The Project Gutenberg eBook of Il mio cadavere This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il mio cadavere Author: Francesco Mastriani Release date: January 30, 2021 [eBook #64421] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL MIO CADAVERE *** FRANCESCO MASTRIANI PARTE PRIMA ROMANZI Proprietà letteraria, dell'editore Cav. Gennaro Salvati acquistata con rogito per notar Tucci. FRANCESCO MASTRIANI IL MIO CADAVERE ROMANZO IV NAPOLI STAB. TIP. CAV. GENNARO SALVATI (Casa Editrice) Maddalenella degli Spagnoli, 19 Parte Prima Timor mortis conturbat me. SALMI. I. LA FAMIGLIA DELLO STRADIERE Se un viandante qualunque, trattovi per casualità o per vaghezza di solitarie meditazioni, in sull'imbrunire d'una bella sera di està dell'anno 1826 si fosse trovato a scendere pei greppi posti a ridosso del Real Albergo de' Poveri e di _S. Maria degli Angioli alle Croci_, si sarebbe certamente soffermato passando da costa a un povero abituro, diruto in gran parte per le scosse del tremuoto detto di S. Anna, avvenuto nella sera del 26 luglio 1805. La cagione che avrebbe indotto il supposto passeggiatore a fermarsi dappresso a quell'abituro, era, il sentirsi in una stanza del secondo ed ultimo piano, quello propriamente che dava le viste di essere il più danneggiato, voci di pianto che avrebbero straziato un macigno: quelle voci erano la più parte di donne e di fanciulli; ed, alle smozzicate parole, ai moncherini di frasi che si mischiavano ai singulti d'un pianto che parea di disperazione, si capiva che una cara persona di quella famiglia era morta o moribonda. Ed in fatti, un uomo era presso a spirare. Quest'uomo era il capo di quella famiglia. Inoltriamoci nell'interno del misero abituro. Spettacol sublime e commovente! La religione, che sorregge gli ultimi istanti della vita di un padre; che gli sta per dischiudere le porte del cielo; la religione che sola rimane accanto al capezzale del moribondo, anello divino che congiugne il tempo alla eternità; la religione, che vive nelle lagrime, volgeasi benanche ai superstiti per mitigarne il dolore acerbissimo. Un sacerdote stava dappresso all'infermo vegliardo, ed in pari tempo che iva ravviando al cielo i pensieri dell'uomo giunto all'estremo della sua carriera, egli era prodigo di affettuose parole e di cure amorevolissime verso i costui figliuoletti, disacerbando e acquietando l'esagerata escandescenza di un dolore che non conosce limite nè freno. Era questo ministro di Dio giovane ancora, perocchè parea che sol di fresco avesse varcato i trent'anni. Nelle sue sembianze, cosparse di pallidezza leggeasi un'anima di angiolo, e massime negli occhi che erano pregni, di una pietà incommensurabile. Per due notti e tre lunghissimi giorni di estate quel venerando ecclesiastico non si era dipartito da quella casa, in cui parea che tolta si fosse la nobile missione di surrogare appo quella famigliuola le paterne cure, di cui i miserelli figli eran privi, e per mancanza di madre e per l'infermità del genitore. Egli somministrava i medicamenti all'ammalato, e li facea comprare col proprio danaro; riconfortava quello a sperare nel cielo, ad aver fiducia nell'arte salutare; e quando lo infermo, per trista convinzione, dimenando il capo rigettava ogni argomento di speranza, Padre Ambrogio (così nomavasi il reverendo) gli tenea diverso linguaggio: parlavagli delle miserie dell'umana vita, del nobil fine dell'uomo creato a più alti ed immortali destini, il riconsolava, mettendogli dinanzi agli occhi la tenerissima e sacra memoria che di lui avrebbero serbato i suoi figliuoli, l'onorato nome che ei lasciava loro, il compianto generale e le preci che lo avrebbero accompagnato allo eterno riposo, e da ultimo quel santo uomo il rassicurava sull'avvenire dei fanciulli, promettendogli di non abbandonarli giammai e di aver per essi le sollecitudini amorose e le cure di un padre. Nè a quest'officio pietoso, ma tristo, limitavasi Padre Ambrogio; sibbene, ne' momenti in cui il moribondo avea meno bisogno dell'opera sua e della sua assistenza, quel sacerdote era tutto d'attorno a' fanciulli. E quel generoso attingeva nei tesori della sua pietà argomenti di conforto pei più grandetti che comprendeano l'amarissima perdita che tra poco avrebbero fatta, e di distrazione al più piccolo, il quale sovente piangeva in veggendo piangere, ma nulla comprendea della ragione di quel pianto, o vagamente, l'attribuiva alla malattia del babbo. Padre Ambrogio era una di quelle creature, perle della umanità, le quali sembrano aver ricevuto dal cielo l'esclusivo incarico di rappresentare la Carità in sulla terra, non già quella carità monca e superba che si tien contenta e soddisfatta nel gittare dall'alto l'obolo della limosina, ma che consola, ravviva, si piega, si umilia: quella carità che pone ad atto la vera e sola eguaglianza cristiana tra gli uomini, quella che provviene da vicendevole amore. Padre Ambrogio comprendeva tutta la altezza del suo divino ministero; abnegazione intera, dilicata, ragionata a pro della umanità sofferente. Additando il cielo, porto supremo di salute, ei leniva i mali della terra; parlava agli umili e ai poveri della loro grandezza innanzi agli occhi dell'Eterno; ai superbi mostrava il nulla del fasto umano, la vanità dei beni mondani: i dissoluti poneva al cospetto della vergogna dei loro vizii; aveva in copia grandissima argomenti e parole per ogni miseria, per ogni debolezza; amava gli uomini quando più eran ciechi di mente o gravati di mali o caduti all'imo dell'obbrobrio. Cinque figliuoli rimaneano deserti dei loro genitori, due donne e tre maschi. Lucia era la secondogenita. Benchè non ancora arrivata al quarto lustro di sua età, questa fanciulla avea tutto il senno e la prudenza d'una donna; era ella in qualche modo la madre dei suoi fratelli: e il governo della famiglia veniva retto da colei che vi mettea una tale accuratezza una tal pazienza e tanto amore, che spesso ella privava sè medesima di qualche cosa per non farne difettare i fratellini. Una sensibilità eccessiva formava il complesso del suo carattere, come la pietà era tutta la anima sua, la vita sua. Lucia non potea vivere senza consacrarsi a ben fare, senza innumerevoli sacrificii giornalieri, senza dar corso a quel fiume di amorevolezza che le traboccava dal cuore. Iddio l'avea creata per amare e soffrire, e i suoi giorni non furono infatti che il continuo esercizio di questo duplice destino della donna. Lucia non era bella di volto, se si guardi alla regolarità delle fattezze, ma gli occhi suoi erano la più sublime espressione dell'anima umana. Non si potea guardarli senza sentirsi piovere sul cuore torrenti di dolcezza: eran belli oltre ogni credere, e diffondeano su tutta la sua persona l'incantesimo che ne derivava. Abbiam detto che Lucia era la secondogenita; chi dunque era il primogenito? Il primo figliuolo di Giacomo era un idiota, il cui vero nome era Giovanni, ma che veniva comunemente addimandato per ischerzo _Uccello_, imperocchè il tapino nel camminare, non potendo ben sorreggersi su i piedi, equilibravasi stendendo in certo modo le braccia e appuntando i gomiti, a guisa delle ali di uccello. Una lunga e tormentosa malattia da lui sofferta nella fanciullezza, per cui scampò di morte quasi per prodigio, gli avea affranto per forma il sistema nervoso e muscolare, che, oltre all'avergli storte le dita dei due piedi e della mano sinistra, ed isviata la pupilla dal suo centro regolare, gli aveva tolto interamente l'uso delle facoltà intellettuali. Uccello (d'ora in appresso così il chiameremo), essendo eziandio balbo e scilinguatello, malamente articolava i suoni e le parole; ed era curioso il sentirlo a parlare quando si adirava contro qualcuno, chè in questo caso più che pel consueto lo scilinguagnolo gl'imbrogliava o arroncigliava siffattamente le parole con la bava che gli veniva in copia alla bocca che era un vero fuoco d'artificio. Il mal caduco, che frequentemente colpiva l'infelice, si aggiungea per rendere estremamente misera questa creatura. Per compire il ritratto d'Uccello dobbiam notare, che, quantunque in età di ventitre a ventiquattro anni, era bassa la sua statura e privo di lanugine il suo volto, sì che parea non esser giunto per anco all'adolescenza. Ad ogni minima opposizione alla sua volontà infantile, per qualsivoglia tenue contraggenio, ei piangeva dirottamente siccome fanno i bambini; e tosto allietava il volto e mandava un suono come di riso quando gli si dava il trastullo o il cibo che chiedeva. Mirabil disposizione della Provvidenza! Uccello in questi momenti che otteneva quello che bramava era felice, compiutamente felice, come l'ambizioso che aggiugne e tiene l'intento suo, come l'avaro da costa al cassettino dei suoi tesori, come l'amante nelle braccia della sua amata. Uccello aveva nel suo idiotismo una singolare simpatia per Lucia più che per l'altra sorella e per gli altri fratelli. Oh come era felice il povero idiota allora che gli riusciva rubare un bacio alla sorella prediletta! Come ne gioiva! Come ribaltava quel morto cuore quando se la stringea sul petto! Ben è vero che rare volte si arrischiava a far questo, per l'invincibile timidezza che gl'ispirava il contegno serio di Lucia; ma, se talvolta la vedea meno pensierosa del solito, se la sorprendeva a sorridere per le goffaggini che egli balbettava, oh... allora non sapeva resistere, e le si gettava al collo come un cagnolino. Quando ciò faceva l'idiota, Lucia incominciava dall'andare in collera, indi rabbonavasi, e finiva non poche volte con imprimere un bacio sulla fronte stretta e compressa del miserello, il quale non rifiniva in questo caso di saltare per la gioia e di dire tante cose e sì in fretta che la sorella niente ne capiva. Gli altri tre figliuoli di Giacomo lo stradiere erano una giovinetta di circa quindici anni a nome Marietta, e due fanciulli chiamati Giuseppe e Andrea. Marietta, fanciulla vispa e leggiera, più bella di Lucia, avea occhi cilestri e capelli biondi. La più strana e notevole differenza era tra queste due sorelle. Comechè entrambe compassionevoli, buone, e dotate a dovizia di cuore eccellente, la Marietta affogava i generosi e nobili istinti del suo cuore sotto una pazza e stravagante allegria, che trasmodava insino all'insolenza. Ella non era già dissimile dagli altri suoi fratellini nel ruzzar fragoroso, nello starnazzare su e giù per la casa, nel tormentare la vecchia fantesca, tipo di pazienza verso quelle creature. La Marietta non si facea scrupolo di dar la baia agli amici di suo padre, ed in ispecialità ai più brutti, di spingere i fratelli addosso ai pezzenti; sovente con una mano porgeva al mendico l'obolo o il pane della carità, coll'altra gli tirava di dietro gli stracci di abiti, sganasciandosi dalle risa assieme ai suoi piccoli complici. Ammiravansi tutti come facilmente questa giovinetta, che si abbandonava a tutta la naturale gaiezza del suo temperamento, ponea subito freno alle sue fanciullaggini allora che pareale che queste dispiacessero alla sorella; e come in copiose lagrime tosto rompesse, se dal padre o da Lucia le venisse qualche volta severa ammonizione o rimproccio. Era tra le due sorelle quella differenza che passa tra la pietà dolcissima, trista, dilicata, e la bontà spensierata, pazzognola, indiscreta. Veggendo unite la Lucia pallida, dagli occhi e dai capelli neri, con quel corpo alto, leggermente curvato, quasi debil canna che si chini a sorreggere l'alga debolissima, e la Marietta, vivace, spirante salute e allegrezza, di bassa e complessa statura; avresti detto esser quelle due fanciulle le immagini perfette dell'aurora bionda e ridente, ripiena di speranze e di vita, e della sera, bella del pari, ma scolorata e malinconica per ricordanze e rammarichi. Un altro sentimento contribuiva a far più spiccare la differenza fisica e morale delle due sorelle: l'amore, che è tutta la vita d'una donna, tutto il suo avvenire, tormento dolcissimo delle anime nobili, e gentili, mondo interminabile di commozioni violente, in cui regna un solo essere, l'oggetto amato. Lucia amava. Verremo più tardi ampiamente parlando di un tale amore, onde Iddio voleva provare tutta la sublime rassegnazione di quell'anima. La sera gittava già le sue ombre in quella casa dove la morte si apprestava a cancellar dal libro della vita il nome di Giacomo lo stradiere. Oh quanto ci duole di dover presentare ai nostri lettori quest'uomo nei momenti estremi di una vita povera, ma onesta e intemerata, modello di saggezza, di carità, di evangelica morale, modello, che sebbene si vada rendendo sempre più raro tra le classi bisognose della società, non manca di rialzare a quando a quando la dignità dell'uomo anche sotto la più dura fatica e nello stato più dimesso ed umile. Da lunghi anni Giacomo Fritzheim, svizzero di origine, esercitava l'officio di stradiere nelle Regie Dogane di Napoli. Uom robusto e laborioso, di non comune intelligenza e istruzione, e d'una probità a tutta pruova, egli era amato da' suoi superiori, rispettato da' suoi compagni, idolatrato dalla famiglia. La moglie, morta per effetto di parto prematuro, era così buona e compassionevole, che il più bel giorno della sua vita fu quello in cui il marito, reduce da un piccol viaggio fatto nell'interno del reame, le recava a casa un fanciullino di quattro in cinque anni, raccolto di notte nel mezzo di un bosco, morto di freddo e singhiozzante per pianto convulsivo. Fin dal giorno in cui Giacomo perdè l'amata compagna, ch'era tanta parte di sua vita, si era abbandonato a quella invincibile tristezza che opprime i cuori virtuosi e appassionati quando morte gli strazia nei loro affetti più cari. Giacomo parea non portare il peso della vita che per sostenere gli innocenti figliuoli, tenerelli ancora e bisognosi di ogni aiuto: parea come se di repente altri venti anni gli si fossero accresciuti in sulle spalle, che al presente eran curvate come ad un vecchio ottagenario; i suoi capelli, che innanzi della morte della moglie conservavano ancora il colore della giovinezza, imbiancarono tosto, e parte caddero precedendo nella terra quella testa veneranda, che verso di essa chinavasi ogni giorno vieppiù. Quelle labbra su cui la calma della coscienza richiamava spesso il riso della gioia, or si negavano ad ogni sorriso; e, soltanto nei momenti in cui vedea raccolti intorno a sè gli amati figliuoli, l'anima gli si schiudeva ad una dolce mestizia, la quale bentosto volgeasi in tristezza per lo scorgere ch'ei facea sulla impensierita fronte della diletta figliuola Lucia la malinconia di una vergine passione. Da qualche tempo Giacomo, quasi presago della sua prossima fine, si staccava a malincuore dal seno della propria famiglia, per la quale il suo amore sembrava centuplicato; i suoi occhi che già tante lagrime aveano sparse pel figlio Giovanni e poscia per la perdita della consorte, ora si umettavan di continuo; e, rimirando con tenerezza estrema i suoi figli, spesso il buon padre piangeva di soppiatto, e particolarmente per la Lucia ed Uccello, come i più miseri, la prima per troppa squisita tempera della sua fibra, il secondo per la imperfezione delle sue morali e fisiche facoltà. Lucia era infelice perchè troppo sensitiva; Uccello perchè privo di quel senso divino che rende l'uomo superiore al bruto. Già da alquanti mesi, prima di esser ridotto alle porte del sepolcro, Giacomo si lagnava di una fiacchezza eccessiva per tutte le membra per la quale gli riesciva faticoso qualunque movimento ei si facesse; ed or, nascesse da ignoto e ascoso male che ivagli già serpeggiando pel sangue, or fosse effetto di quella specie di abbandono di ogni cosa terrena che prende gli uomini vicini al loro termine, il dabbenuomo facea sforzi inauditi per recarsi al suo posto di stradiere, perchè zelantissimo del proprio dovere. Ma un mattino il buon Giacomo non potè levarsi di letto; una strana enfiagione gli si era manifestata negli _arti_ inferiori; il giorno appresso, questa enfiagione sparì, ma sul volto dell'infermo apparvero certe macchie di rosso vivido; il respiro era difficile e affannoso. La gotta, che era stata per lo passato la consueta malattia di Giacomo, gli era questa volta piombata nel petto. Dopo alcuni giorni d'infruttuosi rimedii, lo stato dell'infermo fu dichiarato inguaribile. Nel momento da cui diam principio a questa trista narrazione, il medico non avea dato che poche altre ore di vita al misero Giacomo, il quale già si era cogli aiuti della religione fortificato al solenne passaggio. Nella camera dov'è il letto dell'infermo è raccolta tutta la costui famiglia. Non ostante le parole e i conforti di Padre Ambrogio, il comune dolore disfogavasi in un lagrimar comune. Tutti quei cari figliuoli non voleano staccarsi un sol momento dal letto paterno. Una candela di sego messa sovra un vecchio cassettone illuminava la camera, la quale sarebbe rimasta al buio, a dispetto di un lumicino acceso in un bicchiere dinanzi ad un quadro della Madonna del Carmine, e che, per essersi quasi tutto l'olio consumato, andava bruciando la rotellina di carta, schizzando e friggendo sull'acqua che si era scoperta sotto l'olio strutto. Lucia, col volto bianchissimo come panno lavato, coi lunghi capelli rabbuffati su per la fronte e le spalle, non si era da due giorni ristorata nè di cibo nè di sonno. Distesa a metà del corpo sul letto del padre, ella non muoveva i suoi occhi ardenti di lacrime dagli occhi del genitore, il quale, non potendo più reggersi nè dall'uno nè dall'altro de' fianchi, era in qualche modo costretto a guardar sempre lei. Nondimeno ei girava talvolta inquieto le pupille, quasi avesse richiesto di qualcuno assente, e poscia ritornava a fissare uno sguardo ineffabile sulla figliuola carissima; e quello sguardo era di un amore d'un'ansietà che l'umano linguaggio non potrebbe tradurre nè far comprendere. Marietta, quella fanciulla sì leggiera, sì spensierata, piangeva a dirotte lagrime. Ella teneva abbracciati i suoi due fratelli, i quali piangevano come lei, e le domandavano perchè da qualche ora il babbo più non parlava e più non si lagnava... Marietta, invece di rispondere, singhiozzando baciava Andrea, il più piccolo dei fratelli. Padre Ambrogio più non impediva lo sfogo di quel giusto dolore, ma facea comprendere alla Marietta che il suo pianto e quello dei fanciulli avrebbe trafitto il cuore del povero vecchio e distolto i suoi pensieri dall'eternità. A tal ragione la Marietta non si acchetava, ma muovea co' fratelli nella stanza contigua; dove più libero dava il corso alle lagrime. Presso l'uscio della camera, dov'era l'infermo, si fermava di tempo in tempo Uccello, chiedeva con volto stupido e sorridente se il padre fosse morto, e quindi tornava ai suoi balocchi nella cucina, vale a dire tornava a ruzzar con due gatti, che formavano tutto il suo divertimento, e che egli amava sopra ogni cosa al mondo. Erano le dieci della sera, cioè due ore di notte all'italiana. Padre Ambrogio, seduto appo il capezzale del moribondo, recitava ad alta voce le orazioni che accompagnano la dipartita delle anime cristiane, quando l'infermo, fatto uno sforzo violento, alzò il capo e con distinta voce disse due volte: — Daniele... Daniele... Era questo il nome del suo figlioccio, del trovatello da lui allevato, ed ora giovine di circa ventidue anni. Ah! Da due giorni che il misero vecchio non avea fatto altro che dimandare di Daniele; il quale erasi mandato a cercare nella sua abitazione; gli si era fatto dire che il padre Giacomo era gravemente infermo e vicino forse a trapassare. Daniele aveva risposto che sarebbesi affrettato a vederlo, a dipendere dai desiderii di lui; ma intanto non appariva. Padre Ambrogio osservò sul volto dell'infermo, quando costui ebbe proferito due volte il nome di Daniele, un'angosciosa ansietà mista ad un dolore profondissimo. Tutto comprese l'ecclesiastico, che conosceva la storia di questa famiglia, ed esclamò fra sè medesimo: — Oh l'ingrato! l'ingrato! Iddio abbia pietà di lui! Voltosi poi verso l'infermo gli disse: — State di animo sereno, Giacomo; Daniele non tarderà a venire; il poveretto non ha saputo che quest'oggi che il vostro male si è aggravato... Egli verrà... siatene certo, egli verrà. Dette queste parole, Padre Ambrogio gittò uno sguardo furtivo su Lucia, e il suo cuore fu straziato. Questa misera fanciulla aveva nascosto il capo nel piumaccio che era su i piedi del padre, e singhiozzava con un pianto convulsivo. Non ci era più luogo a dubitare: Daniele più non l'amava! Non erano scorsi pochi minuti da che Giacomo avea parlato, ed un personaggio si presentò alla soglia di quella camera. Egli era Daniele. II. IL GIURAMENTO Singolare contrasto offrivano le vestimenta e l'aspetto del nuovo arrivato con lo stato quasi indigente di quella casa. Era Daniele un giovine di statura altetta, di volto piuttosto bruno, di folti capelli bene allustrati e tagliati a leggiadra zazzerina; gli occhi parimente scuri e malinconici acquistavano un'espressione di cupa intelligenza per l'inarcare ch'ei facea sovente le nere sopracciglia; non avea nè baffi nè barba. Il suo vestito era de' più ricercati e di gusto per que' tempi. Un soprabito alla prussiana e da cavalcare color verde salice; calzoni bianchi a mezza gamba, stivali con gli sproni, cappello bigio. Daniele avea lasciato alla porta di quel modesto abituro il suo cavallo morello, sul quale era venuto. Diremo nel prosieguo di questa storia perchè in età giovanile e in pochi anni di esercizio della professione di maestro di musica, Daniele fosse già padrone di una modica agiatezza. Non si creda che Daniele avesse preferito di venire a cavallo per affrettare il suo arrivo alla casa dello stradiere; però ch'egli non si era dato la minima premura di accorrere presso il suo benefattore moribondo e presso la fanciulla che ardentemente lo amava. Per due giorni il giovine non avea pensato neppure per sogno alla infermità di Giacomo, all'amor di Lucia, alle iterate richieste che di lui avea fatte colui che per oltre a quindici anni lo avea nutrito col proprio pane e lo avea amato come un altro suo figlio. Daniele non ci avea pensato nemmanco per un momento: dappoichè un pensiero fitto come un chiodo gli si era messo nel capo, e gli dava cruccio, smania indicibile, indurimento di cuore, indifferenza su gli altrui mali. Nel giorno da cui abbiam cominciata questa storia, Daniele verso le 23 ore italiane, fornito il giro delle sue lezioni di musica, per disviare alquanto la tristezza che l'opprimeva, era andato a passeggiare a cavallo verso il Campo di Marte. Al ritorno, in passando d'accosto al Real Albergo de' Poveri, gli venne ricordato di Giacomo lo stradiere, che dimorava alle spalle di questo Stabilimento di carità, dov'egli forse sarebbe stato gittato qual trovatello, se quel generoso non gli avesse dato ricetto, sostentamento, educazione nella propria casa tra gli altri suoi figli amandolo al pari di questi. Allora soltanto ricordò che parecchie volte il suo morente benefattore lo avea mandato a chiamare. «Andiamo, diss'egli seco medesimo dando al suo cavallo la direzione della casa di Fritzheim, se egli è vero quel che mi si è detto, il buon uomo non ha molti dimani a vedere. Incominciavo un poco a seccarmi de' suoi continui rimproveri. È vero che di molto io gli sono debitore, ma alla fin fine qualche cosa ho fatto anch'io per lui da qualche anno a questa parte; non gli ho mandato denaro? Non ho fatto di bei regalucci a Lucia? Ma or che ci penso; par che costei abbia preso in sul serio le nostre fanciullaggini amorose. Che diascine! Men ci vuole che una testolina come la sua per creder vero a vent'anni quello che si è detto a quindici. Follie! Or più che mai questa chimerica unione sarebbe impossibile. Quand'anco io non avessi qui in questo mio cuore scolpita quella cara immagine di Emma, che mi divora a fuoco lento, io non acconsentirei giammai ad essere lo sposo di Lucia. Che direbbe la società di me? Che direbbero i miei amici? Sposare la figlia di uno stradiere! Ed io mi esporrei con tal matrimonio a render nota a tutti la mia storia, perocchè, non ci cade alcun dubbio, al domani delle mie nozze si saprebbe nel paese che Daniele de' Rimini non è che figlio della sventura o della colpa, raccolto per carità dal padre della sposa! Ignominia! Un tal segreto vorrei che rimanesse un mistero per tutti. Se il padre Giacomo il portasse tutto con sè nella tomba!... Oh se Emma penetrasse!... Dio, Dio, non mi esporre a tal rossore!... Ella così superba de' suoi natali, così ricca... ricca e nobile! Ecco... ecco la felicità, il sogno ardente della mia vita! Ed io sposerei Lucia, povera, oscura, _ignobile_, figlia d'un _vile_ stradiere! No no..... Quando io non era ancora conosciuto, quando non mi era ancora slanciato nel mondo, avrei forse potuto sposarla, imperocchè tutti avrebbero ignorato l'oscura mia origine, ma ora! Io ho fatto tanto per innalzarmi, ho gittato sudori e lagrime sul pianoforte, sono impallidito su i capilavori musicali, non solo per amore a quest'arte, che spero per altro abbandonare non sì tosto avrò raggranellato un po' d'oro, ma bensì per farmi una strada alla fortuna, per vedere di pormi ad un certo livello con quegli giovanotti miei amici, che non si starebbero dal darmi la beffa per questo ridicolo matrimonio ch'io farei a contraggenio, e che distruggerebbe per sempre ogni speranza di possedere quel tesoro di grazie che m'innamora, e quella dote onde io cesserei di essere una creatura mercenaria. Oh.... che ignobil cosa è il lavorare per vivere! Qual differenza tra Emma e Lucia! Ma che dico! Non sono io scemo di senno per istabilire un paragone tra queste due donne! Un paragone tra Emma e Lucia! È lo stesso che paragonare l'eleganza alla goffaggine, la farfalla alla mosca, la ricchezza alla miseria. Che compiuta educazione! Che linguaggio elevato, che nobiltà di sentire! e che bellezza! Oh quelle forme del suo corpo! quei capelli! quegli occhi!! Oh la mia testa, la mia povera testa! Ciò dicendo, Daniele, il cui carattere da questo breve soliloquio i nostri lettori potranno in parte conoscere, era giunto all'abituro di Giacomo, sotto il cui tetto egli avea per molti anni riposato. Nell'entrar che fece Daniele nella camera dell'infermo, Lucia si era incontanente alzata da su il letto del padre, avea fatto per correre incontro al giovine, ma a mezzo la camera sentì fiaccarsi le ginocchia, e quelle lagrime che fino all'arrivo di Daniele erano rimaste premute nel petto, quivi costretto dall'acerbità d'un doppio spasimo, rifluirono tutte in un momento alle ciglia della fanciulla per un ritorno di tenerezza e Lucia pianse per qualche minuto con quell'impeto irrefrenabile, che suol succedere ad una sì lunga compressione. Oh quanto diceva quel pianto! Daniele era rimasto alcun poco sulla soglia di quella camera, freddo spettatore della scena di tristezza che gli si offriva; poscia, senza rivolgere una sola parola a Lucia, si era inoltrato verso il letto di Giacomo, chinando leggermente il capo dalla parte ov'era seduto Padre Ambrogio. Maria, Giuseppe e Andrea lo avevano salutato con affettuosità, se gli eran messi d'intorno; un raggio di gioia brillò su quei volti infantili; la presenza di Daniele era per essi di buono augurio; eglino tutti aveano rifuso addosso a questo giovine quella espansione di affetto e di stima che l'idiotismo d'Uccello aveva in certo modo respinto e deviato. Nel venire Daniele, Uccello si era recato nelle braccia i suoi mici ed era corso a far festa _al Contino_. Era questo il nome che in famiglia si era dato al fanciullo Daniele, alludendo alle costui maniere riservate e schife non meno che al grandissimo livore dal quale insino dalla più tenera età questi era preso per l'invidia che gli eccitavano i fanciulli meglio vestiti o che passeggiassero in carozza o che fossero possessori di più bei giocarelli. — Guarda, Lucia, disse Uccello alla sorella alzando con le punte delle dita le falde del soprabito di Daniele, guarda che bell'abito ha il Contino, bada che non se lo imbratti vicino a noi altri! Queste parole, che l'idiota avea detto in tutta l'ingenua volgarità della sua favella, fecero apparire tutt'i colori sul volto di Daniele, il quale con un mezzo sorriso rispose battendo lievemente colla frusta sul capo dell'idiota: — Non temere, Uccello, noi non ci faremo bruttar da nessuno; e poi non ci è paura, tu mi guardi le spalle. Così fatte celie scambiate tra Daniele e Uccello presso al letto del moribondo rattristarono padre Ambrogio e Lucia. Vi fu un momento di silenzio agghiacciato... Giacomo avea gli occhi chiusi, e la voce di Daniele non ancora aveagli colpito l'orecchio. Padre Ambrogio si affrettò di far conoscere all'infermo l'arrivo del suo figlioccio con tanta ansia aspettato; onde, alzata alcun poco la voce, e fattosi più dappresso all'orecchio di lui dissegli: — Signor Giacomo, il vostro Daniele è qui. Il volto cadaverico del vecchio si animò subitamente, dischiuse gli occhi ne' quali brillò un raggio di viva gioia, e quelle pupille andarono in cerca di Daniele, e si affisarono su lui. Giacomo distese la destra al giovine, il quale senza torsi i guanti, se l'accostò alle labbra e vi lasciò cadere un freddo bacio, sfiorando appena l'epidermide di quella mano, quasi timoroso che gli si fosse appiccato il male del vecchio, e schifo di baciar la mano di un onesto gabelliere. Erano molti anni dacchè Daniele non baciava la mano del suo benefattore. Nello sguardo immobile del vecchio, in quella scintilla di fuoco che, attraverso le nebbie della morte, dardeggiava dagli occhi vitrei di Giacomo, fissi su Daniele, era un lacerante rimprovero, un dolore cocentissimo ma rassegnato, una speranza viva, ardente, una preghiera affettuosa, un comando. Padre Ambrogio leggeva in quello sguardo queste diverse passioni, questo linguaggio misto di tanti affetti, di tante commozioni; e procurò di richiamare i pensieri dell'infermo a quella pacatezza che debbon serbare gli uomini che stanno in procinto di elevarsi su tutti gli umani affetti e passioni. Daniele era distratto, preoccupato, stava così come se si fosse trovato in una casa straniera, indifferente. — Signor Giacomo, disse Padre Ambrogio, vi avea pur detto che questo caro giovine si sarebbe affrettato di venire a baciarvi la mano e ad accorrere a' vostri desiderii: egli è qua, compatitelo perchè oggi soltanto egli ha saputo essersi aggravato il vostro male. Il buon prete avea poggiato la voce sulle parole _oggi soltanto_ per farle ben notare a Daniele, il quale gittò su lui uno sguardo furtivo e disse anch'egli: — Si, signore, soltanto oggi m'è stato detto che voi eravate infermo. Daniele non avea detto _papà Giacomo_, siccome per lo addietro chiamava il suo benefattore. Questa parola _signore_ avea messo il ghiaccio di morte nel cuore di Lucia. Giacomo avea concentrate tutte le forze della sua vita in questo supremo momento, in cui egli voleva assicurare la pace e la felicità della figliuola. La mano del vecchio avea cercato quella di Daniele e non la lasciava: il pugno dell'infermo avea acquistato una forza straordinaria di cui lo stato di prostrazione in che lo aveva gettato il morbo parea che il rendesse incapace. Questa pressura indicava abbastanza l'ardente desiderio che il vecchio aveva avuto di riveder Daniele e il timore che questi si allontanasse. Daniele sembrava portar con impazienza quello sguardo e quello imprigionamento della mano. Passò qualche minuto. Giacomo alzò il capo e fe' segno lo avessero adagiato su qualche cuscino per potersi reggere a certa altezza dal letto: un eccitamento estremo gli avea dato un'apparenza di salute e di forza. — Un sorso di sidro, chiese il vecchio con voce distinta. Era questa la consueta bevanda, di cui usava nello stato di sanità, e che gli dava soddisfazione, ilarità, lucidezza di mente; onde quasi mai mancavane qualche boccia nella famiglia, comunque povera. Lucia corse, col cuore palpitante di speranza, ad aprire un vecchio armadio, dov'era riposto un avanzo di caraffa di sidro inglese, ne versò tre dita in un bicchiere, ed il recò al padre, accostandoglielo alle aride e scolorate labbra. Giacomo bevve con ansia; ma la deglutizione opravasi con difficoltà, per modo che fu impossibile al misero vecchio di tranguggiare il bramato refrigerio che gli rimase in sulla lingua; tanto più che quella bevanda non è così fluida e potabile come l'acqua. Giacomo gittò un profondo sospiro, scostò leggiermente dalla bocca il bicchiere e la mano che glielo porgeva, e volse gli occhi al cielo facendo tacita offerta a Dio delle sue sofferenze: il cuor di Lucia ne fu trapassato: nascose il suo capo dietro quello del padre e pianse la miserella, ma divorando nel cuore le amare lagrime che le strappava lo stato del genitore. Giacomo non era uscito dal suo abbattimento per due giorni continui; poche e indistinte parole avea proferito in questo tempo, pochi segni avea dato di vita e di avvedimento. Ma ora un pensiere, un proponimento parea dargli una fittizia energia. Comechè privo del refrigerio che sperava ottener dal sidro, ei raccoglieva quasi per forza intorno al cuore la vita che gli fuggiva. Oh l'amor paterno! Chi può dire fin dove questa onnipossente affezione dell'animo può imperare sulla caduca, argilla? Chi può segnare i limiti della sua forza? L'amor paterno commove ed agita ancora il cuore di un cadavere pochi istanti di poi che morte vi ha soffiato il gelido suo alito: l'amor paterno è un raggio dell'anima immortale che rimane ancora attaccato alla famiglia, quando il corpo del padre rientra nella creta che il produsse. Giacomo fe' cenno a Daniele di avvicinarsigli più, imperocchè non potea parlare che a stento e con voce fiacchissima. Daniele, Lucia e Padre Ambrogio si strinsero al letto dell'infermo per udirne le parole. Marietta e gli altri due fanciulli intorniarono quei tre: e tutti pendevano con trambasciata ansietà dalle labbra del capo della famiglia. — Daniele, disse il vecchio, ricordi tu quel che eri e quel che ora sei? — Lo ricordo, rispose questi, alcun poco turbato da simile interrogazione. — Ti rammenti di quella notte in cui ti raccolsi morto di fame e di freddo sopra una felce nelle boscaglie della Sila in Calabria?... Pensa, figlio mio che ivi saresti immancabilmente perito; le tue membra quasi nude erano intorpidite dal gelo onde eran tutti coperti que' boschi deserti e quelle valli; i tuoi occhi eran chiusi, ed appena uscia dal tuo petto un fioco gemito che si perdea ne' lunghi urli del vento tra gli scheletri della vegetazione. Fu la Provvidenza che guidò i miei passi in quel bosco tetrissimo: io avea smarrito il mio cammino, o per dir meglio, Iddio volle che io mi fossi per poco allontanato dalla strada regolare per menarmi a dar vita ad una innocente creatura. In questo supremo istante della mia vita che si spegne, benedico la Provvidenza che mi fece degno di esercitare la carità e di salvar da morte un caro fanciullo, ch'io poscia ho amato qual mio figlio, e che ora amo con tutta la tenerezza paterna, quanto amo queste infelici creature che la mia morte lascerà diserte e abbandonate nel mondo. Dagli occhi del vecchio cadde una lagrima, che restò fredda e impiombata sulla sua guancia. A quelle parole, non si udì che un pianto universale. Daniele era commosso. Dopo pochi momenti di silenzio, Giacomo riprese: — Ho dovuto richiamare questa ricordanza, mio caro Daniele, non per vantare titoli alla tua gratitudine, della quale non ho mai dubitato, e di cui mi hai dato prove non equivoche; bensì per ottener da te tutto lo affetto di un figlio in questo momento ch'è per me sì solenne. Se tu ami ch'io dorma in pace il sonno della tomba, se vuoi che io chiuda gli occhi benedicendo quell'istante in cui per la prima volta i tuoi gemiti infantili colpirono le mie orecchie, togli dal mio animo ogni dubbio sulle tue rette intenzioni a riguardo di questa misera fanciulla che tanto ti ama... Quest'ultima parte fu piuttosto indovinata dagli astanti anzi che profferita dal vecchio, tanta fu la commozione ambasciosa che gli oppresse il petto. Daniele impallidì e chinò gli occhi, interamente ombreggiati dalle folte sopracciglia, che diventarono due archi nerissimi; Lucia si sentiva scoppiare il petto; il cuore le palpitava con tal violenza che un lividor di morte le imbiancò le labbra semiaperte; gli occhi della fanciulla non si arrischiarono a riguardar Daniele, e fu per bene di lei, che se quell'adorabile creatura avesse gittato uno sguardo sul suo amato, avrebbe letto sul costui volto la più chiara smentita delle parole del padre. — Si avvicina il mio termine, figli miei... Ringrazio la Provvidenza che mi concede la forza di parlare e di rivolgervi le mie estreme parole. Daniele, Lucia, Iddio non ha permesso ch'io fossi testimone della vostra felicità... Io avea ben ragione, mio caro figlio, di spingerti ad affrettare questa bramata unione... L'innocenza e la virtù fecero dapprima nascere il vostro amore; l'affetto fraterno si voltò ne' vostri cuori in un sentimento più dolce, che crebbe col crescer dell'età. Dio benedisse l'amor vostro, come l'ho benedetto anch'io. Daniele, misero figlio della sventura o della colpa, infelice creatura defraudata del più caro degli umani retaggi, l'amor paterno, il cielo ha colmato un tal vuoto; tu sei idolatrato da quest'angioletta. Una brillante carriera ti si apre dinanzi; così giovane hai ottenuto quello che pochi o nessuno alla tua età giunge ad ottenere: riputazione e fortuna, e ben le meriti per la tua abilità nell'arte musicale, per la quale tanto genio appalesasti fin dalla tua fanciullezza. Possa il cielo sempre più render prospere le tue fatiche, ad alleviarti le quali, avrai al tuo fianco questa cara creatura.... La misteriosa mano che oggi provvede a' tuoi bisogni o a' tuoi piaceri potrà un giorno ritirarsi da te, senza che tu abbi a sentire dolorosamente una tal perdita. Giacomo ebbe d'uopo d'interrompersi per qualche momento... Gli astanti, ed in particolar modo Daniele, e Lucia, erano diversamente agitati e commossi. — Daniele, ripigliò il vecchio, il tempo stringe ed io non posso abusare di questi preziosi momenti che Iddio mi concede. Io non dubito della lealtà delle tue intenzioni, tel ripeto; ben mi è noto il tuo cuore, e so che l'opera mia non fu seminata in ingrato terreno... Ma ho bisogno, nel licenziarmi da voi, figli miei, di essere pienamente sicuro dell'avvenire della mia Lucia... Chieggo da te un giuramento, Daniele. — Un giuramento! esclamò questi, che era ben lontano da una simile idea. — Si, figlio mio, un giuramento solenne che tu farai su quel Crocifisso, presente Padre Ambrogio e gli altri figli miei: giurerai di sposare quanto prima la dilettissima Lucia... Un tal giuramento nulla può costarti; esso non serve che a render paga e soddisfatta l'anima mia io andrò a raggiungere la mia amatissima compagna, la madre vostra, figli miei, e di lassù le nostre benedizioni vi accompagneranno sempre e dappertutto. Or via, non si perda più tempo. Son due giorni che ti ho aspettato, Daniele, e credeva che Dio non mi accordasse il piacere di vederti, per dileguare dal mio povero cuore ogni dubbiezza. Un Crocifisso di avorio era in cima del letto, all'altezza della mano di Giacomo, il quale, toltolo dal muro, il consegnò a Padre Ambrogio e gli disse: — Padre, ricevete il giuramento di Daniele, ed implorate le celesti benedizioni sul capo dei figli miei. Padre Ambrogio si alzò. Il suo volto era grave e solenne; con la destra ei teneva il Crocifisso, con la sinistra toccò la spalla di Daniele, figgendogli in volto uno sguardo severo ma ripieno di bontà. — Daniele, Iddio vi ascolta e vi giudica; ponetevi in ginocchi, figlio mio, e proferite con me il solenne giuramento che vostro padre, il vostro benefattore, chiede da voi, per abbandonare in calma ogni pensiero della terra e rivolgere tutta l'anima sua alla patria celeste. Lucia s'inginocchiò e con essa tutti gli altri fratelli... In fondo alla camera si vedea genuflessa anche la vecchia fantesca, biasciando preci e facendosi cadere di grosse lagrime sulle aggrenzite guance. Daniele ebbe un momento di titubanza.... Egli era rimasto all'impiedi, mentre tutta la famiglia... era genuflessa. Un pallore di morte avea coperta la bruna sua faccia... Questa titubanza non durò che momenti. Daniele piegò a terra il ginocchio dritto e chinò il capo per non lasciare scorgere il suo turbamento. Padre Ambrogio spiegò la sua mano sul capo del giovine. — Daniele, giurate voi nel nome dell'Eterno Dio e su questo segno dall'Umana Redenzione di sposare quanto prima in legittimo matrimonio Lucia Fritzheim, figliuola di Giacomo? A questa interrogazione successero pochi momenti di silenzio. Padre Ambrogio riprese: — Pensate, Daniele, pria di giurare... Or siete libero ancora; un momento dopo, la vostra vita è eternamente avvinta a quella di questa fanciulla. Daniele non rispose. Il vecchio Giacomo, Lucia, tutti trepidavano. Questi minuti secondi erano spine acerbissime per quella sventurata famiglia. Il ministro di Dio replicò la formola del giuramento: — Daniele, giurate voi nel nome dell'Eterno Dio e su questo segno dell'Umana Redenzione di sposare quanto prima in legittimo matrimonio Lucia Fritzheim, figliuola di Giacomo? — Lo giuro, rispose Daniele con voce distinta ma rauca e profonda. — Ti benedica Iddio! esclamò il prete. Tutti si alzarono... Giacomo piangeva di tenerezza, di consolazione: il cuore del vecchio infermo si dilatava; parea che la vita e la salute gli tornassero; il suo volto si rischiarò; i suoi occhi brillarono ancora sotto i vapori della morte. — Avvicinati a me, figlio mio, Daniele, qua... qua sul mio cuore, fa che ti abbracci; che io baci i tuoi capelli, la tua fronte. Oh perdona, perdonami, figlio mio... per poco io aveva dubitato di te; tel confesso... Io credevo che più non amassi la mia Lucia... Che ne sarebbe stato di questa infelice che tanto ti ama?... Appressati anche tu, Lucia, qua, qua ch'io vi stringa entrambi sul mio petto... Oh... or muoio contento!... Grazie, grazie, mio Dio, che mi hai fatto degno di tanta felicità!... Ah!.. la vista mi si abbuia... Sorreggetemi, figli miei... mie cari fi... Giacomo cadde estenuato e privo di sensi in su i guanciali... Lucia era rimasta nelle braccia del padre, nel cui seno avea nascosto il capo. Daniele si era allontanato dal letto del vecchio. Nessuna lagrima avea bagnato i suoi occhi... Egli raggiustava freddamente e ravviava in sul dritto lato della fronte i capelli che, stando egli nelle braccia del padre, aveano smarrita la loro studiata drizzatura. III. LE ULTIME PAROLE Le diverse e violenti commozioni alle quali Giacomo era stato in preda lo avevano abbattuto, stremandogli quel poco di forza vitale che egli aveva attinta nello immenso amore che portava ai suoi figli. Quella tensione eccessiva dei nervi nello stato in cui egli si trovava lo aveva affranto a tale modo che per poco tempo fu creduto morto. Padre Ambrogio aveva dapprima con bei modi allontanato i teneri figliuoli dalle sponde del paterno letto, facendo a sè medesimo la più dura violenza, perciocchè alla vista delle gelide mortali spoglie del vecchio il dabben ministro della chiesa avea sentito dilacerarsi il cuore nè più nè meno che se quel corpo giacente fosse stato di suo padre: laonde ei comprendeva quale e quanto esser doveva il dolore dei figliuoli, e come la cessazione di quella vita così cara doveva farlo scoppiare qual repentina folgore. Le sembianze del vecchio si erano imbianchite come i capelli che gli ombreggiavan le tempia; nessun segno rivelava in lui la vita. Padre Ambrogio tastò il polso del giacente e il suo volto si rischiarò. — Non è che un deliquio, ei disse; ben presto ricupererà il sentimento. E gli pose sotto le narici un'ampollina di etere vivificante. Lucia, Marietta e Giuseppe eran seduti d'intorno al letto del genitore, ma ad una certa distanza, così avendo disposto Padre Ambrogio. Daniele stava all'impiedi, presso ad un terrazzino aperto, dal quale facea vagar gli occhi distratti su i lontani colli di Poggioreale e di Capodichino. La luna si levava intera e vermiglia dietro quei colli e sprolungava una larga fascia di bianca luce sui cipressi di S. Maria del Pianto quasi lenzuolo mortuario. Varii lumi apparivano e sparivano tra gli alberi di quella mesta campagna: era la pietosa processione che accompagna con le preci divote lo scendere d'un uomo nel suo ultimo asilo. Uno spettacolo sì tristo e che avea tanta relazione con le presenti circostanze non commoveva per nulla il cuor di Daniele, che, svagando lo sguardo lungi dal luogo ove trovavasi, cercava di sfuggire alle opprimenti riflessioni che si affacciavano al pensiero. In pari tempo, altre idee, altre immagini affatto opposte si presentavano alla sua mente, idee ripiene di vita, immagini ridenti, di giovinezza, di piaceri. Egli pensava che era quella l'ora consueta in cui soleva trovarsi quasi ogni sera tra crocchi brillanti di gai giovinotti, di bellissime donne; avrebbe dato una metà della sua vita per potersi involare da quella casa ov'eran la morte e la tristezza, e spiccare un volo al Palazzo S... dove tutto era felicità, e dove egli forse era aspettato da Emma! Eran le undici della sera. Il silenzio regnava in quella solitaria contrada siccome in quella casa. Giacomo rimaneva tuttavia nell'immobilità di morte, contuttochè la sua respirazione fosse talmente concitata da udirsi una maniera di rantolo nel cavo del suo petto. Lucia, poscia ch'ebbe riprovveduto di olio il lumicino che si era quasi spento dinanzi alla sacra immagine, si era avvicinata a Daniele... Nelle sembianze di lei scorgeasi al presente una tristezza più rassegnata, più tranquilla, non perchè lo stato del genitore le desse argomento di speranza, ma perchè Daniele era là... Negli affanni e nelle sventure la presenza di chi si ama rattempra e lenisce la pena, è balsamo al cuore sofferente. D'altra parte, non era il giovine da considerarsi ora come sposo di lei? — Daniele, dissegli timidamente la giovinetta, rimarrai con noi questa notte? Nostro padre è così felice nel vederti al suo fianco, in mezzo a noi... Vedi, io son quasi sicura che... ciò gli fa del bene; hai osservato con quanta passione ei ti guardava pocanzi? Se sapessi quante volte il poveretto ha chiesto di te in questi due giorni in cui non sei venuto da noi!... non ti parlo di quello che hai fatto soffrire al mio cuore, lo sa quella Vergine del Carmine, la quale ho pregata tanto tanto di farmi morire appresso a mio padre, se mai tu... più non mi amassi. La fanciulla portò ai suoi occhi il lembo del grembialetto e singhiozzando si andava rasciugando le grosse lagrime che il ricordo del suo dolore le richiamava alle ciglia; poi dette un crollo al capo per rimandar sulle tempia i lunghi capelli che le si erano staccati sul volto e rizzò la faccia pallidissima guardando lui con tenerezza. Il riverbero della luna rischiarava quelle delicate fattezze e quegli occhi, il cui nero lucidissimo ora vie più spiccava su quel fondo sì bianco. Lucia in questo momento sembrò bellissima a Daniele, il quale, presala per mano, menolla in sul terrazzino, e stette alcun tempo in silenzio contemplandola. Era nel centro del terrazzino un cesto di gelsomino che iva ravvolgendo le sue foglioline tra i bastoncelli della ringhiera, ed era tutto coperto di bianchi fiorellini che esalavano un profumo soave tanto che tutta la casa ne veniva imbalsamata. — Prendi, amica mia, le disse Daniele spiccando uno di quei candidi fiorellini e dandoglielo, stasera tu rassembri davvero a questo fiore... Come sei bella! Oh, non dubitare, io non ti lascerò più; non sono io oggimai lo sposo tuo? Non mi appartieni tu forse? Uno scroscio di risa fu udito in quel momento, Lucia arrossì tutta, e ratta s'involò dal terrazzino. Uccello si era ficcato nell'ombra dietro alla pianticella del gelsomino; aveva udito le parole di Daniele, e nel suo ingenuo idiotismo avea riso. Oh! quel riso era la più mordace ironia di quelle parole che non esalavano dal cuore del perfido giovine. Daniele esclamò nel venir dentro alla camera! — Maledetto idiota! Io lo detesto come il mio cattivo destino. Il rantolo di Giacomo diveniva sempre più forte, più oppressivo; i suoi occhi a metà dischiusi erano iniettati di quell'umore livido, biancastro che annunzia l'ora estrema. Padre Ambrogio avea ripreso, presso il moribondo, il tristo ufficio di assistente. Tutta la famiglia era immersa in uno stato di angosciosa aspettativa: pallidi, muti, inanimati, quei figliuoli non trovavansi neanche più lagrime in su gli occhi. Daniele si era messo a sedere al fianco di Lucia: non per questo era pago e tranquillo a segno che non si leggesse sul volto distratto una febbrile impazienza: se si fosse gittato uno sguardo in fondo di quel cuore, sarebbesi notato con raccapriccio un desiderio vivo, ardentissimo della morte di Giacomo. Sì fa d'uopo confessarlo; Daniele contava i minuti secondi per la brama di sentir morto quell'uomo che con la sua lenta agonia gli toglieva un'ora di piacere ed il condannava a star lontano dalla donna che egli amava. Ah! pur troppo questo cuore umano è tale impasto di contraddizioni malvage, di barbare tendenze ed in pari tempo di slanci di sublime affetto e di sacrificii inauditi che l'uomo ha sempre di che rimanere stupefatto e avvilito nella contemplazione dell'uomo. Vi sono, nel fondo dell'anima, certe cloache di turpitudini siccome certe miniere di eroismo che renderanno sempre l'umana creatura il soggetto più curioso delle investigazioni dei filosofi i quali finiscono col confessare la loro piena ignoranza su queste arcane contraddizioni. Poco stante, non ne potendo più per l'estrema impazienza che il vinceva, e stanco di più aspettare, Daniele si rizzò subitamente in piè e disse a Lucia queste poche ed aspre parole: — Mia cara, tuo padre non morrà per ora; è affare di domani; intanto io debbo andar via; nulla ho detto al mio domestico, il quale mi aspetta... D'altra parte, ho quaggiù il mio cavallo, e fa d'uopo che il faccia ristorare di qualche cibo. Ciò dicendo, carezzandosi i capelli in sulla tempia dritta, e riprendendo il suo cappello, si disponeva, senz'altro, a lasciare quella casa: avea già dato due passi inverso l'uscio, quando, non già Lucia ch'era rimasta stupefatta e annientata da tanta barbara fattezza, ma sibbene Marietta s'interpose tra l'uscio e lui. — Oh! Daniele; tu non andrai via, n'è vero? Tu non ci abbandonerai questa notte: papà può spirare da un momento all'altro, non è così, padre Ambrogio? Abbi pietà del nostro dolore; se ci ami ancora, se ami la mia povera sorella, tu non andrai via! Ormai è tardi, questa campagna è mal sicura... Tu hai da fare sì lungo cammino... No, Daniele, non andartene per questa notte..... Vedi, noi abbiam paura a star sole. — In verità, non vorrei andarmene, rispose Daniele, ma non posso trattenermi; vi dico che egli è difficile che papà Giacomo se ne vada stanotte: non senti? ei dorme profondamente, non fa che russare. — Russare! interloquì il sacerdote, a cui tanta durezza di cuore cagionava un dolor profondo: signor Daniele, _vostro padre_ si muore; ei non ha che pochi minuti di vita: non vogliate abbandonarlo in tal momento... Egli vel comanda anche morto. — Signore, ripeto, che io non posso trattenermi: tornerò domattina ben per tempo, allo spuntar del giorno. Intanto se c'è bisogno di danaro, eccone. E traeva dalla tasca del soprabito un elegante borsellino di seta a maglie, ne cavava una moneta, gittandola con superbia e con fastidio sul cassettone. Era un pezzo di dodici carlini che ribaltò su quel mobile, e urtò nel bicchiere ove era riposto il lumicino che si spense affogando nell'olio rovesciato. Lucia mandò un grido di disperata angoscia. Padre Ambrogio si alzò pacatamente, raccolse dal cassettone la moneta, e, consegnandola al giovine, gli disse con paterna bontà: — Prendete, signore; per ora questa disgraziata famiglia ha d'uopo di pietà, di amore, di aiuti affettuosi; ha bisogno di cuore e non di metallo. Riprendete la vostra piastra: se ci sarà bisogno di danaro, posso pel momento provvedervi io stesso. Unisco le mie preghiere a quelle di queste infelici creature acciocchè vi compiaciate rimanere in questa casa durante questa notte, ch'è già scorsa quasi della metà. Pensate che il misero Giacomo non vedrà la dimane; egli forse, innanzi di spirare, può chieder di voi: pensate che quest'uomo è stato per voi non solo un padre, ma un amico, un vero amico. Si provvederà poi pel vostro cavallo, non temete. Rimanete, non abbandonate questa infelice famiglia in questa ora tremenda. — Mi duole dovermi ricusare a' vostri comandi, rispose Daniele, ma è impossibile ch'io mi trattenga più a lungo. Sarò qui domani all'alba... Addio. Non fu più possibile trattenerlo. Egli avea varcata la soglia della porta senza neanche gittare uno sguardo al vecchio moribondo e alla sua fidanzata, che rimaneva come istupidita e schiacciata dalla disperazione. Un solo individuo avea la faccia sorridente nel mezzo di que' gruppi di dolore: Uccello; un lampo di gioia stravagante brillava sulla sua stupida fisonomia. Egli girava qua e là per la camera, schioppettava con la mano, guardava sovente verso l'uscio delle scale, e rideva... rideva con quel riso corto e a colpetti. Di botto, Daniele si presenta di bel nuovo in sul limitare della camera. Ei getta d'intorno a sè uno sguardo furioso. — Chi ha ferita la gamba del mio cavallo? grida con voce stentorea, e con gli occhi fiammeggianti di rabbia e di vendetta. — Io, risponde Uccello ridendo sempre, come quando solea fare qualche burla alla vecchia fantesca e di cui prendea tanto sollazzo. — Tu! esclama Daniele ruggendo qual leone. Ed alzava la frusta per colpire l'infelice idiota. Padre Ambrogio s'interpose e fermò il braccio di quel furibondo. Un grido intanto era partito dal letto ove giaceva il moriente. Era Giacomo che tutto avea udito, tutto compreso!... Oh spettacolo terribile! Il vecchio avea levato il capo dal cuscino come da una tomba: sembrava una larva, un fantasma. — Ingrato!... ingrato!... mormorava il misero con voce soffocata dai singulti della morte... Iddio mi aprì gli occhi in sull'orlo... della fossa... Tu vuoi... colpir mio figlio Giovanni... come già... mi hai distrutta... mia figlia Lucia... Va, figlio del peccato... Tu tradisci un moribondo. Va... ingrato... se tu mediti io spergiuro... Iddio ti punisca!.. Lucia manda un urlo disperato... il sacerdote immantinente chiama alla calma il moribondo che si mostra pentito dell'ira subitanea in cui la ferocia di Daniele lo avea gittato... guarda il crocifisso e tenta di dire qualche cosa, ma non può finire una parola, che termina in un singulto profondo. Il misero era ricascato in su i guanciali. Egli era morto! Pochi momenti dopo questa scena di spavento, nella camera ove giaceva il cadavere di Giacomo non era altri che Padre Ambrogio, che recitava d'accanto al morto la seguente prece: «Onnipotente Iddio, col quale vivono coloro che muoiono nel Signore, e col quale le anime de' fedeli, poi che libere sono dal fardello della carne, sono nella gioia e nella felicità, noi ti ringraziamo dal profondo del nostro cuore per esserti piaciuto di liberare questo nostro fratello dalle miserie di questo mondo di peccati: e non tralasciamo di pregare la tua misericordiosa bontà di ammetter lui ben presto nel novero de' tuoi eletti.» Non dobbiamo trasandare di osservare che Uccello, per impedire la partenza di Daniele, di soppiatto armatosi della sciabola di suo padre, che n'era provvisto come militare doganiere, avea ferita la gamba del cavallo del giovine, senza che alcuno della famiglia addato se ne fosse. Uccello aveva avuto bastante lucidezza di mente per comprendere che Daniele non avrebbe potuto andarsene a piedi alla sua abitazione che era ben lungi di quella strada; e che gli sarebbe stato impossibile di trovare una carrozza in quella via solitaria e ad un'ora si avanzata della notte. IV. UNO SGUARDO INDIETRO È necessario toccar qualche cosa che alla storia di questo giovine si riferisce, innanzi di proseguire il nostro racconto. Daniele, in tutto il tempo ch'era stato in casa di Giacomo lo stradiere, non si distingueva dagli altri figliuoli di questo dabben uomo, sì per l'amore onde corrispondeva ai beneficii di quella famiglia, sì pei modi rispettosi e umili, ch'ei teneva inverso Giacomo e la costui consorte; i quali siffattamente lo amavano, che a tutt'i vicini e agli amici soleano dire che Iddio avea mandato loro quel caro fanciullo in compenso dell'infelice Uccello, miseramente privo d'intendimento. Daniele era un giovinetto affettuoso benchè un poco troppo serio per la sua età, perciò che mai o rarissime volte si abbandonava ai giuochi e ai divertimenti degli altri figli di Giacomo ei se ne stava in disparte; e mentre quelle creature baloccavansi in un modo o in un altro, egli avea paura di bruttarsi le vesti o le mani. Giacomo e la moglie queste tendenze così singolari in un fanciullo attribuivano ad una certa natural propensione ch'egli avesse per la nettezza e l'appariscenza della persona, mentre quelle altro non erano che un istinto di superiorità su gli altri fanciulli, i quali, non badando a tenersi puliti, meno belli di lui o meno decentemente si mostravano a coloro che venivano a far visita al signor Giacomo. Questa tendenza che in sul principio pareva tanto innocente e commendevole, prese bentosto il suo vero aspetto allora che il fanciullo crebbe in età. Ben presto Giacomo discoprì nel trovatello un vizio radicale del cuore e si adoperò a correggerlo, a drizzarlo a bene, ma fu tutto indarno; il vizio era nel sangue del fanciullo: quanto più egli diventava adulto e grandetto, tanto più in lui si appalesava la passione della vanità. Oltracciò, Daniele aveva un sentimento che molto si avvicinava all'odio per l'infelice Uccello: sentimento ch'ei non dissimulava ne' momenti in cui si trovava solo coll'idiota, però che non si facea scrupolo di beffarlo, di maltrattarlo con epiteti ingiuriosi, e sovente di batterlo. Il misero Uccello piangeva, ma non si arrischiava a dire al babbo il motivo del suo pianto, che se questo avesse fatto, non gli mancavano altre più forti battiture, con cui quel cattivello di Daniele vendicavasi dei rimproveri che gli venivano da Giacomo. Un fatto narreremo il quale, sebbene puerile, ebbe influenza grandissima nello sviluppo di quell'odio che Daniele nutriva per l'infelice Uccello. Solevano que' fanciulli presso che in ogni sera sollazzarsi con qualcuno di quei giuochi infantili, di cui si conservano poscia gratissime ricordanze tra i quali i più frequentemente messi in opera erano i giuochi delle merenducce, della mosca cieca, del capo a nascondere, dei pilastri, del guancialino d'oro, dell'oca, delle capannelle, del buffetto ed altri consimili. La più grande ilarità soleva regnare tra quelle care ed innocenti creature. Il più delle volte Daniele non prendeva parte a questi giuochi e si accontentava di starsene a rimirarli; ma talvolta, istigato dai suoi fratelli (così chiamavansi tra loro) e premurato dalla madre, il _Contino_ (abbiam già detto perchè un tal nome fu posto a Daniele) degnavasi di onorare il giuoco colla sua presenza. Un giorno, si scherzava alla mosca cieca. Furon tirate le sorti a chi dovea pel primo bendarsi gli occhi: toccò a Daniele: ciascuno, fuggendo, ruzzando, ridendo, il percuoteva con un fazzoletto, con uno sciugamano o con altro panno avvolto... Daniele si voltava e rivoltava per acchiappar qualcuno, ma tutti se la sbiettavano con garbo, sicchè l'impazienza e il dispetto cominciavano a dominare nel Contino, allora che sentissi applicata in sulle spalle una violenta percossa accompagnata da uno scoppio di risa universale: era stato Uccello che avea fatto il colpo, e poscia, per non essere afferrato, si era appiattato sotto un tavolino. Ma alle grida di _viva Uccello_, Daniele avea conosciuto chi lo aveva colpito sì fortemente, e pensando quegli averlo fatto per istizza o per malvagità, fu preso da tanta rabbia e da tanta sete di vendetta, che tra sè deliberò di avernelo a far pentire se gli venisse sotto. Perchè, studiata ben la posizione e dissimulando il meglio che seppe, si pose freddamente a girar per la stanza, poi che con destro movimento ebbesi cacciato un poco più su degli occhi la benda che gli nascondeva i suoi avversari. Non andò guari, ch'essendo tornato in giuoco Uccello, fu preso di mira dal perfido Daniele, il quale, acchiappatolo tra le risa degli altri e tra le baie che si davano all'inesperto, lo stramazzò al suolo e con pugni e calci così fattamente il rendette malconcio che in copia usciva al miserello il sangue dal naso e dalla bocca. Il giuoco ebbe termine: Lucia e Marietta cercarono di occultare il misfatto, ma, accorsi alle strida Giacomo e la moglie, Giuseppe fu sollecito di narrar loro l'accaduto. Giacomo rimase stupefatto e addolorato di tanta malvagia indole del trovatello, e, per castigarlo, non gli fece per qualche tempo abiti nuovi, tremendo castigo per quell'indole vana e orgogliosa. Daniele rimase così vulnerato della punizione inflittagli, che il suo carattere ne addivenne più cupo, e più duro il suo cuore. D'allora in poi più non rivolse la parola ad Uccello, pel quale se gli erano accresciuti l'antipatia e l'odio. Intanto ei diveniva grandetto; era già arrivato al tredicesimo anno, allora che Giacomo, accortosi dell'estrema inclinazione e attitudine che il giovinetto appalesava per la musica, il pose a studiare quest'arte con un suo parente. Questi ebbe ben per tempo posto amore addosso al giovinetto, poi che scorto ebbe in lui un vero genio e rarissimo. La natura lo aveva chiamato alla musica. Stranezza incomprensibile! Quest'arte, che richiede sensibilità squisita, tempera di animo affettuosa e soave, era attecchita in un cuore mal formato e proclive alle più tristi passioni. Gli elogi che il giovinetto Daniele riportava, dovunque facevasi udire a suonare il piano-forte, il suo contegno nobile e altero, quella sostenutezza di modi e di linguaggio, sì poco in armonia col suo stato e colla sua origine, ed anche quei suoi occhi malinconici ma espressivi e intelligenti, gittarono a poco a poco nel cuore di Lucia i germi di una passione che si fece gigante. Daniele si avvide prestissimo dell'amore di Lucia, e la sua vanità fu lusingata e soddisfatta: egli non le corrispose per amore, ma per compiacenza di sè medesimo per talento di tiranneggiare una creatura a lui sottoposta, per desiderio di dominio. E s'infinse così bene, e simulò tanto la passione, che l'innocente donzella il credette innamorato morto, siccome il credette Giacomo in appresso. Lucia era tutt'altra; la sua adolescenza e il suo amore l'aveano trasformata: di quindici in sedici anni essa era sì malinconica, sì appassionata e sensitiva, che il padre, avveggendosi esser cagione di tanta malinconia la passione che già la struggeva, stimò conveniente di allontanare Daniele dalla famiglia. Oltracciò, morta la cara sua moglie, chi poteva oggimai guardar l'innocenza di Lucia? Onde estimò necessario di rimuovere ogni cagione, e partirsi dal giovinetto, il quale, dal canto suo, mal sembrava portare la dimora dello stradiere, essendosegli accresciuti nell'animo la vanità e il desiderio di esser distinto. Giacomo iva da qualche tempo pensando al modo come provvedere all'esistenza di Daniele, allora che lo avrebbe allontanato dalla sua famiglia, quando uno strano avvenimento venne a troncare ogni dubbiezza ed ogni imbarazzo. Un bel mattino, si presentò in casa di Fritzheim un giovine di bell'aspetto e di belle maniere, decentemente vestito, il quale con accento straniero ma in buono italiano, dimandò di parlare al padrone della casa. — Siete voi il Signor Giacomo Fritzheim? chiese poscia che questi se gli fu presentato. — Per lo appunto, rispose lo stradiere, a che posso servirla? — Non avete voi, molti anni fa, raccolto nel bosco della Sila un fanciullo che ivi era abbandonato e moriente? Giacomo restò interdetto: guardò con attenzione la persona che gli avea fatta quella inattesa interrogazione e cercò d'indovinare se colui che gli parlava potesse essere il padre di Daniele, che avea già diciotto anni compiti; per lo che rispose: — Sì, signore, sono io a cui la Provvidenza volle concedere la grazia di salvare un'innocente creatura, ed arricchire la mia famiglia con un altro figlio. — Mi giova conoscere con precisione l'epoca in cui ciò avvenne, disse quello straniero, il quale avea nella mano una carta su cui sovente gittava gli occhi. — Io non so, signore, rispose l'onesto gabelliere, quale interesse possiate avere nell'indagare un fatto sul quale io non dovrei dare ragguagli che ad un'autorità riconosciuta; ma qualunque sia la cagione che vi muove, vi avverto che nessuno al mondo potrà strappare dal mio fianco un giovinetto sul quale vanto ormai i dritti di padre. — Non dubitate, sig. Fritzheim; ben lungi dal farvi del male o dallo svellere dal fianco vostro il giovane, che forma l'oggetto delle mie investigazioni, io son venuto per più bella opera. Piacciavi di rispondere, senza tema, alle mie dimande. In che anno e in che giorno trovaste voi nelle boscaglie della Sila il fanciullo? — Nella notte del 24 gennaio 1809, rispose Giacomo. L'incognito gittò novellamente lo sguardo in sulla carta che avea nelle mani; fece col capo un atto affermativo e di soddisfazione, indi prosegui: — Sta bene: potreste ora indicarmi con precisione il sito ove trovaste il bambino? — Il trovai in una selva di abeti e di pini, sopra una larga felce, a qualche miglio da S. Vincenzo, e non molto lungi dal Neto. Altra occhiata fu data da quell'uomo alla carta e altro segno di approvazione. — Ricordate gli abiti che aveva addosso il bambino? — Me li ricordo benissimo, poichè li conservo ancora, soggiunse lo stradiere: vesticina di albagio color tabacco, calzoncini di panno turchino, calzerotti di cotone colorati, scarpine con becchetti senza laccetti, e berretto di castoro nero con tettino di cuoio. — Perfettamente, ripigliò l'incognito col riso della gioia e della soddisfazione in sulle labbra: or non mi resta che farvi un'ultima interrogazione. Che nome disse di avere il bambino? — Daniele, replicò Giacomo. — Non ci occorre altro, è desso! Eccomi ora ad adempiere alla mia parte, sig. Fritzheim: questa è una polizza di duemila ducati ch'io sono incaricato di consegnarvi per ricompensa della vostra bell'opera e per le cure paterne di cui foste prodigo verso il fanciullo Daniele. Ciò dicendo, l'incognito traeva dal taccuino una polizza sul Banco di Napoli, e la porgeva al gabelliere; ma questi si ritrasse indietro, e dimandò stupefatto. — Chi v'incarica di ciò, o signore? — Non posso dirlo; è questo un segreto che ho giurato di serbare. — Suo padre o forse sua madre? — Non rispondo, o signore... — Ebbene, a chiunque v'incarica di ciò, signore, voi risponderete ch'io ho ricusato di prender questo danaro; un padre non si fa pagare delle cure ch'ei prodigalizza a suo figlio, e padre io mi estimo inverso Daniele. Io son povero, signore, ma non mi avvilisco a ricever guiderdone da una incognita mano e per un'opera onde io risento la più cara soddisfazione dell'anima mia. L'incognito non credeva a' suoi orecchi; pareagli che lo stradiere non avesse parlato da senno, e tornò a dirgli: — Sig. Fritzheim, questi duemila ducati sono vostri, interamente vostri; non vi si danno per compenso alcuno; voi seguirete ad essere il padre di Daniele; parmi che non vi sia ragione di ricusare. — Ed io ripeto che non accetterò mai questo danaro; non l'accetterei neanche se mi venisse dalle mani medesime del padre di Daniele; pensate se voglio accettarlo da una mano che si nasconde. — Ebbene, io vi ammiro, sig. Fritzheim: la rigida probità del vostro animo già mi era nota. Vi confesso nondimeno che un simil rifiuto è al di sopra di ogni previsione; io però non insisterò più oltre, ma la mia commissione non si limita a questo, sig. Fritzheim, e questa volta vi avverto che un vostro rifiuto sarebbe inutile. — Di che si tratta ancora? dimandò Giacomo con leggiero aggrottar di ciglia. — Si tratta che io sono incaricato di passare questa somma di duemila ducati a Daniele. Non si era preveduto il vostro rifiuto, sibbene il caso in cui non vi avessi trovato, capite! E l'incognito fece un gesto col quale intendeva dire: nel caso in cui vi avessi trovato morto. — La cosa è differente, disse Giacomo, non posso oppormi a tutto ciò che può contribuire alla felicità di Daniele. — Lodato Iddio! esclamò l'incognito; compiacetevi di chiamare il vostro figlioccio. Giacomo entrò nelle stanze contigue e poco stante tornava con Daniele. Il giovine salutò col capo l'incognito; il quale rispose con bel garbo e guardandolo fisamente. — Alla buon'ora! osservò tra sè l'incognito, eccone uno che gli rassomiglia! Bel giovinotto, voi siete nato sotto una buona stella; la fortuna vi arride; d'ora in poi non dovete pensare ad altro che a divertirvi. — Come a dire? chiese il giovine estremamente maravigliato. — Eccovi una polizza di ducati duemila; essa è vostra. — Mia!! esclamò Daniele con gli occhi lampeggianti di gioia. — Sì Signore, vostra; questa polizza è pagabile al porgitore, e la firma è ben nota al Banco. Daniele che aveva afferrato con avidità quel pezzo di carta che per lui era una fortuna enorme, gittò gli occhi sulla firma per conoscere il nome di colui che il rendea ricco. Quella polizza avea sul dorso il nome di _Maurizio Barkley_. — E questo nome signore? dimandò Daniele. — Non posso rispondere a nessuna vostra interrogazione, signor Daniele. Ma io non ho ancora finito di adempiere al mio incarico. Eccovi un altro polizzino di cinquanta ducati: ogni mese avrete una simil somma. È singolare! soggiunse Giacomo, cui un tal mistero facea balestrare il cervello. — E voi stesso verrete a portarmi in ogni fin di mese una polizza di cinquanta ducati? domandò Daniele. — Io stesso, o un altro in vece mia. Daniele gittò parimente gli occhi sul polizzino, e lo stesso nome _Maurizio Barkley_ eravi scritto. — Favoritemi una ricevuta, sig. Daniele. Per la prima volta il sig. Giacomo Fritzheim mi sarà garante della vostra firma... Daniele firmò DANIELE FRITZHEIM. Fa d'uopo notare che soltanto da poco tempo di poi che uscì dalla casa di Giacomo, Daniele si era dato il fittizio cognome di _dei Rimini_. Giacomo appose la sua firma sotto quella del giovine. — Or non ci è bisogno di altro; son davvero contento di aver fatto la vostra conoscenza, sig. Fritzheim, e la vostra benanche, bel giovinotto. Addio, a rivederci al mese venturo. Il forestiere non diede il tempo a nissuno dei due di soggiungere una sola parola, e sparì senza lasciare un'orma sola d'investigazione. È superfluo il dire che simile avvenimento cangiò al tutto lo stato di Daniele, il quale fece subitamente istanze di separarsi da Giacomo, sotto pretesto di dovere abitare nel centro della capitale per meglio darsi a' suoi studi musicali. Giacomo, benchè con estremo dolore, dovè acconsentire ad una tale separazione per le ragioni da noi dette più sopra e che ogni giorno si rendevano sempre più forti. Daniele adunque si congedò un bel mattino da quella tenerissima famiglia. Rinunziamo a dipingere il dolore di Lucia nel dì che Daniele abbandonò quella casa. L'acerbezza del suo cordoglio non venne mitigata che dalla sua angelica rassegnazione a' voleri di suo padre, e dalla promessa fattale dal suo diletto di venire a trovarla ogni giorno. Daniele, oggimai libero di sè medesimo, indipendente, e padrone di una somma che per lui era un principio di fortuna, tolse in fitto dapprima un quartierotto alla strada Foria. In sulle prime ei tenne la sua parola, recandosi ogni giorno in casa di Giacomo; ma ogni dì crescea pure la sua vanità e il suo desiderio ardentissimo di divenir ricco; onde, ogni altra passione, ogni altro suo pensiero taceva nel suo animo sotto l'impero di quella sola dominante. Tuttochè l'incognito straniero non avesse giammai mancato di portare egli stesso, in ogni fine di mese, la polizza di ducati cinquanta al nostro Daniele, questi spendea più che non comportassero le sue facoltà, epperò non bastandogli quella somma mensuale ei si era dato alle lezioni di musica, le quali in gran numero e di nobili famiglie i suoi amici procacciavangli. Non tralasciamo di dire che il primo uso fatto da Daniele de' duemila ducati venutigli dal cielo, fu di ammobigliare con eleganza la sua casa e di comprare un cavallo: il tenere un cavallo era stato sempre uno dei sogni della sua vita. Guari non andò e il giovin bellimbusto incominciò a trovar noioso e plebeo l'amore di Lucia, tanto che per avere un plausibile pretesto di porre qualche intervallo tra le sue visite, deliberò andarsene a dimorare alla riviera di Chiaia, anche perchè è questa la contrada ove maggiormente bazzica ed abita la nobiltà napolitana e massime gli stranieri. Questa ferita fu anche asprissima al cuor della misera figliuola di Giacomo, che pur sempre cotanto amava quell'ingrato: ma ella, buona siccom'era e indulgente e amorevole, si persuase che la sola necessità di meglio provvedere a' bisogni della vita avesse indotto Daniele ad allontanarsi tanto da lei. Ciò nulla manco, Daniele non lasciava mai passar due giorni di seguito senza tornare a _S. Maria degli Angeli alle Croci_: e questo confortava la miserella a sperare, tanto più ch'egli avea già promesso al padre d'impalmarla non sì tosto meglio si fosse dato a conoscere nella Capitale. E quando gli facea qualche premura di affrettarsi a sposare l'onesta e cara giovinetta, egli adduceva or la troppo giovanile sua età, ora i suoi studi che non gli permettevano pensare ad altro pel momento, or s'appigliava al partito di procrastinar sempre sotto l'un pretesto o l'altro. E ciò durava da varii anni, quando a troncare ogni dubbiezza, a infrangere ogni proponimento, ad allontanare per sempre il cuor di Daniele dalla famiglia Fritzheim, avvenne il caso della presentazione di lui qual maestro di piano-forte della nobile giovinetta spagnuola Emma, figliuola del duca di Gonzalvo. Qui ci fermiamo, bastandoci il già detto. Nel prosieguo di questa storia verremo allargandoci sul carattere di Emma, sulla parte e sulla influenza funesta che questa donna si ebbe su gli avvenimenti che narriamo. V. IL CUORE DI UN PRETE Daniele adunque abitava alla Riviera di Chiaia. Il suo quartiere, composto di poche stanze, ma tutte con eleganza addobbate, guardava, per un lungo terrazzo, sulla villa Reale. Due erano le principali stanze del nostro celibe maestro di musica, il salottino da conversazione e lo studio, vale a dire lo stanzino dov'egli solea dar lezioni di piano-forte. Queste due stanze erano contigue e strette l'una all'altra sicchè era mestieri passar pel salottino per entrare nello studio. L'addobbamento di queste due stanze avea qualche cosa di troppo splendido pel modesto stato di maestro di musica, e dava subitamente a divedere nel padron di casa quella smania d'imitare le maniere ed il fasto dei nobili e dei ricchi. Per porre la sua casa sovra un piede aristocratico, Daniele avea contratto non pochi debiti, cui egli soddisfaceva il meglio che poteva, perciò che sarebbe morto di vergogna se nella capitale si fosse buccinato esser egli stato perseguitato dai creditori. Il salottino, messo con paramenti di Francia, era un vero mazzolino di fiori per freschezza, per profumi, per colori. Il palco, a fondo bianco venato avea nel mezzo una bella dipintura rappresentante il gruppo delle tre Grazie; una piccola ma gentil lumiera di bronzo dorato sorreggente dodici torchietti scendeva a mezzo la stanza, per via di un largo cordone, il cui capo fingeva di esser sostenuto dalle tre Grazie. Un caminetto alla foggia inglese era scavato in fondo del salottino; aveva un paracenere di ottone indorato con fregi a rilievo, ed altri a retina di ferro. Nella stagione estiva il suo vano era chiuso o meglio velato da un telaio sul quale eran dipinte parecchie caricature e scherzi e fiori e frutte. Intorno a questo caminetto era un mezzo cerchio di sedie imbottite e coperte di raso bianco, di seggioloni a ruote con ispalliere ricurve indietro, di sedie a bracciuoli, di poltrone a molle. A piè della più parte di queste sedie eran seggioline e panchettine, similmente imbottite, da appoggiarvisi i piedi, cassette da sputare, arnese tanto necessario a' fumatori, principalmente là dove di be' tappeti covrono il pavimento, siccome in casa di Daniele nella stagione invernale. Un gran sofà era situato alla parete opposta al caminetto; questo canapè con doppio rullo era coperto di raso cilestre ed avea la spalliera e i bracciuoli lavorati con intagli ed ornamenti finissimi. Un tondo di mogano a lastra di marmo era situato nel mezzo del salotto, zeppo di tutte quelle figurine di marmo, di stucco, di alabastro che popolano i salotti e che sembrano ivi dimenticate dal padron di casa. Questo mondo di lilliputti preziosi che si accalcano sovra un tondo o sovra una mensola rivelano le passioni infantili degli uomini dell'era nostra, i quali a somiglianza dei bimbi, prendono diletto nei balocchi e nei giocarelli. Non poteva la moda inventar cosa più adatta all'indole puerile del secolo nel quale viviamo. Lo studio di Daniele era più semplice. Un divanetto rosso da un lato avea dinanzi a sè un deschetto da colezione; più lungi uno scaffale di bel lavoro su ciascun palchetto del quale eran gittati alla rinfusa libri e carte di musica. In altro lato di questa stanza, aderente al muro, una scrivania ad una sola cassetta, coperta parimente di libri, di carte di musica e di arnesi da scrittoio, tra i quali primeggiava per gusto e per lusso il ricapito da scrivere tutto in oro, di cui ciascuna parte, cioè il calamaio, il polverino, il pennaiuolo o il vasetto da cialde, rappresentava un differente animale, e congegnato in maniera che ciascun animale adempiva al suo diverso officio di fornir quello che si aveva in corpo. Il piano-forte compiva l'ammobigliamento di quella stanza: magnifico strumento di artefice tedesco. Queste due stanze comunicavano tra loro non pure per mezzo dell'uscio di entrata comune, ma eziandio per mezzo del lungo terrazzo di cui abbiam parlato più sopra. Eleganti cortine di finissima mussolina velavano la luce nella estiva stagione e temperavano il freddo nell'inverno. Un'affettazione di studiata imitazione, un desiderio di far mostra di agiatezza, un'apparenza di lusso, eran questi i caratteri specchiati di questa casa. Da qualche tempo nondimeno tutto pareva quivi negletto e abbandonato, mentre ordinariamente la massima cura metteasi da Daniele per tener tutto pulito, ordinato e appariscente. Abbiam dovuto un poco allargarci su questi inetti particolari, acciocchè più spiccatamente apparisca il carattere del personaggio di tanta importanza nella storia che abbiam preso a narrare. Otto giorni sono scorsi dalla morte di Giacomo. Eran le dieci d'un mattino di domenica, quando una violenta scampanellata fece accorrere all'uscio da scala un giovin domestico ch'era al servizio dell'elegante maestro di musica. Daniele ritornava in sua casa da una breve passeggiata che avea fatta nella Villa Reale. Egli era più del solito abbattuto pallido, di pessimo umore. Insin dal dì della morte di Giacomo, il giovin Daniele non era più tornato in quella casa dove avea passata la sua giovinezza. Il suo giuramento, le ultime parole del vecchio, la disperazione di Lucia si presentavano a quando a quando nel suo animo per gittarvi un'ombra tetrissima: ma tosto venivan cotali funeste immagini cancellate dal turbine dei piaceri e dalla presenza o dalla immagine di Emma. Questo per tanto si aggiugnea agli altri argomenti di tristezza che oppressavano il petto di lui, tra i quali non ultimo la sete divorante ch'ei sentiva di ricchezze e di onori. Nel ritirarsi ch'ei fece quel dì, erasi gittato in una poltrona del salotto, sprofondandosi nei suoi cupi pensieri, allora che un personaggio si presentò agli occhi suoi, senza farsi annunziare. Questi era Padre Ambrogio. Daniele non potè frenare, in veggendo il sacerdote, un moto di spiacimento: egli non si aspettava quella visita. A Padre Ambrogio non era sfuggita l'impressione poco piacevole da lui fatta sull'animo del giovine, ma non si scuorò per questo, imperocchè l'avea preveduta, anzi, ei si attendeva di non esser ricevuto; epperò, infingendo col domestico di Daniele essere in grande intrinsechezza con costui, non avea voluto farsi annunziare. Il buon prete salutò con composta umiltà l'altero signorotto, che non si era neanche alzato dalla sua poltrona. — A che debbo servirla? chiese questi secco al reverendo, senza nemmeno offrirgli da sedere. — Vi chieggo scusa se vi disturbo; imploro dalla vostra cavalleresca cortesia pochi minuti di udienza. Questa specie di fina ironia, di cui si sarebbe accorto ogni altro il cui lume d'intelletto non fosse stato offuscato dalla vanità, sedusse l'animo del giovanotto, il quale rispose con volto meno burbanzoso: — Si segga, signor Abate. Padre Ambrogio si sedè dirimpetto a Daniele. — Il motivo che qui mi mena, riprese quegli, è sì grave, o signore, ch'io non ho temuto commettere un'indiscrezione per adempire ad un dovere altissimo del mio ministero. — Di che si tratta? chiese il giovine chinando gli occhi. — Si tratta che io promisi a Giacomo Fritzheim, poco prima della sua morte, di avere pei suoi figli l'affetto e le cure di un padre; ed io _non manco alle promesse_, signor Daniele. — Me ne compiaccio infinitamente, disse questi ferito alquanto dalle ultime parole del prete. — Or dunque, signor Daniele, la sorte di Lucia mi commuove profondamente. Dal dì della morte del padre la tapinella è in preda ad una febbre nervosa che minaccia di voltarsi a male. La trista scena ch'ebbe luogo pochi istanti pria che spirasse il buon Giacomo e le costui ultime parole le cagionarono un delirio violento che per buona ventura è cessato, lasciandole impertanto nel capo una confusione spaventevole per la sua ragione. E voi l'avete abbandonata, signor Daniele, mentre una vostra parola avrebbe gittato in quel cuore la speranza e la vita? Voi l'avete abbandonata appunto allora che suo padre l'abbandonava, da Dio chiamato, come spero, alla gloria celeste, e allora che un dubbio crudele su i vostri sentimenti lacerava l'animo di quella infelice! Voi avete, signor Daniele, deposto nelle mie mani un giuramento ed eravate libero di non profferirlo. Io non dubito che voi lo manterrete. Se, oltre la religione, l'amore non ve ne fa una legge l'onore vel comanda; voi siete un gentiluomo, l'onore è sacro per voi... Venite adunque, venite a rassicurare quella misera, venite a spargere su quel povero cuore una goccia di balsamo: vel chieggo in nome di Dio, dell'onore, dell'umanità. Daniele, senza dar segno di minima commozione, suonò un campanello d'oro che aveva a distanza di mano, e al domestico che si presentò sul limitar della porta disse in lingua francese, perocchè francese era il domestico: — Non è venuto questa mattina alle nove il Marchesino? — No, signore. — Va bene. Come sta il mio cavallo? — Sta meglio, signorino; ieri ha camminato un poco e parea che più non zoppicasse. — Avete fatto accomodare il fusto della sella? — Signorsì. — E gli staffili? — Nuovi, signore, al tutto nuovi, perchè il cuoio era consumato ai vecchi. — Bene; e le sguance? — Tutto a nuovo, signore. — Benissimo; accendete un candelotto pel sigaro. Eccomi a voi, signor Abate, riprese con massima freddezza l'insolente trovatello; scusate se vi ho interrotto.. Voi dunque dicevate che... E Daniele accendevasi il sigaro, come se si fosse trattato della più indifferente conversazione. Una lagrima spuntò sulle ciglia del sacerdote. Tanta perversità di animo superava qualunque antiveggenza. — Veggo che il vostro cavallo vi sta più a cuore che la povera Lucia, signore. Non ho più a dirvi che una sola parola: Dio salverà Lucia e le darà la forza di strapparsi dal cuore una passione cotanto infelice; ma Dio confonde anche i perversi, e guai... guai all'uomo che si fa giuoco della vita del suo simile! Padre Ambrogio si alzò... Non mai questo venerabil servo del Signore era stato visto così commosso ed agitato; il suo volto era pallido, i suoi occhi bagnati di lagrime. — Non voglio esservi più importuno, o signore; io vado via, ritorno presso quella sventurata che considero come mia figlia. Ah! voi non potete comprendere quello che ora soffre il mio cuore. Avea sperato ritornare presso quella buona creatura arrecandole una parola di speranza e di conforto; io le avea promesso di ritornar con voi... Con quale ansia non mi aspetterà la misera? E dovrò dirle che Daniele, l'amor suo, la sua vita, più non è per lei! Che ogni speranza è finita! Ah signore, ripeto, che voi non potete, comprendere quel che soffre al presente questo mio cuore!... Padre Ambrogio piangeva... Daniele non avea cessato di fumare con una placidezza spaventevole. — Voi siete un uomo eccellente, signor Abate, si fece indi a dire intermezzando frequenti buffi di fumo tra le sue parole; e mi dispiace che prendiate sì viva premura di questo _affare_, cui penserò io di _rimediare_ al miglior modo. Vi sono talune _circostanze_, taluni _riguardi_ che mi impediscono per ora di sposar Lucia. Ho _promesso_ di sposarla tra un anno... e si vedrà... ma, pel suo meglio crederei che si acconciasse a dismettere questa idea; anzi voi, sig. Abate, cercate di persuaderla a non più pensarci: sono cose da fanciulli, sono parole che si scambiano alla prima età. Vi assicuro che se avessi saputo che tanto in sul serio quella giovinetta avesse preso le cose, mi sarei astenuto di corrisponderle... Con tutto ciò, io son sicuro che ella mi dimenticherà col tempo, si sanno le arti delle donne, convulsioni, malattie, stiramenti di cuore; lagrime, e poi finiscono con adattarsi ad altri amanti. Lucia farà lo stesso, siatene certo: io me ne intendo un poco in materia di donne: le donne e la musica sono state la mia passione... Persuadetevi, sig. Abate, che nulla di più vero del proverbio: _L'amore fa passare il tempo, e il tempo fa passar l'amore_... Io le voglio del bene a Lucia, e le farò del bene sempre che potrò... Ma, in quanto a matrimonio, non è possibile. Io sono slanciato nel mondo, frequento la miglior società di Napoli, e un matrimonio _ignobile_ mi ruinerebbe nei miei _affari_... Questa società in cui viviamo è così _esigente_! Beato voi, signor Abate, che non ci siete in contatto! Se sapeste quello che vi si soffre! I sacrificii che si fanno per conservarsi in una certa _sfera_ di riputazione... Io lo so, per mia mala ventura, che sono tanto ricercato e da pertutto! Qui Daniele si alzò e riprese, quasi per accomiatare il sacerdote: — Ritornate adunque da lei, e ditele da parte mia che non mi dimenticherò di lei, che verrò a trovarla non sì tosto le mie faccende mel permetteranno, e che faccia capitale di me in ogni emergenza; ma sopratutto fatele ben comprendere, signor Abate, che _provvegga ai suoi casi_ il meglio che può, che non rifiuti, per me, qualche altro partito _a lei più conveniente e più adatto_, e che io sarò pienamente felice quando saprò ch'ella è del pari felice con un compagno più degno di lei... A rivederci adunque, Padre Ambrogio, non posso goder più a lungo della vostra compagnia, stante che le mie faccende mi chiamano altrove. Daniele fece un leggiero inchino di testa e si inoltrò verso l'uscio, come per indicarne il cammino a Padre Ambrogio, il quale, senza più aggiungere una parola, profondamente addolorato si partia di quella casa per tornare colà dove LA CARITÀ il chiamava a tergere le lagrime di una misera famiglia e a pianger con essa. Parte Seconda I. EMMA Lasciando per poco la sventurata famiglia dello stradiere, inoltriamoci in quella vita rumorosa, gaia, splendida di movimento, di cerimonie, di convenienze e di piaceri che si addimanda la vita del gran mondo. Che cosa è la vita del gran mondo? È un circolo matematico dentro il quale si aggira quella porzione della società che sembra straniera al retaggio di miserie lasciato all'uman genere dalla colpa de' primi genitori. In questo circolo segnato dalla verga di quella fata che ha nome civiltà non è ammesso chiunque è sottoposto alla dura legge del lavoro, perciocchè la sola fatica che vi si sopporta, che vi si tollera è il piacere. Fiori, profumi, dolcezze, canti, seta, oro, squisitezze di ogni maniera, allettamenti di ogni sorta sono gli elementi vitali dell'atmosfera di questa vita del gran mondo, siccome l'azoto e l'ossigeno sono gli elementi respirabili della vita comune. Qui nulla troverete che non sia strettamente sottoposto a un codice severo che ha un milione di leggi ignote al volgo, e che costituisce in gran parte la scienza della vita del gran mondo; qui il linguaggio non ha niente di comune con le ordinarie favelle; tutto riceve denominazioni particolari, epiteti e aggiunti di nuovo conio: tutto in somma portar debbe l'approvazione e l'impronta di quella dispotica dea del gran mondo che si chiama la _Moda_. Non si dimanda se in Napoli, in questa regina del Mediterraneo, in questa incantevole villa del mondo, dove tutto respira il piacere, dove l'aria è profumo, dove il cielo è un sorriso, dove l'inverno è la stagione dei fiori, dove ogni voce è un canto, e ogni canto un'armonia, non si dimanda se in Napoli la vita del gran mondo è brillante e animata al pari di quella delle altre capitali di Europa. Aggiungi che la nobiltà napolitana alla perfetta cognizione delle leggi dell'alta società accoppia un gusto squisitissimo per le lettere e per le arti, che essa coltiva ed incoraggia splendidamente: e questo delicato gusto per le arti ravvicina l'aristocrazia del merito a quella della nascita e delle ricchezze, sì che le porte dorate dei grandi non sono chiuse all'artista, che si ebbe in retaggio l'ispirazione ed il genio. D'altra parte, la vita del gran mondo è dappertutto la stessa; le sue leggi, i suoi usi, i suoi pregiudizii sono dappertutto presso che i medesimi in Europa. La casa del Duca di Gonzalvo era nell'anno 1826 la più rinomata per isplendidezza di servizio; per l'eleganza e pel fasto del suo trattamento, per le persone che la frequentavano. Il duca di Gonzalvo, discendente d'illustre lignaggio e di una delle primarie famiglie nobili di Andalusia, abitava da parecchi anni in Napoli. Egli era stato per molto tempo governatore o capo politico di quella bella provincia delle Spagne, quando la rivoluzione del 1820 il toglieva da quel posto eminente, accusandolo di troppo attaccamento ai principi della pura monarchia ed alle gloriose tradizioni di quel governo che per tanti secoli avea formata la grandezza, la felicità e la possanza dell'iberica penisola e dei suoi estesi domini transatlantici. Il Duca Gonzalvo, sbalzato dal potere, e già tristo per gravissima sventura di famiglia, non soffrì di più rimanere in un paese, nel quale infinite e amare memorie lo avrebbero assalito ad ogni momento: ondechè fermò di abbandonare la Spagna, e trasferirsi colla famiglia in Napoli, dove risiedevano alcuni suoi larghi parenti, e dove l'amenità del clima, la salubrità dell'aria e la bontà degli abitanti lo invitavano a stabilirsi. Il Duca di Gonzalvo era un uomo in su i cinquant'anni, ma non ne addimostrava più di quaranta, sendone la persona alta, complessa e ben formata: i capelli eran tuttavia nerissimi e ricciuti siccome i baffi e il pizzo ch'ei portava lunghissimi e puntuti alla maniera spagnuola. La sua carnagione era bruna, belle le fattezze del volto; e la sua andatura avea qualche cosa di maestoso e d'autorevole. Sempre serio, misurato e cerimonioso era il suo linguaggio, in cui nondimeno trapelava sempre quell'alterigia, che forma il fondo del carattere spagnuolo. Gli avvenimenti politici del suo paese non meno che le disgrazie della sua famiglia avean lasciato nel suo temperamento una certa soverchia bile, per cui sovente era soggetto a moti irrefrenabili d'ira: allora quel suo bruno volto diveniva di brace, quei suoi occhi neri schizzavan fuoco, e quell'uomo avea tutta l'ardenza della giovinezza congiunta alla forza della virilità. La famiglia del Duca di Gonzalvo si componea della moglie; donna di cuore compassionevole a' miseri ma estremamente altiera e severa in sul capitolo della nobiltà. Questa donna aveva ereditato dal padre ingenti ricchezze, possessioni senza fine, di cui gran parte avea formato la sua dote: il superbo castello moresco di Santiago nell'Andalusia era proprietà di lei co' titoli e privilegi annessi. La _Senora Duquesa Isabel de Gonzalvo y Monreal-Santiago_ avea toccato i 55 anni. Sebbene macerata dal cordoglio di veder tolto dal potere il consorte, ella potea dirsi ancor bella, essendosi la sua lunga capellatura conservata ancora intatta dalle ingiurie del tempo, e i suoi occhi non avendo affatto perduta quella vivacità e quella espressione che aveano tanti cuori umiliato. Or tutto l'orgoglio di questa donna era riposto nell'unica figliuola, erede d'immense dovizie, in Emma bellezza singolare, di cui ci studieremo di adombrare, per quanto è possibile, il ritratto. Questa giovinetta, cui vent'anni appena infioravano la vita, era una di quelle bellezze che non si trovano tranne che sotto il cielo della Spagna, ed in ispezialità nell'Andalusia; bellezze vigorose, spiranti tempestose passioni, bellezze che sconvolgono subitamente la ragione a chiunque per la prima fiata le contempla: l'incanto è negli occhi loro; fiamma d'amore son le loro labbra; il comando è stampato sulla loro fronte. Come faremo a dipingere Emma colle parole ordinarie? In quale lingua troveremo le immagini equivalenti per farla raffigurare ai nostri lettori? Oh se eglino la vedessero siccome la veggiamo noi! Ci sentiamo palpitare il cuore in parlandone, tremar la penna scrivendone, vorremmo che le febbrili sensazioni che l'immagine di questa donna ci desta, passassero tutte quante ne' nostri lettori, per vie più svegliare in essi la simpatia per questo personaggio della nostra storia. Emma era il tipo della bellezza andalusa: carnagione e colori di miniatura, occhi di lustrino splendidissimo, sguardo elettrico, sopracciglia di velluto, labbra alquanto larghette, bottoni di rosa orientale, denti di una bianchezza abbagliante, sorriso di baiadera, lunghe le chiome e di un ebano fulgidissimo, cui ella solea portare divise e scinte dietro gli orecchi, ovvero raggomitolate in grandi giri sulla coppa del capo. Ma siffatti particolari del volto di Emma erano un nulla a paragone delle fattezze del suo corpo, modello di grazia, di avvenenza, di proporzioni; era nel complesso delle sue fattezze qualche cosa che sospingeva a riguardarla in estasi di simpatia. Se ella affissava qualcuno, lo sguardo di lei lasciava un incendio nel cervello di chi ella avea guardato, siccome interviene allora che si dirizzano gli occhi al sole, che lascia nel capo del riguardante una confusione spaventevole di luce e di colori. Ella avea certe maniere di volgere il capo, di chinar le lunghe ciglia, di fissare obliquamente quegli occhi di odalisca, avea certe maniere di movimenti, di gesti, ch'erano una grazia singolare; ci era da smarrire il senno. Qual'era il carattere morale di questa donzella? Ah! Perchè non possiam dire di lei quel che dicevano di Lucia, buona, semplice, modesta, riserbatissima con tutto che sensibilissima! Emma era nel morale quel che può essere una donna sì ben favorita dal cielo in dono di bellezza. Ella era così bella, così ricca, così giovane, fornita a dovizia degli appannaggi della più compiuta educazione! Quale altro sentimento potea dominare in lei, all'infuora d'un amore ardentissimo di sè medesima? Farfalla dalle ali dorate, ella svolazzava libera, leggiera, spensierata e felice in su i fiori della vita, di cui non conosceva altro che le delizie e quella specie di cara languidezza che tien dietro a' piaceri. Unica figliuola, ella era idolatrata da' suoi genitori, i quali non avevano altra volontà che la sua, altro amore che di lei, altri pensieri che per lei, di cui andavano superbi più che di tutte le loro ricchezze e possedimenti. Le undici battevano ad un magnifico orologio da mensola, allora che Emma si alzava dal suo letto verginale. Due bellissime stanze nel quartiere del palazzo S..... erano destinate esclusivamente a lei; una serviva per sua camera da letto e l'altra per stanza di abbigliamento. Due cameriere, una napolitana e l'altra francese, erano addette a servir lei particolarmente. Non trascuriamo di dire che Emma parlava colla stessa faciltà lo spagnuolo, l'italiano e il francese: il suo accento straniero, la sua voce nervosa, il modo di parlare a tratti e con cadenze aveano tali incanti e tal prestigio che non si poteva ascoltarla senza esserne preso. In parlando l'italiano o il francese, ella faceva sentire quella graziosa lievissima sibilazione del ce ci spagnuoli: il che aggiungea vaghezza estrema al suo discorso. Ogni dì, non si tosto svegliata e tuttora in letto, Emma tirava la cordicina di un campanello, e subitamente le si affacciava una delle due cameriere. La giovinetta si facea dare i giornali di moda, i nuovi romanzi, le lettere delle sue amiche, la grammatica di lingua inglese ch'ella studiava, e mezz'ora o poco più trascorrer facea in simiglianti occupazioni. Prima della colezione, ella andava ad abbracciare suo padre e sua madre, e dopo, la musica assorbiva gran parte della sua mattinata. Ella si era vestita con incantevole semplicità, e, l'ora della lezione di musica avvicinandosi, era ita nel salotto contiguo al gran salone da ballo per ripassare sul piano-forte una ballata nazionale spagnuola. Era un canto curioso, strano, ma ripieno di vita e di brio: la ballata era così concepita: Anche franja de velludo En la terciada mantilla; Aire recio, gesto crudo, Soberana pantorrilla: Alma atroz, sal espanola; Alza, ola; Vale un mundo mi manola! Con primor se calza el piè Digno de regio tapiz; Con un dulce no sè què En aquella cicatriz Que tiene junto a la jola; Alza, ola, Vale un mundo mi manola! Que calidad! y como cruje Se baila jota o fandango; Y que aire en cada empuje Y que gloria de remango! A la mas leve cabriola Alza, ola; Vale un mundo mi manola; Non aveva Emma terminato di ripassare questa ballata, quando le fu annunziato il suo maestro, Daniele entrava nel salotto. II. LA LEZIONE Il giovine era vestito nella più elegante maniera; il gusto più fino avea dettato la norma del suo abbigliamento, il quale non usciva però dalla più stretta semplicità. Entrando nel salotto dov'era quella incantevol creatura, Daniele rabbruscò la fronte e raggrottò le ciglia, dappoichè Emma non si era, secondo il solito, levata d'in su la sedia per andarlo a ricevere; la giovinetta pareva assorta interamente nello studio di quella ballata spagnuola. — Buon giorno, maestro, gli disse, io vi aspettava con impazienza; non so se io abbia indovinato questo ritornello ch'è assai gentile ma difficile. — Vediamo, Duchessina, a voi nulla può esser difficile. — Davvero vi dico che non raggiungerò mai la semplicità e la grazia di questo canto; ho paura che nol canterò sabato alla serata di Lady Boston. — In questo caso io mi attirerei l'odio e l'animosità di tutti, Duchessina, perocchè a me si attribuirebbe la colpa di non avervi fatto cantare questa ballata. — Vi assicuro che non la canterei se non avessi ciò promesso a tutte le mie amiche. — Ed al Visconte di Boisrouge, Duchessina, soggiunse cupamente Daniele, affisando i suoi occhi torbidi in volto alla giovinetta. — Ebbene, sì, vel confesso; anche a costui l'ho promesso: sapete che questi è uno dei miei ammiratori, disse ridendo la fanciulla, mostrando quei due filari di denti nivei ed ugualissimi. — Ammiratore! Duchessina, e chi non è vostro ammiratore? Dategli piuttosto un altro titolo. — E quale? — Quello di vostro amante. — Gli è vero, rispose Emma, e dei più noiosi. — Non tanto, Duchessina; mi permetto di ricordarvi che lunedì sera alla festa di Madama A.... voi cantaste con tanta espressione con lui il duetto del _Tancredi_, che tutti invidiarono la sorte del Visconte... — Oh! ben sapete che io cerco sempre di porre un poco di anima in quello che canto; non posso vincere il mio temperamento. D'altra parte, quel duetto è tanto bello! — Io lo detesto, Duchessina. — Lo detestate! e perchè? — Non so, lo detesto tanto che ho giurato di non più accompagnarne il canto in qualsivoglia riunione. — Eppure, voi medesimo mi diceste che quel duetto vi piaceva estremamente, e foste voi, se ben ricordate, che mel faceste imparare. — Oh, Duchessina, se io avessi supposto che... — Che cosa, maestro? — Non so, volea dire che... che... io detesto quel duetto da lunedì sera. Daniele abbassò gli occhi: sul suo volto era apparsa una leggiera tinta di vermiglio. Emma finse di non comprendere la significazione di quelle parole e trasse a caso un accordo dalla tastiera. — Volete aver la bontà di riascoltar questo pezzo? — Io vi ascolto, Duchessina. Emma cominciò a cantare la ballata spagnuola. Era nella voce della giovinetta un tale incanto, una tale voluttà che avrebbe sconvolta la ragione del più freddo uditore: avea certe corde che andavano a toccare il fondo del cuore, e rimescolarvi le passioni: avea certi tuoni di contralto, certe modulazioni, certe cadenze che avrebbero fatto cader un teatro per gli applausi, se quella donna fosse stata artista. Quella voce, quell'accento, quel canto ti mettevano il fremito in tutte le fibre del corpo, ti faceano impallidire per tempesta di commozioni. Non sappiam dire quello che accadeva nel cuor di Daniele in udendo cantare quella ballata. Senza dire della divorante passione che lo struggeva per quella fanciulla e gli mettea la febbre nei polsi ogni qual volta l'udiva semplicemente a parlare, egli provava un sentimento indefinibile tutte le fiate che udiva parole spagnuole. Egli stesso non sapea rendersi di ciò ragione, ma era un nembo di rimembranze indistinte, un sogno lontano che gli si riaffacciava alla mente, un altro cielo, un'altra terra ch'ei vedeva attraverso confuse immagini: era forse la lingua che in culla egli udiva susurrarglisi all'orecchio, e che forse ei medesimo balbettava quando era bambinetto di due in tre anni. Certo si è che quel canto e le parole di quella lingua facevano sull'animo di Daniele tale impressione ch'ei si sentiva toccare il cervello e diventar pazzo. Aggiugni che nel cumulo delle ricordanze velatissime che gli si presentavano al pensiero, ei vedeva una casa splendidissima e tanti vaghi oggetti che non giungeva a distinguere: tra l'altro, raffigurava in mezzo alla sua memoria una donna bellissima che sempre il baciava, e che gli diceva appunto tante cose in quella lingua che or egli ritrovava sulle labbra di quella bella creatura, che gli sedeva allato. E quando Emma ebbe terminato di cantare, Daniele rimaneva tuttavia nella immobilità di statua, assorto in una sola idea che gli dava rovello e che il faceva uscir di senno. Egli pensava... pensava che forse egli era nato RICCO E NOBILE! — Ebbene, maestro, non avete nulla da osservare, nulla da correggere nel modo di cantare questa ballata? chiesegli Emma. — Nulla, Duchessina. Quando io vi ascolto, io non sono più su questa terra, il sapete. L'arte sterile e pedante è fulminata dal vostro genio. Quando io vi ascolto non sono più vostro maestro, ma vostro ammiratore. — Voi mi lusingate troppo, maestro; ho paura che non mi guastiate. — Ed io vi guasterei davvero se facessi la minima pedantesca osservazione a quello che avete cantato. Noi abbiamo cambiato le nostre parti, Duchessina; voi siete che insegnate ed io che apprendo. Se sapeste quante ascose bellezze artistiche mi rivela il vostro canto! Non vi parlo dell'impressione che in me produce, di quello che io sento... Duchessina, io sarò costretto di rinunziare al piacere di udirvi. — Che vuol dir questo? domandò la giovinetta abbassando quelle sue lunghe ciglia. — Vuol dire che star vicino a voi un'ora o due, qui, in questo salotto, colla mia sedia così vicina alla vostra, vedervi così dappresso, gustare io solo la immensa delizia di sentirvi a cantare, trattenermi con voi da solo a solo, udir le vostre parole, guardare i vostri occhi... è troppo crudel prova pel mio povero cuore... nol posso, no, Duchessina... Mille altri invidiano la mia sorte, eppure io sono più infelice assai di loro tutti... Perdonate, l'ardita franchezza del mio linguaggio, e compatite ai mali che voi fate. — Non v'intendo, signore. Non è la vostra professione quella di maestro di musica? Non sono io la vostra discepola? Non debbo al vostro merito impareggiabile quel poco che so? In quanto all'effetto che produce in voi il mio canto, siccome voi dite, l'attribuisco alla bella tempera dell'animo vostro si ben formato. D'altra parte, è vero che il canto suol produrre di strani effetti sul cuore degl'innamorati. Daniele fece un balzo in sulla sedia, trasalì, si scolorò, ed indi il suo volto diventò fiamma ardentissima. — Che! Duchessina, balbettò egli, avreste voi letto nell'anima mia? — Non propriamente, nell'anima vostra, rispose sorridendo la giovinetta, ma qualche cosa ho indovinato da questo biglietto che vi consegno. Ieri sera voi non veniste alla nostra conversazione, e ieri sera appunto avreste trovato qui qualche cosa che vi avrebbe fatto estremo piacere. Or bene, eccovi il biglietto; via, non arrossite; è così naturale alla vostra età il far l'amore! Emma traeva dal seno una carta piegata in forma di lettera e la consegnava all'attonito giovine, il quale vi gittò con ambasciosa avidità gli occhi e lesse sulla sopraccarta: DANIELE DE' RIMINI — DA LUCIA FRITZHEIM. Daniele impallidì: le sue labbra s'imbiancarono come quelle di un morto, e rimase lungo tempo con quella lettera in mano senza sapersi risolvere ad aprirla. Egli era atterrato! Avea fatto tanto per nascondere ad Emma i suoi amori con Lucia, per tema che non le fosse giunta all'orecchio la bassa sua origine! — Ebbene, maestro, a che pensate adesso? Non vi affrettate a leggere quello che vi scrive la vostra bella? Ora su, andiamo, ve ne dò il permesso. — Duchessina, rispose con rauca voce il giovine mal nascondendo il turbamento e l'ira ond'era preso, permettete ch'io vi dica esservi di gran lunga ingannata nelle vostre supposizioni. Questa donna che mi scrive, questa donna che voi credete mia innamorata, non è che una avventuriera.... una straniera ch'io ho conosciuta per casualità; il suo cognome v'indica che essa non appartiene a questo paese. Io non so come abbia avuto l'ardire di scrivermi dopo che l'ho dispregiata, dopo che non ho voluto cadere nei lacci delle sue seduzioni.... Ma già conosco quello che questa donna mi chiede, Duchessina. Non è amore quel che questa disgraziata mi chiede, ma sibbene del pane... del pane. Ciò dicendo, l'infame trovatello intascava la lettera senza neppure dischiuderla, per tema che ad Emma non fosse nata la curiosità di gittarvi lo sguardo. — In questo caso vi chieggo scusa, maestro che una tal donna fosse vostra innamorata. Vi assicuro che mi dispiace di essermi ingannata: non so perchè, ma quel nome avea destato in me una certa simpatia, anche perchè mi si disse ieri sera che un fanciullo di circa dieci anni in undici anni avea recata quella lettera. Il poveretto era stato dapprima alla vostra abitazione alla _Riviera di Chiaia_, dove gli avean detto che forse vi avrebbero trovato qui. La mia cameriera soggiunse che quel miserello si pose a piangere quando seppe che non eravate qui; sembrava afflittissimo e stanco a morte, perocchè avea fatto cammino a piedi, e diceva di esser partito nientemeno che da una strada lontana lontana; se ben mi ricordo, da _S. Maria degli Angeli alle croci_ vicino al Real Albergo dei poveri! Queste ultime parole agghiacciarono il cuore di Daniele. Emma sapeva ormai la dimora di Lucia! Un'orma era segnata per discoprire il tutto! Daniele si morse le labbra: i suoi occhi gittavano veleno di collera. — Intrighi, bugie, Duchessina: nulla di vero di quanto asserì quel fanciullo, al quale era stata forse insegnata una parte per commuover la gente di questa casa e carpirvi del danaro. Bricconi di pitocchi! Ei bisogna far cacciare dai vostri servi quel fanciullo, se si presenta di bel nuovo o qualunque altro venga in nome di questa intrigante avventuriera; i loro piedi brutterebbero la vostra casa; le loro parole contaminerebbero gli orecchi della vostra gente. Non mi arrecherebbe maraviglia se ardisse venir qui la stessa Lucia Fritzheim! Oh, Duchessina, ella ingannerebbe i più astuti. Se vedeste che sembiante d'innocenza! Che modi ingenui propri di un cuor gentile e virtuoso! Ma or siete avvertita, e non darete nella pania, siccome non vi cascheranno i vostri servi. Ma che dico! Ei bisogna, vi ripeto, ei bisogna far cacciare costoro senz'ascoltarli! Oh se vostro padre o vostra madre sapessero che donna è cotesta Lucia Fritzheim, non saprebbero abbastanza rammaricarsi che voi abbiate conservato un suo biglietto. — Ma io ignorava tutto ciò, disse la fanciulla vagamente colorandosi di rosso nel volto. — Abbastanza ci siamo occupati di questa sciagurata. Che il suo nome non contamini più le vostre labbra, Duchessina, fatemi l'onore di credere che nè il cuore nè il mio pensiero scendono tanto giù. Sul sembiante di Daniele eran dipinti il dispetto, la collera, il livore. Emma credette scorgervi un sentimento di giusto sdegno. — Dite bene, maestro, non parliamo più di ciò. Non potete credere come mi fa male il sentir certe cose. Oh che brutta cosa è la menzogna, l'ipocrisia, il tradimento! Daniele stravolse gli occhi come se avesse avuto sul capo un colpo di mazza. Per buona ventura, Emma nol guardò in quel momento, dappoichè avea di bel nuovo spiegato sul leggio del piano-forte la prima pagina della ballata spagnuola. — Voi dunque, maestro, m'incoraggiate a cantare questa ballata sabato sera da Lady Boston? — Se v'incoraggio, Duchessina! Che cosa volete ch'io vi dica? Voi la canterete, se vi piace, e se l'avete promesso a quella ragunata e al visconte di Boisrouge; voi la canterete, e farete impazzare tutti quei signori. Ma per me, voi lo sapete; io vorrei che voi non cantaste giammai nelle ragunate... Io sono geloso, Duchessina. — Geloso! esclamò la giovinetta sorridendo. — Sì, geloso; o per dir meglio, egoista. Vorrei sentirvi io solo; vorrei che nessuno altro provasse quella gioia ch'io provo nell'ascoltarvi. Io so bene, Emma, che nessuno può in quei momenti sentir quello che sento io; ma pure, allora che gitto uno sguardo sul circolo de' vostri uditori, e veggo i loro volti infiammati, i loro occhi scintillanti, e indovino i palpiti dei loro cuori, a me pare che tutti debbano adorarvi siccome... siccome si adorano gli angioli come voi. Daniele non disse _siccome vi adoro io_, ma Emma il comprese e sorrise. Da molto tempo la giovinetta si era accorta dell'amore di Daniele per lei, e ne gioiva. Daniele era per lei una _vittima_ ch'ella attaccava al carro dei suoi continui trionfi, e cui si compiaceva di turbare. — Sempre cortese e galante è il vostro linguaggio maestro. Se non sapessi che siete sincero, vi crederei adulatore... Dopo qualche momento di silenzio, Emma riprese: — Avrò un bel coraggio sabato sera per pormi a cantare. Sapete chi canterà da Lady Boston? — Chiunque altro non potrà che sfigurare al vostro paragone. — Anche se quest'altro o quest'altra fosse la signora Pasta? — Ebbene, anche la signora Pasta non potrebbe che stare in seconda riga a petto vostro, Duchessina. — Oh! oh! convenite che questo è troppo. La signora Pasta è la prima cantante che oggi sia in Italia. — Non niego il suo merito, ma guai a lei, vi ripeto, se voi calcaste le scene per una sola sera! — Tregua ai complimenti, signor maestro, e permettete ch'io vi dimandi che cosa canterete voi: ricordatevi che sabato scorso prometteste di farvi udire, e sarebbe scortesia il mancare. — Io non mancherò; ho promesso di cantare... e canterò per la prima volta in casa di Lady Boston. — Vi hanno ammirato come esimio suonatore; avranno l'agio di ammirarvi come esimio cantante. Che pezzo canterete? — Un pezzo di mio componimento: farete le grandi meraviglie se vi dirò che anch'io ho composto le parole di questo pezzo. — Davvero! sclamò la giovinetta, ecco che ogni giorno discopro in voi nuovi pregi e novelle doti; non sapevo che foste anche poeta. — Duchessina, quando si ha nel cuore una profonda passione, si diviene poeta senza volerlo. Emma chinò gli occhi sulla tastiera; e, fingendo spensieratezza, soggiunse: — Ed è una romanza quella che avete composta? — Non so quello che è; soltanto so che le parole e la musica sono esalate dalla profondità dell'anima mia. — Avete almeno dato un titolo a questo vostro componimento? — Sì, Duchessina, il titolo è, _Un colpevole amore_. — Perchè _colpevole_? dimandò la fanciulla. — Perchè è colpa in me l'amore; ei mi fa d'uopo idolatrare. Emma si alzò e sorridendo disse a Daniele: — Sedetevi qui, signor maestro, e fatemi udire il vostro _colpevole amore_. Il giovine si sentì profondamente umiliato da questa specie di sottile e beffarda ironia. — Non posso, Duchessina: in questo momento ci è troppa differenza e troppa distanza tra le nostre anime perchè voi possiate appieno gustare il mio componimento; l'anima mia è trista, assai trista, e la vostra è gaia, sorridente, felice. Non pertanto, poichè lo volete, io canterò, vi farò sentire il mio componimento e aspetterò dal vostro labbro la mia sentenza... cioè se potrò arrischiarmi a cantarlo da Lady Boston. Daniele si sedè al piano-forte e cantò la seguente romanza: Ah non mai, non mai saprete Del mio amor qual'è l'oggetto, Se anche un regno mi darete, Non sarà ch'io v'apra il cor. Resterà sepolto in petto Il segreto del mio amor. Muto il labbro non si affida Rivelar la fiamma ascosa; Sia ch'io pianga, sia ch'io rida, Chiuso è a tutti il mio penar; Chè a se stesso il cor non osa La sua colpa confessar. Se colei che m'innamora Semplicetta a me sorride, Il mio volto si scolora, E l'incendio in me si fa; Ma l'arcano che mi uccide Ella stessa ignorerà. Come è nato l'amor mio, Quale ha speme non so dire; Ardentissimo un desio Sol mi va rodendo il sen. Ah potessi nel morire Quanto io l'amo dirle almen! Daniele avea cantata questa romanza con tale accento di disperata passione che Emma non potè nascondere il suo turbamento. Il giovine avea una bellissima voce di baritono, al che si aggiungeva un modo di cantare così perfetto e tant'arte che il suo canto innamorava. Pensate quale e quanta espressione fu da lui posta questa fiata nel pezzo di musica, in cui ritratto avea le sofferenze del proprio cuore. — Magnifico! sublime! esclamò la fanciulla; voi sarete l'eroe della serata di sabato; ma badate che tutti useranno l'indiscrezione di chiedervi il nome dell'oggetto da voi amato. — Indarno il chiederanno, Duchessina. — Ebbene, maestro, ditemi la sola lettera iniziale del suo nome; ditela a me sola, vi prometto che non la paleserò a nessuno. — Che mi chiedete, Duchessina! — La sola lettera iniziale; pensate ch'egli è impossibile conoscere un nome da una lettera. — Ebbene, io vi dirò una lettera del suo nome e vel lascerò indovinare; ma allora peserà su voi la responsabilità del mio segreto discoperto. — Dite dunque. Daniele trasse di tasca una piccola matita e con mano tremante segnò sulla carta di musica della sua romanza la lettera M. Ah! indovino, esclamò l'astuta giovinetta per torturare l'amante, e quasi che non avesse compreso che questa M era tutto il proprio nome; indovino di che si tratta; voi amate _Lady Maria Boston_: avete ragione di aver intitolato la vostra romanza _un colpevole amore_, perchè questa donna è maritata. Daniele pallidissimo e turbato stava per rispondere quando sì presentò nel salotto la Duchessa di Gonzalvo madre di Emma. La lezione cessò, e la conversazione si aggirò su cose indifferenti. III. DUE AMICI DI DANIELE Daniele tornando a casa era in uno stato che facea paura; si sentiva umiliato agli occhi suoi stessi in quella specie d'indifferenza con cui era trattato da Emma: il suo amor proprio, la sua vanità, la sua passione, tutto era ferito, ulcerato nell'anima sua — Durante il cammino dal palazzo S.... alla _Riviera di Chiaia_, parea demente, parlava solo, urtava tutti, prendeva una strada per un'altra. — Questo tormento non può durare, diceva tra sè stralunando gli occhi e gesteggiando come un attore che reciti un monologo violento — no, non può durare; io mi ucciderò se Emma non corrisponderà al mio amore. Bisogna ch'io me le dichiari apertamente.... Allora vedremo, se potrà sfuggire destramente alle mie dichiarazioni.... Se ella è ricca, nol potrò anche io diventare? Non è questa l'ardente speranza della mia vita? Non gitto sudori, non mi ammazzo forse per acquistare un po' d'oro? D'altra parte, che bisogno ha ella di sposare un ricco, quando ha tante ricchezze? La sua mano farà ricco l'uomo ch'ella sposerà. La sua nobiltà! Ecco... ecco l'ostacolo di ferro, impossibile a sormontare... Eppure, chi sa! se io giungessi ad innamorarla di me; se ella mi amasse, i suoi genitori farebbero la volontà di lei... Potrei sperare... Oh! perchè ho conosciuto questa donna? La mia salute deteriora ogni giorno: ho abbandonato tutti i miei amici, tutte quelle famiglie che avrebbero potuto essermi utili.... Non è possibile ch'io viva più con tal serpe nell'anima; bisogna finirla; o Emma sarà mia o io mi ucciderò o ucciderò lei, perocchè non potrei sopportar l'idea che un altro la possedesse!... No, non è possibile che io mi strugga a tal modo; io le aprirò tutto il mio cuore, mi getterò alle sue ginocchia, implorerò l'amor suo e la pregherò che mi dia la morte. Così parlando il forsennato era giunto alla sua abitazione. Nell'entrar che fece nel suo salottino, trovò sdraiati presso il camminetto il Marchesino Gustavo che leggeva, e un altro giovine suo amico, per nome Stefanello, anche di nobil famiglia. Daniele aveva invitato a pranzo questi due amici. — Oh, bravo, maestro! farsi aspettare un'ora, è proprio dell'ultima eleganza! disse il Marchesino, gittando le sue lunghe gambe sovra un'altra poltrona che gli stava di contro. — Perdono, amici miei, ho avuto impacci per le mani: ben sapete le seccature annesse alla mia professione. — Che hai? ti veggo in fronte una cera lunatica, alla Jacopo Ortis; che ti è accaduto? — Niente... propriamente niente; ho lavorato molto, sono stanco. — Non me la darai ad intendere, discolo di prima sfera, riprese il Marchesino, qui ci è sotto roba femminile... Un tradimento, eh? Buffoneria l'accuorarsi per le donne... Ma già, alla tua età si crede ancora a quelle pappolate di fedeltà, di costanza di amore eterno, di un tugurio ma con lui, e a tante altre graziose parole di questo conio, belle invenzioni del secolo passato, ma che ora sono rancide o uscite di moda come Madame Colbran... Ricordati che Femmina è cosa mobil per natura: Solca nelle onde, e nelle arene semina Chi pone sue speranze in cor di femina. Ecco per esempio, quando tu sei venuto, io stava leggendo questo vecchio fascicolo dell'_Utile Passatempo_[1]. Ascolta questo aneddotuccio; «Veniva consigliato un padre di aspettare che suo figlio fosse più saggio per dargli moglie. Il vostro consiglio, rispose, non mi pare troppo buono, poichè se mio figlio diventa saggio, temo che più non si abbia ad ammogliare». Mentre il Marchesino era intento a leggere, Daniele distratto e visibilmente contrariato dalle parole dei signorotti, andava lasciando in sul tondo del salottino quegli oggetti che soglionsi portare addosso nell'uscir di casa, come orologio, borsellino, denaro, portafogli, guanti ed altri simiglianti amminicoli di acconciatura. Il Marchesino Gustavo era un giovine d'un trent'anni o più, faccia comune e volgare, tagliata nel mezzo da due mustacchietti incerati, e terminata da un meschino gruppetto di peli in sul mento. Il suo vestito consisteva in un soprabito per mattino con altissimo bavero secondo la moda di quel tempo, in un corpetto di casimiro a corazza, in calzoni alla cosacca a righe. I suoi capelli eran folti e ricciuti. Essere della specie più comune, questo individuo non aveva altro pensiero, altra occupazione, altra cura che di _ammazzare il tempo_, secondo il linguaggio di simil razza di gente. Un buon pranzo o una buona cena era l'apogeo della sua poesia. Un poco più ci piace dilungarci sul ritratto di Stefanello, offrendo questi un tipo curioso ed una specialità sociale che è andata sempre più crescendo cogli anni e che ora ammorba la nostra società. Questo tipo terribile da' francesi chiamato _fat_, dagl'inglesi ironicamente _beau_, è una specie di serpe da' guanti bianchi che striscia su i mattoni incerati dei salotti. Non credete però ch'ei sia terribile pel fascino irresistibile dello sguardo, ma perchè morde leccando, e le sue morsicature sono sempre mortali: un'arma possente e omicida è per lui la parola. Entrate in una sala in cui sono molte dame e molti uomini, in cui si balli o si conversi, siete certo di trovare quest'essere sdraiato sovra i cuscini di un canapè, con una mano lisciante i ben composti capelli, e con l'altra ficcata oziosamente nella tasca del calzone: vicino a lui per lo più siede un altro della medesima pasta, e discorrono sbadigliando di donne e di amori, di conquiste fatte e da fare, di _buone fortune_ e di altre simiglianti materie. Quest'uomo innocentissimo di condotta è però da fuggire come un appestato, e da non ammettersi mai in propria casa: la sua smania è di credersi un Don Giovanni, un Lovelace, di tenersi un bel seduttore, mentre forse in vita sua non ebbe mai la buona ventura d'essere stato corrisposto in amore. Egli vi dirà spiattellatamente d'essere stato felice innamorato della vostra innamorata, e vel dirà con sogghigno amabile a fior di labbra, con una grazia tutta particolare, con una proprietà di vocaboli da trarre chiunque in inganno. Voi aggiusterete fede alle sue parole; andrete in furore contro la vostra bella, contro tutte le donne; giurerete di abbandonarla, di non più vederla, mentre quella poverina non avrà neanco guardato il nostro bellimbusto. Tutte le donne, niuna esclusa, appartengono di diritto a quest'uomo: egli le domina tutte, e la loro sorte dipende da una sua formidabile parola. Tapina di quella fanciulla che per caso si trova a fissar lo sguardo su lui per qualche momento: ella è pazzamente presa di lui; tutto il mondo in un attimo il saprà. Quest'essere è facile a riconoscersi tra mille; pochi peli in faccia, vista corta, capelli lunghi; il suo vestito è sempre ricercato alla moda, pieno di profumi. Suole egli eziandio portar sempre addosso un taccuino, nel quale sono rinchiuse una decina di letterine galanti ricevute da una decina di belle abbandonate da lui; non giureremmo che quelle letterine sono autografe, anzi nol vorremmo neppure asserire; egli le mostra continuamente ai suoi amici: in altra taschetta del portafogli stanno poi certi altri bigliettini di suo pugno e senza indirizzo, i quali egli tiene sempre pronti per valersene all'uopo. Quest'ente così futile perchè leggiero, e nello stesso tempo non meno pericoloso per la stessa leggerezza, dovrebb'essere bandito dal grembo della società come un disturbatore della domestica quiete ed un avvelenatore di cuori. Di tal natura per lo appunto era Stefanello. — Il Marchesino ha ragione, disse questi zufolando tra i denti un motivo del _Barbiere di Siviglia_; il sentimentalismo è fuor di moda, mio caro maestro; fa come fo io, gitto la scintilla dell'incendio e passa. Per essere amato dalle donne, è necessario disprezzarle; io conto mille conquiste ottenute solo con quest'arma possente del disprezzo. — Le vostre congetture sono erronee, amici, disse Daniele — il mio malumore non proviene da donne; non sono io un collegiale da rattristarmi per tanto. — E pure tu dimagrisci a vista come un innamorato morto, soggiunse il marchesino — non mangi più, non bevi più, non vieni più con noi alla Favorita la domenica. Che diascine ti coglie? — Non istò bene, amici miei, soffro coi nervi, ma spero di ricuperar ben presto la sanità ed il buon umore. Uno scoppio di risa accolse queste parole. — Ah! ah! soffre coi nervi! malattia alla moda, morbo generico e di _buon tuono_... — È probabile che soffra d'isterismo, riprese ridendo Stefanello. Daniele intanto avea lasciato sopra il canapè il suo piccolo mantello; e si era anch'egli gettato a sedere in mezzo a' suoi amici. Era in sul finir del mese di novembre. Il camminetto era acceso, perocchè il tempo era secco e freddo. Si aspettava che il pranzo fosse servito. — Scommetto che non hai udita la _Niobe_ di Pacini, disse il Marchesino agitando i pezzi di legno nel camminetto. — Oh! l'ho udita tre volte, rispose Daniele, e sempre con ugual piacere; è un'opera magnifica. — La Pasta è inarrivabile nella sua parte, esclamò Stefanello appoggiando le spalle al davanzale del camminetto: ella è un prodigio! Che anima e che arte! Come ha indovinato lo spirito del suo canto! Nel suo duetto con la Unger strappa il cuore degli spettatori! — Già tu sei uno de' più teneri ammiratori di questa prima donna, osservò il Marchesino ci è da scommettere ch'ella è presa pazzamente di te. — Oh! non parliam di questo; soggiunse lo spezzacuore con lieve sorriso di trionfo, ne ho veduto a cascar ben altre a' miei piedi, e che bellezze! Io sono ristucco del genere teatrale; son fortezze troppo facili ad esser espugnate. — Via, via, sappiamo di che sei capace, gran seduttore, tornò a dire il Marchesino... È certo impertanto che le lodi alla Pasta nella tua bocca diventano sospette. Già il teatro S. Carlo è divenuto per quest'attrice un campo di guelfi e di ghibellini. Per me dico, e mi richiamo al parere del mio professore qui presente, che la Pasta quando si abbandona agl'impulsi della sua natura è grande, è sorprendente; ma che casca talvolta nell'esagerato per ispirito d'imitazione. Riguardo poi al suo canto, è indubitato che nei suoi passaggi dai tuoni gravi ai medii ella non pone molta faciltà e pieghevolezza. Non è vero, maestro? Daniele, a cui quest'ultima interrogazione era diretta, si contentò di fare un segno affermativo col capo. Egli non era uscito dalla sua pensierosa concentrazione. Intanto i due convitati di Daniele incominciavano a trovar troppo lungo l'indugio del pranzo: aveano già consumato parecchi sigari per ciascuno; aveano in gran parte esaurito tutti i futili subbietti di conversazione; si posero però a passeggiare smaniosi pel salottino. — Il tuo cuoco è un carnefice questa mattina, osservò il Marchesino. — Ci vorrà dare un pranzo al tutto diplomatico il nostro Daniele, disse Stefanello, ed ecco perchè ci farà attendere fino alle cinque. — Sta benissimo, riprese il primo, e mentre egli si ostina nel suo taciturno sentimentalismo, noi ridurremo in cenere un altro sigaro. Il Marchesino cavò di tasca un elegante porta-sigari, ne cacciò un tubetto di foglie americane e si pose alla ricerca d'un pezzo di carta per accenderlo. — Oh! una lettera non aperta! esclamò egli mettendo le mani addosso alla lettera di Lucia Fritzheim, che Daniele avea gittata in sul tondo in uno cogli altri oggetti ch'erasi tolti di tasca. Daniele si ricordò di quella lettera e corse per istrapparla dalle mani del suo amico, ma questi ne avea già letto l'indirizzo ed il nome di colei che la scriveva. — L'ho trovata! L'ho trovata! esclamava il Marchesino in aria di trionfo, e saltando sopra una sedia per non farsi carpire il suo bottino; ecco il segreto di Daniele; qui sta l'_affare_ leggasi. Anche Stefanello si era messo dalla parte del Marchesino per impedire a Daniele di toccar la lettera. Ebbe luogo una lotta furiosa. Daniele si dibatteva come un leone per non far leggere la lettera che avrebbe potuto discoprire le sue relazioni colla famiglia dello stradiere; ma egli era uno contro due e non poteva a lungo durare nel conflitto. Gli riuscì pertanto di afferrar la lettera, la quale fu lacerata in due parti, di cui una restò nelle mani de' due amici e un'altra in quelle di Daniele. Questi si affrettò di gittare nelle fiamme del camminetto quel pezzo che gli era rimasto nelle mani. Gli altri due lessero il seguente moncherino di lettera: «Daniele, Daniele mio, Corre già il quarto mese che mi hai ab......... giorni ora per ora, minuto per min........... sun rimprovero; sono rassegnata alla........... altra... Iddio ti renda felice... Io sto m........... forse aver pietà di me togliendomi............ divenga lo sposo di un'altra. Il med............ Ambrogio ch'io entro nel primo grado di ti.......... intorno al mio letto essi mi credevano........... ti ho amato, Daniele, e quanto ti am............ più non sarò su questa terra. Io ti sciol........... ti perdono la morte che mi dai. Soltan........... prima parola di amore che ci scamb............ che non abbandoni la mia infelice famig........... i miei fratelli e soprattutto che non............ per quella povera creatura di Uccel............ sarai felice a fianco della don.............. Addio... addio... per sempre............. parlar di me che un'altra sola v............ per caso annunziata la mia mor............. giorno della tua vita, siccome il dì............ stato per me il più felice... ad.............. Daniele, Daniele mio... _Lucia_». Non avevano il Marchesino e Stefanello terminato questi brani di lettera, di cui ogni parola avea fatto tremare il cuor di Daniele per tema che non vi si trovasse qualche inattesa rivelazione, quando il servo, presentatosi sull'uscio del salotto, disse: — Il pranzo è all'ordine, signori. I due amici rimisero tra il fumo delle vivande e tra i prelibati vini, il fare i loro comenti sulla lettera singolare che aveano discoperta. IV. LA SERATA DI LADY BOSTON Lady Mary Boston era una della più ricche e festose Inglesi che dimorassero in Napoli in quel tempo. Figlia e sposa di Pari d'Inghilterra, giovane e bella, questa donna sapeva godersi la vita. Ella avea comprato una casa in sulla Riviera di Chiaia in cui veniva a passare la stagione dei balli e delle feste. Nell'està ritornava a Londra, dov'era aspettata con premura da quell'aristocrazia che ritrovava nei salotti della vaga Lady le più efficaci e dilettose distrazioni alle cure della politica e dei pubblici negozi. Incominciando dal mese di novembre, ogni sabato Lady Boston riuniva nelle sue splendide mura quanti uomini e donne illustri erano in Napoli, di ogni favella e di ogni classe, purchè la celebrità fosse il titolo d'introduzione appo lei. Gli scienziati, gli uomini di lettere, gli artisti più ragguardevoli trovavano generoso e nobile accoglimento in quella casa, ch'era benanche il ritrovo di tutta la nobiltà europea. Walter-Scott, Chateaubriand, Bulwer e altri mille colossi della letteratura inglese, francese e italiana erano venuti a visitare le sale della celebre Lady Boston, e vi si erano intrattenuti in qualche sabato a sera. È superfluo il dire che il fiore de' cantanti erano invitati, come tutti gli altri, a queste periodiche riunioni colla solita e semplice formola di: _Lady Mary Boston à l'honneur de prèvenir Mr. N. N. qu'elle est chez elle tous les samedis a 8 heures du soir — Riviera di Chiaia — Palais P..._ La magnificenza degli addobbi e dell'illuminazione, il lusso delle credenze, l'ordine e la disposizione del divertimento, la scelta degl'invitati e la estrema eleganza degli abbigliamenti avean fatto la rinomanza europea delle serate di Lady Boston; tantochè a Londra, a Parigi, a Milano se ne discorreva; e i nobili di queste capitali traevano espressamente in Napoli per godere di queste serate. Lady Boston non aveva che una sola rivale per isplendidezza di trattamento, ed era Madame A... ma, secondo il giudizio degl'intenditori, costei perdeva nella lotta, e non arrivò mai a levarsi a quel grido cui pervenne la Britanna. L'inverno dell'anno 1826-27 comechè turbato da frequenti uragani e da piogge continue, fu al certo uno dei più brillanti e animati che rallegrassero la nostra Napoli. L'affluenza dei forestieri era grandissima. Il teatro S. Carlo nell'apogeo della sua gloria, diretto dal Nestore degl'impresari, dal Barbaja, formava la delizia del mondo musicale e il più gran vanto delle belle arti napolitane. Ogni sera era un trionfo di compositori e di artisti: ogni sera una fronda si aggiungeva alla corona di allori che cingeva le chiome di quegli artisti che sono fino ad oggi rimasti impareggiati. E la serata del sabato, al quale abbiamo accennato nei precedenti capitoli, fu la più brillante di tutto l'inverno. Due grandi artisti cantavano per l'ultima volta ne' salotti di Lady Boston prima di partire per Vienna, dov'erano scritturati, la Lalande e Lablache. Erano anche invitati a cantare la Pasta e Rubini. Non è a dire la folla che ingombrava i salotti della nobile inglese, folla deliziosa, spirante la gioia, il piacere, susurrante parole dolcissime. Non ci arrischieremo a dipingere questa festa; ogni parola sarebbe dammeno del vero, ogni epiteto non sarebbe corrispondente, e ogni descrizione riescirebbe languida e monca a petto della realtà; lasciamola però interamente immaginare a' nostri lettori, contentandoci di dire che in quelle sale cosparse di luce, di profumi di diamanti, di fiori e armonie, contenevansi meglio che mille persone, di cui ciascuno era una celebrità, un'illustrazione, una gloria, o al più poco un tesoro animato. Contrasto singolare facea colla splendidezza di quell'ostello un cielo tempestoso che batteva con onde di pioggia i cristalli di quei terrazzini. Le più lussose ed eleganti acconciature sottoposte al più severo codice della moda di Parigi facevano vaga mostra di sè. L'età delle donne spariva sotto le mani degli abili pettinatori e delle sarte parigine: la bellezza, la grazia, la salute, l'amore erano _dipinti_ in su tutti i volti, scolpiti su tutte le fronti. Un mormorio che si perdeva come un'onda di fila in fila, di crocchio in crocchio, di sala in sala, accoglieva l'entrare di ogni nuova arrivata; il suo nome, i suoi titoli, le sue relazioni ed i suoi amori erano buccinati in un baleno e promulgati dappertutto. Il sorriso accoglieva tutti e la gioia gli aspettava. Ma un grido di ammirazione piuttosto che un mormorio passò di labbro in labbro, ed un lampo di gelosia sfolgorò negli sguardi di tutte le donne. Emma di Gonzalvo appariva nel gran salone. Ella entrava appoggiata al braccio del Duca suo padre: aveva al suo fianco il visconte di Boisrouge. Seguitavala la Duchessa di Gonzalvo al braccio di un plenipotenziario straniero. Emma era stata in un attimo giudicata la più bella tra tutte quelle bellissime donne: ella era dunque la sovrana della danza. La sua acconciatura era tutto ciò che si può immaginare di più vago insiememente e di più semplice per una festa di ballo. I suoi capelli, ordinati in quel modo ingenuo e gentile addimandato in allora _alla Vergine_, erano coronati da un festone di rose in diamanti... Contro la sconcia moda di quel tempo, Emma portava una veste di velo inglese la cui vita era bassa onde le forme leggiadrissime di lei si disegnavano con tanta grazia e avvenenza, che questa novella ardita foggia di vestire incominciò da allora a bandire la moda delle vite alte e dei grandi scolli. Emma avea dunque dato il colpo mortale alla moda di Parigi. Era impossibile avvicinarla: un cerchio spessissimo di giovani aveva attorniata questa dea, contendendosi una parola di lei, un sorriso, uno sguardo. Emma era andata a sedersi vicino alla madre, alla sua sinistra era seduto il Grande Ammiraglio Conte di L... amicissimo del Duca di Gonzalvo. Non ancora si era dato principio al canto... Le _tablettes_ di ballo di Emma erano già ripiene d'inviti per le contradanze francesi e inglesi, e pel valzer francese e tedesco. La conversazione era universale e animata nei diversi gruppi: gli uomini discorreano di politica, di arti, di cavalli e di cani; le donne di mode e di amori. Le sale erano gremite di tanta gente che più non si distinguevano le persone. Di repente fu fatto silenzio in mezzo a' gruppi, e tutta la folla sparpagliata nelle numerose e vaste sale si agglomerò appo gli usci indorati del salotto da canto. Madame Lalande apriva la serata colla cavatina della _Olimpia_ del maestro napolitano Carlo Conti. La Lalande vien ricordata con amore tra le cultrici dell'arte melodrammatica: la sua voce argentina, robusta ed agile, il suo bel metodo di canto lasciarono sulle scene d'Italia e dell'estero non periture ricordanze. L'Accademia filarmonica di Bologna l'annoverava tra i suoi membri, siccome avea fatto della Colbran e della Giorgi, lodata da Pietro Giordani. Dopo Madame Lalande, la celebre Pasta cantava coll'egregio tenore signor Winter il duetto tanto applaudito della _Medea_ del Maestro Mayer. Gli applausi che interruppero a quando a quando questo pezzo, e che scoppiarono con violenza alla fine di esso, furono la più sincera espressione di quella soddisfazione che i due valenti artisti lasciavano negli animi de' loro uditori. La Pasta era di bella persona, di volto espressivo; i suoi occhi grandi e loquaci comandavano l'entusiasmo. In quella parte di _Medea_ non meno che nell'altra di _Desdemona_ nell'_Otello_ di Rossini, questa donna avea fatto gustare per la prima volta in sulle scene d'Italia il genere declamato, che oggi è venuto in tanta reputazione e successo, benchè a discapito del buon canto italiano. Luigi Lablache, il colosso dei bassi, l'artista modello, l'uomo dai polmoni di ferro, dal petto cannone, dalla voce portentosa che facea tremar la volta di S. Carlo come il cuore dei suoi uditori, il cantante-atleta, numero uno nei secoli, il contemporaneo di de Marini e il suo più illustre rivale melodrammatico; Luigi Lablache, gloria tutta nostra, il cantore delle opere di Rossini, in procinto di abbandonar Napoli pel teatro italiano di Vienna, si faceva udire in quel sabato a sera nella sala di Lady Boston coll'_aria_ di _Figaro_ nel _Barbiere di Siviglia_. Quando ebbe terminato di cantare, un solo uomo non aveva applaudito a furore. Rincantucciato in un angolo della sala, egli piangea. Quest'uomo era Domenico Barbaja. La Pasta e Rubini cantarono poscia il duetto finale di _Otello_. Non mai questi due grandi artisti avean posto tanto fuoco e tanta verità nelle rispettive loro parti. Rubini era grande, inarrivabile, facea fremere e raccapricciare; la possente sua voce scuotea le fibre più recondite del cuore. Che diressi della Pasta, che si trovava nel suo vero genere in quel canto di declamazione, in cui tanto ella si distingueva che le avea fatto acquistare una riputazione superiore ad ogni elogio? Dopo questo duetto, il programma della serata annunziava un intervallo, che fu speso nei più lauti e delicati rinfreschi. Emma aprì la seconda parte della serata. Non è dicibile con quale ansia si udiva a cantare questa giovinetta; una delle poche dilettanti che si ascoltavano da Lady Boston. Presso al piano-forte ov'ella cantava eran raccolti gli artisti da noi summenzionati e un grandissimo stuolo di ammiratori della bella Andalusa. L'aria spagnuola fu cantata da lei con quelle grazie, con quell'accento, di cui abbiamo parlato altrove. Il suo canto fu coverto da rumorose esplosioni di applausi: si richiese la replica della ballata. Madame Lalande e la Pasta abbracciarono la giovinetta e la baciarono con tenerezza, con trasporto. Per dieci minuti poi che il canto era cessato si udiva ancora il mormorio di sorpresa e di ammirazione che si sprolungava in tutte le sale. Lablache e Rubini cantarono il duetto del _Barbiere di Siviglia_. Passeranno secoli prima che un'altra coppia di artisti pari a quella faccia udire un duetto simigliante a questo del _Barbiere_. Il giovine maestro Daniele de' Rimini dovea por termine alla parte cantabile della serata colla sua romanza, e con un _pot-pourri_ sulla _Niobe_ del Pacini, la quale richiamava ogni sera gran folla di spettatori a S. Carlo. Daniele era pallidissimo ed agitato: ciò nulla di manco cantò la sua romanza con anima, con passione: mai la sua voce non era stata così forte e commovente; molti paragonarono le sue agilità a quelle di Tamburrini. Era la prima volta ch'egli veniva udito a cantare da Lady Boston: destò maraviglia, simpatia, riportò un vero trionfo. E quando le agilissime e portentose sue mani oprarono prodigi sul piano-forte, quando le più grandi malagevolezze furono da lui superate con quell'ardimento, di cui si spaventa la mezzanità, Daniele diventò l'eroe della serata. Tutti bramarono di conoscerlo, di avvicinarlo; si dimandò del suo nome, delle sue relazioni, dei suoi parenti; i nobili più schifiltosi non isdegnarono di stringergli la mano, di profferirglisi. Le donne erano soggiogate, e guatavano il giovinotto maestro con un sentimento d'ammirazione e di simpatia, dappoichè quella sua voce in cui trapelava una commozione profonda avea toccato tutt'i cuori. Il bel sesso cercava indovinare chi potesse essere l'oggetto del _colpevole amore_ dell'esimio pianista, e già ivasi bisbigliando nella sala il nome di Emma; perocchè in un baleno si era saputo che la casa del Duca di Gonzalvo era quella che maggiormente era frequentata dal giovine maestro. Tutti gli occhi si portarono sulla figliuola del Duca, la quale si studiava di nascondere il suo turbamento con un'affettazione d'indifferenza e d'ilarità. Fu questo un bel momento per Daniele. La sua vanità era soddisfatta! Negli occhi suoi, fissi sopra Emma, lampeggiava il contento di essere a quel modo l'oggetto della universale attenzione... Egli cercava intanto discoprire in sul sembiante della fanciulla un sintomo qualunque di propensione per lui. A mala pena rispondeva alle congratulazioni che se gli volgeano; a stento non si mostrava scortese e zotico. Stando a tal guisa con tutta l'anima sua alla vedetta di un'ombra di amore negli occhi di Emma, non si era accorto di un personaggio che gli si era appressato. Questi il chiamò per nome, e gli disse: — Permettete che aggiunga le mie alle congratulazioni degli altri, signor Daniele. Udendo la voce di questo personaggio Daniele fece un balzo sopra sè stesso, e imbiancò in volto come per morte veggendosi allato l'incognito straniero che recavagli in fin di mese la polizza di ducati cinquanta. — Voi qui, signore! sclamò atterrito Daniele. — Non temete di nulla; io non parlerò, ve ne fo solenne promessa. Lo straniero strinse la mano di Daniele che trovò febbricitante, e si allontanò dalla sala, per recarsi vicino al Duca di Gonzalvo, seduto ad una partita di _whist_. Il ballo cominciava. V. UN MILIONE Il dì vegnente Daniele si alzò di buon mattino: non aveva chiuso gli occhi per un sol momento durante l'intiera notte; un'idea fissa, un proponimento decisivo avealo tenuto desto; egli volea finirla una volta per sempre collo stato di martirio nel quale si trovava. — Tra poche ore la mia sorte sarà decisa, diceva tra sè medesimo, sdraiato sopra un seggiolone accosto al suo letto, e avvolto in ampia veste da camera: tra poche ore io saprò se mi conviene nutrire qualche speranza di possedere Emma, o se mi sarà d'uopo abbandonare questo paese e forse anche la vita... Sento che non ho la forza di vivere senza di Emma... Quel mio trionfo d'ieri sera non sembrò che avesse fatto la minima impressione su lei; mi rivolse soltanto alcune frasi gelate e comuni strappate dalla convenienza; parvemi anche più fredda verso di me; sembrava che mi evitasse, che poco mi avesse conosciuto... Feci benissimo a non ballar mai con lei; se ella è superba e sdegnosa, io non sono meno di lei: se io sono povero e oscuro, non soffro di essere dispregiato da nessuno. Lasciai a tutti quegli effeminati giovanotti l'onore di contendersi un valser o una contradanza con lei: io non sono fatto per immischiarmi nelle folle, non mi acconto alla razza degl'imbelli che pullulano in tutte le sale; non mi soddisfa la mezza luce; a me bisogna o lo splendor del sole o le tenebre fitte... Emma è per me il sole, la vita, la felicità... o Emma o la morte... Sì, questa mattina tutto dovrà decidersi... ogni ulteriore indugio potrebbe nuocermi. Verso le undici del mattino dello stesso giorno, Daniele saliva le scale del palazzo S... e si faceva annunziare al Duca di Gonzalvo. I domestici del Duca furono sorpresi di veder Daniele presentarsi di domenica e chieder del Duca, che pochissime volte egli avea veduto. — Ho qualche cosa di segreto a comunicargli, disse Daniele al cameriere. — Tutta la famiglia è ancora in letto, rispose il cameriere — Se il signor maestro vuole aspettare, Sua Eccellenza non potrà indugiare a levarsi. — Aspetterò, soggiunse Daniele. E si sedè in uno stanzino recondito del quartiere dove pel consueto il Duca ascoltava le persone che gli erano dirette per raccomandazioni, o che venivano a parlargli di negozii e di faccende particolari. In questo stanzino era un ritratto intero del Duca: quel ritratto era stato fatto ventitrè anni fa, e quando il Duca non avea che un 27 anni. Abbiamo detto che pochissime volte Daniele avea veduto il Duca, vale a dire, il giorno in cui venne presentato a costui qual maestro di Emma, e qualche altra volta nelle serate di Lady Boston dove il vedeva alla sfuggita: perocchè il Duca raramente compariva nel gran salone da ballo o nel salotto da canto. Però Daniele non avea giammai avuto l'agio di affissare con attenzione le sembianze di questo personaggio. Quel ritratto colpì incontanente il giovin pianista: quello sguardo, quelle fattezze del volto, quei basettoni che a guisa di doppio fuso prostendevansi sul labbro superiore, e quel pizzo lungo, dritto che gli scendeva insino alla gala della camicia; quella faccia insomma non era nuova per Daniele: essa disegnavasi nella sua memoria come un riverbero di lontanissimo passato; ma dove, ma quando, ma come Daniele avea veduto quel personaggio? Non era possibile deciferare il tempo e il luogo. Un mondo di congetture formava il giovine; cercava di coordinare le sperperate ricordanze della sua infanzia; si sforzava di diradare la nebbia onde si avvolgeva il passato, ma nel suo capo era una confusione spaventevole, un subbuglio di ricordi, di immagini, di sogni, cosicchè di tutta la fatica che egli si dava non ricavava altro frutto che quello di conoscere aver veduto altrove il Duca di Gonzalvo. Se non che la costui immagine si associava nella sua mente a quella di un altro uomo assai più bello e più giovine, di cui non conservava eziandio che un debolissimo ricordo. Il Duca di Gonzalvo avvolto in magnifica veste da camera entrava in quello studietto nel momento in cui Daniele era tutto e cogli occhi e col pensiero in sul ritratto del nobile spagnuolo. — Eccomi a voi, signor de' Rimini, a che debbo attribuire il piacere di una vostra visita! Siete forse venuto a ricevere le mie personali congratulazioni per la vostra somma valentia nell'arte musicale? — Non pecco di tanta vanità, signor Duca. Ieri sera quei signori furono assai indulgenti verso di me, ed io debbo attribuire a mero incoraggiamento le lodi che si piacquero prodigalizzarmi. — Cotesta modestia vi onora, signor de' Rimini. Qual'è dunque il motivo che mi procura il piacere di vedervi questa mane? Il Duca di Gonzalvo si era seduto. Daniele mostrava nell'alterazione della sua fisonomia l'agitazione che il possedeva. — Signor Duca, incominciò il giovine lentamente e misurando le sue parole, prima d'ogni altra cosa, perdonerete la mia indiscrezione se ardisco di domandarvi in qual paese è stato fatto questo vostro magnifico ritratto. — Ah! è un bel ritratto, n'è vero? Benchè io sia cangiato dagli anni, credo che mi rassomigli ancora. — Perfettamente, signor Duca, e mi permetterete di dirvi che pochissima differenza vi è in oggi tra questo ritratto e il suo originale. — Così dicono tutti per lusingarmi, ma hanno un bel dire; ventitre anni non passano sulle spalle di un uomo senza lasciarvi un ricordo poco piacevole... Ebbene, questa dipintura è stata fatta in Siviglia, in un sol giorno, da un abilissimo artista Italiano... Oh! questo ritratto mi ricorda sventure per le quali sanguina ancora il mio cuore. — Duolmi di aver ritoccate le vostre dolorose rimembranze, signor Duca; ma pure, ancorchè dovessi arrecarvi dispiacimento, mi arrischierò a domandarvi se in Siviglia, presso a poco nel tempo in cui fu fatta questa dipintura, voi non avevate un parente, un amico che spesso frequentava la vostra casa, o in casa del quale voi traevate? Simigliante interrogazione fece rabbruscar la fronte del Duca, il quale guardò fisamente e con sospetto il suo interrogatore, e non rispose che dopo qualche momento. — Non so qual premura possiate avere, signor de' Rimini, a ricercarmi d'una cosa e d'un tempo ch'io vorrei dimenticare... Non saprei rispondere con precisione a quello di che mi richiedete... Nel 1803 io aveva molti amici ed un immenso numero di nemici, perocchè il posto onorevole e l'alta carica civile ch'io avea ottenuto nella giovanile età di 27 anni mi avevano procacciato migliaia di gelosi ed invidi: in quell'anno per me cotanto funesto fui costretto di abbandonar Siviglia dove la mia vita era mal sicura, essendo per infame tradimento caduto in sospetto al mio governo. La mia partenza fu così precipitata che appena ebbi il tempo di farmi ritrarre su quella tela e mandare il mio ritratto al Castello di Santiago, poco discosto da Siviglia, e dove dimorava la mia fidanzata, Isabella di Monreal, che ora è mia moglie. Nessun'amico mi accompagnò nel tristo viaggio, tranne un fedel domestico e mia sorella che volle seguirmi, non ostante le più vive rimostranze ch'io le feci, mettendole dinanzi agli occhi la malagevolezza e i pericoli del viaggio in sull'Atlantico e sovra un piccol legnetto commerciale. Ma ella rimanea sola ed esposta forse alle persecuzioni dei miei nemici; sicchè io stesso non potetti rifiutarmi a tali possenti ragioni, e meco la menai colà dove il destino chiamavala ad una serie d'irreparabili sventure. Sciagurata sorella!.. Voi mi parlate di amici, signor de' Rimini! Or bene, io n'ebbi due; uno che per invidia cercò di togliermi la vita civile, denunziandomi come venduto a' nemici del mio paese, e che mi costringeva ad abbandonare la nativa mia terra: e un altro che mi offriva una splendida ospitalità e un asilo sulle frontiere della Francia, che mi abbracciava con effusione di cuore, per piantarmi più tardi un coltello nel seno... Quest'uomo s'involò alla mia vendetta; io non l'ho più riveduto e il credo morto; almeno ne ho speranza, che se mi fosse dato di sapere dov'ei si asconde, andrei a trafiggerlo avvegnacchè egli stesse all'estremità del mondo. Gli occhi del Duca di Gonzalvo balenavano di furore; due corde di fuoco erano state toccate nel profondo dell'anima sua, i due tradimenti che tuttavia gli amareggiavano la vita. Daniele si pentì di aver ridestato così fatte amare ricordanze in quell'uomo irascibile: egli era disanimato per quello che formava lo scopo principale della sua visita; ma era nel tempo stesso risolutissimo di por fine allo stato di sofferenze in cui lo gittavano l'amore, la gelosia, il desiderio d'ingrandirsi; pensò dunque di non frapporre più indugio alla dimanda che voleva fare al Duca. Lasciandogli però il tempo di calmarsi dalla collera che aveano eccitata in lui quelle imprudenti reminiscenze, così gli parlò: — Perdono, sig. Duca, mille volte perdono di essere stato io l'involontaria cagione di aver risvegliato in voi di tali tristi memorie; vi giuro che se avessi saputo dovervi cagionare il minimo dispiacimento, non avrei ardito dare sfogo ad una indiscreta curiosità... Ora, lo scopo della mia visita è tutt'altro, signor Duca: esso vi sorprenderà pel suo ardimento; ma la schietta probità del vostro rifiuto non mi umilierà, dappoichè soltanto la colpa deve arrossire. — Di che si tratta? dimandò il Duca con serenità, poichè era ben lontano dal supporre quello che formava l'obbietto della dimanda di Daniele — Parlate con confidenza, signor de' Rimini, e state sicuro di trovare in me un amico. — Ne sono sicurissimo, signor Duca, e ciò non ostante io temo, perchè troppo audace può sembrarvi la mia dimanda. — Parlate dunque, disse quegli con leggiera impazienza. — Ebbene, signor Duca, vi chiedo la mano di vostra figlia, rispose Daniele renduto altero e sicuro dalla propria audacia. Il Duca di Gonzalvo si alzò per un moto di estrema sorpresa: il suo sguardo fulminò lo sguardo di Daniele, che fu costretto di chinar gli occhi. — Voi, signore! voi mi chiedete la mano di mia figlia! — Io, signor Duca. Il nobile spagnuolo dette una sonora spalmata sopra un tavolino di mogano che gli stava d'allato; il suo volto era acceso di sdegno. — Sono io dunque caduto tanto giù da incoraggiare un simile insulto! esclamò furibondo: il Duca di Gonzalvo non è più dunque che un essere della specie più comune! il mio cognome è dunque quel che ci è di più plebeo e di più fangoso al mondo? Un maestro di musica vuole apparentarsi con me? un uomo che vive di salarii!! Ma come! ma quando ho io incoraggiato simigliante audacia? Il Duca di Gonzalvo, uno de' più illustri nomi della Spagna, il sangue più nobile dell'Andalusia, si fonderebbe col sangue della più mercenaria borghesia! Ma è da senno che voi mi fate una tale proposta, signor mio? — Da senno, signor Duca, rispose Daniele, il cui amor proprio ferito dalle aspre parole del nobile si era rialzato con orgoglio. — E quali sono, di grazia, i beni e i titoli che voi offrite per pretendere alla mano della Duchessina Emma di Gonzalvo? chiese il Duca con voce renduta sempre più rauca per collera. — I titoli che vi presento, sig. Duca, sono quelli di cui andar deve orgoglioso ogni uomo di onore: essi non sono di quelli che l'intrigo, l'ambizione, la vanità, la corruttela procacciano ad un nome, come una cornice d'oro ad una vana immagine, i miei titoli sono quelli che nessun re può darmi o togliere, i miei titoli, signor Duca, sono quelli ch'io tramando a' miei figli e non già quelli che ricevo dai miei genitori; i miei titol sono il genio e l'onestà. In quanto a' miei beni, essi non han timore d'incendio, di terremoto o di confisca; i miei beni io li porto sulle punte delle mie dita... E se questi titoli e questi beni non sono di quelli che possono appagarvi, signor Duca, ve ne offro un altro che vale più di tutti gli onori accumulati sovra un nome: vi offro la mia giovinezza e l'ardente fede che ho nell'avvenire. Lo sguardo di Daniele balenava; le sue guance erano infiammate; egli era stato colpito nel più vivo dell'anima sua, nel suo amor proprio. Il Duca fu scosso dal carattere energico e ardito del giovine. — Attribuisco all'ardore della vostra giovinezza, rispose questi meno sdegnosamente, la stolta speranza che vi ha illuso, e perdono alla vostra fanciullezza l'audacia delle vostre parole; ma comprenderete che io dovrò privarmi del piacere di più ricevervi in mia casa. Provvederò per un altro maestro a mia figlia, e non commetterò novellamente l'imprudenza di porle a fianco un giovanotto. Spero che non abbiate fatto trasparire minimamente ad Emma cotesta follia che vi è sorta nel cervello. — Sicchè voi, signor Duca, mi ricusate per vostro genero? — Non avreste giammai dovuto concepire sì chimerica speranza, rispose il Duca in atto di accomiatare il giovine. Ciò per altro non toglie ch'io avrò sempre per voi quella benevolenza di cui spero vi renderete più degno, rinunziando finanche alla ricordanza di una tale insensata proposta. Avrò cura di farvi pervenire al vostro domicilio gli onorarii che vi sono dovuti per le lezioni a mia figlia. Il Duca si accingeva ad abbandonare quella conversazione. — Un momento, signore, di grazia, un momento. Degnatevi di ascoltarmi pochi altri minuti, e poscia ci saremo separati per qualche tempo. — Che avete ancora a dirmi? — Poche altre parole signor Duca. Dareste voi vostra figlia ad un uomo che le recasse una fortuna considerabile? — E che non avesse altro che quello di esser ricco? chiese il Duca. — Sì, signore, soggiunse Daniele, ricco, solamente ricco. — Ebbene, rispose il Duca, se quest'uomo fosse un milionario, io lo preferirei certamente a sposo di mia figlia. UN MILIONE rappresenta dieci generazioni di nobiltà. Un milione, è una potenza, è uno Stato, è una grandezza. — UN MILIONE!!! disse cupamente scoraggiato il giovane pianista. — Ebbene, disse sorridendo il Duca, avete voi da offrirmi un milione, signor de' Rimini? Daniele stette alcun poco in silenzio, indi rispose: — Tra due anni, signore, tra due anni forse... Mi date voi la vostra solenne parola di onore di aspettare due anni prima d'impegnare la sorte di vostra figlia? Il Duca il guardò quasi trasognato; sospettò per un momento che il cervello di Daniele avesse dato di volta; ma sulle costui sembianze non appariva il minimo segno di alterazione mentale. — Voi dunque dite... — Che tra due anni io potrei offrirvi un milione. — Ed io vi aspetto, disse ridendo il Duca. — Sul mio onore, soggiunse il Duca, sempre ridendo. — Ebbene, disse gravemente Daniele, oggi siamo al dì 17 dicembre 1826. Permettete che io me ne faccia un ricordo sopra un pezzo di carta. Sul tavolino era l'occorrente da scrivere. Daniele segnò queste poche parole: _Oggi io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele dei Rimini di non prendere veruno impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima che spirino due anni dalla data di questo giorno — Napoli, 17 dicembre 1826._ — Firmate, signor Duca, disse Daniele presentandogli la carta. Il Duca, dopo di aver titubato per qualche momento guardò Daniele con sembianza di pietà, ed appose la firma a quella scritta, quasi per compassione dello stato di mente del giovane pianista. — Siete contento, signore? dimandò il nobile sorridendo. — Contentissimo. A rivederci, signor Duca; a rivederci al 1828. Daniele spariva. Il Duca, entrando nelle sue stanze esclamava tra sè: — Povero Daniele! Chi lo avrebbe creduto! Egli è folle! VI. UN TENTATIVO Qual'era il proponimento di Daniele? In che modo sperava egli diventar milionario in due anni? Noi nol sapremmo dire e forse egli medesimo non era venuto ancora in nessuna deliberazione. Nei caratteri come il suo, le risoluzioni vengono sempre appresso agli atti di audacia; eglino non pensano che dopo il fatto. Daniele era andato dal Duca di Gonzalvo risoluto di fargli la proposta di aspettare qualche anno, sperando di accumulare in questo tempo una piccola fortuna; ma non avrebbe giammai potuto supporre che quegli avesse chiesto un milione. Una così enorme dimanda che il Duca avea fatta quasi per burlarsi di lui non fece che esaltare e pizzicare la superbia del giovanotto, il quale, accettando quella proposta, avea inteso umiliare il nobile e dargli di sè la più alta opinione. Daniele era però fermo di ritornar milionario dal Duca di Gonzalvo o di por fine a' proprii giorni; egli aveva innanzi a sè due anni. Che cosa non si può fare in due anni? Quali e quanti avvenimenti non possono accadere da mutare al postutto lo stato di un uomo! Un avvenire di due anni nelle mani di un uomo della tempera di Daniele è un secolo, è un tesoro. Le anime volgari, gli uomini vegetali, le macchine a respirazione non veggono nel futuro che una scempia e materiale ripetizione degli stessi atti della vita, degli stessi abiti, dei medesimi noiosi e bassi godimenti sensuali, delle stesse miserie ed infermità; ma il genio, l'ardimento, l'elevatezza delle ispirazioni percorrono in un giorno il volgere di un anno, e in un anno il volgere di un secolo. Simiglianti all'aquila che fende le nubi e sfida i nembi e guarda all'altezza del sole, mentre, la nottola e il gufo non sanno elevarsi una spanna dalla terra, gli uomini di genio percorrono colla vastità dei loro poderosi pensieri uno spazio immenso, mirano all'universo come al solo campo dove prender debbono il volo: il tempo e la distanza, i due possenti nemici dell'umana attività, spariscono dinanzi alla forza morale di questi uomini: la ricchezza, la gloria, il potere, le tre mete degli umani desideri, sono raggiunte soltanto da questi uomini, pei quali la creta onde sono impastati, le miserie attaccate alla vita sono un impaccio e non mai un ostacolo. I prodigi dell'industria umana non sono dovuti che alla eterna irrequietezza di questi uomini che non possono capire ne' loro materiali e mortali involucri. La prima cosa a cui Daniele pensò fu di provvedersi di passaporto per l'estero. Egli capiva che bisognava subitamente uscire dal proprio paese e porsi in una sfera di attività febbrile, bisognava visitar Parigi, Londra, Berlino, Vienna, valicare l'Atlantico e trasportarsi agli Stati-Uniti; a Nuova York, a Washington, a Filadelfia. Il suo primo proponimento fu quello di dare accademia in tutt'i paesi che avrebbe percorsi, spendere in lezioni le ore del giorno e della notte, stringere amicizia colle più ricche e nobili famiglie. Oltre a ciò, egli avea deciso di vivere in que' due anni il più economicamente che gli fosse possibile, di non ispendere un soldo al di là di quello ch'era strettamente necessario: avea tutto calcolato, tutto messo in bilancio; ma il risultamento dei suoi calcoli era scoraggiante, dappoichè con tutto questo, al capo de' due anni, essendogli amica la fortuna e senza impreviste disgrazie, egli non si avrebbe trovato che una somma lontanissima dal milione. Ancora che avesse guadagnato mille scudi al giorno (il che era da porsi tra le più chimeriche speranze) non arrivava a compire l'enorme cifra del milione. Ciò nondimeno egli era sicuro di ammassare una somma considerabile: ma la sua alterigia si arrovellava all'idea di presentarsi al Duca di Gonzalvo, spirati i due anni, senza quella cifra altissima, che il nobile gli avea gittato in faccia quasi per ischernirlo ed umiliarlo. Daniele era deciso di affidarsi alla ventura, di abbandonarsi agli eventi, di trarre partito da tutto e da tutti: era fermo di abbracciare ogni traffico, ogni speculazione atta ad accrescere il suo peculio, di arrischiarsi anche al giuoco della Borsa: si sentiva nel petto la ispirazione di diventar ricco: il pensiero di una viltà che sarebbe rimasta nel più profondo mistero, di un delitto che sarebbe rimasto sepolto nelle più fitte tenebre non lo spaventava: tutto avrebbe sacrificato al piacere di presentarsi milionario al Duca di Gonzalvo e sposare quella superba di Emma. Egli avea fermato di partire al primo dell'anno 1827: pochi giorni gli avanzavano ch'ei spese in visite di congedo e in aggiustare le sue faccende; non volle più rivedere Emma: il sentimento di vanità e di orgoglio che in lui era superiore a quello dell'amore, comandogli di allontanarsi da Napoli, senza riporre il piede in quella casa, da cui il Duca di Gonzalvo l'aveva formalmente espulso: egli non dovea più ritornarvi che milionario. Si contentò di mandare al Duca due righe in cui gli dava notizia della sua prossima partenza da Napoli. Alla vigilia della sua partenza, vale a dire, al 31 dicembre di quello anno 1826, Daniele ebbe la solita visita dello straniero che gli portava nell'ultimo giorno di ogni mese la polizza di cinquanta ducati. Alla vista di quest'uomo un ardito pensiero attraversò la mente di Daniele. Abbiam detto che ormai questo giovine più non indietreggiava dinanzi a nessun ardimento, a nessuna sconvenienza, a nessuna bassezza: uno solo era lo scopo a cui dovea mirare, la ricchezza: qualunque mezzo era ottimo. Daniele fece entrare lo straniero nel suo studietto, di cui serrò l'uscio a doppio giro di chiave, ficcandosi questa in saccoccia: ebbe eziandio la precauzione di situarsi colle spalle al terrazzo che poteva offrire un facile scampo allo straniero. Dicemmo altrove che quel terrazzo rispondeva benanche nel salotto di dov'era agevole raggiungere l'uscio di scala. Lo straniero fu sorpreso di questo insolito ricevimento fattogli dal giovine pianista, ma nessun segno di timore apparì sul suo sembiante affatto tranquillo e sorridente: il suo volto era al tutto privo di barba al modo inglese. Egli rimase all'impiedi dirimpetto a Daniele, che si era comodamente rovesciato sopra una seggiola. — Piacciavi di sedervi, signore; avrei qualche cosa da dirvi, cominciò Daniele visibilmente agitato. Lo straniero si sedè dopo aver lasciata la polizza in sulla scrivania del giovine, e disse seccamente: — Vi ascolto. — Io sono persuaso che mio padre o mia madre è quegli che vi manda da me ogni mese. Daniele aspettò invano una risposta; lo straniero non aprì la bocca, nè fece segno alcuno, dal quale il giovine avesse potuto trarre la minima congettura; sicchè, dopo alcuni secondi proseguì: — Chiunque si sia de' due, e in qualunque luogo si trovi, io sono arcideciso di andare a gittarmi nelle sue braccia: un padre o una madre non può aver la forza di respingere il proprio figliuolo. Voi mi darete l'indirizzo di questa persona che pensa alla mia sorte. — Fin dal primo momento ch'ebbi il piacere di conoscervi, mio caro Daniele, vi dissi che non avrei potuto rispondere a nessuna vostra interrogazione. — Ciò si vedrà, riprese Daniele: io sono risoluto, risolutissimo di sapere il nome e l'indirizzo della persona che provvede alla mia vita. Voi non avete il diritto di nasconderla alla mia riconoscenza. — E voi non avete il diritto d'interrogarmi, signor Daniele. — Se non ne ho il diritto, ne ho pertanto la forza, rispose il giovine; voi non uscirete di questa casa, senz'avermi rivelato quanto vi chieggo. Lo straniero sorrise: neppur l'ombra della collera era nell'espressione del suo volto. — Mi permetterete di farvi considerare, bel giovinotto, che la ragione non vi assiste in quello che ora dite e in quel che pretendete di fare. Prima di tutto, sappiate una volta per sempre, e tenetelo bene a mente, ch'io non vi dirò niente, assolutamente niente, quando anche la vostra follia vi spingesse ad assassinarmi: se io non parlo essendo vivo, pensate se potrò farlo essendo morto. Voi quindi non guadagnereste altro, uccidendomi, che passare alla Corte Criminale, ovvero rimanendo celato il vostro delitto, non otterreste altro che perdere i cinquanta ducati ch'io ho la bontà di recarvi in ogni fin di mese. Poi, vi fo riflettere che, ammesso ancora ch'io mi lasciassi sedurre dalle vostre parole o intimidire dalle vostre minacce, non mi costerebbe gran fatica l'inventare un personaggio e un sito, e liberarmi della vostra importunità mandandovi ben lungi in cerca di un uomo che non trovereste giammai. Oltre a questo, sono nel dovere di dirvi che ogni passo che voi dareste per iscovrire il vostro benefattore vi farebbe perdere la costui benevolenza. Vi lascio da ultimo amichevolmente considerare che io sono uno di quei pochi, pei quali voi siete sempre Daniele Fritzheim e non già Daniele de' Rimini vale a dire ch'io conosco esser voi un trovatello: un atto di violenza che commettereste contro di me potrebbe spingermi a divulgare il segreto della vostra nascita. — Voi nol farete, o signore, interruppe vivamente Daniele, il quale vedea sfuggirsi di mano il colpo che avea meditato. — Io nol farò, sempre che voi vi comporterete meco da onesto galantuomo. Rinunziate al pensiero di voler conoscere il vostro benefattore, e questi vi amerà dippiù; e forse un giorno... — Ebbene? esclamò Daniele cui un lampo di speranza balenò negli occhi. — Ebbene! chi sa! forse un giorno egli stesso chiederà di voi. — Ma ditemi, ditemi, di grazia, signore, è egli ricco? è nobile? — Non m'interrogate: ben sapete che non posso rispondervi... Ma il tempo stringe: abbiate la bontà di farmi la solita quietanza, dappoichè ho molte faccende ancora da disbrigare. Daniele, con malissima voglia accontentandosi delle ragioni addotte dallo straniero, si alzò e andò a scrivere la quietanza che consegnogli dicendogli: — Eccovi, signore, la quietanza. È questa l'ultima volta che ci vedremo in questa casa e in Napoli. Domani io parto. — Lo so, rispose freddamente lo straniero. — Ah! lo sapete! E chi ve l'ha detto? — Il Duca di Gonzalvo. — Egli stesso! — Egli stesso, ripetè quegli come un eco di Daniele. — Sicchè voi, soggiunse questi, frequentate sovente la sua casa? — Quasi ogni giorno. — Siete suo intrinseco? — Intrinsechissimo. — E vedete spesso la Duchessina? — Non tanto: ella mi guarda con diffidenza, e sembra che mal vegga la mia presenza in casa del padre. Lo straniero si alzò per rompere a quel punto una conversazione ch'egli non aveva voglia di proseguire. — Indicatemi, signor Daniele, ripigliò questi, cacciando di tasca un portafoglio, indicatemi il paese in cui bramate che vi capiti la polizza del mese venturo. — Pel mese venturo io sarò a Londra, rispose il giovine. Mentre lo straniero segnava colla matite alcune parole nel taccuino, Daniele a cui era sorta nella mente un'idea subitanea, si slanciò sull'incognito e con mano vigorosa gli strappò il portafoglio. — A tuo dispetto saprò chi tu sei e chi t'invia, gridò Daniele con occhio demente. In pari tempo suonò con forza un campanello e, aperto l'uscio, gridò al soccorso. Il suo domestico accorse. — Liberatemi da quest'uomo, gridò Daniele in francese, ei vuole assassinarmi, vuole impadronirsi del mio portafoglio. Il servo si mosse per porre le mani addosso allo straniero, ma si vide appuntate in sul volto le canne di due pistole. — Sciagurati, esclamò l'incognito senza il minimo segno di alterazione della fisonomia, un passo che diate verso di me vi costerà la vita. Giù il portafoglio, signor Fritzheim, o il vostro cervello salterà in aria. Non ci era da dubitar minimamente che lo straniero non avesse fatto seguire l'atto alla parola. Daniele gittò a terra il taccuino. L'incognito vi pose subitamente il piè sopra e comandò al servo di sgombrargli l'uscio, tenendo sempre tutti e due a linea delle sue pistole. Il servo obbedì. Lo straniero intascò il portafoglio. — Quest'atto insensato di violenza mi costringe a privarmi del piacere di rivedervi, signor Daniele. Avrò cura di farvi pervenire per altre mani la solita polizza che ora vi siete messo a grave rischio di perdere. Il domani, all'ora che Daniele si accingeva a salire nella diligenza per Roma, una donna, pallida ed emaciata dalle sofferenze, vestita miseramente, e tutta cosparsa di lagrime, se gli fece incontro. — Lucia!! esclamò Daniele stupefatto. — Ho voluto vederti per l'ultima volta; Daniele, rispose costei... perdona... io ti amo tanto. Gli occhi di Daniele si bagnarono di lagrime. — Lucia!... Povera fanciulla!... odiami... odiami... io non merito l'amor tuo. In quale stato ti ho ridotta! Daniele le strinse la mano. — Grazie, grazie, Daniele... or son felice! ti ho veduto, mi hai stretta la mano... Dio ti benedica!... Daniele avrebbe voluto abbracciarla; il suo cuore era gonfio. Per la prima volta egli sentiva un'estrema tenerezza per quella giovinetta. — Lucia... Lucia mia... Non potè proseguire, perocchè il conduttore facea schioccare la frusta, la diligenza era in sul punto di partire. — Addio... addio, sorella mia, esclamò Daniele saltando in fretta sul montatoio della carrozza. — Addio... addio, Daniele, rispondea questa debolmente, perchè sentiasi venir manco; il suo volto era addivenuto bianco come cera. Un uomo era corso a sorreggere la misera tra le sue braccia. Egli era Padre Ambrogio. Seduto nella diligenza che avea preso il galoppo, Daniele piangeva!! Parte Terza I. UN CAVALIERE DEL FIRMAMENTO[2] Manheim è indubitabilmente una delle più belle città dell'Alemagna. Situata al confluente di due fiumi, il Neckar ed il Reno, e in sulla dritta sponda di quest'ultimo, essa offre a' viaggiatori una delle viste più dilettose. Ameni giardini, nei quali furono convertiti gli antichi bastioni distrutti dai Francesi, circondano la sua forma ovale, a guisa di un vago mazzettino di fiori, nel cui mezzo pompeggisi una gentil magnolia. Manheim, residenza di delizie del Gran Duca di Baden, città rivale di Carlsruhe, pulita, ben fabbricata, tranquilla, dalle larghe e belle strade, dalle case simmetriche come le idee nella testa di un Tedesco, Manheim ricorda subitamente al forestiere che per la prima volta la visita, i poemi di Goethe e i racconti di Hoffman e di Werther. Un filosofo che volesse passar la sua vita tra i libri e le meditazioni non potrebbe scegliere in tutta la Germania un paese più acconcio allo studio. Le lunghe file di acacie che orlano i pubblici passeggi di questa città vi spargono un profumo soavissimo che dà all'anima freschezza di concepimenti e serenità di passioni. Situato in una delle più amene posizioni di questa famosa città di Manheim, e interamente segregato dagli altri edificii, vedesi sbucciar da un gruppo di poggetti di vigne un casinetto a pietre bianche e rosse, di gotica struttura ma di recenti adorni: una villa pensile si prostende ai suoi piedi, dove la mattina in sull'alba si radunano di numerose frotte di augelli, e v'intuonano un concerto di voci leggiadrissimo e tale che la mente d'un viaggiatore napolitano ritorna tosto con tenerezza a' siti incantati del suo paese, sviscerato amor di natura. Una cascatella artificiale e tortuosa, balzando sopra una scala di grotticelle e di nicchie di conchiglie, si va a perdere in pioggia finissima, la quale, refratta da' raggi del sole, rassembra in lontananza una sottil trama d'argento. Quel casinetto a due piani comanda un'estesissima veduta del Reno e delle sue rive seminate di paesetti. Nulla di più vago, di più pittoresco, di più atto a molcere i sensi e l'animo quanto l'aspetto di questo solitario ridotto della pace e della serenità. Lo sguardo vi si fissa con piacere, con amore e si addentra col pensiero nei vialetti di quella villa, nel fitto di quegli alberi dalle ombre più ristoranti, nel concavo di quegli scavi artificiosi, misteriosi ritrovi di amore, e nell'interno di quegli appartamenti freschi e leggiadri ne' quali la mente si figura un essere felice. Questo casino colle sue adiacenze viene addimandato il comprensorio di _Schoene Aussicht_ (Belvedere). Ed in fatti, un essere privilegiato abitava da parecchi anni in quel remoto casinetto, che egli avea comprato con la villa e colle altre delizie circostanti. Era un Inglese, per quel che nel paese se ne diceva, benchè taluni asserissero che ei fosse il Baronetto Edmondo Brighton, ed altri il Conte di Sierra Blonda. Quali il suo titolo ed il suo nome si fossero, gli è certo che sul conto di costui correvano le voci più contraddittorie, più assurde; e quantunque il proverbio dica _vox populi vox Dei_, ci era da giurare che niente di vero conteneasi nelle dicerie degli abitanti di Manheim in sul proprietario di _Schoene Aussicht_. Come in fatti conciliare e sposar tra esse le voci che facevano a calci? Come credere, per esempio, che questo personaggio fosse ad un tempo spagnuolo ed inglese? che possedesse tanto danaro da potersi comprare tutta la città di Manheim, e che poi vivesse come il più modesto borghese? che fosse un uomo dedito agli studi ed alla meditazione, mentre si asseriva in pari tempo esser egli interamente abbandonato a' piaceri, ed averne fatte tante e poi tante in sua giovinezza da scandalizzare il nuovo e il vecchio continente? Chi diceva che il Baronetto aveva avuto niente meno che quattro mogli e quindici figli; chi giurava che quegli era celibe e che non avea figliuoli: chi affermava esser vedovo, e che la defunta moglie aveagli portato in dote tant'oro da gittarne nel Reno: alcuni bisbigliavano sotto voce e in aria di mistero che il nuovo proprietario di _Schoene Aussicht_ aveva avvelenata la moglie per isposare una bella andalusa. Ma egli è necessario deciferare il vero tra mezzo a tanto guazzabuglio di cose: noi però ci studieremo di dare al lettore sul nuovo personaggio che viene a prender posto nella nostra storia tutt'i ragguagli indispensabili per ben conoscerlo e giudicarlo. Non eran discordi le opinioni sul titolo e sul nome del proprietario di _Schoene Aussicht_, dappoichè questi era nel medesimo tempo il Baronetto Edmondo-Isacco Brighton ed il Conte di Sierra Blonda. Aveva ereditato il primo titolo qual figliuolo cadetto d'una delle primarie famiglie di Yorkshire in Inghilterra, ed il secondo titolo gli era stato venduto assieme alle immense possessioni da lui acquistate nel mezzogiorno della Spagna, dov'era dimorato per molti anni. Ed ecco in qualche modo accordate benanche le voci stravaganti ch'ei fosse ad un tempo inglese e spagnuolo, imperocchè, se inglese era per nascita, era spagnuolo di adozione, avendo passata nella Spagna gran parte della sua vita. Ed era nel carattere e nelle fattezze di quest'uomo un singolar mescuglio del sangue iberico e britannico; a tutta la flemma inglese egli accoppiava le calde passioni degli Algarvi: era ad un tempo il Don Juan di Byron e il Faust di Goethe. Nel tempo in cui il presentiamo a' nostri lettori, il Baronetto non era più giovane, ma era ben lontano dall'essere vecchio; di statura regolare, di giusta complessione e vigorosa; il suo volto, a metà coverto da densa e lunga barba, nella quale si scorgeano appena pochi fili di argento, era leggiermente colorato di quel vermiglio che annunzia un rigoglio di salute: i suoi occhi castagno cupo erano grandi e pregni di anima; la sua testa era calva sul pendio della fronte, e il resto del cranio era coverto anzi che nascosto da capelli rasi e monchi. Egli era in tutta l'estensione della parola quel che dicesi un bell'uomo. Il Baronetto era stato nella sua giovinezza il modello della _gentry fashion_, vale a dire il più compito cavaliere: egli avea libato a centellini le delizie della vita. A simiglianza del _Child-Harold_, poi che ebbe sorvolato in tutta l'Europa e in gran parte l'America, egli avea fissato la sua dimora nella Spagna e propriamente in quelle terre di fuoco, nell'Andalusia, dove ogni cuore è un vulcano. Qualche cosa del cielo di Africa è del cielo della Spagna meridionale, che sembra quasi dar la mano alla terra dei Negri. Ci è tra l'Andalusia e l'Africa uno stretto rapporto: quasi due sorelle strappate a viva forza dalle braccia l'una dell'altra, queste due terre par che si congiungano di soppiatto sotto il canale di Gibilterra. Il suolo, le acque, la coltura sono le stesse al di qua e al di là dello stretto: Ceuta è spagnuola come Cadice è africana. Il Baronetto avea comprata, nel cuor delle Algarve, siccome abbiam detto più sopra, una vasta tenuta addimandata di _Sierra Blonda_, imperocchè situata a piedi di una montagna su cui era una arena biondissima. Questa Contea, abbandonata da secoli per l'aridità delle sue terre infuocate, era composta di casamenti a metà bruciati nelle guerre moresche e di grandi estensioni di terreno, dette _despoblados_ (spopolati) nelle quali il pensiero si rattrista come nei deserti. Questa tenuta col titolo annesso era costato al Baronetto seicentomila pezzi duri. In tutta la Spagna egli era conosciuto ormai sotto il nome di Conte di Sierra Blonda. Quando, dopo lunga fatica, un uomo perviene alla cima della Montagna Bionda, e volge uno sguardo intorno a sè, l'anima sua è presa da spavento e da tristezza, scorgendo in sul capo un cielo ardente, e intorno intorno alla montagna uno spazio immenso arido e solitario, balze a picco, rifugio di uccelli di rapina, pendici scoscesi in su le quali neppure un'ombra di vegetazione, se togli nel fondo di qualche valle, dove, accanto un fiume o ad un ruscello, si vede spuntare un filo di verdura e qualche abitazione che attesta la vita e l'industria. Che cosa aveva indotto il Baronetto ad acquistare questo deserto? Niente altro che il capriccio e quella specie di stravagantissima ECCENTRICITÀ che formava il nucleo del suo carattere e della sua vita. A venti anni, padrone di sè medesimo e di una fortuna incalcolabile, egli si era fatta una legge d'inventar sempre nuovi piaceri, nuovi divertimenti, di uscire dai sollazzi comuni, di assaporare con gusto e raffinatezza tutto il pizzicante della vita. Egli non faceva niente di quello che avrebbero fatto gli altri giovani dell'età sua e nel suo stato, anzi faceva appunto il contrario. Edmondo avea renduto animatissimo quel deserto; giuochi, balli, festini, gozzoviglie rallegravano giorno e notte gli appartamenti del signorotto, i quali avea fatto addobbare con tutto il lusso e le comodità. Tra gli altri stranissimi divertimenti ch'ei soleva prendersi, dobbiam notare il seguente: Egli faceva riempir di mobili un casamento e adornarlo come per festa di ballo: le suppellettili più costose ne fregiavano le sale: si facea poscia chiamare un centinaio di vagabondi, di ladri e di uomini facinorosi. A un dato segno ch'ei dava, il fuoco era appiccato al casamento; il saccheggio era comandato; e quegli uomini, a rischio della vita che sovente vi perdevano, si gittavano nelle fiamme per ispogliar le sale del meglio che vi si conteneva. Edmondo godeasi un così fatto spettacolo, ad una certa distanza, e nel mezzo dei suoi numerosi amici e compagni di follie, i quali sgangheravansi dalle risa, e mettevano alte e selvagge strida di esultanza in veggendo gran parte dei saccheggiatori venir fuora da quelle crollanti mura col volto e colle mani annerite ed arse: come sciami d'immondi animali ch'escono dalla putredine e dalla corruzione. Il Baronetto Edmondo si avvezzava con siffatti passatempi alla più cinica durezza di cuore. Quando gli si parlava di sentimento, di amore appassionato e gentile, ei rispondeva che tutto ciò è buono per quella gente che ama di pascersi d'illusioni, ma che la vita presenta un campo di piaceri positivi e reali sì vasto da non esserci bisogno di foggiarne fittizi e ideali. Un uomo, ei diceva, può cogliere i frutti saporosi dell'albero dell'umana vita, senza perdere il tempo a odorarne i fiori. Ci sembra superfluo il dire quanto un uomo di questa tempera deplorevole dovess'essere pericoloso per la pace domestica delle famiglie. Edmondo era pazzo per le donne andaluse. Allorchè gli si metteva innanzi la bellezza delle donne inglesi, ei ricorreva subitamente all'autorità di Byron, suo autor favorito, e rispondeva coi versi del _Child-Harold_. «Who round the North for paler dames would seek? «How poor their forms appear! how languid, wan, and weak!»[3]. Aggiungi che il giovin Baronetto era bellissimo del volto e della persona, la quale aveva acquistato proporzioni, forme e vigore negli esercizi cavallereschi e nella tempestosa ginnastica di una vita consacrata solamente a' piaceri. Egli avea fatto rivivere, a grande scandalo della civiltà dei tempi, l'antica razza de' _Cavalieri del Firmamento_. Eran costoro nel numero di dieci, regolati e condotti da Edmondo: vestiti tutti a un modo, bene armati e avvolti in mantelli azzurri screziati di stelle d'oro, simbolo del Firmamento, uscivano a cavallo da Sierra Blonda in sulla sera e percorrevano i dintorni, in caccia di avventure. Qualunque donna capitasse ad imbattersi in questi pazzi giovinastri era subitamente rapita, a qualsivoglia classe della società fosse appartenuta. Ne conseguitavano lotte, duelli e risse. Un tanto scandalo non poteva a lungo durare. Non ostante i potenti rapporti e aderenze, una ordinanza reale decretava il bando ai novelli Cavalieri del Firmamento. Edmondo e i suoi amici dovettero esiliare, il Baronetto si recò a Bajonna, sulla frontiera della Francia; il titolo di _Cavaliere del Firmamento_ gli era rimasto. Durante la sua dimora nell'Andalusia, il Baronetto Edmondo Brighton avea stretto amicizia col Duca di Gonzalvo, capo politico di quella provincia, il quale per qualche tempo avea nascosto e coperto agli occhi del governo le triste scorrerie del signorotto inglese e dei suoi. Il Duca di Gonzalvo era ben lontano dal supporre che un giorno si sarebbe pentito di aver conceduto la sua amicizia e confidenza a quel giovine dissipato e di pessimo cuore. Edmondo andava spesso a Siviglia per visitare il Duca, e questi lo accoglieva sempre con quell'amorevolezza che gl'ispirava il carattere disinvolto del Baronetto, non meno che le costui espressioni caldissime di affetto. Ma lo scopo delle frequenti visite di Edmondo non era già l'amicizia, bensì l'amore, essendosi fortemente invaghito della sorella del Duca, Juanita, fanciulla di rara bellezza e di bollenti passioni. Il Baronetto si abbandonò a quest'amore e con iscopo infernale, perciocchè abborriva finanche l'idea del matrimonio. Ma la condanna di esilio che lo bandiva dal territorio della Spagna venne, per buona ventura, a rompere il filo dei suoi criminosi proponimenti. Edmondo partì per Bajonna, lasciando nel cuore di Juanita il fuoco di una vergine passione, e la speranza d'una prossima unione. Ma innanzi di partire per Bajonna, il perfido Baronetto aveva ordita una trama diabolica per far cadere Juanita ne' lacci della seduzione. Nel 1803, il Duca di Gonzalvo fu costretto di abbandonar Siviglia, per essere caduto in sospetto del suo governo; e scelse per rifugio l'ostello del Baronetto Edmondo che allora dimorava a Bajonna, e che lo aveva invitato a trasferirsi quivi colla sorella. Il Duca ignorava gli amori dei due giovani, e menava egli stesso l'innocente colomba sotto le spirali del serpe affascinante. II. LA SERPE MORALE Juanita cadde nella rete che le fu tesa con astuzia infernale. Diremo a suo tempo in che modo il Duca stesso fu tratto in agguato, e quali si furono le funeste conseguenze di una colpa, cui la disgraziata giovine credette emendare colla morte. Sul capo del suo seduttore piombava intanto una maledizione orribile. L'onore oltraggiato, i più sacri legami di natura calpestati, l'amicizia tradita e vulnerata nel cuore chiamavan giustizia innanzi al Cielo. Noi scorgiamo sempre nelle fila degli umani avvenimenti il dito di Dio. Si addensino pure le più fitte tenebre in sul delitto: si eluda pure la giustizia degli uomini; si addormenti la rea coscienza nei rumori delle feste e nelle febbrili commozioni di concitati piaceri; la spada di Damocle penderà sempre in sulla testa del malvagio, e le parole del convito di Baldassarre si riprodurranno in tutt'i banchetti dell'empio. Edmondo sfuggì vilmente alla vendetta del Duca di Gonzalvo. Un istante dappoi che questi discoprì l'orrendo segreto che macchiava l'onore del suo casato, il Baronetto era già lungi dal teatro de' suoi disordini. Egli abbandonava per la seconda volta l'Europa, senza lasciare neppure un'ombra d'indagine sul paese ove intendeva trasferirsi. La bella e vasta isola di Cuba in America accoglieva il Cavaliere del Firmamento sotto altro nome. Ivi Edmondo non pensò ad altro che ad ammassare enormi ricchezze, mercè l'ignobil traffico degli schiavi. In pochi anni la sua fortuna, in gran parte dissipata dalle stravaganze della sua vita, si rifece e crebbe cotanto che ascese a circa quaranta milioni di reali di Spagna, vale a dire a oltre due milioni di piastre. Egli era il più gran proprietario di schiavi in tutta l'isola. Tra mille di questi esseri infelici raccolti in sulle coste dell'Africa, dobbiam notarne uno che diventò carissimo a Edmondo, e meritossi in prosieguo tutta la costui confidenza. La ragione di questa predilezione si fu la seguente: Edmondo volle dare un giorno a' Cubani lo spettacolo di una lotta di tori, sì comune in Ispagna. Egli avea fatto bandire in tutta l'isola che Sir Falstaff (fattizio nome ch'ei si era dato) si esponeva per divertimento nel circo a combattere contro un toro furioso. Al giorno indicato una folla straordinaria ingombrò il recinto formato di mattoni con rilievi di pietra, a somiglianza del circo di Jeres in Ispagna. Rizzavasi in mezzo all'arena un palo terminato da una specie di loggetta, su la quale si vedea saltellare e fare di mille smorfie e piacevolezze un grande orang-utang, vestito da buffone de' mezzi tempi, e ligato alla pertica da una catena tanto lunga da permettere che l'animale descrivesse un cerchio attorno al palo. Le vestimenta dell'orang-utang erano del rosso più cupo ad oggetto di stizzire il toro con quel colore di sangue. Dopo vari combattimenti eseguiti da schiavi, e varii giuochetti di forza e di agilità, il programma annunziava la comparsa di Sir Falstaff. Questi si presentò vestito alla _picador_ (picchiere); aveva al suo fianco un _matador_ (uccisore), giovanetto schiavo vestito alla turca, con calzoni alla mammalucca, con un sole raggiante nelle spalle, e col turbante a foggia di pasticcio. Erano entrambi armati di lunghe picche, e lo schiavo portava inoltre nella sinistra mano l'arma terribile domandata la _mezza luna_, la quale è una specie di semicerchio di acutissimo acciaio posto alla punta d'una lancia e fatto a forma di ronca: un tale strumento serve in particolar modo a tagliare i grandi alberi. Un toro giovane e vigoroso fu slanciato nel mezzo del circo. I due combattenti si erano ritirati per poco per dare il tempo alla bestia di inferocirsi alla vista del rosso orang-utang. Ed infatti, il toro, in veggendo quel colore addosso alla scimia, mandò un muggito spaventevole e si scagliò sovra quell'animale, il quale con un salto fortissimo raggiunse la loggetta della pertica, di dove si divertiva a dar la baia al furioso nemico. Grandi scrosci di risa che partivano dai seggi degli spettatori accoglievano le strida formidabili e feroci del toro che con estrema rabbia faceva rapidamente il giro del palo e poscia guardava con occhio di sangue al suo motteggiatore avversario, e dava di violente cornate nel mezzo della salda pertica, facendola traballare, a grande spavento dell'orang-utang, e a grande soddisfazione degli spettatori, i quali sganasciavansi dalle risa nel vedere la paurosa espressione della faccia dell'orang-utang ogni volta che il toro dava di cozzo nella pertica. E forse guari non sarebbe andato che il palo sarebbe caduto sotto i replicati urti della bestia selvaggia, se, nel momento in cui questa più sembrava aizzata, e di più feroci muggiti facea risuonare l'aere del circo, non fossero apparsi i due combattenti. Alle risa generali successe ben presto un gran silenzio: ognuno tremava per l'imprudente Sir Falstaff. Il toro, non appena ebbe scorti i due nuovi suoi avversari, si slanciò contro di loro con l'impeto del furore eccitato in esso dalle smorfie e dagli abiti dell'orang-utang. Edmondo lo aspettava a piè fermo, e, quando la bestia fu a certa distanza, egli le cacciò ne' fianchi la sua picca con mirabile coraggio ed agilità... Il toro mise un ruggito spaventevole, e, quantunque un rivo di sangue uscisse dall'aperta ferita, la rabbia lo spinse contro il suo avversario. Edmondo era indietreggiato per tener sempre l'animale a distanza della sua lancia, ma questa volta il toro diede un balzo sì terribile e tortuoso che Edmondo spezzò la picca tra le corna dell'animale senza ferirlo: era finita pel signorotto inglese, senza la prontezza dello schiavo che con un colpo della _mezza luna_ troncò le gambe al toro nè più nè meno che se fossero stati due sottili stinchetti o due rami. Allora la bestia venne uccisa senza pericolo. Edmondo era debitore della sua vita al suo schiavo. Fin da quel momento gli tolse tutt'i segni di schiavitù e sel tenne come il più caro dei suoi amici. Questo schiavo era nato ne' possedimenti inglesi: il colore del suo volto era di un pallido olivastro, per modo che pochissimo differiva dal volto comune degli Europei: una grande intelligenza, una cupa sensibilità, un coraggio di leone e una fedeltà a tutta pruova costituivano i pregi di questo giovine che diventò l'anima di Edmondo. Maurizio Barkley era il suo nome, che abbiamo visto figurare sulle polizze mensuali portate a Daniele dall'incognito straniero, il quale altro non era che lo stesso Maurizio. Questo schiavo avea pel suo padrone cotanto affetto e venerazione, che rifiutò la libertà che quegli voleva concedergli in premio della sua virtù: non ricusò per altro l'istruzione che Edmondo gli fece dare, per sempre più rialzarne la dignità di uomo. Il Duca di Gonzalvo avea scoverto il ritiro di Edmondo, così che questi non fu più sicuro della sua vita in Cuba; partì accompagnato da Maurizio Barkley. Dopo parecchi anni di viaggi, il Baronetto si fissò a Manheim, dove avea comprata la tenuta di _Schoene Aussicht_ e dove abbiam fatto la sua conoscenza. Una compiuta trasformazione si era operata nel Baronetto. La sua giovinezza era sparita e con essa tutte le illusioni de' piaceri, di cui era sazio e ristucco. La vita ch'egli avea sì follemente dissipata e schernita gli diventò così cara, che risolvette di vivere il resto de' suoi giorni nella più riposata felicità e nella più esemplare saggezza. Non ostante le orgie, gli stravizzi e le strambezze di ogni ragione, alle quali si era abbandonato nella sua giovinezza, la sua salute di ferro non era giammai venuta manco: egli avea innanzi a sè, secondo tutte le probabilità, altri quaranta o cinquant'anni di vita e una immensa fortuna; fermò adunque di passare questi altri anni in modo da procacciarsi tutt'i più dilicati piaceri, senza mai più mettere a repentaglio la sanità del suo corpo. L'odio del Duca di Gonzalvo e la vendetta che questi avea giurato contro il Baronetto, davano a costui grandissimo pensiero e rattristamento. Quantunque fosse stato quasi impossibile di scoprire il suo ritiro a Manheim, ed anche più impossibile di penetrare nei suoi appartamenti, pure egli temeva sempre un agguato; laonde, saputo che il Duca viveva in Napoli colla sua famiglia, pensò di mandare in questa città il fedelissimo Maurizio Barkley ad oggetto d'insinuarsi destramente nella casa del nobile spagnuolo, di cattivarsene la benevolenza, e cercare di scoprire se quegli avesse formato qualche disegno contro di lui Baronetto. Riuscì alle astuzie di Barkley di introdursi nella casa del Duca di Gonzalvo e diventare uno de' suoi intrinseci amici. Maurizio scriveva al Baronetto tutto ciò che il Duca pensava ed operava, e rassicuravalo pienamente, dicendogli che il nobile spagnuolo non conosceva per niente essersi il Baronetto ritirato a Manheim. I nostri lettori ricorderanno di aver veduto Maurizio Barkley alla festa di Lady Boston a Napoli, alla quale era stato presentato dallo stesso Duca di Gonzalvo. Un altro scopo e un'altra missione avea il soggiorno di Barkley in Napoli, oltre quello di spiare i pensieri del Duca. Diremo altrove quali erano questo scopo e questa missione. Edmondo menava in quel solitario ritiro di Manheim la vita riposatissima di un vero filosofo sibarita. Al disordine della sregolatezza era succeduto l'ordine più perfetto: tutto era pensato e sistemato secondo le regole della stretta igiene. Un esperto medico di Francoforte veniva a visitarlo di tempo in tempo e gli assegnava la qualità del cibo, del riposo, del sonno, dell'esercizio. Per premunirsi contro i pericolosi effetti delle variazioni atmosferiche, egli si era avvezzato a sottoporsi ogni giorno, in levarsi dal letto, allo _showerbath_ (bagno a pioggia) sì comune in Inghilterra e in Germania. Edmondo usciva dalla nicchia verticale del bagno a pioggia con una vigoria di salute, con una freschezza di mente, con un'alacrità di appetito, che il ringiovanivano di venti anni. Egli facea la sua colezione, indi passeggiava nella sua villa o si dava a' lavori campestri; più tardi gustava i piaceri della lettura, e poscia sedeva ad uno squisitissimo desinare inaffiato dal vin del Reno e dallo Xeres. Dopo pranzo, usciva a cavallo infino a sera, giunta la quale ei libava le delizie d'una parca cena in compagnia di pochi e scelti amici dotti e filosofi. Una parte della villa di _Schoene Aussicht_ era coltivata a gentile orticello. Edmondo, affin di procacciarsi un salutare esercizio, dava opera, come abbiam detto, a' campestri lavori nei quali trovava l'incanto di puri ed innocenti piaceri al tutto nuovi per lui. Nell'inverno egli formava diversi vivai, intrecciava i tralci delle viti e li copriva di terra per non farli offendere dal gelo, passava in rivista i seminati e curava di sviare le acque stagnanti; facea preparare e concimare il terreno; nella primavera ordinava seminature e piantagioni, sarchiava egli stesso le nocive propaggini: nell'està la mietitura richiamava tutta la sua sollecitudine, e la famiglia dei fiori tutto il suo amore; poneva all'ombra le viole, badava con diligenza agli adacquamenti: nell'autunno trapiantava le mammole; era tutto d'attorno agli alveari, cavandone il mele e la cera, e nettando le arnie da ogni immondizia; stava ben attento alla maturità dei semi autunnali per raccoglierli e farli prosciugare per conservarli. In simiglianti occupazioni Edmondo spendeva parecchie ore, e sempre ne risentiva grandissimo sollievo. Egli avea studiato in America l'arte delle piantagioni; avea però non poche cognizioni di agricoltura Nella isola di Cuba, oltre al traffico degli schiavi, le piantagioni dello zucchero, del cotone e del tabacco erano state le principali vene della sua ricchezza. Quasi ogni mese egli facea fare enormi carichi di cotone e di zucchero ai vapori armati pel Mississipi, e vendeva i prodotti delle sue terre ai paesi che si trovano lungo la corrente di questo interminabile fiume. Nuova Orleans era il centro, nel quale venivano a confluire i capitali di Edmondo, che vi teneva la sua principale amministrazione. La conversazione del Baronetto era delle più piacevoli ed istruttive, ed i suoi discorsi erano pieni di quella trista esperienza che danno i disinganni della vita. Egli avea tanto viaggiato; avea veduto tanti lontani paesi; era stato in mezzo alle più alte classi sociali, avea trattato gli uomini celebri di tutta Europa; ed oggi era al caso di ragionare con aggiustatezza di molte cose. Edmondo parlava con grandissima facilità molte lingue europee e varie orientali, tra le quali l'araba. Nella sua solitudine di _Schoene Aussicht_, egli coltivava le lettere e le scienze morali; leggeva quasi tutti i principali giornali che si pubblicavano nel mondo, e la sera faceva cogli amici i suoi comenti su qualche subbietto politico, morale, economico o industriale. Le ore serotine ch'ei passava ragionando di filosofia e di lettere erano le più belle della sua giornata. Molte volte si pentiva di aver dissipata la sua giovinezza, e diceva che il filosofo di _Schoene Aussicht_ avea maledetto il Cavaliere del Firmamento. Ma era egli parimenti pentito degli errori e delle follie della passata sua vita? Si doleva dei mali gravissimi che avea cagionati a tante disgraziate famiglie? Mal potremmo dirlo, imperocchè sulle ruine di quell'anima non ispirava l'alito dolcissimo e vivificante della grazia celeste. La saggezza umana, ch'è follia dinanzi agli occhi di Dio quando è confidente in sè sola ed orgogliosa, e l'età, l'inesorabile medicina della febbre delle passioni, aveano soltanto influito a cangiar quell'uomo; benchè la cagione precipua del mutamento che si era fatto in Edmondo fosse il segreto della Provvidenza, di che or diremo. Edmondo era stanco del passato ma non pentito. La sua anima era un vulcano estinto da cui esala tuttora un'afa mortale. Egli era sempre materialista. Ciò nulla di manco, non era possibile il credere che il proprietario di _Schoene Aussicht_ fosse il medesimo uomo che il Baronetto Brighton, il Conte di Sierra Blonda, e Sir Falstaff. Tra questi ultimi e il primo ci era quella barriera che separa la saggezza dalla follia. Edmondo era tutt'altro uomo da quello che era stato nella sua giovinezza. Abbiam detto che la precipua cagione del suo cambiamento era il segreto della Provvidenza. Che cosa dunque aveva oprato una tale straordinaria trasformazione? Un pensiero che era la serpe morale posta da Dio nel cuor di quest'uomo che tanto aveva oltraggiato le Divine sue leggi. Questo pensiero era la PAURA DELLA MORTE. Edmondo perciò non era felice. Mirabil castigo della Divina giustizia! Attraverso le delizie ond'ei si circondava, e nello stato della più perfetta sanità, quell'uomo avea molto spesso e quasi ogni giorno momenti di tristezza e di disperazione pensando che un dì egli doveva abbandonar la vita. Quando l'ora della sua morte fosse suonata, i suoi milioni non l'avrebber ritardata neppur d'un minuto! Orrendo pensiero che il rendea tristo e taciturno per ore intere, sepolto nella più desolante melanconia: Non era tanto il pensiero di dover finire che gli dava rovello e tristezza, quanto un altro pensiero che ne derivava qual conseguenza. Edmondo era preso da raccapriccio e da orrore pensando che il suo corpo nutrito con tanta ricercatezza, godente di tutte le dolcezze della salute e delle dovizie, conservato con quanto ci è di meglio nei regni vegetali ed animali, il corpo ch'egli tanto amava ed al quale prodigalizzava le più tenere cure, sarebbe stato un giorno abbandonato a pasto dei vermi della terra!! Edmondo fremeva, e non rare volte rompeva in codarde lagrime pensando al suo CADAVERE!! III. LE NOTTI DI EDMONDO Il proprietario di _Schoene Aussicht_ diveniva ogni giorno vie più tristo e impensierito: a stento i suoi amici il traevano qualche volta dalla concentrazione in cui cadeva. Edmondo incominciava a fastidiarsi benanche di quegli innocenti piaceri che avean dato alla sua anima serenità di sentimenti della natura. La sua conversazione languiva per difetto di attenzione in lui; poco parlava, e pochissimo parea che prestasse ascolto a' ragionamenti de' suoi dotti visitatori, a' quali non isfuggì lo stato del Baronetto, e più volte il richiesero della cagione della sua ipocondria. Colui dava sempre vaghe risposte, e negava che avesse motivi di essere sovra pensieri, ovvero adduceva per causa qualche disavventura immaginaria. Ma il sorriso non più ispuntava in sul labbro di Edmondo, la cui salute incominciò a risentirsi della prostrazione del suo spirito. E quanto più egli si accorgeva di dar giù nella salute, tanto più crescevano in lui le apprensioni, l'abbattimento, i fantasmi della morte e le agonie d'una debolezza di spirito singolare e straordinaria. Invece di procacciarsi distrazioni, egli prendea diletto ad immergersi nel fitto pensiero che il torturava. È questo appunto uno de' più strani fenomeni dell'umana natura, che cioè l'uomo trovi una certa voluttà nel pensare continuamente a quelle cose che più gli danno argomento di pena e di melanconia. Lo sventurato si attacca alla sua sventura, si ammoglia con essa, la tiene strettamente abbracciata con sè: vi s'inebbria fino alla mattezza: ogni distrazione gli riesce pesante, amara, importabile. Egli ama soltanto di sentir parlare della sua sventura; detesta chiunque cerca di strapparlo per poco dall'idolo suo, e maledice quella mano che si studia di arrecargli balsamo e sollievo. Oh se la malinconia di Edmondo fosse stata figlia del pentimento! Oh se il pensiero della morte fosse stato ispirato in lui dalla religione! Egli sarebbe stato felice, pienamente felice, imperocchè vi ha nella vita de' momenti in cui l'anima sente il bisogno di contristarsi, in cui, esaurito quel circolo limitato di usuali svagamenti, essa non può trovare un godimento che nella tristezza; non già quella tetra ch'è figlia di gravi infortunii, o cagionata da tormentosi rimorsi, il cui solo falso raggio di speranza è il nulla della morte, e che ama di pascersi nelle tenebre della notte o fra gli orrori delle tombe; non già quella disperata e funesta in cui cade il cuor d'un padre o d'una madre nel veder languire gli amati figliuoli nella miseria, o da altra simigliante sventura oppressi; ma sibbene quella cara e misteriosa tristezza che nasce nell'anima dall'innato amore del sublime e del bello; quel sacro dolore, che diffondono sul cuore le pagine de' salmi o le tenere carte Davidiche: quella tristezza a cui ne invita il racconto di qualche nobile azione, di qualche compassionevole avvenimento; quella dolcissima tristezza infine, di che inebbriano la nostr'anima il patetico suono delle onde del mare, il mormorio delle vergini foreste, un gemito dell'aura nel silenzio della sera quando si medita sulle ruine coverte di edera e di muschio, un raggio di luna che segna sul terreno la croce di selvaggia tomba. Avvi un'altra sorta di tristezza, necessaria all'anima, come la medicina al corpo infermo, ed è questa la tristezza del pentimento. Ah! chi mai non sentì una volta almeno in vita la necessità di questa tristezza? Augusta figlia della religione, sublime tristezza del pentimento, tu sei sacra come la voce della virtù, inviolabile come l'innocenza, soave come la speranza; per te l'uomo volge atterrito uno sguardo al passato, ed interroga gli anni scorsi nell'obblio della vita; è per te che un raggio di calma penetra il cuore dell'uomo colpevole, e diffonde sulla sua anima quella beata tranquillità dell'innocenza, a cui sortilla il Creatore. Ma il codardo affanno di Edmondo non provveniva, siccome dicemmo, dal pentimento. Una idea fissa e terribile il perseguitava, un'immagine che gli mettea il ribrezzo e lo spavento nell'anima: il suo Cadavere! Edmondo facea paura a sè medesimo, appunto come gli avrebbe fatto paura il suo cadavere, se egli lo avesse veduto. Questa fissazione era in lui mantenuta ed eccitata dal continuo riguardar ch'ei faceva sovra i dipinti di un gran volume di anatomia e di osteologia, nel quale erano varie grandi tavole con disegni dello scheletro e del corpo umano spogliato de' suoi naturali tegumenti. Oltre di che, il forsennato si abbandonava con delizia alla lettura de' libri più tristi e malinconici. Di notte tempo, e quando la natura, e gli uomini riposano, quando l'infelice che ha pianto ritrova nelle braccia del sonno il conforto e la calma, quando nessun esterno oggetto colpiva più i suoi sensi, Edmondo si mettea col pensiero faccia a faccia col suo Cadavere. Avvolto nelle seriche sue coperte, colle pupille spalancate, fisse sulla lampada d'oro che rischiarava la vasta sua camera da letto, immobile e freddo, il milionario immergeva il tremante pensiero nelle visceri della terra, e con orribile minutezza s'immaginava al vivo la dimora del proprio corpo colà dove tutto è silenzio e oscurità. Ci sforzeremo di ritrarre, per quanto ci sarà possibile con parole, le immagini che si affacciavano alla mente di quell'uomo nelle ore notturne, e quando il sonno fuggiva dai suoi occhi deliranti. Edmondo si vedea disteso in angusta bara ricoperta da sei palmi di terreno: l'aria, lo spazio e la luce erano scomparsi: ei si sentiva in sul petto il peso della terra, sulla quale più non dovea riporre il piede, quella terra su cui egli avea signoreggiato col suo oro, e che pareva tanto angusta all'ardenza de' suoi piaceri. Le voci degli uomini, i canti serotini, le parole dolcissime di amore e di amicizia più non colpivano le sue orecchie: nessun rumore! nessuna voce!! Il silenzio, assoluto, eterno, il circondava! Edmondo si sentiva consumar la carne: e le ossa, che prima erano ascose, discoprirsi a poco a poco. La corruzione, figlia della morte, abbrancava la sua preda; e i vermini, figli della corruzione, se ne impossessavano e penetravano a schiere, a migliaia nell'organismo in isfacelo. L'organismo del corpo, la più bella opera della natura, il capolavoro della Creazione, la lunga e penosa fattura delle visceri d'una madre, quell'organismo che dava sussulti di amore, di tenerezza, d'ineffabili angosce al cuore de' genitori; che per tanti anni la natura avea protetto contro le esterne ingiurie della materia bruta, quell'organismo tessuto con tanta profonda saggezza divina, miracolo quotidiano, magistero sublime, perfezione della materia, marciva qual succida poltiglia, pasto d'immondi animali senza nome, ignoti forse all'uomo vivo. SE DOMANI MI CERCHERAI PIÙ NON SARÒ: Queste sacre parole faceano raccapricciare e rizzare i capelli al milionario. Egli guardava attorno a sè con ispavento, interrogava i palpiti del suo cuore, i battiti del suo polso, per assicurarsi della vita. La lampada d'oro che illuminava la camera prendeva strane forme a' suoi occhi, e le ombre che sprolungava in sulle pareti si trasformavano in oggetti sepolcrali. Il pensiero di Edmondo era fisso, inchiodato alla bara, e la fissazione era tale, e l'esaltamento della fantasia era così grande che il misero si credea già divenuto cadavere. Un'agghiacciata immobilità lo colpiva: i suoi occhi più non iscorgeano la fosca luce che ondeggiava incerta e ombrosa in sulle sue pupille, quasi trasparenza di un funebre lenzuolo: le sue braccia e le sue gambe sembravano rifiutarsi alla sua volontà, sorprese dal ghiaccio di morte. Edmondo si ridestava con balzo convulsivo di questa tremenda illusione; si alzava a metà sul suo letto, pallido, cogli occhi stralunati, colla barba che parea sollevarsi di spavento come i peli dell'istrice: egli afferrava la corda di un campanello e con violenza estrema suonava al soccorso; e comandava al cameriere di accendere i torchietti dei doppieri in sulle mensole, di schiudere le imposte dei terrazzini, di starsi vicino a lui, di fargli udire la sua voce. Il cameriere eseguiva, stupefatto dalla stranezza de' comandi del suo padrone. Qualche volta i lumi rimanevano accesi per l'intera notte e non erano spenti che in sull'alba, ora in cui sulle stanche pupille di Edmondo scendeva il ristoro del sonno. L'infelice più non dormiva che colla luce del giorno. Simiglianti notturni fantasimi erano più terribili ancora quando il misero era preso dalla paura che cagionavagli il pensiero di essere sepolto prima ch'ei fosse in realtà spirato. Gli esempi che si citavano di persone, le quali, per apparenza di morte, erano state portate alla tomba ancora viventi faceano sollalzare i capelli del ricco Baronetto, e gli metteano la febbre nelle vene, il delirio nella ragione. Egli leggeva sempre un'opera tedesca intitolata, _La morte apparente_, nella quale con molti argomenti si dimostra la facilità di esser tratti in inganno su gli esterni segni di morte. Talune notti Edmondo, non potendo trovar calma nel letto in cui vedea la tomba, e sul quale ei pensava che dovea rimaner cadavere prima di essere trasportato all'ultimo soggiorno, si alzava, si vestiva, e dava di lunghi passi nella sua camera, stordendosi col rumore delle proprie pedate. Coverto da lunga veste di camera, colle braccia incrociate, quella sua lunga barba nera spiccava in sul volto pallidissimo e dava alla sua persona l'apparenza di un fantasma che percorresse quel vasto appartamento. Alcune altre volte egli si addormentava sovra una poltrona; ma non sì tosto avea chiuso le palpebre, sogni terribili se gli affacciavano all'egra fantasia. Gli sembrava di esser tolto di peso dalla poltrona dalle braccia di due nerboruti becchini, i quali il deponevano in una cassa mortuaria a dispetto delle alte strida ch'ei gittava, e gl'inchiodavano sul capo un coverchio di ferro. E mentre que' barbari si accingevano a porlo nella bara, ei vedeva tanta gente nella sua camera, e tra le altre persone distingueva due donne e tre giovani robusti e pieni di vita, che si affrettavano ad aprire gli armadi e i cassettini per impadronirsi del suo oro. Ci era benanche una donna dalle chiome sparse sulle spalle, dagli occhi bellissimi e neri come la notte, la quale rideva... rideva a sganascio dappresso al cadavere di lui, e mostravagli una larga ferita che si era fatta nel seno, e additavagli un bambino macilento che le giaceva ai piedi. Il rumore e le grida di esultanza che risuonavano in quel vasto appartamento soffocavano i gemiti di lui che si dibatteva sotto i pugni de' becchini. Edmondo si svegliava da questi sogni con un batticuore insopportabile, e più non potea richiudere le palpebre, anzi temeva di riprender sonno per non essere novellamente torturato da larve di tal natura. Da oltre un anno, Edmondo era vittima della sua fantasia. La sua fissazione lo avea talmente ridotto a male ch'egli si affrettava a grandi passi verso quello stato, cui tanto temeva. Il milionario parea che avesse fretta di divenir cadavere. Eragli nonpertanto rimasto bastante filo di ragione per fargli concepir rossore della sua propria debolezza, sì che mai non ebbe il coraggio di svelare la cagione delle sue sofferenze. Ma si avvide ben presto che bisognava trovar rimedio a tanto male; fermò quindi di vincere la ripugnanza ch'egli aveva a far palese la strana causa del deterioramento della sua salute. Il domani, ben per tempo, scrisse al suo medico di recarsi sul momento a _Schoene Aussicht_. IV. UN RIMEDIO Il domani, nella prim'ora del mattino, il Dottor Weiss di Francoforte si faceva annunziare al Baronetto Brighton. Costui si era da qualche ora alzato dal letto ch'era divenuto per lui più tormentoso di uno spinaio. Una limpida giornata di giugno incominciava il lungo suo corso. Un fresco venticello baciava le cime delle acacie, correva allegro e pazzognolo lunghesso i viottoli ombrosi della villa di _Schoene Aussicht_, e rapiva i primi profumi dei fiori, trasportandone gran parte nella camera da letto di Edmondo, il terrazzino della quale era dischiuso. Il milionario si era appoggiato alla ringhiera del terrazzo: il sereno del cielo, le balsamiche aurette di primavera, il concerto degli augelli, il tremolare delle fronde, aveano per poco discacciata la negra nebbia che premea l'anima di Edmondo, ed avean dato a' suoi pensieri altro avviamento non così malinconoso. L'annunzio della visita del medico gli giunse grato come foriero di guarigione. Edmondo fece entrare il Dottor Weiss in un gentil salottino di conversazione, attiguo alla camera da letto, ed ei pure entrovvi e si sedè, invitando il medico a far lo stesso. — Vi trovo molto cangiato dal giorno in cui ebbi ultimamente l'onore di visitarvi, signor Conte, cominciò il medico — Non sono che quindici giorni all'incirca, e rinvengo sul vostro volto le orme di una devastazione che mi dà pensiero e pena. Che vi è accaduto in questo lievissimo tempo? — Non so, Dottore, rispose Edmondo, ma io sto male, malissimo; sono più di dieci giorni che il sonno sembra fuggire dagli occhi miei, o, se talvolta una cascaggine mi sorprende e un filo di sonno si stende sulle mie stanche palpebre, è peggio, perciocchè uno sciame d'immondi fantasimi mi vola sul capo, strarnazzando le ali su tutto il mio corpo. E non ci è modo di sottrarmi a questa orrenda pressione che mi uccide, che mi conduce alla tomba, che mi rende cadavere!... cadavere! Pronunziando queste due ultime parole, il Baronetto fremè: il suo sembiante s'infoscò talmente che il medico ne fu sorpreso e guardollo fisamente. — Datemi il vostro polso, signor Conte. Dopo di aver esplorato il polso del Conte per qualche momento, il medico disse, come se avesse parlato fra sè: — È strano! il polso è convulso! E tornò a riguardar negli occhi l'infermo, procurando scavargli i pensieri e lo stato dell'anima. — Una violenta e tormentosa passione vi agita, signor Conte, gli disse indi a poco; le profonde occhiaie solcate sul vostro volto, i battiti irregolari e convulsi del vostro polso, i fantasmi della vostra mente; tutto mi rivela che voi siete sotto l'impero di un patema di animo. La vostra infermità non è di quelle che caggion sotto l'esplorazione dell'arte; fa d'uopo ricercarne altrove l'origine: emmi d'uopo di tutta la vostra illimitata confidenza. Parlatemi francamente, signor Conte; pensate ch'io sono per voi qualche cosa di più di un medico, son vostro amico. Il Dottor Weiss distese la mano al Baronetto, il quale gliela strinse macchinalmente, e disse dopo pochi momenti: — Dottore, io vi estimo amico e de' più leali, e però non avrò onta di palesarvi quello che soffro, a patto che le mie parole rimangano sepolte in voi. Un'invincibile ripugnanza mi ha finora tenuto dall'aprirvi l'animo mio. Mi promettete di non rivelare ad alcuno quanto sarò per dirvi? Io mi confido all'amico, e aspetto dal medico la mia salvezza. — Parlate liberamente, signor Conte, vi giuro che serberò il segreto. — Ebbene, Dottore, sappiate che da oltre a un anno uno strano fantasma avvelena la mia vita. La notte sopratutto, la notte io gemo sotto la pressione di questo incubo morale che mi strugge, che mi succhia il sangue nelle vene, che mi spinge a grandi passi alla tomba. — Qual'è mai cotesto fantasma? chiese con premura il medico. — Il mio cadavere! rispose cupamente il Conte e abbandonando il capo sul petto, compreso dal più mortale scoraggiamento. — Il vostro cadavere! sclamò il Dottore in atto di chi non ben comprenda, quello che gli si dica; non vi capisco, signor Conte; mi fa mestieri intendere più chiaramente l'indole di un tale fantasma. — Ah! Dottore, non vedete ch'io soffro a parlarne? Come farò per farmi comprendere? Non vi ho detto abbastanza allora che vi ho nominato il mio crudel nemico, il vampiro che mi consuma la carne, che scopre le mie ossa, che rode i miei visceri, e che mi annienta... mi distrugge? Il mio cadavere! Egli è... là, sempre rimpetto a me, con quegli occhi socchiusi e velati dalle tenebre della morte, colla bocca spalancata, livido... immobile come un pezzo di cera; il mio cadavere abbandonato sul letto dell'estrema agonia!... Vedete quelle persone che passano da costa ad esso; sembran paurose di svegliarne il sonno!... Chiunque se gli avvicina rattiene il fiato per tema di fiutare le putride esalazioni di quel corpo, sul quale incomincia la seconda opera della natura, il lavoro di decomposizione. Gli elementi dell'aria atmosferica, quegli elementi che per tanti anni han lavorato a conservar la vita, ora si affrettano a ripigliarsi il frutto dell'opera loro, appropriandosi le molecole che si staccano da quelle ruine di organizzazione. Ogni minuto secondo, strappa o disfà una fibra di quel corpo il quale perde... sempre senza mai più acquistare. Tutta la natura si gitta, come uccello di rapina, su quel suo figlio, alla cui conservazione ella avea fatto concorrere tutte le sue forze; ed ora si affretta a disfare quel dilicato tessuto... Nelle tenebre si compirà questo lavoro di decomposizione, siccome nelle tenebre si era compito il lavoro di formazione: le visceri di una madre crearono, le visceri della terra consumeranno: nove mesi ci vollero per formarlo, e forse NOVE MESI ci vogliono per disformarlo interamente: quel primo tempo fu contato co' palpiti di un amore ineffabile, l'amor materno; il secondo tempo chi mai l'ha calcolato? Oh... il mio Cadavere!... le visceri del mio amore, abbandonato da tutti e da tutto! abbandonato alla terra, sua crudel nemica, alla creta che lo abbranca per farne creta, a' vermini che ne fanno la loro abitazione! E chi sa dirmi quello che soffrirà il mio povero cadavere? Chi conosce i misteri della tomba? Non può forse avvenire che l'antica magione del pensiero risenta l'orrore del sepolcro? Chi mi assicura che il cadavere non soffra nel vedersi strappato da' beni della vita, da quanto egli ha amato in sulla terra? Oh! il sonno della morte sarebbe men duro se i nostri corpi non rimanessero esposti agli orribili ospiti delle visceri della terra! Se potessimo in morendo avere la dolce consolazione di sapere che coloro i quali ci hanno amati non abbandoneranno le nostre spoglie! Il mio Cadavere!... il mio povero Cadavere abbandonato da tutti!... da tutti! Edmondo ruppe in lagrime, come un bambino. Il Dottor Weiss aveva attentamente seguito le parole del Baronetto, la cui eloquenza era eccitata dal favorito soggetto della sua orribile fissazione. Non ci era più dubbio! Il medico avea tutto compreso, tranne una cosa, che dovea pur formare il perno delle sue argomentazioni. In che stato si trovava la coscienza del Conte? Gli è vero che la fissazione di lui e i fantasmi, che il maceravano non erano dell'indole di quelli che soglion morder l'anima dei rei; ciò non per tanto una tale angosciosa fiacchezza di spirito in un uomo forte, vigoroso, che avea veduto il mondo, che aveva arrischiata tante volte la vita, che era stanco e sazio di tutti i piaceri: una tale fiacchezza di spirito era inconcepibile senza una prepotente cagione morale, la cui mala radice era forse nella coscienza di lui. Ad ogni modo, lo stato di Edmondo era tanto deplorabile in quanto che l'infermità non era del genere di quelle che vanno sottoposte alla disamina e curagione dell'arte medica; ei bisognava operare sul morale e trovar rimedi nella filosofia e nella religione. Edmondo era ricaduto nel suo cupo abbattimento, dal quale il Dottor Weiss si affrettò di trarlo. — Tutto ho compreso, signor Conte, dissegli il medico: trista è la situazione dell'anima vostra, ma non è da disperare. Prima di tutto, permettete che vi faccia un'interrogazione. Vi ricordo che in questo momento io sono amico vostro, e che entrambi dobbiamo cercare una via che ci guidi alla desiderata guarigione. In che stato si trova la vostra coscienza? — Che intendete dire, Dottore? dimandò esterrefatto il Conte, credendo che il medico volesse disporlo per l'ultimo viaggio. — Intendo dire, soggiunse questi, che la riparazione di qualche male involontario da voi cagionato potrebbe essere il più efficace rimedio contro i fantasmi che vi assediano. Una buona coscienza è il miglior guanciale su cui si trovi leggero il sonno e ristorante. Edmondo abbassò il capo e nulla disse. Questa volta egli avea compreso il vero sentimento delle parole del Dottore. — Signor Conte, ripigliò questi che dal silenzio dell'infermo avea già sospettato non esser monda di colpe la coscienza di lui — non è mio intento il voler entrare ne' segreti della vostra vita. Iddio solo scruta i cuori e giudica gli uomini: ma è mio debito di rischiarare la vostra mente sulle probabili origini del funesto e straordinario malore di cui siete vittima. Se la radice del male stesse nel vostro organismo e nelle funzioni che ne dipendono, io sarei obbligato di cercare con accuratezza la cagione di un tale disordine per apportarvi salutari medicamenti; ma la serpe non istà nel vostro organismo, signor Conte, bensì là... nel fondo della vostra anima, dove non è dato all'occhio umano di addentrarsi. A me basta l'aver su questo richiamata la vostra attenzione. Mi permetterò di farvi eziandio osservare che la via del pentimento è la più bella che vi si offra e la più atta a ridonarvi la pace smarrita e a bandire le tristi e lugubri immagini, sotto il cui impero voi soccombete. Siete ancora giovine, ricco e di valida salute; avete ancora innanzi a voi una lunga serie di anni. Se una colpa ha bruttata la vostra coscienza, se una follia giovanile vi pesa in sul cuore, volgete al cielo il vostro sguardo, implorate la Divina clemenza, riparate, se è possibile, al male che avete fatto; se l'innocenza è bella, il pentimento è più nobile; l'anima vi si ritempera, vi si fortifica e vi attinge la calma e la gioia. Che se niun rimordimento è nel vostro cuore, se una singolare attitudine ipocondrica del vostro spirito è la cagione del tristo fantasma che tormenta le vostre notti, non saprei indicarvi altro rimedio più efficace che la distrazione. — La distrazione! mormorò tristamente il Baronetto, e dove trovarla? E l'anima mia non si rifiuta forse ad ogni maniera di svagamento? — Fa d'uopo sforzarsi alla distrazione, signor Conte; ei bisogna che non istiate solo in nessun'ora del giorno, e se è possibile, della notte: bisogna che vi mettiate nell'attività de' piaceri, che frequentiate le riunioni, i teatri. Oltre a ciò, vi propongo un rimedio della cui riuscita molto mi riprometto; esso vi costerà un po' d'oro. — Dell'oro? E che non darei per riacquistar la mia salute e la tranquillità del mio spirito? Parlate, parlate. Di che si tratta? Che debbo fare? — Ebbene, signor Conte, il rimedio ch'io vi propongo è il seguente: Abbiamo a Manheim un giovine pianista italiano che ha destato in pochi mesi l'ammirazione e la simpatia di Europa. Egli ha dato accademie a Parigi, a Londra, a Berlino, a Vienna: ier sera si è fatto udire in questo teatro di Manheim, ed ha prodotto tale entusiasmo, che pochi suonatori possono vantare un sì bel successo. Voi gli scriverete, signor Conte, e lo inviterete a passar con voi un mese o due: i soavi accordi ch'ei sa trarre dal piano-forte avranno forza di strapparvi dai vostri bui pensieri: la sua compagnia vi rallegrerà, quasi novello Davide porrà in fuga la malinconia del nuovo Saulle. — Che nome ha questo giovine? — Daniele de' Rimini. — E credete che la musica sarà capace di ridonarmi la serenità dell'animo? Credete che le armonie del piano-forte varranno ad allontanare dalla mia mente l'immagine del mio Cadavare? — Io lo spero, signor Conte. — Ebbene io tenterò questo mezzo: dimani il giovine pianista italiano Daniele de' Rimini avrà stanza in questo casino. Un servo pose termine alla conversazione, annunziando che il bagno a pioggia era pronto. La sera di questo giorno, Daniele de' Rimini riportò un altro trionfo. Dopo l'accademia, gli abitanti di Manheim, trasportati di entusiasmo pel suonatore italiano, l'aveano accompagnato infino all'albergo dov'egli avea stanza. Correndo la stagione de' bagni, Manheim era zeppa di forestieri, e il teatro era de' più animati e brillanti. Daniele, siccome abbiamo accennato, aveva in pochi mesi percorso le prime capitali di Europa: la fama il precedeva dappertutto, e un trionfo lo aspettava in ogni paese in cui si faceva udire a suonare. La sua giovinezza, l'avvenente malinconia del suo volto parlavano in suo favore anche prima che ponesse le mani sui tasti del piano-forte. La qual cosa il giovine non sì tosto incominciava, gli uditori erano rapiti e incantati dalla magia degli accordi, dalla dolce mestizia de' motivi delle opere italiane, a' quali Daniele dava una veste di armonie al tutto corrispondenti e flebili. Il genio o l'ambizione, animava le dita di quel giovine? L'uno e l'altra. Il genio era mezzo; l'ambizione, o, per dir meglio, l'avidità dell'oro la molla delle sue ispirazioni. Daniele era partito il 1 gennaio da Napoli, povero e oscuro. Cinque mesi appena erano scorsi ed egli avea già acquistato celebrità; ma il suo peculio non arrivava per ora che ad una somma tenuissima, Daniele era scoraggiato, ma non disperava; gli restava ancora a percorrere altra metà dell'Europa e tutta l'America settentrionale: i viaggi assorbivano gran parte dei suoi guadagni. Il domani della seconda accademia data a Manheim un domestico in gran livrea consegnava a Daniele il seguente biglietto: «Il Baronetto Edmondo-Isacco Brighton, Conte di Sierra Blonda, prega il sig. Daniele de' Rimini di favorirlo questa mattina nella sua proprietà di _Schoene Aussicht_». Dopo un'ora, Daniele de' Rimini si trovava alla presenza di Edmondo. V. LA RICCHEZZA Dicemmo che il casino del Baronetto era composto di due piani. Nel secondo egli dormiva, essendo esso la consueta sua abitazione; in questo era una stanza decorata con tutto ciò che può allietare i sensi, e fornita di quanto è necessario per le comodità della vita. Era questa la stanza, in cui il Baronetto passava la maggior parte dei suoi giorni, e dove la sera riunivansi gli amici per prendere il tè e per abbandonarsi agli allettamenti della conversazione. Questa stanza riguardava i più ameni paesetti e villaggi alemanni che attorniano le rive del Reno: due ampie finestre si aprivano a mezzogiorno e ad oriente. Questa stanza, dal colore de' suoi paramenti, era chiamata la _Camera verde_. Il secondo piano rispondeva al primo per via di una magnifica scala interna di marmo greco a tre branche, su ciascun pianerottolo delle quali era una statua de' più rinomati artisti, e vasi di fiori odorosi e di piante fiorite di cedri o di oleandri: ringhiere e bracciuoli del più fulgido cristallo inglese e del più capriccioso disegno ornavano le branche di questa scalinata, a piè della quale un'illusione di giardino guidava al quartiere del lusso, ch'era appunto il primo piano. Non ci allungheremo a dipingere alla immaginazione de' nostri lettori la splendidezza di questa magione da fate. Conciossiacchè piccole le camere, ciascuna era un gioiello di civetteria, di eleganza, di gusto; ciascuna riuniva in sè sola il _comfortable_ d'una casa inglese. Visitando quella scacchiera di stanze, tutte eguali, rettangolari, forbitissime, ma silenziose e deserte, ti si apprendeva all'animo un senso di mestizia, pensando che in quelle fulgide e ricche pareti non suonava il rumore sì grato agli orecchi di Dio, il rumore della famiglia. Quella solitudine e quel silenzio ti piombavan pesanti sul cuore come se avessi visitato l'interno di un principesco mausoleo. Rarissime volte il Baronetto scendeva al primo piano. Nei primi anni della sua dimora a _Schoene Aussicht_, e quando il filosofo non avea del tutto dimenticato il Cavaliere del Firmamento, quel primo piano era designato ad accogliere qualche pellegrina visita, o qualcuno dei vecchi amici di follie di Sierra Blonda, comecchè questo caso fosse più raro, a cagione della cautela che Edmondo metteva a tener celato il suo ritiro. Ma da un pezzo il primo appartamento di _Schoene Aussicht_ non riceveva più ospiti di genere equivoco, ed ora si contava parecchi anni dacchè lo stesso padrone non vi poneva il piede. Nondimeno il quartiere era mantenuto con la massima nettezza, come se ogni giorno avesse dovuto accogliere un cospicuo personaggio. Questo primo piano era quello appunto che il Baronetto ordinava a residenza del giovine pianista italiano, ed in esso propriamente volle riceverlo per la prima volta. Era in questo appartamento un salottino messo con un lusso così sfacciato e con sì incredibile magnificenza che nell'entrarvi l'occhio vi rimaneva abbagliato. L'adornamento di questo salotto era costato al Baronetto un denaro che avrebbe potuto formare la fortuna di cento famiglie. Diremo soltanto che molti mobili ivi contenuti erano di oro massiccio, e che vi erano due seggiole d'avorio, a forma di baldacchini, lavorate sul gusto cinese, e ricoperte da cuscini orientali. Edmondo avea voluto profondere enormi somme nell'addobbo di questo primo piano, ed in particolar modo di quel salotto per quella eccentricità che formava sempre il fondo del suo carattere, e per vaghezza di contemplare raccolte in piccolo spazio le meraviglie del lusso e delle arti. La ricchezza pompeggiavasi in tutto il suo orgoglio in quel ricinto dove l'oggetto più misero, più fragile, più perituro, più dappoco che vi si vedesse era per lo appunto il padrone di tante dovizie. E bene faceva Edmondo ad entrare di rado e quasi non mai in quel salotto, che tacitamente lo scherniva e gli additava i sei palmi di fetido terreno, che gli erano destinati per ultimo asilo. In questo salotto Edmondo ricevè Daniele. Perchè si era così affrettato il giovine pianista ad accorrere all'invito del Baronetto? Perchè già gli era giunto all'orecchio il suono delle grandi ricchezze del solitario di _Schoene Aussicht_, e Daniele non credè a' propri occhi nel leggere il biglietto del nobile. Il suo cuore gli diceva ch'era quella un'occasione propizia; che forse il Conte di Sierra Blonda avrebbe potuto esser per lui una sorgente di fortuna; che forse quell'uomo il quale vivea lontano dai rumori della città e de' divertimenti sarebbe per lo meno un filosofo amico delle arti e incoraggiatore splendido dei giovani artisti. Checchè avesse tra sè pensato il nostro Daniele, il fatto è che volò come un fulmine all'invito che gli sopraggiunse caro per quanto inaspettato. Rinunziamo a dipingere la maraviglia di Daniele veggendosi introdotto in quella casa e proprio in quel tempietto d'oro, di cui abbiam parlato: il colse un capogiro una vertigine: era quel salotto il riverbero dell'anima sua, lo specchio de' suoi ardenti desideri: quell'oro riflettevasi a sprazzi di fuoco nel suo cervello, e rimescolava le sue idee e confondeva la sua ragione nè più nè meno che se fosse stato un barilotto di poderosissimo vino. Tanta fu la luce che balenò da quel salotto che Daniele non vide il Baronetto, il quale, vestito a nero, era seduto sovra un piccolo canapè a forma di conchiglia. Edmondo era così pallido, così emaciato, che il suo volto parea dileguarsi in sulla nera barba che gli scendeva insino al petto. La voce del Baronetto trasse Daniele dall'estasi in cui era immerso, e chiamò i suoi sguardi attoniti sul nume di quel tempietto. — Sedete, bel giovane. Non siete voi l'egregio pianista signor Daniele de' Rimini? Edmondo avea parlato in francese; era nell'accento e nella voce di quest'uomo qualche cosa di cupo e di affannoso che colpì all'istante il giovine artista, il quale con leggiero imbarazzo rispose chinando i begli occhi: — Perdonate, signor Baronetto, al mio imbarazzo e al mio stupore, cagione della scortesia che ho commessa nel non riverirvi appena son qui entrato. Le arti umili e dimesse veggonsi confuse alla presenza di tanto splendore. D'altra parte, vi confesso che io mi aspettava di entrare nell'ostello della filosofia, perocchè il grido delle vostre estese cognizioni.. — E non vi siete ingannato, interruppe il Baronetto, nel credere che avreste trovato in me un filosofo, il quale per altro ha la sventura di esser ricco! Ma, di grazia, accomodatevi signor de' Rimini. Daniele salutò col capo e con molta osservanza il Baronetto, e si sedè in faccia a lui sovra altro divanetto a forma di sfinge, ripetendo tra sè con estremo stupore, e come se avesse cercato di capire il senso di un paradosso; _il quale per altro ha la sventura di esser ricco!!_ Edmondo avea fitto lo sguardo sul sembiante di Daniele e massime negli occhi che gli avean fatto una impressione gratissima. Fin dal primo affacciarglisi del giovine italiano, il Baronetto avea provato un subitaneo sentimento di simpatia; onde trasse lieto augurio pel tentativo di curagione che gli era stato consigliato dal Dottor Weiss. Daniele era davvero un vago e gentil giovanotto. Un leggiero accrescimento di salute congiunto alla situazione in cui trovavasi colorava il suo volto di una tinta di rosa. I viaggi avean data alla sua complessione maggior vigoria e a tutta la sua persona un'aria di più gran distinzione. Questa volta due leggiadre basette coronavano le sue labbra, andandosi a congiungere con un semicerchio di barba che gli circondava il mento; il suo sguardo era animato dalla vivacità della giovinezza, della salute e del genio. — La fama della vostra somma abilità nell'arte musicale è giunta infino al mio solitario ritiro, disse Edmondo guardando sempre con compiacenza il giovine italiano: la mia salute non mi permette di andare al teatro ed avere il piacere di sentirvi a suonare; ed io anelava di conoscervi: ecco la ragione per cui vi ho pregato di onorarmi. — Che dice mai, signor Baronetto! Ascrivo ad un particolar favore della mia sorte l'avermi procacciato un tal piacere ed onore, rispose Daniele, a cui le parole del Conte faceano un effetto gradevolissimo. — Fuori cerimonie, signor de' Rimini, io sono filosofo e voi siete artista; la filosofia e le arti si vantano di schiettezza; la ragione e la verità sono le loro basi, io dunque vi parlerò il linguaggio dell'affetto più che quello delle convenienze. — Dell'affetto! signor Conte! esclamò Daniele trasalendo di gioia. — Sì, dell'affetto. E pria di tutto, vi confesso ch'io trovo nella vostra fisonomia qualche cosa che m'innamora di voi. Non so perchè, ma in entrando in questo salotto, le vostre sembianze mi han tocco profondamente. — Ebbene, signor Baronetto, dal canto mio vi confesserò parimente che la vostra voce e la vostra fisonomia han fatto in me un'impressione così grata, ch'io non dimenticherò in tutta la mia vita la vostra persona. Ma un tal piacere mi viene amareggiato dalle parole che testè mi avete dette, signor Conte. — E quali? — Che lo stato della vostra salute v'impedisce di uscire. — È vero; io soffro, bel giovanotto, soffro assai; ma chi sa! forse dovrò a voi, se non l'intera mia guarigione, qualche ora almeno di sollievo. — Deh! piaccia al cielo ch'io possa avere il piacere di contribuire al ricuperamento della vostra salute! — Ne ho speranza, e sopratutto da pochi momenti a questa parte. La vostra sola presenza ha già prodotto in me un effetto salutare. Che età avete, bel giovine? — Sto nel ventesimo terzo anno della vita. — Così giovine, e già pieno di gloria! — La gloria! ripigliò il pianista, la gloria! L'è gran bella cosa la gloria, è vero, ma non basta alla felicità dell'uomo in su la terra. Oh se io fossi ricco! — Oh! che mai dite! ricco! Ebbene; guardate, mirate il mio volto; son io felice? Eppure io sono due volte milionario. — Due volte milionario! esclamò Daniele con occhi di fuoco, e il suo petto si gonfiò, e dalla sua bocca, dalle sue narici il fiato usciva con impeto. La trista corda dell'anima sua era tocca. — Sì, due volte milionario, ripetè il Baronetto, e ciò non ostante io sono la più misera creatura che sia nel mondo. — Voi, signore! — Io, io propriamente, io darei la metà di quanto posseggo, purchè dormissi una sola notte il sonno che si dorme alla vostra età e colla vostra salute. — Oh mio Dio! tanto dunque voi soffrite, signor Conte! — Tanto io soffro! ripetè come un'eco sepolcrale il Baronetto. Ebbero luogo tra quei due personaggi pochi momenti di silenzio. Edmondo riprese. — Vi farò una proposta, signor de' Rimini, e voglio sperare che l'accettiate. — L'accetto, signor Conte, rispose Daniele con fermezza. — Anche prima di sapere di che si tratta. — Qualunque cosa mi proponiate, io l'accetto, tornò a dire il giovine con risolutezza. — Ed io vi ringrazio con tutta l'anima, signor de' Rimini, e spero non essere ingrato alla premura che mi dimostrate. Io dunque vi propongo di passare un mese in questa città di Manheim, e, se non vi dispiace, in questo casino. Vedete quanto ardisco sperare da voi! Rinunziare ad un mese di trionfi, e adattarvi a viver con un povero infermo qual sono io! — Un mese! esclamò quasi tra sè Daniele. — Un mese, due o tre, il tempo che vi piacerà. E giacchè intendo godermi io solo le vostre accademie, è giusto ch'io le paghi. Vi offro dunque trentamila franchi al mese. — Trentamila franchi al mese! ripetè con occhi di pazzo il pianista, il suo cuore fece un balzo terribile. E ditemi, signor Conte, trentamila franchi al mese che somma fanno a capo di un anno? — Trecento sessantamila franchi, rispose Edmondo, vale a dire circa 63,000 piastre di Spagna. — Non basta!!! esclamò scoraggiato Daniele, e quasi avesse risposto ad una interrogazione che avea fatto a sè medesimo. Edmondo fu estremamente sorpreso da quella parola, ch'egli credette diretta a sè. — Così giovane e così assetato di ricchezze! esclamò tra sè il Baronetto; è inconcepibile! Daniele capi l'errore che avea commesso, arrossì tutto, e si affrettò a dire. — Perdonate, signor Conte, non a voi era diretta quella parola che testè mi è sfuggita dalle labbra. La somma che voi mi proponete è una fortuna immensa per un povero artista qual io sono, ma io non posso rimanere sì a lungo in Germania. Mi permettete adunque ch'io accetti solamente per un mese, e mi darete quella somma che vorrete. — Sia dunque per un mese, disse Edmondo: a contare da questo giorno, n'è vero? — Da domani, signor Conte. — Ebbene, domani vi aspetto: questo appartamento vi sarà assegnato; le mie carrozze e i miei servi sono a vostra disposizione fin da questo momento. Daniele era per accommiatarsi dal Baronetto, quando nel salotto entrò il dottor Weiss. Edmondo prese per la mano il giovane italiano, e, presentandolo al medico, disse: — Dottore, ecco il signor de' Rimini, il RIMEDIO che mi avete proposto. Egli è mio ospite per un mese. — Davvero! Voi, signor de' Rimini... Il medico s'interruppe, indi ripigliò: — Ma, è strano! è curioso! è incredibile! Signor Conte, questo giovinotto vi rassomiglia a capello: quegli occhi sono i vostri, quella fronte è la vostra, quel naso è il vostro... Ah! ah! ci sarebbe da scommettere che il signor de' Rimini vi è figlio! Questo scherzo fu una scossa elettrica per quei due personaggi, che si guardarono, arrossirono e impallidirono, come se quella parola gittata così per celia fosse stata una inattesa rivelazione. VI. L'ARTISTA Il giorno appresso, Daniele era stabilito al primo piano del casino di _Schoene Aussicht_. Il Baronetto avea posto agli ordini del giovine pianista le migliori delle sue carozze e due scelti domestici, uno tedesco e l'altro francese. Il più splendido e principesco servizio era ai comandi di Daniele, il quale era trattato come un ospite regale. La colezione gli era recata nel suo appartamento, il pranzo era comune col Baronetto, così avendo disposto lo stesso Daniele. Edmondo gli avea lasciata intera libertà, sicchè il giovine era padrone assoluto di sè medesimo in tutto il corso del giorno. Ma al cadere delle tenebre, e in sull'ora del pranzo, il Baronetto il facea pregare di salire al secondo piano. Dopo il pranzo, Edmondo facea servire il tè nella camera verde, ove si riduceva assieme a Daniele, e dove, coricato sulla magnifica sedia a foggia di letto, si abbandonava al piacere di sentire a suonare il giovine pianista. Un preziosissimo pianoforte era stato trasportato nella camera verde. Pochi momenti dopo di aver preso il tè Daniele si sedeva innanzi allo strumento ch'ei toccava con tanta perfezione, e traeva da que' tasti sublimi e patetici accordi. Alcune volte Daniele suonava pezzi di grandi maestri da lui variati co' colori della più ricca fantasia. Era un torrente di melodie or piane e soavi come le cantilene religiose di vergini romite, or gravi e solenni come le preci dei morti salmeggiate in una chiesa lontana, or vivaci e liete come l'inno della speranza: era un concerto di accordi non mai uditi, or vibrati e veementi come i palpiti delle giovanili passioni, or dimessi e pacati come il mormorio del vento sulle acque d'un ruscello. Alcune altre volte Daniele sposava il canto all'armonia strumentale: e allora quella sua voce era una potenza di affetti inesprimibili, la sua anima parea soggiogata dalle commozioni. Quel canto limpidissimo, soave, tutto cuore, tutto passioni, eco dell'anima, quel canto italiano ispirato da un cielo innamorato, quel canto, delizia della vita, storia sublime delle segrete sofferenze del genio peregrino in sulla terra, il canto di Rubini, di Lablache, di Basadonna, si ritrovava in terra straniera sulle labbra di Daniele, e andava a toccare i più nascosti penetrali nel cuore di Edmondo, che pallido affannoso, tremante ascoltava le note dolcissime che, come effluvii divini, partivano dal cuore più che dalle laringi del giovine artista. Edmondo sembrava men tristo del consueto: dormiva talvolta sonni placidi. Ma il lugubre fantasma non cessava di assalirlo di quando in quando, e alcune volte ne' momenti stessi in cui suonava Daniele. L'incanto della musica spariva di botto, e le note basse del piano-forte prendevano agli orecchi di lui il solenne e terribil carattere de' rintocchi della squilla di morte. Una sera, Daniele cantò la romanza del _colpevole amore_, ch'egli avea cantata sei mesi fa, nella sala di Lady Boston a Napoli. Sì grande fu la commozione onde l'artista fu preso al ricordo della donna ch'egli amava, che non potè terminar la romanza; le lagrime gli bagnavano il volto. Inconcepibile contraddizione del cuore umano! Quel giovine, nei momenti in cui non era ispirato dal genio musicale, avea l'anima dura e malvagia: la sua condotta verso Lucia n'è una pruova. Ma nei momenti in cui era favorito dalla ispirazione, Daniele era tutt'altro uomo. Chi avesse giudicato di quel cuore negl'istanti in cui egli era artista, sarebbesi formato di lui l'opinione d'uomo sensitivo e virtuoso. Edmondo fu profondamente commosso dall'accento con cui il giovine avea cantato il suo _colpevole amore_; di talchè veggendo che quegli non poteva più proseguire per l'effetto delle proprie commozioni, gli domandò: — Voi amate, Daniele? — Amo, signor Conte, amo la più vaga creatura che sia sulla terra, ella ispira i miei componimenti, dà l'impulso alle mie dita. La speranza di possederla m'incoraggia alle più ardue fatiche. — In che paese si trova al presente cotesta fanciulla? — In Napoli. — Quantunque voi diciate che non paleserete il nome di lei ancora che vi si desse un regno, disse sorridendo il Conte, pure userò l'indiscrezione di dimandarvi a qual famiglia appartiene la donna che amate. — È la figlia di un nobile e superbo spagnuolo, che si è volontariamente esiliato dalla sua patria poscia che le vicende politiche lo ebbero spogliato del potere. — Il nome di costui? chiese il Baronetto con ansietà. — Il Duca di Gonzalvo. — Ah! egli! esclamò Edmondo: e voi siete il fidanzato di sua figlia? — Volesse il cielo che il fossi!... Ma voi conoscete il Duca di Gonzalvo? — Sì, rispose con tristezza il Baronetto, l'ho conosciuto in Ispagna: uomo protervo, ambizioso, avaro! — È vero pur troppo quanto dite, signor Conte. Ambizioso, avaro e superbo! Oh! perchè sua figlia è un idolo di bellezza! Perchè ho avuto debolezza di amarla! — Rifiuta egli forse di rendervi felice? — Ebbene sì signor Conte, rispose ii giovine con abbattimento, ei ricusa. Il giorno in cui gli chiesi la mano di sua figlia, il superbo mi umiliò con ogni maniera d'ingiurie. — E quale speranza nutrite ancora di possederla? — Nulla posso nascondere a voi, signor Conte: la benevolenza di cui mi onorate e il vostro rispettabile carattere m'ispirano un'illimitata fiducia. Vi dirò adunque che io strappai al Duca di Gonzalvo la promessa d'attendere due anni prima d'impegnare la sorte di Emma sua figlia. — E condiscese il Duca ad aspettar questo tempo? — Condiscese, però che io gli promisi di ritornare..... dopo due anni..... di tornare.... Daniele avea vergogna di confessare il folle ardimento della sua proposizione. — Ebbene, di ritornar che cosa? dimandò il Baronetto. — Di ritornar..... milionario, rispose il giovine arrossendo e abbassando il capo. Edmondo sorrise. — Milionario! esclamò questi, e su che speravate accumulare in due anni una tal favolosa fortuna? — Nol so io medesimo, signor Conte, speravo negli eventi, nella mia stella, e soprattutto nella febbrile operosità che mi avrebbe data la mia passione per Emma. — E quanto avete guadagnato finora nel giro dello vostre accademie? — Pochissimo, signor Conte, quasi niente; le spese dei viaggi assorbono tutto. Mi avveggo pur troppo che la mia proposizione fu dettata da impeto giovanile, dallo sdegno in cui mi posero le umilianti parole di quel superbo... Ma non mi fo più illusione, signor Conte; i due anni passeranno, ed io non avrò potuto metter su che un meschino capitale appena bastante per vivere indipendentemente dal capriccio della sorte. Oh... ci vuol ben altro che note musicali per diventar milionario, non è vero signor Conte? — Verissimo, mio caro Daniele. La vostra proposizione fu troppo ardita ed inconsiderata: ciò nulla di meno.... Edmondo si fermò di repente; i suoi occhi erano animati, brillanti, il suo volto avea preso un carattere di vivacità straordinaria. Un pensiero al certo gli era volato per la mente al quale ei si era fermato con compiacenza e con delizia. Daniele avea notato il subitaneo cangiamento della fisonomia del Conte. La reticenza che avea seguita alla frase _ciò nulla di meno_ avea fatto balzar di speranza il cuore del giovane pianista. — Ebbene, signor Conte, voi dicevate... _ciò nulla di meno_. — Sì, rispose Edmondo io diceva... Non bisogna disperare... chi sa! Ditemi, Daniele, avete voi coraggio? — Se ho coraggio! Mettetemi alla pruova, signor Conte, e vedrete se ho coraggio anche di affrontar la morte! Daniele guardava attentamente il volto e gli occhi del Conte ne' quali si dipingeva quasi una specie di abberrazione mentale. — A che questa interrogazione, signor Conte? — Domani vel dirò... Domani parleremo a lungo... Io forse vi sarò debitore d'una ETERNA obbligazione, e voi forse dovrete a me... la vostra fortuna... Edmondo si alzò: il suo volto raggiava di insolita gioia. — Buona sera, Daniele, buona sera, gli disse stringendogli la mano, buona sera, figlio mio, a domani... a domani... Chi sa! domani forse la vostra sorte è cangiata! Il Baronetto si ritirò. Daniele rimase trasognato. Eppure, quella parola che il Conte avea profferita, quel _figlio mio_ avea scossa l'anima del giovine! VII. LE CONDIZIONI Si figurino i nostri lettori con qual e quanta impazienza Daniele aspettò il giorno vegnente. Le parole erano state chiare e precise: _Domani forse la vostra sorte è cangiata_, avea detto.... _Io forse vi sarò debitore d'una eterna obbligazione, e voi forse dovrete a me la vostra fortuna_. Daniele avea mandato il cervello a sparviero in tutto il corso della notte per trovare il bandolo della matassa; ma neppure una congettura, una supposizione avea egli potuto formarsi su tal proposito. Che specie di servigi poteva egli prestare al Conte? Che d'uopo avea questo milionario dell'opera sua? Nessun giorno della sua vita era stato atteso con tanta bramosia quanto quel domani, il quale dovea risolvere un problema di tanta importanza. E il domani, in sull'alba, Daniele si gittò dal letto, e aspettò con ansia febbrile la chiamata del Baronetto. Quanto gli sembrarono eterni quei momenti! Non fu che verso le undici che il Baronetto fece pregare Daniele di salir da lui. Edmondo fece entrare il giovine nella camera verde, di cui fece chiudere gli usci, ordinando ai servi che per qualsivoglia cagione non avessero ardito di venire a sturbare il colloquio ch'egli dovea tenere col suo ospite. Daniele trovò Edmondo seduto presso un tavolino, sul quale era un volume con molto lusso ligato e il ricapito da scrivere. Egli fe' cenno a Daniele di sedersi. Alcuni momenti passarono senza che nessuno de' due avesse rotto il silenzio. Edmondo incominciò: — Questo colloquio che ci accingiamo a tenere signor de' Rimini, è d'una estrema importanza per entrambi. Esso può decidere della mia vita, siccome della vostra immensa fortuna. È un contratto ch'io vi proporrò. — Io vi ascolto, signor Conte, e non so dirvi con quanta impazienza ho aspettato questo momento. Parlate, signor Conte, ed abbiate in me la confidenza che potreste avere in un vostro figliuolo. Daniele abbassò gli occhi e arrossì. Edmondo conficcò l'ardente e cupo suo sguardo in sul volto del giovine, e seguitò: — Pria di tutto, ei fa d'uopo rivelarvi, signor Daniele, ch'egli è più di un anno ch'io soffro. La strana e tremenda natura del mio male non ammette rimedii fisici: io dispero della guarigione, tranne che voi non acconsentiate a quanto io vi proporrò. Vi confesso che coll'enorme guiderdone ch'io darò all'opera vostra potrei trovare mille altri che si presterebbero al mio volere: ma nessuno al certo potrebbe ispirarmi l'amore e la fiducia che voi m'ispirate. Già ve l'ho detto; fin dal primo istante in cui vi ho veduto, hommi sentito una inesplicabile simpatia per voi, la quale è venuta ad esser rafforzata dalla strana rassomiglianza ch'è nelle nostre fattezze del volto. — Ed io sono oltre ogni credere felice, disse Daniele, di portare sul mio volto una guarentigia del vostro affetto. — Di cui or ora vi darò una pruova grandissima. Ma badate, Daniele badate ch'io chieggo da voi un sacrifizio enorme, inaudito. Nessun figlio, per quanto amore avesse al padre, si è mai sottoposto alla dura pruova alla quale io vi chiamo, dandovi in compenso tutto quanto io posseggo. Daniele si sentì dare un tuffo di sangue al cervello; le orecchie gli zufolarono; la vista gli si annebbiò. — Tutto quanto voi possedete, signor Conte! ripetè il misero schiacciato dal peso della propria felicità. — Sì, Daniele ecco... ecco il mio testamento, disse Edmondo mostrandogli sul tavolino un foglio di carta; ecco il mio testamento scritto di proprio pugno questa notte, alla presenza del MIO CAD... Edmondo s'interruppe. Daniele era così sbalordito, così stupefatto da quel che sentiva, che non fece la minima attenzione a questa reticenza del Baronetto. Quel foglio di carta che Edmondo gli aveva additato come testamento sconcertava la sua ragione, imbrogliava le sue idee. — Il vostro testamento! signor Conte... il vostro testamento! — Sì, ed uno solo è l'erede di tutte le mie ricchezze, Daniele de' Rimini. Questo colpo era troppo forte pel giovane: gli occhi se gli abbuiarono, la ragione gli vacillò. — Oh... che mai dite! Signor Conte! vostro erede!... erede universale!! Due volte milionario come voi! E chi sono io dunque! E che cosa ho fatto per meritarmi tanto amor vostro? — Nulla ancora avete fatto, ma molto dovrete fare? — Dite, signor Conte, per carità, parlate; che cosa debbo fare per dimostrarvi la mia gratitudine? Come sdebitarmi con voi di tanta pruova di affetto? Parlate, la mia vita è vostra. — Ascoltate, signor de' Rimini, ascoltatemi attentamente. Vi dirò poscia le condizioni ch'io pongo all'eredità che vi lascio. «Sappiate dunque che da qualche tempo io sono travagliato giorno e notte da un pensiero che mi dà morte. Tutt'i mezzi ho tentato per fugare questo fantasma che mi strugge, ma tutto indarno. Voi maraviglierete della stranezza del mio male, ma per quanto si voglia strano, esso non è men vero terribile... Ebbene, io non so perchè, m'immagino che morrò di morte apparente, e che sarò tratto alla tomba ancor vivo! Daniele fece un movimento di sorpresa, cui Edmondo non badò punto e prosegui: — Capite voi, signore, tutto il terribile di simigliante pensiero? Esser sepolto vivo! Destarsi nelle tenebre, chiuso in ferrea bara! Aver la certezza che nessuno potrà aiutarti, che nessuno potrà udire la tua voce. Mancarti l'aria! sentirti scoppiare i polmoni! E quel coverchio di piombo che non cede a sovraumani sforzi che fai per dischiuderlo! Inesorabile come l'eternità! Esser morto ed avere il sentimento e le angosce della vita! Esser vivo cogli orrori della morte! Sentirsi morire lentamente e tra gli strazii di una volontà impossente! Sentirsi estinguere e pensare che forse su quei pochi palmi di terreno che ti covrono si trova qualche essere umano il quale potrebbe aiutarti se arrivasse a udire la tua voce!.... Viver sepolto, mentre si piange forse in sulla tua tomba! Oh! questo pensiero è troppo atroce, n'è vero signore? Non è cosa orribile il pensarci soltanto? — Non ci è dubbio, rispose Daniele, sempre più attonito dalle parole del Conte; ma fa d'uopo considerare, signor Baronetto, che simili casi non sono che rarissimi... — Rarissimi!... rarissimi, voi dite! Oh! è vero, rarissimi sono i casi conosciuti, ma quanti milioni di questi casi non han potuto accadere, rimasti miseramente ignoti e sepolti negli orribili segreti della tomba! Rarissimi! voi dite! E siete forse andato voi a verificare i misteri del sepolcro? Quando si son gittati sei palmi di terreno sovra una bara, chi ha mai pensato di andare ad esplorare se l'uomo rinchiuso in quella bara sia ridesto all'apparente sonno di morte? Oh quante volte forse, quante volte una tenera sposa, un figlio inconsolabile si strugge in lagrime, mentre il misero consorte, il padre amatissimo muore nella più orrenda disperazione che mente umana possa concepire, quella di esser sepolto vivo! Rarissimi voi dite questi casi! ed avete voi, mai nel silenzio della notte, messo l'orecchio sulla terra dei morti? Oh quante volte il gemito dell'aura notturna tra i cipressi d'una tomba è l'eco di un gemito che si perde nelle visceri della terra! Oh quante volte le preci che risuonano sopra un feretro di fresco aperto, invece d'implorare dal cielo la requie eterna ad un morto, accompagnano l'agonia straziante d'un moribondo! Voi credete che tali casi siano rarissimi? Or bene io dico che su cento persone che vengono sepolte, un trenta almeno vengono menate ancora vive alla tomba. Leggete, leggete, signore, quest'opera tedesca sulla _Morte apparente_, e vedete in quante maniere si può esser tratti in inganno dai segni apparenti della morte. Migliaia di esempi troverete in quest'opera di persone che furon credute morte e che in fatti non lo erano! La morte apparente è sì comune, massime, ne' vecchi! Ebbene, io ho provveduto a questo: ho provveduto benanche all'avvenire del mio cadavere, a quest'ente che gli uomini abbandonano come cosa che più loro non appartenga. Si pensa a figli, si pensa alla moglie, a parenti, agli amici, a' servi ed al proprio cadavere non si pensa. Incredibile cecità! Ma io vi ho pensato, e consacro tutte le mie ricchezze alla felicità del mio cadavere. Ascoltate, ascoltate a quali condizioni io vi nomino mio erede universale. Edmondo prese dal tavolino il suo testamento e lesse con ferma voce ma cupa e sepolcrale: «Di tutti i suddetti miei beni mobili ed immobili co' titoli annessi, in mancanza di eredi legittimi, lascio mio erede universale il giovine Daniele de' Rimini, di Napoli, esercente la professione di pianista. Ma il detto Daniele de' Rimini non potrà esser messo in possesso de' miei beni se non mostrerà legalmente di aver adempito alla seguenti condizioni: 1º In qualunque paese si trovi il detto Daniele de' Rimini nel tempo della mia morte, dovrà, dietro avviso, trasferirsi immediatamente a Manheim, in questa proprietà di _Schoene Aussicht_. 2º È mia precisa volontà che il MIO CADAVERE sia imbalsamato col nuovo metodo di iniezione alle carotidi. Questa operazione dovrà esser fatta dal mio medico dottor Weiss di Francoforte varii giorni dopo che io non avrò dato più segni di vita, e dietro i più esatti e scrupolosi esperimenti per accertarsi della VERA mia morte. Per tale operazione gli si darà in compenso la somma di diecimila fiorini. 3º È anche mia precisa volontà che il MIO CADAVERE, dopo l'imbalsamazione, rimanga nella camera verde del secondo piano della mia proprietà di _Schoene Aussicht_. 4º Il signor Daniele de' Rimini, mio erede ed esecutore testamentario, dovrà essere il CUSTODE DEL MIO CADAVERE durante NOVE MESI, a contare dal giorno della mia morte. 5º Il mio cadavere sarà vestito con quella proprietà e decenza che si convengono al rango ed alle ricchezze del Baronetto Brighton, Conte di Sierra Blonda. Ogni giorno se gli cambierà la biancheria, ed ogni settimana i vestiti. 6º Due volte al giorno il signor Daniele de' Rimini recherà egli stesso al mio cadavere, nel cospetto de' servi testimoni, il caffè, e in quelle stesse ore in cui soglio prenderlo al presente. 7º Ogni sera, dopo l'ora del tè, il signor Daniele de' Rimini suonerà, alla presenza del mio cadavere, un pezzo a piano-forte e canterà un'aria di sua scelta. Il mio cadavere sarà adagiato sulla sedia a foggia di letto, ch'è nella camera verde. 8º La più minuta e scrupolosa cura sarà messa dal signor Daniele de' Rimini a tener mondo il mio corpo da qualsiasi impurità della corruzione. 9º Il signor Daniele de' Rimini, di concerto col dottor Weiss, provvederà a' mezzi di purificar l'aere della camera verde ed allontanar le cattive esalazioni del mio cadavere. 10º Mi si useranno tutti que' riguardi e quelle attenzioni che sono dovute al mio stato, e che mi si userebbero se io fossi vivo. 11º Passato il tempo de' nove mesi, il signor Daniele de' Rimini farà porre il mio corpo in una cassa di bronzo dorato di cui egli solo conserverà la chiave, e mi farà riposare nella mia villa di _Schoene Aussicht_, in un apposito mausoleo che vi farà costruire. Egli si obbliga parimente di visitare di tempo in tempo le mie spoglie mortali, le quali io raccomando alla sua sollecitudine ed alle sue cure. 12º Mancandosi dal signor Daniele de' Rimini ad una sola delle condizioni da me poste, la cui esecuzione dovrà esser legalmente verificata e consegnata in apposito atto di cancelleria, s'intende il signor Daniele de' Rimini scaduto dal diritto di eredità, ed in sua vece, de' miei beni si farà l'uso che indicherò qui appresso. 13º Nel caso che il signor Daniele de' Rimini, durante il corso dei nove mesi, cadesse ammalato e non potesse quindi adempiere personalmente agli obblighi giornalieri da me impostigli, potrà affidarne l'esecuzione a persona di sua piena fiducia, e sempre sotto la sua diretta responsabilità. Il caso della sua malattia dovrà per altro essere legalmente verificato con attestati di esperti medici, a capo dei quali il mio dottor Weiss di Francoforte. 14º Da ultimo, nel caso in cui il signor Daniele de' Rimini morisse prima di me, questo testamento rimane di fatto annullato, e sarà da me provveduto diversamente alla divisione dei miei beni. 15º Se il signor Daniele de' Rimini morisse nel corso dei nove mesi, potrà delegare altra persona di sua scelta a continuare l'adempimento dei presenti obblighi; ma le disposizioni testamentarie del signor de' Rimini non avranno vigore se non spirato il termine di nove mesi, e verificata in piena regola l'esecuzione della mia volontà. Il testamento conteneva altre disposizioni che Edmondo stimò inutile di leggere al giovine pianista, trattandosi di cose secondarie e di rito legale. Daniele avea prestato attento l'orecchio alle strane condizioni che il Baronetto avea posto al possedimento della sua eredità. Durante la lettura del testamento, molte fiate sospinse gli occhi attoniti sul sembiante del milionario, perocchè sospettava non essere il costui cervello nel naturale suo sesto. Ma niente rivelava in Edmondo alterazione di mente; e le condizioni del suo testamento, avvegnachè non mai intese, eran dettate con molta regolarità e ponderazione. Si scorgeva che quel soggetto avea per molto tempo formicolato nel cervello di lui, ed era in particolar modo originato dalla strana paura di essere sepolto vivo. D'altra parte, essendo inglese il Baronetto, non poteva arrecar maraviglia una strambezza di questo genere, essendo pur troppo noto che nella vita privata gl'inglesi escono sempre dalle vie comuni ed amano di segnalarsi per fatti singolari e bizzarri. Dopo alcuni momenti di silenzio, Edmondo che avea fitto uno sguardo indagatore negli occhi di Daniele, dimandandogli: — Or bene, signor de' Rimini, sarete voi il mio erede? Accettate voi le condizioni del mio testamento? — LE ACCETTO, rispose con fermezza il giovine che si era fatto pallidissimo. Edmondo mise un piccol grido di gioia, si alzò e corse ad abbracciar Daniele. — Grazie, grazie, figliuol mio: ora la mia guarigione è assicurata, ora le mie notti non saranno più turbate da orrendi fantasmi: or son felice, sì, felice; e a te debbo la mia felicità. Daniele era rimasto qual trasognato. — Eccovi milionario, prosegui il Conte, eccovi due volte milionario. Questa casa è vostra, le mie proprietà sono vostre. D'ora in poi io vi considero qual figlio mio. Andate, andate dal superbo Duca di Gonzalvo e ditegli che tra dieci, venti o trent'anni voi lo schiaccerete sotto mucchi d'oro. — Tra dieci, venti o trent'anni! Ed Emma? mormorava tra sè costernato il pianista, e guardava distratto il Baronetto sul cui volto brillavano raggi di gioia. Parte Quarta I. LA CAVALCATA Allontaniamo per poco il nostro sguardo da _Schoene Aussicht_, dove, poscia che il contratto di morte fu chiuso, tutto fu profonda tranquillità per alquanti giorni, e ritorniamo al palazzo S... dove lasciammo quella perla delle fanciulle, Emma di Gonzalvo. Esaminiamo un poco i suoi sentimenti e scrutiamo i suoi pensieri color di rosa che si aggirano in quella bellissima testolina modello e su per quella fronte più bianca dell'alabastro. Oh com'è difficile di poter leggere in quel cuore! il sorriso è sempre su quelle labbra tanto più eloquenti quanto men loquaci; il piacere è sempre in quegli occhi neri come la morte ch'essi mettono nel cuore. Non direm già il dolore, ma la tristezza è straniera a quella natura vulcanica, se non è quella dolce mestizia di cui talvolta si ammanta l'eburnea sua fronte per vaghezza di sentimenti, per civetteria, per moda. Ella sa che l'astro della notte è più bello allora che una diafana sfoglia di nugoletta ne vela la bianca luce. Eppure, infin dal dì della partenza di Daniele, il velo di malinconia che si scorgea sulle incantevoli sembianze di Emma non era più edifizio di civetteria, ma l'era naturale. Amava ella il giovine pianista? È difficile il rispondere a tal domanda. Andate a formare un raziocinio su i sentimenti di una fanciulla di quella fatta! Ci si perde la bussola se non la testa. In quanto a noi, confessiamo che non sappiamo quel che sente e quel che pensa la bellissima Andalusa, e che non altro possiam dire che dal giorno in cui Daniele postergava il paese ov'ella abitava, Emma non parve così allegra, così spensierata. Non v'immaginate però che quel gioiello di donna si fosse dimagrita pel pensier di Daniele, o che moltissima malinconia le desse la costui lontananza. Emma sentiva un vuoto ne' suoi trionfi giornalieri: un adoratore di meno non facea gran cosa al numero, ma spiaceva all'amor proprio di lei. Dobbiamo anche aggiungere in confidenza che, quantunque ella ben si tenesse dal dimostrarlo, sentiva non per tanto una propensione e una simpatia pel giovine artista, dallo sguardo di fuoco, dalla fronte ripiena di genio e di malinconia: le frasi monche ma ardenti, i sospiri ch'esalavano dall'imo del cuore, la pallidezza mortale onde si covriva il bel volto di lui quando le stava dappresso: tutto ciò, sebbene leggiera, facea vie più ogni giorno impressione sull'animo della giovinetta che non era alla fin fine di carta o di stucco, e dàgli, dàgli anche una statua si risente. Ond'è che la figliuola del Duca di Gonzalvo nella compiacenza che libava ogni dì nel sentirsi cotanto amata succhiava a poco a poco quel velenuccio che si chiama amore. Gli è vero che l'amor di Emma, il sommo amore, l'amore appassionato non poteva attecchire, dappoichè a capo di tutte le passioni, siccome in altro luogo mentovammo, era una cieca e pagana adorazione di se medesima: Emma era amante riamata di sè stessa. Ciò nulla di meno, la fanciulla avea adesso nel corso del giorno qualche momento di malumore, di rabbruscamento di ciglia; pigliava a male certe cose che dinanzi non le sfioravano neppur l'epidermide; s'incolleriva e riscaldava per nessun motivo ed erasi fatta insopportabile verso tutti quei suoi schiavi dai guanti bianchi che avean messo a' suoi piedi i loro cuori e la loro vita. Emma sdegnava tutti gli omaggi e trovava noioso il coro di lodi che s'innalzava attorno a lei dovunque ella mostravasi: questa bisbetica stizza le accresceva qualche volta il malumore e la noia. Ai teatri ella era distratta, fastidiosa di tutte le opere, e giudice inesorabile de' poveri artisti; nelle riunioni si piaceva a torturare gli spasimanti che la circondavano o a gittare nei loro petti la fiamma della gelosia. Emma non sapea rendere a sè medesima ragione di questa asprezza nel proprio carattere; ma noi crediamo di non ingannarci attribuendola all'assenza del maestro di musica: e viene a rinforzarci in questa credenza il pensare che la bella spagnuola non ignorava il colloquio che Daniele si ebbe col padre di lei qualche giorno pria di partire. Emma in un momento di tenerezza avea strappato al Duca di Gonzalvo il segreto di quell'abboccamento; nè il Duca avea gran motivo di nasconderlo alla figliuola, però ch'egli stimava matto il pianista, e come tale se ne rideva e beffava, dicendo che avea voluto guarire o accrescere la mattezza di lui promettendogli di aspettare due anni prima di maritar la figlia. Emma dunque sapeva che Daniele l'avea chiesta in isposa, e che avea promesso di ritornar milionario dopo due anni. Non ostante i motteggi e i sarcasmi del padre, il quale tenea per fermo aver Daniele perduto il senno, ella non vedea un proposito da demente nella promessa del giovine. Conciossiacchè impossibile le sembrasse che il suo amante ritornasse col possedimento di tanta fortuna, non sapea dismettere il pensiero che quegli avea dovuto poggiare su qualche fondamento la strana proposta, il cui ardimento sollecitava l'amor proprio di lei. Soltanto l'averlo pensato era per lei un titolo all'ammirazione e alla simpatia per quel caro giovane. Per la prima volta in sua vita un pensiero angoscioso le venne alla mente, un pensiero di gelosia. Fintantochè Daniele era in Napoli, ella era sicura che costui non avrebbe potuto innammorarsi d'altra donna; troppo ella era conscia delle proprie attrattive per credere alla possibilità di un altro amore nel cuore di quel suo appassionato amatore. E quand'anche un'altra donna lo avesse per poco di sè invaghito, bastava per ricondurlo ai suoi piedi uno sguardo, una parola, un detto. Emma dunque non ebbe mai l'idea che Daniele veggendola quasi ogni giorno, avesse potuto prendersi di altra bellezza, imperocchè con tante adulazioni la superbetta era stata educata, che quasi era certa che in Napoli nessuna donna potea superarla in avvenenza e beltà. Ma fuori Napoli? Per quanto amore Daniele si avesse per lei, egli era giovine, e a ventidue anni le passioni, le immagini sono fugaci; agli occhi di un giovine dal cuore sì ardente ogni donna è bella, ed ogni bella è amante; le reminiscenze non reggono a fronte delle impressioni; e una donna lontana, anche bella quanto si può immaginare, perde sempre a paragone di una donna presente e innamorata, anche di bellezza inferiore. Emma avrebbe desiderato che Daniele avesse avuto trentacinque anni invece di ventidue: ella comprendea che a trentacinque anni le passioni sono profonde e incancellabili, e che la distanza e il tempo vie più le accende invece di spegnerle; comprendea che in quella seconda età dell'uomo le reminiscenze hanno più forza delle impressioni, e che un amante in quest'età non pecca facilmente d'incostanza. Emma pensava a queste cose, cui per lo addietro giammai non avea pensato, e sentiva, a suo dispetto, un certo pizzicore di gelosia. Emma dunque amava Daniele? E noi ripetiamo che nol sappiamo, ma siamo inchinati a credere di sì; bensì nol vorremmo asserire su la nostra responsabilità, e non facciamo ch'enunciare un nostro modo di vedere, e non già un fatto reale. Talune volte, quando stava sola massimamente, con quel bel capo abbandonato sulla palma della mano dritta, con quegli occhi malinconici fissi come la mente nel passato, ella pensava che un giorno una donna avea scritto a Daniele. Ella non avea dimenticato la più minuta particolarità di quel fatto; ricordava nomarsi quella donna Lucia Fritzheim; che Daniela avea detto di aver dispregiata: e di non aver voluto cadere ne' lacci delle seduzioni di lei. Questa donna dunque era bella! Lucia ricordava che Daniele avea detto posseder colei un sembiante d'innocenza e modi ingenui e proprii d'un cuor gentile e virtuoso, ma artefatti e tali da ingannare i più esperti. Non so perchè, ma nell'animo di Emma surse il pensiero che questa non fosse la verità, che Daniele avesse voluto nascondere agli occhi di lei un intrigo. E questo pensiero andava acquistando maggior forza ed evidenza a seconda che la giovinetta si riduceva a mente le più piccole cose che accompagnarono quel fatto. Un fanciullo misero, dall'aspetto onesto e gentile, avea portato il biglietto: il miserello era stato dapprima all'abitazione di Daniele alla Riviera di Chiaia, e di là mandato a Toledo al Palazzo S... dove il maestro di musica solea venire: il ragazzo erasi posto a piangere quando gli fu detto che il giovine non era al Palazzo S.. Simiglianti particolarità davano certezza alla fanciulla di essere stata ingannata, e un bel mattino le venne alla mente un'idea singolare. Emma pensò di andare a trovare Lucia, la cui abitazione essa ricordava benissimo. — Se ella è un'intrigante avventuriera, pensava tra sè la nobil giovinetta, io mi sarò accertata di ciò, e più non penserò a questa sciagurata: se, al converso, ella è una vittima del tradimento di Daniele, sarà questa benanche un'importante scoperta che potrà influire sul mio avvenire. Queste cose volgeva in sua mente la giovinetta, però che, bisogna dirlo, il pensiero di Daniele incominciava a diventare per lei quel che dicesi propriamente una passioncella. La risoluzione di andare a trovar Lucia era presa; bisognava pensare al modo di mandarla ad effetto. A tante cose pensò la fanciulla, ma tutte presentavano di forti difficoltà ed ostacoli. Imperciocchè, dato il caso che la Fritzheim fosse stata in realtà un'avventuriera, siccome l'avea dipinta Daniele, come avrebbe fatto Emma per nascondere la vergogna di tal visita? Dopo aver molto pensato e ripensato, Emma si fermò da ultimo sovra un disegno che le parve il migliore di quanti le si erano presentati alla mente. Da parecchi giorni si trattava nelle solite ed intrinseche riunioni della sera di prendersi il divertimento di una cavalcata al Campo di Marte. Varii distinti cavalieri, amicissimi del Duca di Gonzalvo, e due o tre dame, amiche di Emma dovean comporre la brigata. Emma avea sempre differita questa passeggiata or per un pretesto or per un altro, non sentendosi l'animo sereno abbastanza per abbandonarsi ai consueti sollazzi; ma le parve giunto il momento di recarla ad effetto, dappoicchè era nel pensier di lei di allontanarsi dalla brigata allora che sarebbero giunti presso al Real Albergo de' poveri, adducendo il pretesto di dover adempiere ad un atto di carità ch'ella volea fosse rimasto segreto, epperò volerlo adempiere senz'alcun testimone: avrebbe dissimulata la distanza, dicendo che la casa dov'ella recavasi non era discosta che pochi passi: avrebbe intanto dato di sprone al cavallo e divorata la via per tornar più presto a raggiungere la comitiva. Un tal proponimento non era scevro di difficoltà, ma ella si ripromettea di superarle sul fatto. La cavalcata fu fissata pel primo giorno di sereno che offrisse il verno già decrescente. Ed in effetti, un bel mattino la nobil comitiva si avviava dal palazzo S... su svelti e bei cavalli inglesi di puro sangue, con molto lusso ed eleganza bardamentati. Emma, in grazioso e maschile abbigliamento all'amazzone, cavalcava un gentile e nobil destriero bianco come la spuma del mare. L'incantevol persona della giovinetta spagnuola si disegnava con fierezza sotto le spoglie austere della moda inglese, ma più bella appariva, più seducente agli occhi degli estasiati che la circuivano. A' suoi fianchi caracollava con grazia estrema e con superba andatura il visconte di Boisrouge, abile maneggiatore di cavalli. La cavalcata era giunta all'Orto Botanico, ed Emma, arrossendo, annunziò, facendo le veci di essersene pur lì ricordato, di dover visitare una misera famiglia raccomandatole da una delle sue amiche. Non ostante le più vive premure ed istanze, Emma si allontanò dalla brigata, e non sì tosto videsi fuori la vista de' suoi compagni, diè di sprone al cavallo e sparì dietro gli alberi che orlano il viale di S. Maria degli Angeli alle Croci. Emma avea detto alla comitiva di aspettarla dappresso al Real Albergo de' Poveri ch'ella non avrebbe indugiato più di pochi minuti. Il cavallo di Emma si era messo di carriera: ella incitavalo colla voce, colla frusta e cogli sproni, perocchè sentivasi alle spalle il galoppo di un altro cavallo che la seguiva. La fanciulla sospettò che alcuno de' compagni si fosse quegli che seguitavala, e nella preoccupazione in cui la metteva l'apprensione di esser discoperta, e per guardare indietro, non badò ad un burrone che tagliava la strada, ed era appena pochi passi discosta dal fossato in cui sarebbe stata inghiottita insieme col suo cavallo, quando il cavaliere che la seguiva, facendo fare un balzo terribile al proprio corsiere, si caccia innanzi a quello della fanciulla per arrestarne il corso impetuoso. E riuscì in fatti a salvare la giovinetta dall'orrenda caduta, ma l'urto fu così veemente, e l'azione così rapida, che il cavaliere fu balzato di sella e stramazzò a terra, andando a piombar col capo sopra un piccolo macigno ch'era messo in sull'orlo del fossato. Emma mise uno strido acutissimo e si gittò dal cavallo per andare a soccorrere il suo salvatore, nel quale, a sua grande sorpresa, riconobbe il signor Maurizio Barkley, dal cui capo grondava in copia il sangue. II. LA VISITA Accennammo altrove che Emma nutriva un certo istinto di diffidenza per Maurizio Barkley. Ella non sapea propriamente rendersi conto di tale ripugnanza, anzi non poche volte facea forza a sè medesima per vincere un così ingiusto sentimento, anche perchè sapea che suo padre riponeva nel signor Barkley intera fiducia; ma il mistero onde quest'inglese circondava la propria vita, la oscurità della sua origine e delle sue relazioni, quella specie di altiera taciturnità irremovibile, e quello sguardo freddo ma ostinato e penetrante, avean fatto sull'animo della giovinetta, fin dal primo giorno in cui lo vide, una sinistra impressione che l'era rimasta in appresso voltata in leggera antipatia. Il contegno di Barkley verso di lei era stato sempre grave e poco manieroso: quando le più entusiastiche ovazioni erano prodigalizzate alla dea de' salotti, Maurizio non mischiava le sue frasi di ammirazione e di rapimento a quelle dello stormo elegante che si facea dattorno, quando, per casualità, rimanevan soli o vicini, Maurizio non le dirizzava nessuna di quelle parole di adorazione che soleano risuonare agli orecchi di lei. Per così fatte ragioni Emma sentiva per Barkley contraggenio e dispetto. Ma ora questi sentimenti erano di botto disparsi, cedendo il luogo alla sorpresa, al compiacimento, alla riconoscenza. Emma era estremamente maravigliata di veder colà il signor Barkley, il quale non formava parte della comitiva; ed era ricolma di ammirazione e di gratitudine pel coraggio, per la prontezza, per l'eroismo onde colui, a rischio della propria vita l'avea salvata dal precipizio. Il sangue grondava a Maurizio da una larga ferita apertasegli dietro al capo. Egli avea perduto l'uso de' sensi, era pallidissimo, e sulle sue labbra era sparso il lividore di morte. Emma si trovava nella situazione più angosciosa; avrebbe voluto chiamare al soccorso, volare da' suoi compagni che l'aspettavano, per raccontar loro il tristo accaduto; ma non volea lasciare, neppure per un momento, il misero e generoso giovine che giaceva a terra senza dar segni di vita. Emma dimandò l'aiuto di alcuni villici che erano di passaggio, e un di costoro, adagiato Maurizio in sul macigno, ne sostenne, il capo, mentre l'altro era corso per un poco di acqua. Gli occhi della fanciulla erano bagnati di lagrime. Ella si adoperava a rattenere, col suo fazzoletto rinforzato a molti doppi, il sangue che fluiva e gemeva sotto il grumo che vi si era incrostato tra i capelli. Intanto il contadino era tornato con una brocca d'acqua limpidissima. Emma avea fatto uno sdruscio nella sua sottana e ne avea formato una pezzuola il cui becco immerse nell'acqua ed applicò in sulla ferita per farla ristagnare. Il freddo dell'acqua richiamò a vita Maurizio, il quale aprì gli occhi, e veduto Emma che con la più amorosa sollecitudine gli era sopra, e la cui mano riposava assieme col becco della pezzuola in sulla sua fronte, lo sguardo gli balenò di piacere, ed il volto ch'era smorto e livido si accese di subita fiamma. — Grazie, mormorò con fioca voce, grazie, Duchessina, quanta bontà! Voi stessa avete voluto curare la mia ferita! ed avete avuto ragione, perchè la vostra mano è il più dolce balsamo che si fosse potuto applicare sovr'essa. — Oh, signor Barkley, rispose Emma arrossando, come potrò esprimervi la mia graditudine? A voi debbo la vita, perocchè sarei senza altro precipitata in questo orribile fossato, senza il vostro coraggio e la vostra prontezza. Ma come vi siete trovato qui? Voi non facevate parte della nostra comitiva. — È vero, Duchessina, voi non mi troverete giammai nel cerchio di coloro che prendon parte ai vostri divertimenti; ma quando un pericolo vi minaccia, quando una sventura sta per colpirvi, siate certa che troverete al vostro fianco Maurizio Barkley. Emma guardò stupefatto il giovine inglese. Le nobili e generose parole che questi avea profferite non erano dettate da vanitosa ostentazione, dappoichè egli avea dato testè una prova irrefragabile della sincerità de' suoi detti. Ma a qual sentimento attribuire tanta annegazione? Ecco la sciarada di cui Emma s'imbrogliava a trovare il motto. — Ben mi è nota la nobiltà del vostro animo, signor Barkley, ed essa giustifica pienamente la fiducia che mio padre ha in voi, e l'amicizia che vi professa. Ed oh quanto più egli vi estimerà ora che saprà esservi io debitrice della vita! — A che parlarne, Duchessina? Non sono io oltremodo felice e compensato della dolce pietà che la mia ferita ha saputo destare nel vostro bell'animo? Oh se avessi ogni giorno l'occasione di arrischiare la mia vita per salvare la vostra! Emma era sempre più sorpresa delle parole di Barkley, e tanto più ne sentiva maraviglia, essendo ella convinta che l'espressioni di quell'uomo non erano foggiate per vaghezza di complimenti o per affettare uno spirito eroico e cavalleresco, dal quale abborriva il suo carattere franco e altero. Questo breve scambio di parole avveniva stando la giovinetta chinata pressocchè sulle ginocchia di Maurizio; la mano dritta di lei tenea compressa in sulla fronte dell'inglese la pezzuola bagnata, mentre la sinistra aiutava a sostenere le spalle del ferito. Maurizio si sollalzò un poco dal macigno, sì che la sinistra mano della fanciulla abbandonò per poco la sua posizione. Barkley prese nelle sue, la mano della giovinetta, se l'accostò alle labbra, e v'impresse un bacio. Emma trasalì, e, per un movimento inconsiderato, si scostò dall'inglese. — Che fate, signore! esclamò ella. — Bacio quella mano che mi dà la vita, rispose Maurizio. Grazie, Duchessina, grazie delle vostre cure; mi sento forte abbastanza da tornare a casa. Prendete, buona gente, soggiunse poi dando a ciascuno de' due villici una moneta d'oro, prendete questo piccol segno della mia gratitudine; non ho più bisogno dell'opera vostra. I due contadini stupefatti di tanta generosità non rifinivano di guardare: con occhi spalangati or la moneta or il donatore: e quando si furono accertati che la cosa non era una finzione, ma bensì la più consolante realtà, si partirono, colmando di benedizioni il forestiero e la dama. Maurizio ed Emma restaron soli. — Volete raggiungere la comitiva, o volete recarvi da Lucia Fritzheim? chiese Barkley. Non si può dire da quanta sorpresa fu colta Emma a queste parole. In che modo Maurizio conosceva il segreto di lei? — Che! signore! esclamò la fanciulla, e chi vi ha detto ch'io mi recava da questa donna? — Nessuno, Duchessina, perocchè voi avete nascosto a tutti il vostro proponimento. — E voi, signore, come avete letto nel mio pensiero? Chi vi ha rivelato il nome di questa donna? — Perdonate, Duchessina, ma questo è il mio segreto: soltanto vi posso dire ch'io conosco questa fanciulla, che si chiama Lucia Fritzheim. — Fanciulla! come! Ella è dunque una fanciulla di onesta famiglia, n'è vero? — Lucia Fritzheim è la virtù personificata, Duchessina, rispose con solennità il giovine inglese, e suo padre era l'anima più bella, il cuore più nobile che sia stato al mondo. — Ed è straniera questa famiglia? dimandò sempre più maravigliata Emma. — Giacomo Fritzheim era svizzero di origine Lucia è nata in Napoli. — Ed è bella? chiese la giovinetta. — La sua virtù la rende assai più bella di ch'è in effetti. — Ed è povera, n'è vero? — Poverissima, e massime dopo la morte del padre. — Andiamo, signor Barkley, accompagnatemi da lei. Il mio soverchio indugio sarà presso gli amici giustificato dalla vostra presenza. Io dirò che in quella casa dove mi son recata per una limosina ho incontrato voi, al quale io avea dato appuntamento. Racconterò il vostro atto eroico col quale mi avete salvata la vita; troveremo pretesti e sotterfugi per colorare la nostra tardanza. Venite, Maurizio, indicatemi l'abitazione di Lucia Fritzheim; andiamo a spargere il conforto della carità là dove la più nera perfidia ha sparso il dolore, la miseria, e volea spargere l'ignominia; andiamo, signor Maurizio; compite la vostra opera; salvatemi il cuore dopo avermi salvata la vita. — Io vi accompagnerò, Duchessina, ma non salirò sulla casa di Lucia Fritzheim; vi aspetterò a qualche distanza: andate a trovar Lucia; le vostre due anime sono fatte per intendersi e amarsi. La caduta di Maurizio non solamente avea cagionato la sua ferita al capo, ma gli avea fatto parecchie contusioni alla sinistra gamba; ondechè mal potea reggersi in piedi e a stento potea camminare. Emma lo aiutò a montare a cavallo; indi ella balzò sul suo bianco destriero, e a lenti passi entrambi s'incamminarono alla volta della casa di Lucia. C'incombe il debito di far notare a' nostri lettori che Maurizio Barkley aveva a certa distanza seguita la cavalcata, e che veggendo Emma discostarsi dalla comitiva ella sola, si era affrettato a raggiungerla. Per qual ragione Maurizio avea voluto seguir la cavalcata? È questo un segreto che il tempo ci spiegherà. Giunti che furono all'abituro di Lucia, Maurizio si fermò, lo additò alla fanciulla, e disse ch'egli avrebbe aspettato a pochi passi di distanza co' due cavalli. Emma montò sola le gradinate, Marietta venne ad aprirle l'uscio di scala. La fanciulla rimase attonita nel vedersi dinanzi quella bella dama in abito da cavalcare. — Siete voi Lucia Fritzheim? dimandò Emma. — Io sono sua sorella, signora, rispose Marietta arrossendo fin nel bianco degli occhi. — E non è in casa vostra sorella? — Oh, sì, signora, rispose con tristezza la fanciulla, ella non esce da lunga pezza; è così mal ridotta! — Bramo vederla, soggiunse Emma, ho qualche cosa da dirle. — Entri dunque, signora; perdonerà la poca decenza della nostra casa; siamo poveri orfani che viviamo colle fatiche delle nostre braccia. Entrando in quella casa, la figliuola del Duca di Gonzalvo fu commossa insino alle lagrime scorgendo la più commiserevole miseria. Quasi tutte le suppellettili erano state vendute: le bianche pareti, imbrattate dagli scherzi di Uccello, si presentavano squallide e nude: qualche sedia, un letticciuolo di asserelle, un vecchio armadio componevano gli arnesi di quella prima camera dove si era trattenuta la giovinetta andalusa. Marietta avea fatto sedere la nobil dama, ed era ita ad avvertire il resto della famiglia dell'onore inaspettato. Emma udì dalla stanza contigua un rumore di oggetti da tavola che venivano gittati in fretta in fretta in qualche cassettone, un affaccendarsi per ripulire sommariamente e spazzare la stanza; udì il bisbigliare di molte voci, e a capo di pochi momenti, ella fu fatta entrare nella camera dove stava Lucia Fritzheim. Il volto di Lucia era bianco come carta. Emma si avanzò verso di lei e la prese per mano, guardandola con occhi velati di pianto. — Perdono, disse la figlia di Giacomo, mille volte perdono, bella dama, se ha atteso pochi momenti; noi prendevamo un boccone quando ella ci ha onorati. — Sono dolente di avervi disturbata, carina: voi dunque siete Lucia Fritzheim? — Per lo appunto, signora, e questi che vedete a me d'intorno sono i miei fratelli e mia sorella. Uccello, Giuseppe e Andrea fecero una riverenza alla nobil dama, e sottovoce si dicevano l'uno all'altro: — Quanto è bella! E che bel vestito! Oh la dev'essere la figliuola o la sposa di qualche principe! Guarda, Giuseppe, come son belli quei bottoni! Guarda, Andrea, quella frusta! Emma e Lucia si guardarono per qualche tempo senza profferire parola; entrambe erano dominate da forti emozioni, e specialmente Emma sentiva una pietà profonda per tanta virtù congiunta a tanta sventura. — A chi ho l'onore di parlare? dimandò Lucia che non si saziava di contemplare l'incantevole bellezza della dama che le stava presente. — Alla vostra amica Emma di Gonzalvo. — Emma di Gonzalvo! esclamò Lucia, e gli occhi le si velarono d'una nebbia mortale. Marietta e i fratelli corsero dappresso a lei. — Voi, signorina, voi la figliuola del Duca di Gonzalvo? Povera Lucia! esclamò Marietta rompendo in lagrime. — Voi dunque conoscevate il mio nome? dimandò Emma con voce commossa. — Oh signora! se sapeste quante lagrime il vostro nome ha fatto scorrere dagli occhi della mia sventurata sorella! Lucia si era rimessa immantinente; il suo volto avea preso un'espressione di nobiltà e di fierezza. — E che brama da me Emma di Gonzalvo? Vuol forse umiliarmi colla sua bellezza e col suo fasto, dopo di avermi ridotta qual sono, uno scheletro, dopo di aver tolto a questi innocenti il pane che io dava loro colle mie fatiche, e cui non posso più dare per lo stato della mia salute? Guardate, signorina, guardate lo squallore e la miseria di questa casa, di questa onesta famiglia, è tutta opera vostra; ma spero che Dio mi darà la forza di soffocare nel mio cuore l'amore che egli stesso vi fece nascere. Oh! or che vi ho veduta, l'ultimo barlume di speranza è fuggito. La vostra bellezza assolve lo spergiuro... Ebbene, Emma di Gonzalvo, io vi perdono tutto il male involontario che avete fatto a me e a questa misera famiglia; io vi perdono dal fondo del mio cuore, come imploro da Dio perdono sul capo dello spergiuro... Oh, mio Dio, quanto è bella! quanto saranno felici! Ma ella non può amarlo quanto l'ho amato io! no, non è possibile! Due grosse lagrime scapparono da' begli occhi della sventurata fanciulla. Emma corse ad abbracciarla: i suoi occhi nuotavano parimente nelle lagrime. — Lucia Fritzheim, le vostre parole mi hanno squarciato il cuore, ma io non le merito. Giuro sul mio onore che mai dal mio labbro è uscita una sola parola che avesse potuto incoraggiare l'amor di Daniele per me: io ignorava ch'egli fosse ligato a voi da un giuramento; e, quando la vostra lettera giunse in casa mia, quando quella lettera cadde sotto gli occhi del vostro amante, ei nulla mi disse, nulla. Ma Daniele de' Rimini non ha l'anima che avete voi, Lucia Fritzheim! Faccia il cielo che egli apprenda a conoscervi! La vostra sorte mi commuove e mi tocca nel vivo dell'anima. Posso io sperare che accetterete la mia amicizia, Lucia Fritzheim? La figliuola del Duca di Gonzalvo stese la mano alla figliuola di Giacomo lo Stradiere, la quale vi si abbandonò sopra con tutta la testa, vi stampò mille baci e bagnolla di pianto. Emma se la strinse al cuore, e poscia la baciò sul volto con estrema tenerezza. Marietta e gli altri fratelli circondarono la nobil fanciulla, piangevano, ridevano, e volevano anch'essi aver la loro parte di quegli abbracciamenti. Emma li abbracciò tutti. Fu questo un bel momento! Sul cuore di Lucia fluiva un torrente di gioia. Da tanto tempo la miserella non gustava un piacere sì vivo! La sua anima si apriva alla felicità dell'amicizia: la sua sensibilità si sfaceva sotto il calore di questo divino sentimento. Sul volto della donzella andalusa sfolgorava una gioia sì pura che tutte le sue sembianze ne erano irradiate. Era forse la prima volta che i suoi occhi nuotavano in lagrime di tenerezza: era quello il più sublime piacere ch'ella avesse mai gustato in sua vita. — Io debbo andar via, disse Emma dopo qualche minuto di commozioni, sono aspettata da una comitiva di amici, a' quali ho nascosto, sotto un pretesto, lo scopo della mia visita. — Ah! esclamò Lucia, chi sa se ci rivedremo mai più! Una barriera insormontabile ci divide. — E quale? dimandò Emma con tristezza. — Il nostro stato, rispose Lucia. — Questa barriera, che l'ingiusta fortuna avea posta tra noi è stata già superata dalla nostra amicizia. Noi ci rivedremo, e ci rivedremo spesso. — Iddio possa colmarvi di felicità, incantevole creatura! esclamò Lucia. — Qua la tua mano, Lucia, la tua puranche, gentil fanciulla, disse Emma rivolgendosi a Marietta, la quale afferrò la mano della generosa donzella e con effusione di cuore la baciò più volte. — La vostra anima è bella come il vostro volto, disse la sorella di Lucia. — No, non posso partirmi di questa casa, ripigliò Emma se prima non ricevo un pegno della vostra amicizia. — Un pegno! E quale? chiese Lucia. Parlate, Duchessina, la mia vita è vostra. — Il pegno ch'io vi domando, soggiunse la figlia del Duca, è che accettiate questo ricordo mio. Emma avea tratto dal proprio dito un prezioso anello di brillanti, e l'offriva alla misera fanciulla. — Non crederò che mi siate amica se non accettate questo anello, simbolo del legame fortissimo che unirà d'ora in poi i nostri cuori. Lucia non oppose resistenza, Emma le passò al dito il prezioso anello. La figliuola di Giacomo era soffocata da tante commozioni. Emma era partita tra le benedizioni di quelle innocenti creature, le quali aveanla accompagnata fino alla prima branca dello scale. Nel ritornar che fecero sul misero abituro, Marietta guardò per caso in sul tavolo, a cui si era momentaneamente appoggiata la Duchessina di Gonzalvo. Ella mise un grido di sorpresa. Una borsa ripiena di monete d'oro riposava sul tavolo. Emma si affrettò a raggiungere Maurizio Barkley che l'aspettava a qualche distanza. Ella montò in fretta sul corsiere, ed a fianco del giovine inglese disparve nella polvere che lo scalpitar de' cavalli avea sollevata. Prima di sparire, Emma avea agitato il suo fazzoletto per salutare Lucia e i fratelli che, aggruppati sul terrazzino della loro casa, risposero congiungendo le loro mani al cielo, quasi implorando da Dio ogni grazia e benedizione sulla virtuosa e bellissima donzella. III. MAURIZIO BARKLEY Nell'immensa varietà delle anime, studio interminabile del filosofo e dell'artista, subbietto inesauribile di meditazioni, s'incontrano non di rado talune individualità così caratteristiche e singolari da richiamare tutta l'attenzione dell'osservatore. Sono uomini che si elevano, col volo delle loro aspirazioni, alle più alte regioni dell'umanità; la virtù è tutto per essi, il mondo nulla; la società in cui vivono non ha la forza d'incepparne il nobil pensiero colla trivialità delle regole e delle convenienze o colle infinite esigenze meschine di giornalieri bisogni: la virtù è la loro esistenza, non già quella virtù di convenzione e di uso, ma quella che agli occhi dell'uomo volgare è un eroismo giornaliero, e che tanto è più sublime quanto più oscura e dispregiatrice di vana gloria. La terra ove poggiano il piede non ha per essi più attrattive ed importanza del ramuscello su cui l'augelletto si ferma un momento per librare il volo; il frale è per essi l'involucro esoso dal quale ardono di sprigionarsi. Nel novero di questi uomini era Maurizio Barkley, il quale seppe elevarsi sopra l'ignobilità della sua razza. Nel mondo morale avviene lo stesso che nel mondo fisico. Le apparenti irregolarità, ch'eccitano la nostra collera, che fan profferire giudizii torti e temerarii, che confondono la nostra scienza futile e vanitosa, sembran tali per la ragione che noi le veggiamo da un punto solo e colla limitata estensione della nostra vista. Tutto può parere irregolare agli occhi dell'uomo: tutto è livello agli occhi di Dio. Le grandi anime combattono più delle altre coi corpi, ne' quali son ristrette: la deformità, le malattie o la miseria stringono ne' loro ceppi crudeli i più nobili istinti: le intelligenze non s'innalzano che sulle ruine della propria creta. L'ingegno che crea deve scendere dalla sua altezza per provvedere al tozzo di pane che dee soddisfare alla richiesta dello stomaco; e sovente quel tozzo di pane non sarà ottenuto che a forza di umiliazioni, d'improbe fatiche, di sofferenze. La società venera l'ingegno, lo ammira; ma lo lascia perir di fame. L'ignoranza spesso accompagna le ricchezze; gli onori del mondo sono presso il corredo del vizio; e la virtù si trova anche più sovente sotto i cenci. La più nobile anima era nel corpo della più vile creatura, nel corpo d'uno schiavo: Maurizio Barkley, l'_abbietta mercanzia_ comprata con pochi scellini, l'ultimo e più dispregevole dei _Chattels_[4] acquistati dal Baronetto Edmondo Brighton, avea ricevuto da Dio un'anima sublime. Il nome di Maurizio Barkley fu dato a questo schiavo dallo stesso Edmondo, poscia che quegli lo ebbe salvato da sicura morte nel Circo di Cuba. Il nome che si avea Maurizio per lo addietro altro non era che _Quickeye_ (occhio celere) per l'acutezza della sua vista, onde rendeva importanti servigi nella caccia delle bestie feroci. Maurizio era nato nella Colonia del Capo nella Cafreria: i suoi genitori, schiavi probabilmente, erano sconosciuti. All'età di sei anni appena egli fu venduto ad un mercante di schiavi e trasportato nelle Indie inglesi a Patma, capitale del Bahor all'occidente di Bengala. Le maschie fattezze del suo volto, l'estremo coraggio che fin dall'infanzia aveva appalesato, la somma intelligenza che lo distingueva il resero caro al suo padrone, che giammai non volle disfarsene a qualunque prezzo. Ma alla costui morte Maurizio venne imbarcato, assieme ad altre centinaia d'infelici suoi compagni, e menato in America, dove fu comprato dal Baronetto Brighton. Dicemmo che dopo l'avvenimento della lotta col toro, Edmondo, che aveva scoperto in Maurizio il cuore più nobile ed elevato, lo innalzò alla dignità di uomo, gli tolse il soprannome di _Quickeye_, e tutt'i segni della schiavitù; gli diede il nome di Barkley, voleva dargli la libertà che questi ricusò per affetto straordinario ed immenso che portava al suo padrone. Ma Edmondo il considerava come uomo libero, e gli pose anch'egli amore addosso. A se lo avvinse come tenerissimo amico, e gli accordò la più illimitata fiducia, raccontandogli tutta la trascorsa sua vita e le follie della sua giovinezza. Abbiam detto in altro luogo che oltre all'incarico di vegliare su i passi del Duca di Gonzalvo a Napoli, Maurizio avea ricevuto dal Baronetto un'altra missione. E qual si era questa? La più dilicata, la più nobile, la più scrupolosa che fosse stata mai affidata ad un uomo al mondo. Maurizio aveva da molti anni l'incarico di badare al sostentamento di cinque creature, figli naturali di Edmondo, e di cui egli conosceva perfettamente la dimora e lo stato di vita. In che modo Maurizio adempiva a questa singolare e bizzarra missione, a cui il Baronetto l'avea destinato per sedare alquanto i rimorsi della propria coscienza? Maurizio riceveva ogni mese una somma, metà della quale serviva pe' suoi bisogni e per mantenersi con tutto il decoro d'un ricco _gentleman_ (condizione indispensabile pel disimpegno del suo mandato presso il Duca di Gonzalvo) e l'altra metà era destinata al sostentamento de' cinque giovanetti, frutti delle giovanili follie di Edmondo, e per pagare gli agenti subalterni della fiducia di esso Maurizio. Questi cinque giovanetti, tra i quali era Daniele, e di cui due eran donne ricevevano la somma mensuale di cinquanta ducati. Maurizio teneva un agente di sua confidenza in ciascun paese ove dimorava uno de' figli del Baronetto. Prima di fissarsi in Napoli, Maurizio aveva personalmente visitato, secondo le indicazioni ricevute dallo stesso Baronetto, ciascun fanciullo al cui sostentamento egli dovea badare, ed erasi con la massima scrupolosità accertato dell'identità degl'individui. Con quanta dilicatezza ei dovesse diportarsi a tal riguardo e con qual circospezione, è ben facile immaginare, tanto più se ponesi mente allo stretto divieto ch'egli avea di far conoscere la provvenienza del sussidio mensuale ch'ei recava o facea recare a' figli del Baronetto. Benchè Maurizio avesse prescelto per agenti subalterni uomini di una probità a tutta pruova, li teneva però perfettamente al buio su tutto ciò che non era pratica di amministrazione; ei si serviva di questi uomini come di semplici braccia, come di strumenti meccanici e non intelligenti. Ogni mese Maurizio riceveva le cinque ricevute da' cinque individui che riscuotevano il denaro, e quelle ricevute ei mandava fedelmente al Baronetto, il quale vedeva a tal modo ogni mese la scrittura de' suoi figli, ed il suo cuore era almeno in ciò pago nel conoscere che questi innocenti non pativano difetto de' mezzi di vita. Durante la dimora di Daniele a Manheim e nella casa del Baronetto, questi ricevè una volta da Maurizio Barkley, tra le altre quietanze dei suoi figli, quella benanche di Daniele, tranne che questa portava per cognome Fritzheim e non de' Rimini, imperocchè, se ben ricordano i nostri lettori, la prima volta che Daniele firmò la ricevuta de' cinquanta ducati, egli stava ancora in casa di Giacomo lo stradiere, e non si era dato ancora il fattizio cognome di de' Rimini. Oh se Edmondo avesse potuto sospettare che il giovin pianista italiano Daniele de' Rimini che albergava nella sua medesima abitazione ed al quale egli avea posto addosso tanto amore, altri non era che Daniele Fritzheim, suo figlio, frutto dell'infame seduzione sulla persona della sventurata Juanita di Gonzalvo! Ed oh! se Daniele, nel ricevere da ignota mano nel ricco ostello di Manheim la consueta polizza, avesse potuto supporre, che il vero donatore di quel danaro mensuale altri non era che il Baronetto Edmondo, Conte di Sierra Blonda, suo padre! Per qual cagione Edmondo avea formalmente vietato a Maurizio Barkley di rivelar giammai ai propri figli, e per qualsivoglia circostanza, il suo nome, le sue qualità, il suo ritiro e i vincoli di natura? Edmondo avea fatto tanti sventurati, avea portato il disonore in tante famiglie; ch'ei voleva, risarcendo in parte il male che avea fatto, rimanere ignoto a tutti, abbandonarsi senza disturbi alla vita riposata e tranquilla che si riprometteva di menare nel ritiro di Manheim. D'altra parte, ei temeva le private vendette, gli odii, le gelosie: temeva le rappresaglie de' suoi tanti nemici. Tra il suo passato e il suo avvenire egli avea posto una barriera, che volea non fosse valicata neppure dalla più nobile e sacra passione, l'amor paterno. Un'altra circostanza dobbiamo ricordare ai nostri lettori, perchè nulla rimanga a tal riguardo senza spiegazione. Allora che Daniele si presentò per la prima volta agli occhi di Maurizio Barkley, questi pronunziò le seguenti parole _Alla buon'ora! Eccone uno che gli rassomiglia!_ Ora non è più necessario spiegare il sentimento di questa frase. Maurizio alludeva alle sembianze degli altri quattro figli di Edmondo, dalle quali non avea potuto trarre nessun argomento di somiglianza. Quando Maurizio ricevè in Napoli la quietanza di Daniele in data di Manheim, ei fu sorpreso del caso bizzarro il quale riuniva nello stesso paese il padre ed il figlio; ma nulla sapeva ancora che il pianista dimorasse _Schoene Aussicht_, vale a dire nella medesima abitazione del Baronetto. Laonde non sappiam dire da quanta maraviglia ei fosse preso nel ricevere dallo stesso Baronetto una lettera in cui questi gli dava notizia di aver dato ospitalità al pianista italiano Daniele de' Rimini. Maurizio ben conosceva chi era Daniele de' Rimini. Da questo momento oltre ogni credere dilicata e difficile addivenne la posizione del povero Maurizio. Doveva egli rivelare al genitore la dimora del figlio nella propria casa? Maurizio non prese a questo riguardo alcuna risoluzione, aspettò un'altra lettera dal Baronetto per potersi decidere a qualche passo. Ogni giorno Maurizio andava in casa del Duca di Gonzalvo, e questi lo ricevea sempre colle dimostrazioni della più grande amicizia, imperocchè il Duca avea sperimentato nel giovine inglese una esemplare probità ed un carattere franco, leale ed integerrimo. Edmondo, colle sue estese relazioni, avea fatto scrivere per Maurizio una possente lettera di raccomandazione da Spagna al Duca di Gonzalvo in Napoli, e questa lettera fu il mezzo d'introduzione per Barkley nella casa del nobile spagnuolo; il quale accordogli in seguito sì fattamente la sua fiducia che le porte della sua casa erano aperte in ogni ora del giorno all'Esquire Maurizio Barkley. E quasi tutt'i giorni Maurizio vedeva Emma; spesso intrattenevasi con lei, non ostante quella specie di ripugnanza che la figliuola del Duca di Gonzalvo mal dissimulava contro di lui. Ma la condotta, le parole dello Esquire Barkley erano irreprensibili, ed Emma non ebbe giammai a dolersi della minima infrazione che quegli avesse commessa alle leggi del buon vivere. Ciò non pertanto la fanciulla andalusa era sovente imbarazzata dallo sguardo di acciaio di Maurizio, il quale sembrava voler penetrare nelle più recondite latebre del cuor di lei. La fisonomia dell'inglese, ordinariamente fredda e marmorea, acquistava dappresso a lei un'espressione indefinibile; que' suoi occhi africani lucevano come due pugnali, e il colore del suo volto da olivastro diveniva bianco. Emma ammirava talvolta il complesso della testa di Maurizio, che aveva qualche cosa di straordinario e di eccezionale. I suoi capelli folti, duri e ricci gli tempestavano le tempia e la parte posteriore del collo come ispida foresta, e le sue sopracciglia ingrossate dall'ardente sole della Cafseria si spiegavano come due archi terribili su le due nere frecce degli occhi; era nell'espressione e nel taglio del suo capo qualche cosa del leone. Nelle fattezze di quest'uomo era la natura selvaggia e indomita unita a quella impronta di nobiltà che la virtù solamente può dare agli uomini. Nel tempo stesso la schiavitù avea lasciato il suo marchio indelebile nel carattere di lui cupo, aspro e sospettoso; quell'anima ardente nata per amare era stata defraudata financo del più caro sentimento, l'amor filiale. La più brutale condizione era stata imposta a quell'uomo, nel cuor del quale, fin dalla più tenera infanzia, era stata distillata ogni più bassa e truce passione, le quali per altro non aveano potuto attecchirvi. Abbiam detto che Maurizio vedeva Emma quasi ogni giorno. Quell'uomo ch'era arrivato all'età di trentadue anni nella maggior severità di pudore, e che non pertanto sentiva nel petto le fiamme del cielo africano; quell'uomo che sentiva ribollirsi il sangue al solo udir parlare d'amore non potea veder Emma tutt'i giorni senza rimanere attossicato dagli occhi della spagnuola. Ben presto una passione cupa si scavò un passaggio nella sua anima come una mina nelle visceri della terra. E questa passione crebbe, crebbe alimentata da tutta la volontà dello stesso Maurizio, il quale trovava in essa la più grande felicità della sua vita. Stranezza incomprensibile! Maurizio era felice nel suo amore sepolcrale: nessun raggio di speranza balenava su esso; e questo appunto alimentava la nascosta sua fiamma. Giammai non gli venne al pensiero l'idea d'una corrispondenza di Emma! però che questa idea era per lui un assoluto impossibile. Intanto egli era felice di amare Emma: era questo amore il suo culto, migliore assai di quel barbaro _feticismo_ che gli avevano insegnato colle nerbate della schiavitù. Questo solitario amore, dava a Maurizio le più singolari tendenze. Sovente egli si recava ne' luoghi più remoti e campestri, visitava i villaggi che circondano Napoli, montava l'erta del Vesuvio o de' Camaldoli, ed ivi, seduto su qualche collina, o alla vista del mare, egli si abbandonava a tutta la malinconica tenerezza della sua anima. In così fatte interne conversazioni egli si apriva interamente a sè stesso, e si piaceva di confidare all'aura del cielo i sentimenti del proprio cuore. L'immagine di Emma era la sua compagnia: quell'immagine cara prendeva agli occhi di lui forme eteree e leggiere; rivestiva i colori della nugoletta indorata che attraversava la tacita volta del cielo, nella forma di sottil nebbia si piegava sulle onde del mare, quasi per udirne i segreti, si raccoglieva sotto l'ombra di un platano, o si sfumava colla luce nel lontano orizzonte. Chi può dire le strane visioni di un'anima vergine e selvaggia che ama coll'ardore de' deserti, e che è continuamente costretta a ripiegarsi sovra sè medesima per mancanza di eco? Alcune volte la vulcanica passione di Maurizio scoppiava dal suo seno come tremenda eruzione, e allora i suoi occhi infiammati di lagrime giravano come quelli dell'affamato leone che percorre la vastità del deserto senza trovare di che satollare la sua fame; allora lo schiavo facea rimbombare le solitudini de' campi con gridi terribili e disperati: allora tutto gli era insopportabile, il moto e la quiete, la compagnia e la solitudine, la luce e le tenebre. Ma questi momenti di debolezza eran rari, perchè l'anima di Maurizio era forte come il suo corpo vergine ed avvezzo alle più orrende privazioni. Maurizio avea nascosto nel più profondo dell'anima il segreto del suo amore; era impossibile all'occhio più destro e indagatore lo scoprire la passione ardentissima che bolliva nel petto di lui. La stessa Emma, lungi d'addarsene minimamente, non iscorgeva nel _gentleman_ che un freddo egoista. Ma dal dì che Maurizio l'ebbe salva da sicuro pericolo di vita, Emma il risguardava con altr'occhio, ed il tenne in istima di amico sincero e leale. Fu quello certamente il più bel giorno della vita di Maurizio. Ed or cade in acconcio il dire ch'egli, inosservato, seguiva sempre Emma dovunque costei si recava: e quel giorno della cavalcata fu sul principio un tristo giorno per lui, dappoichè Maurizio vedeva a fianco di Emma i più leggiadri cavalieri! ogni parola che la fanciulla volgeva a qualcuno di loro era dardo al cuore dell'Africano. Da lungi egli non perdeva mai d'occhio ciascun movimento di lei. Abbiam già detto ch'egli possedeva tal vista acuta, che tra gli schiavi suoi compagni si era meritato il nome di _Quickeye_ (occhio celere). Non così tosto Maurizio ebbe veduto Emma discostarsi dalla comitiva e prendere sola la via di _S. Maria degli Angeli alle Croci_, pensò subitamente, con quella penetrazione che soltanto l'amore sa dare; che la fanciulla andava a trovare Lucia Fritzheim. Già Maurizio conosceva la faccenda della lettera di Lucia capitata nelle mani di Emma, conosceva la strana proposta di Daniele al Duca di Gonzalvo, e sospettava l'inclinazione di Emma pel giovine pianista. Con una parola Maurizio poteva distruggere tutto l'edificio delle speranze di Daniele. Quand'anche il Duca di Gonzalvo avesse avuto in pensiero di aspettar davvero i due anni promessi: quand'anche Daniele fosse tornato milionario ed amante riamato di Emma, una sola parola annientava ogni unione tra Daniele ed Emma. Bastava che Maurizio avesse detto al Duca di Gonzalvo esser Daniele figlio naturale del Conte di Sierra Blonda, cui tanto il Duca detestava e contro il quale avea giurato mortal vendetta. Ma lo schiavo di Patna avea l'anima nobile. Alla festa di Lady Boston, egli avea promesso a Daniele di non parlare, e questa promessa era sacra per lui; il pensiero di violarla giammai non era entrato nella sua mente. Avvegnacchè ardentemente egli amasse la giovinetta spagnuola, e sapesse che a costei le premure di Daniele non erano indifferenti, Maurizio non si lasciò sfuggir giammai una parola che avesse potuto umiliare l'amante agli occhi dell'amata. Eppure sa il cielo quanto soffriva il cuore di lui allora che Emma, dissimulando la sua agitazione, gli parlava del giovine pianista, del costui genio musicale, delle brillanti qualità dello spirito di lui. Maurizio disprezzava nel suo interno il trovatello, tipo d'ingratitudine, d'infedeltà e di slealtà; e ciò non per tanto nol degradava agli occhi di lei, sembrandogli codardia il valersi di un segreto per fargli perdere la stima della donna amata. Benchè rivale, Maurizio disprezzava Daniele, e troppo egli era nobile e altero d'animo per abbassarsi ad una inutile soperchieria. E diciamo inutile, perchè Maurizio non isperava di acquistarsi giammai l'amore di Emma, ed il pensiero d'una corrispondenza di affetti era lontanissimo dalla sua mente. Ma dal giorno in cui Maurizio ebbe la somma ventura di esporre la propria vita per sottrarre l'adorata andalusa da terribile pericolo, nell'animo di lui avvolgeansi costantemente le parole profferite da Emma nell'avviarsi alla casa di Lucia Fritzheim. Questa fanciulla avea detto: SALVATEMI IL CUORE DOPO DI AVERMI SALVATA LA VITA! Emma dunque amava!! Maurizio ricordava eziandio che la figliuola di Gonzalvo avea detto: _Andiamo a spargere il conforto della carità là dove la più nera perfidia ha sparso il dolore, la miseria, e voleva spargere l'ignominia!_ Non ci era dubbio: quella _nera perfidia_ non potea sulle labbra di Emma riferirsi ad altri che a Daniele. Ella dunque sapea di essere stata ingannata da costui sul conto di Lucia Fritzheim. Maurizio interrogò freddamente sè stesso; dimandò alla sua coscienza quello ch'egli dovea fare per _salvare il cuore di Emma_. Tradir Daniele? Non mai. Maurizio pensò varii giorni su quel che dovea fare: e un bel mattino, una fredda risoluzione era presa. A che si era determinato Maurizio Barkley? IV. L'ARDITA MENZOGNA Maurizio fermò di andare a trovar Lucia Fritzheim. Pochi giorni appena erano scorsi dalla visita di Emma alla figliuola di Giacomo lo Stradiere. Nell'abitazione di Lucia tutto era cangiato di aspetto: la tristezza e la miseria erano in parte scomparse, tutto al presente era ripulito, rassettato; varie suppellettili nuove vi si vedeano, e le vecchie erano raffazzonate. Egli è tempo di dire che, dopo il crudele abbandono di Daniele e gl'infruttuosi tentativi di Padre Ambrogio, Lucia era stata colpita in sul principio da acuta febbre nervosa, e poscia da un lento morbo di languore che avea minacciato di strascinarla alla tomba, Padre Ambrogio avea prodigalizzato all'inferma i tesori della cristiana carità. I nostri lettori conoscono una parte della lettera che Lucia scrisse a Daniele: c'incumbe ora il debito di farla loro conoscere per intero: essa era del tenor seguente: «Daniele, Daniele mio. «Corre già il quarto mese che mi hai abbandonata, ho contato questi orribili giorni ora per ora, minuto per minuto. Non ti rivolgo nessun rimprovero; sono rassegnata alla mia sorte... Mi è noto che ami un'altra!... Iddio ti renda felicità. Io sto male, male assai: il cielo vorrà forse aver pietà di me togliendomi da questa vita, prima che tu divenga lo sposo di un'altra. Il medico della parrocchia ha detto a Padre Ambrogio ch'io entro nel primo grado di tisi: ho inteso bisbigliar ciò intorno al mio letto, essi mi credevano addormentata! Oh quanto ti ho amato!... Io ti sciolgo dal tuo giuramento, Daniele, e ti perdono la morte che mi dai. Soltanto ti prego, in nome della prima parola di amore che ci scambiammo, in nome di mio padre, che non abbandoni la mia infelice famiglia, la mia cara sorella, i miei fratelli, e soprattutto che non abbi più odio per quella povera creatura di Uccello... Sovvengati di loro quando sarai felice a fianco della donna del tuo cuore... Addio, addio... non udrai più a parlar di me che un'altra sola volta, quando cioè ti sarà per caso annunziata la mia morte... sarà questo il più bel giorno della tua vita, siccome il dì della mia morte sarà stato per me il più felice... Addio, addio, per l'ultima volta, Daniele, Daniele mio. _Lucia Fritzheim._ È noto il crudel destino ch'ebbe questa lettera: una parte di essa fu dannata alle fiamme, e un'altra servì a rallegrare il pranzo di Daniele e de' suoi amici. Indarno la misera Lucia aspettò una risposta; questa non venne, siccome più non venne l'ingrato Daniele. Noi non abbiamo voluto risparmiare a' nostri lettori il quadro delle sofferenze di Lucia, di quell'anima sì candida e bella. La religione e l'amor fraterno alleviarono soltanto in parte i suoi dolori. L'orrenda infermità ond'ella era minacciata fu rimossa mercè le paterne cure ed il senno di Padre Ambrogio, il quale, oltre alla personale assistenza, provvide per medici e per rimedi; e Dio gli concedè il sommo piacere di veder salva Lucia dall'inesorabile consunzione. Dopo l'abboccamento ch'ebbe con Daniele, Padre Ambrogio, sperando sempre che questi sarebbesi ravveduto, nol perdè mai di vista, e s'informò della sua condotta, delle sue amicizie e relazioni: non indugiò quindi a scoprire che il giovine era perdutamente innamorato di nobil damina, la quale seppe esser la figliuola del Duca di Gonzalvo. Padre Ambrogio, per isvellere dal cuor di Lucia la sciagurata passione per Daniele, stimò rivelarle i novelli amori del giovine, confortandola a sbandire ormai dal suo cuore quel perfido, indegno di essere più oltre l'oggetto dell'amor di lei. A Lucia non produsse gran colpo una tale rivelazione, dappoichè non ostante le grandi precauzioni che Daniele aveva usate per nascondere i suoi novelli amori, già la miserella qualche cosa ne sapea, e già sospettava che al Palazzo S... dove la sua lettera era capitata, dovesse dimorar la donzella che le rapiva il cuore del suo amante. Lucia tracannò l'amaro calice senza mettere un lamento: ella offrì al cielo, con nobile slancio di rassegnazione, il suo dolore, ed il pregò ferventemente che le desse la forza di sopravvivere a tanto spasimo, non per amore ch'ella portasse alla vita, oramai rendutalesi amara e pesante, ma per non togliere alla sua disgraziata famiglia l'ultimo braccio che le avanzava. Ella sentiva il dovere di vivere non per sè, ma pei suoi. E le sue preci furono esaudite dalla Provvidenza. Lucia ripigliò la sua forza, e comechè affranta dalle sofferenze, pareva attingere nell'amore della propria famiglia il coraggio e la vigoria. Ella non potea soffocare nel suo cuore una passione ch'era divenuta una parte vitale della sua esistenza; ma si tenea paga di amare Daniele nel fondo dell'anima. Lucia avrebbe potuto fare impallidire il perfido nel cospetto medesimo della sua vaga, avrebbe potuto gittare nel mezzo dei due amanti la parola _trovatello_ qual barriera insormontabile tra loro; ma Lucia, al pari di Maurizio Barkley, avea l'animo troppo elevato e il cuore troppo ben formato per discendere ad una vendetta che avrebbe renduto infelice il suo amante senza render lei meno sventurata. Lucia fece di meglio assai; fece quello che la religione insegna: perdonò ed amò. Stando a tal modo le cose, un mattino Padre Ambrogio, che mal si studiava di nascondere il suo turbamento, vinto dalle istanze di Lucia e di Marietta, confessò di aver saputo che Daniele si accingeva a partire per l'estero, e che gli era stato impossibile di scoprire quale scopo si avea tal partenza, qual motivo l'avea determinata. Facendo ciò palese, Padre Ambrogio restò maravigliato non poco nello scorgere sul volto della fanciulla, a vece di un dolor profondo, una certa espressione come di gran gioia. E siccome egli non facea mistero delle impressioni che provava, dimandò a Lucia perchè quella notizia, invece di contristarla, sembrava le desse soddisfazione. Lucia gli confessò ch'ella preferiva di saper lontano il suo amante e forse per sempre, anzichè di saperlo in Napoli e al fianco di un'altra donna. Oh! se la tapinella avesse conosciuto lo scopo del viaggio di Daniele! Ma in pari tempo ch'ella confessava esser più contenta che Daniele partisse piuttosto che saperlo accanto alla figliuola del Duca di Gonzalvo, i suoi occhi si bagnavano di lagrime, le sue affilate gote s'imbiancavano, ed il suo petto si gonfiava come la marea vicina a frangersi in sulla spiaggia. E le sue lagrime erano richiamate eziandio da quelle di Marietta che scorrevano senza ritegno su per le belle guance della fanciulla, la quale frattanto non lasciava di rimprocciar la sorella perchè piangesse mentre avea detto di aver piacere della partenza di quel birbante (questo era l'epiteto che Marietta solea dare a Daniele). Lucia più non pianse, ma fermò di veder Daniele per l'ultima volta, innanzi che questi abbandonasse Napoli. Si conosce come allora che il giovine si accingeva a salir sulla diligenza che dovea menarlo lungi da Napoli, la fanciulla si slanciò, con impeto irresistibile, verso di lui, e gli si mostrò. È noto lo scontro de' due amanti. Lucia avea veduto vagare una lagrima negli occhi di Daniele: ella era meno infelice! Dal dì della partenza dell'amato giovine, Lucia non era men trista e sofferente che per lo addietro, ma più tranquilla e interamente rassegnata. La tristezza del suo cuore veniva per altro accresciuta dalla povertà ch'ella vedeva ogni dì vie più invadere la famiglia. Quantunque tanto ella quanto Marietta facessero ogni opera e si ammazzassero di lavoro, il frutto delle loro fatiche a mala pena bastava per uno scarso nutrimento. Padre Ambrogio non cessava, sia con procacciar lavori alle due fanciulle, sia con delicate sovvenzioni che egli sapea nascondere con arte, rifondendo del suo sul meschino prodotto dei lavori ch'egli stesso lor dava a fare, non cessava di provvedere al sostentamento di quella famiglia, della quale egli avea promesso a Giacomo di essere secondo padre. Commovente e splendido esempio di virtù! Oh perchè gli uomini come Padre Ambrogio son così rari nella società corrotta e decrepita in cui viviamo! La visita di Emma aveva interamente cangiato l'aspetto delle cose. Erano circa le undici di un bel mattino lucido e sereno. Maurizio era andato a piedi alla dimora dell'onesta famiglia. Egli era vestito colla più grande semplicità: portava un soprabito bigio; lunghi stivali colle rivolte, cappello a larghe tese, e una giannetta d'ebano nelle mani. I fratellini di Lucia erano usciti a diporto nei dintorni colla vecchia fantesca, così che in casa non erano che Lucia, Marietta e Uccello. Marietta era occupata a rimendare e ricucire calze, camice ed altri panni pertinenti ai fratelli: sopra una sedia, ad una traversa della quale appoggiava i piedi, ella teneva un patuffolo di panni che dovea passare in rivista, e su cui gittava con impazienza lo sguardo, però che la vispa fanciulla avrebbe preferito di andare un poco a scorrazzar per la campagna in compagnia dei fratelli. Ad ogni punto ella dava un'occhiata al lavoro, e mille d'intorno, guardava distratta al di là della finestra e mandava di grossi sospiri. Spesso rimaneva coll'ago in mano senza far niente, o si metteva a guardar con amore la sorella ch'era tutta in sul lavoro. Marietta era tanto felice nel veder sul volto di Lucia rinati in parte i color della salute! E se Lucia alzava gli occhi, Marietta ripigliava il suo compito e ritornava all'opera sorridendo, ma allora era ruina tutto quello che faceva; s'imbrogliava a infilare l'ago, si scordava di fare il nodo della gugliata, si pungeva le dita ovvero, se stava rimendando le calze, facea scappar le maglie e scavalcarle, si facea cader la bacchetta e i ferruzzini. Lucia sorrideva, dappoichè ben sapea come l'amasse quella cara sorella, il cui solo difetto era nella troppa leggerezza del temperamento. Lucia avea posto mano ad un paio di calzoncini nuovi di Andrea, il più piccolo dei fratelli: ella ne avea fatto l'imbastitura, e si accingeva a cucirli. Non si può dire il bene immenso che la visita di Emma avea fatta a tutta questa famiglia. Quanto poco ci vuole per rialzare i sofferenti dal loro abbattimento! Lucia non era più così trista come per lo addietro; la sua famigliuola avea ormai un appoggio, un'amica. A seconda ch'ella si sentiva restituita alla salute, ella ne provava una indicibile felicità, perocchè poteva, colla fatica delle suo braccia, sovvenire ai bisogni de' fratelli. Le due sorelle erano così occupate. Una fascia di sole illuminava i loro lineamenti e andava a scherzare sulla sedia situata nel mezzo di quelle due fanciulle. In un angolo della stanza era seduto Uccello davanti ad una tavola su cui si vedea spiegato un grande abbicci. L'idiota si sforzava di apparare a conoscere le lettere, imperocchè Padre Ambrogio gli avea promesso un bel regalo se imparasse in pochi giorni l'alfabeto. Uccello avea mandato a memoria il nome di ciascuna lettera, ma non sapeva ancora farne l'applicazione alla figura. Egli si facea di grosse risate senza motivo, e sfregavasi le mani ogni volta che indovinava a chiamare una di quelle lettere. Di tempo in tempo, annoiato di cantar, sempre la stessa canzone su quel maledetto scartabello che gli stava dinanzi, si alzava e veniva ad equilibrarsi in sulla spalliera della sedia di Marietta, a giuocare co' gatti mollemente sdraiati al sole, a perseguitar qualche mosca, o a trastullarsi colle proprie dita divenute per lui dieci balocchi gentili e graziosi. Una modesta tirata di campanello fece ristar dal lavoro le due fanciulle e correre alla porta Uccello che, dopo molte lezioni e molti sforzi, aveva appreso ad aprirla. Le due sorelle furono estremamente sorprese nel vedersi dinanzi un uomo ch'esse non conoscevano, mentre credevano che fossero i due fratelli i quali tornassero dalla passeggiata unitamente alla vecchia fantesca che gli avea accompagnati. Maurizio Barkley salutò col capo le due fanciulle a rimase col cappello in mano e all'impiedi. — Scusate, signorine, egli disse, se ardisco presentarmi senza forse essere personalmente conosciuto da voi. Eppure ho avuto l'onore di godere la stima di vostro padre. — Il vostro nome signore? dimandò Lucia. — Maurizio Barkley. A tal nome le due fanciulle fecero un moto di sorpresa. — Ma noi conosciamo un tal nome, n'è vero, Lucia? disse Marietta. — Certamente, era questo il nome che figurava sulle polizze che Daniele riceveva ogni mese. — E che tuttavia riceve, osservò Maurizio sorridendo. — Voi dunque, signore, siete l'ignoto benefattore di Daniele? — Non io propriamente, signorina... ma su questo vi prego di non interrogarmi: avrei il rammarico di dovermi rifiutare alle vostre inchieste. Bastivi il conoscere esser io quel Maurizio Barkley il cui nome figura sulle polizze che Daniele riceve in ogni fin di mese. Mentre Maurizio parlava, Marietta era ita a prendere una sedia e l'avea offerta all'Esquire, che si sedè presso le due fanciulle, come se fosse amico intrinseco di casa. Lucia dimandogli: — Poichè voi, signore, avete detto che Daniele riceve ancora il sussidio mensuale, la cui provvenienza non potete rivelarci, voi però dovete conoscere dove al presente egli si trova. — Daniele è in Germania, signorina. — In Germania! esclamò Marietta; è lontano, non è vero, signore? — Non lo è mai abbastanza per la vostra pace, rispose Maurizio, affissando gli occhi in quelli di Lucia, la cui commozione si appalesava dai moti irregolari del seno e della estrema pallidezza del volto. — Egli sta bene dove sta, e speriamo che se ne vada a capo del mondo, disse Marietta, guardando di soppiatto la sorella per vedere che sensazione le producessero queste parole. Maurizio sorrise e guardò con compiacenza Marietta, la cui vivacità si tradiva in ogni sua parola e gesto. Lucia avrebbe voluto fare un mondo di domande a Maurizio, ma la trattenea un certo timore di conoscere cose che le avrebbero arrecato dolore grandissimo: nello stesso tempo ella vergognavasi di fare tali domande alla presenza della sorella, cui avea promesso di non mai parlare di Daniele. — Sento il dovere, signorine, disse Maurizio dopo qualche momento di silenzio, di dichiarare lo scopo della mia visita. Io sono il messaggiero della vostra amica la Duchessina Emma di Gonzalvo. Un raggio di gioia sfavillò su i volti delle due sorelle — La Duchessina! esclamò Lucia. — Quella celeste creatura! disse Marietta. Ed entrambe guardarono con avidità negli occhi di Maurizio, quasi avessero voluto conoscere anticipatamente ciò che questi dovea dir loro. — Ella stessa, rispose Barkley, ella m'incarica di darvi un attestato della sua sincera amicizia. — Abbiamo forse bisogno per ciò di altri attestati, di altre prove disse Lucia a cui già gli occhi si velavano di lagrime di tenerezza. Oh perchè vuol ella opprimerci di bontà! — Chi ha imparato una volta a conoscervi, adorabili fanciulle, disse Maurizio, non farà mai abbastanza per dimostrarvi la sua affettuosa amicizia. Emma ha un torto da riparare con voi, Lucia; ella involontariamente vi ha rapito il cuore di Daniele, ed oggi ella viene, per mezzo mio, se non a restituirvelo (poichè ciò non è in suo potere), a rendervi almeno la sicurezza e la pace. Io sono incaricato di farvi la confessione che la Duchessina Emma di Gonzalvo ama un altro, che non è Daniele, e dal quale ella è corrisposta con un'indicibile adorazione. Questa confessione rimanga per altro, sepolta ne' vostri cuori, signorine; Emma non vuol per ora che nessuno al mondo sappia i suoi sentimenti. — Ah! ti ringrazio, mio Dio, ti ringrazio, esclamò Lucia giungendo le mani e volgendo al cielo i suoi begli occhi. — Oh benedetta! benedetta! sclamò Marietta. Or sì ch'ella merita di essere adorata! Beato, beato quell'uomo ch'è il suo amante! Oh come costui deve andar superbo e felice di essere amato da quel sole di bellezza! — E chi è costui? dimandò Lucia. — MAURIZIO BARKLEY! disse questi chinando gli occhi e impallidendo. — Voi! voi, signore!! Oh siate felice, signor Barkley, chè ben lo merita il vostro nobil cuore! Maurizio si affrettò d'interrompere una conversazione che diveniva pericolosa e delicata per lui. Poco stante, egli si accomiatava dalle due sorelle. Ma innanzi ch'ei fosse partito, Lucia lo avea pregato di manifestare alla nobile amica i suoi sentimenti di riconoscenza, di stima e di affetto. Nel discendere le scale di quella casa, Maurizio dicea tra sè: — Ho fatto il mio dovere; le ho salvato il cuore... Dio faccia il resto! Nella stessa mattina, e non sì tosto di ritorno da _S. Maria degli Angeli alle Croci_, Maurizio recossi al palazzo S... e chiese di parlare alla Duchessina. Emma il ricevè, siccome solea da qualche tempo, colle dimostrazioni della più confidenziale amicizia. Maurizio era pallido, ma tranquillo secondo il consueto. — Vengo dalla vostra amica, da Lucia Fritzheim. — Ah! esclamò Emma, vi ringrazio davvero, signor Barkley; volea pregarvi appunto questa mattina di recarvi da lei per informarvi della sua salute che mi è sì cara. — Vedete, Duchessina, ch'io antivengo ai vostri desiderii. Ma ho fatto molto di più che informarmi della sua salute: le ho interamente restituita la pace del cuore, rassicurandola su i vostri sentimenti a riguardo di Daniele. E per rimuovere dall'animo di lei ogni sospetto, mi son fatto ardito di dirle che altri occupava il cuor vostro. — Che! signore! — Ora, Duchessina, voi avete l'obbligo di non più pensare a Daniele: se questo era dianzi generosità in voi, al presente è dovere; io vi ho fatto una legge di sacrificare all'amicizia un avanzo di affetto per un uomo che ne è indegno. Ricordatevi che voi mi avete comandato di salvarvi il cuore. — Ed avete fatto bene, signor Barkley, e ve ne ringrazio... Voi dunque avete detto a Lucia Fritzheim che il mio cuore.. — Era avvinto ad altro amore, Duchessina. Emma sorrise e abbassò gli occhi. — Scommetto che mi avete trovato anche un amante, disse sorridendo la fanciulla. — Si, Duchessina, rispose Maurizio con visibile turbamento, ho detto che voi amavate... — Chi mai? interruppe Emma aggrottando le ciglia. — Maurizio Barkley! questi rispose con voce appena sensibile. — Voi! voi stesso! esclamò Emma arrossendo di viva fiamma. — Io stesso, Duchessina; imploro tutto il vostro perdono per questa ardita menzogna. Quella fanciulla mi ha chiesto il nome del vostro amante. Chi poteva io nominare senza compromettervi? Gli è certo che se io avessi nominato qualunque altro, non solamente avrei commessa la più imperdonabile imprudenza e temerità, ma la menzogna cessava di essere innocente. Posso sperare di aver ottenuto il vostro perdono? Emma, cogli occhi bassi, gli stese la mano. — Amico generoso! diss'ella, avete salvato me e Lucia; vi perdono e vi ringrazio. Maurizio baciò la mano della nobil fanciulla e si ritrasse, dicendo tra sè stesso: — E me chi salverà, se non Dio? Parte Quinta I. LOTTA INTERNA Dal giorno in cui tra il Baronetto e Daniele era stato conchiuso il bizzarro contratto, per lo quale costui si obbligava ad essere il custode del cadavere di quello, lo stato morale di questi due uomini erasi al tutto cambiato: il Baronetto, restituito alla salute e alla tranquillità, avea ripreso le consuete sue occupazioni; era tornato a' suoi campestri lavori; avea richiamato intorno a sè gli amici, di cui si era dinanzi disgustato a cagione della infermità del suo spirito; avea ripigliato i suoi studi, le sue faccende; era insomma ridivenuto quello stesso uomo ch'era qualche anno addietro. Egli amava sempre Daniele, e sempre con piacere il vedeva a sè d'accanto; ma ora mutato era l'aspetto delle cose: ed il Baronetto più non sentiva la necessità delle melodie del giovine pianista per iscacciar dall'anima que' fantasmi che al presente più non venivano ad assediarlo. Anzi, è mestieri confessare che l'aspetto di Daniele cagionava piuttosto una spiacevole sensazione in Edmondo, dappoichè questi non vedeva ormai nel giovine italiano che l'uomo destinato a vegliare sulle sue spoglie mortali. Ciò non vuol dire che Edmondo disamasse Daniele, verso il quale si sentiva attratto da una forza prepotente; ma il _guardiano_ della morte non poteva non far nascere un sentimento di ripugnanza nell'animo del Baronetto. Dal canto suo, Daniele, a vece di esser lieto della prodigiosa fortuna che un giorno gli sarebbe spettata, sembrava più impensierito che per lo passato: egli era sempre distratto taciturno, o inconcludente. Nel cospetto di Edmondo, egli forzava di mostrarsi men rabbruscato e più ameno, ma ora, non così di frequente ei vedeva il Baronetto, e la sera quando questi era nel cerchio dei suoi amici, Daniele non appariva che un istante nella camera verde, e tosto dileguavasi per abbandonarsi alla solitudine de' suoi pensieri, o per trovare nel teatro Manheim distrazioni e svagamenti. Il mese era scorso dacchè ei si trovava a _Schoene Aussicht_: il Baronetto, fedele alla sua promessa, gli avea dato una cambiale di trentamila franchi pagabile a vista e tratta sopra un banchiere di Manheim. Nel dargli questo denaro, il Baronetto avea detto sorridendo: Ecco una piccolissima anticipazione su quello che il _mio cadavere_ vi darà. Daniele era libero di seguitare i viaggi e di tornare a Napoli. Edmondo non faceva più nessuna istanza per ritenerlo altro tempo a _Schoene Aussicht_: intanto il giovine pianista non sapea venire in nessuna risoluzione. Egli non volea più seguitare i suoi viaggi, imperocchè ne comprendea l'inutilità. D'altra parte, non era egli ormai l'erede d'immense ricchezze? Che bisogno avea di ammazzarsi di lavoro, nella certezza di non poter mai conseguire quel milione, che egli vedea rifulgere nell'avvenire? Ritornare a Napoli? Questo proponimento era ben lontano dall'animo suo, perocchè Daniele non volea riporre il piede nel paese dov'era Emma, se prima non diventasse milionario. Intanto egli sentiva la necessità di allontanarsi immantinente da _Schoene Aussicht_. Ogni dì che ei prolungava il suo soggiorno in questo luogo, l'animo suo si faceva più nero e il suo volto più pallido. Nell'aureo appartamento dov'egli avea stanza, nel letto di seta dov'ei si gittava per riposare, Daniele più non trovava il riposo e la quiete; il sonno ch'era tornato sulle ciglia di Edmondo, fuggiva dagli occhi di lui. Daniele volea fare il possibile per involarsi a sè medesimo, per non trovarsi faccia a faccia coi proprii pensieri, ma frattanto ei non sapea abbandonar la poltrona sulla quale rimanea lunghe ora nella più assoluta immobilità. Che cosa aveva operato un sì strano cangiamento in Daniele? Un'idea infernale che gli si era presentata al pensiero come luce sinistra. Dapprima egli avea rigettata quest'idea con tutte le forze dell'anima sua, aveva fremuto nel pensarvi; ma quell'idea che dapprima se gli era mostrata rivestita di orrore, incominciò per così dire, a dimesticarsi con lui. Quest'idea era un DELITTO! La nostra penna rifugge dal palesare quello a cui pensava Daniele per accorciare il termine della sua aspettativa e per far sparire la distanza che lo separava dall'oggetto dei suoi desiderii! Il suo petto balzava al pensiero di volare, due volte milionario, dal Duca di Gonsalvo, non appena spirati due anni. Un ostacolo si frapponeva al compimento de' suoi voti, una vita! Un uomo doveva diventare CADAVERE perchè avesse potuto afferrare quella felicità che gli si mostrava lungi con tutti gl'incanti della seduzione. Due milioni ed Emma! E per ottenere questa felicità bastava un momento, un sol momento di coraggio, di ardire!! — Quando un uomo è giunto a passare i quarant'anni, non ha vivuto abbastanza, e massime quando quest'uomo ha goduto sino alla sazietà di tutte le delizie della vita? Che cosa sono gli anni che seguono, se non che una serie di malanni e di miserie? Che cosa sono in rispetto all'eternità venti o trenta anni di più che un uomo strascina in sulla terra? E che cosa è la vita di un uomo nella immensità della creazione? Che cosa è una esistenza nel mezzo delle generazioni? — Così fatti atroci pensieri si aggiravano nel capo del giovine pianista, mentre che altri pensieri di diverso genere, immagini seducenti di piacere, di gioie, di delizie compivano la orrenda persuasione. Quando una funesta idea si presenta allo spirito umano, le passioni ch'essa fomenta sono sì scaltritamente inventrici di arzigogoli e di false ragioni ch'egli è estremamente difficile di non rimaner presi nella pania. Daniele combattè con forza l'orribil pensiere che tanto più diventava pericoloso quanto più perdeva del suo orrore; ma ciò nonostante, ogni volta ch'ei pensava ad Emma, a' due anni che sarebbero spirati, all'immensa eredità che lo aspettava, a que due stuzzicanti milioni che l'invitavano a fruirne pria del tempo, alla gioia sovrumana di presentarsi così ricco e sì pieno di fastigi al superbo Duca di Gonzalvo ed alla altiera sua figliuola; quando Daniele pensava a queste cose, il demone del delitto soffiava nell'anima di lui i più nefandi propositi, cancellava ogni buon proponimento, e lo sciagurato giovane era da capo con quella cupa taciturnità che suol precedere l'attuazione di un gran delitto. Dal momento che questa idea infernale si era insignorita dell'animo di Daniele, i colori della salute disparvero dal suo volto. Egli più non sapea trovare una nota sul pianoforte, cui raramente si accostava, parlava solo, amava le solitarie passeggiate, s'internava nei più folti viali della villa di _Schoene Aussicht_, ed il suo sguardo avea preso un'espressione strana ed incomprensibile. Non sappiam dire qual effetto ormai producesse in lui l'aspetto di Edmondo. Daniele evitava d'imbattersi nel Baronetto, di cui più non potea sostenere le occhiate, quasi avesse temuto che questi indovinasse i suoi pensieri. Edmondo avea notato la metamorfosi che si era operata nel giovine pianista, e l'attribuiva interamente agli amori di lui, alla tristezza della lontananza dall'oggetto amato, e sovente il ritoccava sorridendo su questo tasto: al che Daniele rispondeva parole vaghe, e tosto, sotto un pretesto, tornava alla sua solitudine, dove covava disegni tenebrosi e mortali. Per buona ventura, il delitto meditato non offriva una facile esecuzione: era quasi impossibile di FARE SPARIRE DAL MONDO IL BARONETTO senza lasciare orma del misfatto. Ben s'intende che l'impunità era la prima condizione che Daniele avea posto a calcolo nel perfido attentato, al quale giorno e notte stava sopra col pensiere, ma l'impunità non è così facile, e, per ammirabile disposizione della Divina giustizia, l'uomo che ha commesso un delitto il porta dovunque stampato in sulla fronte anche quando gli è riuscito di sperderne ogni traccia. Daniele pensava; Uccider di pugnale? Niente di più agevole ad eseguirsi, ma in pari tempo niente di più facile a discoprirsi. Assassinando il Baronetto di notte e nel proprio letto si avrebbe potuto congetturare un assassinio commesso da ladri. Ma intanto la giustizia si sarebbe posta in sulle tracce dell'assassino; avrebbe cominciato dall'impadronirsi di tutte le persone residenti a _Schoene Aussicht_, e certamente la singolarità del testamento di Edmondo avrebbe chiamato i sospetti sulla persona dell'erede, il quale, non appartenendo al defunto per nessun vincolo di sangue; presentava probabili induzioni di reato. D'altra parte, se egli, Daniele, fosse caduto nelle mani della giustizia, anche per semplici sospetti, in che modo avrebbe potuto adempiere ai patti del testamento, e porsi quindi in possesso della eredità? Bisognava dunque rinunziare ad ogni idea di assassinio per mezzo del pugnale. Uccider di veleno? Ciò presentava, è vero, minor facilità di scoprimento, ma difficoltà moltissima di esecuzione. Come procurarsi il veleno? a chi fidarsi? Aver complici del delitto? Oltre a ciò, dal momento che nell'animo del Baronetto fosse sorto il pensiere di essere stato avvelenato, non avrebbe egli subitamente sospettato il futuro suo erede quale autore dell'avvelenamento? L'autopsia richiesta forse dall'autorità, a malgrado del testamento del defunto, non avrebbe annientata l'eredità, annientandone le condizioni? E non poteva il moribondo Baronetto, in un momento di chiaroveggenza, distruggere il testamento? Ma la difficoltà che superava tutte le altre pel compimento di questo delitto si era il procacciarsi il veleno, senza eccitare sospetti nella persona che lo avrebbe venduto. Aggiungi a tutto questo l'impossibilità di nascondere il proprio turbamento alla presenza del moribondo, del dott. Weiss, dei servi che sarebbero accorsi per prestare all'infermo ogni possibile soccorso e rimedio. Bisognava dunque non pensare ad una morte per avvelenamento. Uccidere con istrangolamento? Era rischioso e terribile: Daniele non avea per questo nè forza nè coraggio. Prescindendo da ciò, questo genere di morte presentava la stessa faciltà di discoprimento che l'assassinio per pugnale. La scienza avrebbe immantinente rivelato il delitto, e la giustizia non avrebbe tardato a trovare il delinquente. Era dunque mestieri di smettere anche questa idea la quale, bisogna dirlo, facea fremere lo stesso Daniele. L'impossibilità dell'esecuzione avea scoraggiato il giovine, il quale tenne ciò come avvertimento del cielo, e parea deciso a rinunziare ad un proponimento sì terribile. D'altra parte, il patibolo o i ferri non mancavano a quando a quando di mostrarsi da lungi all'atterrita mente del giovine, ch'era preso allora da salutare orrore del misfatto che avea concepito. Comunque la sua ragione fosse a tal guisa annebbiata dalle passioni, il cuor di Daniele sentiva sempre un certo incomprensibile attaccamento pel Baronetto; e il pensiere di assassinarlo, tra le tante insormontabili difficoltà che presentava, si avea quella di dover soffocare quel tenero sentimento inesplicabile che Daniele provava per quell'uomo che gli avea dato così splendida ospitalità e che, morendo, il lasciava erede di tutte le sue ricchezze. E questo sentimento fu così forte che Daniele, rientrato in sè medesimo, ebbe bastante vigoria di volontà per iscacciar dall'animo il pensiere di tanto delitto; anzi, per vincere una volta per sempre la tentazione, risolvette di abbandonare quella casa e quel paese, e di affidare l'avvenire agli eventi. Daniele avea risoluto di congedarsi dal Baronetto. — A capo di due anni, egli dicea tra se, tornerò a Napoli, mi recherò dal Duca di Gonzalvo, e gli porterò una lettera del Baronetto, in cui questi mi riconosce per suo erede. La tardanza dell'eredità sarà compensata dalla prodigiosa cifra di due milioni e da' titoli, di cui mi porrò in possesso alla morte del testatore. Vedremo se quel superbo Gonzalvo sarà soddisfatto e pago di ciò. Daniele non volle più oltre indugiare a porre ad effetto la buona risoluzione che avea preso, e che temeva ad ogni istante di sentir vacillare in sè medesimo. Nello stesso giorno, egli salì dal Baronetto per accomiatarsi da lui e per pregarlo di volergli scrivere quella lettera pel Duca di Gonzalvo, ignorando le relazioni ch'erano passate tra questi due personaggi. II. L'UPAS Abbiam fatto più volte comprendere che il nostro principale scopo in queste narrazioni si è di fissare l'attenzione dei nostri lettori sulla più importante verità morale: LA MANO DELLA PROVVIDENZA NEI FATTI DELL'UMANA VITA. Quell'infinità di romanzi che si svolgono nella società degli uomini, di cui la maggior parte rimane ascosa agli occhi della storia che tocca soltanto i fastigi sociali, non sono, siccome noi crediamo; che dimostrazioni più o meno evidenti di quella verità che si appalesa almeno chiaroveggente. Ci par di vedere che i delitti ben sovente sieno la doppia punizione inflitta dal cielo a due colpe rimaste celate agli occhi dell'umana giustizia. Nell'ordine morale, l'impunità non è per nessuno; il solo pentimento, accompagnato da una intera vita di volontarii sacrificii, riscatta una colpa. Edmondo era solo nella stanza da studio. Seduto vicino alla sua scrivania, egli avea risposto ad una lettera di Maurizio Barkley. Nel momento in cui Daniele si presentò nello studio, il Baronetto aveva appunto terminata la sua lettera e vi stava apponendo il suo suggello. — Oh! buon giorno, caro Daniele, dissegli Edmondo sorridendo e stendendogli la mano, a che debbo attribuire l'onore d'una vostra visita? — Perdonate, signor Baronetto, se vengo per poco ad interrompere le vostre occupazioni. — Ma che dite mai! È un piacere che mi date... Mi occupavo a sbrigare il mio corriere, anzi vi chieggo il permesso di spedire questa lettera. Daniele s'inchinò e si sedè accosto alla scrivania. Edmondo suonò il campanello, ed al servo che si presentò sotto l'uscio consegnò la lettera pel corriere di Napoli. — Eccomi sbrigato, soggiunse indi; questa mattina io sono veramente felice, imperocchè con quella lettera che ho spedita nel vostro paese, a Napoli, mi sono sdebitato di un antico dovere di gratitudine, e, oltre a ciò, ho il piacere di vedervi in un'ora in cui non siete solito di favorirmi di vostre visite. — Quanta bontà, signor Baronetto! — E sempre accigliato, mio caro Daniele! sempre pensieroso! Noi abbiamo interamente cangiate le nostre parti: per lo passato eravate voi che spargevate un poco di sollievo sulla mia tristezza; ed oggi son io che adempio verso di voi a tale ufficio. Peccato che non sono artista anch'io, e del vostro genio! Ma qual differenza tra le cagioni della nostra malinconia! Io non era innammorato, e nol sono mai, per mia disgrazia: dev'esser ben dolce cosa il pensare all'oggetto amato, n'è vero Daniele? — V'ingannate, signor Baronetto, se credete che sia l'amore la cagione del mio malumore. Non niego che gran parte esso vi abbia, ma è tutt'altro il motivo che m'impedisce di abbandonarmi alle distrazioni proprie della mia età. — Non voglio essere indiscreto, mio caro Daniele, ma vi ricordo che in me avete un amico e sincero; spero avervene date prove sufficienti. — E indelebili, signor Baronetto; ed io mi sono risoluto di non abusare più a lungo della vostra bontà. La mia ulteriore dimora a _Schoene Aussicht_ sembra interamente inutile; così permetterete che domani io mi accomiati da voi. — Così presto! esclamò Edmondo il quale non si aspettava a questa risoluzione del giovine: ed è questo forse l'oggetto della vostra visita di questa mattina? — Per lo appunto, signor Baronetto, rispose Daniele abbassando gli occhi. — E perchè una tale risoluzione? — Perchè credo inutile di esservi più a lungo di peso; spirato è il mese da che mi trovo a Manheim, e, quantunque le nostre relazioni non sieno più le stesse di quelle ch'erano nei primi giorni ch'io ebbi l'onore di ricevere da voi così splendida ospitalità, pure non possono minimamente influire sul mio ulteriore soggiorno a _Schoene Aussicht_. — È superfluo il dire, riprese Edmondo, quanto piacere mi farebbe di tenervi nella mia casa qualche altro tempo; ma non voglio avversare la vostra volontà, e voi siete libero di fare quello che più vi converrà. Gli obblighi scambievoli che ci siamo imposti e la natura del mio testamento hanno stabilito tra noi vincoli che hanno qualche cosa dì più della semplice amicizia. Laonde, in qualsivoglia evento della vostra vita, in qualunque contingenza imbarazzante in cui possiate trovarvi; mio caro Daniele, pensate che sarà per me uno dei più be' giorni della mia vita quello in cui potrò prestarvi un tenue servigio e darvi un attestato del mio inalterabile affetto. — Ebbene, signor Conte, si affrettò a dire Daniele, io mi varrò della vostra benevolenza innanzi ch'io parta ed avrò il coraggio di chiedervi una grazia. — Bravo! esclamò Edmondo; ecco quel che si chiama vero affetto e vera stima: andiamo su parlate francamente, giovanotto, siccome parlereste a vostro padre. — La grazia ch'io vi chieggo, signor Conte, disse Daniele arrossendo, si è di scrivermi una lettera pel Duca di Gonzalvo. — Pel Duca di Gonzalvo! — Sì, signor Conte: in questa lettera voi gli darete l'assicurazione della vostra volontà di nominarmi vostro erede universale. Munito di questa scritta, io ritornerò da lui con altro animo, e sarà lo stesso come se io me gli presentassi milionario. Edmondo sorrise, e dopo alcuni momenti di silenzio, disse: — Questo che mi dimandi, figlio mio, è assolutamente impossibile. — Impossibile! esclamò sorpreso il giovine. — Impossibile, replicò Edmondo. — E per qual ragione, di grazia? chiese Daniele. — Non posso dirtene la ragione, mio caro Daniele: dicoti soltanto che tra me e il Duca di Gonzalvo avvi una barriera mortale: le nostre relazioni sono rotte per sempre; ti prego anzi, mio caro figliuolo, per quanto hai di più sacro, di non parlar giammai di me al Duca di Gonzalvo nè rivelargli giammai il luogo del mio ritiro. Sarà questa una pruova a cui pongo il tuo affetto per me. — Io dunque non potrò giammai dirgli, che sono destinato ad essere l'erede del Baronetto Edmondo Brighton, Conte di Sierra Blonda? — Glielo dirai un giorno dopo della mia morte, se colui vivrà ancora! Daniele chinò il capo in atto di scoraggiamento e si tacque immerso ne' suoi cupi pensieri. Il demone del delitto fece di bel nuovo balenare una luce di sangue nella mente del giovine! Gli occhi di Daniele si erano fissati distrattamente in sulla scrivania del Baronetto, così che sembrava ch'egli leggesse la soprascritta d'un libro che ivi stava, mentre il pensiere del giovine era ben lungi dall'occuparsi di libri. Edmondo per disviare la conversazione dal tristo subbietto al quale si era incamminata, disse a Daniele: — Questo libro su cui voi gittate gli occhi, mio caro Daniele, è tutto scritto di mio proprio pugno. Sono memorie della mia vita da me gittate in questo scartafaccio: osservazioni importanti da me raccolte ne' miei viaggi; ragguagli su talune rarità ch'io conservo. Ieri sera per lo appunto, rileggendo alcune notizie sull'isola di Giava, dov'io rimasi per pochi giorni, ricordai di dover conservare alcune fronde di un albero che cresce in questa isola chiamato l'_Upas_ ovvero _The Poisontree_ (l'albero del veleno). Voglio farvi udire le notizie da me raccolte su questo terribile vegetale. Edmondo aprì il manoscritto ad una pagina che egli avea segnata con un pezzettino di carta e lesse le seguenti cose[5]: «Quest'albero è nativo di Giava; arriva ad una considerabile altezza, giungendo talvolta ottanta piedi. Si sviluppa da esso in gran copia un succo o gomma, ch'è il più mortale veleno; di questo fanno uso gl'indigeni per avvelenare le punte delle loro frecce e delle altri armi. Gli effluvi ch'esalano da quest'albero sono talmente omicidi, che nè un animale nè una pianta possono resistere alla sua influenza. La gomma viene estratta per mezzo de' rei condannati a morte. Quando la sentenza è pronunziata contro qualcuno di loro, il giudice gli dimanda se vuol morire per le mani del carnefice, ovvero salire sull'Upas per raccogliere una scatoletta di gomma. I condannati sogliono preferire ciò, perchè hanno così una lontana probabilità di salvarsi. Prima di avvicinarsi all'albero fatale, ricevono tutte le corrispondenti istruzioni per rendere l'operazione meno pericolosa. Pel consueto, simiglianti istruzioni vengon loro somministrate da un sacerdote, il quale adempie verso di loro anche al sacro ufficio di prepararli a morire. I condannati sogliono montar sull'albero, col capo coverto da un berretto di cuoio e da una maschera con occhi di vetro; eglino sono parimente provvisti di guanti di cuoio. I condannati evitano con grandissima cura il contatto delle fronde, le quali, ad un semplice tocco su qualunque parte nuda del corpo danno la morte. Gl'indigeni non solamente avvelenano le loro armi col succo di questa pianta, ma benanche le sorgenti e i serbatoi di acqua, quando veggono avvicinarsi un nemico. Gli Olandesi perdettero la metà del loro esercito per un siffatto avvelenamento e da quel tempo in poi, essi han sempre menato con loro una quantità di pesci vivi, i quali essi gittan nell'acqua alcune ore prima di arrischiarsi a berla. Una foglia dell'Upas applicata sulla fronte di un uomo gli cagiona istantaneamente la morte, quasi senza ch'egli senta di morire. Essa ha la facoltà di arrestare immediatamente il corso del sangue ed i moti del cuore. La polvere delle foglie secche dell'Upas è così terribile che bastano pochi atomi di essa per dar la morte.» Daniele avea seguita la lettura di questo passo con un'attenzione indicibile; nessuna particolarità gli era sfuggita. È impossibile descrivere l'espressione della sua fisonomia durante la lettura de' ragguagli che abbiam citati. Il genio del male avea suggerito a Edmondo il pensiero di leggere quella pagina del suo manoscritto. Il Baronetto Edmondo Brighton avea letto la propria sentenza di morte. La soluzione del problema che Daniele cercava da vari giorni era trovata! — E voi conservate le foglie di quest'albero? chiese con occhi di pazzo Daniele. — Ciò vi fa maraviglia! disse Edmondo ingannato sulla vera e terribile significazione della dimanda del giovine, ebbene, io conservo le foglie di quest'albero, le quali si saranno al presente ridotte a polvere. QUESTO MIO CAPRICCIO COSTÒ LA VITA A DUE MIEI SCHIAVI; ma io voleva ad ogni costo possedere un sì prezioso veleno. Daniele guardò a terra cupo e concentrato, e disse ferocemente tra sè: — Ah! tu facesti morire due schiavi per ottenere questo prezioso veleno! Ebbene TU MORRAI PER ESSO! Ben dicesti che questo veleno è _prezioso_... prezioso per me! Daniele soggiunse ad alta voce, e quasi avesse fatta una domanda indifferente: — E dove tenete conservato, signor Conte, un oggetto così pericoloso? — In una scatola di argento a doppio fondo nel forziere della camera verde; sulla scatoletta è scritto in francese. _L'indiscreto che mi aprirà, e toccherà all'oggetto che contengo, sarà punito di morte istantanea._ — E come faceste per porre in quella scatola le foglie fatali? — Le feci ivi porre dagli schiavi con ogni possibile precauzione senza che le avessero toccate. — Suppongo che conserviate gelosamente la chiave di quella scatola, dimandò destramente Daniele. — Ben s'intende; essa è nel fondo d'uno di questi cassettini, rispose improvvidamente il Baronetto. La giustizia Divina dettava le sue risposte. Daniele sapea quello che gli era necessario; non volle più fare nessun'altra interrogazione per non far nascere sospetti nell'animo di Edmondo, il quale era ben lontano da simili supposizioni. La conversazione seguitò su cose indifferenti, Daniele si studiò di nascondere l'agitazione e il turbamento che gli dava la premeditazione dell'enorme delitto che aveva in pensiere. — Così che avete risoluto abbandonarmi domani? disse il Baronetto, ripigliando il pristino subbietto della conversazione. — Domani, se avrò l'opportunità di trovare un posto nella diligenza per Darmstadt, dove intendo trasferirmi. — Domani dunque vi ringrazierò, mio caro Daniele, di quanto avete fatto per ridonare al mio spirito la tranquillità ch'io aveva smarrita. — Oh sì, domani mi ringrazierete! disse Daniele con ironia, cui il Baronetto prese per complimento. — Ma fin da ora vi auguro buona fortuna, figliuol mio, buona in amore, già s'intende, perchè al resto penseremo noi, non è vero? — Quanto vi debbo, signor Baronetto! esclamò Daniele ipocritamente abbassando lo sguardo in cui già balenava la perfidia dell'anima. Egli si era alzato: la vista della sua futura vittima gli facea male al cuore. — A domani dunque, disse Edmondo stendendogli di bel nuovo la mano che questa volta Daniele non ebbe la forza di toccare, e, abbassando gli occhi, finse di non averla veduta. — A domani, signor Baronetto, replicò il giovine a voce bassa e rauca. — E non ci vedremo questa sera nel solito circolo degli amici? chiese Edmondo; pensate ch'è l'ultima sera che avremo il bene di possedervi tra noi; non dovete mancare! — Non mancherò, signor Baronetto, non mancherò questa sera. Daniele s'inchinò, e lasciò quella stanza, aggiungendo tra sè con incredibil ferocia. — E NON MANCHERÒ QUESTA NOTTE! III. E SE DOMANI MI CERCHERAI PIÙ NON SARÒ La sera di questo giorno i soliti amici di Edmondo si radunarono nella camera verde. Eran la maggior parte letterati tedeschi, artisti fiamminghi, proprietarii de' dintorni e qualche Inglese dimorante a Manheim. Spesso interveniva il Dottor Weiss. Alle nove si prendeva il tè. La conversazione era delle più istruttive; si ragionava d'arti, di politica, di filosofia, di scienza, di morale. Per mala ventura, quasi tutti gli amici di Edmondo, al par di lui, erano seguaci di quella paradossale filosofia alemanna, che tanto contribuì a travolgere le idee e a gittarle nel vacuo della _ragion pura_, parodia della ragion naturale. Le teorie del filosofo di Conisberga faceano a quel tempo gran rumore in Germania e in Europa: ci fu la moda del filosofare alla Kant come di vestire alla Francese. L'Italia soltanto non si lasciò impòrre dal gran nome del maestro della novella scuola alemanna, rigettò le speciose dottrine che puzzavano di ateismo, e si tenne a quel ragionare che rischiara e non confonde, che analizza e non distrugge, che siegue il corso naturale delle idee e non straripa nelle fantasticherie della follia: che esamina, non dogmatizza, che si fortifica colla rivelazione e non si perde nello scetticismo. Mentre la Germania delirava con Hegel e con Fichte, l'Italia ragionava con Vico e Galluppi. Vari furon i subbietti della conversazione, e tra gli altri quello che maggiormente alimentò la controversia e sostenne la disputa si fu quello della possibilità che ha la scienza di estendere i limiti della vita umana. Molto e lungamente si ragionò su questo argomento. Quegli che fe' sfoggio di maggior eloquenza si fu il Baronetto, il quale dimostrò che allora soltanto la civiltà avrà raggiunto l'apice della perfezione, quando la scienza avrà scoverto il modo di rendere l'uomo più valido contro i perpetui assalti della morte, e più comune la vita centenaria. In sul tardi della sera si presentò Daniele. Il suo aspetto: era sereno all'apparenza, tranne che un profondo osservatore avrebbe scorto nella corrugazione nervosa della fronte di lui e nel livido pallore del suo volto una sinistra preoccupazione. Il giovine pianista fu accolto, come sempre, coi segni del più gran compiacimento. Il Baronetto avea già detto alla comitiva che Daniele sarebbe partito il domani per Darmstadt; epperò il ricevimento che questi si ebbe fu più espansivo del solito. Tutti gli amici di Edmondo si alzarono e fecero a Daniele le loro parti di condoglianza pel suo allontanamento da Manheim, ed i loro auguri pei suoi ulteriori successi. Daniele rispondeva parole smozzicate, inconcludenti. Questo attribuivasi alla naturale commozione di un uomo, che si vede l'oggetto di tante dimostrazioni d'amicizia, e che, modesto, vuol respingere la troppa esagerazione delle lodi. Il Baronetto volle celebrare festosamente l'ultima sera che Daniele passava a _Schoene Aussicht_. Una magnifica tavola a tè fu imbandita verso le undici. Tutto ciò che la cucina francese, italiana e tedesca sa inventare di più prelibato in fatto di dolci, di pasticci e di altre squisite vivande si trovava sulle credenze; le quali, quasi sotto il tocco d'una verga affatata, comparvero agli occhi della brigata. Il vin del Reno scintillò in un baleno nelle grandi coppe verdi destinate ad allietare la comitiva. La filosofia, la scienza e le arti si abbracciarono e si confusero sotto le frequenti libazioni: tutte le opinioni presero un colore, quello del vino; tutti gli occhi espressero un sol sentimento, quello dell'allegria. Daniele bevve poco: non fu possibile d'indurlo a suonare. Non ostante le più vive istanze e preghiere, egli si rifiutò ostinatamente, adducendo per iscusa non essere il suo spirito abbastanza tranquillo per trarre dal piano-forte la benchè minima frase musicale. Il giovine pianista si ritirò prestissimo, dicendo che il domani si doveva alzare ben per tempo per ordinare i preparativi della partenza. Gli amici di Edmondo lo abbracciarono di bel nuovo, e gli augurarono ogni possibile felicità. Il Baronetto gli strinse cordialmente la mano, e gli disse: — A domani, mio caro Daniele, domani faremo il nostro addio; buona notte e buon riposo. Dopo non guari, gli amici del Baronetto si accomiatarono da lui, augurandogli una notte tranquilla ed una più felice dimane. Edmondo si ritirò nella sua camera da letto. Era già passata la mezzanotte. Il suo capo era leggiermente sconcertato dal vino del Reno bevuto in non discreta quantità. Ma da tanto tempo egli non si abbandonava alle gioie della cena! Da tanto tempo non pasceva cogli amici una serata a tavola, libando i piaceri di Bacco e di Minerva ad un tempo, dappoichè egli solo avea saputo accordare le due cose più opposte e ricalcitranti. Filosofia ed orgia. D'altra parte, egli avea voluto festeggiare l'ultima sera del soggiorno di Daniele a Manheim. La tristezza, la concentrazione del giovine italiano non erano sfuggite al Baronetto, il quale, ingannandosi sulla loro origine e significazione, avea creduto d'indovinarne la cagione nell'affetto del giovine e nel rammarico di doversi separare da lui. Nell'entrare nella sua camera da letto, il cameriere gli consegnò una lettera che il corriere avea recato d'Italia qualche ora innanzi. Era una lettera di Maurizio Barkley concepita in questi termini; «Signor Baronetto — In questo momento ho ricevuto la vostra lettera, nella quale mi mettete a parte dello strano testamento che avete fatto e della persona da voi scelta per vostro erede, nel caso che adempirà alle condizioni che già avete imposte. Voi mi dite che questa persona ha accettato il patto, e che ora i vostri sonni son placidi e non più turbati da strane e lugubre fantasime. Il mio cuore ne è sollevato, però che il pensiero delle vostre sofferenze morali mi torturava, e veniva ad aggiungersi agli altri motivi di tristezza che ha il mio cuore. Sento però il dovere di farvi ora un'importante rivelazione; dappoichè forse un giorno mi fareste il rimprovero di avervi serbato il segreto sopra un fatto di tanto momento. Le vostre relazioni colla persona che dovea essere vostro erede cangiano interamente l'aspetto delle cose; mi affretto dunque a dirvi che Daniele dei Rimini, il giovine pianista italiano, vostro ospite a _Schoene Aussicht_, che avete nominato vostro erede, e che dovrà essere il custode del vostro cadavere, Daniele de' Rimini è la stessa identica persona di Daniele Fritzheim; vostro figlio! «Questo importante segreto è ora nelle vostre mani, signor Baronetto: a voi lo rivelo, non a lui; fate quello che credete; non ispetta a me darvi consigli. Soltanto non posso celarvi che fareste bene a discoprirvi al figliuol vostro, e dare sfogo al vostro amor paterno: non posso dirvi perchè opinò così. Aspetto i vostri comandi. Vi rinnovo la preghiera che vi diedi coll'ultima mia lettera: vi dirò le ragioni della mia richiesta. Mi dite di aver pensato a me nel vostro testamento: vi ringrazio dal profondo del mio cuore; ma spero non vedere il giorno in cui sarà data esecuzione alla vostra ultima volontà. Iddio mi concederà la grazia di morire prima di voi. Il vostro schiavo «MAURIZIO BARKLEY» Chi può dire l'effetto che produsse questa lettera sul cuore di Edmondo! Era questa la più forte sensazione ch'egli avesse provata nel corso di sua vita! Daniele era suo figlio! Daniele era là, al primo piano, poco da lui discosto! Alquanti scalini, ed il padre avrebbe abbracciato il figlio! Edmondo ebbe come un capogiro, una vertigine; il suo cuore, le sue vene, la sua testa erano in ebollizione. Gli fu forza rileggere molte volte la lettera di Maurizio per poterla comprendere, il Baronetto non era sicuro della realtà delle cose, credeva essere sotto l'impero dell'ubbriachezza. Ci fu un momento che stimò una menzogna lo scritto del suo schiavo. Ma il carattere di Maurizio, grave, probo, nemico di ogni simulazione, il persuase che il contenuto della lettera fosse vero. Il primo movimento ch'egli fece fu di correre verso l'uscio per andare al primo piano, per volare da suo figlio, dal caro suo figlio, e dirgli tutto, e abbracciarlo, e ritenerlo sempre con sè. Ma si rattenne poscia, e pensò che gli avrebbe fatto al domani questa inaspettata rivelazione. «Quando mio figlio verrà da me per congedarsi, io gli mostrerò questa lettera, lo stringerò tra le mie braccia, e gli dirò: Ora neppur la morte potrà rompere i vincoli che ci uniscono!. Ma con qual fronte mi mostrerò a mio figlio? Oh! se egli mi dimanderà di sua madre!... No... no, nulla gli dirò ancora... domani, con un pretesto, cercherò di trattenerlo con me per qualche tempo ancora... Mio figlio! Mio figlio! il figlio dell'infelice Juanita!... O Ente supremo, che reggi il mondo, questa è opera della tua mano onniponente!... Qual luce rischiara l'anima mia! Qual raggio divino tocca il marmoreo mio cuore!!! I miei figli; e figli miei... Dove sono? Che vengano, che io gli abbracci tutti e cinque, ch'io li senta qui sul mio cuore: Daniele, Federico, Eduardo, Luigia, Estella... non più divisi da me! Infelici creature da me abbandonate, oh mi perdonerete voi, n'è vero? Io vi opprimerò di tenerezza, di felicità: a forza d'amore cercherò di farvi dimenticare i torti che ho avuti verso di voi. Domani io più non sarò lo stesso uomo di quello che fui! Domani sarà per me giorno di luce e di verità! l'alba che sorgerà sarà per me l'alba di un'altra vita!... E tu, Maurizio Barkley, virtù incomparabile, tu mi salvasti la vita, ed or mi salvi l'anima. Dio mi ti fece incontrare nel cammino della colpa perchè tu mi avessi dischiuse le porte del cielo». Edmondo s'inginocchiò nel mezzo della sua camera da letto, congiunse le mani, e, cogli occhi rivolti al cielo, profferì la seguente preghiera: «Dio d'immensa misericordia e bontà, le cui leggi per tanto tempo ho calpestate e infrante, perdona le colpe della passata mia vita, e accetto il mio avvenire in espiazione dei miei peccati. Sorreggi col possente tuo ausilio le risoluzioni che tu m'ispiri questa notte, e feconda il mio pentimento co' tesori della tua grazia Celeste». Edmondo restò circa un quarto d'ora genuflesso orando col pensiero. Indi si alzò, si svestì dei suoi panni, accese la lampada d'oro a fianco del suo letto, e si coricò. Per la prima volta il segno della Croce passò sulla fronte e sul petto di quell'uomo. Col capo abbandonato in su i guanciali, Edmondo pensava: «Che felicità sarà la mia nel vedermi in mezzo a' miei figliuoli! Che nuova e dolce esistenza sarà questa! Con quanto amore li contemplerò seduti alla mia mensa! Io li legittimerò tutti e cinque: darò loro il mio nome e le mie ricchezze; farò che ritrovino sul paterno mio seno quelle gioie di cui la loro infanzia è stata defraudata. E le loro madri!... Infelici... Dio m'ispirerà sulla loro sorte... Com'esser debbono gentili e belli i miei figliuoli! E Daniele che tanto mi rassomiglia: Ah! ora comprendo l'inesplicabile simpatia che il costui sembiante eccitò in me fin dal primo momento che il vidi. Ora comprendo i moti del mio cuore. Quelle sue labbra sono dell'infelice Juanita! Figli, figli miei, e come ho potuto tenervi per tanti anni discosti da me! O cuor mio, non ribaltar così nel mio povero petto! E mio figlio è là, nella stessa mia casa, ed io l'ho tenuto più di un mese con me! Che aspetto gentile! che genio in quegli occhi!... Ed io volea farne il custode del mio cadavere!... Follia! follia! Domani lacererò lo _stolto testamento, figlio dei lugubri fantasmi che assediavano la mia rea coscienza_. Quando Iddio mi chiamerà ad altra vita, le mie spoglie mortali riposeranno in pace nella mia villa di _Schoene Aussicht_: i miei figli mi chiuderanno gli occhi... Morire nella grazia di Dio, in calma colla mia coscienza in mezzo ai miei figliuoli, non sarà questa la più bella delle morti? Lasciare un'eredità di affetti non val meglio che lasciare per nove mesi il disgustoso spettacolo d'un cadavere che desterà ribrezzo ed orrore in tutti quelli che il riguarderanno?... Richiamerò con me il mio caro Maurizio Barkley, al quale io debbo tanto che e sarà per me più che un amico, un fratello... Virtù impareggiabile, come sublime, Iddio ti avea posto al mio fianco per ispirarmi tutti i più dolci sentimenti, e per dischiudermi la via del pentimento. Maurizio Barkley, tu che mi hai conservato i figli, che spesso mi parlavi di loro, tu che non lasciavi mezzo intanto per cercare di commuovere il ferreo mio cuore, tu al quale io dovrò la felicità di una piena riconciliazione con me medesimo, Iddio ti benedica, com'io ti benedico, e come benedico per la prima volta nel Divino suo nome i miei cinque figli, Daniele, Federico, Eduardo, Luigia e Estella». Pronunziando queste ultime parole, una calma celeste si sparse sulla sua nobile fisonomia: la natura reclamò i suoi dritti; il sonno si abbattè sulle stanche palpebre. Edmondo si addormentò pentito e tranquillo... per non più ridestarsi! Eran due ore dopo la mezzanotte. Tutti i domestici del Baronetto erano immersi nel sonno. Un cameriere inglese, il più fido dei suoi camerieri, avea il suo letto poche stanze appresso a quella dove riposava il suo padrone. Essendo interna la comunicazione dal primo al secondo piano, una semplice bussola li dividea. Daniele avea lasciata aperta questa bussola... Egli era penetrato al secondo piano, senza aver bisogno di schiudere una porta. L'oscurità più fitta invadeva tutto il resto delle stanze dov'erano i dormienti. Daniele avea studiato tutte le posizioni, tutti i passaggi, tutt'i corridoi che menavano alla camera verde. Giunto in essa, per procurarsi un poco di luce egli non ebbe bisogno di far altro che aprire le imposte d'una finestra. Una luna limpidissima rischiarava l'orizzonte: i suoi raggi gittarono nella camera verde tanta luce quanta bastava per l'operazione che dovea far Daniele. Durante il banchetto della sera precedente e nella confusione cagionata dal vino, Daniele si era destramente accostato al forziere indicato il mattino dal Baronetto, e ne avea involata la chiave ch'era ivi, avendo il Baronetto tolto di là alcuni oggetti che gli eran serviti pel festino della sera. La scatoletta d'argento, che contenea la fatale polvere dell'Upas, fu tolta dal forziere. Un'astuzia infernale che altrove narreremo, avea prestato i mezzi a Daniele d'impadronirsi della chiave della scatoletta. Come aprirla e toccare la polvere mortale? Era questo il grande ostacolo, che Daniele superò, essendosi provveduto d'un lungo bastone, alla cui borchia avea attaccato un pezzettino di carta a forma di cono. Deposto a terra il cassettino, e, datovi un giro di chiave, col pomo del bastone sollevò il coverchio, e coll'altra estremità della mazza fece entrar nel cono di carta una quantità di quegli atomi distruttori. Durante quest'operazione egli si era chiuso ermeticamente la bocca e le narici con un fazzoletto. Senza fare il minimo rumore, Daniele penetrò nella camera da letto di Edmondo, e stette qualche tempo immobile sotto l'uscio per accertarsi che questi era immerso nel sonno. Assicuratosi di ciò, il perfido si avvicinò al letto dell'infelice; colla propria persona nascose la luce che veniva dalla lampada; si celò interamente il viso col fazzoletto, tranne gli occhi, e con mano ferma accostò la borchia del bastone alle labbra del dormiente. Il cono di carta scaricò la sua polvere! Edmondo mise un rantolo soffocato, strinse i denti e i pugni, stravolse gli occhi. EGLI ERA CADAVERE! Daniele rimase immobile, tremante, senza respirare, a fianco della sua vittima. La morte era stata così rapida, così istantanea, ch'egli non credea che il Baronetto fosse estinto. Il singulto che questi avea messo avea fatto gelare il sangue nelle vene del suo assassino. Passò un quarto d'ora, a capo del quale Daniele alzò la lampada sul volto di Edmondo, Daniele fremè! Gli occhi del Baronetto erano spalancati e terribili! Non ci era dubbio! Egli era morto!... Le sue labbra eran nere come la sua barba... Accertatosi di aver fatto il colpo, Daniele si diede a sperdere ogni orma dell'assassinio. Corse alla scrivania dell'estinto, e lacerò quella pagina delle costui memorie dove si parlava dell'Upas. Ritornò alla camera verde, prese la scatola del veleno ben chiusa, e la portò seco per farla sparire il giorno appresso. Poco stante, Daniele era nel suo letto... Egli si preparava a rappresentare la sua parte nel comune dolore che avrebbe eccitata nel dì vegnente la notizia della improvvisa morte del Baronetto Edmondo Brighton, Conte di Sierra Blonda, e proprietario della vasta tenuta di _Schoene Aussicht_. IV. IL TESTAMENTO Il domani, verso le nove del mattino, confusione e terrore nel casino di _Schoene Aussicht_. In un attimo, tutta la città di Manheim fu piena della trista notizia della improvvisa morte del Conte di Sierra Blonda, avvenuta, come si dicea, per un colpo di apoplessia fulminante. Un'ora dopo che si era diffusa la trista nuova il casino fu tutto ingombro di gente. Gli amici di Edmondo, varii medici, parecchie persone ragguardevoli di Manheim, e grande stormo di curiosi penetrarono negli splendidi appartamenti, dove il giorno innanzi un uomo, ricolmo di vita, di salute, di tutt'i beni che si possono godere su questa terra, ragionava lietamente cogli amici sul modo di procacciarsi la più lunga e avventurata serie di anni. Il Dottor Weiss si diede ad esaminare il cadavere del Baronetto. Nessun carattere di apoplessia presentava l'estinto. Il Dottor Weiss interrogò gli altri colleghi; si tenne consulto sulle spoglie esanimi del Conte; due ore di discussione non avea fruttato nessun risultamento: la scienza esauriva le sue congetture, e perdeva la sua logica sovra un genere di morte che offriva nuovi caratteri e specialità straordinarie. Il Baronetto non era morto per istrangolamento, però che i segni esterni di questa morte sono: enfiatura del collo e della faccia, la quale è cosparsa di lividore nerastro; tumefazione della lingua, che pel consueto suole uscir di bocca; occhi rossi e sporgenti: estremità fredda e di color violaceo. Qualcuno appena di questi segni rinvenivasi sul capo di Edmondo. Si passò eziandio in discussione se egli fosse morto per mefitismo, e si ricusò questa supposizione come assurda, non pure per non essersi trovata cagione alcuna di viziamento d'aria nella camera dov'egli giaceva, ma neanche gl'indizii cadaverici che attestano tal causa di estinzione. La maggior probabilità poggiava sull'opinione che il Baronetto fosse morto per una specie di sorda asfissia o per una terribile colica cieca. In fatti, un indizio di questa morte suol ricavarsi dall'annerimento de' labbri. Il pensiere che il Baronetto fosse stato avvelenato non lasciò di presentarsi vagamente nell'animo del Dottor Weiss, il quale rivolse con astuzia molte interrogazioni ai camerieri e a' domestici. Ma il Baronetto avea cenato assieme a' suoi amici, e dopo cena non avea preso neppure un bicchier d'acqua: la cena era stata innocua, dappoichè le altre persone che n'ebbero parte non aveano sofferto alcun male. D'altra parte, i segni caratteristici di un avvelenamento non si erano affacciati sul cadavere del Baronetto, la nerezza delle labbra era un fenomeno nuovo e strano, ma non bastava di per sè solo a fare argomentare una morte per avvelenamento. Questa idea fu bandita, e si pensò tosto a far eseguire le ultime volontà del defunto. Il dottor Weiss conosceva l'esistenza del testamento, però che il Baronetto gliene avea molte volte parlato, per riguardo all'articolo dell'imbalsamazione, il quale, siccome è noto a' lettori era così concepito: «È mia precisa volontà che il _mio cadavere_ sia imbalsamato col nuovo metodo d'iniezione alle carotidi. Questa operazione dovrà esser fatta dal mio medico dottor Weiss di Francoforte varii giorni dopo ch'io non avrò dato più segni di vita, e dietro i più esatti e scrupolosi esperimenti per accertarsi della vera mia morte. Per tale operazione gli si darà in compenso la somma di diecimila fiorini». Questo articolo era stato letto al dott. Weiss fin dal giorno che il Baronetto lo scrisse, e indi riletto altre volte, quando il misero era oppresso da' fantasmi della morte apparente. Noi non osiamo asserirlo per rispetto, che abbiamo all'umana dignità, ma non possiamo astenerci dal formare una trista congettura. Quella cifra di diecimila fiorini era troppo prevaricante; e forse il dottor Weiss sacrificò i suoi sospetti di avvelenamento alla paura di perdere un guiderdone che si sarebbe sfumato. Se si fosse dato peso all'idea dell'avvelenamento, e se questo sospetto fosse stato ventilato, l'autorità avrebbe richiesto un'autopsia cadaverica; ed allora l'imbalsamazione non avrebbe avuto più luogo. Affrettiamoci a dire che Daniele simulò in modo ammirabile la sorpresa, il dolore... La sua agitazione, la sua estrema pallidezza, la bieca espressione del suo sguardo ingannarono tutti. Il suo trionfo era pressocchè assicurato. L'impunità gli sorrideva, e con essa l'avvenire colmo di delizie e di piacere. Ma Dio avea già stampato su quella fronte il marchio della riprovazione. Innanzi tutto, le autorità locali di Manheim richiesero l'immediata lettura del testamento. Già si era presentato a _Schoene Aussicht_ il notaro nelle cui mani il testamento era stato depositato. Tutti si prepararono ad ascoltare l'_ultima volontà_ dell'estinto milionario. L'_ultima volontà_! Ah! non era quella l'ultima volontà dell'infelice e pentito Edmondo! Egli avea sepolto per sempre con sè il suo vero testamento! A mezzo giorno si diè lettura legale dell'atto olografo, essendosi affrettata quest'operazione ad istanza del dottor Weiss, il quale avea detto ai commessari del governo di Manheim esser necessaria la pronta lettura del testamento per ragioni che si sarebbero palesate nello stesso scritto del Baronetto. Il cadavere di Edmondo, da lui destinato a rappresentare una parte importante nelle condizioni di eredità, giaceva tuttavia nudo nel proprio letto, coverto interamente da una coltre di seta di Persia. In quali mani andaveno a ricadere le immense ricchezze del Conte di Sierra Blonda? Quali n'eran gli eredi? Questa dimanda ciascuno volgeva a sè stesso con più o meno perplessa curiosità, a seconda della maggiore o minore probabilità che ciascuno credeva di avere ad una parte dell'eredità. Oltre di cento persone ingombravano quella camera. Quando il notaro fe' segno che si accingeva a leggere, un silenzio profondo ebbe luogo. I primi articoli del testamento erano l'enumerazione dei beni e delle ricchezze del Baronetto, dei suoi crediti, delle sue immense possessioni e dei suoi capitali versati su quasi tutta le Banche d'Europa. Era una fortuna prodigiosa! DUE MILIONI E QUATTROCENTOMILA PIASTRE DI SPAGNA, vale a dire, la rendita annuale di CENTOVENTIMILA COLONNATI, alla modesta ragione del cinque per cento. Questa fortuna era calcolata senza gl'innumerevoli crediti che il Baronetto vantava su molti cospicui banchieri di Londra, di Parigi, di Madrid, di Calcutta e di altri paesi. Non possiamo dipingere la sorpresa che colpì tutti gli astanti allora che il notaio lesse il seguente articolo: «Di tutt'i suddetti miei beni mobili ed immobili coi titoli annessi, in mancanza di eredi legittimi, lascio mio erede universale il giovine Daniele de' Rimini, di Napoli, esercente la professione di pianista». Tutti gli sguardi si volsero immediatamente verso Daniele, dagli occhi del quale lampeggiava una gioia superba e feroce. Un lungo mormorio interruppe la lettura. Ciascuno dimandava al suo vicino chi era quel giovine, donde era venuto, e quali relazioni eran passate tra lui e il Baronetto, per far decider questo a nominarlo erede universale di tutte le proprie ricchezze. In moltissimi surse il pensiero che il giovine italiano fosse figliuolo naturale del defunto, e che questi avesse voluto, morendo, fare ammenda del passato. Ma e perchè non legittimarlo? Il vasto campo delle congetture si diradò ed il silenzio più profondo si ristabilì, quando il notaio seguitò la lettura del testamento. La maraviglia degli astanti si accresceva ad ogni parola di quel testamento straordinario. Con somma attenzione si prestava ascolto alle condizioni che il Baronetto metteva al possesso della sua eredità. Un grido di sorpresa e di orrore, seguito da un subuglio indicibile, si udì alle parole; «Il signor Daniele de' Rimini, mio erede ed esecutore testamentario, dovrà essere il custode del mio cadavere durante nove mesi a contare dal giorno della mia morte.» Non era più possibile di proseguire la lettura, sì grande era la confusione ed il vocio che si sparsero tra i diversi crocchi. Tutti gli occhi eran volti a Daniele, il quale poco pensiere parea prendersi di quanto si diceva intorno a lui. Ogni articolo di quelle strane e terribili condizioni facea raccapricciare gli astanti. L'articolo undecimo delle condizioni prevedeva il caso in cui da Daniele si fosse mancato ad uno degli obblighi impostigli, e il dichiarava, ciò accadendo, scaduto dal diritto di eredità. Il testamento conteneva nel seguito altre disposizioni, di cui citeremo le seguenti come le più importanti: «Articolo 12º Lascio al mio schiavo Maurizio Barkley, in segno di riconoscenza, di amicizia e di affetto, la rendita annuale di Duemila piastre, ed il mio feudo a Yorkshire in Inghilterra denominato _The Raven Spot_ (il sito del corvo).» Daniele fece un salto sovra se stesso: il nome di Maurizio Barkley avea colpito le sue orecchie.. Maurizio Barkley era lo schiavo del Baronetto. Una luce terribile strisciò sul cervello del giovine: il notaio proseguì: «Art. 21. Lascio un capitale di Dodicimila piastre da distribuirsi ai seguenti cinque individui, Federico Lennois, di Parigi. Eduardo Horms, di Glascovia. Daniele Fritzheim, di Napoli. Luigia Aldinelli, di Pisa. Estrella Encinar, di Cadice. «Affido a Maurizio Barkley l'esecuzione di questa mia disposizione, conoscendo egli una per una le cennate cinque persone e le loro rispettive dimore.» Questa volta un grido si fece udire nella stanza, ma un solo l'avea gittato! Daniele! Egli era fuori di sè! i capelli gli si eran sollevati sul capo; le labbra gli tremavano convulse; gli occhi schizzavangli fuori come per furiosa demenza. Il segreto cercato da tanti anni era scoperto! L'ignota mano che il beneficava era trovata! L'orribil luce che avea per un tratto schiarata la mente dello sciagurato giovine gl'incendiava in pari tempo la testa e il cuore. Un'idea, una parola si avvoltolava nel capo di quel misero, una idea, una parola che il rendean matto: PARRICIDA! Egli tremava di questo orrendo fatto. Intanto il grido ch'egli avea messo avea richiamato intorno a lui l'attenzione universale. Nessuno potea spiegarsi lo stato di agitazione, di turbamento, di estrema sofferenza in cui vedean Daniele; epperò mille supposizioni si formavano, mille pensieri e mille congetture; ma in nessuno entrò minimamente il sospetto che Daniele si fosse l'assassino del milionario, non offrendo il cadavere alcun segno di morte procurata da esterna violenza, ed avendo i medici rigettata come assurda ed improbabile l'idea di un avvelenamento. Altre disposizioni conteneva il testamento, di piccoli legati a favore de' suoi domestici. Il Baronetto raccomandava al suo erede ed esecutore testamentario di ritenere per amministratore la stessa persona, di cui egli si era servito, e la quale era un americano di comprovata probità. Da ultimo, il testamento conteneva le disposizioni che avrebbero dovuto aver luogo nel caso previsto di una mancanza di Daniele a' suoi obblighi. I suggelli furono apposti alle carte del Baronetto; un minuto _inventario_ fu formato di tutte le suppellettili di _Schoene Aussicht_. Daniele non doveva essere posto in possesso di tutto, che dopo compiti i nove mesi. L'Autorità procedè a quei provvedimenti che sono richiesti per garentire l'esatto adempimento della volontà del testatore. Il dottor Weiss, incaricato della imbalsamazione, si apprestò a far paghi i desiderii del suo defunto amico, il quale gli avea con tutto il calore dell'amicizia raccomandato di assicurarsi bene della realtà della sua morte. Il dottor Weiss volle rimaner solo col cadavere del Baronetto. Egli cominciò da prima ad esplorare se fosse incominciata la latente insensibil putrefazione delle parti mobili del corpo, primo segno che caratterizza la morte. L'organismo di Edmondo era intatto, epperò non era impossibile che un resto di vitalità si nascondesse in uno de' precipui organi destinati a conservar la vita. Con ogni minutezza ei procedè in tal dilicata disamina. Egli è certo che, quando un principio di vitalità rimane concentrato nelle più intime parti dell'organizzazione, non può sfuggire allo sguardo profondo e indagatore dell'uomo dell'arte; imperocchè in questo caso la fisonomia del creduto estinto offre indizii e caratteri che sono ben diversi da quelli che si scorgono su i volti dei veri morti. Il dottor Weiss notò l'incipiente sfiguramento de' lineamenti del volto del Baronetto; l'espressione morale della fisonomia sparisce sotto il marchio della morte. Tutte le fisonomie de' cadaveri hanno una sola espressione, la serenità. Nel volto de' morti apparenti i vasi capillari ed il sistema linfatico hanno un movimento benchè esilissimo, e le cellulari un certo turgore, che mantiene alla persona il suo aspetto abituale. Ne' cadaveri un color plumbeo si spande sulle forme del volto: la pallidezza è tetra e si avvicina al giallognolo. Il dottor Weiss pose il termometro al contatto delle parti vitali del corpo del Baronetto! un freddo glaciale abbassò leggermente il mercurio. Un altro segno caratteristico della morte vera, secondo Nysten, è la inflessibile rigidezza dei muscoli. E i muscoli del Baronetto eran duri come legno. Il dottor Weiss osservò che gli occhi di Edmondo, comunque trovati aperti in tutta la loro ampiezza, eran privi di ogni moto, ed incominciavano a diventare a poco a poco affossati, nebbiosi e flaccidi. Era quasi impossibile di abbassare la palpebra superiore. Il medico alzò la mano del Baronetto, nè riunì le dita, e passò un lume dietro ad esse; nessuna trasparenza vi si notò, come vi si osserva ne' vivi. Le palme delle mani e le piante dei piedi avean preso un color giallo carico. Gli sfinteri eran rimasti aperti e dilatati senza veruna elasticità. Il dottor Weiss non lasciò alcun tentativo per accertarsi della morte effettiva del Baronetto; egli operò eziandio parecchie forti fregagioni sulla cute dell'estinto, ma questa non si arrossì affatto, nè si riscaldò. Finalmente, per esaurire tutt'i mezzi di cui l'arte si vale per iscoprire la vitalità ne' morti apparenti, il medico tedesco fece uso del più sicuro di tutti, quello cioè dello stimolo elettrico[6]. La più compiuta certezza era ormai nell'anima del dottor Weiss sulla morte del Baronetto, dal cui corpo cominciava ad esalare quel nauseante odore, specifico dei cadaveri, e che annunzia l'incipiente decomposizione. Il dottor Weiss, comechè pienamente sicuro della morte del Baronetto, volle per altro, lasciar passare l'intera giornata e la notte consecutiva, prima di accingersi all'operazione della imbalsamazione. E il dì vegnente, a prim'ora del giorno, egli vi si apprestò. Molti giovani studenti di medicina, moltissimi curiosi, la maggior parte degli amici di Edmondo, e quasi tutti i suoi domestici vollero assistere all'operazione. Daniele era nel numero. Muniti dei necessarii strumenti e degli agenti chimici che sono richiesti, il Dottor Weiss eseguì l'imbalsamazione con profonda sagacia ed esattezza. Egli polverizzò due libbre di arsenico colorandolo con un poco di cinabro o minio, per ottenere il colore del sangue; e sciolse il tutto in una quantità d'acqua naturale! eseguì poscia l'incisione verticale alla sinistra arteria carotide, e v'iniettò la composizione che abbiam cennata; legò il segmento superiore dell'arteria recisa non sì tosto vide da questa comparire il materiale iniettato. Il resto dell'operazione fu fatto con pari accortezza e sagacia[7]. Terminata l'operazione, il dottor Weiss, rivoltosi al cadavere del Baronetto, gli disse: — Eccoti pago, infelice mio amico; ho adempito al mio debito! ti ho strappato alla corruzione. Voltosi poscia a Daniele, che pallido, stralunato, immobile, era stato presente all'imbalsamazione, gli disse: — Ora spetta a voi, signor custode della morte; consegno a voi il cadavere del Conte di Sierra Blonda in ottimo stato, esso si manterrà fresco, flessibile, e naturalmente colorito. A voi, dunque, signor Daniele de' Rimini, incominciate il vostro ufficio! i nove mesi principiano: l'eredità vi aspetta! Dette poscia un'occhiata all'orologio, e con sarcasmo soggiunse: — Sono le otto: andiamo, signor de' Rimini, il Baronetto attende il suo caffè! V. LA CAMERA VERDE È anche mia precisa volontà che il MIO CADAVERE dopo l'imbalsamazione, rimanga nella camera verde del secondo piano della mia proprietà di _Schoene Aussicht_. «Il mio cadavere sarà vestito con quella proprietà e decenza che si convengono al rango ed alle ricchezze del Baronetto Brighton, Conte di Sierra Blonda. Ogni giorno se gli cambierà la biancheria, ed ogni settimana i vestiti. «Due volte al giorno il signor Daniele de' Rimini recherà egli stesso al mio cadavere, nel cospetto de' servi testimoni, il caffè e in quelle stesse ore in cui soglio prenderlo al presente». Era ormai tempo di eseguire le dette prescrizioni del Baronetto. A quella parola che il dottor Weiss avea diretta con sarcasmo a Daniele, ricordandogli di dover porgere il caffè al morto, la comitiva raccapricciò. Tutti guardarono con una certa angosciosa ansietà il giovine italiano che doveva adempire a quell'ufficio sì tristo e ridevole a un tempo. Ma Daniele non indietreggiò innanzi all'orrore che gli ispirava ormai quel cadavere: egli non doveva vacillare un momento. Eran cominciati i nove mesi, a capo dei quali erano la fortuna e la felicità. Daniele comandò a' servi che allestissero il caffè. Una febbrile energia invadeva le fibre dell'erede... Egli più non capiva quello che veniva buccinato nei diversi gruppi sperperati nella camera; il suo volto era livido, ma la vivacità del delirio era nei suoi occhi; la coscienza della propria situazione non l'avea per altro abbandonato. Il caffè fu recato nella solita coppa d'oro in cui il Baronetto solea prenderlo. Daniele tolse di mano ai servi il vassoio d'argento sul quale era la tazza ricolma di caffè, e con piè fermo si accostò al letto su cui giaceva l'estinto. Il vassoio non pertanto traballava nelle mani del perfido. Giunto alla sponda del letto, Daniele, con voce tremante e appena sensibile, dimandò al cadavere: — Signor Baronetto, vuole il caffè? Dagli occhi del morto parve che balenasse uno sguardo elettrico e fulminante. Daniele vacillò, le ginocchia mancarongli... ei cadde e con esso il vassoio colla tazza. Si corse in suo aiuto, ma egli si rimise ben presto, balbettò alcune frasi di giustificazione, e chiese un bicchiere d'acqua però che si sentiva ardere il petto e mancare il respiro. Prima di esporre a' nostri lettori il quadro terribile che pur ci è forza di ritrarre, vale a dire: IL FIGLIO PARRICIDA ALLA PRESENZA DEL CADAVERE DEL PADRE — dobbiamo sdebitarci di una promessa, ch'è quella di narrare il modo che tenne Daniele per involare dalla scrivania di Edmondo la chiave della scatoletta contenente la polvere di Upas. Nel corso del giorno in cui Daniele avea meditato l'enorme delitto, poi che si ebbe congedato dal Baronetto dicendogli che il domani sarebbe partito per Darmstadt, il mandò a pregare che essendo quello l'ultimo giorno della sua dimora a _Schoene Aussicht_, voleva riavere il piacere di pranzare con lui. È a notarsi che, dal momento in cui nell'animo di Daniele era nato il funesto pensiero di por termine a' giorni del Baronetto, egli non ebbe più la forza di sedersi alla medesima mensa con lui; di che si scusò, adducendo per pretesto che la sua salute non consentiva che avesse pranzato in sul tardi. Il Baronetto accolse con estremo piacere il desiderio del giovine e il tenne quale attestato del suo affetto. Daniele pranzò col Baronetto: egli seppe abbastanza infingersi, bensì non tanto che la cupa preoccupazione del suo pensiero non trasparisse: ma Edmondo ne spiegò la ragione pel rammarico che il giovine dovea sentire per la prossima sua partenza. Poche parole disse Daniele durante il desinare, e pochissimo mangiò. Alquanti giorni innanzi, Edmondo, in una delle serali conversazioni che tenea cogli amici, avea detto di aver ricevuto da un suo corrispondente delle Indie la narrazione di un conflitto avvenuto nel Ponjab tra gl'Indiani e la guarnigione inglese. Daniele, a pranzo, fece cadere astutamente il discorso su questo fatto, e pregò il Baronetto di leggergli la lettera del corrispondente; il perfido giovine sapea che il Baronetto tenea questa lettera in uno de' cassettini della scrivania, e che una sola chiave aprivali tutti. Edmondo, di nulla sospettando, volea chiamare il suo cameriere per fargli prendere dalla scrivania la lettera; ma Daniele si offrì di recarsi egli medesimo nello studio per prenderla. Edmondo gli affidò la chiave. Daniele tornò colla lettera del corrispondente delle Indie. Egli avea già involata la piccola chiave che dovea servire a schiudere la scatoletta dell'Upas. Alzati di tavola, Edmondo abbracciò Daniele e tornò a pregarlo che la sera non fosse mancato alla solita riunione degli amici. E Daniele tornò a promettere che non sarebbe mancato la sera, siccome avea promesso in sè medesimo di non mancare la notte! Il compimento dell'infame delitto è già noto. Dopo aver somministrato il caffè al cadavere del Baronetto, Daniele si accinse ad eseguire le condizioni impostegli. Il cadavere di Edmondo fu vestito con quella proprietà e decenza ch'egli avea raccomandate. Il suo abito era tutto nero, così avendo egli disposto negli articoli suppletorii del suo testamento. Il cadavere dovea per l'intera durata de' nove mesi portare il lutto della propria morte. Egli avea comandato eziandio che ogni settimana se gli indossassero abiti nuovi. Il sarto francese fu incaricato di fornire ogni sabato le vestimenta nuove del Conte di Sierra Blonda. Daniele dovea vestire e spogliare il Baronetto, adempiendo verso lui all'ufficio di cameriere. «La più minuta e scrupolosa cura sarà messa dal signor Daniele dei Rimini a tener mondo il mio corpo da qualsiasi impurità della corruzione.» Quest'articolo delle condizioni facea fremere Daniele. Egli è vero che per effetto dell'imbalsamazione la putrefazione interna cadaverica è impedita, ma è egli mai possibile, senza le più assidue cure, impedire che si formi su qualche parte del _corpo morto_ un principio d'impurità? E ogni giorno la biancheria doveva esser cambiata al cadavere! Il Baronetto avea benanche disposto che ogni giorno il suo parrucchiere dovesse recarsi, come al solito, a _Schoene Aussicht_, per prender cura del suo capo e della sua barba. La paga del parrucchiere era triplicata. E il primo giorno, in fatti, dopo l'imbalsamazione, i capelli del Baronetto furono lisciati, scrinati ammorbiditi con finissimi olii e pomate; la sua barba fu pettinata ed allustrata, raccorciandosi i peli disuguali e livellandosi così bene come se il Baronetto avesse dovuto trarre a qualche festa di ballo. Così acconciatosi e vestito a bruno, il Conte di Sierra Blonda fu trasportato nella Camera verde, secondo le disposizioni del testamento. Egli venne adagiato sovra una delle magnifiche seggiole d'avorio a forma di baldacchino. Era questa sedia interamente coperta da soffici cuscini orientali, a disegni cinesi di color scarlatto. Nappe di fili d'oro scendevano da una specie di tettino della sedia, lavorato ed intagliato con tanta ricercatezza e con tanta minuta fatica che quel tettino era un capolavoro di scultura. I piedi di questa seggiola, non più lunghi di un palmo, rappresentavano quattro piccole pagodi con bambocci cinesi nell'interno, figuranti alcuni mandarini che fumavano. Il cadavere era coricato anzicchè seduto su questa seggiola, tranne che il busto era sollevato e appoggiato a morbidi cuscini. Le braccia del Baronetto erano adagiate in sul corpo in una positura semplice e naturale. Le mani erano intrecciate senza stento l'una nell'altra. Nell'entrare in quella camera era impossibile il ravvisare un cadavare nell'uomo che riposava leggiadramente su quello splendido divano cinese. Il volto del Baronetto non era dissimile da quello ch'era quando era vivo, anzi una leggiera tinta di vermiglio si sfumava in sulle gote, effetto della preparazione del minio, ch'era entrato nella composizione dell'imbalsamazione. Nell'atteggiamento di quel corpo, nella giacitura del capo alquanto inchinato a destra, quasi che avesse guardato, dalla dischiusa finestra, gl'incanti paesaggi che si disegnavano sulle rive del Reno, in quegli occhi vagamente socchiusi, come per evitare la troppa luce che veniva dal giorno sereno e ricco di sole; in tutta la sua persona insomma nulla era che non avesse perfettamente simulata la vita. Illusione spaventevole che metteva ad ogni istante il ghiaccio e la morte nel cuor di Daniele! Il dubbio terribile che dalla lettura del testamento era nato nell'animo dell'assassino di Edmondo diventò orrenda certezza per una di quelle circostanze che la Provvidenza fa nascere al bisogno quando intende premiare o punire. Edmondo solea ricevere gli amici con tutta la splendidezza ed il fasto d'un milionario. Pel consueto, egli era vestito con giubba nera. E quella sera, ultima della sua vita, egli aveva indossato una giubba nuova. Daniele stimò per la prima volta vestire il cadavere con quel medesimo abito: e nel passarlo in sul corpo dell'estinto, si avvide di una carta ch'era nella tasca della giubba. Egli se ne impossessò. Era la lettera di Maurizio Barkley la quale contenea la rivelazione della vera entità di Daniele de' Rimini. È indicibile il furore da cui fu preso il perfido Daniele alla lettura di quella lettera... Egli versò segrete lagrime di disperazione; si strappò i capelli; la sua ragione si confondeva! «Da quanto tempo mio padre era conscio del segreto? dimandava a sè stesso il forsennato... Io forse l'uccisi nel momento in cui egli sognava di stringermi al suo cuore!... Oh, ne son sicuro! Mio padre non avrebbe indugiato a palesarsi a me, a riconoscermi, a legittimarmi!... Mio padre! mio padre! Io ho ucciso mio padre! l'ho vilmente assassinato nel proprio suo letto, come fanno i ladri per impossessarsi d'un tesoro! ed io mi sono seduto alla sua mensa! Molte volte mi chiamò suo figlio!... La prepotente voce del sangue parlava in me! Ed io l'ho soffocata! Maledetto il momento che conobbi Emma di Gonzalvo!... Maledetto il momento che posi il piede a Manheim!... No, questa lettera è d'una data recentissima; essa non ha potuto arrivare che ieri!... ieri sera forse!! Mentre io meditava il delitto e mi accingeva a compirlo, mio padre sapea di avere in me un figliuolo!... All'alba forse egli sarebbe corso da me per abbracciarmi!... Ed io ho sepolto per sempre nel petto di mio padre un avvenire di amore, una vita di felicità! Tutto quel primo giorno di adempimento dei patti, Daniele non rimase che pochi momenti da solo col cadavere del Baronetto. Quasi tutti gli abitanti di Manheim si recavano a _Schoene Aussicht_ e dimandavano il permesso di entrare nella camera verde. Daniele, in qualità di esecutore testamentario, era ormai la sola volontà che dominasse a _Schoene Aussicht_: egli però permise agli abitanti di Manheim di trarsi la curiosità di vedere _il morto in funzione_, siccome nel paese diceasi. Il fatto è che quegli abitanti guardavano con più sorpresa il giovine italiano che il cadavere del Baronetto. Non si tosto Daniele entrava nella camera verde, un bisbiglio si levava, e tutti gli occhi eran volti verso di lui. «Ecco, ecco, il CUSTODE DELLA MORTE,» si sentiva susurrare con mistero e paura. Daniele fu costretto di proibire l'ingresso a tutti i curiosi; e questo fu peggio per lui, perchè così era lasciato solo nella camera verde. E questa solitudine diventò orribile allora che le tenebre caddero sulla terra. La camera verde era rischiarata da un gran globo d'alabastro, che spandeva in quella stanza una luce vaporosa e fantastica. Entrando ivi di sera, Daniele gittò un'occhiata sul Baronetto, ed un brivido gli corse per le ossa. L'illusione era completa! A malgrado dell'estrema ripugnanza che egli sentiva a guardare il cadavere in sul volto, Daniele rimase lunga pezza a contemplarlo. Parea che quegli occhi, renduti immobili per morte, si drizzassero a lui con orrenda espressione... Strani fantasmi, stranissime larve si aggiravano in quei momenti per la fantasia dello sciagurato giovine. Tra le altre cose, un continuo buccinamento gli stava nelle orecchie: sentiva sempre la voce del Baronetto, che gli ripeteva con sarcasmo le parole che gli disse non appena fu conchiuso il funesto contratto: _D'ora in poi io vi considero qual figlio mio!..._ Indi ricordava quello che il Baronetto gli disse innanzi di conchiudere il contratto: _Io vi sarò debitore d'una eterna obbligazione!_ «ETERNA! ETERNA! — I capelli si alzavano sul capo di Daniele;... i suoi occhi si affissavano con indicibile espressione sul sembiante di suo padre... «Dov'è al presente la tua anima, o padre mio, pensava lo sciagurato immobile sul cadavere,.. perduta forse! ETERNAMENTE PERDUTA!... e per mia cagione! Ed io l'ho spinta all'eterna perdizione! O padre mio, tu riposavi con tanta placidezza allora che l'infame mio braccio ti aprì in un baleno l'eternità!» Daniele non piangeva; ma una lagrima secca e disperata, una lagrima di fuoco si era fermata nel mezzo della sua vitrea pupilla, e la camera verde gli sembrò dipinta a rosso; e gli parve che le braccia di suo padre si muovessero per dimandargli soccorso. Allora ei si trovò sulle labbra certe parole antiche, che gli avevano insegnate quando era bambino... Daniele compitò macchinalmente una prece. Le nove della sera battevano all'orologio. Il cameriere inglese si allacciò in sull'uscio della camera verde e disse a Daniele: — Signor de' Rimini, è l'ora del tè. Daniele fu scosso come da uno stimolo elettrico: con faccia stupida chiese al cameriere che cosa bramava, il cameriere ripetè la formola. Era convenuto che ogni azione di Daniele, relativa alle condizioni del testamento, doveva esser fatta alla presenza del cameriere inglese e di due altri testimonii, i quali firmavano ogni sera il verbale della giornata. E questo, per attestare, alla fine dei nove mesi l'adempimento degli obblighi imposti all'erede. Daniele tornò in se ebbe rossore di sè medesimo, pensò ad Emma e al Duca di Gonzalvo, riprese coraggio, si alzò e si dispose a porgere il tè al Baronetto. «Ogni sera, dopo l'ora del tè, il signor Daniele de' Rimini suonerà, alla presenza del mio cadavere, un pezzo a piano-forte e canterà un'aria di sua scelta.» E quest'ora terribile era giunta! E non solamente il cadavere del Baronetto ma tre altre persone doveano ascoltare quella musica e quel canto, i tre testimoni! Daniele, coll'occhio delirante, col vòlto pallidissimo, coll'anima lacerata a brani dal rimorso, si sedè al piano-forte. Il cadavere del padre gli era di rimpetto. Daniele fece sforzo incredibile nel porre le mani sulla tastiera: egli non si ricordava niente più, avea smarrito le regole dell'armonia, del contrappunto, non riconosceva più i tasti!! Ma di botto, la sua faccia s'irradiò, i suoi occhi scintillarono, la sua testa tremò... Una melodia dolcissima.... celeste.. straziante esalò da quella tastiera. Gli occhi de' tre testimoni si empirono di lagrime!... Era il _Requiem_ di Mozart quello che Daniele avea sonato! Sopraggiunta la notte, Daniele ordinò che il suo letto fosse trasportato nella stanza contigua alla camera verde. Nonostante il ribrezzo che gl'ispirava la prossimità del cadavere, egli non volea per tanto discostarsene in nessuna ora del giorno e della notte, imperocchè temeva che qualcheduno di quelli che aspiravano all'eredità del Baronetto avesse involato o fatto sparire il prezioso deposito, della cui custodia e conservazione esso Daniele era incaricato. La camera verde avea due usci, per l'un dei quali si andava allo studio del Baronetto e ad altre stanze, e per l'altro si riusciva sulla villetta. Di entrambi questi usci, ben chiusi, Daniele conservò le chiavi. Egli non volle far rimanere altro lume nella camera verde, durante la notte, che quella stessa lampada d'oro che soleva rischiarare la stanza da letto di Edmondo. Daniele accese dunque a fianco del Baronetto il lume; serrò con molta cura le finestre e le porte; dette un'occhiata al cadavere, e rimase a mezzo la camera, colpito da un pensiero che gli andò a toccare le più recondite fibre del cuore. Daniele era solo al cospetto di suo padre! L'anima di costui il vedeva e l'udiva... Daniele pensò gittarsi a piede del cadavere di suo padre, sciogliersi in amare lagrime di pentimento, chiedergli perdono di avergli data la morte, non conoscendo esser lui suo padre; implorarne la benedizione. Un quarto d'ora all'incirca restò il giovine battagliando con sè medesimo; ma ogni volta che lo sguardo si portava sulla vittima, parea che questi il respingesse. Daniele non ebbe la forza di mandare ad effetto il suo proponimento, e poco stante, gittando un altro sguardo di angoscia sul cadavere, come se avesse voluto dargli la buona notte, si ritirò nella stanza contigua, dove avea fatto preparare il suo letto. Daniele, com'è a supporsi, non potè chiudere gli occhi per tutta la notte. Sebbene l'uscio che il separava dalla camera verde fosse chiuso a chiave, ad ogni momento sembrava allo sciagurato giovine che quella porta si aprisse, e che il Baronetto redivivo gli comparisse dinanzi per opprimerlo dei più strazianti rimproveri. Qualche volta Daniele, cascando a sonno per stanchezza, si destava poco di poi a soprassalto, col petto affannoso, colla faccia livida e cogli occhi smarriti; spalancava gli occhi, si poneva a sedere in letto, e volgeva lo sguardo atterrito intorno a se. Egli avea sognato che suo padre stesse seduto alla sponda del letto. Altre volte il misero, non si tosto, dopo lunghe ore di agitazione, giungeva a prender sonno, sentiva nell'orecchio la voce del padre, e gittava uno strido altissimo, e si svegliava per non più raddormentarsi. Una notte, mentr'ei vegliava, secondo il consueto, e tenea rivolto lo sguardo sull'uscio della camera verde, vide di repente sparir la luce che rischiarava quella stanza!... La lampada era spenta! Daniele solea farla provvedere di tant'olio da poter durare la luce per molte notti. Come dunque si era spenta quella lampada? Lo sciagurato giovine fu preso da strani timori; volle alzarsi per trarre nella stanza del cadavere, ma non bastogli a tanto il coraggio; e stava con un violento battito di cuore. Mentre così rimanea perplesso ed insonne, Daniele porse attento l'udito... Un lamento fioco, indistinto, un pianto soffocato partiva dalla camera verde!! Fu così terribile l'illusione, che Daniele, balzato di letto, corse precipitosamente a destare i servi, e narrò loro lo strano fenomeno che avea colpito le sue orecchie. Si entrò con lumi accesi nella camera verde; si ricercò della cagione del lamento... Nulla si era mosso in quella stanza... Il Baronetto era sempre al suo posto, ironico e beffardo simulacro di vita! Così Daniele avea passato circa una ventina di notti. Egli non era più riconoscibile: profonde occhiaie gli si erano scavate in sul volto! La sanità del suo corpo era perduta, la sua ragione era vicina a perdersi. Eppure, egli attingeva forza, energia e coraggio pensando all'avvenire, pensando alla sospirata fine di quei nove mesi, che dovevano partorire la FELICITÀ. LA FELICITÀ! Ecco L'OMBRA dell'uomo in sulla terra; essa è sempre indietro o innanzi a lui! La felicità non è che in Dio. La virtù soltanto avvicina l'uomo a Dio, e la morte sola fa sparire la distanza che li separa. Fra gli altri fantasmi che confondeano la ragione e abbattevano la salute di Daniele, ogni giorno, nel primo entrare ch'ei faceva nella camera verde, pareagli che il Baronetto non si trovasse in quella medesima posizione in cui era la sera precedente. I camerieri si burlavano di queste allucinazioni di Daniele e si ingegnavano di richiamarlo alla ragione; ma tutto indarno, perocchè quelle allucinazioni erano figlie della rea coscienza. Ammirabil disegno. Il cadavere del Baronetto ch'era stata la serpe morale la quale avea roso le notti di Edmondo, era parimente il verme che rodeva le notti di Daniele. Per colpire le coscienze colpevoli, Dio si vale ben sovente delle loro stesse immaginazioni. In qualche notte, Daniele distraeva le sue veglie rimandando il pensiero a' tempi della sua fanciullezza. Allora egli pensava con orgoglio all'alta sua nascita, pensava con tenerezza alla madre sua di cui l'immagine se gli piangea ben viva alla mente; e cercava di adunare e collegare tutte le più lontane e sparse reminiscenze per trarne qualche illazione o spiega. Talvolta egli pensava con lacerante rammarico a' giorni tranquilli e felici della sua adolescenza passata sotto il tetto di Giacomo Fritzheim; ricordava l'amor tenerissimo della virtuosa Lucia; rimembrava le notti di placidissimo riposo che il ristoravano.. E un orrendo paragone il facea disperare! Il riposo della virtù sotto l'umil tetto del povero: l'insonnia del delitto sotto le dorate volte del ricco palagio! Erano scorse alquante settimane dal dì della morte del Baronetto. Una sera, dopo l'ora del tè, e dopo aver suonato il pezzo di musica e cantata un'aria, che per lo più era una melodia tristissima o una preghiera, Daniele era rimasto seduto al suo posto, vicino al piano-forte, abbattuto dagli sforzi di coraggio che tuttodì faceva, non meno che dalle veglie, da' rimorsi e dalle sofferenze morali. Egli era solo: i testimoni si erano ritirati. Il globo d'alabastro schiarava la camera e l'immobil fisonomia del Baronetto. Daniele, collo sguardo fisso sul cadavere di suo padre, era sepolto nella tristezza più desolante. Gli occhi del cadavere il faceano fremere, ma pure un fascino terribile, una forza inesplicabile costringevanlo a guardar sempre la faccia del padre. L'oscillante e vaporosa luce del globo d'alabastro disegnava stranamente gli angoli del volto del morto, e dava alla sua fisonomia qualche cosa di mobile e di vivo: quelle labbra pareano sogghignare, pareano socchiudersi per parlare. Daniele era agghiacciato di spavento, eppure non avea la forza di abbandonar quella camera. Di botto, la sedia a letto, su cui era adagiato il cadavere, si mosse, come se questo avesse fatto uno sforzo per levarsi. Orribile a dirsi!! Il braccio destro del cadavere si alzò! Daniele mise un grido fortissimo e chiuse gli occhi. — L'UPAS!! L'UPAS!! CHE FACESTI DELL'UPAS? Daniele gittava gridi orribili!... I servi accorsero... e trovarono il giovine mortalmente svenuto. [Illustration] VI. L'AMICO Un uomo avea mosso il braccio del cadavere e profferito quelle parole. Egli era Maurizio Barkley! Diamo la spiegazione di questa che all'apparenza può sembrare stranezza di Maurizio. Nove giorni dopo la morte del Baronetto, Maurizio leggeva nelle _Notizie diverse_ di un giornale francese: «Ci viene scritto da Baden che nella città di Manheim è morto alcuni giorni fa il proprietario della bella tenuta di _Schoene Aussicht_. Egli è stato trovato estinto nel proprio letto, dopo aver passata la sera precedente a banchettare cogli amici. Egli ha lasciata una fortuna stragrande ad un giovine italiano, a patto che questi custodisca il cadavere di lui per nove mesi, nella stessa abitazione di _Schoene Aussicht_. La strambezza e la originalità di un tal testamento formano il subbietto di tutte le conversazioni». Confessiamo di non trovare espressioni bastevoli a dipingere la sorpresa e il dolore del buon Maurizio a tal nuova inaspettata! Allorchè egli attendeva con ansia una risposta all'ultima lettera scritta al Baronetto, gli giunge, per via indiretta, la notizia della costui misteriosa morte! Non sappiamo dire quante volte Maurizio rilesse le parole del giornale francese, quasi non credendo agli occhi propri. Maurizio amava il Baronetto, l'amava con tanta appassionata venerazione, che avrebbe mille volte sacrificata la propria vita per lui. I trascorsi della vita di Edmondo, le costui follie, i pericoli incessanti a' quali si esponeva, erano cagioni di gravi cordogli all'animo del nobile schiavo, il quale, con tutto quel poco d'influenza che avea sul cuore del Baronetto, ingegnavasi di rimenarlo ad un tenor di vita meno esposto a pericoli ed a rimorsi. Edmondo ricambiò l'affetto dello schiavo con altrettanto attaccamento, e, poscia che questi l'ebbe cansato da morte imminente, Edmondo ringraziò il cielo di avergli conceduto un vero amico, e come tale sel tenne appresso a sè in prosieguo di tempo, affidandogli, siccome altrove dicemmo, gl'incarichi più difficili e dilicati. Maurizio, prima di concepire l'ardente passione per Emma di Gonzalvo, non sentiva altro amore che pel Baronetto. E anche la sua passione per Emma non attenuò per niente o indebolì il suo amore per Edmondo. Era questo amore radicato nell'animo integro dell'Africano, così che se gli era renduto un elemento di vita. Maurizio amava il Baronetto siccome amava l'aria e la luce, con quell'amore cioè che più non si avverte, sendosi fatto abituale e intrinseco all'esistenza, con quell'amore placido, uguale, costante, inalterabile. Il Baronetto era per lui più che un padrone, più che un amico, più che un padre; era un nume! Maurizio era felice nell'amare Edmondo e dimostrarglielo con un attaccamento e con una fedeltà a tutta prova, siccome era felice nell'amare la figliuola del Duca di Gonzalvo e nasconderglielo. Alla notizia della morte del Baronetto, Maurizio non avea pianto, non avea messo gemiti e grida, siccome suol disfogarsi un acerbissimo dolore: il suo primo movimento fu porre la mano sopra uno stiletto inglese che portava sempre addosso. Ma nel puntare il pugnale contro il proprio petto, due pensieri il rattennero: la notizia poteva esser non vera o almeno esagerata; se vera, un delitto era stato commesso e a lui spettava il vendicarlo. L'Africano possedeva uno sguardo morale, acuto e penetrante al pari del suo sguardo fisico. Ratto come il baleno, il suo pensiero corse a Daniele, e indovinò in questi l'autore della improvvisa e arcana morte del Baronetto. Maurizio sapea quali tristi passioni albergassero nel cuor del giovine pianista, e come l'avidità dell'oro spegnesse in lui ogni altro buon sentimento; sapea che questi avea promesso di ritornar milionario dopo due anni per impalmare Emma di Gonzalvo; e fin dal momento che il Baronetto gli scrisse di aver conchiuso col pianista quella specie di funesto contratto di morte, Maurizio temè gli agguati di Daniele, tanto che si affrettò di scrivere a Edmondo la lettera che questi ricevè poche ore prima di miseramente morire. Ricordiamo il seguente passo di questa lettera: «Questo importante segreto è ora nelle vostre mani, signor Baronetto: a voi lo rivelo, e non a lui; fate quello che credete, non ispetta a me darvi consigli. Soltanto non posso celarvi che fareste bene a discoprirvi al figliuol vostro e dare sfogo al vostro amor paterno: _non posso dirvi il perchè opino così_.» Maurizio _opinava così_ perchè suspicava quello che appunto era avvenuto! Nello stesso giorno in cui Maurizio aveva letto la notizia della morte del Baronetto nei pubblici fogli, giunsegli una lettera dell'amministratore Americano che gli dava i tristi ragguagli di questa morte non meno che delle disposizioni testamentarie del defunto, della sua imbalsamazione, del cominciato adempimento delle condizioni di eredità; e soggiungeva in un _postscriptum_: «Il _Custode della morte_ sembrava essere stato vivamente colpito dalla improvvisa catastrofe del Conte: il suo cervello sembra averne patito.» Ciò bastava per confermare i sospetti di Maurizio. Il rimorso era che sconcertava la ragione di Daniele. Maurizio rimase lunga pezza immerso nel più profondo dolore, ma ora egli aveva un dovere a compiere: volare a _Schoene Aussicht_, obbedire all'ultima volontà del Baronetto, trovar le orme del delitto, e vendicarlo. Lungamente egli pensò al come il perfido giovine avea potuto dar morte al Conte: pose a tortura il cervello per indovinare il modo che il Daniele avea tenuto per ischiudere impunemente una tomba: passò in rivista tutt'i veleni più segreti, e da ultimo il pensiero dell'Upas gli sfolgorò alla mente come luce improvvisa. Maurizio conosceva che il Baronetto conservava le foglie dell'Upas, però ch'egli stesso era stato testimone della morte de' due schiavi nell'isola di Giava, i quali avean perduta la vita nel togliere dall'albero omicida le fronde che dovean servire ad arricchire il piccolo museo di curiosità del milionario. All'infuora di questo, Edmondo avea letto le sue _Memorie_ al suo amico Barkley, nelle quali eran notate le velenose qualità della pianta _Bohon-Upas_. Daniele dunque si era servito dell'Upas per uccidere Edmondo. Maurizio era stupefatto di sorpresa, di dolore. In che modo Daniele avea potuto impossessarsi del veleno? Ecco il mistero che restava a schiarire. Il più importante a farsi era di volare a Manheim. Nessun obbligo il trattenea più a Napoli: era finita la sua missione presso il Duca di Gonzalvo... Maurizio si affrettò a recarsi colà dove il chiamava un tristo dovere. Egli dette in fretta un addio al Duca, ad Emma, che si mostraron addolorati pel suo allontanamento da Napoli: promise di ritornar presto; nulla rivelò della cagione della sua repentina partenza, e soltanto disse che dovea trasferirsi in Inghilterra per mettersi in possesso di una eredità. Dopo dieci giorni Maurizio era a _Schoene Aussicht_: Egli arrivò al casino nelle ore vespertine: aveva il suo proponimento: non si fece vedere che al solo amministratore Americano, cui pregò di tener nascosto il suo arrivo a tutti, e particolarmente al giovine de' Rimini. Con ogni possibile cautela Maurizio entrò nello studio del Baronetto, e si diede a ricercare lo scritto in cui questi avea gittate le memorie della sua vita. La prima cosa che andò a trovare in quelle memorie si fu il viaggio di Edmondo nella Meganesia; il suo soggiorno nell'isola di Giava. La pagina che conteneva i ragguagli sull'albero _Bohon-Upas_ era disparsa! Non cadeva più dubbio! Maurizio pensò di fare in qualche modo confessare tacitamente il delitto allo stesso delinquente. «Se Daniele è innocente, pensava l'amico di Edmondo, la parola Upas non debbe cagionargli alcuna commozione; al contrario, se egli è colpevole, siccome tutto il rivela, questa parola debbe di necessità produrre in lui sbigottimento e terrore.» Pensato a questo, Maurizio aspettò il momento, in cui il giovine si fosse trovato al cospetto del cadavere della sua vittima. Terminato il pezzo di musica e l'aria cantata da Daniele, e allora che i servi testimoni si furono ritirati, Maurizio era destramente entrato nella camera verde, per mezzo dell'uscio della villetta. Favorito dalle ombre della sera e dalla preoccupazione del giovine, egli si era con ogni precauzione celato dietro la sedia a letto ove giaceva il cadavere. È da notarsi che la spalliera di questa sedia era situata quasi di contro all'uscio che metteva nella villetta, così ch'era difficile di scorgere il personaggio ch'era entrato, e che rimaneva a tal modo nascosto agli occhi del giovine. Alle grida di profondissimo terrore che Daniele avea messe, Maurizio si accertò della realtà del delitto, e la sua bell'anima ne fu lacerata. Dicemmo che Daniele fu trovato da' servi mortalmente svenuto. Egli fu trasportato privo di sentimento sul suo letto, dove gli vennero usate le cure che il suo stato richiedeva. Maurizio rimase solo col cadavere del Baronetto. Non mai di afflizione più profonda si vide cosparso il sembiante dell'Africano. Egli rimase gran tempo a contemplare quel cadavere, che gli disbranava il cuore: si gittò poscia a' piedi di lui, e su quelle fredde mani fe' cadere un diluvio di baci e di lagrime. Virtù rara e sublime! Maurizio poteva con una sola parola vendicare il Baronetto, annientare il frutto del delitto di Daniele, consegnandolo all'autorità sotto il peso di sospetti ben fondati; e poteva egli solo, Maurizio, mettersi in possesso dell'intera eredità di Edmondo: dappoichè era detto nel testamento che, qualora dal giovine de' Rimini si fosse mancato agli obblighi impostigli, l'eredità ricadeva tutta su Maurizio Barkley, ritenendosi per tanto tutte le altre disposizioni a favore delle persone nominate nel testamento. Aggiungi che Maurizio, distruggendo l'avvenire di Daniele, distruggeva in lui un potente rivale in amore. Ma il Cafro pensava che denunziando il giovine alla giustizia, egli denunziava il figlio del suo amico il Baronetto! D'altra parte, non avendo pruove evidentissime del misfatto, ma soltanto semplici induzioni e sospetti, la giustizia avrebbe tenuta così fatta denunzia come figlia della brama di mettersi in possesso della eredità del milionario, privandone, sotto il peso di un'accusa capitale, il giovine pianista. Maurizio fermò adunque di non palesare ad anima viva i sospetti, che per lui erano lampante certezza, e di abbandonare il parricida alle mani di Dio. Maurizio si affrettò di eseguire la volontà del Baronetto e gli ordini, di cui questi lo aveva incaricato. In quella sera stessa egli andò dal notaio di Edmondo per aggiustare tutte le faccende riguardanti le disposizioni testamentarie. Prima di ogni altra cosa, Maurizio volea provvedere al più presto al sostentamento dei figli del suo amico, distribuendo il capitale lasciato loro in retaggio. Tranne Daniele e Eduardo, gli altri tre figli di Edmondo, eran poveri, e fino a quel momento eran vivuti coi mensili assegnamenti che il padre facea lor capitare. Era d'uopo congedare gli agenti posti agli ordini di esso Maurizio: essendo ormai inutile l'opera di costoro. Barkley doveva a volo recarsi a Parigi, a Glascovia, a Pisa e a Cadice, volendo per l'ultima volta rivedere i figli del suo amico, rivelare ad essi il segreto che per tanti anni avea lor tenuto nascosto, e consegnare a ciascuno la parte del retaggio paterno che gli spettava. Maurizio avrebbe offerto a ciascuno di loro i suoi servigi, e gli avrebbe pregati di far capitale di lui in ogni rincontro e circostanza della loro vita, essendo egli stato il più fedel servo e affettuoso amico del padre loro. Oltre a ciò, Maurizio dovea fare una corsa in Inghilterra per prender possesso del feudo lasciatogli dal Baronetto a Yorkshire, e denominato, siccome accennammo, _The Raven-Spot_. Prima di allontanarsi per sempre da _Schoene Aussicht_, Maurizio avrebbe voluto dilucidare un dubbio che il tormentava. Aveva il Baronetto ricevuto, pria di morire, la lettera nella quale se gli facea la rivelazione di essere Daniele dei Rimini suo figlio? a malgrado di tutte le sue dimande e indagini, Maurizio non avea potuto dileguare il suo dubbio e venire in chiaro di un fatto che avrebbe forse potuto allontanare da Edmondo il crudel destino che lo avea colpito. Pel dì vegnente, a prim'ora del giorno, Maurizio avea stabilito di abbandonar per sempre Manheim e _Schoene Aussicht_, luoghi che ad ogni passo gli ricordavano il disgraziato suo amico. Ed in fatti, in sull'alba, egli trasse nella camera verde per lo stesso uscio della villetta, per lo quale era entrato il giorno innanzi. Daniele abbattuto da febbre e da delirio nella notte, non avea pensato, come al solito di chiudere le porte di quella camera e conservarsene le chiavi. Maurizio volle rivedere per l'ultima volta il suo amico, il Baronetto e dargli un eterno addio. Entrato però nella camera verde, il Cafro baciò rispettosamente la mano del cadavere, e stette a guardarlo con muta espressione di profondissimo dolore. Mentre così egli stavasi, l'uscio della stanza contigua si dischiuse, e Daniele si affacciò sulla soglia, pallido, emaciato, tremante per acuta febbre, e coverto appena da una veste da camera. Egli avea sentito rumore nella stanza ove era il cadavere, ed alla febbricitante fantasia corse il pensiero che alcuno involasse il deposito che dovea fruttargli l'eredità; era però balzato dal letto, si era gittato addosso quella veste, e veniva ad impedire che gli fosse rubato il cadavere. Daniele rimase stupito veggendo Maurizio Barkley. — Voi qui, signore! ebbe appena la forza di balbettare. — Son venuto a trovarvi, signor Daniele, perchè ho qualche cosa per voi, disse freddamente Maurizio mettendo la mano in tasca e consegnandogli una cambiale. «Eccovi la parte di eredità che vi spetta, signor _Daniele Fritzheim_; vostro padre m'incarica di darvi queste duemila e quattrocento piastre, quinta parte delle dodicimila che debbo distribuire tra voi e gli altri quattro fratelli vostri... Via su, non arrossite, signor Fritzheim, e aggiungete questa piccola somma a due milioni che toccheranno al _Custode della morte_, Daniele dei Rimini, al quale direte da parte mia che adempia esattamente agli obblighi impostigli, perchè Emma, sua cugina, lo aspetta». Maurizio uscì da quella stanza presto come un baleno, senza dare il tempo al giovine di rispondere una sola parola. Daniele rimase appo la soglia... Un'altra parola avea colpito le sue orecchie, un'altra parola che contribuiva maggiormente a porre lo scompiglio e la morte in quella povera ragione. Emma era sua cugina. Parte Sesta I. JUANITA Ci corre debito verso i nostri lettori di rischiararli rapidamente sovra alcuni punti tuttavia scuri della nostra narrazione, ed in ispecialità su la miserevol fine della madre di Daniele, Juanita de Gonzalvo. Al capitolo I. della Parte terza, in toccando la vita del Baronetto, dicemmo come, durante la sua dimora nell'Andalusia, egli avesse stretto amicizia col Duca di Gonzalvo, capo politico di quella provincia, il quale, imprudentemente concedendo favore e protezione alle scorrerie e alle scappate dei cavalieri del Firmamento, avea per qualche tempo nascosto e coperto agli occhi del governo di Madrid le follie di Edmondo e compagni. Dicemmo che il Duca di Gonzalvo aveva una sorella, giovinetta di straordinaria bellezza e d'indole franca, espansiva, appassionata. Era Juanita il più bel fiore di Siviglia; non vi era giovine _hidalgo_ nel paese, il quale non sospirasse per la bella germana del governatore. Novella Rosina, ella era l'oggetto dell'ammirazione e dei voti di un gran numero di Lindori: battaglie di serenate, di fiori, di biglietti simbolici, gare di sospiri e di dolci parole, guerre di dichiarazioni: tutto ciò divertiva la fanciulla, ma nessun cavaliere avea fatto ancora profonda impressione sull'anima di lei, infino a tanto che i suoi occhi s'imbatterono in quelli del giovine inglese, di trista rinomanza nel paese, del nuovo Don Juan, cav. del Firmamento. È curiosa e deplorabile ad un tempo la propensione che si hanno le donne in generale per gli uomini di reprensibili costumi, i quali hannosi acquistato un certo nome di avventurieri e girovaghi. In concorrenza, un giovine dabbene e costumato perde per lo più nello spirito delle donne, a paragone di un galante scioperato. Ciò vuol dire che, per lo più, le donne, hanno la fantasia più impressionevole del cuore, e caggion però negli agguati che vengon tesi alla loro vanità. Ma il pentimento tien dietro a tali inconsiderate simpatie. Juanita s'invaghì di Edmondo: tutti invidiarono la sorte del nuovo Almaviva, compassionando interamente quella della sconsigliata fanciulla. Il giovine Conte di Sierra Blonda traeva ogni giorno a casa di Gonzalvo, dov'era ben accolto dall'amico e dall'amante; ma egli simulava con l'uno e con l'altra. Edmondo mal soffriva l'altera probità del capo politico di Siviglia; ciò non pertanto se gli mostrava affettuoso, e ascoltava con infinta docilità le amichevoli suggestioni del nobil Duca, il quale, con ogni maniera di dolci rimproveri, ingegnavasi a quegli ammonimenti fraterni, per indurre il Duca a scusare la sua condotta appo il governo centrale, che fulminava da Madrid contro la comitiva dei cavalieri del Firmamento. Ben più agevol si era il persuader Juanita, buona credula, confidente appassionata fino al delirio. Edmondo le avea detto ch'egli non poteva parlar di nozze al Duca, fratello di lei, perocchè avea dato imprudentemente promessa di matrimonio a una giovinetta di Cadice. — Se per poco si buccina il nostro amore, diceva il Baronetto alla sorella del Duca, io sono perduto. Già il governo mi minaccia; già mi tien d'occhio, e senza la protezione di tuo fratello, a quest'ora già sarei fuori de' confini di Spagna. Fa però tener d'uopo per ora celato a tutti il nostro amore, e sovrammodo al Duca tuo fratello, così sospettoso e che non ha di me il miglior concetto del mondo. Usiamo grande circospezione e prudenza. Verrà il tempo, e non lontano, che potrem disvelare agli occhi del mondo il nostro affetto: fidati a me che ti amo quanto la pupilla degli occhi miei. D'altra parte, se io mi aprissi a tuo fratello noi non potremmo sì facilmente vederci, come di presente, ad ogni ora del giorno: forse ei mi proibirebbe la soglia di questa casa, infino a tanto ch'io non divenissi tuo sposo. E allora potremmo noi vivere, lontani l'uno dall'altra? A questa rete infernale venia colta la misera donzella, che amava con quell'abbandono e con quella confidenza onde amano le fanciulle sensitive. Frattanto la voce d'una perfidia senza pari commessa dal Baronetto a Cadice giunse all'orecchio del governo unitamente a' richiami d'una onesta famiglia oltraggiata. Il governo era stanco di udir richiami e doglianze. Non ostante l'alta protezione di cui godevano i cavalieri del Firmamento, un decreto di bando emanò da Madrid. Il Conte di Sierra Blonda e i suoi amici doveano tra otto giorni valicar le frontiere della penisola spagnuola. Edmondo era furioso, non perchè costretto ad abbandonare il teatro delle sue follie, ma perchè non avea potuto ancora far di Juanita un'altra sua vittima. Ma quando si trattava di criminosi proponimenti, la sua fantasia era fertile di diabolici trovati. Edmondo rinvenne il modo col quale, anche lontano, poteva avvicinare a sè la disgraziata giovinetta. Il Baronetto aveva un giorno presentato un suo amico al Duca di Gonzalvo: era quest'amico, o per meglio dire, questo complice di Edmondo, un giovine spagnuolo di costumi viziosi e d'indole maligna. Questi si era, per avidità di danaro, venduto in anima e corpo al Baronetto, e serviva alle costui follie con zelo e fedeltà degna di miglior causa. Il Duca avea stretta con confidenza la mano di questo uomo, siccome quella del Baronetto, e stimava entrambi leali e ben nati cavalieri. La sua casa era aperta ai due amici: una fiducia illimitata lor veniva accordata. Egli e il suo complice si congedarono dal Duca di Gonzalvo, il quale, gli abbracciò col volto bagnato di lagrime, e manifestò loro il più profondo cordoglio per la condanna che li aveva colpiti. Più strazianti ancora si furono gli addio di Edmondo e di Juanita, la quale non potè, alla presenza del fratello, disfogare tutto quel dolore che le cagionava la partenza del suo amato. Gli è vero che il giorno dinanzi, Edmondo l'avea in segreto rassicurato che le sarebbe rimasto fedele insino alla morte, confortandola a sperare nell'avvenire e negli aventi, e nella promessa che ei le dava di sposarla non si presto ritornava a porre il piede in Ispagna. Edmondo e il suo amico doveano attraversare quasi tutta la Spagna per trasferirsi a Bajonna, sulle frontiere della Francia, per dove intendevano muovere, e dove il Baronetto possedeva un piccol feudo. Giunti a Madrid, l'amico di Edmondo si presentò all'autorità, e pronunziò una di quelle parole che bastano a troncare una vita civile: era una orribil calunnia politica contro il Duca di Gonzalvo, governatore d'Andalusia. Una falsa scritta ben congegnata fu recata a luce e il Duca fu accusato d'intelligenza co' nemici del paese e di clandestina corrispondenza coll'uomo che avea già ripieno il mondo colla fama delle sue gesta militari. Il giorno appresso, un dispaccio telegrafico da Madrid ordinava la dimissione del Duca di Gonzalvo dalla sua carica, e il pronto suo sgombero dal territorio spagnuolo. Il Duca fu colpito senza conoscere che cosa avea cagionata la sua condanna: non valsero le sue proteste, le sue giustificazioni: l'ordine era preciso ed inappellabile. Il nobile spagnuolo fu ferito nell'anima; versò lagrime amare! perocchè non tanto gli dava cruccio la perdita della sua carica e l'esilio al quale era condannato, quanto il pensare alla macchia che avrebbe bruttato il suo cognome, venuto per secoli in gran grido di attaccamento e fedeltà ai Monarchi delle Spagne. Non osiamo dipingere gli eccessi della sua collera, quando da Madrid gli venne comunicata la cagione del suo bando e l'infame calunnia che lo avea prodotto. Il Duca si abbandonò a tal furore che gittava urli disperati ed imprecazioni atroci contro l'ignoto nemico che lo avea vilmente calunniato. Oh se egli avesse saputo chi era il vero autore del tradimento! Frattanto giunsegli una lettera di Edmondo, colla quale questi, dicendogli di aver conosciuta la disgrazia di lui, invitavalo a venire a Bajonna, insieme a sua sorella, e gli offriva la propria casa per soggiorno. Il Duca fu commosso da questo ch'ei credeva sincero attestato di amicizia, e non ebbe difficoltà di accettare l'offerta di ospitalità che gli faceva il Conte di Sierra Blonda, suo amico. L'ex-capo politico di Andalusia dovea partire immantinente: le sue istanze di recarsi a Madrid furono rigettate. Il Duca era allora promesso sposo della giovanetta Isabella di Monreal, che abitava coi suoi genitori nel castello di Santiago, poco discosto dal capoluogo della provincia. Egli scrisse alla sua fidanzata la disgrazia che lo avea colpito, di cui giurò di essere innocente. Ignaro del proprio destino, egli volle mandare alla sua promessa sposa un pegno del suo amore e della sua fedeltà, e le regalò il proprio ritratto che un pittore italiano gli fece in tutta fretta: era quello appunto che avea fatto impressione a Daniele. Il Duca si separò con dolore da' pochi amici che gli erano rimasti divoti dopo la sua disgrazia, e s'imbarcò a Cadice sopra un piccolo legno commerciale, colla sorella Juanita che avea voluto partecipare alla sua sorte, e con un fedel domestico che non volle dividersi dai suoi padroni. Tutta la provincia di Andalusia rimpianse la perdita del buon governatore, e stimò, com'era, calunnia l'accusa che avea provocato l'esilio. Nell'entrare sotto il tetto del suo amante, Juanita si credè felice e, stimò arrivato il momento in cui i suoi voti sarebbero stati esauditi. Nessun ostacolo più si frapponeva alle sospirate nozze! Edmondo nulla più aveva a temere da quella famiglia di Cadice, nel seno della quale egli avea portata la sventura. Più saldi vincoli di amicizia e di fratellanza stringeva ormai tra lui ed il Duca l'ospitalità generosa offerta ed accettata con piena fiducia ed amore. Fin dal primo giorno che Juanita si trovò sotto il tetto di Edmondo, il pregò con tutta la forza che sapea ispirarle l'amore, di svelare alla fine al Duca il loro affetto e chiederla in isposa. Edmondo promise di appagare al più presto il desiderio di lei, ch'era puranche, com'ei diceva, il suo più ardente voto. Intanto, un mese passò, passaron due passaron tre mesi; Edmondo nulla avea detto al Duca di Gonzalvo, trovando sempre nuovi pretesti al suo silenzio... Juanita sperava, e amava! Edmondo aspettava!! E l'ora che il perfido aspettava non tardò a giungere!.. E l'ora della colpa fu al tempo stesso il germe dell'ora del castigo. L'OSPITALITÀ TRADITA CON UN DELITTO a Bajonna, additava L'OSPITALITÀ TRADITA CON UN DELITTO a Manheim! JUANITA SEDOTTA diveniva la madre di DANIELE PARRICIDA!!... Tiriamo un velo densissimo sulle funeste conseguenze di una colpa, sulla quale Juanita pianse a lagrime di sangue. Inauditi sacrifici di ogni giorno, di ogni ora, di ogni minuto; palpiti orribili di paura, di vergogna; sussulti di speranza, angoscie di cuor tradito nella sua piena annegazione; preghiere fervidissime rigettate dal più duro cinismo; amarissime lagrime divorate nel segreto delle notti; apprensioni terribili; ecco la storia di questa misera esistenza di donna. Juanita s'infermò, la sua malattia fu avventurosa, perocchè essa, celando la colpa, allontanava la vendetta del Duca che sarebbe piombata terribile su lei e sul perfido amico. Dopo un anno della dimora del Duca di Gonzalvo e di Juanita nell'ostello del Baronetto a Bajonna, un bambino apparì in quella casa. Daniele fu detto esser figlio di una cameriera ch'era stata presa a' servigi di Juanita. Per molto tempo durò la simulazione. Edmondo avea gittato l'ipocrita maschera. Ogni speranza era morta nel cuor di Juanita! La disperazione avrebbe indotto la misera donzella a porre un termine ai propri giorni, se un poderoso sentimento non l'avesse obbligata a vivere, l'amor materno. Ma un giorno, orribil giorno! tutto fu discoperto agli occhi del nobile Duca di Gonzalvo. Uno slancio di amor materno avea tradita la sciagurata Juanita! Il Duca si abbandonò a tutti gli eccessi di un furore che non conosceva alcun limite. La mano del fratello avea colpito l'infelice vittima del più vil tradimento. Ella fu salva per miracolo dall'ira del nobile che aveva una benda di sangue innanzi agli occhi. Edmondo si era codardamente involato alla vendetta dello spagnuolo. La madre eziandio fuggì col fanciullo, scampato per prodigio al furore del Duca. Per ben tre anni Juanita errò in Francia e in Italia; comprando la sua vita e quella del figlio colle fatiche delle proprie braccia. Sovente lo scherno o l'ingiuria accoglievano le sue istanze per ottener lavoro. Intanto per le vicende de' tempi e per la fortuna delle armi francesi in Ispagna, la condanna del Duca di Gonzalvo era annullata. Juanita, tenendo per certo il ritorno del Duca suo fratello in Siviglia, concepì la speranza di un perdono per un fallo, di cui ella stessa era stata la più misera vittima, e che già aveva espiato con parecchi anni di abbandono, di miseria e di crudeli fatiche, Juanita deliberò di far ritorno in Ispagna. Ella si trovava allora nelle nostre Calabrie. Per mandare ad atto il suo proponimento, ella scrisse una lettera commoventissima ad un vecchio amico della sua famiglia, implorandone i buoni uffici appo il fratello, e pregandolo di mandarle del denaro per intraprendere il lungo viaggio. In questa lettera essa gli raccontava la serie dolorosa delle sue sciagure, i giorni di miseria e di vagabondaggio ch'era stata costretta a menare per sostentare il pargoletto figliuolo, e faceva tal quadro tristissimo della propria situazione da dover muovere anche un macigno. Dopo non pochi mesi giunse una risposta a questa lettera. Il vecchio amico della nobil famiglia di Gonzalvo le scriveva: essere il Duca tuttavia fuori della sua patria, non avendo voluto profittare della grazia concedutagli, per rimaner fedele e devoto al suo legittimo Sovrano. Soggiungeva la lettera che il Duca si era ammogliato da parecchi anni con Isabella di Monreal, la quale avea voluto seguir la sorte di suo marito, e che avea fatto porre nelle condizioni del matrimonio di non dover giammai il Duca suo marito accogliere novellamente in casa la sciagurata Juanita, disonore della propria famiglia. L'amico esortava nella lettera la disgraziata giovine a dismetter l'idea di andar giammai a raggiungere il fratello, dal quale non avrebbe ricevuto accoglimento veruno; sconsigliavala parimente a ritornare in Ispagna, dove il suo nome era esecrato e dove non avrebbe incontrato che ingiurie e abbandono da tutti gli antichi amici della sua casa. Tutta la lettera era dettata con una durezza di cuore che si spingea fino al sarcasmo e alla derisione. Il cuore di Juanita fu trapassato da acuta freccia essa si tenne abbandonata da Dio e dagli uomini. Allora che ricordava i giorni della sua innocenza, gli agi, gli onori, i piaceri, l'amore della sua famiglia, ed ora si vedea caduta all'imo della sventura e della prostrazione, l'infelice facea risuonar l'aere del suo meschino abituro con grida e pianti altissimi, che faceano gridare e piangere il fanciulletto Daniele, senza che avesse compreso la ragione di quelle lagrime e di quei gemiti. La madre stringeva al seno l'innocente figliuolo, il divorava di baci, ed alle infantili dimande di lui non sapea rispondere che con lagrime e carezze. Era l'anno 1809, e per le nostre contrade tempi di politiche sciagure. Le Calabrie, messe qualche anno addietro in istato di guerra, erano tuttavia il teatro di frequenti deplorabili fatti. Juanita lucrava il sostentamento suo e del figliuoletto, dandosi a' lavori più umili. Ella abitava una casipola posta a piè d'una montagnuola. Ne' primi giorni di quell'anno 1809, la misera fu colta dal vajuolo. Chi può narrare le angosce di quel cuore di madre che vedea mancare il pane al figlio, e non potea procacciargliene, affranta com'era dal male, abbandonata da tutti e pel timore del contagio ond'eran presi i vicini abitanti, e pei tempi che si erano rotti piovosissimi e tetri. Un giorno, la derelitta non potendo più resistere al pianto del fanciullo che chiedeva del pane, il mandò con un suo biglietto a una donna che dimorava poco distante, e ch'era di compassionevol cuore; pregandola di aver pietà dell'innocente fanciullo e dargli qualche moneta, ch'ella le avrebbe immancabilmente restituita non appena rimessa in salute. Quel fanciullino era così bello, così gentile, così nobil di volto! il piccolo messaggiere partì non senza aver ricevuto dalla sventurata madre un milione di baci e di raccomandazioni. Si trattava di attraversare una strada non più lunga di un quarto di miglio. La madre aspettava con grande e perplessa ansietà..... Daniele più non tornò! Il fanciullo era stato rapito da alcuni facinorosi e condotto in altra provincia delle Calabrie. Lasciamo immaginare a' nostri lettori la disperazione dell'infelice madre e tutto ciò che fece per trovare le orme dello smarrito figliuolo. Tutto fu inutile! Giunse una mattina alle orecchie della sventurata che un fanciullo era stato trovato estinto in un vicino bosco. Colma era la tazza della sventura! Juanita perdè la ragione! La mattina del 25 gennaio di quell'anno 1809, il cadavere d'una donna fu visto galleggiare sulle acque del fiume Basento. La notte precedente, Juanita vi si era gittata. Inesplicabili decreti di Dio! In quella medesima notte, Giacomo Fritzheim, reduce da un piccol viaggio fatto nell'interno del reame per commissione, ed avendo smarrito il cammino, s'imbatteva, in una selva della Sila, nel fanciullino, e seco il menava a Napoli, dopo aver fatto le debite dichiarazioni alle autorità del paese. Il figlio era trovato, ma troppo tardi! Daniele, di peso e d'incomodo a' suoi rapitori, era stato da essi abbandonato nelle boscaglie della Sila. Molti anni dopo la morte di Juanita, tutta la sua tristissima storia fu nota al Baronetto Edmondo, origine di tante miserie e sciagure. E quando, credendo di fare ammenda delle sue colpe, volle pensare al sostentamento de' propri figli, Maurizio Barkley, incaricato di questo pietoso uffizio, non ebbe bisogno che di prendere da' registri municipali i connotati lasciativi dalla deposizione di Giacomo Fritzheim, per porsi sulle tracce del figliuolo di Edmondo. Il Duca di Gonzalvo seppe la crudel tragedia della sorella, ed ebbe un gran pentimento della inflessibile durezza del proprio carattere. Egli era frattanto tornato nel 1815 a Siviglia, investito novellamente del suo pristino potere e dell'alta carica che dinanzi vi occupava. Gli avvenimenti politici del 1820 il toglievan d'ufficio, dacchè egli era accusato di troppo attaccamento all'antica forma del governo della Spagna. Il Duca di Gonzalvo, già padre della bella Emma, nel cui amore egli era felice, traeva con la sua famiglia a soggiornare in Napoli. Questi rapidi cenni bastano a rannodare con lucidezza gli avvenimenti che abbiam preso a narrare, ed al cui sviluppo ormai ci accostiamo. II. IL RITORNO Qualche tempo è scorso dagli avvenimenti che abbiamo narrati nella quinta parte di questo racconto. Erano le dieci del mattino d'una rigida giornata d'inverno. Nel palazzo di S... a Toledo tutto annunziava che la notte durava ancora: chiusi i terrazzini e le finestre della camera da letto; i servi oziosi nelle sale; il silenzio nell'interno de' vasti appartamenti. Una elegantissima carrozza chiusa, al cui timone erano attaccati quattro superbi cavalli inglesi, si fermò dinanzi al portone del Palazzo S... La cassetta di questa carrozza era difesa dalle ingiurie del verno da un ricchissimo copertone sul quale sedevano il cocchiere e un valletto, entrambi vestiti a nero con grandissima decenza. Al seggiolo del servitore stava sdraiato un gigante _cacciatore_ dalla barba foltissima e colle solite armi proprie della sua carica. Arrivata la carrozza al portone, costui smontò dal suo seggiolo e si fece dappresso ai cristalli dello sportello per prendere i comandi del padrone. Intanto il portinaio del Palazzo S... veduto quella carrozza di gran signore fermarsi alla bocca del portone, stimò suo dovere inoltrarsi fin presso al montatoio del cocchio per sapere chi era il proprietario di que' magnifici quattro cavalli inglesi, e che si volesse. La tendina che copriva nell'interno lo sportello fu scostata alquanto, e una faccia pallidissima si mostrò dietro di essa. Poco stante, i cristalli furono abbassati, e una voce partì dalla carrozza per trasmettere un ordine. Il _cacciatore_ chiese al guardaportone se il Duca di Gonzalvo era in casa. Dietro l'affermativa, il predellino fu abbassato, e un uomo venne fuora della carrozza ed entrò nel portone. Quell'uomo era Daniele. Era impossibile di riconoscerlo. Un pallor plumbeo covriva le sue guance, il cui lividore maggiormente risaltava sulla barba nera che di presente gli chiudeva la faccia in ogni verso. La sclerotica degli occhi, da bianca, era divenuta affatto gialla, e due cerchi neri, come due ferri di cavallo, solcavangli l'altezza delle gote. Qualche cosa di stralunato e di infermiccio era nel suo sguardo incerto e sospettoso. Piuttosto che un giovine di venticinque anni, l'aria della sua persona ne dava a credere trentacinque o quaranta. I suoi lunghi capelli erano già bigi! il delitto avea gittato la prematura canizie su quel giovine capo: le sue spalle erano bastantemente ricurve. Daniele avea puntualmente adempito ai patti della eredità del Baronetto! i nove mesi di crudeli sofferenze fisiche e morali erano spirati. Non diremo nove mesi, ma nove anni eran passati pel figlio di Edmondo, contati colla febbrile impazienza di tutte le più veementi passioni, onde può essere agitato il cuore umano. Quei nove mesi erano stati una lunga e tormentosa tensione di tutte le facoltà dell'animo di quel giovine; la sua vita e la sua ragione erano state attaccate ad un sol filo: la passione dell'oro. Prima di conseguire l'eredità, il pensiero di Emma era secondario in lui; ma, dopo, la passione per l'Andalusa si alzò a prima potenza nel suo cuore. Noi non tenteremo di rimuginare nella melma di quel cuore e rimestarvi le passioni odiose che il fanno pulsare e vivere. Sfuggito all'umana giustizia, Daniele è sotto l'invisibil PROCESSO d'un'altra giustizia, alla quale nessun reo può sottrarsi. Noi però non oseremo gittare un'occhiata nel fondo di quel cuore, caos tenebroso e terribile, su cui è sospeso il fulmine di Dio. Questa volta Daniele non fu introdotto nel modesto stanzino da studio del Duca di Gonzalvo, bensì nel gran salotto, di ricevimento. Nel riporre il piede in quella casa, l'antico maestro di Emma fu preso da una forte vertigine e dovè appoggiarsi contro un muro per non cadere. Entrando nel salotto, ei disse al cameriere di annunziare al Duca di Gonzalvo _un signore che dee parlargli per negozi d'importanza_. Egli volea sorprendere il Duca alla sprovvista. Siccome accennammo la famiglia di Gonzalvo era tuttavia a letto, però conveniva a Daniele di aspettare: ei si sedè sovra un canapè, e si abbandonò alle profonde meditazioni che gl'ispirava la sua situazione. Tutto quanto gli era accaduto sembravagli un sogno strano e orrendo? Non per tanto egli tornava ricco, ricchissimo! La sete ardente della sua giovinezza era appagata! Due volte milionario!! Quest'idea non era più per lui l'oasi lontana, inaccessibile a' suoi passi, meta favolosa delle sue febbrili aspirazioni; e sibbene era una realtà, un fatto! il più ricco tra i giovani! Tra pochi momenti avrebbe riveduta Emma di Gonzalvo, la superba spagnuola, che aveva affettato disprezzo per lui meschino maestro di musica! Tra pochi momenti avrebbe riveduto quel Duca orgoglioso e altero che tanto lo aveva umiliato in quell'ultimo abboccamento ch'egli si ebbe con lui! Daniele mormorava tra i denti con sogghigno: — Ah! Signor Duca di Gonzalvo, voi dicevate che una _stolta speranza mi aveva illuso: perdonavate alla mia fanciullezza l'audacia delle mie parole_, chiamaste _insulto_ la mia proposta di matrimonio! Ah... Signor Duca, gli è vero che allora io non aveva due milioni da offrirvi; ma io allora era giovine, avea genio, speranze, ERA INNOCENTE!! Oggi, io vengo a portarvi il MILIONE che voi mi chiedete per mezzo della mano di Emma! _Un milione rappresenta dieci generazioni di nobiltà; un milione è una potenza, una grandezza, uno stato._ Furon queste le vostre parole, signor Duca! Ed eccovi soddisfatto! Io ritorno milionario, siccome vi promisi. La faccia di Daniele si allividì maggiormente, ed egli soggiunse cupamente, e con infernale sarcasmo. — Ma voi, signor Duca, dimenticaste di aggiungere queste altre parole ch'io soggiungo alle vostre: UN MILIONE RAPPRESENTA ANCORA DIECI GENERAZIONI DI COSCIENZE IMPURE; UN MILIONE È UN MARCHIO D'IGNOMINIA PER LA FRONTE DI UN UOMO. Poco di poi Daniele ripigliava sempre tra sè: — _Direte da parte mia a Daniele de' Rimini che adempia esattamente agli obblighi impostigli, perchè Emma sua cugina, lo aspetta!_ Che intese dire quell'uomo? Emma mia cugina! Eppure, sempre che penso allo strano rapporto delle mie reminiscenze infantili, sempre che penso all'impressione che fece in me quel ritratto del Duca, che io vidi in questa casa in quell'ultimo giorno che io qui venni, non so perchè trovo spiegabile il mistero di questa parentela! Emma, mia cugina! E il Duca che mi colmava di umiliazioni e d'ingiurie è dunque mio zio! mio padre gli era dunque fratello, o mia madre sorella! Quando ricordo la spiacevole impressione che il nome di Gonzalvo produceva sull'animo di mio padre, non posso che sempre più convincermi delle relazioni che han dovuto passare tra loro!.. Ma questo mistero tra poco sarà schiarato! Tra poco il superbo spagnuolo dovrà in ogni modo umiliarsi al mio cospetto! Oh il denaro è pur la gran potenza! Ora io mi sento grande quanto le più grandi sommità sociali, mi sento forte, ardito, superiore a tutti... Ora si che si può vivere! Ciò dicendo, un urto di tosse cupa e profonda si fece udire dalla cavità del suo petto; e due fiammelle di rosso carico apparvero sulle sue gote. In questo, il Duca di Gonzalvo entrò nel gran salotto di ricevimento. Daniele si alzò, chinò la testa, e nulla disse, aspettando che il Duca l'avesse riconosciuto. — Chi è il signore, e che cosa brama? chiese il nobile tenendosi all'impiedi. — Non ho il bene, signor Duca di essere da lei riconosciuto? disse Daniele, fissando gli occhi sul volto di lui. Il Duca il ragguardò con grande attenzione, cercando di richiamare le sue rimembranze, ma non potè risovvenirsi di quel personaggio che gli stava dinanzi. Daniele era del tutto cangiato; la sua barba, il suo pallore cinereo, l'aria del suo volto, le spalle alquanto ricurve ne avean fatto un altro uomo, per modo che non pure al Duca ma a chiunque altro più intrinseco col giovine, sarebbe stato impossibile il riconoscerlo. — Non ricordo di lei, disse freddamente il Duca di Gonzalvo. — Allora aiuterò le rimembranze di lei, signor Duca, pronunziando il mio nome che forse non le sarà uscito di memoria. Io sono Daniele de' Rimini. — Daniele de' Rimini! ripetè il nobile, e stette per qualche tempo in cerca de' propri pensieri. — Non ricorda il mio nome, signor Duca? Ricorderà io spero, il maestro di piano-forte di sua figlia Emma. Il Duca ebbe un soprassalto di sorpresa. — Ah! voi, signore! Voi, Daniele de' Rimini, quel giovine ch'ebbe la follia d'innamorarsi di mia figlia! — Per lo appunto, signor Duca, io sono quel desso! — Ah! bravo! mi fa veramente piacere di rivedervi, signore; piacciavi di accomodarvi. E da quanto tempo siete di ritorno in Napoli? — Da pochi giorni, signor Duca, rispose Daniele sedendo sovra una poltrona. Il Duca si era seduto, e sembrava lietissimo di rivedere il giovine pianista. — Vi ringrazio davvero di esservi ricordato di noi, mio caro de' Rimini; eh, come si sta? Vi confesso che vi trovo molto cambiato, tanto che mi è stato malagevole di riconoscervi. Avete forse sofferto qualche malattia? — Sì, signor Duca, molto ho sofferto, ho avuto malattie mortali; eppure il vivo desiderio di mantenere la mia promessa verso di voi me le ha fatto superare... Oh! io temeva tanto di morire prima di questo giorno! — Voi avete una promessa verso di me? dimandò il Duca maravigliato. — Sì, signor Duca, siccome voi pure l'avete verso di me. Io non ho dimenticato la mia, ma veggo pur troppo che voi avete obliata la vostra. Il nobile incominciava a comprendere; egli era estremamente sorpreso, ma non era sicuro della sanità della mente nel giovine, per maniera che il ragguardava con sospetto misto a dolore. — Mi avveggo che non mi avete ancora compreso, signor Duca: cercherò di farmi comprendere meglio. Oggi, signor Duca, siamo a MERCOLEDÌ 17 DICEMBRE 1828. — Or bene? chiese il nobile sempre più maravigliato. — Or bene compiacetevi di gittare un'occhiata su questa carta. Daniele trasse da un elegante portafogli un fogliettino di carta e il consegnò al Duca; il quale con indicibile sorpresa lesse: _Oggi io Duca di Gonzalvo prometto sul mio onore a Daniele de' Rimini di non prender verun impegno di matrimonio per mia figlia Emma prima che spirino due anni dalla data di questo giorno. Napoli 17 dicembre 1826_ — DUCA DI GONZALVO. Il volto del Duca diventò pallidissimo come cera. — Che vuol dire questo? dimandò egli con turbamento. — Vuol dire, signor Duca, ch'io vengo a reclamare da lei l'adempimento delle sue promesse. — Delle mie promesse? — Si signor Duca, il prezzo che voi metteste alla mano di vostra figlia era enorme; io non poteva allora offrirvelo: presi due anni di tempo e non ho mancato alla mia parola. IO SONO MILIONARIO, signor Duca. — Voi, voi, milionario! — Per lo appunto, e vengo a chiedervi la mano di vostra figlia. Il Duca non dubitò più che Daniele fosse demente. — E dove l'avete il milione? dimandò con sarcasmo il padre di Emma. — Su quasi tutte le banche di Europa, rispose il giovine. Se vi compiacerete di passare al mio studio, strada Toledo, Palazzo M... vi si darà minuta contezza de' miei beni. — Al vostro studio! — Eccovi il mio indirizzo, signor Duca. Daniele cavò dal portafogli una cartellina e la consegnò nelle mani del nobile, il quale vi gittò distratto un'occhiata. Quella cartellina conteneva le seguenti parole: _Il Conte di Sierra Blonda — Strada Toledo, Palazzo M._ Il Duca mise un grido altissimo; afferrò Daniele per ambo le braccia, il guardò con occhio di matto. — Il Conte di Sierra Blonda! Il Conte di Sierra Blonda!! Dov'è costui? Dov'è l'infame? Che rapporto avete voi col Conte di Sierra Blonda? Chi siete voi? Come questo abborrito nome si trova in su questa cartella? Chi siete? parlate. — Sono il suo erede. — Erede!!... Egli è dunque morto! — Morto!! ripetè Daniele. Il Duca ricadde estenuato e affranto in sulla sedia. — E dove, dov'è morto l'infame? — A Manheim, in Germania. — In Europa! così vicino!! mormorò il Duca... E voi, signore, chi siete voi che avete ereditato le ricchezze e i titoli di quel ribaldo? — Io sono... SUO FIGLIO. — Suo figlio! E la madre vostra... chi era ella? — L'ignoro, signor Duca, conosco soltanto che mia madre era spagnuola. — Spagnuola!... Ma il vostro cognome non è dei Rimini? — Lo era, signor Duca, due anni fa; io sono Daniele Brighton, Conte di Sierra Blonda. Il Duca sembrava un forsennato. Questa scoperta inaspettata gli avea posta la febbre nei polsi... Daniele forse era suo nipote, figlio della sventurata Juanita, figlio dell'abborrito Edmondo. Il nobile si era coperto la fronte con ambo le mani, e si era sepolto nei suoi pensieri, cercando di strigare il caos che si era formato nella sua mente. Daniele frattanto, dopo alcuni momenti di silenzio, ripigliava; — Quali che sieno state le relazioni passate tra voi e mio padre, signor Duca, non potranno mai influire sul reciproco adempimento delle nostre promesse. Oggi io sono milionario e nobile, e ripeto vengo a dimandarvi la mano di vostra figlia. Il Duca alzò il capo, e guardò Daniele in maniera come se non l'avesse compreso. Daniele ripetè: — Non avete nessuna risposta a darmi, signor Duca? — Voi mi chiedete la mano di mia figlia? — Per lo appunto. — Voi dunque ignorate che mia figlia è MARITATA? Daniele si levò di botto, come, per lo scatto di una molla. — Maritata!! Emma maritata! Il Duca fu spaventato dalla feroce espressione degli occhi del giovine. — Ella è maritata, vi ripeto. Daniele mise un sordo gemito, indi fu assalito da una tosse violenta e terribile, che durò alcuni minuti, a capo de' quali disse al Duca con voce appena sensibile: — Uomo senza onore vil creatura!.... Maritata!.... E chi è l'indegno ch'ella ha sposato? — Ecco lo sposo di mia figlia, disse il Duca additando un uomo ch'era apparso sulla soglia del salotto. — Maurizio Barkley! esclamò Daniele, e una fiamma di furore gli incendiò la faccia. III. LO SCHIAVO Innanzi tutto spieghiamo in che modo era avvenuto il matrimonio tra Maurizio ed Emma. Già motivammo le ragioni che a poco a poco persuasero la figlia del Duca a disamar Daniele. Un giorno ch'ella era in compagnia di Lucia costei le palesò la storia del giovin trovatello; le disse come Daniele era stato educato insieme con lei; le narrò fil per filo la storia dei loro innocenti e fanciulleschi amori, ond'ella concepì in appresso tanta passione; non le nascose il giuramento che Daniele avea profferito al letto di morte del suo secondo padre e benefattore; e soltanto non disse motto riguardo al sussidio mensuale ch'egli ricevea da misteriosa mano, avendole proibito Maurizio di palesar questo alla Duchessina. Maurizio era divenuto l'amico più intimo della giovinetta Lucia: quelle due anime nobili e gentili si erano ravvicinate nella simpatia della virtù. Lucia trovò, un fratello in Maurizio. Molte volte la fanciulla il pregò di rivelarle il nascimento di Daniele; ma egli, anche dopo la morte del Baronetto serbò il segreto su questo particolare, aspettando che gli avvenimenti avessero rischiarato un fatto, sul quale non volea gittare alcuna luce, però ch'ei temeva giustamente di perdere l'amicizia del Duca di Gonzalvo e di Emma, se avesse fatto conoscere le relazioni che eran passate tra lui ed il Baronetto Brighton. Ritornato in Napoli, dopo il viaggio rapidissimo che avea fatto in diversi paesi di Europa per eseguire l'ultima volontà di Edmondo, Maurizio mantenne il più assoluto silenzio su gli avvenimenti ch'erano accaduti a Manheim. Riveduto con estremo piacere dal Duca di Gonzalvo e da Emma, la sua passione per la giovine Andalusa si accrebbe a tale, che gli fu impossibile di nasconderla più a lungo agli occhi della nobile giovinetta: Emma il comprese, ed il suo cuore indovinò ch'ella era da gran tempo amata. Il cuore di Emma era libero. Maurizio era il modello della virtù sulla terra: non passava giorno in cui quel generoso amico non le desse novello argomento di stima e di ammirazione, tanto che agli occhi di lei nessun uomo avrebbe mai potuto arrivare all'altezza cui si era messo l'Esquire Barkley. Egli non era nè ricco, nè nobile, ma la sua anima era una miniera inesauribile di ricchezze e di nobiltà. Tutti gli uomini sembravano ad Emma o troppo effeminati, o infinti, o pieni di basse e volgari passioni, o troppo invasi d'amor proprio e tronfi di sè stessi. Ella finì col disprezzare tutti gli adoratori che le facean cerchio, e non tenne in pregio che il solo Maurizio. Dal momento che la figliuola del Duca si accorse di essere amata dall'inglese, ella non si abbandonò più verso di lui a quelle espressioni di amicizia a cui dianzi abbandonavasi. Maurizio si avvide di essersi tradito, di essere stato compreso, e da questo istante i suoi giorni non furono che una continua trepidazione. Nel cospetto di lei, egli allibiva, arrossava, confondevasi, tremava! Un giorno Lucia Fritzheim era in casa di Emma. Queste due tenerissime amiche si vedeano ben sovente, e la loro affettuosa intrinsechezza avea in qualche modo fatto sparire la distanza che la fortuna avea messa tra loro. In mentre che le due fanciulle stavano col cuor sulle labbra raccontandosi tutte quelle piccole avventure di famiglia che formano l'ordinario subbietto delle conversazioni donnesche, Maurizio si presentò... Il suo volto era scolorato, i suoi occhi erano bagnati di pianto. — Io parto, diss'egli seccamente alle due fanciulle. — Partite!! esclamaron queste con maraviglia e dolore. — Sì, signorine, parto per l'Inghilterra. — Un'altra volta? disse Emma, a cui tutto il sangue era sparito dalle sembianze ed era ito a piombarle sul cuore, cagionandole un palpito che le serrava il respiro. — E quando ritornerete? dimandò Lucia. — Non tornerò più, mormorò cupamente l'Africano, figgendo con disperata angoscia i due strali dei suoi occhi su quelli della fanciulla, che egli amava ormai con amore da scoppiarne. Emma comprese tutto quel baleno, e, per una di quelle risoluzioni istantanee che sono il retaggio esclusivo dei cuori nobili e sensitivi, ella si alzò e disse: — Avete dunque obbliato ch'io vi amo, signor Barkley! A queste inaspettate parole, Maurizio restò in sulle prime stupefatto dalla gioia... Ma subitamente un tristo pensiero se gli affacciò nell'animo. Egli suppose che Emma avesse pronunziata quella frase per secondare, alla presenza di Lucia, la menzogna ch'egli avea detto a questa giovinetta per isbandir da lei ogni sentimento di gelosia. Maurizio rimanea però confuso e mutolo. Emma il prese per la mano, il guardò negli occhi con una espressione da farlo impazzar d'amore, e gli disse con quella voce ch'ella sola possedea, voce ammaliatrice: — Voi non partirete, non è vero, Maurizio? Voi non partirete, se mi amate. Maurizio non rispose che cadendo alle ginocchia della giovinetta, ed esclamando con un accento di passione estrema: — O Emma se tu fingi, uccidimi, e così almeno io rimarrò eternamente nella terra ove tu sei. Due mesi dopo di questa scena, Maurizio Barkley era lo sposo di Emma di Gonzalvo. Il Duca e la Duchessa erano stati vinti e soggiogati dall'ascendente che il Barkley avea preso sul loro animo, e non avean saputo resistere alla volontà della diletta figliuola. Un tal matrimonio sorprese tutti; le più assurde voci corsero nel paese e ne' crocchi della nobiltà sulle ragioni che avevano indotto l'altero spagnuolo a dar sua figlia ad uno sconosciuto straniero; e tutti ammiravansi del come la superba moglie del Duca, così severa in sull'articolo di nobiltà, fosse condiscesa ad una unione che non offriva, da parte dello sposo, almeno una mezza dozzina di blasoni e di titoli. E noi stessi saremmo maravigliati d'un tal matrimonio e non sapremmo spiegarcelo, se non guardassimo ad altre considerazioni di gran lunga più alte, e non ne trovassimo la ragione in quelle arcane fila che ordisce la Provvidenza affinchè la virtù non vada priva di ricompensa. MAURIZIO BARKLEY SPOSO DI EMMA DI GONZALVO ci sembra l'umana soluzione d'un problema provvidenziale. Maurizio era dunque apparso in sul limitare dell'uscio del salotto di ricevimento. Se la rabbia, il dolore e la sorpresa di Daniele furon grandi, non minore fu lo stupore del Barkley nel ravvisare il figliuolo di Edmondo. Daniele rimase per qualche istante muto e fulminato da quell'impensato avvenimento. Egli guardava con occhi di tigre affamata lo sposo di Emma, ed un affanno il prese... Il respiro gli usciva a sbruffi concitati dalla bocca e dalle narici. Poco stante, ei si lanciava su Maurizio, il ghermiva per ambo le braccia, e, con voce strozzata da violentissima rabbia, diceagli. — Maurizio Barkley, io so tu chi sei. Indarno ti ascondi sotto le tue vesti d'un'affettata probità, e covri l'infame tuo volto colla maschera dell'educazione: io ti conosco. Appresso di questo, Daniele, tenendo sempre stretti nei suoi pugni di acciaio i due avambracci di Barkley, si voltava inverso il Duca, e gli dicea: — Signor Duca, IL CIELO VI PUNISCE DEL VOSTRO ORGOGLIO e della mancanza alle vostre solenni promesse. Voi avete data vostra figlia in isposa al MIO SCHIAVO QUICKEYE! — Che! Che cosa dite mai! esclamò con voce di folgore il nobile spagnuolo. — Dico ripigliò Daniele, che questi è un Cafro mio schiavo comprato da mio padre in America tra un carico di schiavi provvenienti da Bahor. Il nome di Maurizio Barkley gli fu dato dallo stesso mio padre. — È vero quanto costui dice? dimandò il Duca esterrefatto al genero. — È vero, rispose Maurizio con pacatezza. Il Duca fe' velo delle mani alla faccia e restò atterrato: non mai umiliazione maggiore quel superbo avea sofferto. D'improvviso i suoi occhi s'incendiano di fuoco, tutta la sua persona trema per compressione d'ira che sta per iscoppiar terribile. — Sciagurato, ei grida, mi pagherai colla vita l'agguato al quale mi hai colto. Ciò dicendo, si spingea matto di rabbia contro Maurizio, ma Daniele il rattenne, dicendo: — Frenate la vostra collera, signor Duca, un tal matrimonio è nullo; io lo distruggo. — Che! sarebbe possibile! esclamò di Gonzalvo. — Gli schiavi non possono contrarre matrimonio senza il permesso dei loro padroni. Oltre a ciò essi non possono torre in moglie una donna libera. — Cielo, ti ringrazio; mia figlia è salva almeno! tornò ad esclamar di Gonzalvo; indi, rivolto a Maurizio, gli disse con voce soffocata dalla rabbia: — Vilissimo schiavo, la tua perfidia senza pari sarà punita: tu darai severo conto alle leggi della tua condotta verso di me... Esci, esci dalla mia presenza, e preparati al castigo dovuto alla tua infame dissimulazione. — Costui mi appartiene, disse Daniele, egli è mio schiavo, mi seguirà; a me spetta il punirlo; andiamo. Ci rivedremo tra poco, signor Duca: ma fin da questo momento Emma è libera! — Figlia! Figlia mia! sposa di uno schiavo!! O vergogna incancellabile! o macchia esecrata che avvelenerà il resto dei miei giorni! Signore, ripongo il mio decoro nelle vostre mani, disse poscia a Daniele, fate che al più presto un tal matrimonio sia dichiarato nullo, e disponete di me, della mia vita, delle mie sostanze, della figlia mia. — Io so quello che debbo fare, rispose Daniele con ghigno feroce, e si appressava a menar seco Maurizio, quando costui, dato un forte e terribile crollo di braccia, fece barcollare e stramazzar Daniele; afferrò colle due mani che gli erano rimaste libere, il polso di Daniele e quelle del Duca, e con ferma voce e pacata disse: — Fermatevi, e ascoltatemi entrambi! Tocca ora a me di parlare. Figlio di Juanita di Gonzalvo, io non sono tuo schiavo, nè sono più lo schiavo di alcuno. Prima di contrarre matrimonio, chiesi ed ottenni la libertà da Edmondo Brighton, tuo padre: ne conservo l'autentico attestato che all'uopo farò valere. Fratello di Juanita di Gonzalvo, non vergognarti di aver dato tua figlia in legittima sposa ad un uomo libero e da bene. Se il cielo mi fe' nascere schiavo, nessuna viltà contaminò mai la mia vita, nessuna colpa bruttò la mia coscienza; la mia fronte è pura e serena, i miei sonni son placidi. Nato nella più brutale condizione, seppi, colla sola virtù, infrangere i ceppi del servaggio ed innalzarmi su tutte quelle misere creature, miei compagni di sventura, ed umana mercanzia. Oggi io non sono che l'Esquire Maurizio Barkley, proprietario di _Raven-Spot_ in Inghilterra, e mi credo tanto superiore a voi altri quanto la farfalla su i vermi schifosi della terra. Se io non sono nobile per nascimento, non porto un nome disonorato: i miei figli andranno superbi del padre loro, e non dovranno arrossare per l'origine di certi titoli più ignominiosi del marchio di schiavitù di cui mi fate una colpa. Se io non sono ricco quanto voi, non ho guardato a vista un cadavere per nove mesi, nè mi sono sporco le mani con ignobili e vergognose transazioni. Se io non vi ho portato un milione, signor Duca, vi reco in vece la più sicura guarentigia della felicità di vostra figlia, la mia vita incontaminata e la purezza dei miei sentimenti. Se la vostra stolta superbia si offende e si addolora all'idea di aver data vostra figlia in isposa ad un uomo ch'è stato uno schiavo, il vostro amor paterno dee rallegrarsi al pensiero di non aver oggimai nulla a temere per la felicità di lei. Ricordatevi, signor Duca, che l'uomo a cui avete dato gli epiteti di _vilissimo_ e d'_infame_ è quello stesso che salvò la figlia vostra da sicura morte. E tu, Daniele, sappi che senza il coraggio e l'affetto dello schiavo Quickeye, tu non saresti ora milionario, perocchè tuo padre sarebbe morto prima nell'Isola di Cuba. E sappiate l'uno e l'altro che, se giammai un pericolo minaccerà i vostri giorni, immancabilmente mi troverete al vostro fianco. Oggi io sono libero, indipendente, forte e felice; se mi accettate per amico, lo sarò franco, sincero, devoto; se mi volete nemico, io vi disprezzo entrambi com'esseri deboli e inermi, incapaci di lottar meco. Pensateci, signor Duca; e tu, Daniele, pensa che io potrei schiacciarti con una sola parola: ascoltala e fremi. Maurizio si accostò all'orecchio di Daniele e profferì questo solo motto: UPAS. Daniele gittò un grido selvaggio; una tosse orribile il colse e gli lacerò il petto. Maurizio era sparito. Dopo alcuni momenti, il nuovo Conte di Sierra Blonda era trasportato nel suo palazzo a Toledo in uno stato che agghiacciava il cuore dei suoi servi. Condotto privo di sensi al suo domicilio, dopo la crisi violenta e terribile che lo avea assalito in casa del Duca di Gonzalvo, e messo a letto incontanente, Daniele restò come persona morta per tutto il resto di quella giornata, e per metà della notte. In sull'una, l'etico dischiuse gli occhi. Due uomini vegghiavano al capezzale del suo letto; Padre Ambrogio e Maurizio. IV. QUI AMAT DIVITIAS, FRUCTUM NON CAPIET EX EIS Per maggior dilucidazione di questi avvenimenti, ricordiamo che il mattino della orrenda notte in cui fu commesso l'assassinio del Baronetto, allora che Daniele entrò nel costui studio, trovò che questi era occupato a suggellare una lettera per Maurizio Barkley. Ricordiamo le parole del Baronetto, il quale avea detto al suo ospite: _Questa mattina io sono veramente felice, imperciocchè con quella lettera che ho spedita nel vostro paese, a Napoli, mi sono sdebitato di un antico dovere di gratitudine_. Quella lettera era la libertà di Maurizio, che questi avea dimandata, avendo già qualche lontana speranza di sposare la figliuola di Gonzalvo. Ricordiamo eziandio che nella lettera che Maurizio avea scritta al Baronetto per rivelargli l'entità di Daniele, e che quegli avea ricevuta qualche ora innanzi di morire, erano queste parole: _Vi rinnovo la preghiera che vi diedi coll'ultima mia lettera: vi dirò le ragioni della mia richiesta_. Si comprende oramai qual era la _preghiera_, di Maurizio e quali le _ragioni_ di essa. I medici chiamati ad assistere Daniele, dichiararono offrire il suo male pochissima speranza di salvezza. Padre Ambrogio e Maurizio non si erano, neppure per un momento, allontanati dal letto dell'infermo, il quale sembrava compreso di stupefazione: poco o nulla intendeva. A quando a quando figgeva lo sguardo in sul volto del sacerdote e di Maurizio, e nulla dicea; pur nondimeno parea tocco di riconoscenza per le cure di cui gli eran prodighi quei due uomini. Un giorno era scorso dal momento che Daniele fu tratto semivivo al suo domicilio, quando stretta la mano di Padre Ambrogio gli disse: — Padre, imploro da voi una grazia. Eran queste le prime parole che Daniele avea pronunziate dopo la crisi violenta da cui fu assalito. — Lodato Iddio! esclamò il sacerdote, egli ne riconosce! Parla, figliuol mio; noi qui siamo a servirti a tutto quello che può contribuire alla tua guarigione. — La mia guarigione! Daniele sorrise amaramente. Egli era rassegnato. — Padre, ripigliò con voce debolissima, io più non mi lusingo sul mio stato; sento che la vita mi sfugge: la giustizia di Dio mi ha raggiunto!... Possa la mia morte espiare il mio delitto! — Il tuo delitto! — Sì, Padre, tutto vi rivelerò tra poco, se Dio assisterà la mia ragione e mi farà la grazia di farmi confessare i falli della mia vita. Ma, prima di tutto, intendo mantenere il giuramento da me fatto al letto di morte del mio benefattore. — Che! esclamò Padre Ambrogio colle lagrime agli occhi; sarebbe possibile! Dio di bontà, compi l'opera tua. — Sì, Padre; la grazia, che io imploro da voi si è quella di far sì ch'io sposi fra ventiquattr'ore Lucia Fritzheim. — Il cielo ti benedica, figliuol mio, e ti ridoni la salute del corpo, come quella dell'anima. Io corro ad annunziare alla povera Lucia questa suprema felicità... Oh se sapessi quante volte ella ha mandato a prender conto della tua salute! — Andate, Padre mio, andate: fate che io rivegga al più presto quell'angiolo! Oh se non mi fossi giammai allontanato dal suo fianco! Una lagrima cadde dagli occhi di Daniele. Padre Ambrogio se lo strinse al cuore, e volò da Lucia per menarla da colui ch'ella amava sempre, a malgrado dell'abbandono e del tradimento fattole. Daniele restò solo con Maurizio. È inesplicabile l'impressione che facea sull'infermo l'aspetto del marito di Emma. Dal primo istante che Daniele lo avea veduto alla sponda del suo letto, aveva provato un sentimento di ripulsione e di odio, ma a poco a poco un tal sentimento era scomparso, ed ora Daniele il guardava come si guarda un amico. Soltanto nella mente del giovine risuonava ancora l'orrenda parola che colui gli avea susurrata all'orecchio in casa del Duca di Gonzalvo; quella parola che avea cagionato la crisi mortale pel figlio di Edmondo formava per lui un mistero profondo e tenebroso. Daniele fece uno sforzo violento, raccolse l'energia della mancante sua vita, guardò fisamente in volto a Maurizio, e gli disse: — Maurizio Barkley, la dissimulazione è ormai inutile; e, quando la giustizia di Dio colpisce un uomo, questi non ha più a temere della giustizia degli uomini. Io mi accosto alla mia fine... Dite, Maurizio Barkley, il mio delitto vi è noto? — Sì, rispose Barkley, abbassando gli occhi. — Voi dunque sapete... — Che il mio infelice amico Edmondo Brighton fu da voi avvelenato colle foglie dell'upas. Daniele si nascose il volto nelle mani, e stette qualche tempo in silenzio. — E voi non rivelaste ad alcuno i vostri sospetti? chiese Daniele. — A nessuno. Daniele gli stese la mano e mormorò tra i denti: — Uomo raro! virtù incomprensibile! mi perdonerai tutti gli oltraggi che ti ho fatti? Maurizio strinse quella mano scottante e vi appoggiò la fronte senza dir niente. Il palazzo M... era assediato in ogni ora del giorno dagli antichi amici di Daniele e da uno stormo di gente che le ricchezze del nuovo milionario richiamavano d'intorno a lui. Ma a pochi si dava l'accesso nella camera ove giaceva l'infermo, avendo così ordinato il suo medico. Un'ora dopo ch'era uscito dalla stanza di Daniele, Padre Ambrogio vi tornava ansante e trafelato. Entrando ivi, egli si accostò al giovine ammalato e sotto voce gli disse. — Lucia è qui! Daniele ebbe un soprassalto di gioia, spalancò gli occhi, mandò un grido fioco, e le lagrime sgorgarongli dagli occhi con impeto irrefrenabile. Lucia era già alla sponda del suo letto. V. LE NOZZE Lucia, prese tra le sue mani la destra di Daniele, l'inondò colle sue lagrime. Le violente commozioni che soffriva le avean fatto un tal nodo alla gola, ch'ella non potè pronunziare una sola parola; pur nondimeno il suo pianto narrava abbastanza la piena di affetti che mettea sossopra la sua anima. Ella rivedea, dopo due anni, l'uomo ch'era stato la prima e l'unica passione della sua giovinezza; il rivedea ridotto alle porte della tomba, a tanto che poche altre ore parea che gli avanzassero di vita. Alla vista di Daniele, sulle cui sembianze erasi già sparso il giallognolo pallor di morte, Lucia provò tal stringimento di cuore e tale ambascia che la sua faccia era divenuta bianchissima. Tutt'i falli dell'amato giovine ella avea dimenticato; ed avrebbe dato con suprema gioia il resto della propria vita per rimirar Daniele in quel medesimo stato di salute in cui era quando partì. Quel che provava il cuore del figliuolo di Edmondo non tenteremo di esporre. Soltanto diremo che la presenza di quella fanciulla aveagli cagionato tale tempesta di emozioni, di rammarichi e di rimorsi, che il suo guardo era rimasto per qualche tempo fisso al cielo, come se ne avesse implorata tutta la misericordia. Daniele e Lucia furono lasciati soli. La conversazione ch'ebbe luogo tra loro, le parole strazianti di affetti che furono ricambiate fra que' due sono per noi un mistero che non cercheremo di scoprire, imperciocchè rispettiamo la voce del pentimento ch'esala dal cuore di un moribondo. Un quarto d'ora dopo, Lucia entrava cogli occhi smarriti e deliranti nella stanza contigua dov'erano raccolti gli amici di Daniele, e annunziava loro che l'ammalato era stato sovrappreso da un deliquio che facea spavento. Tutti gli aiuti furono apprestati all'infelice giovine che fu trovato moriente. I medici dichiararono che qualche ora appena restava di vita all'infermo. Un tale annunzio fu per tutti un colpo di fulmine. Si mandò a chiamare un notaro per ricevere dalla bocca del moribondo le ultime volontà testamentarie. Si dette ordine per le subitanee nozze di Lucia con Daniele, il quale voleva adempiere a questo atto non solamente per mantenere il giuramento solenne profferito al cospetto di Dio, innanzi al quale tra poco sarebbe venuto, ma bensì per lasciare alla legittima moglie tutt'i suoi beni e ricchezze, quasi ammenda de' mali che le avea fatti. Egli aveva eziandio manifestato il desiderio di rivedere i fratelli e la sorella di Lucia. Fu spedita una carrozza di esso Daniele per andare a prendere la famiglia di Fritzheim. Tutto il palazzo M.... fu messo in movimento grandissimo. L'arrivo del milionario, le sue avventure e la sua prossima fine formavano il subbietto di tutte le conversazioni della capitale; in tutti era eccitata la curiosità, sicchè le porte e i dintorni di quel palazzo erano affollati da ogni maniera di gente, ora per servigi, ora per interrogazioni, ora per visite, ora per mera curiosità. Molte persone che nessuno conosceva si erano introdotte nel quartiere del Conte di Sierra Blonda, e ne ingombravano le sale e le stanze interne: qualcuno si era avanzato finanche nella camera da letto. Nessun comando veniva più eseguito, dappoichè il solo padrone della casa era Daniele, e questi non era più nel caso di significare la sua volontà. Tutto quello che accadeva intorno a lui non colpiva più i suoi sensi, e soltanto riverberava nel suo cervello a guisa del mormorio delle lontane onde del mare. Gl'interessi e le cose della terra più nol toccavano tutto ormai gli era straniero: il mondo si allontanava con grande velocità da lui, come que' paesaggi indorati dalla luce del sole che si allontanano dagli occhi dell'esule mentre abbandona la nativa sua terra. Allorchè Lucia, pallidissima e sfinita da crudeli commozioni, era venuta nella stanza contigua a quella dov'era l'infermo, a fin di chieder soccorso, tutti coloro che si trovavano in quella camera, erano affluiti dappresso a Daniele. Ma Daniele non dava altro segno di vita che il girare lentissimo delle smorte pupille. Egli avea perduta per sempre la parola: la voce era spenta. L'ultima frase che avea detta a Lucia era stata: — Non abbandonarmi anche tu, Lucia... il mondo mi abbandona! Addio... per sempre... io moro! E da quel momento la voce fu morta!! Giunse il notaro; giunsero gli ufficiali dello stato civile per le formalità del matrimonio. Daniele, mercè l'assistenza efficace di quel santo uomo di Padre Ambrogio, già si era preparato, col divino ausilio della religione, all'eterno viaggio. Irreparabile sventura! Il milionario non avea fatto alcun testamento, ed ora ei non poteva in nessun modo manifestare la sua volontà. L'ora terribile era suonata! Veggendo che non ci era tempo da perdere, si pensò di strappare almeno un cenno dal moribondo col quale avesse manifestato di sposare Lucia. Ciò sarebbe bastato perchè la sventurata giovinetta fosse considerata qual vedova del milionario: era ad ogni modo una maniera di testamento. La stanza dell'infermo era gremita di gente. Non vi era cuore che non palpitasse per la misera donzella, la cui commovente fisonomia, il cui pallore e le cui virtù le aveano attirato l'amore di tutti. Si desiderava con ansia che il matrimonio avesse luogo. Gli ufficiali dello stato civile si erano seduti. Uno di loro, accostandosi al letto del moribondo, dimandò ad alta voce: — Signor Daniele de' Rimini-Brighton, Conte di Sierra Blonda volete voi sposare in legittimo matrimonio Lucia Fritzheim, figliuola del fu Giacomo? Dalle labbra di Daniele parti un suono indistinto; le pupille si voltarono al cielo e vi rimasero immobili. Non era già una parola o una voce quella che era uscita dalle labbra del moriente; era bensì un singulto breve... profondo... Si ripetè l'interrogazione... La più assoluta immobilità avea colpito il giacente. Furono brevi momenti di silenzio agghiacciante. Padre Ambrogio si avvicinò a Daniele, gli toccò il polso, gli pose la mano in sul petto. — Morto! esclamò il prete con accento di pietà straziante. — Morto!! ripeterono tutti compresi d'orrore. Un silenzio di stupefazione successe tra i gruppi presenti a questo desolante spettacolo, Lucia avea messo un grido come se un pugnale le avesse tocco il fondo del cuore. Intanto il notaio e gli impiegati municipali, alzati, disponevansi a partire quando un giovine forestiero ch'era in uno dei crocchi di curiosi, si avanzò verso di loro e disse in francese: — Fermatevi, signori, la vostra presenza in questo luogo non sarà stata inutile. Questo giovine forestiero, quantunque avesse parlato in francese, lasciava scorgere dal suo accento ch'egli non era nato in Francia: si comprendeva subitamente ch'ei si serviva di questa lingua non conoscendo l'idioma del paese. Bello e gentile era il suo aspetto, biondi i capelli e la sottile lanugine della barba; vivo lo sguardo che dardeggiava da due occhi cerulei; nobile il portamento e soave, siccome sogliono averlo i giovani di alta educazione e di cuore ben formato. Da due giorni questo viaggiatore si era presentato al palazzo M... ed avea significato il desiderio di vedere il giovine Conte di Sierra Blonda. La nobiltà e l'avvenenza del suo volto parlavano in suo favore, sicchè non si trovò la menoma difficoltà a farlo entrare in quella casa, tanto più che assiem con lui penetravano quivi altri sconosciuti, ai quali non si badò essendo tutt'i familiari e domestici di Daniele in gravi e solenni faccende per la dolorosa catastrofe ond'era stato colpito il loro padrone. Entrando nell'appartamento di Daniele, lo sconosciuto s'imbattè in Maurizio Barkley: la sorpresa e il piacere di entrambi furon grandissimi; eglino si abbracciarono e si baciarono con effusione di cuore. Poscia, lo straniero pregò Maurizio di non rivelar per ora a nessuno il suo nome. Barkley gliel promise, ed il menò nella stanza dove giaceva Daniele. Venuto di presso al letto dell'ammalato, lo straniero per lunga pezza il ragguardò con un sentimento di pietà profonda, e fece appresso una quantità d'interrogazioni a Maurizio, col quale sembrava essere in istretta amicizia. Egli era stato presente a tutto; avea con premura aspettato l'arrivo di Lucia Fritzheim; avea fatto taciti e ferventi voti nel suo cuore per la felicità della virtuosa fanciulla; avea palpitato d'ansia nel solenne momento in cui la figlia del gabelliere sarebbe divenuta Contessa di Sierra Blonda; imperocchè l'animo di lui era stato tocco dal commovente racconto fattogli da Maurizio delle sublimi virtù di lei e della nobil rassegnazione ond'ella avea sopportato l'abbandono e l'oblio del suo fidanzato. Un altro momento, e Lucia avrebbe ricevuto il guiderdone dovuto alle sue virtù. Nell'animo del giovin forestiere nacque tosto una risoluzione ardita ma felice, certo ispiratagli dalla Provvidenza. Dietro l'impulso istantaneo di questa risoluzione, egli si era inoltrato inverso l'uscio della camera, avea fermato gli ufficiali dello stato civile, ed avea pronunziato le parole che abbiamo riferite. Lo straniero si avvicinò quindi a Lucia e prendendole la mano con sembiante affettuoso: — Gentil giovinetta, le disse, il tuo infelice stato, l'elevatezza del tuo animo, il tuo dolore han fatto in me un'impressione ch'io non so dirti. Il mio primo pensiero, giungendo in questa città, è stato di conoscerti, dappoicchè fin nelle lontane regioni donde io sono partito mi furon fatti da Maurizio Barkley gli elogi della tua virtù impareggiabile; la tua storia mi è nota, come quella del disgraziato giovine che tu hai amato. Già da molti anni tu hai appreso a soffrire e a rassegnarti. Iddio ti ha chiamata, a quest'ultima pruova: alza dunque la nobil fronte, rasciuga le lagrime. Ormai non ti resta che a pregare l'eterna pace all'anima del tuo Daniele. Ma il cielo non ha permesso un precipitato matrimonio, sul quale forse sarebbero corsi i più scellerati comenti del mondo, e che avrebbe gittata un'ombra sulla tua incontaminata virtù: ti avrebbero, se non di altro, accusata di cupidigia e d'ambizione. LA PROVVIDENZA DISNODA MEGLIO DEGLI UOMINI I DRAMMI DELLA VITA. Essa non permise che tu portassi un nome non puro di macchie; non permise che la fede del tuo imeneo fossero i ceri della morte... Lucia Fritzheim, al subblime tuo cuore conviensi un cuor puro e vergine di affetti; alla tua mano ardente di giovinezza conviensi una mano parimente giovane e forte, e non già quella di un cadavere. Io ti offro il mio cuore, la mia mano, e il mio nome ch'è pur quello di Daniele. Io sono Eduardo Horms-Brighton di Glascovia, figlio di Edmondo Brighton, e fratello di Daniele. Chiamo in testimonio della verità de' miei detti Dio primamente, e poscia il mio amico e nobil uomo Maurizio Barkley. Un lungo mormorio di sorpresa e di ammirazione passò tra i diversi gruppi degli astanti. Lucia qual trasognata guardava il giovin forestiere e Maurizio sul cui volto lampeggiava un raggio di gioia. Oppressa da tante rapidissime emozioni, ella svenne tra le braccia della sorella Mariella e dei fratelli ch'erano accorsi ad abbracciarla. La sera di questo giorno, l'appartamento di Daniele era vestito di magnifici lugubri parati, e le sue spoglie esanimi riposavano su splendidissimo feretro. Cento torchi lunghissimi e tetri proiettavano la loro sinistra luce sui neri lenzuoli di morte che coprivan gli usci e le pareti di quasi tutte le stanze. Per qualche ora nella camera dov'era il morto si erano udite le preci ed il pianto dei fratelli di Lucia. Padre Ambrogio facea lor ripetere sacri salmi. Uccello guardava il cadavere di Daniele con occhio stupido e selvaggio; ei sorrideva e non dicea motto. Cessata la preghiera, egli si accostò a Padre Ambrogio, e, ridendo gli disse: — Padre Ambrogio, ora, il _contino_ non può più battermi n'è vero? Il sacerdote gli comandò silenzio, e seco trasse l'idiota fuori di quella stanza, non senza fare la più trista considerazione sulle parole profferite da Uccello, che portavano in sè il marchio della Divina giustizia. I nostri lettori ricorderanno che fin dal tempo in cui Daniele era in casa di Giacomo, quei fanciulli gli aven dato il titolo di _contino_. Il futuro avea forse lampeggiato su quelle anime innocenti? Maurizio Barkley vegliò tutta la notte a fianco del Cadavere di Daniele. Egli rimanea lunghe ore in contemplazione di quelle spoglie, e nella sua mente si aggiravano pensieri strani, indicibili, e che per lo addietro non si erano mai presentati al suo spirito. Maurizio non potea staccare i suoi occhi dall'estinto Daniele. Una strana ed orrenda illusione colpiva i sensi e l'anima di lui, e facea balenare alla sua mente una celeste luce che gli rilevava i misteri della Provvidenza e della giustizia di Dio. IL CADAVERE DI DANIELE RASSOMIGLIAVA IN TUTTO AL CADAVERE DI EDMONDO! Era lo stesso CONTE DI SIERRA BLONDA! Era la stessa faccia, la stessa barba, lo stesso abito nero, gli stessi occhi semiaperti, lo stesso nerore delle labbra! Altro non mancava per la compiuta illusione che la CAMERA VERDE e il CUSTODE. La bell'anima di Maurizio fu tocca dalla luce cristiana!!! Il domani, per tempissimo, le sale e le stanze dell'appartamento del Conte di Sierra Blonda erano deserte. Una donna, vestita di grammaglie, piangeva a dirotte lagrime sul corpo di Daniele. Era Emma Barkley di Gonzalvo! RIEPILOGO Le grandi ricchezze del Conte di Sierra Blonda, per mancanza di testamento, erano entrate sotto il dominio della Legge. Nate da mala radice, esse aveano portato amaro frutto. Dio le disperdeva. Sei mesi dopo la morte di Daniele, la famiglia Fritzheim non era più povera. Eduardo Horms, ricco di virtù e di dovizie, era lo sposo di Lucia, ed aveva ritirato presso di sè i fratelli e la sorella di lei. Maurizio Barkley ed Emma sua moglie s'imbarcavano per l'Inghilterra; mentre Eduardo Horms, colla sua nuova famiglia recavasi a Parigi ov'era aspettato da FEDERICO LENNOIS, altro figlio di Edmondo[8]. INDICE Parte Prima I. _La famiglia dello stradiere_ Pag. 5 II. _Il Giuramento_ » 12 III. _Le ultime parole_ » 20 IV. _Uno sguardo indietro_ » 25 V. _Il cuore di un prete_ » 32 Parte Seconda I. _Emma_ » 37 II. _La lezione_ » 41 III. _Due amici di Daniele_ » 48 IV. _La serata di Lady Boston_ » 54 V. _Un milione_ » 59 VI. _Un tentativo_ » 65 Parte Terza I. _Un cavaliere del firmamento_ » 70 II. _La serpe morale_ » 75 III. _Le notti di Edmondo_ » 80 IV. _Un rimedio_ » 84 V. _La ricchezza_ » 89 VI. _L'artista_ » 94 VII. _Le condizioni_ » 98 Parte Quarta I. _La cavalcata_ » 104 II. _La visita_ » 109 III. _Maurizio Barkley_ » 118 IV. _L'ardita menzogna_ » 123 Parte Quinta I. _Lotta interna_ » 130 II. _L'Upas_ » 135 III. _E se domani mi cercherai più non sarò_ » 140 IV. _Il testamento_ » 146 V. _La camera verde_ » 152 VI. _L'amico_ » 160 Parte Sesta I. _Juanita_ » 165 II. _Il ritorno_ » 171 III. _Lo schiavo_ » 177 IV. _Qui amat divitias fructum non capiet ex eis_ » 182 V. _Le nozze_ » 185 NOTE: [1] Questa operetta periodica, raccolta letteraria, artistica e di articoli di moda, pubblicavasi in Napoli con molto buon successo nel tempo degli avvenimenti del nostro racconto. [2] Era così chiamato nelle Spagne nei mezzi tempi una comitiva di giovani di alta nascita e ricchi, i quali andavano la notte in cerca di avventure. [3] Chi potrebbe, in paragone delle spagnuole, cercare le pallide bellezze dei Nord? Come le loro forme, rispetto a quelle sembrano povere, deboli e languide! [4] Chiamansi Chattels in generale i beni d'una persona, cui può lasciare in retaggio, e più particolarmente con tal denominazione s'intendono nelle colonie inglesi gli schiavi comprati o generati da altri schiavi. [5] La maggior parte delle seguenti notizie son vere e attinte da opere di viaggiatori inglesi di grande reputazione: alcune di esse sono letteralmente tradotte da dette opere. [6] Dagli esperimenti di tutt'i moderni fisici risulta che l'elettricità idrometallica devesi riguardare come un nuovo ed infallibile termometro per dar giudizio della morte o della vitalità ancor latente, tanto in una parte, quanto nell'intero corpo; e per conseguenza le correnti elettriche sono reputate oggidì di grande soccorso nelle paralisie, ed in tutte le malattie nelle quali il solido vivo abbisogna di forte stimolo. In fatti, se l'acupuntura istituita contemporaneamente, con due aghi partenti da due lamine, che si tocchino, una di rame, l'altra di zinco, non produca alcun risentimento, alcun movimento fibrillare nemmen quando si comprenda nel circolo e nell'arco il diaframma od il cuore, allora si può ritenere che ogni eccitabilità è spenta. PIETRO MANNI — _Manuale per le cure delle asfissie._ [7] È superfluo il ricordare che la scienza va debitrice di questo bel metodo d'imbalsamazione al nostro professor Tranchina. [8] FEDERICO LENNOIS è il protagonista e il titolo di altra nostra narrazione che fa seguito a questa. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL MIO CADAVERE *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg™ electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to and accept all the terms of this license and intellectual property (trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all the terms of this agreement, you must cease using and return or destroy all copies of Project Gutenberg™ electronic works in your possession. 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The following sentence, with active links to, or other immediate access to, the full Project Gutenberg™ License must appear prominently whenever any copy of a Project Gutenberg™ work (any work on which the phrase “Project Gutenberg” appears, or with which the phrase “Project Gutenberg” is associated) is accessed, displayed, performed, viewed, copied or distributed: This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. 1.E.2. 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