardò la calligrafia. —È di Ugo,—esclamò. Stracciò in fretta la busta nell'impazienza di leggere. Erano poche parole scritte a matita che dicevano: «È la quarta lettera che getto fuori dal recinto del giardino, alla ventura. Arriverà al suo destino? Lo spero. Tu sola puoi togliermi da questa prigione. Fa presto, altrimenti divento pazzo sul serio. TUO UGO.» Dalla casa di salute del dottor B. presso Monza. Dopo tanti giorni di ansia finalmente vedeva un raggio di sole, le pareva di avere le ali, sapeva dove Ugo si trovava ed era ormai certa di riuscire a liberarlo. Cercò di riordinare le idee e rimettere lo spirito in calma, pensò di agire sola senza dir nulla a nessuno, misteriosamente, come gli altri avevano fatto con lei. Prima di tutto doveva andare a Milano e parlare con un avvocato, suo amico, che l'aiutasse a liberare il nipote, poi non volea più permettere che Ugo lasciasse amministrare i suoi beni dal padre, dopo che era stato trattato in quel modo. L'avvocato Alberti avrebbe consigliato quello che dovevano fare. Ordinò alla cameriera di svegliarla presto il giorno dopo dovendo partire, poi si mise a girare per la stanza, lieta, cantarellando, sentendosi leggera, come da un pezzo non le era accaduto. Non disse la sua intenzione, ma la mattina dopo in paese non si parlava d'altro che della partenza della signorina Giulia Sordelli. Era stata veduta avviarsi alla stazione e salire sul treno che andava a Milano; avea salutato sorridendo i conoscenti incontrati lungo la via e s'era trattenuta qualche momento col maestro di scuola, e tutti trovavano che avea la faccia allegra e l'espressione di chi ha una meta agognata da molto tempo che è sul punto di raggiungere. VII. La notizia della partenza improvvisa di Giulia penetrò in casa Arlandi; il signor Carlo ne fu preoccupato al punto che fu tutto il giorno di cattivo umore, tenne il broncio a Savina, sgridò Mario e non volle far colazione. —Ma sai che sei un bel tipo?—gli disse la moglie.—Perchè ad una ragazza capricciosa, vien voglia di andar in città, tu subito immagini mille pericoli; avrà avuto bisogno di far delle spese. —Puoi dire quello che vuoi,—rispose l'Arlandi,—ma questa gita misteriosa mi dà noia, ho il presentimento che è andata per Ugo. —Anche se ciò fosse, noi abbiamo fatto quello che si doveva fare, non abbiamo rimorsi. —Parla per conto tuo, io invece da qualche giorno ho un rimorso che mi strazia l'anima e non sono contento di me. —Perchè sei un uomo incerto, debole e non hai il coraggio delle tue azioni, ma per tua tranquillità voglio aver informazioni esatte. Sì dicendo Savina chiamò il domestico e gli ordinò di andare al villino di Giulia e pregare Rosa, la cameriera, di venire un momento a villa Ada. —Se la sua padrona le ha ordinato di tacere non dirà nulla,—disse il signor Arlandi. —Dirà tutto, tu non conosci le donne, in ogni modo tentare non nuoce. Non parlarono più finchè non giunse la cameriera di Giulia, la quale chiese subito la ragione per cui l'avevano fatta chiamare. —Vorrei sapere,—disse Savina,—se la tua padrona ha ricevuto qualche cattiva notizia, che è partita così improvvisamente senza salutare nessuno. —Oh, tutt'altro,—rispose la cameriera,—deve aver avuto delle notizie buone, è stata tanto contenta quando ha ricevuto quella lettera. —Ha ricevuto una lettera? Forse del professore? —Può darsi; so soltanto che mi ordinò di prepararle la sacca da viaggio e disse che volea partir presto questa mattina. —Si fermerà via molto tempo? —Non lo sapeva nemmeno lei, ha detto che mi scriverà. —Va bene, se hai notizie vieni a portarcele; ho piacere che non sia per nulla di male; puoi andare. Appena la ragazza fu uscita il signor Carlo s'alzò concitato e si mise a passeggiare su e giù per la stanza. —Vedi?—disse alla moglie,—te l'ho detto, lo prevedevo, è stata chiamata ed ora ci metterà in un bell'impiccio. Ho fatto male a non far curare Ugo in casa, sono stato uno sciocco. La signora Savina tentava di calmarlo, gli diceva di andar a passeggio a prender aria che si sarebbe presa sulle sue spalle ogni responsabilità. Però per quanto facesse l'indifferente non si sentiva tranquilla nemmeno lei e aveva bisogno di parlare con qualche persona che potesse consigliarla e nello stesso tempo calmare lo spirito del marito. Invitò a pranzo il dottore per sentire la sua opinione e poi perchè sarebbe stato un diversivo; di star sola col marito così accigliato e irrequieto non si sentiva. Il dottore si mostrò tranquillo, non poteva assicurare che Ugo fosse pazzo, ma dopo lo scoppio, lo stato in cui si trovava giustificava abbastanza la loro risoluzione; aggiunse però che se venivano buone notizie dal direttore della casa di salute, non conveniva insistere a lasciarvelo rinchiuso più a lungo. —Io in casa non lo voglio,—disse la signora Savina,—è un individuo troppo pericoloso. L'Arlandi diceva che spesso a quelli che fanno esperimenti scientifici accadono simili incidenti, e continuava ad essere preoccupato della gita della cognata; nemmeno le parole del dottore riuscivano a calmarlo. Savina diceva che Giulia faceva una bella figura, mostrandosi tanto infervorata per un giovanotto e si sfogava dicendo un mondo d'improperie contro le ragazze emancipate che vogliono immischiarsi nelle cose che non le riguardano. Ormai in casa Arlandi non si parlava d'altro, quei discorsi erano una fissazione, il signor Carlo si aspettava ogni giorno qualche sorpresa spiacevole ed era inquieto; soltanto la signora Savina si mostrava tranquilla e non perdeva la sua olimpica serenità, temeva troppo di turbare la sua digestione e guastarsi la salute. VIII. Dopo esser stata per tanti giorni inquieta e avvilita, nell'animo di Giulia era subentrata la speranza e le pareva che tutto dovesse esserle favorevole. Arrivata a Milano trovò l'articolo che riguardava Ugo pubblicato sul giornale e questo le fu come di buon augurio e le infuse non solo la speranza ma la certezza della riuscita. Era come un giocatore di scacchi che avendo fatto per caso una buona mossa vede svolgere il suo gioco trionfalmente fino alla fine. Prima di tutto andò dall'avvocato Alberti, un buon amico nel quale riponeva piena fiducia, e saputo di che si trattava la rassicurò e si mise a sua disposizione. Poi mandò il giornale coll'articolo che nominava il professore, segnato con una striscia azzurra al signor Carlo, al dottore, a tutti i conoscenti e al dottor B., direttore della casa di salute. —È come un avanguardia,—disse all'avvocato,—è per prepararlo alla nostra visita. Nel pomeriggio si recarono in persona a parlare col dottor B. Era un uomo alto, serio, colla barba nera e gli occhi penetranti che pareva volessero entrare nell'anima e scoprire i più occulti pensieri. Abituato a vivere in mezzo ai pazzi e squilibrati di mente, vedeva in tutti gli uomini il germe della follìa e calcolava tutti pazzi, fino a prova contraria. Quando l'avvocato Alberti e Giulia chiesero di Ugo Arlandi dicendo che era tutt'altro che pazzo egli stentava a persuadersene. —È tranquillo, educato,—disse,—non dà noia a nessuno, anzi pare intelligente e la sua conversazione è piacevole, ma sul più bello vien fuori col voler trovare l'anima del mondo e ciò mi rende molto titubante se si deve tenerlo ancora in osservazione. Noi che siamo esperti in queste cose,—sappiamo che quando una parte del cervello è molto sviluppata, ciò è a scapito degli altri centri cerebrali che sono deficienti; vorrei mostrarvi dei veri pazzi che hanno un'idea fissa ma nel resto ragionano meglio di noi. L'avvocato Alberti gli mostrò come tutti i giornali si occupavano del professore, il quale aveva dei nemici, e disse che la zia Giulia non avrebbe lasciato nessun mezzo per liberare il nipote; se fosse stato il caso sarebbe anche ricorsa al procuratore del re e avrebbe provocata una perizia. Il dottore li assicurò che, appena avuta la convinzione che il professor Ugo fosse sano di mente, sarebbe stato il primo a non volerlo tenere più a lungo nel suo stabilimento. Non poteva però prendere una risoluzione senza scrivere al signor Carlo che gli aveva affidato il figlio, e se la risposta fosse favorevole potevano esser tranquilli che Ugo sarebbe stato libero. Giulia sperava di vedere quello stesso giorno il nipote, ma il dottore non lo permise, dicendole che l'avrebbe presto riveduto. Essa si rassegnò ad attendere ancora un paio di giorni, ma intanto non rimase inoperosa e combinò un piano di battaglia come un esperto generale! Ecco in che modo il signor Arlandi, mentre era sempre inquieto e pensieroso per la partenza di Giulia, si vide capitare prima il giornale coll'articolo che parlava del professore, poi una lettera del dottore dove diceva che gli pareva che il signor Ugo, passata la scossa nervosa del primo momento fosse abbastanza equilibrato, una lettera dell'avvocato che lo esortava a far uscire il figlio dalla casa di salute e finalmente una di Giulia, nella quale faceva intravvedere che se non lasciava parlare il suo cuore paterno, l'autorità si sarebbe intromessa nelle sue faccende domestiche. Era tanto di cattivo umore il signor Arlandi, tanto poco contento di sè stesso che quando ricevette quella pioggia di lettere si sentì lo spirito un po' più sollevato e volle fare a modo suo senza dir nulla alla moglie e senza consultarla. Scrisse al dottor B. di lasciar pure andar libero il figlio colla zia Giulia, alla quale mandò un telegramma dicendole che li aspettava presto tutti. Finalmente gli era caduta la benda dagli occhi e s'era accorto del mal'animo della moglie verso Ugo e, pentito d'averlo fatto rinchiudere ingiustamente nella casa di salute, voleva a furia di affetto fargli dimenticare quel momento di debolezza ed era impaziente di rivederlo e in un abbraccio affettuoso cancellare il passato. Ma invece di Ugo ebbe la sorpresa di veder arrivare l'avvocato Alberti per sistemare gli affari del professore, che desiderava esser padrone di adoperare la sua sostanza come meglio credeva e di fare nel suo laboratorio tutti gli esperimenti necessari senza che nessuno ci trovasse a ridire. Il signor Carlo trovò giusto il desidario del figlio e diede all'avvocato le più ampie spiegazioni sulla sua amministrazione; solo si mostrò dispiacente di lasciar la casa dove era vissuto tanti anni e che apparteneva ad Ugo il quale l'avea ereditata dalla madre, ma l'avvocato avea avuto raccomandazioni di accomodare le cose in modo che il signor Carlo non avesse il rammarico di abbandonare la casa, gli concesse di poterne abitare una parte, ma che ognuno fosse padrone in casa sua. Poi parlarono di Ugo e raccontò che si era trattenuto a Milano perchè i suoi ammiratori volevano festeggiarlo ed indurlo a fare una conferenza sopra i suoi studî. Così finirono per lasciarsi buoni amici. La signora Savina quando seppe che il marito aveva tutto combinato senza dirle nulla, rimase esterrefatta e andò su tutte le furie. Come! Ugo era libero e poteva capitare da un momento all'altro! Poi s'impadroniva della casa e non lasciava loro che un appartamento in un angolo come un'elemosina! E pensare che in cuor suo, sperando che il professore non dovesse più ritornare, avea fatto il progetto di occupare il laboratorio così ben esposto al sole, per stendervi la biancheria, poi dare lo studio a Mario e accomodarsi un appartamento più spazioso e più comodo; dichiarò al marito che non voleva vivere in una casa esposta al pericolo di un'esplosione, poi avea bisogno di spazio e non si sarebbe acconciata a ridursi in poche stanze. Il signor Carlo le disse ch'era padrona di andare dove voleva, anche nella catapecchia che abitava prima del matrimonio; in quanto a lui sarebbe rimasto vicino al figlio. Infine Ugo era il padrone ed era inutile facesse tanto chiasso. Essa non fiatò più, ma si consolò pensando che sarebbe invece andata a Milano con Mario per farlo studiare, in modo che un giorno potesse eclissare nella scienza il professor Ugo. IX. Quel giorno che Ugo si trovò libero e assieme alla zia Giulia, che riguardava come il suo angelo salvatore, camminava per le vie popolose di Milano, gli parea di rivivere; i suoi affari erano affidati bene nelle mani dell'avvocato Alberti, poteva dedicarsi interamente alla scienza, l'avvenire si presentava pieno di promesse e non s'era mai sentito tanto contento. Giulia gli dava dei consigli, bisognava cambiar sistema, dovea vivere un po' più in mezzo al mondo e farsi conoscere. Ormai era passato il tempo degli eremiti, e tutti i suoi studî non avrebbero servito a nulla se non fossero stati messi alla luce del sole, come non serve il danaro, che l'avaro tiene rinchiuso nel forziere. Essa era disposta ad aiutarlo con tutto il cuore e con tutta la sua energia, ma egli doveva lasciarsi dirigere da lei. Prima di tutto dovea mostrare di non essere uno squilibrato, e non gliene sarebbe mancata l'occasione, e poi procurare che il suo valore venisse riconosciuto dal mondo. —Dimmi quello che devo fare, io ti ubbidirò ciecamente,—diceva Ugo,—ma come posso farmi conoscere se non ho fatto ancora nulla? Forse se non fossi stato rinchiuso tutto questo tempo il mio nome sarebbe associato a quello degli scienziati che hanno scoperto il radio, ma invece il destino avverso non ha voluto; per conto mio, sono contento che il radio sia stato trovato; io non ho ambizione, amo la scienza e il suo progresso mi preme più di tutto. —Tu sei troppo modesto,—disse Giulia,—a me preme che il tuo valore sia apprezzato e mi occuperò io stessa di farti conoscere; intanto devi presentarti alle redazioni dei giornali e ringraziare quelli che hanno parlato di te; so che ciò è per te un grande sacrifizio ma devi farlo per ubbidirmi. E per appagare la zia, Ugo si presentò alle direzioni dei giornali e n'ebbe le accoglienze più liete; tutti gli chiesero notizie dei suoi studî, chi voleva degli articoli sulle irradiazioni dei metalli, cosa di cui tanto si parlava, chi invece tentava persuaderlo a tenere una conferenza per farsi conoscere; molti volevano intervistarlo, egli si schermiva, sarebbe ritornato volontieri subito in campagna per continuare le sue ricerche; ma lo pregavano con tanta insistenza che non sapeva a qual partito appigliarsi. Quando Giulia seppe quello che si desiderava da lui, non gli lasciò più pace; fare una conferenza era la più bella occasione per riabilitarsi e mostrare come la sua mente fosse chiara ed equilibrata. —Ma come faccio,—diceva,—a prepararmi in pochi giorni? —Ti aiuterò io,—soggiungeva Giulia,—lascia fare a me. E intanto ordinò a Vincenzo di venire a Milano con tutte le note che il professore avea lasciate nel cassetto della scrivania, poi volle che Ugo scrivesse ai giornali che accettava di tenere una conferenza come desideravano, a beneficio dell'ospedale dei bambini e della fanciullezza abbandonata, e che il nome della conferenza sarebbe stato «l'anima del mondo». —Come suona bene!—disse Giulia.—Non ti senti la volontà di metterti al lavoro? —E se faccio fiasco? Sai che quando ho un pubblico davanti a me, mi manca la voce. —Non c'è bisogno d'improvvisarla; per la prima volta, la conferenza puoi leggerla, e quando si ha davanti la carta non si vede il pubblico. Io prevedo un trionfo. —Non ho ambizione. —Non importa, l'ho io per te, e poi quando il tuo nome sarà conosciuto lavorerai con maggior lena, la fama è come una scintilla che dà eccitamento al lavoro, lo illumina e lo riscalda. Poi nel tuo caso da lei può dipendere la tua vita privata. Credi tu che la signora Savina ti avrebbe fatto rinchiudere in una casa di pazzi, se invece di essere il professor Ugo, umile, ignorato, che viveva all'ombra del suo laboratorio, fossi stato l'illustre scienziato di cui il nome e le scoperte fossero note a tutto il mondo? Ugo diceva che la zia era accecata dall'affetto che aveva per lui e esagerava le sue qualità, però aveva deciso di seguire i suoi consigli, solo si contentò di chiedere una settimana di tempo per preparare la conferenza, e si mise all'opera perchè riuscisse degna dell'aspettazione. Giulia era sempre più orgogliosa delle feste che si facevano al nipote; tutti i giornali parlavano di lui, il suo nome ed i suoi studî, la sua vita erano già conosciuti dal pubblico, si sapeva che i suoi ultimi esperimenti erano stati interrotti da uno scoppio avvenuto nel suo laboratorio che l'avea tenuto ammalato di nervi per molto tempo e ciò lo rendeva più interessante. Egli non capiva come tutti conoscessero tanti fatti intimi della sua vita, e Giulia che senza dirgli nulla era stata l'ispiratrice di quelli articoli, rideva in cuor suo della sorpresa del nipote e si contentava di mandare i giornali al signor Carlo, alla signora Savina e a tutti i conoscenti; e in quei giorni di lavoro e preparazione febrile viveva come in un sogno e le pareva di aver trovato un nobile scopo alla sua operosità: quello di aiutare il nipote nella sua opera. X. Il giorno della conferenza del professor Arlandi la sala del ridotto della Scala si andava popolando di belle signore, di giovanotti eleganti e di uomini serii e studiosi. Era una settimana che i giornali parlavano dell'Arlandi e tutti desideravano vedere il giovane professore che dava tante speranze per l'avvenire della scienza. Poi la conferenza era a beneficio di due istituzioni cittadine, utili e benefiche, ed anche quelli che non si occupavano di studî serii avevano voluto andarvi per moda, per filantropia e per trovarsi cogli amici e conoscenti. La ricerca dei biglietti era stata enorme e nella sala gremita di pubblico si sentiva il bisbiglio foriero d'un'impaziente aspettazione. Quando entrò il professor Ugo, pallido, alto, col volto giovanile e le labbra velate da due baffetti biondi, elegante nel suo vestito nero, inappuntabile, timido nei movimenti, ciò che lo rendeva ancora più simpatico e interessante; gli sguardi del pubblico si posarono sopra di lui, cessarono i bisbigli e tutti attesero attenti ad ascoltare. Egli incominciò con voce chiara, tremante, incerta un po' sul principio, ma mano mano che proseguiva si faceva più vibrante e colorita a parlare delle meraviglie della scienza e dei mezzi che permettevano di fare continuamente nuove scoperte. Parlò delle irradiazioni potenti date da certe sostanze come il radio che si trovano nascoste in diversi minerali e che sono tali da sconvolgere le idee che si avevano fino ai nostri tempi sui movimenti della materia e degli atomi. Spiegò come quel metallo mandasse irradiazioni fortissime senza perder nulla del suo peso e fosse d'una forza tale da distruggere tessuti vitali anche attraverso a qualche ostacolo, ciò per mostrare come non fosse un sogno la teoria per la quale avea sempre combattuto ed ora desiderava esporre ad un pubblico così attento ed intelligente. Egli avea sempre pensato ad un elemento racchiuso nel centro della terra in un luogo inaccessibile agli uomini, ch'egli chiamava anima del mondo, egli la imaginava una forza indistruttibile, eterna, tale da far sentire la sua azione attraverso gli strati densi del nostro globo, fino a spargersi in piccole particelle nell'etere che lo circonda. —Io imagino,—disse,—il mondo come un corpo umano, i sassi sono le ossa, le acque che lo bagnano nell'interno e alla superficie sono il sangue che scorre nelle vene e le arterie del nostro organismo; e come il cuore nell'uomo, così ci deve essere nel centro del mondo un focolare di vita e calore, un fluido invisibile che partendo dal centro avvolge la terra in una rete vibrante, come i nervi avvolgono il nostro corpo; precisamente come l'elettricità, una forza che esiste, si domina, ce ne serviamo, ma della quale non si riesce a spiegare la vera essenza. E dopo aver parlato delle caverne, una volta popolate da esseri fantastici ed ora invece da esseri invisibili che il microscopio ci ha rivelato, assicurò che quando altri strumenti più perfetti verranno in aiuto dei nostri sensi più raffinati, si apriranno nuovi orizzonti alla scienza e terminò dicendo essere convinto che nel mondo, in noi stessi vi è una parte indistruttibile, eterna, e come da un rozzo minerale si sprigiona una scintilla che non si consuma, come da certe vibrazioni del cervello i pensieri si rinnovano continuamente e il mondo è avvolto da onde eteree delle quali non si conosceva l'esistenza prima di Hertz e di Marconi; così molte forze e molte verità devono ancora esserci rivelate; ci sembra esser circondati da misteri che la scienza infaticabile deve svelare e lo scienziato è come colui che ha trovato le tracce d'un tesoro nascosto e non riposa finchè non lo abbia messo alla luce del sole. Animandosi nel suo dire divenne eloquente, aveva il dono di trasfondere la sua persuasione nell'uditorio e di suggestionarlo. Infatti tutti si sentivano trasportati nelle regioni elevate della scienza e del pensiero come se da una corrente magnetica fossero legati all'oratore. Quando ebbe terminato un lungo e clamoroso applauso echeggiò nella vasta sala, alcuni conoscenti circondarono il professore stringendogli la mano e congratulandosi della sua parola efficace e colorita, altri s'avvicinavano per conoscerlo; egli era umile, confuso nel suo trionfo e avrebbe voluto andarsene, quando vide farsi avanti correndo, rovesciando le sedie, un signore rimasto tutto il tempo della conferenza nascosto in un angolo senza parlare pendendo dalle labbra dell'oratore. Il rumore delle sedie fece volgere Ugo da quella parte e lasciando gli ammiratori che lo circondavano s'avviò in fretta ad incontrare quel signore che veniva verso di lui. —Babbo,—disse,—come, tu qui? —Ho letto nei giornali,—rispose il signor Carlo, ma era tanto commosso che non potè trovar la voce per dire di più e si gettò fra le braccia del figlio. Quando potè riavere il fiato, gli disse:—Come hai parlato bene! Non avrei creduto mai, ma mi perdoni, non è vero? Non mi serbi rancore di quello che è avvenuto? —Non parliamo di queste malinconie, ho tutto dimenticato,—disse Ugo. E lo presentò a quelli che lo circondavano, che gli fecero feste dicendogli che doveva essere orgoglioso di avere un simile figliuolo. Poi l'invitarono ad un banchetto che volevano dare per festeggiare il professore. Il signor Carlo non sapeva quasi più d'esser su questa terra, provava un'ebbrezza, una gioia come non aveva mai provato nella sua vita, e sarebbe stato completamente felice se non avesse sentito il rimorso di aver fatto rinchiudere il figlio, che avea mostrato tanto ingegno, in una casa di salute. Quel rimorso offuscava la sua gioia e avrebbe dato parecchi anni di vita perchè quel fatto non fosse avvenuto. Egli seguiva il figlio glorioso come attratto da una forza superiore, lo vedeva stimato e ammirato, gli pareva fino di trovare in lui un mutamento, circondato come era dall'aureola del trionfo. Anche Giulia s'era unita al crocchio che circondava Ugo, tutta orgogliosa di aver contribuito a quella giornata trionfale. Quando la sera si ritrovarono riuniti al Cova, al banchetto che gli ammiratori avevano voluto offrire ad Ugo, al signor Carlo pareva d'esser nel mondo dei sogni; con quella sala illuminata, la tavola scintillante di cristalli e d'argenti e coperta da lunghe corone di fiori che la rendevano allegra. Quelli che non potevano avvicinarsi al professore s'accostavano a lui e gli domandavano ragguagli sull'infanzia e giovinezza del figlio, quasi quasi gli pareva d'essere un uomo importante e d'entrarci per qualche cosa nella riuscita di Ugo; era espansivo, parlava del professore con entusiasmo esagerandone le doti del cuore e dell'ingegno, voleva stordirsi per far tacere il rimorso che l'opprimeva. Al momento dei brindisi si acclamò il professor Ugo come speranza della scienza, ed egli rispose poche parole ringraziando d'esser stati tutti tanto buoni ed indulgenti per lui, e brindò alla scienza che toglie il velo che offusca la verità e al padre che avea lasciato la pace della casa tranquilla per venire alla sua festa. Un evviva dedicato al signor Carlo fece eco a quelle parole, e quando il figlio gli fu vicino e gli toccò il bicchiere due lagrimoni gli scendevano sulle guance. —È troppo, è troppo,—diceva,—mi fa male. Ma il professore non dimenticò nemmeno la zia Giulia che se ne stava in un angolo quasi nascosta fra le giubbe nere e si avvicinò a lei con un sorriso chiamandola il suo buon genio, il suo angelo tutelare. Tutti gli sguardi si posarono sopra la fanciulla che avea il volto raggiante dalla gioia contenta della vittoria ottenuta. Quando più tardi si ritrovarono riuniti nella camera dell'albergo, Ugo affermava che non sarebbe riuscito a far nulla senza l'aiuto di Giulia, e il signor Carlo nell'entusiasmo di quella giornata trionfale diceva: —Questa è la vita! sono stato fin'ora un cattivo padre; ma voglio farne ammenda; senti, Ugo, voglio essere il tuo aiutante ed essere iniziato nei misteri del tuo laboratorio. —E se succede uno scoppio? —Ebbene, moriremo assieme. —Ma non sai che c'è laggiù qualcuno che non te lo permetterebbe? —Chi? Mia moglie? Me n'ero dimenticato, ma essa è stata ingiusta con te ed ora per castigo verrà a Milano con Mario e noi resteremo liberi. Giulia ed Ugo si diedero un'occhiata espressiva, ma non osarono dir nulla, nè pensare a malinconie; tutto in quel giorno doveva andar loro a seconda, e forse sarebbero stati tutta la notte a parlare dell'avvenire che si mostrava adorno di promesse. Ma Giulia alzandosi tutto ad un tratto disse: —Ed io che dimenticavo la mia missione? Non devo far conoscere al mondo il professor Ugo? Vado subito a scrivere pei giornali la relazione della conferenza da spargere ai quattro venti, e vi assicuro che la prima copia sarà mandata alla signora Savina Arlandi. GIOIELLO RIVELATORE. Perchè aveva sposato il signor Cristoforo Zuccoli? ecco quello che si domandava la piccola Fania. Un brav'uomo, non c'è dubbio, un cuor d'oro, intelligente, studioso a modo suo, ma non era il suo tipo, e poi veramente, nella sua testolina sventata, aveva sognato il matrimonio tutto diverso da quello che lo aveva trovato in realtà. Come si fosse lasciata persuadere a pronunciare davanti al Sindaco il sì fatale, che doveva legarla a lui indissolubilmente, era ciò che non riusciva a spiegarsi. Almeno fosse stata una signorina impaziente di trovar marito! ma niente affatto, viveva contenta e spensierata col padre impiegato alla ferrovia e con due zie che avrebbero fatta moneta falsa per contentarla. Aveva molte amiche; e un cugino, Giacomino, che studiava all'Università e veniva qualche volta coi compagni a giuocare alla tombola e far quattro salti, se era di carnevale, ed essa si divertiva tanto, che non si sarebbe scambiata per una regina. Le zie erano state le vere colpevoli. Avevano voluto condurla in campagna per divertirla, e così aveva fatto la conoscenza del signor Zuccoli, che villeggiava nelle vicinanze. Il signor Zuccoli era molto ingegnoso; fabbricava delle macchine divertenti, e voleva fare degli esperimenti per inventare i palloni dirigibili. Intanto si contentava di fabbricare farfalline, uccelletti meccanici che volavano e cantavano, e gli riuscivano abbastanza al naturale. Fania si divertiva con quegli oggetti, come se fossero balocchi; le zie poi erano entusiaste della loro nuova conoscenza, e non facevano che tesserne gli elogi alla nipote. —Pare che tu gli vada a genio,—dicevano,—se potessi riuscire ad innamorarlo e ti sposasse, che bella cosa! —Perchè? non ho bisogno di sposarmi, sono contenta così. —Ma non capisci nulla, nipotina; ora ci siamo noi colla nostra pensione, c'è tuo padre, ma non si vive sempre, e dopo che cosa succederebbe di te? —Cercherei marito, allora. —Al giorno d'oggi, una ragazza senza dote non trova quando vuole.... guai a lasciarsi sfuggire le buone occasioni; noi parliamo per esperienza. —Ebbene, resterei zitella. —Anche zitella bisogna vivere, e tu sei carina, ma, se dovessi guadagnarti da vivere, povera te, non sappiamo che cosa potresti fare. —È vero, avete ragione, so un po' di tutto, ma da dilettante; sono un uccellino irrequieto, mi piace divertirmi senza pensare a nulla; però potrei fare l'artista drammatica. —È meglio un buon marito—sentenziò la zia Gina,—e il signor Cristoforo è buono, ricco e simpatico, è un giovane che ci piace e sarebbe una fortuna. —Giovane! E Fania diede in una risata. —È forse vecchio? Avrà appena trent'anni,—disse la zia Amalia. —A me sembra un vecchio con quegli occhiali e quel naso. —Sei proprio una bimba! In un marito preme la mente, il cuore, i quattrini, e questi più di tutto; perchè non si vive di poesia, pensaci, dà retta a me, non lasciartelo scappare. Veramente Fania non ci pensava molto, ma era invece il signor Zuccoli che cercava tutte le occasioni per vederla. Ogni giorno le portava qualche nuovo oggetto fabbricato colle sue mani: erano graziose barchette che andavano a tutto vapore, molini in miniatura che macinavano il grano, lampadine elettriche tascabili, e tanti altri gingilli curiosi che apportavano un diversivo alla monotonia della vita campestre. Fania per mostrargli la sua riconoscenza gli porgeva un fiore da mettere all'occhiello, e ciò lo incoraggiava a dirle qualche parola graziosa che la faceva sorridere, mentre le zie si davano delle occhiate espressive che significavano: —Siamo a buon porto, è una cosa che si combina. E proprio come s'era combinato non avrebbe potuto dirlo nemmeno lei. Era stata quasi una congiura. Le zie la lasciavano spesso sola col signor Cristoforo, il quale era timido e parlava poco, ma gli piaceva starle vicino, tenerle la mano, e quando essa scappava in giardino le correva dietro come un cane fedele. Una sera egli le disse che avrebbe desiderato gli domandasse qualche cosa di difficile, per mettere alla prova la sua devozione. —E s'io chiedessi la luna?—essa rispose. —Mi metterei subito a fabbricare un pallone così potente da andare a conquistarla. Fania rispose con una sonora risata, quando Cristoforo chiese se sarebbe stata contenta d'andar sola con lui in un pallone in mezzo agli astri. —Io no,—rispose,—avrei paura. Rimase avvilito e non parlò più per tutta la sera. Un'altra volta la prese per un braccio per farla sedere sopra una panca in un boschetto appartato, ed essa scappò via in modo un po' dispettoso. Egli se ne risentì e scrisse un biglietto per congedarsi, ciò che mise la rivoluzione nell'anima delle zie. —Ecco,—dicevano,—non sei stata gentile e l'hai disgustato, non troverai più un partito come quello, bisogna non lasciarlo partire. Veramente, anche a Fania, che aveva preso l'abitudine di vederlo tutti i giorni, rincresceva che la loro amicizia venisse troncata così bruscamente, ma non sarebbe mai andata a pregarlo per farlo rimanere. Come avvenne? non lo sapeva, ma per caso s'incontrarono alla Posta; si salutarono, si scambiarono qualche parola e la conclusione fu, che il signor Zuccoli non partì più per quel giorno, e dopo due settimane partirono tutti insieme, e la piccola Fania si trovò fidanzata al signor Cristoforo. * * * * * Per qualche tempo visse come in un mondo fantastico: regali, vesti eleganti, biancherie vaporose adorne di merletti, ricami, fiori, augurii; poi un bel giorno indossò una veste bianca coi fiori d'arancio, poi un elegante vestito da viaggio e via col signor Zuccoli; ma invece che un'aereonave fu un semplice automobile che la portò lontano lontano. Quello che le parve un vero capitombolo, fu quando si trovò a casa sua ed il signor Cristoforo, Cristofino come s'era abituata a chiamarlo per ingentilirne il nome, riprese le consuete occupazioni, e si trovò sola, obbligata a pensare al governo della casa. Il signor Zuccoli era un tipo alquanto originale. Rimasto solo, giovane, e ricco, si era lasciato vincere dalla passione per la meccanica, ed occupava tutte le sue giornate facendo calcoli, combinando congegni, fabbricando piccoli meccanismi. Egli aveva la bizzarria di copiare, in piccolo, tutte le scoperte moderne; sarebbe stato l'inventore degno del regno di Lilliput; così avea fabbricato un automobile perfetto, che avrebbe potuto servire per una bambola, poi piccoli telefoni, telegrafi in miniatura, e stava combinando delle aereonavi piccine che poi voleva ingrandire mano mano, e così sperava di sciogliere il problema della navigazione aerea; voleva trovare il telefono senza fili e tutto ridurre in modo così minuscolo, che occupasse il minor spazio possibile; per le sue macchinette adoperava l'acciaio, l'alluminio, il nichelio, gli piacevano le cose fini e minuscole; lo sgomentavano le grandi masse di ferro, le ruote dentate e gigantesche, i grossi cilindri, e soleva dire che, quando una macchina è riuscita in piccolo non c'è nessuna ragione perchè, fatti i debiti calcoli, non debba riuscire in proporzioni maggiori. Egli si contentava di far dei modelli, ma ci teneva che riuscissero perfetti. Eccettuata questa specie di micromania, la sua mente era d'un equilibrio perfetto come le sue macchine. Fania, che non capiva nulla di quei meccanismi, lasciava il marito tutto il giorno occupato coi suoi calcoli, e via se n'andava continuamente in giro per la città, gustando la gioia d'esser libera, di poter passeggiare sola e d'esser chiamata signora. Rientrava all'ora del pranzo e, meravigliandosi di non trovare nulla di pronto, si metteva a piangere nel timore che il marito la sgridasse; ma se egli era di buon umore si contentava di dirle: —Ma da che mondo vieni? —Credevo che ci pensasse la cuoca. —Ma se non ordini quel che desideri, come vuoi che faccia?... sei tu la padrona. —Me n'ero dimenticata. Improvvisavano un pranzo alla meglio con delle uova, salato e formaggio, ed erano allegri come se si trattasse d'una scampagnata. Ma quel dover tutti i giorni pensare alle cose domestiche ed ordinare il pranzo, le dava noia e si sfogava a sgridare la cuoca, finchè questa fu abbastanza intelligente per capire che dovea pensar a tutto da sè e fare un po' da padrona, senza aspettare gli ordini di nessuno; e Fania fu contenta di non aver bisogno di seccarsi per cose così prosaiche; se poi il pranzo non era servito in tutto punto e non riusciva molto economico, non le premeva, non voleva pensare a miserie nei primi tempi del matrimonio. Poi ebbe un periodo in cui fu indisposta e non usciva più di casa, e passava le giornate sdraiata su una poltrona, e si annoiava che il marito fosse tutto il giorno colle sue macchine e non venisse a tenerle compagnia; essa decisamente si era sognata che il matrimonio fosse tutt'altra cosa. * * * * * Quando le nacque una bella bimba, volle allevarla da sè, nell'entusiasmo del primo momento, le pareva una bambolina che le servisse di giocattolo, ma dopo tre mesi la sua salute si era rinvigorita, la vita le era tornata snella ed elegante, e ricominciò ad uscire per andar dalla sarta per vestir bene e godere la primavera che s'annunziava piena di tepori e di profumi. Affidava la piccola Mimì alla bambinaia; le raccomandava di farle succhiare il latte dalla bottiglia perchè non piangesse, e via spensieratamente a girare per la città, o a far visite, o nelle botteghe a comprare cianciafruscole, e alla passeggiata dove spesso si trovava col cugino Giacomino, e si godeva un mondo a chiacchierare con lui, come se fosse ritornata fanciulla. Non tornava a casa che all'ora del pranzo, e qualche volta trovava Mimì in lagrime fra le braccia del marito che non sapeva più cosa inventare per farla tacere. E sì che aveva fabbricato dei fantocci che giuocavano con palle d'oro, ed erano una meraviglia. —Perchè non vieni mai a casa?—le diceva il marito. Ed essa trovava una scusa o l'altra, e spesso incolpava l'orologio che non ne aveva nessuna colpa; poi faceva qualche moina a Cristoforo, il quale non aveva il coraggio di tenerle il broncio, perchè amava la sua piccola moglie, che non era buona a nulla, ma pareva un uccellino e gli rallegrava la casa. Però qualche volta, mentre era occupato a fabbricare le sue piccole macchine, fantasticava su quello che potesse fare sua moglie tutto il giorno fuori di casa, e se ne impensieriva e avrebbe pagato una bella somma per sapere in che modo Fania passasse tante e tante ore al punto di rientrare sempre in ritardo. Non poteva pensar male perchè era così bimba, così ingenua, ma intanto avrebbe voluto sapere, per soddisfare la sua curiosità. E perchè non poteva col suo ingegno fabbricare una macchinetta rivelatrice che potesse rivelargli almeno i discorsi che la moglie faceva fuori di casa? Appena questo pensiero si formò nel suo cervello, si mise subito all'opera e misteriosamente, senza dir nulla, in poche settimane riuscì a fabbricare un gingillo grazioso che offerse in dono alla moglie, un giorno che appunto era venuta a salutarlo prima di uscire, tutta elegante con un costume di panno nero che le modellava la vita sottile, e un cappellino color papavero che le incorniciava la faccia. —Prendi,—le disse mostrandole un gingillo d'oro come un grosso orologio, tutto frastagliato in modo che si vedeva internamente un piccolo meccanismo con una sfera che girava torno torno con una rapidità meravigliosa,—è un porta fortuna che ho fatto per te.... Vieni qui, voglio appuntartelo sul vestito come un orologio. —Oh bello! Grazie,—disse Fania,—vedremo se mi farà passare una giornata piacevole. Arrivederci. E tutta contenta, trotterellando speditamente, prima andò dalla sarta e offerse duecento cinquanta lire d'un vestito che avea veduto il giorno prima e le stava a pennello; ma la sarta disse: —È impossibile, lasciarlo a trecento non guadagno nulla. —Via, via, questa volta si contenti. —Vi deve aggiungere qualche cosa. —Intanto lo mandi a casa,—disse la signora, pensando che la sarta non l'avrebbe pagata subito. Poi andò verso la Galleria, dove tutti i giorni incontrava il cugino Giacomino, che l'accompagnò per un tratto di strada, poi le offerse di andare a prendere il tè al Biffi. Quando furono seduti ad un tavolino, incominciarono a chiacchierare allegramente e Giacomino le chiese: —Ieri come hai passato la serata? che cosa fa «il mago Merlino?» —Una noia. Figurati: egli mi parlava di meccanismi, di calcoli matematici, ed io non ne capivo nulla, e dormivo in piedi. —E tu di che cosa gli parli? —Delle mie escursioni della giornata, delle mie spese, di mode, tutte cose che egli non capisce, ma non so parlar d'altro. —In conclusione la tua casa è la torre di Babele, la confusione delle lingue, ma però ti vuol bene. —Sì, a modo suo, ma mi persuado sempre più che non era il mio genere. —Sentiamo, quale sarebbe stato il tuo genere? —Per esempio un mattacchione come te. Mi pare che noi si sarebbe andati d'accordo e la vita sarebbe stata divertente. —Credi? e perchè l'hai sposato il tuo tiranno? —Tiranno no, è una calunnia; ma l'ho sposato perchè le zie e il babbo dicevano che era un buon partito, era ricco, e una ragazza ha bisogno di collocarsi. —Esser ricchi è una bella cosa. —Sì, ma a che cosa serve?... spende tutto colle sue macchine, e quando mi compro un vestito nuovo, brontola e dice che lo rovino; anzi, ricordati che oggi devo andar presto a casa perchè mi sono comprata un vestito e devo fare la donna saggia e casalinga, e tenerlo buono. —Non dir così, rimani un pochino, si vive una volta sola, almeno si discorre. —Non c'è gusto con questo chiasso e coll'andirivieni di gente. —E perchè non vieni a casa mia, come ti ho proposto tante volte? —Perchè non è conveniente. —E chi lo sa? —Io intanto. —Sciocchezze; vieni, vieni che ti farò vedere tante belle cose, e poi almeno si potrà discorrere tranquillamente.... Infine siamo cugini. —Motivo di più per non venire. —Quanti pregiudizii hai!... E qui non è lo stesso? che cosa ci fa la gente? noi c'isoliamo come se fossimo soli. —Siamo sempre in un luogo pubblico. —Sei proprio una borghesuccia, temi le chiacchiere del mondo. —Del mondo me ne rido. —Allora hai paura del Mago Merlino. —Non permetto che sparli del mago, è una buona pasta e non pensa che alle sue invenzioni, e mi lascia libera di fare quello che mi piace. —Allora siamo intesi, domani vieni. —E perchè non vieni tu da me la sera? sarebbe tanto divertente,—disse Fania. —Ma c'è il Mago, e sai la mia opinione, mi piace godere la compagnia del marito e quella della moglie, ma separatamente. —Sei un gran discolone. —Dunque siamo intesi, vieni domani. —No, no e no. —Almeno vieni presto in Galleria. —Farò quello che mi piacerà. E, dandogli la manina inguantata, ch'egli strinse fra le sue in modo significante, se n'andò verso casa. * * * * * Lungo la via pensava che forse Giacomino sarebbe stato per lei un marito più piacevole, ma non avrebbe potuto comprare il vestito da trecento lire, e questo pensiero la riconciliò col Mago Merlino. Era un po' in ritardo, ma il marito non le disse nulla e l'accolse con aria di trionfo. —Hai fatto qualche scoperta, scommetto,—disse Fania. —Forse sono sul punto di farne una molto interessante; intanto dimmi: il mio porta fortuna? —Va benissimo, ho fatto una passeggiata molto divertente, e mi sono comprata un nuovo vestito. —Allora non ha portato fortuna a me, però dammelo, che ho bisogno di vedere se il movimento non si è guastato. —Ma me lo ridai. —Figúrati, te l'ho regalato. Egli prese il gingillo e lo portò nella sua officina; era impaziente di vedere se la sua macchina agiva bene e se riusciva a scoprire i discorsi fatti dalla moglie. Il gioiello conteneva un fonografo in miniatura, e lo Zuccoli ne tolse una membrana metallica tutta sparsa di segni invisibili e l'applicò ad uno strumento che dovea riprodurre i suoni segnati su quel disco. Le sue mani tremavano, mentre montava la macchinetta, e stette attento senza fiatare. Da principio uscì dalla macchina un brontolìo incomprensibile, poi udì distintamente i dibattiti colla sarta, e i discorsi che Fania avea fatto con Giacomino. Ogni tanto dava qualche esclamazione. —Ah birbante!—diceva,—glielo darò io il Mago Merlino!... ah non sono il suo genere, e non mi diceva nulla!... meno male che non ha accettato di andare a casa sua. Questo pensiero lo consolava, ma gli pareva che la moglie fosse stata sull'orlo d'un abisso. Gli passò pel capo di rimettere una piastrina nel porta fortuna e ricominciare il giorno dopo quel medesimo giuoco, ma poi pensò che, se non parlava, gli sarebbe sembrato di scoppiare. Bisognava venir subito ad una spiegazione; era meglio. Appena si trovò seduto a tavola colla moglie, le chiese: —Dunque si può sapere chi hai veduto quest'oggi? —Te l'ho detto, la sarta. —E poi? —Poi ho incontrato Giacomino, ma per pochi minuti. —Sei sincera per metà soltanto, perchè invece so che hai fatto una lunga conversazione. —Chi te l'ha detto? —So tutto. —Sei un mago allora. —Sì, il Mago Merlino. Fania si sentì salir le fiamme alla faccia e tutta confusa non poteva rispondere. Il marito si mise a ripetere parola per parola tutta la conversazione da lei avuta con Giacomino, dicendole che non voleva farle rimproveri, ma che desiderava evitasse d'incontrarsi col cugino. Essa era sorpresa e voleva sapere; poi un'idea si affacciò come un lampo alla sua mente. —Ah, il porta fortuna! —Proprio, è lui il colpevole,—disse Cristoforo. Fania volle vedere come faceva, e quando mise in movimento un piccolo gramofono, ed essa udì uscirne la propria voce, e parola per parola la conversazione fatta alla mattina, disse ch'era un meccanismo meraviglioso e che riguardava il marito un vero mago. —Però, in conclusione,—soggiunse,—non mi sono poi condotta male, ma ora sta' certo che calcolerò che tu sia sempre presente a me, non mi lascerò più andare a dir sciocchezze e nemmeno uscirò molto di casa; voglio assistere alla fabbrica delle tue macchine che incominciano ad interessarmi. —Meno male che questa volta hanno servito a qualche cosa; dunque resterai a casa? —Non mi tieni il broncio, se ti chiedo una cosa strana?—chiese Fania. —Andiamo, che cosa desideri? Sai che sono un po' in collera con te. —Vorrei dare uno di quei porta fortuna a Giacomino, per sapere con chi si trova tutto il giorno, se è vero che studia sempre come dice. —Questo Giacomino mi dà noia,—rispose il marito, e, dopo aver riflettuto in silenzio, soggiunse:—però non è una cattiva idea, per un giorno solo ti permetterò di prestargli il porta fortuna, ma come si fa? —Domani vado ad incontrarlo e con una scusa glielo affibbio. Lascia pensare a me. —Cominciamo male, tu vuoi rivederlo. —Soltanto per pochi minuti, per lasciargli il gingillo. —Posso fidarmi? —Non ho nelle mani il gioiello rivelatore? —E ritornerai subito? Bada, starò coll'orologio in mano. Fania lo rassicurò, come sapeva fare quando voleva esser gentile, e il giorno dopo tutta contenta andò col gioiello rivelatore ad incontrare il cugino. Appena la vide, egli le si avvicinò sorridente e le disse: —Vieni a casa mia quest'oggi? —Ti pare? Ho invece molta fretta; figurati che devo andare dalla sarta. —Almeno verrai a prendere un bicchierino di vermouth. —Ma in fretta, ti concedo cinque minuti. Quando furono nella prima pasticceria che trovarono sulla loro strada, essa disse: —Figurati, mi annoia molto andar dalla sarta, dovermi svestire, con tanti impicci che abbiamo noi signore. Anzi vorresti tenermi questo gingillo?—disse staccandosi il porta fortuna,—mi preme molto e noi, quando si prova un vestito, si ha la testa tanto occupata e si dimentica facilmente i nostri oggetti; ho perduto una spilla l'altra settimana. —Se non vuoi altro, anzi! sarò felice di aver qualche cosa di tuo sulla mia persona. —Ecco qui, attaccato alla catenella dell'orologio, pare una medaglia, sta bene; domani me lo restituisci, non è vero? —Ti do la mia parola. —Sai, è un regalo di mio marito, poi porta fortuna. —Se intanto oggi mi portasse centomila lire, bada che non te lo renderei più. —Hai sempre voglia di scherzare, ma scappo, altrimenti perdo il mio turno: a rivederci domani. E via difilata a casa tutta lieta, pensando alla burla che faceva al cugino, e disse al marito: —Dimmi brava; vedi come sono tornata presto, nemmeno mezz'ora sono stata. E domani devo fare lo stesso per riprendermi il gioiello; ti prometto che ritornerò presto. —Domani sarai spinta dalla curiosità di sapere, non ho bisogno di farti raccomandazioni. Ma il giorno dopo quando Fania andò ad incontrare il cugino e gli chiese il suo gingillo, egli le rispose: —L'ho lasciato a casa, vieni a prenderlo. —Venire a casa? ma è un tradimento! voglio il mio porta fortuna. Fania supplicò colle lagrime agli occhi, ma Giacomino non si lasciò commuovere; che poteva fare la piccola Fania? Corse in fretta a casa ed entrò nello studio del marito colla faccia stravolta. —Che contrarietà!—esclamò.—Come me l'ha fatta! —Ma che è accaduto, si può sapere? —Non mi vuol restituire il porta fortuna, vuole che vada a prenderlo a casa sua; come sono stata sciocca, ma lo voglio, andiamo insieme a prenderlo. —Ti pare? se lo vedo il tuo Giacomino, gli do uno schiaffo,—disse il signor Zuccoli,—mi è diventato antipatico. —E allora come si fa? Gli scrivo. —No, gli scriverò io. —Sì, subito, con preghiera di consegnare al latore il porta fortuna,—disse Fania,—e se non vuol darlo? —Se vuol tenerlo in ostaggio perchè tu vada a prenderlo, diremo al mio aiutante di portare il meccanismo interno perchè io devo introdurvi un'innovazione.... Già è quello che ti preme, l'involucro glielo lascieremo per ricordo. —È naturale, non vado certo a prendermelo. Così fecero e il messaggero non portò il gioiello, ma il meccanismo interno. * * * * * Fania era impaziente di mettere nel gramofono il disco pieno di segni cabalistici. E, messo a posto il disco, stettero intenti ad ascoltare. Prima Fania sentì la propria voce quando pregava Giacomino di tenerle il gingillo. —Brava,—disse Cristoforo,—ben trovato. Poi si udì qualche rumore confuso e la voce di un amico che, dopo averlo salutato, gli disse: —Come! libero? e la tua dama? —Oggi mi ha lasciato, questioni di abbigliamento. —E sei a buon punto? —Se volessi, ma non mi preme, mi diverto così per passatempo, e poi perchè mi dà importanza mostrarmi con una signora della buona società. —Anche tu fai come la volpe. —Non è vero, non è il mio tipo; è graziosa, ma è una sciocchina, buona per passare un'ora. —E l'altra, l'artista come va? —Quella sì è un boccone saporito, passerò là a momenti. —Ma non sei solo ad avere i suoi favori. —Tu come sai? Per tua regola, non vado mai ad approfondire troppo le cose, poi parli per invidia. —Al caso, io starei per tua cugina, se la cedi. —Che c'entro io, non è mia, ma in paragone all'altra è come una tazza di latte paragonata ad una coppa di _champagne_. —Il latte è una bibita sana. —Ma ti annoia e poi calma i nervi, mi può servire appena per un di più;... ma addio, vado a prendere un bicchiere di _champagne_. Una pausa, dei rumori confusi, poi di nuovo la voce di Giacomino e una voce di donna. —Luisa, come va? —Non ti aspettavo a quest'ora. —Ero impaziente di vederti. —Bugiardo! La tua dama ti avrà lasciato in libertà! —Non ho dame, sei tu sola nella mia vita. —E quella colla quale passeggi? —Quella non conta, una parente, poi è insipida, non c'è sugo. —Davvero? —Ti giuro. Ma lo sai che, quando si è avvolti nelle tue spire, non se n'esce. —Sono un serpente. —Forse! —E allora lascia che ti avvolga nelle mie spire, e bada, ti strozzerò. —Finirai per andare in prigione. E una grande risata, poi più nulla. —Oh, che birbante!—disse Fania,—è così che studia tutto il giorno, ed ora non si sente più nulla, che cos'è successo? s'è guastato. —Non mi pare, si sarà fermato, oppure l'avrà deposto in un'altra camera. —Vuol dire che si sarà tolta la catena,—disse Fania. —Che cosa ti preme? non hai inteso abbastanza? —Fin troppo! non voglio più vederlo. —E farai benissimo. —Ma prima voglio fargli sapere che ho tutto scoperto. —Non c'è bisogno: che cosa t'importa di lui, se non vuoi vederlo? Non ti basto io? —Sì, sì, caro Cristoforo, tu sei buono, e poi sei non un mago, ma un genio; ti ammiro; ma voglio dir qualche cosa a Giacomino, altrimenti scoppio. Ho trovato, lo chiamo al telefono. Drin, drin, drin. —Pronti. —Giacomino. —Sono io. —Sono Fania. Ti lascio l'involucro del porta fortuna per memoria, perchè non ci rivedremo mai più. —Come! non verrai nemmeno a passeggio? —No, sono troppo sciocchina, insipida; resto col Mago Merlino che mi apprezza meglio di te. —Non è vero, sei adorabile, rallegri la mia esistenza, vieni. —No, non mi fai compassione; la Luisa ti consolerà; il latte è una bibita troppo insipida, ci vuole del vino di Sciampagna. Addio per sempre, buon _champagne_. Drin, drin, drin; il campanello continuava a suonare, ma Fania tolse la comunicazione, e andò a sedere vicino al marito. —Ora sono tutta per te,—disse,—non uscirò più di casa, imparerò anch'io a fabbricare dei meccanismi. —Ti pare? con quelle manine, non lo permetterò. —E che cosa farò della mia vita? —Non rinuncerai alle tue abitudini; vuol dire che sarò io il tuo cavaliere, andremo insieme dal pasticciere. —Come, tu lasceresti il tuo lavoro? —C'è tempo per tutto, ed ho capito che, quando si ha una moglie graziosa e carina come te, bisogna dedicarle un po' di tempo. Finora sono stato troppo egoista. —Caro il mio mago, il mio Cristoforo, quanto sei buono!—disse gettandogli le braccia al collo.—E pensare che non me n'ero mai accorta del genio che avevo per marito!... ci voleva proprio il gioiello rivelatore!... FOSFORESCENZE. I. In quella giornata afosa di luglio l'antico palazzo Grimani situato in una delle vie meno frequentate di Vicenza, pareva deserto e addormentato. Le finestre che davano sulla strada erano chiuse ermeticamente, l'erba cresceva tra i sassi nel vasto cortile, nel giardino abbandonato le piante piegavano i rami avvizziti e la fontana di marmo annerita dal tempo non mandava più un filo d'acqua, come se la sorgente fosse rimasta esausta per sempre. Soltanto quattro finestre al primo piano verso il giardino, aperte e riparate da tende color ruggine, mostravano che il palazzo non era del tutto disabitato. Difatti in una vasta sala, ridotta ad uso di laboratorio, il professore Giulio Grimani osservava attentamente un oggetto posto sotto alla lente di un microscopio. Accanto a lui una bella fanciulla, Marcella Montecchi, laureata in scienze naturali, era intenta a togliere con uno spillo i visceri di alcune mosche; li schiacciava fra due piccoli pezzi di vetro e li porgeva man mano da esaminare al professore. Una pace tranquilla regnava in quell'ambiente; intorno alle pareti alcuni ritratti d'uomini d'altri tempi risaltavano come bianchi spettri sopra un fondo cupo; se avessero potuto rivivere, si sarebbero meravigliati di vedere due grandi tavole piene di arnesi sconosciuti e la sala dove solevano ricevere principi e cavalieri, mutata in un laboratorio da alchimista, e sarebbero stati imbarazzati di spiegare a che cosa dovesse servire il lavoro della bella fanciulla che continuava a porgere al professore i vetri preparati per l'esame, movendosi lentamente, in quell'atmosfera calda e snervante. Quando il professore avea terminato di osservare un oggetto, scriveva alcune note sopra un quaderno e si rimetteva al lavoro in silenzio, immerso nei suoi pensieri. Pensava appunto quanto Marcella gli fosse stata utile dopo che era entrata nella sua vita, come assistente. Si rammentava, ch'egli non aveva veduto molto volontieri la donna introdursi nell'Università credendola un essere frivolo e poco adatto a seri studii, e sul principio anche con Marcella era stato severo come tutti i suoi colleghi, ma poi, essa avea studiato con tanto amore e con tanta intelligenza tutti quegli anni, s'era presentata agli esami un po' pallida e affaticata pel lungo lavoro, ma agguerrita, sicura di sè, con idee chiare e precise, con risposte pronte che mostravano il suo studio non esser stato superficiale, ma che avea approfondito ogni materia, e ne rimase tanto sorpreso, che per quanto i colleghi volessero essere ingiusti per impedire alla donna d'invadere le carriere riservate agli uomini, piegandosi all'evidenza spezzò una lancia a favore della nuova dottoressa e non solo fu approvata a pieni voti, ma avendogli il governo concesso di scegliere fra i laureati un assistente per i suoi lavori tanto utili alla scienza e all'umanità, aveva nominato Marcella, trovandola la più meritevole d'esser preferita. Ed ora sentiva che l'aiuto della fanciulla gli era necessario, ed essa era orgogliosa d'esser utile al suo professore e maestro, a quello che aveva sempre riguardato come un essere superiore; era persuasa di aver imparato assai più nei pochi mesi che frequentava il suo laboratorio, che in tutti gli anni passati all'Università e provava una stretta al cuore, pensando che fra pochi giorni il professore sarebbe andato lontano in cerca di nuovi materiali per i suoi esperimenti, ed essa, per trovare un posto d'insegnante o d'assistente, avrebbe dovuto lottare contro il pregiudizio di coloro che non vogliono incoraggiare la donna a dedicarsi ad occupazioni intellettuali fuori dell'ambiente domestico, oppure ritirarsi sulla montagna in una casetta lasciatale dalla madre, dove avrebbe trovato un vuoto intorno a sè, e priva delle lezioni del suo maestro la sua intelligenza si sarebbe arrugginita, e scoraggiata ed avvilita sarebbe stata molto infelice. Immersa in questi pensieri sentiva come un peso sul cuore, e in quel silenzio le uscì dal petto quasi suo malgrado un profondo sospiro. Il professore interruppe il lavoro e: —Siete stanca,—le chiese. Marcella fece cenno di no col capo. —Avete dunque pensieri tristi, alla vostra età? —Sì,—rispose,—penso che tutto finisce e dopo tanti mesi, un lavoro piacevole e tanto utile sarà interrotto per non essere forse ripreso mai più. —E perchè?—disse Grimani;—avete così tristi presagi? Ora bisogna terminare il nostro lavoro sulle mosche e provare come esse siano il veicolo di tutte le malattie infettive che travagliano l'umanità. —E poi vengono le vacanze e andrete lontano a raccogliere nuovi materiali per lo studio. —Senza di voi!—esclamò Grimani,—è impossibile; ho bisogno di aiuto, mi avete abituato male, non ho più pazienza per certe minuzie. Infatti Marcella era diventata il suo braccio destro, nessun assistente aveva saputo essergli tanto utile come quella fanciulla modesta e paziente, che una volta entrata nel suo laboratorio aveva preso per sè la parte più noiosa; lavoratrice infaticabile, lo seguiva nelle ricerche con ansietà, s'immedesimava del pensiero di lui, capiva a volo quello che desiderava, pronta a servirlo, a rendergli facili gli esperimenti provando, riprovando, quando non riuscivano subito. Egli sentiva che aveva bisogno di lei come dell'aria che respirava. Vi fu qualche minuto di silenzio. Marcella porgeva i vetrini al professore ed egli li osservava al microscopio macchinalmente, ma i loro pensieri erano lontani dal lavoro. Dopo qualche minuto di silenzio, Marcella disse: —E l'anno venturo avrà ancora bisogno di me? —Ma certo, sempre, non posso fare da solo, sono stanco, mi sento vecchio,—e sì dicendo si staccò dal microscopio e si lasciò cadere con abbandono sulla poltrona che stava dietro a lui. Marcella lo guardò coi suoi occhi sereni e penetranti, e non disse nulla. —Non so che cosa succeda in me,—riprese il professore,—ma mi sento nervoso, ho le idee confuse ed io che voglio trovare la ragione di tutte le cose, che pretendo d'indagare i misteri della natura, non capisco più me stesso e sono avvilito. —Lavora troppo,—disse Marcella,—questo caldo snerva. Ha bisogno di riposo. —Sì, sì, riposerò, dirò addio ai miei esperimenti, andrò lontano, ma non solo; partiremo assieme,—soggiunse il professore con accento risoluto. Marcella non disse nulla e alzò gli occhi increduli. —Che c'è di male?—riprese il professore,—è una cosa tanto straordinaria viaggiare col proprio assistente? —Non sarebbe una cosa nuova, ma è impossibile,—disse Marcella.—Fuori del laboratorio, non sono che una donna, bersaglio alle chiacchiere ed ai pregiudizii del mondo. —Il mondo, il mondo,—borbottò Grimani,—c'è un modo di accomodare ogni cosa,—disse battendo le mani come se avesse fatto una scoperta interessante,—sposiamoci. Marcella gli diede un'occhiata, si fece rossa in volto e non rispose. —Non è una cosa possibile?—riprese il professore,—sono forse troppo vecchio? La fanciulla lo guardò bene in faccia, poi disse corrucciata: —È un brutto scherzo; vi burlate di me. —Parlo sul serio,—soggiunse con forza il professore,—sapete; non so far tanti preamboli, e parlo come penso, francamente. Finora non mi sono occupato che della scienza, temevo che una donna nella mia vita potesse distrarmi dallo studio, ma con voi è differente, anzi è tutto l'opposto, io ho bisogno del vostro aiuto, noi ci completiamo e non possiamo viver lontani. Qualche minuto fa, quando si parlava di separarci, ho sentito quanto voi mi siete necessaria, ed ho osato dirvi il mio pensiero. Perchè imporsi una sofferenza, un sacrificio, quando è così facile trovare il rimedio? Grimani fece tutto questo discorso senza guardare in faccia Marcella, la quale se ne stava confusa tremante senza fiato e senza parole per rispondere. Il professore soggiunse guardandola timidamente: —È una proposta assurda che vi ho fatta; sono pazzo, non è vero, pensare a certe cose alla mia età? Se è così, non parliamone più. —È che sono sorpresa, confusa,—disse la fanciulla con un filo di voce.—Io che v'ho riguardato sempre come mio maestro tanto superiore a me e a tutti, che ho vissuto tutto questo tempo in ammirazione del vostro ingegno, mi par di sognare, ma sarebbe vero? Come avete potuto fissare la vostra attenzione sopra di me, povera fanciulla, microbo invisibile? Sarebbe una fortuna insperata; non può essere. —Siete troppo modesta, mia cara; venite qui vicino a me e ragioniamo; prima di tutto non disprezzate i microbi che sono il soggetto dei nostri studii e che per tanti mesi furono l'argomento dei nostri discorsi, ma guardatemi in faccia, non sono troppo vecchio per pensare a certe cose? —Vecchio! non me ne sono mai accorta! —Ho trentotto anni. Marcella diede in una sonora risata e disse: —Un uomo a trentott'anni è molto giovane. —E non ti troverai a disagio con un professore che vive coi suoi libri e il microscopio? —E questa non è pure la mia vita?—disse Marcella,—ma sarebbe troppa felicità, non ne sono degna. E chinò il capo confusa. Il professore la trasse vicino a sè come per proteggerla e soggiunse: —Io non so dire tutte quelle cose che piacciono alle donne, non ho avuto tempo d'impararle, ma sento che il tuo aiuto mi è necessario e procurerò di farti felice. Marcella a quelle parole si sentì commuovere e quando potè parlare disse come in quei giorni era stata tanto infelice, perchè pensava ch'egli sarebbe andato lontano, e in mezzo ai trionfi si sarebbe dimenticato di lei, ed ora il mondo le pareva mutato, si sentiva rapita come in un bel sogno e temeva di destarsi. Ma la voce di Grimani la rassicurava parlandole sommesso come se fosse stato in chiesa, le diceva che bisognava far presto, egli non voleva far la commedia del fidanzato, gli pareva ridicola, tutto dovea esser semplice, naturale come la loro vita. Ed essa si cullava al suono di quella voce, che le andava diritta al cuore, e nel tepore di quel pomeriggio di luglio, nella sala silenziosa, le pareva di sentire un languore delizioso come se fosse trasportata su su in cielo da una schiera di angeli. Avrebbe voluto che quella giornata non avesse più fine, ma la terra segue imperterrita il suo cammino, non curando il desiderio dei suoi abitanti e già il sole sembrava spegnersi dietro le colline e l'ombra invadeva ogni cosa. Marcella si riscosse, si alzò e disse: —È tardi, bisogna andare, mia cugina m'aspetta, domani verrò più presto. Il professore non voleva lasciare la mano che teneva imprigionata nella sua. —Dunque sì?—le disse. Essa alzò gli occhi, chinò il capo arrossendo, e fuggì via lasciando il professore che la seguì collo sguardo, contento d'essersi tolto il peso che l'opprimeva da tanti giorni e assicuratasi la compagnia di quella fanciulla che era divenuta necessaria alla sua esistenza. II. Giulio e Marcella sono sempre nella grande sala intenti al lavoro, nulla è mutato intorno ad essi, ma non sembrano più quelli di prima. Il professore pare ringiovanito, si muove in fretta, i suoi occhi mandano lampi attraverso le lenti degli occhiali, lavora, lavora per terminar presto e pensare poi al matrimonio. Marcella è più pronta ad apprestare i vetri e porgerli al compagno, ha i movimenti più rapidi, la faccia sorridente, e malgrado il caldo si sentono entrambi dominati dalla febbre del lavoro. In qualche momento di sosta, Grimani ha delle distrazioni, come non ha avuto mai, si sorprende ad osservare i capelli dorati che incorniciano la fronte di Marcella come un'aureola e li trova più interessanti dei microbi che attendono sotto le lenti del microscopio. Egli che non aveva mai pensato alla donna che come ad un animale grazioso ed inutile, confessa d'essersi ingannato e lo trova, invece, l'essere più bello della terra, che merita d'esser studiato, non solo nell'apparenza esteriore, ma nella parte più misteriosa del suo spirito; soltanto in quel momento capiva che esiste al mondo qualche cosa all'infuori dello studio e della scienza, capace di produrre delle sensazioni sconosciute e di dare all'organismo un senso di ebbrezza delizioso. Avrebbe voluto far qualche cosa per la fanciulla modesta e devota che viveva rinchiusa nel cupo laboratorio, lo aiutava nei lavori faticosi, ne prendeva per sè la parte più uggiosa, lasciando a lui tutta la gloria. Qualche momento, stanchi dall'intenso lavoro e dal caldo opprimente, si alzavano e tenendosi per mano andavano girando per le sale del palazzo. —Andiamo a vedere,—diceva il professore,—bisognerà ben riordinare la vecchia casa perchè sia degna d'accogliere la giovane sposa. Marcella rispondeva sorridendo. —Le vecchie case sono sacre, serbano l'impronta delle generazioni che ci hanno preceduto, e mi sembrano più ospitali. Ma noi abbiamo bisogni e gusti diversi dai nostri antenati,—diceva Grimani. Traversavano androni cupi dove si ripercuoteva l'eco dei loro passi, sale abbandonate, dalle vôlte delle quali pendevano le ragnatele, si soffermavano davanti alle pareti adorne di affreschi mezzo scrostati dal tempo che rivelavano qualche maestro del rinascimento. —Non vedi che disordine,—disse un giorno Giulio,—bisognerà ritoccar tutto. —Sarebbe una profanazione,—rispose Marcella,—e poi a che cosa servirebbero queste immense sale? si chiude tutto, il laboratorio sarà il nostro regno. Poi andarono nella parte più abitata della casa e Marcella destinò una grande camera con alcova per camera da letto, un'altra coi palchetti di legno scolpito per camera da pranzo e: —Qui,—disse entrando in un gabinetto pieno d'aria e di sole,—metterò i miei libri, i miei amici fedeli. —E il salotto da ricevere?—chiese il professore. Marcella si mise a ridere. Chi mai doveva ricevere? E poi non bastava il suo studiolo? Si rimettevano al lavoro, riposati da quella corsa attraverso la casa e ogni tanto l'interrompevano per parlare della loro vita passata. Il professore diceva che la sua aspirazione era sempre stata di scrutare i misteri della natura, aveva dovuto lottare col padre che desiderava si fosse dedicato all'industria come suo fratello Paolo, il quale si era arricchito e viveva a Milano con un figliuolo, unica sua consolazione dopo che era rimasto vedovo. —È stato tanto contento quando ha inteso del mio matrimonio,—disse.—Era il suo desiderio che venisse una giovane sposa a popolare la vecchia casa paterna. Marcella invece gli narrava le lotte per poter applicarsi agli studii pei quali tutte le donne avevano trovato tante ostilità, prima in famiglia e poi a scuola; e lei rimasta padrona di sè vi si era attaccata come ad un rifugio per non pensare alla sua vita triste e solitaria. —Guai se non avesse trovato un valido aiuto nel suo maestro,—soggiunse guardando il professore. Ogni tanto egli le chiedeva se non era pentita d'averlo accettato per compagno della vita. Ed essa gli diceva che era così felice che non poteva ancora credere a tanta fortuna. Era stato come un raggio di sole, nella sua vita, unirsi all'uomo che riguardava con tanta riverenza, al suo professore: come avrebbe voluto aiutarlo, come si sentiva di amarlo! Poi parlarono dell'avvenire: dovevano sposarsi tranquillamente, senza far rumore, e dar spettacolo agli indifferenti: prima sarebbero andati in qualche angolo tranquillo e solitario in mezzo alla natura selvaggia, poi in riva al mare dove la notte si vede illuminata da animali fosforescenti; dovevano nei primi tempi del loro matrimonio dare il bando agli insetti schifosi come le mosche e dedicarsi all'osservazione degli animali luminosi, doveva essere un periodo fosforescente anche nei loro studî. Ogni giorno si rassomigliava in quel periodo, ma erano tanto contenti, e l'ora del tramonto li sorprendeva sempre negli stessi lieti propositi per l'avvenire. III. Il matrimonio avvenne come avevano destinato: senza feste, senza inviti, accompagnati soltanto dalla folla degli indifferenti; andarono a nascondere la loro felicità in mezzo alla natura selvaggia, e il palazzo Grimani rimase chiuso e completamente disabitato. Vissero, per molti giorni, una vita di sogno. Il professore dimenticava le aspirazioni scientifiche, nella gioia di possedere quella fanciulla buona, intelligente e bella, colle guance rosee e gli occhi neri espressivi, ch'egli non si saziava mai di contemplare. Non avrebbe mai pensato di poter dimenticare i suoi studii prediletti per i begli occhi di una fanciulla, e n'era sorpreso. Marcella invece aveva paura della sua felicità, diceva di sentirsi tanto contenta, temeva che il cuore le scoppiasse per la gioia. —È troppo, è troppo!—esclamava;—temo di morirne. Abituati ad osservar tutto con intendimenti scientifici, si studiavano a vicenda, procuravano di scoprire il mistero che li aveva uniti quasi inconsapevolmente. —Peccato che non possiamo esaminare col microscopio quello che avviene nel misterioso laboratorio che è il cervello umano,—diceva Marcella. —È meglio così,—rispondeva il professore;—il mistero è quello che attrae e affascina, analizzare e conoscere i nostri sentimenti non ci renderebbe più lieti. —E se non si potesse continuare ad amarci così intensamente! L'avvenire mi spaventa,—diceva Marcella,—mi par di vivere in mezzo ad una luce abbagliante, che appunto perchè troppo radiosa, si possa spegnere da un momento all'altro. —Sta in noi di tenerla sempre accesa,—non pensiamo all'avvenire che è nelle mani del destino, come non dobbiamo curarci della gente che ci circonda. E così passavano quelle giornate indimenticabili sempre assieme facendo delle lunghe passeggiate, arrampicandosi sui monti, attraversando ghiacciai, rallegrandosi di ogni difficoltà vinta, d'ogni nuovo sentiero scoperto, correndo talvolta come scolaretti in vacanza sulle chine erbose dei monti, ridendo di loro stessi, non riconoscendosi in quella nuova vita giovanile che, repressa dalla serietà dei loro studii, scaturiva baldanzosa come limpida fonte alla quale sia stato tolto ogni impedimento. E si dilettavano in quella vita che avevano riguardata un tempo come frivola, dimenticando tutto, nel timore che dovesse un giorno o l'altro finire. —Eppure dovremo riprendere i nostri lavori,—disse un giorno il professore. —Peccato!—rispose Marcella. Ma intanto il tempo passava e non si risolvevano mai a rompere l'incanto di quelle giornate. Ci volle una bufera di neve a spingerli a lasciare le alte cime e ad avviarsi più giù in riva al mare. Andarono a Napoli e in Sicilia: la temperatura calda, la luce abbagliante del mare azzurro diede loro un nuovo godimento; di giorno ammiravano la instabile superficie delle onde, le vele candide, i bastimenti formidabili; la notte si lasciavano cullare in canotto sull'onde increspate, dove l'ombra era più profonda ed osservavano la fosforescenza del mare che pareva illuminato per far loro festa. Era una scìa luminosa che seguiva il solco del canotto, erano striscie che scendevano dai remi quali frangie d'oro o d'argento. Marcella che vedeva quello spettacolo per la prima volta, ne era entusiasta ed ogni sera voleva goderlo nuovamente senza esserne mai sazia. Una volta il remo andò ad urtare in una massa d'alghe marine e di pesci ed il mare divenne in un istante tanto infocato come se il sole si fosse immerso nelle onde tenebrose. Marcella era in estasi; e il professore disse non esser vero che regni l'oscurità in fondo al mare, chè mille animali pieni di luce lo irradiano e molte sostanze fosforescenti lo inondano di raggi e scintille. Egli che da tanto tempo desiderava studiare la fosforescenza del mare, da quelle passeggiate ne riportò come una suggestione e sentì sorgere nel suo spirito una volontà irresistibile di rimettersi al lavoro. Ecco perchè una sera portarono all'albergo una bottiglia riempita di quell'acqua luminosa, e quando furono nella loro camera, tolsero dalla valigia il microscopio che aveva riposato sempre durante il viaggio, Marcella preparò i vetri con gocce d'acqua marina, e subito si misero ad osservare prima l'uno e poi l'altra lo spettacolo nuovo. Scrutarono attentamente attraverso le lenti, poi si guardarono in faccia sorpresi. Era possibile che tutto quello splendore venisse da animali in putrefazione? Eppure era evidente, il professore lo sapeva, altri avevano studiato quel fenomeno prima di lui, ma egli voleva liberare quei microbi dai fermenti che li producevano e poi studiare la luminosità degli esseri che guizzano nelle acque del mare. Ma in quella stanza ingombra erano troppo a disagio; bisognava decidersi a partire. Tutto a un tratto erasi ridestato in loro il desiderio di rimettersi al lavoro, e subito si diedero a preparare i materiali di studio; ordinarono venissero loro spedite ceste piene di pesci e molluschi, acquarii per poter avere vivi una varietà di animali luminosi, raccomandò che li pescassero la notte per scegliere i più risplendenti, e fecero le valigie allegramente pensando alla ripresa dei loro esperimenti e alla gioia di esaminare quelli esseri illuminanti i profondi abissi del mare: così avrebbero potuto rivivere a casa loro quelle gite notturne, quelle giornate incantevoli. IV. Il palazzo Grimani era in festa; dalle finestre aperte il sole entrava a rianimare i mobili antichi, e le vecchie cose sbiadite parevano rivivere alla nuova luce. Nel giardino, invece dei rami aggrovigliati, dell'erbe invadenti, i cespugli fioriti sorridevano ai sentieri serpeggianti fra le macchie erbose e dalla fontana scendeva un fresco zampillo che gorgogliava nella coppa di marmo. Dalla porta spalancata entrarono gli sposi anch'essi ringiovaniti dalla nuova vita e contenti d'aver quasi raggiunto la felicità. Il primo pensiero di Giulio Grimani fu di dar sesto al suo laboratorio, perchè dopo tanti mesi di riposo era impaziente di rimettersi al lavoro, al quale voleva dedicarsi con maggior lena per aprir nuovi orizzonti alla scienza. Marcella invece era preoccupata da altri pensieri, non aveva più per la scienza l'attrazione d'un tempo, si sentiva mutata e pensava che fra pochi mesi un nuovo ospite sarebbe venuto a rallegrare la vecchia casa, e voleva prepararsi a riceverlo degnamente. Pensava che non avrebbe potuto più dare tutto il suo tempo agli studii del marito, e ciò la rendeva un po' triste. Il professore se ne accorse e le chiese: —Non sei contenta della tua casa, ti dispiace ch'io l'abbia fatta un po' ripulire? —Non è questo che mi dà pena, ma temo che non potrò più aiutarti come prima nei tuoi lavori, e tu che m'hai sposato per questo scopo che cosa penserai di me? —Non temere, ti ho ingannato e volevo ingannare me stesso, ma ti ho sposato perchè non potevo vivere senza averti vicina; eri il mio raggio di sole, la mia gioia, e accetterò il tuo aiuto come un dono, ma se non puoi, farò da me solo. —Quanto sei buono!—disse Marcella,—come tutto è mutato: poco tempo fa mi davi soggezione, un tuo sguardo mi faceva tremare, ed ora provo per te soltanto amore e riconoscenza, ma ti aiuterò, sai, non come prima perchè avrò altre occupazioni; non ti dico di più, è un mio segreto. E il segreto fu subito svelato quando si vide capitare in casa tanti oggetti minuscoli, della tela candida e sottile, e finalmente una piccola culla, che Marcella voleva adornare per il loro bimbo. Mentre Giulio preparava i materiali per i suoi studii, essa tagliava la tela e colle sue mani cuciva piccoli indumenti che parevano fatti per la bambola. Il professore si meravigliava di vederla coll'ago in mano intenta a lavori donneschi. —C'era bisogno di studiare all'Università per far dei lavori che tutte le donne possono fare?—le diceva. —Sono per il mio bimbo, e voglio farli io stessa, sarei gelosa che se ne incaricasse un'altra donna, ma non temere, ti aiuterò e questo lavoro mi terrà compagnia quando andrai a Padova a fare le tue lezioni. E così Marcella passò l'inverno alternando i lavori d'ago agli studii sulla fosforescenza ed era un po' spoetizzata nel vedere che spesso l'origine delle onde luminose, che avevano reso sfolgoreggianti le notti del loro viaggio, non erano altro che residui in putrefazione: un tal pensiero quasi la disgustava. Ma ad interrompere le ricerche scientifiche venne un personaggio importante, che fu un vero raggio di sole per Marcella, a riempire di grida la vecchia casa. Lo chiamarono Aurelio per dargli un nome luminoso come gli studii prediletti in quel tempo dal professore. Marcella volle nutrire il piccolo Aurelio col proprio latte, e nel laboratorio si vide uno spettacolo nuovo; una piccola culla di vimini, imbottita di penne soffici come un nido in mezzo alla grande tavola, fra le fiale di vetro, i liquidi coloranti e le culture di microbi. E Marcella su e giù sempre in moto, ora occupandosi del marito, ora del bimbo, si faceva in due per non perder tempo e badare a tutto. Le rincresceva che il marito si curasse poco del bambino, e lo chiamava un padre snaturato; ma egli non aveva tempo di andare in estasi per un essere che non capiva nulla e non faceva che miagolare come un gattino. Il fatto sta ch'era sulla via d'una nuova scoperta e non voleva distogliere l'attenzione dalle sue esperienze. Ne parlava colla moglie spiegandole le sue speranze, ma essa lo ascoltava distrattamente, pensando che un sorriso del suo bimbo valeva più di tutte le scoperte del mondo intero. Il giorno che l'udì balbettare la prima parola, non potè trattenere la gioia e corse a comunicare la grande notizia al marito; ma lui aveva altro da fare che occuparsi di Aurelio; appunto in quel giorno, aveva ottenuto un risultato insperato, l'ipotesi s'era mutata in certezza, la luminosità d'alcuni animali altro non era che una schiera di microbi fosforescenti che avevano preso dimora nel loro fisico; ed egli volea studiarli, per aggiunger nuove conquiste alla scienza. —Pensa,—disse alla moglie nel suo entusiasmo,—pensa alla gioia di poter illuminare il corpo umano e renderlo trasparente; nulla allora sfuggirà all'occhio attento dello scienziato, e finalmente la medicina sarà una scienza esatta, perchè si potrà vedere come agisca la macchina interna ed ogni piccolo guasto ci sarà rivelato con precisione. —Ma quando le malattie saranno chiare come la luce del sole, potranno essere guarite?—chiese Marcella. —Certo sarà un passo verso la guarigione,—rispose il professore;—ma questo non m'interessa; ho già un bel lavoro davanti a me, per accertarmi che i microbi che vivono e risplendono nei miei animali acquatici, potranno vivere e propagarsi in animali d'indole diversa; sicchè ora ci metteremo all'opera e spero che il signor Aurelio, che incomincia a parlare, ci lascerà lavorare in pace. Legare il proprio nome ad una scoperta benefica era un miraggio troppo bello, e senza trascurare Aurelio, che o dormiva tranquillo nella culla, o seduto sopra un tappeto in mezzo ad una quantità di balocchi non disturbava, Marcella preparava i vetrini, ripuliva gli arnesi, faceva annotazioni come nei tempi in cui era la migliore allieva del professore. Nel laboratorio c'era sempre una quantità d'innocenti animaletti che servivano agli esperimenti e divertivano molto il piccolo Aurelio, che andava loro vicino, li accarezzava colle manine, e quando riusciva a tener tra le braccia un piccolo coniglio o un agnellino era tutto contento. Quelle povere bestioline in quel tempo non vivevano che di microbi luminosi. Il professore voleva renderli trasparenti e vedere in quali animali i microbi inoculati si propagavano con facilità e l'effetto che ne risultava. Gli animali dal lungo pelo non erano molto suscettibili ad essere illuminati; nell'oscurità davano appena una leggera fosforescenza e solo gli occhi ne apparivano lucenti, ma quando il professore incominciò ad inoculare i microbi luminosi ai ranocchi che popolavano la vasca del giardino, solo allora potè rallegrarsi dell'esito sicuro della sua opera. Di notte era una vera fantasmagoria; sotto la pelle sottile si vedeva trascorrere un sangue luminoso ed i ranocchi illuminati che saltavano parevano animali fantastici, immaginati da qualche scrittore di racconti inverosimili. E quello che maggiormente sorprendeva era che i ranocchi diventavano ogni sera più luminosi e più irrequieti, e a poco a poco la luce era divenuta tanto intensa da potervi leggere come in mezzo a una corona di fiammelle elettriche. Per molte sere quegli animali luminosi servirono di spettacolo in casa Grimani, il professore n'era contento e orgoglioso come d'un trionfo, e Marcella meravigliata riguardava il marito con crescente ammirazione. V. Era sulla fine dell'anno scolastico, quando il professore Grimani invitò alcuni colleghi ed amici a passare una giornata a casa sua, dove aveva preparato loro una sorpresa. Accettarono con piacere, certi di passare una giornata lieta in casa Grimani, dove c'era sempre un buon pranzo, e potevano chiacchierare colla signora Marcella delle più ardue questioni scientifiche, trattandola da collega, e ciò la rendeva orgogliosa. Qualche volta essa si divertiva a far dello spirito sopra se stessa. —Che antipatiche le donne sapienti!—diceva. —Non è vero,—rispondevano quei signori, ai quali la scienza non aveva fatto dimenticare la cavalleria,—anzi, la scienza passata attraverso un cervello femminile riesce più amabile. In ogni modo essa sapeva far molto bene gli onori di casa; si occupava di tutto e di tutti, e procurava di disporre ogni cosa con tanta arte che non soffrivano un minuto di noia. Quel giorno la riunione in casa Grimani fu più interessante del solito. La sala da pranzo arredata severamente in stile antico, con mobili autentici di legno intagliato e le pareti ricoperte di damasco rosso, era rallegrata da ceste di fiori, e la tavola risaltava colla tovaglia candida e le stoviglie terse e lucenti. Erano lieti di vedersi circondati da una schiera di persone elette dai nomi conosciuti e stimati in tutto il mondo, che parlavano allegramente come se volessero dimenticare gli studi severi e darsi un po' di bel tempo, scambiandosi semplicemente le loro idee in quell'ambiente simpatico, intorno alla tavola bene imbandita, dove non mancavano nemmeno i vini generosi a metterli di buon umore. Terminato il pranzo, scesero in giardino a prendere il caffè in un piccolo chiosco coperto di glicine, onicere, clematis ed altre piante profumate, e quando scesero le ombre della notte ed il giardino si fece buio, Grimani diede il segnale di alzarsi e condusse gli amici in un grande ambiente al pianterreno, che non si sarebbe potuto dire se fosse una vasta grotta, una cantina, o una stalla, ma aveva l'aspetto d'una cosa e dell'altra. Era l'abitazione degli animali che servivano alle esperienze del professore: intorno alle pareti v'erano nicchie chiuse da cancelli di ferro, da un lato uno zampillo scendeva in una gran vasca che serviva per i pesci e gli animali acquatici e nello stesso tempo per abbeverare gli altri. Prima di entrare il professore narrò i suoi studi sulla fosforescenza. —Ma quello che ora vi mostrerò,—soggiunse,—è il frutto dei miei ultimi esperimenti, ho scoperto in alcuni animali acquatici un microbo luminoso che, date certe condizioni, si propaga e vive nel corpo di animali di specie diversa, e li rende luminosi e trasparenti; ora potrete vederne l'effetto coi vostri occhi. Sì dicendo aperse la porta della vasta stanza, e apparve loro come una visione fantastica. Tutt'intorno alle pareti e sulla vôlta c'erano bagliori indefiniti che mandavano raggi di tinte diverse: era quasi una danza di fiammelle che apparivano e scomparivano ad un tratto come fuochi fatui, poi strisce luminose, azzurre, rosse, infocate, che rammentavano albe e tramonti meravigliosi. Al primo momento tutti quei scienziati e professori rimasero attoniti. —Siamo nel regno delle fate, o vuoi farci assistere ad un racconto delle _Mille ed una notte_?—disse il professor Calvi. —Siete semplicemente nel laboratorio sperimentale d'un insegnante che cerca di scoprire il meccanismo della vita e, qualche volta, ci riesce perchè ha un'assistente impareggiabile,—disse Grimani, guardando sorridente Marcella, poi soggiunse:—Ora venite con me, che è tempo vi presenti alla spicciolata i miei personaggi principali,—e, fatti entrare gli amici in una stanza accanto e sedere intorno ad una tavola, vi pose sopra alcuni ranocchi luminosi.—Ecco l'animale che pare destinato a servire la scienza meglio di qualunque altro; ha incominciato ad essere il collaboratore del grande Galvani, ed ora continua il suo cammino glorioso; nessun animale inoculato coi miei microbi, mi ha dato risultati migliori. Infatti la pelle sottile di quelle rane irradiava una luce così intensa come se dentro ci fosse una fiammella elettrica, e osservando attentamente, si poteva distinguere tutti i movimenti interni del piccolo animale, i battiti del cuore, il sangue trascorrere nelle vene e il nutrimento attraverso il corpo, e quando l'animale era stuzzicato o tormentato, mandava raggi più vibrati, e tutti quei professori si strappavano di mano quelle piccole bestie per osservarle, come i fanciulli fanno coi balocchi. Grimani mostrò poi delle cavie, dei conigli che non mandavano una luce intensa, ma una pallida fosforescenza, e soltanto negli occhi avevano due lucenti scintille; piacque molto un porcellino da latte che dava una luce rosea, e finalmente il professore versò e dispose sulla tavola una sostanza simile a un fiume d'oro e d'argento: sembravano raggi usciti dal sole e dalla luna che illuminassero la piccola stanza e le persone con riflessi insoliti e abbaglianti. Il professore spiegò che tutto quel bagliore era effetto della putrefazione di alcuni animali ch'egli si era divertito ad ottenere in grande quantità, e mostrò come nei profondi abissi del mare, la vita, la morte e la dissoluzione si congiungano assieme per renderli luminosi. I colleghi si congratularono con Grimani degli esperimenti, e, risaliti in casa, pensavano alle applicazioni utili di quella scoperta. —Bisogna tentare sull'uomo,—disse Grimani,—e rendere il corpo luminoso senza bisogno di raggi X e di altri sistemi incompleti, e leggervi come in un libro aperto. E regalò ai colleghi dei tubetti con culture di microbi luminosi perchè li facessero sperimentare nelle cliniche, mentre egli s'ingegnava di fare altrettanto, ed aveva fede che da tanti bagliori, potesse risultare un po' di luce a beneficio dell'umanità sofferente. VI. Tutti i giornali parlavano della scoperta del professore Grimani, traendone lieti pronostici. Egli era contento del modo con cui era stata accolta e dai colleghi e dal pubblico, e s'aspettava ben altro effetto che non fosse quello d'una semplice curiosità. Aveva già fatto esperimenti sui malati negli ospedali, ma sul principio con pochi risultati pratici. Lo scheletro impediva la trasparenza, e soltanto nell'addome e nello stomaco, s'era ottenuto qualche effetto, ma poi per poter conoscere bene il funzionamento dell'organismo, bisognava far prove nelle persone sane, e nessuno voleva sottomettersi ad esperimenti di quel genere. Grimani non si perdeva di coraggio: riuscire nella sua impresa era addirittura per lui una specie di fissazione; le difficoltà, invece di scoraggiarlo, gli davano un nuovo ardire; non solo voleva riuscire a leggere nel corpo umano, ma bensì a scoprire i movimenti del cervello. L'ostacolo era la calotta cranica che avrebbe impedito il passaggio della luce, ma nella prima età non è del tutto rinchiusa, ed egli pensò che aveva il mezzo di continuare i suoi studi senza uscire dalla sua casa; non aveva il suo bambino? Non era suo figlio? Non era padrone di servirsene per i suoi esperimenti, non recandogli alcun danno? e l'avrebbe subito tentato se non avesse temuto di dispiacere a Marcella che non voleva si toccasse il suo figliuolo. Una volta entrata quell'idea nel suo cervello, non ebbe più pace, amava la scienza più di tutto, e a questa doveva sacrificare tutto. Incominciò allora una serie di sotterfugi per far le cose in modo che Marcella non avesse alcun sospetto; mostrò di occuparsi di più del suo bambino, lo teneva in braccio spesso e lo faceva giocherellare, interessandosi a' suoi progressi, tanto che Marcella ne era sorpresa, ma nello stesso tempo contenta che il marito si compiacesse delle grazie del figliuolo. Per molto tempo si contentò di servirsene di trastullo, ma un giorno che Marcella era fuori di casa, si decise al gran passo e inoculò nelle vene del figlio i microbi luminosi. Non fu senza inquietudine, a dire il vero; ad ogni grido del fanciullo, tremava che si sentisse male; la notte si alzava per andare ad osservarlo, al punto che la moglie gli diceva che se prima non si occupava di Aurelio, ora poi esagerava, e temeva in cuor suo che il troppo lavoro gli avesse prodotto un po' di squilibrio nel cervello. Intanto Aurelio mangiava e saltava, ed era allegro; il professore continuava ad inoculargli segretamente i microbi e a metterglieli nel latte che doveva servirgli di nutrimento; secondo i suoi calcoli, fra poco tempo dovevano produrre il loro effetto, e non cessava intanto di osservarlo. Una sera Marcella entrò per caso al buio in camera d'Aurelio, e fu colpita nel vedere un'aureola luminosa che aveva intorno al capo e lo faceva apparire come il bambino Gesù e gli angeli dipinti nelle chiese. Provò un'emozione come se il suo bimbo fosse morto e non aveva coraggio di avvicinarsi al letto; poi si fece innanzi, si consolò sentendo uscire dalla bocca infantile un respiro leggero come un soffio, s'accorse del punto donde usciva la luce, e la verità le balenò subito alla mente. Suo marito aveva osato servirsi del figliuolo pei suoi esperimenti? Non aveva dunque viscere di padre? E lo aveva fatto di nascosto, senza dirle nulla come se si trattasse d'un delitto? Sapeva dunque ch'essa non avrebbe mai permesso una simile profanazione. Era troppo! Il suo amore di madre si ribellava al fatto atroce, e un'irritazione le saliva dal cuore al cervello che la faceva tremare dal dispetto. Non sapeva che cosa avrebbe fatto, ma sapeva certo che non avrebbe più lasciato il suo Aurelio vicino al padre, e tutto ad un tratto si sentì sorgere nel cuore un fiero odio alla scienza che rendeva gli uomini insensibili agli affetti più santi. Senza por tempo in mezzo, avvolse il bimbo in una coperta, lo prese in braccio, e senza dir nulla a nessuno, uscì dal palazzo Grimani e si recò per quella notte dalla cugina, calcolando di partire all'alba per la montagna, dove avrebbe trovato un rifugio tranquillo nella sua casetta. Quando il professore, ignorando quello che era avvenuto, entrò nella cameretta di Aurelio e la trovò deserta e seppe che la moglie era partita senza salutarlo e senza dir nulla a nessuno, credette che la sua vecchia casa fosse crollata e la sua felicità fosse sparita per sempre. Scrisse una lettera alla moglie per iscusarsi, disse che era sicuro di non aver recato alcun danno al figliuolo che amava più di ogni cosa al mondo, si sentiva, è vero, colpevole di non averle detto nulla, ma n'era pentito amaramente. Marcella fu inesorabile, non rispose; il marito l'aveva ingannata e non poteva più credere alle sue parole, il suo amore di madre era troppo offeso e non sapeva darsi pace. VII. Marcella era contenta di essere in mezzo ai monti, sola col suo bimbo, di poter passeggiare nei boschi, correre, giuocare, lontana da ogni pericolo; lo vedeva rifiorire in quella vita libera, a quell'aria salubre e imbalsamata, e non si pentiva della decisione presa. Dopo qualche giorno si era calmata la sua paura, e nella solitudine e nel silenzio della notte ridestandosi la curiosità scientifica, osservava la testolina luminosa del figlio e si sorprendeva notando i movimenti del cervello, che mandava spesso scintille più o meno luminose, secondo le imagini che si succedevano e le impressioni che ne riceveva. Aurelio cresceva come un fiore rigoglioso, e pareva che i microbi inoculati nel suo organismo gli avessero dato maggior vigore, al punto che Marcella era quasi pentita della decisione presa, ed incominciava a pensare al marito con vera indulgenza. Essa non sapeva come egli fosse rimasto affranto dal dolore, vedendosi abbandonato dalla moglie che adorava: non sapeva che s'era ammalato gravemente al punto da dover chiamare presso di sè il fratello e il nipote, nel timore di non poter sopravvivere, e non volendo dar sue notizie a lei, che era stata tanto crudele da abbandonarlo. —Se io muoio, sarà il suo castigo,—aveva detto al fratello, parlando di Marcella,—e ne avrà rimorso per tutta la vita. E il fratello Paolo fu un vero consolatore per lui, e il nipote, mostrando molto interesse per la sua scoperta, pareva gli ridonasse la salute. —Era forse un delitto fare sul proprio figlio un esperimento innocente?—chiedeva il professore. —Anzi, tutt'altro; io sarei glorioso,—rispondeva il nipote,—di poter esserti utile. —Davvero? e ti presteresti ad un esperimento? —Se credi, caro zio, mi metto subito a tua disposizione. —Bada che sono capace di prenderti in parola,—disse lo zio, e rivoltosi al fratello chiese:—E tu permetteresti? —E perchè no?—rispose Paolo,—mi fido di te interamente. Il professore era contento; ciò avrebbe servito d'esempio anche alla moglie, se il fratello gli affidava il suo unico figlio, e poi poter studiare l'effetto dei microbi in una persona sana, era quello che desiderava da tanto tempo, e sarebbe stato un diversivo ai suoi dispiaceri. Così, mentre Paolo scriveva alla cognata per persuaderla al ritorno, dicendole d'aver trovato Giulio molto ammalato ed avvilito, raccontava ch'egli aveva permesso a suo figlio, la sola persona che lo tenesse attaccato alla terra, di servire agli esperimenti del fratello, e che questi si effettuavano ogni giorno, ed Enrico si lasciava inoculare i microbi fosforescenti, ne ingoiava nel cibo, sorridendo e scherzando, contento di servire così alla scienza. Del resto, diceva che i microbi gli facevano bene alla salute, perchè dopo averne fatta la conoscenza, si sentiva aumentato l'appetito e avea il sonno più tranquillo. Ogni sera, quando i lumi erano spenti, Enrico si guardava nello specchio per vedere se il suo corpo incominciasse a dar segni di fosforescenza. Dopo qualche giorno, forse per effetto d'immaginazione, gli parve già di risplendere nell'oscurità, e lo disse allo zio, il quale era certo che la sua cultura di microbi era d'esito sicuro, però voleva aspettare ad esaminarlo che il corpo avesse ottenuto la massima trasparenza, intanto si compiaceva di vederlo di buon umore ed in perfetto stato di salute. —Possibile—diceva—che i miei microbi possano servire di farmaco? Non ti ho mai visto così florido! —Non fanno male di sicuro, mi sento bene e pieno di forza. Una sera però il professore, esaminando bene il corpo del nipote, si mostrò invece cupo e non ebbe più voglia di scherzare. —Perchè fai quella faccia scura,—disse Enrico,—hai forse scoperto nel mio corpo qualche principio di terribile morbo? —C'è qualche cosa che non so spiegarmi, vedremo meglio domani,—rispose il professore, ma rimase tutto il giorno svogliato e silenzioso. Pareva che un nuovo dolore fosse piombato sul vecchio palazzo. Paolo aveva un cattivo presentimento e non osava chieder nulla. Soltanto Enrico era calmo e sereno, si sentiva bene e non voleva inquietudini. In seguito ad altri esami, quando il corpo del nipote, sotto l'azione dei microbi s'era fatto più luminoso, il professore non ebbe più dubbio, e fu convinto che un punto nero scoperto all'apice d'un polmone, era un principio d'una malattia che avrebbe potuto distruggere un'esistenza così preziosa, ma non si sentiva il coraggio di darne al fratello la notizia, pur riconoscendone il dovere. Una sera che Enrico era andato a leggere nello studio di Marcella e i due fratelli s'erano indugiati in sala da pranzo a sorseggiare il caffè ed a fumare un sigaro, Paolo ruppe il silenzio e disse al professore: —Ti prego di dirmi la verità, hai scoperto nel corpo di Enrico qualche cosa che non va bene e vuoi nasconderla? —Veramente non sono sicuro di me stesso, la medicina è una scienza molto difficile, ed io la conosco in teoria e poco in pratica, e m'impressiono facilmente per cose da nulla. —Ma in nome del cielo, che cosa hai veduto?—chiese Paolo. —Semplicemente un punto nero, forse non è nulla, oppure basterà qualche cura semplice a farlo sparire. Ma vedi, ora sei diventato pallido ad un tratto, ti spaventi? Come sono pentito di quello che feci e d'aver parlato, ma sei stato tu a spingermi. E da quel giorno non ebbero più quiete, fecero visitare Enrico da medici e professori, e tutti trovarono il punto nero. Chi diceva una cosa, chi un'altra, forse era nulla, un ingorgo al polmone con un po' di congestione: chi suggeriva un rimedio, chi un altro, cose da far perdere la testa. Paolo non sapeva più che pensare, ma il dubbio gli era penetrato nell'animo e non poteva darsi pace. Il professore sentiva rimorso d'essere stato causa di quel dolore, e cupo, accigliato, non faceva più alcun esperimento e odiava i microbi, causa di tutti i suoi dispiaceri. —Come, non vuoi più inocularmi i tuoi microbi?—diceva Enrico. —Non ne voglio più sapere. Li odio, voglio gettarli nel pozzo. —Allora inquineranno l'acqua e diventeremo tutti trasparenti,—disse Enrico.—Mi rincrescerebbe, vorrei io solo aver questo privilegio. —Non l'avrà più nessuno,—disse Grimani.—A morte, a morte! Sì dicendo, fece una fiammata sul camino e vi gettò tutte le culture dei microbi. Fu un attimo; nè Paolo nè Enrico riuscirono a salvarne nemmeno un tubetto. —Sei pazzo?—gli disse Paolo—Dopo tante fatiche! te ne pentirai. —Non m'hanno recato che dolori. Ora è finita, sono morti per sempre,—disse il professore. Ma la sua voce tremava e chinò il capo per nascondere le lagrime che sentiva inumidirgli le ciglia. Sul capo di quei tre uomini seduti nel vasto laboratorio, pareva che sovrastasse un'immensa sventura; non osavano parlare, temendo di rattristarsi colle parole desolate, e non si sarebbe potuto dire quali avessero maggiormente un aspetto spettrale se i tre vivi o i ritratti degli avi che spiccavano sulle scure pareti. Ad un tratto un rumore di usci aperti e rinchiusi, un fruscìo di vesti femminili, e un suono di voce argentina, ruppe il cupo silenzio. Marcella si fermò sulla soglia, mentre Aurelio si precipitò colle manine aperte verso il professore. —Papà, papà!—gridò la voce infantile. Egli si scosse come da un sogno, e disse: —Tu qui, Marcella? È il cielo che ti manda. —Perdono,—disse la donna gettandosi nelle sue braccia,—ti ho dato un gran dolore, me ne avvedo dal tuo volto disfatto. Poi ringraziò il cognato e il nipote, venuti a confortare il marito ch'essa aveva abbandonato. —Ho fatto male,—soggiunse,—sono stata un'ingrata, ma lo sdegno è stato più forte di me. —Non ti so dar torto, non bisogna voler strappare i segreti alla natura: il cielo nol permette. —Perchè sei così scoraggiato? Mi fai pena, bisogna rimettersi al lavoro, anzi, guadagnare il tempo perduto. Aurelio sta bene, s'è fatto più robusto e intelligente, forse saranno stati i microbi. —Ora sono morti,—disse il professore,—non turberemo più la loro pace. —Come?—esclamò Marcella con uno sguardo interrogativo. —Distrutti,—disse Paolo. —E tu hai fatto questo?—chiese rivolta al marito.—Non ci sarà mai possibile rinunciare a studii così interessanti, ritorneremo da capo. Il professore crollava il capo come per dire che tutto era finito. —Pare che abbiano rivelato una grave malattia nel mio organismo,—disse Enrico.—Ecco il loro delitto. —Una malattia? Non può essere, con quell'aspetto; ma so certo che non si può osservare con calma quelli che si amano. Se sapeste quanti mali, lassù nella solitudine della montagna, ho veduto sorgere e tramontare nel corpo del mio bambino quando era sotto l'influenza dei microbi! Ora son passati e sta bene; nella solitudine della vita campestre, i miei nervi si sono calmati e la verità è apparsa intera al mio spirito. Ho capito che è una scoperta che non solo ci mostrerà le malattie, ma forse potrà aiutarci anche a curarle. Poi volle esaminare il nipote affermando che coll'esercizio continuato nell'osservare il piccino, la sua vista s'era fatta più acuta: lo condusse in una camera oscura e ne esaminò il petto. —Che cosa hai veduto?—chiese al marito. —Un punto nero. —Hai dato corpo alle ombre, è proprio così, quel punto nero è un'ombra, non vedi? Mano mano che Enrico si muove, esso si sposta, eccone la prova più convincente. —E gli altri?—chiese il professore. —Sono stati suggestionati, ecco la verità: vi dò la mia parola di dottoressa, che Enrico sta benone. Ella ordinò a tutti di andare a ritemprarsi assieme nella sua casa in montagna. —Abbiamo sofferto troppo e prima di riprendere il lavoro, propongo di andare a scacciare i tristi pensieri e passare qualche giornata lieta. —Approvato,—dissero tutti in coro. —Non mi scapperai più via,—disse il professore a Marcella. —No, ma devi promettermi di non far più esperienze sul corpo di nostro figlio. —E nemmeno su quello di Enrico, ne puoi star sicura, ho sofferto troppo,—rispose il professore. Paolo era ritornato di buon umore, e diceva che la scienza è pericolosa dopo che l'albero della scienza del paradiso era stato la rovina di Adamo ed Eva. —Ma fu l'origine dell'umanità,—osservò Enrico. —Infine non sappiamo nulla,—disse il professore,—intanto godiamo di questa tregua alle nostre ansie. Chi ci avrebbe detto un'ora fa, quando eravamo tanto tristi e abbattuti, che in poco tempo tutto potesse mutarsi? Ma mia moglie è ritornata a ridonare la pace e la serenità alla vecchia casa che pareva sul punto di crollare. Ora mi sento nuova lena per ricominciare il lavoro interrotto. —Ed io non t'abbandonerò più,—disse Marcella. —Lo credo bene,—saltò su Enrico,—colla tua scienza ci hai ridato la pace e fatto la luce. DIVINAZIONE. In generale, quando il dottor de Roberti invitava a pranzo i suoi colleghi, dimenticava le noie della professione, era allegro, vivace, spiritoso, parlava di cose frivole, e gli pareva d'esser ritornato ai bei tempi in cui era studente. Egli sedeva a tavola come al solito, cogli amici, ma quella sera non parlava, rispondeva a monosillabi e pareva assorto in un pensiero tormentoso. —A che cosa pensi? Dov'è scappato il tuo buon umore? hai qualche pensiero che ti preoccupa?—gli chiesero i compagni. —Nulla,—rispose il dottore,—penso ad un caso strano che mi è accaduto in passato, e che oggi un avvenimento nuovo ha ridestato nella mia memoria. —Potresti bene raccontarcelo, piuttosto di startene pensieroso a ruminarlo nella tua mente,—disse il suo vicino di tavola. —Quando il cervello è carico di pensieri, il solo mezzo per sollevarlo è dar la stura al discorso, la parola è la valvola di sicurezza dei pensieri che ci opprimono,—sentenziò un altro. —Sentiamo questo caso strano;—dissero in coro tutti gli amici; e soggiunsero vedendolo titubante:—Fuori infuria la bufera e in questo tepore, raccolti intorno alla tavola con una tazza di moka davanti e una sigaretta in mano, sarà un vero godimento ascoltare una storia curiosa, narrata nel modo squisito ed elegante come tu solo sai fare. —Non ho bisogno di queste lusinghe,—disse de Roberti,—ma sarò compiacente e vi racconterò la mia storia che forse potrà interessarvi; in ogni caso, mi farà bene vuotare il sacco e resterò più leggero; solo mi permetterete di non dirvi il nome dei miei personaggi per non tradire il segreto professionale. Rimase qualche istante assorto come per raccogliere le idee e incominciò: «—Era un pomeriggio di primavera, una di quelle giornate tepide, piene di profumi e d'incanti, che invitano a correre all'aperto a prendere un bagno d'aria e di sole, e riesce d'immenso sacrificio quel doversene star rinchiusi fra quattro mura a udire il racconto di tanti mali che tormentano l'umanità. Erano sfilati davanti a me un bel numero di pazienti, altri erano ad attendere nella sala d'aspetto, ma mi sentivo stanco, provavo un desiderio prepotente di andare a passeggio e avevo deciso di non ricevere più nessuno, quando il mio cameriere mi disse che una signora insisteva per essere ricevuta. «—Ritorni domani,—diss'io. «—Non vuole andarsene,—disse il cameriere,—ha detto che si sbrigherà presto; poi è tanto carina,—soggiunse. «Pensai che forse gli aveva dato una grossa mancia; non mi sentivo più la forza di oppormi e dissi:—Falla entrare;—tanto è vero che qualche volta, quando si è stanchi, ci si lascia suggestionare anche dal cameriere. «Era una signora giovane, elegantissima, ben proporzionata nella persona, cogli occhi neri, profondi e la bocca piccola, sorridente, ma in fondo a quello sguardo acuto e a quel sorriso c'era qualche cosa di così triste che inspirava ad un tempo simpatia e compassione. Essa mi porse la mano dicendomi: «—Perdonate se vi disturbo, ma ho sentito parlar tanto di voi, e so che oltre ad essere un abile medico, siete un profondo psicologo. «—Non sembrate ammalata,—diss'io.—Il vostro aspetto è fiorente. «—L'apparenza inganna,—rispose,—e poi sono tanto infelice.... «Così per far qualche cosa e per inveterata abitudine, le toccai il polso dicendo: «—Sentiamo le vostre sofferenze. «—Prima di tutto ho la disgrazia d'esser ricca,—riprese,—poi quella di leggere nel pensiero altrui, e so pur troppo che tutti agognano alle mie ricchezze e nessuno mi vuol bene sinceramente, ed io ho invece tanto bisogno d'affetto. «Aveva le lagrime agli occhi e m'inspirava una gran compassione, ma ero incerto, non sapevo che cosa dirle, quando a un tratto si staccò da me: «—Non sono pazza!—esclamò con voce irritata. «Era appunto il pensiero che m'era passato per la mente e quella chiaroveggenza mi sorprese. «Da quel momento la mia ammalata incominciò ad interessarmi e dimenticai il tepore primaverile e i campi in fiore per dedicarmi a quell'essere grazioso che mi si presentava tanto diverso dagli altri. «—Scusate,—le dissi tutto confuso,—non vi conoscevo, ora vi siete rivelata e vi credo; potete continuare. «—Ecco,—rispose,—appena voi mi avete toccato la mano e un pensiero si è formato nella vostra mente, esso si è riflesso nella mia come in uno specchio, e così avviene sempre e con tutti, e ciò forma la mia infelicità, perchè so con certezza matematica che non ho un amico sincero. «—Veri amici non se ne trovano tanto spesso,—io dissi,—ma siete bella, giovane, ne incontrerete certo sul vostro cammino, e più fortunata d'ogni altra potrete conoscere a fondo il loro cuore e il loro pensiero. «Scosse il capo malinconicamente e rispose: «—Ho avuto una sola vera affezione nella mia vita, mia madre! Se sapeste come ero felice in quel tempo! Sapevo che il suo cuore era tutto per me, ero la sola sua preoccupazione, il suo unico pensiero, non viveva che per farmi lieta, per circondarmi di tutte le comodità della vita, essa accumulava denaro per lasciarmi ricca, s'impensieriva se una nube passava sulla mia fronte. Non vi posso descriver le mie sofferenze quando la vidi ammalata, lo strazio che provavo ogni volta stringendo la mano del dottore che la curava, sapendo che non c'era più speranza di salvarla, come mi faceva credere colle parole che mentivano pietosamente. E poi quando tutto fu finito e rimasi sola al mondo, senza fede, senza illusioni e senza amici, quale sciagura! «Essa aveva le lagrime agli occhi; io cercavo di consolarla facendole intravvedere un avvenire più lieto, quando forse un cuore affettuoso l'avrebbe compensata della materna affezione perduta per sempre. «—Per un momento l'ho creduto anch'io,—disse,—ma mi sono ingannata. Incontrai un giovane che chiese la mia mano; pareva sincero, mi era simpatico e l'avevo accettato perchè troppo penosa mi riusciva la solitudine. Che disillusione! mentre mi teneva per mano e le sue labbra mi dicevano parole d'amore, la sua mente pensava al modo d'impiegare le mie ricchezze, egli meditava di vendere la casa dei miei avi, di mutar tutto quello che aveva per me la religione delle memorie, voleva darsi a speculazioni azzardose, farmi cambiar metodo di vita e consuetudini, e mai nessun pensiero gentile al mio indirizzo, parole, soltanto parole per nascondere il vuoto dei suoi sentimenti. «Come potete credere, mandai tutto a monte e così ebbi la soddisfazione di guastare i suoi piani, ma che mi giovò? Sono stanca della vita e venni appunto a voi per trovar rimedio alle mie sofferenze. «—Bisognerebbe che mutassi la vostra natura,—diss'io,—prendendole la mano,—e la vostra stessa sensibilità, quella che vi e cagione di tali sofferenze e disinganni, vi colloca fra le persone privilegiate; non posso che offrirvi la mia amicizia; e questa è sincera e senza secondi fini; vi permetto di leggere liberamente nel mio pensiero,—dissi, porgendole la mano. «Essa me la strinse fra la sua sorridendo. «—Grazie,—disse,—accetto di cuore. Ho tanto bisogno d'un'amicizia sincera; però anche la vostra è alquanto interessata. «La guardai con uno sguardo interrogativo e trionfante, sperando di coglierla in fallo. Essa soggiunse colla sua voce insinuante e con un accento un po' ironico: «—Interessata,—lo ripeto,—e non m'inganno. Non sono le mie ricchezze che vi premono, ma trovate ch'io sono un essere curioso, degno d'esser studiato, un bel caso, come dite voi medici, e l'amore della scienza vi spinge ad offrirmi la vostra amicizia. «Io ero attonito; aveva ancora letto come in un libro aperto quello che stava in fondo al mio pensiero; sentivo una vera simpatia per quella giovane, ma la curiosità di studiare il mistero di quella sensibilità straordinaria, di quella divinazione meravigliosa, m'avea spinto ad offrirle la mia amicizia: ero confuso come se fossi stato colto in fallo, ma essa con accento franco e risoluto, soggiunse: «—Ebbene, comunque sia, accetto con tutto il cuore la vostra offerta, almeno il movente ne è più elevato e posso esser utile a qualche cosa; ciò mi riconcilia coll'esistenza; dunque siamo intesi,—disse congedandosi,—me ne vado contenta perchè so di aver trovato un amico.» * * * * * De Roberti fece una pausa per riposarsi, accese una sigaretta e diede un profondo sospiro evocando quei ricordi passati. I suoi amici pendevano dalle sue labbra, impazienti che continuasse il racconto che incominciava a riuscir loro interessante. Dopo qualche minuto il dottore riprese: «—Vi confesso che penso all'amicizia di quella donna con sincero rimpianto, passai con lei ore veramente deliziose e interessanti—non sorridete, fu un'amicizia pura, senz'ombra di sottintesi, eccezionale come la persona che la inspirava.—Vi dirò anche che quella sua chiaroveggenza mi metteva sgomento, dovevo fare uno sforzo per padroneggiare i miei pensieri e disciplinarli, e quantunque mi accogliesse con festa e mi trovassi molto bene nella sua compagnia, non potevo prolungar troppo le mie visite. Andavo generalmente di sera, quando era sola, essa si confidava a me interamente e ascoltava i miei consigli. Era invero un essere eccezionale, degna d'essere studiata, i suoi sensi erano acutissimi e raffinati, indovinava con uno sguardo il carattere d'una persona, coll'aiuto del tatto, leggeva nel cervello altrui come in un libro aperto, pareva un essere fatto per un altro mondo, dove dovesse regnare la sincerità. È certo che in mezzo a noi, abituati a nascondere la verità coll'artificio della parola, si trovava a disagio, soffriva continuamente nell'intimo del suo animo, e quei patimenti si ripercuotevano anche sul suo fisico alquanto delicato, e se io non le avessi dato delle norme di vita per poter lottare contro le pene dello spirito, avrebbe perduto la salute. Non la curavo con farmachi inutili; nemmeno gli anestetici riuscivano a diminuire quella morbosa sensibilità; mi preoccupavo soltanto dello spirito, la consigliavo a mutar spesso luoghi e conoscenti: infatti in ogni nuova persona che avvicinava, avea l'illusione di aver trovato un'anima sorella, ed era tutta piena di speranza, ma quando leggeva nel pensiero della nuova amica, e ne approfondiva i sentimenti, era una nuova delusione, e soleva dire, che sempre più si persuadeva che nel mondo tutto è ignobile e interessato, si spera che quelli che ci avvicinano siano diversi dagli altri, s'incomincia ad amarli e il disinganno riesce più doloroso. «Aveva momenti di scoraggiamento e di misantropia ch'io dovevo combattere con tutte le mie forze, trovando pericolosa quella tendenza alla solitudine che nel suo stato d'animo avrebbe potuto condurla alla lipemania. «Cercavo di far sorgere in lei ogni tanto un interesse nuovo per distrarla. Ora le consigliavo di leggere dei libri serii ch'erano i migliori amici, i soli che non tradiscono mai, oppure la spingevo a fare delle escursioni alpestri nelle quali l'animo si ritempra al contatto colla natura selvaggia, suscitavo nel suo spirito la passione per le arti, per lo sport, per le scoperte scientifiche, e la trattavo come una bimba che ha bisogno continuamente d'un nuovo divertimento. «Mi era riconoscente, diceva che ero la sola persona che le volesse un po' di bene, il suo solo amico; leggeva nel mio interno e, secondo lei, ero un uomo perfetto; mi diceva generoso, buono, indulgente, dedito solo alla scienza e al bene dell'umanità, e tante altre cose che facevanmi temere che leggesse nel mio pensiero con lenti d'ingrandimento.» I suoi ascoltatori protestarono, ma egli senza interrompere il suo racconto continuò: «Sta il fatto che ero il suo confidente e quella fanciulla m'interessava ogni giorno di più. Era straordinaria; peccato che non si prestava volentieri a lasciarsi studiare e che nell'interesse ch'io prendevo per la sua persona, nel godimento della sua piacevole conversazione, dimenticavo la scienza e la mia professione e mi lasciavo cullare dall'incanto di quella voce insinuante. «Non veniva a casa mia che raramente, quando aveva qualche cosa da chiedermi, ed era un po' di tempo che non andavo a vederla. «Un giorno capitò da me improvvisamente come una bomba. Non aveva la sua solita faccia serena, ma era confusa, incerta come chi non sa incominciare un discorso. «Io la guardai un po' sorpreso e inquieto. «—Che c'è di nuovo?—le dissi,—Che cosa avete? «—Caro dottore,—rispose,—non mi rimproverate, ma sto per fare una grande sciocchezza. Mi sono decisa a prender marito. «Non so perchè, a quell'annuncio così imprevisto, rimasi un po' contrariato, ma mi dominai subito; dissi, sorridendo: «—Voi che leggete nel pensiero delle persone avrete meglio d'ogni altro la possibilità di fare una buona scelta. «—Pur troppo ci sono cose inesplicabili, sentimenti che non si possono vincere,—rispose,—ed io mi trovo nel caso di uno che vede un abisso davanti a sè e vi si sente attratto irresistibilmente. «—Sentiamo di che cosa si tratta,—io dissi facendomela sedere vicino,—forse il diavolo non è così brutto come si dipinge. «Allora mi narrò che si era incontrata col conte V.... un giovane simpatico, elegante, appartenente alla migliore società e se n'era innamorata pazzamente: era un giovane scioperato, che non aveva mai fatto nulla di buono nella sua vita, amava il giuoco, le feste, le allegre brigate e i divertimenti; avendo veduto diminuire la sua sostanza, aveva pensato di prender moglie per continuare la sua vita spensierata. «—Che volete?—disse,—sono certa d'essere infelice, ma mi sento attratta verso di lui da una forza misteriosa alla quale non posso resistere. «Io la tenevo per mano e non sapevo che dirle; la sentivo così innamorata, così risoluta nella sua decisione che qualunque cosa le avessi detto per distogliernela, le avrebbe fatto l'effetto contrario. «—Mi compiangete,—soggiunse.—Indovino tutto quello che potreste dirmi per distogliermi dalla risoluzione presa; me lo sono detto io stessa, è il destino che mi spinge, sono debole come una foglia travolta dalla bufera, non posso opporre nessuna resistenza. «—Almeno,—dissi,—pensate all'avvenire, servitevi del vostro privilegio di prevedere gli avvenimenti per salvarvi dalla rovina. «—Farò quello che potrò,—rispose alzandosi e stringendomi la mano,—promettete di restar sempre il mio fido amico; ciò mi darà coraggio. «Promisi, e quando la vidi uscire mi fece l'effetto di persona inerme che andasse a cacciarsi nel mezzo d'una fiera battaglia. * * * * * «Per alcuni mesi rimasi senza notizie della mia amica e vi confesso che sentivo molto la mancanza di quell'essere eccezionale, sentivo un vuoto intorno a me come se avessi perduto una figlia carissima, rimpiangevo le piacevoli ore passate con lei, le intime conversazioni indimenticabili. «Però non si era dimenticata di me, e a poco a poco si stabiliva fra noi una corrispondenza continuata ed assidua. «Ebbe un periodo di felicità, si sentiva amata dal suo sposo e il mondo le appariva ad un tratto migliorato, e che tutti fossero più buoni per lei dopo che la sapevano protetta e felice. «Viaggiò molto, frequentò la società elegante, divenne quasi frivola e mondana. «Nella gioia di sapersi amata si abbandonava interamente a seguire la volontà del marito come se si trovasse sdraiata in una barca su lago tranquillo lasciandosi trascinare dalla corrente. «Non penso a nulla—mi scriveva—mi affido alla vita e non tento nemmeno di sapere quello che pensa il mio compagno, si sta tanto bene qualche volta trascorrendo i proprii giorni nell'ignoranza. Sono come in un sogno e temo di risvegliarmi.» «Poi vennero lettere meno serene, nelle quali s'indovinava un turbamento ch'ella voleva nascondere, poi altre dove non celava più la sua preoccupazione per l'avvenire. «Un giorno, quando la credevo lontana mille miglia, venne da me improvvisamente e tanto mutata che mi fece un'impressione penosa. «La sua faccia pallida aveva perduto il bel colorito della salute e intorno agli occhi bruni e profondi aveva due cerchi turchini come se fosse uscita da una malattia; teneva in mano una borsa voluminosa che le dava un aspetto strano. «—Siete ammalata,—le dissi. «—Forse, ma non importa. «—E vostro marito? «—Come l'avevo preveduto, non mi ama più, mi tradisce e mi rovina, pazienza,—soggiunse con un sospiro doloroso,—ormai sono destinata a trascinare la mia catena, un fiume non può rimontare alla sorgente, così non si può rivivere il tempo passato; ma voi mi siete sempre amico?—chiese rivolgendomi uno sguardo supplichevole. «—Accertatevene voi stessa,—dissi, offrendole la mano. «La prese ansiosamente, come il naufrago una tavola di salvezza, e soggiunse: «—È vero, siete sempre uguale, i vostri sentimenti non sono mutati. Siete la sola persona di cui posso intieramente fidarmi; a voi affido il mio avere, tutto quello che ho potuto salvare dal naufragio. «Sì dicendo, aperse la borsa che teneva in mano e trasse fuori carte di valore, titoli al portatore, mucchi di cartelle che si accatastavano disordinatamente sul tavolino. Non avevo mai visto tanti valori riuniti, mi davano le vertigini e stupivo di vederli trattare con tanta indifferenza come fossero carte straccie. «Osservavo in silenzio e non capivo che cosa volesse fare di tutte quelle ricchezze. «Essa contava: «—Cento, duecento, cinquecentomila, ecco tutto quello che mi rimane, e che io affido a voi per salvarlo; vi raccomando, non dite nulla a nessuno, prendete. «Io esitavo, e la guardavo esterrefatto. «—Mi credete pazza,—disse,—non lo sono: v'ingannate, vi prego di tener questa somma come sacro deposito, datemi ancora questa prova d'amicizia, sarà forse l'ultima. «—Almeno mi concederete di farvi due righe di ricevuta,—io dissi. «—Non importa,—rispose,—ho letto abbastanza nella vostra anima per convincermi che di voi posso fidarmi. «—Ma potrei morire. «—Morrò io prima, lo sento, sono tanto ammalata. Anzi, se questo avviene, adoperate il mio avere in qualche opera di beneficenza. «Le feci scrivere questo suo desiderio e volli che accettasse da me due righe di ricevuta, che nascose in un medaglione che teneva attaccato alla catena dell'orologio, dicendo: «—Mio marito non sa nulla, non deve sapere, ricordatevi, ha sempre ignorato questa parte della mia fortuna che sono riuscita a nascondergli, ma ora non posso più, non ho più la forza di lottare; non sapete?—mi disse abbassando la voce,—che una volta avendogli io rifiutato del danaro, ho sentito in lui il desiderio della mia morte, e—orribile a dire—gli è passata nella mente anche l'idea di sopprimermi; quanto ho sofferto non potete immaginare! basta! ora è finita, non l'amo più. «—E vivrete ancora con lui? Avete questo coraggio? «—Ormai crede ch'io non possieda più nulla, non avrebbe più scopo di uccidermi; ora viaggia, si diverte e non si chiede nemmeno in che modo io possa vivere.... Devo tornarmene per definire alcune cose ancora, poi verrò a chiedere asilo alla vostra casa di salute; anzi, se possibile, dovreste prendere in affitto per me un villino nelle vicinanze, e ricordatevi per la nostra vecchia amicizia che mi accoglierete come vostra ospite: sono tanto ammalata, che ho bisogno d'esser vicina al mio medico, e il mio spirito appunto invoca il suo vecchio amico. Acconsentite, non è vero? «La rassicurai e intendevo subito offrirle ospitalità nella mia casa, ma volle partire promettendo che sarebbe ritornata al più presto possibile. «—Sarà la mia ultima fermata,—disse congedandosi,—e l'ultimo pensiero che mi sorride è di morire presso di voi. * * * * * «Dopo pochi giorni, io era in festa preparando un bel nido presso la mia casa, avevo preso in affitto un grazioso villino inghirlandato di rose rampicanti, stavo ammobiliandolo elegantemente perchè fosse degno della mia amica, quando mi venne l'annuncio della sua morte. «Pensate alla mia sorpresa e al dubbio orribile che mi assalse: mi passò per la mente che il marito l'avesse uccisa per impadronirsi degli ultimi residui della sua fortuna. Che cosa avrei dovuto fare? accusarlo? A che scopo? Forse m'ingannavo, mi contentai di chiedere alla sua fida cameriera, che venne a recarmi il medaglione colla mia ricevuta, ragguagli su gli ultimi momenti della sua padrona. «Disse che era ammalata da molto tempo e ogni giorno la vedeva farsi più debole e stanca; del marito non sapeva nulla, ma l'amava sempre e soffriva di quell'abbandono. Poi mi narrò che la mia amica, sentendosi morire, le diceva: «—Rammentati quando sarò morta che devi recare tu stessa il mio medaglione d'oro al dottor de Roberti, e il mio ritratto che sta nel salotto, gli dirai di tenerli per mia memoria, che pensi a me e si rammenti l'incarico che gli ho dato. «Parlandomi degli ultimi momenti della sua signora era commossa, si rammaricava che la mia amica non avesse potuto morire vicino a me e quest'ultimo desiderio non fosse stato appagato. «—Vi assicuro che fu per il mio cuore un fiero colpo e non sapevo darmi pace che fosse scomparsa così improvvisamente. «Ed ora voi sapete bene l'origine dell'asilo per i poveri infermi fabbricato col lascito di una signora che desiderava conservare l'incognito. «Fu la mia amica che, avendomi confidato i suoi averi, ha permesso che potessi appagare il mio desiderio e accogliere tanti poveri ammalati di malattie del sistema nervoso, i quali in caso diverso sarebbero stati abbandonati o confusi coi pazzi. Sono passati più di cinque anni e sono contento dei risultati ottenuti; la parte della mia casa destinata ai ricchi mi aiuta a mantenere quella pei poveri, e credo che l'aver potuto curare ciascun malato quasi separatamente, abbia contribuito ad ottenere i buoni risultati che voi conoscete. «Ora, oggi stesso, mi capitò una strana combinazione che mi ha fatto rinvangare il passato ed è causa della preoccupazione che avete notato. «Pensate che il conte V...., marito della mia amica, è venuto a pregarmi ch'io l'accetti nella mia casa di salute. «È molto ammalato e ridotto nella più squallida miseria. «—Eravate tanto suo amico e spero che non mi abbandonerete, vi supplico, in nome della sua amicizia,—mi ha detto. «L'ho subito accolto e ho messo a sua disposizione il villino destinato a sua moglie. Egli rimase confuso, non potendo credere a tanta generosità. «—Ma sono un miserabile,—andava ripetendo,—non ho più nulla, non sono degno di abitare questo bel villino, non potrò mai compensarvi. «—Vostra moglie mi ha tanto aiutato nella mia opera di beneficenza, che devo farlo per la sua memoria,—diss'io. «Egli era commosso, piangeva come un bambino e non trovava parole per ringraziarmi. «Non immaginava certo di avere un po' di diritto alla mia ospitalità. «Anche questo è un essere originale da studiare, anch'egli ha preso una certa facilità d'indovinare i pensieri altrui, non certo al grado della moglie, ma vi confesso che questa coincidenza mi ha turbato; i ricordi del passato rivivono nella mia mente ed ecco perchè oggi non sono il vostro allegro commensale.» Gli amici lo ringraziarono di quel racconto che li aveva tanto interessati e dopo si trattennero a parlare dei misteri della psiche ancora ignorati e della trasmissione del pensiero, concludendo che il nascere con un tal privilegio, varrebbe a far l'uomo ancora più infelice. FINE. INDICE. Una tragedia in un cervello Pag. 1 Vibrazioni ignote 103 L'anima del mondo 153 Gioiello rivelatore 253 Fosforescenze 291 Divinazione 359 * * * * * NOTE DI TRASCRIZIONE: ○ Ovvi errori di punteggiatura sono stati riparati; ○ Pag. 53, l'errore di stampa «vendiditori» è stato corretto (l'andirivieni dei venditori e delle venditrici); ○ Pag. 58, è stato aggiunto il trattino lungo di chiusura precedente l'inciso per il discorso diretto (—Ah, anche i cavalieri serventi?—chiese Valentina); ○ Pag. 71, è stato aggiunto il trattino lungo di apertura seguente all'inciso per il discorso diretto (—Dov'è? Dov'è?—chiese Valentina,—voglio vederla); ○ Pag. 74, è stato aggiunto il trattino lungo all'inizio del discorso diretto (—La più grande è la tomba di Can Signorio,—disse Giulia.); ○ Pag. 77, sono stati aggiunti alcuni trattini lunghi mancanti per il discorso diretto; ○ Pag. 121, è stata aggiunta la preposizione semplice «di» (Cercavo di distrarlo facendogli ...); ○ Pag. 207, è stato aggiunto il trattino lungo all'inizio del discorso diretto (—Che è accaduto?—chiese a Savina ...); ○ Pag. 222, è stato aggiunto il trattino lungo di apertura seguente all'inciso per il discorso diretto (—Puoi dire quello che vuoi—disse l'Arlandi,—ma questa gita misteriosa ...); ○ Pag. 228, è stato aggiunta la punteggiatura all'abbreviazione seguendo lo stile dell'autrice all'interno del racconto (a tutti i conoscenti e al dottor B., direttore della casa ...); ○ Pag. 232, la voce «desidario» è stata mantenuta (Il signor Carlo trovò giusto il desidario del figlio ...); ○ Pag. 245, l'errore di stampa «circoncondati» è stato corretto (ci sembra esser circondati da misteri che la scienza ...); ○ Pag. 355, la prima persona singolare dell'indicativo presente del verbo dare è stata mantenuta accentata nell'occorrenza (vi dò la mia parola di dottoressa ...); ○ Pag. 363, sono state inserite le caporali iniziali al raccontato del personaggio nel discorso diretto («—Era un pomeriggio di primavera ...). *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VERSO IL MISTERO: NOVELLE *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. 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