The Project Gutenberg eBook of Santippe: Piccolo romanzo fra l'antico e il moderno

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Title: Santippe: Piccolo romanzo fra l'antico e il moderno

Author: Alfredo Panzini

Release date: June 10, 2021 [eBook #65586]

Language: Italian

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK SANTIPPE: PICCOLO ROMANZO FRA L'ANTICO E IL MODERNO ***

SANTIPPE.


ALFREDO PANZINI

SANTIPPE

PICCOLO ROMANZO FRA
L’ANTICO E IL MODERNO

propter speciem mulieris

multi homines perierunt

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI

10.º migliaio.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi i regni di Svezia, Norvegia e Olanda.

Copyright by Fratelli Treves, 1914.

Tip. Treves. — 1921.



INDICE


ALL’AMICO

Avv. NICOLA MONTANARI

[ix]

A CHI LEGGERÀ.

Questo piccolo romanzo non è stato scritto per gli eruditi, benchè parli della Grecia; e sebbene parli di un filosofo, non è stato scritto per i filosofi.

Si intitola bensì con il nome di Santippe, un nome di donna infamata nei secoli; e si potrebbe pensare che l’autore avesse avuto in mente di servirsi di Santippe, moglie di Socrate, come di un laido pupazzo per ripetere vecchie e sgarbate cose contro le donne: le quali cose, anche se fossero verità, sarebbero pur sempre [x] verità maschili, a cui è lecito opporre altre verità femminili. E poi quale irriverenza è mai questa di dir male della donna che è l’anfora della vita?

No, il libro non ha questo scopo; forse non ha scopo nessuno; è venuto al mondo, così, come noi veniamo al mondo, senza scopo.

La sua prima pubblicazione è stata nella Nuova Antologia, nella primavera dell’anno passato; così che si può dire che Giovanni Cena la tenne a battesimo, questa povera Santippe. In questo tempo però si è fatta più sciolta e vivace; cioè il libro è divenuto più facile e snello.

[xi]

Però, se pure essendo tale, se pure essendo breve, non si ripeterà di lui la brutta lode, si legge tutto d’un fiato; se molte cose che comunemente si credono serie, faranno sorridere; e molte altre cose ritenute ridicole indurranno ad alcuna meditazione, il piccolo libro crederà non del tutto inutile la sua venuta al mondo. Anzi crederà di essere anche lui venuto al mondo per amare e servire Iddio.

Milano, primavera del 1914.

[1]

SANTIPPE

I. Ellade, giovinezza del mondo.

Nel tempo antichissimo, quando gli uomini erano molto occupati per popolare il mondo, ci fu come una piccola schiera di uomini che pervenne ad una piccola terra. Essa era ricamata dai mari, e pareva come l’umbelico del mondo. Era stagione di primavera e il mare mandava tutt’intorno i suoi effluvi.

Quegli uomini sostarono.

Si scoprivano di lassù i corsi degli astri; si vedevano le vie del mare. Allora essi scoprirono le vie della loro [2] anima, ed una divina esaltazione li vinse. Rivaleggiarono con gli Dei immortali: crearono quelle multiformi opere che rimangono anche oggi come modelli, e non furono mai più superate in bellezza.

Questa piccola terra fu l’Ellade: quel piccolo popolo fu il popolo ellenico. La vita che esso visse si chiamò «giovinezza»!

Ma esso visse una breve vita; esso consumò, bruciò, — per così dire, — nel giro di qualche secolo l’ardore della sua vita, cinta di rose.

*

Più tardi, gli uomini ripresero ancora il loro viaggio; buttarono via le rose, e si coronarono di una corona di [3] spine, anzi inalberarono per loro emblema una croce da cui pendeva un povero morto, che si chiamava Cristo.

Questa, probabilmente, era la verità più vera e le spine erano più vere delle rose.

Senonchè un bel giorno gli uomini si accorsero con terrore di una spaventosa cosa: che essi in questo modo anticipavano sotto il sole il regno delle tenebre.

Da allora serbarono per Cristo un culto di semplice simpatia: rifecero la loro strada, avanzarono ancora nei secoli, poi si moltiplicarono, coprirono anzi la faccia del mondo, e fecero infinite scoperte e progressi.

Siccome faceva molto freddo, inventarono anche il riscaldamento a termosifone; e similmente per rinfrescarsi, [4] d’estate, crearono il ghiaccio artificiale. Innumerevoli, incredibili si susseguirono le creazioni dell’uomo; le macchine per correre, le macchine per cucire, le macchine per volare, le macchine per votare, le macchine per ammazzare, le macchine per cantare. Scoprirono i microbi, il colletto inamidato, il positivismo, il socialismo, la burocrazia, i campanelli elettrici: ma non rividero più la loro giovinezza.

Un cittadino nord-americano dei nostri tempi potrebbe ben far risuonare il suo grosso riso paragonando, ad esempio, il suo Mississipì ai fiumicelli dell’Attica, così poveri di acque che nell’estate non arrivavano al mare. Ma che nomi! L’Illisso, il Cefiso! I monti dell’Attica avrebbero fatto contorcere di sprezzo le labbra altezzose di un alpinista [5] teutonico, che trasporta, come niente fosse, le sue scarpe ferrate e le penne di gallo cedrone sino in vetta al Cervino.

Senonchè quei monti avevano meravigliosi nomi, meravigliose virtù: dal Parnaso cantavano le Muse: Muse titaniche e severe — non come le odierne Muse che sembrano una troupe di malsane dame viennesi. Esse, figlie della memoria e del vaticinio, cantavano, non per facilitare la digestione, ma canti non più uditi cantavano per accompagnare ed aiutare il cammino della vita.

Un altro monte si chiamava l’Imetto. Intorno ad esso era tutto uno sciame di api scintillanti d’oro, e ne sgorgava il miele, che si trasfuse poi nel linguaggio; il più volubile, scorrevole, lieve [6] linguaggio che mai sia stato parlato, senza bisogno di domandare ogni tanto: «Come si dice, signor grammatico? mi è lecito adoperare questa parola, signor accademico?».

Un altro monte si chiamava il Pentelico; ma la sua pietra bianca e immortale si plasmava docilmente sotto la divina forza dell’uomo, in quelle statue di cui qualcuna, mùtila ed esule, sotto la vòlta di qualche cimitero o museo, ancora e come prigioniera rimane.

Non che io, contemplando queste statue, mi sia messo a piangere come fece Arrigo Heine davanti alla Venere di Milo. Arrigo Heine, poveretto, era paralitico, allora, e può aver pianto anche in considerazione della sua esistenza finita; ma certo un gran fremito vinse me pure: «Oh, destatevi nude carni, [7] ridonateci la giovinezza meravigliosa!» sospirai.

Qualche monte abbastanza alto e gelido lo avevano pur anche gli Elleni; ma ci collocavano gli Dei.

Del resto era un povero e sterile paese l’Ellade, tanto che ai suoi abitanti, per mangiare, conveniva navigare e combattere. Mancavano i cereali. Però dalla roccia calcarea balzava il tralcio della vite e sorgeva impetuoso, con le sue pallide chiome, l’ulivo.

Il mare che penetrava fra le terre, teneva in vibrazione gli spiriti, come in una azzurra irrequietudine: tutt’all’intorno poi fiorivano le viole, colore della morte e profumo della pura giovinezza, tanto che un poeta, come vinto da quella ebrietà, cantava: «O, Atene, splendida, gloriosa città, incoronata di viole, celebrata, [8] sostegno della Grecia, demoniaca».[1]

Questo popolo ellenico fu come la cicala[2] canora, come l’ape industre, che sono animali alati, asciutti, preziosi, irrequieti, diffonditori di armonie e di dolcezza: non fu come altri popoli, che hanno in loro qualcosa di pesante, di viscido, di adiposo, di strisciante, di tossico, da cui la mano delicata del filosofo rifugge. Questo popolo si affacciò in un mattino puro alla finestra della vita, e vide quelle cose della vita che hanno [9] vero valore; e meravigliò non per le cose meccaniche, come noi meravigliamo, ma per le cose naturali, come fa la cortigiana Diotima quando dice: «Cosa divina è questa, e in creature mortali, cosa immortale: il concepire e il generare».

*

A noi la conoscenza di questo popolo è venuta attraverso il martirio della scuola, attraverso un nembo di parole irte, pungenti, con cui i greci mai non avrebbero tormentato la loro giovinezza.

A dispetto di queste memorie dolorose della scuola, la mia ammirazione per questo piccolo popolo ellenico mi è venuta crescendo quanto più mi apparvero piccoli i così detti popoli grandi.

[10]

Io lo ho ammirato nelle sue contraddizioni, nelle sue lotte fratricide e terribili, nella sua breve vita.

Soprattutto le sue contraddizioni! Esse sono il cuscino su cui qualche volta riposa la mia testa stanca. Pensare! un popolo che ha disputato di filosofia più che non cantassero le sue adorabili cicale, eppure non ha imposto un dogma, non ha avuto preti; un popolo che ha creato quel magnifico parlamento di Dei e di Dee sull’Olimpo, con tutti i vizi ed i servizi possibili: il nèttare, l’ambrosia, Ebe, Ganimede, il meccanico Vulcano, Mercurio per i dispacci fra la terra ed il cielo; e poi un bel giorno se ne stancò dei suoi Numi! e: «Via, parassiti! — gridò — via oziosi! via crudeli! via buffoni!» E poi atterrì vedendo il vuoto nell’Olimpo gelido, e il [11] vuoto nel suo cuore: un popolo che ebbe la magnifica impertinenza di chiamare barbare tutte le altre genti; che in politica ci lasciò questo terribile ammaestramento, che non è possibile vivere che, o sotto la tirannia di un individuo o sotto la tirannia della plebe: il demos e la tirannis, come la tragedia e la commedia: un popolo che adorò la sua minuscola città, la sua polis, ed ebbe per patria il mondo! Ma la patria, la patria, cioè il genio della stirpe, guai chi l’avesse obliata! guai all’infingardo che avesse scioperato nel divino lavoro, che avesse obliato la patria! E così Ulisse ai compagni, stanchi, strappa il dolce oblioso frutto del loto. «Via! via! il vile dolce frutto del loto, che fa obliare la patria!»

E guai a chi avesse disturbato questo [12] popolo nel suo lavoro di creazione! Come l’ape s’avventa contro il nemico e infigge l’aculeo pur sapendo che ne morrà, così questo popolo s’avventava alla morte con l’asta e con lo scudo, nel divino impeto della sua Minerva guerriera, contro il barbaro disturbatore. E adorava la vita!

E sapeva che laggiù non era resurrezione dei morti. Sapeva? certamente sapeva che laggiù erano tenebre, e se anche era vita, era vita di tenebre, alcunchè di oscuro e di severo come, l’aspetto di Tànatos, il melanconico iddio.

No, un popolo, così unico e savio, non era destinato nè a vivere a lungo, nè a formare una di quelle nazioni che oggi diciamo una grande nazione.

Esso fu dilaniato dalla forza contradditoria [13] dello stesso suo genio: cadde in balìa di quei virtuosissimi ma pesantissimi Romani: forse anche con il suo esempio volle illustrare la verità della sua sentenza: che è meglio morire che vivere, e che ad ogni modo muore giovane chi è caro agli Dei.

*

Questa meravigliosa Ellade antica è oggi ai miei occhi come una necropoli bianca, una città morta piena di statue bianche, dai marmorei occhi vuoti.

Molte volte io, alquanto seccato dai fischi delle macchine, irritati i nervi dal sibilare delle sirene, nauseato anche un po’ dalle circolari, dagli avvisi fiscali di questa nostra civiltà, mi sono rifugiato per mio spirituale riposo in questa [14] necropoli bianca dei grandi morti ellenici.

Quando voi siete ammalati di nervi, il medico vi dice: «Fate un bel viaggio!» Ma non tutti hanno la possibilità di fare un bel viaggio; ed è per questo che allora io viaggio per questa necropoli di morti; così imperturbabili in apparenza, così commossi in profondo.

*

Ora un giorno io stavo guardando Socrate, personaggio molto conosciuto, e lo guardavo non soltanto perchè lui fu, come tutti sanno, il fondatore di quella che si chiama filosofia morale; ma perchè lui spiccava assai brutto in mezzo a una corona di splendenti giovani. E come sotto la scrittura di un codice [15] antico avviene di scoprire le tracce di una seconda scrittura, così io dietro Socrate vedevo accampare, entro contorni nebulosi, una figura enorme, rossiccia, quasi furiosa.

«Oh, ma chi è costei?» dissi prendendo la lente.

Non uno dei discepoli di Socrate, certamente!

Anzi i suoi discepoli, i bei giovani splendenti di giovinezza, si rivolgevano verso quella figura con un sentimento di dolore, di meraviglia o di riso.

Allora, dopo aver molto guardato, ben conobbi chi era colei: essa era Santippe, la mala femmina, rossa di pelo, la tormentatrice dell’eroe, la moglie di Socrate. Santippe, dico!

[16]

*

Da quel tempo la mia ammirazione per il popolo ellenico è venuta crescendo.

Perchè è cosa nota che gli Elleni ci hanno lasciato anche i modelli più vari e straordinari del tipo femminile; da Elena, dalla chioma fiorita, per cui tanti eroi morirono volontieri; ad Aspasia, donna intellettuale che teneva un salotto e rovinò la politica del suo paese; a Penelope, straordinaria, che giunse ad ingannare gli amanti per mantenere fede al marito, il quale non soltanto era lontano, ma dicevano anzi che era morto.

Tutti i tipi, dico, ha fornito la Grecia, del furore guerriero, del furore erotico.... Clitennestra lorda di sangue e di lussuria ed Antigone, la santa della [17] terra, più bella di Ofelia! Tutti i tipi; eppure io sentiva che mancava qualche cosa. Ora, trovata Santippe, non mancava più niente!

Ma mi pareva ben impossibile che i Greci avessero tralasciato di consegnare all’umanità uno dei modelli più comuni, come quello che anche oggi va sotto la denominazione di Santippe.

Ah, sì! Noi abbiamo fatto una grande scoperta viaggiando per la necropoli dei morti ellenici. Noi abbiamo scoperto la infame Santippe.

È strano però come gli eruditi non se ne siano accorti! Forse perchè non era nei codici.

E allora, benchè io sia uomo modesto, mi sono congratulato con me stesso della bella scoperta.

[18]

II. Come io mi trovai alle prese con Santippe.

Dunque io presi Santippe, e pensai fra me: ci sei cascata finalmente, o progenitrice di tutte le mogli fastidiose, rossa Santippe! Noi ti faremo la vivisezione, e così vendicheremo quel povero e santo uomo di tuo marito e consoleremo tutti i mariti vivi ed anche tutti i mariti morti.

Però, esaminiamo le cose con saviezza e ponderazione.

Noi, ben è vero, sappiamo pochissimo intorno a Santippe; ma sappiamo di certo che essa fu la moglie di Socrate.

[19]

I discepoli e gli amici del grande filosofo ne parlarono anche, ma con un senso di raccapriccio e di paura, come si fosse trattato di un’orribile malattia attaccata a quell’uomo straordinario. Ma certamente, ripeto, Santippe fu la moglie di Socrate; perchè una cosa è certa, che Socrate, il più savio degli uomini, prese moglie; e questa moglie si chiamava Santippe.

E adesso vediamo quello che gli amici di Socrate tramandarono intorno a costei.

Senofonte scrive con chiarezza e brutalità che «Santippe fu la moglie più bisbetica e riottosa di quante furono, sono e saranno».

«Ma come fai, Socrate, — domandava il bellissimo Alcibiade, — a sopportare una donna così importuna e maldicente?»

[20]

«Ci sono abituato, — gli rispondeva Socrate. — Per me oramai è come sentir stridere la carrùcola del pozzo.»

Non era molto gentile, Socrate; ma non bisogna scandolezzarci: a quei tempi la cavalleria con le dame usava poco. In Omero, per esempio, si legge che fra i premi alle corse si metteva indifferentemente un tripode, una donna ed un bue.

«Come fai, Socrate, — insisteva Alcibiade, — a convivere con una donna che non ti può offrire oramai se non lo spettacolo di una stupidità permanente e clamorosa?»

«Scusa, Alcibiade, ma tu non sopporti le oche che strepitano e gridano continuamente?»

«Sì, ma le oche fanno le uova ed i pàperi.»

[21]

«Lo stesso, caro: Santippe fa i figliuoli.»

Socrate, come si vede, usava l’arma dell’ironia; e noi sappiamo di alcune donne che sopportarono anche le busse, anche di essere valutate meno di un tripode: ma non l’ironia!

Busse, anzi, Socrate non ne dava, come appare da quest’altro episodio.

Un giorno, Socrate tornava a casa insieme con gli amici, ed ecco venire incontro Santippe, che aveva fra mani il mantello di lui; e non appena lo vide, cominciò a dire:

«Eccolo, eccolo qua. E non è solo. Ha con sè tutta la compagnia, e anche quel suo bardasso di Fedone! È questo il momento buono per dirgli, ben alto e ben forte, quello che gli va detto: Di’, amorino, vieni tu ora [22] dalle case di Aspasia, di Diotima, le svergognate femmine che maneggiarono più amori, che non lance Diomede? Ma alla moglie si consegnano gli stracci da rammendare! Ah, tu non rispondi?»

E con le unghie si accostò alle sporgenti pupille di Socrate.

Gli amici allora le dissero «vergogna», e colei inferocì e proferì le più laide parole che possano offendere la rispettabilità del nostro sesso.

Allora Alcibiade disse ridendo: «Socrate, la senti? Ecco il momento per darle una lezione a suon di busse».

Ma Socrate si rivolse agli amici e disse: «Sì, per far divertir la gente alle nostre spalle e sentir dire: To’ guarda Socrate! Guarda Santippe! Bravi tutti e due! sotto! dài! Oh, come si [23] bastonano di gusto! Ma vi pare, amici, una cosa da farsi?»

Sembrerebbe anzi che fosse stata Santippe a picchiare.

Il silenzio filosofico del marito aveva la virtù di esasperare la buona donna sino al parossismo.

E Socrate, silenzioso. Silenzioso sì, ma meditante la fuga.

Ma Santippe si è accorta della fuga. Ha afferrato un vil vaso domestico; ha atteso al varco, cioè alla finestra. E quando Socrate è passato sotto la finestra, ha scaricato il vaso.

«Non dicevo io, — spiegò Socrate ai vicini che erano accorsi al diverbio, — che Santippe dopo aver tanto tuonato, stava per piovere?»

Questo episodio è così conosciuto che anche gli scolaretti lo sanno, perchè [24] i professori lo fanno servire di esercizio per i loro innocenti latinucci. (Tutto serve ai maestri di scuola per i loro latinucci e le loro cosucce: i teschi degli uomini morti servono ai barbari per motivo architettonico).

Oh, non si creda per questo esempio che Socrate fosse uomo timido! Più volte fu anzi in guerra e vide intorno a sè il sangue rosseggiare. Ma anche nella battaglia è ricordato come uomo assorto e meditabondo.

Alla battaglia di Potidea, per esempio, i soldati, meravigliando, lo videro tutto un dì ed una notte ritto in piedi, con la faccia pensosa, sinchè non cominciò a rosseggiare l’aurora e non si fu levato il sole: e allora, fatta una preghiera al sole, se ne andò.

E così, serenamente assorto, egli era [25] anche il dì della sua ultima battaglia, perchè si dice che il dì innanzi la morte, quando Critone tutto affannoso entrò nella carcere, che non era nè notte nè giorno, per indurlo a fuggire, Socrate, quasi destandosi alle cose esterne, gli domandò: «Critone, come è a quest’ora? è già mattutino?».

Ora in questo stato di assorbimento, sentire i lunghi discorsi di lei, tutti pieni di Idiòtes, màtaios (cretino, insensato, direbbe una nostra signora), io credo che dovesse far dispiacere a Socrate.

Sì, io credo che dovesse far dispiacere, non soltanto per le mani adunche di lei, ma perchè con quello strappo lo aveva tolto dalla mirabile primavera del suo pensiero e lo aveva richiamato ai sensi materiali, i quali secondo l’opinione [26] di Santippe erano diventati ottusi. Anzi lei diceva: «Quest’uomo oramai non sente più niente».

*

Ma — si può chiedere, — delle altre cose, di quelle brutte cose che fanno le mogli ai mariti, nulla fece Santippe?

Non pare, o non fu tramandato. Parrebbe anzi che lei si dolesse che tutto il servizio domestico fosse un po’ in cattivo stato. Perchè un giorno Socrate disse a Santippe: «Senti, cara, domani verranno a casa alcuni amici miei ospiti, e tu preparerai da pranzo».

E lei disse: «Ma come mai hai il coraggio di invitare la gente a pranzo che mancano i piatti, che non vi sono tovaglioli, che c’è appena da mangiare per noi?»,

[27]

Socrate così le rispose: «Sta di buon animo, Santippe. Se gli invitati saranno discreti e frugali, non rifiuteranno quello che c’è in tavola; se saranno indiscreti e senza rispetto, noi non ci cureremo di loro».

Qui, — diciamo il vero, — Santippe, come padrona di casa, non era in obbligo di gustare tutta la saviezza della risposta di Socrate.

Queste sono le cose che la Storia tramanda intorno a Santippe. Ed ora vediamo del «tipo Santippe».

*

Santippe, — la mal famata nei secoli, Santippe, — ha dato origine al tipo Santippe, alla cui formazione quelle tali brutte cose non sono proprio necessarie; [28] ma anche senza di esse, la vita diventa intollerabile.

Oh! chi avrebbe mai supposto che quella creatura tutta bianca, tutta pavida, tutta docile che noi orgogliosamente conducemmo, in un dì beato, in carrozza, davanti al codice del signor sindaco, si sarebbe ammalata e sarebbe diventata Santippe?

Sì, è vero, si dice anche per celia, «la mia Santippe», per significare «la mia signora». Ma una signora non dirà mai: «Io sono la Santippe di mio marito». Potrà esclamare: «Te lo farò vedere io chi è Santippe». E può anche farglielo vedere! Perchè se lei dicesse ponderatamente: «Sì, io sono la Santippe di mio marito», rivelerebbe di possedere la coscienza, e in tale caso non sarebbe più Santippe.

[29]

Le varietà del tipo Santippe sono molte; e forse non è inutile, a beneficio di quelli che non conoscono le conseguenze del viaggio davanti al codice del signor sindaco, riferire qualche onesto esempio; benchè in questo, come in altre cose, la sagace natura ha provveduto alla propria salvezza facendo sì che l’uomo non potesse acquistar conoscenza se non dopo il fatto o experimentum, cioè una conoscenza che non serve nemmeno ad accender la pipa!

*

Un marito era incanutito precocemente: ma la signora non poteva soffrire quel bianco e versava premurosamente sulla testa del marito fini tinture. Considerazioni del marito: «Non era [30] meglio, o donna, evitare che i miei capelli diventassero canuti così presto?»

Altro esempio:

Noi siamo giunti a casa, abbiamo mangiato un boccone. La stufa era accesa, il sofà ci invitava. Noi vi ci siamo distesi per obliare in un breve chiudersi della pupilla i fastidi e le cure della mattina e quelle che ci aspettano nel dopo pranzo.

Noi invochiamo una piccola dose di sonno, cioè una piccola dose di morte, dieci minuti, ecco, per immagazzinare l’energia indispensabile per l’altra metà del giorno. Già ci pare di chiudere gli occhi, il cuore ha dato un impercettibile tuffo, una specie di registrazione automatica con cui esso attenua le sue pulsazioni; la memoria ha distaccato i suoi dolorosi corsieri....

[31]

«Ah, con quella testa unta sul sofà! con quei piedacci sul mio voltaire! L’ho stirato proprio questa mattina. E quella puzza nauseabonda di pipa! Un marito non ha più nessun riguardo. Ma chi ha creato i mariti?»

Chi parla così?

È una Santippe che parla così. Ella spalanca le finestre.

«Moglie mia — diceva un marito prudente che voleva andare a letto presto la sera, — che camicetta ti metterai tu per andare a teatro?» Oppure, quando voleva una minestrina leggera in brodo: «Moglie mia, perchè non fai quegli eccellenti gnocchi di patate?»

Altro esempio:

Un signore era diventato principe-consorte. Non che egli avesse sposato una principessa di sangue reale; ma [32] soltanto una principessa della penna. La signora sdegnava nominarsi e firmarsi col nome del suo ignoto marito. Questi non poteva invocare l’intervento del signor sindaco; è evidente! ma in lui era così a dismisura cresciuto il terrore per l’arte, per la penna, per la gloria letteraria che se per caso doveva subire qualche presentazione di signora, domandava in antecedenza: «scusi, la signora scrive?»

*

Da ciò avviene che qualche volta uomo e donna si dividano senza voltarsi indietro; ma ciò avviene più di rado del necessario, perchè la sagace natura ha provveduto in modo che le voci dei bimbi che dicono: «Babbo [33] mamma, perchè ci abbandonate?» abbiano tali vibrazioni che il cuore umano difficilmente vi regge.

Creda, il signor sindaco: questa è la forza maggiore del suo codice!

*

Come giunsi a questo punto delle mie piacevoli meditazioni, ecco che quello che sino allora mi era apparso quasi barbarico, mi si disegnò come cosa ideale: cioè la biografia della perfetta donna presso gli antichi Romani: Rimase in casa, filò la lana, parlò poco, visse casta.

E allora più ideale ancora l’educazione giapponese delle loro pulitissime donne! Dice, un marito giapponese alla sua piccola musmè:

[34]

«Nessuna cosa, piccola musmè, è più dannosa alla pace domestica della vostra loquacità; e il non sapere cuocere il riso a puntino, è un giusto motivo per ripudiarvi!»

E la piccola musmè risponde con le manine in croce e gli occhioni abbassati:

«Onorevole marito, sì! Le vostre parole sono tutte onorevoli verità, e le vostre azioni sono tutte onorevoli azioni!»

*

A questo punto fu da me udito un crepitare di sibili e di metalli. Mio Dio, Santippe si destava, Santippe parlava! Non avevo io con me preso Santippe?.

Gran Dio, a quanti pericoli si espongono [35] i pacifici uomini di studio nei loro esperimenti!

Santippe parlava, e parlava appunto così:

«Infame razza prepotente, ipocrita, di uomini! rimasta tal quale! Ah, a voi torna comoda la donna, oca di Strasburgo e ingrassata pel vostro egoismo! A noi le gravi cure! Noi siamo uomini! — Tu torna, o donna, all’ago e al pennecchio infra le ancelle; e ti ricorda che niuna cosa rende più brutta la donna come la inverecondia. E poi le vanno a cercar fuori le donne con gli occhi cerchiati di inverecondi pallori! Sii massaia, o donna! E sono capaci di far soffrire la fame in casa per far baldoria con le baldracche!...»

«Oh buona donna, — io dissi, — se tu puoi parlare, parla. Ma di una cosa ti [36] prego: non parlare così. Tempera la voce; fa pausa ogni tanto! Qualunque cosa tu dica, dilla con voce soave, senza irruenza. Tutto è tollerabile, forse, dalla donna quando avviene soavemente.»

Oimè, ella non poteva far pause, la sua voce si alimentava con la sua voce, ed io cominciai a sentirmi male, e mormorai con Cristo: Perdona a lei che ignora la sua spaventevole voce! Però che sistema nervoso straordinario e perfetto deve aver avuto Socrate!

«Maledette le vostre lusinghe, — proseguì la irritante voce di Santippe, — che ci hanno ridotte a questo stato di servitù! Noi siamo state troppo buone, troppo generose di cuore, ed ecco la ricompensa! Noi siamo uguali a voi!

Sapete voi che in origine eravamo forti e pelose anche noi come voi? I [37] figliuoli, si è vero, li facevamo noi; ma quando eravamo stanche di allattare i marmocchi, li davamo all’uomo, e dicevamo: «To’, allatta tu,» e andavamo fuori di casa a caccia dell’orso anche noi.

Poi, per compiacervi, siamo rimaste in casa; per compiacervi ci siamo profumate col paciulì, abbiamo fatto la voce di flauto, i piedini piccoli, e vi sono anche oggi delle donne che non stanno in piedi, se non sono appoggiate ad un maschio. Maledetto lo specchio di Venere! Oh, ma noi lo romperemo e allora vedremo chi vale di più! Che diritto, che diritto aveva il poeta Archiloco sopra le figlie di Licambe, che non ne volevano sapere di lui? E lui perseguitarle coi suoi versi, finchè le poverette, disperate, si impiccarono?»

Così parlò Santippe.

[38]

Or bene, prescindendo dalla voce che offendeva il mio sistema nervoso, non posso negare che nelle parole di lei v’era qualcosa che impressionava quel delicatissimo sentimento della giustizia che per mia sventura possiedo.

Io non so se la donna fosse nei tempi preistorici pelosa e guerriera: le più antiche memorie storiche risalgono ad Eva, la quale era bianca e la prima cosa che fece, dopo aver perso il pudore, fu una toilette con la pianta del fico: e quanto alle lusinghe ed al programma di creare una nuova morale frantumando lo specchio di Venere, io credo che sia impossibile. Ne è prova la signora Curie, la quale dopo essere diventata grande scienziata, dopo avere scoperto il radio, pur non essendo così giovane nè così bella come Eva, non potè sfuggire alle [39] seduzioni di Venere e sedusse o si lasciò sedurre da un suo collaboratore di gabinetto.

Certo è che alcune delle osservazioni di Santippe erano impressionanti; e non si può affermare che l’uomo sia stato eccessivamente logico. Vediamo un po’:

Ha detto l’uomo:

«Amami, o donna, senza di te l’universo è vuoto, il sole è tenebra. Un bacio, un bacio, un bacio per carità!» E pareva che senza quel bacio non potessero addormentarsi, poveri uomini, non potessero neanche morire, come i bimbi che domandano il bacio della mamma. Ed ella fu compiacente e gentile: si attorcigliò la chioma, o se la lasciò cader giù sulle spalle, secondo i casi: imparò a dare i baci, a languire con gli occhi chiusi, come morta, e diceva [40] all’uomo: «Va bene così? O devo prendere un’altra posizione?» Dopo avere imparato i baci, imparò a fare l’infermiera. Spesso l’uomo giungeva a casa ferito o ammalato, e allora quelle mani che gli si erano attorcigliate al collo al tempo dei baci, se le sentì posare come un balsamo su le sue ferite; e le pupille che si erano chiuse nel piacere dei baci, egli le sentì sopra di sè vigilanti e materne. Non basta; ma spesso il focolare dell’uomo era spento e lo ha ritrovato acceso; la sua casa era vuota, e la presenza di lei sola, la donna, bastò a renderla piena e consolata.

E poi dopo tutti questi benefici, hanno avuto il coraggio di dire alla donna:

«Ah l’impudica! Torna all’ago e al pennecchio.»

E i dominatori del mondo? Noi li [41] abbiamo, visti troppo spesso ai piedi di lei.

E i santi della Chiesa non hanno fatto lo stesso come gli altri uomini? Un giorno hanno detto alla donna: «Tu sei Maria Vergine Santissima!»

Un altro giorno, stralunando gli occhi, hanno detto «Tu sei il demonio in figura di Venere! Fuggite, fuggite la demoniaca, la insaziabile!» Ma in verità non fuggivano. Gridavano come i passeri attorno alla civetta.

Ed è altresì vero che tutto il lavoro del mondo se lo è preso lui, l’uomo: alla donna niente!

«Alla donna, con la scusa che non capiva, le si vietò persino di affacciarsi alla finestra e di contemplare il creato!» — gridò Santippe.

E i poeti? Sono poco illogici i poeti?

[42]

Essi hanno celebrato continuamente i denti, gli occhi, i capelli ed altre cose della donna.

«Mai la nostra intelligenza, mai il nostro cuore....»

«Sì, signora Santippe, qui posso convenire con lei! Francesco Petrarca impiegò tre lunghe canzoni per lodare gli occhi della sua donna....»

«Che dovevamo noi celebrare, la barba, i piedi dell’uomo?» gridò ancora Santippe.

«Sì, signora Santippe; ed io non escludo che la donna lusingata da tutto quel gorghèggio abbia avuto come una spinta ad ingrandire gli occhi, ad allungare i capelli, a cambiarli di biondi in bruni e viceversa, ad impicciolire i piedi, ad affusolare le mani, e specialmente a prendere quell’aria di bambolina, profumata [43] di paciulì e con la voce di flauto, che costituisce, anche nei tempi nostri, la qualità che l’uomo stima di più nella donna. Ammetto tutto questo e convengo che Archiloco ebbe torto, signora, e fu un prepotente.

Potrei recare altro esempio di torti e di prepotenze in poeti posteriori, anche più grandi di Archiloco. Per esempio, Dante.

Una signora gli disse di no, e Dante che cantò l’universo, perdette la sua calma e chiamò quella donna, ladra, scherana, micidiale, insensibile pietra, e che la voleva pigliar per le trecce bionde, e darle una coltellata nel cuore; ed il Leopardi, un santo oltre che un filosofo, non perdette gran parte della sua filosofia quando una bella donna gli disse ridendo «Caro conte, no!»?

[44]

Così io parlai per amor di giustizia ed anche per acquetar Santippe, la quale nei ventitrè secoli da che era all’inferno, mi pareva che fosse diventata assai intelligente e saccente; quand’ecco, quei due nomi del Leopardi e di Dante, proferiti come a caso, mi spalancarono per così dire le porte del pensiero, e vidi una terribile visione. Allora non mi seppi più frenare, alzai anch’io la voce, e dissi:

«Sta però il fatto, signora, che voi, Santippe, siete stata la tormentatrice degli eroi, o almeno degli eroi metafisici; e specialmente degli eroi che presero moglie. È una schiera infinita; è una legge costante! Udite, udite, o Santippe:

Ercole ebbe una moglie chiamata Deianira che regalò a suo marito una camicia [45] avvelenata. Deianira era Santippe; il saggio Minosse ebbe una moglie chiamata Pasifae che regalò a suo marito quel mostro chiamato Minotauro; Eschilo, il gran tragico, ebbe una moglie tremendamente Santippe, che gli mutò la dolce vita in tragedia; Marco Aurelio, il più savio degli imperatori, ebbe una moglie che non nominerò, ma Santippe certamente; Sady, gran poeta persiano, ebbe una moglie ricca, ma Santippe, che non gli lasciò aver bene un giorno solo della sua vita. Passando poi al nostro occidente e ai nostri tempi, io potrei compilare un elenco non meno lungo di eroi: da Martin Lutero a Leone Tolstoi, che ebbero mogli Santippe, cioè fecero un’orribile attraversata della vita. Fra gli eroi, che io ricordi, non ci fu che Cristo a salvarsi; [46] Cristo ai cui piedi insanguinati Maria di Magdala versò tutto il nardo prezioso che possedeva, contro il parere di Giuda che voleva specularci sopra favorendo i pezzenti. Ma è pur vero, signora, che Cristo non sposò Maria di Magdala. Chi sa come sarebbero andate le cose, se Cristo la avesse sposata! Anzi Cristo fu un dio, e transitò come un sogno per la vita.

Ora, o signora Santippe, quando una legge è costante dai tempi di Minosse a Leone Tolstoi, dall’oriente all’occidente, essa deve pur avere un valore!»

Così io parlai. Ma un crepitare terribile e come compresso, come un mugghiare feroce mi arrestò. Ne uscì una voce sardonica:

«Gli eroi! Gente moscia che vale meno [47] degli altri. Inutili gli eroi! Gli eroi metafisici, più che inutili!»

Strabiliai! Così aveva risposto Santippe.

«Ah, signora! Inutili gli eroi? Inutile vostro marito? Socrate inutile? il metafisico, il fondatore della filosofia morale? Anzi il creatore — io direi — della morale, perchè prima di lui non esisteva morale, ed il mondo è fondato sulla morale; così che possiamo ben affermare che il mondo gràvita su quel grand’uomo di cui voi aveste l’onore di essere consorte!»

«E chi ti dice, idiotes, che sia necessaria la morale inventata da mio marito?»

Così villanamente sibilarono le parole di Santippe contro di me. Era diventata socialista costei in ventitrè secoli di abitazione all’inferno?

[48]

«Chi lo dice? Già, chi lo dice? Ma tutti lo dicono! Dai libri delle scuole elementari ai discorsi del trono e dei ministri voi trovate, o signora, la morale, cioè vostro marito....»

«Sì, l’etichetta buona per i calli!»

Nella mia qualità di uomo giusto e morale, confesso che strabiliai una seconda volta a queste parole di Santippe. Credetti opportuno per la dignità di Socrate, della morale, ed un poco anche mia, di non replicare. Santippe, come donna, essendo fisica, non poteva forse penetrare dentro la metafisica.

Però dissi: «Ah, signora, adesso capisco per quale ragione quando Critone entrò nel carcere e disse: «Socrate, fuggi!», Socrate non volle fuggire e preferì la morte. Ah, signora, se le vostre labbra fossero state capaci di qualche [49] parola gentile, se le vostre mani fossero state capaci di preparare un tranquillo desco con una bella zuppa di ceci con olio e rosmarino, se aveste conservato un poco di nardo per ungere la dolorante anima di vostro marito, egli sarebbe evaso dalla prigione: l’umanità avrebbe avuto un martire di meno, ma anche un infelice di meno!»

E già proferendo queste parole, io mi preparavo a proteggere il mio volto, quando con somma stupefazione non udii alcuna risposta.

Fissai Santippe. Le sue pallide labbra tremavano di un convulso tremore. Disse a pena, disdegnosamente: «Va, va un po’ anche a cercare chi era lui!»

[50]

*

Allora è come dicono i dizionari, quando si cerca «Santippe», che rimandano a «Santippe: vedi Socrate».

Oh, ma che orribile mostro, Santippe! Che non sia una donna?

Eppure, no! Lei era la donna, era la glabra, la mammifera, la contorta, la chiomata, dall’ampio grembo generatore, la portatrice dell’uomo!

Inutile però interrogarla di più!

Non rimaneva che seguire il suo consiglio, ed andare in cerca di Socrate.

Però, conveniamone, la scoperta di Santippe, di cui tanto mi ero rallegrato in principio, mi portava ad un viaggio piuttosto lungo e difficile.

[51]

III. Socrate per le vie di Atene.

Andiamo, dunque, in cerca di Socrate. Egli non suole muoversi da Atene. Noi siamo certi di trovarlo in Atene.

E andando, io pensava: perchè Socrate prese moglie?

Si racconta che una volta gli amici domandassero a Socrate: — Come fai, o Socrate, a sopportare tua moglie?

— Perchè, — rispose gravemente il filosofo, — se io riesco a sopportare costei, riuscirò a sopportare qualunque altro individuo del genere umano. Anzi, — confermò, — la ho scelta apposta!

[52]

Eccomi, dunque, per le vie di Atene, ed ecco Socrate! Egli si riconosce subito: è diverso da tutti gli altri uomini; è brutto in mezzo a uomini belli; e a differenza dei filosofi che scrivono libri e svelano il loro pensiero nelle Accademie, Socrate non scrisse libri, e parlava per le strade.

Se, per così dire, io chiudo gli occhi, io lo vedo ancora, Socrate! Lo vedo per le vie della sua dolce Atene.

Anche la città era bella, non troppo grande, ma meravigliosa città; marmorea, sì anche. Ma i marmi di Atene erano screziati di azzurro, di oro, intermezzati da piante, animati da tante significazioni della vita che quei marmi rallegravano l’umanità, e non avevano l’aria di volerla soffocare. Atene non era nemmeno una delle nostre moderne [53] città piatte e monotone. Si elevava nell’acropoli, sino all’asta e all’elmo di Minerva: poi declinava verso il mare.

Ora in una città così bella e fra gente così bella, Socrate doveva spiccare stranamente. È vero che i suoi pensieri erano bellissimi ed armonici come una musica, anzi; ma questi pensieri non si vedevano; si vedevano invece i suoi abiti che dovevano essere in disordine.

I suoi calzari certamente dovevano portare la traccia del suo perpetuo vagabondare per le vie di Atene, giacchè Socrate era un continuo andare e stare; e credo di non essere troppo lontano dal vero paragonando i calzari di Socrate a quelli dei nostri frati zoccolanti.

Ora guai agli uomini dalla calzatura in disordine; essi sono destinati in vita ad assaggiare il sapore della cicuta.

[54]

Al tempo dì Socrate si portavano i sandali, e queste cose si capivano meno. Ma al tempo nostro in cui usano le scarpe, non sarà, mai abbastanza raccomandata la maggior cura e la maggior spesa nelle scarpe. Gli Inglesi, dominatori del mondo, portano scarpe di eccellente modello. I Tedeschi, che vengono dopo gli Inglesi, hanno l’abitudine di portare scarpe solidissime. Gli Americani si affermano con la filosofia delle loro scarpe: american shoe!

La bellezza di Socrate era tutta di dentro. Ma ciò non poteva esser bene apprezzato se non da un Dio, ed infatti Apolline, uno dei più seri fra i dodici Iddii greci, lo aveva proclamato «il più savio fra tutti gli uomini», che in greco si dice sofòtatos!

Ma è pur vero che Apolline non vestiva [55] mica come Socrate, ma con rara eleganza; le pieghe della clamide di quel Dio erano molto curate, i calzari stupendi, e la chioma la portava lucida e fluente come quella di una bellissima femmina.

Non si pensi per tutto questo che Socrate fosse, come i filosofi cristiani, un disprezzatore della bellezza. Lui non era bello ma era un entusiasta della bellezza, alla quale anzi non dava i confini ristretti che diamo noi. Le chiome bionde del giovanetto Fedone gli producevano un intenso piacere; ma lui era senza chiome e nel volto era piuttosto anti-estetico.

Tutti gli Ateniesi avevano una fronte diritta ed il naso regolare. Socrate, invece, aveva una fronte un po’ sfuggevole, ed una brutta insenatura si approfondiva [56] tra la fronte ed il naso. Ciò oggidì sarebbe poco avvertito; ma a quei tempi, in cui tutti possedevano quella squisita conformazione, doveva produrre uno spiacevole effetto.

Il naso, poi, sarebbe sembrato brutto anche ai nostri tempi: lunghetto ed in avanti, con le narici scoperte e dilatate, quasi in atto di indagare, di fiutare, di cercare che cosa ci fosse dentro in ogni cosa, ti en ècaston, come si dice in greco. E questa era la sua passione.

Due baffi, lasciando scoperto il labbro inferiore, labbro tumido ed alquanto carnale, si accartocciavano, in giù per il mento, in due volute che si intrecciavano con altre grosse arricciature della barba, e con un pizzo sul mento; rigonfio il pizzo ed a punta caprina. [57] Il tutto poi si confondeva con i folti cernecchi di una specie di tonsura naturale, perchè il cranio era lungo, bozzoluto; ma calvo del tutto. Un barbiere moderno si sarebbe trovato in grande impaccio per dipanare e mettere in ordine quella testa, e distinguere baffi, barba, pizzo, capelli. I suoi occhi erano grossi, intenti, sporgenti e come fissi nello stupore delle cose che lui solo aveva veduto indagando quel terribile ti en ècaston.

Sapientissimo, dunque, era stato proclamato Socrate, ma non bellissimo, e, pur troppo, neanche felicissimo.

Era proprio ellenico Socrate, o asiatico, o trace? Forse di tutto il mondo; e forse aveva dal deforme Esopo strappato, con la linea esterna, anche una scintilla di immortale gaiezza.

[58]

Già! Cadrebbe in errore chi imaginasse Socrate come un melanconico, oppure un infastidito. Era così bella la vita, e così splendente il suo pensiero! E poi come si poteva far amare la sapienza, se la sapienza ha il tristo privilegio di renderci melanconici?

Io non dico per ciò che fosse un ottimista, perchè ottimista vuol dire anche imbecille. Ecco: era un uomo allegro, che però non fu aiutato dal cielo, come dice il proverbio, che il cielo aiuta gli uomini allegri.

Anche quando Anito, un signore di cui parleremo più avanti, lo obbligò in fine a bere la cicuta, egli non era di cattivo umore verso l’umanità! Non disse come Cristo: «passi lungi da me questo amaro calice!» ma bevve la sua cicuta.

[59]

Ma era possibile che per un po’ di cicuta propinata dalla malvagità di Anito e compagni si dovesse spegnere del tutto questa bella lampada del sole? e tutta quella bella lampada ardente che era dentro di lui, dovesse scomparire? E allora dove andava a finire la logica?

*

Brutto, dunque, col mantello un po’ in disordine, gioviale, anzi pieno di spirito, come si dice noi, e piuttosto avanti con gli anni. Attorno poi a questo vecchio c’erano molti bei giovani. Sì, così! Ma per carità, non venga in mente un professore.

Perchè questo paragone è stato fatto, ma è erroneo per molte ragioni, fra cui [60] non ultima è questa: che Socrate dichiarava apertamente di non saper nulla; e un professore che oggi dicesse così, verrebbe squalificato, nè alcun merito avrebbe per aver, forse, dichiarato il vero.

A me, dunque, pare di vedere questo vecchio Socrate per le vie di Atene. Egli conosceva tutti nella sua cara città e da tutti era conosciuto. Fermava la gente, ammiccava con quei suoi occhi grossi, sorrideva, si studiava di parere piacente, anzi allettatore. In quella città loquace come le sue cicale, egli era loquacissimo con tutti. Fermava la gente e diceva:

— Amico, bada a me, io sono un buon mezzano: sai che ci stanno di belle giovinette lassù? Di’, le vogliamo andare a trovare?

[61]

— Sì bene, o Socrate, e come si chiamano esse?

— Una si chiama Aretè (Virtù), l’altra Enkràteia (Temperanza): e poi c’è Dike (Giustizia), c’è Sofrosine (Saggezza).

— Sta buono, Socrate; tu hai tempo da perdere: lasciami andare per le mie faccende.... Dike è un pezzo che ha abbandonato il mondo degli uomini. Lo dice anche Esiodo. Si vede che fra noi non ci stava troppo bene ed ha chiesto a Giove il passaporto.

— Ma di’, amico, non vogliamo noi diventare belli e buoni, e richiamare in terra la nobile Dike, anche se ella si è disgustata di noi, e promettere di non farle più oltraggio? E non ci piglieremo noi cura della bellissima Aretè, figlia abbandonata? E non ti pare ella cosa [62] per cui noi saremmo superiori agli Dei, non fare mai oltraggio e torto a nessuno, nemmeno, sì, nemmeno ai nostri nemici?

— Sono cose troppo difficili. Io credo che sarà bene rimandarle per un’altra volta. Ora preferisco ragazze di più dilettevole genere che la non più giovane signorina Aretè. Sai che c’è in Atene Cleonetta, Socrate caro? È il più bel fiore che io abbia mai visto sbocciare nei giardini umani; essa poi è stata qualche tempo a scuola a Mitilene, nell’isola di Lesbo, ed è sbarcata, or non è molto, piena di sapienza e di entusiasmo.

— Oh, amico, — gli rispondeva Socrate, — pensa a questa cosa: le tarantole che sono ragni grandi non più di mezzo òbolo, se toccano l’uomo con la [63] bocca, lo straziano e gli fanno perdere il giudizio. Se tanto arriva a fare una bestia così piccola, pensa che cosa può fare una bestia così grossa con i suoi baci! E poi, di’ un po’, dov’è la dignità dell’uomo, dov’è la libertà dello spirito, ed anche la sanità del corpo a star lì, appiccicato ad una donna, a domandare la carità dei baci come un mendicante?

— Avrai ragione anche qui, non ti dico di no. Ma se tu mi incominci a far della morale, ti saluto gioia della vita! Preferisco Cleonetta.

E quegli se ne andava.

E allora Socrate ne fermava un altro: — To’, senti: io ho una vergine, la più bella di tutte le donne....

— Più di Leena? più di Cioè?

— Più di tutte.

[64]

— Vediamo se la conosco. Si chiama?...

— Eleuteria (Libertà).

— Va, pazzerellone! Eleuteria? La libertà? Vergine costei? Vecchia baldracca ella è! Non c’è nessuna spia, vero? nessun sicofante c’è qui vicino che ci ascolti? Bene, senti, Socrate mio: io non ne posso più della libertà, siamo soffocati dalla libertà, qui in Atene. Come si stava bene quando il lacedemone Lisandro inaugurò coi suoi trenta Tiranni il sistema della cuffia del silenzio e delle verghe! I galantuomini potevano vivere in pace, in quei giorni di stato d’assedio. Oggi la libertà è tutta a beneficio dei politicanti e dei birbanti. Oh, ma non ti scappi mica per detto, sai!

— Ma io non ti parlo, o ammirabile [65] uomo, di quella libertà; ma di un’altra libertà ben più vera: la libertà dell’animo io voglio dire.

— Bravo, Socrate, e di quella poi cosa me ne faccio? Mi dovrò regolare io con la mia testa e non con la testa degli altri? Ma sai che è una vaga fatica questa che mi vuoi far fare tu? No, caro Socrate, la libertà dell’anima sarà una cosa assai bella; ma, credi, non è pratica.

*

Non v’erano che i giovani, l’eterna purità della vita, non ancora contaminata dall’esperimento, che lo ascoltavano con entusiasmo.

La divina giovinezza ha sempre creduto, e crede anche oggi, che sia cosa [66] facile rinnovare il mondo. E ci credeva probabilmente, anzi certamente, anche Socrate. Egli era vecchio, sì bene; ma il mondo era giovane; il mondo era piccolo, il mondo era Atene, utero dell’avvenire.

Oh, i giovani subivano il fascino dell’ammirabile favolatore. Essi venivano da lontano per ascoltarlo. Antistene di Tracia faceva quaranta stadi al giorno per poterlo ascoltare; Euclide di Megara si travestiva da donna per potere entrare in Atene, e le parole di lui accendevano tale ebbrezza che nell’udirle balzava a quei giovani il cuore come ai coribanti. E quali potenti ed ingenue imagini essi trovarono per esaltare il loro maestro! Memnone, un altro discepolo, paragonava Socrate ad una torpedine, che è un brutto pesce di mare, [67] gelatinoso, tutto maculato e a bitorzoli; ma guai a chi lo tocca: dà una scossa e fa cader nel torpore. Così la parola di Socrate faceva cadere l’anima in un divino torpore.

Bisognava chiamarsi Anito per rimanere insensibili!

Ma il bell’Alcibiade aveva un paragone anche più folgorante e superbo. Egli diceva: «Tu, o Socrate, sei come un Sileno, buffone al di fuori con zampogne e con flauti in mano; ma divino dentro tu sei, e tutto pieno delle terribili imagini dei Numi».

Oh, incredibile paragone! Dunque attraverso la corporalità materiale di Socrate intuivano quei giovani alcunchè di divino e di terribile? Sì! Essi, attraverso la mobilità irrequieta dei gesti e delle parole di Socrate, vedevano una [68] cotale impassibilità interiore, un che di incognito di dentro, proprio come quando noi riguardiamo negli occhi aperti, ma senza luce, di una statua di nume greco.

*

— Ma sai tu, o uomo, — proseguì allora Socrate, accendendosi di entusiasmo contro colui che non sapea che farsene della libertà, — sai tu il segreto degli Dei?

— Io no, ma se è bello raccontalo!

— Sai tu quello che il Dio ha detto all’uomo? Dio ha detto all’uomo: io non ti do un volto, non ti do una sede fissa, non ti do una speciale forza o istinto come agli altri animali; ma quello che [69] vorrai, sarai. Tutte le altre cose ubbidiscono a leggi immutabili; tu, uomo, sei nell’arbitrio tuo. Tutto ha confine; ma tu, uomo, lo stabilirai tu il tuo confine. Ti collocai in mezzo al mondo perchè tu vedessi quello che è il mondo. Non ti ho creato nè terreno, nè celeste, nè mortale, nè immortale. Sarai quello che tu vorrai! Tu, tu potrai, se vuoi, degenerare giù sino ai bruti; potrai, se vuoi, trasformarti sino agli Dei....

— Bravo, — rispose l’allegro Ateniese, — e i miei affari allora? Ci badi tu ai miei affari? Dare la scalata all’Olimpo? All’Olimpo della ricchezza, del gran chic, eh, eh! ci starei. Ma all’Olimpo degli Dei, oibò, Socrate! Oh, ma guarda, Socrate, Socrate, già che tu mi costringi a pensare anche con la mia testa, guarda un po’: gli Dei poi in [70] fin dei conti cosa sono? un gran chic, un gran snob. Te lo dimostro subito: noi andiamo a piedi o a cavallo, se abbiamo il cavallo: loro vanno in processione sulle nubi: noi soffriamo qualche volta di indigestione, essi no: essi godono il piacere della guerra, ma evitano la noia di farsi del male o di morire: essi si divertono a mettere al mondo figliuoli, ma hai visto mai Giunone fasciare ed allattare marmocchi o Giove condurli a scuola? «Gli Dei dinanzi al piacere posero il sudore!» hanno sentenziato gli Dei. Bella sentenza! Per i minchioni, però. Hai visto mai un Dio sudare? Mai! Bensì dall’Olimpo loro si divertono a veder sudare gli uomini e dicono: «Oh, gli industri uomini!» Dunque sì, Socrate, io voglio essere simile agli Dei, cioè stare [71] in panciolle, libero di godere e niente lavorare.

— Altri, altri Dei più veri e più grandi.... — disse Socrate.

— Questi li hai tu nel tuo cervello strambo, o Socrate. Va là, non mi far pensare! Sai tu perchè Giove ha quella bell’aria gioviale; è sereno, olimpico, beato, ed è decorato di quella bella barba nero-turchina, con quella capigliatura solida che gli ha appiccicato Fidia? Perchè pensa poco, caro! Perciò non ha mai mal di testa. La sola volta che se la sentì un poco pesante, prese una purga e venne fuori Minerva: una dea, sia detto fra noi, un po’ turbolenta e seccante, benchè sia la protettrice della nostra città.

E colui se ne andava.

[72]

*

Colui se ne era andato; ed ecco cautamente un leggiadro giovanetto si accostò a Socrate. Questo giovanetto oltre che leggiadro e ben vestito, era anche molto prudente. Il suo nome era Iscomake. Costui era innamorato di una bella giovinetta, la quale filava virtuosamente la lana nel gineceo, con le ciglia abbassate, accanto alla cara madre.

Ora Iscomake vedeva sotto le grandi ciglia abbassate modestamente della sua cara fanciulla passare un lampo delizioso che gli metteva i brividi addosso, e quel lampeggiare diceva: «Iscomake, Iscomake, sapessi come mi annoio qui, nel gineceo, a filare, soletta soletta, la lana, e come mi è faticoso oramai essere [73] savia, savia, savia, come mi dice sempre la mamma!»

Anche vedeva quel suo bianco piccolo piede nudo, sorretto da un sottile calzare che le dava una grazia ed una venustà senza pari; sentiva l’umido profumo della sua chioma nera e delle sue carni di ambra.

Dunque Iscomake era molto innamorato ma anche molto prudente. Egli perciò, sapendo della grande sapienza di Socrate, gli domandò: — Socrate, faccio bene o faccio male a prender moglie?

E Socrate contemplò con quei suoi occhi la ingenua giovinezza di Iscomake, e disse: — Io dico, Iscomake, che quale di queste due cose farai, tu te ne pentirai.

— Oh, Socrate, — disse il giovane. — quale [74] risposta è la tua! Pensa che i miei genitori e i genitori di lei oramai tutto hanno disposto perchè le nozze avvengano nel più breve tempo, ed io altra cosa non desidero più ardentemente. La mia domanda a te, che sei savio, voleva piuttosto dire questo: «che cosa è il matrimonio? come devo comportarmi verso quella che amo, e come lei verso di me, affinchè noi possiamo condurre una vita felice?»

E Iscomake cominciò a lagrimare, come quegli che vedeva per quella strana risposta un’ombra lugubre distendersi sull’orizzonte della sua vita.

— Io ti rispondo come è veramente: io ti dico, Iscomake, — disse Socrate, — che tu farai male a non prender moglie, e la ragione è questa: perchè la casa dell’uomo senza la donna è infinitamente [75] triste. Il focolare di Vesta, o amico, non arde e non riscalda, se Vesta, la dea, cioè la donna, manca nella casa.

— Ed allora, perchè, o Socrate, io mi pentirò lo stesso se prenderò moglie?

— Perchè tu, Iscomake, credi che il matrimonio sia la soddisfazione del piacere, mentre è la soddisfazione della saviezza.

— Oh, per questo, Socrate, — disse Iscomake, — sta pur sicuro che i miei genitori mi hanno allevato bene: mio padre mi ha sempre detto: «il tuo dovere, Iscomake, è di esser savio».

— Bene, Iscomake. E la tua sposa? È savia anche lei?

— La madre di lei, — rispose Iscomake, — le ripete sempre: «il tuo dovere, figliuola, è di essere savia».

[76]

— Sa tessere e filare?

— Sa tessere e filare.

— Docilmente e silenziosamente?

— Io credo di sì, Socrate.

— Hai osservato anche se per caso non abbia disposizione a consumare in un mese quello che deve bastare per un anno? a comparire più bella di quello che è, perchè il matrimonio — bada! — è anche la società di due corpi!

— Ha quindici anni soltanto, Socrate. Ma io credo che sia massaia, silenziosa, docile, modesta. Però ti dico che a tutte queste cose non ho mai pensato. Ad ogni modo io farò come fanno tutti gli altri Ateniesi che hanno moglie: provvederò che le serrature del gineceo chiudano bene.

— Sì, ma questo che si usa in Atene, non è, o Iscomake, il matrimonio [77] come fu stabilito dal Dio che ha costruito il mondo, — disse Socrate.

— Che cosa ha stabilito il Dio, quello che tu chiami il costruttore del mondo?

— Ha stabilito che il matrimonio fosse una specie di giogo, o tiro a due, rappresentato da un uomo e da una donna. Ti spiegherò meglio: una società mutua in cui le condizioni dei due contraenti, cioè dell’uomo e della donna, siano perfettamente eguali e squisitamente leali. Il contratto non sarà leale, se, per esempio, la donna cercherà di apparire più bella col lavorarsi la faccia, o più affascinante col camminare sopra un paio di sandali alti!

— Ed anche se io sono più ricco di lei, lei sarà uguale a me? — domandò Iscomake.

[78]

— Anche, Iscomake! Se lei saprà meglio di te amministrare questa società del matrimonio, lei sarà superiore a te. E se la donna sarà migliore dell’uomo, tu sarai ben felice di esserle servo e cavaliere.

— Ma questa cosa non si è mai sentita dire, che la donna sia uguale all’uomo, — disse Iscomake.

— Eppure è proprio così, — rispose Socrate. — L’uomo e la donna sono stati fabbricati con le stesse facoltà, e per questo non si distingue se sia superiore il genere maschile o il femminile. La differenza consiste in questo, che i due sessi non sono adatti per le stesse cose: anzi il Dio punisce l’uomo che fa opera da donna, e la donna che fa opera da uomo. L’uomo è più adatto per le cose esterne; la donna, per le cose interne. [79] La donna ha più affettività, una attività più solerte e minuziosa, un senso di previdenza del pericolo. Alla sua volta l’uomo è più forte ed ha il dovere della intrepidità e della difesa. Perciò i due sessi si completano in quanto l’uno ha bisogno dell’altro.

— E quando la donna diventa brutta o vecchia, — domandò Iscomake, — non la ripudierò io per prenderne un’altra più bella e più fresca?

— Quanto più la donna — disse Socrate — sarà buona compagna, custode di te, dei figli, della casa, tanto più la onorerai, perchè i veri beni si acquistano non con la bellezza, ma con la virtù.

— Ma allora il matrimonio è un esercizio di virtù, — disse Iscomake, molto avvilito. — E tutto questo sacrificio, perchè?

[80]

— A vantaggio del genere umano, — rispose Socrate. — Il piacere serve per la vita, ma non è la vita.

Ora Iscomake aveva poco più di vent’anni. Egli aveva pensato a portarsi a casa la sua adorabile giovinetta, e non a lavorare per il genere umano.

Era il volto di Iscomake assai triste e avvilito, nè sapea che rispondere, quando improvvisamente esclamò:

— Ecco, ecco, anche tu, Socrate, ti volti e la guardi!

In quel punto passava Cleonetta, la bella etèra che era stata agli studi nell’isola di Lesbo, ed ora era venuta in Atene a vendere rose; e profumo di rose e di muschio sfuggiva dalla sua persona, come da un’anfora.

— Che mi guardi anche tu, figlio di [81] Sofronisco? — disse la bella etèra. — Sta in pace, Socrate, la deliziosa taràntola non morderà al tuo vecchio cuoio!

*

Che cosa abbia poi deliberato il giovanetto Iscomake, noi non sappiamo e ci interessa ben poco. A noi importa di assicurare che il discorso su riferito non è per niente una nostra invenzione: ma è autentico. Esso dimostra che razza di complicazione fosse fin da allora il matrimonio nella mente di quel giudizioso filosofo!

Ah, se invece di un Dio, grande Architetto dell’Universo, fosse stata una Dea, la Architetta, le cose sarebbero passate più semplici e meno melanconiche!

[82]

Ma una cosa a me sta a cuore di notare in questi ragionamenti di Socrate ad Iscomake intorno al matrimonio, ed è la questione dei calzari, che noi diremmo delle scarpette.

Si tratta di una seria questione, perchè Socrate dice: «il contratto fra l’uomo e la donna non sarà leale se la donna cercherà di apparire più splendente col tingersi la faccia, o più dominante ed affascinante camminando sopra un paio di sandali alti».

Ora è il vero che un paio di pantofole — invece delle scarpette — rendono una donna antiestetica, e non è questa una scoperta — come ben si vede — fatta ai nostri tempi!

E generalmente accade che una donna preferisce apparire sleale piuttosto che antiestetica per colpa delle pantofole.

[83]

Tuttavia è indiscutibile che le pantofole hanno, sotto un certo aspetto, un pregio molto superiore alla questione della lealtà: esse non fanno rumore!

Imaginiamo una moglie che passi come un crotalo da una stanza all’altra, battendo sul pavimento i tacchi alti delle sue scarpette; e un’altra moglie invece che si muove silenziosamente, monacalmente silenziosa entro due pantofole....

Ah, sì! io lo so: un’anima giovane di uomo rimane atterrita da quelle pantofole: egli sogna due tacchi alti in due scarpette lucide. E dato il caso che possano far rumore, ci stende sotto una processione di viole e di rose, o più semplicemente un folto tappeto d’oriente. E dopo le scarpette, sogna due mani carezzevoli ambrate e profumate, che sono il prolungamento tattile di due [84] braccia tenere e poderose insieme, le quali — quando lui torna a casa con la bocca un poco amara per avere mangiato le prime foglie secche della delusione — gli si avviticchiano dietro le spalle; e le mani soavi gli si posano sulle guance, poi sugli occhi. Una voce adorabile dice intanto: «Mi conosci, amore? Chi è? È la tua adorabile sposina?» E spesso le lebbra umidette e ristrette si allungano, si applicano sul volto dell’uomo in un’azione benefica, e, dirò così, antiflogistica, come fa la sanguisuga che porta via le acrità e il mal calore del sangue.

Io ho visto questa semplice e deliziosa scena ripetuta molte volte sui teatri da alcune nostre graziosissime attrici, per le quali la menzogna è piacere e insieme dovere professionale: e devo [85] confessare che in verità erano meravigliose operazioni allo scopo di rinfrescare l’uomo dopo il calore della battaglia quotidiana.

Dopo ho veduto l’uomo alzarsi, scuotersi, buttare quasi a terra le scaglie del dubbio, della tristezza, dell’abbattimento: balzare in piedi rinnovato di fronte alle lotte della vita, come se avesse dormito dodici ore di sonno riparatore. Egli esclama: «Adesso mi sento forte!»

Questo spettacolo è attraente e seduce non soltanto i giovani, ma anche i vecchi spettatori; e chi ha di già preso moglie e questa si è fatta acida e matura, sogna di procurarsi una seconda moglie o qualcosa di equivalente, con cui ripetere questa cura igienica ed insieme patetica.

[86]

Nella realtà della vita questo spettacolo bellissimo si ripete come sul palcoscenico: ma con meno frequenza.

Il giovane, ahimè, dimentica che le rose e le viole fioriscono in tempo di primavera; che i tappeti orientali costano caro; e che quello spettacolo che abbiamo descritto, riesce bene, se esiste anche un’abile cuoca che sopraintenda alla cucina.

Se queste ed altre condizioni non si mettono insieme, l’esperienza a lungo andare riesce col non riuscire più bene. Anzi non soltanto non riesce affatto; ma può accadere di vedere quelle care labbra, già socchiuse ai baci, ingrandirsi smisuratamente, come in un’antica maschera tragica, ed in cambio delle parolette flautate, sgorga un torrente di male parole, di recriminazioni [87] amare, triste seme di frutti più amari.

Ma gli uomini, con tutto questo, seguitano ad andare in cerca di quelle donne che portano le scarpette lucide, coi tacchi sovrani; ed anche Socrate, dopo il saggio discorso, si era voltato a contemplare Cleonetta, la bellissima etèra.

[88]

IV. Socrate e la Morte.

Socrate col lungo naso fiutava la scìa dei profumi che lasciava dietro a sè Cleonetta, quando ecco un altro giovane di nome Clinia, figlio di Assioco, che accompagnato da un amico e dal suo maestro di musica, corre per le vie di Atene: — Socrate, Socrate, — grida, — dove è Socrate?

Lo trovò alfine. Egli era presso all’Ilisso, dove sgorga la Bella Fontana. Allora Clinia, riempiendosi gli occhi di lagrime, disse: — Ora è tempo, Socrate, di mostrare coi fatti quella sapienza [89] che tu lodi sempre. Non sai? mio padre è in fin di vita: egli che poco fa si rideva di quelli che hanno paura della morte, ora è disperato! Vieni, vieni tu a confortarlo, così che egli senza lamenti, si avvii al suo fato, ed io mostri di essere anche in ciò pietoso figliuolo.

E Socrate, levandosi, disse: — Tu non chiederai inutilmente a me cosa alcuna che sia giusta; ma questa poi è santa! — E si affrettò verso la casa di Assioco. Come vi arrivarono, videro costui il quale giaceva nel letto ed era molto disperato perchè doveva morire. Assioco era stato, come noi diremmo, un lottatore della vita, un uomo politico. Ma allora era assai languido ed afflitto, perchè doveva assolutamente morire.

Socrate, appena lo vide, così gli parlò: — Oh, [90] ma cosa è questo, Assioco? Come? tu che ti sei sempre mostrato valoroso nei finti combattimenti, adesso hai paura di quelli veri? Ma non sapevi tu che la vita è come una peregrinazione, un passaggio? No, non è da uomo nè da Ateniese lamentarsi così.

— Belle parole, Socrate, — rispose Assioco faticosamente, — ma non valgono un fico secco: io ho paura, capisci tu?, quando penso che fra poco sarò senza luce e privato di tutti i miei poderi e delle mie ricchezze, e mi sentirò trasmutato in putrefazione ed in vermini; e questo avverrà in qualunque luogo mi mettano. Sai tu che è orribile?

— Ma tu parli, Assioco, — disse Socrate, — come se dopo morto avessi da tornare ancora vivo! Di’ un po’, Assioco, al tempo del governo di Dracone [91] soffrivi tu qualche male? No, perchè tu non eri ancor nato. Bene, così tu non soffrirai nessun male dopo morto. Dove vuoi che trovi posto il male, se tu non ci sarai più?

— Ma è — ripeteva Assioco — che io voglio bene alla vita e che adesso soffro per il dolore di vedere distrutta la mia vita!

E allora Socrate cominciò, per confortarlo, a raccontare tutti i mali della vita: «Gli Dei filarono ai mortali una dolorosa vita, perchè nessun animale è più miserabile dell’uomo fra quelli che respirano l’aria e strisciano per terra».

E siccome Assioco era stato uomo di governo, e Atene era una città democratica, così Socrate gli parlò di tutti gli inconvenienti della democrazia, come io credo avrebbe parlato di tutti gli inconvenienti [92] della aristocrazia, se Atene fosse stata una città governata a tirannide. — Tu, mio caro, — diceva Socrate, — sei stato come un balocco in mano della plebe: oggi applausi, feste, carezze: domani sei stato fischiato, esigliato, scomunicato. Ti pare? È una bella vita questa?

— Sì, sì, — dice Assioco, — questo è vero. Quel cervello balzano di Aristofane che disse male di tutti, in fine non aveva torto quando satireggiò il Demos; ed io lo so, che ci sono stato dentro. Chi si accosta al popolo è molto più miserabile di lui. Ma anche con tutto questo di morire non ne voglio sapere: io voglio invece diventare vecchio, molto vecchio; ma non morire.

E allora Socrate cominciò dolcemente a persuaderlo che diventar vecchi è una [93] cosa anche più brutta che aver da fare col popolo. — La Natura, vedi, Assioco, ci ha dato la vita come fosse un prestito. Un’usuraia, sai, è la Natura! Se tu non sei disposto a restituirle il suo prestito, cioè la vita, lei te la ipoteca, ti mette le mani alla gola, ti porta via la vista, l’udito. Tu resisti? e lei ti rende paralitico, brutto. Tu resisti ancora? e lei ti rende imbecille come un bambino. Ecco perchè molti vecchi sono come bambini. Credi, Assioco, che la partenza da questa vita non è che un passaggio da un male ad un bene, tanto è vero che gli Dei liberano molto presto dalla vita quelli che essi amano.

— Bravo! — sospirò con amaritudine Assioco. — E allora tu che sai tutte queste belle cose, perchè stai al mondo? perchè non muori anche tu?

[94]

— Caro, è qui l’errore, — disse Socrate. — Ma io non so che poche cose, e le più comuni, che sono quelle che ti ho dette. Queste poche cognizioni che io possiedo, le ho comperate da un gran sapiente, che però, bada, se le faceva pagare. Niente per niente. Per alcune cognizioni voleva otto oboli, per altre due dramme; alcune non le cedeva che a quattro dramme l’una. Io ci ho speso tutto quel po’ che mi lasciò il mio povero padre. Ma credi, che ne sono contento, perchè da ora innanzi, o Assioco, la mia anima desidera la morte.

— Be’, contami un po’ su, — disse Assioco, — perchè la tua anima desidera la morte.

E allora cominciò Socrate a dire il sogno delle meravigliose parole. Oh, allora quale olio santo egli recò al morente!

[95]

Oh, preti; oh, preti, che al morente ripetete le lugubri parole di non so quale enorme peccato, ed impassibili compite i gesti macabri col crisma, leggete di Socrate, e interpreterete meglio Cristo, redentore nostro!

Perchè Socrate apri le sue labbra e disse: — Oltre alle cose che ti ho dette, vedi, Assioco, vi sono molte e belle ragioni per credere anche nell’immortalità dell’anima. Ma ti pare che una natura mortale avrebbe potuto levarsi a tanta altezza da domare le belve, passare i mari, conoscere il cammino del sole e delle stelle, fondare le città, gli stati, tramandarne la memoria, se non ci fosse in noi uno spirito immortale? Io credo proprio che tu non andrai verso la morte, ma verso la immortalità, o Assioco! Perchè tu devi sapere che l’anima, [96] essendo sparsa per i pori del corpo, si trova come imprigionata in questa materia, e perciò desidera di ritornare al suo luogo proprio, al suo principio, così che non appena ti sarai liberato da questa composizione corporale, tu ti troverai immerso nell’eternità, cioè in una nuova vita senza dolore e senza vecchiaia, dove tu potrai contemplare tutta la verità, viva e fiorente, e potrai ragionare sul serio, mentre sino a qui tu hai ragionato, o per far piacere alla moltitudine o per metterti in bella vista. Consòlati, dunque, consòlati, Assioco: non c’è posto per la morte, perchè non c’è un atomo che essa possa ridurre in niente.

Ma ad Assioco poco importava della prigione del corpo dove si era sempre trovato abbastanza bene, e meno ancora [97] della verità fiorente: voleva sapere di preciso quello che sarebbe accaduto di lui personalmente; e allora Socrate gli parlò della geografia di oltretomba, cosa molto incerta anche allora, cioè di certe beate isole dove vanno a finire i morti.

— Queste beate isole lontane sono circondate dal profondo oceano. Tre volte all’anno la terra ferace matura di per sè rigogliosi frutti e dolci come il miele. Le anime dei morti vi soggiornano libere da ogni affanno. Ma bada, Assioco, che prima di arrivare a quelle isole, si va in una pianura chiamata il luogo della verità perchè lì ci stanno i giudici, e bugie non se ne possono dire, nè i giudici si possono comperare come in Atene. Se nella vita sarai stato buono, o Assioco, se sarai vissuto piamente, allora essi ti imbarcano per quelle isole [98] che si chiamano Fortunate: la primavera lì non finisce mai, gli alberi sono pieni di frutta, vi sono banchetti, danze e molti altri divertimenti, come mi disse un mago che mi ha insegnato tutte queste cose.

*

Quest’ultimo genere di discorso consolò Assioco più di ogni altro discorso.

— Se è così, quasi quasi mi fa piacere di morire, — disse, — benchè morire sia in tale caso un termine improprio, non ti pare, Socrate?

— Ma certamente! Noi non moriamo; noi andiamo all’immortalità.

— E allora senti, Socrate: torna dopo mezzogiorno a ripetermelo un’altra volta questo bel discorso. Adesso [99] mi metto qui quieto! — E le palpebre gli scesero giù, e Assioco vide il suo viaggio verso le Isole Fortunate, con tutte quelle belle cose che lo aspettavano di là. Peccato che ci fosse quella pianura della verità; ma sperava di cavarsela abbastanza bene. Del resto, poi, tutto il mondo è paese, e i giudici di quella pianura era probabile che fossero anche loro un po’ come quelli di Atene, cioè gente da bene con cui non è difficile venire ad onesti accomodamenti.

Stette un po’ Socrate riguardando silenziosamente, quando Assioco si riscosse e domandò:

— Credi tu, Socrate, che sia necessario molto denaro portare nell’Ade?

— Non credo.

Assioco volse, consolato, uno sguardo verso il forziere dell’oramai vana pecunia.

[100]

*

Socrate uscì piano piano dalla camera di Assioco, e additò il morente, ora tranquillo e sopito, a Clinia; e dopo alquanto si ritrovò ancora presso l’Ilisso, alla Bella Fontana, che era un luogo fuori di porta.

[101]

V. Questioni molto serie proposte da Santippe a Socrate.

Ed era oramai il mezzodì.

Volgendo gli occhi in alto, si vedeva sul vertice enorme del Partenone la gran figura bronzea di Pallade folgorante nel sole, erta sopra tutti gli Dei, tutta chiusa nelle armi; il divino suo volto e l’asta protesa contro ogni barbarie.

Socrate, seduto presso la fontana, pensava al padre suo che fu un uomo buono, ed alla madre sua. Ambedue erano morti da molto tempo, ma egli li [102] rivedeva presenti ancora, al di là della morte.

E la bella fontana mormorava nel mezzodì.

Suo padre era stato uno scultore e si chiamava Sofronisco; la madre sua si chiamava Fenarete, ed era stata una levatrice. Ebbene, egli proseguiva nel mestiere del padre e della madre: era uno scultore di anime ed un alleviatore del dolore umano, come sua madre, la levatrice.

Pensava anche alle fole dette ad Assioco, a quelle improvvise, strane parole che gli erano venute su dal cuore: Oltre a ciò sappi, o Assioco, che molte e belle sono le ragioni le quali mostrano la immortalità dell’anima; e non sapeva più se quelle erano fole o realtà. Il rombo delle sue parole al [103] morente gli durava ancora nel cuore. Dolce è il profumo d’ambra e di rose che sprigionava il corpo di Cleonetta: dal disfatto corpo di Assioco già si diffondeva il lezzo della morte. Misteriosi sensi! Eppure vi doveva essere una resurrezione; un divino eterno ritorno!

Il sole faceva splendere la non lontana marina. Lontano, lontano, in più lontano mare, ecco apparire le Isole Beate; e sul prato dell’asfodelo sotto il gran verde di belle piante, sorridevano coloro che piansero in vita; quelli che qui soffersero per ingiusto giudizio, erano colà da più veri giudici consolati.

Felicità inconcepibile! E allora Socrate ripetè a sè stesso quelle parole che poco prima aveva dette ad Assioco: «Da quest’ora l’anima mia desidera la morte!»

[104]

La fontana mormorando dolcemente, pareva consentire con lui; e su nel cielo il sole pareva una grande pupilla che lo guardasse. Egli riguardò nel sole, e come un brivido gli passò per il cuore in quel calore del mezzodì. Forse non fu soltanto Sofronisco il padre suo nè Fenarete la sua sola madre; forse anche quello lassù, il sole, Apolline, fu il padre suo.

Ma oramai era già trascorsa l’ora che gli Ateniesi dicevano del mercato vuoto, cioè del mezzodì, quando tutti ritornano a casa.

Ed anche Socrate si avviò, come era usato, verso casa, e tutta la sua mente era infiorata e come inabissata in questi pensieri della vita e della morte. Ma non appena fu giunto in vista della sua casa, sentì la voce di Santippe, la quale [105] era su la porta, e disse: — Tu diventi un po’ carogna, Socrate! Mi sai dire cosa si fa oggi da mangiare? Tu vai via la mattina; non lasci nemmeno un obolo per la spesa e poi quand’è mezzogiorno, eccolo, bell’e fresco come una rosa. Cosa credi che noi campiamo d’aria come le cicale, o di chiacchiere come fai tu? Hai portato almeno qualche cosa da desinare?

Socrate non portava niente da desinare perchè era stato astratto in altre cose, nè aveva lasciato oboli molti per la spesa, perchè ne aveva pochi. Socrate infine non era ricco, anzi egli viveva «in una miriade di povertà», come ebbe a dichiarare.

Disponeva, ben è vero, di un piccolo patrimonio lasciatogli da suo padre, compresa quella sua casetta; ma [106] tutto sommato, stando al computo che fece Senofonte, — uomo pratico di affari, — il suo capitale non arrivava alle cinque mine, che sarebbe come dire cinquecento lire, «al patto però che si fosse trovato un buon compratore».

Di questo capitale egli aveva speso qualche obolo e qualche dramma per comperare, come abbiamo veduto, quel poco di scienza che possedeva: ma nell’esercizio di rivendita non domandava niente. Faceva con tutti come con Assioco, a cui aveva dato così bei conforti per prepararsi a morire. «A me costano tanto» aveva detto, ma non disse, «e tu dammi tanto».

Già, egli avrebbe potuto mandare a Clinia una nota delle sue prestazioni: Per avere consolato l’anima di tuo padre, venticinque dramme. Ma come [107] si fa? Come si fa a mandare la parcella per simili cose?

E bisogna dire ad onore di Santippe, che non era lei sola a disapprovare questo sistema gratuito di suo marito. Qualcuno anche degli amici gli andava dicendo: «Ma allora, Socrate, la tua scienza non vale niente, se la dài per niente».

E Santippe continuava: «Mi sai dire dove sei stato tutta questa mattina? A predicare la castità ai passeri? Ad accarezzare i capelli di Fedone, quel vergognoso mistero del sesso che non è nè uomo, nè donna? O sei andato a misurare quanto è lungo il salto della pulce? o a fare gli esperimenti sulle cicale per vedere se le cantano con la bocca o col deretano? Be’, cos’hai guadagnato?»

[108]

*

Egli aveva guadagnato meno ancora di frate Egidio, seguace di San Francesco, perchè frate Egidio voleva vivere affaticandosi corporalmente, cioè della sua fatica; e una volta andò a opera a bacchiare noci, e quando le ebbe bacchiate, gliene toccarono tante di sua parte che si dovette levare la tonaca e, legate le maniche ed il cappuccio, ne fece un sacco che tutto riempì di noci. Naturalmente non le vendette frate Egidio, ma con grande letizia le distribuì ai poveri.

Almeno si fosse presentato così Socrate a Santippe, con delle noci, dei fichi, dell’uva da distribuire ai figliuoli, che aveva piccini, e si sarebbero rallegrati di quei doni.

[109]

Ma niente!

Che cosa doveva rispondere Socrate a Santippe?

Forse doveva offrirle il banchetto che Santo Francesco offrì a Santa Chiara, che lasciarono sulla mensa il pane corporale perchè Santo Francesco nutrì l’estatica monacella di pane spirituale?

O doveva rispondere come Gesù Cristo: «Guarda, Santippe, come crescono i gigli delle convalli. Nemmeno Salomone in tutta la sua splendidezza fu mai vestito come uno di questi: guarda, come si nutrono gli uccelli dell’aria»?

Ma Cristo — come Santo Francesco — non aveva figliuoli nè moglie che avessero fame; e in caso proprio di necessità, Cristo avrebbe operato la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ma a [110] Socrate non venne mai in mente di operare miracoli, o di camminare su le acque come Cristo, o di risuscitare i morti. E per tutto questo Socrate tacque davanti a Santippe. E quanto a Cristo, poi, sembra che anche Cristo fosse seccato di dovere riposare il capo sopra un cuscino di pietra, mentre gli uomini usano cuscini di lana e di piume.

Io devo credere che Socrate dovesse rimanere assai malinconioso oltre che silenzioso, davanti alle recriminazioni di Santippe.

Perciò io non so come facciano i grandi scrittori a dire nei loro celebri volumi che Socrate era meravigliosamente esente da bisogni personali; e meno ancora capisco come i professori delle scuole facciano ai loro scolari tradurre in greco questa stupida proposizione: [111] Socrate con poche sostanze viveva contentissimo.

No, non è proprio così, illustri e garbati signori. È un’altra faccenda; è che quando si è «dentro pieni di imagini degli Dei» come era Socrate, i soldi non trovano la via per entrare; ovvero quando si è pieni di imagini degli Dei non è lecito prender moglie per continuare questa stirpe umana!

E Santippe continuava: «Ah, tu vai predicando l’Aretè, la Sofrosine, la Sofia, il Dovere! Il dovere l’ho fatto io che ho tirato su questi figliuoli e li ho nutriti con queste qui! e non li ho mica esposti come fanno le belle signore del tuo cuore! Eh, sì, che il più grande lo meritava d’esser bacchiato: un vagabondo già come te, e che parolacce dice a sua madre! A quello lì dovresti parlare [112] e dirgli quello che gli va detto, se non fossi o un grande impostore o un vecchio rimbambito. Ma se, figlio di un cane, proprio non puoi fare a meno di andare in giro a chiacchierare e hai questa malattia nel tuo sangue infelice, invece di quell’aria melensa «io non so niente, io so che non so niente», e poi dài dell’imbecille, dell’ignorante a tutti che oramai non c’è uno solo che ti possa più sopportare in Atene, fa almeno come Protagora. Anche lui chiacchiera, ma le sue chiacchiere le sa però mutare in tanta buona moneta sonante!»

[113]

VI. Come Santippe ferì Socrate nel cuore.

Santippe lo aveva ferito nel cuore.

Non perchè aveva detto: «O tu sei un impostore, o tu sei un vecchio rimbambito»; ma perchè la buona donna aveva detto: «Fa, almeno, come Protagora!»

Il nome di Protagora era l’ombra della mente di Socrate.

Protagora era, prima di tutto, un signore molto irreprensibile; la sua clamide era fluente, i suoi calzari erano eleganti, la sua chioma era profumata. Socrate, invece, benchè gli piacessero [114] le chiome fluenti, non possedeva la chioma; i suoi calzari erano in uno stato deplorevole, come abbiamo osservato; ed il suo mantello non teneva più i punti, come aveva dichiarato Santippe.

Protagora era un personaggio straordinariamente affascinatore e simpaticissimo; la sua parola scendeva giù per le orecchie di tutti come una musica facile ed uguale.

Poteva forse Protagora sembrare orgoglioso, in quanto che affermava di essere sapiente in ogni scibile e de quibusdam aliis; mentre Socrate affermava con quella sua aria melensa, come aveva notato anche Santippe, di non sapere niente.

Si, ma il vero è che Protagora si sarebbe ben guardato dal prendere in giro il prossimo come faceva Socrate e di obbligare [115] la gente a furia di domande, a confessare che anche essi non sapevano niente.

Il linguaggio di Socrate era piano e le sue imagini erano sensibili ad ogni intelligenza. «Ma se io ti comprendo, tu sei uguale a me.» Il linguaggio di Protagora era spesso artificiosamente drappeggiato. «Ma se io non ti comprendo, tu sei superiore a me!» Ma Protagora aveva tutti i ferri del mestiere nel suo arsenale dialettico; tutti, fuorchè l’ironia: ma Protagora era squisitamente gentile, e se egli era sapiente, «Tutti, tutti, signori Ateniesi, ornatissimi signori Ateniesi, potete — diceva Protagora — diventare sapienti come me».

Ah, sì; quel signore fece alle dottrine di Socrate la più implacabile delle [116] concorrenze, e bisogna ben confessare che questa concorrenza dura anche oggi.

Protagora poteva aver press’a poco l’età di Socrate, ma non era Ateniese. Siccome però Atene era la città più intellettuale della Grecia, così vi capitava spesso.

E quando egli vi capitava, non aveva bisogno di sbarcare ad un hôtel, perchè tutti i signori di Atene andavano a gara per averlo ospite nelle loro case.

Egli faceva anche, qualche volta, dei graziosi giuochi di prestigio.

«Intelligentissimi signori Ateniesi, — diceva, — io prendo questa pallina nera che, supponiamo, rappresenta la Giustizia. La prendo con la mano destra, delicatamente così! Passa, passa, pallina! La pallina è passata nella mano sinistra. Adesso prendo la bacchetta magica, [117] dico: un, due, tre! Pallina, scompari! E la pallina è scomparsa!»

Tutto ciò si ripete anche oggi: ma bisogna conoscere il trucco.

Ora il popolo Ateniese era molto giovane. La generazione precedente si era affaticata in una lotta spaventosa: aveva sparso fiumi di sangue combattendo contro una barbarie immane che lo aveva minacciato di soffocazione. Ne era uscito vittorioso, perciò ora amava divertirsi e di imparare i giuochi di prestigio, e il loro piacevole trucco.

Per queste ragioni, tutti quelli che avevano figliuoli, pregavano Protagora perchè desse loro delle lezioni private. Molti che aspiravano alla carriera politica, offrivano grosse somme per sapere fare anche loro bene quei giuochi così graziosi delle palline. I giovani di Atene [118] buttarono via dei capitali per potere imparare a parlar bene come Protagora.

Ed è vero che Protagora era un uomo onestissimo, al punto da dichiarare: «Cari signori, fissate voi la ricompensa che credete di darmi; ma non negatemi la ricompensa, perchè chi mi toglie il denaro, mi toglie l’onore».

Fu allora che il ministro della Pubblica Istruzione in Atene propose a Protagora un grosso stipendio, se si fosse degnato di fissare la sua dimora in quella città. Sventuratamente egli non potè aderire perchè era aspettato in Italia; nelle città d’Italia del sud, e ciò unicamente perchè a quei tempi non esistevano le città dell’Italia del nord.

[119]

*

Un giorno Socrate aveva trovato che le strade di Atene erano spopolate. Era arrivato Protagora, e tutti erano andati a sentirlo.

Anche gli amici di Socrate erano andati a sentirlo.

Platone, che aspirava, sino dalla nascita, a diventare sopra tutto un illustre sapiente accademico, era andato a sentirlo.

Alcibiade, che aspirava all’alta politica, era andato a sentirlo.

Socrate non incontrò che Apollodoro, che era un’anima candida; e Fedone, l’adorabile adolescente che adorava Socrate, perchè Socrate gli aveva trasfuso di dentro il divino martirio dell’anima.

[120]

— Che tristezza, — diceva Fedone, — a pensare che tu, Socrate, la devi quasi fermare per il petto la gente perchè ti stia ad ascoltare; e quello lì, invece, basta che arrivi in Atene perchè tutti mettano da parte i loro affari per andare alle sue conferenze. Eppure tu dici le cose come veramente sono. Come sono spregevoli e vani questi Ateniesi!

— No, — disse Apollodoro ancor più tristamente. — È che il popolo ateniese è un popolo gaio. La bellezza, l’illusione, la gioia, ecco quello che il popolo ateniese sente: qui tutti sono d’accordo. Ma tu sei melanconico senza fine, Socrate.

— Ma se, amici miei, — disse Socrate, — voi stessi mi chiamate Sileno, il buono, l’allegro giullare!

— No, Socrate! Triste è la tua anima, [121] tristi sono le tue parole. Tu dici di rispettare le leggi della nostra città, ma io sento che tutto l’edificio fabbricato dagli uomini trema con sinistri rumori dalle fondamenta alle tue parole.

— Io sono l’uomo mansueto, — disse Socrate.

— Ma sotto la tua mansuetudine, c’è un terrore di ribellione. Sai che spesso ho paura per te, Socrate?

— Paura? di che? degli uomini? della morte, forse? Temere la morte null’altra cosa è che sembrare di essere saggio, senza essere.

*

Ma così conversando, essi erano oramai giunti alla casa di Callia, il quale aveva l’alto onore di ospitare Protagora. [122] L’atrio era pieno della più eletta società, di Atene: nelle prime poltrone sedevano gli Arconti, e Protagora non era solo, ma aveva con sè alcuni suoi mammalucchi, giacchè il ventre di Protagora era fecondo. Esso seguita a generare anche oggi.

Il silenzio era meraviglioso, tanto che Socrate, Apollodoro e Fedone poterono ascoltare assai bene.

— Socrate? Oh, ecco Socrate! Salute a te, Socrate, — disse, con ben paludata parola, Protagora non appena scorse Socrate in fondo alla sala, — salute a te, Socrate! Anche noi, onorevoli signori Ateniesi, intendiamo, come il vostro concittadino Socrate, informare il carattere e l’intelligenza dei nobili giovani Ateniesi, educarli nelle virtù pubbliche e private. Anche noi [123] adoriamo la verità. Ma dove è la verità? Intelligentissimi signori Ateniesi, se gli Dei non abitassero troppo lontano, se la nostra vita non fosse così breve e così incerta, noi potremmo benissimo sapere che cosa è la verità! Ma non tutti noi, umanissimi uditori, abbiamo, come il vostro fortunato concittadino Socrate, la rara fortuna di possedere un dio suggeritore, un demone buono, nelle proprie tasche. La verità dunque bisogna che ce la fabbrichiamo noi, secondo noi, tagliata sulla nostra misura! Che vale, intelligentissimi signori Ateniesi, possedere l’arco di Ulisse se nessuno lo può tendere? Che vale un grappolo d’uva, se è perennemente acerbo? Una cosa si deve da noi chiamare vera, o signori, in quanto che, messa in pratica, rende. E se non [124] rende, non è verità. E perciò non esiste nel mondo reale una verità unica, ma esistono due verità, tre verità, molte verità, anzi tante verità quanti sono i gusti ed i capricci degli uomini; e così non esiste una sola virtù ma esistono molte virtù. Non esiste un solo Diritto, ma esistono molti Diritti. V’è il diritto dell’agnello; ma vi è anche il diritto del lupo! Esiste evidentemente la virtù di chi muore per la patria; ma esiste anche la virtù di chi canta i morti per la patria, come esiste la virtù di chi si conserva in buona salute per la patria. Esiste certamente, come dice l’illustre cittadino vostro, Socrate, la glandola della coscienza; ma non stimolàtela! Anzi, se avete coraggio, estirpàtela, e canterete tutte le mattine vispi come canerini, e vi sembrerà ogni [125] mattina di tornare gioiosamente a vivere!

Dopo di che tutti, cominciando dai signori Arconti, andarono a congratularsi per la bella conferenza col signor Protagora.

— Ma è evidente, — disse Meleto, l’arconte basileo, che era assai adiposo e rappresentava la suprema autorità religiosa e giudiziaria di Atene, — che se tutti avessero la sola virtù di morire per la patria, chi resterebbe per fare gli elenchi dei morti per la patria, chi resterebbe per fare le commemorazioni e le poesie pei morti per la patria?

Anche Socrate andò a congratularsi con Protagora.

Disse Socrate: — Voi commerciate splendidamente al minuto nei commestibili dell’anima.

[126]

— E voi, disse di rimando graziosamente Protagora a Socrate, commerciate un po’ troppo all’ingrosso. Sono partite colossali. Scusate, chi volete che le comperi? Soltanto gli Immortali Iddii le potrebbero comperare. Ma gli Iddii non ne hanno bisogno. Agli uomini, — bisbigliò a pena l’insigne Protagora, — occorre vendere bagattelle, possibilmente piacevoli. E poi, in confidenza, virtù e vizio, rose e cipolle sono tutte produzioni del suolo. Credo che voi soffriate di esaltazioni liriche, Socrate carissimo.

*

Strano! Dal tempo di Protagora e di Socrate i sistemi filosofici si sono susseguiti come le onde del mare: erti di [127] idealità sino alle nuvole, cupi di pessimismo sin giù negli abissi! Gli uomini come tante navicelle di carta, hanno seguitato a ballare su e giù per quelle onde della filosofia, felici di essere giù, felici di essere su.

Non ci fu che qualche individuo stravagante a dichiararsene insoddisfatto, come per esempio Messer Lò, professore medievale nell’università di Parigi, il quale, dopo essere stato sballottato a lungo in cerca della perfetta letizia, finì col dire: Linquo coax ranis (lascio il gracchiare alle rane), e terminò col farsi frate, secondo il costume di quel tempo; come Arrigo Heine, il quale dichiarò che, dopo avere amoreggiato con tutti i possibili sistemi filosofici senza rimanerne soddisfatto, — come Messalina dopo una notte di orgia, — si veniva [128] a trovare sullo stesso fondamento su cui si trovava il povero negro, lo zio Tom.

Ma non c’è dubbio che fra i tanti sistemi filosofici, quello dell’illustre Protagora è il solo che gli uomini abbiano coscienziosamente capito ed anche applicato.

Gli Arconti e i Lucomoni vanno sempre a congratularsi con Protagora e coi suoi mammalucchi.

I servizi di Socrate non furono niente affatto riconosciuti dallo Stato; e quella volta che il Governo si occupò seriamente di lui, fu per fargli bere la cicuta.

[129]

*

Certo, Socrate, lui come lui, non ha l’onore di aver costruito nessun edificio, nessun sistema filosofico, anche perchè non gliene lasciarono il tempo, avendogli fatto bere la cicuta.

Di lui non rimase che una pietra quadrangolare di marmo.

Ma io lo vedo ancora col suo melanconico sorriso di Sileno, quel povero figlio di Sofronisco scultore e di Fenarete, la levatrice. Egli sta presso la sua pietra quadrangolare. Io lo vedo ancora. Dal convito d’amore escono gli amici alquanto ebbri e con le rose sfiorite oramai; gli amici e le amiche fra cui stanno le belle cortigiane. Essi vanno a riposare. Socrate va alla bella fontana, [130] si lava e si purifica. Sorge il sole sull’acropoli. Egli riprende il suo dialogo eterno: «Di’, o uomo meraviglioso, vogliamo noi diventare belli e buoni?»

E gli uomini, da tanti secoli, non hanno sovrapposto una pietra su quella pietra.

Ma vero è anche che molti uomini, vicini a noi, dopo l’esperimento della vita, vollero morire per quella terra, ed in quella piccola terra che fu la patria di Socrate, considerandola come uguale al vasto mondo.

[131]

VII. La cena dell’amore.

Non si deve credere però che la buona società di Atene non istimasse Socrate. In questo caso sarebbero stati Beoti, ed essi erano Ateniesi! Certo spendevano più alla bottega di Protagora che a quella di Socrate; ma, oh, buon figliuolo di Sofronisco, come potevi tu pretendere che la gente venisse da te a comperare la Dike, la Enkrateia, la Noùs, quel tremendo esplosivo che è la Noùs? Vendere la Noùs per le strade, sono cose, figlio di Sofronisco, [132] che fanno strabiliare! Sono cose che non poterono avvenire che in Atene, la città della giovinezza del mondo.

— Signori Ateniesi, questa merce si vende per nulla. Si vende per nulla, non perchè non sia preziosa, chè la è preziosissima! Ma è che uno dei due sfuma, o il denaro o la merce! — così diceva Socrate.

E gli Ateniesi lo ascoltavano con curioso piacere: naturalmente, non comperavano.

— Se comperiamo codesta merce, — dicevano, — noi temiamo, o Socrate, di diventare brutti come te! — Lo ascoltavano però volontieri: spesso lo invitavano a cena, e mai gli fecero delle beffe: la qual cosa gli sarebbe certamente accaduta se fosse vissuto in Fiorenza, la città delle beffe. Naturalmente, [133] quando era invitato a cena, il buon uomo si ripuliva alquanto, perchè la società ateniese ci teneva molto all’eleganza: non però sino al grado di noi moderni, in cui i venditori di eleganza — camiciai, sarti, scarpai, ecc. — costituiscono un sindacato della rispettabilità.

E fu così che un giorno Apollodoro vide Socrate tutto ripulito, e siccome questa cosa gli accadeva di rado, Apollodoro meravigliò forte. Non mancava a Socrate che di essere profumato come costumavano tutti allora indistintamente gli Ateniesi.

Allora non c’era il precetto: «Amate il vostro prossimo!» e si suppliva con quest’altro: «Profumate il vostro prossimo!» E così l’uomo accostando il naso al suo prossimo, sentiva subito qualcosa [134] di piacevole. Ma Socrate preferiva il profumo della verità.

Apollodoro che lo vide così azzimato, meravigliò forte. Apollodoro era un’anima candida e quindi un poco irosa.

— Dove vai, Socrate? Perchè così vestito? Che sollecitudine è la tua di questa pomposità mondana e superflua? Non carichiamo e scarichiamo oggi la Noùs, la Dike?

— Caro, — disse Socrate, — io, come vedi, mi sono fatto bello perchè oggi sono chiamato a cena da persone che sono tutte belle.

Egli era in quel giorno invitato da Callia, un giovane signore, uno sportman — diremmo noi oggi — il quale aveva vinto il grand prix delle Panatenaiche.

[135]

— Vieni anche tu, Apollodoro, — disse Socrate.

— Ma non sono invitato! — rispose Apollodoro, il quale appunto come anima candida ed irosa, era anche anima timida.

— E se non sei invitato? Ti invito io. Una persona per bene è sempre ospitata con piacere da un’altra persona per bene.

Così parlò Socrate, e così si avviarono, lui e Apollodoro, alla casa di Callia.

*

Callia abitava una villetta, un po’ fuori di Atene, sulla riva del mare. Una piacevole passeggiata! E i sandali di Socrate e di Apollodoro andavano allegramente.

[136]

Appena Socrate fu in vista della villa di Callia, vide molti e bei giovani che lo attendevano.

Callia si fece incontro a Socrate e lo salutò con queste parole:

— Ben venuto, Socrate: noi ti abbiamo invitato a cena, perchè tu, essendo libero da cure mondane, farai più onore a noi che se avessimo invitato Anito, il presidente della Repubblica, o Meleto il basileo, o qualsiasi altro arconte o generale.

(Mai uno sportman dei nostri tempi sarebbe stato capace di così intelligenti e graziose espressioni!)

[137]

*

E quando tutti si furono acconciati ne’ loro divani attorno alla mensa, data l’acqua rosata alle dita, disse Callia bonariamente ai servi: — Fate da voi, ragazzi, e fate le cose per bene, perchè noi vogliamo mangiare e bere in pace.

«Ma, e le signore? non c’erano al banchetto di quel gentleman le signore?» potrà domandare qualche signora, se qualche signora sarà lettrice di questo libro.

«No! a quei tempi le signore erano escluse dai banchetti. Servivano soltanto come decorazione; muta, però.

Ma è imaginabile, signora, Socrate che va alla cena di Callia con Santippe a braccetto? È stato Cristo, signora, [138] che ha introdotto le signore nei banchetti: una marsina nera ed uno scollato bianco, in gran contegno. Gli Ateniesi non usavano nemmeno il contegno, perchè stavano sdraiati sui sofà, ed i fiori, anzichè sulla tavola, erano collocati sulle teste.

«Oh, gli orribili Ateniesi, sdraiati sui sofà senza l’intervento del sesso gentile! Chi sa quali scostumatezze!»

«Pur troppo, signora! L’uomo, o signora, è in alcuni rari casi di tipo apollineo, qualche rara volta di tipo dionisiaco, ma più spesso di tipo faunico, cioè bestia, e allora ruzzola sotto la tavola tanto oggi come allora.»

[139]

*

La cena passò lietamente. I piatti erano d’argento e non usava la seccatura di mutarli.

Finita la cena, fu fatta entrare una leggiadrissima giovinetta, vestita di un semplice kiton, che null’altro era che un quadratello di stoffa, come un vessillo, ma messo con garbo: allora le Ateniesi belle vestivano tutte così, con molta semplicità; come oggi, che le signore portano certe toilettes, come dire? semplici.

Un giovane aulete, o suonatore di flauto, accompagnava la fanciulla.

Questi intonò il suono, e poco dopo, ella, come indolente, slegò e scosse le membra della sua statua: le animò un [140] po’ per volta, poi furentemente, freneticamente. Ora ella, lieve, si trascinava dietro il ritmo dell’aulete che, a fatica, con il collo turgido, la seguiva zufolando.

I signori, sdraiati sui loro sofà, contemplavano.

D’improvviso la fanciulla ricompose le membra della sua statua; cessò la danza: l’aulete potè allora trarre il respiro dal petto profondo.

— Quella fanciulla pare vuota di dentro come la locusta! — disse ammirando più d’uno.

— Signori, — disse Filippo, uno dei commensali, — questo è effetto della danza, esercizio utilissimo e graziosissimo. Io ho il ventre grosso, e voglio diventare grazioso e leggero. Piglierò lezioni di danza. Anche Socrate ha il ventre [141] grosso e pesante e deve ballare, se vuole diventare grazioso.

— Tutti i giorni, o Filippo, — disse Socrate, — sta certo, io faccio in casa esercizi di ballo.

— Così, vedi, convien fare, — disse Filippo. — Tu, fatti in costà, — e accennando alla donna che si scostasse, Filippo balzò dal sofà e si mise a ballare col suo grosso ventre.

Spumeggiò di risa la gioia del convito.

— Da bere, — ordinò Callia.

Tutti avevano gran sete.

— Portate i cratèri più grandi, — ordinò Callia ai servi.

— Callia, se permetti, — disse Socrate, — ordina i bicchieri più piccoli. Il vino è cosa miracolosa come la pianta della mandragora: addormenta il dolore, [142] e sveglia la gioia, come l’olio sveglia la fiamma. Ma in piccole tazze! Noi siamo come la sementa della terra. Se l’acqua diluvia, la sementa marcisce; se invece scendono piogge soavi, ecco tutta la bella fiorita della primavera.

I servi recarono in giro piccole tazze.

Disse per primo Callia: — Io bevo alla Ricchezza, alla mia dolce e docile Ricchezza, dispensiera di libertà. Essa mi concede di onorare con bei simposi, in questa bella casa, con tanti servi, con questo inebriante vino, i cari amici.

Disse un altro dei convitati: — Ed io, o Callia, propino e bevo — perchè tu ci offri questo nobile vino — alla mia grande, vergine, libera Povertà. Divina cosa, amici, la Povertà! Già tu la custodisci senza forzieri, con la dolce negligenza [143] essa fruttifica, il dente dell’invidia non la morde; i figli non ti augurano di andar presto a ritrovare Caronte. Anch’io sono libero, o Callia, io con la mia povertà!

(Queste cose si potevano dire allora quasi sul serio, per tante ragioni per le quali la povertà non aveva l’odore così cadaverico che ha oggi).

Un giovanetto non ancora segnato nel volto di alcuna lanugine, inghirlandata la breve fronte di rose come un nume, fissando Callia con ferme pupille, parlò così per terzo e come devotamente: — Io mi glorio e mi esalto della mia, oh fuggitiva bellezza! la quale mi concede di essere caro a te, o Callia, o unico, o solo mio bene!

(E anche ciò poteva a quei tempi esser detto, se è permessa la contraddizione, [144] naturalmente. Le signore non potevano protestare).

— Permettete allora, signori ed amici, — disse quel tal Filippo, — che anch’io dica la mia. Io mi esalto e glorio perchè son nato buffone. Socrate nostro non può profferire parola che non sia seria; io invece non posso dir cosa che non sia buffonesca. Dire una cosa seria è per me impossibile: come diventare immortale. Socrate dice di sentire l’ambrosia di non so qual Nume o Demone di dentro. Io sento dentro di me un onesto suino che annusa l’ambrosia delle buone pietanze.........

— Ehi, ehi! — interruppe d’un tratto il buffone Filippo. — Si può sapere che cosa fanno quei due laggiù? Ma quella è la danza, diciamo così, del ventre!

Infatti la bella donna ed il giovane [145] aulete, rimasti senza occupazione, avevano per conto loro attaccata una danza, una danza.... Come dire? Un’abbominevole danza: quella che è detta oggi la danza degli Apaches, la danza dei selvaggi che piace anche alla nostra buona società. Io credo che sia una riproduzione dell’antica danza che i due primi selvaggi, Adamo ed Eva, danzarono la prima volta ed ebbe per conseguenza Caino ed Abele: una specie di tango.

La donna era di un verismo assai perturbante.

— Smetti, ragazza, — gridò Filippo. — Mi si desta Afrodite, e sorge Eros.

Cosa strana! In tutti si destava Afrodite, ed anche Eros.

E poichè i due smisero, furono mandati via.

[146]

— Per Giove, — esclamò Callia, — sapete, amici, che Eros, Amore, è un dio misterioso anche lui! Misteriosa certamente è Demetra; misteriosa è Minerva, ma anche Amore non ischerza!

— E il modo come si manifesta!

— E come è invincibile!

— E come è indomabile!

— Il più giovane ed il più bello degli Iddii, perchè chi può imaginare, signori, Amore non dirò con la barba bianca, ma con la barba?

— E nel tempo stesso, signori, il più vecchio fra gli Iddii, perchè come sarebbe nato Giove se prima non c’era Amore?

— E il più corroborante fra gli Iddii! Più assai di Dioniso di cui poco fa parlava Socrate! Non ci fu che quel vile di Paride, che quando era preso da [147] Eros, si sdraiava sul letto: ma io allora sbranerei i leoni, lotterei coi centauri, coi Lapiti, pur di arrivare all’oggetto che concupisco!

— La più bella istituzione del mondo è Eros!

— La più piacevole!

— La più esilarante!

— Sparsa dovunque: dovunque ci si volta, ecco Amore!

Così dissero i convitati di Callia in lode d’Amore.

*

«Oh, gli indecenti maschi avvinazzati! gli orribili Ateniesi!» — potrebbe qui esclamare la mia ideale signora — «I profanatori, non i lodatori d’Amore!»

«Ecco, signora: io credo piuttosto [148] che tutto provenga da un diverso modo di giudicare l’Amore. Per noi moderni l’Amore è una cosa così complicata, così difficile, così piena di conseguenza! E poi troppo ideale: e spesso l’ideale se ne va, e non rimane, pardon!, che il pitale d’Amore.

Per gli Elleni invece era una cosa più semplice. Essi volevano soltanto conoscere che cosa era quel delizioso furore di Eros: un problema scientifico! E perciò i nostri convitati stanno per dire cose un po’ sciocchine, un po’ puerili specialmente per chi è abituato alla nostra così spaventosa psicologia dell’Amore; e, forse, un po’ invereconde: ma tutto il loro discorso non fu inverecondo perchè nella loro mente Eros si presentava come un problema scientifico.

[149]

*

Disse, dunque, uno dei commensali:

— Come si spiega, o amici, l’arduo problema che c’è l’amore degli eroi e l’amore, diremo così, dei suini?

— È semplicissimo, — rispose un altro dei commensali. — Afrodite, la mamma di Amore, ha avuto due figliuoli; cioè due Amorini, un Amorino eroe e un Amorino maiale, in quanto che la nobile dea ha creduto di non far torto a nessuno....

— Ma, e perchè, — chiese un terzo, — due putti, uno maschio ed uno femmina, sono a un dipresso uguali, sino ad una certa età: ridono, scherzano insieme; poi viene un bel momento che la puttina trema davanti al maschio; [150] ha paura e fugge; fugge, ma lascia andare tutte le chiome lunghe lunghe per essere presa, e quando è presa, non piange ma ride? Se poi giungono alla vecchiezza, perchè tornano uguali, tornano a giocare in pace innocente ancora, come Filemone e Bauci?

— E perchè, — disse un altro, — questa caccia furibonda e continua; e perchè, questo è ben un mistero! perchè qualche volta avviene che un maschio rincorre un altro maschio; e qualche volta una femmina corre dietro una femmina?

— Oh, — disse un altro, — la spiegazione è abbastanza semplice: Giove quando creò la creatura umana, si pensò di congegnarla nel modo più compiuto e dilettevole; e perciò la combinò per tal guisa che in un solo individuo ci fosse maschio e femmina insieme. In [151] principio, dunque, non esisteva l’uomo e la donna: ma soltanto l’androgìno, cioè l’uomo-donna.

Chi sa come andarono le cose? Giove dice che l’androgìno era prepotente, cattivo ed ingrato. V’è chi dice che Giove si stancò dell’androgìno, nello stesso modo che i gran signori si stancano dello stesso balocco. Il fatto è che Giove si mise a spaccare tutti gli androgìni in due, come si fa con le acciughe, e diceva: Se non siete buoni, vi spaccherò in quattro, ed anche in otto! Ed ecco che, fatta appena questa operazione, la metà maschia si mise a cercare la sua metà femmina, spasimando come tante biscie tagliate. Questa cosa è tanto vera che anche oggi la moglie è chiamata la mia «metà». Ma chi sa dove si trova la sua metà? Ed è per questo che quasi [152] nessuno è contento della sua metà, ma desidera molto di mutare la propria metà, per vedere se trova quella che già combinava con lui. Spesso poi avviene che una metà maschia si attacca ad un’altra metà maschia, ed una metà femmina si appiccica con un’altra metà femmina, tanto è il cieco furore della caccia!

Così spiegò uno dei convitati, e tutti furono soddisfattissimi.

Tutte queste spiegazioni non erano propriamente la verità: ma è necessaria agli uomini la verità quando basta agli uomini una fola?

Ora siccome ognuno aveva detta la sua, così si volle sentire anche Socrate; ed ecco, quest’uomo, dissimile da tutti gli altri uomini, venir fuori, non con un’altra storiella piacevole, ma con una [153] di quelle cose lugubri che si chiamano verità.

— Perdonate, signori ed amici, — disse, — la mia dappocaggine, la mia inguaribile dappocaggine, per effetto della quale non mi è possibile dire altra cosa che non sia la verità. Vi devo dire che cos’è Amore? Amore è una volontà di vivere, un disperato e oscuro bisogno che ogni essere mortale sente di generare la sua immortalità. Perciò ogni essere creato combatte e vive in difesa del suo germoglio, cioè de’ suoi figli, che formano la sua immortalità.

— Ma allora, — esclamò con dolce stupore il giovanetto che si era vantato della sua bellezza, — i miei amori sarebbero riprovevoli amori perchè io non germoglio.

— Allora, Socrate, — disse Callia, — Amore [154] non sarebbe precisamente il Piacere!

— Il Piacere, — ripetè Socrate, — serve per la vita, caro Callia, ma non è la vita.

— Permettimi, caro Socrate, di osservarti, — disse Filippo, — che le tue opinioni sono piuttosto melanconiche e restrittive. Io per me mi sento perfettamente suino o faunico che tu voglia dire; io non ho alcun bisogno di immortalità; anzi ho paura dell’immortalità. Da bere, da bere, Callia, e in grandi crateri, questa volta, anche se a Socrate non pare. Tu ci vuoi far digerire male la gioia del convito!

[155]

*

Povero Socrate, così buono e intelligente! Egli non aveva nessuna intenzione di disturbare la gioia di quel convito: era quella malattia della verità!

E chi non beve il dolce vino della favola, ma si ostina a bere l’acqua cruda della verità, corre il rischio di rotolare e far mala fine, come San Francesco gran bevitore d’acqua, che, per contemplare l’alta verità, rotolò dal monte della Vernia.

*

Sul far dell’alba ognuno se ne tornò alle sue case.

Ma Socrate era ancora lì con il suo buon Apollodoro sulla riva del mare.

[156]

Parlò allora Apollodoro, che per timidezza mai aveva parlato durante il banchetto.

— Quale splendente verità tu hai detto, Socrate mio, — esclamò Apollodoro con venerazione, — più bella e luminosa dell’occhio del sole che ora sorge e accarezza l’Acropoli.

— Considera, considera, Apollodoro mio, — diceva Socrate, — anche queste altre verità.

— Quali, Socrate?

— Ecco: sai tu, Apollodoro, quanti figliuoli abbia avuto Giove?

— Impossibile, Socrate. Chi li può numerare?

— Vero! I figliuoli di Giove sono innumerevoli. Però osserverai una cosa: che, fatta una sola eccezione per la dea Minerva la quale venne fuori da per sè [157] dal cervello di Giove e non succhiò latte di donna, tutti gli altri figliuoli Giove li ha generati dalle più belle femmine del mondo, tutte bianche, tutte docili, tutte devote, tutte silenziose: Elettra, Europa, Leda, Alcmena! È strabiliante, Apollodoro, ma è così, proprio così! Il termine più alto della bellezza che la nostra mente contempla, è la donna; e noi cerchiamo appunto di procreare nella maggior bellezza per creare la immortalità più bella.

— Sublime verità tu hai detto, o Socrate, — rispose l’estatico Apollodoro. — Oh, ecco che spiego ora a me stesso perchè anch’io, che disprezzo tutte le cose mondane, pure non so staccare questi peccanti miei occhi dalla bianchezza della donna! E anche tu la guardi, Socrate.

[158]

Socrate sospirò profondamente.

— Ah, perchè — prosegui Apollodoro — le belle donne allontanano invece lo sguardo da te? Perchè tu, come Giove, non puoi ingannare la loro stupidità, trasformandoti in cigno, in pioggia d’oro, in bianco toro come fece quel Dio? Chi sa quale generazione immortale verrebbe fuori! Altro che Ercole! altro che Achille! altro che Castore e Polluce! Oh, ecco Minerva, vedi, o Socrate, — esclamò Apollodoro, — la divina Minerva dovrebbe congiungersi con te.

— La quale sventuratamente — disse Socrate sorridendo — è nata sterile.

Apollodoro, col capo in giù, pensava alla singolare fatalità che Minerva era sterile, e solo quella bianca oca di Leda fu capace di covare quattro ova per volta!

[159]

— Però, — disse Socrate levando la faccia camusa e sorridendo alquanto, — tu puoi generare anche con Minerva!

— Generare con Minerva? — chiese Apollodoro. — E che nascerà?

— Nascerà l’idea! — disse Socrate.

(Beatrice, l’amante di Dante, infatti, non soltanto fu sterile, ma non aveva che due grandi occhi ed un manto; eppure generò la Divina Commedia).

— Sublime, generare l’idea! Questa è la grande immortalità! — esclamò Apollodoro.

Ma ora anche Socrate ritornava col capo all’ingiù.

Forse pensava come fosse complicato quel problema di Amore, che egli aveva al banchetto di Callia enunciato un po’ troppo semplicemente. Dall’Amore del suino per la bella suina allo scopo di immortalare [160] la razza dei suini, all’Amore di Dante per la scarnificata Beatrice, è tutta una scala indefinita: ma una femmina è indispensabile: o suina o Beatrice.

Ahimè! forse la fola dell’androgìno valeva quanto la verità enunciata da Socrate!

Essi così si stavano muti sulla riva dell’azzurro mare al mattino, e il sole indorava l’Acropoli, quando Apollodoro esclamò:

— Socrate, guardati! ecco viene Santippe.

— Fuggiamo, figliuolo mio, — disse Socrate.

— Impossibile! Ti ha riconosciuto. Senti già le alte strida?

Era Santippe, infatti. Ella si era imbattuta nella comitiva dei convitati di [161] Callia, che ritornavano in Atene. Aveva chiesto di Socrate e quelli ridevano.

— Maledetti bardassi! cinedi porci! — aveva detto contro le loro risa, ed aveva seguitato a girare per ritrovarlo quel vagabondo di suo marito.

— Eccolo qui, — disse, — che non si accontenta di aver persa la notte; ma anche il mattino! A casa, dico, che tu sei ubriaco fradicio!

E presolo per la mano se lo trascinava dietro a gran passi. — Ma che proprio tutto io, tutto io? io accendere il fuoco? io scopare? e tu in giro a far gozzoviglia, muso da cane?

[162]

*

E quando Socrate fu giunto a casa, un visetto, un po’ camuso anche lui, si levò dagli stracci della sua cuna: due occhietti luccicarono, due manine batterono a palma a palma: File pappos, Papà mio!

Era il suo ultimo germoglio.

[163]

VIII. Il colloquio fra Anito e Meleto.

Le profezie di Santippe non tardarono ad avverarsi.

— Socrate, — diceva Santippe, — sta a casina tua, metti la testa a partito, chè sei vecchio; chiacchiera meno; se no ti predìco che farai mala fine.

Ma Socrate si era sempre profumato — come già dicemmo — col profumo della verità, e perciò non poteva star zitto.

Qui è indispensabile osservare come Socrate non fu lui solo ad avere questa [164] abitudine: Cristo parlava dall’alto della montagna; Dante parlava dall’alto dei secoli; Campanella portava per emblema una campana, e aveva per motto: «Non tacebo, non starò mai zitto!» San Francesco andò scalzo e lacero a parlare davanti alla maestà del Papa; Tolstoi cammina per la neve, con la sua barba bianca, sino ad affacciarsi al nostro occidente e grida: «Io non posso tacere!»

Ora quando si consideri come tutti costoro fecero mala fine, che Tolstoi, che era un signore, morì su la neve, risulta evidente che è assai meglio tenere la fiaccola sotto il moggio e non sopra il moggio: cioè seguire la saggezza del sentenzioso Bertoldo, il quale assicurava che in bocca chiusa non entrano mosche; e Bertoldo fu pure una rispettabile [165] persona, e se morì male fu anzi per eccesso di delicatezze a cui il suo stomaco di bifolco non era abituato.

*

Dunque Socrate era un predestinato a far mala fine. Ma quando io penso che Socrate non fu condannato da un tribunale segreto, coi giudici notturni e mascherati; non fu crocifisso da fanatici ebbri di odio; ma fu condannato alla luce del sole, legalmente, da cento tranquilli cittadini giurati, allora io sono preso da una gioia furibonda, ed esclamo, come in principio: — Oh, Atene luce del mondo, non solo nelle arti, ma anche nella politica!

[166]

*

Atene — ci pare di averlo detto — era una repubblica, cioè uno stato in cui tutti i cittadini sono proprietari della sovranità. Ora, siccome la repubblica è quel governo appunto che è fondato sulla virtù, Socrate, il quale vendeva la virtù per le strade, avrebbe dovuto essere almeno presidente della repubblica.

Invece Socrate fu condannato a morte, e appunto in una repubblica democratica. Questa cosa può fare dispiacere alle nostre convinzioni democratiche, per la quale cosa ci domandiamo: Come avvenne questo fatto strano che Socrate fu condannato a morte in una città democratica?

Avvenne perchè Anito ebbe un importante colloquio con Meleto.

[167]

*

In Atene, città raffinata, la democrazia costava cara come la aristocrazia. Tutti i cittadini essendo sovrani, aspiravano anche ad una piccola lista civile, cioè a vivere sovvenzionati dallo Stato, tanto che lo Stato dava anche gli spettacoli del teatro gratis.

Il denaro — equivalente sensibile della virtù — era molto ricercato e molto onorato in Atene. E similmente, come conseguenza, avvenne questo, che una volta un re che assediava Atene, invece di bombardare la città, vi fece entrare degli asini carichi d’oro: nessuna cavalcata eroica sortì effetto più bello! Atene fu presa risparmiando vite ed edifici.

Per evitare quest’inconveniente, gli [168] Spartani, che erano aristocratici, fecero coniare certe monete di bronzo da mezzo quintale l’una. Ma ciò non documenta se non la puerilità e la rozzezza degli Spartani, perchè l’uomo, quando si tratta di trasportare il denaro, è più robusto della formica la quale è capace di trascinare un peso circa duecento volte superiore al proprio peso.

Questa è una facoltà che hanno gli uomini tanto in democrazia quanto in aristocrazia.

Ma un inconveniente anche più grave e più speciale di Atene era la facilità con cui gli uomini, forniti di bella voce, arrivavano al potere. E quando si consideri che quasi tutti in Atene avevano bella voce, si capirà anche quanta gara ci fosse e quanta difficoltà nel mantenersi al potere.

[169]

Gli Spartani invece non parlavano che a monosillabi.

Questa diversità del modo di parlare fu, nel caso speciale di Atene e Sparta, uno dei motivi per cui i due popoli si guerreggiarono a morte. Ma anche altre diversità, come del colore, del modo di mangiare, di dire le orazioni, ecc., posson essere cagione di guerra. Ecco, dunque, gli Spartani che facevano guerra a morte agli Ateniesi.

E noi possiamo osservare che in tutti i tempi i grandi guerrieri, questi tetri agenti della morte, sono taciturni come la morte. Perciò gli Spartani, che parlavano a monosillabi, furono vincitori degli Ateniesi che parlavano troppo!

L’ultima battaglia navale fu un disastro irreparabile. La bella armata di mare degli Ateniesi, la più bella armata [170] che allora navigasse il Mediterraneo, gloria e scudo di Atene, in un giorno di distrazione e discussione dei suoi capitani, fu sorpresa dagli Spartani, e andò in pezzi.

Per effetto di questo disastro, Atene perdette la sua libertà e gli Spartani vi insediarono trenta Oligarchi, taciturni e sanguinari, che spadroneggiavano in Atene, tenevano chiusi i teatri, non permettevano di parlare e mandavano la gente a casa all’ora del coprifoco.

Socrate anche in quella circostanza seguitò a parlare lo stesso.

Ed allora il capo degli Oligarchi lo mandò a chiamare e con voce cupa gli disse: — Socrate, noi siamo stanchi fracidi dei tuoi discorsi!

Ê molto probabile che Socrate avrebbe fatto già da allora cattiva fine.

[171]

Ma gli Ateniesi, piuttosto che stare zitti, preferirono morire, e fecero una rivoluzione. E allora gli Oligarchi, che incutevano tanta paura, ebbero paura e scapparono. E qui diciamo come questo bello spettacolo di vedere i tiranni aver paura e scappare davanti alla rivoluzione, è uno dei vantaggi della democrazia.

Atene, cacciati che ebbe gli Oligarchi, ritornò più democratica di prima, e il presidente della Repubblica, o primo arconte, si chiamava Anito, ed era di professione cuoiaio.

Anito era una rispettabile persona ed era intelligente, prima perchè tutti gli Ateniesi erano intelligenti, secondo perchè le persone che arrivano al potere sono intelligenti. Era anche un formidabile democratico, perchè aveva sofferto [172] l’esilio durante la tirannia dei trenta Oligarchi, e gli interessi della sua conceria erano stati molto danneggiati. Per impedire che la flotta andasse in frantumi una seconda volta, egli aveva provveduto facendo votare una legge che prescriveva che tutte le navi fossero fasciate con un triplice rivestimento di cuoio.

Allo scopo poi di evitare congiurazioni contro lo Stato, Anito ispezionava e faceva diligentemente ispezionare le vie di Atene.

Ora noi sappiamo che Socrate passeggiava per le vie di Atene e vendeva gratuitamente la noùs ai giovani.

Se Socrate avesse sparlato della democrazia e dei cuoiai puzzolenti, oppure avesse deriso il progetto del rivestimento di triplice cuoio per le navi, [173] il sospettoso Anito avrebbe capito subito.

Anito parlava lo stesso linguaggio di Socrate, ma non capì troppo bene. Le orecchie di Anito erano pelose. Ora quando si pensi che frate Egidio e re Luigi il Santo parlavano due diversi linguaggi, e pur si capirono soltanto alle sfavillanti, lagrimanti pupille; anzi l’uno davanti l’altro devotamente si inginocchiò, bisogna ammettere che questo umano linguaggio ha meno valore che non si crede comunemente.

E non soltanto Anito capì poco; ma gli parve che il saluto a lui, presidente della Democrazia, fosse poco reverente.

Alcibiade, nepote di Pericle (un intellettuale molto sospetto!) diceva bensì: «Salute, Anito!»; ma le sue pupille, dall’alto della pura clàmide, giravano [174] così sardonicamente, che parevano dire: «Dove sei, Anito, verme della terra?»

Ed i sicofanti avevano riferito per certe queste parole del giovane Senofonte: «Salcicciai e cuoiai arricchiti vadano pure al potere: ma col voto dei salcicciai e cuoiai soltanto. Noi, piuttosto che dare il voto a simili candidati, boicoteremo lo Stato, andremo volontariamente in esilio.»

«Tutto questo, — pensava Anito, — è effetto della filosofia di quel vecchio. E che è questa filosofia che rende gli uomini indaganti, oltracotanti, ciarlanti, boicotanti, scioperanti?»

Egli non sapeva che cosa fosse la filosofia; ma come uomo politico, cioè intelligente, capì che quel vecchio parlava parole a lui nemiche, e quindi era nemico pericoloso per la democrazia. (E [175] questo di giudicare pericolosi i filosofi è, pur troppo, una qualità tanto delle aristocrazie quanto delle democrazie.)

«Ah, è troppo tempo, — diceva Anito, — che quel vecchio chiacchiera per le vie di Atene!»

E andava considerando fra sè come lo si potesse togliere dalla circolazione.

«Ecco, — esclamò trionfalmente Anito, puntando l’indice contro la fronte, — noi possediamo l’organo legale, l’ostracismo! Blandamente, dolcemente, noi togliamo questo individuo dalla circolazione. Sì, ma dove li troviamo noi tremila cittadini che diano il voto per mandare Socrate in esilio? Per quale motivazione? Perchè parla troppo? Ma allora bisognerebbe mandare in esilio tutti gli Ateniesi! Eppure un motivo ci deve essere!»

[176]

Anito, uomo politico, sentiva al fiuto che un motivo c’era. Ma quale? Non riusciva a trovarlo, e perciò si decise ad andare da Meleto, che era l’arconte basileo, e aveva l’orecchio più sottile.

Questo Meleto non era un sacerdote: Atene non ebbe sacerdoti, chè se li avesse avuti, non sarebbe stata più Atene. Era soltanto una mente sacerdotale. Oltre a ciò convien dire che questo Meleto era un eupatrida, cioè un nobile, e lo si diceva un po’ partitante dell’aristocrazia. Ma essendo al potere, ed avendo anche lui approvato il rivestimento di cuoio per le navi, Anito e Meleto — cioè demagogo ed oligarca — si trovavano in buoni rapporti.

Mentre dunque Anito si reca da Meleto, noi ci domandiamo: Perchè questa [177] legge dell’ostracismo, cioè di un esilio blando e niente affatto disonorevole, non fu conservata nelle legislazioni che vennero di poi? Perchè quella legge fu trovata ingenua, cioè superflua.

Dove Anito o Meleto salgono ai primi onori di uno Stato, gli uomini buoni si eliminano automaticamente, senza ostracismo.

*

Meleto era un personaggio flemmatico e maestoso, e il discorso che seguì fra i due uomini di Stato fu di molto interesse, anzi è memorando.

— Quell’uomo, quel Socrate, — cominciò a dire Anito, — io l’ho ascoltato attentamente; parla di fabbri, di falegnami, di asini col basto, dice che [178] conviene essere kaloikagatoi,[3] filosofoi....; eppure io sento che quell’uomo è pericoloso allo Stato. Pensa o non pensa vostra Eminenza quest’uomo pericoloso allo Stato?

— Mah! — rispose Meleto.

— Che cosa vuol dire «Mah!»? — domandò Anito che era uomo impaziente.

— Mah, — rispose gravemente Meleto, — vuol dire «pericoloso» e vuol dire anche «niente affatto pericoloso».

— Abbiate la cortesia di spiegarvi, perchè io non sono nato interprete paziente di enigmi.

— Non è un enigma, buon uomo, — rispose Meleto, — è una cosa semplice. Se i peli delle vostre orecchie non vi [179] avessero intercluso l’udito, voi avreste inteso che Socrate non parla soltanto degli asini col basto, ma parla anche di una voce misteriosa che ogni tanto gli ragiona, e lui solo ode, e lo mette in diretta comunicazione con Giove. Ora vostra Celsitudine può capire molto bene che se tutti gli Ateniesi fossero, come Socrate, in diretta comunicazione con Giove, io sommo pontefice, io arconte basileo, che servo appunto da interprete fra gli uomini e gli Dei, fututus sum!

Detto ciò, Meleto tacque e sorrise. L’orlo del suo manto era scomposto, e se lo ricompose.

Ne dia, — esclamò Anito, — ma allora se tutti gli Ateniesi diventeranno ragionanti e ragionevoli, anch’io, arconte polemarco, fututus sum!

[180]

Gli occhi sereni di Meleto fissavano lo scomposto volto di Anito.

Ne dia, per Giove, per la gran barba di Giove, — esclamò poco dopo ancora Anito, come percosso da un secondo lampo di luce, — se tutti gli Ateniesi, anzi se tutti gli uomini diventano kaloikagatoi, oltrechè filosofoi, siamo f..... tutti! Non più guerre, non più rivestimenti di cuoio alle navi! Ne dia! le cose sono di una gravità immensa! Quel vecchio melenso mi fa una rivoluzione più terribile di quella che ho fatto io! Addio Meleto, vi do il buon giorno!

— E dove va vostra Celsitudine?

— Vado a salvare lo Stato, vado ad arrestare Socrate....

— Io credo che si possa aspettare anche domani, — disse pacatamente Meleto. — Domani, o anche mai!

[181]

— Mai?

— Mai, buon Anito! perchè mai verrà il giorno che gli Ateniesi diverranno ragionanti e ragionevoli, mai verrà il giorno in cui gli asini col basto ubbidiranno alla voce del proprio Demone, mai gli uomini diventeranno kaloikagatoi! Il pericolo socratico, credete, Anito, è del tutto insussistente; è un futurismo senza futuro!

— Ma il rivestimento di cuoio per le navi?

— Il rivestimento di cuoio per le navi si farà, e così si faranno le armi, e così si faranno le guerre in perpetuo, — rispose Meleto. — La nobile Atene ha, a venti chilometri a nord, gli idioti Beoti; a venti chilometri a sud, i taciturni Spartani, che dove passano una sola traccia lasciano; quella della loro [182] mano insanguinata e brutale: tutt’attorno poi a nord, tutt’intorno a sud, dalla parte dove il sole si leva, e dalla parte dove il sole tramonta, crescono e montano le generazioni dei barbari che nessuna forza o dio distruggerà! Non vi date, dunque, pensiero, Anito, nè per la guerra, nè per le armi, nè pel rivestimento di cuoio. La nobile Atene dovrà guerreggiare in perpetuo se vorrà salvare la sua Minerva!

— Cosicchè voi, Meleto, — domandò Anito, — non condannereste Socrate nemmeno con il più dolce, con il più blando ostracismo?

— Io lo avrei, e da tempo, colpito di morte, — rispose Meleto con gravità solenne; — ma noi siamo in una città democratica!

[183]

Anito stupì e strinse calorosamente la mano a Meleto.

— Allora convenite con me che quell’uomo è pericoloso allo Stato. Ma se prima dicevate che urgenza di pericolo non c’era?

— No, buon Anito, urgenza di pericolo non esiste. Per la salute del mondo, mai gli asini col basto udranno la voce del Demone, mai gli uomini diventeranno kaloikagatoi, e sotto quest’aspetto il pericolo è insussistente. Ma ben è vero che gli Ateniesi sono già per loro natura troppo schernevoli, troppo mobili! Da troppo tempo hanno preso il mal vezzo di mettere, anche sul teatro, in burletta gli Dei! Mai codesto sarebbe tollerato in governo aristocratico! Perchè sappiate, o Anito, che per la salvezza di Atene e della terra, è sommamente [184] necessario conservare intatto Giove, il Cesare del Cielo, con le sue gerarchie disciplinate: Briareo dalle cento braccia, Proteo dalle cento forme, Ercole con la clava enorme; i gran gendarmi di Giove! Imperio, ubbidienza e servitù. Ciò risponde alla configurazione della terra! Ma le democrazie sono instabili, fermentanti, tumultuose. Vanno alle estreme conseguenze della logica e della illogica; ed allora non è più possibile governare gli Stati. Ora quel vecchio pazzo che su tutto indaga, che su tutto discute, che insegna agli altri ad indagare e discutere; che crea il diritto e la sovranità dell’individuo, mentre non ci deve essere che un solo diritto, una sola sovranità, lo Stato, quel vecchio è l’essere deleterio e perniciosissimo alla salute della Repubblica.

[185]

— Allora Socrate, — disse Anito con istupore, — è secondo voi essenzialmente democratico! Io lo credevo aristocratico.... Però sappiate, o Meleto, che se è necessario salvare la patria, io per questa occasione posso diventare aristocratico!

Il grave capo di Meleto, l’arconte basileo, si chinò alquanto. — Confortatevi, Anito, — disse poi. — Forse Socrate è un aristocratico....

— Allora io avevo capito subito.... — disse Anito.

— Comunque sia, o aristocratico o democratico, — disse Meleto, — vano è ricercare. Una cosa è certa: Socrate è pestifero. Quella gioventù che indaga, dubita, discute, si affolla intorno a lui, è di mal seme! Atene, circondata come è da Spartani e Beoti, di una sola cosa ha bisogno, di una pesante spada di [186] bronzo che cali con altrettanta brutalità come la spada spartana. Per parlare, uno solo basta, l’arconte. Gli altri basta che sappiano, con disciplinato silenzio, morire.

— Oh, ammirabile uomo! — esclamò Anito. — Ma è ben pericolosa la filosofia!

— Una malattia dello spirito, — sentenziò Meleto.

— Una malattia, — rincalzò Anito, — che non ha altro effetto pratico se non quello di rendere i nostri Ateniesi malcontenti, impertinenti, disubbidienti, poco rispettosi anche verso di me. Andrò io bene alle radici del male, Meleto!

— Sì, ma procedete, vi prego, con la legalità più scrupolosa. Siamo in città democratica, e per questo evitai io di prendere un’iniziativa qualsiasi. Ma poichè a voi così pare, fate. Badate però [187] che la procedura non deve essere soggetta ad alcuna critica. Ricavate la sentenza sulle coordinate del Codice. Tutto sia — ripeto — perfettamente legale. Noi non vogliamo che una luce fosca sia gettata sui nostri costumi politici.

Così parlò Meleto ad Anito ed Anito a Meleto.

*

E fu in conseguenza di questo colloquio fra Anito e Meleto, uno dei più interessanti colloqui storici che la politica ricordi ancorchè non si trovi registrato in alcun testo, che nell’anno primo della novantacinquesima Olimpiade, cioè l’anno 399, cioè quattro secoli prima ancora della passione di nostro Signore Gesù Cristo, gli Ateniesi lessero, — perchè tutti gli Ateniesi avevano [188] l’istruzione obbligatoria, e quindi sapevano leggere, — affisso sotto il portico dell’Arconte Basileo, questa citazione, o libello, così concepito: «Socrate, figlio del fu Sofronisco e della fu Fenarete, ammogliato con prole, di professione scultore disoccupato, è accusato di perniciosissima propaganda contro lo Stato. Arrogi che egli non mostra il dovuto rispetto verso Giove, padre degli Dei e imperatore degli uomini, in quanto che insegna dottrine religiose contrarie alla religione dello Stato e alla democrazia, e perciò è di grave scandalo alla gioventù».

*

Quel giorno Santippe aspettò proprio invano suo marito per l’ora del desinare.

[189]

IX. Oh, povera Santippe!

Non a pena Santippe venne a sapere che suo marito era stato messo in prigione, ne fu molto perturbata.

«Lo dicevo io che una volta o l’altra ci sarebbe capitato addosso qualcosa di serio! Eh, avessi io sposato un onesto trippaio! Suvvia, figliuoli, vestitevi con i peggiori abiti che avete (già di buoni non ne avete) e andiamo a metterci sulla porta per dove devono passare i giudici».

I signori giudici giurati passavano gravemente in lunga fila di cento giurati, [190] tutti vestiti coi manti bianchi. Essi si recavano al dikasterio, che vuol dire la casa di Dike, quella tale vergine e troppo delicata Giustizia, la quale vedendo che non c’era modo di salvare il suo onore, tornò su ancora in cielo: e allora ci andò ad abitare al dikasterio una buona donna più accomodante, la quale non essendo niente affatto vergine, era corazzata contro gli oltraggi degli uomini, da ogni parte, con triplice cuoio, come le navi di Anito.

Ora Santippe all’angolo del dikasterio, faceva insieme coi figliuoli, gran corrotto, e tutti quei suoi capellacci rossi e quelle sue strida mettevano quasi paura, anche ai signori giurati.

— Meschini noi! — urlava. — Or che faremo noi, deserti del nostro uomo? Adess’adesso vengo su anch’io nel dikasterio, [191] e ci mettiamo tutti noi, insieme con lui, a piangere!

Ma tutti i signori giurati erano di una gravità nera ed impressionante benchè vestiti di bianco.

Mostravano verso Santippe la palla bianca degli occhi e le palme delle mani ai due lati degli occhi come per dire: «È una cosa grave, grave, grave!»

E qualcuno pur le diceva: — Pare si tratti di un delitto contro lo Stato. Crimen lesae maiestatis!

Proditionis insimulatus! — diceva un altro.

— L’arconte basileo, oimè, sostiene l’accusa! — diceva un terzo.

— Mah! — sospirava un quarto.

— Sentiremo quello che risponde lui! Ma non sa nè parlare nè star zitto!

— Voi, ad ogni buon conto, la mia [192] buona donna, tenetevi qui pronta con questi marmocchi; al momento opportuno, quando si farà la votazione, vi manderemo a chiamare....

E qualcuno più disposto a pietà, diceva piano ai colleghi: — Se non fosse una cosa sì grave, potrebbe costei tentar di inviare qualche donativo ad Anito....

— Infatti, — rispondeva ancor più piano il collega, — mùnera placant hominesque deosque.... Ma che può mandare costei?

— Che vai dicendo? — chiedeva Santippe.

— Diciamo, buona donna, che Anito è di animo sensibile.

Così dicevano, nei primi giorni del processo, i giurati alla buona donna, e lei si stava tutto il dì alla porta del dikasterio. [193] Bene avrebbe elevato nell’aula le strida, e fatto gran corrotto non appena l’avessero chiamata!

Mai però Santippe si sarebbe imaginata una simile tragedia, la quale avrebbe travolto anche il suo umile nome nella rivista della storia!

Ma passavano i giorni, e Santippe non era chiamata su in tribunale. L’aspetto dei signori giurati era sempre più nero ed enigmatico.

— Bisogna che vi armiate di coraggio, la mia donna, — disse uno dei giurati; — ma le cose si mettono al male, e quel disgraziato si vuol rovinare! Invece di star zitto e lasciar parlare il suo avvocato, parla lui! Invece di lagrimare o di strapparsi quei quattro cernecchi che gli avanzano in testa, sorride, sorride proprio in faccia all’arconte basileo, [194] e in faccia ad Anito...., e in faccia a noi! Pare che si sia come fissato; e i suoi occhi spenti guardano cose lontane! Mah! — e le teste dei giudici più pietosi crollavano compassionevolmente sopra i candidi manti.

— Ma lo sapete pure che è un insensato! — urlava Santippe. — Quando vennero a casa a prenderlo, sorrideva anche allora, e si lasciò portar via come un pecorino. Io gli volevo sformare il muso a quei sicofanti, ma lui mi disse di stare cheta e di non contrastare.

— Non è una buona ragione essere insensato, — rispondevano gravemente i giurati. — Certo parla come insensato. Egli ha dichiarato che è dolentissimo; ma che per far piacere ad Anito e Meleto non può, specialmente alla sua età, mutare la sua vita. Lo vorrebbe anche, [195] ma il suo Dio non vuole, il suo Dio, capite voi? chè per quello che anche noi se ne può capire, è più misterioso di Demetra, più intelligente di Minerva, più autorevole di Giove stesso. È l’accusa di Meleto! E lui, infelice, la ribadisce!

— Meleto e Anito allora hanno ragione!

Crimen impietatis, oltre che crimen lesae maiestatis! — mormoravano i giudici del popolo e non volgevano più nemmeno il bianco delle pupille verso Santippe.

E venne un nunzio quando fu sera e disse: — Santippe, Socrate vostro fu giudicato reo!

— Oimè, oimè, deserta, — urlava Santippe fuggendo per le vie d’Atene, — me l’hanno condannato quel povero uomo. L’hanno giudicato reo! Ma reo [196] dì che? Disoccupato, scioperato, mentecatto, ma reo di che?

— Datti pace, Santippe, — diceva la gente per le vie, — ogni speranza non è perduta.... L’hanno giudicato reo: questo è vero, ma la maggioranza è di soli tre voti. L’ultima parola non è ancor detta. Domani è l’ultima seduta. Meleto, sì, è vero, proporrà domani la pena; ma Socrate ha il diritto di fare una controproposta. È per legge! E allora sappi, Santippe, che sono ancora i giurati quelli i quali devono stabilire la pena.

*

Or dunque, quando venne l’ultimo giorno, grande fu la trepidazione di Santippe.

Ma il dikasterio pareva quel dì muto [197] come la casa dei morti. Declinava ancora il sole.

Ad un tratto fu udito un gran tumulto, un urlo di cento voci, poi silenzio ancora, poi, dopo alquanto, furono spalancate le porte e tutte le cento toghe bianche dei signori giurati si precipitarono fuori in gran tumulto. Travolsero Santippe.

Ultimi, lentamente, uscirono Meleto, Anito ed i notari e fiscali.

— Noi abbiamo salvato la Repubblica! — diceva gravemente Anito.

— Nel presente e nel futuro, — diceva Meleto.

I notari, loro intorno, facevano reverenza, e si ripetevano l’un l’altro: — Una pervicacia inaudita, signori! Il disprezzo di ogni tradizione, di ogni legge!

[198]

*

Che cosa dunque era accaduto nell’aula del dikasterio?

Questo era accaduto:

I signori giurati avevano il giorno precedente approvato l’accusa di reità. Ma la maggioranza dei voti era stata assai scarsa. Tre voti appena!

E Anito e Meleto uscirono dal dikasterio in quel dì con accigliato cipiglio squadrando i cento giurati, fra cui quarantasette (certo) erano quelli che giudicavano Socrate, non reo.

Tutta notte Meleto, al lume della lucerna, meditò nel nero cuore la sua requisitoria. E come spuntò il dì, la recitò, e rimbombò l’aula del dikasterio. Egli, l’arconte basileo, domandava la pena di morte, pro crimine impietatis!

[199]

— Ma perchè, signori giurati, — proseguì Meleto, — nulla la democrazia ateniese fece e farà mai contro la legge, prima che voi diate sentenza, a te, Socrate, spetta proporre di quale pena ti giudichi meritevole.

— In verità, Meleto, in verità, Anito, e tutti voi, signori di Atene, — cominciò allora Socrate, — io ben considerando di avere speso tutta la mia vita in pro’ vostro e di avere per questo trascurato gli interessi miei e quelli della mia famiglia, domanderei invece un premio. Ma sono vecchio oramai, ho settantacinque anni e perciò io mi restringo a chiedervi una tenue pensione; e quanto a voi, Meleto ed Anito, io chiedo la nomina nel Pritaneo, dove lo Stato onora e nutre i suoi cittadini più benemeriti.

[200]

(Noi oggi diremmo la nomina a membro del Senato.)

E fu allora che un clamore immenso si levò fra i giudici: — Quell’uomo schernisce la maestà della legge!

— No, membro del Pritaneo? — continuò Socrate. — Voi mi volete condannare ad ogni modo? Ebbene: io allora ubbidirò e pagherò una multa: tutto quello che io vi posso dare, vi darò, signori giudici!

E così dicendo, Socrate levò e presentò alta una moneta: un obolo!

(Noi diremmo: due centesimi.)

E fu così che quegli onesti bruti votarono la pena di morte a totale maggioranza.

Tutti quei cento bruti da molti giorni soffrivano di una cotale prurigine alla pelle, come se le parole di Socrate fossero [201] state un’invisibile, un’impalpabile polvere vescicatoria.

— A morte! — gridarono i giudici.

— A morte, signori Ateniesi? — domandò allora Socrate senza mutar voce. — Ma ci potremo intendere benissimo, giacchè il Dio solo sa e conosce se la morte è un male od un bene.

*

E fu così che Socrate, per profumarsi col profumo della verità e più specialmente per non poter tacere, fu condannato a morte.

Avete ucciso, o Ateniesi, l’usignolo delle Muse, il savio vero, l’innocente, il miglior uomo che fosse tra voi.

E gli uomini giudicarono savio l’insensato, ma soltanto dopo che l’insensato era morto!

[202]

X. Santippe nella prigione di Socrate.

Vi sono nella vita certe cose meravigliose ed indomite che la ragione di un galantuomo non riesce a capire.

Io, per esempio, non capisco perchè Socrate non volle fuggire dal carcere quando quel giorno, che non era nè notte nè l’alba, venne l’amico Critone e gli disse: — Socrate, fuggi!

E glielo disse con quella sollecitudine e con quell’affanno con cui noi avvertiamo una persona molto cara di campare da un grave pericolo e la sollecitiamo, [203] perchè essa non vede, non cura, non è sollecita.

E Critone trovò Socrate non stoicamente «impassibile», nel suo carcere, come spesso si legge di alcuni grandi eroi che erano condannati a morte; ma lo trovò, come sempre, buono ed affabile. Era forse un po’ disturbato, in quanto che Critone lo aveva allontanato dal sonno, e pareva quasi voler rimproverare il suo giovane discepolo con quelle parole: — Come, Critone, a quest’ora? È già spuntato il sole? — e pareva volesse dire: — Perchè mi hai tu chiamato alla vita?

— Perchè tu devi fuggire, — dice Critone, — devi salvarti: tutto è pronto per la fuga, le guardie del carcere sono state comperate da noi.

E Socrate disse che non voleva fuggire, e Critone vide la faccia di Socrate [204] distendersi nel suo umile sorriso come se dentro un lume di letizia si fosse improvvisamente acceso.

Critone cominciò a lagrimare. E Socrate cominciò a spiegargli le belle ragioni perchè non voleva fuggire.

Ed è proprio vero quello che noi sappiamo, cioè che Socrate non volle fuggire per non far del male alla sua adorata, unica patria disubbidendo alle sue leggi?

Sì, questo può darsi. Allora non usavano le nostre grandi patrie; ma usavano piccole patrie, le quali si abbracciavano con un’occhiata, e si abbracciavano anche col cuore più facilmente che non le nostre troppo grandi patrie. Ma può anche darsi che Socrate udisse al di là della voce di Critone che supplicava: «Socrate, fuggi!», la voce dell’umanità che diceva: «Socrate, non fuggire; [205] Socrate, per carità, fatti ammazzare!». Perchè è un fatto che l’umanità ha bisogno, ha bisogno, ogni tanto, come l’Orco della favola, di divorare qualche uomo giusto.

E potrebbe darsi inoltre che Socrate avesse sentito in quell’ora tutta la verità di quelle parole inebbrianti che egli già aveva dette ad Assioco: «Da quest’ora in avanti la mia anima desidera la morte».

E potrebbe anche darsi che Socrate provasse in quell’ora quel furente entusiasmo, quella follia che Dante colloca nell’animo di un altro eroe tutt’altro che ingenuo, quando lo sospinge, vecchio, ad affrontare l’immenso mare, ignoto, delle tenebre: «Suvvia, Socrate, facciamo l’esperimento della morte! Scagliamo la nostra vita, con ancora tutte [206] le fiaccole dei sensi vive ed accese, contro la morte!»

Ma che ne sappiamo noi?

Noi sappiamo che egli non volle fuggire e che la mattina in cui, a giorno già fatto, gli amici suoi, Fedone, Critone, Apollodoro, Cebete e altri entrarono nel carcere, per l’ultima volta, vi trovarono già Santippe.

Povera e calunniata signora!

Quante volte abbiamo letto nei libri, nei giornali, che mentre il marito sta per morire, la moglie consulta la sarta sull’abito da lutto!

Ma Santippe, no: ella era nel carcere di suo marito perchè aveva saputo che in quel giorno Socrate doveva morire. Ella non disse: «Oh, finalmente se ne va quel buon uomo».

Ella seguiva il marito.

[207]

*

Però la sentenza non potè subito essere coronata dalla esecuzione; passò più di un mese tra la sentenza e l’esecuzione. Ciò avvenne perchè non sarebbe stato legale uccidere Socrate in quel frattempo! Quello era un sacro tempo! Ogni anno una nave salpava dal porto di Atene per portare doni ex voto solemni pro accepta gratia, al dio Apollo che abitava l’isoletta di Delo. Ora per tutto quel tempo era per legge vietato di ammazzare. Dopo, sì, si poteva ammazzare! Ma a cagione del mare cattivo e dei sacri banchetti, la sacra nave tardava ad arrivare. Ora finalmente era ’arrivata ed era permesso ammazzare.

Ad Anito e Meleto, all’aristocrazia [208] ed alla democrazia, stava a cuore la più scrupolosa legalità.

Gli ufficiali di giustizia, che erano Undici, si erano affrettati di buon mattino a slegare Socrate, che per tutto quel mese era stato incatenato come una malvagia bestia, e il servo dei magistrati — noi diremmo, il boia — pestava tranquillamente la cicuta nel suo mortaio.

Era press’a poco l’ora lugubre in cui l’esecutore delle grandi opere — come i Francesi, eleganti sempre, chiamano il carnefice — sorveglia al lume delle fiaccole se la ghigliottina è montata a dovere; e si veste l’abito nero: l’ora lugubre in cui gli elettricisti in America provano la bontà della corrente nella sedia elettrica: in cui in altri paesi il boia impiccatore sporge per l’apertura della [209] carcere la sua pupilla per vedere sul condannato di quale lunghezza deve essere la corda della forca. Ai tempi di Socrate non esistevano questi lugubri progressi tecnici e la morte legale era somministrata in una maniera più intima e meno spettacolosa.

Si dava la cicuta.

La cicuta è una pianticella che cresce nei luoghi umidi. Essa è molto simile all’utile prezzemolo e produce una morte — dicono — quasi tranquilla, come quella che spesso avviene naturalmente, quando questo povero nostro cuore improvvisamente si ferma per non riprendere più. Certo non così estetica e tranquilla come la descrive Platone, ma insomma una cosa discreta!

Dunque gli amici entrarono e trovarono Santippe nella prigione.

[210]

Ella era venuta di buon’ora insieme con i magistrati, detti gli Undici. Si era levata presto quella mattina perchè aveva saputo anche lei che la sacra nave era giunta. Il più piccino dei figliuoli si era svegliato di soprassalto sentendo che la mamma si levava che era quasi notte, e: — No via, no via anche tu, come il babbo! — aveva detto e poi si era messo a piangere; e allora Santippe lo aveva infagottato alla meglio per non farlo piangere di più e non svegliare gli altri due fratelli che, per fortuna, dormivano.

E per le vie ancor buie di Atene, era corsa alle carceri e aveva veduto entrare i signori Undici. Allora s’era messa a galoppare col suo figliuolo in braccio; li aveva raggiunti e: — Oh, Madonna, oh, Signore, è vero — chiedeva all’uno e [211] all’altro degli Undici — è vero che oggi mio marito deve morire?

— E arrivata infine la sacra nave da Delo, — risposero gravemente gli uomini della legge.

— Andate là, vedete di aspettare, lasciatemi andare da Anito, — chi sa che non gli possa parlare, che non abbia pietà di noi meschinelli.

— La mia buona donna, — disse uno degli Undici — intanto a quest’ora Sua Celsitudine Anito dorme, e poi dite un po’, dove andrebbe a finire il mondo se si potesse così leggermente fermare la spada punitrice della Giustizia?

— Ma infine, — urlò Santippe, — cos’ha fatto questo pover’uomo? Ha rubato? Ha ammazzato? No! Diceva delle cose senza capo nè coda perchè aveva come una fissazione! Eh, se si dovessero [212] ammazzare gli uomini per le sciocchezze che dicono, allora non ci resterebbe neppur più la cria della vostra brutta razza prepotente.

— Delle «sciocchezze»? — disse il più grave degli Undici, spalancando la bocca ammirativa dentro la sua venerabile barba, mentre gli altri degli Undici già salivano le scale della prigione. — Delle sciocchezze? Ha fatto grande scandalo!

— Ma che scandalo?...

— Ha disprezzato la legge della città! Ma sapete voi cos’è la legge? La legge è quella cosa......

— Che la fa chi può, e la mangia chi deve, — disse Santippe.

— Vi compatisco che non sapete quel che vi dite. E l’avere offeso Giove Olimpio che è il padre degli dei e degli uomini, vi par poco?

[213]

— Eh, che non ci credete più neppur voi a Giove Olimpio, buffoni!

E a quell’invettiva il bambinello che aveva, coi grandi occhi attoniti, sull’alto della spalla di Santippe, assistito a quella scena al lume delle lanterne che ingiallivano già, per l’alba nascente, scoppiò in pianto dirotto.

— Sta buono, cocco di mamma tua, sta buono; ora andiamo dal babbo. Vuoi vedere il babbo? Sì? Ora lo andiamo a vedere. Ma non piangere.

E salì dietro gli Undici, i quali erano molto seriamente occupati a levare le catene a Socrate.

Ora appena fu entrata: — Socrate, Socrate, Socrate, — esclamò Santippe — ma dunque è vero? Ma perchè ti sei difeso così male? Anche Pericle si è messo a piangere davanti ai giurati, e tu [214] perchè non l’hai fatto? Perchè non hai gridato «è Anito che mi odia»? E adesso come si fa? E per gli affari chi ci pensa? E come si rimedia a quell’ipoteca che ci mangia tutta la casa? Ah, vedi, che guadagno ci hai fatto con quella tua idea fissa del kaloì kagathoì!

Intanto gli Undici avevano tolto la catena e se ne erano andati, lasciando Santippe, giacchè le antiche leggi ateniesi non erano così formaliste come le nostre, in quanto che non era stata ancora ben perfezionata la burocrazia.

E quando fu sola con lui, gli si assise vicino sul letticciuolo, col bimbo, che tirava al babbo la barba con le sue dolci manine, e proseguì: — Ma se ieri l’altro, prima che arrivasse quella maledetta nave, Critone aveva combinato tutto, aveva pagato i carcerieri, era venuto [215] a casa a dirmi di tenerci pronti! Io avevo messo da parte quei quattro stracci per poter scappare tutti insieme.... Io pensava: To’, non tutto il male vien per nuocere. Andremo a vivere a Megara, a Tebe; là, lontano dalle occasioni, senza più tutti quei suoi cattivi compagni che lo fanno parlare, chi sa che lui non badi di più alla sua famiglia. Così io pensava e chi sa anche che non gli entri in testa che il primo dovere di un uomo serio è quello di badare a sè ed alla sua famiglia.... Ma cosa ti saltò in mente, povero infelice, di rifiutare? Ma almeno parla, rispondi, ma di’! Se non lo vuoi fare per me, chè non mi vuoi bene, lo so!, fallo per questa creaturina qui, che è tuo sangue.... Non vedi come è pallidino, smorto? Ha un’anima anche lui, sai! Alza la testa.

[216]

E fu in quel punto, che già il giorno era ben chiaro, che entrarono gli amici di Socrate; e allora Santippe, come una lampada su cui è versato dell’olio, scoppiò in un gran pianto, e la realtà imminente della morte le si affacciò nel suo orrore.

— O Socrate, Socrate, — gridava fra i singhiozzi, — ecco l’ultima volta che io e i tuoi amici parleremo con te e tu con noi!

E allora Socrate infine parlò. Si rivolse specialmente a Critone e gli disse: — Suvvia, amici, conducete via quella donna e rimenatela a casa.

E allora avvenne una dolorosa scena perchè Santippe non voleva andar via, e ingiuriava e piangeva, lei e il bimbo. Ma finalmente fu trascinata a forza e spinta fuori e poi fu chiusa la porta.

[217]

E stavano gli amici in mortale silenzio, quando Socrate, che era seduto — come dicemmo — sul lettuccio, soffregandosi la gamba che era stata per quasi un mese stretta nel morso della bestiale catena, sorridendo disse: — Ecco qui, — e indicava il lividore delle carni piagate dalla catena, — io provo un grande piacere, mentre prima provavo un grande dolore. Sapete che è una gran cosa, una meravigliosa cosa quella del dolore e del piacere? Che cosa sono essi? Ci stavo appunto pensando quando entrò colei, anzi mi era venuto in mente di comporre una favola come quelle di Esopo, nella quale volevo dire quello che me ne pareva, cioè che il Piacere ed il Dolore sono così strettamente congiunti insieme, che quando l’uomo vuole prendere l’uno è costretto a prendere [218] anche l’altro. Vi pare? E perciò imaginavo che Esopo componesse così la favola, che il Dio volendo far fare pace a questi due nemici inconciliabili, il Piacere ed il Dolore, e non potendo, li legò insieme. Ed è quello che è avvenuto a me. Nella gamba, prima, per effetto della catena vi era il dolore, adesso, tolta la catena, vi è il piacere. Bella la favola, è vero? Più bella del ragionamento. Ora ci vorrebbero i versi. Ma chi ne ha tempo?

Ora urgeva il tempo della morte.

Mentre così parlava, Santippe col figlioletto si era rincantucciata, disperata e piangente, in fondo a un corridoio della prigione.

[219]

*

Che peccato che Sofocle, il vecchio immortale, che fu trascinato anche lui dai figli davanti ai giudici perchè pe’ suoi sogni negligeva gli affari di casa, che peccato — dico — che egli fosse morto da qualche anno! Se fosse stato in vita allora, avrebbe scritto su la povera Santippe una nuova tragedia, più potente assai delle molte che scrisse su gli eroi e sugli Dei.

[220]

XI. La Immortalità dell’anima.

La presenza di Santippe presumibilmente contrastava con l’argomento che Socrate, dopo essersi soffregata la gamba, stava per trattare con i suoi amici: cioè dell’immortalità dell’anima.

Egli, come già, abbiamo veduto, non appena gli fu tolta la catena, aveva sentito il piacere, mentre prima sentiva il dolore. Una vera scoperta come quella di Archimede.

Socrate naturalmente non tripudiò, come Archimede, per la sua scoperta sulla legge morale del Piacere e del Dolore.

[221]

Gli faceva ancora un po’ male la gamba, per saltare; e forse gli faceva male anche il cuore per la vista di quel suo povero piccino, che dalle braccia di Santippe si protendeva sino al volto di lui, invano, per l’ultima volta, tentando e inconsapevolmente di conciliare gli inconciliabili e pure gli inseparabili, cioè Socrate e Santippe: inconciliabili ed inseparabili come il piacere ed il dolore: ed aveva esclamato il povero piccino: — File pappos, pappos emòs, caro babbo; oh, babbo mio! — E poi era stato trascinato via con sua mamma.

Ben fu crudele Socrate verso Santippe e verso il suo sangue! Lo accerta Platone che non prese moglie, non ebbe figli. Ma forse può darsi che sia stato così! Socrate stava per isciogliere il suo ultimo canto sull’immortalità dell’anima. [222] Egli era giunto in vista del grande oceano; egli, come il cigno morente, sentiva il canto salire vertiginoso. Santippe co’ suoi piagnistei, avrebbe dato disturbo.

Ma può anche essere un’altra causa, che Platone non dice, cioè che Dioniso, il dio terribile e insieme pietoso, abbia concesso a Socrate in quelli estremi momenti quell’ebrietà, che toglie la sensazione delle cose vere presenti e dona la esaltazione per cui, tanto al savio come all’infante, la buia morte appare come una continuata vita.

Dunque Socrate, prima di morire, parlò a lungo della immortalità dell’anima.

Questo famoso discorso di Socrate sull’immortalità dell’anima, conserva anche oggi una strana forza di attualità. [223] Sì, sì: il problema della morte rimane ancora uno dei più seri problemi della vita, ma sarà meglio non parlarne.

Chi ha visto su di un caro volto immobile rinchiudersi il coperchio della bara, preferisce non parlarne. Dirò soltanto che dei molti argomenti di Socrate, o di Platone, questo più mi piace, come quello che più è semplice, tanto semplice che non è nemmeno un argomento: «Se non ci fosse la vita futura, ben fortunati sarebbero gli uomini malvagi perchè con la loro anima scomparirebbe anche la loro malvagità».

Come anche pare una cosa assurda che per un bicchiere di cicuta, una innocente pianticella, propinata da Anito, si debba spegnere la meravigliosa sensazione del vivere.

[224]

*

Cadeva il sole quando il lungo discorso di Socrate sull’immortalità dell’anima ebbe fine.

Ebbe fine?

Era dal mattino che il servo degli Undici teneva pronto il bicchiere della cicuta, e con una cortesia del tutto ellenica, attendeva che Socrate chiamasse.

Infatti Socrate già disse agli amici: — Voi vi avvierete a questo passo che io transito, alquanto più tardi di me; ma già «ora mi chiama il fato», come direbbe un poeta tragico.

E disse anche: — E’ mi par meglio prendere ora il bagno e lavarmi bene e poi bere il veleno, senza dare poi alle [225] donne ed a Santippe la noia di lavare il cadavere.

E questa fu l’ultima sua cortesia verso Santippe.

Poi gli furono condotti i figli e Santippe anche. Conversò con essi alquanto, diede alcune sue disposizioni, e poi li rimandò.

Noi non sappiamo altro.

Dopo queste cose egli parlò poco di più.

Venne il servo; portò il veleno; gli insegnò, da persona esperta, il modo che doveva seguire perchè il veleno presto salisse al cuore.

Poi il servo se ne andò, dicendo a Socrate: — Addio, Socrate, procura di sopportare l’inevitabile meno dolorosamente che tu possa.

— Si, addio anche a te, caro, — gli [226] rispose Socrate: E vòlto agli amici: — Era una garbata persona, colui. Mi ha tenuto spesso compagnia.

Poi prese con mano ferma il veleno e bevve tutto di un fiato.

Allora la carcere si riempì di gran pianto. Ma Apollodoro, che tutto quel dì aveva lagrimato come Santippe invece di ascoltare i discorsi di Socrate sull’immortalità dell’anima, diè in un urlo, e venne fuori di sè, e fu allora che Socrate gli disse: — Ho mandato via Santippe specialmente per questo, per non vedere questi eccessi e queste lagrime. — Ed affissando con le grandi pupille gli amici, soggiunse: — Io ho sempre inteso dire che conviene morire lietamente.

Poi attese camminando, finchè il gelo della morte gli giunse al cuore. Allora [227] si sdraiò e si copri il volto. Ma ad un certo punto si riscosse e discoprendosi del lenzuolo e rivolgendosi a Critone, mormorò queste ultime parole: — Critone, noi siamo in debito di un gallo ad Esculapio. Dateglielo. Non ve ne dimenticate!

*

Esculapio era il dio della medicina, ed era costume in Atene, come oggi si paga il medico dopo che vi ha curato da qualche infermità, di fare un regalo al dio. E così Socrate voleva pagare e ringraziare il medico Esculapio per averlo guarito con la morte del male della vita.

Socrate aveva, forse, trovato l’ultimo corollario della legge sul Piacere e sul Dolore. Era stato liberato dalla catena [228] della vita, e forse allora sentiva piacere. Questo è quanto di più preciso noi sappiamo intorno all’immortalità dell’anima.

Dopo, ancora, ritornò il servo degli Undici. Percepì un fremito sotto il lenzuolo. Scoperse Socrate e vide che aveva l’occhio fisso.

Questa cosa vedendo, Critone gli chiuse gli occhi e la bocca.

*

Sono passati parecchi secoli da quel giorno che Socrate morì per aver bevuto la cicuta, propinatagli dai suoi concittadini; ma strana cosa: io non mi posso raffigurare Socrate morto e la sua bocca sigillata per sempre. E sì che egli era ben morto corporalmente! Un poeta racconta [229] che quando fu già dopo il tramonto, uscirono dalla prigione, a capo chino, in silenzio, quegli amici di Socrate, e poi quella povera Santippe; e c’erano davanti alla carcere alcuni monelli che giocavano con gli scarabei, e martoriando una civetta, e cantando:

E gira, gira a tondo,

E gira tutt’il mondo....

Poi quando videro uscire coloro e dilungare così tristamente, capirono che l’uomo che doveva morire in quel dì, era morto; e allora ruppero le danze e corsero su dal carceriere, e sì gli dissero:

— È vero che hanno ucciso quell’uomo brutto? Facci vedere l’uomo brutto che è morto.

E quegli disse: — Se sarete buoni, vi farò vedere l’uomo morto.

[230]

E così li condusse, perchè piace a molti che non hanno ancor lagrimato dentro il loro cuore, andare a vedere il morto.

Ma cosa strana! Io non so imaginare Socrate morto. E la favola degli eroi che spezzano il marmo del sepolcro e risorgono, mi pare pur vera cosa! Io me lo vedo ancora tornare davanti, Socrate, col suo sorriso; e mi domanda con quei suoi grandi occhi tondi: — Che c’è di nuovo? Gli uomini sono diventati belli e buoni?

— Si attende ancora, figlio di Sofronisco. Gli uomini stan diventando meccanici.

[231]

XII. Avvertimenti agli infelici figli di Santippe.

Il vostro buon papà, cari figliuoli di Socrate, si è ostinato a voler bere la cicuta. Ora giace col naso affilato e con le palpebre chiuse: le sue parole non le udirete mai più. Per questa ragione e per altre cause, che voi siete figli di un filosofo e di una donna bisbetica, il vostro avvenire probabilmente sarà infelice.

Il vostro buon papà era un grande ammiratore di Omero, e aveva ragione. [232] Voi lo ricordate, è vero, il povero babbo, con tutti quei suoi paragoni semplici e sottili del fabbro, del falegname, degli asini col basto?

Anche il vostro povero babbo fu un gran falegname della verità. Ma ogni tanto, lo ricordate? veniva fuori con citazioni e versi di Omero. Omero è stato fra i poeti quello che più si è accostato alla verità umana, e perciò era assai caro a Socrate, il padre vostro.

E se è vero, che nel mondo dei morti sarà ai poeti strappato un dente per tutte le bugie che hanno detto, è certo che moltissimi saranno i poeti sdentati. Ma Omero li ha tutti i suoi denti. Egli non mangiava lo zucchero filato dell’estetica, ma il nero pane della verità, che fa bene ai denti. Lo ricordate Omero — o figli di Santippe — quando parla [233] di Astianatte figlio del re Ettore e di Andromaca, rimasto orfano dopo che Achille gli ha trucidato il padre e per tre volte ne ha trascinato il cadavere nudo dietro la furia dei cavalli correnti attorno alle mura di Troia?

E lo aveva, lagrimando, Ettore sollevato su, il suo bambino, quasi per accostarlo a Giove che lo vedesse come era carino, e gli avesse un po’ di pietà. Macchè! L’insensato dio non vide! Povero Astianatte, poveri figliuoli di Socrate e di Santippe!

Astianatte orfano e solo, va ora, con le guance lagrimose e smunte, a trovare quelli che già furono amici di suo padre, e tocca agli uni il saio, agli altri il mantello. Ma essi rispondono: — Va, non ti conosco. — Il più pietoso fra essi gli accosta appena la tazza alle labbra, e i [234] giovani orgogliosi lo ributtano e dicono: — Non toccare il pane delle nostre mense! — E i vicini, con la protezione delle leggi, portano via i termini del suo terreno e lo privano di tutto. Tale fu il destino di Astianatte, figlio del morto re Ettore; tale sarà il vostro destino, figli di Socrate.

*

Siete andati, o figli di Socrate, anche voi a tirare il mantello ed il saio agli amici del babbo? Vi hanno dato niente? Santippe forse era con voi, più vecchia, più bisbetica, più arruffata che mai. Ella avrà anche detto villania e vergogna. Avrà detto: — Guarda là! vedili là, quei bei gingin, che facevano bellin bellino a quel povero màrtoro di mio marito. [235] To’! Fanno finta di non conoscermi. Non la conoscete più Santippe? la moglie di Socrate, ne Dia, per Giove; e questi qui sono i suoi figliuoli. Non vi hanno nemmeno guardato in faccia, creature mie, e sì che la fisonomia di vostro padre l’avete!

— Oh, — hanno detto coloro sollevando gli occhi al cielo, — non dovreste mai nominarlo, voi, Santippe, quel sant’uomo di vostro marito, dopo tutto quello che gli avete fatto soffrire.

— Soffrire io? Ah, vigliacchi di uomini! Parlano così loro, dopo che mi hanno sviato di casa quel pover’uomo, che gli hanno messa quella vesania, quella frenesia nella testa di andare a cercare il segreto delle cose, e a tener ferma in terra la Dike.

Sì, c’era da lasciarci il ricordo delle [236] unghie in faccia a quei signori, e Santippe il coraggio di lasciare le impronte delle unghie ce l’aveva; ma per allora si tenne quieta per la pietà dei figliuoli. Ma disse:

— Suvvia, voi che foste amici di Socrate, vedete di trovare qualche impiego a questi ragazzi.

Ma a chi parlava, o sventurata Santippe?

Gli amici di Socrate non c’erano più!

Critone, perseguitato, era fuggito da Atene; il dolce Apollodoro non aveva saputo sopravvivere. Socrate, il dio per cui viveva, era morto. Servire il mondo? Meglio morire! Senofonte, il gagliardo, era esulato da Atene, gonfio il cuore di sdegno, lontano, per lontane terre, per lontane guerre; Alcibiade, bellissimo, viveva chiuso nella sua perfida [237] mente, e dopo aver meditato su la morte di Socrate, si era convinto della necessità di divenire magnificamente belluino, e perciò era diventato uomo politico, come Anito e Meleto; Platone, il soave Platone, quando ebbe visto il suo povero Socrate ridotto a quel modo, col naso all’insù, si era messo in un gran spavento, ed aveva giurato a se stesso di non occuparsi se non di cose tanto alte e sublimi che nessuno ci trovasse a che dire.

«Anche nella storia dei filosofi, — meditava l’antiveggente Platone, — c’è puzza di sangue e di bruciaticcio. Ê bene cercare la immortalità per altra strada che non sia la prematura morte.»

Perciò Santippe, che si era recata a trovare il buon Platone, non lo trovò.

Andò da Alcibiade. Ma la casa di lui [238] era guardata da cento servi in livrea, che non lasciavano passare.

E gli altri? Gli altri, fatti già uomini, si ricordavano della avventura socratica tutt’al più come di una scappata di giovinezza. Qualcuno, forse, come Pietro, seguace di Cristo, si vergognava di essere riconosciuto quale discepolo di Socrate; qualche altro, come Giuda Iscariota, si era dato al traffico delle monete d’argento ed allo sfruttamento dei pezzenti. Dunque dagli ex-amici di Socrate non c’era proprio da sperar niente!

Povera Santippe! Una piccola pensione dallo Stato non la avrà potuta ottenere, nemmeno. — Capisco, — le avrà risposto qualche capo divisione, — vostro marito è morto in servizio della Repubblica; è una tesi che si può sostenere. [239] Egli esercitava l’ufficio di calabrone, come si qualificava da se stesso, il quale deve pungere un nobile ma indolente cavallo come era il popolo d’Atene. Ma era un servizio non richiesto, ed il cavallo ha dato una zampata ed ha schiacciato il povero calabrone. Una disgrazia, ma se la poteva aspettare la mia donna! Denari no, non ve ne possiamo dare, perchè sapeste quanto costò il rivestimento di cuoio per le navi! Volete dei biglietti gratuiti per il teatro? delle tessere per le cucine economiche? Stendete una regolare domanda.

*

Andò Santippe infine a trovare Eritreo. Eritreo, faccia ossuta, glabra, color limone, sorriso acido, volontà di macigno, [240] erudizione spaventosa, ma senza Demone. Era il professore del Lyceum.

Abitava una bella casa, ben ordinata e provveduta a cura dello Stato. Santippe, quando potè arrivare sino a lui, vide la sua gran faccia pallida sollevarsi dai codici.

— Lei è?

— Io son Santippe, moglie di Socrate, e questi sono i suoi figliuoli. Guardali in faccia, son lui nati e sputati!

— Oh, pover’uomo! — esclamò Eritreo.

— Cosa, pover’uomo! — garrì Santippe. — Pover’uomo lo posso dir io, non lei; perchè per quelle cose lì dei libri valeva più di tutti. Oh, non l’ha proclamato l’Oracolo di Delfo il più sapiente di tutti gli uomini, andròn apànton Sòcrates sofòtatos?

[241]

Eritreo, oltre ai codici, aveva alcuni fidi discepoli che studiavano sui codici ed erano come nascosti dietro i codici.

Un sorriso acido increspò le labbra di Eritreo all’esclamazione di Santippe e tutti i suoi discepoli sorrisero a quel modo, acidamente.

— Ah, ah, — disse Eritreo, — la sentite, bennati giovani, codesta donna? Anche lei ripete, come taluni, che Socrate primus deduxit philòsophiam de cœlo in terram!

— Ah! — esclamarono i discepoli.

Deduxit nèbulas, — disse Eritreo. — Ci portò delle fantasticherie! Buon uomo, che diceva di sentire un dio ignoto parlare.... Lo sentite voi?

— Mai sentito! mai visto! — risposero premurosamente i bennati giovani, i quali, come Eritreo, avevano l’occhio [242] lucido soltanto per le superficie non per gli abissi profondi.

— E quale cosa — disse gravemente Eritreo, rivolto a Santippe — più contraria alla vera saggezza, al vero positivismo che volere gli uomini diversi da quello che sono? E quale cosa più ingenua che vivere la propria filosofia? Si professa, non si vive una filosofia.

Le vampe salgono alle gote di Santippe.

Dice quasi singhiozzando: — Ma se l’ha proclamato l’Apollo in Delfo....

— E dov’è, buona donna, l’Apollo Delfico? Chi l’ha visto mai? Povero Socrate, in materia di religione egli è morto da ieri, ma ci pare già un antenato, uno dei tempi semplici del buon Solone. Un disgraziato che andava soggetto ad esaltazioni ed allucinazioni liriche! [243] Verum enim vero, quando quidem, dubio procul, edepol, meus deus fidius, quand’anche fosse che vostro marito sia stato un valentissimo uomo, io sono desolatissimo, ma io prego di lasciarmi in pace, e di non compromettermi. Quel vostro marmocchio più piccolo già mi ha quasi sgualcito un codice.

*

E Santippe se ne andò peregrinando coi figliuoli nella Focide dove era il santuario di Apolline in Delfo. Ma il dio, che, in mancanza d’altri, ella voleva interrogare, non c’era, in fatti, come affermava quel letterato. Aveva emigrato per sempre; e Santippe non trovò che una scritta, un ben curioso geroglifico, inciso su di un macigno enorme.

[244]

E il povero Socrate aveva camminato con quel macigno enorme sulle spalle nel cammino della sua vita; ed era stato schiacciato. E dopo Socrate verrà Cristo e rimarrà schiacciato, ed altri verranno nei secoli, attratti dal fascino del divino enigma che era scolpito profondamente su quel macigno, e conteneva queste tre parole: conosci te stesso! E rimarranno schiacciati!

*

Ora è ben più triste la casa di Socrate: nemmeno più le strida di Santippe! Ella fa andare sul tagliere il setaccio per cuocere sul testo una focaccia, una crescia, un pulmento qualsiasi.

Come nei tristi silenziosi tramonti invernali il raggio del sole balena su le [245] pareti scialbe; dispare, riappare con un ultimo guizzo sanguigno; poi incombono le tenebre fredde violacee; così l’imagine di lui, di Socrate, si sofferma ancora nella povera casa, balena, scompare.

Fra il ciarpame, in un angolo, stanno vecchie masserizie, che paiono avere quasi l’anima infranta; v’è anche una povera cuna. Quivi giacquero i figli di Socrate. Ed al mattino, quando il sole indorava la stanza, il sole scopriva i cari volti infantili: la dolce primavera, il cinguettìo dal nido ridesto al tepore del sole: «Ba.... ba.... babbo, pappas!» Salutavano gioiosamente lui che li aveva chiamati, non richiedenti, alla faticosa vita: — Pappas! Pappas, file pappas, bel papà!

Ma tu non le udisti le care voci, o Socrate, tu col tuo cupo demone nel [246] cuore che ti spingeva a cercare che cosa ci fosse nell’intima natura di ogni cosa: ti en écaston! Va, va a ricercare ti en écaston, chè non lo saprai mai e quando l’avrai saputo, le cose saranno come prima.

— Se vi salta in mente di andar dietro all’Andreia (valore), all’Aretè (virtù), alla Sofrosine (sapienza), all’Encratia, al Ti en écaston, — dice Santippe ai figliuoli, — vi sbatto questo setaccio sulla testa e ve ne faccio una berretta.

*

E la notte è venuta.

Ma di chi è il suono dei vecchi sandali? Di chi è quella voce armoniosa ed ironica?

Chi è?

[247]

E Santippe balza sul giaciglio: un soffio come di un bacio si posa sui rossi capelli, biancheggianti ormai, un ardore come di lagrime cadenti, e una voce risponde e mormora: — È Socrate, tuo marito....

*

E per tutto ciò ci sembra opportuno terminare questa narrazione con un passo o citazione autorevole, come è costume dei nostri eruditi.

Esso è del gigante Gargantua, figlio di Rabelais. Gargantua, mangiando una certa insalata, non si era accorto menomamente di avere inghiottito sei pellegrini errabondi, che erano in essa. Ma se ne accorse ad un certo pizzicore che sentiva nello stomaco. Ed allora li rimandò fuori e così li ammonì:

[248]

«D’ora innanzi non siate propensi a codesti oziosi ed inutili viaggi nei deserti dell’umano sapere. Rimanete nelle vostre famiglie, lavorate secondo l’animo vostro, educate i vostri figliuoli e vivete come vi insegna il buon Apostolo San Paolo. Per tale modo avrete la protezione di Dio e dei Santi, nè mai danno o peste graverà sulle vostre case».

FINE.

[249]

INDICE.

A chi leggerà Pag. IX
I. Ellade, giovinezza del mondo 1
II. Come io mi trovai alle prese con Santippe 18
III. Socrate per le vie di Atene 51
IV. Socrate e la Morte 88
V. Questioni molto serie proposte da Santippe a Socrate 101
VI. Come Santippe ferì Socrate nel cuore 113
VII. La cena dell’amore 131
VIII. Il colloquio fra Anito e Meleto 163
IX. Oh, povera Santippe! 189
X. Santippe nella prigione di Socrate 202
XI. La immortalità dell’anima 220
XII. Avvertimenti agli infelici figli di Santippe 231

Opere di ALFREDO PANZINI:

Piccole storie del mondo grande L. 7 —
La lanterna di Diogene 7 —
Le fiabe della virtù, novelle 7 —
Il 1859. Da Plombières a Villafranca 5 —
Santippe, piccolo romanzo tra l’antico e il moderno 7 —
La madonna di Mamà, romanzo del tempo della guerra 7 —
Novelle d’ambo i sessi 4 —
Viaggio di un povero letterato 7 —
Io cerco moglie! 7 —
Il mondo è rotondo 7 —

NOTE:

1.  Demoniaco: qui ha il senso antico, di sovrumano, ottimo, beato, non di sinistro o malefico.

2.  Cara fu la cicala ai Greci e giustamente piacevole il suo canto che a noi pare noioso. Dolce profetessa dell’estate. La vecchiaia non ti raggiunge, o cicaletta saggia, nobile, piena di canti e senza dolore. Così il vecchio Anacreonte. Ma la nostra età plutocratica e positiva chiama saggia la esosa formica.

3.  Vuol dire, belli e buoni, cioè uomini puri, coscienti, capaci di governarsi da sè.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina elaborata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.