The Project Gutenberg eBook of Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15)

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Title: Storia degli Italiani, vol. 03 (di 15)

Author: Cesare Cantù

Release date: October 26, 2020 [eBook #63560]

Language: Italian

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C. CANTÙ
STORIA DEGLI ITALIANI TOMO III.


STORIA
DEGLI ITALIANI

PER

CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL'AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

TOMO III.

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1875


INDICE


[1]

CAPITOLO XXXI. Il secolo d'oro della letteratura latina.

Un'altra fortuna ebbe Augusto, che al suo corrispondesse il secolo d'oro della letteratura latina, talchè il nome di lui, non solo si associò all'immortalità di quegli scrittori, ma rimase come appellativo de' protettori del bel sapere.

Ne' primordj, Roma s'occupò a difendersi e trionfare, non ad ingentilire gl'intelletti. Sol quando penetrò nella Grecia italica, poi nella Grecia propria, conobbe una coltura più raffinata, e la introdusse coi prigionieri e coi vinti, i quali allogaronsi come maestri o clienti nelle principali famiglie; e tal ne prese vaghezza che dimenticò i modi nazionali per tenersi affatto sulle orme greche. Quand'anche non fosse natura degl'Italiani, sappiamo per iscritto che il popolo nostro dilettavasi grandemente di canzoni nelle varie fasi della vita; specialmente alle vendemmie, e quando la riposta messe lusingava terminate le fatiche, e alle solennità della rustica Pale i prischi agricoli, forti e contenti di poco, coi figli, colla fedele consorte e coi compagni di lavoro esilaravano l'anima e il corpo nel suono e nel ballo[1]; e la gioja bacchica esultava in canti e gesticolazioni, e forse anche dialoghi, di versi regolati dall'orecchio e misurati dalla battuta del piede.

Questa fu per gran pezzo l'unica drammatica, ben lontana dalla artistica che pur già grandeggiava in Sicilia, e che richiede un'azione, un intreccio, e caratteri [2] e affetti. Abbiamo notizia di recite che si facevano in siffatti versi, chiamati saturnini dal favoloso Saturno, o fescennini da Fescennia, città dove molto erano usati alle Sature, mescolanza di musica, recita e danza. Inconditi e mal composti, smentiscono però Orazio quando di letteratura romana non trova lampo se non dopo l'occupazione della Grecia[2]; più lo smentisce la storia. Tito Livio, in un passo d'oro[3], fa che i Romani desumano anche i giuochi scenici dagli Etruschi, dicendo che nell'epidemia del 390 di Roma, la collera celeste serbandosi inesorabile alle supplicazioni consuete, si introdussero (cosa nuova al popolo bellicoso, avvezzo soltanto agli spettacoli del circo) rappresentazioni sceniche, fatte da commedianti etruschi che nella costoro lingua chiamavansi istrioni, i quali ballavano artifiziosamente a suon di flauto e gestendo senza parole: i garzoni romani gl'imitarono, aggiungendo versi rozzi ma lepidi: in appresso s'introdussero buoni istrioni che ne recitarono di studiati, e rappresentarono satire, le cui parole convenivano al suono del flauto e al movimento. Livio Andronico (segue egli), più d'un secolo dopo, osò far meglio, e comporre drammi con unità d'azione; e avendo perduto la voce, ottenne di collocare davanti all'attore un giovane che cantava i suoi versi, mentr'esso faceva i gesti, viepiù espressivi perchè non era distratto dalla cura della voce. Di qui l'uso agli [3] istrioni di accompagnare col gesto ciò che un altro canta, non parlando essi che nel dialogo.

Adunque Livio Andronico introdusse la favola teatrale, che soggetti forestieri riproduceva in favella barbara, cioè nella nostra[4]. Al solo ritmo, consueto nei carmi latini ed osci, sostituì il senario, libero verso, che traeva dall'accompagnamento della tibia quel tenor regolare e cadenzato che nella sua libertà gli mancava, e che formò passaggio fra la ritmica indigena e la metrica esotica. A quel modo continuarono e Nevio e Plauto, sempre scusandosi di tradurre i Greci in barbaro, cioè nel parlare di que' Romani, che per chiamare poi barbari gli altri popoli dovettero persuadersi d'essere divenuti Greci.

Ennio diede un passo innanzi, e abbandonando il pedestre senario, introdusse l'eroico greco: laonde si dava vanto d'aver «superato egli primo i monti delle muse, mentre fin a lui erasi detto soltanto coi versi che cantavano i fauni e i vati», cioè gl'indigeni[5]: introdusse il dattilo e il verso esametro, la cui musicalità era accessibile del pari ai dotti e al vulgo.

Andronico, Ennio, Plauto, Azzio, Nevio trattarono soltanto soggetti greci, benchè in Grecia non fossero ancora penetrati i Romani, non avessero «cercato le bellezze di Tespi, Eschilo, Sofocle», nè Mummio avesse recato gli spettacoli teatrali da Corinto[6]: laonde possiamo credere che quest'arte derivasse piuttosto dalla Sicilia, dove Aristotele e Solino la fanno nascere, e trasportare in Atene da Epicarmo e Formione; [4] ovvero dalla Magna Grecia, ove molti Pitagorici aveano scritto commedie[7].

Di tre parti constava la commedia: diverbio, cantico, coro. Pel primo intendeasi l'atteggiare di più persone: nel cantico parlava una sola, o se ve n'era un'altra, udiva di nascosto e parlava da sè: nel coro era indefinito il numero de' personaggi[8]. Molta varietà v'ebbe poi di commedie: le gravi diceansi palliatæ o togatæ, secondo che di soggetto greco o romano; nelle prætextatæ s'introducevano persone di grand'affare, vestite della pretesta; inferiori erano le tabernariæ e i mimi.

Dal succitato passo di Livio i teatri romani compajono non semplice passatempo, ma un'istituzione civile e sacerdotale, e la recita come un'appendice di quelli che i romani tenevano per veri divertimenti, i giuochi del circo. Inoltre gli scrittori di commedie non erano romani, ma Ennio di Calabria, Pacuvio di Brindisi, Plauto di Sarsina nell'Umbria, Terenzio di Cartagine; talmente convenzionale era il linguaggio di quelle. Il romano popolesco rimase alle atellanæ, che alcuno vorrebbe somigliare alle nostre commedie a soggetto: recitavansi in osco[9] da giovani bennati, e allettavano grandemente il popolo per lo scherzo vivace e per l'originalità.

Diciannove tragedie di Marco Pacuvio sono lodate da Quintiliano per profondità di sentenze, nerbo di stile, [5] varietà di caratteri; ma nel pochissimo rimastoci non troviamo che liberissime imitazioni, in istile bujo e disarmonico. Lucio Azzio, nato a Roma da un liberto, ne compose e raffazzonò di molte, fra le quali il Bruto e il Decio, soggetti patrj; e recitavansi ancora ai tempi di Cicerone, e più volentieri si leggevano. Delle diciannove tragedie di Andronico sol qualche frammento sopravive: compose pure un inno da cantarsi da ventisette fanciulle, e voltò dal greco l'Odissea. Gneo Nevio campano verseggiò anche la prima guerra punica.

Marco Accio Plauto[10] (n. 227) scrisse molte commedie; ad altre non facea che dar una mano, e correvano poi sotto il suo nome: ma sempre tradotte o imitate dal greco, e di greche costumanze. Ce ne sopravanzano venti, fra cui l'Amfitrione mette in burletta gli Dei; e fanno per le migliori l'Aulularia incompleta, il Trinummus e i Captivi di serio e morale intreccio. Guadagnato un bel gruzzolo col poetare, lo avventurò in commercio, sì male speculando che fu ridotto a girar macine da mugnajo.

Tutti i comici superò Publio Terenzio africano (n. 193). Rapito fanciullo dai pirati, fu compro da Terenzio Lucano senatore romano, che, educato, gli donò la libertà; ed egli, raccolto qualche denaro, passò in Grecia, ove morì di trentacinque anni. In Grecia, dopo la commedia democratica e politica di Aristofane, tutta allusioni ed attualità e baldanza, era stata introdotta la civile, in cui grandeggiò Menandro, che la elevò a qualche dignità con fatti serj e intento filosofico, rendendola, qual poi rimase, il quadro dei vizj e delle ridicolaggini, scevra di satira personale. Centotto commedie di [6] quest'ultimo poeta ateniese avea tradotte Terenzio, che le perdette in un naufragio; nelle sei che ci rimangono, appajono purezza ed eleganza di stile e precisione di sentenze[11], quale in Roma non aveva ancora alcun modello. L'Eunuco sembra originale, sebbene i caratteri di Gnatone e Trasone sieno desunti dall'Adulatore di Menandro; e tanto piacque, che fu replicato fin due volte nel giorno stesso, e guadagnò all'autore ottomila sesterzj.

Plauto coll'asprezza e la facezia palesasi famigliare col vulgo, Terenzio ritrae della società signorile; quello esagera l'allegria, questo la tempera, e i caratteri e le descrizioni esprime al vivo. Orazio (che giudicando solo dall'espressione, vilipende tutti i comici della prima maniera) chiama grossolano Plauto, e lo taccia d'avere abborracciato per toccare più presto la mercede; alle commedie di Terenzio fu asserito mettesser mano i coltissimi fra i Romani d'allora, Scipione Emiliano e Lelio: l'un e l'altro però sono troppo lontani dalla finezza dei comici greci, vuoi nel senso, vuoi nell'esposizione.

La bagascia, il lenone, il servo che tiene il sacco al padroncino scapestrato, il ligio parasito, il padre avaro, il soldato millantatore, ricorrono in ciascuna commedia di Plauto, fin coi nomi stessi, come le maschere del vecchio nostro teatro; e si ricambiano improperj a gola, o fanno prolissi soliloquj, o rivolgonsi agli spettatori, o scapestransi ad oscenità da bordello. Egli stesso professa in qualche commedia di non seguire l'attica eleganza, ma la siciliana rusticità[12]; il verso talmente [7] trascura, che si dubita se verso sia[13]; grossolano e licenzioso il frizzo; il dialogo da plebe. Meno che pei letterati ha importanza pei filologi, che vi riscontrano idiotismi ancor viventi sulle bocche nostre, e ripudiati dagli autori forbiti: altra prova che il parlare del vulgo si scostasse da quello dei letterati, e forse viepiù nell'Umbria.

Meglio si splebejò Terenzio. Neppur egli poteva produrre altre donne che cortigiane, ma le fa involate da bambine, e consueta soluzione della commedia è il riconoscimento loro[14] per mezzi miracolosi: anche all'uomo dabbene trova un luogo fra i suoi: più corretto [8] nella morale, men procace nel motteggio, eletto e spontaneo nel dialogo, pittorescamente semplice nei racconti, attraente nelle situazioni, resta inferiore in vivezza comica e gaja fantasia: quanto all'invenzione, e' si scusa col dire che non è più possibile atteggiar cosa nuova[15]. Nè l'uno nè l'altro conobbero l'ammaestrare ridendo, proponendosi unicamente di recare sollazzo al pubblico[16]. [9]

Le commedie di Terenzio e Plauto erano palliate, cioè eseguivansi in abito greco: nelle togate fu celebre Afranio, ma pochissimi versi ce ne restano. Poco merito, in generale, si attribuiva alla drammatica, tantochè Quintiliano confessa che, in questa parte, la letteratura latina va zoppa. E per vero, come poteva fiorire tra un popolo che si dilettava di belve combattenti e dei veri spasimi e del sangue d'uomini accoltellantisi? Terenzio racconta che, alla prima rappresentazione della sua Ecira, il popolo costrinse a interromperla perchè si erano annunziati gladiatori e saltambanchi.

D'Asinio Pollione, il più celebre tragico, nulla sopravisse: di Ovidio sappiamo che scrisse la Medea; ma i luoghi comuni onde farcì le sue Eroidi, e la dilavata facilità del suo stile non ci lasciano troppo rimpiangere questa perdita, nè quella de' molti altri tragici romani ricordati[17].

Della burletta si prendea molto spasso, e fino a quell'antichità risalgono le maschere: il Macco o Sannio, progenitore del nostro Zanni o Arlecchino, era un buffone, raso il capo, vestito di cenci a vario colore, e che rideva in tutto il corpo; a Pompej si trovò il Pulcinella, maschera atellana. Sul finire della repubblica si preferivano i mimi, mescolanza di ballo e di drammatica, non ridotta ad un'azione perfetta, ma in scene staccate, un carattere plebeo esponendo nelle differenti sue situazioni, con parlar vulgare e locuzioni scorrette; di che il basso popolo, riconoscendo se stesso, prendeva mirabile dilettazione. Il poeta dava solo la traccia, [10] lasciando che l'attore improvvisasse; attore sovente era l'autor medesimo, e i più famosi furono Siro e Laberio. Di questo abbiamo un prologo, dove lagnasi d'essere stato costretto da Cesare a montare sul palco: di Siro alquante sentenze morali, che teneva in serbo per intrometterle all'occasione, e che ci danno alta idea della farsa romana. Anche Gneo Mattio, amico di Cesare e di Cicerone, scrisse Mimiambi assai lodati, oltre una Iliade.

La legge sopravvide sempre agli spettacoli teatrali, che perciò non attinsero mai la democratica licenza degli Ateniesi. Già la primitiva nobiltà, gelosa di questa plebe che della scena valevasi per bersagliarla, le pose freno applicandovi la legge delle XII Tavole che condannava a morte o alle verghe il diffamatore[18]. Ogni oppressore della pubblica libertà rinvigoriva queste repressioni, come fece Silla; e Cicerone scriveva ad Attico che, nessuno osando chiarire in iscritto il proprio parere, nè apertamente riprovare i grandi, unica [11] via restava il far ripetere in teatro versi o passi che paressero alludere ai pubblici affari[19].

In principio i teatri erano posticci, durando al più un mese, quantunque l'armadura di legno si ornasse con grand'eleganza, fino a dorarla e argentarla, e vi si collocassero statue ed altre spoglie de' popoli soggiogati. Scauro ne fece uno capace di ottantamila spettatori, adorno di tremila statue e trecentosessanta colonne di marmo, di vetro, di legno dorato. Primo Pompeo, dopo vinto Mitradate, ne fabbricò uno stabile, capace di quarantamila spettatori, con quindici ordini che salivano dall'orchestra fino alla galleria superiore. Quel di Marcello, fatto da Augusto, era un emiciclo del diametro inferiore di circa cinquantacinque metri allo interno, e di cenventiquattro al recinto esterno. Cajo Curione, volendo sorpassare i predecessori in bizzarria se non in magnificenza, nei funerali di suo padre costruì due teatri semicircolari, tali che potessero girare sopra [12] un pernio con tutti gli spettatori; sicchè, compite le rappresentazioni sceniche, venivano riuniti, e gli spettatori si trovavano trasportati in un anfiteatro[20].

Alla romana severità parea vile un uomo inteso, non a soddisfare coll'abilità sua verun bisogno, ma solo a dar diletto; infame chi per denaro fingeva affetti, dava se medesimo a spettacolo, ed esponevasi agl'insulti degli spettatori. Laonde i mimi rimanevano privati delle prerogative civili, i censori poteano degradarli di tribù, i magistrati farli staffilare a capriccio; un marchio impresso sul loro corpo gli escludeva da ogni magistratura, e fin dal servire nelle legioni. Anche donne poteano comparir sulla scena romana, a differenza della greca, purchè vestite decente: ma restavano diffamate, proibito ai senatori di sposare le attrici, nè le figlie o le nipoti d'istrioni.

Somma doveva essere l'abilità degli attori se tanta ammirazione destarono Batillo e Pilade, Esopo e Roscio. Eppure generalmente erano schiavi o liberti greci, che a forza di studio avevano imparato la giusta pronunzia del latino. Inoltre, vastissimi essendo i teatri, doveano forzar la voce perchè fosse intesa da ottantamila spettatori; le parti femminili erano spesso sostenute da uomini; il viso coprivasi con maschere: lo che rende inesplicabile l'effetto che Cicerone e Quintiliano dicono producessero.

Esopo e Roscio non mancavano mai al fôro qualvolta si agitasse causa interessante, per osservare i movimenti dell'oratore, del reo, degli astanti. Il primo fu amico di Cicerone, e benchè magnifico all'eccesso, [13] lasciò a suo figlio venti milioni di sesterzj, cioè quattro milioni di lire. Da Roscio, che pel primo abbandonò la maschera, prese lezioni Cicerone, che poi gli divenne amico, e sfidavansi a chi meglio esprimerebbe un pensiero, questi colle parole, quegli col gesto: all'anno riceveva cinquecento sesterzj grossi, o centomila lire: ducentomila n'ebbe Dionisia attrice, per una stagione del 377. Neppure questo scialacquo è dunque novità.

Dove finisce l'età eroica, spettanza della poesia e dell'arte libera, ivi comincia la scienza storica; e quando il carattere preciso dei fatti e la prosa della vita si rivelano in situazioni reali, e nel modo di concepirli e rappresentarli. Quale scienza più degna d'un gran popolo? pure i Romani nè anche in essa seppero essere originali, e negligendo le patrie tradizioni, e sprezzando i monumenti, accolsero e rimpastarono le origini favoleggiate dai Greci. Fabio Pittore, che primo ne scrisse in latino, Cincio Alimento senatore e Cajo Acilio tribuno che dettarono annali in greco, copiavano l'un dall'altro, senza interrogare il popolo nè verificare coi documenti. Quando Catone censorio trattò delle Origini italiche, i popoli della prisca Italia sussistevano ancora, e in libri ed iscrizioni conservavano i loro fasti; sapevansi leggere e interpretare i caratteri oschi ed etruschi, che ora eludono la pazienza degli eruditi; non era per anco stata dilapidata l'Italia dalla guerra de' Marsi, nè le sistematiche proscrizioni di Silla aveano distrutte le memorie della prisca nazionalità. Un desiderio del censore sarebbe stato legge a tutte le città italiane, che gli avrebbero a gara recato i loro annali pel lavoro che preparava. Eppure, malgrado l'affettata sua avversione per le cose greche, egli si abbandonò alla corrente; e d'idee e di etimologie forestiere è rimpinzato quel poco che ci tramandò. Peggio ancora adoperarono Cornelio [14] Polistore al tempo di Silla, Calpurnio Pisone Frugi[21], e più tardi Giulio Igino, o creduli o ingannatori.

Il migliore storico di Roma le venne dalla Grecia, Polibio di Megalopoli (n. 205), che deportato con quelli traditi da Callicrate (vol. I, pag. 348), acquistò la grazia degli Scipioni, principalmente dell'Emiliano, lo seguì in Africa, e narrò la storia contemporanea dal 220 al 167. Di scarso gusto e d'arte scadente, attiensi al positivo; vide i luoghi, seppe il latino, lesse in Roma documenti ignorati da' natii, e meglio di questi c'informa della loro costituzione, che egli reputa non solo superiore alla spartana e alla cartaginese, ma tale che, a petto di essa, la repubblica di Platone somiglia una statua accanto d'uomo vivo. In serena tranquillità narra non declama; cura la moltitudine, quanto Livio gli eroi; ma escludendo la Provvidenza regolatrice, e tutto riducendo a invenzione degli uomini: eppure non sa guardarsi dalla funesta simpatia per la prosperità, rimprovera e ingiuria i nemici de' suoi Scipioni, dice che le leggi della guerra permettono di fare tutto ciò ch'è utile al vincitore o nocevole al nemico. Vero è che fa giungere qualche disapprovazione alle orecchie degli oppressori della Grecia: vede la colpa de' Romani nella seconda guerra punica; la terza considera come un delitto: professa che fine della vittoria non dev'essere la distruzione del nemico, ma il riparare dall'ingiuria (v. 11. 5); che il vincitore non dee confondere l'innocente col reo, e piuttosto risparmiare i rei in grazia [15] degli innocenti; tralasciare i guasti inutili perchè provocheranno eccessi contrarj: la pace è di tutti i beni il solo che nessuno si perita a considerar per tale; tutti preghiamo gli Dei a concedercelo, nè v'ha cosa che non sopportiamo per ottenerlo[22].

Le Antichità romane di Dionigi d'Alicarnasso, stendentisi fin all'anno dove Polibio comincia, toccano delle origini di Roma, ma sempre per blandirla, e «sminuire lo scherno e l'aborrimento che i Greci le professavano». Questo proposito già il rende sospetto, e ancor più la pienezza simmetrica del suo racconto, ch'era impossibile deducesse da cronache indigeste. Come estranio ch'egli era a Roma, ce ne espone con particolarità il governo e il diritto, sebbene non sempre ne intenda lo spirito: ma da una parte per amor di patria tutte le origini trascina dalla Grecia, dall'altra vanta i Romani come popolo equo e temperato, che i vinti trattò non con crudeltà o vendetta, ma da amico e benefattore, moderò la vittoria con una magnanimità senza esempio, e in cinquecento anni di lotte così violente, mai non insanguinò il fôro; racconta senza biasimo la distruzione di Cartagine, di Corinto, di Numanzia, e conchiude che, in tanto conquistar di paesi e tanto opprimere di nazioni, mai non operò che di giustizia[23].

Moltissimi Greci scrissero de' fatti della Sicilia; alcuni anche Siciliani, fra cui il più antico e lodato è Antioco figlio di Serofane siracusano, autore di una storia di quell'isola, e d'una dell'Italia: fioriva ai tempi di Serse. Temistogene, oltre la storia patria, divisò la spedizione [16] di Ciro il giovane in Persia, che alcuno pretende sia quella che va sotto il nome di Senofonte. Anche i due Dionigi tiranni storiarono; e Filisto, condottiero di eserciti nella guerra cogli Ateniesi, poi relegato a Turio, richiamato per ordinar le cose siracusane, infine ucciso a strazio da' suoi cittadini il 400, aveva esposto la storia siciliana fin a tutto il regno del vecchio Dionigi; conciso, dicono, quanto Tucidide e più chiaro. Un altro Filisto è lodato d'avere pel primo applicato alla storia gli artifizj retorici. Callia, scolaro di Demostene, nelle imprese di Agatocle parve più elegante che veritiero.

Timeo da Taormina scrisse una storia universale e varie particolari, e una critica sugli errori degli storici: se il lodano per buona distribuzione cronologica, l'appuntano di soverchia mordacità, e di raccogliere ogni cosa senza discernimento. Celebratissimo da Cicerone è Dicearco messinese, morto al principio del regno di Gerone, e vissuto il più in Grecia: in istile attico delineò vite d'illustri uomini e dei sette Sapienti, le feste e i giuochi, e una descrizione della Grecia fisica e morale: per incarico de' re macedoni fece e descrisse la misura de' monti (ὀρῶν καταμέτρησις) del Peloponneso, con buone idee sulla conformazione generale della terra. Aristocle, pur da Messina, raccolse la serie degli antichi filosofi e la somma dei loro insegnamenti. Polo d'Agrigento lasciava la genealogia de' Greci e de' Barbari venuti alla guerra di Troja. Filino, suo compatrioto, militò sotto Annibale, e ne descrisse le imprese adulando; sicchè più rincresce l'averlo perduto, giacchè farebbe contrapposto ai Romani che lo calunniarono[24]. Le guerre Servili furono narrate da Cecilio di Calutta, [17] che trattò pure sul modo di leggere gli storici. Andera da Palermo narrò le cose memorabili di ciascuna città della Sicilia.

Di tutti questi ci rimane o soltanto il nome o poche righe; nè direttamente possiam giudicare che Diodoro di Argiro, noto col titolo di Diodoro Siculo. Venuto ultimo, egli potè giovarsi di tutti i greci e siciliani; e dopo trent'anni di viaggi e di ricerche fermatosi a Roma, allora centro d'ogni civiltà e convegno di tutte le nazioni, vi compilò in greco una storia universale, intitolata Biblioteca storica, dai tempi precedenti alla guerra di Troja fino a Giulio Cesare. De' quaranta libri ci restano solo i primi cinque sui tempi favolosi, la seconda decade, e alquanti frammenti. Chiaro, lontano dall'affettazione come dalla bassezza, procede sconnesso, talvolta declamatorio, più spesso freddo e uniforme compilatore piuttosto che autore; bee grosso, accetta tutte le ubbie, e si corruccia con chi ne dubita; di tanti materiali che doveano esistere, non trae bastante profitto, nè quindi ci ajuta gran fatto a conoscere la prisca istoria italiana; sulla romana poi erra spesso nei nomi, più spesso ne' tempi, e in generale è scarso, quanto invece abbonda intorno ai Cartaginesi e ai Greci. Piace trovarvi il sentimento dell'umanità, d'una giustizia divina, d'una provvidenza.

Sulla primitiva Italia nessuna luce spandono gli scrittori latini, sempre scuranti dell'erudizione. Tito Livio, volendo dilettare e istruire il suo popolo, ne adotta le idee tradizionali senza curarsi di appurarle, segue e spesso traduce Polibio, nè entra tampoco nei tempj di Roma a leggere ed esaminare i trattati e monumenti antichi conosciuti da quello e da Dionigi: pochi anche [18] fra i più dotti videro le opere di Aristotele: Cicerone, che tutto seppe, conosce soltanto per un dicesi i Latini che prima di lui scrissero di filosofia; e quando vuol informare della costituzione romana, egli uom di Stato, traduce Polibio: ignoravansi le lingue forestiere, nè gl'interpreti servivano che ai negozj; e Cesare, che sì lungo tempo campeggiò nelle Gallie, non ne apprese la favella; e a vicenda, volendo servirsi d'una cifra perchè i suoi dispacci non fossero intesi dal nemico, adoprava l'alfabeto greco.

Pure molte biblioteche eransi in Roma raccolte. Paolo Emilio, come altri nobili, per diletto de' suoi figli trasportò in città quella di Perseo re di Macedonia: Silla da Atene quella di Apellicone Tejo, che fu messa in ordine da Tirannione, il quale pure ne raccolse una di trentamila volumi: più insigne l'ebbe il suntuoso Lucullo, che gli eruditi del suo tempo vi raccoglieva a dotte conferenze. Anche Attico ne formò una doviziosa, e molti schiavi occupava a ricopiare per farne traffico; onde Cicerone iteratamente il prega a non vendere certe opere, giacchè spera poter comprarle lui[25] per aggiungerle alle molte che già aveva unite con varie anticaglie. E probabilmente per opera degli schiavi ogni lauto romano procacciavasi una biblioteca: ma sebbene ai copisti sovrantendessero grammatici destinati a collazionare, i testi riuscivano scorrettissimi[26]. Primo Cesare pensò ad una biblioteca pubblica, e n'affidò la cura a Varrone; il qual [19] pensiero interrottogli dalla morte, fu messo ad effetto da Asinio Pollione: poi Augusto ne applicò una al tempio d'Apollo Palatino[27], ed una al portico d'Ottavio: e di rado ai pubblici bagni mancava un gabinetto per la lettura.

A malgrado di ciò, i Romani furono negligentissimi in esaminare l'antichità, e rintracciare i documenti che sono occhio della storia. Li precedette una civiltà potente, qual fu la pelasga; gli educò l'etrusca: e nè di questa nè di quella curarono, o fosse orgoglio nazionale, o cieca preferenza al bello sopra il vero. Danno per portentoso erudito Marco Terenzio Varrone (n. 116), che a settantotto anni aveva scritto quattrocennovanta libri di varia materia. Nelle Antichità delle cose umane e divine cominciava dall'uomo, dal suo organismo e dalla natura morale; veniva all'Italia, all'arrivo di Enea, alla fondazione di Roma, dalla quale egli pel primo fissò la cronologia (æra Varronis); e indagava tutto ciò che potesse illustrare la storia e le condizioni politiche e morali. Le Cose divine erano un profondo trattato sulle religioni italiche e sulla romana in ispecie, i miti, i sagrifizj, la liturgia, forse dirigendo tutto a reprimere l'ateismo e la corruzione de' costumi; al che forse diresse anche l'altra opera Della vita del popolo romano.

Cicerone lo loda di avere finalmente dato a conoscer Roma ai cittadini, che prima vi stavano come stranieri[28]; e gli antichi s'accordano a tributargli il [20] titolo di dottissimo: ma se dai tre dei ventiquattro libri suoi sulla lingua latina, dai tre intorno all'agricoltura, e da pochi altri frammenti vogliam giudicarlo, ne appare scarso d'erudizione e più di critica, e ansioso di rintracciar lontano quel che aveva in casa[29]. Nell'esaminare le etimologie della lingua latina, ignora i metodi che lo spirito segue nel creare, adoprare, trasformar le parole; e suppone che i Latini inventassero il proprio parlare, mentre non fecero che torlo da altri (vedi Appendice I); non istudia gli idiomi allora viventi, e al più ricorre al dialetto greco eolico, congenere del latino.

Nel trattato De re rustica, dopo le generalità, viene alle vigne, agli ulivi, agli orti; il secondo libro tratta dell'allevamento del bestiame, de' formaggi e della lana; il terzo degli animali, della bassa corte, della caccia e della pesca. Al semplice esordio di Catone (vol. I, pag. 373) si paragoni questo suo: — Se ozio avessi, ti scriverei a mio agio ciò che ora ti schizzo come posso sulla carta, pensando che conviene accelerarsi, perchè quel proverbio che l'uomo è null'altro che una bolla, ancor più s'attaglia a vecchio. I miei ottant'anni m'avvertono di fare il fardello pel gran viaggio. Avendo tu, o Fondania moglie, acquistato un podere che desideri render fruttifero con buona coltura, procurerò informarti di ciò che convien fare non solo mentr'io vivo, ma anche dopo morto... Non invocherò a soccorso le muse come Omero ed Ennio, ma le dodici divinità maggiori; non i dodici Dei della città, sei maschi e sei [21] femmine, le cui statue sorgono nel fòro, ma i dodici che presiedono all'agricoltura. E prima Giove e Terra, che in cielo e quaggiù racchiudono tutte le produzioni dell'agricoltura, onde son detti i gran genitori; poi il Sole e la Luna, di cui si osserva il corso per seminare e piantare; indi Cerere e Libero, i cui frutti sono indispensabili alla vita; Rubigo e Flora, pel cui patrocinio il frumento e gli alberi vanno immuni dal bruciore, e fioriscono a debito tempo; poi Venere e Minerva, che tutelano l'una gli ulivi, l'altra gli orti; Linfa e Benevento, perchè senz'acqua immiserisce l'agricoltura, e senza buon successo la coltura è illusione». Dopo questa litania introduce gl'interlocutori[30].

Varrone aveva anche raccolte settecento vite d'uomini illustri di Grecia e di Roma in cento fascicoli da sette ciascuno, donde il titolo di Hebdomades, e coi ritratti; e Plinio lo loda di aver trovato un modo di [22] moltiplicarne le copie, e così agevolarne la conservazione e la diffusione. Molti, e fin l'illustre Ennio Quirino Visconti immaginarono fossero disegnati sopra pergamena, adoprandosi una qualche maniera d'incisione: ma il passo di Plinio[31] ci trae piuttosto a crederli di cera, fatti collo stampo, e chiusi in scatolette, al modo de' sigilli.

Accennammo (vol. II, p. 161) come molti vergassero le proprie memorie, solitamente in greco: e insigni sono quelle di Giulio Cesare. La difficoltà di propagare i manoscritti obbligava gli antichi a scriver serrato; oltre che sapeano aggruppare gli sparsi accidenti, quanto oggi si suole sbricciolarli e decomporli. Cesare, meglio d'ogni altro vedendo le forze e i vizj del tempo e del paese suo, narrò grandissime geste in piccolissimo volume, la cui naturale semplicità e la limpida ed evidente concisione già erano in delizia a' contemporanei[32], e fin ad ora non trovarono emulo. Gli altri Latini ricalcano continuamente i Greci; egli dice quel che ha pensato e sentito, nè ci si mostra altro che Cesare, Cesare invitto generale e invitto scrittore: rapido nel narrare come nel compir le imprese, trova l'eleganza, non la cerca; non prepara gli effetti; va tutto spontaneo: e sebbene nol possiam credere imparziale, e chi vi pon mente ravvisi un sottofine in quel che [23] narra, indovini quel che tace, e l'arte di lumeggiare una circostanza, un'altra adombrarne, eccedette chi pretese scorgervi il proposito deliberato di mentire e di presentar se stesso al popolo e ai posteri in maschera, valendosi d'una fredda ironia, e con profondo sprezzo del genere umano attribuendo tutto alla fortuna. Oltre molte arringhe, avea composto tragedie, due libri delle analogie grammaticali, trattati sugli auspizj e sull'aruspicina, sul moto degli astri, un poema nominato Iter ed altre poesie.

Da antico si registravano gli avvenimenti giornalieri negli Annali Pontifizj; ma al tempo della sedizione dei Gracchi rimasero interrotti. Cesare pel primo istituì un giornale degli atti del senato, ed uno di quei del popolo, affine di conservarli e pubblicarli. Augusto ordinò si continuasse il primo, ma guai a pubblicarlo, ed elesse egli medesimo chi dovea compilarlo[33]. Su [24] quello del popolo si notavano le accuse recate ai tribunali, le sentenze loro, l'inaugurazione de' magistrati, le costruzioni pubbliche, e in appresso la nascita e le vicende dei principi. Somiglia dunque ai giornali moderni, lontanissimo però dall'averne la diffusione, che ne costituisce l'importanza.

Ma già colle altre ambizioni era nata quella della parola, e al finire della repubblica apparvero storie degne di questo nome; e il primo che v'adoperi stile conveniente è Crispo Sallustio (vol. II, p. 155). Solo i due episodj su Giugurta e Catilina ce ne arrivarono; ma egli avea narrato in cinque libri anche l'intervallo fra quei due fatti; e ancor si leggevano al tempo del Petrarca, il quale nelle Lettere soggiunge aver trovato in veracissimi autori che Sallustio, per esporre al vero le cose d'Africa, guardò i libri punici, anzi si recò sui luoghi; diligenza ben rara fra i Romani.

I nostri lettori sono già familiarizzati col più insigne storico latino, Tito Livio, e conoscono come per patriotismo riducesse la storia romana ad un'epopea, cui conviene più che ad altra quell'epiteto affatto romano di magnifica. Con un'ammirazione candidissima[34], [25] con una persuasione che sente dell'ispirato, concepisce poeticamente, narra ampio e maestoso, qual conviene al paese dove si congiungevano l'eloquenza poetica con quella del fôro; rifugge ogni trivialità, ogni arcaismo di pensieri o di linguaggio, talchè nell'uniforme splendore del suo stile, come in certe moderne tragedie, non ci presenta se non i contemporanei d'Augusto, esprimenti con accento gentile le passioni d'età gagliarde. Come arte non sapremmo qual lavoro antico o moderno pareggi quella sua eloquenza, neppur un istante dimentica della propostasi gravità; quella chiarezza che nulla lascia d'indeciso nelle idee, di faticoso all'attenzione; quell'eleganza semplice che cresce grazia al pensiero, vivezza ai sentimenti; quell'armonia penetrante [26] che diffonde sulla storia tutto il vezzo della poesia; quella perfezione di stile, ove nuove bellezze rivela ogni nuova lettura. Qual successione di mirabili quadri, di grandiosi caratteri, di stupende arringhe! quale industria nello scegliere le circostanze! Quindi di poche opere antiche la perdita è a deplorare quanto de' libri suoi; e il mondo letterario tripudiò ad ora ad ora della speranza sempre tradita di vederli scoperti o nei serragli di Costantinopoli o nei conventi della Scozia.

Le Storie Filippiche di Trogo Pompeo non ci sono conosciute che per un compendio fattone da Giustino, di scarsissimo frutto, e senz'arte di disporre e concatenare: ma alcuni frammenti pubblicati testè[35] ce ne fanno viepiù rincrescere la perdita.

Altri ancora andarono smarriti, quali Sesto e Gneo Gellj, Clodio Licinio, Giulio Graccano, Ottacilio Petito, primo liberto che osasse applicarsi a un genere che tanta franchezza richiede; Lucio Lisenna amico di Pomponio, e Ortensio, e Pollione, e le Famiglie illustri di Messala Corvino. Giuba, figlio di quello che fu vinto da Cesare, dettò la geografia dell'Africa e dell'Arabia, e una storia romana, lodata da Plutarco per esattezza.

Cornelio Nepote di Ostilia aveva composto una storia universale in tre libri[36], ed altre che andarono perdute, non avanzandoci che qualche brano, e le vite di Catone e d'Attico pregevolissime per urbanità di stile. Le vite degli illustri capitani di Grecia, quali corrono sotto il nome di lui, senza colore nel racconto, senza [27] originalità e coerenza ne' pensamenti, senza vigore nello stile, nè quelle particolarità che fan conoscere al vero i personaggi, nè ampia notizia di fatti, o appropriata scelta delle circostanze; accompagnate di costruzioni strane, forme inusitate e fin solecismi, sembrano una compilazione d'età bassa. Se è vero che siano tanto opportune alle scuole, almen si corredino di note che non lascino imbevere i giovani di tanti errori di fatto e di giudizio.

Esso Cornelio, confessando inferiori gli storici latini ai greci, crede che il solo capace d'uguagliarli sarebbe stato Cicerone[37]. Giudizio d'amico, ma che nella forma stessa onde è espresso manifesta che i Romani nella storia poneano mente anzitutto all'esposizione; più bella la più eloquente. Nè Tullio, gonfio di sè, inebbriato di patriotismo, sprezzatore dell'antichità, potea riuscire storico quale oggi lo intendiamo. Eppure tanta materia di storia egli ci esibì in opere non a ciò dirette. Le Lettere sue, scritte giorno per giorno sotto l'impressione degli avvenimenti, e da uomo sensatissimo, tanto più fedele osservatore perchè indeciso nella politica, sono il monumento storico forse più importante [28] che s'abbia: nei libri delle Leggi, della Repubblica, dell'Oratore, nel Bruto, e ancor meglio nelle Orazioni, apre inesausti tesori per la conoscenza del diritto. Già da lui estraemmo la storia dell'eloquenza; e il potremmo della filosofia greca, se il tema nostro non ci restringesse all'italiana.

Periti i monumenti di questa, si cercò ricomporla mediante il linguaggio e la giurisprudenza (tom. I, p. 135); e per quanto incerte sieno tali congetture, ce n'esce però una filosofia non di scuola come fra' Greci, ma pratica e civile. Quanto avea d'originale ben tosto andò mescolato alla greca, alla quale tutti accorrevano, e che essendo fatta men per la vita che per la scuola e per esercizj di penetrazione, variava secondo il differente punto d'aspetto, e menava facilmente al rifugio de' tempi scredenti, l'eclettismo.

Qui dunque come nel resto i Romani si mostrarono utilitarj, stimando la scienza in ragione del vantaggio che recava; e la filosofia disprezzavano non solo come inutile e cianciera, ma come pericolosa, imputando ad essa la decadenza della Grecia[38]. Perciò attesero piuttosto alla morale, cui proposero uno scopo immediato: e Panezio, che iniziò i Romani alle dottrine della stoa, non restringeasi ad angustie di partiti, venerava Platone come il più saggio e santo de' filosofi, ma insieme ammirava Aristotele; non approvava negli Stoici la durezza affettata, e giungeva sino a raccomandare il libro d'un Accademico, ove s'insegnava che la pietà ci è data dalla natura per renderci clementi[39]. [29]

Questo avvicinare delle varie filosofie teneva all'indole conciliatrice di Roma: nè scuola filosofica propria vi si costituì, solo studiandola come necessaria coltura, e come opportuna a formar l'oratore, a dar fermezza e consolazione nelle calamità. Perciò prediligevasi la scuola stoica: l'epicureismo era piuttosto praticato che insegnato. Le opere di Aristotele, quantunque da Silla fossero portate a Roma, rimasero chiuse nella biblioteca di lui, finchè Tirannione grammatico non vi diede pubblicità; corrette poi e supplite da Andronico di Rodi contemporaneo a Cicerone, se ne fecero copie: ma anche persone erudite ignoravano quel filosofo[40].

De' Latini che scrissero di filosofia, nessuno vi recò nè gran dottrina nè bastante pulitezza; i libri di Varrone, anzichè istruire, stimolavano ad istruirsi[41]; alfine Cicerone presentò agli ultimi nipoti di Pompilio e di Cincinnato le raffinatezze della filosofia greca. Sinchè egli potesse occuparsi della cosa pubblica, in questa si concentrava; n'era escluso? ritiravasi nelle sue ville di Tusculo o del Palatino, dove, senza perdere di vista Roma, s'occupava di filosofia per esercizio dello scrivere, per isfoggiare la propria abilità, e per fare che nella letteratura romana non rimanesse questa lacuna[42]: i Greci mescevano versi, ed egli fa altrettanto, [30] e non dissimula che le sue sono traduzioni[43], mediante le quali in vero ci conservò memoria di molte opere ora perdute. Ma novità sua vera è l'intento civile, proponendosi d'indirizzare a una nuova operosità scientifica e intellettuale i Romani, quando chiudevasi la politica; e preparare ristori alle vicende della fortuna, cui poteano essere esposti.

Si riferiscono alla filosofia teoretica i trattati della Natura degli Dei, della Divinazione e del Fato, delle Leggi, della Repubblica: alla morale le Quistioni Tusculane, gli Uffizj, i Paradossi, i libri dell'Amicizia, della Vecchiaja. Più sobrj che le orazioni, li troviamo più lodati dai contemporanei; pure l'abitudine del declamare impedisce Cicerone di sapere piegarsi alla esattezza delle voci e delle frasi, le accatta sovente dal greco, e sagrifica la precisione alla circonlocuzione, valendosi delle definizioni greche benchè le parole non avessero equivalente significato, rispettando le conclusioni de' Greci benchè dedotte da tutt'altre premesse; rompe il filato ragionare, e mostrasi inetto a raggiungere il fondo della scienza. Lasciati a parte i sommi modelli Aristotele e Platone, prevaleva allora la setta eclettica de' Nuovi Accademici, che con leggerezza mostrava come, deducendo ragioni pro o contro delle altre Sette, si arrivasse a conseguenze opposte. Questo metodo calza perfettamente a coloro che vogliono avere una tintura di molte cose, piuttosto che approfondirsi [31] in una. E appunto per secondare tal gusto, Cicerone, che pur chiama Platone l'autor suo, il suo Dio[44], si ferma alla probabilità, anzichè posare in convinzioni risolute; tante sono le cose che asserisce, che tu dubiti se profondamente n'abbia meditato veruna; e come varia di stile, di lingua, di calore secondo l'autore che segue, così muta sentenza secondo la parte cui s'accosta.

Con Posidonio e Panezio crede al diritto e alla giustizia; quando posa i grandi problemi religiosi, s'accosta alla verità assoluta, ha la volontà di raggiungerla, ma si fa scrupolo de' dubbj che, per amore di scuola, deve apporre ad ogni affermazione, arrestandosi nel probabile, cogli Accademici, che objezioni facevano a tutto e non riuscivano a veruna certezza, speculatori sempre, non pratici mai, perturbatori d'ogni principio[45]. Effetto inevitabile in una credenza mancante di base, e che dal panteismo o dalla fatalità non deriva che illogicamente: laonde i dogmi più venerati Cicerone non può recarli che come probabilità, dove il sentimento prevale quand'anche l'argomentazione sia stringente[46]. [32]

Per lui la filosofia è una raccolta di ricerche particolari sovra quistioni date[47]; e la divide in luoghi, cui tratta indipendentemente gli uni dagli altri. Dall'esperienza sua del mondo deduce riflessioni vere, argute, evidenti; ma occorrono ricerche sulle basi della verità, analisi esatta del pensiero, dell'azione, della natura umana? s'avviluppa ed abbuja. La sua filosofia è fatta pel galantuomo, anzichè pel sapiente; i doveri risultanti dallo stato sociale siano preferiti a quelli che derivano dalla indagine scientifica; ed ogni ricerca mettasi da banda, non appena sorga occasione di operare.

E vivissimo è il sentimento della sociabilità in Cicerone: crede istinto dell'uomo l'associazione, indipendentemente da bisogni; che di tale convivere sia legge la indulgenza e benevolenza universale: nulla v'ha di meglio che l'amare i nostri simili, che l'esser buoni e far bene[48]: il riscattare i prigionieri e nutrire i poveri trova generosità ben maggiore che non le larghezze onde i grandi di Roma blandivano il popolo[49]: estende anzi la patria a tutto il mondo, volendo che l'umanità stia di sopra del patriotismo, e reclamando diritti anche per gli stranieri: fin dei servi si cura, volendo se n'abbia riguardo quanto almeno degli armenti[50]. Ma il patriotismo e gl'istinti pagani [33] ricompajono spesso; Fontejo è accusato di estorsioni e crudeltà, e Cicerone chiede: — Chi è che lo accusa? son barbari, persone in brache e sajo. Chi attestimonia per lui? cittadini romani. Il più nobile de' Galli potrebbe essere paragonato coll'infimo de' Romani?»

Però le applicazioni sono il più delle volte generose: e se mette alquanto della natura sua allorchè predica doversi seguitare la virtù in modo da non pregiudicar la salute, essere da sapiente il secondare i tempi e adattarsi alla procella nel navigare, piace nella Roma di Silla e di Marc'Antonio l'udirlo proclamare che scopo della guerra è la pace, e non doversi quella intraprendere che per rimovere l'offesa[51]. Siffatte aspirazioni pacifiche in verità erano comuni al cadere della repubblica, quando della guerra sentivansi tutti i guaj. Come letterato poi preferisce la toga alle armi, e trova qualcosa di feroce nel precipitarsi ciecamente alla strage e lottare corpo a corpo col nemico, e vi prepone la gloria di grandi e numerosi servigi resi alla patria e all'umanità.

Ma fra gli Stati esiste una moralità come fra' particolari, o norma unica ne è l'interesse? Come platonico, egli unisce la morale e la politica, e fa da Lelio proclamare che alle società nulla nuoce più che l'ingiustizia, nè alle genti è possibile governarsi e vivere senza rispettare il diritto: ma nell'applicazione ricasca all'angustia [34] del patriotismo, crede che Roma conquistò il mondo nel difendere i suoi alleati, e sostiene legittima la conquista di essa, cogli argomenti onde Aristotele sosteneva legittima la schiavitù: natura ha stabilito che chi è superiore per ragione sia anche per autorità, e la dominazione di Roma è giusta perchè fu un bene pei popoli, i quali perivano in grazia dell'indipendenza[52]. Il patrioto dimentica che la filosofia non dee fondarsi sopra le conseguenze delle azioni, ma sopra le azioni stesse; che l'avvenire è di Dio, ma regola invariabile dell'uomo dev'essere il dovere.

Tirone suo liberto raccolse le lettere di lui ad Attico, al fratello Quinto e a varj personaggi, carteggio importantissimo a quella posterità cui non lo destinava. Ivi non più retorica, ma parla col cuore in mano, con lingua svincolata dal periodare oratorio; e sebbene le molteplici allusioni, i proverbj, le prudenti reticenze, [35] naturali in così fatte scritture, le oscurino a volta a volta, siamo empiti di meraviglia da quell'elegante naturalezza, dall'erudizione spontanea, dal frizzo, dalla concisione, dal felice accoppiamento dell'ingegno col gusto[53]. [36]

Non esitammo a tornare e ritornare sopra questo grand'uomo, il quale ci presenta l'intero circolo della sapienza romana, e i cui libri, eternati dalla chiarezza ed eleganza, esercitarono non solo sulla successiva scuola romana, ma su quella ben anche de' secoli nuovi, maggior efficacia che non i filosofi profondi.

— Possiedi la materia, le parole verranno dietro, rem tene, verba sequentur», avea detto il prisco Catone, conforme al vecchio spirito di Roma, e alla natura stessa della lingua latina, sì poco poetica quanto mal appropriata alle indagini del pensiero sopra se stesso. Ma i letterati la alterarono colla fraseologia, nè mai ci si persuaderà che veruno parlasse come scrivono Sallustio, Livio o Cicerone. Misurava essa piuttosto il valor delle sillabe dall'accento, e a ciò crediamo si conformassero i metri originali: ma quando adottarono i greci, non poteano togliere per fondamento la lunghezza o brevità naturale delle sillabe, e doveano riportarsi all'uso de' Greci. Se non che il metro greco perdette la serenità e l'anima, contrasse alcun che di duro, principalmente in grazia della divisione fissa della cesura nell'esametro e nei versi alcaici e saffici.

Quinto Ennio che adottò il verso esametro come eroico, è da Oidio detto massimo d'ingegno, d'arte rozzo, e Quintiliano lo paragona a un bosco antico, le cui elevate quercie ispirano venerazione più che non dilettino all'occhio. Oltre voltar drammi e poemi dal greco, consueto esercizio delle letterature nuove, dotò Roma della prima epopea, intitolata Annali romani, la quale si continuò a leggere lungo tempo in pubblico; e d'un'altra in onor di Scipione Africano (t. I, p. 360).

Unico genere cui la poesia latina trattasse con originalità fu la satira[54], di cui fanno merito a Lucilio [37] di Suessa, che ne scrisse trenta libri di mordacissime, dando all'esametro l'andar libero e la sprezzatura che lo avvicinano alla prosa. Di genere diverso erano quelle di Ennio; sul cui modello Varrone scrisse le Menippee, dette così da un tal Menippo di Gadara scrittore mordace, e dove la prosa alternavasi col verso.

Questi appartengono all'età arcaica; ma anche i posteriori, poetando d'imitazione più che di lena, dovettero fondare il linguaggio poetico sopra forme metriche e grammaticali differenti dalle popolari; talchè quello risultò di una mal fusa mescolanza, finchè si sbandirono le parole composte e le costruzioni esotiche. Di tale appuramento la lode appartiene a Cajo Valerio Catullo veronese (n. 86), il quale adempì colla latina quel che il Petrarca colla lingua nostra, spogliandola delle forme aspre, e vestendola di grazie ingenue, al tempo stesso che da austeri argomenti la volgeva a lepidi e amorosi. Vi si sente però ancora la scabrezza; non ancora il suo pentametro finisce in bisillabo, come negli elegi posteriori, nè chiude il senso; frequenti gli iati, non iscarse le parole composte: talchè, sebbene accuratissimo nei brevi suoi componimenti, sebbene in alcuni, come l'episodio di Arianna abbandonata nelle nozze di Teti e Peleo, mostri bellezze virgiliane di concetto, di sentimento, d'espressione, in generale quell'aria al tempo stesso di negletto e d'affettato lo disgiunge troppo da Virgilio, al quale di sedici anni appena era maggiore.

Ma se il Petrarca nostro ornò l'amore di velo candidissimo, [38] Catullo il presentò colla procacia della Venere terrestre. Perocchè abbiam già notato (Cap. XXVIII) come la poesia si facesse ministra di corruzione e divulgatrice d'errori; nel che la assodò Tito Lucrezio Caro (n. 95). Al modo degli antichi nostri Pitagorici, e più specialmente di Empedocle, trasse costui in versi la filosofia epicurea nel libro De natura rerum, cioè delle cose che posson nascere o no, proponendosi di sciogliere gli animi dalle pastoje della religione[55]. Chi crede bellezza la difficoltà superata, gli farà merito d'averla vestita di frasi o almeno di numeri poetici. Confessa egli medesimo che, per la povertà della lingua e la novità della cosa, è assai difficile illustrare con versi latini le oscure dottrine greche; laonde vegliava le notti nel pensare con quali parole e con quali versi potesse illuminar il lettore sopra le cose occulte[56]: ma il genio di accoppiare la meditazione intima dei sentimenti e delle idee coll'ispirazione delle grandezze naturali, gli manca. Perchè ha viso di pensator forte, alcuni gli riscontrano tutti i meriti; può ad altri piacere quel fare antico; ma realmente mostra più studio che ingegno, accumula ancora le parole composte[57]: [39] ben talvolta esce in armonie che Virgilio non isdegnò; ma se eccettui la protasi del poema, l'esordio del secondo libro, la descrizione della peste, e il fine del terzo ove Natura rimprovera agli uomini il timor della morte, il restante è agghiacciato argomentare e arido addottrinamento: e se per estro ed elevazione toglie la mano a tutti i Latini, cede ai migliori in quella rapida vigoria che nel tempo stesso sviluppa e compendia, e nell'artifizioso concatenare bellezze a bellezze, produrre variate impressioni ad un solo tratto senza stemperarle con lungherìe disopportune.

Tutti dolcezza sono invece Albio Tibullo e Sesto Aurelio Properzio. Il primo, di famiglia equestre, sdegnò i favori di Mecenate e d'Augusto; e «possedendo ricchezze e l'arte di goderne»[58], tranquillavasi in una villa fra Preneste e Tivoli, cantando gli amori suoi con Delia, con Glicera, con Nemesi, e le lodi di Messala Corvino, alle cui spedizioni era ito compagno. Il suo linguaggio si direbbe di quieta ma sentita passione; talmente parla, racconta, si lagna, si contraddice, senza far mente mai al lettore: il che somiglia a naturalezza, mentre il terso stile e l'artifizioso magistero rivelano una cura attentissima, e già gli antichi gli assicuravano l'immortalità.

L'elegia, cioè il verso esametro avvicendato col pentametro, era stata dai Greci de' migliori tempi adoperata alla precettiva ed alla politica, e da' posteriori all'erotica. Di quest'ultima si fecero imitatori i Latini, meglio all'indole loro affacendosi la descrizione e la riflessione, e le impressero quel tono querulo e patetico, che venne poi carattere dell'elegia, e che in Tibullo principalmente tocca a quella malinconia, che forse troppo vien cercata dai moderni. Ogni cosa egli riferisce [40] all'amore; se brama la pace, si è perchè lo strepito di Marte non conturbi Delia; se deplora il rapitogli patrimonio, gli è perchè Delia non può passeggiare sotto l'ombre avite; se della morte si consola, gli è perchè Delia accenderà il suo rogo, e gli darà il triplice addio.

Properzio di Mevania nell'Umbria[59], figlio d'un ricco il quale, per aver favorito Lucio Antonio, perdè la maggior parte dei beni, abbandonata la giurisprudenza, si fece poeta godendo l'amicizia de' migliori, cantò Cinzia, e morì giovane. Prevale a Tibullo in vigor di fantasia, d'espressione, di colorito, quanto a lui cede in grazia, spontaneità e delicata sensitività, ed a Catullo in agevolezza, profondità ed affetto. Dotto lo dicono perchè mai non dimentica l'arte, limando, levigando, non dando passo che sull'orme dei Greci; e non de' Greci del miglior tempo, ma dell'età Alessandrina, come Callimaco e Fileta, i quali rinzeppano erudizione, mitologia, allusioni nocevoli all'affetto. Vantandosi di aver egli primo fra gli elegiaci maritato le feste romane [41] alle danze greche, non pare che senta se non in relazione di avvenimenti mitologici. Cintia piange? ha più lagrime che Niobe conversa in sasso, che Briseide rapita, o Andromaca prigioniera: dorme? somiglia alla figliuola di Minosse abbandonata sulla spiaggia, o a quella di Cefeo liberata dal mostro, o (ch'è più strano) ad una baccante del monte Edonio, quando briaca si corca sulle smaltate rive dell'Apidano. I suoi capelli son del colore di quelli di Pallade: la statura, quella d'Iscomaca e d'altre eroine. Vuole invaghirla per le semplici bellezze, pei fiori spontanei, per le conchiglie del lido, pel gorgheggio degli uccelli? a queste ingenue pitture mesce Castore, Polluce, Ippodamia: le rammenta che Diana non si perdeva troppo allo specchio; che Febea e sua sorella Ilaa faceano senza di tanti ornamenti; che de' soli suoi vezzi era vestita la figlia del fiume Eveno, quando Apollo ne disputò il cuore a Ida.

Nè solo gli amori rimpinza di ricordi, ma non sa ornare le leggende d'Italia che con miti greci, non deplorar Roma che rammentando le sventure d'Andromaca e l'afflitta casa di Lajo. Eppure, quando mette da banda questi fronzoli, fa sentire voci nazionali, siccome in alcune elegie veramente sublimi, e la propria emozione sa trasfondere nel lettore e volentieri si rileggono i versi ove dipinge gli antichi costumi degli Italiani a raffaccio dell'attuale corruzione: nel calendario ha men arte e più nobiltà che Ovidio, e descrive la campagna, non come questo dalla città, ma come uom che la vede.

Il quale Publio Ovidio Nasone (43 a. C.-17 d. C.), cavaliere da Sulmona terra ne' Peligni denominata dal frigio Solimo[60], di [42] rimpatto mostra maggior brio, ed è il verseggiatore più limpido, più fluido. Però in quella spontaneità da improvvisatore, ch'egli stesso confessa eppur non ismette[61], cerchi invano o l'eleganza di Tibullo o la dignità di Properzio; spesso si ripete, sminuzza in particolarità indiligenti[62]; talvolta lede persino la [43] grammatica[63]; ma purchè riesca a farsi leggere, che gl'importano difetti e censure?[64].

Sebbene l'illustre nascita gli spianasse il calle agli onori, antepose la vita gaudente, e divenne carissimo alle corrotte compagnie ed alla Corte d'Augusto. Se non che improvvisamente è relegato a Tomi, esigilo mite nelle ridenti glebe della Bulgaria; esiglio non inflitto dal senato ma dal padre della patria, dall'amico dei dotti, senza torgli nè le sostanze nè i diritti, ma senza processo, senza addurre motivi[65]. Teneva egli [44] mano alle scostumatezze di Giulia? vide, e non seppe tacere le costei dimestichezze col padre? stomacò Augusto co' laidi versi? Il bel mondo susurra della mancanza del suo poeta, ma non ardisce scandagliarne la cagione, finchè dimentica i gemiti impotenti della vittima e l'illegalità del punitore.

Nelle Tristi e nelle elegie dal Ponto verseggia un dolore senza dignità nè rassegnazione, erige altari e brucia incensi al suo persecutore; in femminei rimpianti e monotone rimembranze rincorre la parte più superficiale della vita, e a forza di stemprar le lacrime, s'interclude il vero. Ma per quanti versi e suppliche mandasse, non potè impedire che le sue ossa giacessero sotto terra straniera. Le Elegie amatorie sono il giornale di sue galanti avventure: brioso e festevole, a differenza del piagnucolare de' precedenti, sebbene non ostenti sguajatamente i nomi proprj, come Catullo, Orazio o Marziale, nè faccia pompa come essi d'infamie contro natura, è il più osceno poeta latino; e tale lo rivela pure la sua Arte d'amare, di cui troppo parlammo. Le Eroidi sono epistole che suppone scritte da antichi, ma senza investirsi dell'indole de' tempi, nè indovinare il sentimento delle età remote; e dall'erudizione lasciando soffocare l'affetto, che si riduce a lamenti lambiccati per separazioni. [45]

Nelle Metamorfosi, in dodicimila esametri canta le forme mutate degli Dei e degli uomini; scioglimento troppo uniforme alle ducentoquarantasei favole, raccozzate con intrecci poco naturali, nè quasi altro collegamento che della successione. Le forme sotto cui vengono rappresentati gli Dei nella mitologia primitiva, appartengono al simbolo, o derivano dall'idea della metempsicosi: ma in Ovidio alcune son mere favole della mitologia, in altre i personaggi perdono il carattere simbolico e il senso religioso, o lo alterano coll'unione di elementi disparati; le tradizioni non vengono nobilitate; spesso oscene, avventure si applicano a divinità morali; ogni cosa poi è dedotta da poemi e drammi d'antichi e di contemporanei, eccetto forse il bellissimo episodio di Piramo e Tisbe. Nei Fasti espone il calendario e l'origine delle feste romane, come già avevano fatto altri in Alessandria, e a Roma Properzio ed Aulo Sabino: ma nulla suggerendo di elevato o di recondito, lascia dominarvi la leggenda e la menzogna consacrata dai sacerdoti; e poichè gli Dei e la religione al suo tempo erano sferre da antiquarj, egli se ne valse celiando, come della cavalleria fece l'Ariosto che tanto gli somiglia. Pure dovendo di preferenza toccare a favole latine pastorizie, ce ne conservò alcune, che altrimenti ignoreremmo. Come in tutti i componimenti del tempo, vi predomina l'idea di Roma: questa è la sola unità de' Fasti; di questa intesse i destini nella troppo facile orditura delle Metamorfosi[66], che finiscono con Romolo e Numa, colla stella di Giulio Cesare, e colle preci per la conservazione d'Augusto.

La favola nasce dall'osservare le relazioni tra un [46] fatto della natura, e particolarmente del regno animale, e un fatto analogo della vita umana, di modo che, preso nel suo carattere generale, acquisti una significazione per l'uomo, e segni una regola pratica. N'abbiamo un esempio antico in Menenio Agrippa, ma neppur qui troviamo alcuna originalità romana. Fedro (30 a. C.-14 d. C.), che s'intitola liberto di Augusto e nato in Pieria di Macedonia, trovando occupato ogn'altro campo della greca imitazione[67], tradusse le favole esopiane in candidissimo stile, con felice epitetare e brevità arguta e proprietà costante, non disgiunta da varietà[68], spargendole [47] qui e qua d'allusioni; ma non possiede quell'arguzia e quel frizzo che colpisce e passa. Talvolta si eleva a maggior grandezza e a morale sublime, come là dove canta: — O Febo, che abiti Delfo e il bel Parnaso, dinne, ti preghiamo, qual cosa a noi sia più utile. Che? le sacrate chiome della profetessa si fanno irte, scuotonsi i tripodi, mugge la religione dai penetrali, tremano i lauri, e il giorno s'offusca: la Pitia, tocca dal nume, scioglie le voci: Udite, o genti, gli avvisi del dio di Delo. Osservate la pietà; rendete voti ai celesti; la patria, i padri, le caste mogli, i figliuoli difendete colle armi, respingete il nemico col ferro; soccorrete agli amici, compassionate i miseri, favorite ai buoni; resistete ai tristi, vendicate le colpe, frenate gli empj, punite quei che stuprano i talami, schivate i malvagi, non credete troppo a nessuno. Ciò detto, cadde la vergine forsennata: forsennata da vero, giacchè quelle parole furono gittate al vento».

Marco Manilio, sebbene si sentisse angustiato fra il rigore del soggetto e le esigenze del verso, pure vedendo preoccupato ogn'altro genere, tentò un trattato d'astronomia, ove l'aridità dell'insegnamento di rado è illeggiadrita dallo stile[69]. Pochissimi pure leggeranno il Cinegetico di Grazio Falisco. [48]

Di molti poeti latini andarono smarrite le opere; e le commedie di Fendanio, le tragedie di Pollione e di Vario, e le epopee di Vario stesso, di Rabirio, di Cornelio Severo, di Pedo Albinovano, il poema di Cicerone sopra Mario, le didascaliche di Marco, i versi di Giulio Calido, riputato il più elegante poeta dopo Catullo, non ci son noti che di nome. Cornelio Gallo, confidente di Virgilio, combattè contro Antonio ed ebbe il governo dell'Egitto, poi caduto in disfavore, si uccise.

Da quelli che ci restano e che erano i migliori, siam chiariti come in Roma dominasse una letteratura di tradizione e d'imitazione, sicchè tutti si esercitavano in eguali generi, eguali soggetti, quasi eguali sentimenti. In generale imitavano i poeti della scuola Alessandrina, e più che dell'invenzione si occupavano della forma, mostrando maggiore erudizione che originalità; letterati insomma, non genj. Della loro vita conosciamo poco più di quel ch'essi medesimi ce ne tramandarono per incidenza; e in un tempo in cui dotti e indotti faceano versi, ma pochissimi leggevano, altro pubblico non aveano che i pochi ricchi, altro applauso che di qualche consorteria, a meritar il quale bisognava sagrificassero l'indipendenza. Ammusolata l'eloquenza, la poesia per sopravivere si fa stromento alla corruzione, onestata col nome di pacificamento; e colle blandizie e colle armonie delicate abitua la pubblica opinione a lodare il fortunato, il quale s'annojava di questi adulatori, ma per interesse li proteggeva e concedeva loro i piccoli onori, avendo della letteratura fatto uno spediente di governo. Da tutti trapela una società infracidita dai vizj del conquistato [49] universo, fiaccata dalla guerra civile, assopita dall'elegante despotismo, indifferente ai pubblici interessi e ai gravi doveri, anelante al riposo, ai godimenti del senso, allo stordimento delle voluttà. Sulle iniquità passate hanno cura di stendere un velo recamato, di scusare o anche giustificare l'ingiustizia, e travolgere o pervertire i giudizj. Quale oserà lodare chi è disfavorito dal principe? Al comparire d'una cometa il popolo si sgomenta? i poeti canteranno che è la stella di Giulio Cesare. Augusto ha paura? ripeteranno quanto sia necessaria la sua vita, che tardi ascenda ai meritati onori dell'Olimpo, e (cosa strana, non singolare) vanteranno la beatitudine d'un tempo, del quale gli storici s'accordano a piangere la decadenza.

Del resto que' poeti non s'affannino troppo a perseverare in opinioni meditate e di coscienza; vaghino di scuola in scuola, sfiorino tutto, non approfondiscano nulla; principalmente persuadano che il godere la vita, usar moderatamente de' piaceri, fare germogliar rose di mezzo alle spine, è il fiore della sapienza: uffizio tanto più efficace, quanto che adempiuto con giusto equilibrio delle locuzioni patrie colle forestiere, e colla correzione delle forme e la finezza del gusto, che sì breve doveano durare.

Tali vizj compajono anche nei due maggiori, Orazio e Virgilio. Il liberto padre di Quinto Orazio Flacco da Venosa (66-8 a. C.), lo fece accuratamente educare col magro camperello; si trasferì egli medesimo a Roma, e cercò un impieguccio di usciere all'aste pubbliche, acciocchè il figlio fosse istrutto non altrimenti che i cavalieri ed i patrizj, e per vesti e servi non discomparisse dagli altri. Esso padre lo vigilava, lo istruiva, e lo pose sotto Pupilio Orbilio, che spoverito dalle proscrizioni, s'era messo soldato, poi grammatico, e che severamente educando senza risparmiar lo staffile, meritò una statua. [50]

Da questo conobbe Orazio i vecchi Latini, ma li sentì inferiori ai Greci, e massime ad Omero, nel quale esso trovava poesia, morale, politica, tutto, siccome avviene dei libri che spesso si rileggono.

Entrato nella milizia, di ventitre anni capitanò una legione[70] nelle file pompejane, come la gioventù che imita, non sceglie: ma nella giornata di Filippi gettò lo scudo e fuggì. Pacificate le cose, toltogli dai soldati il modesto retaggio, nè rimastegli che le lettere, si tenne alcun tempo colle vittime e cogli imbronciati, reso audace dalla povertà[71]: e se fosse perdurato in questo eroismo negativo, sarebbe riuscito inopportuno come Catone, mentre invece si immortalò coll'accostarsi ai potenti e trascendere in adulazioni. Perocchè Virgilio e Vario lo introdussero a Mecenate, che accolse freddamente questo partigiano di Bruto; ma conosciutone l'ingegno, se lo guadagnò, e presentollo ad Augusto. In quel vivere pubblico sul fôro, al portico, nel campo, era facile che s'accomunassero i cittadini anche in gran diversità di nascita e di posizione; ed Orazio, gioviale e tollerante, divenne amico senza invidia e senza bassezza del buon Virgilio, come del dovizioso Mecenate e d'Augusto stesso; gli uni invitava a cena, dagli altri riceveva e anche domandava pranzi, campagne, ville, quando tante ce n'era da distribuire, confiscate, occupate militarmente, vacanti per padroni uccisi.

E un podere sulle colline di quel Tivoli che una volta s'intitolava superbo e allora solitario (vacuum Tibur), bastante al lavoro di cinque famiglie[72], ebbe Orazio in dono, e colà godeva i suoi giorni, gustando [51] il più che potesse della vita, non pretendendo sottoporre a sè le circostanze, ma a quelle sottoponendosi; tanto scarco d'ambizione e aborrente da legami, che nè tampoco volle essere segretario di Augusto: ma alle lusinghe di questo non potè negar le lodi, anzi divenne il poeta di Corte, che nella sua faretra aveva pronto uno strale per ogni evento; per celebrar natalizj o vittorie de' nipoti del suo padrone, da buon Romano esecrando tutto ciò ch'era forestiero, e pregando che il sole non potesse veder cosa più grande di Roma[73].

Fedele alle regole d'un gusto squisitissimo, del resto egli vaga per ogni tono della sua lira, per ogni varietà d'opinioni[74]: ora vagheggia la tracia Cloe a dispetto della romana Lidia, e sberteggia l'invecchiata Lice e la mal paventata strega Canidia; poi di repente vanta a Licino l'aurea mediocrità, o tesse un inno ai numi: aborre dal lusso persiano e dall'avorio e dalle travi dorate, e desidera che Tivoli dia riposo alla sua vecchiaja, stancata nell'armi: una volta dipinge le delizie campestri, in modo che tu nel credi sinceramente innamorato e già già per divenire campagnuolo; ma due versi di chiusa ti rivelano che tutto fu ironia. A Mecenate, suo sostegno e suo decoro, egli ricanta che senza lui non può vivere, che vuole con lui morire; ma il genio suo l'assicura d'avere alzato un monumento più perenne che di bronzo.

Come dell'esser nato da padre liberto, così celia dello scudo che gettò via a Filippi, e chiama se stesso [52] un ciacco delle stalle d'Epicuro, mentre raccomanda che la gioventù romana si educhi a soffrire l'augusta povertà, e faccia impallidire la sposa del purpureo tiranno, allorchè, come lione entro un branco di pecore, egli s'avventa fra' nemici. Per blandire Augusto, si astiene dal lodar Cicerone: agli Offelj, dalla rapace largizione del triumviro convertiti da possessori in fittajuoli, predica di vivere con poco, d'opporre saldo petto all'avversa fortuna: tratta da pazzo il gran giureconsulto Labeone, perchè non si mostra ligio all'imperatore: di Cassio Parmense fa un sommo poeta sinchè favorito, lo vilipende quando cade in disgrazia: colla stessa meditata facilità geme se minacciano rinnovarsi le guerre civili, e solleva il velo che copre gli arcani della politica. Ma quando encomia la virtù originale di Regolo o la imitatrice di Catone, e coloro che furono prodighi della grand'anima per la patria, e geme su' guaj che toccano al popolo pe' delirj dei re, vien di credere che vagasse nella lirica per disviarsi dal cantare epicamente le glorie, su cui il secolo d'oro voleva disteso l'oblio.

E sempre più ci si palesa che la lirica romana non era impeto spontaneo di devozione, d'affetto, di patriotismo, sibbene un godimento preparato all'intelletto, un artifizio di gusto, sopra una mitologia forestiera. Anche Orazio in tutto questo imitò, anzi le più volte tradusse i Greci[75], sebbene sentisse che invano aspirerebbe ad emulare Pindaro. In fatti questo si lancia con un entusiasmo spontaneo che appare fin anche dal ritmo, animato, vario nella robusta misura; mentre Orazio sentesi calmo e riflessivo colà appunto ove più vuole elevarsi, ed invano nell'imitazione artifiziosa cerca mascherare il calcolo che guida la sua composizione: [53] in Pindaro è un onore pe' vincitori l'esser lodati da esso e fatti partecipi della sua gloria; Orazio loda d'uffizio, sebbene abbia l'arte di dissimularlo col cacciar avanti se stesso[76]; e poichè scrive all'occasione di [54] avvenimenti giornalieri, generalmente s'attiene alla personalità degli affetti e delle sensazioni, parla ogni tratto di sè e de' suoi, talchè c'introduce e addomestica colla vita degli antichi; e viepiù nelle Epistole e nelle Satire, dove ripigliando la libera misura e il tono famigliare di Lucilio, riuscì incomparabile maestro del fare difficilmente facili versi.

La satira, poesia dei tempi critici, o coopera a distruggere e riformare; o associandosi colla elegia, sorge alla sublimità della poesia civile; oppure si contenta di ridere, come fece con Orazio. Conservando la finezza di cortigiano e la docilità di liberto anche in questo genere essenzialmente democratico, mostrasi dedito a frequentare la società, il che ne scopre il ridicolo, anzichè al vivere solitario, che ne scopre i vizj. E perchè i vizj di Roma erano dalla prosperità pubblica ammantati, potevasi ancora sorridere di quello onde al tempo di Giovenale un'anima onesta non poteva se non bestemmiare. Poi le monarchie tendono sempre a diffondere uno spirito di moderazione; e come Augusto col lodare gli antichi costumi adottava i nuovi, Orazio il secondò scalfendo senza ferire, ponendo se stesso in prima fila tra que' peccatori; sicchè punzecchia le colpe senza mostrarne aborrimento, esorta alla virtù senza farsene apostolo, rimprovera la onnipotenza attribuita al denaro[77], ma i denarosi corteggia e ne implora [55] le cene e i doni; e colloca la morale nel fuggire gli eccessi, i desiderj misurare ai mezzi di soddisfarvi, viver pago di sè e accetto agli altri; e pingue e lucido in ben curata pelle, ingagliardisce nelle lussurie e non si dà un pensiero dell'avvenire. Nel che, lontano dallo stoicismo desolante di Persio, dall'atrabile di Giovenale, e dal cinismo in cui alcuni ripongono la forza della satira, mai non si scosta da quella finezza di vedere e aggiustatezza d'esprimere, che non si possono cogliere se non nelle grandi città e nella conversazione. E poichè i mediocri, sì nei meriti sì nei peccati, sono sempre il numero maggiore, perciò dura eterno il morso ch'egli diede ai costumi, e gli originali suoi ci troviamo accanto tuttodì; sicchè, in fuori della settima del libro primo, composta a ventitre anni, nessuna delle sue satire invecchiò[78]. [56]

L'autorità dittatoria da alcuni attribuitale, rese insigne l'epistola ai Pisoni, che meno propriamente s'intitola Dell'arte poetica; componimento didascalico con episodj satirici, ove di famigliarità e di sali sono conditi i precetti. Ivi, colla varietà che alle epistole s'addice, Orazio discorre sopra la letteratura, nella quale, diremmo oggi, egli apparteneva alla scuola romantica, alla giovane Roma, che disapprovava i sali di Plauto e i versi zoppicanti di Ennio, e beffava gli ammiratori di ciò che sentisse d'arcaico, e quei che rincresceansi di disimparare maturi ciò che avean imparato a scuola, e asceticamente deploravano la perdita del buon gusto[79]. Principalmente egli insiste sulla drammatica: ma il vero talento non è mai esclusivo, e mentre sembra che in questa ponga ceppi arbitrarj al genio, tende a svincolarlo dalla paura dei pedanti, i quali pretendevano la lingua si restringesse ad un tempo solo e a certi autori, anzichè riconoscerne supremo arbitro l'uso[80]; chiamavano sacrilegio il negar venerazione agli antichi, quanto il concederla a coloro il cui nome non fosse ancora dalla morte consacrato[81]; al censore cianciero [57] e petulante attribuivano maggiore autorità che al giudizio de' pochi savj modesti.

Molto egli trae da Aristotele, ma molto dalla propria sperienza; nè quell'epistola è inutile in tempo che, salite ai primi posti l'erudizione e la storia, molti sostengono non darsi principj certi di critica, canoni non potersi dedurre che dai capolavori, ed esser tiranniche tutte le regole antiche, per verità nulla più severe di quelle che s'impongono a nome della libertà.

In quel gran latrocinio contro i prischi Italiani, per cui i campi furono ripartiti fra i soldati d'Ottaviano, Publio Virgilio Marone (70-19 a. C.), nato nel villaggio d'Andes (Piétola) presso Mantova, educato a Cremona e a Milano, venne a Roma a reclamare l'avito suo poderetto; e coll'ingegno trovato grazia appo Augusto, l'ebbe come un dio e ne accettò i favori. Candido, forbito, innamorato dell'arte e della pace, era il poeta nato fatto per quei tempi, in cui dal mareggio civile importava richiamare alle operose dolcezze della villa, e mutare le spade in aratri, l'attualità in memorie. Quest'era l'uffizio a cui Augusto convitava le Muse: e tutti i poeti dell'età sua si mostrano credenti a tutta la litania degli Dei, fin nelle più beffate loro trasformazioni; predicatori del buon costume e della sobrietà degli antenati, plaudenti al ritorno della pace, del pudore antico, della casta famiglia; encomiatori dell'agricoltura, e di quel vivere campagnuolo che avea prodotto i vincitori di Cartagine[82]. [58]

Pertanto Mecenate con insistenza persuase Virgilio a nobilitare l'agricoltura, e cantare i campi; e Virgilio scrisse le Georgiche, capolavoro di gusto, di retto senso e di stile, il monumento più forbito di qualsiasi letteratura, la disperazione di quelli che si ostinano alla poesia didattica, e che delle apparenti difficoltà ottengono agevole vittoria se si considerino isolati, ma messi a petto a Virgilio restano d'infinito spazio inferiori. Nelle Bucoliche copia Greci e Siciliani; colle frequenti allegorie ed allusioni alle proprie venture dissipa l'illusione, e svisa i pastori facendoli colti e raffinati tanto, da esprimere i sentimenti proprj dell'autore; mai non dimentica Roma sua, fra i campi cresciuta; i pastori stupiranno alle fortune di essa e alla magnificenza di Augusto; ciò che spiace a questo, verrà disapprovato anche dal poeta; ed esaltando la beatitudine campestre, ne farà raffaccio alle abitudini repubblicane de' clienti affollantisi, dell'ambir le magistrature e i fragori forensi, al lusso delle case e del vestire, alle guerre civili che fanno le case vuote di famiglie[83].

Come gli altri Romani, Virgilio non si propone d'inventare, ma di far una poesia finita; copia le bellezze di quei che lo precedettero[84], aggiungendovi finezze [59] tutte sue; collo studio migliora ciò che a quelli il genio somministrò, eliminandone ogni scabrezza, ogni sconvenienza; e col maggior garbo lusinga il lettore, il quale s'affeziona ad un poeta tutto occupato nel recargli diletto. E qual altri conobbe sì addentro ogni artifizio dello stile? Con varietà inesauribile di voci, di frasi, di ritmo, carezza gli orecchi del lettore, non lasciandone un istante rallentare la schizzinosa attenzione, senza per questo solleticarla con lambiccamenti o con pruriginose vivezze. Quel che imparò nella colta conversazione dell'aula d'Augusto, egli nella solitudine raffina col delicato sentire; e dalla maestosa onda del suo esametro fino alla scelta de' vocaboli ben equilibrati di vocali e consonanti, e di dolci ed aspre, tutto è nel dimostrare che di pari sieno proceduti il pensiero e l'espressione.

Ma opera maggiore gli chiedevano i suoi protettori, la quale non lasciasse a Roma alcuna invidia delle greche ricchezze; un'epopea. I popoli raffinandosi perdono quell'ingenua credenza nell'immediata intervenzione degli Dei, sopra la quale si fondano le epopee primitive, storia ed enciclopedia delle nazioni ancor prive di critica e d'annali; la scienza ingrandendo spiega ciò che pareva mistero; l'industria toglie la grazia infantile ai famigliari nonnulla della società nascente: laonde all'epica grandiosa devono succedere i lavori d'erudizione ragionatamente condotti, e gran pezza lontani dalla generosa sprezzatura dei poemi [60] popolari e nazionali. Il genio di Virgilio e il suo tempo non portavano ad un'epopea naturale; ma a forza di studio, cognizioni, arte, conducevano ad armonizzare quanto sin là erasi fatto di meglio.

E fatto già s'era in Roma. Moderni critici vollero la fanciullezza di questa dotare di poemi primitivi, dove le idee fossero personificate in tipi, quali i sette re e gli altri eroi fino alla battaglia del lago Regillo, accettati poi come storia. Un popolo tutto giurisprudenza, il cui carme sono le XII Tavole, le cui imprese caratteristiche sono contese di diritto, non dovette cullarsi in fasce poetiche, nè possedette quel sentimento elevato dell'esistenza, il cui più insigne frutto sono i poemi eroici. A questi, come al resto, si applicarono i Romani per imitazione, e nell'intento di conciliare l'esempio di Omero colla favola ausonia, il meraviglioso dell'epopea colla storica realtà. Nevio cantò la prima guerra punica, Ennio la seconda e la etolica[85], in via episodica risalendo alle origini di Roma. Ma al costoro tempo già si scriveva la storia, onde non potevano che esporre in versi i fasti romani: Ennio poi, traduttore d'Eveemero e d'Epicarmo, i quali scomponevano il cielo in simboli o apoteosi, come poteva usare sinceramente la macchina? Nè l'innesto de' fatti storici coi soprannaturali, fondamento dell'epopea greca, avea più luogo quando s'attuarono grandi eventi, degnissimi di poema. Ben alcuni assunsero a tema la guerra dei Cimri, o il consolato di Cicerone; le costui lodi celebrò Cornelio Severo nella Guerra di Sicilia; Archia cantò le spedizioni di Lucullo, Teofane quelle di Pompeo, Furio Bibaculo le imprese di Catulo, altri quelle di Cesare, le vittorie d'Antonio o quelle d'Ottaviano, come fece Cotta [61] nella Farsaglia: ma la vicinanza delle imprese riduceva il poeta a storiografo, a tradurre in versi i commentarj di qualche famiglia; e la protezione imponeva di adulare un uomo o una fazione, anzichè sublimare la nazione tutta, o interessare l'umanità.

Altri, dietro a Lucio Andronico, assumevano soggetti mitologici, rifritti e non creduti, come Varrone d'Atace che riprodusse le Argonautiche, Cicerone gli Alcioni e Glauco, Calvo l'Io, Cinna la Mirra, Catullo il Teti e Peleo, e tante Tebaidi, Ercoleidi, Amazonidi[86], dove al racconto si associavano movimenti lirici e tragici. Fra i quali va distinto Rabirio, che Ovidio chiama grande e Vellejo Patercolo appaja a Virgilio, e del quale non conosciamo che alcuni versi sulla guerra d'Alessandro, ritrovati ad Ercolano. Altri ricorrevano le antiche memorie patrie, e i fievoli cominciamenti di Roma, mettendoli [62] a fronte della presente grandezza: di ciò un Sabino fece soggetto a canti, tronchi dalla morte; su ciò fondansi i Fasti d'Ovidio; Properzio si proponeva di celebrare le antiche feste e i prischi nomi dei luoghi[87].

Virgilio, venuto al tempo che la vecchia Roma perisce, e la trasformazione dell'impero eccita vaghi presentimenti d'un avvenire incomprensibile, pensò combinare gli elementi che gli altri adoperavano distinti. Le memorie repubblicane poteano recar ombra al pacificatore fortunato, e a troppe passioni avrebbe dato di cozzo se, come Lucano, avesse tolto a cantare armi tinte di sangue non ancora espiato. Si gittò dunque sull'antichità, da Omero desumendo il soggetto, gli eroi, l'orditura persino e il verso e il tono, come era consueto da' suoi predecessori; ideò di unire i viaggi dell'Odissea e le guerre dell'Iliade, ma collocarsi nella favola omerica per mirare fatti storici lontani e vicini, e cantando Trojani essere eminentemente romano. Il trarre la favola iliaca a significazione italiana era tutt'altro che cosa nuova[88], e ne restava blandita la vanità di tutta la nazione, e specialmente di questa gente Giulia, giganteggiata sulle rovine dell'aristocrazia. Più non basta [63] però che la musa gli canti le origini della romana gente, ma deve accertarle; onde esamina la tradizione, vaglia, ordina, sicchè rimane buon testimonio delle tradizioni antiche, e fa un esercizio d'arte, non una poesia di getto.

A quella lontananza, favorevole all'immaginazione, per via d'episodj potrà facilmente annestare i nomi di coloro per cui crebbe e s'assodò la romana cosa; potrà coll'episodio di Didone adombrare la guerra punica, il cui esito accertò la grandezza di Roma; e colle antichissime cagioni delle nimistà e colle imprecazioni di Elisa che invocava irreconciliabili gli odj e le vendette contro la schiatta d'Enea, giustificare la distruzione di Cartagine per titolo di sicurezza. Infine metterà a confronto la Roma non nata ancora presso al regio tugurio d'Evandro, con quella meravigliosamente marmorea di Augusto, sulla quale egli concentrerà tutto lo splendore della storia italica e del tempo de' semidei. [64]

Orditura così compassata, quanto dovea restare di sotto della spontanea ispirazione di Omero! In questo terra e cielo uniti cospirano a comun fine, e le divinità perpetuamente intervengono alle azioni e ai consigli de' mortali. Perduta quella iniziazione divina, in Virgilio gli Dei s'affacciano solo tratto tratto per macchina d'arte; e lo scetticismo filosofico gli accetta come spediente letterario. Virgilio vede ed ammira la grande unità di Omero, ed esclama esser più facile togliere la clava ad Ercole che un verso a quello: eppure compagina un poema di frammenti, di erudizione avvivata con grand'ingegno, ma non riuscendo a idealizzare le raccozzate rimembranze.

Se, invece d'imitare separatamente i didascalici di Alessandria, i bucolici siciliani e l'epico Meonio, avesse fuso gli uni coll'altro, e nell'esposizione della civiltà italica antica (dove rimase tanto inferiore) non introdotte in forma precettiva, ma atteggiate le ingenue dipinture del viver campestre dei prischi Italiani, avrebbe fatto opera non soltanto romana ma italica, causato il troppo immediato confronto coi poeti imitati, e la dissonanza che, come negli altri Latini, vi si scorge fra quello che ha di proprio o quel che toglie a prestanza. Nè tampoco si propose egli di ritrarre particolarmente veruna età, non la sua, non quella che descrive[89], né di aprire un nuovo calle ai successori; ma fu tutto amor dell'arte, tutto romana predilezione: l'adulazione stessa non fece sguajata come quella onde [65] Ariosto cantò gl'indegni suoi mecenati, ma fina e convenevole alla forbita corte d'Augusto.

Nella quale vivendo, Virgilio ingentilisce gli eroi: Enea depose la pelasgica rozzezza: la donna non è più una Criseide che passi a chi vince; non un'Andromaca che, da vedova di Ettore, si contenti di divenire la sposa di Elleno; ma una regina che giurò fede al perduto consorte, che soccombe solo alla potenza dell'amore, e all'amore tradito non sa sopravivere[90]. Nell'inferno di Omero, Achille ribrama avidamente la vita: nell'Eliso di Virgilio, Didone guata silenziosa il suo traditore e passa.

In quest'ultimo tratto scorgiamo un merito che renderà Virgilio eternamente prezioso a chi è capace di sentire. Fra tanti poeti che menzionammo, i quali cantarono prolissamente i loro amori, pur uno non troviamo che tratteggi al vero il procedere della passione, accontentandosi essi di ritrarne qualche accidente o le [66] crisi più rilevate, e sfogarsi in sentenze, in lamenti ingegnosi, in ricche descrizioni, in tutto ciò che è esterno. La meditata conoscenza della vita interiore doveva ai moderni venire da una fonte nuova; e parve preludervi Virgilio, che, impedito dai tempi d'essere ingenuo, si conservò semplice, eloquente, patetico; trasfuse nella poesia il proprio cuore, e ciò che dapprima era soltanto esteriore, ridusse subjettivo coll'insistere sopra un sentimento, e scovar dai cuori i secreti più ritrosi, e seguir passo passo il crescere e il declinare d'una passione. Vedetelo in quell'amore di Didone, del quale son gettati i primi semi colla pietà nata dalla fama, poi cresce colla vista, col racconto, colla consuetudine, col raziocinio, finchè deluso, non può cessare che colla vita.

A questo fino sentire va debitore Virgilio d'un genere di bellezze nuove, qual è l'avvicendarsi delle pitture, per cui dalla desolazione di Troja incendiata s'insinua ad una scena di famiglia; di mezzo all'ira disperata, Enea è rattenuto dalla vista di Elena; alla procella succedono la placidissima descrizione del porto, e le ospitali accoglienze; l'episodio puramente guerresco dell'esplorazione notturna nel campo, è risanguato dall'affettuoso episodio di Niso ed Eurialo; perocchè il patetico è il vero dominio dell'arte, siccome la cosa essenzialmente efficace nella vita umana.

Di là un'altra delle vaghezze più care in questo amabilissimo poeta; quel condurre la realtà esteriore alla spiritualità, quel tradurre l'idea in immagini che offre vive vive all'occhio, e in cui forse consiste quel bello stile che Dante riconosce aver tolto da lui, e che Virgilio avea forse dedotto dall'assiduo suo studio ne' tragici[91]. Quella fanciulla che getta al pastore un pomo [67] e si nasconde fra' salici, ma prima desidera d'esser veduta; quel bambino che col primo riso conosce la madre; quell'Apollo che tira l'orecchio al poeta per avvertirlo di non trascendere i pastorali argomenti; quel garzoncello che a fatica attinge i fragili rami; quell'idea della speranza, rappresentata in Dafni che innesta i peri, di cui coglieranno le frutta i nipoti; que' pastorelli che incidono sulle piante i cari nomi, le piante cresceranno e gli amori con esse[92]; sono idillj compiuti, che il pittore può rendervi in altrettanti quadretti. Poi, per belli che sieno i paesaggi, Virgilio sente quanto vi manchi finchè non siano avvivati dalla presenza dell'uomo: adunque tra i noti fiumi e i sacri fonti non mancherà un fortunato vecchio, godente l'opaca frescura; o un afflitto che, sotto l'ombra di densi faggi, alle selve e ai monti sparge inutili querele; e i molli prati e i limpidi fonti e i boschi gli dilettano solo in riflettere qual sarebbe dolcezza il vivervi eternamente colla sua Licori[93].

Eccetto le primissime composizioni, non volse egli la musa a particolari sue affezioni ed avventure; ma sappiamo che placida fluì la sua vita, più che non soglia [68] in poeta. Caro ad Augusto e copiosissimamente da lui rimunerato[94], non prendeasi briga delle romane cose e dei perituri regni, ma ritirato presso Táranto, fra i pineti dell'ombroso Galéso[95] cantava Tirsi e Dafni, come l'usignuolo che, senz'altro pensiero, la sera empie il bosco de' suoi gorgheggi. Lo mordevano i [69] Mevj e i Bavj, peste d'ogni tempo? ma di encomj lo elevavano a gara i migliori dell'età sua, la curiosità ammiratrice veniva a cercarlo nel suo ritiro, ed una volta, al suo entrare in teatro, il popolo tutto s'alzò, come all'arrivo dell'imperatore[96].

Ammirando però quella forma così temperata, così pudica della sua bellezza, non per questo diremo superasse i suoi modelli. Come noi esaltiamo l'Ariosto per la forma, pur ridendoci delle sue favole, così, mentre si smarriva la tradizione religiosa d'Omero, durava, anzi cresceva di reputazione l'artistica, e Virgilio non se ne volle staccare. Ma in Omero quell'inserire s'un fatto pubblico passioni personali, quell'elevare l'individualità mediante la grandezza dello scopo e la serietà del destino, quell'equilibrare la natura collo spirito, ci portano ben più in là che non un'epopea dotta, la quale in fatto non potè divenire il libro de' Latini, come divennero Omero e Dante. Quella parola de' genj contemplativi e creatori, che è possente a trarre in terra l'ideale, è negata a Virgilio, il quale riesce soltanto a magnificare la restaurazione d'Augusto, avvenimento passeggero.

Con Omero versiamo continuo nel mondo greco, dov'egli passeggia da padrone; non così con Virgilio, costretto a lavorare d'erudizione. Omero è più universale ne' suoi concetti, e se vuole il meraviglioso infernale, fa da Ulisse evocar le ombre entro una fossa ch'egli medesimo scavò e asperse di sangue; mentre Virgilio guida Enea per regolare viaggio ai morti regni. [70]

Il cuore dell'uomo deve rivelarsi ne' suoi Dei, forme generali, personificazione degli interni suoi motori, nel qual caso sono gli Dei del proprio sentimento, delle proprie passioni: in Omero son essi una cosa sola cogli eroi; in Virgilio convivono ancora, intervengono ancora in avvenimenti semplici, come per indicare la via di Cartagine. Pure, non foss'altro, la diligenza del verso avvisa che si è già a quel punto di civiltà ove più non vi si crede; e quegli Dei appajono macchine, inserite nella ragione positiva, non altrimenti che i prodigi in Tito Livio. Circe e Calipso sono abbandonate come Didone, ma in modo ben più naturale e ingenuo.

Alla descrizione dei giuochi, tanto semplice nel Meonio, Virgilio oppone un tale affastellamento di artifizii, che sarebbero troppi a narrare la distruzione d'un impero. Chi non ha sentito la sublimità delle battaglie d'Omero? ogni uomo che cade v'ha il suo compianto, al tempo stesso che tutt'insieme è un fragore, una mescolanza di cielo e terra, che rimbomba nei versi e nelle parole. Quale assurdità invece i serpenti che strozzano Laocoonte in mezzo a un popolo! qual meschino spediente quel cavallo di legno! cento prodi che si chiudono in una macchina, esponendo lor vita ai nemici: Sinone che intesse la più inverosimile menzogna: Trojani così ciechi, da non mandar fino a Tenedo, che dico? da non salire sopra una torre per avverare se la flotta nemica abbia preso il largo nell'Ellesponto: in brev'ora, sì smisurata mole è trascinata dal lido fin alla ròcca di Troja, superando due fiumi e gli aperti spaldi; poi non appena Sinone l'ha schiusa, è incendiata e presa quella città vastissima, folta di popolo, con un esercito intatto; avanti l'alba ogni resistenza cessò, i vincitori ridussero le spoglie ne' magazzini e i prigionieri; i vinti raccolsero altrove quel che poterono sottrarre.

In Omero ciascuno ha un carattere; benchè Agamennone [71] sia re dei re, ciascuno serba volontà e compie imprese personali; ogni minima cosa è contraddistinta, il mare, la rôcca, lo scettro, le vesti, le porte e i cardini loro, semplice la vita degli eroi, e perciò interessante ogni loro atto, e per da poco che sembri alla raffinatezza odierna, serve però a intrattenere sopra quel personaggio. Nei caratteri invece sta il debole di Virgilio. Giunone al principio è triviale, nè tutta la sua enfasi esprime quanto il sacerdote Crise che torna mortificato verso il lido, e prega vendetta, e l'ottiene dal Dio. Evandro nel congedare Pallante mostrasi femminetta al confronto di Priamo a' piedi di Achille. Ettore che bacia Astianatte e invoca che chi lo vedrà dica — Non fu sì valoroso il padre», ha ben altro decoro che Enea nello staccarsi dal figlio. Enea poi combatte per tôrre ad un altro il regno e la sposa, mentre Ettore per difendere la patria. Nè forse un solo carattere riscontriamo in Virgilio ben ideato e a se medesimo consentaneo: Acate non sai che è fido se non dall'epiteto del poeta: chi il pio applicato ad Enea non intenda nel primo senso di religioso ed obbediente agli Dei, dee scandolezzarsi al vederlo applicato ad uomo il quale, ospitalmente accolto in terra straniera, seduce la donna che sa di dover abbandonare; approdato altrove, rapisce quella d'un altro. Ma per tutta ragione sta il comando degli Dei, che lo destinavano a creare i padri Albani, e le alte mura di Roma, e la grandezza d'Italia, gravida d'imperi e fremente di guerra.

Molti di questi difetti appartengono all'essenza del suo componimento; alcuni sarebbero scomparsi se avesse potuto dare l'ultima mano all'opera sua. La quale, com'è stile dei grandi, pareagli sì discosta dalla perfezione, che, morendo ancor fresco, raccomandava ad Augusto di bruciarla; voto che l'imperatore si guardò bene di adempire. Tal quale la lasciò, male ordinata [72] nell'insieme, e ad ora ad ora imperfetta nella rappresentazione e nelle espressioni, è squisito lavoro, e come epopea definitiva servì di norma e talvolta di ceppo agli epici posteriori, che professavano seguirla da lungi e adorarne le vestigia[97].

In somma la letteratura romana può considerarsi come una fasi della greca. Nei Greci si trovavano in armonia il sentimento dell'ordine generale qual base della moralità, e il sentimento della libertà personale, non ancora essendosi manifestata l'opposizione fra la legge politica e la legge morale; sicchè ciascuno cercava la propria libertà nel trionfo dell'interesse generale. In questo istante dell'umanità, fu prodotta nel suo più splendido fiore la bellezza sotto la forma dell'individualità plastica; gli Dei ottennero un aspetto armonizzante colle idee che rappresentavano, sicchè la greca fu la religione dell'arte; la poesia che ha per oggetto l'impero indefinito dello spirito, raggiunse il perfetto equilibrio fra l'immaginativa e la ragione; la civiltà profittò di tutti i passi precedenti, unificandoli e perfezionandoli in quel patriotismo che della greca fu lo scopo più elevato.

I Romani, stupiti a quella incomparabile bellezza, non credettero potere far meglio che imitarla. Il linguaggio della magistratura, dell'imperio, era il latino; ma il greco quel della coltura, della eleganza; sarebbe parso sacrilegio il parlare altro che latino dal tribunale o [73] dalla ringhiera; Tiberio cancella una parola greca scappata in un senatoconsulto; Claudio toglie la cittadinanza ad uno che non sa il latino: ma nella conversazione si parla il greco; in greco si scrivono le note e le memorie; il greco si usa in famiglia, si usa coll'amante, dicendole ζωὴ, φυχὴ; greci sono i maestri, nè i filosofi di quella lingua si varrebbero mai della latina, anzi non la imparano; e Plutarco, che tanto n'avea bisogno per iscrivere le sue vite, ben tardi cominciò a leggere qualche scritto romano, comprendendolo dal senso piuttosto che letteralmente. Cicerone affetta di non capire la bellezza delle statue greche, d'ignorare i nomi de' loro artisti; ma appena sceso dai rostri, parla greco, va in Grecia a perfezionare la sua educazione, traduce i greci filosofi.

Se fosse prevalsa l'Etruria, Italia avrebbe serbato una poesia originale, con forma e lingua proprie: Roma invece dal bel principio s'acconciò all'imitazione, e ricevendo gli Dei della Grecia, dovette pur riceverne l'arte che sulla religione era fondata. Ma la religione fra i Greci era culto e dogma, ai Romani era favola e convenzione; e tale si mostra in tutta la loro poesia. Potrebbe mai credersi che Virgilio, Orazio, Ovidio prestassero fede a quei numi, che adopravano per macchina ed ornamento? nè mai dalla lira latina uscì un inno ove apparisse, non dirò la divota ispirazione ebraica, ma neppure la convinzione che alita in Omero, in Eschilo, in Pindaro. Il poeta non sentiva i numi nel cuore, non era ascoltato dal popolo, preoccupato da positivi interessi; riducevasi dunque a pura arte, nè in ciò poteva far di meglio che seguitare i Greci, i quali ne avevano esibito i più squisiti esemplari.

— Questi esemplari sfoglia giorno e notte», raccomandasi ai giovani di buone speranze; non già meditare sopra se stessi, sulla natura, sul mondo: divenire [74] per gloria eterni si confida non tanto per coscienza delle proprie forze, quanto per la gran pratica coi capolavori dei maestri, per averne scelto il meglio a guisa d'ape[98], e tradotte le muse di quelli a favellare con intelligenza la lingua del Lazio. Che se poniam mente a questa moderata pretensione, men vanitoso ci sembra quel loro continuo assicurarsi dell'immortalità, e d'associare il proprio nome all'eternità della romana fortuna[99].

Nè trattavasi soltanto dell'imitazione, naturale a chi, venendo dopo, eredita dai predecessori, senza perdere quel che v'ha di proprio nello spirito, nella lingua, nella tradizione, nel pensar nazionale; ma si faceano ligi alle forme artistiche, particolari di quella gente, per conseguenza non riuscivano coll'artifizio a raggiungere l'altezza, cui soltanto colla naturale vivacità dell'ingegno si perviene. Quel bisogno artistico di esprimere e di comunicare i sentimenti più nobili e più profondi, dal quale è creata e conservata una letteratura, [75] fu poco sentito da' Romani, sprovveduti dello slancio ideale, dell'intuizione calma della natura, e dello spirito estetico tanto proprio de' Greci; l'elemento religioso vi rimaneva interamente subordinato al politico; di rado seppero il semplice ed il naturale elevare all'idealità; e diedero facilmente nel falso, e in quel sublime di parole scarso d'idee, che costituisce il declamatorio. La poesia romana non differì dalla greca per lo spirito, pel sentimento, pel modo di osservar l'universo, per l'espressione; ma l'arte vi si scorge troppo, tutto è riflesso e calcolato, nulla della semplicità di Omero, e l'abilità del linguaggio e l'arte retorica mal suppliscono alla forza spontanea e alla fecondità d'invenzione.

Eccettuata la satira, non un genere letterario apersero, e nessuno raggiunse i loro modelli. Ai quali taluno si attenne senza restrizione, come Livio, Virgilio, Orazio, mentre più nazionali si conservarono Ennio, Varrone, Lucrezio, poi Giovenale e Lucano, perciò più robusti ma meno colti. Povero fu il teatro, il quale non può reggersi che su tradizioni e sentimenti nazionali. La lirica massimamente ne risentì, poichè a quest'armonica espressione degl'intimi sentimenti nulla più nuoce che il trovare la reminiscenza ove si cercava l'ispirazione, ed esser frenati nella commozione dal pensare che il poeta non s'ispira ma ricorda.

Ma in tutti costoro quale squisita verità di sentimento! qual perfetta aggiustatezza di pensiero! qual compiuta venustà di forme, e purezza ed eleganza e nobile armonia di stile, e variazioni di ritmo! Un alito di regola e di calma penetra ogni particolarità, un ordine semplice ed austero dà a conoscere che l'autore è padrone di sè e del suo soggetto. Tutti poi s'improntano d'un marchio, che li fa originali da ogni altro; ed è l'idea di Roma, che in tutti predomina, e che supplisce al difetto [76] di quel tipo particolare che distingue ciascuno dei grandi autori di Grecia. La quale differenza è portata naturalmente dal diverso vivere d'un popolo eminentemente individuale e libero nell'esercitare come gli piace le forze del suo spirito, e d'un altro fra cui ad ogni altra idea predomina quella della patria grandezza.

A stampare questo carattere assai valse l'esser le romane lettere fiorite per opera de' principali cittadini, i quali abbracciando intera la vita nazionale, considerano ogni cosa nelle più ampie sue relazioni, a differenza di que' meri scrittori che rimpicciniscono la letteratura riducendola a semplice arte. E la letteratura latina, a tacere di noi pei quali è un vanto patrio, merita maggiore studio che non la greca, perchè, provenendo da un grandissimo centro di civiltà, meglio rivela la condizione sociale del genere umano.

Ma quando una letteratura si regge sull'artifizio, prontamente decade. Augusto ben poco merito ebbe all'apparire dei genj, di cui esso fu il contemporaneo, non il creatore, e che, nati nella repubblica, aveano lasciato il campo senza successori prima ch'egli morisse. Già egli derideva lo stile pretensivo di qualcheduno e le parole antiquate di Tiberio; e alla nipote Agrippina diceva: — Il più che cerco è di parlare e scrivere naturalmente»; ma le idee che contenevano, faceangli mal gradito lo studio degli antichi. Poi Mecenate suo dilettavasi di uno stile floscio e ricercato. Come avviene allorchè cessa la produzione, si sottigliava la critica: Asinio Pollione poeta e storico appuntava Sallustio di vecchiume, Livio di padovanità, Cesare di negligenza e mala fede; singolarmente professava nimicizia per Cicerone; egli poi scriveva stecchito, oscuro, balzellante[100]; ma era l'amico dell'imperatore, avea buona [77] biblioteca, bella villa, esperto cuoco; sicchè dovea trovar non solo l'indulgenza che agli altri negava, ma anche lode, e ai suoi giudizj forza di oracolo.

Ritiratosi dalla vita pubblica, scriveva orazioni, somiglianti agli articoli di fondo de' nostri giornali, cioè di [78] lettura amena, e che diffondessero certe idee di politica e di letteratura. Così svoltavansi gli spiriti dall'eloquenza pubblica verso quella di scuola. Di quella conservavano ancora qualche ombra Azzio Labieno libero parlatore «unendo il colore della vecchia orazione col vigore della nuova» (Seneca); e Cassio Severo amico suo e altrettanto franco dicitore, che satireggiava anche le persone cospicue, onde Augusto fe bruciare gli scritti di esso, ne' quali gli antichi ammiravano lo stile vigoroso, oltre la mordacità; e fu lui veramente che schiuse la nuova via, alla quale l'eloquenza si trovò ridotta dopo respinta dalla tribuna[101]. Perocchè, mutata la pubblica attività nella monarchica sonnolenza, cessato il giudizio tremendo e inappellabile delle assemblee, si sentenziava degli autori secondo l'aura delle consorterie e dei grandi che davano da pranzo ai letterati.

Quando Augusto morì, più non sonava che la piangolosa voce d'Ovidio, cui l'infingarda abbondanza, lo sminuzzamento, i contorcimenti della lingua, i giocherelli di parole collocano lontano da Orazio, Virgilio e Tibullo, quanto Euripide da Sofocle e il Tasso dall'Ariosto. Così breve tempo era bastato perchè la letteratura romana passasse da Catullo non ancor dirozzato ad Ovidio già corrotto.

[79]

CAPITOLO XXXII. Tiberio.

Augusto non osò sistemare il governo monarchico mediante uno statuto, il quale ponendo limiti a' suoi successori, avrebbe fatto conoscere ai Romani ch'egli non ne aveva. In conseguenza non si ebbe nè elezione legale, nè ordine prefinito di successione, nè contrappesi politici: la repubblica assoluta mutavasi in assoluta monarchia, costituita unicamente sulla forza, dalla forza unicamente frenata; l'imperatore, rappresentante del popolo, poteva quel che volesse[102], e dell'onnipotenza valeasi a pareggiare tutti i sudditi nel diritto, e a togliere al popolo ed al senato e l'autorità e l'apparenza.

Tanti anni d'assoluto dominio, mascherato con forme repubblicane, aveano indocilito i Romani al giogo, sicchè vedeasi senza repugnanza che l'impero passerebbe da Augusto in un altro. Tiberio, rampollo dell'illustre casa Claudia, illustre egli stesso per imprese guerresche, rivestito di molti onori e della tribunizia podestà, figliastro e genero d'Augusto, tenevasi sicuro d'esserne chiamato successore, quando lo vide voltar le sue grazie sopra gli orfani d'Agrippa. Tra per dispetto e per rimuovere ogni gelosia, s'allontanò da Roma, come dicemmo, e visse otto anni a Rodi, deposte armi, cavalli, toga: lontano dal mare, in una casa posta fra dirupi, dal tetto di quella faceva che gl'indovini investigassero negli [80] astri l'avvenire; e se la risposta riuscivagli sospetta, nel ritorno il liberto scaraventava per le balze l'astrologo mal avvisato.

Morti i figli d'Agrippa (forse non senza opera sua) (4 d. C.), torna a Roma, è adottato da Augusto, il quale pretendono sel destinasse successore acciocchè la propria moderazione traesse risalto dal lento strazio di costui[103], ch'e' conosceva pauroso, diffidente, irresoluto, simulato. Alla morte dunque del patrigno (14), Tiberio si trova padrone del mondo a cinquantasei anni. Non volendo accettar l'impero dagl'intrighi d'una donna e dall'imbecillità d'un vecchio, modestamente convoca il senato, come tribuno ch'egli era; e la offertagli dominazione ricusa, come peso a cui poteva a pena bastare il divin genio d'Augusto; solo dalle lunghe istanze lascia indursi ad accettare, e purchè i senatori gli promettano assistenza in ogni passo. Di fatto li consultava continuo, ne incoraggiva l'opposizione, gli esortava a ripristinare la repubblica; cedeva la destra ai consoli, e sorgeva al loro comparire in senato o al teatro; assisteva ai processi, massime ove sperasse salvare il reo; non soffrì il titolo di signore, nè di padre della patria, nè tampoco quello di Dio, dicendo: — Io sono signore de' miei schiavi, imperatore de' soldati, primo fra gli altri cittadini romani; mio uffizio è curar l'ordine, la giustizia, la pubblica pace». Alleggeriva da' tributi i sudditi, e avvisava i governatori delle provincie che un buon pastore tosa non iscortica le pecore. Riformò i costumi, diminuendo le innumerevoli taverne, restituendo ai padri l'autorità di punire le figliuole discole, benchè maritate; vietò il baciarsi per saluto in pubblico; ai senatori interdisse di comparire fra i pantomimi, e ai cavalieri di corteggiare pubblicamente le commedianti; e per [81] raffaccio allo scialacquo de' banchetti, faceasi servire i rilievi del giorno antecedente, dicendo che la parte non ha men sapore che il tutto. Spargonsi satire contro di lui? — In libero Stato, liberi devono essere i pensieri e la parola». Vuolsi in senato portar querela contro suoi diffamatori? — Non ci basta ozio per tali bagattelle. Se aprite la porta ai delatori, non avrete ad occuparvi d'altro che delle costoro denunzie; e col pretesto di difendere me, ognuno vi recherà le proprie ingiurie da vendicare».

Ma per quanto dissimulatore e simulatore, non seppe mai comparire grazioso; le larghezze e l'affabilità di Augusto disapprovava; non diede molti spettacoli al popolo, non donativi ai soldati; nè tampoco soddisfece ai legati del predecessore; e avendo uno de' legatarj detto per celia all'orecchio d'un morto, annunziasse ad Augusto che l'ultima sua volontà rimaneva inadempita, Tiberio gli pagò il lascito, poi di presente lo fece trucidare perchè riferisse ad Augusto notizie più fresche e più vere. Non soffrì si concedesse il littore o l'altare od altra prerogativa a sua madre, la quale da tanti intrighi e delitti non colse che l'amarezza d'aver posto in trono un ingrato. A Giulia, indegna sua moglie, da tre lustri relegata, sospese la modica pensione assegnatale dal padre, sicchè morì di fame; di ferro Sempronio Gracco, drudo antico di lei.

Erano quasi le primizie d'una crudeltà, che ben tosto mostrossi calcolata, inesorabile; e prima contro i pretendenti. Agrippa, nipote d'Augusto, fu ucciso. Le legioni di Germania e di Pannonia avevano offerto l'impero a Germanico, ma questi ne chetò la violenta sedizione: pure Tiberio, che avea dovuto adottarlo, adombrato della popolarità e del valore di lui, lo richiamò di mezzo ai trionfi per mandarlo a calmare l'insorto Oriente. Ivi gli pose a fianco Gneo Pisone, uomo tracotante [82] e violento, il quale col profonder oro e calunnie ne attraversava tutte le azioni, infine lo fece morire di veleno o di crepacuore a trentaquattr'anni (19). Tutti, fin i nemici, piansero il generoso giovane, e in Roma il dolore si rivelò con clamorose dimostrazioni. Il giorno che le ceneri sue si riponevano nel sepolcro d'Augusto, la città pareva, ora per lo silenzio una spelonca, ora pel pianto un inferno; correvano per le vie; Campo Marzio ardeva di doppieri; quivi soldati in arme, magistrati senza insegne, popolo diviso per le sue tribù gridavano, esser la repubblica approfondata, arditi e scoperti, come dimenticassero ch'ei v'era padrone. Ma nulla punse Tiberio quanto l'ardor del popolo verso Agrippina moglie di Germanico: chi la diceva ornamento della patria, chi unica reliquia del sangue d'Augusto, specchio unico d'antichità; e vôlto al cielo e agli Dei, pregava salvassero que' figliuoli, li lasciassero sopravivere agli iniqui[104].

Tiberio, assicurato, strappò al despotismo la maschera lasciata da Augusto: tolse al popolo l'eleggere i magistrati e il sanzionar le leggi, trasferendo questi atti nel senato, sovvertimento radicale della costituzione romana[105], sebbene già prima i comizj fossero resi illusorj dacchè a spade non a voci si decideva. Il senato così divenne legislatore e giudice dei delitti di maestà: affine poi che neppur esso s'arrischiasse a libere sentenze, i senatori doveano votare ad alta voce, e presente l'imperatore o suoi fidati. Per tal passo quell'assemblea, augusta un tempo, allora si trovò avvilita a segno che Tiberio medesimo ne prendeva nausea: pure se ne giovava per gli atti legislativi, davanti ad essa [83] proponendo o ventilando leggi, che nessuno osava contraddire.

L'imperatore non era il popolo? adunque la legge contro chi menomasse la maestà del popolo fu applicata all'imperatore, e gli offri modo legale a grandi atrocità e a minute vessazioni. Prima l'applicò a cavalieri oscuri o ribaldi, pubblicani rapaci, governatori infedeli, adultere famigerate: e il popolo applause al severo mantenitore della legge. Ma appena trapelò l'inclinazione del principe, ecco una fungaja d'accusatori. I giovani educati a scuola nelle figure retoriche e in un mondo ideale, insoffrenti di passare alla realtà dell'avvocatura e alla prosa della vita, eppure avidi d'adoprare l'abilità imparata per acquistarsi onori, fama, piaceri, levar rumore di sè, emulare il lusso dei grandi, correvano, all'usanza antica[106], ad accusare chi primeggiasse per gloria, virtù, ricchezze; sfogo delle invidie plebee contro l'aristocrazia di averi o di merito.

Le ire, sopravissute alla libertà, insegnavano mille tranelli; traevasi appicco dai dissidj delle famiglie; tenuissime prove bastavano dove così piaceva al padrone; e ogni fatto, per quanto semplice, traducevasi in caso di Stato. Tu ti spogliasti o vestisti al cospetto d'una statua d'Augusto; tu soddisfacesti a un bisogno del corpo od entrasti in postribolo con un anello o con una moneta portante l'effigie imperiale; tu in una tragedia sparlasti di Agamennone; tu hai venduto un giardino, nel quale sorgeva il simulacro dell'imperatore; tu interrogavi i Caldei se un giorno potrai divenir re, e tanto ricco da lastricare d'argento la via Appia: dunque sei reo di maestà; reo Aulo Cremuzio Cordo che, nella storia delle guerre civili di [84] Roma, intitolò Bruto l'ultimo de' Romani. Cremuzio nel difendersi diceva: — Sono talmente incolpevole di fatti, che m'accusano di parole», ed evitò la condanna col lasciarsi morir di fame: gli edili arsero i libri di lui, ma il divieto li fece più preziosi e cercati; ove Tacito esclama: — Ben è folle la tirannia nel credere che il suo potere d'un momento possa estinguere nell'avvenire il grido, la memoria. Punito l'ingegno, ne cresce l'autorità; nè i re che lo punirono, riuscirono ad altro che a procacciar gloria alle vittime, infamia a sè»[107].

Chi nomina libertà, medita rimettere la repubblica; chi piange Augusto, riprova Tiberio; che tace, macchina; chi mostrasi mesto, è scontento; chi allegro, confida in prossimi mutamenti. Fra straniero o fratello, fra amico o sconosciuto non mettevasi divario nelle delazioni; anche i primi del senato le esercitavano o all'aperta o alla macchia; ben presto si accusò senza nè timore nè speranza, unicamente perchè era l'andazzo; furono processate persone, non si sapeva di che, condannate, non si sapeva perchè.

Appena uno fosse querelato, vedeasi cansato da amici e da parenti, timorosi d'andare involti nella sua ruina. Fuggire era impossibile in così vasto impero: la campagna ridondava di schiavi vendicativi: ognuno agognava di cogliere il proscritto per salvare se stesso. Tradotto a senatori complici o tremebondi, ostili fra di loro, a fronte di quattro o cinque accusatori addestrati nelle scuole a trovare e ribattere argomenti, ove nessuno ardiva assumere la difesa, ove la tortura degli [85] schiavi suppliva al difetto di prove, il convenuto quale scampo poteva sperare? pensava dunque a vendicarsi coll'imputar di complicità gli stessi accusatori o i giudici: scherma, di cui Tiberio prendeva mirabile sollazzo. Solo gli facea noja che alcuni si sottraessero al supplizio e quindi alla confisca coll'uccidersi; onde l'arte scherana consisteva nel sorprenderli improvvisi. Uno si trafigge colla spada, e i giudici s'avacciano di darlo al manigoldo: uno dinanzi ad essi sorbisce il veleno, e senz'altro vien tradotto alle forche: di Carnuzio che riuscì ad uccidersi, Tiberio disse, — E' m'è scappato»; a un altro che il supplicava d'accelerargli il supplizio, — Non mi sono ancora abbastanza rappattumato con te».

Come doveano andar calpesti gli affetti che serenano la vita e alleggeriscono la sventura, allorchè in ciascuno si temeva un traditore! Deboli e paurosi perchè isolati, piegano alla prepotenza, o cospirano con essa; il senato, nel quale stavano accolti coloro che poteano far fronte a Tiberio, glieli consegnava un dopo l'altro, lieto ciascuno di veder salvo se stesso; e Tiberio viepiù sprezzava una genìa così abjetta, e prorompeva senza ritegno al sangue. Il merito divien colpa a' suoi occhi: un architetto che raddrizza un portico minacciante ruina, è bandito; uno che sa restaurare un vaso di vetro spezzato, è subito messo a morte[108].

In Roma, per quanto temuto, Tiberio s'ode volta a volta rimproverare o da un viglietto gettatogli, o dal teatro col susurro o col silenzio; ora uno che va a morte, si sfoga in invettive contro di lui, or una spia gli ripete con troppa fedeltà quel che di lui Roma racconta; poi lo stomacano le stesse umiliazioni del senato e dei cortigiani, e vuole in più disimpedita guisa associare i due elementi del paganesimo, sevizie e voluttà. Amplissima [86] vista di mare, il prospetto della ridente Campania, e la soave temperie rendono deliziosissima l'isoletta di Capri, ove in estate l'orezzo marino mantiene la frescura, in inverno il promontorio di Sorrento ne ripara i venti impetuosi. Quella scelse per prigione e paradiso (26) il minaccioso e tremante imperatore: gli scogli vi rendono disagevole l'approdo; di là potrebbe sorvegliare i signori che di loro ville popolano la costa Campana e Pozzuoli e Posilipo. Ivi fabbrica dodici ville, ciascuna dedicata a un Dio, terme, acquedotti, portici, d'ogni maniera delizie. Ancor privato indulgeva alla crapula, sicchè i soldati, invece di Tiberius Claudius Nero, lo chiamavano Biberius Caldius Mero: allora creò un sovrantendente dei piaceri; premiò colla questura uno che vuotò d'un fiato un'anfora, e con ducentomila sesterzj Anselio Sabino per un dialogo, ove i funghi, i beccafichi, le ostriche e i tordi si disputavano il primato. Laide pitture, scene di mostruoso libertinaggio doveano solleticare lo smidollato vecchio: se i genitori ricusano offrir le fanciulle alle imperiali lascivie, schiavi e satelliti le rapiscono: se, brutto, ulceroso, le donne il prendono a schifo, Saturnino inventa diletti da trascendere la più lubrica immaginazione. Oscene medaglie conservarono fin oggi la figura di sue turpi dilettanze; mentre un grazioso bassorilievo del Museo Borbonico ce lo rappresenta sopra un cavallo menato da uno schiavo, con davanti una fanciulla che colla lancia fa cadere degli aranci: idillio fra le tragedie.

E perchè non gli manchino i piaceri della città, vi saranno accuse, torture, supplizj; vi saranno sofisti e grammatici, coi quali disputa del come si chiamasse Achille mentre stava da donna alla corte di Sciro, chi fosse la madre di Ecuba, che cosa di solito cantassero le Sirene, e regola ogni atto suo secondo gl'indicano gli astri, gli animali, interrogati da Trasillo rodiano. [87] I senatori deputati a recargli o richiami od omaggi, dopo lungo aspettare son rinviati: fin le lettere non riceve che per mano del suo ministro Elio Sejano, prefetto de' pretoriani.

Costui, di mezzana condizione, di turpi costumi, di spirito e corpo vigoroso, erasi traforato nella grazia di Tiberio col rendergli rilevanti servizj e sleali. Ordì con esso di perdere Agrippina vedova di Germanico, la quale col costume severo e coll'amorosa venerazione verso l'estinto sposo dava ombra all'imperatore. I costei amici sono un dopo l'uno accusati e morti; ond'essa vien guardata con una specie d'orrore. Ucciderla però non ardiva Tiberio: onde uscito di Roma, ronza nella parte più deliziosa d'Italia; poi restituitosi a Capri, scrive una lettera ambigua al senato, imputando colei d'orgoglio, i suoi figli d'impudicizia. Il senato vede la mina contro la casa di Germanico, ma è rattenuto dal favore del popolo per questa. Quand'ecco da Capri giungono rimproveri perchè non s'abbia verun riguardo alla sicurezza dell'imperatore e dell'impero; e tosto Nerone è esigliato, Druso messo prigione (30), nè tardarono a morire. Agrippina confinata nell'isola Pandataria, dissero si fece poco poi ammazzare; e Tiberio si lodò al senato di clemenza per non averla fatta esporre alle gemonie.

Snidatone Tiberio, Sejano governò Roma a sua posta. Rese importante il comando de' pretoriani, ai quali, col raccorli in un campo solo sotto Roma, attribuì pericolosissima potenza. Disponendo a suo arbitrio delle cariche, poteva acquistarsi amici: colla promessa di sposarle, traeva principali donne ad ajutare il suo ingrandimento, e scoprire i segreti de' mariti: Tiberio stesso lo chiamava il consorte di sue fatiche, lasciava effigiarlo sulle bandiere, e bruciar vittime quotidiane sulle are di esso. [88]

Non contento del dominio, Sejano vuole anche le apparenze; e poichè fra lui e l'impero si frapponea Druso figlio di Tiberio e di Vipsania, seduce la costui moglie Livilla e glielo fa avvelenare, poi chiede a Tiberio la mano di essa. Da quel punto diviene presuntivo erede; in conseguenza Tiberio lo teme, in conseguenza lo odia. Ma come abbatterlo se ha tutto l'impero in mano? Tiberio comincia ad elevargli a fronte Cajo Cesare Caligola, prediletto dal popolo e dai soldati perchè figlio di Germanico; poi manda secretamente al senato Macrone (31), colonnello dei pretoriani, con lettera nella quale sul principio getta qualche lamento contro di Sejano, poi parla d'altro; torna alle querele, indi divaga; si rifà sopra Sejano con parole sempre più acerbe; ordina sieno condannati a morte due senatori, intimi del ministro; e mentre questi stordito non osa proferir parola a loro scampo, ode chiudersi la lettera col comando ch'e' sia arrestato. Detto fatto, gli amici lo abbandonano; pretori e tribuni gli recidono la fuga; il popolo, partigiano d'Agrippina e vindice de' figli di Germanico, lo insulta allorchè il console lo mena al carcere; e mentre, se fosse riuscito, avrebbe avuto adorazioni, vede dappertutto abbattersi le sue statue, e il senato decretarlo al supplizio[109].

Tiberio, che peritavasi sull'esito di questo gravissimo colpo di Stato, non aveva ommesso veruna precauzione; teneva vascelli sull'àncora per fuggire, spiava d'in vetta agli scogli i concertati segnali; tanto temeva che il gelo dell'egoismo non si squagliasse un istante. Ma al cessare della potenza era cessato il favore al dio, al futuro [89] imperatore; i pretoriani, invece di difenderlo, si buttano a saccheggiar Roma; il popolo si svelenisce sul cadavere esecrato del nemico del popolo; quanti amici aveva egli avuto, sono perseguitati, vuotate dal boja le prigioni ov'erano accumulati i complici del ministro, messi a orribile carnificina i suoi figli; e perchè la legge vietava il supplizio delle vergini, una sua figliuolina fu data prima al carnefice da violare.

I sudditi, propensi sempre ad attribuire ai ministri le colpe de' regnanti, persuadevansi che Sejano fosse la sola causa dei delitti di Tiberio, e che, morto lui, il principe si mitigherebbe; al contrario, Tiberio diventa più sitibondo di sangue: ciascun senatore, per salvar sè, corre ad accusargli un complice del caduto; sicchè egli non discerne tra amici e nemici, tra fatti recenti e inveterati; sprezza e teme il senato, e ogni giorno un nuovo membro ne recide; teme i governatori, e a molti, dopo nominati, impedisce di recarsi alle provincie, rimaste così senz'amministrazione; teme le memorie, e molti fa uccidere perchè compassionevoli (ob lacrymas); teme gli avvenire, e fanciulli di nove anni manda al supplizio. Le più assurde cagioni portano condanna: ad uno appose l'amicizia di un suo antenato con Pompeo; ad un altro, onori divini attribuiti dai Greci al bisavolo di lui: un nano che il divertiva a tavola gli domanda, — Perchè vive ancora Paconio reo d'alto tradimento?» e Paconio poco dipoi è morto. La storia di quegli anni può dirsi il registro mortuario delle famiglie illustri, e notavasi come cosa rara il personaggio che morisse a suo letto: una volta Tiberio mandò scannare tutti gl'imprigionati per l'affare di Sejano, senza divario d'età, sesso o condizione; i mutili loro corpi giacquero più giorni per le vie sotto la custodia dei carnefici che denunziavano chi si dolesse. [90]

Or tremendamente sardonico, or tremendamente serio, voleva essere adulato, eppure sprezzava gli adulatori; sicchè diventava pericolo fin la vigliaccheria. Voconio propose che venti senatori per turno gli facessero la guardia qualvolta entrasse in senato; e toccò le beffe dell'imperatore, troppo alieno dal concedere armi ai senatori, i quali anzi volea fossero frugati all'entrare. Al suo ventesimo anno i consoli decretano solennità, ringraziamenti, voti: Tiberio dice che con ciò vogliono far intendere che gli prorogano per un altro decennio la sovranità, e li fa mettere a morte.

Un animo sospettoso e severo può d'assai peggiorare invecchiando fra l'aspetto della universale vigliaccheria e delle reciproche malevolenze, e fra le sordide adulazioni che mascherano il rancore e la trama. Pure, tanta frenesia di crudeltà, sottentrata alla severa ma giusta onestà de' primi anni di Tiberio, tiene perplesso lo storico, il quale abbia deplorato, anche ai proprj giorni, quella menzogna che svisa i fatti meglio conosciuti, e quella credulità che accetta i meno fondati.

Almeno per consolazione dell'umanità sappiasi che costui aveva la coscienza de' proprj misfatti e dell'orrore che ispirava, onde scriveva al senato: — S'io so che cosa dirvi, gli Dei e le Dee mi facciano perire ancor più crudelmente di quel che mi senta perire ogni giorno». Ma non che ridursi al meglio, ripeteva: — M'aborrano, purchè m'obbediscano», e precipitava in eccessi, che non solo scrivere, ma nè possono tampoco immaginarsi.

Qualora però trovasse resistenza, piegava. Marco Terenzio, accusato della benevolenza di Sejano, disse in senato: — Dell'amicizia con esso ci assolverà la ragione che assolve Cesare d'averlo avuto genero e confidente»; e Cesare lo mandò giustificato. Getulio generale, imputato di aver voluto dare nuora sua figlia [91] a Sejano, risponde a Tiberio: — M'ingannai io, ma anche tu. Io ti sarò fedele, se non m'offendono; se ricevessi lo scambio, mi crederei minacciato di morte, e saprei ripararla. Accordiamoci: tu resta padrone di tutto; a me lascia la mia provincia». Così poteva scrivere un generale a quello che faceva tremar Roma e il mondo.

Imperocchè non era egli robusto per amministrazione salda e compatta, ma per la disunione degli altri; potentissimo dove arrivavano i suoi carnefici, poco valea di lontano; chiunque fosse insorto intrepidamente fra lo sgomento universale, era certo d'abbatterlo. Lo sentiva Tiberio, e di qui la diffidenza, motrice sua prima. Mentre gira per Italia, ode che alcuni da lui accusati furono rimandati dal senato senza tampoco interrogarli, crede compromessa l'autorità sua e la vita, vuol ritornare a Capri, ma tra via muore (37). Roma sulle prime la dubitò arte di spie; accertata, esultò, quasi il cadere di lui restituisse la libertà. Eppure egli tiranneggiava anche postumo, e trovandosi in Roma de' prigionieri, che, secondo un consulto del senato, non si potevano strozzare che dieci giorni dopo la condanna, nè essendovi ancora il successore che li potesse assolvere, i manigoldi li strangolarono per seguire la legalità.

Tiberio finì di demolire le barriere al despotismo; indocilì senato e popolo agli assurdi talenti del dominatore; spense i sentimenti che formano la dignità dell'uomo e del cittadino; pervertì la coscienza pubblica, che, dopo caduto ogni altro sostegno, mantiene e reintegra gli Stati; coll'uccidere i migliori, col contaminare i rimasti, col mostrare che il senato e il popolo potevano spingere la viltà e la paura fino ad adorare chi dispensava l'oltraggio e la morte, attestò che nessuna forza morale esisteva più, che tutto poteva la materiale.

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CAPITOLO XXXIII. Un imperatore pazzo, uno imbecille, uno artista.

La desolazione che il popolo e l'esercito aveano provata alla morte di Germanico, s'era risolta in fervoroso amore pel fanciullo di lui Cajo Cesare: i soldati ne folleggiavano, tenevanlo a giocare tra loro, e dalle scarpe militari con cui lo calzavano (caliga) gl'imposero il soprannome di Caligola. Tale affetto sarebbe bastato perchè Tiberio volesse mal di morte al nipote; ma il garzoncello, non che lamentarsi della condanna di sua madre e dell'esiglio de' fratelli, evitò le insidie e attutì la gelosia dello zio con sì profonda dissimulazione, che l'oratore Passieno ebbe a dire, non esservi mai stato migliore schiavo nè peggior padrone di costui. Per via poi della moglie di Macrone, abbandonatagli da questo per le lontane speranze, Caligola rientrò nella grazia di Tiberio, che in testamento il domandò erede dell'impero.

All'accortissimo costui sguardo non era sfuggito che Caligola avrebbe tutti i vizj di Silla e nessuna delle sue virtù; e disse: — Quest'è un serpente che nutro pel genere umano»; poi vedendolo un giorno rissare con Tiberio, figlio di suo figlio Druso, non senza lacrime esclamò: — Tu lo ucciderai, ma un altro ucciderà te»; indovinamenti tratti non da contemplazione di stelle, ma da conoscenza degli uomini e dei tempi.

Il giovane imperatore accorso a Roma, è ricevuto dal popolo, che lo acclama suo bambolo, alunno suo, suo pulcino, sua stella[110]; e dal senato, che ripiglia la sua potenza col cassare il testamento del defunto che [93] aveagli associato il giovane Tiberio. Egli recita l'elogio del predecessore con parole poche e assai lacrime; deroga le azioni di lesa maestà, brucia i processi iniziati, permette i libri proibiti da Tiberio; denunziatagli una congiura, non vi dà retta, dicendo — Nulla feci da rendermi odioso»; mostra voler restituire al popolo le elezioni, appena nel creda capace; vuol pubblicati i conti dello Stato; cresce il numero de' cavalieri, scegliendoli accuratamente; va a raccorre le ceneri della madre Agrippina e dei fratelli per riporle nel mausoleo d'Augusto, talchè si concilia tutti i cuori: e in feste universali, inni, tripudj, sacrifizj, vacanza da affari, si gode una di quelle illusioni, a cui Roma e in antico e in moderno sempre eccessivamente si abbandonò, per lagnarsi poi al domani che sia svanito il castello da essa medesima fabbricato colla nebbia.

Il povero orfanello epilettico, balocco de' soldati, tremante ad ogni occhiata dello zio, quando si sentì padrone del mondo, quando, in una sua malattia, vide sacrificarsi censessantamila vittime agli Dei perchè lo risanassero, divenne pazzo d'orgoglio, di sangue, di brutalità; quasi accinto a mostrare a qual bassezza fossero gli uomini nel momento più splendido dell'antichità. Ripristina i processi di maestà, facendoli spicciativi, e dì per dì ragguagliando i conti, cioè spuntando sulla lista quelli da uccidere. Al giovane Tiberio, che erasi munito di controveleni, mandò l'invito di uccidersi; lo mandò a Silano suo suocero; lo mandò a Macrone, antico suo confidente che lo rimbrottava di far da buffone a tavola ed al teatro. Ad un esule richiamato domanda: — Che pensavi tu in esiglio? — Facevo voti per la morte di Tiberio e pel tuo regno» risponde il piacentiere; e Caligola riflette: — Gli esigliati da me desiderano dunque la mia morte»; e per siffatta logica, ordina siano tutti uccisi. [94]

Due uomini aveano votato la propria vita per la guarigione di lui; ed egli risanato dice che accetta, e l'uno fa dare a' gladiatori, l'altro dirupare, incoronato come le vittime. Combattendo da gladiatore, l'antagonista per adularlo gli cade a' piedi confessandosi vinto, ed egli lo scanna. Un'altra volta sedendo a banchetto co' due consoli, prorompe in risa smascellate, e chiesto del perchè, — Perchè penso che ad un cenno posso farvi decollare entrambi». Immolandosi all'altare, egli compare da sacerdote, e brandita l'ascia, invece della bestia percuote il vittimario. In quell'ingordigia di sangue, fa gettare alle fiere gladiatori vecchi e infermi; se no, qualcuno degli spettatori: visita le carceri, e colpevoli o no, designa chi dar alle belve, essendo la carne troppo cara; strappate prima le lingue acciò nol molestino colle grida.

Durante i pasti, faceva mettere alcuno alla tortura; e se non v'erano rei, il primo che capitasse; e voleva che gli uccisi s'accorgessero di morire. Obbligava i padri ad assistere ai supplizj de' figliuoli; ed allegando uno di trovarsi infermo, gli mandò la propria lettiga: poi que' padri stessi la notte seguente mandava a scannare. Fece imprigionare un tal Pastore, solo perchè bel giovine; ed essendo il costui padre, cavalier romano, venuto a supplicarlo per esso, Caligola ordinò fosse il garzone immediatamente ucciso, il padre venisse a pranzo con lui, e se mostrasse dolore manderebbe uccidergli anche l'altro figliuolo. Il senato più non sapea con quali viltà ammansarlo; gli decretò nella curia un trono tant'alto che nessuno vi potesse arrivare, e guardie all'intorno; guardie perfino alle sue statue; ed essendo Scribonio Proculo indicato come avverso all'imperatore, i senatori se gli avventarono, e cogli stiletti da scrivere l'uccisero.

Talvolta sospende le sevizie per farsi letterato, e [95] all'ara d'Augusto in Lione stabilisce concorsi di greco e latino, ne' quali il vinto dovea pagare il premio e scrivere l'elogio del vincitore; e chi presentasse un lavoro indegno, cancellarlo colla spugna o colla lingua; se no, mazzerato nel Rodano. Avendogli Domizio Afro eretta una statua coll'iscrizione A Cajo Cesare console per la seconda volta a ventisette anni, Caligola pretese che con ciò gli rinfacciasse l'età non legale; onde l'accusò in senato con elaborata arringa. Domizio, fingendosi men tocco dal proprio pericolo che dall'eloquenza dell'imperatore, prende a dar rilievo alle stupende cose dette dall'imperatore, confessandosi inetto a rispondere a tanta eloquenza; e fu modo sicuro di farsi assolvere.

Perocchè il primeggiare in tutto è il suo farnetico: Livio, Virgilio, Omero gli destano gelosia, e li bistratta e proscrive: proscrive alcuni, soltanto perchè di antica nobiltà: i Torquati più non portino il monile, trofeo di lor famiglia; nè i discendenti di Pompeo il soprannome di Magno: vede un de' Cincinnati colla zazzera ricciuta da cui aveano tratto il nome? lo fa prima zucconare, poi morire. Egli gladiatore, egli cantarino, egli cocchiere; al teatro accompagna le arie degli attori, e ne appunta i gesti; una notte manda a chiamare in diligenza tre senatori, e venuti tremando, sale in palco, fa due capriole, e riscossone l'applauso, li rinvia. Anche conquistatore vuol essere; e mentre fa una rassegna sulle tranquille rive del Reno, decreta una correria per le terre germaniche; ma non sì tosto vi pone piede, fugge con sì precipitosa paura, che impedendolo i carri, bisogna toglierlo sulle braccia de' soldati, e d'uno in altro ridurlo in salvo. Eppure volle menarne trionfo; e presi alquanti Germani suoi mercenarj, e scelti nella Gallia fra' nobili e plebei gli uomini di statura più trionfale[111], gli [96] acconcia alla germanica, e spedisce a Roma ad aspettare la solennità della sua ovazione.

Roma, che l'avrebbe ucciso se avesse voluto esser re, l'adorò quando volle esser dio: il senato affrettossi d'erigergli tempj, fu ambito il suo sacerdozio, moltiplicati i sacrifizj di pavoni, fagiani, galli d'India. Elegge Castore e Polluce a portinaj; una teoria lo accompagna; di notte (non più di tre ore dormiva) sorge ad amoreggiare la luna, invitandola a' suoi amplessi; or mostrasi da Ercole, or da Mercurio, da Venere perfino, più spesso da Giove sopra una macchina che tuona. Natagli una bambina, la porta a tutti gli Dei, poscia l'affida a Minerva: povera bambina, da cui gli Dei padrini non istorneranno le conseguenze delle follie paterne!

Furibondo nell'affetto non men che nell'odio, amò il suo cavallo Incitato, cui dispose scuderie di marmo, mangiatoje d'avorio, cavezze a perle, copertine di porpora, e un intendente, paggi assai, fin un segretario: talvolta i consolari erano invitati a pranzar col cavallo, talaltra il cavallo era convitato dall'imperatore, che gli serviva avena dorata e vin del migliore: la notte precedente al giorno che Incitato doveva uscire, i pretoriani vigilavano che nessun rumore ne turbasse i sonni: lo aggregò al collegio de' sacerdoti suoi; lo designava console per l'anno vegnente. Amò il tragedo Apelle, e se lo fece intimo consigliere: amò Citico guidator di cocchi al circo, e in un'orgia gli regalò quattrocentomila lire: amò il mimo Mnestero, e al teatro l'accarezzava, e di propria mano flagellava chi col minimo zitto ne turbasse le recite. Non parendo stargli abbastanza attento un cavalier romano, lo manda con lettere a Tolomeo re di Mauritania; l'atterrito va, passa i mari, si presenta all'Africano, il quale aperta la lettera, vi trova scritto: — A costui non fare nè ben nè male». [97]

Amò una donna, e carezzandole il capo diceva: — Lo trovo tanto più bello quando penso che ad un cenno posso fartelo balzare». Amò Cesonia moglie sua nè giovane nè bella nè onorata, ma che l'aveva affascinato con mostruosa lubricità; la mostrava agli amici nuda, ai soldati a cavallo con elmo e clamide; e in un accesso d'amor sanguinario le diceva: — Per entro le viscere tue, come in quelle d'una vittima, vo' cercar la ragione del bene che ti porto». Amò tutte le sue sorelle come mogli, e principalmente Drusilla: morta la quale, ordinò non si giurasse che per lei; un senatore protestò averla veduta ascendere all'Olimpo; e tutti i Romani in lutto non potevano ridere, non lavarsi, non pranzar colla moglie e coi figli, o morte. Fra tanto squallore Caligola giunge alla città, e — Perchè piangere una dea?» esclama, e punisce del pari i costernati e gli esultanti. Così all'anniversario della battaglia di Azio, discendendo egli per madre da Augusto, per l'ava da Antonio, trovò felloni e quei che esultavano e quei che gemevano.

Amò anche la plebe al modo suo, e le dava spettacoli e largizioni di non più veduta suntuosità: lamentavasi che nessuna grande calamità succedesse, per potersi mostrar generoso. Una volta fa raccorre al teatro quel vulgo suo diletto, indi levar improvvisamente il velario, lasciandolo esposto al sollione: un'altra gli getta denari e viveri, e miste fra quelli delle lame affilate: un'altra ancora, quando fu ben pieno il circo, li fa cacciare a furia, talchè molti periscono schiacciati. Il vulgo indispettito non s'affolla più a' suoi spettacoli, ed egli chiude i pubblici granaj per affamarlo. Un giorno che gli applausi non sonavano quanto il suo desiderio, proruppe: — Deh avesse il popolo romano una testa sola, per reciderla d'un colpo!»

E avrebbe potuto farlo, egli che ripeteva, — Ricordati [98] che tutto io posso e contro tutti; io solo padrone, io solo re»[112]. Talora gli brillavano per la pazza fantasia concetti grandiosi: trasferire la sede dell'impero ad Anzio o ad Alessandria, appena uccisi i senatori e i cavalieri principali, che avea già notati sopra due liste, l'una intestata spada, l'altra pugnale; tagliare l'istmo di Corinto; fabbricare una città sul più elevato vertice delle Alpi: erge una villa? sia dove il mare è più fondo e tempestoso, dove più scabra la montagna; e quivi si preparino bagni di profumi, vivande le più squisite, e si stemprino le perle: poi costeggia la deliziosa Campania in barche di cedro, ove e sale e terme e vigne, e le poppe sfolgoranti di gemme. Ogni cosa insomma esca dall'ordinario.

— Sarai re quando potrai galoppare sul golfo di Baja», gli aveano detto per un impossibile; ed egli volle poterlo. Raccolgonsi vascelli e navi da formare la lunghezza di quattro miglia, e sovr'essi spianasi la strada, con terra e sabbia ed alberi e ruscelli ed osterie. Quel forsennato la scorre tra una folla immensa, poi la notte fa splendida luminaria, vantandosi d'aver passeggiato il mare più veramente che Serse, e convertito la notte in giorno; e acciocchè allo spettacolo non manchi il sangue, fa cogliere alla ventura alcuni degli accorsi, e gettar alle onde. Intanto Roma affama, priva delle navi che sogliono portarle l'annona.

In un pranzo sciupò due milioni; in un anno diede fondo a cinquecentoventisei milioni raccolti da Tiberio. Per rifarsene pone accatti su tutto, poi multe a chi li froda; e per moltiplicare le trasgressioni, pubblica le leggi col maggior segreto, e in caratteri sì minuti da non potersi leggere. Quando gli nasce una figlia, e' limosina: a gennajo vuol le strenne, ed egli in persona [99] le raccoglie, misurando la devozione dalla generosità: trae fin lucro dal mantenere un postribolo. A Lione fece portare quantità di mobili, e vendere all'asta, presedendo egli stesso e lodandoli: — Questo era di Germanico mio padre; questo m'è venuto da Agrippa; quel vaso egizio fu d'Antonio, ed Augusto acquistollo ad Azio»; e ne concludeva enormi prezzi. Avendo le tante confische svilito i beni fondi, egli si mette a incantarli in persona, ed assegna i prezzi e il compratore: dal che taluni si trovano ridotti a mendicare, altri escono per uccidersi. Si facea mettere ne' testamenti de' ricchi, ai quali poi, se tardavano a morire, mandava de' manicaretti di sua cucina. Giocando un giorno ai dadi con disdetta, chiede il catasto della provincia gallica, designa a morte alcuni de' più larghi possessori, e dice ai compagni: — Voi mi vincete a spizzico; io ad un tiro guadagnai cencinquanta milioni».

Cassio Cherea, tribuno de' pretoriani (41), memore dell'antica dignità romana, o nojato delle ribalde celie usategli da Caligola, congiurò con altri pretoriani, i quali vedevano in pericolo continuo la vita loro se non troncassero quella dell'imperatore; e lo scannarono. Cesonia, moglie sua, stette colla bambina presso al cadavere del marito; e quando avventaronsi anche a lei, offrì il petto ignudo, chiedendo facessero presto.

I soldati partecipi delle sue rapine, massime i mercenarj germani; le donnacce e i garzoni cui fruttava quella sconsigliata prodigalità; i tanti che, nulla possedendo, nulla temevano; gli schiavi ch'egli allettava a denunziare i padroni e arricchirsi delle spoglie loro, compiangono Caligola, e per vendicarlo tagliano teste e le recano in trionfo, dicendo falsa la nuova della sua morte. Accertatine però, e che nulla più resta a sperarne, cambiano stile, e gridano la libertà: libertà è la parola d'ordine data dal senato, che, maledetto il nome [100] di Caligola, dopo settant'anni di avvilimento pensa a ripristinare la repubblica, armando gli schiavi, esercito grosso e formidabile. Ma potevano persistere in generosa volontà quei padri, dalle proscrizioni decimati, dalle confische impoveriti, diffamati dalle adulazioni? E i pretoriani volevano non libertà, ma chi avesse bisogno del braccio loro; un imperatore, poco importa chi e qual fosse. Intanto saccheggiano il palazzo; e tra il fare, vedono di sotto la cortina d'un nascondiglio sporgere due piedi, e scoprendo trovano un figurone grasso e vecchio, che gettasi a' piedi loro, chiedendo misericordia.

Era Tiberio Claudio, fratello di Germanico, e zio e trastullo di Caligola, uomo sui cinquant'anni, mezzo imbambito, alquanto letterato, e nemico de' rumori. I pretoriani l'acclamano imperatore, e se lo portano al loro campo; lo acclama il popolo, lo acclamano i soldati, i gladiatori, i marinaj. Cherea ebbe un bel ricordare la maestà del senato, l'imbecillità di Claudio, la dolcezza del vivere repubblicano: nessuno voleva esser libero se non coloro che avrebbero tiranneggiato a nome della libertà. Claudio bandì intera perdonanza; solo Cherea, immolato all'ombra di Caligola, domandò d'esser decollato colla spada onde avea trafitto il tiranno, e morì da antico repubblicano. Il popolo l'ammirò, gli chiese perdono dell'ingratitudine, gli fece libagioni, poi si volse a corteggiare e adorar Claudio.

Costui era il balocco di casa Giulia. A lui nulla degli onori e de' sacerdozj che fioccavano ai figli imperiali appena adolescenti: per maestro gli diedero un palafreniere: sua ava Livia non gli drizzò mai la parola, ma gli scriveva viglietti asciutti o prediche severe: sua madre diceva — Bestia come il mio Claudio»: Augusto lo chiamava — Quel poveretto (misellus)», e tutto cuore com'era pei nipoti, scriveva: — Bisogna prendervi [101] sopra alcun partito; se è sano di facoltà, trattarlo come suo fratello; se scemo, badare non si facciano scene di lui e di noi: può presedere al banchetto dei pontefici, mettendogli a fianco suo cugino Sillano che lo rattenga dal dire scempiaggini: al circo non sieda sul pulvinare, perchè darebbe troppo nell'occhio. L'inviterò a pranzo tutti i giorni; ma non si mostri così distratto: scelga un amico, di cui imitare gli atti, il vestimento, l'andare». Meno amorevoli gli altri, ne pigliavano spasso: giungeva tardo a cena? doveva correre innanzi indietro pel triclinio prima di trovarsi un posto; sopra mangiare addormentavasi? gli scoccavano ossi di datteri e d'ulivo, gli mettevano le scarpe sulle mani, per vederne l'attonitaggine e il dispetto quando si destasse.

Ignorante però non era, ed Augusto, udendolo declamare, ebbe a meravigliarsi che, parlando sì male, scrivesse sì bene: ad esporre le guerre civili fu consigliato da Tito Livio, ma dissuaso dalla madre e dall'ava: amava i classici, studiava il greco, volle introdurre tre lettere nuove (V. Appendice I), che durarono quanto lui: sapeva delle antichità romane più che Livio stesso: dettò anche la storia degli Etruschi, che, se ci fosse rimasta, avrebbe risparmiato tanto fantasticare ai nostri contemporanei. Ma non che la sua dottrina gli acquistasse dignità, mettevangli attorno soltanto donne, buffoni, liberti, la spazzatura della casa; perchè (colpa enorme) non era ricco. Augusto gli lasciò soltanto ottocentomila sesterzj: chiesti onori a Tiberio, n'ebbe quaranta monete d'oro da comprar ninnoli alla festa de' Saturnali: venuto al trono Caligola, Claudio per la paura comprò la dignità di sacerdote del dio nipote per otto milioni di sesterzi, e perchè non li pagava, vide messi all'asta i suoi beni. Eppure la fortuna sel teneva in petto. [102]

Balestrato al trono da questa, e da una Roma che voleva un capo ed era pronta ad obbedirne ogni volontà, Claudio sulle prime si prestò modestissimo coi senatori, non voleva essere adorato, abrogò la tortura dei liberi ne' casi di Stato, vietò ai sacerdoti gallici i sacrifizj umani, migliorò la condizione degli schiavi, dichiarando liberi quelli che per malattia fossero dai padroni abbandonati nell'isola d'Esculapio; e perchè i padroni presero lo spediente di ucciderli, Claudio gl'imputò d'omicidio. Ma ben presto messosi in mano di chi lo dispensasse dal volere e dal pensare, per fiacchezza commise tanti delitti, quanti Tiberio per atrocità, e Caligola per frenesia. Padroni del padrone del mondo erano Palla, Narcisso, Felice, Polibio, Arpocrate, Posideo, ballerini, cinedi e simili lordure; e Messalina Valeria moglie sua. A quelli ricorrevano privati, città, re, volendo Claudio che i loro comandi avessero forza quanto i suoi; adoperavano il sigillo e la firma di esso per disporre di potenza, oro, teste. Se talora egli usava del proprio senno, essi disfacevano; alteravano e sopprimevano i suoi decreti, o vi mutavano i nomi; prendeansi spasso di fargli fare il preciso contrario di quelli. Un centurione viene a dire a Cesare d'avere, secondo l'ordine suo, ucciso un senatore, «Io non l'ordinai (esclama egli), ma il fatto è fatto», e si volge ad altro. Un liberto entra a pregarlo di concedere la scelta della morte ad Asiatico, ch'egli non condannò. Talora vedendo tardare qualche convitato, manda a sollecitarlo; e gli si risponde che l'ha fatto uccidere quella mattina. Andando ai soliti esercizj al Campo Marzio, vede disporsi il rogo per bruciare uno ch'egli non ha sentenziato; ed esercita la sua autorità col far rimovere la catasta perchè le vampe non pregiudichino al fogliame.

Chi non voleva largheggiare con Palla, non lussuriare con Messalina, era involto nell'accusa solita di lesa [103] maestà; per la quale perirono trentacinque senatori e meglio di trecento cavalieri. Lauto mestiere tornarono lo spionaggio, l'accusa, la difesa. I giudizj erano uno de' trattenimenti di Claudio; v'era continuo, e talora dava sentenze sensate, talora insulse, sovente espresse con versi di Omero, sua delizia; per lo più dava ragione ai presenti e all'ultimo che parlava. In una causa di falso, avendo un assistente esclamato che il reo meritava la morte, l'imperatore mandò pel manigoldo; in un'altra, ricusando una donna di riconoscere un figlio, e le ragioni essendo molto bilanciate, l'imperatore le intima di riceverlo o per figlio o per marito. Più spesso addormentavasi in mezzo al frastuono della discussione, e svegliandosi proferiva: — Do vinta la causa a chi ha più ragione».

E qui pure erano le celie: or lo chiamavano indietro dopo levata l'adunanza, ora la prolungavano tenendolo pel manto; un litigante lo lascia domandare a lungo il testimonio prima di dirgli che è morto; gli si denunzia come povero un cavaliere ricco sfondolato, come celibe uno che aveva una nidiata di ragazzi, d'essersi ferito volontariamente uno che non aveva tampoco una scalfittura. Un tale gli gridò, — Tutti ti conoscono per un vecchio barbogio»; un altro gli avventò le tavolette e lo stilo.

Per erudizione risuscita leggi antiche, i riti feciali, le ordinanze sul celibato: vuol ripristinare la censura, disusata dopo Augusto, quasi fosse possibile indagar la vita privata di seicento senatori, almen diecimila cavalieri e sette milioni di cittadini: indi prodiga decreti, fin sulle più minute pratiche; uno perchè s'impecino bene le botti; uno perchè s'adoperi il succo del tasso contro il morso della vipera. Legge in senato un editto per reprimere la sfrenatezza delle dame nell'abbandonarsi agli schiavi; e levatosi un applauso concorde, [104] l'ingenuo Cesare dice: — Mi fu suggerito da Palla», quel suo liberto e padrone. A Palla dunque il senato decreta l'ammirazione, le grazie e trecentomila lire: ma costui ricusa la somma, accontentandosi della sua povertà; e il senato promulga un editto per immortalare il disinteresse d'un liberto che s'era fatti sessanta milioni. Anche Narcisso erasi trarricchito; onde a Claudio, che lagnavasi di scarso denaro, fu detto: — Ne troverai a ribocco sol che tu faccia a metà co' tuoi liberti».

Altra passione di Claudio fu il giuoco, e avea sin tavole per giocare in viaggio senza che i pezzi si spostassero. Da buon romano, amava anch'egli il sangue; voleva i supplizj al modo ch'egli avea letti nelle storie; durava giornate intere ad osservare i gladiatori, e se ne mancassero, costringeva a combattere chi primo capitava. Ma se fra le cause o le commedie o le arringhe sente odore delle vivande cucinate dai sacerdoti, nulla più lo rattiene, corre, divora; poi si fa imbandire immensi piatti in immense sale, convitando fin seicento persone; s'empie a gola, indi vomita, e si rimpinza, e rivomita; e medita fare un decreto perchè la buona creanza non metta a pericolo la salute[113].

Pure condusse fabbriche insigni; il porto in faccia ad Ostia con un faro simile a quel d'Alessandria; opera delle più utili e meravigliose degl'imperatori è il suo acquedotto, che costò undici milioni, e a conservarlo furono deputate quattrocentosessanta persone. Piantò [105] anche colonie nella Cappadocia e nella Fenicia e sull'Eufrate, e ricevette ambasciadori fino da Seilan: in Africa con una larga strada mise la provincia in comunicazione colla Mauritania, e ne aprì una nuova in Inghilterra. Dopo che trentamila operaj ebbero lavorato undici anni a travasare il lago Fucino nel Liri, per inaugurare quest'operazione dispose un combattimento navale di diciannovemila condannati. Questi, passandogli davanti, esclamano secondo il costume: — I morituri ti salutano»; e il cortese imperatore risponde: — State sani»; onde quelli credendosi graziati, negano di più uccidersi; ma egli strepita, smania, minaccia, finchè li persuade ad ammazzarsi tra di loro.

Messalina frattanto divulgasi su' postriboli, stancata, non sazia mai[114]. Con pompa recavasi agli abbracciamenti di un tal Publio Silio; e dandole pel sozzo genio l'infamia di sposare un doppio marito, celebrò con costui solenni nozze, con dote, testimoni, auspizj, vittime, e il talamo preparato al pubblico cospetto. Claudio soscrisse il contratto nuziale, credendolo un talismano per istornare non so che malurie de' Caldei: ma quando i liberti e le bagascie lo informano del vero, si sgomenta, e va chiedendo se imperatore sia ancora desso o Silio. Per sottrarsi al pericolo che gli descrivono imminente, si lascia indurre a cedere per un giorno il comando a Narcisso: questi lo porta a Roma, ove i soldati invocano vendetta, non perchè ad essi caglia dell'onore di lui, ma per farne lor pro; onde si moltiplicano i supplizj e Messalina stessa è uccisa. Quando l'imperatore l'udì morta, non chiese il come; e dopo alcuni giorni, mettendosi a tavola, domandò — Chè non viene Messalina?» [106]

Allora volle sposare la nipote Agrippina, vedova di Domizio Enobarbo; e benchè la legge considerasse tal nodo come incestuoso, il popolo e il senato gliel'imposero. Costei, sorella e druda di Caligola, cara al popolo perchè figlia di Germanico, scostumata e crudele come Messalina, era salda di volontà, sicchè da imperatrice sedendo accanto al cesare, dava udienza agli ambasciatori, rendeva giustizia, e fece moltiplicare supplizj per incanti, per oracoli, per sortilegi, per gelosia. Principalmente tendeva a far che Lucio Domizio Nerone, che essa avea avuto da Enobarbo, si sostituisse a Britannico figlio di Claudio e Messalina: in un istante di debolezza indusse Claudio a nominarlo successore; poi temendo non questi mutasse proposito, gl'imbandì de' funghi avvelenati (54); il medico fece il resto, e lo mandò fra gli Dei, tra cui Roma lo adorò.

All'istante designato per propizio da' Caldei, Nerone, di appena diciassette anni, presentossi alle coorti, che lo salutarono imperatore, il senato lo confermò, le provincie lo accettarono. Popolo, senato, tribuni sussistevano ancora colle antiche prerogative, e potea darsi che qualche volta volessero esercitarle, e toglier via un potere ch'era sempre nuovo perchè non ereditario. Pertanto gl'imperatori, al primo venir al trono, stavano in apprensione, e dissimulavano finchè non si fossero convinti o che tutto era inane apparato, o che fra tanto egoismo non era cosa che non si potesse osare. Anche Nerone cominciò umanamente; largheggiò col popolo e coi senatori bisognosi; tolse od alleggerì imposizioni; l'antica giurisdizione lasciò al senato, il quale statuì che le cause si patrocinassero gratuitamente; i questori designati dispensò dal dare i giuochi gladiatorj. Propose perfino d'abolir le dogane, e se non altro le riformò; dava pronto spaccio alle suppliche; nelle cause sostituì alle arringhe l'interrogatorio; misurò le sportule degli [107] avvocati; impedì le falsificazioni di carte e testamenti. Quando il senato gli decretò statue d'oro e d'argento, disse — Aspettino ch'io le abbia meritate»; dovendo firmare una sentenza capitale, esclamò — Deh! non sapessi scrivere!» e clemenza spiravano i discorsi che gli preparava Lucio Anneo Seneca cordovano, suo maestro di retorica.

Ma nè questi, nè Afranio Burro suo maestro d'armi, desiderosi di conservarsi in potere, non ne frenavano le passioni. Cominciò dunque a correre la notte per taverne e mali luoghi vestito da schiavo, rubando alle botteghe, azzeccando i passeggeri; e poichè l'esempio suo trovava seguaci, Roma la notte parea presa d'assalto. Aizzava gl'istrioni e i combattenti ne' giuochi, e mentre essi litigavano e il popolo affollavasi, egli dall'alto lanciava pietre. I banchetti suoi erano il colmo della prodigalità: uno ospitandolo spese ottocentomila lire in sole ghirlande; un altro assai più nei profumi: le matrone collocavansi sul suo passaggio, e nelle tende rizzategli ad Ostia, a Baja, a Ponte Milvio disputavansi l'onore d'esser da lui contaminate.

Agrippina amava tanto Nerone, che avendole gli astrologi predetto ch'egli regnerebbe, ma a gran costo della madre, rispose: — M'uccida, purchè regni». Costei da principio continuò a dominare dispotica, scriveva a re e provincie, assisteva al senato di dietro una cortina, e sfogava le sanguinarie vendette: ma poco tardò a perdere l'autorità sul figlio; e vedendo congedato Palla, padrone di Claudio e di lei, monta in collera, e minaccia favorire i diritti di Britannico. Nerone dunque domanda alla strega Locusta non un veleno lento, arcano, come quello ch'essa stillò per Claudio, ma fulminante[115]; e Britannico cade morto stecchito (55) alla mensa [108] imperiale. Mentre è sepolto fretta fretta, e che una pioggerella, guastando la vernice datagli sul volto, scopre al popolo le livide traccie dell'avvelenamento, i due maestri s'arricchiscono delle ville di Britannico; Agrippina stessa è fra breve esclusa dal palazzo, e carica delle accuse che mai non mancano a cui il principe vuol male. La nefanda procurò ricuperare autorità, esibendosi in un'orgia al figlio; ma Seneca prevenne l'incesto introducendo Actea liberta di Nerone, impudica che respinse una peggiore, come col morso della vipera si cerca elidere l'idrofobia. Il colpo fallito diè l'ultimo crollo ad Agrippina. Nerone tre volte tentò avvelenarla, e invano; la invitò a Baja sopra un vascello che dovea sfasciarsi, ed ella campò a nuoto; ond'egli accusatala di tradimento, le mandò sicarj, ai quali ella disse: — Feritemi qui, nel ventre che portò Nerone» (59). Il parricida volle esaminarne il cadavere, lodò, censurò, poi fece recar da bere, e disse che allora veramente sentivasi padrone dell'impero.

All'annunzio di tale delitto prorompe non l'indignazione, ma la servilità romana: Burro manda tribuni e centurioni a stringer la mano al matricida, congratulandosi fosse campato da tanto pericolo; Seneca ne scrive la giustificazione al senato, che decreta pubbliche grazie ed annue commemorazioni, e maledice Agrippina nel solo momento che era compassionevole; gli altari della Campania fumano di ringraziamenti agli Dei. Nerone per timore della pubblica infamia erasi slontanato da Roma, ma rassicurato tornò; a gara cavalieri, tribuni, senatori gli si fecero incontro affollati come a trionfo; e traverso ai palchi eretti sul suo passaggio, egli ascese a render grazie al Campidoglio. Ah! [109] ben era dritto se Nerone prendeva in disprezzo questa ciurma codarda, e si disponeva a trattarla senza riserbi.

Non gli bastava esser padrone del mondo, ambiva anche la fama di artista. Giovani esperti dovevano limare le odi e gl'improvvisi di lui, che poi erano ripetuti per le vie; e il passeggero che ricusasse attenzione o regalo ai cantambanchi rendevasi sospetto. L'imperatore meditava scrivere una storia di Roma in versi, e gli adulatori diceangli la facesse di quattrocento libri; al che Anneo Cornuto stoico riflettè che nessuno li leggerebbe. — Il tuo Crisippo (soggiunse un cortigiano) ne scrisse pure il doppio». — Sì (riprese Cornuto); ma quelli sono utili all'umanità». La franca parola fu punita coll'esiglio.

In un immenso chiuso nella valle del Vaticano, Nerone guidò un cocchio fra gli applausi, e con largizioni ed onori invitò ad emularlo cavalieri di gran nobiltà. Innanzi a Tiridate re d'Armenia comparve vestito da Apollo, guidando un carro fra i viva del popolo; mentre l'Arsacide indignavasi de' frivoli gusti e della stravagante vanità del padrone del mondo. Il quale istituì un fonasco per vegliare sulla celeste sua voce, avvertirlo quando non v'avesse abbastanza riguardo, chiudergli la bocca qualora, nell'impeto d'una passione, non badasse al suo avviso. In Napoli comparve sul teatro modulando gesto e voce secondo l'arte; in Roma si fece iscrivere fra i sonatori; e quando sortì il suo nome, cantò sulla cetra, sostenutagli dai prefetti del pretorio. Altre volte recitava versi proprj, o in giuochi scenici dati da particolari, purchè la maschera dell'eroe ch'ei rappresentava ritraesse le sue sembianze, e quelle dell'eroina il viso della sua amata. Creò un corpo di cinquemila cavalieri, che gli applaudissero quando cantava al popolo, con maestri che regolassero i battimani e i viva, or come pioggia battente, or come castagnette; e [110] Burro con una coorte pretoria doveva assistere e applaudire. Inorgoglito, trasferì a Roma i giuochi di Grecia, invitando a' suoi quinquennali il fiore dell'Impero.

Seicento cavalieri, quattrocento senatori, donne di gran casa, sono addestrati per l'arena; altri cantano, suonano il flauto, fanno il buffone. Il vinto mondo va a contemplare colà i discendenti de' suoi vincitori, ridere ai lazzi d'un Fabio o ai sonori schiaffi che si danno i Mamerci[116]. Il virtuoso Trasea Peto sostiene una parte ne' giuochi giovanili: la nobilissima Elia Catulla viene di ottant'anni a ballare sul teatro: un rinomatissimo cavalier romano cavalca un elefante: l'istrione Paride guadagna le patenti di cittadino col farsi dal suo Nerone dare per camerata tutti i patrizj[117], vendicando così il dispregio dell'antica Roma pei pari suoi.

Morto Burro (62), o pel dolore d'essersi disonorato colla viltà, o per veleno del principe, cui ne dispiaceva la tarda franchezza, gli fu surrogato l'infame Sofenio Tigellino, resosi grato al padrone col moltiplicare olocausti al terrore e all'avarizia di lui, e oscene feste. In una sul lago d'Agrippa, allestì un naviglio sfolgorante d'oro e d'avorio, rimorchiato da altri poco meno magnifici, ove remigavano garzoni leggiadri, graduati secondo l'infamia; quanto il mondo poteva offrire di pellegrino v'era raccolto, e lungo l'acque padiglioni, ove a torme si prostituivano le dame, al cospetto di ignude meretrici.

Nerone s'attedia della moglie Ottavia, e Tigellino la accusa d'adulterio; sebbene scolpata a mille prove, è relegata; ma perchè il popolo ne mormora, Nerone la [111] richiama, e le appone un reato di più facile prova, l'alto tradimento; ed esigliata in Pandataria (62), la fa scannare a vent'anni. Il senato rese grazie agli Dei, come quando furono uccisi Palla, Doriforo, altri liberti; Poppea ne esultò, Poppea tanto colta quanto bella e raffinata nelle arti del piacere; che cinquecento asine manteneva per avere il latte da lavarsi; che cambiati amanti e mariti secondo l'ambizione, tenne lungamente l'imperatore, finchè questi diede un calcio a lei incinta e l'uccise. Pentito, la fece imbalsamare, proclamar dea, bruciare in onor di essa quanti profumi produce l'Arabia in un anno.

All'artista imperiale mal garbava questa Roma, irregolare, tortuosa, con vecchi edifizj; e ambendo la gloria eroica di fabbricarne una nuova ed imporle il nome suo, vi fece mettere il fuoco. Le guardie rimovevano i soccorsi; fu vista gente aggiungervi esca, e schiavi scorrazzare armati di faci: e Nerone sale sul teatro, e ispirato da quello spettacolo canta sulla cetra l'esizio di Troja. I sacelli della prisca religione, sottratti fin all'incendio de' Galli; capi d'arte, frutto della conquista, perirono allora; molti uomini perdettero la vita; agli altri Nerone aprì il Campo Marzio, i monumenti d'Agrippina, i suoi giardini; fece costruire e arredare ricoveri, vendere grano a buon patto; indi sulle macerie fabbricò il palazzo d'oro, che abbracciava parte del monte Palatino, del Celio, dell'Esquilino, e la frapposta valle estesa quanto l'antica città, e di lusso appena credibile. Nel vestibolo sorgeva l'effigie di Nerone alta quaranta metri, e triplici colonne formavano un portico d'un miglio. Ivi campi e vigne, pascoli e foreste, e un pelaghetto cinto d'edifizj: oro, pietre, madreperla a fusone. Nelle sale a mangiare, dalla soffitta di mobili tavolette d'avorio piovevano fiori e profumi sui convitati; la principale era rotonda, e dì e notte girava, imitando il moto del [112] mondo. Le acque del mare e dell'Albula ne alimentavano i bagni; e l'imperatore quando v'entrò disse, — Eccomi finalmente alloggiato da uomo». Le abitazioni all'intorno furono disposte a disegno, a filo le vie, meglio compartite le acque, eretti portici: ma il pubblico sdegno non cessava di ridomandargli le case avite, i beni perduti e le persone.

Per questi lavori adunò da tutto l'impero i prigionieri, nè per lungo tempo altra pena che questa s'inflisse. Tutti dovettero contribuire alle spese; il senato due milioni di lire, cavalieri e trafficanti in proporzione. D'altro denaro lo fornivano le depredazioni e gli assassinj. A qualunque magistrato eleggesse, dicea: — Sai quel che mi manca; facciamo che nessuno possieda una cosa che possa dir sua». Alla zia Domizia affrettò la morte per ereditarne i pingui poderi. Vatinio, mostruoso ciabattino di Benevento, salito a gran ricchezza e alla Corte per via d'accuse, rinfocava l'odio di Nerone contro i patrizj, esclamando: — Io t'aborro perchè sei senatore». Ad alcuni fe grazia perchè Seneca gli disse: — Per quanti ne uccidiate, non vi verrà fatto di dar morte al vostro successore».

Calpurnio Pisone (65) congiurò per assassinarlo nel palazzo d'oro; ma scoperto, causò un macello. La guardia germanica si sparse cercando gl'imputati, o chi era odioso a Tigellino e a Poppea. Fu tra i primi il poeta Lucano, che d'amico a Nerone gli s'era avversato dacchè lo vide addormentarsi alla recita de' suoi versi, e che fattesi aprir le vene, morì di ventisette anni recitando un brano della sua Farsaglia. Fu tra i secondi Seneca, che pei maneggi de' nuovi favoriti spogliato d'autorità, non avea avuto coraggio di sottrarsi alla Corte, quantunque infamata da tante brutture; e con fermezza terminò una vita troppo disforme dalle sue dottrine. La liberta Epicari, messa al tormento, stette al niego, finchè [113] trovò modo di strozzarsi. Sulpicio Aspro, interrogato perchè avesse fallito alla fedeltà: — Perchè non conoscevo altro riparo a' tuoi delitti». E Scevino Flavio tribuno: — Nessun soldato ti fu più fedele sinchè il meritasti; presi ad odiarti dacchè ti vidi assassino della madre e della moglie, cocchiere, istrione, incendiario»; risposta che ferì Nerone più che tutta la congiura. Il console Giulio Vestino, malvoluto da Nerone ma da nessuno imputato, adempite le funzioni della sua carica, banchettava molti amici, quando gli si annunzia che un tribuno lo cerca: esce, è chiuso in una camera, svenato senza un lamento, e a' suoi convitati solo a tardissima notte si concede partire. Parenti, figli, precettori, servi furono spesso avvolti nella condanna. I tempj intanto sonavano di grazie, e i prossimi degli uccisi affrettavansi ad ornar di fiori le case, e baciar la mano a Nerone, il quale non men che di supplizj, fu prodigo di ricompense.

Il senatore Trasea Peto, serbatosi come un vivente raffaccio di tanta contaminazione, avea saputo tacere quando tutti collaudavano; uscì dal senato quando vi si deliberava sul discolpare l'assassinio d'Agrippina; non assistette ai funerali di Poppea; non applaudiva alle scede imperiali; faceva insomma la resistenza che può ogni onest'uomo in qualunque ribaldo governo. Venerato dal popolo e dalle provincie, quando si vide accusato esortò la moglie Arria a serbarsi in vita per la figlia loro; e fattesi aprir le vene, chiamò il questore che gli aveva portato la condanna, acciocchè lo contemplasse morente, — Poichè (diceva) siamo in un secolo ove importa ingagliardirsi con grandi esempj».

Con Peto, erasi accusato Trasea Sorano; e Servilia figliuola di questo ricorse agli indovini per sapere qual sarebbe la sorte di suo padre. Gliene fu fatta colpa, e un accusatore al Tribunale le appose d'aver venduto [114] le sue gioje da nozze e fin la collana, per usare il denaro a cerimonie misteriose. Ma ella, inavvezza ai tribunali e sbigottita d'avere accresciuto il pericolo di suo padre, lungo tempo non potè che piangere, poi abbracciando gli altari, — Nessun nume infernale ho io invocato; non feci imprecazioni; unicamente chiesi che la volontà di Cesare e la sentenza del senato mi conservassero il padre. I miei giojelli, i miei addobbi, tutti i fregi dell'antica mia fortuna ho dato a tal uopo; data avrei anche la vita e il sangue. Non ho nominato il principe che fra gli Dei; e nè tampoco mio padre lo seppe». Padre e figlia furon messi a morte.

All'orrore di questi delitti pareva aggiungere flagelli la natura. Turbini desolarono la Campania, Lione un incendio; la peste mietè trentamila vite in Roma. Varj portenti, e singolarmente una cometa, atterrirono Nerone, il quale, udito che in simili casi volevasi stornare la maluria con qualche straordinario macello, proponeasi di scannare tutti i senatori, e conferir le provincie e gli eserciti a cavalieri e liberti. Sospese il colpo per nuovi trionfi d'artista, meditando i quali, partì per la Grecia a rivaleggiare co' migliori citaredi (66). Non trae solo l'abituale corteggio di mille vetture, e bufali ferrati d'argento, e mulattieri vestiti magnificamente, e corrieri e cavalieri africani ricchissimamente in arnese; ma un esercito intero, avente per arma la lira, la maschera comica, i trampoli da saltimbanco. Un inno cantato da Nerone saluta la greca riva; il padrone del mondo le concede tutto un anno di gioja e di feste incessanti; i giuochi Olimpici, gl'Istmici, e quanti si celebravano a lunghi intervalli, saranno accumulati in dodici mesi. Egli rappresentò in teatri, gareggiò alla corsa, da' presidenti aspettando in ginocchio le decisioni; per gelosia fe gittar nelle cloache le statue d'antichi atleti. Guai a chi è condannato ad esser suo [115] competitore! vinto in prevenzione, è, ciò non ostante, esposto a tutti i maneggi d'un emulo inquieto; calunniato in segreto, ingiuriato in pubblico. Uno osa cantar meglio di Nerone, e il popolo artista di Grecia l'ascolta rapito, quando gli altri attori lo ghermiscono, lo serrano contro una colonna e lo sgozzano: ordine del principe.

Travisato da toro, per le strade violava il pudore e la natura; pubblicamente sposò un Pitagora, colle cerimonie sacre e civili praticate dai Romani; poi volle far nozze con un certo Sporo, e vestitolo da imperatrice col velo nuziale, lo condusse in lettiga per le assemblee. In compenso degli applausi e della vigliaccheria, regalò alla Grecia la libertà, che, in tanta immoralità e sotto un tal uomo, non so che cosa volesse dire nè potesse fruttare.

Non per ciò metteva sosta alle uccisioni. Avea menato con sè molte ragguardevoli persone sospette, e per via le fece trucidare. A Corbulone, il più prode suo generale, specchio di modestia, disinteresse e fedeltà, mandò ordine di morire; e quegli esclamando — Lo merito», si trafisse. Molti uccise o condannò perchè coi precetti o coll'esempio disfavorivano la tirannia. Poi udito che la nauseata Italia mormorava sordamente, volò a Roma, e perduti i tesori in mare, disse: — Me ne rifaranno di corto i veleni». Entrò sul carro trionfale d'Augusto con mille ottocento corone côlte sui teatri, e il senato gli decretò tante feste che un anno non sarebbe bastato a celebrarle; onde un senatore osò proporre si lasciasse qualche giorno anche al popolo per le sue faccende.

La forza militare rendea possibili tali eccessi: ella sola potea porvi un termine. Giulio Vindice, stirpe degli antichi re d'Aquitania, allora vicepretore nella Gallia Celtica, alzò bandiera contro Nerone (67), e centomila provinciali si unirono ad esso, onde avrebbe [116] potuto ergersi imperatore. Però Virginio Rufo, semplice cavaliere, ma grandemente riverito e allora luogotenente dell'Alta Germania, non soffrì che l'impero si conferisse altrimenti che per voto de' senatori e de' cittadini, sconfisse Vindice (68) il quale si uccise, ma ricusò lo scettro offertogli dall'esercito vincitore che dichiarava scaduto Nerone.

Costui ode in Napoli siffatte mosse, nè però interrompe i giuochi del ginnasio; solo al sentire che Vindice l'avea trattato di cattivo citarista, s'indispettisce, comanda ai senatori di vendicarlo, viene egli stesso a Roma, e tra via vedendo scolpito sopra un monumento un soldato gallo abbattuto da un cavaliere romano, ne piglia fausto augurio e coraggio. Pure non osando presentarsi al popolo o al senato, raccoglie ed ascolta alcuni primati, poi passa il giorno a mostrar loro certi nuovi organi idraulici, di cui voleva fare esperimento in teatro, — Se Vindice (soggiungeva) me lo permetta».

Tra fiacco sgomento, spensierati tripudj e meditate vendette alternando secondo le notizie, dovette pur muoversi contro i ribelli; ma ebbe cura di portare strumenti musicali, e cortigiane che da amazoni lo seguissero. Era grande stretta di vettovaglie, e se ne aspettavano d'Egitto; quand'ecco approdar navi, ma invece di frumento son cariche di sabbia pe' gladiatori. Il popolo ne infuria, abbatte le statue di Nerone; i pretoriani stessi disertano; le sue guardie gli tolgono fin le coperte del letto e una scatoletta di veleno, preparatogli da quella Locusta che avea, per ordine di lui, stillato la morte di tanti. Egli or chimerizza passare nella Gallia, e quivi a ginocchioni propiziarsi i soldati; ora fuggire tra i Parti; ora dalla tribuna commovere il popolo coll'eloquenza imparata da Seneca: agli emuli proponeva gli concedessero la [117] prefettura d'Egitto; se non altro, il lasciassero andare, che guadagnerebbe sonando. Insultato nei teatri, maledetto da tutti, egli che avea versato tanto sangue, non possedeva la virtù, sì comune a' suoi tempi, di versare il proprio. Chiese chi l'uccidesse, e niuno si prestò; corse per gettarsi nel Tevere, poi si diresse alla villa del liberto Faone, sopra un ronzino, con quattro servi appena, ogni tratto in pericolo o in paura. Giuntovi, si fece scavar la fossa, e intanto andava esclamando: — Che grande artista perisce!» Vile fino agli estremi, sol quando udì lo scalpitare de' cavalli che venivano per trarlo alle forche decretategli dal senato, si trafisse, dopo funestato il mondo per tredici anni e otto mesi.

Consoliamoci che qui finisce quel progresso di malvagità degl'imperatori, sebbene ad ora ad ora ne riapparisse qualcuno, inclinato ad emularli. Ma qui pure può dirsi finita la storia delle insigni famiglie romane. L'aristocrazia patrizia era stata decimata dalle proscrizioni; salì al suo posto una nobiltà di famiglie nuove arrivate alle dignità: ma Tiberio cominciò, Caligola proseguì, Nerone compì la loro ruina, spogliando e trucidando i ricchi, disonorando i poveri. Quei che sopravissero, terminarono il proprio crollo colla scostumatezza; e sebbene la vanità nobiliare non fosse dissipata, pure difficilmente si potrebbe seguirne la storia traverso alla confusione dei nomi, alle adozioni moltiplicate, al vezzo di cangiare i soprannomi.

[118]

CAPITOLO XXXIV. Prosperità materiale e depravazione morale. Lo stoicismo.

A questo abbandonarci sulle particolarità della vita d'individui, il lettore si accorge che a mutate fonti attingiamo. In tempi liberi la patria primeggia, e l'uomo in quella s'eclissa: nella monarchia gli occhi del vulgo s'arrestano sopra un uomo, e la storia, che sì spesso è vulgo, se n'appaga, e invece della nazione ci offre la vita de' suoi capi, sovra i quali è ormai concentrata l'attività. Ciò si scosta affatto dal nostro proposito: ma primamente in quegl'imperatori s'incarna ciò che noi cerchiamo, vale a dire la vita e la società; inoltre abbondiamo di materiali, offertici da due cronisti molto differenti tra loro, Svetonio e Tacito.

Il primo, indefesso raccoglitore di anticaglie, possedeva l'anello d'un imperatore, il sigillo dell'altro, una statuina appartenuta ad Augusto; e con altrettanta cura spigolò aneddoti sui dodici Cesari; e come quelle negli armadj, così questi distribuì per categorie di vizj e virtù. Così disgiunti dai fatti che produssero e che vi danno significazione e valore, non ci rivelano la condizione del principe nè dello Stato: e l'autore, al modo degli aneddotisti, impicciolisce ogni cosa, non ha indignazione pel vizio, non entusiasmo per la virtù; sotto al ridicolo allivella tutte le riputazioni, dileguandone e il terrore e l'ammirazione. Di Cesare non indovina i magnanimi intenti e trasvola le grandi imprese, mentre riferisce le satire e le canzonaccie con cui il vulgo si vendicava della gloria di esso. Non s'accorge tampoco che da Cesare a Domiziano siasi cambiato il mondo: ma freddo, laconico, ci ritrae il [119] viso di ciascun imperatore, il portamento, il vestire, le follie; a che ora pranzasse, e quanti e quali piatti; che mobili avesse in casa, che motti gli uscissero, che oscenità lo dilettassero; ogni cosa senza velo, nè spirito, nè riflessioni.

Tutta di riflessioni invece Tacito intesse la storia degl'imperatori, non tanto narrando gli avvenimenti, quanto facendo considerazioni sopra di essi, e più sopra la vita politica e le relazioni del principato col popolo: nessuno per piccolo ne racconta senza risalire alle lontane cause[118] e svolgerne le conseguenze, a rischio di eccedere in arguzia e raffinatezza col veder remote e complicate ragioni anche negli atti i più semplici. Argutissimo scrutatore dei labirinti del cuore umano, vi penetra per via degl'indizj esterni; primo egli che conducesse la storia a quadri interiori e di costumi, cercando le pareti domestiche non meno che il fôro e il campo, e tutto drammatizzando con inarrivabile abilità. Allevato dai declamatori e dagli stoici, ne contrasse ammirazione per le aspre virtù antiche, passione per la libertà, concepita nelle viete forme patrizie[119], fastidio del depravamento d'un impero, dove si ricordava la libertà e tolleravasi la servitù, dove le tradizioni gloriose non impedivano una sordida degradazione; e antico originale di moderne finezze politiche, guarda con occhio tanto fosco da parer rigoroso fin verso un secolo così perverso. Onesto di cuore, veritiero anche nell'enfasi, giudica con una morale indipendente, benchè in tempo che riputavasi più giusto ciò ch'era più forte, id æquius quod validius; alla virtù anche soccombente fa omaggio, flagella il vizio quantunque potente, sapendo [120] che la storia non è solo un gran dramma, ma una gran giustizia.

La morale dignità dello scrittore adunque e l'alta meta propostasi campeggiano in quelle pagine, meditate lungamente, ritemprate dalla sventura, colorite da sublime tristezza; ove piace e giova il vedere un autore, immacolato fra tanta corruzione, attestare che v'è in noi qualcosa che i tiranni non possono svellere, neppur colla vita; che uno può esser grande anche sotto principi malvagi; e che tra l'abjetta servitù e la pericolosa resistenza c'è una via scevra di rischi e di bassezze[120]. Colla tetra maestà del suo racconto, colla critica amara, coll'opposizione affatto insolita ai Latini, com'era insolito quello stile muscoloso, dove spesso un giudizio è espresso con una sola parola, ed ogni parola ha la ragione d'esser collocata a quel modo, egli ci ritrae al vivo una corruttela, a dipinger la quale siamo ajutati anche da storici minori, da satirici, da poeti, così da trovarla grande quanto l'impero romano.

Da costoro possiam dedurre la storia d'una famiglia, la Giulia: e quale catena di misfatti in essa! Abuso di adozioni e di divorzj vi mescola sangue e nomi, donne di tre o quattro mariti, imperatori di cinque o sei mogli. Augusto sposa Livia Drusilla, incinta d'un altro: Livia Orestilla menata da Caligola, dopo pochi giorni è ripudiata, dopo due anni esigliata: egli stesso toglie al marito Lollia Paolina perchè l'ava di lei ebbe vanto di bellezza, e poco stante la rinvia, proibendole d'accoppiarsi ad altri, finchè Claudio le spedisce ordine d'uccidersi. Un Druso è avvelenato da Sejano, un altro riceve ordine di morire, un terzo è ucciso in esiglio. Agrippa Postumo al cominciare del regno di Tiberio, [121] Tiberio il giovane a quel di Caligola, Britannico a quel di Nerone, sono immolati per sicurezza del principe.

Domizio Enobarbo, padre di Nerone, si piglia spasso a lanciare di furia il carro contro un fanciullo; ammazza uno schiavo che non beveva abbastanza; in pieno fôro cava un occhio ad un cavaliere; pretore, ne' giuochi ruba i premj. Giulia madre, dopo tre matrimonj, è sbandita dal genitore Augusto per dissoluta, poi dal marito Tiberio lasciata morir di fame; Giulia figlia, convinta di adulterio, perisce in un'isola dopo vent'anni d'esiglio. Giunia Calvina è da Claudio sbandita, per incesto col fratello Silano: ne sono infamate le sorelle di Caligola; ed una di esse, bagascia del fratello, è assunta dea, mentre gli amanti di tutte queste son mandati a morte, in vigore delle antiche leggi tutrici della moralità. Drusillina di Caligola è con lui trucidata d'appena due anni: Claudio getta ignuda sulla soglia della moglie una fanciulla che crede adulterina. A questo si ascrive a lode il non aver menato donna che fosse d'altri: ma al par di Caligola ebbe cinque mogli, fra cui una Messalina e un'Agrippina, nomi che fin oggi personificano il peggior fondo cui possa scendere quel sesso. Messalina fa esigliare ed uccidere Giulia di Germanico ed un'altra nipote di Tiberio: una Lepida, parente de' Cesari, gareggia con Agrippina in bellezza, opulenza, impudicizia, violenze, e questa la fa ammazzare.

Entri nel palazzo de' Giulj? potranno mostrarti la cripta ove fu trucidato Caligola; il carcere dove si lasciò consumar dalla fame il giovane Druso, rodendo la borra delle coltrici, ed avventando contro Tiberio imprecazioni, che questi faceva raccôrre per poi ripeterle in senato: in questa sala Britannico bevve la sportagli tazza, e morì sull'atto; in questo conclavio Agrippina tentò d'amore il proprio figliuolo, che in quel giardino palpò curiosamente il cadavere di essa. [122]

Una casa sola! ed erano divi e dive, esposti allo sguardo di tutti, protetti dalla memoria di grandi progenitori. Nè di meglio troveremmo fra altri lari; nella casa d'Agrippa, ove «sola Vipsania morì di buona morte, gli altri o si seppe di ferro, o si tenne di veleno o di fame»[121]; nei palagi patrizj, ove si aspettava dai Cesari l'invito ora di prostituirsi ora d'uccidersi; nell'officina di Locusta, gran tempo strumento importante nel regno[122], ove si veniva a provvedere o filtri per innamorare, o abortivi, o tossico per accelerare la vedovanza e l'eredità; in ciascun palazzo, dove sono altrettanti uomini quanti schiavi[123], i quali o concertandosi scannano i padroni, o ne denunziano agl'imperatori ogni atto, ogni pensiero.

Tacito ci mostra diciannovemila rei di morte, che combattono sul lago Fúcino in quella pazzia di Claudio. Quando quest'imperatore ripristinò il supplizio de' parricidi, in cinque anni v'ebbe più condanne siffatte che non in molti secoli, e Seneca assicura essersi veduti più sacchi che croci[124]: quarantacinque uomini e ottantacinque donne furono condannati per avvelenamento. Così frequenti ricorrevano i supplizj, che si levarono le statue dal luogo dell'esecuzione, per non essere costretti a velarle ogni momento. Papirio, giovincello di gente consolare, fu dalla madre col lusso e colla seduzione spinto in tali disordini, che colla morte si sottrasse al rimorso. Lepida, figlia degli Emilj, nipote di Silla e di Pompeo, accusata d'adulterio, di supposta [123] prole, di avvelenamento, di sortilegio, viene al teatro col corteo di tutte le nobili matrone, e invocando gli avi commove il popolo contro il marito accusatore: eppure per deposizione degli schiavi è convinta rea, e bandita. Quasi in ogni famiglia (dice Plutarco) v'ha molti esempj di figliuoli, di madri, di mogli uccise; i fratricidj sono senza numero.

Quel pudore, che è custodito da una felice ignoranza, come potea durare in Roma, dove giovinetti d'ambo i sessi stavano rinfusi nelle prime scuole; nei bagni lavavansi impuberi e vecchi alla mescolata con donzelle e matrone; priapi si ostentavano sulle vie o pendevano dal collo delle bambine; le case erano adorne di sfacciate nudità? Alle fanciulle davansi a leggere gli antichi comici, impudentemente osceni; e gli epigrammi di Marziale erano conosciuti perfin dalle caste Padovane. All'inverecondo tripudio nei Lupercali, alle veglie di Venere[125], alle danze delle cortigiane correnti nude in onor di Flora, assisteva la matrona colla figlia, non [124] meno che ai teatri dove gli spettatori poteano domandare che le attrici si snudassero, o si rappresentavano i deliquj della prostituzione; che più? le bestiali nozze di Pasifae furono prodotte nell'anfiteatro di Tito, presenti ottantamila spettatori[126].

I ricchi per voluttà, i poveri per necessità, alle gioje tranquille con che il matrimonio compensa i sacrifizj di due cuori onesti, preferivano le tempeste della mercenaria promiscuità o d'un celibato licenzioso. Contro di questo, nell'anno 9 di Cristo, Augusto promulgò la legge de maritandis ordinibus, che, per singolare testimonianza della sua necessità, porta il nome di due consoli smogliati, Papio e Poppeo. Voleva essa che, se l'uomo a venticinque, la donna a vent'anni non avessero prole, conseguissero la metà solo delle eredità e dei legati, il resto all'erario; per consoli si preferisse chi ricco di figli; chi in Roma ne contasse tre, quattro in Italia, nelle provincie cinque, restasse immune da servizj personali; partorito tre volte, la donna latina divenisse cittadina romana, la romana ingenua fosse sciolta dalla tutela del marito; la liberta dopo quattro, sicchè potesse far testamento, amministrare il suo, adire eredità[127].

Augusto, radunati i cavalieri come solevasi pel censo, lodò quei pochissimi che avevano adempito ai voti della [125] natura e del civile governo, e meritato il nome d'uomini e di padri, e promise loro le cariche principali; i celibi rimbrottò come rei d'assassinio, impedendo la vita ai futuri; d'empietà, perchè lasciavano perire il nome degli avi; di sacrilegio, perchè scemavano il genere umano; e li minacciò di gravi ammende se entro un anno non obbedivano alla legge. Ma corruzioni così profonde, così radicato egoismo si guariscono per leggi? I cittadini, che eransi rassegnati alla perdita delle libertà politiche, resistettero a questa riforma de' costumi, poi la elusero con isposare impuberi, sperdere i concetti, esporre i nati; moltiplicandosi così le vittime, ed empiendo di delatori i penetrali domestici, tanto che Tiberio la dovette modificare. I divorzj poi erano talmente cresciuti, da parere un legale adulterio[128]; e a pena davasi un matrimonio incontaminato[129].

Dione racconta che ogni dama teneasi accanto schiavi ignudi; altre uscivano accompagnate da giovani scostumati; e neppur la castigata lingua del Lazio basta a velare le turpitudini, di cui le imputa Giovenale. Tacito ci mostra le matrone scendenti nell'arena coi gladiatori, o prostituentisi a gara colle sciupate, o dantisi agli schiavi con tal furore, che si dovette opporvi rimedj [126] che lo attestano, nol corressero[130]. Nell'anno 19 di Cristo, il senato interdiceva che le vedove, le figlie e nipoti d'un cavaliere romano si facessero matricolare fra le meretrici: divieto inesplicabile, se Svetonio e Tacito[131] non c'informassero che con ciò voleano sottrarsi alle pene della dissolutezza. E poteva di meglio aspettarsi ove regnava la meretrice Actea? ove la meretrice Poppea accusava Ottavia d'adulterio per invaderne il talamo? ove le belle erano ornate per rallegrare un'orgia dell'imperatore, e domani esser gettate come la corona dei papaveri?

L'accordo della voluttà colla crudeltà notammo altra volta come carattere della civiltà pagana. Dei gladiatori abbiam già detto assai (t. ii, p. 87). Dall'India e dall'Africa si conduceano belve a dare spettacolo di stragi al popolo, costretto dai tempi alla pace. L'usanza crebbe sin al farnetico; e a grande spesa andavasi a caccia di leoni, d'elefanti[132], di jene, di coccodrilli, pensando [127] artifizj da accalappiarli senza ferirli. Gran perfezione aveano conseguita i mansuetarj, che per via d'amuleti, o più veramente colla fame, assoggettavansi le fiere e le avvezzavano a combattimenti o a giuochi bizzarri, come elefanti a lanciar armi, tracciar lettere colla proboscide, fin ballare sulla corda; pesci venire alla chiamata; leoni pigliar lepri in caccia e non mangiarle; aquile levarsi a volo con un ragazzo fra gli artigli. Augusto, nel suo Indice, vantasi d'aver fatto uccidere quasi tremilacinquecento fiere nel circo, nel fôro e nell'anfiteatro: ducento leoni caddero ne' giuochi preseduti da Germanico; novemila bestie per dono di Tito, mescendosi anche le donne agli ammazzatori: ne' giuochi di Trajano, durati cenventitre giorni, si diè morte a [128] millecento bestie; a diecimila in quelli d'Adriano; e Probo fece correre mille struzzi ed altri animali in proporzione, nel circo piantato a modo di foresta.

Sarebbero follie come quelle d'altri secoli, se non ricordassimo che le fiere combatteano con uomini; se non ci raccontassero gli storici che dal buon Marco Aurelio fu presentato al popolo un leone, educato a mangiar uomini, e il facea con sì bel garbo, che il popolo ad una voce implorò dall'imperatore gli desse la libertà. Ma fin sul teatro, se rappresentasi l'Incendio dell'antico Afranio, si appicca vero fuoco alle case, e agl'istrioni lasciasi arbitrio di saccheggiarle[133]: con un vero supplizio finisce il dramma di Prometeo, dove un Laureolo, inchiodato alla croce, è divorato da una belva; in un altro, Orfeo è straziato da orsi veri in luogo delle Baccanti; uno è bruciato per figurar Ercole sul monte Oeta; un altro, mutilato ad imitazione di Ati; lacerato da un orso un Dedalo, che ben vorrebbe aver le ali: l'eroismo di Muzio Scevola è riprodotto da uno schiavo, condannato a lasciar bruciarsi la mano. E queste scene racconta e ammira Marziale[134].

Nè già si tratta d'un popolo ignorante e grossiero; anzi la coltura e l'urbanità v'erano al colmo. Le più forbite poesie, le storie più insigni correvano per le mani, colla prurigine della novità; il vulgo riceveva cibo non faticato, assisteva a gratuiti spettacoli d'inenarrabile magnificenza, pei quali traevansi gladiatori dalla Germania, reziarj dalla Gallia, leoni dall'Atlante, giraffe, rinoceronti, boa dalla Nigrizia, ballerine da Cadice, pantomime dalla Siria; e dopo essersi soleggiato sotto portici stupendi d'arte e di ricchezza, esercitato nel Campo Marzio fra monumenti che sono tuttora la meraviglia di chi guarda e la scuola di chi conosce, ottocento [129] terme l'aspettavano a tergersi mollemente, onde poi presentarsi al teatro a riscuotere gli omaggi dei re stranieri. Nell'anfiteatro si può irrorare gli spettatori con una pioggia profumata, si spolvera con ambra ed oro l'arena del circo, ove il popolo parteggia per gli attori, versando in tali gare il sangue, che un tempo scorreva per l'acquisto dei civili diritti.

La folla dei liberti, cacciatisi fra il numero dei cittadini nella guerra civile, v'avea portato le seduzioni delle ricchezze male acquistate, l'insolenza del villan rifatto, gli abusi dell'improvvisa e ineducata fortuna. Antichi signori, sopravissuti alla guerra e alle proscrizioni, dopo segnalatisi per ambizioni, intrighi, giudizj e giuramenti falsi, e per ispregio del popolo e della religione, della presente nullità si consolavano in un epicureismo femmineo, di cui era tipo Mecenate, scrittore e consigliere d'Augusto, avvolto in abbigliamenti donneschi, scortato da eunuchi, cercante emozioni nel vino e nei moltiplicati divorzj[135]. Anche i buoni, esclusi dallo esercitar l'ambizione nelle magistrature, e timorosi di recare ombra ai monarchi, limitavansi a sguazzare in lusso privato, e ubriacarsi nei godimenti, come chi non vuol ricordarsi della spada per un filo sospesagli di sopra il capo. Mentre centinaja di servi, macchine intelligenti, faceano per loro ogni cosa, dalla cucina fino ai versi, essi beavansi d'ozj voluttuosi al fôro, per le basiliche, nei bagni. Se la lana apula e spagnuola è troppo pesante, gl'Indiani e i Seri mandano vesti di seta trasparenti; recasi in pugno una palla di cristallo per non sudare; le sale de' banchetti sono intepidite da bocche di vapore; le finestre, riparate con pietre speculari.

Seneca, andato a visitare a Patria la villa Linterno ch'era stata di Scipione Africano, non rifina sulla differenza [130] tra la semplicità di quella e il lusso odierno. — Quel terror di Cartagine, di cui è merito se Roma una volta sola fu presa; in questo piccolo e oscuro bagno lavava il corpo stancato dalle rusticali fatiche, stette sotto questo tetto così misero, lo sostenne questo pavimento così vile: or chi soffrirebbe di lavarvisi? Povero e abjetto uno si stima se le pareti non rifulgano di grandi e preziosi tondi marmorei; se marmi alessandrini non sieno variegati con incrostamenti numidici; se non sieno coperte da musaici a guisa di pitture; se la pietra tasia, un tempo raro spettacolo in qualche tempio, non circondi le nostre piscine, ove tuffiamo i corpi esinaniti dal sudore; se l'acqua non fluisce da pispilli d'argento. E ancora parlo de' plebei: che dire dei bagni de' liberti? quanta spesa nelle statue, nelle colonne che nulla sostengono! quanto fragoroso cascar di acque per iscaglioni! Tanto ci piacemmo di delicature, che non vogliam calcare se non gemme. In questo bagno di Scipione apronsi piuttosto feritoje che finestre nel muro di pietra: ma ora chiamansi da nottole i bagni se non siano acconci in modo che per ampie finestre ricevano il sole, se dal bagno non si vedano le campagne e il mare. Una volta tutto era più semplice; ma quanto rialzava l'introdursi in quei bagni grossolani, che sapeasi aver preparati per te Catone o Fabio Massimo o alcun de' Cornelj! perocchè nobilissimi edili si assumevano l'uffizio di entrar ne' luoghi dove accorreva il popolo, ed esigerne la nettezza e una temperatura utile e salubre, non questa d'oggi, simile ad incendio; per modo che ci sa di rozzo Scipione che non ammetteva nel suo tepidario la luce per grandi finestre, nè si facea cuocere nel bagno. V'ha di più: non si lavavano tutti i giorni, ma solo le braccia e le gambe, insudiciate dal lavoro; tutt'il corpo, ogni otto dì. Come avran puzzato! Sì; puzzato di fatica, di milizia, d'uomo: ora, introdotti [131] i bagni più netti, siam più sporchi in grazia de' tanti unguenti, che fin due o tre volte al giorno si rinnovano, talchè si sa non di se stessi, ma di pomata»[136].

Non sarem noi certamente che declameremo contro queste comodità belle e buone; ma somigliano a novelle orientali i racconti delle ricchezze e del lusso d'allora. Lollia comparve ad un banchetto con indosso per otto milioni di perle, frutto de' rubamenti di suo avo, vittima ch'era stato d'Agrippina. Uno, deplorando le gravi perdite sofferte in tempo della guerra civile, lasciò morendo quattromila centosedici schiavi, tremila seicento paja di bovi, ducencinquantamila capi d'altro bestiame, e dodici milioni di lire, non calcolando i terreni[137]. Crispo da Vercelli possedeva quaranta milioni di lire nostre; sessanta il filosofo Seneca; cinquanta l'augure Cneo Lentulo e Narcisso liberto di Claudio; ancor più Icelo favorito di Galba: Palla, altro liberto di Claudio, radunò tali ricchezze, che riducendole a terreni avrebbero coperto la trecencinquantesima parte della Francia[138]. Secondo Plinio, i beni da Nerone confiscati a sei ricchi costituivano metà dell'Africa proconsolare[139]. Più tardi abbiam da Vopisco che Aureliano depose in una villa privata dell'imperatore Valeriano cinquemila schiavi, duemila giovenche, mille cavalle, diecimila pecore, quindicimila capre[140]: sicchè non è più declamazione esagerata quella di Seneca ove dice che provincie e regni bastavano appena a pascolar le mandre di taluni, i cui schiavi erano più numerosi che belliche nazioni, la casa più vasta che città[141]. [132]

Nerone consumò ottocento milioni in donativi; Caligola cinquecencinquanta; settanta milioni Domiziano nella sola doratura del Campidoglio[142]. Poi venne il farnetico de' profumi: l'Arabia non stillava incensi bastanti pei funerali degl'imperatori; Adriano, ad onore della suocera e dell'antecessore suo, regalò incredibile copia d'aromi a tutto il popolo, e fece scorrer balsami per le scene e pei giardini; Elagabalo nuotava in piscine miste d'essenze, e profondeva a caldaje il nardo[143]. E fuori e dentro, il corpo aspergeasi d'aromi: perfino i guerrieri ai giorni solenni ungevano le bandiere e le aquile, e profumavano se stessi di preziosità: reputavasi lode ad una donna se, passando, colla fragranza adescasse fin quelli che ad altro stavano intenti[144].

Il trattato delle pietre preziose, che Plinio desunse da uno di Mecenate, mostra quanto più di noi avessero raffinato questo lusso. Le dita, dal medio in fuori, s'empivano di anelli[145]; di gemme si facevano le tazze; e singolare stima godeano i vasi murrini, venuti dalla Caramania e dalla più interna Partia[146]. Anche le [133] perle aveansi in pregio, e le donne se ne ornavano, anzi caricavano testa, collo, petto, braccia, fin le pianelle; Caligola n'andava ingombro, e ne fregiava le prore delle navi, come Nerone i letti di sue lussurie; eppure si pagavano il triplo dell'oro sulle rive del golfo Persico e di Taprobana (Seilan)[147], ed una sola fu comprata sei milioni di sesterzj.

A peso d'oro pagavasi la seta; onde allorchè Giulio Cesare fece velare il suo teatro di quella stoffa, i soldati tumultuarono, quasi n'esaurisse l'erario; e di barbarica morbidezza fu appuntato Claudio, perchè sotto un padiglione serico coronò due re dell'Asia[148]. Tuttavia se ne allargò l'uso, ad onta delle prammatiche di Alessandro Severo ed Aureliano. Dalla Persia la traevano, come anche tappeti di Babilonia variopinti; un de' quali da un imperatore fu pagato quattro milioni[149].

Le tele d'India erano pure cercatissime; l'avorio dell'Etiopia e della Trogloditide, e massime dell'India ornava i tempj, le sedie dei magistrati curuli, i mobili e le soffitte de' ricchi; e tanto crebbe il consumo, che più non se ne trovando, doveansi segare ossa d'elefanti. Nè meno ambiti erano l'ebano e il cedro d'Africa; vascelli egizj sferravano apposta dalle cale di Berenice per andarsi caricare di testuggini lunghesso l'Africa; e più in delizia erano quelle color d'oro dell'Oceanitide, isola alle foci del Gange.

Tutte poi le provincie s'avaccino a mandare a Roma quel che di meglio producano: papiro, vetri, lino l'Egitto; frutti e piume l'Africa; tappeti la Mesopotamia; lane fine, cere e miele la Spagna; la Gallia panni, bestiame, olio, lavori di ferro, di rame, di piombo, di [134] stagno; cuoj e pesce salato il Ponto, stagno la Britannia; i mari settentrionali l'ambra, di cui portavansi addosso figurine da costar più d'un uomo[150]; la Grecia finissimi tessuti, lavori artistici, e quel pedante, arnese speciale nelle case d'allora, che ne' corteggi compariva insieme colle meretrici e coi bagascioni, che sapea tutto, che facea tutto, dai servigi di lenone all'educazione dei figli, che soffriva con pari longanimità i favori e gli strapazzi, purchè potesse godere l'onor de' banchetti e della conversazione signorile. Romano di conto sarà quello che usi lane dell'Attica e di Mileto, le meglio pregiate dopo le nostre di Taranto, porpore di Laconia, panni d'Arsinoe, tappezzerie d'Alessandria, vetri di Diospoli, papiro del Nilo, bronzi di Corinto, formaggi dell'Asia Minore, miele del monte Imetto, cere e stoffe dell'Egeo, stoviglie di Copto e della Lidia. Aggiungete altro oggetto d'esecrabile lusso, gli eunuchi, viziosi stromenti del vizio; e dieci milioni fu pagato uno da Sejano[151].

Questo lusso gigantesco insieme e miserabile, espressione d'un raffinamento materiale che non istà in proporzione col morale, il despotismo lo fomenta, acciocchè la mollezza e i godimenti distraggano dal sentire la tirannia, l'egoismo lo volge ai triviali diletti della gola. Cinque pranzi il giorno si facevano, vuotando lo stomaco per rimpinzarlo di nuovo. Gareggiavano d'avere i pesci più rari e più grossi, ne tenevano vivaj, costituivano magistrati sopra l'impedire che alcuni se ne allontanassero dai lidi; talvolta si mettevano in tavola vivi, acciocchè le varie gradazioni che dava ai loro colori l'agonia, ricreassero i convitati, che, un istante dopo [135] esserseli sentiti guizzar sotto la mano, li godevano conditi. Calliodoro vendè un servo milletrecento denari onde comprarsi una triglia di quattro libbre[152]: un altro spese tremila sesterzj per comperare tre barbi: essendone regalato uno a Tiberio, questi il credette di troppo valore e mandollo a rivendere, e Ottavio lo pagò cinquantamila sesterzj. Quest'Ottavio era l'emulo d'Apicio, il quale fu maestro e tipo di ghiottornia in Roma[153], e poichè ebbe consumato tesori alla tavola, si uccise per non trovarsi ridotto a vivere con soli dieci milioni di sesterzj (2 milioni di lire)[154]. Il cuoco pertanto era il servo più considerato; la squisitezza dei banchetti, primaria occupazione degli schiavi. Poi repente il ricco vuol assaggiare la povertà, e in una cameruccia soffitta mangia s'un tagliere per terra[155]; e si giudica meravigliosa invenzione il fondere la tartaruga in modo che sembri legno, e così aver mobili che valgano mille volte più di quel che mostrano.

Perocchè non è tanto alla gola o alla mollezza che vogliasi soddisfare, quanto al farnetico dello straordinario [136] (monstrum). Da qui le bizzarrissime fantasie degli imperatori e dei privati; le effigie colossali, repugnanti a quella misura che avea costituito la finezza dell'arte greca; e il gigantesco ponte di Caligola, e venti cavalli aggiogati al carro di Nerone, e il suo smisurato palazzo con statue smisurate; e più ammirato ciò che più esorbitava. Da qui volere all'inverno rose, neve all'estate; e cercare il vizio per lo scandalo che produce[156]. Agrippina pagò milleducento lire un usignuolo. Caligola non di rado stemperava le perle ne' suoi bicchieri, o faceva servire in piatti d'oro, che poi distribuiva ai convitati; molti giorni seguitò a lanciar dall'alto somme d'oro al popolo; fece compaginare galee di cedro con vele di seta e prore d'avorio ornate di margarite; trasportare d'Egitto un obelisco sovra un vascello sì grande, che quattro uomini appena ne abbracciavano l'albero. Nerone ha tappeti babilonesi che valgono quattro milioni di sesterzj, oltre la tazza murrina da trecento talenti; nei funerali d'una scimia spende i tesori d'un ricco usurajo da lui esigliato; in que' di Poppea, più cannella e cassia che in un anno non ne produca l'Arabia. Vasi preziosissimi quanto fragili devono solleticare il gusto col pericolo di vedere a un tratto perire un tesoro: una tavola di cedro costò a Cetego trecentomila lire. Per la ragione stessa aveasi a noja la luce diurna[157], e Pedo Albinovano ci racconta di avere abitato sopra la casa di Spurio Papino, che era di cotesti lucifugi. — Verso la terz'ora di notte, sento colpi di scudiscio. Che fa egli? domando. — Si fa rendere i conti (era il tempo che castigavansi gli schiavi). Sulla mezzanotte, odo un grido penetrante. Cos'è? — Egli si esercita a cantare. Verso le due di mattina, — Che fragor di ruote è cotesto? — Egli esce in calesso. Al levar del giorno si corre, si chiama; cantiniere, [137] cuciniere sono in moto. Che è, che non è? egli esce dal bagno, e chiede vin melato»[158].

Petronio Arbitro, in un romanzo intitolato Satyricon, ci descrive la vita di Trimalcione, doviziosissimo baggeo, e prosopopea de' tanti ricchi che lussureggiavano allora a Roma. Parrà forse lungo, non certamente disopportuno il qui riferirne una cena, spogliandola dalle interminabili digressioni, e accorciandola d'assai, non senza premunire contro le esagerazioni consuete dei satirici:

— Sapete presso chi oggi si fa baldoria? presso Trimalcione, uomo suntuoso, che nella sala da pranzo ha un oriuolo ed un trombetta, cioè due schiavi, istruiti ad avvertirlo di tutti i momenti ch'egli consuma nella vita. Ci rivestimmo lesti lesti, e finchè venisse l'ora, ci diemmo a ronzare e a trastullarci, entrando pe' circoli de' giocolieri; quando ad un tratto vedemmo un vecchio calvo, vestito di palandrane rossiccio e coi calzari, che stava facendo alla palla con alcuni fanciulli a lunghi capelli[159]. Egli non ribattea la palla che avesse toccato il terreno, ma un servo ne aveva in un sacco quante ai giocatori bastassero. Altre singolarità notammo: eranvi due eunuchi posti in diversi punti del circolo, de' quali uno teneva una mastelletta d'argento, l'altro noverava le palle che cadeano. E intanto che ammiravamo cotali splendidezze, Menelao venne a dirci: — Quest'è colui, presso al quale mangerete. Non vedete che a tal modo principia la cena?»

«Ancor discorreva Menelao, quando lo splendidissimo Trimalcione scoccò le dita, e a questo segno l'eunuco misegli sotto la mastelletta, in cui esso scaricò la vescica, poi chiese acqua alle mani, e le dita umide terse sul capo di un ragazzo. Lunga cosa sarebbe descriver [138] tutto. Entrammo ne' bagni, e al momento che il sudore ci coperse, passammo al fresco. Trimalcione, tutto strofinato di manteche, faceasi fregare non con lenzuoli di lino, ma con mantelli di finissima lana. Tre mediconzoli intanto trangugiavano falerno alla sua presenza, gareggiando a chi più ne mesceva; e Trimalcione esortavali ne bevesser pure a josa. Involto quindi in una tovaglia di scarlatto, fu messo nella lettiga, cui precedevano quattro adorni lacchè ed una carretta a mano, dove portavasi un mignone vecchio e cisposo, più brutto di Trimalcione, di cui era la delizia. Il quale così trasportato, e accompagnato da armoniosi flautini, si avvicinò alla testa di lui, e come se gli parlasse all'orecchio, canticchiò per tutto il cammino. Noi, stanchi ormai di maravigliarci, teniam dietro, e insieme con Agamennone, sofista di casa, arriviamo alla porta, sullo stipite della quale era inchiodato un cartello con questa iscrizione: Qualunque schiavo uscirà senz'ordine del padrone, buscherà cento sferzate.

«Sull'ingresso, un portiere vestito di verdechiaro, con cintura color ciliegia, sbucciava piselli in un vassojo d'argento. Pendeva sopra la soglia una gabbia d'oro, dalla quale una gazza variopinta salutava gli avventori. Di tante cose stordito, io fui per cadere e fracassarmi le gambe, colpa di un cane che alla sinistra dell'ingresso vicino alla camera del guardiano era dipinto sul muro, legato alla catena, colle parole cubitali Guardati dal cane[160]. Ne risero i miei colleghi, ma io, raccolto lo spirito, proseguii lungo il muro. Il luogo ove si vendono gli schiavi era tutto dipinto a cartelloni, insieme col ritratto di Trimalcione, chiomato, col caduceo in mano, in atto d'entrare in Roma, e Minerva ne reggeva le redini. Più innanzi era in figura d'imparare [139] i conti, e più oltre in foggia di tesoriere; e il bizzarro pittore ogni cosa avea diligentemente rappresentata coll'iscrizione: sul finir poi del portico eravi Mercurio, che col mento rialzato lo riponea sopra un alto tribunale. Ivi appresso teneasi la Fortuna col corno dell'abbondanza, e le tre Parche filando pennecchi d'oro. Nel portico una partita di valletti veniva esercitata da un istruttore; e in un grande armadio erano riposti i Lari d'argento, una statua marmorea di Venere, ed una scatola d'oro grandicella, in cui diceano venir serbata la barba di esso...[161].

«Assorti in tante delizie, andavamo nel triclinio, quando un ragazzo, a ciò destinato, gridò, — Col piè destro». Noi tremammo che alcun di noi non passasse col sinistro: ma introdottici tutti per bene, un ignudo schiavo prostrossi ai nostri piedi, supplicandoci lo liberassimo dal castigo, meritato con un grave delitto, quale era d'essersi lasciato rubare ne' bagni l'abito del tesoriere, che poteva valere dieci sesterzj... Sedutici, de' famigli egiziani altri versavano acqua diaccia alle mani, altri ci lavarono i piedi, togliendoci con esperta diligenza ogni bruttura dall'unghie. Nè tale molesto servigio faceano in silenzio, ma canticchiando: onde mi venne pensiero di provare se la famiglia tutta cantasse; perciò chiesi a bere, ed ecco un ragazzo prontissimo, che mi favorì parimenti di un'acida cantilena; e all'egual modo usava ogni altro, cui qualche cosa fosse chiesta; onde l'avresti creduto un triclinio da pantomimi.

«Venne un lautissimo antipasto, e ciascheduno già si era adagiato, fuorchè Trimalcione, al quale conservavasi il primo luogo, per nuova disposizione...[162] [140]

Il suo vaso era di metallo di Corinto, e rappresentava un asinello con una corba, nella quale da una parte stavano olive bianche, dall'altra nere. L'asinello era coperto da due scodelle, sul cui orlo si leggeva il nome di Trimalcione ed il peso dell'argento. V'aveva anche de' ponticelli saldati, sostenenti de' ghiri conditi con miele e papavero, e mortadelle caldissime sulla graticola, sotto la quale stavano prugne siriache, con chicchi di melogranato.

«Stavamo tra queste morbidezze, quando Trimalcione, portato a suon di musica, e collocato sopra piccoli guancialetti, mosse il riso di qualche imprudente, per quella sua testa pelata che sporgeva da un mantello di porpora; e intorno alla collottola teneva una crovatta guarnita d'oro, le cui estremità pendevano di qua e di là; nel dito mignolo della sinistra recava un grande anello dorato, e all'ultimo articolo del vicin dito uno men grande tutto d'oro, come a me parve, ma saldato con ferruzzi in forma di stelle. Per mostrarci altre ricchezze si scoperse il braccio destro, ornato di smanigli d'oro legati in un cerchietto d'avorio con laminette luccicanti. Come poi con uno spillo d'argento ebbesi nettati i denti, — Amici (disse), non avevo ancor voglia di venire al triclinio; ma perchè la mia assenza non vi [141] facesse troppo aspettare, ho sospeso ogni mio divertimento. Permettete però ch'io finisca un mio giuoco».

«Avea dietro un ragazzo con uno sbaraglino di terebinto, e con dadi di cristallo; e in luogo di pedine bianche e nere, usava monete d'oro e d'argento. Mentr'egli giocando avea distrutta la schiera opposta, e noi eramo ancora all'antipasto, una tavola fu portata con una cesta, entro cui una gallina di legno colle ale distese in cerchio, come quando covano. Tosto due schiavi, a strepito di musica, si posero a frugar nella paglia, e toltene alcune ova di pavone, distribuironle ai convitati. Trimalcione voltandosi disse: — Amici, ho ordinato si mettessero sotto questa gallina delle ova di pavone; e temo, per bacco, non abbiano già il feto: proviamo tuttavia se sono bevibili»[163]. Noi prendemmo de' cucchiaj non men pesanti di mezza libbra, e rompemmo le ova; ma erano di pasta, ed io fui quasi per gittar il mio, sembrandomi contenesse il pulcino: poi, udendo da un vecchio commensale che alcuna cosa di buono doveva esservi, continuai a rompere il guscio, e ritrovai un grasso beccafico contornato dal torlo dell'ovo sparso di pepe.

«Trimalcione aveva già sospeso il giuoco, e d'ogni cosa richiesto, ed a voce alta data a ciascuno facoltà di bere novamente il vino col miele; quando ad un tratto l'orchestra diè un segno, e i cibi del primo servizio furono cantando rapiti dagli stessi sonatori. In mezzo a questo battibuglio cadde a caso una scodella d'argento, ed uno schiavo la raccolse dal pavimento; ma Trimalcione avvedutosene lo fece schiaffeggiare, e comandò la gettasse: il credenziere tra le altre lordure la scopò via... [142]

«Recaronsi allora bottiglie di vetro perfettamente turate, su cui era scritto, Falerno d'Opimio, d'anni cento[164]. Intanto che leggevamo le etichette, Trimalcione battendo le mani esclamò: — Ohimè! ohimè! il vino dunque vive più vecchio dell'omiciattolo? e noi dunque facciamone gozzoviglia. Il vino è vita. Ve lo do per vero d'Opimio: jeri nol feci mescere sì buono, benchè i convitati fossero più cospicui». Mentre noi si beveva ammirando le squisite magnificenze, un servo portò una figura d'argento accomodata in modo, che da ogni parte se ne volgevano gli articoli e le vertebre col rallentarle...

«Tenne dietro agli applausi una portata, non grande quanto credevasi, ma la cui novità trasse gli occhi di tutti. Era in forma d'una credenza rotonda, con in giro le dodici costellazioni, sulle quali il cuciniere avea posto cibi convenienti alla figura: sull'ariete i ceci di marzo, sul toro un pezzo di bufalo, testicoli e reni sopra i gemelli, una corona sul cancro, sul leone un fico d'Africa, sulla vergine una vulva di troja lattante, sulla libbra una bilancia che da una parte conteneva una torta e dall'altra una focaccia, sullo scorpione un pesciatolo di mare che porta quel nome, sul sagittario un gambaro marino, sul capricorno una locusta marina, sull'acquario un'anitra, sui pesci due triglie; in mezzo poi v'era un cespuglio d'erbe, con sopravi un favo.

«Il famiglio egiziano recava intorno il pane sopra un tamburino d'argento, egli pure con pessima voce canticchiando una goffa canzone sul laserpizio. Noi ci acconciavamo tristamente a quelle trivialità, ma Trimalcione disse: — Ceniamo, che tale è l'ordine della cena». Così detto, sopragiunsero alcuni, i quali ballando [143] un quartetto a suon di musica, scoprirono la parte superiore di quel credenzino, e allora vedemmo per di sotto, cioè in un altro servizio, ventresche e grassi circondanti una lepre coll'ale, che pareva il cavallo Pegaso; e ai canti quattro satiretti, dai cui ventri versavasi un liquore impepato sopra i pesci, i quali pareano nuotar nel mare. Applaudimmo, facendo eco ai famigli, e lietamente assalimmo quelle squisitezze. Trimalcione contento del buon ordine, — Trincia», esclamò; e tosto lo scalco si fece innanzi, e a suon di musica sì destramente fe in pezzi le vivande, che l'avresti creduto un cocchiere in lizza fra lo strepito dell'organo idraulico...

«In questo mezzo comparvero valletti, che agli strati sovraposero coperte, su cui erano dipinte reti, e cacciatori colle aste, e un intero apparecchio di caccia. Non sapevamo che pensare di ciò, quando fuor del triclinio alzatosi un gran romore, entrarono tutt'a un colpo alcuni cani di Sparta, che intorno alla mensa si diedero a correre. Un altro desco tenne lor dietro, sul quale era posto un cignale imberrettato di prima grandezza, da' cui denti pendevano due cestelli trecciati di palma, un de' quali colmo di datteri della Siria, e l'altro di datteri della Tebaide. All'intorno v'avea porcellini fatti di torta, come se fossero lattonzi, per significare che il cignale era femmina; essi pure inghirlandati. A tagliare il cignale non venne quello scalco che aveva appezzate le altre vivande, ma un gran barbone, colle gambe ne' borzacchini, e con un abitino a più colori, il quale impugnato il coltello da caccia, gli percosse gagliardamente un fianco, e dalla piaga volaron fuori dei tordi. Pronti furono colle canne gli uccellatori, che li presero mentre svolazzavano per la sala. Dipoi, avendo Trimalcione fattone dar uno a ciascuno, soggiunse: — Vedete come questo porco selvatico abbiasi mangiate tutte le ghiande?» E tosto i donzelli corsero [144] ai cestini che pendevano dai denti, e i datteri divisero tra i commensali.

«Io, che stavami quasi solo in un canto, ruminavo per qual ragione il cignale portasse berretto; e non trovandola, me ne apersi a quel mio interprete. Ed egli: — Te lo spiegherebbe fino il tuo servo; non c'è enigma; la è cosa lampante. Questo cignale essendo rimasto intatto alla cena di jeri, e dai convitati rimandato, oggi torna al convito in guisa di liberto»[165]. Condannai il mio stupore, e null'altro richiesi, per non parere non avessi mai cenato con galantuomini.

«Tra questi discorsi, un bel ragazzo, cinto di viti e d'edera, che or Bromio dicevasi, or Lieo, ora Evio, portò intorno un panierino d'uve, cantando con voce acutissima poesie del suo signore; al cui suono voltosi, Trimalcione gli disse, — Dionisio, tu sei liberto». Allora il ragazzo tolse al cignale il berretto, e sel pose sul capo; e Trimalcione di nuovo, — Ora non negherete ch'io possieda il padre Bacco». Applaudimmo all'arguzia di Trimalcione, e diemmo assai baci al ragazzo, che venne intorno...

«Chi poteva indovinare che, dopo tante lautezze, non fossimo che a mezza strada? Di fatto, levate a suon di musica le mense, si condussero nel triclinio tre majali bianchi, a nastri e campanelli, dei quali il cerimoniere diceva uno avere due anni, l'altro tre, il terzo esser già vecchio. Io pensai che coi porci venissero i giocolieri, onde, com'è costume ne' circoli, far qualche maraviglia; ma Trimalcione troncando ogni dubbio, — Qual di cotesti (disse), amereste voi che in un istante si mettesse in tavola? Così i fittajuoli fanno dei polli, d'un fagiano o di simili bagattelle: ma i miei cuochi usano cuocere un vitello tutto intero». E chiamato [145] il cuoco, senz'aspettare la nostra scelta, comandò ammazzasse il più vecchio; poi ad alta voce, — Di qual decuria se' tu?» ed essendogli risposto, della quarantesima, soggiunse: — Comperato o nato in casa? — Nè l'un nè l'altro (rispose il cuoco), ma vi fui lasciato per testamento da Pansa. — Bada bene (gli replicò) d'affrettarti, altrimenti io ti caccerò nella decuria dei valletti». Il cuoco, stimolato da questa minaccia, andossene col majale in cucina; e Trimalcione rivoltosi a noi piacevolmente, — Se il vino non vi aggrada, lo cambierò; ma sta a voi il mostrare che vi piaccia. Grazie al cielo, io non lo compro, ma ogni cosa che spetta al gusto nasce in un mio poderetto, ch'io per altro non conosco. Mi si dice che arrivi da Terracina fin a Taranto. Ora io penso di unir la Sicilia a quelle mie glebe, perchè, se voglio andare in Africa, non abbia a scorrere per altri terreni che per i miei»...

«Ancor non avea svaporate queste fandonie, quando un altro tagliere, carico di quel gran majale, coprì la tavola. Noi ci diemmo ad ammirare tanta prestezza, ed a giurare che neanco un pollo potevasi cuocere così detto fatto, e tanto più quanto maggiore ci parea quel porco di quel che ci fosse prima sembrato il cignale. Trimalcione guardandolo attento, — E che? (disse), questo porco non è stato sventrato. No, perdio, qua, qua subito il cuoco». Questo comparve malinconioso, e avendo detto che se n'era dimentico, — Che dimentico? (gridò Trimalcione), pensi tu che trattisi di non avervi messo il pepe o il cimino? Fuor camiciuola». Senz'altro indugio il cuoco viene spogliato, e tutto mesto si stava in mezzo a due aguzzini; ma tutti ci ponemmo a pregare e dire: — Gli è un accidente; lascialo, di grazia; e se altra volta mancasse, niun di noi s'interporrà più per esso».

«Io non mi potei trattenere dal piegarmi all'orecchio [146] d'Agamennone e dirgli: — Questo servo deve per certo essere un gran birbo. Chi mai si scorda di sventrare un majale? non gli perdonerei, perdio, se si trattasse d'un pesce». Non fece però così Trimalcione, il quale, serenata la fronte, disse: — Or bene, poichè tu sei di sì manchevole memoria, sventracelo qui pubblicamente». Il cuoco, ripreso il grembiule, impugnò il coltello, e con man timorosa tagliò qua e là il ventre del porco; ed ecco dalle ferite, allargantisi per l'urto del peso, scappar fuora salsiccie e sanguinacci. A questo spettacolo tutta la macchinale famiglia de' servi fe plauso, e con istrepito felicitò Gajo; e il cuoco non solo fu ammesso a bere tra noi, ma ricevette una corona d'argento ed un bicchiere sopra un bacile di Corinto; e perchè da vicino l'osservava Agamennone, Trimalcione disse: — Io sono il solo che abbia del vero metallo di Corinto»...

«Entrò poi il suo agente, il quale, come venisse a recitare i fasti di Roma, lesse quanto segue: — Ai 25 luglio, nati nel territorio di Cuma, di ragione di Trimalcione, trenta fanciulli maschi e quaranta femmine; portate dall'aja nel granajo millecinquecento moggia di frumento; buoi domati cinquecento. Nello stesso giorno, Mitradate schiavo affisso alla croce per aver bestemmiato il genio tutelare di Gajo nostro. Nello stesso giorno, riposte in cassa centomila lire, che non si poterono impiegare. Nello stesso giorno, accesosi il fuoco negli orti Pompejani, cominciato la notte in una casa da villano. — Aspetta (disse Trimalcione); da quando in qua ho io comperato gli orti Pompejani? — L'anno scorso (rispose l'agente); perciò non erano ancor messi a libro». Trimalcione fece l'adirato, e soggiunse: — Qualunque fondo mi si compri, se dentro sei mesi io non ne sarò avvertito, proibisco che mi si porti in conto». [147]

«Entrarono finalmente i saltatori, ed un certo Barone, sciocchissima figura, si presentò con una scala, sulla quale fece salire un ragazzo, e comandogli saltasse e cantasse, tanto salendo, quanto standovi in cima. Il fece in appresso attraversare de' cerchi di fuoco, e tener co' denti una bottiglia. Il solo Trimalcione maravigliavasi, e diceva che quello era un ingrato mestiere; nelle umane cose però due sole esser quelle ch'egli con molto piacere osservava, i saltatori e le beccacce...»

Qui vengono grossolane baje di Trimalcione, indi il romanziere prosiegue: — Continuava egli così a tor la mano ai filosofi, quando portaronsi in un vaso alcuni viglietti, ed il paggio gli estraeva, e ne leggeva le sorti. Uno diceva, Denaro buttato iniquamente; e si portò un prosciutto con branche di gamberi sopra, un orecchio, un marzapane ed una focaccia bucata. Recossi di poi una scatoletta di cotognate, un boccone di pane azimo, uccelli grifagni, insieme con un pomo, e porri, e pesche, e uno staffile, ed un coltello. Uno ebbe passeri, uno un ventaglio, uva passa, miele attico, una vesta da tavola ed una toga, e tele dipinte: un altro ebbe un tubo ed un socco. Portossi pure una lepre, un pesce sogliola, un pesce morena, un sorcio acquatico legato con una rana, ed un mazzo di biete. Erano seicento i viglietti, de' quali altri non mi ricordo; e ridemmo lungamente di questa lotteria...

«Dopo altre parole di Trimalcione, gli Omeristi alzarono un gran gridore perchè, in mezzo ai famigli, fu portato sopra un amplissimo vassojo un vitello intero cotto a lesso, e con un caschetto sul capo. Ajace gli veniva dietro, il quale, come furibondo, imbrandito un trinciante, il tagliò rivoltandone i pezzi colla punta, a guisa di ciarlatano, or di sotto or di sopra, e distribuendolo a noi che facevamo tanto d'occhi. Ma non potemmo quelle eleganze a lungo osservare, perchè ad [148] un tratto sentimmo scricchiolar la soffitta, e tutto il triclinio tremare. Io saltai su spaventato, temendo che qualche saltatore non scendesse dalla parte del tetto; e gli altri convitati non meno attoniti alzarono i volti, curiosi qual novità venir potesse dal cielo. Ed ecco che apertasi la soffitta, si vide un gran cerchio che, quasi da larga cupola distaccandosi, venne giù, e gli pendeano d'intorno corone d'oro, e alberelli d'alabastro pieni d'unguenti odorosi. Mentre ci era ordinato prenderci di questi presenti, io volsi l'occhio alla mensa, sulla quale vidi già riposto un servizio di focacce, e in mezzo un Priapo fatto di pasta, che nel largo suo grembo tenea, secondo il solito, uva e poma d'ogni qualità.

«Noi accostammo le avide mani a que' frutti, ed improvvisamente un nuovo ordine di giuochi accrebbe la nostra allegria, perchè le focacce ed i pomi, appena colla minima pressione toccati, diffusero intorno tal odore di zafferano, da riuscirci sin molesto. Persuasi dunque che una vivanda sì religiosamente profumata fosse cosa sacra, noi ci rizzammo in piedi, e augurammo felicità ad Augusto padre della patria. Alcuni però avendo dopo questa venerazione rapiti quei frutti, noi pure ce n'empimmo i tovagliuoli. Tra questi fatti entrarono tre donzelli, involti in candide tunicelle, due dei quali misero in tavola gli Dei lari inghirlandati, ed uno recando attorno una tazza di vino, gridava, — Ti sieno propizj gli Dei»; dicea parimenti, che l'un d'essi chiamavasi Cerdone, Felicione l'altro, il terzo Lucrone[166]. E come fu portato in giro il ritratto di Trimalcione, che tutti baciarono, noi non potemmo, sebben con rossore, scansarcene...

«All'istante venne condotto un cane grassissimo, [149] legato alla catena, cui il portiere ordinò con un calcio di sdrajarsi, ed esso si distese avanti la mensa. Allora Trimalcione gittandovi un pan bianco, — Non avvi (disse) nessuno in casa mia, che m'ami più di costui». Il ragazzo, sdegnato ch'ei lodasse Silace così sbracatamente, mise in terra la cagnuccia, e l'aizzò contro di lui. Silace, secondo il costume cagnesco, empì la sala d'orrendi latrati, e stracciò quasi la Margarita del Creso. Nè a questa baruffa fermossi il rumore, perchè venne altresì rovesciata una lampada, di cui si ruppero i cristalli, e si sparse l'olio bollente addosso ad alcuno de' commensali. Trimalcione, per non parere incollerito di questo accidente, baciò il ragazzo, e gli comandò di salirgli sulla schiena. Egli vi andò subito, e messoglisi a cavalluccio, gli batteva col palmo delle mani le spalle, e ridendo chiedevagli, — Conta, conta, quanti fanno?...»

«Trimalcione, rimessosi un poco, ordinò si empiesse un gran fiasco, e si distribuisse da bere a tutti gli schiavi che sedevano a' nostri piedi, soggiungendo: — Se alcuno non vuol bere, versagli il vino sul capo». E così or faceva il severo, ed ora il pazzo. A queste famigliartà venner dietro intingoli, la cui memoria vi giuro che mi fa stomaco. Poichè tutte quelle grasse galline erano contornate di tordi, con ova d'anitra ripiene, le quali Trimalcione ci pregò con orgoglio di mangiare, dicendo che erano galline disossate...

«Capitò intanto un nuovo ospite che avea mangiato altrove, al quale Trimalcione chiese: — Che cosa aveste di squisito? — Lo dirò, se il potrò (rispose colui); perchè io sono di sì labile memoria, che talvolta dimentico lo stesso mio nome. Avemmo dunque per prima pietanza un porco, coronato con salsiccie intorno, e colle interiora benissimo condite: eranvi biete e pan bigio, che io preferisco al bianco, perchè fortifica. La [150] seconda pietanza fu una torta fredda, sparsa d'un eccellente miele caldo di Spagna; ma io non assaggiai della torta, e molto meno del miele. Quanto ai ceci ed ai lupini, ed agli altri legumi, nulla più ne mangiai di quel che Calva mi suggerisse: due pomi però mi riposi, che tengo chiusi in questo tovagliolino, perchè se io non porto qualche regaluccio al mio servitore, e' mi sgriderebbe; del che madonna saviamente suole ammonirmi. Oltre a ciò, avevamo dinanzi un pezzo di orsa giovane, di cui Scintilla avendo imprudentemente gustato, fu per vomitar le budella; io, al contrario, ne mangiai quasi una libbra, perchè sapeva di cinghiale. Se l'orso, diceva io, mangia l'omiciattolo, quanto più l'omiciattolo mangiar deve dell'orso? Finalmente avemmo del cacio molle, del cotognato, delle chiocciole sgusciate, della trippa di capretto, del fegato ne' bacini, delle ova accomodate, e rape, e senape, e tazze che parean piante: benedetto Palamede che le inventò! Furono portate intorno in una marmitta le ostriche, che noi non troppo civilmente ci prendemmo a piene mani, perchè avevamo rimandato il prosciutto».

«Non sarebbe mai giunto il termine di questi tedj, se non fosse comparsa l'ultima portata, composta d'un pasticcio di tordi, di zibibbo e di noci confette. Tenner dietro i pomi cotogni, contornati di chiodetti di garofano che pareano tanti porcini: e tutto ciò era pur passabile, se non si fosse data un'altra vivanda sì pessima, che saremmo voluti morir di farne anzichè mangiarne. Quando fu in tavola, noi pensammo fosse un'oca ripiena, contornata di pesci e d'ogni sorta uccelli; di che Trimalcione avvedutosi, disse: — Tutto questo piatto esce da un corpo solo». Io m'avvidi tosto di quel che era, e volgendomi ad Agamennone, — Resto maravigliato come tutti cotesti ingredienti sieno accomodati in guisa che pajon fatti di creta. E so d'aver [151] veduto a Roma, nel tempo dei Saturnali, di simili cene finte». Ancor non finivano queste mie parole, che Trimalcione soggiunse: — Così possa io crescer di ricchezza se non di corpo, come tutti questi intingoli il mio cuoco ha fatti col majale. Non può darsi più prezioso uomo di lui. Se volete, egli d'un coniglio vi farà un pesce, col lardo un piccione, col prosciutto una tortora, delle budella di porco una gallina; perciò il genio mio gli ha posto un bellissimo nome, e chiamasi Dedalo; e siccome ha egli gran fama, uno gli portò a Roma de' coltelli di Baviera». E comandò che gli si recassero, gli osservò con ammirazione, e ci permise di provarne la punta sulle nostre labbra.

«Al tempo stesso entrarono due schiavi, in aria di bisticciarsi per un di que' cingoli, a cui si attaccano i vasi che costoro si teneano sulle spalle. Trimalcione avendo pronunziata la sua sentenza, nè l'un nè l'altro volle chetarvisi, ma ciascheduno ruppe con bastoni il fiasco dell'altro. Sopraffatti della insolenza di quegli ubriachi, noi li tenevamo d'occhio, e vedemmo che da quei rotti vasi eran cadute ostriche e pettini, le quali un donzello raccolse, e in una marmitta recò intorno. Il cuciniere ingegnoso secondò queste splendidezze, portando lumache sopra una graticola d'argento, cantando con voce tremula e straziante. Io ho rossore a narrare ciò che seguì: imperocchè i chiomati donzelli (cosa non più udita), portando unguenti in un catino d'argento, unsero i piedi agli sdrajati commensali, dopo aver loro allacciate e gambe e piedi e calcagni con varie ghirlande; poi l'unguento medesimo fecer colare nei vasi di vino e nelle lucerne...

«Finalmente intirizziti pregammo il custode di metterci fuor della porta, ma egli rispose: — T'inganni se pensi uscire per donde sei entrato; nessun convitato giammai esce dalla porta medesima». In questa si udì [152] un gallo cantare; per la cui voce Trimalcione confuso, ordinò si spandesse vino sotto la tavola, e se ne mettesse nelle lucerne; di più trasportò l'anello nella man destra, e disse: — Non senza perchè codesto trombetta ha dato un tal segno: bisogna o vi sia incendio in alcun luogo, o taluno nel vicinato trovisi agonizzante. Lungi da noi sì tristi augurj; epperò chi mi porterà questo mal nunzio, avrà una corona in regalo...»

E sia fine a tante miserabili vanità.

V'avea dunque ricchezze, v'avea comodi, eleganze, lusso, fior d'arti belle e d'industria, coltura, sterminato dominio, commercio dilatato agli ultimi confini della terra, tutti gli elementi, di cui alcuni compongono la prosperità sociale. Al secolo dei lumi, al secolo del progresso applaudivasi anche allora, non meno iperbolicamente di quel che facciano i giornalisti d'oggidì. — Il mondo si schiude, si fa conoscere, si lascia coltivare ogni giorno meglio; le fiere scompajono, il deserto si frequenta, si aprono le roccie, la barbarie cede più sempre all'incivilimento, che popola ogni luogo, e sviluppa la vita, e raffina i governi; la stirpe umana minaccia divenir soverchia pel mondo. Roma che non ha fatto? insegnò all'uomo l'umanità, incivilì le tribù più remote e selvagge, addolcì i costumi, riunì gl'imperj dispersi, fece comune l'industria di tutti i popoli, l'ubertà di tutti i climi, la varietà delle favelle: ciò che non è a Roma, non è in verun luogo. Essa raccolse il mondo sotto l'equo suo impero, senza accettazion di persone o divario di grande e piccolo, di nobile e plebeo, di ricco e povero. La guerra oggimai non è che un nome, e pare un sogno quando s'ode che qualche lontanissima tribù mora o getulica osò provocare le armi romane; la spada ormai è incatenata dalle rose; le città non gareggiano che di magnificenza, la terra medesima pare s'infiori come un giardino, e che [153] Roma abbia dato al mondo una vita nuova»[167].

Eppure la pubblica prosperità deperiva. Il popolo re ci si presenta come uno stormo di schiavi, che inorgoglia delle follie e della bassezza di sua schiavitù; il governo, carpito da felici cospiratori, non curasi d'illuminare e dirigere la pubblica opinione, bastando adularla, vilipenderla o spegnerla; nè il nuovo sovrano ha mestieri di conquistar le anime e le intelligenze, purchè trovi modo di corromperle.

Con Tacito fremiamo vedendo allo scaltro Augusto seguire Tiberio, fango impastato col sangue[168]; poi un garzone frenetico; poi un sanguinario imbecille; poi il giovane allievo del filosofo più vantato, che raduna in sè e peggiora le dissolutezze e le atrocità de' precedenti, fa pompa delle infamie che Tiberio nascondeva, incendia, uccide maestro, moglie, amante, madre; e ad ogni nuova barbarie, popolo, cavalieri, senatori gli decretano nuovi ringraziamenti, ad ogni sua viltà s'affrettano di scender più basso colle loro umiliazioni. Ma invano domandiamo a Tacito la finissima industria onde Augusto inforcò gli arcioni di questa fiera indomita; e come mai gli antichi repubblicani si rassegnassero a un tiranno, a un pazzo, a un imbecille, a un mostro, e dopo loro lasciassero disputare il comando da un infingardo, un dissoluto, un ghiottone, un avaro. Tacito respirava l'atmosfera che pur sentiva corrotta, e non poteva accorgersi come il miasma ne fosse l'egoismo.

L'unità della forza stringeva in un circolo di ferro le provincie dell'Impero, ma internamente era lentato ogni nodo; ciascuno rinserravasi in se stesso, diffidando [154] del vicino che non sapeva come opererebbe o penserebbe, atteso che gli uomini non si trovavano d'accordo in nessun punto di politica, di morale o di religione; estinto ogni sentimento elevato, rimaneano solo spossatezza, sfarzo, cura di sè, negligenza d'altrui. Quel che oggi s'interpone fra l'obbedienza e la schiavitù, cioè il punto d'onore, la devozione leale a un principe, la franchezza militare, la libertà cittadina, l'alterezza nobiliare, non esisteva fra gli antichi. Eran solo cittadini, e l'impero tolse pregio a tal qualità; valor personale non resta più; ingegno, coscienza, fede, gloria, nobiltà, ambizione scompajono davanti all'unico scopo, la grazia del regnante. Il senato non rappresentava più nulla, ma l'orgoglio antico faceagli ritirare dispettosamente la mano dal popolo. I pretoriani, sentendosi la forza, voleano usarne; e ajutavano a tiranneggiare, purchè ne traessero aumento di soldo ed alleggiamento di servizj.

Il vulgo tremava, come tremavano i grandi, come tremavano i soldati, come tremava l'imperatore, tutti di tutti; conseguenza dell'uni versale egoismo. Alcuni si levavano dall'originaria bassezza accostandosi ai grandi, a forza di adulazioni e di spionaggio; altri amavano adimarsi fra i poveri per toccare la lor porzione di donativi, e per evitare i pericoli cui si esponeva ogni testa che sporgesse. Alla ciurma sempre più svigorita nel lusso e ne' vizj, delirante dietro a' giuochi dell'anfiteatro, e che non palesava una volontà se non col parteggiare per questo o per quel ballerino, per questa o quella fazione del circo, ogni nuovo imperatore prodigava doni e giuochi, e la corrompeva non solo coi fieri e sozzi divertimenti dell'arena e del teatro, ma colle arti dei retori e dei poeti.

Fuori poi, i Greci e i Galli non provavano affetto pei Romani; i Romani non compassione delle concussioni [155] e de' micidj ond'era oppressa la Germania; sicchè mancava quell'accordo di lamenti e di speranze, che produce rivoluzioni efficaci. L'antica repubblica era perpetua e impossente ribrama di quelli che ancora ambivano di governare: il vulgo, più contento di trovarsi governato, non se la ricordava che per detestarla, e godeva qualvolta, insieme coi gladiatori, gli si offrisse lo spettacolo di nobili teste recise. Anche i soldati sotto i Giulj conservarono l'antica disciplina, confondendo la fedeltà alla bandiera con quella all'imperatore: solo dopo caduta quella famiglia, si credettero arbitri di offrir l'impero a chi fossero disposti a sostenere colle spade.

Del resto, a che moversi quando non sai se il tuo vicino ti sosterrà? Empisca dunque Caligola le due liste del pugnale e della spada; dal seno delle fecciose voluttà invii Tiberio la morte; inferocisca a baldanza l'oppressore, poichè gli oppressi non sanno amarsi ed intendersi, nè miglior gloria conoscono che quella di fare omaggio ai padroni[169].

Questo male era tardo frutto della politica immoralità della repubblica. La società romana, per quanto la politica ne avesse ampliato l'estensione, era, siccome le altre pagane, dominata da spirito di razza, geloso, esclusivo, fuor della famiglia e dell'altare suo vedendo in ogni uomo uno straniero, in ogni straniero un nemico, nel nemico una preda. Il giureconsulto Pomponio definiva: — I popoli, con cui non abbiamo amicizia, ospitalità od alleanza, non sono nemici nostri: pure, se cosa nostra casca in man loro, ne sono padroni; i liberi divengono schiavi; e così è di essi riguardo a noi»[170]. In conseguenza la schiavitù era un fatto naturale e civile, [156] equo, indeclinabile; e la giurisprudenza definisce che il padrone «ha diritto d'usare e d'abusare dello schiavo».

Fondata su tali canoni, la società non poteva riuscire che spietata; e gli schiavi pur troppo dall'acerba condizione loro traevano sentimenti fieri e dispettosi, che soltanto feroci pene potevano reprimere. Croci e supplizj riempiono le commedie ed i racconti; permanente atrocità privata, cui accordavasi poi la pubblica col suo sfarzo di pene legali. Il mantenere e crescere quelle macchine umane era scopo importantissimo della società, e mezzo a ciò la guerra. A questa pertanto doveano intendere principalmente gli Stati, come a fonte di potenza, di gloria, di ricchezza; l'economia politica consisteva nel distruggere o render servi gli stranieri. Dall'amore di patria (nome pomposo ed abusato) cercavasi la rigenerazione e la forza del cittadino e degli Stati; ma questa legge isolata insegnava ad immolare alla grandezza d'un popolo la felicità di tutti gli altri. Il fanciullo educato in quei sentimenti sprezza e odia ciò che è fuori del suo paese; e qualsivoglia iniquità resta giustificata dal venirne vantaggio alla repubblica. La imperturbata assolutezza di logiche conseguenze dispensava Catone dall'addurre altri motivi del suo perpetuo Carthago delenda; Paolo Emilio, in Epiro, sulle rovine di settanta città vende all'asta cencinquantamila vinti per distribuirne il prezzo ai soldati: Orazio fa che Attilio Regolo, per ridestare il patriotismo romano, narri d'aver veduto ricoltivarsi i campi attorno a Cartagine, devastati dalle legioni: agitandosi in senato le querele di popoli alleati, Curione le confessava giuste, ma soggiungeva, — Prevalga però l'utilità»[171]: Mario diceva a Mitradate, — O renditi più forte, o [157] piega ad ogni nostro volere»: Antipatro terminava tutte le sue arringhe agli Ebrei col dire, — I Romani voglion essere obbediti»: Fabrizio, udendo le dottrine epicuree alla tavola di Pirro, supplica gli Dei che quelle piacciano sempre ai nemici di Roma: Tacito racconta che alcuni Germani rifuggiti in cima ad alberi, dai Romani erano feriti colle freccie per trastullo. Di buja notte i Romani precipitano sui Germani, divise le legioni avide di sangue in quattro corpi, acciocchè più estesa fosse la devastazione: cinquanta miglia andarono a ferro e fuoco, senza compassione per età o sesso. Da parte de' Romani non fu sparsa goccia di sangue, perchè il soldato uccideva i nemici tra la veglia e il sonno disarmati ed erranti a caso. Il buon Germanico esortava i soldati a seguitar la strage, perocchè non abbisognavasi di prigionieri; soltanto collo sterminio di tutto il popolo potersi metter fine alla guerra. Tacito stesso non sa all'impero augurare maggior fortuna, che il perpetuarsi delle nimicizie fra le nazioni avverse[172].

Così i Gentili stabilirono per fondamento della morale la società e il patriotismo, le cui virtù che sono altro se non un egoismo alquanto più dilatato? Come oggi alcuni nel nome d'umanità dimenticano l'uomo, così allora non si parlava dell'uomo, ma della patria. La patria è una divinità[173]; Dio non deve nulla all'uomo, e l'uomo deve ad esso se medesimo e gli altri: dunque l'individuo si immoli a questa deificazione, non solo nelle terribili emozioni della guerra scannando le migliaja per una causa che non conosce, ma anche per superstizione svenando senza entusiasmo [158] un uomo che non ci offese, a divinità in cui più non si crede. Le miserie dei popoli soggiogati, l'insulto del trionfo, lo spettacolo solenne dei gladiatori, il continuo degli schiavi, rendevano la gente men compassionevole che non fra noi moderni, avvezzati dalla civiltà e dalla religione a gridar tiranno non solo chi uccide, ma chi un sol giorno aggiunge d'inutili patimenti ad un accusato.

Come delle altre virtù il patriotismo, così della giustizia teneva luogo la legalità; ed il rispetto religioso, anzi superstizioso verso le leggi, cosa sorda ed inesorabile[174], fu carattere de' Romani, pel quale dalla protezione ottenuta sul monte Sacro giunsero a imporre al mondo un Caligola e un Tiberio, che si circondavano de' migliori giureconsulti, e dopo calpestata nel peggior modo la giustizia verso gli stranieri, poterono creare una stupenda legislazione per se stessi.

Avvezzata Roma agli abusi della forza e della legalità, il vincitore interno faceva di lei quel governo che essa di Cartagine e Corinto. Ma i veri vinti erano patrizj e senatori; laonde, mentre questi soffrivano, la plebe, garantita dalla propria oscurità, accarezzata più dai principi più ribaldi, poteva persino amar que' tiranni; allorchè Caligola fu ucciso, il vulgo a furia chiese a morte i micidiali; favorì alcuni che si fingevano Nerone.

Nè affatto a torto, giacchè il governo imperiale era il più popolare che mai Roma avesse provato. Le tirannidi dei ventimila patrizj erano state ristrette in uno solo, che più distando dai privati, riusciva men oppressivo. L'imperatore insulta ed uccide cavalieri e senatori, ma condiscende a quella plebe cui insultavano gli Emilj e gli Scipioni, la contenta di giuochi e di donativi, la [159] tratta da pari nella piazza ed al bagno; se più non le chiede il voto ne' comizj, ne ascolta le grida nel circo ed al teatro, non ardisce metterne a prova l'impazienza col farvisi troppo aspettare. Nerone, mentre gode a tavola fra Paride e Poppea, udendone il fremito tumultuoso a piè del palazzo, getta il tovagliuolo dalla finestra per indicare che si move a soddisfarla. Tiberio pose sul banco pubblico una grossissima somma onde prestare a chiunque bisognasse, senza interesse per tre anni; e largheggiò smisuratamente nell'inondazione del Tevere e nell'incendio sull'Aventino; e quando un tremuoto diroccò dodici città fiorentissime dell'Asia, la Sicilia, la Calabria, sepellendo abitanti, sobbissando montagne, altre sollevandone, per cinque anni assolse dalle taglie le provincia danneggiate, e mandò grosse somme per rifabbricar le case. Claudio provvide acque e porti. Quasi tutti poi gl'imperatori si occuparono di rendere giustizia in persona, come usano tuttora i Turchi; modo indegno d'ogni ben costituito ordinamento, ma che eliminava l'inestricabile corruzione della Roma repubblicana, ogniqualvolta non vi fossero interessati il principe o i suoi favoriti. Ora, nell'attuamento di buone leggi giudiziali consiste una gran parte e la più sentita della libertà cittadina.

E poi l'imperatore non è il tribuno della plebe? Da qualunque parte le venga il suo protettore, poco ad essa ne cale; i ricchi pagheranno le spese, ella avrà giuochi e distribuzioni; quanto alla politica libertà, l'ha per un balocco, esibitole da quelli che non hanno oro nè potenza, e desiderano acquistarle. Senz'arti, senza lavoro, vivendo di ciarla, di largizioni, di spettacoli, il vulgo romano amava chi ne lo provvedesse: invidioso dei ricchi com'è sempre il povero, godeva in vedere conculcati dal suo tribuno i figli di coloro che l'aveano tenuto schiavo, spogli delle dovizie [160] succhiate ai clienti o alle provincie, e tremava che, distrutto l'impero, non si rinnovassero le superbe crudeltà dei patrizj.

Chi dunque, sano dell'intelletto, poteva più pensare a ricostituir la repubblica? Restava di temperare l'autorità degl'imperatori: ma come farlo dove nè i nobili nè i Comuni nè il clero erano costituiti in un corpo che potesse contrappesarla? La legge Regia poneva l'imperatore al di sopra di tutte le leggi; gli impieghi erano da lui conferiti; da' suoi cenni pendeva l'esercito; l'autorità tribunizia gli dava il veto contro qualsivoglia determinazione del popolo o del senato, e rendea sacrosanta la persona di lui, e sacrilegio perfino la resistenza.

Le cospirazioni non si volgeano contro la tirannia, ma contro il tiranno; e vendette personali, generose aspirazioni, ambiziose ipocrisie, rapaci avidità si accordavano un tratto per appoggiarsi sull'indignazione popolare; sfogata questa, si scomponevano, e lasciavano il campo alle punizioni imperiali o alla onnipotenza soldatesca. Il senato, se non fosse comparso un corpo corrottissimo e modello di tutte le abjezioni, qualche freno avrebbe potuto mettere allorchè veniva trucidato un tiranno; e lo tentò dopo Caligola: ma se anche il popolo lo avesse sofferto, il potere che di fatto preponderava, l'esercito, voleva il donativo; se punto si tardasse a scegliere il successore, lo acclamava egli stesso; e guaj a chi tentasse restringere all'imperatore l'arbitrio, pel quale egli poteva largheggiare quant'essi pretendevano. Ma l'imperatore stesso, disimpedito da freni legali, è esposto all'arbitrio de' soldati, che o lo costringono a fare la loro volontà, o lo uccidono; sicchè sospeso fra le gemonie e l'apoteosi, s'affretta a saziar le voglie spietate o voluttuose.

Nulla essendovi dunque che frenasse o il re sul trono [161] o la donna nel gabinetto, entrò una depravazione, gigantesca quanto quel popolo; dove il vizio e l'empietà eretti in sistema; ferocia ne' dominanti, ferocia ne' servi; corruttela tranquilla, corruttela impetuosa; istinto feroce nel soldato, istinto fiacco e tumultuoso nel vulgo, istinto servile ne' dotti; stupidità in una plebe immensa, indifferente tra il vincitore e il vinto. La generosità? la virtù? la bestemmia di Bruto era divenuta comune da che si vedeva sovvertito il prisco ordine. La patria? come affezionarsi a quella che s'estendeva dall'Elba al Niger? La filosofia? ma questa non aveva accordo, non efficacia; esercitazione di scuola, riponeva il punto più sublime nel sapersi dar la morte, nel disertare cioè da fratelli, alle cui miserie non si era partecipato; così s'introdusse il suicidio, come un mezzo di sottrarsi al suo dovere; mezzo che i Gentili diceano onorevole, noi Cristiani empio e codardo.

Pure la filosofia stoica è l'unico lampo di vigore, l'unica nobile opposizione in quel tempo. Mentre Plauzio Laterano è condotto a morte, un liberto di Nerone gli dirige alcune suggestioni, cui egli risponde: — S'io avessi l'anima tanto abjetta da fare delle rivelazioni, al tuo padrone le farei, non a te». Fu ucciso dal tribuno Domizio Stazio che era suo complice, nè per questo gli volse alcun rimprovero; e al primo colpo essendone ferito soltanto, scosse la testa, poi la ripose all'attitudine opportuna per essere decollato[175]. Epittèto, schiavo frigio, che scrisse un Manuale di questa filosofia, percosso dal padrone Epafrodito, gli dice: — Badate che mi romperete le ossa»; Epafrodito continua, gli fiacca una gamba, e lo schiavo ripiglia: — Non ve l'avevo detto?»

Piace questo aspetto di forza e severità: e per vero, mentre la morale di Epicuro produceva mollezza e [162] snervamento, quella di Zenone è la forza stessa, concentrata in se medesima, per respingere tutto ciò che vorrebbe signoreggiarla. Se non v'ha bene fuorchè la virtù, non male fuorchè il vizio, e tutto il resto è indifferente, l'uomo si trova al disopra degli avvenimenti esterni, riponendo il valor proprio e la propria felicità in se stesso, e nel buono o mal uso che fa della propria libertà; sicchè scompaiono le differenze di nazionalità, di posizione sociale, sottentrando un diritto universale, assoluto, eterno, che abbraccia tutti gli uomini. Ma questa forza facilmente degenera in un egoismo senza viscere, in un rigore desolante che non è la virtù; e l'abstine et sustine degli Stoici, separato dalla benevolenza, svia ogni attività benefica, riduce indifferente alle miserie d'un vulgo che basisce di fame accanto ai palagi ove rigurgita l'abbondanza, e si rinserra in un'inoperosa fatalità. Marc'Aurelio, avvertito delle trame di un ambizioso, risponde: — Lasciamolo fare, chè, se non è destinato, soccomberà; se è, nessuno uccise il proprio successore». È clemenza codesta?

— Il savio attende il bene soltanto da sè: unico male è credere al male: meglio morir d'inedia senza timori, che vivere angustiato nell'opulenza: meglio che il tuo schiavo sia tristo, anzichè tu infelice. Quando abbracci la donna, i figliuoli, pensa che sono mortali; e così non ti dorrai perdendoli. La compassione è il vizio dei deboli che si piegano all'apparenza degli altrui mali, e perciò disdice ad uomo. Le sciagure sono destini, non accidenti. A Dio non obbedisce il savio, ma consente. In alcun modo il sapiente è superiore a Dio; poichè in questo il non temere è merito di natura, nel savio è merito proprio»[176]. Sono [163] massime di Seneca. E che cosa significano? che i mondani eventi sono retti da una necessità fatale, e il volere umano ha forza di resistere e soffrire, non d'operare; tranquillità non può sperarsi che in un superbo e desolato isolamento; considerar viltà qualunque transazione col nemico della libertà, quando anche non si stipulasse che l'oblio e il poter ritirarsi; punire se stessi dei tentativi falliti, sprezzare i tiranni, i quali non possono se non dare una morte che non si teme; disporre della vita come d'un possesso che vuol tenersi soltanto a certe condizioni; e fin all'ultimo respiro meditare sopra se stessi. Insomma non è vero bene ciò che non dipende dalla volontà dell'uomo; non dunque bene la patria, e poco monta in qual luogo siamo nati, poco che essa goda o soffra; lo stoico non è nato per la società, non è cittadino, non dee cercar di sminuire i mali della patria, ma darvi per rimedio il sentimento della libertà individuale.

Qui consiste la magnanimità mostrata da Cremuzio Cordo e da tant'altri, pei quali il suicidio era un rifugio o una speranza. Arria, moglie di Trasea Peto, udendo che questi è condannato, s'immerge un pugnale nel seno, indi porgendolo al marito, gli dice: — Non fa male». Genero ed erede della costei fermezza, Elvidio Prisco da Terracina studiò filosofia non per ammantare col nome di questa l'inazione, ma per invigorirsi. Il suo sogno era sempre l'antichità, quella repubblica aristocratica di cui erano stati ultimi lumi Marco Bruto e Porcio Catone; quel senato, ch'era parso a Cinea un'assemblea di re, e a Caligola un branco di buffoni. Sbandito alla morte del suocero, richiamato [164] da Galba, non cessa d'opporsi in senato agli arbitrj imperiali. Parlasi di rifabbricare il Campidoglio? — Quest'impresa (dic'egli) spetta alla repubblica, non all'imperatore». Vuolsi por modo alle spese del tesoro? — È cura de' senatori, non dell'imperatore». E nei discorsi attaccava quei che sotto i regni antecedenti aveano abusato, e sotto aspetto di virtù ridesta quel fiotto di accuse e denunzie. Vespasiano gli ordinò non comparisse in senato, ed egli: — Puoi togliermi il grado, ma finchè io sia senatore vi andrò. — Se vieni (soggiunge l'imperatore), taci. — Purchè tu non m'interroghi», replica esso; e Vespasiano: — Ma se tu sei presente, io non posso lasciare di chiederti il tuo parere. — Nè io di risponderti come mi parrà dovere. — Se tu me lo dici, ti farò morire. — T'ho forse io detto d'essere immortale? entrambi faremo quel ch'è da noi; tu mi farai morire, io morrò senza rincrescimento». Avendo solennizzato il natalizio di Bruto e Cassio ed esortato ad imitarli, fu arrestato; poi rimesso in libertà, nè mutando sensi e linguaggio, il senato ne decretò la morte, e Vespasiano non giunse in tempo a sospenderla. Al veder Tacito, Plinio Minore, Giovenale alzar a cielo quest'imprudente, vien da riflettere tristamente ove la virtù è costretta ridursi quando le mancano legittime vie d'opporsi all'abusato potere.

Scevino Flavio, imputato di congiura contro Nerone, mostrò al tribuno che la fossa preparatagli non era abbastanza profonda; e come questi gli disse di tender bene il collo, — Possa tu altrettanto bene colpire». Caninio Giulio viene ad alterco con Caligola, il quale licenziandolo gli dice: — Non dubitare, t'ho condannato a morte»; e Giulio, — Grazie, maestà imperiale». Guardava egli come un favore la morte in così pessimo imperio, o con ironia da Socrate voleva contraffare la [165] vigliaccheria dei cortigianeschi ringraziamenti? Passò dieci giorni equanime, aspettando che Caligola tenesse la parola, e giocava alle dame quando entrò il centurione ad annunziargli di morire. — Attendi ch'io noveri le pedine», risponde tranquillo; e perchè gli amici piangevano, — A che rattristarvi? Voi disputate se l'anima sia immortale, ed io vado a chiarirmi del vero». E mentre avvicinavasi al supplizio, chiedendogli un amico a che riflettesse: — Voglio osservare se in questo breve istante l'anima s'accorge d'uscire».

Caligola, ingelosito dell'eloquenza di Seneca, volea farlo morire; ma una concubina gli mostrò essere il filosofo di salute così strema, che poco andrebbe a finire naturalmente. Eppure sopravisse a vederne più d'un successore. Assunto alla questura, fu da Claudio esiliato in Corsica, dicono per intrighi con Giulia figlia di Germanico e con Agrippina. Di là, a Polibio liberto dell'imperatore, cui era morto un fratello, drizzò una Consolatoria, congerie di luoghi comuni sulla necessità del morire, su sventure tocche a grandi, a regni, a città; esauriti i quali argomenti, soggiunge: — Finchè Claudio è signor del mondo, tu non puoi nè al dolore abbandonarti nè al tripudio, tutto essendo di lui; vivo lui, non puoi querelarti della fortuna; lui incolume, nulla hai perduto, tutto hai in lui, di tutto egli tien luogo; gli occhi tuoi non di lagrime ma di gioja devono empirsi... ti si gonfiano di lagrime? volgili a Cesare, e la vista del dio te li asciugherà; il suo splendore arresterà i tuoi sguardi, nè ti lascerà vedere altro che lui... Dei e Dee concedano lungamente alla terra colui che le diedero a prestanza;... sempre rifulga quest'astro sul mondo, la cui tenebria fu dalla luce di esso ricreata».

Così vilmente adulatolo vivo, Seneca vilmente l'oltraggiò morto, nell'Apocolocunthosis descrivendone la divinizzazione. Con ciò volea forse ingrazianirsi Nerone, [166] del quale se troppa severità sarebbe l'imputargli l'orrenda riuscita, e credere l'avviasse a sozze oscenità e fino al matricidio, non gli perdoneremo di non averlo abbandonato dopo che di tali delitti si contaminò, e d'aver prostituito l'ingegno fin a discolparli. Mentre declamava contro le ricchezze, ammassò sessanta milioni di lire, con usure che valsero ad eccitare una sommossa nella Bretagna; rimproverava il lusso, ed aveva cinquecento tripodi di cedro coi piedi d'avorio; vantava il vivere ignorato[177], e anelava pompe e schiamazzo; scrivea voler piuttosto offendere colla verità che andare a versi colle piacenterie, poi le trabocca a Nerone, il quale «poteva vantare un pregio di nessun altro imperatore, cioè l'innocenza, e facea dimenticar persino i tempi d'Augusto»[178]. Eppure ogni tratto egli esibisce se stesso per modello, dà intendere che ogni sera s'esaminasse dei fatti e detti suoi[179], ed esclama: — Turpe il dire una cosa, un'altra sentirne; quanto più turpe sentirne una, scriverne un'altra».

Ma egli distingueva due filosofie, una per la vita, una per la scuola: ed in questa, attivo e pratico sempre, accumula sentenze, per certo opportunissime a correggere e nobilitare il carattere, assodar l'impero della [167] ragione sopra le passioni, insegnare temperanza nelle prospere, costanza nelle avverse vicende. Ottimo uffizio: ma dopochè se ne sono uditi i precetti, si domanda qual autorità d'imporli, qual ragione d'obbedirli? Seneca dice alla madre: — La perdita d'un figlio non è un male; è follia pianger morto un mortale»; all'esule: — I veterani non si scompongono sotto la mano del chirurgo; così tu, veterano della sventura, non gridare, non lamentare femminilmente»; a tutti predica, ciò ch'è male per l'uno esser bene per molti, e che ogni cosa deve perire; intima ai savj di non cadere nella compassione, non attristarsi, non impietosire, non perdonare[180]. Ma a che pro questa più che umana fermezza? donde la forza di praticarla? donde, se non dall'orgoglio e dall'egoismo?

E orgoglio ed egoismo trapelano da tutti i pori all'adulatore di Nerone: diresti ch'egli si sente destinato a riformare il genere umano, con tal tono da maestro sprezza, beffeggia, riprende, comanda, insegna virtù impossibili, e come scopo della filosofia il separar l'anima da tutto ciò che non è lei, fare del proprio perfezionamento l'oggetto unico d'ogni sforzo, isolarla nella sua grandezza e in una virtù che guarda con indifferenza la morte degli altri e la propria.

Fra gli elogi della povertà, viepiù assurdi in bocca d'un gaudente cortigiano; fra antitesi in luogo di ragioni; fra quel cumulo di frasi sonore si arriva a capire [168] che regola della morale e della felicità è la legge naturale; sapienza è il conformarvisi. Ma per conformarvisi bisogna conoscere, e ciò per mezzo d'una ragione sana, dominatrice delle passioni: in tale obbedienza ragionata trovasi la soddisfazione della coscienza, il testimonio intimo, ch'è il fine supremo del saggio.

Ma che cos'è la legge? la natura? come questa può obbligare, staccata dalla ragion divina, da una volontà superiore e libera, che fissa il fine obbligatorio? Seneca avea compreso che doveva esservi un Dio buono; che bisogna amare e servire gli amici, la famiglia, la patria; aveva, come Aristotele e Platone, conosciuto i rapporti del bello col buono, della scienza colla virtù; ma di tutto ciò non erano certi i filosofi; talvolta separavano una cosa dall'altra per poter dimostrarla; finivano con Dio immobile, una morale senza Dio, una virtù senza ricompensa, una scienza senza certezza. Il più glorioso sforzo dell'intelletto umano abbandonato a se stesso fu appunto questo aggavignarsi ai frantumi della verità, e ingegnarsi a dimostrare la solidità dei loro fini, del loro probabilismo. In ciò adoprarono tanti insigni libri, tanto talento, tanta volontà; perchè ignoravano quel primo vero dell'Ente che crea; e che basta perchè tutte le scienze s'incatenino; il fine sia preciso, il mezzo è preparato nella volontà risoluta di eseguire sempre il meglio, e nella forza di giudicarne rettamente. Volontà costante guidata da scienza certa sarebbero quella forza e quella prudenza che Seneca predicava, ma dirette non a un bene chimerico, ma ad un bene che sta in noi l'ottenere, secondato dalla grazia.

Quando gli fu intimato di morire, chiese di mutare alcune disposizioni nel testamento; ed essendogli negato, confortò gli amici rammemorando i consueti loro ragionamenti, e lasciando ad essi, poichè altro non gli [169] si permetteva, l'esempio di sua vita e l'odio contro Nerone. Avendogli detto Paolina sua moglie di voler finire con lui, egli non s'oppose, e — T'avevo indicato i modi di vivere, non t'invidierò l'onor di morire. La tua coscienza, se è eguale alla mia, sarà sempre più gloriosa». Fecesi aprir le vene, e seguitò a dettare a' suoi scrivani; tardando la morte, si fece tuffare in un bagno caldo, e ne asperse i servi che gli stavano attorno, invocando Giove liberatore, come i Greci libavano a Giove conservatore nell'uscire d'un banchetto. In un'altra camera Paolina l'imitava, ma Nerone ordinò di stagnarle il sangue.

Visto qual fosse la sua vita, e che di là da questa non aspettava premj o castighi[181], e che vantavasi rinvenuto dal bel sogno dell'immortalità, noi chiediamo se la sua fosse virtù o scena. Certamente in lui il dogma della fraternità degli uomini appare più evidente; ne riconosce l'eguaglianza, proclama la filantropia cosmopolitica al modo degli Enciclopedisti, che di fatti se ne fecero un idolo: eppure celia Claudio per gli atti cosmopolitici; inveisce contro la guerra, ma per esercizio retorico, e senza conoscerne i vantaggi.

Il poeta Lucano suo nipote si contaminò d'adulazione a Nerone, finchè, offeso dal vedersi da lui trascurato, congiurò con Pisone. Scoperto, cercò salvarsi col denunziare gli amici e la madre; e Nerone ne profittò per disonorarlo, ma gli permise la gloria di morire declamando proprj versi. Mela, suo padre, nol lascia tampoco freddare che s'impossessa de' beni di lui, anche [170] per mostrare di disapprovarlo; ma Nerone gli manda di svenarsi anch'esso, ed egli si svena senza fiato di lamento. Tre suicidj in una famiglia sola, sostenuti eroicamente, e preceduti ciascuno da una viltà.

Nè i suicidj erano soltanto una precauzione contro i tiranni, o richiedevano grandi emergenti o imperiali nimicizie. Coccejo Nerva, peritissimo giurista, in buona salute e miglior fortuna, risolve finire i giorni suoi; e per quanto Tiberio s'industrii stornarlo, lasciasi perire di fame. Marcellino, giovane, ricco, amato, cade di leggera malattia, e stabilisce morire; raduna gli amici, e li consulta come per un contratto o per un viaggio: alcuni il dissuadono; uno stoico gli mostra esser bastante ragione d'uccidersi il trovarsi sazio del vivere: onde Marcellino toglie congedo dagli amici, distribuisce denaro ai servi; e perchè questi ricusano dargli morte, s'astiene tre giorni dal cibo, dopo di che portato in un bagno, spira parlando del piacere di sentirsi morire. Senz'altezza di pensamenti, nè certo aspettando d'essere ammirato da un filosofo, un gladiatore condotto al circo caccia la testa fra i raggi d'una ruota. Come i forti, così i vigliacchi erano talvolta presi dalla manìa del suicidio; alcuni per mera sazietà della vita, per non dovere tutti i giorni levarsi, mangiare, bere, ricoricarsi, aver freddo, caldo, primavera poi estate, poi autunno e inverno, nulla mai di nuovo. Laonde i predicatori del suicidio dovettero dichiarare che non si deve, per questo piacere, trascurar i proprj doveri[182].

Il fondo della dottrina stoica non trascendeva la materia. [171] Dio, anima del mondo, è congiunto colla materia, e un giorno l'assorbirà; ogni parte di essa è dunque parte viva di quest'anima, e può adorarsi; arbitrario è il culto come il dogma, sicchè la religione non è potenza distinta, ma si perde nell'ordine politico; le credenze sono accolte non secondo il loro valor dottrinale, ma secondo la loro facilità di dileguarsi innanzi al potere; centro e scopo proprio, l'uomo non ha doveri religiosi in faccia a questo Dio, che è eguale a lui. Quel panteismo naturalista proclamava l'unità nell'ordine morale e nel sociale; in conseguenza i diritti dell'individuo erano posposti, restando l'uomo assorbito nell'umanità, e l'umanità nella vita universale; sagrificate la libertà e la spontaneità e la vita attiva alla fatalità, al riposo, ad una speculazione astratta, che ingagliardiva l'orgoglio dell'intelletto senza scaldare il cuore nè stimolare la volontà; alla ragione toglieva il soccorso del sentimento, alla virtù l'appoggio preparatole dalla Provvidenza.

Lo stoicismo era uno sforzo istintivo, una concezione eroica dell'orgoglio umano, ma sprovvisto di fondamento logico; declamazione anzichè scienza, connessa alle verità supreme soltanto per raziocinio, e perciò non giustificabile in faccia agli uomini, e mancante d'autorità sopra di essi. La ricerca d'una perfezione ideale, solitaria, indipendente dalla moralità generale, avversa alle espansioni generose, petrifica l'essere umano divinizzato, ripone il bene in un giudizio dell'intelletto, comechè repugnante alla testimonianza dei sensi; e perciò dove lo stoico coll'egoismo spiritualista, coll'egoismo sensuale giungeva l'epicureo, e l'uno coll'impossibilità di raggiungere il proposto modello, l'altro coll'indolenza, entrambi non ravvisando il bene che in relazione col presente, coll'individuo, elidono l'attività umana, lentano i legami domestici, [172] annichilano la società[183]. Guarda, o stoico: l'epicureo colla sua spensieratezza pareggia l'eroismo de' tuoi, e muore sulle rose meretricie, siccome voi altri coi libri di Platone. Ad Agrippino annunziano che il senato si raccolse per giudicarlo, ed egli: — Faccia; noi intanto andiamo al bagno». Va, e nell'uscire, udendo che fu condannato, chiede: — Alla morte? — All'esiglio. — Confiscati i beni? — No. — Partiamo dunque senza rincrescimento; ad Aricia desineremo bene tant'e quanto a Roma».

Più spesso l'epicureo ammaestrava a goder la vita, e gittarsi alle spalle il timor degli Dei. Come Bentham disse che la morale è l'interesse, ma l'interesse consiste nell'esser virtuoso, così Epicuro avea posto la felicità ne' godimenti, ma i godimenti nella virtù: però in entrambi i casi i seguaci furono più logici, e il nome del maestro serviva agli epicurei soltanto a scusare l'assecondamento delle proprie inclinazioni, diffondere l'empietà, agevolare ai grandi i delitti dell'ateismo, senza togliere al vulgo quei della superstizione. Perciocchè ad ogni modo queste filosofie erano scienze aristocratiche, le quali si dirigevano a pochi, al modo dei franchi pensatori del secolo passato, e come questi non nominavano la moltitudine (οἱ πολλοὶ) se non per vilipenderla. Intanto nè bastavano a spiegar la religione, nè a fare senza di essa; onde questa, che è la filosofia de' più, rimaneva senza dogmi e ingombra di assurde pratiche: giacchè l'incredulità non salva dalle superstizioni, e solo ne cambia l'oggetto.

Quella religione, invece di comprendere le verità più [173] generali ed assolute, ritraeva potenza da ciò che avea di locale e relativo[184]: però non avea un corpo di tradizioni e dottrine, attuate in cerimonie rituali, non doveri precisi, insegnamenti morali; la tradizione non vi faceva forza d'autorità, e ciascuno ne prendeva quel che gli aggradisse. La Grecia avea velato le incoerenze mitologiche sotto i recami della poesia: Roma le metteva in evidenza col prendere la religione sul serio, come stromento di politica. Mediante il quale, vero Dio era la patria, s'insinuavano virtù civiche piuttosto che religiose, la pietà verso i celesti mutavasi in devozione verso la patria; sicchè, allorquando questa divenne tutto il mondo, più non s'ebbe cosa a cui credere, e al culto destituito d'oggetto non rimaneva la forza di verità astratte, non l'autorità morale.

Nè paga d'avere «nel bottino di ciascuna conquista ritrovato un dio»[185], Roma coll'apoteosi faceva Dei tutti quegli esecrabili suoi padroni. Celebrati con magnifica pompa i funerali del morto imperatore, ne veniva posta l'effigie in cera sopra un letto d'avorio, coperto di superbo tappeto d'oro, quasi figurasse l'imperatore stesso ancora malato. Senatori e matrone, venendo a visitarlo, restavano delle ore seduti accanto al letto, e sette giorni durava tal mostra: l'ottavo dì, i principali senatori e cavalieri processionalmente per la via Sacra trasportavano il letto, coll'effigie qual era, nella pubblica piazza, dove recavasi il nuovo imperatore, accompagnato dai più illustri signori romani. Ivi sorgeva un palco di legno simulante la pietra, ornato d'un peristilio splendente d'avorio e d'oro, sotto il quale in pomposo letto veniva adagiata l'effigie, e [174] intorno vi si cantavano a doppio coro le lodi del defunto, mentre il successore stava col suo corteggio assiso nella piazza, e le matrone sotto il portico. Finita la musica, la processione si avviava al Campo di Marte, portando anche le statue dei Romani più illustri nella storia, alcune di bronzo rappresentanti le provincie soggette, e immagini d'uomini celebri. Seguivano i cavalieri, soldati e cavalli da corsa; in fine i doni dei popoli tributarj, e un altare d'avorio e d'oro, tempestato di gemme. Durante questo corteo, l'imperatore, salito sulla tribuna degli oratori, faceva l'elogio del morto. In mezzo al Campo Marzio era elevato un rogo, che via via restringendosi formava una specie di piramide; fuor rivestito di ricchi tappeti ricamati a oro, e adorno di figure d'avorio; dentro legna secca; in cima il cocchio dorato, di cui soleva servirsi il defunto; sul piano sottoposto, dai pontefici stessi era collocato il letto di parata coll'effigie di cera, su cui spargevansi profumi ed aromi. Il nuovo imperatore e i parenti del defunto, baciata la mano a quell'immagine, recavansi a sedere nei posti destinati: allora facevansi intorno al rogo corse di cavalli, poi sfilavano soldati e carri, i cui condottieri erano vestiti di porpora. Compite queste cerimonie, l'imperatore, seguìto dal console e dal magistrato, appiccava il fuoco alla pira, e quando cominciavano ad alzarsi le fiamme, dall'alto di quella davasi a volo un'aquila (o un pavone, se era l'imperatrice), che dirizzandosi al cielo, doveva figurare portasse all'Olimpo l'anima del morto. Ergevasi poscia un tempio in onore di lui; gli si dava il titolo di Divo, e gli venivano destinati sacerdoti e sacrifizj.

Tant'era la smania dell'apoteosi, che non voleasi aspettar la morte degl'imperatori e il decreto del senato. Augusto durò fatica a circoscrivere a sole le provincie il suo culto. Tiberio permise alle città d'Asia d'erigergli [175] un tempio; ed ecco undici città disputarsene l'onore, allegando chi l'antichità, chi la gloria, chi la religione. L'Italia non volea restare indietro, ma Tiberio se ne schermiva: — L'ho consentito alle città d'Asia, sull'esempio d'Augusto; ma il lasciarmi adorare dappertutto sarebbe orgoglio intollerabile. Io son mortale, soggetto alle leggi dell'umanità: siatemi testimonj di tal dichiarazione, e se ne ricordi la posterità». Ciò riferisce Tacito, soggiungendo che alcuni la credeano modestia, altri cautela, altri pusillanimità; avvegnachè Ercole e Bacco desiderarono d'esser Dei, e le alte ambizioni s'addicono alle anime alte[186]. E ben cinquanta deificazioni si fecero da Giulio Cesare a Domiziano, fra cui quindici di donne; e quegli altari talvolta erano trabocchetti per moltiplicar le colpe di lesa maestà come facea Tiberio, o beffe amare come quei di Nerone per Claudio, od insulti al pudore come quei per Antinoo e Drusilla e Poppea.

Accettare ogni dio equivale a non averne alcuno; sicchè la religione riducevasi ad una legge, non ad una fede; le feste erano pompe, il culto pubblico era politica, il culto privato un gusto individuale, scegliendosi un dio prediletto, a cui dare le vittime più pingui, a cui tener raccomandati gli affari, la famiglia, gli amori. Nelle menti colte poteano più ottenere credenza quella turba di numi e le poetiche loro storie? poteva un'anima generosa inchinarsi ad are, su cui s'incensavano cinedi e meretrici? Pertanto il filosofo, il sacerdote, il politico guardavano i varj culti come del pari falsi e del pari opportuni; e la tiara del pontefice, la stola dell'augure, la toga del magistrato ricoprivano l'ateo.

Augusto, volendo restaurare nell'impero anche le idee che ne devono esser la base, pose gran cura alla religione; [176] appurò la fonte delle istituzioni col correggere i Libri Sibillini, ripristinò la dignità di flamine diale, crebbe i privilegi dei collegi sacerdotali e il numero delle Vestali, procurò rialzare il culto di Vesta e dei Lari, protettori della famiglia e dello Stato; in casa propria istituì il culto di Febo, e vi trasportò dal Palatino il santuario di Vesta; ogni quartiere di Roma ebbe nuovi Lari, al posto delle vecchie statue consunte, e ad onor loro feste in primavera e in estate; ai Lari antichi si unì il Genio del principe, onorato di più solenni omaggi: il qual culto de' Lari, riferentesi alla ripristinazione del sistema municipale, fu propagato per tutta Italia e per le provincie. I giuochi secolari dimenticati si rinnovarono diciassett'anni avanti Cristo, e Orazio compose per quella pompa il Carmen sæculare. Esso Augusto fece ricostruire i tempj cadenti, quasi volesse obbligarsi gli Dei come gli uomini, dice Ovidio[187]; pel primo eresse un'ara alla Pace; e qualvolta ritornava dai viaggi, un nuovo delubro poneva a qualche divinità benefica.

Riforme tutt'affatto esterne, e viemeno efficaci perchè sprovviste d'entusiasmo e di sincerità. Tito Livio, pieno d'oracoli e portenti, rimpiange i guasti causati alla fede dalla filosofia, ma per quel suo stile di adoprare le istituzioni antiche a raffaccio delle moderne; Orazio canta gli Dei, pur professandosi majale epicureo; Virgilio àltera a norma del poetico il senso religioso della mitologia, rimpasto scientifico o estetico che la scredita quanto il dubbio o lo sprezzo; Ovidio canta la storia degli Dei nelle Metamorfosi, il culto nei Fasti, ma non mai nell'intento di propagarli o di farli credere; e [177] l'ironia e la frivolezza vi trapelano dalle proteste di riverenza, nè mai mentì peggio di quando esclamava Est Deus in nobis, agitante calescimus illo.

Agli Dei non si credeva: udimmo professarlo Seneca; Petronio esclama, — Nessun crede cielo il cielo, nè stima Giove un'acca»; Giovenale, — Che vi abbiano gli Dei Mani e i regni postumi, nol credono neppure i ragazzi»[188]; Tacito, l'austero Tacito, spera che dopo morte le anime possano aver vita e senso di ciò che si fa quaggiù[189], ma nulla indica ch'egli lo credesse. Il culto uffiziale durava ancora, e fu «un gran giorno pel senato romano» quello in cui tutte le città greche mandarono deputati a Roma per discutere sopra il diritto d'asilo de' tempj, non cercandosi abolirlo, ma volendosi soltanto sincerarne i titoli, fondati sopra le tradizioni divine, i decreti dei re, gli editti del popolo romano; e imporvi limiti, ma in un linguaggio affatto rispettoso[190]. Se però la potestà imperiale potè ricomporre l'ordine civile e politico, fallì nel religioso, anzi lo precipitò prostituendo anche il culto ai capricci del principe; il quale concentrando in sè il potere spirituale e il temporale, possedeva intero l'uomo, nè gli lasciava quell'asilo che nel tempio trovano i credenti contro gli eccessi del regnante.

Gli oracoli perdevano la favella, dacchè il trattarsi gli affari non nel fôro ma ne' gabinetti faceva più difficile il prevedere le decisioni, pericoloso il rivelarle, inutile l'insinuarle a nome del dio, quando le imponeva [178] il decreto del principe. I Romani consideravano ogni paese come collocato sotto la protezione di numi speciali, laonde ai vinti non li toglievano, salvo se si rendessero centri e stromento d'opposizione, come il culto dei Druidi nelle Gallie; e per esempio, nell'Egitto posero un pontefice massimo, a capo dei sacerdoti tutti e del museo d'Alessandria. Del resto, come la città a tutti i forestieri, così fu aperto il cielo a tutti gli Iddii; nel santuario di Vesta e di Rea, ogni deificazione delle umane passioni otteneva sacerdoti, sacrifizj, feste. Ma coll'accettare tutti gli Dei toglievasi il carattere politico delle religioni, quel che legava il culto al patriotismo.

Perocchè la religione era nazionale più che personale; chi sagrificava, pregava, espiava era la città, la tribù, la famiglia, anzichè l'individuo; e la personalità del credente si perdeva o nella bellezza della mitologia o nel vago del panteismo. Ma l'uomo ha timori e speranze, ha profondo bisogno di trovar sollievo, luce, espiazione; nè il progresso materiale potrà mai soffocare gl'istinti primitivi di lui, e quell'impulso talora confidente, più spesso pauroso delle anime verso le cose superne, il sentimento, comunque offuscato, d'una primitiva maledizione, la paura d'un Dio vendicatore. Dopo le guerre civili, da tanti delitti e disastri sbigottito non illuminato, l'uomo colpevole cercava un asilo presso gli altari; e poichè de' numi antichi parea sazio il vulgo, doveasi introdurne di sempre nuovi, il cui simbolo non fosse ancora svilito da interpretazione materiale, e con nuovi riti rinvigorire alquanto la fede; donde un misero avvicendare delle coscienze fra superstizione ed incredulità.

La coscienza sentiva la necessità d'accostarsi al Dio sdegnato, e dirgli «Perdona»; provava bisogno di purificazioni, d'espiazioni: talchè, per mondarsi, alcuni nelle cerimonie di Mitra si battezzano di sangue, alcuni [179] camminano sul Tevere gelato, o bagnati traversano a ginocchio il Campo Marzio; se Anubi è irato, il popolo decreta si mandi a prender acqua del Nilo da lustrarne il tempio, o si offrano vesti ai sacerdoti d'Iside, o cento uova al pontefice di Bellona[191]. Insomma, disgustata dalle religioni palesi, la folla rifuggiva alle arcane, e i misteri non furono più partecipati riservatamente a pochi; e più che la rivelazione di alcune verità morali o fisiche[192], se ne adottò la parte corrotta e peccaminosa. Mentre dunque il culto legale sostituiva al patriotismo l'adorazione di Cesare, l'Oriente insinuava le teurgie, corrompendosi così e la scienza e la virtù. Ogni dama nel penetrale teneva il sole etiopico, derivato dall'Egitto; dalla Fenicia erano venute divinità metà donne e metà pesci, dalla Gallia pietre druidiche; Germanico si fa iniziare ai grossolani misteri di Samotracia e al culto de' panciuti Cabiri; egli, Agrippina, Vespasiano consultano le divinità egizie.

L'uomo, che non può credere opera del caso la creazione e la conservazion delle cose, sente per istinto che tra lui e questa causa v'ha mezzi di comunicazione regolari e salutiferi. Se gli soffogate tal sentimento col vizio o col raziocinio, cade in una specie di disperazione che lo precipita nelle superstizioni. Siffatta divenne allora la condizione dei più. Paventando che l'omaggio reso all'uno recasse torto all'altro dio, si ricorreva ad osservanze superstiziose; negata la vita seconda, si tremava degli avvenimenti di questa; negata la Provvidenza, ammetteasi la fatalità, e volevasi indagarne gli inevitabili decreti. Di qui l'osservanza degli augurj e del volo [180] degli uccelli e de' giorni propizj o infausti, anche per parte di quelli che degli Dei parlavano celiando[193].

Da Plinio raccogliamo come i maghi credessero con l'erba marmorite costringer gli Dei ad obbedirli; colla etiopide seccare i fiumi e aprire qualunque cosa chiusa; colla achimenide infondere sgomento ai nemici; coll'antirrina rendersi belli, e sicuri da ogni nocumento; colla coriacesia agghiacciar l'acqua; coll'applicare tre volte l'eliotropio guarir dalle terzane, e quattro dalle quartane; colla verbena acquistarsi fede, conciliare benevolenza, garantirsi da morbi; colla teangelide indovinare; colla cinocefalia neutralizzare i veleni ed evocare i morti; coll'inghirlandarsi d'eliocriso ottener grazia e gloria. Delle pietre, la grammatia rendeva eloquente; la gemma di Venere assicurava dal fuoco; l'agata fugava le tempeste e fermava i fiumi; la chelonia posta sulla lingua faceva indovinare; alcune, fatte a foggia di testudine, poteano sedar le tempeste; l'eliotropia mista coll'erba dell'egual nome e con certe preghiere, rendeva invisibili. Fra gli animali, chi mangiasse il cuore della talpa potea vaticinar l'avvenire; col sangue della jena bagnando le porte, tutelavansi gli abitanti da ogni malattia o fascino; portandone indosso gl'intestini, si era sicuri da incantagioni e di vincer le liti e innamorar le donne: il sinistro piede del camaleonte, arrostito nel forno, rendeva invisibile chi lo portasse: ungendosi col grasso che sta fra le due sopracciglia d'un leone, si diveniva cari ai principi; mentre il sangue della donnola, misto a cenere di jena, rendeva abominati. Perciò, soggiunge egli stesso, dopo sorbito un uovo, si ha cura [181] di rompere il guscio; e in molti paesi d'Italia erasi proibito alle donne per istrada di torcere il fuso o di portarlo scoperto, perchè nuoce alle speranze, principalmente di grani[194].

Aggiungete il terrore di potestà arcane, meschina curiosità delle cose occulte, e credenza divulgata nei fatucchieri e nelle streghe, brutte vecchie, avide di venere, micidiali ai parti, le quali trasfiguravansi in bestie, rapivano i bambini, li cambiavano in cuna, gli affaturavano, al che suggerivansi per rimedio l'aglio e certi scongiuri: temeansi pure i vampiri, morti che ricomparivano per suggere il sangue dei vivi[195]. Estremamente [182] si erano moltiplicati gli oracoli, i prestigi, gl'incantesimi, gli amuleti; e astrologi di Caldea, auguri di Frigia, indovini dell'India, promoveano i misteri delle scienze teurgiche.

Canidia strega, avvolti serpentelli alle scomposte chiome, nuda i piedi, rimboccata la negra veste, unta del sangue di rospi, colla potente Sagana, entrambe orribili per pallore e per irta capigliatura, urlando occupano un giardino, colle unghie raspano la terra, e coi denti straziano una nera agnella, il cui sangue scorreva nella fossa, donde aveano ad uscir le ombre per portare responsi dagl'inferni. Esse teneano una figura di cera, una di lana: questa più alta puniva l'altra, che avea sembianza di supplicante e di schiava che va a perire. L'una maga invoca Tisifone, Ecate l'altra; subito i cani infernali e i serpenti le circondano; l'immagine di cera prende fuoco e getta un vivo splendore; ma udito un fracasso, le due streghe fuggono abbandonando i denti, i capelli, le erbe e i legami tricolori con cui avviminavano i cuori[196].

A Tiberio gli astrologi erano necessarj quanto i commedianti e le femmine; porta un lauro per assicurarsi dai fulmini; quando starnuta, vuol gli si dica Salute; per impedire che si consultino le sorti Prenestine, si fa portare quei pezzetti di legno, ma oh meraviglia! al domani la cassetta si trova vuota, e le sorti eransi di per sè restituite a Preneste. Nerone chiamò a Roma Tiridate ed altri maghi per essere iniziato ne' loro arcani, e per essi dominare sugli Dei come sugli uomini; e alla magìa rifuggì per chetare i rimorsi, dopo uccisa Agrippina[197]. Vespasiano li sbandiva coi decreti, e gl'invitava coi doni; Domiziano li consultava; [183] confidava in essi Adriano, malgrado l'affettata filosofia; nè questa preservò Marc'Aurelio dal credere agl'indovinamenti dell'egiziano Anufi. Ogni città, ogni villaggio aveva una statua, un tabernacolo, una grotta miracolosa; e i governatori andavano a chiedervi i destini dell'impero. Ogni ricco novera tra' suoi servi un astrologo; al chiromante e al negromante si fa gittar l'arte ansiosamente allorchè fulmine cade, o morti appajono, o un'improvvisa rivoluzione può spingere dalla miseria al trono, o dai triclinj alle forche. Donzelle avide d'amore, giovani solleciti d'una eredità, spose cupide della maternità, vecchi slombati, gelose amanti, magistrati ambiziosi accorrono a queste empie follie, per le quali neppur si rifugge dallo scannare fanciulli.

CAPITOLO XXXV. La Redenzione.

Qualche moralista esclamava, è vero; ed a misura del suo coraggio rivelava le piaghe di quel tempo, l'impassibilità dei ricchi, le miserie del povero, la corruttela di tutti. Declamazioni! ma trattasi di suggerire un rimedio? i filosofi somigliano a vecchi, predicanti una morale cui non applicano; gli Stoici versano ogni colpa sopra le dottrine epicuree; i migliori politici non sanno che ribramare il tempo antico e la rugginosa aristocrazia; Orazio, da poeta vi canta: — Andiamo ad abitare le isole Fortunate»; Giovenale dice come uno scolaretto: — Ritiratevi sul monte Sacro»; Seneca soggiunge: — Uccidetevi»; Tacito non vede raggio di luce nelle tenebre che sì foscamente descrisse; fra tante superstizioni fedelmente riferite, e da lui rispettate come un istituto politico e nazionale, nega fede a [184] cotesta divinità, che abbandona in tal fondo di corruzione l'opera sua più bella; e rifiuta le speranze postume, dicendo che gli Dei «curano la vendetta, non la salvezza, e si fan giuoco delle cose mortali»[198]: un riparo nessuno sapeva trovare, nessuno ideava una rigenerazione morale; e al più sarebbesi applaudito ad Euno, a Spartaco che violentemente spezzassero i ferri.

Chi mai avrebbe pensato opporre la voce e la persuasione sua personale alla sfrenata potenza di quell'idolo inesorabile che si chiamava lo Stato? Nell'assoluta mancanza d'ogni accordo di principj, sarebbe somigliato altro che follìa l'affrontar morte o persecuzione per sostenere il proprio convincimento? Ognuno provveda a ciò che più gli torna; il resto è nulla. Voi letterati, cercanti l'utile anche nel bello, rendetevi alleati e complici della tirannide. Voi savj, incontrando la disperazione invece della Provvidenza, riponete il sommo della virtù nel sottrarvi colla morte agli affanni, che l'individuale senno giudicò trascendere le forze vostre. O mondo, ti sprofonda nell'avvilimento morale a proporzione che cresce la materiale prosperità. Chi rigenererà l'umana specie? La forza? ma Roma l'avvolgerebbe tantosto nelle comuni ruine: la legalità? ma quella di Roma è così tenace e vigorosa, da non lasciarsene crescere a fianco un'altra: la scienza? ma essa invanisce in frasi sonore. Il rialzamento morale non potrà aspettarsi dagl'imperatori tiranni, non dal senato avvilito, non dai patrizj decimati, non dalla religione screditata, non dai ricchi corrotti, non dalla plebe ignara de' suoi diritti e de' suoi doveri. [185]

Nè tampoco dai filosofi, barcollanti nel dubbio orgoglioso, mentre a riformare il mondo si richiede convinzione nella libertà umana, e un governo provvidenziale che conduce il trionfo delle sociali verità quando il loro tempo arrivò. Massime sparse e sconnesse, per quanto vere, non bastano, ma bisogna un nuovo principio; al concetto dell'ordine objettivo, ma fatale nella natura e nella società, opporre quello della Provvidenza divina e della libertà personale; al precetto negativo del non toglier l'altrui e non ledere il diritto, surrogarne uno positivo; riporre l'onestà nella coscienza, estenderla su tutte le facoltà del cuore, dell'intelligenza, della volontà.

Poniamo caso che alcuno si fosse elevato a proclamare massime in perfetta contraddizione colle correnti. — Non v'ha che un Dio solo: per libera volontà di lui furono creati la materia, perciò peritura, e l'uomo, dotato di un'anima immortale. Questo Dio è comune a tutti i popoli e ai singoli uomini, provvido conservatore del mondo, testimonio e rimuneratore di tutte le azioni, dettatore d'una legge che è il fondamento della morale e del diritto. Perchè tutti figli di quel Dio, gli uomini sono eguali, senza distinzione di romano o barbaro, di circonciso o incirconciso, di patrizio o plebeo, di schiavo o libero, di maschio o femmina[199]: hanno dunque tutti ad amarsi e giovarsi a vicenda; il comando e le dignità sono uffizio, non un godimento; e i primi devono considerarsi ultimi.

«Tutti gli uomini sono originalmente contaminati d'un peccato, dal quale provengono l'errore, l'ignoranza, la morte. Ma ad espiare quel peccato, a dare all'uomo il potere di convertir l'errore, l'ignoranza, l'infermità in mezzi di santificazione mediante la ripristinata [186] libertà, Iddio stesso s'incarnò, versò il sangue e la vita. Tutti peccatori, tutti redenti del pari, gli uomini vengono da uno stesso luogo, tornano al luogo stesso per sentieri diversi. La vera giustizia nasce da tale eguaglianza; come ne nasce la libertà dall'essere ognuno responsale de' proprj atti.

«Niuno è servo per natura; e quelli che la legale iniquità rese tali, devonsi sollevare immediatamente col farli partecipi ai riti sacri e all'istruzione religiosa, preparandoli così all'emancipamento. La società non abbraccia intero l'uomo, il quale ha in sè qualche cosa di più sublime, di superiore alle leggi civili; e indipendentemente da queste aspira ad un fine più eccelso, ad una destinazione superiore a quella degli Stati che nascono e muojono. L'uomo, alito di Dio, non trae importanza soltanto dalla società, ma possiede una dignità propria, che lo obbliga a perfezionare se stesso, dar vigore alla propria coscienza, appoggiata sopra una legge suprema.

«La riforma non deve dunque cominciare dallo Stato, ma dall'individuo; perchè questo, allorchè sia buono, è libero sotto qualsiasi reggimento; sa fin dove obbedire; ha la coscienza della propria dignità e responsabilità. Nè la morale si limita ai grandi misfatti che nuociono alla società civile, e pei quali soli il gentilesimo stabilisce le pene dell'inferno, insegnando che Dii magna curant, parva negligunt; ma abbraccia tutte le opere, i pensieri, le parole, fin le ommissioni, attesochè l'uomo sta perpetuamente al cospetto d'un Dio, che deve poi giudicarlo e punirlo. Voi chiamate la vendetta voluttà degli Dei? ed io vi annunzio che dovete concedere perdono universale, se volete ottenere perdono da Dio.

«Ogni scostumatezza è colpa, giacchè l'uomo deve rispettare in sè e negli altri la divinità; nè vi è stato [187] di mezzo fra la verginità e il matrimonio. In conseguenza i nodi domestici saranno purificati e rassodati, si perpetuerà il conjugale, diretto a ben più sublime fine che la soddisfazione istintiva. La donna non sarà più esposta a' voluttuosi capricci dell'uomo, e l'illibatezza deve portarla a libertà: ornamento suo più bello considererà quel pudore, che ora è vilipeso nelle cortigiane, nelle schiave, fin nelle dee; per conservarlo, morrà anche; e i meriti di essa consisteranno non in eroiche, ma in virtù miti e conformi alla natura sua.

«L'amor proprio dominante ceda il luogo alla carità, virtù che dai filosofi è considerata come una debolezza. E questa carità universale, paziente, benigna, operosa, ordina d'amare il prossimo come noi stessi; cerca i soffrenti al carcere, all'ospedale; raccoglie i projetti, sepellisce i morti; dà il pane agli affamati, l'istruzione agli ignoranti, il consiglio ai dubbiosi, il buon esempio a tutti. Da essa affratellati, il povero non invidii al ricco; il ricco sappia che tutto il superfluo deve darlo a chi non ha, ma che ogni stilla d'acqua che darà ad un bisognoso, gli sarà computata per la vita futura. In vista della quale è necessario operare continuamente, cercare la purezza in terra, e tollerare i mali di questa vita, che non è se non un esiglio e un preparamento.

«Quel che importa, non è la città, non la patria, ma l'uomo; e nazione e tribù e famiglia esistono per l'uomo, non egli per esse. Il dovere supremo non concerne quelle astrazioni che si chiamano patria, nazione, bandiera, ma l'essere reale che chiamasi il prossimo. Allo Stato non si può sagrificar più nemmanco un uomo, non la moralità personale alla pubblica: verità e giustizia sono bisogni più urgenti che non la civiltà materiale. La giustizia ha radici più salde e antiche, che non i patti e le leggi umane. [188] La verità non deve rimanere privilegio di pochi, ma comunicarsi a tutti; a tutti insegnare a ingagliardirsi contro le passioni, quetare i malvagi appetiti, posporre il ben proprio al generale, l'utile all'onesto, la vita transitoria all'eterna. Voi dal Campidoglio gridate, La salute del popolo è norma suprema; noi all'opposto diciamo, Perisca il mondo, ma si faccia la giustizia».

Chi avesse annunziato tali verità, sarebbe parso poco meno che mentecatto al romano orgoglio e all'universale corruttela. Eppure in fatto erano state predicate in una delle più piccole e sprezzate dipendenze dell'impero romano, la Palestina, diffamata per credulità; e non già da un guerriero che attirasse il rispetto de' guerrieri romani, non da un filosofo che ne eccitasse la curiosità, ma dal figlio d'un artigiano, nato in una grotta in occasione che sua madre era ita a Betlemme, montuosa cittadina della Giudea, per farsi iscrivere nel ruolo della sua tribù, allorquando Augusto ordinò il censo generale (Anno di Roma 754? 25 xbre) affine di conoscere quanta gente gli dovesse obbedienza e tributi. Questo uomo, che si chiamava Gesù, era figlio di Maria, fanciulla ebrea, stirpe di Davide ma in povera fortuna, e sposata a Giuseppe fabbro di Nazaret. Egli crebbe nell'oscurità e nell'obbedienza fin verso i trent'anni; allora cominciò a predicare a pescatori e simil vulgo, e diceva: — Beati i poveri di spirito; beati i miti; beati i misericordiosi; beati i mondi di cuore; beati i pacifici, perchè saranno chiamati figliuoli di Dio; beati quelli che soffrono persecuzioni per la giustizia, perchè il regno de' cieli è per essi. Imparate da me che sono mite ed umile di cuore, e troverete requie alle anime vostre. Chi si corruccia col proprio fratello, è reo di giudizio. Misericordia io voglio, non sacrifizj. Finora v'hanno detto, Occhio per occhio, dente per dente: io vi dico che a chi vi percuote una guancia, [189] anche l'altra presentiate. Finora vi fu imposto d'amare il fratello, e odiare il nemico: io v'ingiungo d'amare il nemico, beneficare chi vi nuoce, pregare per chi vi persegue, imitando Dio che fa nascere il sole sui buoni e sui malvagi. Io vi do un precetto nuovo, che vi amiate un l'altro come io ho amato voi: vi conosceranno miei discepoli se vi amerete a vicenda. Chi ha due tuniche, ne porga una a chi n'è sprovvisto. Fate l'elemosina, ma in secreto, e che la vostra mano sinistra non sappia ciò che fa la destra. Date a prestito senza speranza di ricambio, e largo sarà il vostro frutto. Alla fine de' secoli poi verrà il Figliuol dell'uomo a giudicare, e dirà: Io ebbi fame, e mi saziaste; ebbi sete, e mi deste a bere; pellegrino mi albergaste, nudo mi vestiste, mi visitaste infermo e carcerato; venite, o benedetti del Padre mio, al gaudio che vi è preparato».

Chi così diceva, camminava come un peccatore fra i peccatori, confabulava col bestemmiatore, sedeva a banchetto coi pubblicani; rimandava assolta l'adultera, lasciavasi lavare i piedi dalla meretrice; intingeva il dito nel piattello stesso col traditore, e gli dava il bacio; prometteva il paradiso a un ladrone: oh! ben doveva egli sentire i dolori dell'umanità, se così la compativa.

Gli Ebrei perdettero l'indipendenza allorchè il magno Pompeo li sottopose alle aquile latine; e, pur conservando un re proprio, stavano soggetti a un preside o procuratore romano, che allora era Ponzio Pilato (28). Allo spettacolo delle assidue vicende d'allora, alla caduta di tanti regni, allo sterminio di tante città, i Gentili si approfondavano in quel sentimento d'un progressivo deteriorare del mondo, che era stato ad essi lasciato dalla tradizione primitiva; e perfino coloro che idolatravano Roma e «l'eternità dell'ingente Campidoglio», [190] a cui pareva aggiungere solidità ogni re che incatenato ascendesse per la via Sacra, pure vedevano ogni generazione peggiorare, e il mondo avviarsi a rovina inevitabile. Gli Ebrei invece, fra gravissimi disastri esteriori ed interni, perdute le armi e l'indipendenza, insieme col dogma della caduta teneano vivo quel della rigenerazione; unici fra i popoli antichi che conoscessero quella dottrina del progresso, ch'è carattere e vanto della moderna civiltà.

Nei loro libri profetici, da antico scritti nella più sublime poesia, leggevano la promessa che verrebbe un salvatore, e appunto intorno a questi tempi: ma accecati da angusto amor di patria, e nel dispetto dell'oltraggiata nazionalità, nell'aspettato non presagivano altro che un eroe, secondo la carne non secondo la fede, il quale spezzasse le catene del suo popolo come avea fatto Mosè liberandoli dall'Egitto, o Ciro mentre stavano schiavi in Babilonia, e tornasse i gloriosi tempi di Davide e di Salomone in quella Gerusalemme che restava sempre la più insigne città dell'Oriente[200]; un messia insomma trionfante degli stranieri, anzichè il Figlio dell'uomo, proclamatore dell'universale fratellanza, e d'una legge d'amore indipendente da tempi, da luoghi, da condizione.

Questo orgoglio carnale fece che non fosse conosciuto il Dio umanato, anzi si disprezzasse un Cristo mansueto ed umile, il quale parlava di rassegnazione, di benevolenza, d'un regno che non è di questo mondo; consigliava a pagare ancora il tributo, e dare a Cesare quel ch'era di Cesare: ma al tempo stesso egli imponeva si desse a Dio quel ch'era di Dio, purgava la legge patria dalle frivole osservanze, e mentre flagellava coloro che faceano traffico nel tempio, chiamava superbi [191] e ipocriti i sacerdoti e i dottori, i quali riponevano ogni moralità nella foggia del vestire, nello astenersi da certi cibi, e gonfiavano i cuori nella persuasione di loro virtù.

Costoro dunque cospirarono contro di lui, ed ai tribunali patrj l'accusarono di bestemmiare contro la religione, di corrompere la gioventù; ai tribunali romani, di turbare la dominazione straniera col parlare d'un altro regno e di glorie diverse. I principi dei sacerdoti, gli anziani del popolo e i giudici, cui i Romani ne lasciavano l'autorità, dichiarano Cristo degno di morte, e chiedono a Pilato che lo condanni. Questi esamina l'imputato, e gli domanda: — Sei tu il re de' Giudei?» e Cristo risponde: — Il mio regno non è di questo mondo; altrimenti i miei ministri non soffrirebbero ch'io fossi consegnato a' Giudei. — Ma dunque sei re?» ripiglia Pilato; e Cristo: — Tu il dici; e venni al mondo per rendere testimonianza della verità; e chi è dalla verità, ascolta la mia voce».

In tempo che altro legame non credeasi poter frenare il mondo, fuor quello della forza, qual mai timore poteva incutere al governatore romano un regno non di questo mondo, un re che altro impero non aveva fuorchè la verità, altri sudditi che quelli dalla verità assoggettatigli? Pilato avea inteso che il precursore di Cristo intimava: — Fate penitenza, preparate le vie del Signore», che Cristo diceva ai poveri: — Voi siete beati», ai ricchi: — Siate misericordiosi con tutti; chi vuoi essere mio discepolo, lasci ogni cosa, prenda la croce e mi segua», e che il popolo lo amava perchè scioglieva gli occhi ai ciechi, la lingua ai muti. Nulla affatto restava dunque minacciata la potenza ch'egli rappresentava, nè l'immortalità di Cesare: che cosa aveva mai a fare la religione colla politica? Costui non potea dunque sembrargli meglio che un lunatico, un paradossale. [192]

Ma quei primati divennero zelanti del poter temporale quando occorreva di opporlo allo spirituale: astiosi allo straniero che comprimeva le loro passioni, ora per passione s'accorsero che una novità religiosa porterebbe novità politica, e minacciarono di denunziare Pilato a Roma se non condannasse il riottoso. Il popolo, come chiamavansi pochi scioperati schiamazzanti in piazza, chiede ch'egli condanni costui, il quale mette a repentaglio il dominio di Tiberio; e Pilato, che nell'egoismo personale e governativo non vuol porre a repentaglio la pubblica quiete per nulla meglio che per un uomo, nè pericolare il proprio impiego per salvare un innocente, condiscende che l'uccidano, protestandosi però mondo del sangue di lui. E Cristo è crocifisso (35) dal popolo tra cui era passato beneficando; — vittima della legalità romana, acciocchè questa sia in perpetuo condannata.

Fra le imprecazioni egli morì, non imperterrito come Trasea o Seneca, ma confessando il dolore, ma desiderando fossegli risparmiato quel calice, ma gemendo di sentirsi abbandonato dal Padre, e perdonando a quelli che l'uccidevano: e tutto fu consumato, come da secoli era stato simboleggiato e predetto. Lo sgomento invade i discepoli suoi, i quali mondanamente giudicano le cose dalla riuscita; talchè nascosti non fidano che nell'essere o sprezzati o dimentichi, e piangono sull'estinto maestro, finchè questi, come avea promesso, risorge, e salito al Padre, manda lo Spirito divino che tramuta i timidi ed ignoranti pescatori di Galilea in dottori intrepidi, i quali, vestiti della forza di lassù ed obbedendo al maestro che avea detto — Andate e insegnate a tutte le nazioni», spargonsi per le vie di Gerusalemme, annunziando compita la legge, cessate le figure, cominciata la nuova alleanza, venuto il lume dal lume, il Dio da Dio, e [193] spiegano quella dottrina che doveva essere salvezza del mondo. Così il più stupendo miracolo del cristianesimo, qual è il potere di trasformazione, comincia ad operarsi negli Apostoli per estendersi a tutta la società.

Pilato ragguagliò il senato romano del caso; e Tiberio, udendo che Cristo avea fatto miracoli ed era risorto, disse — Ebbene, ponetelo fra gli Dei». Sì poco importava l'aggiungerne un altro alla caterva affluita di Grecia, di Siria, d'Egitto! Cristo però non era un dio, ma il Dio; e la sua dottrina e l'esempio suo repugnavano talmente ai dominanti, che il trionfo di quelli doveva portare la rovina di questi; e raccogliendo i pensieri di tutte le generazioni, di tutti i secoli, avvincere il mondo in un legame di fede, di speranza, d'amore, il cui nodo è in cielo.

Finchè ogni gente adorava un dio diverso, ciascuna associazione rimaneva isolata, nè sentiva verso le altre que' doveri, che da Dio solo traggono la sanzione: partecipando anzi alle gelosie de' loro Iddj, non vedeano negli stranieri che nemici da abbattere, schiavi da incatenare. Pel cristianesimo invece tutti gli uomini s'accordano nella medesima credenza, si uniscono in una sola Chiesa; solennità inditte a tutti i paesi, segni che distinguono il credente ovunque sia, preghiere comuni, e spesso a tempi ed ore eguali in tutto l'orbe. La religione non restringesi più ad un luogo, è predicata a tutti, e non annunzia conquiste, cioè predominio d'alcun popolo; non fonda una tribù sacerdotale, non indispensabile solennità di riti; ma semplici preghiere, ma cerimonie schiette ed affettuose rimembranze congiungeranno i fedeli dovunque e quandunque sollevino a Dio la mente.

Il cristianesimo non ha dottrine arcane, non han velo i suoi tempj, non v'è profani nella Chiesa. L'uniforme [194] e solido insegnamento della scuola armonizza colla predicazione e col culto, il mistero colla dottrina esteriore, le cerimonie colla reale consumazione del sagrifizio. Insegnato ai bambini colle prime parole, si radica nei cuori, insinua una morale dolce quanto sublime, un'affettuosa eguaglianza che nel mondo non lascia vedere se non figli d'un Dio. Da qui la purezza d'una morale, non soggetta a varietà di tempi nè di persone, e sempre intesa al perfezionamento di sè ed alla carità verso altrui. Nè la virtù è più un affare di convenzione, ma la pratica della verità, conosciuta e ponderata con giudizio retto; una buona qualità della mente, di cui non si può abusare[201]: è peccato il preferire al bene sommo il proprio, all'oggettivo il subjettivo.

Sotto le maestose pieghe della società romana quale la dipingemmo, ne covava dunque un'altra affatto differente, che all'amor proprio di quella opponeva il sagrifizio e la carità; al libertinaggio la penitenza; all'opinione, al dubbio, al timore le tre virtù ignote, fede, speranza, carità; alla superbia l'umiliazione; alla violenza la convinzione; al diritto del forte l'eguaglianza dei deboli; all'ambizione di ricchezze, di godimenti, di potere, persecuzione, pazienza, austerità.

Le due società non tardarono a trovarsi a fronte. Perocchè gli Apostoli, appena furono innovati dallo Spirito consolatore, uscirono predicando, e sparso il buon seme nella Giudea, recarono la fausta novella (euangelio) alle genti, cui il Cristo non si era mostrato. Pietro, il maggiore fra essi, s'avvia ad Antiochia, poi a Roma (42?), il pescatore di Genesaret alla metropoli del [195] mondo, per istabilirla centro di un'altra unità, per opporre alle infamie di Messalina ed alle atrocità di Nerone il raffronto dell'alta ragione e della sublime virtù che perdona, istruisce e consola, e che sacrificando se stessa per l'umanità, rende inutili gli altri sagrifizj cruenti. La irrequietudine degli Ebrei in Roma, e massime contro i convertiti, indusse Claudio a cacciarli, e allora Pietro sarà tornato nell'Asia[202]. Esprimo in via di probabilità, giacchè, nell'età dell'orgoglio, questi grandi rinnovatori del mondo lasciarono ignorare il loro cammino.

Saulo o Paolo, di Tarso in Cilicia, municipio romano, da fiero persecutore de' Cristiani ne divenne apostolo (35), e fu eletto a diffondere il vangelo tra i Gentili; il che egli fece non soltanto colla parola, ma con quattordici epistole, dove chiarisce molte dottrine che erano custodite per tradizione, e inculca che veruna fede non è ristretta a veruna nazionalità. Gallione proconsole dell'Acaja risedeva in Corinto, quando Paolo v'andò a predicare, e molti gli credevano e battezzavansi. Gli Ebrei lo presero in ira: l'ira consueta degli oppressi contro chi cerca rigenerarli moralmente; e il condussero al proconsole, imputandolo d'insegnare un diverso modo d'adorar Dio; ma Gallione li rimbrottò, e — Se costui ha commesso qualche delitto, indicatelo; ma se si tratta delle vostre solite quistioni di parole e casi della legge vostra, sbrigatevela fra voi»[203].

Un'altra volta, mentre predicava nel tempio di Gerusalemme (38), gli Ebrei lo assalsero e maltrattarono, finchè [196] s'interpose la guarnigione romana. Lisia, colonnello di questa, al cui arbitrio era commessa la quiete della città, volea farlo bastonare, ma Paolo disse: — No, perchè io son cittadino romano». Verificata tale asserzione, il colonnello lo sottopose a un concilio di sacerdoti; ma tra questi alcuni erano sadducei che negavano l'immortalità, altri farisei che ammettevano la resurrezione de' morti; perocchè gli Ebrei pativano di quell'altra scabbia degli oppressi, la sconcordia d'opinioni e i rancori reciproci: onde cominciarono abbaruffarsi fra loro. Il colonnello, vedendo non si trattava d'alcuna colpa, tolse seco Paolo perchè non soffrisse nuove ingiurie, e lo mandò a Felice governatore della Giudea. Accorse il gransacerdote ebreo con altri ad accusarlo; ma Felice, visto che erano dispute religiose, tenne Paolo in larga custodia a Cesarea per due anni, intanto ascoltandolo discutere sulla giustizia, sulla castità, sul giudizio futuro: avviata poi la processura, Paolo appellò al tribunale di Cesare, laonde fu da Festo, successore di Felice, mandato a Roma. Tra molti prodigi egli vi approdò; e lasciato alla libera custodia d'un soldato, con ogni fidanza e senza verun divieto[204] vi stette due anni predicando.

Reduce in Asia, da Corinto diresse ai Romani una celebre epistola, in cui rinfaccia a' Giudei convertiti la carnalità e il volere angustiarsi nelle cerimonie, mentre quel che importa è la grazia del Signore, necessaria per essere santificati in virtù della fede in Cristo, la qual fede è il principio della giustificazione: ai Gentili rimprovera la soverchia fidanza nella propria ragione, mentre le cognizioni di cui superbivano, traevanli a [197] peccato; la scienza di suprema importanza esser quella di Dio; i savj, quando s'ingloriarono de' proprj pensamenti, caddero nell'accecamento e nella superstizione, e Dio li lasciò in balìa delle passioni loro: pertanto e Gentili e Giudei convertiti si rispettino a vicenda, nè in altro si glorifichino che in Cristo Gesù. Tornato poi a Roma e messo prigione, Paolo di là scrisse una lettera agli Ebrei, mostrando l'insufficienza della legge mosaica dopo venuto chi la perfezionava e compiva.

Di queste missioni poco si brigava l'orgoglio romano, finchè non venne occasione di perseguitarne i proseliti. Da poi che Nerone ebbe messo fuoco a Roma, nè sacrifizj agli Dei nè ordini ai magistrati nè profuso denaro o promesse di più elegante ricostruzione chetarono il dispetto della plebe. «Si ricorse anche ai Libri Sibillini; fu supplicato a Vulcano, Cerere, Proserpina; e da matrone prima in Campidoglio, poi alla più pressa marina, fatta Giunone favorevole; e di quell'acqua fu asperso il tempio e l'immagine della dea, poi da maritate vi si fecero i lettisternj e le vigilie. Ma nè opera umana, nè prece divina, nè larghezza da principe gli scemava l'infame taccia dell'avere arso Roma». L'imperatore, che poteva ridurre al silenzio i senatori coll'ucciderli, era costretto rispettare il popolo; onde, con un artifizio unico e sempre nuovo, pensò stornare da sè quella colpa col versarla sopra cotesta nuova setta di filosofi, la quale, aborrendo dalla sozza corruttela e dal vigliacco umiliarsi, e non riconoscendo nei Romani una natura superiore alle altre genti, nè quindi il diritto di opprimerle, faceva dispetto alla tiranna del mondo. Adunque «processò e con isquisitissime pene castigò quegli odiati malfattori, che il vulgo chiamava Cristiani da un Cristo, il quale, regnante Tiberio, fu crocifisso da Ponzio Pilato procuratore. Per allora fu repressa quella [198] semenza; ma rinverziva non pure nella Giudea dove nacque quel male, ma anche a Roma, dove tutte le cose atroci e brutte concorrono e acquistano celebrità. Furono dunque prima catturati i Cristiani che professavano apertamente, quindi gran turba, indicati non come colpevoli dell'incendio, ma come nemici del genere umano».

Per l'odio dunque cominciavano i Romani a conoscere una religione, che tutti voleva congiungere nell'amore. Con supplizj della peggior guisa li perseguitarono, e imitando quel che il loro padrone faceva ai patrizj, unirono all'atrocità l'insulto; quali avvolti in pelli d'animali esibendo ai cani, quali esponendo nel circo, quali bruciando vivi, e de' loro corpi servendosi la sera come di fanali ne' voluttuosi giardini di Nerone, posti in quel colle Vaticano, su cui la religione allora nascente doveva poi piantare il suo trionfale padiglione. «Nerone vi celebrò la festa Circense, vestito da cocchiere in sul carro, e spettatore fra la plebe; onde di que' tristi, sebbene meritevoli di ogni più nuovo supplizio, veniva pietà, non morendo essi per pubblico bene, ma per crudeltà di lui solo»[205]. Vuole la costante tradizione che in quell'occasione Pietro e Paolo suggellassero la fede loro col martirio (67 — 29 giugno), consacrando del loro sangue una terra, che da tant'altro era contaminata.

Ma già eransi moltiplicati i Cristiani in Roma, in Italia. Da principio adoperavano ogn'arte per nascondersi, convegni segreti, segni di convenzione, lettere e tessere di riconoscimento, scatole in cui portare il viatico agl'infermi, ai prigionieri, a chi non poteva uscir di casa; intanto si estendevano fra i poveri, fra i giovani, fra le donne. La donna convertita è seme [199] che germoglia presso al focolare domestico; e se non può al consorte, ispira ai servi ed ai figliolini nuove massime, nuove ammirazioni, desiderj nuovi. La famiglia di Priscilla fu la prima che, dalle idee orgogliose su cui riposava il patriziato antico, passò ai sentimenti della fraternità umana che costituiscono la cristiana uguaglianza. Tre Priscille, molte Lucine, Ilaria, Flavia, Severina, Firmina, Giusta, Ciriaca, altre ricche vedove trasformate in diaconesse, passavano i giorni pregando sulle tombe dei martiri, che aveano ornate colla cura e col segreto onde altre loro pari allestivano i gabinetti lascivi; madri e vergini sante espiavano per quelle che si prostituivano in onor delle dee, pregando assidue, e soccorrendo chiunque abbisognava o soffriva. Quando la dea Vesta più non trovava chi volesse votarle la verginità, molte fanciulle a gara s'offrivano alla custodia delle ossa dei martiri. Più tardi colle loro ricchezze fondarono spedali, monumenti di carità opposti a quelli di strage e di contaminazione. Di tal passo la donna recuperava la libertà naturale, sottraevasi, foss'anche schiava, all'arbitrio d'un padrone, e cancellava la legale sua inferiorità[206].

L'adorazione dell'uomo è l'adorazione del male; il culto dei Cesari è l'infimo grado dell'idolatria; i costumi dell'età loro sono la cloaca dell'impurità, dell'inumanità e della divisione, le tre grandi conseguenze dell'idolatria. Da un lato dunque «opere della carne, dimenticanza di Dio, incostanza di matrimonj, avvelenamenti, sangue ed omicidj, furti ed inganni, orgie, [200] sacrifizj tenebrosi, uomini uccisi per gelosia, o contristati coll'adulterio, tutte le cose confuse, e una gran guerra d'ignoranza che la follia degli uomini chiama pace»; dall'altro lato «tutti i frutti dello Spirito, carità, gioja, pace, pazienza, benignità, bontà, longanimità, dolcezza, fede, modestia, temperanza, castità»[207]; ai quattro caratteri dell'antichità se ne oppongono quattro nuovi, fede pura all'idolatria, carità allo spirito di malevolenza, giustizia al disprezzo delle vite, castità alla corruzione. Siffatta guerra cominciava col Vangelo.

Nella Roma incestuosa e micidiale, anime che il mondo non era degno di possedere viveano nelle caverne, aspettando intrepide, ma non accelerando l'ora di fecondare del loro sangue la pianta della rigenerazione. Attorno alle città d'Ostia, di Velletri, di Tivoli, di Preneste e Palestrina, e nelle valli che con cento flessuosità sboccano nella pianura del Lazio; accanto alle tane, ove i padroni chiudevano la sera centinaja di schiavi alla bestemmia ed agli indistinti concubiti, trovi altre caverne, scavate nel tufo di cui si fabbricavano le voluttuose ville: e dentro quelle nei gemiti e nella preghiera si rigenerava l'umanità. Colà i Cristiani sepellivano i morti entro nicchie che poi muravano, chiudendovi insieme gli strumenti del supplizio, un'ampolla del sangue, le insegne della dignità o dello stato; e questi asili della morte denominavano cimiterj, cioè dormitorj, espressione d'una coscienza pura, consolata nella certezza di svegliarsi ad altra vita; e colà venivano ad orare. Ivi nessun altro ornamento che l'avello d'un martire, pochi fiori, alcuni vasi di legno, qualche cero o lampada, al cui lume leggere il Vangelo, cioè i libri nei quali i compagni di Cristo o i loro discepoli aveano esposto semplicemente la [201] vita e gl'insegnamenti di lui, i precetti e l'esempio; ed invocavano la grazia di adempirli e d'imitarlo. E in quel leggere e in quel pregare consisteva la loro cospirazione.

Uniti nella credenza stessa, nella stessa morale, nella stessa speranza, davano bando alle inumane distinzioni del secolo: il ricco sedeva presso al povero cui sostentava coll'aver suo: le vergini del vulgo, coperte di bianco lino, con al collo gli amuleti dell'agnello di Dio che toglie i peccati, alternavano litanie colle matrone e colle vedove de' senatori e dei proconsoli, che avevano data ogni ricchezza all'assemblea de' fedeli, e spargevano i ristori della carità: e mentre l'egoismo rodeva a morte la società antica, qual sovrabbondanza di vigore in quella nuova, dove l'amore nasceva dall'inesausta fonte della fede, e dove convincendosi della debolezza dell'uomo, acquistavano la forza che viene da Dio! Il vescovo, il prete, il diacono, cioè a dire l'ispettore, il vecchio, il servo, presedevano all'adunanza, non distinti se non per maggior virtù, carità e dottrina nel soffrire, nel rimetter pace, nel compatire e consolare, nello spezzare il pane della parola, e per lo stupendo privilegio d'immolare il Figlio al Padre, vittima incessante per le colpe, e di legare o sciogliere i peccatori tra l'effusione della Grazia.

Quivi entro, la vigilia delle solennità i sacerdoti davansi lo scambio per cantar tutta notte inni al loro Signore; e quella melodìa serviva di guida ai fedeli, che sbucati di piatto dalla città o dall'ergastolo degli atroci padroni, venivano a trovarvi gli anziani mutili nel martirio, i vescovi rapiti miracolosamente al rogo, i filosofi che, mutati in apostoli, avevano finalmente rinvenuto il nodo delle agitate quistioni, e che s'accingevano a recare il vero alle genti assise nell'ombra della morte, e a confermarlo col proprio sangue. [202]

Le feste dell'idolatria erano allusioni a fenomeni naturali, ovvero patriotiche rimembranze, spesso contaminate da impurità e bagordi: nelle cristiane, l'esultanza era espressione del rinascimento spirituale. Là interrogavasi con ansietà il futuro; qui si confidava nell'onniscienza divina; e lo spirito, sgombro dal timore di sinistri presagi, trovava la spiegazione della vita in ciò che dee venire dopo di essa. Chi potesse, recava qualche denaro ogni mese onde nodrire e sotterrare i poveri, sostentare gli orfani, i naufraghi, gli esuli, gl'imprigionati. Come fratelli, erano disposti a morire gli uni per gli altri: tutto avevano in comune, eccetto le donne: nel loro mangiare insieme, che chiamavasi far carità (agape), libavano il calice del sacrosanto sangue; poi i cibi, ricevuti a gloria di Colui che li dà, rallegravano la sacra accolta nella fratellanza dell'affetto e nella gioja del perdono e del sagrifizio.

La società periva per l'egoismo e l'isolamento? eccola salvata dallo spirito d'associazione e da quell'amore che mancò sempre al gentilesimo, perchè Dio solo poteva insegnarlo. Il cristianesimo è dottrina di redenzione, sicchè primo merito pone il praticare la carità fino a dar la vita. Per accrescere il bene del prossimo, ognuno ha l'obbligo d'esercitare l'industria, scoprire, progredire; è pertanto anche dottrina d'attività e d'avanzamento, mentre gli antichi, fondati sopra l'idea del decadimento, vedevano il male e la disuguaglianza fra gli uomini come una necessità, soffrivano e lasciavano soffrire. Colla parola «Siate perfetti come il Padre mio celeste», è imposta alle età nuove la missione di procedere, di lottare; e se il verbo di Dio non mente, andrà svolgendosi ed effettuandosi ognor meglio la legge di giustizia e d'amore; e poichè in questa consiste il perfezionamento anche dell'ordine temporale, indefettibile ne sarà il progresso, divenuto legge naturale [203] dell'umanità. Ne conseguiva anche la libertà[208], la quale, sbandita d'ogni luogo pel deleterico influsso dell'egoismo, ricovera nel santuario, protetta dalla fede di Colui pel quale regnano i re.

Veramente Cristo, la cui riforma era morale e non politica, non mutò l'ordinamento materiale del mondo visibile: ma la scienza delle intime relazioni della terra col cielo, del tempo coll'eternità, del contingente col necessario, riesce ad innovarlo, porgendo un canone di eterna giustizia; e coll'impedire che mai più gli uomini si considerino altri come fine, altri come mezzi, pianta la libertà vera, generata dalla fede, dalla pratica della virtù e dalla cognizione della verità.

— Chi vorrà esser primo, si farà servo degli altri, come il Figliuol dell'uomo che venne non per essere servito ma per servire, e dar la vita ad altrui redenzione». Queste parole segnano il rigeneramento della società, sostituendo alla tirannide, ove pochi godono e molti patiscono, il governo per vantaggio di tutti; e rendendo un dovere non un piacere il diriger gli uomini. Il superiore sa d'essere obbligato a servire alla grande società umana, nè quindi inorgoglisce della sua posizione; l'inferiore vede nel magistrato l'uomo costituito a vantaggio di lui, e quindi lo ama e seconda: i potenti riconoscono i diritti dei sudditi, questi la soggezione, dovuta per riguardo a Colui che è unica fonte della podestà: e gli uni e gli altri s'accordano nel volere soltanto ciò che è volontà del comun padrone.

Cristo designò l'uomo che, lui morto, dovea farsi servo dei servi; e così fondò l'unità del governo visibile, che non avendo il suo regno in questo mondo, avvicinasse più sempre gli uomini al regno di Dio, il [204] quale consisterà nell'unità di credenze e d'affetti. A tal uopo è stabilito un potere sulle coscienze, al quale appartenga il risolvere ogni dubbio e determinare le credenze. Nulla esso possiede di violento; uniche armi sue la persuasione, e la Grazia invocata, e la infallibilità promessa da Colui, che prega in cielo affinchè la fede di Pietro non venga meno.

A prima vista parrebbe dispotico cotesto governo della Chiesa, che impone quanto s'ha da credere, estende l'imperio sulla coscienza, e proscrive il dissenso: ma l'infallibilità sua esso trae da un principio superiore all'uomo, e tale da acquetar la ragione; tutto fa pubblicamente per lettere, dibattimenti, concilj, tanto che non si prende alcuna determinazione se non per deliberazioni comuni: le assemblee diocesane, provinciali, nazionali, ecumeniche adombrano quel governo rappresentativo, che divisavasi testè come il più alto punto del politico progresso.

Esso governo spirituale, non che contrastare col governo terreno, imporrà d'attribuire a Cesare ciò che gli appartiene; ma a fronte di Cesare ergerà dottrine che, insinuandosi nella vita sociale, la modifichino, ed esempj, la cui santa evidenza trascini ad imitarli. Pertanto nella società mondana v'avrà nazioni distinte; nella religiosa un'adunanza universale (Chiesa cattolica): colà il lignaggio dà potenza e decoro; qui tutto deriva dal merito personale, senza gradi nè privilegi ereditarj, talchè il nato nell'infimo grado potrà ascendere al primato e fin agli altari: colà la forza impone i regnanti, e il talento di questi destina i magistrati; qui tutto va per libera elezione, dall'acòlito sino al pontefice: colà eserciti che soggiogano i corpi, qui apostoli che convincono l'intelletto e inducono la volontà: colà imperatori che decretano, qui diaconi, preti, vescovi che istruiscono e consigliano: colà giudizj [205] che puniscono, qui un tribunale ove il confessare i delitti li espia; e se v'ha chi persiste nella nequizia e scandalizza i fratelli, la pena più severa sarà l'escluderlo dalla Chiesa, sicchè non partecipi alla preghiera ed al convito de' buoni: ivi insomma la materia, qui lo spirito; ivi la coazione, qui la coscienza. La carità cristiana toglie dunque l'uomo dal giogo dell'uomo; come contro la propria debolezza, così lo difende contro l'oppressura altrui, intimando, — Guaj a chi sprezzerà uno di questi piccoli».

Cristo, imponendo ai discepoli la propria indigenza volontaria, una legge di patimento e d'abnegazione, ruppe il fascino delle grandezze pagane; il livello della povertà, sotto cui abbassava tutti, diveniva livello d'indipendenza; sicchè agli splendori dell'antichità sottentrassero la fraternità e l'eguaglianza. Allora il diritto succede al fatto; il pensiero e la coscienza umana, volontariamente sottomessi a Dio, da Dio solo vogliono dipendere, vero e primo sovrano, dal quale Cristo fu investito della suprema podestà. Da Dio dunque soltanto e dal suo Verbo deriva agli uomini il diritto di comandare. I principi aveano fin allora dominato solo sui corpi colla forza; allora governerebbero anche gli spiriti col diritto che deducevano da una fonte superiore. A vicenda i popoli dall'obbedienza forzata passavano alla consentita, prestandola non ad un uomo fallibile e peccatore, ma a Dio, e spegnendo così i due demoni della tirannia e della rivolta.

L'obbedienza nascendo dalla persuasione, non avvilisce col sommettere l'uomo ai capricci dell'uomo[209]; riduce il principe a ministro di Dio pel bene, e i governi a provvedere che sia rettamente distribuita la [206] giustizia, senza potestà nè azione sopra il pensiero e le coscienze. Ma se Dio è la potenza, non sempre è di Dio l'uomo che la esercita, nè l'uso che ne fa; e quegli e questo sono subordinati al diritto eterno. Nessun uomo possedendo autorità per se stesso, qualvolta surroghi all'eterno diritto la potenza propria, si fa usurpatore; demerita l'obbedienza qualvolta l'arroganza propria sostituisca a quella legge superna, di cui è interprete la Chiesa[210].

Perocchè al di sopra di questi criterj del vero, di quest'autorità del giusto è collocata la Chiesa, società delle anime legate al cospetto di Dio dalle medesime credenze, depositaria immutabile delle verità eterne, e insieme oracolo vivente nelle dispute a cui soggiace ogni verità quando è consegnata all'uomo; affinchè, assicurando la libertà nel vero, repudii la libertà nell'errore, combattuto sotto qualsiasi forma perchè gli manca il diritto. Rappresentando la natura umana ancora scevra dal peccato, essa è incapace di errare come di morire; e afferma o nega competentemente i primi veri, su cui si fondano non solo la religione, ma la famiglia, la società civile e la politica; una nel capo, molteplice nei membri.

Erano dunque finalmente riconciliati scienza e dovere, filosofia e religione, morale e politica; derivate tutte dalla medesima sorgente; era costituito il criterio del sapere, degli affetti, delle azioni. Quanti secoli però, quanto sangue, prima che la verità divenisse trionfante, s'inviscerasse nella società, e portasse le indefinite sue [207] conseguenze e le applicazioni morali e civili! Ma ancora ne' mali inseparabili dalla condizione umana recherà balsami la carità, intenta a diminuirli o a consolarli coll'elevare gli occhi del soffrente al Cielo che è per lui.

CAPITOLO XXXVI. Galba. — Otone. — Vitellio.

Fin qui erano succeduti imperatori della famiglia Giulia, o imparentati o adottivi di essa; e il senato davasi l'aria di eleggerli: ma ora, al vedere una persona nuova, creata dai soldati, il senato comprende essersi rivelato che l'imperatore si può fare anche fuor di Roma[211].

Servio Sulpizio Galba da Terracina, nobile, ricco, preconizzato all'impero da mille augurj, nella sua pretura avea ben meritato del popolo col l'introdurre il nuovo spettacolo d'elefanti che ballavano sulla corda. Buon capitano, sotto Nerone fece l'addormentato per non attirarsi sospetti; e governando la Spagna Tarragonese, represse i concussori, ed acquistò l'amore della provincia. Insorto contro Nerone (68) per restituire (diceva) il massimo dei beni, la libertà rapita da un mostro, come l'udì morto assunse il titolo d'imperatore, ed avviossi a Roma, auspicando male il regno col punire le persone e le città che aveano ricusato secondarlo nella sollevazione, e trucidare i complici e fautori di Ninfidio Sabino, comandante ai pretoriani, il quale avea voluto farsi gridare imperatore.

Un corpo di marinaj, che Nerone aveva ordinati in legione, gli va incontro a Ponte Milvio chiedendo essere [208] confermati; e perchè al suo niego si ammutinano, Galba li fa assalire dalla cavalleria, settemila uccidere tra in battaglia e per castigo, i restanti in prigione finch'egli visse. Altri supplizj tennero dietro, ordinati freddamente: pregato a risparmiare ad un cavaliere l'infamia, comanda che il palco sia dipinto, e ornato di fiori.

Il popolo esultò quando vide messi a morte gli strumenti di Nerone, fra cui Narcisso e l'avvelenatrice Locusta; e qualora Galba uscisse in pubblico, gli chiedeva a gran voce il supplizio di Tigellino: ma costui a grosse somme comprò lo scampo. Di ciò fu scontenta la plebe, come della parsimonia che Galba credeva necessaria dopo i pazzi scialacqui precedenti. A un senatore che il ricreò tutta una cena, regalò una moneta, avvertendolo, — È di mia borsa, non dell'erario». Se vedesse imbandigione più dispendiosa del solito, soffiava. Le prodigalità del suo antecessore volle cincischiare, ordinando che, chiunque n'avea ricevuto doni, ne restituisse nove decimi, creando per questo un tribunale che turbò i possedimenti, e più scontentò che non arricchisse l'erario. Negò ai pretoriani il donativo, rispondendo: — Ho scelto i soldati, non li voglio comperare»; voce degna d'un prisco Romano, s'egli l'avesse coi fatti sostenuta.

Ma avea messo il capo in grembo a favoriti indegni, i quali non era malvagità che non si permettessero; nei giudizj e negli impieghi non guardavano a merito, a diritto o a torto, ma a chi più desse: laonde si rinnovavano le miserie e gli orrori del tempo di Nerone; e l'odio de' costoro delitti accumulandosi sopra Galba col disprezzo per la sua inerzia, faceva intollerabile il dominio. Vedendosi sprezzato ed esoso, e udita la rivolta d'alcune legioni di Germania, Galba stabilì adottare un successore. E fu Pisone Liciniano, giovane reputato per modestia e severità: e l'esortò a portare la superba [209] fortuna, come sin là aveva l'umile sostenuta; essere accorciatojo al ben regnare l'osservar quali cose si condannerebbero in principi; ricordasse di aver a governare gente che nè la libertà sapeva tollerare, nè la servitù.

I soldati e i senatori annuirono alla scelta, ma Marco Salvio Otone, inveterato negl'intrighi di Corte, essendo stato caldo sostenitore di Galba, sperava da lui quel premio: deluso, e nulla avendo a sperare nella quiete, tutto nel sovvertimento, macchinò; i debiti, le insinuazioni dei liberti, i presagi d'indovini e di pianeti, la scadente autorità di Galba, la non ancora assodata di Pisone, lo fecero ardito a lasciarsi proclamare imperatore (69) da non più che ventitre guardie pretoriane. Ben tosto altri ed altri si aggiunsero; gl'indifferenti non si opponeano, i contrarj stavano a guardare. Pisone uscì, mostrando di che turpe esempio sarebbe il tollerare che non trenta disertori dessero il padrone al mondo; sicchè il popolo empì il palazzo gridando morte a Otone, siccom'era solito nei teatri, e non già per amore o per idea del meglio, ma per la consuetudine di adulare i principi con vano favore, pronti a gridare il contrario un'ora appresso.

E Otone esce con mani tese e picchiar petto e gittar baci e ogni umiltà: se gli fa turba intorno di curiosi o di fautori; e prima i pretoriani, poi la legione de' marinaj, memore dell'insulto, gli prestano giuramento. Galba, svigorito dai settantatre anni e dall'infingardaggine, compare armato in sedia; è forbottato senza consiglio (69 — 15 genn.) fra una moltitudine non tumultuante, non quieta; e da tutti abbandonato, agli assassini presenta tranquillamente il petto, dicendo: — Ferite, se così comple alla repubblica». Regnò otto mesi, piuttosto scevro di vizj che dotato di virtù; e fu detto di lui, che parve degno dell'impero finchè nol conseguì.

Senato, popolo, cavalieri, come fossero tutt'altra [210] gente, corsero a chi prima al campo, bestemmiando Galba, ad Otone baciando la mano e ammassando titoli e applausi, più vivi quanto meno sinceri. Otone gli accoglieva cortese, e procurava rattenere i soldati dal sangue e dalla ruba; ma aveva autorità di comandare il delitto, non d'impedirlo, e dovette a lor capriccio deporre ed alzare magistrati. Vinnio, Laco, Icelo, Pisone, indegni favoriti, furono trucidati, e con loro molti innocenti e rei, come avviene nelle sommosse: la giornata micidiale si conchiuse con feste e falò: al domani il pretore, convocati i padri, fece decretare la podestà tribunizia ad Otone, che, attraverso le insanguinate vie di Roma, salì al Campidoglio, ove ottenne il titolo di cesare augusto, perdonò le ingiurie, o forse differì la vendetta, che dalla brevità del regno gli fu impedita.

Gli eserciti che davano l'impero, potevano anche ricusarlo. Nella Bassa Germania, Aulo Vitellio, tratti dalla sua i governatori della Gallia Belgica e della Lionese, e i campi dell'Alta Germania, della Rezia e della Britannia (69), si fece gridare imperatore, e prese l'autorità, premiando e punendo; poi avviò verso Italia Fabio Valente pel Cenisio, Alieno Cecina pel Sanbernardo cogli eserciti; e presto udì che i paesi fra l'Alpi e il Po si sottometteano, non per benevolenza od ira, ma perchè indifferenti a qual obbedire fra due pretendenti, egualmente spregevoli. Otone, strappatosi dai voluttuosi ozj, mostrasi assiduo agli affari, blandisce il popolo con elocuzioni, il senato colle dignità, colle largizioni i pretoriani; perdona ad alcuni; ordina a Tigellino di morire; tenta smovere Vitellio dall'impresa con larghe promesse, fin d'associarselo all'impero: patti simili propone Vitellio; poi l'uno all'altro avventano ingiurie enormi e meritate, l'uno all'altro spediscono assassini. I pretoriani tumultuano; i cittadini rimangono col batticuore d'una guerra civile; nessun partito osava prendere [211] il senato, perchè ogni parzialità, mostrata oggi a un imperatore, poteva domani dar pretesto alle vendette dell'altro. Lo sgomento era cresciuto da fantasmi apparsi, statue rivoltesi, mostri nati; un bove parlò in Etruria; il Tevere traboccando portò via i viveri. La gente, fiaccata dalla lunga pace, vuol mostrarsi bellicosa col comprare belle armi, insigni cavalli, e banchettare, dissimulando la paura quanto più n'avea.

Per togliersi a quell'intradue, Otone mosse incontro al pericolo colla più parte de' magistrati e de' consolari, e colle coorti pretoriane. La guerra fu atroce come sogliono le civili, sostenute da stranieri ausiliarj: finalmente a Bedriaco[212] l'esercito d'Otone andò squarciato (20 aprile). A questo in Brescello ne recò notizia un soldato, il quale vedendosi non creduto, quasi fosse fuggito per viltà, si trafisse colla propria spada. L'imperatore a quell'atto esclamò: — Non sia mai che gente sì prode e affezionata resti, per mia cagione, esposta a nuovi pericoli». E per quanto i soldati lo confortassero, mostrando che non era a disperare, che tutti voleano dar la vita per esso, e gliel provassero coll'uccidersi, altri gli dicessero essere grandezza d'animo il soffrire le calamità, non il sottrarvisi, egli li supplicava a lasciarlo sagrificare la sua per salvare la vita di tanti, e, — Non trattasi di combattere Pirro o i Galli, ma concittadini, nè la vittoria può venire senza molto sangue fraterno. Vitellio prese le armi; io dovetti difendermi; ma la posterità sappia che una sola volta esposi per me Romani contro Romani. Vitellio troverà vivi il fratello, i figli, [212] la donna sua. Se altri l'impero tenne più a lungo, nessuno l'abbandonò più generosamente. Di veruno io mi lagno; chè il querelarsi degli uomini o degli Dei al venir della morte, è un mostrarsi cupidi della vita».

Chi così parlava era stato mezzano e parte alle turpitudini di Nerone, che gli affidò Poppea sinchè non si fosse tolta d'attorno Ottavia; s'era affogato nei debiti; spelavasi tutto il corpo e radeva la faccia ogni dì, rammorbidiva la pelle con mollica bagnata, portavasi sempre a lato uno specchio, e a quello componevasi in aria marziale prima di camminare al nemico. Indotti i suoi a non ritardare la risoluzione sua, s'accinge ad uccidersi la sera, poi dice: — Aggiungiamo anche questa notte alla vita»; colloca sull'origliere due pugnali, s'addormenta, e la mattina si trafigge (21 aprile).

Piangendo un imperatore che a trentasette anni moriva per salvarli, i guerrieri suoi levarono un rumore, pericolosissimo perchè non era chi li quietasse; esibirono l'impero senza trovare chi l'aggradisse; e mentre il senato si chiariva per Vitellio, e decretava ringraziamenti alle legioni di Germania, la militare licenza infieriva d'ambe le parti col pretesto di punire gli avversi. Vitellio accorso, perdonò ai primarj uffiziali dell'emulo, gli altri punì di morte; nel campo di Bedriaco, tuttavia coperto degli insepolti, compiaceasi vederne le ferite, e diceva: — Il cadavere d'un nemico sa buono, più buono se è un cittadino»; e fatto recar vino, bevve e ne distribuì, rivelandosi qual era goloso e crudele.

Su tutto il suo cammino fu una gara di portargli quel che di squisito porgesse il contorno; i migliori cittadini erano raccolti a splendidi banchetti; ed i soldati l'imitavano, sicchè il suo campo sarebbesi detto un baccanale. Sebbene n'avesse congedato e sbrancato parte, pure settantamila armati, oltre i saccomanni e i servi, attraversando l'Italia al tempo della messe, la [213] sperperarono, svergognando, saccheggiando, vendendo come in guerra rotta. L'imperatore entrava in Roma con corazza e spada, a foggia di conquistatore che si cacciasse innanzi il senato e il popolo, se non l'avessero gli amici avvertito di risparmiare questo nuovo insulto ed assumere abito di pace. Nell'arringa al popolo e al senato sciorinò la solerzia e la temperanza sua; e popolo e senato, che ne sapevano la gola e le disonestà, applaudirono.

Con uno de' primi decreti proibì ai cavalieri romani di darsi spettacolo sul teatro e nell'arena; con un altro sbandiva gli astrologi; ed essendosi affisso un cartello che annunziava Vitellio morrebbe il giorno che gli astrologi uscissero di Roma, egli fece ammazzare quanti ne colse. Era frequente al teatro e al circo, assiduo al senato, ove avendolo Elvidio Prisco contraddetto, egli soggiunse: — Nessuna meraviglia che due senatori tengano contrario avviso». Trovato un catalogo delle persone che avevano sollecitato premj da Otone come uccisori di Galba, li fece morire, men per punizione del passato che per riparo all'avvenire. Inetto però a gravi cure, le lasciava ai favoriti Valente e Cécina che gli avevano dato l'impero, e ad Asiatico di cui aveva usato in turpi servizj; e forse alle costoro suggestioni vanno imputati i tanti omicidj di cui Vitellio si macchiò, fin della propria madre.

Egli intanto badava agli aguzzamenti dell'appetito. Immaginò un piatto, detto lo scudo di Minerva per la prodigiosa capacità, dove si raccoglieva quanto potesse meglio solleticare palato o capriccio d'uomo; cervella di fagiano, fegati di scaro, latte di lamprede, lingue di rari uccelli a mille colori, pigliati dalla muda ad una cert'ora; femmine sorprese sulla covata, maschi interrotti nel sonno, perchè l'agitazione ne fa il fegato d'un mangiare delizioso; fregoli di pesce, staccati dal fondo [214] dei laghi al modo che si pescano le perle; altri pesci spediti a Roma coll'acqua stessa in cui furono côlti; poi funghi, di cui si spiava il nascere nelle umide notti; poma imbarcate cogli alberi loro e col giardino ove crebbero, affinchè Cesare le cogliesse di propria mano e godesse le primizie della fragranza e della lanugine. Fin a cinque desinari sedeva in un giorno, e ciascuno d'ingente dispendio; invitavasi da un amico a colazione, dall'altro a pranzo, dal terzo a merenda, a cena dal quarto nel giorno stesso, e gareggiavano a chi più lautamente gl'imbandisse; ma tutti vinse Lucio suo fratello, che gli allestì duemila piatti di pesci, e settemila degli uccelli più squisiti al mondo. Ovunque egli passasse, bisognava riporre i cibi, altrimenti dava del dente in tutto, sparecchiava le are degli Dei, e nove milioni di sesterzj in pochi mesi ingolò. Altro denaro straziò in murare stalle, dar corse e spettacoli di gladiatori e di fiere, e nelle splendide esequie di Nerone, liete alla ciurma, esecrate dai buoni.

Gli turbarono, non ruppero i sozzi riposi le notizie d'Oriente. Vespasiano, che osteggiava i Giudei, udita la morte di Nerone, mandò Tito suo figlio a congratularsi con Galba; ma avendo saputo per via il tracollo di questo e l'accapigliarsi di Vitellio e Otone, Tito diede volta per esortare il padre a mettersi anch'egli competitore. Le legioni d'Oriente non aveano diritto d'imporre all'orbe il padrone, quanto quelle della Germania e della Gallia? Vespasiano, tenuto alquanto in bilancia dalla gravezza de' sessant'anni e del rischio, alfine lasciò da esse proclamarsi imperatore. Le provincie d'Oriente fino all'Asia e all'Acaja non esitarono a giurargli obbedienza; a Berito stabilì un senato per dibattere gli affari, richiamò veterani, cernì novizj, fabbricò armi, battè moneta, e postosi in Egitto, contro di Vitellio spedì Crasso Muciano, comandante agli eserciti nella Siria. Il [215] quale, crescendo di forze alla giornata e imponendo tasse, venne in Europa (69), ove le legioni, dall'Illiria alla Spagna e alla Bretagna, acclamarono Vespasiano. L'esercito illirico, guidato da Antonio Primo, calasi dalle Alpi; Aquileja, Altino, Este, Padova, Vicenza, Verona sono sorprese, e così separate da Vitellio l'Alemagna e le Rezie; Cecina, che comandava gli eserciti di esso, lo tradì; la flotta di Ravenna gridò Vespasiano; finalmente sotto Cremona si fe giornata. Trentamila Vitelliani caddero (29 8bre) uccisi da compatrioti ed amici; un figlio ammazzò il proprio padre, e riconosciutolo nello spogliarlo, il pregò di non maledirlo, e gli scavò la fossa. Preso il campo de' Vitelliani, Cremona fu assalita, e per quanto Antonio Primo desiderasse campare una città cinta di amenissime ville, piena di gente accorsa ad una solenne fiera, e dove erano riposte tante ricchezze, non potè frenare l'agonia delle prede e l'odio antico; e saccheggiata per quattro giorni, fu distrutta. Primo vietò ai soldati di tener prigioniero verun Cremonese: ed essi gli ammazzavano.

Vitellio, come altri potenti di altre età, credeva ovviare il pericolo col non parlarne; guaj a chi in Corte toccasse delle atroci novelle! mandava spie a scandagliare nel campo di Vespasiano, e tosto le faceva uccidere perchè non palesassero. Fra ciò designava consoli per dieci anni, dava la cittadinanza a stranieri con larghissime concessioni, e nelle sale di Roma e nei parchi di Aricia, dimenticando il passato, il presente, l'avvenire, bagordava, lussuriava. Giulio Agreste centurione, cercato invano di scuoterlo, gli chiese licenza d'andar a verificare coi proprj occhi le forze e la postura del nemico; e visto Cremona ruinata, le legioni prigioniere e il campo vigoroso, tornò, ne diede certezza a Vitellio, e trovandolo incredulo, per testimonio di sua veracità si uccise. In sì lieve conto tenevasi la vita! [216]

Alfine l'imperatore mandò ad abbarrare i valichi dell'Appennino; poi incalzato, raggiunse l'esercito con un codazzo di senatori che lo rendeano viepiù spregevole; ed ora a questi, ora a quelli si volgeva per pareri; poi, ad ogni annunzio dell'avvicinar del nemico, sgomentavasi e s'ubriacava. Udito che anche la flotta di Miseno avea voltato bandiera, tornò a Roma intenerendo il popolo con preghiere, con lagrime, con promesse, più esorbitanti quanto meno pensava mantenerle; e così raccozzò una ciurma cui diede il nome di legione. Ma come Primo fulminando varcò l'Appennino, costoro disertarono a frotte.

Sabino, governatore di Roma, benchè fratello di Vespasiano, si tenne in fede: sol quando si bucinò che, per cessare il sangue, Vitellio abdicava, egli assunse le armi; ma il popolo, invaso da subita frenesia, lo chiuse in Campidoglio, e nell'assalto s'incendiarono le case vicine e i portici, tra le cui fiamme penetrati, i Vitelliani passarono per le spade chiunque resisteva; Sabino fu trucidato a rabbia del popolo, il quale mal si potrebbe dire perchè con nuovo furore proteggesse una causa non sua, e principi che domani avrebbe forse trascinati nel Tevere.

Primo, come ode arso il Campidoglio e ucciso Sabino, difila sopra Roma: Vitellio, sebbene rimbaldanzito da quel furore vulgare, mandò colle Vestali un ambasciatore chiedendo un sol giorno per risolvere; ma non l'ottenne, e i suoi furono rincacciati nella città. Presa anche questa, si battagliò per le vie, e cinquantamila uomini perirono; mentre il vulgo, cui la sua bassezza faceva sicuro, applaudiva o fischiava i colpi, piacevasi scovare se alcuno si rimpiattasse nelle case, gridando viva e muoja, come cosa pazza.

Vitellio, scoperto in un canile (20 xbre), fu menato per la città con abiti laceri, corda al collo, braccia al dosso, fra gli [217] urli della plebaglia che due giorni prima l'adorava. Al moltiplicare degli insulti, quest'unica voce oppose, — Eppure io fui vostro imperatore».

Di otto imperatori di Roma, era il sesto che periva di morte violenta.

Coll'uccisione di suo fratello Lucio Vitellio che comandava un esercito a Terracina, fu terminata la guerra, ma senza che fosse pace. I soldati vincitori inseguivano i nemici, scannandoli ovunque li scontrassero; col pretesto di cercarli sforzavano le case; e la ciurma gli avviava ed emulava. Primo valevasi del comando per rubare più degli altri: Domiziano, figlio del nuovo imperatore, che nella sollevazione erasi trafugato in abito di sacristano d'Iside, allora dichiarato cesare, tuffavasi nelle laidezze. Scompigli sovra scompigli, fra' quali alla povera Italia restava appena fiato per acclamare Vespasiano augusto.

CAPITOLO XXXVII. I Flavj.

La casa Flavia, nè antica nè illustre, proveniva da Rieti. Tito Flavio, avo che fu di Vespasiano, militò nelle guerre civili, e dopo la rotta di Farsaglia tornò nel paese natìo come esattore delle gabelle. Suo figlio Flavio Sabino l'eguale industria esercitò in molte città dell'Asia con fama d'onesto; poi ritiratosi negli Elveti, arricchì prestando, e da una Vespasia Polla generò Sabino e Vespasiano. Valenti guerrieri entrambi, quest'ultimo divenne senatore e console col blandire i potenti; la finta vittoria di Caligola sui Germani festeggiò con giuochi straordinarj; propose che gli accusati di fellonia fossero pubblicamente uccisi ed esclusi dalla sepoltura; [218] in pien senato rese grazie a Caligola d'averlo invitato a cena; proconsole in Africa, servì tanto bene Nerone, da attirarsi il pubblico odio. Reduce, si trovò in sì basse acque che diede in pegno al fratello le sue terre, e al vivere cercò modi poco onesti: ma a grave pericolo il pose l'essersi lasciato prendere dal sonno mentre Nerone recitava proprj versi; onde ritirato in campagna attendeva male nuove, quando si udì prescelto a capitanar la guerra della Giudea. L'oscurità de' suoi natali, togliendo ogni ombra a Nerone, gli aveva meritato quel comando, nel quale mostrossi eccellente; pazientissimo alle fatiche, divideva gli stenti coll'infimo soldato: se non che disonoravasi coll'avarizia.

Fu il solo che, assunto all'impero, si mutasse in meglio. Appena seppe morto Vitellio, racconsolò di vettovaglie l'Italia; conferì governi e comandi ad amici suoi, sperimentati nel vivere privato e sui campi; e non si trovò costretto a corrompere i soldati con improvvide liberalità. Crasso Muciano, mistura d'ottime e di ribalde qualità, molle e attivo, superbo e compiacente, avido dei godimenti e indomito alle fatiche, con potere illimitato e bastante severità diede buon incammino alle cose di Roma. Intanto Vespasiano in Alessandria faceva miracoli; rese la vista a un cieco, bagnandogli di saliva gli occhi; un rattratto, appena da lui tocco, ricuperò l'uso della mano: tutto ad onore e gloria del dio Serapide. Entrando nel tempio, Vespasiano vide dietro di sè un tal Basilide, che in quell'istante si trovava ottanta miglia lontano e ammalato. Avvenimenti attestati da Svetonio, Dione e Tacito, il quale dice che al tempo suo la menzogna non avrebbe potuto aver corso.

Glorioso per vittorie e per miracoli (70), Vespasiano arrivò in Italia; e se, appena eletto, tanta folla accorse a riverirlo da non bastarvi l'ampia città d'Alessandria, pensate al giunger suo nella metropoli! Ognuno se ne [219] prometteva rintegrata la disciplina, rimesso in lena l'impero, e tutto ciò che i popoli mal condotti aspettano ad ogni mutar di principe.

In effetto imbrigliò la militare licenza; al senato assisteva, incorando a dire schietto ciascuno il suo parere; migliorò l'amministrazione della giustizia, e nominò una commissione speciale per accelerare lo spaccio de' processi, interrotti nelle precedenti turbolenze. Fatto censore, degradò i cavalieri che si fossero disonorati, surrogandovi i migliori uomini d'Italia e dell'impero; le famiglie senatorie, ridotte a ducento dalle stragi precedenti, crebbe fino a mille; fece de' nuovi patrizj, ultima creazione di tal genere che la storia ricordi. Nè però intendeva rialzare l'aristocrazia oppressiva, dovendo ognuno restar sottoposto al diritto comune; ed essendo nato diverbio fra un senatore e un cavaliere, l'imperatore proferì: — Non è lecito ingiuriare un senatore, ma il diritto naturale e le leggi autorizzano a rendergli ingiuria per ingiuria».

Benchè tornasse dallo splendido Oriente, serbò semplici modi; benchè abituato sui campi, gemeva allorchè dovesse mandare qualcuno al supplizio; accessibile a tutti, parlava spesso della sua bassa origine, proverbiando coloro che volevano derivargliela da Ercole; sprezzava i titoli, e a stento accettò quello di padre della patria: diè protezione e ricca dote alla figlia di Vitellio, e sopportò che Muciano vantasse d'avergli egli stesso regalato l'impero. Degli affronti subiti sotto Nerone non tenne memoria; le pasquinate sparse contro la sua avarizia, e le invettive dei filosofi recossi in pace; ma poichè gli Stoici, o quei che di tal nome si camuffavano, persisteano a turbar le opinioni col rimpiangere il passato e denigrare il sistema imperiale, li sbandì. Demetrio, un d'essi, non volle obbedire, e non solo rimase in città, ma gli comparve innanzi dicendogli strapazzi; e Vespasiano [220] si contentò di dire: — Tu fai di tutto perchè io ti tolga la vita, ma io non uccido cane che abbaja». Di quelli che cospirarono contro di lui, Vespasiano non mandò a morte nessuno; ai delatori non prestò ascolto; ammonendolo alcuno di guardarsi da Mezio Pomposiano, perchè nato sotto una costellazione che gli prediceva l'impero, lo elevò console, dicendo: — Di quest'atto d'amicizia si ricorderà, venuto ch'ei sia al trono».

Per mettere in bilancia le entrate colle spese, rincarì alcune gabelle; di nuove ne introdusse, fra cui una sugli escrementi; e rimproverandogliela Tito, esso gli diede ad annusare il denaro ritrattone, chiedendogli: — Puzza?» Dicendogli i messi d'una città che il loro senato gli avea decretato una statua di gran costo, egli, stesa la mano, rispose: — Eccone la base; basta mettiate qui il valore della statua vostra». Non v'avea delitto di cui uno non potesse a denaro riscattarsi: dicono ancora affidasse le pingui amministrazioni a coloro che meglio sapessero smungere, paragonandoli a spugne, che spremeva dopo inzuppate. Sollecitando un suo favorito la sovrantendenza della casa imperiale per uno che diceva suo fratello, l'imperatore non rispose nulla, ma, fatto venire il raccomandato, fece sborsare a se stesso la somma che questi avea promessa al favorito, e gli conferì la carica. Quando poi il favorito rinnovò l'istanza, Vespasiano gli disse: — Cercati un altro fratello; il raccomandatomi si trovò essere fratel mio e non tuo».

Modi stomachevoli in principe: ma se pensiamo a che fondo trovò le finanze, mentre non meno di quattromila milioni di sesterzj l'anno richiedeva l'amministrazione dello Stato, propendiamo a compatire un vizio che risparmiò le solite dilapidazioni. Tanto più che ciò non lo trasse a confiscare i beni neppur di quelli che l'aveano contrariato, nè il distolse dall'ajutare senatori [221] poveri, rifiorire città diroccate, ristorar vie ed acquedotti, proteggere le arti e le scienze e i poeti, pel primo stipendiare professori d'eloquenza greca e latina in Roma, e raccogliere tremila lastre di rame su cui erano scritti i fasti antichi della città. Allora fu elevato il tempio della Pace, adunandovi i capolavori sparsi qua e là; allora ricostruito il Campidoglio ed altri edifizj, periti nell'incendio di Nerone e nelle sommosse sotto Galba; allora il grande anfiteatro che meritò il nome di Colosseo; allora ristaurate le grandi vie di tutto l'impero, non più a spese delle provincie ma dello Stato. Ed avendogli un meccanico offerto macchine da trasportar grandi colonne con piccola spesa, egli lo ricompensò, ma ricusò l'invenzione, dicendo: — Bisogna che il popolo viva».

Però l'indipendenza del mondo rimbalzava volta a volta contro l'oppressione romana; e sospese col nuovo sistema imperiale le guerre di conquista, molte divennero necessarie per difendere le provincie o per tranquillarle. Già vedemmo quelle menate sotto Augusto nella Germania, la quale non quietò mai. La Bretagna, stanca delle esazioni e de' pubblicani, si rivoltò, ma l'entusiasmo non la sottrasse dal vedere ribadite le sue catene. Nella Gallia fu perseguitato il culto dei Druidi, perpetui incitatori del sentimento nazionale; e in compenso Claudio pareggiò quelle provincie all'Italia, ricevendo i Galli al senato e alle dignità, che che scandalo ne prendesse l'aristocrazia. L'Armenia, dopo lunghe agitazioni, si sottopose, e Tiridate ne ricevette la corona dalla mano di Nerone; il quale pure mutò in provincia il Ponto. Aveva appena Vespasiano accettato il titolo imperiale, che i bellicosissimi Daci presero le armi; non tenuti più in soggezione dall'esercito aquartierato nella Mesia, assalirono gl'invernali accampamenti delle truppe ausiliarie, e varcato [222] il Danubio, minacciavano il riparo delle legioni. Muciano mandò pronti soccorsi, co' quali Fontejo Agrippa li ricacciò di là dal fiume, le cui rive munì d'una schiera di fortezze.

Le guerre domestiche de' Romani davano sempre eccitamento a qualche provincia di sollevarsi. I Batavi, tribù di Catti, che, sturbata dalla Germania, erasi stanziata nell'isola formata dai due rami del Reno, furono condotti da Claudio Civile a scannare gli eserciti conquistatori, e proclamare l'indipendenza. Tutta la Gallia riprese desiderio e speranza di libertà; e i Bardi, usciti dai nascondigli, e la profetessa Veleda con canti e sacrifizj e tutto il corredo dell'antica superstizione, produssero oracoli, promettenti l'impero del mondo a gente d'oltr'alpe; e interpretando l'incendio del Campidoglio come preludio della caduta di Roma, trucidano i capi romani, e proclamano l'impero gallo.

Ma Roma, più che nella forza degli eserciti, s'affidava negl'interessi dei vinti, che sapeva conciliare co' suoi; e i migliori delle colonie dissuadevano i loro nazionali da una guerra che ripristinerebbe la barbarie distruggendo l'introdotta civiltà, e ai privilegi romani surrogherebbe di nuovo la guerra interminabile, i saccheggi, la prepotenza armata. Tali erano le ragioni con cui Petilio Cereale, comandante alle forze romane, arringava gli abitanti di Treveri: — Io non so parlare, bensì combattere: ma poichè le parole de' sediziosi fanno effetto su voi, udite anche le mie. I Romani nel paese vostro entrarono non per cupidigia, ma chiamati dai vostri maggiori, stracchi delle mutue distruzioni. Con qual fortuna guerreggiammo i Germani e altri nemici vostri, lo sapete: nè venimmo sul Reno per difendere l'Italia, ma perchè un altro Ariovisto non si facesse re della Gallia. Forse Civile e i suoi Batavi vorran bene a voi più che i loro antenati ai vostri? Cupidigia di [223] preda, desiderio di mutare i loro pantani col vostro ubertoso terreno li mosse sempre, pur ammantandosi col nome di libertà; e voi foste battuti e dominati finchè non vi deste a noi. Noi non vi abbiamo aggravati più di quel che fosse mestieri per conservare la pace: del resto facciamo un corpo solo; spesso voi comandate le nostre legioni, governate provincie; nulla a voi teniamo chiuso; de' buoni principi godete voi anche lontani; i tristi sentite meno perchè lontani. Ma come la pioggia e il vento, così bisogna acconciarsi a soffrire qualcosa de' dominanti. Espulsi che fossero i Romani, tutto il mondo verrebbe a baruffe; un impero cresciuto con ottocento anni di fortuna e di abilità non potrebbe scomporsi senza universale sovvertimento; e peggio starà chi possiede oro e beni, esche alla guerra. Amate e riverite piuttosto la pace romana, e cotesta Roma, ch'è nostra patria, vincitori o vinti che siamo: vogliate essere piuttosto docili con sicurezza, che riottosi con rovina»[213].

In fatti Roma avea sì bene stabilito la sua dominazione civile, che fuor di essa non vedeasi se non disordine, servitù, barbarie; le legioni rivoltavansi contro i principi, contro Roma non mai. Quando poi questa, ricompostasi, spedì bastanti forze contro gl'insorgenti, molti si piegarono per ragione o per paura, altri vi furono costretti; alcune legioni che avevano giurato l'impero gallo, tornarono al dovere, e furono accolte impuni. Dopo lunga e valida resistenza, Civile dovette cedere anch'esso, ed ottenne di vivere in pace (71); Classico, Tutore, altri capi fuggirono o si uccisero; alcuni furono consegnati ai Romani, e perirono nei processi.

Giulio Sabino di Langres, che erasi fatto proclamare imperatore, fu sconfitto mentre estendeva la sollevazione, [224] nè si sottrasse alla morte che col dar fuoco alla casa dov'era ricoverato, facendo credere d'esservi perito. E lo credette anche la moglie sua Eponina, che teneramente lo amava, e che il pianse desolata finch'egli non potè farle sapere d'essersi, colle ricchezze e con due liberti, ricoverato in una caverna. Reprimendo la gioja di questo annunzio, ella seguitò vita e lutto vedovile; ma fingendo affari, stava lungamente alla campagna per vivervi con esso. In quella tana partorì ed allevò due gemelli, e potè anche, non si sa perchè, mandare il marito sconosciuto a Roma, donde tornò. Così passati nove anni, qualche curioso lo ormò, e scoperto l'arcano, Sabino colla generosa fu in catene strascinato a Roma. La magnanimità di lui, il lungo martirio, la stranezza del caso, le lacrime di Eponina, la quale diceva, — Ho allevato questi bambini in una tana come una lionessa, acciò fossimo in più a chieder mercede», intenerirono alle lacrime Vespasiano, ma nol tolsero dal mandarli al supplizio; — ragion di Stato. Nella Gallia tornò l'amore dell'ordine, cioè la pazienza della servitù; e i Druidi si trasformarono in maestri di scienze romane.

Con altre guerre intanto erano ridotte a provincie la Comagene col nome di Eufratesiana, la Grecia emancipata da Nerone, la Licia, la Tracia, la Cilicia Trachea, con Rodi, Bisanzio e Samo: da Giulio Agricola fu circuita e sottomessa la Bretagna colle Orcadi, come vedremo.

Più memorabile è la caduta degli Ebrei, popolo prescelto da Dio a conservar pura la tradizione, finchè, venuta la pienezza de' tempi, sorse di mezzo ad essi e fu da essi sconosciuto e ucciso quel Divino, di cui tutta la loro storia non era che preparazione, simbolo, profezia. Anche perduta la dominazione, unita alla provincia della Siria, e governata da presidi romani, la nazione [225] ebrea rifiutò ostinatamente i costumi de' Gentili e la religione idolatra; e agli imperatori che voleano violentarne le coscienze, opponeva le proteste, e subiva le persecuzioni. Ma internamente le scissure fra la Giudea e la Samaria, le sêtte de' Farisei e Saducei, le ambizioni de' principi e de' sacerdoti, la comparsa di finti Messia, infine la smoderatezza degli Zelanti rendevano infelicissimo il paese, e gli facevano sentire la maledizione del sangue del giusto. Satolli d'oltraggi, trucidati a migliaja, offesi negl'interessi e nelle credenze, insorgono regnante Nerone, il quale deputa a sottometterli Vespasiano. Non v'è orrore che non accompagnasse quella guerra, in cui si conta perissero un milione e mezzo di Ebrei: finalmente Tito, figlio di lui, prese Gerusalemme stessa e la incendiò (70 — 1 7bre), e da quel punto gli Ebrei più non ebbero patria nè altare. Sparsi per tutto il mondo, con una portentosa attività e con irremovibile perseveranza vivono confidati che quel Dio, che altra volta li richiamò dalla schiavitù di Babilonia, faccia splendere ancora il loro giorno. — Sarà il giorno, in cui il sangue, imprecato dai loro padri, scenda sui figli per lavacro di perdono e redenzione.

Tito negli anfiteatri di Berito e di Cesarèa rallegrò il popolo collo spettacolo di centinaja di Giudei accoltellantisi o sbranati dalle fiere: altri condotti a Roma abbellirono il più splendido trionfo, ornato viepiù collo strozzare i principali di essi: altri furono serbati a fabbricar l'arco che ancora chiamasi di Tito, il Colosseo e il tempio della Pace, nel quale furono deposti il candelabro d'oro e gli altri arredi del culto di Ieova.

Vespasiano associossi il figlio vincitore nella podestà tribunizia; e la chiusura del tempio di Giano attestò finite o sospese le guerre. Anche Roma respirava dalle atrocità e dalle pazzie, non così però che le mancassero supplizj; e fu singolarmente deplorato quel dell'intrepido [226] Elvidio Prisco (pag. 163). Alieno Cécina ed Epiro Marcello, spia di Nerone, congiurarono con molti pretoriani; ma scoperti, Marcello prima della condanna si uccise: a condannar Cecina non bastando l'essergli trovata l'arringa disposta per ammutinare i soldati, Tito l'invitò a cena, e ve lo fece assassinare. Compendiose procedure!

Vespasiano, sentendosi morire, esclamò: — Se non fallo, sto per divenire iddio»; burlandosi del divinizzare che i Romani faceano i loro principi. Sereno fin all'ultimo istante, — Un imperatore (disse) dee morire in piedi», tentò alzarsi, e spirò (79) di settantun anno, regnato dieci. Ai funerali de' grandi solevansi rappresentare commedie, ove il morto era messo in burla. Il buffone che, in quello di Vespasiano, contraffacea l'estinto, domandò agli economi quanto costerebbero i funerali, e udita l'ingente somma destinatavi da Tito, riprese: — Date a me quel denaro, e gettate pure il cadavere nel fiume». Fortunata Roma però se d'avarizia solo essa poteva appuntare il successore di Tiberio e di Nerone[214].

Tito Flavio, spertissimo in eloquenza e versi, e più nella guerra, finchè visse il padre mostrò avidità e tracotanza; sorreggeva chi gli offrisse denaro; se portava malanimo contro alcuno, ne facea da prezzolati domandar la testa in teatro o nel campo; e gli amori suoi con Berenice, sorella d'Agrippa II re degli Ebrei, erano riprovati dai Romani, tementi un'imperatrice straniera, quanto dagli Ebrei, scandolezzati che una loro principessa [227] scendesse agli abbracci del distruttore di sua nazione.

Ma fatto imperatore a trentanove anni, Tito mandò Berenice fuor d'Italia, per quanto si sentisse di lei acceso; al fratello Flavio Domiziano, discolo ed intrigante, non solo non fece verun male, ma esibì dividere con esso l'autorità; confermò con editto generale le prerogative concesse da' suoi predecessori a città o persone; lasciava il popolo accostategli fin nel bagno, assegnare quando e come bramasse i giuochi ch'egli dava; nè l'affabilità gli scemava decoro. A chi gli rimostrava il troppo facile suo concedere, rispondeva: — Non conviene che alcuno parta melanconico dalla vista del principe»; ed una sera, non ricordandosi d'aver beneficato alcuno, esclamò: — Perdetti una giornata».

Accettando il pontificato, dichiarò che più non si contaminerebbe di sangue, abolì la legge di fellonia, nè si accusasse più alcuno per aver detto male di lui o de' predecessori. — O sparla di me a torto, e lo compiango; o a ragione, e sarebbe ingiustizia il punirlo della verità. Quanto a' miei antecessori, se ora sono Dei, possono a voglia punire gli oltraggi senza mio intervento». Avendo il senato condannati nel capo due patrizj cospiratori, Tito mandò pregare quell'assemblea di desistere dall'inutile castigo, dipendendo i regni da una potenza superiore all'umana; al tempo stesso invia a rassicurare la madre de' rei, li vuol seco a banchetto la sera, il domani agli spettacoli, passando a loro le spade de' gladiatori, che, secondo il costume, gli venivano offerte ad esaminare.

Non che agognare l'altrui, ricusò regali e legati: eppure in donativi, spettacoli e fabbriche gareggiò con qualunque de' suoi predecessori; e quando inaugurò il colossale anfiteatro, presentò, oltre i gladiatori, una battaglia navale e fin cinquemila fiere. Più savia generosità [228] mostrò in pubbliche sciagure; avendo un incendio guastato il Campidoglio, il Panteon, la biblioteca d'Augusto, il teatro di Pompeo, a non dire i minori edifizj, dichiarò ch'egli toglieva sopra di sè tutti i danni; e per mantenere la parola, senza accettar le somme che città e principi forestieri gli esibivano, vendè perfino gli arredi del suo palazzo. Il Vesuvio, che da immemorabile non eruttava, lui regnante proruppe (79 — 8 7bre) in modo, che Ercolano e Pompej furono sepolte, Pozzuoli e Cuma diroccate, sobbalzata tutta Campania. Tito a proprie spese provvide ai mali riparabili; girò il paese, non per ostentazione e curiosità, ma prodigando denaro. La peste gli diè nuovo campo a mostrare la sua benevolenza; e quasi non dissi la carità. Chi crederebbe che, sotto tal principe, trovasse molti seguaci un finto Nerone venuto d'Armenia, il quale ronzò intorno all'Eufrate, poi si rifuggì tra i Parti?

Mentre Roma si ricreava sotto il buon Tito, e lo intitolava delizia del genere umano, morte glielo tolse (81) dopo due anni e tre mesi di regno, dissero accelerata dal fratello Domiziano, che lo fece scrivere fra gli Dei mentre il denigrava presso gli uomini. Questo Domiziano, privo di studj, marcio di lussuria e di debiti, in guerra sollecito soltanto d'evitar le fatiche ed i pericoli, estinto il padre, tentò guadagnarsi i pretoriani per soppiantare Tito, e Tito gli perdonò. Morto od ucciso questo, fu gridato imperatore, e prodigatigli d'un tratto i titoli e le cariche che a' suoi antecessori conferivansi a poco insieme.

Dapprima vietò perfino i sacrifizj cruenti; largheggiava cogli uffiziali acciocchè la povertà non ne agevolasse la corruzione; ricusava l'eredità di chi avesse figliuoli; e dopo spartite ai veterani le terre confiscate, il di più non tenne per sé, come si soleva, ma lo rese ai prischi possessori. Murò splendidamente, ricompose [229] la biblioteca incendiata, e dodicimila talenti spese nella doratura del tempio di Giove in Campidoglio: eppure la magnificenza di quello era un nulla a petto d'una sola galleria o d'una sala del palazzo. Attendeva in persona a rendere giustizia; notava d'infamia i giudici che accettassero denaro, o i governatori che espilassero; represse la licenza pubblica e la sfacciataggine de' libelli; vietò ai cavalieri di recitare sui teatri; cassò un senatore che danzava; escluse le donne dal ricevere legati e dall'andare in lettiga; dichiarò indegno d'esser giudice un cavaliere che ripigliò la moglie dopo ripudiatala per impudica; molti adulteri punì di morte, e vietò severamente di far eunuchi.

Ma a fatica dissimulava l'indole sanguinaria e codarda. Avido di gloria militare quanto inetto ad acquistarsela, assunse quattro volte in un anno il titolo d'imperatore, sempre per vittorie altrui: piombato improvviso sui Catti, i più civili e guerreschi fra i Germani, strascinò in trionfo alcuni prigionieri, nè più da quell'ora depose la toga trionfale: intanto che Svevi e Sàrmati, rivoltati contro l'impero, sterminavano eserciti interi nella Mesia, nella Dacia e nella Germania.

Memorabili sono di quel tempo le vittorie di Gneo Giulio Agricola sulla Bretagna. Cesare pel primo era sbarcato nell'isola per reprimere i sacerdoti Galli che continuamente fomentavano le sollevazioni nella Gallia romana (t. II, p. 177): ma sebbene fosse dichiarata provincia, non obbediva ai Romani, e poco vi vantaggiarono le armi, finchè non le condusse Agricola (77). Tacito, genero di questo, volle proporlo a specchio e raffaccio degli altri capitani; onde racconta che, accortosi come il saccheggio e la prepotenza militare nocessero alla dominazione, Agricola riformò la disciplina cominciando dalla propria casa, nominò uffiziali i più degni, senza riguardo a raccomandazioni e preghiere, ripartì più [230] equamente le imposte: poi incoraggiando i suoi coll'esempio, scoraggiando i nemici colla rapidità delle marcie, riportò molte vittorie, molti col perdono indusse a sottomettersi, e cercò tenerli quieti coll'incivilirli; mai non cercava sminuir la gloria ai soldati per attribuirla a sè, e sempre mostravasi avaro del sangue romano. Per tal modo assicurò il dominio di Roma sulla Bretagna e la Caledonia; ma Domiziano, quasi eclissasse le sue imprese finte colle vere, lo richiamò, e l'insigne capitano non ne sfuggì il rancore altrimenti che col vivere nell'oscurità (85), e neppur questa forse il sottrasse al veleno.

I Daci, guidati da Decebalo, grande in battaglie e in consiglio, passato il Danubio, ruppero i Romani, uccisero il governatore della Mesia, e menando orribile guasto, occuparono quante fortezze aveano là intorno munite i Romani. Domiziano, posto in dirotta fuga, mandò a Decebalo supplicando pace (90), con ricchi donativi, con artigiani d'ogni sorta, e con una corona in segno di riconoscerlo re, e rassegnandosi a pagargli annuo tributo. Prima guerra ove i Barbari assalissero con vantaggio l'impero. Eppure Domiziano scrisse al senato aver messo finalmente il morso agl'indomiti Daci; e tornando, dopo aver peggio che in guerra devastato il paese quieto, menò un trionfo, dove i poeti lo paragonarono ai Cesari e agli Scipioni[215]. [231]

La fierezza che gli mancava in campo, sapeva troppo esercitarla in pace. Avendo il banditore, nell'acclamar console Flavio Sabino genero di Tito, in isbaglio chiamatolo imperatore, Domiziano fece scannare e il banditore e il nipote. Fatto prendere l'oroscopo dei grandi dell'impero, ne tolse ragione di mandare a morte assai senatori e cavalieri (95). Di molti Cristiani prese l'ultimo supplizio in Roma e nelle provincie, come di nemici alla repubblica, tra i quali Flavio Clemente cugino suo e collega nel consolato, e le due Domitille, nipote e moglie di quello.

Com'è de' principi cattivi, Domiziano aveva in odio e in sospetto la storia e gli storici: Erennio Senecione, incolpato di scrivere la vita d'Elvidio Prisco, fu creduto degno di morte; Fannia vedova di Elvidio, che confessò averlo spinto e ajutato a quel lavoro, ne perdette i beni e la patria, ma portò seco la storia riprovata; ad Aruleno Rustico fu colpa capitale l'aver lodato Trasea Peto; Armogene di Tarso venne ucciso perchè parve nella storia alludere a Domiziano, e crocifissi quelli che ne avevano ajutato lo spaccio. Nuovo genere di crudeltà fu l'ardere pubblicamente i libri di fama più cospicua e di sensi più generosi: da ultimo tutti i filosofi e gli scienziati sbandì: alcuni, cessati gli studj, presero il [232] mestier di spia, il più opportuno perchè impinguava colle ricchezze, confiscate sotto frivolissimi pretesti. Un cittadino illustre mostrasi popolare? e' medita la guerra civile; sta ritirato? vuol far rimprovero ai tempi; conduce vita illibata? è un nuovo Bruto; se inerte e stolido, cova disegni di sangue; se operoso e vivo, intriga e sommove: il ricco possede troppo denaro per uom privato; il povero, non avendo che perdere, potrebbe a tutto avventarsi. Più le spie erano vili e schifose, più l'imperatore le palpava e reggeva; convinte di calunnia, crescevano di merito; ad esse le spoglie dello Stato, ad esse le dignità pontificali e il consolato; quali nelle provincie spediti procuratori, quali in città tenuti per confidenti e ministri; schiavi furono subornati contro i signori, liberti contro i patroni; e chi non avesse nemici, trovavasi tradito da gente, della cui benevolenza mai non avea dubitato.

Sotto il costoro regno, i Romani non osavano comunicare ad altri i proprj pensamenti, nè fremere insieme; e vedeano con silenzio pusillanime i tribunali fatti strumenti di perdizione, rapine ed assassinj palliarsi col nome d'ammenda e di castigo: le isole riboccavano di relegati, gli scogli d'uccisi. Alcuni incontrarono la morte con intrepidezza: madri e mogli generose seguirono i loro cari nell'esiglio.

A Domiziano recava diletto il veder le lagrime, noverare gli aneliti; esultava quando a una sua parola il senato impallidisse. Privatamente si compiaceva di lepidezze inumane. Una sera chiama a banchetto il fior de' senatori e de' cavalieri, egli che diceva di guardare i più de' cavalieri per suoi nemici, e che non si terrebbe sicuro finché pur un senatore respirasse. Man mano che arrivano, son condotti in una sala a bruno, ove fioche lampade mostrano cataletti, segnati ciascuno col nome di un convitato; ed ecco dopo lunga ansietà entrano [233] uomini ignudi, tinti di nero, colla spada nell'una, la face nell'altra mano: ma dopo girato attorno, aprono le porte, e congedano i due ordini principali dell'impero, non so se più atterriti o scornati.

Valentissimo nel trar d'arco, faceva trasvolare il dardo fra le aperte dita d'uno schiavo, posto per lontano bersaglio; e nella lunga solitudine del suo gabinetto l'imperator del mondo esercitava tale abilità dardeggiando mosche. Onde Vibio Crispo interrogato se nessuno fosse coll'imperatore, — Neppure una mosca» rispose.

In turpi voluttà non la cedeva ad alcun predecessore. E i Romani? adulavano e il chiamavano signore e dio e figlio di Minerva, titoli ch'egli medesimo si attribuiva nelle lettere, e che gli erano prodigati da Marziale, Quintiliano, Giovenale e dagli altri scrittori. Le vie che conducevano al Campidoglio, apparivano ingombre di vittime, scannate avanti alle sue statue[216], le quali per decreto non potevano farsi che d'oro o d'argento. Giuochi preparò, che Roma non avea mai veduto i più splendidi; fece scavare presso al Tevere un gran lago, ove due flotte combattevano; agli accoltellamenti dei gladiatori mesceva anche donne; offrì vere battaglie d'interi eserciti nell'anfiteatro, egli che delle campali avea paura; ed essendo, durante lo spettacolo, sopragiunto un rovescio di pioggia, non permise a veruno d'uscire; onde molti ammalarono, alquanti morirono.

Per bastare alle prodigalità, non era via d'ottener denaro ch'e' non si facesse lecita; alle eredità facilmente sottentrava o accusando il morto d'avere sparlato di lui, o trovando chi asseriva quello averlo chiamato erede. I magistrati rincarivano le imposizioni, tanto che varie provincie sorsero in aperta rivolta. In Germania, [234] Lucio Antonio governatore prese il titolo d'augusto; ma bentosto rotto ed ucciso, de' molti accusati come complici suoi due soli tribuni camparono la vita col provare d'essersi prestati a vilissima lascivia, e quindi essere incapaci d'ogni ardito tentativo.

Avendo scoperta e sventata una congiura, stava sempre in timore di nuove, massime che diversi prodigi e indovinamenti gli prenunziavano la sua fine. Si munì in ogni miglior modo, fino a rivestir le sue stanze di una pietra che rifletteva le immagini, acciocchè nessuno gli si accostasse inosservato; poi pensando disfarsi di chiunque gli dava ombra, ne aveva preparata la lista. Un fanciullo, col quale egli trescava, gliela tolse mentre dormiva, e la portò fuori; e l'imperatrice Domizia Longina, sbigottita al leggervi il proprio nome con quel de' primarj, convenne con questi di pigliare il passo innanzi. Partenio primo cameriere introduce all'imperatore Stefano liberto di Domizia (96), che recando il braccio al collo in atto di ferito, gli porge una carta ov'è rivelata la congiura, e mentre la leggeva il trafigge. Domiziano si difende, Stefano rimane trucidato da quei di casa; ma gli altri congiurati sopragiungendo uccidono l'imperatore.

Compiva i quarantacinque anni, e n'avea regnato quindici; e il senato, raccoltosi di presente, gli disse tanti improperj quante dianzi adulazioni, ne rase il nome dalle epigrafi, abbattè le statue e gli archi, annullò gli atti. Il popolo, sino al quale non scendeano le persecuzioni, bensì le pompe e i giuochi, stette indifferente. I soldati, di cui aveva cresciuta la paga, lo piansero più che Vespasiano e Tito; e gli uffiziali durarono gran fatica a frenarli.

Egli è l'ultimo di quelli che chiamano i Dodici Cesari.

[235]

CAPITOLO XXXVIII. Imperatori stoici.

È merito della verità il vantaggiare anche quelli che la rinnegano e la perseguitano, e costringere a riconoscerla fino i nemici che la impugnano. La morale, che i Cristiani predicavano obbedendo e morendo, già appariva negli scrittori pagani, e rifondea vigore alla setta più virtuosa, la stoica; la quale, alla morte di Domiziano, si sentì da tanto d'opporsi alla onnipotenza delle armi; e acquistato preponderanza in senato, s'ingegnò a mettere sul trono creature sue, e le riuscì di procurare a Roma una serie di buoni capi.

Primo fu Marco Coccejo Nerva, oriundo da Creta, nativo di Narni, onorato di una statua da Nerone per le sue poesie. La fazione stoica sparse vaticinj e strologamenti sul futuro regnare di esso, tanto che, comunque timido, l'incorarono ad accettare il trono: I pretoriani, sfogata la devozione loro verso l'estinto imperatore, non tardarono a riconoscere il nuovo; ma fra i mirallegro, Arrio Antonino si condolse con lui, che, dopo sfuggito per virtù e prudenza a tanti principi malvagi, si trovasse in tal luogo dove amici e nemici disgusterebbe, e più gli amici, appena ricusasse una grazia.

Nerva, professandosi collocato in quell'altezza non per soddisfazione propria, ma pel popolo, seppe conciliare le dolcezze della libertà colla quiete della monarchia. Restituì patria e beni agli sbanditi per fellonìa, minacciò i delatori, interdisse i processi di maestà, e giurò non mandare a morte verun senatore: vastissimi terreni distribuì alla poveraglia; faceva allevare a pubbliche spese i bambini indigenti; riproibì l'evirazione; [236] e si governò sempre come avesse da oggi a domani a tornare privato. Per alleggerire le imposte limitò le spese, escludendo varj sacrifizj e spettacoli, moderando il fasto del palazzo, non tollerando gli si ergessero statue d'oro o d'argento; e per ricompensare o soccorrere vendette parte del proprio vasellame e alcuni poderi. Il senato, ripresa la libertà dei giudizj, procedette contro gli spioni del regno precedente, e alcuni multò di morte, altri d'esiglio; ma avendo iniziato procedure contro alcuni nuovi cospiratori, Nerva troncò le indagini. Parve sconvenevole tale clemenza a Giulio Frontone console, e — Se è grave sciagura un principe sotto cui tutto è vietato, non è minore uno sotto cui tutto sia permesso».

In fatto, di quella bontà abusarono i pretoriani, e levato rumore, assalirono il palazzo per obbligar Nerva a consegnare gli uccisori di Domiziano; e per quanto egli s'opponesse, e nudo il petto li pregasse a ferir lui piuttosto, dovette cedere, lasciar uccidere i congiurati, e ringraziare i pretoriani d'averne purgato il mondo.

Da qui comprese la necessità di destinarsi a successore un uomo di salda mano, e adottò lo spagnuolo Marco Ulpio Trajano, col quale divise da quel punto l'autorità (98): ma regnato appena sedici mesi, fu ascritto fra gli Dei.

Trajano, dopo fatto le prime armi contro i Parti, da Domiziano fu destinato a governare la bassa Germania; robusto di corpo e formato alle fatiche, era il più sufficiente capitano dell'età sua: in campo non l'avresti distinto dall'infimo soldato al vestire, agli esercizj, alla sobrietà; marciava a piedi, conosceva un per uno i suoi veterani e le imprese loro, senza che l'affabilità disciogliesse la disciplina. Di pochi studj[217], pure gli studiosi favoriva; nobile di portamento, d'obbliganti maniere. [237]

A quarantaquattro anni succedendo a Nerva, entrò pedestre in Roma fra indicibile esultanza, e nel por piede in palazzo, sua moglie Pompea Plotina voltasi al popolo disse: — Io spero uscirne qual v'entro».

Trajano dichiarò tenersi obbligato alle leggi come qualunque cittadino; largheggiò nelle consuete distribuzioni sì ai soldati, sì al popolo, comprendendovi gli assenti e, cosa nuova, i minori di dodici anni; ed è scritto che le frequenti sue liberalità mantenessero due milioni di persone. Tenne sempre i grani a modico prezzo, fece larghi assegnamenti pe' figli dei poveri[218], diede spettacoli di gladiatori, ma sbandì i commedianti che Nerva avea riammessi: spese largamente in aprire il porto di Civitavecchia ed ampliare il circo, ove proibì si pronunziasse il suo nome, per sottrarlo agli applausi prodigati a tanti malvagi imperatori; e provvisti di pubblico stipendio gli avvocati, vietò che ricevessero sportule dai litiganti, i quali pure doveano giurare di non aver dato loro nè promesso nulla. [238]

Voltosi a medicare le piaghe dell'anarchia e della tirannide, diminuì le imposte, attenuò le prerogative imperiali qualvolta al ben pubblico complisse; nè accuse di maestà, nè delatori soffrì, nè concussioni de' governanti; riceveva le persone di qualunque fossero grado, e candidamente ne ascoltava gli avvisi; cercava i più degni per collocarli in posto; e credeva che le finterie non fossero necessarie, come nella condotta privata, così neppure nella politica. Preferiva l'impunità di cento rei alla condanna d'un innocente; e nel dare la spada a Suburano prefetto del pretorio, gli disse: — S'io compio il mio dovere, adoprala per me; contro me, se vi manco». Essendo da alcuno insusurrato contro di Licinio Sura, a lui caro e riverito, andò a cenare da esso non invitato, si fece medicare gli occhi e radere dal medico e dal barbiere di esso, poi il domani a chi gli ripeteva le accuse rispose: — S'egli intendesse uccidermi, l'avrebbe fatto jeri».

Di colpe e difetti ebbe la sua parte; amava il vino, tanto che ordinò di non eseguire i comandi che desse dopo tavola; ai piaceri s'abbandonò quanto il suo tempo consentiva; per vanità lasciava mettere il proprio nome su tutti gli edifizj o eretti o ristaurati, sicchè lo soprannomarono erba parietaria; soffrì il titolo di signore, e sagrifizj alle sue statue, e che il popolo giurasse per la vita e l'eternità di lui; e forse per gelosia di divinità ordinò persecuzioni contro i Cristiani (106).

Da Plinio il giovane, che ne stese il panegirico, trapela la gioja alquanto puerile che provavano i patrioti romani al veder di nuovo convocate le adunanze del senato tre giorni di fila, e protratte sino a notte[219]: ma quale concetto formarsi di queste assemblee, se dallo stesso Plinio siamo informati che Trajano disdisse [239] di formare una piccola associazione onde riparare i pubblici bagni d'una città dell'Asia, atteso che ogni unione per interessi privati è contraria all'impero?

Conoscendone il valore, i Germani d'ogni parte mandarono a Trajano deputazioni, e i Barbari di là dall'Istro non s'avventurarono alle correrie, che rinnovavano ogniqualvolta il fiume gelasse: ma Trajano aspirava a «passar l'Eufrate e il Danubio su ponti da lui fabbricati, e ridurre la Dacia in provincia».

Indecoroso stimando il tributo con che Domiziano avea dai Daci comprato la pace, ne devastò le campagne, e li vinse in una battaglia, dove essendo venuti meno i cenci da bendare i tanti feriti, egli diede le proprie vesti; e continuò la vittoria con tale ardore, che Decebalo, instancabile loro re, mandò per pace (103), ed accettolla a gravi condizioni. Trajano, poste fortezze e guardie ov'era duopo, menò il primo trionfo sui Daci, e voltò sul Danubio un ponte di pietra di venti piloni, grossi sessanta piedi, alti cencinquanta, discosti settanta; opera meravigliosa, e pur compita in un'estate per disegno e direzione di Apollodoro di Damasco. Decebalo, che soltanto alla necessità avea ceduto, non tardò a risollevare il paese, intendendosela fino coi Parti: ma Trajano, accorso al riparo, si ben campeggiò (106), che prese Zarmizegetusa capitale dei Daci, e il paese ridusse a provincia, avente per confini il Dniester, il Tibisco, il Danubio inferiore e l'Eusino. Decebalo non volle sopravivere alla libertà. La colonna coclite, eretta in mezzo al fôro Trajano, attestò queste vittorie; e nelle solennità del trionfo cenventitre giorni continuarono gli spettacoli, dove più di diecimila belve caddero uccise.

Soddisfatto uno de' suoi voti col varcare il Danubio, Trajano mosse per l'altro verso l'Eufrate a reprimere i Parti, i più formidabili nemici che a Roma restassero (114). Ridusse a provincia l'Armenia; ricevette in soggezione [240] i re d'Iberia, di Sarmazia, del Bosforo, della Colchide; la Mesopotamia quasi col solo terrore soggiogò, sottomise porzione dell'Arabia, e vide la sua amicizia chiesta contemporaneamente da' Sauròmati del settentrione e dagli Indiani del mezzodì. Su ponte di barche varcato il Tigri, senza ferir colpo s'impadronì dell'Adiabene; e giovato dalle discordie dei Parti, si spinse fino a Babilonia (116), espugnò Seleucia e Ctesifonte, i contorni sottomise, e dall'Assiria come provincia ricevette tributo.

Reduce in Antiochia, mentre l'esercito, la corte, i curiosi v'erano affollati, la terra tremò sì fattamente, che i fabbricati diroccarono, Trajano stesso rimase ferito, e nel disastro d'una sola città tutto l'impero ebbe a soffrire. Altre sciagure imperversarono, lui imperante; fame, peste, tremuoti; il Tevere inondò Roma; e, ciò che destava orrore, tre Vestali si contaminarono e furono sepolte vive. Se non bastava questo sacrifizio alle antiche superstizioni, i Libri Sibillini ordinarono, come altre volte, che nel fôro Boario si sepellissero vivi due Greci e due Galli maschio e femmina.

Entrata la primavera (117), Trajano cominciò una corsa per ispiegare la maestà e la potenza dell'impero sugli occhi delle nazioni. Viste le pianure dell'Alta Asia dond'era scesa la prima civiltà del mondo, s'imbarca sul Tigri, scende al golfo Persico, traversa il Grande oceano, e vedendo un vascello salpare per le Indie, esclama: — Deh! foss'io più giovane, che recherei la guerra colà». Piega quindi verso l'Arabia Felice, prende il porto di Aden di qua dallo stretto di Bab el-Manneb, riduce a provincia l'Arabia Petrea che assicurava le comunicazioni di commercio fra l'Asia e l'Africa; annunzia al senato sempre nuove terre sottoposte al suo dominio; infine torce verso Babilonia, sulle cui ruine presta sacrifizj ad Alessandro.

L'impero toccava allora al suo apogeo; ma poco vi [241] durò, e Trajano stesso vide disfarsi le opere proprie. Il tremuoto che sobbalzò tanti paesi, parve agli Ebrei preconizzasse la caduta dell'impero, sicchè d'ogni parte levaronsi a furore, in Africa principalmente. Benchè sconfitti e scannati a migliaja, l'esempio fu contagioso, e molti paesi scossero le catene; tutte le nuove conquiste si rivoltarono; i Parti a pien popolo cacciarono il re Partamaspate da lui imposto, gli Armeni se ne scelsero uno a volontà, la Mesopotamia si sottomise ai Parti; e tante spese e tanto sangue uscirono a vuoto.

L'imperatore, dopo regnato diciannove anni e mezzo, morì a Selinunte in Cilicia (117 agosto); le sue ceneri in urna d'oro portate a Roma dalla vedova Plotina e dalla nipote Avida, furono ricevute come in trionfo e, malgrado dell'antico divieto, deposte in città sotto la colonna che rammentava le sue conquiste. Splendide opere serbarono la memoria di lui: magnifiche vie dall'Eusino fin alle Gallie, una traverso le paludi Pontine, una da Benevento a Brindisi: a Roma aperse biblioteche e un teatro, ingrandì il circo, restaurò insigni edifizj, condusse nuove acque: soprattutto ebbe rinomanza il fôro, che abbassando cinquanta metri una collina, formò quadrato, con un portico in giro e quattro archi trionfali, e tanti palazzi e tempietti, ch'era una meraviglia nella città delle meraviglie.

La «rara felicità del suo tempo, quando uom poteva pensare quel che volesse e dire quel che pensasse», tornò qualche lustro alle lettere: e fa dolore che la storia, informata a minuto delle pazzie e delle atrocità d'un Caligola e d'un Nerone, non possa conoscere Trajano se non da un compendio inesatto[220] e da un artifizioso panegirico. Ma essa tien conto che, due secoli [242] e mezzo dopo lui morto, il senato, nell'acclamare un nuovo imperatore, gli augurò d'essere più felice d'Augusto, più virtuoso di Trajano[221].

Fra le altre superstizioni, gli antichi usavano aprire a caso un libro, e dalla prima frase che occorresse, indovinar l'avvenire, o prenderne risposta ai dubbj del proprio intelletto[222]. A tal uopo Publio Elio Adriano, [243] spagnuolo nato in Roma, aprendo l'Eneide, s'abbattè in questi versi del VI canto relativi a Numa:

Quis procul ille autem, ramis insignis olivæ,

Sacra ferens? Nosco crines, incanaque menta

Regis romani, primas qui legibus urbem

Fundabit, Curibus parvis et paupere terra

Missus in imperium magnum;

e credette leggervi prenunziato ch'e' sarebbe imperatore e legistatore. E l'uno e l'altro divenne. Militò sotto Trajano, che amandolo come figliuolo, gl'impalmò Sabina nipote di sua sorella, e maneggiò per averselo successore. Salutato imperatore dall'esercito in Antiochia, scrive al senato chiedendo scusa se non aspettò l'elezione di esso, e implorando la confermasse; decretatogli il trionfo, lo ricusa e pone sul carro la statua di Trajano. A quelli che da privato l'aveano offeso disse: — Eccovi salvi». Denunziatigli alcuni, sospetti di rivoltar lo Stato, dichiara: — È ingiustizia il punire un delitto solamente probabile». Avendo ai richiami d'una vecchia risposto: — Non ho tempo», essa replicò: — Perchè dunque sei tu imperatore?» ed egli la soddisfece. Negli spettacoli pretendendo il popolo non so quale sconvenienza, egli mandò l'araldo che intimasse silenzio; ma questi avendo detto invece: — L'imperatore vi prega a fare così e così», di tale mitigazione non gli seppe mal grado, anzi lo ricompensò.

Con amici e liberti usava alla domestica, nè mai negava loro alcuna domanda, spesso le preveniva; pure non lasciò che abusassero: nè solo tra liberti scelse i secretarj e intendenti della casa, ma anche tra i cavalieri; e guai a chi, spacciando protezione, accettasse regali. Andava a trovare i consoli, assisteva alle assemblee, dispensava i senatori dal visitarlo se non per interessi, ed alla curia recavasi in sedia acciocchè non fossero tenuti ad accompagnarlo: escluse i cavalieri dal giudicare nelle cause de' senatori, nè dalle sentenze [244] di questi accettava appello al trono. Visto un suo schiavo passeggiare fra due senatori, mandò a dargli uno schiaffo, dicendo: — Come ti basta l'animo d'appajarti a tali, di cui domani puoi divenire il fante?»

Più di Trajano largheggiò co' fanciulli poveri e col popolo; assegnò pensioni e donativi a senatori, cavalieri e magistrati bisognosi; anzi, nelle feste di Saturno quando gli amici offrivangli le solite strenne, egli coglieva l'occasione per ricambiarle con più generose; e nei viaggi, in cui occupò diciassette dei venti anni di suo regno, lasciò dappertutto grandi segni di liberalità. All'esercito vivea da soldato; marciava a piedi e col capo scoperto fra il gelo delle Alpi o sul renaccio d'Africa; conoscendo tutti i guerrieri, promoveva i più degni; molte riforme introdusse, e pel primo a ciascuna compagnia unì zappatori e ingegneri e quanto occorre per fabbricare.

Gli Ebrei, novamente insorti sotto Barcoceba, punì insultandone anche il culto; ma la vittoria tanto costò, che l'imperatore informandone il senato, non osò cominciare colla solita formola, — Io e l'esercito stiamo bene». Non che però estendere le conquiste, neppur quelle di Trajano conservò tutte; dall'Armenia, dalla Mesopotamia, dall'Africa revocò le truppe; alle terre tolte ai Daci non rinunziò, per riguardo ai tanti Romani che vi s'erano accasati; pure, col pretesto che potesse agevolare ai Barbari il passaggio, ruppe il ponte di Trajano sul Danubio. Era tradizione che il dio Termine non avesse voluto recedere dal Campidoglio, nè tampoco per far luogo a Giove; simbolo dell'immobilità dell'impero; onde questo primo ritirarsi dei Romani dalle loro conquiste s'ebbe per augurio sinistro.

Dicendo che l'imperatore deve, come il sole, mirare ogni paese, Adriano visitò tutte le provincie obbedienti: dalle Gallie passò nella Germania, quartiere delle migliori [245] truppe: in Bretagna, per arrestare le correrie de' Caledonj, fabbricò una muraglia, che per ottanta miglia stendeasi dal golfo di Solway alla foce del Tyne nel Northumberland: sceso nelle Spagne, in assemblea generale tentò rappattumare i discordi; rinnovò parte della città d'Atene col nome di Adrianopoli: le regalò denari, grani, l'intera isola di Cefalonia, e una costituzione modellata sull'antica; vi s'iniziò ne' misteri Eleusini, e pieno del Dio, si fece dio egli medesimo, lasciandosi adorare nel tempio di Giove Olimpico, ch'e' fece terminare cinquecentosessant'anni dopo che era stato cominciato da Pisistrato.

Sviate con una conferenza le nuove minacce di Cosroe re de' Parti, potè visitare la Cilicia, la Licia, la Pamfilia, la Cappadocia, la Bitinia, la Frigia, dappertutto lasciando templi, piazze, insigni monumenti, e gran magnificenze ai re concorsi e agli ambasciadori. Per le isole dell'Arcipelago tragittossi nell'Acaja, indi in Sicilia montò in vetta all'Etna, per vedervi il sole oriente dipinger l'iride. In Africa s'ebbe come un miracolo che al venir suo cadessero le pioggie, da cinque anni indarno implorate. A Pelusio onorò la tomba di Pompeo Magno; ad Alessandria, nel museo fondato da Tolomeo Filadelfo e cresciuto da Claudio imperatore, interrogò i letterati raccolti, e rispose col senno che trovar si dee in ogni parola d'imperatore.

Da' viaggi Adriano tornava tratto tratto a Roma, ove riordinò l'amministrazione interna, sopprimendo le forme repubblicane ormai destituite di significato, per surrogarvi un ordinamento monarchico più conforme al vero; e le cariche e gli uffizj divise in funzioni dello Stato, del palazzo, dell'esercito. Ai liberti rimase tolta l'ingerenza col riservare gl'impieghi di corte ai cavalieri; a quattro cancellerie s'affidò lo spaccio di tutti gli affari; ed a fianco all'imperatore fu collocato [246] una specie di consiglio di insigni giureconsulti, quali Nerazio Prisco, Giuvenzio Gelso, Salvio Giuliano. Da quest'ultimo fece raccorre nell'Editto perpetuo (131) le migliori fra le norme pubblicate dai precedenti magistrati pretoriani; col che tolse forse a costoro il diritto di determinare i principj legali, secondo cui avrebbero amministrato la giustizia nel loro reggimento, obbligandoli ad attenersi a questo, che restò la fonte del gius romano fino al Codice di Teodosio, e divenne fondamento delle Pandette.

Fra le leggi sue proprie, ordinò che a' figliuoli de proscritti si lasciasse un dodicesimo dei beni paterni; chi trovasse un tesoro sul suo, ne restasse padrone, chi sull'altrui, n'avesse metà; gli scialacquatori frustati nell'anfiteatro, poi sbanditi; vietati i sacrifizj umani: pure fino a Costantino si continuò in Africa ad immolare fanciulli a Saturno, e uomini in Roma stessa. Proibì ai padroni d'uccidere gli schiavi, nè di venderli per gladiatori o prostituti: cassò la legge di mandare al supplizio tutti quelli d'un padrone assassinato: abolì gli ergastoli, dove i Romani li faceano lavorare, e dove rifuggivano alcuni per sottrarsi alla milizia o ai castighi, ed altri liberi erano strascinati per lavorare a forza, e più non se ne udiva.

A colonie e città poste o ristabilite prodigò il nome di Elia, e dappertutto moltiplicò monumenti col suo nome: Atene e Grecia ne furono piene; a Roma rifabbricò il Panteon, il tempio di Nettuno, la gran piazza d'Augusto, i bagni d'Agrippa, oltre edifizj nuovi, tra cui principali sono la mole Adriana e la villa di Tivoli. Quella era un ponte sul Tevere col mausoleo che oggi è Castel Sant'Angelo, mirabile ancora dopo aver somministrato statue, colonne e fregi agli edifizj eretti in tempo della decadenza, e projettili nelle battaglie fra Totila e Belisario. Il carro del soprornato, che da piedi [247] appariva piccola cosa, era di tal mole che, dice Sparziano, un uomo potea passare per le orecchie dei cavalli. Nella villa di Tivoli fece imitare quanto ne' suoi viaggi avea veduto; ivi le situazioni più decantate di Grecia e d'Egitto, ivi figurato l'inferno, ivi ai varj quartieri attribuito il nome delle trascorse provincie, e avvivatane la rimembranza con piante esotiche e con vasi, statue, iscrizioni, d'ogni sorta rarità.

Nè per questo egli rapiva; anzi molte imposte alleggerì; non accettava legati da chi avesse figliuoli; condonò quanto in Roma e nell'Italia si doveva all'erario, e nelle provincie i debiti da sedici anni, bruciando le obbigazioni, il più bel fuoco di gioja che i popoli possano vedere.

Gli bastava aver letto un libro per saperlo a mente; dettava contemporaneamente più lettere; dava udienza a diversi ministri; conosceva il nome di quanti aveano militato sotto di lui. Di scienze, di grammatica, d'eloquenza, di poesia sapeva quanto altri del suo secolo; oltre la filosofia, l'astrologia, la magia, le matematiche, possedeva la medicina, scolpiva, cantava, sonava, dipingeva, massime figure oscene, e imitazioni, anzi contraffazioni della natura. Compose un poema misto di verso e prosa, discorsi sulla grammatica, altri sull'arte della guerra[223], e i proprj fasti, dati fuori sotto il nome di suoi liberti.

Di bizzarro gusto in fatto di lettere, preferiva Catone a Cicerone, Ennio a Virgilio, Cellio a Sallustio, Antimaco [248] ad Omero[224], del quale meditò perfino distruggere i poemi. Chi volesse andargli a versi mandava fuori critiche esuberanti dei classici, come Largo Lucinio il Ciceromastix, violenta diatriba contro il padre dell'eloquenza latina. I Sofisti, genìa impudente, cupida, venale, nè in altro valente che in litigare fra loro, gli si affollavano attorno; e Adriano, senza abbracciare veruna setta, le tollerava tutte, e dilettavasi di udirne le baruffe, come di eccitare i poeti a versi improvvisi. Ma guaj a chi gli disputasse la palma che in tutto pretendeva! Avendo egli un giorno criticato un'espressione al filosofo Favorino, questi si confessò in errore; del che meravigliandosi gli amici suoi, — Vorreste ch'io contendessi di sapere con chi comanda a trenta legioni?»[225].

Di tale prudenza mancò Apollodoro, architetto delle fabbriche di Trajano, che udendosi fare non so quale appunto dall'imperatore, gli disse, alludendo al genere di pitture in cui compiacevasi, — Andate a dipingere cocomeri»; e avendo veduto una Venere e una Roma di man di lui, sproporzionate al tempietto cui erano destinate, domandò, — Se si rizzano in piedi, ove staranno?» Tale franchezza egli scontò colla vita; specchio del quanto sia pericoloso celiar coi potenti.

Perocchè Adriano alle belle qualità univa tanti vizj, da farne un misto singolarissimo. Non sapeva tener chiuse le orecchie ai delatori; e farneticava di subillare i fatti altrui, brutto vezzo in tutti, pessimo in principe. Guardò in sinistro quelli cui andava debitore del regno; e perchè nei perpetui suoi viaggi nessuno [249] tentasse novità, restrinse il potere lasciato ai magistrati, avvicinando il governo a pretta monarchia. Giulia Sabina trattò da schiava più che da moglie, e al fine si crede la facesse avvelenare; vero è che questa sfacciata vantavasi d'aver provvisto per non concepire di lui, credendo che un figlio di esso non potrebbe che divenire onta e ruina del genere umano.

A prefetti del pretorio scelse Taziano suo tutore, e Simile. Quest'ultimo, alieno da ambizione, dopo tre anni rinunziò, e ritiratosi in campagna, sopravisse altri sette, e fece scriversi sulla tomba: Settantasette anni fui sulla terra, sette ne vissi. Taziano, al contrario, tirava il signor suo al rigore; e la pubblica voce gl'imputò la morte di quattro consolari, già amici d'Adriano, condannati per cospiratori dal senato, benchè in opinione di innocenti. Molti altri li seguirono come complici, finchè Adriano proibì le sentenze per offesa maestà e privò Taziano della sua grazia.

A non dir nulla della passione di lui per cani e cavalli, sino ad eriger loro splendidi monumenti, di turpe scostumatezza lasciò prova in troppi versi ad esaltazione de' suoi cinedi. Amò di stravagante passione Antinoo nativo della Bitinia; eppure dalle arti magiche avendo appreso che, per prolungare i proprj giorni, bisognava il sangue volontario d'un uomo, nè trovando altri sì folle o sì generoso, accettò quello d'Antinoo. Immolato, il pianse a guisa di donna adorata, eresse sul Nilo una città al nome di lui, volle che i Greci lo dichiarassero dio, e il mondo s'empì di statue e tempj e oracoli di lui, gli astronomi ne trovarono la stella in cielo, e nel tempio eretto sulle ceneri di esso moltiplicaronsi miracoli, instituironsi giuochi e misteri, e facevasi gara per esser nominato suo sacerdote.

Che dovevano dirne i Cristiani? I quali Adriano non tollerò come tutte le altre sêtte, ma per devozione [250] a' suoi numi permise d'uccidere cotesti che loro faceano guerra. Ma i Cristiani, sentendo la potenza che danno il numero e il tempo, più non s'accontentavano di morire benedicendo, e uscivano a giustificarsi della loro innocenza al pubblico giudizio; e Giustino intonava: — La possa de' principi, qualora preferiscano l'opinione alla verità, non è maggiore di quella dei ladroni nel deserto»[226]. Mosso, dicono, dalle apologie del filosofo Aristide e di Quadrato vescovo d'Atene, Adriano sospese la persecuzione, anzi pensava aprire un tempio a Cristo[227], se gli oracoli non avessero riflesso che quello renderebbe deserti gli altri.

Preso da idrope (137), scelse a successore Lucio Annio Aurelio Cesonio Comodo Elio Vero — tanti nomi al crescere della vanità! La malignità, che nelle sue finezze non sempre al torto s'appone, mormorò sui patti conchiusi fra l'imperatore e l'adottivo. Costui, dignitoso della persona e ricco di cognizioni, ma scorretto di costumi, viaggiando tenevasi attorno al carro servi colle ale, cui dava il nome dei venti; continua lettura faceva dell'Arte d'amare d'Ovidio e degli epigrammi di Marziale, che chiamava il suo Virgilio; e quando la moglie il rimproverò perchè le preferisse bagasce, rispose: — Il nome di sposa è titolo d'onore, non di piacere». Fortunatamente costui morì pochi mesi dopo (138); ebbe esequie imperiali ed apoteosi; e Adriano adottò Aurelio Fulvio Antonino, patto che egli pure adottasse Lucio Vero figlio e Marc'Aurelio[228] nipote e figlio adottivo dell'estinto Lucio Annio Aurelio Vero. [251]

Poi, come Tiberio a Capri, così Adriano si ritirò a Tivoli, che avea rifiorita d'ogni magnificenza, e vi si abbandonò a quante lascivie la deperente salute gli consentiva. Da queste balzava alle crudeltà, e spediva ordini sanguinarj; e molti furono uccisi come cospiratori, altri nascosti da Antonino. Alla magìa ricorreva per mitigare la sua infermità, da cui oppresso tentò più volte darsi morte; ma una cieca gli si presentò dicendo: — Un sogno m'avvertì d'intimarvi conserviate la vita; e poichè tardai ad obbedire, mi si oscurò la vista: ma un altro sogno m'assicurò la ricupererei sì tosto che baciassi i piedi imperiali». Così avvenne. Anche un altro cieco, appena tocco da lui, riebbe l'uso degli occhi, e all'imperatore cessò una forte febbre. Di tali baje trastullavasi Roma, e confortavasi il cesare.

Stanco in fine dei rimedj, e dicendo, — I molti medici m'ammazzarono», si diede a mangiar e bere a fidanza, e a Baja morì (138 luglio) dopo vissuto sessantadue anni e mezzo, regnato quasi ventuno. Sul morire sembra ricuperasse la calma, se è vero facesse questi versi, che sono dei più delicati del suo tempo:

Animula, vagula, blandula,

Hospes comesque corporis,

Quæ nunc abibis in loca?

Pallidula, rigida, nudula,

Nec, ut soles, dabis jocos.

Il senato, offeso dalle sue ultime crudeltà, volle cassarne gli ordini e negargli i funerali: poi alle minacce de' soldati e alle suppliche di Antonino gli profuse onori; le ceneri riposte nella superba mole presso al Tevere, lo spirito fra gli Dei.

[252]

CAPITOLO XXXIX. Gli Antonini.

Trajano in perpetua guerra, Adriano in perpetuo movimento, Antonino visse in tal quiete, che in ventitre anni non oltrepassò la villa di Lanuvio. Per dolcezza naturale caro a parenti ed amici, avea prediletto i campi, nè però lasciato le magistrature; poi riuscì dei migliori principi che la storia rammenti. Guadagnò il favore del popolo, non lo brigò; accoglieva qualunque più umile, e dava ascolto a richiami contro uffiziali o magistrati; sprezzando i clamorosi applausi, delizia de' suoi predecessori, nè adulare nè essere adulato soffriva; magnifico senza lusso, economo senza grettezza, osservante dei costumi antichi ma senza scrupoleggiare. Interveniva ai pubblici riti, come pontefice supremo offriva i sacrifizj, ma vietò di recar molestia ai Cristiani, lodandone la vita di spirito, i costumi, il coraggio, sebbene nol facesse che col raffronto delle antiche virtù[229].

Negli amici confidavasi appieno, avendoli scelti a prova: de' nemici tollerava la franchezza e fin l'ingiuria: risparmiò i supplizj, contentandosi di ridurre i rei a non poter nuocere: promise non manderebbe a morte nessun senatore, e l'attenne sì fedelmente, che uno confesso di parricidio relegò soltanto in un'isola deserta. Di due accusati di cospirazione, uno si uccise, l'altro fu proscritto dal senato; ma volendo questo seguitar le indagini, l'imperatore lo sospese dicendo: — Non ho [253] gran voglia di render palese quanti mi odiano». E ripeteva: — Meglio salvare un cittadino, che sterminare mille nemici».

Ammirando certe colonne di porfido in casa d'un Valerio Omulo, chiese a questo donde le avesse avute. — In casa altrui non bisogna aver occhi nè orecchi», rispose l'ospite; e l'imperatore trovò che diceva giusto. Arrivando proconsole in Asia, fu messo d'alloggio presso Polemone, il più famoso sofista di Smirne, il quale tornando ben tardi, si dolse che altri gli avesse occupata la casa; e Antonino così di notte uscì e cercò altro albergo. Fatto imperatore, Polemone venne a corteggiarlo a Roma, e Antonino nol ricambiò altrimenti che colle maggiori onoranze, alludendo solo all'occorso coll'ordinare che neppur di giorno si osasse cacciarlo dall'appartamento. E richiamandosi a lui un commediante perchè Polemone l'avesse di mezzodì espulso dal teatro, Antonino gli rispose: — E me non cacciò di mezzanotte? eppure nol querelai».

Da Calcide di Siria chiamò lo stoico Apollonio per educare Marc'Aurelio; e quegli venne con una turma di discepoli, che Luciano paragona agli Argonauti mossi a conquistare il vello d'oro. Giunto a Roma, e da Antonino invitato al palazzo, il superbo filosofo rispose: — Tocca allo scolaro andar dal maestro». L'imperatore ordinò che Marc'Aurelio andasse da lui; ma rilevò la stolta arroganza dello stoico, dicendo: — È venuto da Calcide a Roma, ed or trova lungo arrivare dal suo albergo al palazzo!»

Di queste ostentazioni filosofiche forbivasi Antonino, e quando i cortigiani disapprovavano Marc'Aurelio del pianger la morte del suo ajo, egli disse: — Lasciatelo fare, e soffrite che sia uomo, giacchè nè la filosofia nè la dignità imperiale devono estinguere in noi i sentimenti di natura». Uomo dunque si mostrò, affettuoso sempre [254] con Adriano e vivo e morto, il che gli acquistò il titolo più glorioso e nuovo di Pio.

Rincresce che pochissimo di lui si conosca, talchè dobbiam racimolare informazioni senz'ordine di tempo. Al senato e ai cavalieri rendeva conto dell'amministrazione sua, lasciava che il popolo eleggesse i magistrati, e al pari di un privato chiedeva le cariche per sè e pe' suoi figliuoli. Cessò le pensioni da Adriano assegnate agli adulatori e simili pesti; ma ripudiava le eredità da chi avesse prole, e restituiva ai figli i beni confiscati al padre, salvo il rintegrare le provincie espilate. Perdonò in intiero alle città d'Italia, e per metà alle altre l'oro coronario che solevasi offrire ad ogni nuovo principe; alleggerì le tasse, e vegliò perchè si esigessero con umanità. Succedevano disgrazie? la prima cosa era rimettere l'imposta al paese danneggiato; alimentava moltissimi fanciulli poveri; ricompensava chi applicavasi all'educazione; i senatori bisognosi ajutò a sostenere il decoro del loro grado; a Galeria Faustina sua moglie, rotta a lussuria, che l'accusava d'avere disposto la più parte degli averi suoi a pro dei bisognosi, rispose: — Ricchezza d'un regnante è la pubblica felicità». Negli spettacoli, delizia del popolo, largheggiò, nè fu scarso in opere pubbliche; fece aprire il porto di Gaeta e riparar quello di Terracina, terminò la mole Adriana, eresse un mirabile palazzo a Loria di Toscana, ov'era stato allevato. Non che l'amassero i suoi, anche gli stranieri rimettevano le loro differenze all'equità di lui; una lettera sua bastò per far recedere i Parti dall'Armenia; Lazi, Armeni, Quadi, Ircani, Battriani, Indi, Iberi gli resero omaggio (140); i Briganti che si sollevarono in Britannia, furono domi; i Mauri respinti di là dell'Atlante.

Per ordine di Adriano adottati Marc'Aurelio e Lucio Vero, al primo diede sposa sua figlia Annia Faustina, [255] e assai ne pregiava le belle doti, mentre indovinava il cattivo animo dell'altro; onde preso da febbre a Loria, a Marc'Aurelio raccomandò l'impero, e il designò successore col far trasportare nella camera di lui la statua d'oro della Fortuna che sempre teneasi presso l'imperatore. E morì di sessantatre anni, compianto di cuore, e riposto fra gli Dei come i più ribaldi (161).

Di lui avea steso un elogio Marco Cornelio Frontone console, reputato fra' più eloquenti Latini, sebbene i frammenti, scoperti non è guari dal cardinale Maj, detraggano assai da quella fama. L'elogio migliore ne fu steso dal suo successore, e noi lo riportiamo non tanto come ritratto fedele, quanto a lode di chi lo scrisse: — Da mio padre adottivo (dic'egli) imparai d'esser dolce, eppure inflessibile ne' giudizj dati dopo maturo esame; non insuperbire di quei che chiamansi onori; durare assiduo alla fatica; sempre disposto ad ascoltare chi reca avvisi utili alla società; rendere al merito secondo gli è dovuto; sapere ove convenga tirare, ove allentare; recedere dalle follie della gioventù; mirare al ben generale. Non esigeva egli che i suoi amici venissero ogni giorno a cenar seco, nè che l'accompagnassero in tutti i viaggi: chi non avea potuto, era accolto coll'egual cuore. Ne' consigli cercava diligentemente il partito migliore, deliberava a lungo senza fermarsi alle prime opinioni. Non s'annojava degli amici, nè mai trascendeva nelle antipatie o nelle affezioni. In tutti i casi della vita e' bastava a se stesso: sempre sereno di spirito, prevedeva da lontano quel che poteva succedere; e senza ostentazione ordinava fin le più minute cose: sopiva le prime sommosse senza rumore; reprimeva le acclamazioni ed ogni bassa piacenteria; vegliava continuo alla conservazione dello Stato; misurava le spese delle feste pubbliche, non badando che si mormorasse di questa rigorosa economia. Adorò gli [256] Dei senza superstizione; cattivossi il popolo, non con moine e coll'affettazione di salutar tutti; sobrio in ogni cosa e fermo, nulla di sconveniente o di singolare; le comodità che offrivagli in copia la fortuna, modestamente usava, e senza bramare le mancanti. Niuno mai gli appose d'affettare bello spirito, essere sofista, motteggiatore, declamatore, perdigiorni; al contrario, lo dicevano assennato, inaccessibile a blandizie, padrone di sè, fatto per comandare agli altri. Onorava i veri filosofi, i falsi non insultava; cortese, moderatamente piacevole nel conversare, non tediava mai. Della persona sua curavasi a misura, e non come uomo passionato per la vita, o smanioso di piacere: senza trascurarsi, limitava la sua attenzione allo star sano, per passarsene della medicina o della chirurgia. Scarco di gelosia, cedeva alla superiorità degli altri fosse in eloquenza e in giurisprudenza, o in filosofia morale, od in altro; anzi ingegnavasi perchè ciascuno fosse conosciuto in quel dove valeva. Nel tenore di sua vita imitava i padri, ma senza ostentarlo; non compiacevasi di mutare spesso di posto e d'oggetti; non istancavasi di rimanere in un medesimo luogo e sopra un solo affare. Dopo le violenti micranie tornava disposto all'ordinario lavoro. Ebbe pochissimi segreti, e solo pel ben comune. Negli spettacoli, nelle pubbliche opere, nelle largizioni e in simili incontri mostravasi prudente e misurato, badando a quel che conveniva, non a celebrità. Non usava bagno in ore straordinarie; non avea passione di murare; nessuna squisitezza alla tavola, nel colore o nelle qualità de' vestiti, nella scelta di begli schiavi. A Loria portava una tunica comprata nel vicino villaggio e di stoffe di Lanuvio; non mai il mantello, se non per andare a Tusculo, e anche allora ne chiedeva le scuse. In generale non modi aspri, indecenti, nè di quella fretta che fa dire, Bada che tu non sudi: compiva una [257] cosa dietro l'altra ad agio, senza scompiglio, e con accordata successione. Poteasi dire di lui, come di Socrate, che sapeva indifferentemente godere, e far senza delle cose, di cui la più parte degli uomini non sanno nè mancare senza rammarico, nè godere senza eccesso: serbarsi forte e moderato in ambo i casi è da uom perfetto, e tale egli si mostrò».

Così scriveva il successore e allievo di lui Marc'Aurelio, che a sedici anni rinunziò alla sorella la paterna eredità, pago di quella dell'avo materno; sotto i migliori maestri apprese lettere, diritto, e massime filosofia. I precettori suoi, vivi onorava e consultava, morti ne visitava e fioriva i sepolcri. Dianzi fu scoperta la sua corrispondenza con Frontone, il quale osò dirgli la verità mentre fu privato[230]; poi con esso mantenne carteggio, colla confidenza d'antico famigliare che nulla domanda, e quale la meritava il saggio alunno[231]. [258]

Marc'Aurelio assunse anche il mantello usato dai filosofi e la loro vita austera, sino a dormire sulla nuda terra. Questo rigore lo indebolì di salute, ma regolandosi rinsanicò, e visse sessant'anni laboriosissimi: nè gli onori il tolsero dalla semplicità e dal coltivare gli amici e la scienza. Se per rispetto alle costumanze interveniva agli spettacoli, leggeva e s'occupava d'affari, lasciando che il popolo lo berteggiasse.

A Lucio Vero, fratello d'adozione, diede sposa sua figlia Lucilla, poi lo nominò augusto e collega, con esempio nuovo nelle storie; e fatte le solite largizioni, governarono insieme. Ma troppo differenti. Lucio Vero, spoglio d'ingegno e di virtù, passava le giornate a tavola, le sere a correr le vie in gara di libertinaggio colla ciurmaglia; il palazzo convertiva in taverna; e dopo cenato col virtuoso fratello, ritiravasi nelle sue stanze a bagordare con gentame e schiavi, cui permetteva seco la libertà de' Saturnali. I capelli spolverava d'oro; in un solo banchetto spese un milione ducentomila lire, e a ciascuno dei dodici invitati distribuì una corona d'oro, i piatti d'oro e d'argento, un bello schiavo, un mastro di casa, ed ogni volta che si beveva, una tazza di murrina e coppe preziose tempestate di diamanti, corone di fiori che la stagione non portava, preziosissime essenze in oricanni d'oro; poi quando furono al partire, ciascuno trovossi un cocchio con muli superbamente bardati. Celere, suo cavallo, non d'altro era nudrito che d'uva e mandorle, coperto di porpora, [259] alloggiato in palazzo; ebbe statua d'oro e, morto, un magnifico mausoleo in Vaticano.

Dilagamenti, incendj, tremuoti che avevano afflitto l'impero e dato esercizio alla liberalità di Antonino, si rinnovarono per le provincie, aggiuntavi l'epidemia; poi uno strano caro in Roma: talchè Marc'Aurelio ebbe a faticare in sollievo di tanti guaj. Anche i Catti sbucarono nella Germania, i Britanni calcitravano, l'Armenia si agitò, Vologeso III re de' Parti ruppe guerra con formidabili preparativi. A combatterlo, Marc'Aurelio mandò Lucio Vero (162), sperando strapparlo all'indecorosa mollezza; ma costui, appena mosso da Roma, fu dalle dissolutezze gettato in violenta malattia a Capua. Guarito da questa non da quelle, passa il mare; e l'Asia lo alletta a godimenti, ne' quali logora il tempo. Frontone[232], scrivendogli, deplorava il decadimento della militare disciplina: — Guerrieri abituati ogni giorno nell'applaudire alle infami voluttà, anzichè nelle insegne e negli esercizj, cavalli ispidi per mancanza di cura, cavalieri sbarbate fin le coscie e le gambe, uomini piuttosto vestiti che armati, talmente che Leliano Ponzio, educato nell'antica disciplina, colla punta delle dita sfondava le costoro corazze, e osservava perfin de' cuscini posti sui loro cavalli. Pochi soldati lanciavansi d'un salto sul cavallo; altri sosteneansi a fatica sui garretti o sui ginocchi; pochi sapevano palleggiare il giavellotto, e senza vigore lo gettavano come fosse [260] lana. Al campo, tutto pieno di giuochi: un sonno lungo quanto la notte, e la veglia in mezzo al vino». Eppure l'esercito era ancora la parte più sana dell'impero, e i luogotenenti di Lucio Vero lo condussero più volte alla vittoria: finalmente Avidio Cassio, proceduto sino a Ctesifonte, arse la reggia de' Parti (163), prese Edessa, Babilonia e tutta la Media. Vero, indegnamente proclamato vincitore dei Parti, distribuì i regni, e assegnò il governo delle provincie ai senatori che l'accompagnavano.

Vedendo occupati i migliori eserciti in Oriente, i Germani insorsero dalle Gallie all'Illiria. Marc'Aurelio, accorsovi col fratello, parte respinse oltre il Danubio, parte sottomise; e diffidando a ragione, si fermò a piantare nuovi fortilizj, corroborò Aquileja minacciata dai Marcomanni, e provvide alla sicurezza dell'Illiria e dell'Italia. Nè invano, chè ben presto l'incendio sopito divampò, e i due augusti dovettero accorrere di nuovo. Ma Vero morì ad Altino di trentanove anni (169); Aurelio lo fece ascrivere fra gl'Iddii, e procedette più risoluto nella via del bene.

La guerra ai Germani seguitò con varia fortuna: i Marcomanni videro più volte le spalle dei Romani (170), li inseguirono fin sotto Aquileja, e in Italia recarono fuoco e guasto. Roma, più atterrita perchè la peste menava strazio, arrolò schiavi, gladiatori, disertori, Germani mercenarj; e l'imperatore vendette gli arredi del proprio palazzo, ori, statue, quadri, le vesti di sua moglie, e una preziosissima copia di perle, adunate da Adriano ne' suoi viaggi; e coll'ingente somma ritrattane provvide alla fame d'allora, pagò le spese d'una guerra quinquenne, e avanzò tanto da ricuperar parte delle cose vendute. I Barbari combattè in ogni parte da eroe, ma eroe umano, risparmiando il sangue ove potea, reprimendo la indisciplina militare, e coll'esempio [261] animando i nemici. Ma inseguendoli di là dal Danubio, rimpetto all'antica Strigonia nell'alta Ungheria, si trovò preso in mezzo dai Marcomanni; e sebbene i suoi con valore si riparassero da quella serra, vedeansi all'estremo per mancanza di acqua. Quand'ecco in un subito il cielo si rabbuja, e versa dirotta pioggia; il nembo stesso, avventando gragnuola e fulmini contro i nemici, che in quella confusione gli avevano assaliti, ajuta i Romani a disperderli.

È uno degli accidenti più clamorosi di quel tempo, gridato per miracolo da Gentili e da Cristiani: quelli l'attribuiscono ad Arnufi, mago egiziano, od a preghiere dell'imperatore[233]; i nostri ne fanno merito ai battezzati della legione Melitina. L'imperatore, colla circospezione richiesta dal tempo, scrisse al senato di dover queste vittorie ai Cristiani; e contro chi li calunniasse decretò l'ultima severità.

La restituzione di centomila prigionieri attestò quanto i Romani avessero sofferto. Quadi e Marcomanni, che rinnovarono i movimenti, furono rinserrati per modo, che la fame li costrinse implorar pace dall'imperatore (174); e venuti con doni, coi disertori e con tredicimila prigionieri, la ottennero a patto di non più trafficare sulle terre romane, e stanziare almeno sei miglia dal Danubio. Gli altri Germani furono pure repressi, com'anche i Mori che aveano invaso la Spagna.

Avidio Cassio, vincitore dei Parti, più col seminare discordie che non colle armi domò i sollevati Egiziani; ed anche in Armenia e in Arabia fece mostra di prudenza e valore. Costui, quanto sicuro nelle armi, era [262] rigoroso co' soldati; qualunque di essi rapisse nulla ai paesani, era ivi stesso crocifisso; alcuni arsi vivi, altri incatenati insieme e gettati al mare; ai disertori faceva mozzar piedi e mani, dicendo la vista di que' moncherini produrre maggior effetto che non un supplizio. Mentre accampava presso il Danubio, alcuni de' suoi ajuti passarono il fiume, ed assaliti i Sàrmati improvvisti, ne uccisero tremila e tornarono carichi di preda: ma quando i centurioni, che a ciò gli avevano eccitati, aspettavano lode e ricompensa da Cassio, e' li fece crocifiggere per esempio di disciplina. Al rigore eccessivo destasi in rivolta l'esercito; ma Cassio, comparendo senz'armi fra i tumultuanti, esclama: — Uccidetemi pure, e alla dimenticanza del dover vostro aggiungete l'assassinio del generale». Quell'intrepidezza colpì; l'ordine fu ricomposto, e i nemici disperando di vincere un tal capo, chiesero una pace di cento anni.

Compiuta la guerra de' Marcomanni, Marc'Aurelio deputò Cassio a governare la Siria, ove in sei mesi riparò allo scompiglio e all'immoralità delle legioni; ogni otto giorni ne passava in rassegna l'abito, le armi, l'equipaggio; frequentemente le addestrava, e malgrado quel rigore, sapea farsi ben volere. Ma il nome che portava, rammentavagli un altro che avea tentato impedire la monarchia in Roma; ed egli pure chimerizzava una romana repubblica. Antonino il seppe e tollerò; Marc'Aurelio rispose con filosofia fatalista: — A che stare in pena? se la sorte destina l'impero a Cassio, niuno uccide il proprio successore; se no, rimarrà preso al proprio laccio. Non conviene diffidare d'uomo non accusato e di tanti meriti: se devo perdere la vita pel bene dello Stato, poco mi cale se ne verrà scapito a' miei figliuoli».

Durante la guerra in Germania, si sparse voce, o Cassio la divulgò, che l'imperatore fosse morto; e [263] Faustina imperatrice, temendo l'impero non venisse occupato chi sa da chi, e in pericolo sè ed i figli, sollecitò Cassio ad assumerlo e sposar lei. Cassio si fece proclamare (175), e ben tosto il paese di là dal Tauro e l'Egitto gli obbedirono; principi e popoli stranieri abbracciarono la sua causa. Marc'Aurelio, quando più nol potè tener celato, ne informò egli medesimo il suo esercito, movendo pacata querela dell'ingratitudine; indi prese il cammino dell'Illiria per farsi incontro a Cassio, e cedergli l'impero, quando tale paresse il volere degli Dei; — Giacchè (soggiungeva) se tante fatiche io duro, non è interesse o ambizione, ma desiderio del bene del mio popolo».

Cassio non era un usurpator volgare, e pensava o simulava d'intendere soltanto al pubblico bene: — Infelice la repubblica in preda d'avoltoj, che dopo il pasto han più fame di prima! Marc'Aurelio è buono, ma per farsi lodare di clemenza lascia viver uomini che sa meritevoli di morte. Dov'è l'antico Cassio? dove l'austero Catone? a che è ridotta la disciplina de' nostri vecchi? or non si sa tampoco ribramarla. L'imperatore fa il mestiere del filosofo, disserta sul giusto e l'ingiusto, sulla natura dell'anime, sulla clemenza; e non piglia a cuore gl'interessi dello Stato. Buoni esempj di severità bisogna dare, molte teste abbattere se vogliasi ripristinar il governo nell'antico splendore. Di che non sono meritevoli cotesti rettori di provincie, che credonsi posti là unicamente per deliziarsi e arricchire? Il prefetto al pretorio del nostro filosofo tre giorni prima d'entrar in carica non avea pane; e poco poi possiede milioni: e come gli ebbe, se non col sangue dello Stato e collo spoglio delle provincie? Le confische su costoro rifioriranno il tesoro, se gli Dei favoriscono la buona causa: io opererò da vero Cassio, e restituirò alla repubblica il prisco splendore». [264]

Ma ben tosto il pugnale del centurione Antonio lo tolse dalla vita e da un regno di tre mesi e sei giorni. Marco Vero, ch'era stato spedito contro di lui, trovate le lettere de' suoi partigiani, le bruciò dicendo: — Questo atto piacerà a Marc'Aurelio: gli dispiacesse anche, avrò, col perder la mia, salvato molte vite». Il capitano delle guardie di Cassio e suo figlio Muziano, governator dell'Egitto, perirono, e così qualc'altro senza saputa dell'imperatore, il quale agli sbanditi rese la patria e i beni; e rimessa al senato l'indagine, soggiunse: — I senatori e cavalieri, partecipi della congiura, sieno per autorità vostra esenti da morte e da ogni castigo e nota; e dicasi per onor vostro e mio, che quest'insurrezione costò la vita a quelli soli che perirono nel primo tumulto. Così anche a loro potessi renderla! La vendetta è indegna d'un regnante».

Tolse in protezione la moglie, il suocero, i figli del ribelle, e li sollevò a dignità, quantunque non ignorasse i maneggi di quella parentela per avversargli il popolo e i soldati. Agli amici che gli dicevano, — Cassio non avrebbe usata tanta moderazione», replicò: — Noi non serviamo gli Dei tanto male, da temere che volessero chiarirsi per Cassio»; e soggiunse: — Le crudeltà hanno menato sventura a molti miei antecessori, e un principe buono non è mai vinto od ucciso da un usurpatore; Nerone, Caligola, Domiziano meritarono la fine loro; Otone e Vitellio erano inetti; l'avarizia fu ruina di Galba».

Oh! lasciateci indugiare sopra questi atti di clemenza, come il viaggiatore che nel deserto sotto le rare palme cerca ombra e ristoro.

La bontà però qualche volta il portava a perdonare anche al reo. Erode Attico, famoso retore e ricco sfondolato, avea lite colla città d'Atene, e vedendo l'imperatore inclinato a favor di questa, invece di ragioni prese [265] a oltraggiarlo come raggirato da una donna e da una bambina, volendo dire Faustina e sua figlia, mediatrici per gli Ateniesi. L'imperatore, che avealo ascoltato pacatamente, quando fu partito disse ai deputati di Atene: — Ora potete esporre le ragioni vostre, benchè Erode non abbia creduto bene allegar le sue». E le ascoltò attento, e gli vennero le lagrime all'udire gli strapazzi che soffrivano da Erode e da'suoi liberti: pure condannò solo questi ultimi, poi li graziò; e appena Erode lagnossi seco che più non gli scrivesse, gli chiese scusa con questo viglietto, singolare in un re: — Desidero tu sii sano e convinto ch'io t'amo. Non aver a male se trovasti in fallo alcuni tuoi dipendenti; io gli ho puniti, sebbene nel modo più dolce che mi fu possibile. Non me n'accagionare; ma se ho fatto o fo cosa che ti dispiaccia, imponmi un'ammenda, ch'io ti soddisferò nel tempio di Minerva in Atene, al tempo dei misteri; avendo io, nel fervor della guerra, fatto voto d'iniziarmi, e voglio che tu presieda alla cerimonia»[234].

Per simile eccesso di bontà tollerò il libertinaggio sfacciato della moglie Faustina, e promosse gli amanti di essa; e consigliato dagli amici a ripudiarla, rispose: — Bisognerebbe le restituissi la dote, cioè l'impero datomi da suo padre», o celia, o ragione indegna d'un saggio. Dopo la rivolta di Cassio, v'è chi dice che, vergognosa di vedersi accusata dai complici, ella si uccise (176). Aurelio ne' suoi ricordi la rimpianse come fedele, amabile e di meravigliosa semplicità di costumi; mutò in città, col nome di Faustinopoli, il villaggio a piè del Tauro, dov'ella avea chiusi i giorni; pregò il senato a porla fra gli Dei, e il senato ossequioso le eresse statue ed un altare, ove le novelle spose facessero sacrifizio solenne all'adultera imperiale. [266]

Marc'Aurelio, continuando il cammino per l'Oriente, perdonò a tutte le città fautrici di Cassio, e all'Egitto infervorato di esso; solo ad Antiochia interdisse i giuochi, sua vita, e tolse i privilegi: ma essendovi poi andato in persona, anche di questo la sgravò. In Atene si fece iniziare ne' misteri di Cerere, e vi stabilì professori d'ogni scienza: arrivando poi in Italia, ordinò ai soldati di riprendere la toga, non essendovi mai nè egli nè i suoi comparsi in abito guerresco (177). Entrando trionfante in Roma, superò in largizioni tutti i predecessori; giacchè, nel discorso che tenne al popolo, avendo espresso che era stato in giro otto anni, la folla cominciò a gridare — Otto, otto», chiedendo così otto denari d'oro per testa; ed esso glieli fece dare.

In Roma si godeva tutta la libertà di cui fossero capaci gli antichi; e sotto un imperatore onesto e generoso, le fronti si rialzavano con dignità. Fra altre savie leggi, Marc'Aurelio vietò ai gladiatori d'adoprare armi micidiali: fatto ben più onorevole, che l'agitar nelle scuole quistioni di filosofia, a preghiera de' letterati. Egli non usciva mai dal senato, che il console non avesse dato congedo col Nihil vos moramur, patres conscripti; tornava dalla Campania qualvolta v'avesse a riferire alcun che; crebbe i giorni fasti per gli affari; primo istituì un pretore sovra le tutele; notò d'infamia i delatori; rendeva assiduamente giustizia, e spesso rimetteva le cause al senato, trovando più giusto il piegarsi egli stesso al parere di tanti savj, che non trascinare questi al suo.

Il chiamarono a nuove armi i Marcomanni; ma in mezzo alle vittorie morì a Sirmio in Pannonia (180) di cinquantanove anni, dopo regnato diciannove; e di sincero compianto l'accompagnarono tutti, eccetto forse il figlio Lucio Comodo, sospetto d'avergli accelerato la morte. Tranquillamente la vide Marc'Aurelio avvicinarsi, [267] e diceva agli amici: — Da voi aspetto meglio che i sentimenti ordinarj e naturali; ma che chiariate aver io collocato bene la stima, l'affezione, i benefizj. Mio figlio a voi raccomando; vi sia a cuore la sua educazione. Egli esce appena dall'infanzia; ne' primi bollori della gioventù ha bisogno di governo e di piloto, che mai, scarso d'esperienza, non travii e rompa agli scogli: non l'abbandonate, tenetegli luogo del padre con buoni avvisi e salutari istruzioni, ritrovi me in ciascuno di voi. Le più larghe ricchezze non bastano alle dissolutezze di un principe voluttuoso; se egli è odiato da' sudditi, non è in securo, per quante guardie lo difendano; non teme congiure e sommosse se pensò a farsi amare più che temere. Chi di voglia obbedisce, va scevro da sospetti; senz'essere schiavo, è buon suddito, e non ricusa obbedienza se non a comando dato con soverchia durezza. Difficile è l'usar con moderazione una podestà senza confini. Ripetete spesso a mio figlio queste istruzioni e somiglianti; così formerete per voi e per l'impero un principe degno, a me mostrerete la vostra costanza, e onorerete la memoria mia, unico mezzo di renderla immortale».

Le sue ceneri furono deposte nella mole Adriana, egli ascritto fra gli Dei, e reputavasi sacrilego chi non ne tenesse in casa l'effigie. Oltre l'esempio d'una benignità e d'una dolcezza quasi uniche, ci lasciò anche precetti per iscritto[235], la cui indulgenza discorda dall'austero stoicismo, e segnano il punto più alto cui giungesse la filosofia pagana, irradiata suo malgrado da quella suprema sapienza, incontro a cui ostinavasi a chiuder gli occhi. — Un solo Dio (diceva egli) dappertutto; una sola legge, che è la ragione comune a tutti gli esseri intelligenti. Lo spirito di ciascuno è un dio ed emanazione dell'ente supremo. Chi coltiva la [268] propria ragione deve guardarsi come sacerdote e ministro degli Dei, giacchè si consacra al culto di colui che fu in esso collocato come in un tempio. Non fare ingiuria a questo genio divino che abita in fondo al cuore, e conservalo propizio col fargli modesto corteggio siccome a un dio. Trascura ogni altra cosa per occuparti del culto della tua guida, e di ciò che in lei v'ha di celeste; sii docile alle ispirazioni di questa emanazione del gran Giove, cioè lo spirito e la ragione; il dio che abita in te, conduca e governi un uomo veramente uomo. Una ragione eguale prescrive ciò che dobbiam fare od evitare: governati da una legge comune, siamo cittadini sotto l'egual reggimento».

Alla maniera di Socrate e del Maestro divino, e a differenza di Cicerone, insiste più spesso sulla morale privata, sulla cognizione di se stesso. — Di rado siamo infelici per non sapere che cosa passi nel cuor degli altri; ma lo siam certo se ignoriamo quel che passa nel nostro. A qual cosa applicarci con tutta la cura? ad aver l'anima giusta, far buone azioni, cioè utili alla società, non poter dire che il vero, esser sempre in grado di ricevere ciò che accade come cosa necessaria. Come un cavallo dopo una corsa, un'ape dopo fatto il miele, non dicono Ho fatto del bene, così un uomo non deve proclamare il bene che opera, ma continuare come la vigna, che, dopo portato il frutto, si prepara a portarne dell'altro a tempo.

«Quando sei offeso dalla colpa d'alcuno, esamina te stesso, e bada se mai non facesti nulla di simile: questo riflesso dissiperà la tua collera. Dio immortale non s'indispettisce di tollerare per tanti secoli un'infinità di malvagi, anzi ne prende ogni cura: e tu che domani morrai, e che ad essi somigli, ti stancheresti di sopportarli? Spesso si è non meno ingiusti a fare nulla che a fare qualcosa. [269]

«Ogni mattina si cominci col dire, — Oggi avrò a fare con faccendieri, con ingrati, insolenti, scaltriti, invidi, insociali: perchè hanno questi difetti? perchè non conoscono i beni e i mali veri. Ma io, che appresi il vero bene consistere nell'onesto, e il vero male nel turpe; che conosco la natura di chi mi offende, e ch'egli è parente mio, non per sangue, ma per la partecipazione al medesimo spirito emanato da Dio, non posso tenermi offeso da parte sua, giacchè egli non saprebbe spogliare l'anima mia dell'onestà.

«O uomo, tu sei cittadino della gran città del mondo: che ti cale di non esserlo stato che cinque anni? Nessuno può lamentarsi d'ineguaglianza in ciò che avviene per legge mondiale: perchè dunque cruciarti se ti sbandisce dalla città, non un tiranno o un giudice iniquo, ma la natura stessa che vi t'avea collocato? È come se un attore fosse congedato di teatro dall'impresario che l'allogò. — Non ho finito la parte, recitai solo tre atti. — Dici bene: ma nella vita tre atti formano una commedia intera, giacchè essa è terminata a proposito ogniqualvolta il compositore istesso ordina d'interromperla. In tutto ciò tu non fosti nè autore, nè causa di nulla: vattene dunque in pace, giacchè chi ti congeda è tutto bontà.

«Io debbo a Vero mio avo ingenuità ne' costumi e placidezza; alla memoria che ho del padre mio, il carattere modesto e virile; a mia madre, pietà e liberalità, non solo astenersi dal male ma neppur pensarlo, frugalità negli alimenti, schivar le pompe; al bisavo, il non essere andato alle pubbliche scuole, ma avuto in casa egregi precettori, e conosciuto che non si spende mai troppo in ciò; al mio educatore, il non parteggiare per la fazione verde o per la turchina nelle corse, o nei gladiatori pel grande o piccolo scudo, tollerar la fatica, contentarmi di poco, servirmi da me, non dare [270] ascolto a delatori; a Diagnoto, non occuparmi di vanità, non credere a prestigi ed incanti, a scongiuri, a cattivi demonj nè altre superstizioni, lasciare che di me si parli con libertà, dormire sopra un lettuccio ed una pelle, e gli altri riti della educazione greca; a Rustico, l'essermi avveduto che bisognava correggere i miei costumi, evitar l'ambizione de' sofisti, non iscrivere di scienze astratte, non declamare arringhe per esercizio, non cercare ammirazione col far pompa d'occupazioni profonde e di generosità; nelle lettere usare stile semplice; al pentito perdonare senza indugio; leggere con attenzione, nè contentarmi di comprendere superficialmente. Da Apollonio appresi ad esser libero, fermo anzichè esitante, alla ragione solo mirando, eguale in tutti i casi della vita, ricevere i doni dagli amici senza freddezza nè abiezione. Da Sesto, benignità, esempio di buon padre, gravità senza affettazione, continuo studio di venir grato agli amici, tollerare gl'ignoranti e sconsiderati, rendere la propria compagnia più gioconda che quella degli adulatori, conciliandosi però rispetto, applaudire senza strepito, sapere senza ostentazione. Dal grammatico Alessandro, a non rimproverare le scorrezioni di lingua, di sintassi, di pronunzia, ma far sentire come abbia a dirsi, mostrando rispondere o aggiunger prove o sviluppare la stessa idea, con espressione diversa, o in altra guisa che non sembri correzione. Da Frontone, a riflettere all'invidia, alla frode, alla simulazione dei tiranni, e che i patrizj non hanno cuore. Da Alessandro platonico, a non dire leggermente Non ho tempo, nè col pretesto delle occupazioni esimersi dagli uffizj sociali. Da Massimo, a dominar se stessi, non lasciarsi sopraffare da verun accidente, moderazione, soavità, dignità ne' costumi, occuparsi senza rammarichio, non esser frettoloso, non pigro, non irresoluto, non dispettoso e diffidente, non mostrare ad [271] altri d'averlo a vile e di credersene migliore, amar la celia innocente.

«Riconosco per benefizio degli Dei l'aver avuto buoni parenti, buoni precettori, buoni famigliari, buoni amici, che sono le cose più desiderabili; il non avere sconsideratamente offeso alcuno di questi, benchè vi fossi per natura proclive; inoltre l'aver conservato l'innocenza nel fiore della giovinezza; non fatto uso prematuro della virilità; l'essere stato sotto un imperatore e padre che da me rimoveva l'orgoglio, persuadendomi che il principe può abitare nella reggia, e pure far senza guardie nè abiti pomposi, e fiaccole e statue e simil lusso; il non aver fatto progressi nella retorica, nella poesia e cosiffatti studj, che m'avrebbero divagato[236]; il non essermi mancato denaro qualora un povero volessi soccorrere; non essermi trovato in bisogno di soccorso altrui; il trovarmi in sogno suggeriti rimedj opportuni a' miei mali; il non essere, nello studio della filosofia, caduto in mano d'alcun sofista, nè perduto il tempo a svolgere i costui commenti, sciogliere sillogismi, e disputare di meteorologia».

Insomma la filosofia di Marc'Aurelio è un continuo intendere al bene de' suoi simili; ed anzichè l'orgoglio stoico, vi riconosci l'umiltà cristiana. Staccarsi dalle cose mondane, assorbire ogni sua attività in Dio egli [272] vorrebbe quanto un monaco, ma sente i doveri del suo posto; disapprova la guerra, ma la fa contro gli invasori; e resta in mezzo agli uomini per beneficarli.

CAPITOLO XL. Economia pubblica e privata sotto gli Antonini.

L'impero aveva allora per confini a settentrione e a ponente il mar Nero, il Danubio, il Reno, l'Oceano dalle foci del Reno sino allo stretto di Cadice; nell'Asia Minore giungeva fino alla Colchide e all'Armenia; in Siria fino all'Eufrate e ai deserti d'Arabia; in Africa all'Atlante, alle arene libiche, ai deserti che separano l'Egitto dall'Etiopia; e, a tacere i momentanei acquisti di Adriano, stabilmente unite furono all'impero le provincie della Britannia e della Dacia. Copriva così la superficie di 1,365,560 leghe quadrate, cioè il quintuplo della Francia odierna, con circa cenventi milioni d'abitanti: ma oltre queste, che costituivano l'impero romano ed erano governate da proconsoli, stava attorno una cintura di altre regioni, vassalle in diverso grado, e di dubbiosa libertà[237], che talora pagavano un tributo, sottostavano al censo, ricevevano decreti; quali i re della Comagene, di Damasco e tant'altri sul lembo della Siria, la trafficante Palmira nel deserto, i principi dell'Iberia, dell'Albania ed altri del Caucaso, l'Armenia, la Partia a vicenda sottomessa e riottosa. È questo il momento della massima grandezza dell'Impero e dell'Italia; onde noi sosteremo ad esporne la condizione civile, morale, letteraria, prima di contemplarne il declino. [273]

La comunicazione fra sì remote provincie era agevolata dal mare e da meravigliose strade. Il Mediterraneo, le cui rive direbbonsi predestinate dalla Provvidenza ai più splendidi e durevoli incrementi della civiltà, mette in relazione le tre parti del mondo antico, le discendenze dei tre figli di Noè, i foschi Camiti dell'Africa, i Giapetidi della Grecia e della Germania, i Semiti della Fenicia e della Palestina: s'addentra con mille seni per ricevere dai fiumi le produzioni di tre continenti, spingendosi pel Tanai e per la Meotide fin nelle steppe dei Tartari, pel Nilo fino al centro dell'Africa, per lo stretto fin nell'Oceano inospitale. Allora poteva dirsi lago latino, poichè non avea spiaggia che non riconoscesse le aquile imperiali; le flotte di Roma lo proteggevano e solcavano continuamente; e le navi di traffico, approdando alle provincie più ricche e più belle, accostavano alle barbariche le due civiltà romana e greca. Quest'ultima, figlia dell'orientale, erasi vantaggiata di tutto il passato per abbellirlo e armonizzarlo, avea sparso di colonie il mondo, dagl'intimi recessi dell'Indo e del Don fino alle isole della futura Inghilterra, ed aveva educato Roma. La quale alla sua volta, estendendosi da un lato oltre le Alpi, dall'altro nell'Africa, diè di cozzo a popoli civili in decadenza e ne accelerò la caduta, ma ereditandone l'esperienza e dandovi governo; e a popoli barbari per incivilirli, per respingere sempre più lontano la rozzezza e la ferocia.

Per terra questi paesi congiungeansi mediante strade di tale solidità, che sopravissero a' secoli. La via Appia, finita sin dal 311 avanti Cristo da Appio Claudio Cieco censore, in grandi macigni, moveva da porta Capena, or sostenuta sovra un terreno limaccioso, ora tagliando l'Appennino. Cesare la ristaurò cominciando a disseccare le paludi Pontine; gl'imperatori seguenti la compirono e migliorarono. Col nome di via Campana prolungata [274] da Capua ad oriente d'Aversa, qui bipartivasi: la mediterranea pel monte Cauro scendeva a Pozzuoli; la marittima si drizzava a Cuma lungo i paduli di Linterno: da Cuma poi, uscendo per l'arco Felice, un altro ramo toccava Pozzuoli, e congiungevasi colla mediterranea per isboccare a Napoli, traverso alla grotta di Posilipo. Dalla via Flaminia, aperta dal console Flaminio Nepote nel 223, diramavasi presso Ponte Milvio la Cassia, dritta per Viterbo all'Etruria.

D'ordine d'Augusto furono messe in buono stato le quarantotto d'Italia, che sviluppavansi da Roma a Brindisi e a Milano, donde si diramavano quelle che, pei varj passi alpini, raggiungevano Lione, Arles, Magonza, la Rezia, l'Illiria. Trajano ne condusse una traverso le paludi Pontine da Forum Appii sino a Terracina, e compì la via Appia da Benevento a Brindisi. La via Aurelia, che traversava l'Etruria e la Liguria, fu continuata sino a Cade; e varcato lo Stretto, riusciva a Tanger. La via Flaminia, da Roma per Rimini, Bologna, Modena, Piacenza, Milano, Verona, Aquileja spingeasi al Sirmio, e lungheggiava il Danubio, mettendo in comunicazione la Rezia e la Vindelicia, la Gallia e la Pannonia; di là per la Mesia fin negli Sciti, per la Tracia, l'Asia Minore, la Siria, la Palestina, l'Egitto, la costa d'Africa, veniva a ricongiungersi a Cadice, Malaga, Cartagena, colla strada di Spagna. Così sullo spazio di quattromila ottanta miglia romane era facilitato il trasporto delle legioni, degli ordini e delle notizie. Gl'imperatori vi stabilirono poste regolari, con ricambj ogni cinque o sei miglia, provvisti di quaranta cavalli, ad uso però unicamente del Governo, o di chi ne ottenesse speciale concessione: al qual modo poteano farsi cento miglia al giorno; anzi Tiberio potè in ventiquattr'ore compierne ducento da Lione alla Germania[238]. [275] Anche i fiumi avvivavano le comunicazioni, e due flotte armate scendendo il Reno e il Danubio, portavano i prodotti dell'Oceano Germanico nell'Eusino.

Ciò dava alla dominazione romana una consistenza, qual mai non n'ebbe alcuna dell'Asia; nè era inane vanto quel dominio universale che Roma arrogavasi, e il chiamar orbe romano il mondo, consiglio supremo di tutte le nazioni e dei re il senato[239]: pretensione già viva sotto la repubblica, assodata nell'impero. E per quanto a ragione si esclami contro gli estesi imperj, che sotto eguali leggi incatenano genti disformi d'indole e di coltura, lasciano inesaudite le querele, non compresi i bisogni, e fanno dalla remota capitale arrivare i provvedimenti dopo cessata l'opportunità; pure vuolsi confessare che nazioni isolatissime vennero così ricongiunte, mentre la occidentale barbarie non sentiva l'influsso della coltura orientale; col togliere di mezzo i confini, si facilitò il contatto; e quantunque l'unità non fosse che materiale e derivata dalla conquista, la lingua uffiziale, le magistrature, le legioni, gli spettacoli a cui accorrevano i Rodopei dell'Emo, i cavalieri della Germania, i littorani del Nilo e dell'estremo Oceano, gli [276] Arabi e i Sabei, gli olezzanti Cilici, i ricciuti Etiopi, i trecciati Sicambri[240], estesero la civiltà se non la crebbero; e chiamando i popoli a contribuire chi la forza, chi l'ingegno, chi la ricchezza, insegnarono loro a conoscersi, ad affratellarsi, e dilatarono a tanta parte del mondo i privilegi che, essendo dapprima riservati ad un pugno di banditi o a qualche migliajo di cittadini, facevano la politica romana una grande ingiustizia a vantaggio di pochi e ad aggravio del genere umano.

Centro di sì vasta unità, l'Italia era sempre sede dell'imperatore e del senato, i cui membri era richiesto che avessero di qua dall'Alpi almeno un terzo dei loro possedimenti. Quel nome non era più circoscritto dalla Macra, dal Rubicone e dal mare, dacchè i triumviri non aveano voluto lasciare la Gallia Cisalpina a governo di un proconsole, che potesse così menare un esercito legalmente di qua dell'Alpi. La fecero dunque giungere a levante fino all'Arsa, a settentrione alle Alpi, ad occidente al Varo; ed Augusto la partì in undici regioni: I. il Lazio e la Campania, dove Pozzuoli; II. il paese de' Picentini e degl'Irpini; III. la Lucania, il Bruzio coi Salentini, l'Apulia, la Calabria, dove Brindisi era prevalsa alle scadute città di Taranto, Crotone, Locri; IV. il paese spopolato de' Marsi, Frentani, Sabini, Sanniti; V. il Piceno; VI. l'Umbria; VII. l'Etruria; VIII. la [277] Gallia Cispadana con Ravenna, eretta, come poi Venezia, fra canali del mare; IX. la Liguria; X. la Venezia coi Carni, gli Japigi e l'Istria; XI. la Gallia Transpadana con Milano, cui mettevano capo le strade dell'Italia continentale, e Padova, e Aquileja, sempre più importanti per la vicinanza alla frontiera germanica. Roma formava un governo distinto, sotto il prefetto della città. Le alpi Marittime costituivano una provincia separata. La Sicilia, benchè già da Antonio avesse ottenuto la cittadinanza, rimaneva provincia colla Corsica e la Sardegna. Ma quella Sicilia che, due secoli fa, Cicerone dipingeva fertilissima e laboriosa, era ita a tracollo per le guerre civili e le servili; le cinque città di Siracusa riduceansi ad una sola, Enna era spopolata, cadenti i tempj, incolte le piaggie. Chi da quella tragittasse sul nostro continente, a Pozzuoli trovava uno de' porti più operosi, emporio del commercio del Mediterraneo, e approdo di tutte le flotte mercantili; e nei contorni molle eleganza di ville, di bagni, dove i cittadini di Roma venivano a ricrearsi dalle cure o a solleticare il rintuzzato senso de' piaceri.

Ma quelle pendici dell'Appennino che avevano nutrito i Sabini, i Sanniti, gli Equi, i Latini, più non offrivano che cadaveri di città; i cinquantatre popoli del Lazio scomparvero, o reliquie ne restavano così scarse, che gli uni più non si discendevano dagli altri. Che dirò di quella Magna Grecia, che emulava le glorie e la potenza della Grecia vera? Già i curiosi andavano a rintracciarne le memorie; e qualche vecchio additava loro, — Qui fu Canusio, colà Argirippa, le due maggiori città; questi villaggi erano le tredici città della Japigia, di cui rimangono sole Brindisi e Taranto; ma quest'ultima, benchè Nerone v'abbia posto abitanti, è spopolata, come tutto quello sprone d'Italia».

Ivi non arbitrio di governatori, non tributo; le autorità [278] municipali facevano eseguire le leggi supreme: ma, come avviene sotto gli imperj, il reggimento cittadino andava foggiandosi ad aristocrazia, scegliendosi i magistrati non più fra il popolo ma fra gli illustri, e la giurisdizione limitandosi a piccole somme. Dopo Trajano, cominciò l'Italia a ridursi poco meglio che le altre provincie; cui si potè dire pareggiata allorchè Adriano la commise al governo di quattro consolari.

La cittadinanza privilegiata diventava un nome già sul fine della repubblica, quando Cesare la comunicò a tutta Italia e ad intere provincie. Anche i servi divenendo liberti, entravano nella società politica del loro patrono: ma acquistando i privati diritti di cittadino, rimanevano esclusi dagl'impieghi e dal servizio militare, nè ammessi al senato fin alla terza o quarta generazione.

Augusto trovava quattro milioni e censessantatremila cittadini; ma cessato col sistema delle conquiste il bisogno d'accrescerli onde reclutare fra essi le legioni, e perchè non isvantaggiasse il fisco per la troppa abbondanza degl'immuni, restrinse la facoltà di render cittadini gli schiavi manomessi, accettandovi soltanto magistrati e i grandi proprietarj delle provincie. Con ciò si traeva al corpo dominante il fiore di tutto lo Stato, e si assodava la potenza imperiale: ma alle legioni, in cui non entravano che cittadini, Augusto fu costretto arrolar di nuovo liberti e schiavi onde proteggere le colonie attigue all'Illiria e le frontiere del Reno. Mecenate gli consigliava di attribuire la cittadinanza a tutti i sudditi, col che, cancellati i reggimenti municipali, ridurrebbe l'impero all'unità monarchica: ma l'andare i cittadini esenti da tassa prediale, da dogane e pedaggi, fece gl'imperatori avari di questa concessione. Pure i successori d'Augusto, che più non aveano occhio parziale per Roma, lasciarono dilatare la cittadinanza; e i magistrati municipali, uscenti di carica con annua [279] vicenda, la acquistavano per diritto; oltre quelli che ben meritassero in qualsivoglia modo.

Quando l'interesse patrio o la gloria cessarono di spingere i cittadini alle armi, le legioni si dovettero empire di gente nè italica nè cittadina, e affidarne il comando a stranieri; poi ricompensare i servigi dei legionarj coll'introdurli nella città, elevarli ai primi onori, e lasciare si traessero dietro parenti ed amici; talchè esercito, senato, magistrati più non furono romani che di nome. Claudio ammise in senato molti peregrini, cioè sudditi non cittadini: eppure questi sotto di lui sommavano a 5,684,072 secondo Tacito, o, secondo Eusebio, a 6,945,000. Tanta profusione, perchè i favoriti ne facevano bottega: ma intanto le entrate pubbliche ne scapitavano, onde bisognava ristorarle con confische e proscrizioni. Nelle provincie poi i possedimenti s'andavano restringendo in mano de' cittadini, cui questo titolo rendeva immuni dai tributi. Però sotto Galba l'esenzione de' cittadini recenti fu limitata ad alcune imposte; poi dopo Vespasiano pare che i provinciali ammessi alla città non restassero immuni da nessun aggravio.

Il titolo di cittadino più non dovette essere ambito dopo che non l'accompagnavano le prerogative d'occupar soli le cariche, di non essere giudicati se non nell'assemblea del popolo, di non pagare tributo, di decretar la guerra e la pace; nè conferiva quasi altro che il benefizio di non esser catturato per debiti e di appellarsi all'imperatore. Quel di partecipare ai donativi e alle largizioni pubbliche, valeva in Roma: per gli altri, a che mai riducevasi in tanta estensione e lontananza? Gravoso, al contrario, tornava ai cittadini il dover militare, non contrarre nozze con forestieri, restar esclusi dalle eredità intestate fuorchè in grado di prossima agnazione; oltre alcuni accatti, che sopra soli cittadini pesavano. [280]

L'atto di Caracalla d'estendere a tutti i sudditi la cittadinanza non fu che un sottoporre i provinciali a tutti i pesi de' cittadini: e allora s'intepidì l'amore per una patria accomunata a tutto il mondo; cresciuto l'arbitrio degl'imperatori e la violenza de' soldati col logorarsi l'autorità del popolo e la dignità del senato, si moltiplicarono le guerre, interne eppure non civili, dove si trattava di mettere in trono o d'abbattere un capitano forestiero, estranio ai sentimenti ed al meglio della nazione e dell'impero. Le consuetudini venivano alterate da eterogenei elementi, dal sedere a capo dello Stato uno straniero, fors'anche un barbaro. E se pure sorvivevano in alcuni le tradizioni liberali, attinte dall'educazione, dalla letteratura, dalle memorie che li circondavano, servivano soltanto a far sentire viepiù quel despotismo, che da un giorno all'altro poteva confiscare i beni, e mandar l'ordine d'uccidersi. Oppressione più disgustosa perchè sussistevano nomi e forme repubblicane, a titolo di libertà e di pubblica sicurezza si davano le accuse di alto tradimento, e questo punivasi in quanto l'imperatore rappresentava il popolo, come investito della podestà tribunizia. Quanta avea dunque ad essere la costernazione di quelli che sentivano tanto nobilmente, da non voler tuffare il dispetto nelle voluttà! E a qual partito potevano appigliarsi? Fuggire? ma dove, se tutte le terre civili erano sottoposte a Roma?

Che se alcuna volta mai, allora apparve evidente come il pubblico bene rampolli piuttosto dalle istituzioni che da rettitudine de' principi. Roma n'ebbe di ottimi, ma nè poteva tampoco goderli con fiducia, pensando che o lo stesso potrebbe domani mutarsi in un mostro, o venire soppiantato da pessimo successore, dipendendo ogni cosa dalle qualità del monarca.

Si nomina una lex regia, in forza della quale venisse [281] conferito il supremo potere all'imperatore: ma non consta che mai sia esistita; quel nome certamente non sarebbe potuto soffrirsi ne' primi tempi dell'impero, e forse venne adottato sol quando, sotto Giustiniano, furono compilate le Pandette. Che se una legge generale avesse creato un potere supremo, non sarebbe più stato mestieri di conferma: mentre invece sappiamo che gli atti di ciascun imperatore non reggevano dopo la morte di lui se non gli avesse approvati il senato, depositario in diritto della sovranità, la quale nel fatto stava all'arbitrio d'un solo. Pure sembra che a ciascun eletto venissero conferiti i poteri sovrani, quasi per dargli un'origine legale[241]. Probabilmente in questi [282] senatoconsulti veniva egli dispensato da certe leggi, come la Papia-Poppea: il che faceva dire troppo largamente che il principe venisse prosciolto d'ogni legge[242].

La sovranità però consideravasi sempre emanare dal popolo, e fin tardi si trovano menzionati i comizj, e leggi fatte in essi. Sussisteva anche la tribù, e nelle iscrizioni troviamo sempre indicato a quale il personaggio appartenesse: ma sì scarsa n'era la significazione, che alcuni si mutavano dall'una all'altra per eredità, per adozione, per una carica assunta, fin per mutato domicilio[243]. I municipj pregavano gl'imperatori o i cesari di accettar le cariche comunali, ed essi vi mandavano de' vicarj.

La giurisdizione criminale e l'amministrazione esterna [283] d'alcune provincie competevano al senato: esso nominava i consoli, i pretori, i proconsoli; attendeva alla riforma delle leggi, talora sovra proposizione de' medesimi imperatori. Tiberio parve aggiunger nerbo al senato coll'attribuirgli i giudizj di offesa maestà e la nomina de' magistrati, sottratta al popolo; ma in effetto egli non intese che di riversare su quello i suoi atti odiosi. Quanto l'impero resse, il senato conservò il diritto di censurare e deporre il capo dello Stato se abusasse dell'autorità; ma, pusillanime e discorde, non l'esercitò mai se non contro i caduti: condannò Nerone quando già era fuggiasco; esecrò Caligola, Comodo, gli altri quando la morte aveva interrotte le sue adulazioni. Quei senatori, col vendere le cariche, imparavano a vendere anche se stessi all'imperatore; chiusa la via d'acquistar fuori così sterminate ricchezze, e pure durando le spese e crescendo il lusso, tiravano a meritare la liberalità del principe, o fuggirne l'ira coll'andargli a versi: laonde Tiberio lagnavasi beffardamente che si mostrassero troppo ligi ad ogni suo talento.

Eppure la memoria di quel che era stato bastava a renderlo sospetto agl'imperatori, che, buoni e malvagi, s'industriarono a torgli fin la possibilità di ridestare le ragioni antiche; contro patrizj e senatori aguzzavansi i ferri e le spie; Caligola, battendo sulla spada, esclamava, — Questa mi farà ragione del senato»; l'adulatore diceva a Nerone, — T'ho in odio perchè sei senatore»; e l'assassino a Comodo, — Il senato ti manda questo pugnale»; Domiziano protestava non si terrebbe sicuro finchè pur un senatore sopravivesse; e volendo avvilirli intantochè venisse l'ora d'ucciderli, manda una volta convocarli in gran diligenza, poi, come sono seduti nella curia, li consulta in qual salsa convenga condire un enorme rombo portatogli dall'Adriatico. Fin Claudio tutti gli atti politici diresse a [284] crescere l'autorità imperiale a scapito delle magistrature curali: estenuò al senato il diritto di chiarir guerra e pace, ascoltare ambasciatori, e decidere dei re e dei popoli stranieri: ai consoli sottrasse il giudizio di certi affari criminali, sicchè poco più facevano che dare il nome all'anno: nei pretori, cresciuti a diciotto, trasferì in gran parte la giurisdizione criminale; ma tolta loro la custodia del tesoro, affidolla ai questori, ai quali di rimpatto tolse le prefetture d'Italia che abolì, ed impose il grave obbligo di dare spettacoli gladiatorj quando ottenevano il posto: lasciò che i cavalieri all'ombra del trono usurpassero i giudizj, cioè quel diritto per cui s'erano combattute le guerre civili sotto Mario e Silla.

I tribuni non furono meglio che ispettori al buon ordine; e acquistò importanza il prefetto della città, che dal buon governo passò alla giurisdizione criminale, poi proferì in appello sui giudizj ordinarj anche in materia civile. Adriano commise l'amministrazione dell'Italia a quattro consolari; cavalieri romani tenne per segretarj e referenti, e pel proprio consiglio; un avvocato del fisco fece assistere a tutte le cause concernenti l'erario imperiale; coll'Editto Perpetuo semplificò la legislazione; e diede esempio a' successori suoi di riguardar lo Stato come cosa loro propria, e di prendere fidanza a qualunque innovamento. Il consiglio del principe, come anima del Governo, emanava decreti sotto la presidenza dell'imperatore, e formava una corte d'appello supremo. Al senato dunque che cosa restava? di decretare quali nuovi numi dovesse Roma salmeggiare.

In un corpo non eletto dal popolo, non sostenuto da truppe, la depressione nè trovava contrasto nè eccitava lamenti. Accomunati i diritti alle provincie lontane, v'entravano persone stranie affatto alle memorie della libertà e della repubblica, e devotamente riconoscenti agl'imperatori. Già l'ordine di Claudio che priva della [285] dignità equestre chi ricusi la senatoria, mostra come fosse divenuto un peso quel che prima costituiva la suprema ambizione; e sotto Comodo si disse che un tale «fu relegato nel senato». Invece dunque di presentarsi custodi della tradizione e tutori della libertà, i padri coscritti coll'esempio e colle dottrine confermarono l'assoluta padronanza del monarca sopra la vita e i beni. Dione si direbbe scrivesse la sua storia a quest'unico intento; i giureconsulti diedero legale fondamento all'esorbitanza imperiale; e la monarchia al tempo di Severo potè gettare la maschera, di cui Augusto l'aveva coperta.

Gl'imperatori, per togliersi gl'impedimenti della nobiltà privilegiata, promossero le ragioni della comune natura umana, favorirono i peculj de' figliuoli di famiglia e le emancipazioni, ampliarono gli effetti e restrinsero le solennità delle manumissioni, migliorarono la condizione degli schiavi a fronte dei padroni. Anche in ciò il capo dello Stato operava in senso popolare, col voler tutti eguagliati nel diritto, umiliare i prepotenti, non concedere privilegi a particolari persone, ma erigere alle dignità chiunque ne paresse degno, garantire la moltitudine da oppressioni private, e tenerla soddisfatta circa i bisogni della vita e gli usi della libertà naturale. Lo zelo degl'imperatori per la giustizia civile riparava a non pochi altri abusi, incuteva salutare apprensione ai magistrati, e avvicinava ognor più il diritto all'equità naturale e al senso comune. In tal modo progrediva l'umanità anche fra codardi patimenti, e col gran nome dell'impero estendevasi l'idea dell'eguaglianza sotto un unico governo, opposta a quanto praticò l'antichità, e che dovea costituire l'indole delle società moderne.

Coll'impero cangiarono aspetto anche le finanze. Le spese furono a dismisura aumentate dal mantenere un [286] esercito stanziale ed una corte[244], dal pagarsi gl'impiegati, e dalle crescenti distribuzioni di grano; ignorando quegli augusti che il mettere i poveri in grado di comprare il vitto coll'aumentare i lavori costa meno che non l'abbassare i prezzi del grano. È peccato che siasi perduto il Rationarium totius imperii, dove Augusto avea divisato l'entrata e l'uscita[245]; e fra le divergentissime opinioni, la media darebbe novecentosessanta milioni di lire d'entrata generale. Vespasiano, principe economo, diceva l'amministrazione e la difesa dell'impero costare quattromila milioni di sesterzj, cioè ottocento milioni di lire l'anno[246]: or che doveva essere sotto imperatori pazzamente scialacquatori?

Augusto effettuò l'idea di Giulio Cesare di far misurare tutto l'impero; e Zenodoxo in trentun anno e mezzo compì la misura delle parti orientali, Teodoto quella [287] delle settentrionali in ventinove e otto mesi, Policleto delle meridionali in venticinque e un mese. Balbo coordinò in Roma i loro lavori, ed eretto il catasto, prescrisse i regolamenti censuarj. Agrippa, preside a questa grand'operazione, ne trasse un mappamondo, che fece dipingere sotto il portico d'Ottavia, sicchè ciascuno potea vedervi l'estensione dell'impero: i governatori delle provincie riceveano la descrizione del loro paese colle distanze, lo stato delle strade grandi e delle vicinali, delle montagne, dei fiumi.

Contemporaneamente si fece per tutto l'impero il registro delle persone coi loro beni mobili e immobili, bestiame, schiavi, affittajuoli, casiliani, e il numero, il sesso, l'età de' figliuoli: il qual censo dovea rinnovarsi ogni decennio, e serviva di base al riparto dell'imposta. Un censitore e un perequatore riceveano i reclami, e rettificavano gli errori; la falsa dichiarazione era punita colla morte e la confisca; ogni cambiamento di possesso doveva notificarsi; e poc'a poco si perfezionò quest'azienda in modo, che il vastissimo impero restava regolato con altrettanta diligenza quanto una piccola casa[247].

Ma l'impero non possedeva gli spedienti, pei quali i moderni possono levar tanto denaro senza gravissimo incomodo: dall'imposta personale, la più rilevante, rimanevano esenti sei o sette milioni di famiglie romane, che erano le più ricche; le altre rendite appartenevano a quelle di difficile e costosa esazione, dove è facile la frode, e dove il prodotto diminuisce se la tassa si aggravi.

L'Italia dapprima andava immune da imposta fondiaria stabile (numerarium); l'Italia annonaria doveva una prestazione in derrate; dell'ager provincialis era [288] carattere un tributo fondiario, variante di misura e condizione: ma gl'imperatori adottarono una base uniforme; poi l'Italia, come dicemmo, cessò d'essere privilegiata. Già anche a questa Augusto aveva imposto gabelle e tasse sulle vendite, e una generale sui beni e sulle persone de' cittadini romani, che da un secolo e mezzo non pagavano aggravj; anzi talmente pesavano le imposte, che gl'imperatori trovavansi costretti ogni tratto a condonare ingenti debiti ai privati. Sulle somme, sopra le quali nasceva litigio, prelevavasi il due e mezzo per cento; tasse imponeansi sui mercati, gli artigiani, i facchini, le meretrici, sulle latrine pubbliche, sull'orina, sul concio di cavallo; ogni sorta mercanzie entrando pagava di dazio dal quarantesimo fin a un ottavo del valore; e grandioso doveva esserne il ritratto quando dall'India si traeva annualmente per ventiquattro milioni di lire in merci, esitate a Roma al centuplo del valore primitivo[248].

La tassa sulle vendite non soleva eccedere l'un per cento, ma non v'avea sì minuto oggetto che vi si sottraesse. Era destinata a mantenere l'esercito; poi non bastando, s'introdusse la vicesima, cioè un cinque per cento sopra tutti i legati e le eredità eccedenti una certa somma, e che non cadessero nel più prossimo parente. Tra famiglie ricchissime, dove la rilassatezza dei legami domestici faceva spesso ai proprj figliuoli preferire i liberti o gli estranei che avevano saputo blandire le passioni o accontentarle, quella tassa riusciva talmente ingorda, che nel volgere di pochi anni versava l'intero retaggio nell'erario. Molto pure ingrassavano il fisco le multe della legge Papia-Poppea contro gli smogliati.

Secondo il genio degl'imperatori e col crescere dei bisogni aumentarono tutte le imposizioni e fisse ed [289] eventuali; sussistette sempre l'abuso d'affittarle ad appaltatori, de' cui gravi e feroci abusi enormemente soffrivano i sudditi. Era caduco al fisco, 1º tutto ciò che, in forza di testamento, avrebbe dovuto toccare a persona premorta alla pubblicazione di quello; 2º le donazioni e i legati a persone indegne, o sotto illecite condizioni; 3º quel che venisse ricusato dall'erede o legatario, come spesso avveravasi nei casi di ribellione, per non mostrarsi amici del reo; 4º quanto fosse lasciato in testamento a celibi che entro un anno non si fossero ammogliati, e metà de' lasciti fatti a consorti senza figli; in fine quanto sarebbe toccato a chi sopprimeva un testamento, o impediva alcuno dal testare liberamente.

Oltre le frequentissime colpe di Stato, portavano la confisca innumerevoli delitti; e fra questi il parricidio, l'incendio, la moneta falsa, il ratto, lo stupro, la pederastia, il sacrilegio, la prevaricazione, il peculato, lo stellionato, il monopolio, e l'incetta del grano destinato a Roma o all'esercito, il plagiato, ossia l'attentare contro l'altrui libertà. Così punivasi il magistrato che subornasse testimonj contro un innocente, il padrone che esponesse gli schiavi nell'anfiteatro, i falsarj; e dopo Alessandro Severo gli adulteri, chi evirasse o si lasciasse evirare, chi supponeva un bambino, chi usava violenza armata mano, chi mutava domicilio per sottrarsi al tributo, chi prendeva denaro a prestanza dalle pubbliche casse, chi occultava i beni d'un proscritto, chi trasportava oro fuori dell'impero o vendeva armi a stranieri, chi di mala fede acquistava una cosa in litigio, chi vendeva porpora, o apriva il testamento d'un vivo, o spogliava de' suoi ornamenti un edifizio urbano per abbellire una villa. E tanti erano i beni ricadenti al tesoro per legge o per confisca, che s'istituirono procuratori de' beni caduchi per raccorli ed amministrarli nelle provincie; carica non già di gente di vile affare, ma [290] affidata a persone di gran recapito, e sino a consolari.

Diritto particolare dell'imperatore era il batter moneta d'oro e d'argento: di rame potè farne il senato fin a Gallieno: le colonie e alcune città conservarono il privilegio di monete particolari. Le terre dell'antico agro pubblico in Italia erano occupate da colonie e specialmente da militari, sicchè non davano verun frutto diretto allo Stato. Anche nelle provincie i dominj pubblici erano stati in gran parte usurpati durante la guerra civile da privati; Augusto e i successori fecero altrettanto, ingrandendo il possesso del principe, che fruttava unicamente pe' favoriti. S'introdussero poi regalie a vantaggio dell'imperatore, e fabbriche d'armi, di stoffe, di gomene, tinture, dorature, nelle quali adopravansi soli schiavi imperiali. Anche pingui legati soleano farsi agl'imperatori; e se per tal via Augusto raccolse in vent'anni quattromila milioni di sesterzj, pensate che dovessero fruttare sotto imperatori ribaldi, alcuni dei quali cassavano i testamenti ove non si trovassero considerati! Pure talvolta l'erario difettava; e Marco Aurelio si trovò in tali strette, che fece vendere all'asta gli ornamenti della reggia, i vasi preziosi, le gemme, fin le vesti di sua moglie; poi, finita la guerra, invitò i compratori a restituirli al prezzo stesso, e a chi ricusasse non risparmiò vessazioni. Operazione che noi avremmo semplificata mediante viglietti del tesoro.

La servitù era abbellita da tutti i vantaggi compatibili colla tranquillità. In ogni parte sorgevano fabbriche, le cui reliquie formano la meraviglia di noi tardi nipoti; quali per opera de' magistrati, quali dei Comuni, quali ancora dei privati: a quelle de' Cesari i sudditi erano obbligati a contribuire braccia e carri. Tali edifizj ci porgono una riprova del sistema politico antico, pel quale si aveva ogni riguardo alle città, nessuno alla campagna. Dopo il medioevo, non trovi [291] spazio ove non sorga un villaggio con una chiesa, un palazzo o un castello: allora invece tutto concentravasi nelle città, alle città mettevano capo le grandi strade, senza quella rete di minori che oggi congiungono le minime borgate: insomma allora i cittadini, ora il popolo; allora pochi privilegiati, ora chiunque è uomo.

Chi dunque, abbagliato da tali splendidezze, giudicasse ricchissimi quei nostri antenati, dimenticherebbe che non le molte dovizie accumulate in mano di pochi, ma la equabile diffusione di ciò che serve alle necessità, ai comodi, forma la prosperità delle nazioni.

La violenza poteva esser la colpa d'un proconsole o d'un imperatore, non era il carattere della dominazione romana, troppo aliena dal volersi fondare soltanto sull'esercito, sulla polizia, e regolamentare tutto. Pertanto nell'Italia e nelle provincie restava luogo a dignità e ad autorità più che in Roma; e il municipio conservava una vita che era scomparsa dalla metropoli; n'era rispettata l'indipendenza; la legge municipale rimaneva illesa dai capricci dell'imperatore e dalle sottigliezze de' giureconsulti; liberamente vi si faceano le elezioni, teneano adunanze: gli Olconj e gli Arrj a Pompej, i Sergj a Pola fabbricavano portici, archi, anfiteatri, come ne' bei tempi a Roma i Pompei ed i Lentuli; ai Nonj, ai Celsinj, ai Balbi, ai Vitruvj ergeansi monumenti in Pompej, in Ercolano, in Verona, quando a Roma le onorificenze erano serbate a cesare.

Già accennammo in che modo i possessi mutassero di padroni, dal che sotto l'impero trovaronsi innovate l'economia e le finanze. Gli antichi aristocrati per tradizione seguitavano a coltivare i campi per mano di schiavi, diretti da schiavi: i nuovi, non pensando che a godere in lusso le sfondolate dovizie, davano i beni a fitto a lavoratori nati liberi, che li coltivassero a proprie spese e pericolo. Ordinariamente l'affitto facevasi per [292] cinque anni, e pagavasi in denaro, e a proporzione degli schiavi ond'era vestito il podere.

Divenendo sempre più difficile l'affidare la direzione de' proprj beni a fittajuoli liberi e garanti, dopo il II secolo s'introdusse un metodo nuovo d'economia rurale, mutando lo schiavo in colono servile, permettendogli di menar moglie, tenere figliuoli, disporre del suo peculio, purchè retribuisse un canone annuo: da ciò sarebbe potuta venire la redenzione dello schiavo; ma poichè sempre maggiore facevasi la sproporzione fra poveri e ricchi, e l'aumentava la fiscalità introdotta coi crescenti bisogni della repubblica, si venne a temere che il proprietario vendesse gli schiavi e lasciasse incoltivati i campi. Fu dunque provveduto che il colono restasse colla sua discendenza affisso alla gleba, e con essa venduto: il che, oltre ribadire la schiavitù, produsse una funesta disuguaglianza nella distribuzione dei lavoratori, accumulati in alcune contrade, mentre altre ne rimanevano deserte. Pertanto al fine di quest'età giacevano selvatiche le campagne, esercitate un tempo dalla popolosa solerzia degli Equi, de' Sabini, de' Volsci, degli Etruschi, de' Cisalpini; altri immensi spazj erano occupati da giardini d'infruttifere voluttà, ai quali aggregavansi via via i camperelli vicini, i cui proprietarj correvano a Roma a sprecar quel poco ricavo, per poi ridursi alla limosina. Svigorita dalla lunga coltivazione a braccia, nè sufficientemente rianimata dalla concimazione, la terra poco rendeva; un cattivo sistema di rotazione agraria, la coltura resa costosissima dall'imperfezione de' metodi e degli stromenti, per cui richiedeasi il quadruplo delle braccia odierne, le meschine strade vicinali, bastanti appena ai somieri, il divieto di asportar grani e l'incoraggiamento a importarne di stranieri, rendevano cattiva speculazione la coltura a grano, talchè Catone la colloca appena al sesto luogo, [293] e preferivansi i pascoli, che non importano spese; sebbene vogliasi dimostrato che i migliori non rendevano più di sessanta franchi per arpento[249].

Un paese la più parte montuoso come il nostro, non può prosperare che mediante la piccola coltura a mano, la quale si vantaggia de' più angusti spazj, e varia a seconda del terreno e dell'esposizione; come non è possibile colle macchine o con una direzione in grande. Sparendo dunque la proprietà minuta, diminuivano sempre più la ricchezza d'Italia e la popolazione laboriosa ed onesta: donde quel detto di Plinio, che i latifondi furono la rovina dell'Italia. Che se ci si opponesse l'Inghilterra, ricchissima malgrado gli amplissimi poderi, mentre è misera la Corsica ove sono sminuzzati, faremmo riflettere come della popolazione inglese appena un quarto attenda ai campi, il resto vive dietro al commercio e all'industria; e che l'estensione delle praterie è proporzionata colle terre a biada, e i numerosi armenti offrono abbondanza d'ingrassi. Vero è bene che sono gli uomini che fecondano la terra; e dove nulla li impedisca di giungere alla ricchezza per via della fatica, ne seguirà un generale prosperamento. Allora, come oggi, v'avea piagnoloni che ripeteano essere isteriliti i campi, peggiorata la temperie del cielo, spossata la natura dal lungo produrre. Ai così fatti Lucio Giunio Moderato Columella da Cadice rispose, che la colpa consisteva nel lasciare trascurato lo studio dell'agricoltura: — V'ha scuole di filosofia, di retorica, di geometria, di musica; v'ha persone occupate in null'altro che preparare cibi pruriginosi, altre in acconciare i capelli, e nessuno che insegni l'agricoltura. Eppure senz'arti di diletto abbastanza felici furono un tempo e saranno dappoi le città; ma senza agricoltori [294] gli uomini non possono reggere nè alimentarsi. E qual via migliore di conservare e di crescere il patrimonio? Che se oggi men frutta la terra, non è spossatezza, come alcuni si danno ad intendere, nè invecchiamento, ma inerzia nostra».

Stese dunque un trattato De re rustica, il cui primo libro discorre dei vantaggi e dei piaceri dell'agricoltura; il secondo dei campi, del seminare e mietere; il terzo e quarto delle vigne e degli orti; il quinto del dividere e misurare il tempo; poi degli alberi, del bestiame grosso e minuto e delle sue malattie, delle api e dei polli distintamente, dei doveri d'un buon fittajuolo; e finisce con istruzioni per chi attende all'economia rurale. Il decimo, in versi, tratta degli orti. Scrive puro, semplice talvolta sino al triviale, tal altra elegante sino all'affettazione; ma se diletta i letterati, poco o nulla istruisce l'agricoltore. Ai prati, che Catone riputava la coltura più lucrosa, Columella preferisce i vigneti, anche a confronto del grano[250]. Palladio compendiò poi quell'opera, distribuendo le fatiche agresti per ciascun mese.

Realmente però non si produce se non quando v'induca o la necessità o l'interesse. Ora, il denaro era [295] affluito in Italia, e in parte ancora vi si conservava, per modo che grandissime somme si richiedevano a far piccole imprese, mentre nelle provincie bastava a gran cose poco denaro. Traevasi dunque ogni genere da fuori; l'entrata era resa incerta dalle distribuzioni gratuite che si moltiplicavano, la munificenza dell'imperatore o de' ricchi strozzando la speculazione privata: poi monopolj, poi tesori gettati dalla vittoria improvvisamente in circolazione, alteravano di punto in bianco il valore delle derrate che il proprietario mandasse sul mercato. Sfruttata l'Italia, si dovettero cercar di fuori anche il vino e la lana, già vantata produzione degli armenti dell'Apulia, di Parma e dell'Euganea[251]; e alle precipue famiglie erasi accomunato il lusso, un tempo regio, di adoperarla tinta di porpora, quale veniva da Tiro, dalla Getulia, dalla Laconia, al costo fin di mille dramme la libbra.

Nel tempo che, o per ingegni fiscali o per necessità, si trasformava così l'agricoltura, anche l'industria subiva un radicale mutamento. L'associazione, eretta in istituzione pubblica, s'incontra in ogni dove al nascere e al decadere delle società; determinata in prima dalla debolezza, stretta poi dalla tirannia; e per sostenere l'esterna concorrenza, o per riparare all'interna dissoluzione; sempre a scapito dell'individuale libertà. Le corporazioni d'operaj liberi, antichissime in Roma, non avevano potuto prosperare, perchè ogni ricco teneva in casa chi fabbricasse quanto occorreva a' bisogni od al lusso. Tardi la gente nuova affluente a Roma s'accôrse che una stoffa od un utensile comprati alla bottega costavano meno che non fabbricati da' proprj schiavi, onde venne ad abbandonarsi l'industria servile [296] casalinga; il che moltiplicando i liberi lavoranti, avrebbe coadjuvato al sistema d'uguaglianza, adottato dall'impero. Ma la libertà che erasi tolta a' campagnuoli non volle lasciarsi a quella folla d'artigiani; e sotto aspetto di darvi un ordine, furono incatenati ciascuno al loro telonio, come i coloni alla gleba. Senz'idea della libera concorrenza, e reputando necessario che la legge intervenga dappertutto per assicurare quella pubblica prosperità, cui oggi noi crediamo bastare l'accorgimento del privato interesse, si riformarono le corporazioni, costituendo in ciascuna città quelle che reputavansi necessarie acciocchè ben servito rimanesse il pubblico; alle principali se n'aggiunsero d'accessorie, e vennero graduate categoricamente, considerando come privilegio il passare dall'una all'altra. L'imperatore o il Comune o i consociati costituiscono un fondo sociale; e stante che può parteciparvi anche chi nulla vi reca, ed ogni uom libero può entrare in una di queste comandite, ne consegue che anche il minimo lavoro acquista prezzo. Ma che? l'associato non può nè vendere nè lasciare il suo peculio se non ad uno del collegio stesso, talchè l'industrioso appartiene al suo uffizio, non l'uffizio all'industrioso come oggi. Inoltre diede appiglio ad uno degli sciagurati spedienti, a cui ricorreva l'ingordigia del fisco; perocchè ciascuna di esse scuole veniva gravata d'enormi imposizioni, dovendo, oltre le gabelle di vendita e pedaggio, la collazione auraria, così detta perchè pagavasi in oro, e vi erano obbligati in solido tutti i membri, tenendosi per essa ipotecati tutti i beni stabili della comunità.

Mancavano dunque molte delle sorgenti di ricchezza, per le quali da noi in continua operosità si rinnova sempre la classe media. La proprietà fondiaria scapitava ogni giorno di valore, la fatica agricola perdeva occasioni, capitali non aveansi che ad esorbitante interesse; [297] talchè l'agiatezza popolare diminuiva più sempre, e vi sottentrava la miseria.

Fra ciò cresceva il lusso, e moltiplicavansi i ministri dell'opulenza e delle lascivie. Veri eserciti di schiavi popolavano le case de' primarj, tanto che bisognava un nomenclatore per rammentarne il nome. Dall'Italia, da tutto il mondo concorreva gente a Roma per vivere di largizioni o d'infamia. Nutrire e contentare la folla doveva essere il pensiero supremo degl'imperatori, che perciò traevano continuamente grano dalla Sicilia, dall'Egitto, dall'Africa; e guaj al giorno in cui di là non giungesse pascolo a tante bocche. Sacra dicevasi la flotta che trasportava il grano all'Italia; esenti da ogni gabella le navi che afferrassero a Roma cariche di frumento; i principi quanto erano peggiori, tanto più largheggiavano, riponendo in ciò il buon governo e la giustizia[252].

Testimonio eloquente della miseria d'allora ci resta un editto di Diocleziano, che, in tempo di caro, prefigge il massimo prezzo della sussistenza e dei lavori[253]. Le cose necessarie alla vita costano da dieci a venti volte più che oggi; e sebbene la quantità del denaro e la scarsezza dell'industria levassero ad esorbitante prezzo il lavoro, un villano od un bracciante poteva appena colla sua giornata procurarsi un cibo grossolano ed insalubre. Gran fatto per una gente, tre quarti della quale era ridotta a nutrirsi di pane, formaggio e pesce, mentre Vitellio per la sua tavola consumava l'anno [298] censessantacinque milioni. Trajano, nel decreto conservatoci in una famosa tavola, destina un milione e cenquarantaquattromila sesterzj per comprar terre onde [299] nutrire ducenquarantacinque fanciulli e trentaquattro ragazze orfani e legittimi, oltre uno ed una illegittimi; assegnando ai maschi sedici sesterzj, e dodici alle [300] femmine ogni mese, cioè dodici e nove centesimi il giorno.

Unico mezzo di rifarsi sarebbe stato il commercio: e veramente i provinciali, abbastanza discosti dagl'imperatori per non sentirne le personali malvagità, e giovati dalla pace, volentieri dirizzavano al traffico i [301] loro figli da che era chiusa od angustiata la carriera pubblica, ed affinchè a minor contatto venissero coi pericolosi monarchi. Per la Mesopotamia, traverso al deserto, continuavasi la via, battuta fin dai primordj della società, verso i paesi delle spezierie e delle gemme: e una tariffa delle merci che allora traevansi dall'India, ce ne prova la variata qualità[254], attestata pure da un Periplo dell'Eritreo, che si attribuisce ad Arriano.

Quando Roma ebbe ridotto tutto il mondo sotto di sè, l'unità tolse via molti ostacoli e le interruzioni cagionate dalle gelosie e dalle guerre delle nazioni; quella direzione uniforme spinse e tutelò il commercio, e ancor più il bisogno di provvigionare l'innumerevole popolazione d'una metropoli ricca e voluttosa, che consumava senza produrre, che cercava con avidità le delicatezze orientali e quanto stuzzica il lusso ed il capriccio. L'incenso che fumava sui mille altari; gli aromi con cui s'ardevano i cadaveri, perchè anche il morire fosse costoso a chi era vissuto nelle suntuosità; i balsami onde le belle conservavano e riparavano i loro vezzi; le gemme in cui profondevansi interi patrimonj; la seta che reputavasi esuberante lusso per gli uomini fin dopo Elagabalo, erano i principali oggetti che si traevano dalle rive del Gange, mentre dal Fasi venivano i tessuti della Cina, venduti da Persi e Parti; da Dioscuria le produzioni dell'Eusino e del Caspio; dall'Etiopia profumi, avorio, cotone e fiere; porpora da Tiro. Delle spezierie tratte di là, il cinnamomo vendevasi millecinquecento denari la libbra; in proporzione la mirra, il nardo, il cardamomo, il garofano, la cassia balsamode, il calanco, il mirobalano, il mazir, il carcamo, il gizir, ed altre gomme o legni di cui si componevano gli unguenti. [302]

Gli Arabi non accettavano che monete; così i paesi del Gange e i Seri non bisognosi di cosa che loro manchi: talchè Plinio asserisce che almeno cento milioni di sesterzj (25 milioni di lire) migravano annualmente dall'impero in quelle contrade[255]. Computo impossibile a verificarsi, ma basti ad indicare l'enorme uscita del denaro romano, per cui tornava a paesi lontani quello che erasi portato nei nostri dalle vittorie e dai trionfi. Dovette l'uscita aumentare a proporzione del lusso, che giunse al colmo quando le Corti imperiali si moltiplicarono, e Diocleziano credette necessario mascherare col fasto orientale la decadenza.

Non che i Romani negligessero affatto il commercio come si dice[256], anzi ne' popoli soggetti lo favorivano di buone ordinanze e di libertà; adottarono la legge marittima de' Rodj, fecero spedizioni lontane, e ricevettero ambascerie da Seri, Sarmati, Sciti, Taprobani, vogliosi di tenere aperte le vie per cui tant'oro colava ne' loro paesi. Augusto, acquistato l'Egitto, ch'era lo scalo più frequentato alle produzioni dell'India, tentò nuove vie per arrivare a questa, ed Elio Gallo fece uscire una squadra di cenventi legni mercantili dal porto di Myoshormos sulla costa egizia del golfo Arabico, tracciando una via che altri seguirono[257]. A [303] quel porto i Romani conducevano ogn'anno per cinque milioni di mercanzie, e guadagnavano il centuplo: lo che rende ragione della gelosia con cui interdissero agli stranieri l'entrata nel mar Rosso.

I Romani sono i primi, di cui s'accertino comunicazioni colla Cina; e Cosma Indicopleuste afferma che i navigatori del golfo Persico passavano fin colà per difficile e lungo tragitto, e i Cinesi venivano nei porti dell'India e di esso golfo. Romani erano pure quei che faceano il traffico per tutto l'impero; e le città da loro stabilite in Germania attestano ancora uno scopo commerciale, sulla destra del Danubio o sulla sinistra del Reno, stando in faccia allo sbocco de' grandi fiumi che dall'interno paese recavano le produzioni naturali, come Treveri, Colonia, Bonna, Coblenza, Magonza, Strasburgo, Passavia, Ratisbona. L'Istria ci mandava vino dolce e fragrante; vino e legname la Rezia; schiavi l'Illiria; pelli, armenti, ferro il Norico. La Spagna ci porgeva abbondanza d'argento e d'oro, miele, cera, allume, zafferano, pece, canape e lino; e biade molte, e vini squisiti, e cavalli. Dalle Gallie traevamo rame, ferro, bestiame, lana, panni, tela, liquori, prosciutti. Le isole britanniche ci provvedeano di stagno e piombo. Ricco e variato era il traffico colla Grecia e coll'Asia Minore. E già il Settentrione ci spediva pelliccie, ambra, legname; all'uopo nuovi scali aprendosi da quelle bande (pag. 133).

Pure in tanta agevolezza di operare un attivissimo [304] commercio fra popoli che avea riuniti, il nobile romano non cessò di credere abjezione il portar le mani alle arti; ancora al tempo di Costantino teneansi infami quei che si applicassero a vendere di ritaglio e a guadagnare d'industria, e le figlie loro eguagliavansi alle saltatrici e alle schiave; Onorio e Teodosio vietarono a nobili e ricchi il mercatare, come cosa pregiudicevole allo Stato. Aggiungi che gli appaltatori delle pubbliche entrate impacciavano la circolazione con continue gabelle e pedaggi; altri compravano dagli imperatori il monopolio d'una o d'altra merce; infine l'industria venne rovinata dalle fabbriche imperiali, che vedremo introdotte.

CAPITOLO XLI. Coltura de' Romani. Età d'argento della loro letteratura.

Da Vespasiano a Marc'Aurelio diedero una nuova fioritura gl'ingegni; le lettere riprosperarono sotto i Flavj, le arti sotto Adriano, la filosofia sotto gli Antonini.

Dopo Augusto, piuttosto che scaduta, sarebbe a dire annichilata la letteratura, giacchè, se tu ne levi Fedro di sospetta autenticità (pag. 46), per mezzo secolo non appare scrittore romano. Eppure protezione ed ajuti non mancavano. Fu oggetto di lusso l'adunare biblioteche; ed oltre quelle d'Augusto aggiunte all'Apollo Palatino ed al portico d'Ottavia, Tiberio ne pose una in Campidoglio che non dovette perire nell'incendio di Nerone, come sembra perisse la Palatina, e come sotto Comodo fu dal fulmine consumata un'altra in Campidoglio[258], forse istituita da Silla. Nel tempio della Pace, insieme con monumenti d'arti e di scienze, Vespasiano [305] collocò una libreria, cui Domiziano arricchì tenendo continuamente copisti ad Alessandria. L'Elpia di Trajano fu poi trasferita nelle terme di Diocleziano. Altre si ricordano fino a quella di sessantaduemila volumi, che l'imperatore Gordiano III ricevè per testamento da Sereno Sammonico già suo maestro.

Alcuni imperatori promossero la coltura, sull'esempio di Cesare che conferì la cittadinanza ai medici ed ai professori d'arti liberali. Vespasiano pel primo assegnò sul tesoro ventimila lire l'anno a retori greci e latini, mentre se ne davano quarantamila a un sonatore e ottantamila a un attore tragico. Adriano protesse scienziati, letterati, artisti, astrologi; i professori incapaci metteva in riposo col soldo; e fondò l'Ateneo, che riuniva lettere e scienze. Antonino e Marc'Aurelio propagarono l'insegnamento anche nelle provincie, istituendovi scuole pubbliche di filosofia e d'eloquenza. La condizione dei maestri variò secondo la bontà e generosità degli imperatori: ma questi per lo più ne lasciarono la scelta e l'esame ai loro pari; ed è probabile che allora dovessero dar lezioni con regola e con seguito maggiore.

Se non che la pace non basta a rifiorir le lettere; anzi nell'uniformità del governo imperiale parvero addormentarsi gl'ingegni, come si spegneva lo spirito militare. Diffondeasi, è vero, l'amor del sapere; e non che la Gallia, la Germania e la divisa Bretagna conoscevano i capolavori, e contribuirono talvolta bei nomi alla letteratura: ma l'originalità non si svolge per favore de' principi o largizione de' privati. I filosofi si trascinavano sui passi dei vecchi, rimpastandoli in quell'eclettismo che è rivelazione d'impotenza; i letterati o imitavano servilmente, o, se volessero uscire dalle orme altrui, deliravano, avendo perduta la nazionale civiltà senz'essersi identificati colla nuova: i ricchi [306] stendevano appena la mano a qualche satira o libricciuolo galante: dei giovani che a Roma affollavansi a studio, i più lo facevano per sollazzo o libidine, tanto che per decreto più volte furono rimandati in patria: col titolo di filosofi e matematici v'affluivano astrologi e ciurmadori.

La filosofia non cessò i suoi esercizj, ma coi caratteri della decadenza, quali sono le controversie di parole e l'esitanza. Le dottrine italiche di Pitagora presero aspetto mistico ed ascetico, secondando la sensualità vulgare con apparato di miracoli e d'arcani, frequenza di sacrifizj, stupidità di magìa. Fioriva allora la scuola eclettica d'Alessandria, intenta a conciliar le varie, pretendendo supplire all'arte di Platone colla scienza d'Aristotele, all'inventiva coll'argomentazione, al raziocinio coll'erudizione, all'esperienza colla rivelazione. Quando poi sorsero i Cristiani a mostrare che i dubbj delle filosofie non reggono alle affermazioni del Vangelo, e l'una abbatte l'altra, e nessuna ve n'ha che sia efficace sulla morale, le scuole etniche parvero accordarsi nel vagliare da tutti i sistemi ciò che avessero di meglio, interpretando come fatti naturali i mitologici, come simboli le assurdità immorali: sterile elaborazione, nella quale, riconosciuta la impotenza della ragione, molte volte ricorreasi ad una superiore facoltà intuitiva, supponendo dirette comunicazioni cogli Dei, e dell'estasi facendosi via alla vera scienza.

Pochi filosofi teorici produsse l'Italia. Il pitagorico Sestio, al tempo d'Augusto, ricusò la dignità di senatore, e fu capo di una setta, che piena di romana vigoria è detta da Seneca, il quale ci conservò di lui questa bella immagine: — Come un esercito minacciato d'ogni banda s'ordina in battaglione quadrato, così al savio conviene circondarsi i lati di virtù, quasi sentinelle, per essere pronte ovunque pericolo accada, e far che [307] tutte obbediscano senza tumulto agli ordini dei capi».

Uno stoico meritevole di più rinomanza che non ne goda, ci pare Cajo Musonio Rufo di Bolsena, cavalier romano, involto nella congiura di Pisone, sbandito più volte, occupato a stornare ambiziosi dal cercar l'impero, e ad acchetare le guerre civili; lodato da Filostrato e da Giuliano imperatore come un modello di quelle virtù ch'essi pretendeano indipendenti dal cristianesimo, ma anche dai padri della Chiesa collocato a pari con Socrate. Non affettando una saviezza impossibile, un orgoglio repellente, vuole che il filosofo sia ammogliato; mentre Epitteto non osa interdire la dissolutezza, egli riprova ogni atto carnale che non abbia la sanzione del matrimonio e il fine di aumentar le famiglie; mentre Marc'Aurelio permette il suicidio, egli a Trasea che gli dice, — Amo meglio la morte oggi che l'esiglio domani» risponde: — Se tu guardi la morte come un mal maggiore, il tuo voto è da insensato; se come minore, chi t'ha dato il diritto di scegliere?» Con sapienza che risente del Vangelo dicea pure: — Evitate le parole oscene, perchè conducono ad osceni atti. Abbiate un abito solo. Se non volete far male, considerate ogni giorno siccome fosse l'ultimo di vostra vita. Dopo una buona azione, la fatica ch'essa ci costò è finita, e ci rimane il piacere d'averla fatta: dopo una cattiva, il piacere è passato, e resta la vergogna»[259].

Già ci son conti i dogmi di Marc'Aurelio e di Seneca. Di questo abbiamo tre libri Dell'ira, che possono raffrontarsi con quel di Plutarco sul soggetto medesimo; una Consolazione ad Elvia madre sua mentr'egli esulava in Corsica, un'altra a Polibio, una a Marcia per la [308] morte d'un figlio, i più antichi modelli di lettere consolatorie. Trattò del perchè male avvenga ai buoni, essendovi la Provvidenza, e conchiuse al suicidio. Ad Anneo Severo, coll'opuscolo Della serenità dell'animo, suggerì di rimediare alle irrequietudini coll'applicarsi alle pubbliche cure; dalle quali poi, con una delle frequenti sue contraddizioni, distorna Paolino nella Brevità della vita. Arieggia ai paradossi stoici il trattato Della costanza del savio, ove contende che questo non può rimaner tocco da ingiurie. Parlando a suo fratello Gallione della vita beata, si scusa delle ricchezze imputategli, e difende dagli Epicurei le opinioni stoiche sulla beatitudine. I tre libri a Nerone Della clemenza, di stile più nobilmente semplice, offrono esempj e precetti di quella che è dovere in tutti, e ne' principi lodasi come virtù perchè rara. Meriterebbe d'esser rifatto il suo discorso Dei benefizj, tanto aggiungendo ed applicando a ciò ch'egli dice intorno al modo di fare il bene, di riceverlo, di ricambiarlo. Le cenventiquattro Lettere sono altrettante dissertazioni su punti morali.

Seneca è pure contato fra gli scienziati; e sebbene le sue Quistioni naturali sieno un'indigesta accozzaglia e una verbosa esposizione di cognizioni empiriche sgranate, senza puntello di scienze esatte nè di proprie esperienze sistematiche, sono però l'unico libro che ci attesti avere i Romani posto mente alla fisica, e segna l'ultimo punto cui gli antichi l'abbiano spinta: sicchè molti secoli egli restò in Europa quel che Aristotele fra i Greci, il repertorio delle fisiche cognizioni.

I Romani, affatto positivi, voleano applicare immediatamente le teoriche; dal che restò pregiudicata la ricerca indipendente, nè verun grande pensiero scientifico fu da essi conquistato, nè per l'esperienza nè per la riflessione. Intesi alla pratica, la natura considerarono soltanto come oggetto dell'attività umana, onde non ne [309] indagarono l'essenza e le armonie, e di ben poco avanzarono la cognizione di essa. Con un dominio sì esteso avrebbero potuto strarricchire la scienza naturale: negli archivj palatini stavano preziose relazioni geografiche de' generali: troviamo accennate altre collezioni, ma nè diligenti nè dirette a scientifico intento.

La Storia della natura, sola arrivataci fra tante opere di Cajo Plinio Secondo (23-70), è un repertorio delle scoperte, delle arti, degli errori dello spirito umano, raccolte all'occasione di descrivere i corpi. Esibito nel primo dei trentasette libri uno specchietto delle materie e degli autori, nel secondo tratta del mondo, degli elementi e delle meteore; seguono quattro di geografia, poi il settimo delle varie razze umane e dei trovati principali; i quattro seguenti versano sugli animali, classificati giusta la grossezza e l'uso, e ragionando dei costumi loro, delle qualità buone o nocevoli, e delle men comuni loro proprietà. Ben dieci libri sono consacrati a descrivere le piante, la loro coltura e le applicazioni all'economia domestica e alle arti; poi cinque ai rimedj tratti dagli animali; altrettanti ai metalli, col modo di cavarli e di convertirli pei bisogni e pel lusso. A proposito di questo parla della scoltura, della pittura, e dei primarj artisti, come delle insigni statue di bronzo ragiona in occasione del rame, e le materie coloranti il recano a dire de' quadri, della plastica le stoviglie: distribuzione capricciosa e mal digesta, ove sempre il pensiero è sottoposto alla materia.

Ma Plinio non è un naturalista che raccolga, osservi, sperimenti, aggiunga al tesoro delle cognizioni precedenti; sibbene un erudito, che alle occupazioni della guerra e della magistratura sottrae qualche ora onde sfogliare libri: mentre pranza, ha schiavi che leggono; n'ha mentre viaggia; altri estraggono tutto quel che egli appunta, e gli tennero mano a compilare un lavoro, [310] che risparmiava tante letture, allora difficoltosissime. Così raccozzando senza genio nè critica, non distingue la diversità delle misure di lunghezza, mescola fatti contraddittorj, barcolla fra sistemi disparati, anzi opposti; non intende i passi, riferiti all'abborracciata, nè si cura di confrontarli colla realtà, onde descrivendo cose non vedute, riesce spesso inintelligibile; non si briga di riuscire compiuto e di non ripetersi; e attento a solleticare la curiosità più che a scoprire il vero, alla retorica più che alla precisione, sceglie ciò che ha del singolare e del bizzarro, beve assurdità già confutate dallo Stagirita. Nè sempre alle migliori fonti ricorre; e sopra le origini italiche ormeggia Giulio Igino, autore senza critica, mentre neglige i venti libri di storia etrusca, che sappiamo aveva stesi l'imperatore Claudio.

Pure l'essersi perduta la più parte delle duemila opere da esso spogliate il rende prezioso; e senza la sua farragine, quanta parte dell'antichità ci rimarrebbe arcana! quanto minor tesoro possederemmo della lingua latina![260] [311]

Gagliardo e preciso nel dire, ma lontano dal semplice e corretto de' contemporanei di Cesare, casca nell'affettato e nell'oscuro. Lo spirito dell'antica repubblica animava lui pure, siccome Trasea, Elvidio, Tacito e gli altri migliori, e di là attinge spesso calore e fin eloquenza: ma il gusto peggiorato e la gonfiezza delle parole fuorviano l'energica elevatezza del suo ingegno; giudica e spiega i fatti a seconda delle personali prevenzioni e di una filosofia atrabiliare, che assiduamente accusa l'uomo, la natura, gli Dei, colla retorica aggravando la miseria umana, col raziocinio scoprendo i disordini di questo mondo, senza elevarsi alle armonie di un altro, l'indagare il quale egli non trova di verun interesse; nega affatto Iddio, e lo fa tutt'uno colla materia; e s'avvoltola nello scetticismo fin a considerare l'uomo come l'essere più infelice e più orgoglioso, e insultare la divinità che «nè può concedere all'uomo l'immortalità, nè togliere a se stessa la vita, la quale facoltà è il dono più bello che essa abbia a noi lasciato»[261].

Mentre sbraveggia le religioni e la Provvidenza, indulge a superstizioni (pag. 180), crede come fatti incontestati (confessa, constat) a ermafroditi, a maschi cambiati in femmine, a fanciulli nati coi denti o rientrati nell'alvo materno, alla longevità di chi ha un dente di più, alla disgrazia di chi nasce pei piedi, a cavalle fecondate dal vento, a donne che partorirono elefanti. Egli vi dirà d'una pietra, la quale, posta sotto il capezzale, [312] produce sogni veritieri; che al morso di serpenti rimedia la saliva d'uom digiuno; che sputando nella mano si guarisce l'uomo involontariamente feritosi: un abito portato ai funerali mai non è intaccato dalle tarme; un uomo morsicato da un serpente più non ha a temere di api o di vespe; le morsicature d'un animale si esacerbano alla presenza di persona morsicata da un animale della specie medesima. Nè è stupore che v'abbia mostri così strani in Etiopia, avendoli formati Vulcano, abilissimo modellatore, giovato da quel gran caldo[262].

L'attrazione verso il centro della terra era stata asserita da Aristotele, accettavasi come una verità comune dai Romani, e Cicerone la esprimeva con esattissima felicità[263]. Plinio invece vi dirà che i gravi tendono al basso, i corpi leggeri all'alto; s'incontrano e per la mutua resistenza si sostengono: così la terra è sorretta dall'atmosfera, se no lascerebbe il suo posto e precipiterebbe al basso. Non solo rifiuta il sistema mondiale pitagorico, ma trova pazzia il supporre altre Terre ed altri Soli di là dal nostro, misurare la distanza degli astri, seminare d'infiniti mondi lo spazio[264].

Chi volesse (nè ammannirebbe impresa difficile) riscontrare l'età che descriviamo col secolo precedente al nostro, troverebbe somiglianza fra Plinio e gli Enciclopedisti in quel copertojo scientifico dato all'ignoranza e alla credulità, in quell'armeggio di sapere o mostrar di sapere, in quel ripudiare la luce che viene dalla vera fonte e che pure gli illumina, in quel professarsi materialista, e tuttavia per buon cuore giungere a conclusioni [313] benevole. Come gli Enciclopedisti, Plinio declama contro chi inventò la moneta; benedetti i secoli, ove altro commercio non si conosceva che di cambio; è un delitto la navigazione, la quale, non paga che l'uomo morisse sulla terra, volle mancasse perfino di sepoltura[265]. Eppure intravede la perfettibilità, e «quante cose non erano considerate impossibili prima che si facessero! confidiamo che i secoli avvenire si perfezionino sempre meglio»[266]. Tuttochè materialista, al nome di Barbari sostituisce quello d'uomini; rinfaccia a Cesare il sangue versato; loda Tiberio d'aver tolte di mezzo certe disumane superstizioni in Africa e in Germania; bofonchia contro quelli che il ferro ridussero in armi, pure della guerra riconosce i vantaggi, professando che l'Italia fu scelta dagli Dei per riunire gl'imperj dispersi, addolcire i costumi, ravvicinare in comunanza di linguaggio gl'idiomi discordi e barbari di tanti popoli, dare agli uomini la facoltà d'intendersi, incivilirli, divenire insomma la patria unica di tutte le nazioni del mondo[267]. Di queste idee avanzate, di questa filosofia tollerante e cosmopolita, egli non conosceva o rinnegava la sorgente.

Plinio era di Como; militò in Germania, fu procuratore di Nerone nella Spagna, da Vespasiano ebbe il comando della flotta navale al Miseno: ma mentre colà dimorava, il Vesuvio eruttò fiamme per la prima volta; ed egli accorso sia per curiosità del fenomeno, sia per sovvenire ai pericolanti, fu preso da una sua ricorrente debolezza di stomaco, e caduto, restò soffogato. Lasciò centottanta volumi in minutissimo carattere, fra cui tre libri di arte oratoria, trentuno di storia contemporanea, trenta delle guerre de' Romani in Germania, altri del [314] lanciar dardi, e perfino di grammatica, scritti «quando la tirannia di Nerone rendeva pericoloso ogni studio più elevato».

Giulio Solino, vissuto non si sa quando, ma forse due secoli più tardi, beccò da Plinio senza criterio, ed espose in istile ricercato notizie varie, massime di geografia, e il suo Polistore ebbe gran corso nel medio evo. Le conquiste e il commercio dilatarono la cognizione del mondo: pure vedemmo come Greci fossero quelli, di cui Augusto si valse per misurare e descrivere l'impero. E dalla Grecia vennero, nel tempo che discorriamo, i due maggiori geografi Strabone e Tolomeo. Il primo, dopo lunghi viaggi nell'Asia Minore, nella Siria, nella Fenicia, nell'Egitto fin alle caterrate, poi in Grecia, Macedonia, Italia, eccetto la Gallia Cisalpina e la Liguria, in diciassette libri diede la storia della sua scienza da Omero ad Augusto; e trattando delle origini e migrazioni dei popoli, della fondazione delle città e degli Stati, dei personaggi più celebri, sa portarvi la critica. L'altro descrisse l'universo in modo d'acquistare il nome di Tolomaico al sistema che, in opposizione coi Pitagorici e coi moderni, pone la terra per centro ai cieli; e creò la geografia scientifica, disponendo i paesi matematicamente per longitudine e latitudine[268]. [315]

L'unico che in latino trattò di geografia, è Pomponio Mela spagnuolo (De situ orbis), in prosa concisa ed elegante compendiando il sistema d'Eratostene; all'aridità d'una nomenclatura provvede coll'intarsiare graziose descrizioni e dipinture fisiche o storiche ricordanze: ma non vide cogli occhi proprj, dà come sussistenti cose da gran lunga perdute, mentre non nomina Canne, Munda, Farsaglia, Leutra, Mantinea, famose per battaglie; nè Ecbatana, Persepoli, Gerusalemme, capitali importanti; nè Stagira patria d'Aristotele.

Carte geografiche sappiamo si usavano anticamente[269]; in un tempio della Terra n'era dipinta una dell'Italia[270]; una di tutto il mondo in un portico di Roma[271]; d'altre ci parlano Frontino e Vegezio; ed entrante il III secolo, Giuliano Taziano aveva stesa una descrizione di tutto l'impero, che andò perduta. D'un'altra, ordinata dall'imperatore Teodosio, abbiamo [316] una copia o un'imitazione nella Tavola Peutingeriana, carta stradale in sola lunghezza, e molto inesatta.

I Romani tennero sempre in lieve conto le matematiche, nella loro albagia giudicando abjetta una scienza che prestava servizio alle arti meccaniche, misurava il guadagno, teneva i registri. Allo studio di essa Orazio imputa la depravazione del gusto; Seneca la ripudia come avvilente; nè sino a Boezio non si tradussero Euclide, Tolomeo, Archimede. Tanto scarsamente seppero di geometria, che i giureconsulti romani supposero la superficie del triangolo equilatero eguale alla metà del quadrato eretto sopra uno dei lati[272]; e fu tenuto un portento Sulpicio Gallo che prediceva gli eclissi.

Di matematiche applicate scrisse Sesto Giulio Frontino, che sotto Vespasiano capitanò in Bretagna prima d'Agricola, poi fu console, augure, amico di Plinio, lodato da Marziale; e sul morire dispose non gli si ergesse monumento, dicendo: — Abbastanza sarò ricordato se la vita mia lo meriti»[273]. Soprantendente agli acquedotti, diede la storia di queste memorabili costruzioni, veramente italiane. Lasciò inoltre quattro libri di Stratagemmi, compilazione fra militare e storica, povera di critica e d'eleganza, ma colla facilità sicura di chi sa quel che n'è.

La medicina, fin ai tempi di Plinio, da verun Romano era stata coltivata; i medici erano la più parte schiavi o stranieri, e Giulio Cesare pel primo comunicò ad essi la cittadinanza. In bottega pubblica (jatreon) faceano salassi, strappavano denti, ed altre operazioni, fra i [317] chiacchericci e le cronache. Altri s'applicavano a studiarla, e sopra gl'infelici clienti sperimentavano singolari novità e bizzarre teoriche, colla sicurezza che alletta le malate fantasie, e dà reputazione e denaro. Una delle loro scuole era chiamata medicina contraria, perchè nelle febbri lente ed ostinate il professore ad un tratto abbandonava i rimedj fin allora esperiti onde applicare i precisi opposti. Augusto malato a morte era curato con calefacienti, e Antonio Musa suo liberto lo guarì sostituendovi di balzo i bagni freddi. Era il caso di dire con Celso: Quos ratio non restituit, temeritas adjuvat. Un'altra volta sanò l'imperatore colle lattuche; onde questi gli concesse l'anello, e, per amore di lui, immunità a tutti quei della sua professione.

Asclepiade di Prusa in Bitinia, venuto ad esercitar questa a Roma un secolo prima dell'êra vulgare, le differenti malattie deduceva da viziosa dilatazione o stringimento de' pori, e la pratica riduceva a rimedj che producessero l'effetto contrario. Pronta, sicura, piacevole doveva essere ogni cura, limitandosi a dieta, ginnastica, fregagioni, vino, sbandendo ogni farmaco violento e interno, e frequentando i semplici. Colla quale blanda pratica riconciliò alla medicina i Romani, che n'erano disgustati dalla sanguinaria del chirurgo Arcagato, cui il soprannome di vulnerario fu mutato in quel di carnefice, e forse per questo aveva attirato alla sua arte le esagerate invettive dell'antico Catone[274].

Alcuno volle ascrivere all'età d'Augusto Aurelio Cornelio Celso[275], del quale s'ignorano la patria e i casi, e della cui Enciclopedia (Artium) non ci rimasero che [318] otto libri intorno alla medicina, i quali forse sono mere traduzioni dal greco. Ippocratico, cioè osservatore, pur ricorrendo all'induzione, non crede importante nella medicina se non ciò che tende a risanare. Raccomanda di non prendere abitudini, nè ledere la temperanza; poi raccoglie quanto dissero i precedenti, giudicandone con buon senso ed esponendolo con eleganza spigliata. Non disapprova l'uso di qualche medico d'allora, di sparare gli uomini vivi, ma non lo trova necessario, potendo le ferite de' gladiatori, de' guerrieri e degli assassinati offrir campo a studiare le parti interne per rimedio e pietà, non per barbarie.

Molti medici vanta la Sicilia, e a lor capo il famoso Empedocle, introduttore della dottrina degli elementi. Acrone, di Agrigento come lui, giovò assai agli Ateniesi nella peste che proruppe durante la guerra Peloponnesiaca, e fondò la scuola empirica. Menecrate, contemporaneo di Filippo il Macedone, intitolavasi Giove, menavasi dietro come corteo i suoi guariti, principalmente gli epilettici; ma colla sua vanità buscò beffe. Erodico da Leonzio inventò la medicina ginnastica, curando con violenti esercizj, susseguiti dal bagno; ma Ippocrate lo accusava di uccidere i malati col soverchio di passeggiate, di lotte, di fomenti. Scribonio Largo Designaziano, siculo o rodio del tempo di Claudio, cercò combinare le dottrine metodiche coll'empirismo, ed è notevole per aver insegnato a non isradicare il dente leso, ma levarne solo la parte guasta; e ancor più per avere applicato l'elettricità al mal di capo, suggerendo di tenervi una torpedine viva: rimedio adottato anche da Dioscoride.

Altri medici greci, illustri a Roma e fondatori di varj sistemi, preteriremo, ma non Claudio Galeno da Pergamo, che con ingegno vasto quanto Aristotele, altrettante erudizione e maggior libertà, abbracciò tutte [319] le scienze; e non pago dei sistemi dominanti e dell'autorità, applicavasi alle indagini della natura e all'anatomia. A Roma acquistò credito, malgrado gl'intrighi dei suoi colleghi, i quali all'ignoranza univano l'invidia, fin al segno d'avvelenare alcuni suoi ajutanti. Curò Marco Aurelio, e piace trovare dal medico filosofo descritte alcune malattie del filosofo imperante. Sotto al coltello anatomico riconosceva i misteri della vita e la scienza divina; eppure non seppe salvarsi dall'andazzo del suo secolo: Esculapio in sogno gli suggerì un salasso, e lo stornò dal seguire gl'imperatori nella spedizione; alle incantagioni avea fede, e combatteva il cristianesimo come assurdo.

Dopo di lui, gravi guasti portò nella medicina la teosofia, pretendendo spiegare le malattie coi démoni e colle potenze segrete, medicarle con incanti, e col recare indosso pietre efesie iscritte colle misteriose parole che si leggevano sull'effigie di Diana, o le gemme abraxe con figure egizie, o simboli desunti dal culto di Zoroastro o dalla Cabala giudaica. Sereno Sammonico, maestro del giovane Gordiano, ci lasciò un poema sulla medicina, ove per la febbre emitrea suggerisce l'abracadabra[276]. Sesto Placito Papiriense scrisse un indigesto ricettario di medicamenti tratti dagli animali, anzi dalle parti più schife: insegna a guarir la quartana portando addosso un cuor di lepre; prevenire le coliche col mangiare lesso un cane appena nato; o quando prendono, sedersi sopra una seggiola dicendo, Per te diacholon, diacholon, diacholon. Marcello Empirico, medico di Teodosio, raccolse le ricette fisiche e filateriche, [320] perchè i suoi figli potessero farne carità: ma l'ottima intenzione non pallia l'assurdità dell'opera. A chi entrò nell'occhio un corpo straniero, bisogna toccarlo ripetendo tre volte: Tetune resonco bregan gresso, e ad ogni volta sputare; oppure: In mondercomarcos axatison. Per l'orzajuolo sull'occhio destro, tocchisi con tre dita della mano sinistra, sputando e dicendo tre volte: Nec mula parit, nec lapis lanam fert, nec huic morbo caput crescat, aut si creverit tabescat. Pel panereccio si tocchi tre volte il muro dicendo: Pu pu pu; numquam ego te videam per parietem repere. Per la colica si ripeta tre volte: Stolpus a cœlo cecidit; hunc morbum pastores invenerunt, sine manibus collegerunt, sine igne coxerunt, sine dentibus comederunt. Prescrive i giorni appunto in cui preparare i farmachi, le preghiere da dirsi al Capodanno e al primo cantar delle rondini, e come usare il rhamnus spina Christi, di miracolose proprietà, perchè fu stromento alla passione del Redentore.

Il napoletano Pantoro, esaminati gli stromenti chirurgici trovati a Pompej, asserì che già conosceansi allora di quelli che si credono invenzione recente. All'Accademia di medicina a Parigi furono da Scoutetten presentati i seguenti stromenti, disotterrati a Pompej ed Ercolano: una sonda curva, una dritta, pei due sessi e per bambino; la lima per togliere le asprezze ossee; lo specillo dell'ano e dell'utero a tre branche; tre modelli di aghi da passar corde o setoni; la lancetta ed il cucchiajo, di cui i medici si servivano costantemente per esaminare la natura del sangue dopo il salasso; uncini ricurvi di varia lunghezza, destinati a sollevar le vene nella recisione delle varici; una cucchiaja (curette) terminata al lato opposto da un rigonfiamento a oliva, all'uopo di cauterizzare; tre ventose di forma e grandezza diversa; la sonda terminata da [321] una lamina metallica piatta e fessa, per sollevare la lingua nel taglio del frenulo; molti modelli di spatule; scalpelli a doccia piccolissimi per segare le ossa; coltelli dritti e convessi; il cauterio nummolare; il trequarti; la fiamma dei veterinarj per salassare i cavalli; l'elevatore pel trapanamento; una scatola da chirurgo per contenere trocisci e diversi medicamenti; pinzette depilatorie, pinzette mordenti a dente di sorcio, una a becco di grua, una che forma cucchiajo colla riunione delle branche; molti modelli di martelli taglienti da un lato; tubi conduttori per dirigere gli stromenti cauterizzanti.

Lautissima professione il medico. Manlio Cornuto promise ducentomila sesterzj a chi lo guarisse dal lichene, malattia della faccia, introdottasi sotto Tiberio: Carmi fecesi pagare altrettanto un viaggio in provincia: in pochi anni Alcmeone ammassò dieci milioni di sesterzj. Quinto Stertinio lodavasi agli imperatori di esiger da essi non più di cinquecentomila sesterzj, mentre la sua clientela in Roma gliene produceva seicentomila; l'ugual salario ricevette suo fratello da Claudio, sicchè essi poterono abbellir molto Napoli, e in eredità lasciarono trenta milioni di sesterzj: dieci milioni ne lasciò Crina marsigliese, dopo spesone altrettanti a rialzar le mura della sua patria[277].

Più volte avvertimmo che la coltura fra i Romani non ebbe nulla di spontaneo, nè derivò da slancio o da amor del bello, ma da imitazione, da ostentazione. Dei grammatici nominati da Svetonio, due terzi sono stranieri: fra tanti architetti che si richiesero per mutar Roma da laterizia in marmorea, due soli romani cita Vitruvio: i macchinisti erano alessandrini: greci i mimi, [322] i commedianti, i pedagoghi. Come gli Scipj s'aveano empita la casa di Greci, così al tempo imperiale ognuno volle, tra i servidori, avere anche il pedante greco, esposto ai vilipendj, di cui anche in tempi a noi più vicini si trovavano bersaglio l'abate o il maestro. Luciano, nella Vita de' cortigiani, ci dipinge un di costoro, per quanto in caricatura:

— Per pochi oboli, nell'età in cui, se tu fossi nato schiavo, era tempo di pensare alla libertà, ti sei, con tutta la tua virtù e sapienza, da te stesso venduto, ponendo in non cale quei molti discorsi che il bel Platone e Crisippo e Aristotele hanno composto in lode della libertà e dispregio della servitù. Nè vergogni di startene fra i piaggiatori, i barattieri, i buffoni, ed in tanta moltitudine di Romani trovarti solo col mantello greco, e parlare malamente e con barbarismi la loro favella, e cenare a tavole tumultuose e piene di gente diversa e la maggior parte cattiva; ed in questi conviti lodare importunamente, e bere fuor misura; e la mattina levandoti a suon di campanello, perduto il sonno più dolce, correre insieme cogli altri di su di giù, portando ancor sulle gambe le zacchere del giorno innanzi? Cotanta carestia avevi tu dunque di lupini e di cipolle campestri? mancavanti fontane d'acqua fresca e corrente, che caduto sei in tanta disperazione?

«Perchè tieni lunga barba e non so che di venerevole nell'aspetto, e ti cingi in cappamagna alla greca, e sei conosciuto da tutti per professore di lettere, oratore o filosofo, al signore par bello di mescolare uno di tal genìa a quei che uscendo fannogli corte, e sembrar così amante della disciplina e delle lettere greche, ed apprezzatore dei dotti. Talchè tu, o valent'uomo, corri rischio di avere appigionato, in luogo de' tuoi magnali discorsi, il mantello o la barba. Se sopragiunge altri più nuovo, sei rimandato indietro, e vi rimani [323] relegato in un dispregiatissimo cantone, testimonio di ciò che si porta e si toglie di tavola; e se pure i piatti giungono fino a te, roderai le ossa come i cani, e dolcemente per fame ti succierai una foglia secca di malva, avanzata ad un ripieno. Non ti mancheranno altri obbrobrj: nè solamente non avrai le ova, non essendo necessario che abbi sempre ad essere trattato come un forestiero, e sarebbe in te impudenza il pretenderlo; ma non devi avere tampoco un pollo simile agli altri; e mentre al ricco si serve grasso e polputo, a te si dà un mezzo pulcino o un colombo vecchio da razza, per segno di spregio. Per caso un convitato sopraviene improvvisamente? il famiglio, susurrandoti all'orecchio Tu sei di casa, ti toglie quanto hai dinanzi por servirne l'arrivato. Si trincia in tavola o un cervo o un porcellino da latte? ti bisogna aver propizio lo scalco, o contentarti della parte di Prometeo, le ossa cioè col midollo. Non ho detto che, bevendo gli altri un vecchio e soavissimo vino, tu buschi soltanto del cercone; e n'avessi almanco a sazietà, chè domandandone, molte volte fingerà il ragazzo di non udire. Se alcun servo ciarliero riferirà che non hai lodato il fanciullo della padrona mentre ballava o sonava la chitarra, passerai rischio non piccolo: per la qual cosa t'è giocoforza gracidare come un ranocchio assetato per essere distinto tra quei che applaudono, e far da capocoro a' più fervorosi, e molte volte, standosi gli altri in silenzio, ripetere qualche encomio meditato, che senta a dieci miglia di adulazione. Ti convien poi tenerti col volto basso come nei conviti persiani, sul timore che qualche eunuco non ti veda adocchiare alcuna concubina.

«Questa è la vita ordinaria della città. Che ti avverrebbe viaggiando? Sovente piovendo, e giungendo tu per ultimo al posto che t'ha destinato la sorte, non essendoci più vetture, ti caricano su col cuoco e col [324] parrucchiere della padrona sopra un baroccio, senza pur metterti paglia che basti.

«E se tu non lodi, passerai per malevolo ed insidiatore alle latomie di Dionisio. Conviene che i padroni sieno sapienti ed oratori; cadano pure in solecismi, i loro discorsi devono saper sempre d'Imetto e dell'Attica, e far testo di lingua per l'avvenire. Ma passi ancora per ciò che fanno gli uomini: le donne (perocchè anche le donne ora affettano d'avere al loro soldo ed al seguito della loro lettiga alcun famigliare dotto) alcuna fiata gli ascoltano mentre si adornano e si arricciano i capelli; ed assai volte, mentre il filosofo fa le dimostrazioni, ne viene la cameriera, e reca i viglietti del drudo. Egli allora per prudenza sospende i discorsi, ed aspetta che essa ritorni ad ascoltarlo, dopo risposto al bertone.

«Alla fine, ricorrendo i Saturnali e le Panatenee, ti si manda un mantellaccio o una tonaca logora, e devi allora farne gran pompa. Il primo che ha subodorato tal pensiero del padrone, corre ad annunziartelo, e vuole non piccola mancia. La mattina tel vengono a portare in tredici, de' quali ciascuno decanta le parole che ha detto di te, e come, avutone l'incombenza, ha cercato scegliere il meglio, e partonsi tutti regalati da te, e brontolando che non abbi dato di più. Il salario ti si paga a sospiri, e a due e a quattro oboli; se domandi, passi per nojoso ed impronto: laonde per averlo ti bisogna supplicare e piaggiare e leccare il maestro di casa, con modi di cortigianeria i più variati. Nè è da trascurarsi anche il consigliero e l'amico; ed intanto di ciò che ricevi già ne vai debitore al sarto, al medico, al calzolajo; sicchè non restandotene nulla, quei doni non sono per te doni. Altre volte vieni accusato o di aver tentato il fanciullo, o, malgrado la tua vecchiezza, violentata una cameriera della signora, o altra corbelleria. E così di notte imbacuccato entro il mantello, sei pel [325] collo trascinato fuor di casa, miserabile ed abbandonato da tutti, non restandoti per compagna della vecchiezza che la podagra, avendo dimenticato dopo tanto tempo ciò che sapevi, grullo e col ventre maggiore della borsa, tormentato di non potere nè riempirlo nè fargli intender ragione».

Commessa a così fatti, qual doveva riuscire l'educazione? Questa erasi conformata ai nuovi ordinamenti; e mentre i fanciulli in prima si affidavano a qualche onesta matrona che ne coltivasse l'ingegno e il cuore, allora si lasciavano fin ai sette anni a schiavi o greche fantesche, poi si mettevano al greco, indi al latino sotto i grammatici su descritti, i quali, oltre legger e scrivere, gl'istruivano a capire i poeti, e gli esercitavano in composizioncelle. Che se è sempre infelice cosa un maestro di mestiere, infelicissima erano coloro, la cui cura principale consisteva in affinare gli allievi nella mitologia, e nel sapere come avesser nome i cavalli d'Achille, quale la madre d'Ecuba, di che colore i capelli di Venere. Intanto altri maestri gli addestravano al ballo, alla musica, alla geometria, in quanto ritenevansi necessarie alla retorica, che vedemmo essere stata sempre arte principalissima fra i Romani, gran parte della vita loro, loro gloria e guasto. Valendosi d'una lingua fatta per comandare, non fermandosi alla soavità dell'atticismo greco, ma lanciandosi alle procelle popolari, aveano anche in ciò espresso la maestà patria; e l'eloquenza fu detta una delle maggiori virtù[278], e l'uomo eloquente un dio rivestito di corpo mortale. Allora poteva la grammatica esser considerata la più sincera delle scienze, la dolce compagna del ritiro, la ricreazione dei vecchi[279], insegnando essa a render corretto, [326] chiaro, ornato il discorso. Allora da insigni oratori, Cicerone, Antonio, Ortensio, erano coltivati i giovani men coi precetti che coll'esempio, e col farsi vedere invocati dai cittadini, dalle provincie, dai re, come tutela e scampo, levati a cielo dal popolo sovrano. Allora l'eloquenza studiavasi non come scienza distinta; ma con la guerra, il culto, la giurisprudenza facea parte dell'educazione necessaria alla vita; dovendo ogni famiglia, per patrocinare i proprj clienti, avere un valente oratore, di favellare occorrendo in tutte le magistrature, occorrendo alla guerra. Ma dacchè l'eguaglianza aprì a ciascuno gl'impieghi e i comandi, fu impossibile che lo stesso uomo attendesse a tutto. Uno abbondava di coraggio? dibattuta la prima causa in tribunale, cingeasi la spada. Un altro avea facile la parola? travagliavasi alle battaglie forensi, appena congedato dalle campali. V'era cui non bastasse l'animo d'affrontar le une nè le altre? sospendeva un lauro alla porta, e dava consulti; diventando così tre vie distinte l'esercito, la giurisperizia, l'eloquenza.

Ma un popolo senza emulazione, un senato senz'autorità, una gioventù senza libertà nè speranze, che altro cercavano nell'eloquenza se non un nuovo spettacolo? Equato il diritto, concentrata nell'imperatore la cosa pubblica, non potendo i giudici scostarsi dai consulti [327] dei prudenti, più non restava nè a sottigliare sull'interpretazion della legge, nè a patrocinare provincie o regni o la patria; sicchè i rostri ammutolirono, la curia consumavasi in complimenti, il fôro si esinaniva in anguste applicazioni degli editti. I rétori, gente digiuna della filosofia, delle leggi, della società, si proponeano d'annestare al pesante ed anfanato ingegno de' Romani l'infantile e parolajo de' Greci, smaniosi di arringare, d'improvvisare, di disputare, di avviluppare con argomenti capziosi; sofisticavano i classici sulla erudizione o sulla verità; della filologia faceano un giuoco di sottigliezze; della storia un'accozzaglia di particolarità, entro cui soffocavano quel vero che avrebbe dato ombra ai tiranni; della logica una schermaglia d'argomentazioni onde mutare il falso in vero; della morale una ostentazione di virtù esagerate. Sbalzata fuor della pubblicità che è suo elemento, trastullavano l'eloquenza in esercitazioni vane e stravaganti, e a spese dell'erario avvezzavano i figliuoli dei grandi all'enfasi senza scopo, alla declamazione a vuoto, a concinnare ben sonanti blandizie ai Cesari qualvolta questi si degnassero consultare il senato sopra ciò che avevano già deliberato.

Per tali scuole di declamazione s'inventò un interminabile codice di convenevoli. Allorchè (così insegnavasi) l'oratore si presenta alla tribuna, potrà fregarsi la fronte, guardarsi alle mani, schioccar le dita, e coi sospiri mostrare l'ansietà del suo spirito. Tengasi ritto della persona, col piede sinistro alquanto innanzi, le braccia alcun che disgiunte dal torso; ed esordendo, sporga un poco la destra mano dal seno, però senza arroganza. Infervorato nell'arringa, pronunzii con artifiziosa negligenza i periodi più elaborati, mostri esitanza laddove sentesi più sicuro della sua memoria. Non ricolga il fiato a mezzo della proposizione, non muti gesto che ogni tre parole, non cacci le dita nel [328] naso, tossisca o sputi il men possibile, eviti di dondolare per non parere in barca, non caschi in braccio ai clienti, se pure non sia per reale sfinimento; nè si soffermi dopo pronunziato una frase efficace, chè non sembri attendere i battimani. Verso il fine poi si lasci cadere scompigliata la toga, gran segno di passione.

Plozio e Nigidio, Quintiliano e Plinio discordano fra loro se o no convenga tergere il sudore e scarmigliarsi. Essi vi diranno come convenga vestire per essere uomo eloquente: la tunica dia poc'oltre il ginocchio davanti, e dietro fino al garetto; che più lunga sarebbe da donna, più breve da soldato: l'avviluppar di lana e fasce il capo e le gambe, è da infermo; da furioso l'avvolgere la toga al braccio manco; da affettato il gettarne il lembo sulla spalla diritta; da zerbino il declamare colle dita cariche di anelli. Della voce poi sanno denominare appuntino ogni gradazione[280], e qual s'addica a ciascun sentimento.

Di quest'erba trastulla si pascolava la gioventù romana per emulare Gracco e Cicerone! Talmente è antico stile nei cattivi governi, non d'abolire il sapere, ma di soffocarlo tra futilità e regole indeclinabili! Quintiliano stesso racconta di Porcio Latrone, insigne professore, che chiamato ad arringare ad un'assemblea vera in piena aria, restò sbigottito, e implorò che l'udienza si trasportasse in un palazzo vicino, non potendo sopportare il cielo, egli abituato alla soffitta. Ben dunque, allorchè un imperatore lagnavasi che tante sue cure non ritardassero il deperimento dell'eloquenza, un sincero gli rispose: — Chiudete le scuole, ed aprite il senato». [329]

Nè le cose erano meglio delle forme. Tolti alla realtà e al supremo giudizio del pubblico, ridotti a finger cause ed occasioni d'arringhe, i retori proponevano temi bizzarri e stravaganti, privi di convincimento e di moralità. Le suasorie volgeansi sul lodare la virtù, l'amicizia, le leggi, e sopra simili argomenti di facile prova, o talora di sofistica finezza: le controversie discuteano di varj punti, per lo più giudiziali; e suddividevansi in trattate, ove il retore dava soggetto e traccia, e colorate, dove l'alunno da sè trovava e l'orditura e la materia, poi compostele e dal maestro corrette, se le metteva a mente e le recitava alle pazienti assemblee.

Distogliere Catone dall'uccidersi, esortare Silla a smettere la dittatura[281], Annibale a non impigrirsi in Capua, Cesare a stender la mano a Pompeo acciocchè Roma opponga ai Barbari i due più grandi generali; se Cicerone deva chiedere scusa a Marc'Antonio; se dar al fuoco i suoi scritti qualora questi gli lasci la vita a tal condizione... erano i temi proposti; poi si fa tragitto a quistioni più attuali, ed ove dalla giurisperizia sia puntellata l'eloquenza. Una incestuosa precipitata dalla rupe Tarpea, raccomandandosi a Vesta, campa la vita: le sarà ritolta? — Marito e moglie giurarono di non sopravivere l'un all'altro; egli, sazio della donna, parte e le fa credere d'esser morto; ond'ella balza dalla finestra; ma guarita e scoperto l'inganno, il padre di lei dimanda il divorzio; essa non vuole: uno patrocini il padre, l'altro la moglie. — Tizio raccoglie fanciulli esposti, li mantiene, ad uno rompe il braccio, all'altro [330] una gamba, e gli invia a mendicare, e s'arricchisce: accusatelo e difendetelo. — Uno che in battaglia perdè le braccia, sorprendendo la moglie in adulterio, ordina al figlio d'uccidere il complice; quegli non obbedisce e fugge; il padre avrà diritto di diseredarlo? — Uno sale ad una rôcca per guadagnare il premio proposto a chi uccide il tiranno; e nol trovando, ammazza il figlio di esso, e gli lascia in petto la spada; il tiranno, tornato e visto il caso, cacciasi in seno la spada stessa: l'uccisore del figliuolo domanda il premio come tirannicida. — Essendo sfidati dai medici due gemelli, fu chi promise guarir l'uno se potesse esaminare gli organi vitali dell'altro; il padre consente; uno è sventrato, l'altro guarito; ma la madre accusa il consorte d'infanticidio; gravarlo e difenderlo. — Un padre perdè gli occhi nel piangere due figliuoli, e sogna che ricupererà la vista se anche il terzo figlio morrà; palesò il sogno alla moglie, questa al figliuolo, che appiccossi: il padre riebbe gli occhi, ripudiò la moglie, la quale si appella d'ingiusto ripudio. — Uno invaghito della propria figlia, la dà a custodire ad un amico, pregandolo non la restituisca per quanto gliela chieda; dopo alcun tempo gliela chiede, e, avutone rifiuto, s'appicca: vien denunziato l'amico come causa di tal morte. — Uno accusato di parricidio, fu assolto; ma impazzito, comincia ad esclamare: «O padre, t'ho ucciso», il magistrato lo manda al supplizio come confesso: ma è accusato d'omicidio. — Un povero ed un ricco erano amici; muore il ricco, chiamando erede universale un altro, coll'ordine di dare al povero altrettanto quanto questo a lui avea lasciato in testamento; s'apre il testamento del povero, e si trova lo avea costituito erede di tutti i suoi beni; onde questo domanda tutta l'eredità; l'erede scritto non vuol dare se non tanto quant'è il possesso del povero. — È legge (inventata da questi [331] pedanti) che a chi batte il padre, si tronchino le mani: un tiranno ordina a due figliuoli di maltrattare il padre; il primo, per non farlo, si precipita dalla rôcca; l'altro, spinto dalla necessità, oltraggia il genitore ed incorre nella pena decretata; però chiamato in giudizio perchè gli siano mozze le mani, il padre stesso lo difende: arringate per lui e contro di lui. — Un'altra legge del codice stesso lascia alla fanciulla violentata la scelta fra voler morto il rapitore, o sposarlo senza recargli dote; qualcuno ne rapì due, e l'una vuole ch'egli muoja, l'altra che la sposi: quistionate per le due parti. — Un'altra legge infligge al calunniatore la pena sofferta dal calunniato; un ricco e un povero, nemici capitali, aveano tre figli; ed essendo il ricco eletto generale, il povero l'accusò di tradimento, di che infuriato il popolo ne lapidò i figliuoli; il ricco tornato, chiede si uccidano i figli del povero; questo esibisce sè solo alla pena: per chi sentenziate?

In tali bizzarrie[282] pervertivasi il gusto e si forviava l'immaginazione dei giovinetti romani, distaccandoli dalla vita comune e dall'abituale forza delle umane passioni, per avvezzarli al cavillo e all'esorbitanza. A dritto dunque esclamava Petronio che «nelle scuole i garzoni si rendono affatto sciocchi, perocchè non vedono, non odono nulla di ciò che comunemente suol accadere, ma solo corsali che stanno incatenati sul lido, tiranni che comandano ai figli di troncare il capo ai genitori, oracoli che in tempo di peste ordinano d'immolare tre o più vergini»[283].

Così all'eloquenza politica era succeduta la scolastica; e se non bastava il viluppo della quistione, si aggiungeano difficoltà d'arte, prefiggendo, per esempio, il [332] vocabolo con cui cominciare o finire il periodo; poi tutto si dovea sorreggere per figure di parole e di concetti, per luoghi comuni, ed altre abbaglianti nullità.

Formato per tal guisa un oratore, suprema aspirazione di lui era il vedersi prescelto a stendere un panegirico all'imperatore; se pure non si mettesse a quella lucrosa e sanguinolenta eloquenza, che, conservando l'antico costume quando tutto era così mutato, ordiva invettive sul tono con cui Tullio investiva Catilina e Marc'Antonio, esagerava gli orrori dell'alto tradimento, tirava alla peggiore interpretazione i fatti e i detti più semplici, e facea condannare Cremuzio, Trasea, Elvidio, per ingrazianirsi Tiberio, Nerone, Vespasiano.

Appena si potesse trar fiato, i buoni s'accordavano a far guerra a questa eloquenza, ancella della calunnia: Plinio tonò contro i delatori; Giovenale flagellava i retori; Tacito, fra le cause dell'eloquenza corrotta, adombrava anche questa; e la combattè pure Marco Fabio Quintiliano (42-120?), il primo che desse lezioni a pubbliche spese. Spagnuolo allevato a Roma, l'imperatore Domiziano gli confidò l'educazione de' suoi nipoti, destinati a succedergli; e sotto gli auspizj di questo dio, come esso lo chiama, scrisse le Istituzioni, dirette a formare un oratore. Piace, al petulante greculo o al venale grammatico opporre l'immagine d'un maestro che conosce quanto sacro uffizio sia, nel momento che la gioventù sceglie fra il piacere e il dovere, l'avviarla co' migliori precetti, coi più belli esempj, e questi poter tutti dedurre dalla storia nazionale; e alle sante credenze, alle gloriose idee, alle coraggiose imprese, alla lotta contro le basse passioni, allo sprezzo del dolore e del guadagno, all'amor della gloria, al frugale disinteresse poter soggiungere i nomi degli Scipioni, dei Fabj, degli Scevola, dei Catoni, patres nostri. Vide [333] Quintiliano a quale infelicità fossero ridotte le lettere dagli esempj massimamente di Seneca, il quale, essendo in favore come maestro del principe, avea messo in disistima lo stile sincero degli antichi per accreditare quel suo, tutto fronzoli ed arguzie, senza riposo, con cui a forza d'abilità corruppe l'eloquenza, a forza d'arte guastò il gusto de' Romani. — Seneca (così egli) era allora il solo autore che fosse in mano de' giovani, ed io non poteva soffrire ch'e' fosse anteposto ai migliori, cui egli non cessava di biasimare, perchè disperava di piacere a coloro a cui quelli piacessero. I giovani lo amavano solamente pe' suoi difetti, e ognuno insegnavasi di ritrarne quelli che gli era possibile; e vantandosi di parlare come Seneca, veniva con ciò ad infamarlo. Per verità egli fu uomo di molte e grandi virtù, d'ingegno facile e copioso, di continuo studio e di gran cognizioni, benchè alcuna volta sia stato ingannato da quelli a cui commetteva la ricerca; molti ottimi sentimenti vi si trovano, e assai moralità: ma lo stile n'è comunemente guasto, e più pericoloso perchè i difetti ne sono piacevoli. Se di alcune cose egli non si fosse curato, se non fosse stato troppo cupido di gloria, se troppo non avesse amato ogni cosa propria, nè co' raffinati concetti snervato i gravi e nobili sentimenti, avrebbe l'universale consenso dei dotti, anzichè l'amor de' ragazzi. Un ingegno tale, potente a qualunque cosa volesse, degno era certo di voler sempre il meglio»[284].

Accorciammo questo giudizio, in cui Quintiliano non dà ferita senza medicamento, al modo de' giudizj officiosi; e spinge la cautela fino a non lasciarti ben comprendere s'e' lodi o biasimi. Fatto sta che egli affaticossi di richiamare verso i classici, e far preferire la nuda forza alla sdulcinata leggiadria, il naturale al [334] parlar per figure[285]. Pure, nel concetto di lui, eloquente significava poc'altro che buon declamatore: diresti non s'accorga mai di ciò che è mancato a Roma dopo i suoi grandi oratori, il fôro e la libertà; la sublime destinazione dell'eloquenza o non ravvisa o paventa, e si trastulla in guardarla siccome un'arte ingegnosa e difficile, che s'acquista coll'unire alla naturale disposizione lo studio e la probità, e saper lodare anche i tempi infelicissimi.

E d'adulazioni egli fu prodigo: poi, sebbene cercasse uno stile ricco, delicato, vigoroso, ed evitare la negligenza e l'affettazione che guastano il dritto ragionamento[286], all'opera sua occupò poco meglio di due anni, e questi nella ricerca delle cose e nella lettura d'infiniti autori, anzichè a forbire lo stile: intendeva poi rifarvisi sopra dopo raffreddato il primo ardore della composizione[287], ma le reiterate istanze del librajo lo distolsero dal prudente proposito. Questa confessione, colla quale tanti altri dopo d'allora intesero palliare la propria negligenza, temperi certi eccessivi ammiratori, i quali non solo in Quintiliano vedono tutt'oro, ma pretendono infallibili canoni di gusto quei ch'egli medesimo confessa non abbastanza meditati.

Arringò anche, e le sue dicerie erano ricopiate per [335] venderle lontano[288]: ma come egli stesso si fosse lasciato guastare da quei temi artifiziosi, dove il sentimento si esagerava, e badavasi all'effetto e all'arte, non all'espressione più sincera dell'affetto, appare fin nel passo più eloquente del suo libro, quello ove deplora la morte della moglie diciannovenne e di due figliuoli già grandicelli[289].

Eppure egli era dei migliori maestri; riprovava questo esercitarsi sopra tesi simulate; con opportuna censura reprimeva il giovanile rigoglio, e col leggere i migliori autori, cosa omai disusata, e col moderare l'idolatria pei classici, avvertendo che «non s'ha a reputare perfetto quanto uscì loro di bocca, giacchè sdrucciolano talora, o soccombono al peso, o s'abbandonano al proprio talento, o si trovano stanchi; sommi ma uomini». Sopratutto insiste sulla necessità d'essere [336] probo uomo chi voglia essere buon oratore: il che, se in un trattato de' nostri giorni sarebbe nulla meglio che un'esercitazione di moralità triviale, veniva a grande uopo allora, quando spie ed accusatori valevansi dell'eloquenza per sollecitare o giustificare la crudeltà dei regnanti; onde si vuole sapergli grado d'aver conosciuto il nesso fra la controversia nella scuola e il litigio nel fôro, ed accennato almen quel tanto che poteva, egli stipendiato da un brutale imperatore.

Ci venne purdianzi alla penna Marco Cornelio Frontone numida, giudicato da alcuni neppur secondo a Cicerone[290], e superiore a tutti gli antichi per gravità d'espressione, ma che per reggersi in credito avea bisogno che un erudito non venisse a disotterrarne i frammenti. Sostenne magistrature primarie, e se vogliam credere al ritratto ch'egli fa di se stesso in una di quelle congiunture in cui pare che l'affetto non sopporti la menzogna, meritò veramente colle sue virtù di diventare maestro di Marc'Aurelio[291], e di conservarsegli [337] amico anche dopo imperatore. Dalle loro lettere, lasciando che altri vi cerchi pedagogici avvertimenti, noi caveremo particolarità sull'Italia nostra. — Visitammo (scrive in una) Anagni; poca cosa oggi, ma contiene gran numero d'anticaglie, principalmente monumenti sacri e ricordi religiosi. Non v'è angolo che non abbia un santuario, una cappella, un tempio; v'ha libri lintei di materie sacre. Uscendo, leggemmo sui due lati della porta, Flamine, prendi il samento. Chiesi a un natìo che volesse dire questa parola; e mi rispose che in lingua ernica dinota un pezzo di pelle della vittima, che il flamine si mette sul berretto quando entra in città». E altrove: — Siamo a Napoli: cielo delizioso, ma estremamente variabile; ad ogni istante più freddo, o più caldo, o procelloso. La prima metà della notte è dolce, come una notte a Laurento; al cantar del gallo senti la frescura di Lanuvio; verso l'alba ti pare algido; più tardi il cielo si scalda come a Tuscolo; a mezzodì fa la caldera di Pozzuoli; poi come il sole declina nell'oceano, il cielo s'addolcisce e si respira come a Tivoli: questa temperatura si sostiene la sera e le prime ore mentre la notte si precipita dai cieli».

Frontone, vecchio e scarco dalle magistrature, soffrente di gotta, apriva sua casa ai letterati, che egli adopravasi di revocare dalle ampolle e dal neologismo verso la semplicità anteriore a Tullio. Opera difficilissima giudicava il riuscir eloquente; biasimava coloro che credono bellezza il rivoltare in diversi modi il concetto medesimo, come Seneca, come Lucano che i [338] sette primi versi trascina in dire di voler cantare le più che civili guerre; domanda che l'autore sia ardito senza eccesso, e scelga bene le parole. Ma in queste raccomandava di cercar le meno aspettate e le meravigliose, cura che di necessità deve condurre all'affettazione[292]. Troppo anch'egli seconda il suo secolo allorquando suggerisce di dire e fare secondo al popolo piace, metodo che torrebbe ogni orma certa al gusto[293]. Forse per indulgenza a questo piacevasi tanto nel rintracciare immagini, e le raccomandava a Marc'Aurelio, che gli scriveva come lieta notizia d'esser [339] riuscito a trovarne dieci[294]. Ma allorchè questi diceva, — Quando parlai ingegnosamente, mi compiaccio di me stesso», e' gli replicava: — Più parlerai da galantuomo, più parlerai da cesare».

Il letterato più degno d'attenzione in quel tempo è Cajo Plinio Cecilio comasco (61-115), nipote di Plinio naturalista, del quale ereditò le sostanze e la passione per gli studj. Giovinetto fu educato da Virginio Rufo, insigne romano che preferì all'impero del mondo la quiete decorosa. Cresciuto da lui con precetti ed esempj di virtù, nella scuola di Quintiliano si fece all'eloquenza; e di quindici anni patrocinò, poi sempre trattò cause gratuitamente, talvolta discorrendo fin sette ore di seguito, senza che la folla si diradasse. Eucrate filosofo platonico, elegante e sottile nella disputa, calmo di volto, austero di costumi come di parola, ostile ai vizj non all'umanità, incontrato da Plinio nella Siria, l'innamorò della filosofia, e gl'insegnò che il più nobile scopo di questa è far regnare tra gli uomini la pace e la giustizia.

Quando il gusto del bello, del giusto, del generoso, del patriotico più sembrava dileguarsi, consola l'imbattersi in quest'uomo, appassionatissimo per la gloria e devoto alla virtù. Immacolato sotto pessimi imperatori, talvolta levossi ad accusare i ministri e consigliatori di loro iniquità; maneggiò la giustizia col nobile orgoglio del galantuomo, eppure ottenne cariche e rispetto; e non si trovò impreparato quando sorsero tempi migliori. Al cessare del regno delle spie e de' carnefici, fu invitato ad onorare e guidare la rigenerantesi società; [340] e gli troviamo le cariche di augure, questore di Cesare, legato d'un proconsole, decemviro a giudicar le liti, tribuno della plebe, pretore, flamine di Tito, seviro de' cavalieri, curatore del Tevere e della via Emilia, prefetto all'erario di Saturno e al militare, governatore della Bitinia e del Ponto. Eletto console l'anno 100, recitò il panegirico a Trajano imperatore, ossia un ringraziamento. Questa lunga sua fatica aveva egli, come solea sempre, letta a diversi amici, che lodavano più le parti ove minore studio aveva adoperato: di ciò stupivasi egli, senza arrivar a comprendere quanto bisogno avesse di naturalezza. E davvero quel suo discorso, tronfio di parole e frasi studiate, forbite, compassate, è un perpetuo scostarsi dalla maniera semplice di pensare e d'esprimere, per sorreggersi in una forzata elevatezza, con pompa d'acuto ingegno, con pretensione di novità, e antitesi e raffronti inaspettati. Agli inesperti sembra conciso pel suo periodare frantumato, mentre in realtà, al pari di Seneca, gira rapidamente intorno alle idee, ma a lungo intorno alla stessa.

Il nostro secolo, che non sa più ammirare, si stomaca di lodi buttate in faccia a un vivo e potente: ma anche senza di ciò Trajano era tal imperatore da potersi lodare meglio che con vuote generalità; e un console, un augure davanti al popolo poteva usare altro che adulazioni, quali converrebbero a schiavo verso un tiranno. Trajano serbò amicizia per Plinio, anche giunto al fastigio della fortuna; e le lettere che gli diresse mentre governava la Bitinia sono un'importante rivelazione de' migliori tempi del concentramento imperiale. E lettere moltissime conserviamo di Plinio stesso[295]: [341] a troppo gran pezza dalla cara ingenuità delle ciceroniane, mostransi destinate al pubblico ed alla posterità; ma anche in quel loro tono accademico e declamatorio ci rivelano un eccellente naturale, e c'introducono nella vita, massime letteraria, d'allora.

Plinio era legato con quanto allora vivea di meglio; e con lui amiamo incontrare Italiani, ben differenti da quelli con cui ci famigliarizzarono Tacito e i satirici; un Caninio comasco, che donò una somma per imbandire un annuo convito al popolo; Calpurnio Fabato, onorato di somme dignità, che la patria Como abbellì di un portico, e diè denaro per ornarne le porte; Pompeo Saturnino, uom giusto, bel parlatore, poeta da emulare Catullo, che a Como stessa lasciò un quarto della propria eredità; Virginio Rufo, che quattro volte console, generale dell'armi romane, vincitore di Giulio Vindice, ricusò l'impero del mondo, preferendo la quiete della sua villa d'Alsio nel Milanese. In Aristone suo tutore Plinio ammirava la frugalità, la prudenza, la sincerità, lo zelo nel patrocinare altri. Sua moglie Calpurnia alle doti del cuore univa quelle dello spirito, leggeva avidamente i libri del marito, ne riponeva in mente i versi e vi adattava le armonie, andava ascoltarlo quando parlasse in pubblico. Gloriavasi che la posterità saprebbe che fu amico di Tacito: — Come l'avvenire dirà che noi ci amammo, che ci siamo compresi! Aveano l'età stessa, egual grado, egual rinomanza, dirassi, e a tante cause d'emulazione la loro amicizia resistette. E come già ci collocano l'un presso all'altro! già siamo inseparabili nella pubblica opinione: chi preferisce te a me, chi me a te: ma venire dopo te è per me una preminenza»[296].

Da Spurina Plinio imparò non solo la giurisprudenza, [342] ma l'ordine e la compostezza; nella casa di questo buon vecchio ammirando quella regolare occupazione, quella serenità d'uomo che si accosta al sepolcro. A sette ore svegliavasi, e subito ripassava i casi di jeri: alle otto era levato, e faceva una corsa a piedi: dopo l'asciolvere, ritiravasi nel gabinetto a comporre in greco o in latino poesie piene di gusto e brio. Fra giorno discorreva, leggeva, faceasi leggere, raccontava i fatti di cui era stato testimonio. Alle due prende il bagno, poi passeggia al sole: quindi giuoca alla palla, per un pezzo combattendo così la vecchiaja: gettasi poi s'un lettuccio, ed accoglie gli amici. Ha tavola ricca e frugale, con argenterie massiccie che rammentano i vecchi tempi. Durante il pasto discorre e legge, spesso si fa venire buffoni, commedianti, ballerine, sonatrici inghirlandate d'amaranto. Così dopo le fatiche del fôro, del sonato, del campo, il nobile vecchio a settantasette anni conservava ancora la vista, l'udito, la vivacità, la facile parola.

Protetto dai grandi, Plinio proteggeva amici ed inferiori; molti giovani, la cui principale passione era quella dell'istruirsi, esercitava nell'eloquenza, e ajutava ne' primi passi verso gl'impieghi; dotò la figlia di Quintiliano per gratitudine di scolaro, e quella di Rustico Aruleno che «coll'anticipargli elogi aveagli insegnato a meritarli in avvenire»; fornì lautamente Marziale, reduce nella Spagna; alla nutrice diede un terreno che valeva centomila sesterzj, e gliel faceva amministrare da Vero, suo amico, scrivendogli: — Ricordatevi che non sono gli alberi e la terra che vi raccomando, ma il bene di quella che da me li tiene». Corellio avea sollecitato i primi impieghi per Plinio, e raccomandatolo a Nerva, e morendo diceva a sua figlia: — Spero avervi fatto degli amici; contate sopra di essi, ma più di tutti su Plinio»; e Plinio ne prese la difesa in una causa. Sottentrò a tutti i debiti del filosofo [343] Artemidoro, affinchè tranquillo partisse da Roma quando Domiziano proscrisse i filosofi[297]. Molti servi affrancò, agli altri permise di far testamento; per gli abitanti di Tiferno, ove sua madre possedeva e che lo avevano adottato, eresse un tempio; largheggiò cogli Etruschi. Governando la Bitinia, lasciò dappertutto tracce di sua munificenza; mutò in città il villaggio di Calcedonia, riparò Crisopoli (Scutari), a Libina rialzò la tomba d'Annibale: in Nicomedia guasta da incendio fece ricostruire il palazzo civico e il tempio d'Iside, ed aprire una piazza, un acquedotto, un canale, e pensava riunir quel lago al mare: riparò i bagni di Nicea, e vi pose ginnasio e teatro; un acquedotto a Sinope, uno a Bitinio, bagni a Tio: a Como mandò pel tempio di Giove una preziosa statua antica; vi istituì scuole pei garzoni, contribuendo il terzo della spesa; assegnò cinquecentomila sesterzj per mantenere fanciulli ingenui, venuti al meno; fondò una biblioteca presso le terme; ed altri benefizj, la cui lode sarebbe anche maggiore, s'egli medesimo non si fosse troppo compiaciuto di narrarceli. Ma sarem noi così rigorosi a tal vanità? — Se non meritiamo che di noi si parli (diceva egli stesso), siamo rimproverati; se meritammo, non ci si perdona di parlarne noi stessi»[298]. [344]

Ma non soltanto lodi sapeva tesser Plinio, e' s'infervorò contro i delatori, appena il costoro regno crollò. Aquilio Regolo, già sollecitatore di testamenti, che poi in una sola denunzia guadagnò tre milioni di sesterzj e gli ornamenti consolari, e che avea causato la morte di Elvidio, si vide da lui ridotto a perdere non solo la reputazione, ma metà dell'oro, passione sua. Allora Plinio badò meno all'eleganza che alla forza: ma nello stendere quell'accusa rileggeva di continuo l'arringa di Demostene contro Midia[299]: eppure, potenza del denaro, poco poi avendo Regolo perduto un figlio, ecco tutta Roma accorrere a portargli condoglianze in Transtevere, nella casa improntata d'infamia dall'avarizia e dalla ricchezza del sordido vecchio. Avea dunque ragione Giunio Maurico allorchè, alla tavola di Nerva rammentandosi un Catulo Messalino, spia e provocatore del regno precedente, e domandando l'imperatore che ne sarebbe se fosse ancor vivo, con franchezza soldatesca rispose: — Perdio, sarebbe qui a cena con noi».

Gli antichi ebbero scarso il sentimento delle bellezze della natura; il paesaggio tra essi non fu meglio che decorazione; i più gentili quadri di Virgilio traggono vita dalle figure onde sono popolati. Ma Plinio mostrasi compreso dalle vaghezze del suo lago e della villa che v'aveva, e con esso ci dilettiamo ancora cercare quei platani opachi, quell'insensibile pendìo che guidava alla sua campagna, quel canale protetto d'ombre ospitali, dov'esso veniva a cercar riposo dall'assordante operosità di Roma. Là pesca, là caccia ne' boschi popolati di cervi e di damme; là comprendeva che non solo Diana, ma anche Minerva ama le foreste. Arricchito, volle avere più ville su quel lago, ed una intitolò Commedia perchè dimessamente situata, quali gli attori comici sul [345] socco, mentre l'altra elevavasi come i tragici sul coturno, onde la nominò Tragedia: e quella è lambita dalle acque, questa le domina. Ivi erano appartamenti per l'inverno e per l'estate, pel giorno e per la notte; ivi bagni; ivi una fontana intermittente[300], che cascava romoreggiando in una sala decorata di statue, e perdeasi nel lago, sul quale vogando, suo padre gli raccontava le storielle de' luoghi, e gli mostrava il terrazzo da cui una donna, avendo il marito ammalato di incurabile ulcera, volle mostrargli come si possa sottrarsi ai dolori, precipitandosi essa nelle onde e seco traendolo. E questa miserevole disperazione al filosofo parea degna di monumento quanto la costanza di Arria moglie di Trasea Peto[301].

Viepiù comoda eragli la villa di Laurento a diciassette miglia da Roma, fra pascoli di pecore, di bovi, di cavalli, in clima d'eterna primavera e di calma ridente, ove il sole non si mostra in estate che a mezzo il dì. Spazioso portico a vetriate, riparo contro la cattiva stagione, introduce all'abitazione, e attorno praterie sempre verdi, boschi fantastici, impenetrabili dai raggi solari. La sala da pranzo si sporge sul mare, e lo prospetta da tre lati, mentre apre s'un verziere, arricchito di mori, di fichi pompejani, di rose tarantine, di legumi d'Aricia, d'erbe per la cucina: a mezzo della [346] galleria trovasi la camera da letto, vicino all'incessante mormorio d'una fontana: poco lungi è lo studio, al gran sole, rivestito di marmo e colle lucide pareti adorne d'uccelli, fiori, fronde, e coi libri che mai troppo non si leggono e rileggono. La sala è ricreata da una nappa d'acqua, e l'inverno da un tepidario nascosto ne' muri. Una scala conduce nel bagno a sole aperto, un'altra all'ombreggiato. Nè vi mancano il giuoco della palla, la cavallerizza, una galleria sotterranea dove ripararsi dalla canicola, una esposta che conduce ad una fuga di camere sì ben collocate da evitare il sole dall'una all'altra[302]. E le cerchiate di platani connessi dall'edera e dal flessibile acanto, e i viali orlati di bosso o di rosmarino, e i sedili di marmo caristio, e gli zampilli d'acqua riuscenti in vasca di bronzo, e il labirinto verde, e il tempietto di marmo, e le statue, i mobili, i libri, i cavalli, gli argenti, gli schiavi, ci fanno meravigliare come tanto potesse avere un privato, che non era de' più ricchi, e che pur possedeva una casina a Tusculo, una a Tivoli e a Preneste in commemorazione di Tullio e d'Orazio.

Compose anche versi; e tuttochè onest'uomo e di spirito grave e dignitoso, scrisse endecasillabi lascivi, dei quali si scusa con troppi esempj. Forse egli, come molti oratori, credeva necessario l'esercizio poetico per formarsi alla prosa; ma Quintiliano diceva: — La poesia è nata per l'ostentazione, l'eloquenza per l'utilità. Noi oratori siam soldati sotto le armi, e non ballerini di corda; combattiamo per interessi rilevanti, per vittorie [347] serie. L'armi nostre devono brillare e colpire al tempo stesso; avere il lustro terribile dell'acciajo, non la brunitura dell'oro e dell'argento. Via quell'abbondanza lattea, che annunzia uno stile infermiccio; parlate con sanità». E nitidezza avea sempre Plinio, non sempre forza. Giornalista officioso della letteratura di quel tempo, egli c'informa della futilità di quelle consorterie, che invitate come si trattasse d'aprire un testamento, si raccoglievano per applaudire non per consigliare, per divertir sè, non per giovare al poeta. Claudio, Nerone, Domiziano vi assisteano non solo, ma vi leggeano tra obbligati applausi. Un codice nuovo erasi combinato per codeste letture, dove s'insegnava: — Il lettore dapprincipio appaja modesto, gli uditori indulgenti. A che con letterarie sofisterie farsi nemico quello, cui veniste a prestar le orecchie benigne? Più o meno meritevole ch'e' sia, lodate sempre. Il leggente presentisi con diffidenza rispettosa, qual l'uso impone; abbia disposto un complimento, una scusa: — Sta mane fui pregato di arringare in una causa: non vogliate imputarmi a dispregio questa mescolanza degli affari colla poesia, giacchè io soglio preferire gli affari ai piaceri, gli amici a me stesso»[303].

L'autore è di sgraziata voce? affida la recita ad uno schiavo[304]. Declama egli stesso? è tutt'occhi all'impressione che produce sugli uditori, e tratto tratto fermasi, palesando timore d'averli nojati, e aspettando che il preghino di proseguire. Ai passi belli, e ancor più alla fine sorgono gli applausi, divisi anche questi artatamente in categorie. Nell'una il triviale Bene! benissimo! stupendo! nell'altra si battono le mani; nella terza balzasi dal sedile, percotendo del piede la terra; nella quarta si agita la toga; e così via crescendo. [348]

Gli uditori appariglieranno il leggitore ai sommi; il poeta non dimenticherà un complimento pel giornalista, e dirà Unus Plinius est mihi; e Plinio giornalista domani pubblicherà: Mai non ho sentita meglio l'eccellenza de' tuoi versi».

Una di queste letture è descritta da Plinio ad Adriano: — Io son persuaso negli studj, come nella vita, nulla convenga all'umanità meglio che il mescolare il giocoso col serio, per paura che l'uno degeneri in malinconia e l'altro in impertinenza. Per questa ragione, dopo travagliato intorno alle più importanti cose, io passo il mio tempo in qualche bagattella. E per far queste comparire ho pigliato tempo e luogo proprio, onde avvezzar le persone oziose a sentirle a mensa: scelsi però il mese di luglio, in cui ho piena vacanza; e disposi i miei amici sopra sedie a tavole distinte. Accadde che una mattina vennero alcuni a pregarmi di difendere una causa, allorchè io men vi pensava: pigliai l'occasione di fare agl'invitati un piccolo complimento, e porger insieme le mie scuse, se, dopo averli chiamati in piccol numero per assistere alla lettura d'un'opera, io l'interrompeva come poco importante, per correre al fôro, dove altri amici m'invitavano. Gli assicurai ch'io osservava il medesimo ordine ne' miei componimenti, che davo sempre la preferenza agli affari sopra i piaceri, al sodo sopra il dilettevole, a' miei amici sopra me stesso. Del resto l'opera, di cui ho fatta loro parte, è tutta varia non solamente nel soggetto, ma anche nella misura dei versi. E così, diffidente come sono del mio ingegno, soglio premunirmi contro la noja. Recitai due giorni per soddisfare al desiderio degli uditori; nondimeno, benchè gli altri saltino o cancellino molti passi, io niente salto e niente cancello, e ne avverto quelli che mi ascoltano. Leggo tutto, per essere in grado di poter tutto emendare; il [349] che non possono far coloro che non leggono se non alcuni squarci più forbiti. Ed in ciò danno forse a credere agli altri d'aver meno confidenza ch'io abbia nell'amicizia de' miei uditori. Bisogna in realtà ben amare, perchè non si abbia tema di nojar coloro che sono amati. Oltreciò, qual obbligo abbiamo a' nostri amici, se non vengono ad ascoltarci che per loro divertimento? Ed io stimo ben indifferente ed anche sconoscente colui che ama più il trovar nell'opere de' suoi amici l'ultima perfezione, che di dargliela egli stesso. La tua amicizia per me non mi lascia punto dubitare che tu non ami di leggere ben presto quest'opera, mentre ch'ella è nuova. Tu la leggerai, ma ritoccata; non avendola io letta ad altro fine che di ritoccarla. Tu ne riconoscerai già una buona parte: quanti luoghi o sieno stati perfezionati, o, come spesse volte succede, a forza di ripassarli sien fatti peggiori, ti sembreranno sempre nuovi. Quando la maggior parte d'un libro è stata variata, pare insieme mutato tutto il rimanente, benchè non sia»[305].

L'avvocato Regolo lesse composizioni famigliari, un poema Calpurnio Pisone, elegie Passieno Paolo, poesie leggeri Sentio Augurino, Virginio Romano una commedia, Titinio Capitone le morti d'illustri personaggi, altri altro. Plinio si consola o duole secondo che codeste recite sono popolose o deserte: — Quest'anno abbiam avuto poeti in buon dato. In tutto aprile quasi non è passato giorno, in cui taluno non abbia recitato qualche componimento. Qual piacere prendo che oggidì le scienze sieno coltivate, e che gl'ingegni della nostra età procurino darsi a conoscere: quantunque a stento gli uditori si raccolgano; la maggior parte stanno in panciolle nelle piazze, e s'informano di tempo in tempo se chi deve recitare è entrato, o se ha finita la prefazione, o letta la maggior parte del libro; allora finalmente [350] giù giù vengono allo scanno assegnato; nè però vi si trattengono tanto che la lettura si finisca, ma molto prima svignano, chi con finta cagione ed occultamente, e chi alla libera senz'ombra di riguardo. Non fece così Claudio cesare, il quale, secondo vien detto, un giorno mentre andava passeggiando pel palazzo, sentendo acclamazioni, ed avendo inteso che Novaziano recitava non so qual volume, subito ed alla sprovveduta entrò nel circolo degli ascoltanti. Oggi ciascuno, per poche faccende che abbia alle mani, vuol esser molto pregato; e poi o non vi va, o andandoci, si lamenta d'aver perduto il giorno, perchè egli non l'ha perduto. Tanto più degni di lode sono coloro che non rimangono di scrivere per la dappocaggine o superbia di questi tali»[306].

Da gente che componeva per recitare, recitare a gente adunatasi per ascoltare, potevasi egli attender nulla di virile e d'efficace? Nessuno leggeva allora libri fuorchè l'aristocrazia, onde all'autore non restava la fiducia di crearsi il proprio pubblico. Nè la scelta società poteva, come oggi, comprare tante copie d'un libro, che l'autore ne ritraesse compenso proporzionato al merito o alla fama. Ciascun signore teneva servi apposta per trascrivere e legare i libri; il grosso del popolo non ne usava se non qualcuno preparatogli dagl'imperatori nelle biblioteche o al bagno: laonde lo scrittore, mentre insuperbivasi di esser letto ovunque arrivassero governatori o comandanti romani, si trovava costretto a mendicare il pane e le sportule da un patrono, dall'economo di un mecenate, o dal distributore de' pubblici donativi[307]. E come conseguirli altrimenti che lodando? e come lodar dei mostri [351] padroni o de' vigliacchi obbedienti, senza abbassarsi ad adulare? Quando poi lo scrivere franco menava al patibolo, quando il segnalarsi eccitava la gelosia degli imperatori, si trovò più comoda, più utile l'adulazione, e vi s'andò a precipizio. Il poeta Stazio blandisce non solo Domiziano, ma qualunque ricco; Valerio Massimo e Vellejo Patercolo storici esaltano le virtù di Tiberio; Quintiliano retore, la santità di Domiziano, e, ciò che al suo gusto dovea costare ancor più, il talento di esso nell'eloquenza, e lo chiama massimo tra i poeti, ringraziandolo della divina protezione che concede agli studj, e d'avere sbandito i filosofi, arroganti al segno di credersi più savj dell'imperatore. Marziale bacia la polvere da Domiziano calpestata, e gli par troppo poco il collocarlo a paro coi numi; Giovenale satirico adula; adula Tacito severo storico, come adulavano i papagalli che ad ogni atrio d'illustre casa salutavano il sagacissimo Claudio e il cavalleresco Caligola. Plinio giuniore non sa che adulare Trajano; Plinio maggiore adula Vespasiano; Seneca adula Claudio, e per invitare Nerone alla clemenza, gli accorda la podestà di uccider tutti, tutto distruggere, mettendo in certo modo a contrasto la forza di lui colla debolezza dell'universo, onde ispirargli la compassione per via dell'orgoglio.

D'altra parte a cotesti stranieri, accorrenti da ogni plaga del mondo a Roma per godere le munificenze, a cotesti liberti traforatisi nel senato a forza di strisciare innanzi ai loro padroni, quali rimembranze restavano di più franchi tempi, quali tradizioni repubblicane da svegliare? Vedevano l'oggi, e bastava per divinizzare i padroni del mondo. [352]

Allattata da queste mammelle, come doveva dimagrare la poesia! la quale, come le altre cose romane, sviluppatasi non per ispirazione, ma per l'imitazione de' Greci, somigliò ad un manto maestoso, che, gettato dapprima sopra una bella statua greca, le dà aria grande; casca floscio e sfiaccolato quando si ravvolge a spalle scarne. Sopita sotto i primi cesari, sotto Nerone si ridesta col furore d'una moda; dotti e indotti, giovani e vecchi, patrizj e parasiti, tutti fanno versi; versi ai bagni, a tavola, in letto; i ricchi s'attorniano di una turba a cui recitarli, e ne pagano gli applausi o col patrocinio o coi pranzi o colle sportule; a Napoli, ad Alba, in Roma sono istituiti concorsi annui o quinquennali, e basta che i versi vadano giusti della misura per esser trovati, o almen decantati, migliori di quei d'Orazio e di Virgilio. Tanto si era già lontani dal sentimento delle bellezze ingenue, eminente in questi; e l'esagerazione delle idee traeva da quella giusta misura, di cui essi erano immortali modelli.

Stazio napoletano, non passò anno dai tredici ai diciannove, che, nelle gare letterarie della sua patria, non fosse coronato; poi riportò palme nemee e pitie ed istmiche[308]; laonde i grandi lo chiamarono dalla scuola a popolare i loro pranzi, ch'e' ricambiava con versi per tutte le occasioni. Quando vide in Roma venire alle mani i fautori di Vitellio con quei di Vespasiano, e andare in fiamme il Campidoglio, esultò d'occasione sì opportuna a sfoggiare poesia, e da' suoi contemporanei fu ammirato che la rapidità della composizione [353] di quel suo poema eguagliasse la rapidità delle fiamme.

Il genio paterno si trasfuse nel figlio Publio Papinio (61-96). V'è nozze? v'è bruno? morì ad uno il delizioso o la moglie[309], all'altro il cane o il papagallo?[310] Stazio ha in pronto l'ispirazione. Un ricco va superbo di bellissima villa; un altro, d'un albero prediletto; l'etrusco Claudio, di magnifici bagni: Stazio descrive appuntino quella villa, que' frutti, que' bagni: e secolari genealogie di doviziosi, che pur jeri ascero dall'ergastolo ai palazzi. Non v'è accidente così frivolo, per cui non scendano Dei e Dee: Citerea verrà a dar benigno il mare ai capelli d'un eunuco che tragittano in Asia; Fauni e Najadi terranno in cura il platano di Atedio Miliore. Corrono i Saturnali? Stazio ridurrà in versi il catalogo di tutti i bellarii che ricambiaronsi gli amici, e di quelli che a gara profusero a Domiziano, loro padre e dio. L'ammansato leone di Domiziano fu ucciso da una tigre, condotta pur ora d'Africa; Abascanzio propose che il senato ne portasse solenni condoglianze all'imperatore; e il poeta nostro ne canta i meriti, e col popolo e col senato compiange il mondo d'aver perduto la fiera imperiale[311]. Ecco per quali modi Stazio meritava corone di pino nei giuochi, oro da Cesare, applausi alla recita. Non usciva egli mai che nol seguisse un codazzo d'amici; ed era una festa quand'esso mandava invitando a udire i suoi versi[312]. [354]

Crispino, il più caloroso de' suoi ammiratori, allestisce ogni cosa, invita, infervora, s'abbaruffa coi tepidi, dà il segno degli applausi, li rattizza se languiscano; mentre il poeta tira qualche fiacco suono dalle poche corde che la tirannide lasciò sulla cetra romana.

E qual premio trarrà Stazio dal sì lodato verso? l'imperiale aggradimento e l'alto onore di baciare il ginocchio del Giove terrestre: ma se vorrà saziar la fame, converrà venda una sua tragedia al comico Paride, poichè ballerini e commedianti hanno ricchezza e potere, essi creano i cavalieri ed i poeti, e danno quel che non san dare i ricchi. Gli applausi inebbriano Stazio a segno, che non s'appaga delle Selve de' suoi componimenti, ma vuoi compaginare un poema, anzi due. E vi riesce, se basta l'avere in dodici libri da ottocento versi l'uno, quanti ne conta la sua Tebaide, fatto l'introduzione all'altro poema dell'Achilleide, ove intendeva forse presentarci compito quel Pelìde che in Omero gli pareva solo schizzato; come chi pretendesse sminuzzare in una serie di bassorilievi il concetto del Mosè di Michelangelo.

A Stazio lodano qualche invenzione di stile; uscì anche talvolta dai luoghi comuni, e seppe trovare caratteri veri, e delinearli con semplicità e vigore: ma al sorreggerli sino al fine gli nuoce la facilità, per la quale in due giorni compose l'epitalamio di Stella in ducensettantotto esametri. Così svaporava la potenza d'un ingegno, bello senza dubbio e colto, ma sacrificato ai vizj del suo tempo, e alla sciagurata abitudine del contentarsi il pubblico di cose improvvisate, l'autore degli applausi del pubblico.

Epigramma, come indica la voce stessa, dapprima fu l'iscrizione che poneasi a qualche statua o monumento; e tali noi ne trovammo sulle tombe degli Scipioni, di Ennio, di Nevio (V. l'Appendice I). Ma già fra [355] i Greci era passato ad esprimere pensieri lievi, arguzie, riflessioni commoventi o esilaranti. Di tal modo ne fecero molti i Latini d'ogni tempo; ma il più fecondo e per ogni occasione fu Marco Valerio Marziale (40-103). Da Bilbili di Spagna venuto a Roma, si volse per pane a Domiziano, e metà de' suoi millecinquecento Epigrammi, distribuiti in quindici libri, sono fetide adulazioni al tonante Romano, e variate guise di chiedergli denaro, vesti, pranzi, un rigagnolo d'acqua per la sua villa[313]; riducendosi alla condizione di abjetto parasita, e rinnegando sempre quella dignità morale, che sola decora i begli ingegni. Giove è posposto a Domiziano perpetuamente, quasi l'iddio fosse scaduto tanto di reputazione, da sembrare poco l'essergli paragonato. Parla del ricostruito Campidoglio? lo dice così suntuoso, che Giove stesso, mettendo all'incanto l'Olimpo ed ogni avere degli Dei, non potrebbe raccorre il decimo del costo. Altrove esorta Domiziano a salire tardi alla netterea bevanda; che se Giove vuol bearsi di sua compagnia, venga al convito di lui[314].

Eppure queste e peggiori piacenterie non pare rimediassero alla povertà di Marziale, il quale, colla veste rifinita e carico di debiti, va accattando qualche lira e vende i regali per satollarsi di pane, e fa versi su [356] tutte sorta di vivande, affine d'essere invitato ad assaggiarne alcuna[315]. E in tali angustie sostenere il peso della fama! e trovarsi inoltre tribuno onorario, cavaliere onorario, e padre onorario, cioè senza nè militare, nè esser censito, nè avere tre figliuoli! Perseveri dunque a cantare, ad esaltar ogni minimo bene che Domiziano faccia o che non faccia: poi quando questi è ucciso, lo bestemmii, e preconizzi Nerva d'essersi conservato buono sotto un principe ribaldo[316], e faccia Giove meravigliarsi delle disastrose delizie e del grave lusso del re superbo[317].

Le lascivie, di cui bruttò i suoi versi[318], vengono dal medesimo bisogno di adulare; d'adulare non un uomo solo, ma i pravi costumi di tutta la città; e quand'anche egli volge in altrui l'arzillo epigrammatico, il fa con libertinaggio plateale, quasi da altro allora non potesse eccitarsi il riso, se non da vizj che dovevano far arrossire.

Eppure costui sembra fosse capace, come Stazio, di gustare la vita domestica, e di comprendere che la felicità non consiste nell'oro e nello splendore. — Sai tu quali cose rendono beato? Una sostanza acquistata senza fatica e per eredità, un campo non ingrato, il focolare sempre acceso, nessuna lite, pochi patroni, quieta mente, naturali forze, corpo sano, cauta semplicità, conformi amici, facile convito, mensa senz'arte, notte non ubriaca ma scarca di pensieri, talamo non [357] disaggradevole eppure pudico, sonno che renda brevi le notti, amar ciò che sei, non agognare di meglio, nè temere nè bramare l'ultimo giorno»[319].

Questo medesimo epigramma, che pure è de' suoi migliori, quale povertà accusa di poesia in quella enumerazione fredda senza immagini! Egli stesso diceva de' suoi versi: — C'è del buon, del mediocre, e assai del male»[320]; e gli encomj prodigatigli dai commentatori indicano quanto si passioni per l'autore chi invecchiò nel trovargli meriti che non aveva[321]. Nè in Marziale si riscontra mai sentimento profondo; e a quel continuo frizzo o triviale o scipito o lambiccato nessun reggerebbe, se non fosse la lingua che per lo più va corretta ed espressiva, quanto poteasi là dove ogni spontanea ispirazione era sbandita dalla paura di spiacere ad ombrosi regnanti, o a schizzinosi protettori.

Pure la natura de' suoi lavori, istantanei di concetto come d'esposizione, lo salva da uno dei difetti più usuali a' suoi coetanei, il farsi pallidi riflessi degli scrittori del secolo d'Augusto. Nella baldanza della sua immaginativa, inventa modi nuovi ed efficaci, e innesta felicemente ciò che gli stranieri introducevano nello idioma della dischiusa città; ed estendendosi alla vita reale e a tutto il mondo romano, ci porge preziose indicazioni sui tempi, sui caratteri, sulle usanze.

Di Spagna venne pure a Roma Marco Anneo Lucano (38-65), ed ebbe tutte le fortune desiderabili; nipote di quei Seneca che davano il tono alla società letteraria, allievo di que' grammatici e retori che pervertivano la felice [358] disposizione degl'ingegni. Seneca lo esercitava a comporre ed amplificare senza pensieri nè sentimenti, fomentandone la lussureggiante facilità, invece di sfrondarla, ed esponendolo a quelle pubbliche recite, ove, recando noja, si buscavano applausi. Nerone suo condiscepolo lo fece questore prima del tempo, legato, augure; ma Lucano, avvezzo da fanciullo ai trionfi, osò competere coll'imperatore e vincerlo: Nerone gli proibì di più leggere in assemblea, e il poeta indispettito tenne mano alla congiura di Pisone. Scoperto e preso, denunziò gli amici e la madre; ma invano colla viltà tentato conservare la vita, la lasciò eroicamente (pag. 112).

Il trovarsi perseguitato dispensavalo dalle uffiziali codardie e dalle accademiche fanciullaggini: chiuso nel suo gabinetto, poteva comporre originale: e di fatto egli ritrae del suo tempo più di quegli altri imitatori, ma non ne palesa che la depravazione del gusto, lo sfiancamento delle credenze.

Chi attribuisce l'inferiorità della Farsaglia all'avere scelto un soggetto troppo vicino, che impediva al poeta le finzioni, essenza della poesia, trae storte deduzioni da arbitrarj principj. Buon soggetto d'epopea sono le guerre tra nazioni forestiere, mentre le lotte di dinastie e le guerre civili e le interne commozioni di Stati convengono meglio alla rappresentazione drammatica. In Lucano non ci è presentato che il medesimo popolo, diviso in due; due protagonisti troppo vicini e somiglianti; sicchè i fatti non han più una distinzione abbastanza evidente. Inoltre vuolsi che l'epopea presenti una lotta più d'entusiasmo che di calcolo, e che trovi la ragione e la sequela nella storia universale, come quella dei Greci contro gli Asiatici, de' Cristiani contro i Turchi, dei Portoghesi contro gl'Indiani: e qui pure difetta Lucano, poichè la guerra fra Pompeo e Cesare, da lui cantata, è [359] lotta di due sistemi meramente accidentali; e vinca l'uno o l'altro, l'umanità non v'avrà che vantaggi speculativi. Il che viepiù risulta dacchè Lucano non seppe nei due capi personificar la parte che ciascuno sosteneva, e darvi quell'individualità viva, per cui tutte le azioni esterne son ricondotte al carattere interno, alla coscienza, alla risoluzione. Egli poi frantese il soggetto fin a credere che una battaglia avrebbe potuto ristabilire l'antica repubblica, cioè rassodare la tirannide dei patrizj sopra la plebe. Qual eroe di poema cotesto Pompeo, mediocre sempre, più ancora nell'ultima guerra, ove misurava se stesso dalle adulazioni che lo avevano abbagliato? Cesare, forse il più grande dei Romani, insignemente poetico per l'infaticabile ardimento e per la popolarità, è da Lucano svisato; e per rappresentarlo come un furibondo ambizioso, il quale nel dubbio s'appiglia sempre alla via più atroce[322], ricorre a particolari insulse quanto bugiarde: in Farsaglia fa che esamini ogni spada, per giudicare il coraggio di ciascun guerriero dal sangue ond'è lorda; spii chi con serenità o con mestizia trafigge; contempli i cadaveri accumulati sul campo, e neghi ad essi i funebri onori; e imbandisca sur un'altura per meglio godere lo spettacolo dell'umano macello. Ma può far con questo che Cesare non appaja il protagonista dell'azione? e di Pompeo vede altro il lettore se non le blandizie onde lo careggia il poeta, col tono stesso onde piaggiava Nerone?

Lavorando di partito non di giudizio, impicciolisce le grandi contese coll'arrestarsi attorno ad accidenti momentanei; come nelle gazzette, tu vi ritrovi esaltate le piccole cose, non capite o vilipese le maggiori, trattenuta l'attenzione su particolarità inconcludenti, e sviata [360] da ciò che è capitale; nè vi riconosci il cuor dell'uomo colle mille sue rinvolture, colle infinite gradazioni fra cui ondeggia la natura umana, ma inflessibili virtù o mostruose tirannie. Quasi non basti l'orrore d'una guerra più che civile, devono vedersi le serpi andare in frotta pei libici deserti; le piante d'una selva non cadranno sebben recise, tanto son fitte; nelle battaglie, stranamente micidiali, a ruscelli scorrerà il sangue, i morti resteranno in piedi tra le file serrate, piaghe apriransi come l'antro della Pitia, il grido dei combattenti tonerà più che il Mongibello. Al modo dei retori, moltiplica descrizioni e digressioni di tenuissimo appiglio: e per verità in queste soltanto si mostra poeta; ma scarso di giudizio e di gusto, al difetto di varietà vorrebbe supplire coll'erudizione, all'entusiasmo e alla dignità colla ostentazione di massime stoiche, al sentimento della natura morale colle particolarità della materiale. Spesso ancora il pensiero è appena abbozzato o incomprensibile: uniforme il color negro, talora esercitato sopra particolarità schifose, sopra analisi di cadaveri in decomposizione, sopra una maga che stacca un impiccato dalla forca, snodandone la soga coi denti, e ne fruga gl'intestini, e resta sospesa pei denti a un nervo che non si vuol rompere[323]. Il verso, talora magnifico, più spesso va duro e contorto: soverchie le particolarità, dalle quali se egli mai si solleva al grande, dimentica l'arte di arrestarsi e travalica. Chi [361] di noi non si sentì infervorato a quel suo ardore di libertà, alla franchezza stizzosa delle parole? ma se ti addentri, non vi trovi nulla meglio di quel che tutti i Romani colti d'allora provavano, aborrire le guerre civili per ignavia o spossatezza; ribramare l'antica repubblica, non per intelligenza delle istituzioni sue, ma perchè come esercizj di scuola i pedanti proponevano gl'innocui elogi di Bruto e di Catone ai futuri ministri di Nerone e Domiziano.

Era frutto naturale delle costoro discipline un poema dove o si vituperassero gli Dei imputandoli delle sventure della patria, o s'imprecasse alle discordie cittadine, osservate nel loro aspetto più superficiale, l'uccidersi cioè tra padri e fratelli; salvo a lodare le intempestive virtù di Catone che a quelle tanto contribuì, e preporre il giudizio di lui alla decisione degli Dei[324]. E agli Dei, cui Roma più non credeva, non era possibile attribuire un'azione in quell'epopea, laonde il poeta vi surrogò un soprannaturale del genere più infelice: ed ora la patria, in sembianza di vecchia, tenta rimover Cesare dal Rubicone; ora i maghi resuscitano cadaveri per cavarne oracoli; ora indovinamenti di Sibille, o presagi naturali; e mentre s'impugna la provvidenza[325], adorare la fatalità, che esclude e la rassegnazione e la speranza; incensar la Fortuna, diva arbitra degli umani avvicendamenti, al fondo de' quali non v'è che la desolazione e il nulla. È conseguente se preconizza la morte come un bene che dovrebbe concedersi solo ai [362] virtuosi[326], un bene perchè assopisce la parte intelligente dell'uomo, e lo conduce non nel beato Eliso ma nell'oblivioso Lete[327].

Ci dicono che bisogna scusarne i difetti perchè morte gli tolse di dar l'ultima mano. Ma la lima avrebbe potuto mutare il generale concetto? dargli i dolci lampi d'un'immaginazione vera, d'un affetto sincero? e pari sventura non era accaduta a Virgilio? Però la lingua epica che Virgilio aveagli trasmessa di prima mano, fu da Lucano pervertita, come la prosastica da Seneca; ciò che il primo avea detto con limpida purità, egli contorce ed esagera; affoga tutto in una pomposa miseria di voci, d'antitesi e di ampolle, dove sempre la frase è a scapito del pensiero, l'idea è sagrificata alla immagine, il buon senso all'armonia del verso.

Eppure di fantasia e di facoltà poetica era meglio dotato che Virgilio: ma questo ebbe l'accorgimento di gettarsi su tradizioni non discusse e care ugualmente a tutta la nazione; Lucano si fermò ad un fatto, su cui discordavano opinioni e interessi. Virgilio adulò, ma più Roma ancora che i suoi padroni; Lucano, rassegnato ad obbedire a Nerone, esaltava uno che non era l'uom del popolo, e che al più destava simpatie patrizie. Virgilio fece egli stesso il suo poema; il poema di Lucano fu fatto da quelle conventicole d'amici e compagnoni, che guastano colle censure e colla lode. Virgilio covò nel segreto l'opera propria, e tanto ne diffidava, che morendo ordinò di darla alle fiamme: Lucano, ebbro [363] degli applausi riscossi ad ogni recita, assicurava se stesso che i versi suoi, come quelli d'Omero e di Nerone, sarebbero letti in perpetuo[328], e morendo li declamava, quasi per confermare a se stesso che, chi gli toglieva la vita, non gliene torrebbe la gloria. Virgilio rimarrà il poeta delle anime sensitive: Lucano sarà il precursore di quella poesia satanica, che vantasi invenzione del secol nostro, nudrita di sgomenti e di disperazione, di tutto ciò che spaventa o desola, e che compiacesi di scandagliar le piaghe dell'anima, dell'intelligenza, della società per istillarvi il veleno della beffa e della disperazione.

E noi tanto rigore gli usiamo perchè quei difetti sono pure dell'età nostra, e perdettero e perderanno altri eletti ingegni.

Nè più che qualche lode di stile concederemo ad altri epici, i quali, sprovvisti del genio che sa e inventare e ordinare, sceglievano i soggetti non per impulso di sentimento, ma per reminiscenza e per erudizione, e sostenevansi nella mediocrità coi soliti ripieghi dell'entusiasmo a freddo, e colle descrizioni, abilità di chi non ha genio. Tutto ciò che è mestieri ad un poema, tu trovi negli Argonauti (111) di Cajo Valerio Flacco padovano, nulla di ciò che vuolsi ad un poema bello; non il carattere dei tempi, non l'interesse drammatico, non la rivelazione del grande scopo di quell'impresa, degna al certo d'occupare una società forbita e positiva. Non lascia sfuggire occasione di digressioni; accumula particolarità di viaggi, d'astronomia; con erudizione mitologica portentosa sa dire [364] appuntino qual dio o dea presieda alle sorti di ciascuna città od uomo, quanti leoni figurino nella storia d'Ercole, in qual grado di parentela stia ogni eroe coi numi, e la precisa cronaca degli adulterj di questi; e l'espone senza nè l'ingenuità de' primi tempi che fa creder tutto, nè la critica degli avanzati che investiga il senso recondito. Anche nello stile barcolla fra le reminiscenze de' libri e l'abbandono famigliare, che però non lo eleva alla naturalezza. Messosi sulle orme del greco Apollonio da Rodi, corre meglio franco ed elegante quando se ne stacca[329].

Più accortamente Cajo Silio Italico (25-95), di Roma o d'Italica in Ispagna, scelse a soggetto la Guerra punica; ma sfornito d'immaginazione, farcisce in versi ciò che da Polibio fu narrato sì bene, e da Livio in una prosa senza paragone più ricca di poesia che non l'epopea di Silio. Il quale, ligio alla scuola, v'aggiunse di suo un soprannaturale affatto sconveniente, e finzioni inverosimili che per nulla rompono il gelo perpetuo, mal compensato dall'accuratezza di alcune descrizioni. Conosceva a fondo i migliori; di Cicerone e di Virgilio era tanto appassionato, che comprò due ville appartenute ad essi, ed ogni anno solennizzava il natalizio del cantore di Enea: ma il suo era culto di divinità morte, e sacrificava la propria intelligenza per pigiarla in emistichj tolti ai classici, faceva nascere i pensieri a misura delle parole, e a forza d'erudizione e di memoria riempì la languida vanità di quell'opera[330], la quale non ha [365] tampoco i difetti che abbagliano ne' suoi contemporanei, e che da alcuni sono scambiati per bellezze. Plinio Cecilio, amico e lodator suo, confessa che scribebat carmina majore cura quam ingenio, e che acquistò grazia appo Nerone facendogli da spia, ma se ne redense con una vita virtuosa, e tornò in buona fama. Console tre volte, proconsole in Asia sotto Vespasiano, colle mani monde di latrocinj ritirossi in Campania, comprando libri, statue, ritratti, curiosità di cui era avidissimo: ma preso da malattia incurabile, si lasciò morire, come allora parea virtù.

Terenziano Mauro fece un poema sulle lettere dell'alfabeto, le sillabe, i piedi e i metri, con tutto l'ingegno e l'eloquenza di cui sì ritrosa materia poteva essere suscettibile; e giovò a farci conoscere la prosodia latina, giacchè al precetto accoppiando l'esempio, usa man mano i versi di cui parla. Lucilio giuniore, amico di Seneca, cantò l'Eruzione dell'Etna. Conosciamo sol di nome i lirici Cesio Basso, Aulo Settimio Severo, Vestrizio Spurina; e forse sono di quell'età i distici morali (Disticha de moribus ad filium) di Dionisio Catone, che nel medioevo ebbero molto corso. Le egloghe danno a Giulio Calpurnio Siculo il secondo posto fra i bucolici latini, ma ad immensa distanza da Virgilio; non come questo introduce pastori ideali, sibbene veri mietitori, boscajuoli, ortolani semplici e rozzi, cui imita fin nei modi di dire. Ha interesse storico la settima, ove un pastore, tornato da Roma, narra i combattimenti che vi ha veduti nell'anfiteatro.

Ma in tanti poeti cerchereste invano uno di quei passi sublimi o patetici, che accelerano il battito del cuore, o dilatano il volo dell'immaginazione; qualche [366] giusta e viva pittura di caratteri e di situazioni reali della vita e del cuore. In abbondanza, in dovizia di sentimenti vincono talvolta quelli del secol d'oro: ma esalano in sentenze ed immagini, anzichè tener dietro al progresso d'una passione; pongono l'arte nel voltare e rivoltare l'idea sotto tutti gli aspetti ond'è capace, vincere le difficoltà descrivendo ciò che non n'ha bisogno; e dove la parola propria o qualche calzante epiteto basterebbero, sfoggiano scienza ed anatomia, che guastano l'effetto dell'immaginazione, e tolgono il bello col mostrare d'andarne in caccia.

Prediletto spettacolo erano ancora il circo e la ginnastica, portati all'eccesso; Caligola, Caracalla, perfino Adriano scesero nell'arena; Comodo assaliva colla spada gladiatori armati di legno; si vollero atleti che si colpissero alla cieca; Domiziano fece lottare nani e donne; sotto Gordiano III, duemila gladiatori ricevevano stipendio dal pubblico; nel circo offrironsi battaglie d'interi eserciti, ed una navale da Elagabalo in canali ripieni di vino. Di mezzo a questi sanguinosi clamori poteva prosperare l'arte drammatica? Meglio fu favorita la pantomima, ove gl'imperatori non aveano a temere i fulmini della parola.

Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e vuote di quel che appunto costituisce il dramma, cioè l'azione, la vita animata, corrono sotto il nome di Seneca: ma sono opera d'uno o più Stoici, d'immaginazione senza giudizio, d'ingegno senza gusto, i quali fan parlare e morire la vergine Polissena e il fanciullo Astianatte come un Catone in Utica; eppure vi spruzzolano le empietà di moda, proclamando che tutto finisce colla morte[331]. Passione falsa, contraddittoria, sempre [367] esagerata e nel bene e nel male; preferita la dipintura del furore, i caratteri atroci, i colori strillanti alla tranquilla armonia de' quadri e al graduale procedere delle passioni; fin dal cominciamento lo spettatore deve restare attonito, atterrito, nè mai trovar riposo. Le donne medesime hanno musculatura maschile, forsennati furori, amor materiale, tanto che Fedra invidia Pasifae, esclamando, — Almeno ella era amata!»

Destinate alle solite declamazioni non al teatro, in quelle tragedie non sono nè concatenate le scene, nè variati i caratteri, nè giustificate le situazioni; bensì tragicamente coloriti i racconti, e sparsi di modi e pensieri arditi e franche sentenze, che quantunque ivi si trovino per lo più fuor di posto, parvero degne d'imitazione a Corneille, a Racine, ad Alfieri, a Weisse. Forse da esse venne alle moderne tragedie quell'aria di declamazione che tanto le slontana dai greci modelli, e quelle risposte concise ed epigrammatiche, le quali dappoi sembrarono bellezze[332].

Non l'espressione de' sentimenti dell'anima, come nella lirica; non la magnifica esposizione, come nell'epopea; ma un'idea generale del bene, applicata [368] argutamente a particolarità moderne, costituisce la satira. Era perciò eminentemente propria de' Romani, che dietro di sè aveano un'età, popolarmente dipinta come sobria e pudica; sicchè viepiù risaltava il disaccordo fra la morale astratta e il mondo reale.

Ma la pericolosa abilità della satira rado giova o non mai, produce nemici, e trae spesso a saettare ciò che maggiormente rispettar si dovrebbe, la virtù, le profonde convinzioni, la disinteressata attività. Solo un cuore benevolo e la evidente intenzione del miglioramento possono acquistarle lode: or questo trovasi nei satirici latini? Essi meritano speciale attenzione, perchè un tal genere più d'ogni altro risente l'influsso del tempo, da cui trae la materia, i colori, la vita. All'età di Mario, quando gran parte ancora conservavasi dell'antica rozzezza, quantunque la digrossassero le mode greche, e al vizio, irruente coll'allettamento della novità, si opponeva la sdegnosa repressione delle antiche virtù, comparve Lucilio, che con modi plebei e festività plateale e sali caustici più che lepidi, attaccò men tosto i difetti che le persone di qualunque grado o stirpe. Al tempo d'Orazio, la civiltà greca era prevalsa col corredo de' vizj eleganti, e colla conseguenza delle guerre civili, [369] delle proscrizioni, del mutamento di repubblica in impero. Dove era riuscita inefficace la disciplina dei censori, poteva il satirico lusingarsi di porre un freno alle voluttà, al lusso, all'ingordigia? Orazio, il cui fino gusto comprendeva che la cosa da evitare di più è l'inutilità, s'accontentò di porgere verità d'esperienza, precetti parziali di qualità casalinghe, lezioni minute che s'imparano solo coi capelli bianchi: ma ingegnoso a scorgere i difetti, arguto a dipingerli, non si propone di farli aborrire; vuol trovare di che ridere, anzichè condurre altrui all'austerità; imitando Augusto nel lodare le virtù vecchie ed abbracciare i vizj nuovi, alla corruzione fa omaggio col mostrare d'abbandonarvisi egli stesso a capofitto. In lui trapela il sereno d'una società che si rallieta dopo lunghi patimenti, si riposa da fiere convulsioni, e promettesi lunga durata; e Orazio, non mordendo, ma solleticando, mira piuttosto a smascherare quelli che si danno aria di virtuosi, e avvezzare ad un viver tranquillo e gajo, a sprezzar le ricchezze, la potenza, tutti que' desiderj che turbano la calma; accontentarsi del proprio stato, e cogliere fiori in sulla via.

I tempi erano peggiorati col sistema imperiale, e alla corruttela traboccante non poteasi opporre che il ferreo argine dello stoicismo, irreconciliabile col vizio, armato di inflessibili sentenze. Decimo Giunio Giovenale (42-122?), ispirato dal dispetto, non ride, ma si corruccia; non saltella da cosa a cosa, ma fila la sua tesi a modo dei retori, severo per proposito fin nella celia. Se però t'addentri, sotto la generosa indignazione scopri un declamatore, onesto se vuoi, ma che calcola sempre, non sente mai; protesta vigorosamente contro la corruzione, ma quando sotto Trajano la franchezza non recava pericolo; e sentenzia di pazzo chi per compiere una grande azione mette a repentaglio la sicurezza [370] proveniente dall'oscurità o dalla scempiaggine: e quel suo finire una violenta declamazione con una comparazione arguta o con una lambiccata[333], ti lascia in dubbio s'e' parli da senno o da beffa.

Nelle sedici sue Satire intende abbracciare tutto quel che gli uomini pensano, fanno, patiscono[334]. Nella prima rimpiange l'antica libertà della parola; ond'egli, per cansar pericolo, l'accoccherà solo a morti. La seconda rimorde i filosofi, severi all'esterno, corrotti dentro; e i grandi, modelli di depravazione. Delle più vive è la terza, ove ritrae gl'impacci di Roma e gli scomodi d'una metropoli. Una mette in canzonella i senatori, gravemente convocati da Domiziano per decidere sul migliore condimento d'un pesce: una le donne vane, imperiose, dissimulate, libertine, avide, superstiziose: una chi ripone la nobiltà nei natali, non nel merito. Or invitando un amico a cena, gli porge la distinta dei cibi, per elogio della frugalità e rimprovero del lusso; or festeggia un amico scampato dal naufragio, e perchè non si creda interessata la gioja, assicura che quello ha figli, donde si fa passaggio a ritrarre gli [371] artifizj con cui si uccellava alle eredità de' celibi[335].

Egli ci mostra Roma piena di Greci, che, capitati con un carico di fichi e prugne, si posero ad ogni mestiero; grammatici, retori, geometri, pittori, medici, auguri, saltambanchi, maghi, adulatori che lodano i talenti d'uno scemo, pareggiano ad Ercole uno sciancato, encomiano vilmente e son creduti, e si vendicano della vinta patria col corrompere la vincitrice. Al cliente, coricato al desco col patrono, tocca la continua umiliazione di vedere a questo il pan buffetto e il vin pretto o l'acqua limpida; a sè una focaccia di farina muffa, acqua fangosa, e il profumo dei frutti e delle delicature, e le celie del signore, per corteggiare il quale egli innanzi l'alba lasciò moglie e figli, e venne a batter la borra sul freddo lastrico del palazzo. Il ricco ammira il poeta, gli presta la sala per leggere i versi, e i liberti per applaudirlo, ma poi lo rimanda a dente secco: lo storico riceve poco più d'uno scrivano: al grammatico è decimato il salario dall'ajo o dall'economo. È di moda l'avvocato che si fece fare il busto e la statua, che ha otto portinaj e non so quanti anelli, e la lettiga dietro e un codazzo d'amici: mentre l'altro, il quale non è che onesto, riceve in premio delle sue fatiche un prosciutto secco, cattivi pesci, e vino colla punta; o se tocca una moneta, dee dividerla coi mediatori che gli procurarono l'avventore.

Tutto ciò espone Giovenale in tono di predica e febbricitando d'indignazione, con amara beffa e stizzoso [372] flagello. Ingegno nello scegliere le circostanze, robustezza nel colorire non gli mancano; nelle composizioni d'età matura va più pacato, e lascia prevalere il riso allo sdegno; adopera linguaggio dotto, copioso, non mai vulgare. Chi però volesse da lui desumere la vita privata de' Romani, per riscontro alla pubblica dipinta da Tacito, resterebbe illuso da quest'onesto mentitore, che vede da falso punto, ed espone iperbolico e declamatorio. I tempi chiedeano ben altro che il riso d'un poeta: nè riformarli poteva uno, che, mentre si querela della negletta religione, la toglie in beffe[336]; che a turpissimi vizj oppone aforismi cattedratici d'una virtù assoluta, generica, vaga[337]; che per consolazione ai patimenti non sa suggerire se non il forte animo e il disprezzo della morte. Messe a nudo le miserie del povero, proprie di tutte le età o speciali di quella, qual voto fa egli? che tutti i poveri antichi si fossero da sè esigliati da Roma[338]. Non ne potevano dunque restar giovati i coetanei suoi: quanto ai posteri, leggendo si consolano d'esser fatti tanto migliori, ma tornano ad Orazio, de' cui mezzi caratteri trovano spesso il riscontro ne' mezzi uomini contemporanei.

Dopo che Orazio diede un esempio inarrivabile di scrivere la satira con modi piani e popolari (sermones per humum repentes), ai successivi fu rituale uno stile rotto e manierato: ma Giovenale nel verso, nelle frasi, nelle parole stesse sorpassa tutti per originale rigidezza, [373] acquisita con assiduo studio; non voce, non passaggio inutile, non verbo che non cresca vigore, non imitazione che sacrifichi il pensiero alla frase; nulla di semplice, di affabile; non lingua appresa dal popolo, ma decretata dai grammatici e dai retori.

Nato ad Aquino, educato nelle solite scuole di declamatori, fin a quarant'anni attese ai tribunali: avendo poi recitato ad alcuni amici una satira contro di Domiziano e di un poeta a lui ligio, gli applausi che ne riscosse lo drizzarono a questo genere. Adriano, credendosi preso di mira in alcuni frizzi di lui, lo mandò in Egitto già ottagenario, dandogli per celia il comando d'una coorte. Ivi morì di noja e di rammarico.

Aulo Persio Flacco (34-62), orfano di famiglia equestre volterrana, a dodici anni venne a Roma sotto i soliti sciupateste; ma a ventott'anni morì. Anneo Cornuto suo maestro ne pubblicò le satire, sopprimendo ciò che credette cattivo o pericoloso; ed eccitarono viva ammirazione, forse per quel sentimento che tante speranze fa sorridere dalla tomba d'un giovane. Ma l'esperienza e le correzioni avrebbero potuto togliervi l'affettata pienezza, o dargli l'immaginazione, senza cui poesia non è?

Sarebber esse a dire un sermone solo, trinciato poi dal suo raffazzonatore in sei prediche sopra soggetti morali, oltre una prefazioncella. Nella prima, egli burla il ticchio di far versi e il mal gusto in giudicare: nella seconda, dardeggia la frivola incoerenza de' voti onde i mortali sollecitano gli Dei: nella terza, i molli giovani aborrenti da ogni seria occupazione: la quarta morde la presunzione onde tutti credonsi capaci di tutto e principalmente di governar gli Stati: nella quinta esamina qual uomo sia veramente libero, e conchiude il savio: l'ultima punge gli avari, che negandosi il necessario, accumulano per eredi scialacquatori. [374]

Come Orazio, Giovenale avea dedotto le sue satire dall'osservazione propria, dalla conoscenza della vita: Persio invece soltanto dalle scuole. Guasto nel midollo dallo stoicismo di queste, sprezza non solo il superfluo, ma il necessario[339]; fa colpa del più innocente atto, se la ragione non vi assenta[340]; all'uomo intima non esser lui libero, perchè ha passioni; condanna i raffinamenti della civiltà, il vestir bene e l'usare profumi.

Ah! ben altri vizj deturpavano il suo tempo; infamia di delatori, avvilimento del senato, insolenza di liberti, stravizzo e bassezza di tutti. Ma Persio non sapeva nulla di ciò, perchè nulla gliene avevano detto nella scuola; solo udito in generale che il secolo era corrotto, si prefigge di manifestare il suo ribrezzo con aerea e filata discussione da gabinetto, sovra argomenti prestabiliti, non su quelli che, cadendogli sott'occhio, lo stizzissero od ispirassero. Con quella superba generosità vede e parla esagerato; insiste sulla medesima tesi, comunque simuli arditi passaggi e dure inversioni; cerca minuzie e sottilità e figure retoriche e tropi, anche quando sembra passionato.

Orazio, uom di mondo, urtante e riurtato dagli uomini, è sempre l'autore del momento, nè diresti avesse già pensato jeri a quel che getta sulla carta allorchè il vizioso o il malaccorto gli dà tra' piedi; ti porta sul luogo; al vizio attribuisce persona e nome, sicchè tu lo conosci, e le particolarità sfuggono meno alla mutata posterità. Persio invece sta sulle generali, con pitture vaghe e costumi e scene e personaggi indeterminati; argomenta scolasticamente ove gli altri due discorrono [375] saltuariamente; e le poche volte che cerca il drammatico andamento di Flacco, diventa oscuro ancor più dell'usato; talchè l'attribuire le botte e le risposte a quest'interlocutore piuttosto che a quello, è laborioso indovinamento de' commentatori. Ai quali pure diè fatica quel suo stile ambizioso, ove mancando sempre d'immagini, e non sapendo vestire i concetti filosofici reconditi, la sterilità delle idee dissimula sotto una lingua bizzarra, congegnata di parole piene pinze. Il suo verso è sonoro, ma spesso ambiguo: e se Lucilio imitò i Greci, e Orazio imitò Lucilio, Persio imita Orazio, catena nella quale egli rimane troppo dissotto; perocchè in Orazio troviam sempre begli argomenti, trattati con arte squisita, varietà somma, digressioni felici, e l'arte di coprir l'arte. Quindi egli è sempre venusto, Giovenale austero, Persio arcigno; egli pien di lepidezze, Giovenale di sarcasmo, Persio d'ira; l'uno persuade, l'altro scarifica, il terzo filosofeggia: sicchè amiamo il primo, temiamo il secondo, il terzo compassioniamo.

Oltre queste satire, e quella che Sulpicia moglie di Galeno scrisse de corrupto reipublicæ statu quando Domiziano cacciò d'Italia i filosofi, ne correano in Roma altre democratiche, libera espressione di sdegno le più volte, d'applauso talora, progenitrici delle odierne pasquinate, e i cui autori restavano incogniti, ma più nazionali che le poesie letterarie[341]. [376]

Altri colori a dipinger la vita domestica de' Romani somministra Petronio Arbitro marsigliese nel Satyricon (66), misto di prosa e di versi (pag. 137). Suppongono costui fosse ministro delle voluttà di Nerone, e le descrivesse; ma pare che, più d'un secolo dopo, qualche curioso ne trascrivesse i passi che più gli piacevano e che soli a noi arrivarono, sconnessi, oscuri, aggrovigliati, donde non trapela altra intenzione se non di abburattare libertinamente il libertinaggio del suo tempo, corrompendo con aria di riprovar la corruzione, ed ubriacandosi nell'orgia comune. Trimalcione, uom di dovizie splendidissime, tronfio quanto baggeo, in cui altri crede adombrato Claudio, altri il successore di esso, noi più volentieri l'ideale dei tanti ricchi lussurianti nella Roma d'allora, v'è circondato da parasiti, [377] da filosofi, da poeti, dall'infame voluttà dei grandi. Eumolpo, tolto a mostrare ai convitati qual deva essere il poeta vero, insegna non bastare a ciò il tessere belle parole in versi armoniosi, ma volersi generosi spiriti, evitare ogni bassezza d'espressione, dar rilievo alle sentenze; e propone ad esempio un suo componimento sopra le cause della guerra civile, forse per appuntare Lucano che non le accenna, e con gravi parole tassa il deterioramento dei costumi. — Già il Romano teneva soggiogato tutto il mondo, nè però era satollo; ricercando scorrevansi i seni più reconditi; e se alcuna terra vi fosse che mandasse oro, aveasi per nemica. Non piacevano i gaudj noti al vulgo, o la voluttà comune colla plebe; traevansi dall'Assiria l'ostro, dalla Numidia i marmi, le sete dai Seri, dagli Arabi i profumi; [378] nelle selve dei Mauri cercavansi le fiere; correvasi fin nell'Ammone, estremo dell'Africa, per averne l'avorio; e le tigri caricavano la nave per bevere umano sangue fra gli applausi del popolo a modo dei Persiani. Deh vergogna! si recide agli adolescenti la pubertà, acciocchè sia prolungata la fuga de' celeri anni; ma piaciono le bagasce, e il rotto portamento del corpo snervato, e i cascanti capelli, e i nuovi nomi delle vesti disdicevoli ad uomo. Una mensa di cedro svelto dalle terre africane, e turme di schiave, e splendido ostro si pone; e vuolsi ornare l'oro istesso. Ingegnosa è la gola; lo scaro si reca vivo sulla mensa, immerso nel mar Siculo, e conchiglie svelte dai lidi Lucrini: già l'onda del Fasi è deserta d'augelli, e nel muto lido le sole arie mormorano fra i deserti rami. Nè minore è la rabbia in campo, ed i compri Quiriti volgono a guadagno i suffragi; venale è il popolo, venale la curia dei padri, pagasi il favore; anche ai vecchi cadde la libera virtù, e il potere e la maestà giaciono corrotti dalle ricchezze: talchè Roma ruinata è merce di se stessa, e preda senza riscatto». Allora trae fuori un macchinamento della fortuna e dell'inferno che predicono i mali avvenire, e della discordia che abbaruffa Cesare e Pompeo.

Il Satyricon è il primo romanzo latino che conosciamo: maggior fama levò quello di Lucio Apulejo, la cui vita stessa è un romanzo. Nato bene a Medaura colonia romana in Africa, al tempo degli Antonini, studiò a Cartagine, in Grecia, a Roma[342]; viaggiò, [379] aggregandosi a varie fraternite religiose[343], e recitando dappertutto arringhe, secondo l'andazzo d'allora. Alcune di queste (Floride) ci arrivarono, copiose d'erudizione quanto tapine di critica e credule all'eccesso; eppure gran nome gli acquistarono, e perfino statue.

A forza di spendere, non avanzò di che farsi consacrare al servizio d'Osiride. Riguadagnò col piatir cause, e meglio collo sposare Pedentilla, vedova di quarant'anni e di quattro milioni di sesterzj. I parenti di questa gli posero accusa d'averla innamorata con sortilegi; ma citato davanti al proconsole d'Africa, si scolpò con un'apologia, che ci rimane bizzarro testimonio dei pregiudizj correnti. Magie e siffatte superstizioni più tardi egli derise, ma senza deporle; e sebbene nella Metamorfosi o l'Asino d'oro ne faccia la satira, credeva che i demonj potessero immediatamente sull'uomo e sulla natura.

Il concetto dell'Asino d'oro è derivato da Luciano, ch'esso pure lo dedusse da Lucio di Patrasso: ma il nuovo episodio d'Amore e Psiche è degno di stare fra quanto ci lasciò di più squisito l'antichità. Appunto perchè oscuro, quel romanzo fu interpretato in mille guise: i Pagani fecero d'Apulejo un semidio miracoloso da opporre a Cristo: nel medioevo s'andò a cercarvi il segreto della pietra filosofale: indi i metafisici vi trovarono indicato l'avvilimento dell'anima pel peccato, finchè la Grazia non la sollevi: molti vi attribuiscono [380] l'intenzione di rialzare i misteri, caduti in discredito; eppure ne rivela le abominazioni, quantunque per verità l'XI libro esponga nella loro bellezza quelli d'Iside e Osiride, dandocene informazioni preziose.

Ricco di cognizioni storiche, non raggiunge a gran pezza Luciano per fecondità di genio o acume nel cogliere il senso de' sistemi filosofici e trovarne il lato ridicolo; tanto meno poi nell'accuratezza dello stile: anzi in uno scrivere prolisso, oscuro, pretensivo, vacillante tra parole arcaiche e nuove, lascia sentire quanto fosse imbarbarita la romana lingua.

Le opere non solo più importanti ma anche migliori di quest'età sono le storiche. Cornelio Tacito (54-134?), nato a Terni nell'Umbria di famiglia plebea, entrò nella milizia, poi si fece avvocato, e scrisse molte arringhe; sostenne la questura e la pretura sotto Domiziano, vide la Germania e la Bretagna, fu anche console, e menò lunga vita, più tranquilla che non parrebbe dalla severa scontentezza de' suoi scritti.

In mezzo a quei vivi contrapposti di buoni e cattivi signori, all'agonia del bene e del male, egli contemplava in silenzio una lotta senza vigore; e prima d'esporsi al pubblico sguardo, aspettò la maturanza degli anni. Passava i quaranta allorchè per gratitudine scrisse la vita d'Agricola suo suocero, sollevando la biografia alla dignità di storia, coll'introdurvi gli eventi d'un popolo nuovo, cioè il britannico, del quale sa cogliere le particolarità più significanti.

Vi mandò dietro la descrizione della Germania, quasi volesse mettere in vista quelle genti rozze ma integre, che sovrastavano minacciose alla depravata civiltà dell'impero. Poche pagine, eppure è uno dei lavori più importanti dell'antichità, ed incomparabile modello dell'arte di dir molto in breve. Le cose vide egli stesso o le udì da suo padre; e vuole opporre alla viziosa [381] decrepitezza del suo secolo la vigorosa integrità di genti nuove. Ignaro della lingua teutonica, dovette frantendere troppe cose; riscontrò gli Dei di Grecia e di Roma ne' germanici; le imperfette cognizioni che ne acquistò, tradusse cogl'inesatti equivalenti d'una civiltà affatto diversa. La studiata brevità poi non basta a gran pezza a significare ciò che lo storico concepisce, o converte la parola ad uso diverso dal comune. Ciò scema, non toglie a Tacito il merito di offrir le prime pagine della storia moderna.

Sperimentate le sue forze, diede mano alla storia di Roma in trenta libri da Galba a Nerva, il regno del quale e di Trajano, come tema più ricco e più sicuro, serbava per istudio di sua vecchiezza. Ma poi trovò più conforme al suo genio di descrivere in forma di annali le atrocità o le follie dei primi quattro successori d'Augusto (pag. 119). Gran parte del lavoro andò perduta; nè delle Storie ci restano che quattro libri e il principio del quinto, in cui è abbracciato poco più che l'anno 69: degli Annali ne avanzano dodici con molte lacune; perito quanto si riferiva al restante regno di Tiberio, a quel di Caligola e gran parte di Nerone; poi ci vien meno affatto quando gli avrebbe dato tanta importanza il mostrare il cambiamento di dinastia.

Nessuno seppe meglio rendere drammatico il racconto, ove minutissimamente espone la vita politica, e le relazioni de' principi col popolo romano. Storico filosofo, gran conoscitore del cuore, e dipintore inarrivabile de' caratteri, la grave moralità lo rende indignato col suo tempo, che egli anatomizza senza remissione come un cadavere; e se tra l'indagine gli casca sotto al coltello una parte ancor vitale, la manda al taglio medesimo; e il supplizio dei Cristiani descrive come quello di tant'altre vittime, spettacolo al tiranno o al popolo. Di religione non si briga, pur riferendo [382] tante superstizioni; ma ammette una potenza superna, moderatrice delle cose e delle azioni umane, non senza dubbj però[344]: come tutti i pensatori, predilige la forma repubblicana d'una volta, ma riconosce la necessità del principato, poco sperando fin ne' governi temperati[345]: protestando contro il suo secolo anche collo scrivere, sbandisce ogni modo naturale e semplice di concepire e di esporre, e si forma uno stile artifiziato, tutto suo, ora di vivace rapidità, ora di calma maestosa, semplice nella grandezza, qualche volta sublime, originale sempre, da non permettersi una parola di più, nè un fior d'espressione, nè lusso d'immagini, nè cadenza e periodo, come chi non ambisce di piacere, ma vuol che si pensi, che ogni frase istruisca, ogni parola porti un senso, e a tal fine sia precisa per l'oggetto e vaga per l'estensione. Senza modello, rimase senza imitatori. Gli toccò la fortuna di godere della propria gloria, sebbene forse la dovesse piuttosto ai versi e alle orazioni, che andarono perdute, al par di una sua raccolta di facezie. Tra i posteri fu caro a chiunque legge meditando, a chiunque in pubbliche calamità ha bisogno di fremere e rinvigorir la coscienza contro i terrori e la seduzione.

Cajo Svetonio Tranquillo (70-121?), oltre le vite dei Dodici Cesari, di cui già parlammo (pag. 118), scrisse quelle de' retori, de' grammatici e forse de' poeti, e sui giuochi dei Greci, sulle parole ingiuriose e sul vestire dei Romani, sempre con istile corretto, senza fronzoli nè affettazione. [383]

Vellejo Patercolo (m. 31?), campano, narrò la storia universale dall'origine di Roma fino al suo tempo; ma ci rimane quel solo che concerne la Grecia e Roma, dalla rotta di Perseo al decimosesto anno del regno di Tiberio. Caldo di patriotismo, attento alle persone più che alle cose, devoto a Tiberio come un soldato al suo generale, fino ad alterare e sopprimere i fatti. Germanico per lui è un infingardo, un eroe Sejano; nella cui disgrazia dicono che Vellejo andasse ravvolto, non come complice, ma come amico[346].

In generale gli storici latini mostransi più parziali quanto più dominati dallo spirito romano: ma procedendo l'impero, crescono in umana giustizia. Tacito da un capitano barbaro fa dipinger al vivo l'ambizione romana[347], sebbene poi egli stesso si diletti alla strage de' Brutteri[348]: Vellejo è il primo a confessare che Roma distrusse Cartagine per odio, e mostra compassione pei vinti Italiani[349]. Purgato nello scrivere, ma oratorio, è in tentenno, vuol conchiudere ogni fatto con sentenze concettose, sfoggiare colori poetici, antitesi, voltar e rivoltare il medesimo pensiero: poi, lodi o biasimi, è declamatore, e dopo narrata la morte di Cicerone, esce contro Antonio in un'invettiva, che a forza d'esser veemente riesce ridicola.

Dalla caduta di Sejano cominciò Valerio Massimo una raccolta di Fatti e detti memorabili in nove libri, senza giudizio raccolti, senza critica disposti, senza gusto narrati. Predilige gli esempj che tengono del prodigio, e le circostanze che più sentono di strano; [384] ne scapitino pure il vero e la semplicità storica. Perciò piacque ne' mezzi tempi, e fu ricopiato assai volte e carico di glosse. La bassa lega del suo stile, quella declamazione inalterabilmente fredda e severa, fecero ad alcuno supporre che l'opera qual oggi l'abbiamo sia un compendio, o piuttosto un estratto fattone da non so quale Giulio Paride. Il prologo a Tiberio nausea per adulazione.

Giustino diresse a Marc'Aurelio[350] un compendio delle Storie di Trogo Pompeo, dette Filippiche perchè dal settimo libro innanzi trattavano dell'impero macedone. Daremo colpa agli abbreviatori d'aver fatto perdere gli originali, o merito d'averne almen parte conservato? Per verità mal possiamo chiamare compendio questo di Giustino, pieno di digressioni, e sempre largo nel raccontare; se non che ommette ciò che non gli sappia di curioso o d'istruttivo, confonde la cronologia, non sa connettere le parti, e beve in grosso; colpa forse del suo originale, di cui potrebbe esser merito il bello stile.

Di Lucio Anneo Floro, probabilmente spagnuolo, i quattro libri della Storia romana dalla fondazione della città fin quando Augusto chiuse il tempio di Giano, son piuttosto un panegirico in istile poetico, ove trascura la cronologia, esagera i colori, tutto rinforza coll'enfasi e coll'interrogazione che comanda d'ammirare. Ingegnosi sono molti de' suoi pensieri, ed espressi sovente con forza e precisione; ma l'eccesso di sentenze e i tumori poetici rendono freddo e stucchevole il racconto. I Galli, dopo distrutta Roma, sono assaliti alle spalle da Camillo, e uccisi in tal numero che «coll'inondazione del loro sangue vien cancellato ogni vestigio degl'incendj». Le navi di Antonio erano sì vaste, che «non [385] senza fatica e gemito il mar le portava». L'Oceano pare si faccia tranquillo e propizio allorchè la flotta reca le prede a Roma, «quasi confessandosi inferiore»: e invece sembra aver fatto accordo con Lucullo per debellare Mitradate. Fabio Massimo, occupate le alture, di là scaglia armi sui nemici; «e fu bello il vedere quasi dal cielo e dalle nubi avventati fulmini sugli abitatori della terra». Bruto spira sopra l'ucciso Arunte, «come volesse l'adultero perseguire sin nell'inferno». Le guerre dei Galli servivano ai Romani di cote, onde affilar il ferro del loro valore. Narra la spedizione di Decimo Bruto lungo la costa Celtica? v'assicura che non arrestò il vittorioso cammino finchè non vide il sole calar proprio nell'oceano, anzi udi il friggere del suo disco al toccar delle acque.

Vuolsi però che alcune delle sue gonfiezze sieno interpolate. Certamente ha l'arte, così importante ne' compendj, di cogliere i punti principali, e lasciar da banda le particolarità inconcludenti, benchè spesso non offra che i contorni: credulo poi e superstizioso, accetta prodigi assurdi e piglia grossolani errori di fisica e di geografia. Da Livio si scosta spesso; e introduce una idea che s'avvicina a ciò che ora chiamiamo filosofia della storia, attribuendo all'impero romano tre età, d'infanzia, adolescenza, giovinezza; questa suddividendo in due secoli, a cui aggiunse come corona l'età d'Augusto.

A questi tempi vien collocato da alcuni Quinto Curzio Rufo, da altri con Costantino; e poichè nessun antico ne fa menzione, v'ha chi lo crede un frate moderno: tanto manca di carattere proprio. Chi l'accetti come un romanzo, e non s'offenda della gonfiezza e dell'indefesso sentenziare, lo troverà limpido narratore e descrittor fiorito. Anzichè i migliori biografi d'Alessandro, ormò i più creduli e favolosi; della cronologia [386] o di conciliare i fatti contraddittorj che raccoglie, nè di indagare se alcun vero poteva sotto le favole celarsi, non si briga. Poco seppe di greco, pochissimo d'arte militare, nulla di geografia e d'astronomia: il monte Tauro confonde col Caucaso, lo Jassarte col Tanai, mentre distingue il mar Caspio dall'Ircano; fa eclissar la luna quand'è nuova[351]. Nelle parlate vuol far pompa di belle parole e sentenze, convengano o no; e gli Sciti sfoggiano teoremi del Portico greco, e gli eroi spavalderie da scena. Detto a quali indegnità Alessandro adoperasse l'eunuco Bagoa, soggiunge che le voluttà del Macedone furon sempre lecite e naturali.

Altri storici sono ricordati: Lucio Fenestella; Servilio Noniano; Fabio Rustico, spesso citato da Tacito: la greca Pamfila sotto Nerone fece una storia universale in trentatre libri: Svetonio Paolino, un de' migliori generali di Nerone, descrisse la sua spedizione di là dall'Atlante nell'anno 41, adoprata spesso da Plinio maggiore; il quale per le cose d'Oriente appoggiasi a Licinio Muciano, che raccolse ancora i discorsi, gli atti e le lettere degli antichi Romani, e che portava indosso una mosca viva, come preservativo della vista[352]. Sono interlocutori nel dialogo Della corrotta eloquenza Giulio Secondo che narrò la vita di non so quale Giuliano Asiatico, e Vipsanio Messala che descrisse la guerra tra Vespasiano e Vitellio ed altri fatti. La vita di Nerone e le guerre civili che precedettero il regno di Vespasiano espose Cluvio Rufo, che andò perduto, ma servì di fondamento ai successivi. Vivendo in tempi che l'amministrazione era ridotta nei misteri dei gabinetti, [387] dovettero starsi alle pubbliche dicerie, e tacere ciò che potesse sgradire ai tiranni.

Gli autori della Storia Augusta, vissuti sotto Diocleziano o poco dopo, biografi meglio che storici, sul modello di Svetonio, c'informano dei vizj e delle virtù degl'imperatori, dell'educazione, del vitto, del vestire, anzichè sulle grandi rivoluzioni che allora si compivano: poveri anche di stile e d'ordine, ti pare nei loro racconti si riveli la confusione che cresceva sempre più nel romano impero. Forse il solo Flavio Vopisco fu testimonio oculare; gli altri narrano per udita o per lettura, variando stile e pensare secondo le fonti; imbeccati da un autore, passano all'altro e ne ricavano i fatti medesimi, senza dar segno d'accorgersi della ripetizione, che talvolta è fin tripla. Qual fiducia avervi? Eppure da essi soltanto teniamo moltissimi fatti e particolarità di costumi pei censettantott'anni abbracciati da quelle trentaquattro biografie, le quali pare siano state trascelte da alcuno, al tempo di Costantino, fra le molte che esistevano[353]. [388]

A Roma concorreano per trovar pane e onori, o per istudiare uomini e cose, i sapienti e i letterati d'ogni paese; e i Greci benchè non avessero cessato di disprezzare la lingua e la letteratura di Roma, benchè pochissimi di loro degnassero adoprarne la lingua, quali Fedro, Ammiano, Macrobio, pure trovavano degno tema la politica e gli eroi di essa. Il più famoso retore greco Dione Crisostomo dissuase Vespasiano dall'accettar l'impero, osò dire la verità a Domiziano; e Trajano, quando entrava trionfante in Roma, vistolo tra la folla, il fece montar seco sul carro. Vespasiano e Tito protessero specialmente Giuseppe, ebreo di Gerusalemme, perciò intitolato Flavio, il quale nei sette libri delle Guerre giudaiche celebrò le loro vittorie sopra la sua patria. Appiano alessandrino era stato colpito di meraviglia nel veder venire ambasciadori per offrire nazioni nuove a Roma, e questa ricusarle, desiderosa ornai di conservarsi, non di crescere; onde scrisse una storia, dove non restringe lo sguardo a sola Roma. Del suo lavoro ci rimangono le guerre puniche, quelle di Mitradate, dell'Illiria, cinque libri della civile, e alcun che delle celtiche, prezioso monumento. Conobbe gli artifizj della guerra, e narrò col modo schietto che s'addice alla verità, sebbene siasi valso fin delle parole, non che dei sentimenti degli autori a cui si appoggiava. Erodiano ci lasciò otto libri della storia degli imperatori, dalla morte di Marc'Aurelio a quella di Massimo e Balbino, assicurando di riferire ciò solo di cui fu testimonio oculare. Negligendo geografia e cronologia, con felice brevità e buon giudizio sceglie i fatti che più servono [389] a rivelare un'età infelice, ove la politica non poteva che obbedire alle circostanze, e la pazienza dei Romani infondeva baldanza ai soprusi dei loro padroni.

Di ben altra levatura è Cassio Coccejo Dione, bitinio di Nicea, da Comodo e dai successivi imperadori cresciuto d'onorificenze. Per ordine ricevuto in sogno, ridusse in otto decadi la storia di Roma, cominciando da Enea, molto particolareggiato sino alla morte di Elagabalo, poi affatto compendioso fino ad Alessandro. Esatto nelle cose che egli stesso vide, nel resto compila, rinzeppa il racconto di miracoli e sogni: vi sa dire che il sole apparve or più grande or più piccolo avanti la giornata di Filippi; Vespasiano guarì un cieco colla saliva; una fenice volò per l'Egitto nel 790 di Roma. Malmena Cicerone, Bruto, Cassio, Seneca, altri grandi perchè repubblicani; e quasi unico fra gli antichi, parteggia per Cesare ed Antonio, e adopra a legittimare il dominio degl'imperatori. Espone accuratamente l'ordine dei comizj, lo stabilimento dei magistrati, e le vicende del diritto pubblico: onde è dolore che tanta parte ne sia perduta, come pure la sua storia dei Persiani e de' Goti.

Plutarco da Cheronea in Beozia (n. 48), il più divulgato fra gli scrittori antichi, nelle Vite parallele degli uomini illustri pone a confronto un Greco con un Romano. Ignorava le lingue, e perfino la latina, sebbene fosse vissuto in Roma; onde s'espose a falli grossolani. I ducencinquanta autori che cita non assimilò, ma continuamente citandoli trabalza di asserzioni in asserzioni contraddittorie e non risolute; non ordinando per tempo gli avvenimenti, lascia confusione, cresciuta dalle allusioni frequenti ed oscure, e da viziose digressioni morali. Senza sentimento del passato, dipinse tutti gli eroi col colore medesimo, di qual età, patria, condizione si fossero, senza le gradazioni e misture che offrono la [390] vera fisionomia d'un uomo; non vedendo man mano che il suo personaggio, non gl'importa di contraddirsi nella vita d'un altro; lo segue dappertutto, al campo, sul trono, in casa, tra gli affari, accogliendo aneddoti senza scelta nè temperanza: eppure è ben lontano dal presentarceli interi; Cesare e Pompeo ci delinea tutt'altri che nella storia; di Cicerone narra i sogni, le lepidezze, non i fatti pubblici, nè tampoco ne lesse le orazioni.

Egli, che qualificano di giudizioso, crede all'oroscopo di Pirro, ai sogni di Silla, ai corvi che cascano per il fragore degli applausi, a teste di bovi sacrificati che sporgono la lingua e lambono il proprio sangue. Tu aspetti che ti spieghi le cause d'un gran fatto; ed uscirà a narrarti o di serpenti che si annidano nei talami, o d'uccelli che volano in sinistro, o di portenti paurosi, e tutto con una schiettezza o dabbenaggine, che mostra quanto l'uomo rimpicciolisca nelle ubbie al mancare della religione.

Ne' paralleli, più ingegnosi che solidi, ben discosto dalla grandezza, dall'industria, dalla profondità di Tacito, s'arresta a somiglianze superficiali; propende pei Greci, onde mostrare che non sempre furono sì abjetti come al suo tempo. Senza concetto determinato e fecondo, si anima delle passioni de' contemporanei o degli autori da cui attinge, presenta come eroismo l'oblìo dei sentimenti naturali, levando a cielo Timoleone e Bruto che uccidono fratelli e figli, esaltando in Catone quel che ogni onest'uomo deve riprovare. Eppure si concilia i lettori, persuadendoli che dice loro quel che veramente pensa; non mira ad ingannarli anche quando s'inganna egli stesso; non pretende dettar dalla cattedra: la stessa semplicità de' suoi riflessi, non gravidi di pensieri come quei di Tacito, ma consentanei al buon senso generale, alletta i leggitori, contenti che [391] anche alla mente loro già si fosse presentato ciò che lo storico suggerisce.

Dovendo noi ricordarne ciò solo che concerne la storia italica, nomineremo le sue Quistioni romane, ove cerca l'origine d'alcuni usi di quel popolo: perchè nelle nozze dicesi alla sposa di toccar l'acqua e il fuoco, e s'accendono cinque ceri nè più nè meno? perchè i viaggiatori creduti morti, tornando a casa, non devono entrar per la porta, ma calarvisi dal tetto? perchè si copre il capo nell'adorar gli Dei? perchè l'anno comincia in gennajo, e le tre parti del mese non si compongono dell'ugual numero di giorni? perchè non s'intraprende viaggio il giorno delle calende, delle none e degli idi? perchè le donne baciano i parenti in bocca? perchè proibite le donazioni fra marito e moglie? Le risposte, se spesso scipite, talvolta illustrano i costumi. Pose anche a parallelo avvenimenti greci con romani, per provare che quelli mal si reputano favolosi se trovano riscontro nella storia vera; assunto eccessivo e mal sostenuto. Trattando Della fortuna dei Romani e di quella d'Alessandro, fa opera da sofista onde dimostrare che i primi dovettero tutto alla fortuna, l'altro alla propria virtù.

Mentre questi componevano, altri autori criticavano o raccoglievano, non già per divulgare l'istruzione fra la classe che n'ha bisogno, bensì per risparmiare fatica a quella gioventù ben nata, che per condizione doveva saper molte cose, e non avea voglia di studiare. Grammatici e filologi acquistarono in ciò importanza; e alla mediocrità fu dato immortalar il nome di alcuni genj, che altrimenti sarebbero periti. Trista considerazione!

Un Aulo Gellio, o Agellio (chè neppur il nome se n'accerta), vivente sotto Marc'Aurelio, nelle Notti attiche compilò ad uso de' suoi figli quanto udì o lesse di meglio; e sebbene insacchi senza gusto nè discernimento, [392] ci ha conservato rilevantissime notizie e documenti antichi, simile a' musei che si formano coi frammenti ricavati da città che più non esistono. Specialmente importa il libro vigesimo, ove digredisce sulle XII Tavole. Secondo gli autori da cui ritrae, varia di stile; robusto talora, talora anche bello, ma già vi si sente il trasformarsi, della latina favella, l'affettazione dell'arcaismo, deplorabile segno di decadenza, come il rimbambire de' vecchi. Racconta egli che, eletto dai pretori a decidere d'alcune minute differenze fra privati, gli si presentò uno, asserendo aver prestato una somma a un altro che negava. Non v'avea testimonj, non scritta; ma l'attore godeva onesta fama, sinistra il convenuto. Gellio trovavasi impacciato nel caso; i compagni suoi sostenevano non potersi condannar uno senza prove; Favorino gli citò Catone che, in un'evenienza somigliante, diceva doversi far ragione della virtù dei due contendenti: ma Gellio non seppe prender partito in un caso, a parer suo, tanto intralciato.

CAPITOLO XLII. Belle arti. Edilizia.

Dall'arte espressa colla parola è ovvio il passaggio all'arte espressa coi colori e colle forme materiali. Nella quale non è costume vantare i Romani, avendo essi trovato forse più dignitoso, certo più comodo l'arricchirsi colle spoglie altrui. Anticamente è menzionato un Fabio Pittore: ma pochissimi artisti romani accenna Plinio; Cicerone affetta di dimenticare fin il nome di Policleto[354], e quasi si scusa d'avere, tra le indagini [393] d'avvocato, risaputo il nome di Prassitele[355], e protesta di non intendersene punto, d'esser ignorante come gli altri Romani sopra materie cui i Greci attaccano tanta importanza; nè la boria nazionale rattiene Virgilio dal cedere agli stranieri la gloria del ben dipingere, scolpire, arringare[356], purchè si serbi a Roma il vanto di domare i popoli e di dar leggi.

Da principio ogni lavoro d'arte era etrusco, o fatto da Etruschi, pel cui mezzo soltanto forse i Romani conobbero quelle particolarità che noi chiamiamo greche, com'è il triglifo dorico sormontato da dentelli jonici al sepolcro di Scipione Barbato, del 456 di Roma. L'acquedotto della via Appia, costruito nel 310, non porge forme architettoniche, andando sotterraneo; ma di quel tempo attorno al fôro si fecero portici per gli argentieri e banchieri.

Una seconda età comincia quando, conosciuta la coltura greca, si cercarono arti da Siracusa, da Capua, dal vinto Oriente. Il tempio dell'Onore e della Virtù, dedicato nel 205, fu il primo che si ornasse di fregi greci, tolti a Siracusa; e fu alzato da Cajo Muzio, secondo un pensiero di Marcello, che li volle attigui in modo, che non si entrasse al primo se non passando per l'altro: concetto simbolico. Allora al rozzo tufo vulcanico, detto peperino (lapis albanus), si vennero surrogando [394] il travertino e il marmo: il fôro fu decorato suntuosamente: nel 147 colle spoglie macedoniche, portate da Metello, si eressero il magnifico tempio di Giove Statore periptero, opera di Ermodoro da Salamina; e quel di Giunone, prostilo, cinto da gran cortile a colonne.

Durante la seconda guerra punica venne innalzato un tempio a Giunone Ericina, uno alla Concordia; poi quello dell'Onore fuori porta Capena; indi quelli di Giunone Sòspita, di Fauno, della Fortuna Primigenia; poco stante due altri a Giove in Campidoglio, e quello alla dea Madre ed alla Giovinezza; posteriormente il tempio a Venere Ericina, e uno alla Pietà nel circo Massimo.

Il Tabulario, archivio e tesoro, eretto 78 anni avanti Cristo sul clivo del Campidoglio, è a grandi portici, i cui archi esternamente si aprono tra mezze colonne doriche; alle quali probabilmente sovrastava un ordine di corintie. Il tempio della Fortuna Virile, ora Santa Maria Egiziaca, prostilo pseudoperiptero jonico, mostra forme vigorose, come il tempietto funerario di Publicio Bibulo sul clivo orientale del Campidoglio. Superò ogni anteriore magnificenza il tempio della Fortuna a Preneste eretto da Silla, e de' cui rottami si fabbricò Palestrina. Vi si ascendeva per sette vasti ripiani, il primo e l'ultimo de' quali erano ricreati da serbatoj di acqua: al quarto serviva di pavimento il musaico che ora fa il vanto del palazzo Barberini a Roma, e che Plinio dice il primo lavorato in Italia.

Silla stesso fece rinnovare il Giove Capitolino, Mario il tempio dell'Onore, Pompeo quel di Venere Genitrice. Il Panteon, fatto costruire da Vipsanio Agrippa 26 anni avanti Cristo, è una rotonda, illuminata soltanto dall'apertura della cupola, la quale ha l'altezza e il diametro di quarantatre metri, ed è ammirata singolarmente pel [395] pronao di sedici colonne corintie, di trentasette piedi in altezza sopra cinque di diametro, ciascuna d'un pezzo solo di marmo; e tanti secoli non le smossero[357].

Sotto Augusto, fu circondato di portici il suntuoso circo Flaminio, e sorsero il portico d'Ottavia, la piramide di Cestio, il teatro di Marcello, il tempio di Giove Tonante. Il mausoleo d'Augusto nel Campo Marzio innalzavasi a varj piani, verdeggianti d'alberi; in sulla cima la statua dell'imperatore; davanti alla porta terrena due obelischi egizj, e all'intorno boschetti e viali, serpeggianti fra il Tevere, la via Flaminia e porta Popolo. Dappoi la magnificenza degl'imperatori e dei ricchi moltiplicò occasioni agli artisti, che crearono un nuovo stile grandioso e caratteristico, improntato della romana magnificenza, benchè essi fossero greci tutti o i più.

De' quali alcuni furono portati schiavi a Roma; qualche altro vi venne libero, come Arcesilao, Zopiro, un Prassitele che scrisse su tutti i lavori di belle arti allora conosciuti; una Lala di Cizico, ritrattista nella galleria di Varrone; Valerio d'Ostia, che inventò di coprire gli anfiteatri. Le monete romane, grossiere dapprima, dopo il 700 di Roma emulano quelle di Pirro e d'Agatocle; ma gli incisori erano nostrali? Che se Antioco Epifane chiamò in Atene l'architetto romano Cossazio pel tempio di Giove Olimpico, ed Ariobarzane [396] re di Cappadocia si valse dei due fratelli romani Cajo e Marco Stallio per rifabbricare l'Odeone di Atene, rovinato nell'assedio di Silla, chi ci assicura che in queste commissioni non avessero parte l'adulazione o la raccomandazione de' potenti? Degli altri architetti romani perirono fino i nomi; e così i libri di Fusisio, di Varrone, di Settimio.

Anche nell'età più splendida si ricorreva ad artisti greci; greci furono gli architetti, mediante i quali Augusto, secondato da Agrippa, mutò il Campo Marzio in città marmorea; nella Grecia Pomponio Attico fece lavorare gli ermi pel suo Tusculano[358], e comperò statue per le ville di Cicerone; Verre fece fondere molti vasi di tutto oro a Siracusa.

Il costui nome rammenta il modo più consueto onde i Romani acquistavano capidarte, rapendoli ai vinti o ai sudditi. Lucio Scipione recò in vasi mille quattrocenventiquattro libbre d'argento, e mille ventiquattro in oro: ducentottanta statue di bronzo e ducentrenta di marmo abbellirono il trionfo di Marco Fulvio sopra gli Etolj: Silla ridusse Atene a uno scheletro, espilò i tre più ricchi tempj d'Apollo in Delfo, d'Esculapio in Epidauro, di Giove in Elide, del quale portò a Roma fin le colonne e la soglia di bronzo della porta: Fulvio Flacco scoperchiò il tempio di Giove Lacinie presso Crotone per collocarne i tegoli di marmo sul tempio della Fortuna Equestre: Varrone e Murena fecero a Sparta tagliar le pareti per trasportare degli affreschi[359]: le sfingi e gli obelischi d'Egitto, le statue di Grecia, i soli di Babilonia venivano ad abbellire Roma: Agrippa pagò un milione ducentomila sesterzj due tavole d'un artista greco per ornare i suoi bagni: Lucullo fece trasferire da Apollonia in Campidoglio un [397] Apollo alto trenta cubiti, ch'era costato cencinquanta talenti: Lentulo vi collocò due busti: Ortensio fabbricò un tempio sol per riporvi gli Argonauti di Fidia, comprati cenquarantaquattromila sesterzj: Augusto comprò statue da disporre sulle piazze e nelle vie, pose nel fôro due quadri della guerra e del trionfo; nel tempio di Cesare un Castore e Polluce e una Vittoria, opere di Apelle; nella curia due freschi di Nicia e di Filocare[360]; raccolse anche musei di varie rarità, de' quali uno era stato già unito da Scauro figliastro di Silla, sei da Cesare, uno da Marcello di Ottavia.

Quando si pensi che questo arricchirsi della patria nostra faceasi a desolazione dell'altrui, possiamo congratularcene noi Italiani? Viene alle nazioni come agli individui l'ora del compenso, e noi ripagammo e ripaghiamo le violenze esercitate dai nostri padri.

Tanti tempj sono ricordati nella sola città; ma niuno ne paragoni la mole al San Pietro di Vaticano e ai nostri duomi[361]: e quanto fossero piccoli lo attestano i ruderi della Sibilla Tiburina, del Giove Clitunno nella campagna di Roma; quelli di Vesta e della Fortuna Virile sono ben minori del Panteon, il quale ognun sa che fu sollevato per cupola a San Pietro; in Campidoglio, sovra spazio minore di quel che oggi occupi il Vaticano, ergevansi sessanta tempj; moltissimi attorniavano il fôro; e se crediamo a Plinio, il Giove Feretrio non era lungo più di quindici piedi. Nè di vasti recinti era mestieri là dove il popolo non veniva ammesso a vedere le funzioni sacre, serbate a sacerdoti o [398] a matrone; bastando che alla soglia deponesse le ghirlande o i donativi.

Sparsi per la città e sui fondi privati v'avea pure sacelli ad Ercole, a Nenia, alla Pudicizia, agli Dei Lari, con un'ara e talvolta la statua della divinità. I serapei forse servivano anche a cure salutari, come quello di Pozzuoli, parallelogrammo di sessantacinque su cinquantadue metri all'esterno, ove molte cellette sono simmetricamente disposte attorno a un cortiletto porticato, in mezzo al quale sorgeva una rotonda aperta sovra colonne; e sembra destinata alla purificazione per acqua. La schiera di sedie forate nelle due camere agli angoli, forse serviva ai bagni a vapore.

Entro quei tempj erano altari ed are[362] stabili e ornati, e foculi mobili. Si ornavano di emblemi e delle frondi sacre al Dio, come il pino per Pane, l'ulivo per Minerva, il pioppo e le mazze per Ercole, mirto e colombe per Venere, aquile e quercia per Giove, pampani e tirsi per Bacco. Variava pure il sagrifizio che agli Dei si faceva; buoi a Giove, tori a Nettuno, vacche a Latona, cinghiali a Bacco, troje a Cerere; e in generale vittime bianche agli Dei celesti, nere agli infernali; e quelle col capo alzato e ferendole dall'alto in basso, queste col capo chino e colpite da sotto in su, per modo che il sangue sgorgasse non sull'altare ma in una fossa. Ne' tempj si sospendeano i voti, come dai naufraghi vesti e tavolette a Nettuno, dai guerrieri armi a Marte, dai gladiatori spade ad Ercole, dai poeti ciocche di capelli ad Apollo.

Nel teatro di Emilio Scauro, preparato nel 694, tre [399] ordini di colonne sovrastavano uno l'altro; dietro di esse, pareti di marmo al primo piano, di vetro al secondo, al terzo di tavolette dorate; tremila statue di bronzo compivano l'addobbo, più ricco che di buon gusto, e che dovea durare il solo tempo che Scauro rimaneva edile. Perocchè un senatoconsulto del 597 vietava i teatri permanenti, e primo Pompeo nel 697 ne fece uno di pietra, capace di quarantamila spettatori. Cesare, che abbellì il Campidoglio e fabbricò un fôro ricchissimo, costruì la prima arena pei conflitti navali (naumachia); ed Augusto una maggiore, avente seicento metri di lungo sopra quattrocento di largo; una terza Trajano. Statilio Tauro eresse in Campo Marzio il primo anfiteatro di pietra. Il circo, equivalente allo stadio e all'ippodromo greco, era traversato per lo lungo da una spina, ornata di statue, colonne, obelischi, attorno alla quale volgeansi le corse de' cavalli e de' cocchi, finchè toccassero le mete, colonnette finite in cono. Il circo Massimo, che risaliva all'età dei re, fu ampliato da Cesare, poi da Trajano: di quel di Caracalla rimangono gigantesche rovine, ampio trecensettanta metri sopra sessantuno.

Quantunque della vôlta si trovi vestigio in edifizj non solo della Grecia e dell'Italia prisca, ma fin dell'Indie e dell'Egitto, pure nemmeno i Greci ne' bei tempi seppero trarne gran profitto; di modo che le fabbriche non erano più grandi di quanto il comportavano i tetti piani di pietra; e le colonne, parte principale e caratteristica, distando appena la lunghezza d'un'imposta di marmo o d'una trave, non era possibile avventurarsi a vasti edifizj, nè variare le forme.

Roma sin dal nascere imparò dagli artisti nazionali la vôlta, che fa già buon uffizio nelle nostre città pelasgiche, e che curvossi sopra ai meravigliosi acquedotti e alle cloache, bastanti a mostrare tutt'altro che [400] bambina la città de' Tarquinj. E l'arco diventò distintivo dell'architettura romana; progresso importante, giacchè con esso possono concatenarsi piloni e pareti ben più distanti, coprire vaste aree con tetti solidi quanto facili, ottenere variato movimento di linee allo interno ed all'esterno. Archi posero dovunque fabbricarono i Romani: or al fondo d'una piazza quadrata o attorno ad una circolare aprirono emicicli, coperti da mezze cupole; ora di intere ne formarono con archi concentrici; ora a varj piccoli archi ne circoscrissero uno maggiore, o gl'incrociarono in direzioni differenti; voltarono la cupola sopra spazj rotondi od ottagoni; fecero aperture sopra aperture. E l'architettura romana appunto trae un carattere proprio, forte e potente, dall'accoppiare la volta italica al colonnato greco. Anche quando, alla greca, sostennero i portici con colonne, dall'una all'altra gettarono l'arco, mascherandolo con un finto architrave. Pertanto al colonnato non diedero perfezione intrinseca, nè seppero unificarlo colla volta; mentre il rispetto agli esempj greci toglieva di fare che tutte le linee si volgessero in alto, armonizzandosi meglio, come poi si fece nell'architettura gotica.

Gli architetti, sebbene venuti di Grecia, secondarono l'indole romana, così da uscirne un'arte originale, dove le parti dedotte dalla greca da essenziali riducevansi ornamentali. Colonne e fregi acquistavano le vittorie? commettevasi agli architetti d'accordare queste parti antiche col concetto di nuovi edifizj. L'architrave mal s'affaceva coll'arco, nè il tetto angoloso colla convessità della cupola: i triglifi e i dentelli perdevano significato, dacchè entro non v'avea le travi, di cui figurassero la sporgenza. Il frontone, che tra i Greci seguitava continuo, presentando la retta e il pinacolo formato dalle pendenze del tetto, qui cambia destinazione, e talvolta appare sotto al cornicione, o sovrasta ad una porta, a [401] una finestra, a una nicchia; invece di un grandioso facendosene molti piccoli, talora spezzati, o rotondi, o soverchiati da più grandi. La colonna, che ne' Greci era il canone non solo per misurare l'edifizio, ma per caratterizzarlo, non restò più che un ornamento, destinato ad interrompere la continuità del muro che dovea sostenere il peso perpendicolare e insieme la pressione obliqua della volta. Potè dunque alzarsi sopra un piedestallo, talora altissimo, come negli archi di trionfo, sminuendo di figura come d'importanza: nel Panteon la troviamo posta nell'interno d'un arco, indipendente da esso, sicchè non sostiene che un cornicione il quale non sostiene nulla. Talora si attaccò e si affondò nei pilastri, adoprati non solo come teste al modo greco, ma tutt'al lungo della parete: o, come vedesi a Pompej, le colonne erano mutate da un ordine all'altro col rivestirle di stucco, senza curarsi dell'alteramento delle proporzioni.

E poichè l'ordine dorico era troppo severo da piegarsi al capriccio o al bisogno, di rado i Romani lo adoperarono, attribuendo questo nome ad uno cui ne aveano tolto i tratti caratteristici: al capitello jonico levarono la diversità tra la fronte e i lati della voluta: ai due terzi inferiori del capitello corintio sovrapponendo il capitello jonico, formarono il composito: l'ovolo fu tronco in alto, e i dentelli schiacciati al basso: i capitelli vennero ornati con varietà; or alle volute e ai caulicoli sostituendo aquile ed encarpi, come in uno della villa Mattei; ora sulle pieghe delle foglie facendo posare dei grifi, come in uno a San Giovanni Laterano; o riempiendolo di frutti, come in uno a San Clemente; o di trofei e vittorie, come in uno a San Lorenzo; o facendo da genietti alati sorreggere un festone sormontato dall'aquila, come in uno del palazzo Massimi. Gli ordini stessi si mescolarono, e nel teatro di Marcello [402] il cornicione jonico imposta su colonna dorica; nel Coliseo i tre ordini sormontano l'uno all'altro.

Venne ad estendersi l'ordine toscano, che, spoglio di scolture e di fregi, con capitello e base semplicissimi, cede in ricchezza ed eleganza ai greci quanto li vince in solidità. D'altra parte si formò l'ordine composito o trionfale, ricchissimo, che alle leggere volute alzantisi dal fogliame del corintio surroga le robuste dello jonico, allunga la colonna fino a sei diametri, ed orna la cornice di dentelli; le membrature della trabeazione richiede più varie ed ornate, con mensole e modiglioni, sporgenti per sostenere il fastigio. Il tempio di Milasso nella Caria, ad onore d'Augusto e della dea Roma, è per avventura il primo esempio d'ordine composito e delle decorazioni eccessive, di cui quell'età cominciò a compiacersi: del qual genere serbiamo il tempietto di Vesta a Tivoli.

Vitruvio muove lamento che, mentre i Greci non si scostavano mai dal possibile e dal concetto originario della capanna di legno, accademica origine delle costruzioni, i Romani non volessero brigarsi di queste minute convenienze, e nelle cornici inclinate de' loro frontoni mettessero i dentelli sotto ai modiglioni, il piacevole preferendo al sistematico. E da Vitruvio impararono i pedanti a chiamar difetto ogni deviazione da regole prestabilite: ma l'arte romana vaneggiò assai più che non la greca colle linee rette, le superficie piane e le forme angolose; anche imitando v'improntò il genio proprio, sia coll'ingrandire, sia coll'atteggiarle a potenza e solidità. Di rimpatto vi mancano la perfezione delle linee, le delicate relazioni delle parti, l'armoniosa simmetria del tutt'insieme: e fin nel Panteon, ch'è de' più corretti, all'angolo del frontone si desidera la dolcezza con cui i Greci sapevano unire le due linee superficiali del triangolo[363]. [403]

Non si tardò a traviare; e già l'arco che Tiberio ergeva al suo antecessore è sregolatamente largo, sostenuto da piloni di muro, con due magre colonne, e dall'una all'altra un frontone mal impostato: quel di Trajano ad Ancona pecca dell'eccesso contrario, pigiato fra i pilieri, oltrechè gli altissimi basamenti si straccaricarono di inette modanature; in quel di Tito le colonne alzansi fin a nove diametri e mezzo. Ben presto vi si sbizzarrì di mescolanze, s'allungarono le colonne fino al doppio, s'introdussero ornati stravaganti, si profusero colori luccicanti, che non devono più parere un imbarbarimento dopo che si trovarono ne' monumenti migliori di Grecia. Ludio le pareti delle case caricava di paesaggi e vendemmie e scene campestri, unendovi ghiribizzi architettonici; del che restano esempj nei bagni di Tito, e in molte pareti di Pompej. Il gusto degli imperatori dovette pregiudicare alle arti: Tiberio piacevasi di oscenità; Caligola abbatteva le teste degli Dei per sostituire la propria, e fece ritagliare da due quadri la faccia di Giove per inserirvi quella d'Augusto; [404] Nerone dorava le opere di Lisippo e i proprj palazzi. Pure conservasi una testa di lui e di Poppea, carissime di pensamento e di condotta: e il busto di Seneca del museo Borbonico, probabilmente contemporaneo dell'originale e fatto a Roma, ove abitualmente quel filosofo visse, è una delle più belle fusioni.

Augusto, nel tempio da Giulio Cesare eretto in Campidoglio, collocò la Venere Anadiomena di Apelle, trasferita da Coo, e stimata cento talenti, modello della bellezza perfetta. Il Palazzo d'oro di Nerone (pag. 111) abbracciava parte del colle Palatino, del Celio e dell'Esquilino: cominciava da un vestibolo, cinto da tre lati di portici d'un miglio ciascuno, che chiudevano prati, vigne, foreste: dappertutto oro, pietre, perle: alle sale da mangiare faceano soffitta tavole d'avorio mobili e versatili, per poterne far piovere fiori ed acque odorose; e la più grande e rotonda girava dì e notte come il mondo: cinquecento statue di bronzo vi furono portate dal solo tempio di Delfo[364], tra le quali forse apparivano le famose dell'Apollo di Belvedere e del Gladiatore Borghese: il colosso dell'imperatore era opera d'Atenodoro. Vespasiano trasse molte statue di Grecia, e i magnifici ornamenti del tempio di Gerusalemme per arricchire quello della Pace.

Affinchè il popolo non vi oziasse, nei teatri dapprima non si faceano gradini da sedere: ma Pompeo li fece tollerare col mettervi in cima un tempio di Venere, sicchè il popolo avea l'aria di sedere sulle scalee di questo. Più nazionali erano gli anfiteatri; e il Coliseo o Colosseo, fabbricato forse dagli Ebrei che Tito menò schiavi, forma un'elissi, svolgentesi nell'interno per ducentrentanove metri, col ricinto esterno appoggiato sopra ottanta archi, che in quattro ordini architettonici [405] sovrapposti elevansi fino a quarantanove metri; tutto marmo e statue. Dentro girano quaranta file di sedili, pure marmorei, da capirvi quasi novantamila spettatori: sessantaquattro vomitorj danno sfogo alla moltitudine: corridoj e scale erano distribuiti di maniera che ognuno potesse, giusta il proprio grado, arrivare agevolmente ai posti assegnati. Un velario proteggeva all'uopo dal sole e dalla pioggia: zampilli di fontane rinfrescavano, e spesso profumavano l'aria: altr'acqua era guidata nell'arena in rigagnoli imitanti la delizia dei giardini, o dilagavasi per opportunità di conflitti navali: di sotto, per serbare le fiere, s'aprivano vasti sotterranei, che ai dì nostri furono scoverti, ma tosto richiusi per le fetide esalazioni dell'acqua stagnante. Roberto Guiscardo, mille anni più tardi, temendo non divenisse cittadella contro di lui, demolì la metà del Coliseo; il resto servì di petraja per successivi edifizj, e massime pei palazzi Farnese, di Venezia e della Cancelleria: eppure quelle sublimi ruine ancora rendono attoniti[365].

La colonna coclite di Trajano, la cui altezza di quarantaquattro metri indica di quanti il monte Quirinale si fosse spianato per formare il fôro circostante, è la prima di tal genere che si conosca, imitata da tutte le seguenti, e basterebbe a rendere famoso quel periodo dell'arte. Dorica, del diametro di metri 3. 63, è in trentaquattro rôcchi di marmo lumachella, fissati con arpioni di bronzo: al terrazzo, che sulla sommità circonda la statua dell'imperatore, si ascende per centottantadue scalini a chiocciola ricavati nel vivo, e rischiarati [406] da quarantatre finestruole. La grossezza dei massi e la solidità de' gradini mostrano come si ebbe riguardo alla durata; e il tempo ne fece ragione. La fasciano ventitre spire d'un bassorilievo, su cui contarono duemila cinquecento figure, alte due piedi, che, con pensiero unico, raffigurano le due spedizioni di quell'imperatore contro i Daci, e illustrano i costumi di Roma e de' suoi alleati e nemici: capolavoro di composizione, ove sono espresse all'occhio le operazioni militari più importanti, come marcie, accampamenti, battaglie, oppugnazioni; in tanta moltiplicità e piccolezza facendo variatissime le fisionomie, e ciascun popolo distinto per vestire ed armi particolari, oltre all'espressione di trionfo o di sconfitta. Il piedestallo è adorno di trofei, aquile ed altri fregi, tutto così naturale e fino, e con tale armonia delle particolarità, che formò la meraviglia e lo studio di Rafael Sanzio, di Giulio Romano, di Polidoro da Caravaggio[366].

La piazza era attorniata da fabbricati insigni, fra cui un arco di trionfo, e la basilica Ulpia. A questa, dopo cinque gradini di giallo antico, si entrava da mezzodì per tre porte, ciascuna con portico: quattro file di colonne la divideano in cinque navi: il pavimento di marmo giallo e violetto; le pareti incrostate pur di marmo bianco; la soffitta di bronzo, e attorno statue. Architettolla Apollodoro di Damasco, al quale pure attribuiscono l'arco di Ancona portante la statua equestre [407] dell'imperatore, e il ponte sul Danubio da noi altrove lodato.

Adriano, passionato per le arti, in cui egli medesimo esercitavasi, trasportava o faceva copiare quanto vedeva negl'incessanti suoi giri; di molti edifizj abbellì Roma e la Grecia, e d'un anfiteatro Capua. La Mole Adriana, ora Castel Sant'Angelo, unita al ponte Elio, era vestita di rame, con quarantadue colonne, ciascuna delle quali sosteneva una statua, e sulla sommità una quadriga coll'effigie dell'imperatore, di tali dimensioni, che un uomo entrava nel cavo dell'occhio d'un cavallo. Aggiungono fosse d'un pezzo solo; il che però è a mettere a fascio col miracolo di Detriano architetto suo, che dicono trasportasse da luogo a luogo il tempio della dea Bona e il colosso di Nerone, ritto in piedi e sospeso, per forza di ventiquattro elefanti. Singolarmente si piacque Adriano di abbellire la villa di Tivoli, che copriva un giro di dieci miglia, con due teatri; il marmo v'era profuso, formandone persino letto al lago, nel quale rappresentavansi navali conflitti: simbolo materiale dell'eclettismo d'allora, v'erano copiate le situazioni meglio gradevoli e i più grandiosi edifizj di Grecia, oltre un'immagine degli Elisi; statue d'ogni paese, divinità babiloniche, sfingi egiziane, numi greci, idoli etruschi, vasi corintj; chi sa se anche bassorilievi indiani e porcellane della Cina?

Sull'esempio di questi imperatori, privati e città s'abbellirono di edifizj: e i più degli insigni che onorano quasi ogni città provinciale, vanno ascritti a quell'età; come gli anfiteatri di Otricoli, Cagliari, Agrigento, Alba, Verona, Capua, Pola d'Istria; i tempj di Assisi, di Todi, di Foligno, di Padova, di Rimini, e quello scoperto poc'anzi a Brescia; l'acquedotto di Spoleto, il ponte di Narni. Buoni monumenti di allora sono il Marc'Aurelio a cavallo, posto sulla piazza del Campidoglio, e la [408] colonna Antonina, quantunque scapiti da quella di Trajano per la distribuzione dei gruppi e per l'esecuzione delle figure, mal compensate da alcuni concetti felici, com'è la Fama che, scrivendo le geste sopra uno scudo, separa le guerre germaniche dalle marcomanne. Per imitazione si eseguirono statue di stile greco antico, altre di granito rosso all'egiziana: ma che si sapesse disegnare egregiamente bastano a provarlo le due statue di Antinoo, oltre quella del Belvedere, cui forse a torto il costui nome si attribuisce. Piene di vita e nobiltà sono le teste nelle monete de' Giulj e de' Flavj, e ingegnosi e ben eseguiti i rovesci.

Dopo quel momentaneo lustro ricaddero le belle arti. Gli Antonini le neglessero per la filosofia: però il Pio dispose a Lanuvio una villa, della cui splendidezza ci dà saggio una chiave d'argento per l'acqua dei bagni, pesante quaranta libbre. Alessandro Severo s'ingegnò di rifiorire le arti, cinse di statue il fôro Trajano, eresse molte fabbriche e le terme, dipingeva egli stesso, e inventò l'intarsiare marmi di vario genere[367].

Degli archi trionfali, genere ignoto ai Greci, il primo fu eretto a onore di Fabio, vincitore degli Allobrogi e degli Arverni, 139 anni avanti Cristo: dappoi per vittorie, per benefizj, per adulazione si moltiplicarono; quali ad una sola apertura, come quel di Tito a Roma, e di Trajano ad Ancona; quali a due o a tre, come quelli di Costantino e di Settimio Severo. Mirabile semplicità mostra quello di Susa per Augusto; e forse n'è contemporaneo quel di Pola, probabilmente funebre. Altri ne sono sparsi per Italia[368]. I bassorilievi del Settizonio di Settimio Severo sono mal condotti, sebbene [409] lodevolissima la sua statua di bronzo, ora nel palazzo Barberini.

I ritratti romani, dapprima a foggia di erme colla sola testa, dappoi talvolta sono busti armati con corazze a trofei, vittorie, leoni, quali il Lucio Vero del Vaticano e uno della villa Albani; talaltra togati, come il Claudio nel braccio nuovo del Vaticano, l'Augusto negli Uffizj di Firenze, il Genio d'Augusto nella rotonda del Vaticano, e il Caligola della villa Borghese, han la toga sul capo. Ve n'ha a cavallo; ve n'ha in trono, come la statua di Cervetri e il Tiberio del museo Chiaramonti; ve n'ha di foggiati da eroi e semidei, nudi e stanti, come il bellissimo Pompeo del palazzo Spada, al cui piede vuolsi fosse trafitto Cesare, il Marco Agrippa dei Grimani a Venezia. Al dechino delle arti prevalsero i busti colle spalle e parte del torace, alcuno anche colla mano e qualche panneggiamento, e finiti in linea circolare. Peccano di gonfiezza, massime quelli delle imperatrici: han barba e capelli inanellati col trapano, e alcuna volta con marmo di vario colore, come anche le vesti, e con occhi riportati, ed accessorj studiati con affettazione, mentre l'espressione del viso casca nel triviale. Eppure i ritratti sono quel che di meglio ci tramandò la scoltura romana, conservando l'individualità.

Le stesse medaglie, che al principio di quest'età erano migliori delle greche, riduconsi rozze e grossolane: pure ne restano di bellissime, massime di Gallieno e di [410] Postumo, e un medaglione di Triboniano Gallo. Avendo sott'occhio tanti eccellenti modelli, poteva quando a quando taluno porre studio in quelli per modo d'emularli; fatto isolato, e che nella storia dell'arte convien distinguere bene dal vero progresso.

Insomma se la Grecia nocque a Roma per la filosofia e pei costumi, giovò per le arti. Mentre la scoltura romana è pesante, fredda, secca, copiaronsi con felicità gli originali greci; e v'ha chi crede che i capolavori tramandatici dall'antichità, salvo i modernamente scoperti, sieno copie eseguite a Roma, e che colla perfezione dell'originale vi si senta l'inferiorità del copista. Non conservavasi nè la grandezza a Fidia, nè la grazia a Prassitele, quali apparvero nella Venere di Milo o nei marmi del Partenone: nell'Apollo del Belvedere fu cancellata la realtà, scomparvero i muscoli, mentre insigne è il concetto: la Venere Capitolina da certe configurazioni si conosce modellata sopra una romana, ma avendo presente l'opera d'un greco. Che se fra noi ammiransi tanto le opere romane, chiunque viaggiò la Grecia e l'Asia Minore sa come scapitino a paragone delle indigene.

All'intento governativo de' Romani meglio si confacevano le opere di genio civile, e massime intorno alle acque. Già 115 anni avanti Cristo, Emilio Scauro asciugava le paludi del Po con canali tra Parma e Piacenza; vaste operazioni si intrapresero per sanare le Pontine, e Augusto vi scavò un canale parallelo alla via Appia; a tacere i lavori fuor d'Italia, sotto Tiberio si divisò di voltare nella Chiana l'Arno, che prima affluiva nel Tevere e cagionava piene: ma fa meraviglia come i Romani non provvedessero a incanalare questo fiume, che spesso allagava la loro capitale, e fin dodici volte nell'anno 22. Nerone cominciò un cavo arditissimo, che per censessanta miglia dal lago d'Averno doveasi [411] congiungere da un lato col lago Lucrino e il golfo di Baja, dall'altro con Roma per le paludi Pontine[369]. Cesare tentò, Claudio compì lo scolo del lago Fùcino nel Liri per l'emissario più grandioso d'Europa, per 5600 metri fra montagne calcari, sostenuto con muri ed archi, e dove lavorarono trentamila persone, nè sapevasi tenere la drittura altrimenti che coll'aprire spiragli in cima.

Roma piantava sopra un labirinto di fogne, onde urbs pensilis la chiamava Plinio; mentre file immense di archi reggeano le doccie che da molte miglia lontano guidavano l'acqua, e che ancora colle loro ruine interrompono pittorescamente la spopolata campagna romana. Il primo acquedotto, fatto a studio di Appio Claudio il 311 avanti Cristo, portava l'acqua da otto miglia lontano: per quarantatremila passi, sorretto da settecentodue archi, la portava quel di Cajo Dentato, di quarant'anni posteriore: poi Marcio Re condusse da Subiaco, per sessantunmila passi, l'acqua Marcia, alla quale si congiunsero poi la Tepula e la Giulia. Frontino, che al tempo di Trajano descrisse gli acquedotti, conta che per 13,594 tubi distribuivano 1,320,600 metri cubici d'acqua ogni ventiquattr'ore. L'acqua Vergine, dovuta ad Agrippa, venendo sopra settecento archi fuor di terra, con quattrocento colonne marmoree e trecento statue, alimentava centrenta cisterne[370]. Era uno sfoggio eccedente di forza, quasi l'acqua non dovesse [412] giungere ai trionfanti che sopra archi trionfali; nè a torto Frontino anteponeva queste opere alle piramidi egiziane. Di simili restano vestigia in altre città dell'impero; e delle più insigni era l'acqua Claudia, che per cinquanta miglia, dal Principato Ulteriore provvedeva molte città e Napoli, e finiva alla Piscina Mirabile presso il capo Miseno, gran serbatojo per le navi.

Più di ottocento bagni contava Roma sotto gli Antonini, di cui erano principali quelli d'Emilio, Cesare, Mecenate, Livia, Sallustio, Agrippina. Plinio rammenta Sergio Orata contemporaneo di Grasso, che inventò d'introdur nelle camere acqua calda, per modo che evaporando scaldasse. Di Ninfei, grandi cupole con zampilli, erano sparse le rive dei laghi d'Albano, di Nemi, Lucrino, Fùcino.

Talmente estese erano le terme, che Ammiano Marcellino le paragona a provincie (in modum provinciarum extructa lavacra); ed occupano ancora grandissimo spazio quelle di Caracalla, alimentate dall'acqua Marcia che passa sull'arco di Druso. Oltre i bagni, servivano ad esercizj ginnastici, giuochi, accademie, altre riunioni: le ornavano preziosi capidarte, e vi furono trovati l'Ercole di Glicone, la Flora, il toro Farnese, il torso di Belvedere, il musaico del Laterano, e quantità di vasi e d'altre preziosità. La colonna che sta in piazza Santa Trinità a Firenze, è una delle otto che sorreggeano la sala di mezzo. Più vaste erano le terme di Diocleziano, con portici e sale capacissime, di cui una copre cinquantanove metri per ventiquattro, e luoghi di divertimento ed un museo. Il Panteon formava solo un membro delle terme d'Agrippa; e i rabeschi di Rafaello nelle loggie Vaticane imitano quelli delle terme. Baja ed altre vicinanze di Napoli offrivano terme naturali; e bellissimo avanzo n'è il Truglio, rotonda di venti metri di diametro interno, a volta elittica. [413]

Mediante gli archi furono agevolati anche i ponti, che talvolta erano decorati di statue e d'archi trionfali: ed otto ne avea la sola Roma[371]. Poco capaci erano i porti, destinati a navi ben più piccole delle nostre; ma fari, canali, bacini, cantieri, cale, piscine formavano un complesso di edifizj maestoso. Cesare propose, Claudio eseguì un porto alla foce del Tevere, cui Trajano aggiunse un bacino esagono di ducensessanta metri il lato, cinto di colonnette di marmo numerate, per attaccarvi le navi. Attribuiscono ad Augusto il porto di Miseno, e quello di Ravenna con magnifico faro. Quel che chiamano ponte di Caligola, sono avanzi del molo a traforo che dovea proteggere l'antico porto di Pozzuoli.

All'unità, cui Roma aspirava, d'importanza suprema riusciva il costruire strade; e alcune avanzano tuttora ad attestare quanto meritassero l'antica rinomanza (pag. 573). Partendo dal miliario aureo, collocato in mezzo al fôro Romano, si spiegavano queste fin alle colonne d'Ercole, all'Eufrate e al Nilo, vincendo difficoltà d'ogni sorta, spropriando i possessori, colmando valli, accavalciando fiumi, spianando alture, forando montagne, perchè questa gran catena connettesse alla metropoli le provincie. Cinque metri eran larghe le maggiori: per fondo gettavansi frantumi di pietre, [414] legati con calce e pozzolana; poi un miscuglio di calcina, creta e terra, e talvolta anche di ghiaja e calcistruzzo; indi ciottoli o pietre poligone informi, e nelle città cubi regolari: a Pompej ed Ercolano sono di lava, connessi con calce e pozzolana, e le vie sono tirate a filo e con marciapiedi.

Magnifiche erano in Roma la Sacra e la Trionfale: la prima, cominciando ad oriente del fôro Romano, dal Coliseo radeva il tempio d'Antonino e Faustina, e per gli archi di Costantino, di Tito e di Settimio Severo saliva al Campidoglio. Entravano dall'altra i vincitori lungo i campi del Vaticano e del Gianicolo; poi dal ponte e dalla Trionfale venivano alla via Retta, al Campo Marzio, al teatro di Pompeo, al circo di Flaminio, ai teatri d'Ottavia e di Marcello, e al circo Massimo; piegando quindi sulla via Appia, pel Coliseo uscivano sulla via Sacra, donde al Campidoglio. Le statue rapite alle nazioni vinte, quelle dei re trionfati, de' grandi uomini e degli Dei contornavano que' magnifici cammini. Gl'imperatori crebbero le strade per portare gli ordini e gli eserciti alle estremità dell'impero; e quarantotto ne contava la sola Italia, nove la Sicilia, sei la Sardegna, una la Corsica.

L'ispezione delle strade spettava ai censori, che spesso vi diedero il proprio nome; dappoi ai tribuni della plebe; più tardi a curatori speciali: le spese erano decretate dal senato, o da individui che ne traessero vantaggio, o volessero gratificarsi il popolo. Cajo Gracco avea fatto collocare pietre miliari, indicanti la distanza da Roma o dai punti principali; e lungh'esse situavansi pure i sepolcri, in vista, anziché sotterranei come quei de' prischi Italioti. V'erano anche cauponæ e tabernæ, ma forse ad uso soltanto della poveraglia: del resto quando Orazio peregrinò a Brindisi, nella città di Mamurra gli prestarono Murena la casa, Capitone i cuochi; [415] prima d'arrivare al ponte di Campania, pernottò in una villa, dove i provveditori imperiali lo fornirono di legna e sale, secondo il loro dovere; in un'altra villa presso Trivico fu affumicato da fascine verdi, e deluso da una fanciulla[372].

Alle città in generale davasi la forma dell'accampamento, cioè un parallelogrammo, per lo più di un quadrato e mezzo, tagliato pel lungo e pel traverso da una o due strade; e tali possono riscontrarsi i primitivi piani di Como, Piacenza, Parma, Pavia, Aosta, Torino; Verona forma un quadrato.

L'unione di case private, disgiunte dalle vicine, costituiva un'isola; il complesso di alquante isole, un vico; e molti vichi, una regione. Solo i gran ricchi potevano abitare un'isola intera, massime da che il crescente lusso delle fabbriche incarì i terreni. Molti dunque appigionavano le case; e Marziale abitava a un terzo piano[373]; Silla, non ancora famoso, pagava lire seicento l'anno di pigione: ma Cicerone parla fin di tremila sesterzj o seimila lire per un appartamento.

Nelle case de' Romani, modificate tra l'antica italiana e la greca, erano due parti distinte; una per uso particolare del padrone, una pel pubblico. Il vestibolo oblungo (protyrum) menava dalla strada in un cortile interno (cavedium), scoperchiato nel mezzo. Le acque piovane erano raccolte sul tetto sporgente, e per lo spazio scoperto (compluvium) cadevano in un bacino rettangolare (impluvium), spesso decorato d'una fontana. A destra e a manca del cavedio disponevansi le camere: di fronte, una sala aperta verso la corte [416] (tablinum) conteneva gli archivj e i ritratti di famiglia, e il padrone vi riceveva i clienti, che aspettavano il suo arrivo passeggiando nel cortile o seduti in salotti (alæ): corridoj (fauces) mettevano all'interno della casa. Parte principale erano gli atrj, ignoti ai Greci; e distinguevansi in toscani quando i tetti fossero sostenuti solo da travi murate; tetrastili quando avessero quattro colonne poste sotto ai punti d'intersezione delle travi; corintj quando le colonne fossero di più; displuviata quando il tetto pioveva all'infuori; testudinata se affatto coperti.

Il limitare della porta guardavasi con rispetto superstizioso; guaj l'inciamparvi! vi si scriveano parole di felice augurio, o teneansi pappagalli e gazze che le ripetessero. Sovra la porta collocavansi ornati e segni del mestiero che vi si esercitava, od iscrizioni. Gli usci talvolta faceansi di marmo o di bronzo, e con bottoni, mascheroni ed altri capricci; in occasione di nozze o di solennità ornavansi di ghirlande e festoni; gli amanti vi sospendeano fiori; i cipressi indicavano la morte. Eccetto quelle dei tribuni, stavano chiuse, nè vi s'entrava senza bussare: nelle case ricche tenevasi il portiere, incatenato come i nostri cani. Oltre la principale, s'avea qualche porta di dietro (postìca), che riusciva negli angiporta o vicoli. Di rado si trovano scale, e queste di pietra o di legno come oggi, fissate nel muro e per lo più buje; onde la frequente frase d'ascondersi in scalis, o in scalarum tenebris[374].

La casa in generale non avea finestre o pochissime, e queste piccole ed alte; talora chiuse con pietre speculari, o con vetri molto grossi e non trasparenti[375]. [417]

Le parti interne comunicavano tutte fra sè mediante il cortile, da cui le camere riceveano luce per mezzo delle porte: le camere spesso non erano divise che da traversi o da cortine. Nella biblioteca poneansi le effigie degli autori, d'oro, argento, bronzo, cera[376].

Da principio il fuoco ardeva nell'atrio, ove e cocevasi e mangiavasi, e attorno a quello si raccoglievano i numerosi schiavi; dappoi nell'atrio si tenne un foculo o braciere, dove mettere incensi ai lari[377]: talvolta riscaldavansi le camere con tubi chiusi nelle pareti o sotto al pavimento. Per cercare il fresco e meriggiare si aveano appartamenti sotterranei, che ne' palazzi erano estesi, con molti corridoj e pitture a fresco e fregi a stucco, i quali da ciò appunto trassero il nome di grotteschi.

Ornavansi i palazzi con giardini. Di grandiosissimi n'ebbe Mecenate; e forse a quei di Lucullo presso Napoli servivano la Piscina Mirabile di Miseno, e la nuova grotta, riaperta or fa poch'anni nel promontorio di Coroglio, lunga più di mille metri, alta e larga meglio che quella di Posilipo. L'arte industriavasi a procurarvi ombre, variare l'esposizione, intrecciare labirinti, [418] distribuir acque, e nel ridurre le piante e i cespugli, massime di càrpino e di bosso, in figure d'animali o di lettere (ars topiaria); della quale invenzione si attribuiva il merito a Cajo Matio cavalier romano, famigliare d'Augusto. Altre volte i giardini erano pènsili, e Seneca inveiva retoricamente contro questo dover gli alberi cacciare le radici ove a stento avrebbero innalzate le chiome[378].

Ai giardini aggiungevansi un viale d'alberi ove passeggiare discorrendo (gestatio), e l'ippodromo per le corse a cavallo. Nè ignoti erano i tepidarj, dove correnti d'acqua calda mantenevano una temperatura tale che, a malgrado del verno, vi facessero i gigli bianchi e rossi, le viole tusculane, le vigne, i poponi e gli alberi da frutto. Coltivavansi pure delle piante bulbose, il croco, il narciso, il giacinto, le iridi. A taluno erano unite uccelliere, e Alessandro Severo n'ebbe una che conteneva ventimila piccioni, oltre fagiani, pernici, altra selvaggina. Entro piscine conservavansi pesci vivi, con ingenti spese.

Non dimentichiamo che a nessun palazzo mancava l'ergastolo, destinato a chiudere gladiatori, atleti, schiavi. I primi, come ben nudriti, così è a credere fossero anche ben alloggiati; ma gli schiavi si cacciavano la sera in tane sotterranee, senza distinzione di sessi. Altri ergastoli, come indica il nome, servivano pei lavori forzati, e in città n'avea di molti; e talora i passeggieri venivano côlti, e gittati a lavorare in quelle tane, senza che più se ne sapesse.

Le minori vie metteano sopra le strade grandi, le sole mantenute a pubbliche spese, e che legalmente doveano farsi larghe non più di otto piedi romani, che [419] sono due metri e mezzo, e costeggiate da marciapiedi rialzati, da due in quattro piedi; ben necessarj ove l'angustia appena permetteva il cambio de' carri, e dove piovendo correva il rigagno. Sulla strada s'aprivano le botteghe, e spesso in una tutte quelle d'un esercizio, come a Roma nel fôro i banchieri; nel Vico Tusco e nel Velàbro i conciatori, profumieri, droghieri, mercanti di stoffe; nella via Sacra i venditori di minuterie domestiche, di ossetti d'avorio, di tavolette da scrivere, di stipi di legno prezioso, dadi e tavole da giocare. Nel 175 avanti Cristo i censori Fulvio Flacco e Postumio Albino fecero selciare di pietroni le vie interne di Roma, di ghiaja le esterne, e con margini rialzati[379]. [420]

La primitiva Roma occupava sul colle Palanzio appena un miglio quadrato, colle porte Rumena, Capena, Magonia. Numa Pompilio estese quel recinto, inchiudendovi il colle Capitolino e la parte più prossima del Quirinale, e aggiungendo la porta Carmentale, detta Scellerata dacchè ne uscirono i trecentosei Fabj. Tullo Ostilio cinse anche il Celio per istanziarvi i vinti Albani; poi Anco Marzio collocò i Latini sull'Aventino, murandolo. Tarquinio Prisco asciugò il Velàbro, palude nell'avvallamento tra il Palatino, l'Aventino e il Campidoglio; e meditava una nuova cerchia di mura, che fu poi compita da Servio Tullio, aggregando il resto del Quirinale, e i colli Viminale ed Esquilino, sicchè vi furono compresi sette colli; mentre il Gianicolo ergevasi di là dal Tevere a guisa di cittadella.

La mura, invasa anch'essa dalle abitazioni, serpeggiava sul ciglio dei colli: cominciando sulla sinistra del Tevere al fôro Olitorio presso il teatro di Marcello, e seguendo il lato settentrionale della rôcca Capitolina, scendeva al sepolcro di Cajo Bibulo, quindi per la valle che separa il Campidoglio dal Quirinale saliva in vetta di questo verso le Quattro Fontane, donde secondava il colle lungo il circo di Flora, piegando poi incontro alla moderna porta Salaria. Quindi cominciava l'aggere [421] su cui fondata era la mura, e continuava per l'altura sovrastante ai colli Quirinale, Viminale ed Esquilino fin all'arco di Gallieno, ove esso argine terminava. Allora, sceso l'Esquilino, la mura rimontava sul Celio presso al Laterano; indi per la sommità meridionale del colle, dove ora sta Santo Stefano Rotondo, scendeva a valle tra il Celio e l'Aventino; coronati i quali, tornava a raggiungere il fiume là dov'erano e sono tuttora le conserve del sale. Di là dal Tevere le mura staccavansi dal fiume in due linee rette per congiungersi colla cittadella gianicolese di Anco Marzio. Vi attribuiscono il giro di otto miglia, o precisamente 12,500 metri[380]. [422]

Ventitre o ventiquattro porte le aprivano: la Flumentana presso il fiume; la Trionfale, donde entravano i vincitori pigliando la via Sacra verso il Campidoglio; la Carmentale; la Rumena alle falde del Campidoglio; una di nome incerto, sull'altura occidentale del Quirinale; un'altra sul colle medesimo presso il palazzo pontifizio; la Salutare in vetta ad esso colle, ove ora le Quattro Fontane; una presso gli orti Sallustiani; la Collina, da cui partivano le vie Salaria e Nomentana, e fuor della quale stava il Campo Scellerato; la Viminale nella villa Negroni; l'Esquilina presso l'arco di Gallieno, donde moveano le vie Prenestina, Labicana, Tiburtina; la Mezia, poco discosta; la Querquetulana sulla via Labicana presso i Santi Pietro e Marcellino; la Celimontana presso San Giovanni in Laterano; la Ferentina sul Celio presso Santo Stefano Rotondo, donde si usciva al bosco della dea Ferentina, oggi Marino, convegno dell'assemblea dei popoli del Lazio; la Capena, da cui partivano le grandi strade Appia e Latina, aprivasi nella gola fra il Celio e l'Aventino, ed era il corso vespertino degli eleganti; la Nevia, al crocicchio delle vie Aventina e di Santa Balbina, menava ai boschi Nevj, ricovero de' malfattori; la Radusculana sotto la chiesa di San Saba, alla falda meridionale dell'Aventino; la Lavernale sull'Aventino; la Mavale accanto al bastione di Paolo III; la Minucia sulla sommità dell'Aventino; la Trigemina, ove è l'arco della Salaria, così detta perchè avea tre fornici. Quelle del lato occidentale sono incerte.

Dentro e fuori restava uno spazio sacro, detto pomerium, che non potevasi nè edificare nè coltivare. Silla [423] e Cesare estesero il pomerio, ma non dilatarono la mura.

Augusto partì l'antico recinto di Servio Tullio in quattordici regioni, che erano: Iª al mezzodì la Capena, ove il tempio dell'Onore, quello di Marte Estramurano, le terme di Severo e di Comodo; IIª la Celimontana sul monte Celio, ove la casa de' Laterani, la Mica Aurea fondata da Domiziano, le scuole de' gladiatori, e il piccolo campo Marzio; IIIª la Moneta nella valle fra il Celio, il Palatino e l'Esquilino, dove le terme di Trajano e di Tito, la Casa Aurea di Nerone, le grandi vie Suburra e Carina, il Colosseo; IVª la Sacra fra l'Esquilino, il Palatino e il Quirinale, dove i tempj della Pace, di Roma, d'Antonino e Faustina, il colosso di Nerone, gli archi trionfali di Tito e di Costantino, la via Scellerata, la Sandalaria abitata da' libraj, la Sacra dove Orazio solea passeggiare meditando e invanendo[381]; Vª le Esquilie chiudeano parte dell'Esquilino e il Viminale, coi monumenti del Castrum prætorianum, la casa e i giardini di Mecenate, l'arco di Gallieno, il vivario delle belve per l'anfiteatro; VIª l'Alta Semita sul Quirinale abbracciava le terme di Diocleziano e di Costantino, i tempj di Quirino, del Sole, di Flora, della Salute, i giardini di Lucullo, di Sallustio, d'altri; VIIª la Lata, fra il Quirinale e il Campo Marzio, aveva il fôro Suario, il portico di Costantino ed altri monumenti; l'VIIIª regione era il fôro Romano fra il Capitolino, il Palatino e il Tevere, e suoi monumenti il Miliario Aureo, il Comizio, la curia Ostilia, il tempio di Castore, la basilica Porzia, la colonna Mevia, il tempio di Vesta, i nuovi rostri, il tempio di Saturno, il Campidoglio, la cittadella, i fôri di Cesare, d'Augusto, di Trajano, ecc.; IXª il circo Flaminio nella parte più settentrionale, col mausoleo [424] d'Augusto, il Panteon, il teatro di Balbo, l'anfiteatro di Statilio Tauro, il teatro di Marcello, la curia di Pompeo, la Villa pubblica, dove faceasi il censo e si riceveano gli ambasciatori stranieri; Xª la Palatina col palazzo imperiale; XIª il circo Massimo fra il Palatino e l'Aventino; XIIª la Piscina pubblica fra l'Aventino e il Celio; XIIIª l'Aventino, ove faceasi la rivista degli armati (armilustrium); infine il Transtevere, ove i giardini di Nerone, la Mole Adriana, le terme d'Aureliano. Siffatta divisione durò fino ad oggi.

Cresciuta Roma di magnificenza e d'estensione sotto gl'imperatori, Aureliano la cinse di nuove mura laterizie, quali in molti luoghi si vedono tuttora, all'uopo principalmente d'inchiudervi i nobilissimi edifizj circostanti al campo di Marte. Staccandosi dalla sinistra del fiume presso porta Flaminia, la nuova mura ambiva verso oriente il Pincio, poi il Quirinale, il Viminale, l'Esquilino, il Celio, l'Aventino, e allargandosi per abbracciare monte Testaccio, toccava il fiume; di là dal quale tornava molto più in fuori dell'odierna porta Portense, donde salendo il fianco meridionale del Gianicolo, fiedeva alla porta San Pancrazio, per scendere alla Settimiana. Non fu quindi più la città de' sette, ma dei dieci colli: il Vaticano fu ricinto soltanto da papa Leone IV, formando la città Leonina.

Nella nuova cerchia Roma ebbe da quindici miglia di giro, con trentasette porte, che mettevano ad altrettanti sobborghi, e da cui partivano trentuna strade militari. In quel ricinto contavansi ventotto biblioteche, otto ponti, otto campi, dieci terme, venti acque, diciotto vie, due campidogli, due circhi, due anfiteatri, tre teatri, tre ludi, cinque naumachie, quindici ninfei, due colossi, due colonne cocliti, sei obelischi, ventidue grandi cavalli, sette Dei d'oro e settantaquattro d'avorio, trentasette archi di marmo, quattrocenventitre vichi, [425] quattrocenventidue palazzi (ædes), mille settecentonovanta case maggiori, quarantaseimila seicentodue isole, col qual nome, se pure la cifra non fu letta in fallo, non potrebbero intendersi che le case minori; ducentonovanta granaj, ottocentocinquantasei bagni, mille trecencinquantadue pozzi, ducencinquantaquattro forni, quarantasei lupanari, quattrocento cloache, cenquarantaquattro latrine.

Dei diciassette fôri o piazze, quattordici servivano per mercati diversi (venalia), gli altri per gli affari (civilia et judiciaria). Il più antico era il Romano, ove si teneano le arringhe sulla tribuna ornata dei rostri tolti alle navi cartaginesi. Il fôro di Cesare, presso campo Vaccino, costò un milione di sesterzj. Augusto nel suo fece il tempio di Marte Vendicatore, intorniato di doppia galleria, colle statue de' re latini da un lato, de' re romani dall'altro. Domiziano cominciò quello di Nerva, dove poi Alessandro Severo pose colossi degli imperatori e colonne di bronzo.

Alla vita pubblica d'allora s'addicevano i portici, formati di colonne che sostengono un soppalco, disposte a più schiere; talvolta erano indipendenti da qualunque altro edifizio; da poi si chiusero con ricinti, e presero nome di basiliche. La prima basilica pubblica si edificò sotto la censura di Porcio Catone il 569 di Roma, onde fu detta Porcia; e tanto piacque che in vent'anni se ne costruirono tre nuove, vicino al fôro, poi altre altrove, e anche per tutta Italia. Servivano ad usi pubblici, come di borsa e di tribunale, a tal uopo finendo in un semicircolo o abside, dove collocavasi il pretore sulla sedia curule, circondato dai numerosi giudici e dagli avvocati. Dieci n'aveva in Roma, la Giulia, la Vestilia, la Nettunia, la Matidia, la Marciana, la Vascolaria, la Floscellaria, quelle di Paolo e di Costantino, e di tutte più famosa la Ulpia, opera di Trajano, che abbiamo pur dianzi descritta. [426]

Noi ci badammo su questi particolari perchè, oltre essere la metropoli del mondo, Roma serviva di modello anche alle altre città dell'impero; sebbene non sia dimostrato quel che taluni asseriscono, che in ciascuna vi avesse e fôro e teatro e circo e ginnasio e bagno e campidoglio, colle forme e coi nomi medesimi della capitale.

E più ne sapremmo se degli scrittori d'arte ci fosse restato altro che il solo Marco Vitruvio Pollione. Di patria e di casa ignoto, e probabilmente schiavo greco, se argomentiamo dal suo scrivere cattivo e ingombro di grecismi, da Augusto fu adoperato alle macchine militari: ma de' fatti suoi nulla si saprebbe se egli stesso non avesse scritto. Più maestro che artista, più ingegnere che architetto egli si mostra, nè di gran valentìa dà saggio la basilica in Fano, unica che si ricordi da lui architettata.

Molti avendo scritto d'architettura ma confusamente, egli pensò ridurre in corpo compiuto quella scienza, e ciascuna parte in singoli libri. E secondo si esprime ne' preamboli, nel primo spiega i doveri dell'architetto e le cognizioni a lui necessarie; nel secondo i materiali; nel terzo la disposizione de' tempj coi varj ordini, e la distribuzione delle parti; nel quarto tratta specialmente dell'ordine jonico e del corintio; nel quinto reca la disposizione degli edifizj pubblici; nel sesto delle case private; nel settimo degli intonachi onde abbellire ed assodare gli edifizj; nell'ottavo del trovare e condur l'acqua; nel nono di differenti processi pratici e di cose utili alla vita, come il peso specifico, la costruzione delle meridiane, i rapporti del diametro col circolo, del lato colla diagonale del quadrato; il decimo discorre delle macchine sì per fabbrica, come per elevar l'acqua e per la guerra.

Ma il Trattato d'architettura qual oggi l'abbiamo, [427] è probabilmente una compilazione, poco diversa da quella di Plinio, fatta da qualcuno mal pratico, e che non avea visto co' proprj occhi i monumenti di Grecia. Nell'esecuzione spesso confonde i soggetti, ed è peccato che le figure che accompagnavano il testo siano perdute[382]. Scarso di critica e filosofia, di stile vulgare, arido e spesso oscuro anche per minutezza di particolari, a tacere i guasti venutigli dagli amanuensi, va consultato con grande cautela, e confrontato cogli edifizj ancora riconoscibili: ma se sarebbe servilità il prostrarsi a' suoi precetti, è certo che, oltre le squisite notizie, di ottimi egli ne desume dall'osservazione. Sopratutto raccomanda all'architetto lealtà e disinteresse; ed egli medesimo si fa amare per la candida intenzione con cui scrive.

Turpilio, cavaliere della Venezia ai tempi di Plinio, è il solo nobile romano che coltivasse la pittura, la quale da Plinio stesso è definita arte morente[383], benché ad alcuni egli sia cortese d'encomj; come ad Amulio per una Minerva, la quale guardava l'osservatore dovunque si mettesse[384]; meschina lode! Quinto Pedio, d'illustre famiglia, era muto, e perciò l'oratore Messala s'accordò con Augusto di fargli imparar la pittura; e riusciva bene se morte non l'avesse rapito.

Primeggiava tra i colori il cinabro, che Plinio pretende fatto col sangue di un drago schiacciato da un elefante morente, in modo che i due sangui si mescolassero[385]; e probabilmente era succo d'una palma. [428]

Il minio era stato scoperto quattro secoli avanti Cristo nelle cave d'argento d'Efeso: e per carezza e nobiltà gareggiava con esso il purpurissimo, composto col liquore estratto dai murici che pescavansi in riva al Mediterraneo. Sul golfo di Napoli manipolavansi minerali indigeni e importati per uso di colori, quali l'azzurro denominato fritta di Pozzuolo, e la porpora.

Si dipingeva per lo più sul legno; talvolta sulle pareti. Per animali e fiori e dove occorresse maggior illusione, usavasi l'encausto; cioè (se pure fra tante discrepanze possiamo prometterci lume di vero) con ferro caldo tracciavansi i contorni sopra tavolette di avorio, o stendeasi la cera colorata sopra il legno o l'argilla, ovvero con un pennello intinto in cera e pece si dipingevano tavole. La pittura a fresco non pare fosse conosciuta, male colla calce fresca accoppiandosi le lacche, il bianco di piombo, il minio, l'orpimento, colori consueti degli antichi.

Composizioni storiche ricorrono frequenti negli archi e sulle medaglie, ma rare ne' dipinti; e di tanti che n'ha il museo Borbonico, soli Sofonisba e Massinissa, e la Carità Greca tengono alla storia. Le scene di vita domestica e civile sono sempre accompagnate da esseri simbolici, come Amore, la Vittoria, Minerva. Altre volte figuravansi sacrifizj, o processioni sacre, o giuochi ginnastici, e spesso oscenità.

Il marmo di Luni, che oggi diciamo di Carrara, è un calcare bianco, leggermente cristallino, senza fossili, del periodo secondario del calcare giurassico: se non per durezza, per candore supera i più belli d'Egitto e di Grecia, non eccettuato il marmo pario, a detta di Plinio, che lo asserisce scoperto poco prima, e fu adoperato a tutte le opere grandiose, ove prima usavansi il gabinio, l'albano, il tiburtino.

Il porfido, così detto dal suo colore di fuoco (πυρ), è [429] d'un rosso bruno mischiato, constando di silice combinata coll'allumina e la potassa, e molto ferro ossidato, e cristalli di quarzo. Non si sapea donde gli antichi lo traessero; ma gl'inglesi Burton e Wilkinson nel 1823 ne scopersero le cave in Egitto, a circa venticinque miglia dal mar Rosso all'altezza di Licopoli (Syouth), non lungi dal porto di Myoshormos, in montagne chiamate Porphirites da Tolomeo, ed oggi Gebel Dokhan, cioè del fumo di tabacco. Il nome di porfido fu poi esteso ad altre pietre di simile impasto e durezza, e di colore diverso. Del rosso, tanto difficile a scalpellare, fecero poco o punto uso gli Egiziani nè i Greci: i Romani ne presero passione al tempo di Claudio, e sotto Costantino moltissimo se ne lavorava, probabilmente per mano di condannati; e non che colonne, statue, urne, riuscirono a trame anche oggetti fini e galanterie.

Plinio e Vitruvio deplorano il lusso de' marmi, ornandosi gli appartamenti con porfido, serpentino, agate, diaspri d'ogni qualità, e rilevandone lo splendore con macchie artifiziali, e coprendo le pareti di encausto; di modo che non rimaneva campo alla pittura.

Nelle gemme i Romani imitarono i Greci, ne adottarono i soggetti, o se li desunsero dai fasti patrj, vi diedero espressione allegorica. Forse ad artisti greci vanno attribuite quelle del tempo imperiale, che sono i più insigni vanti delle gliptoteche: tal è quella del gabinetto di Vienna, rappresentante la famiglia di Augusto; tale quella del gabinetto di Parigi, rappresentante Tiberio da dio colla parentela sua; e la sardonica del re d'Olanda, che offre il trionfo di Claudio in sembianza di Giove; e la tazza del museo Borbonico. Anelli, sigilli, coppe attestano la finitezza della gliptica in quei tempi.

Le arti belle però anch'esse vengono a confermarci [430] la diffusa immoralità. Cessato ogni pudore nella società, ogni scrupolo cessava nell'arte convertita in mestiero, nè ad altro ispirantesi che al gusto dei committenti; i tempj erano adorni di lubrici atteggiamenti, i vasi delle mense foggiavansi in figure disoneste, e ciascuna stanza maritale doveva ornarsi d'un dipinto osceno. Ovidio ogni tratto rammenta le tavolette impudiche; Orazio dicono ne tenesse tappezzata tutta la camera; a Properzio stesso facea scandalo il trovarne dappertutto[386].

Di capi d'arte abbondava la Sicilia, e lungamente si disputò se vi fossero venuti di Grecia, o colà stesso lavorati; e poichè le architetture sono più antiche delle greche, e vanno ornate di preziosi bassorilievi e di cariatidi, è ragionevole presumere che anche le altre opere fossero eseguite da Siciliani, o almeno da Greci stabiliti in quell'isola. [431]

Di statuette d'argilla una dovizia dissotterrarono a Catania, a Gela, a Camarina, a Tindaro, ad Acre, a Centuripa, relative le più al culto di Cerere e della dea Madre. Il Giove palliato, rinvenuto a Sòlunto, collo scettro nella sinistra, coi calzari ornati di foglie di quercia, e con due chimere che ne sostentano il trono; la Venere, uscita dalle campagne di Siracusa, premente col piede sinistro la conchiglia e il delfino, appartengono all'arte più squisita; la Venere Callipiga vince la Medicea. Aggiungi due Ercoli dalle ruine di Catania, il Giove Olimpico di Girgenti, i busti di Saturno, di Trittolemo, di Minerva.

Quante statue metalliche possedesse la Sicilia, il provano le espilazioni dei Cartaginesi, di Marcello, di Verre, e più tardi degli imperatori romani e bisantini. Pausania ricorda un Ercole in lotta coll'Amazone equestre, consacrato in Messina da Evagora di Zancle; e come, essendo naufragati trentacinque giovinetti col maestro e col sonatore di piva, che i Messenj spedivano a Reggio per una solennità, in memoria furono poste altrettante statue di bronzo. Quattro arieti dello stesso metallo diceansi congegnati da Archimede in guisa, che il vento faceva uscirne una specie di belato, che indicava da qual plaga esso vento spirasse: da Siracusa furono trasportati nella reggia di Palermo, ma per quanto si studiasse, mai non si trovò una disposizione che riproducesse quel fenomeno, sinchè ne' furori del 1848 furono spezzati.

Vi abbondavano pure bassorilievi e sarcofagi, molti de' quali ornano oggi le chiese, benchè portino scene bacchiche o mitologiche[387]. Pietre intagliate si trovano [432] spesso, e specialmente a Centuripa; e l'essere alcune solo preparate per l'intaglio o non finite, ne conferma quella scuola di gliptica, asserita da Eliano di Cirene. Lo stile di queste apparterrebbe all'età imperiale; segno della durata di tale artifizio: alcune portano le sembianze di Cicerone, di Ovidio, di Comodo in veste d'Ercole[388].

Ricchissima di marmi e di pietre fine è la Sicilia; di berilli i contorni di Castel Gratterio, di alabastri le falde del monte di Calatrasi e la terra di Gibellina, di coralline e cotognine ed altre mischie l'Erta, di agate molti paesi, e principalmente le sponde dell'Acate donde trassero il nome, e le vicinanze di Alicata. Un'agata siciliana, delle cui macchie erasi tratto partito per disegnarvi Apollo e le Muse, fu legata in oro da re Pirro e tenuta in gran pregio. Diaspri variegati offrono i monti di Giuliana e le vicinanze di Palermo; diaspro tenero Trapani; Troina massi di porfido, de' quali vennero cavati i sepolcri dei re normanni e svevi.

Un'altra dovizia artistica insieme e letteraria ci offre l'impero romano, vogliam dire le iscrizioni e le medaglie, fonte di preziose cognizioni storiche e civili; tanto che i maggiori eruditi v'attesero, nè avvi forse città, di cui i numismi e le epigrafi non abbiano avuto un illustratore particolare.

Le iscrizioni d'Italia alcune sono nelle lingue prische, alcune in greco, le più in latino. Delle italiche tocchiamo nel parlare de' primordj della nostra civiltà (V. Appendice II); e ad esse si riduce quanto ci arrivò di scritto intorno a quella. Le greche più antiche stanno sopra vasi; e sopra uno grossolano, trovato a Centorbi in Sicilia, si ha una scrittura a bustrofedon, cioè andando da sinistra a destra poi da destra a sinistra come fa [433] il bue arando, creduta anteriore fin all'iscrizione Sigea[389]. De' tempi successivi ne abbondano i paesi della Magna Grecia e della Sicilia. Qualcheduna è bilingue, come nel monumento greco-latino di Eraclea ne' Lucani, ove si fa memoria che, rivendicatosi un fondo appartenente al dio Bacco, gli agrimensori posero i termini, e lo divisero in quattro porzioni, rilasciate a vita a quattro privati, che rendessero un canone annuo, aggiunto l'obbligo di piantar viti, ulivi, fabbricare capanne e stalle. Le greche tengono del dialetto dorico ne' paesi colonizzati dai Corintj, quali Siracusa, Camarina, Gela, Agrigento, Megara, Selinunte; e dello jonico in quelli derivanti dalla Calcide, come Nasso, Zancle, Gallipoli, Eubea, Mile, Leontini. Queste sono assai meno, pur bastanti a provare che ciascun paese scriveva come parlava; tanto più che a Taormina se ne leggono d'ambo i dialetti, perchè la città d'origine calcidica ricevette poi colonie siracusane. Non così può dirsi delle romane, che, in qualunque paese siano, non si discernono per lingua; attesochè i cittadini, sparsi per ogni lido, teneansi a norme uffiziali per ogni atto, e così per la lingua. Nell'espressione seguono le vicende de' tempi, incondite le prime, poi sempre più eleganti, infine irte di neologismi e barbarismi, e che tutte insieme presentano una portentosa ricchezza, perocchè il campo dell'epigrafia latina estendesi quanto l'antico impero, cioè dall'Africa sin alla Bretagna, e dall'Oceano sino al lembo dell'India.

Infinite occasioni si presentavano da voler eternare con epigrafi; consacrazioni e invocazioni di divinità, voti, processioni, dediche o sacrifizj, are, sacerdoti, magistrati civili o militari, dignità conferite, applausi, vittorie in guerra o ne' giuochi, trionfi, benemerenze di [434] parenti o di benefattori, ricordi mortuarj. Ai monumenti si poneva un'iscrizione, che, oltre commemorativa, era encomiastica o storica: le più vanno semplici, perfino nell'adulazione: talvolta le funerarie sono anche affettuose. Vi si univano figure rappresentanti l'arte del defunto, come il deschetto e le scarpe sulla lapide di un calzolajo a Milano; e una fabbrica di pane nel monumento di Euriface fornajo, scoperto a Roma il 1838 fra le porte Prenestina e Labicana.

Quanto lume dalle iscrizioni potesse trarsi per la storia lo videro già il Petrarca e Cola Rienzi; poi rinato il genio dell'erudizione nel secolo xv, se ne trascrissero d'ogni parte in collettanee particolari, o si radunarono gli apografi stessi. Nacquero così i musei, poco usati dagli antichi, pei quali l'arte rimaneva intimamente collegata alla vita, per modo che i capolavori si trovano ne' palazzi, nelle terme, nelle basiliche, nelle ville, principalmente nei tempj, dove mistagogi, noi diremmo ciceroni, mostravano le rarità e narravano le tradizioni relative a quelle. Nel portico di Ottavia eransi adunate molte statue: ne' circhi si ornava la spina con statue, obelischi, vasi tolti in diversi luoghi; e ad un museo poteva somigliarsi la villa d'Adriano a Tivoli. Neppur allora mancavano ciarlatanerie ed imposture: Plinio ricorda che a Roma furono portate da Joppe le ossa dell'orca marina a cui rimase esposta Andromeda, e il sasso dov'erano infisse le catene con cui essa fu legata; Procopio descrive la nave con cui Enea approdò in Italia, quale conservavasi a Roma.

Per iscrizioni il museo più ricco è il Capitolino: ma non v'è quasi città che non ne possieda alcuno; e ne fecero la descrizione Scipione Maffei per Verona, il Rivautella per Torino, il Guasco pel Capitolino, il Gori per la Toscana, il Malvasia per Bologna, Olivieri per Pesaro, Morisani per Reggio, Bianchi per Cremona, [435] Noris per Pisa, Labus per Mantova e Brescia, Boldetti e Lupi per le epigrafi cristiane, e così altri, e più insigne di tutti Ennio Quirino Visconti. A Palermo fin dal 1580 decretava il senato di affiggere al suo palazzo le epigrafi che si trovassero, meglio disposte poi nell'interno cortile, e illustrate dal Torremuzza; a Catania fece altrettanto il principe di Biscari: altri a Messina, Siracusa, Agrigento. Il quale Torremuzza, dopo altri, diede Siciliæ et objacentium insularum veterum inscriptionum nova collectio, 1784. Infine vennero il Muratori col Tesoro delle iscrizioni, l'Orelli a Zurigo colla raccolta di oltre cinquemila bene scelte e ben lette, e Carlo Zell con un manuale (Eidelberga 1850) utilissimo perchè di piccola mole; ed ora a Berlino sono radunate e classificate tutte le antiche, colle tante che vengono in luce ogni giorno.

Nelle monete, non considerandole qui che dal solo aspetto artistico, oltre la materia, sono a notarsi la grandezza o modulo, il tipo, l'iscrizione. Qualche moneta triangolare, rettangola, romboidale offrono i popoli dell'Italia centrale; alcuna ovale è forse dovuta a negligenza del fonditore; le più sono rotonde; nella Magna Grecia non ne mancano di concave, a guisa di coppe; quelle di Siracusa tirano allo sferico. L'ordinaria materia sono l'oro, l'argento, il rame o il bronzo. Le più antiche di Sicilia sono d'argento, seguono quelle di rame, ultime le auree, appartenenti le più a Siracusa, altre a Gela, Agrigento, Taormina; alcune d'oro a Palermo portano lo stemma punico: Dionigi ne fece di stagno[390]. Alcune sono di bronzo e piombo rivestite poi di foglia d'oro o d'argento (bracteatæ): alcune son liscie tutte, salvo un piccolo tipo stampato nel centro: altre con orlo di metallo più fino contorniatæ. I medaglioni [436] forse non batteansi che per onoranza o per fregiare qualche divinità o per ricompensa in guerra, benché, passata l'occasione, entrassero anch'esse in commercio. I tre sovrintendenti alla zecca in Roma erano intitolati AAAFF, cioè auro, argento, ære fundendo feriundo, dai tre metalli che s'adopravano, e dai due processi di fondere il metallo in una forma vuota portante le due impronte, o di fondere soltanto la botella, per improntarla stringendola fra due morsi d'una tenaglia, o battendola con un punzone.

Prima ancora delle iscrizioni, sulle monete ponevasi un tipo od emblema, che poi si conservò sempre sul rovescio, sanzionato dalla pubblica autorità; fosse l'effigie del principe, o la figura simbolica della città, o lo stemma di questa, molte volte parlante, cioè figurante un oggetto, il cui nome somigliasse a quello della città. Le tre gambe disposte a triangolo significano la Sicilia, il petroselino per Selinunte, il granchio (ἄκραγας) per Agrigento, un gomito (ἅγχων) per Ancona, un muso di leone per Leontini, la luna per Populonia (popluna), un toro per Turio, per Camarina il chamærops humilis, cioè la piccola palma. Nel tipo s'incontrano spesso Vittorie alate in commemorazione d'una battaglia o d'un giuoco vinto; talora l'effigie del fiume vicino, come l'Aretusa pe' Siracusani, l'Ippari per Camarina, l'Amenano per Catania; ovvero del dio o dell'eroe titolare, come Ercole per Crotone, o di qualche cittadino illustre, come Timoleone pei Siracusani; sulle monete della Magna Grecia frequenta il bove colla testa umana, quanto i rostri sulle prime romane.

Fra le allegorie in queste la più frequente è la Vittoria, poi la Salute, o la Pietà, o Roma cogli attributi di Minerva. Nel chinare della repubblica crescono i tipi storici, talchè colle monete possono accompagnarsi gli eventi e poetici e positivi; e non [437] esprimendo capricci d'individui, ma idee nazionali, vi s'indaga la storia de' costumi e delle opinioni, viepiù preziosi degli altri monumenti perchè non soffersero mutilazioni nè restauri. Spesso vi sono aggiunti altri tipi, variatissimi e a capriccio, principalmente nelle monete delle famiglie: e da settantamila ne conoscono i numismatici. Le spintrie ostentano le lascivie di Tiberio a Capri.

Sotto i consoli, ed anche imperante Augusto, i triumviri monetarj poteano scolpire i proprj nomi sulle monete, che perciò diconsi di famiglia; e ne' tipi di queste compajono spesso figure allusive al nome loro, Pan pei Pansa, un vitello pei Vitellj, un martello per Malleolo, le muse per Musa, un fiore per Aquilejo Floro, un Giove cornuto pei Cornificj. Delle città alcune continuarono a porre il nome e il tipo proprio sulle monete, anche dopo sottoposte a Roma. Sotto gl'imperatori non s'improntò più che l'effigie di questi; ma sul rovescio vedesi sc, il che fece credere che la monetazione fosse spettanza del senato. Bensì gl'imperatori vi posero anche l'effigie delle sorelle, delle mogli, delle figliuole loro, e di parenti naturali o adottivi.

Al basso della medaglia, cioè nell'esergo, viene indicato il luogo ove furono battute; roma e romano si ha in moltissime anche forestiere, che forse faceansi a Roma; poi nel Basso Impero COMO o COMOB, che probabilmente significa COstantinopoli Moneta OBsignata.

La Sicilia è uno dei primi paesi di cui abbiansi monete, come se ne hanno le più belle e la maggior varietà, ogni città adoprandovi tipi distinti, secondo il genio municipale dei Greci. Le antichissime sono di Messina, e alcune anteriori al 560 avanti Cristo, e forse fino del 620. Filippo Paruta segretario del senato di Palermo diede pel primo in luce il medagliere siciliano nel 1612; ma la descrizione che dovea seguirvi, andò perduta. [438] Alle imperfezioni di quello supplirono Leonardo Agostini, Marco Meyer, Sigeberto Hauercamp, il principe di Torremuzza, infine Federico Munter[391]. Della sola Siracusa il Torremuzza pubblicò trentasei monete d'oro, censessantatre d'argento, cenquarantanove di bronzo; e un buon terzo se ne aggiunsero dipoi.

Le prische monete italiche sono i nummi librali o æs grave, rotonde, a lente, con rilievo d'ambo i lati, e che indicavano e il peso e il valore d'un asse. Sono speciali dell'Italia, ma vi mancano segni per discernere a qual città appartengano, e i tipi rappresentano un cavallo, un delfino, una lira, un elefante, una troja, una testa di Giunone o di Cerere o dei Dioscuri, Romolo e Remo colla lupa, una Vittoria sulla quadriga, o simili. Quando Roma battè o piuttosto fece battere nella Campania denaro proprio, vi adoperò il tipo nazionale del Giano bifronte e la prora di nave. Plinio vorrebbe che [439] solo nel 485 si battessero monete d'argento: il che vuol forse significare che quell'anno se ne ponessero le fabbriche. Fin a Pompeo Magno ben poco oro fu coniato.

Gli avanzi di belle arti, guasti come sono dal tempo e dai casi, e disgiunti da quelle minute particolarità il cui accordo cresce significazione all'insieme, eran ben lontani dal porgere adequata idea di ciò che allora fossero le arti, la ricchezza, l'edilizia, e dal rivelare gli usi della vita pubblica e privata, imperfettamente dinotati dagli scrittori, che, come in cosa nota, s'accontentano di allusioni. Per compiere l'istruzione, città intere uscirono dal sepolcro. Il Vesuvio, che in tempi anteriori ad ogni memoria avea vomitato fiamme, tacque per secoli, finchè, imperante Tito, rinnovò le sue eruzioni, colle quali più non cessò di minacciare i deliziosi contorni di Napoli. In quella prima rovina, fra altre borgate e ville, rimasero sepolte Ercolano e Pompej. [440]

Ancor più che le lave e i lapilli, sedici secoli n'aveano cancellata la memoria, quando Emanuele di Lorena principe di Elbeuf, nel 1713, udito che un del paese avea tratto alcuni marmi da un pozzo, comprò il diritto di farvi scavi. Il pozzo dava appunto sopra il teatro di Ercolano, e ne cavò un Ercole, una Cleopatra, e sette altre statue, che spedite subito in Francia, destarono la meraviglia. Continuando, ebbe finissimi marmi d'Africa, poi scoperse un tempio rotondo con ventiquattro colonne e altrettante statue in giro. Carlo III di Napoli ricomprò da esso principe quello spazzo, e sterrando acquistò la certezza d'avere scoperta una città. Ma su questa venti metri di lava eransi induriti, e sopra edificate Portici e Resina, che sarebbonsi dovute demolire co' regj loro palazzi. Forza fu dunque limitarsi a parziali escavazioni, e da ciascuna di esse trarre quel che si poteva, indi colmare di nuovo i vuoti per non iscalzare le città.

Anticaglie d'ogni genere uscirono così; affreschi, quadri, vasi, bassorilievi, fregi, rabeschi, le statue equestri dei consoli Nonio e Balbo, bronzi, tripodi, lampade, pàtere, candelabri, altari, istrumenti di musica e di chirurgia, che formarono una ricchezza non rara ma unica del museo Borbonico. Molti estesi edifizj si riconobbero, tempj, un teatro, il fôro: tra il resto una bella casa di campagna, con giardino che stendeasi fin al mare, abbellito d'una peschiera che terminava in semicircolo alle due estremità; attorno ad essa scompartimenti come d'ajuole; e tutto circondato da colonne di mattone intonacate di gesso, su cui appoggiavano travi, infisse nel muro di cinta, formando così attorno allo stagno una pergola, sotto cui erano divisioni or triangolari ora a semicircolo, per lavare e per bagnarsi. Fra le colonne sorgeano busti di marmo e statue muliebri di bronzo, alcune grandi al vero, della fusione [441] più perfetta: un canaletto d'acqua lambiva il muro di cinta. Annessa era la camera dove si trovarono i famosi rotoli di papiro, che svolti con ingegnosissima lentezza, ci regalano tratto tratto qualche novità, ma nulla finora d'importante; e ciò ch'è notevole, un solo è in latino, frammento d'un poema sulla guerra di Azio. Le sei danzatrici, il Fauno dormente, il Mercurio, sei busti creduti de' Tolomei, altri di Platone, Archita, Saffo, Democrito, Scipione Africano, Silla, Lepido, Cajo e Lucio Cesare, Augusto, Livia, Claudio Marcello, Agrippina minore, Caligola, Seneca, due incogniti, due daini, varie figurine, l'Omero, l'Aristide ch'è delle migliori statue antiche, due busti di Bacco indiano, il preteso Silla, il Satiro colla capra, tutti di marmo, si trovarono in questo giardino, che pure apparteneva ad un filosofo privato. La Pallade, scoperta ad Ercolano stesso e dell'età di Fidia, va ben innanzi ai marmi eginetici; antichissima è pure l'Artemisia, che l'esser fatta di marmo di Carrara ci lascia supporre eseguita in Italia[392].

In quel medesimo torno di tempo, l'aratro d'un villano urtò contro una statua di bronzo, e questa diede spia dell'altra città di Pompej[393]. Lapilli e ceneri la [442] ricoprono, talchè poco a poco ella potrà ritornarsi intiera alla luce: per non nuocere a tanti fini lavori e perchè nulla vada perduto, lenti procedono gli scavi, ma è già scoperta la regione principale, con due teatri, un tempio d'Iside, uno d'Esculapio, uno greco, una porta della mura colla via delle tombe, il fôro, la basilica; in breve spazio raffittiti edifizj, che oggi basterebbero ad una grande città. All'altra estremità è l'anfiteatro; e mura pelasgiche la circondano.

Le case si somigliano per distribuzione e ornamenti; a uno o due piani; camerette di appena tre in quattro metri, alte da cinque a sei, malagiate di comunicazioni e disimpegni, con poche finestre, simili a feritoje, eccetto quelle che danno sul giardino, e che forse erano serbate alle donne. I cortiletti sono cinti da portici, anche nelle abitazioni di minore importanza, onde godervi il rezzo. Negli appartamenti non usavasi legname alle costruzioni, eccettochè per le imposte alle finestre e alle porte; pavimenti a musaico; soffitta e pareti con medaglioni di stucco, e con pitture e musaici, rappresentanti vivande, libri, utensili, mobili, storie, secondo il genio e l'arte del padrone. Quella del poeta tragico, sullo spazio di quindici metri in largo e del doppio in lungo, è divisa in diciannove membri, compreso l'atrio: il musaico alla soglia rappresenta un mastino alla catena coll'iscrizione cave canem. Dal corridojo passi nell'atrio, cortile scoperto, adorno ai quattro lati di pitture, tratte dall'Iliade o allusive ad arte drammatica: all'intorno camere pe' forestieri, anch'esse a dipinti, spesso osceni: rimpetto all'ingresso il tablino, o sala di ricevimento, porta la figura d'un poeta tragico che declama a due astanti, mentre sul pavimento a musaico è figurata la [443] prova d'un'opera; esecuzione squisitissima. Vi succede il peristilio o seconda corte aperta, in cui un giardinetto cinto da portico di sette colonne doriche, esso pure dipinto. Al fondo sta il larario o cappella domestica, con un graziosissimo Fauno di bronzo; a manca un gabinetto di riposo, con Diana, Narciso al fonte e Amore che pesca; un'altra cameretta è a paesi e marine, e sul muro principale sta dipinta una schiera di libri, che il tragico forse non possedeva se non col desiderio. In faccia trovate l'esedra, o sala di conversazione, decorata di ballerine, di frutti e d'animali, con Leda, Arianna abbandonata, il sacrifizio d'Ifigenia: da canto la cucinetta con tutti gli attrezzi dipinti, oltre i reali, comunica col triclinio anch'esso pitturato: di sopra era il gineceo.

Direste che quelle case jeri appena sieno state deserte. Nel tempio d'Iside hai disposti gli utensili delle cerimonie; gli scheletri dei sacerdoti, sorpresi tra quelle, ancor portavano gli abiti pontificali; i carboni stanno sull'altare; e candelabri, lampade, patere per le libazioni, lettisternj per la dea, purificatoj ornati a stucco, e un capace vaso di bronzo colle ceneri dell'ultimo olocausto, miste al grasso delle vittime. Ancora l'insegna invita al fondaco del mercante; leggendo alla soglia la voce salve, credi udirla dal padrone, cui il motto ben augurato non preservò; là pozzi in mezzo alla via, qua cloache sboccanti al mare; sull'angolo d'un crocicchio una spezieria coll'insegna del serpe che morde un pomo; altrove un altare coll'aquila di Giove, esposti in vendita; l'uffizio d'un pubblico pesatore; gli spacci di bevande calde, corrispondenti ai nostri caffè; altrove una casa di bordello, indicata da priapi e dal motto HIC FELICITAS, che rivela una filosofia gaudente[394]. I pani hanno il marchio del fornajo; alcuni non cotti ancora, altri già [444] rotti; nel pistrino hai macine singolari; nella madia preparata la farina col lievito; nel forno una torta entro la sua tegghia; altrove, fave, noci, olio, vino in fiaschi col nome dei consoli e che non doveva esser bevuto; biche di grano, il quale piantato spigò dopo mille settecento anni di sonno vitale. Entri negli appartamenti delle signore? eccoti scarpe[395], spilli, aghi, ditali, forbici, gomitoli, rocche, oricanni di balsami, e gli arnesi onde anche oggi si accresce o ripara la bellezza, e monete forate che recavansi al collo; in altre parti, dadi da giocare, palle e balocchi da fanciulli. Ma in tante abitazioni, non carta, non libri.

S'una casa, poco lungi dalla porta, leggesi in rosso il nome di Sallustio, lo storico che qui appunto aveva una villa: colà l'album ove si affiggevano i decreti de' magistrati, gli annunzj di vendite, aste e simili: dentro era un portento di quadri, marmi rosei, musaici, anfore, vasi d'immenso prezzo. La via del sobborgo, spaziosa e allineata, fiancheggiano case di campagna, tombe, sedili di pietra, ove gli abitanti venivano sulla sera fra i sepolcri degli amici e dei parenti per respirare il fresco e osservare i viandanti. Nel sobborgo sorgea la villetta, di cui tanto Cicerone si compiaceva; e là presso quella del liberto Diomede, benissimo conservata, colla porta aprentesi sopra un verone e [445] fiancheggiata da due colonne; cortile quadrato, cinto da portici a colonne, sotto cui si aprivano gli appartamenti.

Non v'è abitare, ove non si trovino pitture. Queste sono opera di quadratarj o imbianchini, ma probabilmente riproducono tavole famose; e certamente l'Ercole fanciullo e il sacrifizio d'Ifigenia sono desunti da quelli di Zeusi, come dalla scuola corintia proviene l'Achille in Sciro. Le pitture di Pompej restano quasi gli unici monumenti per giudicare dell'arte pittorica presso i Greci, ma ristrette in cento anni quanto all'esecuzione, mentre pei soggetti recano fin ai tempi alessandrini, e sempre con pose tranquille, figure non aggruppate, fondo d'un sol colore, e poche linee prospettiche. Anche qualche capolavoro doveva esser copiato a musaico; e quello che serviva di pavimento a un triclinio, e che figura la battaglia fra Alessandro Magno e Dario, è il pezzo più insigne che l'antichità ci tramandasse[396].

Nè minor fasto spiegavasi nelle tombe[397]. In quella eretta da Tuche vivente pei liberti e le liberte sue, sotto al ritratto di essa vedi l'iscrizione e un bassorilievo, portante da una faccia la famiglia, dall'altra l'effigie de' magistrati municipali; accanto sta scolpita una barca, simbolo del passaggio; e daccosto è il triclinio pei pasti funerei[398]. [446]

Se tale era una città di provincia, si argomenti qual dovette essere la metropoli. Pure ammirando la magnificenza e il gusto, abbiam molto a congratularci delle [447] maggiori comodità odierne. Gabinetti di meraviglioso lavoro mancavano di luce, ed era bujo quello a Roma da cui uscì il gruppo del Laocoonte: gl'illuminavano [448] lampade di elegantissime forme, ma dove neppur si era introdotta la corrente doppia, talchè affumicavano le volte. Se stupende strade erano destinate a trasportare e trasmettere le contribuzioni agli eserciti, mancavasi però di quelle tante, che oggi mettono in comunicazione ogni minimo villaggio. Le vie di Roma furono sempre anguste e montuose[399]; quelle interne di Pompej sono strette, allagate dalla pioggia, senza fogne. Indarno poi vi cercheresti uno spedale, un albergo de' poveri; e la plebaglia doveva essere confinata in catapecchie, che non resistettero al tempo, e disgiunte dalle abitazioni civili. Le camere stesse de' ricchi sono bugigattoli senza [449] aria nè luce, nè bellezza di specchi e di finestre: i ginecei delle donne somigliano a prigioni. Eleganti i sedili e i letti ma duri; senza molle nè cinghie i carri, del resto ben rari, come lo prova l'angustia delle strade: ivi non lampioni per la notte, non pompe da aspirar l'acqua, non difese contro la pioggia e i fulmini, non tovagliuoli nè forchette a tavola, neppur bottoni o occhielli al vestito; non carte geografiche o bussola i viaggiatori, non colori a olio i pittori. Che diremo dell'infima classe priva di quelle innumerevoli comodità oggimai a nessuno negate, libri, quadri, oriuoli, vesti di seta, camini, acquajuoli, zuccaro e caffè, stoviglie ben verniciate, biancheria che dispensi dalla frequenza de' bagni, e macchine che scusino le più dure fatiche, e libertà di spendere come si voglia il denaro acquistato con libero lavoro?

Ammiriamo dunque, ma non invidiamo il passato, e figuriamoci che l'età dell'oro, se pur è sperabile, sta davanti a noi, non dietro, per quanto sia vero che per arrivare al desiderato avvenire conviene afforzarsi nella scuola del passato.

FINE DEL TOMO TERZO

[451]

INDICE

Capitolo   pag.
XXXI. Il secolo d'oro della letteratura latina 1
XXXII. Tiberio 79
XXXIII. Un imperatore pazzo, uno imbecille, uno artista 92
XXXIV. Prosperità materiale e depravazione morale. Lo stoicismo 118
XXXV. La redenzione 183
XXXVI. Galba. — Otone. — Vitellio 207
XXXVII. I Flavj 217
XXXVIII. Imperatori stoici 235
XXXIX. Gli Antonini 252
XL. Economia pubblica e privata sotto gli Antonini 272
XLI. Coltura de' Romani. Età d'argento della loro letteratura 304
XLII. Belle arti. Edilizia 392

NOTE:

1.  Orazio, Ep. II.

2.  

Græcia capta, ferum victorem cepit, et artes

Intulit agresti Latio...

Serus enim græcis admovit acumina chartis.

Ep. II. 1.

(*) Mommsen vorrebbe che i versi fescennini e le atellane fossero detti non dalle distrutte città di Fescennio e Atella, ma dal porsi in queste città la scena delle commedie, affine di satirizzare senza incorrere le gravi pene comminate a chi ingiuriasse un cittadino romano.

3.  Lib. VII, cap. 2.

4.  Plauto nel prologo del Trinummo dice: Plautus vortit barbare; e barbarica lex chiama la romana nei Captivi; e Barbaria l'Italia nel Penulo.

5.  Vates da fari, come Fauni; ed è comune alle genti il chiamare sè parlanti, e muti gli stranieri.

6.  Orazio, Ep. II. 1; Tacito, Ann., XIV. 21.

7.  Singolarmente un Rintone da Taranto, modello di Lucilio, e inventore d'una non sappiamo quale specie di commedia (Lydus, De magistratibus rom., I. 41). Forse era quella che a Roma dicevasi Rintonica.

8.  Ciò risulta da Diomede, III. 488, nella collezione di Putsch.

9.  Munck, De atellanis fabulis, pag. 52, crede Strabone s'ingannasse sull'osce loqui, volendo questo dire non che si servissero della lingua osca, ma che parlavano oscamente, cioè rusticamente.

10.  Martino Hertz, in una memoria stampata a Berlino il 1854, sostiene che deva dirsi Tito Maccio Plauto, nè altrimenti pensano l'editore di Plauto Ritschl e Lachmann; così trovando in un palinsesto. Non pare abbiano ragione.

11.  Per esempio:

Obsequium amicos, veritas odium parit.

Amantium iræ amoris integratio est.

Homo sum; humani nihil a me alienum puto.

12.  

Atque ideo hoc argumentum græcissat, tamen

Non atticissat, verum at sicilissat.

Prologo dei Menæchmi.

Anche Cicerone (Divin. in Verrem) rinfacciava a Cecilio, suo competitore, d'avere imparato le greche lettere non in Atene ma al Lilibeo, le latine non a Roma ma in Sicilia. Ciò proveniva dall'usarsi nell'isola e il latino e il greco, il che guastava entrambe le lingue; e forse più il commercio co' Cartaginesi.

Nel vol. III delle Memorie sulla Sicilia è inserita una dissertazione di Giuseppe Crispi «intorno al dialetto parlato e scritto in Sicilia quando fu abitata dai Greci», corredata di esempj che scendono fino alla dominazione normanna, cioè al sottentrare dell'italiano.

13.  Anche Terenzio alcuni pretendono sia scritto in prosa; tante sono le licenze a cui bisogna ricorrere per ridurlo a versi giambi trimetri, cioè di sei piedi, nei quali la sola regola che quasi sempre egli osserva è di finire con un giambo.

14.  Lo snodarsi ordinario degli intrecci col ricomparire d'un personaggio creduto morto, o col far riconoscere un padre o un figlio, trovava giustificazione fra gli antichi dall'abitudine di esporre i bambini e ridurre schiavi i prigioni di guerra, dalle frequenti rapine de' corsari, e dalle scarse comunicazioni fra' paesi. Quanto agli a parte e alla doppia azione, restavano meno sconci per la vastità dei teatri, e perchè la scena per lo più rappresentava una piazza, cui molte strade metteano capo.

Di Terenzio cantava Cesare:

Tu quoque, tu in summis, o dimidiate Menander,

Poneris, et merito, puri sermonis amator;

Lenibus atque utinam scriptis adjuncta foret vis,

Comica ut æquato virtus polleret honore

Cum Græcis, neque in hac despectus parte jaceres!

Unum hoc maceror, et doleo tibi deesse, Terenti.

Sebbene la frase vis comica sia divenuta vulgata, inclino a credere che il terzo e quarto verso vadano punteggiati come ho fatto, unendo il comica a virtus. Vedasi tom. I, pag. 364.

15.  

Quod si personis iisdem uti aliis non licet,

Qui magis licet currentes servos scribere,

Bonas matronas facere, meretrices malas,

Parasitum edacem, gloriosum militem,

Puerum supponi, falli per servum senem,

Amare, odisse, suspicari? Denique

Nullum est jam dictum quod non dictum sit prius.

Prologo dell'Eunuco.

Ecco l'intreccio di tutte le commedie.

Sui comici latini porta questo giudizio Vulcazio Sedigito, vivente sotto gl'imperatori:

Multos incertos certare hanc rem vidimus

Palmam poetæ comico cui deferant.

Eum, meo judicio, errorem dissolvam tibi,

Ut, contra si quis sentiat, nihil sentiat.

Cæcilio palmam Statio do comico:

Plautus secundus facile exsuperat ceteros:

Dein Nævius qui fervet, pretio in tertio est:

Si erit quod quarto detur, dabitur Licinio:

Attilium post Licinium facio insequi;

In sexto sequitur hos loco Terentius:

Turpilius septimum, Trabea octavum obtinet:

Nono loco esse facile facio Luscium;

Decimum addo causa antiquitatis Ennium.

Presso A. Gellio, XV. 24.

Sembra non abbia voluto indicare che gli autori di commedie palliatæ, e perciò lasciasse daccanto persino Afranio, illustre nelle togatæ.

16.  

Poeta, cum primum animum ad scribendum appulit,

Id sibi negotii credidit solum dari

Populo ut placerent quas fecisset fabulas.

Terenzio, prologo dell'Andria.

... Eum esse quæstum in animum induxi maxumum,

Quam maxume servire vestris commodis.

Prologo dell'Eautontimorumenos.

17.  Perchè Roma non ebbe tragedie? Tale questione è magistralmente trattata da Nisard, Etudes sur les mœurs et les poètes de la décadence, a proposito di Seneca. — Lance (Vindiciæ romanæ tragediæ. Lipsia 1822) raccolse ben quaranta tragici romani. — Vedi pure Tragicorum romanorum reliquiæ: recensuit Otto Ribbeck. Lipsia 1852.

18.  Si quis populo occentassit, carmenve condisti, quod infamiam faxit flagitiumve alteri, fuste ferito. Cicerone, De republica, dice: — Le XII Tavole avendo statuita la morte per pochissimi fatti, tra questi stimarono non doverne andar esente colui che avesse detto villanie, e composto versi in altrui infamia e vitupero. E ottimamente, perchè il viver nostro dev'essere sottoposto alle sentenze de' magistrati ed alle dispute legittime, non al capriccio de' poeti; nè dobbiamo udir villanie se non a patto che ci sia lecito il rispondere e difenderci in giudizio». Elegantissimamente Orazio soggiunge nella già più volte citata Epistola II. 1:

Libertasque recurrentes accepta per annos

Lusit amabiliter, donec jam sævus apertam

In rabiem verti cœpit jocus, et per honestas

Ire domos impune minax. Doluere cruento

Dente lacessiti: fuit intactis quoque cura

Conditione super communi: quin etiam lex

Pœnaque lata, malo quæ nollet carmine quemquam

Describi. Vertere modum, formuline fustis

Ad bene dicendum, delectandumque redacti.

19.  Quando Cicerone fu richiamato in patria, Esopo tragico, recitando il Telamone di Azzio e cambiando poche parole, fece applauso a lui con questi motti: Quid enim? Qui rempublicam certo animo adjuverit, statuerit, steterit cum Argivis... re dubia nec dubitarit vitam offerre, nec capiti pepercerit... summum animum summo in bello... summo ingenio præditum... O pater!... hæc omnia vidi inflammari... O ingratifici Argivi, inanes Graji, immemores beneficii!... Exulare sinitis, sinitis pelli, pulsum patinimi etc.

Nei giuochi Apollinari, avendo Difilo recitato questi versi,

Nostra miseria tu es magnus...

Tandem virtutem istam veniet tempus cum graviter gemes...

Si neque leges, neque mores cogunt...,

il popolo volle vedervi un'allusione a Pompeo, e costrinse l'attore a replicarli migliaja di volte; millies coactus est dicere. Cicerone, ad Attico, II. 19.

Sotto Nerone, un attore dovendo pronunziare, Addio, padre mio; addio, madre mia, accompagnò il primo coll'atto del bere, il secondo coll'atto del nuotare, per alludere al genere di morte dei genitori di Nerone. Poi in un'atellana proferendo, L'Orco vi tira pei piedi (Orcus vobis ducit pedes), voltavasi verso i senatori.

20.  Erano Britanni quei che abbassavano, noi diremmo alzavano gli scenarj:

Vel scena ut versis discedat frondibus, utque

Purpurea intexti tollant aulæa Britanni.

Virgilio, Georg., III. 24.

21.  Della critica di Acilio un bel saggio ci conservò A Gellio, intendendo mostrarcene la simplicissima suavitas et rei et orationis (XI. 14): Eundem Romulum dicunt ad cœnam vocatum, ibi non multum bibisse, quia postridie negotium haberet. Ei dicunt: — Romule, si istud omnes homines faciant, vinum vilius sit». Is respondit: — Immo vero carum, si quantum quisque volet, bibat; nam ego bibi quantum volui». C'è bene da disgradare le cronicacce di frati, contro cui se la piglia Carlo Botta.

22.  Εἰ γὰρ, ἧς πάντες εὐχόμεθα τοῖς Θεοῖς τυχεῖν, καὶ πᾶν ὑπομένομεν ἱμείροντες αὺτῆς μετασκεῖν, καὶ μόνον τοῦτο τῶν νομιζομένων ἀγαθῶν ἀναμφισβήτητόν ἐστι παρ’ ἀνθρώποις (λέγω δὴ τὴν εἰρήνην) κ. τ. λ.

23.  Ὅτι σφόδρα οἱ ̔Ρωμαῖοι φιλοτιμοῦνται δικαίους ἐνίστασθαι τοὺς πολέμους. Framm. XXXII. 4. 5.

24.  Anche Eumachio di Napoli avea descritto le geste di Annibale. Celidonio Errante ha un discorso sui difetti della primitiva storia siciliana, derivati dall'esserci giunta solo per frammenti; e suggeriva di supplirvi in qualche modo col radunare que' frammenti. Cominciò egli stesso l'opera nella Biblioteca greco-sicula (Palermo 1847), ove discorre di varj storici, quali Antioco, Temistogene, Filisto, Dicearco ed altri.

25.  Libros tuos conserva, et noli desperare eos me meos facere posse; quod si assequero, supero Crassum divitiis, atque omnium vicos et prato contemno. Ad Attico, I. 4. — Bibliothecam tuam cave cuiquam despondeas, quamvis acrem amatorem inveneris: nam omnes vindemiolas eo reservo, ut illud subsidium senectuti parem. Ivi, 10. E spesso ritocca la corda.

26.  De latinis (libris) quo me vertam nescio; ita mendose et scribuntur et veneunt. Cicerone, ad Quintum, III. 5.

27.  Fuvvi bibliotecario Giulio Igino, che scrisse delle api e degli alveari. Giulio Attico e Grecino trattarono della coltura delle viti.

28.  Acad. Quæst., I. 3: — Noi peregrini e quasi stranieri nella città nostra, i tuoi libri condussero, per così dire, a casa, talchè potessimo conoscere chi e dove fossimo. Tu l'età della patria, tu la descrizione dei tempj, tu la ragione delle cose sacre e dei sacerdoti, tu la disciplina domestica e la guerresca, tu la sede dei paesi e dei luoghi, tu ci mostrasti delle cose tutte umane e divine i nomi, i generi, gli uffizj, le cause, ecc.

29.  Le etimologie di Varrone sono già derise da Quintiliano, Inst. orat., I. 6: Cui non post Varronem sit venia? qui agrum, quod in eo agatur aliquid; et graculos quia gregatim volent, dictos Ciceroni persuadere voluit; cum alterum ex græco sit manifestum duci, alterum ex vocibus avium? Sed huic tanti fuit vertere, ut merula, quæ sola volat, quasi mera volans, nominaretur.

30.  Fra le sentenze di Varrone, alcune vengono opportune anche oggi, specialmente a coloro che l'erudizione antepongono a tutto.

Non tam laudabile est meminisse quam invenisse: hoc enim alienum est, illud proprii muneris est.

Elegantissimum est docendi genus exemplorum subditio.

Amator veri non tam spectat qualiter dicitur, quam quid.

Illum elige eruditorem, quem magis mireris in suis quam in alienis.

Non refert quis, sed quid dicat.

Sunt quædam quæ eradenda essent ab animo scientis, quæ inserendi veri locum occupant.

Multum interest utrum rem ipsam, an libros inspicias. Libri nonnisi scientiarum paupercula monimenta sunt; principia inquirendorum continent, ut ab his negotiandi principia sumat animus.

Eo tantum studia intermittantur, ne obmittantur. Gaudent varietate musæ, non otio.

Nil magnificum docebit qui a se nil didicit. Falso magistri nuncupantur auditorum narratores. Sic audiendi sunt ut qui rumores recensent.

Utile sed ingloriosum est ex illaborato in alienos succedere labores.

31.  Nat. hist., XXXV. 2. — Raoul-Rochette li credeva miniati.

32.  Nudi sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis, tamquam veste, detracto; sed dum voluit alios habere, parata unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit qui volunt illa calamistris inurere; sanos quidem homines a scribendo deterruit: nihil enim est in historia pura et illustri brevitate dulcius. Cicerone, De orat., 75. — Summus auctorum divus Julius. Tacito. — Tanta in eo vis est, id acumen, ea concitatio, ut illum eodem animo dixisse quo bellavit appareat. Quintiliano, Inst. orat., X. 1.

L'ottavo libro della Guerra gallica si ascrive comunemente a un Irzio, che stese pure i commentarj sulle guerre d'Alessandria, d'Africa e di Spagna.

33.  Svetonio, in Cesare, 20, in Augusto, 36. — Le Clerc, nella sua opera de' Giornali fra i Romani (Parigi 1838), non solo intende provare ch'essi aveano effemeridi al modo nostro, ma che, per mezzo di queste e degli Annali Pontifizj, può rendersi alla storia de' primi tempi la certezza che la critica tende a rapirle. Vedansi pure

Lieberkuehn, Commentatio de actis Romanorum diurnis. Weimar 1840.

Schmidt, Zeitschrift für Geschichtswissenschaft. Berlino 1844.

Huebner, De senatus populique romani actis. Lipsia 1860.

Eccone qualche esempio:

III. Kal. Aprileis.

Fasces penes Æmilivm· lapidibvs plvit invejenti· Postvmivs trib. pleb. viatorem misit ad eos quod is eo die senatum nolvisset cogere· intercessione P. Decimii trib. pleb. res est svblata· Q. Avfidivs mensarivs tabernæ argentariæ ad scvtvm cimbricvm cvm magna vi æris alieni cessit foro· retractus ex itinere cavsam dixit apvd P. Fontejvm Balbvm præt. et cvm liqvidum factum esset evm nvlla fecisse detrimenta jvssus est in solidum æs totum dissolvere.

IV. Kal. Aprileis.

Fasces penes Licinivm· fvlgvravit tonvit et qvercvs tacta in svmma velia pavllvm a meridie· rixa ad Janvm infimvm in cavpona et cavpo ad vrsum galeatvm graviter savciatvs· C. Titinivs æd. pl. mvlctavit lanios qvod carnem vendidissent popvlo non inspectam· de pecunia mulctatitia cella extrvcta ad tellvris lavernæ.

34.  Candidissimus omnium magnorum ingeniorum æstimatur Livius. Seneca. I suoi libri erano cinquantadue, arrivando da Romolo fino alla morte di Druso nel 744. Ne restano trentacinque non seguenti, cioè i primi dieci dalla fondazione di Roma sino al 460; manca tutta la seconda decade; poi si ha dal libro XXI al XL, cioè dal principio della seconda guerra punica fino al 586: del restante i sommarj, che credonsi di Floro.

Negli archivj segreti di Torino giacciono le carte scritte dall'infelice Pietro Giannone, durante la sua prigionia. Fra queste sono i Discorsi storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio, ch'e' fece a imitazione del Machiavelli, ma con intento diverso, giacchè si proponeva, non solo di gratificarsi Carlo Emanuèle III, al quale non v'ha lode ch'egli non prodighi, ma di mostrare il suo rispetto per la santa sede, e «manifestare al mondo i miei religiosi, sinceri e cattolici sentimenti, ne' quali vivo e persisto; e.... a riguardo dell'eminenza e superiorità della Chiesa di Roma sopra tutte le altre Chiese del mondo cattolico, non ho io tralasciato le prove più forti ed efficaci... chè ben dovrebbe essere studio e somma cura di tutti gl'italici ingegni bene stabilirla, non essendo nella nostra Italia rimasto oggi pregio maggiore e cotanto illustre ed insigne che questo... Onde, se mai pe' miei precedenti scritti avess'io in ciò errato e dato occasione ad altri di errare, è ben dovere che si ricredano ora nella sincera dottrina... e se mai avesser seguito la vestigia di un Pietro negante, giusto è che seguitino ora le pedate dello stesso Pietro penitente...».

È bene ricordarsi che scriveva «in solitudine, fra' deserti monti delle Langhe, senza libri, senza amici e senz'ajuto, e fra lo squallore e la tabe d'una misera ed angusta prigione» (Discorso XIII). Non è da aspettarsene gran senno critico, nè estesa filologia; ma assume diversi punti, e per es. nel discorso III ragiona della franchezza con la quale Livio scrisse delle cose appartenenti alla religione romana, e non solo intorno al culto degli Dei ed a' loro vantati miracoli, ma in tutt'i suoi rapporti serbasse un'incorrotta sincerità di fedele storico e di profondo e grave filosofo.

Ab uno disce omnes. Questa, come altre opere del Giannone, venne in luce per cura dell'illustre professore Pasquale Mancini, coi tipi dell'Unione tipografico-editrice torinese.

35.  Pompej Trogi fragmenta, quarum alia in codicibus manuscriptis bibliothecæ Ossolinianæ invenit, alia in operibus scriptorum maxima parte polonorum jam vulgatis primum animadvertit... Augustus Bielowski. Leopoli 1853.

36.  

... Ausus es unus Italorum

Omne ævum tribus explicare chartis

Doctis, Jupiter! et laboriosis.

Catullo.

37.  Non ignorare debes, unum hoc genus latinarum literarum adhuc non modo non respondere Græcis, sed omnino rude atque inchoatum morte Ciceronis relictum. Ille enim fuit unus qui potuerit et etiam debuerit historiam digna voce pronuntiare, quippe qui oratoriam eloquentiam, rudem a majoribus acceptam, perpoliverit, philosophiam ante eum incorruptam latina sua conformaverit oratione. Ex quo dubito, interitu illius, utrum respublica an historia magis doleat. Framm. — Cicerone stesso (De leg., lib. I) si fa dire da Attico: Postulatur a te jamdiu, vel flagitatur potius historia. Sic enim putant, te illam tractante, effici posse ut in hoc etiam genere Græciæ nihil cedamus: atque, ut audias quid ego ipse sentiam, non solum mihi videris eorum studiis qui literis delectantur, sed etiam patriæ debere hoc munus, ut ea, quæ per te salva est, per te eundem sit ornata. Abest enim historia literis nostris... Potes autem tu profecto satisfacere in ea, quippe quum sit opus, ut tibi quidem videri solet, unum hoc oratorium maxime.

38.  Quibusdam, et iis quidem non admodum indoctis, totum hoc displicet philosophari. Cicerone, De finib., I. 1. — Vereor ne quibusdam bonis viris philosophiæ nomen sit invisum. De off., II. 1. — Reliqui, etiamsi hæc non improbent, tamen earum rerum disputationem principibus civitatis non ita decorum putant. Acad. Quæst., II. 2.

39.  Cicerone, De finib., IV. 28 e 9; Acad. Quæst., II. 44.

40.  Cicerone, Topica. Quæst. I.

41.  Multi jam esse latini libri dicuntur, scripti inconsiderate ab optimis illis quidem viris, sed non satis eruditis. Fieri autem potest ut recte quis sentiat, sed id quod sentit, polite eloqui non possit... Philosophiam multis locis inchoasti (o Varro) ad impellendum satis, ad edocendum parum. Lo stesso, Acad., I.

Tra i filosofi latini non vogliamo preterire Corellia, lodata da Cicerone come mirifice studio philosophiæ flagrans, e da lui amata troppo, se crediamo a Dione, lib. XLVI.

42.  Sic parati ut... nullum philosophiæ locum esse pateremur, qui non latinis literis illustratus pateret. De divin., II. 2. Nel proemio delle Tusculane professa dolergli che molte opere latine siano scritte neglettamente da valenti uomini, e che molti i quali pensano bene, non sappiano poi disporre elegantemente, il che è un abusare del tempo e della parola. Negli Uffizj raccomanda a suo figlio di leggere le sue filosofiche discussioni. — Quanto al fondo pensa quel che ne vuoi: ma tal lettura non potrà che darti uno stile più fluido e ricco. Umiltà a parte, io la cedo a molti in fatto di scienza filosofica, ma per quel che sia d'oratore, cioè la nettezza e l'eleganza dello stile, io consumai la vita intorno a quest'abilità, onde non fo che usare un mio diritto col reclamarne l'onore».

43.  Ἀπόγραφα sunt, minore labore fiunt; verba tantum affero, quibus abundo. Ad Attico, XII. 52.

44.  Platone quanto allo Stato non andava pensando a riforme, non ad esaminare se il diritto sovrano stia in alto o in basso, e come applicarlo; ma crede necessario educar l'uomo, e dargli le virtù cardinali, che sono prudenza, fortezza, temperanza, giustizia. Con queste, più non importa stillarsi a far regolamenti; senza queste, i regolamenti saranno violati o elusi. — Fan da ridere davvero i nostri politici che tornano ogni tratto sulle loro ordinanze, persuasi di trovare un fine agli abusi, senza accorgersi ch'è un tagliar le teste dell'idra». De repub., lib. IV. Queste parole dell'insigne Greco dopa duemila anni non perdettero l'opportunità.

45.  Turbatricem omnium rerum Academiam... Si invaserit in hæc, nimias edet ruinas, quam ego placare cupio, submovere non audeo. De leg., I. 13.

46.  La conchiusione del trattato sulla natura degli Dei è: Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior.

47.  Tuscul., v. 7.

48.  Natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamentum juris est. De leg., I. 13. — Studiis officiisque scientiæ præponenda, sunt officia justitiæ, quæ pertinent ad hominum caritatem, qua nihil homini debet esse antiquius. De off., I. 43. Quid est melius aut quid præstantius bonitate et beneficentia? De nat. Deorum, I. 43.

49.  De off., II. 18. 16.

50.  Quum se non unius circumdatum mœnibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit. De leg., I. 23. — Qui autem civium rationem dicunt habendam, externorum negant, ii dirimunt communem humani generis societatem; qua sublata, beneficentia, liberalitas, bonitas, justitia funditus tollantur. De off., III. 6.

Est autem non modo ejus qui servis, qui mutis pecudibus præsit, eorum quibus præsit, commodis utilitatique servire. Ad Quintum, I. 1. 8; e più generosamente De off., I. 13: Est infima conditio et fortuna servorum: quibus non male præcipiunt qui ita jubent uti ut mercenariis; operam exigendam, justa præbenda.

51.  Bellum ita suscipiatur, ut nihil aliud nisi pax quæsita videatur... Suscipienda sunt bella ob eam causam, ut sine injuria in pace vivatur. De off., e vedi I, 23.

52.  De repub., III. — De off., II.

Vedi Facciolati, Vita Ciceronis litteraria. 1760.

Hulsemann, De indole philosophica Ciceronis, ex ingenio ipsius et aliis rationibus æstimanda. 1799.

Gautier de Sibert, Examen de la philosophie de Cicéron. Memorie dell'Accademia d'Iscrizioni, tomi XLI. XLIII.

Meiners, Oratio de philosophia Ciceronis, ejusque in universam philosophiam meritis.

Kuhner, M. T. Ciceronis in philosophiam ejusque partes merita.

e tutti gli storici della filosofia.

La prima edizione compita delle opere di Cicerone, ove fossero compresi anche i frammenti scoperti dal Maj nel 1814-1822, dal Niebuhr nel 1820, dal Peyron nel 1824, è quella di Le Clerc in latino e francese 1821-25, 30 vol. in-8º; e 1823-27, 35 vol. in-18º. Quella fatta dal Pomba nel 1823-34 è in 16 vol. in-8º. Il meglio che l'erudizione abbia accertato intorno al grande oratore, fu raccolto nell'Onomasticum Tullianum, continens M. T. Ciceronis vitam, historiam litterariam, indicem geograficum historicum, indices legum et formularum, indicem græco-latinum, fastos consulares. Curaverunt Jo. Gasp. Orellius et Jo. Georg. Raiterus, professores turicenses, 1837. È in corso un'edizione compiuta delle opere di Cicerone a Lipsia per Teubner, curata da Reinh. Klotz.

53.  Sono ottocensessantaquattro lettere; più di novanta scritte da altri. Quelle ad Attico precedono il consolato di Cicerone; le altre vanno dal 692 sino a quattro mesi prima della morte di lui. Alcune sono vergate coll'intenzione che andassero attorno, e specialmente la lunga al fratello Quinto, dove espone la propria amministrazione proconsolare nell'Asia Minore. È noto che molte opere degli antichi perirono allorchè, incarendosi pel chiuso Egitto la carta, si rase la primitiva scrittura per sovrapporne una nuova. Si suol dare colpa ai frati di quest'artifizio: eppure Cicerone convince che fino a' suoi tempi si praticava: Ut ad epistolas tuas redeam, cætera belle; nam quod in palimpsesto, laudo equidem parcimoniam; sed miror quid in illa chartula fuerit, quod delere malueris quam exscribere, nisi forte tuas formulas; non enim puto te meas epistolas delere, ut deponas tuas. An hoc significas nil fieri? frigere te? ne chartam quidem tibi suppeditare? Ad fam., VII. 18.

Ne trapela anche il nessun rispetto al secreto delle lettere, e quanto poco si distinguessero i caratteri. Cicerone incarica Attico di scrivere in vece sua: Tu velim et Basilio, et quibus præterea videbitur, conscribas nomine meo. XI. 5. XII. 19. Quod literas, quibus putas opus esse curas dandas, facis commode. XI. 7; e così 8, 12 e spesso. Talvolta accenna di scrivere di proprio pugno, quasi il suo più grande amico non potesse riconoscerlo: Hoc manu mea. XIII. 28. Altrove dice allo stesso: — Ho creduto riconoscere la mano d'Alessi nella tua lettera» (15. XV); e Alessi era il solito scrivano di Attico. Bruto dal campo di Vercelli scrive a Cicerone: — Leggi le lettere che spedisco al senato, e se ti pare, cambiavi pure». Ad fam., XI. 19. Un capitano che dà incombenza all'amico di alterare un dispaccio offiziale! Cicerone stesso apre la lettera di Quinto fratello, credendo trovarvi grandi arcani, e la fa avere ad Attico dicendogli: — Mandala alla sua destinazione: è aperta, ma niente di male, giacchè credo che Pomponia tua sorella abbia il suggello di esso».

Da ciò la grande importanza data al suggello, ancor più che alla firma. In fatti la scrittura, oltre essere tanto somigliante perchè unciale, poteva facilmente falsificarsi o sulle tavolette di cera o sulla cartapecora. Pertanto succedeva spesso di fare interi testamenti falsi, come appare nel codice Giustinianeo De lege Cornelia de falsis, lib. XI. tit. 22.

54.  Detta così dal nome osco di un piatto d'ogni sorta frutte, solito offrirsi a Cerere e Bacco. Da ciò lex satura una legge che abbracciava diversi titoli; era vietato far votare il popolo per saturam, cioè su diverse proposizioni a un tratto. Diomede definisce: Satira est carmen apud Romanos, nunc quidem maledictum, et ad carpenda hominum vitia archææ comœdiæ charactere compositum, quale scripserunt Lucilius, Horatius et Persius; sed olim carmen, quod ex variis poematibus constabat, satira dicebatur, quale scripserunt Pacuvius et Ennius.

55.  

... Arctis

Religionum animos vinclis exsolvere pergo.

Lib. IV.

56.  

Nec me animi fallit Grajorum obscura reperta

Difficile illustrare latinis versibus esse,

Multa novis verbis præsertim cum sit agendum

Propter egestatem linguæ et rerum novitatem.

... noctes vigilare serenas

Quærentem dictis quibus et quo carmine demum

Clara tuæ possim præpondere lumina menti,

Res quibus occultas penitus convisere possis.

Lib. I.

57.  Ne' primi versi trovi, Quæ mare navigerum, quæ terras frugiferentes; e poco dopo, Frondiferas domos avium. Cicerone scriveva a Quinto (II. 11): Lucretii poemata non sunt ita multis luminibus ingenii, multæ tamen artis.

58.  Orazio, Ep. I. 4.

59.  Si disputò assai della patria sua. Egli dice che l'Umbria

Me genuit, terris fertilis uberibus;

e che se alcuno passa vicino a Mevania, osservi dove

Lacus æstivis intepet umber aquis,

Scandentisque arcis consurgit vertice murus,

Murus ab ingenio notior ille meo.

Nel lib. IV. 1, canta

Ut nostris tumefacta superbiat Umbria libris,

Umbria romani patria Callimachi.

Leandro Alberti da questo verso indusse che Callimaco fosse romano, e vi fu chi copiò tal errore, mentre Properzio vuol solo dirsi imitatore di Callimaco, del che si vanta pure nel lib. III. 1. e 8:

Callimachi Manes, et coii sacra Philetæ

In vestrum, quæso, me sinite ire nemus.

Primus ego ingredior puro de fonte sacerdos

Itala per Grajos orgia forre choros.

Inter Callimachi sat erit placuisse libellos,

Et cecinisse modis, dore poeta, tuis.

60.  

Hujus erat Solymus prhygia comes unus ab Ida

A quo Sulmonis mœnia nomen habent.

Fast., IV. 78.

Mantua Virgilio gaudet, Verona Catullo,

Pelignæ gentis gloria dicar ego.

Amor., III. 15.

Seu genus excutias, equites ab origine prima

Usque per innumeros inveniemur avos.

De Ponto, IV. 8.

È schiavo de' pregiudizi di nascita quanto un nobile di cent'anni fa: si vanta d'esser cavaliero senza aver mai portato le armi:

Aspera militiæ juvenis certamina fugi,

Nec nisi lusura movimus arma manu;

e si lamenta che si osi preferirgli chi non divenne tale se non per merito di valore:

Præfertur nobis sanguine factus eques

Fortunæ munere factus eques

Militiæ turbine factus eques.

61.  

Non eadem ratio est sentire et demere morbos.

Sæpe aliquod verbum cupiens mutare, relinquo,

Judicium vires destituuntque meum.

Sæpe piget (quid enim dubitem tibi vera fateri?)

Corrigere, et longi ferre laboris onus...

Corrigere at refert tanto magis ardua, quanto

Magnus Aristarcho major Homerus erat.

62.  

Os homini sublime dedit, cœlumque tueri

Jussit, et erectos ad sidera tollere vultus.

Metam., I. 85.

... Polumque

Effugito australem, junctamque aquilonibus arcton.

Somiglianti ripetizioni incontransi ad ogni piè sospinto. Giove va ad alloggiare presso Bauci e Filemone; il vecchio prepara la mensa:

Furca levat ille bicorni

Sordida terga suis, nigro pendentia tigno;

Servatoque diu resecat de tergore partem

Exiguam, sectamque domat ferventibus undis.

..... Mensæ sed erat pes tertius impar;

Testa parem facit: quæ postquam subdita, clivum

Sustulit etc.

Ivi, VIII. 650.

Queste minuzie di scuola fiamminga disabbelliscono spesso i suoi quadri migliori. Parlando del diluvio, canta:

Exspatiata ruunt per apertos flumina campos,

... Pressæque labant sub gurgite turres;

Omnia pontus erat, deerant quoque litora ponto.

Fin qui è bello; ma poi cala a particolarità oziose, e quindi nocevoli:

Nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones;

quasi nell'universale sobbisso importi quel che facciano agnelli o leoni.

63.  Egli stesso si rimprovera di questo verso:

Tum didici getice sarmaticeque loqui.

Una volta nel verso non accomodandogli mori, disse:

Ad strepitum, mortemque timens, cupidusque moriri.

Altrove leggiamo:

Denique quisquis erat castris jugulatus achivis,

Frigidius glacie pectus amantis erat.

A chi appartiene il quisquis?

Frequenti sono i giocherelli di parole:

In precio precium nunc est...

Cedere jussit aquam, jussa recessit aqua...

Speque timor dubia, spesque timore cadit...

Quæ bos ex homine est, ex bove facta dea...

Semibovemque virum, semivirumque bovem.

E, me lo perdonino gli ammiratori, è un giocherello tutta la sua descrizione del caos.

64.  

Dummodo sic placeam, dum toto canar in orbe

Quod volet impugnent unus et alter opus.

Rem. am., 363.

65.  

Nec vitam, nec opes, nec jus mihi civis ademit,

Quæ merui vitio perdere cuncta meo.

Trist., V. 11.

Spira vera passione l'elegia dove descrive la sua partenza. In un'altra canta:

Perdiderint cum me duo crimina, carmen et error,

Alterius facti culpa silenda mihi...

Vive tibi et longe nomina magna fuge.

Hæc ego si monitor monitus prius ipse fuissem,

In qua debebam forsitan urbe forem...

Inscia, quod crimen viderunt lumina plector,

Peccatumque oculos est habuisse meum...

Cuique ego narrabam, secreti quidquid habebam,

Eccepto quod me perdidit unus erat...

Cur aliquid vidi? cur noxia lumina feci?

Cur imprudenti cognita culpa mihi?

Inscius Acteon vidit sine veste Dianam,

Præda fuit canibus non minus ille suis.

66.  La professa dal bel principio:

Di, cœptis...

Aspirate meis, primaque ab origine mundi

Ad mea perpetuum deducite tempora carmen.

67.  

Quoniam occuparat alter ne primus forem,

Ne solus esset studui, quod super fuit.

Epil. del lib. II.

68.  Gressus delicatus et languidus (lib. V. f. 1): filia formosa et oculis venans viros (lib. IV. f. 5): frivola insolentia (lib. III. f. 6): iratus impetus (lib. 3. f. 2): cornea domus della tartaruga (lib. II. f. 6): ignavus sanguis dell'asino (lib. I. f. 29): generosus impetus del cinghiale (lib. I. f. 29).

Nella notissima favola della rana e il bue, in quanti varj modi dice la cosa stessa! Rugosam inflavit pellemIntendit cutem majori nisuDum vult validius inflare se se. E nelle conchiusioni morali: Hoc illis dictum estHoc pertinere ad illos vere dixerimHoc argumento se describi sentiatHoc scriptum est tibiHoc illis narroHoc in se dictum debent illi agnoscere... Possiamo credere fossero di pretta lingua certi modi che sanno del latino ecclesiastico, come: quem tenebat ore demisit cibum (lib. I. f. 4): hi quum cepissent cervam vasti corporis (lib. I. f. 5): rupto jacuit corpore (lib. I. f. 24): quæ debetur pars tuæ modestiæ, audacter tolle (lib. II. f. 1): ante hos sex menses (lib. I. f. 1): invenit ubi accenderet (lib. III. f. 19): e l'abuso di astratti come sola improbitas abstulit totam prædam (lib. I. f. 5): tuta est hominum tenuitas (lib. II f. 7): spes fefellit impudentem audaciam (lib. III. f. 5).

Alcuno crede suppositizio questo Fedro, di cui, eccetto Marziale, nessun antico ricorda il nome; e che venne in luce soltanto nel 1562, in occasione del sacco dato a un convento di Germania: la prima edizione è del 1596. Ma nella Dacia fu trovata un'iscrizione, contenente un verso delle favole di Fedro. V. Mannert, Res Trajani ad Danub., pag. 78. Certo il testo fu alterato e interpolato. Orelli ne diede la lezione migliore a Zurigo nel 1831; poi anche di quelle nuove scoperte dal Janelli e dal Maj, da cui è desunta la favola che diamo nel testo.

69.  

Duplici circumdatus æstu

Carminis et rerum.

Egli ammette con precisione le popolazioni antipode:

Terrarum forma rotunda.

Hanc circum variæ gentes hominum atque ferarum

Aeriæque colunt volucres. Pars ejus ad arctos

Eminet: austrinis pars est habitabilis oris,

Sub pedibusque jacet nostris, supraque videtur

Ipsa sibi fallente solo declivia longa

Et pariter surgente via, pariterque cadente.

Hinc ubi ab occasu nostros sol aspicit ortus;

Illic orta dies sopitas excitat urbes;

Et cum luce refert operum vadimonia terris.

Nos in nocte sumus, somnosque in membra locamus,

Pontus utrosque suis distinguit et alligat undis...

Altera pars orbis sub aquis jacet invia nobis,

Ignotæque hominum gentes, nec transita regna,

Commune ex uno lumen ducentia sole,

Diversasque umbras, lævaque cadentia signa,

Et dextros ortus cælo spectantia verso.

70.  

Quod mihi pareret legio romana tribuno.

Sat., lib. I. 4.

71.  

Inopemque paterni

Et laris et fundi...

Paupertas impulit audax

Ut versus facerem.

Ep., lib. II. 2.

72.  Ep. XIV. lib. I. v. 3.

73.  

Alme sol... possis nihil urbe Roma

Visere majus.

74.  

Nullius addicti jurare in verba magistri.

Quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes.

Nunc agilis fio et mergor civilibus undis,

Virtutis veræ custos rigidusque satelles;

Nunc in Aristippi furtim præcepta relabor,

Et mihi res, non me rebus submittere conor.

75.  Negli Epodi è minore l'imitazione dal greco, com'è minore l'arte e la varietà dei metri.

76.  Vedete, per esempio, l'ode 14 del lib. III. Cesare torna vincitore dalla Spagna. — Esultate, o suore, o madri, o spose: ormai io non temerò tumulti, dacchè Augusto regge il mondo. Qua, ragazzo, porta corone e un fiasco dei tempi della guerra marsica, se pur un sol fiasco potè sfuggire a Spartaco. Affretta, Neera, ad annodarti i crini, e se il portinajo ti ritarda, parti. Il crin bianco mi distoglie dalle risse: non così in pace mel recherei se più giovane fossi». Altrettanto nell'ode Nunc est bibendum.

Leggansi Passon, Horat. Flaccus Leben und Zeitalter. Lipsia, 1833.

Buttmann, Ueber das Geschichtliche und die Anspielungen in Horat. Berlino, 1828.

Jacobs, Lectiones cenosinæ (Lipsia 1831) intorno alla valutazione morale del carattere e degli atti e delle poesie d'Orazio.

E Schmid, e Braunhard, e tanti altri recentissimi che studiarono questo poeta.

Wieland avea tessuto su Orazio un romanzo. Döring, nelle illustrazioni all'edizione di Lipsia 1824, lo volse a satira dei contemporanei. Weichert, Prolusiones de Q. H. Flacci epistolis, 1826, e Lectiones venusinæ, 1832-33, sulla storia del poeta stesso e dei coetanei, restituì veramente la storia della letteratura del tempo d'Augusto. Hoffman Peerlkamp (Harlem 1834) pretese, colla lunghissima famigliartà, avere acquistato un senso più intimo del poeta, in modo da scernere ciò che vi fu interpolato; e sopra 3845 versi, ne trovò 644, dei quali assolve Orazio per incolparne i grammatici. Orelli, nell'edizione che ne fece a Zurigo 1837-38, dopo venticinque anni di lezioni, non attacca la genuinità del poeta, nè s'accannisce co' predecessori: Differt autem nostra interpretatio a similibus, quæ nunc in scholis feruntur, his potissimum nominibus; sæpius dijudicantur et variæ lectiones et diversæ grammaticorum explicationes, sine ulla tamen in quemquam insectatione aut contumelia: quin in hoc quoque genere, tacitis plerumque adversariis, quæ veriora ubique viderentur, argumentis additis exposui, ne traquillissima disputatio acris rixæ cum hoc vel illo inimico contractæ, speciem unquam præseferret; quo quidem cum aliis digladiandi et depugnandi studio in hujusmodi scriptis studiosæ juventuti propositis nihil profecto perversius reperiri potest. Un giojello tipografico e filologico è l'edizione che Ambrogio Didot fece nel 1855, colla vita scrittane da Noël des Vergers.

Non si potrebbe desiderare lavoro più completo e più nojoso di quello che fece Walckenaer, De la vie et des poésies d'Horace. Parigi 1840. Egli dice: Dans les ouvrages de ce poète ressortent sous de vives couleurs la grandeur et la gloire, les ridicules et les vices de ce siècle mémorabile.

77.  

Vilius argentum est auro, virtutibus aurum...

O cives, cives, quærenda pecunia primum est,

Virtus post nummos.

Omnis enim res,

Virtus, fama, decus, divina humanaque pulchris

Divitiis parent, quas qui costruxerit, ille

Clarus erit, justus, fortis, sapiens etiam et rex,

Et quidquid volet...

Et genus, et virtus, nisi cum re, vilior alga est.

78.  Vedi nel Cap. XLI. — Assai prima delle recenti controversie intorno al dare o no in mano ai giovani i classici, erasi disputato sulle lubricità di Orazio e degli altri poeti; e singolarmente vollero difenderli König, De satira Romanorum, e Barth nella prefazione a Properzio. Jani, nell'edizione di Orazio scagiona i costumi di questo dicendo: Si cogitemus quam prorsus honestus et a vitii crimine liber fuerit amor peregrinarum et libertinarum; quam parum, certe ante legem Juliam latam, ipse puerorum amor sceleris habuerit; denique, quam multæ et notiones et loquendi formæ eo tempore dignitatem et honestatem habuerint, quas postea politior usus, ut fit, respuit, et inter illiberales retulit: hæc si cogitemus, jam multum ex illo Horatii vituperio perire sentiamus. Loca et carmina Horatii, quæ nos hodie offendunt, eo tempore non ita offendebant; licet, quod nos hodie in verbis castiores sumus ac delicatiores, non sequatur, ut ideo et mores hodierni castiores sint. Accedit, quod dare possumus, Horatium, hominem hilarem et suavem, præsertim in illa sæculi sui indole, ab amore non immunem fuisse, ejus philosophiam morum hac parte laxiorem fuisse, eum arsisse subinde libertina aliqua aut peregrina puella; neque tamen ideo desinet esse is vir magnus, bonus et honestus. Nam numquam amavit matronas aut ingenuas, numquam, quod præclare Lessingius docuit, pueros amavit, et sic leges romanas illasque naturæ numquam violavit; potius graviter subinde in adulteria, proprie dieta incestosque amores invehitur. Carmina etiam illius amatoria haud dubie sæpe lusus poetici, ad hilaritatem facti, sæpe e græco expressa sunt.

79.  

Clament periisse pudorem

Cuncti pene patres...

Vel quia turpe putant... quæ

Imberbes didicere, senes perdenda fateri.

80.  

... Usus,

Quem penes arbitrium est et jus et norma loquendi.

81.  

Qui redit ad fastos, et virtutem æstimat annis,

Miraturque nihil, nisi quod Libitina sacrarit.

... Si tam Graiis novitas invisa fuisset

Quam nobis, quid nunc esset vetus?...

Jam saliare carmen qui laudat,

Ingeniis non ille favet, plauditque sepultis,

Nostra sed impugnat, nos nostraque lividus odit.

82.  

Tua, Cæsar, ætas

Fruges et agris retulit uberes.

Non his juventus orta parentibus

Infecit æquor sanguine punico:

Sed rusticorum mascula militum

Proles, sabellis docta ligonibus

Versare glebas.

Orazio.

Hanc olim veteres vitam coluere Sabini,

Hanc Remus et frater: sic fortis Etruria crevit.

Virg.

83.  

Si non ingentem foribus domus alta superbis

Mane salutantum totis vomit ædibus undam:

Nec varios inhiant pulcra testudine postes,

Inlusasque auro vestes...

Illum non populi fasces, non purpura regum

Flexit...

nec ferrea jura

Insanumque forum, aut populi tabularla vidit...

Hic stupet attonitus rostris; hunc plausus hiantem

Per cuneos geminatus enim plebisque patrumque

Corripuit. Gaudent perfusi sanguine fratrum,

Exilioque domos et dulcia lumina mutant.

E vedi tutta la stupenda chiusura delle Georgiche.

84.  Egli stesso invoca le musæ sicelides, e attribuisce ai Siracusani l'invenzione delle pastorali:

Prima syracusio dignata est ludere versu

Nostra nec erubuit silvas habitare Camena,

alludendo a Dafni, il quale, secondo Diodoro (lib. IV. c. 16), creò questo genere di poesia quale a' giorni suoi durava ancora in Sicilia; e a Teocrito, a Mosco, a Stesicoro. Cesare Scaligero (Poetices liber V, qui et criticus), coll'erudizione d'un critico e l'ostinazione d'un pedante, rivela i furti commessi da Virgilio sopra Omero, Pindaro, Apollodoro ed altri, ma dimostrando uno per uno ch'esso li superò tutti.

85.  Ennio rammenta altri cantori:

Scripsere alii rem

Versibu' quos olim Fauni vatesque canebant.

86.  

Quis aut Eurysthea durum,

Aut inlaudati nescit Busiridis aras?

Cui non dictus Hylas puer, et Latonia Delos,

Hippodameque, humeroque Pelops insignis eburno,

Acer equis?

Virgilio, Georg., III. 4.

Anche Properzio gl'incensava e derideva:

Dum tibi cadmeæ ducuntur, Pontice, Thebæ

Armaque fraternæ tristia militiæ,

Atque (ita sim felix) primo contendis Homero...

Me laudent doctæ solum placuisse puellæ...

Tu cave nostra tuo contemnas carmina fastu:

Sæpe venit magno fœnere tardus amor.

Eleg. I. 7.

Che gli argomenti mitologici fossero comuni nelle epopee, lo raccogliamo da quel di Ovidio ove dice:

Quum Thebæ, quum Troja forent, quum Cæsaris acta,

Ingenium movit sola Corinna meum;

e più dalla famosa ode di Orazio Scriberis Vario fortis, ove, invitato a cantar le glorie di Agrippa, risponde che meglio capace n'è Vario, aquila della poesia meonia: — Io, debole poeta, non varrei a trattare tali soggetti, nè l'implacabil ira del Pelìde, nè i lunghi errori di Ulisse, o i delitti della casa di Pelope... Chi parlerà degnamente di Marte colla lorica d'acciajo, di Merione annerito dalla polvere di Troja, del figlio di Tideo che l'ajuto di Pallade eleva a paro degli Dei?»

87.  

Sacra diesque canam et cognomina prisca locorum.

Eleg., IV. 1.

Di tale poema sono forse brani molte parti del suo quarto libro, come il concetto ne spira nell'elegia a Roma, dove canta: — Quanto vedi, o straniero, della massima Roma, prima del Frigio Enea era colle erboso; dove sorgono i palazzi sacri al navale Febo, riposarono i profughi bovi d'Evandro; questi tempj d'oro crebbero per numi di creta; il padre Tarpeo tonava dalla nuda rupe, e dai nostri armenti era frequentato il Tevere; il corno pastorale convocava i prischi Quiriti, e cento di loro in un prato assisi formavano il senato. Nè sul cavo teatro pendevano veli sinuosi; nè di solenne croco olezzavano i paschi; nè s'ebbe cura di cercare straniere deità quando la turba tremava intenta ai sacri riti».

88.  Tutte le favole di Virgilio sulla venuta di Enea si trovano in Dionigi d'Alicarnasso. Ora questi non diè fuori l'opera sua che otto o sette anni av. C., e Virgilio era morto da dieci anni. Virgilio dunque tolse le sue favole da altre fonti; ma fa meraviglia che Dionigi non citi l'Eneide. Era il disprezzo dei Greci per tutto ciò che era romano? era un'altra delle ignoranze de' lavori precedenti che spesso si trovano negli antichi? Quegli stessi che parrebbero concepimenti di Virgilio, sono reminiscenze. Nevio, nel poema sulla guerra punica, avea già raccontato la venuta di Enea in Italia e seguitone il viaggio coi casi medesimi narrati da Virgilio, come la procella concitata da Giunone, e le querele di Venere a Giove, e le speranze onde la consola; anzi probabilmente quel poeta condusse Enea a Cartagine, come certo inventò il personaggio di Anna sorella di Didone. La pietà di Enea che salva il padre e i penati si legge in Varrone, dove è soggiunto che l'astro di Venere più non disparve dagli occhi dei Trojani, finchè non afferrarono al lido indicato dall'oracolo di Dodona. Lunghi passi sono tradotti da Apollonio Rodio: Stesicoro gli offrì quella soluzione del dramma iliaco: se crediamo ad uno degli interlocutori dei Saturnali di Macrobio, il secondo dell'Eneide è tolto di pianta da Pisandro epico greco; e la Crestomatia di Proclo c'insegna che l'invenzione del cavallo di legno è dovuta ad Aratino e a Lesene.

89.  Perciò molte infedeltà di costume possono notarsi in Virgilio. Enea e Didone vanno a caccia di cervi in Africa, dove pur sono monti coperti d'abeti (lib. IV): al principio del V, Enea col vento aquilone vien d'Africa in Italia: Plinio dice iliacis temporibus nec thure supplicabatur e in Virgilio troviamo gl'incensi, v. 745: vi troviamo guerrieri a cavallo e trombe, inusati in Omero: così le triremi (terno consurgunt ordine remi, v. 120), mentre Tucidide le fa introdotte assai più tardi.

90.  Per sentire la differenza de' sentimenti verso le donne nei moderni e negli antichi, basta osservare come Virgilio non faccia da Enea tener conto alcuno degli spasimi di Didone, anzi da questi egli passi a mostrare l'indifferenza dell'eroe con un fatto, ove sembra ch'egli manchi a quella rettitudine di senso e di gusto che pur gli abbondava. Nel IV libro Enea tenta fuggire di soppiatto, ma scopertolo, Didone il prega per quanto han di sacro l'amor loro, il cielo, la terra; infine sviene; le damigelle la trasportano sul letto, e il pio Enea torna alla flotta:

At pius Eneas, quamquam lenire dolentem

Solando cupit...

Jussa tamen divûm exsequitur, classemque revisit.

Il pius qui non direbbesi una celia atroce? Anna va a scongiurarlo:

Miserrima fletus

Fertque, refertque soror: sed nullis ille movetur

Fletibus, aut voces ullas tractabilis audit.

Fata obstant, placidasque viri deus obruit aures.

Che più? mentre Didone si dispera e prepara ad uccidersi,

Æneas, celsa in puppi, jam certus eundi,

Carpebat somnos.

91.  Est ingens ei cum tragœdiarum scriptoribus familiaritas. Macrobio, Saturn., v. 18. E lo chiama vir tam anxie doctus.

92.  

Malo me Galatea petit, lasciva puella,

Et fugit ad salices, et se cupit ante videri.

— Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem.

— Cum canerem reges et prælia, Cynthius aurem

Vellit, et admonuit: Pastorem, Tityre, pingues

Pascere oportet oves, deductum dicere carmen.

— Jam fragiles poteram a terra contingere ramos.

— Insere, Daphni, piros: carpent tua poma nepotes.

— Tenerisque meos incidere amores

Arboribus; crescent illæ, crescetis amores.

93.  

Fortunate senex! hic, inter flumina nota

Et fontes sacros, frigus captabis opacum.

— Tantum inter densas, umbrosa cacumina, fagos

Assidue veniebat: ibi hæc incondita solus

Montibus et sylvis studio jactabat inani.

— Hic gelidi fontes, hic mollia prata, Lycoris,

Hic nemus, hic ipso tecum consumerer ævo.

94.  Gli autori antichi della vita di Virgilio fanno ascendere le sue ricchezze a dieci milioni di sesterzj, cioè due milioni de' nostri. Senza credere così appunto, sappiamo però che veramente il poeta lasciossi trarricchire. Giovenale vi allude nella Satira VII. 69; Orazio ne dà lode ad Augusto, Ep., lib. II. 1:

At neque dedecorant tua de se judicia, atque

Munera, quæ, multa dantis cum laude, tulerunt

Dilecti tibi Virgilius, Variusque poetæ.

Un poeta di poco posteriore, i cui versi sono posti fra gli Analecta di Virgilio, canta i meriti di Mecenate in un panegirico a Pisone, ove, tra le altre cose, si legge:

Ipse per ausonias æneia carmina gentes

Qui sonat, ingenti qui nomine pulsat Olympum,

Mæoniumque senem romano provocat ore,

Forsitan illius memoris latuisset in umbra

Quod canit, et sterili tantum cantasset avena

Ignotus populis, si Mæcenate careret.

Qui tamen haud uni patefecit limina vati,

Nec sua Virgilio permisit numina soli.

Mæcenas tragico quatientem pulpita gestu

Erexit Varium, Mæcenas alta Thoantis

Eruit, et populis ostendit nomina Grais.

Carmina romanis etiam resonantia chordis,

Ausoniamque chelym gracilis patefecit Horati.

O decus, et toto merito venerabilis ævo

Pierii tutela chori, quo præside tuti

Non unquam vates inopi timuere senectæ.

Invece di Thoantis leggerei Thyestis, titolo della tragedia di Vario, che, secondo Quintiliano, cuilibet Græcorum comparari potest. Inst. orat., X. 1.

95.  

Tu canis umbrosi subter pineta Galesi

Thyrsin, et attritis Daphnin arundinibus.

Properzio, II. 34.

Ciò prova che colà scrisse le Bucoliche. Quanto alle Georgiche, egli stesso nel lib. iv. 125, canta:

Namque sub æbaliæ memini me turribus arcis

Qua niger humectat flaventia culta Galesus etc.

96.  

Cedite, romani scriptores, cedite graii:

Nescio quid majus nascitur Iliade.

Properzio, ii. ult.

Tityrus et segetes Æneiaque arma legentur,

Roma Triumphati dum caput orbis erit.

Ovidio, Am., I. 15.

Vedi Donato, Vita Virgilii, § 5.

97.  

Nec tu divinam Æneida tenta,

Sed longe sequere, et vestigia semper adora.

Stazio, Theb., XII. 816.

La versione di Annibal Caro è degna d'un poeta; e i tanti che dappoi vollero emularlo, la dimostrarono a ragionamenti difettosa, alla prova inarrivabile. Gli antichi attribuiscono a Virgilio un poemetto sulla zanzara; ma il Culex che va tra le opere sue, è di cattivo impasto ne' versi, di niun gusto negli episodj, e affatto indegno di lui.

98.  

Vos exemplaria græca

Nocturna versate manu, versate diurna...

Apis Mutinæ more modoque.

Orazio.

99.  Non solo Virgilio ed Orazio, ma Ovidio, e persino Fedro, si tengono sicuri di una fama non più peritura. Fedro, nel prologo del lib. III, dice:

... Si leges, lætabor; sin autem minus,

Habebunt certe, quo se oblectent posteri...

Ergo hinc abesto, livor; ne frustra gemas,

Quoniam solemnis mihi debetur gloria.

E nell'epilogo del lib. IV:

Particulo, chartis nomen victurum meis,

Latinis dum manebit pretium literis.

Ed Ovidio nelle Metamorfosi, XV in fine:

Jamque opus exegi, quod nec Jovis ira, nec ignes,

Nec poterit ferrum, nec edax abolere vetustas...

Parte tamen meliore mei super alta perennis

Astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum,

Quaque patet domitis romana potentia terris

Ore legar populi; perque omnia sæcula fama,

Si quid habent veri vatum præsagia, vivam.

100.  Di Mecenate ci conservò Isidoro alcuni versi diretti ad Orazio:

Lugent, o mea vita, te smaragdus,

Beryllus quoque, Flacce; nec nitentes

Nuper candida margarita, quæro,

Nec quos thynica lima perpolivit

Anellos; nec jaspios lapillos.

E questi altri Svetonio:

Ni te visceribus meis, Horati,

Jam plus diligo, tu tuum sodalem

Ninnio videas strigosiorem.

Macrobio dà un viglietto, ove Augusto derideva Mecenate contraffacendone lo stile: Idem Augustus, quia Mæcenatem suum noverat esse stylo remisso, molli et dissoluto, talem se in epistolis, quas ad eum scribebat, sæpius exhibebat, et contra castigationem loquendi, quam alias ille scribendo servabat, in epistola ad Mæcenatem familiari, plura in jocos effusa subtexuit: — Vale, mel gentium, melcule, ebur ex Etruria, laser aretinum, adamas supernus, tiberinum margaritum, Cilniorum smaragde, jaspi figulorum, berylle Porsenæ, ἴνα συντέμω πάντα, μάλαγμα mœcharum». Saturn., II. 4.

Di Pollione ci tramandò Seneca un passo nelle Suasor., 7, ch'egli dice il più eloquente delle sue storie, e noi lo riferiamo sì per saggio filosofico, sì perchè ritrae Marco Tullio senza l'astio che imputano a Pollione: Hujus ergo viri, tot tantisque operibus mansuris in omne ævum, prædicare de ingenio atque industria supervacuum est. Natura autem pariter atque fortuna obsecuta est. Ei quidem facies decora ad senectutem, prosperaque permansit valetudo; tum pax diutina, cujus instructus erat artibus, contigit; namque a prisca severitate judicis exacti maximorum noxiorum multitudo provenit, quos obstrictos patrocinio, incolumes plerosque habebat. Jam felicissima consulatus ei sors petendi et gerendi magna munera, deûm consilio, industriaque. Utinam moderatius secundas res, et fortius adversas ferre potuisset! namque utraque cum venerat ei, mutari eas non posse rebatur. Inde sunt invidiæ tempestates coortæ graves in eum, certiorque inimicis adgrediendi fiducia: majori enim simultates appetebat animo, quam gerebat. Sed quando mortalium nulla virtus perfecta contigit, qua major pars vitæ atque ingenti stetit, ea judicandum de homine est. Atque ego ne miserandi quidem exitus eum fuisse judicarem, nisi ipse tam miseram mortem putasset.

101.  Cassium Severum primum affirmant flexisse ab illa, vetere atque directa dicendi via: non infirmitate ingenii nec inscitia literarum transtulisse se ad illud dicendi genus contendo, sed judicio et intellectu. Vidit namque cum conditione temporum, diversitate artium, formam quoque ac speciem orationis esse mutandam. De oratoribus, c. 19.

102.  Nelle Pandette (lib. I. tit. 4. fr. 1) leggesi: Quod principi placuit, legis habet vigorem; utpote cum Lege Regia, quæ de Imperio ejus lata est, populus ei et in eum omne suum imperium et potestatem conferat. Parve tanto esagerato questo passo, che lo supposero falso: ma qui omnem potestatem non vuol dire che il popolo trasferisse nell'imperatore tutto il suo potere, ma che l'imperatore tiene dal popolo tutto il potere che ha.

103.  Miserum populum romanum, qui sub tam lentis maxillis erit.

104.  Tacito, Ann., II.

105.  Svetonio nè tampoco l'accenna, Vellejo appena, chiamandolo comitiorum ordinatio.

106.  More majorum. Tacito, Ann., III. 66; IV. 4.

107.  Quo magis socordiam eorum irridere libet, qui præsenti potentia credunt extingui posse etiam sequentis ævi memoriam. Nam contra, punitis ingeniis, gliscit auctoritas; neque aliud externi reges aut qui eadem sævitia usi sunt, nisi dedecus sibi, atque illis gloriam peperere. Ann. IV. 35.

108.  Dione, lvii; Plinio, xxxvi. 26.

109.  

Turba Remi sequitur fortunam ut semper, et odit

Damnatos. Idem populus si Nurtia Tusco

Favisset, si oppressa foret secura senectus

Principis, hac ipsa Sejanum diceret hora

Augustum.

Giovenale, x, 73.

110.  Sidus et popum et puppum alumnum. Svetonio.

111.  Ut ipse dicebat ἀξιοθριάμβευτον. Svetonio.

112.  Memento omnia mihi et in omnes licere. Svetonio.

113.  Meditatus est edictum, quo veniam daret flatum crepitumque ventris in cœna emittendi, cum periclitatum quemdam præ pudore ex continentia reperisset. Ivi. — Chi nel Trimalcione di Petronio crede adombrato Claudio, può addurre in prova questo decreto, corrispondente alle parole che ivi dice quel goffo danaroso: Si quis vestrum voluerit sua re sua causa facere, non est quod illum pudeat; nemo vestrum solide natus est. Ego nullum puto tam magnum tormentum esse quam continere: hoc solum vetare ne Jovis potest.

114.  

Ostenditque tuum, generose Britannice, ventrem;

Et defessa viris, nondum satiata recessit.

Giovenale.

115.  Voglia qualche chimico esaminare se fossero possibili questi veleni, inavvertiti eppur subitanei, quando s'ignoravano le preparazioni moderne. Egli si ricordi che Svetonio dice che sul rogo di Germanico si trovò il cuore di lui ben conservato, perchè si sa che il cuore degli avvelenati è incombustibile.

116.  

Qui sedet...

Planipedes audit Fabios, ridere potest qui

Mamercorum alapas.

Giovenale, VI. 189.

117.  Tacito, Ann., XIV. 14 e seg.; XV. 32; Svetonio, in Nerone, 11 e 12; Seneca, Ep. 100.

118.  Ut non modo causas eventusque rerum, qui plerumque fortuiti sunt, sed ratio etiam, causæque noscantur. Hist., I. 4.

119.  Nam populi imperium juxta libertatem, paucorum dominatio regiæ libidini propior est. Ann., V. 42.

120.  Liceatque, inter abruptam contumaciam et deforme obsequium, pergere iter ambitione ac periculo vacuum. Ann., IV. 20.

121.  Tacito, Ann., II.

122.  Diu inter instrumenta regni habita. Tacito.

123.  Seneca, ep. 47. — Intelliges non pauciores servorum ira cecidisse, quam regum. Ep. 4.

124.  Il parricida, secondo le leggi dei re, gettavasi al mare chiuso in un sacco di cuojo, con un gatto, una serpe, una scimia. Quando Nerone ebbe uccisa sua madre, si vedeano sospesi dei sacchi alle effigie di lui.

125.  Plinio, XXXIII. 12; Cicerone, De orat., III. 12.

Me legit omnis ibi (a Vienna) senior, juvenisque, puerque,

Et coram tetrico casta puella viro.

Marziale, VII. 88.

Tu quoque nequitias nostri lususque libelli,

Uda puella leges, sis patavina licet.

Lo stesso, XI. 16.

Pervigilium o Vigiliæ dicevano certe solennità notturne, che, divenute occasione d'eccessi, la legge restrinse a poche, e ne escluse gli uomini e le nobili. Di rado menzionate sotto la Repubblica, frequentano sotto l'Impero; e probabilmente al tempo d'Augusto fu introdotta la vigilia di Venere, nella quale, per tre notti consecutive d'aprile, le fanciulle menavano cori, poi dopo un banchetto s'intrecciavano danze fra la gioventù (Ovidio, Fast., IV. 133). Più tardi questa memoria del natale di Quirino celebravasi in un'isola del Tevere deliziosissima, dove, osservati dal prefetto o da un console, i cittadini facevano sotto le tende una lieta festa. A cantarsi in questa era probabilmente destinato il Pervigilium Veneris, poemetto ove essa dea è venerata siccome madre dell'universo, e protettrice dell'Impero.

126.  

Nec satis incestis temerari vocibus aures,

Adsuescunt oculi multa pudenda pati.

Luminibus tuis (Auguste)...

Scenica vidisti lentus adulteria.

Ovidio, Trist., II. 500.

Junctam Pasiphaen dictæo, credite, tauro

Vidimus: accepit fabula prisca fidem.

Marziale, Spect., V.

127.  Vedi Hugo, Storia del diritto romano, §§ 295. 296. — Eineccio, Antiq. Romanarum jurisprudentiam illustrantium syntagma, lib. 1. tit. 25. — Dione, LIV. 53. — Tacito, Ann., III. 25 e 28.

128.  Espressione di Marziale, lib. IV. ep. 7:

Julia lex populis ex quo, Faustine, renata est,

Atque intrare domos jussa pudicitia est,

Aut minus, aut certe non plus tricesima lux est,

Et nubit decimo jam Thelesina viro.

Quæ nubit toties, non nubit: adultera lege est.

Offendor mœcha simpliciore minus.

Se qui v'è esagerazione, abbiamo in Giovenale, VI. 20:

Sic fiunt octo mariti

Quinque per autumnos.

E san Girolamo vide in Roma un marito che sepelliva la ventesimaprima moglie, la quale avea sepolto ventidue mariti.

129.  Vix præsenti custodia manere illæsa conjugia. Tacito, Ann., III. 34.

130.  Giovenale, Sat., VI. 366; Tacito, Ann., XV. 32, 37, e XII. 33, 85.

131.  Svetonio, in Tiberio, 35; Tacito, Ann., II. 85.

132.  Il generale Armandi, nella Histoire militaire des éléphants (Parigi 1843) sostiene che, al tempo d'Ottaviano, in vicinanza di Roma v'avea serragli di moltissimi elefanti per uso dell'anfiteatro e del circo.

Plinio dice, parlando dei leoni (lib. VIII. c. 16): — Impresa pericolosa era una volta il prendere i leoni, e per riuscirvi si scavavano delle fosse. Imperando Claudio, il caso insegnò un mezzo più semplice, e quasi indegno d'un animale così feroce: un pastore della Getulia (nell'Africa settentrionale) attutava il furore dell'animale gettandovi sopra un panno. Questo maraviglioso spettacolo si trasportò tantosto nei pubblici giuochi, e appena credevasi a' proprii occhi, mirando un animale tanto feroce cadere di subito in un torpore assoluto, col più leggiero drappo che gli fosse gittato in capo, e lasciarsi legare senza opporre difesa: perocchè la sua forza consiste tutta negli occhi. Perciò fa meno maraviglia l'udire che Lisimaco, rinchiuso con un leone per ordine d'Alessandro, abbia potuto strozzarlo». Se si dubita di un fatto avvenuto sotto gli occhi del popolo romano, del quale Plinio aveva spesso potuto essere testimonio, si avrà interesse a conoscere che questo mezzo è ancora in uso nell'India, e con esso arditi cerretani arrestano il furore dei leoni.

Il capitano Williams, autore d'un Giornale delle caccie durante un soggiorno nell'India (Bibliothèque universelle di Ginevra, 1820, aprile, p. 387), descrivendo la caccia d'una jena, narra che i due Indiani adoperati a ciò portavano solo una stanga di ferro aguzzata, della lunghezza di un piede, un mazzo di corde, e uno squarcio di stoffa di cotone «destinato probabilmente (ei dice) a coprire la testa dell'animale per impedirgli la vista».

Nemesiano (Cynegeticon, p. 303 e seg.) descrisse una specie di caccia men pericolosa, ma non meno straordinaria, e che produce la stessa maraviglia: Bisogna tra gli altri stromenti di caccia provvedersi d'una tela, che possa avvolgere i grandi boschi, e rinserrare nei loro chiusi gli animali, spaventati alla vista delle penne che vi saranno attaccate; perchè queste penne, siccome baleni, fanno stordire gli orsi, i cignali più grossi, i cervi veloci, le volpi, i lupi audaci, e gl'impedisce di rompere quell'ostacolo sì lieve. Datevi dunque la cura di tingere queste penne a diversi colori, di mischiarle alle bianche, e dar molta estensione a tale varietà di colori, che inspirano tanto spavento agli animali selvaggi....; preferite il color rosso».

Marziale, De spect., XI, parla d'un orso che nel circo romano fu impigliato nel vischio, come noi facciamo cogli uccellini.

Mongez, nei Mém. de l'Académie, vol. X, 1833, annoverò e descrisse tutte le belve condotte a combattere nel circo fra il 502 di Roma e la morte dell'imperatore Onorio.

133.  Svetonio, in Nerone, 11.

134.  De spectaculis, passim: e Tertulliano, c. 15.

135.  Seneca, ep. 114; De provid., III.

136.  Seneca, ep. 86.

137.  Plinio, Nat. hist., IX. 58.

138.  Paucton, Métrologie, cap. XI.

139.  Lib. XVIII. cap. 6.

140.  In Aureliano, cap. X.

141.  De beneficiis, VII. 10.

142.  Svetonio. — Dione dice tremilatrecento milioni.

143.  Lampridio, nella Vita di esso, XIX. 24.

144.  Plinio, lib. XIII.

145.  Digitus medius excipitur: cæteri omnes onerantur, atque etiam privatim articulis. Plinio, XXXVIII. E Marziale, v. 11:

Sardonicas, smaragdos, adamantos, jaspidas uno

Portat in articulo.

146.  Vedi la nota 13ª al Cap. XXVIII. — Di che materia erano questi vasi, così pregiati agli antichi? Mercatore e Baronio dissero di bengioino; Paulmier di Grentemesnil, d'argilla impastata con mirra; Cardano, Scaligero, Mercuriale, di porcellana; Belon, di conchiglia; Guibert, di onice; altri d'altro. Le Blond, nelle Memorie dell'Accademia d'Iscrizioni, vol. XLIII, mostra che nessuno si appose, ed esorta a far nuove richerche, che non vennero ommesse. Haüy volle provare fossero di spato-fluore.

Vedansi: Corsi, Dei vasi murrini. 1830.

Thiersch, Ueber die Vasa Murrina. 1835.

Costa de Macedo, Mem. sobre os vasos murrhinos. Lisbona, 1842.

147.  Margaritas, quæ contra triplum aurum obrizum, atque id quidem in India effossum, veneunt.

148.  Dione Cassio, xliii. lix.

149.  Plinio, viii. 48.

150.  Taxatio in deliciis tanta, ut hominis quamvis parva effigies vivorum hominum, vigentiumque pretia superet. Plinio, xlvii.

151.  Lo stesso, VII. 39.

152.  Marziale, X. 31.

153.  Tre Apicj son citati; uno durante la repubblica, questo contemporaneo di Seneca, e un altro al tempo di Trajano. Il secondo è il più celebre, molti intingoli conservarono il suo nome, e fu scritto sotto il nome suo un trattato di cucina, De re culinaria.

154.  Marziale, XII. 3. — I pasti dati dagli imperatori al popolo col nome di congiarium, valsero,

sotto Augusto, da 30 a 47 nummi L. 9 »  
Tiberio, 300 nummi » 67 50
Caligola, 6 dramme » 60 »  
Nerone, 400 nummi » 78 »  
Antonino, 8 aurei » 115 »  
Comodo, 725 denari » 347 50
Severo, 10 aurei » 144 50

Il pasto dato da Severo costò 38,750,000 lire; vale a dire che i convitati erano ducensettantamila. Vedi Moreau de Jonnes, Statistique des peuples de l'antiquité.

155.  Seneca, ep. 18. 100.

156.  Seneca, ep. 122.

157.  Fastidio est lumen gratuitum.

158.  Seneca, ep. 122.

159.  Era segno di molle e scostumata vita.

160.  Cave canem è scritto su alcune soglie delle case di Pompej, ove spesso un cane è effigiato.

161.  Solennità era ai Romani il primo radere della barba, e questa dedicavasi ad Apollo e conservavasi sollecitamente.

162.  Il posto d'onore era quel di mezzo fra i tre che distendevansi sul medesimo lettuccio. I letti erano disposti a ferro di cavallo attorno alle sale, dette perciò triclinia. In ogni letto stavano tre, ciascuno colle gambe dietro al dorso dell'altro, e appoggiato ad un cuscino, disposti nel seguente modo:

3 6  5  4 7
1   8
2   9

All'1 era il padrone di casa; al 2 la donna o un parente; al 3 un ospite privilegiato; il 4 era posto d'onore o consolare, considerato tale forse perchè più libero ad uscire, più accessibile a chi venisse a parlare, e più comodo per istendere la mano destra senza impacciar nessuno. Negli altri posti sedeano altri convitati, e sempre consideravasi d'onore quel che non avea nessuno di sopra.

163.  Che l'ovo di pavone fosse carissimo cibo ai Romani, se ne lamenta Macrobio, Saturn., III. 15: Ecce res non miranda solum, sed pudenda, ut ova pavonum quinis denariis veneant.

164.  Console Lucio Opimio Nepote, il 633 di Roma, la stagione corse tanto asciutta che i frutti furono squisitissimi e il vino prelibato.

165.  È noto che agli schiavi liberati imponevasi il berretto; onde questo divenne simbolo della libertà.

166.  Tutti e tre nomi di lieto augurio, tratti dal guadagno e dalla felicità; cosuccie, cui i grandi Romani prestavano grande attenzione.

167.  Tertulliano, De anima, 30; Plinio, XXVII. 1. Vedansi pure Strabone e principalmente il retore Aristide nell'Orazione della città di Roma.

168.  Πηλὸν αῖματι πεφυρμένον.

169.  Nobilis obsequii gloria relicta est. Tacito, Ann., IV.

170.  Lib. 49, tit. xv. leg. 5. § 2. ff. De captivis.

171.  Semper autem addebat; Vincat utilitas. Cicerone, De off., III. 22.

172.  Ann., II. 16; I. 51; II: 21. Maneat, quæso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui; quando, urgentibus imperii fatis, nihil jam præstare fortuna majus potest, quam hostium discordiam.

173.  Terrarum dea gentiumque Roma. Marziale.

174.  Leges, rem surdam, inexorabilem. Livio, II. 3.

175.  Arriano, Ep. I. 4.

176.  Miseratio est vitium pusillanimi, ad speciem alienorum malorum succidentis; itaque pessimo cuique familiarissima est. Seneca, De clem., i. 5. — Misericordia est ægritudo animi; ægritudo autem in sapientem virum non cadit. Ivi. — Est aliquid, quo sapiens antecedat Deum; ille naturæ beneficio non timet, suo sapiens. Ep. 53.

177.  Quæris quid me maxime ex his, quæ de te audio, delectet? Quod nihil audio; quod plerique ex his quos interrogo, nesciunt quid agas. Ep. 32.

178.  De clem., II. 2; I. 1. Aveva egli conosciuto il malvezzo del suo tempo e d'altri, scrivendo altrove: — Siamo venuti a tal demenza che credasi maligno chi adula parcamente... Crispo Passieno diceva spesso, che noi all'adulazione opponiamo, non chiudiamo la porta, e la opponiamo al modo che si fa all'amica, la quale se la spinge è grata, più grata se la trapassa». Quæst. nat., III.

179.  De ira, III. 36; Ep. 24. — Giusto Lipsio cernì dalle opere di Seneca tutti i passi ove loda se stesso, e ne formò un modello d'ogni eroismo. Diderot fece l'apologia del carattere morale di Seneca, per bizzarria di paradosso. Opere, vol. VIII, Essai sur le règne de Claude et de Néron.

180.  Nihil cogor, nihil patior invitus, sed assentior; eo quidem magis, quod scio omnia certa et in æternum dicta lege decurrere. Fata nos ducunt, et quantum cuique restat, prima nascentium hora disposuit Causa pendet ex causa; privata ac publica longus ordo rerum trahit. Ideo fortiter omne ferendum est, quid gaudeas, quid fleas; et quamvis magna videatur varietate singulorum vita distingui, summa in unum venit: accepimus peritura perituri. De provid.; Ad Marciam consolatio; Ad Helviam consolatio; De constantia sapientis; De clementia, ecc.

181.  Nec magis in ipsa (morte) quidquam esse molestiæ, quam posi ipsam. Ep. 30. — Mors est non esse... Hoc erit post me quod ante fuit. Ep. 54. E nella Consolatoria a Polibio: Cogita illa quæ nobis inferos faciunt terribiles, fabulam esse; nullas imminere mortuis tenebras, nec flumina flagrantia igne, nec oblivionis amnem, nec tribunalia. Luserunt ista poetæ, et vanis nos agitavere terroribus.

182.  Seneca, ep. 77. 47. 23. Cousin appone agli Stoici dell'Impero d'aver guasto, esagerato, impicciolito lo stoicismo. Tennemann appena concede ad essi un posto nella storia della filosofia. Hegel (Vorlesungen über die Gesch. des Philosop., t. II. p. 387) dice che i costoro lavori non meritano in una storia della filosofia maggior menzione che i sermoni de' nostri preti.

183.  I giureconsulti posteriori a Tiberio cassavano i testamenti e traevano al fisco la sostanza di chi si uccidesse quando accusato e colpevole; ma non di chi il facesse per noja, per intolleranza delle malattie, per vergogna de' suoi debiti. Ulpiano e Paolo, Dig. XLIX, tit. 14; LXXVIII, tit. 3.

184.  Celso stupiva vi potesse essere una legge e un dogma comune a tutte le nazioni, e Cappadoci e Cretesi potessero adorare lo stesso Dio de' Giudei. Origene contra Celsum.

185.  Prudenzio, ad Symmacum, II. 458.

186.  Ann. IV. 37. 38.

187.  

Nec satis est homines, obligat ille Deos.

Templorum positor, templorum sancte repostor

Sit superis, opto, mutua cura tui.

Fast. II. 61.

188.  Nemo cœlum cœlum putat, nemo Jovem pili facit. Petronio, Satyr., c. 44.

Esse aliquos manes et subterranea regna

Nec pueri credunt, nisi qui nondum ære lavantur.

Giovenale, II. 149.

189.  In Agricola, 46.

190.  Lo stesso, Ann., III. 60.

191.  Giovenale, Satyr. 6; Tertulliano, Apolog. 9; Seneca, De vita beata, 27.

192.  Che nei misteri Eleusini si insegnasse più fisica che teologia ce lo dice Cicerone, De nat. Deorum, I. 43: Rerum natura magis cognoscitur quam Deorum.

193.  Ovidio dice nei Fasti, VI. 766:

Sint tibi Flaminius, Trasimenaque litora testes

Per volucres æquos multa monere Deos;

e nella ep. I. del lib. II. ex Ponto, esorta la moglie a scegliere un giorno fausto per presentare ad Augusto una petizione in suo favore.

194.  Vedi principalmente i libri XXIV, XXV, XXVI, XXX, XXXII, XXXVIII.

195.  Striges, ut ait Verrius, Græci στρίγας appellant, a quo maleficis mulieribus nomen inditum est; quas volaticas etiam vocant. Festo. — E. Plinio: Fabulosum arbitror de strigibus, ubera eas infantium labris immulgere; e altrove: Post sepulturam visorum quoque exempla sunt. — Apulejo, Metam. 5: Scelestarum strigarum nequitia. — Petronio, Fragm. 63: Cum puerum mater misella piangeret, subito strigæ cœperunt... jam strigæ puerum involaverunt, et supposuerunt stramenticium.

Lucano (lib. VI) descrive i patti col diavolo e le stregherie, come potrebbe fare un cinquecentista:

Quis labor hic superis cantus herbasque sequendi

Spernendique timor? Cujus commercia pacti

Obstrictos habuere Deos?

An habent hæc carmina certum

Imperiosa Deum, qui mundum cogere quidquid

Cogitur ipse potest?

E Sereno Samonico (cap. 59):

Præterea si forte premit strix atra puellos,

Virosa immulgens exertis ubera labris,

Allia præcepit Titini sententia necti.

I due versi conservatici da Festo come preservativi, sono scorrettissimi; Dachery gli emenda così:

Στρίγγ’ ἀποπέμπειν νυκτίνομαν, στρίγγα τ’ἀλαὸν,

Ορνιν ἀνώνυμον, ὼκυπόρους ἐπὶ νῆας ἐλαύνειν.

La strige rimovi notte-mangiante; la sucida strige, uccello ferale, fuga nelle veloci navi.

I passi di antichi, attestanti le magiche arti, sono prodotti da Delrio, Disquisitiones magicæ, lib. II. qu. 9, e passim.

196.  Orazio, Epodi.

197.  Svetonio, in Tiberio, 63. 14. 79; Plinio, xvi. 30; XXVIII. 2.

198.  Mihi hæc ac talia audienti, in incerto judicium est fatone res mortalium et necessitate immutabili, an sorte volvantur. Ann., VI. 22. — Mihi, quanto plura recentium seu veterum revolvo, tanto magis ludibria rerum mortalium cunctis in negotiis observantur. Ivi, III. 18.

199.  Ad Galatas, III. 28; ad Colossenses, III. 11.

200.  Longe clarissima urbium Orientis, non Judeæ modo. Plinio, Nat. Hist., V. 14.

201.  È la definizione famosa di sant'Agostino: Virtus est bona qualitas mentis... qua nullus male utitur. E altrove: Ille pie et juste vivit, qui rerum integer est æstimator, in neutram partem declinando. E de lib. arb.: Voluntas aversa ab incommutabili bono et conversa ad proprium, peccat.

202.  La venuta di san Pietro in Italia è uno de' punti della storia ecclesiastica più impugnati dagli eterodossi, perchè molti farebbero dipendere da quella l'istituzione apostolica della santa sede in Roma, ma vien dimostrata da argomenti irrepugnabili. Nell'anno 42, da noi segnato, comincerebbero i venticinque anni che il Cronico di Eusebio assegna al pontificato di san Pietro.

203.  Atti apostolici, XVIII. 15.

204.  Mansit biennio... et suscipiebat omnes, qui ingrediebantur ad eum, prædicans regnum Dei, et docens quæ sunt de domino Jesu Christo, cum omni fiducia, sine prohibitione. Ivi, XXVIII, 30 e 31.

205.  Parla sempre Tacito, Ann., XV. 44.

206.  — Quel che alle donne, è comandato anche agli uomini. Le leggi di Cristo non somigliano a quelle degli imperatori; non la stessa cosa insegnano san Paolo e Papiniano. Le leggi permettono ogni impudicizia agli uomini in donne libere; nei Cristiani, se il marito può ripudiar la donna per adulterio, anche essa lui pel delitto stesso. In condizioni eguali, eguale è l'obbligazione». S. Girolamo a Fabiola.

207.  Sap., XIV. 22 e seg. Ad Galatas, V. 19 e seg.

208.  Si vos manseritis in sermone meo, vere discipuli mei eritis; et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos. S. Giov., viii, 31 e 32.

209.  — L'uomo ha diritto di comandare alle bestie, ma Dio solo di comandare all'uomo». S. Gregorio Magno, lib. XXI, in Job., c. 15.

210.  Regimen tyrannicum non est justum, quia non ordinatur ad bonum commune, sed ad bonum privatum regentis... Et ideo perturbatio hujus regiminis non habet rationem seditionis, nisi forte quando sic inordinate perturbatur tyranni regimen, quod multitudo subjecta majus detrimentum patitur ex perturbatione consequenti, quam ex tyranni regimine. San Tommaso, Summa theol. 2ª 2æ quaest. 42ª art. 2º ad 3um.

211.  Evulgato imperii arcano, principem alibi quam Romæ fieri. Tacito, Hist., i. 4.

212.  A Canneto o più verisimilmente a Calvatone nel Cremonese, alla biforcazione d'una strada romana, a due giornate da Verona. Quivi le cronache paesane collocherebbero la città di Vegra (forma vulgare del nome di Bedriaco, o Bebriaco), distrutta dagli Unni; e vi si scoprono continuamente ruderi antichi, e nel 1855 un busto di bronzo dell'imperatore Antonino, e due statuette di marmo pario.

213.  Tacito, Hist., lib. IV. 74. 75.

214.  Nel censimento sotto Vespasiano si asserisce che trovaronsi nella Gallia Cispadana cinquantaquattro persone di cento anni, cinquantasette di centodieci, due di centoventicinque, quattro di centrentacinque, quattro di centrentasette, tre di cenquaranta: a Parma ve n'avea tre di centoventi, due di centotrenta; a Faenza una donna di centrentadue; a Rimini uno di cencinquanta, nominato Marco Aponio.

215.  Stazio e Marziale. Ecco alcune delle costoro adulazioni:

Invia sarmaticis domini lorica sagittis

Et Martis getico tergore fida magis...

Felix sorte tua, sacrum tui tangere pectus

Fas erit, et nostri mente calere Dei!...

Redde deum votis poscentibus: invidet hosti

Roma suo, veniat laurea multa licet.

Terrarum dominum propius videt ille; tuoque

Terretur vultu barbarus, et fruitur...

Hiberna quamvis Arctos, et rudis Peuce

Et nugularum pulsibus calens Ister,

Fractusque cornu jam ter improbo Rhenus,

Teneat domantem regna perfidæ gentis,

Tu, summi mundi rector, et parens orbis

Abesse nostris non tamen potes votis...

Nunc ilares, si quando mihi, nunc ludite, Musæ:

Victor ab Odrysio redditur orbe deus...

Altrove Giano, vedendo passar Domiziano, lagnasi di non avere abbastanza occhi e visi per mirarlo (Marziale, lib. VIII. 2). Tardi pure ad alzarsi la stella del mattino, chè, se Cesare compare, il popolo non s'accorgerà della mancanza (Ivi, 21). — Oh poeti!

216.  Plinio, Paneg.

217.  A ciò va attribuito il suo valersi sempre di Sura nello scriver lettere, anzichè ad inerzia, come fa Giuliano nei Cesari.

218.  Sono famose le tavole alimentari, trovate nel 1747 fra le mine di Velleja alle falde dell'Appennino di Piacenza. Contenevano il decreto con cui Trajano donava ai Vellejati e a' loro vicini 1,116,000 sesterzj, assicurati su fondi stabili del valore complessivo di 27,407,792, e fruttanti il cinque per cento. Così la rendita di 55,800 sesterzj era destinata ad alimentare 300 fanciulli, cioè 263 maschi, 35 femmine di legittima nascita, più uno spurio o una spuria; attribuendo 16 sesterzj il mese a ogni maschio, 12 a ogni femmina, e 12 agli illegittimi. I fondi obbligati valeano almeno il decuplo dell'ipoteca. Gli alimenti cominciavano a darsi dopo i tre anni, a quanto pare, e fin ai diciotto pei maschi, ai quattordici per le fanciulle. Non si educavano già in case comuni, ma rimanevano a custodia dei proprj genitori. Del frumento allora si compravano cinque moggia e un quinto con sedici sesterzj; onde il fanciullo riceveva per centosei libbre di frumento al mese. Un dono simile apparve da altra tavola scoperta nel 1832 a Campolattaro, presso Benevento, in favore de' Liguri Bebiani. Iscrizioni varie, e passi di scrittori e del Codice provarono che siffatta liberalità venne usata da altri imperatori. Su di che vedasi Ernesto Desjardins, De Tabulis alimentariis disputatio historica. Parigi 1854.

219.  Jam hoc pulchrum et antiquum, senatum nocte dirimi, triduo vocari, triduo contineri.

220.  Quel di Dione, fatto da Sifilino. Neppure accenno gl'informi frammenti di Aurelio Vittore e d'Eutropio. Il panegirico è di Plinio Cecilio.

221.  Eutropio, viii. 5. Più tardi corse un'opinione bizzarra; che papa Gregorio Magno avesse a preghiere ottenuto la liberazione di Trajano dall'inferno, ove stava da quattro secoli. Il primo a scriverla, ch'io sappia, fu Giovanni di Salisbury (Polycr. V. 8): Virtutes ejus legitur commendasse ss. papa Gregorius, et fusis pro eo lacrymis, inferorum compescuisse incendia... donec ei revelatione nuntiatum sit, Trajanum a pœnis inferni liberatum, sub ea tamen conditione, ne ulterius pro aliquo infideli Deum sollicitare præsumeret. San Tommaso si vale di questa tradizione, e Dante (Purg., X. 73) accenna

l'alta gloria

Del roman prence, lo cui gran valore

Mosse Gregorio alla sua gran vittoria.

222.  Sparziano, in Adriano, negli Scriptor. Hist. Augustæ. Ciò praticavasi già con Omero, poi in questi tempi con Virgilio. Narra Giulio Capitolino, che, interrogando Clodio Albino a questo modo l'Eneide, gli occorse quel del libro VI:

Hic rem romanam, magno turbante tumultu,

Sistet equus, sternet Pœnos, Gallumque rebellem.

Alessandro Severo al modo stesso trovò:

Te manet imperium cœli, terræque, marisque;

e pensando applicarsi alle arti liberali, ebbe questa risposta:

Excudent alii spirantia mollius æra...

Tu regere imperio populos, Romane, memento.

Vedi Lampridio in Alex. Severo. Non cadde questa superstizione col paganesimo. Sant'Agostino (Ep. 55 ad Januar.) la nota e la condanna; e così il concilio d'Agda col nome di sorti dei Santi: e Gregorio di Tours (Hist. Franc., IV. 6) scrive: Positis clerici tribus libris super altare, idest Prophetiæ, Apostoli atque Evangeliorum, oraverunt ad Dominum ut Christiano quid eveniret ostenderet. Aperto igitur omnium Prophetarum libro, reperiunt: — Auferam maceriam ejus». E nel lib. V. 49: Mœstus turbatusque ingressus oratorium, davidici carminis sumo librum, in quo ita repertum est: — Eduxit eos in spe, et non timuerunt».

223.  Nel 1664 a Upsal si stampò un Trattato dell'arte della guerra, presumendo fosse quel di Adriano, pubblicato dal console Maurizio, ma è composizione d'assai posteriore. È pure suppositizio il dialogo suo con Epitteto, pubblicato dal Froben nel 1551, ove propone varj quesiti che il migliore filosofo del suo secolo scioglie, e in cui, tra massime false, ridicole e triviali, ne occorrono di eccellenti. — Che cosa è la pace? Una libertà tranquilla. — Che cosa la libertà? Innocenza e virtù».

224.  Sparziano nella vita di lui.

225.  Pure costui non ischivò l'odio di Adriano, onde diceva: — Mi maraviglio di tre cose: che, nato Gallo, io parli greco; che essendo eunuco, io sia chiamato giudice d'adulterj; che odiato dall'imperatore, io viva».

226.  Τοσοῦτον δὲ δύνανται οἴ ἄρχοντης πρὸς τῆς ἀληθείας δόξαν τιμῶντες, ὄσον καὶ λησταὶ ἐν ἐρημεία. I. 12.

227.  Lampridio in Alex. Severo.

228.  Originariamente costui chiamavasi Catilio Severo. D'illustre famiglia romana, fu educato sotto gli occhi di Lucio Annio Aurelio Vero, suo avo materno, che lo adottò e nominò Marco Elio Aurelio Vero.

229.  Vedi Eusebio, IV. 13. 16. Capitolino diresse a Diocleziano una vita di lui, ma confusa. I libri di Dione Cassio ad esso relativi si desiderano.

230.  Fra le altre cose gli diceva: Nonnunquam ego te coram paucissimis ac familiarissimis meis gravioribus verbis absentem insectatus sum... cum tristior quam par erat in cœtu hominum progrederer, vel cum in theatro tu libros, vel in convivio lectitabas; nec ego, dum tu theatris, nec dum conviviis, abstinebam. Tum igitur ego te durum et intempestivum hominem, odiosum etiam nonnunquam, ira percitus, appellabam. Lib. VI. 12.

231.  Servano per saggio tre viglietti, che, come i passi superiori, scegliamo da M. Cornelii Frontonis et M. Aurelii imperatoris epistolæ... Fragmenta Frontonis et scripta grammatica; curante A. Majo. Roma 1823. — Magistro meo. Ego dies istos tales transegi. Soror dolore muliebrium partium ita correpta est repente, ut faciem horrendam viderim; mater autem mea in ea trepidatione imprudens angulo parietis costam inflixit; eo ictu graviter et se et nos adfecit. Ipse, cum cubitum irem, scorpionem in lecto offendi; occupavi tamen eum occidere priusquam supra accubarem. Tu si rectius vales, est solacium. Mater jam levior est, deis volentibus. Vale, mi optime, dulcissime magister. Domina mea te salutat.

Frontone risponde: Domino meo. Modo mihi Victorinus indicat dominam tuam magis valuisse quam heri. Gratia leviora omnia nuntiabat. Ego te idcirco non vidi, quod ex gravedine sum imbecillus. Cras tamen mane domum ad te veniam. Eadem, si tempestivum erit, etiam dominam visitabo.

Marc'Aurelio replica: Magistro meo. Caluit et hodie Faustina; et quidem id ego magis hodie videor deprehendisse. Sed, Deis juvantibus, æquiorem animum mihi facit ipsa, quod se tam obtemperanter nobis accommodat. Tu, si potuisses, scilicet venisses. Quod jam potes et quod venturum promittis, delector, mi magister. Vale, mi jucundissime magister.

232.  Frontone fa un elogio affatto retorico di Lucio Vero, attribuendo tutta a merito di lui la riforma delle indisciplinatissime truppe di Siria: e lo paragona a Trajano, dandogliene sempre la preferenza. Principia historiæ. Si hanno pure le lettere che Vero gli dirigeva, raccomandandogli di esaltare le sue imprese e la gravezza del pericolo, e la nullità degli altri capitani, ecc. E il buon maestro, abbagliato dalle cortesie d'uno scolaro imperiale, non rifina di ammirarne le azioni, ma soprattutto la portentosa eloquenza spiegata negli ordini del giorno e nei bullettini inviati al senato.

233.  Dione dice, οὐκ ἀθεεὶ: e νίκῆ παράδοξος εὐτυχήθη, μᾶλλον δέ παρὰ θεοῦ ἐδωρήθη. E Claudiano:

Laus ibi nulla ducum...

Tum, contenta polo, mortalis nescia teli

Pugna fuit.

De VI consulatu Honorii, v. 340.

234.  Filostrato, Vite dei Sofisti.

235.  Εἰς έαυτὸν, libri dodici.

236.  Ch'egli però si dilettasse in questi studj, continua prova ne danno le sue lettere a Frontone, scoperto dal Maj. In una gli dice: Mitte mihi aliquid, quod tibi disertissimum videatur, quod legam, vel tuum, vel Catonis, vel Ciceronis, aut Sallustii, aut Gracchi, aut poetæ alicujus, χρήζω γὰρ ἀναπαύλης, et maxime hoc genus; quae me lectio extollat et diffundat ἐκ τῶν κατειληφυιῶν φροντιδίων. Etiam si qua Lucretii aut Ennii excerpta habes, εὔφωνα καὶ ... φρα, et sicubi ὴθους, ἐμφὰσεις.

Il cardinale Barberini tradusse gli scritti di Marc'Aurelio, dedicandone la traduzione all'anima propria «per renderla più rossa che la sua porpora allo spettacolo delle virtù di questo Gentile».

237.  Regiones ultra fines imperii dubiæ libertatis. Seneca.

238.  Cicerone (pro Roscio, 7) parla di cinquantasei miglia fatte in dieci ore di notte con legni di posta, cisiis. Cesare faceva cento miglia in un giorno: Svetonio, 57. Plinio (Nat. hist., VII. 20) numera sette giornate di navigazione da Ostia alle Colonne d'Ercole; dieci ad Alessandria.

239.  Vedi Cicerone, Pro domo sua, 28. Floro, nella prefazione, dice che la storia di Roma non è quella d'un popolo, ma del genere umano. Cicerone loda Pompeo che le sue imprese non hanno altri limiti che quelli del sole. Livio (XXXVIII. 45, 54) fa dire agli ambasciadori in senato, che ormai Roma non ha a combattere mortali, ma a tutelare l'uman genere, e, come gli Dei, vigilare al suo riposo. Ovidio canta ne' Fasti, II. 684:

Romanæ spatium est urbis et orbis idem.

L'autore dei versi inseriti nel Satyricon di Petronio, cap. 119:

Orbem jam totum victor Romanus habebat

Qua mare, qua tellus, qua sidus currit utrumque.

E Plinio, XXVII. 1: Una cunctarum gentium in toto orbe patria.

240.  

Quæ tam seposita est, quæ gens tam barbara, Cæsar,

Ex qua spectator non sit in urbe tua?

Venit ab orphæo cultor rhodopeius Hæmo,

Venit et epoto Sarmata pastus equo;

Et qui prima bibit deprensi flumina Nili,

Et quem supremæ Tethyos unda ferit.

Festinavit Arabs, festinavere Sabæi,

Et Cilices nimbis hic maduere suis.

Crinibus in nodum tortis venere Sicambri,

Atque aliter tortis crinibus Æthiopes.

Vox diversa sonat: populorum est vox tamen una,

Quum verus patria diceris esse pater.

Marziale, Spectac. III.

241.  Gajo lo dice espresso: Constitutio principis est, quod imperator decreto vel edicto vel epistola constituit; nec unquam dubitatum est, quin id legis vicem obtineat, cum ipse imperator per legem imperium accipiat. Inst. i. 2, § 6.

Ecco il senatoconsulto fatto all'elezione di Vespasiano:

— Siagli in arbitrio conchiudere trattati con chi vorrà, come fu in arbitrio d'Augusto, Tiberio e Claudio.

«Di radunare il senato, fare e far fare proposizioni, far rendere senatoconsulti per voti individuali o per divisione.

«Ogniqualvolta sarà raccolto per volontà, permissione od ordine di lui o in sua presenza, tutti gli atti del senato abbiano forza, e siano osservati come fosse stato raccolto per legge.

«Ogniqualvolta i candidati di qualche magistratura, potere, comando, carica siano raccomandati da lui al senato o al popolo romano, e ch'egli avrà dato o promesso il suo appoggio, in tutti i comizj abbiasi singolare riguardo a tal candidatura.

«Siagli permesso, quando lo creda utile alla repubblica, estendere i limiti del pomerio (cioè del recinto della città), come fu permesso a Claudio.

«Abbia diritto e pien potere di fare quanto crederà conveniente all'interesse della repubblica, alla maestà delle cose divine ed umane, al bene pubblico o particolare, come l'ebbero Augusto, Tiberio e Claudio.

«Di tutte le leggi e i plebisciti, da cui fu scritto rimanessero dispensati Augusto, Tiberio e Claudio, sia pur dispensato Vespasiano. Tutto quello che Augusto, Tiberio e Claudio fecero per una legge qualunque, possa farlo Vespasiano.

«Tutto ciò che, prima di questa legge, fu fatto, eseguito, decretato, comandato dall'imperatore Vespasiano o da altra qualsiasi persona per ordine e mandato di lui, sia reputato legale, e rimanga rato, come fosse fatto per ordine del popolo.

«Sanzione. Se qualcuno, in virtù della presente legge, contravvenne o contravvenga poi alle leggi, plebisciti o senatoconsulti, facendo ciò ch'essi vietano, od ommettendo ciò che ordinano, non sia tenuto in colpa, nè obbligato a veruna riparazione verso il popolo romano. Verun'azione non sia intentata, verun giudizio reso a tal proposito, e nessun magistrato soffra che un cittadino sia citato avanti a lui per questa ragione».

242.  Princeps legibus solutus est. D. I. 3. fr. 31.

243.  Molti esempj ne adduce il Labus ne' Marmi Bresciani. — Nel 1851 a Salpensa e a Malaga in Ispagna furono, su due tavole di bronzo, scoperte leggi municipali date da Domiziano imperatore, che Mommsen illustrò negli Atti della Società sassone delle scienze. Lipsia 1855. In esse viene comunicato alle suddette città il diritto del Lazio, con formole che probabilmente sono identiche a quelle usate per tutte le città donate di simile privilegio; sicchè da dette tavole è illustrato lo jus Latii, quanto dalle tavole di Velleja e da quelle di Eraclea la legge comunale. Ivi troviam dato il nome di municipj a siffatte città, che in conseguenza ebbero magistrati proprj, quasi indipendenti dal preside della provincia; il popolo v'era distribuito per curie all'uopo di rendere i suffragi; que' municipj godevano manus, potestas, mancipium, proprj de' cittadini romani.

Nel 1872 furono trovate le tavole di Julia Genetiva Urbanorum, cioè di Ossuna, nella Spagna ulteriore, date il 710 di Roma, edite poi da Hübner e Mommsen.

244.  Dalla dittatura di Fabio fin a Cesare, la paga del soldato fu di tre assi il giorno (circa 27 centesimi); Cesare la raddoppiò portandola a diciotto denari il mese (lire 14.72); Augusto la conservò tale; Domiziano la crebbe a venticinque denari il mese (lire 27.47). La gratificazione ai pretoriani concessa da Augusto fu di ventimila sesterzj (lire 4035.40) dopo sedici anni, e pei legionarj di dodicimila (lire 2421.24) dopo venti anni: per tali paghe egli istituì un tesoro, di cui fece il primo fondo con denari proprj.

245.  Svetonio, in Aug., 102, 128.

246.  Così Svetonio, in Vesp. 17. Alcuni leggono quarantamila milioni di sesterzj, che sarebber ottomila milioni di lire: questo è troppo, ma sarebbe troppo poco la cifra da noi data se s'intendesse di solo contante, senza le contribuzioni in natura e i servigi personali.

Il trattato di Hegewisch sulle finanze romane mantiene più che non prometta. Sono diversissime le valutazioni degli autori intorno alle rendite dell'impero: Giusto Lipsio le porterebbe a cinquecento milioni di scudi d'oro; Gibbon a venti milioni di sterline, cioè cinquecento milioni di franchi; gli autori inglesi della Storia universale a novecensessanta milioni.

Chi voglia istituire paragoni coi moderni, non dimentichi che ora la maggior somma è assorbita dal debito pubblico, ignoto agli antichi.

247.  Ut maxima civitas minimæ domus diligentia contineretur. Floro.

248.  Plinio, Nat. hist., VI. 23; XII. 18.

249.  Lo pretende Dureau de la Malle, Économie politique des Romains.

250.  

Spese per coltivare sette campi a viti.
 
Per comprar uno schiavo che da solo basti sesterzj 8,000
Compra dei sette campi » 7,000
Pali e altre spese occorrenti » 14,000
  In tutto sesterzj 29,000
 
Interessi di questi al sei per cento nei due anni che la terra non produce, e che il denaro resta infruttuoso » 3,480
  Totale, sesterzj 32,480
 
Rendita di sette campi.
 
Ogni anno sesterzj 6,300
oltre un diecimila marze che ciascun campo rendeva l'anno, e che vendevansi tremila sesterzj.

251.  

Tondet et innumeros gallica Parma greges.

Velleribus primis Apulia, Parma secundis

Nobilis, Altinum tertia laudet ovis.

Marziale.

252.  Aureliano scriveva al prefetto dell'annona di tener satolla la plebe; neque enim populo romano saturo quicquam potest esse lætius. Vopisco, in Vita.

253.  È probabilmente del 303. Fu trovato da William Sherard a Stratonicea di Caria nel 1709, poi pubblicato in miglior modo da Bankes, Londra 1826, ove la tariffa occupa ben quindici facciate in-8ª. Sono quattrocentrentatre articoli di merci o di manifatture tassati; ma restano molte lacune. Moreau de Jonnès ne dedusse questa tabella, ragguagliata alle monete e misure d'oggi:

Prezzi del lavoro.
 
Al bracciante per giornata 25 denari ll. 5. 62
Al muratore » 11. 25
Al manovale che rimesta la calcina » 11. 25
Al marmorino che fa i musaici » 13. 50
Al sarto, per fattura d'un abito » 11. 25
Per fattura di calcei, scarpe de' patrizj » 33. 75
di caligæ, scarpe di artigiani » 27. —
di soldati e senatori » 22. 50
di donna » 13. 50
di campagi, sandali militari » 16. 87
Al barbiere, per uomo » —  45
Al veterinario, per tosare gli animali e tagliar le unghie » 1. 35
Al maestro architetto, e per ogni ragazzo al mese » 22. 50
All'avvocato, per un'istanza ai tribunali » —  25
Per una causa » 225.  —
Prezzo dei vini.
 
Il Piceno, Tiburtino, Sabino, Amineano, Sorrentino, Setino, Falerno, ogni litro ll. 13. 50
Vino vecchio di prima qualità » 10. 90
Vino rustico » 3. 60
Birra (camum) » 1. 80
Vino fatturato d'Asia (caranium mœonium) » 13. 50
Vino d'orzo d'Attica » 10. 90
 
Carne alla libbra di Francia.
 
Carne di manzo ll. 2. 40
Carne d'agnello, capretto, porco » 3. 60
Il lardo migliore » 4. 80
I migliori presciutti di Vestfalia, della Cerdagna, o del paese dei Marsi » 4. 80
Grasso di porco fresco » 3. 60
Fegato di porco ingrassato con fichi (ficatum) » 4. 80
Zampe di porco, ognuna » — 90
Salame di porco fresco (isicium) del peso di un'oncia » — 40
Salame di bue fresco (isicia) » 3. 37
Salame di porco fumicato e condito (lucanicæ) » 3. 60
Salame di bue fumicato » 3. 37
 
Selvaggina, prezzo medio per capo.
 
Un pavone maschio ingrassato ll. 56. 25
Un pavone femmina ingrassata » 45. —
Un pavone selvatico maschio » 28. 12
Un pavone femmina » 22. 50
Un'oca grassa » 45. —
Un'oca non ingrassata » 22. 50
Un pollo » 13. 50
Una pernice » 6. 75
Un lepre » 33. 75
Un coniglio » 9. —
 
Pesce.
 
Pesce di mare di prima qualità ll. 5. 40
Pesce di fiume id. » 2. 70
Pesce salato » 1. 35
Ostriche al cento » 22. 50
 
Civaje.
 
Lattuche delle migliori, ogni cinque ll. — 90
Cavoli de' migliori, l'uno » — 90
Cavolifiori de' migliori, ogni cinque » — 99
Barbabietole delle migliori, ogni cinque » — 90
Ramolacci i più grossi » — 90
 
Altri comestibili.
 
Miele ottimo, al litro ll. 18. —
Olio di prima qualità » 18. —
Liquamen, stimolante per l'appetito » 2. —

Iscrizione di tanta importanza per gli economisti come per gli antiquarj, venne molto discussa, e se ne trassero conchiusioni ben diverse da quelle di Moreau de Jonnès. Nell'originale i prezzi sono determinati colla sigla *, che significa denaro, ma deve significare il denario æreus di rame, moneta nuova battuta da Diocleziano, che valea la ventiquattresima parte del pezzo d'argento fino, vale a dire centotredici milligrammi, che oggi sarebbero due centesimi e mezzo. È da ricordare che Lattanzio (De morte persecutorum, c. 7) dichiara che quella tariffa era eccessivamente bassa, e perciò cessossi dal vendere, onde nacque carestia; e, dopo puniti molti di morte, fu duopo lasciarla cadere nell'oblio. Le valutazioni dunque date da Moreau de Jonnès ripugnano alla storia, non men che al fatto, il quale porta che i prezzi delle giornate son presso a poco sempre eguali, pareggiandosi a quel che è necessario per vivere.

È peccato che le cifre del valor del grano, dell'orzo, della segala siano perdute; ma abbiamo il

Miglio pisto al moggio L. 2 50
Intero » » 1 25
Panico » » 1 25
Spelta mondata » » 2 50
Fave non rotte » » 1 50
Lenti » » 2 50
Piselli » » 1 50
Ceci » » 2 50
Avena » » 0 75
Lupino crudo » » 1 50
Fagiuoli secchi » » 2 50

Così 13 litri di sale sono a L. 2.50; la libbra di carne suina 0.30; di manzo, di cara e montone 0.20; di lardo 0.40; di prosciutto 0.50; di agnello e capretto 0.30; di porcello 0.40; la sugna 0.05; il burro 0.40; mezzo litro d'olio 0.30; del sopraffino 1; le ulive 0.10; i vini d'Italia da 20 a 30 denari, cioè dai 50 ai 75 centesimi; la birra da 5 a 10 centesimi.

Quanto alle giornate, quella del contadino sarebbe di L. 0.65; di muratore, falegname, fornaciajo di calce, fabbro, panattiere 1.25; marmorajo, terrazziere di musaico 1.50; asinajo, camellajo, bardotto (bardonarius), pastore centesimi 50 col vitto; mulattiere, porta acqua, curator di condotti con vitto e per l'intera giornata centesimi 65. Al pedagogo, al maestro di leggere e scrivere 1.25; 1.90 al maestro di calcolo e stenografia; 5 al grammatico greco; 2.50 al maestro architetto; al garzone del bagno centesimi 5; per le scarpe da mulattiere e paesano senza chiodi ogni pajo 3, da soldati 2.50, da patrizj 3.75, da donna 1.50; il legno di quercia per una misura di quattordici sopra sessantotto cubiti 6.25; di frassino per quattordici cubiti sopra quarantotto dita, 5.

I calcoli e i ragionamenti di Dureau de la Malle tendono a stabilire che il ragguaglio fra i metalli preziosi e il prezzo medio del grano, delle giornate, del soldo militare, era, sotto l'impero romano, a un bel circa quello della Francia odierna.

254.  Digesto, tit. De publicanis et vectigalibus.

255.  Minima computatione, millies centena millia sestertium annis omnibus India et Seres, peninsulaque illa (Arabia) imperio nostro adimunt; tanto nobis deliciæ et fœminæ constant. Nat. hist., XII. 41.

256.  — Io mostrerò nella prima epoca, che i Romani, poveri soldati, non ebbero nè genio nè cognizione di commercio; nella seconda, che i Romani, grandi e potenti colla guerra, trascurarono per orgoglio il commercio, e non pensarono che ad arricchirsi colle spoglie di tutte le nazioni; nella terza, che i Romani, schiavi e voluttuosi, con un commercio passivo e rovinoso, caddero nella povertà e nella barbarie. Mengotti, Del commercio de' Romani; memoria premiata dall'Istituto di Francia.

257.  Ma i poeti non sapevano immaginare a quella spedizione altro scopo che di conquiste. Vedasi Orazio; e così Properzio, III. 4:

Arma Deus Cæsar dites meditatur ad Indos,

Et freta gemmiferi findere classe maris.

Magna viæ merces; parat ultima terra triumphos;

Tigris et Euphrates sub tua jura fluent.

Seres et ausoniis venient provincia virgis...

Ite agite; expertæ bello date lintea proræ.

258.  Orosio, vii. 16.

259.  Tacito lo rammenta più volte, e così Filostrato, IV. 12, V. 1; Plinio Cecilio, Epist. III. 11; Origene, contra Celsum, III. 66; san Giustino, Apolog. II. 8. — Vedi Burigny, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tom. XXXI.

260.  La prima edizione certa di Plinio fu fatta da Giovanni di Spira in Venezia il 1469: fino al 1480 se n'erano fatte sei ristampe, ma tutte scorrette in modo, che Erasmo diceva, chi pigliasse a restituire Plinio, si torrebbe sulle braccia tanta briga, quanta chi prende una nave o una moglie. Le edizioni di Plinio finiscono alla parola Hispania quacumque ambitur mari. Nel 1831, in un manoscritto di Bamberga, Luigi De Jan professore a Schweinfurt trovò la fine dell'opera, che dà un quadro comparativo della storia naturale nei paesi posti sotto zone diverse, loda l'Europa meridionale e specialmente la Spagna, «ove la dolcezza di un clima temperato dovette, giusta il dogma dei primi Pitagorici, ajutar di buon'ora la stirpe umana a spogliare la rozzezza selvaggia». A Gotha nel 1855 si fece un'edizione sopra un codice che dà il titolo vero dell'opera: Caji Plinii Secundi naturæ historiarum, lib. XI. XII. XIII. XIV. XV, fragmenta edidit e codice rescripto sæculi quarti D.r Fridegarius Mone.

Pel paragone che facciamo qui sotto, potrebbero contrapporsi il gonfio elogio che di Plinio fece Buffon nel secolo passato, e il severo giudizio che nel nostro ne portò Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire (Essai de Zoologie générale, par. I. I. 5) dicendo: — Passare da Aristotele a Plinio è un ricadere da tutta l'altezza che separa l'invenzione e il genio dalla compilazione fiorita e dal discorso spiritoso... Plinio è un mero compilatore, forse più elegante, ma altrettanto meno scrupoloso... Aristotele quattro secoli prima avea ridotte al giusto valore queste inezie vulgari».

261.  Nat. hist., III. 7; VIII. 55; II. 7.

262.  Nat. hist., VII. 2. 3. 6. 46; VIII. 66. 67; XXVIII. 2. 3. 4; V. 30.

263.  Terra solida et globosa undique in sese nutibus suis conglobata. — Omnes ejus partes medium capescentes nituntur æqualiter. De nat. Deorum, II. 39 e 45.

264.  II. 5 e 1.

265.  XXXIII. 1. 3. 4. 13. XIX. 1. 4.

266.  VII. 1. 7; II. 13. 1.

267.  XXX. 4; III. 6. 2.

268.  I classici riboccano d'inesattezze geografiche. Cicerone, nel Sogno di Scipione, mostrossi ben addietro di quel che già si conosceva. Orazio dà per estremi della terra la Bretagna e il Tanai. Virgilio fa scorrere il Nilo per l'India (Georg., IV. 293; e vedi pure Lucano, X. 292). La Bretagna fu appuntino descritta da Giulio Cesare; eppure Tacito dice che Agricola scoperse ch'era isola, le dà la forma d'uno scudo o di un'ascia, e soggiunge che all'oriente ha la Germania, a mezzodì la Gallia, ad occidente la Spagna, a mezza strada incontrando l'Irlanda. Per Plinio la Scandinavia è un'isola, e comunque raccoglitore appassionato, sembra ch'e' non abbia conosciuto Strabone, osservatore tanto più arguto di lui. Tolomeo è inesattissimo nella geografia dell'Italia; colpa sua o degli scrivani: nel solo breve tratto riferibile all'alta Italia, pone fra i Cenomani Bergamo, Mantova, Trento, Verona, appartenenti agli Euganei, ai Levi, ai Reti, ai Veneti; fa nascere il Po presso il lago di Como; la Dora presso il lago Penino, poi piegare verso quel di Garda; dopo le foci del Po colloca quelle dell'Atriano (il Tartaro?), dimenticando l'Adige; pone come città mediterranee nei Carni Aquileja e Concordia, e nei Veneti Altino e Adria che erano a mare; a occidente della Venezia colloca i Becuni, nome ignoto, che forse accenna i Camuni o i Breuni, genti ad ogni modo di poca importanza, ecc. Floro dà Capua per città marittima, e fa due monti diversi il Massico ed il Falerno. Plinio critica Dicearco d'aver detto che il più alto dei monti sia il Pelio di mille ducencinquanta passi, mentre «non s'ignora che alcune cime delle Alpi si elevano fin a cinquantamila passi».

269.  

... Disco, qua parte fluat vincendus Araxes,

Quot sine aqua Parthus millia currat eques.

Cogor et e tabula pictos ediscere mundos;

Qualis et hæc docti sit positura Dei;

Quæ tellus sit lenta gelu, quæ putris ab æstu;

Ventus in Italiam qui bene vela ferat.

Properzio, iv. 3.

270.  Varrone, De re rustica, lib. I. c. 2.

271.  Plinio, Nat. hist., III. 3. 14.

272.  Invece di fare questa superficie = a⁄4 √3 (se si chiami a il lato), Columella la suppose = 13a⁄30; il che dà √3 = 26⁄15, ossia √675 = 26. Vedi lib. V. c. 2.

273.  Plinio, Epist. IX. 61.

274.  Che scriveva a suo figlio, jurarunt inter se Barbaros necare omnes medicina. Et hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit, et facile disperdant. Nos quoque dictitant Barbaros, et spurcius nos quam alios Opicos appellatione fœdant. Interdixi de medicis. Ap. Plinio, XXIX. 1.

275.  Bianconi, Lettere Celsiane, 1779. Brillanti e false.

276.  

Inscribas chartæ quod dicitur Abracadabra

Sæpius; et subter repetas, sed detrahe summæ;

Et magis atque magis desint elementa figuræ

Singula quæ semper rapias et cætera figes,

Donec in angustum redigatur litera conum.

His lino nexis collum redimire memento.

277.  PLINIO, Nat. hist., XXVI. 1; XXIX. 1. — A Vicenza una iscrizione ricorda un oculista: Q. CLODIVS o. LIBERTVS NIGER MEDICVS OCVLARIVS SIBI ET Q. CLODIO Q. L. SALVIO PATRONO.

278.  Est eloquentia una quædam de summis virtutibus. Cicerone, De oratore.

279.  Jucunda senibus, dulcis secretorum comes. Quintiliano, Instit. orat. lib. i. 4. Egli raccomanda assai la grammatica, la quale insegna il modo di scrivere e parlare corretto, secondo la ragione, l'antichità, l'autorità e l'uso. Da lui attingiamo queste particolarità sull'educazione, e dal dialogo De corrupta eloquentia, attribuito da chi a Quintiliano, da chi a Tacito, da nessuno con bastanti ragioni. L'unico riscontro forse che militi per quest'ultimo, è un certo fare a lui proprio, per esempio quel vezzo di sinonimia nova et recentia jura, vetera et antiqua nomina, incensus ac flagrans animus, ecc. ricorre in esso dialogo, ove troviamo memoria ac recordatione, veteres ac senes, vetera ac antiqua, nova et recentia, conjungere et copulare; ma è piuttosto moda del tempo che dell'autore.

280.  Quintiliano (Instit. orat., XII) dice: Si ipsa vox fuerit surda, rudis, immanis, rigida, vana, præpinguis, aut tenuis, inanis, acerba, pusilla, mollis, effeminata... Ornata est pronuntiatio, cui suffragatur vox facilis, magna, beata, flexibilis, firma, dulcis, durabilis, clara, pura, secans, aerea, et auribus sedens.

281.  

Et nos ergo manum ferulæ subduximus, et nos

Consilium dedimus Sullæ, privatus ut altum

Dormiret,

dice Giovenale, Sat. I. 15; e non parrà vero che altrettanto abbiam fatto noi nelle scuole del secolo XIX.

282.  Le abbiamo dedotte dalle Deliberazioni e dalle Controversie di Seneca, e parte da Luciano.

283.  Satyricon, cap. I.

284.  Instit. orat., X.

285.  Si antiquum sermonem nostro comparamus, pæne jam quicquid loquimur figura est.

286.  Plerumque nudæ illæ artes, nimia subtilitatis affectatione frangunt atque concidunt quicquid est in oratione generosius, et omnem succum ingenii bibunt, et ossa detegunt, quæ ut esse et astringi nervis suis debent, sic corpore operienda sunt.

287.  Quibus componendis paullo plus quam biennium, tot alioqui negotiis districtus, impendi; quod tempus, non tam stylo, quam inquisitioni instituti operis prope infiniti, et legendis auctoribus qui sunt innumerabiles, datum est... Usus deinde Horatii consilio, qui in Arte Poetica suadet ne præcipitetur editio, nonumque prematur in annum, dabam iis otium, ut refrigerato inventionis amore, diligentius repetitos tamquam lector perpenderem.

288.  Non pajono sue quelle che ora ne portano il nome.

289.  Abbastanza aveva di che gemere un cuor paterno, buono come quello di Quintiliano; eppure egli non sa dimenticarsi gli artifizj di scrittore, se non altro per rinnegarli (non sum ambitiosus in malis, nec augere lacrymarum causas valeo); esce in vane querimonie colla fortuna, e dopo aver detto così affettuosamente: — Questo fanciullo era tutto carezze per me, mi preferiva alle nutrici sue, alla nonna che assisteva alla sua educazione, a quanto piace a quell'età», vi respinge la lacrima dagli occhi col soggiungere che questo era un lacciuolo tesogli dal destino per viepiù martoriarlo, e colle esagerate proteste di non voler più a lungo soffrire la vita. Illud vero insidiantis, quo me validius cruciaret, fortunæ fuit, ut ille mihi blandissimus, me suis nutricibus, me aviæ educanti, me omnibus qui sollicitare illas ætates solent, anteferret. Tuos-ne ego, o meæ spes inanes, labentes oculos, tuum fugientem spiritum vidi? Tuum corpus frigidum exsangue complexus, animam recipere, auramque, communem haurire amplius potui? dignus his cruciatibus, quos fero, dignus his cogitationibus. Te-ne consulari nuper adoptione ad omnium spes honorum patris admotum; te avunculo prætori generum destinatum; te omnium spe atticæ eloquentiæ candidatum, superstes parens tantum ad pœnas, amisi! Et, si non cupido lucis, certe patientia vindicet te reliqua mea ætate; nam frustra mala omnia ad fortunæ crimen relegamus: nemo nisi sua culpa diu dolet... Introd. ad. lib. VI.

290.  Eumenio lo dice eloquentiæ romanæ non secundum, sed alterum decus. Vedi indietro, pag. 255.

291.  Essendogli morto un nipotino, scrive a Marc'Aurelio una lunga lettera di sfogo, che è tra le scoperte dal Maj. Me consolatur ætas mea, prope jam edita et morti proxima. Quæ cum aderit, si noctis, si lucis id tempus erit, cœlum quidem consalutabo discedens, et quæ mihi conscius sum protestabor. Nihil in longo vitæ meæ spatio a me admissum, quod dedecori aut probro aut flagitio foret; nullum in ætate agunda avarum, nullum perfidum facinus meum exstitisse; contraque multa liberaliter, multa amice, multa fideliter, multa constanter, sæpe etiam cum periculo capitis consulta. Cum fratre optimo concordissime vixi; quem patris vestri bonitate summos honores adeptum gaudeo, vestra vero amicitia satis quietum et multum securum video. Honores quos ipse adeptus sum, nunquam improbis rationibus concupivi. Animo potius quam corpori juvando operam dedi. Studia dottrinæ rei familiari meæ prætuli. Pauperem me, quam ope cujusquam adjutum, postremo egere me quam poscere malui. Sumtu nunquam prodigo fui, quæstui interdum necessario. Verum dixi sedulo, verum audivi libenter. Potius duxi negligi quam blandiri, tacere quam fingere, infrequens amicus esse, quam frequens adsentator. Pauca petii, non pauca merui. Quod cuique potui, pro copia commodavi. Merentibus promptius, immerentibus audacius opem tuli. Neque me parum gratus quispiam repertus segniorem effecit ad beneficia quæcumque possem prompte impertienda. Neque ego unquam ingratis offensior fui.

292.  Esprime tal suo pensiero massimamente nel giudicar Cicerone. Eum ego arbitror usquequaque verbis pulcherrimis elocutum, et ante omnes alios oratores ad ea quæ ostentare vellet, ornanda, magnificum fuisse. Verum is mihi videtur a quærendis scrupulosius verbis abfuisse, vel magnitudine animi, vel fuga laboris, vel fiducia, non quærenti etiam sibi, quæ vix aliis quærentibus subvenirent, præsto adfutura. Itaque videor, ut qui ejus scripta omnia studiosissime lectitaverim, cetera eum genera verborum copiosissime uberrimeque tractasse, verba propria, translata, simplicia, composita, et quæ in ejus scriptis amœna; quam tamen in omnibus ejus orationibus paucissima admodum reperias insperata atque inopinata verba, quæ nonnisi cum studio atque cura, atque vigilia, atque veterum carminum memoria indagatum. Insperatum autem atque inopinatum verbum appello, quod præter spem atque opinionem audientium aut legentium promitur; ita ut si subtrahas, atque eum qui legat quærere ipsum jubeas, aut nullum, aut non ita ad significandum adcommodatum verbum aliud reperiat.

Opponiamo a questa dottrina Cicerone stesso, il quale diceva nell'Oratore: Rerum copia verborum copiam gignit; e altrove: Res atque sententiæ vi sua verba parient, quæ semper satis ornata mihi quidem videri solent, si ejusmodi sunt ut ea res ipsa peperisse videatur.

293.  Te, domine (scrive a Marc'Aurelio), ita compares, ubi quid in cætu hominum recitabis, ut scias auribus serviendum: plane non ubique, nec omni modo... Ubique populus dominatur et præpollet. Igitur ut populo gratum erit, ita facies atque dices. Hic summa illa virtus oratoris atque ardua est, ut non magno detrimento rectæ eloquentiæ auditores oblectet... Vobis præterea, quibus purpura et cocho uti necessarium est, eodem cultu nonnunquam oratio quoque amicienda est. Facies istud, et temperabis et moderaberis optimo modo ac temperamento.

294.  Ego hodie a septima in lectulo nonnihil legi: nam εἰκώνας decem ferme expedivi. Eppure Frontone avea fama di secco e robusto, onde Macrobio (Saturn., v. 1) scrive: Quatuor sunt genera dicendi: copiosum, in quo Cicero dominatur; breve, in quo Sallustius regnat (e non Tacito?); siccum, quod Frontoni adscribitur; pingue et floridum, in quo Plinius Secundus quondam, et nunc nullo veterum minor Symmachus luxuriatur.

295.  La prima edizione, fatta in Bologna nel 1498, ne contiene poche; le altre furono ritrovate in Francia dall'architetto frà Giocondo, e da Aldo Manuzio pubblicate in Venezia il 1508.

296.  Lib. VII. 20.

297.  Quest'Artemidoro, giunto in Atene, cerca qualche casa; e gliene indicano una grande e bella eppur deserta, perchè ogni mezzanotte vi si sentiva fracasso di catene, poi compariva un vecchio, scarno, arruffato, coi ferri ai piedi e alle mani. Artemidoro, spirito forte, compra la casa a poco prezzo, vi si alloggia, mettesi a scrivere; ma a mezzanotte ecco lo spettro, che gli fa segno col dito. Artemidoro gli accenna che aspetti, ma l'altro raddoppia il fragore, sicchè il filosofo si alza, prende la lucerna e segue il fantasma. Era l'ombra d'uno quivi trucidato, che chiedeva le estreme esequie; fatte le quali, Artemidoro godè tranquillamente la sua casa.

Voi credevate simile storiella inventata dai frati nell'ignorante medioevo; e potete leggerla in Plinio, Epist. VII. 27.

298.  Epist. I. 8.

299.  Epist. VII. 30.

300.  Sul lago di Como è ancora una fonte intermittente, alla villa che appunto da ciò dicesi Pliniana; ma non ha il minimo vestigio di antichità: mentre la Commedia vorrebbe collocarsi a Lenno, la Tragedia a Bellagio.

301.  Altri suicidj sono menzionati con lode da Plinio. Il suo tutore Aristone, sentendosi preso da febbre, disse a Plinio: — Sentite il mio medico, io non sono insensibile alle preghiere di mia moglie, alle lacrime di mia figlia, all'inquietudine dei miei amici, ma non voglio patimenti inutili»; e Plinio gli promise d'avvertirlo quando fosse opportuno uccidersi, ma fortunatamente guarì. Rufo, fratello di Spurina, uomo d'alta ragione, preso dalla gotta, disse a Plinio che aveva stabilito di lasciarsi morire, nè preghiere di parenti o d'amici valsero a stornarlo.

302.  Quando si tratta di delineare qualunque sia edifizio degli antichi, s'incontrano mille difficoltà. Forse venti diversi piani si fecero della villa di Plinio, diversissimi tra loro. L'architetto francese L. P. Hudebourt scrisse, nel 1838, Le Laurentin, maison de campagne de Pline le Jeune, restituée d'après la description de Pline; e può dar idea delle ville romane, per riscontro al Palais de Scaurus (pag. 259, vol. II).

303.  Epist. VI. 17.

304.  Giovenale, v. 82-93.

305.  Epist. VIII. 21.

306.  Epist. I. 13.

307.  

Omnis in hoc gracili xeniorum turba libello

Constabit nummis quatuor emta tibi.

Quatuor est nimium; poterit constare duobus,

Et faciet lucrum bibliopola Triphon.

Hæc licet hospitibus pro munere disticha mittas,

Si tibi tam rarus quam mihi nummus erit.

Marziale, XIII. 3.

308.  

Ille tuis toties præstrinxit tempora sertis

Cum stata laudato caneret quinquennia versu...

Sit pronum vicisse domi. Quid achea mereri

Præmia, nunc rami Plœbi, nunc germine Lernæ,

Nunc Athamantæa protectum tempora pinu?

Così suo figlio (Sylv., v. 3), che non dubita paragonarlo ad Omero e a Virgilio. Adulava il padre come adulava i tiranni.

309.  

... Me fulmine in ipso

Audivere patres; ego juxta busta profusis

Matribus, atque piis cecini solatia natis.

Sylv. II. 1.

310.  

Psittace, dux volucrum, domini facunda voluptas,

Humanæ solers imitator, Psittace, linguæ,

Quis tua tam subito præclusit murmura fato?

Ivi, 4.

311.  Sylv. II. 5. Per quel leone Marziale fece dieci epigrammi.

312.  Plinio, Epist. VI. 17.

313.  — Dianzi io pregava Giove a darmi poche migliaja di lire, ed egli mi rispose: Te le darà quegli che a me dà i tempj. Tempj diede egli a Giove, ma non a me le mille lire; eppure avea letto la mia petizione così benigno, come quando concede il diadema ai supplichevoli Geti, e va e torna per le vie del Campidoglio. O Pallade, segretaria del tonante nostro, dimmi: se egli negando ha tal volto, qual l'avrà nel concedere? — Così io; ma Pallade rispose: Stolto! credi tu negato ciò che non fu concesso ancora? Epigr. VI. 10.

E nel IV. 92: — Se a cena m'invitassero contemporaneamente Cesare e Giove, quand'anche le stelle fossero vicine, lontana la reggia, risponderei ai Numi: Cercate chi voglia essere convitato dal tonante; me tiene in terra il Giove mio.

314.  Lib. IV. 4; VIII. 39.

315.  Vedi il libro XIII, intitolato Xenia.

316.  

Tu sub principe duro,

Temporibusque malis, ausus es esse bonus.

Lib. XII. 6.

317.  

Miratur scythicas virentis auri

Flammas Jupiter, et stupet superbi

Regis delicias, gravesque luxus.

Ivi, 15.

318.  Delle oscenità scusavasi cogli esempj: Sic scribit Catullus, sic Marsus, sic Pedo, sic Getulicus. Pref. al lib. I.

319.  Lib. X. 47.

320.  Sunt bona, sunt quædam mediocria, sunt mala plura. Lib. i. 16.

321.  Per rimpatto, Andrea Navagero ogn'anno in determinato giorno bruciava alcune copie di Marziale, olocausto al buon gusto.

322.  

Cæsar in arma furens, nullas nisi sanguine fuso

Gaudet habere vias.

Lib. II.

323.  

Immergitque manus oculis...

... Et siccæ pallida rodit

Excrementa manus; laqueum nodosque recentes

Ore suo rumpit; pendentia corpora carpsit.

... Percussaque viscera nimbis

Vulsit...

Stillantis tabi saniem...

Sustulit, et nervo morsus retinente pependit.

Lib. VI.

324.  

Causa Diis victrix placuit, sed victa Catoni.

325.  

Sunt nobis nulla profecto

Numina, cum cæco rapiantur sæcula casu.

Mentimur regnare Jovem...

Mortalia nulli

Sunt cura Deo.

Lib. VII.

326.  

Mors utinam pavidos vitæ subducere nolles,

Sed virtus te sola daret.

Lib. IV.

327.  Parlando del guerriero resuscitato dalla maga Tessala:

Ah miser, extremum cui mortis munus iniquæ

Eripitur, non posse mori!...

Sit tanti vixisse iterum, nec verba, nec herbæ

Audebunt longæ somnum tibi rumpere Lethes

A me morte data.

Lib. VI.

328.  

Nam si quid latiis fas est promittere musis

Quantum smyrnæi durabunt vatis honores,

Venturi me, teque legent (Nerone): Pharsalia nostra

Vivet, et a nullo tenebris damnabitur ævo.

Lib. IX.

329.  I primi libri dell'Argonautica furono trovati dal Poggio fiorentino nel convento di San Gallo; gli altri dappoi. Giambattista Pio ne fece un'edizione nel 1519, supplendo del suo quel che manca del libro VIII, e il IX e X.

330.  Il Petrarca tentò poi il soggetto medesimo nella sua Africa, o persuaso che il poema di Silio fosse perduto, o, come altri malignarono, credendo possederne egli l'unica copia. L'accusa di plagio, datagli da Lefèbvre de Villebrune nel 1781, fu confutata dal Baldelli, Illustrazioni ecc., pag. 199, e dal Ginguené, note al vol. II dell'Histoire littéraire. Durante il concilio di Costanza, il Poggio scoperse il poema intero.

331.  Dopo aver detto nel primo atto delle Trojane:

... Felix Priamus

... nunc Elysii

Nemoris tutis errat in umbris

Interque pias felix animas

Hectora quærit;

nel secondo soggiunge:

Post mortem nihil est, ipsaque mors nihil...

Quæris quo jaceas post obitum loco?

Quo non nata jacent.

332.  In Tieste, Atreo imbandisce a questo i figli, e gli dice:

Expedi amplexus pater;

Venere, natos ecquid agnoscis tuos?

Tieste risponde:

Agnosco fratrem.

Medea tradita, esce al bel principio furibonda, e fra l'altre cose esclama:

Parta jam, parta ultio est;

Peperi;

e quando la nudrice la compiange perchè più nulla le sia rimasto, non congiunti, non ricchezze, essa risponde:

Medea superest.

Nell'Ippolito, Teseo chiede a Fedra qual delitto creda dover colla morte espiare; essa risponde:

Quod vivo.

Il coro di Corintj nella Medea parve profezia del grande ardimento di Cristoforo Colombo, annunciato così da uno Spagnuolo quattordici secoli prima che la Spagna lo ajutasse e punisse:

Venient annis sæcula seris,

Quibus oceanus vincula rerum

Laxet, et ingens pateat tellus,

Tethysque novos detegat orbes,

Nec sit terris ultima Thule.

333.  Nella Satira I esclama: — Chi può tenersi dallo scrivere satire all'aspetto d'una città iniqua? chi è tanto ferreo da frenarsi allorchè incontra la nuova lettiga dell'avvocato Matone riempiuta dalla pingue sua pancia? E che? tanti vizj non li flagellerò io co' miei versi? Chi può dormire fra questi padri che corrompono le nuore avare, fra sposi infami e adulteri giovinetti? Se natura me lo niega, la collera detta i versi alla meglio come li facciamo Cluvieno ed io».

Ecco l'impeto patriotico sfumare in un frizzo personale. Nerone matricida è un Oreste, ma peggior di quello perchè montò sul teatro. Narrando di un Egiziano di Copto divorato da quelli di Tèntira per diversità di numi, sta a dimostrarvi l'atrocità del misfatto, perchè le serpi non mangiano serpi, e l'orso vive sicuro coll'orso; e finisce col riflettere cosa n'avrebbe detto Pitagora, il quale neppur tutti i legumi permetteva.

334.  

Quidquid agunt homines, votum, timor, ira, voluptas,

Gaudia, discursus, nostri est farrago libelli.

335.  Certi precettori e certi verseggiatori d'oggi che cosa diranno all'udire che Giovenale, sedici secoli fa, già trovava assurdo l'uso della mitologia nei versi?

Nota magis nulli domus est sua, quam mihi lucus

Martis, et æoliis vicinum rupibus antrum

Vulcani; quid agant venti, quas agat umbras

Æacus etc.

Sat. I.

336.  Vedi la Sat. XIII.

337.  

... Semita certa

Tranquillæ per virtutem patet unica vitæ...

Nesciat irasci, cupiat nihil, et potiores

Herculis ærumnas credat, sævosque labores

Et venere, et cœnis, et pluma Sardanapali.

Sat. X.

338.  

... Agmine facto,

Debuerant olim tenues migrasse Quirites.

Sat. III.

339.  

Messe tenus propria vive; et granaria, fas est,

Emole. Quid metuas? occa, et seges altera in herba est.

Sat. VI.

340.  

Nil tibi concessit ratio; digitum exsere; peccas;

Et quid tam parvum est?

Sat. V.

341.  Svetonio conservò un buon dato di queste satire. Allorchè Cesare introduceva molti Galli in senato, cantavasi per le vie:

Gallos Cæsar in triumphum ducit, idem in curiam;

Galli bracas deposuerunt, latum clavum sumpserunt.

E quando faceva lui ogni cosa, togliendo la mano al collega Bibulo:

Non Bibulo quidquam nuper, sed Cæsare factum est;

Nam Bibulo fieri consule nil memini.

Sotto le sue statue si lesse:

Brutus quia reges ejecit, consul primus factus est;

Hic quia consules ejecit, rex postremo factus est.

Allorchè Augusto, nel tempo della proscrizione, ambiva i vasi corintj, alla sua statua fu scritto:

Pater argentarius, ego corinthiarius.

E alludendo alla sua smania del giuocare:

Postquam bis classe victus naves perdidit,

Aliquando ut vincat, ludit assidue aleam.

E quando Livia, dopo tre mesi di matrimonio, gli partorì Druso: Τοῖς εὐτυχοὔσι καὶ τρίμενα παιδία, cioè: Ai fortunati nascono sin i fanciulli di tre mesi.

Quando egli imbandì quel banchetto di lasciva empietà:

Cum primum istorum conduxit mensa choragum

Sexque deos vidit Mallia, sexque deas:

Impia dum Phœbi Cæsar mendacia ludit,

Dum nova Divorum cœnat adulteria:

Omnia se a terris tunc numina declinarunt,

Fugit et auratos Jupiter ipse thoros.

Più violento fu questo contro Tiberio:

Asper et immitis, breviter vis omnia dicam?

Dispeream, si te mater amare potest.

E contro lo stesso:

Non es eques. Quare? non sunt tibi millia centum;

Omnia si quæras, et Rhodos exsilium est.

Aura mutasti Saturni sæcula, Cæsar:

Incolumi nam te, ferrea semper erunt.

Fastidit vinum, quia jam sitit iste cruorem:

Tam bibit hunc avide, quarti bibit ante merum.

Adspice felicem sibi, non tibi, Romule, Sullam;

Et Marium, si vis, adspice, sed reducem;

Nec non Antoni, civilia bella moventis,

Nec semel infectas adspice cæde manus.

Et dic, Roma perit, regnabit sanguine multo

Ad regnum quisguis venit ab exilio.

Il matrimonio di Nerone ferivano i seguenti:

Νέρον, Ορέστης, Αλκμαίων, μητροκτονοι.

Νεονύμφον Νέρων, ἰδίαν μητέρ ἀπέκτεινεν.

Quis negat Æneæ magna de stirpe Neronem?

Sustulit hic matrem, sustulit ille patrem.

Dum tendit citharam noster, dum cornea Parthus,

Non erit Pæan, ille ἐκατηβελέτης.

Sull'immensa fabbrica del Palazzo aureo:

Roma domus fiet; Vejos migrate Quirites,

Si non et Vejos occupat ista domus.

Nerone diede Poppea a Otone da custodire col titolo di sposo e null'altro; e avendone quegli voluto usurpare i diritti, lo sbandì. Allora fu scritto:

Cur Otho mentito sit, quæritis, exsul honore?

Uxoris mœchus cœperat esse suæ.

Non ho potuto consultare i Versus ludicri in Romanorum Cæsares priores olim compositi; collatos, recognitos, illustratos edidit G. H. Heinrichius. Ala 1810.

342.  Medaura era colonia romana; eppure Apulejo, figlio di uno de' primi magistrati (duumviro), non intendeva parola di latino quando venne a Roma: così il figliastro suo non parlava che il punico, e intendeva un po' di greco in grazia della madre tessala; Loquitur nunquam nisi punice; et si quid adhuc a matre græcisat: latine enim neque vult, neque potest. Apolog. Ciò smentisce chi crede il latino fosse comune in tutte le colonie. Aggiungiamo che ad Apulejo l'imparare il latino in Roma senza maestro parve fatica portentosa: Quiritium indigenum sermonem ærumnabili labore, nullo magistro præeunte, aggressus excolui. Metam.

343.  Sacris pluribus initiatus, profecto nosti sanctam silentii fidem. Metam. E nell'Apolog.: Sacrorum pleraque initia in Græcia participavi; eorum quædam, in signa et monumenta tradita mihi a sacerdotibus, sedulo conservo... Ego multijuga sacra, et plurimos ritus, et varias cæremonias, studio veri et officio erga deos didici.

344.  Mihi in incerto judicium est, fato ne res mortalium et necessitate immutabili, an sorte volvantur. Annal., VI. 22.

345.  Cunctas nationes et urbes populus, aut primores, aut singuli regunt: delecta ex his et consociata reipublicæ forma laudare facilius quam evenire; vel si evenit, haud diuturna esse potest. Annal., IV. 53.

346.  Jacobs, Des Vell. Paterculus röm. Geschichte übersetz von etc. Lipsia 1793.

Morgenstern, De fide historica Vell. Paterculi, in primis de adulatione ei objecta. Ivi 1800.

347.  In Agricola, 30 e 31.

348.  De moribus Germanorum, 33.

349.  I. 12; II. 15.

350.  Credo interpolato quel capitoletto ne' manoscritti, e lo stile l'annunzia posteriore.

351.  Luna deficere cum aut terram subiret, aut sole premeretur. IV. 10. Gli errori ne rilevò Le Clerc in calce alla sua Ars critica.

352.  Plinio, Nat. Hist., XXVIII. 2.

353.  Negli Scrittori della Storia Augusta son comprese le vite di

Adriano per Elio Sparziano
Antonino Pio » Giulio Capitolino
Elio Vero » Sparziano
  » Capitolino
Marc'Aurelio » Capitolino
Avidio Cassio » Vulcazio Gallicano
Comodo » Elio Lampridio
Pertinace » Capitolino
Didio Giuliano, Settimio Severo, Pescennio Nigro » Sparziano
Clodio Albino » Capitolino
Caracalla e Geta » Sparziano
Macrino » Capitolino
Diadumeno, Elagabalo, Alessandro » Lampridio
I due Massimini, i tre Gordiani, Massimo e Balbino » Capitolino
I due Valeriani, i due Gallieni, i Trenta Tiranni, Claudio II » Trebellio Pollione
Aureliano, Tacito, Floriano, Probo, Firmo, Saturnino, Proculo e Bonoso, Caro, Numeriano, Carino » Flavio Vopisco

354.  «Chiamansi le Coefore, e sono di... di chi dunque? Ah sì! dicevano di Policleto». In Verrem, de signis.

355.  — Statue, che potrebbero allettare non solo un intelligente come Verre, ma fin ignoranti, come chiamano noi: un Cupido di Prassitele; giacchè nell'indagine ho imparato anche nomi d'artisti». Ibi.

356.  

Excudent alii spirantia mollius æra,

Credo equidem vivos ducent de marmare vultus,

Orabunt melius causas...

Il cortigiano d'Augusto dovea passare sotto silenzio Cicerone. Veramente Orazio, Ep. I 4, cantava:

Pingimus, atque

Psallimus, et luctamur Achivis doctius unctis;

ma è notevole questo appaiare il dipingere col sonare e lottare.

357.  Il Panteon fu dedicato a Giove Ultore, e detto così perchè alle due statue di Marte e Venere erano aggiunti gli attributi di tutte le divinità. Guasto da incendj, fu restaurato da Adriano, poi da Settimio Severo nel 202 di C.; e d'uno di questi restauri probabilmente sono colpa le colonne che dividono lo spazio interno, troppo esili a proporzione della grave cupola. Nel 600 venne dedicato a santa Maria ed ai Martiri. La copertura di bronzo della cupola fu tolta nel medio evo; quella del portico da Urbano VIII per far fondere la tribuna di S. Pietro in Vaticano dal Bernino, del quale pure sono i due poveri campanili, che si vedono sul frontone postico.

358.  Cicerone ad Attico, lib. I. ep. 4. 6. 8. 9.

359.  Vitruvio, II. 8.

360.  Plinio, Nat. hist., XXXV. 4. 10. 11. 12.

361.  San Pietro di Roma copre 20,000 metri quadrati; mentre il più grande della Roma antica, cioè quel della Pace, ne copre 6240, 3182 il Panteon, 874 il Giove Tonante, 195 quel della Fortuna Virile; e fuor di Roma, 1426 il tempio maggiore di Pesto, 636 quel della Concordia ad Agrigento, 434 quel di Giove a Pompej.

362.  

En quatuor aras;

Ecce duas tibi, Daphni, duas altaria Phœbo.

Su questo passo di Virgilio pretesero che gli altari si consacrassero agli dei, a' semidei ed eroi le are; ma non sembra provato, nè soddisfa la distinzione che ne fece Raoul-Rochette nei Monuments inédits d'antiquité figurée, tav. XXVI. 2.

363.  «Benchè inferiore in semplicità ed armonia all'architettura greca (dice Hosking), la romana è evidentemente della stessa famiglia, distinta per esecuzione più ardita, ed elaborata profusione d'ornamenti. Il gusto delle due nazioni è espresso dal dorico pel primo, dal corintio per l'altro: uno è modello di semplice grandezza, perfetto nelle particolari convenienze, e inapplicabile ad oggetto diverso; l'altro è men raffinato, ma molto adorno; sfoggia nell'esterno la bellezza di cui manca nell'interno; imperfetto in ciascuna combinazione, ma applicabile ad ogni proposito. In Grecia come a Roma il maggiore sfoggio d'architettura e colonne faceasi ne' tempj; ma i Romani non aveano abitudine di costruirli peripteri, siccome i Greci. Da alcune ruine pare che in qualche età fabbricassero tempj dipteri; ma i più usitati erano i pseudo-dipteri, cioè colle colonne affisse al muro, gli apteri e prostili: di amfi-prostili non abbiamo esempj. Gran proiezione i Romani davano ai loro portici pel maggior effetto. I tempj circolari non erano comuni ai Romani. Insomma il tempio romano era distinto dal greco per aspetto più grande, colonne più sottili, generalmente corintie, e costruzione sopra un podio o basamento».

364.  Pausania, x.

365.  Ecco il paragone d'alcuni di tali edifizj:

    lunghezza larghezza spettatori
 
Coliseo metri 207 171 87,000
Anfiteatro di Caracalla » 226 146 20,000
Anfiteatro di Marcello » 132 132 30,000
Anfiteatro di Verona » 154 122 23,000
Circo Massimo » 660 190 254,000

366.  Non è vero che le figure crescano regolarmente di grandezza nell'elevarsi. Il 1588 alla statua dell'imperatore fu surrogata quella di san Pietro; due anni dipoi, Sisto V sterrò il piedistallo; Napoleone fece demolire le umili costruzioni che ne ingombravano il contorno, e i papi successivi restituirono la grande piazza. Lo spagnuolo Ciacono nel 1616 scriveva che ancora vedevansi i piedi della statua di Trajano, e che dagli scavi fatti uscì la testa di bronzo, la quale conservavasi dal cardinale Della Valle: or s'ignora che ne sia avvenuto.

367.  Lampridio, in Alexandro, 27. 28.

368.  Rossini. Degli archi trionfali onorarj e funebri degli antichi Romani, sparsi per tutta Italia. Roma 1736.

Ecco un parallelo:

    altezza larghezza grossezza
 
Arco in Roma di Tito metri 24 16 5
Arco in Roma di Costantino » 25 22 7
Arco in Roma di Settimio Severo » 24 21 7
Arco di Benevento » 25 17 5
Arco d'Augusto a Rimini » 16 16 9
Arco di Ancona » 15 14 3

A Roma v'erano pur quelli di Orazio Coclite, Camillo, Druso, Tiberio, Gallieno.

369.  Manentque vestigia irritæ spei. Tacito.

370.  Dureau de la Malle (De la distribution, de la valeur et de la législation des eaux dans l'ancienne Rome. Parigi 1843) calcola che i condotti che menavano acqua a Roma, tirassero insieme 428,000 metri, di cui 32,000 sopra arcate: e sottraendone la derivazione fraudolenta, portavano 11,075 pollici d'acqua, di cui 4388 vendevansi ad usi privati. Rondelet sopra Frontino, ragguagliò l'acqua venuta in Roma per gli acquedotti a un fiume largo trenta piedi, profondo sei, e della velocità di trenta pollici per secondo.

371.  Paragone dei ponti romani:

    lungo largo costruito da
 
Milvio metri 126 9 Silla
Senatorio o Rotto » 25 13 C. Scipione
Salaro sul Teverone » 77 9 Tarquinio
Sisto o del Gianicolo » 70
Fabricio o de' Quattro capi » 25
Cestio o Ferrato » 50 Valente
Elio o Sant'Angelo » 113 15 Adriano
Mammea presso Roma » 60 9 Antonino
Di Rimini sulla Marecchia » 46 Augusto
Sulla Narina fra Roma e Loreto » 194 34 Augusto

372.  

Muræna proibente domum, Capitone culinam...

Proxima Campano ponti quæ villula tectum

Præbuit; et parochi, quæ debent, ligna salemque.

Sat. I, V. 46.

373.  

Scalis habito tribus sed altis.

Epigr. V. 22.

374.  Cicerone, pro Milone, 15; Philip. II. 9. Orazio, Ep. II. 2. 15.

375.  Che si chiudessero con imposte doppie è chiaro da quel di Ovidio, Amor., I. 3:

Pars adaperta fuit, pars altera clausa fenestræ.

Plinio parla d'una porta a vetri nella sua villa, la quale separava e riuniva due camere.

376.  Ex auro, argentove aut certe ex ære in bibliotheca dicantur illi, quorum immortales animæ in iisdem locis loquuntur. Plinio.

377.  Quanto ai camini, senza ricorrere al Manuzio nei Commenti alle epistole di Cicerone, al Filandro sopra Vitruvio, VII. 3, al Burmanno sopra Petronio, Satyr. 135, che lo negano, ed al Ferrario, Electorum lib. I. 1. 9, che lo asserisce, può vedersi una dissertazione di Scipione Maffei nella raccolta d'opuscoli del Calogerà, tom. XLVII. p. 449, ove sostiene che gli antichi non avevano camini al modo nostro. Pure in Aristofane (Vespe, 1. 2) è accennata una canna di camino, in cui poteva star nascosto un uomo; Svetonio (in Vitellio) dice che, in un pasto dato da questo imperatore, la sala bruciò per fuoco appigliatosi al camino (flagrante triclinio ex conceptu camini).

378.  Non vivunt contra naturam qui pomaria in summis turribus ferunt? Quorum silvæ in tectis domorum ac fastigis nutant, inde ortis radicibus quo improbe cacumina egissent? Ep. 122.

379.  Censores vias sternendas silice in urbe, glarea extra urbem substruendas marginandasque, primi omnium locaverunt. Livio, xli. 27.

Sopra tavole di rame si trovarono leggi, che il Corradi e il Mazzocchi credeano essere le Sempronie di Cajo Gracco, ma ora si asseriscono agli ultimi tempi della Repubblica, e portano regolamenti intorno alle strade:

— Chi ha o avrà, sia in Roma o a un miglio in giro dal suo abitato, una casa, davanti a cui passi la strada pubblica, dovrà mantenere essa strada a requisizione dell'edile, cui spetta quel quartiere. L'edile veglierà perchè ciascun proprietario mantenga come deve la strada dinanzi la sua casa, sicchè l'acqua non s'impozzi e non la renda incomoda.

«Gli edili curuli e plebei dovranno, fra cinque giorni dopo eletti, trarre a sorte le regioni della città, dove abbiano a sorvegliare la riparazione e il selciato delle strade pubbliche a Roma e ad un miglio in giro.

«Se la via passi fra un tempio od un luogo pubblico qualunque e una casa privata, l'edile farà conservare a spese dello Stato metà di questa parte della via pubblica.

«Se un proprietario non intertenga la strada avanti la sua casa dopo l'intimazione dell'edile, questi l'affiderà ad un appaltatore: ma dieci giorni prima l'annunzierà nel fôro, e ne farà intimar l'avviso ad esso proprietario ed a' suoi procuratori; e l'aggiudicazione si farà pubblicamente nel fôro, mediante il questore urbano.

«Esso proprietario o proprietarj saranno scritti come debitori sui libri di finanza per una somma eguale all'aggiudicazione, e all'intraprenditore verrà assegnato un credito esigibile di pien diritto sui loro beni.

«Se, fra trenta giorni dall'assegnazione notificata al proprietario, esso non pagò l'imprenditore o non diede cauzione, dovrà pagare metà di più.

«Il proprietario che abbia davanti alla casa un marciapiede, lo manterrà tutt'al lungo di essa in pietre connesse, intere, ben piane, secondo ordinerà l'edile di quel quartiere».

Le tavole trovate ad Eraclea nel golfo di Taranto il 1732 contengono molti ordini sul mantenere sgombre le vie e proibiscono i carri dall'alba fin a decima, salvo poche eccezioni. Inoltre si obbligavano gli abitanti a conservar nette le vie scopando e anaffiando. Naudet, Sur la police chez les Romains, Mém. de l'Institut, vol. IV.

380.  Dionigi d'Alicarnasso (lib. IV) dice difficile misurare il perimetro di Roma sopra le mura, attesochè son poco facili a seguire in grazia delle case che v'aderiscono da tutte parti. Secondo Paolo (Digest., lib. II), Roma esprimeva tutto l'indeterminato spazio dov'erano case, urbs il solo ricinto legale del pomerio, come oggi Londra e la City.

Di Roma abbiamo due descrizioni fatte sotto Valentiniano e Valente, riferite da Grevio, Thesaurus antiquitatum roman., tom. III; ed una a mezzo il V secolo, in calce alla Notitia dignitatum utriusque imperii.

L'area della città occupava da cinque milioni di metri quadrati, dopo l'ampliazione d'Aureliano; sicchè ogni casa teneva, per un di mezzo, centoquattro metri quadrati. Ciò mostra quanto erano piccole: eppure bisognerebbe mettere venticinque casigliani per ciascuna se si volesse giungere a soli un milione ducentomila abitanti; che è assai meno di quel che alcuni suppongono. Londra ha la superficie di ventimila ottocento ettari, con ducensessantamila fabbricati.

Giusto Lipsio stimò da quattro in cinque milioni la popolazione di Roma, e i successivi copiarono quest'indicazione. La Malle, dal calcolo dello spazio in paragone colle città moderne, non gliene dà più di cinquecentosessantamila. Si avverta però che la mura d'Aureliano non dovea comprendere quello spazio indeterminato che pur chiamavasi città: che con tanti schiavi poteasi molto più affollare la popolazione, stivandoli anche sotto ai tempj e ai pubblici edifizj; e che Augusto dovè proibire di alzar le case più di sette piani. Sappiamo che il grano d'Africa e dell'Egitto, destinato a pascer Roma, era in un anno sessanta milioni di moggia al tempo d'Augusto; cioè il bastevole per circa un milione d'abitanti. Forse tanti erano, contando metà di cittadini e metà fra schiavi e avveniticci. Scemò poi, e Sparziano (in Settimio Severo, VIII. 23) riduce a settantacinquemila moggia il consumo giornaliero di Roma, cioè il consumo annuo in ventisette milioni ducensettantacinquemila; il che limita la popolazione a cinquecentomila.

381.  

Forte ibam via Sacra, sicut meus est mos,

Nescio quid meditans nugarum, totus in illis.

382.  La prima edizione fu fatta a Firenze il 1496, poi a Venezia l'anno successivo. Dopo d'allora moltissime traduzioni e commenti; e la più illustre è l'edizione in otto vol. in-4º a Udine 1825-30, con trecenventi tavole, commenti e dissertazioni dello Stratico di Zara e del Polini.

383.  Nat. hist., XXXV. 5.

384.  Spectantem aspectans quocumque aspiceret.

385.  Nat. hist., XXXIII. 38.

386.  

Scilicet in domibus vestris, ut prisca virorum

Artifici fulgent corpora picta manu,

Sic quæ concubitus varios Venerisque figuras

Exprimat, est aliquo parva tabella loco.

Ovidio, Trist., II.

Utque velis, Venerem jungunt per mille figuras,

Inveniat plures nulla tabella modos.

Ars am., II.

Non istis olim variabant tecta figuris,

Tum paries nullo crimine pictus erat...

Illa puellarum ingenuos corrupit ocellos,

Nequitiæque suæ noluit esse rudes etc.

Properzio.

Svetonio, in Horatio: Ad res venereas intemperantior traditur: nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque respexisset, ibi ei imago coitus referretur etc.

Clemente Alessandrino, in Protrep.: Παρ’αὐτὰς επὶ τὰς περιπλοκὰς ἀφορῶσιν εἰς τὴν Αφροδίτην ἐκείνην, τὴν γυμνὴν, τὴν ἐπὶ συμπλοκῆ δεδεμένην, καὶ τῇ Λέδᾳ περιπετώμενον τὸν ὄρνιν τὸν ἐρωτικὸν... Πανίσκοι τινὲς, καὶ γυμναὶ κόραι, καὶ σάτυροι μεθύοντες.

Abbiamo a Napoli un gabinetto puramente di lavori d'arte osceni, e n'è stampata la descrizione a Parigi, Cabinet secret du musée royal de Naples, con sessanta tavole a colori che rappresentano le pitture, i bronzi, le statue erotiche d'esso gabinetto.

387.  Nel duomo di Màzzara e in San Francesco di Messina due col ratto di Proserpina; nella chiesa di Sclafani con Baccanti: e più bello il fonte battesimale di Girgenti colla storia di Ippolito.

388.  Ferrara, Storia di Sicilia, tom. VIII. p. 112.

389.  Crispi, Opusc. di letteratura e archeologia, 1836.

390.  Aristotele, Econom., lib. ii. 1. 2. Nel Digesto, lib. LII. tit. 10, è ordinato: Ne quis nummos stagneos, plumbeos emere, vendere dolo malo velit.

391.  Auctarium Siciliæ numismaticæ. Copenhagen 1816.

Le città o repubbliche sicule, di cui si hanno medaglie, sono:

Abacænum, presso Tripi; Abolla, presso Avola; Acræ, presso Palazzolo; Adranum, oggi Adernò; Agrigentum; Agyra; Alantium, sul monte San Fratello; Amestratum, oggi Mistretta; Apollonia, oggi Pollina; Assorum, oggi Asaro; Atna, o Inessa presso Licodia.

Calcata, oggi Caronia; Camarina; Catania; Centuripa, oggi Centorbi; Cephalædium, oggi Cefalù.

Drepanum, oggi Trapani.

Emporium, oggi Castellamare; Enna, oggi Castrogiovanni; Entella; Erix, oggi Monte San Giuliano.

Gela?

Iccara, presso Carini.

Leontinum, oggi Lentini; Lilibæum.

Macella, oggi Macellaro; Megara, oggi Augusta; Menæ, oggi Mineo; Messana, già Zancle, oggi Messina; Morguntium, nel golfo di Catania; Motya, nell'isola San Pantaleo.

Naxus, al capo Schifò; Neetum, oggi Noto; Nissa, poi Petilia.

Panormus, oggi Palermo.

Segesta o Egesta, sul monte Barbaro; Selinus, oggi Selinunte; Siracusæ.

Talaria? Tauromenium, oggi Taormina; Thermæ; Tyndarium; Thracia o Trinacio, presso Potica. Possono aggiungersi le vicine isole di Melita, Malta; Gaulus, Gozo; Melingunis, Lipari; Lopadusa, Lampedusa; Cosyra, Pantellaria.

Non sono però qui tutte le città siciliane; Vincenzo Natale, ne' Discorsi sulla storia antica della Sicilia (Napoli 1843), ne dà il catalogo ragionato, distinguendo le certamente sicane da quelle che il sono probabilmente: le prime sarebbero Camico, Inico, Onface; Crasto, Iccari, Eucarpia, Macara, Vessa; le altre, Indara, Ippana, Macella, Schera, Jete, Triocala, Scirtea, Cabala, Giorgio, Ambiche. Altre quaranta ne adduce, edificate dai Siculi, e poi divenute greche; e di tutte cerca la geografia, i fondatori, le vicende. In testa alle Antichità di Sicilia del duca di Serradifalco sta un Quadro comparativo dei nomi antichi e moderni delle città siciliane. Alla geografia di questo paese giovano immensamente le otto carte di Alfonso Airoldi, che la rappresentano nei tempi favolosi fin alle colonie greche e alla conquista de' Romani, sotto di questi, sotto gl'imperatori, sotto i Saracini, sotto i Normanni, sotto gli Aragonesi; e l'ultima le riepiloga tutte, coi nomi che in ciascun'epoca portarono le città.

Le monete della restante Italia si classificano così: Italia superiore, Etruria, Umbria, Piceno, Vestini, Lazio, Agro Reatino, Samnio, Frentani, Campania, Apulia, Calabria, Lucania, Bruzj.

392.  Delle statue antiche convien ricordarsi che molte sono restaurate. A dir solo delle più celebri, nel Laocoonte, capolavoro, che l'espressione esagerata del dolore colloca ai limiti ove l'arte comincia a decadere, è moderno il braccio destro del padre, e furono fatti dal Cornacchini l'antibraccio destro del figlio maggiore e tutto il braccio destro del minore: nel toro Farnese sono restauro la parte superiore di Dirce, le teste e le gambe di Zeto e Anfione: Michelangelo rifece le gambe dell'Ercole Farnese, che poi furono trovate: dell'Apollo di Belvedere son moderne le mani: alla Tersicore del Vaticano si sovrappose la testa di un'altra statua. Le statue di Ercolano e Pompej hanno questo insigne vantaggio, di essere state immuni da restauri.

393.  Nel 1755, e gli scavi regolari cominciarono nel 1799. Domenico Fontana, che nel 1592 guidò le acque del Sarno alla Torre dell'Annunziata, dovette coi cunicoli incontrarsi ne' monumenti di Pompej che attraversava: or come non nacque curiosità di esplorarli?

394.  Forse non era che un simbolo e un motto di buon augurio, che si ha pure nel musaico di Salisburgo, coll'aggiunta Nihil intret mali: ma di un postribolo si ha a Pompej un'iscrizione, ch'è bello tacere.

395.  Le scarpe de' Romani somigliavano agli odierni coturni, giungendo fin al polpaccio, sparati davanti, e chiusi da coreggie o lacciuoli. Era vanto l'averli ben serrati; ma dallo sparo, nelle persone eleganti, lasciavasi trasparire la calza, per lo più bianca o rossa, e sostenuta da un legaccio. La suola talvolta era rialzata da severo, che anche oggi trovasi opportuno a tenere asciutto il piede. La moda variò la forma e il colore del tomajo; le suole furono sin d'oro, ovvero ornate di gemme. Aureliano riservò alle donne le scarpe rosse, che del resto erano un distintivo degli imperatori.

396.  È singolare un musaico, ultimamente scoperto in un triclinio presso la porta Stabiana, di finitezza stupenda. Ha nel mezzo un teschio, e attorno simboli delle vicende della vita; un archipenzolo, un bastone, un'asta rovesciata da cui pendono cenci, una farfalla con ali rosse screziate d'azzurro, librata s'una ruota a sei raggi. Come vedemmo nel convito di Trimalcione, rammentavasi la fugacità della vita, per eccitare a goderne.

397.  Ultimamente si scopersero tombe sannitiche, fra le romane; anche con vasi e monete che attestano una civiltà sviluppata prima del contatto coi Greci.

398.  Delle tante opere relative agli scavi di Pompej il frutto venne raccolto in quella di Fausto e Felice Niccolini: Le case e i monumenti di Pompej disegnati e descritti. Ora il Fiorelli ha dato maggior regola alle scoperte e più scienza all'interpretazione.

Una particolarità bizzarrissima di Pompej sono le iscrizioni, che graffivano sul muro ragazzi e soldati petulanti, o amanti, o sollecitatori di voti. Un giovinetto scrisse:

Candida me docuit nigras odisse puellas;

e una donna, o fingendosi donna, vi soggiunse:

Oderis, et iteras non invitus;

Scripsit Venus Fysica Pompejana.

Un amante posposto scriveva: Alter amat, alter amatur, ego fastidio; e un arguto vi soggiungeva: Qui fastidit, amat.

E molte ricorreano dichiarazioni amorose; per es.: Auge amat Arabienum; Methe Cominiæs atellana (commediante) amat Chrestum corde. Sit utreisque Venus Pompejana propitia et semper concordes vivant.

Spesso sono scherzi, come questa lettera: Pyrrus c. Hejo conlegæ sal. Moleste fero quod audivi te mortuum: itaque vale. Sul palazzo di giustizia uno scriveva: Quot pretium legi? «Quanto si vende la giustizia?»

Talune sono manifesti di spettacolo:

Hic venatio pugnabit

V kalandas septembris

Et Felix ad ursos pugnabit.

Un venditore di zampetti assicura che, serviti che siano, i convitati leccano la pentola ove furon cotti:

Ubi perna cocta est si convivæ apponitur

Non gustat pernam, lingit ollam aut cacabum.

Ci sono affissi per trovare robe perdute, come questa:

Urna vinicia periit de taberna

Si eam quis retulerit

Dabuntur

HS lxv: sei furem

Quis abduxerit

Dabit decumum (il doppio)

Januarius

Qui hic habitat.

Ci sono annunzj d'affitti o di vendite:

In prædiis juliæ sp. felicis

Locantur

Balneum venerium et nongentum tabernæ

Pergulæ

Cænacula ex idibus aug. primis in idus

Aug. sextas

Annos continuos quinque

s q d l e n c a

Smettium verum ade.

Le quali ultime sigle devono forse leggersi: Si quis dominun loci ejus non cognoverit, ad... Ma sono strane quelle novecento botteghe in una sola città. Pergole chiamavansi i terrazzi dove i venditori esponeano le loro merci: i cenacoli equivalgono alle trattorie.

Un ghiotto esclama: Quæ gula quæcumque in vino nascitur; un altro: Ad quem non cœno, barbarus ille mihi est. Uno schiavo liberato: Labora, Aselle, quomodo ego laboravi, et proderit tibi; uno impreca: Asellia tabescas; un altro taccia di ladro: Oppi embolari (facchino) fur furuncule; e con espressione più mercatina: Miccio cocio tu tuo patri cacanti confregisti peram.

Anche Cicerone (in Verrem, III. 33) ci fa sapere che contro l'amasia di Verre i Siciliani scriveano satire fin sopra le pareti del tribunale e la testa del pretore: De qua muliere versus plurimi supra tribunal et supra prætoris caput scribebantur.

Quelle iscrizioni diedero modo di capirne altre, che prima non intendevasi alludessero all'abitudine di graffire sui muri con un aguto o con carbone o minio. Così a Forlimpopoli leggeasi: ITA CANDIDATVS FIAT HONORATVS TVVS ET ITA GRATVM EDAT MVNVS TVVS MVNERARIVS ET TV FELIX SCRIPTOR SI HOC NON SCRIPSERIS. Il tuo candidato giunga agli onori, e ti dia in compenso un combattimento, purchè tu non lo scriva qui; cioè desiderava non scrivesse su quella fabbrica il suo voto. E principalmente faceasi tal preghiera sui sepolcri che, come esposti lungo la via, erano prescelti per porvi le iscrizioni.

PARCE OPVS HOC SCRIPTOR TITVLI QUOD LVCTIBVS VRGENT
SIC TVA PRÆTORES SEPE MANVS REFERAT

è la fine d'un epitafio di Mola di Gaeta, riferito da Mommsen (Inscriptiones regni neapoletani): come quest'altra: INSCRIPTOR ROGO TE VT TRANSEAS HOC MONVMENTVM AST... AN QVOIVS CANDIDATI NOMEN IN HOC MONVMENTO INSCRIPTVM FVERIT REPVLSAM FERAT NEQVE HONOREM VLLVM GERAT. Prego lo scribacchiante a lasciar intatto questo monumento: il candidato, il cui nome vi sarà scritto, possa esser rejetto nelle elezioni, e non giunga ad onore alcuno.

Alle volte l'iscrizione è tale, che chi la legge imprechi a se stesso; come la 1810 dell'Orelli: M. CAMVRIVS HORANVS H. M. H. N. S. SED SI HOC MONVMENTO VLLIVS CANDIDATI NOMEN INSCRIPSERO NE VALEAM. Mal mi capiti se a questo monumento iscriverò il nome di qualche candidato; mentre la 4751 dello stesso dice: ITA VALEAS SCRIPTOR HOC MONVMENTVM PRÆTERI. Ben t'avvenga se non scarabocchi questo monumento. E dianzi presso Narni fu trovata questa: ITA CANDIDATVS QVOD PETIT FIAT TVVS ET ITA PERENNES SCRIPTOR OPVS HOC PRÆTERI HOC SI IMPETRO AT FELIX VIVAS BENE VALE. Il tuo candidato divenga ciò che desidera, e tu abbi lunga vita; ma non scrivere su questo monumento. Se mel concedi, t'auguro salute e bene. Vedi Athenæum français, agosto 1855.

Pompej era città osca, e però gli annunzj e le indicazioni faceansi spesso in quella lingua. Ciò ch'è più notevole, essendo graffite le epigrafi da persone incolte, vi abbondano scorrezioni: così nel programma di un grammatico, Saturninus cum discentes rogat; versi di Virgilio, di Properzio, d'Ovidio (nessuno d'Orazio) son riferiti con errori e varianti. E quegli sbagli molte volte servono di riprova a quanto altrove assumemmo, cioè alla coesistenza d'un parlar vulgare, e alla sua somiglianza col moderno italiano. Cosmus nequitiæ est magnissimæ, esclama uno; un altro: O felice me; un terzo: Itidem quod tu factitas cotidie...

Dopo altri, più compiutamente ne trattarono Garrucci, Inscriptions gravées au trait sur les murs de Pompej; Fiorelli, Monumenta epigraphica pompejana ad fidem archetyporum expressa. Napoli 1854, edizione di soli cento esemplari a spese di Alberto Detken. E meglio Inscriptiones parietariæ pompejanæ, herculanenses, stabianæ etc. edidit C. Zangemeister, Berlino 1871, nel Corpus inscriptionum latinarum.

399.  Roma in montibus posita et convallibus, cœnaculis sublata et suspensa, non optimis viis, angustissimis semitis. Cicerone, in Rullum, 33.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Il testo greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.